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DIRITTO AMMINISTRATIVO 1

LEZ.22/09/21

Perché il diritto amministrativo è un diritto speciale? Abbiamo discusso dei punti divergenti rispetto al diritto privato
che ha una storia ampiamente sedimentata nel corso dei secoli, invece, il diritto amministrativo si è sempre ritenuto di
nascita molto più recente, ma è vero? Risolviamo questo punto.
Prima questione: la vera e propria nascita del diritto amministrativo è oggetto di un annoso dibattito in dottrina. Secondo
una parte della dottrina il diritto amministrativo avrebbe una data risalente coincidente all’Antica Roma, precisamente
il 200 d.C., quando c’è stata una sorta di identificazione dello ius publicum (diritto pubblico). La nascita del diritto
amministrativo nell’antica Roma si è giustificata sulla base di tre motivi:
1) Ulpiano nel libro I delle Istitutiones scrive una frase che viene ripresa dalla dottrina minoritaria di cui stiamo
parlando: “publicum ius est quod ad statum rei romanae spectat”. Con questa frase fa una distinzione tra lo ius
publicum e lo ius privatu → il primo era il diritto teso alla realizzazione e al perseguimento della res publica,
il secondo era un diritto teso a regolare i rapporti tra i cittadini. Ulpiano aveva, quindi, già individuato una
differenziazione nel diritto.
2) i romani conoscevano molte cariche che ora definiremmo amministrative, tipo il prefetto pretorio (colui che era
deputato agli affari organizzativi militari), il prefetto annone (colui che era deputato alle entrate, agli alimenti);
c’erano quindi questi “organi” che tutelavano gli interessi della comunità, che potrebbero identificarsi con le
odierne cariche amministrative.
3) i romani avevano un’organizzazione amministrativa, avevano i servizi marittimi, avevano le scuole, le terre, i
teatri, gli uffici tributari, c’era un minimo di apparato amministrativo.
Questa impostazione è stata criticata sulla base della mancanza, al tempo, di una distinzione fra attività amministrativa
e attività costituzionale: l’organizzazione si reggeva sul lavoro degli schiavi che non erano al servizio della res publica,
ma al servizio di singoli uffici (ad es. i consoli, i questori, il Senato, l’Imperatore). Non c’era un’attività formata da
soggetti organizzati e tesi alla realizzazione di un interesse pubblico, gli schiavi erano dipendenti della singola autorità
e non della struttura organizzativa.
L’altra critica mossa a questa concezione fu che non c’era una normazione propria del diritto amministrativo, non c’era
un’attività che indicasse uno Stato di diritto amministrativo, non c’era una funzione tipica dell’amministrare. Gli
schiavi, e il rapporto con loro, erano regolati da regole sociali e religiose, non da un diritto specifico. È da abbandonare
l’idea che il diritto amministrativo nasca in tempo romano solo per l’opposizione tra un diritto pubblico e un diritto
privato.
La nascita del vero e proprio diritto amministrativo risale all’epoca successiva alla Rivoluzione francese, quando si
attua la TRIPARTIZIONE DEI POTERI: si passa da un regime di Stato Assoluto, in cui tutte e tre le funzioni si riunivano
in capo ad un unico soggetto, ad un momento successivo in cui queste funzioni vengono distinte e diversamente
separate. In questa tripartizione dei poteri, focalizzandoci sul potere esecutivo (dare esecuzione alla volontà politica),
abbiamo l’identificazione della Pubblica Amministrazione.
Mentre spetta al Parlamento emanare le leggi, il potere esecutivo deve dare un indirizzo politico, deve specificare e
concretizzare gli interessi pubblici che devono essere realizzati dall’organo amministrativo. C’è ancora un altro potere
che è quello giudiziario, a sua volta differente dagli altri due, che non può ingerire nelle decisioni di carattere esecutivo,
non può ripetere il comportamento spettante al potere esecutivo, proprio perché sussiste la divisione dei poteri.
Questo rispetto della ripartizione dei poteri ha fatto sì che la PA, per molti anni, sia rimasta sprovvista di un organo
giurisdizionale ad hoc: tutto ciò che faceva era visto come un potere in autodichia (si tutelava internamente), fino a
quando venne finalmente creato un giudice ad hoc per non lasciare alla PA libero arbitrio.

L’espressione “diritto amministrativo” appare per la prima volta in un’accezione didattica nel 1798 in Francia. Questa
disciplina, intesa come diritto per la finalità pubblica, si consolida nel 1840 all’interno dei primi manuali.
Si afferma il concetto di “Stato a regime amministrativo” (Giannini): questa nozione intende uno Stato con
organizzazione amministrativa che vede una struttura ad hoc per la tutela pubblica. Nasce la concezione di Stato di
diritto amministrativo, che si contrappone ad uno Stato di diritto comune.
Si eleva anche una concezione contraria, portata avanti da un giurista inglese chiamato Dicey. Lui teorizzava la
supremazia della legge e il fatto che questa dovesse essere uguale per tutti, per i privati e per le pubbliche
amministrazioni, criticava il fatto che ci fosse un diritto che avesse in cura gli interessi pubblici, si accaniva contro
l’idea di un diritto speciale che si opponeva al diritto comune, non poteva esserci un diritto diverso, un qualcosa al di
fuori di una legge per tutti. Ma nel nostro Paese, che è un paese di civil law, non si è accettato questo pensiero.
In Italia, un giurista chiamato Giandomenico Romagnosi, nel 1814 scrisse una monografia chiamata “Principii del
diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni”, opera a cui si deve la nascita del diritto amministrativo. Dopo questa
prima tappa ne abbiamo una seconda, che coincide con l’evoluzione del diritto amministrativo a scienza organica, e
questa elevazione la si deve ad un altro grande giurista: Vittorio Emanuele Orlando, giurista siciliano che scrive la
monografia “Principii del diritto amministrativo” → non parla di regole, bensì colloca la PA in un sistema di elasticità,
in un ambiente di bilanciamento che è impossibile fare tra regole, è più facile farlo tra principi. In questo volume,
Orlando effettua una depurazione della scienza giuridica del diritto amministrativo, liberandolo da contaminazioni
politiche e filosofiche. Ci sono due metodi:
-un metodo storico, che si basa sulla relatività del diritto, che si oppone al giusnaturalismo di Romagnosi;
-metodo logico basato sulla coerenza e l’organicità del diritto;
nel diritto positivo vanno ricercate le norme utilizzabili in tutti i casi simili e, attraverso queste norme, vanno
deduttivamente ricostruiti i principi generali della disciplina, è un metodo deduttivo, da casi simili si ricostruiscono
casi generali e si creano le vere e proprie categorie giuridiche: in questo modo il diritto diventa un sistema organico
con princìpi e istituti che sono strumenti utili per superare la frammentarietà e disorganicità della materia.
È importante, quindi, il passaggio da Romagnosi a Orlando.
La nascita del diritto amministrativo la si fa risalire al 1814 con la monografia di Romagnosi della quale va sottolineato
il libro III che si intitola “Le basi direttrici”. In questa parte di testo, Romagnosi individua i principi che guidano la
Pubblica Amministrazione, quelli che presiedono la sua attività. Romagnosi dice che la premessa sul discorso dei
principi è che ci sia il rispetto della legge (siamo nel 1814, quindi c’è un rispetto della legge in senso liberale, non esiste
la Costituzione). Dice Romagnosi, in maniera coerente col periodo illuminista, “la Pubblica Amministrazione deve
essere subordinata alla legge, ogni amministratore deve rispettare la legge e deve rispettare le competenze altrui”. Il
primo passaggio è che la legge guida il pubblico amministratore e Giandomenico Romagnosi dice “siccome cosa
impossibile che le leggi abbiano provveduto a tutti i casi concorrenti, segnatamente in una materia come questa, così
ne segue che l’amministratore deve ricorrere al pari del giureconsulto all’interpretazione”.
Aveva già capito che la PA non può essere imbavagliata e ingessata in norme di legge, non può esserci una riforma di
legge assoluta che la guidi in tutti i passaggi ma deve essere subordinata solo a ciò che la legge deve ad essa consentire
di fare, cioè il perseguimento del fine pubblico.
Dice Romagnosi “la legge non può essere a monte capace di predeterminare e prevedere tutte le possibili ipotesi e
fattispecie in cui la PA si potrebbe trovare”, se così fosse la PA dovrebbe seguire pedissequamente ciò che dice il
legislatore, ma non può essere così perché deve essere libera di agire per perseguire l’obiettivo.
Tuttavia, a volte c’è la legge, e lì dove non si possa carpire in maniera chiara ed evidente la voluntas legis (volontà del
legislatore) perché non è estraibile in modo chiaro, la PA deve interpretare la volontà del legislatore, deve essere un
interprete; quindi, la PA è chiamata a interpretare la legge in caso di vuoto della legge stessa. E come deve farlo?
Mediante tutti gli artifici della interpretazione.
Ma neanche è sempre agevole realizzare una interpretazione secondo volontà del legislatore, quando questa è di difficile
comprensione o addirittura non espressa. In questi casi la PA deve intervenire, nonostante non ci sia un chiaro
riferimento legislativo.
Romagnosi dice che in mancanza di un “lume di autorità positiva” si deve ricorrere ai “principi della ragione pubblica
naturale”, cioè:
1) NEMINEM LAEDERE → è un principio metagiuridico per cui bisogna agire mediante un principio di pareggio
dei rapporti, una sorta di par condicio, che ponga tutti in una situazione di uguaglianza, evitando preferenze e
privilegi tra i soggetti;
2) PROPORZIONALITÀ (inteso come “non violare l’interesse altrui”) → non è una regola invariabile, tale da
poter essere di impedimento all’esercizio della PA e alla realizzazione dell’interesse pubblico, che deve
comunque potersi esplicare anche con un sacrificio della libertà privata ed interesse individuale. Quindi si deve
far prevalere l’interesse pubblico su quello privato ma nei limiti della stretta necessità. Per far capire il
principio di proporzionalità si dice “non si può sparare ai piccioni con un cannone”: il sacrifico deve essere
necessario e adeguato al raggiungimento del fine.
Quindi, il provvedimento deve essere idoneo, deve essere adeguato (cioè quello che secondo la regola del
“mezzo più mite” è il meno sacrifichevole di soggetti privati o pubblici di carattere secondario) e poi deve essere
congruo e proporzionato in senso stretto.
La tripartizione del principio di proporzionalità è stata introdotta per la prima volta in maniera espressa dalla
Corte prussiana nel 1983, nelle more di un caso di un commerciante tedesco che aveva impugnato un’ordinanza
di chiusura per 30 giorni per aver venduto alcolici senza autorizzazione. Fu individuata la sproporzionalità nel
provvedimento, nel senso che questo risultava inidoneo, inadeguato e non sproporzionale in senso stretto.
È un momento di particolare applicazione per il nostro diritto, un principio trasportato da una giurisprudenza
estera nel nostro ordinamento (per cui la divisione per step l’abbiamo desunta dalla giurisprudenza europea),
ma la vera origine del principio di proporzionalità è nei testi di Romagnosi che induceva al ragionare alla stregua
della vera e stretta necessità. Quindi, Romagnosi anticipa il principio di proporzionalità ma non quello di
imperatività, mette in evidenza il discorso per cui l’invasione non deve essere esagerata.
3) DISCREZIONE → è un sentimento tipico di ogni uomo e dovrebbe caratterizzare ogni amministratore il quale,
nell’agire, dovrebbe sentirsi buon padre di famiglia di quella amministrazione. È quell’agire che permette di
raggiungere un risultato utilizzando al meglio tutti i mezzi a lui consentiti e con tutti i mezzi di
precauzione, cioè ciò che denota un buon capo famiglia. Quando si è capo famiglia si dà una certa attenzione,
ad esempio, alle risorse e a come queste si usano.
Questo discorso porta con sé un altro concetto, poi estrinsecato dallo stesso Romagnosi, cioè quello di MINIMO
MALE, MASSIMO RISULTATO. Si trova, in queste parole, l’origine del principio di proporzione e di
precauzione, uno dei concetti che ha guidato la mente operativa del pubblico amministratore. Proporzionalità e
precauzione sono due concetti che dovrebbero guidare l’amministratore e che hanno una collocazione non solo
giuridica, ma anche metagiuridica. Romagnosi ricorre a concetti che sono prima di tutto etici e filosofici perché
è immerso in un sostrato giuridico differente. Egli ebbe la capacità di estrapolarne dei principi.
Nel lavoro monografico della professoressa, è inquadrato il principio di proporzionalità come viene importato dalla
giurisprudenza amministrativa europea che ha il merito di aver scandito questo principio in tre criteri:
➢ IDONEITÀ - ADEGUATEZZA - PROPORZIONALITÀ IN SENSO STRETTO -
È evidenziato quindi il pensiero del giudice amministrativo tedesco ed europeo in primis, ma nel primo capitolo si parla
del perché si parla di questo principio e perché questo abbia avuto una diffusione sempre più larga nel nostro
ordinamento (fondamentalmente perché questo principio ha un riscontro anche nell'art. 1 l.241/1990, la legge sul
procedimento amministrativo).
Nel primo capitolo si spiega cosa c'è scritto nel primo comma dell'art.1, quali sono i principi che attualmente sono
considerati principi guida delle azioni delle pubbliche amministrazioni. L'art.1, infatti, è rubricato "principi generali
della Pubblica Amministrazione". Prima di questa legge, non c'era nessun principio? C'erano questi principi coniati e
creati ad hoc dalla giurisprudenza amministrativa la quale, attraverso l'elaborazione delle figure sintomatiche
dell'eccesso di potere, ha individuato, sentenza dopo sentenza, ab contrario, i principi che devono guidare l'azione delle
pubbliche amministrazioni. Che significa? Quando è stato istituito il Consiglio di Stato, è stato indicato questo organo
come avente funzione giurisdizionale, competente a decidere sui ricorsi avverso atti e provvedimenti amministrativi
affetti da incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere, senza darne alcuna definizione: è stata la
giurisprudenza a dare contenuto a questi tre vizi.
Il vizio di eccesso di potere è l'unico vizio di legittimità che si prestava più degli altri ad un riempimento sostanzioso
(è un vizio che non ha carattere formale o procedimentale, ma sostanziale).
Ciò lo si deduce già dalla denominazione, è facile riscontrare che il vizio di legge, ad esempio, è un vizio prettamente
formale (cioè quando il procedimento è affetto da una difformità rispetto ad un obbligo previsto da una norma, è
facilmente identificabile).
Così come il vizio di incompetenza (relativa) è una violazione di legge attinente al soggetto agente. In realtà il vizio di
competenza, per quanto sia un vizio formale, ha anche dei tratti di tipo sostanziale: se un atto è emanato da organo
politico anziché gestionale e amministrativo, l'atto si forma durante il suo iter in una maniera diversa. Se l'organo
politico emana un atto che invece spettava a un organo di competenza amministrativa, quello che decide l'organo
politico, che invece avrebbe dovuto decidere l'organo dirigenziale, vizia anche il contenuto dell'atto perché la voluntas
della PA si forma ad opera di un soggetto incompetente che compone il cuore del provvedimento amministrativo in un
modo piuttosto che in un altro; magari l'organo politico, che non sa di diritto amministrativo è portato a sacrificare
oltremodo gli interessi altrui, cosa che invece il dirigente farebbe in maniera diversificata.
Il vizio di eccesso di potere, lo si capisce dalla parola, è un vizio che rileva quando il contenuto dell’atto è affetto da
un profilo di legittimità; posto che non c’è un limite al potere, se non quello del limite di carattere formale, cosa significa
che la PA è incorsa in un eccesso di potere? La norma non dice nulla e parla solo di regole formali per ripartire il potere.
A dare contenuto all’eccesso di potere è stato il giudice amministrativo il quale, con una serie di sentenze, ha creato le
cosiddette figure sintomatiche dell’eccesso di potere (sintomo dell’esistenza del vizio di eccesso di potere); quindi,
quest’ultimo, che riguarda il contenuto dell’atto, oggi è identificabile e connotabile attraverso la numerosissima
pluralità di figure sintomatiche che sono di creazione giurisprudenziale, che non sono un elenco chiuso e
tassativo, ma possono essere indicate in un numero esemplificativo e che possono aumentare nel corso del tempo.
I giudici, a seconda della diversità di situazione, possono creare contenuti sintomatici differenti. Il giudice può anche
prendere come riferimento un precedente.
Le figure sintomatiche dell'eccesso di potere che si sono oggettivizzate e ripetute sono diventate delle norme giuridiche
aventi creazione giurisprudenziale. Perché sono diventate norme giuridiche? Se il giudice ne ravvisa l’aspetto
patologico dell’atto amministrativo, queste figure sono i criteri guida della Pubblica Amministrazione che sa che, nella
riedizione del suo potere, dovrà stare attenta a porre in essere il procedimento rispettando i contenuti delle figure
sintomatiche.
Alcuni di questi criteri non sono solo di creazione giurisprudenziale, alcuni sono addirittura di codificazione, sono
contenuti in una norma di diritto positivo, addirittura alcuni sono nella carta costituzionale. La Costituzione, all’art.
97, ci dice quali sono i due principi guida della Pubblica Amministrazione. Il comma 1 dice “i pubblici uffici sono
organizzati secondo disposizione di legge perché sia assicurata l’efficienza e l’imparzialità”. I principi del buon
andamento e dell’imparzialità sono importantissimi: attengono sì all’organizzazione dei pubblici poteri, ma si applicano
poi nel concreto alla PA.
Cosa significa buon andamento? Cosa significa imparzialità? Entrambi devono essere riempiti con un contenuto, a cui
hanno provveduto sia il giudice amministrativo che il giudice costituzionale. È intervenuto in maniera efficace il
legislatore ordinario il quale, con la legge 241/1990, non ha fatto altro che esplicitare o addirittura reiterare questi due
principi che sono racchiusi in una norma costituzionale.
ART.1c1: “L’attività amministrativa segue i fini perseguiti dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia,
imparzialità, di pubblicità, di trasparenza secondo le modalità previste dalla legge nonché dai principi comunitari.” È
una norma che vale quasi l’intero diritto amministrativo, c’è scritto tutto. L’ultima parte di questo primo comma dice
“nonché dai principi dell’ordinamento comunitario” → il legislatore non dice quali sono (per non incasellare i poteri
della PA), quindi, l’opera della dottrina e della giurisprudenza è stata quella di dare contenuto a questo rinvio non
identificato.
Dopo lo studio del professor Mario Chiti, si sono identificati tre principi maggiori che possono essere identificati nel
rinvio a principi non espressi desunti dall’ordinamento comunitario. Il primo è il principio di proporzionalità, e
abbiamo ripreso questo principio nella sua scansione trifasica (idoneità, adeguatezza e proporzionalità in senso stretto),
poi abbiamo ripreso il principio di precauzione, che trova ora una codificazione in alcune norme contenute in leggi
settoriali, e il terzo principio è quello del legittimo affidamento.

LEZ.23/09/21
Ieri abbiamo parlato dell’art. 1 della l.241/1990 come modificato dalla l.120/2020. Questa legge ha aggiunto il comma
2-bis, disciplinando in maniera capillare i criteri, i principi che devono governare le azioni delle Pubbliche
Amministrazioni: “I rapporti tra i cittadini e la PA sono improntati al principio della collaborazione e della buona
fede.” è di una importanza straordinaria e si colloca nell’ottica della sempre maggiore giuridicizzazione del potere
amministrativo perché con questa nuova disposizione vengono ulteriormente adottati i principi che devono presiedere
all’esercizio del potere.
Oggi quale potrebbe essere questo elenco? Quali potrebbero essere i principi della legge 241/1990? Principio
dell’economicità, dell’efficienza, dell’imparzialità, della pubblicità, della precauzione, della proporzionalità e della
collaborazione e buona fede tra le parti.
Sul punto spendiamo alcune parole in riferimento alla monografia della Fanti. Nel quarto capitolo, che si intitola “Il
carattere relativo del principio di proporzionalità” si fa questo ragionamento: questo principio si dice avere un carattere
relativo, cioè è un principio che consente alla Pubblica Amministrazione procedente di contemperare, all’interno
dell’iter procedimentale, tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti in quel determinato procedimento, al fine di poter
emanare un provvedimento che al meglio realizzi l’interesse pubblico attribuito dalla norma e che, allo stesso tempo,
comporti il minor sacrificio possibile degli interessi secondari coinvolti.
Quindi cosa succede? Un procedimento è iniziato; dopodiché la PA ha l’obbligo di comunicare l’avvio della procedura
a tre soggetti:
➢ quelli sui quali si ripercuotono direttamente gli effetti del procedimento;
➢ coloro che la PA individua e che vi partecipano perché potrebbero ottenere un pregiudizio dall’emanando
provvedimento (controinteressati in senso procedimentale);
➢ coloro che sono individuati dalla legge.
Perché devono essere avvertiti? La risposta è nell’art. 10, il quale dice che i soggetti degli artt.7 e 9 (in questo caso si
parla di portatori di interesse privato o comunque associativo che hanno facoltà di intervenire nel procedimento) hanno
diritto di presentare memorie scritte e documenti che la PA ha l’obbligo di acquisire, valutare comparativamente, ove
siano pertinenti allo sviluppo del procedimento, prendendo in considerazione gli interessi in gioco. In particolare, li
pone su una scala di valori.
Così, dando una scala di valori, la PA, quando realizzerà ed emanerà un provvedimento amministrativo la scelta
risulterà la più opportuna, la più giusta, la più conveniente, la più saggia, perché avrà realizzato l’interesse pubblico nel
miglior modo possibile e sacrificando il meno possibile gli interessi privati e pubblici secondari.
Quando, nel testo, si parla di ‘carattere relativo’ del principio di proporzionalità, si sottolinea una duplice visione del
carattere relativo del principio: interna ed esterna.
ESSENZA ONTOLOGICA DEL PRINCIPIO PROPORZIONALITÀ: esso permette la composizione e la valutazione
comparativa degli interessi secondari (privati o pubblici) coinvolti in un procedimento e, attraverso la sua corretta
applicazione, la PA riesce a realizzare l’interesse pubblico al meglio, sacrificando nel miglior modo possibile gli
interessi secondari coinvolti. Allora come si declina il principio di proporzionalità? Come può la PA garantire che
questo principio permetta una valutazione comparativa? Come sceglie l’atto più idoneo ed efficace ma allo stesso tempo
il più adeguato? E poi c’è il terzo step che è quello della proporzionalità in senso stretto.
Ora anticipiamo un discorso: il legislatore attuale, con la legge del 2020, ha introdotto tra i principi quelli della buona
fede e della collaborazione. Nel quarto capitolo della monografia la proporzionalità viene vista come ‘giusta misura
del potere’, operando una scelta comparativa tra interessi di varia natura: è rapportata con altri principi che hanno
anch’essi stessa natura relazionale: giusto processo, uguaglianza, principio di precauzione, buona fede, legittimo
affidamento. Quindi, c’è stata un’indicazione del principio della buona fede come valevole nell’operatività della
Pubblica Amministrazione, che consente un avvicinamento dell’azione della PA ai modelli privatistici: questo ci fa
capire come la PA usi sempre di più modelli privatistici ma senza mai assimilarsi al diritto privato.
Non a caso, quando l’art. 2-bis è stato introdotto dal legislatore, al termine dell’art. 1, sono stati aggiunti vari commi:
l’1-bis che parla di acquisizione di modelli privatistici, 1-ter in cui si dice che se la PA agisce attraverso soggetti privati
che pongono in essere funzioni amministrative anche queste devono attenere ai principi generali della PA.

LEZ.29/09/21
Nell’ordinamento distinguiamo tre tipi di principi:
• Principi esplicitati dal diritto positivo: art.1 l.241/1990 come modificato dalla legge 120/2020 (comma 2-
bis);
• Principi costituzionali: artt. 95 e 97 della Costituzione;
• Principi di diretta creazione pretoria: principi di creazione del giudice amministrativo che individua il
momento patologico della PA annoverando tutte queste patologie all’interno del vizio di eccesso di potere, e ne
evidenzia l’illegittimità sostanziale. Tale illegittimità, letta al contrario, diventa il principio guida per la futura
azione della PA.
Bisogna sempre considerare che l’azione della PA si estrinseca in un procedimento amministrativo; la PA non agisce
per singoli atti che emana e subito attua, ma ha bisogno di tempi più o meno lunghi per la sua azione perché deve
acquisire interessi secondari all’interesse primario che la PA sta perseguendo, soppesarli, valutarli comparativamente
e giungere all’emanazione del miglior provvedimento possibile. In questa estrinsecazione dell’iter ci sono varie fasi
necessarie. In questo iter si manifesta un potere connotato da alcune caratteristiche. I provvedimenti amministrativi
sono il risultato di un iter e gli effetti giuridici sono gli effetti che derivano da questi provvedimenti
Adesso vediamo un tipo di potere in relazione al contenuto e al soggetto che lo emana. Si individua una
categorizzazione del potere giuridico amministrativo (la dottrina ha dato una sistematica agli istituti non definiti dalla
norma) a seconda degli effetti giuridici scaturenti dal potere in base al contenuto del potere.
L’effetto giuridico del potere rappresenta la sua idoneità a raggiungere un determinato risultato. Il potere idoneo
produce degli effetti giuridici capaci a realizzare quel determinato provvedimento amministrativo. La dottrina divide
in base ai diversi effetti giuridici scaturenti da un potere amministrativo in riferimento ad un diverso suo contenuto. Il
potere amministrativo si manifesta non solo dell’iter procedimentale, ma prende corpo nel provvedimento
amministrativo (atto conclusivo del procedimento amministrativo).
La dottrina ha distinto i provvedimenti amministrativi, ovvero il potere giuridico amministrativo, in tre tipologie:
1. potere vincolato distinto dal potere discrezionale: Nel potere vincolato tutto viene stabilito dalla norma; la
PA deve eseguire letteralmente ciò che viene indicato dalla legge. Nel potere discrezionale la PA non ha
indicazioni dal legislatore di cosa deve fare passo per passo, ma essa in autonomia assume le decisioni che
ritiene più idonee per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla norma.
2. potere di conservazione distinto dal potere di trasformazione: Potere di trasformazione la PA con un
provvedimento trasforma il reale (l’effetto giuridico è innovativo). Potere di conservazione quando l’effetto
giuridico del provvedimento non modifica il reale (effetto giuridico conservativo). Non è possibile affermare
che tutti i provvedimenti positivi hanno effetto innovativo: immaginiamo di ricevere una concessione demaniale
per 9 anni, se finiti questi 9 anni la PA concede una proroga, quel provvedimento è un provvedimento di tipo
conservativo in quanto non modifica il reale. Allo stesso modo è sbagliato dire che i provvedimenti negativi
sono di tipo conservativo: se la PA non concede la proroga alla concessione demaniale, l’effetto giuridico
modifica la realtà e dunque il provvedimento è di tipo innovativo.
3. potere di indirizzo distinto dal potere di gestione: Considerazioni storiche:
Mario Nigro considerava che nell’ordinamento giuridico esistono tre modelli organizzativi: modello
autonomistico, modello accentrato (a responsabilità ministeriale), modello separato (a competenze
differenziate).
- Modello autonomistico: pone alla base il concetto di autonomia, derivante dall’art. 5 della Costituzione.
La legge 142/1990 introduce una rivoluzione per le autonomie locali stesse, oggi inglobata nel testo
unico delle autonomie locali 267/2000. Il nuovo art. 114 della Costituzione rappresenta un’attuazione
dell’art. 5. Questo modello organizzativo si basa sul decentramento e sulla distribuzione delle funzioni
amministrative (art.118 cost. “sussidiarietà verticale e orizzontale”).
- Modello Accentrato (modello a responsabilità ministeriale): attualmente nel nostro ordinamento vige
il modello separato soltanto da pochi decenni, il quale ha sostituito il modello accentrato che ha sempre
caratterizzato tutti gli ordinamenti. È importante capire quali fossero le caratteristiche del modello
accentrato, che solo negli anni ‘90 ha ceduto il passo al modello a competenze differenziate:
Legge 23 marzo 1853 n.1483: la legge Cavour ha introdotto il modello accentrato, disciplinando il
rapporto tra politica e amministrazione. La legge si è applicata nell’ordinamento piemontese relativo al
regno di Sardegna che stanziava una “Commissione della Politica” all’interno dell’amministrazione: la
funzione di governo era affidata ai rappresentanti politici, ai quali spettava scegliere gli obbiettivi e i
compiti da svolgere; la burocrazia era relegata ad un’azione meramente servente la politica. Tutto si
assommava all’organo politico che decideva gli obiettivi da raggiungere ed anche come dovevano essere
raggiunti, relegando all’organo amministrativo burocratico la mera disposizione degli atti amministrativi
utili per raggiungere tali obiettivi. Tali atti amministrativi portavano la firma dell’organo politico. Con
l’entrata in vigore della Costituzione, tale impostazione è stata modificata, ma è rimasta in vigore fino
agli anni Novanta.
Caratteristiche del modello a responsabilità ministeriale:
1. Rapporto piramidale-gerarchico tra potere politico e potere amministrativo;
2. Possibilità dell’organo politico di manifestare all’esterno la volontà dell’ente con atti che portano la sua firma,
mentre l’organo amministrativo burocratico ha il compito di svolgere solo la funzione istruttoria e preparatoria.
L’organo burocratico era scelto tramite un concorso per merito, ma svolgeva una mera funziona preparatoria;
3. Controllo puntuale sui singoli atti del potere politico. Il superiore gerarchico controllava ogni atto in esecuzione
del dirigente burocrate. Questo tipo di controllo deriva direttamente dal rapporto piramidale-gerarchico;
4. Stabilità nel rapporto del lavoro pubblico del dipendente, assunto sempre a tempo indeterminato, da cui
scaturiva una coincidenza tra il rapporto di ufficio (insieme delle funzioni pubbliche svolte) e rapporto di
servizio (prestazione lavorativa collegata al ruolo ricoperto da cui scaturisce un’equa retribuzione). Ciò che il
dipendete pubblico faceva, faceva parte delle funzioni che doveva svolgere per ottenere la retribuzione, niente
di più;
5. Responsabilità di tutti i tipi assommata all’organo politico.

Era come se l’attività della PA fosse vincolata non solo dalla legge, ma anche dal potere politico, il quale era posto
gerarchicamente ad un livello superiore. In questa situazione, in caso di inadempienza dell’organo amministrativo,
l’organo politico poteva effettuare l’atto perché vi era un’ingerenza della politica nell’organo amministrativo
ammessa dalla legge. Questa situazione perdurò anche con l’arrivo della Costituzione che, con l’art.95, fa chiaramente
riferimento al modello accentrato:
“I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti
dei loro dicasteri.” (idea di amministrazione servente la politica)

L’art.97, invece, stride con questo modello: al primo comma afferma la distinzione tra politica e amministrazione e al
secondo comma che la legge dispone le sfere di competenza di ogni organo. Tale articolo entra in contrasto con il
modello accentrato, in quanto esso richiede la responsabilità piena dell’organo politico per gli atti assunti sul piano
civile, amministrativo e politico e, di contro, una totale irresponsabilità dell’organo amministrativo.
L’art.98 dispone che i dirigenti sono a piena disposizione della Nazione e non della politica.
La politica è inadatta ad essere imparziale, in quanto per sua natura si occupa di portare avanti una decisione, una
fazione (rappresenta una parte della società).
Il primo tentativo di distinzione tra i due poteri lo abbiamo con il DPR.748/1972, il quale non venne mai attuato per un
non contestuale riordino dell’apparato ministeriale. Un primo importante passo nella distinzione tra i due poteri lo
abbiamo nel 1989 con la riforma del Servizio Nazionale Sanitario (poi sfociata nella legge del 1992).
Il passaggio dal modello accentrato al modello a competenze differenziate inizia a livello locale, per poi essere recepito
dal legislatore nazionale. L’attuazione di questo passaggio si articola nelle seguenti leggi:

1. 9 maggio 1999: ristrutturazione dell’INPS e Inail. Questa legge distingue tra competenze del Consiglio di
amministrazione (compito di stabilire gli obiettivi, i programmi e la vigilanza sulla loro attuazione) e gli
organi di amministrazione attiva: ai dirigenti venivano assegnate precise responsabilità di gestione e
amministrazione, loro conferite dalla legge e dai regolamenti.
2. L.142/1990: legge sulle autonomie locali che riconosce l’autonomia territoriale dei comuni e delle province
mediante un potere normativo di adottare statuti.
-Art. 51 stabiliva il principio della distinzione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni di gestioni
amministrativa.
-Art. 51 co.3 stabiliva che ai dirigenti spettavano tutti i compiti che manifestavano la volontà degli enti verso
l’esterno.
3. Legge 241/1990, stabilisce che per tutti i procedimenti, di qualsiasi valenza, esiste la figura del responsabile
del procedimento che svolge un’attività di “motore guida” dell’istruttoria e attribuisce il potere di emanare un
atto amministrativo.
4. Con la legge sul pubblico impiego, viene sancita la definitiva distinzione a livello nazionale tra politica e
amministrazione (art. 3 d.l. n. 29/1993).

▪ Modello a competenze differenziate:


1. Modello di direzione: al potere politico spetta l’emanazione di indirizzi e programmi, mentre al potere
amministrazione spetta l’attuazione di questi indirizzi;
2. Controllo finale sul risultato ottenuto dai dirigenti amministrativi;
3. Il dirigente è responsabili degli atti amministrativi e manifesta la volontà dell’ente verso l’esterno;
4. Distinzione tra rapporto di lavoro di servizio e rapporto d’ufficio: un dipendente pubblico può essere
messo a tempo (da un politico) a svolgere una funzione diversa da quella per cui è stato assunto.
SPOIL SYSTEM: i vincitori politici possono nominare persone di fiducia a capo di una direzione a tempo
determinato.
______________________________________________________________________________________________
Quali sono gli atti di competenza dell'organo di direzione amministrativa (dirigenti)? L'art. 51 della legge 142/90
rispondeva a questo quesito ma era limitato agli atti dei dirigenti degli enti locali, indicando una tipologia di atti di
competenza dirigenziale: la presenza di un Presidente della Commissione di gara, la presidenza delle Commissioni di
concorso, la stipula dei contratti e la responsabilità sulle procedure d’appalto e di concorso.
Invece, a livello nazionale, abbiamo l’art. 3 d.lgs. 29/1993 che ha introdotto per la prima volta una distinzione tra
organo di direzione politica e organo dirigenziale amministrativo. Esso afferma:
“Gli organi di direzione politica definiscono gli obiettivi ed i programmi, gli indirizzi da attuare e verificano la
rispondenza dei risultati (non dei singoli atti) della gestione amministrativa alle direttive generali impartite ai
dirigenti”. Questa norma, come vediamo, è molto ampia e non ci dice quali sono gli atti di competenza degli organi di
direzione politica. Questa norma è anche molto generica per quanto concerne i compiti dell’organo dirigenziale
amministrativo, infatti al secondo comma dice: “ai dirigenti spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa,
compresa l'adozione di tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, mediante autonomi poteri di
spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo”. Essi sono responsabili della gestione e dei
relativi risultati.
C'è stato chi ha visto in questo verbo utilizzato dal legislatore “impegnare” una definizione intrinseca di poteri non
autoritativi, perché l'atto che impegna è l'atto di tipo contrattuale, tipico delle amministrazioni che agiscono iure
privatorum e non agiscono iure imperii. [C’è stato chi in dottrina (ma anche una minima parte della giurisprudenza)
aveva stabilito una un'ipotesi di catalogazione di atti amministrativi di competenza dirigenziale: tutti gli atti espressioni
di un'attività iure privatorum erano considerati di appartenenza dell'organo di amministrazione attiva dirigenziale ad
es.: contratti, stipula di negozi giuridici ecc., demandando all'organo di direzione politica invece l'esercizio di attività
altamente autorizzative quali ad es.: autorizzazioni, concessioni.]
Questa interpretazione era completamente errata e ha sollecitato successivi interventi normativi. Il più importante è la
legge n.127/1997, meglio nota come la legge Bassanini-bis, che ha stabilito una serie di competenze spettanti agli
organi di direzione amministrativa dirigenziale dell'ente locale. Oggi è confluita nel TESTO UNICO n.267/2000 e, in
particolare, l'articolo 107 riscrive l’art.51 della vecchia legge e lo arricchisce, riempiendo di contenuto l’ambito delle
competenze proprie dei dirigenti, seppur a livello locale.
Comma1: “Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai
regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli
organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di
spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.” (ripete l’art 51, non definendo le competenze analitiche)

Comma2: “Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale,
di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108.”

Comma3: cambia fisionomia alla norma e pone in essere una serie esemplificativa (non esaustiva) di tipologie di atti
di competenza proprie degli organi dirigenziali amministrativi:
“Sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati
dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente :

a) la presidenza delle commissioni di gara e di concorso;


b) la responsabilità delle procedure d'appalto e di concorso;
c) la stipulazione dei contratti;
d) gli atti di gestione finanziaria, ivi compresa l'assunzione di impegni di spesa;
e) gli atti di amministrazione e gestione del personale;
f) i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di
natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese
le autorizzazioni e le concessioni edilizie;
g) tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri
di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia
di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale;
h) le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente
manifestazione di giudizio e di conoscenza;
i) gli atti ad essi attribuiti dallo statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal Sindaco.”

Comma4: “Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”.
Comma6: “I dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva (ad esclusione quindi anche degli organi politici), in
relazione agli obiettivi dell'ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati della gestione”.

E per quanto riguarda le competenze degli organi di direzione politica? La giurisprudenza amministrativa aveva
difficoltà nell’annoverare le funzioni di competenza di indirizzo politico, così intervenne il legislatore con il d.lgs.
80/1998, successivamente modificato e noi oggi abbiamo il d.lgs.165/2001. Questo decreto ha indicato anche quali
fossero, in maniera esemplificativa, gli atti di competenza propri di indirizzo politico.
All’art.4 (da leggere in combinato disposto con l’art.14):
“Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da
attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività
amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo;
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione
tra gli uffici di livello dirigenziale generale.
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri
a carico di terzi.
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni.
f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato;”

Possiamo dire che l’organo politico è un organo amministrativo tout court con una sola funzione: specificare il fine da
compiere, l'obiettivo di realizzare. L'atto di indirizzo politico può ledere direttamente gli interessi dei terzi oppure
abbisogna dell'attività amministrativa attuativa per poter esplicitare direttamente gli effetti giuridici lesivi?
[Esempio: si pensi al caso in cui il Consiglio Comunale (l'organo di indirizzo politico) definisce gli obiettivi, i
programmi, le priorità e dice che occorre realizzare un'opera pubblica (ad esempio una scuola) su una parte del territorio
e demanda al dirigente tutta l’attività amministrativa gestionale per attuare questo vincolo di scopo.]
È un atto di per sé lesivo delle situazioni giuridiche soggettive altrui sui quali incide? Oppure, senza l'attività
amministrativa, non possono crearsi effetti giuridici pregiudizievoli?
È CHIARO CHE BISOGNA ATTENDERE L’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA GESTIONALE ATTUATIVA DI QUESTO
PROGRAMMA IMPARTITO, salvo rare ipotesi in cui c'è direttamente una lesione creata dal mero atto di indirizzo
politico (es.: i provvedimenti politici con i quali vengono individuate delle zone per la locazione di centrali
termonucleari → già questa situazione può essere considerata ‘avente efficacia precettiva direttamente lesiva delle
situazioni giuridiche soggettive’, che giustifica la proposizione di un ricorso anche nella mera individuazione del
vincolo di scopo).
L’art. 4 d.lgs. 165/2001 va letto in combinato disposto con l’art. 7 del d.lgs. 104/2010 (si tratta di un -impropriamente
detto- codice del processo amministrativo): “Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle
quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi,
concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o
comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche
amministrazioni. Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico.”
Dunque, quando il Governo emana un atto espressione dell'esercizio del suo potere politico, l’atto fa parte degli atti di
indirizzo politico di cui all’art.4 d.lgs. 165/2001 che, ai sensi dell’art.7 sono sottratti da qualsiasi impugnazione.
Sono sottratti anche da un sindacato dell'organo giurisdizionale?
L’art. 113 Cost. c1 afferma: “Contro gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”;
c2: “tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determina
categorie di atti”.
Questa norma si pone in antinomia rispetto al dettato costituzionale. Qui si devono fare due considerazioni:
➢ si parla di “atti della Pubblica Amministrazione”: il Governo non è PA, il Governo è il potere esecutivo.
➢ Ma, gli organi di indirizzo politico, sono organi amministrativi che hanno una funzione di indirizzo politico
amministrativo.
Possiamo dire che l'attività di indirizzo politico sia un continuum dell'attività di amministrazione tout court: non c'è
una distinzione netta, c'è una distinzione di funzioni ma non si può mai parlare di vera separazione. La legge non pone
una disposizione contro la Costituzione, che con quella norma ha introdotto un concetto chiaro semplice: la non
sottoposizione ad un organo giurisdizionale di una scelta politica. Ma questa scelta politica non può essere esente da
qualsivoglia controllo da parte del giudice amministrativo competente (vedremo quale potrà essere).

