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ECONOMIA E GESTIONE DELLE IMPRESE – RIASSUNTO

CAPITOLO 1 – MODELLO D’IMPRESA E REGOLE DI GOVERNO


L’attività imprenditoriale ha subito un’ampia evoluzione nel tempo sotto vari punti di vista; in particolar modo
l’evoluzione si è concentrata a partire dagli anni 80 fino ai giorni nostri. Si è passato da un ottimismo crescente
sviluppatosi in Europa ad un quadro pessimistico dovuto anche al fronte politico-istituzionale trovatosi in
condizioni di incertezza che ha portato ad una fase di recessione nel Medio Oriente. Susseguono poi eventi più
recenti come lo scoppio della bolla speculativa della “New Economy e dot.com” (quotazione in borsa Netscape
primi anni 2000 + sviluppo dei servizi internet) o l’attentato alle Torri Gemelle (New York, 11 settembre 2001)
cui ha avuto una notevole ripercussione sui mercati finanziari contribuendo ad una stagnazione dei consumi e
un aumento della pressione concorrenziale. Attualmente, l’economia mondiale risente gli effetti della crisi
economico—finanziaria nel 2007 che ha colpito maggiormente banche statunitensi cui concedevano i c.d.
mutui sub-prime ovvero prestiti di denaro a soggetti non affidabili; questo fenomeno diffusosi a catena ha
causato un crollo nel mercato edilizio, uno dei più strategici nell’economia di un paese. Gli effetti di questo
crollo hanno avuto notevoli ripercussioni anche nel mercato europeo e sull’economia globale.
Le imprese di fronte a questo tipo di situazioni tendono ad investire in nuove tecnologie per produrre beni e
servizi più sofisticati. Le nuove tecnologie nascono da soluzioni innovative fornite attraverso il progresso
tecnologico e scientifico non solo per i grandi gruppi ma anche per le piccole medie imprese. La crescita di
un’impresa deve essere favorita anche da una forte interazione con la ricerca ed un ambiente istituzionale
favorevole. L’evoluzione tecnologica ha assunto tale rilevanza non sono nel campo dell’industria ma a tutto il
settore imprenditoriale. L’investimento nelle nuove tecnologie è considerato uno dei principi delle economie
di scala poiché esso porta alle imprese non solo maggiore flessibilità ma anche capacità di adattarsi alle
imprevedibili mutevolezze del mercato. Come è noto, si ottengono economie di scala ogni volta che
all’aumentare della dimensione dell’impresa si ottiene una riduzione dei costi medi unitari (in particolare dei
costi fissi di gestione). Esse si distinguono dalle economie di scopo che si raggiungono attraverso il risparmio
derivante dalla produzione congiunta di prodotti diversi o attraverso il perseguimento di obbiettivi diversi con
i medesimi fattori produttivi (stesse risorse, stessi impianti, stesso know-how).
L’attività economica consiste nella produzione e nello scambio di beni e servizi per il soddisfacimento dei
bisogni individuali e collettivi. La parola “azienda” identifica beni e persone, nelle più varie forme, che svolgono
un’attività economica: in particolare quella dell’impresa. Quest’ultima rappresenta l’azienda cui produzione è
destinata prevalentemente al mercato, ovvero alla cessione di terzi mediante atto di scambio; tutto per
soddisfare diversi obbiettivi tra i quali la produzione del profitto, la creazione del valore, l’equa distribuzione
della ricchezza prodotta, la soddisfazione del consumatore e così via; infine l’ultimo fine dell’impresa è uno tra
i più importanti: la sopravvivenza del lungo periodo.

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Gli attuali approcci sistemici allo studio dell’impresa identificano la stessa appunto come un insieme di
elementi diversi, interrelati e interdipendenti rispetto ad un obbiettivo comune che è quello di generare valore
allo stesso tempo:
• ECONOMICO: finalizzato cioè a soddisfare bisogni attraverso l’impiego di risorse limitate
• APERTO: perché in costante rapporto di scambio con l’ambiente esterno (in particolare i mercati di
acquisto e di sbocco)
• DINAMICO: in quanto il proprio equilibrio è sistematicamente in evoluzioni con i mutamenti del
contesto competitivo
• VITALE: ossia capace di reagire e autoregolarsi al fine della sopravvivenza

In Italia abbiamo l’APPROCCIO SISTEMICO VITALE (ASV) che nasce all’interno degli studi di economia e
gestione delle imprese, con l’intento di analizzare l’impresa nella sua interezza concentrando l’attenzione nel
punto di vista e nella prospettiva che ha della stessa l’organo di governo e quindi il management aziendale.
Un’impresa sistemica, è quell’impresa che non solo implementa al proprio interno l’approccio considerato, ma
che abbia la finalità di sopravvivere. Questa semplicistica definizione in realtà richiede una spiegazione assai
complessa ed articolata. Anzitutto definire l’impresa sistema vitale significa concepirla come un sistema aperto
in grado di scambiare informazioni, creare e trasferire conoscenza e intessere relazioni con l’ambiente
circostante e con quello che rappresenta il suo contesto di riferimento ossia quella porzione di ambiente
notevolmente rilevante, poi come la rappresentazione del complesso di competenze che emergono dalla
struttura.

Ulteriore approccio è la considerazione dell’impresa quale una scatola aperta all’interno della quale si
possono individuare due elementi essenziali: l’organi di governo (OG) e la struttura operativa (SO). Il
primo elemento corrisponde all’area decisionale dell’impresa; la struttura operativa, invece, come
suggerisce il termine stesso, è l’area dell’azione, dell’agire. Indubbiamente, tali aree funzionali sono tra
loro connesse, poiché non esisterebbero se fossero disgiunte e incompatibili. In capo all’organo di
governo grava la responsabilità decisionale: è compito dei decisori guardare avanti e operare delle
scelte sostenibili e valide al conseguimento delle finalità originanti dell’attività imprenditoriale; è
compito di chi governa, in altri termini, guardare al
passato, al bilancio, e poi immediatamente rivolgersi al futuro, gestendo opportunamente l’impresa
stessa.

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I sistemi, oltre a presentare le costanti inerenti gli
elementi, i rapporti e le finalità, possono inoltre
essere concepiti per due proprietà chiave:
l’isomorfismo (il possesso d’una medesima forma)
e la ricorsività: i sistemi, difatti, a qualunque
livello, si presentano nella stessa forma,
possedendo un organo di governo e una struttura
operativa. Peraltro, un sistema ricorre e può
ricorrere a più livelli, ovvero possono osservarsi
dei subsistemi e dei sovra-sistemi a qualunque
livello ci si trovi.
Un esempio può essere un gruppo bancario, il
quale possiede un OG e una SO e le sue filiali, che
sono subsistemi, possiederanno similmente un OG e una SO; a livello superiore, essendo il gruppo
bancario inserito in un sistema bancario, esso è assoggettato ad un sistema ancor più ampio, ad esempio
la Banca d’Italia, anch’essa dipendente dalla Banca Centrale Europea, e via discorrendo. Si
dimostrano, in tal senso, l’isomorfismo e la ricorsività dei sistemi.

Tali connotazioni sistemiche dell’impresa portano a configurare l’azienda attraverso molteplici assetti
istituzionali ciascuno dei quali si contraddistingue per uno specifico sistema di CORPORATE GOVERNANCE.
Si parla di CORPORATE GOVERNANCE l’insieme di regole che condizionano la struttura e la dinamica di
un’impresa ponendola in grado o meno di conseguire le condizioni di equilibrio che portano l’impresa
all’assunzione di un particolare modello d’impresa. Possiamo oggi distinguere tre modelli di struttura
proprietaria cui sono collegati i principali modelli di impresa sviluppatesi in ambito economico. Abbiamo:
− MODELLO A STRUTTURA PROPRIETARIA CHIUSA, per tale intendendosi un modello padronale o
familiare, caratterizzato per la concentrazione della proprietà e del controllo in poche mani,
spesso quelle dell’imprenditore. Tali imprese possono essere di piccole-medie dimensioni ed
hanno una scarsa diffusione dei capitali in borsa;
− MODELLO A STRUTTURA PROPRIETARIA RISTRETTA, ovvero un modello consociativo, per tale
intendendosi un’impresa nella quale la compagine azionaria è articolata e mutevole, ma
caratterizzata da una certa stabilità nel tempo. Il capitale è detenuto da un numero ristretto di
azionisti di riferimento (spesso e volentieri banche); ne derivano medio-grandi imprese;
− MODELLO A STRUTTURA PROPRIETARIA DIFFUSA, per tale intendendosi un’impresa che segue il
modello della public company, in cui l’azionariato non si identifica con l’impresa, concepita
come semplice opportunità di investimento. Si assiste ad una divisione della proprietà tra una
pluralità di azionisti, nessuno dei quali riesce ad assumere posizioni di controllo. Si tratta
di società di grandi dimensioni quotate in Borsa, spesso condotte da forti manager.

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I tre principali modelli di impresa sono: modello anglosassone, modello renano, modello italiano

Il MODELLO ANGLOSASSONE è fondato sul liberismo e sulla grande dimensione e si trova


quotidianamente a fronteggiare un’ampia competizione dovuta alla quotazione che tali imprese hanno
in Borsa. Il governo dell’impresa è affidato al CDA (consiglio di amministrazione) eletto dall’assemblea
degli azionisti, ovvero composto da coloro i quali dispongono delle azioni dell’impresa in questione.
All’interno del CDA possono essere distinti soggetti esecutivi e soggetti non esecutivi: tra i primi, che
assolvono alle funzioni manageriali, è nominato l’equivalente dell’Amministratore delegato; tra i
soggetti non esecutivi, invece, riconosciamo coloro che hanno il controllo sull’amministrazione
nell’interesse degli stakeholders esterni. Tale modello, tipico delle aree britanniche o statunitensi, varia
a seconda del Paese in cui è diffuso, ed è basato sulle ‘public companies’ ad azionariato diffuso, in un
mercato borsistico ampio. Le public companies sono modelli d’impresa nei quali l’impresa è partecipata
diffusamente dal grande pubblico (da cui il nome di ‘compagnie pubbliche’); chi governa,
indubbiamente, è il manager dell’impresa, che conferisce a tali modelli l’ulteriore nome di ‘modello
manageriale’. L’orizzonte temporale nel quale opera una public company è assai breve, poiché si mira a
remunerare gli azionisti che, in media, posseggono azioni per due anni. Inoltre, il management mira ad
ottenere maggior potere, prestigio e retribuzione rispetto agli azionisti, e per tal motivo è privilegiata
un’ottica di breve periodo che permetta di soddisfare gli interessi di entrambi gli operatori. Tipico degli
Stati Uniti è l’investimento nel marketing e nella finanza, con un’ottica di sviluppo di breve termine.
L’obiettivo, difatti, è quello di cogliere ogni possibile opportunità di crescita che non richieda troppo
tempo. Inoltre, tali imprese sono contendibili, poiché vi è la quotazione in borsa: non a caso gli Stati
Uniti sono la patria della Borsa. Inoltre, la quotazione in Borsa permette il finanziamento del capitale di
rischio e da ciò deriva la diminuzione dei debiti e la possibilità di frazionare il rischio di impresa tra tutti
gli azionisti che, quotidianamente, finanziano la società acquisendo azioni della stessa.

MODELLO ANGLOSASSONE STATUNITENSE MODELLO ANGLOSASSONE BRITANNICO

ASSEMBLEA DEGLI AZIONISTI ASSEMBLEA DEGLI AZIONISTI


nomina nomina

CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
nomina
nomina
DIRETTORI NON
ESECUTIVI
DIRETTORI
AMMINISTRATORE
NON AMMINISTRATORE
COMITATO DI
DELEGATO ESECUTIVI
DELEGATO CONTROLLO

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Il MODELLO RENANO è fondato sull’economia sociale di mercato ed è di origine giapponese, pur
possedendo affinità con il modello tedesco. Tale modello è caratterizzato da una comunità di intenti ed
una continuità di rapporti tra aziende e dipendenti, e tra aziende e fornitori, nonché dall’intervento della
banca nel capitale, con partecipazioni azionarie incrociate, anche per ovviare al divieto imposto dagli
occupanti USA, al termine della guerra mondiale, di creare holdings. L’impostazione tedesca, però, è
differente da quella giapponese. In Germania, infatti, un forte potere è detenuto dal sistema bancario
e, inoltre, vi è un marcato orientamento dell’economia alla questione sociale. Banche e lavoratori
costituiscono il fulcro del sistema tedesco. Difatti, assieme alle banche, un ulteriore pilastro è costituito
dai lavoratori, organizzati in ‘consigli di lavoratori’, i quali arrivano ad avere voce in capitolo nelle scelte
di carattere manageriale.
Il secondo Paese all’interno del quale si è sviluppato e diffuso il modello renano è il Giappone, dove si
sono formate le grandi Keiretsu, ovvero raggruppamenti di imprese, operanti in settori diversi, collegate
tra loro da partecipazioni incrociate. Si tratta di un fenomeno pressoché unico al mondo. In esse le
banche, a differenza del modello tedesco, ricoprono un ruolo fortemente limitato, non potendo
oltrepassare una soglia di partecipazione superiore al 5%. I Keiretsu sono delle reti di imprese legate tra
loro e consapevoli di costituire una realtà economia e sociale unitaria. I giapponesi, così come i tedeschi,
investono in ciò che è interno all’impresa, mirando alla produzione di valore e investendo in tecnologia,
sviluppo e crescita logistica e produttiva. Guardando alla produzione ed allo sviluppo nel tempo, creano
relazioni stabili e di lungo termine.

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Il MODELLO ITALIANO è caratterizzato per la presenza di un azionista di controllo, per i forti legami tra le
imprese e lo scarso ruolo del mercato dei capitali. In particolare, l’esperienza italiana si connota per
un’accentuata compresenza di tre tipologie di imprese:
− Innanzitutto, le PMI, ossia imprese di piccole o medie dimensioni la cui crescita è limitata dal controllo
familiare e dalle relative risorse. In passato si asseriva che “piccolo è bello”, ma oggi, al contrario, proprio le
piccole dimensioni, in un mondo di grandi o grandissime imprese, le rende poco competitive. Le PMI, per far
fronte alle problematiche da cui sono afflitte, spesso si riuniscono in consorzi, per unire le forze e ridurre i
costi di approvvigionamento, per penetrare i mercati o organizzare canali di distribuzione, per avviare
ricerche e per formare il personale.
− Un modello ulteriormente diffuso è quello cooperativo, realizzato da un gruppo di soggetti che
costituiscono e gestiscono in comune un’impresa che si prefigge lo scopo di fornire prevalentemente ai soci
quei beni e servizi per il conseguimento dei quali i soci stessi si sono riuniti in società: in sostanza, la mutualità
è l’elemento caratterizzante di una società cooperativa. Esempi di società cooperative sono le banche
popolari.
− Terzo ed ultimo modello di impresa presente, soprattutto in passato, è quello della società a controllo
pubblico, sviluppatasi a causa della crisi delle grandi imprese nel periodo tra le due guerre mondiali. Essa ha
avuto grande importanza negli anni del boom economico, ovvero gli anni ’50, ’60, ’70, ed è proprio in questi
anni che si diffonde l’idea di uno Stato-imprenditore, nella quale il sistema delle partecipazioni statali svolge
un ruolo importante ai fini del miracolo industriale ed economico italiano. Tuttavia, l’esperienza dello Stato-
imprenditore ha subito profondi cambiamenti dalla metà degli anni ’70 fino agli anni ’90: il prevalere di
politiche gestionali di tipo burocratico-amministrativo sugli aspetti di economicità e di efficienza, l’inevitabile
‘politicizzazione’ della gestione, l’assenza di reali stimoli alla crescita (dovuti al regime di monopolio), hanno
portato le imprese pubbliche a una condizione di inadeguatezza. A partire dagli anni ’80 tali sintomi di
insostenibilità politica ma anche finanziaria del sistema dell’impresa pubblica e delle partecipazioni statali
hanno portato il governo ad attivare alcuni interventi di smobilizzo, e cioè di vendita a privati di società
pubbliche. Si tratta del processo di privatizzazione che può realizzarsi in vari modi:

• FORMALE, quando si ha la semplice trasformazione di enti pubblici o di aziende autonome statali in


soggetti giuridici sottoposti alla disciplina del diritto privato, ma sempre sotto il controllo pubblico;
• SOSTANZIALE, nel caso di cambiamento della natura proprietaria della società da pubblica a privata,
attraverso soluzioni che vanno dalla partecipazione minoritaria del capitale privato nella proprietà alla
partecipazione maggioritaria o totale del capitale privato, con conseguente cambiamento del soggetto
economico o imprenditoriale;
• FUNZIONALE, in caso di trasferimento a soggetti privati di compiti di gestione e/o di realizzazione di
opere o attività rispetto alle quali i pubblici poteri mantengono la titolarità dei poteri di indirizzo e di controllo
strategico;
• INDIRETTA, se si ha l’introduzione di logiche e di principi di gestione manageriale negli organismi
pubblici, nonché di vincoli e caratteristiche di operatività tipiche della nozione di azienda.

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È bene sottolineare come la riforma del Diritto societario abbia impresso una svolta in tema di autonomia
statutaria, offrendo flessibilità ai modelli di governo societario sia per la conformazione e composizione degli
organi sia per la definizione delle funzioni e delle relative responsabilità. Il codice prevede tre principali
opzioni:
− Sistema ordinario, che identifica la cosiddetta norma di default, operante se lo statuto non dispone
diversamente. Esso continua a basarsi sulla distinzione tra un organo di gestione e un organo di controllo;
− Sistema dualistico, mutuato dal modello renano, secondo il quale il controllo contabile continua ad
essere affidato ad un revisore o ad una società di revisione, ma rispetto al sistema ordinario non è previsto il
collegio sindacale, essendo le sue funzioni attribuite ad un organo intermedio tra proprietà e management
(il consiglio di sorveglianza);
− Sistema monistico, mutuato dal modello anglosassone, che si caratterizza per la concentrazione
all’interno di un unico
organo sia dell’amministrazione sia del controllo.

Il dibattito sul tema della Corporate governance, cioè dei rapporti del management con gli azionisti e
gli stakeholders (i portatori di interessi legati a un’impresa) ha assunto attualità anche in Italia sia per
la crescente attenzione alla responsabilità sociale di impresa, cioè alla capacità non solo di creare
ricchezza per gli azionisti ma anche uno sviluppo sostenibile sul piano ambientale e sociale, sia per la
spinta che si vuole dare ad alcune delle numerose piccole e medie imprese. Ciò per favorire sia la
crescita, attraverso un allargamento della platea degli azionisti, sia il ricambio generazionale, sempre
pieno di difficoltà e di conflittualità interne più o meno latenti, dal fondatore ai suoi successori.
Peraltro, il mercato finanziario ha condizionato molto il mondo produttivo e ne sono testimonianze le
elevate ed irrealistiche quotazioni raggiunte a cavallo del 2000 da società della cosiddetta “new
economy” (basate specialmente su internet), a scapito delle imprese consolidate ritenute della “old
economy”. Anche nella seconda metà degli anni ’80, a causa dei tassi di interesse reali elevati si sono
avuti risvolti negativi per l’apparato manifatturiero reale, specie se visto in confronto con la
concorrenza crescente dei produttori insediati nei Paesi emergenti dell’Estremo Oriente che, oltre a
godere di minori costi di manodopera, sono stati sostenuti da politiche economiche favorevoli alla loro
crescita. La crisi finanziaria globale innescata, da ultimo, dai mutui sub prime segue la lunga serie di
crisi apparse già dagli anni ’80 e intensificatesi negli anni ’90. L’eccesso di ottimismo, che ha
accompagnato l’avvento della New Economy, è stato seguito infatti da una riduzione dei tassi di
interesse e da una intensa fase di deregolamentazione che, assieme, hanno spinto imprese e privati ad
incrementare la domanda di credito. Le conseguenti crescite dei consumi e dell’indebitamento hanno
surriscaldato l’economica, rendendo sempre più fragili le aspettative precedenti e, soprattutto, le basi
su cui era stata eretta la “nuova economia”, fondata su errate valutazioni e forti speculazioni. Così, le
crisi finanziarie si sono via via manifestate, accumulate e aggravate, colpendo dapprima la periferia per
poi spostarsi al centro del sistema finanziario. Nel contesto delineato, la crescente interdipendenza dei
sistemi finanziari di diversi Paesi ha sì favorito miglioramenti sotto il profilo della distribuzione del
rischio, ma ha generato un accrescimento delle difficoltà di valutazione e conseguenze di eventuali
squilibri del sistema.

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Nello scenario di ampia complessità prima delineato si avverte sempre più forte l’esigenza della
statuizione di regole che costituiscono uno strumento per rendere più efficienti i processi gestionali e
decisionali delle imprese, all’interno dei quali si instaurano i conflitti tra azionisti, manager e
stakeholders. Nell’attuale contesto aziendale, caratterizzato da una sempre più frequente separazione
tra proprietà e controllo di impresa, e dove il legame tra azionisti e manager diventa sempre più fragile,
i diversi modelli di governo mettono in luce quali siano le caratteristiche soggettive e oggettive, quali i
diversi interessi strategici e operativi che confluiscono e convivono nell’impresa. Tuttavia, il processo di
globalizzazione sta portando alla nascita di modelli ibridi, dati dall’unione dei tre stereotipi di impresa
dominanti (tradizionale, monistico e dualistico). Se poi si tiene conto del fatto che l’OCSE, alla luce degli
avvenimenti recenti ha provveduto all’emanazione di regole comuni, è possibile immaginare come la
corporate governance sia destinata a divenire sempre più un fenomeno di interesse globale. Regole e
supervisione, però, non sono le uniche leve in grado di riportare ordine ed equilibrio all’interno del
sistema di impresa e, quindi, nel sistema economico internazionale. Il crollo dei mercati ha fatto
emergere la fragilità dei sistemi di controllo aziendali, tra cui quelli bancari, rivelatisi incapaci di tenere
sotto controllo la propensione al rischio ed i conseguenti atteggiamenti di azzardo morali mostrati da
alcuni manager. Il risk management ha rappresentato e rappresenta sempre più una componente
cruciale di ogni strategia, specie se orientata alla creazione. Da un punto di vista esterno, il prevalere del
sistema fondato sul mercato aperto in regime di concorrenza, della proprietà privata, della libertà
individuale nei confronti del sistema collettivistico, sta evidenziando negli ultimi anni i rapidi progressi
sul piano del sapere tecnologico, ma anche gli arretramenti sul piano morale di chi lo produce e lo usa:
l’uomo. Ciò crea un nuovo bisogno di principi etici, di sani valori e di limpide relazioni economico-sociali.
È alta la responsabilità non solo nei confronti degli stakeholders ma anche dell’ambiente e dell’intera
società da parte di chi si trova a condurre le imprese in questa epoca in cui vanno riaffermati i principi di
correttezza (fairness), trasparenza (disclosure) e solidarietà: la creazione del valore nell’impresa deve
avvenire applicando un codice di condotta ispirato all’etica degli affari.

CAPITOLO 2 – ASPETTI ORGANIZZATIVI E STRATEGICI DEL GOVERNO DELLE IMPRESE

Per poter predisporre gli obbiettivi di un’azienda occorre attuare una strategia che consente di affrontare le
complessità della condizione azienda-ambiente. Esistono tre tipi di strategie:
1. STRATEGIE CORPORATE: con essa si definiscono gli orientamenti da seguire nelle scelte, guidandone
la realizzazione, coordinando e controllando le varie funzioni dell’impresa in modo che gli obbiettivi
di ciascuna siano coerenti con gli obbiettivi generali dell’impresa. Per far sì che esse siano efficaci le
imprese di grandi dimensioni devono essere suddivise in più parti, dette STRATEGIC BUSINESS UNIT
o AREE STRATEGICHE D’AFFARI. Una strategia corporate affronta le seguenti scelte:
a) definizione della mission dell’impresa e delle modalità di gestione dei rapporti con i vari
stakeholders
b) definizione degli obbiettivi che si intendono raggiungere
c) definizione dei settori nei quali operare e definire l’allocazione delle risorse tra le varie attività
dell’impresa
d) coordinare il portafoglio dell’impresa tra le singole attività e la ricerca di sinergie.
2. STRATEGIE BUSINESS: si intende per tali l’insieme delle scelte che un’impresa fa all’interno del
proprio mercato nei confronti dei concorrenti; spetta ad una specifica area strategica d’affari
determinare come competere e come ottenere il c.d. VANTAGGIO COMPETITIVO DUREVOLE; senza
vantaggi competitivi sostenibili nel lungo periodo nessuna strategia può resistere

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3. STRATEGIE FUNZIONALI: esse rappresentano l’elaborazione e l’implementazione delle strategie
business coordinate dal top management; le si distinguono dalle strategie business in quanto il raggio
d’azine e l’orizzonte temporale sono più limitate.

Nell’adozione delle strategie sopracitate si identificano in questo modo le capacità dell’impresa che variano
anche in base alle risorse disponibili. Il tutto ovviamente sta anche nel coordinare i vari plessi del nostro
sistema. Un’azienda che possiede capacità limitate può essere molto efficiente ma poco flessibile e quindi
vulnerabile di fronte a nuove situazioni, soprattutto se si tratta di settori soggetti ad un rapido cambiamento
tecnologico; se si tratta invece di un’impresa appena costituita essa è sempre pronta a cogliere nuove
opportunità. L’interazione risorse/capacità crea la redditività d’azienda in funzione della difendibilità del
vantaggio competitivo e della possibilità di realizzare un surplus una volta remunerate le risorse. Quando il
mercato è più trasparente, più efficiente il vantaggio competitivo è scarso o assente; la specializzazione di
un’impresa comporta l’impiego di risorse non liquidabili facilmente, il che apporta vantaggi più o meno
duraturi qualora l’impiego venisse ottimizzato. Se tutte le imprese presenti nel mercato adottassero questa
strategia, allora il vantaggio competitivo della prima impresa potrebbe durare poco. Inoltre, quando
un’impresa detiene una risorsa “decisiva”, dovrà avere la liquidità necessaria per remunerarla; è il caso per
esempio del “manager superpagato” o dei tecnici, operai altamente qualificati scarsamente disponibili sul
mercato il quale si appropria di una parte consistente del maggior reddito conseguito dalla strategia. Ma
concentrarsi soltanto su una risorsa può avere altrettanto effetti negativi; per aumentare la quota di utili che
rimane nell’azienda occorre che le capacità siano il risultato di un impegno e di un contributo quanto più
omogeneo possibile delle varie risorse, le cui potenzialità vanno sviluppate evitando fenomeni di
monopolizzazione. La strategia deve essere, quindi, frutto di specifiche elaborazioni di volta in volta
pensate, che mirano a introdurre in modo ponderato le innovazioni, tra cui quelle di tipo organizzativo
ed informatico, non trascurandone nessuna. La flessibilità, dunque, occorre anche nella formulazione e
nel perseguimento di disegni strategici con dedizione e creatività innovativa. Il disegno e l’attuazione di
un processo di sviluppo strutturale, volto al perseguimento di obiettivi di efficienza, efficacia e redditività,
può sintetizzarsi nel concetto di “governo” dell’impresa. Esso comprende l’orientamento di fondo, la
guida e il coordinamento nonché l’adattamento alle situazioni contingenti in un ambiente mutevole e
perturbato. Ciò che rende più complesso è l’introduzione della tecnologia nel fissare le strategie
aziendali, poiché essa è in grado di produrre una successione continua di soluzioni innovative cui vengono
già prese in considerazione dagli imprenditori più aggressivi i quali attuano delle strategie mirate in
funzione dell’evoluzione del mercato e della loro posizione. Si parla di “Management per risposta
flessibile/rapida” quando vi sono in palio grosse sfide che si sviluppano troppo rapidamente per essere
affrontate con una tempestiva anticipazione. Questo concetto lo possiamo collegare alla distinzione tra
la STRATEGIA DELIBERATA e la STRATEGIA EMERGENTE: la prima dettagliatamente pianificata ed estesa a
tutti gli attori, la seconda sarebbe l’esatto opposto. Ciò comporta che in un ambiente perturbato ed
instabile è preferibile maggior flessibilità da parte del management cui consente di adattare gli schemi
deliberati alle realtà emergenti. Il cambiamento va affrontato valutando costi, rischi e benefici tenendo
in considerazione la turbolenza ambientale e il dinamismo tecnologico affinché si possa configurare uno
sviluppo armonioso. Un aspetto che non viene spesso sottolineato è che la strategia, una volta definita
va attuata; coinvolgendo in modo più ampio possibile tutti i settori/soggetti che fanno parte dell’azienda.
L’efficacia di una strategia si misura in funzione della capacità della struttura operativa di eseguirla. Le
granfi aziende si pongono anche problemi di decentramento produttivo all’interno e all’esterno dei
gruppi; le aziende minori cercano sempre nuovi spazi al fine di affermare le proprie capacità e la propria
autonomia.

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Una tendenza emergente è quella di una crescente globalizzazione di rapporti tra imprese, grazie alla
possibilità offerta dalla tecnologia informatica di realizzare sistemi-prodotti complessi basati su una rete
di imprese autonome, che consente di ottimizzare interi cicli produttivi, mediante il trasferimento e la
connessione dell’innovazione tecnologica, il frazionamento degli investimenti tra più imprese e la
trasformazione di alcuni costi fissi in costi variabili. Si può descrivere, così, una strategia di
specializzazione flessibile, in continuo adattamento al cambiamento, fondata su impianti flessibili e
manodopera specializzata, attuabile in una comunità industriale, che incentiva forme di competizione
e favorisce l’innovazione. Essa è caratterizzata da una o più imprese-guida al centro e da confini col
mondo esterno sfumati, definiti di volta in volta in funzione delle opportunità contingenti con una forte
influenza esercitata dalla diffusione delle nuove tecnologie. Appare, così, per le aziende, la possibilità
sia di poter attuare strategie di rilancio (il cosiddetto turnaround), laddove fossero state interessate
dalla crisi, sia di assumere comportamenti strategici e di collocarsi sul mercato in modi diversificati,
secondo varie combinazioni interne e relazioni con altre imprese.
Le turbolenze di mercato, le continue innovazioni tecnologiche e organizzative, gli squilibri finanziari
possono condizionare l’andamento aziendale rallentandone la crescita o ingenerandone situazioni di
crisi che richiedono interventi appropriati per un riadattamento o un necessario risanamento onde
evitare una malaugurata chiusura. Ci sono state negli ultimi decenni problematiche di ogni tipo, basti
pensare dall’introduzione dell’euro e la sua rivalutazione nei confronti del dollaro americano; il
terrorismo internazionale, l’invasione del mercato da parte della Cina e dell’India… emerge dunque che
le nostre imprese si trovano in elevata competizione, affrontata però con scarse risorse finanziarie,
manageriali e tecnologiche. Altro fattori che vanno considerati sono le banche, il marketing, la ricerca e
lo sviluppo le quali hanno in comune il passaggio da un modello concorrenziale ad un modello
consortivo, basato sullo scambio di idee e nell’aiutarsi a vicenda nei modelli di crisi, ciò va interpretato
sia nella concessione del credito, sia nella gestione delle risorse. Per avere un forte processo di
cambiamento nel medio-lungo termine occorre innanzitutto superare le resistenze anche emotive al
cambiamento da parte dell’organo di governo, dei sindacati ecc. che costituiscono una forte barriera
psicologica; è fondamentale anche diagnosticare tempestivamente le ragioni della crisi, studiando poi
eventuali modelli di risanamento. Quando la crisi influisce grandi imprese o interi settori di mercato,
interviene lo Stato con una politica che faciliti la ristrutturazione e la riorganizzazione industriale
accollandone in capo alla collettività i costi relativi. Gli inconvenienti che sono emersi dalle grandi o
grandissime dimensioni delle fabbriche hanno, a seconda dei casi, ridotto, annullato o superato i
benefici di efficienza produttiva e hanno condotto a una più articolata considerazione delle economie
di scala in funzione delle varie fasi di lavorazione di un prodotto. Si è andata diffondendo, perciò, la
tendenza a un diverso dimensionamento degli impianti e dei processi produttivi che ha portato a
decentrare particolari fasi o linee della produzione in più stabilimenti della stessa impresa, oppure ad
affidare vere e proprie fasi di lavorazione ad aziende esterne, in genere di modeste dimensioni. Il
fenomeno del decentramento produttivo non è peculiare al nostro sistema, essendo una pratica ormai
consolidata, a livello internazionale, nelle grandi multinazionali, instaurata anche dalle aziende
giapponesi. Il fenomeno del decentramento è attribuibile anche alla volontà di superare vincoli
istituzionali, allo scopo di rendere meno rigido l’utilizzo della forza lavoro e di recuperare produttività.
A partire dalla seconda metà degli anni ’80, si è assistito, con l’ausilio dell’elettronica, ad una maggiore
flessibilità del processo produttivo per ampliare l’offerta come richiesto da una domanda sempre più

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frammentata. Ciò ha dato luogo a una ripresa della crescita della grande impresa (“Big is better”),
unitamente alla progressiva internalizzazione dei sistemi economici.
La crisi, subentrata ed estesasi negli anni ’90, ha comportato delle ulteriori modifiche a tale quadro, con
il ricorso alla formula del franchising e ad altre pratiche con cui la grande azienda ha cercato di assumere
un maggior controllo sulle reti distributive, e quindi, sul mercato, a costi contenuti. Negli ultimi anni si
è assistito ad una ulteriore ristrutturazione dei processi produttivi e della gamma di prodotti indotta
dalla situazione economica interna e internazionale con la necessità di recupero di produttività, di
sistematico contenimento dei costi e di ulteriore abbassamento del punto di pareggio, frutto di una
razionalizzazione dei processi stessi. A tale riorganizzazione ha contribuito la spinta alla privatizzazione
delle imprese pubbliche, con l’uso di strutture organizzative e di forme societarie previste dal Codice
Civile. Dunque, il decentramento, motivato anche dalla variabilità e instabilità del mercato, che spinge
a ridurre i rischi, trasformando i costi fissi di struttura in costi variabili di acquisto all’esterno, tende a
configurarsi sempre di più nell’ambito di un quadro organizzativo volto a sviluppare e razionalizzare le
sinergie esterne costituite in gran parte da risorse e competenze di altre imprese, non solo nel settore
produttivo, ma anche della ricerca e del marketing che trasforma il rapporto con il fornitore e con il
cliente in una vera e propria partnership che configura la rete (network) di imprese. Esistono vari tipi di
reti di impresa, quali l’impresa a rete naturale, caratterizzata dall’assenza di identità giuridica e di
struttura gerarchica; l’impresa a rete governata, quale risultato di un sistema di imprese selezionate in
riferimento sia alle risorse di cui dispongono, sia agli obiettivi che perseguono; reti proprietarie, in cui il
collegamento tra le imprese del network è garantito dal possesso di azioni (a questa categoria
appartengono le holding e le joint ventures); reti non proprietarie, in cui il collegamento con le altre
imprese del network avviene tramite accordi di natura contrattuale oppure di natura informale; e
ancora reti convergenti, indipendenti e così via. Si parla di spin-off quando le aziende incentivano alcuni
dipendenti dotati di spirito imprenditoriale a creare una propria attività stipulando contratti di fornitura,
di assistenza, ecc per un periodo non breve; ciò allo scopo di alleggerire la struttura aziendale di costi
fissi e di non privarsi della collaborazione di personale valido al quale viene offerto un sostegno nella
fase di avvio. Tale operazione non va confusa con l’MBO (Management Buy-Out), che si realizza quando
i dirigenti, che credono ancora nel valore di un’impresa in crisi, ne rilevano il capitale azionario, con il
sostegno finanziario di una banca d’affari, allo scopo di ristrutturarla e rilanciarla sul mercato.
Il marketing è una disciplina che studia la pianificazione, la realizzazione e il controllo di attività
riguardanti lo scambio di beni e servizi, avvalendosi anch’esso dei nuovi strumenti informativi e
telematici che per mettono di micronizzare il mercato, ossia ridurlo tramite uno scambio interattivo di
informazioni immagazzinate in una grande base di dati, ciò è stato permesso soprattutto grazie
all’avvento di Internet e dei social network. Un concetto legato a questo fenomeno è quello del
CUSTOMER RELATIONSHIP MANAGEMENT (CRM), l’insieme delle tecniche e degli strumenti organizzati
in modo da consentire all’azienda di perseguire e raggiungere la soddisfazione del cliente e di
conseguenza la sua fidelizzazione in un’ottica di creazione di valore sia per il cliente sia per l’impresa.

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Il CRM si distingue in 3 tipologie:
1. CRM OPERATIVO: comprende soluzioni metodologiche e tecnologiche per automizzare i
processi di business che prevedono il contatto diretto con il cliente
2. CRM ANALITICO: comprende procedure e strumenti per migliorare la conoscenza del cliente
attraverso l’estrazione dei dati dal CRM operativo, la loro analisi e lo studio revisionale del
comportamento dei clienti stessi
3. CRM COLLABORATIVO: comprendente metodologie e tecnologie integrate con gli strumenti di
comunicazioni per gestire il contatto con il cliente.

In questo modo, un’azienda crea valore mediante il seguente processo:


• CREAZIONE DELLA RELAZIONE riducendo i costi di acquisizione del cliente mediante
l’ottimizzazione della propria offerta, in modo da indurre la percezione di una qualità superiore
da parte dei clienti potenziali e favorirne così la transazione verso un ruolo di cliente effettivo.
• SVILUPPO DELLA RELAZIONE: l’azienda individua ed elimina eventuali aree di insoddisfazione
dei clienti e aumenta la comunicazione di vantaggi sui beni e la vendita di prodotti a clienti
esistenti, stimolando il consumatore ad aumentare la propria quota di spesa (c.d. cross selling)
• MANTENIMENTO DELLA RELAZIONE: attraverso l’analisi dei dati è possibile identificare i
segmenti dei clienti più propensi alla defezione permettendo di intraprendere azioni preventive
per ridurre il rischio di abbandono

Le aziende possono effettuare un’ulteriore analisi, l’analisi SWOT che evidenzia i punti di forza e di
debolezza dell’intero sistema tenendo in considerazione anche le minacce e le opportunità ambientali

È importante inoltre coinvolgere le risorse umane nella necessità del cambiamento per rispondere alle
pressioni della concorrenza; un capitale umano in continuo miglioramento consente di perseguire valide
strategie basate sulle proprie capacità innovative e produttive le quali possono portare anche ad un
eventuale espansione dell’attività, acquisendo così nuovi clienti.

Lo scopo finale di quanto suddetto sta nel decentrare e coordinare nel modo più opportuno le attività
di ricerca e sviluppo, di produzione e di marketing in modo da ampliare le opportunità offerte dallo
scambio di esperienze e competenze generando così un flusso di informazioni che producono vantaggio
competitivo; tutto possibile grazie al progresso tecnologico.
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Il progresso tecnologico però sta rendendo obsolete alcune capacità lavorative difficilmente convertibili
alle nuove attività ed è qui che nasce la “resistenza al cambiamento” sebbene a volte, il numero degli
addetti cala grazie all’ingresso di nuovi macchinari in fabbrica mentre la produzione tende ad
aumentare. Tuttavia, questa resistenza ha evidenziato la necessità di una nuova ed elastica
organizzazione del lavoro che renda diosincratici i rapporti tra uomo e macchina. L’impresa, ormai
“computerizzata” necessita della figura del KNOWLEDGE WORKER, dotato di intelligenza creativa e
competenza professionale, frutto di esperienza e aggiornamento continuo di conoscenze permeate di
ragionamento e informazione. La vera e propria difficoltà sta nella transizione dalla produzione
tradizionale a quella automatizzata affinché si riesca a garantire flessibilità nel lavoro.

Si delinea un modello innovativo di produzione antropocentrica, che sottintende una concezione


della fabbrica come learning organization, nella quale la nuova tecnologia, flessibile, si adatta al
lavoratore e all’organizzazione. Elementi di tale concezione sono la delega nel processo decisionale,
l’appiattimento delle gerarchie e l’ingegneria simultanea, tecnica che prevede lo svolgimento in
parallelo di attività di progettazione e di ingegnerizzazione anziché in maniera sequenziale come nel
passato. Si richiede, allora, al lavoratore capacità di apprendimento, senso di responsabilità e
capacità di lavorare in gruppo.
Anche la funzione del management sta modificando in parte il suo contenuto: le tecnologie
informatiche arricchiscono la sua dotazione di supporti decisionali e di controllo gestionale; dalla
massa dei dati disponibili va selezionata quella parte in grado di fornire informazioni tempestive e
accurate sull’andamento produttivo, sulla qualità dei prodotti, sulle scorte, ecc. Il cambiamento del
ruolo del manager pone l’enfasi sul processo innovativo, che è agevolato dalle nuove tecnologie. Di
rilievo è anche il possesso di doti di apprendimento e di capacità di adattamento a situazioni nuove.
Inoltre, si richiede una maggiore capacità di scambio e di integrazione con gli altri responsabili
aziendali delle aree connesse al fine di creare reti di comunicazioni, supportate dai nuovi sistemi
informativi, e realizzare l’approccio sistemico nelle decisioni: è l’ottica della leadership condivisa.
Peraltro, la presenza sempre più immanente e diffusa dell’elettronica nella gestione fa scemare il
rilievo che tradizionalmente assumeva il connotato tipico della piccola impresa: la maggior capacità
di adattamento alle perturbazioni del mercato, grazie alle doti di intuito del classico imprenditore
che può agire con maggiore elasticità. La spinta informatizzazione e la riconosciuta flessibilità
conseguente consentono alla grande impresa di recuperare in tale campo, mentre per alcune
piccole imprese il passaggio verso le nuove tecnologie può introdurre gradi di rigidità cui non erano
abituate.

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CAPITOLO 3 – EQUILIBRIO D’IMPRESA, AMBIENTE-MERCATO, ANALISI DI SETTORE

L’impresa, come abbiamo già accennato, è costituita da due macroambienti: ORGANO DI GOVERNO e
STRUTTURA OPERATIVA. Esse, come nei sistemi socio-economici hanno bisogno di una guida che
consenta di operare perseguendo stabilite finalità. Vediamo i due macroambienti nel dettaglio.

Il governo presuppone un’attività di conoscenza dei fenomeni e le interpretazioni delle condizioni


migliori per la realizzazione delle finalità dell’impresa. La gestione si occupa del complesso delle decisioni
inerenti i processi qualificandone la struttura. Le decisioni di gestione, rispetto a quelle di governo
possono far ricorso ad esperienze precedenti. Tutto nasce dalla conoscenza che agevola il c.d. processo
decisionale cui consente la previsione di determinate condizioni del contesto e dell’impresa secondo
l’adozione di schemi logici. Sia il governo, sia la gestione necessitano dell’esistenza di un supporto
informativo che garantisca la circolazione delle informazioni grazie a processi di input e di feedback. Sarà
fondamentale anche un’attività di controllo che miri a verificare la rispondenza del comportamento della
struttura operativa alle impostazioni stabilite dall’organo di governo. Per controllo di gestione si intende
un insieme organico, composto di strumenti e funzioni di ausilio al processo decisionale. Esso deve
essere anche in grado di monitorare il c.d. “sistema azienda” in tutte le varie fasi.

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Il controllo gestionale assume diverse funzioni, aventi un’interconnessione rappresentata dal fluire delle
informazioni cui sarò agevolato grazie alla presenza di un supporto informatico. Queste informazioni
costituiscono il presupposto informativo per le decisioni inerenti all’assetto futuro che l’impresa adotta
nel BUDGET che costituisce la guida dell’operatività dell’impresa. La fase di controllo consisterà in un
confronto tra i dati previsti e i dati effettivi.
Un’altra funzione importante dell’organo di governo è quella di affermare il successo dell’impresa
attraverso il raggiungimento degli obbiettivi, stabiliti dal management. Primo fra tutti è il conseguimento
del profitto ma ciò non basta, sicché l’obbiettivo citato è una “condizione necessaria per la
sopravvivenza”; un’impresa per potersi ritenere di successo deve anche soddisfare gli interessi dei
stakeholders, portatori di interessi che possono essere fornitori, azionisti, clienti ecc. Il profitto
rappresenta anche lo strumento utile a perseguire i miglioramenti di efficienza e di produttività
prevenendo eventuali sprechi di risorse o possibili comportamenti opportunistici ed illegali del
management finalizzati a ripristinare migliori livelli di redditività. L’impresa va governata realizzando il
coinvolgimento degli stakeholder nel perseguimento della missione produttiva della stessa impresa,
attraverso una impostazione relazionale fondata sulla trasparenza e disponibilità al dialogo.
Si parla di EQUILIBRIO D’IMPRESA quando si cerca di un sistema finalizzato alla competitività duratura
nel tempo. Per competitività si intende adeguata definizione del proprio business, inteso come
interrelazione tra i bisogni da soddisfare, i clienti a cui si intende rivolgere ed i processi attraverso i quali
si intende realizzare beni o servizi; sviluppo delle proprie competenze distintive, cioè capacità di far leva
sulle risorse-chiave che rappresentano il proprio patrimonio di conoscenze e consentono un’adeguata
posizione di mercato. L’equilibrio viene classificato come:

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Per poter misurare l’EQUILIBRIO ECONOMICO si utilizzano degli indici:
• ROE (Return on Equity): dato dal rapporto tra risultato economico netto e capitale proprio,
considera le capacità reddituali del capitale di rischio.
• ROI (Return on Investment): rapporto fra il reddito operativo e il totale del capitale investito,
misura la capciatà della gestione caratteristica di generare ritorni reddituali.
Questi due indicatori vanno confrontati in quanto possono far capire all’imprenditore se fare ricorso
all’indebitamento o meno per finanziare determinati progetti. Si parla di EFFETTO LEVA ed identifica
quella situazione per cui con un ROI superiore al costo del capitale di credito, la maggior disponibilità
delle risorse agisce come moltiplicatore della reddittività del capitale proprio (aumento del ROE).

