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UNITA’ 2A

La trasmissione e la tradizione del testo


Nel sistema della comunicazione letteraria il sistema testo si colloca in un complesso processo di trasmissione
che definisce la fortuna e l'identità di esso

Il processo si articola in tre momenti

Produzione
Circolazione
• Fruizione

La produzione riguarda la modalità e le diverse fasi di composizione dell'Opera e di codificazione del messaggio
e riguarda oltre che l'autore mittente anche i canali e i codici della comunicazione
L'autore infatti a seconda dei tempi usa determinati strumenti scrittori come ad esempio penna d'oca e
particolari materiali scrittori come pietre cocci,papiro, carta

L'autore emittente può in teoria comporre il suo testo di getto in qualche ora in una giornata oppure più
frequentemente e verosimilmente in tempi diversi con intervalli più lunghi in un contesto situazionale e culturale
o in più contesti dati.

Egli è dunque nello stesso tempo fonte e primo trasmittente del messaggio dallo stesso codificato con scopo
estetica e tramite particolari procedure scritturali che non prescindono dalle rette ricche del suo tempo e dalla
tradizione letteraria.

Il vettore comunicativo si esplica secondo due itinerari distinti

Autore - messaggio
Messaggio - lettore

L'autore infatti scrive per un lettore ideale non reale e tra i due non c'è interazione, il lettore quindi può
dialogare solo con l'opera, ne deriva così il fatto che il soggetto-lettore mutevole decodifica e intenziona
l'oggetto libro in luoghi ed epoche differenti

Questo tipo di relazione genera interferenze di diverso tipo complicando la comunicazione letteraria e rendendo
spesso non facile il lavoro dello studioso

Nella critica del testo trasmissione e tradizione sono sinonimi in questo caso bisogna fare la distinzione e
intendiamo:
• la trasmissione più propriamente come un processo tecnico di riproduzione, come l'atto meccanico del
trasferimento del testo da un esemplare alla sua copia manoscritto o a stampa.
L'ecdotica definisce quella copia testimone, il testimone è quindi ogni codice manoscritto o edizione a stampa
che abbia trasmesso copia totale o parziale di un testo

• Il complesso dei testimoni costituisce la tradizione, quindi definiamo la tradizione con un sistema che
comprende l'insieme delle testimonianze scritte di un testo che lo hanno tramandato nel tempo e nello
spazio con tutto ciò che questo implica e comporta.

La trasmissione verticale e orizzontale

• La trasmissione del testo che avviene attraverso la trascrizione di un unico esemplare viene definita
verticale
• La trasmissione attraverso uno o più testimoni di una famiglia (intrastemmatica) o più famiglie
(extrastemmatica), testimoni appartenenti ad altro ad altri gruppi viene definita trasmissione
orizzontale o trasversale
Il copista così trascrive il suo testo da più esemplari per singole lezioni o per ampi brani alterando e
contaminando le linee di trasmissione del testo rendendo difficile la ricostruzione dei rapporti genetici tra i
testimoni.

La trasmissione verticale manoscritta


L'amanuense o il copista

Prima della diffusione della stampa l’amanuense era la figura professionale di chi per mestiere copiava
manoscritti a servizio di privati o del pubblico, nell'antichità era esercitata dagli schiavi
Dopo le invasioni barbariche fu coltivata soprattutto in centri religiosi, nel XIII secolo si sviluppò una vera e
propria industria di professionisti

Ai fini della critica testuale l'opera di amanuensi professionisti è in generale più sicura di quella del copista
occasionale o dello studioso che tende a interpretare il testo

Il copista (detto anche scriba, amanuense o menante) è responsabile della scrittura di un testo. La maggior parte
dei casi un testo è scritto da un unico copista ma a volte è frutto di una collaborazione tra questi, a maggior
ragione un codice miscellaneo può essere opera di uno più amanuensi.

Quando un manoscritto però di più copisti si dice che ci sono più Mani, identificandole come mano Alfa, mano
Betta e via seguendo con le lettere dell'alfabeto greco.
Quando l'opera di uno avviene con delle interruzioni di tempo si può confondere con un cambio di umani ma in
realtà bisogna considerare il mutare nello stesso copista di umore, grafia, la penna.
Consideriamo anche che il copista se è un calligrafo, imita la scrittura del modello quando ad esempio si
sostituisce una pagina guasta o perduta di un manoscritto.
A volte egli riceve l'ordine di copiare pagina per pagine e riga per riga il modello. Quando accede in lunghezza
vi aggiunge una linea supplementare; quando succede invece di eccedere in brevità, scrive una riga della pagina
successiva poi la sbarra e la scrive di nuovo nella pagina seguente

Nell'ambito della stampa, compositore tipografo sono in un certo senso gli eredi dei copisti.

