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MUSICA – DIASPORA AFROAMERICANA - V PARTE – IL BLUES DALLE ORIGINI AD OGGI


di Daniele Mutino

DIASPORA AFROAMERICANA
IL BLUES DALLE ORIGINI AD OGGI

Dal New Orleans a Withney Houston, la storia del blues – disegno di Assunta Petrocchi

Si può dire che il blues è il punto di partenza della musica moderna, da cui derivano:
- il jazz
- il rythm & blues (R&B)
…e, attraverso il rythm & blues:
- il rock & roll, e, in generale, tutto l’imponente movimento rock;
- il soul, da cui derivano il funky e la disco music
- il rap.
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di Daniele Mutino

Il blues è, in un certo senso, una rivoluzione mentale, uno scarto decisivo, che ha
dato il via al percorso della musica moderna.

Le origini

Il blues nasce come un canto che esprime sofferenza e prende nome dal colore blu.
Blu è il colore della tristezza e della malinconia, è infatti un colore scuro, anche se
non è il nero, che è invece assenza totale di luce e colore e indica una disperazione
senza prospettive; nel blu la luce c’è, la speranza c’è, anche se c’è una difficoltà a
trovarla e perseguirla. Blu è il colore del cielo quando la notte va finendo e si fa più
viva l’attesa della luce del giorno.
Analogamente il blues, come genere musicale, è essenzialmente un linguaggio
dell’anima, un’anima sofferente ma che ha dentro di sé la luce, e la cerca, la vuole,
la invoca; è come un lamento che, attraverso il canto e la poesia, esprime, senza
troppe mediazioni, i sentimenti e i desideri di un essere umano a cui manca qualcosa
per essere felice: in questo senso, la poetica del blues è una poetica dell’assenza che
si trasforma in desiderio.

Questo si comprende meglio considerando con attenzione le radici storiche del


blues, che nasce dalla musica degli schiavi africani deportati nel Delta del grande
fiume Mississippi e in generale negli stati meridionali di quel che attualmente sono
gli USA: Louisiana, Mississippi, Georgia, Alabama, Texas, Florida, Carolina del Sud.
Il Mississippi è uno dei cinque fiumi più grandi del mondo, e nella sua parte
terminale, prima di sfociare nel Mar di Caraibi, forma una grande fertile pianura
dove, dal XVII secolo in poi, i coloni europei hanno sviluppato in grande scala
l’agricoltura, con piantagioni soprattutto di cotone, frumento e mais. Per coltivare
queste terre i coloni europei avevano bisogno di molta manodopera: dopo alcuni
tentativi falliti con gli indigeni nordamericani, di costituzione fisica troppo debole
per sostenere la durezza del lavoro agricolo, vennero quindi utilizzati schiavi
deportati appositamente dall’Africa, dove la popolazione è di costituzione fisica
forte, robusta e resistente.
Milioni di uomini e donne sono così stati strappati alla propria terra e deportati in un
paese ostile e straniero, dove sono stati messi in catene, privati della libertà,
separati per sempre dagli affetti più cari (genitori, figli, amori, amici), ridotti alla
condizione di animali da soma, senza alcun diritto, privati anche della possibilità di
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praticare le loro religioni tradizionali, costretti a colpi di frusta a lavorare senza


sosta, per giornate intere, sotto il sole cocente e la pioggia. Per queste persone,
afflitte da un dolore infinito dell’animo, il canto diventò l’unica risorsa possibile per
sopravvivere spiritualmente e ricordarsi di essere umani, l’unica preghiera possibile
per cercare di riconciliarsi con il divino.
È così che, tra gli schiavi africani deportati nel Delta del Mississippi, si sviluppano
due tipi di canto responsoriale, sulla falsariga dei canti responsoriali africani:
- le work songs (canti di lavoro); erano cantate collettivamente dagli schiavi
durante i lavori nei campi, anche per coordinarsi meglio collettivamente nei
movimenti, in modo da alleviare la fatica. Quella di cantare durante i lavori più
faticosi è un’usanza tipica della cultura africana, ma nelle work songs era espresso
anche il dolore dovuto alla condizione di schiavitù, e spesso si trattava di vere e
proprie sofferenti preghiere.
- le spiritual songs, detti anche, più semplicemente, spirituals (canti di preghiera);
privati della possibilità di praticare la religione animista africana, gli schiavi
assimilarono presto la religione cristiana dei loro padroni, mantenendo però, nel
loro modo di pregare, alcune modalità della loro cultura originaria: per questo le
loro preghiere erano sempre cantate in modo responsoriale, nella forma di un
dialogo cantato tra il predicatore e la comunità, ed erano quasi danzate, in quanto
coinvolgevano anche i movimenti del corpo e il battito delle mani. Dentro le
baracche che gli schiavi adibiscono a chiese cristiane, prendono forma gli
spirituals, in cui si coltiva il sogno di una liberazione dalla schiavitù che viene fatta
coincidere con la redenzione messianica prospettata dalla religione. In tempi più
recenti, poi, gli spirituals sono confluiti direttamente in quel genere di
musica/preghiera contemporaneo che prende il nome di gospel (che vedremo
meglio con gli ascolti).

