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ROSSO FIORENTINO (Giovan Battista di Jacopo, 1495-1540)

Come il Pontormo, anche Rosso Fiorentino è animato dal desiderio di rinnovamento e cerca
un’alternativa alla “forma chiusa” della tradizione toscana. Inoltre facendo riferimento ai suoi
grandi contemporanei, da Michelangelo a Durer, avvia un recupero della deformazione epressiva
con effetti caricaturali.
DEPOSIZIONE DALLA CROCE (1521, Volterra, Pinacoteca)
L’opera venne commissionata dalla Compagnia della Croce di Notte per la Cappella
della Croce di Giorno a Volterra, nella chiesa di San Francesco. Più tardi i conti Guidi,
nuovi intestatari della cappella, trasferirono la tavola in esame nella cappella di San
Carlo in Duomo.

Il Rosso conferisce l’aspetto drammatico della visione rendendo angolosa la


volumetria con lo sfaccettamento delle figure, con il movimento agitato dei
personaggi , con l’impiego di un intenso cromatismo rosseggiante sull’uniforme
stesura del cielo e con la luce che incide da destra con forza, creando aspri urti
chiaroscurali

Inoltre in quest’opera, l’impianto compositivo presenta soluzioni prospettiche


paradossali, come l’incrocio tra la Croce e le tre scale sullo sfondo di un cielo compatto
e privo di profondità. I gesti dei personaggi sono bloccati, quasi meccanici, mentre le
espressioni sui volti rivelano forzature quasi grottesche. Le
deformazioni dei corpi e dei volti giungono all'estrema esasperazione: il vecchio
affacciato dall'alto sulla croce, Nicodemo, ha il viso contratto come una maschera. I
depositori formano una sorta di circolo, complessamente articolato sui piani in tre
dimensioni delle scale, che asseconda la forma centinata della pala, anche tramite il
mantello di Nicodemo

I colori invece, smaltati e gelidi, accentuano il carattere irreale della composizione. 


Tinte complementari sono spesso accostate, con effetti cangianti, e si stagliano con
forza gli effetti "fosforescenti" nei punti di maggiore luminosità, rispetto allo sfondo.
La particolare stesura, con una sottile patina degli impasti, rende visibili l'imprimitura
e gli strati sottostanti, rivelando talvolta curiose annotazioni autografe, come le scritte
relative ai colori da impiegare, poi cambiate bruscamente in corso d'opera sulla spalla
destra della donna in primo piano, che poi è invece colorata di un rosa salmone, o
"azzurro" nel panno del depositore più basso o nello chignon della Maddalena.
Sullo sfondo, al bordo dell'intenso blu che riprendeva il lapislazzuli degli affreschi di
Cenni di Francesco, si intravedono, piccolissimi, alcuni armigeri, simbolo della perfidia
e malvagità umana che ha condotto Cristo sulla croce.
MADONNA COL BAMBINO E SANTI (Pala dello Spedalingo o Pala di Ognissanti, 1518- Galleria
degli Uffizi)
L'opera venne commissionata da Leonardo Buonafede, "spedalingo",
cioè rettore dell'ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze. Era
destinata a un altare della chiesa di Ognissanti, secondo le volontà di
una vedova di origini catalane vissuta a Firenze, Francesca de Ripoll.

Si tratta di una sacra conversazione, con al centro la Madonna, seduta


sullo sfondo di un damasco dorato, che tiene in braccio il Bambino e
conversa con quattro santi attorno a lei. A sinistra si vede san Giovanni
Battista, patrono di Firenze e titolare della cappella in Ognissanti,
seguito da sant'Antonio Abate, protettore degli animali e quindi
adatto alla località di campagna, e, sull'altro lato, da santo Stefano,
titolare della chiesa di Grezzano, con la pietra della lapidazione in
testa, e uno scheletrico san Girolamo col libro, col ventre incavato, lo
sterno, le costole e le clavicole ben in vista, la magrezza estrema del
collo e del braccio, rivelando un legame con gli studi anatomici che
all'epoca si iniziavano ad effettuare sui cadaveri. I due santi centrali,
erano nella prima stesura san Benedetto, protettore del padre di una
vedova che aveva lasciato i suoi beni all'ospedale, e san Leonardo,
omonimo del Buonafede, i cui ceppi si intravedono ancora nell'ombra
dietro la testa della Vergine. Ai piedi di Maria, seduti su un
gradino, si trovano due angioletti, presi nella lettura di un libro, che
sembrano estranei alla generale inquietudine dei santi.