Quella del copista è una funzione e in certi casi può essere anche un ufficio o una professione.
Nel medioevo, a parte i monaci, i copisti di professione sono rari

Scrivere un libro era sinonimo di copiarlo, mentre per indicare l'attività dell'autore si ricorreva al verbo facere.

Nei manoscritti di tipo giullaresco il copista chiedeva come ricompensa per la sua fatica non tanto i caelica regna
quanto piuttosto qualcosa di piú terreno e a volte di piú carnale: un poculum vini, una bona puella ecc.
Spesso queste formule, talora insieme col nome del copista e raramente con la data, erano riportate nel
cosiddetto colofone (colophon), che disponeva le righe in una struttura grafica in genere rastremata verso il
basso in modo da dare la figura di un trapezio.
Nell’ambito universitario lavorano anche scribi professionisti. In realtà nel lungo arco del Medioevo i tipi di
copista sono varî e come i copisti per passione, quelli che trascrivevano i testi favoriti per poterne possedere un
esemplare personale: il caso piú famoso, studiato in particolare da Vittore Branca, è quello dei mercanti-copisti
che trascrissero varie copie del Decameron.
È interessante sapere se uno scriba ha copiato diversi mss. giunti fino a noi, perché da questa circostanza si
possono ricavare deduzioni anche importanti. Per esempio, se un copista ha copiato da un lato un codice non
datato e dall’altro uno o piú mss. datati, questi ultimi ci possono dare un’indicazione, sia pure generica, sulla
data del primo.
Scrive recentemente Luciano Canfora: «A ben vedere, è il copista il vero artefice dei testi che sono riusciti a
sopravvivere». Così fu, fino al tempo in cui la loro salvezza fu presa in carico dai tipografi.
I MONACI AMANUENSI
Amanuense deriva dal latino servus a manu, che era il termine con il quale i romani definivano gli scribi. Questi
monaci vivevano molte ore della giornata nello scriptorium. All'attività degli amanuensi si lega il personaggio
romano Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, che fondò a Squillace, in Calabria, il monastero di Vivario dedicato
allo studio e alla scrittura. Qui istituì uno scriptorium per la raccolta e la riproduzione di manoscritti, che fu il
modello a cui successivamente si ispirarono i monasteri medievali.
LO SCRIPTORIUM
Con le parole centro scrittorio si indica nel linguaggio della paleografia e codicologia il luogo definito in latino
come scriptorium, parola latina che deriva dal verbo scribere.
Posto dove si scrive e per estensione ogni luogo dove era effettuata l'attività di copiatura da parte di scribi,
soprattutto durante il Medioevo.
Nella terminologia corrente di solito si intende quella parte del complesso monastico dedicata alla copiatura dei
manoscritti, frequentemente in stretta connessione con una biblioteca.
Spesso tali ambienti ebbero grande importanza culturale sia per l'azione di salvaguardia della cultura greca e
latina, sia perché costituirono ambiti di pensiero e sviluppo di nuova cultura.
L'attività propriamente di copiatura prevedeva tutte le fasi della lavorazione del libro.

• preparazione della pergamena per la scrittura (taglio dei fogli, foratura, rigatura, levigazione).
• Fasi della scrittura vera e propria: il monaco amanuense copiava il testo sulla pagina rigata (che recava
già stabiliti gli spazi dove sarebbero state realizzate le miniature).
Non sempre si limitava alla copia di testi antichi; molto spesso venivano scritte anche opere originali.
L'attività dello scriptorium era diretta da un armarius che forniva i monaci del necessario per scrivere
(penne, inchiostro ecc.) e che aveva inoltre anche altri incarichi.
Spesso gli scriptoria svilupparono usi grafici caratteristici diversi e indipendenti fra loro (si pensi alle lettere
a e b caratteristiche dello scriptorium di Corbie o alle lettere a e z caratteristiche di quello di Laon varianti
della scrittura definita in paleografia come merovingica).

