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I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE

Introduzione

Le piccole e medie imprese (d’ora innanzi, PMI) sono il perno dell’economia europea. In tutta l’Unione se ne
contano circa 23 milioni, che rappresentano il 99,8% del totale delle imprese e offrono impiego a circa 75
milioni di persone, pari al 67% dei posti di lavoro disponibili nel settore privato e all’80% dell’occupazione in
alcuni settori industriali quali la manifattura dei prodotti in metallo, l’edilizia e l’arredamento.

Questa situazione è perfettamente confermata anche in ambito nazionale. In Italia, infatti, su 4.338.766
imprese, ben 4.335.446, pari al 99,9%, sono PMI, artefici di oltre l’81% dei posti di lavoro e, nei settori
secondario e terziario, di ben il 72,4% del valore aggiunto prodotto .

Alla luce di questi dati, è evidente come le PMI rappresentino in Italia e in Europa una insostituibile risorsa,
un fondamentale elemento catalizzatore per il superamento della attuale crisi economica. Del resto, a
partire dal Consiglio Europeo di Lisbona, l’Unione Europea e gli Stati membri sono stabilmente impegnati
nel rilanciare l’economia interna attraverso politiche idonee a promuovere le potenzialità di crescita e di
occupazione delle PMI.

Ma cosa significa “crescita” per una piccola-media impresa? E quali sono i principali ostacoli?

Attraverso l’analisi della letteratura e di alcuni dati empirici, questo contributo vuole affrontare i menzionati
interrogativi, ponendo particolare attenzione al profilo culturale del problema.

Le dimensioni della piccola-media impresa

La nozione di piccola-media impresa è oggetto di particolare attenzione da parte della Commissione


Europea fin dai primi anni Novanta. In un mercato unico, senza frontiere interne, infatti, è essenziale che le
politiche a favore delle PMI si fondino su una definizione comune, sia per migliorare la loro coerenza ed
efficacia, sia per limitare le occasioni di distorsione della concorrenza, data la evidente interazione fra i
requisiti delle PMI e la possibilità, per le organizzazioni che li soddisfano, di accedere alle misure e alle
agevolazioni comunitarie e nazionali volte a promuoverne e ad assisterne lo sviluppo.

La prima definizione comunitaria di piccola media impresa risale al 1996, quando la Commissione Europea
l’ha adottata con Raccomandazione n. 96/208/CE, sollecitando alla sua adozione non solo gli Stati membri,
ma anche la Banca Europea degli Investimenti e il Fondo Europeo per gli Investimenti.

Da allora, tale definizione è stata ampiamente applicata sia in ambito comunitario, sia nei diversi contesti
nazionali, ma ha anche mostrato diverse debolezze, lasciando spazio sia ad alcune difficoltà interpretative,
sia alle pratiche elusive di alcuni gruppi imprenditoriali sostanzialmente di grandi dimensioni, nonostante la
riconducibilità al concetto di piccola-media impresa delle singole entità aziendali componenti.

Nel 2003, tali criticità hanno indotto la Commissione Europea a rivedere la nozione di piccola-media
impresa. La nuova definizione, contenuta nella Raccomandazione n. 03/361/CE ed entrata in vigore dal 1°
gennaio 2005, prevede che una impresa possa essere considerata di piccole-medie dimensioni se soddisfa,
contemporaneamente, tre requisiti :

1) requisito di autonomia;

2) requisito occupazionale;

3) requisito finanziario.

Una impresa è definita “autonoma” se non è né associata né collegata, ovvero se non controlla altre
imprese e non è controllata da altre imprese, direttamente o indirettamente . Se la prima condizione è
rispettata, gli altri due parametri, di ordine dimensionale, identificano una impresa come:
1) “media impresa” se, contemporaneamente:

a) occupa meno di 250 persone;

b) ha un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro o un attivo patrimoniale non superiore a
43 milioni di euro;

2) “piccola impresa” se, contemporaneamente:

a) occupa meno di 50 persone;

b) ha un fatturato annuo o un attivo patrimoniale non superiore a 10 milioni di euro;

3) “microimpresa” se, contemporaneamente:

a) occupa meno di 10 persone;

b) ha un fatturato annuo o un attivo patrimoniale non superiore a 2 milioni di euro.

Approfondendo i dati esposti nell’introduzione, il vero motore dell’economia europea è costituito dalle
microimprese: esse rappresentano il 91,5% di tutte le imprese dell’Unione, seguite dalle piccole imprese,
pari al 7,3%, dalle medie imprese, pari all’1%, e dalle grandi imprese, appena lo 0,2% del

b) una impresa ha il diritto di nominare o revocare la maggio-ranza dei membri del consiglio di
amministrazione, direzione o sorveglianza di un’altra impresa;

c) una impresa ha il diritto di esercitare una infl uenza dominan-te su un’altra impresa in virtù di una
clausola contrattuale o statutaria.

