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DEMM
Università del Sannio

APPUNTI DI
ECONOMIA POLITICA

Appunti delle lezioni di


Fondamenti di Economia politica
di Emiliano Brancaccio

SESTA VERSIONE

Gennaio 2016
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Questi Appunti di Economia politica rappresentano sbobinamenti e stralci dalle lezioni di


Fondamenti di Economia politica del prof. Emiliano Brancaccio, coadiuvato dal Prof.
Domenico Suppa. Gli Appunti potrebbero contenere alcuni refusi e imprecisioni.

Questo testo integra ma non sostituisce i manuali di riferimento Scoprire la


macroeconomia e Anti-Blanchard.

Ai fini dell’esame, è opportuno rispettare questa sequenza nell’apprendimento: in primo


luogo studiare i capitoli 1, 2, 3 e 4 degli Appunti di Economia politica; quindi studiare il
manuale Scoprire la macroeconomia, affiancato dal capitolo 5 di questi Appunti e dal
manuale Anti-Blanchard.

Ulteriori informazioni su www.emilianobrancaccio.it/didattica.


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INDICE

1. CENNI DI STORIA DELL’ECONOMIA POLITICA


1.1 Un approccio critico alla economia politica
1.2 Gli economisti classici
1.3 Karl Marx
1.4 L’approccio neoclassico-marginalista
1.5 La Grande Crisi e Keynes
1.6 La Sintesi neoclassica e il nuovo mainstream
1.7 Per una critica della teoria economica mainstream

2. MICROECONOMIA NEOCLASSICA
2.1 La teoria neoclassica della scelta razionale individuale: il caso del
consumatore
2.2 Il vincolo di bilancio del consumatore
2.3 Utilità, ordinamento delle preferenze e curve di indifferenza
2.4 La scelta del consumatore
2.5 La curva di domanda individuale
2.6 Il surplus del consumatore
2.7 La variazione della domanda individuale rispetto al reddito
2.8 Dalla curva di domanda individuale alla curva di domanda di mercato
2.9 La teoria neoclassica dell'impresa
2.10 La massimizzazione del profitto dell'impresa
2.11 L'impresa in concorrenza perfetta
2.12 Rappresentazione grafica dell'equilibrio ottimale dell'impresa
2.13 Domanda, offerta ed equilibrio del mercato di concorrenza perfetta
2.14 L'elasticità della domanda rispetto al prezzo
2.15 Instabilità dell’equilibrio e modello della ragnatela
2.16 Speculazione e instabilità
2.17 Monopolio e concorrenza monopolistica
2.18 Oligopolio
2.19 Scatola di Edgeworth, efficienza ed equità
2.20 Impresa pubblica e privatizzazioni
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3. MACROECONOMIA NEOCLASSICA

3.1 Dalla microeconomia alla macroeconomia neoclassica


3.2 La domanda di lavoro
3.3 L’offerta di lavoro
3.4 L’equilibrio del mercato del lavoro
3.5 Dal mercato del lavoro al mercato dei beni
3.6 La teoria quantitativa della moneta
3.7 Il sistema di equazioni del modello macroeconomico neoclassico
3.8 La crisi di fiducia secondo i neoclassici

4. DISPENSE INTEGRATIVE DEL


MANUALE DI BLANCHARD
4.1 Una specificazione del modello di determinazione della produzione
4.2 Il paradosso del risparmio
4.3 Spesa pubblica, tassazione e teorema di Haavelmo
4.4 Il finanziamento del disavanzo pubblico e il Trattato di Maastricht
4.5 La politica monetaria e il Trattato di Maastricht
4.6 Politica monetaria e speculazione
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CENNI DI STORIA
DELL’ECONOMIA POLITICA

1.1 Un approccio critico all’economia politica

Perché alcuni paesi hanno visto crescere il loro reddito più rapidamente di altri?
Per quale motivo negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a una caduta della quota
di reddito spettante ai lavoratori salariati? E’ vero che la diffusione dei contratti
“precari” ha contribuito a ridurre la disoccupazione? Quali sono le cause della
crisi economica mondiale esplosa nel 2008? Perché la crisi ha colpito in misura
particolarmente accentuata i paesi della cosiddetta zona euro? La libertà degli
scambi internazionali di merci e di capitali tra paesi favorisce lo sviluppo o può
essere fonte di instabilità economica? Per uscire dalla crisi occorre affidarsi alle
cosiddette forze spontanee del mercato o c’è bisogno di un maggiore intervento
pubblico nell’economia?

L’economia politica prova a rispondere a queste e a molte altre domande. Si tratta


di questioni cruciali, che riguardano il vissuto quotidiano della stragrande
maggioranza della popolazione e dalle quali in larga misura dipendono le
condizioni dello sviluppo economico, del benessere collettivo e
dell’emancipazione civile.

A questo tipo di domande si risponde spesso con dei luoghi comuni. Per esempio,
è un convincimento diffuso che gli Stati Uniti rappresentino il paese del “sogno
americano”, dove anche la persona più umile, se sufficientemente abile e
volenterosa, può raggiungere le più alte vette della scala sociale. Ma le cose
stanno davvero così? Il grafico posto qui di seguito mostra i tassi di “immobilità
sociale” calcolati dall’OCSE per alcuni paesi. La misura rappresenta in un certo
senso un indice della probabilità che può avere un individuo di situarsi in una
posizione sociale analoga a quella della famiglia di origine. Essa cioè misura il
peso della classe sociale di provenienza sui destini di ciascun individuo. Più alto è
l’indice, più è probabile che un figlio, al di là dei meriti o demeriti individuali, si
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ritrovi nella stessa posizione sociale dei genitori: il figlio di operai diventa
operaio, il figlio di professionisti diventa professionista. Ebbene, contrariamente
ai luoghi comuni sul “sogno americano”, si può notare che gli Stati Uniti si
caratterizzano per un elevato tasso di “immobilità sociale”. Peggio degli USA
fanno soltanto il Regno Unito e, purtroppo, l’Italia.

Un altro tipico luogo comune è quello secondo cui il Nord Europa è più
produttivo perché si lavora di più, mentre nel Sud Europa mancherebbe una
radicata “cultura del lavoro”. Abbiamo più volte ascoltato questa opinione nei
dibattiti sulla crisi dell’Unione monetaria europea. Ma quali sono i dati effettivi?
Il grafico seguente riporta i dati OCSE 2008 sul numero medio annuo di ore di
lavoro procapite in vari paesi. Ebbene, è interessante notare che mentre un
lavoratore tedesco eroga in media 1430 ore annue, un lavoratore italiano ne fa
registrare 1802, e un greco arriva addirittura a 2120 ore annue. Evidentemente,
quindi, le divergenze economiche tra i paesi del Nord e i paesi del Sud Europa che
si sono verificate in questi anni, non si spiegano con il maggiore o minore carico
annuo di ore erogate dai rispettivi lavoratori.
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Un'altra idea piuttosto diffusa è che le difficoltà dell’Italia dipenderebbero da una


eccessiva presenza del settore pubblico all’interno dell’economia. Troppi
dipendenti pubblici, troppa spesa sanitaria pubblica, e così via. In base a questa
opinione, vi è chi propone di ridurre le assunzioni pubbliche e di privatizzare il
settore sanitario ed altri servizi attualmente erogati dallo Stato. In realtà, come
spesso accade, i dati rivelano una situazione più controversa. E’ pur vero che in
alcuni settori e in alcune zone i servizi pubblici nazionali risultano scarsamente
efficienti e con personale eccedente. Ma è altrettanto vero che in molti altri settori
dello Stato il problema è esattamente opposto: pochi finanziamenti e poco
personale rispetto alle esigenze del servizio. Le difficoltà dunque sembrano
derivare da una errata allocazione e da un errato impiego delle risorse, non da un
eccesso di risorse erogate. Del resto, sul piano quantitativo, se messa a confronto
con altri paesi avanzati, l’Italia si caratterizza per un numero non particolarmente
elevato di dipendenti pubblici in rapporto alla popolazione attiva e per una bassa
spesa sanitaria in rapporto alla produzione nazionale. Si vedano in tal senso i
seguenti grafici:
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Occupati sett. pubbl./pop. attiva Spesa sanitaria in rapporto al PIL


(fonte: ILO media 2000-2009) (OCSE 2009)
30 20
25
15
20
15
10
10
5 5
0
0
USA FRA GER SVE GB OCSE ITA

Un’altra idea ricorrente in questi anni è stata quella secondo cui rendere più facili
i licenziamenti indurrebbe le imprese ad assumere più lavoratori e quindi
contribuirebbe a ridurre la disoccupazione. I dati OCSE tuttavia non confermano
questa opinione. Il grafico seguente, tratto dall’appendice all’Anti-Blanchard,
riporta sulle ascisse il grado di tutele dei lavoratori, incluse le tutele contro i
licenziamenti, e sulle ordinate il tasso di disoccupazione. Ogni punto corrisponde
a un paese OCSE. Si vede chiaramente che non c’è correlazione statistica tra
minori tutele e minore disoccupazione: diversi paesi registrano alte tutele e
bassa disoccupazione, e diversi altri basse tutele e alta disoccupazione.

