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Fedro Schmidt Zulian

Filosofia politica
Introduzione
Questo testo è il risultato di un lavoro di riorganizzazione e rielaborazione del materiale trattato nel corso
di filosofia politica. Il testo sarà diviso in tre sezioni. La prima sezione è un’introduzione alle categorie
della filosofia politica, attraverso l’analisi dei modelli classici della tradizione occidentale. La sezione
centrale contiene un’analisi del Leviatano di Thomas Hobbes. La terza sezione consiste in un
superamento storico di Hobbes, verso gli esiti più recenti del pensiero politico e con particolare
riferimento al modello kantiano; in ultimis, una breve conclusione con alcune riflessioni originali.

Sezione prima: fondamenti di filosofia politica

1.1. Premessa
La prima sezione del testo è di carattere introduttivo. Esordirò dando alcune coordinate che consentano di
inquadrare il dominio della filosofia politica, attraverso la definizione del suo oggetto e dei suoi metodi.
Successivamente, presenterò i principali strumenti concettuali adoperati dal pensiero politico. Gli
elementi della filosofia politica potranno emergere da un’indagine di carattere genealogico, che ne
individui le radici nei lavori dei suoi primi iniziatori: Platone, Aristotele, Tucidide. Saranno anche forniti
degli altri elementi, di origine più recente. L’obiettivo di questa prima porzione di testo è quello di porre
degli assiomi, funzionali alla lettura di un testo politico: le categorie qui enucleate possono essere
strumenti, alla luce dei quali sarà analizzata la produzione hobbesiana. Dopo una prima voce, nella quale
vengono delineate le generalità della disciplina della filosofia politica (1.2), la prima sezione consta di un
paragrafo relativo alla filosofia della storia e all’antropologia (1.3 – 4), che sono le premesse di una teoria
politica; il paragrafo successivo dà una panoramica sulle teorie politiche classiche in merito a due degli
elementi fondamentali di cui si occupa la disciplina: lo stato e il governo (1.5 – 6); nell’ultima porzione
del primo capitolo (1.7.) si arriva a discutere della sovranità e del potere, oggetti prioritari della filosofia
politica.

1.2. Filosofia politica


La filosofia politica è una disciplina che ha per oggetto il potere, come movente del divenire storico. Le
verità della filosofia politica riguardano il potere nelle sue origini, nelle sue forme, nei suoi effetti. Per
indagare l’origine del potere, il filosofo politico dovrà dotarsi di un’antropologia di riferimento e di una
filosofia della storia di riferimento, in base alle quali formulare un’ipotesi genealogica sulla nascita del
potere e della società. Per indagare le forme del potere, egli dovrà individuare le dinamiche con le quali
quest’ultimo si configura e distribuisce, e formulare rispetto ad esse dei modelli generali. Per indagarne
gli effetti, il filosofo dovrà verificare quali gli esiti di ciascun modello; è qui che la filosofia politica
assume anche un carattere prescrittivo, attraverso la proposta di un sistema giusto e di una relativa
teleologia.

1.3. Filosofia della storia


La filosofia politica si presenta come un genere della filosofia della storia, che indaga la storia secondo la
prospettiva specifica del potere. Rientrando nel dominio della filosofia della storia, la filosofia politica ne
eredita il valore modale: poiché produce verità intorno a cose contingenti, come i fatti storici, queste
stesse verità saranno verità di fatto. La filosofia della storia non è, tuttavia, solamente uno studio degli
eventi storici nella loro mera presentazione evenemenziale, ma tenta invece di produrre, a partire
dall’analisi di questi eventi puntuali, dei modelli ad un più alto grado di generalità. La filosofia della
storia è quindi quella scienza che studia il divenire storico ricostruendo i nessi causali che lo determinano,
e ricercando quelle traiettorie razionali che lo orientano. Il più alto esponente di questo settore è, nella
tradizione classica, lo storiografo Tucidide. La sua opera fondamentale (Storie, V sec. a.C.), che
ricostruisce gli eventi salienti della guerra del Peloponneso, contiene, più che la cronaca fedele degli
avvenimenti storici, una riflessione filosofica che, per metodo ed esiti, si porrà in maniera autorevole a
tutti i pensatori della storia successivi. Dal resoconto storico tucidideo emerge una prospettiva in cui, a
regolare le dinamiche politiche, sono rapporti di forza spietati fra potenze in continua allerta, diffidenti
l’una dell’altra e perennemente pronte ad accendersi in conflitti reciproci, dynameis, per la paura di essere
attaccati, o per l’ambizione a diventare più dominanti. Questo approccio disincantato e cinico alla natura
degli eventi storici ha dato origine ad una corrente ideologica denominata realismo storico, di cui
Machiavelli e lo stesso Hobbes saranno esponenti. La guerra greca fornisce a Tucidide il pretesto per
formulare una teoria generale della storia, e delle componenti che la determinano: il fenomeno storico è il
risultato dell’incontro di ananke, tuche, ta antropina. Ananke è la necessità naturale, successione causale
di eventi ineluttabili, come la morte, o lo scorrere di un fiume. La tuche è quella forza contingente che
non segue il regolare corso della necessità, e determina in essa una variazione inaspettata, come lo
straripamento di quel fiume che scorre. L’umano, anthropos, è soggetto a queste due forze, la prima delle
quali non può modificare, e la seconda mai totalmente prevedere; quello che l’umano può fare è assumere
un atteggiamento di prudenza, che in un caso gli consenta di assecondare a proprio vantaggio la
successione causale, e dall’altro, di prevederne il più possibile le variazioni improvvise: egli può
intervenire sul corso della storia, ponendo degli argini alle rive del fiume. Dunque, l’essere umano non è
un paziente impotente della necessità naturale, ma egli stesso un fattore determinante del processo storico.
Tucidide individua tre elementi dalla cui articolazione dinamica emerge un paradigma della natura umana
(cfr. 1.4). La formulazione di un modello antropologico di riferimento è il secondo elemento
presuppositivo della riflessione politica.

1.4. Antropologia
La considerazione dell’essere umano come componente attiva del fenomeno storico e, senza dubbio,
come componente prioritaria del fenomeno politico, produce la necessità di ipotizzare delle leggi
essenziali della natura umana, a partire dalle quali giustificare le tendenze che si osservano nella società.
Tucidide fornisce un autorevole contributo metodologico, formulando delle considerazioni sulla natura
dell’essere umano e rintracciando in esse le radici del fenomeno sociale. Ciò che garantisce l’efficacia
dell’approccio antropologico è il teorema, sempre tucidideo, della costanza della natura umana, che
teorizza la persistenza di alcuni topoi essenziali costanti a prescindere dalla situazione storica; solamente
la considerazione di una natura umana stabile rende efficace l’adozione di questa natura come lente per
dare una spiegazione univoca alla totalità degli eventi storici. Per Tucidide la natura umana, ta antropina,
è il risultato dell’incontro fra deos, timè, e ophelìa. La timè e l’ophelìa sono due fini dello stesso
sentimento di ambizione che sostanzia l’agire umano, il quale muove verso la soddisfazione dei bisogni
primari attraverso l’accumulo e il consumo di beni (ophelia), e in secondo luogo verso la stessa
condizione che glielo consente: l’affermazione della propria volontà sull’altro e la legittima efficacia della
sua rivendicazione, che, in società, passa attraverso il riconoscimento altrui (timè). Il bisogno di
assicurarsi le ultime due condizioni produce nell’umano la prima: deos la paura di non riuscirci. È proprio
la paura che genera quella condizione di insicurezza, nel singolo e nel collettivo, alla base della quale è la
diffidenza fra gli stati e la definitiva dynamis.
Per Tucidide, lo stato di guerra consente un’osservazione più diretta e immediata dei reali impulsi che
sostanziano il carattere umano, i quali, nello stato di pace e prosperità, rimangono latenti. Alcune pagine
delle sue Storie forniscono un elenco ricco e approfondito del modo in cui la guerra faccia emergere una
natura umana governata dalla violenza e dall’emulazione dell’aggressività altrui: gli uomini si omologano
nel conflitto, una dimensione in cui le leggi perdono ogni validità, e si assiste a una perversione, espressa
dal linguaggio, di tutte le categorie: il giusto diventa ingiusto, la virtù diventa vizio, in un generale
accecamento della ragione.
L’antropologia tucididea trova forti simmetrie nel modello platonico. Anche in Platone, la condizione di
bisogno in cui l’essere umano è calato produce una tendenza all’accumulo, volto all’assicurazione
duratura dei beni primari, la pleonexia. L’insicurezza produce nell’essere umano una tendenza ad
eccedere rispetto al procacciamento del sufficiente, una hybris (tracotanza) che lo spinge alla bramosia,
perseguita attraverso l’ingiustizia (adikein) della prevaricazione sull’altro. Queste considerazioni sul
movente dell’agire umano sono accompagnate in Platone dalla teoria, esemplificata col mito dei metalli,
sulla naturale disuguaglianza degli uomini, che sono insigniti dalla nascita di caratteristiche differenti, a
partire dalle quali si determina la superiorità dell’uno sull’altro.
Anche l’antropologia aristotelica fonda sulla premessa di una realtà disomogenea della natura umana, ma
con esiti ben più positivi. Seppure la legge della disuguaglianza naturale produca dei rapporti asimmetrici
fra le varie categorie di esseri umani, sancendo una predominanza del maschio adulto di stirpe greca sulle
altre categorie, definite per opposizione, della donna, del giovane, dello schiavo e dello straniero,
deficitari delle virtù che definiscono l’essere umano vero e proprio, la teoria aristotelica lascia, tuttavia,
molto più spazio ad elementi di benevolenza e collaborazione, nella sua definizione di natura umana; una
natura umana naturalmente incline all’armonia del singolo col collettivo ed alla formazione di strutture
sociali pacifiche.
Lo studio dell’essenza umana in sé, assoluta dal contesto sociale e considerata nella sfera intima
dell’individuo, fornisce le premesse per la definizione del comportamento umano inserito nel collettivo,
prodotto dell’interazione fra le varie individualità, e vero oggetto della riflessione politica.

