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INTRODUZIONE

Se la Patologia generale spiega come avviene la malattia (causa), la patologia clinica spiega come evitare di avere la malattia. È la medicina
preventiva. Si utilizza il prelievo perché il 70% delle decisioni diagnostiche si basano sulla patologia clinica. I liquidi biologici sono sangue,
urine, liquor cefalorachidiano, sperma, linfa, liquido articolare, …

IL SISTEMA URINARIO – ESAME DELLE URINE

Le principali funzioni del sistema urinario sono mantenere l’omeostasi dell’acqua e degli elettroliti e l’escrezione dei metabolici tossici
(soprattutto i composti azotati come urea e creatinina). Il prodotto terminale di questi processi è l’urina, dal cui colore emerge l’idratazione del
soggetto. Il sistema urinario comprende due reni, due ureteri, una vescica ed una uretra. L’urina è prodotta nei reni ed è veicolata dagli ureteri
alla vescica dove è immagazzinata fino a quando non viene eliminata attraverso l’uretra. Il rene è un organo a forma di fagiolo che occupa lo
spazio retroperitoneale superiore. Nell’adulto è grande 10-12 cm e dal suo ilo entrano ed escono i vasi renali e l’uretere. È difficile accorgersi
che è malato. Ha la funzione di filtrare il sangue. Produce ormoni: la renina serve a reagire con il fattore angiotensinogeno e lo trasforma in
angiotensina 1 e poi 2 che serve a vasocostringere i vasi periferici (porta un aumento di pressione); l’eritropoietina (EPO) aumenta la produzione
dei globuli rossi da parte del midollo osseo, di conseguenza aumenta la viscosità del sangue e la probabilità di trombi.
L’unità funzionale del rene è il nefrone che è formato da due componenti principali:
- il corpuscolo renale, responsabile dell’ultrafiltrazione del sangue, è a sua volta formato da due strutture
o la capsula di Bowman,
o il glomerulo renale;
- il tubulo renale
o contorto prossimale,
o ansa discendente,
o ansa di Henle,
o ansa ascendente,
o contorto distale.
La capsula di Bowman è formata da un singolo strato di cellule appiattite che poggiano su una membrana basale che forma l’estremità distesa a
fondo cieco di un tubulo epiteliale che è il tubulo renale. Il glomerulo è una fitta rete di capillari anastomizzati che si invagina nella capsula di
Bowman. All’interno della capsula, il glomerulo è rivestito da uno strato di cellule epiteliali, detti podociti, che costituisce lo strato viscerale
della capsula; questo strato si riflette intorno alla componente vascolare e si continua con lo strato parietale. Nello spazio del Bowman si
raccoglie la prima urina.

Glomerulo renale in sezione trasversale: in GIALLO epitelio parietale; in AZZURRO foglietto viscerale con cellule dette podociti che hanno
pedicelli; fra i due foglietti c’è lo spazio di Bowman; in ROSSO endotelio fenestrato.

Lo spazio tra gli strati viscerali e parietali è lo spazio di Bowman. La barriera di filtrazione è data quindi dalle cellule endoteliali, dalla loro
membrana basale, dalla membrana basale dei podociti e dai podociti stessi.
Le cellule endoteliali dei capillari glomerulari fenestrati contengono numerosi pori che sono sufficientemente grandi da permettere il passaggio
di tutti gli elementi acellulari del sangue. Un’altra caratteristica è che la superficie luminale dell’endotelio ha un rivestimento di cariche
elettriche negative, grazie ad una proteina detta podocalixina.
La membrana basale glomerulare è molto più spessa delle altre membrane basali ed è elaborata sia dalle cellule endoteliali dei capillari che dai
podociti. È composta da collagene di tipo IV, glicoproteine strutturali (fibronectina e laminina) e proteoglicani ricchi in eparansolfato (carico
negativo) che formano le maglie. Al microscopio elettronico consiste di tre strati: una lamina rara interna adiacente all’endotelio, una lamina
densa centrale ed una lamina rara esterna in contatto con lo strato dei podociti. Entrambe le lamine rare sono cariche negativamente.
Lo strato dei podociti è fatto da cellule epiteliali che avvolgono i capillari del glomerulo, hanno lunghe estensioni citoplasmatiche dette processi
primari che avvolgono i capillari; i processi primari danno origine a loro volta ai processi secondari, detti pedicelli, che si interdigitano
strettamente con i processi primari; i processi secondari si appoggiano direttamente sulla lamina rara esterna. Il citoplasma dei podociti contiene
dei filamenti di actina, microtubuli e lisosomi e quindi i podociti sono dotati di proprietà contrattili e fagocitiche. La funzione fagocitaria dei
podociti si esplica rimuovendo le molecole di grosse dimensioni che rimangono intrappolate negli strati esterni del filtro glomerulare. Le
molecole bloccate sul lato endoteliale sono fagocitate dalle cellule mesangiali. L’albumina non riesce a passare. Le molecole cariche
negativamente sono respinte dalle cariche negative presenti sulla superficie luminale endoteliale e nella lamina rara della membrana basale. La
lamina densa ha la funzione di un setaccio molecolare e discrimina in base alle dimensioni molecolari ed alla disposizione tridimensionale
spaziale.
La lamina basale è una struttura connettivale su cui poggia l’epitelio. Nel glomerulo la membrana basale delle cellule endoteliali e dei podociti è
in comune (più doppio). Quindi la membrana basale è spessa ed è la somma delle due membrane basali. FILTRO = endotelio vaso + membrana
basale endotelio + membrana basale podociti + podociti (anch’essi fenestrati).

Sezione al microscopio elettronico della barriera di filtrazione (endotelio del vaso, membrana basale dell’endotelio, membrana basale
dell’epitelio viscerale, epitelio viscerale con i diaframmi a livello delle giunzioni intercellulari)

Il sangue viene spinto dalla pressione idrostatica contro le pareti


dei capillari ed attraversa le tre diverse barriere di filtrazioni. La
pre-urina si forma nello spazio del Bowman grazie ad un gradiente
pressorio dovuto al diverso diametro del vaso afferente (maggiore)
ed efferente. I reni ricevono il sangue dal cuore tramite le arterie
renali e a loro volta le arterie si dividono in arteriole e capillari che
entrano poi nel glomerulo. Il sangue che passa nel glomerulo è
costituito da acqua, sali (Na, K, Ca, P, HCO 3), zuccheri,
amminoacidi, urea, creatinina. Il rene è in grado di capire quanta
acqua e sale devono essere eliminati o trattenuti; questi si
raccolgono nello spazio del Bowman mentre il resto del contenuto
del sangue (vale a dire le cellule, le proteine e le molecole molto
voluminose o cariche negativamente) rimangono all’interno del
capillare del glomerulo e se ne tornano in circolazione. Il liquido
raccolto nello spazio del Bowman è detto ultrafiltrato o pre-urina.
Questo attraversa i vari distretti del tubulo dove vi è un
riassorbimento selettivo e alla fine tutto ciò che va eliminato si
raccoglie nel bacinetto renale dove diventa urina. Il rene è in grado
di capire quanto sale e acqua devono essere eliminati o trattenuti in
modo che la concentrazione dei sali rimanga costante sia che si sia
bevuto tanto che poco. Tutto questo avviene per mezzo degli
ormoni che sono prodotte da ghiandole endocrine anche molto La pre-urina si forma nello spazio del Bowmann grazie ad un
lontane dal rene e che lo raggiungono tramite il sangue. gradiente pressorio dovuto al diverso diametro del vaso afferente e
efferente

Il rene svolge un ruolo importante nella costituzione delle ossa (metabolismo delle ossa) mantenendo costanti i valori di Calcio e Fosforo e attiva
la vitamina D introdotta tramite gli alimenti e dal sole che aiuta l’osteogenesi. Quindi pazienti con alterata funzione renale soffrono di malattie
alle ossa (osteoporosi). Un altro importante ormone prodotto dal rene è l’eritropoietina e serve alla formazione dei globuli rossi nel midollo
osseo. In caso di malattia al rene si può avere anemia. Il rene svolge un controllo sulla pressione arteriosa attraverso l’ormone renina che attiva
l’angiotensinogeno circolante (prodotto dal fegato) in angiotensina 1 che poi, tramite l’enzima ACE, viene convertito in angiotensina 2.
Quest’ultima determina un aumento pressorio tramite vasocostrizione periferica favorendo la ritenzione di acqua e sali. Per controllare la
pressione esistono: farmaci ACE inibitori che bloccano la conversione dell’angiotensina 1 in 2 e altri farmaci che sono antagonisti recettoriali
dell’angiotensina 2.
PATOLOGIA
Le malattie renali possono essere glomerulopatie e tubulopatie. L’esame fisico del rene dice poco nulla alla visita del medico, quindi per valutare
lo stato di funzione dei reni il nefrologo deve fare affidamento sugli Esami di Laboratorio (Patologia Clinica), su esami radiologici e sulla
biopsia renale. Esami di primo livello sono: azotemia, creatinina, elettroliti (sodio, potassio, calcio, magnesio) e l’esame delle urine semplici.
L’insufficienza renale può essere dovuta a:
- rottura del filtro, si slargano i buchi portando il paziente ad insufficienza renale per glomerulonefriti e/o glomerulonefrosi;
- otturazione del filtro, causa insufficienza renale generale con oliguria (poca pipì) ed anuria fino a morte.
INSUFFICIENZA RENALE DA OTTURAZIONE DEL FILTRO
Si manifesta clinicamente con oliguria. Per valutare l’intasamento del filtro e quindi le capacità depurative si effettua il dosaggio di azotemia,
creatinemia e cistatina C.
AZOTEMIA
L’azotemia è la concentrazione di azoto presente nel sangue ed è costituito dal 50% di urea e dal 50% da azoto libero non ureico (creatina, basi
azotate). L’urea (NH3+-C=O-NH3+) è pertanto il principale catabolita azotato e, per il suo basso peso molecolare, filtra liberamente a livello
glomerulare ed è in parte riassorbito a livello del tubulo prossimale e distale. I valori normali di azotemia sono 10-50 mg/dl. Il BUN (Byning
Uretic Nitrogen) è l’azoto legato all’urea (catabolismo dell’urea) e viene sintetizzata a livello epatico in maniera costante quindi le condizioni
che ne alterano la concentrazione nel sangue sono dovute ad un’alterazione della produzione o dell’escrezione. I valori normali di BUN sono 5-
25 mg/dl.
Il trasferimento di gruppi amminici da una catena carboniosa ad un’altra rappresenta un mezzo efficiente che permette alla cellula di mantenere
un corretto rapporto quantitativo tra i vari tipi di aa nonostante la loro continua sintesi e demolizione. Il trasferimento del gruppo amminico –
NH2 da un aa ad un α-chetoacido è catalizzato da un enzima detto transaminasi. La deaminazione dell’acido glutammico in acido α-
chetoglutarico e ammoniaca NH 4+, catalizzata dalla glutammico deidrogenasi, permette di aumentare gli aa disponibili (utili per il normale
turnover delle proteine, degradati quando il loro apporto con la dieta è eccessivo, in carenza di carboidrati) mediante la loro sintesi a spese
dell’ammoniaca e di eliminare, sotto forma di urea (NH 2-C=O-NH2), la quota in eccesso di gruppi NH2 che si viene a creare nell’organismo
quando l’assunzione di una quantità eccessiva di proteine aumenta il livello di aa. Il ciclo dell’urea si svolge soprattutto nelle cellule epatiche ed
è costituito da 5 reazioni enzimatiche. I due gruppi amminici che formano la molecola dell’urea derivano entrambi da aa: uno dallo ione
ammonio NH4+ che si libera dalla deaminazione ossidativa dell’acido glutammico e l’altro deriva dall’acido aspartico. Lo ione ammonio
proveniente dalla degradazione epatica degli aa è incorporato nell’acido glutammico (HOOCCHNH 2CH2CH2COOH) e nella glutammina
(HOOCCHNH2CH2CHNH2COOH). La glutammina è uno dei 20 aa presenti nelle proteine e rappresenta la forma di trasporto dello ione NH 4+
nel sangue.
Il dosaggio del sangue per valutare la concentrazione di NH 4+ si chiama ammonemia (la provetta ha l’EDTA come anticoagulante e va messa in
ghiaccio subito dopo il prelievo). Gli ioni NH 4+ derivano dal catabolismo degli aa ad opera della flora batterica intestinale e vengono trasportati
al fegato che li trasforma in urea. Nei casi di patologie al fegato o di un ostacolo al flusso ematico nel fegato, come nella cirrosi, la
concentrazione dello ione ammonio (NH 4-) aumenta. Un’altra causa può essere la carenza enzimatica di uno dei 5 enzimi del ciclo dell’urea per
cause di natura genetica.
L’iperazotemia si ha per alterazione nella produzione quando l’azoto aumenta con l’aumento della deaminazione amminoacidica e questo
avviene per una dieta iperproteica, per danni tissutali estesi, per aumentato catabolismo, per ridotta sintesi proteica, oppure perché vi è
un’alterazione dell’escrezione. Normalmente, superata la barriera glomerulare, l’urea viene riassorbita per circa il 50% a livello dei tubuli.
L’azotemia aumenta in corso di danno renale con riduzione del filtrato glomerulare e quindi nell’insufficienza renale acuta e cronica.
Azotemia Totale = BUN (urea) + Azoto Libero (dalle basi azotate del DNA). Il valore dell’azotemia risulterà quindi più alto se il filtro è intasato.
CREATININA
Un parametro più utile per valutare la funzionalità renale è la creatinina i cui valori normali sono tra 0.7-1.3 mg/dl nell’uomo e 0.6-1.1 mg/dl
nella donna. È una sostanza a basso peso molecolare che deriva dal metabolismo muscolare e la sua produzione è scarsamente correlata alla
dieta, al contrario dell’azotemia, ed è correlata alla massa muscolare. Passa liberamente attraverso il filtro glomerulare e non è riassorbita a
livello dei tubuli (per questo viene utilizzata per calcolare la clearance). La concentrazione plasmatica è inversamente proporzionale al filtrato
glomerulare. Il dosaggio della creatinina nelle urine è detto creatinuria. Essa è influenzata da varie condizioni: la dieta, l’età (essa diminuisce con
l’avanzare dell’età), aumenta con l’esercizio fisico intenso, diminuisce con l’allattamento, aumenta in caso di febbre, traumi ed infezioni.
Per avere un informazione ancora più precisa sulla funzionalità renale si esegue la clearance della creatinina che esprime il volume di plasma
depurato dal soluto in un tempo definito. La creatina prodotta dai muscoli viene eliminata dal rene: se la creatina aumenta nel sangue vi è un
malfunzionamento del rene.
Vediamo il concetto di clearance: un soluto che abbia superato la barriera glomerulare può superare inalterato tutto il tragitto lungo le vie
escretrici, oppure essere riassorbito in tutto o in parte. Se consideriamo la prima condizione abbiamo esattamente la quantità di soluto filtrata dal
glomerulo. Quindi la clearance esprime il volume di plasma depurato dal soluto in un tempo definito. Il calcolo della clearance richiede quindi di
conoscere la concentrazione plasmatica del soluto preso in considerazione (creatinina), il volume urinario prodotto dal paziente in una raccolta
delle urine delle 24 ore e la concentrazione urinaria del soluto (creatinuria).
La clearance sarà quindi data da C = (U x V) / (P x 1440’) dove: U è la creatinuria, P la creatinina, V il volume urinario espresso in ml e 1440’
sono i minuti nelle 24 ore. Se per esempio la creatinuria è 194 mg/ml e la creatinina è 1.3 mg/dl, il volume urinario è 1550 ml nelle 24 ore (1440
minuti) avremo (194 x 1500) / (1440 x 1.3) = 155 ml/min ed esprimerà il volume di plasma depurato dalla creatinina in un minuto.
Il valore della clearance esprimerà il volume di plasma depurato dalla creatinina in un minuto e dipenderà dal numero di nefroni funzionanti,
dall'efficienza dei nefroni e dalla quantità di sangue che li raggiunge. I valori normali sono: nell’uomo 100 ± 20 ml/min. Questo viene chiamato
anche tasso di filtrazione renale o GFR. Con il peggiorare della funzionalità renale la clearance diminuirà per otturazione del filtro, riduzione
della pressione idrostatica del capillare, aumento della pressione idrostatica nei tubuli (dovuto ad un ostacolo al flusso urinario nei tratti inferiori
delle vie urinarie), riduzione della permeabilità di membrana glomerulare e dell’area della superficie filtrante, aumento della pressione oncotica
per disidratazione.
CISTATINA C
Un altro marcatore di funzionalità renale è la Cistatina C. I valori normali sono < di 1,5 mg/L. È una proteina non glicosilata di basso peso
molecolare prodotta da tutte le cellule nucleate. La sua concentrazione nel sangue non varia in base all'età, al sesso e alla dieta. È più affidabile
perché il 99% viene riassorbito a livello tubulare e quindi la sua presenza nelle urine indica danno tubulare. Le caratteristiche che la rendono
idonea allo studio del filtrato glomerulare sono: un basso peso molecolare, una produzione endogena costante, filtrazione libera a livello
glomerulare, carica netta positiva, i tassi nel sangue aumentano proporzionalmente con la diminuzione della velocità di filtrazione glomerulare,
non subisce variazioni della concentrazione nel sangue in presenza di fattori extra-renali come flogosi, neoplasie o età. Valori al di sopra della
normalità sono presenti in un gran numero di pazienti che non presentavano ancora valori alterati di creatinina e creatinina clearance, ciò
suggerisce che la valutazione di questa proteina rappresenti un parametro sensibile ed affidabile tale in un prossimo futuro da rendere superfluo
il dosaggio della creatinina. Dato che alla fine essa viene completamente riassorbita a livello del tubulo prossimale, la sua comparsa nelle urine
indica un danno a livello tubulare.
TUBULI
La componente tubolare prossimale del nefrone è deputata al riassorbimento di sostanze quali glucosio, fosfati e piccole proteine. Pertanto la
funzionalità tubolare può essere indagata attraverso il dosaggio urinario di enzimi come il lisozima o sostanze come la β-2-microglobulina.
Infine la componente distale, che ha come funzione principale l'assorbimento di acqua ed elettroliti, può essere valutata in prima istanza con la
misurazione del peso specifico delle urine.
INSUFFICIENZA RENALE DA ROTTURA DEL FILTRO
Le possibili cause sono: ipertensione, virus, malattie autoimmuni, tumori, calcoli. Si esegue l’esame delle urine semplici del mitto intermedio del
mitto mattutino.
ESAME DELLE URINE
La spia più importante che permette di valutare se un rene funziona o meno è la valutazione dell’ esame qualitativo e quantitativo delle urine.
Questa esamina i caratteri fisici delle urine. Le urine dovrebbero essere analizzate subito dopo la loro raccolta o entro massimo 1 ora e 30’ dopo
(se si prevede un tempo più lungo è consigliabile refrigerare a +4°C le stesse).
QUANTITÀ
Per valutare la quantità delle urine è necessario operare una raccolta delle urine delle 24 ore, definita come raccolta di urine ad intervalli
temporali: è l’urina raccolta in determinati momenti in relazione con altre attività. Una raccolta delle urine nelle 24 ore contiene tutte le urine
liberate in questo periodo. La raccolta può iniziare in qualsiasi momento della giornata: ad es. si svuota la vescica della prima urina del mattino e
dopo si comincia ad versare in contenitore apposito (bidone in plastica delle 24 ore provvisto di scala graduata) l’urina successiva del mattino
fino alla prima del giorno successivo. Per la raccolta delle urine nelle 24 ore, dopo aver consegnato il bidoncino al paziente la mattina, lo si
informa che dopo aver scartato la prima urina del mattino, deve nelle successive 24 ore raccogliere tutte le urine e trasferirle nel bidoncino
graduato che durante la raccolta deve essere conservato in luogo fresco. La mattina successiva versare anche la prima urina del mattino del
paziente. Dopo aver ricevuto il bidoncino l'infermiere deve mescolare per capovolgimento il contenitore e versare una aliquota in una provetta di
plastica dove si scrive su una targhetta adesiva nome, cognome e quantità risultante in ml di urina totale che si legge su una scala graduata che si
trova sul bidoncino. Per travasare dal bidoncino in una provetta bisogna prima mescolare il bidoncino per risospendere i metaboliti come la
creatina che sono precipitati sul fondo. Per il calcolo della clearance della creatinina occorre la mattina che il paziente ha terminato la raccolta,
procedere ad un prelievo di sangue per creatinina che servirà nel calcolo della clearance.
Normalmente il volume è circa 1,6 litri: poliuria se superiore a 2 litri, oliguria se inferiore 300 ml/24h ed anuria se non vi è emissione di urine.
ESAME DELLE URINE SEMPLICI
Il presupposto clinico che suppone l'esame delle urine semplici è: sospetto di infezione del tratto urinario; sospetto o "follow up" di malattia
renale; sospetto o "follow up" di malattia diabetica; sospetto o "follow up" di formazione di calcoli; sospetto di tumori benigni o maligni
all'apparato escretore o delle plasmacellule; sospetto o "follow up" di patologie epatiche; sospetto o "follow up" di malattie emolitiche; sospetto
o "follow up" di malattie infettive, infiammatorie o neoplastiche alla prostata; sospetto o "follow up" di patologie ossee con dosaggio di calciuria
e fosfaturia; sospetto o "follow up" di ipertensione; durante l'uso di cateteri; monitoraggio in gravidanza per batteriurie asintomatiche.
Il campione di urine per l’analisi delle urine semplice è l’urina del primo mattino in modalità mitto intermedio: è un campione raccolto nel corso
di una minzione dopo un riposo a letto durato tutta la notte (circa 8 ore) e prima della colazione e di qualsiasi altra attività. Si consiglia quindi di
evacuare l’urina dopo un periodo di riposo in posizione orizzontale di circa 8 ore e dopo non meno di 4 ore di permanenza dell’urina nella
vescica. Il contenitore per il campione deve essere pulito. È consigliato quindi avere un unico contenitore per la raccolta delle urine sia per la
ricerca microbiologica che per l'esame chimico-fisico e morfologico. Quindi la procedura migliore è usare un unico contenitore sterile.
Procedura per sesso femminile: lavarsi le mani; con una mano allargare leggermente le grandi labbra della vagina; lavare i genitali con
abbondante acqua corrente; asciugare i genitali con un fazzolettino di carta pulito (tipo “kleenex”); cominciare ad urinare sul water in modo da
svuotare all’incirca la metà del contenuto della vescica; effettuare la raccolta senza smettere di urinare evitando di toccare l’interno del
contenitore; è sufficiente raccogliere circa 10 mL di urina; eliminare quindi l’ultima parte della minzione; chiudere il contenitore senza toccarlo
all’interno.
Procedura nel sesso maschile: retrarre il prepuzio in modo da liberare la punta del glande; lavare il glande con acqua corrente; asciugare il glande
con un fazzolettino di carta pulito; cominciare ad urinare sul water in modo da svuotare all’incirca la metà del contenuto della vescica; effettuare
la raccolta senza smettere di urinare evitando di toccare l’interno del contenitore; è sufficiente raccogliere circa 10 mL di urina; eliminare quindi
l’ultima parte della minzione; chiudere il contenitore senza toccarlo all’interno.
Raccolta mediante sacchetto di plastica – I campioni sono idonei per l'esame standard delle urine e per la ricerca di batteri aerobi e miceti.
Questa metodica viene utilizzata per neonati o pazienti incontinenti. Per la facilità di contaminazione del campione urinario con materiale fecale
o perineale il ricorso a tale metodica deve essere effettuata dal personale infermieristico con molta attenzione. Non lasciare in situ il sacchetto
per più di 30 minuti, quindi se il paziente ha difficoltà ad urinare bisogna procedere alla sostituzione del sacchetto dopo aver ripetuto la
detersione.
Raccolta con catetere a permanenza – I campioni raccolti con questa metodica sono idonei per l'esame standard e per la ricerca di batteri aerobi e
di miceti. Bisogna chiudere il catetere con una pinza, al di sopra del raccordo della sacca per il tempo necessario a raccogliere la quantità di urina
sufficiente. Disinfettare un tratto del catetere appena sopra la giunzione del tubo di raccordo. Aspirare con siringa sterile 8-10 ml di urina e
immetterli nel contenitore sterile. Non raccogliere l'urina direttamente dalla sacca.
PROTEINE (PRO)
Normalmente assenti (a parte le piccole). Per quanto riguarda la presenza di pr oteine nell’urina (proteinuria) essa è sintomo di una patologia
renale ed il diabete è diventato una causa frequente di insufficienza renale. Normalmente l’albumina è assente o presente in tracce < 30 mg/24
ore dato che, a causa del suo peso molecolare, non riesce a passare il filtro glomerulare. Il riscontro di abnormi quantità di proteine nelle urine
rappresenta quindi un indicatore precoce di danno renale poiché le proteine hanno un tasso molto basso di riassorbimento renale per cui un
incremento della loro filtrazione o della produzione ne satura rapidamente i meccanismi di riassorbimento. Le proteine che normalmente si
possono trovare in tracce nelle urine sono date da albumina, plasmaproteine come la ß2-microglobulina, lisozima, catene leggere delle Ig, α1-
microglobulina, proteine che sono secrete dai tubuli come enzimi, la proteina di Tamm-Horsfall secreta dai tubuli distali, le IgA secrete sempre
dai tubuli. La proteinuria può provenire quindi da diverse regioni: può essere pre-renale (iperafflusso di proteine), post-renale (da ostruzione) o
renale (Glomerulare o Tubulare). Per quanto riguarda le cause pre-renali di aumento di proteine abbiamo le p roteinurie da iperafflusso (pre-
renali): emolisi (emoglobina); rabdomiolisi (mioglobina); mielomi (proteina di Bence-Jones); pancreatiti (amilasi); leucemie (lisozima);
neoplasie (β2-microglobulina).
La struttura della lamina basale glomerulare è costituita da collagene di tipo IV a formare una rete. La rete del collagene si intreccia con i
filamenti della laminina, formando un ulteriore groviglio. In questa rete vi è anche il perlecan che è un proteoglicano dell’eparan-solfato, a carica
totale negativa. Abbiamo anche l’entactina che partecipa alla stabilizzazione di questa rete di filtrazione. Questa super struttura determina la
natura porosa e la carica della membrana basale glomerulare.
Una delle prime alterazioni che si verificano nella nefropatia diabetica è la perdita del proteoglicano anionico (cioè negativo) a causa
dell’iperglicemia che altera il tessuto vascolare e consente ad una maggiore quantità di albumina (la quale ha una carica totale negativa) di
attraversare la membrana basale glomerulare. Il glucosio in circolo forma dei prodotti di glicosilazione precoci, inizialmente reversibili e poi
irreversibili, con i gruppi amminici (-NH 2) delle proteine. Il grado di glicosilazione non enzimatica è funzione della concentrazione di glucosio
nel sangue e del tempo di esposizione. Questa glicosilazione non programmata delle proteine interferisce con la funzione normale di queste
proteine. Nel caso ci sia una glicosilazione irreversibile del collagene delle membrana glomerulare lo stesso collagene perderà la sua funzione di
filtro, sarà più difficilmente eliminato mediante digestione proteolitica, tenderà ad intrappolare altre proteine non glicosilate. Nel tempo quindi le
membrane glomerulari aumenteranno di spessore. Inoltre la membrana glomerulare perderà non solo la sua regolare rete di filtrazione ma anche
la carica totale negativa. Questo perché la glicosilazione forzata del collagene porterà ad alterare i legami che esistevano con l’eparan-solfato che
hanno dei proteoglicani con carica negativa. Questa componente non più legata al collagene viene distrutta e progressivamente sostituita con
altro collagene di tipo IV. Succederà dunque che la membrana glomerulare pur aumentando di spessore perderà la carica negativa totale
rendendola più permeabile all’attraversamento dell’albumina. In conclusione i pazienti diabetici, nonostante l’aumentato spessore delle
membrane basali, i capillari dei diabetici sono più permeabili alle proteine plasmatiche rispetto a quelle dei soggetti normali.
Il diabetico di tipo 1 o 2 può andare incontro a nefropatia diabetica a causa dell'effetto della glicosilazione spontanea delle proteine sulla struttura
del filtro proteico glomerulare; l'aumentato passaggio di glucosio in un diabetico porterà anche ad un aumento della pressione arteriosa. Infatti
all'inizio il rene nella zona del tubulo prossimale cercherà di aumentare il riassorbimento attivo del glucosio, ma questo avverrà mediante un
trasporto che sarà congiunto anche al riassorbimento del sodio. All'aumento quindi del riassorbimento del sodio all'interno del rene ci sarà anche
un aumento del richiamo dell'acqua per compensare l'osmolarità di glucosio e Na. Aumentando la volemia (volume del sangue) nel sangue,
aumenterà di conseguenza la pressione. Inoltre la ridotta quantità di sodio che arriva alla macula densa (cellule del tubulo distale) a causa del
maggiore assorbimento di Na a livello del tubulo prossimale attiva un meccanismo della macula densa che porta a vasodilatare l'arteriola
afferente e vasocostringere l'arteriola efferente nel presupposto sbagliato che passi poco sangue dal filtro renale. La pressione quindi continuerà
ad aumentare e ciò porterà alla distruzione parziale o completa dei glomeruli renali per cui nel tempo si ridurrà progressivamente la velocità di
filtrazione glomerulare (GFR).

La presenza di proteine in tracce nelle urine è detta microalbuminuria ed è importante perché anticipa una delle conseguenze più gravi del
diabete che è la nefropatia diabetica. Instaurare un rigido controllo della glicemia e della pressione arteriosa in questa fase della malattia
consente la regressione della nefropatia. La microalbuminuria anticipa un grave danno glomerulare quando è ancora reversibile. La
microalbuminuria presenza nelle urine di piccole concentrazioni di albumina da 30-300 mg/24 ore. Essa indica un danno precoce a livello
glomerulare e, se scoperto in tempo, è reversibile. Soggetti ipertesi possono avere microalbuminuria. A causa della perdita di eparan-solfato
anionico l’albumina avrà la possibilità, a causa delle sue dimensioni, di riuscire a passare il filtro glomerulare ma non riuscirà a essere
riassorbita, sempre a causa delle sue dimensioni, a livello dei tubuli renali. La nefropatia in generale e la nefropatia diabetica in particolare
progredisce lentamente e la microalbuminuria anticipa gli altri segni di malattia anche di 10 anni. Con il progredire della nefropatia, la
proteinuria dall’essere selettiva (solo albuminuria) diventa non selettiva (presenza di numerose proteine nelle urine) diventando positiva la
ricerca anche con le strisce reattive ( > di 550 mg/24 ore) fino ad arrivare a grammi/24 ore. Le modalità di raccolta delle urine ed il numero dei
campioni analizzati sono importanti.
L’escrezione di albumina è molto variabile da un giorno all’altro ed anche nell’arco di una stessa giornata, in dipendenza di vari stimoli quali:
l’attività fisica, l’apporto alimentare soprattutto se ricco di proteine, l’eventuale presenza di stati infiammatori e/o infettivi, l’assunzione di
farmaci come gli anti-ipertensivi, la presenza di ematuria. È quindi opportuno per ogni paziente considerare la media di tre diversi campioni di
urine raccolti in tre diversi giorni non consecutivi nell’arco di 6 mesi.
Oggi il campione di urina raccomandato è quello del primo mattino o, in alternativa, la raccolta urinaria delle 24 ore. Valori compresi tra 30-300
mg/24 ore indicano microalbuminuria.
La presenza di proteinuria può essere un segno precoce di patologia renale perché possiamo avere:
1) diminuita permeabilità selettiva da parte dei glomeruli;
2) aumento della concentrazione plasmatica delle proteine;
3) diminuito riassorbimento delle proteine a basso peso molecolare da parte del tubulo.
Valori di riferimento delle proteine:
- < 30 mg/24 h è normale;
- 30 < x < 300 mg/24 h è una microalbuminuria, patologia ed inizio asintomatico di insufficienza renale (reversibile);
- x ≥ 300 mg/24 h è albuminuria (irreversibile).
La rottura del filtro alcune volte è transitorio, altre volte no:
- Glomerulonefrite < 3 gr è meno grave;
- Glomerulonefrosi > 3 gr è più grave.
ESAME CHIMICO-FISICO
ASPETTO (colore e trasparenza) – Normalmente è giallo paglierino, più chiaro nella poliuria e più giallo nell’oliguria. Può variare colore in
varie situazioni: arancione in presenza di antibiotici o farmaci (antipiretici); rosso negli stati febbrili, ematuria, farmaci, alimenti (carota rossa) e
flussi mestruali; verde negli itteri, intossicazioni o farmaci; colore bruno nelle emoglobinurie. Per quanto riguarda l’aspetto è di solito limpido.
L’aspetto può essere lievemente torbido in caso di presenza di aumentata esfoliazione cellulare, cristalli, muco-pus, albumina, grassi, leucociti,
emazie o batteri. L’aspetto può essere lievemente torbido, moderatamente torbido, molto torbido. Il muco-pus si riferisce alla presenza di stati
infiammatori delle vie urinarie.
PESO SPECIFICO – Si stabilisce il peso specifico delle urine adoperando un idrometro graduato con scala da 1.000 a 1.040. Esso è un cilindro
che posto in un liquido galleggia in relazione alla densità della soluzione. Valori normali sono compresi tra 1.015 e 1.025. L’aumento può essere
dovuto alla presenza di glucosio, proteine o chetoacidi.
Per effettuare le altre determinazioni dell’esame chimico delle urine il Laboratorio si appoggia alla metodologia delle strisce reattive: sono strette
strisce di plastica con una serie lineare di piccoli tamponi assorbenti ad essa attaccati, ciascun tamponcino contiene reagenti per una reazione
distinta per cui parecchi test possono essere effettuati simultaneamente. Si immerge la striscia reattiva per pochi secondi nelle urine non
centrifugate e si legge visivamente dopo un minuto esatto lo sviluppo dei diversi colori di reazione. Il tutto viene raffrontato con una tabella di
colori fornito dall’azienda produttrice o viene letto fotometricamente in apparecchi appositi.
PH – il pH dell’urina normalmente oscilla tra 5 e 8.
GLUCOSIO (GLU) – È normalmente assente perché viene assorbito dai tubuli. La presenza di quantità misurabili di glucosio nelle urine viene
detta glicosuria e tale condizione si verifica ogni volta che il livello di glucosio nel sangue supera la capacità del tubulo renale di riassorbimento
(160 mg). Il paziente con diabete può andare incontro a nefropatia. Il glucosio può comparire nelle urine anche quando non c'è iperglicemia
(diabete renale). L'aumento del glucosio non avviene solo per il diabete ma anche in corso di alterazioni dell'ipofisi, del surrene, in tumori e
infiammazione del pancreas e del cervello, emorragie cerebrali, malattie all'ipotalamo, ipertiroidismo, ustioni, infezioni, fratture, infarto
cardiaco, malattie epatiche e obesità.
CHETONI – Sono normalmente assenti. La presenza di chetoni nelle urine è detta chetonuria e riflette un difetto del metabolismo dei carboidrati
o nel loro assorbimento o anche una non adeguata introduzione con la dieta: il corpo umano compensa catabolizzando una quantità superiore di
acidi grassi. Quando questo aumento è elevato, i corpi chetonici, cioè i prodotti dell'incompleto metabolismo degli acidi grassi, appaiono nel
sangue e di conseguenza vengono escreti nelle urine. La chetonuria implica la presenza di uno stato clinico chiamato cheto-acidosi che può
portare un paziente al coma. Nei neonati e nei bambini la chetonuria può verificarsi in corso di malattie febbrili acute e stati tossici accompagnati
da vomito e diarrea.
BILIRUBINA (BIL) UROBILINOGENO (UBG) – Normalmente assente. Se ci sono vuol dire che vi è un accumulo nel sangue. Problema
epatico. La bilirubina è un prodotto del catabolismo dell'emoglobina. Inizialmente viene trasportata nel sangue legata all'albumina e, essendo
insolubile in acqua (bilirubina indiretta), non riesce ad attraversare il filtro della filtrazione renale e viene trasportata al fegato dove viene
coniugata con l'acido glicuronico diventando cosi bilirubina coniugata o diretta. Essa è in grado di attraversare il filtro renale e di passare nelle
urine. Normalmente viene escreta tramite la bile nel duodeno. Quando compare nelle urine generalmente indica che è presente un eccesso di
bilirubina coniugata nel circolo sanguigno e questo può succedere quando ci sono alcune patologie delle cellule epatiche con risultante
incapacità degli epatociti di eliminare una sufficiente quantità di bilirubina coniugata nella bile, oppure ci sono fattori come calcoli o carcinomi
epatici che impediscono l'escrezione della bile con incremento della bilirubina coniugata nel sangue e quindi poi nelle urine.
NITRITI – Normalmente assenti. Lo screening nelle urine per i nitriti nelle urine non sostituisce un'indagine microbiologica in caso di sospetta
infezione delle vie urinarie, tuttavia fornisce un metodo rapido per vedere se ci può essere un'infezione batterica. Infatti in molti casi, anche se
non sempre, i batteri hanno un enzima, la nitrato-reduttasi che riduce i nitrati a nitriti. I nitrati normalmente si formano con la digestione
catabolica del cibo ed escreti senza formare nitriti. Alcuni batteri non sono in grado di formare nitriti e quindi “nitriti negativi” non vuol dire che
non c'è un'infezione batterica nelle vie urinarie.
SEDIMENTO URINARIO
Nel referto viene anche scritta l'analisi del sedimento urinario mediante osservazione al microscopio di una piccola quantità di urine raccolte
dopo centrifugazione. Gli elementi cellulari presenti nel sedimento derivano da cellule epiteliali desquamate che si trovano nel rene e nel tratto
urinario inferiore e cellule di origine ematogena come eritrociti e leucociti. Possono essere presenti anche cilindri, ovvero sottili lamine di cellule
che derivano dai tubuli renali o dai collettori, cristalli, batteri e cellule tumorali, in senso patologico.
EMATURIA – Normalmente assenti o presenti in tratte. La presenza di emazie superiori a 2 per campo microscopico a ingrandimento 40x
nell’urina è detta ematuria. Le emazie possono derivare da traumi o patologie renali (glomerulonefriti), infezioni come la nefrite o la pielonefrite,
cistiti, calcoli, tumori, esercizio fisico intenso, farmaci. Nella donna bisogna escludere l’interferenza con il flusso mestruale. In caso di discreta
ematuria si deve procedere alla conta di Addis: si fa una raccolta di urine in tre ore, si fa svuotare la vescica al mattino e poi si fa urinare dopo tre
ore in tre contenitori numerati, la conta viene effettuata entro massimo un’ora dal secondo contenitore, si procede alla conta delle cellule (camera
di Fuchs-Rosenthal) a 40x. Si contano 100 elementi e si distinguono i globuli rossi glomerulari da quelli non glomerulari. Nell’ematuria non
glomerulare le emazie hanno dimensioni ed aspetto uniforme molto simili a quelle di uno striscio di sangue periferico. Possono avere anche
margini dentellati o raggrinziti o a palloncino. La pigmentazione è ben evidente, aspetto biconcavo. Nell’ematuria di tipo glomerulare gli
eritrociti hanno aspetto eterogeneo con contorni irregolari e variamente distorti, con scarso contenuto di emoglobina. La loro presenza indica un
danno renale e talvolta può essere associata con la presenza di cilindri. Tracce di sangue si possono trovare e passare e quindi non essere gravi
(dovute a piccoli traumi). Preoccupante se dopo 1-2 mesi con altro esame si trova proprio del sangue (monitoraggio). Bisogna capire la
provenienza del sangue (se alte o basse vie urinarie). Dalle basse i globuli rossi sono ancora sani. Dalle alte invece, passando attraverso il filtro,
modificano la loro forma.
CILINDRI – Normalmente assenti o presenti in tracce. Generalmente la loro presenza indica un danno grave a livello dei tubuli renali
(tubulopatie renali). Infatti i cilindri (cilindri ialini, cilindri granulosi) sono dati da stampi di cellule morte dell’epitelio tubulare che si staccano
dallo stesso epitelio e si ritrovano poi nel sedimento urinario (unione di cellule morte che si staccano dal tubulo).
LEUCOCITI – Normalmente assenti o rari-alcuni (massimo 3). La presenza di leucociti nelle urine è associata sia ad infezioni del tratto urinario
sia a malattie renali non infettive. Nelle strisce reattive i leucociti si trovano in base all’attività prodotta dall’esterasi contenuta nei granulociti
neutrofili e nei macrofagi di cellule morte. La striscia reattiva non è in grado di rilevare i linfociti e quindi il test migliore è osservare la presenza
di leucociti nel sedimento urinario con l’aiuto del microscopio ottico. In particolare abbiamo i granulociti neutrofili, elementi rotondeggianti più
grandi del globuli rossi, con un nucleo di forma diversa. La loro presenza in quantità elevata è detta leucocituria e sta ad indicare un’infezione
delle vie urinarie, tumori renali, calcolosi, stati febbrili, esercizio fisico intenso.
CRISTALLI – Alcuni cristalli hanno significato patologico come i cristalli di ossalato di calcio, fosfato triplo, acido urico, cistina. Altri come i
cristalli di urato amorfo o fosfato amorfo non hanno significato patologico. Se in eccesso indicano uno stato di disidratazione (bisogna bere
altrimenti le urine precipitano, si formano cristalli e poi calcoli). I cristalli sono la causa della formazione eventuale della calcolosi renale. I
calcoli inizialmente (nel rene) non danno problemi ma poi dopo si spostano e lì danno problemi. Trovare alcuni tipi di cristalli previene (fa
accorgere).

Qualsiasi alterazione della struttura anatomica del rene determina una specifica malattia. L'insufficienza renale acuta è una condizione dove vi è
una riduzione graduale, progressiva ed irreversibile della funzione renale dovuta a perdita dei nefroni funzionanti. Normalmente la velocità di
filtrato glomerulare (FGR) è 100-130 ml/mn. L’insufficienza renale acuta si evidenzia con oliguria o anuria e con iperazotemia. Può derivare da
un danno a livello glomerulare (mieloma multiplo), necrosi tubulare acuta. L’insufficienza renale cronica è caratterizzata negli stadi finali da un
filtrato che arriva a < 10 ml/mn con un’elevata concentrazione plasmatica di azotemia (sindrome uremica) e l’accumulo in circolo di composti
azotati determina numerose effetti a livello osseo, circolatorio, nervoso e a livello endocrino. Nella sindrome nefritica acuta si ha ematuria
associata a cilindri ematici, lieve proteinuria (< 3 gr/24h). Si può avere microematuria o ematuria, aumento dell'urea e della creatinina, oliguria
fino all'anuria. Nella sindrome nefrotica abbiamo proteinuria elevata > 3,5 gr/24h causata da alterata distribuzione delle cariche negative sulla
superficie delle cellule endoteliali e della membrana basale e dalla distruzione della stessa con aumento dei pori, ipoalbuminemia, edema
imponente ed iperlipidemia (glomerunonefrite a lesione minima, focale, membranosa, membranoproliferativa). Si osserva nel sangue
ipoalbuminemia e iperlipemia con aumento del colesterolo nel sangue a seguito dell'aumento di produzione nel fegato, edema generalizzato.
Anche le γ-globuline vengono perse attraverso le urine e ciò può contribuire ad un aumentato rischio di infezioni batteriche. Altre patologie a
livello generale sono un’ematuria asintomatica, infezioni delle vie urinarie superiori ed inferiori, formazione di calcoli, ipertensione renale,
patologie ostruttive dei tubuli renali. Malattie sistemiche che causano questa malattia sono l'insufficienza cardiaca, trombosi dei vasi renali,
ipertensione, accumulo di elementi tossici come metalli pesanti piombo, oro, mercurio, amiloidosi, gli antibiotici, le neoplasie.
In conclusione la scoperta di una quantità anomala attraverso la misurazione della microalbuminuria o dell'uso delle strisce reattive (stick delle
urine) è un indicatore importante di malattia renale in quanto le proteine hanno un tasso di riassorbimento a livello del tubulo prossimale molto
basso; quindi l'aumento di filtrazione delle proteine satura rapidamente il meccanismo di riassorbimento.

INFEZIONI DELLE VIE URINARIE: URINOCOLTURA

Le infezioni delle vie urinarie sono le più comuni infezioni dell'uomo con una netta prevalenza del sesso femminile rispetto a quello maschile.
L’urina è normalmente sterile ma nell’uretra si trovano normalmente dei batteri il cui numero è elevato in vicinanza del meato urinario e
decresce man mano che si procede verso la vescica. Con il termine “ batteriuria” si intende la presenza di batteri nelle urine. Il termine
“batteriuria significativa” indica che il numero di batteri presenti nelle urine escrete supera quello che si può attendere a causa di una
contaminazione da parte della flora batterica uretrale nel passaggio delle urine.
Le infezioni delle vie urinarie possono coinvolgere:
- il tratto urinario inferiore o discendente (vescica, uretra,), causando cistite;
- il tratto urinario superiore o ascendente (rene), causando pielonefrite.
Nella cistite clinicamente avremo disuria (difficoltà ad andare a urinare, minzione discontinua con un’attesa nel momento della minzione e con
una sensazione di non completo svuotamento della vescica), pollachiuria, dolore, bruciore, tensione sovrapubica e senso di non svuotamento.
Sintomi analoghi si possono riscontrare anche nelle uretriti e nelle prostatiti. Le infezioni nel tratto urinario inferiore possono essere
asintomatiche e il più delle volte restano localizzate alla vescica ma potenzialmente possono diffondersi al rene. La pielonefrite colpisce i tubuli
renali, gli ureteri e le pelvi renali. Clinicamente le pielonefriti presentano gli stessi sintomi della cistite con, in più, dolore lombare, febbre
(ipertermia) ed elevata carica batterica.
Nella maggior parte dei pazienti con infezioni del tratto urinario i
microbi infettanti derivano dalla flora fecale del paziente stesso. Le
vie attraverso le quali i batteri possono raggiungere il rene sono
due: la via ematogena, attraverso il flusso sanguigno, per infezioni
in corso di setticemie o endocarditi, in persone debilitate o soggetti
con terapie immunosoppressive o per azione di germi non
intestinali come stafilococchi, miceti e virus; dalle vie urinarie
(infezione ascendente). Dato che normalmente le urine sono sterili
la prima tappa per la via ascendente è la colonizzazione della parte
distale dell’uretra vicino ai genitali esterni da parte di batteri
intestinali. Essa è dovuta alla capacità di tali batteri di aderire alla
mucosa uretrale per mezzo di molecole di adesione (adesine) o
mediante i pili che si attaccano a recettori superficiali delle cellule
uroepiteliali. Dall’uretra possono raggiungere la vescica. Questo
può succedere più facilmente se la donna, a causa della brevità
dell’uretra, non va ad urinare molto spesso nella giornata.
Nell’uomo, se si somma la lunghezza dell’uretra e la lontananza
del meato urinario da possibili contaminazioni fecali, si spiega
come le infezioni delle vie urinarie (IVU) sia inferiore rispetto alla
donna. Nella donna, invece, la brevità dell’uretra e la facilità con
cui si può realizzare una contaminazione fecale (per la vicinanaza
all’ano) sono fattori predisponenti. L’incidenza nelle donne
aumenta anche con il succedersi delle gravidanze (schiacciamento
della vescica e ristagno delle urine) e sono rappresentate da episodi
asintomatici soprattutto nel primo trimestre ma molto pericolosi per
il neonato (parto prematuro e infezioni gravi post-natali).
Nell’uomo il rischio di infezioni può aumentare con l’avanzare
dell’età soprattutto per ristagno di urina in vescica a causa di
possibili ipertrofie della prostata (ipertrofia prostatica).
Il ristagno dell’urina aumenta la possibilità di propagazione
batterica e quindi di infezione.
Normalmente i germi introdotti in vescica sono eliminati dal flusso continuo di svuotamento della vescica. Un ostacolo allo svuotamento, il non
svuotamento frequente, lo svuotamento incompleto della vescica per la presenza di calcoli, tumori, diverticoli, iperplasia prostatica, stenosi del
meato urinario o uretrale, disfunzioni neurogene (sclerosi multipla, lesioni al midollo spinale) possono determinare l’instaurarsi di un’infezione
anche ricorrente o cronica nel tempo. Anche anomalie nella valvola vescico-uretrale, normalmente monodirezionale, può comportare un’azione
retrograda in senso ascendente dell’urina verso gli ureteri e le pelvi renali e quindi portare infezioni.
È possibile riscontrare un andamento ricorrente delle infezioni delle vie urinarie:
- ricadute, se è responsabile dell'infezione lo stesso microrganismo che ha provocato un episodio precedente, spesso per antibiotico-
resistenza;
- reinfezione, se il microrganismo responsabile è diverso da quello dell'episodio precedente.
Le urine sono sterili ma durante l'emissione sono contaminate dalla flora presente in uretra e vagina. Assume così molta importanza per il
paziente e per il personale infermieristico la raccolta corretta dei campioni urinari (aspetto pre-analitico) fino al trasporto al Servizio di Patologia
Clinica o all'eventuale conservazione del campione biologico prima dell'esecuzione dell'esame. I campioni vanno di norma raccolti prima
dell'inizio di una terapia antibiotica e vanno raccolte le urine della prima minzione del mattino perché più concentrate di batteri e cellule o, se
non è possibile, aspettare almeno 3 ore dall'ultima minzione. Se non è possibile inviare subito il campione (entro 1h) esso va refrigerato a +4°C.
I batteri responsabili di UTI (infezione del tratto urinario) sono spesso Escherichia Coli, Staphyloccoccus Aureus e Saprophyticus, Epidermidis e
Hominis, enterococchi implicati nelle prostatiti e molto difficili da eradicare con la terapia antibiotica, alcuni batteri di provenienza intestinale
Gram negativi come i Proteus, le Klebsielle, gli Enterobacter, le Serratie, lo Pseudomonas Aeruginosa che provocano infezioni acute o croniche
recidivanti, o in pazienti ospedalizzati o domiciliati sui quali vengono eseguite misure strumentali come il posizionamento di cateteri. Da notare
anche la presenza dello Streptococco Agalactiae di gruppo B patogeno che colonizza la vagina e può migrare in vescica. Anche in determinate
situazioni come una protratta terapia antibiotica, pazienti diabetici o immunodepressi è possibile isolare dalle vie urinarie anche i miceti come la
Candida.
Anche con l'esame delle urine semplici fatto in precedenza può essere svelata un'UTI. La presenza di piuria (urine contenenti molti leucociti) in
un paziente che ha fatto l’esame delle urine semplici è un primo ma importante indicatore di infezione dell’apparato urinario anche se non è in
grado di dire se l’infezione è alle alte vie urinarie o alle basse vie urinarie.
Lo scopo dell’esame colturale dell’urina (urinocoltura) consiste:
- nel rilevare l’agente eziologico di una possibile infezione delle vie urinarie alte e basse;
- nel misurarne la concentrazione (carica batterica);
- nel fornire un test di sensibilità agli antibiotici sul ceppo isolato;
- nel seguire eventualmente l’evoluzione della malattia o l’esito del trattamento antibiotico prescritto (monitoraggio della terapia
antibiotica).
Il numero di batteri ritenuto significativo per sospettare un’infezione batterica è ≥ 100.000 UFC/ml (carica batterica), mentre nell'uomo una
carica batterica anche ≥ 10.000 può essere considerata significativa a causa di una minor possibilità di eventuali contaminazioni. In presenza di
una carica ≥ 100.000 UFC si può considerare l'opportunità di ripetere dopo due-tre giorni il prelievo per avere una conferma. Se dopo ripetizione
la carica scende vuol dire che il precedente prelievo era contaminato. La presenza di tre specie batteriche contemporaneamente indica una sicura
contaminazione. Nei pazienti asintomatici appartenenti ad alcune categorie ad alto rischio di avere un IVU (donne in gravidanza, bambini,
pazienti portatori di cateteri a permanenza, pazienti con anomalie ostruttive delle vie urinarie, pazienti trapiantati, pazienti immunocompromessi,
pazienti da avviare a intervento chirurgico urologico dopo l’aver proceduto comunque all’esame colturale) il livello di positività
dell’urinocoltura è > 100.000 UFC/ml. Nelle donne è bene procedere ad un ulteriore urinocoltura di conferma mentre negli uomini, dove la
contaminazione è più difficile, il livello di positività è di > 10.000 UFC/ml. Nei pazienti sintomatici, soprattutto nelle categorie ad alto rischio
dette prima, cariche batteriche < 100.000 UFC/ml determinano un’urinocoltura positiva. In presenza di sindromi uretrali o cistiti ricorrenti con
urinocoltura negativa è bene controllare la presenza di leucocituria nelle urine (piuria) e approfondire con la ricerca di alcuni patogeni rari come
Chlamidie, Mycoplasmi, batteri anaerobi e micobatteri.
L’analisi di laboratorio che rappresenta il “gold standard” per le infezioni delle vie urinarie discendenti ed ascendenti è l’urinocoltura. Il
campione di urinocoltura che fornisce migliori informazioni è la prima urina del mattino ottenuta dopo un riposo a letto durato tutta la notte,
prima della colazione e prima di qualsiasi attività sia fisica che sessuale (l’attività sessuale è da evitare il giorno prima dell’analisi
dell’urinocoltura e/o delle urine semplici perché la quantità di proteine e di cellule potrebbero essere aumentate). L’urina prodotta durante la
notte si forma nel corso di un periodo prolungato durante il quale non vengono introdotti liquidi e dove gli elementi figurati e l’eventuale
presenza di batteri è maggiore. Il mitto intermedio si riferisce alla parte centrale di un campione raccolto per minzione: la prima parte dell’urina
non viene raccolta perché spesso è contaminata dalla flora batterica commensale dell’uretra. Il campione da raccogliere deve essere idoneo
perché secrezioni vaginali e secrezioni uretrali possono alterare i risultati.
Sia il personale infermieristico che il personale del laboratorio analisi devono fornire al paziente tutte le istruzioni necessarie per ottenere un
campione di urine idoneo. Per il prelievo è necessario lavarsi accuratamente le mani solo con acqua perché sapone e antisettici possono uccidere
i microrganismi mentre passano dalla zona, risciacquare ed asciugare; aprire il contenitore sterile evitando di toccarne le pareti interne e la parte
interna del coperchio; appoggiare il contenitore ed il coperchio, rivolto verso l'alto, su una superficie piana e pulita; lavare i genitali esterni.
Nelle donne imbibire con acque e sapone tre o quattro spugnette o delle garze sterili; divaricare le grandi labbra; lavare utilizzando una spugnetta
per volta per tre o quattro volte passando dall'avanti all'indietro; al momento di urinare lasciare che la prima parte cada nel water (perché ci sono
i microrganismi dell’uretra e quindi questo costituisce un primo lavaggio) e raccogliere, senza interrompere lo stimolo, la parte centrale e finale
nel contenitore sterile. Nei maschi retrarre la pelle del prepuzio e scoprire il glande, lavare con una spugnetta imbibita di sola acqua per le stesse
ragioni di cui sopra; al momento di urinare lasciare che la prima parte cada nel water (per le stesse ragioni di cui sopra) e raccogliere, senza
interrompere lo stimolo, la parte centrale e finale nel contenitore sterile; dopo aver finito, chiudere bene il coperchio, asciugare eventualmente il
contenitore e scrivere sull’etichetta del contenitore nome, cognome e data di raccolta del campione e qualche dato clinico. Nei reparti ospedalieri
bisogna anche indicare da quale clinica il paziente proviene. Un'altra modalità è nei neonati attraverso l'uso del sacchetto sterile adesivo.
Un’ulteriore modalità è raccogliere il campione con un catetere. Per l'inserimento del catetere nell'uretra a vescica piena lavare accuratamente
con acqua e sapone la zona circostante l'inserimento del catetere, introdurre quindi sterilmente il catetere e far defluire le prime urine e
raccogliere le urine successive nel contenitore sterile. Se vi è un catetere permanente il prelievo va eseguito dal dispositivo di raccolta o dal
catetere stesso mediante siringa sterile e non dal sacchetto di raccolta.
In caso di sospetta uretrite, invece, si preleva la prima urina (il primo mitto).
Infezioni del tratto urinario possono essere date dalle uretriti. Clinicamente anch’essa si manifesta con disuria, pollachiuria. L’urinocoltura
risulterà negativa, mentre l’esame delle urine semplici potrà rilevare piuria: in questo caso il microbo responsabile potrebbe essere la Chlamydia
Trachomatis, un piccolo batterio che causa uretriti frequentemente asintomatiche e che contagia donne e neonati.