I Fonte: D. Suppa, Appendice a E. Brancaccio, Anti-Blanchard, Franco Angeli 2016


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Ed ancora, in Italia negli ultimi anni si è sviluppato un intenso dibattito sulla


disponibilità o meno dei giovani a cercare lavoro. Alcuni economisti, nel ruolo di
ministri della Repubblica, hanno varie volte rimarcato la scarsa disponibilità degli
italiani, specialmente dei più giovani, ad entrare nel mercato del lavoro. Il
ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa parlò in questo senso di
“bamboccioni”. La ministra del Lavoro Elsa Fornero, più di recente, ha utilizzato
l’appellativo di “choosy”, che in inglese sta per “schizzinosi”. I due ministri, in
termini più o meno espliciti, suggerivano in sostanza che l’elevata disoccupazione
che si registra in Italia sia in misura significativa da imputare a una scarsa
disponibilità ad accettare un lavoro, soprattutto da parte dei più giovani. Ora,
che alcuni individui siano scarsamente propensi ad accettare un lavoro è facile da
ammettere. Il problema, tuttavia, è capire se tali valutazioni riescano a cogliere un
comportamento quantitativamente rilevante. In effetti i dati sembrano sollevare
dei dubbi sul grado di generalità delle valutazioni dei due ministri. Consideriamo
il tasso di posti di lavoro vacanti, calcolato periodicamente dall’ISTAT con
riferimento alle imprese industriali e di servizi con almeno 10 dipendenti. Questo
tasso indica il numero di posti di lavoro disponibili diviso per il totale dei posti di
lavoro, sia disponibili che già occupati. Alla fine del 2012, per esempio, il tasso di
posti vacanti era pari allo 0,5%. Sapendo che il numero totale di posti esistenti
nelle imprese considerate è pari a circa 7,5 milioni di unità, si può calcolare il
numero di posti vacanti disponibili: (0,5%)x7.500.000 = 37.500 posti vacanti
disponibili nelle imprese dell’industria e dei servizi con più di dieci dipendenti.
Per provare a trarre un dato più generale, facciamo ora l’ipotesi semplificatrice
che il tasso di posti vacanti nelle imprese industriali e di servizi con almeno 10
dipendenti possa valere a grandi linee per l’intera economia. Considerato che il
numero dei posti totali esistenti si aggira intorno a 23 milioni di unità, possiamo
effettuare una semplice proporzione (7.500.000:37.500=23.000.000:x) e supporre
che i posti vacanti totali in Italia siano circa 115.000. Consideriamo adesso il
totale dei disoccupati italiani: alla fine del 2012 erano 2 milioni 875 mila. Tra
questi, i giovani disoccupati nella fascia di età tra 15 e 24 anni erano 606.000.
Possiamo quindi affermare che alla fine del 2012 il numero di posti di lavoro
vacanti, in Italia, non doveva esser molto più del 4% del totale dei disoccupati e
del 19% del totale dei giovani disoccupati. Dunque, anche ammettendo che i
disoccupati avessero le qualifiche necessarie per svolgere le mansioni richieste, è
evidente che i posti disponibili erano di gran lunga inferiori al numero di
persone in cerca di lavoro. I dati evidenziano insomma che il problema della
disoccupazione è in primo luogo un problema di pochi posti disponibili. Imputarlo
a una scarsa disponibilità a lavorare da parte degli italiani, in particolare dei più
giovani, è quantomeno riduttivo. Del resto, l’idea che i giovani italiani siano
“choosy” entra in contrasto anche con altre evidenze. La Banca d’Italia, per
esempio, ha recentemente rilevato che i giovani laureati italiani tra 24 e 35 anni
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che hanno accettato lavori a bassa qualifica rispetto ai titoli di studio conseguiti,
sono il 40% del totale, contro appena il 18% in Germania.

Gli esempi di luoghi comuni messi in discussione dalle analisi dei dati sono
innumerevoli e potremmo proseguire a lungo. I casi menzionati sono comunque
già sufficienti per chiarire che, attraverso la raccolta dei dati e la loro corretta
interpretazione, l’economia politica può contribuire a valutare criticamente
certe semplificazioni, a sfatare dei “miti”, e può aiutarci a comprendere meglio
le caratteristiche della complessa realtà sociale che ci circonda.

E’ bene chiarire che lo sforzo di superamento dei luoghi comuni in campo


economico non è giustificato solo dalla necessità di esaminare correttamente
l’andamento delle variabili di stretta pertinenza economica. L’economia politica
ricade infatti su moltissimi altri aspetti della vita sociale. Le variabili economiche
possono esercitare un’influenza sui più svariati comportamenti umani. Basti
pensare alle correlazioni esistenti tra disoccupazione e suicidio, tra povertà e
criminalità, tra partecipazione delle donne al lavoro ed emancipazione socio-
culturale di un paese, tra disuguaglianza sociale e rigidità delle norme morali, e
così via.

La rilevanza della economia politica è dunque evidente. Ma quale potrebbe essere


una definizione rigorosa di questa disciplina? In termini del tutto preliminari,
possiamo affermare che l’economia politica indaga sui modi in cui una società si
organizza per affrontare le seguenti quattro questioni fondamentali: come
produrre, cosa produrre, quanto produrre e come distribuire ciò che si è
prodotto.

Tale definizione è molto generica, e in questi termini risulta compatibile con


qualsiasi indagine economica. Tuttavia nel corso di queste lezioni avremo modo
di approfondire il suo significato e scopriremo che ogni scuola di pensiero
economico tende a interpretarla in modo particolare. A questo proposito è
importante comprendere che esistono diverse teorie riguardo al funzionamento
dell’economia contemporanea. E quindi esistono anche diversi tipi di manuali
attraverso i quali l’economia viene insegnata.

I manuali oggigiorno più diffusi sono quelli realizzati da alcuni noti economisti
americani. Basti citare, per esempio, i testi di Paul Samuelson, Gregory Mankiw,
Joseph Stiglitz, Olivier Blanchard, tra gli altri. Si tratta di libri indubbiamente
molto apprezzati, sia per la ricchezza di contenuti che per la immediatezza del
linguaggio. Tuttavia questi testi presentano un limite: troppo spesso essi danno
agli studenti la sensazione che esista una sola rappresentazione possibile della
realtà economica, vale a dire una sola teoria, un solo “modello” universalmente
accettato dalla comunità degli studiosi.
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Ma l’idea che per ogni fenomeno della realtà esista un solo modello interpretativo
è contraddetta dal fatto che, in tutti i campi di ricerca, ingenti risorse umane e
materiali vengono dedicate alla continua verifica dei diversi modelli esistenti, al
fine di valutare quale di essi sia maggiormente in grado di interpretare i fatti
concreti. Questo è vero in fisica, in chimica, in biologia, ma lo è ancora di più
nell’ambito dell’economia politica, dove i contrasti tra i ricercatori sulla teoria da
preferire sono particolarmente accentuati. Lo studente deve pertanto comprendere
che il più delle volte l’economia si presenta come un luogo concettuale di contesa
tra interpretazioni alternative della realtà che ci circonda. Una contesa
necessaria proprio per l’avanzamento della conoscenza scientifica.

In questo senso, come vedremo, per tutto il corso della trattazione verranno messi
a confronto due indirizzi alternativi di ricerca. Da un lato analizzeremo le versioni
passate e presenti del cosiddetto approccio mainstream, cioè dell’approccio
attualmente dominante. Il manuale “Scoprire la macroeconomia”, di Olivier
Blanchard, costituisce appunto un esempio di questo approccio. Dall’altro lato
studieremo il cosiddetto approccio critico, che prende spunto dalle opere di Karl
Marx, John Maynard Keynes, Piero Sraffa, Wassily Leontief e molti altri per
criticare l’impianto concettuale dell’approccio dominante e per indicare una
diversa interpretazione dei fatti economici e sociali.

I due indirizzi di ricerca menzionati forniscono, come vedremo, diverse


interpretazioni del funzionamento di un’economia capitalistica. Per esempio, essi
suggeriscono due diverse chiavi di lettura della grave crisi economica mondiale
che è esplosa nel 2008 e che in molti paesi non è stata ancora superata.
L’approccio mainstream, come vedremo, si sofferma soprattutto su una
interpretazione della crisi di tipo finanziario: le banche avrebbero erogato troppi
prestiti a soggetti che non erano in grado di onorare i debiti. L’approccio critico,
pur ammettendo l’esistenza di problemi di natura finanziaria, ritiene che la crisi
sia stata provocata da una serie più complessa di fattori, tra cui anche una
trentennale riduzione della quota di reddito nazionale spettante ai salari.
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Durante questo corso approfondiremo i temi dell’economia politica cercando


sempre di confrontare i punti di vista delle diverse scuole di pensiero. Adotteremo
a questo scopo un approccio allo studio della materia di tipo storico-critico, ossia
basato sull’analisi della evoluzione storica del pensiero economico e delle relative
controversie tra gli economisti. Cominceremo pertanto dallo studio degli
economisti classici e di Marx. Quindi passeremo allo studio della teoria
microeconomica e macroeconomica neoclassica. In seguito esamineremo la
grande crisi e il pensiero di Keynes. Giungeremo così alla cosiddetta sintesi
neoclassica e al mainstream di Blanchard, la teoria economica oggi dominante.
Infine, nell’Anti-Blanchard, sottoporremo a critica il mainstream.