Eccezionalmente, le disposizioni comunitarie in materia di PMI ammettono che una impresa possa essere
defi nita autonoma anche se viene raggiunta o superata la soglia del 25% prevista per il vincolo di
associazione qualora nella compagine societaria siano presenti specifi che e tassativamente indicate
categorie di investitori (quali, ad esempio, investitori istituzionali, Università o Centri di Ricerca senza scopo
di lucro, ecc.), a condizione però che tali investitori non siano individualmente o congiuntamente collegati
con l’impresa in questione.

totale . Una situazione sostanzialmente analoga si ripropone, peraltro, anche a livello nazionale, dove le
microimprese sono il 94,90% di tutte le imprese, seguite dalle piccole imprese, pari al 4,52%, dalle medie
imprese, pari allo 0,50%, e dalle grandi imprese, solo lo 0,08% del totale .

Il punto di vista della letteratura economica

Nel corso degli anni, le opportunità di crescita della piccola-media impresa sono state diversamente
interpretate dalla letteratura economica, come condizioni imprescindibili per la sopravvivenza dell’impresa
stessa o, viceversa, come fattori di disturbo alla sua flessibilità.

La prima impostazione, che trova legittimazione nei classici contributi di Rostow (1960), Chandler (1962),
McGuire (1963), Greiner (1972), sottende una visione della piccola impresa non come realtà autonoma, ma
come fase di un percorso pressoché naturale e ineluttabile di crescita, alla luce del quale la piccola impresa
può solo svilupparsi dimensionalmente o, in alternativa, estinguersi.

La seconda impostazione, invece, risale agli anni Settanta, quando la crisi economica e le difficoltà
manifestate da molte grandi imprese nella gestione delle rispettive strutture organizzative, divenute troppo
imponenti e burocratizzate, condussero alla rivalutazione della piccola impresa come la configurazione
organizzativa dotata di maggiore flessibilità e, pertanto, particolarmente idonea a operare in un contesto
socio-economico sempre più complesso e turbolento (Schumacher, 1973).

Ad oggi, entrambe le menzionate impostazioni “estreme” possono ritenersi superate. A partire dagli anni
Ottanta, infatti, ha preso forma una terza impostazione, che riconosce la piccola e la media impresa come
realtà stabili e autonome, con caratteristiche, elementi strutturali e meccanismi gestionali tipici e distintivi
(Churchill e Lewis, 1983; ISTUD, 1999). Quest’ultima interpretazione teorico-dottrinale, peraltro, trova
evidente riscontro nell’attuale sistema economico-imprenditoriale italiano e comunitario, di cui, come
sopra accennato, le PMI sono indubbiamente l’asse portante. Il pregiudizio più evidente dell’approccio
classico, quello di considerare la piccola e la media impresa come semplici fasi di passaggio verso la grande
dimensione, è pertanto abbattuto. Ma, allo stesso tempo, appaiono in via di superamento anche i limiti
delle teorie degli anni Settanta, dove, dietro allo slogan “piccolo è bello”, si nascondeva spesso il timore di
crescere della piccola impresa, per mancanza di competenze e risorse adeguate da parte dell’imprenditore.

Nel contesto socio-economico contemporaneo, dove la globalizzazione dei mercati e la rapidità


dell’evoluzione tecnologica rendono la concorrenza sempre più agguerrita e i rapporti fra gli operatori
economici (fornitori, clienti, investitori, ecc.) sempre più articolati e tumultuosi, pensare alla piccola e alla
media impresa come a organizzazioni “immobili” è certamente fuorviante. La piccola-media impresa
virtuosa, capace di affrontare le continue sfide del mercato e di conquistare una propria nicchia in cui
operare, non è una realtà che resta sempre uguale a se stessa in un mondo che cambia, ma, al contrario,
un’organizzazione che, pur mantenendo dimensioni quantitativamente ridotte, individua e percorre altre
strade per crescere e affermarsi.

Le modalità di crescita: quantitativa e qualitativa

La piccola impresa può svilupparsi sotto due profili: quantitativo e qualitativo (Boldizzoni, 1985).

Lo sviluppo quantitativo si realizza per linee interne, attraverso processi di integrazione orizzontale e/o
verticale e il conseguente incremento di investimenti, fatturato, dipendenti, ecc., conducendo la piccola
impresa verso la medio-grande dimensione. Si tratta, evidentemente, della alternativa di crescita più
classica, l’unica ritenuta possibile fi no agli anni Settanta.

A partire dagli anni Ottanta, invece, ha trovato via via crescente affermazione la modalità di sviluppo
qualitativa, o per linee esterne, fondata sulla interazione fra catene del valore di PMI diverse che, a vario
titolo, decidono di cooperare fra loro pur restando giuridicamente autonome (Lorenzoni, 1990).

Questa seconda alternativa affonda le proprie radici nella crisi delle forme organizzative più tradizionali
(Arcari, 2004): da un lato, la gerarchia, con le sue strutture organizzative ciclopiche, troppo ingessate e
burocratizzate per rispondere in modo tempestivo e adeguato agli stimoli di un contesto socio-economico
in continua evoluzione, e dall’altro, il mercato, con i suoi costi di transazione non sempre trascurabili. La
rete, collocandosi come forma organizzativa intermedia, è un intreccio di risorse e competenze interne ed
esterne che, se opportunamente calibrato, consente alla piccola-media impresa di realizzare le proprie
business idea anche in condizioni di bassa propensione al rischio e di carenza di capitali e know-how

specifici, usufruendo dei vantaggi della integrazione e della differenziazione senza perdere la propria

flessibilità (Lorenzoni, 1990).