BATTERI

I batteri sono microrganismi unicellulari procarioti grandi alcuni micron (da 0,2 µm a 30 µm). Sono avvolti da una membrana citoplasmatica ma
sono privi di nucleo e di altri organuli citoplasmatici avvolti da membrane. P ossiedono una parete cellulare e al di sotto è presente la membrana
cellulare. Alcuni batteri hanno inoltre un ulteriore rivestimento esterno detto capsula, formato di regola da polisaccaridi secreti dai batteri stessi,
che aumenta la resistenza alla fagocitosi perché fa aumentare la grandezza del batterio. La funzione della capsula è quella di proteggere
meccanicamente la cellula procariotica dall'ambiente esterno. I batteri possiedono, inoltre, ribosomi. I mesosomi sono introflessioni della
membrana cellulare. Tutti i batteri possiedono un singolo DNA circolare a doppio filamento che è presente in una zona detta nucleoide (non
separato dal citoplasma da alcuna membrana nucleare). Nel citoplasma possiedono, inoltre, un certo numero variabile (da 3 a 15) di altro DNA a
doppio filamento più piccolo e più circolare chiuso detto plasmide. La maggior parte dei batteri sintetizza il proprio DNA necessario per la
moltiplicazione cellulare, le proteine e gli RNA messaggeri, transfer e ribosomiali. La divisione batterica avviene mediante scissione binaria.
Alcuni batteri, una volta penetrati nell’uomo, rimangono al di fuori delle cellule nell’ambiente extracellulare; altri batteri possono moltiplicarsi
sia all’esterno che all’interno della cellule (batteri intracellullari facoltativi); mentre alcuni possono moltiplicarsi solo all’interno delle cellule
(intracellulari obbligati).
In generale, evoluzione ed esito di un’infezione dipendono in generale da: tipo di patogeno che entra nell’organismo; carica microbica
(quantità/numero); tempo di raddoppiamento (velocità di adattamento e raddoppiamento). Altri fattori di virulenza batterica dipendono della
capacità di aderire, penetrare ed invadere le cellule e i tessuti. In particolare altri fattori di virulenza/patogenicità batterica sono: flagelli
(motilità); adesine (fimbrie o pili, molecole batteriche di superficie che si legano alle cellule dell’ospite); lipopolisaccaride (endotossina); capsula
(resistenza alla fagocitosi); esotossine; proteine enzimatiche (invasine); mimetismo.
La parete cellulare che è diversa da batterio a batterio e che differisce tra Gram-positivo e Gram-negativo: Gram-positivo è blu, Gram-negativo è
rosa. I Gram-negativi hanno lipopolisaccaridi (lipide A) e quindi l’alcool scioglie i grassi e la colorazione sarà rosa. I Gram-positivi hanno
peptidoglicani, quindi l’alcool non ha azione e la colorazione sarà blu.
1) Aggiunta colorante blu che colora entrambi
2) Aggiunta alcool
3) Aggiunta colorante rosa:
- Il Gram-positivo resta blu perché ha proteine che non vengono rimosse dall’alcool
- Il Gram-negativo diventa rosa perché lo strato inizialmente colorato di blu è di lipidi e quindi viene eliminato dall’alcool per poi
ricolorarsi di rosa

La maggior parte dei batteri quando invadono l'organismo rimangono al di fuori delle cellule, alcuni invece possono vivere sia all'esterno delle
cellule che all'interno delle cellule (batteri intracellulari facoltativi) e infine i batteri del genere Chlamydia e Rickettsia sono batteri intracellulari
obbligati. Essi si replicano all'interno di vacuoli circondati da membrane nelle cellule epiteliali (Chlamydia) e nelle cellule endoteliali
(Rickettsia). Questi batteri ricavano l'energia di cui hanno bisogno dalla cellula ospite.
RICKETTSIE: endocellulare obbligato che danneggia le cellule endoteliali in cui crescono causando una reazione infiammatoria chiamata
vasculite emorragica ma possono danneggiare anche il SNC e causare febbri elevate. Le Rickettsie sono trasmessi attraverso artropodi vettori
come i pidocchi, le zecche, e gli acari.
I batteri del genere MYCOPLASMA e UREAPLASMA sono gli unici batteri patogeni extracellulari a essere privi di parete cellulare ed hanno
dimensioni molto ridotte.
Lo STAPHILOCOCCUS AUREUS è un cocco Gram-positivo che forma aggregati simili a grappoli d’uva. È responsabile di numerose lesioni
alla cute come i foruncoli, ma anche ascessi, osteomielite, polmonite, endocardite, intossicazioni alimentari, e la sindrome da shock tossico
(TSS). Gli stafilococchi producono superantigeni che, legandosi all'MHC o a porzioni del recettore T dei linfociti T, possono stimolarne
l'attivazione portando al rilascio di grandi quantità di citochine pro-infiammatorie come TNF e IL-1. Queste citochine, prodotte in eccesso,
portano allo shock tossico che si manifesta con ipotensione, insufficienza renale, insufficienza respiratoria, epatopatia ed eritemi generalizzati.
Se non trattata, il paziente può morire. Lo stafiloccocco sta diventando sempre più resistente al trattamento con gli antibiotici: gli antibiotici
beta-lattamici, come penicilline e cefalosporine, che sono inibitori della sintesi della parete cellulare batterica, diventano sempre meno efficaci.
Lo STAPHILOCOCCUS EPIDERMIDIS causa infezioni opportunistiche nei pazienti con cateteri, nei pazienti con valvole cardiache artificiali e
nei tossicodipendenti.
Lo STAPHILOCOCCUS SAPROPHYTICUS può causare infezioni del tratto urinario nelle donne giovani.
La Legionella è uno degli agenti eziologici di polmonite batterica che deve il nome all’epidemia che si ebbe tra i partecipanti ad una riunione
dell’American Legion nel 1976. È un batterio aerobio, generalmente mobile per la presenza di flagelli. Si trova negli ambienti umidi e dove c’è
acqua (laghi, falde idriche ma anche acquedotti, piscine, termoconvettori). Penetra nell’ospite attraverso le mucose delle vie respiratorie, attacca
i polmoni e di rado si propaga nel corpo. Si presenta in forma di polmonite acuta.
CLAMYDIA: batterio intracellulare obbligato, si replica all’interno di vacuoli delle cellule epiteliali, ricavando energia necessaria per crescere
all’interno dell’ospite. La CHLAMYDIA TRACHOMATIS è la causa più frequente di sterilità femminile dato che l'infezione porta poi a
cicatrizzazione e restringimento delle tube di Falloppio. Porta anche a cecità causata da un processo infiammatorio cronico della congiuntiva con
formazione finale di cicatrici e opacizzazione della cornea.
Le CHLAMYDIE sono a microorganismi a parassitismo intra-
cellulare obbligato: sono incapaci di produrre autonomamente ATP
e per questo sono stati definiti "parassiti energetici". Sono Gram-
negativi sferoidali, immobili, asporigeni e dotati di una
caratteristica struttura superficiale, il "mantello" (in greco
clamydion= mantello), assai simile alla parete cellulare dei batteri
Gram-negativi. All'interno delle cellule parassitate producono delle
caratteristiche inclusioni intra-citoplasmatiche. Si conoscono due
forme morfologiche delle Chlamydie:
- i "corpi elementari", hanno dimensioni di 250-500 nm,
non si riproducono, presentano un nucleo denso centrale
e possono sopravvivere per breve tempo al di fuori delle
cellule e pertanto sono i responsabili della diffusione
dell'infezione.
- i "corpi reticolari", giungono fino ad 1 mμ di diametro, si
osservano esclusivamente all'interno delle cellule
infettate, si riproducono per scissione binaria (dalla 10°
alla 20° ora dopo la penetrazione nella cellula) e poi
danno nuovamente origine ai corpi elementari.
Le Chlamydie penetrano nelle cellule suscettibili, forse dotate di un "recettore di membrana" glico-proteico, come "corpi elementari" (per
pinocitosi od endocitosi), si trasformano in "corpi reticolari" (dopo 6-8 ore) all'interno delle inclusioni citoplasmatiche, che sono vere e proprie
colonie e contengono aggregati in diversa proporzione di corpi elementari e reticolari; i fagosomi non vanno incontro a fusione tra loro né a lisi.
Sono state attribuite alla Chlamydia numerose condizioni cliniche come endocerviciti mucopurulente (infiammazioni del collo uterino),
salpingiti, uretriti, endometrite, sindrome uretrale acuta. Nella donna l’endocervice è l’organo più frequentemente infetto con PID
(infiammazione pelvica): è un’infezione che passa dalla vagina a cervice, utero, tube di Falloppio e, a volte, ovaie. Le i nfezioni perinatali
vengono acquisite poco prima o durante il parto con trasmissione verticale. La rottura prolungata delle membrane può facilitare per via
ascendente la contaminazione del liquido amniotico, delle membrane fetali, della placenta o del cordone ombelicale. La trasmissione può
avvenire durante il passaggio attraverso il canale del parto in seguito al contatto con secrezioni vaginali infette o con lesioni presenti a livello
genitale. Il neonato è in genere colonizzato a livello cutaneo e delle mucose e solo in una piccola percentuale di casi si verifica successiva
disseminazione dell'infezione. L’infezione da Chlamydia può aumentare il rischio di rottura prematura delle membrane, basso peso neonatale,
mortalità perinatale ed è un’importante fattore di infertilità.

URINOCOLTURA

L’urinocoltura è un esame di controllo per le infezioni urinarie che serve per evidenziare la gravità (la carica è un parametro) dell’infezione.
Bisogna aver sospeso la terapia antibiotica da almeno tre giorni prima di eseguire l’urinocoltura che, comunque, deve essere accoppiato sempre
ad un prelievo di urine semplici per evidenziare la presenza di leucociti di origine infiammatoria : il referto di microrganismi (urinocoltura
positiva) in assenza di leucociti suggerisce una probabile contaminazione del campione. Poi si somministrano antibiotici. Poi monitoraggio (con
altra urinocoltura). La resistenza all’antibiotico è comune perché i batteri comunicano tra loro. L’abuso di antibiotici è controproducente, va
preso solo se strettamente necessario.
La valutazione quantitativa della carica batterica si effettua
mediante una conta microbica cioè la conta dei microrganismi in
grado di sviluppare e dare le UFC. Il campione si semina su un
terreno solido utilizzando successive diluizioni del campione. Con
un’ansa calibrata si trasferiscono dal contenitore sterile di
urinocoltura 10 μl di urina e si semina su Cled o Wurtz.
Si lascia incubare 37°C per 24 h in termostato e dopo si leggono i risultati:

Risultati urinocoltura: negativa, debolmente positiva, positiva e positiva

NEGATIVO SINTOMATICO ASINTOMATICO


x < 10.000 u.f.c. 10.000 < x < 100.000 u.f.c. x > 100.000 u.f.c.

Il riconoscimento delle specie batteriche avviene sui terreni mediante iniziale riconoscimento visivo che si fonda su forma e colore che
assumono le colonie sul terreno. I batteri e i funghi che più spesso troviamo in corso di urinocoltura positiva sono: fra i gram positivi,
Enterococcus, Streptococcus viridans, agalactiae, faecalis e Staphylococcus aureus; tra i gram negativi, Escherichia Coli, Klebsiella pneumoniae,
Proteus mirabilis, Pseudomonas aeruginosa, Citrobacter freundii, Morganella morganii, Serratia marcescens.
La carica batterica descritta nel referto dell'urinocoltura è utile per indicare il grado di gravità di un'infezione delle vie urinarie e per monitorare
nel tempo l'efficacia della terapia antibiotica.
Negli ultimi mesi di gravidanza si verifica una parziale ostruzione degli ureteri da parte dell’utero gravidico che conducono ad una stasi urinaria
con ristagno batterico e conseguente batteriuria. Spesso nelle gravide si presenta sotto forma asintomatica. Il 50% delle donne gravide con
batteriuria asintomatica non trattata sviluppa infezioni sintomatiche del tratto urinario in gravidanza e più esattamente si avranno pielonefriti con
febbre e dolore toracico. In gravidanza la pielonefrite può dare anche shock settico ed essere associata ad un aumentato del rischio di parto
pretermine. In caso di batteriuria asintomatica in gravidanza, se l’urinocoltura è risultata positiva, è consigliata una terapia antibiotica specifica
(dopo antibiogramma) e sotto controllo ginecologico di 7 giorni per via orale. Risulta consigliato un controllo delle urine con una nuova
urinocoltura dopo la terapia ed un ritrattamento se la batteriuria persiste.

ANTIBIOTICI

In caso di urinocoltura positiva si esegue l’antibiogramma per saggiare la sensibilità del ceppo batterico isolato a diversi antibiotici di diversi
antibiotici. Si prende dalla piastra dove si era isolato il ceppo batterico qualche colonia e la si stempera in un altro terreno detto Mueller-Hinton.
Dopo si prendono dei dischetti di diversi antibiotici e si appoggiano sulla piastra. Si lascia incubare per 24 ore a 37°C in termostato. Si misura il
diametro dell’alone per valutare la sensibilità o la resistenza di quel particolare antibiotico.
Gli antibiotici sono farmaci contro le infezioni causate da batteri che non hanno alcun effetto contro le infezioni virali o da miceti. L’uso
massiccio degli antibiotici ha creato il grave problema dell’antibiotico-resistenza: con sempre maggiore frequenza diversi ceppi di batteri non
sono più attaccabili dai comuni antibiotici. Gli antibiotici sono delle sostanze naturali che in genere vengono prodotti dagli stessi batteri o
funghi. Una particolare loro proprietà consiste nella tossicità selettiva: risultano dannosi a certe concentrazioni per i batteri ma non per l’uomo.
In realtà oggi molti degli antibiotici esistenti sono stati chimicamente modificati dall’industria farmaceutica in laboratorio per migliorare il loro
potere battericida o aumentare il numero delle specie batteriche su cui agiscono. Tutti gli antibiotici si oppongono alla proliferazione batterica
penetrando nei batteri ed ostacolando la produzione di sostanze necessarie per la loro vita e la loro riproduzione.
I batteri resistenti agli antibiotici devono la loro resistenza a geni specifici. Questi geni che si trovano sul cromosoma batterico o, soprattutto, su
piccoli frammenti circolari extracromosomici di DNA (plasmidi) possono:
a) codificare per proteine che fungono da pompe che espellono gli antibiotici dalle cellule;
b) dare origine ad enzimi che degradano gli antibiotici;
c) dare origine ad enzimi che alterano la struttura chimica degli antibiotici rendendoli inattivi.
Il fenomeno della resistenza consiste quindi nella comparsa di ceppi di microrganismi capaci di accrescersi anche in presenza di antibiotici. Ciò
può avvenire per mutazioni spontanee e casuali. La pressione selettiva è un fenomeno che consiste nell’uccisione di batteri sensibili
all’antibiotico somministrato ma nel far rimanere vivi altri ceppi batterici, anche di specie diverse, che hanno acquisito quella resistenza.
Eliminando i batteri nocivi sensibili all’antibiotico, si favorisce la crescita di ceppi innocui ma resistenti, la cui diffusione incrementa il
patrimonio di caratteri della resistenza nella totalità della popolazione batterica, aumentando la probabilità che tali caratteri si propaghino ai
batteri patogeni.

Queste resistenze acquisite possono poi essere comunicate tra le varie cellule microbiche, attraverso tre meccanismi principali:
a) processo di CONIUGAZIONE, attraverso il passaggio di plasmidi tramite il pilum sessuale;
b) processo di TRASDUZIONE, può avvenire tramite un batteriofago che trasmette il gene della resistenza da un batterio all’altro o
attraverso un batterio infettato da un virus contenente il gene della resistenza che trasferisce il virus;
c) processo di TRASFORMAZIONE, i batteri inglobano frammenti DNA che portano tali geni da cellule morte che si trovano nelle loro
vicinanze, i geni acquisiti permangono nel nuovo ospite se vengono incorporati nei plasmidi o nel cromosoma batterico.
I geni acquisiti permangono nel nuovo ospite se vengono incorporati nei plasmidi o nel cromosoma batterico.
Per superare il problema della resistenza occorre che il personale medico consideri attentamente l’uso degli antibiotici perché ogni volta che
viene somministrato dell’antibiotico aumenta la percentuale di batteri resistenti nell’individuo trattato.
L’azione battericida si esplica legandosi ai ribosomi batterici danneggiando così la produzione delle proteine (tetraciclina). La penicillina e la
vancomicina interferiscono e bloccano la sintesi della parete batterica inibendo la produzione di peptidoglicano.
Per superare il problema della resistenza occorre che il personale medico consideri attentamente l’uso degli antibiotici perché ogni volta che
viene somministrato dell’antibiotico aumenta la percentuale di batteri resistenti nell’individuo trattato. L’uso massivo degli antibiotici è stato
determinato da diversi fattori: pressioni commerciali delle ditte produttrici di antibiotici; terapie a base di antibiotici prescritte dai medici;
richiesta da parte della popolazione di "guarire presto" non dando il tempo all’organismo di sviluppare una adeguata reazione alle malattie
infettive. La prevenzione primaria passa attraverso l’uso corretto degli antibiotici perché l’uso eccessivo favorisce lo sviluppo e la diffusione di
microbi resistenti. Devono essere prescritti dal medico abolendo il “fai da te” soprattutto con i bambini. Non bisogna usare immediatamente
l’ultimo ritrovato senza che vi sia necessità. Non serve assumerli in caso di influenza o altre malattie virali o fungine a meno che non si siano
instaurate delle sovrainfezioni batteriche.
L’uso massiccio degli antibiotici ha creato il grave problema dell’antibiotico-resistenza: con sempre maggiore frequenza diversi ceppi di batteri
non sono più attaccabili dai comuni antibiotici. Gli Antibiotici sono farmaci contro le infezioni causate da batteri. Non hanno nessun effetto
contro le infezioni virali o da miceti (candidosi). Gli antibiotici sono delle sostanze naturali che in genere vengono prodotti dagli stessi batteri o
funghi. Una particolare loro proprietà consiste nella tossicità selettiva: risultano dannose a certe concentrazioni per i batteri ma non per l’uomo.
In realtà oggi molti degli antibiotici esistenti sono stati chimicamente modificati dall’industria farmaceutica in laboratorio per migliorare il loro
potere battericida o aumentare il numero delle specie batteriche su cui agiscono. Tutti gli antibiotici si oppongono alla proliferazione batterica
penetrando nei batteri ed ostacolando la produzione di sostanze necessarie per la vita e la riproduzione dei batteri. Nel caso della tetraciclina
l’azione battericida si esplica legandosi ai ribosomi batterici danneggiando così la produzione delle proteine. La penicillina e la vancomicina
invece interferiscono e bloccano la sintesi della parete batterica inibendo la produzione di peptidoglicano.

INFEZIONI OSPEDALIERE

Le ICA sono infezioni che insorgono durante il ricovero in una struttura ospedaliera o in alcuni casi dopo che il paziente è stato dimesso e che
non erano manifesti clinicamente né in incubazione al momento dell'ammissione. Le infezioni ospedaliere sono oggi uno dei maggiori problemi
sanitari: in generale in Italia i tassi più elevati di infezioni ospedaliere si sono riscontrati nei reparti di terapia intensiva, nei reparti chirurgici ed
ortopedici; i bambini al di sotto di 1 anno di età e gli adulti oltre i 64 anni sono i soggetti più colpiti.
Le infezioni del tratto urinario si sono dimostrate tra le più frequenti e come causa vi è il catetere in caso di cateterizzazione permanente o a
breve termine dopo un intervento chirurgico. L’"agrobacterium tumefacens", infatti, si annida nei cateteri, è uno dei batteri responsabili delle
infezioni ospedaliere e provoca febbri finora ritenute "senza causa". Questo batterio si trova nelle piante ed è in genere ritenuto innocuo per
l’uomo che, infatti, può ingerirlo attraverso una mela senza che gli procuri danni. Può però diventare pericoloso e scatenare un’infezione se, per
esempio, un infermiere o un ostetrico viene a contatto con un frutto infettato dal batterio e, subito dopo, inserisce un catetere nel malato.
Possibili cause di infezioni ospedaliere sono le ferite e tutte le procedure invasive se non eseguite correttamente.
Subito dopo vengono le ferite da intervento chirurgico o da altro. Quindi possibili cause di infezioni ospedaliere sono tutte le procedure invasive
se non eseguite correttamente, interventi chirurgici, infusioni endovenose tramite fleboclisi, iniezioni, cateteri urinari, strumenti per la
respirazione artificiale, pacemaker, articolazioni artificiali, valvole cardiache artificiali, traumi, pazienti immunodepressi per un trapianto o
perché malati di cancro allo stadio terminale o di HIV.
I rischi non riguardano solo i pazienti: vengono anche coinvolti, pur se in percentuale molto inferiore, il personale ospedaliero e i soggetti che
vengono per diversa natura a contatto con i malati.
Nel paziente sottoposto ad intervento chirurgico o a procedure diagnostiche invasive, la complicanza più spesso osservata è l'infezione della
ferita. L’aumento delle procedure chirurgiche eseguite ambulatorialmente o in ricovero giornaliero o con degenze sempre più brevi rendono
necessaria un'attenta sorveglianza a domicilio. Il trattamento di tali infezioni può consistere in drenaggio, disinfezione della ferita, utilizzo di una
terapia antibiotica sistemica, fino al rinvio del paziente in ospedale per un reintervento.
Il paziente compromesso è un soggetto in sui si hanno deficit congeniti o acquisiti dei meccanismi di difesa immunitaria specifici o aspecifici. La
risposta immunitaria umorale o cellulo-mediata e la risposta infiammatoria possono essere alterate per malattie congenite, infezioni virali
(HIV/AIDS), splenectomia, terapie antitumorali, neoplasie, traumi, interventi chirurgici. Vanno considerati anche alcune malattie sistemiche,
come il diabete mellito, la cirrosi epatica, l'insufficienza renale cronica, le malattie autoimmunitarie. In tali soggetti compromessi, cause di
infezioni sono solitamente agenti infettivi commensali o scarsamente patogeni. Sono frequenti le polmoniti, ma sovente la febbre è l'unico
sintomo. In tali condizioni risulta essenziale una diagnosi tempestiva con relativa precoce terapia mirata. E quindi spesso c'è il ricorso alle
strutture ospedaliere specialistiche.
Il paziente istituzionalizzato è a rischio di acquisire infezioni caratterizzate dalle stesse modalità di presentazione e dagli stessi agenti eziologici
delle infezioni ospedaliere. Sono anziani, spesso non autosufficienti con demenza, portatori di handicap fisici o psichici gravi, soggetti con
patologie croniche. Il fattore di rischio nelle strutture per lungodegenti è rappresentato sia dalle condizioni di base dei pazienti (malattie
croniche, incontinenza fecale ed urinaria, uso di farmaci immunosoppressori, demenza) che dalle condizioni assistenziali ed ambientali che
favoriscono la trasmissione di germi. Tra le infezioni più frequenti, abbiamo l'influenza, con la relativa complicanza polmonare. Necessaria è
quindi la vaccinazione antiinfluenzale da praticare ogni anno prima dell'inverno. Altre infezioni gravi sono la tubercolosi, le gastroenteriti da
virus (rotavirus), batteri (E. Coli), protozoi o elminti, le polmoniti da S.aureus, K. Pneumoniae o P. aeruginosa. Spesso i batteri sono
multiresistenti.
Per tutte queste ragioni gli obiettivi principali da raggiungere saranno:
- Diminuire l’uso di antibiotici: circa l’80% di quelli usati nella comunità sono utilizzati per le infezioni respiratorie (molte delle quali di
natura virale), pertanto va migliorata la diagnosi di questi problemi;
- Conoscere le modalità di prescrizione da parte di medici in modo da intervenire sui comportamenti più irrazionali: a volte è difficile
resistere alle pressioni di un genitore il cui figlio ha mal di gola o febbre;
- Fornire ai medici linee guida sia su quale antibiotico usare (e per quanto tempo) sia, soprattutto, su quando non usarlo. Esistono
evidenze che la modificazione delle modalità di pagamento dei medici incide anche sulle modalità di prescrizione;
- Diffondere l’educazione sanitaria tra il pubblico, per ridurre le aspettative della popolazione;
- Affidare a esperti il controllo delle misure igieniche negli ospedali in modo da razionalizzare gli interventi ed evitare di usare misure
inefficaci o inutili;
- Migliorare gli standard di lavaggio delle mani in ospedale.
L'assistenza domiciliare di pazienti che necessitano di terapie complesse e di moderata invasività coinvolge, oltre al personale medico ed
infermieristico, ostetrico, anche altre figure quali parenti, conviventi e volontari. Ad essi bisogna impartire le norme di prevenzione da
qualsivoglia tipo di contagio, con attenzione e competenza. Vanno raccomandati l'accurata igiene delle mani, l'uso di dispositivi di barriera e di
appropriati contenitori rigidi per la raccolta e lo smaltimento di aghi e materiale tagliente . Utile la vaccinazione contro l'epatite B. Particolare
cura deve essere riposta nell'istruire coloro che assistono i malati di AIDS.
La disinfezione delle mani deve essere eseguita prima e dopo il contatto con un paziente, dopo qualsiasi contatto con liquidi biologici (con o
senza guanti). I guanti devono essere indossati prima di ogni contatto con liquidi biologici, mucose e ferite. Maschera, occhiali protettivi e
camice protettivo servono in caso di attività che presentano un rischio di esposizione a dei liquidi biologici. La disinfezione di superfici e
materiale previene la contaminazione dell’ambiente circostante il paziente.

I segni clinici che indicano un’infezione sono il dolore, la sofferenza muscolare, il malessere generale, la letargia. Tra i dati oggettivi del paziente
possiamo notare febbre > 38°C, aumento delle pulsazioni del polso, aumento di pressione sanguigna e frequenza respiratoria, attività urinaria
ridotta indicativa di una eccessiva disidratazione, cute calda ed arrossata, rigidità cervicale, eruzioni cutanee e linfonodi ingrossati.
Il Laboratorio di Patologia Clinica potrà evidenziare nell’emocromo un elevato aumento del numero dei globuli bianchi con alterazione della
formula leucocitaria, un aumento della VES, un aumento delle proteine della fase acuta (proteina C, Fibrinogeno, α1-antitripsina), un aumento
immediato della Procalcitonina se l'infezione è causata da batteri.

VIRUS

I virus sono agenti infettivi grandi alcuni nanometri (da 20 a 300 nm). Sono microrganismi non procarioti sono più piccoli dei batteri (circa 1000
volte) e non hanno nucleo. Contengono un unico tipo di acido nucleico: DNA o RNA a singolo o doppio filamento. Sono parassiti endocellulari
obbligati: devono quindi entrare nella cellula altrimenti muoiono e dipendono dal metabolismo della cellula ospite per la loro replicazione.
Consistono in un genoma composto da acido nucleico avvolto da una capsula proteica (capside) che in alcuni virus, come i retrovirus, è
racchiusa in una struttura esterna di natura lipoproteica (pericapside). Sono classificati principalmente in base al tipo di acido nucleico che
compone il loro genoma (DNA o RNA) e se singolo o doppio filamento. Sono responsabili di un gran numero di infezioni nell’uomo:
- possono provocare infezioni transitorie (influenza o raffreddore);
- non essendo eliminati dall’uomo, alcuni possono persistere all’interno delle cellule ospiti per anni continuando a replicarsi insieme al
DNA dell’uomo (infezione cronica da virus dell’epatite B, C e D);
- altri riescono a sopravvivere in forme non replicanti (infezione latente) con la potenzialità di riattivarsi successivamente. Ad es. il virus
dell’Herpes Zoster, che solitamente causa la varicella, può penetrare nel SNC a livello dei gangli del midollo spinale e restare latente in
questa sede. In seguito può riattivarsi causando delle infezioni erpetiche su varie mucose.
- alcuni virus possono trasformare il DNA della cellula umana in modo da renderle cellule neoplastiche: ad es. il Papilloma Virus può
dare verruche o sviluppare nelle donne il carcinoma della cervice uterina.
I virus provocano un danno all’uomo attraverso un attacco diretto alle cellule, penetrando in esse e replicandosi a loro spese.
Una volta che i virus si trovano all’interno della cellula ospite
possono o ucciderla o causare altri danni:
- alcuni virus possono inibire nella cellula ospite la sintesi
di DNA, RNA o proteine;
- alcune proteine virali si possono inserire nella membrana
citoplasmatici delle cellule danneggiandola e
promuovendo la fusione di cellule tra loro;
- possono lisare (rompere) la cellula ospite. Ad es. le
cellule epiteliali respiratorie vanno incontro a lisi in
seguito alla replicazione del virus influenzale.
- alcuni virus possono provocare la morte cellulare
programmata (apoptosi) mentre al contrario altri virus
hanno geni che inibiscono l’apoptosi dato che essa
potrebbe essere una risposta protettiva dell’ospite per
eliminare le cellule infettate dai virus. Queste strategie
anti-apoptosi possono favorire la replicazione virale,
promuovere le infezioni persistenti o indurre l’insorgenza
di tumori associati a virus.
- proteine virali presenti sulla superficie cellulare possono
essere riconosciute dal sistema immunitario e diventare
bersaglio dei linfociti. L’epatite cronica causata dal virus
dell’epatite B, C o D può essere molto aggravata
dall’azione dei linfociti T citotossici (CD8+) tramite la
distruzione degli epatociti infetti.
Fattori di patogenicità individuale sono: endocitosi virus, vacuolo, perdita del pericapside che resta all’esterno, entrata col capside proteico,
rottura del capside proteico, entrata del materiale genetico nel nucleo.
Fattori patogenicità virale (metodi di uccisione): effetto citopatico, uccisione delle cellule; trasformazione neoplastica, alcuni virus portano
tumori; grande variabilità genetica (mutazioni e adattamento) che porta a resistenze; avvicinamento delle cellule in quanto agisce sui desmosomi
ed avvicina le cellule vicine (fusione cellulare); antiapoptosi, produzione di proteine che bloccano l’apoptosi (meccanismo atiapoptotico).
Il virus nella cellula, per riassemblare tutti i componenti prodotti nel citoplasma, li sistema sulla superficie della membrana citoplasmatica.
Questi componenti sulla membrana vengono riconosciuti dal sistema difensivo (antigene estraneo del virus che ha infettato la cellula).
Quindi i fattori di patogenicità virale sono: mutazioni del proprio acido nucleico per sfuggire ai sistemi difensivi dell’ospite; lisi della cellula
infettata; trasformazione neoplastica della cellula infettata; inserimento di antigeni virali sulla superficie della membrana citoplasmatica della
cellula infettata con risposta specifica delle difese dell’ospite che hanno come conseguenza la necrosi o morte della cellula; meccanismi virali
anti-apoptotici.
La predilezione dei virus per determinati tipi di cellule (tropismo tissutale) è determinata principalmente dalla presenza di recettori della cellula
ospite per il virus. I virus infatti possiedono molecole (antigeni superficiali) in grado di legarsi in modo altamente specifico a proteine recettoriali
presenti sulla superficie delle cellule dell’uomo. Ad es. i ceppi dell’influenza che colpiscono l’uomo hanno una particolare predilezione per le
cellule epiteliali che rivestono le vie respiratorie. I virologi distinguono i vari ceppi influenzali in base alle differenze presenti tra le due proteine
principali che sporgono dalla superficie esterna del virus: l’emoagglutinina e la neuraminidasi. Tutte le varietà di queste due classi di proteine
presentano la stessa struttura tridimensionale ma diversa sequenza amminoacidica primaria.

LA PATOLOGIA CLINICA NELL’HBV E HCV

FEGATO
Il fegato è formato da due lobuli, un lobulo sinistro di solito più piccolo rispetto al lobulo destro. Il sangue entra nel fegato attraverso l’arteria
epatica e la vena porta e defluisce attraverso la vena epatica. I nervi e i vasi linfatici del fegato sono a ridosso di tali strutture. Le cellule
principali che compongono la struttura del fegato (o parenchima epatico), detti epatociti, sono disposti in strutture detti lobuli epatici, circondati
da sottili setti di tessuto connettivo. Le ramificazioni terminali dell’arteria epatica e della vena porta sono concentrati agli angoli del lobulo negli
spazi portali. Attraverso i sinusoidi che passano tra gli epatociti, il sangue scorre dagli spazi portali verso una venula epatica terminale o venula
centrolobulare, situata al centro di ogni lobulo. La vena epatica portale e l’arteria epatica si ramificano ripetutamente nel fegato; le ramificazioni
decorrono negli spazi portali agli angoli dei lobuli. Nei sinusoidi disposti tra i piani degli epatociti scorre sangue di entrambi i sistemi. I sinusoidi
a loro volta convergono e drenano in una venula centrolobulare.
Le principali funzioni del fegato sono:
- detossificazione dei prodotti di scarto (ad es. deaminazione degli aa a produrre urea);
- distruzione degli eritrociti vecchi e riciclo dei loro costituenti (organo emocateretico, in collaborazione con la milza);
- sintesi e secrezione della bile, necessaria per la digestione delle sostanze alimentari, che viene accumulata nella cistifellea e poi
immessa nel duodeno per mezzo del sistema biliare;
- sintesi delle proteine plasmatiche compresi i fattori della coagulazione (fibrinogeno) e albumina (sostanza osmotica che trattiene H 2O);
- sintesi delle lipoproteine plasmatiche;
- funzioni metaboliche tra cui la sintesi del glicogeno, la gluconeogenesi, il deposito di glicogeno, la sintesi ed il catabolismo di alcune
vitamine e lipidi;
- la detossificazione di vari farmaci e tossine come ad es. l’etanolo, (le colinesterasi sono enzimi epatici che si valutano nel
preoperatorio per valutare la quantità di anestetico da utilizzare);
- sintesi del complemento.
Molte di queste funzioni utilizzano direttamente i prodotti della digestione (ad eccezione della maggior parte dei lipidi). I prodotti alimentari
assorbiti passano direttamente dal sangue venoso dell’intestino tenue al fegato tramite il sistema portale prima di entrare nel circolo epatico. Il
letto vascolare del fegato è perciò perfuso da sangue ricco di aa, zuccheri semplici ed altri prodotti della digestione, ma relativamente povero di
O2. L’ossigeno necessario per sostenere l’intensa attività metabolica del fegato è fornito dal sangue arterioso portato al fegato dall’arteria epatica.
Il fegato perciò presenta una doppia irrorazione, sia venosa che arteriosa. I componenti strutturali del fegato includono quindi delle file di cellule
epatiche (epatociti), separati da ampi canali vascolari detti sinusoidi epatici. Il flusso sanguigno nei sinusoidi deriva dai rami terminali della vena
porta e dell’arteria epatica, che trasportano sangue ricco di nutrienti dall’apparato digerente e sangue ossigenato dal cuore. Le ramificazioni
maggiori di questi due vasi decorrono parallelamente all’interno dei setti fibrosi detti spazi portali, assieme ai dotti biliari che trasportano la bile
dal fegato al duodeno. Il sangue della vena porta e dell’arteria epatica passa attraverso i sinusoidi dove viene in intimo contatto con gli epatociti
per lo scambio dei nutrienti e dei prodotti metabolici. Il sangue quindi defluisce all’interno di ramificazioni delle vene epatiche e poi si riversa
nella vena cava inferiore. I sinusoidi sono rivestiti da uno strato discontinuo di cellule endoteliali che non si appoggiano su una membrana
(endotelio discontinuo e fenestrato) e che sono separate dagli epatociti tramite uno stretto spazio (spazio di Disse): tale spazio drena nei vasi
linfatici degli spazi portali. Gli epatociti sono grosse cellule poliedriche con nuclei grandi, rotondi, con cromatina dispersa alla periferia e con
prominenti nucleoli. I nuclei variano molto nelle loro dimensioni dato che più della metà degli epatociti contengono un corredo cromosomico
doppio all’interno di un singolo nucleo, sono cioè tetraploidi a differenza delle normali cellule che sono diploidi, mentre alcune contengono una
quantità di DNA 4-8 volte superiori (polipoidi). Nel citoplasma è presente il glicogeno, vi è un gran numero di mitocondri e un gran numero di
ribosomi liberi o associati al reticolo endoplasmatico rugoso ad indicare l’intensa attività biosintetica del fegato.

EPATITI
Le infezioni virali che possono coinvolgere il fegato, dette epatiti, comprendono: la mononucleosi infettiva (virus di Epstein Barr) che può
provocare un’epatite lieve durante la fase acuta; il citomegalovirus, particolarmente nel neonato e nel paziente immunodepresso; la febbre gialla
che è una causa di epatite severa nei paesi tropicali. Normalmente il termine di “epatite virale” è riservato alle infezioni epatiche causate da un
gruppo di virus con una particolare affinità per il fegato. L’epatite è quindi caratterizzata da una fase infiammatoria durante la quale vi è un
notevole afflusso di cellule infiammatorie e dalla necrosi di un’elevata quantità di epatociti. Come conseguenza varie sostanze contenute nelle
cellule epatiche, in particolare le transaminasi (GOT/GPT), vengono riversate nel sangue dove possono essere dosate.
Per valutare la funzionalità epatica si valutano enzimi. I valori di normalità (altrimenti insufficienza epatica):
- Bilirubina Totale: ≤ 1 mg/dl
- Bilirubina Diretta: ≤ 0,2 mg/dl
- Le transaminasi sono enzimi epatici che trasportano un gruppo amminico
o Aspartato aminotrasferasi (AST) o glutammico-ossalacetico transaminasi (GOT): ≤ 45 U/l
o Alanina aminotrasferasi (ALT) o glutammico-piruvico transaminasi (GPT): ≤ 45 U/l
o γGT: ≤ 50
Nell’epatite le transaminasi aumentano perché vengono distrutte le cellule epatiche e più cellule morte liberano le transaminasi contenute. Le
epatiti sono di diverso tipo (dalla A alla Z) e le più importanti sono la B e la C. Si alzano in caso di epatiti:
- Epatite A le alza in alto velocemente (fino a 1.000 mg/dl);
- Epatite B le alza fino a 200-300 mg/dl;
- Epatite C le alza fino a 50 mg/dl (quindi non emergono dall’esame).
L’Epatite Acuta è un’epatite che guarisce in meno di 6 mesi. L’Epatite Cronica (EC) è un’epatite che si protrae per più di 6 mesi: persistente se il
danno epatico non è progressivo, aggressiva se il danno epatico è progressivo. La Cirrosi è un sovvertimento strutturale del fegato con
progressiva riduzione delle capacità funzionali dell’organo. L’Epatocarcinoma è un tumore maligno primitivo del fegato.
I virus sono parassiti intracellulari obbligati il cui genoma è formato da DNA o RNA che si riproduce dentro le cellule viventi ed utilizza i
meccanismi biosintetici di queste per riprodursi. Sono privi di parete cellulare rigida, di ribosomi e di mitocondri. Il virus ha il suo acido
nucleico racchiuso da un involucro esterno proteico detto capside. Alcuni virus acquistano un involucro lipoproteico detto pericapside che deriva
generalmente dalla membrana della cellula ospite. I virus infettano un’ampia gamma di bersagli cellulari utilizzando molecole normalmente
espresse sulla superficie cellulare come recettori per penetrare al loro interno. Dopo il loro ingresso nella cellula ospite i virus possono provocare
danno tissutale e malattia. La replicazione virale può interferire con le normali funzioni cellulari portando ad un danno ed infine alla morte della
cellula stessa: l’infezione in questo caso si dice litica poiché si conclude con la lisi della cellula ospite (effetto citopatico del virus). Ci sono dei
virus non citopatici che danno infezioni croniche latenti che in determinati momenti possono riattivarsi.
Vi sono delle risposte innate e specifiche nei confronti dei virus che hanno lo scopo di bloccare l’infezione ed eliminare le cellule infettate.
Nell’immunità innata l’entrata del virus nelle cellule stimola da parte di esse una maggior produzione di IFN che inibisce la replicazione virale
sia in quelle già infettate che in quelle ancora indenni. Le cellule NK sono in grado di lisare (con meccanismi simili ai linfociti citotossici CD8 +)
le cellule infettate: riconoscono preferenzialmente cellule in cui il virus abbia provocato un blocco dell’espressione delle molecole MHC di
classe I; questa assenza attiva le NK. L’immunità specifica o acquisita è mediata da Ab che bloccano l’interazione del virus con le cellule
bersaglio e la sua penetrazione all’interno. Gli Ab sono efficaci contro i virus soltanto durante lo stadio extracellulare del loro ciclo biologico
cioè nelle fasi precoci dell’infezione o quando sono liberate a seguito della morte delle cellule infettate (virus citopatici). Tali anticorpi svolgono
un’azione neutralizzante l’effetto citopatico prevenendo l’adesione e l’entrata dei virioni nella cellula infettata. L’eliminazione dei virus
all’interno della cellula è mediata infine dai linfociti citotossici CD8 +.
I principali effetti sulle cellule da parte dei virus sono l’effetto citopatico e la trasformazione cellulare. Le principali vie di penetrazione dei virus
nell’uomo sono: via cutanea e sottocutanea, via delle mucose, via transplacentare (vengono dalla donna ed infettano il feto). Quanto più precoci
sono le infezioni al feto tanto più gravi sono le conseguenze malformative a causa delle interferenze dei virus sui processi di organogenesi del
feto. Il passaggio transplacentare si realizza anche per varicella, herpes simplex, vaiolo e morbillo, per allattamento e attraverso le cellule
germinali. Le fasi del ciclo biologico dei virus prevedono: collisione del virus sulla cellula ospite, assorbimento su dei recettori cellulari,
scapsidizzazione, sintesi dei costituenti virali ed infine capsidizzazione. La gravità della malattia sarà data da tipo, quantità o carica virale del
virus che è riuscita a penetrare nel nostro organismo.

VIRUS EPATITI

VIRUS EPATITE A VIRUS EPATITE B VIRUS EPATITE C VIRUS EPATITE D


Agente Capside icosaedrico, dsDNA capsulato ssRNA capsulato ssRNA capsulato
ssRNA
Trasmissione Oro-fecale Parenterale, contatto Parenterale; contatto Parenterale, contatto
personale intimo personale intimo personale intimo
Periodo di incubazione 2-6 settimane 4-26 settimane 2-26 settimane 4-7 settimane
Stato di portatore Nessuno 0.1-1% dei donatori di 0.2-1% dei donatori di 1-10% dei
sangue negli USA e nei sangue negli USA e nei tossicodipendenti e
paesi occidentali paesi occidentali degli emofilici
Epatite cronica Nessuna 5-10% delle infezioni > 50% < 5% nella
acute coinfezione,
80% nella
superinfezione
Carcinoma No Sì Sì Nessun aumento
epatocellulare rispetto HBV

HBV

Virus epatite B: struttura & forme complete e forme incomplete (circolari)

Il virus dell’HBV appartiene alla famiglia degli Hepadnaviridae che hanno come caratteristica uno spiccato tropismo verso le cellule epatiche (il
recettore per l’albumina viene riconosciuto dalle glicoproteine del pericapside). Alla microscopia elettronica appare come una particella sferica
(particella di Dane) a doppia parete costituita da un involucro esterno di natura lipoproteica (envelope o pericapside) e da un rivestimento
proteico interno (capside) che racchiude un unico acido nucleico a DNA circolare a doppio filamento ed una DNA-polimerasi virus-specifica
(nel core). Il pericapside possiede recettori dell’albumina. Il capside, il genoma virale e la DNA-polimerasi nel loro insieme formano il core. Nel
corso dell’infezione da HBV, oltre alla particella di Dane, vengono prodotte e rilasciate nel sangue grandi quantità di particelle virali incomplete,
prive di acido nucleico e quindi non infettive che presentano forma sferica o filamentosa. Il genoma dell’HBV è costituito da una molecola di
DNA a doppia elica incompleta, circolare, rilassata e composta da 3200 subunità nucleotidiche. Durante la replicazione del virus questo emette il
secreto nella cellula o all’esterno (escretory), è l’antigene secrezione.
La regione genomica che codifica la proteina di rivestimento esterno della particella di Dane è costituita dal gene S e da due altre porzioni
geniche che lo precedono dette pre-S1 e pre-S2. Ognuna di queste tre porzioni ha un proprio codone di inizio (start codon) che consente la
traduzione del messaggio e quindi la sintesi delle tre diverse proteine di superficie, ognuna delle quali definite in base alla grandezza Small,
Middle e Large. Le glicoproteine gp33 e gp36 contengono un recettore per l’albumina umana che gioca un ruolo per la penetrazione del virus
nell’epatocita. Tutto questo envelope superficiale costituisce l’antigene detto HBsAg. Poi abbiamo il gene C che codifica per la proteina del
capside (HBcAg). Poi abbiamo la proteina HBeAg (protein esometarin) che è una proteina di secrezione e deriva dalla trascrizione del gene C e
del gene pre-C. Infatti questa regione codifica per un peptide segnale che permette la traslocazione della proteina HBeAg nel reticolo
endoplasmatico e poi riversata nel circolo ematico. Poi abbiamo il gene P che codifica per gli enzimi essenziali al ciclo di replicazione virale
come la DNA-polimerasi RNA-dipendente (trascrittasi inversa) ed una RNAsi H. Infine abbiamo il prodotto del gene X a funzione regolatore.
Tale proteina è in grado l’attività degli enhancer dell’HBV.
L’Epatite B decorre nel 90% dei casi in maniera asintomatica e solo
il 10% dei soggetti infetti sviluppano un’epatite acuta che può
guarire o può evolvere in epatite cronica o in uno stato di portatore
sano. L’età di massima incidenza è nella fascia tra 15-24 anni
anche se, grazie alla vaccinazione, l’incidenza di epatite acuta ha
subito un significativo decremento negli ultimi 10 anni. Per quanto
riguarda il rischio di sviluppare un’infezione persistente il più
importante di questi fattori è l’età: tanto più bassa è l’età di
infezione tanto più elevato è il rischio di cronicizzazione.
Importante è quindi la trasmissione transplacentare e la via
orizzontale intrafamiliare. Esiste un vaccino.
L’esposizione nella classe di età 15-24 anni è legata al fatto che in quel periodo può iniziare l’attività sessuale. La principale via di trasmissione è
quella parenterale, dato che esso pur replicandosi nelle cellule epatiche, circola soprattutto nel sangue. Non è tuttavia da escludere la presenza
del virus in altri liquidi organici. Feci, urine e latte materno contengono scarse quantità di sangue. Esso si trasmette in modo molto più efficiente
dell’HIV considerando la virulenza, la carica infettante, varianti virali. Importante è la trasmissione parenterale inapparente che può verificarsi
con l’uso comune di oggetti potenzialmente contaminati (forbici, rasoi, spazzolini) soprattutto nei familiari dei portatori, nelle comunità chiuse o
nei paesi sottosviluppati dove è molto più facile che le persone abbiano lesioni cutanee.
Soggetti più esposti al rischio di infezione da HBV: figli di madri HBsAg positivo; conviventi portatori; operatori sanitari; politrasfusi; pazienti
in trattamento dialitico; omosessuali maschi; tossicodipendenti.
Nel caso dell’infezione cronica da HBV il virus per replicarsi si serve dell’epatocita e l’epatite virale è data non dall’effetto citopatico diretto del
virus sull’epatocita ma dalla risposta immunitaria cellulo-mediata dell’ospite contro l’epatocita infettato. Nel tossicodipendente e nel soggetto
immunodepresso il virus non è eliminato completamente e l’infezione si cronicizza. L’HBV pur non essendo direttamente citopatico induce
l’attivazione del sistema immunitario (linfocita citotossico) che riconosce ed elimina le cellule infettate dal virus provocando le diverse forme
epatitiche. Il periodo di incubazione dura mediamente 4-12 settimane, dopo il quale vi è un fase sintomatica preitterica con malessere,
affaticabilità, nausea, perdita di peso e di appetito con talora anche febbricola e cefalea. Raramente si hanno forti cefalee e febbre alta. In questo
periodo dopo che il virus è penetrato nell’epatocita comincia le sue replicazioni e quindi vi è la comparsa in circolo dei marcatori di replica
virale.
L’infezione acuta evolve in guarigione, cronicizzazione (cirrosi che porta ad epatocarcinoma e decesso o direttamente decesso), stato di portatore
sano, exitus (epatite fulminante). Il carcinoma epatico e la cirrosi epatica sono conseguenze gravi di epatite B.