L’EQUILIBRIO PATRIMONIALE si basa sulla seguente equivalenza: ATTIVO = PASSIVO + NETTO cui ultimo
elemento costituisce la differenza dei valori attivi e dei valori passivi i quali variano per via degli effetti
della gestione.

L’EQUILIBRIO FINAZIARIO si misura anch’esso su una formulazione semplice: Fabbisogno totale (F) =
Fabbisogno fisso (Ff) + Fabbisogno variabile (Fv). Quest’ultima grandezza è costituita dal fabbisogno
iniziale remunerato per il tasso di rinnovo del capitale.

Le tre tipologie di equilibrio dell’impresa sono tra loro interconnesse. Una ridotta disponibilità finanziaria
impedisce di attuare politiche di investimento cui si ripercuoteranno sulla capacità reddituale
dell’impresa. Il sistema impresa dunque, per la sua connotazione sociale e per il suo inserimento
nell’ambiente è in continua evoluzione e richiede un costante adeguamento della struttura e quindi del
suo libro. L’esigenza di garantire tale condizione, impone che la struttura operativa sia elastica tale che
il sistema risulti efficiente al mutare dell’ambiente. Si ritiene dunque precisare la natura dei costi; si parla
dei costi: si parla di COSTI FISSI quegli oneri che non mutano al variare delle quantità prodotte; in caso
contrario si parlerà di COSTI VARIABILI. Questi ultimi sono sensibili al mutare dei volumi di acquisto in
maniera più che proporzionale (COSTI PROGRESSIVI) o meno che proporzionali (COSTI REGRESSIVI).
Per misurare il perseguimento dell’efficienza si calcola il punto di equilibrio, denominato anche BREAK
EVEN POINT cui strumento possiamo determinare la quantità di equilibrio per conseguire il pareggio tra
costi e ricavi.

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Tornando all’ORGANO DI GOVERNO; abbiamo notato quanto è fondamentale conoscere lo spazio del
nostro sistema impresa in 3 dimensioni: ambiente, contesto, settore. Nell’approccio sistemico vitale ciò
che risulta determinante ai fini delle decisioni è lo studio dei fenomeni che si manifestano nell’ambiente.
La scelta dei fenomeni definisce il contesto cui appare vincolato alle decisioni assunte dall’O.G. Il settore
invece è una dimensione che attiene l’ambito e il confine.

La naturale coesistenza del sistema impresa con le altre entità dell’ambiente comporta un interscambio
di flussi (informazioni, beni, denaro, ecc.), perciò, il motivo per cui l’impresa è un sistema “parzialmente
aperto”, va rintracciato nell’esigenza di regolare tali flussi. Tale compito spetta all’organo di governo che
dovrà continuamente determinare il grado di apertura con sovra-sistemi di riferimento. In questa
prospettiva, deve osservarsi il ruolo dello Stato nell’economia, che, anche in condizioni di libero mercato,
interviene quando debbano perseguirsi obiettivi di pubblica utilità e di salvaguardia del singolo; e ciò in
quanto alcuni elementi e componenti del sistema economico possono o devono essere coordinati e
controllati, attraverso l’emanazione di norme. Lo Stato assume così i connotati propri di un sovra-
sistema rilevante per l’impresa. Esiste, dunque, un rapporto biunivoco tra l’impresa e l’ambiente, poiché
la prima, venendo quotidianamente in contatto diretto con l’ambiente ne recepisce le tendenze, le quali
condizioneranno il suo atteggiamento. Parimenti, le imprese, con le loro scelte e decisioni, possono
determinare innovazioni e mutamenti nell’assetto dell’ambiente.
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Le relazioni tra impresa e ambiente non sono facilmente prevedibili e la causa di questa difficoltà risiede
nella stessa indole dell’impresa, la quale ha connaturato il carattere dell’innovazione. In questa
prospettiva può interpretarsi la teoria di Schumpeter secondo il quale esistono tre momenti nel processo
innovativo: l’idea, l’innovazione, la diffusione dell’innovazione. Quando un’idea ha i connotati di
un’utilità economica viene applicata in campo aziendale, diventando così innovazione. Quest’ultima
comporta una modifica più o meno decisiva nel mercato poiché essa modifica i precedenti
comportamenti impedendo ai competitors la sua adozione, determinando così il terzo momento, ovvero
la diffusione dell’innovazione. Il citato economista definiva l’innovazione come un processo di
“distruzione creatrice”, poiché essa annulla il precedente stato e crea nuove condizioni operative.

La dotazione di un modello concettuale, volto alla comprensione del contesto e dei fenomeni che in esso
si manifestano, è un imperativo essenziale per l’organo di governo. La conoscenza riduce la numerosità
degli elementi ignoti presenti in un determinato fenomeno ed identificabili come quegli eventi che
l’organo di governo non è in grado di percepire e prevedere. Un’altra categoria è quella degli elementi
noti che l’organo di governo o è in grado solo di cogliere, nel qual caso saranno “non comprensibili”, o
anche di interpretare le loro dinamiche passando così alla categoria dei fenomeni noti e “comprensibili”.
La conoscenza, dunque, agevola il percorso decisionale, poiché consente all’organo di governo di
scegliere il percorso meno difficoltoso. La previsione degli eventi dannosi per l’impresa consente
all’organo di governo la predisposizione di azioni preventive volte a ridurre i risvolti economicamente
negativi da essi rilevanti. Si ha, quindi, che:
maggiore conoscenza = minori rischi = sopravvivenza del sistema.
Dalla classificazione degli eventi e dalla precedente relazione discendono anche alcune considerazioni
in merito al concetto di rischio. Se il rischio è la condizione cui è sottoposta l’impresa e deriva dal
manifestarsi di fenomeni interni ed esterni ad essa, allora la conoscenza del fenomeno può limitare il
verificarsi di un dato rischio o comunque può agevolare il contenimento dei danni che esso cagiona.
Seguendo questa impostazione possono distinguersi i:
− rischi aleatori, che l’organo di governo è in grado di prevedere conoscendo il fenomeno
generatore;
− rischi di non conoscenza, che derivano da fenomeni assolutamente ignorati, per carenza
informativa, durante il processo decisionale attuato dall’organo di governo.
Vi sono tre condizioni che influiscono sulla comprensione e sul conseguente comportamento
dell’impresa, ovvero la tipologia del fenomeno, il livello di conoscenza e le caratteristiche dell’impresa.
Nel momento in cui si manifesta un fenomeno nuovo, l’impresa avrà un elevato grado di non
conoscenza; essa è cioè priva di qualsiasi bagaglio di esperienza e di cognizione utile a delineare i
contorni del fenomeno che così appare non comprensibile. Da questo momento in poi è possibile
classificare i sistemi, rispetto al loro atteggiamento, in tre categorie:
− IMPRESE CHIUSE, il cui organo di governo non si attiva per comprendere il fenomeno. Queste
imprese appaiono incapaci di essere correttamente inserite nel contesto di riferimento;
− IMPRESE IMITATRICI, le quali assumono un atteggiamento di attesa, poiché, pur nella
consapevolezza di essere dinanzi ad un fenomeno nuovo con connotati difficilmente comprensibili,
aspettano lo studio e l’intervento di altre imprese sulla cui scia si inseriranno per le decisioni e
l’operatività;

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− IMPRESE INNOVATRICI, che si impegnano nella ricerca di comprensione del fenomeno. Tali
imprese ricercano nell’innovazione il loro percorso strategico poiché convinte del fondamentale ruolo
ricoperto da tale risorsa anche in termini di barriere all’ingresso per gli altri competitors.

Sulla base di tale rappresentazione è possibile effettuare una sostanziale differenza tra un’impresa
leader (che può trovarsi nella capacità di riconoscere per prima i fattori di cambiamento e di guidare la
struttura verso lo sviluppo e la sopravvivenza) e le altre. Alla base di tutto diventa fondamentale un
supporto informativo, inteso non solo come infrastruttura informatica, ma come organico impianto
volto alla circolazione dei flussi informativi interni ed esterni.
Con il termine settore si suole identificare quella parte dell’ambiente economico in cui si manifestano le
dinamiche competitive tra imprese legate da vincoli di omogeneità. L’economia manageriale,
nell’ambito della ricerca che mira ad indagare la sostituibilità dell’offerta e della domanda e
l’interdipendenza degli operatori, considera alcuni postulati necessari quali:
la disomogeneità delle imprese, che complica il perseguimento di equilibri di mercato;
la necessità di considerare contestualmente le variabili interne ed esterne al sistema aziendale;
l’importanza della conoscenza empirica del mercato e delle imprese che lo compongono; la concezione
sistemica dell’impresa e del suo ambiente di riferimento, per la quale ogni azione genera una reazione
talvolta imprevedibile.

La dottrina economico-manageriale, muovendo da tali presupposti, definisce analisi settoriale l’esame


di un insieme omogeneo di unità produttive, finalizzato al raggiungimento di una visione scientifica e
quanto più realistica possibile delle condizioni di vita delle imprese, nonché dei rapporti tra le unità
predette. L’originalità di questo approccio di ricerca consiste nel considerare l’impresa non come un
soggetto autonomo, ma inserito in un ambiente di riferimento nel quale si ritrovano alcuni elementi di
comunanza con gli altri operatori. In quest’ottica, opera, cresce e si sviluppa l’impresa che rimane un
soggetto economico unico e irripetibile, in quanto essa risente dei condizionamenti propri della
componente umana, che la guida spesso in maniera originale. In linea di principio generale, allora, è
necessario procedere all’osservazione dei fenomeni seguendo una logica di creazione di insiemi
omogenei, dai quali poter astrarre una teoria che si possa tenere relativamente valida. L’analisi di settore
diventa un supporto informativo utile per ridurre la complessità ambientale poiché consente il
monitoraggio di quella parte dell’ambiente che risulta influente per il raggiungimento delle finalità del
sistema impresa. Nell’impostazione dei modelli di analisi di settore, risulta indispensabile ridurre il
numero dei fenomeni da osservare attraverso la ricerca di un denominatore comune che consenta di
classificare un’intera area competitiva.

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Alcuni modelli di analisi settoriale:

MODELLO STRUTTRA-CONDOTTA-PERFORMANCE: Alla base dell’impostazione di questo


paradigma vi è lo studio della composizione del settore, ovvero della struttura, che viene realizzata
in base alle sue barrire all’ingresso, alla concentrazione e alla differenziazione dei prodotti. Il
modello presupponeva che queste variabili condizionassero i comportamenti delle imprese e quindi
i loro risultati ma i cambiamenti di mercato e le crescenti ricerche di miglioramento gestionale
hanno determinato la ricerca di comportamenti strategici (condotte) che in alcuni casi prescindono
dal ristretto ambito settoriale, per abbracciare una dimensione estremamente allargata.

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• MODELLO PORTER: Un altro importante contributo teorico, finalizzato all’analisi dei
comportamenti aziendali inquadrandoli nel settore di riferimento dell’impresa, è quello definito
dell’approccio strategico, proposto da Porter. Con tale modello si pone in risalto la capacità
dell’impresa di modificare il proprio ambiente competitivo ed esso ha rappresentato
un’innovazione poiché, oltre ad elevare l’importanza del ruolo dei clienti e dei fornitori, ha
incluso elementi in precedenza non considerati nelle indagini aziendali (i potenziali nuovi
entranti ed i prodotti sostitutivi).

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• MODELLO GINI: Un parametro utile ad esaminare il settore è quello volto ad individuare il
“LIVELLO DI CONCENTRAZIONE” (ove per concentrazione s’intende la presenza numerica
delle imprese operanti e il loro potere di mercato) dato dal rapporto tra il fatturato delle
imprese maggiormente rappresentative e le vendite complessive del settore. La
concentrazione aumenta al crescere della quota di mercato di poche imprese, poiché detta
crescita segnala la capacità di influenzare tanto la domanda quanto l’offerta. Una
misurazione del livello di concentrazione può effettuarsi per mezzo della curva di Lorenz,
che utilizza il calcolo dell’indice di concentrazione basato sul numero totale delle imprese
del settore focalizzato. Il massimo grado di concentrazione si verifica in situazioni di
monopolio dove un’unica impresa controlla l’intera domanda ed offerta. Una situazione più
attenuata della precedente, è l’oligopolio che esprime il caso di poche imprese che
controllano tutto il mercato. L’indice di concentrazione complessiva, o coefficiente di Gini,
è dato dal rapporto tra l’area di concentrazione e l’area sottostante la retta di
equidistribuzione. Esso varia tra 0 (concorrenza) e 1 (monopolio).

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CAPITOLO 4 – LA GESTIONE DEI RISCHI D’IMPRESA: TECNICHE DI COPERTURA E STRUTTURA OPERATIVA
Le decisioni dell’impresa, poiché riguardano situazioni future implicano incertezza, ovvero un certo grado
di rischio. Non vi è rischio senza incertezza. Si parla di RISCHI DI NON CONOSCENZA quelle situazioni
ambientali del tutto ignote all’organo di governo, ove è possibile individuare i RISCHI ALEATORI, allorché
l’osservatore si sposti dall’area della non conoscenza all’area della complicazione, riconducendo
l’indeterminatezza dei fenomeni alla loro comprensibile varietà. Il rischio piò essere associato alle
previsioni implicite in una decisione e denota l’eventualità di scarti più o meno forti e probabili dei
risultati delle aspettative; gli eventi di rischio si distinguono rispetto:
a) Alle cause naturali, economico-sociali, contrattuali etc., che li determinano
b) Al carattere unilaterale o bilaterale dei loro effetti
c) Alla conoscenza che ne hanno gli operatori, consistente o in una generica consapevolezza della
possibilità di danno, il cui effettivo manifestarsi è però ignoto (RISCHIO IN SENSO STRETTO),
ovvero in piena cognizione di eventi che non sono noti nella sussistenza, ma ignoti nella entità
dei rispettivi effetti.
Le problematiche dei rischi d’impresa sono riconducibili sia alla gestione delle negoziazioni commerciali
sia all’utilizzo della LEVA OPERATIVA e della LEVA FINANZIARIA. La gestione d’impresa fronteggia
costantemente assumendo internamente o trasferendo all’esterno differenti gradi di rischio generati
dalla propria interazione con i mercati e con il contesto ambientale. L’azione di governo in questo caso
si configura come un’evoluzione della struttura operativa cui rappresenta l’effetto delle decisioni di
investimento dell’O.G. le quali sono normalmente identificabili nello stato patrimoniale. La funzione di
governo attua le politiche di finanziamento integrando con il sovra-sistema finanziario e determinando
la composizione delle relative fonti di capitale. Ne deriva che la dimensione patrimoniale dell’impresa è
il risultato di tali decisioni di finanziamento, intese essenzialmente sia come scelta tra il capitale di terzi
e il capitale di rischio, sia come composizione degli stessi: le risorse finanziarie possono pervenire
all’azienda da diverse fonti e possono essere vincolate in forme molto varie.

La problematica del rischio è affrontata nell’Approccio Sistemico Vitale cui porta ad arricchire la portata
delle interpretazioni passate e ad aggiungere una pregnante valenza normativa che è entrata nel sistema
economico. L’ASV riconosce due tipi di rischi
a) RISCHIO ALEATORIO: conseguenza di eventi che l’impresa è capace di collocare nel campo della
varietà grazie alle proprie capacità di lettura attraverso gli strumenti di calcolo finanziario. Ad
oggi l’organo di governo può identificare gli eventi futuri, stabilire la probabilità di
manifestazione e quindi valutare razionalmente le possibili conseguenze del loro verificarsi.
b) RISCHIO DI NON CONOSCENZA: imputabile a quegli eventi che sono ignoti all’impresa o che il
suo organo di governo non ritiene considerare in quanto non riesce a valutare la probabilità del
manifestarsi e le eventuali conseguenze sui risultati attesi.

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La rischiosità viene collegata alla possibilità che il risultato economico effettivo possa presentare
scostamenti rispetto a quello atteso. Tale possibilità viene a sua volta ricondotta al rischio di non
conoscenza e/o all’insufficiente capacità di valutare il rischio aleatori. Se le informazioni sono ricche ma
la comunicazione interna all’azienda è scarsa, abbiamo la conoscenza del rischio futuro ma non siamo in
grado di attuare un programma di gestione dello stesso.

LIVELLO DI INFORMAZIONI, CONOSCENZE, KNOW-HOW


ELEVATE Opportunità e pericoli noti, Opportunità e pericoli
con assenza di programmi tempestivamente
di azione identificati e gestiti
proattivamente
SCARSE Opportunità e pericoli Opportunità e pericoli
ignorati valutati male
RIDOTTA SIGNIFICATIVA
LIVELLO DI COMUNICAZIONE

Di conseguenza le strategie di governo del rischio in ottica sistemica possono essere ricondotte al
trasferimento contrattuale ovvero alla RITENZIONE. La ritenzione può estrinsecarsi nelle forme di
autoassicurazione o nelle capacità dell’impresa specifica atte a proteggersi dal possibile verificarsi di
eventi di rischio. Lo sviluppo di una profonda cultura del rischio rappresenta un’impostazione qualificata
nell’organo di governo tanto da divenire un aspetto fondante della vitalità del sistema impresa.

Il rischio è stato concepito principalmente quale fenomeno prevalentemente correlato all’incertezza


degli eventi macroeconomici ed alle inadempienze delle controparti nelle operazioni transattive
riconducibili ai rapporti tra l’impresa e i suoi principali interlocutori, collocati in un contesto ben preciso.
L’impresa in generale fronteggia le seguenti situazioni di rischio:
• RISCHIO DI MERCATO: derivante dall’anticipata acquisizione dei fattori della produzione sulla
base di previsioni di vendita fatture
• RISCHIO DI ESERCIZIO derivante dall’anticipata acquisizione di commesse cui processo di
produzione e relativa acquisizione dei fattori produttivi si realizzerà nel futuro.
L’impresa si relazione sia nella fase di approvvigionamento sia nella fase distributiva con operatori esterni
cui rischi possono essere classificati in questa maniera:
a) DELIMITAZIONE DI LATIDUTIDINI CONTRATTUALI: le clausole che stabiliscono gli adempimenti
cui ciascuna parte è tenuta e che ne delimitano le facoltà la espongono all’incertezza di
determinazione connessa alle modalità di esecuzione della controparte
b) ATTRIBUZIONE DEI RISCHI IN SENSO STRETTO: le clausole possono disciplinare le conseguenze
sulle parti di eventi fortuiti derogando alle regole generali sul passaggio della proprietà e dei
rischi previsti per la compravendita.
c) DISCIPLINA DEI CASI DI INADEMPIMENTO: le clausole regolamentano le ipotesi di
inadempimento, rendendole non convenienti mediante clausole penali caparre confirmatorie.

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La COMPRAVENDITA costituisce il rapporto fondamentale di scambio dei beni economici e comporta il
trasferimento della proprietà degli stessi. Pertanto la necessità di risolvere le asimmetrie connaturate
all’incontro tra domanda ed offerta impongono il riscorso agli INTERMEDIARI ED AUSILIARI DEL
COMMERCIO determinandone l’utilità dei mercati organizzati.
Generalmente accade che:
− La merce sia disponibile e debba essere consegnata dal venditore in un momento differente
da quelli in cui l’acquirente possa riceverla, rendendo necessario il deposito della stessa presso
terzi;
− La merce sia disponibile e debba essere consegnata dal venditore in un luogo differente da
quello in cui l’acquirente possa riceverla, rendendo necessario il trasporto da parte di terzi,
anche tra Paesi differenti con transiti presso le dogane;
− La merce sia depositata o traportata, essendo esposta a rischi, che è opportuno siano coperti da
assicurazione;
− La merce sia pagata al venditore, al quale il compratore deve far pervenire i fondi nei modi e
nei tempi concordati, utilizzando i servizi offerti dagli istituti di credito;
− La merce possa non essere immediatamente pagata dall’acquirente al venditore, il quale può
farsi anticipare finanziariamente il credito, cedendolo alle aziende di factoring.
I mercati organizzati presentano il carattere di svolgersi in un luogo determinato, fisso o virtuale
che sia, in cui gli operatori commerciali si riuniscono per la trattazione degli affari. Tale luogo assume
forme idonee alle necessità del mercato, appositi regolamenti che disciplinano l’ammissione nei
luoghi ed alle contrattazioni, i tipi di contrattazioni con le relative modalità e condizioni di vendita,
la concessione di garanzie per i contratti in essi stipulati e la procedura arbitrale per la rapida
risoluzione delle controversie. Tra le diverse funzioni svolte dai mercati organizzati, va evidenziata
l’importanza dell’utilità nella copertura dei rischi degli operatori. In particolare, gli operatori del
mercato possono attuare tecniche di copertura dei rischi operando sul mercato a termine e
realizzando operazioni coordinate di hedging.

Un operatore commerciale che si impegnasse contrattualmente a consegnare (ritirare) una


determinata merce tra sei mesi si espone al rischio connesso agli eventuali possibili rialzi (ribasso)
di prezzo della stessa. Allora, lo stesso operatore provvede a gestire tale rischio, decidendo di
attuare diverse possibili strategie:

− assumendosi tale rischio, senza alcune copertura, confidando nella possibilità di avvantaggiarsi
dei possibili ribassi (rialzi) del mercato;
− trasferendo totalmente il rischio, coprendosi interamente sul mercato a termine, concludendo
una operazione simmetrica opposta di pari entità;
− trasferendo parzialmente il rischio, coprendosi in parte sul mercato a termine, concludendo una
operazione simmetrica opposta di entità ridotta.

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Inoltre, gli operatori che assumono posizioni commerciali rischiose possono ricorrere all’acquisto
di opzioni, ovvero alla conclusione di contratti a premio, con i quali acquisiscono oggi la facoltà di
poter esercitare alla scadenza una operazione di acquisto (call option), oppure di vendita (put
option) al prezzo prefissato, detto prezzo di esercizio.

Il rischio dell’impresa è determinato nell’ambito della dimensione reale, da azioni commerciali di


marketing, di approvvigionamento, di magazzinaggio ecc. che hanno essenzialmente origine
commerciale ed operativa che vengono tradotti in termini finanziari numerici. Ciò richiede la necessità
che un sistema decisionale effettui delle previsioni al fine di quantificare non solo il rendimento atteso
dell’attività dell’impresa ma anche il grado di rischio della stessa. RENDIMENTO e RISCHIO sono i
riferimenti guida delle decisioni dell’organo di governo dell’impresa e del sovra-sistema finanziario con
cui la stessa interagisce. Se ci trovassimo di fronte a situazioni di incertezza dobbiamo individuare le
variabili significativamente influenti sul progetto da realizzare e fare delle ipotesi circa la loro evoluzione.
Il tutto quantificabile mediante due strumenti: la MEDIA, misuratore sintetico del fenomeno e lo SCARTO
QUADRATICO MEDIO il quale misura la dispersione del fenomeno intorno al valore medio. La misura del
rischio è data dalla dispersione dei diversi probabili risultati: un business risulta tanto rischio quanto più
i possibili risultati che da esso conseguono sono dispersi intorno al valore atteso; si parla di VOLATILITA’.
Nell’impostazione classica l’AVVERSIONE AL RISCHIO indica il rapporto di scambio tra rendimento atteso
e livello di rischio (espresso dallo s.q.m.); la relazione è la seguente: U = E ( R ) – A σ2. .
Altro misuratore è la VARIANZA data dalla sommatoria dei prodotti dei quadrati degli scostamenti dei
singoli risultati dalla media e delle corrispondenti probabilità. È il quadrato dello s.q.m. Da esso si
determina la variabilità, che rappresenta l’effetto dell’esposizione al rischio rendendo ampio il concetto
di rischio in quanto si indicano le cause e le conseguenze; le tolleranze intese come capacità di
assorbimento degli effetti negativi; le reattività intese come capacità di attivare un processo decisionale
in tempi ridotti.

Le decisioni dell’organo di governo richiedono considerazioni ed analisi dei rischi riconducibili alla natura
dei costi della struttura operativa impiegata per la realizzazione del progetto di business, anche al fine di
individuare il “punto di pareggio” (Break-Even Analysis). È possibile distinguere i costi di struttura ed i
costi di utilizzo della struttura, considerando che tali categorie possono essere relazionate a quelle
tradizionali dei costi fissi e dei costi variabili. Il modello di analisi del punto di pareggio consente di
individuare il livello di produzione da realizzare e vendere, nel quale i ricavi uguagliano i costi totali. Esso
viene quantificato come rapporto tra costi fissi e margine di contribuzione unitario [Cf/(p[Cv)],
nell’ipotesi di andamento lineare delle funzioni dei costi variabili e dei ricavi di vendita. A parità di prezzo
del prodotto/servizio finale, l’impresa strutturata con una tecnologia ad elevati costi fissi e bassi costi
variabili, avrà una maggiore leva operativa, ovvero un margine di contribuzione superiore a quello
dell’impresa caratterizzata da una tecnologia a bassi costi fissi ed elevati costi variabili. Ovviamente il
management sceglierà la struttura operativa sulla base del grado di certezza di superamento del punto
di pareggio.

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Alcune imprese si caratterizzano per una elevata incidenza dei costi di struttura, rispetto a quelli connessi
all’utilizzo della stessa, ed un elevato livello di leva operativa. Infatti, la ricerca dell’efficienza ed efficacia
gestionale, può sollecitare l’organo di governo a propendere verso forme di struttura operativa
caratterizzate dalla prevalenza dei costi di struttura con una capacità produttiva significativa, idonea a
generare un consistente flusso di prodotti e servizi finalizzato al raggiungimento di una dimensione
minimale critica. La struttura operativa basata su elevati costi fissi generalmente incrementa il livello di
attività in cui si raggiunge il punto di pareggio; ed inoltre, il superamento dello stesso genera rilevanti
utili per l’impresa, mentre al contrario il suo mancato raggiungimento determina consistenti effetti
negativi sul risultato economico. In generale, può affermarsi che le imprese con elevati costi di struttura,
puntano alla massima espansione, per poter superare il punto di pareggio e riuscire a conseguire i
consistenti margini di profitto, assicurati dalla significativa leva operativa. Non sempre il superamento
del punto di pareggio può essere conseguito agevolmente: a volte esso richiede accorte politiche
commerciali di promozione delle vendite con riduzione dei prezzi, necessarie ad espandere ed
incrementare le quantità domandate nei casi in cui si riscontrano livelli più elevati di elasticità della
domanda rispetto al prezzo: queste politiche possono esporre l’impresa al pericolo di intraprendere
sentieri viziosi di espansione, caratterizzati dalla riduzione del margine di contribuzione, con
conseguente significativo peggioramento dei margini di profitto, come testimoniato dall’operato di
alcune Internet company.

CAPITOLO 5 – LE DECISIONI DI INVESTIMENTO E FINANZIAMENTO.


Il governo e la gestione di impresa sono un sistema di decisioni ciascuna delle quali è vincolata dalle
precedenti e vincola le future. Queste decisioni si risolvono sia sul piano esecutivo, sia sul piano
indicativo. L’insieme delle attività realizzate dall’impresa è rutto di un processo decisionale che implica
scelte di breve, medio, lungo termine con la finalità di creare VALORE ECONOMICO. Le decisioni di lungo
periodo costituiscono le DECISIONI DI INVESTIMENTO, fondamentali per la determinazione del successo
o del fallimento dell’impresa. Esse comportano un esborso monetario iniziale per profitti che sono
realizzati in futuro. Le scelte di investimento effettuate dall’impresa rappresentano gli impieghi cui sono
stati destinati i finanziamenti raccolti, ma sono anche riscontrabili valori non emergenti dalla contabilità.
Riguardo l’organizzazione decisionale, le imprese realizzano il PROCESSO MANAGERIALE DI
PIANIFICAZIONE STRATEGICA cui si completa con la sua attuazione. Una efficiente gestione
d’investimento richiede un valido organo decisionale in grado di produrre proposte di investimento;
quantificare i flussi di cassa derivanti da ogni proposta, valutando successivamente i flussi di cassa stessi;
selezionare le proposte sulla base di un criterio di accettazione e una volta accettato l’investimento,
riesaminare continuamente i suoi progetti. Gli investimenti possono essere di natura materiale o
immateriale.

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La quantificazione dei flussi di cassa è uno degli aspetti più delicati del CAPITAL BUDGETING,
processo di formazione di un preventivo di raccolta e di gestione dei fondi per il finanziamento degli
investimenti, dato che la bontà delle previsioni e la precisione delle stime influenza in modo
determinante la correttezza dei risultati finali. Di ogni proposta di investimento si dovrà, quindi,
ottenere un prospetto temporale dei flussi di cassi incrementali netti attesi. Il metodo è del tutto
finanziario, e non reddituale, poiché saranno quantificate le entrate al netto delle uscite, e non i
ricavi al netto dei costi di competenza; ed inoltre, i flussi di cassa saranno considerati solo in termini
di variazioni, considerando irrilevanti i costi passati, ma computando i costi opportunità, cioè quelli
derivanti dalla rinuncia ad alternative di investimento. Saranno ricomprese nelle stime le imposte,
mentre non lo saranno gli oneri finanziari, che dipendono dal costo delle fonti di finanziamento
dell’impresa, costituito sia dal costo del debito considerato al netto del risparmio di imposte
conseguente alla deducibilità fiscale degli stessi oneri finanziari, sia dal costo implicito del capitale
proprio. La valutazione dei flussi di cassa dei progetti di investimento può essere effettuata secondo
criteri che impiegano la tecnica dell’attualizzazione (il valore attuale netto e il tasso interno di
rendimento), o che non la impiegano (il periodo di reintegrazione e la redditività media
dell’investimento).
Il periodo di reintegrazione è definito come il numero di anni entro i quali ci si aspetta di poter
recuperare gli esborsi iniziali. La regola del periodo di reintegrazione per l’effettuazione delle
decisioni di investimento prevede che, fissato un particolare tempo limite, siano accettati tutti i
progetti con un tempo di recupero inferiore e siano respinti tutti i progetti con un tempo di recupero
superiore. Il criterio del periodo di reintegrazione è una sorta di break-even temporale che misura,
approssimativamente, sia l’arco temporale di impiego dei fondi investiti, sia il grado di liquidità del
progetto, inteso come capacità di rimborsare velocemente il capitale investito. Esso presenta i limiti
di non tenere in alcuna considerazione né la dimensione dei flussi di cassa disponibili dopo il rientro
dell’investimento iniziale, né la scansione temporale dei flussi di cassa all’interno del periodo di
recupero. Il criterio del periodo di reintegrazione è indicato per la valutazione di progetti di
investimento da realizzarsi all’estero in regioni con elevata incertezza politica o con considerevole
rischio Paese, poiché è proprio in tali contesti che assume particolare importanza la velocità di
recupero del capitale investito.

Il ROI è facilmente determinabile come rapporto tra la media dei flussi di cassa annui al netto
dell’esborso iniziale e lo stesso esborso iniziale. Considerando due progetti A e B, se l’investimento
B presenta una redditività media superiore a quella del progetto A, allora esso sarà preferito,
sebbene A presenti flussi di cassa più elevati in determinati anni. È evidente che tali criterio
presenti dei limiti, nella misura in cui non tiene conto del momento in cui i flussi di cassa si
realizzano, dando lo stesso peso a flussi di cassa vicini o lontani nel tempo. Tuttavia, tale sistema è
abbastanza utilizzato per la sua semplicità.

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Un più efficace criterio di valutazione è quello del valore attuale netto, che quantifica il valore della
sommatoria algebrica dei flussi di cassa netti dell’investimento, attualizzati ad un congruo tasso,
procedendo secondo tre fasi:

− Individuazione del valore attuale di ciascun flusso di cassa in entrata o in uscita, scontato
ad un tasso pari al costo del capitale necessario a finanziare il progetto di investimento;
− Effettuazione della sommatoria algebrica dei flussi di cassa attualizzati, definita valore attuale
netto (VAN);
− Accettazione del progetto se il VAN risulta positivo e rifiuto del progetto se il VAN risulta
negativo, ovvero preferenza per i progetti di investimento a più elevato valore attuale netto.

Il VAN è dato dalla sommatoria dei flussi di capitali attualizzati.


Qualora si volesse ragionare esclusivamente in termini di flussi di cassa in entrata, si
quantificherebbe il valore attuale (VA), considerato al lordo dell’esborso iniziale, come sommatoria
dei flussi di cassa positivi dell’investimento, attualizzati ad un congruo tasso, procedendo, quindi,
secondo tre fasi:

− Individuazione del valore attuale di ciascun flusso di cassa in entrata, scontato ad un tasso
pari al costo del capitale necessario a finanziare il progetto di investimento;
− Effettuazione della sommatoria algebrica dei flussi di cassa positivi attualizzati, definita valore
attuale (VA);
− Accettazione del progetto se il VA risulta maggiore dell’esborso iniziale e rifiuto del
progetto se il VA risulta inferiore all’esborso, ovvero preferenza, a parità di esborso iniziale,
per i progetti a più elevato valore attuale.

Si definisce “TASSO INTERNO DI RENDIMENTO” il tasso di attualizzazione (r) che uguaglia a zero la
differenza tra il valore attuale della sommatoria dei flussi di cassa netti in entrata generati dal progetto
ed il valore attuale della sommatoria dei flussi di cassa netti in uscita, ovvero il tasso di attualizzazione
che annulla il VAN dei flussi di cassa dell’investimento. In simboli Conoscendo il valore di ciascun flusso
di cassa ed uguagliando a zero la sommatoria, l’incognita da ricercare è il tasso r, il cui valore è definito
TIR. Il limite di questo criterio consiste nell’ipotesi implicita che i flussi di cassa ottenibili dal progetto
siano reinvestiti a rendimenti pari allo stesso TIR, ipotesi verosimile solo per livelli di TIR non molto elevati
o per disponibilità continua di opportunità di investimento della medesima qualità del progetto in
valutazione.

L’EVA è un criterio misto di valutazione che misura la ricchezza creata dall’impresa, intesa come
valore attuale della differenza tra il reddito operativo dopo le tasse, monetariamente disponibile
per i finanziatori dell’impresa e la redditività normale del capitale, pari al WACC. L’EVA corrisponde,
quindi, alla maggiore remunerazione, rispetto a quella “normale”, generata dagli investimenti. Tale
maggiore remunerazione determina l’eccedenza del valore di mercato degli assets dell’impresa
(MVA, market value added), rispetto al loro valore contabile rettificato (VCR) con l’aggiunta dei
fondi di ammortamento e delle riserve latenti.

Vassets = VCR + MVA

MVA = Σ [NOPAT-(WACC*VCR)] / (1+WACC)t

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Il NOPAT (net operating profit after taxes) è il reddito operativo netto d’impresa calcolato anno per
anno, rettificato con l’aggiunta delle risorse finanziare effettivamente generate dalla gestione. I
problemi applicativi di tale metodologia derivano essenzialmente dalle difficoltà di determinazione
di un congruo WACC. Le imprese in grado di creare ricchezza intraprendono, dunque, progetti di
investimento idonei a determinare valori positivi di MVA che, se correttamente stimati da mercati
finanziari efficienti, incrementano il valore di mercato delle imprese stesse. Al contrario, le imprese
che non sono in grado di esprimere valori positivi di MVA, distruggono valore e sono penalizzate
nella valutazione dei mercati finanziari. L’EVA è, quindi, uno strumento di misurazione della
performance operativa e finanziaria dell’impresa che ben si presta ad orientare la gestione
aziendale value-based management verso l’obiettivo dell’incremento del valore economico
dell’impresa, come un qualsivoglia investimento.

Sebbene la teoria finanziaria aziendale non abbia raggiunto una chiara posizione rispetto
all’individuazione di un modello idoneo a spiegare come sia possibile definire un rapporto di
indebitamento in corrispondenza del quale si riconosca un’ottima struttura finanziaria, le decisioni
di finanziamento, che determinano la struttura finanziaria d’impresa, sono generalmente
riconducibili al profilo rischio/rendimento inteso quale ponte tra sovra[sistema finanziario e sistema
impresa. Tra le diverse tesi elaborate, si ritiene utile evidenziarne sinteticamente le principali, le cui
conclusioni sono correlate all’analisi dei concetti di rischio, di condizioni di incertezza, di asimmetria
informativa e di equilibrio tra gli stakeholders.
Il grado di indebitamento o leva finanziaria, è rappresentato dal rapporto tra il capitale di credito
(D) e capitale di rischio (S). Si dimostra che all’aumentare del grado di indebitamento, aumenta il
tasso di rendimento richiesto sul capitale di rischio.
ROE = ROI + (D/S) (ROI-i)
La teoria della finanza aziendale ha dimostrato che l’indebitamento può generare vantaggi fiscali
oppure svantaggi. Con il passare del tempo si sono sviluppate le spiegazioni del leverage
finanziario che evidenziano alcuni svantaggi connessi con l’indebitamento e contrapposti ai
vantaggi fiscali dello stesso. Gli effetti negativi di un elevato indebitamento sono i costi di
fallimento, i costi di agenzia e la minore probabilità di utilizzare interamente il vantaggio della
deducibilità di altri costi quali gli ammortamenti. Esisterebbe, quindi, un trade-off tra svantaggi e
vantaggi del debito. Alla considerazione dei costi di fallimento possono essere ricondotte due
affermazioni relative alle scelte finanziarie:

− Le imprese che realizzano piani di business più rischiosi dovrebbero indebitarsi di meno
per ridurre le probabilità di incorrere in situazioni di crisi finanziarie;
− Le imprese, il cui attivo è costituito essenzialmente da immobilizzazioni materiali facilmente
cedibili sul mercato dell’usato dovrebbero indebitarsi più delle imprese con gran parte degli
impieghi in attività immateriali, legate all’impresa e difficilmente cedibili in caso di
liquidazione.
Il leverage finanziario dell’impresa può, così, essere pensato come determinato dal trade-off di
costi e benefici derivanti dall’indebitamento, fermi restando i piani di investimento e la
composizione delle attività dell’impresa. L’impresa viene vista continuamente impegnata a

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bilanciare i vantaggi fiscali della deducibilità degli oneri finanziari dal redito imponibile, con i costi
relativi alla leva finanziaria.

CAPITOLO 6 – NUOVE TENCOLOGIE E PRODUZIONE


Grazie all’ingente rivoluzione tecnologica degli ultimi anni si ha la necessita di creare uno schema
organizzativo il cui permette una funzione armonica e coordinata delle risorse di un’impresa, che siano
umane o tecniche, al fine di raggiungere gli obbiettivi prefissati. Un fenomeno particolare è la
SPECIALIZZAZIONE DELLE MANSIONI che pone come obbiettivi la riduzione degli errori e l’incremento
della produttività; che hanno portato poi allo sviluppo della PRODUZIONE DI MASSA. Questo modello
implica una costante riduzione dei costi unitari medi attraverso l’aumento dei volumi produttivi; si pensi
all’organizzazione scientifica di Taylor, applicato nell’azienda automobilistica Ford, gli elementi essenziali
del taylorismo possono riconoscersi nella:
- STANDARDIZZAZIONE, ossia creazione di prodotti aventi tutte le stesse caratteristiche
- SUDDIVISIONE DEL LAVORO, ogni operaio deve compiere poche attività nell’ambito di un processo
che si sviluppa in sequenze
- SPECIALIZZAZIONE DELLE FUNZIONI
- MISURAZIONE dei tempi, dei costi e della produttività.

Questo modello gestionale richiedeva però alcune condizioni: investimenti elevati, grandi dimensioni
aziendali, rilevanti volumi produttivi. Il problema principale dell’impresa fu quello di cercare di
soddisfare quella domanda che non aveva connotati particolari ma si caratterizzava per una marcata
presenza di omogeneità la quale, considerata la modesta concorrenza, richiedeva alle imprese una
loro differenziazione da ricercare soltanto attraverso la leva del prezzo. La produzione di massa,
dunque, trova nella standardizzazione la sua maggiore espressione. In definitiva, nell’orientamento
alla produzione risulta difficile riconoscere una concreta valenza delle politiche di marketing intese
nella piena e condivisa accettazione; ciò in quanto le imprese erano attente in via esclusiva al
contenimento dei costi, perché essi erano considerati la variabile centrale per la fissazione del
prezzo di vendita che avveniva senza valutare opportunamente il valore percepito dal consumatore.

Il rinnovamento di questa tendenza fu determinato dalle trasformazioni del mercato degli anni ’20
dello scorso secolo. La crescente competitività ed una tendenziale riduzione della domanda,
richiesero alle imprese una revisione della loro impostazione; ciò in quanto la ricerca della
leadership di prezzo e la conservazione del know-how tecnologico non erano più in grado di
garantire la sopravvivenza. Si avvertì, così, l’esigenza di rivedere l’assetto organizzativo e tecnico
produttivo al fine di rinnovare la capacità di offerta, avvicinandola ai mutevoli andamenti della
domanda. Il mercato divenne un’area competitiva difficilmente governabile dalle imprese le quali,
per raggiungere le proprie finalità, riconobbero nell’innovazione una nuova alternativa alla
precedente impostazione strategica.

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L’economista Schumpeter teorizzò l’esistenza di tre concetti collegati tra loro ma aventi autonome
connotazioni:
− l’invenzione, considerata come una manifestazione della conoscenza;
− l’innovazione, intesa come capacità di realizzare nuove tecniche produttive;
− la diffusione dell’innovazione, generata dalla capacità di imitazione dei concorrenti che
riduce il vantaggio competitivo dell’imprenditore innovatore.
Congiuntamente alla tecnologia, si considerano, quali elementi generanti lo sviluppo economico, i
beni immateriali, in special modo la conoscenza e, quindi, il capitale umano, il cui ruolo in azienda
è sempre più rivalutato sia come capacità manageriale di indirizzo e guida, sia come organizzazione
ed esecuzione delle fasi operative. In verità, la conoscenza è sempre stata determinante nel sistema
economico. L’impresa, infatti, riesce ad operare ed a progredire proprio per la sua capacità di
apprendimento che rende possibile l’attuazione di processi di adattamento e sviluppo. In passato,
gli elementi immateriali avevano un peso minore rispetto a quello attuale. L’ambito competitivo si
è oggi spostato dalla capacità produttiva alla ricerca di differenziazione e di innovazione, condizioni
che si possono ottenere non solo tramite la tecnica ma soprattutto attraverso la conoscenza, quindi,
attraverso la valorizzazione del capitale umano che oggi assume nuovi connotati nell’ambito
dell’organizzazione del lavoro.

L’impiego informatico, in costante evoluzione ha consentito di conseguire elevati livelli di flessibilità nella
programmazione della produzione. Infatti le nuove tecnologie informatiche sono state considerate come
un FATTORE PRODUTTIVO CHIAVE perché rendono compatibili degli obbiettivi che sino ad ora erano
considerati contrastanti: si pensi alla flessibilità delle economie di scala, qualità a basso costo, obbiettivi
che hanno inciso nella struttura organizzativa e nel management. L’impiego informatico è caratterizzato
per il suo basso costo di acquisizione; l’obbiettivo attraverso le nuove tecnologie non è solo di avere
informazioni in tempo reale ma anche esternalizzare interi cicli produttivi (c.d. OUTSOURCING). Si è soliti
fare riferimento a schemi di classificazione che collegano le tipologie dei sistemi produttivi agli obbiettivi
strategici che si prestano a conseguire, in virtù dei seguenti elementi:

• grado di semplicità o complessità della struttura del prodotto;

• varietà e numerosità di prodotti realizzati;

• modalità di manifestazione della domanda da soddisfare

• il grado di standardizzazione e la consistenza del volume di produzione collocato sul mercato

• il processo di realizzazione adottato in relazione alle caratteristiche del volume di produzione


collocato sul mercato

• il processo di realizzazione adottato in relazione alle caratteristiche intrinsiche del prodotto

• il grado di specializzazione o rigidità rispetto al grado di genericità o flessibilità delle componenti


strutturali del sistema produttivo.