LEZ. 30/09/21
Nel diritto amministrativo il concetto di POTERE è centrale perché ogni attività, ogni atto della PA nell’ambito
dell’attività di diritto pubblico, presuppone alla base un potere. L’esercizio del potere è la ragione per cui si ricorre al
giudice amministrativo. L’art.7 del codice del processo amministrativo, infatti, dice che “sono devolute alla
giurisdizione amministrativa le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari
materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere
amministrativo […]”.
Il potere amministrativo è autoritativo, si impone unilateralmente sulla sfera giuridica dei destinatari, non richiede il
consenso della controparte. Però c’è una dottrina che ha detto che non tutti gli atti della PA sono unilaterali: fa
riferimento agli atti ampliativi (gli atti amministrativi possono essere ampliativi o restrittivi → i primi sono quelli che
portano uno vantaggio al privato [es. autorizzazioni, concessioni]), per cui non ci sarebbe unilateralità perché è il privato
che deve chiedere il diritto amministrativo affinché la PA possa concederglielo, c’è una richiesta del privato. Quindi,
la volontà del privato rileva prima, nel momento in cui io devo chiedere l’autorizzazione, la volontà
dell’amministrazione rileva in un secondo momento, all’esito del procedimento.
Il potere amministrativo, in secondo luogo, è tipico. Le norme attributive del potere hanno sempre lo stesso schema: ci
indicano i presupposti e conseguenze dell’esercizio del potere, anche se è possibile che lascino dei margini di
discrezionalità maggiori o minori alla PA.
La tipicità è una garanzia, perché ci permette di ricondurre l’esercizio del potere entro determinati schemi, in quanto la
PA deve agire entro determinati confini previsti da una norma.
Ci si è chiesti se alla base di questa tipicità ci sia un fondamento costituzionale, esso è stato trovato in primis nell’art.
23 della Costituzione che afferma: “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base
alla legge”. Questa norma ci dice quindi che nessun peso, nessun onere può essere imposto al privato e fa riferimento
agli atti restrittivi (che portano uno svantaggio).
Per gli atti ampliativi? Il fondamento è stato trovato nell’art. 97 Cost. commi 2 e 3: “I pubblici uffici sono organizzati
secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei
funzionari.” Quindi, il potere che è alla base della competenza e attribuzione, deve essere disciplinato dalla legge.
Per quanto riguarda la tipicità, abbiamo un’eccezione: le ordinanze urgenti e contingibili → per tali ordinanze sono
indicati i requisiti per esercitare il potere, invece, le conseguenze sono meno disciplinate, restano un po’ alla libertà
della PA.
Parte della dottrina ha definito queste clausole delle “valvole di sicurezza” a cui l’ordinamento può ricorrere se non ha
altre modalità per fronteggiare la singola emergenza. Sono legittime proprio perché richiedono un’emergenza e sono
temporanee.
Il potere amministrativo si esercita nel procedimento amministrativo, anche questa è una garanzia.
Durante il procedimento si forma la volontà della PA e, se si crea un vizio all’interno del procedimento, si potrà ricorrere
al giudice. Non c’è un fondamento costituzionale esplicito, lo abbiamo solo implicito e si può trovare nell’art. 97 co.2
che afferma il principio dell’imparzialità: la PA deve essere imparziale rispetto alle parti, agli interessi pubblico e
quelli dei privati.
Il potere amministrativo ha anche un ulteriore caratteristica: l’inesauribilità. Per capire questa caratteristica, anzitutto
dobbiamo far riferimento ad una distinzione tra potere concreto e astratto: il potere astratto è quello conferito dalla
norma (presupposti e conseguenze) ed è inesauribile perché potrà essere esercitato dalla PA innumerevoli volte, fin
quando esisterà la norma. La norma in concreto invece è concretamente l’applicazione del potere nel singolo caso e
quindi la valutazione in concreto.
All’interno del potere amministrativo esistono diverse classificazioni:
1) POTERE DI CONSERVAZIONE \ TRASFORMAZIONE: il primo prevede una conservazione del reale, non
modifica la realtà. Il secondo prevede una modifica del reale, è una modalità di produzione di effetti, non una modalità
dell’essere dell’atto. Questa classificazione è stata ritenuta a lungo poco rilevante, ma nel 2012 è stata rivalutata in
un’opera del prof. Follieri. Lui dice che il potere di trasformazione passa dal dover essere all’essere, da una posizione
astratta a una concreta e quindi modifica il reale; il potere di conservazione resta dove stava, dove deve essere.
Ovviamente, la differenza sta negli effetti, nelle condizioni di esercizio dello stesso potere: nel caso di modificazione
della realtà il principio di legalità dovrà operare in modo più pregnante.
2) POTERE DI INDIRIZZO \ POTERE DI GESTIONE: è una modalità di ripartizione del potere tra organi politici
e organi amministrativi. Dagli anni ’90 i poteri di indirizzo, (cioè il potere di prevedere il fine da perseguire) spettano
agli organi politici, i poteri di gestione agli organi amministrativi, che indicano le modalità concrete di attuazione di
quei fini.
Un’ulteriore classificazione del potere, quella più importante:
1) POTERE VINCOLATO la norma prevede i presupposti e conseguenze dell’esercizio del potere;
2) POTERE DISCREZIONALE PURO ci sono margini di scelta;
3) POTERE DISCREZIONALE TECNICO tale scelta richiede il ricorso di competenze tecnico-scientifiche.
La discrezionalità è importante nel diritto amministrativo perché è impossibile prevedere in ogni caso specifico come
perseguire un fine pubblico. La discrezionalità è il potere di scelta che la norma attribuisce in capo alla PA.
La discrezionalità, però, non è una vera e propria scelta: giuridicamente, l’espressione più ampia dell’attività di scelta
attiene alla libertà negoziale. Vediamo le differenze tra quest’ultima e la libertà nella scelta discrezionale:
➢ i fini: nella libertà negoziale i fini delle parti non rilevano, nella PA invece sono centrali, essa resta sempre
vincolata al perseguimento di un determinato fine;
➢ i principi che devono guidare l’azione amministrativa: ragionevolezza, proporzionalità e imparzialità (i
principali). Nel prendere una decisione la PA deve essere imparziale, deve mantenersi equidistante tra interesse
pubblico, privato e ogni altro fine che rileva nel caso concreto.
[Parte della dottrina afferma che l’interesse pubblico è primario, quello privato è secondario, ma è sbagliato
perché dire ciò significa anche dire che gli interessi dei privati soccombono sempre a quelli pubblici,
invece, l’interesse dei privati comunque deve avere sempre rilevanza, fermo restando il perseguimento
dell’interesse pubblico.]
La proporzionalità opera su tre parametri: idoneità/congruità, necessità e adeguatezza e proporzionalità in
senso stretto. La scelta della PA essere idonea a raggiungere un determinato fine, la misura deve essere quella
meno lesiva degli interessi privati e deve rispettare il parametro della proporzionalità in senso stretto (deve
essere effettivamente necessaria; ad es. se due città sono ben collegate, non avremo bisogno di porre in essere
un ulteriore collegamento). L’ultimo principio è quello della ragionevolezza: occorre che la misura adottata sia
logica, non contraddittoria e congruente alle premesse poste in essere.
LEZ. 07/10/2021
Il potere amministrativo si distingue a seconda della tipologia, in particolare del contenuto, per quanto riguarda gli
effetti giuridici che si producono dal potere. Gli effetti giuridici prodotti dal potere, attraverso l’estrinsecazione di un
provvedimento amministrativo sono diversi quanto all’oggetto, al contenuto del provvedimento che rappresenta
l’assetto degli interessi che compongono il provvedimento finale per la miglior cura possibile dell’interesse pubblico
attribuito dalla norma alla PA agente.
La diversa tipologia di potere, del contenuto del provvedimento permette una classificazione del provvedimento
amministrativo in 3 categorie:
1- Potere discrezionale-potere vincolato;
2- Potere di indirizzo politico-potere di gestione amministrativa;
L’organo di direzione politica deve specificare gli obiettivi da perseguire e concretizzare gli interessi pubblici specifici,
puntuali, individuati di volta in volta in ciascun procedimento amministrativo; sta all’organo dirigenziale
(amministrativo) il potere di attuare questi indirizzi, di riempire di contenuto l’atto di indirizzo politico, lasciato
volutamente vuoto dal legislatore.
L’atto di indirizzo politico in sé è un atto che si avvicina di più a un atto regolamentare (atto normativo) che non a un
procedimento amministrativo tout court: è una regola di scopo, con efficacia erga omnes non precettiva, non
direttamente lesiva della situazione giuridica soggettiva, se non attraverso l’atto di riempimento del contenuto del
dirigente.
L’atto di indirizzo politico può essere sindacato dal Giudice Amministrativo? Permette l’ingerenza del potere
giudiziario all’interno dell’esecutivo? No, mai, perché l’atto di indirizzo politico è il MERITO PURO, è
INSINDACABILE. Lì sta il dubbio: è insindacabile dal GA, ma è IMPUGNABILE perché il GA può effettuare (solo)
una verifica della LEGITTIMITÀ DELL’ITER.
Quindi, l’atto di indirizzo politico è insindacabile dal giudice quanto all’obiettivo finale (la posizione dell’interesse
pubblico specifico nel rispetto dell’interesse pubblico generale), ma non può essere libero da qualsiasi controllo
giurisdizionale (ex art.113Cost → non è possibile la sottrazione di NESSUN atto della PA ad un controllo
giurisdizionale). È sindacabile quanto a iter, ma quanto a esercizio del suo potere politico è insindacabile (art.7 co1
cod.proce.amm.).
L’atto amministrativo tout court, quello che emana la PA in ogni momento della sua funzione di amministrazione attiva,
è un atto di attuazione dell’indirizzo politico, che va a riempire il contenuto volutamente lasciato libero dal legislatore
(non solo a livello della posizione dell’interesse pubblico generale, ma anche per quanto riguarda l’apposizione
dell’interesse pubblico specifico che di volta in volta viene indicato nell’atto di indirizzo politico). Quindi, l’atto di
indirizzo politico è un atto che viene emanato all’esito di un procedimento che è vuoto volutamente, con il quale
l’organo di direzione politica appone l’interesse pubblico specifico di quella determinata fattispecie procedimentale.
Per il resto, si dice: si demanda all’organo di gestione amministrativa il riempimento di questo contenuto.
[Es. quando il Consiglio comunale sceglie la mia casa come casa su cui costruire la scuola pubblica, opera una scelta
che ricade sulla zona che meglio realizzi l’interesse pubblico col minor sacrificio degli interessi secondari coinvolti. Se
va bene, non c’è nessun sacrificio, ma laddove non vada bene (99% dei casi) c’è qualche sacrificio da dover subire.
Diceva Romagnosi: quantunque ci fosse anche un minimo sacrificio, la proprietà pubblica prevale sulla privata. Ma
l’atto di indirizzo politico che individua una zona su cui intervenire con un’opera pubblica è un atto che dice una cosa
finale, per il resto si demanda agli uffici competenti l’attuazione dell’atto di indirizzo politico.]
La posizione di un interesse pubblico particolare, nel rispetto dell’interesse pubblico generale, non è sindacabile dal
GA e non è sindacabile da nessun giudice, tranne che non ci siano palesi vizi che attanagliano il procedimento
amministrativo (che ha le sembianze di un procedimento di natura legislativa regolamentare).
Invece, ciò che è oggetto di sindacato, ma sempre in relazione ad un esercizio scorretto del potere, mai al contenuto
finale, è l’atto di gestione amministrativa di attuazione della scelta politica: lì c’è il sindacato sulla legittimità in
relazione a violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere.
Anche il sindacato sull’atto di indirizzo politico intinge sugli stessi vizi, ma quali vizi possono riguardare l’atto di
indirizzo politico? La competenza, la violazione di legge, l’eccesso di potere…ma sono poche le figure sintomatiche
rilevabili all’interno di un procedimento amministrativo vuoto, nel quale non c’è nulla nell’iter procedimentale. Quindi,
potrebbero esserci alcune figure sintomatiche dell’eccesso di potere (es. disparità di trattamento o di contraddittorietà)
ma queste sono eccezionali. Viceversa, l’atto di gestione amministrativa che il dirigente o il funzionario pone in essere
per attuare l’indirizzo politico, quello è ricco di contenuti e di attività istruttoria → il dirigente acquisisce gli interessi
in gioco, li valuta, li contempera, utilizza il suo potere discrezionale e, sempre nel rispetto del fine pubblico generale e
del fine pubblico posto dall’atto di indirizzo politico, opera una scelta. La scelta finale (contenuta nell’atto di indirizzo
politico e realizzata attraverso l’atto di gestione amministrativa) è insindacabile perché riguarda l’esclusiva competenza
della PA (si chiama MERITO).
Questa scelta insindacabile risente dell’atto politico che risale all’epoca fascista, all’art.31 del T.U. del 1924 (mai
abrogato), contrastante apparentemente con l’art.113 Cost. Guicciardi disse che era una falsa antitesi, perché lì riguarda
il merito, è estrinsecazione del sommo potere autoritativo, ma passando da uno Stato assoluto a uno Stato democratico,
il merito permane, il potere insindacabile della PA, ecco perché ritorna in auge l’art.7co1, ultima proposizione: per far
capire che la scelta politica è insindacabile.
3- Potere di conservazione-trasformazione. Bisogna guardare all’effetto giuridico e non alla tipologia di potere:
non bisogna dire che il tipico atto espressione del potere di trasformazione è l’atto positivo, con cui la PA dice
qualcosa: è sbagliato! Guardare all’effetto giuridico: l’atto deve determinare una innovazione del reale, una
trasformazione del reale, un effetto innovativo; se, invece, l’effetto giuridico è di tipo conservativo, cioè
cristallizza la realtà non modificandola e facendola rimanere uguale alla realtà precedente, quello è un atto tipico
espressione del potere di conservazione.
Un atto espressione del potere di trasformazione si relaziona, appagandolo, ad un tipo di situazione giuridica
soggettiva in capo al privato, ossia l’INTERESSE LEGITTIMO → quando c’è un potere di trasformazione,
l’interesse legittimo trova una sua correlazione appagante se il privato è titolare di interesse legittimo di tipo
pretensivo (chiedo qualcosa e la PA me la concede);
viceversa, il potere di trasformazione entra in scontro con il privato quando questi sia titolare dell’interesse
legittimo di tipo oppositivo (la PA emana un decreto di esproprio e incide sulla mia proprietà che, in forza del
suo contatto con il potere della PA, non è più un diritto reale, ma degrada automaticamente ad interesse legittimo
di tipo oppositivo). Quando, invece, ci troviamo di fronte al potere di conservazione, l’interesse legittimo di
tipo oppositivo si appaga, mentre si scontra quello di tipo pretensivo.

Nel 1889 è stata istituita la Quarta Sezione del Consiglio di Stato (C.d.S.) a cui è stata attribuita una funzione
giurisdizionale, perché si era creato un evidente vuoto di tutela.
La normativa che prima di questa legge disciplinava le controversie in cui fosse parte una PA era la l.20 marzo 1865
n.2248, allegato E (tuttora vigente nei suoi primi 5 artt.). Questa antica legge sul contenzioso amministrativo si ricorda
perché stabilisce che: “i tribunali speciali, attualmente investiti della giurisdizione del contenzioso amministrativo,
tanto in materia civile che penale, sono aboliti e le controversie ad essi attribuite saranno d’ora in poi devolute alla
giurisdizione ordinaria o all’autorità amministrativa” → fino a quel momento, le controversie in cui era parte la PA
erano devolute ai tribunali del contenzioso amministrativo, formati da funzionari appartenenti alla Corona nello Stato
assoluto, cioè funzionari che dovevano risolvere controversie in cui era parte la PA di cui essi stessi facevano parte.
Questa legge li abolisce perché non danno una garanzia di terzietà e imparzialità, riconoscendo l’autorità giurisdizionale
ordinaria e quella amministrativa. Quindi, tutte le controversie in cui è parte la PA, dal 1865 in poi, saranno riconosciute
o dal Giudice Ordinario (GO) o dalla stessa PA.
Vediamo come sono distribuite le controversie (artt. 2 e 3)
➢ Al GO sono affidate tutte le cause per contravvenzione e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un
diritto civile o politico (oggi chiamato diritto soggettivo). Il criterio che individua la giurisdizione dipende dalla
ragion del chiedere, dalla c.d. causa petendi; [art.2]
➢ Gli affari non compresi nell’art. precedente (tutto ciò che non è diritto soggettivo) saranno attribuiti alle autorità
amministrative. Tutto ciò che non era diritto soggettivo civile o politico era chiamato “affare” = l’affare è
l’embrione di quella che sarà la situazione giuridica soggettiva chiamata “interesse” (poi, chiamato con la Carta
costituzionale “interesse legittimo”). [art.3]
Si pone quindi un problema di devoluzione delle controversie in cui è parte la PA tra il GO (che dà una tutela
giurisdizionale) e un’autorità amministrativa. Non ci sono 2 organi giurisdizionali.
[Quando è stata istituita la Quarta Sez. del C.d.S., l’art. 26 del Regio Decreto 26 giugno 1924 n. 1054 diceva: “spetta
al C.d.S. in sede giurisdizionale di decidere sui ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge contro
atti e provvedimenti di un’attività amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto
un interesse d’individui o di enti morali giuridici.”
La definizione passa da AFFARI a INTERESSI per poi sfociare, dopo tanta dottrina, nell’art.24 Cost. “tutti possono
agire in giudizio per la tutela di diritti soggettivi e interessi legittimi” e nell’art.113 Cost.
Si passa da AFFARE → INTERESSE → INTERESSE LEGITTIMO (nella Costituzione).]
Art.4 → “Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa, i
tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto dedotto in giudizio. L'atto
amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative,
le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso.”
Art.5 → “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi in quanto
siano conformi alle leggi.”
Sono tutt’ora valide queste due norme. L’art. 4 dice qualcosa di sacrosanto: per il rispetto della tripartizione dei poteri,
il potere giudiziario non può conoscere direttamente di un atto amministrativo, perché se il giudice ordinario potesse
conoscere direttamente di un atto amministrativo e sindacarlo ci sarebbe una palese violazione del principio della
tripartizione dei poteri. Quindi, qualora la contestazione ricada sopra un diritto che si pretende leso da un atto della PA
e qualora ci sia una contestazione avente ad oggetto un diritto soggettivo e uno dei due contendenti richiama un atto
amministrativo a fondamento delle proprie ragioni, il GO non può conoscere direttamente l’atto invocato, ma si limita
a conoscerne gli effetti solo in maniera incidentale. Il GO applicherà quell’atto amministrativo al caso di specie solo
qualora legittimo, non affetto da vizi. Se affetto da vizi, il giudice lo disapplica in quel caso specifico (tanquam non
esset).
[Esempio: un cittadino costruisce la sua casa a distanza di 2 metri di distanza da quella del suo vicino. Il vicino si
rivolge al GO invocando la norma del c.c. sulla distanza fra le costruzioni. Quello che ha costruito invoca, a tutela della
correttezza della sua azione, il regolamento comunale che prevede 2 mt anziché 3. Il GO, chiamato a verificare la
fondatezza delle ragioni dei due contraenti in giudizio, guarda il regolamento, lo considera illegittimo perché ha violato
la norma del c.c. e lo DISAPPLICA LIMITATAMENTE A QUEL CASO DI SPECIE. Qui sono due soggetti privati,
ma sarebbe la stessa cosa se la PA fosse parte in causa.]
[Esempio: la PA e dà ad un soggetto privato una concessione per uno stabilimento balneare per 9 anni, dietro pagamento
di un canone di concessione demaniale. Lui deve pagare ogni anno 20 mila euro. Il soggetto paga per 3 anni e dal terzo
in poi non paga più. La PA si rivolge al GO per chiedere il pagamento del canone, un diritto patrimoniale che è un
diritto soggettivo. Il soggetto dice che la concessione è illegittima perché emanata dal Consiglio comunale anziché dal
dirigente. Il giudice verifica se è veramente illegittima, ma solo incidenter tantum, perché se così fosse, la concessione
continuerebbe a rimanere in vigore per gli altri soggetti, ma in quel caso specifico il GO la disapplica → tanquam non
esset.]
Ipotesi tipica di disapplicazione è l’art.650 c.p.: il giudice penale deve verificare se l’ordine dato dall’amministratore
sia legalmente dato. Se è così commina la sanzione, se non è così DISAPPLICA QUELL’ORDINE, MA
LIMITATAMENTE AL CASO DI SPECIE. Per il resto dei casi, quell’ordine continua ad esserci perché il GO non ha
la capacità di spazzare via gli effetti giuridici prodotti da un atto amministrativo, perché non lo può conoscere
direttamente, altrimenti invaderebbe il potere.
Questo potere del giudice ordinario è rimasto anche dopo l’istituzione della Quarta Sez. del C.d.S. e quindi la creazione
di un giudice ad hoc che possa annullare gli atti della PA.
EFFETTO CONFORMATIVO DEL GIUDICATO: è uno degli effetti a soddisfazione dell’interesse legittimo di tipo
pretensivo e consiste nel fatto che, quando il GO disapplica l’atto la PA, per non incorrere in una sanzione più grave
quale è l’annullamento da parte del giudice amministrativo, ritorna sui suoi passi, perché ha un indirizzo impartitogli
dal GO che si pone come un obbligo di conformazione al giudicato. Anche il GO con i suoi sindacati dà quegli indirizzi
alla PA che questa è molto sollecitata a seguire, perché si creano le regole per la futura azione.
LEZ. 13/10
IL DIRITTO DI ACCESSO AGLI ATTI E AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI
L’obiettivo del diritto di accesso è quello di stimolare la trasparenza dell’operato della PA, rendendola una vera e
propria “scatola di vetro”, sulla base dei principi di imparzialità e di buon andamento ed evitando fenomeni di
cattiva amministrazione e corruzione. L’intento è stato perseguito inizialmente con la legge 241/1990, la quale è stata
poi affiancata dai decreti legislativi del 2013 e del 2016.
➢ La legge 241/1990 ha dato delle linee guida su come operare sia alla Pubblica Amministrazione, imponendo
una serie di obblighi, sia ai privati che si rapportano con la PA; inoltre, ha introdotto la prima forma di accesso
agli atti e ai documenti amministrativi: l’accesso documentale, nelle due forme procedimentale ed
esoprocedimentale.
➢ Con il d. lgs. 33/2013 (denominato “Decreto trasparenza”) è stata introdotta una nuova forma, ossia l’accesso
civico semplice, che non ha abrogato la forma tracciata dall’art. 24 della l. 241/1990, tanto che ha effettuato dei
rinvii in merito ai limiti e all’esclusione del diritto di accesso.
➢ Il d. lgs. 97/2016 ha introdotto l’accesso civico generalizzato, ispirato alla normativa statunitense FOIA
(Freedom of Information Act) con la quale, già dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti ci si relazionava con la PA
chiedendo un accesso, in quanto era basata sul diritto all’ostensione di determinati documenti amministrativi
conosciuti o possibilmente noti ai cittadini.
Pertanto, nessun accesso introdotto nel 2013 e nel 2016 ha abrogato quello previsto dalla legge 241/1990, ma l’ha
integrato garantendo nuovi diritti ai cittadini.
L’ACCESSO DOCUMENTALE
La legge 241/1990, introducendo il diritto di accesso, segna il passaggio dalla segretezza alla pubblicità dei documenti
amministrativi e risulta molto chiara perché, nonostante il testo presenti delle lacune, l’art. 22, rubricato “Definizioni
e principi in materia di accesso” definisce in modo esaustivo il diritto d’accesso documentale, lasciando intendere il
diritto degli interessati, ossia i cittadini, di prendere visione o di estrarre copia dei documenti amministrativi
tramite un’istanza di accesso che deve essere motivata.
Tra i limiti al diritto di accesso c’è la protezione dei dati personali, sensibili e sensibilissimi, che necessitano di tutela,
la quale viene assicurata mediante un bilanciamento tra il diritto di accesso al contenuto amministrativo e quello di
proteggere la privacy. Molte volte, in alcune sentenze, per evitare che si impinga eccessivamente nei dati personali di
un soggetto, si predilige la forma della semplice presa visione, essendo meno invasiva rispetto all’estrazione di una
copia.
L’art. 22 fa riferimento agli interessati, ossia i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi,
che presentano l’istanza d’accesso vantando un interesse diretto, concreto e attuale: se non c’è un interesse legittimo
o un diritto soggettivo alla base della richiesta, questa non può essere presentata. Si tratta una posizione ben inquadrata
e non del “quisque de populo” e se l’interesse non è diretto, attuale e concreto, l’istanza d’accesso non può reggere.
Inoltre, possono entrare in gioco gli interessi di terzi soggetti, i controinteressati che sono tutti coloro che hanno una
situazione giuridica forte e sono meritevoli di tutela per la medesima. Ai controinteressati l’istanza di accesso deve
essere resa nota tramite una notifica. Infatti, la PA, cui si rivolge la richiesta di accesso, se individua soggetti
controinteressati, deve comunicare agli stessi, tramite raccomandata o avviso di ricevimento (attualmente tramite PEC
perché più immediata), la volontà dell’interessato di esercitare il suo diritto di accesso. I soggetti controinteressati sono
individuati tenuto anche conto del contenuto degli atti connessi di cui all’art. 7, co. 2.
Entro 10 giorni dalla comunicazione ai controinteressati, questi possono presentare una motivata opposizione
all’istanza d’accesso, essendo titolari di una situazione giuridica soggettiva al pari di quella vantata dall’interessato che
ha presentato la richiesta di accesso e il loro diritto alla riservatezza dei dati contenuti nel documento per il quale è
richiesto l’accesso deve essere preso in considerazione.
La PA è il detentore dell’atto amministrativo del quale si chiede l’accesso, il cui ambito è limitato dall’art. 23 facendo
riferimento al fatto che tale diritto viene esercitato nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende
autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi, autorità di garanzia e vigilanza, nel rispetto dei
relativi ordinamenti e secondo quanto previsto dall’art. 24.
L’art. 10 della legge 241/1990 attribuisce in capo ai partecipanti del procedimento amministrativo e agli interventori
(art. 9, interventore: qualunque soggetto portatore di interessi pubblici, privati e diffusi costituiti in associazioni o
comitati cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento) il diritto di prendere visione degli atti procedimentali,
anche se il procedimento è ancora in corso (accesso procedimentale). Mentre, l’accesso di cui agli artt. 22 ss. prescinde
dal procedimento, in quanto questo può essere già definito e chiuso.
Diversamente dall’accesso civico (semplice o generalizzato), l’accesso documentale (legge 241/1990) ha maggiori
limiti soggettivi e minori vincoli oggettivi. Infatti, possono effettuare l’accesso solo specifici soggetti in possesso di
un interesse diretto, attuale e concreto, ma il loro intervento è più penetrante in quanto consente la visione e l’estrazione
materiale dei documenti.
Non è possibile che tutti i documenti amministrativi siano resi noti, infatti, l’art. 24 della legge 241/1990 prevede tre
limiti al diritto d’accesso:
1. LIMITI TASSATIVI (art. 24, co. 1): riguardano i documenti coperti dal segreto di Stato o da un divieto di
divulgazione. L’art. 39 della legge 124/2007 identifica i documenti coperti dal segreto di Stato come gli atti, i
documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea ad arrecare un danno all’integrità
della Repubblica, anche in reazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla
Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla
preparazione e alla difesa militare dello Stato.
Le informazioni, i documenti, gli atti, le attività, le cose e i luoghi coperti dal segreto di Stato sono posti esclusivamente
a conoscenza dei soggetti e delle attività chiamati a svolgere rispetto ad essi le funzioni essenziali; devono essere
conservati con accorgimenti atti ad impedirne manipolazione, sottrazione o distruzione. Perciò, i documenti segreti non
sono soggetti né ad un accesso indiscriminato (da parte di chiunque), né ad un accesso da parte di coloro i quali hanno
un interesse diretto, attuale e concreto. Inoltre, l’art. 24 si concentra anche sul segreto e divieto di divulgazione previsti
dalla legge o dal regolamento governativo (es. segreto industriale, scientifico, epistolare, istruttorio). Il diritto d’accesso
è escluso anche per i documenti riguardanti i procedimenti tributari, per le attività della PA dirette all’emanazione di
atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione e quelli relativi ai procedimenti selettivi
nei confronti di documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psico-attitudinali relativi a terzi;
2. LIMITI FACOLTATIVI (art. 24, co. 2): sono rimessi alla discrezione delle singole PA, le quali possono
individuare i documenti da sottrarre al principio di trasparenza.
Il comma 3 riassume l’intento di evitare la finalità esplorativa, stabilendo che non sono ammesse istanze di accesso
documentale preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle PA. Le istanze meramente esplorative sono
escluse anche dall’accesso civico (semplice e generalizzato) in quanto la celerità del procedimento amministrativo deve
essere sempre percepita come un punto fermo dal quale non discostarsi e, secondo il co. 4, è possibile adottare il potere
di differimento che impedisce la negazione dell’accesso ai documenti amministrativi e consente di ovviare un aggravio
del procedimento amministrativo.
3. CASI DI ESCLUSIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI PUBBLICI INTERESSI (art. 24, co. 6): con
regolamento adottato ai sensi dell’art. 17, co. 2 della l. 400/1988, il Governo può prevedere casi di sottrazione
all’accesso di documenti amministrativi:
a. quando possano derivare una lesione specifica e individuata alla sicurezza e alla difesa nazionale, all’esercizio
della sovranità nazionale e alla continuità e alla correttezza delle relazioni internazionali (es. programmi militari di
sviluppo, dichiarazioni che invadono la riservatezza, relazioni o rapporti internazionali);
b. quando l’accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di formazione, di determinazione e di attuazione della
politica monetaria e valutaria;
c. quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali
alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle
tecniche investigative, all’identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte,
all’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini (es. non deve essere resa efficace un’attività
amministrativa di indagine o atti e documenti riguardanti i servizi di polizia);
d. quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi,
imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario,
industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli
stessi soggetti cui si riferiscono: questo limite è esteso al divieto di divulgazione di informazioni, anche private, in
rapporto al codice della privacy e alla sfera della riservatezza dei dati sensibili e sensibilissimi della persona.
L’art. 60 del d. lgs. 196/2003 (Codice di protezione dei dati personali) fa riferimento ai dati relativi alla salute, alla
vita e all’orientamento sessuale e stabilisce che quando il trattamento concerne dati relativi a tali sfere, esso è consentito
solo se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti
amministrativi sia di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consista in un diritto della personalità o in un
altro diritto o libertà fondamentale.
L’art. 24, co. 6, l. d della legge 241/1990 e l’art. 60 del d. lgs. 196/2003 vanno letti insieme perché si completano e,
inoltre, bisogna effettuare un bilanciamento di interessi, ossia il test della proporzionalità, la quale viene adoperata
come parametro per effettuare tale raffronto. Se si tratta di interessi parimenti tutelati perché entrambi
costituzionalmente garantiti prevale il diritto di accesso in luogo alla riservatezza; invece, se non vi è parità, la
posizione è recessiva e prevale il diritto alla riservatezza in luogo al diritto di accesso ai documenti amministrativi;
e. quando i documenti riguardino attività in corso di contrattazione collettiva nazionale di lavoro e gli atti
interni connessi all’espletamento del relativo mandato.
L’art. 24 termina con una norma di chiusura che si pone in netto contrasto con la lettera d), la quale è tassativa; mentre,
il comma 7 è un enunciato che impone una deroga alle limitazioni imposte prima: deve essere comunque garantito ai
richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri
interessi giuridici. Pertanto, la tassatività di cui alla lettera d si contrappone a questo enunciato derogatorio con carattere
discrezionale. Sulla base del combinato disposto fra l’art. 60 del codice della privacy e l’art. 24, co. 6, l. d della legge
241/1990 c’è un necessario bilanciamento da effettuare: da una parte c’è il diritto alla riservatezza, dall’altra c’è il
diritto di accesso. Pertanto, viene fatta ad opera dei giudici una valutazione fra gli interessi e in alcuni casi la
giurisprudenza ha rinvenuto alla base dell’istanza di accesso diritti costituzionalmente tutelati, facendo così recedere il
diritto alla riservatezza. L’istanza di cui alla l. 241/1990 è sostenuta da un interesse attuale, diretto e concreto e si
riferisce ad una situazione giuridicamente rilevante e tutelata. Alla base può esserci un diritto che è di pari rango rispetto
al diritto alla riservatezza come il diritto al lavoro, o la libera iniziativa economica, o il diritto alla salute per i quali
l’essere costituzionalmente garantiti e l’essere di pari rango rispetto al diritto alla riservatezza determinano la possibilità
di accedere alla documentazione amministrativa perché il diritto di accesso recede solo nel caso in cui ci sia alla base
un diritto di rango inferiore rispetto a quello alla riservatezza.
Una sentenza particolarmente importante che ha fatto evincere come si procede quando la riservatezza si oppone al
diritto di accesso è la sentenza del Consiglio di Stato n. 6440/2006 che ha stabilito che l’interesse alla riservatezza
recede quando l’accesso stesso sia esercitato per la difesa di un interesse giuridico nei limiti in cui esso è necessario
alla difesa di quell’interesse, anche se per contemperare le diverse esigenze che sono alla base della richiesta di accesso
da un lato e della riservatezza dei terzi dall’altro, l’art. 24 della l. 241/1990 ha previsto che i richiedenti, a fronte di atti
del procedimento relativi ai loro interessi che riguardano la vita privata di terzi, non possano ottenere copia di
documenti, né trascriverli, ma possono solo prenderne visione. La riservatezza dei terzi può essere destinata a cedere,
a fronte del diritto di accesso, anche quando si tratti di danni idonei a rilevare lo stato di salute del soggetto stesso,
infatti, in tal caso l’art. 60 del d. lgs. 196/2003 prevede che l’accesso sia consentito se la situazione giuridicamente
rilevante che si intende tutelare è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della
personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile. La documentazione amministrativa per la quale
venne chiesto l’accesso riguardava alcuni insegnanti, i quali hanno accesso al lavoro tramite graduatorie che spesso
avvantaggiano un soggetto rispetto ad altri. Infatti, nonostante, gli atti riguardassero la posizione di un collega
beneficiario di agevolazioni concesse per la situazione del padre dalla l.140/1992 , il diritto al lavoro essendo
costituzionalmente garantito, al pari del diritto alla riservatezza, era di pari rango e pertanto il Consiglio di Stato scelse
di far prevalere il diritto di accesso rispetto alla riservatezza andando a tutelare il diritto al lavoro della ricorrente nella
forma meno invasiva della presa visione e non in quella dell’estrazione materiale della copia. Si cercò di tutelare le
informazioni ma al tempo stesso di proteggere i diritti della ricorrente che voleva conoscere le ragioni per le quali il
suo collega era in una posizione di vantaggio rispetto a lei nella graduatoria, mediante un’indagine effettuata per mezzo
del test di proporzionalità.
L’art. 25 della legge 241/1990, rubricato “Modalità di esercizio del diritto di accesso”, stabilisce che il diritto di accesso
si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, rimarcando la presa visione e
l’estrazione di copia già previsti nella fase definitoria del diritto di accesso e rinviando all’intero corpus normativo della
stessa legge.
L’esame dei documenti è gratuito e il rilascio di copie è subordinato al rimborso dei costi di produzione salvo diverse
disposizioni vigenti in materia di bollo. Nelle modalità di esercizio del diritto di accesso di cui alla legge 241/1990, il
co. 2 stabilisce che la richiesta deve essere motivata, valutando che ci siano i presupposti di cui all’art. 22, ossia
l’interesse diretto, attuale e concreto a sostegno dell’istanza di accesso rivolta all’amministrazione che ha formato il
documento e lo detiene stabilmente. L’istanza, fatta su un format, può essere specifica indicando nella sua intestazione
il riferimento “ex artt. 22 e seguenti della legge 241/1990” perché è un’istanza documentale, ossia un tipo di accesso
che prevede la titolarità dell’interesse diretto, attuale e concreto. Se l’istanza non è così dettagliata e non è inquadrata
dal richiedente come istanza di cui all’art. 22, l’adunanza plenaria sulla base dell’art. 99 del codice del procedimento
amministrativo ha il compito di enunciare i principi di diritto che non necessariamente sono vincolanti per le sezioni
semplici, ma poi lo sono perché orientano il giudice amministrativo che offre una soluzione unitaria per risolvere i
contrasti giurisprudenziali facendo sì che le varie sezioni si uniformino.
Il volume “Principi vincolanti dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato” ricorda che la plenaria ha avuto il merito
di risolvere, con i suoi dicta (principi), una mole di problemi giurisprudenziali. Il Consiglio di Stato ha spesso
sottolineato che l’istanza di accesso non è stata inquadrata in modo specifico, quindi facendo riferimento all’accesso di
cui alla legge 241/1990. Alla base dell’istanza di accesso documentale deve esserci un interesse diretto, attuale e
concreto e, se l’amministrazione non attribuisce queste caratteristiche all’interesse, di conseguenza la richiesta viene
inquadrata come un’istanza di accesso civico (semplice o generalizzato) esercitabile da chiunque. L’istanza di accesso
documentale deve essere motivata così come il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso in base all’art. 3
della legge 241/1190. Potrebbe essere limitato l’accesso ad una sola parte dei documenti amministrativi se solo alcuni
di essi rientrino nei limiti tassativi e facoltativi (accesso parziale). Decorsi 30 giorni dalla richiesta, questa si intende
respinta (rifiuto implicito da parte della PA). In caso di diniego espresso o tacito o di differimento, il richiedente può
presentare il ricorso al TAR o chiedere al difensore civico competente per ambito territoriale ove costituito che sia
riesaminata la suddetta determinazione. L’art. 133 del codice del procedimento amministrativo, nell’inquadrare le
materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ritiene che le controversie relative alla materia di accesso
siano devolute a questo e include anche la violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa, cioè quelli di
pubblicazione di cui al d. lgs 33/2013. Il rito in materia di accesso è previsto dall’art. 116 del codice del processo
amministrativo ed è impugnato quando, ad esempio, viene negato l’accesso o nell’ipotesi di silenzio.
L’ACCESSO CIVICO
L’accesso civico ha garantito la possibilità di presentare l’istanza di accesso non solo ai soggetti titolari di una
situazione giuridicamente rilevante e tutelata, ma a chiunque nei limiti di cui all’art. 24 della legge 241/1990. L’istanza
non deve avere una sola finalità esplorativa, né deve essere massiva nei confronti della PA perché questo comporta
degli aggravi nell’esercizio dell’attività amministrativa. L’accesso civico (semplice o generalizzato) possiede meno
limiti soggettivi (chiunque può presentare l’istanza d’accesso che in questo caso non è necessariamente motivata) e
presenta maggiori limiti di tipo oggettivo in quanto l’istanza può inserirsi nella documentazione della PA, (es.
l’accesso viene fatto perché è mancato un obbligo di pubblicazione e, se la PA acconsente l’ostensione di quella
determinata informazione, rimedia all’obbligo di pubblicazione non rispettato). La scelta di prevedere una forma di
accesso civico (semplice o generalizzato) è legata all’avvento di internet tramite cui vengono assolti gli obblighi di
pubblicazione da parte della PA. Il d. lgs. 33/2013 è denominato “Decreto trasparenza” ed impone diversi obblighi alle
Pubbliche Amministrazioni, tra cui quelli di pubblicazione di determinate informazioni che li riguardano. L’art. 5 del
d. lgs. 33/2013 è rubricato “Accesso civico a dati e documenti” e la differenza tra l’accesso documentale e quello civico
sta nell’espressione “diritto di chiunque” contenuta nel suddetto articolo. Si tratta di una forma differente di accesso
in quanto in questo caso non c’è un interesse diretto, attuale e concreto ma un diritto da parte di chiunque in quanto
la PA non ha rispettato gli obblighi di comunicazione imposti dalla legge, tramite l’art.35 del d. lg. 33/2013 e, in caso
di violazione, chiunque può presentare un’istanza di accesso civico: ad ovviare al mancato rispetto del dictum dell’art.
35, interviene l’art. 5, co. 1. L’istanza di accesso civico non deve essere motivata e non deve essere sostenuta da un
interesse diretto, attuale e concreto, ma si basa solo sul fatto che la PA non ha rispettato gli obblighi di pubblicazione
di cui al d. lgs. 33/2013. L’accesso civico è rifiutato se il diniego è necessario per evitare che siano coinvolti gli interessi
pubblici che necessitano di tutela. La PA è funzionalizzata al perseguimento del pubblico interesse che giustifica il suo
potere e che è diverso dall’interesse del privato, il quale è personale ed egoistico essendo egli un cittadino titolare di
diritti soggettivi o di interessi legittimi. Quindi, dinanzi a tali interessi pubblici rilevanti, il diritto di accesso recede
come nel rapporto con il diritto alla riservatezza qualora in questo caso il diritto di accesso sia considerato inferiore
rispetto a questi interessi pubblici protetti. L’accesso è altresì rifiutato nei casi in cui ci sia la possibilità di coinvolgere
la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza della corrispondenza e gli interessi economici e commerciali
di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d’autore e i segreti commerciali a
protezione del know-how aziendale.
1. SEMPLICE
L’art. 35 del d. lgs. 33/2013 ha introdotto la forma dell’accesso civico semplice e degli obblighi di pubblicazione
per le PA, come rendere noto il nome del responsabile del procedimento o, per i procedimenti a distanza di parte di
inserire la modulistica. Il portale amministrazione trasparente contiene determinati procedimenti amministrativi di cui
devono essere rese note alcune informazioni in quanto l’accesso è la massima espressione della trasparenza
amministrativa.
2. GENERALIZZATO
Il co. 2 dell’art. 5 definisce l’accesso civico generalizzato mediante l’espressione “ulteriori rispetto a quelli oggetto
di pubblicazione” in base al “Decreto trasparenza”, come un approdo finale della trasparenza amministrativa.
In sintesi, da una parte c’è il titolare di un interesse diretto, attuale e concreto che può presentare istanza motivata di
accesso documentale ai sensi della l. 241/1990 e c’è un accesso procedimentale secondo l’art.10 con riferimento ai
partecipanti e agli interventori al procedimento, dall’altra parte c’è il diritto di chiunque ad accedere a documenti per i
quali le PA abbiano omesso la pubblicazione (accesso civico semplice) oppure si fa riferimento all’art. 5, co. 2 che con
l’espressione “ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione” indicando l’accesso civico generalizzato. L’istanza
deve essere circostanziata in quanto non può essere massiva: una volta inquadrato il tipo di documento e allo scopo di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico e il controllo dell’attività amministrativa, chiunque ha il diritto di
accedere a dati e documenti che siano ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione da parte delle PA con alla base
la carenza di un interesse specifico. L’art.24 fa riferimento ai limiti in merito all’accesso documentale, l’art. 5 bis
all’esclusione e ai limiti all’accesso civico. Se il titolare di una situazione giuridicamente rilevante e di un interesse
diretto, attuale e concreto non può accedere a tali documenti per ragioni legate alla sicurezza pubblica e all’ordine
pubblico, sicuramente non potrà farlo chiunque, soprattutto se sprovvisto di un interesse a sostegno della propria
istanza.
______________________________________________________________________________________________
Il diritto di accesso ai dati e ai documenti amministrativi si compone oggi di tre tipologie di diritto d’accesso:
• Diritto d’accesso DOCUMENTALE, ex 241/90;
• Diritto d’accesso CIVICO, che può ricomprendere le fattispecie del diritto di accesso civico semplice (o
proprio) e il diritto di accesso civico generalizzato;
Mentre la legge 241/90 prevede una disciplina di diritto d’accesso legata a una situazione giuridicamente rilevante, si
è dibattuto se trattasi di un diritto soggettivo o un interesse legittimo, ma in realtà si parla di un interesse DIRETTO,
ATTUALE e CONCRETO lo dice la legge 241/90, l’articolo 22. Questo interesse è a sostegno di una istanza motivata
che viene presentata all’amministrazione o comunque a chi detiene quel documento amministrativo del quale si chiede
l’accesso.
Cos’è propriamente il diritto d’accesso?
Il diritto d’accesso è finalizzato alla trasparenza e alla pubblicità dei dati e dei documenti detenuti dalla pubblica
amministrazione ma si può anche dire che il diritto d’accesso è il precipitato di altri due principi dell’attività
amministrativa che sono: il principio di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa.
Cosa succede? L’istante, titolare di un interesse diretto, attuale e concreto richiede alla pubblica amministrazione
l’ostensione di specifici documenti amministrativi. Si dice specifici non a caso perché l’istanza è circostanziata per
evitare che l’istanza sia massiva o giustificata da mere finalità esplorative. La stessa legge 241/90 lo dice: all’articolo
24 fa riferimento proprio al dover evitare nei limiti che l’istanza miri ad un controllo generalizzato dell’operato delle
pubbliche amministrazioni. L’articolo 24, co.3 dice proprio che non sono ammissibili istanze d’accesso che siano
preordinate a questo, proprio per evitare che la finalità perseguita sia una finalità meramente esplorativa e soprattutto,
in alcuni casi, bisogna evitare un aggravio del procedimento amministrativo, non bisogna inficiare l’efficienza nella
gestione procedimentale. Questo accesso è un accesso legittimato da un interesso diretto, attuale e concreto che è
diverso da un’istanza di accesso civico; perché? All’inizio della lezione abbiamo parlato di diritti di accesso perché
sono 3 tipologie: diritto di accesso DOCUMENTALE ex legge 241/90, accesso civico semplice ex articolo 5, co.1
d.lgs. 33/2013 e accesso civico generalizzato sempre contenuto nel d.lgs. 33/2013 ma in seguito alle modificazioni de
d.lgs. 97/2016. Il d.lgs. 33/2013 è meglio noto come “decreto trasparenza” proprio perché la finalità perseguita è quella
di rendere le pubbliche amministrazioni sottoposte ad un cono di luce. In dottrina si è parlato di rendere le pubbliche
amministrazioni “case di vetro” cioè conoscibili per evitare quale strumento alla lotta alla malam administration e alla
corruzione nelle P.A.
Perché dico che l’accesso è diverso? Perché se l’accesso documentale è subordinato ad un interesse diretto, attuale e
concreto, l’accesso civico non lo è sia nelle forme dell’accesso civico semplice che dell’accesso civico generalizzato.
Se l’istante che avanza richiesta di accesso documentale è titolare di questo interesse diretto, attuale e concreto ed è
legittimato dalla sussistenza di una situazione giuridicamente rilevante, d’altro canto c’è chiunque che si trova a, nel
caso dell’accesso semplice, chiedere la pubblicazione da parte della P.A. di dati, documenti e informazioni oggetto di
pubblicazione da parte della P.A. Noi abbiamo preso, nella prima parte della lezione, proprio l’articolo 5 del d.lgs.
33/2013 e abbiamo visto come nel caso in cui la P.A. non abbia rispettato degli obblighi di pubblicazione di cui al
decreto trasparenza, chiunque possa richiedere quei dati per mezzo di una istanza d’accesso civico; quindi, non è
legittimato da un interesse diretto, attuale e concreto ma è chiunque. D’altro canto, il d.lgs. 97/2016, al fine di
raggiungere quella che è una trasparenza maggiore nelle P.A., prevede che chiunque possa presentare un’istanza
d’accesso per dati, informazioni e documenti ulteriori rispetto a quelli oggetto obbligo di pubblicazione da parte della
P.A.
L’istanza d’accesso, se nell’accesso documentale deve essere motivata, l’istanza d’accesso civico è un’istanza di
chiunque, senza un motivo specifico che però non può diventare un’istanza di tipo esplorativo quindi comunque
un’istanza massiva perché riguarda una mole di documenti esagerata.
Tutte e tre le tipologie di accesso trovano dei limiti, escluso il diritto d’accesso in casi specifici che sia il 241 che il
decreto trasparenza enunciano; ci sono dei limiti TASSATIVI, che sono stati legislativamente imposti dalla legge
241/90, dei limiti FACOLTATIVI e, quelli più importanti, quelli di cui all’articolo 24, co.6 quei casi di esclusione dal
diritto di accesso al fine di SALVAGUARDARE DEGLI INTERESSI PUBBLICI. Il comma 6 è senza dubbio quello
più importante soprattutto perché c’è il riferimento al diritto alla riservatezza: ai sensi dell’articolo 24, co. 6, il Governo
può provvedere ai casi di sottrazione all’accesso di documenti amministrativi quando i documenti riguardino la vita
privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni.
La disciplina di cui alla lettera d), co.6, art.24 presuppone che debbano essere bilanciati i due diritti: l’accesso da una
parte e il diritto alla riservatezza dall’altro perché ci sono occasioni in cui i dati sensibili vengono coinvolti nell’istanza
d’acceso. È previsto, quindi, che dinanzi a dati sensibili o comunque nei casi in cui l’istanza invada i limiti della
riservatezza, debba essere fatta una sorta di bilanciamento di interessi tra diritto alla riservatezza e diritto d’accesso.
Come si risolve la questione? Il diritto alla riservatezza recede nel caso in cui sia coinvolto dall’istanza d’accesso un
diritto di pari rango quindi parimenti tutelato, pertanto un diritto che è costituzionalmente garantito. Nel bilanciamento
di interessi il diritto alla riservatezza in luogo di un diritto che è costituzionalmente garantito come per esempio il diritto
al lavoro: abbiamo visto nella prima parte di un caso nel quale è stata acconsentita l’ostensione di documenti
amministrativi che riguardassero dati coperti da una sorta di riservatezza che però riguardavano il diritto al lavoro e
quindi nel rapporto tra diritto alla riservatezza e diritto al lavoro, il diritto di lavoro è costituzionalmente garantito tra i
diritti fondamentali, nel bilanciamento di interessi il diritto d’accesso prevale rispetto al diritto alla riservatezza; seppur
nel caso che abbiamo analizzato il consiglio di stato abbia prediletto la formula della sola presa visione del documento
amministrativo e non quella più invadente dell’estrazione di copia di quel documento.
Il punto molto importante è quello relativo al RITO IN MATERIA DI ACCESSO perché nel corso della prima parte
abbiamo fatto riferimento all’art.25 (come si esercita il diritto di accesso, come l’istanza deve essere motivata eccetera)
e concentriamoci ora sul rito in materia di accesso. Abbiamo detto che le controversie relative all’accesso sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in una sorta di actio ad exibendum perché in realtà con il rito in
materia di accesso, in caso di accoglimento del ricorso che viene presentato, si predispone che la P.A. faccia qualcosa
cioè renda noto, acconsenta l’ostensione di determinati documenti amministrativi.
Come si procede al ricorso in materia di accesso ai documenti amministrativi?
Innanzitutto, dobbiamo tenere in considerazione 2 articoli: il 133 che è l’articolo del codice del processo amministrativo
che enuncia quelle che sono le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, una vera e
propria elencazione e sono devolute alla giurisdizione esclusiva del G.A. tutti i contrasti relativi all’accesso.
Contro cosa viene presentato ricorso? Il ricorrente in questo caso è il cittadino che presenta il ricorso al T.A.R. (tribunale
amministrativo regionale) ricorrente, resistente la P.A.
Contro le determinazioni e il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi, quindi sia nel caso di un
provvedimento autoritativo che di inerzia da parte della P.A., il ricorso dovrà essere proposto entro 30 giorni, che è un
termine perentorio, e questi 30 giorni decorrono dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione
del silenzio. Cosa si fa? Mediante notifica all’amministrazione e ad almeno un controinteressato. Abbiamo visto nella
prima parte della lezione come un controinteressato non è solo una persona che viene citata nel procedimento
amministrativo ma è una persona che è coinvolta nel procedimento amministrativo il cui diritto alla riservatezza viene
coinvolto dal provvedimento che viene preso e quindi coinvolto anche dall’eventuale accesso a documenti che
riguardano quel procedimento amministrativo.
Di recente, in una sentenza del 2019, il Consiglio di Stato si è concentrato sul fatto che non può essere dichiarato
inammissibile il ricorso per l’accesso agli atti della P.A. per omessa notifica al controinteressato. Prima abbiamo detto
che ci deve essere la notifica all’amministrazione e ad almeno uno dei controinteressati ma se non è stato coinvolto il
soggetto non è inammissibile per omessa notifica al controinteressato; nel caso in cui la P.A. in fase procedimentale
non ha consentito la partecipazione ad altri soggetti, cosa dice il Consiglio di Stato? Che non può essere dichiarato
inammissibile il ricorso per accesso agli atti qualora sia stata la stessa amministrazione a non consentire la
partecipazione di altri soggetti in sede procedimentale, ritenendo che gli stessi potrebbero subire un pregiudizio
dell’accoglimento dell’istanza d’accesso e che solo nel caso di impugnazione del conseguente diniego, acquisterebbero
la qualifica di controinteressato. Quindi non è inammissibile il ricorso se non è stato notificato al controinteressato
qualora la P.A. non abbia consentito la partecipazione di altri soggetti nella fase procedimentale.
Il ricorso, quindi, deve essere proposto entro 30 giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla
formazione del silenzio mediante notifica all’amministrazione e ad almeno uno dei controinteressati.
Qual è la legittimazione attiva cioè perché è legittimato quel soggetto a proporre un ricorso per l’accesso? Nel caso in
cui dimostri che un provvedimento o degli atti endoprocedimentali di un procedimento amministrativo in corso abbiano
dispiegato degli effetti diretti o indiretti nei suoi confronti oppure nel caso in cui abbia un interesse personale, concreto,
serio e non emulativo a presentare il ricorso stesso.
L’articolo 116 sottolinea che l’amministrazione può essere rappresentata e difesa in giudizio da un proprio dipendente
da ciò autorizzato. L’art. 116 chiarisce che il giudizio si conclude con una sentenza in forma semplificata sussistendone
i presupposti e ordina l’esibizione e, ove previsto, la pubblicazione dei documenti richiesti entro un periodo non
superiore di norma a 30 giorni. Perché vi ho detto che in caso di accoglimento, condanna un facere nei confronti della
P.A.? perché la P.A. è chiamata a o rendere noto il documento amministrativo per il quale era stata fatta istanza
d’accesso, e per il quale magari era arrivato un provvedimento di rifiuto oppure c’era stato silenzio da parte della P.A,
oppure ordina addirittura la pubblicazione di quei documenti per i quali non era stato rispettato l’obbligo di
pubblicazione. Questo fa concretamente con una sentenza in forma semplificata.
L’art. 116 fa riferimento anche al fatto che la richiesta d’accesso può essere presentata anche in pendenza di un giudizio,
in pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa, il ricorso, di cui al co.1 (legittimazione attiva come
deve essere, tempistiche e a chi deve essere notificato) può essere proposto con istanza depositata presso la segreteria
della sezione cui è assegnato il ricorso principale previa notificazione all’amministrazione e agli eventuali
controinteressati. In questo caso non provvede con sentenza in forma semplificata ma l’istanza è decisa con ordinanza
separatamente dal giudizio principale o con la sentenza che definisce il giudizio. Questo è il rito in materia di accesso.
Il 116 si chiude facendo riferimento al fatto che questa disciplina si applica anche alle eventuali impugnazioni della
sentenza in forma semplificata.
Così viene gestito il rito in materia di accesso e che ovviamente è un passaggio successivo all’istanza che viene
presentata e sulla quale la P.A. può rispondere con un provvedimento di rifiuto o con il silenzio ed è per questo che noi
facciamo riferimento, in apertura, contro le determinazioni quindi contro un provvedimento espresso o nelle ipotesi di
silenzio.
Legittimato passivo e resistente è l’amministrazione o comunque quei soggetti che sono stati inquadrati nell’art.23 e
che sono coloro i quali che detengono materialmente il documento amministrativo su cui è proposta istanza d’accesso.
Questa disciplina non riguarda solo l’accesso documentale ma riguarda anche tutta la sfera degli obblighi di
pubblicazione, ovviamente l’articolo 116 e 133 non fanno riferimento solo al diritto d’accesso ai documenti
amministrativi, ma alla violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa (133) e per la tutela del diritto di accesso
civico connessa all’inadempimento degli obblighi di trasparenza (116). Questo perché ormai non si può più parlare di
diritto d’accesso ai documenti amministrativi basato su un interesse diretto, attuale e concreto, oggi i diritti di accesso
sono 3, sono diritti sempre di più orientati ad una maggiore trasparenza dell’attività amministrativa e ovviamente
bisogna considerare il fatto che più diritti di accesso ci sono e più anche la disciplina relativa al ricorso giurisdizionale
deve essere pronta, non sono per istanze d’accesso documentale ma anche per istanze di accesso civico semplice o
generalizzato.