1.2 Gli economisti classici

In genere si ritiene che la nascita di una vera e propria scienza economica sia
avvenuta tra il 1760 e il 1830, ossia a cavallo di quella prima Rivoluzione
industriale che in Inghilterra e in altri paesi creò le basi per il superamento
definitivo del vecchio modo di produzione feudale e per la piena affermazione
del nuovo modo di produzione capitalistico. Il modo di produzione feudale era
infatti caratterizzato da economie radicate sulla terra di proprietà dei signori
feudali, chiuse in sé stesse, con pochi scambi commerciali verso l’esterno. Erano
economie in cui non esisteva un mercato del lavoro: i contadini erano “servi della
gleba” legati da un rapporto particolare alla terra del feudo, e avevano scarse
possibilità di movimento da un territorio all’altro. Con l’avvento del capitalismo
le cose cambiano. Il modo di produzione capitalistico si basa sull’applicazione
all’agricoltura e poi alla manifattura di nuove tecniche e nuovi mezzi di
produzione. Si tratta di un sistema in cui la classe dei capitalisti detiene il
controllo dei mezzi di produzione, mentre la classe dei lavoratori non è più
“serva” dei signori. I lavoratori infatti diventano almeno formalmente liberi: essi
si presentano sul mercato offrendo ai capitalisti la propria forza lavoro in cambio
di un salario. Il modo capitalistico è anche un sistema tendenzialmente aperto,
orientato agli scambi e alla competizione.

Durante la prima Rivoluzione industriale si assiste a un grande processo di


innovazione tecnologica, di allargamento dei mercati, di concentrazione dei
capitali, di trasformazione di larghe masse di lavoratori in operai salariati e di
aumento generalizzato della scala della produzione e della circolazione delle
merci. Tali trasformazioni economiche sono accompagnate anche da importanti
cambiamenti negli assetti sociali e politici. In questa fase si registra infatti il
relativo declino politico della classe aristocratica dei proprietari terrieri e prende
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avvio l’ascesa sociale e politica di una nuova classe di soggetti, quella dei
capitalisti proprietari delle moderne imprese agricole e industriali.

Il successo dei capitalisti porta a una nuova concezione dello Stato: non più
espressione degli interessi del sovrano e dell’aristocrazia fondiaria, l’autorità
statale viene chiamata a favorire lo sviluppo del capitale. Nuovo scopo del potere
politico è dunque di salvaguardare gli interessi della nuova classe capitalista
emergente, in contrapposizione alle istanze provenienti dalla classe dei proprietari
terrieri.

E’ esattamente in questi scenari che avviene la pubblicazione delle fondamentali


opere di due studiosi considerati i padri fondatori della scienza economica
moderna: lo scozzese Adam Smith, autore della Ricchezza delle nazioni del 1776;
e l’inglese David Ricardo, autore dei Principi di economia politica e della
tassazione del 1817. Smith e Ricardo sono considerati i massimi esponenti della
cosiddetta economia classica. Gli economisti classici risultano in larga parte
sostenitori del cosiddetto liberismo, o “laissez-faire”. A grandi linee il liberismo è
quella dottrina politica basata sull’idea che per favorire lo sviluppo economico e
la crescita del benessere di tutti si debbano liberare le forze del mercato dai lacci
dell’autorità statale, cioè si debba “lasciar fare” ai capitalisti privati. Sia pure
seguendo ragionamenti molto articolati e con diversi accenti e sfumature, Smith e
Ricardo in definitiva sostengono le tesi liberiste. Essi infatti ritengono che ci si
dovrebbe affidare prevalentemente alle forze spontanee del mercato e della
concorrenza tra le imprese private, senza inutili vincoli o intromissioni da parte
dello Stato.

A questo proposito, Smith elabora il cosiddetto “teorema della mano invisibile”.


Secondo questo “teorema” gli individui agiscono nel libero mercato guidati dal
loro egoismo personale, ma proprio seguendo i loro interessi particolari essi
inconsapevolmente contribuiscono allo sviluppo economico complessivo, e quindi
finiscono per servire l’interesse di tutti. Scrive Smith che «ciascuno è condotto da
una mano invisibile a promuovere un fine che non era parte delle proprie
intenzioni». Le forze del mercato rappresentano cioè una “mano invisibile” che
guida i singoli individui egoisti a compiere il bene comune dello sviluppo
economico. In questo senso egli aggiunge che «non è dalla benevolenza del
macellaio, del birraio o del fornaio che ci dobbiamo aspettare la cena, ma dal fatto
che essi perseguono il proprio interesse». Il motivo per cui secondo Smith il
“teorema” funziona è che i capitalisti proprietari delle imprese, in concorrenza tra
loro, cercheranno di prevalere gli uni sugli altri producendo esattamente le merci
che i consumatori desiderano. Inoltre, i capitalisti cercheranno di adottare i metodi
produttivi più efficienti al fine di ridurre al minimo i costi, ed essere quindi più
competitivi rispetto ai diretti concorrenti. La riduzione dei costi farà sì che le
merci siano vendute ai prezzi più bassi possibili, il che garantirà sviluppo e
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benessere diffuso. A grandi linee, sono questi i motivi per cui secondo Smith è
bene lasciare che le forze del mercato e della concorrenza siano tendenzialmente
lasciate libere di operare.

La visione liberista verrà poi applicata da David Ricardo anche al caso dei
rapporti internazionali. Per Ricardo occorre infatti salvaguardare le libertà di
mercato non soltanto quando si considerino i singoli capitalisti in concorrenza tra
loro, ma anche quando si tratti di nazioni che competono negli scambi
commerciali. Ricardo quindi era non soltanto un fautore del liberismo ma anche
del “liberoscambismo”. Egli cioè non era semplicemente un sostenitore della
libera competizione tra le imprese e tra i singoli individui, ma sosteneva anche il
libero scambio tra paesi. Egli elaborò in questo senso il famoso “teorema dei
vantaggi comparati”. Questo teorema ci dice che il libero scambio di merci tra
paesi è sempre vantaggioso per tutti. Infatti, anche se un paese fosse il più
efficiente di tutti nella produzione di qualsiasi merce, gli converrebbe comunque
concentrarsi nella produzione delle merci in cui sia relativamente più efficiente,
mentre dovrebbe lasciare la produzione delle restanti merci agli altri paesi. In
quest’ottica anche l’Inghilterra, il paese all’epoca più avanzato dal punto di vista
tecnico, avrebbe tratto benefici se avesse rinunciato a produrre tutte le merci
all’interno e ne avesse importate alcune dall’estero. Ricardo sostenne dunque che
l’Inghilterra avrebbe dovuto specializzarsi nella produzione e nella esportazione
di manufatti industriali, mentre avrebbe dovuto importare grano dagli altri paesi.
Il consiglio che Ricardo dava all’Inghilterra era quindi di abbandonare il
protezionismo commerciale, cioè di rinunciare ai dazi con i quali il paese cercava
di proteggere l’agricoltura nazionale dalla importazione di grano proveniente
dall’estero. I dazi erano sostenuti dai proprietari fondiari inglesi, che
guadagnavano dalla produzione di grano sui loro terreni. La tesi di Ricardo era
dunque politicamente ostile ai proprietari terrieri inglesi, mentre rifletteva gli
interessi dei capitalisti industriali del paese. Ma per Ricardo gli interessi dei
capitalisti industriali coincidevano con quelli di tutto il paese. A suo avviso la
classe dei proprietari terrieri rappresentava un ostacolo allo sviluppo economico.
Il paese doveva quindi abbandonare le protezioni, specializzarsi nella manifattura
e aprirsi agli scambi internazionali.

Gli economisti classici offrivano quindi una interpretazione sostanzialmente


positiva del capitalismo e delle leggi della concorrenza che lo governavano, a
livello sia nazionale che internazionale. Essi talvolta definivano l’equilibrio
concorrenziale determinato dalle forze del mercato con l’appellativo di
“equilibrio naturale”. Lasciando operare le forze del mercato, sia all’interno sia
negli scambi con l’estero, si sarebbe raggiunto l’equilibrio “naturale” del sistema.
Con questa espressione essi sembravano voler dare l’idea che il capitalismo si
sviluppasse secondo “leggi naturali”, ossia in un certo senso armoniche ed
eterne.
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I classici tuttavia non nascondevano gli elementi di conflitto insiti nella società
capitalista. Non a caso Smith e Ricardo ritenevano che la società fosse divisa in
classi sociali: i proprietari terrieri, i capitalisti e i lavoratori. In varie circostanze
essi riconobbero che le classi sociali hanno interessi irriducibilmente contrapposti
tra loro. Ricardo, in particolare, riteneva che i salari fossero dati dagli “usi e
costumi” vigenti presso una data popolazione in un dato periodo storico. Dati i
salari, egli costruì una teoria secondo cui il profitto spettante ai capitalisti va
concepito come un “residuo”, come un “surplus” che si ottiene una volta che da
una data produzione totale siano state sottratte le merci spettanti ai lavoratori sotto
forma di salari (e anche quelle spettanti ai proprietari terrieri a titolo di rendite).
Ma allora, se viene inteso come un residuo, ciò significa che il profitto è tanto
maggiore quanto minori siano le rendite e i salari, il che mette chiaramente in
luce i motivi di contrasto tra le classi sociali nella ripartizione della produzione.