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Possiamo ricondurre tutto a diversi modelli di produzione.

Si parla di PRODUZIONE DI PROCESSO (o di PROCESSO CONTINUO) quel ciclo di produzione cui


obbiettivo è la realizzazione di un dato flusso, cioè una quantità determinata da ottenere nell’unità di
tempo, riducendo i rischi della produzione. Tutto ciò è possibile grazie alle tecnologie microelettroniche
ed informatiche che consentono la modifica e il controllo del processo medesimo e una migliore tutela
ambientale. Attraverso l’informatica distribuita si è trovato il modo di collegare il controllo sui vari
impianti con l’operatore all’interfaccia video. Con il processo continuo si può passare dalla produzione
di massa alla produzione specialistica, ovvero creazione di prodotti dotati di elevato valore aggiunto,
orientato secondo il mercato. La caratteristica delle produzioni base ha configurato il processo continuo
come una produzione per il magazzino (c.d. MAKE TO STOCK) per la difficoltà di effettuare lavorazioni in
base agli ordini in arrivo dalla clientela anche per i diversi ritmi tra capacità degli impianti e assorbimento
della domanda.

Si passa dai processi continui ai PROCESSI INTERMITTENTI cui sono caratterizzati dalla:

- produzione in serie

- produzione a flusso lineare su linee spezzate, ovvero per reparti

- produzione per reparti con impianti multiciclo

- produzione a lotti, con impianti difficilmente automatizzabili

- impianti misti, caratterizzati per lavorazioni in parte di una tipologia e in parte di un'altra.

In base alla STRATEGIA DI RISPOSTA ALLA DOMANDA l’impresa può decidere di attuare una produzione
ENGINEER TO ORDER (ETO) allorquando progetta e produce un bene a fronte di un specifico ordine.
Questo si differenzia dal MAKE TO ORDER (MTO) con il quale progettazione e acquisti sono eseguiti su
previsione, mentre fabbricazione e montaggio avvengono su ordine del cliente; se anche gli acquisti sono
eseguiti a carico del cliente si parla di PURCHASE TO ORDER. L’ASSEMBLE TO ORDER riguarda l’acquisto
di prodotti assemblati su ordine. Troviamo infine il MAKE TO STOCK cui fasi di progettazione, acquisti,
fabbricazione e montaggio sono tutte eseguite su previsione delle vendite.

In relazione, invece alla STRATEGIA DI REALIZZAZIONE DEL VOLUME PRODUTTIVO possiamo identificare
il PRODOTTO SINGOLO caratterizzato dalla scarsa o nulla ripetitività; A LOTTI per ripetitività limitata, A
FLUSSO quanto è sempre presente la ripetitività delle operazioni.

Si tende sempre più a produrre in base agli ordini del cliente, a lotti ridotti e ad abbandonare ove
possibile la produzione di magazzino su previsione. La flessibilità in questi processi produttivi si ottiene
grazie a strumenti tecnologicamente sofisticati che consentono la produzione snella (LEAN
PRODUCTION). Cresce inoltre la tendenza a modulare il bene affinché possa incorporarsi con
componenti comuni a più prodotti. La modularità è un requisito di alcune delle apparecchiature installate
e ciò consente l’ampliamento e/o la sostituzione di componenti e sotto-sistemi. La produzione di moduli
standardizzati beneficia delle economie di scala che sarebbero ottenute dalle imprese di grandi
dimensioni specializzate, mentre la combinazione degli stessi è realizzata dagli utilizzatori. Le nuove
tecnologie favoriscono l’allargamento dei mercati e l’adattamento dei moduli anche ai bisogni di

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potenziali clienti comuni. L’intercambiabilità dei moduli facilita la gestione dell’innovazione mediante
una semplificazione del livello di complessità del progetto da realizzare

Si parla di PRODUZIONI JOB-SHOP quelle produzioni che operano su commessa realizzando esemplari
unici o un numero limitato di unità conformi a specifiche concordate con il cliente. L’esigenza di
personalizzare il prodotto rende necessario a rielaborare totalmente o parzialmente il progetto e a
predisporre i dati tecnici relativi a materiali, attrezzature e al ciclo di lavorazioni. La realizzazione
dell’attività lavorativa avviene dopo l’acquisizione dell’ordine dal cliente. Le produzioni job-shop
necessitano di un’alta capacità di presidio del flusso informativo per coordinare quello produttivo e per
controllare lo stato di avanzamento delle lavorazioni. Le job-shop sono inoltre caratterizzate da
un’elevata flessibilità, fabbisogni di investimenti ridotti e coefficienti di produttività contenuti
Il sistema di PRODUZIONE A CELLE trova le proprie origini verso la metà degli anni settanta dello
scorso secolo quando, perdendo colpi il fordismo, la casa automobilistica svedese Volvo provò a
superare la catena di montaggio realizzando uno stabilimento pilota dove le automobili venivano
costruite con il sistema delle isole. Tuttavia, tale sistema fu presto messo in ombra dalla
rivoluzionaria scoperta e messa in pratica del just in time, che spostò l’attenzione in Giappone,
dando avvio al cosiddetto “toyotismo”. Lo stesso Giappone cerca ora un rilancio industriale con una
rivisitazione di quel sistema produttivo, oggi denominato, sistema di produzione a cella. In sostanza,
ad ogni singolo operaio viene consegnato un kit di montaggio contenente tutti i componenti per
assemblare esclusivamente un determinato articolo. Il vantaggio si traduce in un controllo della
qualità in tempo reale, specie per i prodotti di piccola e media dimensione. La flessibilità è frutto
della presenza indispensabile di operatori in grado di assemblare i vari modelli. A differenza della
catena di montaggio, non è qui necessario armonizzare i tempi delle diverse operazioni, in quanto
ogni addetto ha una saturazione completa dei tempi di lavoro ed inoltre, si registra una maggiore
soddisfazione degli addetti che svolgono l’intero processo lavorando con il proprio ritmo e non con
quello “battuto” dalla catena. Ogni gruppo opera in un’isola in cui viene sviluppata una parte
considerevole del prodotto garantendo una varietà di attività e maggiore percezione del prodotto
che si sta costruendo. In questa tipologia di sistema produttivo, la produzione può avvenire su
ordine acquisito o su previsione della domanda, a seconda che il tempo di risposta accordato dal
mercato sia compatibile o meno con il tempo necessario alla realizzazione delle attività produttive.

Una grande industria giapponese, la Canon, ha fondato il proprio contrattacco alla crisi in due
mosse: in primo luogo, intensificando l’offensiva di prodotto (attraverso il lancio di nuove
fotocamere, fotocopiatrici, ecc) e, in secondo luogo, rilanciando l’innovazione di processo. La
produzione a celle ha sostituito la tradizionale catena di montaggio con un aumento della
produttività e un risparmio non indifferente in termini di spazio. La produzione a isole nello
stabilimento giapponese dimostra tutta la sua funzionalità; così come funziona il metodo della
produzione senza scorte, il just in time, che riduce al minimo l’immobilizzo di capitale. Molta cura è
dedicata alla formazione continua del personale, perseguita attraverso un metodo che premia i
lavoratori più bravi e offre un percorso di carriera aggiuntivo rispetto a quello dell’anzianità,
permettendo di valorizzare il talento dei giovani.

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Dalla figura seguente si evince che:
- il flusso produttivo può essere continuo o intermittente con conseguenti diversi lay out
- la produzione a lotti è una tipologia intermedia tra quella continua e quella intermittente e rappresenta
il modello che meglio si presta all’adattamento alla domanda.
La matrice prodotto di Hayes Wheelwright evidenzia i diversi tipi di struttura del processo produttivo con le
diverse modalità dei volumi produttivi. Sul lato del prodotto sono indicati gli andamenti connessi alle vendite.
Ad ogni zona della matrice corrispondono peculiari modalità competitive, diverse priorità negli obiettivi di
prestazioni, specifici problemi e decisioni critiche. Infatti andando da sinistra verso destra si passa dall’enfasi
basata sulla personalizzazione alla standardizzazione del prodotto. Dall’alto verso il basso invece passiamo
dalle problematiche di velocità di risposta al mercato all’aumento dell0intensitù di capitale.
Riprendendo il modello Porter si può invece passare dalla leadership di costo (orientamento alla produzione)
alla leadership di differenziazione (orientamento di marketing). In questo campo il management assume un
ruolo fondamentale perché deve essere in grado di provvedere il singolo cambiamento e anticiparlo per
affrontarlo adeguamente. Anche il marketing ricopre un ruolo fondamentale in quanto le imprese possono
raggiungere l’omogeneità produttiva, differenziandosi. Come abbiamo già visto, la differenziazione
dell’impresa è consentita grazie anche all’impiego informatico. La modifica della regolamentazione del lavoro
è una conseguenza degli investimenti “labour saving” e “substitutive”; ovvero l’acquisizione di macchinari
idonei a svolgere compiti semplici e uniformi nel tempo. Si è posto però il problema di ottenere maggior
flessibilità attraverso MUTAMENTI DEL PARADIGMA TECNOLOGICO costituito da tre fasi:

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− capitalismo concorrenziale,
basato su macchine che
sfruttano una nuova fonte di
energia (il vapore) e su
stazioni di lavoro isolate. In
questa prima fase prevale il
mercato, e quindi lo studio
della formazione dei prezzi,
e la standardizzazione
prende piede anche
nell’organizzazione di
fabbrica e d’ufficio;

− capitalismo manageriale, realizzatasi


in USA, è la fase che vede la crescita
delle grandi società per azioni con la
separazione della proprietà dalla
direzione. Essa è favorita
dall’applicazione di una serie di
scoperte scientifiche (energia elettrica,
industria del petrolio, la chimica, i
trasporti, ecc.). La meccanizzazione si
evolve in un sistema di macchine
interconnesse e si diffonde la
produzione di massa di beni più
complessi;

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− capitalismo evolutivo (fordismo),
tipico della fase attuale. Alcune
situazioni di crisi attraversate
dalla grande impresa, spingono
verso soluzioni intermedie e si
sviluppano le reti tra imprese per
recuperare la perduta flessibilità,
grazie allo sviluppo delle nuove
tecnologie informatiche, che
modificano il modo di produrre
ma anche l’organizzazione
assume connotazioni meno rigide.

Un aspetto molto significativo è il mutamento organizzativo, causato dall’introduzioni delle tecnologie


cui servono anche a rendere più lineare l’attività di lavorazione; ci colleghiamo dunque al sistema
giapponese del JUST IN TIME. Questo modello si basa sul tempo di produzione e consegna dei beni nel
momento opportuno, quando servono, secondo le esigenze di una domanda tendenzialmente stabile,
semplificando la gestione riducendo le scorte nelle varie fasi di lavorazione. I tempi ridotti e costi di
conversione delle macchine consentono di far passare modelli differenziati cadenzandoli sulle richieste
della domanda abbreviando i tempi di consegna. Si attualizza la c.d. LEAN PRODUCTION cui abbiamo già
parlato. Il produttore però deve essere sempre in grado di apportare qualsiasi correzione in tempo reale;
ciascuna dipendente dalla variazione della domanda, ottimizzando sempre i risultati e garantendo un’alta
produttività. La riduzione delle scorte e dei lotti di approvvigionamento con consegne frequenti genera
pressioni e oneri aggiuntivi. La svolta del just in time è arrivata non solo con l’introduzione
dell’informatica nell’impresa ma anche con l’impiego finanziario attraverso l’acquisizione di fornitori. La
formazione di scorte nel just in time è attribuibile a guasti o a difetti che arrestano il flusso operativo. In
determinati ambienti produttivi, il JIT si dimostra più ricettivo nell’assimilare i benefici di scorrevolezza,
flessibilità e affidabilità, realizzando il miglior connubio uomo-macchina

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I sistemi di automazione flessibile sono più convenienti delle produzioni discontinue: essi tendono a far
inserire configurazioni produttive e dispositivi automatici di controllo. Ciò comporta a dividere l’attività
produttiva in più stabilimenti di minori dimensioni, con un layout più efficace in modo da semplificare e
rendere fluido il processo, concentrando in ciascuno alcune lavorazioni meglio integrabili ce non
implichino lungi tempi di riattrezzaggio. Con questo sistema di rotazione compiti si dà vita ad una filosofia
di approccio i problemi in materia di progettazione dei prodotti, definizione dei cicli di produzione,
produzione e/o montaggio dei componenti. Questa filosofia viene denominata GROUP TECHNOLOGY.

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È importante però avere un efficiente gestione degli impianti, rimarcata dal TOTAL PRODUCTIVE
MAINTENANCE (TPM) che ha l’obbiettivo di migliorarne l’affidabilità prevenendone gli errori. Questa
metodologie adopera in base al rapporto tra il tempo operativo utile (calcolato mediante il numero pezzi
prodotti per il tempo del ciclo) e il tempo di carico macchina, ovvero il tempo di impiego per produrre. Si
evidenziano così le perdite di produzione per disfunzioni. Se invece il malfunzionamento dell’impianto
dipende da errori di installazioni e simili occorre fare modifiche strutturali all’impianto ed è da qui che
nasce l’esigenza di assumere personale con elevate competenze informatiche.

La sigla WCM comprende sia l’aggregazione di imprese appartenenti a diversi settori, ma tutte alla
ricerca di livelli di eccellenza nel manufacturing, sia una filosofia, e quindi una metodologia,
operative di organizzazione e di miglioramento continuo delle prestazioni della fabbrica. Si tratta di
un sistema di produzione che riguarda l’organizzazione della fabbrica nel suo complesso e che
interessa il sistema della qualità, la gestione dei costi, la logistica, in un’ottica di continua evoluzione.
Questo sistema, che si basa sull’aggressione sistemica di ogni tipo di perdita e spreco, esige dunque
il coinvolgimento di tutti, attraverso l’uso rigoroso di metodi e standard. Il ruolo dei lavoratori, ai
quali questo sistema di produzione richiede di essere polifunzionali, diventa fondamentale per

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l’obiettivo della qualità al primo colpo, indicato come unico modo per coniugare qualità e
competitività, poiché proprio ad essi sono richiesti i suggerimenti migliorativi da applicare.

Il continuo miglioramento delle condizioni operative delle attrezzature, sistematicamente


alimentato dai suggerimenti, dalle prove e dall’esperienza del personale che vi lavora, consente
guadagni di qualità del prodotto finale e risparmi di risorse estremamente importanti. Nella filosofia
del WCM è dall’esperienza creativa del funzionamento della fabbrica che si possono progettare
opportunamente nuovi impianti. Il WCM, i cui obiettivi possono essere riassunti nel raggiungimento
dei quattro zeri (zero difetti, zero guasti, zero giacenze, zero rimanenze), deve essere lasciato
all’interno degli stabilimenti, attraverso un meticoloso lavoro di formazione del personale, per fare
in modo che tutte le UTE recepiscano correttamente tanto la filosofia di questo metodo, quanto gli
strumenti di analisi organizzativa, produttiva e motivazionale.

L’essere all’avanguardia nell’adozione delle nuove tecnologie può arrecare indubbi vantaggi, ma
essere costoso in termini di ricerca, tentativi ed errori, e soggetto ad imitazione dei concorrenti. Sul
piatto della bilancia va posta anche la capacità dell’azienda innovativa nel crearsi sul mercato
l’immagine di “leader” all’avanguardia e, conseguentemente, la sua capacità di attrarre nuova
clientela e mantenere quella acquisita. Emerge, così, la difficoltà di valutazione dei rilevanti
investimenti nelle nuove tecnologie: la decisione, sempre ardua, va inquadrata nel contesto
competitivo visto in proiezione futura. I metodi di analisi economico-finanziaria classici, per quanto
sofisticati, non possono annullare le incertezze legate all’andamento effettivo delle variabili incluse
nel calcolo. Essi vanno, necessariamente, integrati da ulteriori elementi. Infatti, già la misura del
tasso da applicare e la durata del ciclo di vita del prodotto, ove trattasi di nuovi beni, sono frutto di
stime soggette a errori man mano che la previsione si estende nel tempo. Poi, si tratta di produrre
in modo diverso, con un mix di prodotti ottenuti probabilmente differente. Trattasi, dunque, di
nuove potenzialità il cui beneficio reale è in funzione della tempestività dell’impresa di sfruttarle
nella loro integralità. Sta alla direzione, allora, stimare in modo ragionevole, ricorrendo ad
un’appropriata analisi economico-finanziaria, i presumibili benefici, tenendo conto delle abilità
d’uso del personale e dell’integrazione con le macchine esistenti. Allorquando vi è la possibilità di
usufruire di agevolazioni, per evitare rischi di squilibri finanziari perduranti nel tempo, è opportuno
che l’investimento, specie se di rilevante entità, avvenga ricorrendo all’autofinanziamento per la
parte non coperta da agevolazioni finanziarie o contributi.

Il ricorso al leasing nell’acquisizione di tali tecnologie può essere conveniente sia per evitare un
elevato esborso iniziale, sia per non rimanere legati all’acquisto di beni notoriamente soggetti a
rapida obsolescenza. L’acquisizione delle nuove conoscenze tecnologiche può creare le basi per
nuovi, fecondi sviluppi nelle innovazioni di processo/prodotto con possibilità di ingresso anche in
nuovi mercati. Ciò implica una strategia volta ad incrementare le sinergie tra produzione (inclusa
R&S) e marketing per far germogliare nuove idee produttive selezionate, ispirate a bisogni attuali o
latenti del mercato. Secondo una concezione abbastanza diffusa, l’innovazione tecnologica segue
una curva a forma di S allungata con un lento progresso iniziale, forte esplosione successiva e scarsi
risultati nella fase di maturità, allorché si approssima al limite. Si troverebbe in posizione più
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vantaggiosa chi individua prima l’andamento della curva e scorge in anticipo l’approssimarsi del
limite per esplorare tecnologie alternative con il nascere di una nuova curva a S. Se si esaminano sul
piano dei costi, i ritorni dell’investimento nelle nuove tecnologie sono forse più facilmente
misurabili in termini di minori scorte di semilavorati e di prodotti finiti, minori costi di manodopera
e razionalizzazione dei consumi di energia.
Rimane elevato, però, il peso dei costi fissi, costituiti essenzialmente dagli ammortamenti, che
vanno prudenzialmente stanziati alla luce della rapida obsolescenza cui sono soggetti tuttora i
sistemi elettronici e il relativo software, la cui incidenza sul costo globale è crescente. Va tenuto
conto del fatto che il costo dell’investimento, includendo anche le spese di progettazione e
avviamento, gli oneri di adattamento e addestramento e le modifiche della movimentazione,
comporta un più intenso e meglio distribuito tasso di utilizzo degli impianti, con minori fermate per
guasti o manutenzioni non programmate. In definitiva, quello che occorre è un retto
comportamento decisionale, per un utilizzo efficiente di capitali e risorse finanziarie sempre più
scarse, anche per garantire un sano sviluppo aziendale.

CAPITOLO 8 – SISTEMI E STRUMENTI DELLA QUALITA’

Si comincia a parlare di concetto di “qualità” all’interno delle modalità organizzative del processo
produttivo, grazie a Taylor. Le nuove tecnologie per la produzione in serie richiedono le soluzioni problemi
organizzativi e manageriali. La rapida crescita della produzione implica l’adozione di metodologie e
strumenti più sofisticati all’introduzione del campionamento statistico. La sicurezza e l’affidabilità
richieste per il prodotto finale hanno portato all’introduzione di una nuova metodologia che operasse in
modo sistematico sul prodotto, ottenendo la QUALITA’ ASSURANCE, ovvero assicurazione e garanzia della
qualità. Quest’ultima è il risultato dell’integrazione di tutte le funzioni aziendali che tra loro collegate
concorrono ad assicurare la soddisfazione dei requisiti della qualità. Per conseguire la CUSTOMER
SATISFACTION è necessario invece innovare dall’interno il sistema aziendale, considerando come fattore
per il successo un ampio senso della qualità, non solo dei prodotti ma anche negli aspetti tecnici della
metodologia di approccio sistemico alla qualità. In questo contesto le aziende affrontano la competizione,
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cercando di introdurre la QUALITA’ TOTALE in azienda. L’approccio di tipo TOTAL QUALITY
MANAGEMENT si è avvalso delle teorie di Deming e Juran; non solo l’output deve essere al massimo grado
ma anche i rapporti all’interno e all’esterno dell’azienda, essi vanno imposti con una filosofia di
miglioramento continuo secondo il CRITERIO DEL PROBLEM SOLVING coinvolgendo tutti sul piano della
lealtà e della correttezza di approccio, in modo da definire puntualmente ogni aspetto operativo-
comportamentale. Tutto questo non è attuabile in tempi brevi; per raggiungere l’eccellenza del
miglioramento continuo occorrono tempi lunghi.

Successivamente si è avvertita l’esigenza di rinnovare l’approccio TQM secondo 3 fasi:


1. Anticipare e superare le attese dei clienti e curare la loro fidelizzazione;
2. Ottenere il BREAKTHROUGH attraverso l’innovazione e non soltanto realizzando il miglioramento
continuo
3. Sviluppare imprenditorialità interna e soluzioni per ottenere continuamente idee innovative
attraverso un ambiente organizzativo dinamico e favorevole alla sperimentazione.

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Gli obbiettivi di successo sono quelli di sorprendere i propri clienti con le innovazioni e fidelizzarli con la
qualità propri prodotti/servizi; un esempio è l’approccio “6 SIGMA” idealizzato da MOTOROLA

L’espressione “6 sigma” equivale all’assenza di errori in quanto in termini statistici significa ridurre la
dispersione, rendendo la probabilità (di avere prodotti/servizi) non conforme uguale azzero. Diventa
necessaria così l’applicazione delle metodologie statistiche, soprattutto le più avanzate; così da essere in
grado di gestire i problemi nella loro complessità, individuando quei fattori che manifestano maggiore
variabilità e maggiore stabilità dei fenomeni. i punti chiave di questo metodo gestionale riguardano le
attese dei clienti. Non basta solo soddisfare il cliente, serve anche “deliziarlo, anticipare ed esaudire i suoi
desideri”.

Tutto questo in relazione alla valutazione della qualità; in genere per QUALITA’ in termini aziendali si
intende affermare quell’impresa che riesce ad ottenere un prodotto/servizio o una combinazione di essi
valida per i soggetti di mercato prescelti, per le prestazioni, le caratteristiche, la durata ecc. attivando un
processo che impiega nel modo migliore le risorse umane e tecnologiche. In poche parole si devono
sostenere maggiori costi di prevenzione e di assicurazione qualità per ridurre o eliminare i COSTI DELLA
MANCANZA DELLA QUALITA’. Ciò comporta l’importanza degli elementi immateriali perché per fare
qualità si ha la necessità di investire mantenendo un adeguato livello onde evitare cadute di immagine al
fine di fidelizzare il cliente.

Si introduce quindi il SISTEMA QUALITA’, quella struttura organizzativa cui si attuano procedure, processi
e risorse per implementare la gestione della qualità. L’azienda richiedente viene certificata dagli enti
accreditati in base alle norme UNI_EN_ISO serie 9000. Queste norme si basano sulla gestione,
sull’assicurazione della qualità, per essa intesa come l’insieme delle caratteristiche di un’entità che ne
determinano la capacità di soddisfare esigenze espresse ed implicite. È necessario che la direzione
aziendale elabori e stabilisca la propria politica della qualità, estesa a tutti i livelli dell’azienda. La sua
struttura organizzativa deve assicurare la massima circolazione dei flussi informativi tra le diverse parti
del sistema stesso.

Carattere fondamentale di queste norme è quella di inquadrare i fatti aziendali come “processi”. Un
processo è costituito da un insieme di attività che sono interconnesse secondo un preciso flusso logico-
temporale cui sono coinvolte competenze, risorse e responsabilità diverse apportando alle entità del
valore aggiunto. Per garantire il raggiungimento degli obbiettivi i processi, secondo le norme, vanno tenuti
sotto controllo.

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Di conseguenza, il sistema qualità aziendale deve essere documentato per essere sottoposto alla verifica
dell’organismo esterno; affinché questo possa rilasciare la certificazione. Il sistema fornisce formazione
sulle metodologie e sulle tecniche per il miglioramento continuo con l’identificazione e misurazione di
indicatori della qualità e della definizione degli obbiettivi di miglioramento. Ciò significa che non bisogna
solo aumentare l’efficienza ma occorre spostare in avanti gli obbiettivi di miglioramento.
Occorre dunque per ottenere le certificazioni secondo le norme UNI EN ISO 9000 dimostrare un buon
livello organizzativo. La certificazione viene redatta per ogni organizzazione di qualsiasi tipo e dimensione
dell’azienda, adattandosi anche all’ambiente esterno geografico, culturale e sociale. Dal punto di vista
aziendale la norma ISO 900 si possono raggruppare in 4 macro-processi: RESPONSABILITA’ DELLA
DIREZIONE; GESTIONE DELLE RISORSE; GESTIONE DEL PROCESSO; MISURA, ANALISI E
MIGLIORAMENTO.

A grandi linee, si può dire che le norme più recenti ricalcano altri aspetti come:
− Il monitoraggio della soddisfazione del cliente, che prevede la richiesta all’azienda di stabilire
un processo per ottenere e controllare le informazioni e i dati relativi alla soddisfazione del
cliente;
− Il miglioramento continuo, che fa riferimento al soddisfacimento dei requisiti ed al
miglioramento costante e a tutti i livelli dell’azienda;
− L’adozione di indicatori che influenzano la qualità. È richiesto che i vertici aziendali stabiliscano
una politica della qualità che fornisca le basi per fissare e verificare gli obiettivi di qualità per
valutare in ogni momento i risultati ottenuti.
− Lo scambio continuativo di informazioni con i clienti, per cui si richiede che l’azienda realizzi
un collegamento effettivo con i clienti allo scopo di soddisfare le esigenze;
− Un riferimento alle infrastrutture e all’ambiente di lavoro presenti in azienda, in quanto
l’organizzazione deve fornire l’infrastruttura necessaria per ottenere la conformità del
prodotto/servizio, e definisca e realizzi i fattori umani e fisici dell’ambiente di lavoro necessari.
Entrando nel merito delle normative attualmente in vigore, la ISO 9001 promuove l’adozione di un
approccio per processi nello sviluppo, attuazione e miglioramento dell’efficacia di un Sistema di
Gestione della Qualità (SGQ). Affinché un’organizzazione funzioni efficacemente, infatti, è
necessario che essa determini e gestisca numerose attività collegate (processi). La 9001 specifica i
requisiti di un SGQ per un’organizzazione che abbia l’esigenza di dimostrare la propria capacità di
fornire con
regolarità un prodotto che soddisfi i requisiti dei clienti, e che desideri accrescere la soddisfazione
dei clienti tramite l’applicazione efficace del sistema. L’organizzazione, quindi, deve stabilire,
documentare, attuare e mantenere un SGQ e migliorarne di continuo l’efficacia in conformità alla
ISO 9001. In particolare deve identificare i processi necessari, determinare la sequenza di questi
processi, assicurare le risorse e le informazioni necessarie.

Al giorno d’oggi le responsabilità di una impresa vanno oltre le semplici considerazioni finanziarie;
bisogna infatti considerare anche l’impatto ambientale e sociale delle attività svolte. Le norme ISO
serie 14000 rispecchiano, a livello internazionale, il generale consenso circa le attuali buone
pratiche rivolte alla protezione dell’ambiente, applicabili a qualunque organizzazione e in
qualunque parte del globo. L’intera serie ISO 14000 fornisce strumenti manageriali per le
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organizzazioni che vogliano porre sotto controllo i propri aspetti ed impatti ambientali. Una
caratteristica di tutti i requisiti ISO 14000 è la loro natura volontaria, che in questo caso significa
l’assenza di alcuna costrizione legislativa al loro utilizzo. Tale tipo di decisione può provenire dal
bisogno di un maggiore controllo del rispetto dei regolamenti ambientali, dalla ricerca di efficienza
nei processi, dalle richieste dei clienti o, semplicemente, dal desiderio di un comportamento
responsabile delle imprese.

Da diversi anni in molti paesi si stanno diffondendo pratiche ed esperienze di imprese, di diversa
natura istituzionale, che operano in mercati molto differenziati e che coniugano l’agire economico
con finalità sociali. Se, nel passato, il profitto è stato considerato l’unico indicatore del successo di
un’impresa nel mercato, oggi emerge la capacità sociale dell’impresa. L’impresa è valutata non
soltanto per la sua capacità di generare profitti e remunerare gli azionisti, ma per la stretta
interdipendenza tra prestazioni economiche e prestazioni sociali. Non si tratta di una posizione
etica, legata soltanto alla responsabilità sociale o individuale di un imprenditore, ma di un fenomeno
emergente che tende a coniugare economia e società nell’impresa. La norma SA 8000 è uno
strumento di valutazione e certificazione che, attraverso la verifica di otto requisiti sociali, attesta
la responsabilità sociale dell’impresa. In questo modo le aziende possono certificare il loro impegno
nell’azione etica o che il loro comportamento non è contro l’etica descritta per gli otto requisiti. Le
otto aree di analisi riguardano vincoli e regolamentazioni per quanto concerne: il lavoro minorile, il
lavoro sotto coercizione, la tutela della salute e della sicurezza, la libertà di associazione, la
discriminazione, le pratiche disciplinari, l’orario di lavoro e la retribuzione.

La progettazione del prodotto/servizio riveste importanza decisivi per implementare un’importante


strategia fondata sulla qualità. Sotto questo profilo si crea una coesione armonica tra gli aspetti tecnico-
funzionali e quelli di prestigio ed estetici, si pensi al design e allo styling di un prodotto, entrambi
componenti importanti per la sua creazione. Il prezzo viene percepito come indicatore di qualità e
dunque per i prodotti c.d. status-symbol, la decisione d’acquisto è influenzata fortemente dall’immagine
di qualità raggiunta dalla marca e/o dal prodotto. L’intervento del designer però non porta sempre a un
giustificato ricardo dei prezzi ma in alcuni casi integrando il lavoro con tecnici della produzione può
determinare una riduzione dei costi di fabbricazione e/o di esercizio. Un altro strumento utilizzato per
designare la qualità è il QUALITY UNCTION DEPLOYMENT che consiste nel raccogliere informazioni sui
bisogni reali e le attese della clientela, sia attuale sia potenziale al fine di intrecciare le esigenze di
mercato e le caratteristiche del prodotto. Questo strumento riduce l’intervallo tra la decisione di lancio
del prodotto o de servizio e la data effettiva di ammissione sul mercato.

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Un’altra metodologia
utilizzata è quella HENSU
KAIHATSU: sviluppo di nuovi
prodotti definiti nell’ambito
di famiglie sviluppate con
logiche di tipo modulare; si
realizza una pianificazione
complessiva dei modelli
all’interno della stessa
famiglia assicurando varietà a
costi e tempi ridotti,
mediante la riduzione del
numero delle parti e dei
processi occorrenti.

Il successo di tali metodi è


legato alla capacità di
creare una documentazione
chiara e precisa di
integrazione dei tecnici
della progettazione, del
marketing e della
produzione. Il contributo
dell’informatica distribuita
è notevole ma una siffatta
impostazione richiede
elevati investimenti in
risorse umane e tecnologia,
ma si possono ottenere
notevoli vantaggi anche
grazie all’eliminazione delle
varietà inutili.

Nella fase di attuazione, partendo dalla necessità di assicurare il miglior livello di servizio alla
clientela, si è diffuso l’uso di sistemi di produzione “just in time”. L’adozione di sistemi integrati
CAM/CAD consente un più rapido avvicinamento all’obiettivo del miglioramento continuo. Un
punto basilare è l’eliminazione di tempi, costi e operazioni che non apportano valore alla
produzione; perciò, i suggerimenti degli addetti alle linee, per migliorare e perfezionare anche le
più minute operazioni, assumono un ruolo importante.

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Un elemento essenziale nella organizzazione per il miglioramento è rappresentato dai “Circoli della
Qualità”: essi consistono in un piccolo gruppo di prestatori di lavoro che si riunisce regolarmente e
volontariamente al fine di analizzare e risolvere i problemi di qualità della propria area di lavoro. Il
gruppo riconosce che i contributi di intelligenza ed esperienza delle persone sono fondamentali per
il miglioramento della qualità dei prodotti, dell’affidabilità dei processi produttivi, degli interventi di
manutenzione e così via. L’attività del gruppo è svolta in maniera continuativa e su base collettiva.
I singoli prestatori di lavoro sono posti in condizione di suggerire i metodi, le procedure lavorative
e le soluzioni organizzative da essi ritenuti più opportuni. Ciò contribuisce a ridurre sprechi e difetti.
La soddisfazione derivante dalla consapevolezza di svolgere un ruolo attivo e determinante nella
soluzione dei problemi costituisce il più delle volte il riconoscimento più importante.

Gli elementi principali che contraddistinguono un servizio sono l’intangibilità, l’eterogeneità


(ovvero la difficoltà di standardizzare le prestazioni) e l’inseparabilità delle fasi di produzione,
erogazione e consumo. Per definire il servizio che si desidera offrire sul mercato, il punto di partenza
è la conoscenza del processo di formazione delle attese dei clienti. Le aspettative dei clienti possono
essere a livello desiderato, che riflette ciò che il cliente spera di ottenere, o a livello adeguato, che
rappresenta la prestazione minima che il cliente ritiene accettabile ed anche la previsione della
qualità del servizio che gli sarà offerta. Da ciò discende che la qualità si concretizza nelle
caratteristiche del servizio offerto che condizionano la capacità di soddisfare una certa richiesta del
cliente.

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La qualità, quindi, ha un valore relativo, in quanto può essere percepita in modo differente dai vari
clienti. Gli elementi che costituiscono il sistema di erogazione del servizio sono:

− il cliente e gli altri soggetti con cui esso entra in contatto; gli strumenti necessari alla
produzione del servizio;
− il cosiddetto front-office (personale di contatto); l’organizzazione che avviene nel back-office.

In particolare, il front-office rappresenta il personale che ha diretti contatti con i clienti. Tali soggetti
devono possedere competenza, prontezza, disponibilità e capacità di comunicazione ma è insita
nelle attività di front-office l’impossibilità di eseguire previsioni e controlli su quello che potrebbe
avvenire durante la fase di erogazione.

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Al contrario, nel back-office i controlli sono più facili, poiché non c’è contatto diretto con il cliente
e si svolgono le fasi preparatorie e di supporto all’erogazione. La qualità del servizio prevedrebbe
da un lato un maggior controllo e una minimizzazione delle attività di front-office e dall’altro una
migliore organizzazione e preparazione a livello di back-office. È importante che l’impresa disponga
di un buon sistema informativo e che non esistano barriere alla comunicazione fra il top
management e gli operatori di front-office.

Le attività di verifica della qualità sono numerose e vanno dalla richiesta ai clienti del loro giudizio
sul servizio erogato, l’osservazione e le ispezioni, le operazioni di assestamento su campioni di
prestazioni. Utili a questo proposito sono quei modelli che, come strumenti di indagine statistica,
mirano a misurare la discrepanza tra le aspettative o i desideri dei clienti e le loro percezioni. La
misurazione ed il controllo degli scostamenti dei risultati dagli obiettivi sono i presupposti per la
fissazione dei parametri e di standard di futura applicazione.

CAPITOLO 9 – LA LOGISTICA AZIENDALE

La logistica è una funzione composita che ha avuto un tardivo riconoscimento della sua importanza nella
gestione aziendale. Essa si occupa di attività operative attuate in aree distinte cui concezione sistemica
all’approccio manageriale ha consentito di delineare un quadro unificante. L’identificazione del ruolo della
logistica valorizza il contributo nel contesto strategico aziendale specie se tale ruolo interagisce con l’omonima
funzione collocata nel processo decisionale delle altre imprese con le quali vengono stabiliti duraturi rapporti
nel processo produttivo e distributivo. Grazie alla gestione della logistica aziendale si ha una più efficiente
gestione delle scorte; non solo, si riesce a raggiungere un punto di incontro tra la continuità del processo
produttivo e il bisogno crescente di scelte individuali. Secondo Michael Porter, le attività logistiche assumono
un determinante ruolo nella CATENA DEL VALORE

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Il valore del prodotto è determinato dalla somma delle attività logistiche, operative, di marketing, dei servizi
ecc. il margine costituito dalla differenza tra il valore di vendita e il costo sostenuto per effettuare sia le attività
primarie che quelle di supporto. Se si considera invece l’INTERO CICLO PRODUTTIVO, Porter definisce in questo
modo il SISTEMA DEL VALORE:

Esso costituisce uno strumento di controllo e di valutazione efficace, da utilizzare in modo non statico ma
dinamico ai fini di confronto nel tempo e nello spazio per misurare i differenziali competitivi.

La rivalutazione della funzione logistica nell’ambito aziendale è intervenuta grazie allo sviluppo sistemico del
processo manageriale che ha evidenziato i legami intercorrenti tra le varie funzioni ed attività aziendali. La
concezione sistemica invece conduce ad una visione più ampia cui si misurano i TRADE-OFF, interazioni tra
costi delle varie funzioni per raggiungere l’obbiettivo di una condotta razionale dell’impresa. La vera e propria
difficoltà sta nel coordinare le varie attività secondo un chiaro indirizzo unitario: LA PRESENZA DOMINANTE
DELL’UOMO.
La funzione della logistica consiste nel coordinare
e convogliare il flusso fisico in ingresso delle
risorse e quello in uscita dei beni e servizi. L’utilità
di questa funzione si pone in relazione al fatto che
i flussi non sono continui bensì scomposti in lotti
dimensionati e organizzati in base alle loro
capacità, il tutto al fine di ottener il MINIMO
COSTO GLOBALE. Con la logistica riusciamo a
programmare, organizzare e controllare tutte le
attività di movimentazione e immagazzinamento
grazie alla circolazione delle informazioni che
consente di facilitare il flusso della produzione. La
gestione dei materiali e della distribuzione fisica
può essere suddivisa in due parti: La
DISTRIBUZIONE FISICA si occupa della
movimentazione e del stoccaggio dei prodotti
finiti. La LOGISTICA MARKETING invece si occupa
della selezione dei canali istituzionale di
distribuzioni dei prodotti aziendali; molto spesso si
scelgono prima le vie di distribuzioni e
successivamente quali risorse fisiche impiegare.

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Il MATERIALS MANAGEMENTE invece, si occupa di delle materie, dei componenti ecc.; questa nozione richiede
una conoscenza della domanda globale di ciascun prodotto limitatamente al periodo necessario per consentire
l’allocazione delle scorte richieste dalla produzione agli stabilimenti. Questo organo è più diffuso nelle aziende
che svolgono prevalentemente attività di assemblaggio o manutenzione di impianti mentre la logistica di
marketing è affidata più alle industrie chimiche, alimentari, farmaceutiche.

Nel designare l’organizzazione della logistica bisogna tener


conto della diversità dei compiti affidati a coloro che sono
coinvolti nel settore. Notiamo però come al crescere delle
dimensioni dell’azienda si ha una forte tendenza alla
specializzazione nella logistica: ciò attribuisce la necessità di
un coordinamento in orizzontale dell’azienda; se un’azienda
dispone già di grandi dimensioni invece si pone il problema
del coordinamento in verticale cui trattiamo l’analisi dei
costi, l’elaborazione degli ordini, il trasporto ecc. Si parla di
ORGANIZZAZIONE ONLINE se a questa si possono affiancare
delle funzioni di STAFF che possono riguardare aree quali la
programmazione della dislocazione interna di un deposito, lo
sviluppo di metodi di controllo delle scorte, la progettazione
di efficienti vie comunicative, l’analisi dei costi di
distribuzioni e così via.
Il responsabile della logistica viene collocato ad un livello elevato, alla pari del dirigente di marketing. La
motivazione è la seguente: il marketing desidera più scorte o consegne più rapide e quindi una rete distributiva
capillare per mantenere il livello di servizio alla clientela il pianificato settore finanziario tende a comprimere
l’entità delle scorte e la portata degli investimenti per abbassarne gli oneri connessi, la produzione è presa
dall’esigenza di rispettare un ritmo stabile di produzione con uniformità del mix nel tempo, sfruttando al
massimo le economie di scala al fine di ridurre i costi. laddove i compiti logistici non assumono rilevante
complessità si crea uno staff a capo di un responsabile coadiuvato da alcuni collaboratori che operano come
consulenti. In alternativa si può costruire un comitato composto dai responsabili delle varie aree interessate.
È bene che la logistica conservi una struttura accentrata, al fine di assicurare una migliore realizzazione della
pianificazione globale di tale attività basata sul flusso fisico di prodotti dell’intera azienda. L’orientamento al
problema logistico è diverso, esso varia in base al settore e in balse alla azienda. L’impatto della logistica è
rilevante soprattutto nella gestione operativa, cui può essere accurata attraverso un controllo dei costi e una
compressione della durata del ciclo operativo.

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CAPITOLO 10 – LA GESTIONE DEI MATERIALI E LA PROGRAMMAZIONE DELLA PRODUZIONE
Gli approvvigionamenti costituiscono l’anello iniziale del processo logistico e coprono l’area di costi
normalmente più ampia dell’azienda; inserendosi in un mercato più trasparente rispetto ai prodotti finiti. Si
parla di FUNZIONE ACQUISTI quell’area dell’organizzazione di impresa che ha la responsabilità di gestire il
processo d’acquisto e solitamente comprende le seguenti 6 fasi:
1. DEFINE SPECIFICATION: determinazione delle specifiche qualità e quantità richieste dei beni;
2. SELECT SUPPLIER: Identificazione e selezione dei fornitori più adatti a e sviluppare procedure e routine
per scegliere il miglior fornitore
3. NEGOTIATION & CONTRACT AGREEMENT: Preparazione e conduzione di trattative con il fornitore al
fine di stabilire un accordo e stilare un contratto
4. ORDERING: emissione dell’ordine al fornitore e sviluppo di sistemi efficienti di gestione degli ordini
d’acquisto
5. EXPEDITING: Monitoraggio e controllo del fornitore affinché garantisca una performance conforme a
quanto previsto dalla conferma d’ordine
6. EVALUATION: valutazione di tutto, appianamento dei reclami, aggiornamento degli archivi
prodotti/fornitori.
Si tratta dunque di un insieme di attività operative e di servizio necessarie a garantire un regolare lusso di
materiali e servizi secondo le esigenze di produzione e i criteri di economicità. Gli obbiettivi principali sono:
ottenere risparmi, resistere ad aumenti dei prezzi, evitare ritardi nelle consegne
FASI STRATEGICHE SUPPLIER MANAGEMENT FASI OPERATIVE PURCHASING

Decisioni Selezione Trattativa e Monitoraggio


Emissione Valutazione
specifiche fornitori contratto e controllo
ordini fornitori
ordini

SOURCING, BUYING, PROCUREMENT

Negli ultimi anni si è data enfasi al c.d. SUPPLY CHAIN MANAGEMENT, definito come “un approccio in una
visione integrata globale e orientata ai processi ai problemi di approvvigionamento, produzione, consegne ai
clienti di prodotti e servizi”. Il passaggio dalla logistica al CSM è avvenuta nel momento in cui la prima ha
scoperto l’utilità di uscire dai confini aziendali e dunque approcciarsi ad un ambiente esterno. Si parla, invece,
di LEAN SUPPLY CHAIN per indicare la migliore ed efficiente gestione dei rapporti e con gli attori della catena
uno snellimento che fa comprendere che il valore del prodotto si realizza lunga tutta la catena della fornitura.
Vanno affrontati in questo contesto diversi temi: la scelta dell’alternativa “make or buy” ovvero la fissazione
degli standard qualitativi, la dimensione degli ordini, la costituzione di adeguate scorte e il loro controllo, la
regolarità del flusso di consumo o di approvvigionamento, la negoziazione per ottenere la qualità e la quantità
richiesta al prezzo e alle condizioni accessorie più economiche grazie agli effetti del mercato. Tutto ciò porta a
parlare di POLITICA DEL PRODOTTO; essa comprende tutte le decisioni relative ai materiali approvvigionati,
definite grazie alla raccolta di informazioni su di esse.