Come la digitalizzazione in generale, ma l’informatica prima di tutto, hanno modificato e migliorato


la disciplina di diritto d’accesso, perché? L’avvento di internet ha incentivato una trasparenza maggiore e ha
agevolato, perché a costo 0, venivano introdotte delle riforme come ad es. l’apertura di quelli che sono i portali
“amministrazione trasparente”. Da dove derivano questi? Da quelli che sono gli obblighi di pubblicazione di cui al
decreto 33. Internet consente alle P.A. di rendere note un maggior numero di informazioni, dati e documenti in loro
possesso. Oggi si può parlare della digitalizzazione in generale e dell’intelligenza artificiale nel particolare, perché è
possibile utilizzare i saperi e le peculiarità dell’intelligenza artificiale quale strumento di lotta alla corruzione. La
blockchain, con riferimento al bitcoin, è uno strumento che può essere validamente applicato nelle P.A. perché per
garantire una maggiore trasparenza dell’attività amministrativa è necessario inserire dati, documenti e informazioni
relative alle P.A. su queste piattaforme digitali condivise. Così potremmo definire la blockchain: una piattaforma
digitale dove gli utenti che si confrontano vengono a conoscenza delle informazioni che si riferiscono a quel dato
procedimento amministrativo. È una piattaforma digitale dove ogni informazione caricata viene validata, la validazione
consente di riconoscere il momento nel quale quella informazione è stata validata. Ciò rende quel dato immodificabile
perché qualsiasi modifica successiva a quella potrebbe essere innanzitutto nota a tutti i partecipanti alla catena, gli
utenti (pir) conoscono il momento nel quale quella informazione è stata modificata. Una scelta del genere
determinerebbe un controllo ancora più accorto dell’attività amministrativa. Non sono riflessioni così tanto lontane
dalla realtà, la tecnologia blockchain può essere validamente utilizzata nelle P.A., bisognerebbe solo ripensare al
procedimento amministrativo però nel segno della trasparenza c’è anche questa transizione digitale estrema. Quindi se
l’accesso civico generalizzato può essere definito come l’ultima frontiera della trasparenza amministrativa di cui il
legislatore si è avvalso, l’uso dell’intelligenza artificiale potrebbe essere un passaggio ulteriore, andare oltre rispetto a
tutti i vari step trattati.
LEZ.14/10
POTERE AMMINISTRATIVO
“Potere” è un concetto ampio, un concetto di sociologia e anche giuridico, centrale all’interno del diritto amministrativo
perché ogni attività e ogni atto della P.A. nel diritto pubblico presuppongono alla base un potere.
Questo potere presenta determinate caratteristiche:
➢ è autoritativo: nel senso di unilaterale, che si impone indipendentemente dalla volontà del privato (non significa
che la volontà del privato non rileva, viene presa in considerazione, ma prevale l’interesse pubblico);
➢ è tipico: la norma che attribuisce il potere ha sempre la stessa struttura (presupposti per l’utilizzo del potere,
conseguenze derivanti dall’utilizzo del potere);
➢ è inesauribile: finché c’è una norma che attribuisce il potere, potrà essere esercitato un numero infinito di volte.
Il potere si estrinseca all’interno del procedimento amministrativo e questa è una garanzia per i cittadini perché permette
un controllo da parte del giudice sulle modalità con cui il potere è esercitato.
All’interno del potere ci sono tantissime classificazioni, ma la più importante attiene alla distinzione tra:
1. potere vincolato;
2. potere discrezionale puro;
3. potere discrezionale tecnico;
La discrezionalità è il potere di scelta che la norma che attribuisce il potere lascia in capo alla P.A. Quando c’è
discrezionalità la P.A. ha una scelta, questa scelta non è libera, essa non può fare ciò che vuole, il concetto più ampio
di scelta ce l’abbiamo con la libertà negoziale. Le differenze con la libertà negoziale sono 2:
1. FINE: all’interno delle scelte della P.A. il fine, quale che sia, assume sempre rilevanza. Nella libertà
negoziale no, siamo liberi di vendere un bene per qualsiasi ragione e acquistarlo per qualsiasi ragione;
2. PRINCIPI da seguire nell’esercizio delle scelte discrezionali: la proporzionalità, la ragionevolezza e
l’imparzialità.
Considerate che la discrezionalità è un concetto centrale all’interno dell’attività della P.A. perché un ordinamento
moderno è inimmaginabile senza la discrezionalità: essa permette di adattare il caso concreto al fine pubblico.
DISCREZIONALITÀ PURA
La norma lascia scelta alla p.a. nel rispetto di alcuni criteri.

Dove opera questa discrezionalità?


La norma attributiva del potere è tipica, ha sempre lo stesso schema: presupposti e conseguenze.
La discrezionalità si può avere sia nei presupposti che nelle conseguenze.
Discrezionalità nei presupposti
Ci sono casi in cui i presupposti sono certi: [es. Testo Unico in materia di pubblica sicurezza: se un’attività lavorativa
resta chiusa per più di 8 giorni senza darne comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza, si revoca la licenza]. I
presupposti sono certi, non c’è un margine di discrezionalità.
Ci sono casi in cui i presupposti non sono certi: [es. d.lgs. 42/2004, dice che quando un bene ha un interesse storico,
artistico, archeologico e antropologico si può porre su quel bene un vincolo per cui non potrà circolare liberamente,
non potrà essere venduto liberamente, sarà sottoposto a controlli maggiori]. I presupposti non sono certi (lo sono le
conseguenze), perché nello stabilire se un bene ha una rilevanza storica non c’è una linea di demarcazione netta, sarà
necessario valutarlo nel caso concreto e quindi c’è un ampio margine di discrezionalità.
Quando abbiamo discrezionalità nei presupposti, bisogna prendere in considerazione i cosiddetti “concetti giuridici
indeterminati” di cui parla la dottrina tedesca, che possono essere di vario tipo. La più importante classificazione è tra:
➢ CONCETTI EMPIRIRCI: guardano al reale (un bene può o meno crollare e quindi deve o meno essere chiuso);
➢ CONCETTI VALUTATIVI: richiedono una valutazione (un film è adatto o meno a un pubblico di minori, una
condotta è conforme o meno alla morale)
Discrezionalità nelle conseguenze:
Le conseguenze non sono prestabilite: non è stabilito a monte dalla norma che cosa si possa o non si possa fare. In
questo caso la P.A. sarà chiamata a contemperare gli interessi: cioè nello stabilire che tipo di provvedimento si possa o
meno adottare, essa dovrà contemperare l’interesse primario della P.A. e gli interessi secondari dei privati. [es. se
intorno a Castel del Monte pongo il divieto di edificare (che è il limite più duro perché se non posso costruire il mio
terreno perde valore), lo potrò certamente fare magari per 2 ettari perché l’interesse del privato rileva e quindi la P.A.
è chiamata a bilanciare i vari interessi.
Una parte della dottrina ha detto che “interesse primario per la P.A.” e “interesse secondario per i privati” fossero
termini errati perché sembra quasi dire che l’interesse primario della P.A. rileva sempre e che quello secondario dei
privati non rileva mai. È forse una terminologia un po’ sbagliata, ci sono semplicemente interessi diversi, e ovviamente
quello pubblico ha una rilevanza maggiore, ma devono essere bilanciati e contemperati tra loro.
Altra cosa da dire sulla discrezionalità: dicevamo che essa è essenziale negli stati moderni perché essa serve per
perseguire il fine pubblico, ci permette di adattare in concreto le scelte dell’amministrazione rispetto al
perseguimento del fine posto dalla norma. C’è però una tendenza che vede una forte riduzione dei margini di
discrezionalità, non tanto per una prevalenza della legge sull’amministrazione, quanto perché se la norma pone dei
margini sarà più semplice per il giudice sindacare. Se invece la P.A. ha una scelta, il giudice potrà sindacare se non
persegue il pubblico interesse e se non rispetta i principi, ma ovviamente sarà un sindacato minore, allora si è cercato
di ridurre i margini di discrezionalità.
Per capire quanto tali margini si sono ridotti, si consideri che la discrezionalità opera nel SE, opera nel QUANDO,
opera nel COME (contenuto intrinseco di un determinato atto) e opera nel CONTENUTO ESTRINSECO di questo
determinato atto.
La discrezionalità del “se” emanare un provvedimento, oggi non c’è più. Le P.A. hanno il dovere di concludere i
procedimenti: se c’è una istanza di parte o c’è un obbligo di ufficio di dare avvio ad un procedimento, la P.A. deve
emanare l’atto, non c’è una scelta se emanarlo o meno. Inoltre, “nelle ipotesi in cui si ravvedano che la manifesta
irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità e infondatezza, cioè nei casi più gravi, le P.A. concludono il
procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata” quindi non c’è discrezionalità del se.
Anche sul “quando” la discrezionalità è minima. La P.A. ha tempi relativamente certi per emanare il provvedimento.
Sempre l’art. 2 pone come termine 30 giorni, nei casi più gravi si può arrivare a 90 e in via del tutto eccezionale si può
arrivare a 180 giorni, ma comunque dovrà decidere in questi termini.
Non c’è una discrezionalità nel “contenuto estrinseco” dell’atto, nella forma, perché c’è un principio di tipicità per cui
il provvedimento deve assumere sempre lo stesso schema: deve essere motivato, la motivazione deve attenere ai
presupposti che hanno portato all’adozione del provvedimento ecc...
Resta unicamente oggi un margine di discrezionalità sul “contenuto intrinseco”, cioè su quello che poi
concretamente si sceglie, che non è scelta a 360 gradi ma discrezionalità, perché sottoposta ai vincoli del
perseguimento del fine pubblico posto dalla norma e del rispetto dei principi dell’ordinamento.
PERCHÉ SI È RIDOTTA LA DISCREZIONALITÀ?
Da una parte per le spinte dell’UE: essa reputa le scelte non discrezionali controllabili e quindi, in ottica di tutela dei
privati, dice che è meglio se la P.A. non può scegliere, se le scelte sono fatte a monte;
dall’altra parte, in molti casi è la stessa P.A. a porsi dei limiti e si fa riferimento all’AUTOVINCOLO: si ha autovincolo
quando all’interno di un procedimento la P.A. si pone dei vincoli perché magari ha già adottato scelte dello stesso tipo,
quindi vuole continuare ad adottare scelte seguendo gli stessi criteri, oppure lo fa perché lo impone la legge.
La seconda ragione intrinseca all’amministrazione che ha portato alla riduzione della discrezionalità è la riduzione
progressiva della discrezionalità in concreto.
Ultima parentesi sulla discrezionalità è il merito amministrativo: può capitare in concreto che si esauriscano tutte le
possibili scelte e quindi la P.A. possa adottare solo un atto con un determinato contenuto. Ma può capitare, al contrario,
che all’esito del procedimento ci siano più soluzioni idonee possibili. In questo caso (solo in questo caso), la P.A. è
libera di scegliere: si ha il merito amministrativo. Non è il legislatore che dice che la P.A. è libera, ma capita che nelle
ipotesi di discrezionalità, se si hanno più soluzioni, la P.A. è libera di adottarne una.
DISCREZIONALITÀ TECNICA
Si ha discrezionalità tecnica al ricorrere di due presupposti:
1. La norma che attribuisce il potere deve utilizzare concetti giuridici indeterminati, che abbiano carattere
empirico e che richiedano un giudizio alla stregua di conoscenze scientifiche.
Quindi c’è una norma che attribuisce il potere, che è indeterminata nei presupposti, che utilizza concetti giuridici
indeterminati di carattere empirico (cioè guardano al reale), e che per l’adozione della scelta sia necessaria una
conoscenza scientifica alla stregua di criteri tecnici: per stabilire se il palazzo possa o meno crollare non possiamo
mandare un giurista ma un ingegnere che abbia le conoscenze specialistiche.
2. Il giudizio che la P.A. deve porre in essere deve presentare margini di opinabilità.
Proprio perché per porre in essere questa scelta è necessario il ricorso a soggetti specialisti, qualcuno in dottrina ha
detto che questa non è un’ipotesi di discrezionalità, perché la P.A. non è effettivamente libera di scegliere, è vincolata
alla decisione del tecnico. Allora c’è qualcuno in dottrina, ad es. Prof. Clarich, che parla di “valutazioni tecniche”.
È giusto o è sbagliato? È una questione di prospettive, perché se accogliamo la tesi secondo cui, per esserci
discrezionalità è necessario che ci sia un elemento volitivo, allora la discrezionalità tecnica non è discrezionalità e
dovremmo preferire il termine valutazioni tecniche. Se invece, perché ci sia discrezionalità, si reputa sufficiente che ci
siano concetti giuridici indeterminati, siamo in ipotesi di discrezionalità.
Si è posto un problema sul sindacato del giudice inerente alla discrezionalità tecnica: il giudice può sindacare le scelte
discrezionali, ma ovviamente ha un sindacato che riguarda il perseguimento di un interesse pubblico, non può andare
oltre.
Ci si è chiesti se nelle ipotesi di discrezionalità tecnica si potesse fare un sindacato maggiore: a lungo si è detto di no
perché la scelta in ipotesi di discrezionalità tecnica è assunta con l’ausilio di un tecnico, il giudice che è un mero giurista
che non può sindacare tale scelta.
Il punto di svolta si è avuto prima col d.lgs. 80/1998 e poi con la legge 205/2000 che ha introdotto la consulenza
tecnica d’ufficio (CTU): il giudice civile nomina un consulente, gli pone delle domande ed egli risponde alle domande.
Con l’aiuto del consulente tecnico il giudice può assumere competenze che prima non aveva, il consulente è un esperto
in determinate materie che aiuta il giudice ad assumere una determinata decisione. Questo ammette un controllo
maggiore del giudice sulla scelta adottata dalla P.A.
Il controllo che comunque il giudice amministrativo ha è un controllo sull’attendibilità della scelta adottata e non
sulla condivisibilità: se concretamente la scelta rispetta i criteri della materia, le regole che disciplinano l’ingegneria,
ma il consulente dice che, nonostante ciò, avrebbe fatto una scelta diversa, il giudice non potrà intervenire su quell’atto
e non potrà annullarlo.
ATTIVITÀ VINCOLATA
Essa si ha quando la P.A. è certa nei contenuti e nelle conseguenze: [se un locale resta chiuso per più di 8 giorni senza
darne avviso all’autorità di pubblica sicurezza, la licenza è revocata → qui l’intervento della P.A. è minimo: si limita
ad accertare la presenza dei presupposti e delle conseguenze].
Non si hanno i concetti giuridici indeterminati ma si hanno concetti giuridici determinati.
Cosa cambia? Si applica un regime in alcune parti differente, ad esempio:
▪ Motivazione: il provvedimento amministrativo è obbligatoriamente motivato e la motivazione riguarda i
presupposti di fatto e di diritto che hanno portato all’assunzione di quella determinata scelta. Se la scelta è
discrezionale, la motivazione deve giustificare la scelta (perché si è adottata quella misura, se essa persegue un
interesse pubblico, se essa è proporzionata, ragionevole e imparziale).
Se l’attività della P.A. è vincolata, la motivazione sarà minima (accertamento dei presupposti).
Una seconda differenza riguarda la disapplicazione di talune norme:
▪ obbligo di comunicazione di avvio del procedimento. L’art.7 della 241\90 dice che “l’avvio del procedimento stesso
è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale
è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge devono intervenire”; poi aggiunge che “qualora da
un provvedimento possa derivare un pregiudizio dei soggetti individuati o facilmente individuabili diversi dai
diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornir loro, con le stesse modalità, notizia del procedimento”.
Quindi, bisogna comunicare l’avvio del procedimento a:
- i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento è destinato a produrre effetti;
- i soggetti che per legge devono intervenire;
- soggetti che possono avere un pregiudizio.
L’art.21-octies, co.2, seconda parte, parla dell’annullabilità del provvedimento: “il provvedimento amministrativo non
è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio al procedimento qualora l’amministrazione dimostri
in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che in concreto si è
adottato”.
Se non viene comunicato l’avvio del procedimento a questi soggetti, generalmente l’atto è annullabile, TRANNE
QUANDO la P.A. dimostra che il contenuto non poteva essere diverso, anche se questi soggetti avessero partecipato.
E quando il contenuto non può essere diverso da quello in concreto adottato? Quando la P.A. svolge attività
vincolata.
Nell’attività vincolata non c’è potere amministrativo, perché la P.A. non sceglie? Non è vero, il potere non è solo
potere di scelta, è potere di emanare l’atto, è potere di poter determinare le conseguenze derivanti dall’esercizio dello
stesso potere: oggi la dottrina è pacifica nel dire che anche in ipotesi di attività vincolata c’è un potere e si va davanti
al giudice amministrativo.
PRINCIPI CHE REGOLANO L’ATTIVITÀ DISCREZIONALE
Nell’esercizio del potere discrezionale, la P.A. è chiamata a perseguire il fine pubblico, il fine posto dalla norma e a
rispettare una serie di principi. Quali sono? Ci sono principi generalissimi, che regolano sempre il potere (sia
discrezionale che vincolato), e altri che si applicano solo al potere discrezionale.
Sono principi che troviamo nella Costituzione, nelle fonti internazionali e che troviamo nell’articolo 1 della 24.
PRINCIPI GENERALISSIMI:
PRINCIPIO DI LEGALITÀ = la sottoposizione dell’atto alla legge, l’atto deve essere conforme alla legge. Esso lo
troviamo per la prima volta nella legge 2248\1865, allegato E, abolitrice del contenzioso amministrativo: lascia in via
generale tutte le materie al giudice ordinario, fermo restando poche altre materie lasciate all’Autorità Organi
dell’Amministrazione. Precisa all’art.5 “in questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli
atti amministrativi e i regolamenti generali locali in quanto conforme alla legge” (l’atto deve essere conforme alla legge).
Problema: l’atto deve essere conforme alla legge, ma il potere deve essere disciplinato dalla legge? La questione è stata
risolta dalla Costituzione:
ART.23 “le prestazioni personali e patrimoniali non possono che essere imposte se non in base alla legge”;
ART.97 CO.2 “i pubblici uffici sono organizzati secondo le disposizioni di legge, in modo che ne siano assicurati buon
andamento e imparzialità;
CO.3 “nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni, e le responsabilità proprie
dei funzionari”.
Il comma 2 dice che nell’organizzazione dei pubblici uffici vanno determinate, per legge, le sfere di competenza e
attribuzione. Queste ultime indicano chi ha il potere: quando c’è difetto assoluto di attribuzione siamo nelle ipotesi
di nullità perché agisce un soggetto che non ha proprio il potere (il rettore decide di chiudere le strade, non può
farlo lui ma il sindaco ergo l’atto è nullo); se c’è incompetenza il potere c’è, ma lo esercita il soggetto sbagliato
(l’Università di Foggia ha il potere di nominare cultori della materia i laureati, lo deve fare il Direttore di Dipartimento,
se lo fa il Rettore o la Professoressa Fanti che non hanno di per sé tale potere, l’atto non sarà nulla ma annullabile).
BUON ANDAMENTO = ART.97, si manifesta nei corollari di efficienza, efficacia ed economicità e quindi
perseguimento di obiettivi (efficacia), l’efficienza è un rapporto rispetto al dispendio di energie economiche (e
spenderle il meno possibile), e poi c’è l’economicità che riguarda il rapporto mezzi-risultati.
Il buon andamento crea un’amministrazione del risultato, che guarda al perseguimento di un interesse anche economico,
forse qualcuno direbbe un po’ aziendalistico ma che poi in fondo all’amministrazione serve.
Ci sono, poi, quei principi come ad es. la trasparenza: il potere deve essere trasparente, tutti dobbiamo sapere perché
l’amministrazione è arrivata ad assumere quella determinata decisione, ecco perché si può chiedere l’accesso ai
documenti.
PRINCIPI CHE RIGUARDANO PROPRIAMENTE L’ATTIVITÀ DISCREZIONALE
IMPARZIALITÀ: la P.A. deve essere terza rispetto alle parti, ma anche rispetto all’amministrazione stessa, cioè
rispetto all’interesse pubblico e dei privati. Deve essere oggettiva, è un po’ espressione del principio di uguaglianza
sostanziale (art. 3 Costituzione), al punto che l’atto adottato in ipotesi di parzialità è annullabile.
PROPORZIONALITÀ: opera nei tre sub-corollari dell’idoneità, necessità e adeguatezza, che significa? Che se io
ho interesse a collegare Stornara e Stornarella posso farlo espropriando dei fondi, la P.A. vuole collegarli. La mia scelta
sarà idonea se decido quali ettari espropriare per fare questa strada nuova e quindi ci sarà la possibilità a. esproprio 3
ettari, b. ne esproprio 10, c. 12. Tutte queste scelte sono idonee, tra le scelte idonee devo applicare il secondo sub
corollario cioè la necessità e quindi tra queste scelte il mezzo più mite sarà 3 ettari. Infine, c’è il vaglio
sull’adeguatezza che è il vaglio sulla proporzionalità in senso stretto, cioè: serve collegare queste due città o c’è la
16 che già le collega e quindi è inutile farlo e sarebbe solo una lesione ai diritti dei cittadini?
RAGIONEVOLEZZA: la scelta discrezionale della P.A. deve essere ragionevole. Per tanto tempo la ragionevolezza
ricomprendeva all’interno la proporzionalità, oggi in realtà si sono andate a separare: la ragionevolezza e la logicità
della motivazione della scelta adottata. La motivazione è la scelta, interesse, è logico che lo persegua, l’atto adottato è
logico, allora si supera il vaglio della ragionevolezza.
Ci sono altri principi che regolano la discrezionalità, ad esempio il LEGITTIMO AFFIDAMENTO: ovviamente c’è
un interesse del privato da tutelare nel bilanciare gli interessi e c’è un principio di precauzione che è di natura
comunitaria, che nasce prettamente in maniera ambientale (tutela prima del pericolo, con la probabilità del pericolo e
non con la certezza del pericolo). La grande applicazione si è avuta durante la pandemia, dove si è scelto di chiudere
prima ancora che ci fosse un contagio tale da dimostrare tale scelta per il timore che i contagi stessero salendo.
LEZ.20/10/21
Le caratteristiche del potere giuridico amministrativo sono: IMPERATIVITÀ, ESECUTIVITÀ, ESECUTORIETÀ,
nonché l’AUTOTUTELA, cioè caratteristiche che il potere della PA eredita dal potere del sovrano, dal potere del
monarca all’interno dello Stato di diritto.
Il potere della PA ha comunque un potere discrezionale, che si relaziona a delle situazioni giuridiche soggettive di
diversa natura e deve contemperarle con quello che si prefigge in un determinato procedimento.
La PA agisce per procedimenti e questo procedimento amministrativo, che viene iniziato per realizzare un determinato
interesse pubblico, prefissato dalla norma e specificato negli atti di indirizzo politico, vede l’estrinsecazione di un
potere autoritativo, esecutivo, imperativo, esecutorio, dotato di autotutela; tutte queste caratteristiche del potere le
ritroviamo durante l’iter procedimentale. Quando la PA esercita il suo potere come autorità pone in essere un potere
autoritativo che si impone, ma essendo una pubblica autorità può scegliere se esercitare il suo potere in modo
autoritativo, ovvero in modo consensuale cioè ricorrendo a moduli di diritto privato.
Quando si dice che il potere è autoritativo, vuol dire che non sta utilizzando quei moduli di diritto privato che sono
indicati all’interno del comma 1-bis dell’articolo 1. La legge 241 del 1990 stabilisce che la PA può agire anche in modo
non autoritativo e per ragioni di efficienza utilizzare i moduli di diritto privato.
Di norma la PA agisce in veste di autorità, esercitando un pubblico potere; invece, quando agisce attraverso atti di
natura non autoritativa il suo comportamento è disciplinato dalle norme di diritto privato, salvo che la legge non
disponga diversamente.
L’ACCORDO è un istituto che ci dimostra che anche all’interno di un accordo la PA resta sempre un gradino più in
alto rispetto al privato, cioè l’altro contraente del negozio giuridico instaurato. In questo procedimento amministrativo
la PA utilizza un potere autoritativo (agisce in veste di autorità); ma il suo potere può essere anche IMPERATIVO cioè
che si impone sulla situazione giuridica amministrativa soggettiva destinataria degli atti conclusivi del procedimento,
indipendentemente dal consenso di tale soggetto destinatario. Quindi, AUTORITATIVA e IMPERATIVA sono due
CARATTERISTICHE DEL POTERE che si legano tra loro in maniera inscindibile: l’autoritatività è strettamente
collegata all’imperatività (la PA nel suo esercizio del potere si impone ovvero può costituire, modificare, estinguere la
situazione giuridica soggettiva dei destinatari dei suoi atti indipendentemente dal loro consenso).
Il potere si impone in maniera ESECUTIVA ed ESECUTORIA, due caratteristiche del potere non codificate. Ci sono
stati per molti anni studi dottrinali che hanno discusso cosa si intende per esecutività ed esecutorietà.
Nel 2005 il legislatore è intervenuto con importante modifica di questa legge, introducendo il Capo IV-bis all’interno
della legge 241. Tale si intitola “efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e processo”. Il
legislatore è intervenuto nel 2005 con una straordinaria modifica della legge 241/1990, il quale ha introdotto ex novo
questo capo IV bis (introducendo gli articoli 21-bis, ter, quater, quinquies, sexies, septies, octies, novies e decies),
nell’ottica di fornire nuove e aggiuntive garanzie ai privati che partecipano all’interno di un procedimento
amministrativo.
Con l’art.21-bis il legislatore ha codificato quando gli atti che limitano la sfera giuridica dei privati acquistano efficacia
giuridica ma non ha definito il significato di efficacia giuridica. L’EFFICACIA GIURIDICA degli atti consiste
nell’idoneità dell’atto a perseguire e realizzare l’interesse pubblico previsto dalla norma, voluto dal legislatore,
ma questo non è mai stato detto in maniera di diritto positivo, allora c’era tanta dottrina e tantissima giurisprudenza che
di volta in volta indicava questo principio; attraverso le plurime sentenze si è creato come un principio pretorio con una
norma di carattere pretorio, il quale è stato sistemizzato ad opera dalla dottrina. È stato oggi codificato in una norma di
legge.
Ma perché il legislatore ha stabilito quando produce effetti solo una determinata categoria di atti (atti limitativi della
sfera giuridica dei privati) anziché stabilirlo per tutti i tipi di atti? Perché non si è voluto tanto imbrigliare il potere della
PA però tale è già un grande risultato, si è parlato in una norma di legge dell’efficacia giuridica cioè del momento in
cui l’atto produce gli effetti giuridici idonei a realizzare un determinato risultato, quindi, è una grande conquista per il
privato.
Il legislatore è intervenuto, stabilendo come norma di diritto positivo il principio in base al quale gli atti limitativi della
sfera giuridica dei privati acquistano effettività giuridica nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo
stesso effettuata anche nelle forme stabilite per la notifica. Tutti gli atti amministrativi che limitano, che si impongono
in maniera autoritativa, imperativa, negativa sono considerati ATTI RECETTIZI cioè acquistano efficacia soltanto
quando vengono comunicati, conosciuti e arrivano a destinazione del privato perciò occorre la notifica.
Il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati non avente carattere sanzionatorio può contenere una
clausola di immediata efficacia: prima ancora che venga conosciuto dal suo destinatario, laddove non contenga una
sanzione, può acquistare efficacia immediatamente dalla sua emanazione.
È importante stabilire il giorno da quando il provvedimento produce efficacia giuridica perché questa norma (l’art.21)
correlata all’articolo 21-octies dice che è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge
o viziato da eccesso di potere o di incompetenza e quindi il privato che rileva dei vizi, deve rilevarli entro brevi termini
(60 giorni dall’efficacia giuridica), rivolgersi ad un’autorità amministrativa giurisdizionale e chiedere l’annullamento
da parte dei giudici.
Falsea è stato il miglior studioso dell’efficacia giuridica dei provvedimenti amministrativi, il quale faceva evidenziava
come questa non andasse a braccetto con l’atto perfetto, valido. Falsea diceva che l’atto amministrativo produce effetti
giuridici quando termina il suo iter procedimentale, suddiviso in 3 fasi:
• fase dell’iniziativa;
• fase istruttoria;
• fase della decisione;
Quando si compiono queste fasi, si dice che il provvedimento amministrativo adattato al termine della fase decisoria
ha rispettato l’iter, quindi è perfetto.
Falsea diceva che le due caratteristiche dell’efficacia giuridica e della perfezione procedimentale non sono sempre
coincidenti, in quanto, alcune volte, ci sono procedimenti amministrativi che necessitano di un’altra fase “eventuale”
senza la quale il provvedimento, anche se perfetto, non produce effetti; alcuni provvedimenti se non vengono conosciuti
mediante notifica singola o diverso rango dal destinatario, anche se perfetti non producono effetti.
Sempre Falsea, affermava che neanche l’istituto dell’efficacia coincide sempre con la validità dell’atto amministrativo,
perché anche gli atti illegittimi hanno capacità di produrre effetti giuridici.
Durante il periodo fascista venne introdotta una regola secondo la quale vi era l’equiparazione della fattispecie invalida
alla fattispecie valida degli atti amministrativi: tutti gli atti amministrativi erano idonei, non solo quelli esenti dai vizi
di legittimità. Questa regola non vale nei casi di difetto di potere, ma se il potere c’è, anche se esercitato scorrettamente,
l’atto produce effetti giuridici [importante regola introdotta dalla giurisprudenza e dalla dottrina, tutt’oggi valida].
Quindi, nella caratteristica del potere, l’efficacia non è mai sinonimo di validità.
L’efficacia giuridica è l’istituto che stabilisce l’idoneità di un determinato provvedimento a produrre effetti
idonei per il perseguimento del risultato finale, anche con provvedimenti perfetti che necessitano di un’ulteriore
fase.
La prima caratteristica di Falsea la ritroviamo nell’articolo 21-bis, la seconda nell’articolo 21-octies co. 2.
La correlazione tra efficacia giuridica e validità dell’atto: non soltanto gli atti esattamente conformi alla fattispecie
concreta e astratta sono idonei a produrre effetti giuridici, ma anche gli atti che non risultano conformi alla fattispecie
in quanto affetto dai tre vizi di legittimità sono idonei a produrre effetti giuridici.
Questa affermazione oggi è possibile ritrovarla all’interno dell’articolo 21-octies della legge del 241\90: “è annullabile
il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza”.
Invece, quando l’atto è affetto da vizio grave (difetto di potere), è nullo.
Nel 1889 nasce la figura del giudice amministrativo, nata per sindacare la legittimità dell’atto amministrativo.
Egli può emanare una sentenza costitutiva d’annullamento con la quale annulla gli effetti giuridici prodotti
dall’atto amministrativo. Questa sentenza costituisce, modifica, elimina (effetto CASSATORIO) gli effetti giuridici
prodotti dall’atto, determinando come effetto costitutivo anche l’effetto ripristinatorio, cioè si ripristina la situazione
precedente all’emanazione dell’atto. Basta un solo vizio affinché si verifichi ciò.
Con la norma di DEQUOTAZIONE DEI VIZI FORMALI (art.21-octies c.2) vengono considerati irrilevanti i meri vizi
formali che portano all’annullabilità dell’atto: “non è annullabile il provvedimento in dotazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti, qualora per la natura vincolata del provvedimento sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Il legislatore ha stabilito che, affinché si
verifichi la dequotazione del vizio formale o procedimentale, è necessario che ci siano tre presupposti fondamentali:
▪ la presenza del vizio formale o procedimentale (es. la violazione dell’obbligo della motivazione). Sono obblighi,
regole che nulla dicono del contenuto dell’atto, riguardano la veste del procedimento amministrativo, nulla dicono
sull’assetto degli interessi che compone il contenuto dispositivo, sono regole neutre che attengono al procedimento.
Questa regola posta dall’articolo 21-octies co.2 è il prodotto di tanto lavoro giurisprudenziale.
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Analizziamo l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990.
Qui il legislatore è intervenuto, e non ha fatto più uso della regola del raggiungimento dello scopo, per considerare
dequotati alcuni vizi formali e procedimentali, ma ha utilizzato un'altra regola, e cioè la regola del risultato sostanziale
per il ricorrente.

E cosa significa regola del risultato sostanziale? Perché i vizi che attengono alla forma del procedimento o ad alcuni
obblighi procedimentali, e quindi perché la violazione di queste regole formali e procedimentali sia considerata
irrilevante dal giudice amministrativo, e quindi non venga annullato dallo stesso giudice adito il relativo provvedimento,
secondo questa nuova previsione normativa, sono necessari tre presupposti:
• attività prettamente vincolata.
• violazione di norme sul procedimento e sulla forma degli atti (e quindi l'esistenza di vizi formali e
procedimentali).
• palese in giudizio (e quindi al giudice amministrativo), che l'osservanza della regola violata non avrebbe
determinato un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato.

In sostanza, attraverso quest’ultima previsione normativa (terzo presupposto), viene chiesto al giudice amministrativo
di effettuare un sindacato virtuale: cioè è come se il giudice amministrativo, di fronte ad un ricorso che gli viene
presentato, nel quale il ricorrente rileva la sussistenza di un obbligo formale o procedimentale violato, che ha
determinato uno specifico provvedimento impugnato, si immagini virtualmente come sarebbe stato il provvedimento
se invece fosse stata rispettata quella regola formale o procedimentale, e quindi quale sarebbe stato il possibile
contenuto.
Quindi è come se il giudice si immagina virtualmente il provvedimento depurato da quel vizio di carattere formale e
procedimentale; e se, in questa valutazione virtuale, il giudice ravvisa che, nonostante l'osservanza di quella regola,
il contenuto del dispositivo sarebbe stato lo stesso, allora considera quella violazione irrilevante, cioè che non
determina l'annullabilità, e quindi dice che il provvedimento amministrativo, sia pur illegittimo, non è annullabile.

Ecco allora come si fa ancora più esasperata questa separazione tra efficacia, invalidità e annullabilità, che non è più
così netta.
Ora esiste l’endiadi che il provvedimento affetto da vizi, è sicuramente illegittimo, ma non per questo è annullabile,
però sempre in presenza di quei tre presupposti prima indicati: che il provvedimento sia a carattere veramente
vincolato= il che significa che tutto è predeterminato dalla norma e la P.A. non deve effettuare alcuna valutazione
discrezionale o avere margini di scelta; ma nonostante sia tutto predeterminato dalla norma, quantunque la P.A. violi
un obbligo formale o procedimentale (vizi formali e procedimentali) , dice questa norma, non è detto che quella
illegittimità formale o sostanziale determini sempre l'annullabilità; ma viene chiesto al giudice di effettuare un
sindacato virtuale, e se il giudice, attraverso questa valutazione, si immagina che, nonostante il rispetto di quella
regola, il provvedimento sarebbe stato lo stesso nel suo contenuto, reputa il vizio ‘non rilevante ai fini
dell’annullamento’; ed è una valutazione, che non fa guardando alla regola del raggiungimento dello scopo, ma
guardando all'utilità sostanziale per il ricorrente, e cioè si chiede se quel provvedimento, con quella regola rispettata,
avrebbe determinato un contenuto sostanziale migliore (dal punto di vista sostanziale) per il ricorrente; se la risposta
è negativa non lo annulla, quindi rimane in piedi davanti al giudice un provvedimento palesemente illegittimo.

Quindi possiamo dire ad oggi che l’efficacia, la perfezione dell’atto, l'invalidità, la legittimità e l'annullabilità dell’atto,
vanno su binari PARALLELI, che a volte non si incrociano, cioè significa che non sono l’uno per forza necessitato
dall’altro, e possono anche non incrociarsi mai, perché non è detto che l'illegittimità determini sempre l'annullabilità,
non è detto che l'efficacia sia soltanto per quanto riguarda il provvedimento esente da vizi, e oggi possiamo dire che
non è detto che l’illegittimità richieda sempre l'annullabilità.

Ci sono dei vizi che rimangono in essere nel provvedimento anche davanti al giudice.
L’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 così recita: «non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti...»; Il legislatore quindi non dice quali sono queste
norme formali o procedimentali, ma tali norme vanno trovate al di fuori della norma; e ad esempio potrebbero
essere la mancata motivazione, la mancata comunicazione, o la mancata indicazione del termine di conclusione
del procedimento, ecc… e sono tutti vizi che a fronte di un potere prettamente vincolato, fanno sì che il giudice li
consideri irrilevanti se, in un sindacato virtuale, gli fanno dire che il provvedimento, dal punto di vista del contenuto
dispositivo, non sarebbe stato diverso se quella regola formale o procedimentale fosse stata rispettata.
Quindi si parla del risultato finale, e non si guarda più alla regola del raggiungimento dello scopo.

La dequotazione del vizio formale è un concetto importantissimo, che va ripetuto, utilizzando sempre di più
concetti appropriati.

Se parliamo di un'attività prettamente vincolata, però per il giudice è facile effettuare un sindacato virtuale; Infatti,
per questo il legislatore nella norma ha utilizza il termine “palese”, proprio perché il contenuto dispositivo lo dice
la legge stessa; e quindi a fronte di un'attività vincolata le alternative per il giudice sono di dare o no il relativo
provvedimento.
Quindi la norma dice di dare un provvedimento, nel rispetto di tutte le regole fissate dal legislatore, e se una
regola non viene rispettata, il giudice viene chiamato a sindacare se l’osservanza di quella norma violata avrebbe
determinato sempre quel provvedimento, quindi, opera una valutazione virtuale sul fatto che il provvedimento
poteva o non poteva essere dato.

I problemi si pongono con la seconda proposizione della norma, che recita: Il provvedimento amministrativo non
è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri
in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La
disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis.
• Primo presupposto: Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile
• Secondo presupposto: Il vizio è la mancata comunicazione dell'avvio del procedimento
• Terzo presupposto: qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato

Quindi i presupposti cosa vogliono dire?


Il primo presupposto: Il potere è discrezionale; e questo è evidente da quel “comunque”, che sottolinea come si
passi a quel potere discrezionale, che è il più frequente della P.A., in cui la P.A. opera una valutazione comparativa
degli interessi in gioco, per arrivare alla massimizzazione dell’interesse, che determini il minor sacrificio possibile degli
interessi secondari coinvolti.

Il secondo presupposto: La violazione di un unico obbligo procedimentale; si dice che il vizio procedimentale è
solo uno (invece nella prima proposizione erano messi in via generale tutti quei vizi relativi alla violazione di regole
formali o procedimentali).

Il terzo presupposto: L'amministrazione deve dimostrare in giudizio (quindi non deve essere palese, perché
non può essere palese) che, nonostante ci fosse stato il rispetto della regola di cui all'articolo 7, il contenuto
dispositivo del provvedimento finale non sarebbe stato diverso in termini di utilità sostanziale per il ricorrente

Art. 7 - Art. 8
Nell'articolo 7 si dice che l’amministrazione per ogni procedimento amministrativo ha l’obbligo di comunicare l’avvio
del procedimento alle tre categorie indicate ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti, a quelli che per legge debbono intervenire, e ai soggetti identificati o facilmente identificabili che
potrebbero avere un pregiudizio, cioè i cosiddetti controinteressati in senso formale.
Questa norma ci interessa perché solo con la comunicazione di avvio, si apre la partecipazione del privato, che
rappresenta il proprio interesse; e questa partecipazione fa sì che la P.A. abbia contezza di quali sono gli interessi
secondari in gioco, così da poter effettuare una valutazione comparativa.
Si dice che la partecipazione effettiva, riesce a volte anche ad indirizzare l’operato dell’amministrazione, e a
contemperare le scelte nel miglior modo possibile.
Ecco perché la comunicazione è il grimaldello che serve agli interessi coinvolti all’interno di un procedimento
amministrativo, di entrare nel procedimento, e di rappresentare la loro realtà.
Come deve essere la comunicazione lo si dice nell'articolo 8.
Art. 8. (Modalità e contenuti della comunicazione di avvio del procedimento)

1. L’amministrazione provvede a dare notizia dell’avvio del procedimento mediante comunicazione personale.

2. Nella comunicazione debbono essere indicati:

a) l’amministrazione competente;

b) l’oggetto del procedimento promosso;

c) l’ufficio, il domicilio digitale dell’amministrazione e la persona responsabile del procedimento;


Domicilio digitale: il termine è stato introdotto dalla legge 120/20, la legge di conversione del decreto
semplificazioni numero 76/20.
La persona RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO: per ogni procedimento amministrativo deve essere indicato
il nome di un responsabile, una persona fisica alla quale il soggetto diretto destinatario del provvedimento finale,
può rivolgersi; si dice che il responsabile del procedimento è il motore guida; questa figura può addirittura
emanare il provvedimento finale (art 6);
Ne abbiamo parlato quando abbiamo accennato al passaggio del modello a responsabilità ministeriale al
modello a responsabilità differenziata, e abbiamo detto che anche nel 1990, quando è stata introdotta la legge
241/90, c’è stata la figura del responsabile del procedimento, al quale è stata individuata una figura di
responsabilità, Seppur il modello degli anni 90’ era quello a responsabilità ministeriale, si sentiva sempre più
pressante e necessaria una divisione tra politica e amministrazione, e infatti con la legge 241/90 si è istituita la
figura del responsabile, così da dare all’organo dirigenziale una responsabilità propria, che però non c’era nel
modello a competenze differenziate; ecco come si collegano gli istituti, e come è evidente il rapporto tra politica
e amministrazione.
c-bis) la data entro la quale, secondo i termini previsti dall'articolo 2, commi 2 o 3, deve concludersi il procedimento
e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell'amministrazione;

Tutti i procedimenti amministrativi devono concludersi in maniera ordinaria, entro 30 giorni, come
traspare dall’articolo 2.


Art 2 l.241/90 comma II
2. Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti
amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine
di trenta giorni.

3. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400,
su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa,
sono individuati i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle
amministrazioni statali. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i
quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza.

4. Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici
tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei
procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta
anche dei Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei
ministri. I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto
della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l’immigrazione.

In sostanza nell’articolo 2 si dice:


• In via ordinaria tutti i procedimenti si concludono entro 30 giorni (si definisce “termine ordinatorio”).
• Se ci sono procedimenti che le amministrazioni possono prevedere con propri decreti, il termine può arrivare
a 90 giorni.
• I 90 giorni possono arrivare non oltre i 180 giorni, se ci sono dei procedimenti di complessità importante sotto
il profilo degli interessi pubblici da tutelare o dell’organizzazione.
Poi si continua nell’art 8 comma 2 c-bis: i rimedi esperibili in caso di inerzia dell'amministrazione.
Cosa può fare un soggetto se l'amministrazione non risponde? Si parlerà della figura di cui all'articolo 2 comma 8-bis
in poi; c’è una tutela in via amministrativa, e una tutela in via giurisdizionale.
Tutela in via amministrativa: cioè bisogna andare da un organo sostitutivo del dirigente inadempiente, in cui per ogni
procedimento c’è scritto chi è il responsabile del procedimento, e anche a chi rivolgersi in caso in cui il dirigente
competente a emanare il provvedimento non provveda, cioè l’organo sostitutivo; l'organo sostitutivo deve provvedere
entro la metà del termine entro il quale doveva concludersi il procedimento in via ordinaria.
Quindi in via amministrativa c’è l’organo sostitutivo.
Tutela in via processuale: art 31 c.p.a e art 117 c.p.a. che tratteremo in amministrativo 2.

