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Libertà in rete, libertà dalla rete

Parte speciale diritto costituzionale, Giovanna De


Minico
Capitolo 1
1. Domande chiave
Centro del saggio sono una possibile “costituzionalizzazione” del mondo della rete e
l’indagine su quale possa essere il modello normativo che meglio si confà
all’Internet. Per l’autore, dunque, una regolamentazione è necessaria, a differenza
da quanto sostenuto dall’americano Perry Barlow, grande difensore dell’anarchia
dell’Internet e autore dell’opera manifesto “A Declaration of the Indipendence of
Cyberspace”.
2. Internet dovrebbe essere regolato a livello costituzionale? La maggior
parte delle Costituzioni neppure fa menzione dell’internet tra i vari media, eccezion
fatta per quella greca e quella ecuadoriana. Recentemente si è dibattuto sulla
necessità di introdurre una previsione costituzionale ad hoc per l’internet, tuttavia
occorre sottolineare l’inutilità di una revisione formale basata sulla tecnologia
esistente, in quanto rischierebbe di divenire presto obsoleta se non anche dannosa.
Una migliore alternativa sta in un’interpretazione estensiva della norma
costituzionale esistente, resa agevole dalla sua peculiare flessibilità.
Si pensi alle vaghe espressioni “ogni altra forma di comunicazione” (art. 15) e “ogni
altro mezzo di diffusione” (art. 21), contenute negli articoli 15 e 21 della costituzione
italiana (rispettivamente libertà d’espressione e di parola).
Simile è il caso del First Amendment of the U.S. Constitution. L’applicazione delle
garanzie costituzionali dei diritti e delle libertà alla rete non implica la trasposizione
della disciplina offline all’online. Ciò infatti limiterebbe e snaturerebbe l’Internet.
3. Le garanzie del moderno costituzionalismo invece della fonte
costituzionale.
Il costituzionalismo fornisce due basilari garanzie dei diritti offline, valide anche per
le libertà online. Nella Costituzione italiana queste sono la “riserva di legge” e la
“riserva di giurisdizione”.
A) La riserva di legge, inserita nella Costituzione, prevede che la disciplina di una
determinata materia sia regolata soltanto dalla legge primaria e non da fonti di tipo
secondario. Relativamente alla tutela del copyright online, il d. lgs. N. 44/2010 non
contiene una regolazione esaustiva, lasciando l’onere normativo all’autorità
competente. (AGCOM: autorità per le garanzie nella comunicazione). Nell’assenza di
uno specifico fondamento normativo, l’ Autorità ha assunto il potere di chiudere
alcuni siti o di richiedere la cancellazione di determinati contenuti, dopo un’attenta
valutazione della loro natura illecita. Poiché le decisioni dell’ AGCOM rientrano tra le
fonti secondarie e pertanto non rispetterebbero il principio gerarchico della riserva
di legge, la questione è stata posta davanti alla Corte costituzionale. Il giudice delle
leggi ha affermato nel merito che “occorre preliminarmente osservare che le
disposizioni censurate non attribuiscono espressamente ad AGCOM un potere
regolamentare in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione
elettronica”. A livello sovranazionale, le fonti normative secondarie dell’UE godono
solitamente di un maggiore potere discrezionale, sconosciuto alle fonti secondarie
italiane. Quello che importa è il “come” l’atto sia espresso, non la sua forma (che sia
un atto parlamentare o governativo), è necessario soltanto che sia “adeguatamente
accessibile” e “formulato con sufficiente precisione da consentire ai cittadini di
regolare la propria condotta”. Il previo intervento normativo stabilito dalla riserva di
legge comporta ulteriori limiti per i decisori politici: la necessità e la proporzionalità.
(Necessità → un diritto può essere sacrificato soltanto qualora ciò sia
indispensabile.) Es. La Corte di giustizia europea, con la sentenza conosciuta come
“Digital Rights Ireland”, ha dichiarato invalida l’intera direttiva 2006/24/EC sulla
conservazione dei dati. In modo tale da arginare i fenomeni della criminalità
organizzata e del terrorismo, la Direttiva imponeva la conservazione dei dati di
quanti si avvalessero dei servizi di comunicazione elettronica, includendo anche
coloro i quali, neppure indirettamente, sarebbero mai stati passibili di azione
penale. La Corte ha affermato che “such an objective of general interest, however
fundamental it may be, does not, in itself, justify a retention measure such as that
established by Directive 2006/24 being considered to be necessary for the purpose
of that fight”. Nonostante la conservazione dei dati ai fini della loro eventuale
trasmissione alle autorità nazionali competenti soddisfi gli obiettivi di interesse
generale della pubblica sicurezza e del contrasto alle gravi forme di criminalità,
l’ampia e particolarmente grave interferenza della direttiva con il diritto
fondamentale alla privacy non si è dimostrata sufficientemente circoscritta per
garantire che tale intervento fosse effettivamente limitato a quanto strettamente
necessario. (Proporzionalità → Costi e benefici devono bilanciarsi, deve esserci
equilibrio tra gli interessi insiti nei diritti protetti e quelli sui quali si fondano le
restrizioni legislative.) Es. La legge francese Hadopi 2 (che completa la precedente
Hadopi 1, relativa alla protezione penale della proprietà artistica e letteraria su
internet) impedisce l’accesso a internet a coloro i quali visitino siti internet sospetti
di infrangere le leggi sul copyright. Questa legge fallisce su tre differenti piani:
- bilancia valori eterogenei: un diritto fondamentale (l’accesso alla rete) è
paragonato a un interesse economico (copyright);
- grava il diritto di accesso alla rete di limiti sproporzionati ed eccessivi;
- le restrizioni applicate non sono necessarie.
Anche questa nuova versione della legge è insoddisfacente, pur stabilendo che la
sanzione sia ora inflitta da un giudice e non da un’autorità indipendente.
B) La riserva di giurisdizione prevede che per la disciplina di particolari materie possa
intervenire solo ed esclusivamente l’autorità giudiziaria e non, per es., l’autorità
amministrativa, che dovrà invece agire solo dopo il mandato del giudice. La riserva
di giurisdizione è presente anche a livello internazionale. C’è bisogno di una
disciplina specifica per l’Internet, che si mantenga su una soglia minima, così da non
inficiare l’unicità della rete come strumento insostituibile per la crescita e la
diffusione di informazioni. Ciò è stato ribadito anche nella sentenza Reno v. ACLU,
con la quale si è constata l’inadeguatezza della trasferibilità al web delle limitazioni
imposte alla televisione in fasce orarie protette per salvaguardare l’audience più
giovane. Tali limiti sarebbero infatti ingiustificati e rappresenterebbero una
sproporzionata restrizione del diritto degli adulti ad accedere ai contenuti sensibili
“hard contenent” presenti sulla rete. Ciò in virtù della differente struttura del
mondo virtuale rispetto a quello televisivo. Quindi, le previsioni del Communications
Decency Act 1996 in divieto di un linguaggio palesemente offensivo, sulla rete sono
incostituzionali. Qual è la migliore regolamentazione per Internet? Negando l’utilità
di una formale revisione costituzionale, appare più vantaggiosa una “Carta dei diritti
dell’Internet”, resa necessaria dall’attuale situazione globale. Chi dovrebbe però
redigerla? È da escludersi che il potere costituente venga attribuito a uno o più Stati
nazionali, poiché in evidente contrasto con la natura aterritoriale della rete, che
invece richiederebbe l’intervento di un legislatore sovranazionale. In chi va
individuato questo legislatore sovranazionale? A) Nella comunità virtuale di Internet
che si autoregolerebbe; B) in un corpo internazionale che stabilirebbe un
regolamento autoritativo e vincolante della piattaforma online.
Nella prima ipotesi, lo Stato lascerebbe tutta l’iniziativa ai privati, intervenendo
soltanto quando necessario. Tuttavia, la possibilità di un intervento pubblico si
tradurrebbe in una potenziale presenza, dato che “if nothing is done, State action
will follow”. Qualora invece i privati stakeholders si regolassero indipendentemente
dalla legge, potrebbero essere perseguiti soltanto interessi egoistici, lontani dal
bene comune. Al contrario, un’autorità sovranazionale potrebbe facilmente cadere
sotto l’influenza degli Stati nazionali più forti, i cui interessi coincidono solo
occasionalmente con quelli collettivi. Sarebbe quindi preferibile un sistema in cui
interagiscano più stati autonomi. L’autore propone allora una soluzione intermedia:
innanzitutto, il potere legislativo dovrebbe essere attribuito a un corpo
sovranazionale, regolato da norme vincolanti che definiscano la natura e lo scopo
dei suoi poteri; in secondo luogo, nel processo decisionale si dovrebbe tener conto
degli interessi privati di imprenditori, web surfers e consumatori, con cui è aperto il
dialogo. La decisione ultima spetterebbe poi all’autorità pubblica, capace di mediare
tra le varie posizioni emerse, tenendo ciascuna in degna considerazione. La legge
deve essere sovraordinata all’ autoregolamentazione, deve esserci un corretto
rapporto tra eteronomia e autonomia. La mancanza di una guida eteronoma verso il
bene comune esporrebbe, infatti, la rete al rischio di un’ involuzione egoistica e
neocorporativa.
4.1. La neutralità della rete alla luce dei modelli di regolazione
Come regolare la neutralità della rete? La neutralità della rete è un dovere imposto
ai Fornitori di Servizi Internet (ISP) per permettere ai Fornitori dei Contenuti Internet
(ICP) un uso indifferenziato della rete così da consentire ai netcitizens di selezionare
i loro servizi digitali indipendentemente dalla larghezza della banda. Se tale dovere
non venisse rispettato dagli ISP, la neutralità svanirebbe presto, dal momento che
troverebbero più conveniente diversificare l’offerta della larghezza di banda, in base
al prezzo che l’acquirente è disposto a pagare. Perciò, un piccolo blog, molto meno
competitivo di un grande editore online, dovrebbe accontentarsi di un Internet di
seconda classe. Così, la Commissione federale per le comunicazioni USA (FCC) ha
rivendicato la giurisdizione per la regolamentazione della neutralità della rete,
contro la richiesta di autorizzare norme discriminanti sull’accesso. Ciò rivela il rischio
alla quale potrebbe essere sottoposta la neutralità della rete, qualora la sua tutela
fosse affidata agli operatori del mercato, interessati soltanto a un aumento dei
profitti. Questo sistema è stato diviso su due differenti livelli di fonti:
- in cima troviamo le regole vincolanti approvate dalla FCC. Fondamentalmente,
queste norme coincidevano con il divieto ai fornitori dei servizi internet di creare un
accesso differenziato alla banda larga in base alle capacità economiche dei contenuti
dei servizi Internet. Non era permesso nessun degrado, nessuna priorità e nessun
blocco: uguali risorse sia per gli operatori storici sia per quelli nuovi;
- il secondo livello, occupato dalle negoziazioni tra ISP e ICP, presenta delle deroghe
significative alle leggi primarie a patto che queste alterazioni siano necessarie,
proporzionali e giustificate da un pubblico interesse - es: zero-rating - e sempre se
questo accordo ottenga il via libera della FCC.
Perciò, il primo periodo della neutralità di rete fu caratterizzato da un mix di
combinazioni di fonti, sia vincolanti che non, e dall’intervento ex post dell’autorità,
inteso come ultima risorsa per assicurare la difesa dei diritti fondamentali
dall'avidità dei “Giganti” di Internet. Ora, con il Presidente Trump e il nuovo organo
di FCC, la neutralità di Internet è stata ridimensionata, ma la sua abrogazione è solo
una piccola parte del massiccio, lungo piano per eliminare al più presto tutte le
significative supervisioni federali e statali su alcune delle società meno amate e
meno competitive d’America. È chiaramente una politica terribile perché ignora sia i
regolamenti competitivi sia i bisogni dei consumatori. Ironicamente, l’ordinamento
della FCC è chiamato “Atti per ripristinare la libertà di Internet” anche se è capace di
fare tutto tranne che permettere la crescita di Internet, in quanto la protezione del
consumatore dipenderà dagli interessi economici degli ISP, senza rimedi preventivi
predisposti dalla FCC. Infatti, quest’ultima può solo proteggere i consumatori dopo
che ci sia già stata una violazione e quest’azione può verificarsi se è dolorosamente
chiaro che un ISP assuma un comportamento “ingiusto e ingannevole”, cosa molto
semplice da schivare per un ISP nell’era della neutralità di rete, dove un
comportamento anti-competitivo è spesso nascosto sotto un gergo falso-tecnico e
dove è facile sostenere che è stato fatto solo per la salute e la sicurezza del network.
Questo ordinamento illiberale sembra essere figlio del dogma “la
deregolamentazione è la panacea di tutti i mali”, piuttosto che il risultato di una
teoria economica. A causa di questa fede nella salvifica capacità della
deregolamentazione, la FCC ha lasciato Internet nelle mani sfrenate dei Giganti,
liberi di comportarsi come preferiscono indipendentemente dal benessere dei
consumatori o del bilancio competitivo del mercato. La storia della neutralità di rete
rivela la sua natura: è un “problema politico”. (Differenze politica Trump e Obama).
È tempo di concludere le nostre riflessioni sulle fonti: per ridurre il rischio di un
degrado egoista di Internet, l’autoregolamentazione non può essere presa come
unica risorsa, o come una risorsa che agisce indipendentemente dalla legge. Invece,
dovrebbe essere costruita come accessorio alle decisioni e alle leggi politiche. Tale
relazione è idonea a garantire la costruzione di politiche pubbliche, al cui servizio
deve essere posta l'autoregolamentazione.
5. L’ESPERIENZA DEL COMITATO ITALIANO BOLDRINI: UN NUOVO
APPROCCIO
Il 28 luglio 2014, il Presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, inaugurò il
lavoro del Comitato che lei aveva stabilito per redigere la Dichiarazione dei Diritti di
Internet. Per la prima volta in Italia, fu dato a un Comitato il compito di elaborare
una Dichiarazione dei Diritti per Internet. La Dichiarazione Italiana fu redatta da un
organo eterogeneo composto da rappresentanti di ogni gruppo politico della
Camera dei Deputati e da esperti. Questi ultimi, scelti sulla base della loro neutralità
politica, mitigavano e controbilanciavano l’orientamento politico dei primi.
Nonostante il carattere nazionale dell’autore, la Dichiarazione si avvicinava molto al
modello delle Carte provenienti da soggetti internazionali, dati i contenuti che
andavano ben oltre i confini statali e conformi al corpus di principi condivisi
dall’intera comunità internazionale. Questo era ovviamente necessario anche a
causa della natura senza confini di Internet. L’origine eterogenea dell’autore,
pubblico e privato, ha fatto sì che nella Carta non prevalessero interessi privati.
Differentemente da quelle Carte centrate principalmente sui diritti degli utenti e
degli OTT, la Carta Italiana si concentra sui diritti fondamentali dei cittadini e rivolge
i limiti indispensabili del potere pubblico alla salvaguardia del contenuto essenziale
delle libertà. Inoltre, il suo processo decisionale non si è concluso nelle stanze chiuse
del potere. Infatti, prima della finale approvazione come Dichiarazione dei Diritti, è
stata sottoposta a un’estesa consultazione pubblica, per la prima volta dal ruolo così
significativo. Bisogna notare che le regole di questa consultazione non furono
formulate in modo restrittivo sul “chi”, sul “come” e sul valore delle osservazioni.
Molti criticarono il processo discutendo sul fatto che regole precise avrebbero
dovuto essere definite prima dell’avvio della consultazione. Questa critica può
essere risolta considerando che è stata richiesta la partecipazione più ampia e
spontanea possibile, mentre un eccesso di regole avrebbe avuto un effetto
controproducente. Secondo l’autore, un difetto può essere rinvenuto nel fatto che,
una volta terminata la consultazione, il Comitato non abbia adeguatamente spiegato
per ogni suggerimento o obiezione, il motivo per cui è stato preso in considerazione
o respinto, come ci avrebbe insegnato l'esperienza americana. Tuttavia, ciò è
giustificato dal poco tempo assegnato al Comitato e alle numerosissime osservazioni
prodotte dalla consultazione pubblica, pertanto non imputabile a un’ intenzionale
riluttanza. Nonostante i pareri dei privati cittadini furono presi in debita
considerazione, quelle decisive sono state le decisioni del Comitato. L’iter della Carta
Italiana presenta la propria unicità: infatti, non ha seguito i passi del Marco Civil; ha
anticipato la nostra proposta di legge sul tempo perché quest'ultima, nata dalla
consultazione pubblica, è già stata trasformata in un atto legislativo formale.
6. IL SUO CONTENUTO
Ora dobbiamo chiederci “cosa” è enunciato nella Dichiarazione: qual è il suo
contenuto. Adottando l’approccio costituente, la Dichiarazione fornisce un “quadro
regolamentativo” relativo alla Gestione di Internet e alle Libertà digitali. Perciò, la
sua struttura imita una vera Costituzione, anche se non c’è riferimento ad uno Stato
territoriale, in accordo con la natura a-territoriale di Internet, e se il documento
manca di valore vincolante è dovuto alla natura a-parlamentare del suo Autore.
Infatti, l’atto si basa sui due pilastri del moderno costituzionalismo: poteri e libertà.
Il focus della Dichiarazione si concentra sulla subordinazione dei poteri alle leggi,
perché i poteri esistono se e nella misura in cui riconoscono le libertà fondamentali
e attuano i diritti sociali. Perciò, queste due entità, poteri e diritti, non sono sullo
stesso piano: i primi non possono essere concepiti come legibus soluti, essendo
suscettibili di vincoli per proteggere le libertà. Per quanto riguarda i poteri: la
Dichiarazione afferma che la gestione di Internet deve obbedire ai principi di
democrazia e rappresentazione. Queste devono essere specificate -in conformità
dell’eredità scientifica di Teubner - attraverso l’imposizione di una componente
multi stakeholder e una legittimazione rappresentativa degli attori economici e dei
soggetti sociali digitali. Perciò sarebbe inutile cercare nella Dichiarazione ulteriori
dettagli riguardanti sia il concetto di multistakeholder sia la posizione di
legittimazione. L'atto ha preferito non toccare temi di dibattito internazionale, così
da raggiungere un ampio consenso. Al contrario, il pilastro delle libertà è uno di
quello a cui la Dichiarazione dedica la maggior parte degli articoli. Essi possono
essere classificati in due categorie: regole generali, applicabili ad ogni diritto in
gioco, e regole specifiche, riguardanti i singoli diritti soggettivi. Le disposizioni della
prima categoria non sono perfettamente in linea con i principi del rule of law e
quello del giusto processo. Infatti, non c’è una dichiarazione generale che richiede
che le libertà siano limitate solo in favore di un valore equamente classificato e in
conformità con i principi di necessità e proporzionalità. Invece, questo test di
bilanciamento è fornito solo per alcune libertà su base separata. Abbiamo già
criticato questa tecnica di redazione, centrata su singoli casi e non su regole
generali; infatti, abbiamo espresso le nostre osservazioni sia in seno alla
Commissione che in ambito scientifico. Nemmeno la clausola del debito processo è
fornita in termini generali. Anzi, è stabilita solo occasionalmente. Ad esempio,
nell’art. 11, co.3 difende il cd. “Diritto all’oblio”, affermando che: “ovunque venga
concessa una richiesta di rimozione dai motori di ricerca, ogni persona può fare
ricorso contro la decisione dinanzi ai tribunali per garantire che l'interesse pubblico
per le informazioni sia preservato”: ma non nell’art.1, nel quale avrebbe dovuto
essere menzionato in linea con la natura della disposizione generale. Per quanto
riguarda i singoli diritti, deve essere fatta una premessa di base: l’elenco è solo
esemplificativo, e non globale. Perciò, le libertà non espressamente dichiarate non
sono necessariamente escluse. Possiamo pensare, ad esempio, il diritto all’oblio. In
questi casi, la Commissione non era semplicemente in grado di raggiungere un
accordo. “Come” la Carta ha stabilito un quadro normativo di Internet non è una
questione metodologica. Vale a dire che non si riferisce alla procedura- già descritta-
ma ai valori incontrati dalla Dichiarazione. La coppia “uguaglianza-legalità” è
diventata la pietra miliare dell’intera architettura della Carta, come spiegati nel
preambolo della Dichiarazione. Tale scelta fu realizzata solo perché la Carta ha
rifiutato di affidare la propria genesi a poteri privati. Infatti, questi avrebbero agito
in maniera egoistica, piegando le regole verso i loro interessi lucrativi. Ciò non vuol
dire che le sue norme siano le migliori possibili. Ma, più semplicemente, l’Autore
della Carta è riuscito ad evitare di essere “catturato” dagli stakeholder più forti.
Il diritto alla neutralità della rete è stato dotato della dignità di un diritto
fondamentale, risultato che non è stato raggiunto neppure dalla Regolazione sul
Mercato Unico Digitale dell’UE. Il focus della neutralità della rete sta nella libertà di
parola, di informazione, piuttosto che in interessi economici. Infatti, i fruitori di
Internet subirebbero gravi limitazioni se ci fosse un accesso differenziato alla rete e
alcuni contenuti arrivassero con maggiore qualità e velocità, riducendosi
notevolmente la scelta ai contenuti privilegiati. La fonte regolatoria di questo diritto
non è identificata nell’ autoregolamentazione negoziata tra ISP e ICP. Infatti,
affidando la regolazione ad un contratto si declasserebbe il web da un bene comune
a una comodità, negoziabile in cambio del prezzo di mercato più alto. In questo
caso, quelli che già dominano il mercato online della banda potrebbero attrarre un
più grande flusso di byte e impedire l'accesso ai nuovi arrivati che non possono
permettersi di pagare lo stesso prezzo. Relativamente a questo punto, la
dichiarazione non è stata così chiara come lo è stata nello stabilire il diritto alla
neutralità della rete. Infatti, non ha imposto che un atto pubblico sia la fonte del
diritto di ogni operatore a non essere discriminato - rispetto al concorrente - come
l’ampiezza e la qualità della banda, incurante delle capacità di ciascuno. Qui la
dichiarazione ha perso la sua occasione di proclamare un principio di uguale
trattamento orientato verso i diritti fondamentali. Inoltre, il riferimento a un'altra
libertà nella dichiarazione, il diritto di accesso, conferma la centralità della coppia
già menzionata. Il trattato ha fatto il suo contenuto vicino a un diritto sociale, che è
dire che ha costretto lo stato a essere proattivo e a diffondere la banda larga sull’
intero territorio nazionale, a prescindere dalla residenza del cittadino digitale e della
capacità di spesa. Quindi, la banda dovrebbe coprire anche le zone bianche, quelle
dove il mercato fallisce, dove il privato non sarebbe mai capace di arrivare per via
della disutilità economica. Ora, ciò significa che l’attualizzazione del diritto d’accesso
è strumentale all’esercizio delle libertà fondamentali, ma, concretamente, bisogna
dello Stato per adempiere prontamente il suo dovere di servizio.
L’accesso alla rete è uno strumento per l’uguaglianza sostanziale, un moltiplicatore
di ricchezza. L’art. 2 della Costituzione italiana stabilisce un trattamento
differenziato in base alle capacità economiche del beneficiario. Le asimmetrie hanno
come fine ultimo l’uguaglianza di ciascun cittadino. Quest’ articolo garantisce una
disciplina favorevole per coloro che non sono stati ammessi, fino a quel momento, a
godere della prosperità economica e dell’inclusione sociale. Così, permette a
ognuno di prendere parte alla società digitale. Il cerchio è chiuso dal precetto
dell’art. 14 che regola le reciproche relazioni tra le fonti regolative di internet: la
Dichiarazione si riferisce sia alle fonti vincolanti che a quelle dispositive, affidate ai
padroni della rete, gli Over The Top. Qui la dichiarazione ha trovato, non senza
sforzi, un lodevole compromesso, perché ha dettato un ordine d’intervento
obbligatorio: prima le leggi e solo poi l’autoregolamentazione. In questo modo, la
Carta ha impedito che le scelte politiche sulla rete venissero sacrificate da idee
miopi ed egoistiche di alcuni operatori saldi e ben strutturati: “per prevenire tutte le
forme di discriminazione e prevenire che le leggi sul suo uso siano determinate da
coloro che detengono la maggior parte degli strumenti vitali per promuovere la
partecipazione individuale e collettiva nel processo democratico così come
l’uguaglianza sostanziale”.
7. Il valore
La dichiarazione detiene lo stesso valore di un atto politico. Inoltre, è anche più
significante, come un impegno politico, dato che è stato approvato il 23 novembre
2015, con un atto votato da una maggioranza trasversale nella camera dei deputati
del parlamento italiano. Come ogni atto, deve essere propriamente preso in
considerazione dal potere esecutivo nella sua concreta attività politico-
amministrativa. Ma, essendo un atto politico, la dichiarazione avrà valore fino a che i
suoi promotori politici manterranno il loro supporto. A riguardo del suo valore
giuridico, non può essere forzato giudizialmente, né contro un soggetto pubblico, né
contro un soggetto privato. Certamente, non genera alcuna obbligazione giuridica
da soddisfare. A questo punto, sembra appropriato menzionare che anche l’atto
costitutivo dei diritti fondamentali dell’unione europea, aveva lo stesso valore della
nostra dichiarazione, prima di essere incorporato al Trattato di Lisbona. Certo, molti
giudici nazionali ed europei continuarono tuttavia a considerarlo un criterio per
interpretare altre risorse giuridiche vincolanti. Insomma: nonostante la
Dichiarazione non abbia una diretta rilevanza giuridica, un suo valore legale indiretto
e implicito, non è da escludere. Stiamo vietando uno status legale alla Dichiarazione,
ma allo stesso tempo potremmo aspettarci che ne si possa tener conto “in
trasparenza” da coloro che dovranno prendere decisioni legalmente vincolanti. La
Dichiarazione come punto di riferimento di una nuova cultura di internet, come
l’avvocato generale Mischo ha dichiarato riguardo al valore della Commissione
Europea “So che il trattato non è legalmente vincolante, ma è utile riferirsi ad esso
dicendo che costituisce l’espressione, al suo livello massimo, di un consenso politico
democraticamente stabilito su cosa debba essere oggigiorno considerato come il
catalogo dei diritti fondamentali garantiti dall’ordine legale della comunità”. A
questo punto possiamo dare una comprensiva valutazione dell’esperienza italiana:
quali sono i suoi vantaggi e svantaggi? Per i primi, si può notare che è un
regolamento flessibili, in grado di orientare internet verso i valori fondamentali della
democrazia e dell’uguaglianza, e “permeabile” nei confronti dell’auto
regolamentazione di azionisti privati, senza concedere a quest’ultimi nessuna
valenza rispetto alle fonti vincolanti. Tra i suoi svantaggi, non possiamo includere la
scarsa normatività della lingua, anche se questa criticità fosse espressa durante la
conferenza stampa seguente la presentazione della dichiarazione. Certamente,
sarebbe contraddittorio da parte della Dichiarazione di perseguire un intento
costituente mentre afferma obbligazioni e proibizioni severe. D’altro canto, proprio
come ogni trattato costituzionale, deve essere abbastanza elastica da adattarsi a
situazioni future, che potrebbero essere impreviste. Questo è specialmente vero
affermando che la Dichiarazione è indirizzata a una realtà in continua evoluzione:
Internet. Tuttavia, troviamo degli svantaggi. Innanzitutto, quella che abbiamo già
menzionato illustrando le singole parti della Dichiarazione: ovvero, il processo equo
e lo stato di diritto sono salvaguardati non adeguatamente. Tuttavia, il vero difetto
non risiede nel trattato in sè; è piuttosto riscontrabile nella mancanza di attenzione
ad esso dei capi politici. Certamente, alcuni atti normativi conseguenti, che
dovrebbero esser stati consistenti con la dichiarazione, sono stati elaborati come se
la Dichiarazione non fosse mai esistita. Possiamo considerare la recente legge sul
cyberbullismo o la precedente legislazione anti-terrorismo. Questo non è il luogo per
una profonda analisi di questi atti, ci limiteremo ad affermare una sola conclusione.