1.5. Stato
Attraverso la trattazione del concetto di stato, seguendo poi con quello di sovranità, di giustizia, e di
potere, ci addentriamo nel nucleo della riflessione politica e ne definiamo i più autentici oggetti. Lo stato
è il risultato dell’incontro fra i vari individui, quando questo incontro si risolve in una collaborazione
pacifica. I tre principali paradigmi di stato sono la polis antica, l’impero, lo stato moderno. Inscrivibili
alla dimensione della polis antica sono tutti quei fenomeni di città-stato che si sviluppano in Grecia a
partire dal VI secolo a.C., con massima compiutezza negli esemplari di Atene e Sparta. La filosofia
politica antica ha indagato il concetto di stato a partire dalla sua fondazione; il fenomeno della genesi di
uno stato è chiamato poleogonia, e ne troviamo due diverse formulazioni nel modello aristotelico ed in
quello platonico. La genealogia della polis fornita da Aristotele è di carattere evoluzionistico: a partire
dalla naturale tendenza degli umani a riunirsi in società, quello dello stato è un esito spontaneo che si
realizza secondo tappe progressive. La formazione dello stato prende il via a partire dal sistema familiare,
la più semplice e naturale aggregazione fra individui, per poi sofisticarsi attraverso la riunione di diverse
famiglie in clan e di diversi clan in tribù. La natura della poleogonia aristotelica è quindi di carattere
sinecistico, e trova conferma nella storiografia contemporanea. Alla progressiva sofisticazione del sistema
statale corrisponde una progressiva sofisticazione dei bisogni e dei prodotti della civiltà, cosicché se la
famiglia è il luogo della vita più semplice, della sopravvivenza o zoé, lo stato ospita invece le forme di
vita più alte e complesse, risultato dell’emergenza di bisogni secondari: l’euzeen o bios. Le interazioni
all’interno della città sono di tipo collaborativo, e consistono in una serie di scambi reciproci che vanno a
costituire l’economia della città. Nella prospettiva euforica di Aristotele, quindi, lo stato è una naturale
estensione dell’individuo, e gli interessi del singolo coincidono con quelli della comunità.
Anche Platone teorizza, nella Repubblica (IV sec. a.C.), una poleogonia di tipo evoluzionistico. A partire
da un originario stato di insufficienza, l’essere umano sviluppa delle tecniche e degli artifici – fra cui
quello della società – che gli consentono di rispondere meglio ai propri bisogni. Inizialmente, il collettivo
nato dalla riunione di questi individui è poco complesso e strutturato, e Platone lo denomina “città dei
maiali”. Ciò che determina uno sviluppo di questa condizione di povertà civile è proprio la natura
pleonectica dell’umano, che lo porta a generare strutture più complesse ed a passare, come in Aristotele,
dalla sopravvivenza alla vita, dalla soddisfazione dei meri bisogni naturali alla produzione di nuovi
bisogni, artificiali e più articolati. Lo svilupparsi delle tecniche e l’organizzarsi degli apparati produttivi si
risolve nella distribuzione e distinzione delle varie professioni. All’interno di questa suddivisione, però, si
realizza quella naturale predisposizione degli uomini a rivestire uno specifico ruolo nella gerarchia
sociale, e questa gerarchia, compiendosi, determina la contrapposizione di due classi sociali: i pochi
ricchi, ed i tanti poveri. La natura di questa contrapposizione è conflittuale e in essa consiste, per Platone,
la malattia della città, fratturata e come ospitante, nei suoi confini, due distinte città in disarmonia. A
questo modello evoluzionistico Platone accompagna un altro modello, questa volta di carattere
costruzionistico: la polis nasce dall’associazione dei più deboli, che costringono i forti ai quali sono
subordinati a stabilire un accordo che tuteli i loro interessi. Se quindi in Aristotele c’era identità fra utile
individuale e collettivo, in Platone l’approdo alla comunità è permesso da una reciproca limitazione del
vantaggio dei singoli. Questa seconda teoria genealogica è la matrice del modello contrattualistico, di cui
Hobbes è teorico.
Il paradigma imperiale consiste in uno stato nel quale un terreno di notevole estensione, ospitante
popolazioni di culture anche molto diverse, è governato interamente da un potere centrale, riassunto in un
monarca assoluto. Perfetto esempio d’impero è quello fondato da Roma nell’ultima fase della sua storia
(…). Il pensiero romano fornisce un modello poleogonico all’origine del quale è la multitudo, un insieme
di individui indipendenti e disgiunti, i quali, poi, si uniscono attraverso un pactum societatis: si danno una
forma unitaria e una definizione corale, che fa di loro un populus. È ben evidente, quindi, come uno stato
non sia l’insieme di una serie di individui da un punto di vista territoriale, e non corrisponda, come un
aggregato, alla somma algebrica degli individui presi singolarmente, ma sia invece il risultato
dell’interazione di questi individui riuniti sotto una forma organica.
Lo stato moderno è quel tipo di stato che va formandosi progressivamente in Europa, attraverso la
progressiva dissoluzione dei grandi imperi e la rivendicazione d’autonomia delle varie nazioni. Il
paradigma di stato moderno trova esemplificazione nella Francia napoleonica. Secondo la teoria classica,
gli stati moderni si sono formati alle periferie dei grandi imperi, ormai in decadenza, attraverso l’azione di
quei gruppi armati che sono le vestigia della vecchia organizzazione feudale. Questi gruppi, affrancati dal
potere centrale, diventano protettorati autonomi che, attraverso un’attività di sistematica minaccia e
offerta di protezione da questa stessa minaccia e da quella delle altre organizzazioni, raccolgono
progressivamente zone di territorio sempre più ampie.
La teoria poleogonica formulata dai pensatori contemporanei prevede tre fasi di formazione dello stato a
tre livelli differenti. La prima fase è quella dello state-building, fase di costituzione dello stato dal punto
di vista materiale dell’organizzazione militare e civile. La seconda fase è quella del nation-building, che
consiste nello sviluppo di un’identità culturale dello stato, in buona parte dovuta alla condivisione della
lingua. Una terza fase la si ritrova in Hegel col Burgerlischgesehnschaft, o civil-society-building, come
sviluppo della rete economica che determina l’interazione fra i civili.

1.6. Governo e Giustizia


A contrario dei sistemi complessi che, come gli stormi di uccelli, riescono ad agire unisonamente pur in
mancanza di un governo centralizzato, lo stato funziona solamente quando è sottoposto ad un controllo.
Questo centro di controllo, a partire dal quale è stabilita la conformazione e l’orientamento dello stato, è il
governo. Il governo stabilisce la struttura sociale attraverso la giustizia. La giustizia, secondo Aristotele,
può essere distributiva, quando viene elargita da un terzo super partes nei confronti di dei sottoposti, o
commutativa, quando consiste nel reciproco rispetto di un patto fra due pari. Diverse sono le
conformazioni che uno stato può assumere, a seconda della forma di governo che lo caratterizza. La
prima definizione delle forme di governo possibili è rintracciata nelle Storie (430 a.C. ca.) di Erodoto,
che, all’interno del dialogo fra Dario, Otane, e Megabizo, ne individua tre: la monarchia, l’aristocrazia, la
democrazia. Con Polibio avviene una duplicazione di questi tre modelli, che sono integrati con la loro
rispettiva versione degenerata. La monarchia è quella forma di governo in cui il potere decisionale è
detenuto da un solo individuo, il quale decreta autonomamente la disposizione dello stato nella sua
interezza, in ogni ambito: da quello militare, a quello giuridico, a quello religioso. Nel dialogo di Erodoto,
questo modello è esaltato da Dario, il quale sottolinea come la condensazione del potere nelle mani di uno
solo, quando questo è giusto, consente allo stato di funzionare più efficacemente in virtù della totale
libertà d’agire del monarca, che non è limitato dal veto di altri. La controparte della monarchia, presentata
dal monarcomaco Otane, è quella della tirannide, in cui l’assenza di limitazioni al potere del sovrano si
traduce nella totale impunità dei suoi gesti, animati dalla violenza e dal dispotismo. Il tiranno è, nella
politica classica, quel monarca che non prende il potere seguendo il meccanismo istituzionale, ma
attraverso il colpo di stato e, solitamente, mediante pratiche di populismo. La sua azione avviene dunque
sotto l’insegna dell’invidia prima, e dell’arroganza dopo. Egli non si fiderà dei propri sottoposti, perché
avrà paura di essere usurpato a propria volta, ma favorirà invece ignoranza del popolo e violenza dei
funzionari, perché la microcriminalità gli consente di capillarizzare e perpetrare l’ingiustizia del proprio
potere.
L’aristocrazia è la forma di governo costituita da un numero esiguo di persone al potere. Essendo il potere
distribuito su un maggior numero, questo è anche più regolamentato. Tuttavia, come fa notare Dario
all’interno del dialogo, se i pochi dell’assemblea sono guidati da aspirazione incontrollata, allora
tenderanno a voler prevaricare gli uni sugli altri scatenando una guerra civile. La forma degenerata
dell’aristocrazia è l’oligarchia, nella quale appunto le azioni dei potenti sono guidate non dalla giustizia,
ma dall’ambizione personale e dalla disarmonia col resto dell’assemblea.
Dove tutti i cittadini posseggono, oltre ai diritti civili, anche i diritti politici, il sistema di governo è
democratico. La democrazia è generalmente diffidata dai filosofi antichi, perché il popolo è considerato
troppo ignorante e volubile per disporre di se stesso, e si ritiene che le decisioni politiche debbano essere
affidate a dei professionisti, che ne padroneggino la tecnica. Per questo, fino a Polibio, il termine
democrazia non possiede una controparte negativa dal punto di vista linguistico, controparte che verrà poi
teorizzata sotto il nome di oclocrazia, dove oclos vuole dire feccia. A Polibio, storiografo greco vissuto a
Roma, si deve anche la definizione della costituzione mista, in cui coesistono tutte e tre le forme di
governo, su modello romano, e la teorizzazione del principio dell’anaciclosi, per cui le forme di governo
(nell’ordine: monarchia – aristocrazia – democrazia) si succedono in una progressiva metamorfosi
all’interno di un processo ciclico, in cui la degenerazione di ciascuna forma conduce a quella successiva.
Portatore di una concezione simile a quella di Megabizo nel dialogo erodoteo è Platone, convinto
aristocratico ed antidemocratico. Nella parte prescrittiva della Repubblica è descritto uno stato ideale in
cui al governo sono i filosofi, veri padroni del sapere e della tecnica politica: questa concezione è definita
sofocrazia. Il sistema platonico è regolato dalla giustizia, che consiste nel rispetto di ciascun cittadino del
ruolo che gli è più connaturato e nell’armonia gerarchica fra le tre classi di artigiani, guerrieri, e filosofi.
La proprietà privata e l’istituzione della famiglia sono abolite, in quanto principali fattori che determinano
il prevalere dell’interesse personale su quello collettivo.
Ben diverso è il sistema aristotelico, all’interno del quale tutti i cittadini sono insigniti del potere politico
in una reciproca limitazione, regolata dalla ciclicità delle cariche che vede una volta governare l’uno, una
volta governare l’altro. L’iscrizione di questo modello sotto l’egira democratica deve comunque tenere
conto della particolare antropologia assunta da Aristotele, all’interno della quale soltanto il maschio
adulto autoctono è considerato autenticamente dignitoso di ricoprire ruoli politici, e il suffragio non è
quindi universale.
Un’ultima matrice categorica emerge, nel dialogo delle Storie, dallo sviluppo della tesi di Otane,
riassumibile nella frase: “[ouk bouleuoo] mè arkein mè arkesthai”: non voglio comandare, né essere
comandato; un’apertura al principio dell’anarchia, che punta ad abolire qualsiasi forma di potere
istituzionale e rimanda ogni governo alla spontanea e indipendente spinta arbitraria del cittadino.

1.7. Sovranità e Potere


La posizione di potere ricoperta dall’individuo o dagli individui in cui è riassunto il governo, è definita
sovranità. La sovranità è la detenzione e l’esercizio di questo potere su tutto il populus, l’insieme dei
cittadini e, nel diritto romano, è l’esito, oltre che del patto di associazione, di un ulteriore patto fra i
cittadini, quello di soggezione, consistente nel trasferimento (translatio) del potere a un governante. La
definizione di questo patto nella teoria politica romana emerge dall’esigenza di legittimare la sovranità,
quando mezzi più semplici non lo consentono. Se difatti è possibile sancire una sovranità naturale
all’interno dei rapporti dell’oikos, del padre sul resto della famiglia, è più difficile invece giustificare la
subordinazione fra due umani liberi. La subordinazione, (obligatio) ex contractu, è il dispositivo che
descrive il rapporto di subalternità generato dal debito di un umano verso un altro, dal crimine di un
umano condannato verso l’accusante o verso il tribunale, dalla conquista e dalla soggezione di un
vincitore su un vinto. Tutti questi rapporti di subordinazione sono, comunque, imperniati sul potere, ed in
particolare sul potere su, o power over. Se, difatti, il potere di incominciare un corso d’azione coincide
con la libertà1, e viene definito power to, il concetto di power over descrive generalmente una relazione di
nessi causali fra un agente ed un paziente. Di questa seconda categoria si possono ancora evidenziare due
differenti connotazioni, che emergono da un’analisi linguistica sul lessico politico in lingue come il greco,
il latino, il tedesco. Tutte e tre queste lingue, difatti, conoscono diversi termini per esprimere questo
rapporto, e generalmente lo possiamo trovare distinto in due categorie diverse: quella di Herrshaft, kratos,
potestas, opposta a quella di Autorität, archè, ed auctoritas. La distinzione di questi vocaboli, in tutte e
tre le lingue, fonda sul discrimine della legalità. Quello che passa sotto il nome di kratos è un potere
illimitato, violento, e coercitivo. Quello di archè, invece, è un potere che si è dato dei limiti, attraverso un
processo di giuridificazione. Il passaggio da un potere incontrollato e dirompente ad un potere inserito in
1
Quattro sono le connotazioni della libertà nel pensiero politico: la libertà morale; la libertà come autonomia; la
libertà da; e la libertà di.
Libertà morale è quella dell’individuo preso di per sé, assoluto dal contesto – se mai si possa dare una simile
condizione.
La libertà come autodeterminazione è quella di un collettivo di darsi forma indipendentemente dagli altri.
La libertà da è libertà da impedimenti all’azione, e in particolare dell’individuo dal collettivo; questa è una libertà
negativa.
La libertà di è invece libertà positiva, dell’individuo di iniziare un’azione nel collettivo, in armonia col contesto.
un contesto normativo è il medesimo che definisce la costituzione di uno stato a partire dall’unione
giuridica di dei cittadini sotto un governo e delle leggi; questo è il nucleo della ricerca della filosofia
politica, ed il nucleo del pensiero di Thomas Hobbes.