1.3 Karl Marx

Proprio sulla concezione del profitto come “residuo”, e più in generale sugli
elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl
Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la
pubblicazione del Capitale nel 1867 Marx si propone esplicitamente il compito di
elaborare una compiuta critica dell’economia politica che era stata elaborata
dagli economisti classici. In questo senso sferra un attacco poderoso al teorema
della mano invisibile. Egli infatti descrive un sistema tutt’altro che armonico ed
eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da perenne instabilità e da crisi
ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto complessa e tuttora oggetto di
varie interpretazioni. Qui possiamo affermare che nella visione di Marx si
intersecano due spiegazioni della crisi: da un lato la tendenza alla caduta del
saggio di profitto, dall’altro la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e
consumi ristretti delle masse lavoratrici.

Sulla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, in questa sede
possiamo limitarci ad affermare che per Marx sussisterebbero forze che tendono
nel tempo a ridurre il saggio di profitto medio del sistema economico. La tesi di
partenza di Marx è che i capitalisti estraggono il profitto dal lavoro vivo degli
operai, cioè dal lavoro di coloro i quali sono direttamente impiegati nella
produzione e non dal lavoro già erogato, incorporato nei mezzi di produzione già
prodotti. Egli poi nota che le continue innovazioni tecniche spingono i capitalisti
ad accrescere l’impiego di mezzi di produzione rispetto ai lavoratori direttamente
impiegati nel processo produttivo. Ma se il rapporto tra lavoratori e mezzi di
produzione si riduce, e se si accetta l’idea di Marx secondo cui il profitto deriva
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dal lavoro vivo degli operai direttamente impiegati nella produzione, allora si
deve giungere alla conclusione che si ridurrà anche il saggio di profitto, cioè il
profitto totale in rapporto al capitale impiegato per l’acquisto dei mezzi di
produzione e per il pagamento dei lavoratori. Una progressiva caduta del saggio di
profitto determina tuttavia una crisi generale del modo di produzione capitalistico.
Per Marx, infatti, il saggio di profitto rappresenta non solo la remunerazione del
capitalista ma anche il motore dell’accumulazione. Una sua precipitazione verso
lo zero frenerà l’azione del capitalista, quindi renderà a un certo punto impossibile
la riproduzione del sistema capitalistico e aprirà la via ad un’epoca di rivoluzione
sociale.

Tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è però anche il fatto
che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di
rivoluzioni tecniche e organizzative che aumentano al massimo la produttività di
ogni singolo lavoratore e al tempo stesso riducono il suo salario. Ciò tuttavia
implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la
capacità di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario
può determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è
che il processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a
licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità
produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso
fino al tracollo. Al riguardo Marx scrive: «…La causa ultima di tutte le crisi
rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla
tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive…»
(Capitale, vol. III).

Le due tesi descritte si affiancano poi a un’altra tendenza registrata da Marx,


quella verso la scomparsa dei capitali più piccoli o la loro acquisizione da parte
dei capitali più grandi, la cui proprietà e il cui controllo tenderebbero a
concentrarsi in sempre meno mani: nel linguaggio marxiano, si parla di tendenza
verso la “centralizzazione” dei capitali a livello internazionale. La letteratura
marxista ha derivato da questa tendenza varie implicazioni, tra cui due
contraddizioni: una concorrenza capitalistica che spinge sempre più verso la
monopolizzazione dei mercati da parte dei pochi, grandi capitali vincenti, e una
radicalizzazione del conflitto di classe tra una cerchia ristretta di proprietari e una
massa crescente di diseredati.

Alla luce delle tendenze descritte Marx contesta dunque l’idea classica di un
capitalismo “naturale” e quindi “eterno”, sostenendo invece la tesi della sua
instabilità, della sua contraddittorietà e quindi anche della sua storicità, vale a
dire della sua finitezza. Per Marx, l’elemento di maggior contraddizione del
capitalismo è che la feroce competizione tra capitali da un lato sviluppa nuove
tecniche e nuove forze produttive, ma dall’altro scatena le crisi e quindi genera
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tensioni nei rapporti di produzione tra le classi sociali. In particolare, la classe


lavoratrice si ritrova ad essere l’artefice in ultima istanza dello sviluppo delle
forze produttive, poiché quello sviluppo avviene soprattutto in base allo
sfruttamento imposto dal comando del capitale sul lavoro. Al tempo stesso, la
classe lavoratrice risulta anche la prima vittima della disoccupazione e degli
immiserimenti causati dalle ricorrenti crisi del capitalismo. Le contraddizioni del
capitalismo ricadono dunque principalmente sui lavoratori salariati, artefici e
vittime del sistema. A causa di queste contraddizioni, Marx giudicava il
capitalismo un sistema potente ma irrazionale, caotico, “anarchico”, destinato
prima o poi ad entrare in una crisi irreversibile e ad esser quindi sostituito da un
diverso sistema di organizzazione dei rapporti economici e sociali. L’analisi
marxiana potrebbe in questo senso essere considerata una indagine sulle
condizioni di riproducibilità del modo di produzione capitalistico, e sulle
circostanze che possono pregiudicare quelle stesse condizioni.

Quando si dice che in Marx è fondamentale il concetto di storicità, si intende


appunto che egli sottolinea il fatto che i sistemi economici non sono affatto eterni
ma risultano storicamente determinati, nel senso che cambiano nel tempo. Ad
esempio, è noto che la Rivoluzione francese ha effettivamente sancito il passaggio
dall’Antico regime feudale (basato sul potere dei proprietari terrieri) al regime di
produzione capitalista (in cui il potere è nelle mani dei capitalisti proprietari dei
mezzi di produzione, cioè delle imprese). Allo stesso modo, è possibile che il
capitalismo a un certo punto imploda nelle sue contraddizioni e ceda il passo a
una nuova e diversa modalità di organizzazione dei rapporti sociali.

Marx si attendeva in tal senso una svolta rivoluzionaria guidata dalla classe
lavoratrice, a seguito della quale potesse sorgere un sistema di tipo socialista: vale
a dire un sistema non più basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e
sul lavoratore salariato posto sotto il comando del capitalista, né basato sulla
competizione tra capitali e tra lavoratori, ma fondato invece sulla proprietà
collettiva dei mezzi di produzione e sulla pianificazione sociale del lavoro. In
una prima fase il sistema socialista si sarebbe per forza di cose basato sul
controllo statale sui mezzi di produzione, sulla divisione del lavoro e sulle
retribuzioni. Ma più in prospettiva, a seguito dello sviluppo delle forze produttive
e della ricchezza sociale, Marx preconizzava un futuro comunista, nel quale il
potere coercitivo dello Stato, la divisione del lavoro e lo stesso concetto di
“salario” sarebbero diventati superflui. Nella Critica al programma di Gotha del
1875, egli definì il comunismo in questi termini: «In una fase più avanzata della
società comunista, dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli
individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro
intellettuale e fisico […] dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono
aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze
18

collettive scorrono in abbondanza; soltanto allora la società può scrivere sulle sue
bandiere: da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni».

Marx riteneva tanto più probabile una svolta rivoluzionaria quanto più le
contraddizioni del capitalismo fossero state portate alle estreme conseguenze. Per
questo, nel 1848, in un celebre Discorso sul libero scambio, egli dichiarò di
ritenere preferibile il liberoscambismo internazionale al protezionismo. L’apertura
dei vari paesi agli scambi internazionali, a suo avviso, avrebbe elevato su scala
mondiale i processi di centralizzazione dei capitali, i divari tra sviluppo delle
forze produttive e consumi ristretti delle masse e la caduta tendenziale del saggio
di profitto. Una volta globalizzato, il capitalismo avrebbe dunque portato
l’instabilità e le contraddizioni a tal punto da rendere inesorabile una svolta
rivoluzionaria. Anche il giovane Marx dunque era liberoscambista, ma per
motivi decisamente diversi rispetto a Ricardo.