In poche parole, la Dichiarazione, che condiziona la limitazione della libertà a un
principio necessario, non è coerente con la legislazione anti-terrorismo, che
permette deroghe sulla libertà come conseguenza a una minaccia astratta (quando
la necessità è ancora assente). Similmente, la Dichiarazione, affermando che le
libertà possano soltanto essere ristrette da un’autorità pubblica ed imparziale, è in
contraddizione con la legge sul cyberbullismo. Quest’ultimo incondizionatamente
delega questo potere agli ISPs (internet service providers), che hanno la possibilità di
oscurare, eliminare o bloccare i dati personali senza nessuna procedura avversa e
con poca rilevanza. Certo gli ISPs sono soggetti ex parte che non hanno nulla in
comune con un’autorità pubblica ed imparziale. Quindi, lo svantaggio della
Dichiarazione non si pone nel metodo o nell’elaborazione, ma nel fatto che il capo
politico non ha la volontà di prenderla in considerazione. Inoltre, questa
contraddizione non è un unico caso nazionale isolato. A livello europeo questo
contrasto è chiaramente visibile quanto alla salvaguardia dei diritti fondamentali
online. Il dialogo contraddittorio tra la corte di giustizia e i capi non ha ancora
trovato un appropriato equilibrio comune. Fondamentalmente, mentre il
precedente ha ritenuto le garanzie di proporzionalità e precauzionalità applicabili al
diritto di privacy in momenti di emergenza - la recente normativa UE 2017/541 “sul
combattere il terrorismo” va nella direzione opposta. Quindi, in conclusione, il
processo costituente di internet è un evento auspicabile, che è tuttavia lontano
dall’avverarsi. Però, questo non riduce, ma addirittura rafforza, la Dichiarazione del
Comitato di Boldrini come manifesto politico.
8. Conclusione
Internet è un potente strumento di cambiamento con un profondo impatto su
processi economici, politici, sociali. Questo impatto è la ragione per cui le tesi
secondo cui tutte le regolazioni dovrebbero essere evitate in modo che la rete
rimanga totalmente senza restrizioni non possono essere accettate. Il rapporto sulla
libertà della rete del 2016 afferma che la libertà su internet intorno al mondo ha
rifiutato per il sesto anno consecutivo, mentre tre terzi di utenti su internet vivono
in paesi dove il giudizio del governo, militari, o famiglie regnanti sono soggetti a
censura, e 27% dei paesi dove le persone sono state arrestate per aver pubblicato,
condiviso, o anche solo aver “messo like” a dei contenuti su facebook. In casi del
genere è facile trovare una risposta soddisfacente per i valori della democrazia e
prendendo coscienza della preminenza dei diritti e delle libertà. Ma è molto più
difficile far fronte con il cambio delle opinioni pubbliche causate dal terrorismo. È da
ammettere che internet può essere uno strumento potente anche in mano ai
criminali. Questo suggerisce che diritti e libertà sulla rete non possono trovare la
loro difesa soltanto nella corte di giustizia, ma necessitano che la discussione sia
portata anche in politica. Qui troviamo probabilmente il più significativo valore della
Commissione Boldrini, che era a un passo dalla giusta direzione, mettendo insieme
competenze tecniche e politiche. In ogni caso, dobbiamo rispondere a una domanda
preliminare. Crediamo che internet sia una buona opportunità per un cambiamento
positivo, aprendo una vera possibilità per opportunità eque per tutti, di crescita
sociale ed economica? Se è così, le richieste portate dai nuovi e fino ad ora mai visti
pericoli devono essere assecondate senza distruggere la natura essenziale della rete.
Al momento non abbiamo, e molto probabilmente non avremo nel futuro prossimo,
uno strumento con un potenziale comparabile a darci un mondo migliore.

Capitolo 2
Bisogna articolare il discorso analizzando due distinti profili:
- i “diritti” nati dal progresso tecnologico;
- se e come disciplinare Internet.
I. I nuovi diritti
Il progresso tecnologico è di per sé neutrale. Sta alla modalità in cui esso viene
gestito indirizzarlo verso il common good o assecondarne un’evoluzione egoistica
che renda i ricchi ancora più ricchi. Se l’obiettivo è il primo (come ci si auspica) è
opportuno partire da valutazioni preliminari. Il diritto alla connessione veloce
consiste nella pretesa della persona (individuo o soggetto collettivo) a che lo Stato
stenda diffusamente sul territorio nazionale la banda larga per permettergli, a un
prezzo abbordabile, di navigare in rete alla velocità idonea a partecipare alle
comunità virtuali, usufruire dei servizi voip (es. skype, whatsapp) e ricevere i servizi
digitalizzati dell’amministrazione. Ciò rappresenterebbe la chiave per accedere a
modalità inedite di democrazia continuativa, esso sarebbe funzionale all’uguaglianza
sostanziale. Se tutti (compresi i più sfortunati per condizioni di vita, economiche o di
abitazione) potessero avere l’accesso alla banda larga, ci sarebbe una svolta epocale
(e necessaria) funzionale alla rimozione di disuguaglianze sociali. Ora è necessario
rilevare che il diritto in questione si presenta come diritto sociale a utilità plurima e
differenziata. Questo significa che di per sé il diritto alla connessione non soddisfa
nessun bisogno in astratto, esso è piuttosto rivolto all’interesse in concreto
procurato dalla navigazione. Inoltre, come tutti gli altri diritto sociali, questo diritto
non ha capacità autosatisfattiva. Per poterlo soddisfare è necessario un intervento
esterno. È necessario che il potere pubblico (direttamente o impartendo obblighi a
un operatore) abbia un comportamento istituzionale attivo. Quindi che predisponga
norme asimmetriche rivolte a tutela delle categorie svantaggiate. Se il legislatore
non agisce, vi è un’omissione legislativa che impedisce il sindacato di legittimità
della Corte Costituzionale, data l’assenza di una norma da valutare. La corte,
tuttavia, potrà sindacare l’atto normativo che non rilevi correttamente il bisogno e
dovrebbe ragionare in termini di diritti incondizionati, che necessitano di una
risposta regolativa immediata, piuttosto che di situazioni soggettive ad attuazione
futura e incerta, subordinate alle disponibilità economiche quantificate dal
legislatore. Come la stessa autrice sottolinea, infatti, i diritti sociali devono imporre
al legislatore uno specifico obbligo di attivazione, altrimenti non sarebbero altro che
aspettative di mero fatto. Questo sistema potrebbe comportare eccessivi limiti
imposti dal giudice al legislatore. Bisognerebbe quindi utilizzare tecniche decisorie
compromissorie che tengano conto della discrezionalità politica e la tutela dei diritti
sociali. Lo strumento per fare ciò non è la sentenza additiva di prestazione, ma la
sentenza additiva di principio sfruttata dalla Corte con due accorgimenti:
- prevedendo nel dispositivo un termine certo entro cui il legislatore deve
ottemperare al giudicato costituzionale rendendo i principi della corte veri precetti;
- la sentenza in questione non dovrebbe disporre del regime del regime giuridico
delle sentenze additive di principio.
Il problema effettivo resta quello dei costi che queste sentenze comportano per
l’equilibrio finanziario e per il bilancio dello Stato. Per l’Autrice questo non dovrebbe
costituire un limite, non essendo il fine quanto il mezzo per far prevalere diritti
dell’uomo di ben ampia portata. I termini del discorso non dovrebbero cambiare
(dice) neanche se dovesse essere novellato l’81 della Cost. nel senso di “pareggio del
bilancio” (come di fatto è accaduto nel 2012).
1.3. Rispetto all’ordinamento comunitario.
Per quanto concerne l’ordinamento comunitario, spesso Parlamento e Commissione
europea hanno affermato la necessità di guardare alla banda larga come diritto
universale. Nei fatti però le cose sono andate diversamente. Innanzitutto, con il
Pacchetto Direttive 2002 sulle telecomunicazioni l’accesso veloce non è rientrato tra
gli obblighi di servizio universale, selezionati tramite il criterio valutativo della
diffusività della domanda. Pertanto, lo Stato in cui la domanda non fosse
sufficientemente diffusa non è obbligato a predisporre il servizio in modo da
renderlo universale. Evidentemente, il parametro previsto è inadeguato.
Successivamente, nel considerandum 5 della direttiva 136, è lasciata alla
discrezionalità dello Stato la scelta circa la promozione della banda larga, a seguito
di valutazioni socio-economiche del proprio territorio e finanziandola con la fiscalità
generale. La discrezionalità in questione creerà un discrimen tra i cittadini degli Stati
che hanno optato per l’applicazione della direttiva e quelli che l’hanno disattesa.
Dunque, cittadini di serie A e cittadini di serie B lasciati al completo buio digitale.
L’accesso a Internet potrebbe essere qualificato anche nei termini di libertà negativa
strumentale al perseguimento di altri diritti. Lo Stato non deve intervenire, la banda
larga sarebbe strumento da non ostacolare (libertà negativa) ma da promuovere per
garantire a tutti parità di trattamento. Sarebbe quindi un diritto soggetto a riserva di
legge e di giurisdizione. In questo senso, il caso Hadopi 1 sarebbe stato sindacato
proprio perché non ottempera a tali previsioni (si attribuisce ad un’autorità il potere
di sacrificare il diritto d’accesso). In tal senso sarebbe dubbia, per l’Autrice, anche la
funzione pseudo-giudiziale dell’Agcom sottratta (anche se in parte) al potere
giurisdizionale. Un altro diritto da disciplinare è quello di accesso degli operatori alla
rete (N.G.Ns). Lo Stato deve garantire l’accesso a tutti gli altri operatori (O.L.O) alle
medesime condizioni che il titolare della rete riserva a se stesso. A tal proposito,
rilevante fu la Raccomandazione della Commissione (2010) che nel suo nocciolo
duro coglie la tutela da garantire agli operatori, ma meno chiara risulta nei casi in cui
la rete sia oggetto di un accordo di corealizzazione e di cogestione, ove coinvestitori
e soggetti terzi risentirebbero di uno sfavor. In Italia, la raccomandazione ha avuto
seguito con il cd. Memorandum of Understanding (M.O.U.) ossia un accordo tra
Governo e operatori privati con cui realizzare le infrastrutture necessarie per lo
sviluppo di nuove reti di telecomunicazioni nuova generazione (NGN). In merito ci
sono almeno due rilevanti criticità:
- gli investimenti sono a discrezionalità degli operatori che opteranno per le zone del
paese più remunerative (NGN territorialmente asimmetriche);
- non ci sono profili circa la governance della futura società di gestione, che sarà
quindi incapace di equiprdinare i piccoli operatori ai grandi.
Perplessità emergono anche dalla manovra finanziaria del 2011. Essa qualifica la
banda larga come SIEG (servizio di interesse economico generale) e non come
servizio universale. Questo significa che lo Stato dovrà individuare operatori
efficienti attraverso gare pubbliche che garantiranno l’efficienza, ma allo stesso
tempo che non favoriranno un prezzo affordable, né idoneo a coprire l’intero
territorio nazionale. In sintesi, il diritto d’accesso del cittadino alla connettività
universale e l’equal access degli operatori rimangono soltanto delle promesse, in un
panorama tecnologico che continua a giovare a pochi.
II) Una regolazione per i diritti e la rete
Bisogna, ora, immaginare la modalità per disciplinare questa materia. Innanzitutto,
risulta pericoloso ipotizzare una modifica della Costituzione (ex 138) oltre che
superfluo a fronte degli imprevedibili successivi progressi della tecnologia. Quindi
ciò che pare più idoneo è interpretare estensivamente le norme costituzionali già
esistenti (es art 21). Questa operazione, però, va fatta con grande cautela e
considerando le peculiarità del fenomeno Internet che non permettono una
generalizzata applicazione delle situazioni già disciplinate. La nostra Corte
costituzionale, già sottolineando le “ineliminabili differenze tecniche” tra stampa e
radiotelevisione, ha affermato il principio “a ciascun mezzo la sua disciplina”, ferma
restando la comune condivisione delle garanzie costituzionali. Nella stessa direzione
la Corte statunitense, si veda il caso ACLU v. Reno, sull’impossibilità di estendere i
limiti delle fasce orarie protette per il pubblico minore anche alla struttura della
rete. In virtù delle sue caratteristiche, la disciplina della rete deve limitarsi a regolare
il minimo indispensabile. Talvolta, addirittura ammettendo, negli Stati Uniti, un uso
distorto della rete e una dilatazione del freedom of speech tale da sacrificare altri
valori. Quindi come regolare la rete? Sembra utile ricorrere alle riflessioni di Lessig,
secondo il quale sarebbero quattro gli strumenti per la regolazione: law, self-
regulation, market and architecture. La sua riflessione nacque dall’analisi del
fenomeno della pirateria su Internet. Egli constatò come la sola legge non fosse in
grado di contrastare un atteggiamento ormai largamente diffuso e non biasimato.
Egli notò anche che il problema della pirateria andò regredendo grazie agli stessi siti
che iniziavano ad offrire prezzi sempre più competitivi per i diritti d’uso, così da
scoraggiare le attività illecite. Lo stesso mercato aveva trovato soluzioni (lex
mercatoria). A questo si aggiunga il meccanismo ideato dalla dottrina (e dallo stesso
Lessig) delle licenze “creative commons” (CC) che offrono agli internauti un valido
compromesso per ovviare alla pirateria. Questo rappresenta un modello di
autoregolazione, peraltro anticipato da disposizioni normative generali. Quindi si
vede come sia necessario che intervenga la legge (prima) e poi l’autoregolazione dei
privati. Se quest’ultima fosse la fonte primaria si rischierebbe di minare alla net
neutrality. Quindi è sì importante riconoscere l’incapacità della legge a fornire da
sola la regolamentazione, ma anche evitare che siano i Signori di Internet a decidere
il da farsi. Ciò è avvenuto in Francia, dove si è tristemente baratta la soft law dei
privati con il controllo pubblico sui contenuti della rete, travalicando la garanzia del
diritto di parola. Costituzionalizzando la rete, questi rischi di involuzione egoistica
verrebbero arginati, stabilendo un preciso rapporto di sovraordinazione dei valori
fondamentali sulle libertà economiche tale da scongiurare abusi e sacrifici
sproporzionati o non necessari. Tuttavia, sorgerebbero nuove questioni: Chi è
legittimato a dettare un nuovo ordine giuridico internazionale? E la sua coercibilità?

Capitolo 3
1. Gli imperativi al servizio pubblico.
Per decenni la comunicazione radiotelevisiva è stata il mezzo principale per
l’informazione, il dibattito politico, la formazione culturale e l’intrattenimento. Per
questo il servizio pubblico ha assunto una centralità indiscutibile.
L’innovazione tecnologica e, in particolare, l’avvento di internet hanno offerto, alla
comunicazione audiovisiva e al servizio pubblico, nuove ed efficaci occasioni per
intervenire nella formazione del convincimento dell’individuo.
2. Obblighi e indicazioni del diritto sovranazionale.
L’Europa ha dettato obblighi e suggerito indicazioni al servizio pubblico, i quali si
aggiungono a quelli provenienti dal diritto internazionale. Essi possono essere
riassunti in tre punti: definizione della prestazione audiovisiva, mission e paniere del
servizio pubblico, rapporto con il mercato. La prestazione audiovisiva è un
particolare genus del servizio pubblico, cioè un’attività destinata ad essere prestata
in via continuativa e indifferenziatamente a una collettività di individui ovunque
risiedano. In primo luogo, essa deve sottostare alle regole generali della categoria di
appartenenza, alle quali si aggiunge la disciplina di settore, il cui scopo è quello di
informare la collettività e cosi intervenire sulla formazione del consenso politico del
cittadino-utente del servizio. Quando l’attività di servizio si risolve nella prestazione
radiotelevisiva le richieste europee moltiplicano, infatti, si pretende che il polo
pubblico di riferimento abbia una struttura ben precisa, articolata quindi in un
gestore, un regolatore e un controllore. Il regolatore darà gli obiettivi di scopo
pubblico (public purposes); il gestore orienterà e renderà il servizio secondo quegli
obiettivi; infine, il controllore vigilerà sulla conformità dell’attività di broadcast alle
regole poste dal regolatore. Il diritto internazionale aggiunge alle richieste
dell’Unione che il riferimento istituzionale per il gestore sia un soggetto non
coincidente con il Governo, o comunque ad esso non riferibile.
Il bisogno di democraticità è soddisfatto solo se il gestore non abbia alcun
collegamento col Governo. La volontà politico-partitica di maggioranza, e i poteri
economici del mercato, devono rimanere estranei al procedimento di nomina degli
organi interni del gestore affinché egli possa rendere una prestazione informativa
indipendente (ragion d’essere del servizio pubblico). Il secondo punto riguarda
l’individuazione della mission del servizio pubblico e delle attività che entrano nel
paniere. Il diritto dell’Unione non offre una definizione puntuale, ma lascia ai singoli
Stati il compito di farlo. La nozione di servizio pubblico è aperta a qualsiasi
prestazione purché collegata alle esigenze democratiche, sociali e culturali di ogni
società nonché all’esigenza di preservare il pluralismo dei mezzi di comunicazione.
Un buon esempio è offerto dal broadcaster britannico, il cui compito è quello di
arricchire le vite delle persone con programmi e servizi che informano, educano ed
intrattengono. Una conferma dell’obbligatorietà di una definizione puntuale si può
leggere nella circostanza che la mission diventi il parametro, per la Commissione,
per sindacare che l’aiuto di stato, in qualunque forma ricevuto dal gestore, sia stato
impiegato solo a copertura degli oneri connessi agli obblighi di servizio pubblico.
Infine, l’Europa detta un ulteriore obbligo indirettamente rivolto al broadcaster
pubblico che voglia introdurre un nuovo servizio sul mercato audiovisivo. Tale
obbligo consiste nel valutare il valore aggiunto per la collettività della nuova
prestazione per poi comprarlo con l’eventuale danno all’assetto competitivo. Solo se
il beneficio alla vocazione sociale dovesse risultare prevalente la nuova prestazione
potrà essere presentata come ulteriore estensione della mission pubblica ed essere
finanziata dal canone. L’Europa ha affidato la disciplina di dettaglio alla
discrezionalità dei singoli Stati, ai quali chiede di assicurare che il valutante sia un
soggetto tecnicamente attrezzato e indipendente dal gestore.
Il diritto europeo chiede che la procedura debba essere obiettiva, trasparente,
partecipata e comparata tra gli opposti valori del mercato e della mission sociale.
3. Le domande della tecnica.
L’evoluzione multi-piattaforma e lo switch-off dal digitale a Internet.
La domanda fondamentale degli utenti è che il servizio pubblico incontri il loro
bisogno di inclusività digitale. La rete è la comunità intermedia del nuovo millennio
proiettata a moltiplicare le occasioni di partecipazione politica e sociale della
persona. Da qui alcune conseguenze. La prima è che Internet deve mostrarsi come
una realtà facilmente conoscibile da chi intenda esercitare i suoi diritti e adempiere
ai propri doveri in rete. Ciò comporta che il broadcaster pubblico debba innanzitutto
educare l’utente all’uso consapevole e autonomo di Internet. Ne segue che la
necessità di un adeguato disegno qualitativo dei compiti del servizio pubblico non
può essere rimessa ad una tecnica di redazione normativa di tipo statico. Il servizio
pubblico si fletterà verso l’inclusione digitale dell’utente-cittadino del web
(concepire la rete come un volano per promuovere chi è rimasto indietro).
Questa impostazione ideologica sull’uso della rete in informa il framework giuridico.
In primo luogo, L’utente è titolare del diritto ad essere informato. Questa situazione
soggettiva non è pienamente soddisfatta da un’offerta identica nei contenuti e resa
diversa solo dallo strumento tecnico di trasmissione dei dati, pertanto il connotato
fondamentale di un sistema strutturato su una pluralità di piattaforme trasmissive
consiste nell’esigere che a ciascuna piattaforma corrisponda una propria offerta di
contenuti. Per il gestore del servizio pubblico l’evoluzione multipiattaforma pone un
obbligo di diversificazione dell’offerta in relazione al mezzo prescelto. Ad esempio la
BBC, nel lanciare il progetto di HD tv, si è autoimposta l’obbligo di diversificare,
assumendo tale obbligo come l’elemento qualificante della compatibilità del nuovo
servizio con la vocazione sociale. La prospettiva dello switch-off rafforza la
ricostruzione del diritto di accesso a internet del cittadino-utente come il nuovo e
fondamentale diritto sociale del millennio. Le ragioni del servizio pubblico
accrescono con la migrazione dal digitale al web, perché si aggiunge il nuovo
compito dell’evolution, pertanto occorre che lo Stato metta il suo gestore in
condizioni di adempiere. Guardiamo ora al mercato, e in particolare alle specificità
che in esso assume la posizione del gestore del servizio pubblico nella prospettiva
del switch-off. Usare il web significa fare del servizio audiovisivo un’industria a rete
dove la disponibilità della rete è una public utility. Se gli ISPs fossero presenti anche
sul mercato dei servizi audiovisivi, sarebbero indotti a preferire nell’accesso alla rete
le proprie aziende fornitrici di contenuti. Al fine di evitare che si trasportino su
Internet situazioni di concentrazione verticale dannose al diritto di informare, il
decisore politico dovrebbe riflettere se non sia il caso di imporre normativamente la
regola della separazione proprietaria tra gestore di rete e fornitore di contenuti.
E’ diritto di ciascun fornitore di contenuti poter accedere al flusso dei dati alle stesse
condizioni tecniche e di mercato dell’altro fornitore. La net neutrality sembrerebbe
non consentire posizioni differenziate pertanto allineerebbe ogni fornitore di
contenuti nella domanda di accesso. Questa interpretazione può però ammettere
delle deroghe. Quando la domanda di accesso proviene da chi presta un servizio
universale si potrebbe sostenere che anche la qualità e l’ampiezza di banda debbano
essere garantite con priorità e a i migliori condizioni contrattuali rispetto a chi rende
l’attività audiovisiva a titolo d’impresa. Si tratterebbe di un’eccezione ex lege in
ragione di un valore di pubblica rilevanza. Questa preferenza per il soggetto
pubblico dell’emittente andrebbe però limitata alle sole prestazioni strettamente
incluse nel paniere del servizio, mentre per le altre varrebbe la regola della perfetta
equiordinazione con le imprese commerciali.
4. Un buon esempio: il modello anglosassone e i suoi atti fondativi.
Caso della BBC: le soluzioni istituzionali e funzionali adottate in Gran Bretagna
potrebbero rappresentare un utile punto di riferimento nella discussione
parlamentare sul ddl 1880/2015 di riforma della RAI. L’atto fondativo della
concessionaria pubblica britannica si trova nella BBC Royal Charter.
Quanto allo scopo, la Carta disegna le finalità generali di servizio pubblico
dell’emittente (public purposes), prescrive l’indipendenza dal Governo e definisce i
doveri degli organismi di vigilanza e di governo sulla BBC. La House of Lords in un
significato documento aveva messo in dubbio che la Royal Charter fosse la fonte
idonea a disciplinare governance e mission della BBC in ragione della sua
derivazione dalla Corona. Tuttavia, la derivazione regia non impedisce l’aderenza
all’evoluzione tecnica e alle istanze sociali e istituzionali, inoltre il procedimento di
formazione mette la BBC al riparo dall’influenza della politica. La questione è aperta.
La House of Commons ha riacceso il dibattito sul modello di British Broadcasting
Corporation più aderente alle domande del telespettatore britannico. Il quadro degli
atti fondativi della BBC si completa con un Agreement (assimilabile al Contratto di
Servizio Italiano fra Stato e RAI) stipulato tra il Ministero della Cultura, Media e Sport
e la BBC. L’Agreement specifica le finalità di servizio pubblico, elenca gli obblighi di
servizio e stabilisce le norme per il finanziamento dell’emittente.
5. Identità e stile della BBC.
Gli atti fondativi richiamati disegnano un sistema degli organi gestori e di vigilanza
molto lineare, che si compone di due soli soggetti: il Trust, organismo interno con
poteri di supervisione e controllo, e il Board, organo di amministrazione con funzioni
esecutive. Il Trust, istituito nel 2007, è composto da membri nominati della Regina
su designazione del Primo Ministro, scelti tra un numero di candidati che hanno
partecipato davanti a una commissione esaminatrice ad un colloquio pubblico e ad
una selezione per meriti e per curricula aderenti alle specificità del settore. I membri
sono esponenti del mondo della cultura e dell’economia, e di solito vantano una
vasta esperienza nel settore dei media. Il loro mandato dura cinque anni ed è
rinnovabile una sola volta. Il Trust trae la propria autonomia dalla Royal Charter, al
fine di garantire che la BBC rimanga aderente nel suo operare all’interesse generale.
L’azione del Trust si ispira a principi deontici di correttezza, affidabilità e buon
andamento. Il Trust è l’organo cui compete la direzione strategica complessiva della
BBC. Ad esso è affidato il compito di nominare il direttore generale e la maggioranza
dei membri del comitato esecutivo (Board). Il Board recepisce le direttive generali e
attua le linee guida stabilite dal Trust in materia sia di strategie aziendali che di
bilancio. La BBC ha proposto che il Trust pubblichi gli obiettivi e le priorità che
consegna al Board, il quale riferirà, attraverso aggiornamenti trimestrali, pareri e un
Business Report Eccezionale nel caso in cui l’attuazione del progetto fosse a rischio.