Questi due tipi di canto degli schiavi africani, essendo entrambi canti responsoriali
basati sulla musicalità africana, dal forte contenuto emotivo e ritmico, non erano poi
molto diversi tra loro, e costituiscono le radici di quel che fiorirà poi come blues. Dal
punto di vista strettamente musicale, sia le work songs sia gli spirituals hanno in
comune col blues tre aspetti fondamentali:
- il sistema armonico ibrido, frutto di una fusione tra la scala musicale europea -
costruita sull’ottava temperata del pianoforte, divisa in dodici suoni uguali, e la
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scala musicale africana, che è invece pentatonica, ossia costituita da soli cinque
suoni fondamentali, ma comprendente una gamma infinita di sfumature micro-
tonali tra una nota e l’altra;
- il carattere ritmico sincopato, ossia con gli accenti che non cadono sul 1° e 3°
tempo, come nella musica europea, ma sui tempi cosiddetti deboli (2° e 4°),
determinando un continuo spostamento ritmico/metrico che deriva direttamente
da esigenze di danza, e stimola il movimento del corpo perfino se non si tratta di
musica da ballare; questa impostazione ritmica, poi, nel XX secolo si evolverà in
quel modo particolare di portare il tempo che viene detto swing;
- la continua apertura all’improvvisazione, dovuta sia al fatto che si tratta di musica
orale, ossia non scritta ma trasmessa a memoria di voce in voce, sia alla necessità
di una continua intima corrispondenza della musica con le emozioni vissute sul
momento da chi canta o suona, tanto che, secoli dopo il periodo della schiavitù,
questo particolare modo di cantare verrà definito “soul”, parola che in inglese
vuol dire “anima”.

L’anno fondamentale per la nascita del blues è il 1886, quando, al termine della
sanguinosa Guerra Civile Americana, viene sancita l'abolizione della schiavitù negli
Stati Uniti d’America. Gli statunitensi arrivano tardi all’abolizione, preceduti da
Haiti, Canada, Impero britannico, Argentina, Cile, Messico, Barbados, Giamaica,
Perù, Colombia e Venezuela, e, soprattutto, ci arrivano a metà: la libertà, acquisita
sul piano giuridico, non comporta per gli ormai ex schiavi anche una piena
liberazione, specie negli stati del Sud, dove per molto tempo la schiavitù continuerà
di fatto per oltre un secolo, anche se in modo mascherato, e dove viene istituita la
segregazione razziale, ovvero un vero e proprio regime di apartheid.
In questo contesto di sofferta libertà, nella comunità afroamericana degli U.S.A.
segnata dall’emarginazione, dalla miseria, dal razzismo, si sviluppa il blues, come un
nuovo linguaggio poetico e musicale in cui confluisce la musicalità dei work songs e
degli spirituals.
Il blues si caratterizzò subito come canto che racconta la sofferenza, ovvero il
desiderio di “qualcosa” di cui si ha assoluto bisogno:
- una condizione economica accettabile
- l’amore della donna dei propri sogni
- la piena dignità di esseri umani
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- la Grazia divina e la beatitudine dei santi.


Il blues si sviluppa al tempo stesso sia come musica non professionale, sia come
musica professionale.
Come musica non professionale viene suonata dagli afroamericani per loro stessi: in
genere si tratta di un uomo che canta in solitudine la propria sofferenza,
accompagnato da una chitarra o da un banjo; può anche cantare insieme ad un
piccolo coro che gli risponde, in forma responsoriale.
Come musica professionale: numerosi ex schiavi, per svincolarsi dai loro padroni e
riuscire comunque a sopravvivere, iniziarono a suonare nelle strade a cappello, o
anche nei locali e nei saloon, Questo avviene in particolare nella città più grande e
cosmopolita della regione, New Orleans, principale città della Louisiana.