Naturalmente Marx non fu il primo comunista della Storia. Molti prima di lui
avevano sostenuto l’ideale superiorità di un sistema fondato sulla cooperazione
sociale anziché sulla competizione individuale, e sulla proprietà collettiva anziché
privata dei mezzi di produzione. E in passato non erano nemmeno mancate
esperienze di comunismo concreto, come ad esempio quello delle comunità
cristiane primitive. Marx tuttavia differiva dai suoi predecessori per un motivo:
egli intendeva poggiare la sua visione politica non su basi etico-morali e utopiche,
ma su una analisi scientifica delle contraddizioni del capitalismo e della sua
fragilità intrinseca. In verità, si potrebbe obiettare che in fondo anche le
premonizioni di Marx sull’avvento del socialismo e poi del comunismo fossero
implicitamente guidate da un’istanza utopica. Il dibattito, su questo fronte, è
aperto. Resta tuttavia il fatto che l’indagine marxiana ha effettivamente
contribuito a porre in evidenza le contraddizioni e l’instabilità del capitalismo, e
ha quindi fornito una base analitica alla tesi della sua storicità, ossia del suo non
essere necessariamente “eterno”. In ciò risiede la rilevanza scientifica di Marx,
che lo distingue nettamente dai comunisti del passato.

Ovviamente, una tesi può dirsi in quanto tale “scientifica” solo se può essere
verificata o smentita sulla base delle analisi teoriche ed empiriche. A tale
riguardo, i marxisti e i loro critici tuttora dibattono. Se si volesse comunque
provare a trarre dai dati qualche indizio sulla erroneità o meno delle previsioni
marxiane, alcune considerazioni in effetti si potrebbero trarre, sia pure molto
parziali. Si osservino in tal senso i seguenti grafici. Il primo grafico descrive
l’andamento di lungo periodo del saggio di profitto negli Stati Uniti. La dinamica
in effetti è controversa: dal 1944 si registra una tendenza alla caduta del saggio di
profitto, come preconizzato da Marx, ma se si prende un arco di tempo più lungo
l’andamento è più difficile da interpretare; inoltre, guardando la crisi recente,
esplosa nel 2008, essa sembra esser stata preceduta per circa un ventennio da
19

un’ascesa anziché da una caduta del saggio di profitto (il grafico è tratto da uno
studio di Gerard Dumenil e Dominique Lévy del 2010).

La tendenza alla caduta del tasso di profitto non sembra dunque trovare dei chiari
riscontri. Invece, la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i
consumi ristretti delle masse lavoratrici sembrerebbe trovare una conferma,
almeno per quanto riguarda l’ultimo trentennio. Il grafico seguente mostra
l’andamento, in vari paesi, della quota di reddito nazionale spettante al salari. La
tendenza al declino è piuttosto evidente (il grafico, tratto dall’Anti-Blanchard,
riporta dati Ameco Eurostat).
20

Anche la tendenza alla centralizzazione dei capitali appare confermata. Il grafico


seguente (tratto da un peculiare studio di Vitali, Glattfelder, Battison del 2011)
descrive il grado di concentrazione delle quote proprietarie e di controllo dei
principali gruppi multinazionali a livello mondiale. I dati rivelano in effetti un
processo di centralizzazione dei capitali estremamente accentuato, specialmente
nell’ultimo trentennio.

Ad ogni modo, se è vero che ancora oggi ci si interroga sul piano scientifico sulla
capacità o meno di Marx di cogliere alcune tendenze di fondo dello sviluppo
capitalistico, è altrettanto vero che un fenomeno di ben più ampia portata si
verificò verso la fine dell’Ottocento, quando le tesi marxiane divennero il punto di
riferimento del movimento operaio, cioè delle organizzazioni sindacali e
politiche dei lavoratori che in quel periodo andavano sviluppandosi e
consolidandosi in molti paesi. Probabilmente, il motivo principale per cui l’analisi
di Marx aveva all’epoca un tale successo risiedeva nel fatto che quegli elementi di
contraddizione, di instabilità e quindi di storicità che egli ravvisava nel
capitalismo venivano precipitosamente tradotti in un preciso messaggio politico:
comunicare ai lavoratori che con le loro lotte di emancipazione stavano
contribuendo a smuovere la Storia, accelerando la crisi del sistema capitalistico e
creando le condizioni per una nuova e superiore organizzazione della società.

Chiaramente, per molti altri queste tesi risultavano scomode, pericolose.


Rimarcando l’instabilità e la storicità del modo di produzione capitalistico,
l’analisi di Marx rappresentava uno sprone per i movimenti rivoluzionari, ma
anche una oggettiva minaccia per i proprietari del capitale, principali detentori del
potere economico e politico. Che Marx avesse ragione o meno, che avesse o meno
saputo afferrare la meccanica profonda e i destini del capitalismo, le sue tesi erano
diventate una potenziale leva per il sovvertimento dell’ordine costituito.
21

1.4 L’approccio neoclassico-marginalista

Per scongiurare le tesi di Marx occorreva dunque sfidarlo sul terreno dell’analisi
scientifica dell’economia. Occorreva cioè proporre una chiave di lettura della
realtà che fosse alternativa a quella marxiana. Ma per far questo non si poteva
tornare al pensiero dei classici. Infatti, benché Smith e Ricardo esprimessero
nella sostanza un giudizio positivo sul modo capitalistico di produzione, le loro
teorie mettevano apertamente in evidenza gli elementi di conflitto insiti nei
rapporti tra le classi sociali, e quindi somigliavano troppo all’analisi di Marx per
potersi dire del tutto estranee e alternative ad essa.

Si pose dunque il problema di elaborare una nuova teoria, che non si concentrasse
sul carattere conflittuale e instabile del modo di produzione capitalistico ma che al
contrario fornisse una convincente rappresentazione armonica del sistema
economico. In effetti, proprio intorno al 1870 nasceva una nuova visione, detta
teoria neoclassica o marginalista. Jevons, Menger e Walras furono tra i
fondatori di questo approccio, seguiti poi da Marshall, Pigou, Wicksell, Bohm
Bawerk, Pareto, Robbins e molti altri. Del tutto indipendentemente dagli intenti
dei suoi ideatori, questa nuova scuola di pensiero registrò ampi consensi nelle
università e nei circoli finanziari.

La nuova impostazione viene definita “neo-classica”, ma in effetti essa porta con


sé ben poco della precedente economia classica e marxiana. I classici e Marx
indagavano sui meccanismi di funzionamento del capitalismo, sulle cause della
sua capacità di sviluppo ma anche sulla sua tendenza alla crisi, sulle
contraddizioni che lo caratterizzano e sui conflitti tra le classi sociali che quelle
contraddizioni scatenano. Marx, in particolare, sottolineava la storicità del
capitalismo e puntava a una indagine scientifica sulle condizioni di riproduzione o
di crisi del modo di produzione capitalistico. Ed ancora, sia i classici che Marx
facevano partire le loro analisi direttamente dallo studio delle classi sociali.
Completamente diverso è invece l’oggetto di indagine degli economisti
neoclassici-marginalisti. I teorici neoclassici rifiutano una analisi della società
basata sulla divisione tra le classi. Ad essa contrappongono il cosiddetto
individualismo metodologico. Questo metodo si basa sulla idea che qualsiasi
aggregato sociale, inclusa la classe, è in realtà costituito da singoli individui.
Stando quindi all’approccio neoclassico, l’analisi scientifica della società deve
sempre partire dall’analisi del comportamento del singolo.
22

Inoltre, i neoclassici rifiutano l’idea di doversi occupare di uno specifico modo di


produzione, e in particolare del capitalismo. Essi si propongono di elaborare una
teoria molto più astratta e generale, che valga per ogni sistema di organizzazione
dei rapporti sociali e per ogni periodo storico, e che valga anche per ogni
individuo (indipendentemente dalla ricchezza che possiede o dalla funzione
economica che svolge). In questo senso i neoclassici ritengono che il problema
economico fondamentale di ogni individuo e di ogni società sia quello di
impiegare al meglio i mezzi scarsi di cui dispone al fine di accrescere più che
può il proprio benessere. Questo problema secondo i neoclassici è così
importante che definisce in quanto tale l’oggetto stesso della scienza economica.
Infatti, nel Saggio sulla natura e sul significato della scienza economica del 1932,
lo studioso neoclassico Lionel Robbins definì l’economia come quella scienza
«che studia il comportamento umano come una relazione fra scopi classificabili in
ordine d’importanza e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Pochi anni dopo
un altro economista neoclassico fornì una descrizione ancor più sintetica della
disciplina: nel suo celebre Fondamenti di analisi economica del 1947, Paul
Samuelson definì il nucleo di ogni problema economico come «una funzione
matematica da massimizzare sotto vincoli», dove i vincoli rappresentano le risorse
scarse disponibili e la funzione da massimizzare in genere rappresenta il benessere
individuale. Come vedremo, secondo i neoclassici tale benessere può esser
misurato attraverso l’utilità, un concetto che essi adoperano molto spesso nelle
loro analisi.

Per comprendere meglio il significato di queste definizioni, consideriamo il


seguente esempio. Per i neoclassici una tipica risorsa scarsa è il tempo, ossia le
ore del giorno. Supponiamo allora che un individuo debba decidere come
impiegare le sue ore. Tra i possibili usi alternativi egli potrà scegliere di lavorare e
ottenere così un reddito che gli darà modo di consumare merci, oppure potrà
scegliere di riposare e dedicarsi al tempo libero. Ora, sia il riposo che il consumo
di merci accrescono l’utilità dell’individuo, cioè aumentano il suo benessere.
Come si fa a decidere quante ore dedicare al riposo e quante ore dedicare al lavoro
necessario per ottenere un reddito e consumare? Quale sarà cioè la quantità
ottimale di ore da dedicare al lavoro, e quale la quantità ottimale di ore da
dedicare al riposo, al fine di massimizzare l’utilità dell’individuo? La risposta dei
neoclassici verte sul cosiddetto “calcolo marginale”, cioè su un calcolo effettuato
su incrementi piccoli, appunto “marginali”, delle variabili considerate.