6. Il paniere del servizio pubblico audiovisivo in G.B.: il public value.
La BBC è istituzionalmente deputata alla creazione e all’offerta di servizi consoni al
concetto di “valore pubblico”. Mentre gli operatori commerciali tendono a
massimizzare il profitto derivante dall’attività di broadcasting, l’obiettivo della BBC è
massimizzare il valore derivante dall’adempimento degli obblighi che rientrano nel
paniere del servizio pubblico. Il valore pubblico converge con gli interessi dei privati
quando la BBC risponde al compito di informare, educare e intrattenere secondo le
aspirazioni e attitudini dei singoli. Il medesimo valore coincide con un beneficio
ulteriore e più vasto quando l’individuo passa dalla propria dimensione solitaria a
quella di cittadino. In questo caso l’adempimento della mission contribuisce al
benessere collettivo attraverso un obbligo di programmazione in grado di arrecare
un contributo alla democrazia, alla cultura e alla qualità di vita (le riflessioni che
ispirarono la riforma BBC del 2004 riecheggiano la visione individualistica e
solidaristica racchiusa nell’art. 2 Cost). Queste premesse si sono tradotte in un
metodo procedimentale. L’inclusione del servizio fra gli obblighi di erogazione si
fonda sul criterio democratico realizzato nella partecipazione del privato al
procedimento volto ad individuare la composizione dell’offerta. Il servizio offerto è
strumentale all’esercizio dei diritti del cittadino-utente, il quale è il medesimo
soggetto che ha contribuito alla sua individuazione e inclusione. Si viene quindi a
creare un cerchio virtuale, che si apre con la visione centripeta del cittadino-utente,
continua con la sua partecipazione alla definizione del servizio e si chiude con il
godimento dello stesso. Il modello della partecipazione del privato si coniuga anche
con il principio della accountability, che coincide con il continuo dialogo con i
cittadini. Gli organi di vertice hanno l’obbligo di rendere conto alla collettività in
ordine al corretto utilizzo delle risorse, della produzione di risultati e della coerenza
degli stessi con la mission istituzionale. Nella teoria del public value trova
fondamento un modello procedimentale volto ad accrescere la qualità della
decisione finale adottata. Il modello della deliberative governance: si tratta di un
modello in cui il punto di vista degli utenti del servizio e di quelli chiamati a
implementarlo, costituisce il fondamento e la bussola di orientamento nella scelta
del common good. Il public value test non si sottrae a valutazione quanto
all’idoneità a tenere insieme il rispetto della missione pubblica e la difesa della lex
mercatoria. Si traduce infatti in un test ex ante condotto dal BBC Trust per valutare
se includere o meno una nuova prestazione nel paniere del servizio pubblico.
Il procedimento di PVT (public value test) viene avviato su segnalazione del BBC
Executive, allorché ritenga che l’innovazione della prestazione sia significativa.
Nella prassi, vi è una concertazione programmata (pipeline) con la quale Trust e
Board si accordano per la formalizzazione della proposta, se e in quanto ritenuta
significativa. A ciò seguono: un public value assessment (PVA), un Market Impact
Assessment (MIA) e infine un raffronto tra PVA e MIA. Il PVA è condotto dal BBC
Trust e tende a valutare la coerenza del nuovo servizio con gli obblighi di servizio,
verificando la presenza di quattro parametri:
- impact sulle abitudini e benefici degli utenti e dei cittadini considerati nel loro
insieme;
- cost & value for money, ovvero le implicazioni di natura finanziaria e i costi
incrementali connessi alla fornitura del nuovo servizio rispetto al vantaggio
apportato;
- high quality e distinctiveness, ossia la novità nei contenuti e nella modalità di
distribuzione del servizio;
- reach, cioè la valutazione prospettica sull’ampliamento.
Il MIA è curato invece dall’Office of Communication – OF.COM per valutare gli effetti
dell’introduzione e/o della modifica del servizio sull’equilibrio competitivo del
mercato. Infine, il Trust mette a confronto PVT e MIA: la valutazione circa
l’inclusione del nuovo servizio è positiva quando viene ritenuto soddisfatto dal Trust
il bilanciamento ottimale (optimum balance) fra interesse pubblico all’erogazione
del servizio e impatto sul marcato di riferimento. La decisone del Trust è sottoposta
a consultazione pubblica. Il procedimento deve essere certo nelle fasi e va concluso
entro i sei mesi. L’inclusione del servizio nel perimetro del servizio pubblico
determina il rilascio da parte del Trust della licenza di servizio (service licence) con la
quale sono stabiliti la natura e gli obiettivi del servizio, la sua distribuzione, la
tipologia e la proporzione della programmazione nonché il budget assegnato.
Ne deriva, inoltre, l’obbligo di finanziamento del servizio attraverso il pagamento del
canone (cioè a carico dei contribuenti). Il procedimento deve quindi essere anche
coerente con il principio di trasparenza nei confronti dei contribuenti.
Tale procedimento presenta inoltre il vantaggio di garantire un sistema a fattispecie
aperta: Trust e OF.COM cooperano per valutare la ridefinizione del paniere dei
servizi, garantendo l’aderenza della prestazione offerta ai cambiamenti dettati della
tecnica e dalle abitudini dei consumatori. Tramite l’attivazione del test ex ante, il
BBC Trust definisce l’insieme dei servizi rientranti nell’obbligazione in ragione delle
diverse condizioni legate al mutamento della tecnica, delle abitudini di fruizione e
degli andamenti del mercato. Sia la governance che il procedimento di PVT sono
oggetto di una riflessione volta a migliorare l’efficienza complessiva del sistema.
Il documento della House of Lords del 2011 chiedeva di rivedere il riparto dei
compiti e delle responsabilità fra Trust e OF.COM, le cui rispettive competenze
erano state definite in un Memorandum of Understanding (atto negoziale siglato dai
due organi). Il MOU aveva distinto i compiti in ragione della diversa natura, tuttavia
rimanevano casi di commistione tra il controllo esterno dell’OF.COM e quello
interno del BBC Trust (tra questi il procedimento di PVT). Il Memorandum considera
l’eventualità di un disaccordo tra Trust e OF.COM e prevede rimedi. Questa incerta
linea di confine tra le competenze dei due organi si fa ancora più labile in assenza di
una nozione di “servizio pubblico” definita normativamente. Pertanto, la House of
Lords ha raccomandato che BBC Trust e OF.COM lavorino insieme per una
definizione più certa di servizio. Nemmeno la definizione di public value risulta
ancora a un parametro tassativo, infatti, anche se la definizione teorica di public
value è incentrata sui valori della partecipazione democratica del cittadino,
l’attuazione pratica dell’analisi PVA sembra piuttosto condotta alla luce di criteri che
riguardano l’impatto economico sulla abitudini degli utenti.
L’alto tasso di discrezionalità del Trust è oggetto di discussione anche nel rapporto
della Commissione Cultura, Media e Sport della House of Commons, che pone in
evidenza l’eccessiva elasticità usata dal Trust nel decidere l’avvio e la conduzione del
PVT. Nella prassi concreta, il Trust è in grado di muoversi con notevole disinvoltura
rispetto alla richiesta del Board, degli operatori e delle osservazioni di OF.COM, ciò si
è tradotto in una prevalenza delle ragioni del Trust su quelle di mercato.
Il rapporto della House of Commons evidenzia come la BBC rappresenti un
broadcaster di notevole rilievo sul mercato, le cui decisioni rischiano di pregiudicare
la sopravvivenza degli operatori di dimensioni più ridotte. Pertanto viene sollecitato
l’utilizzo del test e si raccomanda di affinare i meccanismi di avvio del procedimento,
nonché di tenere in considerazione le valutazioni di impatto economico sul mercato.
Il rapporto sottolinea inoltre la necessità di rivisitare l’impianto complessivo della
governance BBC. Il Trust è parte della stessa BBC, è un organo di supervisione che, al
tempo stesso, fa parte della governance dell’emittente (cd. internal model). Il
presidente del Trust è presidente della BBC e ha il potere di nomina del direttore
generale, la cui condotta rischia quindi di non essere giudicata in maniera obiettiva.
Il documento propone che il Trust venga sostituito da una Public Service
Broadcasting Commission, organismo esterno e indipendente, con il compito di
vigilare sull’operato del Board, di approvare il piano strategico elaborato da
quest’ultimo e supervisionare la sua esecuzione, nonché di svolgere il procedimento
di PVT e riferire al Parlamento e al Governo.
7. Dal digitale alla tv HD.
Il passaggio dall’analogico al digitale era stato oggetto di una chiara scelta politica
del governo: il Dipartimento di Cultura, Media e Sport negli anni 90 pubblicò un
Libro Bianco nel quale si rappresentavano le ragioni per le quali il governo inglese
aveva deciso di supportare l’avvio della tv in alta definizione sul canale digitale
terrestre, la quale a partire dal 2002 venne trasmessa dalla BBC tramite la
piattaforma Freeview. La BBC avrebbe assunto il compito di guidare la transizione,
assicurare l’universalità del servizio e garantire al cittadino le opportunità offerte dal
digitale abbattendo l’iniziare divario attraverso lo stimolo della domanda di tv in alta
definizione. Nel marzo 2007 venne presentata al Trust una proposta di inclusione nel
paniere del servizio pubblico del nuovo servizio HD Television.
Nella sua analisi preliminare, il Trust rilevò come l’avvio della tv HD avrebbe creato
public value: il lancio del nuovo servizio avrebbe promosso uno dei public purposes
rimessi alla BBC (the digital purpose). Inoltre, il lancio della tv HD avrebbe
contribuito a stimolare il mercato del digitale. L’analisi MIA condotta da OF.COM pur
riconoscendo le ragioni di interesse pubblico coerenti con l’introduzione del nuovo
servizio HD rimarcò che la trasmissione del canale HD da parte della BBC avrebbe
potuto provocare degli impatti negativi sul mercato promuovendo un vantaggio
competitivo di BBC a discapito degli altri operatori. Il Trust subordinò pertanto
l’inclusione del servizio HD tra gli obblighi di BBC finanziati dal canone
all’accoglimento di condizioni atte a tutelare gli andamenti competitivi del mercato.
7.1 Segue. BBC iPlayer e BBC Store.
Il servizio BBC iPlayer consente la visione di tutta la programmazione BBC tramite la
piattaforma web: lo scopo del servizio è quello di offrire una programmazione del
tutto conforme a quella tradizionalmente fruibile tramite il mezzo televisivo o la
radio, ma secondo un uso personalizzato nel contenuto e nei tempi in ragione delle
specifiche esigenze personali dell’utente, nella modalità streaming e catch up tv.
Nel luglio 2013 fu sottoposta alle valutazioni del Trust l’opportunità di ampliare la
programmazione commerciale di BBC attraverso un BBC Store, dal quale acquistare
a pagamento tutti i servizi digitali prodotti dalla BBC effettuandone il download
tramite device (es. uno smartphone). La proposta mirava a recuperare le perdite
derivanti dal calo di vendite della programmazione BBC su supporto fisico (es. Cd e
Dvd) ma comportava anche un livello di integrazione con la piattaforma BBC Online
e con il servizio pubblico iPlayer. La modifica non fu reputata significativa.
Ciò evidenzia, tra l’altro, che l’innovazione tecnica non giustifica di per sé l’avvio di
un nuovo PVT, se di basso impatto. Fuori dei confini del Regno Unito la prestazione
assume carattere puramente commerciale pertanto è pagata dall’utente con un
contratto ad hoc.
8. Il futuro modello RAI: il disegno di legge A.S. 1880/2015.
Il servizio pubblico audiovisivo in U.K. presenta due pregi: può contare su un
concessionario sottratto alle ingerenze dell’Esecutivo-nominante grazie al
diaframma del Trust, e può disporre di un percorso per offrire nuovi servizi
compatibili con la mission pubblica e in linea con l’assetto competitivo.
Il broadcaster inglese ha dato buona prova di sustainability (prontezza nel
rispondere alle continue sfide), proponendosi come possibile modello di riferimento
anche per il legislatore italiano nel delineare il nuovo assetto della concessionaria
pubblica. D.d.l. A.S. 1880/2015 sulla Riforma della Rai e del servizio pubblico
radiotelevisivo. L’atto nella sua relazione afferma di voler seguire il duplice
obbiettivo di renderla nel contempo più efficiente e più autonoma dal
condizionamento politico allo scopo di accentuarne la funzione sociale di servizio
pubblico. Il d.d.l. consegna nelle mani del Governo la maggioranza del Cda. Ai due
componenti designati dal Governo si aggiunge un eletto dei due assegnati alla
Camera dei deputati, che esprimerà una volontà politica identica a quella
governativa, mentre al Senato in base al voto limitato un componente gradito al
governo sarà eletto o dalla maggioranza o dalla minoranza. Si mantiene il medesimo
riferimento politico-istituzionale anche per la figura di nuova istituzione
dell’amministratore delegato. Questo moto trova conferma anche nella scelta del
titolare del potere di revoca del Cda: l’Assemblea, cioè il ministro del Tesoro, in
conformità al parere della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la
vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Quindi se il Cda, una volta nominato, volesse
affiancarsi al Governo, rischierebbe di pagare la sua rivendicazione di autonomia con
la perdita del mandato. Non deve trarre in inganno il fatto che il disegno di legge
assegni attribuzioni sia al Governo che alla maggioranza parlamentare, perché
questa distribuzione di compiti è una diversificazione soggettiva solo apparente.
In conclusione, vi è una perfetta linea di continuità che inizia con la copertura degli
organi gestori della RAI e si conclude nel potere di direzione sulla stessa: una
coerenza che fa della Rai l’incaricata dello svolgimento di un servizio di Stato.
Quanto è ciò che il disegno di legge non dice, notiamo in primo luogo una delega
debole negli indirizzi; essa avrà a tema il riordino e la semplificazione delle
disposizioni vigenti anche ai fini del loro adeguamento, tenuto conto dell’evoluzione
tecnologica e di mercato, astenendosi dal dire come ridefinire la mission in ragione
delle nuove domande emerse dal progresso tecnologico.
9. La sua compatibilità con gli imperativi sovranazionali.
Proponiamo una lettura del disegno di legge secondo il parametro composto dagli
obblighi e dalle indicazioni del diritto sovranazionale sintetizzabili in tre interrogativi.
La prima domanda, cioè la necessità che il polo pubblico di riferimento si articoli in
soggetti distinti (il regolatore, il gestore e il controllore), viene disattesa dal ddl
1880, che riduce il pluralismo istituzionale alla volontà unificante del Governo o
della sua maggioranza parlamentare. Quindi, la prescrizione negativa per cui il
riferimento istituzionale per il gestore non può mai essere il Governo non viene
tenuta in conto (va ricordato che l’informazione indipendente è l’unica ragion
d’essere del servizio pubblico audiovisivo). Quanto alla seconda domanda,
l’individuazione puntuale della mission del s.p. è integralmente rinviata al decreto
delegato. Ciò suscita di per sé un dubbio quanto al rispetto dei requisiti prescritti
dall’art.76 Cost. Tale dubbio si aggrava considerando la centralità della mission per il
diritto comunitario. Infine, quanto alla terza domanda, la presenza di un
procedimento trasparente, obiettivo, motivato, partecipato e bilanciato per filtrare
la nuova prestazione da mettere sul mercato, sul modello del PVT, la risposta è
anch’essa rinviata al decreto delegato. In sintesi, il disegno di legge 1880 largamente
prescinde dal contesto normativo europeo, con tutto ciò che ne seguirebbe in
termini di legittimità comunitaria, se fosse definitivamente approvato senza
sostanziali modifiche.
10. La sua compatibilità con la tecnica.
Vediamo in che modo il ddl 1880 risponda alle due domande poste dalla tecnica:
evoluzione multi-piattaforma e switch-off dal digitale a Internet. Per rispondere alla
prima domanda il disegno di legge dovrebbe, nel definire la mission o nel dettare i
criteri per la sua successiva formulazione, aggiungere la “e-evolution” alla trilogia
anglosassone “information, entertainment and education”, assumendo in via
preliminare il compito di informare l’utente sull’usa consapevole e autonomo della
rete. Non è possibile dire se il servizio pubblico si fletterà o meno verso l’inclusione
digitale del cittadino-utente del web. Passiamo alla prospettiva futura dello switch-
off. Per quanto riguarda problemi come l’accesso a internet, la separazione dell’ISP
titolare dell’accesso alla rete dall’operatore che presta i servizi anche radiotelevisivi
online o la negoziabilità della rete solo a favore di interessi di pubblica utilità, manca
o è in ritardo la formulazione di un chiaro indirizzo del Governo, oppure emergono
posizioni che si possono considerare datate. Le domande poste dalla tecnica sono in
larga parte rinviate a decisioni politiche future e incerte. In conclusione, si possono
trarre da tali riflessioni, alcune indicazioni per il decisore politico. Quanto alle
nomine andrebbe valutata l’opportunità di coinvolgere nelle scelte organi neutrali e
di garanzia quali il presidente della Repubblica o la stessa Corte costituzionale.
Quanto alla mission, essa andrebbe disegnata in ragione di criteri qualitativi e
quantitativi in prima battuta da un legislatore sensibile ai nuovi compiti imposti dalla
tecnica, per poi essere puntualmente completata dalle Linee guida e dal Contratto di
servizio. Quanto alla combinazione della vocazione sociale con la lex mercatoria,
spetterebbe al legislatore imporre al concessionario il rispetto di una procedura di
PVT coerente col diritto dell’Unione, la cui esecuzione andrebbe affidata
interamente alla autorità di regolazione neutrale.

CAPITOLO 4
"La dichiarazione dei diritti in internet" in Italia ,ha suggerito di seguire un iter logico
per prevenire il terrorismo nei confronti della libertà. Ovvero: esaminare le
caratteristiche della legge della paura, ovvero i rimedi legali contro il Terrorismo;
esplorare i principali esempi di leggi antiterrorismo in itinere o già adottato in
Europa e negli Stati Uniti; proporre, infine, un modello di “Legge della paura”
adeguato ai criteri di legittimità costituzionale e coerente con le garanzie poste dalla
citata Dichiarazione. Il modello sopra citato intende prevenire che il pericolo di un
evento futuro possa trasformarsi in un danno effettivo e certo. Il legislatore in
questo caso dovrebbe equilibrare i beni costituzionalmente rilevanti, ma ciò non
accade in quanto i beni entrano in vigore in momenti diversi. La legge della paura ha
due identitarie : la natura eccezionale e provvisoria delle sue regole. Queste regole,
essendo un'eccezione ai principi generali, devono essere interpretate in modo
restrittivo e avere una validità predefinita nel tempo. Quindi, in mancanza dello
stato di emergenza, il regime speciale termina e si riprende il corso ordinario degli
eventi. Ciò significa che, allo scadere della clausola di caducità, la legge di
emergenza non dovrebbe essere estesa se non in casi estremi. Diversamente,
l'eccezione si sostituirebbe alla regola generale e la compressione della libertà in
vista di un incerto vantaggio futuro non sarebbe più compensata da un solo
regolazione temporanea asimmetrica. Anche altri paesi dell'Europa hanno
adoperato a delle precauzioni in seguito ad atti di terrorismo; il Regno Unito ha
isolato le persone sospettate di terrorismo, ritirando i loro passaporti per impedirne
l'ingresso o l'uscita dal paese. Gli States hanno stanno cercando di criptare delle
conversazioni su Skype, Whatsapp e qualsiasi dispositivo, costringendo i proprietari
di queste piattaforme a creare le cosiddette backdoor, andando però a nuocere sulla
nostra privacy. Nonostante alcune nazioni, come la Francia, si sono dichiarate
contrare alle misure a favore dello spionaggio di Stato, adottate nella recente legge
sull'intelligence, dichiarano il contrario. In che modo? Conservando le conversazioni
telefoniche e le comunicazioni online dalle telco e dagli IPS operanti nel territorio
francese per un periodo di tempo molto lungo. Se richiesto, le suddette società
dovranno trasmettere tali dati all'intelligence, solo se autorizzati dal presidente del
Consiglio. Ma in caso di emergenza, non c'è nemmeno bisogno dell'autorizzazione
politica del presidente del Consiglio, che si converte in un'eventuale revoca. Mentre
nel sistema americano c’è bisogno dell’autorizzazione del giudice prima della
raccolta di dati telefonici e on line degli utenti, il DDL francese consente di acquisire
sia il contenuto telefonico che le email, non prestando attenzione al divieto imposto
dalla corte di giustizia europea. La corte, infatti, afferma che le finalità e i mezzi di
raccolta dati devono essere definiti e adeguati, anche se viene sacrificata la
riservatezza nei limiti della necessità. Questa sentenza annulla la direttiva UE
24/2006 che obbligava la TELCO e la IPS a conservare i dati per 2 anni e inoltre detta,
implicitamente, le modalità di detenzione relativamente alla forma e alla finalità,
stabilendo che l’ordine del giudice o di un I.A. deve soffermarsi non sulle persone
comuni ma sui sospettati di terrorismo limitatamente a informazioni e obbiettivi
specifici. Per il disegno di legge francese, invece, vengono acquisiti i contenuti senza
considerare la privacy e senza l’intervento di un giudice ma con una semplice
autorizzazione politica, e questo viene applicato a tutti i sospettati anche i cittadini
comuni. Tutto ciò rende vano le affermazioni di illegittimità della corte di giustizia in
relazione alla presunzione di colpevolezza, al tempo illimitato e all’assenza di un
giudice, da questo non si può più considerare l’accordo tra USA e Europa che
prevedeva lo stesso trattamento dei dati, quindi i dati in Europa vengono considerati
a rischio grazie alle leggi francesi italiane ed inglesi, in America invece, la nuova
normativa protegge i dati in favore della privacy. Il decreto legge recante “misure
urgenti contro il terrorismo” ha tre punti critici: la legge aggiunge nuovi reati o
aggravanti, in particolare reintroduce i reati basati su presunto pericolo, questi sono
stati giudicati di dubbia legittimità dalla nostra corte costituzionale. Il ministero
dell’interno deve stilare delle liste nere per i siti sospettati di essere collegati al
terrorismo, previa verifica del giudice, per poi trasmettergli agli I.S.P. per la loro
chiusura. I dubbi di legittimità riguardano il potere del giudice che soddisfa tale
legittimità solo se di natura sostanziale; introduce una disciplina derogatoria alla
legge sulla privacy, d.lgs. 196/2003 senza una ragionevole giustificazione. In realtà
bisognerebbe modificare il decreto legge per garantirne la legittimità costituzionale,
in particolare: chiarire la natura sostanziale del potere del giudice sulle liste;
cancellare i reati contra constitutionem; ridurre allo stretto necessario le deroghe
alla legge sulla privacy.
5. verso una nuova legge di emergenza?
La lotta al terrorismo ha portato a violazioni significative dell’ordine costituzionale,
di seguito alcuni rimedi che potrebbero condurre alla legalità i regimi di emergenza
e come la dichiarazione italiana potrebbe perseguire tale obbiettino: nel sistema
statunitense bisogna considerare la separazione dei poteri, i quali non possono
essere ridotti ad una sola cosa (reductio ad unum il potere) anzi, proprio in periodi di
emergenza, per ragioni di controllo democratico, devono essere tenuti separati. In
particolare la stessa valutazione di emergenza deve essere restituita al congresso,
ed invece, sfruttando l’assenza di una separazione delle competenze nella
costituzione americana, resta nelle mani dell’istituzione presidenziale; quanto al
diritto non ancora costituito (de iure condendo) si dovrebbe condurre il legislatore,
sia americano che europeo, al rispetto di precauzione e proporzionalità, soprattutto
in situazioni di pericolo per i diritti e per la stessa democrazia. Questi principi di
precauzione e di proporzionalità sono già presenti nelle costituzioni esistenti, e già
sviluppate nella giurisprudenza, quindi il legislatore deve limitare la compressione
dei diritti facendo corrispondere, tale compressione, al un vantaggio per un valore
contrapposto, altrimenti si avrebbe un regolamento illegittimo e politicamente
inadeguato. Infatti la dimostrazione sta nel fatto che i controlli estesi sui movimenti
reali e virtuali dei terroristi non hanno evitato le loro azioni crudeli, controllare tutti
e come non controllare nessuno. Solo l’azione preventiva risulterebbe efficace se
mirata a obbiettivi specifici. Un altro rimedio potrebbe essere la proposta di
Ackerman, il quale, nel sistema statunitense, vorrebbe imporre al legislatore di
riesaminare la normativa transitoria: la proroga di una legge potrebbe essere
subordinata a maggioranze politiche progressivamente qualificate e crescenti. Ma in
Europa questo sarebbe di difficile applicazione perché implicherebbe emendamenti
costituzionali. In generale l’efficacia dell’ordine costituzionale si basa sul fatto che le
misure derogatorie non sovvertono il nucleo di tale ordine. L’emergenza ha ricevuto
un mandato per preservare il sistema legale in pericolo , il limite genetico di
eventuali leggi dispregiative, se superato, comporta la violazione della stessa legalità
per la quale la legislazione di emergenza è chiamata a difendere. Il potere
dispregiativo di queste leggi deve essere limitato nel tempo per assicurare il ritorno
allo stato di normalità, infatti le violazioni dell’ordine costituito altererebbero il
nucleo sia dei principi fondamentali che delle libertà dell’ordine costituzionale,
impedendo il ripristino dell’identità originaria dello stato di normalità. Una soluzione
potrebbe essere quella dei controlimiti, che normalmente pone limiti alla
preminenza del diritto sovranazionale su quello nazionale, applicato nel rapporto tra
legislazione ordinaria e straordinaria, potrebbe considerare un minimo intoccabile
che potrebbe essere annullato anche dal potere di eccezione. Il potere di emergenza
è sempre un potere costituito e quindi soggetto ai requisiti dello stato di diritto,
deve rispettare il quadro costituzionale, in assenza di quest’ultimo sarebbe un
potere costituente. Di fatto se l’emergenza non è contenuta entro i confini dello
stato di diritto altrimenti l’introduzione di una legge eccezionale nasconderebbe un
nuovo ordinamento giuridico politico, volto a sostituire illegittimamente quello
esistente. I valori della democrazia devono essere sempre prevalenti, i diritti
fondamentali e le garanzie della democrazia vanno difesi in particolare in tempi di
crisi. Questo stesso presupposto lo si ritrova nella dichiarazione dei diritti di
internet, in merito al diritto di accesso ad Internet, che oggi viene considerato un
diritto fondamentale. La dichiarazione dei diritti afferma che il diritto di accesso non
può essere subordinato a limitazioni di bilancio o restrizioni della spesa pubblica, lo
stato deve garantire a tutti una risposta adeguata, la dichiarazione potrebbe essere
di esempio ai legislatori nazionali e ai policy maker internazionali, infatti è
l’innovazione più significativa per l’approccio alla regolamentazione di internet fino
ad ora adottata.

Capitolo 5
Le questioni da affrontare circa il rapporto tra libertà e copyright sono tre e
riguardano tutte le Autorità indipendenti, che lo hanno regolato nel nostro
ordinamento. Procediamo con ordine.