Sezione seconda: Hobbes e Il Leviatano

2.1 Premessa
Thomas Hobbes (Inghilterra, 1588 – 1679) è uno dei filosofi il cui contributo è più rilevante per la
filosofia politica. Nel Leviatano (1651), egli pone originalmente o sistematizza definitivamente le
principali categorie di cui ancora ci si serve per affrontare il dominio della filosofia politica. Il suo
impegno si concentra, soprattutto, sulla definizione della sovranità e dello stato, a partire da un modello
giusnaturalistico (seppur con notevoli variazioni rispetto al giusnaturalismo classico), e contrattualistico.
Questa sezione analizzerà gli elementi fondamentali del sistema teorico hobbesiano, estrapolati
direttamente dal testo del Leviatano. L’esposizione delle tematiche seguirà, in analogia con lo stile dello
stesso Hobbes, un andamento schematico: i vari riferimenti a uno specifico argomento sono raccolti dal
testo, ed enucleati in una stessa sezione dell’elaborato, sigillata da un titolo. La connessione dei temi, di
per sé frammentati, è idealmente costituita dalla loro disposizione, che segue un ordine di priorità; così, i
primi elementi concettuali saranno più semplici e fondamentali, e la posizione iniziale della loro
definizione servirà a poterli riutilizzare come componenti per la definizione dei concetti più complessi.
La trattazione si dipanerà intorno a sei nuclei fondamentali, in un ordine che ricalca quello seguito nella
prima sezione: i primi tre (2.2 – 2.4) pongono le basi antropologiche della riflessione hobbesiana; il
quarto (2.5) fornisce alcuni strumenti fondamentali a sviluppare la teoria poleogonica di Hobbes: il
contratto e l’autorità; gli ultimi due capitoli contengono la teoria politica definitiva di Hobbes, a partire
dalla poleogonia, attraverso la struttura dello stato (2.6), grazie al suo funzionamento legale (2.7); questi
capitoli, particolarmente ricchi dal punto di vista contenutistico, sono ulteriormente suddivisi in porzioni
per favorire l’ordine.

2.2 Natura umana


Il punto di partenza della riflessione antropologica hobbesiana è la definizione dei comportamenti umani
in luce di ciò che li muove. In maniera concreta e disincantata, Hobbes osserva come il primo movente
dell’agire umano sia la soddisfazione dei bisogni e dei desideri naturali, nel conseguimento della quale
egli individua la felicità (Hobbes 1651, p. 130). Il taglio immanentistico della sua osservazione lo porta,
però, a rifiutare la possibilità del raggiungimento di un sommo bene in terra, e a considerare la felicità
come non altro che “un continuo passaggio da un desiderio all’altro” (ibid.); difatti, la soddisfazione di un
bisogno naturale non può che essere momentanea. La particolare condizione dell’animale umano è però
quella di un essere razionale, e questa facoltà della ragione è prima di tutto facoltà di costruire nessi
causali, che porta a prevedere la ripetizione di un evento nel futuro:

“…in esse [le bestie] è limitata od inesistente la previsione del tempo futuro per mancanza di
osservazione e ricordo della concatenazione, conseguenza e dipendenza delle cose che si
presentano alla loro vista; al contrario, l’uomo osserva come un fatto è stato determinato da un
altro” (p. 140).

Questa particolare considerazione della ragione umana porta Hobbes a formulare uno dei tratti più
caratteristici e moderni della sua antropologia, che consiste nel sentimento dell’ansietà. Se, infatti,
l’animale si contenta facilmente del piacere momentaneo, invece l’umano, che ne comprende la volatilità,
non trova mai posa nella preoccupazione che il bene presente possa non sussistere anche in futuro. Ecco
che, quindi, il fine umano vero e proprio non è solo la soddisfazione del bisogno provvisorio, ma una
garanzia di stabilità della propria condizione di benessere. La risposta dell’umano all’incertezza della
propria condizione è una sfrenata tendenza all’accumulo volto all’assicurazione di beni futuri, che
avvicina fortemente la prospettiva hobbesiana alla teoria della pleonexia platonica.
Emerge come, similmente a Platone e Tucidide, e diversamente da Aristotele, nell’antropologia
hobbesiana non vi sia alcuno spazio per sentimenti di benevolenza e di collaborazione, ma invece tutto
l’agire umano sia rivolto esclusivamente alla soddisfazione dell’interesse individuale. L’umano è
costitutivamente asociale e conflittuale, e solo accidentalmente sociale. Difatti, se l’umano fosse
essenzialmente sociale, ogni umano dovrebbe amare tutti gli altri in eguale misura, mentre l’umano è
selettivo, e si unisce agli altri per onore o utilità: se gli uomini si incontrano per commerciare, allora
ciascuno si occupa del proprio utile e non di quello del socio; se si incontrano per amicizia,
quest’amicizia è apparente o strumentale; se si accompagnano per filosofare, essi tentano solo di
accrescere la propria opinione di sé attraverso un confronto favorevole con l’altro.

2.3 Potere e Libertà


Con il termine di potere Hobbes designa quelle facoltà che consentono all’umano di procurarsi i propri
beni. A partire da questa definizione di base, l’analisi hobbesiana delle facoltà procede con un lungo
elenco di progressive definizioni e differenziazioni, da cui emerge il carattere analitico della sua
impostazione.
Una prima distinzione è quella fra poteri naturali, originari e intrinseci all’essere umano, e poteri
strumentali, cioè mezzi altri che l’umano acquisisce attraverso i primi. Dei poteri naturali fa parte, prima
di tutto, la suddetta ragione. Il termine ragione assume, nel sistema hobbesiano, due connotazioni
differenti: ragione strumentale, e ragione morale (cfr. 2.7). In questa prima connotazione, quella di
ragione strumentale, essa non è altro che il mezzo primo che consente all’umano di individuare gli altri
mezzi utili al perseguimento di un fine. Gli altri poteri naturali sono le qualità di cui naturalmente dispone
ogni essere umano in misure differenti, come la forza e la velocità. Fra i poteri strumentali, invece, si
trovano tutti quegli elementi che sono accessori rispetto alla condizione “nuda” di un essere umano, e che
pure attraverso la loro acquisizione producono un maggior potere di realizzare i propri fini: ad esempio, la
ricchezza è un potere, così come l’affabilità. L’affabilità è un potere perché produce ammirazione, e
dunque devozione da parte degli altri. In questa osservazione si trova la manifestazione del pessimismo di
Hobbes, per cui l’amicizia non è altro che uno strumento utile ad affermare il proprio potere. Altro
esempio è quello del prestigio, come valore attribuibile ad un umano in base al suo potere. 2
All’elenco delle varie capacità e virtù umane, a cui segue una ricca e attenta analisi dei comportamenti
umani in società, corrisponde poi anche un elenco dei vizi umani, fra cui “L’irresoluzione derivata da
eccessiva valutazione delle piccole cose” (p. 134), e la vanagloria. La vanagloria è quel vizio umano che
consiste nell’ostentare un potere di facciata, la cui apparenza non corrisponde a una sostanza reale.
Nell’insieme delle facoltà elencate, e nella possibilità di attuarle, consiste la libertà. La concezione
hobbesiana di libertà non ha nulla a che vedere con l’accezione morale di questo termine ma, in accordo
con l’approccio materialista e meccanicista dell’autore, essa è intesa in senso puramente fisico, come la
libertà di agire che dipende dall’assenza di impedimenti esterni. Come il moto di un qualsiasi corpo nello
spazio può avvenire solo in mancanza di ostacoli che lo interrompano, così la libertà dell’essere umano
consiste nella possibilità di attuare il proprio potere senza limitazioni.

2.4 Stato di natura


Con stato di natura si intende la condizione cui si trova l’umano in un momento precedente alla sua
associazione con altri umani, quando ancora l’umanità costituisce una moltitudo, e non ancora un
populus. Quella dello stato di natura non è una ricostruzione storica, e non ha la pretesa di corrispondere a
2
Al concetto di prestigio si accompagna un’interessante riflessione sull’accidentalità del valore delle
cose, che non appartiene intrinsecamente alle stesse, ma viene attribuito loro dal mercato all’interno di cui
sono valutate. A proposito delle osservazioni presenti nel Leviatano sulla condizione dei mercati, si può
osservare una lettura del testo come testimonianza politica del passaggio da una società feudale ad una
società borghese, con tutte le variazioni che questo comporta.
nessuna effettiva fase della storia umana; si tratta, piuttosto, di un esperimento ipotetico, un dispositivo
artificiale utile ad Hobbes per simulare una condizione antecedente a quella, per così dire, della
poleogonia, in modo da sperimentarne le cause e le modalità.
Una volta definito un prototipo di essere umano sotto l’insegna dell’egoismo, della ansietà, e della
pleonexia, cosa potrà capitare quando questo prototipo sarà situato in un contesto reale, a contatto con gli
oggetti e con gli altri individui? Il contatto fra la natura umana e la concretezza della terra produce
l’effetto di una totale confusione: l’illimitata bramosia umana si scontra con la limitatezza dei beni
materiali, generando una corsa all’accumulo. L’egoismo connaturato alla specie umana produce una serie
di individui atomizzati, poiché la loro sfiducia nei confronti degli altri li relega ad uno stato di ostilità
reciproca. Questi uomini lottano con tutti i mezzi, e senza alcuno scrupolo, con chiunque metta a
repentaglio il loro dominio. In questa condizione di conflittualità perenne, fra gli uomini vige un rapporto
di assoluta uguaglianza di potere. Difatti, i poteri strumentali come la ricchezza e l’onore non hanno
nessuno spazio per dispiegarsi al di fuori di un contesto civile, mentre invece i poteri naturali, per quanto
disegualmente disposti, non producono una differenza sufficientemente grande da non impedire a
ciascuno di prendere la vita dell’altro. Il criterio di uguaglianza consiste proprio nel potere di vita e di
morte, a disposizione di ciascun individuo. Con le parole di Hobbes:

“Da questa eguaglianza di capacità scaturisce l’eguaglianza delle speranze di realizzare i fini che
ci proponiamo. Di conseguenza, se due uomini desiderano la stessa cosa che tuttavia non possono
entrambi ottenere, divengono nemici, e per raggiungere il loro scopo, che è in primo luogo la
propria conservazione [. . .] fanno di tutto per distruggersi l’un l’altro.” (p. 157).

I referenti sullo stampo dei quali Hobbes costruisce questa dimensione virtuale provengono
dall’osservazione empirica di condizioni reali, alternative a quella della civiltà. La guerra civile è la prima
fra questi, e fornisce il più diretto e vicino mezzo di contrasto. Hobbes, che pure traduce le Storie di
Tucidide, e su di esse plasma la propria descrizione dello stato di natura, ha dalla sua parte soprattutto
l’esperienza autoptica della guerra civile inglese, combattuta fra il 1642 ed il 1651 dalle due fazioni dei
monarchici e dei parlamentari. Proprio questo episodio, fra l’altro, sostanzia la progettazione di una teoria
politica dell’assolutismo sovrano, che motiva la produzione hobbesiana.
Un secondo referente è poi rintracciabile nella condizione dei selvaggi delle Americhe, i quali, pur dando
prova del fatto che un autentico stato di natura non si dia mai, con l’evidenza di una rudimentale
organizzazione ed associazione in famiglie, danno anche l’idea di una associazione primitiva e solo
tribale, spuria di un governo centrale e di trame sociali complesse.
È a partire dalla condizione appena delineata che procede l’associazione degli individui nello stato. Nello
stato di natura, nessuna legislazione è effettivamente in vigore. Difatti, al di fuori di un sistema civile non
esiste l’istituzione necessaria a rendere cogente la norma. Così, al di fuori del sistema civile, non si può
dire che esista nessuna definizione di giusto e di sbagliato, di crimine e di pena, di proprietà. All’interno
dello stato di natura nulla è vietato, ed ogni azione è giustificata dalla sola forza della sua espressione.
Non esistendo proprietà, ogni latrocinio è concesso dal suo succedere, e “possesso” è l’unico termine che
descriva il rapporto fra un soggetto e un oggetto. Allora ciascuno, nello stato di natura, ha la libertà di
prendersi ognuno ed ogni cosa. Questa libertà assoluta è il diritto naturale.