Questo calcolo si basa sul principio che al crescere del consumo di un qualsiasi
bene, l’utilità dell’individuo tende ad aumentare ma con incrementi sempre più
piccoli. Il motivo è che mentre le dosi iniziali del bene sono particolarmente
gradite all’individuo, le dosi successive lo condurranno verso la sazietà e quindi
risulteranno meno “utili”. Tale principio è detto “legge della utilità marginale
decrescente”, ed è alla base di molte analisi neoclassiche. Dunque, nel caso
23

dell’individuo considerato, si tratterà di distribuire le ore del giorno tra lavoro (e


conseguente consumo di merci) e tempo libero. La scelta dell’individuo avverrà
sapendo che all’inizio il consumo di merci è assolutamente necessario, e quindi
conferisce una utilità molto alta; ma al crescere delle ore di lavoro e del consumo,
e al conseguente ridursi delle ore di tempo libero, l’individuo tenderà ad essere
sempre più sazio di merci ma anche sempre più stanco, per cui l’utilità marginale
del consumo tenderà a ridursi rispetto all’utilità marginale del tempo libero.
Pertanto, se vuole massimizzare l’utilità, l’individuo dovrà seguire questa regola:
aumentare il tempo di lavoro fino a quando l’utilità marginale del consumo è
maggiore della utilità marginale del tempo libero, cioè fino a quando l’aumento di
utilità derivante dal consumo di merci reso possibile dal reddito ottenuto tramite
un incremento marginale di tempo di lavoro sia maggiore o al limite uguale alla
perdita di utilità causata dalla rinuncia al tempo libero che consegue a quello
stesso incremento marginale di tempo di lavoro. Nel momento in cui la utilità
marginale del consumo eguaglia l’utilità marginale del tempo libero, l’individuo
starà lavorando proprio il numero ottimale di ore. Infatti, se l’individuo
aumentasse ulteriormente il tempo di lavoro, la perdita di utilità dovuta alla
rinuncia al riposo eccederebbe l’aumento di utilità derivante dal consumo di
merci, e quindi egli incorrerebbe in una riduzione netta del suo benessere. Questo
tipo di calcolo, effettuato per l’appunto su variazioni “marginali” – ossia molto
piccole - delle grandezze considerate, è alla base della teoria neoclassica, che
proprio per questo motivo viene anche detta teoria marginalista.

E’ bene precisare che questo tipo di calcolo può indifferentemente applicarsi non
solo ai lavoratori ma anche ai capitalisti, o a qualsiasi altro soggetto. Ad esempio,
il possessore di ingenti ricchezze deve decidere se consumare subito tali ricchezze
oppure prestarle ad altri, guadagnando così un tasso d’interesse e potendo quindi
consumare maggiori quantità di ricchezza in futuro. Anche in tal caso, dicono i
neoclassici, si applica il calcolo marginale: il soggetto distribuirà infatti le sue
ricchezze tra consumo immediato e consumo futuro in base al confronto tra le
utilità marginali della prima e della seconda opzione. Anche per questo motivo,
secondo i neoclassici, l’analisi basata sulla esistenza delle classi sociali è inutile
e per certi versi fuorviante, visto che il comportamento di ogni individuo,
indipendentemente dalla classe di appartenenza, può essere esaminato come un
problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse di
cui egli dispone, e più specificamente come un problema risolvibile con il calcolo
marginale.

Inoltre, gli economisti neoclassici ritengono che il principio di massimizzazione


della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse possa essere applicato a qualsiasi
epoca storica e a qualsiasi società, semplice o complessa che sia. L’oggetto di
indagine potrà essere una economia elementare, magari basata su un unico
individuo, come ad esempio quella del naufrago Robinson Crusoe raccontata nel
24

famoso romanzo di Defoe. Oppure potrà trattarsi di una economia capitalistica


altamente sviluppata, costituita da tanti operatori e da una complessa rete di
scambi. In ogni caso entrambe le economie affronteranno problemi analoghi,
basati sul principio di massimo vincolato e risolvibili tramite il calcolo marginale.
Discutere quindi di uno specifico modo di produzione storicamente determinato,
come facevano i classici e soprattutto Marx, è da ritenersi errato.

Ma al di là del nuovo metodo di analisi adottato, quali furono le conclusioni


politiche alle quali i neoclassici giunsero attraverso di esso? Indubbiamente, nella
maggioranza dei casi, la nuova teoria perveniva a risultati più rassicuranti per i
proprietari del capitale rispetto a quelli esposti dai classici e da Marx. Dall’analisi
neoclassica può infatti scaturire l’idea che in condizioni di perfetta concorrenza
una economia capitalistica di mercato sia in grado di garantire il pieno utilizzo
delle risorse scarse disponibili ed anche una remunerazione delle risorse conforme
al contributo di queste alla produzione. In particolare, riguardo alle fondamentali
questioni della disoccupazione e dei salari, i neoclassici applicavano ancora una
volta il calcolo marginalista. In primo luogo, essi ritenevano che per ogni data
quantità di mezzi di produzione disponibili, i lavoratori via via assunti dalle
imprese avrebbero fatto registrare una produttività sempre minore: è la “legge
della produttività marginale decrescente” di un fattore produttivo, quando gli
altri fattori siano considerati fissi. In base a questa legge, i neoclassici sostenevano
che le imprese avrebbero assunto nuovi lavoratori solo se la loro produttività
marginale fosse stata maggiore o al limite uguale al costo marginale
dell’assunzione, che corrisponde al salario reale (ossia al salario espresso in
termini di potere d’acquisto effettivo). Pertanto, se i lavoratori avessero accettato
un salario conforme alla loro produttività, sarebbero stati certamente assunti dalle
imprese. Vista quindi in quest’ottica, la disoccupazione può dipendere solo dalla
libera scelta del lavoratore, che magari si dichiara indisponibile ad accettare un
salario equivalente alla sua produttività; oppure la disoccupazione può dipendere
dall’azione dei sindacati dei lavoratori, che impediscono di ridurre i salari al
livello della produttività marginale, e quindi rendono impossibile l’assunzione di
ulteriori lavoratori da parte delle imprese. Dunque, se si eliminano le distorsioni
causate dai sindacati e si lascia fare alle forze del mercato, si giungerà alla piena
occupazione dei lavoratori disposti ad accettare un salario equivalente alla loro
produttività. In definitiva, il libero gioco delle forze del mercato conduce a un
equilibrio complessivo efficiente e in un certo senso “giusto”: un equilibrio che
alcuni teorici neoclassici definiscono “equilibrio naturale”.

La teoria neoclassica permetteva in tal modo di elaborare una sorta di nuovo


“teorema della mano invisibile”. Da essa si può infatti derivare l’idea che
l’economia capitalistica non sia né instabile né conflittuale. In assenza di
“distorsioni” causate dalla politica o dall’azione sindacale, le forze spontanee del
mercato condurranno il sistema economico verso un equilibrio “naturale”, in cui
25

tutti coloro i quali siano disposti a lavorare al salario vigente troveranno


certamente un’occupazione. La nuova teoria pertanto riafferma i principi
cardine del liberismo in termini più netti rispetto a quanto sostenuto dai
classici. Essa infatti si fonda su una concezione non più conflittuale ma armonica
dei rapporti sociali.

Ricordiamo che anche Ricardo era liberista. Egli tuttavia interpretava la realtà in
base all’idea che per ogni data produzione il profitto fosse calcolato come un
residuo al netto dei salari. Stando a questa chiave di lettura il salario e il profitto
sono legati tra loro da un rapporto antagonistico, poiché se uno aumenta l’altro
diminuisce. Pertanto, nella vecchia ottica classica, tra percettori di profitto e
percettori di salari vi è sempre un irriducibile conflitto nella ripartizione della
produzione. Invece, nell’ambito della visione neoclassica si stabilisce che il lavoro
e tutti gli altri fattori produttivi sono remunerati in base alle rispettive produttività
marginali, cioè al contributo dato da ciascuno di essi alla crescita della
produzione. Il conflitto svanisce, soppiantato da una interpretazione armonica
della distribuzione del prodotto tra lavoratori e capitalisti.