1) le Autorità Indipendenti sono “istanze di regolazione” idonee a rendere una
prestazione di garanzia? Innanzitutto, lo scopo delle AI sarebbe quello di allontanare
il rischio che le libertà siano nella disponibilità del comando politico di maggioranza
in certi settori. In verità, le AI non decidono e non si comportano in maniera molto
differente dal legislatore: nulla ci assicura che la loro azione regolativa introduca
nell’ordinamento una misura di composizione del conflitto equilibrata. I parametri
valoriali dell’AI sono suoi propri come lo sarebbero quelli del legislatore, con la
differenza che le AI operano in settori specifici e che l’AI non deve confrontarsi con
altre volontà diverse dalla propria, come accadrebbe in Parlamento. Prendiamo ad
esempio il caso della violazione del copyright su internet. L’AI ha comparato più
interessi in gioco. Ha ritenuto primaria la tutela del diritto d’autore, dunque della
proprietà intellettuale e dei consequenziali interessi economici. In questo senso da
comprimere è l’interesse del titolare della pagina web a diffondere il pensiero, che si
comprime. La stessa AI predispone, poi, le sanzioni e preferirà modalità repressive
(come pulizia siti e disabilitazione all’accesso) e non pecuniarie. Si tratta sempre e
comunque di scelte valoriali dell’AI. Quindi si comporta come un policy maker con la
differenza che è un organo estraneo al circuito rappresentativo e che esercita in
contemporanea poteri regolativi, esecutivi e giudicanti. Un profilo discutibile è
quello dei poteri concessi all’Autorità. Nell’Autorità coincidono i due ruoli di
legislatore primario e regolatore secondario, ciò per inerzia del legislatore, che si è
limitato a istituirle senza neppure dettare un principio minimo di disciplina
sostanziale della materia. Si è così delegato tacitamente alle Autorità di disegnare ex
novo la regola dell’equilibrata coesistenza tra valori antagonisti, affidati alle loro
cure. Qui risiede il problema: in teoria, il legislatore potrebbe anche assegnare
potestà normativa ad un altro soggetto estraneo, purché sia lui a designare in
anticipo contenuto, condizioni e limiti. Quindi, secondo l’assetto costituzionale
vigente, per i profili della gerarchia delle fonti e della riserva di legge, il legislatore
dovrebbe fissare la disciplina e l’Autorità soltanto osservarla. Tuttavia, i regolamenti
dell’Agcom di secondario hanno solo la forma. Costituiscono un ibrido:
sostanzialmente hanno la forza attiva di una legge, formalmente il regime giuridico
di un atto secondario. Ovviamente il cittadino paga le conseguenze in termini di
minori garanzie procedimentali e processuali: non c’è la trasparenza dell’iter
normativo e il regolamento non è giustiziabile davanti alla Corte costituzionale. In
un’ultima analisi, dobbiamo ribadire come l’Autorità non sia nominata sulla base del
principio di rappresentatività, base della legittimazione e della responsabilità
politica. La dottrina ha provato a trovare un fondamento di legittimità a questi
poteri al limite della legalità costituzionale. Distinguiamo diverse tesi:
- le AI emanano atti di carattere tecnico e non politico. La De Minico non condivide
la posizione. Nella fase costitutivo-volitiva non c’è nulla di tecnico;
- partecipazione al procedimento come titolo sostitutivo del difetto di legittimazione
rappresentativa delle A. La modalità di decisione dell’Autorità è trasparente e
risente del contributo dei regolati. Questo basterebbe a sopperire alla mancanza di
rappresentatività. In realtà la rappresentanza di interessi (propria dell’autorità) è
solo una parte della rappresentanza politica (che interessa più profili e valori della
persona);
- l’A. può esercitare quel tipo di potere grazie al diritto comunitario che glielo
attribuisce. Ma il diritto comunitario non può prevalere su profili costituzionali
interni e fondamentali come l’art 1 (in virtù del quale la funzione di indirizzo politico
spetta al circuito Corpo elettorale-Parlamento-Governo). Oltretutto la stessa
Unione, nel disciplinare le proprie AI, non ha previsto un indistinto potere “in
bianco” per esse. Ad esempio, il BEREC è soggetto comunque alla Commissione, così
come i poteri delle nuove Autorità in settori di vigilanza bancaria, assicurativa e
finanziaria sono comunque vincolati dalle previsioni della Commissione.
- c’è chi ha proposto di inserire le AI in Costituzione attraverso il meccanismo
dell’art. 138 C. Il 138, però, consentirebbe solo modifiche che lascino invariata
l’architettura di fondo dell’ordinamento mentre introducendo un soggetto con
poteri normativi, come le Autorità, ci sarebbe un ordine inedito.
2) Il regolamento sul copyright (680/13/CONS) protegge le libertà fondamentali
della persona? Innanzitutto, risulta difficile capire quale sarebbe la norma di legge
cui poter fare riferimento per legittimare il regolamento, che è atto secondario. Non
sembra che il d.lgs. 44/2010 possa assumere questo ruolo. Per continuare questa
analisi, assumiamo che sia la legge del diritto d’autore del ’41, tenendo a mente che
se davvero non ci fosse un riferimento legislativo, ci sarebbero profili di
incostituzionalità tali da rendere nulli tutti gli atti dell’Agcom in materia. In ogni
caso, il regolamento sembra comunque fare da legge di se stesso, poiché riunisce in
un unico atto la decisione politica e quella di alta amministrazione. La responsabilità
di tutto ciò è propria di un legislatore inerte a cui si è contrapposta un’Autorità
iperattiva, iperattiva a tal punto da disciplinare persino materie non attribuitele
neanche dal decreto 44 (il regolamento si mostra inosservante del principio di
gerarchia delle fonti, imponendo il dovere di vigilanza anticipata e generalizzata a
carico degli ISP, i quali non dovrebbero essere i destinatari delle sue norme). Infine,
l’Agcom compie una valutazione arbitraria e in contrasto con l’ordine dei valori
costituzionali quando predilige l’iniziativa economica ex art 41 C. rispetto a diritti
fondamentali di informazione, di accesso a internet ect. Infatti, è proprio questo che
accade a tutelare come bene primario lo sfruttamento patrimoniale dell’opera di
ingegno. Il regolamento sarebbe anche in contrasto con il diritto dell’UE quando
prevede una sorta di dovere di vigilanza generalizzato agli ISP escluso dalle Direttive
E-commerce e sul copyright. Secondo il sistema previsto dal regolamento, l’ISP che
non rimuove il contenuto illecito a seguito di notifica derivante dal sommario
accertamento dell’A, sarebbe corresponsabile della violazione. Oltre ad essere in
contrasto con le previsioni comunitarie, si prevede qui la possibilità di compiere una
rimozione che spetterebbe all’autorità giudiziaria. Ancora appare ormai chiaro che
l’Autorità non ha compiuto quel “balancing test” degli interessi in gioco. Infatti, il
sacrificio di chi subisce la sanzione dell’autorità non è compensato da vantaggi
economici equivalenti (l’opera rimossa potrebbe restare nel web, essere ricopiata
ect). Forse più opportuno sarebbe stato immaginare pene intermedie e graduabili
che avrebbero evitato l’estinzione del diritto di parola del titolare della pagina web o
del diritto della libera navigazione dell’utente. Si tenga conto, poi, che la rimozione
del contenuto/disabilitazione all’accesso sono successivi ad un’analisi dell’autorità
solo sommaria. Per tutti questi profili, il regolamento sarebbe suscettibile di un
infringment da parte dell’UE, ma esso si rivolgerebbe non all’A, bensì allo Stato che
ha degli impegni verso la comunità sovranazionale. Stato che in ogni caso non può
intervenire sugli atti di un’AI. Forse l’Agcom avrebbe dovuto prestare più attenzione
e interpretare secundum Constitutionem il decreto, determinandosi nel senso di
non disciplinare la materia mancando un titolo certo attributivo del potere o almeno
evitando qualsiasi enlargement of power. Un profilo interessante è quello della
riserva di giurisdizione. Il decreto 44, nella sua prima versione, prevedeva che l’A.
potesse verificare la lesione o meno del copyright precludendo il successivo
intervento del giudice. In altri termini, una volta utilizzato il rimedio amministrativo
non si poteva utilizzare quello giudiziale. Tale rimedio amministrativo oggi, a seguito
di modifiche, non è preclusivo del trasferimento della questione in sede giudiziaria.
Quindi non ci sarebbe violazione della riserva di giurisdizione? In realtà riserva e
cumulo sono incompatibili, riserva significa che solo un certo soggetto può
disciplinare una certa materia. Sembra paradossale come in Francia e Stati Uniti,
paesi che a differenza del nostro non riconoscono esplicitamente in Costituzione la
riserva di giurisdizione come mezzo di tutela del valore oggettivo delle libertà
fondamentali, si sottolinei il monopolio del giudice sull’intreccio tra libertà di parola
in Internet e diritto d’autore. In linea di massima, il correttivo introdotto dalle
modifiche elimina un iniziale motivo di illegittimità, ma non risolve del tutto il
problema. Secondo l’Autrice sarebbe stato più opportuno che l’AI avesse
interpretato il decreto 44 in maniera conforme alla costituzione, cioè rispettando la
riserva di giurisdizione prevista in materia di libertà. Dunque, avrebbe dovuto
proporre non un procedimento davanti a sé, ma una sorta di composizione
stragiudiziale alternativa al giudizio, una fase preventiva e non decisoria della futura
eventuale lite. Quale potrebbe essere una potenziale soluzione quanto meno in
termini di idonea sanzione? L’Autrice ritiene che le attuali sanzioni ripristinatorie
previste dal regolamento non siano idonee, visto e considerato che comprimono
eccessivamente delle libertà fondamentali costituzionalmente garantite e dal
momento che non esistono sanzioni idonee a determinare una pulizia a fondo della
rete o un’inaccessibilità del sito. La proposta avanzata dalla De Minico è quella di
sanzioni pecuniarie, previste anche dal Digital Millenium Copyright act. Queste
sarebbero composte da una parte compensativa rispetto al danno subito dal titolare
del diritto d’autore e un quid pluris aggiuntivo tale da punire l’autore dell’illecito e
fungere da deterrente. Solo in questa accezione produttrice di un effetto afflittivo-
deflattivo possiamo bilanciare gli interessi in gioco e allo stesso tempo implicare
meccanismi di prevenzione di futuri illeciti (unica sanzione efficace). Così, infatti, il
potenziale trasgressore potrebbe preferire pagare per l’acquisto dei diritti piuttosto
che rischiare di subire una sanzione ben più salata.
3) A chi rivolgere il nostro bisogno di protezione e quali compiti rimettere alle AI,
ricondotto il loro mandato nei giusti confini? Sulla base di quanto abbiamo
constatato possiamo trarre alcune conclusioni. Scartata l’idea da taluni proposta di
inserire l’AI in Costituzione, la soluzione migliore sarebbe quella di attribuire
semplicemente a ciascuno il suo (unicuique suum). Quindi al legislatore, legittimato
da un potere rappresentativo, l’onere di creare una disciplina tale che normi
oggetto, fini, criteri e condizioni del potere regolamentare dell’A. affinché i suoi atti
normativi abbiano un ruolo intermedio tra legge e regolamento esecutivo. Questo è
ciò che è stato efficacemente fatto in Francia. La necessità di lasciare la disciplina di
diritti e libertà all’organo rappresentativo è stata sentita anche in US con un disegno
di legge volto a disciplinare il rapporto tra privacy e sicurezza a seguito della vicenda
Datagate. Il disegno di legge rafforza la centralità del Congresso a discapito dei
poteri del NSA (agenzia governativa di intelligence e NON AI). In conclusione, la
soluzione per risolvere le varie questioni sulla legittimità del potere regolamentare
dell’ A.I. è assegnare competenze in linea con la regola dell’institutional balance e
con la natura stessa delle istituzioni e fare sì che le misure attuate siano conformi ai
valori costituzionali e alla loro gerarchia.
Capitolo 6
1. Le domande della net neutrality
Il grande successo di Internet è venuto dal suo essere aperta all’innovazione
prodotta da quelle realtà che ne hanno tratto un vantaggio imprenditoriale ma al
tempo stesso hanno portato la rete a incidere concretamente sulla crescita
economica, sociale e politica di molte persone. Solo favorendo le new entries e il
ricambio dei players potremo assicurare che la rete continui a essere lo strumento
globale di crescita e sviluppo che è stata finora. Si parla di net neutrality. Essa manca
di una definizione univoca, ma trova il suo contenuto minimo nel divieto per il
fornitore dell’accesso alla rete di discriminare in qualità e velocità contenuti,
applicazioni e servizi offerti da chi vuole diffonderli alla comunità indifferenziata dei
naviganti in Internet.
La net neutrality pone tre domande di fondo.
- E’ necessaria una norma imperativa a garanzia della neutralità della rete?
- In caso di risposta positiva, qual è il soggetto chiamato a porla?
- E infine, con quali contenuti?
2. Diritti e doveri nella relazione tra il fornitore di accesso e il fornitore
di contenuti in Internet.
Il primo mercato vede l’incontro tra due soggetti economici: il fornitore dell’accesso
a Internet e chi ne fa domanda.
A) Ricordiamo in breve la natura di Internet. Si tratta di uno spazio immateriale, ma
non astratto, che si offre per una nuova compresenza di libertà e diritti, il quale non
può che appartenere a tutti e quindi a nessuno. Da qui l’intolleranza di Internet
all’alternanza concettuale pubblico/privato e la sua vicinanza alla categoria dei beni
comuni, in quanto la rete si presta ad un uso indifferenziato, simultaneo ed
equiordinato a vantaggio dell’intera collettività.
La rete è essenziale per compiere la dimensione costituzionale della persona,
pertanto diventa un bene indispensabile e come tale va assicurata non solo a chi è
già presente e quindi ne può disporre ma soprattutto a chi verrà. La rete si sottrae a
pretese dominicali esclusive; quindi, colui che fornisce l’accesso non è libero di
decidere se e a quali condizioni mettere a disposizione la sua azienda (cioè la
capacità trasmissiva di rete). Egli è invece tenuto a condividere byte con chiunque
glieli chieda e a riservare loro pari trattamento negoziale (trattare le domande di
accesso in modo uguale).
B) All’analisi della rete come bene comune si affianca la ricostruzione della stessa
come essential facility di un’attività d’impresa. La rete virtuale è uno strumento
indispensabile per consentire l’esercizio dell’iniziativa economica online.
I fornitori hanno il diritto a ricevere condizioni negoziali imparziali secondo il
principio dell’equal treatment. Il fornitore di contenuti vanta nei confronti dello
Stato una libertà economica, la quale esige che lo Stato si attivi creando obblighi
positivi a carico del fornitore (messa a disposizione dei byte secondo parità), nel
momento in cui lo Stato avrà adempiuto e quindi la condizione di effettività della
libertà economica si sarà avverata, lo stesso diritto chiederà allo Stato l’inerzia. La
disciplina della net neutrality previene che sul mercato a monte si creino situazioni
di ingiustificato vantaggio a favore di alcuni fornitori dei contenuti e quindi a danno
di altri. Deve essere il consumatore a selezionare il migliore.
C) La rete deve essere vista come strumento necessario per l’esercizio di libertà nel
caso in cui il servizio del fornitore punti all’obiettivo di mettere pensieri e idee a
disposizione dei naviganti. Prevale la concezione di rete come strumento essenziale
per l’esercizio di una libertà. Già la Corte costituzionale aveva affermato
l’inscindibile endiadi tra libertà e accesso al mezzo, subordinando questo al limite
del “tecnicamente possibile”, limite che è applicabile anche alla rete. In tale
contesto, la tutela delle libertà si traduce nella parità di accesso alla rete che diventa
l’unico modo per garantire che tutti siano uguali nel manifestare il proprio pensiero.
3. I diritti e gli obblighi nella relazione tra i fornitori di accesso (o
contenuti) e il consumatore-persona.
Due soggetti: il navigante e il fornitore dell’accesso (soggetto passivo).
Il diritto ad essere informato del navigante si esercita verso chiunque, il quale si
dovrà astenere dal porre in essere atti che possano impedire o restringere questo
diritto. Il fornitore dell’accesso alla rete nell’accordare priorità ad un contenuto e di
conseguenza ne rallentare un altro, sceglie per il consumatore le idee che lo
debbano raggiungere in anticipo risetto alle altre. Il comportamento discriminatorio
del gatekeeper non solo lede il diritto all’iniziativa economica dei fornitori di
contenuti, ma consuma anche la libertà di scelta del cittadino della rete. Ritornando
alla net neutrality, vediamo che il diritto dell’utente finale rispetto al flusso
informativo si risolve nel poter scegliere liberamente tra una pluralità di servizi,
contenuti e applicazioni quello che gli è più gradito. Internet sarà all’altezza del
ruolo assegnatole in quanto si sia realizzata tale condizione: ogni idea deve poter
accedere liberamente al mercato digitale senza filtri all’origine, diversamente chi
naviga pensa di poter trovare in rete tutto ciò che esiste ma finisce poi per reperire
solo quanto i gatekeeper vogliono fargli trovare. Questa fictio iuris di Internet che
pretende di mimare un illimitato e mutevole mercato delle idee, ha la sua unica
garanzia nell’attributo dell’inviolabilità, il quale si fa valere, non solo nei confronti
del soggetto pubblico ma, come esige la sua natura di diritto assoluto, verso
chiunque. Nelle contrattazioni sul mercato a monte tra il fornitore dell’accesso e il
fornitore dei contenuti non si deve dare priorità a un contenuto e trascurare quello
del produttore estraneo all’accordo, in quanto quest’ordine imposte all’accordo tra
il contenuto velocizzato e quello rallentato si trasmette nel rapporto con il
consumatore-persona alterandone le preferenze che in mancanza dell’accordo si
sarebbero orientate verso una scala di opzioni personali. Il dialogo economico tra il
mercato a monte e la piazza virtuale a valle ha messo in luce il bene ultimo affidato
alle cure della net neutrality: la libertà di essere informato di ciascuno di noi, come
possibilità di scegliere in rete quello che più ci aggrada. L’iniziativa economica dei
fornitori, inizialmente promossa a valore assoluto da difendere, è ricondotta a bene-
mezzo volto al soddisfacimento di un fine: la crescita dell’individuo proiettata verso
la sua piena inclusione nel processo politico-democratico.
4. Regola imperativa o autoregolazione sulla net neutrality?
La natura di Internet come bene comune lo rende indisponibile all’autonomia
negoziale, intesa come fonte regolativa non preceduta da una cornice imperativa. Se
la net neutrality fosse oggetto di una negoziazione tra fornitore di accesso e
fornitore di contenuti sarebbe inevitabile il suo dissolversi nell’interesse privato dei
contraenti. Vi è la necessità che la disciplina della net neutrality sia posta da una
norma imperativa, che definisca in anticipo le ragioni giustificative di una deroga
negoziale alla net neutrality. Prendiamo le distanza dalla tesi che vede in Internet il
“paradiso dell’autoregolamentazione”. Tale tesi promuove l’autoregolazione a fonte
idonea a creare un sistema di regole dirette a orientare le condotte dei consociati
verso fini comuni prestabiliti. È ancora da provare la capacità della rete autoregolata
di proteggere categorie meritevoli di tutela aggiuntiva. Si mostra invece alto il
rischio che i minori, i cittadini della rete o i nuovi operatori economici uscirebbero
perdenti da una negoziazione con i gruppi privati forti, perché la parte forte
orienterà le trattative, e quindi l’accordo finale, a suo vantaggio. Diventa necessario
un intervento eteronomo che pareggi le disuguaglianze con norme asimmetriche
attente al contraente debole, e volte ad annullare il vantaggio iniziale di quello più
forte. La norma imperativa anticipa e pre-definisce almeno per grandi linee principi
e regole già cogenti destinati alla rete. L’art. 14 della Dichiarazione dei diritti in
Internet riconosce la primazia del diritto imperativo nel disporre che “la costruzione
di un sistema di regole deve tener conto dei diversi livelli territoriali, delle
opportunità offerte da forme di autoregolazione […]”. La necessità di una net
neutrality imposta da una norma cogente pone la domanda in merito alla fisionomia
del suo autore. In relazione a ciò, vi sono certezze e zone d’ombra. Quanto alle
certezze esse attengono alla natura necessariamente sovranazionale del futuro
decisore della net neutrality. I comportamenti degli attori virtuali hanno una
diffusività globale, pertanto a condotte universali si potrà rispondere solo con una
regola conformativa, affrancata dai confini territoriali proprio del diritto statuale.
Quanto alle zone d’ombra invece, la soluzione statale vanta un’ampia esperienza nel
rule-making che però non ha dato buona prova di sé almeno quanto alla capacità di
sintetizzare efficacemente il bene sovranazionale. A questo punto potrebbe
guadagnare terreno l’idea di un legislatore di Internet coincidente con il suo stesso
popolo. Questa soluzione incontra il bisogno sovranazionale, ma produce problemi
connessi a una pluralità non identificata di soggetti esponenziali. Avanziamo una
terza ipotesi: un organo autoritativo mi sto, pubblico e a genesi spontanea, una
sorta di trasposizione soggettiva del diritto ibrido. Tra le opzioni possibili non è dato
al momento scegliere o fare previsioni, in quanto manca un’indicazione univoca o
almeno ampiamente condivisa. Questa interazione tra pubblico e privato, tra livelli
decisionali internazionali e piani statali non esaurisce in sé ogni manifestazione della
giuridicità, ma riserva un ulteriore spazio anche alle carte dei diritti, le quali
custodiscono valori politico-sociali in cui naviganti e imprenditori digitali trovano
una parte di sé. Questi Bill of Rights, anche se privi di forza cogente, andrebbero
presi in considerazione dall’inedito legislatore sovranazionale quando si appresta a
scrivere le regole sulla rete, e tra queste anche quella della net neutrality.Per
esempio, ricordiamo che la Dichiarazione dei diritti di Internet ha dedicato una
disposizione ad hoc alla net neutrality (art. 3) ricentrando il discorso giuridico sulla
funzione sociale della neutralità che unitamente al diritto di accesso sono condizioni
per l’effettività dei diritti fondamentali della persona. La capacità orientativa dei bill
rispetto alla discrezionalità del legislatore varierebbe a seconda della ragionevolezza
del loro contenuto e del consenso sociale raccolto intorno ad essi. L’idea che si
propone è di riconosce a questi bill un significato extra-giuridico, come parametri di
orientamento per il decisore politico.
5. In che misura il Regolamento sul Digital Single Market ha obbedito a
questo modello?
Il Regolamento europeo si rivela poco rispettoso della vocazione sovranazionale
della disciplina della rete perché nell’art. 3 comma 3, disegna un sistema regolativo
che rimette agli Internet Service Providers (ISPs) la decisione sulla specialità del
servizio.Per prestazioni specializzate si intendono i servizi le cui caratteristiche
tecniche richiedono una velocità maggiore rispetto a quella bastevole per i servizi
privi di quegli attributi; se i primi fossero trasmessi a velocità ordinaria non
potrebbero essere utilmente fruiti dal consumatore digitale. Durante l’iter del
Regolamento non sono mancati tentativi diretti a definire il concetto di servizio
specializzato abbinando le caratteristiche del servizio alla sua insostituibilità. In
questo modo si sarebbe assorbita nei limiti del possibile la discrezionalità degli ISPs.
L’inosservanza di questa tecnica redazionale si è risolta in un dettato normativo
privo di prescrittività perché composto da linee guida che richiedono una successiva
articolazione in norme di condotta. Quindi, il decisore politico europeo ha affidato il
compito di tradurre i principi in regole ai soggetti privati (autori del contratto di
interconnessione), i quali favorendo dietro corrispettivo economico prestazioni
presentate come speciali, violano la regola dell’uguaglianza di trattamento in nome
di un’osservanza solo formale della net neutrality. Le medesime considerazioni
valgono anche per la decisione, girata dallo stesso Regolamento, inerente
all’imminente congestione della rete, ragione che giustifica una gestione
differenziata del traffico. Il Regolamento prevede che il BEREC detti le linee guida
orientative dei compiti delle singole Autorità Nazionali di Regolazione (ANR), le quali
sono i controllori degli accordi di interconnessione in deroga alla net neutrality. Non
vi sono ragioni per ritenere che lì dove sia fallito il legislatore europeo riesca invece
il BEREC; se neppure in seno a quest’organo si dovesse raggiungere il consenso sulla
categoria dei servizi specializzati, spetterà alle singole ANR chiudere il cerchio. L’atto
del BEREC sarà un atto di soft law, quindi non vincolante per il destinatario che potrà
discostarsene motivando. In conclusione, il Regolamento è un atto che non pone già
regole immediatamente operanti nei rapporti intersoggettivi, ma principi, la cui
traduzione in precetti compete al BEREC, e in mancanza alle ANR o agli Stati
membri. Si tratta di un Regolamento lontano dalla categoria di appartenenza,
perché il suo contenuto lo avvicina piuttosto alle Direttive. Se lo strumento consiste
nel ricorso a discipline differenziate per territori o autori, il risultato del mercato
unico non è più disponibile in concreto. Con il Regolamento si dice di volere un’unica
piazza per gli scambi digitali, ma poi la si polverizza in tanti frammenti quante sono
le diverse identità politiche nazionali.
6. Modalità di struttura della regola sulla net neutrality
Aver incentrato il dibattito in merito alla net neutrality sulla libertà fondamentali ad
essere informato del consumatore ci consente di individuare i parametri ai quali
legislatore si sarebbe dovuto attenere nell’imporre il rispetto della regola della net
neutrality.
A) La rule of law come criterio inderogabile. La disciplina dovrà essere posta da una
legge che sia adeguatamente accessibile e in grado di offrire un precetto
comprensibile, formulato con precisione sufficiente per consentire al cittadino di
regolare la sua condotta. Il Regolamento europeo non risponde a questa esigenza di
chiarezza perché nel consentire al fornitore dell'accesso di accordare una velocità
differenziata ai servizi specializzati rispetto a quelli ordinari non spende neanche una
parola per definire i primi; il Regolamento, cioè l’atto che dovrebbe contenere
regole astratte, generali e chiare, affida la definizione delle priorità all’accordo di
fornitura tra i due operatori del mercato a monte. Quindi, sarà sempre un negozio
privato a disporre di libertà fondamentali e diritti economici in violazione dei principi
della rule of law del diritto comunitario e sovranazionale. La fonte che ha preceduto
il Regolamento, cioè il Regolamento della Federal Communication Commission ha
dettato indicazioni più stringenti, rinvenibili in due elementi. La FCC dopo aver
fissato la regola del divieto di discriminazione non si è limitata a girare in bianco
questo potere normativo agli operatori economici del mercato a monte, ma lo ha
trattenuto a sé riservandosi di esercitarlo in sede di linee guida, le quali saranno
osservate dagli operatori in quanto la stessa FCC si è riservata il potere di controllare
ex post la legittimità del negozio sull’accesso. In sede europea ciò che conta è che le
Autorità di Regolazione siano informate di un eventuale accordo lesivo della net
neutrality, e di conseguenza della libertà della persona; anche quest’ultima deve
essere informata, tuttavia una volta che le notizie siano resi disponibili il danno alla
libertà fondamentale rimane e non è rimediabile.