2.5 Contratto e autorità


I concetti di contratto e autorità sono i principali elementi tecnici di cui Hobbes si servirà per articolare la
dinamica del passaggio da stato di natura a stato civile. Li presento qui come assiomi per il loro
successivo utilizzo nel discorso.

“Il reciproco trasferimento di un diritto è ciò che viene dagli uomini definito contratto. [. . .]
Ancora, uno dei contraenti può cedere la cosa che è oggetto del contratto, per quel che riguarda la
sua parte, e lasciare che l’altro faccia ciò in un certo tempo dopo, fidandosi della sua parola; in
questo caso il contratto viene chiamato patto.” (167).

Dato un certo diritto, l’individuo ha, attraverso un atto volontario, il potere di rinunciare o trasferire
questo diritto. La rinuncia di un diritto consiste nella cessione incondizionata di quest’ultimo a un altro. Il
trasferimento consiste nella cessione di quest’ultimo condizionata dall’interesse personale che si spera di
ricavarvi. Cedere un diritto significa privarsi della possibilità di esercitarlo, e della possibilità di impedire
al contraente di esercitare il proprio. La cessione di un diritto non è mai conferimento al contraente di una
libertà che quest’ultimo non abbia già, perché allo stato originario qualsiasi persona dispone già di
ciascun diritto di cui dispongano tutti gli altri. Una volta ceduto un diritto attraverso un patto, il cedente è
impossibilitato alla revoca, e all’ostruzione dell’esercizio del contraente. L’unico diritto la cui cessione
non rende valido il contatto è quello alla vita perché, in virtù del principio razionale
dell’autoconservazione, ciascuno è esentato dal rispetto di un patto quando questo confligge con la
propria sopravvivenza.
Nel caso specifico di contratto che è il patto, in cui lo scambio di uno dei due oggetti è differito nel
tempo, è implicata da parte di uno dei contraenti la fiducia nella promessa. La promessa, con cui
l’individuo esprime il proprio interesse a contrarre il patto, è sempre pronunciata con parole del futuro. Se
in una donazione spontanea solo le parole del passato e del presente determinano obbligatorietà, e fra
queste anche: “io oggi stabilisco che domani donerò X”, invece in un patto anche le parole del futuro sono
impegnative, perché si suppone che sottintendano sempre la formulazione sopra presentata.
L’autorità è un particolare tipo di contratto fra un autore ed un attore, ed in questi termini il contratto è
una relazione che viene definita autorizzazione. Il processo di autorizzazione consiste nel trasferimento di
un diritto, in cui il trasferente è l’autore, ed il ricevente è l’attore; tanto l’attore quanto l’autore sono
persone. Persona, dal latino persona, maschera, è un ente che svolge il ruolo della rappresentanza, e
rappresentanza è l’espressione di una volontà attraverso azioni o parole. La persona può essere naturale,
quando contiene in sé il principio della volontà, o artificiale, quando rappresenta la volontà di un altro.
L’essere umano che viene preso in considerazione dalle teorie politiche e sociali è quindi una persona
virtuale, un attore sociale che viene inteso non nella totalità della sua identità, ma come il rappresentante
di un qualche ruolo. La responsabilità di un contratto sottoscritto da un attore ricade sempre sull’autore
che rappresenta.

2.6 Stato e sovranità


2.6.1 Poleogonia
Dato lo stato di natura come una condizione di totale privazione ed incertezza, nel quale

“…non c’è posto per l’applicazione al lavoro perché il frutto di esso è incerto, e perciò non si
coltiva la terra, non ci si dedica alla navigazione, [. . .] non si costruiscono comodi edifici, né
macchine per sollevare e trasportare oggetti che richiedono molta forza, [. . .] non si coltiva la
storia, le arti, le lettere, i rapporti sociali” (p. 160),

proprio la considerazione dell’interesse nella propria sicurezza, ed il timore per la propria vita, portano gli
umani ad interrompere l’ostilità reciproca ed a risolversi in una collaborazione. Avviene qui il pactum
societatis, come ideale unione d’intenti degli individui e condivisione del fine della sicurezza. E tuttavia
questa unione ideale non è sufficiente, perché non fornisce ancora stabilità a quelle prescrizioni che sono
necessarie alla vita pacifica, le quali prescrizioni, quando non sono detenute da una salda fonte di ordine e
regolazione delle dinamiche, rimangono ipotetiche, volatili, arbitrariamente interpretabili a seconda dei
fini di ciascuno. Come anticipato l’umano, a contrario degli altri esseri animali votati per natura alla
concordia e all’azione corale, necessita di un governo centrale che regoli le sue interazioni attraverso
l’esercizio di un potere soverchiante. L’uscita dallo stato di natura non prevede solamente un patto di
associazione orizzontale, ma anche un patto di sottomissione verticale, e l’elezione di un ente che,
dall’alto, funga da principio di direzione. Questa figura è il sovrano. Come specificato nel capitolo
sull’autorità, “Una moltitudine di uomini si trasforma in una persona quando è rappresentata da un uomo
o da una persona.” (p. 200), e proprio in questo consiste la formazione dello stato: in un patto di
trasferimento del diritto e di autorizzazione a una terza persona virtuale. Ad essere ceduto, nella
poleogonia, è quel diritto naturale di ciascuno ad ogni cosa, che determinava il disordine; ed in prima
istanza proprio nella forma di diritto alla vita dell’altro, del power over, di cui ciascuno si spoglia per
cederlo al sovrano. È importante precisare che il patto di alienazione del diritto naturale non è un patto
che l’individuo sigla con il sovrano stesso, ma che invece contrae con ognuno degli altri aderenti
all’associazione, i quali si cedono il diritto vicendevolmente, seppur indirettamente, attraverso il
trasferimento di quest’ultimo ad una persona artificiale che è, in ultima analisi, non altro che la
rappresentanza di loro stessi. Se, difatti, il patto per autorità obbliga l’autore e non l’attore, allora ciascun
autore che contrae un patto con il sovrano, attore di sé e degli altri associati, non fa altro che contrarre un
patto con l’autore di quest’ultimo, ovvero proprio (sé, e) gli altri associati. Come ogni patto, anche quello
di alienazione del diritto e di autorizzazione del sovrano prevede una restituzione diacronica, e questa è
una restituzione del potere, ma in forma regolamentata: il diritto di possesso, ad esempio, torna a quello
che ormai è cittadino come diritto di proprietà. È qui che si può ben osservare il passaggio da un potere
brutale e illimitato - quello di ciascuno nello stato di natura - ad un potere contenuto e regolamentato,
restituito ai cittadini dopo un “giro di boa” intorno al sovrano. Il potere su, potere dispotico e coercitivo,
viene tutto riassunto nel sovrano, e redistribuito sotto la forma di potere di. Rispetto al potere di - com’è
interessante notare, e più evidente se trattato nei termini del suo sinonimo, la libertà -, esso diminuisce
sotto la forma di libertà da, poiché l’agire dell’individuo è molto più vincolato dalle norme poste dal
sovrano, ma aumenta sotto la forma di libertà di, perché tutte quelle azioni la cui potenzialità era
soffocata nello stato di natura trovano, nella sicurezza dello stato civile, lo spazio per fiorire.
2.6.2 Forme di governo ed elezione della rappresentanza
Nel modello evoluzionistico di Aristotele, da uno stato di disuguaglianza pre-politico si passa ad uno stato
di uguaglianza all’interno della città; una totale inversione avviene in Hobbes, in cui la conflittualità
esisteva in una condizione di uguaglianza pre-civile, mentre la pace garantita dallo stato emerge proprio
da una condizione di disuguaglianza, nei termini di una gerarchia. Al vertice della gerarchia vi è il
sovrano, nelle vesti di quegli umani che incarnano la rappresentanza della sua persona virtuale. Se, difatti,
il sovrano rappresenta l’insieme dei cittadini come persona artificiale, il patto di autorizzazione implica
tuttavia l’attribuzione del ruolo della sovranità ad una o più persone naturali. Il modello Hobbesiano non
codifica dunque solamente la forma di governo monarchica, bensì tutte le forme di governo, poiché la
sovranità può essere rappresentata tanto da una persona sola, il monarca, quanto da un insieme di persone,
nel qual caso il modello assume una forma aristocratica. Nel caso dell’aristocrazia, in cui un’assemblea di
persone svolge il ruolo del sovrano, il criterio di armonizzazione delle decisioni è quello maggioritario:
vince la decisione che raccoglie l’adesione del quorum dell’assemblea. Il criterio che non è stato ancora
contemplato è quello democratico, ma questo non perché sia escluso, ma al contrario perché esso è alla
base di qualsiasi elezione della sovranità. Lo stesso atto di conferimento della sovranità ad un
rappresentante è un atto democratico, poiché prevede la attiva partecipazione di ciascun individuo nei
termini di espressione della propria volontà, che egli delega, per autorizzazione, al sovrano. È bene notare
che, se il pactum societatis implica l’adesione della totalità degli individui interessati, e la semplice
esclusione dei dissidenti, invece la dinamica del pactum subiectionis segue un criterio maggioritario, nel
quale la maggioranza determina la scelta collettiva e costringe la minoranza ad una rappresentazione che
non manifesta la sua volontà; il modello democratico non realizza perfettamente l’autonomia del
cittadino, ma solo la massimizza, comunque costringendo la minoranza della popolazione ad uno stato di
eterodeterminazione.
2.6.3 Stati per istituzione e per acquisizione
La teoria poleogonica eredita dalle sue premesse, quelle dello stato di natura, il proprio carattere
creazionistico: si tratta di un modello artificiale, utile a fondare la sovranità, e ha per oggetto lo stato
ideale costituito mediante il patto, che prende il nome di stato per istituzione. Gli stati storicamente
costituitisi sono invece stati per acquisizione, e spesso non dipendono da un libero patto di aggregazione
fra individui, ma piuttosto da una sottomissione conseguente ad un’imposizione violenta. Il modello
Hobbesiano trova posto anche per questo genere di instaurazione del potere, inserendo una clausola nella
trattazione del contratto che prevede che un contratto sotto la minaccia della morte sia legale ed abbia
carattere di obbligatorietà, e così rifacendosi al dispositivo, proveniente dal diritto latino, dell’obligatio ex
contractu. Sebbene all’interno di questi stati sia possibile, per l’appunto, legittimare la teoria
contrattualistica, in essi la retorica preponderante non è tuttavia quella della trasmissione del diritto dai
cittadini al sovrano, ma piuttosto da Dio al sovrano. Questa giustificazione della sovranità trova la sua
matrice nel modello naturale di subordinazione del figlio al padre, ed è funzionale al non-riconoscimento
ai cittadini del proprio potere. In questo senso, il contributo Hobbesiano è funzionale più alla democrazia
che allo stato monarchico.
2.6.3 Parti dello stato e funzionamento dello stato
Ecco che lo stato si trova ad essere non altro che una rappresentazione del molteplice nell’unitario, della
totalità dei cittadini nell’attore sovrano: un mega anthropos. Dietro all’immagine dello stato come grande
corpo è una metafora organicistica, che pone alla testa dell’individuo il sovrano, e ai suoi arti i vari organi
di esercizio del potere. Questi organismi civili prendono il nome di sistemi, e di questi alcuni sono
dipendenti, altri indipendenti. Indipendenti sono quelli che si danno da soli la propria forma, e questi sono
gli stati; dipendenti sono quelli che hanno validità in virtù del decreto di un sistema sovraordinato. Dei
dipendenti – posto che questi siano legali, cioè ricevano autorizzazione dallo stato – ve ne sono di
pubblici e di privati. Quelli privati sono costituiti da associazioni di cittadini, solitamente commerciali, su
modello delle corporazioni rinascimentali. Quelli pubblici sono sistemi insigniti di autorità dal sovrano, e
composti da funzionari come attori di quest’ultimo; corrispondono alle varie parti del corpo dello stato, e
ne regolano il funzionamento. Di questi fanno parte i corpi di governo che esercitano la autorità del
sovrano su porzioni specifiche del territorio statale; gli organi che stabiliscono per il commercio; gli
organi che si occupano dell’istruzione dei cittadini; gli organi giuridici. Questi organi corrispondono ai
muscoli, ai nervi ed ai tendini dello stato. Il sangue dello stato è la moneta, che irrora tutto il territorio e
circola consentendone la nutrizione e la vita.
Ancora uno spazio è dedicato da Hobbes all’attività del consiglio. Il consiglio differisce dal comando,
poiché il comando è un enunciato di predicazione del dovere che mira all’interesse del comandante,
mentre il consiglio è un enunciato pur sempre del dovere, che però mira all’interesse del consigliato.
Negli stati di impostazione monarchica, consigliere è colui che fornisce delle consulenze al sovrano.
Consiglio è quello di Hobbes a un ipotetico monarca, di ponderare bene l’ascendente dei propri
consiglieri, di ascoltarli uno per uno se ne ha diversi, e non insieme in modo che non si influenzino.
I sistemi indipendenti, ovvero gli stati, sono sovrani di se stessi e non dipendono da nessuna soggezione
superiore. Dunque, fra i vari sistemi statali che si formano su uno stesso territorio, non esiste alcun patto
ed alcuna legislazione comune, di modo che, se lo stato di natura si risolve fra gli individui con il patto di
autorizzazione della sovranità, questo si ripresenta a un livello più ampio fra gli stati stessi, che, come
organismi indipendenti allo stato di natura, si relazionano gli uni con gli altri in un contesto di permanente
conflitto ed ostilità. Questa condizione è definita anarchia degli stati.