C’è un obbligo della P.A. di provvedere →


Art 2 comma 1: Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad
un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo
mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
Le pubbliche amministrazioni hanno il DOVERE di concludere il procedimento, e se la P.A. non provvede c’è un
silenzio che si chiama inadempimento (art 31 e 117 c.p.a.), cioè la violazione della regola dell’obbligo di provvedere;
Quindi se la P.A. non provvede, il cittadino può tutelarsi, o in via amministrativa, cioè adendo l’organo sostitutivo, o in
via processuale, cioè adendo il giudice amministrativo esigendo che la P.A. provveda.
Continua l’articolo 8….
c-ter) nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza;
Su questo si è molto dibattuto, e si è detto, ma se io privato presento un'istanza, e quindi il procedimento inizia ad
iniziativa di parte, perché ho chiesto il rilascio di un'autorizzazione amministrativa, e io deposito presso l’URP
dell'amministrazione adita il giorno 20/10/ 2021 la mia richiesta di istanza volta ad ottenere il rilascio di
un’autorizzazione amministrativa, e lo deposito il giorno 20 ottobre, perché nella comunicazione di avvio del
procedimento (che ho iniziato io, e quindi io so il giorno in cui ho presentato istanza, e so che passati un tot di giorni
inizia a decorrere il termine) ci deve essere la data di presentazione della relativa istanza? Che motivo ha spinto il
legislatore?
Il motivo è che è necessario, perché l’URP è un Ufficio di Ricezioni di atti amministrativi, e fino a quando questo atti
vengono smistati, possono passare tanti giorni fino a quando arrivi all’ufficio di competenza, quindi quella data certifica
l’inizio del decorso del termine in cui l’istanza è pervenuta presso l'ufficio realmente competente ad emanare il
determinato provvedimento richiesto dall'istante; ufficio che ha appunto l'obbligo di provvedere a seguito dell'obbligo
di procedere, obblighi diversi tra loro; per ogni procedimento il responsabile valuta a fini istruttori, le condizioni di
ammissibilità, i requisiti di legittimazione, e se tali requisiti non ci sono, non scatta l’obbligo di provvedere, perché
l’obbligo di procedere ha avuto esito negativo, e quindi vi è un sintetico provvedimento che non deve nemmeno essere
motivato.
Se invece il responsabile del procedimento ha valutato sommariamente, e inizia il procedimento, qui ci DEVE essere
la data di presentazione della relativa istanza, perché da quel momento, quando la pratica è arrivata all’ufficio del
responsabile del procedimento, scatta l’obbligo di provvedere, quando l’obbligo di procedere è andato a buon fine, il
soggetto interessato ha diritto di sapere quando inizia l’obbligo di provvedere della P.A.
d-bis) l’ufficio dove è possibile prendere visione degli atti che non sono disponibili o accessibili con le modalità di cui
alla lettera d)
La partecipazione trova la sua ratio essenziale nell'esercizio di un potere discrezionale, perché nell’esercizio di un
potere vincolato la partecipazione non ha un valore pregnante ed essenziale.
Quindi la comunicazione è un istituto da sempre considerato fondamentale; Prima dell'inserimento di questa norma
di cui all'articolo 21 -secondo comma- seconda proposizione, questa regola della comunicazione di avvio del
procedimento amministrativo, qualora fosse risultata violata, era considerata irrilevante attraverso il ricorso alla regola
del raggiungimento dello scopo: cioè l'amministrazione diceva, io ti dimostro in giudizio che nonostante questa regola
sia stata violata, il privato ha fatto un accesso agli atti, ed è venuto di persona presso la sede dell'amministrazione
procedente, ha parlato con il responsabile, che ha notato le sue richieste, e sono stati rilasciati dei documenti.
Quindi la giurisprudenza aveva sempre utilizzato questa regola, qualora avesse dimostrato in giudizio che, nonostante
la regola della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo fosse stata violata, la ratio a cui tendeva
questa regola (cioè la partecipazione del privato) era stata comunque raggiunta, e l'amministrazione lo dimostrava in
giudizio attraverso altre vie; e quindi tantissima giurisprudenza amministrativa prima del 2005, ha considerato
irrilevante la violazione dell'articolo 7, sulla base del raggiungimento dello scopo.
Quindi la partecipazione cui tende la comunicazione di avvio, si riteneva ugualmente garantita, nonostante che la
comunicazione non ci fosse stata, perché la P.A. dimostrava in giudizio che la conoscibilità del procedimento in itinere
si era avuta per altra soluzione, e quindi di fronte a questa dimostrazione il giudice considerava irrilevante la violazione
della regola dell'obbligo procedimentale di cui all’articolo 7.
Qui discorso invece è diverso; non è la regola del raggiungimento dello scopo, ma dice legislatore dalla lettura
dell'articolo 21-octies: “ il provvedimento amministrativo non è comunque ( quindi fa riferimento solo ed esclusivamente
al potere discrezionale) annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento, quando (ecco il terzo
presupposto) la P.A. dimostra in giudizio che, nonostante ci fosse stato il rispetto della regola di cui all'articolo 7, il
contenuto dispositivo non sarebbe stato di utilità sostanziale diversa per il ricorrente".
Qui la valutazione è molto più corposa e pregnante, perché il giudice non è che deve fare, come nella prima
proposizione, la verifica virtuale se la violazione di un obbligo formale o procedimentale avrebbe determinato quel
provvedimento o nulla, qui invece il giudice si pone virtualmente quale sarebbe stato il provvedimento con il rispetto
di questa regola, e quindi dice il giudice, “ma se il privato fosse stato dedotto a suo tempo, se quel portatore di
interesse diffuso fosse stato edotto a suo tempo, se quel portatore di interesse di categoria fosse stato edotto a suo
tempo, il provvedimento sarebbe stato ugualmente così nella sua pregnanza sostanziale?”; Qui il discorso è molto più
delicato, perché è come se questa norma consentisse al giudice, di ripetere a livello immaginario, quale sarebbe stata
la volontà dell'amministrazione e il contenuto del provvedimento, a seguito di un ragionamento della pubblica
amministrazione, se quei soggetti, che dovevano essere notiziati, lo fossero stati; e quindi è come se il giudice si
ponesse per un'ipotesi estrema al posto della P.A., e ripetesse una valutazione che invece spetta SOLO ed
ESCLUSIVAMENTE alla P.A..
C’è stato chi ha detto che qui si va ad aggiungere nel merito, si va ad operare un sindacato che non potrebbe fare il
giudice amministrativo, perché il giudice non potrebbe ripetere il comportamento della P.A., ma in realtà il giudice non
lo fa, il giudice è chiamato soltanto ad immaginare NON un diverso provvedimento amministrativo, ma soltanto
se il rispetto di quella regola di cui articolo 7, che consentiva una partecipazione più ampia, avrebbe dato più
chance, e non va a dire quale sarebbe stato il contenuto del futuro provvedimento ideale con il rispetto di
questa regola, perché lì sarebbe una vera e propria ingerenza del potere esecutivo; invece il giudice dice “ma
questo provvedimento adottato nel rispetto della regola, sarebbe stato più soddisfacente? avrebbe dato più chance?
avrebbe consentito un migliore risultato finale?” non è che dice “ l’avrebbe dovuto fare”, ma solo che sarebbe stata
una maggiore garanzia, avrebbe permesso una migliore rappresentazione di tutta la realtà coinvolta, che forse
avrebbe portato ad una valutazione differente, FORSE, ma non lo può dire quale sarebbe stato; in cuor suo lo sa
quale sarebbe potuto essere il provvedimento finale, ma non lo può scrivere, dice soltanto se sarebbe stato di migliore
garanzia per un interesse secondario coinvolto, per il ricorrente, per Tizio, Caio o Sempronio; se è così dice “Allora lo
annullo”; se invece accetta il ragionamento dell'amministrazione, che è molto più semplice, perché l'amministrazione
dice “ ti dimostro che, nonostante questa regola, Tizio Caio e Sempronio, non avrebbe avuto altre chance”, e quindi
sta al bravo dirigente in giudizio dimostrare, attraverso le carte, i fascicoli, e gli atti, che sono portati soltanto dalla
P.A., (perché la P.A. è detentrice di tutti gli atti amministrativi, e il privato quando impugna il provvedimento, lo impugna
e basta, non conosce tutto, e anche se può fare accesso agli atti, per l'amministrazione non c’è nulla di semplice che
dimostrare in giudizio che le diverse chance non ci sarebbero state), però si apre questo importante strumento di
valutazione che spetta al giudice, che NON DEVE intingere nel merito; e non è una ragione di opportunità, perché
non guarda l'opportunità, ma guarda sotto il profilo dell’assetto degli interessi di esclusiva spettanza
dell'amministrazione, e si ferma sempre ad un giudizio estrinseco e non intrinseco dell’atto.
LEZ. 21/10/21
Nella scorsa lezione abbiamo esaminato i caratteri del provvedimento amministrativo; abbiamo detto le caratteristiche
del potere, che è autoritativo, imperativo, esecutivo esecutorio, e dotato di autotutela.
Il discorso è partito dal concetto di autoritarismo, cioè quando la pubblica amministrazione esercita il potere in veste
di autorità, perché allorché invece la pubblica amministrazione addivenga a dei comportamenti ‘iure privatorum’ quindi
non ‘iure imperii’ è chiaro che ricorre, al pari di soggetti di diritto privato, ai moduli di marca privatistica di natura
privatistica, salvo che poi però possano esserci delle deroghe stabilite dalla legge, nelle quali la P.A. pure agendo da
‘iure privatorum’ rimane sempre in una posizione di supremazia.
Quindi dal concetto di autoritatività e imperatività, siamo passati ad analizzare il concetto dell'efficacia giuridica, perché
l'imperatività e l’autoritatività, si spiegano come caratteristiche del potere, in quanto la pubblica amministrazione pone
in essere degli atti, i cui effetti giuridici si impongono sui destinatari indipendentemente dal loro consenso; perciò, se
c'è il consenso ben venga, se non c'è il consenso, e lì c'è un esercizio di potere, il provvedimento si impone.
Poi abbiamo detto come il concetto di efficacia giuridica, che è stato sempre oggetto di tanti studi da parte della
dottrina, e della giurisprudenza, oggi invece in virtù di questo capo 4-bis introdotto dal legislatore nel 2005, vediamo
che trova un suo riconoscimento in una norma di diritto positivo; e quindi abbiamo iniziato a parlare di questo
importante capo 4-bis, in cui si incentra il cuore del diritto e del processo amministrativo.

Il primo articolo che inizia questo capo 4-bis, prevede una pseudo disciplina giuridica del concetto di efficacia giuridica
degli atti; il legislatore ha introdotto questa norma a seguito di una grande opera giurisprudenziale e dottrinale, che si
è sempre avuta in tema di efficacia, e lo ha sintetizzato in poche righe prevedendo quando un'unica categorie di atti,
cioè quelli limitativi della sfera giuridica delle situazioni altrui, producono efficacia giuridica: cioè gli atti limitativi della
sfera giuridica dei privati, sono considerati efficaci dal momento della loro ricezione.
La ricezione si effettua attraverso le notifiche che sono previste nel Codice di procedura civile.
Ecco come qui i provvedimenti sfavorevoli acquistano la loro efficacia giuridica nel momento stesso in cui sono
notificati e ricevuti dal destinatario, in questo momento inizia il decorso dell'efficacia giuridica, e quindi il conteggio dei
giorni entro i quali il privato, che si ritiene leso, può eventualmente proporre ricorso; ecco perché per questo motivo è
importante stabilire l'efficacia giuridica e il dies a quo dell'inizio della produzione dell'efficacia in ordine ad un
provvedimento; con la precisazione che comunque il legislatore in questa norma ha posto 3 regole a questo principio
di carattere generale, che comunque non disciplina l'efficacia giuridica di tutti i provvedimenti amministrativi, ma
soltanto di una parte.
Quindi a questa norma possono essere ascritte delle criticità:

• la prima: che si riferisce soltanto ad una categoria di atti, cioè quelli limitativi della sfera giuridica dei privati
• la seconda: che in una norma, così sintetica e semplicistica, sono previste tre deroghe, ma che comunque è
necessario che ci sia, perché il legislatore non può ingessare totalmente la P.A., e allora scrive queste norme,
che rappresentano i grandi argini in cui la P.A. si trova a dover operare, e sta alla giurisprudenza e a tanta
dottrina riempire questi vuoti lasciati tali volutamente dal legislatore.

La prima criticità è stata superata in questo modo: e allora quando i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei
privati producono efficacia giuridica? Noi dovremmo porci questa domanda.
Se i provvedimenti limitativi assumono efficacia giuridica nel momento della loro ricezione, quelli ampliativi quando la
assumono?
L'istituto dovrebbe essere lo stesso.
Ma si potrebbe controbattere: quando io faccio un'istanza, richiedo il rilascio di un permesso di costruire, mi rivolgo a
un'amministrazione e la pubblica amministrazione mi risponde di sì, e mi emana il provvedimento, lo so quando inizia
l'efficacia giuridica di questo provvedimento, a me cosa interessa sapere il giorno preciso? non andrò mai ad
impugnare un provvedimento a me favorevole, la data non mi interessa, è mia cura fare in modo che la P.A. appena
emana l’atto io ne vengo a conoscenza per costruire la mia casa; anche perché i 60 giorni per impugnare un atto
amministrativo partono dalla notifica dell’atto o dalla conoscenza di essa, perché se la notifica non viene fatta in modo
puntuale, un soggetto che si ritiene leso potrebbe dimostrare che per qualche motivo non ne è venuto a conoscenza,
quindi potrebbe addirittura dimostrare che i 60 giorni decorrono dal momento in cui lui è venuto a reale conoscenza
di quel provvedimento amministrativo; anche se è davvero difficile questa dimostrazione in giudizio, e al 99% dei casi
il ricorso viene dichiarato inammissibile per elusione del termine di decadenza, perché la P.A. deve avere la certezza
del diritto.

Questo discorso però è valido anche per i provvedimenti ampliativi; anche qui la decorrenza certa degli effetti
giuridici è importante, ed è consigliabile la notifica ai sensi dell’art 21-bis allo stesso modo, e questo perché a volte
nei provvedimenti ampliativi si individua degli oneri a carico della parte destinataria di quel provvedimento ampliativo.

⇉esempio: In caso di rilascio di un permesso di costruire ci sono due oneri importanti a carico del richiedente del
titolo abilitativo, cioè quello di iniziare i lavori entro un anno dal rilascio del provvedimento, e quello di concluderli entro
tre anni da quello specifico provvedimento, pena la decadenza del titolo abilitativo stesso; cioè se lui non inizia i lavori
entro un anno dalla data rilascio di quel determinato provvedimento ampliativo della sua sfera giuridica soggettiva, nel
termine di tre anni, perde quel titolo abilitativo, e la costruzione eventualmente posta in essere è una costruzione
abusiva.
Quindi è importante per il soggetto richiedente, avere contezza certa del dies a quo dal quale decorrono i cosiddetti
effetti giuridici di quel provvedimento abilitativo.
I lavori inoltre devono essere EFFETTIVI, CERTI, devono essere lavori di vera trasformazione, non soltanto una mera
recinzione, e in tre anni devono essere ultimati, altrimenti il titolare del titolo abilitativo, perde quel titolo, e gli eventuali
lavori diventano abusivi, senza titolo autorizzatorio; quindi, con delle sanzioni che devono essere pagate, e in alcuni
casi viene anche decisa la demolizione dell’opera.
Gli oneri insiti all’interno dei provvedimenti ampliativi ci sono sempre, ed ecco perché la notifica è sempre preferibile.

L’efficacia giuridica si coglie anche all’interno di questa sintetica norma di cui all’articolo 21-bis, che fa riferimento ad
un’efficacia giuridica disgiunta dal criterio e dal carattere del provvedimento perfetto, ovvero viene vista in maniera
disgiunta dal provvedimento valido, per il noto principio dell'equiparazione della fattispecie invalida alla
fattispecie valida, quanto alla capacità di produrre effetti giuridici tipici.
I provvedimenti amministrativi, tutti i provvedimenti amministrativi emanati al termine di un procedimento
amministrativo, si dichiarano efficaci e gli effetti giuridici propri si dicono TIPICI; quindi, le caratteristiche del
provvedimento amministrativo sono:

• TIPICITÀ
• NOMINATIVITÀ

Gli effetti giuridici dei provvedimenti sono tipici e provvedimenti amministrativi sono nominativi.
NOMINATIVITÀ vuol dire che il provvedimento amministrativo viene denominato dalla norma con termini specifici e
puntuali, quindi ad ogni tipologia di provvedimento amministrativo la norma attribuisce un nomen iuris, e quindi
abbiamo i provvedimenti con i quali si abla il diritto di proprietà da parte della pubblica amministrazione di un privato
e si trasferisce alla stessa, e si chiamano provvedimenti “ablatori espropriativi”, poi ci sono i provvedimenti
amministrativi con i quali la pubblica amministrazione attribuisce o concede una res, dietro pagamento di un canone
di denaro, che si chiamano “concessioni amministrative”, i provvedimenti con il quale la pubblica amministrazione
rimuove l'esercizio di un diritto che spetterebbe ad un privato, si chiamano “autorizzazioni amministrative”.
Quindi è la norma che attribuisce a ciascuna tipologia di provvedimenti amministrativi, in base al tipo di effetto giuridico
che questi hanno, un determinato nomen iuris e quindi abbiamo le varie categorie dei provvedimenti.

La nominatività dei provvedimenti amministrativi è strettamente correlata alla tipicità degli stessi.
TIPICITÀ significa che ogni categoria di provvedimento amministrativo produce un tipico effetto giuridico.
Il tipico effetto giuridico proprio del provvedimento ablatorio espropriativo è quello di togliere il bene ad un privato e
trasferirlo alla P.A.; questo è l’effetto giuridico tipico, cioè l’effetto giuridico IDONEO a fare ciò.
L’effetto giuridico della concessione è quello di accrescere la sfera giuridica dei privati, con un provvedimento
costitutivo di una res, e per questo accrescimento il più delle volte il privato è tenuto al pagamento di un onere.
L’effetto giuridico dell'autorizzazione amministrativa è quello di rimuovere un limite all'esercizio di un diritto che il
privato potrebbe acquisire, avendo tutti dei requisiti che la norma di legge prevede perché lui possa aprire un certo
tipo di attività.
Si tratta di un interesse legittimo di tipo pretensivo, ma molta dottrina dice che una volta che si rimuove un limite
all'esercizio di un diritto, è come se il privato diventasse titolare di un diritto ad esercitare quell’attività; ma in realtà
quello è sempre un rapporto giuridico che si instaura tra il privato e la P.A., e bisogna sempre lasciare la
denominazione di interesse legittimo di tipo pretensivo.
La tipicità e la nominatività vuol dire che ad ogni provvedimento amministrativo corrisponde un determinato nomen
iuris attributo della norma a quello specifico provvedimento, che ha quel tipico effetto giuridico; quindi, la tipicità dei
provvedimenti va a stretto legame con il principio della nominatività.

Continuiamo a parlare dell’articolo 21-octies.


2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora,
per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La disposizione di cui al secondo
periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis.

Quest'ultima proposizione è stata aggiunta dalla legge n 120/2020, cioè dalla legge di conversione del decreto
semplificazione n 76/2020.
Fino ad “adottato” seconda proposizione ultimo comma, fino a questo termine la norma era intonsa, cioè era la stessa
introdotta dal legislatore del 2005, e quindi per 15 anni questa norma è rimasta, fino al 2020 in cui il legislatore, durante
l'emergenza sanitaria, dopo 15 anni ha introdotto quest’ultima parte: La disposizione di cui al secondo periodo non si
applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis.
Perché non si applica? ma soprattutto che cos'è l'articolo 10 bis?

L'articolo 10-bis è una nuova comunicazione, è un nuovo obbligo che è stato introdotto anch'esso nel 2005, anch'esso
nell'ottica di aumentare e rafforzare le garanzie partecipative del privato, e anch'esso è un obbligo procedimentale
che ha la sua ratio nel fatto di consentire una maggiore partecipazione del privato all'interno dell'iter procedimentale.
Questo articolo ha la stessa ratio dell’articolo 7, ed è sempre una comunicazione che si fa in un momento successivo
alla comunicazione di cui all’art 7, ma la ratio è la medesima.

Art. 10-bis. (Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza)

1. Nei procedimenti ad istanza di parte, il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale
adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento
della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di
presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo
periodo sospende i termini di conclusione dei procedimenti, che ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la
presentazione delle osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo.
Qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile del
procedimento o l’autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego
indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni. In caso di
annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione
non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato.. .
(continua)
ANALISI DELL’ARTICOLO 10-BIS
Procedimenti ad istanza di parte: sono ad istanza di parte quei procedimenti che sono iniziati da privati titolari di
interessi legittimi di tipo pretensivo.
Il responsabile del procedimento: possiamo definirlo il motore guida della fase istruttoria L'autorità competente:
molte volte coincide con il responsabile, altre volte non coincide; questo perché la norma dice che il dirigente di ciascun
unità organizzativa, cioè l’organo competente ad emanare il provvedimento finale, provvede ad assegnare a sé, e in
questo caso le due figure coincidono, oppure ad altro dipendente addetto all’unità, la responsabilità dell’istruttoria e di
ogni altro provvedimento, nonché gli attribuisce eventualmente anche la possibilità di adottare il provvedimento finale.
Le sue funzioni sono indicate all’articolo 6 (approfondire sul libro), che dice nel punto a): valuta, ai fini istruttori, le
condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione di
provvedimento, è applicabile NON solo nei procedimenti ad iniziativa di parte, ma anche nei procedimenti ad iniziativa
da parte delle pubbliche amministrazioni
Poi nell'articolo 6 continua: b) accerta d'ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all’uopo necessari, e adotta
ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria. In particolare, può chiedere il rilascio di dichiarazioni
e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete (salvo quelle che non sono previste dalla legge a pena di
esclusione, cioè le procedure concorsuali o di gara), cioè il cosiddetto soccorso istruttorio, cioè che sa che può anche
venire in soccorso dei privati, e può esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed ordinare esibizioni documentali;

Prima della formale adozione di un provvedimento negativo: negativo vuol dire che non accoglie la richiesta
dell’istante.
Comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda: cioè gli fanno una
comunicazione di preavviso di diniego, dicendo “privato richiedente, sto per mandarti un provvedimento di non
accoglimento della tua istanza, e ti indico i motivi per il quale sto per emanare questo provvedimento, non l’ho ancora
emanato, ma ti faccio un preavviso per il quale non lo accolgo”, quindi c’è una parvenza di provvedimento, anche se
non è ancora stato emanato.
Gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da
documenti: il fine è quello di far ravvedere la P.A., perché la P.A. avendo fatto questa comunicazione con la quale
sta per comunicare i motivi per i quali vuole non accogliere l'istanza del privato, gli dice i vari motivi, e poi entro 10
giorni dal ricevimento di questa nuova comunicazione, il privato partecipa un'altra volta al procedimento, perché
mediante NUOVE osservazioni e controdeduzioni ai motivi indicati dalla pubblica amministrazione, cerca di far
ravvedere la pubblica amministrazione, per cercare di portarla ad emanare un provvedimento negativo.
Quindi cosa succede? Inizia un procedimento, il privato fa un'istanza, e questa istanza, verificata dal responsabile
procedimento attraverso la delibazione, da impulso al procedimento amministrativo, e quindi c'è un obbligo di
procedere, e scatta l'obbligo di provvedere; poi inizia la fase istruttoria: il privato e tutti coloro che vorrebbero
intervenire, magari anche associazioni, partecipano con le loro memorie e con le loro osservazioni per tentare di
avallare la sua istanza; e quindi la pubblica amministrazione intanto si forma come volontà in questa fase istruttoria.
Durante questa fase istruttoria la P.A. acquisisce tutti gli interessi, che sono emersi nel procedimento, li compara e li
valuta in maniera comparativa, e al termine della fase istruttoria, se essa, amministrazione procedente, alla fine di
questa valutazione comparativa, forma la volontà di NON accogliere l’istanza del richiedente, ha un altro obbligo, cioè
di fare un'altra comunicazione, quella indicata dall’art 10-bis.
Quindi la comunicazione di cui all'articolo 10-bis si colloca a valle della fase istruttoria, mentre la comunicazione di
cui all'articolo 7 si pone a monte della fase istruttoria, e cioè all'inizio, questa comunicazione di cui all’art 10-bis si
trova al termine; Quindi la P.A., un momento prima dell’emanazione del provvedimento negativo, ha un ulteriore
obbligo: quello di avvisare che sta per emanare un provvedimento con il quale non vuole accogliere la sua istanza; e
nel provvedimento deve dichiarare i motivi per i quali sta per emanare un provvedimento negativo, che ancora non
emana, e deve dare al privato 10 giorni di tempo; giorni in cui il privato partecipa di nuovo all’iter procedimentale, e
si apre una nuova istruttoria, anche se molto limitata. ↓ ↓ ↓ ↓ ↓ ↓
La comunicazione di cui al primo periodo sospende i termini di conclusione dei procedimenti, che
ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni o, in mancanza delle stesse,
dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo: la P.A. ha 10 giorni per provvedere, e se non provvede
comunque dopo 10 giorni DECIDE.
La ratio della comunicazione di cui all’art 10-bis, è quella di consentire un'altra volta la partecipazione del distante,
che in questo caso è visto come soggetto DEBOLE; come il soggetto al quale sta per essere notificato un
provvedimento di non accoglimento dell'istanza, come se gli si desse una chance per difendere le sue ragioni in via
amministrativa.
Se questa nuova comunicazione va a buon fine, nel senso che il privato partecipa con nuove osservazioni, con nuovi
documenti, e la pubblica amministrazione si ravvede, il provvedimento da quasi negativo diventa positivo, e si evita
un eventuale contenzioso.
Quindi la partecipazione qualora sia fatta bene, e conduca al risultato sperato dal richiedente, cioè di cambiare
intendimento alla pubblica amministrazione, sicuramente rappresenta uno strumento di diminuzione del contenzioso
giurisdizionale. Ecco perché si dice che la ratio della comunicazione è quella di consentire la partecipazione, che se
effettiva ed efficace diventa uno strumento deflattivo dell’eventuale successivo contenzioso giurisdizionale.
Ma questa nuova partecipazione del privato deve essere differente dalla prima: cioè il privato, che partecipa per la
seconda volta, e tenta di far ravvedere la pubblica amministrazione portando documenti, deve portare documenti che
devono essere diversi da quei documenti che il privato ha portato durante la prima istruttoria; se il privato, dopo questa
comunicazione di cui all'articolo 10-bis, produce documenti e osservazioni che cercano di far ravvedere la pubblica
amministrazione, questi documenti devono essere di tenore diverso dai primi.
Ma come li presenta questi documenti? Come si fa un ricorso: cioè il privato deve puntualmente controdedurre a tutti
i motivi che sono stati addotti dalla pubblica amministrazione, per dire “su questo non hai ragione, su questo non hai
ragione, ecc”.
Con una previa comunicazione dei motivi, si dà una garanzia procedimentale al privato, per fargli evitare spese
processuali ex post; e se il privato è pronto e ha gli strumenti (ecco perché si dice che si “rafforza la tutela
procedimentale del privato”), il privato produce osservazioni e memorie atti a scardinare tutti i motivi in sede
procedimentale senza rivolgersi ad un giudice, e la P.A., se le controindicazioni sono puntuali, a volte ravvede e
cambia provvedimento da negativo a positivo.
Ma se il privato, sa che la P.A. sta preparando un provvedimento con il quale non vuole accogliere la sua stanza, e
sa che i motivi per il quale non vuole accoglierla sono fondati, non solo non risponde, ma neanche si rivolge al giudice
amministrativo; perché tanto quello che doveva dire in sede amministrativa sono gli stessi motivi del ricorso
giurisdizionale, e quindi si indicheranno motivi che si sono già esaminati in sede di seconda istruttoria a seguito della
comunicazione di cui al ricorso inammissibile.
Ecco perché si dice che la comunicazione di cui all'articolo 10 apre la strada ad una seconda istruttoria la cui
finalità è di diminuire fortemente il futuro contenzioso giurisdizionale.

Qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile
del procedimento o l’autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento
finale di diniego indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle
osservazioni: Se si sono indicati i motivi ostativi, e si sono fatte poi le controdeduzioni, e nonostante le
controdeduzioni, la P.A. emana il provvedimento negativo di diniego, essa indica i soli motivi ULTERIORI di diniego;
ecco che così si snellisce un eventuale contenziosi giurisdizionale.
Quindi devono essere motivi ULTERIORI, è necessario che la P.A. tenga conto delle controdeduzioni del privato; il
legislatore ha detto che se io privato ripartecipo nella seconda fase istruttoria, che ridecorre dalla comunicazione ex
art 10-bis, ti rispondo ai motivi che ostano all'accoglimento della domanda, e la P.A. rimane ferma a non dare il
provvedimento, questa deve indicare, SE VE NE SONO, I SOLI MOTIVI OSTATIVI ULTERIORI, che sono
conseguenza delle osservazioni; es “nonostante ci sono queste osservazioni, i motivi continuano ad ostare
all’accoglimento della domanda”; oppure se non ve ne sono, “è perché permangono quei primi motivi ostativi, che non
sono stati abbattuti dalle controdeduzioni”.
In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere
l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del
provvedimento annullato: se io privato impugno questo provvedimento, e il giudice mi annulla il provvedimento così
adottato, nell’esercizio NUOVO da parte della P.A., essa non può addurre per la prima volta motivi ostativi già
emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato.
Tutto ciò che viene detto dal giudice amministrativo, che accoglie il ricorso, e demolisce i motivi ostativi addotti dalla
P.A., tutto ciò fa sì che la P.A, in ossequio al principio dell’effetto conformativo del giudicato, non possa ripetere lo
stesso provvedimento per i motivi ostativi già emersi in sede procedimentale.
L’obbligo di conformarsi al giudicato, l’abbiamo già visto, e nasce nella legge abolitiva del contenzioso amministrativo
del 1965, che stabilisce che le P.A. hanno l’obbligo di conformarsi al giudicato, perché il giudice ordinario non può
revocare o modificare l’atto amministrativo, se non con il ricorso delle autorità competenti
In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato: vuol dire che c’è una sentenza costitutiva
di annullamento; Gli effetti giuridici di carattere oggettivi che scaturiscono dal giudicato amministrativo di annullamento
sono tre:
• Effetto cassatorio, demolitorio: cioè si demoliscono tutti gli effetti giuridici di un provvedimento, come se non
ci fossero mai stati, quindi effetto ex tunc.
• Effetto ripristinatorio: è insito nell'effetto demolitorio, perché si ripristina la situazione quo ante, che esisteva
prima dell'emanazione dell’atto amministrativo impugnato
• Effetto conformativo: indica quale potrebbe essere l’indirizzo nella futura azione della P.A., nel riesercizio
del potere della P.A., che è inesauribile, come se ponesse una strada guida a cui la P.A. ha l’obbligo di
conformarsi, perché NON DEVE RIPETERE GLI STESSI ERRORI di illegittimità che hanno contraddistinto il
precedente procedimento, che è sfociato in un provvedimento che è stato annullato.
In casi di annullamento del diniego di un'istanza, quale dei tre effetti è utile?
Con l’effetto cassatorio non ricavo niente, perché l’annullamento di un provvedimento di diniego non mi dà risultati;
stessa cosa per l’effetto ripristinatorio, perché il ripristino della situazione quo ante al diniego non mi dà niente, perché
non dà il provvedimento, e quindi io sono costretto nuovamente a fare istanza.
Quindi l’effetto utile è quello conformativo; come evince dalla norma, nell’esercitare nuovamente il suo potere, la P.A
si deve conformare a quello che sta dicendo il giudice, e non può dire le stesse cose per le quali è stato accolto il
ricorso avverso al diniego (diniego che poi è stato annullato dal giudice).
Nell’articolo 10-bis si dice che la P.A., conformandosi alla sentenza costitutiva, non può ripetere, e non può addurre,
per la prima volta, motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato; qui è proprio evidente
l’effetto conformativo del giudicato.
I due altri effetti sarebbero solo una vittoria inutile, perché poi sarebbe necessario rifare domanda, richiedere
nuovamente il documento preteso, e la P.A. dovrebbe riemanare di nuovo un provvedimento, e nel caso sia di diniego,
non può addurre gli stessi motivi ostativi che aveva addotto in precedenza.
Quindi al seguito dell’effetto conformativo del giudicato la strada si restringe; perché la P.A. o adduce motivi nuovi, o
se non ci sono motivi nuovi che sorreggano un suo nuovo “no”, è come se fosse costretta a dire "sì".
LEZ.27/10/21
*Riprende l’analisi dall’ultimo periodo dell’art10-bis*
Art.10-bis-> “Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti
in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali.” Questo è
un periodo originario del 1990. Per ragioni di vincolatività, i procedimenti assistenziali e provvidenziali sono
caratterizzati dall’ esercizio di potere vincolato, confrontando ciò che c’è nell’iter procedimentale e ciò che ha previsto
a monte il legislatore; anche se l’apporto del privato (secondo la prof) sarebbe utile all’interno di un procedimento a
carattere vincolato, dove il privato collabora con la PA nella migliore applicazione e interpretazione della norma. In
questi procedimenti dove la PA non è chiamata ad opera una valutazione comparativa fra gli interessi (es: richiesta
della pensione di anzianità); la PA arriva ad avere in mente di non accogliere l’istanza del privato perché, ad esempio
non ha maturato i requisiti minimi, non ha l’obbligo di comunicare all’istante i motivi che ostano l’accoglimento
della domanda, ragionamento di carattere vincolato.
Il legislatore del 2020 ha aggiunto questi procedimenti sorti a istanza di parte e gestiti da enti provvidenziali e
assistenziali; Ulteriore aggiunta: Non possono essere addotti tra i motivi che ostano all'accoglimento della domanda
inadempienze o ritardi attribuibili all'amministrazione-> il voler mascherare nell’inadempienza o nel ritardo
fisiologico delle PA oggi è stato vietato dal legislatore, quindi la PA deve rispondere in modo serio, in relazione ai
motivi che sono stati considerati per rigettare la domanda. Il rapporto fra PA e privato si ampia, c’è un contraddittorio
fra le parti come se si volesse prevenire un contenzioso futuro.
Art.10-bis collegabile con l’art.11 perché rappresenta l’acme di partecipazione del privato nel procedimento
amministrativo. Il legislatore ha previsto nella legge del 90 sin dalla sua originaria formulazione, la possibilità che la
PA procedente, che agisce in modo autoritativo unilaterale, imperativo, possa durante l’iter procedimentale
concludere un accordo col privato. Un negozio giuridico che pone i due soggetti che lo stipulano in una posizione
partitaria, gli accordi dell’art11 rappresentano un istituto che innestano una disciplina privatistica in un
procedimento amministrativo disciplinato dal diritto pubblico. Ci sono due tipi di accordo:
• Accordo Integrativo o procedimentale-> PA e il privato si accordano in modo paritario su quale sarà il
contenuto discrezionale del provvedimento finale, interrompendo il procedimento, per poi concluderlo secondo
quanto accordato.
• Accordo sostitutivo-> PA e il privato si accordano per sostituire in toto il provvedimento finale, concludendo
il procedimento.
Art.11.1 -> In accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’articolo 10, l’amministrazione
procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico
interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero
in sostituzione di questo.
La PA decide di utilizzare il modello privatistico anziché il modello autoritativo perché così realizza in modo spedito
l’interesse pubblico, miglior strumento come l’accordo bonario nei procedimenti espropriativi-> solo con un accordo
col privato potrebbe addivenire nel minor tempo possibile a quella proprietà. Questa norma era presente già nella
prima formulazione e nel 1990 si ricorda come un periodo importante sotto il profilo giudiziario-> tangentopoli con
l’emersione di fenomeni di illegalità nella PA; tant’è che questo strumento in tale periodo non è stato utilizzato dalla
PA, e questo è uno dei motivi per cui furono introdotti i commi 1-bis e 4-bis nel 1995, per evidenziare che alla base
di un ricorso ai metodi negoziali anziché ai tradizionali modelli autoritativi c’è sempre il principio dell’imparzialità
dell’azione amministrativa.
Art.11.1-bis-> Al fine di favorire la conclusione degli accordi di cui al comma 1, il responsabile del procedimento può
predisporre un calendario di incontri cui invita, separatamente o contestualmente, il destinatario del provvedimento
ed eventuali controinteressati.
Il calendario di incontri predisposto dal responsabile mette a riparo la difficoltà di utilizzare lo strumento privatistico
anziché quello pubblicistico.
Art11.4-bis. A garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa, in tutti i casi in cui una
pubblica amministrazione conclude accordi nelle ipotesi previste al comma 1, la stipulazione dell'accordo è preceduta
da una determinazione dell'organo che sarebbe competente per l'adozione del provvedimento.
L’accordo, un modello negoziale, tramite il quale la PA comunque deve dare spiegazioni del perché è avvenuto,
tramite l’atto del dirigente definito determinazione dirigenziale o determine, atto altamente autoritativo dove sono
spiegate le ragioni per le quali si sta addivenendo all’accordo, richiamando il principio di imparzialità e di buon
andamento.
L’accordo è un istituto di marca privatistica, ma cosa accade nel caso in cui una delle parti dovesse essere
inadempiente e recede anticipatamente dall’accordo? È imposto alla parte inadempiente obbligo di risarcire il danno
causato.
Art.11.2-> Gli accordi di cui al presente articolo debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che
la legge disponga altrimenti. Ad essi si applicano, ove non diversamente previsto, i princìpi del Codice civile in materia
di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Gli accordi di cui al presente articolo devono essere motivati ai sensi
dell’articolo 3.
Perché i principi del Codice civile in materia di obbligazioni e contratti? Perché non ha utilizzato il termine
disposizioni? Se pur in un procedimento amministrativo si innesta una disciplina privatistica, i principi sono più elastici
a dei contemperamenti fra loro rispetto ad un esercizio di potere discrezionale, c’è un inevitabile bilanciamento per il
perseguimento dell’interesse principale.
“Ove non diversamente previsto” e “in quanto compatibili”: due clausole di salvaguardia, la PA resta sempre in una
posizione di supremazia.
L’ultimo periodo, fa riferimento alla disciplina pubblicistica citando l’art3: Ogni provvedimento amministrativo,
compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve
essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le
ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Art.11.3-> Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti ai medesimi controlli previsti per questi ultimi.
Art.11.4-> Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo
l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del
privato.
Apoteosi della differenza fra un accordo stipulato fra soggetti paritari e un accordo che viene stipulato fra una PA e
un privato. Il privato ottiene ai sensi del quarto comma un mero indennizzo, che è almeno la metà di un risarcimento,
e questo rispecchia la supremazia della PA, anche quando decide di stipulare un accordo integrativo o sostitutivo con
un privato, posto che l’accordo è il massimo per la partecipazione del privato. Il recesso che è sempre consentito, in
modo bilaterale, pena il pagamento del danno integrale, in questo caso è solo unilaterale per sopravvenuti motivi
di pubblico interesse. Nella sua originaria formulazione, questo articolo conteneva un quinto comma che con
l’entrata in vigore del dlgs104/2010 (codice del processo amministrativo), è stato spostato ed è diventato uno dei
commi che individuano le materie attratte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo:
• Art.133.1 lettera a) numero 2 dlgs104/2010: formazione conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o
sostitutivi di provvedimento amministrativo e deli accordi fra le PA.
L’art.15 della l.241/90 disciplina gli accordi fra PA:
-art.15.1 Anche al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 14, le amministrazioni pubbliche possono sempre
concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune.
-Art15.2 Per detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste dall’articolo 11, commi 2 e 3.
-Art15.3 A fare data dal 30 giugno 2014 gli accordi di cui al comma 1 sono sottoscritti con firma digitale, ai sensi
dell'articolo 24 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, con firma elettronica avanzata, ai sensi dell'articolo 1, comma 1,
lettera q-bis) del dlgs7 marzo 2005, n. 82, o con altra firma elettronica qualificata pena la nullità degli stessi.
Dall'attuazione della presente disposizione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello
Stato. All'attuazione della medesima si provvede nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste
dalia legislazione vigente.
L’art15 prevede la stessa disciplina giuridica degli accordi di cui all’art.11, ma solo quella dei commi 2 e 3.
In questo innesto vi è una tendenza nel far prevalere gli elementi e quindi la disciplina pubblicistica dell’accordo
e non quella privatistica.
Quali sono gli elementi di natura pubblicistica?
• Inizia con un procedimento amministrativo;
• Uno di questi accordi è diretto a determinare un contenuto discrezionale del provvedimento;
• L’accordo è preceduto da una determina;
• L’accordo preceduto da un calendario di incontri a cura del responsabile del procedimento;
• 2 clausole di salvaguardia per l’applicazione della disciplina privatistica;
• Accordo sottoposto a controlli;
• Accordo motivato;
• Accordo prevede la possibilità che solo la PA possa recedere in modo unilaterale prevedendo un indennizzo e on un
risarcimento;
• Controversie sono attribuite al giudice amministrativo e non ordinario come l’accordo inter-partes;
Elementi a favore della disciplina privatistica
• Nomen iuris;
• Applicazione disciplina privatistica in tema di obbligazioni e contratti sotto i principi;
• Accordo per atto scritto;
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Cosa abbiamo visto fino ad ora? Che la PA che inizia un procedimento può ricorrere ad un modello privatistico, cioè
si stipula un patto consensuale tra due soggetti, un negozio giuridico con due possibili finalità.
Tanti sono gli elementi che potrebbero far propendere per una natura pubblicistica degli accordi che si instaurano tra
pubblica amministrazione e privato, quindi, una natura pubblicistica in considerazione del fatto che la PA usa in maniera
privatistica un accordo con profili che ci dimostrano che quantunque essa stipuli un accordo, la sua posizione resta di
autorità. Poi ci sono elementi che potrebbero far propendere per una natura privatistica dell’accordo, primo fra i quali,
su tutti, la denominazione “accordo”; l’accordo ci può far capire in maniera inequivocabile che il legame tra PA e
privato è un legame che in teoria potrebbe far ravvisare una posizione di parità tra le parti e tanti sarebbero gli elementi:
anche il fatto che si applica una disciplina privatistica seppure con delle clausole di salvaguardia.
Come si spiegano queste posizioni in antitesi? Greco ha elaborato una teoria tutta sua che è condivisibile: la cosiddetta
natura ibrida, un tertium genus, pubblica e privata, una terza categoria di natura giuridica non prettamente
pubblicistica e neanche privatistica. Dice Guido Greco: sono due discipline che si innestano, che si collegano, da
questa commistione dell’una rispetto all’altra nasce una natura ibrida, una natura pubblicistica e privatistica al
contempo. Che, poi, è la ragione di fondo della istituzione del giudice amministrativo in sede esclusiva e qui facciamo
una digressione.
È doveroso il riferimento, perché si spiega la natura ibrida se si comprende il perché, come dice il processo
amministrativo all’art.133 lett. A) numero 2, le controversie in tema di formazione, di conclusione ed esecuzione degli
accordi sostitutivi di provvedimento amministrativo siano devolute al giudice amministrativo in sede esclusiva. Questa
è la ragione di fondo che spiega la natura duplice nel contempo, è la dimostrazione che non è nessuna delle due in
maniera univoca, c’è una commistione di situazioni giuridico soggettive e per questa commistione è stato istituito un
giudice ad hoc.
Cosa significa giurisdizione esclusiva? Purché ci sia accordo, in qualsiasi materia esso sia, è sempre giurisdizione del
giudice amministrativo. Mentre le altre materie che sono indicate ai numeri 1,3 ecc., qui non è una materia, è
qualunque genere purché ci sia alla base la stipula di un accordo; quindi, si pone in modo trasversale ad ogni accordo.
Abbiamo detto che il giudice amministrativo nasce nel 1889 ed è nato, a quel tempo, perché chiamato a conoscere
ricorsi avverso atti e provvedimenti che risultassero affetti da uno dei tre vizi di legittimità. Il giudice amministrativo è
nato e gli è stata attribuita la giurisdizione che sindacasse il potere pubblico laddove quest’ultimo andasse a ledere una
situazione giuridica soggettiva e questa poteva impugnare uno scorretto esercizio del potere pubblico. Il giudice
amministrativo è nato come giudice dell’atto, chiamato a giudicare la legittimità dell’atto, non poteva essere chiamato
giudice del rapporto perché quello è il giudice ordinario. Il giudice amministrativo non è stato istituito per assegnare
la ragione a una delle parti, il giudice amministrativo valuta la sussistenza di vizi di legittimità e ripristina la
situazione quo ante. Il giudice è nato come giudice generale di legittimità. Nel 1907 è stata istituita la v sezione della
Consiglio di Stato al quale è stata attribuita la giurisdizione di merito, è una giurisdizione specialissima perché in sole
pochissime materie il giudice può ripetere il comportamento della PA che configura generalmente una invasione del
potere. Le materie delle controversie attribuite al giudice di merito sono davvero pochissime: si pensi alle questioni di
confine e di specifici casi. Oggi, alla luce di tutto quello che si vedrà nel processo amministrativo, le materie sono
ridotte all’osso e delimitate ad uno specifico articolo di legge. Nel 1923 è stata istituita la VI sezione del Consiglio di
Stato perché vi erano delle materie in cui era difficile distinguere la situazione giuridica soggettiva di diritto soggettiva.
C’erano delle materie, tra tutte il pubblico impiego, in cui non era facile discernere tra diritto soggettivo e interesse
legittimo; questa distinzione era così importante perché secondo il riparto delle giurisdizioni si diceva che dal giudice
amministrativo si andava per la lesione dell’interesse legittimo, per la lesione del diritto soggettivo si andava dal giudice
ordinario. La distinzione, quindi, era necessaria.
Nel 1923 il legislatore si è sentito obbligato a istituire un giudice amministrativo ad hoc perché c’erano materie in cui
non era facile questa divisione per la presenza di una commistione tra interesse legittimo e diritto soggettivo. Si è detto
che ci sono materie, quindi, in cui c’è un unico giudice competente. Su tutte le materie, quella del pubblico impiego
che nella sua interezza è una materia in cui difficilmente si riusciva a individuare la situazione giuridica certa che
potesse individuare facilmente il giudice competente.
Si fa un esempio: succedeva spesso che un dipendente, dopo un anno di lavoro, chieda le ferie e magari programmi
una vacanza perché una volta che il dipendente faceva istanza per le ferie, e il dirigente firmava la richiesta, ciò lo
abilitava a presupporre di poter organizzare una vacanza nel periodo di ferie ottenuto. Poteva succedere che durante il
periodo di ferie il dipendente venisse richiamato con atto di imperio per rientrare per esigenze straordinarie; con un
vero e proprio provvedimento imperativo il dipendente era costretto a tornare sul posto di lavoro. La contestazione di
questo tipo come indicava con facilità il giudice da adire? È un esempio per far capire come nel pubblico impiego le
situazioni siano spesso difficilmente separabili, e quindi la materia del pubblico impiego è stata la principale materia
che ha costretto il legislatore all’istituzione della VI sezione. Il giudice, quindi, con i poteri attribuiti in sede di
giurisdizione generale, nel corso degli anni ha adottato poteri sempre più penetranti atti a pareggiare la tutela del titolare
dell’interesse legittimo. Questa differenza di tutela, il giudice amministrativo, attraverso tante sentenze, ha aumentato
i poteri cautelari, istruttori e decisori. A seguito di una importante sentenza della Corte costituzionale, la giurisdizione
esclusiva è stata ridisegnata nel rispetto della carta costituzionale.
Prendiamo gli articoli 103 e 113.