B) La rule of law è stata disattesa quanto al requisito della chiarezza. Esaminiamo
quindi gli ulteriori criteri cui il legislatore si dovrà attenere. Egli nel limitare un diritto
dovrà valutarne in anticipo l’indispensabilità, inoltre nel regolare i diritti e le libertà
contrapposti dovrà comprare il danno procurato al diritto che arretra con il
vantaggio accordato al diritto che avanza così da assicurare un equilibrio secondo il
principio della proporzionalità. Questo confronto tra valori confliggenti dovrà
svolgersi tra beni-interessi di pari dignità. Applicare il principio di proporzionalità alla
net neutrality comporta che il legislatore potrà derogare alla parità di trattamento
tra i diversi fornitori dei contenuti. Zero-rating: con tale formula si intende un
accordo che può intervenire tra fornitore della connessione e il fornitore del
servizio, quest’ultimo dietro il pagamento di un corrispettivo ottiene il suo servizio
arrivi all’utente finale, sottratto dal quantitativo massimo di dati disponibili
mensilmente. Lo zero-rating determina un’alterazione tra i vari fornitori di servizi in
termini di consumo dei dati, perché i servizi fuori dall’accordo comportano
l’erosione dei dati mensili. Il Regolamento europeo non vieta lo zero-rating, ma
lascia agli Stati la possibilità di decidere in merito. Il Regolamento della FCC si riserva
ad accordo già concluso il potere di accertare caso per caso se il negozio sia o meno
lecito. Va ricordato che non sono le esigenze del mercato quelle che determinano un
bisogno di net neutrality, ma la tutela di un diritto fondamentale dell’utente finale.
Questa impostazione consente di valutare positivamente quei particolari accordi di
zero-rating, per esempio Facebook, che vengono stipulati in aree prive di
connessione alla rete e che offrono all’utente finale l’accesso alla rete unitamente
all’accesso privilegiato al servizio, condizionando in principio la libertà di scelta
dell’utente. Infine, la disciplina sulla net neutrality dovrà fare una scelta di campo:
offrire alla persona lesa dall’informazione deviata per scelte discriminatorie a
monte, una tutela di tipo conoscitivo e repressivo-satisfattoria. Il primo caso ricorre
quando la regolazione ammette comportamenti discriminatori nella gestione del
traffico e si limita a prescrivere a chi li assume l’obbligo di informare della loro
esistenza il consumatore finale. Questa impostazione è quella adottata dal
Regolamento UE. La seconda impostazione è quella che non punta tutto sulla
conoscenza ma la esige come strumento per ripristinare condizioni equa di accesso
al mercato e restituire al consumatore la completezza originaria del flusso
informativo. Questa è la filosofia della FCC. Questo indirizzo propone una net
neutrality come regola severa perché la completa con una sanzione di tipo
ripristinatorio e pienamente satisfattivo di ogni libertà lesa dalla condotta
discriminatoria.
7. Conclusioni
Definire la natura e i contenuti della net neutrality. A una prima lettura la net
neutrality sembrerebbe accostarsi alla norma asimmetrica perché anch’essa
ripropone l’obbligazione a carico di una sola parte, cioè il fornitore dei byte, a
vantaggio dei richiedenti l’accesso a questi byte, cioè i fornitori dei servizi online. A
tale concezione ha contribuito il fatto che il primo caso significativo di applicazione
della net neutrality da parte della FCC abbia riguardato un operatore verticalmente
integrato (Comcast). Bisogna ricordare però che le norme si definiscono in ragione
della funzione e non della loro struttura. In questa prospettiva la funzione della net
neutrality non ha nulla a che vedere con la norma asimmetrica, perché non è volta a
riequilibrare una posizione iniziale di vantaggio tra l’operatore verticalmente
integrato della rete e i fornitori di servizi che ne sono privi. La sua funzione consiste
nel prevenire che si crei tra i vari fornitori dei servizi finali una disparità dovuta a
differenti condizioni di accesso ai byte. La net neutrality non richiede come
presupposti della sua operatività, né la dominanza di colui che dispone dell’accesso
alla rete, né un’insufficienza della legge del mercato. Pertanto, l’esigenza di net
neutrality rimarrebbe immutata anche se il mercato di Internet fosse
adeguatamente competitivo, perché essa non tende ad azzerarsi con il
raggiungimento di condizioni di matura concorrenza. La net neutrality va distinta
anche dalla disciplina antitrust, la quale si applica quando la condotta lesiva
dell’equilibrio competitivo si sia già realizzata e mira a ripristinare le condizioni di
mercato esistenti prima dell’illecito. La net neutrality gioca ex ante perché prescinde
dal compimento di una condotta anti-competitiva, e mira a promuovere condizioni
di mercato ulteriore e migliori rispetto a quelle preesistenti perché ha come suo
beneficiario ultimo la persona titolare del diritto a essere informati. La net neutrality
si dovrà applicare anche se la condotta dell’operatore non è censurabile per anti-
competitività, inoltre, dovrà applicarsi al singolo operatore inosservante, perché il
suo discriminare tra un contenuto e l’altro nega all’utente finale un contenuto
altrimenti per lui disponibile. Si può anche pensare ad un accostamento della
regolazione diretta ad assicurare la net neutrality a quella del Servizio Universale, in
quanto quest’ultima idonea a garantire agli utenti, non solo l’an di una prestazione,
quanto una qualità adeguata e un prezzo abbordabile. Tuttavia, non bisogna
ritenere che la net neutrality coincida con il Servizio Universale. La riflessione
riguardo la net neutrality trova il proprio centro nella persona, accolta nella sua
integrale dimensione costituzionale, come titolare della libertà di intrapresa
economica, ma soprattutto delle libertà fondamentali che allargano la sua domanda
di umanità. Qualsiasi disciplina si voglia dare alla net neutrality, questa dovrà essere
attenta a riservare la capacità trasmissiva e innovativa della rete non solo a chi c’è
già ora, ma anche a chi verrà, poiché noi abbiamo la responsabilità di non esaurire le
risorse delle generazioni future, che hanno il nostro stesso diritto di intrapresa e
crescita interiore.

Capitolo 7
1. L’accesso alla rete verso un “nuovo diritto sociale”
Il discorso sul diritto di accesso parte da un’affermazione: l’accesso come pretesa
del cittadino a cui lo Stato risponde stendendo sul territorio nazionale la rete a
banda larga; il cittadino conseguirà una vantaggio appena il soggetto pubblico abbia
adempiuto alla sua prestazione. L’accesso alla rete rende uguali coloro che non lo
erano a causa delle differenti condizioni di partenza. Il diritto di accesso si presenta
con attributi suoi, che non sono atipici al punto da configurare una deroga dal genus
di riferimento, ne consegue che l’accesso non gode di una posizione a sé stante nel
panorama dei diritti sociali. Va sottolineato che quando si parla di accesso a internet
si incontrano e si mescolano più piani: uno è quello dell’intervento individuale del
cittadino, l’altro è il luogo di incontro tra operatori di rete e fornitori di contenuti. In
primo luogo, si preferisce proporre un’immagine: l’accesso come traghettatore
digitale delle anime del nuovo millennio, che sottrae l’uomo dalla sua realtà finita
per immergerlo nell’universo illimitato e ignoto della rete. Nel momento in cui la
piena copertura digitale avrà raggiunto tutte le abitazioni, questa prestazione
tornerà utile se si trova nella rete servizi e beni in grado di appagare le diversità dei
gusti; soltanto nel momento in cui si eserciteranno queste libertà l’accesso avrà
assolto alla sua missione di essere strumentale agli art. 2 e 3 della Cost. a differenza
del diritto alla salute o al lavoro il diritto alla connessione non potrà dirsi soddisfatto
con l’atto della copertura digitale, esso vede il suo momento satisfattivo ad un
evento futuro e incerto. Un secondo elemento di differenza interessa il bisogno al
quale il diritto è funzionale; la pretesa alla connessione a internet dovrebbe servire
molteplici esigenze dell’individuo.
2. Il governo delle reti di nuova generazione
Alcuni studiosi hanno da tempo atteso che la fornitura della banda larga fosse
acquisita alle prestazioni del servizio universale, adempiendo a una precisa missione
sociale. È importante sottolineare che anche l’Europa si sta orientando verso il
riconoscimento della banda larga come prestazione da includere nel paniere dle
servizio universale. Eppure la definizione europea di servizio universale non è
appagante: se da un lato, essa acquisisce la banda larga; dall’altro, lascia fuori dal
genus la banda larga superveloce. Questo ritardo del legislatore europeo è dipeso
dall’adozione di un criterio statico per selezionare le prestazioni del paniere. La
concezioni dominicale della rete impedisce il compiersi della funzione sociale
dell’impresa e all’illegittimità interna si aggiunge la sua dubbia compatibilità
comunitaria per manifesta irragionevolezza con l’idea di base del Trattato di
Lisbona. Quest’ultimo attenua gli eccessi di una visione isolatamente lucrativa
dell’attività di iniziativa coni correttivi della coesione sociale e del riequilibrio
territoriale. Per passare ad esaminare le politiche pubbliche adottate dai governi
nazionale si rimane sullo sfondo delle aspirazioni sociali del Trattato di Lisbona:
a) sul punto i programmi dei principali partiti e movimenti politici italiani
concordano nel ritenere che l’implementazione dei servizi a banda larga e ultralarga
possa costituire la leva per la ripresa economica;
b) l’altra soluzione indicata nei programmi di altre forze politiche in occasione del
voto del 4 marzo 2018 prevede invece un’unica infrastruttura di rete a capitale
pubblico. Questa soluzione presenta il vantaggio di scindere l’operatore in due
soggetti economicamente e giuridicamente distinti: il gestore di rete e gli operatori
privati del mercato a valle.
2.1. Qualche idea sull’identità del gestore delle nuove reti
L'UE considera il servizio erogato dalla rete come pubblica utilità, le reti
trasferiscono idee, fanno acquisire conoscenze, creano il consenso pubblico. Le reti
di telecomunicazioni sono in continua evoluzione e per fare in modo che le imprese
abbiano una forte vocazione sociale l'intera operazione dovrebbe rimanere nelle
mani dello Stato che si avvale di privati per lo svolgimento di un'attività di interesse
generale; in caso contrario si avrebbe una rete gestita da operatori che perseguono
il proprio esclusivo vantaggio. Lo Stato dovrebbe lasciare ai privati l'iniziativa
economica imponendo al gestore privato della rete 3 condizioni:
- l'architettura delle reti neutrale e non definita dal titolare;
- la forma della società consortile, il cui patrimonio si compone dei contributi di tutti
gli operatori per il gestore di rete, tali operatori non sono equiordinati a colui che ha
economicamente investito di più. Si dovrebbero imporre sia obblighi di struttura che
di comportamento, i diritti amministrativi di chi gestisce la rete dovrebbero essere
equiordinati secondo un criterio procapite(sulla base dei n.dei componenti) mentre
gli introiti economici devono seguire la logica del capitale e devono essere
proporzionati al contributo iniziale, in questo modo è assicurato l'accesso alla rete
anche agli operatori minori,in caso contrario verranno offerti all'utente servizi
diversi imputabili a soggetti diversi: la subordinazione a un organismo di vigilanza
pubblico e neutrale. In conclusione: equiordinazione dei partecipanti nei diritti
amministrativi,equal access dei partecipanti nei poteri di gestione, asimmetria nel
godimento dei diritti economici che sono proporzionali al conferimento iniziale e
l'istituzione di un'attività di vigilanza.
3. La net neutrality: nuovo diritto o bene finale dell’accesso?
Quando ci riferiamo alla relazione tra chi dispone della capacità trasmissiva e coloro
che vendono i propri servizi vincolati dal flusso di dati non possiamo non parlare
della net neutrality che ha un'incidenza immediata sul diritto di accesso; la sua
definizione originaria si identifica nel divieto per il fornitore dell'accesso alla rete di
discriminare servizi offerti da chi vuole diffonderli alla comunità, che si risolverebbe
nell'obbligo di parità di trattamento da parte del titolare della rete nei confronti
dell'operatore, in quanto il titolare è tenuto a condividere i byte con chiunque e a
riservare pari trattamento. Se si rallentasse un contenuto per accordare più banda al
servizio di un concorrente che ha offerto di più, avrebbe fatto della rete un bene di
sua pertinenza. Affinchè internet sia indipendente occorre la parificazione dei
fornitori a prescindere dalle capacità di spesa. Se ci riferiamo al rapporto che si
instaura fra titolare della rete e l'utente che chiede l'accesso, internet non è più
considerato solo come essential facility, disciplinata da regole volte a equiordinare i
fornitori per evitare che subiscano discriminazioni, ma anche come uno strumento
essenziale per l'esercizio di una libertà come afferma la nostra Costituzione il
rapporto tra ''libertà e accesso al mezzo'', principio ripreso di recente dal Consiglio
Costituzionale Francese il quale afferma che ''l'espressione di idee e opinioni,
implica la libertà di accedere a questi servizi''. Dev'essere quindi tutelato il principio
di neutralità in quanto il comportamento discriminatorio dell'esperto della rete
limita sia il diritto di iniziativa economica dei fornitori, il loro diritto alla
manifestazione del pensiero e limita la libertà di scelta dell'utente che sarà
condizionato dalle scelte del fornitore dell'accesso. Una definizione più recente
formulata dalla Commissione Federale Americana ha sancito che un contenuto non
dev'essere strozzato rispetto ad un altro,con il cambio del vertice politico degli USA
si è avuto l'introduzione di una norma opposta e la revoca della regola dell'obbligo
di Net. Lo Stato ha fatto un passo indietro consentendo che la capacità trasmissiva
fosse oggetto di negozio fra le parti.Pregiudica l'iniziativa economica e la scelta degli
utenti.Trump ha preveduto accordi commerciali tra operatori a discapito del
principio di parità di trattamento. C'è infine il rapporto tra l'accesso alla rete e le
libertà fondamentali nei momenti di crisi, un esempio è la legislazione
antiterroristica .Il terrorismo sfrutta le potenzialità della rete per raggiungere i
propri scopi. Le nuove tecnologie amplificano la conoscenza e la percezione degli
atti di violenza, facendo crescere la consapevolezza della necessità di difendersi ma
può essere usato anche come strumento di propaganda. Il legislatore quando deve
bilanciare tra le esigenze di sicurezza e la protezione delle libertà fa pesare di più la
sicurezza a danno dei diritti fondamentali. Un esempio è il legislatore francese che
revoca lo stato di emergenza e dimentica di alleggerire le libertà dal peso delle
misure limitative dettate dallo stato di emergenza. La revoca dello stato di
emergenza rientrava nelle promesse elettorali di Macron e la legge vuole essere un
ritorno alla normalità .La legge intende individuare un equilibrio tra sicurezza e
libertà che ha come presupposto il terrorismo del tempo ordinario, il quale ha perso
il carattere dell'eccezionalità ma viene trattato come un evento ripresentabile nel
tempo, come un'emergenza quotidiana. La legge ha normalizzato lo stato di
emergenza. In questo modo sparisce la garanzia del controllo giurisdizionale sull'atto
costitutivo dello stato d'eccezione, il legislatore rimette la sola libertà personale alle
cure del giudice ordinario, tutte le altre al giudice amministrativo. Si critica il non
aver alleggerito le misure limitative delle libertà, come il mancato rafforzamento
delle garanzie giudiziarie con la conseguenza che la Francia si sta avviando a
diventare uno stato di polizia scavalcando i principi giacobini. Recentemente c'è un
crescente interesse a costituzionalizzare internet, è un esempio l'atto Senato 2485
che proponeva di aggiungere un nuovo comma all'art 21 per introdurre l'accesso a
internet. Tale proposta si sarebbe rilevata inutile in quanto internet è compatibile
alla nozione di ''altri mezzi di diffusione del pensiero'' ma affinchè si affermi
l'esistenza di un nuovo diritto si deve indicare anche il debitore, non esistono diritti
tutelabili in assenza di doveri che l'ordinamento è in grado di imporre. L'ultima
legislatura con la proposta di inserimento di un nuovo art.34 bis introduceva il
debitore e il contenuto della prestazione, tutto ciò avrebbe arricchito il catalogo
delle prestazioni sociali trascurando la funzione come strumento delle libertà. Una
terza ipotesi non ancora avanzata dal legislatore, potrebbe accostarlo all'art 2 e
l'apertura ai diritti inviolabili avrebbe il pregio di coprire le identità dell'accesso
come pretesa affinchè lo Stato stenda la banda larga e anche la pretesa che lo Stato
limiti le libertà nei limiti dello stretto indispensabile. In questo modo l'accesso
diventa il presupposto per l'esercizio dei diritti politici, economici e delle libertà
fondamentali e sarebbe diventato la leva per attuare le diseguaglianze.

Capitolo 8
1. I Big Data e le categorie del diritto
Il tema dei Big Data rende visibile la forza corrosiva di Internet che distrugge,
modifica e crea nuove categorie giuridiche. Il termine Big Data si riferisce a masse
enormi di dati universali per oggetto e soggetto, varabili per capacità auto-
generativa, veloci per la formazione in progress del patrimonio informativo.
I BD rappresentano il nuovo asset delle imprese operanti in rete (un’essential
facility). La rete è il risultato d’investimenti, esiste grazie all’impiego di energie
economiche del suo dominus; queste masse di dati invece sono create dai cittadini
della rete che, durante la navigazione, lasciano cadere frammenti della propria
identità, i quali raccolti e riorganizzati da chi verrà dopo, comporranno il patrimonio
virtuale della sua attività d’impresa; gioveranno a chi li ha raccolti, non alla persona
alla quale i dati appartenevano. Osserviamo cosa accade quando il nuovo fenomeno
dei BD incontra le categorie giuridiche del diritto alla privacy e della lex mercatoria.
2. Il diritto alla privacy e i Big Data
L’abito originario del diritto alla privacy era disegnato sul modello del diritto di
proprietà ma questa categoria giuridica si rivelò presto inadeguata. Saltiamo i
passaggi intermedi meritevoli però di aver sottratto la privacy ai diritti patrimoniali
per attrarla all’area delle libertà fondamentali. Arriviamo quindi alla proposta di
Rodotà, che proietta il diritto alla privacy nello scenario tecnologico, valorizzandolo
come pretesa all’autodeterminazione della propria immagine digitale. Avviene un
salto di qualità perché questa nuova dimensione riconosce all’individuo il diritto di
controllare l’esattezza dei dati che lui stesso ha esternato e, se nel caso, anche di
correggerli. Anche questa dimensione bilaterale della privacy non coglie la sua
propensione a confrontarsi con la sfida tecnologica imposta dall’habitat digitale e
dalle analisi predittive degli algoritmi. Il soggetto non trova gli strumenti idonei per
proteggere una privacy destrutturata nella borsa degli attrezzi del diritto
all’autodeterminazione. I dati raccolti in forma massiva sono tendenzialmente
anonimi e quindi non hanno un titolare legittimato a prestare il consenso; ma anche
nell’ipotesi in cui i dati avessero un nome e un cognome, chi li raccoglie non può
sapere, in quel momento, quale sarà il loro impiego futuro. Una cosa è certa: i dati
non rimarranno fermi perché rappresentano il punto di avvio delle analisi predittive,
cioè di quelle attività previsionali dirette ad anticipare le condotte che intere
categorie di soggetti presumibilmente assumeranno secondo le proiezioni
dell’algoritmo. Il nostro consenso informato è diventato un non consenso. Ciò spiega
perché l’antica tutela della privacy, assistita dalle garanzie dell’autonomia e della
consapevolezza, non è più utilmente invocabile. Definiamo ora quale sia la nuova
posizione del titolare dei dati. Egli pretende di avere un ruolo attivo nel processo di
prevedibilità della sua condotta al fine di controllarne gli esiti previsionali.
Per fare ciò deve chiedere almeno due cose: visibilità relativa dell’algoritmo e
imputazione sui generis della responsabilità civile. Quanto alla trasparenza
funzionale dell’algoritmo, essa è soddisfatta in presenza di una rivelazione selettiva,
cioè idonea a coprire solo le linee portanti dell’algoritmo per consentire agli
interessati di comprendere i fini ultimi del meccanismo predittivo.
La seconda pretesa chiama in causa il diritto civile per disegnare un criterio nuovo di
imputazione della responsabilità, in caso di previsione dannosa perché
discriminatoria verso talune categorie sociali o perché basata su calcoli erronei. In
questo modo la collettività danneggiata avrebbe un responsabile cui rivolgersi per il
ristoro dei danni. La privacy vede svanire la sua iniziale dimensione bilaterale nel
momento in cui si sposta in un contesto soggettivo trilaterale, dove al titolare dei
dati e al responsabile del trattamento si è aggiunto l’autore dell’algoritmo o il suo
utilizzatore, nei confronti del quale sarà azionabile la pretesa all’intellegibilità del
meccanismo predittivo.
3. La definizione del rapporto privacy/Big Data nel Regolamento
2016/679
Sul punto centrale privacy/prevedibilità dell’algoritmo il Regolamento europeo è
latitante per il modo in cui il legislatore europeo ha risolto l’interrogativo su come
valutare il rischio inerente alle analisi predittive. Il Regolamento conserva un
atteggiamento nostalgico verso il bilateralismo arcaico della privacy.
La soluzione ideata dal legislatore europeo consiglia o impone, a seconda dei casi,
alle imprese con vocazione al trattamento dei dati di compilare una valutazione di
impatto sulla privacy. Questa valutazione consiste nell’analizzare ex ante i rischi
elevati che l’aggregazione dei dati potrebbe comportare per gli interessi e le libertà
delle persone fisiche, e quindi nel prevedere le misure organizzative e
comportamentali più adatte a evitarli. Rischi e rimedi sono individuabili grazie ai
nove criteri consegnati nelle Linee guida dei Garanti europei, nonché al concerto
delle Autorità garanti nazionali a vario titolo. Questo sistema denuncia almeno
quattro criticità. La prima attiene alla circostanza che i rischi di facile individuazione
si riducono alla lesione dell’integrità delle banche dati, alle intromissioni e violazioni
interne o esterne, trascurando il vero pericolo connesso ai BD: i dati aggregati se
usati da un algoritmo come materiale grezzo, sono suscettibili di provocare
valutazioni pregiudizievoli per diffuse categorie di soggetti. La seconda obiezione è
che la valutazione riguarderebbe dati personali (riferibili a un titolare), non i BD, che
lavorano tendenzialmente su dati anonimi. Si potrebbe obiettare che l’anonimato
diffuso dei BD esclude che qualcuno possa avere un motivo giuridico di doglianza, in
quanto le previsioni dannose interesseranno soggetti non identificabili. Tuttavia, ciò
non tiene conto della circostanza che i BD usano dati anonimi, i quali a seguito di
incroci sinergici tra più banche diventano riferibili a persone. Ciò non vuole essere
un giudizio negativo sulla valutazione, che comunque ha delle utilità, ma diverse da
quella che assumiamo centrale: conservare un minimo indispensabile di privacy
grazie a modalità di protezione inedite, adatte all’ambiente digitale, resistenti
all’esposizione integrale dell’individuo e capaci di stare al passo con il mutare della
tecnica. La terza obiezione riguarda l’atteggiamento contraddittorio del legislatore
europeo, che da un lato prova a capire il nuovo contesto tecnologico della privacy
nel momento in cui si avvicina al rischio, dall’altro continua a guardare al passato nel
tenere presenti determinati, espliciti e legittimi per i quali i dati vengono raccolti,
trascurando che i fini connessi ai BD sono ignoti o cangianti. La quarta obiezione è
l’ossimoro della valutazione d’impatto: se l’analisi viene confortata anche dal placet
del Garante, essa finisce per consegnare una semi-immunità giuridica al suo autore.
Ricordiamo che un’attività pericolosa, come la raccolta dei dati altrui, non può
essere trattata alla stregua di una qualsiasi attività d’impresa. La pericolosità di
un’operazione dipende non solo dalla natura stessa dell’attività, ma anche dagli esiti
rischiosi sulla collettività. La pericolosità delle analisi previsionali dovrebbe
comportare la responsabilità dell’imprenditore per danni ai terzi coinvolti nella
predizione, a prescindere dalla circostanza che l’imprenditore abbia fatto o meno
quanto era in suo potere per evitare gli effetti dannosi. La dottrina civilistica ha
previsto forme speciali di responsabilità oggettiva per le attività rischiose, rientranti
nella previsione generale dell’art. 2050 c.c. L’uso delegato e oscuro dei dati di terzi
dovrebbe comportare per chi li utilizza un aggravio di responsabilità, dal quale egli
non si dovrebbe poter sottrarre con la prova di aver fatto quanto era in suo potere.
Ciò induce a ipotizzare sul terreno civilistico una nuova forma di responsabilità
oggettiva per rischio d’impresa, dove il mero fatto di trattare dati in forma massiva,
è rischio che fa scattare questo titolo speciale. Se si considerasse l’assolvimento del
dovere di valutazione titolo giustificativo di forme attenuate di responsabilità, si
perverrebbe al risultato opposto, cioè l’ossimoro da valutazione d’impatto: le
attività pericolose finirebbero per godere di una semi-immunità. Il carattere massivo
della raccolta comporta un nuovo modo di essere del danno, non circoscritto al
singolo individuo, ma diffuso sulla collettività, coinvolta dall’analisi predittiva
dell’algoritmo. Un’ultima obiezione riguarda le modalità di esternazione della
valutazione: il Regolamento tra l’opzione visibilità e la variante segretezza sceglie la
seconda. L’art. 34 par. 9 prevede la facoltà, non l’obbligo, per il titolare del
trattamento di raccogliere le opinioni degli interessati “se del caso”. Inoltre, la Linee
guida dei Garanti europei consigliano ai titolari del trattamento di pubblicare estratti
della valutazione. Il Regolamento decide di tenere i cittadini al buio digitale: nulla
della valutazione, neanche il mero esito, è reso disponibile, neppure nelle forme
selettive di pubblicità destinate alle sole categorie sociali coinvolte. Noi riteniamo
che la valutazione rappresenti il punto di avvio di quel processo cognitivo circolare
che, partito dai dati dei cittadini del web, ritorni come flusso di bit ai medesimi, le
cui condotte sono state oggetto delle previsioni algoritmiche. Si rileva un
preoccupante silenzio da parte del decisore europeo sulle questioni centrali:
tipizzazione delle facoltà della nuova privacy, obbligo di visibilità dell’algoritmo
funzionale alla sua giustiziabilità, apertura a class action ripensate e previsione di un
nuovo titolo di responsabilità oggettiva per danni da BD. Il rimproverò più grave al
decisore politico riguarda ciò che aveva annunciato di fare nelle promettenti
dichiarazioni di principio, dietro le quali ha mascherato la conservazione dello status
quo, pertanto non rimane che sperare nel legislatore europeo di domani.
4. I Big Data una continuità discontinua con la Lex mercatoria
Il concetto di concorrenza nasce come sinonimo di libero mercato, cioè come luogo
dove persone, merci, capitali e prestazioni circolano indisturbatamente, al riparo dai
protezionismi degli Stati e dai comportamenti abusivi delle imprese. In seguito la lex
mercatoria si lasciò alle spalle la visione atomistica a favore di una concorrenza che
si compie anche incontrando le istanze dei consumatori. Attraverso gli impegni
vincolanti, la Commissione si interroga su quale possa essere la migliore soluzione
per ripagare i consumatori danneggiati dalla condotta anti-competitiva: la mera
reductio in pristinum o altra comunque idonea a restituire efficienza competitiva al
mercato. La Commissione usa un parametro di giudizio inclusivo anche del
benessere dei consumatori, senza commettere l’errore di sostenere una politica
antitrust filoconsumeristica. La concorrenza è diventata sinonimo di well-being
collettivo. Tuttavia, l’arrivo dell’economia digitale ha messo sotto tensione la
filosofia antitrust. L’economia confonde e mescola entità più eterogenee rispetto
alle precedenti: competizione e welfare sociale. La competizione deve quindi
concorrere all’equa distribuzione delle risorse e servire alla causa della coesione
territoriale. Quest’ultimo obiettivo appare a portata di mano a condizione che il
decisore politico orienti il processo economico verso l’uguaglianza sostanziale.