• La miniatura era invece eseguita separatamente dopo la redazione del testo (ma prima della
legatura del libro) in ambienti non necessariamente connessi allo scriptorium.
Gli scriptoria fornivano libri per i monasteri, sia per uso interno sia come manufatti di scambio.
Producevano inoltre i libri destinati alla ristretta fascia di laici alfabetizzati. T
alla metà del XIII secolo, la concorrenza di botteghe scrittorie laiche cittadine era diventata molto forte sia per il
tipo di letteratura proposta (non più soltanto edificante o di preghiera) sia per la lingua con cui era scritta (non
più in latino). Avevano sistemi di copiatura più rapidi (per esempio il sistema della pecia in ambito universitario).
Comunque, per vari secoli ancora gli scriptoria monastici rimasero il perno della produzione di testi liturgici per
i monasteri stessi, almeno fino alla diffusione della stampa

ALTO MEDIOEVO
Centri scrittori storicamente rilevanti
Fin dal VI secolo le prime regole monastiche inclusero la scrittura tra le attività che l'uomo umile doveva
compiere per condurre una pia vita.
Vivarium

• primo scriptorium di cui si abbia precisa testimonianza storica.


• parte del complesso monastico costruito da Cassiodoro nel VI secolo.
• grande cura nella trascrizione dei testi sacri.
• copiare testi di autori pagani.
• Il centro scrittorio fu attivo almeno fino al 630.
Montecassino

• La regola monastica di san Benedetto da Norcia specifica le varie mansioni e attività dei monaci, tra
le quali quella della scrittura.
• abbazia di Montecassino,
• fondata nel 529
• scriptorium attivo fino al XV secolo.
Bobbio

• istituito nel VII secolo presso l'abbazia fondata a Bobbio dal monaco irlandese san Colombano, dal
successore del fondatore, l'abate Attala (615- 627).
• maggior centro di produzione libraria dell'Italia centro-settentrionale tra il VII e il IX secolo, in età
longobarda e carolingia, al centro di una rete di scriptoria esistenti nei vari monasteri dell'ordine.
• I monaci irlandesi che vi lavorarono all'origine introdussero lo stile dell'arte insulare per le miniature e
un particolare sistema di abbreviature.
San Gallo

• Abbazia di San Gallo, in Svizzera.


• Una pianta dell'abbazia della prima metà del IX secolo mostra lo scriptorium presso l'angolo a nord
dell'edificio della chiesa.
Citeaux

• Con il venir meno della regola benedettina anche la posizione e la struttura degli scriptoria nei
monasteri cambiò: da spazi concepiti come semplici stanze coperte furono sempre più protetti e
riscaldati.
• In reazione a questo rilassamento a Citeaux (Cistercium) Bernardo di Chiaravalle impartì disposizioni
più severe, che giunsero a riguardare le decorazioni dei manoscritti.
• Un'ordinanza dell'inizio del XII secolo impone che nei libri vi fossero lettere di un solo colore e non
decorate. Sempre nello stesso periodo i monaci furono tenuti al silenzio nello scriptorium.
• Due secoli più tardi fu tuttavia loro concesso di eseguire il lavoro di scrittura anche nelle proprie
celle.
Certosini

• Lavoro nella solitudine della cella. Anch'essi quindi si dedicarono all'attività di copiatura.
• Giovanni Tritemio, abate di Sponheim, scrisse un breve opuscolo De laude scriptorum (Elogio degli
scribi) nel 1492 per celebrare le glorie di un'attività sempre più insidiata da vicino dalla diffusione
delle opere a stampa su carta.
• La scrittura è qui vista come la più alta delle attività manuali da conservarsi per ragioni storiche e di
disciplina religiosa.

IL BASSO MEDIOEVO
Durante il XIV secolo e il XV secolo, l'arte della copia degli antichi testi aveva raggiunto il suo culmine: i libri,
erano controllati sul piano grammaticale e ortografico dai correctores (questo avveniva perché in quei tempi,
dato l'ottimo salario degli amanuensi, molti semianalfabeti si dedicavano a questa attività) per poi essere miniati
dai miniatores.
Presso le università, gli allievi copiavano, traducevano e miniavano molti codici.
Per dimezzare i tempi di produzione un codice talvolta veniva dato da trascrivere dividendolo fra due
amanuensi: metà ciascuno e poi riunite.
Nelle botteghe scrittorie laiche esistevano sistemi di copiatura più rapidi: i maestri depositavano un esemplare
autenticato dei testi: tale esemplare, diviso in pecie sciolte, era a disposizione dei copisti presso i librai, sicché
un medesimo testo poteva essere copiato in più pecie da mani
differenti. Il
sistema della pecia si attiva nel XIII secolo ed è la risposta commerciale del mercato librario medievale alle
esigenze legate alla nascita delle università. È un sistema fortemente strutturato poiché gli Statuti universitari ne
fissano in modo normativo le procedure e le fasi di produzione.