1.5 La Grande Crisi e Keynes

Tra il 1870 e il 1914 la teoria neoclassica si impose e divenne la visione


dominante della scienza economica. L’approccio neoclassico si diffuse nei circoli
accademici e della finanza, e le analisi di politica economica che scaturivano da
esso trovarono ampio spazio presso la grande stampa. Il successo della teoria era
in buona misura dovuto alla capacità di presentare il problema economico in
termini asettici, come un generico problema di uso efficiente di risorse scarse.
Questa prerogativa dell’approccio neoclassico permetteva a molti studiosi di
avvicinarsi all’economia come se si trattasse di una scienza neutra, priva di
implicazioni politiche. Inoltre, le versioni più in voga della teoria neoclassica
sembravano in grado di descrivere l’economia capitalistica di mercato come un
sistema armonico, efficiente e stabile, il che le rendeva estremamente utili nella
battaglia ideologica contro il movimento operaio e contro i sostenitori del
socialismo.

Gli eventi successivi al 1914, tuttavia, misero fortemente in questione l’idea


neoclassica di un sistema capitalistico efficiente ed armonico. Allo scoppio della
Prima guerra mondiale, molti sostennero che il conflitto bellico tra nazioni non
fosse altro che una versione estrema del conflitto tra capitali. Si diceva in questo
senso che il capitalismo tende al cosiddetto “imperialismo”. Secondo questa
26

interpretazione, il modo di produzione capitalistico tende a scatenare una tale


competizione sociale da condurre poi inesorabilmente alla guerra militare.

Inoltre, nel 1917 si verifica un evento che sembra per certi versi dare ragione ad
alcune premonizioni di Marx: in una Russia devastata dalla guerra e dalla miseria
si verifica infatti una nuova Rivoluzione. Il partito che la guida si dichiara
espressamente marxista, e punterà a riorganizzare i rapporti economici su basi
socialiste.

Ed ancora, la visione armonica del capitalismo suggerita dall’approccio


neoclassico subisce un altro duro colpo a seguito della Grande Crisi. Nel 1929,
dopo una lunga fase di euforia nei mercati azionari, il crollo della borsa di Wall
Street diede avvio a una gravissima crisi economica, che in pochi anni creò 12
milioni di disoccupati negli Stati Uniti, 6 milioni in Germania, 3 milioni in Gran
Bretagna e molti altri nel resto del mondo. Inoltre, secondo alcuni osservatori, fu
proprio la Grande Crisi a creare le condizioni sociali e politiche per l’avvento del
nazismo in Germania e per la Seconda guerra mondiale.

In un simile scenario di sconvolgimenti sociali e politici si fa strada il


convincimento che la teoria neoclassica non sia in grado di dare un’adeguata
rappresentazione del funzionamento reale del capitalismo. Del resto, le chiavi di
lettura della crisi suggerite dagli economisti neoclassici apparivano sempre più
lontane dalla realtà. Ad esempio, nella Teoria della disoccupazione del 1933,
l’economista neoclassico Arthur C. Pigou sostenne che la crisi era dovuta al fatto
che i sindacati si opponevano al calo delle retribuzioni. In questo modo, secondo
Pigou, i sindacati impedivano il riequilibrio tra salari e produttività marginale del
lavoro che sarebbe stato necessario per indurre le imprese ad assumere i lavoratori
disoccupati. Questa tesi tuttavia risultava smentita dal fatto che in realtà i salari
erano fortemente diminuiti a seguito della crisi, e ciò nonostante non si era
registrato alcun miglioramento sul versante dell’occupazione.

I tempi erano dunque maturi per una nuova rivoluzione delle idee in campo
economico. Tra i portatori della medesima vi fu l’economista inglese John
Maynard Keynes, autore della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e
della moneta del 1936. Nella sua critica ai neoclassici Keynes sceglie una
posizione “intermedia”, nel senso che accetta una parte della loro teoria ma rifiuta
un’altra parte. In particolare, Keynes condivide la tesi neoclassica secondo la
quale in equilibrio il salario reale coincide con la produttività marginale del
lavoro. Egli accetta pure la tesi secondo cui, dati gli altri fattori di produzione, la
produttività marginale del lavoro decresce al crescere del numero dei lavoratori
occupati. Tuttavia, Keynes aggiunge pure che i neoclassici trascurano un punto
fondamentale, e cioè che il numero degli occupati dipende dalla domanda
effettiva di merci. Le imprese cioè assumeranno solo i lavoratori necessari a
27

produrre la quantità di merci effettivamente domandata dal mercato, cioè la


quantità che possa essere effettivamente venduta. Questo è il “principio della
domanda effettiva”, ed è alla base della teoria di Keynes. Se dunque la domanda
effettiva di merci è bassa, le imprese assumeranno pochi lavoratori e vi sarà
quindi una elevata disoccupazione.

La domanda effettiva a sua volta dipende dalle aspettative sul futuro. Se tra gli
imprenditori si diffonde una ondata di pessimismo, gli acquisti di beni di
investimento (macchinari, impianti, attrezzature, ecc.) verranno ridotti, il che
provocherà una serie di licenziamenti, quindi un calo dei consumi dei lavoratori,
quindi ulteriori licenziamenti, e così via in una spirale negativa che può condurre
a una crisi generale. Nella teoria keynesiana questo meccanismo cumulativo va
sotto il nome di “moltiplicatore”.

Keynes riteneva che i neoclassici trascurassero tutti questi problemi, e per questo
non fossero in grado di fornire una adeguata rappresentazione del sistema
economico.

Dal principio della domanda effettiva e dalla teoria del moltiplicatore Keynes
faceva anche scaturire una critica al liberismo prevalente tra i neoclassici. Egli
infatti riteneva che le forze del mercato, lasciate a sé stesse, non sarebbero mai
state capaci di generare una domanda effettiva tale da eliminare la
disoccupazione. In questo senso Keynes criticò l’idea di Pigou, secondo il quale
la grande crisi dipendeva dal fatto che i sindacati dei lavoratori si opponevano alla
riduzione dei salari e quindi impedivano il libero funzionamento del mercato. Al
contrario, Keynes sosteneva che la riduzione dei salari non avrebbe risolto la crisi.
Anzi, avrebbe potuto aggravarla. La riduzione dei salari avrebbe infatti dato avvio
a un lungo periodo di calo dei prezzi delle merci, che avrebbe indotto molti
operatori a rinviare gli acquisti in attesa di ulteriori cadute dei prezzi. Il che
avrebbe solo accentuato la crisi. Pertanto, non si poteva imputare la depressione
economica ai sindacati.

Per Keynes il vero problema è che il capitalismo risulta afflitto da una domanda
effettiva molto instabile, condizionata dai cambiamenti nelle aspettative sul
futuro, e in genere mai sufficiente per garantire la piena occupazione dei
lavoratori. Keynes proponeva dunque l’abbandono del laissez-faire. A suo avviso
soltanto un massiccio intervento statale nell’economia avrebbe potuto garantire
livelli alti e stabili della domanda effettiva, tali da scongiurare le crisi ricorrenti
del capitalismo e in grado di condurre sempre alla piena occupazione del lavoro.
In questo senso Keynes parlava di «socializzazione di una certa ampiezza
dell’investimento», ossia di un ampio intervento dello Stato per il finanziamento
degli investimenti in opere pubbliche, servizi sociali, beni di interesse collettivo.
28

1.6 La Sintesi neoclassica e il nuovo mainstream

Dalla Seconda guerra mondiale il liberismo uscì perdente. Dopo la guerra era
infatti diffusa un po’ ovunque l’opinione che le forze spontanee del capitalismo,
lasciate a sé stesse, fossero causa di instabilità, crisi e conflitti. Questa idea era
ovviamente supportata dall’esperienza recente. Essa inoltre veniva sostenuta dai
sindacati dei lavoratori, che in molti paesi uscirono dalla guerra legittimati e
rafforzati, anche per le battaglie antifasciste che avevano condotto. Infine, non si
poteva trascurare il fatto che tra i vincitori della guerra vi fosse anche l’Unione
Sovietica, lo stato socialista nato dalla rivoluzione russa del 1917. Questa
presenza costituiva una sfida ulteriore per i fautori del capitalismo. Al termine
della guerra le tesi di Keynes trovarono dunque un ambiente propizio per
svilupparsi, sia in ambito accademico che politico. Le politiche economiche del
dopoguerra furono in varie circostanze ispirate dalla critica della ideologia
liberista degli anni precedenti. In particolare, era diffuso il convincimento che
l’intervento statale nell’economia fosse in una certa misura necessario per
rimediare alla instabilità e alla debolezza della domanda tipiche del capitalismo.

In questa fase venne a costituirsi una nuova scuola, detta “sintesi neoclassica”.
Tra i suoi esponenti spiccavano i nomi di John Hicks, Franco Modigliani e Don
Patinkin. Questi economisti proposero una sintesi, per l’appunto, tra le idee di
Keynes e la teoria neoclassica.