2.7 Diritto e Legge


2.7.1 Giusnaturalismo
Il primo mezzo dell’umano è la ragione strumentale, che indica la strada migliore per raggiungere i propri
fini. Esiste tuttavia, come anticipato, una seconda accezione in cui si declina la razionalità: quella della
ragione morale. La ragione morale è in grado di cogliere le leggi che sono già state disposte dal dio
cristiano nel mondo, dette leggi naturali. È proprio la prima di queste leggi che suggerisce agli uomini di
perseguire la pace, come mezzo migliore per assicurarsi la propria sopravvivenza. La seconda legge
naturale, poi, ne fornisce il metodo nei termini di una regola somma: “Quod tibi fieri non vis, alteri non
feceris”, non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso. Nella definizione della ragione
morale, Hobbes si allinea con la tradizionale teoria del diritto cristiano, che da Agostino e da Tommaso
definisce il diritto come quella serie di precetti infusi dal dio nell’umano ed accessibili per via razionale,
attraverso la facoltà della sinderesi. Hobbes differisce però dalle teorie del diritto classiche, ed in
particolare dalla formulazione del giusnaturalismo groziano. In Grozio, difatti, la natura umana è
costituita da un principio di benevolenza, definito conatus socialis, che spinge gli uomini alla collettività
attraverso le direttive derivate dalla legge naturale. Hobbes, invece, formula a partire da considerazioni
empiriche un modello di natura umana nel quale non c’è alcuno spazio per la naturale socialità, che
sarebbe contraddittoria con l’egoismo di ciascuno, e nell’assumere il modello contrattualistico groziano si
trova di fronte ad un’incoerenza, quella fra una legge naturale che impone l’esclusivo interesse verso la
propria sopravvivenza, suggerendo di fatto la guerra come mezzo per realizzare le proprie aspirazioni, ed
un’altra legge altrettanto naturale, che suggerisce la socialità come mezzo per perseguire la pace. Hobbes
risolve questa frizione ponendo da un lato il diritto naturale, come libertà dell’individuo di disporre di
tutti i beni e di tutti i mezzi per perseguirli, e dall’altra la legge naturale, come prescrizione divina di
adottare la pace e lo stato civile che la conserva. Egli, così, riformula il giusnaturalismo classico attuando
una divaricazione fra legge e diritto, che “si differiscono allo stesso modo di obbligo e libertà” (p. 163),
dove in Grozio vi era una totale identità fra queste. La legge, dunque, non è più artificiale del diritto, a
contrario di come veniva considerata nel pensiero sofistico con la distinzione fra nomos e fysis; essa è
solo latente, allo stato di natura, e contemplata nel foro interno di ciascuno, poiché rispettarla negli atti in
un contesto in cui essa non sia resa obbligatoria da un’adeguata istituzione, significherebbe penalizzarsi
nel bellum omnis omnia, e dunque confliggere con la propria naturale inclinazione alla sopravvivenza. La
prima legge naturale sembra quindi contraddire il diritto naturale, ed essere accantonata da quest’ultimo,
poiché la ragione strumentale ha la priorità su quella morale in uno stato di incertezza e di timore per la
propria vita. E tuttavia, la seconda legge naturale ed il principio di reciprocità che la sostanzia delineano
già i termini della formazione dello stato, che nasce come astensione dalla sopraffazione dell’altro e non
interferenza. In questa rinuncia ad avvalersi del proprio diritto naturale consiste la natura del patto di
alienazione, suffragato dalla terza legge naturale, che prescrive la non-infrazione del contratto sociale.
2.7.2 Attributi del potere sovrano
L’alienazione del diritto naturale si risolve in un patto di sottomissione ad una forza che possa regolarlo,
quella sovrana, e da qui deriva il diritto del sovrano. In primo luogo, il patto di alienazione non può essere
reciso, e dunque il suddito non può revocare il potere già trasferito al sovrano. Come nel diritto latino,
ripreso da Hobbes nella sezione sul contratto del Leviatano, solo la concessio imperii è successivamente
revocabile, mentre la translatio ha carattere definitivo e obbliga i contraenti a prestare fede al patto. Il
primo attributo del potere sovrano è quindi l’irrevocabilità.
Il ruolo del sovrano è quello di collezionare i diritti dei singoli, e restituirglieli sotto la limitazione della
legge. Questa è la prima prerogativa del sovrano, quella di decretare la giustizia attraverso la disposizione
di leggi, ed in questo consiste il secondo attributo del potere sovrano, l’assolutezza, come totale libertà di
porre ciò che è giusto e dunque di definire arbitrariamente il diritto del cittadino. Il ruolo della chiesa e
della religione è tuttavia subordinato a quello del sovrano, e deve assecondare le sue direzioni: è
prerogativa del sovrano “giudicare quali dottrine siano contrarie o utili al mantenimento della pace”
(216), e con questa il sovrano assume anche pieni poteri ideologici. L’origine di questa clausola è da
individuare proprio nello spettro della Guerra civile inglese, iniziata sotto l’insegna di un conflitto tra
cattolici ed anglicani, e della Guerra dei trent’anni. Sempre la guerra civile è all’origine del terzo ed
ultimo attributo del potere sovrano: l’indivisibilità. Se, difatti, la guerra civile è soprattutto guerra
ideologica fra due diverse concezioni di stato, quella parlamentare e quella monarchica, l’unico modo per
evitare l’innesco di queste disamine è privare qualsiasi organismo delle premesse che lo condurrebbero a
rivendicare una maggiore autonomia, o la stessa sovranità, riunendo tutti i poteri in una sola persona e
subordinando rigidamente tutti gli altri sistemi.
La restituzione del diritto avviene secondo giustizia distributiva. L’esempio più concreto della
realizzazione della giustizia distributiva è quello della proprietà, che dipende esclusivamente dalla
cessione del sovrano, e che rimane anche del sovrano pure dopo la cessione. Ancora una volta, emerge la
ambiguità storica del pensiero hobbesiano, che se da un lato sembra manifestare una sensibilità già
moderna, dall’altro è ancora ancorato ad una concezione patrimoniale dello stato, che non solo
distribuisce i beni, ma anche regola l’economia attraverso lo stabilimento dei ritmi di produzione e dei
prezzi delle merci.
2.7.3 Giuspositivismo
Il giuspositivismo è quella teoria politica che individua l’origine della legge 3 nella disposizione del
sovrano, e definisce questa legge “legge positiva”. Hobbes è un giusnaturalista e un giuspositivista, e nel
suo sistema queste due teorie non sono in contrapposizione, ma vengono armonizzate. Le leggi formulate
dal sovrano vengono definite leggi positive, e queste sono affidabili in virtù del fatto che sono la naturale
continuazione delle leggi naturali, poiché vengono pronunciate sulla base di quelle da un essere razionale,
che è quindi in grado di assumere lo stesso criterio adottato dal creatore divino nella locuzione delle
prime. Così Hobbes crea una correlazione diretta fra l’operato del sovrano e quello della divinità, la quale,
viene detto nel capitolo sull’autorità, può essere autrice e avere una rappresentanza – sempre che si tratti
di quella cristiana, e non di un qualche falso idolo. Seppur Hobbes sembri qui poter alludere ad una
giustificazione divina del potere, in verità egli non è un teorico del cesaropapismo, e le leggi naturali,
seppur poste dal dio, sono accessibili mediante luce naturale.
Un terzo tipo di legge si accompagna però a quella divina e quella positiva, e questo è quello della legge
consuetudinaria. La legge consuetudinaria è costituita da tutte quelle norme che non sono state poste da
nessun sovrano, ma sono spontanee e si sviluppano progressivamente attraverso sovrapposizione di casi
simili. Della legge consuetudinaria si avvale il diritto anglosassone, che valuta i vari casi in base
all’esperienza di sentenze precedentemente emesse. Per Hobbes, la legge consuetudinaria non ha un
3
Le leggi possono essere sostantive, quando riguardano il carattere dei soggetti sociali, o attributive, quando
riguardano il comportamento dei soggetti sociali.
fondamento sufficientemente saldo ed è troppo arbitrariamente interpretabile; andrebbe dunque sostituita
totalmente con la legge positiva.
2.7.4 Libertà del cittadino
Rispetto a queste leggi sovrane il cittadino, e nel caso particolare del sistema hobbesiano, il suddito, non
ha nessun diritto di obiettare, né le azioni del sovrano possono essere criticate, o quest’ultimo deposto. Il
divieto di detronazione del sovrano è nuovamente un modo di neutralizzare l’insurrezione e la possibile
guerra civile, più lesiva per lo stato di un sovrano dispotico, e l’autorità di quest’ultimo è da rispettare
anche quando egli agisca contro ragione, ovvero contraddica la legge naturale. L’impossibilità di criticare
l’azione del sovrano deriva dal fatto che, essendo egli solamente l’attore dell’autorità civile, e ricadendo
la responsabilità degli atti di un attore sull’autore che rappresenta, il popolo, che è autore del sovrano, ha
la piena responsabilità degli atti di quest’ultimo. Riguardo alle leggi, i sudditi sono tenuti a conoscerle
quando sono manifeste, e ad informarsi su queste ultime se già non le conoscono, interpretando la legge
secondo lo spirito, e non secondo la lettera, cioè ricercando il senso che voleva attribuire ad essa la
volontà del sovrano, e non il proprio vantaggio. Il cittadino o il suddito, comunque, mantiene sempre la
libertà di salvaguardare la propria vita, la quale non può essere messa a repentaglio da nessun patto
valido.
In caso di mancato rispetto della legge, si verifica il crimine, e il sovrano interviene contro di esso con la
punizione. Qui si trova la differenza fra crimine e peccato, dove il primo è la violazione di una legge
civile, mentre il secondo di una legge morale, ed anche solo con l’intenzione e senza l’azione; per questo,
ogni crimine è peccato, ma non ogni peccato è crimine, e lo stato si occupa solo di punire i crimini. Non i
privati si possono occupare di punire il crimine, né la punizione deve essere un atto di ostilità, ma solo
una compensazione. Nel definire questi come i criteri della punizione, Hobbes crea un modello
alternativo a quello arcaico del taglione, che si risolve alla fine solo in una serie di vendette
reciprocamente alimentate. La pena deve essere invece preventiva e educativa, ovvero volta ad evitare la
recidiva e a intimidire il resto degli individui con un esempio. La più grande libertà del cittadino dipende,
comunque, “dal silenzio della legge” (258), secondo il principio giuridico del: “nulla poena sine lege”,
che consiste nell’impossibilità di condanna per un’azione compiuta quando ancora non era in vigore una
legge che la vietava come crimine.