• L’Università si impegna a garantire, attraverso una commissione interna di petiarii, a sua


volta regolata da norme statuarie, l’autorialità e la correttezza del testo da mettere in
circolazione.
• L’originale dell’autore viene affidato ad exemplatores, che possono essere stazionari o
semplici copisti di fiducia dello Studium, per la trascrizione di un antigrafo che rispetti le
regole redazionali della suddivisione in pecie.
• l’Università deve ufficialmente correggere i testi che saranno depositati per dare origine
alle copie destinate agli studenti, ovvero all’edizione.
• La funzione dello stazionario è di assoluta preminenza nell’avviamento del circuito
editoriale. È lui che investe materialmente il denaro sull’exemplar corretto e autorizzato al
commercio, sulla gestione del deposito e del prestito.
I suoi guadagni sono garantiti dall’affitto contemporaneo a più persone dello stesso exemplar.
Dal suo lavoro dipende quello dei copisti incaricati a pagamento, pro pretio, per una copiatura
che si esegue in base alla partizione in pecie. Nonostante lo smembramento in fascicoli, il
valore commerciale dell’opera rimane unitario: la tariffazione per l’affitto e i contratti di
copiatura stimano un prezzo complessivo e mai per singola pecia.

• Lo studente, con il suo investimento finale e con la traduzione di questo in “sapere” da


restituire all’Università, chiude il sistema.
Ma il sistema della pecia diviso fra due polarità, quella culturale e quella commerciale, ha come filo conduttore
l’attenzione costante alla serialità e all’omologazione redazionale, che al tempo stesso sono garanzia di
controllo testuale e metodologia di lavoro da tradurre in guadagno . La pecia è anche la configurazione del
legame tra il nuovo sistema culturale e comunicativo basato sulla lettura con le tecniche che materialmente
attendono a costituire un testo; è l’attivazione di una rete di relazioni significanti del “sottotesto” che assicurano
la comunicazione visiva, oltre che quella contenutistica.
La riproduzione di libri per exemplar e pecia rompe l’unità del manoscritto, precedentemente considerato
sempre e solo nella sua interezza testuale, per scomporre il testo in parti più piccole dove il fascicolo, ovvero la
pecia, diventa la nuova unità di misura. Questa intuizione, che agevola e velocizza la riproduzione, si basa sul
medesimo principio che porterà Gutenberg all’ulteriore scomposizione di un testo nella trentina di segni base
dell’alfabeto.

SCRITTURA E RILEGATURA
I libri venivano solitamente scritti in quattro modi, mediante:

• La scrittura onciale, usata in Irlanda e in Inghilterra.


• La scrittura beneventana, che si sviluppò nell'abbazia di Monte Cassino.
• La scrittura carolina, che si sviluppò all'epoca di Carlo Magno.
• La scrittura gotica, che si diffuse dopo la nascita delle università, quando aumentò la
richiesta dei libri.
Dopo aver finito il processo di scrittura, gli amanuensi rilegavano le pagine e creavano una copertina: essa
poteva essere tutta in oro battuto, in lamine di bronzo e angoli d'argento, o semplicemente in materiale
cartaceo
UNITA’ 2B
LA TRASMISSIONE VERTICALE MANOSCRITTA E LA FENOMENOLOGIA DELL’ERRORE
Partiamo dall’atto di codificazione e trasposizione manoscritta.
Ogni errore che si produceva in un manoscritto durante la trascrizione si trasmetteva al manoscritto successivo,
di cui il primo diventava il modello.