Le forme tecniche mediante le quali una rete può svilupparsi sono assai numerose ed eterogenee, in
continua evoluzione e non sempre formalizzate; per questo, la crescita per linee esterne, a differenza della
crescita per linee interne, non è sempre facilmente riconoscibile. Tuttavia, per delineare meglio i contorni
del fenomeno, il mercato e la gerarchia possono essere considerate come due soluzioni organizzative poste
ai vertici di un continuum, all’interno del quale la rete, secondo le specifiche modalità di sviluppo, può
collocarsi di volta in volta più o meno vicino all’uno o all’altro estremo (Arcari, 2004). Le principali variabili
del “problema” sono:

1) il grado di coesione giuridica;

2) il grado di formalizzazione dell’accordo.

Il primo parametro concerne la presenza e l’intensità dei vincoli di carattere proprietario (Arcari, 2004;
Brunetti, 1987; Cucchi, Scuriatti, 1992).

Quanto maggiore è la cointeressenza proprietaria sottostante alla rete, tanto più il collegamento e il
coordinamento fra le imprese giuridicamente autonome sono garantiti dai vincoli di partecipazione; ad
esempio, sono reti proprietarie quelle fondate su una holding, su accordi di joint venture, su partecipazioni
incrociate, ecc. In questi casi, nell’ambito della rete, le prerogative di amministrazione e controllo spettanti
alla maggioranza proprietaria fanno le veci, più o meno intensamente, dei vincoli gerarchici che
garantiscono l’ordine organizzativo e operativo all’interno di ogni singola impresa.

Viceversa, se la cointeressenza proprietaria è insignificante, o addirittura inesistente, la connessione tra le


imprese del network deve essere assicurata da altre forme di coordinamento, di natura contrattuale e non;
sono reti non proprietarie i consorzi, i gruppi di acquisto, i distretti, ecc.

Il secondo parametro, invece, riguarda le modalità di definizione dell’accordo (Boldizzoni, Serio, 1996).
Possono sussistere accordi di natura contrattuale, dove il coordinamento fra le imprese è garantito da un
contratto scritto, o accordi informali, fondati su norme sociali o aspettative reciproche non
contrattualmente garantite.

Sia il rapporto di cointeressenza proprietaria, sia il grado di formalizzazione dell’accordo possono essere più
o meno consistenti.

Ovviamente, le reti più stabili, con un forte e durevole rapporto di coordinamento fra le imprese
partecipanti, sono quelle caratterizzate dai vincoli proprietari e contrattuali più intensi. Le principali
fattispecie che rispondono a questi requisiti sono riportate nella tavola 1, quadrante I; tali forme di crescita
per linee esterne sono state particolarmente apprezzate e implementate dalle imprese italiane negli anni
Ottanta (Boldizzoni, Mariani, Signorelli, 1993), in concomitanza all’affermarsi dell’esigenza di nuove forme
di sviluppo, alternative alle tradizionali integrazioni verticali e orizzontali ma comunque ben strutturate.

Viceversa, quando i vincoli proprietari e contrattuali sono labili o addirittura inesistenti (cfr. tavola 1,
quadrante III), il grado di coordinamento intrinseco e di stabilità del network è molto modesto. In questi
casi, il buon esito dell’iniziativa dipende dalla coesione strategica della rete, ovvero dalla concreta
condivisione di obiettivi comuni fra le imprese partecipanti. Evidentemente, però, la condivisione di
obiettivi comuni, specie se riguarda imprese in potenziale o effettiva concorrenza, è una condizione
instabile, suscettibile di mutamenti signifi cativi e repentini, idonei ad alterare in modo altrettanto rilevante
e improvviso gli equilibri, ed eventualmente la stessa sopravvivenza, del network. Le forme di crescita per
linee esterne meno stabili, durevoli e intense, proprio per la loro maggiore fl essibilità rispetto ai rapporti
organizzativi meglio strutturati, hanno iniziato ad essere apprezzate e ad affermarsi a partire dagli anni
Novanta (Boldizzoni, Mariani, Signorelli, 1993).

Tav. 1: Mappa delle principali modalità di crescita per linee esterne delle PMI

La classifi cazione proposta nella tavola 1, però, non deve trarre in inganno: come ogni modello, aiuta a
individuare i tratti salienti del fenomeno, ma non riesce a coglierne appieno né le caratteristiche, né le
tendenze evolutive. Il principale limite dei contributi scientifi ci sullo sviluppo della piccola-media impresa
affermatisi fi no agli anni Settanta, del resto, risiede proprio nel loro carattere normativo (Arcari, 1999;
ISTUD, 1999), nella loro volontà di defi nire un percorso di crescita comune a tutte le imprese, con fasi e
modalità ben precise, che però solo occasionalmente ha trovato riscontro nella realtà.

La letteratura contemporanea, supportata dalle ricerche empiriche più recenti, è tendenzialmente unanime
nel ritenere che la dimensione sia un «fatto unico per ogni azienda, che si confi gura diversamente per
effetto del diverso combinarsi di differenti fattori, sia interni che esterni», con la conseguente impossibilità
di «assolutizzare le caratteristiche e i tempi di sviluppo delle PMI» (Arcari, 1999, pag. 18).