Sezione Terza: oltre Hobbes


3.1 Premessa
Questa terza sezione dell’elaborato contiene gli sviluppi del pensiero politico che, per analogia o per
opposizione, riprendono ed espandono la riflessione hobbesiana. Una prima parte è dedicata a quei
pensatori contemporanei o immediatamente successivi ad Hobbes, che declinano lo strumento del
contratto con fini differenti: si tratta dei pensatori liberali, fra i quali Spinoza, e Locke (3.2). In secondo
luogo, verrà preso in considerazione il pensiero politico di Kant (3.3), a metà fra la tradizionale riflessione
giusnaturalistica seicentesca e settecentesca, e la filosofia della storia ottocentesca. Una terza porzione del
capitolo contiene gli sviluppi più recenti del pensiero politico, declinati attraverso l’opposizione fra un
pensiero più fedele alla tradizione, come quello di John Rawls, ed un pensiero che mette in discussione
dalla radice le stesse premesse del contrattualismo e del giusnaturalismo, quello di pensatrici femministe
Hanna Arendt, Johan Tronto, e Elena Pulcini. L’elaborato è sigillato da una riflessione personale.

3.2 Liberalismo
Il primo caso in cui la teoria hobbesiana del contratto viene assunta, per approdare ad esiti completamente
diversi da quelli sperati dal suo autore, è rappresentato dalla teoria politica di John Locke, che, nei suoi
due Trattati sul Governo (1690), pone le basi della teoria liberale classica. La trattazione di questo
argomento specifico prende spunto, oltre che dal materiale ricavato a lezione, anche dal compendio che
B.Russel – molto critico, per altro, nei confronti di Locke - ne fa nella sua Storia della Filosofia
Occidentale (1948).
Nella sua assunzione del modello contrattualistico come giustificazione dello stato, Locke parte da una
confutazione radicale del modello che vede nel diritto di sovranità il conferimento di un’eredità
proveniente dallo stesso Adamo e, indirettamente, dal dio cristiano. Se, difatti, la sovranità derivasse da
una naturale tradizione proveniente da Adamo, per il principio della primogenitura si dovrebbe anche
supporre che solo uno dei tanti sovrani delle nazioni ricopra giustamente il proprio ruolo di potere, e che
tutti gli altri siano solamente usurpatori. L’alternativa al modello del potere per potestà si trova nel
modello contrattualistico.
Anche Locke pone l’origine della sovranità nella cessione del diritto naturale di uomini allo stato di
natura. E tuttavia lo stato di natura delineato da Locke non ha nulla a che fare con quello teorizzato da
Hobbes. Prende invece il via dal mito dell’età dell’oro, ed è definito come un periodo di pace e prosperità
fra gli uomini che, da soli, sono in grado di regolare i rapporti fra di loro in virtù della legge naturale
razionale, posta dal dio sulla terra. In questo stato, ciascun umano lavora e produce il proprio utile, senza
confliggere con gli altri per il possesso delle risorse. Nulla vieta a Locke di definire questo possesso
proprietà, poiché la proprietà deriva, per lui, dal lavoro: si può dire che l’umano abbia proprietà dei mezzi
che utilizza per produrre i beni che gli sono utili, e che dunque la proprietà è un diritto che deriva dal
lavoro. Questa concezione - per nulla confermata dallo stato di cose contemporaneo a Locke, in cui buona
parte dei contadini lavorano la proprietà di altri, e successivo, in un’epoca industriale fondata sull’alterità
fra operaio e possessore dei mezzi di produzione - resta uno dei pilastri fondamentali del pensiero liberale
e una delle principali differenze fra pensiero liberale ed assolutistico. La proprietà dei beni non deriva più,
difatti, dalla distribuzione di un sovrano assoluto, ma dall’azione diretta dell’individuo che deriva il
possesso attraverso il lavoro, e che, se mai, si avvale del potere sovrano solo per difendere ed assicurarsi
il possesso di qualcosa che è già proprio.
Proprio la difesa della proprietà è ciò che giustifica, difatti, la contrazione del patto sociale da parte dei
cittadini, e nel teorizzarla Locke sembra ricadere nella stessa contraddizione individuata da Hobbes in
Grozio. Per quanto, difatti, lo stato di natura sia retto da un sentimento di generale benevolenza e non
belligeranza fra gli uomini, per una qualche tendenza che a questo punto non sembra giustificata si
verificano, tuttavia, fenomeni di latrocinio di proprietà da parte di alcuni nei confronti di altri, e proprio
per questo si impone la necessità di suffragare il diritto naturale con il diritto positivo detenuto da uno
stato che ne assicuri la cogenza.
In secondo luogo, la costituzione dello stato non deriva, come in Hobbes, da un patto di alienazione fra
individui a beneficio di un ente super-partes, ma il monarca è, a sua volta, contraente del patto. Se in
Hobbes l’astensione del sovrano dal patto era utile a fondare un potere impeccabile e indipendente dalla
soddisfazione dei sudditi, l’affermazione del coinvolgimento del monarca nel patto è utile a Locke
proprio ad evitare l’incondizionabilità dell’arbitrio sovrano.
Per la stessa ragione, è necessario che il potere legislativo sia dissoluto da quello esecutivo, e che sia
affidato ad un altro organismo, quello parlamentare. Anche questa clausola è funzionale alla limitazione
del potere dispotico del sovrano, che deve rifarsi all’approvazione di un sistema addirittura superiore al
suo, e il cui ruolo è circoscritto all’applicazione delle deliberazioni del parlamento, che dipende a sua
volta dal libero suffragio dei cittadini.
Da questa premessa deriva la conseguenza della discutibilità del potere sovrano, della revocabilità del
diritto precedentemente trasferito, e quindi della possibilità della deposizione del monarca, nel caso in cui
questo estenda la propria libertà oltre i confini impostigli dal parlamento – caso questo realmente
verificatosi nella storia di Inghilterra, sotto il regno di Carlo I, che dal 1628 al 1640 si rifiutò di consultare
il parlamento e di dipendere dall’approvazione di quest’ultimo, generando la guerra civile. Risulta da
questa teoria la possibilità della rivoluzione.
Ecco che la teoria liberale parte dalle medesime pretese contrattualistiche che sostanziano il pensiero
hobbesiano, per negare le tre fondamentali prerogative del potere sovrano sostenute da Hobbes:
l’irrevocabilità, l’assolutismo, l’indivisibilità. Questo, in virtù di una sola differenza fondamentale,
rintracciabile nel fine dell’istituzione dello stato: Hobbes costruisce una teleologia il cui fine è
l’assicurazione della sicurezza dei sudditi; Locke costruisce una teleologia il cui fine è la libertà dei
cittadini, libertà di, disporre della proprietà ed intraprendere senza ostruzioni le proprie iniziative
commerciali, libertà da, un potere oppressivo e dispotico, che lo vuole impedire.

Un breve cenno anche al pensiero di Baruch Spinoza, la cui teoria politica, pur mutuando da quella
hobbesiana buona parte della struttura di base e degli assetti fondamentali, differisce poi da essa in una
direzione maggiormente lockeiana. Egli, difatti, sostiene l’assolutezza del potere sovrano, e l’illiceità di
ogni ribellione armata. D’altro canto, tuttavia, si proclama sfavorevole all’incondizionata cessione di ogni
diritto al sovrano e, in particolare, difende l’importanza della libertà d’opinione. In accordo con questa
posizione, elegge poi la democrazia come più naturale e migliore forma di governo dello stato.

3.3 Kant e la filosofia della storia


Kant è il primo teorico di una filosofia della storia universale. Nel suo testo Idee per una storia
universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), egli esprime una concezione del divenire storico come
un percorso lineare che, dalla barbarie, conduce fino alla realizzazione della pace perpetua.
Le premesse della teoria della storia kantiana sono da rintracciare nel suo sistema metafisico, ed in
particolare nella definizione dei due domini di noumeno, regno dei fini che alberga la volontà umana, e
del fenomeno, luogo del divenire storico determinato dalla concatenazione causale. È nel noumeno che
risiede il telos del progresso storico, come direzione impressa al fenomeno da parte di una provvidenza
definita “disegno della natura”.
Questa provvidenza si esprime nella sfera naturale attraverso quel teleologismo basilare che determina un
certo insieme di fini per ciascun ente, e l’attualizzazione di quest’ultimo in tutte le manifestazioni
creaturali. L’umano non è escluso da questa ananke, ma la realizza in maniera differente rispetto a tutti gli
altri animali. Se infatti negli animali il predeterminato insieme di fini si realizza sempre identico,
immutabile nel progredire storico, e la storia di un individuo riassume in sé quella di tutta la specie; nel
caso umano, invece, nessun individuo realizza pienamente le disposizioni che gli sono intrinseche, e
dunque nessun individuo è uguale all’altro. Questo avviene in virtù dell’eccezionalità di una particolare
disposizione, che è la ragione. È proprio la ragione a rendere l’umano un essere anfibio fra fenomeno e
noumeno, poiché questa è fatta della stessa pasta della provvidenza. La ragione è caratterizzata dalla
qualità della perfettibilità, ovvero dalla possibilità di perfezionarsi attraverso la ripetizione e la
tesaurizzazione delle esperienze singolari nella ragione universale, che determina il progresso storico.
Questo progresso è definito teleologismo congetturale, e descrive quella parabola, esclusivamente umana,
che porta l’umano ad uscire dallo stato di natura per realizzare lo stato civile. L’uscita dallo stato di natura
non è dunque la conseguenza di un calcolo eudaimonistico dell’interesse personale, ma invece una
questione etica, sollevata dalla volontà stessa della natura che dota l’umano di un movente deontologico.
A partire da una condizione di insufficienza naturale, l’umano si dota di protesi compensative attraverso
la tecnica, e si solleva dal perseguimento dei bisogni basilari sviluppando nuove e più complesse
esigenze. La tecnica è la peculiarità che consente all’umano il progresso, e Kant la definisce capacità di
arredare il mondo, cioè di modificare l’ambiente.
Una delle prime tecnologie sviluppate dall’umano è proprio quella della società, trattata da Kant ancora in
termini contrattualistici. La società è la condizione necessaria allo sviluppo delle disposizioni degli
individui, che tuttavia sono internamente combattuti fra una spinta alla socievolezza, ed un desiderio di
affermare la propria volontà sul collettivo e di non sottostare alle limitazioni della vita gregaria. Questa
tendenza dell’umano ad aggregarsi, e poi a spingere costantemente verso l’indipendenza, è radicata nella
pluralità di impulsi che caratterizzano la sua natura, la “insocievole socievolezza”, che determina il
conflitto e la guerra.
La guerra non è però qualcosa di negativo, bensì il vero e proprio motore del progresso, poiché la
concorrenza che esiste fra gli individui e fra gli stati determina un miglioramento di questi ultimi, una
spinta alla superiorità che è perfezionamento delle parti – si pensi, ad esempio, che lo sviluppo delle
tecnologie spaziali e nucleari a noi contemporanee è il risultato, prima di tutto, di un impegno bellico.
Gli stati si riorganizzano, attraverso il confronto prodotto dalla guerra, in forme sempre più razionali, e
l’assetto più razionale di tutti è per Kant quello repubblicano. La repubblica è quel tipo di sovranità in cui
vige la separazione fra potere legislativo e potere esecutivo, con priorità del primo sul secondo e
determinazione popolare del primo. Così, pur ripudiando la rivoluzione, Kant sviluppa un modello di
progressiva emancipazione del cittadino attraverso riforme, proposte da un parlamento che dipende dalla
sua stessa partecipazione politica. Per realizzare la pace, però, è necessario abolire l’anarchia fra gli stati,
e che questi ultimi contraggano a loro volta un patto di collaborazione.
L’idea di una pace universale viene articolata da Kant nello scritto Per la pace perpetua (1795), che si
inserisce nel filone delle utopie della pace. Il documento simula la struttura di un vero trattato di pace, e
consta di sei articoli preliminari, e tre articoli definitivi.
I sei articoli preliminari riguardano le condizioni remote della pace perpetua, la quale richiede che gli stati
siano davvero intenzionati alla pace, non solo momentanea ma duratura, e che quindi non istighino gli
stati vinti a proseguire l’ostilità attraverso delle paci punitive.
La prima condizione della pace perpetua è l’assunzione, da parte di tutti gli stati, del modello
repubblicano. Il modello repubblicano, difatti, garantisce la sovranità popolare, e secondo Kant il popolo
non è incline alla guerra. Tutte le guerre sono state decretate da monarchi e aristocratici, i quali non si
rendevano veramente conto degli orrori che stavano scatenando, perché non erano loro in prima persona a
risentirne sui campi di battaglia, bensì il popolo. Ecco perché i cittadini si risolverebbero difficilmente
all’innesco di un conflitto bellico, e quindi è poco probabile che questo avvenga sotto un governo
repubblicano.
Il secondo articolo definitorio riguarda poi gli stati stessi, i quali dovrebbero riformulare fra loro un patto
simile a quello che garantisce la pace all’interno dei confini di ciascuno. Però il patto fra gli stati è un
patto di alienazione, ma non di autorizzazione. È un patto di alienazione perché gli stati, assimilabili ad
individui secondo metafora organicistica, si trovano, previa stipulazione del patto, nello stesso stato in cui
si trovano gli individui privi di cittadinanza, cioè come atomi disordinati all’interno di uno spazio
illimitato e non regolamentato, ed hanno ogni diritto di occupare questo spazio e sfruttarne le risorse
anche a scapito degli altri stati, pure se questi lo occupavano precedentemente – appunto, l’anarchia degli
stati. In questo senso, il patto deve prevedere un’alienazione del diritto su ogni cosa, per regolare i
rapporti fra le nazioni ed evitare i soprusi. Non è però un patto di autorizzazione, perché non viene eletto
nessun sovrano superiore agli stati nazionali, che rimangono sistemi indipendenti. L’elezione di un
sovrano internazionale implicherebbe, difatti, l’unificazione di tutti gli stati sotto un macro-stato globale,
e ciò che è difficile in questo processo non è tanto lo state-building, quanto piuttosto il nation-building:
Kant si rende conto che tutte le nazioni hanno uno spirito peculiare, e riunirli sotto uno stesso stato
implicherebbe l’omologazione di tutte le loro specificità in un ethos comune, cosa che ritiene impossibile.
Non una sovranità globale, quindi, ma piuttosto un’anfizionia di stati, un’alleanza pacifica e collaborativa
che introduca una legislazione comune sulle questioni internazionali. In questo senso si potrebbe dire,
coerentemente con l’impostazione repubblicana di Kant, non un sovrano globale, ma un parlamento
globale, come lo si può trovare, ad esempio, nella Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.
Il terzo articolo definitorio specifica la prima e fondante formula di questo diritto cosmopolitico:
l’ospitalità universale. Questo principio sancisce che ciascuno abbia il diritto di ricevere ospitalità e
soggiorno quando entra in uno stato, e che non sia trattato con ostilità. Sancisce anche, però, che nessuno
abbia il diritto di entrare ostilmente in uno stato, e di rivendicarne il possesso sulla base della sua
occupazione (principio evidentemente non rispettato dai colonialisti europei in ogni altro continente, su
immagine dei quali è formulato). Ciò che determina la proprietà di un terreno, secondo un assunto
giusnaturalistico ripreso da Locke, è il lavoro compiuto su di esso, e mai la conquista violenta, che è
piuttosto un’usurpazione, da considerare illecita.