• L’errore iniziale, detto errore diretto, tendeva, quindi - nel ripetersi - a complicarsi in modo
esponenziale, dando origine ad altri errori cosiddetti indiretti, che si diffondevano nella tradizione.
• Peggio accadeva quando il copista, più disposto a intendere il testo (secondo un atteggiamento di
riproduzione attiva piuttosto che meccanica del modello), aveva la pretesa di correggere l’errore, o
presunto tale (semmai introducendo varianti), allontanandosi ancor di più dal testo originario (errore
critico).
Dinanzi a una copia manoscritta, dunque, il filologo è portato a supporre che essa sia la trascrizione o
riproduzione fedele (o intenzionalmente fedele) di un altro manoscritto (o esemplare o modello o antigrafo), del
quale la copia riprodurrebbe puntualmente il dettato, conservando gli errori e inevitabilmente aggiungendone di
propri (compresi, tra questi, come detto, gli eventuali interventi correttori e di restauro apocrifo del trascrittore
cosiddetto conciero, che abbia scorto o creduto di scorgere un guasto nell’esemplare da cui copia).
Possiamo dire, perciò, che l’errore è un evento quasi inevitabile. Errori che, come si dirà più avanti, possono
essere però per il filologo preziosi, soprattutto quando si rivelano utili a ricostruire, induttivamente, i rapporti
genetici tra i testimoni.
Un testo senza errori equivarrebbe ad una pista senza impronte per una guida, ad un sito senza reperti per un
archeologo, a un luogo del delitto senza tracce o indizi materiali per un investigatore.
L’errore è dunque la guida che consente all’editore di ritrovare a ritroso il sentiero della «verità» nel ginepraio
dei testi che in vario modo hanno tramandato una data opera.
Se due o più testimoni fossero, per ipotesi, del tutto identici e privi di errori se non vi fossero segnalati né tempi
né modi di composizione e di stesura, e se anche la loro cronologia fosse aleatoria, noi non avremmo elementi
utili a fissare i loro rapporti di parentela e neppure un loro ordine, pur approssimativo. La correttezza di due
testimoni, difatti, permette di constatarne la reciproca identità, non la loro affinità genetica (cioè la provenienza
dal medesimo scrittoio, o la dipendenza dallo stesso esemplare). L’errore certo e comune fornisce quindi al
filologo la prova che due copie sono vicine l’una all’altra.
ERRORI E VARIANTI
Tanto l’autore quanto i trascrittori, dunque, nell’atto della codificazione e della duplicazione di un testo
possono compiere errori oppure introdurre varianti.
La distinzione fra varianti ed errori è, per l’ecdotica, essenziale .
ERRORE COME ALLONTANAMENTO DALLA VOLONTÀ DELL’AUTORE
Se, come scrive Firpo, compito del filologo è ricostruire «il certo dei testi» piuttosto che «il vero delle cose»,
possiamo concludere che in filologia la verità coincide con la certezza data del testo, e viceversa.
La verità testuale è quella esprimente la volontà dell’autore.
Sarebbe errore qualsiasi luogo del testo che si allontani dalla volontà dell’autore. Esso, perciò, quando
individuato è da emendarsi.
L’ERRORE PALESE ED ERRORE MASCHERATO D’AUTENTICITÀ
è errore ogni alterazione e corruzione dal testo originale. Il termine errore così inteso comprende:

• sia lo sbaglio, palese, incontestabile, in quanto di per sé non ha senso e non ne conferisce alcuno al
contesto linguistico in cui è inserito,
• sia l’errore cosiddetto mascherato, mimetico, la lezione apparentemente ammissibile, accettabile,
corretta, autentica (e con parvenza di autenticità proprio perché corretta, fino a prova contraria), che ha
un senso proprio e che nel contempo ne conferisce uno plausibile al contesto in cui è inserita, pur non
corrispondendo alla reale volontà dell’autore.
Questo secondo caso è, per l’editore critico, ovviamente il più insidioso perché l’errore ha l’apparenza
dell’autenticità, anche se in realtà si allontana da quanto l’autore ha scritto: solo il confronto e la divergenza
rispetto ad altri testimoni potrebbero mettere in dubbio o addirittura smascherare.
VARIANTE COME DIFFORMITA DI LEZIONE
La variante invece è in filologia ciascuna lezione dotata di senso che si presenta in forma diversa, divergente,
rispetto a un’altra lezione nello stesso luogo dello stesso testo o di un altro testo, manoscritto o a stampa .
In linea teorica, quindi, ogni variante ed ogni divergenza o difformità di lezione presentata da un testimone
potrebbe essere, sia un errore, in quanto deviazione dal testo originale, sia una lezione autentica esprimente la
volontà dell’autore, in quanto derivazione dal testo originale.
Per sapere ciò, però, ci sarebbe bisogno del testo autentico come termine di riferimento; testo in base al quale
si possa definire con certezza cosa sia errore e cosa invece variante d’autore, cosa allontanamento dalla verità
testuale determinata da un copista e cosa divergenza di lezione frutto di innovazione o volontà autorale. In
filologia il confronto si dovrebbe effettuare, dunque, con l’originale del testo.
È opportuno, quindi e prima di tutto, distinguere le situazioni in cui l’originale è perduto (e pertanto da
ricostruire attraverso le sue copie o testimoni) e quelle in cui l’originale è conservato.
QUANDO L’ORIGINALE È ANDATO PERDUTO
Quando l’originale di una data opera è andato perduto - come nel caso delle letterature classiche (si pensi
all’Iliade) di buona parte della letteratura italiana antica (si pensi alla Comedìa) e di alcune situazioni di quella
contemporanea, l’individuazione dell’errore diventa per l’editore critico un compito talvolta ardimentoso, non
essendoci il termine di riferimento per valutare la reale autenticità della lezione.
In questo caso il filologo deve scandagliare e recensire la TRADIZIONE di tale opera, raccogliendo e
confrontando tra loro le copie - ossia i testimoni che l’hanno trasmessa (tràdita, tramandata) - e interrogarla con
metodo induttivo per cercare di ricostruire la forma più fedele possibile del testo originale, per tentare di
restituire, tramite congettura, la redazione ritenuta espressione più vicina alla reale volontà codificatoria del suo
autore.
Il lavoro si complica quando la tradizione è a testimone unico (codex unicus), perchè si riducono notevolmente
le possibilità di scoprire le eventuali innovazioni o violazioni del copista la cui erroneità non sia evidente.
Il processo di ricostruzione dell’ultima volontà dell’autore rispetto alla sua opera, qualora di questa non ci sia
pervenuto l’originale, attiene a quello che d’Arco Silvio Avalle ha definito «fenomenologia della copia».
QUANDO ESISTE L’ORIGINALE
Ciò non significa, beninteso, che la presenza dell’originale di per sé risolva tutti i problemi del filologo,
spesso li complica,:

• autografi costellati di errori d’autore, di correzioni e di varianti alternative


• uno o più autografi accompagnati da copie manoscritte o da edizioni a stampa non autorizzate, che
presentano redazioni tra loro differenti.
CRITICA DEL TESTO ED EDIZIONE CRITICA
L’ambito di pertinenza è quello proprio della critica del testo (o critica testuale, o verbale, o ecdotica, secondo la
definizione datane da Henry Quentin nel 1926) da intendersi come insieme dei mezzi e degli strumenti per la
ricerca e la ricostruzione (o restituzione o fissazione) del testo originale in presenza di sole copie, e quindi
l’insieme dei mezzi e degli strumenti atti ad approntare un’edizione critica.
L’edizione critica ha dunque lo scopo di restituire il testo tradito privo degli errori che possono indurvi le
vicende della diffusione e della trasmissione di un’opera nel tempo e nello spazio, e di fornirlo nella «forma più
vicina che sia possibile a quella voluta e considerata definitiva dall’autore».
In questo senso la «fenomenologia della copia» attiene all’edizione critica da intendersi come edizione
ricostruttiva.
ERRORE D’AUTORE E ERRORE DEL COPISTA
L’errore può essere provocato

• direttamente dall’autore, nell’atto della codificazione del suo testo


• oppure provocato indirettamente dal copista nell’atto della riproduzione, ricopiatura o trascrizione del
testo (trasmissione) direttamente dall’originale (apografo) oppure da altra copia che serve da modello
(antigrafo).
Dimostrare, con assoluta certezza che innovazioni, mende, sbagli, mancanze, imprecisioni, lacune, errori presenti
nella tradizione risalgano direttamente all’originale perduto, è in linea di massima molto difficile.
Risulta difficile anche perché, come si vedrà più avanti