-L’art 103 indica un fondamento della ripartizione: anche nella Costituzione il riparto di giurisdizioni è basato sulla
causa petendi.
-Nell’art 113 si riconosce ancora la suddivisione di giurisdizione: si comprende come la giurisdizione amministrativa
sia quindi particolare rispetto a quella ordinaria.
Per far rispettare la carta costituzionale c’è stato un intervento della Corte che nel 2004, con la sentenza 204, ha
ridisegnato gli ambiti della giurisdizione esclusiva nel rispetto degli articoli 103 e 113.
Quando nel 1993 c’è stata la privatizzazione del pubblico impiego, la giurisdizione in materia di pubblico impiego è
stata sottratta al giudice amministrativo e trasferita al giudice ordinario.
Per compensare il vuoto di materia il decreto 80/1998 ha attribuito al giudice esclusivo le materie di servizi pubblici,
edilizia e urbanistica. Ma sono materie così pesanti che il 90% del contenzioso amministrativo di basa su queste materie.
Si sta avendo l’assurdità per cui la giurisdizione esclusiva diventasse quella più importante.
Allora è intervenuta la sentenza del 2004 la quale ha stabilito questo principio: il giudice amministrativo in sede
esclusiva è competente a conoscere le controversie nelle quali si faccia questione di situazioni che sono tra di loro
frammiste e che non possono essere distinte.
Il giudice amministrativo è stato considerato giudice competente a conoscere quelle controversie nelle materie
attribuitegli dalla legge e quelle in cui fosse difficile distinguere tra interesse legittimo e diritto soggettivo, ma nelle
controversie la cui materia configurasse de plano la lesione di diritti soggettivi, la controversia passa al giudice
ordinario.

Tutto ciò serviva per capire il motivo per cui per gli accordi si va dal giudice amministrativo, perché nell’accordo c’è
commistione tra interesse legittimo e diritto soggettivo. Eppure, non è propriamente una materia, è stato inserito perché
non se ne conosce la reale natura (se pubblicistica o privatistica), quindi ciò rafforza la teoria di Guido Greco sulla
natura ibrida.

Ritorniamo alle caratteristiche del potere. Siamo partiti parlando dell’art.21-bis, per arrivare all’art.11. Abbiamo
parlato dell’efficacia giuridica. Altre due/tre sono le caratteristiche del potere indicate dal legislatore nel nuovo capo
IV bis circa un decennio fa.
L’art.21-ter parla di esecutorietà, che vuol dire? La previsione di questa norma non è una novità in assoluto, la
esecutorietà è stata una caratteristica ontologica del provvedimento, cioè la PA può imporre in modo coattivo il precetto
di un suo provvedimento. L’esempio per eccellenza è quello dell’esproprio laddove questo, se non contestato o
contestato ma ritenuto legittimo, vede un privato che ha l’obbligo di rispettarlo e se non lo rispetta, la PA può usare
anche la forza pubblica (manu militari). Questo è un significato non giuridico, utile a comprendere come di fatto questo
principio non esiste a partire dal 2005, ma sicuramente da molto prima, nella dottrina esisteva da molto prima, si
potrebbe tornare addirittura ai privilegi che contraddistinguevano il princeps dello Stato Assoluto poi ereditati dalla
PA. Quando la PA può porre in essere questa caratteristica del suo potere? Nel tempo ci sono stati due orientamenti,
un orientamento fautore del fatto che la PA, come pubblica autorità, poteva sempre utilizzare la forza pubblica per
imporre il comando dei suoi provvedimenti sui destinatari dell’atto, sempre poteva porre in modo coattivo i precetti dei
suoi provvedimenti, lo poteva fare sempre in quanto pubblica autorità. Altra corrente, che aveva a capo Cassese, diceva
che la PA aveva questo potere ma poteva esercitarlo solo in casi previsti dalla legge, comunque in un numero di casi
ridotto. Al termine di questo dibattito, il legislatore ha introdotto questa disposizione normativa e ha posto questa
disciplina di questa caratteristica del potere. Dice “nei casi e con le modalità stabilite dalla legge le pubbliche
amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti, il provvedimento
costitutivo di obblighi indica il termine e le PA possono, previa diffida, imporsi in senso coattivo”. Si nota una
previsione normativa. La imposizione materiale coattivo degli obblighi nei confronti dei destinatari dei provvedimenti
amministrativi si può fare solo ed esclusivamente nelle modalità previste dalla legge. Questa norma è importante perché
come frase iniziale esprime una norma di carattere generale; poi c’è una precisazione, dice che il provvedimento deve
dire il termine in cui l’obbligo deve essere adempiuto, gli dà un precetto, una obbligazione di fare e adempiere. Alla
scadenza del termine indicato, qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni sono tenute a fare una
diffida, questa è una ulteriore garanzia procedimentale.
LEZ.28/10/21
Ieri abbiamo iniziato il discorso dell’esecutorietà, capacità dell’amministrazione di imporre l’esecuzione materiale
dell’obbligo contenuto all’interno degli atti amministrativi nei confronti dei destinatari degli atti stessi, caratteristica
ontologica del potere che contraddistingue il potere giuridico amministrativo, caratteristica che il legislatore ha
circoscritto solo ai casi e con le modalità indicate dalle leggi. L’esecutorietà è una caratteristica preminente del
potere, che dà l’idea della PA come autoritaria, imperativa che agisce iure contro imperi; ma il legislatore aderendo a
una delle correnti dottrinarie facente riferimento a Cassese, ha aderito all’indirizzo che circoscrive questa caratteristica
fondante del potere giuridico soltanto in determinati casi e nel rispetto del principio di legalità sostanziale; la norma
ha positivizzato questo concetto e ha tentato una procedimentalizzazione del concetto di esecutorietà,
giuridicizzazione di un concetto, perché nella seconda parte dell’art.21-ter viene stabilito come si snoda l’iter
procedimentale con il quale la PA estrinseca questa caratteristica del suo potere. Quando la PA emana un
provvedimento che impone l’adempimento di un obbligo da parte del destinatario del provvedimento, deve indicare il
termine entro il quale l’obbligo deve essere adempiuto, e il modo dell’esecuzione di tale obbligo. il destinatario
qualora non ottemperi all’obbligo previsto, la PA deve dare un ulteriore termine, di norma di 30 giorni, effettuando la
diffida ad adempiere, che di solito viene fatta dal privato verso la PA, in questo caso è il contrario, come se si
invertissero le parti del rapporto giuridico amministrativo, secondo quanto previsto dalla legge stessa, rafforzando le
garanzie partecipative del privato. Se non ci fosse questa normativa, la PA potrebbe rivolgersi ad un giudice
amministrativo che emana la sentenza con la quale stabilisce che quell’ordine deve essere portato ad esecuzione
materiale tramite la forza pubblica, come un qualsiasi cittadino.
Art.21-ter.2-> Ai fini dell'esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si applicano le disposizioni
per l'esecuzione coattiva dei crediti dello Stato.
Fra il primo e secondo comma dell’art.21-ter, manca la diffida ad adempiere.
L’esecutorietà risente del concetto dell’autotutela della PA, secondo Feliciano Benvenuti, che distingueva l’autotutela
in 2 categorie: decisoria e non decisoria. All’interno della tipologia non decisoria ci ascriveva l’esecutorietà; mentre
l’autotutela decisoria era la capacità della PA di ritornare sulle proprie decisioni per risolvere dei conflitti reali o
potenziali che potessero insorgere in ordine a precedenti provvedimenti-> tutti i provvedimenti di 2 grado aventi ad
oggetto il riesame di precedenti atti: revoca, auto-annullamento, convalida, ratifica, abrogazione, rettifica, convalida
in senso stretto.
Secondo Benvenuti una caratteristica del potere era l’autotutela non decisoria cioè l’esecutorietà-> capacità di imporre
in modo coattivo l’adempimento dei suoi obblighi, l’esecutorietà può essere collegata anche all’autotutela che
contraddistingue il concetto di soggetto superiore, preminente. L’esecutorietà si pone ad un momento successivo
all’efficacia giuridica e all’esecutività del provvedimento. Questo concetto trova la sua giuridicizzazione all’art.21-
quater-> I provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito
dalla legge o dal provvedimento medesimo. La produzione degli effetti che vengono conosciuti fa sì che il
provvedimento debba essere eseguito immediatamente o vi è un termine dopo il quale (come il piano regolatore)
decorrono gli effetti giuridici del provvedimento stesso.
Art.21quater.2-> L'efficacia ovvero l'esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi
ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto
dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o
differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze. La sospensione non può comunque essere
disposta o perdurare oltre i termini per l'esercizio del potere di annullamento di cui all'articolo 21-nonies (12 mesi).
La sospensione appartiene all’efficacia del provvedimento. Confronto fra art21quater e 21quinquies-> la sospensione
può essere considerata come un provvedimento di 2 grado? No, è un atto di amministrazione attiva di primo grado
perché riguarda l‘efficacia giuridica nella sua immediatezza, come se fosse una cautela che dà modo alla PA di
sospendere per un massimo di 12 mesi il provvedimento, guardando all’interesse della PA che pone in essere un
provvedimento che può essere sospeso per gravi ragioni addotti dalla PA o indicati ad istanza di parte. Laddove la PA
decida dopo la sospensione di revocare il provvedimento, allora in questo caso sarà di 2 grado.
• La revoca è un provvedimento di secondo grado.
Art.21-quinquies e 21-nonies pongono in una norma di diritto positivo le definizioni di 2 classici provvedimenti di 2
grado ad effetto eliminatorio-> la revoca e l’annullamento di ufficio al 1 comma (e al 2 comma la convalida, effetto
conservativo). In entrambi i casi elimina gli effetti giuridici del provvedimento. L’autoannullamento ha un’efficacia
ex tunc, rimuovendolo dall’ordinamento giuridico, ripristinando lo status quo ante invece con la revoca la PA considera
il provvedimento inidoneo, revocandolo con efficacia ex nunc. La convalida sana il provvedimento del vizio che lo
aveva inficiato (per provvedimenti di 2 grado ad esito conservativo). Questi 2 articoli hanno positivizzato quando e in
che modo è possibile effettuare questi provvedimenti e come tutelare i terzi che vi avevano fatto affidamento.
Art.21-nonies: Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al
medesimo articolo 21-octies, comma 2 (vizio irrilevante per il giudice amministrativo), può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal
momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in
cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20 (silenzio-assenso), e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
LEZ. 3/11/21
Il potere giuridico amministrativo è esercitato dalle organizzazioni pubbliche, dai soggetti pubblici che hanno un
determinato fine da perseguire, individuato dal legislatore. Il potere giuridico amministrativo è esercitato non solo dai
soggetti pubblici, ma anche da soggetti privati che vengono individuati attraverso atti amministrativi, atti di
concessione, ciò viene affermato nell’art 1 co.1-ter: ”I soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative
assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1, con un livello di garanzia non inferiore a quello cui
sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla presente legge.”
Si parla, dunque, di soggetti che non sono titolari del potere ma che sono PREPOSTI, cioè di soggetti che hanno avuto
un atto di concessione, un atto di affidamento, un atto amministrativo che li abilita all’esercizio del potere pubblico.
Anche i soggetti privati devono sottostare agli stessi principi della legge n.241/90 cui le PA sono tenute. Come vediamo,
la parte pubblica non è rappresentata solo dalla PA, nel rapporto giudico amministrativo non abbiamo da un lato la PA
e dall’atro il soggetto privato, ma abbiamo da un lato un centro attivo di imputazione, che può essere o il soggetto
pubblico o il privato che esercita il potere pubblico e dall’altro lato abbiamo un centro di imputazione passivo, cioè il
soggetto privato. Se c’è un potere giuridico pubblico che deve raggiungere un interesse pubblico a fronte di esso non
può esserci un altro potere in capo al centro di imputazione passivo. Il potere pubblico non può confrontarsi con il
potere privato. la situazione giuridica soggettiva si estingue, degrada, se si correla al potere pubblico, perché? Mario
Nigro ha qualificato la situazione giuridica soggettiva e la situazione giuridica di interesse legittimo (l’unica situazione
che si può correlare al potere): Nigro dice che il diritto soggettivo del privato ci indica una posizione di vantaggio in
ordine ad un bene della vita, tale bene riceve tutela diretta dall’ordinamento in quanto il titolare, in caso di lesione della
res, può ricorrere al giudice competente; si parla di una tutela integrale, satisfattiva, completa.
Interesse legittimo: esso vive di due anime, una sociologica, l’altra strumentale.
Interesse sociologico: Mario Nigro dice che l’interesse legittimo è una posizione giuridica di vantaggio che il suo
titolare vanta in ordine ad un bene oggetto del potere, UN BENE CORRELATO AL POTERE.
Momento strumentale: il titolare della res correlata al potere per vedere EVENTUALMENTE tutelata la sua res, ha
solo uno strumento: incidere sul potere, pretendere l’esercizio legittimo del potere, se ad esempio ravvisa un qualche
vizio di legittimità può ricorrere al giudice amministrativo e tentare di ricevere tutela. La tutela è eventuale, non è
diretta. Solo se il GA ravvisa uno scorretto esercizio del potere il titolare potrà ricevere tutela, ma nel caso in cui il
potere amministravo è stato esercito correttamente il titolare anche se è stato leso deve comunque soccombere, il suo
sacrificio diventa legittimo e la sua lesione non potrà essere qualificata ingiusta. La tutela è eventuale: se ad esempio il
titolare impugna il decreto di esproprio perché ci sono dei vizi di legittimità, egli riceverà tutela e conserverà la sua res,
ma c’è comunque il rischio che poi la PA depuri il decreto da quei vizi di legittimità e che ponga in essere un altro
decreto di esproprio. L’interesse legittimo si distingue in oppositivo e pretensivo a seconda della diversa res correlata
al potere. L’interesse è pretensivo se la res è un bene che il titolare vuole ottenere, di cui non ha la disponibilità. Se la
res rientra già nella disponibilità del titolare, l’interesse è oppositivo. L’interesse legittimo oppositivo può essere
qualificato come la posizione giuridica di chi ha già una res e cerca di conservarla. Per conservarla si oppone
all’esercizio di un potere amministrativo che cerca di togliere questa res dalla sua disponibilità. l’interesse legittimo
oppositivo si appaga con l’esercizio di un potere di tipo conservativo (che non modifica il reale, non ha effetti
innovativi). Viceversa, l’interesse oppositivo si scontra con un potere di trasformazione, che ha effetti innovativi, che
modifica il reale: con questo potere si cerca di togliere la res al suo titolare. Invece l’interesse PRETENSIVO si sposa
con il potere di trasformazione.
Gli effetti oggettivi del giudicato amministrativo, cioè gli effetti che scaturiscono direttamente dalla sentenza del
giudice amministrativo sono tre: effetto cassatorio, ripristinatorio ed effetto conformativo. Il processo amministrativo
è nato in quel lontano 1889 in cui è stata istituita la quarta sezione del consiglio di Stato per conoscere i ricorsi avverso
atti e provvedimenti amministrativi, qualora essi fossero affetti da vizi di legittimità. Quindi questa Quarta Sezione una
volta ravvisati i vizi di legittimità ha il potere di rimuovere questi vizi.
L'effetto cassatorio, demolitorio cosa vuol dire? che gli effetti pratici prodotti del provvedimento rilevato come
illegittimo vengono spazzati via, vengono cassati, demoliti e all'interno intrinsecamente collegato c'è anche l'effetto
ripristinatorio, cioè si ripristina la posizione che esisteva prima dell'emanazione del provvedimento amministrativo
ritenuto illegittimo dal giudice amministrativo. Se io sono un titolare di un interesse legittimo oppositivo e io mi
oppongo all'esercizio di un potere perché ravviso che ci sia una illegittimità nell'esercizio di esso e il giudice mi
dà ragione perché notifica che il potere non è stato esercitato correttamente, mi emana una sentenza che mi appaga
completamente perché annullando il provvedimento amministrativo io che volevo che la situazione si mantenesse
come quella che esisteva prima dell' 'emanazione del provvedimento annullato , vengo soddisfatto. Capiamo bene che
la sentenza del giudice cassatoria, demolitoria e ripristinatoria mi soddisfa integralmente. Prima dell'entrata in vigore
della 241, capo 4-bis, introdotto con la l. 15\2005, esisteva in dottrina una teoria che definiva gli interessi legittimi di
tipo oppositivo “oltremodo protetti”. Che vuol dire oltremodo protetti? Diceva: cosa fa il giudice amministrativo
qualora il titolare dell'interesse legittimo oppositivo che si ritiene leso nel suo interesse sociologico impugna l'atto
perché ritiene che vi siano dei vizi di legittimità? Quando il giudice amministrativo guarda il ricorso, se ci sono dei vizi
di legittimità che attengono al contenuto del potere (vizio di eccesso di potere), accoglie il ricorso, perché ravvisa che
ci sia uno scorretto esercizio del potere discrezionale e verifica, ravvisa che quando la pubblica amministrazione ha
effettuato quella valutazione comparativa dei vari interessi in gioco, che rappresenta il potere discrezionale, è stato
ingiustamente sacrificato l’interesse legittimo oppositivo. Cosa dovrebbe fare dovrebbe fare la PA? Dovrebbe nella
revisione del potere emanare un altro provvedimento con diverso contenuto. Se il GA, verificando il ricorso avverso il
provvedimento impugnato dal titolare dell’interesse legittimo oppositivo, ravvisa invece un vizio di legittimità attinente
alla forma? (Per es. il decreto di esproprio è stato emanato dal sindaco anziché dal dirigente.) Potrebbe accogliere il
ricorso per quel mero vizio formale senza guardare al contenuto di quell’atto, senza verificare se quell’interesse al bene
doveva essere sacrificato. Questa dottrina parlava di interesse legittimo oltremodo protetto, cioè protetto anche di più
perché, a volte, il giudice, accogliendo il ricorso per meri vizi formali, dava soddisfazione garantita al titolare
dell’interesse, non guardando il contenuto, non verificando se quell’interesse doveva essere sacrificato. Questa dottrina
poi ha dovuto fare i conti con l.15\2005 che ha introdotto l’art 21-octies 2comma in cui si considerano irrilevanti i vizi
formali e procedimentali a fronte dei provvedimenti a carattere vincolato oppure si considera irrilevante un determinato
vizio formale procedimentale nei provvedimenti a contenuto discrezionale qualora sia palese o qualora la PA dimostri
che il contenuto di quell’atto non poteva essere diverso pur nel rispetto di quelle regole formali e procedimentali. Questa
teoria di Folieri precedente all’art 21-octies è andata di pari passo con un’altra corrente della giurisprudenza che è
arrivata alla stessa soluzione con la regola del raggiungimento dello scopo e con la regola dell’errore scusabile, ultimo
comma art.3 che afferma: “In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità cui è
possibile ricorrere.” Nei casi in cui essi non vengono indicati, tale errore viene scusato, viene considerato irrilevante.
Interesse legittimo pretensivo: è quell’interesse di chi non ha una res ma anela ad ottenerla. Questa res può dargliela
sola il pubblico potere. Non essendoci una posizione di vantaggio, il mio interesse si appaga quando c’è un potere che
mi trasforma il reale, attraverso ad esempio un atto di autorizzazione, di concessione ecc. se, ad esempio, io voglio
qualcosa ma la PA mi risponde di no, io impugno quel NO e il GA mi accoglie il ricorso ed annulla quel NO, in tal
caso gli effetti cassatorio e ripristinatorio mi soddisfano? No, non c’è soddisfazione per il titolare dell’interesse
pretensivo, ecco perché occorre lavorare sulla portata sostanziale dell’effetto conformativo del giudicato.
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TUTELA PER GLI INTERESSI LEGGITTIMI DI TIPO PRETENSIVO
Al fine di garantire una minima tutela all’interesse legittimo pretensivo, il giudice amministrativo utilizza l’istituto
dell’effetto conformativo del giudicato.
Tale effetto nasce con la legge abolitiva del contenzioso amministrativo, nel momento in cui si stabilisce che il giudice
ordinario non può mai revocare o modificare l’atto se non sotto ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali
si conformeranno al giudicato per quanto riguarda il caso deciso.
Qui nasce il principio dell’inesauribilità del potere amministrativo: la PA non rimane mai inerte; ogni volta che
finisce un provvedimento ne comincia subito un altro. Quando emana un nuovo iter procedimentale, in capo alla PA
sorge l’obbligo di conoscere come dovrebbe operare, per non incorrere in dei vizi che sono stati rilevati come tali in
casi analoghi dal giudice amministrativo. La grande opera pretoria della giurisprudenza amministrativa, attraverso
l’effetto conformativo del giudicato, pone delle regole guida che la PA ha l’obbligo di rispettare per non ricadere negli
stessi vizi che hanno annullato un suo precedente atto.
La PA ha una responsabilità reale: è tenuta a non ricadere negli stessi vizi rilevati dal giudice amministrativo, al fine
di non dispendere risorse pubbliche per la redazione di atti che sicuramente verrebbero annullati. Le figure sintomatiche
dell’eccesso di potere rilevate dal giudice, secondo la dottrina, diventano delle vere e proprie norme giuridiche di
creazione pretoria perché hanno il carattere della ripetitività e dell’imposizione (attraverso l’effetto conformativo del
giudicato).
L’effetto conformativo del giudicato, dunque, è di grande importanza nel diritto amministrativo in quanto pone delle
vere e proprie regole giuridiche che l’amministrazione ha l’obbligo di dover prendere in considerazione. Essa è
consapevole che, in caso queste regole non dovessero essere rispettate, l’atto amministrativo verrebbe certamente
annullato. Dunque, sorge in capo al pubblico funzionario che non rispetta queste regole, una responsabilità
patrimoniale.
La dottrina amplia la portata sostanziale di questo effetto, al fine di riuscire a garantire anche una minima tutela per
l’interesse legittimo di tipo pretensivo.
Prima dell’introduzione del codice del processo amministrativo, la dottrina aveva indicato la possibilità che si potesse
garantire una accettabile tutela anche al titolare dell’interesse legittimo pretensivo, che si vedeva leso nel suo interesse
materiale, ampliando la portata sostanziale dell’effetto conformativo del giudicato. Si evidenziava che, perché il titolare
dell’interesse legittimo pretensivo potesse ottenere un minimo di tutela, fosse necessario che all’indomani della
sentenza con il quale il titolare dell’interesse legittimo pretensivo otteneva un diniego, ci fossero alcune fattori
comunicanti:
1. La PA non doveva utilizzare il silenzio come forma di diniego, ma doveva motivare la sua decisione. Oggi questo
discorso è molto ben avvertito dal legislatore che, recependo le indicazioni della dottrina, ha introdotto l’art. 10 bis
(modificata con la legge 120/2020)
2. Il ricorrente doveva evidenziare non soltanto vizi formali, ma soprattutto vizi sostanziali. Anche questa
indicazione dottrinale viene recepita dal legislatore con l’art.21-octies
3. Il giudice amministrativo non doveva più utilizzare la tecnica dell’assolvimento dei motivi. Questa è una
tecnica con cui il giudice accoglie il ricorso solo sulla base della fondatezza del primo motivo, ritenendo che tutti gli
altri fossero assorbiti dal primo. La dottrina ritiene che questa tecnica non possa essere impiegata per l’interesse
legittimo pretensivo, perché darebbe la possibilità alla PA di ripetere lo stesso atto con quei vizi che inficiavano il
precedente e che non sono stati contestati dal giudice. Seppur questa tecnica accelera la stesura delle sentenze, riduce
la garanzia del privato.
4. Non dovevano residuare margini di ampia discrezionalità della PA.
Se si paventano tante soluzioni tutte legittime per l’ordinamento, la PA deve poter scegliere una soluzione. Per ogni
soluzione che sceglie, esiste un diverso privato che soccombe, mentre se non ha un ampio margine discrezionale, l’unica
strada percorribile per la PA sarà l’accoglimento della nuova istanza del privato che è stato vittorioso nella controversia
appena risolta.
5. Non ci dovevano essere le sopravvenienze di fatto di diritto. Dopo la sentenza del giudice amministrativo
che ha annullato il diniego del titolare dell’interesse legittimo pretensivo, la situazione fattuale e la situazione giuridica
deve essere la stessa di quella che esisteva prima dell’emanazione del provvedimento di diniego.
Esempio: Tizio ha fatto istanza nel 2015 per ottenere un permesso per costruire in una determinata zana di Foggia. Nel
2015 la zona in cui tizio voleva costruire era una zona a densità residenziale- abitativa perché il piano regolatore di
quell’epoca prevede che quella fosse una zona edificabile. La PA risponde in maniera negativa all’istanza di Tizio.
Questa istanza viene impugnata in primo grado e dopo due anni la sentenza del giudice amministrativo stabilisce
l’annullamento del diniego della PA. Tizio, dopo la sentenza, presenta una nuova istanza, ma il piano regolatore è
cambiato e quella zona non è più edificabile: sono sopraggiunte sopravvenienze di fatto e di diritto che hanno
modificato la realtà giuridica successiva al giudicato amministrativo di annullamento e quindi l’effetto conformativo
del giudicato non può districarsi a pieno.
Questi 5 elementi devono essere tutti contestualmente presenti.
(Digressione diritto amministrativo II)
La normativa è cambiata con l’introduzione del codice del processo amministrativo (d.l. 104/2010). Il legislatore ha
recepito tutta questa evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, assegnando al giudice amministrativo la possibilità di
emanare molte più tipologie di sentenze.
Il giudice amministrativo può adottare tutte le misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in
giudizio: oggi non c’è bisogno della concomitanza di questi fattori, ma è il giudice che, con la sentenza, dispone le
misure idonee per tutelare la situazione giuridica dedotta in giudizio.
LEZ.4/11/21

DEFINIZIONE DI INTERESSE LEGITTIMO


Ieri abbiamo parlato della situazione soggettiva correlata al potere, definendola interesse soggettivo come quella
situazione giuridica soggettiva che identifica quella posizione di vantaggio che il titolare di questa situazione dimostra
nei confronti di una propria res (utilitas) che si interfaccia con un potere pubblico e che fa sì che il titolare abbia degli
strumenti da parte dell’ordinamento che gli consentono di esercitare il proprio potere.
A questa definizione si è arrivati con tantissimo dibattito dottrinale posto che nel momento in cui è stato istituito il
giudice amministrativo si è passati dal mero affare in capo al privato, al riconoscimento dell’interesse legittimo
(introdotto con la costituzione della Quarta Sezione di Stato).
La figura dell’interesse legittimo è una figura tutta italiana, che non esiste negli altri ordinamenti. La definizione
completa è il frutto di anni di elaborazioni dottrinali (dal 1818 al 1948) che raggiunge la sua massima espressione nelle
definizioni di Mario Nigro e Franco Gaetano Scoca.
La Carta costituzionale, ispirandosi a questa dottrina, introduce per la prima volta un chiaro riferimento dell’interesse
legittimo, che acquista pari dignità degli altri diritti: ben tre articoli, pur non definendolo (in quanto non è una
definizione che può essere imbrigliata in una norma) ne prevedono l’esistenza. La definizione degli interessi legittimi
non può essere contenuta in una legge, perché essa varia e viene sempre più riempita nel tempo.
Nell’art.24 si afferma: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Questa
definizione pone sullo stesso piano diritti ed interessi legittimi e riconosce a questi ultimi una valenza costituzionale.
L’art. 103, nel primo comma, riconosce il principio del criterio di riparto di giurisdizioni basato sulla causa petendi
(ragion del chiedere): io chiedo la tutela del mio interesse legittimo e posso andare solo dal giudice ad hoc istituito per
un sindacato che non è sul fatto, ma è sull’atto. Il giudice amministrativo nasce per la tutela nei confronti della PA degli
interessi legittimi, in quanto non si poteva lasciare la PA senza una giuridicizzazione dei suoi poteri. Il legislatore
costituzionale stabilisce la possibilità di giurisdizione del giudice amministrativo anche per i diritti soggettivi, in
particolari materie indicate dalla legge.
“Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della
pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti
soggettivi.”
La carta costituzionale recepisce l’evoluzione giurisprudenziale che c’è stata in ordine al giudice “anomalo” creato per
la tutela dell’interesse legittimo.
Il criterio di riparto basato sulla ragion del chiedere ha la sua massima esplicazione nell’art 113.
“Contro gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi
legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere
esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali
organi di giurisdizione possono annullare gli atti della Pubblica Amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla
legge stessa.”
Dunque, secondo il criterio della causa petendi se la lesione riguarda un interesse legittimo, il ricorso deve essere fatto
dinanzi al giudice amministrativo mentre, se la lesione riguarda un diritto soggettivo il ricorso deve essere fatto dinanzi
al giudice ordinario
Nel dibattito dottrinale c’è stato un altro criterio che si è alternato a quello della causa petendi: il criterio del petitum
(ciò che chiedo). Secondo questo criterio bisognava rivolgersi al giudice amministrativo per richiedere l’annullamento
dell’atto, mentre bisognava rivolgersi al giudice ordinario per richiedere un risarcimento.
La Costituzione chiaramente ha recepito il criterio della causa petendi (ripreso anche nell’art.7 del codice di
procedura amministrativa).
Tanti autori hanno contribuito a definire l’interesse legittimo: esso ha un’anima sociologica (spinge il soggetto ad una
tensione verso un bene della vita) e un’anima strumentale (interesse alla legittimità a dell’azione). Sono due anime
inscindibili che quindi non possono essere disgiunte l’una dall’altra. Alcune teorie pongono l’attenzione più sull’anima
sociologica, mentre altre si soffermano più sull’anima strumentale.
Una tra le teoriche dottrinali più importanti è quella di Oreste Ranelletti che ha parlato della nozione di interesse
legittimo come interesse occasionalmente protetto. Questa definizione nasce in epoca fascista, in cui vi è la massima
espressione del potere autoritativo della PA, in cui l’interesse legittimo era protetto solo di riflesso agli interessi della
PA: nel momento in cui l’interesse del privato corrispondeva con l’interesse della PA, esse era tutelato; in caso contrario
l’interesse del privato non esisteva.
Un’altra definizione importante sposta l’attenzione dal momento sociologico al momento processuale, in particolare al
momento successivo all’emanazione del provvedimento amministrativo. Secondo Treves e Presutti, l’interesse
legittimo nasceva nel momento in cui l’emanazione dell’atto danneggiava una situazione giuridica soggettiva concreta
e attuale. Dunque, secondo questa dottrina, l’interesse legittimo era quell’interesse che si aveva come reazione
processuale del privato che si vede leso in maniera diretta, attuale e concreta nel suo interesse al bene. Questa
dottrina pone le basi per l’interesse a ricorrere (che si studia in diritto amministrativo II). Questa teorica ha spostato
l’attenzione dal momento sociologico, al momento post-provvedimento e ha contribuito a meglio definire l’interesse
legittimo.
Queste teoriche hanno dovuto fare i conti con alcune leggi:
In primo luogo, con la legge 241/90: all’indomani di questa legge ci si è accorti che l’interesse legittimo germoglia
nell’iter procedimentale. Nella legge, l’identità soggettiva viene individuata già nella comunicazione di avvio del
procedimento amministrativo. La prova di questa definizione la troviamo nell’art. 7 del codice del procedimento
amministrativo in cui viene riportata, di fatto, la teoria di Treves e Presutti. La prova si ha nel momento in cui vengono
definiti dalla norma i soggetti che nella fase prodromica potrebbero ottenere un pregiudizio: i controinteressati in
senso procedimentale. Questo conferma che l’ordinamento riconosce l’esistenza di un interesse legittimo
meritevole di tutela già al momento dell’avvio del procedimento amministrativo. La definizione di
controinteressati la troviamo anche nel diritto di accesso agli atti.
LEZ.10/11/21
ART. 2 DELLA LEGGE 241/1990: POTERE E DOVERE DI PROVVEDERE DELLA P.A.
Potere: la P.A. (centro attivo di imputazione) può imporsi in maniera autoritativa, imperativa e unilaterale prescindendo
dal consenso dei destinatari dell’atto per costituire, modificare o estinguere le situazioni giuridiche soggettive dei centri
passivi di imputazione degli atti giuridici amministrativi grazie all’attribuzione, effettuata dall’ordinamento, di una
serie di strumenti che caratterizzano il potere stesso;
Dovere: la P.A. deve perseguire i fini pubblici essendo vincolata da sempre dall’obbligo ontologico che prevede
l’adempimento e la realizzazione di interessi pubblici che devono essere obbligatoriamente soddisfatti (principio di
giurisdizione del potere amministrativo positivizzato dal legislatore).
ANALISI DELL’ART. 2, LEGGE 241/1990: “CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO”
Suddetto articolo è stato modificato costantemente fino al 2020 con la legge di conversione e semplificazione.
Comma 1: “Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le
pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Se
ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche
amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui
motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”.
Il provvedimento (atto finale de procedimento) è espresso perché ha un contenuto ben definito e assume un valore che
può essere positivo o negativo tramite un’articolazione di atti legati tra loro per formare un procedimento che può
iniziare ad istanza di parte, o ad iniziativa di ufficio o mediante una forma di etero-iniziativa pubblica.
Secondo Giannini il procedimento amministrativo si può paragonare ad una cerniera, ossia ad un’articolazione di atti
preordinati e collegati secondo una sequenza logico-temporale distinta che porta ad adottare un provvedimento finale
che racchiude tutti gli argomenti sui quali si è discusso durante l’iter.
Feliciano Benvenuti parla di una successione articolata di atti che possono essere valutati accuratamente e che si
inseriscono nel procedimento amministrativo il cui iter si snoda e consegue obbligatoriamente ad un’istanza (interessi
legittimi pretensivi): la P.A. è obbligata a dare inizio ad un procedimento per vedere se rilasciare o meno il
provvedimento richiesto e soddisfare la richiesta del privato portatore dell’interesse legittimo pretensivo e, qualora sia
avviata d’ufficio perché la P.A. ha un suo interesse e mira a fare qualcosa scontrandosi con il titolare di un interesse
legittimo di tipo oppositivo, la P.A. deve concludere mediante un provvedimento espresso.
L’espressione “adozione di un provvedimento espresso” all’inizio chiudeva il comma 1 dell’art. 2 e si restava nel
dubbio: ci si chiedeva se nell’ipotesi di un’istanza non fondata o con il difetto di alcuni requisiti in capo al suo titolare,
scattasse l’obbligo della P.A. di provvedere. Così, In dottrina è stata effettuata la distinzione tra l’obbligo di procedere
e l’obbligo di provvedere.
Il motore dell’istruttoria è il responsabile del procedimento (art. 6) che deve valutare, ai fini istruttori, le condizioni di
ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento
verificando che l’istanza sia fondata e, qualora manchino i requisiti, non si può procedere (dichiarazione di non
procedibilità: il provvedimento avviato subisce un arresto; se l’obbligo di procedere scatta perché la valutazione ha
esito positivo, allora si addiviene al provvedimento finale); deve accertare di ufficio i fatti e adeguare ogni misura
necessaria per il corretto svolgimento dell’istruttoria; deve proporre l’indizione o indurre le conferenze dei servizi;
curare le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalle leggi e dai regolamenti; deve adottare il
provvedimento finale o trasmettere gli atti all’organo competente per l’adozione. L’utilità della seconda proposizione
si giustifica sulla base del recepimento di tanta opera da parte della dottrina e della giurisprudenza che fa smaltire
numerosi procedimenti per i quali la P.A. non dovrebbe neanche continuare qualora si dimostri l’infondatezza: se
ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità e infondatezza della domanda, le P.A. concludono
un procedimento con un provvedimento redatto in forma semplificata e con un sintetico riferimento al fatto per evitare
spendite di tempo. Qualora il responsabile dichiari la mancanza dei presupposti necessari e che l’istanza non può avere
seguito, per evitare che si crei la situazione del silenzio significativo assenso o diniego, il responsabile deve effettuare
una dichiarazione in poche battute per essere rapido tramite un provvedimento di non accoglimento dell’istanza in
relazione all’infondatezza della richiesta, richiamando solo un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto
risolutivo: il provvedimento deve essere fatto e dichiarato perché se l’obbligo di procedere resta “appeso”, sospeso, il
privato potrebbe sempre considerare il silenzio della P.A. come un silenzio inadempimento o un silenzio che potrebbe
dar luogo ad un significato positivo o negativo. Si tratta del modus operandi della magistratura con cui il giudice nelle
considerazioni richiama in forma sintetica alcuni principi per delineare la situazione. Prima, invece, la P.A. pur di
smaltire le richieste lasciava stare le istanze ritenute infondate e il privato non sapeva se l‘istanza restasse lì perché la
P.A. aveva violato l’obbligo di cui all’art. 2 e ricorreva al giudice amministrativo che aveva indicato alla P.A. l’obbligo
di rispondere in ogni caso.
L’obbligo di concludere il provvedimento deve essere adempiuto entro un termine (ordinatorio) breve che attualmente
è di 30 giorni, ove non sia previsto un termine diverso, (quando è stata emanata la legge 241/1990 era di 30 giorni, poi
con la legge 15/2005 è stato allungato a 90 giorni e nel 2015 a 180 giorni); mentre, il trentunesimo giorno scatta la
violazione di tale obbligo e quindi è necessario stabilire il dies a quo, cioè la data di inizio del procedimento
amministrativo di ogni tipo, anche quello ad istanza, individuato dall’art. 7.
Comma 2: “Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un
termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici
nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni.”
Dalla norma appare possibile che ci siano termini diversi.
Comma 3: “Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi dell’articolo 17, comma
3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica
amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa, sono individuati i termini non superiori a novanta
giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali. Gli enti pubblici
nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono
concludersi i procedimenti di propria competenza.”
Comma 4: “Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione
amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono
indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta anche dei
Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del
Consiglio dei ministri. I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione
dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l’immigrazione.”
La regola è di 30 giorni, ma per i provvedimenti nazionali sono previsti termini non superiori a 90 giorni indicati dalle
varie amministrazioni con propri regolamenti adottati ai sensi dell’art. 17 della legge sulla delegificazione n° 400/1988,
passando da 30 a 90 giorni. Il termine di 90 può divenire di 120, o 160, fino ad un massimo di 180 giorni con una
proroga e tale aumento dipende dall’organizzazione amministrativa, dalla natura degli interessi tutelati e dalla
particolare complessità del procedimento. Sono esclusi i provvedimenti relativi all’acquisto della cittadinanza italiana
e quelli sull’immigrazione con tempi lunghissimi necessari per il rilascio dei certificati utili (spesso serve un anno).
Comma 4 bis introdotto dalla legge 120/2020, che ha convertito il d. l. semplificazioni 77/2020
Comma 4 bis: “Le pubbliche amministrazioni misurano e pubblicano nel proprio sito internet istituzionale, nella
sezione “Amministrazione trasparente”, i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore
impatto per i cittadini e per le imprese, comparandoli con i ter- mini previsti dalla normativa vigente. Con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione, previa intesa in
Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti modalità e criteri
di misurazione dei tempi effettivi di conclusione dei procedimenti, nonché le ulteriori modalità di pubblicazione di cui
al primo periodo.”
Durante la pandemia è emerso il desiderio delle imprese di avere tempi certi in cui le P.A. potessero rispondere e così
è stata data loro la possibilità di essere trasparenti e vicini alle persone in attesa dell’adozione di provvedimenti senza
far scattare il ricorso al giudice amministrativo e al potere sostitutivo. Le imprese che hanno richiesto dei mutui bancari
o delle agevolazioni o hanno acceso delle garanzie fideiussorie, hanno una maggiore sicurezza di avere un
provvedimento espresso in tempi determinati e misurati a campione. Infatti, mentre è stata espunta la norma che
prevedeva indennizzi a carico della P.A. per ogni giorno di ritardo al fine di non indebitare la stessa, è stato imposto
alla P.A. di misurare quanto è celere nello svolgimento delle sue funzioni in quanto si offre all’istante una ulteriore
garanzia per conoscere con una ragionevole prevedibilità i tempi in cui riceverà il provvedimento.
Comma 5: “Fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative, le autorità di garanzia e di vigilanza
disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza.”
Si tratta di una forma di autonomia che hanno le autorità di garanzia e vigilanza, le quali con i loro ordinamenti possono
prevedere i tempi di conclusione dei propri procedimenti: deroga al rispetto dei termini (30, 90, massimo 180 giorni).
Comma 6: “I termini per la conclusione del procedimento decorrono dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal
ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte.”
Se l’istanza viene fatta in un giorno prestabilito, si considera arrivata quando è giunta all’ufficio competente, perciò i
termini per la conclusione del procedimento decorrono dall’inizio del procedimento di ufficio e ovviamente la P.A. sa
quando esso è iniziato grazie all’avvio del primo atto comunicato al centro passivo di imputazione (si tiene conto della
data). Invece, se il procedimento è ad istanza di parte, decorre da quando l’istanza formulata è pervenuta
all’amministrazione competente.
Comma 7: “Fatto salvo quanto previsto dall’art.17, i termini di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 del presente articolo possono
essere sospesi, per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, per l’acquisizione di informazioni o
di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o
non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. Si applicano le disposizioni dell’art.14, comma
2.”
Se un documento è già detenuto dall’amministrazione o può essere acquisito presso altre amministrazioni, non c’è la
possibilità di sospensione degli ulteriori 30 giorni, ma la P.A. deve farlo rientrare nel termine ordinatorio di 30 giorni
o negli altri indicati. Se invece la P.A. ha bisogno di acquisire i documenti che attestino informazioni o certificazioni
relativi a fatti, stati o qualità di cui non possiede lei stessa il documento diretto o non può lei stessa acquisirlo presso
altre P.A., in questo caso il procedimento è sospeso e, ai sensi dell’art. 17, decorre dalla produzione del nuovo
documento che è servito all’interno della fase istruttoria del procedimento amministrativo.
In sintesi, i primi sette commi dell’art. 2, con l’aggiunta del comma 4 bis, si occupano dell’aspetto fisiologico e positivo
dell’amministrazione che agisce nel rispetto di termini più o meno ampi (eventuali prolungamenti dei termini devono
essere indicati ed esternati dalla P.A. sul sito dell’amministrazione competente); mentre, adesso analizziamo l’aspetto
patologico che attiene agli errori eventualmente commessi come la violazione dei termini e dell’obbligo di provvedere,
o la mancata adozione del provvedimento espresso, o l’esercizio del non potere che vengono evidenziati nella seconda
parte della norma.
È importante analizzare il comma 8 che ha subito una serie di modifiche fino a quattro anni fa.
Prima la disposizione si concludeva col comma 8, adesso invece ha subito un ampliamento e nella seconda parte si
prevede un riferimento al giudizio espresso in caso di violazione dell’obbligo di provvedere e dinanzi al giudice
amministrativo, e poi nell’ultima parte è presente una tutela in via amministrativa che delinea cosa può fare il privato
di fronte ad un inadempimento della P.A. prima di addivenire al giudice amministrativo per ottenere una tutela
giurisdizionale, potendo tutelarsi in via amministrativa.
Comma 8: “La tutela in materia di silenzio dell'amministrazione è disciplinata dal codice del processo amministrativo.
Le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio inadempimento
dell'amministrazione sono trasmesse, in via telematica, alla Corte dei conti.”
Emerge il rinvio al codice del processo amministrativo che ha espunto da questa disposizione normativa tutto ciò che
era riferito alla tutela giurisdizionale (prima parte introdotta dal d. lgs. 104/2010 che ha stabilito la tutela verso il silenzio
della P.A.).
Il legislatore ha aggiunto che la violazione dell’obbligo di provvedere non può restare senza sanzione; perciò, è stata
aggiunta la dicitura “le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio
inadempimento della P.A. (che ha violato l’obbligo di provvedere e la violazione è stata ritenuta fondata dal giudice
amministrativo) sono trasmesse, in via telematica, alla Corte dei Conti”. Il ricorso è stato accolto e gli effetti sono
passati in giudicato perché c’è stato un appello da parte della P.A. che non è stato accolto e quindi ha vinto sempre la
parte privata oppure la P.A. non ha proposto alcun appello e così il giudicato di primo grado (res iudicata) è diventato
inoppugnabile e incontrovertibile.
IL PASSAGGIO IN GIUDICATO DI UNA SENTENZA
Davanti al giudice amministrativo i gradi del giudizio sono due: il TAR e il Consiglio di Stato. Dopo la sentenza del
TAR la parte soccombente deve proporre l’appello, entro 60 giorni, al Consiglio di Stato e, in assenza di proposta di
appello, si dice che la sentenza passa in giudicato e non può più essere impugnata. Invece, se si propone l’appello e
questo conferma la situazione di primo grado, si dice che la situazione è diventata res iudicata ed è passata in giudicato
accogliendo il ricorso proposto avverso il silenzio inadempimento -> si evidenzia lo scorretto non esercizio del potere
trasmettendo il tutto, in via telematica, alla Corte dei Conti (responsabilità erariale da danno da parte della P.A. che
avrebbe potuto evitare un giudizio in cui è risultata parte soccombente). Quindi, è possibile agire in via giurisdizionale
dinanzi al giudice amministrativo, secondo gli artt. 31 e 117 del codice del processo amministrativo. Se il ricorso
avverso il silenzio inadempimento risulta fondato la P.A. inadempiente nella persona del dirigente che avrebbe dovuto
provvedere subisce un giudizio da parte della magistratura contabile (Corte dei Conti): responsabilità propria
amministrativa per danno inferto alla P.A.
Il nuovo comma 8 bis rappresenta una novità introdotta durante l’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del covid-
19.
Comma 8 bis: “Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di
assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli artt. 14 bis, co. 2, l. c; 17 bis, co. 1 e
3; 20, co. 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’articolo 14-ter, comma 7, nonché i provvedimenti di
divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’art. 19, co. 3 e 6 bis, primo periodo,
adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’art. 21 novies,
ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni.”
La P.A. deve essere efficiente, ma se vengono emanati provvedimenti oltre i termini previsti per le decisioni assunte
all’interno di conferenze di servizi istruttorie o decisorie, oppure vengono emanati provvedimenti di autorizzazione,
assenso o nulla osta oltre i termini entro i quali si configura l’istituto del silenzio assenso, quest’ultimo dà valore di
provvedimento accolto al silenzio della P.A., comportando l’accoglimento dell’istanza, dando un valore positivo alla
situazione di inerzia della P.A. Tutto ciò che viene adottato dalla P.A. oltre i termini previstiti per la conferenza
istruttoria e decisoria, oppure oltre i termini entro i quali potrebbe configurarsi l’assenso, oppure con i provvedimenti
di divieto della prosecuzione di attività che sono adottati dopo la scadenza dei termini non rispettando l’ordinaria
diligenza della P.A. procedente risulta inefficace perché si dà una garanzia al privato che può considerarli come termini
giusti, salvo che possa applicarsi in questa evenienza l’istituto dell’autoannullamento di ufficio (art. 21 novies) dove
ne ricorrano i requisiti. In presenza di un ragionevole decorso dei termini e, qualora non ci sia un decorso superiore a
18 mesi, si valutino in maniera comparativa le ragioni di pubblico interesse e quelle dei controinteressati e la P.A.
ritenga che le prime prevalgano, allora può esserci l’annullamento di ufficio e quindi la norma non si applica.
Da questo momento il legislatore continua con la disposizione normativa preesistente all’introduzione del nuovo
comma 8 bis ma tenendo conto di alcune riformulazioni.
Comma 9: “La mancata o tardiva emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della
performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del
funzionario inadempiente.”
Fa riferimento all’aspetto patologico, al silenzio della P.A. che non ha rispettato i termini indicati dai commi 2, 3 e 4
dell’art. 2. Bisogna tener conto, durante lo studio analitico, della competenza dirigenziale e dei rapporti che intercorrono
tra politica e amministrazione: oggi esiste il modello a competenze differenziate, con l’organo di indirizzo politico da
un lato e l’organo dirigenziale, di gestione amministrativa dall’altro che ha una serie di funzioni da porre in essere e
l’inadempimento, il mancato rispetto dei termini procedimentali indicati dall’art. 2 rappresenta per il dirigente un
elemento negativo della sua performance che lo porta ad una valutazione negativa dirigenziale o di risultato tanto che
potrebbe non essere riconfermato nella direzione ad opera dell’indirizzo politico nel caso di una scelta fiduciaria. Oggi
non è possibile uno spoil system avanzato se non a seguito di una valutazione negativa da parte dell’organo di indirizzo
politico operata in contraddittorio con la parte dei dirigenti, ma se questi non hanno adempiuto e hanno ricevuto una
valutazione, non avranno modo di essere riconfermati.
Da questo momento in poi la norma propone la soluzione in via amministrativa dell’inadempienza ad opera del soggetto
che era originariamente proposto a provvedere alla conclusione del procedimento mediante l’emanazione del
provvedimento espresso. Il privato, a fronte di una inadempienza, di una mancata adozione del provvedimento espresso
o del mancato rispetto dei termini, prima di rivolgersi al giudice amministrativo, può procedere con la tutela in via
amministrativa.
Comma 9-bis: “L' organo di governo individua un soggetto nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione o una
unità organizzativa cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell'ipotesi di omessa individuazione il potere
sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all'ufficio o in mancanza
al funzionario di più elevato livello presente nell'amministrazione. Per ciascun procedimento, sul sito internet
istituzionale dell’amministrazione è pubblicata, in formato tabellare e con collegamento ben visibile nella homepage,
l’indicazione del soggetto o dell’unità organizzativa a cui è attribuito il potere sostitutivo e a cui l’interessato può
rivolgersi ai sensi e per gli effetti del comma 9-ter. Tale soggetto, in caso di ritardo, comunica senza indugio il
nominativo del responsabile, ai fini della valutazione dell’avvio del procedimento disciplinare, secondo le disposizioni
del proprio ordinamento e dei contratti collettivi nazionali di lavoro, e, in caso di mancata ottemperanza alle
disposizioni del presente comma, assume la sua medesima responsabilità oltre a quella propria.”
In ogni procedimento c’è l’indicazione del responsabile e dell’organo competente all’emanazione del provvedimento
finale, nonché la figura sostitutiva che interviene in caso di inadempienza (tutela ulteriore per il privato: art. 6, comma
1, lettera e).
Nell’ipotesi di omessa individuazione, il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza,
al dirigente preposto all’ufficio, o in mancanza di questo al funzionario di più alto livello presente nell’amministrazione.
Per ciascun procedimento, sul sito internet istituzionale dell’amministrazione è pubblicata in formato tabellare e con
collegamento ben individuabile l’indicazione del soggetto o dell’unità organizzativa cui è attribuito il potere sostitutivo
e a cui l’interessato può rivolgersi ai sensi del comma 9 ter, nonché i modi e i termini entro i quali questa figura deve
operare. Tale soggetto, in caso di ritardo, comunica senza indugio il nominativo del responsabile ai fini della
valutazione dell’avvio del procedimento disciplinare secondo le disposizioni del proprio ordinamento e dei contratti
collettivi nazionali di lavoro e, in caso di mancata ottemperanza, assume una ulteriore responsabilità oltre a quella
propria.
Questa norma è stata modificata in due parti dalla legge di conversione 120/2020 e dalla legge 108/2021: prima il nome
della figura dotata di potere sostitutivo era indicato ad opera dell’amministrazione trasparente sull’apposito sito; oggi,
invece, si fa riferimento al formato tabellare e col riferimento ben visibile nella home page per consentire un facile
accesso. Inoltre, prima il titolare del potere sostitutivo doveva comunicare il ritardo del soggetto competente ad emanare
il provvedimento affinché si attivasse il procedimento disciplinare a suo carico secondo le disposizioni del proprio
ordinamento e i contratti collettivi di lavoro e, attualmente, questa dicitura è stata allungata con la frase “in caso di
mancata ottemperanza alle disposizioni del presente comma il responsabile con potere sostitutivo assume la sua
medesima responsabilità oltre a quella propria”. Così, è stato evidenziato il fatto che questa nuova figura non si esime
da ciò che deve continuare con il proprio ufficio (con il quale è stato inquadrato nella struttura), non prende le funzioni
dell’organo a cui si sostituisce, ma continua la sua attività come soggetto all’interno di un preciso ufficio e, per quella
determinata procedura amministrativa, fa proprie anche le funzioni del dirigente rimasto inadempiente: il legislatore ha
voluto evidenziare il fatto che il titolare del potere costitutivo conserva comunque la titolarità delle funzioni
precedentemente svolte per le quali è stato adibito all’interno della struttura e non fa proprie soltanto le funzioni
dell’organo che sostituisce: continua con le sue normali funzioni alle quali si aggiungono quelle dirigenziali a fronte
dell’inadempienza che deve essere comunicata dal soggetto perché si attivi il procedimento disciplinare nei confronti
del dirigente rimasto silente e inoperoso. La stessa modifica viene in ordine al successivo comma, il 9 ter.
Comma 9-ter: “Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento o quello superiore di cui al comma
7, il responsabile o l’unità organizzativa di cui al comma 9-bis, d’ufficio o su richiesta dell’interessato, esercita il
potere sostitutivo e, entro un termine 28 maggio 2021 61 pari alla metà di quello originariamente previsto, conclude
il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario.”
È previsto un termine superiore di cui al comma 7 perché può esserci la sospensione che non può comunque superare
i 30 giorni (oltre i 90, 120, 160 e 180).
È stata effettuata l’aggiunta “entro un termine che è 28 maggio 2021” per i procedimenti individuati con la legge
108/2021, perché molti procedimenti erano rimasti senza l’atto finale: è stato individuato il termine ad hoc (28 maggio
2021). Mentre, per tutti gli altri che seguono la procedura regolare, quando non siano portati a termine dal titolare del
potere originariamente competente e deputato ad emanarli, si fa riferimento alla metà del termine originariamente
previsto utilizzando le strutture competenti oppure con la nomina di un commissario, una persona deputata a fare ciò.
Comma 9-quater: “Il responsabile individuato ai sensi del comma 9-bis, entro il 30 gennaio di ogni anno, comunica
all'organo di governo, i procedimenti, suddivisi per tipologia e strutture amministrative competenti, nei quali non è
stato rispettato il termine di conclusione previsti dalla legge o dai regolamenti. Le Amministrazioni provvedono
all'attuazione del presente comma, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente,
senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.”
Quindi, non è previsto un pagamento aggiuntivo per ciò che fa il titolare del potere sostitutivo, in quanto la P.A. non
può permettersi di pagare un quid pluris al soggetto che sostituisce il dirigente rimasto inadempiente: non c’è una
attribuzione di funzioni superiori al sostituto individuato dall’organo di governo senza maggiori oneri gravanti sulla
finanza pubblica.
Comma 9-quinquies: “Nei provvedimenti rilasciati in ritardo su istanza di parte è espressamente indicato il termine
previsto dalla legge o dai regolamenti di cui all'articolo 2 e quello effettivamente impiegato.”
Questo può essere un comma da leggere in combinato disposto con il comma 2-bis (conseguenze per il ritardo
dell’amministrazione nella conclusione del procedimento).
______________________________________________________________________________________________
Posto che la P.A. ha un obbligo di concludere il procedimento amministrativo entro un termine che, se non è
diversamente indicato, è di 30 giorni, vediamo cosa succede se non provvede (se non si addiviene ad una tutela in via
amministrativa, perché non interviene neanche il titolare del potere sostitutivo) e quindi si viola in maniera tranciante
l’obbligo di provvedere, di cui all’art.2 della 241/90.
L’ultimo rimedio consiste nella tutela giurisdizionale che è indicata all’interno del c.p.a. d.lgs.104/2004 in due articoli:
[il primo ha natura di diritto sostanziale ed è l’art.31 c.p.a., l’altro riguarda la predisposizione del ricorso dal punto di vista tecnico]