Innanzitutto, lo sviluppo di una impresa non è rigorosamente vincolato alla sua dimensione: può
certamente avvenire attraverso l’espansione dimensionale, ma non necessariamente deve essere fi
nalizzato ad essa. L’espansione dimensionale, infatti, non è né il fi ne ultimo né lo strumento ineluttabile
dello sviluppo di un’impresa, ma piuttosto può costituire l’effetto del miglioramento delle sue condizioni
strutturali, strategiche e operative; lo sviluppo, pertanto, deve essere più propriamente inteso non sotto il
profi lo dimensionale, ma come maturazione orientata alla ricerca di un equilibrio armonico fra il raggio di
azione dell’impresa e il suo contesto socio-economico (Centro Studi Confi ndustria - Doxa, 2001).

Lo sviluppo, inoltre, è un percorso diffi cilmente decifrabile poiché non è lineare, ma caratterizzato da
notevoli discontinuità, da momenti di evoluzione incrementale, a piccoli passi, e da fasi rivoluzionarie, che
cambiano radicalmente l’assetto dell’impresa (ISTUD, 1999).

Infi ne, le possibili forme di sviluppo, oltre ad essere, come già precedentemente illustrato, numerose,
eterogenee, talvolta nebulose nei contorni e diffi cilmente riconoscibili, possono anche coesistere e
combinarsi fra loro nei modi più vari, rendendo il fenomeno ancora più articolato e incerto.

Un percorso a ostacoli

Le diffi coltà e le incertezze, purtroppo, non caratterizzano solo le analisi degli studiosi che osservano il
fenomeno dall’esterno; spesso, sono le stesse PMI ad avere, più o meno consapevolmente, delle diffi coltà
di sviluppo, che, se particolarmente intense, possono anche comprometterne la sopravvivenza.

Del resto, soprattutto le piccole imprese, proprio a causa delle ridotte dimensioni, sono tendenzialmente
affette da una insuffi cienza strutturale di risorse, che le rende particolarmente vulnerabili alle pressioni dei
fattori ambientali (Arcari, 1999); per loro, pertanto, i tentativi di sviluppo possono facilmente tradursi in
veri e propri percorsi a ostacoli.

Da una recente studio sulla realtà di alcune PMI della Provincia di Forlì-Cesena, ad esempio, è emerso che
nel triennio 2004-2006 la crescita aziendale ha rappresentato un obiettivo strategico per l’88,6% delle
imprese intervistate, che nel 75% dei casi è stato anche raggiunto, ma non senza diffi coltà . Solo l’8,9%
delle imprese partecipanti all’indagine, infatti, ha dichiarato di non avere incontrato alcun ostacolo al
proprio sviluppo; negli altri casi, invece, sono stati rilevati diversi fattori di intralcio, sia esterni sia interni
alle imprese.

Gli ostacoli di natura esterna

Diversi fattori di ostacolo alla crescita delle

PMI intervistate sono di natura esterna (cfr. tavola 2), ovvero traggono origine dal contesto socio-
economico di riferimento.

Una prima, rilevante barriera allo sviluppo è imputabile alla maturità o al declino dei mercati di riferimento,
che affl igge il 48,8% delle imprese intervistate.

A questa si affi anca la pressione competitiva dei concorrenti, avvertita come fattore critico nell’11,6% dei
casi e ovviamente ritenuta particolarmente dannosa quando scaturisce dalle aziende dell’economia
sommersa, che proprio grazie al loro stato di irregolarità possono trarre indebiti vantaggi da un netto taglio
dei costi di gestione (oneri fi scali e previdenziali, costi amministrativi, costi per la formazione del personale
e la sicurezza sul lavoro, costi per le certifi cazioni di qualità dei prodotti e dei processi, ecc.).

Un altro potente freno allo sviluppo, avvertito in modo pressoché unanime da tutte le imprese coinvolte
nella ricerca, è l’insuffi cienza delle iniziative e degli strumenti a sostegno della imprenditorialità e
dell’innovazione. Le PMI intervistate, in particolare, lamentano il peso eccessivo della pressione fi scale e
degli adempimenti burocratici imposti dagli enti locali e da altre istituzioni e, contemporaneamente, la
scarsa sensibilità delle medesime istituzioni alle loro esigenze ed istanze: precisamente, i servizi e le
infrastrutture giudicati più carenti riguardano la formazione del personale, il supporto tecnico allo sviluppo
delle idee imprenditoriali, la viabilità e i trasporti, la disponibilità di aree adeguatamente attrezzate per gli
insediamenti produttivi.