MARCATORI DIAGNOSTICI SIEROLOGICI HBV


INDIRETTI DIRETTI
HBsAb HBsAg
HBeAb HBeAg
HBcAb HBV-DNA
HBcAb IgM

HBsAg AntiHBsAg (o HBsAb) HBcAg AntiHBcIgM

H = tipo di famiglia Anti/Ab = anticorpi H = tipo di famiglia Anti = anticorpi


B = tipo di virus H = tipo di famiglia B = tipo di virus H = tipo di famiglia
s = superficie B = tipo di virus c = capside B = tipo di virus
Ag = antigene s = superficie Ag = antigene c = capside
Ag = antigene
È l’antigene del È l’antigene del capside del Sono gli anticorpi IgM
pericapside del virus Sono gli anticorpi contro il virus contro il capside del virus
pericapside del virus
AntiHBcIgG HBeAg AntiHBeAg (o HBeAb) HBV-DNA

Anti = anticorpi H = tipo di famiglia Anti/Ab = anticorpi


H = tipo di famiglia B = tipo di virus H = tipo di famiglia
B = tipo di virus e: secrezione B = tipo di virus
c = capside Ag = antigene e: secrezione
Ag = antigene
Sono gli anticorpi IgG Sono proteine di secrezione del
contro il capside del virus Sono gli anticorpi contro il
virus secreto del virus

Situazione HBsAg AntiHBsAg HBcAg AntiHBcIgM AntiHBcIgG HBeAg AntiHBeAg HBV- GOT-
clinica (HBsAb) (HBeAb) DNA GPT

Paziente con + - - + - + - + 100-


EPATITE (perciò è 200
ACUTA infettivo) UI/L
Paziente - + - - + - + - 10-40
GUARITO DA UI/L
EPATITE
Paziente con + - - - + + - + 40-100
EPATITE (si sta (> UI/L
CRONICA replicando) 100.000
copie)
Paziente + - - - + - + + 10-40
PORTATORE (perché non (differenza (li ha (ma è UI/L
SANO è guarito) tra portatore prodotti) poco da
sano ed 3.000 a
epatite 10.000
cronica) copie)
Paziente - + - - - - - - 10-40
VACCINATO (bisogna UI/L
sapere il
titolo)
1° situazione) Epatite acuta, il paziente ha incontrato il virus e ha l’epatite;
2° situazione) Paziente guarito da epatite B;
3° situazione) Paziente che ha preso l’epatite B e non è guarito, epatite cronica;
4° situazione) Portatore sano epatite B, è difficilmente contagioso, non è guarito ma non è cronico, il virus non agisce ma dorme e aspetta;
5° situazione) Vaccinati.
Il primo marcatore che compare è l’HBsAg che poi scompare durante la convalescenza (se rimane per oltre 6 mesi denota che l’individuo ha
un’epatite cronica). Pochi giorni dopo compare l’HBeAg che è anch’esso indice di replicazione virale ed infettività e la cui prolungata presenza è
associata a danno epatico cronico. Con la comparsa dell’ittero (anche se per l’HBV non è molto frequente) la gran parte dei sintomi regredisce.
L’ittero è causato dall’iperbilirubinemia dovuta all’impossibilità di liberare la bilirubina perché vi è uno stato di insufficienza epatica, e ancora il
Laboratorio di patologia Clinica dimostrerà un innalzamento delle transaminasi GOT/GPT, un allungamento dei tempi di protrombina,
un’iperglobulinemia. Abbastanza precocemente compaiono in circolo gli anticorpi anti HBcIgM.
GUARIGIONE – Dopo qualche settimana se l’epatite guarisce scompare l’ittero, i sintomi e le alterazioni sierologiche. Compaiono in circolo gli
anti-HBeAg e gli anti-HBcIgG. Questo evento coincide con la cessazione della replicazione virale e con un generale miglioramento clinico.
L’ultimo marcatore sierologico a comparire dopo la scomparsa dell’HBsAg è l’anti-HBsAg la cui presenza indica guarigione e protezione da
nuove infezioni. La fase infiammatoria dell’epatite si ha perché la cellula esprime, indotta dalla replicazione virale, sulla sua superficie cellulare
l’HBeAg e HBsAg che, associati agli antigeni di istocombatibilità di tipo I, costituiscono il bersaglio su cui agiscono i linfociti T citotossici e le
cellule NK. L’azione citolitica di queste cellule, seguita dalla produzione di anticorpi neutralizzanti il virus, produce la guarigione dell’epatite.
Anche la produzione di interferoni è essenziale per il processo di eliminazione virale perché, legandosi ai recettori epatocitari di membrana,
stimolano la sintesi di vari enzimi che inibiscono la produzione delle particelle virali ed incrementano la presenza degli antigeni di
istocompatibilità di classe I permettendo un miglior riconoscimento ed un’efficace citolisi epatica. La guarigione a livello sierologico è
caratterizzata dalla scomparsa dell’HBV-DNA e dell’HBsAg e dalla comparsa dei relativi anticorpi.
EPATITE CRONICA – È un soggetto in cui la presenza di HBsAg è positiva per più di 6 mesi. Fattori di rischio possono essere il sesso
maschile, l’età infantile, uno stato immunitario depresso, la mancata produzione di interferone. Un’infezione contratta negli ultimi mesi della
vita fetale o nei primi mesi dopo la nascita, quando il sistema immunitario non è ancora completamente sviluppato, si traduce in infezione
cronica poiché il virus che non è riconosciuto come estraneo e non è rigettato dal sistema immunitario si replica costantemente nel tempo nelle
cellule epatiche. Nell’epatite cronica abbiamo HBeAg positivo e HBV-DNA positivo vi sarà un’attività replicativa elevata e persistente (alti
livelli di HBV-DNA nel siero compresi tra 10 e 10¹º copie/ml). Anche gli indici di citolisi sono elevati (elevazione di GOT/GPT) e ci sarà un
danno necrotico-infiammatorio importante (biopsia). HBV-DNA nel cronico > 100.000 copie/ml di sangue.
La sieroconversione HBeAg positivo in HBeAb positivo si verifica spontaneamente in circa il 70% dei casi in un periodo di 5-10 anni ed è
usualmente seguito dalla normalizzazione della citolisi epatica e dallo spegnimento della reazione necrotica infiammatoria. La persistenza di
HBV-DNA in soggetti HBeAb positivo non rappresenta di per sé un rischio per il portatore a meno che non ci siano eventi di riattivazione. I
pazienti che non sieroconvertono ma mantengono un’elevata reazione infiammatoria hanno un rischio di progressione della malattia importante.
Nei pazienti HBeAg positivi l’epatopatia decorre in maniera silente per 3-4 decadi potendo dare però ugualmente la complicazione della cirrosi
verso i 45-50 anni. Il profilo di malattia di questi pazienti è variabile e spesso caratterizzato da fluttuazioni sia della replicazione virale con livelli
di HBV-DNA < 105 copie/ml, sia dell’attività citolitica. Si possono presentare tre profili:
1) periodiche esacerbazioni necrotiche alternate a remissione biochimica con diminuzione a livello di normalità del livello delle
transamminasi;
2) periodiche esarcebazioni necrotiche senza remissione biochimica nelle fasi intercorrenti;
3) costante alterazione della citolisi con livello delle transamminasi sempre elevate.

PORTATORE SANO – Ci sono pazienti HBeAg negativi dove vi è un’attività replicativa moderata e variabile. Si tratta di una condizione
sostenuta da ceppi mutanti nella regione core/precore, caratterizzate dall’alternarsi di fasi di attività virale e fasi in cui la replicazione di HBV è
temporaneamente soppressa o contenuta a livelli modesti.
Ancora ci possono essere dei casi con HBeAg negativo e HBeAb positivo in cui i livelli di HBV-DNA sono molto bassi presumibilmente perché
la replicazione è contenuta a livelli minimi da fattori quali la risposta cellulo-mediata del soggetto. Vi è ad esempio lo stato di portatore sano
(HBsAg positivo, HBcIgG positivo, HBeAg negativo, HBeAb positivo) in cui i pazienti hanno una situazione clinica stabile caratterizzata da
livelli normali di GOT/GPT e danno necrotico-infiammatorio inesistente o minimo. Questi hanno livelli molto bassi di HBV-DNA (tra 3.000 a
10.000 copie/ml di sangue) e la prognosi è di solito favorevole.
DIAGNOSTICA
Il destino dell’infezione primaria è quindi determinato da vari fattori: il tipo di microrganismo (il ceppo virale), la carica virale, il tempo di
dimezzamento, lo stato di immunocompetenza del soggetto, il tipo di ceppo che viene introdotto in grado di produrre solo HBeAg, o di non
produrre sempre HBeAg o da una combinazione dei due.
Ci sono ancora dei casi di coinfezione con il virus dell’Epatite D. L’HDV è un potente inibitore del virus HBV con livelli di viremia inferiore a
10³ copie/ml. Vi può inoltre essere una coinfezione con il virus dell’Epatite C (HCV). La coinfezione HBV-HCV può essere associata a forme
severe di epatite cronica, ad alto rischio di evoluzione in cirrosi e carcinoma epatocellulare.
Tecniche di Biologia molecolare si sono ultimamente affiancate per valutare alcune condizioni di pazienti affetti da Epatite B cronica o di
soggetti portatori sani. L’applicazione della PCR quantitativa serve per il monitoraggio delle infezioni, della terapia e per la quantificazione
dell’mRNA. Lo sviluppo dei test molecolari basati su PCR real time ha consentito ulteriormente di abbassare il limite di rilevamento a 10-100
copie/ml estendendo così le applicazioni e l’utilità clinica del dosaggio di HBV-DNA nel monitoraggio della risposta al trattamento
farmacologico. Sono stati introdotti quindi recentemente dei kit commerciali che amplificano il DNA virale basati sulla reazione a catena della
polimerasi (Polymerase Chain Reaction, PCR) i cui livelli di sensibilità sono molto più bassi intorno a 10² copie/ml.
Quindi il rilevamento del genoma virale nel siero con tecniche molecolari di ibridizzazione molecolare, dotate di un limite di sensibilità di 105
copie/ml, è indice di infezione in atto ed anche di successo o di fallimento terapeutico in pazienti trattati con interferone o altri farmaci. Quindi il
valore di 105 copie/ml è stato inserito come valore soglia che discrimina tra infezione attiva ed inattiva.
Il trattamento con interferone si è dimostrato in grado di rallentare la progressione della malattia. Il farmaco più usato è il PEGilato-IFN-α-2b nei
pazienti con epatite cronica HBeAg positivo mentre nei pazienti HBeAg negativo con epatite cronica si preferisce il PEGilato-IFN-α-2a per 1
anno, tempo che permette una risposta adeguata senza la comparsa di mutanti virali resistenti. Nei pazienti con cirrosi è consigliato invece l’uso
degli analoghi nucleosidici e nucleotidici (lamivudina, adefovir, entecavir, telbivudina). Nell’HBV la farmacoresistenza è definita come
l’aumento della carica virale di almeno un logaritmo in base 10 rispetto a quello durante il trattamento dovute a mutazioni del gene della
polimerasi virale o a mutazione del virus.
VACCINAZIONE
Nonostante dal 1991 sia stata introdotta la vaccinazione obbligatoria per neonati e studenti dodicenni, l’infezione da HBV rimane un problema
prioritario anche in Italia questo perché vi sono i portatori cronici. Inoltre i soggetti di età superiore ai vent’anni non ancora rientrate nei
programmi di vaccinazione sono potenzialmente suscettibili all’infezione. Ancora vi sono importanti flussi migratori verso l’Italia da paesi ad
elevata endemicità. Poi vi possono essere un piccolo numero di giovani che hanno eluso la vaccinazione obbligatoria ed una quota di soggetti
che non ha risposto alla vaccinazione con una immunizzazione efficace. Il vaccino contiene solo HBsAg.
PAZIENTE VACCINATO – Per valutare se un soggetto sottoposto a vaccino risulta essere protetto (cioè sia avvenuta la sieroconversione) è
importante non solo vedere la presenza o meno di HBsAb ma valutare il titolo anticorpale che deve essere maggiore di 20. Tale titolo va ripetuto
perché a volte tende a scendere con il tempo: questo perché dopo il vaccino e la produzione di IgM, i linfociti B memoria producono IgG
specifiche (nei pazienti protetti), a volte le IgM calano e non si ha la produzione di IgG sufficienti perché non intervengono i linfociti B
memoria.

SINTESI
Pz immunizzato: tutto negativo, HBsAb positivo perché è venuto in contatto solo con l’antigene HBsAg del vaccino.
Pz guarito: gli altri anticorpi sono positivi perché il soggetto è venuto a contatto con tutto il virus
HBcAg: sempre negativo perché è coperto dal pericapside e non si può calcolare la sua concentrazione; nei pazienti guariti gli anticorpi sono di
più perché alcuni virus sono privi di pericapside; ma essendo così pochi la concentrazione dell’HBcAg non si può calcolare ma sono sufficienti a
far sviluppare anticorpi.
Tra il portatore sano e il paziente cronico la differenza, oltre alle copie di HBV-DNA, è la produzione di HBeAb.
Nei pazienti immunizzati bisogna valutare non solo la positività agli anticorpi HBsAg ma anche il titolo (> 20).
HBeAg: proteina di secrezione, presente durante la replicazione del virus; la produzione è mantenuta e modulata da sequenze regolatrici come la
Basic Core Promoter.
Trattamento: interferone
Il rilevamento di DNA virale nel siero con tecnica PCR: 10 5 copie/ml (valore soglia). Costituisce indice di infezione in atto e parametro per
valutare il successo o il fallimento terapeutico nei pazienti trattati con PEG-INF.

Nel portatore sano la malattia non avviene perché il virus non si sta replicando.
- DNA epatite acuta e cronica > 100.000 copie di DNA/ml sangue
- DNA portatore sano da 3.000 a 10.000 copie acido nucleico/ml (per questo l’infezione per contagio è molto difficile).
Gli esami con il titolo anticorpale servono per valutare la carica e la concentrazione di anticorpi: il risultato può essere negativo per la
vaccinazione ma comunque positivo per gli anticorpi, questo perché per essere vaccinati non basta essere positivi agli anticorpi ma serve
raggiungere un valore minimo ci anticorpi. Il valore di protezione è ≥ 20 di titolo anticorpale. Gli anticorpi HBsAb scendono nel tempo. I
linfociti B memoria hanno sui recettori anticorpi specifici per cui sono già pronti ad agire in caso di penetrazione del virus. Il vaccino crea
linfociti B memoria, i B memoria servono a rispondere al virus, linfociti B memoria diminuiscono nel tempo e crescono in caso di vaccino in
quantità diversa da individuo ad individuo (differenze individuali).
Differenze tra GUARITO e IMMUNIZZATO: il guarito ha Ab contro capside IgG e contro le proteine di secrezione; l’immunizzato ha Ab
contro la superficie perché nell’immunizzato il virus non è entrato nella cellula ed è stato eliminato. Il vaccino consiste nel pericapside soltanto
per cui gli Ab prodotti sono solo quelli per il pericapside.
Il l’antigene del capside non si trova nel sangue perché è nascosto e prodotto dal pericapside e poi dalla cellula. Gli anticorpi però si producono
perché esistono virus senza pericapside (senza chiavi). Alcuni virus quando escono dalla cellula non formano il pericapside (difetto del virus),
muoiono subito perché non hanno le chiavi ma sono sufficienti per far sviluppare gli anticorpi.

HCV
L’epatite C entra molto facilmente, la carica necessaria è 1-2 particelle, può resistere 3 giorni anche a 22-23 °C nel sangue coagulato. La
maggioranza dei soggetti infetti da HCV è asintomatica o non è a conoscenza del proprio stato di portatore cronico se non quando decide di fare
delle analisi del sangue. È una forma di epatite molto più grave, non vi è la possibilità di vaccinazione a causa del notevole tasso di mutazione
del proprio RNA, le transaminasi sono solo lievemente aumentate con valori intorno a 50 UI/L, o addirittura normali con valori < 40 UI/L.
L’infettività è molto alta perché il tipo di virus è più patogeno, ne bastano poche particelle virali per produrre l’infezione, è in grado di resistere
fuori nell’ambiente esterno per parecchio tempo. Dà in più del 50% dei casi epatocarcinoma o cirrosi (uccide lentamente). La manifestazione è
rara ed avviene molto in ritardo. 1/3 guarisce. Non da sintomi, a parte l’astenia. La trasmissione parenterale inapparente può avvenire attraverso
strumenti chirurgici non ben sterilizzati, altri strumenti non ben sterilizzati, oggetti da toilette taglienti o abrasivi.
DIAGNOSI
Per sapere se un paziente ha l’epatite di tipo C bisogna chiedere il dosaggio dell’anti-HCV totali. Se viene positivo, bisogna ripetere il dosaggio
chiedendo questa volta la ricerca dell’HCV-RNA. È importante quantificare la carica virale presente nel sangue per capire la gravità della
malattia ed anche poi in corso di terapia per monitorare la terapia stessa.
TERAPIA
Durante la terapia con interferone (PEG-INF e ribavirina) si fanno prelievi per vedere in quanto tempo scendono le copie di RNA. Si calcola con
i logaritmi:
- Da 1 milione di copie scende più di due logaritmi, ottima risposta;
- Da 1 milione di copie scende meno di due logaritmi, media risposta;
- Da 1 milione di copie scende meno di un logaritmo, scarsa risposta (in tal caso si interrompe la terapia perché è inefficace).
Per quanto riguarda la terapia oggi si pensa di trattare tutti i pazienti, anche quelli con fegato normale alla biopsia e transaminasi normali
(portatori sani). I pazienti verranno poi classificati in base al tipo di genotipo virale 1 o 4 che sono più aggressivi e i genotipi 2 o 3 meno
aggressivi ed in base alla risposta alla terapia in quattro gruppi a seconda del calo logaritimico della viremia virale: A Pazienti responsivi rapidi,
B Pazienti responsivi intermedi, C Pazienti responsivi lenti e D Pazienti resistenti alla terapia. In generale i protocolli di terapia ottimali
dipenderanno dall’età del paziente, dalle sue motivazioni, dall’aspettativa di vita, dalla presenza di altre malattie contemporanee.
A tutti i Pazienti HCV positivo è opportuno far eseguire un esame ecografico ogni 12-18 mesi. La biopsia epatica è utile farla nei pazienti al di
sotto di 60-65 anni con transaminasi alterate mentre nei pazienti con transaminasi normali non è consigliata eseguirla. Inoltre si stanno
prendendo in considerazione l’uso di marcatori di fibrosi epatica. La terapia è utile eseguirla in tutti i Pazienti con transaminasi normali o alterate
ma al di sotto di 60-65 anni, monitorandola con il dosaggio dell’HCV-RNA per eventualmente sospendere o continuare la terapia.
Le transaminasi indicano il livello di danno perché sono enzimi liberati dalle cellule che muoiono uccise dal virus. L’HCV uccide poche cellule
ma non muore mai, si nasconde, non esiste farmaco o vaccino e cambia continuamente.
Analisi Epatite C (ad 1 mese dalla puntura): AntiHCV (o HCVAb), se viene positivo si cerca la concentrazione di HCV-RNA e, se viene positivo,
il virus c’è e c’è l’epatite C. Il livello di HCV-RNA indica il livello della malattia. Durante la terapia si effettuano tanti prelievi e controlli per
valutare l’efficienza della terapia. I pazienti si differenziano in base alla risposta alla terapia che consiste nell’interferone.

HDV
L’epatite di tipo D può essere contratta solo da chi ha già preso l’epatite B (HBV +), essendo l’HDV un virus difettivo. Significa che l’HDV per
infettare l’epatocita ha bisogno del pericapside dell’HBV. È la più grave forma di epatite con valori percentuali di complicazioni di neoplasie o
infiammazioni croniche come la cirrosi molto alte e che portano all’exitus del paziente.

PROTEINE SIERO

Le proteine sono macromolecole costituite da aminoacidi (al massimo 20) che differiscono come sequenza e numero di aa. Possono inoltre
essere legati alla catena di amminoacidi dei residui di zuccheri. Le proteine hanno una struttura primaria, secondaria, terziaria e quaternaria e
sono sintetizzate dal fegato, dalle cellule immunitarie e dalla mucosa intestinale. Il catabolismo avviene sempre nel fegato e nel rene.
Attualmente sono state identificate più di cento tipi di proteine e la loro determinazione sia qualitativa che quantitativa nei liquidi biologici porta
a scoprire quadri clinici importanti. Dato che sono tutte composte da aa hanno un comportamento dal punto di vista chimico simile ma
differiscono tra loro da un punto di vista fisico. Hanno infatti tra loro un diverso peso molecolare ed una diversa distribuzione e densità di
cariche elettriche: possono essere globalmente positive o negative in base alla somma di aa acidi o basici. Questo ha permesso una loro
differenziazione mediante le tecniche elettroforetiche: la separazione delle stesse attraverso elettroforesi, un metodo di analisi che prevede la
separazione delle proteine mediante passaggio continuo di corrente.

PREALBUMINA (10-40 mg/dl)


La prealbumina la troviamo nella zona vicino all’anodo. Non compare nel referto standard. Ha funzione di trasporto degli ormoni tiroidei.
Diminuisce precocemente negli stati infiammatori, nelle epatopatie ed è dipendente dallo stato nutrizionale del paziente. Lega anche la Retinol
Binding Protein, una proteina di trasporto per il retinolo (vitamina A). Parte di questa è in forma libera e viene eliminata dal tubulo renale perciò
la sua comparsa nell’elettroforesi urinaria è indice di danno tubulare.
ALBUMINA (35-50 gr/l)
L’albumina è responsabile della pressione oncotica del plasma (trattiene l’acqua ecco perché viene somministrata in caso di emorragia), funge da
trasportatore di sostanze quali bilirubina, acidi grassi, calcio, rame, ormoni tiroidei, farmaci e vitamine. Una riduzione dell’albumina
(ipoalbuminemia) con valori inferiori a 32 gr/l e comparsa di edema a valori < 25 gr/dl può essere causato da: difetti di sintesi (epatopatie);
perdita dovuta a patologie renali (sindrome nefrosica); ustioni, dovuta alla perdita proteica attraverso la superficie cutanea lesa; apporto
inadeguato dovuto a possibili tumori avanzati, malattie infiammatorie croniche, vomito, diarrea o malassorbimento per coliti acute o croniche;
aumentato catabolismo come nell’ipertiroidismo, nella sindrome di Cushing, nelle malattie febbrili prolungate, nel diabete (nefropatia diabetica);
malnutrizione o digiuni prolungati (anoressia). Diminuisce fisiologicamente in gravidanza e durante l’allattamento.
α1-GLOBULINE
La banda delle α1-globuline è composta principalmente dall’ α1-antitripsina, una proteina che è capace di legarsi con gli enzimi proteolitici
(prevalentemente la tripsina) causando la loro inattivazione. Nel corso di un processo infiammatorio i leucociti rilasciano nei tessuti interessati
una serie di enzimi proteolitici che, se lasciati agire liberamente, produrrebbero estesi danni alle strutture proteiche del tessuto. L’α1-antitripsina
li inattiva. La diminuzione è dovuta a cause genetiche che: in situazioni di omozigosi determinano uno sviluppo di cirrosi o enfisema in età
giovanile; in situazioni di eterozigosi si rileva come uno sdoppiamento della banda che va segnalato per una prevenzione del paziente. Essendo
questa una proteina della fase acuta delle infiammazioni, aumenta nei soggetti che hanno subito traumi fisici, interventi chirurgici, processi
infiammatori. Tra le altre proteine che riscontriamo in questa zona ricordiamo l’α1-glicoproteina-acida che aumenta nelle infiammazioni acute e
l’α1-antichimotripsina che aumenta anch’essa negli stati infiammatori.
α2-GLOBULINE
La banda delle α2-globuline comprende due proteine: l’α2-macroglobulina che lega ed inattiva un ampio gruppo di proteasi e, dato che è
prodotta dal fegato, diminuisce nel corso di epatopatie e cirrosi ed aumenta in alcune patologie renali come la sindrome nefrotica. In questa
malattia si verifica la perdita di proteine nel filtrato glomerulare (proteinuria). Le varie specie proteiche vengono perse a seconda del loro peso
molecolare: questa proteina ha un alto peso molecolare e ciò fa sì che anche in presenza di una proteinuria severa non venga persa con le urine.
Inoltre aumenta in corso di infiammazioni acute. L’altra proteina è l’aptoglobina la cui funzione è quella di formare un complesso stabile con
l’Hb ossigenata in un rapporto molare di 1 a 1. Tale complesso viene successivamente captato e catabolizzato dal sistema reticolo istiocitario
impedendo così la perdita di Hb attraverso le urine e quindi anche del ferro lì presente. Essa diminuisce in caso di emolisi per consumo ed
aumenta nelle infiammazioni acute e croniche e nelle neoplasie.
β-GLOBULINE
Nella banda delle β-globuline ci sono due proteine che migrano in questa zona. La prima è la transferrina che, sintetizzata dal fegato, diminuisce
in corso di epatopatie, neoplasie e nelle gravi proteinurie dato che il peso molecolare è simile a quello dell’albumina (77.000 dalton). Nelle
proteinurie modeste viene persa soprattutto l’albumina (68.000 dalton). La sua funzione è quella di legare il ferro (Fe ++) nel sangue e di portarlo
o al fegato o ai precursori degli eritrociti dato che questi hanno recettori specifici per questa proteina. Anche i linfociti hanno i recettori per la
transferrina. In corso di anemia sideropenica la transferrina aumenta per un meccanismo di compensazione. Questo picco non deve essere
confuso con qualche componente monoclonale.
Poi abbiamo il sistema del C 3 del complemento ma la sua quantificazione in aumento o diminuzione è possibile solo con dosaggi nefelometrici.
In opportuni gel come l’agarosio è anche possibile differenziare nella zona β due bande: β1 e β2. La β2 corrisponde al C 3. Questo complesso di
proteine aumenta in corso di cirrosi o colestasi biliare per mancato catabolismo e nel corso delle flogosi e diminuisce quando c’è molto consumo
come nel LES, nelle poliartriti croniche, nelle anemie emolitiche autoimmuni, nelle glomerulonefriti membranosa e post-streptococcica.
γ-GLOBULINE
È l’ultima banda e la componente maggiore è data dalle IgG. In un siero normale prevale la policlonalità e quindi il pattern appare come una
gobba a base larga e abbastanza simmetrica, mentre quando vi è una componente monoclonale (mieloma multiplo, un tumore del sangue dove le
plasmacellule risultano neoplastiche e producono forti quantità di anticorpi che si riversano nel sangue e alzano il picco delle γ-globuline)
nell’area compare una zona compatta che forma un picco. Le IgA migrano prevalentemente nella zona β, quindi in tutte le situazioni in cui vi sia
un aumento di queste immunoglobuline la curva mostrerà una tendenza alla fusione delle due zone: β e γ. Questo è il caso della cirrosi alcolica.

Nelle sindromi infiammatorie che possono essere dovute a traumi chirurgici, infarto del miocardio o neoplasia ha luogo una reazione di aumento
di alcune proteine come la Proteina C Reattiva, l’α1-chimotripsina, l’α1-glicoproteina-acida, il fibrinogeno, le aptoglobine. Nelle forme di natura
non neoplastica l’aumento di queste proteine è in genere brusco e limitato nel tempo. Nelle forme di natura neoplastica si ha un riscontro di
proteine della fase acuta che si protrae per molto più tempo associato ad una caduta più marcata dell’albumina e della prealbumina. Nelle
infiammazioni croniche si osserva dopo un mese un incremento delle immunoglobuline.

Per eseguire l’elettroforesi si devono sapere in partenza le Proteine Totali (valore di riferimento 6.2-8.3 g/dl). Per approfondire l’elettroforesi si
possono chiedere altre analisi aggiuntive. In caso di sospetta anemia si effettua il dosaggio della Transferrina (valore di riferimento 169-309
mg/dl). Il dosaggio della Proteina C Reattiva (valore di normalità < 0.8) serve per monitorare una terapia antibiotica. Il dosaggio della
Procaltinonina serve per scoprire precocemente un’infezione batterica e per monitorare meglio una terapia antibiotica. Si può richiedere il
dosaggio, con altre metodiche più precise, della sola Albumina (valori di riferimento 3.8-5.1 g/dl). Infine per valutare la gravità degli stati
infiammatori si può ancora richiedere il dosaggio del Complemento C 3 e C4 e delle Immunoglobuline nel sangue di tipo IgM, IgG, IgA.

CASI CLINICI

Paziente con sindrome nefrosica


Riduzione dell’albumina perché il filtro glomerulare ha perso la
sua carica negativa e quindi l’albumina passa attraverso di esso (i
buchi si sono allargati) e quindi con le urine se ne perde oltre il
dovuto. Aumento delle α2-globuline in percentuale nel sangue
perché sono grandi (alto peso molecolare) e non passano attraverso
il filtro. Aumentano in senso relativo ma non assoluto
(diminuiscono le altre ma non aumentano loro). Nei pazienti con
sindrome nefrosica si verifica la perdita di proteine nel filtrato
glomerulare (proteinuria) e le varie specie proteiche vengono perse
a seconda del loro peso molecolare. Le α2-globuline hanno però un
alto peso molecolare e ciò fa si che, anche in presenza di
proteinuria severa, non vengano perse con le urine.

Paziente con infiammazione acuta


Aumentano α1-globuline e α2-globuline e diminuisce l’albumina
(in rapporto). α1 e α2 aumentano perché aumentano i granulociti e
quindi i lisosomi che, alla loro morte, liberano enzimi lisosomiali
che attacherebbero i tessuti in quanto enzimi digestivi. A questo
punto l’organismo produce antienzimi per bloccarli (aumenta la
produzione di questi e ciò alza il picco).

Paziente con cirrosi


Diminuisce l’albumina perché essa viene prodotta dal fegato e
siamo di fronte ad un danno epatico che ne compromette la
produzione. Leggera diminuzione di α2-macroglobulina a causa del
danno epatico (perché è prodotta dal fegato).
Aumentano β-globuline e γ-globuline perché sono gli anticorpi (β
complemento e γ anticorpi) che aumentano perché la cirrosi è un
processo infiammatorio cronico. Questo vale per tutti i processi
infiammatori cronici. Le due bande si uniscono.

Gammopatia monoclonale
In caso di un tumore, il mieloma multiplo (detto plasmacitoma
perché attacca le plasmacellule), aumentano solo le γ. È un tumore
che colpisce i globuli bianchi, nello specifico i linfociti, perché
producono anticorpi (quindi i B). Il tumore è della plasmacellula e
non dei linfociti B, ma della plasmacellula che poi si trasforma in B
e produce anticorpi.
Avviene una grande produzione di anticorpi.

Infiammazione cronica: si alzano β-globuline e γ-globuline.

LIPIDI

Il fegato è il principale organo coinvolto nel metabolismo lipidico gli acidi grassi rilasciati dal tessuto adiposo o provenienti dagli alimenti sono
assorbiti dal fegato e convertiti in trigliceridi per poi essere secreti sotto forma di lipoproteine dal fegato stesso. Il colesterolo è una sostanza
molto importante per il nostro metabolismo: è un componente fondamentale di tutte le membrane cellulari e la molecola base per la sintesi di
numerosi ormoni. La presenza in eccesso di colesterolo nel sangue è chiamata ipercolesterolemia (valori normali fino a 190 mg/dl).
I grassi introdotti con la dieta sono digeriti e scissi dalle lipasi pancreatiche ed amalgamati con la bile formando degli aggregati chiamati micelle.
Nelle micelle, una volta entrate nel villo, si formano delle particelle, dette lipoproteine (chilomicroni, VLDL, IDL, LDL, HDL), che vengono
secreti nei vasi linfatici e infine dal dotto toracico versati nel torrente circolatorio. Sono delle particelle sferoidali contenenti un nucleo centrale
di colesterolo esterificato e trigliceridi, e una porzione superficiale composta di proteine e fosfolipidi. Alcune di queste proteine chiamate apo-
proteine rendono possibile il riconoscimento di queste lipoproteine con le cellule dei tessuti periferici e con il fegato. Nel sangue si trovano 5
classi di lipoproteine: chilomicroni che sono le più grandi, VLDL (lipoproteina a densità molto bassa), IDL (lipoproteina a densità intermedia),
LDL (lipoproteina a densità bassa) e HDL (lipoproteina ad alta intensità). Dalla più grande (chilomicrone) alla più piccola (HDL) quello che
varierà sarà il contenuto interno di colesterolo e trigliceridi. Tra le varie particelle cambia il numero di proteine sulla superficie ed il contenuto di
trigliceridi. I chilomicroni raggiungono il tessuto muscolare e adiposo e qui vengono digeriti da una lipoprotein-lipasi, un enzima presente sulla
superficie delle cellule endoteliali, portando alla rimozione dal chilomicrone della maggior parte dei trigliceridi.
Una volta che la maggior parte dei trigliceridi è stata idrolizzata, i chilomicroni si dissociano dall'endotelio capillare e tornano in circolo, ridotti
di dimensione, sebbene contengano ancora il quantitativo originario di colesterolo. Questa particella si chiama chilomicrone residuo. Il
chilomicrone residuo va poi al fegato ed entra nella cellula epatica dove viene disintegrato rilasciando il colesterolo in esso contenuto.
Il colesterolo che è arrivato può essere impiegato per la sintesi delle membrane plasmatiche, può essere immagazzinato come estere del
colesterolo, convertito in acidi biliari. La cellula epatica sintetizza un'altra lipoproteina, la VLDL. Essa è ricca in trigliceridi e contiene una certa
percentuale anche di colesterolo. Le cellule epatiche secernono la VLDL nel sangue e quando questa raggiunge i capillari del tessuto muscolare e
adiposo la lipoprotein-lipasi estrae i trigliceridi in essa contenuta. La molecola che ne risulta è chiamata IDL, la quale ha pochi trigliceridi e
molto più colesterolo. Una parte delle IDL ritorna al fegato per formare altre VLDL. Le particelle IDL che non vanno al fegato saranno nei
capillari dei muscoli e del tessuto adiposo, sempre per azione della lipoprotein-lipasi, ulteriormente private degli ultimi residui di trigliceridi. La
particella che ne risulta sarà chiamata LDL e avrà quasi esclusivamente colesterolo al suo interno.
Le LDL prodotte circolano nel sangue per circa due giorni. Se le cellule hanno bisogno di colesterolo per la sintesi delle loro membrane, per la
sintesi di ormoni o se il fegato deve produrre acidi biliari, le cellule iniziano a sintetizzare un recettore sulla superficie citoplasmatica per la
LDL. Le LDL in eccesso e non utilizzate ritornano al fegato e vengono riassorbite dalle cellule epatiche tramite uno specifico recettore che se
manca causa l'ipercolesterolemia familiare, una malattia genetica che comporta livelli di colesterolo altissimi dovuti alla mancanza dei recettori
delle LDL. Le LDL non avendo i propri recettori non possono tornare nel fegato e rimangono in circolo, si attaccano ai vasi e provocano
un'infiammazione chiamata aterosclerosi.
Man mano che le cellule dell'organismo muoiono e le membrane sono rinnovate, si libera continuamente colesterolo libero nel sangue che viene
assorbito da un'altra lipoproteina prodotta nel fegato, l'HDL. L'HDL non si forma dall’LDL ma viene sintetizzata dal fegato ed ha pochi
trigliceridi e poco colesterolo: viene immesso in circolo e cattura e assorbe il colesterolo libero (rilasciato in circolo dalle cellule morte) e,
tramite l’enzima LCAT (lecitina-colesterolo-acetiltransferasi), lo trasforma in colesterolo esterificato. Quando l'HDL incorpora il colesterolo si
trasforma quindi in LDL che tornerà al fegato. Le LDL circolanti, quando sono in eccesso a causa della dieta o della mancanza genetica dei
recettori per le LDL, tendono a penetrare tra una cellula endoteliale e l'altra dei grossi vasi e a depositarsi nell'intima dell'arteria nella matrice
connettivale sottoendoteliale interagendo tramite l'apoB con le glicoproteine lì presenti. Qui la LDL comincia a subire alcune modificazioni
come la sua ossidazione e la formazione in ammassi. Inizia così un processo infiammatorio chiamato aterosclerosi.
Il chilomicrone è la particella più grande e viaggia nel sangue
cedendo ai tessuti trigliceridi e colesterolo grazie alle
lipoproteinlipasi cellulari. I trigliceridi servono da fonte energetica,
il colesterolo serve da impalcatura della membrana plasmatica.
Dopo la cessione di queste sostanze, il chilomicrone diviene
chilomicrone residuo ed entra nel fegato che lo trasforma e
sintetizza VLDL (è più piccolo ma ha la stessa funzione del
chilomicrone). Di nuovo esce e passa dai tessuti ancora
distribuendo colesterolo e trigliceridi grazie alle lipoproteinlipasi
cellulari. A questo punto, perdendo le componenti interne, diventa
ancora più piccolo (diviene IDL che ha sempre la stessa funzione
delle precedenti) che può tornare nel fegato dove si trasforma
nuovamente in VLDL oppure continuare a circolare e a cedere
sostanze ai tessuti divenendo LDL.
L’HDL (colesterolo buono) è la particella più piccola e densa; non
si forma dall’LDL ma viene sintetizzato nel fegato; ha pochi
trigliceridi e colesterolo. Viene immesso nel circolo ed ha la
funzione di prendere il colesterolo in eccesso e rilasciato nel
circolo dalle cellule morte (colesterolo libero). Dopo averlo
assorbito, si ingrandisce e si trasforma in LDL per tornare nel
fegato. In caso di eccessivo colesterolo nell’organismo, l’HDL si
consuma ed assume un valore basso.
Colesterolo Totale ≤ 190 mg/dl
Trigliceridi (glicerolo + 3 acidi grassi) ≤ 150 mg/dl
Colesterolo HDL > 40 mg/dl (altrimenti significa che si sta trasformando il LDL perché c’è troppo colesterolo
circolante)

DIABETE

È la prima malattia in Italia: gli esperti dicono sia l’epidemia del benessere a causa dell’eccesso di cibo e della vita sedentaria. Prevenire è
possibile. È una malattia cronica che causa moltissime conseguenze, molto sottovalutata ed inguaribile. L’organo che assicura i livelli normali di
glicemia nel sangue e nelle urine è il pancreas che si trova nella parte superiore dell’addome, davanti alla colonna vertebrale e dietro allo
stomaco che lo ricopre quasi interamente.
Il pancreas è una ghiandola a funzione sia esocrina che endocrina. La funzione esocrina è quella di produrre il succo pancreatico (circa 1 litro
nelle 24 ore) composto da enzimi (amilasi, tripsina, chimotripsina, lipasi) a funzione digestiva. La parte endocrina regola i livelli di glicemia nel
sangue e nelle urine. La porzione endocrina del pancreas è costituita dalle isole del Langerhans, un agglomerato di cellule suddivise in tre tipi: le
α producono glucagone (che alza la glicemia), le β producono insulina (che abbassa la glicemia) e le δ producono gastrina e somatostatina (che,
rispettivamente, attivano ed inibiscono la secrezione di HCl). Le pancreatiti sono infezioni, il carcinoma pancreatico è un tumore.
Tutte le cellule utilizzano per le loro funzioni carboidrati complessi di derivazione animale o vegetale che, prima di essere assorbiti dalle cellule,
vengono scisse in molecole più piccole, tra le quali il glucosio. Il processo di degradazione del glucosio conduce alla produzione di H 2O, CO2 e
ATP e passa per una fase anaerobica (detta glicolisi) ed una fase aerobica (nel Ciclo di Krebs). La glicolisi ha come prodotto finale l’acido
piruvico o piruvato. Il glucosio che arriva nelle cellule muscolari può essere immagazzinato nelle stesse come glicogeno o essere degradato e
liberare energia sotto forma di ATP. Esiste poi uno stretto rapporto tra cellule muscolari e cellule adipose. In generale quando le cellule muscolari
hanno a disposizione acidi grassi il lavoro muscolare avviene a spese di questi e non del glucosio. Solo negli sforzi fisici interviene anche il
glucosio. Quando vi è carenza di glucosio, il tessuto adiposo libera un maggior numero di acidi grassi e questa maggior disponibilità inibisce
l’utilizzazione del glucosio da parte delle cellule muscolari. Nella cellula adiposa i grassi, di origine alimentare o prodotti dal fegato, arrivano
legati alle proteine sotto forma di lipoproteine. I trigliceridi contenuti nelle lipoproteine subiscono prima di entrare in cellula un processo di
scissione per cui entrano in essa sotto forma di acidi grassi liberi. Il glicerolo non riesce ad entrare. Nella cellula si ricostituisce il trigliceride ma
le molecole necessarie a questa sintesi endogena derivano dal catabolismo del glucosio perché c’è bisogno anche di glicerolo. Quindi la quantità
di trigliceridi che può essere incorporata nelle cellule del tessuto adiposo dipende dalla disponibilità di glucosio in questa sede. Se il glucosio è
presente in alte concentrazioni nel sangue, passando per il fegato viene assunto dalle cellule epatiche e convertito in glucosio di deposito detto
glicogeno; in caso di mancanza provvedono a sintetizzarlo ex novo da aa e glicerolo.
Tutti questi meccanismi che assicurano un tasso di glucosio costante sono regolati dall’insulina, un ormone prodotto dal pancreas.

Molecola proteica dell’insulina (è fatta da due catene A e B di aa legati tra loro da ponti disolfuro S-S)

L’aumento di glucosio nel sangue induce un aumento della


produzione di insulina che a sua volta determina: negli adipociti
aumento dell’assorbimento del glucosio e la formazione dei
trigliceridi; nel tessuto muscolare aumenta l’assunzione di
glucosio; nel tessuto epatico diminuisce la scissione del glicogeno
in glucosio aumentando l’incorporazione del glucosio in altro
glicogeno e la produzione di lipidi (tra cui trigliceridi). La
diminuzione dei livelli di glucosio nel sangue inibisce la
produzione di insulina e promuove la secrezione dell’ormone della
crescita.
L’insulina è prodotto da un gene che è espresso nelle cellule β del
pancreas. È una proteina formata da due catene proteiche legate fra
loro da ponti disolfuro. Lo stimolo alla produzione di insulina è
dato dallo stesso glucosio che entra nelle cellule β del pancreas.
Viene così secreta nel sangue l’insulina che va a raggiungere le
cellule degli organo bersaglio. L’insulina agisce su queste cellule
legandosi ai recettori per l’insulina (per cui sono importanti sia il
loro numero sia che funzionino bene). All’interno della cellula
vengono poi attivati dei meccanismi molecolari facilitato l’entrata
di glucosio nelle cellule stesse (grazie alla produzione di GLUT-4).
Il diabete mellito è una malattia metabolica caratterizzata da iperglicemia prodotta da difetti della secrezione di insulina, dell’azione dell’insulina
o da entrambi. L’iperglicemia cronica del diabete mellito è associata ad un danno a lungo termine, disfunzione e scompenso di vari organi, in
particolare della retina, del rene, dei nervi e anche ad un maggiore rischio di malattia cardiovascolare.
Classificazione del diabete, esiste in 4 forme: 4) Diabete gestazionale
1) Prediabete
2) Diabete di tipo 1 (detto anche giovanile)
3) Diabete di tipo 2 Dopo 7-8 ore di digiuno la glicemia
Valori normali 60-100 mg/dl
Valori normali in gravidanza 60-92 mg/dl
Diabete gestazionale 92-126 mg/dl
Prediabete 100-126 mg/dl
Diabete >126 mg/dl
Il diabete ha due cause fondamentali: un difetto di produzione di insulina (non viene prodotta o viene prodotta meno) e/o resistenza dei recettori
per l’insulina presenti sulle cellule. Le due situazioni possono essere presenti entrambe.
Gli effetti del diabete mellito comprendono danno, disfunzioni o insufficienza nel tempo di vari organi. Si muore per le conseguenze del diabete
su molti organi.
Ogni cellula ha recettori per l’insulina, il glucosio entra nella cellula per trasporto attivo. L’insulina prodotta va nel sangue, si lega al recettore
della cellula, la attiva e porta alla sintesi della proteina GLUT-4 (prodotto del legame insulina-recettore) che ha funzione di pompa per il
trasporto glucosio nella cellula. Viene sintetizzata ex novo solo dopo legame insulina-recettore. In caso di diabete quindi non si forma GLUT-4 e
il glucosio non entra nella cellula e rimane circolante nel sangue e alza la glicemia.
SINTOMI
Il diabete si manifesta con sintomi quali sete, poliuria, alterazioni del visus, dimagrimento e facilità nel contrarre infezioni. In generale i sintomi
iniziali sono lievi o assenti e di conseguenza un’iperglicemia sufficiente a causare danno agli organi può essere presente molto tempo prima che
la diagnosi venga posta. Nelle sue manifestazioni cliniche più gravi possono svilupparsi stati chetosici che possono condurre al coma e, in
assenza di una adeguata terapia, alla morte.
- Polidipsia (è la sete perché il glucosio richiama H 2O): il diabetico beve di più perché ha più bisogno di acqua perché il sangue ha
bisogno di pareggiare l’osmolarità del sangue che risulta aumentata dalla grande quantità di glucosio nel sangue.
- Polifagia: il glucosio non entra più nelle cellule e queste utilizzano aa e acidi grassi, ma gli effetti della lipolisi e della proteolisi
causano comunque perdita di peso e astenia; il diabetico mangia di più perché, non assorbendo glucosio, la cellula necessita di energia
e quindi chiede nutrimento e aumenta la degradazione di proteine e grassi per vivere.
- Suscettibilità alle infezioni: essendo le cellule della difesa costituite da proteine, l’organismo in assenza di glucosio le degrada per
garantire un corretto apporto energetico e produrrà meno immunoglobuline, meno complemento e meno interferone; il diabetico si
ammala di più perché le difese necessitano di proteine (Ab, ecc..) che mancano in quanto esse vengono degradate già per mantenere la
vita cellulare in mancanza di glicolisi. Il diabetico mangia di più e dimagrisce.
- Disturbi della coagulazione: diminuisce il fibrinogeno perché anch’esso è una proteina; il diabetico ha difetti nella coagulazione perché
mancano fibrinogeno e fattori della coagulazione (perché sono proteine e, come sopra, vengono degradati per la sopravvivenza
cellulare).
- Difficoltà di cicatrizzazione: diminuisce il collagene perché anch’esso è una proteina; il diabetico ha quindi problemi di cicatrizzazione
perché le cicatrici sono fatte di tessuto connettivo (fibroblasti) ed il collagene è una proteina.
- Ipoalbuminemia: edema
- Coma cheto-acidoso: in assenza di glucosio la cellula aumenta la degradazione di aa e acidi grassi (CH 3-CH2-CH2-CH2-CH2-COOH):
l’energia si ricava da ogni passaggio in cui si toglie CH 2 fino a che non rimane CH3-COOH (acido acetico) che si lega all’acetilcoA ed
innesca il ciclo di Krebs per produrre energia. Essendo aumentata la degradazione ci sono molte CoA ma molecole si legano e formano
aceto-acetil-coA (4 atomi di C) che è un precursore dei corpi chetonici che vanno nel sangue e vengono eliminati con le urine portando
ad uno stato di acidosi generale (vengono eliminati anche con la respirazione portando alito acido). Gli aa vengono degradati a CoA e
stesso meccanismo. La chetonuria (chetoni nelle urine) è presente se i livelli di glucosio superano i 240. I chetoni urinari riflettono la
concentrazione nel sangue.
Il diabetico và in acidosi. Normalmente il glucosio entra nella cellula e fa glicolisi. In caso di diabete ciò non avviene e la cellula per
vivere degrada acidi grassi e proteine. La degradazione produce acido acetico. L’Acetilco A entra nel ciclo di Krebs (normalmente). In
caso di diabete la degradazione degli acidi grassi è molto maggiore e ci sono quindi troppi Acetil-co A che si uniscono a coppie Auto-
acetil-co A (molecola a 4 molecole di carbonio) diventando precursori di corpi chetonici che vanno nel sangue (arrivano anche nelle
urine). La presenza di chetoni nelle urine (chetonuria) indica acidosi del paziente. L’accumulo di corpi chetonici dopo tempo, senza
tamponi, porta a coma per mancanza di O2 (dello scambio gassoso).
COMPLICANZE
Gli effetti a lungo termine del diabete mellito comprendono lo sviluppo di complicanze quali: la retinopatia diabetica che porta a progressiva
cecità; la nefropatia diabetica che può portare ad insufficienza renale cronica; la neuropatia diabetica; lo sviluppo di ulcere ai piedi con
conseguenti eventuali amputazioni; disturbi del sistema nervoso autonomo quali disfunzioni dell’apparato riproduttivo (disfunzione erettile);
elevato rischio di malattie cardiovascolari e cerebrovascolari.
Nefropatia diabetica – La glicosilazione spontanea delle proteine (quindi senza l’azione degli enzimi) porta ad un inspessimento della membrana
del glomerulo, perdita delle cariche negative e aumento della permeabilità con conseguente proteinuria. La glicosuria si verifica solo quando la
concentrazione di glucosio plasmatica supera i 160 mg/dl (valore limite di riassorbimento tubulare). Ciò può condurre ad insufficienza renale.
Il glucosio si attacca alle proteine per glicosilazione spontanea delle proteine (senza bisogno di enzimi). La membrana basale contiene molte
proteine, il glucosio è alto nel sangue e passa attraverso il glomerulo (perché piccolo) ma si attacca a tale membrana per affinità con le proteine
che lo compongono. La proteinuria dei pazienti diabetici avviene perché il glucosio, attaccandosi alle proteine, le cambia nella sua carica
elettrica (copre gruppi parasolfato). Quindi la carica negativa che dovrebbe allontanare albumina (che è carica negativa) viene a mancare ed essa
passa). Alcuni buchi si allargano ed altri si restringono: si restringono per la copertura delle cariche negative, si allargano perché per il peso i
buchi vicini si allargano.
Tutto questo conduce ad insufficienza renale caratterizzata da glicosuria (avendo tanto glucosio nel sangue i tubuli non riescono ad assorbire tutt)
(glicemia ≥ 160 mg causa glicosuria), proteinuria, chetonuria.
Retinopatia diabetica – La retina è costituita da capillari che irrorano i recettori fotosensibili (coni e bastoncelli). Il glucosio che passa tra le
cellule endoteliali si lega alla membrana basale dell’endotelio inspessendo i capillari e occludendo il vaso. Per compensare si creano nuovi
circoli collaterali che sono però di bassa qualità e più deboli per il deficit di proteine. Al passaggio di sangue questi vasi si rompono
(microemorragie). Alcuni vasi si chiudono (trombi) ed altri si rompono (emorragia). Ciò può condurre a cecità.
Neuropatia diabetica – I nervi sono circondati da una guaina e vengono irrorati dai vasi degli assoni. Anche qui il glucosio si attacca alla
membrana basale con conseguente occlusione e progressiva morte del nervo per mancanza di irrorazione sanguigna.
Piede diabetico – Per lo stesso ragionamento alle estremità del corpo i vasi sono piccoli e quindi si chiudono per inspessimento, il tessuto non
riceve irrorazione ed avviene una cascata di eventi che porta a cancrena (necrosi) ed amputazione.
Infarto del miocardio – Il diabete è un fattore di rischio cardiovascolare (aterosclerosi).
I pazienti affetti da Diabete Mellito aumenteranno sensibilmente perché ci sarà un aumento dell’invecchiamento della popolazione, un aumento
di soggetti obesi per vita sregolata e/o vita sedentaria. L'importanza di scoprire e trattare le persone affette da diabete è ben riconosciuta in
relazione ai devastanti effetti clinici del diabete.
L'importanza della diagnosi precoce è sostenuta dall'evidenza che le complicanze micro- e macro-vascolari sono già presenti al momento della
diagnosi (retinopatia e proteinuria). Attualmente, solo la metà della popolazione diabetica è stata diagnosticata. Gli screening per il diabete
mellito dovrebbero iniziare a 45 anni di età e dovrebbero essere ripetuti ogni tre anni nelle persone non a rischio e con glicemia normale, mentre
dovrebbero iniziare prima ed essere ripetuti più spesso in quelle persone che presentano fattori di rischio . La determinazione precoce del diabete
mellito può portare a migliorare il controllo dei livelli di zucchero nel sangue e ad una riduzione nella gravità delle complicanze associate con
questa malattia. La glicemia basale deve essere eseguita in tutti i soggetti all’età di 45 anni; se normale, deve essere ripetuta ogni 3 anni. La
glicemia deve essere misurata prima e ripetuta, eventualmente, a intervalli più ristretti se il soggetto è:
- obeso (120% del peso desiderabile o BMI > 27 kg/m2);
- parente di primo grado diabetico;
- ha avuto un Diabete Mellito Gestazionale o ha partorito un figlio con peso superiore a 4 kg;
- è iperteso (140/90 mm Hg);
- ha una concentrazione di colesterolo HDL (35 mg/dL 0.9 mmol/L) o di trigliceridi (250 mg/dL 2.8 mmol/L);
- ha presentato in passato una glicemia basale o una tolleranza glucidica alterata.
Un controllo precoce della glicemia può prevenire o ritardare le complicanze del diabete. I valori normali di glicemia a digiuno sono 6 0-100
mg/dl. Si parla di Diabete quando in due o più occasioni i valori di glicemia sono superiori a 126 mg/dl.