La professionalizzazione della musica nera

Nacquero così, come forme del blues, due nuovi generi di musica professionale
d’intrattenimento, che necessariamente dovettero mutare la tristezza malinconica
tipica del blues, in allegria e divertimento:
- il rag-time, un genere destinato inizialmente solo al pianoforte, che veniva
suonata nei saloon e nelle case di prostituzione, e che fu reso celebre dal
musicista nero Scott Joplin;
- il new-orleans, genere che prende nome dalla città di New Orleans nelle cui
strade suonavano i musicisti neri, e che verrà imitato anche dai musicisti bianchi
attraverso il genere dixieland, sostanzialmente analogo al new-orleans ma
suonato da bianchi.

Il new-orleans sviluppò una formazione strumentale particolarmente adatta a


suonare nelle strade, e quindi costituita soprattutto da strumenti a fiato e a
percussione, e comunque da strumenti dal forte volume sonoro:
- una tromba solista (in genere una cornetta);
- due strumenti melodici (con una funzione armonica o di controcanto al solista), in
genere clarinetto e trombone, o sax;
- uno strumento armonico, che in strada era in genere il banjo, una sorta di
chitarrino di origine africana dal suono molto forte, con le corde di metallo e la
cassa armonica formata da un tamburo di pelle tesa su una cornice di ferro;
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alternative al banjo potevano essere la chitarra, o, quando si suonava dentro i


club, il pianoforte;
- una sezione ritmica formata da basso (che in strada, poteva essere una tuba, un
susaphono, o, più comunemente, un basso a tiro, mentre nei locali era in genere
un contrabbasso) e batteria, con l’aggiunta facoltativa di altri strumenti a
percussione ricavati da materiale riciclato (cucchiai, rastrelli, grattugie).

Singolare è la storia di due strumenti tipici delle sezioni ritmiche del new-orleans, la
batteria (con il charleston) e il basso a tiro, nati entrambi dall’ingegno di chi è
povero e deve per forza inventarsi qualcosa:
- la batteria nasce, insieme all’invenzione del charleston, dall’esigenza di diminuire
il numero dei musicisti in organico con cui dover dividere i soldi dei compensi; con
la batteria, infatti, un solo musicista, suonando più strumenti a percussione
contemporaneamente grazie all’uso di pedali, riesce a coprire tutta la sezione
ritmica tipica delle bande, che normalmente richiedeva almeno tre diversi
musicisti (uno per il rullante, uno per la grancassa ed uno per i piatti); il batterista
infatti, mentre suona con le bacchette il rullante (integrato anche da uno o due
timpani), aziona con i piedi, grazie a due pedali, anche la grancassa e i piatti. I
piatti, in particolare, vengono azionati attraverso un sistema meccanico molto
ingegnoso, inventato in questi anni a New Orleans, dal nome charleston, in cui
due piatti vengono posti uno sopra l’altro in cima ad un bastone e sbattono tra
loro nel momento in cui quello superiore viene tirato da una corda di ferro,
azionata, appunto, dal pedale; il piatto superiore del charleston può essere anche
suonato con una delle due bacchette nelle mani del musicista, combinandosi col
suono dello stesso strumento azionato dal pedale, in modo da generare molte
diverse combinazioni sonore possibili;
- il basso a tiro è un basso rudimentale costruito interamente con materiali di
recupero; è formato infatti da una grande cassa armonica formata da una grossa
scatola di legno (di quelle che servivano per trasportare il te sulle navi) o da una
bagnarola di legno, porcellana o metallo, sulla cui è fissata una normale corda
(percossa da una bacchetta o pizzicata dalla mano) tesa in modo variabile tramite
un manico di scopa, per modificarne l’intonazione.
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Tra la data dell’abolizione della schiavitù, a metà dell’XIX secolo, e i primi decenni
del XX secolo, New Orleans è la capitale indiscussa di uno straordinario movimento
di rinnovamento musicale, in cui il new-orleans e il rag-time, sviluppandosi,
stimolano l’evoluzione in senso professionale di tutto il blues. La città portuale di
New Orleans, punto di scambio imprescindibile di merci e persone, sbocco nel mare
per i territori agricoli del Delta del Mississippi e le loro produzioni, è infatti un luogo
ideale per lo sviluppo di nuovi linguaggi musicali. In essa si trovano infatti a
convivere tante differenti identità religiose, culturali e musicali: luogo di accoglienza
privilegiato degli ex schiavi afroamericani provenienti dal Delta del Mississippi,
prima di diventare una città statunitense era passata sotto la colonizzazione
successiva di cattolici spagnoli, poi di cattolici francesi, e quindi di protestanti inglesi,
ognuna dei quali ha lasciato il suo segno sulla città; ma soprattutto, a partire
dall’abolizione della schiavitù nell’isola di Haiti (avvenuta alla fine del XVIII secolo, la
prima nella Storia), ha accolto anche molti ex schiavi afroamericani provenienti dalle
isole caraibiche, che si sono portati dietro e la lingua e la cultura creola e le loro
religioni magico-animiste di origine africana, come il vudù.
Nei primi decenni del XX secolo a New Orleans, in tale crogiuolo di culture e
religioni, assistiamo ad un fermento musicale senza precedenti nella Storia: si suona
senza ovunque, nelle strade, nei locali per gente di colore e in quelli per i bianchi