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Le politiche del prodotto sono legate all’osservazione del portafoglio materiali, classificata in termini di
maggiore o minore criticità economica e di rischiosità di approvvigionamento. Ciò che rende la funzione
approvvigionamenti strategica, secondo la MATRICE DI KRALJIC dipende da due fattori:
- La RILEVANZA DEGLI ACQUISTI in termini di valore aggiunto per linea di prodotto, di percentuale di
incidenza delle materie prime sui costi totali e del loro impatto sulla redditività.
- La COMPLESSITA’ DEL MERCATO DI APPROVVIGIONAMENTO evidenziata dalla scarsità dei rifornimenti
quindi carenza dell’offerta; dal ritmo di sviluppo tecnologico dei nuovi prodotti, dalle barriere all’entrata,
dal costo o complessità logistica e dal grado di concorrenza nel mercato.
La matrice di Kraljic è strutturata nel seguente modo:

Si distinguono dunque, quattro tipologie di materiali d’acquisto:


1. MATERIALI MOTLIPLICATIVI (o con effetto leva): importanti per l’azienda ma collocati in mercati poco
rischiosi e con offerta abbondante.
2. MATERIALI NON CRITICI: componenti che hanno un basso impatto sull’azienda e che si trovano in
mercati a basso rischio
3. MATERIALI STRATEGICI: importanti per l’azienda sia in termini di impatto economico che per le
condizioni di fornitura dei mercati complessi e/o rischiosi.
4. MATERIALI “COLLI DI BATTAGLIA”: basso impatto aziendale ma dotati di continuità delle forniture a
rischio elevato.
Ciò necessita di un’attenta scelta e selezione ed un continuo controllo dei fornitori, facendo ricorso anche ai
c.d. ORDINI APERTI cioè per condizioni generali già concordate per un periodo abbastanza lungo e specifiche
delle forniture fissate di volta in volta.
La valutazione della prestazione offerta dal fornitore dipende da diversi variabili, in primo luogo si considera il
prezzo della materia prima e della sua qualità; altri variabili sono:
- La RAPIDITA’ cioè il numero medio di giorni a partire dalla data di invio dell’ordine il cui fornitore necessita
per far prevenire le materie richieste all’impresa cliente.
- La PUNTUALITA’ che viene misurata ex post attraverso la quantificazione dello scostamento medio tra la
data di consegna pattuita e quella effettiva
- La FLESSIBILITA’ viene intesa come capacità del fornitore di coincidere gli ordini aperti
Altri fattori sono la criticità della risorsa e l’entità degli investimenti specifici sostenuti.

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In molti settori, dunque, il rapporto con il fornitore si evolve al fine di creare, al di là della necessaria
negoziazione tecnico- commerciale, un legame tendente a costituire un parco fornitori qualificato,
precostituendo diversi livelli gerarchici, a seconda del tipo di fornitura con l’obiettivo di una
produzione a costi minimi, con pieno sfruttamento delle opportunità tecnologiche. Si forma, così,
una rete integrata tra l’azienda e i propri fornitori, fondata sulla consapevolezza della comunanza
dei problemi ed interessi apparentemente confliggenti: si instaurano relazioni di medio-lungo
termine con interscambio di informazioni tecniche.

Vi sono diversi modelli di mercato organizzato nell’approvvigionamento:

• SISTEMA DI SUBGONTRACTING che ha caratteri originali di gerarchia e mercato nel suo


funzionamento per cui può farsi rientrare nelle forme di mercato organizzato.

• MODELLO MONOPSONICO cui domina il potere contrattuale. Si parla di monopsonio quando le


imprese fornitrici sono in un numero limitato e possono vantarsi di una differenziazione dei propri
prodotti; non esistono prodotti sostitutivi; il settore non è un cliente importante per il fornitore; il
bene venduto è un fattore della produzione importante per l’acquirente.

• MODELLO GERARCHICO, MUTIPOLARE, MACOIMPRENDITORIALE: un modello costituito a 3 livelli;


il primo livello, GERARCHICO, consente di svolgere azioni di coordinamento per il livello successivo
il quale, costituito da imprese con autonomia decisionale limitata dagli inputs provenienti
dall’impresa leader, si stabiliscono delle interdipendenze tra aggregazioni funzionali (poli) per
realizzare prodotti/servizi da scambiare all’interno o da offrire all’esterno. Infine l’ultimo livello è
costituito da un indotto che interagisce con i polli per ottenere più coordinamento.

• MODELLO T/A (usato nel settore tessile abbigliamento): esso prevede un’impresa al centro che
mantiene complessivo il ciclo, acquista una licenza d’uso per contraddistinguere i propri prodotti
(nel caso dell’impresa T/A acquista una griffe)

• MODELLO COMAKERSHIP specie per operazioni di tipo innovativo, con imprese specialistiche.
Anche in questo caso il coinvolgimento all’interno dell’azienda è talmente alto che alla funzione
acquisti, impegnata nelle operazioni di approvvigionamento ordinario, se ne affiancano altre,
anche di livello superiore, inclusa la Direzione Generale per le questioni di maggiore
complessità, nonché la figura del “project manager” allorché si tratta di progetti impegnativi
che richiedono la presenza di un soggetto di coordinamento sinergico all’interno dell’azienda
e con i fornitori strategicamente più importanti, con i quali occorre stabilire un continuo
scambio di informazioni sullo studio di avanzamento delle operazioni programmate, al fine
anche di ridurre il time-to-market

L’elevata complessità del mercato di fornitura e l’importanza dei materiali reclamano una politica degli
approvvigionamenti caratterizzata da decisioni atte a garantire l’accessibilità dei materiali nel lungo
termine. Il MARKETING D’ACQUISTO può essere definito come un processo decisionale attraverso il
quale l’azienda stabilisce la necessità di acquistare prodotti e servizi, valutando e scegliendo tra le
diverse fonti alternative di prodotti e fornitori esistenti sul mercato. Esso si estrinseca in un insieme di
politiche e di azioni orientate ad assumere un ruolo attivo nei confronti del mercato della fornitura per

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realizzare vantaggi competitivi; opera in analogia con il marketing delle vendite utilizzando un insieme
di leve:

• LEVA PRODOTTO che tende ad individuare per il bene o servizio oggetto di scambio e della
relazione di fornitura stessa, le fonti di criticità al fine di poterle gestire in anticipo nella fase di
definizione dei target e di definizione delle strategie del rapporto di fornitura stesso

• LEVA PREZZO tesa alla negoziazione delle condizioni economiche che regolano il rapporto con
il fornitore

• LEVA DELLE FONTI DI ACQUISTO che si basano sul monitoraggio dei mercati di
approvvigionamento per l’identificazione dei fornitori potenziali

• Sulla base delle fonti di acquisto si determina l’ultima leva del marketing d’acquisto che può
essere TRADIZIONALE se basata sul mercato opportunistico e competitivo; INTEGRATIVA se
basata su accordi di sincronizzazione dei flussi della fornitura; EVOLUTIVA se c’è un vero e
proprio accordo di partnership collaborativa (comakership)

Tuttavia c’è una tendenza a rapporti più stabili e duraturi basati su logiche di cooperazione; con
meccanismi di valutazione più complessi e scambi informativi più intensi. L’approvvigionamento risulta
influenzato dalle seguenti problematiche gestionali:

PROBLEMATICHE INTERROGATIVI SOCIALI

MULTIPLE VS. SINGLE Qual è il numero ottimale di fornitori con cui intrattenere relazioni di
VS. PARALLEL- scambio?
SOURCING

MECCANISMI DI È preferibile, nella fase negoziale, procedere alla selezione dei


SELEZIONI DEI fornitori con il sistema delle offerte competitive o è meglio dare una
FORNITORI E VENDOR tendenziale preferenza all’attuale fornitore? Più in generale, su quali
RATING variabili deve incentrarsi la selezione e la valutazione periodica dei
fornitori?

STRUTTURA Quali meccanismi di pricing consentono l’allineamento degli incentivi


CONTRATTUALE E di fornitore e di acquirente? In particolare, sono più indicati i
MECCANISMI DI contratti a prezzo fisso o quelli a prezzo indicizzato? In che misura il
ADATTAMENTO problema dell’assorbimento dei rischi muta le politiche di prezzo?

GESTIONE DEL DISSENSO Come gestire correttamente il conflitto e il dissenso nel corso della
relazione? Qual è il ruolo dei committents? E degli scambi
informativi?

MECCANISMI DI Quali forme di controllo è efficiente impiegare a supporto dello


CONTROLLO scambio? Quando è preferibile sostituire al tradizionale controllo in
accettazione un controllo sui processi produttivi del fornitore? Quale
è il valore dell’autocertificazione di qualità?

JOINT ACTION E Quali sono le tipiche forme di interazione sul piano logistico e sul
GESTIONE DEI PROCESSI piano strategico? Quali sono le modalità di coinvolgimento dei
INNOVATIVI fornitori nel processo di sviluppo di nuovi prodotti e in generale nei
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progetti innovativi dell’acquirente? Quali sono i vantaggi di un
coinvolgimento anticipato?

Non poteva mancare anche qui l’impiego informatico; si comincia a parlare di E-BUSINESS all’interno
dell’azienda attraverso le digitalizzazioni dei vari processi aziendali persino le relazioni con i fornitori.
L’approvvigionamento elettronico in tutte le sue manifestazioni e soluzioni, rappresentano un forte
potenziale di vantaggio competitivo. Si parla dunque di E-PROCUREMENT quella soluzione capace di
rendere più efficace ed efficiente l’intero processo di approvvigionamento di un’azienda attraverso la
trasposizione in rete il processo di per sé e le relazioni coi fornitori.

Una volta approvvigionate le materie ecc. si pongono i problemi riguardo la dimensione dei depositi. Per
ridurre gli oneri di movimentazione, i depositi vanno ubicati in posizione ottimale per favorire l’afflusso
più agevole dei materiali agli impianti di produzione, cui disposizione deve essere studiata in modo da
ridurre anche i trasporti interni di collegamento con i reparti di confezionamento e spedizione. Si pone
anche le problematiche delle linee di montaggio da installare, ad ogni modo l’obbiettivo è sempre quello
di ridurre i tempi di attraversamento e produzione con una collocazione più possibile contigua delle aree
con quelle a monte o a valle del ciclo di produzione. La migliore efficienza sarà conseguita ove vengano
introdotti appropriati metodi di valutazione del rendimento. Successivamente la merce può essere
movimentata all’interno del magazzino; cui può essere MANUALE, SEMIAUTOMATICO o AUTOMATICO.
La fase di progettazione del magazzino è di fondamentale importanza in quanto da essa dipende il
funzionamento del magazzino stesso. Un magazzino è suddiviso in 3 zone fondamentali:

• ZONA DI RICEZIONE: l’esecuzione degli ordini di acquisto dipende dai fornitori e l’arrivo di merci
non sempre è programmabile e si possono accavallare particolari spazi di accesso

• ZONA DI IMBALLO E SPEDIZIONE: solitamente ha minori esigenze di spazio

• ZONA DI STOCCAGGIO: costituisce il magazzino in senso stretto, è quella parte dove l merci
restano in giacenza per periodi più o meno lunghi

Altro problema di alta rilevanza è la locazione dello stabilimento industriale: le decisioni inerenti sono di
tipo strategico e perciò rientrano nella competenza dell’alta direzione. La localizzazione industriale
avviene laddove sia minima la somma dei costi di investimento, di approvvigionamento delle materie e
della mano d’opera, nonché dei costi di consegna dei prodotti finiti, posti alcuni vincoli determinanti
dalle esigenze di produzione e di collegamento con i mercati di rifornimento e di sbocco. La localizzazione
idi uno stabilimento industriale provoca importanti riflessi sul sistema logistico complessivo. I vincoli e i
condizionamenti delle scelte di localizzazione sono molteplici e in continuo mutamento; occorre
considerare che dal lato dell’approvvigionamento è opportuno attuare i sistemi just-in-time basati sul
modello giapponese. Una volta stabilita la localizzazione dello stabilimento, un altro rilevante problema
da affrontare riguarda la definizione della capacità produttiva sia dell’intero stabilimento sia di impianti
o macchinari singoli. Un criterio base è il raggiungimento delle economie di scala conseguibili nel punto
definito come dimensione minima efficiente. Il problema si pone sia in sede di insediamento, sia in sede
di decisione di eventuali ampliamenti o internalizzazione di lavorazioni… bisogna tener conto inoltre della
flessibilità del sistema di produzione alla quale partecipano non solo impianti e macchinari ma anche la
struttura organizzativo-logistica, interna ed esterna. Non va confusa con l’ELASTICITA’, intesa come

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possibilità di modificare il volume produttivo senza incidere in maniera ampia sul costo unitario di
produzione.
Sussegue la problematica delle scorte, definite come “un insieme di materiali, semilavorati e prodotti
che in un determinato momento sono ancora in attesa di partecipare ad un processo di trasformazione
o di distribuzione”. La funzione delle scorte è essenzialmente quella di rendere indipendente l’impresa
da un lato dagli andamenti del mercato; dall’altro le diverse fasi di produzione all’interno dell’impresa.
Le scorte consentono di organizzare la produzione indipendentemente dagli andamenti dei mercati di
fornitura. Classifichiamo le scorte, in base alla destinazione:

- SCORTE DI MATERIE PRIME: servono a ovviare ai ritardi nelle consegne degli approvvigionamenti;
ridurre i costi nel caso si ottengano sconti quantità o si riesca ad acquistare in condizione di prezzi
cedenti

- SCORTE DI SEMILAVORATI servono a ovviare ai ritardi di consegna dei subfornitori o altri reparti
produttivi

- SCORTE DI PRODOTTI FINITI servono ad evadere celermente gli ordini; far fronte agli andamenti
ciclici della domanda; evitare che la programmazione della produzione debba variare drasticamente
il livello della quantità prodotta per adeguarsi prontamente alle irregolarità del mercato
Classificazione delle scorte secondo le funzioni:
- SCORTE FUNZIONALI si intendono le giacenze accumulate per coprire le esigenze del periodo di
tempo necessario al trasporto o alla produzione di un bene o per realizzare la funzione di
disaccoppiamento di due o più fasi nel processo acquisto-produzione e vendita

- SCORTE IN TRANSITO (trasferimento o lavorazione)


- SCORTE ORGANIZZATIVE rendono indipendenti le diverse fasi del sistema produttivo-distributivo,
superando le inerzie e i punti morti riscontrabili in alcune fasi del ciclo di trasformazione o al fine di
attirare la variabilità interna/esterna dell’azienda o ancora per far fronte ad ogni eventuale distonia
del sistema.

A fronte di queste definizioni, introduciamo il concetto di LEAD TIME (o tempo di riordino), definito come
l’intervallo di tempo che intercorre tra il momento in cui si avverte la necessità di ricostruire le scorte ed
il ricevimento delle stesse nel magazzino ed è formato perciò dal tempo di emissione, trasmissione,
esecuzione dell’ordine, di trasporto e ricevimento merce. Se il lead time è fisso allora la scorta
rappresenta l’ammontare di prodotto richiesto per soddisfare la domanda nel periodo determinato. In
caso di lead time medio saranno le scorte di sicurezza a far fronte ad inattese variazioni della domanda
o dell’impiego. Si parla inoltre di SCORTE SPECULATIVE quelle rappresentate dalle giacenze al fine di
trarre vantaggio da una variazione dei prezzi prevista in un determinato periodo.
Anche la gestione delle scorte pone dei costi:

- DI ORDINAZIONE: emissione/gestione ordini ed eventuali costi speciali di produzione


- DI MANTENIMENTO: conservazione delle scorte

- SOTTOSCORTA in caso di esaurimento o insufficienza delle scorte

- SOVRASCORTE in caso in cui si abbiano eccedenze di scorte

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Occorre dunque coordinare i settori/processi relativi alle scorte e alla produzione con la gestione dei
materiali attraverso un criterio che soddisfi:

- La rivelazione delle disponibilità dei beni sia sotto il profilo delle consistenze fisiche sia sotto il profilo
dei dati contabili

- L’individuazione dei lotti di riordino

- Valorizzi il tutto in termini contabili e fiscali


- L’ottenimento di informazioni tempestive, accurate e sintetiche al management.

- La gestione dei flussi di materiali mira a garantire la continua disponibilità dei materiali,
minimizzando l’investimento e l’impiego di risorse necessaria. Caratteristiche principali sono la
natura della domanda (dipendente nel caso cui derivi da organi superiori, indipendente nel caso
contrario); il valore dell’impiego di un materiale e la frequenza di consumo. Il tutto secondo due
logiche: look back o look ahead. Secondo la logica LOOK BACK, un ordine di produzione viene
lanciato per coprire i fabbisogni futuri e dunque rientrano i metodi di gestione delle scorte A
QUANTITA’ FISSA e A TEMPO FISSO. La logica LOOK AHEAD invece consiste nella pianificazione dei
fabbisogni presentando svantaggio di richiedere elaborazioni più complesse, rientrano dunque il
MATERIAL REQUIREMENT PLANNING e il JUST IN TIME

I modelli di gestione dei materiali più noti sono i cosiddetti modelli di gestione a scorta. Queste
tecniche di gestione sono volte a calcolare la dimensione del magazzino considerata ottimale a
partire dalle previsioni sull’andamento della domanda e tenendo conto dei costi di gestione delle
scorte. Quando il livello delle scorte in giacenza scende al di sotto di un certo livello predefinito,
viene lanciato un ordine di acquisto o di produzione volto a reintegrare il magazzino. Le tecniche di
gestione a scorta si pongono come obiettivo la definizione di quanto e quando ordinare i
prodotti/materiali per avere il magazzino sempre pieno sotto il vincolo della minimizzazione dei
costi di gestione delle scorte. Le ipotesi di questi modelli sono:
− esistenza di un magazzino caratterizzato da prelievi continui e versamenti discreti;
− esistenza di una domanda prevedibile e stazionaria;
− consumo graduale delle scorte.
La tecnica più nota è quella del lotto economico, modello secondo il quale si determina la quantità
da ordinare che minimizza la somma dei costi di mantenimento e dei costi di ordinazione dei
materiali di acquisto. I costi di mantenimento sono costituiti da:

− oneri finanziari sul capitale investito nelle scorte;


− costi di obsolescenza e di deterioramento fisico;
− costi di magazzinaggio e manipolazione;
− oneri assicurativi.

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I costi di ordinazione sono costituiti da:

− costi amministrativi di ordinazione;


− costi di ricevimento e di controllo qualità;
− costi di trasporto.
2∗𝐹𝐹∗𝐶𝐶𝐶𝐶
La funzione di costo diventa la seguente 𝑄𝑄 = �
𝑝𝑝∗𝑖𝑖

F = fabbisogno; Co = costo di ordine, p = prezzo; i = % di mantenimento


Il lotto economico dunque cresce all’aumentare dei costi di ordinazione e del fabbisogno di
approvvigionamento; si riduce invece all’aumentare del costo del capitale. Il modello del lotto economico
consente di ottimizzare i costi di gestione delle scorte, se i parametri rimangono costanti al variare del
lotto. In caso contrario, non sarà sufficiente.

Il modello di riordino implica un monitoraggio continuo del magazzino, data la difficoltà di attuazione
spesso vengono definite cadenze temporali fisse cui viene verificato il livello delle scorte in giacenza

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Per determinare le scorte di sicurezza occorre considerare che l’ordinazione vincola l’acquirente ad un
periodo pari a lead-time + T; in questo caso per lead time si intende il tempo di preavviso con il quale
l’acquirente informa il fornitore delle quantità da consegnare. Ci sono dunque delle differenze tra la
gestione delle scorte a quantità fissa e la gestione delle scorte a periodo fisso

MODELLO A QUANTITA’ FISSA MODELLO A PERIODO


FISSO

MONITORAGGIO Continuo A cadenze predefinite

PARTENZA Quando il magazzino scende sotto un Solo se al momento del


ORDINE livello prefissato controllo il magazzino è
sceso sotto un livello
prefissato

LOTTO Fisso Pari a quello che riporta il


ORDINATO magazzino a livello
prefissato

CONTROLLO Continuo Discontinuo

INTERVALLO DI Variabile Fisso


RIORDINO

QUANTITA’ Fissa variabile

Le politiche di scorte illustrate si fondano sulla necessità abituale di collocare un certo numero di
ordini per ricostituire le scorte in un determinato periodo. Tuttavia, non tutti i problemi relativi alle
scorte sono dello stesso tipo. Il modello EOQ delle scorte, e altri similari, non sono applicabili in
modo diretto al caso del singolo ordine, a motivo del fatto che la domanda non è continua, o è
soggetta a fluttuazioni drastiche da un periodo all’altro. Il problema si risolve, a volte, indentificando
la quantità ottima da ordinare che massimizzi l’utile, ad esempio settimanale, tenuto conto che
sono note le probabilità di come si presenterà la domanda. In generale, si può affermare che la
quantità da ordinare cresce se sono elevate le perdite dovute a sottoscorta e sono bassi i costi di
invenduto e viceversa.

Le tecniche di gestione a scorta sono di semplice applicazione, ma presentano alcuni limiti che
nascono innanzitutto dalle assunzioni di base utilizzate per la valutazione della domanda su cui
dimensionare il magazzino. La domanda media, infatti, si suppone che sia stazionaria e si presume
che le scorte siano utilizzate in modo graduale. L’obiettivo di queste tecniche è quello di avere
sempre l’articolo in giacenza, con l’ipotesi che tutto ciò che è messo a scorta è necessario e sarà
utilizzato. Le tecniche
di gestione a scorta diventano poco adatte alla gestione di un portafoglio clienti ridotti con ordini
consistenti, da un lato, e alla gestione dei magazzini di prodotti intermedi dall’altro. In genere,

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quindi, le tecniche di gestione a scorta non sono le tecniche più efficienti per la gestione delle scorte
di semilavorati e/o componenti.
Negli altri casi sono preferibili le tecniche di gestione a fabbisogno (MRP, Materials Requirement
Planning) in cui esplode il fabbisogno di materie prime e prodotti intermedi a partire dal fabbisogno
di prodotti finiti espresso nel piano principale di produzione, che formalizza le analisi sulle previsioni
di vendita. Il magazzino viene quindi gestito in modo tale da soddisfare le esigenze di produzione.
L’obiettivo delle tecniche di gestione a fabbisogno è quello di determinare:
− quali materie prime sono necessarie per realizzare il piano di produzione;
− in quali quantità e quando devono essere approvvigionati per rispettare i tempi di produzione
garantendo condizioni di efficienza.
L’MRP è una tecnica complessa in quanto richiede una notevole quantità di informazioni, la cui
elaborazione necessita di un supporto di tipo informatico. Le informazioni del sistema provengono
da:

− piano principale di produzione, che fornisce le informazioni necessarie alla determinazione di cosa
e quanto produrre;
− distinta di base, che definisce le informazioni tecniche sui prodotti necessarie a determinare i
fabbisogni di componenti e materie prime;
− lead time: la conoscenza dei tempi di produzione (lead time interno) o approvvigionamento
(lead time esterno) di ogni singolo componente della distinta base consente di programmare
i lanci degli ordini di produzione o o acquisto coerentemente con i tempi previsti di
predisposizione del prodotto finito;
− giacenze: le informazioni sullo stato delle giacenze, dell’esistenza in scorta di materiali già
destinati ad altre produzioni e su eventuali ordini di materiali già inoltrati, sono la base per
determinare il fabbisogno netto.
In base a tutte queste informazioni, viene definito quando lanciare l’ordine di acquisto o produzione
e per quali volumi. La quantità da ordinare è più propriamente definibile come fabbisogno netto,
che sarà dato dal fabbisogno lordo derivante dall’esplosione del piano di produzione secondo le
informazioni della distinta di base, al netto della scorta disponibile. Quest’ultima sarà pari alla
giacenza di magazzino, meno le scorte già prenotate per altre produzioni e le scorte di sicurezza, a
cui si sommano ordini aperti, ovvero scorte non ancora presenti in magazzino, ma già ordinate. I
progressi del software di base e l’integrazione resa possibile con i moduli adibiti alla pianificazione
della capacità produttiva e delle risorse finanziarie hanno migliorato il metodo sino a parlare di MRP
II (con il significato più ampio di Manufacturing Resources Planning) con la pianificazione, cioè, non
solo di parti e materiali, ma anche delle altre risorse produttive, in modo da bilanciarne le attività
in un’ottica di ottimizzazione.

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Il just in time, ed il Total Quality Management, sono tra gli elementi costitutivi del modello di
organizzazione e produzione giapponese, le cui tecniche sono finalizzate a produrre solo ciò che
serve al cliente, produrlo solo al ritmo secondo il quale il cliente ne ha bisogno, produrre con qualità
perfetta (zero difetti), produrre senza spreco di lavoro, di materiali o di impianti. Il just in time è un
sistema produttivo di tipo pull: ciò significa che la produzione viene tirata non da previsioni di
vendita, ma direttamente dalla domanda che, a partire dai centri finali di assemblaggio, porta
all’attivazione, in catena, di tutti i centri produttivi a monte, mano a mano che se ne manifesta la
necessità. In questo senso il problema diventa quello di creare una concatenazione sincronizzata di
tutte le fasi produttive che permetta di mantenere una elevata efficienza e una elevata flessibilità.
Il raggiungimento di obiettivi come questi, che permettono di mantenere una costante simmetria
tra domanda e offerta di beni, implica un controllo contemporaneo sulle quantità prodotte e sulla
qualità dell’output di ogni fase del processo produttivo, che deve essere sempre privo di difettosità.
Il sistema di gestione dei materiali kanban rientra tra gli strumenti di gestione sviluppati nell’ambito
del più ampio sistema di produzione just in time. Il kanban è un sistema di gestione dei materiali
utilizzato per la gestione del processo produttivo in quanto “meccanismo” attraverso cui si attivano
i diversi centri di produzione all’interno dello stabilimento. Esso è letteralmente il “cartellino”
attraverso cui si trasmettono le informazioni da una stazione di lavoro all’altra per comunicare
l’utilizzo di un determinato materiale e la necessità del suo reintegro. Attraverso un kanban, cioè,
un centro a valle comunica a quello a monte l’esigenza di un determinato componente e quindi
l’esigenza di metterlo in produzione. Il sistema prevede innanzitutto alcuni elementi:

− due centri di produzione (uno a monte e uno a valle) con un centro di movimentazione e raccolta
dei materiali;
− contenitori per il rifornimento di dimensioni standard per controllare il numero dei pezzi
trasferiti e permette anche un controllo visivo immediato dei flussi;
− un kanban di produzione che autorizza il centro di produzione a monte a produrre le parti dopo
che queste sono state inviate a valle;
− un kanban di trasferimento utilizzato nel centro a valle per autorizzare il trasferimento dei
componenti prodotti a monte.
Da un punto di vista operativo, il flusso di comunicazione e attivazione della produzione fra due
centri di produzione si struttura in questo modo:

− a valle, a seguito di un consumo, c’è un contenitore vuoto con un kanban di trasferimento. Un


incaricato lo preleva e lo porta nella zona di stoccaggio del centro a monte;
− qui l’incaricato preleva un carrello pieno, stacca il kanban di produzione e mette quello di
trasferimento;
− il carrello pieno viene portato a valle e, quando i materiali vengono mandati in produzione, il
kanban di trasferimento viene staccato e posto su una rastrelliera; quando si è accumulato un
certo numero di cartellini, l’incaricato provvede a fare lo scambio di carrelli vuoti con carrelli
pieni posti nell’area di stoccaggio del centro a monte;
− a monte, il kanban di produzione staccato dal carrello vuoto viene posto su una rastrelliera per
indicare la quantità di materiali consumati a valle. A intervalli predefiniti e secondo l’ordine di
urgenza, il reparto produce i pezzi consumati e li mette in un carrello nel centro di stoccaggio,
ponendovi sopra il relativo kanban di produzione.

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Dopo la fase della progettazione e del dimensionamento del sistema di produzione, prende avvio la
vera e propria gestione della produzione, che comprende sia la programmazione della produzione
che il controllo della stessa, con l’analisi dei parametri di performance, a cui si aggiunge la gestione
dei materiali necessari al ciclo produttivo. Il tema centrale dell’attività di programmazione risiede
nell’esigenza di armonizzare le richieste del mercato con le potenzialità del sistema produttivo. La
programmazione della produzione comprende l’insieme delle procedure, delle informazioni e degli
strumenti che, nell’ambito di un sistema produttivo acquisito, vengono utilizzate per determinare
cosa produrre, in quali quantità, secondo quali modalità ed entro quali tempi, con l’obiettivo di
ottimizzare i flussi delle risorse in entrata, l’uso delle capacità disponibili presso i vari centri di
trasformazione, ed i flussi in uscita del sistema produttivo. A partire da un ordine già acquisito o da
una previsione della domanda, per ogni componente/semilavorato di un prodotto ed in base a
considerazioni di costo, la programmazione della produzione deve definire quanto produrre, quali
centri produttivi attivare, quando avviare la produzione rispettando gli obiettivi strategici ed
operativi definiti dal management. L’intero processo di programmazione è molto complesso; tra i
diversi momenti del processo decisionale se ne possono individuare alcuni principali:

− Previsione della domanda: la previsione è l’anello iniziale di ogni processo di pianificazione


aziendale. In azienda ogni decisione, ogni programma e ogni approvvigionamento è
influenzato da una previsione che qualcuno ha elaborato in merito ad un determinato
fenomeno. Si prevedono, infatti, quotidianamente, le disponibilità di tutte le risorse necessarie
all’attività aziendale. Si prevede il fabbisogno di risorse umane, di materie prime, di energia e
di risorse finanziarie, ma tutte queste previsioni dipendono da una previsione principale: la
previsione della domanda di prodotti finiti (demand planning) che un’azienda propone al suo
mercato. Il Piano della domanda è quindi volto alla quantificazione della capacità produttiva
necessaria, cioè dei volumi produttivi richiesti, espressi in unità di capacità produttiva.
− Programmazione di lungo periodo, il cui obiettivo è quello di definire un budget di produzione
per ogni unità produttiva presa in considerazione. Il budget viene definito in base ad un target
di fatturato che l’impresa si propone di raggiungere. In questa fase il riferimento non è ancora
il singolo prodotto della gamma, ma il budget viene espresso per famiglie di prodotti (ad es.
frigoriferi da incasso) o addirittura per tipi (ad es. frigoriferi e lavatrici).
− Programmazione aggregata della produzione e definizione del Piano principale di produzione,
al cui livello vengono definite le quantità annuali o semestrali di produzione per l’intero
stabilimento. A partire dal piano della domanda, elaborata dalla funzione commerciale,
l’obiettivo è quello di definire come utilizzare le risorse che l’impresa ha a disposizione per far
fronte alle richieste del mercato e che sono state indicate nella fase di programmazione di
lungo periodo. L’output principale di questa fase è il Piano principale di produzione; sulla base
di questo viene emesso un programma di utilizzo della manodopera, vengono programmati gli
intervalli di manutenzione e si definiscono gli interventi relativi alla gestione della qualità.

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− Programmazione operativa della produzione, di breve periodo (scheduling), elaborata a
partire dal Piano principale di produzione preceduta, nel caso di prodotti complessi, da
un’analisi dei fabbisogni di produzione e acquisto dei componenti necessari alla produzione.
Nelle imprese che ne sono dotate, questo comporta il lancio del sistema MRP che risale alla
determinazione degli ordini di produzione e di acquisto dei materiali in modo tale da rispettare
le quantità e i tempi decisi nel piano di produzione. Nelle imprese che producono prodotti
semplici, in cui non è necessaria l’esplosione della distinta base, al contrario, al MPS segue
direttamente lo scheduling operativo, il cui obiettivo è l’allocazione delle risorse ai job (gruppi
di operazioni da svolgere) da realizzare.
− Controllo ed avanzamento di produzione, attività che si concentra sull’analisi dello stato degli
impianti, delle quantità prodotte, dello stato di avanzamento della produzione e del rispetto
dei tempi programmati, della quantità degli scarti. Questo controllo offre informazioni di
feedback per rivedere, se necessario, la programmazione effettuata in precedenza.
Tale funzione è molto importante in quanto ha l’obiettivo di segnalare sia al Responsabile della
Produzione, sia al Responsabile della Supply Chain, eventuali anticipi o ritardi di produzione,
fenomeni che possono e devono far innescare un piano di azioni correttive a ciascuno dei
suddetti responsabili.
L’attività di programmazione della produzione è un’attività specifica delle aziende manifatturiere
ed è sostanzialmente differente a seconda della tipologia di produzione. Nel caso di produzione “a
stock” essa è strettamente legata alla previsione della domanda, mentre nel caso di produzione “su
commessa” essa si basa esclusivamente sugli ordini ricevuti (portafoglio ordini clienti).

In fase di programmazione della produzione devono essere fatte alcune considerazioni in ordine ai
costi necessari alla formulazione dei diversi piani di produzione. Le figure principali sono:

− costi variabili di produzione: materie prime, materiali di consumo, manodopera, energia;


− costi fissi di produzione: ammortamento impianti, spese di manutenzione programmata, ecc;
− costi del lavoro straordinario: costo della manodopera in straordinario e altri costi
riguardanti la perdita di produttività o la minore qualità del lavoro che spesso si osservano
in condizioni di lavoro prolungato;
− costi di subfornitura: relativi a prodotti acquistati all’interno ed extracosti di gestione;
− costi di stockout: collegate all’impossibilità di far fronte alla domanda per insufficienza del
magazzino ed altri costi come la perdita di immagine;
− costi di mantenimento a scorta: sostenuti quando l’impresa non produce su commessa, ma a
magazzino;
− costi di set up: costi sostenuti per la riconfigurazione degli impianti ad ogni cambio di
produzione: costi di fermo macchina, costi del personale, scarti al riavvio delle macchine,
ecc.

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CAPITOLO 11 – IL SISTEMA DISTRIBUTIVO
La distribuzione commerciale rientra tra le attività ‘di servizi’, definite anche come ‘settore
terziario’. Essa è compresa tra quelle attività economiche che concorrono a soddisfare i bisogni
dell’uomo con la produzione non già di beni materiali, bensì di utilità. L’industrializzazione nel
settore dei servizi ha mirato, in realtà, al controllo ed alla standardizzazione della qualità, nonché
alla riduzione dei costi, attraverso l’adozione di sistemi gestionali e tecniche operative da tempo
applicate con successo nella produzione dei beni materiali.
Un ulteriore stimolo a conoscere più in profondità la complessa fenomenologia della distribuzione
commerciale è derivato dall’evoluzione dei gusti e delle esigenze dei consumatori, dopo che la
rivoluzione industriale aveva dispiegato i suoi benefici effettivi sul tenore di vita delle masse. Il
ricorso sempre più intenso agli strumenti promozionali delle vendite ha accresciuto il peso dei costi
di distribuzione e ha annullato, almeno parzialmente, la riduzione dei prezzi che comporta la
produzione di serie.
Il servizio della distribuzione è destinato a trasferire quantità sempre maggiori di beni e servizi dai
produttori ai consumatori e agli utilizzatori finali nelle modalità preferite da questi ultimi. Tale
funzione è una funzione economica. Tale settore si è evoluto più lentamente rispetto alle altre
attività industriali; ciò è più evidente nell’introduzione delle innovazioni tecnologiche nel campo
distributivo, imputabile all’impreparazione e a ragioni obiettive quali la più ridotta dimensione
aziendale e il diverso tipo di attività che si presta meno facilmente all’utilizzo delle tecnologie
avanzate.
L’interesse allo studio del sistema distributivo consegue anche all’espansione continua delle attività
del settore terziario, e della distribuzione in particolare, anche in termini di occupati. Vi è stato uno
spostamento di lavoro dal settore primario a quello secondario e, infine, a quello terziario.
L’impiego femminile è anche aumentato nel settore della distribuzione.
In Italia, al commercio è stato attribuito, in particolare negli anni ’60, ma anche agli inizi degli anni
’80, il ruolo di ‘ammortizzatore sociale’ con la conseguenza che il piccolo commercio indipendente
è stato configurato come “attività rifugio” consentendone un abnorme sviluppo con l’accesso di
numerosi operatori marginali che ha accentuato il grado di ‘polverizzazione’ del settore e la carenza
di professionalità degli addetti, che in parte hanno accettato un lavoro sotto remunerato per
ovviare al problema della disoccupazione. Dagli anni ’90 si è avvertito, comunque, un mutamento
di posizioni. La riduzione degli squilibri esistenti fra industria e distribuzione, lo sviluppo della
politica delle marche commerciali e l’integrazione verticale delle funzioni di marketing ha
determinato un riassetto con una maggiore autonomia nella formazione del prezzo. La creazione di
marche commerciali ha instaurato un rapporto competitivo con le marche industriali. L’evoluzione
della quota di mercato delle marche commerciali in Italia si è rivelata tuttavia più bassa rispetto ai
principali Paesi europei, sebbene abbia una tendenza alla crescita.
Nei primi anni del 2000 si sono verificati due fenomeni decisamente importanti che hanno
profondamente scosso il comparto distributivo. Innanzitutto si fa riferimento all’andamento dei
consumi, il cui dato evidenzia andamenti altalenanti che hanno interessato non soltanto l’ambito del no-
food ma anche il comparto alimentare. Il secondo fattore rilevante concerne i frequenti e repentini
mutamenti nelle tendenze e nelle abitudini d’acquisto da parte del consumatore, sempre più esigente
per ciò che attiene le qualità del prodotto, e sempre più attento nella scelta che riguarda il punto vendita,
tanto da indurre gli studiosi del settore a porre al vertice del sistema industria-distribuzione-consumo
proprio il consumatore, quale leader trainante della catena.

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Ponendo l’attenzione sul commercio al dettaglio, emerge come la rete distributiva al dettaglio si
possa suddividere tra: piccolo dettaglio indipendente di tipo tradizionale, in genere specializzato e
dettaglio organizzato, al quale fanno capo le seguenti forme:
− le grandi aziende a base capitalistica con catene di magazzini di vendita al pubblico (grandi
magazzini a prezzo unico, supermercati, ipermercati, discount, ecc);
− il commercio associato, nelle tipiche forme delle unioni volontarie, proposte dai grossisti nei
confronti dei dettaglianti, e dei gruppi di acquisto fra dettaglianti;
− le cooperative di consumo;
− le forme speciali e le aziende affiliate con il contratto di franchising, oltre il classico commercio
ambulante.
Altre forme particolari si stanno affermando, e ci si riferisce alle vendite dirette ai consumatori: si
tratta del cosiddetto ‘dettaglio non store’, quello cioè che non prevede un luogo fisico e fisso di
distribuzione (vendite porta a porta, televendita o tele[ shopping), nelle quali, pur annidandosi
talvolta intenti speculativi, si realizza un sistema integrativo di altri canali di distribuzione, utilizzato
anche da aziende grandi ed affermate per un più rapido contatto con il consumatore e per
verificarne gli orientamenti e le esigenze.
Una classificazione basata sulla sola dimensione, ovvero sulla superficie di vendita, si può effettuare
tra piccolo dettaglio, suddiviso in indipendente ed associato, e grande dettaglio, distinto in grandi
punti di vendita e grandi imprese.

Ciò che ha caratterizzato nel recente passato l’asseto del sistema distributivo italiano è stata la
preminenza sia in termini numerici sia in termini di quota di mercato delle unità del piccolo
dettaglio tradizionale a base familiare. Ne è conseguita una resistenza all’accesso di tipologie di
grandi dimensioni nonché una più lenta introduzione delle moderne tecniche di vendita e, in
generale, dell’innovazione: tali connotati si presentano più nel Mezzogiorno per la realtà socio-
economica ivi presente.
L’innovazione del commercio ha avuto peso negli ultimi anni, specie con gli ‘scanner’ nei punti
vendita, i sistemi computerizzati di gestione delle scorte, il trasferimento elettronico dei fondi e dei
dati, il ‘tele shopping’, il commercio elettronico via Internet, ecc, con il risultato di favorire forme di
concentrazione o di associazione in conseguenza dell’alto costo d’acquisto e di gestione e della
complessità del loro impiego. I sistemi tecnologici permettono di risalire al singolo acquirente per
definirne sesso, residenza, professione e congiungerli con le abitudini di acquisto, la quantità, il tipo
di merce acquistata, e via discorrendo. Tali informazioni possono costituire un datawarehouse di
grandi proporzioni e consentire un’azione di marketing autonoma rispetto alle imprese produttrici.
Per ciò che concerne l’acquisto via Internet, con possibilità di pagamento per carta di credito o in
contanti al momento del recapito, vi sono numerosi vantaggi, e vanno dal risparmio notevole di
tempo alle riduzioni di prezzo su diversi prodotti. Tuttavia, le imprese distributrici che svolgono
questo servizio corrono il rischio di vedere ridotti i quantitativi di spesa, poiché è facile immaginare
come un consumatore che acquista da casa sia soggetti a minori tentazioni rispetto ad un cliente
che si aggira per gli scaffali del punto vendita. Pertanto, ciò su cui i distributori devono puntare
maggiormente, oltre ai servizi, sono le promozioni: la leva principale per tenere alti i consumi è la
promozione adottata con strumenti classici che attengono soprattutto al taglio dei prezzi e alla
scontistica, più che al tre per due o due per uno. Il ‘bombardamento di promozioni’ può produrre
assuefazione nei clienti.
Nel food, per esempio, i supermercati hanno una quota più alta rispetto agli ipermercati, ai discount,
ai negozi tradizionali e agli ambulanti. Il fenomeno è collegabile da un lato alla più massiccia
concorrenza esercitata dalla distribuzione nel settore ‘food’ e, dall’altro, con la struttura produttiva
in cui prevale la dimensione medio piccola.

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Gli ostacoli frapposti all’accesso delle nuove forme, in genere, si sono ripercossi negativamente in
primo luogo sui consumatori, impedendo la riduzione del prezzo o il miglioramento della
combinazione merce-prezzo-servizio. In secondo luogo sulle stesse PMI commerciali, poiché la
regolamentazione dell’offerta è risultata restrittiva nei confronti delle nuove formule distributive,
ed ha frenato il fisiologico processo di adattamento qualitativo e competitivo del dettaglio
tradizionale.
Le resistenze dei commercianti ‘tradizionali’ si sono tramutate in interventi dei pubblici poteri in
termini di restrizione all’ingresso di nuove forme distributive sulla base delle seguenti
considerazioni. Innanzitutto si è affermato che l’elevato numero di operatori commerciali esistenti
garantiva di per sé il funzionamento del mercato, e si è così giustificato il contingentamento, o
addirittura il blocco, delle nuove forme innovative. Così, per evitare la monopolizzazione del
mercato da parte di grandi imprese che si avvalgono di forme distributive a base capitalistica, in
Italia il numero di Iper e Super è inferiore rispetto al resto d’Europa. Solo i supermercati, che
costituiscono la tipologia più diffusa in Italia, sembrano allineati alla dimensione numerica media
europea.
La concorrenza si istituisce non solo tra gli esercenti appartenenti alla stessa forma distributiva, ma
anche fra le varie forme tra loro. Da questo punto di vista un elemento molto importante da
considerare è l’assortimento: l’ampliarsi della gamma di prodotti offerti incentiva il consumatore
attratto dai vantaggi ottenibili in termini di tempo e di scelta.
Bisogna intendersi per quel che riguarda le dimensioni: non vi è un perfetto parallelismo fra
dimensioni e prezzo, per cui non è sempre vero che a maggiori dimensioni corrispondono minori
prezzi. Il discorso va impostato sul piano dell’efficienza; esistono, difatti, forme di dettaglio che
consentono economie di costi e anche una maggiore competitività nei riguardi del prezzo.
Secondo una teoria americana detta ‘wheel of retailing’ (ruota del dettaglio), molte forme nuove di
vendita entrano nel mercato introducendo bassi livelli di prezzo. Una volta conquistata una fetta
del mercato, esse, anche per non esporsi a lungo a una ‘guerra’ sui prezzi, opterebbero per una
situazione di tipo oligopolistico, aumentando così i servizi offerti ma anche i prezzi.
L’evoluzione del commercio al dettaglio è stata favorita non solo dalla politica dei prezzi, ma anche
dalla politica dell’assortimento, per cui l’allargamento della gamma dei prodotti offerti ha assicurato
un flusso costante di clientela, sancendo il successo della nuova forma distributiva.
In alcuni Paesi si stanno promuovendo sistemi per frenare la diffusione di imprese di grande
dettaglio; e, peraltro, negli stessi sono state definite illegali le vendite sottocosto, intendendo per
tali quelle con prezzi al consumo inferiori al costo di acquisto al netto degli sconti, perché
ingannevoli per i consumatori e lesivi per la concorrenza. In Italia, la linea ministeriale, in accordo
con l’AGCM (autorità antitrust) mira a sanzionare gli abusi sia sul piano amministrativo comunale,
sia sul piano del risarcimento dei danni per concorrenza sleale. Pertanto, sono ammesse le vendite
in cui siano chiarite le motivazioni, con una precisa individuazione dei prodotti e della durata
dell’offerta. Il provvedimento è stato però contestato perché mira a tutelare più gli interessi dei
concorrenti che quelli dei consumatori.
In alternativa alle vendite sottocosto, o ad integrazione, in un orientamento attento al marketing,
sono state introdotte le carte fedeltà, che offrono sconti legati al valore cumulato degli acquisti,
anche per non inasprire il rapporto con il fornitore che, vedendo il proprio prodotto a sconto,
potrebbe pensare che sia di inferiore qualità.
Dopo periodi di crisi, sono stati avviati processi di ristrutturazione tendenti a migliorare
l’organizzazione tecnologica del servizio, la composizione merceologica dell’offerta e la
localizzazione mediante il ridimensionamento della presenza nei centri storici delle città e il
potenziamento nelle zone periferiche di espansione.