Tav. 2: I principali fattori esterni che ostacolano la crescita delle PMI

Frequenza percentuale delle imprese intervistate che

considerano l’ostacolo come

fattore rilevante

1) Maturità o declino dei mercati di riferimento 48,80%

2) Pressione competitiva dei concorrenti, comprese le aziende

sommerse 11,60%

3) Peso eccessivo della pressione fi scale e degli adempimenti burocratici 65,90%

4) Insuffi cienza dei servizi e delle strutture a sostegno della

imprenditorialità e dell’innovazione

4.a) Formazione del personale 68,20%

4.b) Supporto tecnico allo sviluppo delle idee imprenditoriali 54,50%

4.c) Viabilità e trasporti 47,70%

4.d) Disponibilità di aree adeguatamente attrezzate per gli insediamenti produttivi 29,50%

Gli ostacoli di natura eterogenea

Alcuni ostacoli alla crescita possono avere natura eterogenea, ovvero trovare diverse, importanti concause
sia all’interno che all’esterno dell’impresa; essi, pertanto, non derivano solo dagli aspetti di vulnerabilità
dell’impresa o dalle debolezze del contesto socio-economico di riferimento, ma dall’operare congiunto
degli uni e delle altre e dalle conseguenti diffi coltà di relazione fra l’impresa e l’ambiente esterno.

Rientra in questo ambito, ad esempio, il problema della mancanza di risorse umane qualifi cate, che
riguarda in primo luogo gli operai specializzati e i tecnici ed è stato segnalato come particolarmente grave
dal 25,6% delle imprese intervistate (cfr. tavola 3). La questione, in realtà, si estende anche alle
competenze gestionali, ma in modo solo marginale, perché, come sarà meglio illustrato nel paragrafo 5.3,
nelle PMI le funzioni manageriali sono spesso appannaggio esclusivo dell’imprenditore (o dei soci), dei suoi
(loro) familiari ed eventualmente di pochi, strettissimi collaboratori e, anche per questo, le stesse PMI sono
consapevoli di rappresentare una domanda assai limitata e scarsamente competitiva rispetto alle grandi
aziende, dove le fi gure dirigenziali possono normalmente contare su prospettive di crescita professionale
decisamente migliori.
La sempre crescente mancanza di risorse umane qualifi cate trova certamente la propria causa primaria
all’esterno dell’impresa, ovvero nel sempre più evidente scollamento fra il mondo dell’istruzione
secondaria e della formazione professionale e le effettive esigenze del mondo produttivo. Tuttavia, nella
realtà delle PMI, considerata la limitatezza delle risorse fi nanziarie tipicamente connessa alla minore
dimensione, le diffi coltà a reperire le necessarie competenze specialistiche possono talvolta essere
accentuate anche da criticità interne, ovvero dalla scarsa capacità di attrarre le professionalità migliori
offrendo una adeguata remunerazione, percorsi formativi specifi ci, concrete e rilevanti opportunità di
carriera.

Di fatto, quando una impresa è molto piccola, può incontrare diffi coltà di sviluppo proprio a causa della sua
stessa dimensione (Centro Studi Confi ndustria - Doxa, 2001). Nel nostro Paese, infatti, il sistema creditizio è
improntato a principi di estrema prudenza e le banche, di norma, valutano l’affi dabilità di una impresa non
in base alla “bontà” dell’idea imprenditoriale e alle sue reali opportunità di sviluppo, ma in funzione della
solidità patrimoniale. Ne consegue che, evidentemente, se un’impresa non può contare su idonee garanzie
di terzi o su una struttura patrimoniale già suffi cientemente solida, diffi cilmente può accedere al credito e
le sue reali prospettive di crescita restano pertanto contenute, poiché la carenza di risorse fi nanziarie
comporta inevitabili limitazioni agli investimenti in infrastrutture, ricerca, know-how, tecnologie, ecc.

Come prevedibile, anche le PMI intervistate rilevano fra i principali ostacoli alla crescita l’insuffi cienza delle
risorse fi nanziarie disponibili (cfr. tavola 3), alla quale assai di frequente scelgono di porre rimedio
attraverso aumenti di capitale sociale . Il fatto che, nonostante la loro particolare solidità patrimoniale, le
imprese intervistate dichiarino di preferire non di rado il ricorso all’autofi nanziamento piuttosto che
all’indebitamento a medio-lungo termine lascia intendere come, anche nella Provincia di Forlì-Cesena, sia
pure in misura certamente meno pregnante rispetto ad altre aree del Paese, sussistano signifi cativi margini
di miglioramento del rapporto fra gli istituti di credito e il tessuto imprenditoriale, nel senso di una
auspicabile maggiore disponibilità delle banche a supportare fi nanziariamente le attività produttive a
condizioni (garanzie richieste, tassi di interesse, tempi e modalità di accensione e rimborso dei prestiti, ecc.)
non troppo onerose11.

Laddove scaturisce da limitazioni proprie del sistema creditizio, evidentemente, la carenza di risorse fi
nanziarie tipica delle PMI deve essere certamente interpretata come un ostacolo alla crescita di tipo
esterno. Tale carenza, però, può affondare le proprie radici anche in circostanze interne all’impresa, quali
ad esempio la scarsa attrattività del progetto imprenditoriale, che pertanto non è idoneo ad attirare
investimenti neppure a titolo di capitale proprio, o eventuali diffi coltà di autofi nanziamento mediante gli
utili, che a loro volta possono trarre origine da cause interne, come la scarsa lungimiranza della gestione, o
esterne, come una riduzione del margine operativo dovuto a un aumento dei costi delle materie prime o a
un forte concorrenza sul fronte dei prezzi.