Qui, l’evoluzione professionale del blues, porta alla nascita del jazz, di cui parleremo
dettagliatamente in una scheda a parte. Per il momento ci limitiamo a dire che il jazz
nasce quando, per catturare l’attenzione del pubblico bianco, i musicisti neri si
mettono a suonare le ballad della musica bianca (in genere brani tradizionali di
origine celtica o canzonette famose recenti), rivestendole però con il linguaggio
musicale proprio del blues che, come abbiamo visto, si basava sui seguenti tre
elementi: scala armonica ibrida con richiami al sistema pentatonico, tempo
sincopato e, soprattutto, apertura all’improvvisazione. Il tema melodico di una
ballad bianca veniva quindi suonato all’inizio dell’esecuzione, con la forza espressiva
tipica della musica nera, per richiamare l’attenzione del pubblico bianco, ma poi ne
veniva ripetuta solo la struttura armonica, su cui i solisti improvvisavano
liberamente, a turno, in un’apoteosi di musicalità nera, fino a che, alla fine
dell’esecuzione, il tema melodico non veniva ripetuto di nuovo per l’ultima volta.
Non a caso questo nuovo linguaggio musicale, che prendeva forma dall’unione del
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blues con la musica bianca, ebbe subito un successo straordinario anche tra i
bianchi: esso consentiva loro di ascoltare la propria musica, quella a cui erano
affezionati, ma suonata in modo completamente nuovo, accattivante e
sorprendente, con la forza vitale e l’energia sonora, improvvisativa e ritmica del
popolo afroamericano.

Le cose cambiano con la crisi economica alla fine degli anni ‘20, quando molti
musicisti afroamericani lasciano New Orleans, sia per acquisire una migliore dignità
lavorativa, sia per sfuggire al razzismo che ancora imperversava nel sud-est;
emigrano quindi nelle grandi città industriali del nord, Chicago, New York, Detroit,
perfino la lontanissima Seattle (nel nord della costa pacifica, vicino al Canada), che
diventano, da quel momento in poi, le nuove capitali del blues e del jazz.

L’industria discografica e i bianchi

A partire dagli anni ‘40, negli U.S.A. si sviluppa l’industria discografica e si diffonde
capillarmente l’uso della radio: il blues vivrà così un periodo di enorme sviluppo
commerciale, trasformandosi nel rythm & blues - o, in forma abbreviata R&B -, un
nuovo genere musicale in cui il vecchio blues acquista ritmo e ballabilità, che si
impone sul nuovo mercato discografico, prima americano, e in seguito, negli anni
‘50, anche internazionale.
Il successo internazionale del R&B avviene soprattutto con Ray Charles, precursore
del genere soul, musicista afroamericano soprannominato, non a caso, “The Genius”
per le sue grandissime doti sia artistiche sia imprenditoriali. Il successo di Ray
Charles si deve non solo alla sua bravura, ma anche al fatto di aver saputo fondere il
rythm & blues prima con i vecchi canti spirituals (ricongiungendo il blues con le
proprie origini, in modo da restituirgli tutta la forza espressiva originaria), quindi con
il jazz e poi, addirittura, con la bianca country music, intuendo le potenzialità di
quella commistione di linguaggi neri e bianchi che sarà una delle formule più efficaci
della musica commerciale successiva; la country music è infatti una musica fatta ed
ascoltata in genere esclusivamente dai bianchi, basata sulle vecchie folk ballads
(ballate popolari), che nasce e si sviluppa negli stessi stati meridionali e negli stessi
anni dove gli afroamericani hanno fatto nascere il blues.
La grande esplosione mondiale del rythm & blues, avverrà proprio nel momento in
cui, ad impadronirsi di questo linguaggio musicale, saranno i musicisti bianchi: è così
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che negli anni ’50 nasce il rock & roll, il cui paladino più famoso sarà il cantante
bianco americano Elvis Presley, che diverrà la prima grande star mondiale della
canzone. Inizialmente, fra il rythm & blues e il rock & roll non esiste alcuna
differenza apprezzabile se non il colore della pelle degli interpreti e il nome; anche
in seguito, quando il rock & roll diventerà più semplicemente il rock, molte grandi
rock stars sapranno rivendicarsi molto chiaramente il loro profondo legame con il
blues.