L’art.31 è rubricato “Azione avverso il silenzio e azione di declaratoria dello stato di nullità dell’atto amministrativo”,
uno stesso articolo contiene due azioni proponibili al G.A.:
- una per la tutela avverso la violazione dell’art.2 della 241
- l’altra volta a far dichiarare dal G.A. che l’atto è nullo, ex art.21-septies della 241
1 comma: “decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo, e negli altri casi previsti dalla legge,
chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento al G.A. dell’obbligo della P.A. di provvedere”.
Nell’art.2 l.241 si parla di obbligo di concludere il procedimento con provvedimento espresso, nell’art.31 c.p.a si parla
di un vero e proprio obbligo di provvedere, evidenziando che questa azione della PA deve concludersi mediante un
provvedimento che sia espresso, esplicito di una volontà dell’ente, sia positiva che negativa.
Con la dicitura “decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla
legge” il legislatore intendeva dire che si può ricorrere al G.A. soltanto dopo aver esperito la via della tutela
amministrativa, rivolgendosi all’organo titolare del potere sostitutivo.

Si immagini una situazione fisiologica: la PA ha determinati termini per provvedere che, se non è diversamente indicato
sono i canonici 30 giorni.
Alla fine di questi 30 giorni, prima di adire il G.A. per operare una tutela giurisdizionale, posto che c’è un obbligo per
l’amministrazione competente, il privato deve verificare, attraverso il sito dell’amministrazione, che sia stata indicata
la figura del titolare del potere sostituivo al quale rivolgersi per chiedere di emanare il provvedimento espresso entro
la metà dei termini indicati originariamente per quel determinato procedimento.
Il comma 9-bis dell’art.2 della 241: “l’organo di governo individua un soggetto nell’ambito delle figure...” → talmente
è un obbligo quello di emanare il provvedimento, che è la stessa norma a dire che, nell’ipotesi di omessa individuazione,
il privato deve rivolgersi al soggetto più in alto in grado (escluso il dirigente che era originariamente competente) e
chiedere di provvedere entro la metà del termine originariamente previsto. È necessario che il privato completi la parte
indicata dall’art.2 nella sua completezza, sia nella sua parte fisiologica che patologica.
Una volta che si è esaurita questa possibilità ex art. 2, si potrà ricorrere al G.A. ex art.31 c.p.a.
Infatti, il 2 comma dell’art.31 dice che non il termine entro il quale adire il G.A. è un termine lungo perché il legislatore
si rende conto della situazione patologica in cui possono incorrere le PA nell’adozione dei provvedimenti: “l’azione
avverso il silenzio può essere proposta fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla
scadenza del termine originario di conclusione del procedimento”.
Quindi ho un anno per adire il G.A. dalla scadenza del termine entro il quale la PA doveva provvedere attraverso
l’organo originariamente competente.
È fatta sempre salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento, ove ne ricorrano i presupposti: l’istanza
deve avere una formulazione diversa da quella che aveva dato impulso al precedente procedimento, risultato poi
inadempiuto. Questa deve essere completata entro un anno dal formarsi del silenzio inadempimento.
Non si può presentare un’ulteriore istanza identica alla precedente, perché sarebbe un chiaro segno di tentativo di
elusione dei termini preposti per la tutela giurisdizionale.
Quando il privato fa istanza al G.A. perché è soggetto ad una situazione di silenzio inadempimento da parte della PA*,
in quanto essa doveva provvedere e non ha provveduto, violando un obbligo, di norma egli non potrà mai sostituirsi
alla PA e stabilire COME la PA avrebbe dovuto provvedere: il sindacato del giudice è un sindacato estrinseco che ha
ad oggetto l’esercizio del potere o il mancato esercizio del potere, ai sensi dell’art.7 del c.p.a.
C’è una possibilità che il giudice faccia qualcosa in più, soddisfacendo pienamente le aspettative del privato che si vede
leso da un NON esercizio del potere? SI, e si ritorna all’art.31 (comma 3):
il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo
- quando si tratti di attività VINCOLATA;
- quando risulti che non residuino ulteriori margini di esercizio dell’attività amministrativa;
- il privato dimostra in giudizio non sono necessari adempimenti istruttori che devono essere compiuti
dall’amministrazione perché sono stati tutti esperiti;
quando, nonostante questi presupposti, la PA non ha emanato il provvedimento, il giudice può dire alla PA di emanare
proprio quel provvedimento.
ART.117 c.p.a. → In presenza di questi presupposti, il soggetto deve ricorrere al TAR entro 1 anno dal termine di
conclusione del procedimento e, in caso di accoglimento totale o parziale, il giudice ordina alla PA di provvedere
entro un termine non superiore a 30 gg.
COMMA 3: il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta, o con la sentenza che definisce il giudizio, o su
istanza dell’interessato.
Il giudice, qualora conosca la fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio dal ricorrente (attività vincolata,
non più margini di discrezionalità, fatti tutti gli adempimenti istruttori), ORDINA all’amministrazione di provvedere o
PROVVEDE DIRETTAMENTE attraverso la figura del commissario ad acta, un organo “para-amministrativo” la
longa manus della PA, che provvede in luogo della PA ad adempiere. [La figura ha una natura più amministrativa che
giurisdizionale]
Questa norma spiega, dal lato del ricorrente, la possibilità dell’azione: quando ricevo un provvedimento lesivo o non
ricevo alcun un provvedimento da parte della PA, ricorro al GA e inizio un’azione avverso la PA; in base a quello che
chiedo al giudice, corrisponde la sentenza → corrispondenza fra il chiesto (che deriva dalla lesione da me subita, che
mi sacrifica in maniera illegittima l’interesse sociologico alla base del mio interesse legittimo) e il pronunciato.
Procedimento → provvedimento → eventuale lesione → azione al GA → decisione del GA.
Nel giudizio amministrativo vale la corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato: il giudice si pronuncia nei limiti
della domanda
Ecco perché il Capo II del c.p.a. viene rubricato AZIONI DI COGNIZIONE (annullamento, condanna, azione avverso
il silenzio, declaratoria di nullità) e dopo le azioni ci sono le pronunce giurisprudenziali: tante sentenze quante sono le
azioni. Il giudice si pronuncia nei limiti della domanda.
*[(diverso dal silenzio significativo che equivale a tutti gli effetti all’accoglimento della domanda → art.20 “silenzio assenso”:
questa situazione si attua ormai come regola generale in tutti i procedimenti ad istanza di parte, per il rilascio di provvedimenti
amministrativi. Il silenzio equivale ad un provvedimento di accoglimento dell’istanza, senza la necessità di ulteriori istanze o
diffide, sempreché la PA non comunichi all’interessato entro 30 o 90 giorni il provvedimento di diniego o non indica una
conferenza dei servizi)]

** DOMANDA SULL’OBBLIGO DI PROVVEDERE – SILENZIO INADEMPIMENTO **


partire dall’art. 2 l.241\90
dividerlo in fase fisiologica e patologica del procedimento
art.31 c.p.a. collegato con art.117 co3 (azioni)
art.34 1co lett. B) c.p.a. (sentenze)
LEZ.11/11/21
Ieri, parlando dell’art.31 c.p.a., abbiamo visto come esso disciplini nei primi 3 commi un’azione che spetta al privato
dinnanzi al GA (nei confronti della PA), qualora ricorra avverso un silenzio (inadempimento→ il silenzio in cui incorre
la PA qualora violi l’obbligo di provvedere ex art.2 della 241).
L’ultimo coma dell’art.31 disciplina, invece, l’azione DECLARATORIA DI NULLITÀ, con la quale il privato ricorre
al GA perché venga acclarata, dichiarata un’invalidità molto grave quale la NULLITÀ dell’atto amministrativo.
Cosa si intende per nullità? Generalmente, lo stato di invalidità più comune ad un atto amministrativo è l’annullabilità
(sanzione = annullamento) perché quando la PA agisce, lo fa in virtù di un potere.
Se questo potere le è stato conferito da una norma, i vizi che possono inficiare l’atto amministrativo attengono allo
scorretto esercizio di questo potere; altrimenti, la mancanza di conferimento di potere da parte della norma, dà luogo
ad uno stato di invalidità straordinario.
Due sono le regole che ripartiscono il potere: ATTRIBUZIONE E COMPETENZA
La prima ipotesi di MANCANZA DI ATTRIBUZIONE della norma è quando non c’è nessuna norma
dell’ordinamento giuridico che riconosce il potere di emanare un determinato atto a nessun organo della PA.
Giannini parlava di un’ipotesi di scuola: il rettore che ordina agli studenti che non raggiungono valutazione sufficiente
di percuoterli. Questa norma non esiste in nessun ordinamento giuridico ma, laddove ci fosse, l’ipotesi di un organo
amministrativo che fa ciò (percuotere) sarebbe un comando inesistente, nullo, che non ha ragione di esistere.
La seconda fattispecie è il DIFETTO ASSOLUTO DI ATTRIBUZIONE e si ha quando manca la norma
attributiva del potere di emanare l’atto a quella determinata branca della PA → quando un organo della PA invade
l’ambito di competenza di altro organo di altra branca della PA. Ipotesi del rettore universitario che pone in essere un
atto di competenza del Ministero dell’Interno: sta invadendo l’ambito di competenza di un altro organo di un’altra
branca. [ipotesi più ricorrente rispetto alla prima]
A questa classificazione da parte della dottrina si è arrivati attraverso delle tappe storiche:
• 1865 → legge abolitiva del contenzioso nel tribunale amministrativo: si crea la giurisdizione unica del GO che
risulta competente a conoscere la lesione di diritti soggettivi; tutto ciò che non era diritto soggettivo (mero
affare) era devoluto alla giustizia amministrativa;
• 1889 → creazione di un giudice ad hoc, il GA, competente a conoscere dei ricorsi avverso atti e provvedimenti
amministrativi posti in essere dalle amministrazioni, contro gli interessi di individui (non più mero affare);
arriviamo quindi ad avere 2 giudici, GO e GA.
Dopo tanta discussione si impone, come regola di riparto di giurisdizione, la regola della causa petendi, la ragion del
chiedere: se un soggetto evidenzia la lesione della sua situazione giuridica di interesse legittimo deve rivolgersi al GA
per chiedere l’annullamento; se prospetta, invece, la lesione del diritto soggettivo, la giurisdizione della controversia
sarà dinnanzi al GO, al quale si può chiedere solo il risarcimento del danno.
Ci furono ampi dibatti in dottrina, volti a sottolineare come la situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo
fosse minore rispetto al diritto soggettivo, perché riceve una tutela indiretta, occasionale, eventuale; nonostante ciò, ci
furono grandi sostenitori della tesi che l’annullamento, in alcune circostanze, potesse consentire una tutela più ampia
al titolare dell’interesse legittimo, rispetto al titolare del diritto soggettivo.
E allora cosa è successo…
questa vittoria del criterio della causa petendi come regola di riparto della giurisdizione tra GA e GO, di fatto sottraeva
grande ambito di giurisdizione al GO, perché: allorché ci fosse un esercizio del potere, la situazione di diritto soggettivo
degradava, si modificava in interesse legittimo e, vigendo la regola della causa petendi, l’interesse radicava la
giurisdizione davanti al GA, svuotando la giurisdizione del giudice ordinario.
Per questa ragione, intorno al 1949 fu proprio la Corte di Cassazione a creare il VIZIO DI CARENZA DI POTERE
con alcune sentenze importanti (vedi Palazzolo, Corasaniti).
NULLITÀ = INESISTENZA DELL’ATTO (NON PRODUCE EFFETTI GIURIDICI) è il vizio + grave che può inficiare
un atto amministrativo
Quando c’è la nullità dell’atto amministrativo, che determina la non produzione di effetti giuridici?
Il VIZIO DI CARENZA DI POTERE è quel vizio, introdotto dalla Corte di Cassazione, che in questo modo si è
riappropriata di un grande ambito di giurisdizione, perché in una controversia tra PA e privato:
➢ allorché si contesti lo scorretto esercizio di un potere legalmente conferito, nulla quaestio: l’esercizio di
questo potere può essere conosciuto solo dal GA perché attiene ad un esercizio che produce effetti;
➢ ma allorché si contesti se il potere è stato o meno conferito ab origine, l’eventuale controversia tra privato e
PA deve essere conosciuta dal GO, perché qui entra in gioco il vizio di carenza di potere, che fa in modo che
l’atto non produca l’effetto suo tipico e, non producendo effetto, la situazione di diritto soggettivo rimane
di diritto e non si trasforma in interesse, quindi, la giurisdizione dell’eventuale controversia rimane del GO.
La creazione del vizio di carenza di potere è tutta pretoria.
Massimo Severo Giannini quando ha indicato le ipotesi in cui può rilevare la carenza di potere:
I. non c’è nessuna norma dell’ordinamento che attribuisce un determinato potere a nessuna branca della PA:
l’atto è nullo, inesistente, non può produrre effetti giuridici;
II. carenza di potere / difetto di attribuzione / incompetenza assoluta → l’atto è posto in essere violando la
regola dell’attribuzione (quella sommatoria di poteri che spetta a ciascuna branca di una PA per il
perseguimento di quell’interesse pubblico predeterminato a monte dal legislatore), quindi è emanato da un
organo della PA che invade l’ambito di competenza di un altro organo, di un’altra branca amministrativa, di
un’altra PA.
È diversa dall’incompetenza relativa, riferita al caso in cui un organo di una amministrazione invade l’ambito
di competenza di un altro organo della stessa amministrazione.
Quando viene violata la regola che ripartisce il potere fra le branche, l’atto è nullo (e quindi improduttivo di
effetti giuridici) quindi, la situazione giuridica del destinatario rimane intonsa, rimane una situazione di diritto
soggettivo → ergo, cosa deve fare il privato, titolare di un diritto soggettivo? Andare dal giudice ordinario per
farsi dichiarare la nullità dell’atto.

DIFFERENZE:

AZIONE DI ANNULLAMENTO (GA) (AZIONE DI) DICHIARAZIONE DI NULLITÀ (GO)


va esperita entro 60 giorni; è imprescrittibile o al massimo in 10 o 5 anni;
esperita solo da chi subisce una lesione diretta, attuale e esperita da qualunque soggetto dell’ordinamento
concreta dell’interesse materiale (anima sociologica (quisque de populo);
dell’interesse legittimo): la legitimatio ad processum;
la PA ha la possibilità di tornare sui suoi passi tramite se manca il potere attribuito dalla norma, non può esserci
l’autotutela; autotutela della PA;
dà luogo a sentenza costitutiva (effetto cassatorio, dà luogo ad una mera dichiarazione da parte del giudice.
ripristinatorio, conformativo).

III. carenza di potere in concreto → esempio 1: per iniziare un procedimento di esproprio, volto ad ablare il bene
di proprietà privata e trasferirlo in capo alla PA, questa deve emanare un provvedimento che si chiama
“dichiarazione di pubblica utilità”. Il primo atto con il quale la pubblica amministrazione decide di iniziare il
procedimento di espropriazione deve essere quello con il quale essa stabilisce che si intende espropriare un
bene di proprietà privata, perché prodromicamente ha statuito qual è la pubblica utilità di quella espropriazione
(per es. la costruzione di una scuola pubblica). C'è un discorso di pubblica utilità, quindi la dichiarazione di
pubblica utilità in un procedimento di espropriazione è un atto che si dice imprescindibile [presupposto
oggettivo necessario].
Esempio 2: quando deliberano gli organi collegiali devono rispettare 2 requisiti: quorum strutturale e
deliberativo. Il primo è il numero minimo dei componenti che devono essere presenti perché il collegio sia
regolarmente costituto (la metà + 1 degli aventi diritto); il secondo si riferisce al numero di persone che devono
votare perché si possa deliberare (maggioranza dei presenti) [requisito soggettivo imprescindibile].
Cosa determina la mancanza di questi requisiti soggettivi ed oggettivi? Sono dei presupposti senza i quali il
provvedimento non può essere emanato. E quindi l’atto eventualmente posto in essere da quale vizio è inficiato?
Secondo Giannini dal vizio di carenza di potere in concreto. La mancanza del presupposto determina il fatto che
è come se mancasse il potere attribuito dalla norma, anche se effettivamente c’è.
Anche questo atto è improduttivo di effetti giuridici.
Se pure in astratto il potere c’è, nel concreto è come se non ci fosse, perché il vizio che si determina è talmente grave
da determinare la nullità. Si va dal GO per far dichiarare l’improduttività degli effetti giuridici.
Dall’altra parte invece c’è la dottrina di Sandulli che invece rilevava un vizio di illegittimità perché comunque il potere
c’è. Adesso questa situazione è stata risolta in riferimento all’espropriazione perché questa materia è stata trasferita alla
giurisdizione esclusiva del GA
L’ART.21-septies è una norma che in una sola frase positivizza ciò che si intende per atto nullo, ma è un recepimento
di tanto lavoro dottrinale e giurisprudenziale dal 1889 ad oggi.
“È nullo il provvedimento che manca degli elementi essenziali dell’atto amministrativo, è viziato da difetto assoluto di
attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione dal giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti
dalla legge.”
Quali sono gli elementi essenziali dell’atto? Non c’è scritto, bisogna consultare la dottrina.
La l.241/90 positivizza la nullità di un atto, ma l’aspetto straordinario è che l’art.31 c.p.a. stabilisce che il privato può
andare dal GA perché egli dichiari la nullità dell’atto: se si prospetta la lesione di un interesse legittimo, a fronte di un
atto che manca degli elementi essenziali / adottato in violazione o elusione del giudicato / viziato dal difetto assoluto
di attribuzione, ma va a incidere sulla nozione di interesse legittimo preesistente all’atto, c’è questa nuova azione
esperibile davanti al GA.
LEZ.17.11.21
Sentenza 500 del 22 luglio 1999 della Corte di Cassazione.
La responsabilità extra-contrattuale della pubblica amministrazione
articolo 2043 del codice civile: “qualunque fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto, obbliga colui
che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Nei rapporti sinallagmatici in cui è parte la P. A., è applicabile indubbiamente l'articolo 1218: norma codicistica che
possiamo applicare anche all'interno della pubblica amministrazione quando questa si comporta iure privatorum, cioè
come se fosse un soggetto privato dell’ordinamento (non iure imperii ma iure gestionis).
Il problema che si è posto in dottrina: cosa succede se la P.A. extra-contratto, al di fuori del contratto, in una posizione
che la vede esercitare il suo potere autoritativo, cagioni un danno ingiusto, una lesione al privato rinvenibile come
ingiusto sacrificio?
L’ingiusto sacrificio comporta che il privato vede ingiustamente sacrificato il suo interesse al bene, l’anima sociologica
dell’interesse legittimo, ad opera di un provvedimento autoritativo.
Per tanti anni si è considerato che la posizione giuridica soggettiva qualificata dalla dottrina italiana come posizione di
interesse legittimo, non potesse ottenere una tutela risarcitoria. Perché? Per due motivi:
1- (natura processuale) “perché non c’era il giudice ad hoc”;
2- (natura sostanziale) si considerava l’art. 2043 del codice civile una norma “secondaria”;
➢ Il giudice amministrativo è stato creato nel 1889 con l’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato perché
potesse accordare una tutela costitutiva di annullamento al privato che rinvenisse un atto amministrativo affetto
da uno dei 3 vizi di legittimità (violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere) e che di conseguenza poteva
chiedere unicamente al giudice amministrativo di rimuovere gli effetti dell'atto amministrativo rinvenuto come
illegittimo. Gli effetti scaturenti dal giudicato amministrativo di annullamento sono: l’effetto cassatorio,
ripristinatorio e conformativo.
Quindi, a fronte della lesione di interessi legittimi il giudice amministrativo può garantire solo la tutela costitutiva di
annullamento, ergo gli interessi legittimi sono irrisarcibili. La posizione giuridica soggettiva che invece si prestava a
una tutela risarcitoria era il diritto soggettivo perché esso poteva essere conosciuto nella sua lesione: il giudice poteva
entrare all’interno del rapporto e verificare l’effettiva lesione, e a quel punto obbligare colui che aveva cagionato il
danno a risarcire l’altro soggetto. Quindi, l’unica posizione giuridica soggettiva che poteva essere risarcita da un punto
di vista processuale (cioè con un giudice (ordinario) competente ad accordare una tutela risarcitoria) era il diritto
soggettivo.
Gli interessi legittimi, secondo questa motivazione di ordine processuale, ottenevano una tutela completa soltanto a
seguito di un doppio giudizio: prima davanti al GA e poi davanti al GO; perché questo? Perché il titolare di un interesse
legittimo che si vedeva leso ingiustamente per esempio da un provvedimento amministrativo a suo dire illegittimo,
adiva il giudice amministrativo al quale poteva chiedere solo una sentenza costitutiva di annullamento, una volta che
si accordava l’annullamento con l’effetto costitutivo cassatorio, ripristinatorio o conformativo, si spazzavano via gli
effetti giuridici del provvedimento e il privato ritornava in una situazione di diritto soggettivo, e sulla base di questa
nuova situazione poteva rivolgersi al GO e ottenere, qualora la richiesta fosse fondata, anche il risarcimento dei danni.
In 20/25 anni la sua tutela era piena.
➢ Parliamo della ragione di ordine sostanziale che stava alla base del dogma della irrisarcibilità dell’interesse
legittimo: si considerava il disposto di cui all'articolo 2043 del codice civile, una norma secondaria, in quanto non
stabilisce quale istituto direttamente viene richiamato ai fini dell’accordare una tutela risarcitoria, ma è una norma
ampia, le cui fattispecie sono richiamate e sono disciplinate in altri articoli del codice.
Per tanto tempo, l'articolo 2043 stabiliva che ci dovesse essere, per aversi responsabilità aquiliana, sia la violazione di
un diritto soggettivo tutelato da un'altra norma primaria e poi ci dovesse essere una condotta, un comportamento
non giustificato da una norma e quindi non iure che era un comportamento illecito che causasse un danno ingiusto.
Dal tenore letterale dell'articolo 2043, oggetto della tutela risarcitoria era esclusivamente il diritto soggettivo.
Si consideravano risarcibili solo i diritti soggettivi disciplinati nel codice civile in norme primarie.
Il discorso cambia all’indomani della sentenza 500/99, che ha infranto il dogma della irrisarcibilità dei danni per lesioni
di interessi legittimi. Addirittura, la giurisprudenza non considerava risarcibile neanche un danno da ritardo, perché
diceva “ritardo perché”? Si apre un nuovo procedimento, un nuovo iter procedimentale, una nuova istruttoria, possono
essere cambiate le situazioni, non c’è la stessa fattispecie che viene posta in essere uguale a quella di prima. Quindi
anche il danno da ritardo non si considerava risarcibile. Su questo si fondava la giurisprudenza amministrativa, diceva:
l’interesse legittimo può ottenere un risarcimento, e nella specie SOLO quello di tipo oppositivo (pretensivo no, perché
nulla avevo prima e nulla ho adesso), se il privato agisce su due fronti: prima il giudizio amministrativo e poi il giudizio
ordinario.
Il discorso cambia nel 1999, questa sentenza dà una diversa interpretazione del 2043, considerandola una norma
primaria: quando si prospetta una perdita patrimoniale subita, quindi un nocumento patrimoniale patito,
qualora questo danno patrimoniale sia considerato ingiusto (contra ius), esso risarcibile a prescindere dalla
qualificazione giuridica soggettiva vantata dall’istante (diritto soggettivo, interesse legittimo, interesse diffuso,
interesse collettivo). [TEORIA DELLA PROSPETTAZIONE DEL DANNO INGIUSTO]
Che accorda il diritto ad essere risarciti? Il GIUDICE ORDINARIO. Se il privato ha prospettato la lesione patrimoniale
ingiustamente patita, il GO verifica se c’è un danno e se il danno è ingiusto, senza vedere cosa c’è alla base di quella
ingiustizia di danno (se un diritto soggettivo o un interesse legittimo): quindi, anche se questa perdita ingiusta patita
derivi da un provvedimento della PA, sarà sempre il giudice ordinario a valutare l’attività della PA causativa dell’evento
ingiusto, come uno degli elementi costitutivi del 2043 c.c.
La sentenza dice: “queste Sezioni Unite ritengono oggi che, alla stregua della nuova lettura dell’articolo 2043 c.c., va
senz’altro confermato l’indirizzo secondo il quale non dà loco a questione di giurisdizione, ma attiene al merito la
contestazione circa la risarcibilità degli interessi legittimi e quindi, la nuova lettura dell’articolo 2043, impone di
fornire alcune precisazioni circa i criteri ai quali deve attenersi il giudice di merito cioè il giudice ordinario: qualora
sia stata dedotta davanti al GO una domanda risarcitoria ex art.2043 nei confronti della PA per illegittimo esercizio
della funzione pubblica, il GO, onde stabilire se la fattispecie concreta sia o meno riconducibile nello schema
normativo delineato dall’articolo 2043 secondo questa nuova versione, dovrà procedere in ordine successivo a
svolgere queste indagini” e le impone come schema:
a) accertare la sussistenza dell’evento dannoso;
b) stabilire se l’accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua INCIDENZA su
un interesse rilevante per l’ordinamento: può essere indifferentemente un diritto soggettivo o un interesse
legittimo.
Il GO guarda l’interesse al bene che muove l’istante, interesse al bene che può prendere qualsiasi forma (tranne
i meri interessi di fatto → quelli che non hanno un substrato giuridico, per esempio interesse
all’innamoramento).
[L'INTERESSE DIFFUSO è un interesse adespota, cioè senza personalità, perché ha alla base la tutela di un valore
costituzionalmente protetto, che ha un substrato costituzionale ma è un interesse grandemente tutelabile e rientra nella
nozione “altro interesse” che dice la Cassazione, così come ci rientra l’interesse collettivo.]
c) accertare, sotto il profilo causale (nesso di causalità), se l’evento dannoso sia riconducibile ad una
condotta positiva od omissiva della PA.
La PA può agire sia attraverso un provvedimento amministrativo o anche attraverso il mancato esercizio del
potere (provvedimento espresso/silenzio).
Ci deve essere un nesso di causalità tra l’evento dannoso e la (mancata) azione: deve derivare un danno alla
situazione giuridica soggettiva del privato, qualunque essa sia;
d) stabilire se l’evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della PA. La colpa e il dolo costituiscono
componente essenziale della fattispecie dell’illecito aquiliano ex art.2043.
Nel caso in cui l’autore del danno sia la PA, il dolo e la colpa come si possono qualificare? Non come
imprudenza, imperizia e negligenza in quanto queste si applicano alla persona fisica (e la PA è una persona
giuridica), quindi è la Corte di Cassazione a dare questa diversa qualificazione:
“non sarà invocabile, ai fini dell'accertamento della colpa, il principio secondo il quale la colpa della struttura
pubblica sarebbe in re ipsa, nel caso di esecuzione volontaria di un atto amministrativo illegittimo, poiché tale
principio […] non è conciliabile con la più ampia lettura della su indicata disposizione svincolata dalla lesione
di un diritto soggettivo” → cambia l’interpretazione da dare al 2043 quindi cambia anche il concetto di
colpa nella struttura pubblica.
“L'imputazione, quindi, non potrà avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione
amministrativa, ma il giudice ordinario dovrà svolgere una più penetrante indagine non limitata al solo
accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa
anche alla valutazione della colpa ma non del funzionario agente, secondo i noti parametri, ma della PA
intesa come apparato che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo,
lesivo dell’interesse del danneggiato, sia avvenuta violando le regole di IMPARZIALITA’, CORRETTEZZA
E BUONA AMMINISTRAZIONE alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il
GO può valutare in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”.
Quando si considerava l’art.2043 come norma di carattere secondario, si guardava, qualora si considerasse un soggetto
pubblico, al mero dato obiettivo dell’illegittimità dell’azione (vizi di legittimità: violazione di legge, incompetenza ed
eccesso di potere), perché era l’unica conoscibile direttamente dal giudice amministrativo → due gradi di giudizio.
Ora invece, con la nuova interpretazione, il dolo o la colpa riferiti alla PA vanno guardati [non sotto il profilo del
soggetto agente, cioè di colui che agisce in nome e per conto della PA, perché questo si può fare nei rapporti inter
privati, quando si ha che fare con delle figure fisiche] sotto il profilo della struttura organizzativa che compone il
pubblico potere e bisogna vedere se sono stati violati i principi di imparzialità, correttezza, buona amministrazione.
______________________________________________________________________________________________
Il giudice ordinario, con questa sentenza, rivoluziona e fa cadere l’orientamento granitico che considerava irrisarcibili
le situazioni giuridiche soggettive diverse dai diritti soggettivi, apre le porte ad una risarcibilità ampia che coinvolge
tutte le situazioni rilevanti per l’ordinamento.
La sentenza 500/99 parla di un risarcimento esteso a tutti gli interessi giuridicamente rilevanti, secondo voi è la stessa
cosa dire una situazione giuridicamente tutelata? No.
L’articolo 22 è una norma in materia d’accesso, completamente riscritta dal legislatore del 2005 che è intervenuto
scrivendo ex novo gli articoli 22, 23 (in parte), 24 (in parte) e 25 (quasi completamente) perché nella sua formulazione
originaria si parlava di “di situazioni giuridicamente rilevanti”; la legge nella sua formulazione ODIERNA parla di
“situazione giuridicamente tutelata” → c’è un cambiamento!
Il termine “giuridicamente rilevante” è molto più ampio rispetto a “giuridicamente tutelato”: oggi le uniche situazioni
che ricevono tutela dall’ordinamento sono l’interesse legittimo e il diritto soggettivo, che hanno una tutela risarcitoria
o costitutiva d’annullamento. Gli interessi collettivi non hanno una tutela ad hoc.
Gli interessi procedimentali sono interessi rilevanti giuridicamente, che vanta chi si pone in relazione con una PA,
all’interno di un’attività procedimentale, a che il pubblico potere rispetti le regole formali e procedimentali. Questi
interessi sono diventati straordinariamente importanti: l’interesse procedimentale è la seconda anima dell’interesse
legittimo, che nulla dice del contenuto ma guarda al rispetto delle regole formali e procedimentali. Sono diventati
importanti perché c’è stata la legge delega n.15/1997 – Bassanini, la quale aveva stabilito l’obbligo da parte della PA
di corrispondere un indennizzo automatico e forfettario in caso che soggetti richiedenti un determinato
provvedimento entrassero in relazione [CONTATTO QUALIFICATO→affidamento nei confronti della PA] con questo
pubblico potere che non rispettava obblighi formali e procedimentali posti dalla legge 241/90.
La previsione di questo indennizzo ha fatto sì che l’interesse procedimentale potesse essere annoverato fra gli interessi
tutelati e non più (solo) rilevanti.
Quindi è stato prospettato un tertium genus di situazione giuridica soggettiva giuridicamente tutelata. E perché
nell’articolo 22 della legge 241/90, da una nozione ampia di interesse giuridicamente rilevante, si passa ad una
situazione giuridicamente tutelata? Perché questa norma ha coniato una serie di pronunce atte a dare una qualificazione
a questa terminologia di situazione giuridicamente rilevante, tanto è vero che tante sentenze precedentemente avevano
escluso la possibilità di accedere a documenti amministrativi da parte, per esempio, di soggetti che vantassero un
interesse amministrativamente protetto MA NON tutelato.
Il legislatore ha recepito questo orientamento giurisprudenziale e si è passati da “giuridicamente rilevante” a “tutelata”,
termine che comprende: interesse legittimo, diritto soggettivo e interesse procedimentale.
Questa sentenza è importante non solo perché ha infranto il muro della non risarcibilità dei danni per lesioni d’interesse
legittimo, quindi, ha consentito il risarcimento a un qualsiasi soggetto dell’ordinamento che prospetta di aver subito
nocumento patrimoniale anche ad opera di un provvedimento ad opera della PA, non rilevando in prima battuta la
qualificazione della propria situazione soggettiva.
Questa indagine la fa il giudice ordinario che rimane sì nel suo campo, ma è chiamato a operare un controllo anche se
uno degli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano sia un provvedimento amministrativo.
Con le argomentazioni successive, la sentenza 500/1999 infrange anche un'altra regola: la regola pregiudiziale
amministrativa di annullamento all'interno dell'azione risarcitoria.
Cosa significa ciò? Se precedentemente a questa sentenza il privato per ottenere una completa tutela doveva adire due
giudizi (uno presso il giudice amministrativo e l'altro presso il giudice ordinario), ora non è più così perché dice la
sentenza: “rispetto al giudizio che può svolgersi davanti al giudice ordinario, non sembra più ravvisabile una
necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento: questa è stata infatti in passato costantemente affermata per
l'evidente ragione che solo in tal modo si perveniva all'emersione del diritto soggettivo e quindi all'accesso della tutela
risarcitoria ex articolo 2043, riservata solo ai diritti soggettivi, e non può quindi trovare conferma alla stregua del
nuovo orientamento che svincola la responsabilità aquiliana dal necessario riferimento alla lesione di un diritto
soggettivo. L’autonomia tra le due giurisdizioni risulta ancora più netta ove si considera il diverso ambito del giudizio
e, in particolare, l'applicazione da parte del giudice ordinario, ai fini dell'articolo 2043, di un criterio di limitazione
della responsabilità non correlata più all'accertamento della illegittimità del provvedimento, bensì alla più complessa
valutazione estesa all'accertamento della colpa dell'azione amministrativa, denunciata come danno ingiusto qualora
l'illegittimità dell'azione amministrativa a differenza del passato non sia stata previamente accertata e dichiarata dal
giudice amministrativo. Il giudice ordinario ben potrà svolgere tale accertamento ai fini di ritenere sussistente o meno
l'illecito perché l'illegittimità dell’azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di
cui all'articolo 2043.”
Cade la regola della pregiudiziale perché il giudice ordinario guarda lui stesso l'illegittimità e la può guardare perché è
uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'articolo 2043.
Tuttavia questa sentenza è durata soltanto un anno, perché esattamente un anno dopo (il 21 luglio 2000) con la legge
numero 205 è stato modificato il processo amministrativo e al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva
è stato attribuito il potere di conoscere anche della tutela risarcitoria per la lesione dell’interesse legittimo patrimoniale
consequenziale. Il legislatore ha voluto intendere che il giudice amministrativo, nell'ambito della sua giurisdizione
generale di legittimità, giudica ed emana sempre una sentenza costitutiva di annullamento e, in via consequenziale, può
conoscere anche del risarcimento. I termini “anche” e “consequenziale” sono sintomatici del fatto che l'azione
risarcitoria si lega necessariamente con la preventiva azione di annullamento davanti al giudice amministrativo.
Arrivando all'articolo 7 del codice del processo amministrativo, è stabilito che: “sono devolute alla giurisdizione
amministrativa le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate
dalla legge, di diritti soggettivi concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo riguardanti
provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di tale potere, posti in
essere da pubbliche amministrazioni.”
Il comma 4 altresì precisa che “sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le
controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al
risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se
introdotte in via autonoma.”
Quindi oggi chi è, in definitiva, il giudice che conosce del risarcimento dei danni per lesione di interesse legittimo? IL
GIUDICE AMMINISTRATIVO.
Tuttavia, l'articolo 7 deve essere ricollegato alla azione di condanna cioè all’art.30, il quale stabilisce che: “l'azione di
condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui
al presente articolo, anche in via autonoma.”
Quindi, si ribatte sul fatto che il privato vada dal giudice amministrativo in tempi più lunghi perché, se è vero che deve
essere legata alla preventiva azione di annullamento, bisogna chiedere al giudice amministrativo di conoscere
dell'azione di risarcimento insieme a quella di annullamento entro soli 60 giorni. Perché in soli 60 giorni si è chiamati
ad impugnare l'atto e anche a quantificare il danno subito. Basti pensare che il termine per andare dal giudice ordinario
per un'azione risarcitoria è in media 5 anni.
Ma vediamo come chiude il 2co: “nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il
comportamento complessivo delle parti, e comunque esclude il risarcimento del danno per quei danni che si sarebbero
potuti evitare usando l’ordinaria diligenza anche attraverso gli strumenti di tutela previsti.”
Cosa vuol dire? Che il giudice non accorda il risarcimento dei danni se io lo faccio in via autonoma, perché in quel
caso non sono stati contenuti i danni che si potevano contenere se fosse stata esperita prima l’azione di annullamento e
poi l’azione cautelare (sospensione), quindi il giudice esclude il risarcimento perché non sono stati utilizzati gli
strumenti di tutela previsti dall’ordinamento.
DOMANDA SUL RISARCIMENTO DEI DANNI:
-definire storicamente perché erano considerati irrisarcibili gli interessi legittimi;
-cambiamento di impostazione della sentenza;
LEZ.18/11/2021
La scorsa volta avevamo chiarito l’ultimo stato d’invalidità del provvedimento amministrativo, ovvero la nullità o
inesistenza dell’atto, istituto che si pone al termine di un importante processo della giurisprudenza del G.O.
Nel corso degli anni il G.O. ha cercato di riappropriarsi di un ambito di giurisdizione importante, attraverso la creazione
del vizio di carenza di potere. Queste sentenze molto efficaci della Corte di Cassazione alla fine del 1949 e poi
all’inizio degli anni 2000 hanno inventato letteralmente il vizio di carenza di potere per far riappropriare il G.O. di
un ambito di giurisdizione, qualora ci fosse una controversia tra una PA e un privato.
Attraverso questo vizio di carenza di potere si è stabilito che, quando si contestava ab origine l’attribuzione del potere
in capo alla PA procedente, in quel caso rilevava il vizio di difetto di attribuzione, carenza di potere, incompetenza
assoluta che stabiliva che, non avendo la PA il potere da parte della norma, l’eventuale atto posto in essere sarebbe
stato non produttivo di effetti giuridici.
Il G.O. poteva emanare una sentenza dichiarativa di accertamento della nullità che era una sentenza di grande
efficacia. Si diceva: quando c’è esercizio di potere esercitato male si va dal G.A., ma quando si contesta alla radice la
mancata attribuzione del potere, il diritto soggettivo del privato rimane tale, perché l’atto eventualmente posto in
essere non degrada questa situazione, addirittura le sentenze parlavano di DIRITTI DURI.
Se faccio un’istanza che non viene accolta da un’autorità alla quale si contesta il conferimento del potere ab origine, da
quale giudice vado, qual è la situazione che risulta incisa? Nulla avevo prima e nulla ho dopo. Prima del c.p.a. questa
situazione restava spuria, sfornita di tutela a livello normativo, ma si sono avute importanti sentenze recepite
dall’articolo 21-septies, che pian piano hanno introdotto nell’ordinamento amministrativo una nuova azione: l’azione
d’accertamento ad opera del G.A. dello stato di nullità dell’atto. È stata una conquista straordinaria.
Da giudice che poteva fornire solo una sentenza costitutiva d’annullamento, siamo passati nel 2000 ad un giudice che
può fornire anche una tutela risarcitoria per i soli interessi legittimi, per poi passare ad un giudice a cui può essere
inoltrata una situazione dichiarativa d’accertamento, tutto questo grazie alla giurisprudenza.
Il regime ordinario dell’invalidità tipica dell’atto amministrativo è l’annullabilità, ma come ipotesi eccezionale c’è
l’articolo 21-septies: “si considera atto nullo non solo il provvedimento amministrativo che risulta viziato da difetto
assoluto d’attribuzione ma anche in relazione all’atto che mancasse degli elementi essenziali dell’atto.” Il legislatore
però, volutamente, non ha specificato quali sono gli elementi essenziali.
La giurisprudenza ha ampliato l’ipotesi di nullità con la “violazione o elusione del giudicato”.
Il GIUDICATO AMMINISTRATIVO IN SEDE DI OTTEMPERANZA si ha quando un privato ottiene una sentenza a
lui favorevole che però determina un obbligo di esecuzione da parte della PA (successivo al giudicato) e la PA rimane
inerte o non si adegua pedissequamente a ciò che il giudicato stabilisce (violazione / elusione). In tal caso, viene
nominato un commissario ad acta dal giudice, che ripete ciò che avrebbe dovuto fare la PA. Quindi, il provvedimento
posto in violazione o elusione del giudicato è un atto nullo.
I casi di nullità dell’atto amministrativo sono quattro:
- difetto assoluto d’attribuzione;
- mancanza degli elementi essenziali dell’atto;
- violazione e/o elusione del giudicato;
- altri casi previsti dalla legge.
Articolo 31 co.4 c.p.a.; la domanda è: sono inciso nella mia situazione giuridica da un provvedimento, a mio avviso
nullo per uno dei quattro motivi, cosa faccio?
È possibile che ci sia un provvedimento in cui ricorra una di queste quattro ipotesi, che incida sulla preesistente
situazione d’interesse legittimo che giustifica la mia azione rivolta al G.A.? Sì, è il risultato di una grande, importante
giurisprudenza creativa del G.A. in particolar modo del Consiglio di Stato; hanno ravvisato la possibilità che un privato,
titolare di una situazione giuridica d’interesse legittimo preesistente all’esercizio di un potere, potesse contestare il
provvedimento adottato dalla PA, ravvisandone uno dei motivi di nullità previsti dall’articolo 21-septies.
Essendo titolare di una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo preesistente all’atto di cui si contestasse
la nullità, era giusto inoltrare tale domanda al G.A. Scoca pone come esempio il caso di un proprietario di una struttura
alberghiera che ottiene il provvedimento per la costruzione di un complesso turistico alberghiero da una
amministrazione e quindi si pone nei confronti della PA istante nella situazione giuridica d’interesse legittimo; egli
contesta, una volta acquisito questo provvedimento autorizzatorio che permette la costruzione su un territorio, un altro
provvedimento della stessa autorità amministrativa con il quale rilascia l’autorizzazione all’installazione di una
discarica ambientale nelle vicinanze della struttura alberghiera, contestando una delle ipotesi dell’articolo 21-septies.
Il suo è un momento volto a far sì che il G.A. accerti la nullità di quel provvedimento di autorizzazione all’apposizione
di una discarica ambientale vicino alla struttura alberghiera, ma il provvedimento del G.A. sì, lede la sua posizione
giuridica soggettiva di interesse legittimo, ma la cui finalità di accertamento lo soddisfa.
Se la preesistente situazione all’esercizio di un potere affetto da uno dei vizi di nullità è di interesse legittimo, ciò
giustifica l’istante ad adire il G.A. il quale, a seguito di un lungo percorso di creazione giurisprudenziale può accertare
la nullità. E come la accerta?
La domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge (4) si propone entro il termine di decadenza di
180 giorni al G.A.
Se invece si va dal G.O. sono i termini prescrizionali di 5,10 anni.