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È stato favorito, di conseguenza, l’ingresso delle grandi catene straniere che hanno una dimensione
e una efficienza superiore alle nostre. L’introduzione dell’euro ha facilitato ulteriormente tale
processo.
Ne deriva che l’indirizzo più razionale da adottare appare quello che non privilegia una forma a
discapito dell’altra bensì tende a creare un’organizzazione mista che attui un’armonica
composizione delle varie forme in modo da assicurare i massimi benefici sia dal punto di vista dei
consumatori sia dal punto di vista delle singole imprese partecipanti al sistema distributivo stesso.
L’obiettivo è quello di una convivenza ‘pacifica’ tra dettaglio tradizionale e GDO (grande
distribuzione organizzata).
In definitiva, solo un sistema articolato in molteplici forme distributive può risultare realmente
incisivo ai fini di una concorrenza basata sul prezzo, e che giovi soprattutto ai consumatori.
Per rendere più equilibrato e meglio articolato il nostro apparato distributivo l’intervento pubblico
è stato indirizzato a favorire, entro limiti fisiologici, l’ingresso nel mercato delle tipologie più
moderne che possono essere impiantate non solo dalle aziende a base capitalistica ma anche da
operatori commerciali tradizionali indipendenti e associati. C’è stato dunque un processo di
liberalizzazione, che ha rimosso una serie di disposti che costituivano barriere all’entrata per le
imprese della distribuzione moderna; e si è cercato di imprimere velocità al processo di
liberalizzazione avviato. Si auspica:
− trasparenza del mercato, concorrenza, libertà di impresa e libera circolazione delle merci;
tutela del consumatore, con riguardo per l’informazione;
− efficienza, modernizzazione e sviluppo della rete distributiva;
− pluralismo e equilibrio tra le diverse tipologie delle strutture distributive e le diverse forme di
vendita; riconoscimento e valorizzazione del ruolo delle piccole e medie imprese;
− valorizzazione e salvaguardia del servizio commerciale nelle aree urbane, rurali, montane, insulari.
L’associazionismo non è stato troppo incentivato. Una spinta all’associazionismo può ottenersi
garantendo ai commercianti che si associno un diritto di preferenza laddove appare conveniente
introdurre nuove tipologie commerciali e sensibilizzandoli al perseguimento di economie con la
gestione accentrata di acquisti e scorte: attraverso una maggiore consistenza delle forniture si
possono ottenere agevolmente, come contropartita, prezzi inferiori e/o dilazioni di pagamento, che
si traducono, a loro volta, in prezzi di vendita ridotti, e quindi in una maggiore competitività rispetto
alle imprese della GDO. Attraverso i gruppi d’acquisto le piccole imprese possono da un lato
mantenere i vantaggi delle proprie dimensioni, che garantiscono flessibilità e autonomia
soprattutto in campo strategico, dall’altro godere di un maggior peso sia nei confronti dei fornitori
che in quelli delle Autorità Pubbliche, ovvero nei confronti di quelle entità a fronte delle quali le
piccole imprese tendono a soccombere.
Anche il ricorso al franchising può essere un valido strumento. Il franchising si conferma tra le leve
importanti per il rilancio della competitività e del sistema Italia, in particolare per quanto concerne
la razionalizzazione e la modernizzazione dei sistemi distributivi, l’internazionalizzazione delle PMI,
la riconversione del commercio al dettaglio e la promozione di nuova imprenditoria giovanile.

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Il miglioramento dell’efficienza si può ottenere, in primo luogo, concentrando vendite in un minor
numero di unità distributive che si presentino con dimensioni più ampie e modernamente
attrezzate. Si sono così create le centrali d’acquisto. Tali centrali d’acquisto hanno indubbiamente
ridotto i centri decisionali comportando un recupero di efficienza nelle relazioni con i cosiddetti
grandi fornitori, ed hanno permesso di recuperare potere contrattuale nei confronti della grande
industria. Tuttavia, tali concentrazioni hanno destato l’attenzione dell’autorità Antitrust, la quale
ha di recente aperto un’indagine conoscitiva per
verificare il livello di concorrenza (specie tra i supermercati) e le dinamiche con i fornitori. Tale
recupero di efficienza sconta però da un lato la disomogeneità dei partecipanti e dall’altro la
flessibilità delle forme di contrattazione tipiche dei singoli interlocutori, motivazioni che hanno
condotto allo scioglimento di alcune strutture.
Accettando tale premessa, si può tratte un orientamento che non ha la pretesa di offrire un
modello univoco da seguire, con l’obiettivo:
− di mantenere sostanzialmente inalterata la rete commerciale nei centri storici; di rilevarne la
consistenza per meglio programmare l’assetto nelle altre zone urbane, con preferenza per le
unità di vendita specializzate gestite con criteri di moderna imprenditorialità;
− di incentivare l’istituzione, prevalentemente nelle nuove aree urbane, delle forme distributive
moderne, con la presenza, anche all’interno di siffatte tipologie, di operatori specializzati per
stimolare la concorrenza.
La realizzazione di una tale ristrutturazione dell’apparato distributivo è più agevolmente attuabile
con nuove disposizioni legislative che hanno disciplinato diversamente il regime delle autorizzazioni
e il processo di programmazione urbanistico-commerciale con l’obiettivo di creare un ‘pluralismo
funzionale’ assicurando la presenza del maggior numero possibile di forme distributive che devono
essere in grado di svolgere funzioni proprie e differenziate. Anche la disciplina degli orari dei negozi
è stata modificata adeguandola alla regolamentazione esistente nei principali Paesi europei,
cercando di far coincidere gli interessi dei commercianti con quelli dei consumatori, le cui esigenze
ottengono un crescente riconoscimento.
In conclusione, la riduzione di barriere e vincoli amministrativi, l’ingresso di grandi organizzazioni
estere particolarmente agguerrite, l’influsso delle tecnologie elettroniche che ravvicinano
produttore e consumatore/utilizzatore stanno allargando in modo rilevante la competizione nel
settore e costituiscono sfide cruciali per la sopravvivenza di molte imprese non solo nella
distribuzione. È necessario un riposizionamento più qualificato dell’offerta sul piano del prezzo,
dell’affidabilità, della puntualità delle consegne, ecc.

Nel passato si è studiato il canale di distribuzione come ‘istituzione destinata a facilitare il


trasferimento dei diritti legali e dei titoli di proprietà’ ai fini del passaggio dei costi e dei rischi
connessi con i suddetti diritti, ma in realtà la funzione logistica di trasferimento nel tempo e nello
spazio rappresenta la funzione originaria e fondamentale della distribuzione commerciale.
Attualmente la visione dev’essere concentrata sull’aspetto fisico della distribuzione.

69
L’affermazione di grandi imprese produttrici con una propria marca ha sviluppato la gestione diretta
dei canali, che può apportare molti vantaggi, ma quando la dimensione non è adeguata o le
condizioni di mercato non sono stabili, è necessario che l’impresa si appoggi in modo consistente
alla logistica sviluppata da altre imprese specializzate nel campo della distribuzione e dei trasporti.
Oltre ai vincoli e ai condizionamenti che l’impresa subisce, sul piano orizzontale, dai concorrenti
presenti nel medesimo stadio di produzione o di commercializzazione, esistono, sul piano verticale,
situazioni di conflittualità che si possono ricondurre essenzialmente alle seguenti:
− costituzione delle scorte e formazione degli assortimenti ai vari livelli del canale distributivo;
poiché è un’attività che richiede rischi e oneri di notevole entità, la tendenza è a trasferirli il
più possibile allo stadio precedente o seguente in base alla forza contrattuale;
− concorrenza nell’ambito del canale distributivo;
− concorrenza tra differenti canali distributivi.
L’importanza della migliore gestione dei canali di distribuzione è tale che nelle aziende industriali di
medio-grandi dimensioni si è diffusa la funzione del ‘responsabile dei canali’ in particolare nel
comparto dei beni di largo consumo, con il compito di pianificare, coordinare, valutare e controllare
le relazioni in tale area. Nella fase distributiva va coltivato un approccio fondato sulla
consapevolezza della comunanza dei problemi ed interessi, apparentemente contrastanti, specie in
ordine alla detenzione di scorte e alla formazione di assortimenti, con i rischi e gli oneri conseguenti:
ciò implica l’instaurazione di relazioni di medio e lungo termine con uno scambio di informazioni
che valorizzi la specializzazione e la professionalità di ciascun elemento del canale, senza
atteggiamenti di conflittualità improduttiva. Peraltro, gli alti costi di vendita, il crescere degli oneri
di gestione delle scorte, l’intensificata concorrenza, con la tendenza alla concentrazione, gli elevati
livelli di servizio della clientela, implicano un diverso rapporto del produttore con il distributore, con
l’impiego di tecniche di marketing rivolte anche al trade.
La POLITICA DELLA MARCA (brand loyalty), l’impiego dello strumento pubblicitario facilitato dalla
diffusione dei ‘mass-media’, la crescita delle aziende al dettaglio associato o di grandi dimensioni
con una propria politica di marketing sono alcuni dei cambiamenti intervenuti nella distribuzione
creando nuovi meccanismi concorrenziali con tendenza alla concentrazione. È evidente che la
soluzione relativa alla gestione dei canali è differente in funzione della specializzazione produttiva
dell’azienda.
Tale evoluzione sta producendo un bilanciamento dei poteri all’interno del canale distributivo a
scapito dei produttori con l’affermarsi della marca commerciale (store loyalty) per i beni a largo
consumo. Le forme più comuni sono costituire dalle marche di fantasia, che riguardano in genere
prodotti a basso prezzo, e dalle marca-insegna, che identifica il prodotto con il nome stesso
dell’impresa (diffusa ma impegnativa sul piano della qualità). Il problema si pone per le piccole e
medie imprese
produttrici che devono lanciarsi in nuovi canali innovativi o cooperare tra di loro o con la grande
distribuzione. Anche i produttori di marca, specie se non ‘leader’, devono così ricercare soluzioni
concordate per politiche promozionali, che favoriscano lo smercio di prodotti a più lento rigiro,
specie per i beni non di largo consumo. Si tratta di combinare in modo ottimale le attività di
marketing poste in essere dal produttore e dal distributore, per accrescere la fedeltà del cliente.
Non è importante solo la marca o il tipo di prodotto, ma anche il punto vendita a determinare
l’acquisto da parte del cliente. Anche le marche ‘leader’ hanno dovuto affrontare e risolvere
problemi di costo, ma soprattutto di comunicazione e identificazione attraverso la creazione di
propri punti vendita ed arredati in modo da rappresentare nel modo ritenuto più confacente
l’immagine della Casa produttrice: sono i c.d. ‘concept store’, in alcuni casi con strutture di
megastore.

70
Uno degli elementi chiave della distribuzione moderna è rappresentato dal fatto che la
performance aziendale è fortemente condizionata dall’efficacia delle politiche commerciali
attuate dagli intermediari della distribuzione. Essi hanno il compito di rendere il bene disponibile
nel luogo, nel tempo e nei modi più opportuni per il cliente. I principali sono:
− IL GROSSISTA. Si tratta di un’impresa commerciale (distributore) che, acquisendo la proprietà
di beni che poi rivende, si assume l’onere di gestire vari servizi. Tuttavia, la tendenza di alcune
aziende di produzione di beni di consumo durevole è di istituire dei depositi a carattere
regionale accollandosi la consegna al dettagliante o al consumatore finale con aggravio dei
costi. La figura tradizionale del grossista è stata messa in crisi negli ultimi decenni sebbene le
funzioni ad essa legate siano ugualmente svolte; l’eliminazione spesso auspicata di tale figura
di congiunzione tra produzione e distribuzione al dettaglio, infatti, non provoca l’annullamento
del costo connesso alla sua funzione ma, al contrario, può provocarne un aumento se
effettuato da chi non è professionalmente preparato per tale mansione. Nella realtà odierna
l’ingrosso ha perso una parte consistente della sua posizione nel sistema distributivo, pur
mantenendo un ruolo di rilievo in taluni settori più polverizzati in funzione di una maggiore
efficienza.
− IL GRANDE DETTAGLIO. L’evoluzione della distribuzione che ha interessato nell’ultimo
decennio i Paesi industrializzati ha determinato un progressivo aumento delle dimensioni dei
punti vendita, nonché del livello della concentrazione, nel commercio al dettaglio. Il grande
dettaglio è rappresentato dai supermercati e dagli ipermercati (della GDO) che, in Italia, hanno
visto un incremento consistente. Ciò ha influito sul potere contrattuale nell’ambito del canale
distributivo, specie a scapito dell’impresa industriale. Essa infatti si trova a dover contrattare
con uno, due o al massimo tre buyer che però rappresentano la quasi totalità delle imprese
commerciali che consentono lo sbocco sul mercato, e quindi la negoziazione ha per oggetto
volumi di prodotto elevatissimi; ne deriva che l’azienda industriale debba concedere sconti sul
prezzo d’acquisto nonché condizioni di pagamento vantaggiose.
− IL PICCOLO DETTAGLIO. Rappresentava il tessuto connettivo del commercio in Italia fino al
momento in cui è stata introdotta la riforma sul commercio. Oggi il numero di tali imprese è in
calo; le imprese del piccolo dettaglio detengono una minore varietà di prodotti al proprio
interno e, soprattutto, a prezzi più elevati rispetto alle imprese commerciali più grandi.
Possono mantenere scorte più limitate e, quando tale quantità di scorta è limitata, risulta
ridotta anche l’ampiezza dell’assortimento. In generale, quanto più piccoli sono i negozi al
dettaglio, tanto minori sono le risorse e le capacità professionali da quelli possedute al fine di
assicurare ai clienti finali la fornitura dei servizi associati al prodotto che, pertanto, ricadono
sull’impresa industriale.

71
Il canale di distribuzione rappresenta il percorso giuridico che il prodotto compie per essere
trasferito dall’impresa industriale produttrice al cliente finale. I canali si distinguono in funzione
del numero di stadi in cui si articolano, ossia della lunghezza del percorso che il prodotto fa per
arrivare al cliente finale. La lunghezza e l’articolazione dei canali è in funzione delle varie figure
che vi operano con una classificazione tra:
− CANALE LUNGO. Prevede l’inserimento dell’ingrosso tra produzione e dettaglio; a fronte dei
benefici per l’impresa industriale (minori costi di vendita e trasporto) vi sono però degli
svantaggi, come la scarsa possibilità di influire sulle modalità di collocamento del prodotto nel
mercato e l’impossibilità di controllare il prezzo di vendita. È tipico dei settori dell’ottica, della
cancelleria, dell’abbigliamento, alimentare, tecnologico.
− CANALE CORTO. Prevede l’inserimento solo del dettaglio: attraverso questo canale l’impresa
di produzione può ottenere maggiori informazioni sul mercato, in quanto intrattiene un
rapporto diretto con il dettagliante, ma ha lo svantaggio di doversi far carico della gestione
delle scorte e di tutte le incombenze derivanti dalle transazioni con i dettaglianti. È praticato
nei settori dell’alta moda, automobili, gioielleria, cosmesi.
− CANALE DIRETTO tra produttore e consumatore. In questo caso il produttore prende contatto
direttamente con il compratore finale, mediante una propria rete di distribuzione, o tramite
forme di direct marketing; si tratta della soluzione più costosa per l’impresa industriale ed è
impiegata soprattutto per la distribuzione di beni strumentali e dei prodotti che necessitano
una consistente assistenza post-vendita. Un tipico esempio è costituito dalle aziende che
effettuano la vendita porta a porta, le aziende che operano via telefono (telemarketing), o
imprese che operano nell’e-commerce.

Accanto alla figura storica del ‘buyer’, si è imposta negli anni più recenti quella del ‘CATEGORY
MANAGEMENT’ (CM) nella gestione delle imprese della distribuzione e nei loro rapporti con
l’industria, al fine di differenziare i ruoli assegnati nei punti di vendita alle categorie merceologiche.
Per CM si intende un processo integrato distributore/fornitore inteso alla gestione delle categorie
come unità di business strategiche, per produrre migliori risultati attraverso la focalizzazione sul
valore trasferito al consumatore’. Si può rilevare l’onerosità di un intervento volto a introdurre un
CM che implica ampie modifiche sul piano organizzativo, del marketing e informatico. Occorre, sul
piano informatico, procedere a una valutazione dell’attendibilità degli indicatori in essere e a una
periodica revisione delle codifiche delle categorie; esistono sistemi tecnologici che possono
facilitare tale compito, tenendo presente l’esigenza di differenziazione dell’insegna della
concorrenza, individuando opportunamente i singoli beni da inserire in funzione del processo di
consumo dei clienti. La gestione della singola categoria va vista in relazione con quella delle altre al
fine di ottimizzare la performance del punto di vendita; così il CM può essere sinergicamente
utilizzato con la marca commerciale.

La problematica va inquadrata anche nel contesto delle scelte di ‘merchandising’ che, dal punto di
vista del produttore di marca, è uno strumento di marketing volto a massimizzare la visibilità ed
accessibilità di propri beni sugli scaffali dei punti vendita, specie se a libero servizio, mentre dal
punto di vista del produttore, la leva va utilizzata dislocando al meglio i reparti e assegnando alle
categorie lo spazio secondo criteri di segmentazione coerenti con l’orientamento alla fidelizzazione
del cliente all’insegna. Deve essere, di conseguenza, soddisfatto il cliente sia in termini di acquisto
programmato che in termini di acquisto d’impulso (spesa rapida ed efficace). Il CM ha una
pianificazione aziendale, composta da una missione, meta-obiettivi, piano strategico
(posizionamento verso clienti, concorrenti, fornitori, ecc.) e piano operativo (commerciale,
economico-finanziario, personale, ecc.); e da una pianificazione commerciale, con un piano di
marketing per reparto e un piano per categoria.

72
Il progressivo sviluppo della distribuzione organizzata da un lato semplifica le problematiche relative
alla riduzione del numero degli allacci necessari tra luoghi di produzione e punti di vendita, dall’altro
ne genera altre per il maggior assortimento offerto.
Il ricorso al commercio elettronico e al factory outlet, ossia a strutture in cui i produttori vendono
direttamente con forti sconti ai consumatori, in prevalenza nel settore
dell’abbigliamento/calzature, rimanenze di prodotti obsoleti o con lievi difetti, costituiscono
strumenti più recenti di presenza diretta nell’industria nel tentativo di ridurre i condizionamenti
posti dalla distribuzione. Le grandi aziende al dettaglio hanno avvertito prima l’importanza della
logistica provocando ovviamente dei mutamenti nei canali distributivi e nella gestione del flusso
fisico dei beni con i produttori. L’incidenza dei costi logistici sul valore delle vendite è di norma di
gran lunga superiore nelle imprese distributive rispetto a quelle industriali; in queste ultime,
peraltro, si assiste a casi di costi di questa natura superiori a quelli del personale.

FASI DEL CATEGORY MANAGEMENT

•Analisi dei processi di consumo e dei comportamenti del consumatore


•Definizione delle categorie
Fase 1 •Assegnazioni dei ruoli alle categorie

•Analisi delle categorie


•Definizione delle SCORECARD (Parametri di valutazione delle performance)
Fase 2 •Definizione degli obbiettivi strategici delle categorie

•Definizione delle tattiche (piano di categoria)


Fase 3

•Implementazione del piano di categoria


•Controllo dei risultati
Fase 4

PIANIFICAZIONE DEL CATEGORY MANAGEMENT

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PIANIFICAZIONE PIANIFICAZIONE
AZIENDALE COMMERCIALE

• Missione • Piano di Marketing


• Metaobbiettivi per reparto
• Piano strategico • Piano per categoria
• Piano operativo

Anche in Italia, dopo gli USA, è stato lanciato il progetto ECR (Efficient Consumer Response)
finalizzato a una razionalizzazione della supply-chain, prevalentemente per i prodotti di consumo
confezionati, attraverso una migliore integrazione del flusso informativo e fisico tra produttori e
distributori, con conseguente eliminazione delle duplicazioni e disfunzioni. Ciò ha determinato una
riduzione dei costi di interfaccia, di sprechi, di tempo con ricadute positive sia sul livello di servizio
al cliente finale sia in termini di prezzo con il contenimento dei costi ottenuto. Oggi è possibile
fotografare il codice a barre di un prodotto e conoscerne tutte le informazioni, avvalendosi di
software, app o smartphone. È possibile verificare se un prodotto contiene sostanze in grado di
provocare una reazione allergica, attraverso l’Allergene Checker. Con l’Extended Packaging ogni
persona può accedere a un’ampia gamma di dati in tempo reale, e può interagire con altri, dando il
via a discussioni su social network o leggendo recensioni e commenti di altri utenti.
Sostanzialmente, si tratta di un social shopping.
Al fine di prevenire le crisi legate all’immissione sul mercato di alimenti a rischio, l’UE ha disposto
alcune regole per la gestione dei flussi di prodotti alimentari confezionati lungo la filiera industria-
distribuzione. L’organismo che gestisce lo sviluppo del codice a barre in Italia ha definito le linee
guida per l’implementazione dei nuovi criteri di rintracciabilità dei prodotti e ha posto in essere il
contingency plan, un piano che definisce la strategia per una puntuale individuazione ed un pronto
ritiro dal mercato di prodotti non conformi e alimenti che risultino rischiosi per la salute dei
consumatori. I criteri di rintracciabilità sono richiesti non solo ai lotti di prodotti, ma in alcuni casi,
anche ai singoli prodotti: l’obiettivo è di arrivare a una gestione su base elettronica. Nasce il bisogno
di supporti intelligenti in grado di identificare anche il singolo prodotto durante le sue fasi di
produzione e distribuzione.
Si sta dunque sviluppando, a tal proposito, l’utilizzo delle etichette intelligenti a radio frequenza, già
utilizzate nei sistemi produttivi. L’industria dell’Rfid (Radio frequency identification), le cosiddette
etichette intelligenti di silicio di alcuni centimetri, dotate di microchip con una piccola memoria,
resistenti, riutilizzabili e prive di alimentazione elettrica, ha da tempo riscontrato enorme diffusione
e successo nel settore automobilistico e si sta espandendo nel mercato dei beni di consumo,
alimentari e non.
Tale tecnologia si fonda sui tag trasponder (etichette intelligenti), microprocessori senza batteria,
che incorporano una antenna in miniatura e una certa quantità di memoria; in presenza di un campo
elettromagnetico emettono un segnale contenente i dati memorizzati nella memoria a un
ricevitore, che è in grado di leggerne e interpretarne il contenuto. Ogni etichetta è unica e permette
la tracciabilità dei prodotti. Un sistema informativo intelligente è in grado poi di interpretare i dati,
di rielaborarli e salvarli in un database. L’Rfid non è una tecnologia nuova: essa veniva utilizzata
dall’aeronautica militare inglese, durante la Seconda guerra mondiale, per distinguere gli aerei amici
da quelli nemici.

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L’identificazione di oggetti tramite etichette che operano in radio frequenza si differenzia rispetto
alle tecnologie tradizionali per quattro caratteristiche fondamentali:
− l’etichetta contiene un chip di memoria ed è possibile gestire informazioni; ogni prodotto è
numerato ed identificato e seguito singolarmente, contrariamente al codice a barre che
identifica una categoria di oggetti;
- si possono leggere le etichette fino a una distanza di due metri circa; più etichette possono
essere lette contemporaneamente;
− non è necessario disimballare le merci per leggere gli oggetti impacchettati all’interno.

Tale sistema è stato adottato anche da IVECO per la gestione efficiente dei pezzi di ricambio e per
garantirne l’autenticità. A differenza del codice a barre, l’Rfid non ha necessità di passare sotto un
lettore ottico: basta che si trovi nel raggio di circa due metri da un apparecchio ricevente, in qualsiasi
posizione sia collocato l’oggetto, anche chiuso in una scatola e senza bisogno di aprirla. Il sistema
dà la certezza che i ricambi siano usciti da un magazzino Iveco, poiché ogni etichetta è inizializzata
da un codice criptato al momento dell’ingresso nel magazzino e registrata dal sistema informatico.
I vantaggi che il sistema di Rfid sono numerosi: la riduzione dei tempi di produzione
dell’informazione, l’aumento dell’affidabilità delle informazioni e l’aumento del livello di servizio, la
riduzione die costi sul personale. Tuttavia, l’Rfid rappresenta ancora un mercato di nicchia, legato
al settore della logistica, delle automobili e delle catene di montaggio. La sua estensione sino al
consumatore finale è frenata dalle problematiche legate alla riservatezza dei dati personali
(privacy).

CAPITOLO 12 – LA LOGISTICA IN USCITA (O DI MARKETING) E LA PROGETTAZIONE DEL SISTEMA DI


DISTRIBUZIONE FISICA
L’obbiettivo della logistica di marketing è quello di ottimizzare la relazione tra: 1) il livello di servizio da offrire
alla clientela; 2) l’entità delle scorte da mantenere nel flusso di produzione; 3) i costi per il trasferimento dei
prodotti dallo stabilimento al mercato.
Le condizioni di mercato impongono la realizzazione di un flusso di prodotti quanto più differenziato per
soddisfare una domanda in continua evoluzione e sempre più esigente in fatto di qualità; se un’impresa pone
come obbiettivo primario l’eccellenza logistica, grazie ad un adeguato supporto informatico può migliorare la
capacità di risposta delle variazioni delle domande. In ogni caso, gli obbiettivi definiti devono essere ben chiari:
se si mira alla riduzione del costo non bisogna sacrificare il livello di servizio; se si vuol incrementare
quest’ultimo bisogna farlo senza aumentare i costi. Richiamiamo il modello Porter; l’azienda secondo lo
schema citato deve scegliere se dare priorità al contenimento dei costi per affermare la sua “leadership di
costo” o alla differenziazione della gamma offerta con un miglior servizio ma maggiori costi di consegna,
gestione delle scorte ecc. o ancora alla focalizzazione su un particolare segmento. La situazione delle scorte
va esaminata alla luce dell’analisi della domanda; occorre porsi interrogativi del tipo: “Quali vincoli crea il
mantenimento di un livello costante di produzione o un livello elevato di servizio alla clientela? Le scorte sono
equilibrate per i vari articoli in assortimento o si nascondono scorte obsolete o rotture di stock per altre?” a
questo punto occorre analizzare il livello di servizio.
Il livello di servizio è sempre la parte più essenziale di un prodotto: l’installazione, l’avviamento, le
manutenzioni ecc. specie se inserite in un contratto di leasing. I servizi al cliente si distinguono in: 1) servizi alla
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distribuzione; 2) servizi al cliente finale. Il servizio di un bene parte da prima della vendita, prosegue sino alla
conclusione del contratto al fine di facilitare l’acquisto e prosegue anche all’uso del bene; questo percorso è il
massimo obbiettivo della CUSTOMER SATISFACTION e genera valore aggiuntivo per il cliente. L’obbiettivo
primario della logistica è quindi quello di assicurare l’equilibrio tra il massimo livello di servizio al cliente e il
contenimento dei costi relativi al fine di raggiungere le condizioni di efficienza e redditività dell’azienda. Quello
della riduzione dei costi è un problema che assilla maggiormente le aziende che vendono un prodotto maturo,
più soggetto alla concorrenza e di conseguenza si cerca di farlo differenziare per il suo servizio. Si cercano di
attribuire all’azienda altri due valori cardini: il servizio al cliente che deve essere reso in base alle necessità
dallo stesso espresse e in modo da valorizzare al meglio le risorse aziendali per essere competitivo;
l’economicità di gestione da perseguire senza lo sfruttamento del cliente e del personale.

La logistica viene valutata attraverso questi criteri:


- livello di servizio offerto alla clientela
- livello di produttività delle operazioni svolte
- livello di redditività dell’investimento in scorte e mezzi di trasporto
Il servizio ottimale è quello che assicura al cliente il prodotto richiesto nella quantità, qualità, nel tempo e nel
luogo richiesti ecc. Spesso di misura il livello di servizio mediante un rapporto percentuale tra gli ordini del
cliente che sono evasi e quelli ricevuti, in un certo arco di tempo che rientri in una ragionevole velocità di
esecuzione; si realizza cioè un compromesso tra l’esigenza aziendale di minimizzare i costi distributivi e quella
di mercato che tende a massimizzare il livello di servizio (disponibilità immediata e totale del bene). Nel caso
di ordini riferiti a più articoli il livello di servizio viene inteso anche come numero e/o quantità di articoli
consegnati rispetto a quelli richiesti.
Tutta via si concepisce la DISPONIBILITA’ del prodotto come AFFIDABILITA’ di esso in termini di:
a) RAPIDITA’: intervallo intercorrente tra il ricevimento dell’ordinazione e la consegna del bene
b) REGOLARITA’: dipende dalla maggiore o minore metodicità di trasmissione degli ordini, dall’esistenza
di scorte sufficienti e dunque dalla capacità di evasione dell’ordine in un’unica soluzione.
c) PUNTUALITA’: che va valutata non solo in termini di tempo medio ma anche di entità e distribuzione
degli scostamenti dalla media
d) FLESSIBILITA’: adattabilità del sistema distributivo aziendale alle diverse modalità di ricezione dei
clienti. Essa dipende principalmente dai metodi di trattamento ed imballaggio delle merci
e) ACCURATEZZA: minimizza le contestazioni per qualità, quantità imbalagi ecc.
L’efficienza del servizio alla clientela è in
funzione del miglior equilibrio tra i punti
sopracitati. Non vanno trascurati però altri
aspetti che possono contribuire al
miglioramento o al peggioramento
dell’immagine dell’azienda: le modalità
d’accettazione degli ordini, informazioni sulla
disponibilità di merci/stato di avanzamento
degli ordini, tempestività di emissione e grado
di compressione dei documenti, assistenza pre
e post-vendita. L’equilibrio ottimale in teoria
si raggiunge quando il costo marginale è
uguale al ricavo marginale ma ciò è ostacolato
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dalla misura del ricavo addizionale che deriva da un margine del miglioramento del servizio o dalla
difficoltà di misurare gli investimenti “in blocchi” per individuare un incremento marginale dei costi.
Come regola generale, stante un certo livello di servizio, i costi logistici crescono in misura
esponenziale rispetto al servizio offerto; ciò significa che, ad un dato livello ragionevolmente
elevato, ogni miglioramento del servizio determina un incremento più che proporzionale dei costi
corrispondenti. I programmi di miglioramento devono essere orientati all’obiettivo di raggiungere
o il 90% o il 98%, considerati “punti di rottura del mercato”, mentre una percentuale intermedia
(93%) piò generare più costi che benefici.

L’andamento delle vendite in relazione


al livello di servizio può configurarsi
come una curva di Gompertz a forma
di ‘esse’ alla cui base può essere
tracciata una linea rappresentativa di
‘soglia’, ossia del livello minimo di
servizio da offrire per essere presenti
sul mercato. Esiste nella parte
superiore della curva il livello di
‘saturazione’. Tra i due limiti estremi di
soglia e saturazione la curva prima
cresce lentamente per poi assumere
una pendenza ripida e appiattirsi
nuovamente. Tra i punti di concavità e
convessità si assume che la domanda si rivela particolarmente sensibile al livello di servizio.
Combinando i due grafici si ottiene il livello di servizio alla clientela che teoricamente massimizza il
margine di profitto.

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Alle volte si può vedere utile l’attività di benchmarking, cioè un’analisi competitiva basata sul
confronto tra il posizionamento del prodotto o dei prodotti con quello dei leaders presenti sul
mercato. Tale attività, basata su un benchmark, deve essere continuativa perché possa contribuire
a migliorare e a fissare obiettivi realistici, stimolando il cambiamento.
In alcuni casi si pone il problema di assicurare un’assistenza post-vendita adeguata, specie in termini
di manutenzione e riparazione, per cui la logistica deve comprendere anche il controllo delle
procedure degli eventuali concessionari affinché svolgano tale servizio in modo qualificato. Vi sono
problemi di servizio anche in alcuni casi di JIT.

Dal punto di vista del produttore è importante la rivelazione dei costi connessi con l’utilizzazione di uno
specifico canale di distribuzione. La valutazione di esso consente di operare la selezione di un sistema logistico
non solo con l’individuazione dei costi di distribuzione fisica e dei ricavi; ma anche dei costi insiti nel canale. Si
cerca in primo luogo il canale “dominante” con il quale l’impresa realizza la maggior parte del fatturato ma non
solo, si individuano poi le soluzioni che agevolano il raggiungimento del mercato-obbiettivo. Prima di trovare
il canale però bisogna considerare alcuni fattori come il prodotto, la concorrenza, la normativa vigente. Si
perviene infine a definire il GRADO DI COPERTURA DISTRIBUTIVA ossia il numero di dettaglianti o di
consumatori/utilizzatori che si intende raggiungere; si presceglie un tipo di distribuzione che può essere:

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a) INTENSIVA nella quale il prodotto è disponibile nel maggior numero possibile di punti vendita
b) SELETTIVA nella quale il prodotto è disponibile ad un numero limitato di punti vendita
c) ESCLUSIVA nella quale il prodotto è disponibile soltanto in uno o pochi punti vendita.
Si pone quindi un problema preliminare da risolvere che consiste nel misurare i punti di forza o di debolezza in
un canale. Per una corretta politica dei canali distributivi si individuano: le particolari funzioni di
commercializzazione richieste dal prodotto e dalle altre politiche di marketing; gli intermediari più idonei a
svolgere tali funzioni; il numero di intermediari da usare nei diversi stadi del canale; le politiche di prezzo
comprese le condizioni di vendita e servizi che saranno praticati dal produttore e in pratica i comportamenti e
il tipo e l’intensità di collaborazione che si richiedono agli intermediari. Talvolta questi fattori vengono
trascurati e si necessita di applicare un SISTEMA VERTICALE DI MARKETING cui comprende una vastità di
forme di intesa e di integrazione economica tra i diversi stadi del canale; mirati a raggiungere un elevato livello
di economicità sfruttando le economie di scala. I sistemi più equilibrati sono quelli di tipo cooperativo-
associativo e contrattuale. L’attività di coordinamento e le relazioni cooperative che si instaurano fanno
abbassano il peso dei meccanismi concorrenziali tradizionali per cui si crea la tendenza all’addomesticamento
dei mercati con soluzioni di tipo organizzativo o quasi che sostituiscono il mercato nel ruolo di governo degli
scambi. Accordi di concessione, franchising, joint-ventures sono utili per entrare o penetrare in un nuovo
merato/paese sia per superare barriere giuridico-autorizzative sia per collegarsi a soggetti esperti del mercato
locale, sia infine, per ridurre i costi e/o conseguire economie di scala nel servizio di assistenza post-vendita

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È riconosciuto in maniera sostanzialmente unanime che la contabilità impostata in maniera classica
non è in grado di individuare i singoli componenti di costi complicati nel sistema logistico, specie
nella distribuzione fisica e, quindi, si necessità di una procedura ad hoc per tale area. I maggiori
ostacoli sorgono per le difficoltà:
− di disaggregare i costi globali di produzione in specifici componenti di costo;
− di allocare questi componenti in centri di costi al fine di creare modelli specifici;
− di misurare i costi attuali associati con la presentazione di una specifica attività distributiva e
di stimare i costi futuri alla luce di un cambiamento (interno ed esterno) nel settore
distributivo.
In termini sintetici si può rappresentare il costo totale della distribuzione fisica con la seguente
espressione:

CDf = T + CfD + CvD + V

Ovvero: Costo totale di Distribuzione Fisica = costo totale dei mezzi di trasposto + costo totale fisso
dei depositi + costo totale variabile dei depositi + costo delle mancate vendite. Specie l’ultima
variabile della equazione (V) è di difficile quantificazione.

Laddove la funzione logistica è smembrata diventa più difficoltosa l’identificazione dei vari componenti di
costo. Il disegno di un sistema logistico comporta la scelta tra le varie alternative cui responsabile di
pianificazione del settore valuterà attraverso il criterio del CALCOLO ECONOMICO (costo dell’utilizzo di risorse
economiche nella produzione, incluso il costo opportunità) e non quello del CALCOLO CONTABILE (somma di
spese effettive e deprezzamento di beni capitali). La dispersione dei costi logistici comporta l’onere di
analizzarli attraverso una ricostruzione delle singole fasi del flusso fisico ed informativo tramite individuazione
dei centri di costo:
1) Trattamento degli ordini
2) Movimentazione dei prodotti
3) Confezionamento ed imballaggio
4) Magazzinaggio
5) Mantenimento delle scorte
6) Trasporti
7) Altri costi amministrativi (non collocabili nei precedenti).
Mentre i primi sei sono chiaramente delineabili, l’ultimo si riferisce alle spese generali d’amministrazione
affrontate nel processo di distribuzione fisica per le quali è difficile assegnare una responsabilità del carattere
specifico. È un’impostazione molto vicina a quella dell’ACTIVITY BASED COSTING. Può essere arduo
determinare accuratamente le prestazioni del personale impiegatizio e del sistema informativo nelle
attività in parola, ma è importante individuarle, seppure in maniera approssimata. Diventa opportuno,
perciò, nei casi di maggiore complessità logistica, analizzare ulteriormente la classificazione originaria dei
centri di costo. Questi costi vanno poi ripartiti tra gli specifici centri di costo nell’ambito del gruppo
contabile ‘depositi’ ossia tra il ‘trattamento degli ordini’ e la ‘movimentazione dei prodotti’ al fine di
creare modelli accurati di costo per le operazioni di magazzino. Inoltre, vi è un’ampia gamma di costi
correlati con il mantenimento e il controllo delle scorte. Particolarmente complesso risulta, poi, il calcolo
del costo delle mancate vendite imputabili all’esaurimento delle scorte o ai ritardi nelle consegne che non
sono stimabili facilmente. Peraltro, è noto come non sia sufficiente classificare i costi in base alla loro
natura, essendo necessario tener conto anche dello scopo per cui vengono sostenuti. È questo un punto
importante che riflette i limiti dei metodi tradizionali di determinazione dei costi.
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Se i costi non sono espressamente correlati allo scopo per il quale vengono sostenuti, diventa difficile
identificare chiaramente e logicamente il motivo per cui vengono effettuati degli sforzi. I costi possono
essere poi analizzati per prodotto e per mercato. È auspicabile perciò che l’allocazione dei costi avvenga
non solo con riferimento a specifici centri di costo funzionali ma anche per prodotto e per segmento di
mercato.
A questo punto bisogna individuare il criterio di allocazione dei costi ai centri specifici. È opportuno distinguere
i costi diretti (specifica attività assunta come centro di costo) da quelli indiretti; si richiamano inoltre i costi fissi
da quelli variabili, questi ultimi connessi al volume di produzione e dunque sono facilmente riferibili ai centri
di costo ed offrono un rendimento costante. Altri metodi sono quello della contabilità a costi diretti (DIRECT
COSTING) e contabilità a costi pieni (FULL COSTING); La tecnica del Full Costing adotta una configurazione di
costo che si avvicina di più al costo reale e si presenta utile per operare scelte di medio-lungo periodo. La
tecnica del Direct Costing utilizza una configurazione di costo molto inferiore al costo reale ed è idonea a
indirizzare le scelte operative di breve periodo.
Si è accennata l’importanza della suddivisione del sistema logistico nelle sue parti componenti al fine di
valutare e allocare risorse e sforzi, e quindi costi, nel modo più efficiente. L’obiettivo non è ottimizzare ciascun
componente in sé, ma l’intero sistema. In una visione integrata del problema, i costi non solo vanno analizzati
in funzione del sistema logistico totale, ma anche misurando il loro impatto sulle vendite. Si può applicare nel
sistema logistico il concetto di ‘trade off’ per un certo numero di livelli. In un primo livello si pone un trade off
inter-funzionale (Produzione-Distribuzione): vi è un’interazione tra le principali funzioni aziendali per
ottimizzare il sistema aziendale. Un secondo livello di trade-off riguarda le connessioni interattività
(Magazzinaggio-Trasporti) ed implica un equilibrio dei costi tra i maggiori centri di attività nel sistema logistico.
Il terzo livello di trade-off può essere definito intermodale (Trasporto stradale[ferroviario) e trova la più
appropriata applicazione nell’area dei trasporti. Il quarto livello è quello inter-tipo (Depositi propri e di terzi)
che considera i costi impliciti in operazioni quali il ricorso al vettore o a un proprio parco di mezzo o l’uso di
magazzini generali e di terzi o di propri depositi, in cui vanno considerati un certo numero di fattori di costo. Il
rischio di inutilizzo di un proprio deposito è un costo.
La metodologia sinora seguita può, tuttavia, risultare fuorviante qualora non si tenga conto dei seguenti
elementi:
− i costi sono considerati sulla base di un dato volume operativo, ossia da un punto di vista statico e non
dinamico, dunque occorre separare gli elementi di costo fisso da quello variabile;
− bisogna introdurre la considerazione dei ricavi, in quanto normalmente sistemi differenti hanno un
impatto differente sul mercato, implicando un livello di servizio alla clientela non uguale; si potrebbe introdurre
un trade-off tra l’andamento dei costi e dei ricavi;
− si tiene conto solo dei costi operativi connessi con il sistema logistico, trascurando gli investimenti di
capitale;
− un’ultima analisi riflette l’andamento dei costi di distribuzione associati con i canali alternativi, la cui
efficienza dipende dal grado di conflittualità e cooperazione presente in essi, nonché da taluni aspetti
strutturali. La mancanza di efficienza di un canale costituisce un costo di distribuzione da tenere in debito
conto.

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L’analisi dinamica dei costi consente di scegliere un tipo o l’altro di sistema logistico in funzione del volume in
modo da mantenere al livello minimo il costo totale, tenendo conto di alcuni fattori limitativi. Si può affermare
che un sistema logistico basato su bassi costi fissi ed elevati costi variabili si appalesa più vantaggioso a bassi
volumi operativi trattati; il contrario avviene naturalmente con un sistema ad elevati costi fissi e bassi costi
variabili che diventa più competitivo con grandi quantità trattate. Nel pianificare un sistema logistico è bene
conferirgli il massimo grado di flessibilità possibile in modo da conseguire una migliore adattabilità in relazione
a scostamenti che possono intervenire rispetto alle condizioni previste e a mutamenti inevitabili nel tempo. È
opportuno tenere presente che vi è un grado di incertezza e di approssimazione implicito nel calcolo dei costi
sviluppati, se pur con il massimo scrupolo, per ciascun sistema.
Si può rilevare interessante ricorrere all’applicazione dell’analisi di sensitività in modo da calcolare il variare
del rendimento di ciascun sistema in caso di errori di valutazione. Il ricorso alla suddetta analisi darà luogo a
una serie di sistemi di costo per cui ciascun punto di cambiamento non potrà essere riguardato con un limite
inviolabile.
Poiché ogni sistema dà luogo in pratica a un diverso livello di servizio alla clientela, è evidente la necessità di
inserire il calcolo dei ricavi nella scelta del sistema più conveniente. È importante, dunque, un accertamento
non solo dell’entità degli investimenti richiesti con riferimento a ciascun sistema logistico in esame, ma anche
della durata degli stessi e dei flussi di cassa che generano; l’analisi dei sistemi alternativi deve individuare, oltre
che l’entità degli investimenti e il cash flow netto, anche il valore attuale dei risparmi realizzabili con
l’attuazione di ciascuno di essi. L’ultimo stadio dell’analisi consiste nel calcolo di un indice di redditività dato
dal rapporto tra il valore attuale dell’incremento nei fondi totali resi disponibili da ciascun sistema e
l’investimento iniziale richiesto. Un siffatto tipo di analisi è valido allorché occorre affrontare cambiamenti
sostanziali nel sistema logistico per cui si rende prioritario l’accertamento della convenienza economica del
cambiamento proposto piuttosto che il concentrarsi solo sulle variazioni dei costi operativi.
È necessario inquadrare i criteri generali dei problemi e delle scelte che si pongono nell’istituire, gestire,
modificare, controllare i vari elementi del sistema logistico in uscita cogliendo gli aspetti di correlazione e
interdipendenza tra loro e con altre funzioni aziendali; tenendo sempre presente l’obbiettivo
dell’ottimizzazione globale. Uno degli aspetti più critici è l’impatto del cambiamento sul sistema stesso, esso
deve disporre di flessibilità nel lungo termine.
Per la scelta dei depositi periferici, bisogna distinguere se i clienti sono poco numerosi oppure elevati, e quanto
è elevato il volume che ordinano. La soluzione può poi complicarsi allorché i prodotti da consegnare al cliente
provengono da più stabilimenti o hanno caratteristiche particolari. Tuttavia, le osservazioni precedenti vanno
collegate anche alla politica commerciale che l’azienda intende perseguire o è costretta ad adottare dalla
situazione di mercato. I costi di trasporto vanno integrati con la considerazione dei tempi di trasporto e questi,
nella loro globalità, vanno confrontati con i costi di gestione di una rete di depositi più o meno ampia: si creano
dei trade-off con una gamma di sistemi logistici alternativi tra i quali prescegliere il sistema che assicuri la
migliore combinazione di costi-ricavi-investimenti.
Si può porre il problema della ristrutturazione di una rete di depositi esistenti che determini la necessità di
sopprimere alcuni, oppure spostarli allargando o restringendo l’area di competenza. Va analizzata anche la
natura del product-mix aziendale. È evidente che quanto più ampia e varia è la gamma di produzione
dell’impresa tanto più complesso risulterà il sistema logistico. Allorché la complessità delle caratteristiche
produttive raggiunge livelli elevati, appare preferibile accentrare la gestione delle scorte. Anche le
caratteristiche del prodotto stesso costituiscono fattori importanti nella decisione relativa all’istituzione di un
deposito. La deperibilità, la fragilità, il valore e il peso del prodotto influiscono sulle decisioni di stoccaggio. Gli
oneri finanziari e i rischi di stoccaggio prevalgono per i prodotti di maggiore valore, mentre gli elementi di costo
più significativi nella distribuzione dei beni pesanti e voluminosi sono il trasporto e il maneggio.