PREDIABETE (tra 100 e 126 mg/dl)


È una ridotta tolleranza al glucosio che colpisce i pazienti con glicemia tra 100 e 126 mg/dl. La glicemia è alterata (pre-diabete) e bisogna
indagare per capire se tale innalzamento è veritiero o meno. Esistono tre situazioni:
1) Risultato falso
2) Conferma prediabete
3) Diabete latente (dovrebbe essere serio e quindi più alto)
Una indagine di laboratorio che può essere richiesta è la curva glicemica da carico orale di glucosio, da eseguire solo su pazienti nello stadio di
pre-diabete. Il paziente che deve eseguire questo prelievo deve aver seguito precedentemente un normale regime dietetico. Inoltre: non deve aver
preso alcuni tipi di farmaci (anticonvulsivanti, contraccettivi orali, diuretici, antinfiammatori), non deve fumare ne mangiare nelle precedenti 12
ore, può bere. Il test inizia al mattino facendo un prelievo a digiuno che sarà il basale (ore 08:00), poi si fa bere una soluzione glucosata (75 g di
glucosio sciolto in 250 cc di H 2O). Quindi si esegue un prelievo dopo 120’ (durante i 120’ il paziente deve stare a riposo perché il movimento
utilizza glucosio come fonte energetica e altererebbe il risultato). Si utilizza la provetta sierologica con tappo grigio perché contiene inibitore
glicolisi, cioè blocca eventuale glicolisi di globuli rossi presenti nel sangue (il sangue coagula).
I valori di riferimento adesso sono, ovviamente, diversi :
- ≤ 140 mg/dl, il paziente non è diabetico (quindi falso positivo);
- 140-200 mg/dl, il paziente è in stato di alterata tolleranza al glucosio (pre-diabete);
- > 200 mg/dl, il paziente è diabetico (è un diabete latente misconosciuto al paziente perché nel Diabete di tipo 2 c’è un iniziale
iperproduzione di insulina che maschera all’inizio l’iperglicemia).
Nell’ultimo caso il diabete già c’è ma la glicemia non è molto alta al primo prelievo. È latente perché l’organismo all’inizio del diabete
compensa producendo più insulina. All’inizio si innalza la glicemia, i recettori sono pochi o poco efficienti e quindi per risposta l’isola produce
più insulina. Anche il dosaggio dell’insulina serve per la diagnosi. Inizialmente l’insulina maschera ma, a lungo andare, per affaticamento delle
cellule delle isole, quest’ultime non producono più insulina.
Durante la raccolta del test (al 120’) può essere fatto una raccolta di urine. Se si dovesse osservare una glicosuria essa è sempre patologica e si
verifica normalmente quando il livello di glicemia nel sangue supera la soglia di 160-200 mg/dl (soglia renale di riassorbimento tubulare). Se si
dovesse osservare una glicosuria in assenza di iperglicemia, il paziente deve iniziare gli accertamenti di laboratorio per la funzionalità renale
(azotemia, creatinemia, elettroliti nel sangue e nelle urine, ricerca di albuminuria). La misurazione dei chetoni nelle urine semplici (chetonuria) è
importante soprattutto nel DM di tipo 1. È raccomandato che tutti i pazienti diabetici misurino i chetoni urinari nel corso di malattie acute,
episodi di stress, quando la glicemia è > 240 mg/dl, in corso di gravidanza o quando ci sono i sintomi tipici della chetoacidosi (nausea, vomito,
dolore addominale, alito di tipo acidoso). I chetoni urinari riflettono la loro concentrazione nel sangue.

DIABETE MELLITO DI TIPO 1 (IDDM: Insulin Dependent Diabetes Mellitus)


Il diabete mellito insulino-dipendente (IDDM) rappresenta una autoimmunitaria, soprattutto mediata da linfociti T autoreattivi, che
delle più gravi forme cliniche di diabete mellito. La malattia alla fine determina la distruzione delle cellule insulari del pancreas.
colpisce prevalentemente i bambini e gli adolescenti ma non è rara
la sua comparsa in età adulta e senile. È caratterizzato da una
distruzione autoimmune delle cellule del pancreas produttrici
d'insulina che conduce ad una carenza insulinica assoluta e ad una
corrispondente necessità di un apporto esogeno d'insulina per
preservare la vita del malato. Il diabete di tipo 1 è associato al
rischio di decesso prematuro in seguito a complicazioni acute e
manifestazioni croniche invalidanti e mortali, tra cui le malattie
oculari e la cecità, la neuropatia, l'insufficienza renale, le
complicazioni macrovascolari e la gangrena. Incide per circa il
10% del totale.
L'eziologia della malattia resta ancora in gran parte misconosciuta
anche se è ampiamente accettato che l'origine del disturbo sia
multifattoriale, frutto dell'interazione fra predisposizione genetica e
fattori ambientali. Ne consegue lo sviluppo di una risposta
Particolare di un’isola interessata da un attacco autoimmunitario
con presenza di linfociti citotossici ed autoanticorpi
Non è stato ancora possibile definire la sequenza di eventi che
scatena la migrazione o l'attrazione di cellule immunitarie alle isole
pancreatiche. Sono state suggerite diverse possibilità:
- un ruolo dei virus in questa malattia (morbillo, parotite,
citomegalovirus, rosolia, mononucleosi), cioè il virus
potrebbe causare un danno lieve alle cellule β, seguito da
una risposta immune contro antigeni sequestrati
all’interno delle cellule β;
- la reazione immune potrebbe avvenire perché qualche
proteina virale potrebbe avere sequenze amminoacidiche
comuni con qualche proteina delle cellule β, sempre però
in soggetti geneticamente predisposti (mimetismo
molecolare);
- è stato visto che i bambini che assumono precocemente
(prima del 4° mese di vita) derivati del latte vaccino
hanno una maggiore predisposizione ad ammalarsi;
- alcune sostanze tossiche, come prodotti usati nella
derattizzazione o farmaci usati nel trattamento delle
malattie parassitarie, possono scatenare un meccanismo
autoimmune a danno delle cellule β.
Quindi, il Diabete mellito di tipo 1 potrebbe essere causato da un
m.o. che entra e si nasconde nelle Isole di Langherans per non
morire. Nel frattempo si mimetizza con le strutture superficiali
delle cellule delle isole, quindi arrivano le difese e queste attaccano
tutto indistintamente (m.o. e cellule sane) perché non riesce a
distinguere gli Ag superficiali.
Infezioni virali e probabilmente anche modificazioni chimiche potrebbero quindi modificare gli antigeni espressi sulla superficie β-cellulare.
Questi antigeni modificati potrebbero attivare cloni di linfociti T attraverso cellule accessorie (che presentano l'antigene) localizzate nelle isole o
nella periferia:
- potrebbero essere presenti linfociti T citotossici specifici verso un antigene β-cellulare, ma ciò non è stato ancora dimostrato
nell'uomo;
- macrofagi o cellule NK in stretto contatto con le cellule β potrebbero causarne la distruzione attraverso la formazione di alti livelli
locali di citochine come interleuchina-1 (IL-1), TNF e interferone, che in vitro hanno dimostrato di essere tossici per le cellule β;
- anticorpi anti-insula sono in grado di iniziare in vitro la citotossicità cellulare complemento-dipendente o anticorpo-dipendente. Anche
la citotossicità anticorpo-mediata potrebbe, pertanto, essere coinvolta nella distruzione delle cellule β.
A causa del brusco e drammatico esordio dei sintomi nella maggior parte dei pazienti, nel passato si è ritenuto che il processo patologico alla
base del diabete di tipo 1 fosse un processo acuto e che, quindi, gli individui fossero normali o non colpiti dalla malattia fino a poco tempo prima
della diagnosi. Oggi noi sappiamo che la situazione è invece esattamente il contrario: il processo patologico del DMT1 è attivo e in evoluzione
per un lungo periodo di tempo, in genere almeno alcuni anni, prima che i pazienti sviluppino il DMT1 clinico. Vi è quindi un lungo periodo
preclinico durante il quale possono essere scoperti anticorpi e cellule T reattivi con antigeni β-cellulari e durante il quale avviene l'attacco
immune alle cellule β. È stata osservata una progressiva perdita della funzione β-cellulare da mesi ad anni prima dell'inizio del DMT1 clinico, e
l'iperglicemia dopo carico orale di glucosio può precedere la diagnosi di DMT1 clinico di un periodo che va dai 3 mesi ai 7 anni. Questo
processo distruttivo autoimmune avviene specificamente in individui geneticamente suscettibili. La combinazione di markers immunitari e
l’alterata funzione β-cellulare è associata con un maggior rischio di sviluppo di IDDM clinico rispetto ai markers immunitari associati ad una
normale funzione β-cellulare. In alcuni individui il processo distruttivo β-cellulare, una volta iniziato, sembra essere progressivo; questi individui
sono generalmente caratterizzati dalla persistenza di alti titoli di anticorpi diretti contro antigeni insulari diversi. In altri pazienti, frequentemente
con singoli autoanticorpi e più bassi titoli dei marcatori immunologici, il processo patologico può andare in remissione e non progredire. Deve
essere perso almeno l’80-90% della capacità funzionale della β-cellule prima che si instauri l’iperglicemia.
Si possono perciò richiedere, anche in assenza di sintomi o di iperglicemia, il dosaggio di alcuni autoanticorpi che sono presenti già nelle fasi
iniziali della malattia:
- anticorpi anti-isola pancreatica (ICA);
- anticorpi anti-insulina (IAA);
- anticorpi anti-acido glutammico decarbossilasi (GAD65);
- anticorpi anti-antigene insulare (IA-2, IA-3).
I Pazienti sviluppano questi anticorpi mesi o anni prima dell’insorgenza della malattia ed è stato osservato che i soggetti con questi tipi di
anticorpi, se non trattati, hanno il 100% di possibilità di sviluppare il diabete nei successivi 5 anni. La maggior parte di questi anticorpi si
presenta con un'alta prevalenza in soggetti IDDM di nuova diagnosi e prima della comparsa clinica di IDDM. La loro presenza è utile per
scoprire l'autoimmunità β-cellulare e per valutare il rischio di successivo sviluppo di IDDM clinico in individui geneticamente suscettibili.
Se si diagnostica precocemente si allontana il momento di somministrazione dell’insulina ma non è possibile curare (esistono microinfusori di
insulina). Il rischio e la gravità del diabete sono correlati al titolo di autoanticorpi "precoci" anti β-cellula pancreatica (ICA, IA-2/IA-2β/IA-2JM)
e al numero di quest'ultimi contemporaneamente presenti nell'individuo a rischio.
Attualmente siamo però in grado di predire il diabete di tipo 1 con sufficiente sicurezza solo nei parenti di primo grado di pazienti affetti da
diabete di tipo 1, mentre il margine d'errore è ancora inaccettabile quando si vuole predire la malattia nella popolazione generale. Solo il 10% di
tutte le nuove diagnosi di diabete tipo 1 proviene da soggetti con parenti affetti (casi familiari) mentre il 90% proviene da soggetti senza storia
familiare (casi sporadici). Recenti studi dimostrano però che vi è un progressivo ampliamento ( spreading) della risposta autoimmune ai diversi
antigeni della tirosinfosfatasi, con massima specificità per quello JM, si verifica nella stragrande maggioranza dei casi entro i primissimi anni di
vita e rappresenterebbe il miglior indicatore (indiretto) della distruzione autoimmune della β-cellula. L'anticorpo per la regione JM
(iuxtamembrane) dell'antigene IA-2JM compare generalmente per primo negli infanti screenati e determinerebbe una più rapida progressione per
il diabete (diabete ad insorgenza infantile rispetto a quello del giovane o del giovane adulto) sia quando presente da solo ma soprattutto quando
eventualmente si verifica il fenomeno dello spreading autoanticorpale con la comparsa associata degli autoanticorpi anti IA-2β. Ciò suggerisce
che probabilmente la regione JM possa contenere qualche antigene criptico nei confronti del quale è primariamente diretta l'autoimmunità
anticellula pancreatica e la cui identificazione potrebbe aiutare la prevenzione primaria della malattia.
Nel bambino il prelievo a fini diagnostici andrebbe effettuato già dal 1° anno altrimenti ce ne si accorge troppo tardi quando la malattia è già
manifesta. La malattia è irreversibile perché le cellule morte non si possono ricreare e quindi non si produce più insulina perché non esistono più
isole. Il Diabete di tipo 1 non si può evitare ma si può allontanare nel tempo il momento della malattia attraverso la somministrazione di insulina.
Tra i sintomi clinici che i bambini possono manifestare ricordiamo: inizio recente o enuresi persistente (incontinenza urinaria soprattutto
notturna); dolori addominali con o senza vomito; infezioni da candida; guadagno inconsistente di peso o perdita di peso; fatica, irritabilità,
diminuzione del rendimento scolastico, cefalea; ricorrenti infezioni della pelle; problemi di crescita (per degradazione delle proteine); difficoltà
di concentrazione; polidipsia. La perdita di peso o l'eccessiva sete in un bambino o nell'adolescente deve essere sempre immediatamente
accertata con almeno un test per le urine così da poter scartare il diabete mellito.
Per diagnosticare malattia si cercano gli autoanticorpi, il diabete è una malattia autoimmune. La gravità è indicata dal numero di tipi di anticorpi
e dal numero della loro concentrazione. Tipo Ab, Numero Ab e Quantità Ab contribuiscono alla diagnosi.
La terapia consiste nella somministrazione di insulina attraverso microinfusori costanti con somministrazione automatica. Esiste oggi la
possibilità di trapianto di isole pancreatiche.

DIABETE MELLITO DI TIPO 2 (NIDDM: Non Insulin Dependent Diabetes Mellitus)


Il diabete mellito di tipo 2 (non insulino-dipendente) è una insulino-resistenza con difetto nella secrezione di insulina. Insorge nell’età adulta e
non è autoimmunitario. Consiste nell’invecchiamento dei recettori per l’insulina delle cellule che comporta una minore efficienza delle stesse..
Nella fase pre-clinica o all’esordio in questi pazienti i livelli di insulina sono normali o addirittura aumentati. Al contrario è il modo alterato di
secrezione dell’insulina (perdita della prima fase rapida di secrezione durante uno stimolo da parte del glucosio) a dimostrare come ci sia anche
qui un danno alle cellule β. Successivamente le cellule inizieranno a sintetizzare sempre meno insulina e comunque il deficit non raggiunge mai i
livelli del diabete di tipo 1. Non vi è un danno insulare mediato da virus o dal sistema immunitario.
Non si sa la causa. Tra le possibili cause:
- un ruolo potrebbe averlo l’amilina, un peptide prodotto dalle cellule β normalmente, impacchettato con l’insulina e cosecreto negli
spazi sinusoidali. Si è visto che nei pazienti con Diabete mellito di tipo 2 essa tende a depositarsi ed accumularsi al di fuori delle
cellule β ma in stretto contatto con la membrana cellulare e questo potrebbe alterare la funzionalità delle cellule β 8limitazione della
produzione di insulina.
- un'altra ipotesi suggerisce che in questi pazienti le cellule β siano geneticamente vulnerabili ai danni e che quindi subiscano un
turnover elevato ed un invecchiamento prematuro con riduzione del numero delle cellule β.
- infine vi è anche un danno alle cellule β perché l’insulina prodotta agisce con minor intensità (resistenza insulinica) in quanto
diminuiscono i recettori sia superficiali che interni delle cellule bersaglio (adipociti, epatociti, cellule muscolari).
Un modello a due gradi viene comunemente usato per descrivere la progressione verso il diabete di tipo 2. Nel primo grado la normoglicemia
progredisce verso la ridotta tolleranza al glucosio, primariamente dovuta all'esistenza di insulino-resistenza. Poiché la tolleranza al glucosio a
questo punto è alterata, la β-cellula risponde incrementando la secrezione di insulina sempre di più per prevenire l'iperglicemia a digiuno. La
progressione al secondo grado avviene quando le β-cellule vanno incontro ad esaurimento e potrebbero non essere più in grado di secernere
sufficiente insulina da compensare il grado di insulino-resistenza, dando luogo quindi al vero e proprio diabete di tipo 2.
È strettamente associato con una storia familiare di diabete, età avanzata, obesità e scarso esercizio fisico. È più comune tra le donne,
specialmente donne con una storia di diabete gestazionale, di pelle nera, ispaniche.

L’elevazione della glicemia quindi può poi comportare un esaurimento funzionale


delle cellule β del pancreas.
Vediamo ora i sintomi comuni di questa patologia. Inizialmente, con il deficit di insulina, l’assunzione di glucosio nel muscolo e nel tessuto
adiposo viene bruscamente diminuita o abolita. Nel fegato non si forma più glicogeno ma vengono attivate le vie glicogenolitiche per
sintetizzare glucosio intracellulare dato che il glucosio extra presente nel sangue non riesce ad entrare. A digiuno avremo iperglicemia e
glicosuria. Il glucosio presente nelle urine richiamerà, per osmolarità, acqua e quindi si avrà poliuria con perdita di elettroliti (Na, K, Ca, Mg). Si
avrà di conseguenza la sete (polidipsia).
In mancanza di glucosio, inoltre, le cellule cambiano il loro catabolismo a quello dei grassi e delle proteine. Si avrà un aumento della proteolisi
per sintetizzare da aa il glucosio e quindi si avrà un aumento dell’appetito (polifagia). Ma anche se aumenta l’appetito gli effetti catabolici di
proteolisi e di lipolisi sono predominanti quindi si avrà perdita di peso e debolezza muscolare (astenia) quest’ultima dovuta anche al fatto che la
perdita di K compromette le funzioni neuromuscolari. Inoltre l’indisponibilità di glucosio nelle cellule adipose riduce la formazione dei
trigliceridi e vi è quindi un eccesso di acidi grassi nel sangue che, arrivando alle cellule epatiche, producono i corpi chetonici che inizialmente
vengono utilizzati a scopi energetici ma poi il loro numero in eccesso determina un aumento nell’urina (chetonuria). Se non si riesce più ad
eliminarli tramite urine e respirazione si determina uno stato di acidosi generale.
Tra le conseguenze di un diabete non trattato abbiamo un’aterosclerosi accelerata in cui vengono interessate sia l’aorta che le altre arterie di
grosse dimensioni (coronarie) con conseguente possibilità di infarto del miocardio o di altre sedi. Nel sangue ci sarà una diminuzione delle HDL
che comporterà la formazione di placche aterosclerotiche con successivo aumento della pressione del sangue (ipertensione). La glicosilazione
delle proteine determina un maggiore stazionamento sulle pareti endoteliali, incrementando la deposizione di colesterolo nell’intima e
accelerando l’aterosclerosi. Vi sarà poi anche un generale ispessimento delle membrane basali dei capillari della cute, dei muscoli, della retina e
dei glomeruli renali. Nella nefropatia diabetica le membrane basali dei capillari glomerulari sono inspessite e vi è una proliferazione di cellule
mesangiali. Nonostante l’aumento di spessore della membrana basale i capillari glomerulari dei diabetici sono più permeabili alle proteine
plasmatiche. Si avrà alla fine una sindrome nefrosica data da proteinuria, ipoalbuminemia ed edema. Infine vi possono essere anche altre
complicazioni come: lesioni dei vasi oculari che determinano cecità a causa di retinopatie o cataratte o glaucoma; neuropatia diabetica perché
possono essere interessati i nervi periferici con perdita parziale o totale dell’attività motoria e/o sensitiva. Il diabetico in generale è soggetto ad
un’aumentata suscettibilità alle infezioni (tubercolosi, polmoniti, infezioni cutanee e delle mucose ad andamento cronico o recidivante,
pielonefriti) che possono dare anche l’extitus.
La terapia inizialmente consiste nella somministrazione di un ipoglicemizzante e non di insulina.

DIABETE MELLITO GESTAZIONALE (GDM) (tra 92 e 126 mg/dl)


Il Diabete Mellito Gestazionale (GDM) viene definito come qualsiasi grado di intolleranza al glucosio insorto o individuato per la prima volta
durante la gravidanza. La definizione è valida indipendentemente dal fatto che esso venga trattato con insulina o con sola dieta e che la
condizione persista o meno dopo la gravidanza. Normalmente guarisce dopo la gravidanza. Ciò non esclude la possibilità che un’intolleranza al
glucosio (diabete latente) non riconosciuta possa essere retrodatata o fatta iniziare in concomitanza della gravidanza (la gravidanza lo ha
scatenato).
Nel corso della gravidanza, ma soprattutto nel terzo trimestre, si verifica normalmente un deterioramento della tolleranza al glucosio che può
condurre a diabete. Questo perché durante lo sviluppo fetale si producono tanti ormoni che vanno nel sangue e possono interferire con la
produzione dell’insulina e/o con il legame insulina-recettore cellulare.
Alla prima visita in gravidanza deve essere valutata la presenza di un diabete manifesto mediante la determinazione della glicemia plasmatica a
digiuno. Il riscontro ripetuto in due occasioni di un valore glicemico ≥ 126 mg/dl permette di porre diagnosi di diabete manifesto. La diagnosi di
diabete manifesto può avvenire anche mediante l’esecuzione di una glicemia random (eseguita in qualsiasi momento della giornata).
Il riscontro di un valore glicemico ≥ 200 mg/dl permette di porre diagnosi di diabete manifesto dopo conferma con glicemia plasmatica a digiuno
≥ 126 mg/dl. Se il valore della glicemia alla prima visita in gravidanza risulta ≥ 92 mg/dl < 126 mg/dl si pone diagnosi di GDM.
Tutte le gestanti con glicemia a digiuno intorno a 92 mg/dl e/o senza precedente diagnosi di Diabete manifesto, indipendentemente dalla
presenza di eventuali fattori di rischio per diabete gestazionale, devono eseguire un carico orale di glucosio (OGTT) tra la 24° e la 28° settimana
di gestazione.
L’OGTT (curva di carico orale) consiste in tre prelievi ad intervalli di 60’:
- il primo prelievo a digiuno;
- somministrazione per via orale di una soluzione di 300 ml di acqua e 75 grammi di glucosio;
- secondo prelievo dopo 60’;
- terzo prelievo dopo altri 60’ (a 2 ore dal primo quindi).
Si pone diagnosi di GDM quando uno o più valori risultano uguali o superiori a quelli soglia:
- basale 92 mg/dl;
- 1° ora 180 mg/dl;
- 2° ora 153 mg/dl.
Le strategie per raggiungere e mantenere i livelli di glucosio nei limiti normali comprendono diete ristrette di carboidrati, programmi di esercizio
ed inizio della terapia insulinica quando i livelli di glucosio nel sangue sono al di fuori del range di normalità. Se i valori restano alti ma vicini a
92 si interviene sulla dieta ma se poi la glicemia non scende, allora si da insulina.
Se le donne restano incinte nello stato iperglicemico, il feto non diabetico risponde adeguatamente allo stimolo iperglicemico attraverso la
secrezione di grandi quantità di insulina. Con il tempo il pancreas del feto diventa indipendente ed eventualmente limita la sua capacità di tenersi
al passo con l'iperglicemia materna. Quindi l'iperglicemia materna è la sola causa delle anomalie del feto. Si alza glucosio anche al bambino che
però riesce a compensare con la produzione di più insulina. È pericoloso per il bambino perché avendo tutta questa energia cresce in maniera
anomala e deformato (es. l’acromegalia crescita non armoniosa del cranio). Può arrivare anche all’aborto.
Il diabete mellito gestazionale è provocato dall'incapacità di una donna di secernere abbastanza insulina per compensare gli aumentati bisogni
nutrizionali della gestazione, l'aumento di grasso della gravidanza e gli ormoni anti-insulina come il lattogeno placentare umano, la prolattina, il
cortisolo e il progesterone. Nella gravidanza normale, la risposta secretoria di insulina aumenta fino a 4 volte per compensare le potenzialità
diabetiche della gravidanza.
In Italia la prevalenza del DMG è intorno al 3%. La diagnosi di DMG è importante perché la terapia può ridurre la mortalità associata al DMG
sia per il bambino che per la madre. L’effetto del diabete sul feto varia a seconda del periodo in cui compare: fino all’ottava settimana (fase
embrionale) induce aborto spontaneo e malformazioni; dall’ottava settimana al parto (fase fetale) induce ipossia cronica, morte intrauterina,
iperinsulinismo, crescita accelerata; infine nella prima settimana dopo il parto (fase neonatale) induce traumi al neonato, problemi respiratori,
ittero, iperglicemia, asfissia e morte. È stato ipotizzato che l’iperglicemia prolungata e l’iperinsulinismo possano causare acidosi fetale da ipossia
e una notevole riduzione della tolleranza alla mancanza di ossigeno. Il feto presenta la macrosomia, cioè è più sviluppato (l’acrosomia è la
crescita non armonica delle parti fetali), perché l’iperglicemia materna determina lo sviluppo dell’iperglicemia fetale che stimola le cellule β a
produrre più insulina e ad aumentare quindi l’anabolismo. L’insulina opera a livello dei recettori che riconoscono fattori di crescita e, siccome
aumenta per compensare l’iperglicemia, porta ad ingrossamento.
La microsomia alla nascita aumenta il rischio nel neonato di traumi come fratture della clavicola, asfissia. L’iperinsulinismo induce nel neonato
un maggior peso alla nascita che porta a casi frequenti di parto cesareo, ipertensione cronica, ipertrofia cardiaca con alterazione della
funzionalità circolatoria. La patogenesi nella donna di DMG consiste nella distruzione autoimmune delle cellule β, nell’alterata funzione delle
cellule β, nell’aumentata degradazione dell’insulina, o infine nella diminuita sensibilità tissutale sempre all’insulina.
Il trattamento delle donne con DMG è rivolto all’intervento dietetico che consiste di solito nella riduzione della quota di carboidrati (inferiore al
40%). Se la glicemia permane elevata la donna viene trattata con terapie più aggressive attraverso somministrazioni endovena di insulina.
Le società scientifiche raccomandano che in caso di DMG la donna mantenga durante la gravidanza una concentrazione di glucosio tra 80-90
mg/dl a digiuno, al di sotto di 140 mg/dl dopo la prima ora dopo un pasto (post-prandiale) e di 120 mg/dl dopo due ore da un pasto. Le donne
con DMG subiscono il taglio cesareo con una frequenza circa doppia rispetto a quelle non diabetiche.
Normalmente donne con DMG ritornano ai valori normali di glicemia dopo 6 mesi dal parto anche se hanno poi una forte probabilità (> 50%) di
sviluppare dopo un certo numero di anni il diabete mellito se presentavano una iperglicemia marcata in gravidanza, se erano obese, e in quelle
dove il DMG era stato diagnosticato prima della 24esima settimana di gravidanza.
In tutte le donne la glicemia per controllo va misurata dopo il parto e poi ad intervalli di tre anni se non ha una nuova gravidanza. Il 20-30%
delle donne in gravidanza diventa diabetica gestazionale dopo la gravidanza questo diabete normalmente guarisce. Alcune donne non guariscono
perché avevano il diabete latente e la gravidanza o più gravidanze hanno velocizzato il processo di malattia.

IPERGLICEMIA CRONICA
Nel caso di un paziente con diabete conclamato i controlli che deve fare sono diversi ed attengono a diverse specialità mediche (cardiologo,
nefrologo, neurologo, oculista, patologo clinico). Gli esami di patologia clinica di controllo da fare ogni anno sono:
- Profilo glicemico;
- Emoglobina glicosilata;
- Esame delle urine.
Profilo glicemico – Serve per pianificare la terapia e l’assunzione dell’insulina (il medico darà le Unità di insulina di conseguenza). Dopo un po’
di terapia serve fare un nuovo profilo per capire se la terapia funziona e le unità sono sufficienti e giuste (dopo 1 settimana). Il profilo glicemico
consiste in 5 prelievi durante tutto il giorno (alle ore 8, 11, 13, 15 e 17) da raccogliere nella provetta grigia contenente un inibitore glicolisi,
senza anticoagulante. Il paziente viene fatto venire la mattina verso le 08:00 a digiuno e fa un prelievo per glicemia. Dopo 3 ore tornerà per fare
un ulteriore prelievo (nel mentre il paziente può svolgere le normali attività perché si deve vedere l’andamento della glicemia nell’arco della
giornata). La curva glicemica (o profilo) viene eseguita in un paziente diabetico quando la prima volta deve essere somministrata la terapia
insulinica in modo da stabilire le unità di insulina da dare la mattina e la sera, o nel monitoraggio della terapia per stabilire se le unità
somministrate sono eccessive o sono da integrare.
Emoglobina glicosilata – Un paziente con diabete noto da tempo ha un’iperglicemia cronica che determina a livello tessutale un processo di
glicazione dei gruppi amminici terminali e/o delle catene laterali delle proteine (gruppo NH 2). Questa reazione non enzimatica è lenta ma
continua nel tempo ed è funzione della durata dell’esposizione ad alte concentrazioni di glucosio delle strutture proteiche stesse. In particolare la
glicoemoglobina (emoglobina glicata) stima il controllo della malattia diabetica in un periodo di 6-12 settimane. Essa indica quindi la
percentuale di emoglobina che ha legato il glucosio ed è dipendente dalla vita media del globulo rosso (120 giorni): dipende dalla concentrazione
del glucosio e dal tempo di esposizione. Questo perché il glucosio si muove liberamente attraverso la membrana del globulo rosso e quindi la
percentuale di glicazione dell’Hb è proporzionale alla concentrazione media di glucosio circolante. L’Hb nell’adulto è composta al 90% da
HbA0 e al restante 10% da HbA2, HbF, HbA1 (sottotipi: A1b, A1c, A1d, A1e). Nel diabete di tipo 2 è utile dosare l’HbA1c (emoglobina glicata
o glicosilata) che si trova aumentata se il diabete negli ultimi mesi è male controllato (valori normali ≤ 5 %). Mentre la glicemia esprime il
livello fedele nel sangue al momento del prelievo, il livello di HbA1c nel sangue è un indice fedele della glicemia negli ultimi 4 mesi precedenti
al prelievo. L’alterazione di questo valore rappresenta un esame di laboratorio fondamentale per denunciare una situazione patologica anche
quando la glicemia a digiuno resta normale.
Il prelievo si effettua nella provetta per l’emocromo (viola). L’Hb è una grossa proteina (α2 e β2) e quindi il glucosio, che ha grande affinità per
le proteine, si attacca. Più è alta la glicemia del sangue più è alto il valore Hb glicosata: dipende dalla quantità di glicemia e dal tempo in cui essa
è alta. Tramite questo esame si può risalire fino a 4 mesi prima. È un monitoraggio importante per capire l’idoneità della terapia e/o della sua
assunzione da parte del paziente. Nel caso di errori l’Hb glicosata è > 5% (errori nel dosaggio e/o nell’attenzione del paziente all’assunzione).
Esame delle urine – Proteinuria, glicosuria, chetonuria.

PRELIEVO DI SANGUE VENOSO

Il plasma (arancione) è la parte liquida del sangue non coagulato e si ricava dal sangue intero al quale vengono aggiunti degli additivi chimici al
fine di prevenire la coagulazione nella provetta. Il siero (giallo) è la parte liquida ottenuta dalla retrazione del coagulo e contiene le stesse
componenti del plasma ad eccezione dei fattori della coagulazione.
Nella raccolta si adoperano vari tipi di anticoagulanti a seconda del tipo di analisi:
- EDTA (etilendiamminotetracetato), esplica la sua azione anticoagulante sequestrando il calcio che è un composto che favorisce la
coagulazione. Si trova in quantità opportune nella provetta dell’emocromo (tappo viola) in forma di piccole particelle adese alla parete
del vetro. Non si trova in forma liquida perchèp evaporerebbe, il livello scenderebbe ed il rapporto sangue/anticoagulante non sarebbe
proporzionale. La quantità di prelievo per l’emocromo è 3 ml.
- Sodio Citrato, si trova nella provetta con tappo azzurro o nero per le prove della coagulazione (PT-PTT). La quantità di sangue deve
essere 3.5 ml. Nella provetta con tappo nero la quantità è 1.5 ml.
Poi c’è la provetta sierologica, giallo con il gel sul fondo e rosso senza gel dove il sangue deve coagulare. La quantità può essere variabile.
Quest’ultima provetta ha un polimero inerte che dopo centrifugazione forma una barriera chimico-fisica tra siero e coagulo.
In caso di presenza di anticoagulante la provetta può essere lasciata in obliquo, altrimenti deve essere sempre lasciata in verticale.

COLORI PRINCIPALI (sono INTERNAZIONALI)


Tappo VIOLA: emocromo, gruppo sanguigno, emoglobina
glicosilata, test genetici, ammonemia (la provetta si mette in
ghiaccio perché è un gas soggetto ad evaporazione).
Tappo AZZURRO: prove della coagulazione (PT, PTT) con il
citrato di sodio come anticoagulante perché non reagisce col calcio
a differenza dell’EDTA che vi si lega ed il calcio è necessario per la
coagulazione.
Tappo NERO: VES (velocità di eritrosedimentazione) Normale
fino a 10-15, aumenta in caso di processo infettivo e tumori. Perché
la superficie dei GR ha cariche negative per cui non si attaccano e
si respingono. Durante infiammazioni e tumori non avviene e si
perdono le cariche e i GR si attaccano e si ammassano ed
aumentano VES. La VES si può fare anche nella viola perché
l’anticoagulante è lo stesso.
Tappo ROSSO (senza gel separatore)/tappo GIALLO (con gel
separatore): glicemia, azotemia, GOT/AST (glutammico-
ossalacetico transaminasi/aspartato aminotrasferasi), GPT/ALT
(glutammico-piruvato transaminasi/alanina aminotrasferasi), GGT
(gamma glutamil transferasi), bilirubina, amilasi, proteine totali,
sodio, potassio, cloro, magnesio, ferritina, marker tumorali,
dosaggi ormonali (TSH, FT3, FT4, aldosterone, corticosterone).
Tappo VERDE: uguale a quella viola solo che l’anticoagulante non
è l’EDTA ma l’Eparina.
Tappo GRIGIO: contiene inibitori della glicolisi e serve per la
curva da carico.
MODALITÀ DI PRELIEVO
La provetta a vuoto è oggi il sistema più diffuso per effettuare un prelievo mediante puntura venosa. È importante per una corretta esecuzione del
prelievo venoso che il personale infermieristico sia professionalmente preparato ed al tempo stesso abbia una buona propensione al colloquio per
risolvere i piccoli problemi legati alla tensione emotiva. È certamente più facile effettuare un prelievo venoso se il paziente è sereno ed è seduto
o disteso su di un lettino. Per molti dosaggi (glicemia, colesterolemia ecc…) il paziente deve essere a digiuno (niente cibo o liquidi diversi
dall’acqua) e non deve aver fumato nelle ultime 10 ore. Non effettuare il prelievo in posizione eretta perché è più probabile uno svenimento.
Per l’esecuzione del prelievo è necessario lavarsi le mani prima della procedura, indossare i guanti, identificare il paziente con almeno nome e
cognome da scrivere prima del prelievo sulle etichette delle provette, scegliere le provette sottovuoto adeguate, applicare il laccio emostatico
evitando di stringerlo troppo al braccio. Non è necessario far aprire e chiudere la mano del paziente prima del prelievo ma solo quando non si
riesce a sentire al tatto la vena del braccio. Scegliere con cura l’area del prelievo evitando di prolungare troppo i tempi dato che l’uso prolungato
del laccio può dare falsi risultati. Pulire l’area con alcol a 70% o con benzalconio cloruro (citrosil) e quindi lasciare un attimo asciugare.
Penetrare la pelle con l’ago e mantenere il manicotto di plastica e l’ago del sistema Vacutainer con un’inclinazione di 15° rispetto alla pelle.
Quindi introdurre delicatamente la prima provetta (PT-PTT, VES, emocromo, siero). Rimuovere il laccio appena si comincia ad aspirare il
sangue nella siringa. Se si impiega la siringa il pistone deve essere tirato lentamente in modo da consentire il deflusso spontaneo del sangue.
Levato l’ago si deve trasferire con cautela il sangue nel contenitore senza esercitare eccessiva pressione per evitare l’emolisi. La rimozione
dell’ago dovrebbe essere fatto velocemente e subito dopo applicare una pressione delicata sulla sede della puntura con un tampone di garza
sterile o con un batuffolo di cotone al fine di arrestare la piccola emorragia.
È importante mescolare dolcemente le provette per inversione per tre quattro volte con anticoagulanti e non quella da siero. Gettare gli aghi in
contenitori appropriati non nei cestini porta rifiuti. Non effettuare il prelievo in luoghi affollati. Prima di lasciare il paziente assicurarsi che non
sanguini più. I test di laboratorio devono essere eseguiti al massimo dopo 1h 30’ dal prelievo. Il sangue appena prelevato non va refrigerato ma
bisogna aspettare che si formi il coagulo nella provetta da siero e dopo, eventualmente, porlo nel frigorifero a +4° se le analisi vengono fatte
dopo due ore dal prelievo. Il sangue non va congelato perché ciò causa emolisi. Di solito è preferibile fare il prelievo nelle prime ore del mattino
a digiuno. La retrazione del coagulo avviene in circa 20’ a temperatura ambiente ed è importante che il sangue sia ben coagulato prima di
metterlo in centrifuga per la separazione del siero dagli elementi corpuscolari così da evitare la formazione di reticoli di fibrina nel siero che
altererebbero i risultati dell’analisi successiva.
Problemi che possono sorgere nell’effettuare il prelievo sono:
- l’ematoma, cioè il gonfiore dovuto all’infiltrazione di sangue nell’area del prelievo;
- l’uso prolungato del laccio può causare un’elevata concentrazione di globuli rossi, potassio e proteine plasmatiche;
- l’emolisi, cioè la rottura dei globuli rossi con conseguente rilascio dell’Hb nel siero. La presenza di Hb può costituire una causa di
errore notevole nelle analisi colorimetriche e nell’emocromo. Quindi per evitare l’emolisi il sangue non deve essere travasato dalla
siringa alla provetta attraverso l’ago, non bisogna mescolare velocemente il sangue nelle provette dopo il prelievo, non farle cadere,
non congelarle, non fare molti tentativi per “trovare la vena”.
Se il paziente sta per svenire togliere il laccio, l’ago velocemente dalla vena, far distendere il paziente su di un lettino e invitarlo a respirare
profondamente. Un panno bagnato sulla fronte può anche essere utile.

SEQUENZA PROVETTE NEI PRELIEVI MULTIPLI


La giusta sequenza di provette da usare durante il prelievo se si usa il sistema classico del Vacutainer:
Serve per impedire e ridurre la possibilità di contaminazioni crociate del campione da parte degli additivi presenti sulle provette. Perciò si fa
prima la sierologica e poi l’emocromo.
1) Provette con sodio citrato (AZZURRO/NERO)
2) Provette sierologiche senza gel (ROSSO) e con gel (GIALLO)
3) Provette con eparina (VERDE)
4) Provette con EDTA (VIOLA)
5) Provetta con inibitore della glicolisi (GRIGIA).
Questo si fa per evitare miscugli di anticoagulanti diversi, le cui tracce possono rimanere nell’ago. Per questo per sicurezza nel mezzo tra due
con anticoagulante si fa la sierologica che ha la funzione di pulizia. Il numero di esami che si possono fare dipendono dalla quantità di sangue (il
volume delle provette è in base al numero di esami).
Quando viene usato per il prelievo venoso l'"ago a farfalla" (che andrebbe usato solo per prelievo a bambini o anziani) e come prima provetta
una con anticoagulante come quella per i test della coagulazione o per emocromo, deve essere utilizzata prima una provetta di scarto. Questa
deve essere utilizzata per riempire lo spazio vuoto del tubicino di raccordo e assicurare così il giusto mantenimento del rapporto
sangue/anticoagulante. In alternativa si può aspettare che il sangue fisiologicamente percorra tutto il tubicino, aiutandosi eventualmente con
l'aspirazione tramite una siringa sterile a perdere.
Dopo aver mescolato delicatamente 3-4 volte quelle con anticoagulante, posizionare le provette in un contenitore porta-provette in posizione
verticale con il tappo in alto. Non lasciare a lungo le provette nel provettario, ma inviarle appena possibile al Servizio di Patologia Clinica.

Fonti di errore nella fase del prelievo:


- Applicazione prolungata del laccio;
- Contaminazione da infusione venosa;
- Emolisi;
- Incompleto riempimento della provetta;
- Uso di provette con anticoagulanti e conservanti non idonei;
- Errata identificazione del paziente ed etichettatura delle provette;
- Mancata indicazione della data di nascita del paziente;
- Mancata indicazione di data e ora del prelievo;
- Ritardi nella consegna del campione biologico o nella conservazione del campione.

SANGUE

La costituzione cellulare normale del sangue:


- Eritrociti, da 4 a 5.1 milioni per ogni microlitro
- Globuli Bianchi, da 4.000 a 10.000 per ogni microlitro,
di cui
o Granulociti Neutrofili, 55-60 %
o Granulociti Eosinofili, 1-5 %
o Granulociti Basofili, 0.5-1 %
o Linfociti, 25-40 %
o Monociti, 1-5 %
Test genetici per mutazioni DNA
La costituzione proteica del plasma
- Albumina, 55-65 %
- α-globuline, 2-4 %
- β-globuline, 4-8 %
- γ-globuline, 12-16 %
Il sangue (4-6 litri) è un tessuto costituito da elementi e frammenti cellulari (globuli bianchi, globuli rossi, piastrine) sospesi in un liquido detto
plasma. Tutte queste cellule sono prodotte nel midollo osseo e costituiscono circa il 45% del sangue (il restante 55% è plasma). I principali
costituenti del plasma sono l’H2O (circa il 90%) e proteine, zuccheri e lipidi (10%). Il sangue deriva da una cellula staminale chiamata
emocitoblasto. Le cellule staminali sono cellule capostipiti, il cui destino ancora non è deciso è che hanno la capacità di dividersi senza sosta
nell'embrione e nel feto per garantire la crescita e dare origine a più di 200 cellule specializzate nell'adulto. Quando una cellula staminale si
divide si formano due cellule con destini differenti: una cellula rimane staminale e costituirà il serbatoio di cellule capostipiti e l'altra cellula
maturerà per specializzarsi in una funzione specifica in un processo che è detto differenziazione cellulare. L'emocitoblasto, cellula staminale
multipotente, darà origine a due linee cellulari da cui deriveranno poi tutte le cellule del sangue: linea linfoide per i linfociti; linea mieloide per
globuli rossi, monociti, piastrine, granulociti.
Le principali funzioni del sangue sono:
- Respiratoria, il trasporto di O2 dai polmoni ai tessuti periferici mediante l’Hb contenuta nei globuli rossi e di CO 2 dai tessuti periferici
ai polmoni attraverso il plasma;
- Nutritiva, assorbiti dalla mucosa intestinale gli elementi costitutivi, gli alimenti passano in circolo e sono trasportati nel plasma negli
organi di trasformazione ed immagazzinamento (es. fegato e cellule adipose);
- Depuratrice, i prodotti di rifiuto catabolico vengono convogliati nel plasma verso gli organi emuntori quali rene, polmoni, cute;
- Difesa, svolte dai leucociti e dalle plasmaproteine (anticorpi, complemento ecc...);
- Mantenimento dell’equilibrio idro-salino, mediante l’assunzione e l’eliminazione di numerose sostanze tra cui acqua e sali minerali
(Na+, K+, Ca++, Mg++, Cl-);
- Mantenimento termico, conserva l’omeostasi termica in tutte le aree del corpo;
- Regolazione del pH, contiene sostanze tampone che mantengono il pH del sangue intorno alla neutralità;
- Regolazione della pressione osmotica, grazie alla quantità e grandezza di componenti come proteine (albumina) e zuccheri (glucosio)
contenuti nel plasma;
- Regolazione della pressione arteriosa, grazie alla possibilità di modificazione del suo volume.

ESAME EMOCROMOCITOMETRICO (EMOCROMO)

Provette per le malattie ematologiche: Emocromo; Gruppo sanguigno; Emoglobina glicosilata; Ammonio (ammonemia), in ghiaccio perché
evapora, per malattia epatica; Test genetici (uso infettivologia quindi dal siero) per trisomie, ecc… mutazioni genetiche (DNA).
Le malattie del sangue (a parte i tumori) si chiamano anemie.
L’emocromo fornisce informazioni sul numero di cellule ematiche per μl, la concentrazione di emoglobina (Hb) e la formula leucocitaria. Dal
punto di vista metodologico in passato venivano usati in Laboratorio dei sistemi manuali per contare le cellule, oggi esistono i contatori
elettronici che vengono chiamati citometri a flusso. Questi permettono la misurazione rapida della luce deviata e della fluorescenza emessa da
cellule opportunamente illuminate. Le cellule sono sospese in un mezzo liquido e producono segnali quando attraversano un fascio di luce. La
luce diffusa e la fluorescenza emessa da ciascuna particella sono raccolti da specifici dispositivi che mediante analisi computerizzata è
visualizzata graficamente. Il primo momento dell’analisi è dato dal passaggio delle cellule in sospensione attraverso il raggio laser in fila. La
luce diffusa nella stessa direzione della luce incidente è collegata alla dimensione della cellula (Forward Scatter o FSC). Il sistema idraulico
dell’apparecchio produce un flusso laminare intorno alla sospensione cellulare (focusing idrodinamico) permettendo il passaggio delle particelle
ad una velocità costante, allineate lungo un asse, attraverso il punto di rilevazione (cella di flusso) in un volume fisso (determinazione del
numero di cellule per ml). Altre rivelazioni a 90° e 90° depolarizzanti permettono di evidenziare la granularità delle cellule nonché di separare i
neutrofili dagli eosinofili grazie alla proprietà tipica dei granuli di questi ultimi di depolarizzare la luce diffusa a 90°. Quindi il side scatter o
scatter laterale risulta essere utile per distinguere le cellule granulate da quelle non granulate. Quindi un’altra componente del cimometro è il
sistema di illuminazione che consiste di un fascio di luce che attraversa il materiale in sospensione e che produce segnali di rifrazione o di
diffusione della luce o in altri citometri anche di emissione di fluorescenza.

L’esame emocromocitometrico e citologico del sangue costituisce un’indagine essenziale nella diagnostica di moltissime condizioni morbose.
Mediante l'esame emocromocitometrico e quindi utilizzando la provetta per emocromo è possibile effettuare la determinazione dei gruppi
sanguigni. Questo è molto importante se il paziente deve essere sottoposto ad un intervento chirurgico, o in seguito a malattie croniche
(neoplasie, stati infiammatori) o traumi emorragici che fanno scendere il livello di Hb al di sotto di 7 g/l per cui si rende necessario effettuare una
o più trasfusioni. La procedura che nei laboratori di Patologia Clinica si effettua è data da un test di agglutinazione. In questo test si mette a
contatto su un vetrino due gocce di sangue del paziente e ad una si aggiunge siero immune contenente anti-A e all'altra goccia di sangue siero
immune anti-B. Se non si verifica alcuna reazione di agglutinazione il gruppo sanguigno del paziente è 0, se invece si ha l'agglutinazione con
l'anti-A è A, se si ha con l'anti-A e anti-B, il gruppo sanguigno è AB.

GRUPPI SANGUIGNI
Sulla superficie dei globuli rossi abbiamo degli antigeni
responsabili dei gruppi sanguigni A, B, AB e 0.
- Gruppo 0, completa assenza di antigeni A e B;
- Gruppo A, presenza di antigene A;
- Gruppo B, presenza di antigene B;
- Gruppo AB, presenza di antigeni A e B.
La base di questi antigeni è rappresentata dall’antigene H
(sintetizzato da un gene detto H) costituisce il gruppo 0. L’antigene
H ha come terminale antigenico una molecola di zucchero detto
fucosio. Il gene A attacca al fucosio l’N-acetil-glucosammina
mentre il gene B attacca al fucosio lo zucchero galattosio. Il gene
AB attacca entrambi (N-acetilgalattosamina e galattosio).
Il Fattore Rh è un altro antigene che può essere presente o meno.