SEMINARIO DEL 19/11/2021


L’IMPIEGO DELLA TECNOLOGIA BLOCKCHAIN AL SERVIZIO DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI
La blockchain è una tecnologia emergente che si inserisce nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni mediante un algoritmo
al fine di svolgere compiti che mirano a garantire la neutralità e l’efficienza delle azioni e la tutela dei dati personali. È necessario
effettuare una serie di considerazioni sull'inserimento della blockchain all’interno del procedimento amministrativo, per la
valorizzazione dei beni culturali e per l'implementazione di queste tecnologie. La blockchain è una catena di blocchi che assicura
una tracciabilità esatta diffondendosi prima a livello normativo internazionale e poi nel settore nazionale, andando incontro a
molteplici riferimenti giurisprudenziali che inizialmente si sono mostrati restrittivi o escludenti e poi più aperti verso questa novità.
A fronte di una conoscenza completa del procedimento amministrativo questa tecnologia emergente si inserisce nell’operato delle
Pubbliche Amministrazioni, in un primo momento nelle procedure seriali o standardizzate e poi nell’attività amministrativa
discrezionale. Bisogna contemperare le esigenze di trasparenza dell'operato delle Pubbliche Amministrazioni con la protezione
dei dati personali: cosa succede se l’utilizzo di questa tecnologia intinge sul dato personale sensibile e sensibilissimo?
Innanzitutto, bisogna far riferimento alle parole chiave: immodificabilità, tracciabilità delle operazioni e delle informazioni
inserite nella catena di blocchi, validazione diffusa ed interconnessione.
ORIGINI: la blockchain è una piattaforma che nasce nel 2008 con quella che è la luce di Bitcoin come strumento di lotta al
double spending (doppia spesa) per evitare che una forma di danaro destinata ad un acquisto online potesse essere utilizzata dal
medesimo soggetto anche per un altro acquisto. Quindi, se non ci fosse alla base una tecnologia così protetta, il rischio della
doppia spendita del danaro sussisterebbe concretamente; perciò, nasce con il genesis block (blocco iniziale al quale si aggiungono
ulteriori blocchi) nell’ambito di quello che è l’annuncio di Bitcoin intitolato “Bitcoin: A Peer to Peer Electronic Cash System”:
sistema basato sulla crittografia delle informazioni che vengono inserite nella piattaforma digitale. L’espressione “a pear to pear”
è fondamentale quando ci si approccia alla tecnologia blockchain che si basa su un network paritetico in cui tutti i partecipanti
alla catena interconnessa sono posti nella condizione di conoscere tutte le informazioni che vengono inserite sulla piattaforma
stessa condivisa e di controllare l’operato altrui. I peer sono i nodi, gli utenti, o i cittadini posti sullo stesso piano svolgendo il
doppio compito di essere chiamati sia ad inserire le informazioni nel blocco che a controllare la validità delle stesse, rendendole
accessibili, permettendo un miglior funzionamento delle PA e garantendo che il loro operato sia neutrale e che aderisca a quelli
che sono i principi fondamentali dell’ambito amministrativo per offrire efficienza e trasparenza. Si tratta di uno strumento di lotta
che agisce contro l’andamento scorretto della PA.
FUNZIONAMENTO: Come si crea la catena? Come possiamo ritenere che il blocco 1 sia immodificabile e connesso al bocco
2?
Si ricorre alla funzione di hash che consente di legare il blocco precedente al blocco successivo grazie all’identificazione mediante
una stringa alfa-numerica che differenzia i vari blocchi e, soprattutto, nel momento in cui le informazioni che sono contenute nel
blocco vengono caricate sulla piattaforma e ai singoli blocchi viene assegnata una numerazione e, nel caso in cui dovesse essere
apportata una modifica al blocco, non potrà più avere la stringa iniziale perché ogni cambiamento viene segnalato. Tra l’altro
l’hash del blocco successivo non solo è caratterizzato dalla stringa alfa-numerica che riguarda il suo blocco ma anche dal rinvio
all’hash del blocco che lo precede per creare un legame, una interconnessione fra i due. Quindi, il valore numerico del blocco che
lo precede deve essere indicato in quella che è una sorta di impronta digitale del blocco successivo. Ogni blocco è caratterizzato
dalla marcatura temporale, la quale indica il momento in cui l’attività è stata svolta consentendo di evitare qualsiasi tipo di
alterazione abusiva del blocco e, di conseguenza, della catena che è connessa a quest’ultimo.
I nuovi blocchi compaiono non solo tramite il loro stesso inserimento, ma anche attraverso la validazione (proof of work) che
consente di verificare le informazioni che vengono inserite nella catena interconnessa. Dalla validazione discendono le differenze
fra i 3 tipi di blockchain: pubbliche o permissionless; private o permissioned; ibride.
1. BLOCKCHAIN PUBBLICA O PERMISSIONLESS
Nella blockchain pubblica tutti indifferentemente possono controllare la catena e avervi accesso, verificando come i blocchi
sono stati in un momento x, come sono stati modificati in un momento y e spesso si può trattare di una modifica indebita e si
scorge un tentativo di cattiva amministrazione. Inoltre, si è in presenza di una validazione diffusa, potendo tutti validare i blocchi,
ma alimentando una situazione di ingestibilità delle stesse informazioni.
Esempio: se volessimo calare tale disciplina nella materia dei contratti pubblici, come nel caso di una procedura d'appalto, tutti
potrebbero avere accesso alle informazioni relative all'offerta che viene fatta: seppur possa essere positivo in merito alla garanzia
della trasparenza, ci sono dei limiti all’accesso alle informazioni in generale che non possono essere superati e che a vario titolo
devono essere applicati anche alla tecnologia blockchain, come il segreto industriale o le informazioni che sono relative ad
un'offerta che viene fatta per una procedura di gara e che porrebbe i partecipanti alla gara stessa nella condizione di veder rese
note le proprie offerte prima che venga scelta l’offerta economicamente più vantaggiosa e più idonea a quella procedura. Perciò,
seppur sia assolutamente meritevole l'uso di una blockchain pubblica per determinati aspetti della vita pubblica, il modello che si
applica meglio all'attività amministrativa in generale è quello della blockchain privata ed ibrida.
2. BLOCKCHAIN IBRIDA
La blockchain ibrida ha il merito di consentire a tutti la visibilità e la trasparenza delle informazioni, ma la validazione è
concessa solo a specifici nodi che sono stati preselezionati per verificare l’operato della PA, lo stato di conservazione di
determinati beni culturali, archiviatici e librari. L’uso della blockchain pubblica nell’ambito delle PA creerebbe una serie di
complicazioni che invece sono completamente inesistenti se si utilizza la blockchain ibrida.
3. BLOCKCHAIN PRIVATA O PERMISSIONED
La blockchain privata, a differenza di quella ibrida, prevede la validazione e l’accesso interdetto ai blocchi solo a determinati
soggetti preselezionati.
Nel diritto di accesso documentale si può parlare realmente di interessati in vista della presenza di un interesse diretto, attuale e
concreto in capo al titolare di una situazione giuridica soggettiva che legittima la richiesta di presa visione o di estrazione di una
copia degli atti amministrativi. Invece, nell’ambito dell’accesso civico generalizzato, chiunque può accedere ai dati, alle
informazioni e ai documenti delle PA. Quindi, è vero che possono essere tutti considerati interessati ma in realtà l’interessato è
solo colui che è descritto dall’art. 22 della legge 241/1990, ossia il soggetto che è titolare dell’interesse diretto, attuale e concreto
che differisce da quello che è l'interesse alla conoscibilità dell’azione amministrativa che invece è alla base dell’istanza d'accesso
civico generalizzato.
La blockchain è un archivio distribuito e decentralizzato che rientra nelle distribuited ledger technology (tecnologia di contabilità
distribuita) perché non c'è nessuno che è posto a signoria della catena in quanto sono tutti pari e si scambiano le informazioni, le
controllano e le validano, distinguendo i vari blocchi tra di loro e da eventuali modifiche future. L’unica cosa che può essere fatta
è la scelta di una blockchain meno aperta e più selettiva (ibrida o privata), evitando di ostacolare la validazione ed assicurando la
stabilità dei blocchi inseriti.
In sintesi, nella blockchain ibrida l’accesso è esteso a tutti, in quella privata è limitato a nodi preselezionati, ad utenti specifici.
Tuttavia, in entrambe lo strumento della validazione, seppur diffusa, è limitato ai peer che partecipano completamente alla catena
e alla sua formazione.
Grazie alla blockchain si affronta il passaggio dall’analogico, ossia il cartaceo alla digitalizzazione, in seguito alla transizione
digitale.
Esempio: nella digital library viene conservato un bene e reso noto il suo stato al fine di assicurare la massima trasparenza dello
stesso grazie alla trasmissione di informazioni utili. Se c’è stato un trasferimento o un prestito di un volume ad un’altra biblioteca
o se lo stesso è stato utilizzato nell’ambito delle mostre, le informazioni relative allo scambio sono inserite nel registro distribuito
che diviene disponibile creando delle relazioni tra i vari musei. Ci può essere un confronto tra le varie strutture museali in merito
allo stato di conservazione del bene, rendendolo poi noto. Il bene, nel momento in cui lascia la biblioteca y in uno stato di
conservazione che viene riconosciuto come ottimo, deve conservare tale situazione anche nella nuova struttura. Come si può
provvedere a cambiare questa informazione da ottimo a pessimo se non dimostrando che c'è stata una manomissione del servizio?
Il museo x è a conoscenza del fatto che il bene in suo possesso era stato trasmesso al museo y in un determinato stato di
conservazione. Se su quest’ultimo si è cercato di effettuare una manomissione, lo strumento della blockchain attraverso
l'immodificabilità del dato, della validazione diffusa e della tracciabilità delle informazioni (perché si sa che proviene da x e che
è andato verso y) consente di tracciare il bene e le eventuali modifiche rispetto a quando il bene è stato inserito nel catalogo o
registro.
La blockchain è una catena di blocchi interconnessi, ma il suo studio è la connessione con gli altri saperi: il sapere giuridico
deve necessariamente confrontarsi ed integrarsi con quello informatico perché ciò che l'informatico riesce a creare deve
inevitabilmente mettersi a paragone con le perplessità in punto di malfunzionamento della tecnologia e alla necessità di
conoscibilità dell’algoritmo che sono problemi che si può porre il giurista fuori dai confini cui poteva essere relegato un tempo.
Il percorso di transizione digitale nel nostro Paese, secondo il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, è fondamentale. Il codice
dell’amministrazione digitale è del 2005 ma ad oggi la digitalizzazione della pubblica amministrazione non è ancora
completamente avvenuta e, facendo rifermento all’art. 35 del d. lg. 33/2013 si fa leva sugli obblighi di pubblicazione delle
informazioni relative ai procedimenti amministrativi. Il portale amministrazione trasparente opera tramite Internet e, riducendo i
costi, ha consentito l’introduzione delle varie forme di accesso. Ci sono programmi che vengono utilizzati dalle Pubbliche
Amministrazioni, come quelli regionali che aggiornano il portale, basati sul fatto che determinati dati sono considerati come
necessari e altri come facoltativi. Gli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 35 non sono da parte delle Pubbliche Amministrazioni
resi noti a tutti, quindi in dispregio alla normativa chiara di cui allo stesso articolo che specifica che deve essere indicato l’ufficio
responsabile dell'istruttoria, il nome del responsabile del procedimento e, per i procedimenti ad istanza di parte, la modulistica
necessaria. Noi siamo lontani dall'inserimento di tecnologie come questa nelle Pubbliche Amministrazioni, se non in determinati
settori essendo il percorso di transizione digitale solo all'inizio seppur il c. a. d. sia del 2005 e tanti altri decreti che hanno fatto
riferimento all’uso concreto di Internet non siano mai stati letti nella maniera corretta dalle PA. L'assenza degli obblighi di
pubblicazione fa scattare la possibilità di presentare istanze di accesso civico. La blockchain non deve essere unicamente
considerata come l’abbandono dell’analogico a favore del digitale in quanto l’uso deve essere più stringente. La marcatura
temporale, il time stamp, rende noto il momento in cui l’informazione è stata inserita nella catena e attraverso la funzione di hash
contraddistingue con una stringa alfanumerica l'informazione inserita e l’hash successivo reca non solo la propria stringa
alfanumerica ma anche quella del blocco che precede creando la connessione tra i blocchi. Adesso bisogna concentrarsi
sull’evoluzione normativa in materia di registro distribuito, sull’impatto che l’intelligenza artificiale in generale ha avuto sulla
normativa europea ed internazionale. Innanzitutto, si fa riferimento al 2017, quando il servizio di ricerca del Parlamento Europeo
ritenne opportuno incrementare le tecnologie di registro distribuito nelle PA, in cui l'uso della blockchain può riguardare la tenuta
di documenti amministrativi, la sostituzione dei registri catastali, di licenze commerciali o di certificati di nascita: si presenta come
uno strumento utile da cui si parte verso l'implementazione di tecnologie emergenti nelle PA, proprio con riferimento alla
possibilità di creare fiducia attraverso la disintermediazione verso cui si orienta il Parlamento Europeo con una risoluzione del 3
ottobre 2018 proprio sull'uso delle tecnologie di registro distribuito e sulla blockchain.
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Il Parlamento Europeo, con una risoluzione del 3 ottobre 2018, si pronuncia sull’uso delle tecnologie di registro distribuito e su
blockchain: sancisce che bisogna migliorare l’efficienza dei costi delle transazioni, eliminando gli intermediari e i costi di
intermediazione, che bisogna aumentare la trasparenza delle transazioni ridisegnando le catene del valore e migliorando
l’efficienza organizzativa attraverso un decentramento affidabile, in modo da democraticizzare i dati , rafforzare la fiducia e la
trasparenza fornendo un percorso sicuro e efficacie per l’esecuzione delle transazioni. Creare fiducia attraverso la
disintermediazione significa non creare fiducia nei meccanismi che governano l’esercizio dell’attività amministrativa, ma
attraverso un rapporto paritetico, attraverso l’implementazione delle tecnologie emergenti. Democraticizzare i dati significa
rendere più accessibili le informazioni, avvicinarsi di più ai cittadini. Il potere amministrativo è finalizzato al perseguimento del
pubblico interesse, e al potere della PA vediamo contrapposto l’interesse legittimo pretensivo o oppositivo del privato. Questi due
interessi non necessitano che il prevalere sia sempre del pubblico interesse, occorre operare un bilanciamento di interessi in gioco.
Se i dati relativi ad un procedimento amministrativo sono accessibili e se un rapporto si basa su un rapporto paritetico, su una
piattaforma paritetica, c’è fiducia verso l’altro, c’è fiducia sul fatto che è possibile prendere la visione dei dati e ciò garantisce la
trasparenza dell’attività amministrativa. Il percorso è orientato al perseguimento del pubblico interesse, ma è sicuro perché le
informazioni inserite nel registro distribuito sono immodificabili. In questa risoluzione, il parlamento Europeo invita ad eliminare
qualsiasi ostacolo alla implementazione di queste tecnologie distribuite, si deve evitare di guardarle con sospetto. Nel percorso di
transizione digitale, che vede l’implementazione delle dlt e di blockchain, è necessario un quadro favorevole all’innovazione che
consenta e incoraggi la certezza del diritto, che rispetti il principio della neutralità tecnologica, aumentando il valore sociale della
tecnologia e riducendo il divario digitale. Siamo nel 2018, queste indicazioni del parlamento Europeo sono prodromiche alla
normativa nazionale che ha accolto le tecnologie basate sul registro distribuito art 8 ter del dl n.135/2018. L’UE istituisce la
blockchain observatory end forum nel 2018 che ha la funzione di mappare le principali iniziative esistenti sulla
blockchain cercando di garantirne un approccio uniforme e comune a livello Europeo. Come la blockchain viene applicata
all’attività amministrativa in generale? Uno dei progetti relativi all’ blockchian è stato quello di certificazione dei diritti di
autore. Se facciamo una ricerca, c’è un sito blockchain 4innovation che riporta tutte le applicazioni concrete della tecnologia
blockchain. L’ultimo tassello prodromico alla normativa nazionale è l’istituzione dell’european blockchain partnership nel 2018
per consolidare il ruolo dell’Europa nello sviluppo e diffusione di questa tecnologia. Il quadro normativo europeo ha condizionato
l’uso della tecnologia blockchain nelle PA e nella normativa nazionale di riferimento. Oggi abbiamo un importante articolo
confluito nel dl 135 del 2018 convertito in legge 12 del 2019 che riguarda le disposizioni urgenti in materia di sostegno e
semplificazione per le imprese e per la PA: decreto semplificazioni del 2019. Occorre una premessa sulla semplificazione
dell’attività amministrativa e sul come la blockchain si va a inserire in questa; uno dei più grandi problemi delle PA di Italia è
legato al mancato raggiungimento dell’obiettivo di semplificare il procedimento amministrativo, la riforma della PA , riguarda la
semplificazione che attiene all’intero apparato amministrativo: abbiamo avuto la riforma Madia attuata con decreto n. 179 del
2016 e n. 217 del 2017, ci sono stati i decreti semplificazione, tra cui questo che oggi analizziamo, decreto semplificazione
del 2019 che contiene l art 8 ter e poi c’è il decreto semplificazione bis che ha modificato anche la legge n 241/90. Il decreto
semplificazione cosa fa per quanto riguarda il procedimento amministrativo? Inserisce il digitale nelle PA, modifica l’art 3 bis
che riguardava l’uso della telematica, modifica la comunicazione dell’avvio dei procedimenti, inserendo dei riferimenti nella
comunicazione al domicilio digitale, fa una serie di passaggi orientati alla transizione digitale. Con decreto semplificazioni del
2019 si riconosce il valore alle tecnologie di registri distribuiti e si è compreso quanto la tecnologia artificiale abbia condizionato
le nostre vite, definisce cosa sono le tecnologie basate sui registri distribuiti e lo smart contract. Art 8ter definisce i dlt,
questi registri immodificabili, al 1co:” Si definiscono «tecnologie basate su registri distribuiti» le tecnologie e i protocolli
informatici che usano un registro condiviso, distribuito, replicabile, accessibile simultaneamente, architetturalmente
decentralizzato su basi crittografiche, tali da consentire la registrazione, la convalida, l'aggiornamento e l'archiviazione di dati
sia in chiaro che ulteriormente protetti da crittografia verificabili da ciascun partecipante, non alterabili e non modificabili.”

Queste tecnologie entrano finalmente a fare parte dell’attività amministrativa, come strumento di monitoraggio della stessa al fine
di raggiungere un alto grado di efficienza nell’esercizio dell’attività amministrativa e di celerità della stessa, basata sul fatto che
un registro siffatto consente di dimezzare le tempistiche per effettuare ad esempio qualsiasi tipo di controllo sul documento. In
questo primo comma, troviamo tutte le caratteristiche della blockchain: è un registro condiviso tra tutti i partecipanti alla catena,
è distribuito perché questi partecipanti si trovano sul network peer to peer quasi in un rapporto client server, utilizzano quella
piattaforma per entrare nella disponibilità delle informazioni che vengono condivise su quella catena, tutti hanno a diposizione le
stringhe alfanumeriche che differenziano i blocchi, è decentralizzato su basi crittografiche, questo deriva dall’origine del
blockchain, cioè dal suo uso quale strumento di lotta al double spending, dal fatto che nasca quale incentivo a uno strumento di
pagamento trustless, basato sulla crittografia. La legge dice che la catena è immodificabile e inalterabile, quello che è lo stato della
stessa nel momento in cui viene creata , deve essere conservato e ogni modifica alla stessa è sotto l’occhio di tutti i partecipanti
alla catena. Questo articolo definisce anche lo smart contract 2co: Si definisce «smart contract» un programma per elaboratore
che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di
effetti predefiniti dalle stesse. Gli smart contract soddisfano il requisito della forma scritta previa identificazione informatica
delle parti interessate, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall'Agenzia per l'Italia digitale con linee guida da adottare
entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.
3 co: La memorizzazione di un documento informatico attraverso l'uso di tecnologie basate su registri distribuiti produce gli
effetti giuridici della validazione temporale elettronica di cui all'articolo 41 del regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 23 4. 4co: Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto, l'Agenzia per l'Italia digitale individua gli standard tecnici che le tecnologie basate su registri distribuiti debbono
possedere ai fini della produzione degli effetti di cui al comma 3. luglio 2014.

RISOLUZIONE PARLAMENTO EUROPEO DEL 13 DICEMBRE 2018 SUL BLOCKCHAIN

In questa risoluzione si dice che se concepita in modo adeguato la tecnologia blockchain dovrebbe essere in linea con il principio
della protezione dei dati fin dalla sua progettazione che serve a garantire agli interessati un maggior controllo sui loro dati. Si
osserva anche che nei casi in cui la blockchian contenga dei dati personali, la natura immutabile di alcune tecnologie blockchian
è incompatibile con il diritto alla cancellazione dei dati di cui all’art.17 del G.D.P.R., e si ritiene che ogni utilizzazione di queste
tecnologie deve essere subordinata alla specificazione di cosa sarà conservato all’interno e esterno della catena e che i dati
personali devono essere conservati all’esterno della catena. In questa risoluzione, come notiamo, sono stati individuati alcuni
correttivi alla possibile invasione da parte di queste tecnologie nella protezione dei dati personali. È possibile che nel momento in
cui si utilizzano queste tecnologie, esse siano incompatibili con il diritto alla cancellazione dei dati e per evitare che ci sia un
vulnus nella protezione dei dati personali, bisogna subordinare l’uso di esse proprio alla conservazione dei dati e lo si deve fare
escludendo i dati personali, che devono essere conservati al di fuori della catena, proprio per evitare un intrusione da parte
dell’intelligenza artificiale nella protezione dei dati personali. L’ immodificabilità dei dati inseriti nella catena, determina che
quella catena sia connaturata da una certa neutralità, ma non si può dimenticare che sia necessario un bilanciamento con il diritto
alla riservatezza. Ricordiamo che Qui non siamo nell’ambito di un accesso puro, ma è comunque un accesso, perché si parla
di una piattaforma condivisa che determina che dei dati siano disponibili a tutti se la blockchain è pubblica, a soggetti
preselezionati se la blockchain è privata, o accessibile a tutti ma vagliabili da soggetti determinati se è ibrida. Come si bilancia
l’interesse alla conoscibilità con il diritto alla riservatezza? il Parlamento Europeo propone di utilizzare la blockchain ma in
maniera mitigata, per bilanciare l’uso della tecnologia con il diritto alla riservatezza è opportuno che i dati personali vengano
conservati al di fuori della catena.

L’excursus storico, nazionale e Europeo culmina con il decreto semplificazioni del 2020 che non solo accoglie le tecnologie di
registro distribuito (che nel 2020 presentavano già una realtà nel nostro paese), ma fa un ulteriore passo in avanti. Questo decreto
semplificazioni è il decreto legge 76 del 2020 convertito in legge 120 del 2020 ed è intitolato: “misure urgenti per la
semplificazione e l’innovazione del digitale.”

Poniamo l’attenzione al TITOLO III- MISURE DI SEMPLIFICAZIONE PER IL SOSTEGNO E LA DIFFUSIONE


DELL’AMMINISTRAZIONE DIGITALE, al Capo I- CITTADINANZA DIGITALE E ACCESSO AI SERVIZI DIGITALI
DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

All’art 26 viene prevista una piattaforma per la notificazione digitale degli atti della PA che valorizza le tecnologie emergenti, in
particolare le tecnologie di registri distribuiti. Questa piattaforma è una piattaforma digitale utilizzata dalle amministrazioni per
effettuare, con valore legale, le notifiche di atti, provvedimenti, avvisi e comunicazioni. Al comma 3 si afferma: “Ai fini della
notificazione di atti, provvedimenti, avvisi e comunicazioni, in alternativa alle modalità previste da altre disposizioni di legge,
anche in materia tributaria, le amministrazioni possono rendere disponibili telematicamente sulla piattaforma i corrispondenti
documenti informatici”. Al terzo capoverso del comma 3:” Eventualmente anche con l’applicazione di «tecnologie basate su
registri distribuiti», come definite dall’articolo 8-ter del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135, convertito, con modificazioni,
dalla legge 11 febbraio 2019, n. 12, il gestore della piattaforma assicura l’autenticità, l’integrità, l’immodificabilità, la leggibilità
e la reperibilità dei documenti informatici resi disponibili dalle amministrazioni e, a sua volta, li rende disponibili ai destinatari,
ai quali assicura l’accesso alla piattaforma, personalmente o a mezzo delegati, per il reperimento, la consultazione e l’acquisizione
dei documenti informatici oggetto di notificazione.

La scelta che viene fatta in questo decreto è la riferibilità al gestore della piattaforma di alcuni passaggi, cioè questa disposizione
viene dopo una serie di sentenze che hanno inserito una serie di correttivi all’uso dell’intelligenza artificiale in generale,
dell’algoritmo nello specifico, nel procedimento amministrativo e la scelta fatta qui è finalizzata a riferire ad una persona umana
alcuni passaggi fondamentali e ciò assicura “l’autenticità, l’integrità, l’immodificabilità, la leggibilità e la reperibilità dei
documenti informatici resi disponibili dalle amministrazioni”. È al gestore della piattaforma che si deve fare capo per tutti questi
passaggi. La catena di blocchi è immodificabile, ma se non fosse una catena interconnessa di blocchi puri e trasparenti, ma fosse
una catena di blocchi tesi ad operare dei tentativi di cattiva amministrazione? anche su questo si dovrebbe intervenire, il rischio
c’è che la blockchain venga controllata da chi inserisce delle informazioni scorrette, ma ricordiamo che c’è la riferibilità alla
persona fisica; bisogna guardare positivamente al digitale tenendo conto che ha comunque delle pecche e anche queste vanno
monitorate e si devono prevedere strumenti che consentano di evitare che si percorra quella strada. È pur vero che la tecnologia
può tendere ai nodi cattivi ma rimane sempre un quantum di responsabilità del funzionario delle scelte che compie e i vari correttivi
che sono stati imposti consentono comunque di mitigare; si alla transizione digitale ma con le dovute cautele. Supponiamo,
partendo dal principio di buona fede, che il funzionario, la persona fisica abbia utilizzato questa tecnologia di registri distribuiti
per catalogare i certificati di nascita, questo funzionario crede di aver inserito i certificati in modo corretto, I certificati sono
condivisi, ma se avesse commesso un errore nell’inserimento di quel certificato, quello è un errore immodificabile ma scorretto.
Immaginiamo se uno strumento del genere venga utilizzato volutamente in maniera distorta, questo strumento non è più strumento
di lotta alla corruzione, alla mala amministrazione perché non è più utilizzato in modo corretto, perché si strumentalizzano i suoi
benefici per avvalorare quelle che sono le scelte sbagliate effettuate magari dolosamente o colposamente dalla PA. Quindi è vero
che è uno strumento che presenta molti meriti, ma bisogna guardarlo con una certa attenzione. Se l’errore è in buona fede, il
funzionario può correggere l’errore, ma ne resta la traccia dell’errore, questa è la cosa che va a beneficio della trasparenza
amministrativa. Il concetto di immodificabilità lo dobbiamo intendere non in senso astratto ma nel senso che qualsiasi modifica
vien portata a conoscenza di tutti, l’informazione se è modificata viene reso noto agli altri che è stata modificata .

Ora concentriamoci su un approccio contrario all’uso dell’algoritmo nel procedimento amministrativo e su un altro condiviso dal
Consiglio di Stato che vede nell’uso dell’algoritmo dei benefici.

Il primo approccio è quello restrittivo ed escludente, è un approccio sostenuto in due importanti sentenze del Tar Lazio, sezione
terza Roma n.9224 del 2018 e la 6688 del 2019 del tar Lazio. Queste due sentenze hanno dischierato l’inadeguatezza
dell’algoritmo e l’incompatibilità del metodo algoritmo con attività conoscitive, acquisitive e di giudizio. La scelta del GA è stata
quella di annullare gli atti impugnati sulla base del fatto che il metodo algoritmo è incompatibile con l’istruttoria procedimentale
che dovrebbe essere gestita unicamente dal funzionario persona fisica, la scelta del consiglio di Stato, almeno in un primo
momento è stata quella di escludere l’uso dell’algoritmo nel procedimento amministrativo perché è un metodo inadeguato, è
necessario che l’istruttoria venga svolta da una persona fisica che controlli e che abbia la signoria del procedimento. Come
sappiamo la legge 241 del 90 chiarisce che il procedimento amministrativo deve sottostare ad una serie di regole procedimentali
che consentano la partecipazione del privato al procedimento e che il procedimento non venga unicamente gestito dalla PA, seppur
titolare del potere. In questa legge ci sono una serie di obblighi delle PA di entrare in contatto con i cittadini, si pensi all’obbligo
di comunicare l’avvio del procedimento, ci sono una serie di strumenti di partecipazione e strumenti di semplificazione, si pensi
alla conferenza dei servizi, nella 241 del 90 si fa riferimento anche alla figura del responsabile del procedimento e dell’unità
organizzativa responsabile dell’istruttoria. Con questa legge si precisa che nell’ambito dell’istruttoria procedimentale ci debba
essere una figura responsabile del procedimento, l art 6 prevede quali siano i compiti del responsabile del procedimento. Il tar
Lazio ritiene che il metodo, la struttura dell’algoritmo non può sostituirsi all’istruttoria procedimentale gestita dalla persona
fisica. La sentenza è sulla base di un ricorso per l’annullamento, art 29 codice del processo amministrativo. La controversia
riguardava degli insegnanti e il MUR . L’annullamento riguardava provvedimenti comunicati via email conclusivi della procedura
di mobilità nazionale straordinaria a mezzo della quale l’amministrazione aveva disposto il trasferimento dei ricorrenti. I ricorrenti
erano contrari a quel provvedimento perché ritenevano che fosse stato utilizzato in modo distorto l’algoritmo attraverso il quale
era stata operata la scelta, perché non c’erano stati aggiustamenti rispetto alla fattispecie concreta . I ricorrenti, in qualità di
docenti messi in ruolo nella cosiddetta “fase C” del piano straordinario assunzionale di cui alla legge 107 del 2015, messi in
ruolo su posti di potenziamento, sostegno, su posto comune nella scuola secondaria di primo grado avevano impugnato questa
procedura nazionale di mobilità, sottolineando che l’amministrazione aveva obbligato i docenti messi in ruolo nella fase c a
presentare comunque domanda di mobilità ,all’esito della quale aveva disposto i trasferimenti senza tener conto delle preferenze
da loro espresse , pure in presenza di posti disponibili nelle province indicate nella loro domanda di mobilità , posti tra l’altro già
assegnati a docenti dotati di un punteggio inferiore . La scelta fatta dalla amministrazione era quella di avvalersi di uno strumento
che si basava sugli algoritmi che operasse l’assegnazione alle scuole, senza tener conto delle preferenze contrassegnate dai
docenti. Tra le questioni controverse c’era il fatto che l’algoritmo avesse sostituito l’istruttoria che invece sarebbe dovuta essere
gestita da un ufficio e da un responsabile del procedimento. La scelta fatta era quella di impugnare il provvedimento in tal senso.

La decisone del tar: il Tar dice che è mancata nella fattispecie una vera e propria attività amministrativa, essendosi demandato
all’algoritmo lo svolgimento dell’intera procedura di assegnamento dei docenti, un algoritmo ,quantunque preimpostato in modo
da tener conto di posizioni personali , di titoli e punteggi, non potrebbe salvaguardare le guarentigie procedimentali che gli art 2,
6,7,8,9,10 della 241/90 hanno apprestato. Gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso non possono essere mortificati
e compressi soppiantando l’attività umana con quella impersonale; ad essere vulnerato non è solo il canone della trasparenza e di
partecipazione procedimentale ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative procedimentali(art 3), il che
comporta una violazione delle garanzie processuali perché l’assenza della motivazione non permette inizialmente all’interessato
e successivamente al giudice di percepire l’iter logico seguito dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo
provvedimentale. Solo il funzionario persona fisica può risolvere le carenze istruttorie e può assicurare il rispetto delle guarentigie.
Questa è la scelta che fa il ga in queste due sentenze, l’iter è il medesimo, si tende ad escludere l’algoritmo per la sfiducia nei
confronti dell’impersonalità di esso.

Ad una conclusione diversa giunge il Consiglio di Stato, con le sentenze n. 2270 del 2019 e n.8472 del 2019. Qual è la scelta che
vien fatta? L’approccio è ampliativo e includente della intelligenza artificiale nel procedimento amministrativo: Si prevede che
l’algoritmo possa essere utilizzato sia nei procedimenti seriali come quello per il quale è stato presentato ricorso, sia addirittura
per l’attività amministrativa discrezionale. Il caso riguardava sempre il piano straordinario di cui alla legge 107 del 2015, in questo
caso gli appellanti erano docenti della scuola secondaria di secondo grado , la pubblica amministrazione parte resistente. Gli
appellanti erano stati individuati quali destinatari di una proposta di assunzione a tempo indeterminato e lamentavano che in
conseguenza di tale procedura si sono ritrovati destinatari di una nomina su classi di concorso ed ordine di scuola in cui non
avevano mai lavorato ,pur avendo espresso nella domanda di assunzione la preferenza per la scuola superiore di secondo grado ,
sono risultati destinatari di una proposta di assunzione in una scuola superiore di primo grado e sono stati destinanti in province
lontane rispetto a quella di provenienza, Tutto ciò per effetto dell’algoritmo di cui non si conoscerebbero le concrete modalità di
funzionamento. I ricorrenti lamentano anche che l’intera procedura di assunzione, gestita da un sistema informatico, da un
algoritmo il cui funzionamento rimane sconosciuto, era sfociata in provvedimenti privi di alcuna motivazione. La scelta che
viene fatta dal Consiglio di Stato: l’utilizzo di una procedura digitale attraverso un algoritmo non viene ritenuta nel modo in cui è
stata ritenuta nella precedente sentenza. Si sottolinea che il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata
deve essere conoscibile secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza che implica anche quello della piena
conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio diverso da quello giuridico. Se la contestazione che viene fatta è che non si
conosce come l’algoritmo funzioni, è necessario correggere la mancanza, perché in questo modo si corregge il fatto che il
linguaggio in cui l’algoritmo si esprime è diverso da quello giuridico. Dunque l’algoritmo deve essere conoscibile in tutti i suoi
aspetti: dai suoi autori, al meccanismo utilizzato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisone , deve essere comprensivo
delle priorità assegnate nella procedura valutativa decisionale dei dati selezionati come rilevanti, cioè concretamente si deve capire
come ha provveduto l’algoritmo a prendere la decisione di destinare il soggetto x al posto y piuttosto che al posto z più vicino al
soggetto, se è conoscibile il meccanismo attraverso il quale si è presa la decisione allora è possibile utilizzare l’algoritmo. La
decisione amministrativa automatizzata impone al ga di valutare la correttezza del procedimento informatico in tutti le sue
componenti, bisogna assicurare che quel processo avvenga in maniera trasparente attraverso la conoscibilità dei dati immessi e
dell’algoritmo medesimo. Affinché la procedura di mobilità sia legittima deve essere evincibile qual è il meccanismo che ha
derogato al vincolo di permanenza in quella sede di servizio indicata, se ciò è evincibile e motivato, l’algoritmo è legittimo. Se
non è evincibile il meccanismo di deroga al vincolo di permanenza nella stessa tipologia di posto, nella stessa sede di servizio, la
procedura di mobilità è illegittima. La scelta del Consiglio di Stato è quella di imporre dei correttivi all’uso indiscriminato
dell’algoritmo, che consentano all’uso dell’algoritmo di essere legittimo: “Conoscibilità “, “non discriminazione algoritmica” e
“imputabilità della decisione all’argano titolare del potere”. Se la procedura è riferibile ad una persona fisica e se della procedura
è conosciuto il funzionamento, l’uso dell’algoritmo è legittimo.
LEZ.24/11/21

PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ

Quando parliamo di proporzionalità cosa intendiamo?


Nel diritto amministrativo la proporzionalità è una relazione tra INTERESSI; gli interessi in gioco sono:
• Interesse pubblico: è un interesse primario, ed è il fine ultimo che la P.A. deve perseguire.
In base al principio di separazione dei poteri, il legislatore definisce, attraverso l'emanazione di norme, i fini,
ed è poi la P.A., che deve porre in essere l'azione amministrativa per realizzare gli obiettivi e gli interessi
pubblicistici.
• Interessi dei privati: sono interessi di rango costituzionale, che bisogna tenere in considerazione, seppur di
carattere secondario.

La proporzionalità può essere descritta come una bilancia, su cui far equilibrare interessi tra loro contrastanti; ed è
proprio la P.A. che ha l'obiettivo di far armonizzare i vari interessi in gioco, riconoscendo la prevalenza dell'interesse
pubblicistico, ma allo stesso tempo non schiacciando completamente l’interesse dei singoli, perché ci deve essere un
sacrificio tollerabile e ragionevole di questi ultimi.

Contesto storico del principio di proporzionalità


La dottrina maggioritaria afferma che la proporzionalità abbia le sue origini più antiche nell’ordinamento tedesco.
Un primo caso fu una sentenza del tribunale amministrativo prussiano del 1882, che proclamò la illegittimità di
un’ordinanza, con cui disponeva la chiusura di un negozio alimentare, perché il negozio vendeva alcolici senza
autorizzazione amministrativa; il tribunale prussiano fu il primo ad indicare che tale provvedimento, nonostante fosse
stato emanato da un’autorità pubblica, fosse illegittimo, richiamando per l’appunto la proporzionalità.
Il motivo era il seguente: il provvedimento si considerava troppo gravoso e incisivo sulla libertà del commerciante;
piuttosto l’autorità pubblica poteva emanare un altro provvedimento, che fosse sicuramente rispettoso del fine
pubblicistico, ma meno incisivo e gravante sulla libertà del singolo individuo.
Quindi in un primo momento la proporzionalità venne configurata come un mero auto limite al potere discrezionale
della P.A.

Dobbiamo ricordiamo che la proporzionalità trova il suo spazio proprio all'interno del potere discrezionale
riconosciuto in capo alla P.A.: perché mentre nel potere vincolato, la legge indica al pubblico amministratore come
esercitare il potere e di quale mezzi servirsi, invece nel potere discrezionale c’è una norma attributiva, che attribuisce
il relativo potere alla P.A., ma al contempo la P.A. è libera nella scelta dei mezzi, e nella scelta di come realizzare il
fine pubblicistico.
Nonostante quanto appena detto, la P.A., come abbiamo già ricordato, ha dei margini, (o dei limiti) che abbiamo
definito “gard rail”, i quali non sono altro che PRINCIPI, tra cui rientra in primis la proporzionalità.
La proporzionalità è sempre presente nell'esercizio dell'attività amministrativa, perché quando la P.A. emana il
provvedimento, tale provvedimento deve risultare proporzionale.
Prima la proporzionalità era solo un mero auto limite; successivamente la proporzionalità si erge a principio, e si ha
una costruzione più reale e completa della stessa: cioè la proporzionalità viene strutturata, infatti si parla di test della
proporzionalità, o di proporzionalità a tre gradini.

Test della proporzionalità: Consiste in una configurazione della proporzionalità nei suoi parametri, che sono idoneità,
necessarietà e adeguatezza (o proporzionalità in senso stretto).
Quando parliamo di idoneità, necessarietà e adeguatezza, significa che l'amministrazione, prima dell’esercizio del
suo potere, deve esercitare un esame della proporzionalità in:

• Idoneità: cioè la capacità del mezzo adottato dalla P.A. a perseguire lo scopo pubblico

• Necessarietà: Si intende la regola del mezzo più mite; Tra più mezzi idonei, cioè capaci a perseguire lo scopo
pubblico, la P.A. deve scegliere quello che risulta essere necessario, ovvero mite; cioè deve scegliere quel
mezzo che sia idoneo, ma al contempo deve arrecare il minor pregiudizio al privato.

• Adeguatezza: è l’essenza della proporzionalità, perché con questa il pubblico amministratore fa un vero e
proprio bilanciamento, cioè pone su due piatti di una bilancia, tanto l’interesse pubblicistico, che l’interesse
dei singoli; quindi fa un’analisi, e un’armonizzazione degli stessi, al fine di non comportare un pregiudizio
enorme e non schiacciare totalmente i diritti dei singoli, e quindi c’è un vero e proprio bilanciamento.
La proporzionalità mira a risolvere il conflitto in via equitativa.

Quindi successivamente abbiamo un'elaborazione molto più ricca del principio di proporzionalità, dovuta anche alla
giurisprudenza della corte di giustizia dell’UE, e poi a seguito ad un’opera creata dalla stessa, tanto che gli stati
membri dell’UE, hanno recepito questo principio e lo hanno poi a loro volta arricchito, fino ad avere una precisa
configurazione e collocazione normativa del relativo principio.
Nell’ambito dell’UE, prima c’è stato un espresso richiamo nel trattato di Maastricht del 92’, poi successivamente nel
trattato della comunità europea, e nel trattato sull’UE, ne parla persino l’art 52 della Carta dei diritti fondamentali.
Per quanto concerne l'ordinamento italiano, seppur la dottrina maggioritaria riconosca che la proporzionalità abbia
origine nell'ordinamento tedesco, in realtà dei primi germogli della proporzionalità si possono vedere nell'ambito
dell'ordinamento italiano.
Nella monografia “Dimensioni della proporzionalità”, in particolar modo nel quarto capitolo, si parla di Gian
Domenico Romagnosi, che è consigliato il maestro e fautore della scienza del diritto amministrativo; a lui si deve una
prima elaborazione del principio in questione: infatti già nel 1835 (quindi addirittura prima della sentenza del 1882
del tribunale prussiano), nei principi fondamentali del diritto amministrativo, Gian Domenico Romagnosi fa
indirettamente riferimento a questa proporzionalità.
Romagnosi rievoca la proporzionalità nella ragion pubblica naturale; ricordiamo che Romagnosi opera nei primi
dell'Ottocento, tra giusnaturalismo e illuminismo, e quindi riconduce tale principio alla natura delle cose, ad un
continuo fluire e divenire delle cose, e quindi ad un principio che è immanente nella natura.

Per Romagnosi l’essenza era che il bene comune doveva essere perseguito razionalmente.
Ma cosa significa “perseguire il bene comune razionalmente”?
Romagnosi nella sua opera indica diversi precetti:
• Bisogna far prevalere la cosa pubblica alla privata nei limiti della vera necessità: quindi già esprime
l'essenza della proporzionalità; “nei limiti della vera necessità” significa che deve essere certamente
necessario che io, pubblica amministrazione, debba adottare un provvedimento che è diretto ad incidere o
sacrificare il diritto del singolo privato

• La prevalenza della cosa pubblica alla privata, non colpisce il fine o l’effetto, bensì il mezzo.

• Parla di par condicio o parità delle parti: Noi sappiamo che i privati sono in una posizione inferiore rispetto
alla pubblica amministrazione, che persegue l'interesse pubblicistico, eppure Giandomenico Romagnosi nella
sua opera fa riferimento a questo.

• Principio del neminem laedere: Che si sostanzia nel non recare danno agli interessi del singolo privato.

• Tutela del legittimo affidamento (che deriva dal principio del neminem laedere): Sappiamo bene che un
privato, in un dialogo con la pubblica amministrazione, può crearsi un'aspettativa, su una risposta da parte del
pubblico amministratore, che sia a lui favorevole; e a questo fa riferimento Romagnosi.

• Regola del mezzo più mite.