La novità dell’opera è sicuramente l'eliminazione di qualsiasi gerarchia tra la Vergine e i santi: essa infatti non è come spesso si
vede in posizione dominante, ma si trova al centro del gruppo in uno spazio circoscritto. Inoltre, a differenza di Pontormo,
Rosso tese a chiudere la composizione su sé stessa, anziché aprirla verso l'esterno o, tantomeno, mantenere la classica
scansione ritmata, ma come per Pontormo la spazialità appare compressa, con una forte riduzione della profondità.

I santi hanno volti incupiti da ombreggiature molto marcate, con sguardi privi di serenità, ora interrogativi, ora attoniti, con un
senso generale d'inquietudine, sottolineata anche dalla gestualità. Nel san Girolamo ad esempio si notano già caratteristiche
che verranno sviluppate nelle opere future, come l'espressività caricata nella posa e nel volto e una sfaccettatura dei volumi
che esaspera le forme. A una ricerca in tale senso va aggiunta anche l'accentuazione delle ombre attorno agli occhi, così
antinaturalistica: nel caso del Bambino tale evidenza è però dovuta al riaffiorare di un pentimento, forse corretto all'epoca
della risistemazione dei santi: di occhi, infatti, il Bambino Gesù ne ha ben quattro.

Tali caratteristiche sottilmente inquietanti appaiono però mitigate dalla dolcezza di alcune figure, come quelle degli angioletti,
o dalla ricchezza cromatica, con effetti cangianti.
CRISTO MORTO COMPIANTO DA QUATTRO ANGELI (1525-26; Boston, Museum of Fine Arts)
La tradizione che risale a Vasari ricorda l'opera come eseguita per il
vescovo di Sansepolcro Leonardo Tornabuoni, uno dei prelati fiorentini
alla corte papale di Clemente VII.

Cristo morto, col costato ferito, è raffigurato nella sua nudità, seduto
sul sepolcro-altare su un sudario blu intenso e retto da quattro angeli.
Due di essi, quelli in primo piano, illuminati più fortemente, tengono in
mano due grossi ceri: in quello di destra la veste assume originalissimi
toni cangianti, tra il rosso e l'azzurro. In terra si trovano gli strumenti
della Passione (i chiodi e l'asta con la spugna imbevuta di aceto),
mentre in testa Cristo ha ancora la corona di spine.

L’opera presenta inoltre delle innovazioni  dalla posa serpentinata,


precariamente scivolosa, possente e sensuale, che dimostra sia
l'assimilazione di Michelangelo (ad esempio nelle possenti gambe in
scorcio, che ricordano quelle dei Veggenti della volta della Cappella
Sistina), sia della statuaria antica: per il torso di Cristo è stato ipotizzato
come modello il Torso Gaddi, all'epoca a Roma e oggi agli Uffizi, ma è
stato citato anche il Cristo della Minerva; molto scultoreo è anche il
braccio destro pendente, così simile a quello della Pietà vaticana.
Evidentemente all’artista interessava l'esaltazione del corpo umano,
accuratamente descritto fino all'ultimo dettaglio nella sua nudità. Il
plasticismo del corpo raggiunge infatti vertici di straordinaria
morbidezza, sotto una luce calda e intensa, con il piede e le sue dita
inarcati, che fanno pensare a un corpo quasi ancora in vita.
L’artista dipinse l’opera su commissione di Anne de
Montmorency, connestabile di Francesco I di Francia.

PIETà (1530-35- Parigi, Musèe du Louvre) Il corpo di Cristo, ormai cadavere, è seduto sopra ad un
cuscino rinascimentale decorato con delle nappe. Le gambe
poi sono flesse leggermente e il busto sollevato. La mano
destra invece è appoggiata alle ginocchia di Maria, come
anche il suo avambraccio. Il volto infine ricade verso sinistra
esanime con le labbra leggermente dischiuse.