La prima reazione della cultura afroamericana al rock & roll dei bianchi è il
rafforzamento del proprio legame con le radici del blues attraverso la valorizzazione
e lo sviluppo del canto soul, che non a caso significa “anima”, ed indica il particolare
modo di cantare il blues, melismatico, improvvisativo, quasi sciamanico,
profondamente connesso alle emozioni realmente vissute sul momento.

Fino ad allora la musica afroamericana aveva già prodotto alcune grandi voci nei
diversi generi che si erano sviluppati dal blues, tra cui ricordiamo, oltre a Ray Charles
per l’R&B, anche Bessie Smith (1894-1937) e Muddy Waters (1913-1983) per il blues,
Billie Holiday (1915-1959), Ella Fitzgerald (1917-1996), Louis Armstrong (1901-1971)
e Sarah Vaughan (1924-1990) per il jazz.
A partire dagli anni ’60 fino ad oggi, la ritrovata identità soul della musica
afroamericana si svilupperà in nuove direzioni, con la creazione di nuovi generi
musicali, attraverso cui rivendicare con forza la propria “negritudine”, in
contrapposizione al bianco rock & roll:
- il soul (come genere musicale)
- il gospel, con cui si ravviva e modernizza l’eredità degli antichi spirituals
- il funk, una musica da danza che rinnova e rafforza l’identità afroamericana, e sarà
la colonna sonora del movimento politico che porterà alle grandi ribellioni dei ghetti
neri nelle città americane
- la disco music, musica da danza che con la sua frenesia melodica e ritmica sviluppa
in senso commerciale il rythm & blues
- e, in tempi più recenti, al rap.

Nell’evolversi di questi nuovi generi della musica afroamericana, tutti derivanti dal
blues, emergono negli anni grandi voci soul come James Brown (1933-2006) per il
funk, Marvin Gaye (1939-1984) per il soul, Aretha Franklin (1942-2018) per il soul ed
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il gospel, Nina Simone (1933-2003) per il jazz e il soul, BB King (1925-2015) per il
blues, Withney Houston (1963-2012) e Michael Jackson (1958-2009) per il pop,
Tupac Shakur (1971-1996) per il rap, e gli attualmente viventi Diana Ross per la disco
music, Stevie Wonder, Beyoncé e Alicia Keys per l’R&B e il pop.

BB King – disegno di Assunta Petrocchi


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Alcuni di questi generi musicali nascono all’interno della comunità afroamericana,


ma raggiungono veramente il grande successo internazionale solo quando vengono
interpretati da bianchi: è il caso, come si è detto, del R&B, attraverso il rock & roll e
Elvis Presley, ma anche della disco music con i Bee Gees, del genere soul con gli
Eurythmics e del rap con Eminem. Forse solo il funk di James Brown è riuscito a
rimanere saldamente ancorato all’identità dei ghetti afroamericani, anche se questo
genere radicale e minimalista, votato alla ritmicità assoluta della danza, ha finito poi
per confluire, attraverso l’introduzione della sperimentazione elettronica, nella
house, nella techno e in tutti i vari generi di musica elettronica da danza che si sono
sviluppati a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, nei quali l’identità
afroamericana è stata messa da parte.

Oggi possiamo dire che molti tra i più grandi interpreti della storia del blues non
sono né neri né americani, basti pensare a Eric Clapton, Mark Knopfler o Joe Cocker:
col tempo, infatti, il blues e il canto soul sono diventati un linguaggio universale che
attraversa i generi ed appartiene all’uomo del nostro tempo, di cui riesce ad
esprimere il senso di vuoto e di inappagato desiderio, e il bisogno di trovare la luce.

James Brown – disegno di Assunta Petrocchi

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