• gli errori poligenetici – cosiddetti perché presenti in diversi testimoni e soprattutto perché prodotti in
ciascuno di essi indipendentemente l’uno dall’altro – in quanto tali non hanno alcun valore dimostrativo
dei rapporti stemmatici (rapporti genetici tra testimoni che permettono, appunto, di risalire all’originale).
• per gli errori monogenetici, perché essi sono spesso talmente palesi e marcati per pensare sia a
un’origine poligenetica sia, per la loro evidenza fenomenologia, a un’origine autorale.
Per altro sarebbe sbagliato credere che un poeta o uno scrittore difficilmente possano commettere errori. È vero
semmai il contrario: è molto più improbabile incorrere in un testo senza mende, sviste, errori più o meno banali
di forma o di contenuto, soprattutto quando si tratta di un’opera di ampie dimensioni.
ERRORI «POLARI»
Quando, ad esempio, Giovanni Boccaccio, a tarda età esemplò, in littera textualis su due colonne (con postille
interlineari e marginali di più mani, compresa quella del Boccaccio stesso), il codice Hamilton 90 trascrivendolo
da un manoscritto non identificato, agì nel contempo da autore e da copista di una sua opera. All’atto della
ricopiatura trasmise al suo Decameron – oltre che lezioni alternative, sviste e lacune codificatorie di vario tipo,
indipendenti dalla sua volontà – anche innovazioni ed errori frutto di una chiara volontà autorale e la cui
emendazione, perciò, richiederebbe la massima cautela.
Franca Brambilla Ageno, ad esempio, definisce questo tipo di guasti «errori polari», avvertendo che «non è del
tutto pacifico che si debbano rettificare».
ERRORE D’AUTORE
Il problema successivo, infatti, risiede nel non sempre facile compito di decidere se, una volta riscontrata la
presenza di un errore d’autore, si debba emendare oppure non.

• Molto dipende dalla accertata assenza di volontà dell’autore nel compiere l’errore; ossia: egli non
avrebbe voluto scrivere quello che ha scritto per sua distrazione, o negligenza, o per accidente fisico o
condizione situazionale, oppure per cause indipendenti dalla sua volontà, e allora l’errore potrà, in linea
teorica, essere emendato.
• Oppure, dalla accertata presenza di volontà, o «volontà errante» nel compiere lo stesso errore; ossia:
egli ha voluto scrivere ciò che ha scritto, o per ignoranza o per voluta negligenza o indifferenza, o altro,
nonostante si tratti di qualcosa di sbagliato, e allora in linea di principio, in quanto «intangibile», dovrà
essere conservato.
Nel secondo caso, a rigor di logica, non si dovrebbe parlare filologicamente di errore, proprio perché comunque
è espressa una volontà autorale, ancorché «errante». Ed in quanto corrispondente a tale volontà, in linea di
principio, non emendabile.
EMENDAZIONE DELL’ERRORE D’AUTORE
Poniamo il caso, ad esempio, di leggere in un manoscritto autografo la forma tronca dell’aggettivo (o pronome o
sostantivo) «poco» reso con l’errata grafia «pò» anziché «po’».
La prima mossa del filologo sarebbe, in questo caso, quella di verificare – attraverso un’operazione di spoglio
delle relative occorrenze della forma tronca dell’aggettivo –

• se trattasi di svista materiale, di imprecisione dovuta alla distrazione o alla fretta, di pecca comunque
indipendente dalla volontà dell’autore
• oppure se di errore ortografico dovuto alla effettiva incompetenza, impreparazione o ignoranza dello
scrivente.
Infatti, se si dovesse constatare che

• la forma grammaticalmente corretta «po’» occorresse in tutto il manoscritto per ottanta volte contro
un’unica forma «pò», allora sarebbe lecito pensare ad una verosimile disattenzione autorale.
• Ma se, invece, anziché una volta sola, la forma «pò» occorresse, poniamo, trenta volte contro le
cinquantuno di «po’», allora sarebbe più ammissibile pensare a un’effettiva incertezza codificatoria
dell’autore (o del proprio tempo), che, in quanto tale, paleserebbe una chiara volontà espressa,
ancorché parzialmente «errante». In questo caso, quindi, sarebbe meglio conservare e salvaguardare
entrambe le forme.
Come si vede molto dipende dalla accertata assenza di volontà dell’autore nel compiere l’errore, oppure dalla
accertata presenza di volontà (o «volontà errante») nel compiere lo stesso errore.