• Regola del minor sacrificio con il massimo risultato: Con questo Romagnosi anticipa i tempi, e vuole dire
che deve essere emanato un provvedimento che mira a realizzare il massimo risultato, ma che incida meno
negativamente, e sia sempre diretto ad arrecare il ‘minimum male’ o minor danno.
Nell’ambito dell’ordinamento italiano, questo principio si è affermato più tardi a livello normativo; Diversa è
stata invece la giurisprudenza, anche quella della corte costituzionale.
Infatti, nell'ordinamento italiano, molta giurisprudenza ha fatto riferimento al principio, seppur non ci fosse un
richiamo espresso; e questo perché la proporzionalità ha un carattere relazionale, cioè riesce ad intrecciarsi
con altri principi, perché al momento del contemperamento tra vari interessi, la proporzionalità richiama a sua
volta altri principi, e si relaziona con questi.
Però bisogna calare la proporzionalità nella realtà concreta.
Esempio: a proposito del legittimo affidamento, si pensi ad una manifestazione di interesse da parte della
P.A., la quale sia interessata ad acquistare l'immobile di un privato, quindi al fine di concludere l'accordo, il
privato avvalendosi di questa tutela del legittimo affidamento, realizza diverse opere, quindi affronta anche
delle spese al fine di vendere questo immobile ad un prezzo maggiore; però può succedere che in realtà
l'accordo non si concluda; ora il privato può richiamare, proprio in virtù di questo legittimo affidamento, le
spese che ha sostenuto e chiedere un indennizzo; però calando poi la proporzionalità nel caso concreto,
bisogna valutare se queste spese effettuate dal privato, erano delle spese strettamente necessarie oppure no.
Da questo esempio traspare la trasversalità della proporzionalità, che si combina con i vari interessi, ed opera
dei bilanciamenti.

Nell'ordinamento italiano la proporzionalità si è affermata intorno agli anni 70’, sempre attraversi la giurisprudenza
della Corte costituzionale.
Molto spesso la proporzionalità è spesso confusa con la ragionevolezza, ma in realtà seppur siano accomunate dalla
stessa matrice, cioè quella dell’adeguatezza, e si esplicano in quel rapporto tra mezzi e fini, la proporzionalità ha un
quid pluris rispetto alla ragionevolezza, nel senso che ha il parametro della necessarietà; inoltre la proporzionalità
verte sul quantum, cioè sulla misura degli interessi in gioco, contrariamente alla ragionevolezza, che verte sulla
qualità degli interessi e delle scelte, in termini anche di coerenza e di logica.
Poi c'è stato un richiamo espresso della proporzionalità con la legge 15/2005, e la legge 69/2009, ed anche nella legge
241 art.1 comma 1, dove il legislatore impone una fitta rete di principi, rimandando anche ai principi del diritto
comunitario; proprio per questo si può parlare anche di una europeizzazione della proporzionalità.
Il legislatore fa rinvio ai principi dell'ordinamento comunitario, quindi non ha utilizzato l'espressione “principi
dell'ordinamento comunitario nel procedimento amministrativo", ma richiama i principi dell'ordinamento
comunitario, quindi ha una portata generale, e si richiama in via implicita la proporzionalità, che è fondante
nell'esercizio dell'attività amministrativa stessa.
Ricordiamo ancora l'articolo 117 della carta costituzionale, che richiama i vincoli imposti dal diritto comunitario.

Nell’agire della P.A., l'obiettivo della stessa è quello di perseguire il fine pubblicistico, contemperando i diversi
interessi, mentre l’obiettivo della proporzionalità è quello di risolvere il conflitto tra interessi in via equitativa.
Quindi l'equità è un’altra componente fondamentale della proporzionalità, anzi potremmo dire che la proporzionalità
è contenuta nell' equità.
EQUITÁ: quando parliamo di equità, parliamo di un principio di giustizia sostanziale, che vanta antiche origini, e
particolari sono stati gli studi di Federico Cammeo sull’equità.
L'equità, infatti, può avere diverse accezioni: in una prima fase, Cammeo parlava di un’equità praeter legem, nel
senso quindi di un principio diretto ad integrare le lacune del diritto.
Successivamente Cammeo ha fatto anche riferimento all'equità merito, o equità legittimità: richiamando il merito,
Cammeo riteneva che il giudice amministrativo in particolar modo, fa ricorso all’equità, al fine di poter sindacare
l'operato della P.A. anche nel merito delle scelte che la stessa ha attuato.
L’ equità, quindi, è una componente della proporzionalità stessa, che ha il fine di riequilibrare e di bilanciare gli
interessi, e quindi emerge in maniera evidente assieme la proporzionalità.

La proporzionalità assume un ruolo rilevante sulla normativa emergenziale.


Diritto di emergenza: Si tratta di una condizione che si verifica nel momento in cui c'è una situazione di rischio o di
pericolo, o quando comunque ci sono i presupposti di necessità ed urgenza, che esprimono la probabilità del
verificarsi di una situazione di pericolo; oppure la situazione dello stato di emergenza può proclamarsi nel momento
in cui il pericolo è reale e concreto e si è realizzato.
Il diritto emergenziale è un diritto che risponde ad una disciplina ordinaria lacunosa o assente.
Il legislatore, non è in grado di prevedere tutte le situazioni possibili, quindi attribuisce dei poteri al governo, alla
P.A., in particolari situazioni per l'appunto di emergenza, di necessità, di urgenza e di contingenza; per cui è la P.A.
che interviene, mediante l'emanazione di determinati strumenti, quali ad esempio le ordinanze, oppure i
provvedimenti extra ordine e i provvedimenti emergenziali, al fine di ripristinare lo status quo ante.
L’emergenza non può convertirsi in eccezione, però è un diritto, di cui la P.A. ne fa da padrona con l'emanazione di
provvedimenti, e che interviene al fine fronteggiare, o di prevenire, la situazione di pericolo.
Esattamente come è avvenuto nel corso del periodo pandemico.
La legge, mediante una norma attributiva, attribuisce alla P.A. il potere, pienamente discrezionale, di emanare
provvedimenti dal contenuto atipico, quindi è la P.A. che è chiamata a riempire di contenuto questi provvedimenti; e
la P.A. ne è legittimata proprio in forza di situazioni di necessità ed urgenza.
Quindi bisogna verificare innanzitutto che questi presupposti di necessità e di urgenza siano tangibili ed effettivi, e
poi ancora, una volta dichiarato lo stato emergenziale, bisogna anche stabilire che questa emergenza debba avere una
precisa estensione territoriale e temporale.
In questo ambito, la protagonista è la proporzionalità, che proprio attraverso l’equità, ristabilisce in modo equilibrato
un bilanciamento di interessi in gioco.
Tra gli strumenti a disposizione della P.A. ci sono:

• Le ORDINANZE: ordinanze di necessità, e ordinanze d’urgenza

• I PROVVEDIMENTI EMERGENZIALI: questi provvedimenti sono stati riconosciuti successivamente,


mediante la legge sulla protezione civile, e riconoscono in capo alla P.A. interventi di gestione; “gestione” in
senso di fronteggiare le situazioni emergenziali, quando si verificano delle calamità naturali, o degli eventi di
disfunzione amministrativa, o ancora eventi di amministrazione molto complessa.
Quindi in questi casi appena citati, interviene la P.A. che, nel momento in cui deve esercitare questo suo
potere, ed emanare dei provvedimenti emergenziali straordinari, esercita un vero e proprio giudizio di
necessità alla stregua della proporzionalità (quindi nei tre parametri dell'idoneità, della necessarietà, e
dell’adeguatezza), al fine principale di accertare la sussistenza dei presupposti emergenziali.

La proporzionalità si accompagna al principio di precauzione, che è un altro fondamentale principio, che trova
riferimento nel TFUE, ma anche nel funzionamento del codice ambientale; questo principio porta la P.A., ad
accertare le situazioni di urgenza, e a verificare la probabilità scientifica di una situazione di pericolo, che legittima la
P.A. ad intervenire.
La P.A. interviene sia nella fase preventiva, cioè in cui vi è la probabilità del verificarsi di una situazione di pericolo,
sia nella fase successiva, cioè dopo la prevenzione ad eliminare la situazione di pericolo.

Cammeo parla di equità praeter legem, quindi di una funzione integrativa della norma, e si fa rinvio anche a dei
principi non-scritti, tra cui rientra l'equità, che viene richiamato quando si parla di proporzionalità e a sua volta
richiama quest’ultima, al fine di intervenire laddove non ci sia una disciplina positiva.
Quindi la P.A. viene richiamata per emanare questi provvedimenti, e deve effettuare un giudizio di proporzionalità,
perché il provvedimento per essere legittimo, non può essere un provvedimento arbitrario, per il principio della
separazione dei poteri in cui la P.A. è chiamata a perseguire i fini pubblicistici fissati dalla legge.
Talvolta in queste situazioni emergenziali, si potrebbe affermare che i provvedimenti emanati dalla pubblica
amministrazione possano ledere anche il principio di legalità, quando vi siano appunto delle lacune, cioè non ci sia
una disciplina positiva ad indirizzare la P.A.
Però in realtà il principio di legalità, seppur manchi una norma attributiva in tal senso, viene perseguita nell’equità,
nella giustizia sostanziale e nella proporzionalità stessa, mediante quel bilanciamento degli interessi contrapposti.
La proporzionalità è chiamata a perseguire il fine pubblicistico.

Il carattere trasversale della proporzionalità, combinato con i diversi principi, con i diversi diritti e interessi dei
singoli, riesca poi mediante la stessa qualità a perseguire la giustizia sostanziale, e a garantire un bilanciamento che
non porti a definire l’esercizio del potere della P.A. un esercizio di un potere arbitrario, ma un potere invece arginato
e limitato dal buon senso.
A tal proposito Romagnosi richiamava anche la diligenza del buon padre di famiglia: un buon amministratore deve
avere buon senso, richiamandosi all’equità e alla proporzionalità, che poi sono anche espressione dei principi di cui
all'articolo 97.

Attraverso la proporzionalità, anche il sindacato del giudice amministrativo stesso, si è ampliato sempre di più; in
particolare quando il giudice avverte che il pubblico amministratore non l’abbia esercitata, e quando nel
provvedimento, che deve essere motivato, non ci sia stato il rispetto dei parametri di idoneità, necessarietà e
adeguatezza.
La proporzionalità ha un carattere oggettivo, e in caso di impugnazione di un provvedimento, laddove il giudice
avverti la mancata applicazione di tale principio, allora il giudice può indicarvi un altro mezzo, perché magari la P.A.
tra i vari mezzi idonei, ha utilizzato un mezzo che non rispetta la regola del mezzo più mite.
Quindi si vede come la proporzionalità richiami ancora un altro principio, cioè quello della tutela giurisdizionale, ex
art 24 e 113 della carta costituzionale, e metta in atto completamente la tutela giurisdizionale, consentendo al giudice
di riconoscere l’illegittimità di quel provvedimento.
Sulla giurisdizione esercitata dal giudice amministrativo potremmo dire che, in caso di applicazione o meno del
principio di proporzionalità, si può parlare di un sindacato del giudice che intinge nel merito della scelta della P.A., e
diverse sono le tesi su questo: taluni sostengono che un sindacato esteso al merito, possa anche ledere quel principio
di separazione dei poteri; ma si può controbattere che il giudice si serve della proporzionalità, e interviene verificando
i mezzi che la P.A. ha utilizzato, e NON verificando il fine, che è deciso dalla legge.

Il principio di proporzionalità non va mai inteso come principio a sé, ma va inteso tenendo sempre ben presente il
carattere relazionale di quest’ultimo con gli altri principi, che si intersecano con questo.
Il test di proporzionalità viene applicato continuamente, sia dal giudice amministrativo
che dalla corte costituzionale; è richiamato anche nel rapporto che sussiste tra il diritto di accesso e il diritto alla
riservatezza degli atti personali; infatti la corte costituzionale, nella sentenza 20/2019, si concentra proprio su questo
punto: questa sentenza ha utilizzato proprio il test di proporzionalità, cioè il bilanciamento tra l’interesse alla
pubblicazione di specifici dati relativi alle amministrazioni, e della protezione dei dati personali.
Quindi questo principio di proporzionalità viene utilizzato in tantissimi ambiti diversi, e la normativa emergenziale ne
è un esempio; è quindi un principio cardine per poter bilanciare i molteplici interessi in gioco coinvolti all’interno del
procedimento amministrativo.

La valutazione comparativa degli interessi coinvolti, vale sicuramente nel procedimento, ma poi si riversa nella
composizione degli interessi, che rappresenta il contenuto del provvedimento finale.
Quindi quella valutazione comparativa, che rileva all’interno della fase istruttoria, fa sì che si possa considerare il
principio di proporzionalità come il principio immanente del procedimento amministrativo, e la cui violazione
potrebbe essere considerata come un vizio di violazione di legge, cioè per violazione di quel disposto normativo di cui
all'art 1 della legge 241/90-1 comma, che fa riferimento ai principi dell'ordinamento comunitario (tra i quali rientra a
pieno titolo anche il principio di proporzionalità); ma non solo, perché considerando il principio di proporzionalità
anche all'interno dell'iter procedimentale, la violazione di questo principio, rileva anche come vizio di eccesso di
potere; vizio di eccesso di potere, perché è il vizio di legittimità attinente allo scorretto esercizio del potere
discrezionale→quindi la violazione del principio di proporzionalità può essere ravvisata come una delle principali
figure sintomatiche dell'eccesso di potere, che fa quindi ravvisare uno scorretto esercizio del potere discrezionale
della P.A., che ha valutato in maniera inidonea, non necessaria, e non proporzionale in senso stretto, gli interessi
rilevanti in un determinato iter procedimentale, e quindi ha violato quelle regole che presiedono l'esercizio del potere,
perché non ha effettuato una valutazione che ha tenuto conto di tutti gli interessi rilevanti, o li ha valutati secondo un
ordine di priorità, dal più basso al meno rilevante, e dal più alto al meno rilevante, in maniera scorretta e illegittima; e
siccome questa discrezionale quindi illegittimità dell'azione, non può essere annoverata all'interno del vizio di
violazione di legge, e nemmeno all'interno del vizio di incompetenza, la giurisprudenza l’ha annoverata, soltanto ed
esclusivamente, all'interno del grande vizio contenitore dell'eccesso di potere.

Quindi la proporzionalità è vista come strumento, la cui violazione può rilevare come vizio di violazione di legge -per
violazione di cui all’art 1-, e anche come figura sintomatica dell’eccesso di potere.
Ma si può anche dire che, il principio di proporzionalità può essere considerato un importante principio che riguarda
il merito del provvedimento, che riguarda la sostanza del provvedimento, riguarda l'assetto degli interessi visto in
maniera successiva, cioè una volta che la decisione è stata assunta; e rileva come principio che potrebbe avere un
valore addirittura METAGIURIDICO, che riguarda la giustezza della decisione, cioè la decisione più opportuna e
conveniente.
Quindi un’altra importante dimensione della proporzionalità, è quella che fa sì che il principio di proporzionalità sia
un principio, che può utilizzare la pubblica amministrazione, per l'adozione della decisione più saggia, più equa e più
giusta.
Perché quando si contemperano tutti questi interessi, dove c’è sempre l’interesse pubblico di mezzo, perché è proprio
quest’ultimo che guida il contemperamento degli interessi, può succedere che in questa valutazione la P.A., che sta
per adottare il provvedimento più ragionevole, si renda conto che l’interesse pubblico a volte non può essere
perseguito come essa voleva dall’inizio, e quindi a volte l’amministrazione deve recedere sia parzialmente, ma a volte
anche totalmente dall’interesse pubblico, sotto il profilo dell'applicazione migliore del principio di proporzionalità,
che attiene al contenuto.
Il principio di proporzionalità è un discrezionale quindi validissimo strumento che utilizza la P.A. perché arrivi alla
decisione migliore, sotto il profilo della giustezza della decisione, della giustizia sostanziale, o della regola del caso
concreto di volta in volta da utilizzare; esattamente come fa il giudice amministrativo, quando emana la sentenza
secondo equità, facendosi guidare dal buon senso, così anche la P.A., che dovrebbe essere prima di ogni altra cosa un
bonus pater familia per tutti noi.

Quindi la proporzionalità è vista come un principio che attiene al merito; e di converso, la violazione di questo
principio, potrebbe essere vista addirittura secondo un'altra dimensione, cioè come vizio di scelta irragionevole.
Questo principio potrebbe essere un importante strumento di utilizzo, non solo da parte della P.A., ma anche da parte
del giudice amministrativo che si trova a sindacare l'operato della P.A.
Ecco perché la dimensione della P.A. attiene anche al processo, perché il giudice amministrativo, utilizzando il
parametro dell'opportunità, secondo la concezione trifasica tedesca, cioè del parametro dell’idoneità, della
necessarietà, e della proporzione in senso stretto, può porsi senza alcuna ingerenza al posto della P.A., e dire se quel
provvedimento è il più idoneo ed è il più mite, cioè quello che risulta migliore sotto il rapporto costi-benefici; e se
non ravvisa un rispetto di questi tre sub-criteri, sicuramente annullerà quel provvedimento amministrativo, dicendo
che c'è uno scorretto esercizio di potere, perché lo ha verificato sotto il secondo di quei parametri, cioè il vizio di
eccesso di potere.
E quindi può essere utilizzato anche come un principio che permette al giudice di sindacare il merito.

Quindi ci sono tante sfaccettature della proporzionalità, a seconda che si veda come:

• Principio indicato dalla legge, art 1, la cui violazione comporta un vizio di violazione di legge;
• Principio che attiene al procedimento amministrativo nella fase istruttoria, la cui violazione comporta un vizio
di eccesso di potere;
• Principio che attiene al merito, la cui violazione è un vizio di merito.

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Monografia-> approfondire la NOTA 251, inquadra l’evoluzione dottrinaria in ordine alle figure sintomatiche del potere. (Teoria
di Benvenuti) Bassi-> eccesso di potere attiene alla logica, valore soggettivo che indica un qualcosa che a livello normativo
è presupposto; essendo la logica un sentimento, valore soggettivo considerato presupposto alla norma, è rafforzata perché
la violazione della logica determina una sanzione-> l’annullamento. Teoria Follieri-> figure sintomatiche, regole per
sindacare l’esercizio del potere discrezionale perché hanno alcune caratteristiche: ripetitività, essere vincolanti nei
confronti dell’amministrazione, oggettività, precedente all’iter procedimentale….

Caratteristiche del potere-> AUTOTUTELA-> richiama tutti gli istituiti finora considerati-> capacità della pa di farsi giustizia
da sé, la PA agisce in veste di una autorità e che non potrebbe mai avere se agisse iure privatorum, perché il privato non ha la
capacità di farsi giustizia da sé; solo perché la pa è dotata di strumenti idonei a poter esercitare un potere pubblico, la caratteristica
dell’autotutela è ontologicamente connaturata all’essenza del potere. Secondo feliciano benvenuti ha definito l’autotutela
amministrativa come quella capacità della PA di risolvere conflitti reali o potenziali che i pubblici poteri e le pubbliche
organizzazioni potessero avere nei confronti di soggetti privati-> definizione di benvenuti: autotutela è la capacità della pa di
risolvere conflitti reali e potenziali insorgenti fra essa e i soggetti privati dell’ordinamento. Secondo benvenuti ancora, nella metà
del 1900 affermò che l’autotutela poteva distinguersi in 2 categorie

• Esecutiva -> trova il suo riferimento nell’art21ter-> esecutorietà, capacità della pa di porre in esecuzione materiale gli
effetti del proprio atto (considerata anche da Giannini). Secondo benvenuti la caratteristica più forte dell’autotutela è
quella che si poneva nell’autotutela decisoria

• Decisoria-> capacità di farsi giustizia da sé in ordine ai suoi precedenti atti

L’autotutela esecutoria è una delle tante caratteristiche del potere ma quella che rappresenta la definizione somma è quella che
benvenuti definisce come decisoria. Benvenuti distingueva nella decisoria->

• Decisoria spontanea o d’ufficio-> PA faceva un mea culpa, ius poenitendi e può farlo o con effetto retroattivo o
meno. Effettua un riesame spontaneo (riesame tipico provvedimento di secondo grado)

• Decisoria su impulso di parte-> tramite una mera istanza o con un’impugnazione (atto di ricorso) in via
amministrativa

Ricorsi amministrativi

• Gerarchico

• In opposizione

• Al capo dello stato

Oggi invece ce ne sono due non più quello gerarchico perché si è passati al modello a competenze differenziate.

• Effetto non retroattivo-> solo per il futuro e vengono conservati gli effetti giuridici medio tempore prodotti

• Effetto retroattivo-> vengono spazzati tutti gli effetti giuridici (come l’annullamento d’ufficio)

Sospensione-> non è un provvedimento di secondo grado, ha ad oggetto un procedimento, è uno strumento cautelare
amministrativo. Non ha ad oggetto un precedente atto ma un iter che si sta sviluppando, ha a che fare con una funzione
amministrativa in itinere, lo si fa per scopo cautelare non per scopo di rimediare.

La teoria di benvenuti considera il riesame ad opera della PA che effettua essa stessa su un suo precedente atto al fine di
conservarlo, depurandolo, come la convalida oppure un riesame a esito eliminatorio che può avere ad oggetto un atto nel quale la
PA riavvisi un vizio di illegittimità, la PA pone quello stesso atto di secondo grado con effetto cassatorio e ripristinatorio; se ne
ravvisa vizi di merito invece, ragioni d’inopportunità, quegli effetti giuridici prodotti sono fatti salvi, solo dal momento in poi si
considera inopportuno e quindi la PA elimina ex nunc (da ora per il futuro). Come l’annullamento d’ufficio atto a esito
eliminatorio.

Art21 quinquies-> revoca del provvedimento

Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento
dell'adozione del provvedimento o, salvo che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di
nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato
da parte dell'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del
provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti (ex nunc). Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente
interessati, l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo.

La revoca si effettua per vizi attinenti al merito, istituto espressione dello ius poenitendi i cui effetti sono dal momento della
decisione per il futuro e fanno salvi gli effetti giuridici medio tempore prodotti. 3 ipotesi di revoca:

• Prima ipotesi-> riguarda i sopravvenuti motivi di pubblico interesse, questo cambiamento di rotta, dei motivi giuridici
a cui si deve ispirare la PA a e adeguare. L’azione amministrativa deve essere idonea a produrre effetti giudici tipici, c’è
una stretta aderenza fra l’azione della PA e gli interessi pubblici da perseguire.

• Seconda ipotesi-> mutamento della situazione di fatto: cambia il fatto non la norma; di conseguenza revoco il
precedente atto che aveva ad oggetto la precedente ragione di fatto.

coerente con la visione della PA alla cura degli interessi pubblici.

• Terza ipotesi-> nuova valutazione degli interessi. Es PA valuta in un certo modo un interesse pubblico ad es in relazione
al mio orientamento politico-> cambia il modo soggettivo di valutazione.

1-bis. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l'indennizzo liquidato
dall'amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell'eventuale conoscenza o
conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico, sia
dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse
pubblico.

In questo caso revoca ex tunc-> inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti, ma se la revoca comporta un
pregiudizio in danno dei soggetti interessati è previsto un indennizzo.

Indennizzo-> previsto negli accordi, espropriazione, revoca, il risarcimento invece in caso di danno INGIUSTO (non iure,
contra ius). Invece l’esproprio, accordo e la revoca sono aspetti fisiologici dell’agire della PA non aspetti patologici che
prevedono invece il risarcimento del danno. sull’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse la PA può recedere e da
un indennizzo dato che è lecito recedere dall’accordo (art21sexies) per adeguare costantemente la propria azione rispetto al
pubblico interesse mutevole, per questo si corrisponde un indennizzo e non un risarcimento.

Es art2bis-> azione patologica della PA nel risarcire il danno ingiusto.

C’è una norma che afferma che a fronte del mancato rispetto degli interessi procedimentali c’è la corresponsione di un indennizzo
automatico e forfettario, la dottrina ha stabilito che il termine indennizzo fosse improprio soprattutto in caso di ritardo della PA
perché era meglio parlare di penalità di mora perché l’indennizzo ,noi amministrativisti lo utilizziamo in relazione ad attività
fisiologicamente legittime (accordo, revoca, espropriazione); anche l’indennizzo da ritardo all’interno del decreto legge cresci
Italia del 2018, molto importante “indennizzo per ogni giorno di ritardo” 30 euro per ogni girono di ritardo fino a 2000 euro (non
è stata prorogata la valenza di questo articolo). Questi termini (indennizzo per ogni giorno di ritardo) sono stati considerati non
corretti in quanto questa fosse un’attività patologica che non poteva essere considerata in relazione a un’attività legittima della
PA.

Indennizzo-> solo danno emergente non lucro cessante, che può scemare in due casi:

• eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di
revoca all'interesse pubblico

• eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con
l'interesse pubblico
LEZ.25/11/21

Capo 4-bis: la pietra angolare della legge 241/1990, la parte più determinante per tutte le positività introdotte, in termine di
codificazione, di istituti che hanno trovato una giuridizzazione ma anche per le novità che questi istituti abbisognano col passare
del tempo. Ieri abbiamo parlato dell’autotutela decisoria ad efficacia ex nunc, che impedisce ai nuovi provvedimenti di 2 grado
adottati di avere efficacia dal momento della loro emanazione in poi, secondo la teoria di benvenuti, è tutela decisoria per atto
spontaneo, d’ufficio, posto dalla stessa pa che si rende conto operando un riesame di un precedente stato che questo non può più
produrre effetti giuridici, quelli già prodotti però sono fatti salvi. Questa ulteriore procedura di esame che si chiama procedura
di revoca del secondo atto la si può avviare in 3 modi:

• Sopraggiungono motivi di pubblico interesse (revoca ex nunc)

• Non sopravvenienza giuridica, ma c’è un mutamento della situazione di fatto (revoca ex nunc); rispetto del principio della
stretta aderenza fra l’atto emanato e il perseguimento del pubblico interesse

• Pa revoca un precedente atto sulla base di una sua personale nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, terzo
caso pericolo che può far si che tutte le pa tramite questa giustificazione valuta i n modo nuovo un interesse pubblico che
è rimasto lo stesso; magari cambiano i osggetti, e rispetto ad un interesse pubblico uguale porta questi nuovi organi,
queste persone fisiche legate con un rapporto organico con la pa con un rapporto di ufficio o di servizio, valutano in modo
diverso gli interessi pubblici fa si che un qualsiasi atto amm può essere revocato.(es: cambia la compagine politica
dell’amministrazione-> cambiamento dell’indirizzo politico-> interesse pubblico sempre uguale ma cambia il modo di
vederlo) questi atti sono revocati in modo ex tunc (ora per il futuro). Vizi di opportunità, convenienza, proporzionalità,
ai quali non è correlato alcun obbligo di tutela in capo al privato perché è un agire del tutto legittimo che spetta alla pa, a
volte (es nell’annullamento) la pa con questo riesame depura il precedente atto da alcuni vizi, riesame ad esito eliminatorio
per cercare di rendere più legittima possibile e più opportuna l’attività amministrativa al contesto giuridico-fattuale in cui
ci si trova ad agire.

L’autotutela non è da intendersi nel profilo patologico dell’azione ma nell’attività legittima, confacente, fisiologica, positiva
della pa; l’unica cosa che afferma il legislatore è che se c’è un pregiudizio causato dall’atto di revoca nei confronti dei soggetti
direttamente interessati, l’amministrazione deve provvedere alla corresponsione per coloro che dimostrano di aver avuto un reale
pregiudizio (danno emergente nei rapporti negoziali), di un indennizzo , che viene rilasciato a fronte di un’attività fisiologica; ma
non si può dire la stessa cosa per l’art21nonies->

Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies,
comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque
non superiore a diciotto dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi
economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme
le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
annullabilità e illegittimità non sono fra loro sinonimi-> un provvedimento se pur illegittimo ai sensi dell’art21octies.1 non è detto
che sia per forza annullabile ne dal GA e ne dalla PA perché ci sono quei provvedimenti che pur se illegittimi palesemente, pur
se affetti da vizi procedimentali e formali risultano non annullabili, non tali da richiedere una sentenza costitutiva di
annullamento dal GA e ne un annullamento d’ufficio da parte della PA perché si guarda al risultato sostanziale del provvedimento
se sia di utilità sostanziale per il destinatario, per il rispetto di quegli obblighi formali e procedimentali che sono stati violati, se
si dimostra che anche in caso di rispetto degli obblighi procedimentali e formali, il risultato sarebbe stato lo stesso, il GA non lo
annulla e neanche la PA perché il risultato sarebbe stato lo stesso.

Quale provvedimento può essere annullato? Sicuramente un provvedimento illegittimo ad esclusione di quelli previsti
dall’art21octies.2: Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti
qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato (attività vincolata). Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento (attività discrezionale) qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Si evita un annullamento, sia come conseguenza di una decisione giurisdizionale sia come conseguenza di un’attività di
amministrazione attiva; quindi l’annullabilità e illegittimità ruotano su piani paralleli, se non in alcun casi come nell’eccesso di
potere, o altri vizi formali e procedimentali diversi dalla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo, nel
caso di provvedimenti a contenuto discrezionale; quando spiegò la proporzionalità la PA opera una valutazione comparativa
per depurare il precedente atto di un vizio di illegittimità che lo inficiava e lo rendeva palesemente illegittimo e quindi annullabile
quindi la PA opera un riesame di un suo precedente atto e ritiene di depurare il vizio di legittimità (ius poenitendi) perché si
accorge ce l’illegittimità che comporterebbe anche al di là dei termini per impugnare il provvedimento amministrativo, anzi al di
là dei termini perché i termini di impugnazione sono di 60 giorni dopodiché un provvedimento se pur illegittimo diventa
inoppugnabile, solo la PA può ritornare sui suoi passi, e quando la PA verifica la bontà di operare un annullamento d’ufficio?
Quando pone sul piatto della bilancia (1) la necessità di depurare il precedente atto di un vizio di illegittimità che lo rendeva
illegittimo e di conseguenza annullabile; (2) dall’altro lato le ragioni di pubblico interesse che portano la PA a dover agire in tal
senso perché l’azione deve essere sempre strettamente aderente al pubblico interesse; (3) altro valore da dover ponderare è
che deve esserci un termine, ragionevole ma non superiore a 12 mesi, non più18, dal momento dell'adozione dei provvedimenti
di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo
20. (4) Vantaggi economici ai destinatari che hanno fatto affidamento in questo vantaggio economico in senso lato, un
ampliamento della loro sfera giuridica in senso economico, anche una mera autorizzazione comporta un aumento della capacità
economica di un soggetto; tenendo conto altresì degli interessi dei (5) controinteressati-> coloro che potrebbero avere un
pregiudizio dall’annullamento di quel provvedimento.

La PA deve operare alla stregua di tutti questi elementi contemperandoli, constatando se la situazione più ragionevole, congrua,
proporzionata sia o meno l’annullamento d’ufficio. Chi può annullare dopo tale comparazione il provvedimento? L’organo che lo
ha emanato o un altro previsto dalla legge.

Domanda: revoca-> nella terza ipotesi l'interesse pubblico resta lo stesso ma cambia il modo In cui l'amministrazione intende
tutelarlo? Si, non vi è un nuovo interesse pubblico, questo impone alla PA di adeguare la sua zione legittima quindi essa rendendosi
conto che il precedente atto amministrativo è illegittimo deve considerarlo in stretta aderenza con l’interesse pubblico, perseguito
con un’attività legittima. Quindi qualora la PA ravvisi un vizio che non può essere de quotato e che quindi comporterebbe se non
ci fosse, una diversa composizione del provvedimento finale in quanto agli assetti degli interessi, se si rende conto di questo,
fermo restando l’interesse pubblico, opera un ripensamento che comporta un annullamento del precedente atto (ex tunc) come se
non ci fosse mai stato. Si paragona sempre l’azione legittima esente da vizi ed è quella che deve essere considerata in relazione
alla stretta aderenza fra l’azione e il pubblico interesse.
LEZ. 01.12.2021

SILENZIO-ASSENSO

Art. 20 co. 4: ”Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale
e paesaggistico, l'ambiente, la tutela dal rischio idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l'immigrazione,
l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone
l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto
dell'istanza, nonché agli atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta
del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti.”

Materie in cui non si applica la disciplina del silenzio-assenso:

1. Materie espressamente indicate al comma 4 (patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la tutela dal rischio
idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l'immigrazione, l'asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica
incolumità).

2. Materie in cui la normativa prevede che il silenzio equivalga a silenzio rigetto (come, ad esempio, per la richiesta di
accesso agli atti ex art.25);

3. Materie in cui la PA ha l’obbligo di provvedere. In questi casi, se la PA non dovesse rispondere, saremmo difronte ad
un’ipotesi di silenzio-inadempimento ed il privato ha una duplice tutela: la prima è una tutala amministrativa, che consente
al privato di rivolgersi all’organo sostitutivo, il quale è tenuto a provvedere nella metà dei termini previsti dall’art.2
comma 2,3; la seconda è una tutela procedimentale: il privato può rivolgersi al GA entro un anno, chiedendo che la PA
provveda. Il privato può limitarsi a richiedere che la PA provveda e non le modalità con cui la PA deve provvedere, ad
eccezione dei processi vincolati e adempimenti istruttori ex. Art.31 c.p.a.

Art 31 co.3: Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata
o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori
che debbano essere compiuti dall'amministrazione.

La PA ha l’obbligo di provvedere anche nel caso di un provvedimento in esecuzione di un giudicato che impone alla PA di
annullare un proprio atto (autotutela contenziosa).

4. Altre materie individuate con DPCM su proposta del ministro per la funzione pubblica.

Art. 20 co. 3: “Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l'amministrazione
competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies.”

Esempio: occupo il suolo pubblico perché non ho ottenuto una volontà diversa da parte della PA e dunque questo comportamento
configura una ipotesi di silenzio assenso. La PA però, ex. Art.20, co.3 può revocare il provvedimento amministrativo, che si è
formato dal decorso del silenzio assenso.

La revoca è un provvedimento che ha effetto ex nunc, fatti salvi gli effetti medio tempore prodotti. Dunque, la PA mantiene sempre
salva la possibilità di ritornare sui suoi passi. L’ autotutela si applica perché il silenzio è significativo, ha valore
provvedimentale. In caso di silenzio inadempimento, la PA non può applicare l’autotutela in quanto in capo ad essa è sempre
fatta salva la possibilità di provvedere, entro un anno dalla proposta avanzata dal privato dinanzi al GA.

Il ritardo della PA (o il silenzio-inadempimento) comporta un danno ingiusto in capo al privato (definizione danno ingiusto
sentenza 500/99)

L’art.2 bis è importante in quanto stabilisce i soggetti tenuti al risarcimento del danno: “Le pubbliche amministrazioni e i soggetti
di cui all'articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa
o colposa del termine di conclusione del procedimento”

Munera-> soggetti privati preposti all’esercizio della funzione pubblica (munus) art.1-ter

Il comma 1-bis dell’art.2-bis prevede il diritto all’indennizzo in capo all’istante in caso di mero ritardo della PA per inosservanza
dei termini di conclusione del procedimento ad istanza di parte per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi (fatti salvi i casi di
silenzio qualificato e dei concorsi pubblici). La situazione del privato che vuole il rispetto dei termini ai sensi di questo comma, è
detta interesse procedimentale.
_______________________________________________________________________________________________________

La 241 disciplina soltanto tre istituti che sono espressione del potere di autotutela: revoca, annullamento d’ufficio e convalida.
Per quanto riguarda l’annullamento lo abbiamo iniziato la scorsa settimana e abbiamo visto come in questa valutazione, che spetta
alla PA o un’altra amministrazione prevista dalla legge, vengono in gioco diversi interessi che potrebbero essere anche tra loro
confliggenti. L’annullamento è un potere che spetta alla PA ed è un potere altamente discrezionale, perché essa stessa può tornare
sui propri passi, e quindi vediamo come la pubblica amministrazione deve contemperare vari interessi al fine di decidere se
procedere ad annullare per vizi di legittimità un suo precedente atto.

Quali sono i valori tra loro contemperati in questa valutazione discrezionale e proporzionata?

-Sicuramente l’interesse pubblico;

-il termine “ragionevole”, considerato un super-principio, in cui la ragionevolezza viene “prima” della proporzionalità nel senso
che questa discende direttamente dalla ragionevolezza e ha un portato come bilanciamento di valori che hanno valenza generale.
Mentre un tempo il termine ragionevole era qualcosa di astratto, rimesso alla libera volontà dell’amministratore, e quindi altamente
soggettivo e sorretto da principi di logica, adesso ha una precisazione più concreta, non deve essere considerato inferiore ai dodici
mesi;

-la ragione di “pubblico interesse”, sempre in stretta connessione con il procedimento intrapreso dalla PA;

-gli interessi dei destinatari e gli interessi dei controinteressati: c’è sempre il concetto di tutela dell’affidamento dei terzi ed è
un principio che, seppure abbia origine nella giurisprudenza comunitaria, poi trova una sua collocazione indiretta positivizzata
all’interno dell’art. 21-nonies, comma 1 (anche all’interno dell’articolo 21-quinquies quando si parla di indennizzo che diventa
una contropartita del sacrificio patito dal privato). Vediamo come vengono bilanciati dalla PA gli interessi dei privati al pari
dell’interesse pubblico. Gli interessi in gioco si possono definire “uguali e contrari”: uguali perché la sua attenzione riguarda il
medesimo atto, contrari perché, mentre il diretto destinatario vuole il mantenimento, il controinteressato vuole l’annullamento.

Quindi nell’art. 21-nonies tutto deve essere bilanciato. La parte finale è stata recentemente aggiunta dal legislatore con un richiamo
alle responsabilità del dirigente che non provvede, nonostante sappia che il suo provvedimento amministrativo è un provvedimento
illegittimo (qui sarebbe opportuno parlare della responsabilità dirigenziale).

Abbiamo poi la CONVALIDA, un istituto importante che poteva ottenere delle modifiche con la recente legge del 2021 che ha
modificato il comma 1.

Il comma 2 dice che “è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico ed entro un termine ragionevole”.

Qui c’è un provvedimento annullabile che diviene oggetto di una procedura di secondo grado con esito confermativo, con la
finalità di sanare i vizi di legittimità che inficiavano un precedente atto che risulta annullabile. I discorsi sono due: se il non dire,
il non spiegare nel secondo comma che questa annullabilità è uguale alla annullabilità propria del primo comma allora o è fatta
salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, si richiami il disposto precedente di cui al comma uno e quindi lo
diamo per implicito questo discorso, oppure il legislatore voleva dire altro; tuttavia, il discorso è lo stesso.

Sopra si dice termine ragionevole, poi diventato 18 mesi, poi 12 mesi e ora diviene ragionevole e basta, affermando che, per la
convalida, essendo un provvedimento ad esito conservativo, il termine ragionevole è visto in maniera più ampia perché a volte la
convalida non produce effetti più favorevoli ma solo effetti di conservazione degli atti, di solito sono atti che non contengono
limitazioni, volutamente non c’è stato un intervento del legislatore per circoscrivere il concetto di ragionevole.

E poi, l’ultimo comma che dice che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate
con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici
mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico
di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.”

È stata una indicazione per quei procedimenti che sono iniziati sulla base di una falsa rappresentazione dei fatti o dichiarazioni
mendaci, che rappresentano dei reati. La norma è stata messa perché diretta conseguenza della modifica al primo comma, in modo
da evitare che questi procedimenti debbano rispondere a tempi ristretti.

Nel primo comma è da dire, anche, che possono essere annullati anche i provvedimenti formatisi ai sensi dell’articolo 20.

L’altra volta abbiamo accennato alla positivizzazione di solo alcuni dei poteri di autotutela, esistono tuttavia altri istituti che
comunque sono la prassi nell’attività amministrativa, uno su tutti la RATIFICA, un comunissimo provvedimento di secondo
grado con il quale la PA mantiene in vita un suo precedente atto epurandolo dal vizio di incompetenza che lo inficiava.
Perché si adotta in modo frequente nelle pubbliche amministrazioni? Perché per ragioni di urgenza, un atto può essere emanato
da un singolo, in attesa che il collegio che avrebbe dovuto adottarlo lo vada a ratificare.
Quando parliamo dell’articolo 21-nonies, il rimando è inevitabilmente al silenzio assenso laddove cita l’articolo 20. È espressione
del principio della semplificazione amministrativa, un principio che rientra nel principio di celerità amministrativa, di economicità
e di efficacia. Celerità intesa come efficacia: la PA efficace, efficiente ed economica.

Il silenzio assenso è la procedura celere per eccellenza e diventa la norma generale. Oggi la regola generale è che: “fuori dai casi
in cui si possa applicare la segnalazione di inizio attività di cui all’articolo 19, per i procedimenti ad istanza di parte tesi al
rilascio di provvedimenti amministrativi, il silenzio dell’amministrazione competente equivale sempre ad accoglimento della
domanda, senza ulteriore diffida o istanza, se la medesima amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui
all’articolo 2 commi 2 e 3 (quindi 30 giorni o quello maggiore indicato nel regolamento) il provvedimento di diniego oppure non
procede ai sensi del comma due.”

Cioè io faccio una istanza per il rilascio di un’autorizzazione amministrativa, se la PA non mi risponde in 30/90 giorni o
non mi ha comunicato un provvedimento di diniego o se non ha, entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza, indetto
una conferenza dei servizi, il silenzio equivale ad assenso.

Con l’innovazione digitale è stato aggiunto il comma 2-bis: “nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale a
provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso,
l’amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica, un’attestazione circa il decorso dei termini del
procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo. Decorsi inutilmente dieci
giorni dalla richiesta, l’attestazione è sostituita da una dichiarazione del privato ai sensi dell’art. 47 del decreto del Presidente
della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.”
LEZIONE 02/12/2021

L’attività amministrativa di secondo grado rientra nell’attività amministrativa attiva tant’è che l’autotutela è inserito pacificamente
nella legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, ciò prova con assoluta certezza che si parla di amministrazione attiva. In
linea di massima, quindi, l’attività amministrativa in autotutela si fonda su due linee teoriche differenti: chi parla sempre di
amministrazione attiva e chi parla di una nuova fattispecie, un impulso nuovo e completamente differente e chi ci rivede un
procedimento di riesame, con tutti gli evidenti limiti che si accordano al riesame. Tutte le teorie dottrinali maggioritarie, però, la
interpretano come una nuova attività di amministrazione, non di primo grado, ma comunque è un nuovo esercizio di attività
amministrativa.

Facendo un excursus, completiamo il discorso sulla legge 241/1990 con l’articolo 19. Già nell’articolo del silenzio assenso, si
dice “ad eccezione dei casi previsti dall’articolo 19”, di che si tratta? L’articolo 19 dice che ogni atto di autorizzazione, licenza,
concessione non costitutiva (quindi che non amplia la sfera giuridica del privato) , permesso o nulla osta comunque denominato …
il cui rilascio dipende dall’accertamento dei requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto
generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il
rilascio, insomma si parla di atti in cui non c’è una azione di valutazione discrezionale della PA, ecco perchè si parla ad esempio
di concessione non costitutiva; l’autorizzazione è meramente dichiarativa e serve a confermare la sussistenza di alcuni requisiti,
quindi svolge una attività vincolata. La norma dice, quindi, ripetendo, che ogni atto non costitutivo, o comunque atto come un
nulla osta, una presa d’atto, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli, le domande richieste per l’esercizio di attività
imprenditoriali o commerciali, il cui esercizio è possibile con il soddisfacimento di requisiti precedentemente previsti, senza un
numero chiuso determinabile da qualsiasi comportamento o legge (non c’è un limite), è sostituito da una SEGNALAZIONE
DELL’INTERESSATO, cioè la SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività). Ogni atto/documento prima citato (o
comunque rinvenibile nell’art 19 della norma) è sostituito con atto proprio che è una segnalazione dell’interessato con l’esclusione
dei casi in cui siano coinvolti questioni sull’ambiente, sulla paesaggistica. (a proposito di ambiente vedi il principio di precauzione
collegato all’adeguata istruttoria). La segnalazione è corredata da una dichiarazione sostitutiva di certificazione e dell’atto di
notorietà per quanto riguarda gli stati, le qualità personali e i fatti previsti negli articoli 46 e 47 del testo unico di cui al DPR del
28 dicembre 2000 n.445, nonché, ove espressamente previsto dalla normativa vigente, dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici
abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di conformità da parte dell’Agenzie delle imprese di cui all’articolo 38, comma 4, del decreto
legge 25 giugno 2008 n.112 convertito, con legge 113/2008 relative alla sussistenza dei requisititi e dei presupposti di cui al primo
periodo; tali attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza
dell’amministrazione.

Ecco perchè si chiama “certificata”, perchè la segnalazione è accompagnata da una dichiarazione personale di responsabilità e dal
parere di un esperto. I presupposti tecnici devono essere asseverati da tecnici, da personale professionale che abbia delle
determinate competenze sul tema. Ecco perchè è un atto privato oggettivamente amministrativo. “Nei casi in cui la normativa
vigente prevede l'acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l'esecuzione di verifiche preventive, essi sono
comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma, salve le verifiche
successive degli organi e delle amministrazioni competenti.” Ci si collega, a questo punto, alle questioni attinenti agli articoli 16
e 17 della legge 241/1990. “La segnalazione, corredata delle dichiarazioni, attestazioni e asseverazioni nonché dei relativi elaborati
tecnici, può essere presentata a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, ad eccezione dei procedimenti per cui
è previsto l’utilizzo esclusivo della modalità telematica; in tal caso la segnalazione si considera presentata al momento della
ricezione da parte dell'amministrazione.” Come nell’articolo 21 bis abbiamo la regola generale per cui gli atti amministrativi
hanno effetti nel momento in cui vengono comunicati, gli effetti decorrono da quando l’atto è conoscibile mediante la notifica in
qualsiasi suo mezzo ammesso dalla legge. È come se si fosse verificata una inversione dei soggetti in gioco con l’articolo 21 bis
nella disciplina sulla SCIA, nel senso che in quest’ultimo ambito è il privato che invia alla PA.

Il comma 2 segna poi una eccezione da approfondire e da vedere sulla norma.

Il comma 3 dice “ L'amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1,
nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di
divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora sia possibile conformare l'attività
intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l'amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere
prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta giorni per l'adozione di queste ultime. In
difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l'attività si intende vietata. Con lo stesso atto
motivato, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell'interesse pubblico in materia di ambiente,
paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale, l'amministrazione dispone la sospensione dell'attività
intrapresa. L'atto motivato interrompe il termine di cui al primo periodo, che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato
comunica l'adozione delle suddette misure. In assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso termine, cessano gli effetti
della sospensione eventualmente adottata.”

Comma 4 “Decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis,
l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni
previste dall'articolo 21-nonies.” Capiamo che è un’attività di secondo grado perchè l’atto del privato sostituisce in toto il
provvedimento di primo grado, la PA conserva il potere di annullare quell’atto.
La SCIA è la massima rappresentazione della semplificazione amministrativa perchè il privato fa da se quello che avrebbe dovuto
fare la PA, la SEGNALAZIONE SOSTITUISCE IN TOTO L’ATTIVITÀ DELLA PA. C’è un’attività privata che sostituisce in
toto l’attività privata.

6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti
taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in
caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'articolo 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
Questo atto è una grande conquista del privato, il quale, però ,può chiedere alla pa di compiere le verifiche che le competono per
una questione di sicurezza e se la PA è inerte io posso adire l’azione per il silenzio inadempimento, e quindi si può collegare alla
questione inerente il silenzio inadempimento.

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