Nelle trasfusioni di sangue le incompatibilità tra gruppi sanguigni, compreso il fattore Rh, possono provocare nei pazienti reazioni emolitiche e/o
la malattia emolitica del neonato (HDN). Una trasfusione di sangue può immunizzare l’individuo ricevente contro gli antigeni del donatore di cui
il ricevente ne è privo (alloimmunizzazione). Trasfusioni ripetute incrementano il rischio di alloimmunizzazione. La sicurezza della trasfusione
di sangue dipende dall’attenzione meticolosa nella fase preparatoria e durante la somministrazione delle sacche di sangue. La prevenzione di
semplici errori di identificazione del paziente e del campione della sacca nelle fasi di prelievo e di somministrazione eviterà l’insorgenza di
reazioni emolitiche molto serie. Il plasma del paziente è sottoposto a screening per la ricerca di anticorpi not-self che possono provocare una
riduzione significativa del tempo di sopravvivenza degli eritrociti trasfusi. Questo perché in condizioni normali i globuli rossi circolanti non sono
mai rivestiti da IgM o IgG. Per fare questo si esegue il test di Coombs diretto ed indiretto. Nel Test di Coombs diretto si prende del sangue da
emocromo del paziente e dopo centrifugazione e lavaggio si prende una goccia di sangue contenente eritrociti e si mette in fisiologica; dopo
alcuni lavaggi per rimuovere eventuali altre proteine non specifiche attaccate al globulo rosso, si aggiunge un antisiero anti-immunoglobuline
umane e si va a vedere al microscopio l’eventuale agglutinazione. Gli anticorpi capaci di dare agglutinazione sono detti completi e sono le IgM
le quali per le loro dimensioni sono in grado di neutralizzare le cariche negative presenti sulla superficie eritrocitaria, avendo così
l’agglutinazione. Se c’è agglutinazione il test è positivo e vuol dire che sulla membrana del globulo rosso del paziente sono presenti IgM
attaccati che mascherano le cariche negative della superficie eritrocitaria favorendo l’agglutinazione: le cariche negative normalmente presenti
fanno sì che i globuli rossi non si leghino fra di loro. Questo test è utilizzato per la diagnosi di malattie autoimmuni emolitiche, per MEN e per la
visualizzazione di reazioni trasfusionali. Nel test di Coombs indiretto il plasma del paziente viene saggiato con globuli rossi normali umani per
mettere in evidenza anticorpi anti-eritrocita liberi nel sangue del paziente. Dopo alcuni lavaggi si aggiunge un antisiero anti-immunoglobuline
umane e si va a vedere al microscopio l’eventuale agglutinazione. Questi anticorpi possono essere di tipo emolizzanti (IgG), perché agiscono
attivando il complemento, oppure agglutinanti (IgM). Viene anche valutata l’agglutinazione in funzione della T, distinguendo quindi anticorpi
“caldi” e “freddi”.
Il test di Coombs serve per rilevare la presenza di anticorpi fissati sulla superficie dei globuli rossi (diretto) o liberi nel plasma (indiretto). Il
principio su cui si basa è il fenomeno per cui i globuli rossi, pur essendo presenti nel sangue in quantità elevate, non vengono mai a contatto tra
loro perché sulla loro membrana sono presenti cariche negative (repulsione). Per far sì che i globuli rossi si agglutinino è necessario che tra due
globuli rossi si creino ponti in grado di vincere la repulsione delle cariche negative, questi ponti sono anticorpi (specialmente di classe IgM).
Il test di Coombs diretto permette di determinare la presenza di auto-anticorpi adesi alla superficie degli eritrociti. Il test viene eseguito
cimentando il sangue intero del paziente con il siero di Coombs (siero con anti-autoanticorpi). Nel caso in cui siano presenti auto-anticorpi adesi
alla membrana dei globuli rossi, gli anticorpi presenti nel siero di Coombs creerebbero dei legami a ponte responsabili dell’agglutinazione dei
globuli rossi e formazione di precipitato (test di Coombs diretto positivo). In caso in cui non fossero presenti, il campione non subirebbe alcuna
modifica (test di Coombs diretto negativo).
Il test di Coombs indiretto permette di determinare la presenza di anticorpi anti-eritrocitari liberi nel plasma. Il test viene eseguito cimentando il
siero del paziente (ricevente) con gli eritrociti (donatore) contro cui si vuole ricercare la presenza di anticorpi; in seguito si aggiunge il siero di
Coombs. Nel caso in cui siano presenti anticorpi anti-eritrocitari nel siero cimentato con i globuli rossi si verranno a formare complessi antigene-
anticorpo sulle membrane degli eritrociti che, legati a loro volta dagli anticorpi del siero di Coombs, determineranno agglutinazione (test di
Coombs indiretto positivo); in caso in cui non vi sia reazione tra gli anticorpi del siero e gli antigeni dei globuli rossi, non si verificherà alcun
cambiamento all’interno della provetta in cui questi sono cimentati (test di Coombs indiretto negativo).
Pazienti che devono ad esempio sottoporsi ad un intervento chirurgico potrebbero avere necessità di una trasfusione di sangue. La procedura
standard prevede: prelievo di sangue del paziente che i campioni di sangue, prelevati dai pazienti che necessitano di trasfusione siano sottoposti
ad uno screening per la ricerca di anticorpi di cui non è possibile sospettare l’esistenza. Uno screening di questo genere viene eseguito anche in
gravidanza per rivelare l’eventuale presenza di anticorpi che potrebbero dare la malattia emolitica del neonato.
- Prelievo di sangue del paziente per determinare gruppo sanguigno e fattore Rh;
- Viene selezionato un campione di sangue dello stesso gruppo e fattore Rh del paziente da transfondere;
- In provetta si uniscono gli eritrociti della sacca di sangue da trasfondere (donatore) con il plasma del ricevente (prove crociate di
compatibilità o crossmatching);
- Si aggiunge siero anti-immunoglobuline umane e si va a vedere se c’è agglutinazione;
- Se c’è il test di Coombs indiretto è positivo e si rilevano anticorpi di tipo IgM, si esclude quel donatore. Se non c’è agglutinazione il
sangue del ricevente e gli eritrociti del donatore vengono pre-incubati a 37°C per 15-30 minuti per dare la possibilità ad altri anticorpi
eventualmente presenti nel sangue del ricevente di attaccarsi ai globuli rossi del donatore. Poi si procede ad un lavaggio e all’aggiunta
nuovamente di anticorpi anti-immunoglobuline umane. Se nel sangue del ricevente è presente un anticorpo di tipo IgG (le IgM si
staccano dal globulo rosso a 37°C) che a queste T viene aiutato meglio a legarsi se presente sulla membrana del globulo rosso, allora si
potrà vedere l’agglutinazione che porterà anche in questo caso all’esclusione di questa sacca di sangue.
- Se il test viene negativo in entrambi i casi si procederà all’eventuale trasfusione con questa sacca di sangue.
Può accadere che non vi sia tempo sufficiente per svolgere un completo test pre-trasfusionale. In tal caso si potrebbe procedere con una
somministrazione di sangue 0- per dare il tempo al Laboratorio di Patologia Clinica di determinare il gruppo ematico del paziente. Se invece c’è
almeno un quarto d’ora di tempo si procede all’effettuazione della determinazione del gruppo sanguigno del paziente.
In caso di errore trasfusionale, quindi di incompatibilità AB0, si avrà l’attivazione del complemento dovuto alla reazione antigene estraneo
presente sull’eritrocita e anticorpo di tipo IgM prodotto contro l’antigene presente sulla superficie dell’eritrocita. Si avrà senso di freddo, tremiti,
brividi, dispnea, ipotensione, emoglobinuria, insufficienza renale e questi sintomi potranno manifestarsi anche pochi minuti dopo la trasfusione
errata. Si può attivare anche una massiccia coagulazione intravasale che è un segno pessimo per la sopravvivenza del paziente. Può esserci anche
una reazione più tradiva in seguito a trasfusioni multiple o durante una gravidanza dovute ad anticorpi di tipo IgG con distruzione anche qui dei
globuli rossi. Il paziente potrà sviluppare anemia ed ittero.

EMOGLOBINA (Hb)
L’emoglobina adempie alla funzione di trasporto di O 2 ai tessuti e CO2 dai tessuti ai polmoni. È formato da 4 catene polipeptidiche (2α e 2β). Il
97% dell’Hb è formata da questa, poi abbiamo in tracce l’HbA2 (α2-δ2) e HBF (α2-γ2). La sintesi dell’Hb ha luogo nei mitocondri dei globuli
rossi in fase di sviluppo. Il principale fattore di controllo della sintesi di Hb è la conversione di glicina e acido succinico in acido δ-
aminolevulinico (ALA) in presenza di un enzima detto ALA-sintetasi. Il coenzima implicato in questa reazione è la vitamina B 6 che è inibita dal
gruppo eme e stimolata dall’eritropoietina. Dalla condensazione di due molecole di δ-ALA ha origine un anello pirrolico (porfobilinogeno). Per
condensazione nell’Hb di 4 di questi anelli si hanno le protoporfirine che, con l’unione del Fe ++ (ferroso) formano infine l’eme.
La determinazione dell’Hb (emoglobina) è basato sulla determinazione spettrofotometrica a 540 nm dell’assorbanza dell’emolisato di un volume
misurato di campione. È una proteina presente nei Globuli Rossi, deputata al trasporto di O 2 nel sangue. È costituita da una parte proteica, l’eme,
che contiene al centro un atomo di Fe.
Valori normalità:
- Donna 12.5-15.5 gr/dl
- Uomo 13.5-16.5 gr/dl
In caso di abbassamento dei valori si hanno anemie. Sotto i 7 gr/dl si trasfonde.
Sintesi Hb nel GR parte da un aa con la vitamina B 6. Es. anemia da mancanza dell’assorbimento di vitamina B 6; anche l’acido folico è
fondamentale. Il gruppo EME è un tetramero con al centro il Fe (malattie da carenza di ferro per mancanza di ferro).
Hb = 2α e 2β = α2β2 due molecole proteiche che trasportano ossigeno.
È l’unico parametro che scende in tutte le anemie. Ad es. nell’α e β talassemia c’è un aumento della produzione di globuli rossi perché l’Hb ha
difetti nelle sue catene e lega meno l’O2; la produzione aumenta per compenso ma i globuli rossi sono più piccoli (microcitemia).

EMATOCRITO (HCT, Ht)


L’ematocrito rappresenta il numero degli eritrociti presenti in un determinato volume di sangue, viene espresso in percentuale e viene calcolato
moltiplicando il numero dei globuli rossi per il volume corpuscolare medio degli stessi. In particolare esiste il micro-ematocrito che consiste in
prelievo su neonati e passaggio della goccia di sangue in un micro-capillare di vetro o plastica, invio in laboratorio, centrifugazione ad alta
velocità in apposite centrifughe e successiva misurazione mediante delle scale graduate.
Valori normali: non deve superare il 50%
È la percentuale di globuli rossi nel volume di sangue (ad es. l’EPO fa aumentare e quindi rende il sangue più vischioso e denso con rischio di
trombi).

VOLUME CORPUSCOLARE MEDIO (MCV)


Il volume corpuscolare medio del Globulo Rosso viene calcolata attraverso la luce scatterata dei globuli rossi e serve per vedere se i globuli sono
normocitemici, macrocitemici o microcitemici.
Valori normali:
- Uomo 80-98 fl (femtolitri)
- Donna 81-99 fl

COEFFICIENTE DI VARIAZIONE PERCENTUALE (RDW)


Esiste anche il coefficiente di variazione percentuale (o indice di anisocitosi) che aiuta ad esprimere l’eterogeneità volumetrica dei Globuli
Rossi.

EMOGLOBINA CORPUSCOLARE MEDIA (MCH)


Si ottiene dal rapporto tra il valore della concentrazione di Hb ed il numero di globuli rossi in mm³. Valori al di sotto del normale indicano
ipocromia, al di sopra indicano ipercromia dei globuli rossi.
Valori normali: 26-32 pg (picogrammi)

CONCENTRAZIONE EMOGLOBINICA CORPUSCOLARE MEDIA (MCHC)


Si ottiene dividendo il valore di Hb per l’ematocrito. Valori normali: 31-36%

RETICOLOCITI (RET)
È il conteggio dei reticolociti (RET). I reticolociti sono globuli del fegato e tendono a rompersi e aumenta la produzione), anemia
rossi giovani (è lo stadio precedente al globulo rosso maturo) che sferocitaria.
contengono residui di RNA dai precursori nucleati da cui derivano.
I ribosomi presenti reagiscono con alcuni coloranti come il blu di
metilene per formare dei precipitati che appaiono al microscopio
ottico a trasmissione come granuli o filamenti. Normalmente
nell’adulto la conta è 0.5- 2 % fra i globuli rossi. Nel neonato può
arrivare fino a 6%. L’aumento dei reticolociti è detto reticolocitosi
e vuol dire che il midollo ha incrementato la produzione di globuli
rossi per compensare un loro deficit (ad es. in caso di emolisi da
errore trasfusionale aumentano perché i globuli rossi stanno
morendo e il midollo per compensare ne produce altri). In presenza
di Hb e reticolociti diminuiti si ha una produzione difettosa
midollare di globuli rossi oppure una diminuzione
dell’eritropoietina (ormone prodotto dalle cellule iuxtaglomerulari
del rene che favorisce la produzione di Globuli Rossi e che
diminuisce ad es. nell’insufficienza renale cronica).
Es.: emolisi, emorragia massiva, anemia falciforme (i globuli rossi
a falce non riescono a passare dai capillari sinusoidali della milza e I reticolociti sono globuli rossi immaturi (presenza di colore blu
nel citoplasma che indica residui di RNA messaggero)
PIASTRINE (PLT)

Il conteggio delle piastrine (PLT) è un parametro fondamentale per l’emostasi. Le piastrine sono elementi circolanti nel sangue (non cellule) e
provengono dalla frammentazione di particolari cellule giganti: i megacariociti che sono a loro volta prodotti e presenti nel midollo osseo. Le
piastrine sono frammenti cellulari privi di nucleo, con una zona addensata centrale detta cromomero ed una zona meno densa detta ialomero; si
formano nel midollo osseo ad opera della parziale frammentazione del megacariocito e dal midollo osseo vengono immesse nel sangue
circolante. Nel sangue una parte viene subito intrappolata dalla milza e distrutta mentre la maggior parte invece permane in circolo per 7-10
giorni per essere poi anch’essa distrutta e sostituita con nuovi elementi provenienti dal midollo osseo. La funzione delle piastrine è connessa alla
coagulazione del sangue. Se accade una lesione di un vaso sanguigno, le piastrine vi accorrono formando un coagulo che blocca la lesione; poi si
disgregano rilasciando particolari sostanze importanti ancora nel processo coagulativo.
Valori normali: 150.000-450.000/mm3 (o per millilitro).
L’aumento del numero delle piastrine circolanti è detto piastrinosi. Essa si verifica in occasione di una tumultuosa proliferazione midollare di
megacariociti in caso di tumori, in seguito ad interventi chirurgici, in corso di malattie acute virali o in corso di malattie croniche come le
malattie reumatiche. La piastrinosi può condurre alla formazione di trombi intravasali con blocco del vaso arterioso e possibile infarto. In
commercio tra i farmaci impiegati contro l’aggregazione piastrinica ricordiamo la cardio-aspirina (aspirina a basso dosaggio).
Una diminuzione delle piastrine (< 40.000/mm³) è detta piastrinopenia. Essa si può instaurare per insufficiente produzione midollare come nelle
anemie, o per aumentata distruzione da parte della milza, o come effetto collaterale dell’uso di alcuni farmaci. Conseguenza della piastrinopenia
è il difettoso processo della coagulazione del sangue con comparsa delle petecchie emorragiche sulla cute o sulle mucose o la comparsa di
emorragie.
Anche alterazioni della megacariopesi (megacariociti) o la presenza di un tumore infiltrante nel midollo possono causare una riduzione del pool
circolante di piastrine, evento che può avvenire anche in corso di terapie chemioterapiche o radioterapiche.

GLOBULI BIANCHI (WBC)


Valori normali: 4.000-10.000/mm3.
La leucopenia è un numero inferiore a 4.000 ed avviene in caso di eritroblastoma, un tumore della linea eritroide dove aumentano i globuli rossi
togliendo spazio alla linea mieloide; terapia cortisonica, HIV (abbassa i linfociti t helper); chemioterapia; radioterapia; prima di trapianti.
La leucocitosi è un numero superiore a 10.000 ed avviene in caso di tumori, infezioni ed infiammazioni.

FORMULA LEUCOCITARIA
La conta leucocitaria è utile nel monitoraggio di pazienti con infezioni acute e croniche, per valutare la risposta terapeutica dopo chemioterapia,
radioterapia o antibiotici. Può aumentare anche dopo un trauma, in corso di emorragie e nel periodo post-partum.

Nell’ordine: Granulociti Neutrofili, Linfociti, Monocita, Granulocita Basofilo, Granulocita Eosinofilo

Si basa sul riconoscimento delle sottoclassi leucocitarie: su 100 cellule in mm 3 si contano neutrofili, eosunofili, basofili, monociti e linfociti. Nei
moderni citometri a flusso il riconoscimento delle sottoclassi leucocitarie (neutrofili, linfociti, monociti, basofili ed eosinofili) si fonda
sull’analisi del volume corpuscolare e sul contenuto in mieloperossidasi dei leucociti. Infatti in base al criterio delle dimensioni le cellule sono
raggruppate in grandi cellule (grandi linfociti, monociti, neutrofili ed eosinofili) e piccole cellule (linfociti) mentre il criterio citochimico in
perossidasi – (linfo e mono) e + ( neutrofili e basofili).
Su 100 cellule si contano i GB (eosinofili, neutrofili, …): in situazione di normalità si hanno più neutrofili; in caso di mononucleosi (virus) si
hanno più linfociti (linfocitosi); in caso di infezioni batteriche si hanno più monociti e macrofagi.
Valori normali della formula leucocitaria: neutrofili 35-70%, linfociti 20-53%, monociti 1-8%, eosinofili 1-8%, basofili 0-2%.

GLOBULI ROSSI (RBC)


Valori normali: Donna, 3.5-6.5 milioni; Uomo, 4.5-7.5 milioni. Se diminuiscono si hanno anemie.

VES
La VES (Velocità di eritrosedimentazione) è la velocità di precipitazione degli eritrociti in una colonnina di plastica suddivisa in tacche da 1 mm
in cui viene posta una piccola quantità di sangue non coagulato. Dopo 1 ora si vede di quanti mm è sceso nella colonnina il sangue. Si ha un
aumento della velocità in caso di infezioni, infiammazioni o tumori. Infatti in questi casi vi è un aumento nel sangue della concentrazione di
alcune proteine come fibrinogeno e immunoglobuline. Queste proteine provocano nel sangue la formazione di rouleax, un fenomeno di
impilamento o agglutinazione delle cellule, che di conseguenza impilate come delle monete precipitano più velocemente.
Le cariche negative sui globuli rossi scompaiono e si formano gli aggregati. Maggiore è l’infiammazione e minori sono le cariche negative.
Valore: 15%

PCR
La Proteina C reattiva è una pentraxina ed è prodotta durante un processo infettivo o infiammatorio della fase acuta. La sola sede di sintesi è il
fegato. Il suo valore si innalza entro 6 ore dall’insorgenza di un evento acuto accompagnato da febbre o eventi traumatici. Risulta meno efficace
nelle infezioni o infiammazioni croniche dove risulta più attendibile la VES. Hanno dimostrato che un incremento della Proteina C reattiva abbia
un valore predittivo per patologie cardiovascolari.
Valori normalità: < 4-5 mg/l

ANEMIE

Nella Talassemia (anemia mediterranea) i globuli rossi aumentano e l’Hb diminuisce per difetto genetico, difetta nella sintesi di una catena (α o
β). Quindi l’02 non si lega bene all’Hb (legame labile) e l’organismo reagisce aumentando la produzione di globuli rossi (per compensare). Il
globulo rosso però è più piccolo perché manca la catena α o β (microcitemia). Perciò l’unico parametro affidabile che scende in tutte le anemie è
l’Hb. Nell’Anemia Falciforme i globuli rossi sono a falce e ha problemi di trasporto a passare e muore e quindi l’organismo ne produce altri
(causata da un cambiamento di un solo AA). Nell’Anemia Sferocitaria i globuli rossi sono grossi e non riescono a passare fra i sinusoidi ecc …
finché non si rompono. In risposta l’organismo ne produce altri. L’anemia emolitica autoimmune l’aumentata distruzione dei globuli rossi causa
un aumento dei reticolociti. L’anemia sideropenica è un’anemia da carenza di ferro. Difficoltà ad assorbire il ferro. Alimentazione carne rossa
con limone (cotta al sangue) senza mangiare pane, pasta perché gli amidi riducono l’assorbimento. Legumi e frutta secca contengono ferro.
Nell’Anemia Ipocromica si ha meno emoglobina.
Segni clinici dell’anemia: pallore, perdita di capelli, unghie fragili, bocca screpolata, cefalea, difficoltà di concentrazione, astenia.
Donne < 12; Uomini < 13; se < 11 non può andare in gravidanza; < 7 uomini e donne bisogna trasfondere.
Per Anemia si intende una riduzione della quantità totale di emoglobina nel sangue e secondariamente una patologia dei Globuli Rossi. Il
numero di Globuli Rossi non deve essere utilizzato da solo perché esistono delle anemie (talassemie) con numero normale o aumentato.
L’anemia è una malattia diffusa in tutto il mondo, che riguarda essenzialmente i bambini e le donne ma può colpire anche il maschio adulto. Le
cause sono diverse: genetiche, oncologiche, alimentari, dovute a particolari periodi e condizioni ( gravidanza, mestruazioni abbondanti, ulcere
gastriche, emorroidi), ma si sviluppano sempre su due linee generali, incidono cioè su una diminuzione della produzione di globuli rossi o di
emoglobina, o sull’aumento della distruzione (o morte prematura) dei globuli rossi. È fondamentale individuare le cause specifiche, ed
altrettanto saperne riconoscere prontamente i sintomi, per poter intraprendere una terapia quanto prima.
Il valore di Hb sarà nei bambini < 11 g/dl, nell’uomo < 13 g/dl, nelle donne < 12 g/dl (in gravidanza < 11 g/dl). In presenza di un’anemia i
pazienti appaiono pallidi (pallore da poca ossigenazione), presentano debolezza (da carenza di ossigeno nei muscoli), malessere generale, facile
affaticamento, difficoltà di concentrazione. La diminuzione del contenuto di O 2 nel sangue provoca dispnea anche per piccoli sforzi. Le unghie
possono diventare fragili. In caso di emorragia acuta si può avere oliguria, anuria, tachicardia, infarto del miocardio, cefalea. Si può avere perdita
di capelli. Si manifesta splenomegalia.
Il sintomo tipico caratterizzante dell’anemia è il pallore, sia della
cute che delle mucose perché non vengono adeguatamente
ossigenate. La carenza ossigenativa però può colpire anche i
muscoli tutti, ed è per questo che l’altro segno che deve insospettire
è una stanchezza generalizzata, debolezza anche nel compiere
sforzi minimi. Spesso si ha anche mal di testa, tachicardia, respiro
accelerato, vertigini e stato confusionale. Alcune forme di anemia
presentano anche milza ingrossata.
Le anemie possono essere dovute a diminuita produzione di globuli
rossi normali:
- per distruzione o alterazione funzionale delle cellule
staminali con conseguente insufficiente produzione di
Globuli Rossi;
- per difettosa sintesi dei componenti dell’emoglobina
(eme, globina);
- per diminuzione della quantità di ferro nel sangue o di
vitamine (Complesso B, Vitamina C) utili alla
formazione dei Globuli Rossi o dell’emoglobina.
Le anemie possono essere dovute anche ad una riduzione del tempo
di sopravvivenza dei globuli rossi:
- da perdita per emorragie acute o croniche;
- per aumentata distruzione ad opera di patologie
emolitiche.
Sintomi:
- Stanchezza
- Affaticamento rapido
- Pallore
- Palpitazioni (tachicardia, cardiopalmo)
- Difficoltà respiratorie (dispnea, fiato corto)
- Capelli che cadono
- Difficoltà di concentrazione
- Splenomegalia
- Dolore alla milza
- Unghie che si spezzano e si sfaldano o si presentano
piatte (o peggio concave)
Alcune persone affette da anemia possono anche essere
asintomatiche o avere dei sintomi talmente lievi da non farci troppo
caso. L’intensità dei disturbi non dipende tanto dai valori di
emoglobina bassa ma dalla rapidità con cui questi valori scendono,
ovvero dal tempo che l’organismo ha di adattarsi ai nuovi valori di
emoglobina. È per questo che l’emocromo è una delle analisi del
sangue che andrebbero sempre fatte, di routine, almeno una volta
all’anno, anche se non si hanno malesseri particolari. Le cause
dell’anemia come dicevamo, sono molto numerose e diverse tra
loro. Alcune molto gravi, altre facilmente risolvibili (carenza di
ferro dovuta all’alimentazione errata). È dunque importante
prestare attenzione prima che l’anemia progredisca.

Per quanto riguarda il gruppo delle anemie microcitiche l’anemia sideropenia, la sideroblastica e l’anemia da malattia cronica riconoscono un
difetto nella sintesi dell’eme, mentre la talassemia un difetto nella sintesi dell’Hb.

ANEMIA SIDEROPENICA (microcitica - ipocromica)


L’anemia da carenza di ferro è la causa più comune di anemia. È dovuta alla capacità limitata dell’organismo di assorbire ferro o alla frequente
perdita di ferro per emorragia. Il ferro esiste in forma ferrica (Fe 3+) non solubile e ferrosa (Fe2+) che è più facilmente solubile e viene assorbita
dall’intestino. Il ferro libero in generale è tossico e nel nostro organismo è legato a varie proteine che provvedono al suo trasporto o accumulo.
Il ferro non compreso nel gruppo eme deriva dall’assorbimento nel duodeno dei cereali, mentre il ferro-eme deriva dall’assorbimento dell’Hb
presente nella carne rossa. In generale il ferro-eme viene assorbito meglio del ferro non eme. L’acidità gastrica o l’aggiunta nella dieta di acido
citrico favorisce il mantenimento del Fe nello stato Fe 2+ e della sua maggiore solubilità nell’intestino.
L’assorbimento del ferro avviene principalmente nel duodeno. Le cellule dell’epitelio duodenale deputate all’assorbimento del Ferro originano
nelle cripte intestinali e migrano verso la sommità del villo nel corso della differenziazione.
L’assorbimento del Ferro intestinale (Fe2+) è regolato da tre meccanismi indipendenti:
1) Regolazione alimentare, il primo meccanismo regolatore è dato dall’assunzione recente di ferro alimentare. Le cellule della cripta
duodenale, se hanno assorbito ferro recentemente, diventano refrattarie all’assunzione di ferro per alcuni giorni. L’aumento del ferro
con l’alimentazione non determina un aumento anche nell’assorbimento (c’è un limite).
2) Regolazione delle riserve, il secondo meccanismo da cui dipende l’assorbimento del Ferro è la capacità della cellula di percepire le
riserve di Ferro di cui dispone.
3) Regolazione eritroide, un altro sensore è quello che dà informazioni sull’eritropoiesi che avviene nel midollo (regolatore eritroide).

Le cellule delle cripte duodenali percepiscono la concentrazione


del Ferro dell’individuo attraverso il legame della transferrina
(proteina trasportatrice del Fe circolante) ad un complesso
recettoriale presente sulla superficie della cellula della cripta rivolta
verso i capillari sanguiferi (HFE-B2M-TFR1). La proteina HFE, se
mutata, provoca un’altra forma di anemia chiamata emocromatosi
ereditaria. Un calo della concentrazione del Fe all’interno della
cellula della cripta determina una maggiore sintesi intracellulare
della proteina DMT1 (Divalent Metal Transporter 1) che favorisce
l’entrata di Ferro nella cellula. Il ferro alimentare è ridotto dallo
stato ferrico allo stato ferroso ad opera della ferro-reduttasi
presente sull’orletto a spazzola delle cellule intestinali del duodeno.
Il ruolo dell’DMT1 è di favorire l’entrata del ferroso nella cellula e,
una volta entrata, normalmente una frazione di esso entrata viene
rapidamente trasferita alla transferrina plasmatica (e poi inglobato
nei globuli rossi). Per far questo a livello basale ci sono altre
proteine come la ferroportina 1 e l’efestina che trasferiscono il
ferro dall’interno alla transferrina. Il ferro circolante è chiamato
sideremia. La maggior parte però del ferro che è entrato in cellula
viene depositato sotto forma di ferritina di cui una parte sarà
trasferita più lentamente alla transferrina ed una parte andrà
perduta con la desquamazione delle stesse cellule intestinali.
Una dieta con carni rosse poco cotte assunte con acido citrico e
lontano dagli amidi aumenta la biodisponibilità di ferro perché
riduce il Fe3+ a Fe2+. L’acido ascorbico presente nella dieta è
importante per l’assorbimento del ferro in quanto il ferro assunto
con la dieta in forma ferrica è ridotto dall’acido ascorbico alla
forma ferrosa che può essere assorbito dall’intestino tenue.
L’assenza quindi di Vitamina C nella dieta diminuisce in modo
marcato il quantitativo di ferro assorbito.
Il Fe è tossico e non può circolare nel sangue. Viene assorbito nel
duodeno. Da Fe3+ a Fe2+. L’assorbimento del ferro viene facilitato
dal limone (acido citrico).
- La transferrina è una proteina trasportatrice di Fe circolante che viene riconosciuta grazie ad un complesso recettoriale presente sulla
superficie della cellula della cripta del duodeno.
- Il Fe alimentare viene ridotto allo stato ferroso dalla ferro-reduttasi presente sull’orletto a spazzola delle cellule duodenali.
- Una frazione del ferro entrato viene rapidamente trasferita alla transferrina plasmatica.
- Il ferro circolante è detto sideremia.
- La maggior parte del ferro che è entrato in cellula viene depositato sotto forma di ferritina di cui: una parte sarà trasferita alla
transferrina ed una parte andrà perduta con la desquamazione delle stesse cellule intestinali.
I depositi di ferro che esistono sono in due forme: solubile la Ferritina e insolubile l’Emosiderina. La Ferritina rappresenta la principale forma di
deposito del ferro ed è presente nel citoplasma di tutte le cellule. Valori normali sono compresi tra 15-120 ng/ml nelle donne e 20-200 ng/ml
negli uomini. Valori diminuiti si osservano nell’anemia da carenza di ferro, durante l’aumento di richiesta di ferro come in gravidanza e nelle
emorragie croniche. L’emosiderina è il prodotto di degradazione della ferritina. Il fegato è un importante organo per il deposito di ferro.
Circa l’85% del ferro assorbito è trasportato nel sangue da una proteina trasportatrice (Transferrina) e poi incorporato nei globuli rossi. Valori
diminuiti si riscontrano in caso di ridotto apporto di ferro con alimentazione, ridotto assorbimento di ferro da parte dell’intestino tenue,
mestruazioni abbondanti, gravidanza, allattamento, perdite a causa di emorragie croniche, infezioni croniche intestinali, e neoplasie intestinali,
aumentata richiesta nel caso dei bambini nei primi anni di crescita.
Negli adulti una carenza di ferro è di solito il risultato di una perdita cronica di sangue. Negli uomini e nelle donne post-menopausa una carenza
di ferro non spiegabile dovrebbe avviare ad un’indagine del tratto gastrointestinale alla ricerca di eventuali neoplasie o infiammazioni croniche
(ulcere) poiché questa parte dell’intestino è la sede più comune di perdite croniche di sangue.
Un’anemia da carenza di ferro al microscopio ottico viene vista come microcitica, ipocromica, con un aumento nelle dimensioni e nella diversità
delle forme (anisopoichilocitosi). Si possono riscontrare dei globuli rossi molto sottili ed allungati detti “cellule a forma di matita”. Non vi è
aumento dei reticolociti.

I valori di normalità (TAPPO GIALLO):


- Sideremia (ferro circolante) [parametro poco affidabile per la diagnosi]
o Uomo 80-110 μg/ml
o Donna 40-70 μg/ml
- Transferrina: 169-309 mg/dl (proteina trasportatrice del ferro che viene poi incorporata nei globuli rossi, quindi aumenta in caso di
anemia sideropenica)
- Ferritina (depositi di ferro, soprattutto a livello epatico) [parametro più importante per la diagnosi]
o Uomo 20-200 ng/ml
o Donna 10-120 ng/ml
Se < 10 significa anemia sideropenica e bisogna assumere ferro con pillole o infusioni.
È alta in caso di infiammazioni croniche e tumori

FERRITINA BASSA (IPOFERRITINEMIA)


L’ipoferritinemia è una condizione che denota un esaurimento dei depositi di ferro. La ferritina, infatti, è una proteina globulare che ha il
compito di immagazzinare il ferro e di rilasciarlo in caso di necessità.
CAUSE – L’ipoferritinemia può essere causata da vari fattori, tra cui:
- Malassorbimento, provocato da patologie dell’apparato gastrointestinale (es. Morbo di Crohn), celiachia, alcolismo, ecc… e si
manifesta generalmente con diarrea cronica;
- Deficit nutrizionali, provocati da malnutrizione, diete troppo restrittive o una dieta vegetariana poco bilanciata;
- Emorragie, possono essere fisiologiche (es. ciclo mestruale abbondante) o dovute a traumi, ad emorroidi sanguinanti, reflusso
gastroesofageo (provoca lesioni alle pareti gastriche) ulcere, perdite occulte di sangue dovute a tumori sia di natura benigna che
maligna del colon, anemia falciforme, angiodisplasia del colon, anemia sideropenica, ecc...
- Gravidanza, i depositi di ferro si riducono per lo sviluppo del feto e quindi per il soddisfacimento delle sue esigenze di crescita;
- Interventi chirurgici di bypass gastrici, la riduzione dell’intestino determina anche un ridimensionamento della capacità di
assorbimento dei nutrienti e di conseguenza anche del ferro;
- Alcuni alimenti, thè e caffè limitano l’assorbimento del ferro, secondo alcune ricerche, infatti, il caffè diminuirebbe l’assorbimento del
ferro del 39% e il te del 64% e la causa sarebbe da addebitare alla presenza di tannino e di altre sostanze che si legano al ferro e lo
rendono meno assimilabile;
- Alcuni minerali (zinco e calcio) sono antagonisti del ferro e perciò ne riducono l’assorbimento.
I valori normali della ferritina sono di 20-120 nanogrammi/mL per le donne e di 20-200 nanogrammi/mL per gli uomini. Se c’è una carenza di
ferro, la ferritina sierica sarà quasi sicuramente inferiore a 20 microgrammi su litro.
Come per la ferritina alta, per la diagnosi dell’ipoferritinemia basta effettuare una serie di esami, quali:
- Analisi del sangue
- Emocromo
- Indici infiammatori (Ves, Proteina C-reattiva, quadro lipidico, ecc…)
- Sideremia e Saturazione della transferrina nel sangue
- Ricerca del sangue occulto nelle feci.
TERAPIA – Se la ferritina bassa non ha una natura patologica non richiede una terapia specifica ma è sufficiente rivedere la propria
alimentazione. Il medico, infatti, potrà consigliare di assumere alimenti ricchi di ferro.
DIETA – Per la carenza di ferro la dieta gioca un ruolo assolutamente centrale. I cibi più ricchi di questo prezioso minerale, che è coinvolto in
numerose reazioni metaboliche e partecipa all’ossigenazione del sangue e dei globuli rossi, sono: Fegato bovino, Fagiano, Lepre, Vongole, Rana,
Ostriche, Cozze, Cuore di bovino, Spigola, Cavallo, Cacao amaro, Fagioli secchi, Lenticchie, Ceci secchi, Cioccolato fondente, Prugne secche,
Arachidi tostati, Nocciole, Fichi secchi, Mandorle secche (sgusciate), Spinaci.
L’assorbimento intestinale del ferro è maggiore con i cibi di origine animale, inoltre la vitamina C, l’acido citrico, ma anche lo zucchero e gli
aminoacidi ne aumentano la biodisponibilità (la percentuale effettiva di ferro che il nostro organismo riesce ad assorbire ed utilizzare). Il
fabbisogno giornaliero di ferro è di 18 mg per la donna e 14 mg per l’uomo. Durante la gravidanza, che riduce le scorte di questo minerale, il
fabbisogno è maggiore ed è di 30 mg.

FERRITINA ALTA (IPERFERRITINEMIA)


L’iperferritinemia è una patologia correlata al sovraccarico di ferro nel sangue. La ferritina è la proteina deputata all’immagazzinamento del
ferro necessario al nostro organismo ed è contenuta prevalentemente nelle cellule e in piccole quantità anche nel sangue. La ferritina alta viene
spesso associata a stati infiammatori acuti e cronici o dismetabolici.
CAUSE – Le cause di ferritina alta nel sangue possono essere diverse, quali:
- Presenza di uno stato infiammatorio (infezioni, malattie infiammatorie acute e croniche, neoplasie), in questi casi la ferritina nei tessuti
(e nel sangue) aumenta;
- Sovraccarico di ferro (attraverso la dieta e gli integratori o farmaci specifici), se aumenta il ferro, anche la produzione di ferritina
aumenta, e l’incremento è spesso preceduto dall’aumento della sideremia;
- Trasfusioni di sangue;
- Necrosi di porzioni estese di tessuto (e conseguente liberazione nel sangue della ferritina contenuta nelle cellule), si verifica nelle
epatiti acute e croniche poiché nelle cellule del fegato, che è l’organo di deposito del ferro, le concentrazioni di ferritina sono
particolarmente elevate;
- Emocromatosi ereditaria, una malattia genetica che determina un assorbimento anomalo del ferro, in questi casi la ferritina alta è
accompagnata allo sviluppo di una cataratta precoce;
- Leucemia;
- Disturbi metabolici, la ferritina alta può essere correlata ad alterazioni del metabolismo come iperuricemia, ipertensione arteriosa,
obesità, ipertrigliceridemia, diabete e ipercolesterolemia.
SINTOMI – La ferritina alta non comporta particolari sintomi, tuttavia è riscontrabile attraverso delle analisi del sangue con dosaggio della
ferritina, quali:
- Sideremia e Saturazione della transferrina nel sangue, valori elevati suggeriscono l’esistenza di un sovraccarico di ferro;
- Emocromo e reticolociti, anche in questo caso valori elevati possono far pensare ad un sovraccarico di ferro associato ad alcune forme
di anemia;
- Indici infiammatori (Ratest, Waaler Rose, mucoproteinemia, TAS), se i valori sono elevati l’iperferritinemia potrebbe essere causata da
infiammazioni acute e croniche;
- Transaminasi, se i valori sono alterati possono essere la spia di una sofferenza epatica dovuta al sovraccarico di ferro o dell’esistenza di
un epatite virale;
- Analisi delle mutazioni del gene HFE, la mutazione del gene HFE contenuto nel cromosoma 6 è la causa dell’emocromatosi ereditaria;
- Colesterolo, trigliceridi, glicemia uricemia, possono indirizzare verso una diagnosi di sovraccarico di ferro associato a stati
dismetabolici;
- Biopsia epatica, è necessaria per capire se il fegato è danneggiato e per determinare l’entità del sovraccarico di ferro nei casi dubbi.
TERAPIA – Prevede prelievi periodici di sangue (350-400 ml di sangue) con lo scopo di eliminare i globuli rossi (ricchi di ferro) stimolando
l’organismo a produrne di nuovi sani. Inoltre, viene prescritta sia una dieta a bassa contenuto di ferro, che l’assunzione di chelanti (principi attivi
che trasformano il ferro in un complesso che viene filtrato dai reni), che facilitano l’eliminazione del ferro attraverso le urine.
L’iperferritinemia, se imputabile ad un sovraccarico di ferro, può comportare conseguenze anche gravi. Il ferro, infatti, quando in eccesso, si
deposita in vari organi (fegato, polmoni, midollo osseo, cuore, pelle, e ghiandole endocrine) danneggiando le cellule dei tessuti, causando
diverse patologie, che incidono negativamente sulle aspettative di vita del paziente, quali: cardiopatie, cirrosi, diabete, fibrosi, carcinoma epatico,
impotenza, artropatie delle articolazioni, ecc...

ANEMIA MEGALOBLASTICA (ipercromica – macrocitica)


Da carenza di folati e vitamina B 12, determina un’alterata sintesi di DNA. I reticolociti non riescono a raggiungere la maturazione, aumenta
l’emocataresi e il soggetto va incontro ad anemia.

I MARCATORI BIOCHIMICI DI LESIONE MIOCARDICA


Perimisio: tessuto connettivo lasso che riempie gli spazi tra i fascicoli. Epimisio: tessuto connettivo denso. Endomisio: separa le singole fibre
muscolari, in continuità con il perimisio.

Le fibre muscolari striate sono composte da sincizi di cellule


plurinucleate di forma cilindrica molto allungata, percorsi
longitudinalmente da fasci di elementi contrattili di citoscheletro
specializzato a formare le miofibrille. Sono dette striate perché,
dopo colorazione, mostrano una regolare alternanza di bande
trasversali chiare e scure. Ciascuna miofibrilla risulta formata da
una regolare successione di segmenti eguali detti sarcomeri. La
fibra è avvolta dal sarcolemma, una membrana costituita
internamente dal plasmalemma, a cui è attaccata sulla faccia
esterna una lamina basale di natura glicoproteica che si continua
con l’endomisio. Poi ci sono i nuclei che hanno forma allungata e
occupano una posizione periferica. Il citoplasma è detto
sarcoplasma ed è molto ricco di glicogeno e contiene una
cromoproteina specifica che è la mioglobina, che dà il colore rosso
al muscolo. I mitocondri sono numerosi, voluminosi e ricchi di
creste. Il reticolo endoplasmatico liscio è detto reticolo
sarcoplasmatico ed è costituito da tubuli disposti tra le miofibrille
che si anastomizzano ampiamente in un sistema labirintico. Verso
le estremità di ciascun sarcomero i tubuli longitudinali
confluiscono in canali disposti trasversalmente che appaiono riuniti
in coppie e sono chiamate cisterne terminali. Tra due cisterne
terminali accoppiate si interpone un tubulo più sottile che deriva da
un’invaginazione del plasmalemma e che è detto tubulo T.
L’insieme è chiamato triade.

Ciascuna cellula o miofibrilla è formata a sua volta da miofilamenti


composti da proteine contrattili: la miosina forma i miofilamenti
spessi disposti parallelamente occupano la zona detta A. Sono
ingrossati nella parte centrale (linea M) e sono mantenuti allineati
grazie all’esistenza di ponti trasversali. Poi abbiamo l’actina che è
invece una proteina globulare che forma i filamenti sottili. (banda
I). Sono ancorati tra loro nella linea Z dato che in prossimità di tale
linea ciascun filamento si divide in 4 subunità più sottili detti
filamenti Z e che sembrano formati da tropomiosina. L’actina è
associata ad altre 2 proteine: tropomiosina e troponina. I
mitocondri sono regolarmente allineati tra le bande I in stretta
associazione con quella porzione di filamenti di actina e miosina.

CONTRAZIONE E DECONTRAZIONE MUSCOLARE


Gli ioni Ca++ sono concentrati nel lume del reticolo sarcoplasmatico. Dal cervello parte l’impulso e scarica un’onda di depolarizzazione a livello
della placca motrice del muscolo e della membrana dal tubulo sarcoplasmatico. La depolarizzazione del sarcolemma, a seguito dell’impulso
nervoso, viene rapidamente condotta attraverso il sarcoplasma dal sistema T. Questo determina il rilascio di ioni Ca dal reticolo sarcoplasmatico
al sarcoplasma che circonda i miofilamenti. Gli ioni calcio attivano il meccanismo di scorrimento dei filamenti responsabile della contrazione
muscolare. Il calcio si lega con la troponina C che cambia conformazione, la troponina I (inibitore che in condizione di rilassamento blocca
l’enzima ATPasi), non blocca più l’ATPasi la quale idrolizza ATP e libera energia; la troponina T, grazie all’energia liberata, si lega alla
tropomiosina la quale cambia conformazione e lascia liberi i siti di attacco delle teste della miosina sull’actina; le teste si contraggono e c’è lo
scorrimento dell’actina sulla miosina con accorciamento della fibra.
Nella decontrazione il calcio si stacca, la troponina I blocca l’ATPasi, la troponina T fa sì che la tropomiosina nasconda i siti di attacco delle teste
della miosina e vi è il rilassamento della fibra.
Le fibre muscolari cardiache sono costituite da fibrocellule lunghe ma con meno nuclei (2) e in posizione centrale. Hanno una disposizione delle
fibre contrattili simili a quelle del muscolo scheletrico e sono perciò striate.

Fibrocellula muscolare con nuclei in periferia & fibrocellula cardiaca con nuclei centrali e presenza di giunzioni interfibre (blu)

I sarcomeri del muscolo cardiaco non sono disposti in colonna tali da formare miofibrille cilindriche ma formano una rete tridimensionale. Nel
muscolo cardiaco, analogamente alla fibra scheletrica, l’eccitamento si propaga lungo la superficie della cellula e lungo le invaginazioni della
membrana (tubuli a T). La membrana cellulare si invagina proprio a livello delle strie Z e si individuano per la presenza della lamina basale
(punte di freccia). Il potenziale d’azione si propaga lungo la superficie della cellula e le invaginazioni producono un flusso di calcio
dall’ambiente extracellulare alla cellula. L’ingresso di calcio iniziale può provocare un suo successivo rilasciamento dal reticolo sarcoplasmatico.
Le cellule adulte del tessuto muscolare cardiaco di norma non si dividono e non vengono sostituite. Durante la loro vita accumulano residui
(corpi residui) (freccia curva) o granuli di lipofuscina che contengono componenti cellulari invecchiati rimossi dal normale processo di ricambio.
Tra le zone terminali di cellule muscolari cardiache adiacenti vi sono le giunzioni intercellulari specializzate, dette dischi intercalari, che non
solo forniscono punti di ancoraggio per le miofibrille ma permettono una diffusione estremamente rapida dello stimolo contrattile da una cellula
ad un’altra. In questo modo fibre adiacenti si contraggono quasi simultaneamente.

I dischi intercalari sono giunzioni interdigitate la cui superficie è


formata da tre tipi di contatti tra le membrane di cellule diverse:
1) il tipo principale è la fascia adherens (FA) che è simile
alla zonula adherens delle cellule epiteliali ma è più
estesa. Essa costituisce il sito di attacco per i filamenti di
actina e contiene sia α-actinina che vinculina.
2) i desmosomi (D) sono meno frequenti e costituiscono un
sito di attacco per la desmina, un filamento intermedio la
cui funzione è quella di distribuire le sollecitazioni
all’interno della cellula.
3) le giunzioni comunicanti consentono la trasmissione del
potenziale d’azione che ha origine nel nodo seno-atriale
da una depolarizzazione spontanea di cellule cardiache
specializzate.
Giunzioni intercellulari detti dischi intercalari

L’infarto del miocardio acuto (IMA) è la forma più importante di cardiopatia ischemica. È la perdita di miociti (necrosi) causata da un periodo di
ischemia più o meno prolungato. Tra i sintomi possiamo avere il dolore toracico, al braccio, al polso e/o alla mandibola che può insorgere sotto
sforzo o a riposo. Tale dolore può durare circa 20’ ma anche essere inferiore. Può solo comparire un dolore epigastrico spesso confuso con
un’indigestione con dolore al polso al braccio o alla mandibola senza interessare il torace ma questo quadro è atipico. Vi possono essere dispnea,
astenia vertigini, capogiri o una loro combinazione. Infine la necrosi miocardica può anche manifestarsi in assenza di sintomi. La diagnosi di
IMA era possibile secondo l’WHO (World Health Organization) in presenza di almeno due di tre criteri diagnostici:
- dolore toracico acuto retrosternale e/o prolungato;
- presenza di un tracciato elettrocardiografico tipico caratterizzato dallo sviluppo di onde Q;
- aumento e successiva normalizzazione di almeno due dei tre enzimi considerati: CK, LDH, AST.
Oggi invece i criteri per la diagnosi di IM in evoluzione o recente sono nell’ordine di importanza:
- aumento dei marcatori biochimici di necrosi miocardia con andamento temporale caratteristico associato ad almeno uno dei seguenti:
o dolore toracico;
o e/o quadro elettrocardiologico tipico;
o e/o procedure di rivascolarizzazione miocardica;
o infine, dopo exitus, un quadro anatomo-patologico tipico.
Viene stabilita una gerarchia di importanza dove gli MBLM (Marcatori Biochimici di Lesione Miocardica) sono al primo posto. Inoltre un’altra
novità è che qualsiasi livello, anche minimo, di incremento sierico degli MBLM sensibili ed altamente specifici debba essere etichettato come
IMA. Infine stabilisce una precisa gerarchia fra i marcatori biochimici da utilizzare. Bisogna aggiungere che un aumento dei marcatori che si
manifesta in assenza di evidenza clinica di ischemia dovrebbe portare a cercare altre cause di danno miocardico quali un’infezione (miocardite o
pericardite), uno scompenso cardiaco da edema polmonare acuto, l’ipertensione, pazienti in condizioni critiche, traumi cardiaci come contusioni,
cardioversioni, ablazioni, tossicità miocardica da chemioterapici, rigetto nel trapianto cardiaco, insufficienza renale cronica.
Da un punto di vista anatomo-patologico l’IM riflette una perdita di miociti (necrosi) causata da un periodo di ischemia prolungata. La forma più
frequente è l’infarto transmurale in cui la necrosi ischemica interessa l’intero spessore o quasi della parete ventricolare nel territorio di
distribuzione di un’arteria coronaria. La gravità dell’infarto miocardio dipende dalla sede, dal grado di ostruzione dell’arteria coronaria,
dall’estensione del territorio irrorato, dalla durata dell’occlusione, dal realizzarsi o meno di circoli collaterali, dalla presenza ulteriore di spasmi
coronarici e da altri fattori quali alterazione della pressione sanguigna e della gittata cardiaca o della frequenza cardiaca. Se dopo un’assenza del
flusso ematico quantificabile in 15-20 minuti, il flusso stesso viene ristabilito (riperfusione), i miociti rimangono vitali; se si instaura dopo un
intervallo di tempo più prolungato si riescono solo a salvare quei miociti che morirebbero per un’ischemia più prolungata. Questo costituisce il
razionale per un rapido riconoscimento dell’infarto acuto al fine di instaurare al più presto una terapia come la trombolisi (eparina) che permetta
la riperfusione al fine di minimizzare l’area infartuata. La riperfusione determina aree estese emorragiche in quanto a seguito della terapia
trombolitica ed anticoagulativa vi è, da parte dei vasi colpiti, uno stravaso emorragico dopo il ristabilimento del flusso.

I fattori di rischio per un infarto sono quelli che favoriscono un’accelerata aterosclerosi dei vasi. Può verificarsi a qualsiasi età, anche se la
frequenza cresce con l’età. Nei maschi il rischio di morire d’infarto è maggiore rispetto alle femmine ma tende a eguagliarsi con l’avanzare
dell’età a causa del venir meno nelle donne del fattore protettivo degli estrogeni dopo la menopausa. L’occlusione delle arterie coronarie in
particolare è dovuta alla modificazione improvvisa della morfologia di una placca ateromatosa con un’emorragia all’interno dell’ateroma che
comporta un aumento di volume della placca, oppure ad una rottura della placca con formazione di un embolo o infine per erosione della placca
con esposizione al flusso ematico dei costituenti trombogenetici dell’interno della placca o della membrana basale dell’endotelio. Le piastrine
vengono a contatto con il collagene subendoteliale e con la parte necrotica della placca, aderiscono alla parete vasale, si aggregano, rilasciano a
loro volta potenti aggregatori come trombossani e fattori piastrinici che provocano anche il vasospasmo. Viene anche liberata tromboplastina
tissutale che attiva la via estrinseca della coagulazione. Entro pochi minuti il trombo così formato occlude il lume dell’arteria.
Tra i sintomi clinici riferibili ad un evento ischemico si annoverano dolore toracico che si può diffondere anche posteriormente, epigastrico, al
braccio, al polso ed alla mandibola. Può comparire dopo uno sforzo ma anche a riposo e si può anche prolungare per 20 minuti o durare solo
pochi minuti. Vi possono anche essere dispnea transitoria, vertigini, nausea e vomito. Nel 10-15 % dei pazienti, l’infarto è totalmente
asintomatico e la malattia viene successivamente individuata sulla base di alterazioni elettrocardiografiche e/o ecografiche.
Dal punto di vista anatomo-patologico un infarto può essere classificato in base alla dimensione come: microscopico (necrosi focale), piccolo
(meno del 10% della massa ventricolare), medio (10-30 %) e grande ( > del 30% della massa ventricolare). Le aree danneggiate vanno incontro
ad una serie di modificazioni, reversibili se l’ischemia non viene interrotta, che sono: il rigonfiamento cellulare (entra H 2O per compensare
l’accumulo di Na+ che non viene più utilizzato dalla pompa sodio/potassio ATP dipendente), il rigonfiamento del reticolo endoplasmatico, il
distacco dei ribosomi dal reticolo, l’accumulo di cromatina nel nucleo. Se l’ischemia persiste e questo può essere osservato dopo 20-30 minuti si
inizia ad avere delle alterazioni irreversibili come un rigonfiamento mitocondriale sempre più evidente, una dilatazione o una contrazione
maggiore delle miofibrille che poi via via tendono a disorganizzarsi e disgregarsi, un aumento ulteriore della vacuolizzazione. Le membrane
diventano eccessivamente permeabili e quindi si ha anche fuoriuscita degli enzimi lisosomiali nel citoplasma e la loro attivazione con distruzione
delle componenti cellulari. Nel muscolo cardiaco la perdita degli enzimi intracellulari e di altre proteine attraverso la membrana cellulare ed il
loro passaggio nel plasma costituisce un importante parametro di morte cellulare.
La necrosi cellulare, da un punto di vista istologico, nel miocardio può distinguersi in necrosi a bande di contrazione e in necrosi coagulativa. Le
cellule necrotiche mostrano un aumento dell’eosinofilia dovuta alla maggior affinità dell’eosina per le proteine citoplasmatiche denaturate.
Inoltre vi è la frammentazione e distruzione del nucleo. Vi è anche un allungamento ed assottigliamento rispetto alle miofibrille normali. La forte
acidità creatasi va a bloccare l’attività proteolitica intracellulare per cui le cellule morte rimangono così per diversi giorni conservando la loro
architettura tissutale. Successivamente entrano in azione i leucociti che cominciano a fagocitare le cellule morte.