Tav. 3: I principali fattori di natura eterogenea (esterna e interna) che ostacolano la crescita delle PMI

Frequenza percentuale delle imprese intervistate che considerano l’ostacolo come fattore

rilevante

1) Mancanza di risorse umane qualifi cate 25,60%

2) Insuffi cienza delle risorse fi nanziarie disponibili 14,00%

Gli ostacoli di natura interna

Gli ostacoli alla crescita di natura interna, ovvero quelli che trovano la propria origine negli aspetti di
vulnerabilità propri dell’impresa, sono certamente i più diffi cili da indagare: ogni organizzazione, infatti,
fatica a riconoscere e ad ammettere i propri limiti, essendo certamente più facile addebitare eventuali diffi
coltà della gestione a cause esterne. E, questo, evidentemente, è tanto più vero quanto più l’impresa è
piccola e il suo governo è affi dato a poche persone, che pertanto vivono un legame particolarmente
simbiotico con le vicende aziendali.

Nell’ambito della ricerca condotta nella Provincia di Forlì-Cesena, il 9,3% delle imprese intervistate ha
riconosciuto quale ostacolo interno alla crescita aziendale la erroneità di alcune scelte strategiche e
organizzative (cfr. tavola 4).

Tav. 4: I principali fattori di natura interna che ostacolano la crescita delle PMI

Frequenza percentuale delle imprese intervistate che

considerano l’ostacolo come

fattore rilevante

Erroneità di alcune scelte strategiche e organizzative 9,30%

All’origine di questa constatazione, è facile individuare la fonte primaria di qualsiasi, rilevante criticità
aziendale di origine interna: l’ineffi cienza e l’ineffi cacia delle scelte di gestione.

Infatti, come l’economista Penrose evidenziava già alla fi ne degli anni Cinquanta (Penrose, 1959), le
competenze economico-manageriali e le capacità gestionali degli organi direttivi rappresentano
indubbiamente un fattore critico di successo per qualsiasi impresa, poiché sono alla base della defi nizione
e della attuazione delle strategie aziendali. E, ovviamente, le PMI non fanno eccezione: anzi, in ambito
internazionale, diversi studi dimostrano come il know-how specifi co degli organi di governo sia la pietra
miliare del successo di tante imprese di minori dimensioni (Ghosh, Kwan, 1996; Wijewardena, Cooray,
1996) e, all’opposto, il declino di molte PMI sia imputabile proprio alla inadeguatezza degli organi direttivi
(Haswell, Holmes, 1989; Gaskill, Van Auken, Manning, 1993).

Anche nelle piccole e piccolissime imprese italiane, del resto, uno dei maggiori limiti allo sviluppo è
frequentemente riconducibile proprio alla carenza di una adeguata cultura di impresa da parte degli organi
direttivi, spesso coincidenti con la proprietà. Il piccolo imprenditore, che ha fondato la propria impresa e da
anni la conduce più in base alle proprie intuizioni che a competenze economico-manageriali specifi che, può
facilmente peccare di una certa incapacità a indirizzare la gestione secondo un coerente ed effi cace
orientamento strategico, focalizzandosi piuttosto sulla routine giornaliera, nella speranza che l’evoluzione
del contesto socio-economico di riferimento non comprometta gli equilibri raggiunti.

Dietro a questa miopia gestionale si celano, evidentemente, anche ragioni di ordine psicologico. Non di
rado, infatti, il piccolo imprenditore tende a identifi carsi nella propria impresa e incontra, pertanto,
notevoli diffi coltà all’idea di “separarsi”, anche solo minimamente, da essa: per questo, pur non
disponendo in proprio delle risorse materiali e conoscitive necessarie per una gestione effi ciente ed effi
cace, può non essere disposto a condividere la direzione aziendale con altri, anche a costo di soffocare, così
facendo, le potenzialità di sviluppo della stessa impresa.

Problematiche sostanzialmente analoghe affl iggono, del resto, anche le piccole imprese famigliari: la
volontà nepotistica di coinvolgere nella gestione solo membri della famiglia, a prescindere dalle loro
concrete attitudini e competenze e anche a costo di rinunciare a fi gure professionali fondamentali, e di
conservare all’interno della stretta cerchia parentale l’intera proprietà aziendale, anche a rischio della
sottocapitalizzazione, è evidentemente ostativa di qualsiasi percorso di sviluppo, sia per linee esterne, a
causa della aperta ostilità verso qualsiasi entità estranea, sia per linee interne, in relazione alla inevitabile
carenza di capitali e risorse umane.

Sistemi di governance e prospettive di sviluppo


L’ottusa avversione allo sviluppo e il conseguente desiderio di mantenere lo status quo in un ambiente
socio-economico in continua evoluzione non preservano automaticamente l’impresa da qualsiasi
trasformazione: talvolta, può accadere che la decisione di mantenere l’assetto di piccola o media impresa
venga disattesa per effetto di scelte prese nella prospettiva di gestire la continuità, ma che di fatto
introducono dei cambiamenti nella struttura dell’impresa stessa. Un’evoluzione che conduce cambiamenti
sul piano quali-quantitativo delle dimensioni aziendali, infatti, «può essere intrapresa con piena
consapevolezza oppure percorsa per forza di inerzia». In questo secondo caso, la crescita viene “subita”,
con il «rischio di ingigantire le strutture e di irrigidirle (crescita quantitativa), oppure di introdurre novità
nell’assetto della formula imprenditoriale che non si è in grado di gestire (crescita qualitativa),
pregiudicando, in defi nitiva, il successo reddituale e competitivo dell’impresa» (Arcari, 1999, pagg. 25-26).