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È utile l’analisi del costo totale per identificare le interrelazioni degli elementi di costo con i vari livelli di
attività di magazzini. Le funzioni di costo da considerare concernono i costi fissi collegati all’attuazione di un
sistema di magazzini, i costi di trasferimento delle merci dalla fabbrica ai depositi, nonché i costi di
mantenimento delle scorte. L’analisi del costo totale, perciò, fornisce una base per identificare quanti depositi
dovrebbero essere istituiti in una particolare area di mercato, tenuto conto del potenziale di assorbimento di
questo. In genere, per la localizzazione dei depositi sono prese in considerazione solo alcune ubicazioni
ritenute fattibili, e si utilizzano spesso le tecniche di programmazione lineare o euristica o, ancora, modelli di
simulazione. Una delle forme più semplici è l’algoritmo dei trasporti, che può essere usato qualora si voglia
prendere in considerazione l’aggiunta di un deposito al sistema esistente o l’ampliamento delle attrezzature
di un magazzino per aumentarne la capacità di flusso: esso si fonda sulla valutazione del beneficio che deve
superare i costi, soprattutto fissi, inerenti il nuovo investimento. Nella fase di realizzazione, qualunque modello
o metodo venga impiegato saranno sempre necessari degli aggiustamenti per tenere conto dei confini regionali
e provinciali e di vincoli amministrativi, naturali, ecc.
La funzione dei depositi va inquadrata nel processo totale di distribuzione; la loro istituzione non solo deve
soddisfare l’esigenza di fornire spazio per consentire l’accumulo delle scorte e il successivo prelievo, ma anche
di consentire le numerose manipolazioni che procedono e seguono il periodo di permanenza dei prodotti in
un dato luogo. La movimentazione è basilare nelle operazioni di magazzinaggio almeno quanto lo stoccaggio
vero e proprio. Si può notare una chiara relazione tra movimentazione e stoccaggio, visto che la maggior
efficienza della prima consente di ridurre tempo e spazio da dedicare al secondo, ovvero di migliorare le
condizioni di conservazione dei beni. L’obiettivo di gestione dei depositi è quello di migliorare la disponibilità
del prodotto accrescendone l’utilità, mediante il trasferimento nel tempo e nello spazio.
La costituzione dei centri di distribuzione (CEDI) e gli investimenti crescenti nelle attrezzature per il ‘magazzino
automatico’ forniscono un incentivo a concentrare in uno o pochi depositi le scorte. In tale ottica si sono diffuse
le piattaforme, idonee al transito e alla rispedizione più che allo stoccaggio, con il consolidamento di partite di
merci provenienti da vari produttori e destinate a uno o più CEDI. In generale, nel caso di produzione a stock,
si propende per una rete di depositi di tipo ramificato a più livelli con adeguate scorte di prodotto finito più
vicine al cliente. Questa soluzione è più costosa ma consente un miglior livello di servizio. Nelle aziende con
sistemi di produzione su commessa, si cerca di evitare qualsiasi magazzino e CEDI e di effettuate tutte le
spedizioni direttamente al cliente, con modalità dirette o groupage, a seconda della tipologia degli ordini e
delle destinazioni. Si può ricorrere anche all’utilizzo di depositi esterni con la modalità dell’outsourcing.
La realtà offre varie soluzioni intermedie che contemplano la presenza di depositi al primo livello (regionale,
ecc) e secondo livello (provinciale e simili), integrati con l’impiego di centri di distribuzione, magazzini generali,
depositari, concessionari, commissionari, grossisti che consentono di conseguire economie di costo, flessibilità
e specializzazione.
Anche la dislocazione interna di un magazzino ha un impatto significativo in termini sia di capacità di
movimentazione sia di utilizzazione degli spazi. Una prima considerazione, nel valutare i costi operativi di un
proprio magazzino, consiste nel decidere quanto dell’intero spazio disponibile può essere economicamente
usato in termini di superficie e di volume.
Va raffrontato il costo del capitale, investito nell’installazione del deposito, con il valore dei prodotti
movimentabili. L’efficienza del singolo deposito va continuamente controllata raffrontando i costi relativi con
la giacenza media nonché la capacità e/o superficie impegnata con la capacità e/o superficie disponibile.

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Il tipo di attrezzatura di movimentazione e magazzinaggio disponibile influenza ovviamente i metodi di
sistemazione delle scorte e di raccolta e composizione degli ordini specie in presenza di una meccanizzazione
o di un’automazione spinta. Decidere il tipo di attrezzatura da impiegare non è facile; il miglior sistema
dipende:
− dalle caratteristiche dei prodotti da movimentare, in particolare la forma, le condizioni di stoccaggio,
il numero e il grado di differenziazione dei vari articoli;
− dalla movimentazione interna necessaria per formare gli ordini, e la superficie del deposito;
- dalla quantità per ogni voce e la rotazione degli articoli.
L’attrezzatura per il magazzino riguarda le operazioni di magazzinaggio vero e proprio (o di stoccaggio) e di
movimentazione interna.
Per quel che concerne l’automazione, non vanno sottaciuti i costi impliciti nell’inserimento di un controllo
elettronico di attività di magazzino altamente meccanizzate. Il ‘magazzino automatico’ comporta una
meccanizzazione molto spinta, l’impiego di robot e un software molto sofisticato. Per un’effettiva contrazione
dei costi con sistemi automatizzati, occorre contenere la verità dei prodotti, con riferimento alla forma e alle
dimensioni; perciò la standardizzazione e la possibilità di effettuare unità di carico consistenti gioca nel
mantenere bassi i costi. L’automazione del magazzino non è, comunque, l’aspirazione ideale cui deve tendere
qualunque azienda. I vantaggi cominciano a concretizzarsi solo se si raggiunge un determinato livello di
operazioni, il flusso di merci è rapido, la varietà produttiva è bassa, l’imballaggio è standardizzato.
Il requisito fondamentale di un imballaggio, da un punto di vista logistico, è che esso consenta la massima
protezione del bene nella manipolazione e nello stoccaggio cui è sottoposto. Il marketing, invece, esamina
l’imballaggio dal punto di vista della produzione, del valore promozionale e di presentazione del prodotto. La
preminenza di un aspetto o di un altro dipende dalla natura del prodotto, e anche il maggiore o minore valore
della merce fa propendere verso un imballaggio più sicuro e costoso o più economico. L’imballaggio deve
salvaguardare il prodotto quando viene accatastato nei depositi e trasportato nonché agevolare la sua
manipolabilità, stivabilità ed identificazione per sveltire la fase di raccolta e completamento degli ordini, ecc.
Mutamenti significativi sono avvenuti a seguito della pallettizzazione e della containerizzazione, oltre che per
effetto dell’impiego di materie plastiche, per la comodità, la pulizia, il minor costo, la resistenza, il minor peso,
ecc. I riflessi negativi sono stati sull’ambiente, ma si mira a strumenti biodegradabili. La raccolta differenziata,
il recupero e il riutilizzo di prodotto e di imballaggi ha notevoli implicazioni di carattere logistico, con studi
approfonditi di ‘reverse logistics’. La Reverse Logistics è quel processo di pianificazione, implementazione e
controllo dell’efficienza delle materie prime, dei semilavorati, dei prodotti finiti e dei correlati flussi informativi
che comprende la gestione di tutte le attività logistiche dedicate alla movimentazione dal punto di recupero
(o consumo) al punto di origine, con lo scopo di riguadagnare valore da prodotti che hanno esaurito il loro ciclo
di vita notevolmente accorciatosi negli ultimi anni. Tale reverse logistics guarda alla gestione dei resi, alla
gestione di fine vita dei prodotti e degli imballi, alla gestione di scarti di lavorazioni industriali e di rifiuti.
Spesso il formato è radicalmente cambiato, per facilitare la conservazione in casa nei frigoriferi, congelatori, e
così via. Anche l’introduzione dei Pos/Scanner ha influito sugli imballi, specie di piccole dimensioni, al fine di
facilitare la lettura della codifica a barre, che consente di inserire nel computer dati disponibili in forma grafica
e di cui va favorita la standardizzazione del linguaggio per massimizzare i vantaggi. Anche i sistemi Rfid stanno
modificando l’impiego degli imballi. Comunque, poiché l’incidenza del costo degli imballi può essere anche
abbastanza elevata, è opportuna un’accurata selezione dei fornitori per ottenere materiali non difettosi, in
quantità e tempi ottimali.

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Gli imballi vanno poi collaudati per accertarne la resistenza e la compatibilità, anche come formato, con le
procedure di movimentazione e i mezzi di trasporto esistenti, per evitare controversie con i vettori e clienti per
danni e avarie. In tale settore va seguito anche l’aspetto legislativo in quanto norme e regolamenti disciplinano
per diversi prodotti in modo rigoroso le caratteristiche degli imballi ai fini fiscali, ecologici e di tutela del
consumatore.
Altro aspetto da esaminare concerne la scelta tra il confezionamento in fabbrica o presso il deposito. Si
propenderà per la seconda soluzione ove la spedizione senza imballo consenta un miglior utilizzo del mezzo di
trasporto, maggiore celerità e, quindi, minor costo delle operazioni di carico e scarico. L’imballo va anche
prescelto in funzione del mezzo di trasporto usato (ad es. l’impiego degli aerei consente di utilizzare imballaggi
meno costosi per la minore incidenza dei rischi di danneggiamento).
L’eterogeneità delle confezioni e degli imballaggi può creare diseconomie nella gestione degli spazi,
nell’ottimizzazione dei carichi e nelle operazioni di carico e scarico. Si parla adesso di standardizzazione delle
unità di confezionamento (packaging), di imballo e di movimentazione (pallet).
La funzione del trasporto nel processo produttivo è di cruciale importanza in quanto esso, dovendo assicurare
il trasferimento delle merci nei tempi più brevi, con la massima sicurezza e al più basso costo possibile, ne
costituisce il nucleo centrale.
È opportuna un’analisi accurata dei mezzi alternativi con una comparazione dei costi e dei rendimenti ai fini
dell’assunzione di decisioni meditate e razionali, considerando che gli oneri del trasporto, già elevati in alcuni
settori, mostrano un trend in aumento per una tempestiva presenza sui mercati, in specie stranieri.
La disponibilità di mezzi di trasporto adeguati, a costi sopportabili, influisce sulla decisione di quali aree
geografiche di mercato servire nonché sulla estensione delle stesse. L’interdipendenza della soluzione dei
problemi dei trasporti e dei depositi è ancor più evidente qualora si considerino i vantaggi di trasferimento nel
tempo offerti dai depositi.
La tendenza alla riduzione delle scorte assegna al trasporto un ruolo di ‘magazzino viaggiante’, che eviti la sosta
nei depositi. I sistemi di trasporto si completano a vicenda, fenomeno che si va accentuando con l’impiego
sempre più intenso dei container e delle altre unità di carico del trasporto combinato che consentono un
agevole passaggio dalla nave al vagone, ecc. evitando le c.d. rotture di carico.
L’integrazione strada-rotaia è in via di sviluppo in quanto consente a ciascuno dei due modi di trasporto di
tendere verso l’ottimizzazione dei servizi resi, grazie all’unitizzazione dei carichi. L’inter-modalità può
raggiungere la massima efficienza ove la predisposizione dei necessari terminali avvenga con una localizzazione
o una attrezzatura adeguati, tenendo presenti le prospettive di sviluppo del trasporto combinato, accertate da
studi accurati che individuino i flussi dei traffici, le merci e le tipologie dei veicoli interessati.

85
L’obiettivo è di minimizzare il costo di trasferimento dei beni individuando la migliore combinazione dei mezzi
di trasporto, delle tecniche di condizionamento e di trasbordo della merce: è il classico trade-off tra le modalità
di trasporto. Tale valutazione va inquadrata nell’ottica del JIT che prevede consegne a maggiore frequenza, per
quantità più ridotte con rigoroso rispetto dei programmi. La rilevanza economica del sistema di trasporti di
una azienda è funzione dei seguenti fattori:
− distanza dalle unità produttive e allocazione dei fornitori delle materie prime;
− distanza dalle unità produttive e allocazione dei mercati/clienti;
− tipologia del prodotto;
− flusso dei prodotti da consegnare
− tipologia dei mezzi a disposizione.
I mezzi di trasporto che possono essere utilizzati sono mezzi su gomma, treni, navi per container, sistemi
intermodali, e la scelta di essi (se possibile) è effettuata in funzione dei target dei tempi, dell’affidabilità delle
consegne e, non da ultimo, dei costi che si vogliono ottenere.
La ripartizione del traffico merci nei paesi dell’UE evidenzia, specie nel nostro Paese, la tendenza al calo della
modalità per ferrovia per la sua minore efficienza rispetto al più inquietante ma puntuale trasporto su strada.
C’è stata una riduzione di costi e tempi, con un’offerta sempre più articolata di servizi collaterali, anche se la
crescente congestione del traffico crea problemi seri di sicurezza. Un’ulteriore scelta che sovente deve
effettuare la direzione logistica è quella, in specie nell’ambito del trasporto su strada, tra la predisposizione di
un parco di mezzi propri o di terzi.
Nell’eventualità di una politica di trasporti mista le decisioni riguardo a quali itinerari destinare i mezzi propri
e a quali i mezzi di terzi dipendono o da ragioni strettamente economiche o da ragioni di fluttuazioni della
domanda per cui la domanda media viene fronteggiata dai veicoli aziendali, lasciando che le punte stagionali
siano coperte da terzi. Nella scelta tra un parco di mezzi propri e di terzi, tuttavia, non solo è preso in
considerazione il costo ma anche il livello di servizio. Il mezzo esterno deve essere in grado di mantenere il
livello di servizio minimo richiesto e ciò va conseguito mediante l’annotazione dei ritardi, ad esempio nella
consegna, e dei reclami ricevuti confrontati con il numero dei trasporti effettuati, valutandone la tollerabilità.
In tale ottica la terziarizzazione (outsourcing) verso grandi operatori specializzati, con cui si instaura una vera
e propria partnership, in grado di sviluppare servizi integrati personalizzati, si è diffusa con risultati positivi.

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CAPITOLO 13 – LA MISURAZIONE DELLE PERFORMANCES DELL’IMPRESA
Lo sviluppo di un sistema di misurazione delle performance funge da “facilitatore” per l’organizzazione di
obbiettivi di difficile raggiungimento. Ancora più critica è la misurazione delle OPERATIONS. Alla luce di
un’attenzione sempre più marcata verso l’efficienza e la flessibilità è estremamente utile dotarsi di alcune linee
guida, spunti che possano aiutare nella costruzione d un “cruscotto ad hoc” ritagliato sulla realtà e sulle
esigenze aziendali, con cui poter velocemente ricavare le informazioni chiave e gestire anche attraverso
l’istituzionalizzazione dello strumento steso, il miglioramento dei processi operativi. I sistemi di valutazione
delle performance raramente si sono evoluti; nonostante il loro carattere tecnico-scientifico è ancora raro
trovare nelle aziende un sistema di misurazione delle performance operative integrato con un Controllo
Direzionale Aziendale. Se da un lato esiste un filone attento alla valutazione dei costi della catena logistica in
funzione dell’efficacia competitiva ottenuta e desiderata, dall’altro si sono sviluppate precise metodologie che
mirano proprio a sfruttare il controllo come strumento di gestione e integrazione strategica. Oggi attraverso il
PERFORMANCE MANAGEMENT e la BALANCE SCORECARD sembra essere chiaro che l’esecuzione delle
strategie è ancora più importante dell’individuazione delle stesse e soltanto un approccio efficace può portare
effettiva creazione di valore per l’impresa.
Il controllo sulla performance è il momento conclusivo del processo di programmazione della produzione,
attraverso il quale il management verifica la qualità del processo compiendo valutazioni sulle decisioni prese
in termini di progettazione e di gestione della produzione. È necessario dunque costruire un sistema di
indicatori di performance i quali oltre ad essere indici di misurazione della prestazione, producono informazioni
base per progettare feedback. Per poter costruire un sistema di valutazione delle performance occorre
individuare i processi e definire in modo univoco gli obbiettivi che ognuno di essi ha. Una volta identificati si
può passare alla definizione delle misure opportune, dunque si determinano le KEY PERFORMANCE
INDICATORS idonee a fornire una corretta valutazione del funzionamento dei singoli processi. L’obbiettivo
comune a tutti i processi è il raggiungimento dell’equilibrio in termini di efficacia ed efficienza garantendo al
minor costo possibile gli output migliori. Tali indicatori però non hanno un valore assoluto, vanno correlati alle
specificità dell’impresa e agli obbiettivi che questa si propone di perseguire; gli indicatori devono coprire tutte
le prestazioni che l’impresa e il sistema di produzione svolgono sia all’interno che all’esterno dell’azienda.
Un primo e proprio indicatore delle performance è la PRODUTTIVITA’, elemento dal quale un’impresa non può
prescindere anche quando persegue obbiettivi di flessibilità e rapidità. La PRODUTTIVITÀ TOTALE è misurata
dal rapporto output/input. Questo indicatore si suddivide in PRODUTTIVITA’ PARZIALE (output totale/input
inferito ad un’unica risorsa oppure output specifico/input specifico) e PRODUTTIVITA’ MULTIPLA (output
totale/input inferito a risorse critiche)

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Oltre alla produttività vi sono altri indicatori che misurano la performance, legati a sei aree di competitività
dell’impresa:

QUALITA' COSTO AFFIDABILITA' SERVIZIO TEMPO FLESSIBILITA'

•Assenza di •Produttività •Percentuale di •Prontezza di •Lead time •Flessibilità di


difettosità •Livello delle evasione degli risposta alle totale di prodotto, di
•Numero scorte ordini richieste del produzione volume e di
chiamate in •Costi legati •Disponibilita cliente •Tempi di mix
garanzia all'acquisto di degli impianti •Tipologia e setup
•Tasso di materie prime •Numero numero dei •Tempi di
soddisfazione modifiche agli servizi offerti sviluppo di
ordini di •Frequenza dei nuovi prodotti
fornitura reclami da
parte di clienti
•Assistenza
tecnica

Le prestazioni di un sistema logistico produttivo possono essere valutate rispetto a quattro dimensioni:
1) EFFICIENZA E PRODUTTIVITA’: quanto suddetto prima
2) QUALITA’: Prende in considerazione il TASSO DI DIFETTOSITA’ (totale difetti rilevati e corretti in un
intervallo temporale rapportato al totale delle unità prodotte); i COSTI DI PREVENZIONE (sostenuti per
impedire che un difetto qualitativo si manifesti); COSTI DI VALUTAZIONE (ispezione, collaudo,
controllo); COSTI DEI DIFETTI INTERNI (difetti relativi alle materiali, alle parti e alle componenti); COSTI
DEI DIFETTI ESTERNI (difetti rilevati dopo il trasferimento del prodotto al cliente)

3) TEMPO E SERVIZIO LOGISTICO: per misurare in senso stretto il tempo si riguardino il LEAD TIME, SET-
UP TIME, TIME-TO-MARKET. Per correlare il tempo al servizio logistico facciamo ricorso a quattro
parametri: DISPONIBILITA’ DEL PRODOTTO (esprime la capacità dell’impresa di limitare il numero di
rotture stock e garantire la pronta consegna); TEMPESTIVITA’ DELLA CONSEGNA (misurata
dall’intervallo temporale che intercorre tra l’ordine del cliente e la consegna della merce);
AFFIDABILITA’ DEL SERVIZIO (legata rispetto alla data di consegna promessa e alla conformità
qualitativa/quantitativa della consegna all’rodine); FLESSIBILITA’ DEL SERVIZIO (esprime la capacità di
personalizzare il servizio logistico alle richieste del cliente in termini di tempi di consegna, quantità,
variazioni dell’ordine, gestione delle urgenze). Il ciclo può essere articolato in questo modo:

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Trasmissione
dell'ordine

Spedizione e Elaborazione
trasporto dell'ordine

Approntamento
della consegna

Nella seguente tabella invece, richiamiamo alcuni INDICI DI MISURAZIONE DELLE PRESTAZIONI
LOGISTICHE:

Misure di disponibilità
Percentuale di inevasi Numero ordini inevasi/numero ordini totale
Completezza della consegna Valore prima consegna/valore totale ordine;
numero consegne per evasione ordine
Incidenza di stock-out Numero articoli stock out/Totale articoli
Misure di tempestività
(Data prima della consegna – data ordine) / Numero ordini evasi in x giorni / totale ordini
numero ordini
Misure di affidabilità
Numero ordini evasi in ritardo / totale ordini Devianza dei tempi di consegna
Misure di flessibilità
Giorni di anticipo minimi per accettazione Margini di variazione ammessi rispetto ai
variazioni tempi/quantità concordati

Sebbene sia interesse di ogni impresa massimizzare il servizio logistico questo risultato non può essere
ottenuto a prescindere dal livello di costi aziendali coinvolti. Pensiamo ad esempio agli indici di
disponibilità che richiamano i costi di mantenimento del capitale investito nelle scorte la riduzione dei
tempi può richiedere spesso la creazione di costose reti logistiche.

4) FLESSIBILITA’: La capacità del sistema aziendale di adattarsi ai cambiamenti di contesto e di


fronteggiare l’incertezza in tutte le sue manifestazioni; esistono diverse accezioni:
- FLESSIBILITA’ DI VOLUME: definita anche come ELASTICITA’ DEI COSTI esprime la capacità di
assorbire fluttuazioni nei volumi produttivi;
- FLESSIBILITA’ DI MIX: definita come la capacità di riassortire un’ampia gamma di prodotti
producendo a costi accettabili un mix articolato di prodotti;
- FLESSIBILITA’ DI PRODOTTO: esprime la capacità di inserire nel range produttivo un nuovo prodotto
in tempi (time-to-market) e costi accettabili, attiene alle prestazioni dell’impresa in termini di

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innovazione;
- FLESSIBILITA’ DI PROGRAMMA: esprime la capacità di modificare i programmi di produzione per far
fronte a richieste impreviste ed urgenti.
Ogni decisione, per poter essere ben ponderata, deve potersi basare su dati certi, oggettivi,
tempestivi e contestuali. La norma ISO 9001 richiede che l’organizzazione adotti adeguati metodi
per monitorare e, dove possibile, misurare i processi del sistema di gestione (per la qualità). Tutto
ciò deve essere volto al raggiungimento degli obiettivi pianificati. La norma UNI 11155 ha l’obiettivo
di definire un insieme di misure delle prestazioni logistiche, con i requisiti ed i metodi di misurazione,
relativi all’efficacia, all’efficienza e ai parametri correlati, per i sistemi, le attrezzature e le varie aree
della gestione logistica. La ISO 9000 ha come obiettivo il miglioramento continuo, ma per migliorare
bisogna tenere sotto controllo continuamente l’efficacia e l’efficienza delle prestazioni della propria
azienda. La norma raccoglie e sistematizza numerosi indici di efficienza, di efficacia, di tempi di
risposta e di livello del servizio, utili a tutte le aziende per capire il proprio stato di salute e metterlo
a confronto con gli altri concorrenti. In termini di competitività, la norma UNI 11155 individua i
parametri della stessa in modo inequivocabile. L’applicazione di tale norma permette di conoscere
meglio la propria impresa, e permette di mettere in atto le necessarie azioni correttive (sia a livello
organizzativo che infrastrutturale) e di tenere sotto controllo l’andamento del tempo. Per esempio,
alcuni indicatori per le varie attività aziendali possono essere: “prodotto, tempo per l’immissione sul
mercato”; “magazzino, spazio, utilizzazione dello spazio totale”, “trasporti, qualità del trasporto”.

Per misurare l’efficienza dei membri del canale di distribuzione possono essere impiegate tecniche di
controllo appropriate, tra cui l’analisi degli scostamenti e degli indici. Anzitutto, si richiamano le
valutazioni dei fornitori in termini di prezzo, qualità, puntualità e regolarità di consegna; poi va tenuto
conto dell’aspetto comportamentale per cui subentrano degli elementi non facilmente quantificabili;
infine, il grado di controllo che un’azienda può esercitare dipende dal potere che essa detiene nel canale,
di tipo sia coercitivo che non coercitivo (in particolare consulenza gestionale e contabile, incentivi,
assistenza pubblicitaria). Tutto ciò serve per comprendere in modo più nitido la dinamica
comportamentale del canale.

Non sempre le registrazioni contabili sono tenute in modo da agevolare l’identificazione dei costi
sostenuti nell’utilizzare l’uno o l’altro membro del canale oppure canali differenti; ne risulta che è
necessario valutare sia la rilevazione consuntiva, ma anche la valutazione preventiva dei costi in modo da
individuare la causa dello scostamento.

90
Le stesse considerazioni valgono anche per le vendite, per verificare l’incidenza di ogni singolo canale sul
fatturato globale e sul margine di contribuzione. Tale analisi serve per mirare gli investimenti per i vari
distributori con un monitoraggio periodico delle informazioni provenienti dalla forza di vendita. Si
possono ottenere degli indici come:

INDICE DI COPERTURA Punti vendita trattanti/ p.v. totali

INDICE DI QUALITA’ DISTRIBUTIVA Ponderata clienti trattanti/Numerica clienti


trattanti

INDICE DI ESPOSIZIONE Quota facing lineare / Quota di vendita

INDICE DI VISIBILITA’ Posto nella graduatoria margini unitarie /


posto graduatoria negli scaffali

INDICE DI ROTTURA Numero rotture stock nell’azienda / Numero


rotture stock azienda concorrente

INDICE DI COLLABORAZIONE Prezzo di vendita effettivo / Prezzo di


vendita consigliato

INDICE DI ASSORTIMENTO Referenze trattate / totale referenze di


portafoglio

Un siffatto controllo agevola la misurazione del rendimento dei membri del canale nel breve periodo in
termini di efficacia (qualità e ampiezza della vendita) e in termini di efficienza (costo, raffrontato o non
alle vendite). Il rendimento di un canale o di un singolo membro non va valutato solo in termini di
graduatoria di vendite in assoluto, ma in senso relativo, tenuto conto dell’andamento del periodo
precedente e dell’analisi del potenziale di vendita nella zona. È dunque necessario migliorare le
informazioni per effettuare periodicamente valutazioni esaurienti e decidere eventuali modifiche nella
politica dei canali rafforzando e migliorando i rapporti con i membri più validi ed eliminando o riducendo
l’utilizzo di quelli meno rispondenti.

L’informazione è la base per un efficiente sistema di controllo. Per altro ottimizzare le decisioni nelle varie
aree mediante il ricorso ad impegnative tecniche quantitative senza la creazione di un adeguato sistema di
controllo e di analisi degli scostamenti che inevitabilmente si verificano. È necessario fissare standard
realistici non solo con riferimento all’esperienza trascorsa in azienda ma anche tenendo conto di parametri
esterni inerenti alla concorrenza. In tal modo il fine sarà quello di intraprendere le opportune azioni
correttive ove lo scostamento sia tale da richiedere intervento. Il processo di controllo prevede livelli di
tolleranza nell’ambito dei quali non è il caso di intervenire. In altre circostanze esistono sistemi di regolazioni
automatiche, basti pensare al criterio di riordino a quantità fissa secondo cui quando le scorte scendono
sotto un determinato livello si predispone già ad una nuova ordinazione. Si preferiscono sistemi del genere in
quanto in caso di errori di registrazione delle scorte essi non si ripercuotono sulla decisione di ordinazione.

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È importante dunque attuare un controllo operativo attraverso il REPORTING, un sistema che segnala le
deficienze di livello al direzionale appropriato; esso mette il dirigente in condizioni di essere informato di
quanto accade nell’area logistica, in modo che egli sappia che se si opera nei limiti della tolleranza si può
individuare un eventuale eccezione
Occorre dotare il sistema della contabilità analitica dalla duplice capacità di fornire informazioni tempestive,
anche non di tipo monetario per i necessari correttivi e per i giudizi di convenienza dell’altro in base a scelte
formulate in tempi brevi. Il rapporto tra la situazione ambientale e sistema di controllo è rappresentato in
questo modo:
DINAMICA AMBIENTALE
ALTA BASSA
ALTA • Molto • Molto
informatizzato informatizzato
• Risultati analitici • Risultati analitici
• Controllo integrato e • Controllo PUNTUALE
INCERTEZZA per andamento e per andamento
AMBIENTALE BASSA • Molto • Molto
informatizzato informatizzato
• Risultati analitici • Risultati analitici
• Controllo PUNTUALE • Controllo PUNTUALE
e per andamento e per andamento

La costruzione di indici rappresenta uno degli strumenti più validi. Nell’ottica della soddisfazione del
cliente, occorre un’analisi del servizio alla clientela attraverso la costruzione di un indice di
soddisfazione globale della clientela dato dal rapporto tra la qualità percepita del prodotto e la
qualità attesa dalla clientela. Uno dei principali e più sintetici indici è dato dal rapporto tra costo
della distribuzione e valore delle vendite, efficace sia per un controllo interaziendale nello spazio sia
intraziendale nel tempo. Specie per i prodotti di merca, è necessario conoscere la quota di mercato
data dal rapporto tra il volume di vendita del prodotto e le vendite totali del mercato. L’analisi del
tempo di tali indici rileva la capacità dell’azienda di mantenere la fedeltà del cliente e il potere di
mercato con conseguenti economie di costi. Altri indici intermedi servono per misurare le
prestazioni dei ‘centri di costo’.

Partendo dal presupposto che l’informazione ha un costo, i dati trasmessi devono essere di reale
utilità, rilevati con accuratezza e tempestività e trasmessi puntualmente ai destinatari in modo
chiaro e definito. Da un punto di vista procedurale, il controllo si può avvalere dell’analisi degli
scostamenti, intesa come confronto tra costo effettivo e costo standard, ma estesa ad altre
misurazioni. Chiaramente saranno adottati criteri tali da valutare se uno specifico scostamento sia
abbastanza importante per giustificare un esame analitico, attraverso l’applicazione dei livelli di
tolleranza (il sistema di direzione by exception può garantire che solo gli scostamenti più significativi
saranno investigati).

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La fissazione degli standard costituisce una fase importante e a questo proposito può essere utile
osservare alcune specifiche attività per rilevare lo sforzo o i tempi normalmente richiesti per
effettuare determinate operazioni. Anche la tecnica dei budget aiuta a pianificare l’impiego delle
risorse, ad assegnare responsabilità ed a valutare i risultati in centri di costo predeterminati. È,
dunque, opportuno raggruppare i costi per operazioni oppure raggruppare tutti i costi di linee di
prodotti. Per essere efficace deve trattarsi di un budget flessibile, il quale, peraltro, può essere
realizzato se vi è stata una preliminare analisi dei modelli di comportamento del costo al variare del
livello di attività.
Può tornare utile, inoltre, l’impiego di indici di controllo ottenuti dal raffronto fra due o più variabili
appropriate in modo da produrre una misura di rendimento che concerne aree quali il livello di
servizio (analisi delle consegne tempestive o dei reclami), le giacenze (gestione delle scorte), i
trasporti e l’attività di magazzinaggio (analisi di costo di gestione delle scorte). Essi assumono il
ruolo di veri e proprio indicatori di performance da affiancare ai sistemi contabili di rilevazione dei
costi per completare gli strumenti di analisi competitiva e gestionale a disposizione del
management.

Nell’area degli approvvigionamenti indicatori utili possono riguardare il numero degli ordini emessi
e il costo medio relativo, il numero dei fornitori contattati, i costi della funziona totale acquisti, ecc.
Nell’area della produzione indicatori di qualità misurano la percentuale di scarti dal processo, il
rapporto tra costi variabili e costi fissi, ecc. Gli indici di efficienza considerano le ore di lavoro (e/o
di energia consumata) per unità di prodotto, il grado di utilizzo e la velocità produttiva dell’impianto,
ecc.
Una revisione periodica degli standard è opportuna per valutare se vi sono variazioni effettive negli
elementi di costi o nei criteri di interpretazione da parte di chi effettua le rilevazioni; anche
l’evoluzione degli indici va seguita in quanto possono subentrare fatti di mercato o interni che ne
modifichino la significatività. Bisogna, più in generale, eseguire periodicamente un vero e proprio
check-up che copra le aree funzionali dell’azienda, inclusa la logistica.

Si parla di BENCHMARKING quella misurazione dell’eccellenza di prestazione di una azienda definendo il livello
di prestazioni una volta ritenuto lo standard. Il confronto avviene attraverso parametri di riferimento che
evidenziano l’efficacia e l’efficienza di ciò che si sta analizzando. Viene definita la miglior prestazione
individuata in modo che essa rappresenti il valore da eguagliare e superare. Le entità da confrontare possono
essere gruppi di imprese o imprese singole ecc. Questo concetto è stato introdotto nel 1972 attraverso il
progetto PIMS (PACIFIC INSTITUTE FOR THE MATHEMATICAL SCIENCES) che vide protagoniste molte imprese
e vennero definiti i parametri del confronto; di qui la nascita dei c.d. PRINCIPI PIMS. Cinque anni dopo la società
americana XEROX leader della produzione di fotocopiatrici avviò il BENCHMARKING COMPETITIVO volto
all’analisi dei costi e della qualità dei propri prodotti in confronto a quelli giapponesi. Il progetto si rivelò
funzionale a tal punto che fu esteso ai principali processi aziendali. Grazie a David Kearnes, CEO della XEROX
abbiamo una definizione più esaustiva di benchmarking inteso come processo continuo di misurazione di
prodotti, servizi e prassi aziendali effettuato attraverso il confronto con i concorrenti più forti o con le imprese
riconosciute leader di un settore.

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Sulla base della sua definizione, fare benchmarking vuol dire
• Guardare al di là dei tradizionali confini interni e di settore in modo innovativo
• Rivedere l’attività aziendale attraverso la mappatura dei processi
• Puntare all’eccellenza identificando riferimenti di prestazione e prassi idonee per raggiungere quei
livelli di prestazioni
Il benchmarking può classificarsi in:
• COMPEITIVIO: finalizzato a confrontare prodotti, processi, servizi e prassi aziendali fra più imprese
dello stesso settore
• FUNZIONALE: finalizzato a mettere a confronto le proprie funzioni in termini di struttura, metodologie,
risorse ecc.
• GENERICO: finalizzato a raffrontare i propri processi con quelli che appartengono a settori diversi
• INTERNO: finalizzato a confrontare processi, prodotti servizi simili realizzati da unità organizzative
diverse ma facenti parte di una stessa impresa
• DI PROCESSO: volto a ricercare migliori prassi manageriali lungo il flusso di attività che attraversa le
aree funzionali
• STRATEGICO: fornisce un approccio per studiare il sistema azienda nella sua globalità e per assicurare
che i fabbisogni del cliente vengano adeguatamente considerati nel processo di benchmarking
La particolarità del benchmarking consiste nella fusione di linee guida di due approcci utilizzati per il
miglioramento delle prestazioni aziendali:
CICLO DI DEMING È un modello studiato per il miglioramento continuo della qualità in un'ottica a lungo
raggio. Serve per promuovere una cultura della qualità che è tesa al miglioramento
continuo dei processi e all'utilizzo ottimale delle risorse. Questo strumento parte
dall'assunto che per il raggiungimento del massimo della qualità sia necessaria la
costante interazione tra ricerca, progettazione, test, produzione e vendita. Per
migliorare la qualità e soddisfare il cliente, è necessario passare attraverso tutte e
quattro le fasi costantemente, tenendo come criterio principale la qualità. a sequenza
logica dei quattro punti ripetuti per un miglioramento continuo è la seguente:
• PLAN (pianificare): definire gli obbiettivi ed indicare con accuratezza i metodi
e le fasi concrete per il loro raggiungimento
• DO (eseguire): informare su quanto è stato pianificato, guidare lo svolgimento
dell’attività e assicurare l’adozione delle modalità di esecuzioni previste
• CHECK (verificare): accertarsi che si stia procedendo secondo quanto
pianificato attraverso un’indagine sui risultati
• ACT (agire): evidenziare i fattori che hanno ostacolato quanto pianificato e
attuare i miglioramenti necessari
PROCEDIMENTO Le analisi ci offrono il metro di giudizio oggettivo dei problemi e del loro grado di
ANALITICO importanza. Si suddivide in cinque fasi:
SCIENTIFICO 1) DEFINIZIONE DEL PROBLEMA
2) RACCOLTA INFORMAZIONI
3) STUDIO PROPOSTE DI MIGLIORAMENTO
4) IMPLEMENTAZIONE PROPOSTE DI MIGLIORAMENTO
5) VERIFICA RISULTATI E FOLLOW UP

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Da questi approcci prende vita il metodo di benchmarking sviluppato dall’ENVIRONMENTAL AND SOCIAL
BENCHMARKING CENTER e si articola in 5 fasi:
Da tali approcci prende spunto il metodo del benchmarking, ed in particolare il metodo sviluppato
dall’Environmental and Social Benchmarking Center, che si articola in cinque fasi:

− MISURAZIONE, ovvero conoscere la realtà dell’organizzazione, misurare lo stato di salute, definire i


punti di maggiore debolezza che necessitano di innovazione e miglioramento, e determinare l’oggetto del
benchmarking;
− PIANIFICAZIONE, partendo dall’oggetto del benchmarking; pianificare l’attività, determinare le risorse
umane, finanziarie e temporali necessarie per condurre l’attività, formare una squadra, selezionando tra gli
interessati, addestrandoli e formandoli al processo;
− RACCOLTA DELLE INFORMAZIONI;
− ANALISI, ovvero prendere visione di tutte le informazioni raccolte, analizzarle, selezionarle e spiegarle,
definendo le soluzioni più innovative e interessanti;
− ATTUAZIONE, ovvero riconoscere tra le soluzioni più innovative ed interessanti quelle più appropriate
al processo specifico, non applicando le soluzioni altrui, ma traducendo le pratiche eccellenti in concrete prassi
applicabili al contesto dell’organizzazione.
I due strumenti prevalentemente utilizzati per porre in concreto tali fasi del benchmarking sono il frame,
ovvero uno strumento di diagnosi dell’impresa che indaga diverse aree di importanza strategica per la gestione
aziendale; e l’index, ovvero uno strumento per comprendere ed analizzare la dimensione economico-
finanziaria delle aziende.
Per molto tempo il benchmarking è stato uno strumento riservato esclusivamente alle grandi imprese, per
ragioni organizzative e di costi, ma attualmente grazie all’utilizzo delle tecnologie informatiche e delle banche
dati è possibile portare il benchmarking anche nelle PMI, per uno sviluppo sempre maggiore e sostenibile.
Una notevole importanza è stata assunta da alcune tecniche di misurazione manageriali e contabili, aventi in
comune l’enfasi posta sulle ‘attività’, quali insieme di operazioni di gestione elementari, in cui è possibile
scomporre l’operato svolto all’interno delle varie aree funzionali e sub-funzionali. L’analisi della gestione per
attività permette di comprendere meglio ciò che avviene all’interno delle funzioni e delle corrispondenti unità
organizzative e di individuare i legami tra le funzioni e gestire l’azienda come sistema. L’analisi delle attività
consente di prendere decisioni più mirate ed efficaci.
Per ottenere puntuali informazioni sui costi di prodotto ai fini di formulare giudizi di convenienza più
appropriati su diverse linee, nonché di migliorare il controllo direzionale, è stato sviluppato il metodo ABC
(Activity Based Costing). Esso discende dalla concezione della catena del valore per cui imputa i costi sulla base
delle attività elementari effettive, generatrici di valore e delle risorse utilizzate nello svolgimento delle attività
nella produzione, nel marketing, nella consegna e nei servizi di assistenza alla clientela. Fondamento del
sistema è la rilevazione dei ‘cost-drivers’, ossia dei determinanti di costo, che può avvenire con misure non
monetarie in quanto riflettono i motivi per cui vengono svolte le attività e indicano la quantità di lavoro
necessaria per compierle. Il costo delle risorse consumate è attribuito alle singole attività; i vari costi sono poi
accolti negli Activity Cost Pools (ACP) che concentrano tutti i costi relativi a tipologie di attività analoghe che
vengono realizzati per diversi prodotti.

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Per quanto riguarda l’ottenimento del costo complessivo della linea di prodotto, alla base vi è una
scomposizione e un’analisi molto dettagliata dei processi aziendali, per attribuire a ciascuno i costi delle risorse
consumate; si procede così a una sorta di mappatura delle attività, mutuata e collegata, almeno in parte, alla
distinta base utilizzata nella produzione.
La ricerca delle attività che generano valore porta all’analisi e all’individuazione delle attività superflue o,
comunque, non essenziali, a concentrarsi su quelle più importanti, ad utilizzare meglio le risorse con una
migliore ripartizione delle stesse, evitando gli sprechi. La produzione flessibile ha incentivato l’utilizzo di
macchine non più dedicate ma utilizzabili per una varietà di prodotti; le macchine sostituiscono
progressivamente il lavoro dell’uomo che si concentra su funzioni di controllo e supervisione dei sistemi
impiegati nel processo produttivo.
L’ABC tende a esprimere il consumo di risorse per l’ottenimento del singolo prodotto in caso di produzioni
multiple, con procedure di calcolo che analizzano le attività che costituiscono il processo produttivo,
attribuendo, attraverso l’individuazione delle attività elementari, i costi comuni a più produzioni ai singoli
prodotti.
Il costo unitario di ciascuna tipologia di prodotto è pari alla somma dei costi connessi alle varie attività che
hanno contribuito al suo ottenimento. L’ottica dell’ABC è di lungo periodo per cui tutti i costi, anche di ricerca,
progettazione, marketing, generali, ecc. vengono inclusi, con aggiustamenti di calcolo, con il criterio del costo
pieno. La rilevazione di tutti i costi associabili al prodotto è utile in sede di pianificazione al fine di confrontarli
con i ricavi presumibili nel ciclo di vita e determinarne la redditività, che va, poi, verificata a posteriori.
L’analisi delle attività fornisce informazioni allo scopo di migliorare le operazioni che generano valore in termini
di efficienza e di efficacia e di eliminare (o ridurre) le altre. Si crea così uno strumento direzionale, l’ABM
(Activity Based Management) con cui si effettua un’analisi del livello di variabilità dei costi in relazione agli
interventi programmati, al fine di migliorare le prestazioni con opportuni aggiustamenti. Tale metodo è
proposto per migliorare il controllo dei costi e la soluzione dei problemi di ‘decision making’; dunque è un
metodo senz’altro più oneroso rispetto a quelli tradizionali, con tempi lunghi di implementazione per una
completa mappatura delle attività.
I limiti dell’ABC sono legati all’analisi e alla definizione delle varie attività, specie in quelle strutturali (o di
supporto) più che in quelle operative e al rischio di focalizzarsi eccessivamente sulle singole attività perdendo
di vista i processi specie nei punti di interfaccia tra diverse unità organizzative. Inoltre, c’è sempre una dose di
incertezza e discrezionalità nella stima e nel riparto di alcuni costi, il cui ammontare è in funzione della
complessità, della variabilità e del volume. Ancora, è difficile individuare i punti di vantaggio o di debolezza nei
riguardi della concorrenza, di cui andrebbero rilevate le attività con relative modalità di svolgimento per
impostare l’azione competitiva. È importante introdurre tecniche di benchmarking per confrontare le
prestazioni dell’impresa con quelle del leader di mercato. Per semplificare il processo ABC alcuni studiosi
hanno introdotto il PBC, ovvero il Process Based Costing, in cui oggetto di misurazione è l’intero processo e
non la singola attività. Alla tecnica dell’ABC si può collegare quella del ‘target costing’ ovvero costo-obiettivo,
cioè il massimo costo sostenibile.
I risultati migliori si otterranno se il personale è coinvolto in un programma di qualità totale fondato sul
miglioramento continuo, con un meccanismo di collegamento tra le varie aree aziendali interessate per uno
scambio fluido di informazioni. Con la figura del ‘controller’ si interviene sin dalla fase di progettazione affinché
si adottino criteri che tengano conto delle compatibilità in termini di costo e di situazione di mercato. Un’altra
metodologia recente, che recupera l’ABC, è il Throughout Accounting (TA), con il quale si tende più a
evidenziare l’esistenza di eventuali costi opportunità: si tratta, sostanzialmente, di calcolare il margine di
contribuzione rapportato all’unità di tempo che ciascun prodotto ha consumato nel collo di bottiglia.