Fibrocellule cardiache normali; fibrocellule colpite da infarto; fibrocellule invase dai leucociti per l’instaurarsi di un processo infiammatorio
che porta poi a necrosi delle cellule

Dopo circa 7-10 giorni dall’attacco ischemico vi è la rimozione


quasi completa dei miociti morti ed infine dopo circa 20 giorni si
forma un tessuto fibrotico con una nuova rete vascolare e con
deposizione di collageno.

Residui di fibrocellule con la presenza ormai di tessuto connettivo di sostituzione (perdita della funzionalità cardiaca)

ATEROSCLEROSI
L’aterosclerosi è una patologia degenerativa cronica (processo infiammatorio cronico), un patologico ispessimento ed indurimento della parete
arteriosa, a lenta evoluzione (parte dalla nascita), incentrato nella tonaca intima. L’aterosclerosi è un processo infiammatorio cronico che porta
ad ischemia acuta del miocardio. È un’infiammazione delle arterie (“sclerosi” significa “indurimento”).
Una volta creati i buchi le LDL iniziano a penetrare dallo spessore delle pareti all’interno delle arterie. Inizia una reazione infiammatoria che
comporta l’arrivo dei granulociti. Pian piano l’arteria inizia a crescere dall’interno e si formerà il tumor che andrà a chiuder il lume dell’arteria.
L’arteria si assottiglia e può subire un aneurisma o chiudersi. L’aterosclerosi è caratterizzata da lesioni, dette ATEROMI, che riguardano l’intima
dell’arteria e che protrudono nel lume indebolendo la sottostante tonaca muscolare. Interessa principalmente le arterie elastiche (aorta, carotidi,
iliache) e le grandi arterie muscolari (coronarie). Anche se tutti gli organi possono essere interessati, l’aterosclerosi si localizza soprattutto alle
arterie che irrorano il cuore (ischemia acuta o infarto miocardico) ed il cervello (ictus cerebrale). In senso cronico determina una diminuzione del
flusso ematico a valle dando la gangrena degli arti inferiori, encefalopatie e morte cardiaca improvvisa.
La lesione fondamentale della placca ateromatosa consiste in un
ispessimento focale dell’intima con un NUCLEO CENTRALE DI
LIPIDI ricoperto da un CAPPUCCIO FIBROSO. Gli ateromi
hanno inizialmente una distribuzione focale ma, aumentando
rapidamente sia di numero che di spessore man mano che la
malattia progredisce, arrivano ad interessare l’intera circonferenza
delle arterie colpite. A livello delle piccole arterie hanno un effetto
occlusivo compromettendo il flusso ematico negli organi distali
(producendo ischemia o infarto) mentre nelle arterie di grosse
dimensioni distruggono le pareti o le indeboliscono con formazione
di aneurismi o trombi (causati da rotture parziali della placca che
andando in circolo provocano poi l’arresto in una determinata zona
della circolazione stessa).
L’LDL crea buchi dell’endotelio, penetra nella parete muscolare o elastica delle arterie causando reazione infiammatoria che richiama globuli
bianchi per mangiare l’LDL in quel punto. La zona si ingrossa finché non si ha la distruzione della struttura, l’arteria inizia a crescere
nell’interno ed il tumor gradualmente chiude il lume dell’arteria.
L’aterosclerosi consiste in una risposta infiammatoria dell’endotelio del vaso dovuto ad un danno dello stesso. Questo danno inizia già
nell’adolescenza, ma ha uno sviluppo lento per molti anni senza produrre manifestazioni cliniche evidenti. La prima fase dell’aterosclerosi si
manifesta con la formazione di strie adipose.
Quando però le LDL entrano nel vaso vengono fagocitate dai
monociti che sono a loro volta entrati nel vaso e che si sono
trasformati in macrofagi. Tra i prodotti della digestione di queste
LDL da parte dei macrofagi abbiamo la produzione di radicali
liberi come l’anione superossido O 2- (prodotto normalmente anche
dal normale metabolismo delle cellule endoteliali) che a loro volta
usano l’NO (ossido nitrico) per inattivarlo e formare un suo
derivato che è detto anione perossinitrito OONO - il quale aumenta
l’ossidazione delle LDL. Questa ossidazione, unita anche alla
glicazione delle LDL in corso eventualmente di diabete, aumenta la
fagocitosi delle LDL da parte dei macrofagi. Quindi le LDL
ossidate (modificate) sono più facilmente fagocitate dai macrofagi
(hanno un maggiore numero di recettori per le LDL ossidate che
non per le non ossidate) che si trasformano in CELLULE
SCHIUMOSE (ricche di lipidi) dette anche foam cells, sono
chemiotattiche per altri monociti circolanti, ne aumentano
l’adesione ai vasi e inibiscono la mobilità favorendo il permanere
dei macrofagi in sede.
Una volta che l’LDL sono penetrate nella parete dell’endotelio
possono andare incontro a diverse modificazioni (glicazione,
ossidazione, aggregazione). Ad es. le LDL aggregate sono
insolubili e in questa forma stimolano maggiormente la fagocitosi
da parte dei macrofagi. Inoltre l’intrappolamento delle l’LDL con i
proteoglicani (componente connettivale dell’intima) può favorire la
glicosilazione e l’ossidazione delle stesse.
I macrofagi che si sono trasformati in cellule schiumose elaborano
inoltre dei fattori di migrazione e dei fattori di crescita per le
cellule muscolari lisce che migrano dalla tonaca media all’intima e,
giunti qui, iniziano anch’esse a moltiplicarsi. Persistendo
l’ipercolesterolemia, l’adesione monocitaria e la migrazione
sottoendoteliale delle cellule muscolari lisce si formano le strie
lipidiche. Se si elimina la causa tali strie possono non aumentare o
perfino regredire. Se l’ipercolesterolemia o gli altri fattori di rischio
persistono la migrazione delle cellule muscolari lisce, la
trasformazione dei macrofagi in cellule schiumose, la
trasformazione delle CML in foam cells, dovuta anch’essa al fatto
che anche le Cellule Muscolari Lisce fagocitano le LDL,
continuano e quindi la stria lipidica evolve in placca fibrosa.
La placca aumenta di spessore anche perché le CML iniziano a
sintetizzare nel punto di migrazione una matrice connettivale
extracellulare formata da collagene, elastina e proteoglicani. La
formazione della placca ed il suo aumento di volume nel lume nel
tempo portano all’ischemia. A livello del cuore si parla di
cardiopatia ischemica (CI). L’ischemia consiste in un insufficiente
apporto di O2 (ipossia, anossia), in una ridotta disponibilità di
substrati nutritizi ed in un’inadeguata eliminazione di metabolici
dai tessuti. Per il cuore nell’80% dei casi l’ischemia è responsabile
della morte del paziente e tale evento è dovuto all’interruzione del
flusso ematico nelle coronarie.
Esistono due possibilità di INFARTO: l’ANGINA STABILE è un dolore al petto cronico, costante e continuo che dura per giorni; l’ANGINA
INSTABILE è un dolore al petto improvviso e letale. Nei due casi cambia il processo dell’aterosclerosi. Nell’angina stabile il restringimento è
progressivo, il dolore arriva perché il sangue non riesce più a dare ossigeno e nutrimento alle cellule del cuore. Questa situazione è l’anticamera
dell’infarto perché il vaso progressivamente si chiude ma dà il tempo per un trattamento sanitario. Nell’angina instabile si ha un dolore
improvviso a causa di uno sbalzo pressorio che rompe la placca: un tumor cresce e spezza un lembo e la placca si spacca creando un trombo che
inizia a viaggiare in circolo fino a fermarsi dove il lume è pari al diametro del vaso; non appena si ferma si avrà angina instabile; se una
coronaria si chiude non vi è più un flusso regolare e quindi c’è dolore. Si crea il tappo e se entro 1 ora non si è al pronto soccorso conduce a
morte.

MARCATORI DI DANNO MIOCARDICO


L’infarto del miocardio è definito come il processo in cui si manifesta necrosi a causa di ischemia. In caso di aterosclerosi, se una placca
instabile si rompe può favorire la formazione di coagulo. Questo processo, conosciuto come trombosi, può dar luogo a un’improvvisa e completa
occlusione dell’arteria interessata e all’infarto dell’aria del miocardio da essa irrorata. La fibrocellula miocardica è particolarmente ricca di
alcuni enzimi che dopo necrosi aumentano significativamente a livello sierico. Gli enzimi di utilità diagnostica per la diagnosi di infarto del
miocardio si distinguono in indicatori precoci (Creatina chinasi, Mioglobina e Troponine) e indicatori tardivi (Lattico deidrogenasi, Miosina e
Aspartato amminotransferasi) per capire se avvenuto o in corso e a che livello di danno siamo.
Con l’ECG si scopre solo il 20% perché le cellule morte non riguardano le cellule del nodo. La valutazione da parte del Laboratorio di Patologia
Clinica per ipotizzare un infarto o confermare una diagnosi clinica si basa sulla quantità di specifiche macromolecole intracellulari rilasciate nel
sangue e che sono indice di un danno irreversibile delle cellule miocardiche. Le linee guida più recenti stabiliscono una gerarchia fra i marcatori
da usare: tali marcatori devono in generale essere caratterizzati da massima sensibilità cioè devono poter dare un minor numero di falsi negativi,
precoce tempo di positività, concentrazione dipendente dall’estensione del danno; poi devono avere massima specificità cioè devono dare un
numero basso di falsi positivi, ed un TAT il più breve possibile.

TROPONINE
I marcatori di prima scelta, altamente specifico, raccomandato dalle linee guida del WHO sono le Troponine (cTn). La troponina C presenta una
sola isoforma comune a tutti i tipi di muscolo e per questo non viene utilizzato. Le troponine I e T sono proteine che presiedono alla funzionalità
contrattile e sono presenti nei filamenti del sarcomero associate ad actina e tropomiosina, presentano due isoforme, una associata alla
muscolatura scheletrica ed una alla muscolatura cardiaca. L’isoforma cardiaca della troponina T è presente anche nel tessuto muscolare fetale e
può essere riespresso nell’adulto nel muscolo scheletrico in seguito a traumi.

Il complesso delle Troponine è costituito da tre proteine la cui denominazione dipende dalle specifiche proprietà funzionali dei singoli
componenti. La Troponina C (TnC) cattura il Ca++ liberato nel citoplasma a seguito della depolarizzazione del sarcolemma producendo un
cambio conformazionale della TnC con simultaneo blocco della Troponina I (TnI), dislocazione della Troponina T (TnT) e scivolamento della
tropomiosina. Con lo spostamento della tropomiosina sull’actina vengono esposti i siti attivi specifici per il legame con le teste di miosina,
realizzandosi così l’interazione actina-miosina, lo scorrimento dei filamenti sottili sui filamenti spessi e la relativa contrazione muscolare.
Quando il Ca++ è ripompato nel reticolo sarcoplasmatico, la TnI esplica la sua attività inibitoria sull’ATP-asi, si scinde il legame actina-miosina,
le troponine ritornano nella loro posizione iniziale e si ha il rilasciamento muscolare.
Dal punto di vista molecolare i diversi tipi di Tn presentano differenti isoforme con elevate specificità d’organo. Tutte sono codificate da geni
diversi, presentano una specifica sequenza amminoacidica, sono riconoscibili immunologicamente utilizzando anticorpi monoclinali per specifici
epitopi. In particolare la TnC presenta una sola isoforma comune a tutti i tipi di muscolo.
La TnT e TnI presentano tre isoforme: 2 isoforme della muscolatura scheletrica (sTnT e aTnI) corrispondenti alle fibre a contrazione veloce e
lenta ed una isoforma cardiaca (cTnT e cTnI). La cTnI è presente nel tessuto miocardio mentre la cTnT è presente nel tessuto muscolare
scheletrico fetale e nei neonati pre-termine ma può anche essere riespresso nel muscolo scheletrico dell’adulto dopo dei traumi o dopo delle
infiammazioni come polimiositi o miopatie quali la distrofia di Duchenne.
Ecco perché viene considerata la troponina I (isoforma cardiaca).
In caso di IMA si osserva un andamento bifasico:
- per quanto riguarda la TnT, i suoi livelli serici aumento dopo 4-10 ore, con un picco verso la 12° ora, decremento successivo con un
altro picco più basso in 2°-3° giornata e nuovo successivo decremento dopo 7-10 giorni;
- per la TnI vi è un rapido aumento iniziale (4°-10° ora) con un picco verso la 14°-24° ora ed un ritorno alla normalità dopo 5-7 giorni
perché i livelli calano lentamente in quanto le cellule miocardiche danneggiate liberano lentamente la quota legata alle miofibrille.
Quindi le Troponine possano presentare valori patologici anche dopo 8-14 giorni dall’evento occlusivo. Perciò ad un paziente con sospetto IMA
si farà un prelievo per Troponina I o T al momento dell’arrivo, poi dopo 2-4 ore, dopo 6-9 ore, dopo 12, dopo 24 e poi ogni 6 ore dal 2° giorno in
poi per almeno altri 5 giorni. Le troponine sono rilevabili solo in tracce nei soggetti sani. Livelli elevati di cTn in circolo indicano un danno
miocardio esteso, con concentrazioni seriche direttamente proporzionali all’entità del danno. Le concentrazioni rilevate possono fornire
indicazioni sulle dimensioni dell’area infartuata ma soprattutto costituiscono un indice prognostico per il rischio di danni cardiaci maggiori.
Esiste infatti una correlazione diretta tra concentrazione serica di cTn in pazienti con Sindrome Coronaria Acuta (ACS) e rischio di morte a breve
e lungo termine. Viene considerato indicativo di necrosi miocardica anche un solo rialzo nelle prime 24 ore del livello di cTn. La cTn si può
trovare al di sopra dei valori normali anche in corso di insufficienza cardiaca con riduzione della gittata cardiaca o di una progressiva stasi
ematica nel circolo venoso: in questi casi la concentrazione delle cTn rimane elevata senza andamento curvilineo ed è nuovamente correlata
quantitativamente alla gravità del danno. Il dosaggio delle troponine è utile anche per valutare il rischio di IMA durante una seduta operatoria.
Rialzi delle cTn si possono osservare anche per altre cause come miocarditi, pericarditi, ipertrofia miocardica, traumi cardiaci, insufficienza
renale cronica, rigetto del trapianto di cuore e, quindi, in assenza di evidenze cliniche di ischemia un elevato valore di cTn deve condurre alla
ricerca di altre cause di danno miocardico.
Le troponine sono proteine che regolano la contrazione muscolare. I livelli di troponina I e T (isoforme specifiche per il miocardio) circolanti nel
siero sono normalmente molto bassi, ma possono aumentare rapidamente dopo necrosi miocardica. Troponina I raggiunge la massima sensibilità
alla 6°-10°h con un picco tra le 15-25 ore ed un ripristino dei valori normali dopo circa 7 giorni. La Troponina I ha specificità più elevata
(dosaggio in 10’); la Troponina T ha specificità meno elevata (dosaggio in 2h). Il dosaggio delle troponine consente di riconoscere anche piccole
aree di necrosi, asintomatiche e spesso elettrocardiograficamente silenti.
Livelli decisionali
- < 0,1 μg/L: esclude la presenza di sofferenza o danno miocardico
- 0,1 e 1,5 μg/L: danno miocardico minimo
- 1,5 μg/L: IMA con specificità del 100%
Circa il 100% dei pazienti con infarto presentano un innalzamento. Il valore in assenza di IMA è 0 quindi qualsiasi innalzamento è indice di
danno cardiaco. Si innalza in circa un’oretta perché è legata al citoscheletro e si riversa nel sangue dopo gli altri elementi liberi. La sua
concentrazione sierica è direttamente proporzionale all’entità del danno. Il prelievo si fa nei giorni successivi per vedere se l’infarto è passato o
se la troponina I non scende.

CREATINCHINASI (CK) o CREATINFOSFOCHINASI (CPK)


Aumenta quasi esclusivamente nell’infarto del miocardio (CK MB > 6% CK totale) e può essere considerato un enzima “infarto del miocardio
specifico”. Nei casi di infarto del miocardio l’aumento dell’isoenzima MB è precoce; comincia ad aumentare nelle prime ore (1-3 h) dall’infarto
e raggiunge il massimo rapidamente (12-18 ore) e, più rapidamente della CPK totale, torna nei limiti normali. Il ritorno a valori normali avviene
generalmente entro 48 ore e precede quindi di 24 ore quello della CPK totale.
In caso di indisponibilità della misura delle cTn la determinazione della CK-MB massa costituisce la migliore alternativa per documentare la
presenza di necrosi miocardica. In corso di IMA inizia ad andare oltre i valori normali dopo 3- 4 ore per raggiungere un picco alla 12°-24° ora
per poi tornare normale nelle 48-72 ore successive. La CPK è un enzima citoplasmatico che interviene nel metabolismo energetico cellulare
catalizzando la reazione che porta alla formazione di ATP a partire da ADP e creatinfosfato. È un dimero costituito da due monomeri ciascuno
codificato da geni specifici: il monomero B ed M. Dalla diversa combinazione dei due monomeri originano tre isoenzimi differenziabili in base
alla loro mobilità elettroforetica e proprietà immunologiche. Hanno la stessa affinità per il substrato ma differiscono per composizione in aa, per
differente stabilità a T e pH. Le tre isoforme:
- CK-MM, presente nel muscolo scheletrico e cardiaco;
- CK-BB (cervello), presente nel cervello ma anche in vescica e nel tratto gastroeneterico;
- CK-MB (cuore) presente nel muscolo cardiaco ma in utero, prostata, tiroide, milza e tratto gastroenterico.
In passato si usava misurare l’attività catalitica (metodo dell’immunoinibizione) ma l’accuratezza del metodo era inficiata da numerose
interferenze di altri enzimi e da CK-BB per cui si è passati alla determinazione della massa proteica utilizzando anticorpi monoclonali sia anti-M
che anti-B.
Viene considerato indicativo di necrosi miocardica una concentrazione superiore ai valori di riferimento di una popolazione normale (v.n. < 5.6
ng/ml) in due successivi campioni (al momento del ricovero e dopo 12 ore) o una concentrazione massima di CK-MB superiore a due volte il
limite superiore di riferimento normale del laboratorio in una occasione durante le prime ore dopo il ricovero. I valori dovrebbero aumentare e
poi diminuire: valori che rimangono elevati nel tempo non sono da ricondurre ad IMA. La sua concentrazione è paragonabile al livello di
estensione necrotica del cuore.
È utile nel monitoraggio di un possibile reinfarto: è infatti più valida della Troponina perché quest’ultima scende come concentrazione nel
sangue più lentamente rispetto alla CK-MB. Infatti il reinfarto è la complicanza più frequente in pazienti con IMA; la riocclusione dell’arteria
coronaria dopo trombolisi o dopo un intervento di cardioplastica determina un’estensione ulteriore dell’area infartuata nella stessa sede. In questi
casi la concentrazione della CK-MB presenta un incremento > del 50% rispetto alle concentrazioni preesistenti, in due successivi campioni
distanziati di almeno 4 ore. Lo schema da seguire analogo a quello delle cTn dovrebbe essere: un prelievo per CK-MB al momento del ricovero,
dopo 3-4 ore, dopo 6-9 ore, alla 12 ora, alla 24 ora, e poi ogni 6 ore dal 2° giorno in poi per altri 5 giorni. L’efficacia di questo marcatore è
limitata dalla relativa miocardiospecificità. Infatti condizioni di aumentata concentrazione serica dell’isoenzima si osservano in pazienti con
patologie muscolo-scheletriche (traumi, interventi chirurgici, esercizio fisico intenso, ustioni, miopatie infiammatorie, crisi epilettiche,
ipertermia, insufficienza renale cronica, neoplasie). Non è quindi utile nel discriminare eventuali IM durante una seduta operatoria.
Ruolo dei marcatori (TNT e CK-MB) dopo alcune procedure coronariche percutanee come un’angiografia coronorarica o uno stent
intracoronarico. In questo contesto infarti di ampie dimensioni possono risultare conseguenti ad una procedura complicata o errata e possono
essere facilmente riconosciuti dal punto di vista clinico. Al contrario infarti di piccole dimensioni sono più frequenti e probabilmente conseguono
a fenomeni di microembolizzazione o derivati dalla frantumazione della lesione aterosclerotica durante la procedura o derivati dal trombo sito a
livello della lesione che ha causato la precedente ischemia. E’ stato dimostrato che il rischio di eventi cardiaci successivi come morte o IM è
correlato al grado di aumento della Troponina o di CK-MB e la prognosi di questi individui è normalmente peggiore di quella dei Pazienti che
non sviluppano aumenti dei livelli di questi due marcatori, anche contenuti, dopo le procedure. La conseguenza è che oggi tale classe di pazienti
sono istruiti a prestare particolare attenzione ad eventuali sintomi.

LATTICODEIDROGENASI (LDH)
Uno dei marcatori da considerare. Tale enzima catalizza nella glicolisi l’ossidazione dell’acido piruvico ad acido lattico. È presente in molti
tessuti soprattutto cuore, fegato, rene, muscolo scheletrico ed eritrociti (perciò è poco specifico). In corso di IMA è osservabile un incremento
serico della LDH dopo 24-48 ore con un picco intorno ai 3-6 giorni per ridiscendere dopo 8-14 giorni. Si alza anche in corso di altre malattie
come epatopatie, malattie renali, neoplasie, anemie emolitiche, miopatie. La sua importanza è dovuta al fatto che, considerata l’ampia finestra
diagnostica, l’utilizzo nella pratica clinica è finalizzato alla verifica di un infarto pregresso silente.

MIOGLOBINA
Un altro marcatore è la mioglobina. È una proteina citoplasmatica libera a basso perso molecolare (17.8 kDa) che costituisce il 2% circa delle
proteine muscolari. È una proteina presente nel sangue con funzione di trasporto dell’O 2 dal sarcolemma al sarcoplasma e poi ai mitocondri. A
causa del basso peso molecolare e a seguito di un danno alla membrana cellulare, entra rapidamente in circolo ed altrettanto velocemente viene
eliminata con le urine. Non è una proteina specifica della cardiomiocellula in quanto è anche presente nella muscolatura scheletrica e viene usata
anche in caso di sospetta miopatia. Rappresenta il primo marker di danno miocellulare liberato nel torrente circolatorio. Purtroppo la mioglobina
scheletrica prodotta in caso di intensa attività fisica non è distinguibile da quella cardiaca.
Se vi è un’occlusione di un vaso coronarico la sua concentrazione supera i valori di normalità; se il vaso trombizzato viene reso nuovamente
libero la sua concentrazione dopo un’iniziale aumento tende a diminuire molto precocemente, mente in caso di fallimento della sua disostruzione
il suo rientro ai valori bassi avviene molto lentamente. Pertanto dall’analisi dei livelli serici della mioglobina può essere valutata l’efficacia della
terapia disostruttiva. In corso di IMA è il più precoce marcatore che aumenta nel sangue già dopo 1-3 ore dall’evento acuto con il
raggiungimento del picco dopo 4-6 ore e ritorno alla normalità dopo 24-36 ore. Un valore negativo al momento del ricovero è indicativo di una
diagnosi di esclusione di IMA.
È opportuno eseguire prelievi al momento del ricovero del paziente dopo 2-4 ore (in relazione alla eventuale comparsa di sintomi suggestivi di
IMA), dopo 6-9 ore, alla 12 ora, alla 24 ora, e poi ogni 6 ore dal 2° giorno in poi fino al 5° giorno. Un valore negativo al momento del ricovero è
indicativo di una diagnosi di esclusione di IMA. Infine è utile il monitoraggio per valutare la presenza di eventuali reinfarti. La sua efficacia
diagnostica è limitata dal fatto di essere priva di miocardiospecificità in quanto la sua concentrazione aumenta in corso di patologie muscolari
scheletriche, iniezioni intramuscolo, esercizio fisico intenso, insufficienza renale acuta e cronica, operazioni chirurgiche. Il dosaggio può essere
effettuato mediante numerose tecniche in nefelometria, RIA e LIA. Per il LIA ad esempio viene utilizzato un supporto di plastica coattato con un
anticorpo monoclonale di topo anti-mioglobina e successiva reazione a sandwich con il tracciante che è dato da un anticorpo antimioglobina
marcato con isoluminolo. I valori normali sono 53 μg/L per gli uomini e 48 μg/L per le donne.

PROTEINA C REATTIVA
Un altro marker che oggi viene molto preso in considerazione per indicare la presenza dell’aterosclerosi e quindi prevedere degli eventi cardiaci
avversi è la Proteina C reattiva, una proteina che appartiene alle α-globuline (più esattamente appartiene alla famiglia delle pentrassine perché
composta da cinque subunità identiche), detta C perché reagisce con il polisaccaride C dello streptococco. Sintetizzata a livello epatico presenta
normalmente nel sangue valori < di 5 mg/L. In corso di processi infiammatori sostenuti da batteri aumenta rapidamente nel sangue fino ad
arrivare a valori di 500 mg/L ed oltre. Aumenta la sua sintesi in risposta alla produzione di citochine infiammatorie IL-1, IL-6, TNF-α e potenzia
la risposta infiammatoria cooperando all’attivazione delle proteine del complemento, legandosi anche alla superficie batterica in modo da
comportarsi come un’opsonina e favorendo quindi la fagocitosi da parte di granulociti, monociti e macrofagi. In campo cardiovascolare, essendo
l’aterosclerosi una malattia infiammatoria cronica, può essere utile il dosaggio di questa proteina. Dato che però si eleva anche in altre
condizioni come infezioni sistemiche, forti fumatori, vasculiti, patologie del connettivo, accentuata obesità e neoplasie maligne per avere una
validità bisogna escludere queste altre cause.
La proteina C reattiva è rientrata nell’utilizzo della prevenzione e monitoraggio delle malattie cardiovascolari da quando si è scoperto che nei
vasi aterosclerotici l’infiammazione può essere stata provocata anche dalla presenza di alcuni batteri come la Chlamydia pneumoniae,
l’Helicobacter pilori. Normalmente però nei laboratori di Patologia Clinica il dosaggio viene effettuato con metodi immunoturbidimetrici che
hanno come valore soglia inferiore intorno a 4-5mg/dl. Un livello del genere non è tuttavia utile per la determinazione del rischio
cardiovascolare in soggetti che presentano un certo grado di aterosclerosi ma sono sani. Sono stati messi a punto metodi quindi in ELISA che
utilizzano anticorpi monoclonali o policlonali marcati anti proteina C-reattiva in grado di individuare concentrazioni inferiori a 0,2 mg/dl.
Si è quindi osservato che:
- I livelli di proteina C reattiva sono correlati alla gravità clinica della coronopatia ed al numero di eventi coronarici sia nella fase acuta
che nella fase subacuta dell’Ischemia Miocardica.
- I Pazienti che vengono ricoverati per il trattamento di un’angina instabile e che presentano concentrazioni superiori a 0,3 mg/dl
presentano un numero significativamente più elevato di episodi ischemici durante il ricovero rispetto a Pazienti con livelli di proteina
C-reattiva più bassi.
- I Pazienti con angina stabile hanno concentrazioni di Proteina C reattiva significativamente minore de Pazienti con angina instabile.
- I Pazienti con angina cronica stabile e che presentano livelli stabilmente bassi di proteina C reattiva nel tempo presentano un numero
minore di eventi cardiovascolari durante il follow-up.
Alcuni Autori hanno valutato il valore prognostico del test da sforzo e dei livelli di Proteina C reattiva dopo la stabilizzazione medica di
un’angina instabile. È stato osservato che livelli elevati della proteina maggiore di 1,5 mg/dl erano più frequenti tra i pazienti che erano poi
deceduti o avevano presentato un infarto miocardico entro 90 giorni dopo un evento coronarico acuto. Rispetto al test da sforzo i livelli di
proteina C reattiva hanno dimostrato una maggiore sensibilità ed una maggiore specificità. Livelli elevati di proteina C reattiva rappresentano
forti fattori predittivi di recidive di eventi ischemici, mentre bassi livelli della proteina suggeriscono un’evoluzione favorevole.
Per quanto riguarda l’infarto nello studio Monitoring trends and Determinants in Cardiovascular Disease riguardante il rischio cardiovascolare è
stato visto che i Pazienti con livelli più alti di Proteina C reattiva presentavano un rischio di infarto miocardico 2,6 volte più elevato. Altri studi
hanno rivelato che solo il 14% dei pazienti con livelli di Proteina C reattiva normale ha presentato un’angina post-infarto. Pazienti che al
momento del ricovero avevano avuto un’angina post-infarto avevano la gran parte livelli più elevati di Proteina C reattiva e in circa la metà dei
pazienti è stato necessario un intervento di rivascolarizzazion e ed un quarto dei pazienti ha presentato una recidiva di infarto miocardico.
Nei pazienti con infarto miocardico il riscontro di elevati livelli di proteina C reattiva è associato alla presenza di lesioni angiografiche
complesse e alla necessità di interventi di rivascolarizzazione. Inoltre livelli elevati di proteina C reattiva sembarano costituire un biomarker di
un rischio elevato di riocclusione.
Pazienti sottoposti ad intervento di bypass coronarico che avevano livelli elevati di proteina C reattiva presentavano rispetto ai pazienti con
livelli normali di proteina C reattiva un rischio più elevato di recidive significative nei 6 anni successivi all’intervento.
Infine elevati livelli di Proteina C reattiva sembrano costituire un utile biomarker per il probabile rigetto del cuore trapiantato.

SINTESI
Le malattie cardiovascolari (infarto del miocardio) sono la prima causa di morte in Italia. Il cuore è costituito da cardiomiociti composti da un
citoscheletro di actina e miosina molto sviluppato con reticolo endoplasmatico liscio con 2 tubuli e la triade. L’infarto è la morte cellulare (da
mancanza di nutrimento, ischemia).
Le differenze tra muscolo striato e muscolo cardiaco:
- Nuclei sulla superficie e numerosi nello striato; nuclei all’interno e minori nel cardiaco;
- Giunzione più ordinata nello striato; più disordinato nel cardiaco. Queste giunzioni intercalari sono così perché hanno la funzione
fisiologica di contrarsi insieme.
Nei diabetici avviene la glicosilazione spontanea delle proteine, glucosio si attacca all’LDL che passa attraverso l’endotelio, il vaso si chiude
progressivamente perché i macrofagi mangiano più facilmente il complesso glucosio-LDL. Questa chiusura è progressiva e non causa dolore.
I marker dell’infarto (insieme a mioglobina): TROPONINA C, TROPONINA I, TROPONINA T. In alcuni infarti l’ECG è normale perché le
cellule morte non sono quelle che partecipano alla trasmissione dell’impulso elettrico ma semplicemente altre cellule muscolari. In caso di
infarto di cellule che partecipano alla trasmissione invece l’ECG risulta diverso (da infarto). Per questo si fa il dosaggio di TROPONINA I
(perché è più stabile nel sangue): se positivo va in UTIC (perché infarto), se negativo non infarto. Nel sangue non c’è troponina I normalmente,
perché esiste solo nel cuore. In caso di infarto esiste una elevazione, anche piccola, di troponina I. La troponina si alza dopo perché, facendo
parte del citoscheletro, si libera dopo e per ultimo in caso di morte. La mioglobina invece aumenta subito ma non è specifica di infarto perché
avviene anche in altre situazioni.
In caso di infarto il tessuto muscolare è sostituito da connettivo (cicatrice). Questa porta ad insufficienza cardiaca (scompenso cardiaco) la cui
principale causa è l’infarto. Il segno evidente e tipico è l’affanno.
Possiamo avere due diverse situazioni cliniche di troponina:
1) Paziente con grosso infarto che sta morendo
2) Paziente che ha avuto un piccolo infarto e sta guarendo
Più è alto il picco più è grave perché più cellule stanno morendo. Quello che sta morendo rimane alto perché nei giorni successivi continuano a
perdere troponine perché le cellule stanno morendo.

SCOMPENSO CARDIACO

Lo scompenso cardiaco è una sindrome da disordine di struttura e funzionalità cardiaca che compromette la capacità del cuore di funzionare da
pompa di supporto alla circolazione fisiologica. Lo scompenso cardiaco, o insufficienza cardiaca congestizia (SCC o ICC), rappresenta la via
finale di numerose patologie cardiache quali: la cardiopatia ischemica; l’ipertensione arteriosa (la pressione troppo alta mette sotto sforzo le
cellule che, nel tempo, muoiono); le cardiomiopatie (infettive e da accumulo), in cui l’insufficienza cardiaca deriva da un’incapacità delle
camere cardiache a rilassarsi, espandersi e riempirsi sufficientemente durante la diastole per accogliere un adeguato volume ematico; le
cardiopatie valvolari; le malattie infettive (che uccidono le cellule). È una conseguenza dell’infarto in cui il cuore non riesce a pompare il
sangue, ha poca forza di eiezione e contrazione sistolica portando a morte. È tipica dell’età adulta (70-80 aa). Maggior troponina c’è nel sangue,
maggior probabilità di morte e, in caso di sopravvivenza, scompenso. Segni e sintomi: affanno, irritabilità, astenia, aritmie, arriva poco sangue al
cervello. Le cellule muscolari sopravvissute si ingrandiscono (IPERTROFIA) per compensare. I cardiomiociti non possono aumentare di numero
(come neuroni). Uno scompensato ha un cuore più grosso (ipertrofico) direttamente proporzionale con il grado di scompenso. I pazienti vogliono
dormire con i cuscini in posizione semiseduta perché hanno mancanza d’aria. Dieta stretta iposodica.
L’SCC è una malattia insidiosa: molti soggetti affetti, in particolare tra i pazienti più anziani, si trovano in uno stadio tardivo della malattia al
momento della diagnosi e dell’inizio della terapia. Lo sviluppo dell’insufficienza cardiaca è generalmente un processo lento e progressivo che va
sviluppandosi in forma asintomatica. Nell’SCC il cuore non è in grado di pompare sangue in quantità commisurata con le richieste metaboliche
dei tessuti e qualunque sia la causa è caratterizzata da una diminuita gittata cardiaca e/o da ristagno di sangue nella circolazione venosa.
Nell’SCC dove vi è un eccessivo carico emodinamico e/o una disfunzione della contrattilità miocardica il sistema cardiovascolare cercherà di
mantenere la normale pressione arteriosa e la perfusione degli organi vitali aumentando la sintesi dei dischi intercalari (zone di connessione tra
fibre muscolari diverse) in modo che, aumentando il numero delle connessioni tra sarcomeri diversi, si aiuti la funzionalità cardiaca aumentando
la contrattilità.
Nella maggior parte dei casi l’insorgenza dello scompenso cardiaco è preceduto dall’ipertrofia cardiaca che è la risposta compensatoria del
miocardio ad un aumento del lavoro meccanico. Questi stimoli aumentano una sintesi proteica compensatoria e quindi aumentano la quantità di
proteine nelle singole cellule, le dimensioni dei miociti (non il numero), i mitocondri e, di conseguenza, la massa ed il volume del cuore. Ad es.
nell’infarto la causa è dovuta alla morte dei miociti e le regioni non infartuate del muscolo cardiaco sono così sottoposte ad un sovraccarico
lavorativo e ciò costituisce lo stimolo per l’ipertrofia. Nelle condizioni di sovraccarico emodinamico prolungato si determinano modificazioni a
livello genico che portano alla riespressione di sintesi proteiche. Così le proteine correlate agli elementi contrattili e l’utilizzazione dell’energia
possono risultare significativamente alterati a causa della produzione di proteine anomale sia dal punto di vista funzionale che quantitativo.
L’ipertrofia cardiaca diventa quindi il risultato di un equilibrio instabile tra: meccanismi di adattamento (formazione di nuovi sarcomeri, non di
miociti), alterazioni strutturali (incremento di tessuto fibroso a sostituzione dei miociti morti) e sintesi di proteine anomale. Ciò porta alla fine
verso l’insufficienza cardiaca cronica (ICC).
Un altro meccanismo compensatorio è l’attivazione del sistema neuro-ormonale. Man mano che la funzionalità cardiaca declina (nel senso che
diminuendo la gittata cardiaca diminuisce il volume di sangue circolante) alcuni sistemi neuro-ormonali (renina-angiotensina-aldosterone o
RAA), l’ormone antidiuretico e vasopressina, il rilascio da parte dei nervi del sistema nervoso autonomo cardiaco del neurotrasmettitore
noradrenalina che provoca un aumento della frequenza cardiaca e della contrattilità, le citochine, sono di pari passo stimolati per mantenere un
adeguato volume di sangue in circolo. Nel rene, infatti, la riduzione della gittata cardiaca causa una riduzione della perfusione renale che attiva il
sistema RAA. L’attivazione dell’RAA produce vaso-costrizione dei vasi di piccolo e medio calibro arteriosi e ritenzione di sodio e di H 2O da
parte del rene che portano ad un aumento del volume di sangue. Se però questo meccanismo è in grado di salvare la vita in caso di perdite acute
di sangue, nel caso dello scompenso cardiaco cronico si innesca un circolo vizioso che porta ad una progressiva riduzione della funzionalità
cardiaca e renale. Infatti se lo scompenso perdura nel tempo, la ritenzione cronica dei liquidi e degli elettroliti porta allo stravaso di questi dai
vasi, con formazione di edemi, il che riduce nuovamente il volume circolante che attiva nuovamente il sistema neuro-ormonale (RAA). Nel
polmone l’aumento della pressione nelle vene polmonari e poi ai capillari polmonari e infine alle arterie polmonari porta alla congestione di
questi vasi e all’accumulo di liquido edematoso negli alveoli polmonari. Ciò porta alla manifestazione di alcuni sintomi clinici dello SCC come
l’affanno (dispnea) che può comportare in alcuni casi soffocamento e tosse. Nel cervello la mancanza di O 2 può dare origine a irritabilità, perdita
della capacità di attenzione, astenia ed agitazione fino al coma (per ridotta perfusione cerebrale). Inoltre la vasocostrizione continua produce un
aumento della pressione arteriosa e delle resistenze periferiche che fanno aumentare il lavoro al muscolo cardiaco e quindi nel tempo si produce
un aumento della disfunzione ventricolare.

DIAGNOSI
Lo scompenso cardiaco cronico è caratterizzato da un progressivo deterioramento della funzione cardiaca e della capacità di compiere esercizio
fisico. L’entità dei sintomi presenta un’ampia variabilità non necessariamente correlata alla gravità della disfunzione ventricolare per cui può
succedere che un soggetto con grave riduzione della contrattilità sia completamente asintomatico.
Secondo la New York Heart Association (NYHA) ci sono 4 gradi/stadi di scompenso che caratterizzano l’insufficienza cardiaca:
1) Attività fisica senza limitazioni: una normale attività fisica non causa eccessivo affaticamento, palpitazioni o dispnea.
2) Attività fisica parzialmente limitata: nessun sintomo a riposo; una normale attività fisica causa stanchezza, palpitazioni e dispnea.
3) Attività fisica chiaramente limitata: il paziente sta bene a riposo (poca sofferenza a riposo); un’attività fisica inferiore al normale
provoca la comparsa dei sintomi.
4) I sintomi compaiono già quando il paziente è a riposo: un incremento anche molto modesto di attività fisica provoca una forte
comparsa dei sintomi.
Il marcatore che svela lo scompenso in fase 1 è il BNP (Brain Natiuretic Peptide) che viene dosato nella provetta sierologica: un valore elevato
oltre la normalità indica scompenso.
Nel sospetto di scompenso cardiaco una valutazione iniziale deve prevedere l’anamnesi, un elettrocardiogramma, l’RX torace ed
un’ecocardiografia. Tutto ciò permette una diagnosi certa di disfunzione ventricolare di solito in uno stadio avanzato quando si è verificata una
notevole ipertrofia del ventricolo sinistro o destro (disfunzione sistolica). Queste tecniche al contrario difficilmente riescono a riconoscere la
patologia negli stadi iniziali, soprattutto quando il paziente si trova nello stadio di NYHA 2.
Molti studi che hanno portato all’identificazione nel sangue
periferico di una famiglia di peptidi, denominati Peptidi
Natriuretici, granuli di secrezione: ANP (Atrial Natriuretic Peptide)
presente negli atri e rilasciato a seguito di “stretch” miocardico;
BNP (Brain Natriuretic Peptide) presente nei ventricoli (ma anche
nel cervello) e rapidamente rilasciato dopo “stretch” miocardico
conseguente a LVD; CNP presente nel tessuto vascolare con
funzione ancora non totalmente definita; Urodilatina prodotto nei
reni ed escreto con le urine, l’esatta funzione non è ancora ben
chiara. I 4 peptidi natriuretici noti risultano tra loro correlati sia per
biochimica che per funzione fisiologica. Hanno effetti vari sui
tessuti coinvolti nella regolazione del livello di sodio e nella
omeostasi della pressione sanguigna. La struttura chimica di tutti i
peptidi natriuretici è caratterizzata da un anello, formato da 17
amminoacidi (aa), chiuso da un ponte disolfuro intramolecolare tra
due residui di cistina.

Per quanto riguarda il genoma umano, ANP e BNP sono localizzati sul cromosoma 1, mentre il CNP sul cromosoma 2. I peptidi natriuretici
prodotti e secreti in prevalenza dal cuore sono l’ANP e il BNP. I miocardiociti producono tali peptidi sotto forma di pro-ormoni con una catena
aminoacidica molto più lunga dell’ormone attivo circolante. Dalla trascrizione del gene codificante il BNP origina una molecola di RNA-
messaggero su cui viene sintetizzato un peptide precursore (pre-proBNP) di 134 aa che, con la perdita di un peptide segnale nel reticolo
endoplasmatico rugoso di 26 aa, diventa costituito da 138 aa (pro-ormone) e come tale viene immagazzinato nella cellula miocardica. Al
momento del rilascio il pro-BNP è scisso enzimaticamente in un frammento inattivo amino-terminale di 76 aa (NH 2Terminale-proBNP) e nella
forma attiva peptide carbossiterminale di 32 aa (frammento COOH-Terminale del proBNP o BNP).
È importante dire che tutti questi peptidi si possono isolare nel plasma. Sia l’ANP che il BNP sono sintetizzati prevalentemente a livello dei
cardiomiociti, il primo in prevalenza a livello degli atri ed il secondo in prevalenza a livello dei ventricoli. Poiché però la massa ventricolare è
molto superiore rispetto a quella atriale, uno stimolo cronico induce l’immissione in circolo di molte più molecole di BNP che di ANP. Nell’SCC
si osserva che il rapporto fra il numero di molecole circolanti di BNP rispetto a quelle di ANP tende ad aumentare con la gravità della
disfunzione miocardica e della sintomatologia. Nel soggetto normale invece il rapporto fra il numero di molecole circolanti di ANP e BNP risulta
circa uguale all’unità, nel SCC avanzato classe 3 e classe 4 vi sono mediamente da tre a cinque molecole circolanti di BNP per una di ANP. Per
questo motivo il dosaggio del BNP possiede generalmente una maggiore sensibilità ed un’accuratezza diagnostica migliori di quello dell’ANP in
pazienti con malattie cardiache. Solo ANP e BNP risultano essere di origine cardiaca: ANP è prodotto principalmente negli atri ed è rilasciato nel
sangue come risposta ad un aumento del volume sanguigno che conduce ad un incremento dello stretch miocardico; BNP è originariamente
rinvenuto nel cervello ma con espressione minima ed è prodotto principalmente nei ventricoli (il BNP rinvenuto nel sangue è pertanto di origine
cardiaco).

La disfunzione sistolica o diastolica è una condizione iniziale dello scompenso. Essa può essere rilevata grazie al dosaggio dell'NT-Pro-BNP. Le
cause che portano alla produzione di ANP e BNP sono la distensione delle pareti cardiache dato da un aumento del volume circolante, l’ipertrofia
e la fibrosi soprattutto a livello ventricolare. Anche l’ischemia o forse la sola ipossia del tessuto miocardico può stimolare la
produzione/secrezione del BNP dai cardiomiociti ventricolari. La produzione/secrezione del BNP e dell’ANP è stimolata non solo da fattori
emodinamici che portano ad un aumento della distensione delle camere cardiache (stress parietale atriale e ventricolare) ma anche
dall’attivazione del sistema dei neuro-ormoni e tale stimolazione nella produzione di BNP e ANP è, per quanto riguarda la concentrazione, di
tipo logaritmica: a piccole brevi sollecitazioni, corrispondono grandi variazioni delle concentrazioni circolanti di BNP e ANP.
Principali azioni dei peptidi natriuretici (ANP, BNP): Diuresi e natriuresi, Inibizione del sistema neuro-ormonale, Diminuzione della pressione
arteriosa, Azione anti-ipertrofica. Tra le sostanze che inducono la sintesi e la secrezione dei peptidi natriuretici, oltre alla distensione delle pareti
cardiache, ricordiamo: Angiotensina II, Endoteline, Citochine (TNF-α, IL-1 e IL-6). Durante l’SCC vengono prodotte dai grossi vasi le
endoteline che servono a favorire la crescita delle cellule endoteliali e della muscolatura liscia dei vasi durante lo sviluppo dell’ipertrofia ed il
rimodellamento del miocardio negli stati di ipertensione cronica. Qui gioca infatti un ruolo importante anche il CNP. Esso agisce come mediatore
di tipo paracrino, quindi non è presente in circolo ed il suo effetto è prevalentemente miorilassante e anti-mitogenico. Insieme al CNP, il BNP e
l’ANP svolgono un importante azione cardioprotettiva intervenendo nel controllo della crescita delle cellule endoteliali e della muscolatura liscia
dei vasi.
Insieme all’Urodilatina, che è sintetizzata a livello delle cellule tubulari del rene e secreto nel lume tubulare, lo si ritrova nelle urine e non nel
sangue periferico, il BNP e l’ANP producono un aumento della diuresi, della natriuresi, un’azione vasodilatante sui vasi con diminuzione della
pressione arteriosa ed un’azione inibitrice su aldosterone, angiotensina II e vasopressina.
Le concentrazioni plasmatiche di BNP e NT-proBNP possono essere aumentate anche in alcune condizioni fisiologiche (esercizio fisico e
gravidanza) e patologiche, soprattutto quelle caratterizzate da un aumento del volume circolante di liquidi e sali come l’iperaldosteronismo
primitivo o secondario, la cirrosi epatica, l’insufficienza renale acuta e cronica, l’embolia polmonare. Alcuni farmaci come cortisone, ormoni
tiroidei, estrogeni, la digitale e alcuni β-bloccanti possono portare ad un aumento della concentrazione ematica di BNP e NT-proBNP. In questo
caso non si troverà concordanza con gli esami strumentali. Quindi il dosaggio ha importanza soprattutto per il suo alto valore predittivo negativo.
Inoltre il sesso e l’età giocano un ruolo altrettanto importante nella variazione della concentrazione ematica del BNP e NT-proBNP. Le donne in
età fertile presentano valori circa due volti superiori rispetto ai maschi di pari età ed inoltre dopo i 50 anni i valori dei peptidi natriuretici
aumentano in entrambi i sessi, per cui un soggetto di 60 anni può avere una concentrazione di BNP doppia rispetto ad un soggetto di 30 anni.
Questi peptidi natriuretici posseggono numerosi effetti biologici:
- aumento di diuresi e natriuresi per azione diretta sul tubulo renale e per un’inibizione del sistema simpatico renina-angiontensina-
aldosterone e vasopressina-ormone antidiuretico;
- l’effetto ipotensivo di questi peptidi è dovuto anche all’inibizione a livello centrale dove inibiscono la secrezione di ADH e ACTH;
- diminuzione della pressione arteriosa conseguente ad un’azione vasodilatante su arterie e vene.
Considerazioni di carattere generale sull’utilità clinica di ANP e BNP
- In circolo si ritrovano molte più molecole di BNP che non di ANP perché la massa ventricolare è maggiore. Inoltre uno stimolo
cronico produce molto più BNP che non ANP. Si è potuto osservare inoltre che il numero di molecole circolanti di BNP tende ad
aumentare con la gravità anatomica, funzionale e dei sintomi dell’insufficienza cardiaca (in un soggetto normale il rapporto BNP/ANP
invece è circa 1).
- La misura dei peptidi natriuretici è utile sia nei soggetti asintomatici che in quelli con sintomi sospetti ad escludere piuttosto che a
confermare la presenza della disfunzione ventricolare sinistra sistolica che è la causa più frequente di SCC.
- Esiste una correlazione diretta tra i livelli plasmatici dei peptidi natriuretici e la classe funzionale (NYHA) del paziente.
- È documentabile una relazione inversa tra i livelli dei peptidi natriuretici e la FE del ventricolo sinistro.
- I Pazienti con livelli più elevati di peptidi natriuretici hanno una minore probabilità di sopravvivenza.
- I Pazienti con SCC a livelli elevati di BNP sembrano particolarmente a rischio di morte improvvisa.
Il dosaggio dei Peptidi Natriuretici è utilizzato molto nei reparti di Medicina d’Urgenza (Pronto Soccorso) nella diagnosi differenziale di dispnea
acuta. Come esempio vediamo un sistema POCT BNP che utilizza un metodo “Point of Care Testing”. Il Test dura solamente 12 minuti, prevede
solo tre passaggi operativi e cioè introduzione della striscia nello strumento, applicazione di 150 microlitri di sangue venoso eparinato e lettura
del risultato. Quindi il dosaggio ha importanza soprattutto per il suo alto valore predittivo negativo. Ma valori nella norma non sempre escludono
la presenza di insufficienza cardiaca.

LIQUOR CEFALO-RACHIDIANO

Il prelievo del liquor cefalo-rachidiano è detto rachicentesi. Questo esame costituisce una procedura diagnostica importante per numerose
patologie neurologiche (malattie demielinizzanti e nel sospetto di meningiti di natura batterica o virale) e anche per altre patologie non
neurologiche. Tra le malattie: tumori maligni, tumori benigni (portano a morte perché crescendo comprimono il cervello), traumi, infarti, disturbi
di conducibilità elettrica (epilessia), malattie autoimmuni (SLA), Alzheimer (accumulo di proteine TAU e fosfo-TAU all’interno della cellula e di
β-amiloide all’esterno che uccidono la cellula e portano atrofia cerebrale).
Il liquor viene prodotto dai plessi corioidei dei ventricoli e riempie gli spazi ventricolari e sub-aracnoidei che circondano l’encefalo ed il midollo
spinale. Il sistema nervoso centrale ed il midollo spinale sono circondati da tre membrane, le meningi: la membrana esterna è la dura madre, lo
strato intermedio è l’aracnoide e lo strato interno è la pia madre che aderisce alla superficie del tessuto nervoso. Il liquido cefalo-rachidiano
(liquor) circola nello spazio tra aracnoide e pia madre ed è a contatto con il cervello ed il midollo spinale. La sede principale del liquor sono i
plessi corioidei che sporgono nei ventricoli. Questi plessi sono costituiti da un insieme di villi corioidei formati da epitelio monostratificato di
cellule cilindriche e fornite nell’estremità che si affaccia al ventricolo di orletto a spazzola e da un asse vascolare che è il capillare corioideo che
deriva dai rami terminali delle arterie corioidee. La caratteristica dell’epitelio corioideo è la presenza delle giunzioni serrate che uniscono tra loro
le cellule nella parte apicale (tight junction).