3.3 Attualità
In questo elaborato mi asterrò dalla trattazione del pensiero politico immediatamente successivo a Kant
(che trova realizzazione nella filosofia della storia ottocentesca, e nell’idealismo novecentesco, fra gli
altri), per approdare direttamente al pensiero politico contemporaneo, che per altro risulta di maggior
pertinenza nel suo riabilitare il contrattualismo hobbesiano e nell’informarlo – o confutarlo – con nuovi
strumenti.
3.3.1 Neo-contrattualismo
Il neo-contrattualismo è una corrente della filosofia politica che si sviluppa nella seconda metà del secolo
scorso, e trova il suo massimo esponente in John Rawls. In Una Teoria della Giustizia (1971) Rawls
riprende il modello contrattualistico, fondando il suo sistema politico sulla scelta razionale degli individui
ad uno stato anteriore a quello civile. Lo stato di natura proposto da Rawls non è caratterizzato da
considerazioni descrittive sulla natura umana, poiché egli non è affatto interessato a costruire una
genealogia dello stato. Lo stato di natura è più che altro la condizione preliminare da tenere a mente,
come punto di partenza da cui costituire uno stato. Questa condizione preliminare alla scelta è investita a
sua volta di una disposizione prescrittiva, che consiste nel velo di ignoranza. Il velo di ignoranza che è
necessario applicare a tutti gli individui consiste in uno spogliamento da tutte le caratteristiche che ne
potrebbero condizionare il giudizio. In altre parole, nello stato di ignoranza gli individui sono privi di tutti
i loro poteri, naturali e strumentali, salvo quello della ragione; essi sono inoltre pensati come
reciprocamente disinteressati. A partire da queste premesse, i contraenti del patto dovrebbero essere messi
nella condizione di stipulare un ideale sociale che vada a beneficio di tutti, solo a partire dalla
considerazione del proprio interesse personale, perché non sapendo quale ruolo andranno a ricoprire nella
società, preme loro che ciascuno di questi ruoli sia in qualche modo desiderabile.
Nel suo ipotizzare la stipulazione di questo contratto fra individui ignoranti, Rawls crea effettivamente
quella teoria della giustizia che eventualmente sarebbe emersa dalla simulazione. Questa teoria fonda su
due principi fondamentali: quello della giustizia come equità, e quello della giustizia compensativa. Il
principio dell’equità determina una giustizia distributiva che assegni a ciascuno i medesimi diritti e doveri
fondamentali, le medesime possibilità o libertà da. Il principio di compensazione stabilisce che le
disuguaglianze, se necessarie, siano comunque ammortizzate da un guadagno generale:

“Il fatto che alcuni abbiano di meno affinché altri prosperino può essere utile, ma non è giusto.
Invece i maggiori benefici ottenuti da pochi non costituiscono un’ingiustizia, a condizione che
anche la situazione delle persone meno fortunate migliori in questo modo.” (p. 331).

È chiara, ed anche esplicita, la critica all’utilitarismo, che per massimizzare la somma algebrica dei
vantaggi è disposto ad ammettere una condizione di perenne svantaggio per un piccolo numero.
Il dispositivo del contratto è utile a giudicare gli assetti degli stati reali, e fornisce un criterio di giustizia
per ciascun individuo, che guardando alla condizione simulata della stipulazione del contratto può
verificare la giustizia dei propri atti, con una pratica definita equilibrio riflessivo.
3.3.2 Pensiero Femminista
Il pensiero femminista attuale recupera e riformula drasticamente tutte le categorie tradizionali della
giustizia. La prima filosofa a fornire un importante contributo in questo senso è Hanna Arendt, che nella
Vita Activa (1958) riabilita la concezione politica aristotelica, uscita sconfitta, nella storia, dal confronto
con quella platonica. La filosofia di Arendt fonda sul primato della praxis, della vita attiva su quella
contemplativa, e questa attività si realizza come un agire comunicativo, del collettivo all’interno della
società. Il potere non è mai potere su, perché il potere non è possesso, ma sempre potere di, e potere con.
Potere di, incominciare un’azione, che trova la sua massima espressione nell’atto del parto, letto nei
termini dell’incominciamento di un corso d’azione. Se in Hobbes il paradigma di potere era rintracciato
nel potere di dare la morte, in Arendt questo è il potere di dare la vita, un archè letto nei termini di
principio, e non di controllo, con la stessa differenza che sussiste fra il significato di agere e quello di
gerere. La natalità è quindi il prototipo dell’attività sociale e anche l’attività più politica fra tutte, perché
consiste nella creazione e nella formazione dei nuovi caratteri che determinano la prosecuzione del corso
storico.
L’agire che ha in mente Arendt è un agire democratico, che fa leva più sulla libertà di che sulla libertà
da: il concetto liberale di libertà da implica difatti solo un non-interventismo dello stato nelle azioni degli
individui, ma spesso non fornisce a questi ultimi gli strumenti per incominciare l’azione. Questa la
differenza fra matrice liberale e democratica, e la principale problematica della retorica del merito: non è
sufficiente garantire ai cittadini la possibilità di intraprendere un’azione, quando di fatto a questi cittadini
non sono forniti i mezzi per farlo.
In ultimis, l’agire di Arendt non è agire strumentale, ma agire comunicativo, che pone l’accento sulla
collettività di qualsiasi azione politica e nega la retorica del protagonismo e la dicotomia
vittoria/sconfitta; il potere in società non è qualcosa di fisso, ma piuttosto di fluido, che si trasmette da un
individuo all’altro ed è prodotto non dalla somma algebrica, ma dall’emergenza qualitativa risultante dal
confluire del potere dei singoli in un progetto condiviso: questo è il potere con.
In generale, tutto il pensiero femminista condivide la critica ed il rifiuto del modello di individuo astratto
su cui si fonda la speculazione filosofica classica, ed anche l’antropologia hobbesiana.
Per Carol Gilligan (1982), questo immaginario dipende dalla particolare parabola tracciata dallo sviluppo
morale e normativo maschile, che viene definita da una violenta separazione dalla madre e conduce
all’acquisizione di un’indipendenza solitaria ed aggressiva. L’uomo definisce se stesso nei termini di una
contrapposizione fra sé e il mondo, in cui la società è il risultato della compromissione della propria
volontà personale e la legge è la limitazione degli impulsi aggressivi che dominano l’immaginario
maschile. Negli stessi termini si può leggere la definizione di disagio sociale freudiano, per altro affatto
distante da un modello contrattualistico.
Nel sistema freudiano, definito su modello della psicologia maschile, l’evoluzione femminile non può
essere integrata che nei termini di un deficit (E questo si vede bene se si sottopone, come Gilligan ha
fatto, il test sullo sviluppo morale di Kohlberg a delle giovani donne), poiché in questa la separazione non
si verifica mai, e la crescita femminile avviene nei termini di un rapporto continuato. Questo però, in
Gilligan, è tutto fuorché un deficit, ed anzi rappresenta la soluzione alle derive del razionalismo maschile.
Il modello politico che procede da queste considerazioni, proposto da Tronto (1993) e da Pulcini (2020),
contrappone al metodo logico-astrattivo tipico dell’approccio maschile un metodo sentimentale-affettivo
che non generalizza, ma guarda alla situazione concreta, che non si occupa di trovare una priorità tra i
principi, ma piuttosto di valutare le reali condizioni dei problemi nell’ottica di ascoltare i bisogni di
ciascuno. In merito, è pertinente la critica di Tronto all’oggettivazione e mercificazione dei bisogni, che
consente alla retorica dominante di non riconoscere, fra le necessità dei più deboli, anche quelle ad un
corretto sviluppo: nei termini di Nussbaum, una fioritura adeguata.
Nell’ottica di questo nuovo approccio alla politica, il modello contrattualistico viene radicalmente
rifiutato, poiché il presupposto di uguaglianza che lo anima non corrisponde a nessuna circostanza reale,
ed è anzi violento nei confronti di buona parte dell’umano. Il principio di reciprocità su cui si fonda la
società rawlsiana non tiene difatti conto dell’enorme differenza che intercorre fra le varie forme di vita
che qualunque dignitosa teoria della giustizia dovrebbe considerare: non sono infatti in grado di siglare
alcun patto tutte quelle categorie di enti che non rispondono adeguatamente al modello di agente politico
preso in considerazione, come gli animali, gli umani diversamente abili, le generazioni future, e in una
certa misura neppure gli umani che, per mancanza di mezzi, non hanno sviluppato a pieno la loro capacità
critica.
Al modello di equità su cui si basa la teoria del contratto, il pensiero femminista contrappone il principio
di responsabilità, che fonda sul riconoscimento delle reali differenze che sussistono nella società reale, e
su una lettura di queste ultime non nei termini di un rapporto di potere, ma in quelli di un rapporto di cura,
attenzione, e crescita, verso l’obiettivo di una equità reale, fatta non di individui uguali, ma ugualmente
liberi nelle loro differenze.
3.3.3 Pensieri
Di seguito, una serie di riflessioni e interrogativi.
Questa mi sembra la miglior base a partire dalla quale formulare un modello prescrittivo: che non rifiuti
del tutto il modello classico della giustizia, ma lo integri con il contributo della responsabilità.
Come sostiene Amartya Sen nella sua critica all’istituzionalismo trascendentale, sono poco rilevanti quei
modelli politici che partono dalla formulazione di un paradigma universale astratto e vi adeguano le
istituzioni esistenti, per congelarsi in una retorica del “tutto o niente” di fronte alla mancata
corrispondenza del proprio modello con la realtà, e partire invece, con un approccio bottom-up, dalla
considerazione dei modelli reali per produrre dei cambiamenti graduali, ma più significativi.
Dalla considerazione empirica della realtà attuale, si può ricavare una triste conferma del modello
platonico, non dal punto di vista della sofocrazia, ma da quello della disuguaglianza. Ha poco senso,
dunque, un approccio che parta dalla condizione di uguaglianza dei cittadini o, almeno, va
contestualizzato. La sintesi perfetta fra modello rawlsiano e femminista si può trovare difatti
nell’affermazione che la disuguaglianza è sì reale, ma non costitutiva. Questa affermazione conferma la
tesi platonica – e, a conti fatti, ugualmente aristotelica - che afferma l’esistenza di una fattuale differenza
fra ceti sociali e categorie umane, ma nega la tesi che definisce questa differenza naturale e insuperabile.
Difatti, una volta negata la realtà di una natura umana stabile e di un solo modello di umano autentico, ciò
che rimane è solamente la realtà storica di un’oppressione e di un protagonismo che hanno escluso dalla
narrazione storica tutte le voci dissonanti.
La strategia che sembra necessario adottare per garantire il miglioramento della condizione dei più deboli
e la definitiva uguaglianza si fonda su due punti. Il primo di questi punti è l’effettiva negazione di questa
uguaglianza, non nei termini del cancellamento del diritto in sé, che rimane una buona base, ma nei
termini della presa di consapevolezza che la libertà garantita a tutti de iure non è poi concretizzata de
facto, e che spesso la retorica del diritto è stata la strategia del pensiero dominante per non garantire a tutti
le reali pari possibilità. Si tratta, più radicalmente, di mettere in discussione la stessa retorica delle pari
possibilità, constatando che effettivamente c’è chi necessita di maggior attenzione di altri. Il secondo
punto, quello pratico, che segue al punto preliminare, non si allontana troppo dall’idea della
compensazione rawlsiana, ma ne realizza la controparte ideale attraverso la constatazione che i bisogni
non sono solo materiali. Come sostiene Nussbaum, la sfera dei bisogni è costituita da un cluster di fini
che vanno dalla sopravvivenza alla realizzazione personale, e tutti questi fini vanno perseguiti.
In questo senso, non credo che sia da scartare la proposta di un “paternalismo intelligente” che consenta a
tutti di sviluppare i propri fini fornendone i mezzi. Il modello del paternalismo intelligente, di nuovo, non
si allontana troppo da quello della sofocrazia platonica, nella quale d’altronde l’attività del buon politico
consisteva proprio nell’aiutare ciascun cittadino a realizzare la propria natura. La considerazione di
disuguaglianza degli uomini procedeva, più che da una verità trascendentale, dalla necessità che alcuni
umani svolgessero quelle attività utili al mantenimento materiale della città. In un mondo in cui l’umano è
sempre meno utile nei termini della sua forza lavoro, perfettamente assimilabile – e sostituibile –
dall’operato di una macchina, e sempre più utile nei termini di quelle attività che lo definiscono realmente
in quanto umano, quelle non riproducibili da una macchina, è proprio lo sviluppo di queste ultime che il
buon politico dovrebbe incoraggiare. Una sofocrazia, dunque, il cui compito fondamentale è quello di
estendere i propri confini.
In confronto a un genere di sofocrazia così presentato, non è detto che una democrazia a suffragio
universale sia necessariamente il modello più giusto. Difatti, nella democrazia attuale, l’uguaglianza
formale è la peggior condizione che possa ospitare una disuguaglianza formale, che si esprime attraverso
la dittatura di un proletariato – proletario più in senso intellettuale che materiale, ciò che è peggio – che
non è davvero incoerente con una tirannia, poiché è responsabile essa stessa dell’elezione degli artefici
della propria subalternazione. A proliferare in questa oclocrazia è l’economia, che, non a caso, contiene in
sé la radice del termine “casa”: a contrario di quanto auspicato dal pensiero femminista, l’identità fra sfera
domestica e sfera pubblica rischia di realizzarsi non nello spirito euforico che dovrebbe accompagnarla,
poiché gli unici a parlare un linguaggio sentimentale, davvero, sono i cittadini irrazionali ed emotivi, e
non i governanti, apparentemente sensibili e realmente asettici. 4