La tensione dell’economia all’uguaglianza sostanziale comporta che si ripensi il
modello dell’illecito antitrust, nel senso che gli elementi della sua condotta contra
ius vanno rivisti alla luce dei BD e del loro fine ultimo. Le masse dei dati dovrebbero
essere al servizio della crescita individuale, della parità di accesso a vantaggio degli
operatori e del ritorno dei dati a chi li ha procurati ab initio. Vediamo cosa
diventerebbe l’abuso di posizione dominante in un mercato data driven.
Innanzitutto, ricordiamo che l’abuso si compone di un mercato di riferimento, una
dominanza e un uso ingiusto di quest’ultima. Cosa si intende per economia data
driven. Siamo in presenza di processi che hanno nell’accumulo crescente dei dati la
loro benzina virtuale. Si tratta di un complesso di attività che ruotano intorno alla
produzione, all’uso e alla commercializzazione dei dati a mezzo di altri dati.
Ciò comporta che le imprese del settore operino su due mercati collegati.
Il primo, a monte, dove beni e prestazioni digitali vengono offerti dietro una gratuità
fittizia perché il consumatore paga con il valore dei suoi dati. Nel secondo mercato,
a valle, tendenzialmente si vendono spazi pubblicitari, a prezzi più alti in ragione
della quantità di dati raccolti a monte. Alla fine del processo, i consumatori
riceveranno pubblicità ritagliata sul proprio profilo, ricostruito grazie ai dati confluiti
sul primo mercato. Esiste un ordine tra il mercato gratuito e quello oneroso: il
primo, solo in apparenza gratuito perché il dato sta in luogo del prezzo, alimenta
l’appetibilità e quindi diventa la causa dell’onerosità di quello a valle. Più clic riceve il
messaggio pubblicitario, più ne è alto il prezzo, e più voluminosa è la massa dei dati
dell’imprenditore che domina le due piazze. Proviamo a calare gli elementi indefiniti
dell’abuso in questo nuovo scenario economico-tecnologico. Il primo problema
interesserà il metodo per individuare il mercato, e questo non sarà più il parametro
della sostituibilità dei beni. Riflettiamo che, se preferiamo Google agli altri, non è
per un suo specifico servizio, ma perché esso è capace di offrire tutte le prestazioni e
altre ancora nella medesima unità spazio-temporale. Ritorna il concetto di
insostituibilità in un’accezione globale perché è riferita all’intero pacchetto, non l
singolo bene. Un fornitore omnibus, quindi incontestabile, fa incetta di dati da ogni
suo cliente, cui offre su cingoli segmenti i servizi più disparati. Il secondo elemento
dell’abuso è il potere di mercato. La dominanza di un’impresa è costruita anche sulla
circostanza che gli utenti la hanno preferita in ragione della scelta già fatta da altri:
cd. lock-in. Quindi, questo patto tra Google e i suoi clienti, che in economia si
chiama “effetti diretti di rete”, è un tratto incontestabile del suo potere di mercato.
Ricordiamo che non si punisce la dominanza in sé, ma il suo cattivo uso a danno di
consumatori o concorrenti. Si distinguono abuso di sfruttamento e abuso di
esclusione. Il primo ricorre quando la condotta unilaterale dell’operatore si è risolta
in comportamenti pregiudizievoli per i consumatori (es. aumento sensibile dei prezzi
che lasci invariata la domanda). Il secondo è riscontrabile in chi assume
comportamenti dannosi per i concorrenti, i quali non potranno fare nulla per
impedirli (es. imposizione di prezzi condizionati o di esclusive). In entrambi gli abusi
la condotta contestata sarebbe quella di un monopolista, qui assunta da chi non lo
è, ma si comporta come se lo fosse. Se proviamo a trasferire queste figure sui
mercati double sided, cioè i mercati che si articolano su due piazze, esse
risulteranno incomplete di un elemento essenziale al loro perfezionamento:
l’aumento sensibile del prezzo. Si consideri il dominante che abbassa la policy di
privacy senza subire una flessione nella domanda. Si tratta di un abuso per
sfruttamento, in quando il dominante ha modificato le condizioni contrattuali
pregiudicando i consumatori. Tale impostazione rimanda a tre operazioni
concettuali necessarie e preliminari.
- Concepire il mercato come un luogo dove anche i diritti fondamentali possono
essere violati con vulnera non meno gravi di quelli arrecati ai diritti economici dei
consumatori.
- Concepire il diritto come composizione scomposta di sfere giuridiche che si
possono mescolare e che si parlano.
- Passare da una valutazione dell’illecito antitrust ancorata al solo indice
quantitativo dell’aumento del prezzo, a una basata sulla qualità del servizio.
La Commissione senza soluzione di continuità, si è sempre rifiutata di individuare
una lesione all’art. 102 TFUE, pur in presenza di un danno al mercato. Si tratta di
aggressioni che compromettono la concorrenza. La Commissione si è nascosta
dietro l’argomento della separazione delle competenze: la Privacy al Garante
europeo, la concorrenza a se medesima. Pertanto, un’operazione coercitiva non è
mai stata annullata perché lesiva della privacy. Il fatto che gli illeciti si ripetano nel
tempo con le stesse modalità è la prova che l’interpretazione anacronistica del
diritto antitrust non coglie i veri comportamenti che strozzano il mercato, regalando
ai dominanti l’impunità assoluta. Questa nuova visione del diritto antitrust
richiederebbe un coinvolgimento nelle procedure antitrust del Garante privacy,
lasciando alla Commissione la valutazione del perfezionarsi o meno dell’illecito
antitrust. Quest’obbligo in capo alla Commissione è deducibile anche dall’art. 8 della
Carta dei Diritti. Consideriamo tre circostanze concorrenti: la vincolatività della
Carta, la sua efficacia giuridica diretta verso tutti i soggetti istituzionali, e l’accesso
diretto dei cittadini alla Corte. Si evince che l’attivazione ex officio della
Commissione è, non solo un dovere in ragione delle tre circostanze, ma anche la via
più agevole per difendere un diritto, la privacy, altrimenti violato impunemente.
Le misure sanzionatorie dovranno essere anche privacy based, non potendosi
risolvere in meri ordini repressivi della sola condotta anti-competitiva.
5. Gli impegni vincolanti al tempo dell’economia data driven
I rimedi classici del diritto antitrust (ordine di cessazione, desistat e impegni
vincolanti) possono cambiare quando i suoi destinatari operano in mercati digitali
data driven. Va ricordato che Internet non tollera i trasporti automatici di regole,
cioè pensate per contesti materiali diversi e poi calate dall’alto senza adattamenti.
Questa tipicità rispetto al mercato dei BD si chiama massa grezza di dati,
tendenzialmente anonimi, generati dagli apporti pro quota di una collettività di
uomini e imprese, poi usati dai solo Giganti di Internet per i propri fini egoistici.
L’equazione tutela della concorrenza=protezione della privacy significa che la difesa
della privacy consumeristica è diventata uno step ineliminabile dell’iter antitrust.
La lesione della privacy come sinonimo di abuso di potere dominante rende le
misure tipiche antitrust “unreasonable “al caso nostro. Ciò per due ragioni.
Innanzitutto, la tempestività richiede che le misure intervengano quanto prima, in
quanto attendere i lunghi tempi di un’istruttoria diretta ad accertare l’illecito
compromette i beni della concorrenza e della privacy. La privacy, se leva, subisce
un’aggressione senza ritorno. Il classico ordine di cessare la condotta lesiva non
consente alla privacy di riacquistare la sua consistenza originaria, poiché i dati,
anche se restituiti ai rispettivi titolari, rimarrebbero violati per il semplice fatto di
essere usciti dalla loro sfera giuridica. Ciò accorda un incontestabile vantaggio agli
impegni rispetto alle sanzioni autoritative. Ricordiamo contenuto e finalità di un
impegno: si tratta di una proposta di parte diretta a restituire l’efficienza
competitiva al mercato, al fine di evitare l’accertamento autoritativo del presunto
illecito antitrust con quanto ne segue. L’imprenditore dovrà offrire comportamenti
capaci di sanare i due tipi di abuso (abuso di sfruttamento e abuso di esclusione).
Quanto al primo il rimedio consisterà nel rendere disponibili ai consumatori
adeguati spazi per l’esercizio delle facoltà connesse alla loro privacy, violata
dall’abuso. Il contenuto degli impegni va modellato in vista della funzione: restituir
al mercato l’efficienza competitiva violata dall’abuso. Il contenuto dell’impegno
dovrà tenere conto di due circostanze: il tipo di lesione inferma alla privacy e la
dimensione collettiva del diritto. Parliamo ora di casi accaduti o solo figurati in modo
da offrire un modello prescrittivo capace di incontrare le preoccupazioni di privacy
dei consumatori unitamente a quelle competitive.
- Quanto al tipo di lesione, rispetto all’abuso di sfruttamento, si ipotizza il caso di
un’informativa così oscura per il consumatore da escludere la consapevolezza del
suo consenso, perché egli non ha inteso quali dati ha ceduto e a quali fini. Un’altra
modalità di condotta abusiva si potrebbe risolvere nella lesione del diritto al libero
consenso perché il consumatore, benché informato del peggioramento della policy
di privacy, è rimasto fedele al fornitore originario del servizio digitale per
omogeneità delle condizioni contrattuali. Quando la concorrenza non è basata sulla
privacy, la persona perde ogni potere ogni potere effettivo di contrattare e di
reagire al degradamento, con la conseguenza che per lui il contratto digitale è un
“prendere o lasciare”.
- La seconda circostanza è connessa all’estensione a fisarmonica del diritto alla
privacy, modulabile in ragione dell’età e dell’appartenenza del suo titolare a certe
categorie socio-economiche. Ciò consentirà che gli impegni si articolino anche in
misure privacy-tuned, cioè capaci di dilatarsi o restringersi a seconda di come il
titolare voglia regolare il volume di tutela della sua riservatezza. Quindi, le facoltà
inerenti a un diritto fondamentale presentano uno ius variandi che dipende dalla
capacità economica e di spesa del suo titolare. Il concetto di una privacy censitaria
stride con i principi di democrazia (uguaglianza dei cittadini nella titolarità dei diritti
dinanzi alla legge). Tuttavia, in questo caso non è negata l’equi-ordinazione
nell’astratta titolarità di un diritto, mantenuta uguale in capo a ciascuno, bensì è il
suo concreto esercizio che viene modulato dalla volontà del titolare.
E’ emerso un contenuto dell’impegno definibile caso per caso, cioè in ragione della
tipologia della lesione. Se consideriamo l’ipotesi in cui l’abusante abbia già ceduto i
dati a terzi, qui un ritorno dei dati ai legittimi proprietari è impraticabile, mentre il
riferimento alla disciplina privacy potrà venire in soccorso per definire il rimedio più
adeguato. Consideriamo l’abuso di sfruttamento, che danneggia i terzi concorrenti,
costringendoli a uscire dal mercato o impedendovi di entrare. Esemplificativa è la
condotta dell’impresa che ha emarginato i competitors dall’accedere ai dati,
comportandosi come se fosse la padrona incontrastata di questa massa informativa
crescente nel tempo. Qui, il solo rimedio idoneo a rimuovere la barriera tecnologica
all’entrata è la condivisione dell’asset, pur tenendo conto delle obiezioni che esso
incontra perché disincentiverebbe gli investimenti, nonché per la difficoltà di
valutare l’asset e di distinguere tra la massa dei dati quali mettere in comunione e
quali no. In questo contenuto di sharing aziendale si realizza quindi il passaggio dal
rimedio comportamentale a quello strutturale della spartizione o couso dell’asset.
Ciò che conta ai fini della legittimità dell’impegno è che la misura strutturale sia
l’estrema ratio, cui ricorre solo quando ogni altra misura comportamentale risulti
inefficace o più costosa. L’innato conflitto di interessi tra gli operatori di
telecomunicazioni (proprietari della rete ma anche fornitori di servizi agli utenti
finali) verso gli altri operatori privi di rete, può comportare che la rete sia a loro
distratta per essere assegnata a un polo terzo, gestore neutrale, il quale tratterà in
modo uguale le domande di accesso all’infrastruttura, non avendo interessi nei
traffici a valle, mentre l’ex proprietario della rete potrà dedicarsi alla fornitura della
rete agli utenti finali. Questa ipotesi comparativa presenta una differenza rispetto al
caso dello sharing dei dati tra imprese data driven. Nel caso in esame, i dati non
sono mai stati dell’OTT (Over the top), che li ha raccolti, aggregati e poi monetizzati
per trarne profitti, ma non ha mai vantato su di essi un titolo riservatario, che invece
spetta alla collettività indifferenziata degli utenti per aver contribuito alla sua
formazione. Il rimedio da adottare consiste nella restituzione per indebita
acquisizione. L’impegno dovrà disporre la libera fruibilità dell’asset-dati a qualunque
operatore lo richieda; in tal modo si creerebbe quella circolarità diffusa dei dati utile
a due obiettivi: incrementare la contendibilità dei mercati e accrescere la
democraticità del sistema economico. Sarà opportuno procedere caso per caso,
senza valutazioni legali tipiche o astratte presunzioni, in modo da verificare se un
certo rimedio diretto a proteggere la privacy sia idoneo a riparare il mercato
aggredito. Nella data economy, mentre un rimedio privacy based non soddisfa le
preoccupazioni della competition, una lesione della privacy è spesso sintomo anche
di una violazione della legge di mercato. Questa commistione tra privacy e
competition costituisce la naturale conseguenza di un diverso modo di intendere il
diritto: i piani, un tempo separati, si sono mescolati; i beni, prima lontani e
aggredibili da distinte condotte, sono esposti a lesioni progressive o sono tutelabili
l’uno come conseguenza dell’altro; infine, le Autorità, un tempo incomunicabili,
sono chiamate a parlare.
6. E il cerchio si potrebbe chiudere a condizione di…
La privacy merita un trattamento orientato ai bisogni della collettività. Il passaggio
da una concezione atomistica a una collettiva di privacy si giustifica per il beneficio
atteso dalla frazione di collettività coinvolta nelle previsioni: partecipare al processo
cognitivo formatosi con l’apporto di ciascuno. Abbiamo conosciuto una privacy
diversa: ricca di nuove facoltà, ma impoverita del consenso informato. Questi poteri
inediti, costruiti sull’irrobustimento dei doveri degli OTT, si articolano nella pretesa
conoscitiva dell’algoritmo e nella sua confutabilità. Spostare il fuoco dal consenso
alla responsabilità degli OTT è la via per incoraggiare l’inclusione di chi è rimasto
indietro nei processi politico/economici. Ricentrare il gioco economico sui diritti
fondamentali giova alla democrazia, perché essa diventa sovranità effettiva solo se
appartiene a un popolo consapevole nell’esercizio dei suoi diritti e libertà.
La lex mercatoria ha voltato pagina rispetto alla concorrenza funzionale al libero
mercato, e si è lasciata dietro anche la competizione al servizio dei consumatori,
firmando la pace con la solidarietà sociale. Questa lettura ha l’effetto di orientare il
governo dei BD ai diritti e alla lex mercatoria. I dati raccolti dalle imprese meritano
di essere trattati come un bene open access, disponibile anche alle imprese
emarginate.Le figure d’illecito antitrust vanno interpretate in modo da incontrare le
preoccupazioni di privacy e di altri diritti fondamentali insidiati, in coerenza col
diritto dei Trattati che vincola la lex mercatoria alla coesione territoriale e allo
sviluppo della persona.Il circuito democratico, prima di investire le istituzioni, deve
rivoluzionare dal basso i processi economici e relazionali tra le genti d’Europa.
A queste condizioni potremo contare in avvenire su individui divenuti cittadini
consapevoli dei loro diritti nel contesto digitale, e meno consumatori ignari del
mercato online.

CAPITOLO 9
1. Termini della discussione
Nel saggio ci si chiede se INTERNET deve:
- rimanere nel regno dell’anarchia;
- oppure costituire un nuovo approccio normativo (in questo caso si pone il
problema delle regole che devono regolare la Rete).
In particolare, le questioni affrontate nel saggio riguardano:
- necessità di costituzionalizzare internet;
- individuazione di una normativa idonea, che potrebbe concretizzarsi in una Carta
dei Diritti sovranazionale; in quest’ultimo caso ci si domanda:
- quale organo legislativo deve scrivere questo disegno di legge?
- quale contenuto deve avere il disegno di legge?
- il d.d.l. dovrebbe dare maggior peso ai diritti fondamentali o agli interessi
economici?
- quale legame esiste tra regole accecanti e politiche di autoregolamentazione?
Oggetto del saggio = PROTEZIONE UNIVERSALE dei DIRITTI FONDAMENTALI
(normalmente tutelati dalle Costituzioni) indipendentemente dai confini territoriali.
Per questo motivo, anziché concentrarsi sui singoli diritti (libertà di espressione,
comunicazione, accesso a internet), il saggio propone gli elementi essenziali di uno
Statuto dei Diritti Fondamentali che sia sufficientemente generale, da abbracciare
ogni libertà; sovranazionale, tale che ogni libertà sia tutelata coerentemente e
indipendentemente dalle variazioni degli ordinamenti giuridici nazionali. Ciò
garantirebbe anche la parità di trattamento.
2 - Una base costituzionale per internet?
Siccome Internet non è espressamente prevista nei testi costituzionali ci si chiede se
è necessario un aggiornamento delle Costituzioni che ignorano la Rete. In
particolare, si discutono due Costituzioni - italiana e americana - che disciplinano
norme a tutela dei media tradizionali (radio TV giornali) ma non prevedono regole
specifiche per i media online (blog su Internet e siti web di social network). Nello
specifico, gli artt. 15 e 21 Cost. (rispettivamente libertà di comunicazione e di parola)
non fanno alcun riferimento alla Rete perché le formule costituzionali sono rimaste
immutate dal 1948. Contro la tesi di una revisione formale si può far valere la
mancata copertura delle evenienze future nel senso che un provvedimento
dettagliato potrebbe essere adeguato oggi ma inutile o addirittura dannoso domani.
Un’alternativa è individuabile nell’interpretazione estensiva delle vigenti disposizioni
costituzionali affinché possano essere applicate alla nuova realtà virtuale: così nel
caso degli articoli 15 e 21 della Costituzione italiana che garantiscono tutela ai
suddetti i media, ma si riferiscono anche a “ogni altra forma di comunicazione” (art.
15) e “ogni altro mezzo di comunicazione” (art. 16). Un esempio simile si trova nel
Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti: infatti la Corte Suprema ha
incluso la difesa di Internet nelle garanzie costituzionali della libertà di parola,
ritenendo non necessario riformare l’emendamento. È necessario chiarire che
l’estensione della stessa tutela costituzionale ai diritti e libertà off line e online non
implica il trasferimento automatico della disciplina off line nel mondo della realtà
virtuale: le normative sui media off line non possono in quanto tali essere rese
applicabili online perché Internet perderebbe la sua unicità. Inoltre per la
circolazione delle idee è necessaria una Internet senza vincoli che è uno strumento
fondamentale per la crescita economica e sociale. Per questo la regolamentazione
dovrebbe essere mantenuta ad un livello minimo.
3 - Le garanzie del costituzionalismo moderno in luogo di una base
costituzionale ad hoc
Il costituzionalismo prevede due GARANZIE per i diritti fondamentali online, valide
anche per le libertà online. Per esaminarle faremo riferimento alla nostra
Costituzione per poi discuterle a livello sovranazionale. Esse sono:
- riserva di legge (detta anche clausola di legge) affida alla legge adottata dal
Parlamento la disciplina di una determinata materia, per cui il Governo potrà
adottare la disciplina secondaria più specifica solo dopo che il legislatore ha
emanato le norme generali cui la normativa secondaria dovrà conformarsi. Ciò
implica la compatibilità costituzionale della disciplina legislativa che a sua volta
definirà l’ambito di applicazione delle norme secondarie; tale principio non è stato
rispettato dal d. Lgs. 44/2010 (in materia di diritto d’autore e Internet) che nulla
dicendo sul diritto d’autore online, lascia l’onere normativo all’Autorità
indipendente competente, la quale, in assenza di specifico fondamento legislativo,
ha assunto il potere di chiudere siti web o imporre la cancellazione di alcuni
contenuti (previa sommaria valutazione della loro natura illecita). Siccome la
decisione dell’Autorità è fonte secondaria e siccome in virtù della clausola di legge
non è possibile introdurre innovazioni nell’ordinamento giuridico senza un adeguato
fondamento in una fonte primaria è evidente la NON CONFORMITÀ del d. Lgs
44/2010 alla clausola di legge e al principio di gerarchia. Per questo motivo è stata
sollevata questione di legittimità innanzi alla Corte costituzionale che pur non
definendo il merito della questione, con sentenza di inammissibilità enuncia un
principio utile allo scopo dell’Autrice, in base al quale “in via preliminare occorre
osservare che le disposizioni censurate non attribuiscono espressamente ad
AGICOM un potere regolamentare in materia di tutela di diritto d’autore sulle reti di
comunicazione elettronica“.
- Riserva di giurisdizione È il meccanismo di tutela in base al quale le limitazioni dei
diritti e delle libertà costituzionali richiedono un atto autoritativo adottato da un
giudice indipendente che decida secondo un giusto processo. La clausola di
giurisdizione è presente anche a livello internazionale. Ad esempio, nella sentenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo si trova nella forma più debole del “giusto
processo” (artt. 5 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e non
impone agli Stati membri di conferire poteri solo a un giudice ma ne consente
l’affidamento anche ad autorità diverse, purché le loro decisioni siano basate su un
processo equo e su una motivazione adeguata. Queste tutele costituzionali delle
libertà non possono essere sacrificate nel mondo, né virtuale nel reale: tuttavia,
come già ricordato, l’equivalenza sostanziale delle garanzie tra diritti off e online
non comporta l’automatica estensione a quest’ultimo di norme specifiche emanate
per il primo. Vale ribadire qui quanto già espresso nella nota sentenza Reno nella
quale la Corte ha riconosciuto chiaramente l’unicità di Internet e la sua non
coincidenza con i media tradizionali e chiedendo regole indipendenti da quelle
destinate a trasmissione. È possibile trarre dalla sentenza un ulteriore presupposto
di fondo: è necessario tracciare per Internet una regolamentazione specifica da
mantenere ad un livello minimo, perché la rete è uno strumento insostituibile per la
crescita individuale ed economica. Questo gli dà diritto alla protezione contro un
intervento autoritario pesante.
4 - Il dibattito sulla migliore regolamentazione di Internet
Le precedenti osservazioni portano alla conclusione che non è necessaria una
modifica delle Costituzioni, tuttavia al contempo non si esclude l’esigenza di avere
un Internet Bill of Rights. Ci si chiede pertanto chi è il potere costituente di Internet?
Cioè quale autorità sarà legittimata a redigere la Carta fondamentale di Internet?
La natura a-territoriale di Internet esclude l’ipotesi che uno o più Stati nazionali
assumano tale ruolo ma accoglie invece l’ipotesi che solo un legislatore
sovranazionale sia chiamato a redigere la sua costituzione. Una domanda resta
aperta: deve trattarsi:
1. della comunità dei naviganti, attraverso un’autoregolamentazione?
2. O tale legislatore dovrebbe essere un organismo internazionale attraverso
un’autorevole regolamentazione hard law?
Nel primo caso si tratta di un modello in cui lo Stato interviene solo laddove ci sia
un’effettiva lacuna, prima di allora i privati si autoregolano. Tale modello di
autoregolamentazione può definirsi autonomo rispetto alla legge, che è del tutto
carente, si tratta dunque di un modello:
- regressivo perché i privati lasciati a se stessi hanno dimostrato più volte di
perseguire solo interessi egoistici per cui la realizzazione del bene comune è casuale;
- in quanto tale, incapace di raccogliere il consenso tale da poter imporre una carta
sovranazionale.
Il secondo modello consiste in un’autorità sovranazionale e vincolante che potrebbe
facilmente cadere sotto l’influenza di Stati nazionali forti, i cui interessi solo
occasionalmente coincidono con un bene comune più ampio. L’Autrice propone
un’ipotesi mediana nella quale:
- innanzitutto bisognerebbe creare un’autorità pubblica sovranazionale con potere
legislativo che si è costituita e vincolata dalla legge, difendendo accuratamente
natura e scopi;
- in secondo luogo il processo decisionale dovrebbe includere una forte
rappresentanza di interessi privati a proposito di Internet (in qualità di imprenditori
utenti e consumatori).
In conclusione, in un ordine corretto prima viene il diritto poi
l’autoregolamentazione. Se l’ordine viene invertito la natura secondaria
dell’autoregolamentazione rispetto alla legge sarà meramente fittizia e
l’autoregolamentazione sarà applicata come piena fonte del diritto, con evidenti
danni all’architettura costituzionale. Tuttavia può capitare che si trovi il corretto
rapporto tra eteronomia e autonomia.
5 - Algoritmi tra regole e anarchia
Gli algoritmi sono gli strumenti per prevedere il futuro degli sviluppi dei
comportamenti umani e hanno come carburante la continua raccolta massiva di dati
(Big Data). Ogni volta che interroghiamo i motori di ricerca o partecipiamo a incontri
virtuali lasciamo inconsapevolmente i nostri dati; questi dati vengono interpretati in
virtù di parametri assegnati dagli uomini alla macchine elaborati secondo una
specifica logica ed anticipano le valutazioni predittive su cui potrebbero verificarsi le
condotte (sarà quindi la macchina cioè l’algoritmo a decidere se un mutuo può
essere concesso o meno, a quantificare il prezzo dell’assicurazione, a guidare gli
atteggiamenti di acquisto dei consumatori). Vantaggi degli algoritmi: migliorano
l’efficienza del governo e del servizio pubblico, prevedono risultati e forniscono
feedback in tempo reale, ottimizzano i processi burocratici. Il diritto dell’Unione
Europea ha affrontato gli algoritmi con il Regolamento UE 2016/679 che costituisce
il provvedimento più significativo degli ultimi vent’anni in materia di protezione dei
dati e si rivolge ai cittadini e al loro diritto alla privacy, che alla luce del meccanismo
algoritmico, non si colloca più nella tradizionale dimensione individuale ma si sposta
su un terreno “collettivo” (assurgendo a libertà collettiva). Cioè, il diritto alla privacy
non si fonda più sul consenso informato (perché fornirebbe una tutela insufficiente)
ma si configura come la pretesa dell’individuo di svolgere il ruolo di attore principale
nel procedimento che porta all’analisi predittiva della sua condotta, in modo da
poter verificare i risultati dell’algoritmo.