BARRIERA EMATOENCEFALICA
Anche i capillari cerebrali differiscono da quelli di altri tessuti per la presenza delle giunzioni serrate tra le cellule endoteliali, per l’esistenza
della membrana basale e dei piedi astrocitari. Tutto questo complesso costituisce la barriera emato-encefalica. Essa è costituita da epitelio dei
plessi corioidei, dal complesso glio-capillare e dall’aracnoide. Le cellule dell’endotelio presentano: nella porzione apicale le giunzioni tight che
impediscono il passaggio delle sostanze; una membrana basale; al di sopra sono presenti prolungamenti di astrociti, prolungamenti dendritici
(inspessiscono l’endotelio) e periciti (cellule muscolari che contraggono il capillare in modo tale da limitare ulteriormente il passaggio), cellule
della microglia (macrofagi), oligodendrociti (nella formazione del rivestimento mielinico dell’assone).

La libera diffusione dei soluti è impedita dalle giunzioni apicali che lasciano passare solo acqua e ioni. La maggior parte della produzione
liquorale avviene attraverso un passaggio attivo ATP-dipendente dello ione sodio seguito poi dal passaggio passivo di acqua e cloro. Il trasporto
delle proteine è regolato tramite un sistema attivo di trasporto vescicolare. Vi è quindi un trasporto selettivo e controllato. In generale la
concentrazione di una plasmaproteina nel liquor dipende dalla sua concentrazione nel siero, dall’integrità della barriera, dalla grandezza
molecolare, dalla sintesi locale nel SNC, dall’età del paziente e dalla sede del prelievo. Il glucosio e gli aa vengono secreti nel liquor attraverso
dei carriers di membrana.

LIQUOR
Il liquor viene prodotto e drenato nel cervello e viene drenato principalmente a livello del seno sagittale superiore dove ci sono dei grandi
agglomerati di villi dette granulazioni aracnoidee di Pacchioni. Sotto il fisiologico gradiente pressorio tra liquor e sangue venoso si formano
delle vescicole grandi di pinocitosi che si riempiono di liquor per poi aprirsi sul versante venoso riversando il proprio contenuto nel sangue. Il
liquor che era stato secreto in maniera selettiva viene così riassorbito in modo indifferenziato.
La produzione totale nelle 24 ore è di circa 500-600 ml con rinnovamento totale ogni 6-8h. Il volume totale circolante è intorno a 150 ml
suddiviso in circa 30 ml nei ventricoli e 120 ml negli spazi subaracnoidei. Il 70% è prodotto dai plessi corioidei mentre il restante 30% è
prodotto dai capillari del parenchima del SNC e dai vasi dello spazio aracnoideo. Il liquor fuoriesce dai ventricoli attraverso delle aperture
(foramina) e circola negli emisferi cerebrali e verso il basso sul midollo spinale.
Le funzioni del liquor sono quelle di proteggere il sistema nervoso centrale da traumatismi esterni: lo strato liquido interposto tra sistema
nervoso e pareti ossee che lo contengono assorbe ed attenua gli urti (protezione del cervello). La presenza del liquor anche a livello spinale si
spiega con la necessità fondamentale di ottenere il massimo dell’attività meccanica di ammortizzatore dei traumatismi, considerando le
gravissime conseguenze di lesioni anche piccole al midollo spinale. Inoltre assicura il trasporto di sostanze nel cervello biologicamente attive ed
infine assicura la rimozione dei prodotti del metabolismo cerebrale come CO 2, acido lattico, agendo come un sistema linfatico di drenaggio (non
c’è liquido linfatico perché la sua presenza porterebbe ad un aumento del rischio infettivo).

PUNTURA LOMBARE (RACHICENTESI)


La rachicentesi (puntura lombare) è una pratica medico-chirurgica che consiste nella raccolta di un campione di liquido cerebrospinale mediante
l'introduzione di un ago tra le vertebre L3-L4 o L4-L5. Per una corretta esecuzione il paziente viene posto in decubito laterale sul bordo del letto
in modo che il paiano del dorso sia perpendicolare al piano del letto. Per evitare eventuali danni al SNC negli adulti si usa pungere nello spazio
intervertebrale L3-L4 dato che il midollo non si estende fino a quel livello. Nei bambini piccoli o nei lattanti si usa pungere tra L4-L5 perché a
questa età il midollo può essere esteso fino a L3. Il paziente deve essere a digiuno da almeno 6 ore e deve essere sveglio per valutare tutte le
funzioni. Successivamente deve essere tenuto in osservazione e a riposo nelle ore successive.
Finalità diagnostiche della rachicentesi: accertamento di infezioni cerebrali (es. meningite), patologie demielinizzanti (es. sclerosi multipla),
neoplasie, epilessia. Finalità terapeutiche della rachicentesi: riduzione della pressione intracranica e somministrazione di medicinali (es.
chemioterapici/anestesia spinale).
Una controindicazione alla puntura può essere la presenza di un’infezione in corrispondenza del sito di puntura, perché si può avere diffusione
delle infezioni alle meningi. Un’altra controindicazione è costituita da qualunque segno di aumentata pressione endocranica. Infatti in questi casi
un prelievo del liquor dallo spazio lombare può portare ad un incuneamento del tronco dell’encefalo (ernia) dovuto allo squilibrio pressorio che
si determina all’interno dello spazio subaracnoideo con conseguente spostamento attraverso il forame magnum del tronco dell’encefalo da una
regione a pressione elevata all’interno del cranio ad una regione a pressione minore nel canale vertebrale. La puntura lombare non dev'essere
eseguita in caso di: disturbi respiratori, coagulopatia, trombocitopenia, sepsi, ernia cerebrale, ipertensione intracranica idiopatica, diatesi
emorragica, deformità vertebrali, ipertensione con bradicardia.
Le indicazioni ad una puntura lombare sono: sospetto di infezioni alle meningi, sospetto di emorragia subaracnoidea, sospetto di neoplasie del
SNC, sospetto di malattie demielinizzanti. È altresì necessario prelevare anche un’aliquota di sangue del paziente mediante prelievo capillare
venoso. L’affidabilità dei risultati dipende molto dalla tempestività con cui il prelievo viene inviato in laboratorio. Il principio fondamentale per
una diagnostica liquorale è quello di prelevare al paziente sia un campione di liquor che di sangue venoso (provetta sierologica). Indicazioni utili
che possono essere fornite dai neurologi al laboratorio sono se la puntura è ventricolare o lombare e l’eventuale sospetto diagnostico. Il volume
del prelievo può essere di circa 10 ml suddiviso in provette sterili in polipropilene mentre sono da escludere quelle di vetro che possono causare
assorbimenti aspecifici sulle pareti di alcune classi di proteine (IgG) e dei monociti. Tale quantitativo è indicativo in quanto a volte, soprattutto
nei bambini, si riesce a prelevare pochi millilitri di liquor.
La concentrazione di alcuni componenti, come gli elettroliti ed il glucosio, dipendono dalla concentrazione plasmatica di tali elementi presenti
nel sangue anche se in generale normalmente le sostanze a livello liquorale hanno una concentrazione minore rispetto a quella plasmatica. Il
liquor dopo essere stato riassorbito viene immesso nel circolo venoso. A livello lombare tale riassorbimento è rallentato per cui la concentrazione
degli analiti è più elevata rispetto alle concentrazioni ventricolari o delle cisterne.
Il campione di liquor deve giungere al Laboratorio di Patologia Clinica contenuto in 3 provette di plastica sterili di 1.5 ml. Le provette sono
sterili in polipropilene e sono da escludere quelle di vetro perché possono causare assorbimento sulle pareti di globuli bianchi (monociti) e IgG.
Ciascuna provetta deve essere corredata con una etichetta indicante data, reparto, nome e cognome del paziente ed un numero ordinale che
indichi quale sia stata la provetta usata per prima durante il prelievo, poi la seconda ed infine la terza. Gli ospedali distanti dal Laboratorio
dovrebbero organizzare l’invio del campione in tempi brevi, entro due ore dal prelievo senza congelare. Sono tre perché se esce sangue solo
dalla prima significa che è stato preso un capillare, se il sangue risulta presente anche nelle altre provette vuol dire che c’è un’emorragia
cerebrale. In caso di puntura traumatica e/o sospetto di emorragia sub-aracnoidea dopo aver raccolto il campione in tre provette consecutive, si
procede alle determinazioni chimico-fisico e cellulari dall’ultima provetta che dovrebbe essere meno inquinata in caso di puntura traumatica.
Il liquor cefalo rachidiano è un liquido che normalmente si presenta limpido, cristallino e sterile.
La puntura lombare è di norma effettuata al mattino, con paziente a digiuno.
Esecuzione della rachicentesi:
1. Posizionare il paziente (seduto con schiena arcuata, sdraiato sul fianco in posizione fetale, in piedi con schiena arcuata)
2. preparazione del campo sterile (disinfezione della cute con sostanze antisettiche a base di iodio);
3. esecuzione dell'anestesia locale (lidocaina 1%);
4. individuazione della zona;
5. introduzione dell'ago da puntura lombare tra gli spazi intravertebrali L3-L4 o L4-L5;
6. raccolta di un campione di liquor;
7. rimozione dell'ago da rachicentesi;
8. pulizia della zona.
Complicanze post-rachicentesi
- Lievi: cefalea (con nausea,vomito,vertigini), dolore lombare, temporanea parestesia.
- Gravi: tossicità da anestetico, sanguinamento, sanguinamento nello spazio epidurale, ascesso epidurale, discesa delle tonsille
cerebellari, trombocitopenia grave.
La puntura lombare viene eseguita a finalità diagnostiche o terapiche. In caso di rachicentesi diagnosticata l'obiettivo è raccogliere un campione
di liquor per verificare un eventuale processo infettivo-infiammatorio a carico del cervello (es. encefalite, meningite, sindrome di Guillain-Barre,
ecc...). La rachicentesi diagnostica viene eseguita anche per accertare o meno la presenza di patologie demielinizzanti (es. sclerosi multipla) e
per la ricerca di cellule neoplastiche (screening oncologico). La puntura lombare viene altresì eseguita per accertare o smentire un eventuale
stato epilettico (specie dopo una convulsione "sospetta"). La rachicentesi terapeutica è indicata per ridurre la pressione intracranica in caso di
idrocefalo (accumulo di liquor nelle cavità o ventricoli cerebrali) o per somministrare medicinali direttamente all'interno dello spazio sub-
aracnoideo (es. anestesia spinale, chemioterapia). Per valutare se la chemioterapia è sufficiente il dosaggio delle cellule neoplastiche e degli
anticorpi nel liquor).
La rachicentesi non può essere eseguita in alcune particolari circostanze:
- infezione cutanea a livello lombare, la rachicentesi può favorire la diffusione dell'infezione;
- sepsi;
- sospetta o accertata ernia cerebrale;
- malattia articolare degenerativa;
- ipertensione intracranica idiopatica, la rachicentesi è caldamente sconsigliata quando non è possibile risalire alla causa scatenante
l'aumento della suddetta ipertensione (l'ipertensione intracranica complicata può essere associata all'ernia cerebrale);
- disturbi respiratori (iperventilazione, apnee, arresto respiratorio);
- diatesi emorragica (coagulopatia o trombocitopenia);
- ipertensione associata a bradicardia ed alterazione della coscienza;
- deformità vertebrali (es. scoliosi, cifosi).
La rachicentesi non dev'essere eseguita se il paziente non collabora: in simili frangenti, il soggetto dovrà essere lievemente sedato.

La rachicentesi viene eseguita in regime ambulatoriale: richiede pochi minuti ed è praticata in anestesia locale. Prima di procedere con la puntura
lombare, l'èquipe medica deve preparare tutta la strumentazione necessaria per l'intervento: ago per puntura lombare, siringhe da 5-10 ml,
anestetico locale, antisettico, guanti/garze/telini sterili, aghi intramuscolari per anestetico locale ecc... Prima della rachicentesi, il medico indaga
sulla storia clinica del paziente (anamnesi). Si raccomanda di eseguire le analisi del sangue per verificare un eventuale sanguinamento o altri
disturbi della circolazione. Il medico talvolta prescrive una TAC al paziente per accertare l'assenza di gonfiore o anomalie cerebrali. L'assistito è
tenuto ad informare il medico in caso di terapia anticoagulante (es. warfarin, clopidogrel, aspirina ecc...). Al medico dev'essere segnalata anche
un'eventuale allergia a farmaci anestetici locali. Il paziente dovrà successivamente firmare un modulo in cui dichiara di essere stato informato su
finalità, modalità e possibili rischi dell'intervento, prestando il proprio consenso all'esecuzione della rachicentesi.
La puntura lombare può essere eseguita in decubito laterale (posizionando il paziente in posizione fetale, con braccia e gambe raccolte), oppure
in posizione seduta, con la schiena flessa in avanti e i gomiti poggiati su un cuscino. Il paziente dev'essere rilassato e non deve muoversi durante
la procedura (i movimenti bruschi possono infatti determinare la rottura dell'ago). Anche il medico deve assumere una postura comoda e sicura:
in questo modo può eseguire le manovre necessarie in totale sicurezza. Dopo aver posizionato correttamente il paziente, è possibile iniziare la
rachicentesi. Di seguito, è descritta per punti la procedura chirurgica:
- Preparazione del campo sterile: la cute va disinfettata con una soluzione antisettica (generalmente a base di iodio) in prossimità del
punto in cui viene eseguita la puntura lombare.
- Esecuzione dell'anestesia locale (lidocaina 1%) mediante un sottilissimo ago: è necessario attendere qualche istante prima di praticare
la rachicentesi per permettere all'anestetico di esercitare il proprio effetto terapeutico.
- Introduzione dell'ago da puntura lombare, tra gli spazi intravertebrali L3-L4 o L4-L5, fino al raggiungimento dello spazio sub-
aracnoideo. A questi livelli si opera in totale sicurezza: risulta pressoché impossibile provocare lesioni alle strutture del midollo (estese
normalmente fino al margine superiore della seconda vertebra lombare). L'inserimento dell'ago può favorire una sensazione particolare
di formicolio: è necessario informare il paziente di questa possibilità, per evitare agitazione e preoccupazione che potrebbero
complicare la procedura.
Il raggiungimento dello spazio sub aracnoideo è identificato da due elementi importantissimi: l'improvvisa cessazione di resistenza all'ago e
l'emissione del liquor.
- Eventuale misurazione della pressione endocranica mediante il manometro di Claude.
- Raccolta di un campione di liquor: il liquido cerebrospinale non va aspirato, piuttosto il prelievo deve avvenire mediante la raccolta
delle gocce in uscita dall'ago. Così facendo, si evita di sottoporre lo spazio sub-aracnoideo ad una pressione negativa; in caso contrario,
il paziente lamenta nausea e mal di testa. Solitamente si raccolgono tre provette di campione, utili per lo studio biochimico, per
l'analisi microbiologica e per la ricerca delle cellule.
- Rimozione dell'ago da rachicentesi.
- Esercitare una leggera pressione con garze sterili direttamente sulla sede di puntura.
- Pulizia della zona con una soluzione fisiologica ed applicazione di una sostanza antisettica, indispensabile per rimuovere i residui di
sangue ed evitare la contaminazione della zona.
- Applicazione di un cerotto medicato nel punto d'inserzione dell'ago.
Non è raro che al termine della rachicentesi il paziente lamenti cefalea: in questo caso, è possibile la somministrazione di un analgesico. Dopo il
prelievo, l'assistito deve rimanere in posizione supina per alcune ore (in genere sono sufficienti 2 o 3 ore) per il monitoraggio delle condizioni
cliniche. Il paziente viene invitato ad assumere cospicue quantità di acqua dopo la puntura lombare: l'assunzione forzata di liquidi ristabilisce il
livello del liquor. Né l'iperidratazione forzata né il mantenimento della posizione supina si sono rivelate strategie efficaci per sfuggire agli effetti
collaterali tipici (mal di testa) post-rachicentesi.

ESAME LIQUOR
Il liquor contenuto nelle prime due provette viene utilizzato per gli esami biochimici e la conta cellulare nella camera burker, la terza provetta di
liquor viene utilizzata per gli esami batteriologici o virali. Il primo esame che viene eseguito in Laboratorio è l’esame chimico-fisico.
ESAME CHIMICO-FISICO
ASPETTO e COLORE – All’arrivo del campione il personale tecnico provvede ad una prima fase ispettiva del campione valutandone l’aspetto
ed il colore. Per quanto riguarda l’aspetto il liquor normale ha la consistenza e la limpidezza dell’acqua. La refertazione va fatta con i seguenti
codici di refertazione: limpido, lievemente torbido, torbido. Per quanto riguarda il colore in condizioni normali il liquor si presenta incolore
(acqua di roccia). Nel caso di emorragie lo stesso si presenta con una colorazione che può andare dal rosato al francamente ematico se
l’emorragia è recente. Nel caso invece di emorragie pregresse può presentarsi con una colorazione giallastra ( xantocromia). Tale colore è dovuto
alla presenza di bilirubina nel liquor. Normalmente sono necessarie 12-24 ore perché l’emoglobina rilasciata dalle emazie venga convertita a
bilirubina, passando prima per la fase di ossiemoglobina (colorazione rosa-arancione), poi di metaemoglobina (colorazione marrone) ed infine di
bilirubina. La conversione dell’emoglobina in bilirubina viene arrestata al momento del prelievo del liquor. Essa persiste nella gran parte dei
pazienti (70%) anche fino a 3 settimane dall’evento emorragico. Le cause della colorazione rossastra del liquor quindi possono essere dovute ad
emorragie meningee (con assenza di coaguli evidenti), da manovre accidentali e/o traumatiche da puntura e da emorragia con concomitante
flogosi alle meningi (presenza di coagulo). Tecnicamente si procede mediante una lettura spettrofotometrica del campione di liquor. La
refertazione va quindi fatta con i seguenti codici: incolore o acqua di roccia, moderatamente ematico, ematico e fortemente ematico,
xantocromico quando il liquor presenta una colorazione giallastra.
Le modificazioni del colore del liquor sono: aspetto ematico con colorazione rosea o francamente rossa dovuta ad una puntura accidentale
durante il prelievo di un vaso; xantocromia quando assume un aspetto più o meno intensamente giallo e ciò indica che si tratta di un’emorragia
del parenchima o delle meningi e che quindi il sangue era già presente al momento del prelievo e che vi era restato per un tempo sufficiente
perché avvenisse la lisi degli eritrociti e l’Hb fosse metabolizzata in pigmenti gialli-brunastri quali ossiemoglobina e bilirubina.
La xantocromia è quindi tipica di emorragie verificatesi molte ore o giorni prima della rachicentesi. Gli eritrociti scompaiono nel giro di 3-7
giorni ma la xantocromia comincia a manifestarsi alcune ore (4-12) dopo l’emorragia, raggiunge il massimo dopo circa una settimana per poi
scomparire dopo 8-12 giorni. La colorazione xantocromica potrà dipendere da emorragie pregresse massive nei ventricoli cerebrali o negli spazi
sub aracnoidei, da diapedesi di eritrociti nei tumori endocranici o midollari, in pazienti con ittero, nella sindrome di Froin, nelle meningiti
batteriche in fase iniziale e infine nelle encefaliti virali.
La valutazione della presenza di sangue deve richiedere attenzione. Bisogna chiedersi infatti se il sangue sia di provenienza liquorale o sia
secondario al trauma della rachicentesi. Per far chiarezza si può valutare in questo modo la situazione: quando si procede alla conta delle cellule
presenti nel liquor, se il sangue è dovuto al trauma del prelievo via via che l’aspirazione procede la quantità di sangue tenderà a diminuire nelle
due o tre provette contenenti il liquor da analizzare; questo fenomeno non avverrà se il sangue è di origine intratecale perché tutte le provette
conterranno materiale contaminato.
Un eccesso di bilirubina è causato da un’emorragia del giorno prima. I globuli rossi si rompono per emorragia nel cervello (il paziente non se ne
accorge). Hb si ossida dall’O2 e diventa ossiemoglobina, poi metaemoglobina ed infine bilirubina. Questa bilirubina non viene dal fegato ma
dall’ossidazione dell’Hb dopo l’emorragia.
ESAME AL MICROSCOPIO OTTICO
La premessa più importante per un esame citologico ineccepibile del liquor è che il numero totale di cellule venga determinato possibilmente
entro 1-2 ore dal momento del prelievo mediante puntura lombare. Se un rinvio è inevitabile è meglio conservare il liquor a temperatura
ambientale che non in frigorifero. Al microscopio ottico viene effettuata una conta mediante camera burker del numero per mm³ di eritrociti e
leucociti. La lettura delle cellule liquorali è da effettuare entro due ore dalla puntura lombare. Il liquor è virtualmente privo di cellule anche se un
numero ≤ 1 cellula/μl può essere considerato normale. Possono esserci linfociti, monociti o macrofagi, polimorfonucleati e normalmente non ci
sono globuli rossi. In caso di liquor limpido (virali) con ≤ 1000 cellule/μl (10-200 linfociti/μl). In caso di liquor torbido con ≥ 1000 cellule μl
(batteriche). Vi può essere una cellularità mista di monociti, neutrofili e linfociti nelle meningiti tubercolari, micotica o in quelle batteriche
croniche, da Toxoplasma e Brucellosi.
Infine va fatta un’ultima considerazione sulla cellularità: esiste un rapporto leucociti/emazie che rimane costante in caso di contaminazione. SÌ
vuole dire che nel caso di un prelievo traumatico la presenza di leucociti è dovuta alla presenza di emazie. Tale rapporto costante è 1-2 leucociti
ogni 1000 emazie.
Quindi per discernere tra meningite batterica e virale si vedono le cellule nel liquor. I globuli bianchi in caso di batterica sono maggiori di quelli
della virale, nello specifico granulociti, quindi liquor torbido. Meningite virale liquor limpido con alti globuli bianchi ma linfociti.
GLUCOSIO
Il dosaggio del glucosio nel liquor è chiamato glicorrachia (v.n. 40-60 mg/dl). Esso viene determinato mediante test colorimetrici.
Corrisponde al 60% del livello di glicemia nel sangue (nel sangue 60-100 mg/dl). Il glucosio ematico passa nel LCR tramite uno specifico
sistema di trasporto di membrana; perciò anche in presenza di una iperglicemia postprandiale o patologica, la glicorrachia non supera di molto il
valore fisiologico perché si verifica la saturazione del sistema di trasporto. Quindi va effettuato un prelievo ematico circa 30-60’ prima
dell’esecuzione della puntura lombare. Inoltre dato il metabolismo del glucosio è un processo attivo che continua anche dopo il prelievo del
liquor bisogna effettuare al più presto il dosaggio.
La glicorrachia è patologica se la concentrazione del glucosio si abbassa. Non ci sarà diminuzione della glicorrachia in corso di infezioni virali
come la meningite virale o in caso di malattie neurodegenerative come sclerosi multipla, sclerosi a placche, Alzheimer, Parkinson, polineuriti.
Lieve diminuzione della glicorrachia si potrà avere in corso di emorragie sub aracnoidee, tumori del sistema nervoso centrali, infiltrazioni
leucemiche, metastasi. Una netta diminuzione della glicorrachia si avrà in caso di infezioni batteriche, micosi, protozoi e meningite tubercolare.
Quindi l’ipoglicorrachia si verifica per aumentata utilizzazione da parte del parenchima cerebrale sofferente o per aumento di utilizzazione da
parte dei batteri con aumento della glicolisi anaerobia con produzione di acido lattico, o per inibizione del passaggio di glucosio dal sangue per
alterazione dei trasportatori di membrana. Vi è infine un gradiente ventricolo-lombare della glicorrachia con una maggiore concentrazione a
livello ventricolare.
Questo valore serve per capire se è meningite batterica o virale: nella meningite virale è normale, nella meningite batterica la glicoracchia è
bassa perché i batteri consumano glucosio.
Infezione batterica: liquor torbido; ipoglicorrachia, aumento granulociti.
Infezione virale: liquor limpido, glicorrachia normale, aumento leucociti.
PROTEINE
Un’ulteriore determinazione che viene effettuata nel Laboratorio di Patologia Clinica è il dosaggio delle proteine liquorali, detta protidorrachia.
Il v.n. < 1% delle proteine totali, quindi 40-60 mg/dl perché nel sangue sono circa 6 gr.
In condizioni fisiologiche la barriera emato-encefalica (BEE- riferita ai capillari del SNC) e quella emato-liquorale (BEL- riferita alle cellule
cuboidi dei villi corioidei) non permette il passaggio di proteine per cui di norma il CSF ha un contenuto molto basso con circa l’1% della
concentrazione plasmatica e con valori intorno a 40-60 mg/dl. Nei bambini i valori sono più elevati. La concentrazione delle proteine liquorali
dipende quindi dall’età del paziente dove la BEE e BEL sono immature nel bambino e deficitarie nell’anziano.
Le proteine liquorali sono direttamente proporzionali alla loro concentrazione serica. L’80% di queste proteine deriva dalle proteine plasmatiche
per diffusione passiva attraverso la BEE per criteri di selettività in base alle dimensioni e alla carica elettrica e per diffusione attiva per mezzo di
sistemi di trasporto specifici. Poi ci sono proteine presenti a maggiore concentrazione nel liquor come la transtiretina (prealbumina), la
transferrina desialata e la transferrina plasmatica. La transtiretina è un marker utilizzato per la valutazione della rinoliquorrea, ovvero la perdita
di liquor dal naso (complicanza posto-chirurgica).
Il grado di permeabilità della BEE ed il carico proteico plasmatico influenzano notevolmente la presenza di proteine e la composizione delle
singole specie proteiche nel liquor.

PATOLOGIA CLINICA
Le malattie del SNC consistono in rottura della barriera ematoencefalica e produzione di anticorpi in loco (malattie autoimmuni); tumori;
emorragie; infezioni (encefaliti e meningiti).
Malattie SNC:
- PARAPROTINEMIA
- SINTESI INTRATECALE
- DANNO BARRIERA
Le cause di rottura della barriera possono essere infezioni, ipertensione arteriosa, tumori. Per valutare la gravità del danno di barriera si usa una
formula: ([ALBUMINA LIQUOR] / [ALBUMINA SIERO] X 1000 = deve essere < 7. Questo perché l’albumina normalmente non passa nel
cervello perché troppo grossa, quindi maggiore se ne trova nel liquor maggiore è il danno ed esprime la quantità che ne è passata dal sangue al
liquor.
Esistono poi le malattie autoimmunitarie come la Sclerosi Multipla che è un progressivo decadimento delle capacità motorie, sensitive, ecc… in
base all’area colpita (motoria, linguaggio, …). Gli anticorpi attaccano la mielina anziché il virus perché quest’ultimo si “nasconde” nel cervello.
Il virus si replica e si mimetizza nella mielina e i linfociti non sapendo distinguere attaccano tutta la mielina (malattia demielinizzante). In questo
caso quindi la produzione e la sintesi di Ab avviene nel cervello, si parla quindi di sintesi intratecale perché gli Ab non sono sintetizzati nel
sangue ma direttamente nel cervello. Per discernere le situazioni si utilizza una formula: ([IgG LIQUOR] / [IgG SIERO]) / ([ALBUMINA
LIQUOR] / [ALBUMINA SIERO]) = il valore di normalità deve essere < 0,7. Si utilizza per discernere la presenza di Ab nel cervello: se danno
di barriera (Ab dal sangue al cervello) o meno. Ciò che aumenta in caso di sintesi intratecale numero numeratore. Ciò che aumenta in caso di
danno di barriera ematoencefalica è numero denominatore.
Le immunoglobuline liquorali hanno importanza fondamentale per diagnosticare la presenza di uno stato infiammatorio del SNC, sia come
risposta ad un agente infettivo che come processo patologico dovuto ad una attivazione del sistema immunitario. Nel corso di un processo
infiammatorio infatti esistono solo alcune proteine β e γ traccia e proteina tau di origine intratecale. Anche la prealbumina è sintetizzata sia nel
fegato che nei plessi corioidei e quindi la sua concentrazione è in percentuale più alta nel liquor rispetto al siero.

Definiamo DANNO DI BARRIERA qualsiasi condizione fisiopatologica che comporta un aumentato passaggio di proteine dal plasma al liquor
dovuto ad un danno della barriera emato-liquorale. Definiamo SINTESI INTRATECALE qualsiasi condizione che comporta un aumento di
proteine liquorali per aumentata produzione nel sistema nervoso centrale. La presenza di proteine nel LCR è inversamente proporzionale alle
loro dimensioni molecolari. Perciò l’albumina che viene presa come marker della funzionalità della BEE date le sue dimensioni e perché non
viene sintetizzata a livello cerebrale. Il dosaggio dell’albumina liquorale è di importanza fondamentale in quanto è una proteina sintetizzata
esclusivamente nel fegato: la sua misura (LAlb) è ritenuta il migliore indicatore dello stato della barriera ematoliquorale. Essendo presente una
variabilità inter-individuale della concentrazione dell’albumina plasmatica (SAlb) ed essendo l’albumina liquorale dipendente unicamente da
essa, il parametro utilizzato per valutare il danno di barriera non è la sua concentrazione in assoluto ma il rapporto tra la sua concentrazione nel
liquor e quella nel siero (LALB/SALB) ed il valore ottenuto moltiplicato per 1000 prende il nome di quoziente albuminico Q ALB = LALB/SALB x 1000
(valore normale < 7). Per questo si preleva una sierologica (per valutare il rapporto).
La causa patologica più rilevante che si associa ad un aumento del contenuto proteico liquorale è l’aumento della permeabilità della barriera
BEE dovuta a processi flogistici. Talora questi processi possono assumere dimensioni rilevanti al punto da permettere il passaggio di proteine
dalle grandi dimensioni come il fibrinogeno. In tal caso potremo osservare coaguli presenti nel liquor dovuti alla conversione del fibrinogeno in
fibrina. Anche nel caso di tumori al midollo spinale (blocco sub-aracnoideo) l’accumulo proteico avviene distalmente al blocco e quindi un
aspirato liquorale midollare sarà molto ricco di proteine ed il campione tenderà spontaneamente a coagulare. La concentrazione proteica nel
liquor può aumentare (iperproteinoracchia) per diversi motivi: può essere associato ad una puntura traumatica che provoca contaminazione, ad
aumentata permeabilità della BEE che si ha per un danno anatomico o funzionale causato ad es. da un processo infiammatorio. Aumento
notevole si ha nelle meningiti purulente e tubercolari, o nei tumori del midollo spinale. Nelle meningiti purulente la concentrazione proteica è
elevata anche per la presenza nel liquor di cellule batteriche e leucociti che, andando incontro a fenomeni degenerativi, arricchiscono
ulteriormente il contenuto proteico del mezzo. Aumento più lieve si ha nelle meningiti virali, nelle encefaliti, in alcune neuropatie periferiche
(nefropatia diabetica).
Nella maggior parte delle condizioni patologiche, numero delle cellule e contenuto proteico tendono ad aumentare in parallelo. In questo caso
ciò può indicare un sospetto di malattia flogistica-infettiva. Vi sono però delle patologie rilevanti in cui l’aumento proteico moderato non si
associa ad aumento della cellularità: in questi casi il sospetto diagnostico va indirizzato verso patologie degenerative del SNC quali la sclerosi
multipla.
In questa malattia vi è un aumento delle IgG rispetto alle altre specie proteiche. L’aumento della concentrazione liquorale di Ig di per sé non è
sufficiente a definire l’esistenza di una risposta “intratecale”. Infatti se il paziente fosse portatore di ipergammaglobulinemia l’aumento delle Ig
liquorali non esprimerebbe altro che la normale attività della BEE che mantiene il fisiologico rapporto tra concentrazione plasmatica e liquorale
di queste molecole. Inoltre se la BEE fosse danneggiata un aumento delle Ig liquorali ne esprimerebbe soltanto l’aumentato passaggio dal
sangue. È necessario quindi conoscere lo stato anatomico e/o funzionale della BEE ed anche conoscere la concentrazione serica delle Ig.
Per vedere se la BEE è danneggiata si va a vedere il rapporto Albumina liquor e Albumina siero ( Q albumina). L’albumina infatti non viene
sintetizzata nel liquor ma nel fegato e tutta l’albumina liquorale è di origine ematica. L’innalzamento dei livelli liquorali di albumina espresso
dall’aumento del Q albumina esprime un danno della barriera ematoencefalica. Si è poi perfezionato il concetto introducendo l’indice di Link
che è dato da (IgG liquor/IgG siero) / (Albumina liquor/ Albumina siero). I valori normali sono < 0.7. Dato che il passaggio dalla barriera è
condizionato dall’ingombro sterico delle singole molecole è evidente che essendo le immunoglobuline IgG più grosse dell’albumina ne sarà
atteso un minore passaggio e questo spiega il valore normale atteso inferiore ad 0.7. Se vi è sintesi intratecale di IgG aumenta il nominatore ed è
escluso il danno di barriera. Se aumenta il denominatore vi è un danno di barriera.
Le altre classi di immunoglobuline IgA e IgM essendo molecole
ancora più grandi hanno degli indici ancora più bassi. Dato che
però la permeabilità della barriera non è costante ai vari livelli del
SNC, non possiamo rappresentare il passaggio normale o
patologico delle proteine attraverso la BEE (come sempre definito
dal quoziente albuminico) con una funzione di tipo lineare ma con
una funzione di tipo iperbolico ed il risultato prende il nome di Q Lim
che corrisponde alla concentrazione massima (limite) che quella
proteina potrà avere nel liquor in un determinato stato della
barriera.

Se il QIg, ovvero il quoziente immunoglobulinico detto anche QTot (dato dal rapporto tra la concentrazione totale delle LIg/SIg x 1000) è > del
QLim avremo una sintesi intratecale di immunoglobuline. La quantità di immunoglobuline presenti può essere anche espressa come frazione
intratecale (IF) che è la quota di immunoglobuline liquorali totali espressa in percentuale o in concentrazione dovuta alla sintesi intratecale.
IF = (1 – Qlim – QIg) x 100. Qualunque innalzamento di questo parametro esprime sintesi intratecale di IgG.
Il criterio minimo di positività è la presenza almeno di due BO (bande oligoclonali), infatti la presenza di una singola BO non permette di fare
diagnosi intratecale di Ig anche se può rappresentare o l’inizio o la fine di una reazione in senso oligoclonale. Comunque BO sono anche
osservabili nelle vasculiti cerebrali (lupus), nelle meningoencefaliti, nella neurolue, nei tumori cerebrali e nell’AIDS, nella panencefalite
sclerosante subacuta. Sintesi intratecale si può avere in varie patologie del SNC tra cui anche la sclerosi multipla.
Esistono infine casi con normale contenuto proteico liquorale associato ad un aumento del numero delle cellule (dissociazione cito-proteica)
quali: intossicazioni acute da alcol, piombo, la sindrome uremica ed alcune forme di encefalite.

SCLEROSI MULTIPLA

La sclerosi multipla (SM) è una malattia infiammatoria demielinizzante cronica e progressivamente invalidante. Generalmente si manifesta per
la prima volta tra i 15 e i 50 anni con una massima incidenza in giovani adulti, colpisce più spesso individui di sesso femminile, con un rapporto
di circa 2,5:1 rispetto al sesso maschile. Colpisce le funzioni motorie e sensitive.

Nel sistema nervoso periferico e centrale tutti gli assoni (comunemente chiamati fibre nervose) sono avvolti da cellule specializzate chiamate
cellule di Schwann (SNP) e oligodendrociti (SNC) che forniscono sia un supporto strutturale che metabolico. In generale gli assoni di piccolo
diametro sono semplicemente avvolti dal citoplasma delle cellule di Schwann e queste fibre nervose sono dette amieliniche. Le fibre di diametro
più grande sono avvolte invece da un numero variabile di strati concentrici della membrana plasmatica della cellula di Schwann a formare la
guaina mielinica.
.
Nei nervi la mielinizzazione inizia con l’invaginazione di un singolo assone di una cellula di Schwann a formare il mesassone. Con il procedere
della mielinizzazione il mesassone si avvolge intorno all’assone, racchiudendolo in una spirale contenente anche un po’ di citoplasma. Con il
procedere di questo processo il citoplasma viene eliminato e gli strati interni della membrana plasmatica si fondono l’uno con l’altro in modo che
l’assone rimane circondato da parecchi strati di membrana che insieme costituiscono la mielina. Si può aggiungere che la guaina mielinica di
ogni singolo assone è formata da molte cellule di Schwann ciascuna delle quali copre solo un segmento dell’assone. Tra le cellule di Schwann ci
sono brevi tratti in cui l’assone non è coperto dalla guaina mielinica: queste zone sono dette nodi di Ranvier.
La sclerosi multipla è una malattia autoimmune, basata su un attacco da parte delle cellule e degli anticorpi del nostro sistema immunitario
contro la mielina che viene quindi aggredita e distrutta.

EZIOLOGIA
Dato che un’infezione precede spesso l’insorgere di una malattia autoimmunitaria si pensa che i batteri, i virus, i funghi che ci infettano abbiamo
nel corso dell’evoluzione sviluppato un meccanismo particolare per cercare di ingannare le nostre difese immunitarie: il mimetismo molecolare.
Il mimetismo consiste nel mostrare al sistema immunitario sequenze di aa che sembrano appartenere all’uomo. Per esempio l’adenovirus ha
sequenze amminoacidiche simili a quelle della proteina basica della mielina. Con la normale risposta a questo virus il sistema immunitario può
predisporsi ad attaccare la corrispondente componente di sé che è la mielina (si osserva una produzione intratecale di anticorpi). Ovviamente non
tutti quelli che si infettano con l’adenovirus sviluppano in un secondo tempo la sclerosi multipla. Questo comportamento sembra in gran parte
dovuto alla variabilità individuale dei diversi tipi aplotipi di HLA, il cui ruolo consiste nel determinare esattamente quali frammenti di un agente
patogeno vengano esposti alla superficie cellulare e presentati al linfocita T. La struttura di HLA di un individuo può legarsi ad un frammento
che imita il sé e presentarlo al sistema immunitario, mentre quello di un altro individuo può legarsi ad un frammento che si trova soltanto
sull’agente patogeno e non imita il sé. In quest’ultimo caso l’agente patogeno viene correttamente attaccato, senza pericolo dell’autoimmunità.
MECCANISMI
Tra i meccanismi che appaiono più coinvolti nella demielinizzazione:
- Fagocitosi della mielina da parte di macrofagi con il coinvolgimento di anticorpi autoreattivi e complemento;
- Distruzione della mielina e degli oligodendrociti ad opera dei linfociti T CD8+;
- Suscettibilità degli oligodendrociti a fattori tossici presenti nel sito.
Lo sbaglio è nella presentazione antigenica.

FATTORI
- Predisposizione genetica: la SM è più frequente in individui che hanno un parente di primo grado e secondo grado colpito dalla
malattia. È inoltre collegata alla presenza dell’aplotipo HLA-DR2.
- Fattori causali immunologici: virus, batteri (Morbillo, Parotite, Herpes, Rosolia, Chlamydia).
- Fattori ambientali scatenanti: parto, stress, vaccinazioni (?).

SEGNI STRUMENTALI
Il segno che si evidenzia tramite la RMN nella sclerosi multipla è la presenza di placche demielinizzate di dimensioni raramente maggiori di 2
cm di diametro e si accumulano in gran numero nel cervello e nel midollo spinale. Sono ben circoscritte, localizzate a livello della sostanza
bianca anche se si possono trovare pure a livello della giunzione tra sostanza bianca e sostanza grigia. Le lesioni interessano prevalentemente i
nervi ottici, il chiasma e la sostanza bianca paraventricolare. È possibile però che le placche si possano formare in tutte le zone del SNC e del
midollo spinale. La placca istologicamente è caratterizzata da perdita selettiva della mielina con conservazione dell’assone, alcuni linfociti che si
raggruppano intorno alle piccole vene e arterie, presenza di macrofagi, edema. Quando i neuroni sono all’interno della placca i corpi cellulari del
neurone vengono risparmiati ma lo stesso non vale per gli assoni che vanno incontro a degenerazione, Con l’andare avanti nel tempo si riduce
l’edema ed anche il numero degli oligodendrociti dando quella caratteristica di selettività e focalità tipica delle placche della sclerosi multipla.
L’assone, ormai denudato della guaina, non riesce più a sopravvivere e va incontro ad un processo di degenerazione. Questo provoca
l’interruzione della trasmissione del segnale ed è la causa principale dei sintomi stessi. È la stessa infiammazione ad innescare i meccanismi di
degenerazione essendo le fibre demielinizzate più suscettibili all’azione tossica di prodotti dell’infiammazione.

La sclerosi multipla non è solo a causa del virus nel cervello ma serve una predisposizione genetica e quindi uno sbaglio della presentazione del
macrofago al linfocita e quindi avviene sclerosi. Non tutti i casi di infezione al cervello avviene sclerosi multipla perché il sistema immunitario
funziona bene (risoluzione encefalite …).

FORME
Forme di SM:
- INTERMITTENTE-REMITTENTE (55-85% dei casi): tanti attacchi a distanza di tempo (1-2 anni) che guariscono ma i successivi
aumentano la disabilità di volta in volta. Si verifica specialmente all’esordio e nelle donne giovani. Episodi bruschi e brevi di
progressione della malattia, inframezzati da periodi di relativa stabilità. Il primo attacco con remissione e stabilità, il secondo porta ad
una disabilità maggiore e così via.
- PRIMARIAMENTE PROGRESSIVA (10-15% dei casi): aumenta gradualmente. Soprattutto pazienti anziani e maschi. Colpisce
preferenzialmente il midollo spinale ed esordisce più tardi.
- SECONDARIAMENTE PROGRESSIVA (15% dei casi): aumenta gradualmente dopo essere stato di forma intermittente-remittente. Il
50% delle intermittenti-remittenti diventano progressive dopo 10 anni.
- Forma Fulminante Monofasica (variante di Marburg).

SINTOMI
- Debolezza
- Disturbi della minzione
- Neurite ottica (calo improvviso della vista per interessamento dei nervi ottici)
- Diplopia
- Parestesie
- Vertigini (placche a livello del tronco)
Quando le placche sono localizzate a livello del tronco encefalico possiamo avere diplopia, vertigini, difficoltà nell’articolazione della parola. Le
placche a livello del midollo spinale provocano una debolezza a una o tutte e due le gambe e una sintomatologia sensitiva con formicolii, ed
alterazioni della sensibilità termica e dolorifica. Purtroppo nella maggior parte dei pazienti la malattia ha delle ricadute croniche e delle fasi di
remittenza con sviluppo di lesioni permanenti. Nei casi cronici il grado di danno funzionale è variabile dalla leggera inabilità all’invalidità totale,
con paralisi diffuse, gravi difetti visivi, incontinenza e demenza. I pazienti possono morire per gravi infezioni all’apparato urinario o per paralisi
respiratoria. Attualmente l’attesa di vita per questi pazienti è intorno ai 30 anni dall’esordio dei sintomi.

DIAGNOSI
La diagnosi si effettua attraverso il confronto di diversi elementi clinici e strumentali e l’esclusione di altre malattie: sintomi; sesso, età, luogo di
nascita e storia familiare del paziente (anamnesi); esame neurologico; presenza di placche in RMN; potenziali evocati; esame del liquido
cerebrospinale (presenza di IgG nel liquor in più del 95% dei casi).
L’esame del liquor cefalo-rachidiano permette di passare da una diagnosi di sclerosi multipla possibile ad una diagnosi di sclerosi multipla
confermata:

La terapia della Sclerosi Multipla è l’INTERFERONE β1 e β2.

ELETTROFORESI DELLE PROTEINE DEL LIQUOR


La focalizzazione isoelettrica (isoelectric focusing, IEF) è una tecnica che serve ad evidenziare le bande oligoclonali IgG nel Liquor Cefalo-
Rachidiano. La sintesi intratecale nel sistema nervoso centrale è indicata dalla presenza di bande nel CSF che non sono presenti nel siero. In
teoria una sola banda potrebbe essere significativa di una sintesi locale ma in pratica almeno due bande sono necessarie per affermare una sintesi
locale. Il numero delle bande non è correlato alla diagnosi né alla prognosi della malattia.
In ogni seduta analitica si inseriscono un controllo positivo ed uno negativo per bande oligoclonali. Devono essere analizzate coppie di liquor e
siero (1 e 1’) in corsie adiacenti.
1) CONDIZIONE NORMALE.
2) PROCESSO INFIAMMATORIO CRONICO: sclerosi multipla in cui le bande sono presenti solo nel liquor (sintesi intratecale), ci
sono solo le IgG nel liquor e non ci sono i corrispettivi nel sangue.
3) PROCESSO INFIAMMATORIO ACUTO: bande liquorali e, in aggiunta, bande nel siero. Bande liquorali > bande siero: sintesi
intratecale con danno di barriera come nei processi infiammatori acuti del SNC (encefaliti) nei quali vi è una importante risposta
immunitaria.
4) DANNO DI BARRIERA: bande uguali nel liquor e nel siero (stesse proteine), le bande diffondono passivamente nel compartimento
liquorale, assenza di sintesi intratecale.
5) PARAPROTINEMIA: le bande sono uguali ma concentrate tutte in un unico punto; potrebbe sembrare dovuto ad un danno di barriera
ma non è così; la concentrazione di proteine sieriche (IgG) è talmente alta che tendono ad uscire e a passare nel liquor anche se la
barriera è integra. È dovuto ad un tumore ematologico, il mieloma multiplo, detto anche plasmacitoma, un tumore a carico della
plasmacellula che aumenta la produzione di anticorpi (gammopatia monoclonale).
Le gammopatie monoclonali insorgono per trasformazione e risposta immunitaria mantiene un importante componente
moltiplicazione incontrollata di un clone cellulare B con successiva sistemica. Nel tipo 4 bande uguali nel siero e nel liquor come nei
eccessiva formazione di anticorpi molto simili tra loro dal punto di processi infiammatori sistemici con o senza compartecipazione
vista chimico-fisico ed immunologico (Paraproteinemie). clinicamente manifesta nel sistema nervoso centrale: le bande
Nel tipo 1 avremo una normale distribuzione policlonale delle IgG sieriche diffondono passivamente nel compartimento liquorale. Nel
(assenza di bande oligoclonali). Nel tipo 2 avremo bande tipo 5 ci sono bande uguali nel siero e nel liquor, con spaziatura
esclusivamente liquorali come nei processi infiammatori cronici regolare tra le bande ed intensità delle stesse decrescente dal catodo
del SNC come la sclerosi multipla. Nel tipo 3 avremo bande all’anodo, come nelle gammopatie monoclonali.
liquorali ed in aggiunta bande uguali nel siero e nel liquor come nei
processi infiammatori acuti del SNC (encefaliti) nei quali la
ADATTAMENTO CELLULARE

La cellula normale ha la capacità di soddisfare le richieste fisiologiche mantenendo uno stato di equilibrio (omeostasi). L'adattamento cellulare è
invece la risposta funzionale, strutturale e reversibile a stress fisiologici gravi o a determinati fattori patologici durante i quali vengono raggiunti
nuovi stati di equilibrio, comunque non fisiologici ma che consentono alla cellula di sopravvivere e di continuare a svolgere le proprie funzioni.
Uno stress persistente spesso conduce ad un danno cellulare. Il danno cronico conduce ad un danno permanente dell'organo che è associato alla
morte di un certo numero di cellule. In una cellula normale, entro certi limiti, eccessive stimolazioni fisiologiche o stimoli patologici possono
innescare forme di adattamento cellulare che ne preservano la vitalità. Tale adattamento riflette una reazione della cellula ad un ambiente ostile.
Tali cambiamenti sono per la maggior parte reversibili al cessare dello stress.
Esistono diverse forme di adattamento delle cellule:
- ATROFIA, morte delle cellule (irreversibile) quindi diminuzione del volume totale dell’organo (diminuzione del numero delle cellule)
- IPOTROFIA, diminuzione del volume delle cellule (reversibile)
- IPERTROFIA, aumento controllato del volume cellulare (reversibile)
- IPERPLASIA, aumento controllato del numero delle cellule (reversibile)
- DISPLASIA, aumento controllato del numero e del volume delle cellule (reversibile)
- NEOPLASIA, aumento incontrollato del numero e del volume delle cellule (irreversibile)
- METAPLASIA, modificazione della conformazione di un tessuto (reversibile)
In caso di displasia avviene un aumento di volume e numero delle cellule ed è reversibile se le condizioni che la hanno causata cessano. Se non
cessano avviene la neoplasia che è irreversibile.