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Il valore delle scorte rappresenta una parte rilevante delle attività aziendali: per questa ragione
occorre costantemente effettuare rilevazioni e controlli atti a contenere l’ampiezza degli
investimenti nel magazzino. È necessario adottare una politica di controllo delle scorte intesa a
verificare e misurare la velocità di transito dei vari articoli. Il controllo delle scorte mira ad assicurare
che il loro livello soddisfi le esigenze della produzione e del servizio da garantire alla clientela. Esso
consente di verificare i risultati ottenuti, di cogliere prontamente i mutamenti nelle situazioni
aziendali così da permettere interventi tempestivi per migliorare quantità e tempi di
approvvigionamento.
L’indice di rotazione del magazzino esprime il numero delle volte in cui, in un certo lasso di tempo,
avviene il totale rinnovo delle scorte e la loro manutenzione. Una lenta rotazione degli stock di
magazzino evidenza che le scorte sono troppo elevate rispetto all’andamento delle vendite, con
conseguenti alti costi e con forti rischi. Al contrario, una veloce rotazione degli stock rispecchia una
giusta programmazione degli acquisti ed un buon andamento dell’attività e di redditività aziendale.
Ciò significa una maggiore capacità produttiva e commerciale dell’azienda, un minor fabbisogno di
capitale da investire nelle scorte e una minore incidenza di spese e costi di magazzinaggio. In altri
termini, un alto indice di rotazione delle scorte evidenzia un miglior utilizzo del capitale investito in
scorte. Diventa necessario, quindi, determinare periodicamente tale indice individuando in esso un
aggravio di costi e un minor profitto dell’azienda. Il calcolo dell’indice di rotazione può essere
compiuto a quantità fisiche oppure a valori, purché le grandezze siano tra loro omogenee. L’indice
di rotazione fisica (IRF) si determina facendo il rapporto tra la quantità venduta nell’arco di tempo
considerato (somma degli scarichi di magazzino) e la quantità rimasta in media in magazzino
durante lo stesso periodo. Il calcolo a valori, detto indice di rotazione economica, ha il vantaggio di
poter essere riferito alla generalità delle merci commerciate dall’azienda, rese omogenee
dall’emissione monetaria. Tale indice concede più informazioni in quanto esso esprime in valore la
velocità di trasformazione dei capitali investiti in scorte. È detto IRE e si determina rapportando il
conto delle merci vendute nell’arco di tempo considerato al costo della quantità rimasta in media
nel magazzino durante lo stesso periodo.

Il controllo delle scorte mira ad assicurare che il loro livello, senza essere eccessivo, soddisfi le
esigenze della produzione e del servizio da garantire alla clientela. Esso consente di verificare i
risultati ottenuti, di cogliere prontamente i mutamenti nelle situazioni aziendali così da
permettere interventi tempestivi per migliorare quantità e tempi di approvvigionamento. Sarà
necessario:
1) determinare il costo del venduto, ossia calcolare il costo totale di tutte le merci vendute nell’intero
anno;
2) determinare il costo della scorta media, vale a dire calcolare il costo della consistenza media
delle merci che sono conservate nel magazzino durante l’anno.
3) calcolare il quoziente, ossia dividere il costo del venduto per il costo della scorta media. Il
risultato della divisione esprime il numero di volte che nel corso dell’anno si sono rinnovate le
scorte. L’indice di rotazione economica e l’indice di rotazione fisica sono strettamente correlati tra
loro in quanto, al variare del primo, anche il secondo tende a variare con la stessa dinamica. Solo
in periodi di forte oscillazione dei prezzi essi potrebbero divergere in quanto, a parità di quantitativi
trattati, i valori sono molto diversi da periodo a periodo.

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Si definisce curva ABC, o diagramma di Pareto, la curva che rappresenta il grado di concentrazione di un
fenomeno, con riferimento a due variabili correlate. L’adozione di tali diagrammi è frequente nella gestione
degli acquisti e dei sistemi logistici, sia per la semplicità di costruzione che per l’utilità di impiego. Diffuse
applicazioni si hanno nel campo del marketing e delle vendite e nelle analisi concernenti il valore del magazzino
o le rotazioni. L’applicazione delle classi A, B e C è del tutto arbitraria; generalmente gli intervalli delle classi
sono definiti con: codici di classe A (1-80%), codici di classe B (80-95%), codici di classe C (95-100%). In virtù di
questo metodo sono classificati i materiali di primaria importanza, classificati nel gruppo A, per i quali è
opportuno un controllo molto rigoroso perché una pur minima variazione dell’entità delle scorte implica
significativi mutamenti nei costi di gestione relativi; i materiali inseriti nel gruppo B sono di media importanza,
e possono essere soggetti ad un controllo di routine, mentre i prodotti del gruppo C possono essere tenuti
senza un controllo particolare. Ciò che varia passando dalla classe A alla classe C è il grado di accuratezza del
controllo. Anche la disponibilità e i tempi di consegna di un prodotto variano in funzione del suo contributo al
conto economico in termini di ricavi. Laddove non esista una tale numerosità degli articoli, il ragionamento
può essere impostato in termini di clientela, nel senso che a quella di “maggior peso” va assicurato un livello
di servizio tendente al 100%. Tale analisi conduce a suddividere le scorte in tre (o più) classi selezionandole in
ordine di importanza che non necessariamente si ricollega al solo valore, ma anche ad altri fattori. Si possono
usare anche contemporaneamente
diverse tecniche di controllo. Per esempio, i beni del gruppo A possono essere controllati con il metodo
continuo (a quantità fissa), quelli del gruppo B con la tecnica del rifornimento periodico, e così via.
La propensione ad un sempre più efficace ed efficiente sistema di gestione comporta un graduale passaggio
da un sistema di controlli basati sul rispetto di regole formali ad una strategia orientata in avanti, in grado di
coinvolgere sia la direzione generale sia i diversi settori in cui l’organizzazione si suddivide. Lo scopo è quello
di fornire una visione della stessa strategia in risultati chiaramente misurabili. È necessario che la cultura
organizzativa evolva sino al punto di coltivare il miglioramento delle prestazioni come uno sforzo continuo.
Un’organizzazione deve sviluppare le capacità idonee per monitorare sia le sue prestazioni correnti sia i suoi
sforzi, per migliorare i processi, motivare ed istruire il personale ed ampliare il suo sistema d’informazione,
ovvero sviluppare la sua capacità di apprendere e migliorare. La consapevolezza che nessun indicatore da solo
sia in grado di misurare in modo completo l’incidenza dei differenti fattori che determinano la performance
dell’azienda ha portato allo studio di nuovi sistemi e modelli di valutazione che potessero colmare tale lacuna,
arrivando allo sviluppo di una nuova metodologia detta Balanced Scorecard (BSC), ovvero ‘Scheda di
valutazione Bilanciata’. Le Balanced Storecard rappresentano una metodologia di controllo strategico utilizzata
in una struttura multidimensionale per descrivere, attuare e gestire la strategia di tutta l’organizzazione allo
scopo di tradurre missioni e strategie in una serie completa di misure della performance. Si delinea un nuovo
sistema di management in cui la Balanced Scorecard ha il merito di collegare gli obiettivi operativi a breve
termine con gli obiettivi strategici a lungo termine. La continua evoluzione degli scenari macroeconomici
impone alle aziende la ricerca di modelli innovativi per fronteggiare le continue sfide di una concorrenza
sempre più agguerrita, ed è dunque necessario avere strategie efficaci e sistemi di controllo efficienti. Il
modello della Balanced Scorecard parte dalla premessa che affidarsi unicamente a misure di tipo economico-
finanziario in un sistema di management possa indurre le organizzazioni in errore; poiché l’osservazione di
misure finanziarie incoraggia un comportamento a breve termine e sacrifica la creazione di valore a lungo
termine a favore di una performance immediata. L’introduzione della BSC conserva misure della performance
finanziaria, i cosiddetti indicatori ex post, ma li integra con le misure dei ‘driver’, o lead, della performance
finanziaria futura.

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Occorre bilanciare adeguatamente gli interventi per evitare che il beneficio ottenuto in un settore dell’attività
si trasformi in un danno per un altro, ciò allo scopo di garantire che la strategia perseguita sia efficacemente
utilizzata. La BSC viene a mettere ordine tra gli indicatori, con l’obiettivo di integrarli e bilanciarli, ossia
connetterli logicamente in modo da conoscere in anticipo i flussi futuri. Poiché il domani dipende dall’oggi, è
necessario riunire gestione strategica e gestione operativa, e la BSC sembra essere la strada giusta per tutto
ciò. La BSC può essere utilizzata efficacemente in aziende del settore privato e del settore pubblico di ogni
natura e complessità a condizione di descrivere in modo accurato l’attività e la priorità relativa tra le varie
componenti di influenza (stakeholders). Mentre nel settore privato la massima priorità sarà il profitto, nel
settore pubblico l’elemento fondamentale sarà rappresentato dal servizio al cittadino. La BSC parte dal
presupposto che nessun indicatore della performance deve essere preso singolarmente, ma occorre costruire
un insieme organizzato di indicatori che collegati tra loro consentano una valutazione globale dei risultati
aziendali. Si analizzano dunque:
− la prospettiva della performance economico-finanziaria, che pone in relazione i risultati ottenuti
dall’azienda con le aspettative di profitto degli azionisti;
− la prospettiva del cliente, che fa riferimento alla necessità di orientare l’attività svolta alla
soddisfazione delle esigenze del cliente), allo scopo di differenziarsi dalla concorrenza;
− la prospettiva della gestione dei processi, diretta all’individuazione dei fattori critici di successo per la
soddisfazione dei clienti e degli azionisti;
− la prospettiva di sviluppo futuro connessa all’innovazione di processo e all’apprendimento che
consentono uno sviluppo globale dell’organizzazione.
A) La prospettiva economico-finanziaria.
La prospettiva economico-finanziaria analizza i risultati realizzati in relazione alla strategia dell’azienda in
termini finanziari. Gli indicatori presi in considerazione sono:
− lo Shareholder Value Approach, in cui la determinazione del ‘valore azionario’ è dato dalla
differenza tra le Passività e il Capitale Netto, mentre il ‘valore societario’ è dato dalla somma
tra passività e valore azionario;
− l’Economic Value Added (EVA), una metodologia basata sul confronto del ritorno del capitale
investito in azienda con il costo dei fattori che lo hanno generato;
− il ROI (Return on Investment), indica il rendimento
offerto dal capitale investito; [ il ROE (Return on
Equity), indica la redditività del capitale di rischio;
− il ROS (Return on sales), dato dal rapporto tra reddito operativo lordo della gestione
caratteristica e ricavi netti di vendita. Il tasso esprime la redditività delle vendite.
Tra tali indicatori, degno di nota è l’EVA, il quale mira ad individuare e misurare il maggior valore
inteso come differenza di periodi tra reddito operativo e costo del capitale impegnato. Ovviamente
il rendimento deve tenere conto del grado di rischio che viene corso; dunque, un’impresa che
produce utili netti, dedotte le imposte, di importo inferiore al prodotto tra il costo medio del
capitale e il valore delle attività distrugge valore e non se ne giustifica l’esistenza in vita.

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B) La prospettiva del cliente.
L’attenzione riservata al concetto di qualità del prodotto o del servizio erogato fonda la sua ragion
d’essere nel clima di competitività in cui tutte le aziende si trovano ad operare. L’impresa ha bisogno
di un consumatore soddisfatto e fidelizzato, poiché l’aumento della soddisfazione rappresenta un
investimento redditizio da privilegiare se l’obiettivo è l’incremento delle quote del mercato. I
manager devono individuare per ogni Area Strategica d’Affari (ASA) i clienti e le misure di
performance. I fattori critici di successo potrebbero interessare lead[time brevi, consegne on[time,
capacità di anticipare i bisogni emergenti. In questa prospettiva le misure più importanti fanno
riferimento alla quota di mercato dei vari prodotti e servizi, il tasso di fidelizzazione dei clienti, la
capacità di acquisizione di nuovi clienti, il livello di redditività del cliente, gli attributi del prodotto e
servizio richiesti, la relazione con il cliente, l’immagine e la reputazione.

C) La prospettiva dei processi aziendali interni.


La prospettiva della gestione dei processi interni deve consentire ai manager di definire i processi
‘critici’ in cui l’azienda deve eccellere per conseguire gli obiettivi finanziari e di customer[based. Gli
indicatori più significativi nella prospettiva di business interno sono rappresentati da quelli che
consentono di valutare i processi operativi in termini di costi delle attività che ne fanno parte (ABC),
gestione economica delle stesse attività (ABM) e qualità dei processi (BPR).

D) La prospettiva di sviluppo futuro.


La prospettiva dello sviluppo futuro può essere intesa come:
− prospettiva di innovazione e vantaggio competitivo tesa ad evidenziare l’infrastruttura
necessaria all’impresa per competere con la propria organizzazione nel lungo periodo. La
crescente competitività nei mercati richiede da parte delle imprese un aumento delle loro
capacità in termini di valore per i loro clienti e gli azionisti, oltre che un impegno nell’innovare
strumenti e tecnologie, soprattutto in un’ottica di crescita nel medio/lungo termine. Gli
indicatori più appropriati a misurare le performance sotto questa prospettiva fanno
riferimento al turnover delle competenze per la gestione e lo sviluppo delle risorse chiave, al
time to market, agli indici di flessibilità e di soddisfazione del cliente, agli indici di misurazione
per il miglioramento continuo;
− prospettiva del mercato, in questo caso i manager individuano i segmenti di mercato in cui
l’azienda può competere. La conoscenza dell’ambiente competitivo è indispensabile per poter
fronteggiare efficacemente le minacce e sfruttare al meglio le opportunità che si presentano.
Gli indicatori più importanti riguardano la quota di mercato posseduta, il tasso di crescita del
mercato, il grado di concentrazione e la differenziazione;
− prospettiva della cultura e dell’apprendimento, la cultura aziendale mira ad una continua
formazione ed apprendimento, in grado di orientare comportamenti degli individui nello
svolgimento delle loro attività. Gli indicatori più importanti riguardano il valore delle
competenze ed il peso delle ore/giornate di formazione.

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La BSC si distingue dagli altri strumenti di valutazione proprio perché considera, in un documento sintetico,
una molteplicità d’indicatori, scelti in funzione delle finalità e strategie dell’impresa e raggruppati in schede
allo scopo di fornire diverse prospettive e favorendo una visione più completa della performance dell’impresa.
Questo importante strumento si caratterizza per il suo orientamento alla gestione futura, senza tralasciare
l’analisi delle performance passate, con il fine di monitorare continuamente gli obiettivi strategici dell’azienda,
in modo da creare un sistema unico interrelato in cui convergono strategie, reporting direzionale e
performance manageriali. La BSC assume un ruolo centrale nel tradurre la Mission e le Strategie aziendali in
una serie di misure oggettive, intervenendo nelle diverse fasi del processo strategico in particolare per:
− chiarire e tradurre la visione e la strategia;
− comunicare e collegare gli obiettivi strategici e le misure;
- pianificare, stabilire e adeguare le iniziative strategiche;
− aumentare il feedback strategico e l’apprendimento.
Un manager che desideri costruire una BSC, può farlo seguendo un processo logico che si articola in 4 fasi:
1. Definire obiettivi e misure per le variabili critiche di performance finanziaria. Il processo ha inizio col
definire con chiarezza la strategia dalla prospettiva dell’azionista, individuando gli obiettivi economico-
finanziari che contribuiranno a favorire la crescita e la produttività e le modalità attraverso cui ottenere
successo presso il potenziale target dei clienti; gli obiettivi
rappresentano i risultati desiderati. Ma la definizione dei risultati sperati non è sufficiente per capire come gli
stessi potranno essere raggiunti.
2. Definire obiettivi e misure per le variabili critiche della performance relativa ai clienti. Nella
prospettiva dei clienti utilizzata ai fini della BSC, il manager identifica i segmenti di clienti e i segmenti di
mercato in cui l’impresa intende competere. Il manager sviluppa poi delle misure per rilevare la capacità della
business unit di creare clienti soddisfatti e fedeli in tali segmenti di mercato. La prospettiva dei clienti include
diversi indicatori come la soddisfazione del cliente, la ritenzione del parco clienti, l’acquisizione di nuovi clienti,
la profittabilità dei clienti, la quota di mercato e la quota per singolo cliente nei segmenti obiettivo.
3. Definire obiettivi e misure per le variabili critiche della performance sui processi interni. La creazione
del valore sarà possibile solo attraverso un’attenta gestione della produttività interna, intesa come
progettazione del prodotto, sviluppo del marchio e del mercato, vendita dei servizi, miglioramento delle
operazioni di logistica, diretta all’individuazione delle attività necessarie per creare la differenziazione e la
proposta di valore desiderato da offrire al cliente, oltre che i risultati economici perseguiti. Le misure relative
ai processi interni dovrebbero focalizzarsi sui processi che avranno il massimo impatto in termini di
soddisfazione del cliente e di conseguimento degli obiettivi finanziari dell’organizzazione. Le attività
dell’organizzazione si concretizzano nei processi interni che costituiscono la catena del valore del cliente di una
impresa privata, che può essere, a sua volta, segmentata in quattro serie di processi rappresentati dai:
− processi di innovazione: l’organizzazione si propone lo studio delle esigenze emergenti o latenti del
destinatario delle prestazioni, finalizzato alla creazione di servizi in grado di soddisfare tali esigenze;
− processi di gestione dei rapporti con il cliente: risponde alla necessità di colmare un bisogno
informativo che caratterizza ogni cliente nel momento in cui si rivolge all’azienda;
− processi gestionali operativi: pongono l’accento sugli aspetti legati all’efficienza, alla regolarità e alla
puntualità con cui il servizio è erogato al cliente, rispetto all’efficienza dell’impiego delle risorse umane e
strumentali.

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4. Sviluppare obiettivi e misure per le variabili critiche di apprendimento e crescita. La quarta fase per
la costruzione della BSC identifica l’infrastruttura che il manager deve realizzare per ottenere crescita e
miglioramento nel lungo termine: in una parola, la sostenibilità. Gli obiettivi della BSC relativi a performance
finanziaria, clienti e processi interni rilevano usualmente dei divari tra le capacità in essere e le capacità
occorrenti per realizzare una performance eccezionale: per colmare tali gap, il manager ha il compito di
investire in formazione del personale, potenziamento della tecnologia e dei sistemi informatici. Sono questi gli
obiettivi che vengono rappresentati nella quarta fase, quella appunto di apprendimento e crescita. Dunque:
− gli indicatori relativi al personale possono includere misure quantitative di risultato ricavate dalle
indagini sulla soddisfazione, sulla stabilità, sulla formazione e sulle competenze dei dipendenti;
− le capacità informatiche si possono misurare tramite la disponibilità e la tempestività di informazioni
accurate e critiche sui clienti e sui processi interni per il personale a diretto contatto con il cliente;
− le procedure organizzative possono esaminare il grado di allineamento degli incentivi ai dipendenti
rispetto ai fornitori di successo dell’impresa.
Una quinta fase è quella che riguarda l’etica, ritenuta indispensabile, non solo per la sostenibilità delle attività
aziendali, ma anche in chiave di responsabilità verso di stakeholders interni ed esterni all’impresa.
In conclusione, usando la BSC i top manager sono in grado di misurare l’efficacia delle loro business unit nella
creazione di valore per i clienti attuali e futuri, nella costruzione e nel rafforzamento delle capacità interne, e
nell’investimento in persone, sistemi e procedure necessari per il miglioramento della performance futura.
Essa rileva tutte quelle attività critiche nella creazione del valore che sfuggono ai documenti contabili
tradizionali e rivela driver di valore per una performance superiore, sia finanziaria che competitiva, di lungo
periodo.

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CAPITOLO 14 – ELEMENTI DI TECNICA COMMERCIALE E DI GESTIONE DEGLI SCAMBI
Le attività di approvvigionamento, produzione e distribuzione dei beni avvengono attraverso
l’esecuzione degli scambi commerciali. Tali transazioni sono oggetto di studio della tecnica
commerciale, che analizza come essi avvengono e le strutture contrattuali nella loro forma,
contenuto e attuazione, al fine di preservare l’obiettivo economico delle operazioni messe in atto.
Nella nostra economica il passaggio dei beni economici dalla produzione al consumo avviene
generalmente in tempi diversi e tra luoghi diversi, poiché frequentemente gli operatori al centro
dello scambio risiedono su piazze distanti tra loro, e diviene indispensabile il trasporto delle merci,
il quale può avvenire nelle diverse modalità: via aerea, via mare, via terra. Il trasferimento nello
spazio, così come i differimenti nel tempo, espongono le merci ai rischi, contro i quali si ricorre con
contrati di assicurazione.
La tecnica commerciale si occupa delle diverse clausole contrattuali che regolano sotto il profilo
sostanziale ed economico gli scambi, definendo inoltre i mercati, ossia gli stabiliti luoghi di scambio,
ed i servizi annessi alla stipula di tali transazioni.

Il mercato è il luogo in cui gli operatori commerciali realizzano liberamente ed autonomamente ogni
tipo di transazione che sia lecita a norma di legge. Pertanto, il mercato, sia dal punto di vista
economico che dal punto di vista tecnico, può essere considerato un sistema coordinato di
negoziazioni o un complesso di affari attinenti ad una determinata merce. Perché un mercato esista
sono necessari due elementi:
− operatori economici che domandano una data merce o un
dato servizio (domanda);
− operatori economici che offrono lo stesso determinato
bene o servizio (offerta).
Ciascun mercato può essere classificato in diversi modi, in base a:
− l’andamento, quindi può essere calmo, se mancano domanda e/o offerta, attivo, se le
transazioni avvengono stabilmente, debole, forte, fermo, nervoso o invariato, a seconda di
come offerta e domanda si presentano;
− la sorveglianza, e si distingue in pubblico (autorità pubbliche) o privato (non vi sono autorità);
− la disciplina, e può essere organizzato (le transazioni sono regolate da un determinato
regolamento) oppure libero (non è sottoposto ad alcuna disciplina);
− il tipo di negoziazione, all’ingrosso (grandi quantitativi di merci) o al dettaglio (singoli beni);
− la frequenza, e può essere permanente (sempre operativo) o periodico (operativo stagionalmente);
− l’esecuzione dei contratti, quindi effettivo (esecuzione del contratto immediata o a scadenza)
o a termine (esecuzione differita).
Altre distinzioni possono essere in base alla natura del mercato (di approvvigionamento, di
smistamento, di consumo) o in base all’estensione territoriale (locale, regionale, nazionale,
mondiale).

103
Le caratteristiche dei mercati organizzati si estrinsecano nella presenza di un luogo definito in cui domanda e
offerta si incontrano per la trattazione e la conclusione degli affari, e sono sottoposti ad una disciplina circa
l’ammissione in tali luoghi e circa le contrattazioni relative allo scambio. Sono principalmente tre le forme
tipiche di mercati organizzati:
1. IL MERCATO ALL’INGROSSO DI DERRATE DEPERIBILI. Esso è disciplinato dalla legge. L’organizzazione
e il funzionamento di tale mercato sono disciplinate da un regolamento interno che l’Ente che ha istituito il
mercato deve adottare, in conformità con i dettami del Ministero dello Sviluppo Economico. La gestione degli
impianti di mercato e dei servizi connessi sono sottoposti alla vigilanza di una Commissione a livello
provinciale. Tale commissione, presieduta dal prefetto, delibera circa la fissazione del numero di posteggi, il
parere sulla misura delle tariffe dei servizi, le attività nei confronti della Commissione di vigilanza, le
modifiche e i miglioramenti alle attrezzature e servizi del mercato, le proposte di modifica al regolamento, le
sanzioni e altre attribuzioni previste dalla legge. Ai lavori della Commissione partecipa il Direttore del
mercato con voto consultivo e le deliberazioni adottate vengono trasmesse attraverso l’Ente gestore. Il
Direttore, nominato dall’Ente gestore a seguito del concorso pubblico, è preposto alla disciplina ed al
regolare funzionamento del mercato, poiché controlla la regolarità della posizione dei vari operatori ai fini
dell’ammissione alle vendite e agli acquisti, svolge la necessaria vigilanza, assicura la disciplina delle attività
del mercato, diffida coloro che non rispettano il regolamento, accerta la rispondenza di merci, imballaggi ai
requisiti qualitativi prescritti, assicura l’osservanza delle disposizioni degli organi sanitari, propone tutte le
iniziative idonee a sviluppare il volume delle vendite ed il rifornimento del mercato, interviene per la
definizione equitativa delle eventuali divergenze. Le vendite all’interno di tale mercato possono essere
eseguite a trattativa privata direttamente dai produttori, o col metodo dell’asta pubblica. I prodotti
commercializzati nei mercati all’ingrosso devono rispettare prestabilite caratteristiche qualitative e di
condizionamento.
2. L’ASTA COMMERCIALE. È il mercato organizzato ove vi è un solo venditore, tramite un banditore o
astatore, munito di apposita patente per l’esercizio di tale professione, e diversi potenziali compratori. In
sostanza, l’offerta è unica, la domanda molteplice. Nel momento in cui l’astatore accetta il prezzo proposto, il
contratto è perfetto per ciò che concerne il prezzo e la cosa offerta. La vendita all’asta è detta anche vendita
pubblica (o all’incanto) proprio perché l’offerta viene sottoposta contemporaneamente ad una massa di
compratori, i quali possono offrire un prezzo a seconda della propria disponibilità a pagare. Comunque sia, il
contratto concluso in tale asta pubblica assume tutte le caratteristiche di un contratto a trattativa privata. I
venditori possono essere produttori, cooperative di produzione, incettatori di prima mano, grandi case
mercantili. Gli acquirenti possono essere i grossisti, gli agenti per contro dei clienti del distretto, le
cooperative di consumo, i grandi magazzini a catena, i fabbricanti. In ogni caso, chiunque sia in grado di
indebitarsi può accedere all’asta per compiervi operazioni di acquisto o di vendita. Ai prezzi che si formano
nelle aste viene data massima diffusione e pertanto essi divengono gli indici più attendibili delle tendenze di
mercato. La merce venduta all’asta si caratterizza per natura particolare, quantità rilevante, facile
deperibilità, produzione stagionale, rarità. L’asta si distingue in asta propria (in cui la concorrenza fra gli
acquirenti è palese), asta impropria (caratterizzata da offerte segrete e, quindi, da concorrenza ‘occulta’).
L’asta propria, a sua volta, può seguire il modello dell’asta inglese (la partita è aggiudicata all’ultimo maggior
offerente) o dell’asta olandese (l’astatore definisce un prezzo che andrà via via riducendosi
progressivamente finché un compratore dichiara di accettarlo; se più acquirenti lo accettano, si ritorna a
quello più alto). Nell’asta impropria (modalità meno frequente) l’astatore scrive il prezzo minimo base su di
un foglio, chiuso in una busta; i potenziali compratori propongono le loro offerte per iscritto e le fanno
pervenire in busta chiusa, al banditore, il quale apre le buste e aggiudica il lotto a chi ha offerto il prezzo più
alto, ovviamente superiore al prezzo base. L’asta, infine, può essere commerciale o giudiziaria, a seconda
della provenienza dei beni oggetto della vendita, i quali, pertanto, possono essere, rispettivamente beni

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commerciali (destinati alla distribuzione o al consumo) o beni sequestrati per fallimenti o pignoramenti
(destinati a trasformarsi in liquidità).
3. LA BORSA. È un mercato speciale organizzato in vista di un fine specifico; attraverso l’accentramento
della domanda e dell’offerta e la facilitazione delle contrattazioni, si tende al livellamento dei prezzi. Sono
nate come organizzazioni spontanee e private, ma nei paesi europei molte sono enti pubblici o sottoposte a
vigilanza pubblica. Le borse hanno orari fissi e rigidamente sincronizzati a livello nazionale. Il listino indica i
prezzi di riferimento nazionali o internazionali per tutti gli operatori del settore. Su questi prezzi si regola il
mercato della compravendita sino alla successiva seduta di borsa e all’uscita del nuovo listino. Vi sono la
borsa merci (merci come carni, oro, diamanti), la borsa noli (tariffe per il noleggio delle navi e degli aerei) e la
borsa valori o borsa finanziaria.
Per quanto riguarda la borsa merci, esso è il mercato organizzato per antonomasia, costituito da un luogo
(fisico o anche telematico) nel quale degli operatori realizzano contrattazioni e chiudono operazioni di
compravendita di merci. Le contrattazioni si distinguono in due grandi categorie: operazioni a pronti (su
effettivo), e operazioni a termine (su futuri), istituite in Italia solo per la borsa merci di Milano.
I contratti a pronti sono sostanzialmente delle vendite stipulate in borsa, che funge così da luogo di
contrattazione, su campione o in base a certificato d’origine, o anche vendite di cose generiche, ma sempre
aventi ad oggetto una quantità e qualità di merci effettivamente esistente e di immediata disponibilità per la
consegna.
Nel mercato a termine si concludono compravendite la cui esecuzione è fissata sia per il venditore, sia per il
compratore, ad una determinata scadenza. Nei contratti a termine le parti contraenti concludono l’accordo
sugli elementi essenziali, quantità qualità e prezzo, differendo l’esecuzione alla scadenza del termine
(permette di realizzare una speculazione oppure operazioni di hedging). Le condizioni tipiche caratterizzanti
le contrattazioni in borsa sono: tipo base delle merci, lotto o quantità base di contrattazione, termine o
tempo con luogo convenzionale di consegna e margini di garanzia, per prevenire eventuali inadempimenti.
Non tutte le merci possono essere trattate sui mercati a termine di borsa, poiché è necessario che vi sia la
non deperibilità, la facile tipificabilità (denominazione) ed un tipo base di merce negoziata. È opportuno
inoltre chiarire la netta separazione tra il mercato a termine di borsa ed il mercato dell’effettivo. Nel primo i
contratti seguono una liquidazione differenziale riferibile a epoche convenzionali (termini), nel secondo i
contratti conclusi prevedono la consegna immediata (a pronti) o futura (per futura consegna) della merce
contrattata. Allo scopo di prevenire i possibili inadempimenti, gli operatori sono tenuti ai versamenti dei
margini di garanzia.
I soggetti degli scambi commerciali sono fondamentalmente le aziende commerciali e le aziende di produzione,
che assumono con continuità ed alternativamente sia il ruolo di acquirenti che quello di venditori nello
svolgimento dell’attività economica. Si pensi all’acquisto delle materie prime e la vendita dei prodotti finiti,
mentre le aziende commerciali si occupano del loro trasferimento nello spazio e nel tempo, secondo le
opportunità e le esigenze del consumo. La compravendita viene distinta in diretta, se si svolge fra le parti
contraenti senza l’ausilio di alcun intermediario, oppure indiretta, se viene realizzata a mezzo di intermediari.
La compravendita indiretta si perfeziona col tramite di soggetti che si interpongono fra compratori e venditori,
allo scopo di agevolare le trattative e favorirne il raggiungimento delle intese. Gli intermediari sono
fondamentali, poiché senza di essi probabilmente non potrebbero svolgersi alcune operazioni commerciali. Le
più comuni figure di intermediari commerciali sono:

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− il commissario, che è un mandatario che compra e vende beni in nome proprio e per conto del
committente, agisce su mandato e deve attenersi ai limiti ed alle condizioni stabilite dal committente, spende
il proprio nome rispondendo nei confronti dei terzi, potendo rivalersi nei confronti del mandante; si può anche
affidare al commissario una certa elasticità, autorizzandolo ad operare al meglio. Al commissario compete una
commissione o provvigione, in percentuale o a forfait, sulle operazioni compiute;
− gli agenti di commercio, sono intermediari che promuovono in nome e per conto dei propri preponenti
la conclusione di contratti in una zona determinata, ed operano sotto la condizione sospensiva ‘salvo
approvazione della Casa’; dunque, gli agenti di commercio non hanno il potere di concludere contratti di
compravendita in nome del preponente, ma soltanto quello di promuoverli;
− i rappresentanti di commercio, oltre a promuovere la conclusione dei contratti in una determinata
zona in nome e per conto dei propri preponenti, possono anche impegnarli alla conclusione dei contratti;
possono quindi validamente operare in nome e per conto del rappresentato concludendo contratti;
− i mediatori mettono in relazione due o più parti contraenti per la conclusione di un affare senza essere
legati ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza; essi hanno diritto ad
una quota di provvigione, qualora favoriscano la conclusione del contratto. Essi hanno l’obbligo di dichiarare,
al momento del perfezionamento del contratto, agli altri contraenti i nomi di coloro che li hanno incaricati
dell’operazione;
− le case di import-export sono organizzazioni commerciali europee (con sedi principali a Londra,
Amburgo, Parigi, ecc) che hanno significativamente favorito l’espansione commerciale tedesca e inglese;
operano nel commercio internazionale, specializzandosi per rami merceologici o per zone geografiche e
svolgono diverse attività. Esse ricavano provvigioni piuttosto elevate, giustificate dagli oneri finanziari che le
stesse assumono, operando generalmente a pronti con i fornitori ed accordando ai compratori condizioni di
pagamenti dilazionate.

− le Trading companies (società di commercio), si sono sviluppate inizialmente in Giappone con la


finalità di collocare all’estero l’imponente produzione nazionale di prodotti industriali dei settori maturi prima
e dei settori ad elevata tecnologia elettronica dopo; attualmente sono specializzate negli scambi internazionali
attuando anche operazioni ‘estero su estero’. Sono dotate di risorse umane con significative ed aggiornate
conoscenze commerciali dei mercati esteri, della domanda, delle norme valutarie, delle disposizioni doganali,
delle tecniche di gestione dei rischi. Appartengono spesso a grandi gruppi finanziari, e realizzano le operazioni
di countertrade, che consentono gli scambi commerciali tra nazioni industrializzate e Paesi in via di sviluppo
(le controprestazioni non sono espresse in valuta, ma in altre merci). Effettuano anche operazioni di
triangolazione, consistenti in accordi negoziali tra soggetti di Paesi diversi che assumono impegni contrattuali
abbinati ad un contratto principale di importazione-esportazione

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Gli ausiliari del commercio si caratterizzano essenzialmente per l’attività di produzione dei servizi necessari per
l’attuazione degli scambi commerciali. Mentre gli intermediari di commercio svolgono la loro attività per la
conclusione dei contratti di vendita, gli ausiliari forniscono i servizi necessari per l’esecuzione del contratto di
vendita quali il trasporto, lo sdoganamento, l’assicurazione, la certificazione, il finanziamento, ecc. Gli ausiliari
principali sono:
− gli spedizionieri. Sono quegli agenti ausiliari che si occupano di trasporti marittimi, terresti ed aerei;
agiscono quali mandatari di caricatori-mittenti o destinatari[ricevitori di merci per assisterli nel disbrigo delle
operazioni di spedizione, ricevimento, dogana, ecc. Può assumere le vesti di commissario di trasporti nonché
di vettore, e in tal caso assume i diritti e gli obblighi del vettore.
− le aziende di trasporti. Assumono forme ed importanza diverse dal piccolo corriere, che trasporta le
merci per ordine e conto di operatori commerciali, alla grande impresa di trasporti marittimi, ferroviari, aerei.
Si distinguono a seconda del tipo di trasporto in: trasporto per via terrestre (su gomma, automezzi su strada
ordinaria, ferrovia), trasporto per via marittima (comprensivo anche del trasporto fluviale e lacuale) e trasporto
aereo. Gli ausiliari del trasporto su strada ordinaria devono essere iscritti all’albo e valgono le agevolazioni
internazionali del TIR, secondo cui i controlli doganali sono solo alla partenza e alla destinazione. La conclusione
del contratto di trasporto per ferrovia è comprovata dalla lettera di vettura; negli USA tale lettera prende il
nome di polizza di carico, ovvero bill of landing. Nel trasporto via mare l’avvenuto imbarco della merce è
documentato dalla polizza di carico, ovvero un documento rappresentativo della merce che dà diritto alla
consegna delle merci specificate. Nel trasporto via aerea il titolo è comprovato da un contratto detto lettera
di trasporto aereo, parificabile alla polizza di carico per i trasporti marittimi.
− le aziende assicuratrici. Sono imprese specializzate nell’assicurare i rischi delle merci non soltanto in
fase di trasporto, ma anche per incendio, furto, movimentazione interna, ecc, a fronte di un versamento di un
premio di assicurazione. Di ausilio al commercio estero è la SACE (Istituto per i Servizi Assicurativi del
Commercio Estero) che assume in assicurazione e/o in riassicurazione i rischi di carattere politico, catastrofico,
economico, commerciale e di cambio ai quali sono esposti gli operatori italiani nelle loro transazioni
internazionali e negli investimenti all’estero.
− le aziende di deposito e di conservazione. Spesso per ragioni di spazio e di attesa necessariamente
prolungata prima dell’utilizzo di alcuni prodotti, le attrezzature e le dotazioni proprie di magazzino e depositi
interni alle imprese risultano insufficienti e si determina la necessità di organizzazioni e strutture esterne dette
di pubblico deposito. Così alcune imprese costruiscono de magazzini di deposito e conservazione con grandi
spazi prezzo i quali le imprese interessate possono depositare le proprie merci contro pagamento di diritti di
magazzinaggio, variabili a seconda della quantità e della durata del deposito. Si distinguono in deposito franco
(in prossimità del porto), deposito doganale (possono essere introdotte merci estere allo scopo di ottenere
dalle autorità doganali il rinvio del pagamento dei diritti di confine fino a quando le merci non saranno
destinate al consumo), magazzini generali (luoghi di pubblico deposito dove le merci nazionali e straniere
possono essere depositate, custodite e conservate verso pagamento di un corrispettivo stabilito da tariffe, e
possono essere gestiti da privati, enti pubblici, società commerciali o istituti di credito).

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− gli istituti di credito. Attraverso operazioni di credito e di prestazioni di servizi aiutano e facilitano lo
svolgimento delle operazioni commerciali (operazioni di sconto, anticipazione, apertura di credito allo scoperto
o garantita), e attraverso i finanziamenti forniscono alle aziende i mezzi liquidi con i quali sviluppare i propri
affari.
− le aziende di factoring. Provvedono alla smobilizzazione finanziaria dei crediti commerciali, mediante
l’acquisizione dei crediti pro solvendo o pro soluto (assumendosi o meno il rischio di inadempienza del cliente).
Le aziende di factoring normalmente finanziano le aziende venditrici cedenti con anticipazioni dell’80% dei
crediti ceduti, percependo anche un interesse su tali somme anticipate.
− le Camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura. Istituite in ogni capoluogo di provincia,
sono enti di diritto pubblico che per legge hanno l’attribuzione di coordinamento, promozione e
rappresentanza degli interessi commerciali, industriali e agricoli locali; svolgono anche importanti funzioni di
certificazione e garanzia delle attività economiche, tenendo Ruoli, Registri ed Elenchi, e di garanzia qualitativa
delle merci.
− l’ICE (Istituto di Commercio Estero). Nell’ambito del commercio internazionale promuove e facilita lo
sviluppo all’estero delle aziende e dei prodotti italiani. È un ente pubblico con il compito di sviluppare,
agevolare e promuovere i rapporti economici e commerciali italiani con l’estero, con particolare attenzione
alle piccole e medie imprese. Ha sede centrale a Roma.
La compravendita è un contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà su cosa mobile
o immobile contro pagamento del prezzo. Il trasferimento della proprietà avviene al momento della
stipulazione del contratto, indipendentemente dalla consegna e dal pagamento del prezzo. In
genere, insieme alla proprietà si trasferiscono sul compratore anche i rischi di perdita,
deterioramento, ecc, della cosa venduta. La stipulazione di contratti con operatori stranieri deve
considerare la differenza tra le leggi e i conseguenti dubbi che possono sorgere nell’applicazione di
una o dell’altra legge. Poiché tali incertezze giuridiche e le controversie che ne derivano ostacolano
il commercio con l’estero, sono state stipulate alcune convenzioni internazionali contenenti una
serie di regole in tema di vendita internazionale. Spesso le parti si accordano sull’adozione di
contratti tipo, tra i quali spesso quelli previsti dalla Camera di Commercio Internazionale. Tali
contratti regolano anche la materia del trasferimento del rischi (i cosiddetti Incoterms). Altre volte
non è stato stipulato alcun contratto e la merce è venduta sulla base di un semplice ordine per
posta elettronica. Il perfezionamento di un rapporto di compravendita presuppone il verificarsi di
condizioni essenziali, in contropartita fra i due contraenti, cioè:
− la consegna delle merci da parte del venditore al compratore, contro pagamento del prezzo
pattuito;
− il pagamento del prezzo pattuito dal compratore al venditore, contro consegna delle merci oggetto
del contratto.
Le condizioni stabilite prevedono anche le condizioni finanziarie della fornitura, che possono essere
considerate con riferimento al momento in cui avviene, al luogo, allo strumento di pagamento. Le
modalità di pagamento possono dare origine a tre tipologie fondamentali: il pagamento anticipato,
per lui l’impresa importatrice procede al trasferimento valutario prima di aver ricevuto i prodotti
acquistati; il pagamento posticipato, per cui l’importatore procede al trasferimento valutario dopo
aver ritirato il prodotto acquistato; il pagamento in via contestuale, per cui il regolamento
finanziario ha luogo al momento in cui il vettore o la spedizione esegue il ritiro o la consegna della
merce.

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Per ciò che concerne il luogo di pagamento, interessi di natura diversa spingono i
contraenti a preferire la propria sede:
- nel paese dell’acquirente (poiché l’acquirente vuole esaminare i beni, richiedendo un
pagamento su piazza);
− nel paese del venditore (poiché il venditore vuole evitare il rischio di insolvenza e la
connessa immobilizzazione); [ in un paese terzo (i contraenti preferiscono una terza
piazza).
Infine, per quanto riguarda lo strumento di pagamento, esso può essere effettuato mediante le seguenti
modalità:
− ordine di pagamento, per cui il cliente estero fornisce istruzioni alla propria banca di
addebitare il pagamento nel proprio conto corrente e di trasferire la somma ad una banca
corrispondente operante sulla piazza dell’esportatore (bonifico internazionale);
− assegno bancario o circolare;
− cambiale internazionale, costituita in larghissima parte da tratte spiccate dall’impresa esportatrice
sul cliente estero;
− rimessa diretta, ovvero il cash on delivery, e si ha quando il regolamento del prezzo avviene
contestualmente alla consegna;
− rimessa documentaria, per cui l’impresa esportatrice predispone i documenti rappresentativi
della merce e li affida alla propria banca, la quale provvede a rimetterli all’importatore;
− apertura di credito documentaria, per cui la banca si inserisce in modo sostanziale nel
rapporto tra impresa esportatrice e l’importatore, assumendo per conto del proprio cliente la
veste di debitore principale, impegnandosi cioè ad effettuare il pagamento o ad accettare la
tratta documentaria.
Poste tali premesse, nelle negoziazioni più complesse, è di solito contemplata la firma di documenti
preliminari volti a fissare i motivi e gli obblighi che ispirano le parti alla possibile stipulazione di un
contratto, al fine di evitare che vengano rimessi in discussione. Il documento pre-negoziale più
frequentemente utilizzato è la lettera d’intenti, la quale contiene l’indicazione del suo termine di
validità e la modalità per un eventuale ritiro anticipato, ma non ha efficacia vincolante. In molti casi
alla lettera si affianca un confidentiality agreement, ossia l’impiego delle parti alla massima
segretezza intorno alle informazioni di cui vengono in possesso. La fase delle trattative si conclude
con un’accettazione integralmente conforme alla proposta, che si concretizza in un ordine
d’acquisto (purchase order), in cui devono essere presenti tutti gli elementi essenziali e accessori
del contratto.