Per un’impresa, sia pure piccola, restare immobile in un mondo che cambia è sostanzialmente impossibile,
se non al prezzo di ritrovarsi ai margini del mercato. Pertanto, se è vero che la crescita dimensionale della
piccola-media impresa, contrariamente a quanto ritenevano le più tradizionali teorie sul tema, non è
indispensabile per la sua sopravvivenza, certamente, invece, la sua sopravvivenza non può prescindere
dalla sua propensione allo sviluppo, inteso come capacità di fornire adeguate risposte strategiche ai
mutamenti quali-quantitativi del contesto socio-economico di riferimento.

La consapevolezza della sua importanza è certamente un presupposto fondamentale affi nché il percorso di
sviluppo possa, nei singoli casi, essere deliberatamente e appropriatamente intrapreso; come illustrato nel
paragrafo precedente, infatti, fra le barriere allo sviluppo più forti e diffuse, le PMI italiane annoverano
certamente quelle di ordine culturale.

Innanzitutto, accanto alle competenze specialistiche di settore, le PMI devono sforzarsi di sviluppare anche
adeguate competenze economico-manageriali, per evitare l’eccessivo ricorso all’imitazione, all’intuito e
all’esperienza a favore di decisioni razionali fondate su criteri economicoaziendali (Arcari, 1999, 2004). Solo
implementando adeguati sistemi di controllo manageriale, infatti, è possibile individuare le alternative di
sviluppo più idonee per la specifi ca impresa “in relazione alla loro sostenibilità economico-fi nanziaria e al
loro impatto sulla capacità competitiva nel breve, medio e lungo termine” e dare loro congrua attuazione,
monitorando in itinere le scelte iniziali e apportando tempestivamente, laddove necessario, tutti gli
opportuni interventi correttivi.

Specialmente se le necessarie competenze non possono essere sviluppate in proprio, gli imprenditori
devono anche imparare a rinunciare alla gestione accentrata del potere, affi dandosi a manager e a
professionisti con competenze specifi che, eventualmente estranei al nucleo familiare, prediligendo nella
selezione la qualità della formazione e del know-how al vincolo parentale (Boldizzoni, Mariani, Signorelli,
1993; ISTUD, 1999).

Un altro suggerimento, forte, che arriva dagli studiosi è quello di promuovere nelle PMI un maggior grado
di formalizzazione e di regolamentazione delle strutture di governance e dei rapporti di proprietà
(Boldizzoni, Serio, 2000; Sezzi, 2005). Una impresa fortemente centrata sulla fi gura dell’imprenditore e sul
suo pressoché esclusivo patrimonio conoscitivo non solo è fortemente vincolata nel proprio sviluppo,
sostanzialmente affi dato alla sensibilità e alle competenze di una sola persona, ma è anche esposta a
notevoli insidie in fase di successione imprenditoriale. Il ciclo di vita di una impresa di questo tipo, infatti, è
saldamente agganciato alla naturale evoluzione umana dell’imprenditore e, pertanto, rischia facilmente il
declino in concomitanza alla naturale conclusione del suo impegno professionale e alle possibili diffi coltà di
attuazione di un valido ricambio generazionale (ad esempio, per l’assenza di eredi, per contrasti fra
generazioni differenti all’interno del nucleo familiare, per un passaggio di consegne incompleto o tardivo,
ecc.).

Conclusioni
Lo sviluppo delle PMI è un fenomeno molto complesso, che si compone di molteplici concause,
sfaccettature, implicazioni. Di fatto, si può dire che ogni impresa ha un proprio percorso di crescita, che diffi
cilmente si presta ad essere racchiuso all’interno di schemi teorici prestabiliti.

Un dato, però, emerge con forza sia dall’approfondimento teorico, sia dalla analisi empirica: nel nostro
Paese, la crescita delle PMI è spesso ostacolata anche da barriere di ordine culturale. La promozione di una
adeguata “cultura d’impresa”, pertanto, è un fattore critico di successo che merita particolare attenzione.

Come sopra illustrato, le imprese di minori dimensioni sono frequentemente centrate sulla fi gura
dell’imprenditore e sulle sue specifi che competenze tecniche, che normalmente si riferiscono al prodotto e
al processo produttivo (Centro Studi Confi ndustria - Doxa, 2001). Una impresa di successo, però, necessita
anche di competenze economico-manageriali, inerenti alle funzioni di organizzazione, orientamento
strategico, gestione fi nanziaria, marketing, logistica, ecc. Per assicurarle concrete prospettive di continuità
e sviluppo, pertanto, il piccolo imprenditore deve garantire alla propria impresa tutte le risorse conoscitive
necessarie, tecniche ed economico-manageriali, anche ricorrendo, per gli aspetti che non riesce a curare in
prima persona, all’ausilio di altri soggetti (soci, manager di professione, collaboratori, consulenti esterni,
ecc.), capaci di supportarlo nelle decisioni e nelle attività aziendali.