NEOPLASIA

Le neoplasie (o tumori o cancro) sono una nuova crescita. Nella cellula neoplastica il nucleo aumenta di dimensioni occupando quasi l’intero
citoplasma (si invertono i rapporti nucleo/citosol a favore del nucleo); aumentano i nucleosomi (ove avviene lo stampo del DNA sull’RNA
ribosomiale); aumentano i nucleoli (servono a sintetizzare RNA ribosomiale) e quindi aumentano le proteine e di conseguenza ancora i
nucleosomi. Tutto questo avviene perché si devono sintetizzare più proteine per garantire la crescita cellulare (il tumore è una nuova crescita ed
ha quindi bisogno di numerose proteine). Le cellule neoplastiche aumentano di numero e di grandezza come reazione di risposta ad uno stimolo
che le disturba. Una predisposizione genetica aumenta le probabilità di comparsa di neoplasia. Tra le cause di neoplasia: predisposizione
genetica e familiare; alimentazione (non si riferisce all’alimentazione salutare ma al fatto che i terreni sono inquinati); inquinamento
ambientale, ... Inizialmente le cellule possono andare incontro a trasformazioni morfologiche in cui l’aumento dell’indice mitotico si
accompagna ad incompleta maturazione delle cellule che compongono un tessuto epiteliale, connettivale o stremale. Ciò viene detto displasia
(aumento della proliferazione cellulare con incompleta maturazione delle cellule). Le cellule dei tessuti displastici tendono ad avere un elevato
rapporto nucleo/citoplasmatico ed un maggiore indice mitotico; l’incompleta maturazione cellulare è documentata dalla perdita parziale o
completa di alcune strutture cellulari specializzate come ciglia e vacuoli. Più frequentemente si osserva negli epiteli esposti ad irritazioni
croniche o nei tessuti in rigenerazione dopo un danno di varia natura.
La displasia non è una condizione neoplastica e l’eliminazione di stimoli ambientali nocivi può indurre al ripristino della situazione iniziale di
normalità. Quando una cellula impazzisce, accumulando una serie di stress, non può più tornare indietro. All’inizio subisce le mutazioni e
sopporta: la cellula inizia a crescere per non morire; se lo stress cessa la cellula smette di crescere (displasia). Le modificazioni displastiche
possono osservarsi ad es. nell’epidermide di superfici cutanee esposte al sole oppure nella mucosa del colon o gastrica associate a malattie
infiammatorie croniche. La proliferazione nel tessuto normale è limitata allo strato basale dove le cellule sono piccole, uniformi ed ipercromiche.
Le cellule in prossimità della superficie si appiattiscono. Al contrario nel tessuto displastico le cellule degli strati intermedi hanno nuclei molto
grandi con nucleoli molto evidenti e si possono notare pure delle forme dette mitotiche. I nuclei delle cellule inoltre sono variabili in dimensione
e forma rispetto al normale (pleomorfismo) ed il rapporto nucleo/citoplasma è spostato a favore del nucleo. Nelle forme gravi di displasia si
parla di carcinoma in situ.
In molte condizioni cliniche anche la trasformazione neoplastica è preceduta da modificazioni dispalstiche. La neoplasia è caratterizzata da
un’abnorme divisione cellulare. Una caratteristica dei tessuti sani è la maturazione delle cellule in forme specifiche per una determinata
funzione, con formazione di strutture specializzate come vacuoli, microvilli, ciglia, granuli di secrezione. Questo processo è detto di
differenziazione. Una cellula completamente matura è detta differenziata mentre il suo precursore è detto indifferenziato. In un determinato
tessuto le cellule normali hanno un caratteristico stadio di differenziazione; al contrario le cellule neoplastiche mostrano vari gradi di
differenziazione. In base al grado di differenziazione ci possono essere tumori maligni ben differenziati, scarsamente differenziati e non
differenziati detti anaplastici.
Per esempio nell’epitelio colonnare muco-secernente del colon inizialmente le cellule sono normali, alte e di forma regolare. Nella neoplasia
benigna ci sono meno cellule contenenti mucina ed i nuclei sono più voluminosi e più scuri (ipercromatismo). Nelle forme maligne ben
differenziate le cellule sono ancora alte e di aspetto colonnare ma i granuli di mucina non ci sono, i nuclei sono più irregolari per forma, sono
ipercromatici e sono molto più grandi con evidenti nucleoli. Infine nella forma scarsamente differenziata l’organizzazione cellulare è scomparsa
avendo perso la disposizione colonnare ed in più si osservano le figure mitotiche.
Le neoplasie vengono distinte in maligne e benigne. I tumori BENIGNI si caratterizzano per: velocità di accrescimento lenta ma costante; non
infiltrano i tessuti vicini; non danno metastasi; sviluppo di una capsula fibrosa (rimangono capsulati); margini netti; accrescimento espansivo ma
locale; sono simili ai tessuti di origine e la struttura è conservata e meglio organizzata ma aumenta il numero di cellule; hanno poche mitosi; il
rapporto nucleo/citoplasma è solo lievemente aumentato. Un tumore benigno come il fibroma, essendo un muscolo, può rimanere lì se non
cresce e lascia il tempo per pensare se toglierlo o meno in quanto non dà metastasi (nel muscolo il tumore trova un po’ di espansione).
I tumori MALIGNI hanno margini mal definiti (la struttura tissutale è alterata e si perde l’organizzazione tissutale), una crescita espansiva ed
invasiva (metastasi o tumore secondario), velocità di accrescimento alta e capacità di distruzione dei tessuti vicini (le cellule neoplastiche
infiltrano e distruggono i tessuti circostanti). Le cellule sono di forma e dimensioni variabili (pleomorfismo cellulare) cioè si possono trovare
cellule molte volte più grandi (cellule giganti) rispetto alle vicine ed altre estremamente piccole e i nuclei sono di forma e dimensioni variabili
(pleomorfismo nucleare) con aumento del numero e della grandezza dei nucleoli. I nuclei sono anche ipercromici e voluminosi perché
contengono un eccesso di DNA (aumentano le mitosi). L’eccesso di DNA è dovuto ad un aumento delle sintesi cellulari soprattutto delle proteine
perché vi è un aumento delle dimensioni e delle divisioni cellulari. Infatti la cromatina è spesso ammassata nel nucleo in maniera irregolare e
distribuita lungo la membrana nucleare. Le cellule neoplastiche, inoltre, possono avere perdita della differenziazione cellulare dove
l’orientamento risulta alterato cioè le cellule perdono la loro normale polarità, hanno molte mitosi di cui alcune anomali (figure mitotiche) e
possono presentare anche più di due nuclei, hanno un rapporto nucleo/citoplasma elevato. Le neoplasie maligne hanno la capacità di diffondersi
nell’organismo e, quindi, di formazione di metastasi perché si diffondono attraverso l'apparato circolatorio e linfatico: possono superare la
membrana basale, una cellula si stacca dal tumore primitivo, scavalca la membrana basale e va in circolo. Il dotto toracico porta il liquido
linfatico. La linfa, che è l’insieme dei prodotti di scarto dell’organismo, arriva in stazioni, i linfonodi, diffuse in tutto il corpo. Le cellule
neoplastiche amano viaggiare nella circolazione linfatica o ematica e da lì poi raggiungono qualsiasi organo. Ogni tumore ha un suo tropismo e
predilige organi specifici. Le cellule tumorali metastatiche riescono inoltre a creare nuovi vasi (angiogenesi).
I tumori maligni si dividono in sarcomi, carcinomi, scarsamente differenziati (indifferenziati).
Il COLON assorbe acqua e produce muco per facilitare lo scorrimento della massa fecale. In questa sede il tumore benigno è più organizzato e
presenta ancora cellule mucipare mentre il tumore maligno presenta nuclei molto più grandi e non presenta cellule mucipare (manca
l’organizzazione). Un tumore benigno può diventare maligno nel caso dei “polipi”, ovvero del carcinoma del colon benigno. Nella maggioranza
degli altri casi il tumore benigno non diventa maligno. Il melanoma nasce già tumore maligno e non da un neo perché il neo è un tumore benigno
che non evolve in maligno.
Nel caso di neoplasie benigni hai il tempo, controlli la crescita e la velocità di crescita. Se la crescita non dà problemi funzionali e fisiologici può
rimanere per sempre.
Differenza tra tumore benigno e maligno del colon: in quello benigno la struttura è conservata, più organizzata; in quello maligno i nuclei sono
molto grandi e si perde organizzazione tissutale. La stitichezza può favorire il carcinoma al colon che è la terza causa di morte. I polipi al colon
(estroflessioni del colon) sono tumori benigni ma possono trasformarsi in carcinomi e per questo vanno sempre tolti. Può succedere che un
frammento del polipo si stacchi con lo scarto fecale.
Nel CERVELLO qualsiasi massa neoplastica provoca problemi per ragioni meccaniche (e quindi morte). Infatti nel cervello anche le neoplasie
benigne sono maligne perché il cranio è una scatola chiusa e, se qualcosa vi cresce dentro, vi sono problemi. Un tumore in espansione nel
cervello diventa un problema in quanto va a comprimere le strutture. In altre parti del corpo il benigno può essere osservato, controllato e
valutato. Nell’UTERO molte donne possono avere il fibroma uterino, che è un tumore benigno, e se lo portano dietro per tutta la vita poiché,
essendo un muscolo, cresce lentamente. Il tumore della cervice è maligno e si presenta nella zona di transizione tra l'epitelio della vagina e le
cellule cuboidali del collo dell'utero. Un adenoma della mammella raramente si trasforma in carcinoma. Nella maggior parte dei casi un fibroma
uterino rimane tale per tutta la vita. L’adenoma epatico è un tumore benigno che si trasforma in maligno solo in rarissimi casi.
Particolare dell'EPIDERMIDE: cellule più grandi e più numerose dovute all'esposizione solare, con radiazioni UVA e UVB, con produzione di
melanina per crescere e sopravvivere allo stress solare. Non è ancora neoplasia. Infatti non bisogna esagerare nell’esposizione al sole. Le creme
di protezione vanno messe un’ora prima dell’esposizione. Il melanoma è un tumore delle cellule della melanina. È subdolo. Il neo è un tumore
benigno della cute. Il melanoma all’inizio sembra un neo ma all’improvviso cambia colore ed inizia a frastagliarsi, presenta dei setti e non è
omogeneo. Se esce del sangue bisogna andare dal dermatologo. Colori dal nero al marrone. Il melanoma, essendo maligno, metastatizza.
Caratteristiche delle cellule maligne sono pleomorfismo cellulare, nuclei ipercromici e voluminosi, aumento del numero di mitosi, cellule giganti
e perdita di polarità. Tutti i tumori iniziano con la displasia. La gravità di un tumore benigno dipende dal tipo di tumore e soprattutto dalla
regione in cui si trova (nel cervello è diverso rispetto all’utero). Ogni tumore ha un suo tropismo, predilige delle zone e degli organi bersaglio,
forse dovuto a recettori specifici.
Le basi molecolari del tumore stanno nelle mutazioni di frammenti di DNA (geni) causate da sostanze chimiche, radiazioni, virus e fattori
ereditari. Noi ogni giorno sviluppiamo una cellula anomala ma questa viene distrutta dal sistema immunitario. I geni bersaglio sono quelli che
controllano la proliferazione cellulare. In caso di mutazione di questi geni, quindi, si ha neoplasia:
- proto-oncogeni, geni della cellula che inducono normali processi di crescita e sviluppo cellulare. Regolano la crescita cellulare e, in
caso di mutazioni, questa diventa incontrollata;
- geni onco-soppressori, geni che bloccano la crescita cellulare;
- geni che regolano l’apoptosi, morte cellulare programmata;
- geni che regolano la riparazione del DNA.
Il processo di cancerogenesi avviene a tappe successive ed è, quindi, più frequente nella popolazione anziana. Nel tempo si accumulano più
mutazioni che portano poi la cellula a non essere più normale. Il DNA è costituito da miliardi e miliardi di basi che devono replicarsi e per
questo esistono sistemi che controllano tali processi. I tipi di mutazioni sono puntiformi, amplificazioni, delezioni, inversioni, traslocazioni,
duplicazioni, inserzioni. Una base azotata sbagliata si chiama “mutazione punto” o “mutazione puntiforme” e proteasi, polimerasi e ligasi
aggiustano le sequenze. Con l’età aumentano le mutazioni quindi è più probabile che si presentino tumori. Esiste una sorveglianza immunitaria
dei tumori. Infatti ogni giorno sviluppiamo cellule anomale ma queste vengono bloccate dall’organismo e quindi non si sviluppano neoplasie.
Per tumore si intende un qualsiasi processo morboso che determina, nel tessuto o nell’organo in cui si è sviluppato, un aumento di volume tale da
indurre modificazioni strutturali dell’organo di partenza. Da un punto di vista medico, tale termine non è necessariamente indicativo di un
processo maligno, tanto che tumor, insieme a rubor, calor, dolor e functio laesa sono le caratteristiche cliniche che indicano un processo
infiammatorio-infettivo. In tempi più recenti il termine più appropriato è quello di “neoplasia” cioè di una massa abnorme di tessuto il cui
accrescimento è incoordinato ed eccessivo rispetto a quello dei tessuti normali. Tale crescita progredisce nella stessa maniera eccessiva anche
quando sono cessati gli stimoli che l’hanno provocata e ciò permette di differenziarla da un’altra condizione detta iperplasia. Una neoplasia è
caratterizzata dalla perdita della risposta ai controlli che regolano il normale sviluppo dei tessuti, il che comporta una proliferazione
incontrollata, una perdita della differenziazione e delle funzioni stesse delle cellule e di conseguenza una invasione dei tessuti circostanti, dei
vasi sanguigni e linfatici e quindi la capacità di dare metastasi. La metastasi consiste nel distacco di cellule neoplastiche dal tumore primitivo e
nella migrazione attraverso la via ematica in altra sede in cui si ha angiogenesi (il tumore costruisce nuovi vasi) per la crescita e la sopravvivenza
delle stesse cellule tumorali (disseminazione per via linfatica, disseminazione per via ematica).
Possibilità terapeutiche consistono nella CHEMIOTERAPIA, specialmente sui tumori non operabili (es. metastasi, linfomi e leucemie). Alcuni
tumori metastatizzati non sono sensibili ai chemioterapici e sviluppano chemioresistenze. Un’altra terapia è la RADIOTERAPIA, consistente in
un cannone con raggio laser gamma, che in alcuni tumori è più efficace perché essi non sono suscettibili alla chemioterapia.

I MARCATORI TUMORALI PER LA DIAGNOSI E LA GESTIONE DELLE NEOPLASIE

Vi è la necessità che la Patologia Clinica trovi marcatori tumorali nei liquidi biologici con alta sensibilità e specificità che permettano una
diagnosi precoce, un trattamento efficace ed una riduzione finale della mortalità. I marcatori presenti nei liquidi biologici possono essere
suddivisi in tre categorie:
- proteine associate alle neoplasie (antigeni oncofetali);
- oncoproteine che risultano sovraespresse quasi esclusivamente nelle neoplasie;
- profili di espressione proteica (proteomica).
APPLICAZIONI CLINICHE
Nessun marcatore può essere impiegato nello screening di massa perché non esiste alcuna sostanza indicativa di una iniziale trasformazione
neoplastica tranne che per il carcinoma della prostata (PSA totale e free). Oggi, per potenziare l'efficacia diagnostica dei marcatori, si cerca di
utilizzare profili di marcatori multipli che sembrano essere associati ad una singola neoplasia. L'applicazione più utile dei marcatori tumorali è
finalizzata al monitoraggio della malattia volta al rilevamento di una recidiva dopo la rimozione chirurgica della neoplasia stessa o quando la
neoplasia inizia a metastatizzare. Infatti la comparsa nel sangue o nelle urine di tali marcatori anticipa di molti mesi la scoperta di ripresa di
crescita tumorale osservabile mediante TAC o RMN. Valori elevati del marcatore nel sangue dopo un intervento chirurgico possono indicare che
vi è stata una rimozione incompleta della neoplasia, una recidiva o una metastasi. Un'ulteriore importante applicazione del dosaggio nel sangue o
nelle urine dei marcatori tumorali riguarda il monitoraggio del decorso della malattia, in particolare durante il trattamento chemioterapico o
radioterapico in quanto molte volte una neoplasia nel tempo acquisisce resistenza al trattamento. Quindi questi valutano l'efficacia del farmaco
antitumorale utilizzato e forniscono un'indicazione per la selezione di quello più appropriato per il singolo paziente. Infine quando il tumore
primitivo è stato già diagnosticato la determinazione del marker tumorale serve per ottenere un valore basale prima della terapia o prima
dell’intervento chirurgico e per avere ulteriori indicazioni sulla estensione del tumore.
Quindi i marcatori servono non per la diagnosi (si sa già con biopsia) ma si utilizzano prima di iniziare prelievo e subito dopo operazione per
monitorare (metastasi o operazione incompleta). I marker servono per monitorare l’efficacia della terapia (resistenza alla terapia,
metastatizzazione, …).

ANTIGENI ONCOFETALI
Tra gli antigeni oncofetali usati come marcatori tumorali ricordiamo:
α-fetoproteina (AFP) – È una proteina del gruppo delle α1-globuline sintetizzata principalmente dal fegato fetale fin dalle prime settimane di
gravidanza. Un elevato livello di AFP può essere presente in pazienti con carcinoma epatocellulare primitivo. In particolare risulta più utile uno
screening combinato tra AFP ed ecografia epatica in paziente con epatite B e/o C. Può essere utile nei tumori ovarici e testicolari e nello
screening per malformazioni fetali del tubo neurale. Va però detto che l'AFP si può transitoriamente elevare in gravidanza ed in numerose
malattie epatiche benigne.
Antigene carcinoembrionale (CEA) – È una glicoproteina normalmente prodotta dal feto e secreta dalle cellule del tratto gastro-intestinale.
Nell'adulto il CEA può aumentare in corso di neoplasia a colon-retto, mammella, ovarico, pancreatico e polmonare oltre che in numerosi
processi infiammatori quindi non è molto utile per la diagnosi. Ma un nuovo test basato sull'analisi molecolare valuta la qualità e la quantità
delle cellule di esfoliazione della mucosa del colon presenti nelle feci. I risultati dicono che il test molecolare per la ricerca di mutazioni multiple
in cellule tumorali presenti nelle feci ha una sensibilità maggiore del test della ricerca del sangue occulto nelle feci ma non maggiore della
colonscopia.
ONCOPROTEINE
CA 15.3 e CA 27.29 – Rappresentano epitopi diversi presenti su una grande glicoproteina espressa sul lume delle cellule epiteliali ghiandolari. Il
CA 15.3 può essere utile per il monitoraggio di un carcinoma della mammella mentre il CA 27.29 ha una maggiore sensibilità per la diagnosi di
carcinoma della mammella ma in generale si possono elevare in corso di numerose patologie.
CA 19.9 e CA 50 – Sono i marcatori più utilizzati per il carcinoma pancreatico ma anche questi hanno scarso impiego per la diagnosi e sono utili
per il monitoraggio della terapia e la comparsa di recidive.
CA 125 – È un antigene tumorale associato ad una glicoproteina normalmente presente nel tessuto endometriale. Diventa rilevabile nel sangue in
alte quantità nel caso di tumori dell'endometrio e dell'ovaio. Anche questo ha scarso impiego per la diagnosi mentre è utile per il monitoraggio
della terapia e la comparsa di recidive.
CA 72.4 – È utile per il monitoraggio e le recidive di pazienti con carcinoma gastrico.
Gonadotropina Corionica Umana (HCG) – È un ormone secreto esclusivamente dalla placenta. Quindi oltre che essere utilizzato per confermare
una gravidanza, essa si eleva nelle cellule trofoblastiche della blastocisti nelle donne incinte (coriocarcinoma) ma anche nel carcinoma
testicolare e in altri tumori. Anche questo è utile per monitoraggio e recidive e non per la diagnosi.
Antigene Polipeptico Tissutale (TPA) – Si eleva nel sangue in varie neoplasie ed è un indice di proliferazione cellulare. Quindi il suo aumento è
correlato alla velocità di crescita tumorale più che alla massa tumorale. Utile per monitoraggio e recidive.
Enolasi-Neurospecifica – È un enzima i cui valori aumentano in corso di tumori neuro-endocrini come il neuroblastoma e nei tumori a piccole
cellule del polmone. Utile per monitoraggio e recidive.
Fosfatasi Acida Prostatica (PAP) – È un marcatore per il tumore alla prostata ormai poco utilizzato.
Frammento della Citocheratina 19 (CYFRA) – È un frammento appartenente ai filamenti di citocheratina espressi negli epiteli. È aumentato nel
sangue in presenza di carcinoma polmonare e della mammella ed il suo valore nel sangue è proporzionale alla massa del tumore e alla sua
aggressività.
Cromogranina A – È una proteina solubile delle cellule cromaffini della midollare del surrene. Aumenta nei tumori neuroendocrini come
feocromocitoma, neuroblastoma e tumore polmonare a piccole cellule. Può aumentare anche nei tumori della prostata, mammella, colon, ovaio e
pancreas.
β2-microglobulina – È una proteina che compone la catena leggera costante del complesso maggiore di istocompatibilità HLA espresso sulla
superficie delle cellule nucleate. La concentrazione serica di tale proteina correla con l'attività dei linfociti e quindi è utile nel monitoraggio,
recidive della leucemia linfocitica, del linfoma non Hodgkin e nel mieloma multiplo.
Peptide Correlato al Paratormone (PTH-RP) – È una proteina che è elevato nel sangue in pazienti con ipercalcemia associata a tumori renali,
vescicali e ovarici.
Antigene Prostatico Specifico (PSA) – È una proteasi sintetizzata dalle cellule epiteliali della prostata. A causa del suo alto grado di specificità è
ad oggi l'unico marcatore tumorale utilizzato per diagnosticare una neoplasia. Quindi esso costituisce un eccellente marcatore per lo screening,
nella prevenzione del rischio, diagnosi e monitoraggio del carcinoma prostatico. Va detto però che valori al di sopra della normalità si possono
riscontrare nell'adenoma prostatico e nelle infiammazioni acute e croniche della prostata dette iperplasie prostatiche.

CARCINOMA COLON

Il carcinoma del colon ha il suo picco d’incidenza fra 60-80 anni anche se vi possono essere dei casi in età giovanile. Sono più colpiti i paesi più
industrializzati e l’obesità, la sedentarietà e la dieta povera di fibre sono fra le cause che aumentano il rischio dell’insorgenza di questo tumore.
Si ipotizza che un basso consumo di fibre vegetali comporti una diminuzione della massa fecale, allungamento del tempo di transito
nell’intestino ed alterazione della flora batterica. Ciò comporta la presenza di alte concentrazioni dei prodotti di degradazione delle costituenti
grasse, proteiche e zuccherine della dieta che sono potenzialmente tossici se permangono per molto tempo a contatto con la mucosa del colon. La
presenza dei grassi stimola inoltre il fegato a sintetizzare colesterolo e sali biliari che possono essere convertiti dalla flora intestinale in potenziali
carcinogeni. Diete molto raffinate contengono poche vitamine del tipo A, C ed E che agiscono con un ruolo protettivo come antiossidanti sulla
mucosa del colon.
Le principali funzioni del colon sono il riassorbimento dell’acqua e
la produzione delle feci. La parete muscolare è spessa ed è capace
di attività peristaltica molto potente. Tale mucosa è formata da due
tipi di cellule: le cellule assorbenti e le cellule secernenti muco la
cui funzione è quella di lubrificare la mucosa durante la formazione
ed il transito delle feci. Come protezione contro l’ingresso di
microrganismi, la parete della mucosa contiene leucociti e cellule
del sistema immunitario. In genere dopo i 40 anni i fattori di
rischio detti prima possono portare ad alterare il processo di
maturazione della mucosa. Può inizialmente insorgere
un’infiammazione che altera la struttura anatomica normale della
mucosa. Si ha inizialmente una displasia che porta poi
successivamente, se le cause scatenanti non cessano, alla
formazione dei polipi: una massa cioè che protrude all’interno del
lume intestinale. Se quindi dopo biopsia si nota nel polipo la
displasia si classifica come adenoma. Un polipo < di 5 mm di solito
non è un adenoma ma si tratta solo di mucosa iperplastica, mentre è
un adenoma se > 5 mm. L’adenoma non dà sintomi e di solito
nell’arco di 10-20 anni si trasforma in carcinoma. La frequenza
della degenerazione maligna dipende dal grado di displasia (lieve,
moderata o severa), dalle dimensioni del polipo. È inoltre più
elevata nei casi di polipi multipli. I carcinomi del colon-retto danno
metastasi per via ematica o linfatica. Le metastasi insorgono a
livello dei linfonodi regionali, poi il fegato, il polmone, le ossa. Il
fattore che indica i tempi di sopravvivenza è costituito dallo
stabilire il grado di estensione della neoplasia al momento della
diagnosi.
Stadi differenziativi del tumore (A, B2, C2)
SINTOMI
Tali tumori rimangono asintomatici per anni. Tra i sintomi che possono manifestarsi ricordiamo alterazioni delle funzioni intestinali come
melena, diarrea, stitichezza, astenia e perdita di peso. Possono insorgere dolori di tipo crampiforme. Si possono evidenziare delle masse palpabili
all’addome, come anche un aumento delle emorroidi per il cancro al retto. Astenia, malessere e perdita di peso sono indice di uno stadio
avanzato della malattia.
DIAGNOSTICA
Molto utile nel caso di sospetto di tale tumore è l’indagine radiografica con la colonscopia, la retto-sigmascopia, l’ecografia addominale o la
TAC addominale. Oggi c’è la possibilità di effettuare una colonscopia con l’ausilio di una “videocapsula”. Essa misura pochi cm ed è dotata di
due cupole ottiche così da poter acquisire immagini da entrambe le estremità. Nelle cupole sono presenti anche delle sorgenti luminose. Nella
parte centrale vi sono le batterie ed un sistema di trasmissione delle immagini ad un registratore esterno.
Il Laboratorio di Patologia Clinica interviene con la ricerca del sangue occulto nelle feci. Di solito viene positivo anche per moltissimi altri
motivi. Questi tumori dato che sanguinano molto frequentemente portano ad un quadro progressivo di anemia microcitica ipocromica (da
carenza di ferro per sanguinamento) svelabile attraverso un semplice emocromo. Analisi complementari risulteranno l’elettroforesi delle proteine
e la funzionalità epatica (GOT/GPT, γGT, Bilirubina).
Un marcatore biochimico che può essere utile è il CEA (antigene carcinoembrionario). È un antigene di natura glicoproteica presente sulla
superficie delle cellule intestinali con funzione di riconoscimento e adesione intercellulare durante il differenziamento nello stadio embrionale. È
però presente su altri epiteli. In condizioni normali una volta che il tessuto si è differenziato nella struttura definitiva il CEA non viene più
sintetizzato dalle cellule. Quando una cellula subisce una trasformazione neoplastica, la produzione del CEA riprende perché la cellula perde i
suoi normali controlli nella moltiplicazione cellulare e nelle sintesi proteiche intracellulari.
È stato visto che pazienti allo stadio A presentavano già valori elevati di CEA nel sangue. I valori normali sono < 5 ng/ml. Può esserci un tumore
del colon se il CEA è > 10 ng/ml. Bisogna considerare che il CEA però aumenta anche in corso di altre patologie come la colite ulcerosa,
l’epatite, le infezioni intestinali, con gli adenomi del colon, le pancreatici e le bronchiti. Risulta quindi molto utile nella prognosi e nel follow-up
dei pazienti trattati chirurgicamente.
La concentrazione nel siero del CEA è funzione della massa tumorale e quindi i valori elevati misurati nella fase pre-operatoria consentono di
dare informazioni sulla dimensione del tumore e indicano uno stadio avanzato della malattia, mentre valori bassi indicano una prognosi migliore.
I pazienti che hanno un valore di CEA > 20 ng/ml in fase pre-operatoria presenteranno una recidiva nell’arco di 14 mesi. Quindi valori più alti
significheranno recidive a distanza di tempo più breve e con aspettativa di vita più limitata.
In fase post-operatoria la mancata normalizzazione o addirittura il progressivo aumento del CEA dopo intervento chirurgico indicano la
persistenza di malattia residua o la diffusione metastatica. È utile nel monitoraggio della terapia dal momento che le variazioni del livello del
marcatore sono spesso proporzionali alla variazione della massa del tumore. Infatti durante la chemio o la radioterapia il marcatore dovrebbe
diminuire in rapporto alla diminuzione della massa tumorale, mentre un suo aumento durante la terapia si associa spesso ad una prognosi
infausta.

CARCINOMA PROSTATA

La prostata normale adulta pesa circa 20 gr. È un organo retroperitoneale che circonda il collo della vescica urinaria e circonda l’uretra.
Istologicamente è una ghiandola tubulo-alveolare composta perché ci sono due strati di cellule: uno basale di cellule cuboidali e uno più
superficiale luminale di cellule colonnari secernenti muco.
La prostata è una ghiandola quindi facilita i batteri nel “nascondersi”. Prostatiti e cistiti hanno gli stessi sintomi, quindi serve massaggio
prostatico per la raccolta del liquido prostatico (spremitura della prostata). La prostata contribuisce alla fertilità perché contribuisce al liquido
seminale (l’orchite è un’infezione testicoli). Il liquido prostatico serve a rendere incoagulabile lo sperma.
I tre processi patologici più comuni per la prostata sono le infezioni, le infiammazioni ed i tumori. Le infezioni della prostata possono essere
acute e croniche. Nella forma acuta si ha comparsa improvvisa di febbre alta, aumento delle minzioni, disuria e nicturia. I responsabili sono
batteri del tipo Escherichia, Enterococchi, Stafilococchi, Pseudomonas. Raggiungono la prostata dall’uretra o dalla vescica ma anche interventi
chirurgici o manovre diagnostiche invasive come cateteri e cistoscopia. Tra i fattori predisponenti possono esserci la prolungata posizione seduta,
traumi, eccessi sessuali, eccessi alcolici, eventuale presenza di calcoli nella prostata. L’infezione alla prostata può agire da focus primario di
un’infezione metastatica come l’endocardite, artrite, congiuntivite. La forma cronica presenta una sintomatologia subdola come senso di peso
retroperitoneale, bruciori e disuria ma può essere anche asintomatica. Questi pazienti contraggono infezioni urinarie frequenti come cistiti o
uretriti causate spesso dallo stesso microrganismo. Questo perché il tessuto prostatico è scarsamente accessibile agli antibiotici per cui i batteri
trovano un sicuro rifugio da cui poi periodicamente infettano l’uretra e la vescica per via retrograda.
L’iperplasia prostatica è un’alterazione molto comune tra i 40 e 70 anni ma solo la metà degli uomini presenta dei sintomi clinici. Si formano dei
noduli nella prostata che quando raggiungono notevoli dimensioni comprimono l’uretra fino a causare un’ostruzione parziale o completa
dell’uretra. Si definisce iperplasia un aumento del numero delle cellule dovuto ad un aumento della divisione cellulare a causa di stimoli di varia
natura (ad es. ormonali). Si formano noduli che possono raggiungere notevoli dimensioni fino a comprimere l’uretra e causare ostruzione
parziale o completa della stessa. Questi pazienti hanno nicturia, difficoltà ad iniziare la minzione o a terminarla dovuta alla compressione
dell’uretra, impossibilità di svuotamento della vescica con conseguente distensione della stessa associata a cistiti ed infezioni renali. Vengono
inseriti cateteri per facilitare la minzione ma essi stessi possono essere causa poi di infezione. Oltre che ai residui stagnanti di urina che si
formano in vescica. La complicanza più seria è l’effetto della ostruzione sulle vie urinarie superiori con idronefrosi e pielonefriti. All’inizio il
danno renale può facilmente mascherarsi fino a quando non compaiono i sintomi come nausea, vomito, emicrania, anoressia, debolezza, che
indicano già una grave compromissione renale fino alle convulsioni, al coma e all’exitus. È necessario quindi periodicamente (ogni anno)
verificare la funzionalità di tutti gli organi ed in questo caso in particolare la funzionalità renale con opportuni test di laboratorio. I tubuli renali
sono i primi ad atrofizzarsi a causa della pressione e dell’ischemia. A volte è presente ematuria. L’iperplasia della prostata non è da considerare
una lesione pre-neoplastica.
Il carcinoma della prostata è la forma più frequente di cancro nei soggetti di sesso maschile e la seconda causa di morte sempre per cancro.
Colpisce generalmente gli uomini sopra i 50 anni di età. Questo tipo di tumore è fortunatamente, a differenza di altri, a crescita lenta (5-15 anni).
I fattori di rischio possono essere l’età, la familiarità, fattori ambientali e alimentari come una dieta ricca di grassi che potrebbe influenzare i
livelli ormonali in particolare il livello di testosterone che stimola la proliferazione del tessuto prostatico. Nella maggior parte dei casi il
carcinoma insorge nella porzione periferica della prostata ed è quindi facilmente palpabile all’esplorazione rettale.
La diffusione metastatica della neoplasia avviene per contiguità, per via ematica o per via linfatica. La diffusione locale coinvolge la vescica
causando ostruzione uretrale. Per via ematogena metastatizza soprattutto alle ossa ed in particolare alla colonna vertebrale. La gradazione del
tumore della prostata è di notevole importanza poiché esiste una stretta correlazione tra grado della neoplasia e prognosi. I carcinomi nello stadio
A sono asintomatici ed hanno un tempo relativamente lungo prima di dare metastasi. Le lesioni allo stadio A2 hanno una prognosi peggiore e la
malattia in circa la metà dei pazienti progredisce entro 5 anni. Anche questi sono asintomatici questo perché di solito insorgono nella parte
periferica della ghiandola, lontano dall’uretra. I sintomi urinari e i dolori si manifestano allo stadio C e D. Questi pazienti hanno difficoltà ad
iniziare o terminare la minzione, hanno disuria, hanno frequente stimolo alla minzione ed ematuria.

Stadi differenziativi del carcinoma della prostata


Le ossa sono sede di metastasi in diversi tumori come quello al
seno, ai polmoni, ai reni e alla prostata. Le cellule cancerose
passano dal tumore primitivo all’interno di un vaso sanguigno o
linfatico e attraverso questi inizia la loro diffusione. Solo alcune
delle cellule riusciranno a sopravvivere. Quest’ultime quindi
riattraversano la parete endoteliale dei vasi sanguigni o la parete
dei vasi linfatici, entrano quindi in altri tessuti in particolare ad es.
nell’osso (colonna vertebrale). Giunti in questo tessuto si fissano e
cominciano a produrre vasi propri necessari per il proprio
sostentamento (angiogenesi). Questo tipo di lesioni può essere già
evidenziata con la Tomografia a Risonanza Magnetica. Le
metastasi ossee possono erodere l’osso creando dei piccoli fori
dette lesioni osteolitiche oppure possono stimolare l’osso a crescere
in maniera abnorme formando delle lesioni osteosclerotiche e
questo tessuto anormale va incontro facilmente a fratture. Sono più
interessate alle fratture le ossa lunghe delle braccia, delle gambe e
delle ossa della colonna vertebrale. Nella colonna vertebrale le
metastasi ossee, oltre al forte dolore che è un sintomo tipico delle
metastasi ossee, comprimendo il midollo spinale possono
determinare debolezza alle gambe, irregolarità intestinali o
vescicali. Se le metastasi attaccano il centro dell’osso dove vi è il
midollo rosso avremo anemia e ricorrenti infezioni, oltre che
anomalie nella coagulazione del sangue. Le ossa contengono
importanti minerali come il Mg ++, il Ca++, ed i fosfati. In presenza
di metastasi all’osso avremo nel sangue un’ipercalcemia dovuta ad
un’aumentata distruzione del tessuto ossei da parte delle cellule
neoplastiche.

DIAGNOSI
La scoperta del tumore allo stadio iniziale può essere fatto con
un’accurata esplorazione rettale (data la loro localizzazione
posteriore e superficiale sono facilmente palpabili). La diagnosi
deve essere confermata istologicamente mediante biopsia
prostatica.
Oggi ci sono altre tecniche alternative per evitare la biopsia. Una è
la Spettroscopia di Risonanza Magnetica, una metodica non
invasiva che somma all’immagine tradizionale lo studio del
metabolismo dei tessuti prostatici, offrendo la possibilità di
visualizzare il tumore mediante l’analisi di vari componenti della
ghiandola tra cui la colina, il citrato e la creatina di cui è ricca la
ghiandola. In particolare viene svelata la presenza eccessiva di
colina sostanza di cui è particolarmente ricco il tumore.
La Patologia Clinica svolge un ruolo fondamentale con la ricerca del marcatore tumorale chiamato PSA (antigene prostatico specifico). È un
enzima glicoproteico (proteasi) prodotto dal tessuto ghiandolare della prostata e contenuto normalmente nello sperma la cui funzione è quella di
mantenere solubile e non coagulabile il liquido seminale. Normalmente solo piccole quantità circolano nel siero. I valori normali sono < 4 ng/ml.
I livelli serici di PSA totale diventano elevati in corso di carcinoma prostatico. Tuttavia questo valore soglia può aumentare anche in corso di
prostatiti, ipertrofia prostatica e adenoma prostatico. Esiste in circolo in tre forme: legata all’α2-macroglobulina e non è misurabile, legata all’α1-
antichimotripsina e in forma libera. Il dosaggio del PSA si riferisce al PSA totale. Negli U.S.A è consuetudine quando i valori del PSA totale
sono tra 4 e 10 ng/ml andare a dosare anche il PSA free o libero. Esso è dato dalla seguente formula: PSA libero = PSA libero/PSA totale x 100.
Se il valore che risulta è < 10-11% ci troviamo di fronte ad un carcinoma mentre se > 20% ci troviamo di fronte ad un’ipertrofia o ad un
adenoma prostatico. Questo perché è stato ipotizzato che il tessuto prostatico in corso di carcinoma produce più α1-chimotripsina rispetto ad un
adenoma o ad un’ipertrofia.
Risulta utile inoltre nel monitoraggio del cancro della prostata e può rilevare un tumore residuo o una recidiva. Se eseguito dopo 3-6 mesi dopo
una prostatectomia radicale in caso di positività è un indice certo di recidiva o di disseminazione metastatica. Eseguito dopo 6 mesi dopo l’inizio
di una terapia anti-androgena discrimina i pazienti responder dai non responder alla terapia. Il carcinoma negli stadi A e B viene trattato
chirurgicamente o tramite radioterapia. Quei pazienti negli stadi C e D con la terapia ormonale anche se le aspettative di vita di questi ultimi
sono molto ridotte.

CARCINOMA DELLA CERVICE

Lo “screening” è un termine inglese che tradotto in italiano vuol dire “controllo a scopo diagnostico” ed è una verifica sanitaria finalizzata ad
ottenere una diagnosi. Attualmente lo screening per il cervico-carcinoma, come quello per la mammella ed il colon-retto, è un intervento gratuito
che viene esercitato su di una determinata fascia della popolazione di donne compresa tra 25 e 64 anni di età.
Il carcinoma della cervice uterina è causato da un virus detto H.P.V. (Human Papilloma Virus). L’infezione avviene per trasmissione sessuale. La
maggior parte delle donne è portatrice del virus senza avere sintomi di alcun genere e solitamente la donna se ne libera nell’arco di 9-12 mesi dal
contagio. Solo le donne con altri fattori di rischio come precoce età al primo rapporto sessuale, molteplici partners sessuali, un partner maschile
con molti partner sessuali precedenti, l’uso di contraccettivi orali da più di 5 anni, deficit immunitari, infezioni genitali da Chlamydia o HIV,
persistente identificazione di un sierotipo ad alto rischio (ceppo 16, 18 e 45) di HPV, l’esposizione alla nicotina (fumo di sigaretta), non
riusciranno a debellare il virus che persisterà a livello della giunzione. Attualmente esiste un vaccino somministrato per via intramuscolare che
prevede due richiami a 2 e 6 mesi che può essere bivalente contro i ceppi HPV16 e HPV18 o quadrivalente contro i ceppi HPV16, HPV18,
HPV6, HPV11. Il target del vaccino sono le adolescenti ma si dimostra la sua efficacia anche in età infantile. Infine si potrebbe considerare il
caso di vaccinare anche i maschi.
Questo tumore è preceduto da lesioni preneoplastiche che possono rimanere nella fase non invasiva anche per più di dieci anni e che sfaldano
(perché si tratta di un tessuto epiteliale con cellule atipiche). Tali modificazioni se trascurate, possono portare alla formazione del tumore al collo
dell’utero.

Portio uterina normale Portio uterina neoplastica

Zona di transizione dove si sviluppa il carcinoma: in blu cellule uterine, in giallo cellule vaginali

Inizialmente si può avere una semplice displasia, ovvero un aumento della proliferazione cellulare con incompleta maturazione delle cellule.
La proliferazione cellulare è limitata allo strato basale B dove le cellule sono piccole, uniformi ed ipercromiche. Le cellule in prossimità della
superficie si appiattiscono progressivamente. Al contrario le cellule degli starti intermedi possiedono nuclei molto grandi, con nucleoli evidenti e
si possono notare delle figure mitotiche. I nuclei delle cellule sono più variabili in dimensioni e forma rispetto al normale (pleomorfismo) ed il
rapporto nucleo/citoplasma è più elevato della norma a favore del nucleo.
Sezione normale istologica della zona di transizione vagina-utero & aumento del numero delle divisioni (M) & inizio di attraversamento della
membrana basale da parte delle cellule neoplastiche (infiltrazione)

Per molto tempo la refertazione di uno “striscio” citologico è stata effettuata secondo lo schema di Papanicolau che comprendeva 5 classi:
1) La classe I indica un quadro assolutamente normale privo non solo di cellule maligne ma anche priva di cellule infiammatorie.
2) La classe II è usata per le modificazioni attribuite a infiammazione/infezione con l’aggiunta dell’eventuale agente responsabile quando
era possibile con l’osservazione al microscopio (funghi e trichomonas vaginalis).
3) La classe III è riservata a tutti quei casi dubbi, quasi sempre causati da agenti infiammatori che non consentono la tranquillità di
escludere forme più gravi.
4) La classe IV è usata per lesioni displastiche di alto grado e per il carcinoma in situ cioè quello circoscritto alla mucosa e quindi molto
superficiale.
5) La classe V indica la presenza di cellule maligne riferibili ad un carcinoma invasivo.
Nel 2001 è stata proposta, accettata ed è attualmente in uso una nuova classificazione (Bethesda System). Essa comprende una prima parte nella
quale viene segnalato il tipo di campione (se cioè trattasi di prelievo convenzionale o in fase liquida con la tecnica dello “strato sottile”), una
seconda parte che analizza l’adeguatezza del materiale sottoposto ad osservazione. I motivi per un prelievo non adeguato possono essere una
mancata collaborazione della paziente, non adeguata visualizzazione della cervice, non corretto scraping cervicale dell’endocervice e/o della
giunzione squamo-colonnare (ci devono essere almeno 10 cellule cilindriche che testimoniano che il prelievo ha compreso anche la zona più a
rischio del collo uterino e se c’è in generale una cellularità adeguata con un minimo di 8.000-12.000 cellule nel preparato tradizionale e almeno
5.000 in quello ottenuto con lo “strato sottile”), incompleto trasferimento del materiale sul vetrino, campione non correttamente strisciato,
campione essiccato per ritardata fissazione, uso insufficiente di fissativo, spruzzo troppo abbondante e ravvicinato del fissativo, campione
contenente prevalentemente sangue o essudato purulento, contaminazione del campione con creme vaginali o spermicidi. La terza parte del
referto dà informazioni generali: può essere negativo con descrizione di eventuali patogeni trovati come la Candida o il Trichomonas, aspecifiche
come vaginosi batteriche, o modificazioni cellulari epiteliali e/o ghiandolari suggestive di Herpes simplex, infiammazioni, radiazioni, atrofia
oppure viene detto che vi sono anomalie delle cellule epiteliali.
Le anomalie delle cellule epiteliali possono essere a carico delle cellule squamose o delle cellule epiteliali ghiandolari. Infatti una quota che va
dal 10% al 25% dei carcinomi della cervice è rappresentato dagli adenocarcinomi che originano probabilmente dalle ghiandole endocervicali.
Per quanto riguarda la citologia del Pap-test, le cellule squamose atipiche esse vengono divise in: ASC-US (CIN I) (atypical squamous cells of
undetermined significance) o ASC-H (CIN II e III) (atypical squamous cells, cannot exclude high grade squamous intraepithelial lesion). Se ci
riferiamo poi ad un prelievo bioptico e quindi istologico invece potremo avere: LSIL ( low-grade squamous intraepithelial cells) (CIN I) o HSIL
(high-grade squamous intraepithelial cells) (CIN II e CIN III). Il carcinoma in situ è il carcinoma in situ.
Il carcinoma della cervice nei suoi stadi iniziali dà sintomi scarsi e per questo il Laboratorio interviene per scoprirlo il più precocemente
possibile. La neoplasia se non accertata mediante test di laboratorio inizialmente si manifesta con perdite vaginali di tipo sieroso che aumentano
in quantità con il tempo, cambiando il colore verso il roseo per la presenza di piccole quantità di sangue. Poi compaiono perdite di sangue vero e
proprio e non corrispondono alle mestruazioni e si possono manifestare in seguito a contatto del collo dell’utero mediante rapporti sessuali,
esplorazioni vaginali, strapazzo fisico. Quando il tumore supera la mucosa uterina compaiono i dolori sempre più forti e tormentosi. Si ha
difficoltà a defecare ed urinare, con presenza di sangue nelle urine ed exitus finale.
Il Laboratorio interviene con l’analisi del Pap-test. La ragione della grande efficacia nella prevenzione è che questo tumore è in genere preceduto
da lesioni pre-neoplastiche che possono rimanere nella fase non invasiva per molto tempo (anche un decennio o più) e che sfaldano cellule
atipiche evidenziabili mediante striscio su di un vetrino. Bisogna dire che le cellule alterate non necessariamente progrediscono verso il cancro
ma possono anche regredire ed il rischio di progressione è tanto maggiore se più severe sono le alterazioni e se vi è la presenza del
papillomavirus. Si classificano tramite la sigla CIN (neoplasia intraepiteliale cervicale I,II, III,IV,V) oppure con lesione intraepiteliale a basso
grado o ad alto grado. La CIN IV è il carcinoma in situ.
Il prelievo è eseguito da ginecologi, ostetrici, infermieri purché addestrati adeguatamente. Si sottopongono al test tutte le donne una volta
all’anno o ogni due anni a cominciare dall’inizio dei rapporti sessuali. Deve essere effettuato a distanza di almeno 5 giorni dalla fine del flusso
mestruale e dopo tre giorni dall’uso di lavande vaginali ed almeno 1 giorno di distanza da rapporti sessuali. Si inserisce lo speculum e con luce
adatta si ispeziona la cervice. In presenza di notevole quantità di muco o essudato è opportuno prima detergere la cervice con tampone sterile. Si
effettuano due prelievi: l’esoepiteliale con spatola di Ayre, e l’endocervicale mediante Cytobrush.
Il materiale così ottenuto con i due prelievi deve essere posto in
zone del vetrino diverse. Il materiale prelevato con la spatola deve
strisciato delicatamente sul vetrino, mentre quello prelevato con il
cytobrush si deposita con un movimento rotatorio-antirotatorio sul
vetrino stesso. La pressione deve essere leggera per mantenere
l’integrità cellulare. Inoltre deve essere disteso in uno strato sottile
in quanto il materiale cellulare ammassato in strati troppo stessi
non è utilizzabile mediante microscopio.
Lo striscio deve essere fissato immediatamente onde evitare
fenomeni degenerativi delle cellule, mediante fissativi di miscele al
50% di alcool 95%-etere, o solo alcool 95%, o mediante spray che
deve irrorare tutto il vetrino spruzzato da una distanza di almeno 20
cm. Infatti se troppo vicino il getto dello spray può spostare le
cellule che si trovano sul vetrino. Dopo adeguata asciugatura
all’aria del vetrino si colora con il colorante di Papanicolau.
Recentemente sono stati pubblicati lavori nelle letteratura
scientifica che dimostrano come una nuova metodica “la citologia
su strato sottile” detta Thin-Prep Pap-Test. Esso è stato ideato per
superare i limiti dello striscio convenzionale. Con questa tecnica il
campione anziché essere strisciato su vetrino viene immerso in un
flacone contenente una soluzione conservante dove pressoché tutte
le cellule vengono raccolte.
Il campione viene quindi inviato ad una Unità Operativa Ospedaliera equipaggiata con un processatore (Diatek) che separa le cellule
diagnostiche da elementi oscuranti quali sangue, muco e detriti. Il sistema poi risospende e randomizza le cellule, creando un campione
rappresentativo dell’intera popolazione cellulare prelevata. Grazie a questo procedimento il vetrino del TPPT risulta chiaro, riproducibile tanto
da essere stato approvato dal FDA americano (Food and Drug Administration). È stato inoltre dimostrato che nonostante ci sia un iniziale
incremento del costo di ogni singolo pap-test, la metodica consente numerosi vantaggi quali: un significativo aumento dell’individuazione delle
lesioni di basso ed alto grado; una notevole riduzione di campioni inadeguati; una maggiore specificità per le lesioni ghiandolari; una riduzione
degli interventi invasivi; una riduzione dei follow-up non necessari e dei richiami dei pazienti; una riduzione degli interventi invasivi.
Il Laboratorio interviene con l’analisi del Pap-test che va effettuato 1 volta all’anno (per le donne che effettuano rapporti sessuali non protetti) e
lontano dal ciclo mestruale e dai rapporti (almeno 2-3 giorni). Il carcinoma della cervice è asintomatico (secrezioni a parte che però possono
avere varie cause). La ragione della grande efficacia nella prevenzione è che questo tumore è in genere preceduto da lesioni pre-neoplastiche che
possono rimanere nella fase non invasiva per molto tempo (anche un decennio o più) e che sfaldano cellule atipiche evidenziabili mediante
striscio su di un vetrino. Le cellule alterate non necessariamente progrediscono verso il cancro ma possono anche regredire ed il rischio di
progressione è tanto maggiore se più severe sono le alterazioni e se vi è la presenza del Papilloma Virus. Si classificano tramite la sigla CIN
(Neoplasia Intraepiteliale Cervicale I,II, III,IV,V) oppure con lesione intraepiteliale a basso grado o ad alto grado. La CIN IV è il carcinoma in
situ.
Classificazione in base al CIN (Neoplasia Intraepiteliale Cervicale)
- CIN 0  NEGATIVO: assenza di qualsiasi processo (ripetere Pap test dopo 2 anni)
- CIN 1  POSITIVO: non tumore e quindi no carcinoma ma semplice displasia perciò il PapTest deve essere ripetuto ogni 6 mesi
- CIN 2  POSITIVO: non tumore e quindi no carcinoma ma semplice displasia perciò il PapTest deve essere ripetuto ogni 6 mesi
- CIN 3  POSITIVO: non tumore e quindi no carcinoma ma semplice displasia perciò il PapTest deve essere ripetuto ogni 6 mesi
- CIN 4  POSITIVO: tumore
- CIN 5  POSITIVO: tumore

Pap-test normale Pap-test positivo Pap-test positivo Pap-test positivo


(CIN 0) (displasia CIN I-II-III) (CIN IV) (CIN V)

La displasia può essere causata da un tumore oppure da una semplice infezione: per risolvere il dubbio si effettua un tampone vaginale; per
capire se si è portatrici di papilloma si effettua la ricerca dell’HPV molecolare (ricerca sul Pap test dell’HPV molecolare). Chi è vaccinata deve
comunque fare il Pap test perché si è vaccinati solamente per i ceppi maggiori. Si va a vedere se il virus sta nelle cellule della vagina o del collo
dell’utero.
Le cellule ghiandolari atipiche hanno maggiori probabilità di essere associate a lesioni significative rispetto alle cellule squamose atipiche e
richiedono pertanto che le pazienti siano sottoposte a colposcopia e a biopsia endometriale. Una donna con pap-test positivo ripetuto due volte
deve essere sottoposta a colposcopia. La COLPOSCOPIA si esegue mediante acido acetico al 3% e/o a successiva biopsia se la colposcopia
risulta positiva. La colposcopia è un esame diagnostico di conferma (non si opera una donna se ha solo il Pap test positivo) effettuato dal
ginecologo in caso di Pap-Test positivo e consiste nell’ inserimento di una telecamera in vagina. A questo punto con una luce si colpisce il collo
dell’utero, si inietta acido acetico cosicché la luce rispecchi il tumore. Si vedono i colpi di luce. Si può osservare un aspetto a mosaico o
puntiforme della vascolarizzazione e comparsa con acido acetico di chiazze biancastre nel caso di esito positivo.

Epitelio normale Displasia lieve Displasia grave Carcinoma in situ

Il carcinoma della cervice può insorgere a qualsiasi età, dalla seconda decade in poi con un picco tra i 25 - 35 anni. Tale tumore evolve
lentamente e nel corso di molti anni può esservi come unico segno lo sfaldamento di cellule atipiche della mucosa cervicale. La diagnosi di
certezza richiede l’uso del colposcopio ma soprattutto è necessaria la biopsia con la valutazione istopatologica. Il trattamento di tale tumore va
rapportato al momento di tale scoperta. Nelle lesioni precancerose si ripete il pap-test o si procede alla crioterapia, laserterapia o conizzazione
con ansa diatermica o chirurgica. I carcinomi invasivi avanzati vengono trattati con isterectomia o negli stadi avanzati con radioterapia.
L’intervento può essere la crioterapia con azoto liquido (-256°C) o la laser terapia con laser (120°C). La causa principale di morte diventa
l’invasione della vescica urinaria e degli ureteri con conseguente ostruzione delle vie urinarie. Una volta rimosso il tumore, la donna conserva la
fertilità.
La sopravvivenza a cinque anni è per il CIN I al 90% e per il 10% per il CIN IV. La causa principale di morte diventa l’invasione della vescica
urinaria e degli ureteri con conseguente ostruzione delle vie urinarie.
Dal 2007 esiste un vaccino contro il Papilloma Virus. Possono vaccinarsi tutte le donne comprese dai 9 ai 26 anni che non hanno avuto rapporti
sessuali precedenti alla somministrazione del vaccino. Le ragazze di 12 anni, per disposizione del Ministero della Salute, potranno averlo
gratuitamente. Il vaccino si chiama commercialmente “Gardasil” ed è prodotto dalla Sanofi Pasteur. La vaccinazione avviene tramite una
iniezione intramuscolare deve essere ripetuta tre volte nell’arco di un anno con un costo totale di circa 600 €. Le donne vaccinate devono
comunque effettuare il Pap test perché il vaccino copre solamente i ceppi maggiori. Se si raggiunge un'adeguata copertura della popolazione il
vaccino per l'HPV può far diminuire le lesioni genitali, che in qualche caso preludono ai tumori, fino al 93%. L’età di 12 anni è stata scelta
perché generalmente le ragazze ancora non hanno avuto rapporti sessuali e ancora a quell’età sono chiamate a fare richiami per altre
vaccinazioni.

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