6. Il regolamento 2016/679: quadro sufficiente per gli algoritmi
La risposta del GDPR non appare del tutto soddisfacente perché è sufficientemente
impostata dalla parte dei diritti, meno dalla parte della responsabilità. In realtà, il
legislatore europeo ha scelto di stendere un elenco di diritti che possono essere
attivati dall'interessato invece di lasciare la questione all'autoregolamentazione
degli enti privati. GDPR è un innegabile caposaldo nella direzione della nuova privacy
rispetto alla precedente Direttiva UE sulla protezione dei dati . Questa eventualità
ha attirato l'attenzione europea, infatti il GDPR, art. Se è consentito un «processo
decisionale individuale automatizzato», l'art. 22 prevede un
avvertimento, stabilendo una serie di diritti per l'interessato. In primo luogo ha il
diritto di non essere sottoposto a una decisione «basata esclusivamente su un
trattamento automatizzato». L'autorità che utilizza gli algoritmi dovrà quindi
giustificare in quale delle tre situazioni eccezionali previste dall'art.
22 il caso de quo cade. Gli dovrebbe essere detto come viene costruito un profilo
utilizzato nel processo decisionale algoritmico, «inclusa qualsiasi statistica utilizzata
nell'analisi». In altre parole ha diritto a una tale divulgazione che gli permetta di
ripercorrere il percorso dell'algoritmo e ricostruire la decisione finale che lo
riguarda. 22 prevede inoltre il diritto dell'interessato al coinvolgimento umano nel
processo decisionale algoritmico. Ciò significa che una persona deve essere
presente, affinché le obiezioni dell'interessato possano essere ascoltate e prese in
considerazione, al fine di modificare la decisione automatizzata iniziale se era
ingiusta, tendenziosa o sbagliata. Nel tentativo di normalizzare questo fascio di
diritti, il GDPR mette i diritti relativi alla privacy dell'interessato nello stesso campo
di altri valori antagonisti, ad esempio i segreti commerciali. Ne consegue che si
possono trarre utili suggerimenti per risolvere il suddetto conflitto anche dalla parte
non vincolante del GDPR. Il diritto alla divulgazione, invece, non può raggiungere il
codice sorgente, ma solo le caratteristiche e la logica specifica degli algoritmi
impiegati. In questa querelle di bilanciamento un'ampia discrezionalità spetta agli
INA, ai quali spetta definire una misura equilibrata di convivenza senza inutili
sacrifici di un diritto a vantaggio dell'altro, come sostenuto dall'ex Garante europeo
della protezione dei dati. Questo allargamento dei poteri avviene perché il segreto
commerciale è un valore più debole del corretto funzionamento della giustizia e
quindi deve fare un passo indietro. In questo scontro di diritti c'è una netta distanza
tra un oggetto regolamentato e uno non regolamentato. Negli USA la materia
rientra nel FOIA che include i segreti commerciali tra le diverse eccezioni alla
trasparenza. Di conseguenza, le società possono opporsi a tale segreto come
ostacolo vincolante alla divulgazione richiesta dal richiedente, indipendentemente
dalla sua natura privata o pubblica. In primo luogo, secondo una comune regola di
interpretazione giuridica, in caso di dubbio dovrebbe prevalere la
trasparenza. Alcuni studiosi statunitensi hanno argomentato che la conseguenza di
questa incertezza normativa ha comportato il prevalere della protezione del segreto
commerciale sul diritto alla conoscenza. Se il codice, pur appartenendo a un
privato, è utilizzato per svolgere una funzione pubblica, dovrebbe essere attratto
nella disciplina pubblica «la sua funzione di governo richiede che le imprese si
sottopongano agli stessi requisiti di trasparenza degli altri enti pubblici, garantendo
la trasparenza». Si può dire che il GDPR avrebbe potuto fare di più, affermando la
superiorità dei diritti fondamentali sulle libertà economiche. Tuttavia, in questo caso
il GDPR avrebbe illegittimamente superato l'equivalenza sancita dalla Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione Europea, come detto prima. Ulteriori ambiguità
possono essere riscontrate nel GDPR sull'esistenza del diritto alla spiegazione, che
non è così certo come dovrebbe essere. Alcuni studiosi hanno negato questo diritto
perché il GDPR non ne cita esplicitamente nel testo, relegandolo nel considerando
71. Dal nostro punto di vista tre ragioni potrebbero sostenere l'esistenza del diritto
in discussione. Il primo motivo è legato al valore dei considerando, che offrono uno
strumento utile al giudice di fronte a disposizioni poco chiare. È solo il caso del
diritto alla spiegazione. La seconda ragione risiede nella considerazione che il diritto
alla spiegazione è il beneficio finale dei diritti precedentemente ed esplicitamente
riconosciuti dal testo. Pertanto, il diritto dell'interessato di contestare o esprimere il
proprio punto di vista non potrebbe essere esercitato integralmente senza una
motivazione ampia e chiara sulla quale è stato adottato il processo decisionale
automatizzato. Tra questi diritti, c'è il diritto di impugnare una decisione
automatizzata. zione davanti a un giudice. La mancanza di motivazione impedisce
all'interessato di verificare come il potere pubblico abbia utilizzato gli algoritmi che
hanno effetti su di lui. Se questo caso si verificasse, avremmo una versione
aggiornata dell'oppressione arbitraria e immotivata dei diritti e dei legami individuali
di cui la storia delle democrazie moderne offre molti esempi. Come accennato in
precedenza, il processo decisionale algoritmico in Europa può essere
complesso, soggetto a errori, pregiudizi e discriminazioni, oltre a suscitare
preoccupazioni per la dignità.
7. Algoritmi equi e distorti?
Un altro aspetto non regolamentato o meno regolamentato degli algoritmi è il loro
utilizzo nel processo di polizia o nell'analisi predittiva, durante il quale gli strumenti
di rischio basati su algoritmi servono a «supportare decisioni informate sulla
gestione dei delinquenti secondo i loro profili di rischio». L'algoritmo consente pene
detentive più brevi se viene salvaguardata la sicurezza pubblica. Ma c'è un
innegabile contro, ovvero il pericolo di influenzare in una direzione diseguale le
valutazioni predittive se basate su algoritmi distorti e discriminatori. Un buon punto
di partenza per migliorare l'equità e l'efficacia degli strumenti di rischio è un
riferimento al famoso caso, Loomis, tenutosi nei tribunali americani. Il software
COMPAS è al centro di questo caso; è stato utilizzato per valutare il rischio di
recidiva del ricorrente, L. Eric Loomis, al fine di assistere il giudice nella
determinazione delle misure alternative alla sanzione penale. COMPAS gli ha
impedito di valutarne l'esattezza e tuttavia è stato de facto impiegato per
determinare la sua punizione. Il giudice ha rigettato il primo motivo di ricorso, non
perché ricono- sceva la correttezza della COMPAS, ma perché sosteneva che la
decisione fosse stata assunta come se la COMPAS non fosse mai entrata in aula. In
risposta al secondo motivo di ricorso, il giudice ha affermato che COMPAS non ha
violato il diritto al giusto processo dell'imputato, poiché la natura proprietaria di
COMPAS non ha impedito all'imputato di vedere all'interno di COMPAS almeno fino
a un certo livello operativo dell'algoritmo . Il Tribunale ha smentito l'incidenza di
COMPAS sulla decisione finale, in quanto si sarebbe giunti alla stessa condanna e
ammontare di pena anche in assenza di COMPAS. Riteniamo che la sentenza sia più
significativa per le sue indicazioni di politica giudiziaria che per la concreta
motivazione che invece è esposta alla critica. Il giudice apre uno spazio all'algoritmo
nel procedimento, ma con pesanti avvertimenti. La condizione fondamentale è che
l'algoritmo possa aiutare solo a determinare le pene alternative alla reclusione; non
deve intervenire nel giudizio di colpevolezza/non colpevolezza, ma solo nella
valutazione del pericolo di recidiva. Deve applicarsi solo ai reati minori. E l'ultima
condizione è che: «Fornire informazioni ai tribunali condannati sulle limitazioni e le
cautele legate all'uso delle valutazioni di rischio COMPAS consentirà ai tribunali di
valutare meglio l'accuratezza della valutazione e il peso appropriato da dare al
punteggio di rischio. I punti oscuri di questo ragionamento emergono nel confronto
con un caso analogo di un'altra Corte Suprema, più coerente tra premesse e
conclusioni rispetto alla Corte Suprema del Wisconsin. Per chiarezza scientifica va
detto che COMPAS è solo uno dei tanti algoritmi utilizzati in fase istruttoria per
prevedere la recidiva. Fu passato sotto i raggi X da uno Studio di Propublica. Lo
studio ha concluso che COMPAS discriminava i neri perché il suo algoritmo
produceva un tasso di falsi positivi molto più alto per i neri rispetto ai bianchi, il che
significava che prediceva un rischio elevato per i neri. Cosa aveva fatto COMPAS per
meritare un parere così negativo? Compass aveva sottovalutato la recidiva dei
Bianchi e sopravvalutato quella dei Neri, che invece si è rivelata sbagliata a causa
dell'evidenza che i Neri avevano commesso meno crimini dei Bianchi. Questo errore
di previsione era dovuto al fatto che i neri sono sovrarappresentati nelle classifiche
criminali e quindi i loro dati sono più presenti come materia prima su cui lavora la
macchina algoritmica per dedurre future previsioni comportamentali. In forza dello
strumento di valutazione COMPAS, i Neri hanno quasi il doppio delle probabilità dei
Bianchi di essere etichettati come un rischio più elevato, ma in realtà non re-
offeggiano. Fa l'errore opposto per quanto riguarda i bianchi: hanno molte più
probabilità dei neri di essere etichettati come un rischio inferiore, ma continuano a
commettere più crimini. Il difetto di fondo sta nella raccolta di dati relativi a persone
che hanno già commesso reati. Tra questi, i neri sono la maggioranza. Pertanto, un
risultato di un'eccessiva recidiva nei confronti delle persone di colore è
consequenziale. Questa architettura potrebbe essere definita 'un circolo vizioso' ed
essere visualizzata come un cane che si morde la coda, perché continua a
condannare chi ha già commesso errori estendendo al futuro una presunzione di
colpa. Mentre chi non ha sbagliato è fuori COMPAS, che sceglie per questa categoria
una presunzione di innocenza, escludendo ogni successiva colpa. Il caso basato su
COMPAS ci è utile per riflettere in termini più generali su come progettare un
algoritmo in modo tale che il suo risultato possa essere equo ed equilibrato. Da
COMPAS emergono due considerazioni attendibili: a) anche se un algoritmo non si
basa su presupposti discriminatori, non si può escludere che possa portare a esiti
discriminatori; b) se un algoritmo muove da una base discriminatoria, il suo esito
sarà inevitabilmente diseguale e ingiusto. Ci interessa approfondire la prima
ipotesi. Si verifica quando gli elementi inclusi nell'algoritmo derivano da questionari
intrinsecamente più adatti alla popolazione bianca piuttosto che ai neri, perché
assumono come dannosi il codice postale, le amicizie, le abitudini alimentari, la
fede, l'istruzione ricevuta, l'ambiente familiare. clementi. Un punteggio alto viene
dato come sintomo di recidiva, solo perché non si tiene conto che il loro significato
cambia a seconda del gruppo etnico a cui si riferiscono. Nel rapporto Propublica si
dice che »il prodotto principale di Northpointe è un insieme di punteggi derivati da
137 domande a cui rispondono gli imputati o estratte dai casellari giudiziari. La razza
non è una delle domande. Il sondaggio chiede agli imputati cose come : «Uno dei
tuoi genitori è stato anche mandato in prigione o in prigione?» Quanti dei tuoi
amici/conoscenti si drogano illegalmente?' e 'Quante volte hai litigato mentre eri a
scuola?' Il questionario chiede anche alle persone di essere d'accordo o in
disaccordo con affermazioni come «Una persona affamata ha il diritto di rubare» e
«Se le persone mi fanno arrabbiare o perdere le staffe, posso essere
pericoloso». Quindi questi modelli assoluti e statici vengono utilizzati
automaticamente a prescindere della persona a cui vengono applicati, e con un
trasferimento automatico finiscono per assegnare etichette tipiche e valutazioni
legali che risulteranno poi pregiudizievoli. Dobbiamo aggiungere un'ulteriore
considerazione: i gruppi minoritari, come i neri, non ricevono i livelli di
rappresentanza negli studi di convalida tipicamente concessi alle popolazioni
bianche. Inoltre, alcuni studi hanno mostrato che strumenti specifici dimostrano per
particolari campioni di minoranza un'accuratezza predittiva che è ricorrentemente
più scarsa rispetto alle popolazioni bianche. Pertanto, mentre un particolare
strumento ha funzionato bene sul suo campione di addestramento, non
necessariamente funziona bene su un altro campione privo di una validazione ad
hoc. La sua buona prestazione è minacciata dal potenziale di differenze rilevanti per
il rischio negli autori di reati e nelle caratteristiche del disegno dello studio.
Quanto alla relazione tra l'algoritmo e il suo utilizzo in un processo, possiamo
sostenere che in assenza di regole che impongano la validazione dell'algoritmo e
prescrivano architetture costruttive modulate secondo le caratteristiche del gruppo
sociale o etnico a cui si applicano , il sistema giudiziario si trova di fronte a
un'alternativa.
a) L'ingresso degli algoritmi nel processo è consentito a condizione che siano stati
preventivamente validati, ovvero testati su un campione sociale in evoluzione, come
ha fatto la Corte canadese. In tal caso, a entrambe le parti dovrebbe essere
consentito di vedere all'interno della macchina, aperta a un procedimento in
contraddittorio a tutto campo. In altre parole, affermiamo che il rimedio chiave alla
discriminazione della scatola nera è la trasparenza, come affermano alcuni studiosi:
« sistema il cui funzionamento è misterioso; possiamo osservarne gli input e gli
output, ma non possiamo dire come si diventa l'altro». Se è probabile che il
problema della discriminazione algoritmica risieda nelle manipolazioni, allora in
effetti il peering all'interno della scatola nera sembra la risposta, b) Se gli algoritmi
vengono presi nel processo come scatole nere che non si aprono, funzioneranno
come insidiose prove di pericolo e colpevolezza, perché assegnano queste etichette
sulla base della presunzione assoluta che 'ciò che è successo continuerà ad accadere
in futuro'. Questa seconda ipotesi è una scorciatoia che manda la giustizia secoli
fa, relegandolo in un'oscurità medievale. Infatti, questo tipo di algoritmo non
governato da una disciplina vincolante determina un'anarchia algoritmica. Si tratta
della riproduzione di ingiustizie, già pesanti per le minoranze, con l'aggravante che la
discriminazione non si rivela, perché nascosta sotto una 'patina di equità'
83. L'anarchia algoritmica ha sostituito l'indagine predittiva intuitiva perché si vanta
di essere basato su modelli matematici, che si dice siano immuni da pregiudizi fin
troppo umani. Ma stiamo sostenendo che questa ipotesi è ingiustificata. Infatti le
previsioni algoritmiche che vantano la loro 'patina di legalità' possono essere più
pericolose per le libertà fondamentali delle vecchie analisi predittive basate sulle
convinzioni del giudice. Questo perché la parvenza di obiettività delle moderne
previsioni potrebbe generare una presunzione di equità difficilmente superabile. Se
si assume come punto di partenza la correttezza dell'esito algoritmico, il giudice
difficilmente avrà prove contrarie. Allo stesso modo, non è confortante affermare
che il giudice potrebbe non attenersi all'algoritmo, assumendolo come un qualsiasi
altro fattore nel processo, perché di fatto l'algoritmo una volta entrato nel processo
esercita un'influenza decisiva sulla condanna del giudice. Per non seguirla il giudice
dovrebbe basarsi su una prova contraria supportata dall'autorità scientifica come
l'algoritmo pretende di avere. Si potrebbe tracciare un parallelo tra due forme di
'cattura': i giudici sono catturati da algoritmi come le Autorità Indipendenti sono
state catturate dai regolati. Ad esempio, nel caso Loomis il giudice ha affermato
che, indipendentemente dall'esito algoritmico, avrebbe pronunciato la stessa
decisione contro Loomis. Ma nessuno può dimostrare che questa affermazione è
vera; l'ingresso di COMPAS nelle aule dei tribunali resta un fatto innegabile e
nessuno può comportarsi come se fosse stato escluso. Certamente più corretto e
rispettoso della presunzione di innocenza è l'atteggiamento tenuto dalla Corte
Suprema canadese che nel caso Ewert si è pronunciata per l'inattendibilità di
algoritmi, la cui validità non era stata preventivamente verificata. La Corte ha
escluso il loro utilizzo per fini giudiziari fini a meno che gli algoritmi non fossero
accompagnati dalle prove che ne escludano la scorrettezza, altrimenti dovrebbero
essere tam quam non esset. La Corte Suprema canadese, pronunciandosi a favore di
Ewert, ha stabilito che senza prove che l'algoritmo fosse privo di pregiudizi
culturali, era ingiusto usare questo strumento sui detenuti indigeni. Insomma, per
essere equi ed equi, gli algoritmi devono essere regolati, e la regola cruciale è che
situazioni uguali meritano lo stesso trattamento, e situazioni diverse devono
ricevere una disciplina differenziata. «L'uguaglianza sostanziale richiede più della
semplice parità di trattamento», poiché trattare i gruppi in modo identico può
produrre di per sé disuguaglianze. Data un'anarchia normativa, gli algoritmi
supportati da una pretesa di universalità, obiettività e neutralità saranno più ingiusti
nella sostanza dei pregiudizi e delle credenze medievali. In un ambiente politico che
pretende di prestare attenzione alle politiche sociali, queste macchine
perpetueranno le secolari ingiustizie che già affliggono le classi più deboli e le
minoranze etniche. L'unica ma aggravante differenza sarebbe che l'algoritmo si
nasconderà dietro un'apparente legalità.
8. Il nuovo approccio del comitato Boldrini
Il 28 luglio 2014 la Presidente della Camera dei Deputati italiana, Laura Boldrini, ha
aperto i lavori della Commissione da lei costituita per redigere una Dichiarazione dei
diritti di Internet. In via preliminare, si deve rilevare che né la legge né il
Regolamento della Camera dei Deputati ha conferito al Presidente il potere di
nominare una commissione di studio composta sia da Deputati che da esperti. Si
trattava tuttavia di esercizio di una legittima facoltà tesa a sollecitare dal decisore
una futura regolamentazione di Internet orientata al quadro normativo previsto
dalla Dichiarazione. Per questo non possiamo condividere le critiche mosse alla
legittimità dell'operato della Commissione, che non intendeva competere con le
Commissioni parlamentari, prive dei corrispondenti poteri di legge. Il suo potere era
meramente di persuasione morale nei confronti del Legislatore. Il soddisfacimento
di tali requisiti costituisce le condizioni per un effettivo esercizio dei diritti
fondamentali in Rete. Commissione da lei costituita per redigere una Dichiarazione
dei diritti di Internet. Deputati ha conferito al Presidente il potere di nominare una
commissione di studio composta sia da Deputati che da esperti. Internet orientata al
quadro normativo previsto dalla Dichiarazione. Commissione, che non intendeva
competere con le Commissioni parlamentari, prive dei corrispondenti poteri di
legge. Dichiarazione dei diritti per Internet. Se applichiamo alla Carta dei diritti
italiana la classificazione utilizzata dal Berkman Centre, il suo autore non può
definirsi né completamente pubblico né completamente privato. È stato redatto da
un organo misto composto sia da rappresentanti del gruppo politico cach alla
Camera dei Deputati che da esperti. I secondi, scelti in base alla loro neutralità
politica, mitigavano e controbilanciavano l'orientamento politico dei
primi. L'autore, pur avendo un carattere nazionale, non ha scritto la Carta seguendo
il modello dei Bollettini di origine nazionale. Ne è prova l'intero insieme di valori e
diritti che seguivano il corpus di principi condivisi dalla comunità internazionale sul
tema dei diritti fondamentali. Ciò era ovviamente necessario anche a causa della
natura senza confini di Internet. L'origine mista dell'autore, pubblico e privato, ha
fatto sì che la Carta non tracciasse un quadro in cui prevarrebbero gli interessi
privati. " Esempi di quest'ultimo modello" sono quelle Carte incentrate
principalmente sui diritti degli utenti o dell'Over the Top, mentre il Ddl italiano si
concentra sui diritti fondamentali dei cittadini e affronta i limiti indispensabili dei
poteri pubblici per salvaguardare contenuto essenziale delle libertà. Dichiarazione
rappresenta in Italia il primo esempio significativo di documento politico portato in
consultazione pubblica. Molti hanno criticato il processo sostenendo che regole
precise avrebbero dovuto essere definite e stabilite prima dell'inizio della
consultazione. A mio avviso, un difetto di procedura può essere riscontrato, nel fatto
che una volta terminata la consultazione, il Comitato non ha adeguatamente
spiegato per ogni suggerimento o obiezione le ragioni per tenerne conto o
respingerla, come l'esperienza americana di l'avviso e il commento dovrebbero
averci insegnato a fare. Ciò è dovuto al breve tempo assegnato al Comitato e
all'enorme quantità di osservazioni prodotte dalla consultazione pubblica, più che a
una volontà voluta del Comitato.
8.1 Contenuto della Dichiarazione del Comitato
Nell'adozione di un approccio costitutivo fornisce un regolamento quadro' in
materia di Governance di Internet e Libertà digitali. La sua struttura imita quindi una
vera e propria Costituzione, anche se non vi è alcun riferimento a uno Stato
territoriale, secondo la natura a-territoriale di Internet, e se il documento manca di
valore vincolante, a causa della natura a-parlamentare del suo Autore, come si è
visto in precedenza, l'atto si colloca infatti sui due stessi pilastri del
postcostituzionalismo rivoluzionario : poteri e libertà Il focus della Dichiarazione si
concentra sulla subordinazione dei poteri ai diritti, perché i poteri esistono se e nella
misura in cui riconoscono le libertà fondamentali e attuano i diritti
sociali. Pertanto, queste due entità, poteri e diritti, non sono allineate sullo stesso
piano di gioco: la prima non può essere concepita come legibus soluti, essendo
suscettibile di vincoli al fine di pro- proteggere le libertà. Questa relazione speciale
racchiude il nocciolo duro del costituzionalismo moderno. Quanto ai poteri: la
Dichiarazione impone che la governance di Internet, comunque configurata, debba
obbedire ai principi della democrazia e della rappre- sentanza. Questi devono essere
specificati in coerenza con il patrimonio scientifico di Teubner – attraverso
l'imposizione di una composizione multistakeholder e una legittimazione
rappresentativa per gli attori economici ei soggetti sociali online. Quindi sarebbe
inutile guardare nella Dichiarazione per maggiori dettagli riguardanti sia i concetti di
multistakeholderismo che lo standing di legittimazione. L'atto ha preferito non
raffreddare il dibattito internazionale in corso, lasciando ad esso il compito di
raggiungere il più ampio consenso possibile sull'argomento. Al
momento, però, questo sembra ancora lontano nel futuro. Al contrario, il pilastro
delle libertà è quello a cui la Dichiarazione dedica quasi tutti i suoi articoli. Queste
possono essere classificate in due categorie: norme generali, applicabili a tutti i
diritti in gioco, e norme specifiche, relative ai singoli diritti soggettivi. Le disposizioni
della prima categoria non sono perfettamente in linea con lo Stato di diritto e il
principio del giusto processo, prima illustrati. Infatti, non vi è alcuna affermazione
generale che richieda che le libertà siano limitate solo a favore di un valore
ugualmente classificato e in conformità con i principi di necessità e
proporzionalità. Invece, questo test di bilanciamento è fornito solo per alcune
libertà su base separata. Abbiamo già criticato questa tecnica
redazionale, focalizzata sui singoli casi piuttosto che sulle regole generali;
infatti, abbiamo espresso le nostre osservazioni sia in Commissione che in contesti
scientifici. Né la clausola del giusto processo è prevista in termini generali.
Piuttosto, è stabilito solo occasionalmente. Ad esempio, sostiene nell'art. 11, co. 3
"Diritto all'oblio", affermando che: "Dove una richiesta di essere rimossa
appartenenti al campo delle libertà individuali. In altre parole, ciò che serve alla
parità di accesso non è la libertà di iniziativa economica dell'ISPS, ma il godimento
del diritto di ognuno ad essere informato. Quest'ultimo, infatti, soffrirebbe di una
qualità e velocità eccessive, perché saremmo costretti a scegliere questi contenuti
privilegiati rispetto a quelli più lenti a monte del vincolo se qualche contenuto ci
arrivasse con migliore. Sarebbe superfluo richiamare qui quanto già esposto
sopra, ci limiteremo ad aggiungere solo alcune riflessioni in merito alla fonte
normativa di tale diritto. La sua fonte non è stata identificata
nell'autoregolamentazione negoziata tra ISPS e ICPS. Affidare la regolamentazione a
un contratto, infatti, declasserebbe il web da bene comune a merce, negoziabile in
cambio del più alto prezzo di mercato. In tal caso, coloro che già dominano il
mercato delle bande online sarebbero in grado di attrarre il maggior flusso di byte e
impedire l'accesso ai nuovi arrivati, che non possono permettersi di pagare lo stesso
prezzo. Su questo punto, la Dichiarazione non è stata così chiara come lo è stata
nella dichiarazione del diritto alla neutralità della rete. Infatti, non ha imposto ad un
atto pubblico di essere fonte del diritto alla non discriminazione di ogni operatore -
rispetto al suo concorrente, per quanto riguarda l'ampiezza e la qualità della
band, indipendentemente dalle capacità di tutti. Qui la Dichiarazione ha perso
l'occasione per affermare un principio di parità di trattamento orientato ai diritti
fondamentali. Anche il riferimento ad un'altra libertà nella Dichiarazione, il diritto di
accesso , conferma la centralità della suddetta coppia. Qui la Dichiarazione non si è
limitata a riconoscere questo diritto. Il ddl, infatti, ha avvicinato il suo contenuto a
un diritto sociale, ovvero ha obbligato lo Stato a essere propositivo ea diffondere la
banda larga su tutto il territorio nazionale, indipendentemente dalla residenza e
dalla capacità di spesa del cittadino digitale. La fascia, quindi, coprirà anche le zone
bianche, quelle dove il mercato fallisce, dove il privato non potrà mai arrivare per
disutilità economica. Ora, ciò significa che l'attualizzazione del diritto di accesso è
strumentale all'esercizio delle libertà fondamentali, ma, per essere concreta, esige
che lo Stato adempia tempestivamente al proprio dovere di servizio. Il contenuto
essenziale di tale diritto è la legittimazione ad un'azione proveniente dallo Stato. E la
sua connessione con il principio di uguaglianza sostanziale è evidente poiché la
norma include tra i beneficiari di questo diritto tutti coloro che vivono condizioni di
digital divide, "compresi quelli creati da genere, condizione economica o una
situazione di vulnerabilità personale o disabilità". Quindi, l'accesso diventa uno
strumento di sostanziale uguaglianza, perché è una leva del potere pubblico per
spostare il flusso di ricchezza dagli 'abbienti' ai 'non abbienti'. Diventa un booster
che moltiplica la ricchezza: chi è escluso dalla digitalizzazione non dovrà sostenere
gli oneri dell'accesso, ma avrà diritto a riceverlo come servizio sociale, necessario
perché gli permette di riempire il distanza tra il digitale incluso e loro. L'articolo 2
crea disuguaglianze allo scopo di pareggiare. In tempi di scarsità
economica, infatti, il servizio universale ha bisogno di essere articolato in termini
relativi: lo Stato non può assicurare tutto a tutti, e quindi fornisce l'essenziale solo a
chi ne ha bisogno. L'articolo 2 prevede trattamenti differenziati in base alla capacità
di spesa del beneficiario. Vale a dire, la fornitura della banda larga sarà pagata meno
del suo valore di mercato da coloro che vivono in aree di digital divide, mentre lo
stesso non deve valere per coloro che risiedono in aree a piena inclusione
digitale. L'articolo 2, quindi, è un precetto che introduce asimmetrie benevole nelle
regole. Essa, infatti, assicura una disciplina favorevole a chi non era stato
ammesso, fino a quel momento, a godere del benessere economico e dell'inclusione
sociale. Quindi, permette a tutti di prendere parte ai benefici della e-society. Chiude
il cerchio un precetto che regola i reciproci rapporti tra le fonti normative di
Internet: la Dichiarazione fa riferimento sia alle fonti vincolanti - cioè al
diritto, indipendentemente dal suo autore nazionale o sovranazionale - sia
all'autoregolazione, affidata ai padroni della rete, gli Over the top. Dichiarazione ha
trovato, non senza sforzo, un lodevole compromesso, perché ha dettato un ordine
cogente di intervento: prima le leggi, poi l'autoregolamentazione. In questo modo il
ddl ha impedito che le scelte politiche fondamentali in rete, ovvero il binomio
uguaglianza-legalità, venissero sacrificate dalle idee miopi ed egoiste di alcuni
fondati e ben strutturati operatori: «impedire ogni forma di discriminazione e
impedire che le regole che ne regolano l'uso siano determinate da coloro che
detengono il più grande strumento vitale per promuovere la partecipazione
individuale e collettiva ai processi democratici, nonché l'uguaglianza sostanziale".