Una ancella, solleva i piedi di Cristo a sinistra mentre un


giovane tiene in alto il busto del Messia verso l’angolo
superiore di destra. La Madonna sembra svenire mentre
compie un ampio gesto con le braccia spalancate. Il suo volto
è giovane ed esprime inoltre una grandissima sofferenza.
Intanto, dietro di lei una giovane donna la sta sorreggendo
abbracciandola intorno alle spalle.
Le figure occupano praticamente tutto il campo a
disposizione, lasciando poco spazio allo sfondo scuro che
simula il sepolcro aperto. Esse hanno un tono eroico e
drammatico, evidenziato dalla gestualità, ma tutto sommato
austeramente contenuto, che Antonio Natali ha definito "da
coro di tragedia greca".
La luce si sofferma radente sul primo piano della
composizione, lasciando lo sfondo nelle tenebre, e
accendendo varie tonalità di rosso negli abbigliamenti dei
personaggi, alle quali fa da contrasto la fascia bianca che
avvolge il collo e la testa di Maria, nonché il giallo della veste
della Maddalena e il candore delle sue trine. Le pieghe dei
panni appaiono dure, quasi scolpite, più che mai taglienti.

ROSSO FIORENTINO, PRIMATICCIO e COLLABORATORI  GALLERIA DI FRANCESCO I NEL


CASTELLO DI FONTAINEBLEAU (1534-1540)
Il ciclo di affreschi progettato da Rosso Fiorentino prevedeva una lettura morale delle opere. Infatti
l’osservatore partecipava ad un percorso di elevazione che lo portava dall’amore terreno a quello
celeste. Inoltre i soggetti classici rappresentavano il mondo degli dei pagani che viene sostituito
dalla religione cristiana. Visto poi che la Galleria conduceva alla cappella del castello costituiva
anche un tramite ideale tra sacro e profano. Per ideare l’apparato iconografico del ciclo Francesco
I si avvalse delle conoscenze di Guillaume Budè. Il cortigiano era un importante umanista e aveva
l’incarico di bibliotecario del castello di Fontainebleau. Ogni parte del ciclo infine, illustra singole
figure retoriche.
la disposizione delle immagini segue uno schema con due dipinti a metà dei lati lunghi e due sulle
testate. Le due opere alle testate erano: Venere e Bacco, alla testata ovest sopra la porta della
camera del re e Venere e Cupido verso la Chapelle de la Trinité alla testata est.
Rosso Fiorentino dipinse così due opere che rappresentano l’amore carnale contrapposto
all’amore celeste. Sulla parete nord poi si trovava un camerino con un affresco ovale che
raffigurava l’Amore di Giove e Semele (amore carnale). Sulla parete opposta si trovava invece
l’Amore di Giove e Danae (amore celeste). Ancora una volta Rosso dipinge le due forme di amore
contrapposte.
Le altre dodici opere ad affresco sono distribuite sulle due pareti. I soggetti rappresentano gli
effetti delle due forme d’amore. Il busto di Francesco I si trovava al centro della croce ideale
formata dal corridoio centrale e dai camerini. L’opera è ora perduta e trovava posto sopra la porta
del camerino. Una allegoria della Vittoria si trovava poi a destra del busto mentre a sinistra vi era
una allegoria della Fama. Simbolicamente il busto di Francesco I volge le spalle al dipinto
dell’Amore tra Semele e Giove. Invece la statua è rivolta verso l’amore celeste di Giove e Danae.
Gli affreschi allegorici della Galleria, incorniciati da ornamenti a foglie, mascheroni, frutti e
ghirlande in stucco, costituiscono la grande novità elaborata dal Rosso Fiorentino, che porta al
massimo grado di sviluppo le tendenze delle raffinate sperimentazioni formali romane,
adattandole alle esigenze della corte francese.

Nella parte sinistra si trovano le scene che rappresentano passioni eccessive e comportamenti
sconsiderati sono:
La battaglia fra centauri e lapiti
La perdita della gioventù perpetua
La vendetta di Nauplio
La morte di Aiace
L’educazione di Achille
Il bagno di Pallade
Nella parte a destra del Ritratto del sovrano, verso la testata ovest, sono rappresentate scene che
illustrano comportamenti virtuosi:
I gemelli di Catania
Cleobis e Biton
L’unità dello Stato
L’Elefante reale L’illuminazione di Francesco I Il Sacrificio di Elia

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