Certamente, però, l’imprenditore non può es-

sere lasciato da solo in questo percorso di maturazione. La cultura d’impresa, infatti, non è una questione
interna, che riguarda solo l’imprenditore, ma una esigenza che richiama a precise responsabilità tutte le
istituzioni che ruotano attorno all’impresa.

Per potere crescere, una impresa ha bisogno di creare valide e stabili relazioni con diversi soggetti: gli enti
di formazione (in particolare, le università e le scuole secondarie), le altre imprese, gli istituti di credito, le
amministrazioni pubbliche, le associazioni di categoria, ecc.

Il mondo della formazione, innanzitutto, deve imparare ad avvicinarsi alla piccola e media impresa
preparando le fi gure professionali di cui questa concretamente necessita, sia a livello tecnico, sia a livello
dirigenziale. Una piccola-media impresa deve confrontarsi con problematiche specifi che e risorse
inevitabilmente più limitate rispetto a una grande impresa e, pertanto, necessita di fi gure professionali
apposite, che sappiano rispondere alle sue esigenze senza gravare in modo sproporzionato sul suo budget.
Ad esempio, i manager hanno normalmente un know-how dimensionato sulle grandi aziende e tale
specializzazione comporta costi particolarmente ingenti, che una piccola-media impresa non può
affrontare: una piccolamedia impresa, pertanto, deve poter trovare fi gure dirigenziali su misura per lei, che
abbiano competenze e, di rifl esso, anche costi parametrati alle sue effettive esigenze e disponibilità
economiche.

La piccola impresa ha anche un particolare interesse a sviluppare buone relazioni con le altre imprese che
operano nel suo stesso ambito settoriale ed, eventualmente, territoriale:

• con le imprese di grandi dimensioni, di cui spesso la piccola-media impresa è satellite, allo scopo di
rafforzare e migliorare la propria posizione di impresa fornitrice;

• con le imprese di dimensioni analoghe, con cui la piccola-media impresa può instaurare importanti
forme di collaborazione: è proprio nell’ambito dei distretti industriali, infatti, che le imprese di minori
dimensioni, sfruttando le sinergie organizzative e gestionali derivanti dalla cooperazione, riescono
frequentemente a raggiungere una eccellente capacità competitiva e a realizzare le migliori performance
reddituali .

I rapporti delle PMI con il sistema fi nanziario sono evidentemente fondamentali per l’accesso ai capitali. Le
banche e gli istituti di credito devono imparare a supportare maggiormente la crescita delle PMI rendendo
il loro accesso ai fi nanziamenti meno oneroso e diffi coltoso, maturando una “nuova cultura” per la
valutazione della affi dabilità che tenga in debita considerazione non solo la solidità patrimoniale delle
aziende, ma anche la validità delle idee imprenditoriali.

Anche il ruolo centrale delle amministrazioni pubbliche nel sostegno alle PMI è assolutamente fuori
discussione. Su questo fronte, sono indispensabili politiche mirate, idonee a creare un contesto socio-
economico fertile per lo sviluppo di nuove idee imprenditoriali, nonché per il rafforzamento della
competitività e delle prospettive di crescita delle imprese già esistenti. L’azione pubblica deve ovviamente
esprimersi in varie forme, quali opportuni interventi normativi, investimenti in infrastrutture e servizi,
iniziative concrete a sostegno della produzione e dei consumi, ecc., e deve ovviamente interessare tutti i
campi ove le PMI riscontrano le maggiori criticità, quali i trasporti e la viabilità, la semplifi cazione
burocratica, la legislazione fi scale e del lavoro, la difesa della legalità e la lotta alle imprese irregolari, la
scuola e la formazione professionale, il sistema fi nanziario e creditizio, ecc.

Infi ne, una posizione in prima linea spetta indubbiamente alle associazioni di categoria.

Considerate le limitate risorse materiali, umane e conoscitive su cui può tipicamente contare, la singola
piccola-media impresa incontra spesso notevoli e oggettive diffi coltà, e talvolta anche una scarsa
convenienza immediata, a tessere valide relazioni con le istituzioni locali, le banche, gli enti di formazione,
le altre imprese (eventualmente estere), ecc.

Le associazioni di categoria, pertanto, possono e devono supportare le PMI in due direzioni. Da una parte,
devono affi ancare i piccoli e medi imprenditori nelle loro scelte e attività quotidiane, attraverso appropriati
servizi di informazione, consulenza, formazione e aggiornamento professionale. Dall’altra, devono farsi
portavoce delle esigenze e delle istanze della categoria nei confronti della politica, delle amministrazioni
pubbliche, degli istituti di credito, dei sindacati, delle altre imprese e, in generale, di tutti i più importanti
stakeholder, promuovendo così la creazione delle condizioni ambientali, relazionali e culturali che
rappresentano i presupposti essenziali per la competitività e la crescita delle PMI e, di rifl esso, dell’intero
sistema economico.

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