Questo discorso sull'approccio normativo ha fatto emergere un fil rouge: e cioè tra il
contenuto dei diritti - limitabili solo dal Legislatore e coerentemente con i principi di
proporzionalità e necessità - e le loro fonti, che devono seguire il principio di
gerarchia - prevalenza chic della volontà imperativa su quella contrattuale. Tale
legame corrisponde infatti all'idea che le libertà economiche sono un mezzo per
tutelare le libertà fondamentali, ma questa relazione non può mai essere capovolta.
8.2 Status giuridico della Dichiarazione
Per rimuovere ogni dubbio circa lo status giuridico della Dichiarazione vorrei chiarire
subito che questo documento non ha effetti giuridicamente vincolanti, ha
semplicemente lo stesso valore di un atto politico. Ancor più è un atto che implica
un impegno politico, poiché è stato approvato il 23 novembre 2015 con una
mozione votata a maggioranza trasversale alla Camera dei Deputati del Parlamento
italiano. Come ogni mozione, deve essere adeguatamente presa in considerazione
dal potere esecutivo nella sua concreta attività politico-
amministrativa. Tuttavia, essendo un atto politico, la Dichiarazione resisterà solo
fino a quando i suoi sponsor politici manterranno il loro sostegno. Quanto al suo
valore giuridico, esso non può essere fatto valere giudizialmente, né contro un
soggetto pubblico, né contro un privato. Essa, infatti, non genera alcun obbligo
giuridico da assolvere. A questo punto mi sembra opportuno ricordare che anche la
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea aveva lo stesso valore della nostra
Dichiarazione, prima di essere recepita nei Trattati di Lisbona. Molti giudici nazionali
ed europei, infatti, continuavano ad assumerlo come criterio di interpretazione di
altre fonti giuridiche vincolanti. In sintesi: nonostante la Dichiarazione non abbia una
rilevanza giuridica diretta, non è da escludere un valore giuridico indiretto e
implicito. Neghiamo uno status giuridico alla Dichiarazione, ma allo stesso tempo
possiamo aspettarci che sarà presa in considerazione "in trasparenza" da coloro che
dovranno prendere decisioni giuridicamente vincolanti. La Dichiarazione come
punto di riferimento di una nuova cultura di Internet, come ha affermato l'Avvocato
generale Mischo riferendosi al valore della CE «So che la Carta non è giuridicamente
vincolante, ma vale la pena farvi riferimento dato che costituisce l'espressione, al
più alto livello, di un consenso politico democraticamente stabilito su quello che
oggi deve essere considerato come il catalogo dei diritti fondamentali garantiti
dall'ordinamento giuridico comunitario». A questo punto possiamo dare una
valutazione complessiva dell'esperienza italiana: quali sono i suoi vantaggi e
svantaggi? Quanto ai primi, si può notare che si tratta di una regolamentazione
flessibile, in grado di orientare Internet verso i valori fondamentali della democrazia
e equità, e "poroso" all'autoregolamentazione del soggetto privato, senza concedere
a quest'ultimo alcuna prevalenza sulle fonti vincolanti. Tra i suoi svantaggi, non si
può annoverare la scarsa prescrittività del linguaggio, anche se tale critica è stata
espressa durante la conferenza stampa successiva alla presentazione della
Dichiarazione, sarebbe infatti contraddittorio con la Dichiarazione perseguire un
intento costitutivo pur affermando rigorose obblighi e divieti. Al contrario, proprio
come qualsiasi Carta costituzionale, deve essere sufficientemente elastica da tenere
conto di situazioni future, che possono essere imprevedibili. Ciò è particolarmente
vero dato che la Dichiarazione è indirizzata a una realtà in continua evoluzione:
Internet. Tuttavia, troviamo alcuni inconvenienti. In primo luogo, quella a cui
abbiamo già accennato illustrando le singole parti della Dichiarazione: il giusto
processo e lo stato di diritto sono tutelati in modo inadeguato. Tuttavia, il vero
difetto non sta nella Carta stessa; è piuttosto da ricercare nella mancanza di
attenzione ad essa da parte del decisore politico. Infatti, alcuni atti normativi
successivi, che avrebbero dovuto essere coerenti con la Dichiarazione, sono stati
redatti come se la Dichiarazione non fosse mai esistita. Possiamo considerare la
recente legge sul cyberbullismo o la precedente normativa antiterrorismo. Non è
questa la sede per un'analisi approfondita di tali atti, ci accontenteremo di
enunciare una sola conclusione. In poche parole, la Dichiarazione, che condiziona la
limitazione delle libertà a un principio di necessità, non è coerente con la normativa
antiterrorismo, che consente deroghe alle libertà in conseguenza di un pericolo
astratto . Allo stesso modo, la Dichiarazione, affermando che le libertà possono
essere limitate solo da un'autorità pubblica e imparziale, è in contraddizione con la
Legge sul cyberbullismo. Quest'ultimo delega incondizionatamente tale potere agli
ISPS, che possono oscurare, cancellare o bloccare i dati personali senza alcuna
procedura contraria e con un preavviso molto breve. Gli ISPS sono infatti soggetti ex
parte che non hanno nulla in comune con un'autorità pubblica e imparziale. Lo
svantaggio della Dichiarazione, poi, non sta nel metodo o nella stesura, ma nel fatto
che il decisore politico non è disposto a prenderla in considerazione. Inoltre, questa
contraddizione non è un caso isolato e solo nazionale. A livello europeo questo
contrasto è chiaramente visibile per quanto riguarda le tutele dei diritti
fondamentali online. Il dialogo in contraddittorio tra la Corte di giustizia e il Decisore
non ha ancora trovato un equilibrio adeguato e condiviso. Direttiva UE 2017/541
"sulla lotta al terrorismo" va nella direzione opposta. Quindi, in definitiva, il
processo costitutivo di Internet è un evento auspicabile, che è tuttavia lungi dal
realizzarsi. Tuttavia, ciò non riduce, ma anzi rafforza, il valore della Dichiarazione del
Comitato Boldrini, come valore politico.
9. Osservazioni conclusive
L'opinione secondo cui la rete può rimanere totalmente libera non può essere
accolta. Abbiamo spiegato le ragioni per cui occorre mettere in atto una «Carta dei
diritti» a misura di Internet e affidata a un legislatore sovranazionale. Tuttavia, la
complessa interazione tra interessi in competizione rende difficile trovare un
equilibrio efficace che consenta a Internet di mantenere il suo pieno potenziale di
innovazione. Questo saggio è stato incentrato sulla prospettiva dell'acquis
costituzionale offline dei paesi democratici che viene trasportato online, al fine di
ottenere una migliore protezione dei diritti e delle libertà fondamentali e fornire
pari opportunità per tutti. In tali casi è facile trovare una risposta appellandosi ai
valori della democrazia e riconoscendo la preminenza dei diritti e delle libertà. Ma è
molto più difficile far fronte al cambiamento dell'opinione pubblica derivante dal
terrorismo. Bisogna ammettere che Internet può essere uno strumento potente
anche nelle mani dei criminali. I legislatori sono sotto pressione per imporre a
Internet norme più severe al fine di soddisfare una crescente domanda di sicurezza.
È ovvio che i decisori politici non possono facilmente respingere le opinioni
prevalenti dell'opinione pubblica, che prima o poi si tradurranno in voti. Ciò
suggerisce che i diritti e le libertà in rete non possono trovare la loro difesa solo in
una Corte di giustizia, ma richiedono che l'argomento sia portato anche in politica.
Capitolo 10
1. Il discorso degli effetti sociali asimmetrici del Covid
In un editoriale sul Financial Times, Rachman rifletteva sugli effetti del Covid: il virus
aveva limitato i diritti fondamentali di tutti gli individui, ma a questa formale
equiordinazione nella titolarità del sacrificio corrispondeva una sostanziale
disuguaglianza nell’identità del pregiudizio subito. Il decisore politico nel comparare
il diritto alla salute pubblica con gli altri diritti fondamentali, ha interpretato in
chiave riduttiva il comma 1 dell’art. 3, accogliendo come criterio che orienta la
comparazione tra i diritti l’accezione della norma che impone di assegnare a
situazioni uguali il medesimo trattamento, trascurando la regola secondo cui
situazioni differenti richiedono, ove possibile, una disciplina motivatamente diversa.
Aver ignorato la diversità di partenza ha comportato che il sacrificio, imposto a
persone fragili socialmente o economicamente, abbia pesato di più se confrontato
con la stessa privazione sopportata da chi partiva da una condizione di iniziale
benessere. Esempio: diversa è la condizione del lavoratore autonomo che ha potuto
contare sui risparmi messi da parte, da quella del dipendente monoreddito, privo di
capacità di accumulo. Le misure pubbliche di sostegno al reddito, a partire dal
Decreto cura Italia, hanno equiparato queste due condizioni lavorative, che
andavano invece trattate secondo il criterio della ragionevole diversità di disciplina.
Scarsa attenzione è stata riservata alla condizione di vulnerabilità delle donne: per
coloro che già vivevano situazioni di violenza domestica, restare a casa è stata una
condanna. Questa particolare condizione femminile non ha ricevuto aiuti ad hoc
dallo Stato, inoltre, i dati affermano che la perdita del lavoro dovuta al Covid ha
colpito prevalentemente le lavoratrici e che la ripresa delle attività in modalità smart
working ha interessato prioritariamente le donne. L’emergenza non ha quindi creato
la disuguaglianza ma la ha resa acuta e fatta emergere con un’evidenza prima d’ora
sconosciuta. Tale politica si sarebbe dovuta compiere in prestazioni aggiuntive
riservate a chi era rimasto indietro così da accelerare la sua partecipazione
economico-politica e negate a chi era già avanti nella corsa verso l’inclusione.
2. Il ruolo del fattore tecnologico nella trilogia
La tecnologia si potrebbe prestare come leva al servizio del comma 2 dell’art. 3.
Chiediamoci se davvero il progresso tecnologico abbia alleviato persone e categorie
sacrificate dagli effetti sbilanciati dello stato di emergenza a loro danno.
Lo avrebbe potuto fare se la tecnologia fosse stata anticipatamente indirizzata verso
il common good, espressione che rimanda all’ambizioso programma di welfare
annunciato dal Costituente. Il “bene comune” rappresenta il criterio che sintetizza i
valori oggettivi in base ai quali scegliere il modello regolatore più appropriato alla
tecnologia:
- la self-regulation, cioè le regole che i privati danno spontaneamente a sé stessi
- l’eteronomia, cioè le regole imposte d’imperio dal decisore politico
Nella prima ipotesi, la disciplina auto-dettata finisce per giocare a vantaggio degli
autori privati delle regole. Lo Stato non può scommettere solo sulla parte buona
dell’individuo e sperare che essa si realizzi, ma deve prendere in considerazione
l’ipotesi della tensione della persona a vivere riversata su se stessa, e pertanto deve
aiutarla a seguire la sua spinta verso la solidarietà. Come deve fare lo Stato per
orientare lo sguardo dei cittadini verso obiettivi socialmente apprezzabili?
Troviamo la risposta nella seconda ipotesi: l’eteronomia completata
dall’autoregolazione. Le regole pubbliche, da un lato, si potranno avvalere dei privati
per integrare il discorso normativo (ma prima dovranno tratteggiarne la fisionomia),
dall’altro, la mano pubblica dovrebbe guidare in anticipo gli sviluppi della self-
regulation. L’autoregolazione, pertanto, sarebbe solo in parte affidata ai privati,
mentre rimarrebbe nella disponibilità del soggetto pubblico il compito di assegnarle
un obiettivo finale e dettare un contenuto conformativo dei rapporti da
autodisciplinare. Si ipotizza un’etero-regolazione capace di essere al tempo stesso
norma di azione, quando si rivolge al privato-regolatore, ma anche norma di
relazione, quando parla direttamente ai privati-regolati. Tutto ciò impone al
decisore politico un ruolo indelegabile: architetto e responsabile ultimo
dell’ordinamento giuridico, concepito, come sistema “poroso” alle voci dal basso.
3. L’accesso alla rete è diventato un diritto sociale?
Partiamo da un’affermazione: l’accesso come pretesa del cittadino affinché lo Stato
stenda sull’intero territorio nazionale la rete a banda larga e ultra larga, così da
consentire a chiunque di utilizzarla ovunque risieda e a un prezzo abbordabile.
Il cittadino digitale conseguirà un vantaggio una volta che il soggetto pubblico avrà
adempiuto alla sua prestazione. Inizialmente pochi sostenevano l’appartenenza
dell’accesso al genus dei diritti sociali (natura di diritto sociale: cioè pretesa a che lo
Stato si muova per rendere disponibile il quid rivendicativo all’individuo); oggi la
dottrina reputa incontestabile tale inclusione, ma lascia aperta la questione se le
caratteristiche del diritto digitale lo isolino dal modello di riferimento o meno.
Il diritto di accesso presenta attributi propri che riguardano principalmente la sua
dimensione dinamica: non procura un’utilità identificabile in una specifica
prestazione sociale, perché è strumento indispensabile per esercitare sul terreno
digitale altre situazioni soggettive. L’accesso condivide la funzione dei diritti sociali
che lo avevano preceduto: aiutare l’individuo a realizzarsi nella sua dimensione
politico-sociale, mettendogli a disposizione la rete con le sue crescenti potenzialità
di inclusione e sviluppo della sua vocazione come uomo economico e politico.
L’esercizio delle libertà online si affianca al terreno della realtà materiale.
L’accesso rappresenta un ponte virtuale tra il mondo analogico e quello digitale e
agisce come leva fisica tra che rende uguali chi uguale non era in partenza, grazie
alla sua capacità di rimuovere gli ostacoli materiali ed economici che impediscono
alla persona di compiere la sua piena dimensione costituzionale. La missione
equilibratrice del diritto di accesso lo pone al servizio dell’uguaglianza sostanziale
(art. 3). Condizione preliminare del diritto in esame è l’obbligo di fornire a chiunque
un’istruzione digitale, necessaria per esercitare in autonomia e con adeguata
cognizione tecnica vecchi e nuovi diritti. L’analfabetismo digitale è di ostacolo
all’esercizio dei diritti in rete che, soprattutto in tempo di virus, hanno visto
scontrarsi il piano di azione off-line e quello on-line, nell’unico spazio possibile, cioè
il secondo. I meno dotati tecnologicamente non hanno potuto fruire delle
prestazioni di e-learning o e-education erogate loro solo nella modalità digitale.
Il cultural digital divide è stato rinominato “distanziamento costituzionale”; si tratta
di un divario tra chi, dotato di strumenti tecnologici, è in grado di giovarsi delle
nuove libertà fondamentali e chi rimane invece inerte a guardare, a causa della sua
inadeguatezza tecnica. Gli obblighi di educazione digitale e di diffusione della rete
super veloce sull’intero territorio comportano che lo Stato si attivi subito per
procurare le risorse necessarie al loro adempimento. Dinanzi a un obbligo giuridico
la scarsità delle risorse è una questione di fatto che da un lato non può rendere
facoltativa una condotta doverosa, dall’altro pretende che lo Stato articoli in modo
selettivo i bisogni, senza confondere il fine (soddisfacimento dei diritti sociali) con il
mezzo (l’efficienza economica). Si ritiene quindi che lo Stato debba muoversi verso
coloro che hanno bisogno, non anche verso chi è già libero dalla necessità.
4. Le reti di nuova generazione: un esempio di come orientare
socialmente la tecnologia
La lettura teleologica dell’accesso ha un effetto conformativo sulla politica
regolatoria delle reti di nuova generazione. All’accesso, che presenta dignità di
diritto giuridicamente esigibile, deve corrispondere un’attività diretta a creare e
gestire le reti, accostabile al servizio universale o all’impresa di pubblica utilità.
La cultura europea, con il recente Codice europeo delle comunicazioni elettroniche
ha incluso almeno la banda larga nel paniere del servizio universale; tale paniere è
stato ridefinito in un elenco minimo e dinamico di prestazioni erogabili online.
Tuttavia, il servizio universale lascia fuori dal genus la superfast broadband, cioè
quella necessaria ai cittadini per ricevere dall’amministrazione prestazioni di sanità,
informazione e intrattenimento da casa. Si finisce quindi per codificare una tecnica
di creazione del diritto conservativa dello status quo, e quindi ostativa al progetto di
uguaglianza sostanziale, il quale comporta innovazione, movimento per superare le
rendite di posizione e riservare trattamenti differenziati ai cittadini in nome
dell’uguaglianza nei diritti.
5. Un modello socialmente orientato di reti di nuova generazione
Ammettiamo che le reti di nuova generazione non siano servizio universale; quindi,
l’impresa che gestisce rimane un’azienda privata tout court, libera di adottare la
condotta in grado di garantirle il massimo profitto e di realizzare l’architettura di
rete più confacente alla sua politica aziendale. Ne consegue che gli altri operatori
(cd. OLO) potranno accedere alle reti di nuova generazione solo alle condizioni poste
da chi ha realizzato la rete. Ciò impedirebbe il compiersi della funzione sociale
dell’impresa (art. 41). Alla illegittimità interna si aggiunge la dubbia compatibilità
comunitaria per manifesta irragionevolezza con l’idea di base del Trattato di
Lisbona. Trattato di Lisbona: pur riconfermando la fede nell’economia di libero
mercato, corregge gli eccessi di una visione solo lucrativa dell’attività d’impresa con
la coesione sociale e il riequilibrio territoriale; e concretizza il concetto
dell’economia sociale di mercato. Esaminiamo le politiche pubbliche adottate dei
nostri Governi nazionali.
6. La posizione del Governo sulla questione Reti in tempo di virus
L'affermazione "le reti costituiscono l'asset strategico di un paese" è vera e lo ha
dimostrato il Covid. La connessione ha contribuito a tenere in piedi il Paese che
altrimenti avrebbe rischiato una paralisi, infatti istruzione e informazione sono stati
forniti anche se in modalità digitale. Dunque, siamo consapevoli che la creazione
della rete non puó essere strutturata in ragione della domanda di accesso e venire
dopo di essa perché i fili della banda non possono essere distesi a richiesta. Il nostro
Governo ha risposto in tempo di emergenza con il D.L. 18/2020 che prevede alcune
disposizioni su reti e servizi di comunicazione elettronica per contenere gli effetti
negativi dell'emergenza covid-19 sul tessuto socio-economico nazionale. L'obiettivo
è chiaro: garantire una connessione alla rete a tutti i cittadini indistintamente. L'art
82 nei suoi commi 3 e 4 del D.L. 18/2020 pone al centro dell'attenzione l'impresa
come protagonista solitaria della costruzione o miglioramento dell'infrastruttura di
rete. Questa certezza è in realtà una debolezza poiché rimette il potenziamento
delle reti alla iniziativa economica privata controllata dall'autorità per le garanzie
delle comunicazioni. Diverso sarebbe stato il discorso se la norma avesse agito su
più piani, ovvero incrementando l'allargamento dei servizi di banda larga e ultra
larga; destinando fondi pubblici al finanziamento dell'attività di impresa privata e
spingendo verso l'accelerazione del Piano ultra larga, che incontra ostacoli nella
burocrazia amministrativa e nelle iniziative regionali. Resta comunque il dubbio se,
quando terminerà l'emergenza, verrà meno l'implementare di reti e servizi di
comunicazione elettronica. Inoltre, quali saranno i poteri dell'Agcom, che sino ad
ora è legittimata a modificare o integrare il quadro regolamentare vigente?
Sicuramente ci sarà il problema di ordine gerarchico tra fonti perché potrà mai un
regolamento secondario dell'Autorità disporre un contrasto con fonti di grado
primario? A parte la chiusura del sistema delle fonti, l'emergenza non puó derogare
al sistema delle fonti al punto da attenuare il principio fondante della gerarchia.
Nessuna norma specifica è contenuta nel decreto per quanto riguarda i fenomeni di
congestione relativi al caso di tecnologie impiegate per erogare servizi pubblici, quali
l'e-learning. Lo Stato ha destinato fondi pubblici, ma non ha posto norme per
individuare le modalità di didattica a distanza, lasciate all'iniziativa di dirigenti
scolastici ed insegnanti. La tecnologia dunque è al supporto dei cittadini durante
l'emergenza, ma l'obiettivo del decreto poggia su basi inidonee ad assicurare il
conseguimento.
7. Come orientare gli algoritmi verso il common good?
Partiamo dal fatto che l'algoritmo è uno strumento utilizzato per prevedere gli
sviluppi futuri dei comportamenti umani ed ha come carburante la raccolta continua
dei dati, Big Data. Noi disseminiamo i nostri dati inconsapevolmente durante le
negoziazioni in internet, interrogando i motori di ricerca o anche solo partecipando
a riunioni virtuali. Gli algoritmi, dunque, lavorano su grandi quantità di dati che
interpretano secondo una loro logica per anticipare le condotte che potrebbero
verificarsi. È intervenuta l'UE con il Regolamento 2016/679 che neutralizza il
pericolo del dominio incontrollato della macchina sull'uomo prevedendo il diritto di
opporsi a una decisione basata su un trattamento automatizzato; contesta le
decisioni adottate all'insaputa del destinatario riconoscendogli il diritto ad essere
informato sull'esistenza di un processo automatizzato; marginalizza gli algoritmi
oscuri con la pretesa di una motivazione chiara in merito alla logica usata e
all'importanza del trattamento previsionale; infine, oppone agli algoritmi biased il
diritto di contestarli nel corso del procedimento dinanzi ad un giudice per eccesso di
potere. Il fatto che sia stata adottata una disciplina vincolante è importante perché il
legislatore europeo ha presentato un elenco di diritti che possono essere attivati
dall'interessato. Ma il vero problema degli algoritmi è quale metodo questa
macchina intelligente astrae dalle masse di dati le valutazioni sulla condotta umana?
Chi orienta l'algoritmo? Sicuramente è l'uomo che deve orientare l'algoritmo verso
finalità buone, uguaglianza formale, rispetto della dignità e la difesa delle libertà
fondamentali. Questo evita che si arrivi ad esiti previsionali contrastanti con il senso
dell'umano, ma gli algoritmi usati nelle indagini di polizia partono da elementi
discriminatori e non giungono ad esiti diversi, e questo accade quando l'algoritmo si
basa su quanto di regola accade. Segue, quindi, che chi è colpevole di un certo
delitto è valutato come potenziale criminale anche per il futuro e non c'è speranza
per coloro che hanno sbagliato di avere un'occasione di riscatto. Gli algoritmi hanno
funzionato, nelle aule di giustizia, come insidiose prove della pericolosità basandosi
sul fatto che hanno sbagliato e continueranno a farlo. Conforta, peró, sapere che il
giudice potrebbe non attenersi all'algoritmo e fare affidamento su prove contrarie
supportate da un'autorità scientifica pari a quella che l'algoritmo pretende di avere.
Il sistema giuridico europeo sta iniziando a chiedere che gli algoritmi siano validati
prima di essere assunti a base di procedure volitive, giudiziali e amministrative. Solo
a queste condizioni il diritto europeo accetta che l'algoritmo possa determinare il
contenuto dell'atto pubblico. Si giunge così alla conclusione che con la possibilità di
sindacare l'algoritmo dinanzi ad un giudice e che egli potrà ripercorrere il medesimo
iter logico dell'algoritmo ma a ritroso e se tutto torna, l'algoritmo avrà superato la
prova del nove, altrimenti lo annullerà e prescriverà indicazioni all'amministrazione.
Ma possiamo dormire sonni tranquilli? Tra etica, cittadino e giudice, l'algoritmo è
diventato più trasparente e se per noi occidentali è etico qualcosa, per gli orientali è
illecito. Supporre l'esistenza di un patrimonio universale è come affermare la
supremazia della nostra cultura sulle altre, ma forse l'algoritmo deve tener conto
delle diversità. Dovremmo forse pensare ad un algoritmo non basato sull'etica, ma
su variabili sensibili all'ambito sociale di riferimento, alle ideologie di base a secondo
del territorio, alle architetture istituzionali di riferimento, e se l'algoritmo è diversità
e quindi difformità, essa è la premessa del cambiamento.
8. Conclusioni
Sulla base di quanto precedentemente preso in considerazione e analizzato,
possiamo dunque affermare che l'emergenza ha messo a nudo lacerazioni della
nostra società e che ora è tempo di rientrare ad uno status quo ante. Chi viveva in
una condizione di esclusione, l'emergenza lo ha aggravato e pretende di superarla.
Dovremmo, quindi, provare ad uscire dall'immobilismo di una società chiusa in caste
sociali, dovremmo prepararci ad un futuro migliore evitando di incombere nella
ripetizione di un copione già recitato, perché si finirebbe di ricadere nel modello
economico e sociale patriarcale. L'emergenza deve essere un'occasione di crescita e
di rimozione degli ostacoli anche per lo Stato inteso come apparato. Il Governo
chiede solidarietà alla UE, perché non vengano lasciati indietro territori e comunità e
durante il lockdown era il Governo a chiedere a noi cittadini di collaborare, ma ora
siamo noi a chiedere allo Stato: solidarietà come uguaglianza, come cambiamento
(come il rendere visibili i diritti sociali).

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