• Nel primo caso, l’autore non avrebbe voluto scrivere quello che ha scritto per sua distrazione, o
negligenza, o per accidente fisico o condizione situazionale, oppure per cause indipendenti dalla sua
volontà, e allora l’errore potrà, in linea teorica, essere emendato.
• Nel secondo caso egli ha voluto scrivere ciò che ha scritto: L’errore di fatto è intangibile, perché
appartiene all’unica concreta realtà storica che qui interessi: quella della mente di colui che credette
vero quel falso.
E in ogni caso non è compito della filologia ricostruire il vero delle cose, bensì il certo dei testi.
Emendabile, insomma, per Firpo, è l’errore che nasce da assenza di volontà non quello che nasce da volontà
errante.
L'uso, ad esempio, di un termine incongruo, omofono con altro che renderebbe senso plausibile, può essere
frutto di svista materiale, oppure di effettivo equivoco, cioè di vera e propria ignoranza: nella prima ipotesi il
restauro è doveroso, nella seconda arbitrario, anche se la soluzione del dilemma può presentarsi ardua,
dovendosi fondare su una valutazione complessa della personalità dell'autore [...]. Pure la soluzione dovrà
essere in ogni caso acquisita, perché è altrettanto doveroso per il filologo risarcire l'errore derivato da assenza
dì volere, quanto rispettare e perpetuare quello che nacque da volontà errante, da mancata conoscenza di
elementi effettuali che avrebbero potuto indurre quella stessa volontà a determinarsi in altra guisa
Un caso a sé è costituito da errori dovuti a difetto di memoria: in questo caso bisognerà infatti distinguere se i

• l ricorso alla sola memoria è volontario (se, cioè, l'autore è indifferente nei confronti della possibile
erroneità del dato recuperato mnemonicamente);
• o se, al contrario, tale ricorso è determinato da circostanze esterne: in questo caso, potendosi
ragionevolmente supporre che i dati inseriti a testo sarebbero stati diversi se l'autore avesse potuto
disporre del materiale necessario (libri, ad esempio),
sarà legittimo procedere, solo in certi casi e con estrema cautela, all'emendamento. Qualunque sia la natura e
l'estensione degli interventi, comunque, al filologo incombe l'obbligo di registrare con assoluta fedeltà quanto
attestato dall'autografo, e di rendere conto dei motivi che lo hanno spinto a intervenire.

▪ Frequente è l'errore d'autore in presenza di parole tecniche, o, comunque sia, non usuali, esposte a scambio e
storpiatura.

▪ Altri errori legati alla cultura dell'autore dipendono dalle sue fonti, dai libri che cita, da inesattezze nel tradurre
ecc.
Tutto ciò va scrupolosamente conservato e accompagnato da note esplicative; correggere vorrebbe dire
falsificare, in quanto si sostituirebbero, a dati storicamente certi, dati astrattamente veri, venendo meno ad una
funzione istituzionale di qualsiasi filologia:
per esempio la toponomastica del De montibus (1360, è un repertorio ordinato alfabeticamente dei nomi
geografici ricorrenti in opere classiche latine) è spesso autenticamente boccacciana, anche se sbagliata, e spinosi
problemi si pongono di fronte a lezioni in astratto giuste che potrebbero essere dovute a emendamento di dotti
copisti. Capita anche che si trovino autori citati in forma diversa da quella che ci è oggi familiare, e magari in
modo sicuramente scorretto; di qui possono aver avuto origine interpretazioni, commenti, suggestioni che non
si spiegherebbero qualora si adeguasse la citazione al testo critico attualmente in uso. Altre volte un modo
particolare di citare è significativo di gusti e inclinazioni, come succede per De Sanctis, che nei saggi e nelle
lezioni su Manzoni faceva uso della ventisettana dei Promessi Sposi; in perfetta coerenza col giudizio negativo
espresso nei confronti della revisione linguistica successiva: «La ritocca nelle parti esterne, togliendo qualche
lombardismo, aggiungendo qualche toscanismo, e facendo male, perché questi lavori sovrapposti, aggiunti,
guastano la primitiva creazione». A criteri conservativi occorre attenersi anche di fronte a citazioni fatte a
memoria e quindi approssimative, come capita spesso nei carteggi. Insomma non è certo il caso di correggere
Machiavelli che in una lettera a Guicciardini del 19 dicembre 1525 cita storpiandoli i vv. 133-35 del VI del
Paradiso: «Quattro figlie hebbe, et ciascuna regina / della qual cosa al tutto fu cagione / Romeo, persona humìle
et peregrina»; l'esatta lezione del v. 134 («Ramondo Beringhiere, e ciò li fece») sarà additata dall'editore in una
apposita nota.

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