Mi viene da chiedermi, tuttavia, se il progresso storico non abbia in mente qualcosa di diverso, ed ancora
più radicalmente concreto, ancora più radicalmente lontano dalla formulazione di un qualunque modello
prescrittivo generale.
La realtà storica dimostra come nessuno dei suffragi che si sono verificati fino ad ora sia mai dipeso da un
libero atto di cessione di potere da parte del sovrano nei confronti delle minoranze, da nessuna cura
dispensata di buon grado dal potente al debole, ma piuttosto dalla inarrestabile esigenza che questo potere
venisse ceduto, in virtù della acquisizione di consapevolezza, da parte di coloro che non lo avevano, che
avevano il peso sufficiente a prenderselo. Si noti bene che questa conquista di potere non ha nulla a che
vedere con la rivendicazione di qualcosa che era già intrinsecamente proprio: se non esiste disuguaglianza
originaria, non esiste neanche uguaglianza originaria. Il potere è, in uno stato per acquisizione,
semplicemente e originariamente nelle mani di chi lo rivendica per primo, e lo esercita con successo. E
tuttavia è vero che questo esercizio è possibile, come insegna de la Boétie, solamente nella misura in cui
chi vi si sottopone lo permette, non solo per propria volontà, ma anche per mancanza di mezzi sufficienti
a contrastarlo. In altre parole, se è vero che la determinazione e l’attivismo sono stati fondamentali per il
successo delle lotte civili e sociali, è altrettanto vero che queste emozioni timotetiche hanno avuto modo
di esprimersi in maniera compiuta solo nel momento in cui le condizioni materiali sono state mature.
In questo senso si potrebbe leggere l’economia come qualcosa di non diverso da quella stessa astuzia
della ragione che determina il progresso storico nei modelli naturalistici. Dopotutto, non è un caso che il
movimento femminista emancipazionista sia sorto proprio in concomitanza con la rivoluzione finanziaria,
nel momento in cui lavoro non corrispondeva più solamente all’esercizio di una fatica fisica, ormai quasi

4
A ben vedere, quindi, nell’economia convivono due nature, l’una caratterizzata dal più viscerale e
appassionato entusiasmo, e l’altra fredda, asettica e spietata.
del tutto delegata alla macchina, e a prescindere dalle proprie doti fisiche era possibile per qualsiasi
individuo realizzare la propria indipendenza economica.
Con questo non si vuole appiattire la sfera ideologica su quella materiale, ed anzi si può attraverso
argomentazioni derivate dallo studio di sistemi emergenti sostenere una piena efficacia causale del livello
superiore su quello inferiore, che giustifichi e fomenti l’esigenza della battaglia, della narrazione e
dell’idea come motore storico, autentico tanto quanto l’economia.
In merito, ciò che mi viene da suggerire ai movimenti emancipazionisti di ogni genere – dopotutto, in
Aristotele la condizione di minorità è condivisa dalla donna, dallo straniero e dallo schiavo – è un assetto
ideologico che fondi sul radicale ripudio del bello. Difatti il bello è strettamente connesso alle
rappresentazioni del potere, sin dall’ideale greco della kalokagathia, ed è anche il mezzo più subdolo con
il quale la retorica dominante perpetra il proprio potere attraverso la comunicazione.

Ancora, perché la consapevolezza sia piena, è necessario riconoscere che quelle che una volta erano le
due città, adesso sono i due continenti, e l’uguaglianza è reale solo se è globale, perché i diritti di cui oggi
godono i cittadini delle nazioni occidentali sono quelli alienati, per nulla volontariamente, dai cittadini di
altre nazioni. Per permettere questo è necessario, come Kant si augura, il raggiungimento di una giustizia
universale. Mi sembra strano che, date le premesse provvidenzialistiche del suo discorso, egli rifiuti l’idea
della realizzabilità di un ethos globale, e, forse in modo ottimistico, tendo a considerarla solamente una
miopia. Coloro che, come Pasolini, hanno pianto la perdita dei particolarismi, sono stati condizionati
solamente da una naturale e comprensibile nostalgia. Ciò che, tuttavia, l’ideale positivo che fa della
sovrastruttura un movente storico, chiede di considerare, è la perdita dei particolarismi come un male
necessario, e neppure troppo un male, e neppure troppo una perdita. Non troppo una perdita, perché tutte
le testimonianze della tradizione passata rimangono presenti, sia negli archivi che sotto nuove forme, e
chi piange l’impossibilità di un nuovo Dante, dovuta alla perdita della lingua italiana, non pensa alla noia
e alla poca originalità che susciterebbe un suo facsimile. Non troppo un male, perché la perdita non è
appunto davvero perdita, ma solo confluenza e integrazione – quando serve; altrimenti, anche solo arte
antiquaria, e va anche bene che i collezionisti continuino ad occuparsi di quella. L’esempio di questa
confluenza lo troviamo nell’incredibile esperimento del Nuovo Mondo, calderone di culture, luogo della
beffa alla tradizione. Gli stati uniti, per una distanza prima di tutto geografica dalla vecchia Europa, sono
il piccolo prototipo di un ethos globale, o quantomeno occidentale. E non un ethos fatto solo – seppur
anche – di retorica dominante: basti pensare a come la vecchia musica classica, satura e ipertrofica
esasperazione del razionale, abbia trovato la sua sopravvivenza nel contatto con la tellurica musica nera:
da questo incontro nasce il jazz, il rock, prove di un reale linguaggio cosmopolita. In un periodo in cui
l’internet fa respirare all’unisono milioni di teste lo stato globale – questo è un mio parere – è tutt’altro
che irrealizzabile.

Questa una riflessione - piuttosto improvvisata nel suo contenere spunti mai sistematizzati, fin ora, e
neppure troppo sistematizzati, ora – su una possibile teoria della giustizia; sulla condizione del subalterno
rispetto al potere e rispetto alla storia; sul bello; sulla cultura globale.

Guardando al modello europeo, questo mi sembra una via di mezzo fra due matrici, l’una più liberale, e
l’altra più sociale. La sanità pubblica è il perfetto esempio di questo. Nel concreto, la cessione del diritto è
pagamento di tasse, e si risolve in servizi. La riscossione delle tasse da parte dello stato sottintende
l’assunto che, in certi ambiti, lo stato sia capace più del cittadino di sapere cosa è giusto per quello, e di
procurarglielo. Se il fine di ogni stato è il benessere e la libertà dei cittadini, non è però detto per me che il
pubblico più del privato sia capace di garantirlo, e solo sulla base di questo si dovrebbe decretare quale
sia il sistema più giusto. Se, come nella Favola delle Api, l’interesse privato fosse capace più del
beneficio pubblico di procurare libertà ai cittadini?

Bibliografia

n.b. non sono incluse le fonti consultate per testimonianza indiretta, attraverso i resoconti delle lezioni,
ma solo quelle a cui si è attinto direttamente tramite lettura autonoma.

1. Hobbes, Thomas (1651) 1955. Il Leviatano. A cura di Roberto Giammanco. Torino: UTET.
2. Russel, Bertrand (1948) 1974. Storia della Filosofia Occidentale. Volume terzo: dal
Rinascimento a Hume. Traduzione di Luca Pavolini. Milano: Longanesi & Co.
3. Rawls, John (1971) 2017. Una Teoria della Giustizia. A cura di Sebastiano Maffettone. Milano:
Feltrinelli.
4. Gilligan, Carol (1982) 1991. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità.
Traduzione di A.Bottini. Milano: Feltrinelli.
5. Tronto, Joan C. (1993) 2006. Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura. A
cura di A.Facchi. Milano: Feltrinelli.
6. Pulcini, Elena 2020. Cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale. Torino: Bollati
Boringhieri.

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