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Con l’estero è necessario cautelarsi da diversi rischi che per affinità si possono raggruppare in
quattro categorie:
− rischio paese, per tale intendendosi il pericolo che i beni ed i crediti posseduti da un soggetto
all’estero non possano essere rimpatriati per le vie usuali a causa di avvenimenti che dipendono
dal governo locale e non sono influenzati da persone ed imprese private;
− rischio di controparte, la difficoltà di valutare l’affidabilità della controparte;
− rischio commerciale, la scelta tecnica per giungere alla formulazione del contratto di compravendita;

− rischio cambio/tasso, il rischio riferito tipicamente alle oscillazioni della divisa scelta e/o del
tasso di interesse alla sottostante operazione commerciale e/o finanziaria.
Da regolare, prima di un contratto internazionale, sono il significato di alcuni termini (ad es.
“spedizione”), la legge applicabile al contratto, il modo di risoluzione delle controversie, la merce
oggetto del contratto, l’imballaggio, l’importo e la moneta di fatturazione, le garanzie sulla
merce, il trasporto, la documentazione, le condizioni di resa e di pagamento.
Le parti, tramite clausola compromissoria, possono operare una scelta espressa con cui
demandano la soluzione di eventuali controversie ad arbitri, ossia giudici privati, nominati dalle
stesse parti o da terzi. Nel giudizio arbitrale esiste minore formalismo, ed il lodo (sentenza)
emesso ha facile riconoscimento in alcuni Paesi e può non essere reso noto a terzi. Uno
svantaggio può essere costituito dal costo superiore che tale soluzione può avere rispetto al
giudizio ordinario (il ricorso a tale soluzione è preferibile in presenza di oggetti aventi importi di
notevole entità), mentre può risultare troppo oneroso per la risoluzione di liti ‘minori’. A questo
proposito, appare decisamente sconsigliabile redigere, senza l’aiuto di un esperto, una clausola
per l’arbitrato creata appositamente per il tipo particolare di rapporto e per le eventuali liti che
da quel contratto possono insorgere.

In una trattativa commerciale internazionale è fondamentale che acquirente e venditore abbiano piena
certezza della legge di riferimento, specie in termini di passaggio di rischio. In questo scenario nasce la
necessità di determinare in maniera univoca le reciproche obbligazioni, soprattutto per stabilire quale delle
parti debba provvedere per i contratti di trasporto e di assicurazione, per l’imballaggio o lo sdoganamento
delle merci e per tutte quelle operazioni di natura accessoria. Fondamentale anche attribuire il rischio per le
merci in viaggio. GLI INCOTERMS (Internazional Commercial Terms) costituiscono una raccolta di clausole
commerciali messe a punto dalla CCI (Camera di Commercio Internazionale) che sono state poi periodicamente
aggiornate. Obiettivo degli Incoterms è quello di fornire, una volta adottati dalle parti, un’interpretazione
uniforme, costante ed autentica dei termini contrattuali maggiormente usati nella compravendita. Gli ultimi
sono gli Incoterms 2010. Il ricorso a tali clausole è facoltativo ed esse non si sostituiscono a quelle contrattuali
nei rapporti di compravendita, ma ne divengono parte integrante e donano la certezza che chiunque le applichi
possa contare su una loro interpretazione univoca. Essi riguardano, però, solo i termini inerenti beni materiali,
e quindi escludono quelli immateriali, e vengono disciplinate solo le obbligazioni tra venditore e compratore e
non i rapporti con terzi soggetti. Con queste clausole le parti di un contratto di compravendita fissano in modo
univoco le reciproche obbligazioni relativamente a:
− consegna della merce;
− costo della spedizione della merce; copertura assicurativa;
− sdoganamento all’importazione e all’esportazione.

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Ogni termine comprende tre elementi base: lo stadio in cui il titolo sulla merce passa
dall’esportatore/venditore all’importatore/compratore, una chiara definizione delle spese che devono essere
sostenute dall’esportatore o dall’importatore ed infine il momento ed il luogo in cui le merci sono
effettivamente consegnate all’importatore.
Le undici clausole Incoterms 2010 possono essere presentate in quattro gruppi contenenti clausole affini per
quanto riguarda le obbligazioni nascenti in capo alle parti:
− gruppo E, clausole di partenza, per cui il venditore deve mettere la merce a disposizione del
compratore presso i propri locali;
− gruppo F, clausole di partenza, per cui il venditore consegna la merce e non paga il trasporto principale;
− gruppo C, clausole di partenza, per cui il venditore paga il trasporto principale sino a destino ma non
assume i relativi rischi;
− gruppo D, clausole di arrivo, per cui il venditore deve sopportare tutte le spese e i rischi per portare la
merce sino al Paese di destinazione.
Di solito nei primi tre gruppi la consegna avviene nel Paese del venditore mentre nel quarto gruppo avviene in
quello del compratore, ed inoltre le clausole applicabili dipendono anche dalla tipologia di trasporto usata: si
distinguono termini marittimi da termini per qualsiasi modalità.

Alcuni elementi del contratto di compravendita sono molto importanti nel sistema logistico. L’inserimento di
determinate clausole deve avvenire in connessione con la posizione dell’impresa nell’ambito della logistica e
formano spesso oggetto di una non facile negoziazione. La condizionatura della merce, ossia l’insieme delle
operazioni necessarie per rendere la merce idonea alla consegna e al traporto, compreso l’imballaggio,
costituisce uno dei patti che devono essere preventivamente concordati tra le parti, il prezzo netto sarà diverso
a seconda che si vende con la clausola ‘imballaggio gratis o conteggiato con merce’ oppure ‘fatturato a parte’.
In alcune circostanze la condizionatura assume grande rilevanza, poiché l’imballaggio per certa merce assume
grande valore. La fissazione del tempo e del luogo di consegna è notoriamente un altro elemento da stabilire
con attenzione nel contratto in quanto su tale base si determina l’adempimento delle parti, la messa a
disposizione della merce nella qualità e quantità contrattata e contestuale consegna della documentazione
prevista, nonché il passaggio delle spese e, di norma, dei rischi a carico del compratore. La vendita per futura
consegna dovrebbe includere nel prezzo gli oneri e i rischi di conservazione, tenuto conto dell’importo
eventualmente versato in acconto. Con la clausola CIF il venditore include nel prezzo e si accolla i costi di
trasporto e assicurazione, lasciando a carico del compratore i rischi derivanti dal trasporto medesimo; esistono
poi clausole FOB partenza, FOB destino, ecc., in cui il venditore si assume i costi e i rischi.
Una pratica diffusa in alcuni settori industriali prevede la clausola del ‘punto base’ in virtù della quale il
venditore fissa un prezzo per consegna nella località base con l’aggiunta di una maggiorazione da applicare in
funzione del costo di trasporto sino al luogo di consegna. Se la rete di depositi e il sistema di trasporto in conto
proprio sono organizzati in modo efficiente, l’impresa può conseguire un margine di guadagno che può
trasformarsi ovviamente in una perdita in caso contrario. In altri casi il punto base può essere fissato in località
importanti e con riferimento a depositi principali dell’azienda. È indubbio che le clausole del tipo ‘punto base’
creino uno stimolo maggiore a organizzare in modo efficiente il sistema logistico dal punto di vista del fornitore.

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Un altro elemento che gioca un ruolo di rilievo è costituito dagli sconti di quantità, ossia dalla fissazione di un
prezzo differenziato in relazione al volume degli acquisti. Anche i termini di pagamento sono influenzati dalla
logistica. Nella strategia dei prezzi le aziende pongono sempre maggiore attenzione alla correlazione
prezzo/termini di pagamento. Le aziende della grande distribuzione organizzata, avvalendosi della loro forza
contrattuale nei confronti dei fornitori, ottengono cospicui vantaggi nella gestione finanziaria dosando
opportunamente condizioni di pagamento e gestione programmata delle scorte; l’industria è così costretta sia
a concedere migliori servizi logistici, ulteriori sconti o altre iniziative promozionali, sia a concordare analoghe
azioni nei confronti del consumatore, in un’ottica di marketing integrato.
Non è raro trovare un’operazione bancaria con l’estero collegata ad una operazione commerciale di
COUNTERTRADE. Il countertrade è una pratica in tendenziale crescita ed è giunto a coprire circa il 10% del
totale del commercio mondiale. È un termine ‘onnicomprensivo’ nel senso che comprende tutta una gamma
di operazioni tra loro diverse. Le esportazioni in un determinato mercato sono condizionate dall’accettazione
di importazioni da quel mercato stesso. Tecnicamente si chiama ‘baratto’, ed è un sistema poco usato. Per
quanto riguarda i vantaggi del countertrade, si può dire che esso aumenta il volume del commercio con
l’estero, aiuta a trovare nuovi mercati, aiuta a vendere più prodotti. Per quanto riguarda gli svantaggi, invece,
esso sostituisce i benefici della libera concorrenza con accordi di reciprocità, protezionismo, prezzi, prefissati,
ecc; introduce costi addizionali a causa di attività aggiuntive e di incombenze amministrative; aumenta il rischio
di immissione nel mercato di prodotti di bassa qualità; aumenta il rischio di acquistare merce non mercantile
o invendibile. Nella pratica, vi sono varie forme di countertrade utilizzate:
− COUNTERPURCHASE. L’esportatore si impegna ad acquistare in seguito merci e/o servizi dal paese
importatore. Ci sono spesso due contratti separati, il primo per l’ordine principale ed il secondo per il relativo
counterpurchase.
− BARATTO. È il diretto scambio di merci/servizi diversi tra paese importatore e paese esportatore. Un
singolo contratto copre entrambi i flussi, e alle volte non è prevista alcuna somma di denaro.
− BUY BACK. È una forma di baratto dove il fornitore di un impianto o di un macchinario accetta di essere
pagato con la produzione futura di detto impianto/macchinario.
− OFFSET. È una condizione per esportare certi prodotti spesso ad alto contenuto tecnologico in un paese
dove si richiede che una parte del prodotto in questione venga realizzato o assemblato nel paese importatore
stesso.
− SWITCH TRADING, caratteristici delle situazioni in cui i saldi debitori nel commercio bilaterale con un
certo paese in via di sviluppo portano a crediti quasi inesigibili;
− CONTI DI EVIDENZA o conti Escrow, per cui società con molti affari in certi mercati possono concordare
di adeguare le esportazioni in questi mercati con importazioni di pari valore degli stessi.
Nonostante i grandi progressi ottenuti nel trasporto aereo, la maggior parte delle merci trasportate
giornalmente nel mondo viene trasferita via nave. La nave è il mezzo di trasporto più economico,
tuttavia più lento, anche se notevoli progressi sono stati fatti anche in questo settore soprattutto
per quanto riguarda la rapidità delle operazioni portuali. Una nave mercantile può essere
individuata con delle caratteristiche ben precise:
− stazza, capacità della nave, ossia il suo volume intero;
− portata, peso che la nave può trasportare;
− dislocamento, peso della nave stessa;
− velocità, misurata in nodi;
− pescaggio, profondità di immersione della nave nell’acqua.

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Esistono le portarinfuse, le gassiere, frigorifere, portacontainers, ecc. Le navi possono essere
classificate anche in navi ‘di linea’ e navi ‘tramps’, le prime svolgono viaggi con date e rotte
prefissate, le seconde viaggi su misura. Esiste anche una differenziazione tra nave ‘freeder’ ed
‘ocean liner’, dove la prima ha dimensioni più contenute, la seconda è più grande. Il container può
avere tre
diverse dimensioni, di 7, 20 o 40 piedi. Esiste un notevole numero di tipi di containers a seconda del
tipo di merce da trasportare, esattamente come nel caso della nave. Indipendentemente dal
sistema di distribuzione utilizzato, il sistema di trasporto può essere più o meno complesso, a
seconda del numero di tipologie di mezzi utilizzati per raggiungere una destinazione. È possibile
doversi servire di camion, treni, una o più navi, nuovamente treni e poi ancora camion.

La consegna delle merci al vettore o ad un suo agente rappresenta il momento di passaggio dei
rischi e individua il soggetto che, per effetto di un contratto di trasporto stipulato, si obbliga a porre
a disposizione del compratore la merce in buon ordine e condizione nel luogo convenuto. Assume
rilevanza non solo il momento in cui avviene la consegna al vettore, ma tutti gli atti ed i documenti
compiuti o emessi per il raggiungimento di tale obiettivo. Si inserisce nel rapporto un terzo soggetto,
il vettore, che assume proprie obbligazioni in dipendenza del contratto di trasporto. Il documento
di trasporto funge da ricevuta di carico e comprova l’avvenuta stipulazione del contrato di trasporto
tra vettore e mittente della merce: attestano la presa in carico, da parte del vettore, delle merci che
vi sono indicate; obbligano il vettore a custodire, trasportare e riconsegnare le merci nelle stesse
condizioni e quantità; indicano nel dettaglio le condizioni di trasporto.
I documenti mercantili usati nelle operazioni di commercio internazionale si dividono in:
− documenti rappresentativi, cioè quelli che conferiscono a chi ne sia ‘legittimo portatore’ il
diritto alla riconsegna o comunque il potere di disporre di una determinata merce (trasportata
via mare, depositata in un magazzino autorizzato);
− documenti dimostrativi, che servono cioè a ‘dimostrare’ una determinata condizione della
merce (documento assicurativo, documento di trasporto aereo, certificato di origine, di peso,
quantità, qualità, sanitario, di radioattività, di analisi, di ispezione, ecc);
− documenti identificativi, utili cioè a ‘identificare’ quella partita di merce ed a fornire ulteriori
informazioni (fattura commerciale nelle sue varie forme, lista colli, altri documenti).

Trasporto marittimo.
La polizza di carico marittima può essere emessa a nome di un soggetto determinato, al portatore
o all’ordine. Fra i documenti di trasporto, è l’unico ad essere negoziabile. Ciò consente di effettuare
operazioni di acquisto o di vendita delle merci mentre queste sono in viaggio sulla nave. Esistono
due tipi di polizze: polizza ‘tradizionale’ e polizza ‘di trasporto intermodale’. Nella prima il trasporto
è effettuato da un porto di imbarco designato ad un porto di sbarco designato; nella seconda, vi
sono differenti modalità di trasporto. Esiste anche la lettera di vettura del trasporto marittimo.

Trasporto aereo.
La lettera di vettura del trasporto aereo è un documento non negoziabile ed il soggetto che vi è
indicato quale destinatario non ha necessità di presentare il documento stesso per ottenere dal
vettore la consegna della merce. Invece, la lettera di vettura house è il documento emesso dal
consolidatore ed ha le stesse caratteristiche della lettera di vettura del trasporto aereo. Il
consolidatore emette una lettera di vettura house per ogni singola spedizione facente parte della
consolidazione.

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Trasporto stradale.
La lettera di vettura stradale è un documento non rappresentativo della merce in essa descritta, è
emesso obbligatoriamente a favore di un soggetto determinato.

Trasporto ferroviario.
La lettera di vettura ferroviaria è un documento non rappresentativo della merce in esso descritta
e deve obbligatoriamente indicare il nome del destinatario.

La polizza di carico è un documento per merci imbarcate a bordo di una determinata nave, firmato
dal vettore che si impegna a trasportarle e dichiara le condizioni nelle quali le merci sono state
consegnate alla nave. La P/C inizia la sua vita evidenziando il contratto di trasporto tra il vettore ed
il caricatore. Durante il viaggio la proprietà della merce sarà trasferita dal vettore originario al
compratore finale che prenderà in consegna le merci dalla nave. Potrebbe esserci più di un
compratore che pagherà le merci e riceverà il pagamento dal successivo compratore nella catena. I
dati più importanti riportati sulla P/C sono:
− nome del vettore;
− nome del caricatore;
− porto di imbarco, di sbarco, luogo di partenza e di destinazione;
− natura, qualità, quantità, numero di colli, pesi, marchi
della merce da trasportare;
− nome della nave;
− dettagli sul costo del trasporto (nolo);
− nome del destinatario
(spesso il compratore);
− termini del contratto di
trasporto;
− firme dell’agente o del Capitano.
La polizza di carico è emessa in alcune copie (max. 3) originali cioè rappresentative della merce più
altre copie non rappresentative per uso amministrativo, contabile, di evidenza. Esiste poi la Polizza
di carico ‘pulita’, ovvero priva di aggiunte o clausole che attestino espressamente la condizione
difettosa della merce o dell’imballaggio. ‘Sporca’ è la polizza dove tali annotazioni appaiono.

IL DOCUMENTO DI TRASPORTO AEREO è un documento particolare in quanto teoricamente


dovrebbe essere incluso nella categoria dei documenti rappresentativi, però nella pratica è emesso
nella forma non rappresentativa, in forza di accordi internazionali. Il motivo è che il documento,
vista la rapidità dei trasporti, potrebbe pervenire anche dopo l’arrivo delle merci; ciò significa che il
proprietario della merce (compratore/importatore) non deve essere in possesso del documento per
poter ricevere la merce. Esso svolge le seguenti funzioni:
− fattura per pagamento del nolo;
− documento con valore simile al documento assicurativo;
− lettera di istruzioni che il caricatore dà al vettore;
− documento doganale.

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Consiste di 3 originali (anche se non rappresentativi) più 6 copie per usi amministrativi. Le merci
trasportate via aerea ammontano solo al 2-3% del volume totale delle merci trasportate, ma
coprono il 25-30% del valore totale. Esistono tre tipi di trasporto aereo di merce: express, che
trasportano materiale molto piccolo e con elevato valore, importanza o urgenza; commodity, dove
si trasportano prodotti deperibili, animali vivi o carichi pericolosi; tradizionale, per le spedizioni
normali commerciali in containers o colli vari.

L’ASSICURAZIONE (anche sulle merci trasportate) si può definire come un contratto col quale l’assicuratore,
verso pagamento di un premio, si obbliga a rimborsare l’assicurato, nei limiti del contratto, del danno a lui
prodotto da un sinistro. Gli elementi del contratto assicurativo sono: il rischio, l’assicuratore, l’assicurato ed il
premio. Per quanto riguarda gli obblighi dell’assicurato, essi riguardano l’esatta descrizione del rischio, il
pagamento del premio, l’avviso del sinistro e il cercare di evitare o diminuire il danno. Per quanto riguarda gli
obblighi dell’assicuratore, invece, essi riguardano il pagamento della somma assicurata in caso di sinistro. I
termini, le clausole e le condizioni dei contratti di assicurazione sono omogenei e sono stati stabiliti a livello
internazionale; la polizza più comune è la ‘all risks’ che comprende tutte le perdite derivanti da cause esterne
fortuite con esclusione delle perdite che, per fatti naturali, sono inevitabili. Non copre rischi di guerra, guerra
civile, scioperi, rivoluzioni, ecc. Esistono tre principali tipi di documento assicurativo:
− la polizza di assicurazione, che è il vero documento assicurativo e che contiene tutti gli elementi
costitutivi del contratto di assicurazione;
− il certificato di assicurazione, che sostituisce a tutti gli effetti la polizza e della quale deve riportare
tutte le caratteristiche essenziali;
− la cover note (o polizzetta), un documento rilasciato dall’agente assicurativo che non ha alcun valore
in quanto non garantisce l’avvenuta stipula di una copertura assicurativa.
IL CERTIFICATO DI ORIGINE è un documento piuttosto frequente che certifica l’origine della merce in
questione. In alcuni casi non è agevole accettare la reale origine di un prodotto. Diciamo che come regola
generale è considerata come origine di un prodotto il paese dove quel prodotto ha subito
l’ultima trasformazione sostanziale cioè economicamente/commercialmente/strutturalmente rilevante.
Esistono altri documenti come per esempio il certificato di fumigazione (sottoposizione ad un trattamento che
serve ad eliminare eventuali parassiti nella merce stessa o nell’imballaggio), certificato di radioattività, lista dei
colli, ecc.
La figura contrattuale denominata franchising rientra nella più ampia categoria dei contratti di
distribuzione e può essere definita come un rapporto tra soggetti, tra loro autonomi e
indipendenti, ossia il franchisor ed il franchisee, con il quale viene
instaurata una collaborazione al fine di distribuire beni e/o servizi. Il franchisor è un’azienda
maggiore che concede al franchisee, azienda minore, il diritto di utilizzazione della sua immagine,
del suo marchio, della sua struttura organizzativa e commerciale e della sua rete distributiva, oltre
il know how commerciale. La natura del rapporto è dunque ‘mista’, poiché nella pratica raggruppa
le caratteristiche dei contratti di concessione di vendita e di licenza di know how e di marchio. Il
franchisee deve versare al franchisor, per l’utilizzo del marchio, del know how e della rete
distributiva ed organizzativa, un corrispettivo iniziale, quale diritto di entrata, e dei conferimenti
periodici. Si distingue dal franchising il contratto di concessione di vendita, con il quale il venditore
si impegna nei confronti del compratore nel non vendere la stessa merce in una determinata zona.

115
LE LICENZE DI BREVETTO E DI KNOW HOW hanno ad oggetto il trasferimento, da parte di un
licenziante, titolare appunto del brevetto o di un know how, di informazioni tecnologiche e dei diritti
di sfruttamento del brevetto ad un altro soggetto, il licenziatario, dietro corrispettivo. Le
conoscenze non sono divulgabili, dunque nel contratto andrà redatta una clausola di segretezza
(confidentiality), per impedire che il contenuto delle conoscenze tecniche sia diffuso. Ciò appare
utile per i paesi in via di sviluppo che possono utilizzare tecnologie già collaudate. Spesso vi è la
clausola di garanzia con la quale il licenziante assicura al licenziatario il raggiungimento degli
obiettivi desiderati. Il regolamento avviene attraverso il versamento di un corrispettivo (lump sum)
alla conclusione del contratto e delle cosiddette royalties, da calcolarsi in proporzione al fatturato
del licenziatario o in base ad altri parametri.

LA JOINT VENTURE è sostanzialmente un accordo di collaborazione con il quale è prevista la


creazione di una nuova società, controllata congiuntamente dalle imprese che hanno dato via al
rapporto, con percentuali di capitale non necessariamente paritetiche. In genere, una delle società
apporta tecnologia e know how, mentre il partner rende disponibile gli impianti industriali, le reti
di distribuzione e di relazioni e la conoscenza del mercato locale. Tra i vantaggi vi sono la
condivisione dei rischi; tra gli svantaggi il conseguente aumento della complessità gestionale e
organizzativa dell’azienda.

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PARTE SPECIALE - INNOVAZIONE DIGITALE E PROBLEMATICHE DI GESTIONE DI IMPRESA

1. Introduzione.
Le nuove tecnologie digitali ed Internet impongono anche al management un significativo cambiamento:
l’attenzione e l’analisi tendono a spostarsi dalla “creazione di valore nella singola impresa” alla
“creazione di valore nelle reti”. In tale contesto, il tema che suscita crescente attenzione nella gestione
di impresa diviene la massimizzazione dell’acquisizione di valore, generato in modo condiviso e
distribuito tra i diversi operatori[partners, tenendo in considerazione gli interessi non soltanto degli
azionisti, ma anche di tutti gli altri stakeholders. La globalizzazione degli scambi commerciali e dei
mercati, oltre a determinare un conseguente aumento dimensionale degli operatori economici, genera
pure un incremento dell’esposizione ai rischi. Così, anche il risk management diviene una funzione critica
del governo di impresa. Anche il progressivo diffondersi tra le persone dell’interconnessione attiva nel
web, prima tramite e[mail, chat, blog, e poi anche tramite social network, rafforza una nuova forma di
creazione condivisa e comunitaria del valore, alternativa ai tradizionali sistemi proprietari. Coesistono,
infatti, forme imprenditoriali di dimensione globale, ma di natura organizzativa significativamente
differente: imprese proprietarie, lucrative, fondate sul brevetto, quali la Microsoft; e istituzioni
comunitarie, non lucrative, fondate sull’apertura, come Wikipedia. Quindi, la stessa gestione d’impresa,
in passato incentrata sul prodotto, attualmente si sposta verso modelli di business nei quali prevale la
centralità dell’uomo.

2. Dalla creazione di valore all’acquisizione di valore.


L’impresa orientata al mercato, in passato, metteva a punto prodotti e servizi che, attuando una strategia
di differenziazione, erano acquisiti, utilizzati ed apprezzati dai clienti. La creazione di valore era tutta
interna all’impresa e era poi scambiata con i clienti, mediante transazioni economiche sui mercati: il
prodotto o servizio doveva essere ceduto a numerosi clienti (marketing transazionale). Tale logica
manageriale evolve verso una maggiore attenzione e cura del cliente: bisogna acquisire i clienti e fornire
loro molteplici prodotti e servizi (marketing relazionale). Il brand acquisisce maggiore rilevanza, in quanto
idoneo a ricondurre a unicità ed identità i diversi prodotti e servizi proposti dall’impresa, che agisce con
una strategia di diversificazione. In passato, tra l’impresa e i propri clienti era ben individuabile una linea
di demarcazione, che separava la prima, entità costituita, da un organo di governo ed una struttura
operativa caratterizzata da un certo grado di apertura verso l’ambiente, dai secondi, ovvero il mercato,
esterno alla stessa e raggiungibile, attraverso i canali distributivi. L’evoluzione tecnologica, con la
diffusione di Internet, ha generato nuove possibilità di delocalizzare all’esterno dell’impresa fasi sempre
più significative del processo di produzione, pertanto, le imprese che in passato incrementavano la
propria dimensione internalizzando funzioni ed attività, disaggregano le proprie attività nel mercato,
ripensando la catena del valore e riconfigurando nuove combinazioni di risorse, strutture e processi in
funzione della soddisfazione dei consumatori finali. Conseguentemente, la struttura operativa

interna all’impresa, mediante la diffusione dei fenomeni di outsourcing, si disperde all’esterno


dell’impresa in relazioni reticolari tra network di operatori. Per orientare l’impresa al successo, quindi,
l’organo di governo, oltre che avviare processi di outsourcing operativo, ripensa anche gli elementi
fondamentali di creazione di valore per il consumatore finale. Le attività generatrici di valore all’interno
delle singole imprese sono più agevolmente disaggregate nel mercato, mediante un processo di
“decentramento di specialità”, e viene ridefinita la combinazione ottimale degli apporti tra i potenziali
partner della rete, in funzione della soddisfazione per il consumatore finale, che diviene anche partner
della stessa rete: i fenomeni di integrazione verticale lasciano il campo agli accordi di collaborazione
orizzontali e le economie di scala fisica alle economie di scala da network.

117
Si evolve così la funzione di governo dell’impresa, con la possibilità di esternalizzare funzioni anche
strategiche, le cui condizioni di successo dipendono soprattutto dalla visione degli obiettivi e dalla fiducia
tra i singoli operatori. La tradizionale catena del valore si trasforma in rete del valore, nella quale agiscono
i diversi operatori economici, che orientano i propri obiettivi verso l’acquisizione di una parte del valore
prodotto in collaborazione con altri. Il compito attuale dell’impresa diviene quello di estrarre valore dai
mercati, monetizzando in modo efficiente le risorse prodotte anche con il contributo dei clienti, delle
comunità e della società intera.

3. La perdita di significatività del prezzo e la diffusione della gratuità.


Il passaggio dall’orientamento gestionale di marketing transazionale (one[to[many), fondato su forme di
creazione di valore interne all’impresa, da scambiare successivamente con i clienti, mediante transazioni
economiche sui mercati, verso quello di marketing relazionale (one[to[one), basato sull’attenzione e cura
del cliente, impone la diffusione di strategie di diversificazione, nelle quali le imprese propongono ai
clienti combinazioni di molteplici prodotti e servizi riconducibili ad unicità ed identità in quanto riferibili
ad un singolo brand. Il processo interattivo relazionale richiede la verifica del mantenimento delle
promesse nei momenti di erogazione del servizio, allo scopo di fidelizzare i clienti per un successo
aziendale duraturo. È evidente l’importanza acquisita progressivamente nel tempo dall’economia dei
servizi rispetto all’economia dei beni, dagli investimenti immateriali rispetto a quelli materiali, dal
vantaggio competitivo dell’accesso alle informazioni rispetto alla proprietà delle risorse fisiche. Sempre
più i prodotti contengono informazioni e conoscenza e meno materie prime. Anche i processi produttivi
sono rinnovati nei sistemi e negli strumenti operativi e gestionali, arricchendosi della risorsa
informazione, con riduzione accentuata dell’intervento di tipo ripetitivo dell’uomo. Nelle attività
economiche caratterizzate da una prevalenza della componente servizio, la presenza attiva del cliente
assume tale rilevanza, da far evolvere l’orientamento gestionale verso il marketing esperenziale, per cui
l’effettiva soddisfazione, conquista e fidelizzazione del cliente consiste nella possibilità di fargli vivere
un’esperienza talmente positiva, forte ed unica, da trasformarlo. Così lo stesso cliente diventa parte
attiva del processo di creazione del valore e l’orientamento gestionale conseguentemente si concentra
sulla quota di cliente, più che su quella di mercato. La rete del valore, in cui più operatori si organizzano
e concordano la ripartizione dei benefici, con il cliente posto al centro del sistema, sostituisce la catena
del valore. La diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione riduce l’incidenza dei costi di
transazione. Internet, infatti, è una rete che collega in tempo reale computer e server sparsi in tutti il
mondo, rendendo possibile una comunicazione bidirezionale di dati, voci ed immagini, in quanto
consente di depositare messaggi anche in assenza del destinatario realizzando una connettività continua
a costi decrescenti. La catena del valore è ridisegnata per configurare nuove aggregazioni di risorse,
strutture e processi, difficilmente classificabili nei classici confini settoriali e progettate in funzione della
soddisfazione del cliente. Le imprese, che tradizionalmente operavano in singoli settori, tendono a
fronteggiarsi in un’unica grande arena competitiva e si ritrovano a studiare opzioni di concorrenza o di
collaborazione con gli altri soggetti economici operanti in differenti business: fenomeni, ormai
innumerevoli, di sviluppo di accordi e reti tra imprese, di oursourcing, just in time, di franchising, di
leasing, rappresentano tutti le diverse implicazioni della medesima tendenza generale alla perdita di
peso materiale nell’economia. Si assiste, anche, alla dematerializzazione dell’informazione, ossia alla
separazione dell’informazione dalla sua precedente base materiale, con possibilità di diffondere e
trasferire l’informazione a costi molto bassi. Così, si afferma il concetto della first copy economy, in
quanto le tecnologie digitali tendono ad espandere i costi fissi necessari a produrre la master copy a
vantaggio della assoluta trascurabilità dei costi variabili attribuiti alla diffusione delle copie successive:
tale situazione è evidente, ad esempio, nelle imprese Internet, caratterizzate da una maggiore lega
operativa, punti di break-even generalmente posizionati su più elevati livelli d’attività e conseguente
maggiore esposizione ai rischi.

118
Inoltre, l’analisi del nuovo contesto ambientale conferma la diffusione di strategie imprenditoriali basate
sul proporre ai clienti insiemi e combinazioni di diversi prodotti e servizi, riconducibili ad unicità ed
identità in quanto riferibili al medesimo brand. In siffatte strategie di diversificazione, le politiche
promozionali di pacchetti compositi di prodotti e servizi non consentono più al cliente di identificare,
verificare e confrontare correttamente i singoli prezzi corrisposti per ciascun singolo bene o servizio. Ad
esempio, i voli verso talune destinazioni turistiche sono promossi con prezzi prossimi allo zero in quanto
i costi sono coperti da contributi di enti territoriali. I prezzi, allora, divengono sempre meno trasparenti
e confrontabili anche in relazione a personalizzazioni delle offerte che rendono eterogenee le proposte:
si pensi alle diverse operazioni di tariffe e soluzioni per la telefonia. Bisogna, inoltre, considerare che,
poiché uno dei principali bisogni degli esseri umani è quello di socializzare, l’interattività consentita da

Internet migliora il benessere di ciascun singolo individuo, quanti più individui ne fanno uso. Si pensi
all’incremento dell’utilità che è derivato dall’impiego del telefono, del fax, dell’e-mail e, attualmente, di
Skype o Facebook. La legge di Metcalfe, che spiega le esternalità positive di una rete, affermando che
“l’utilità di un network è pari al quadrato dei suoi utilizzatori”, è generalmente applicabile alle realtà
imprenditoriali del nuovo contesto economico e modifica anche il concetto di valore: si afferma la
strategia della gratuità, poiché facilitando la diffusione si crea valore, mentre la scarsità annulla il valore
che, invece, è generato dall’abbondanza e dalla diffusione. Siffatto contesto impone alle imprese
l’attuazione di strategie di crescita basate sulla leva prezzo, perseguibili mediante la realizzazione di
politiche di riduzione (low[cost) o annullamento del prezzo e di gratuità del servizio, necessarie a
raggiungere l’obiettivo della massimizzazione degli utenti, la cui numerosità aumenta il livello di servizio
ottenuto dai singoli: l’aumento degli utenti di Ebay massimizza gli esiti delle singole aste, così come la
numerosità di presenze su Google ottimizza i risultati delle ricerche. Le imprese sembrano vincolate ad
assumere dimensioni globali, in un ambiente che appare relativamente sempre più piccolo.

4. la condivisone dei benefici e dei rischi tra imprese e clienti

Le strategie di impresa orientate al low-cost sono rilevabili e si sono affermate in molteplici settori
economici, quale ad esempio, il settore turistico con le forme di advance booking diffusesi nelle
prenotazioni alberghiere o dei voli di trasferimento passeggeri. Si pensi alle offerte di biglietti di volo a
prezzi minimi: è evidente che il contesto ambientale di maggiore competizione impone alle compagnie
aeree una riduzione dei prezzi e, conseguentemente, una compressione dei margini di profitto e dei
rendimenti sui capitali investiti; pertanto, se vale il principio di relazione diretta tra rischio[rendimento,
ne deriva la necessità per il management di dover attuare azioni di governo finalizzate alla riduzione dei
rischi fronteggiati dall’impresa, in corrispondenza alla subita riduzione dei rendimenti. Tale riduzione dei
rischi è realizzata dalle imprese proprio mediante la diffusione delle vendite caratterizzate da tipologie
ridotte, applicate, ad esempio, a biglietti venduti con largo anticipo. Se in passato il rischio dell’invenduto
gravava interamente sulle compagnie aeree, che potevano permettersi di far volare aerei con posti
rimasti liberi e praticare tariffe più elevate, oggi le tariffe ridotte impongono di trasferire il rischio
dell’invenduto sui clienti; se, per assurdo, l’aereo viaggiasse vuoto, il costo sarebbe già stato coperto dai
clienti, ai quali è stato trasferito tale rischio. Analogamente, le possibilità di advance booking, a prezzi
notevolmente ridotti e accompagnate dalle clausole di onerosità dell’eventuale cancellazione, proposte
da numerosi operatori anche nel settore alberghiero, direttamente o attraverso portali di prenotazione
automatica, confermano l’affermazione delle politiche gestionali d’impresa orientate alla condivisione
con i clienti di valore e di rischi.

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Un altro esempio, emblematico della medesima tendenza alla condivisione di valori e rischi tra imprese
ed utenti, può rilevarsi nel settore della produzione e distribuzione della musica, come nel caso
“Sellaband”.
L’impresa opera per permettere a gruppi musicali emergenti di promuovere i nuovi brani, acquisire
notorietà ed accumulare il denaro necessario per registrare un album professionale; dove a tutti i gruppi
che riescono ad attrarre abbastanza clienti/investitori è offerto un produttore, uno studio di
registrazione e un A&R (Artist and Reportoire). Ai gruppi è richiesto di creare un profilo e caricare alcuni
loro brani dimostrativi per attrarre i sostenitori, che credendo in loro e nella loro musica, acquisiscono
partecipazioni a 10$ ciascuna; occorre che ogni artista riesca a vendere 5000 quote per poter registrare
e produrre il primo album. Nel caso in cui il gruppo su cui si investe non raggiungesse la soglia 50.000$,
in qualsiasi momento agli investitori è data di vedersi rimborsato il denaro o di poter dirottare le risorse
su altri artisti. Nel caso di registrazione, ai believers è donata una copia dell’album prodotto per ciascuna
partecipazione acquistata, ma è lasciata comunque la possibilità di rinunciare ai dischi in più ponendole
direttamente in vendita attraverso le pagine stesse del sito, per mezzo di un negozio on-line e ricevendo
in cambio il ricavato della vendita. Alcune delle canzoni del disco vengono poste in condivisione
gratuitamente, le altre possono essere acquistate separatamente o su CD.
L’analisi dettagliata del caso Sellaband può consentire di riscontrare gli ambiti gestionali più evidenti in
cui si realizza la logica di partecipazione degli utenti e di condivisione di rischi e benefici, con cui si sta
misurando la generalità delle imprese:
• Gli utenti partecipano attivamente alla fase di selezione dei prodotti (innovazione);

• Prima di essere clienti, essi sono anche investitori di risorse finanziarie, condividendo i rischi
dell’attività (finanza);

• Gli stessi si attivano per promuovere i prodotti migliori e favorirne la produzione (marketing).

Le esemplificazione proposte sono paradigmatiche dell’attuale più diffusa e generale tendenza, negli
orientamenti di governo delle imprese, a riscoprire l’importanza e la criticità delle tecniche relazionali
contrattuali e ad inglobare nella rete del valore anche i clienti finali, ai quali si cerca di trasferire maggiore
valore mediante la riduzione dei prezzi, chiamandoli pure a

condividere una politica di risk-sharing tra gli operatori che si relazionano. È evidente, in tale contesto, il
pericolo di una possibile propensione verso comportamenti opportunistici di moral hazard, lontani da
un’inclinazione etica dell’organo di governo. Così, la rete del valore distribuita tra numerose imprese
allarga il campo di interesse del management, che riscopre l’attualità delle conoscenze
tecnico[commerciali, ampliando l’oggetto d’indagine rilevante anche all’analisi delle modalità di
distribuzione dei rischi e del valore generato per il cliente, tra i diversi operatori.

5. la socializzazione delle attività d’impresa.

Se in passato le imprese programmavano attività e strategie finalizzate ad entrare nei mercati ed


affermarsi sottraendo quote di fatturato ai concorrenti, nell’attuale scenario ambientale esse
competono cercando di attrarre, fidelizzare ed internalizzare nella propria catena del valore i
clienti/utenti. Si affermano, così, le attività di brand community per mezzo di utenti che comunque
diffondono conoscenza e contribuiscono alla notorietà della marca e l’approccio gestionale di marketing
evolve verso forme non convenzionali di marketing tribale e virale. Pertanto, la centralità del cliente si
sostituisce a quella del prodotto; i consumatori sono pienamente coinvolti nel processo operativo
dell’impresa e divengono “prosumer”; l’impresa muove da forme di personalizzazione di massa, verso
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forme di condivisione e collaborazione basate sul file sharing, sul peering e sulla partecipazione attiva
degli utenti.
La classica distinzione concettuale tra gerarchia (interna ai confini dell’impresa) e mercato (esterno alla
stessa) tende ad attuarsi se non a ribaltarsi. La stessa fisionomia produttiva interna alle imprese,
nell’economia della conoscenza, non si basa più su input di proprietà aziendale, ma è fatta di risorse
immateriali, relazionali ed umane, ovvero di fattori unitari modulari riconducibili a singoli individui dotati
di computer personale ed interconnessioni alla rete in quanto persone sociali, anche indipendentemente
dall’impresa. La stessa assegnazione del premio Nobel dell’Economia 2009 al Williamson ed alla Ostrom
conferma l’attualità della problematica dualistica tra impresa[gerarchia e mercato[democrazia, che
sembra evolversi verso una riduzione di gerarchia all’interno dell’impresa ed un’accentuazione della
stessa all’esterno. La centralità degli utenti e delle persone è fondamentale nell’impresa post[moderna
attuale, fondata sulle risorse di conoscenza riflessiva, basata sull’exploration condivisa e collettiva delle
persone, piuttosto che sull’exploitation replicabile delle macchine: il passaggio dalla conoscenza
replicativa a quella riflessiva di estese comunità epistemiche di persone influisce sulle modalità di
creazione di valore. Tali comunità richiamano forme di conoscenza distribuita, riscontrabili nel mondo
animale, in cui i comportamenti dei singoli componenti assumono valenza a livello di gruppo, nel quale
si realizzano reti di scambio interattive tra individui che mantengono la propria specifica identità.
L’affermazione di imprese “proprietarie” alla Microsoft o Google denota una ridotta consapevolezza, da
parte degli utenti, del proprio ruolo e contributo. Allorché l’apporto degli utenti diviene fondamentale
per l’ottimizzazione delle funzionalità del servizio, il ruolo prevalente degli stessi tende a trasformarsi in
quello di fornitori maggiormente consapevoli del valore del proprio apporto, per i quali si pone il
problema della più equa e congrua remunerazione, che potrebbe non più coincidere con la mera gratuità
dell’accesso al servizio.
Le strategie di Google, orientate all’innovazione continua, rappresentano la conferma della necessità di
remunerare sempre meglio la collettività degli utenti mediante nuovi servizi, prevenendo possibili
migrazioni o eventuali pericolosi boicottaggi, con conseguente perdita di un fattore della produzione
altamente critico. Dunque, le imprese devono tener in adeguata considerazione il fatto che
consumatori/utenti si trasformano sempre più in fornitori e che altrove vanno ricercati nuovi clienti
disposti ad acquisire servizi a pagamento, generando i flussi finanziari in entrata, necessari alla
sopravvivenza dell’ente: i clienti principali di Google non sono gli utenti, ma le imprese titolari dei link
sponsorizzati o quelle che acquisiscono a pagamento le informazioni statistiche, così come i principiali
clienti delle compagnie aeree non sono i viaggiatori ma gli enti territoriali e/o le strutture turistiche e
alberghiere delle località servite.

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6. alcune considerazioni conclusive.

In generale, si può ritenere che l’innovazione digitale ed internet:

• Facilitando le relazioni tra soggetti, tendono ad agevolare processi di collaborazione tra imprese;

• Diffondono le collaborazioni tra imprese e facilitano le promozioni di combinazioni assortite di


prodotti e servizi offerti unitariamente a prezzi poco confrontabili (da transazionale a relazionale);

• Spingono, per la first copy economy, verso strutture imprenditoriali a maggior leva operativa e
conseguente maggiore rischio;
• Impongono, per le legge di Metcalfe, la crescita numerica degli utenti riconducibili ai progetti
imprenditoriali, mediante la riduzione o l’annullamento dei prezzi e l’affermazione dell’economia della
gratuità;
• Con la diffusione di strategie di low cost, riducono i rendimenti ed incrementano i livelli di rischio;

• Possono favorire comportamenti di moral hazard, indotti dalla possibilità di realizzare politiche
di risk sharing, trasferendo i rischi sugli utenti che partecipano al processo di creazione del valore;
• Avvicinano i clienti alle imprese fino ad inglobarli nella catena del valore, trasferendo loro
mansioni ed attività e trasformandoli in prosumer;
• Favorendo la partecipazione degli utenti, anche in forme di brand community, annullano i confini
dell’impresa, invertendo i ruoli e trasformando gli utenti stessi in fornitori delle informazioni di base,
necessarie a produrre conoscenza, da cedere a nuove categorie di clienti;
• Generano un nuovo dualismo tra il capitalismo proprietario orientato al profitto alla Microsoft o
Google e le organizzazioni “comunitarie” non profit alla Linux o Wikipedia strutturate in fondazioni, che
con una maggiore consapevolezza valorizzano il ruolo attivo e fondamentale degli utenti.
Circa le attuali modalità di creazione del valore, le imprese prediligono e tendono a concentrarsi sempre
più sulla gestione e controllo del rischio (risk management) in luogo della massimizzazione del
rendimento, che sembra vincolato dal contesto caratterizzato da forme di gratuità delle attività
economiche. In secondo luogo, i possibili eventi distruttivi di valore possono derivare da carenze
gestionali nel controllo del rischio, insito nelle strutture imprenditoriali connotate da elevata leva
operativa ed obbligate alla crescita dimensionale, allorché si perseguono strategie di low cost. Quindi,
aumentano le probabilità di minacce alla sopravvivenza delle imprese globali, basate sul tradizionale
assetto proprietario orientato al profitto, allorché gli utenti acquisiscano maggiore consapevolezza della
criticità e dell’elevato valore del proprio apporto. Infine, la collaborazione di massa nelle nuove istituzioni
imprenditoriali comunitarie impone una nuova centralità dell’uomo, orientato al benessere sociale ed
alla sostenibilità ambientale.

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