Dopo vari passaggi teorici, da questa sintesi emerse negli anni Cinquanta un
nuovo modello, portatore della seguente soluzione di compromesso: 1) il
principio keynesiano della domanda effettiva e il moltiplicatore determinano i
livelli della produzione e della occupazione nel breve periodo; 2) l’equilibrio
“naturale” del mercato del lavoro e la funzione di produzione determinano i livelli
della occupazione e della produzione nel lungo periodo. L’idea di fondo è che le
oscillazioni della domanda possono in effetti provocare cambiamenti continui
nella produzione e nella occupazione ma ciò può avvenire solo nel breve periodo.
Nel lungo periodo, invece, le forze del mercato dovrebbero comunque condurre
l’economia al suo equilibrio “naturale” di piena occupazione. Gli interventi di
politica economica dello Stato, dunque, non possono cambiare l’equilibrio
“naturale” di lungo periodo ma possono essere d’aiuto per ridurre le oscillazioni
di breve periodo e favorire la convergenza del sistema economico verso
l’equilibrio “naturale”. La cosiddetta Sintesi neoclassica era dunque compiuta. Il
problema keynesiano della domanda effettiva non veniva negato, come facevano i
vecchi neoclassici, ma veniva ridotto a una questione di “breve periodo”. Il
primato neoclassico dell’equilibrio “naturale” di piena occupazione veniva
29

comunque ristabilito nel lungo periodo. La politica economica non era


indispensabile, ma poteva aiutare a raggiungere più rapidamente l’equilibrio
naturale.

Il manuale di macroeconomia di Olivier Blanchard rappresenta la versione


didattica più recente e avanzata della cosiddetta Sintesi neoclassica. La novità
essenziale apportata da Blanchard è che, a differenza dei vecchi neoclassici, lui
non si riferisce più alla concorrenza perfetta. Per Blanchard le imprese non sono
necessariamente piccole e prive di potere di mercato, e i lavoratori non
contrattano per forza individualmente. Egli piuttosto rileva che le imprese
possono avere un potere di monopolio, e che i lavoratori possono riunirsi in
sindacati. Queste innovazioni rendono senza dubbio la sua analisi più adatta alla
realtà dei nostri giorni. Nella sostanza però i risultati delle sue analisi sono quelle
tipiche della Sintesi. Il rischio di una carenza di domanda effettiva può sussistere
ma solo nel breve periodo. Nel lungo periodo l’economia dovrebbe tornare
spontaneamente all’equilibrio “naturale” di piena occupazione. La politica
economica non è indispensabile ma può forse aiutare a raggiungere più
velocemente quell’equilibrio.

La versione aggiornata della Sintesi neoclassica, suggerita da Blanchard,


rappresenta oggi il nuovo “mainstream”, la nuova teoria economica dominante.
Tuttavia, come vedremo, c’è chi ritiene che essa sia viziata da una serie di
contraddizioni logiche e che abbia travisato e ridimensionato il pensiero originario
di Keynes.

1.7 Per una critica della teoria economica mainstream

Nello stesso periodo in cui andava sviluppandosi il nuovo mainstream della


Sintesi neoclassica, sorgevano parallelamente dei nuovi filoni di “critica” della
teoria economica dominante.

L’espressione “teoria critica” riecheggia la critica dell’economia politica di


marxiana memoria. Diversi odierni esponenti degli approcci di teoria critica si
propongono infatti di recuperare e di aggiornare l’opera di Marx. Alcuni di essi
puntano inoltre a recuperare i concetti fondamentali della teoria di Keynes,
liberandola dai suoi residui neoclassici. Lo scopo della moderna critica della
teoria economica è quello di attingere dai contributi di Marx, di Keynes e di altri
30

pensatori eterodossi per costruire una visione teorica essenzialmente diversa da


quella neoclassica. Il proposito dei critici, dunque, non è quello della “sintesi”, ma
è quello della “alternativa”.

Nel corso del Novecento la critica della teoria dominante ha tratto nuova linfa dal
contributo dell’economista italiano Piero Sraffa. Nel suo celebre Produzione di
merci a mezzo di merci del 1960, Sraffa sferrò un nuovo attacco alla teoria
neoclassica, ancor più radicale di quello di Keynes. Sraffa considera infatti la
teoria neoclassica incoerente sul piano logico. La critica sraffiana è complessa, e
non può esser trattata in un corso base di economia. Tuttavia a grandi linee si può
affermare che essa rientra in una serie di critiche che sono state da più parti rivolte
al concetto neoclassico di “capitale”. Proviamo a fornire qualche spunto
derivante da tali critiche. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione
disponibili in una data epoca. Se si vuole calcolare il capitale nel suo complesso
allora occorre prendere in considerazione l’aggregato dei mezzi di produzione.
Questi mezzi però sono eterogenei tra loro e quindi per aggregarli è necessario
moltiplicare la quantità di ogni mezzo di produzione per il rispettivo prezzo, e poi
sommare tutti i valori tra loro. In tal modo si ottiene una misura del capitale “in
valore”. Questa dotazione del capitale può quindi essere impiegata nella teoria
neoclassica per determinare salari e interessi. Ad esempio, dato il capitale, è
possibile ottenere la domanda di lavoro, che può essere quindi intersecata con
l’offerta di lavoro per ottenere il salario reale. Inoltre, noto il capitale, è possibile
ricavare l’investimento, che assieme al risparmio contribuisce a determinare il
tasso d’interesse, e così via. La teoria neoclassica, come vedremo, procede nella
sostanza in base a questa sequenza. Il problema è che essa è viziata sul piano
logico. Infatti, stando a questa teoria, il salario, il tasso d’interesse, ecc. sono
determinati una volta che sia dato il capitale. Ma noi abbiamo detto che per
conoscere il capitale occorre conoscere i prezzi dei singoli mezzi di produzione
che lo compongono. Ma per conoscere i prezzi bisognerebbe conoscere i costi,
cioè occorrerebbe che i salari e i tassi d’interesse fossero già noti. La teoria
neoclassica presenta dunque un vizio di circolarità.

Le critiche di Sraffa e di altri alla concezione del capitale investono tutte le


versioni della teoria neoclassica, inclusa quella della Sintesi. Tali critiche sono
state quindi adoperate per contestare anche il nuovo mainstream. Ma le obiezioni
alla Sintesi neoclassica non finiscono qui. Tra i suoi critici vi furono pure alcuni
amici e allievi di Keynes, tra cui Richard Kahn, Joan Robinson, Nicholas Kaldor,
Luigi Pasinetti ed altri. Questi giudicarono la Sintesi come una sorta di
“tradimento” delle idee originarie del maestro, e quindi la rifiutarono. Essi
proposero una diversa interpretazione di Keynes, che manteneva il principio
della domanda effettiva e il moltiplicatore, ma che rifiutava il concetto di
equilibrio “naturale” e ogni altro collegamento con la teoria neoclassica.
31

Da queste e da altre critiche, alla Sintesi e più in generale a tutte le moderne


versioni della teoria neoclassica, si sta cercando di edificare una teoria economica
alternativa. La grave crisi mondiale iniziata nel 2008 ha dato nuovi impulsi in
questa direzione, segnalando l’opportunità di elaborare una interpretazione del
capitalismo che tenga maggiormente conto della sua instabilità e delle sue
contraddizioni, e che dunque riprenda e aggiorni le analisi delle scuole critiche,
ispirate dai contributi di Marx, Keynes e di numerosi altri esponenti del pensiero
economico. L’opera di costruzione di un paradigma alternativo potrebbe trarre
spunti anche da studi ulteriori, provenienti dall’analisi economica e non solo.
Esempi in tal senso sono le ricerche nel campo della psicologia e delle
neuroscienze, che forniscono nuove confutazioni all’individualismo metodologico
neoclassico. Spunti ulteriori possono esser tratti dagli studi tesi a elaborare nuove
e più articolate misure di benessere sociale, che mostrano come l’andamento del
Pil procapite non è sempre un indicatore adeguato della qualità della vita di un
paese, e così via. Da questo punto di vista, mentre alla teoria economica
neoclassica viene talvolta imputata la pretesa “imperialista” di fare a meno
dell’apporto delle altre scienze sociali a colpi di banalizzazioni della realtà,
l’opera di edificazione di un paradigma alternativo potrebbe rivelare nuove
possibilità di interazione complessa tra le varie branche del sapere scientifico.
32

II

MICROECONOMIA
NEOCLASSICA

2.1 La teoria neoclassica della scelta razionale individuale: il caso del


consumatore

Abbiamo detto che per i neoclassici ogni problema economico è riconducibile a


un problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse
disponibili.

Nel caso del consumatore, si tratterà di scegliere la combinazione di beni di


consumo che massimizzano l'utilità, sotto il vincolo del reddito disponibile.

Consideriamo un problema molto semplificato: esistono solo due beni di


consumo, il bene 1 e il bene 2, che il consumatore può acquistare e consumare
nelle quantità x1 e x2. Il consumatore, inoltre, dispone di un reddito pari a m. I
prezzi di mercato dei due beni sono p1 e p2.

2.2 Il vincolo di bilancio del consumatore

Il vincolo di bilancio del consumatore sarà dunque dato da:

p1x1 + p2x2 ≤ m

Se per semplicità assumiamo che il consumatore spenda tutto il reddito m per


l'acquisto di x1 e x2 , allora il vincolo di bilancio diventa:

p1x1 + p2x2 = m

la spesa per x1 e x2 deve eguagliare il reddito e non può oltrepassarlo. L'equazione


del vincolo di bilancio può essere rappresentata graficamente su un diagramma
33

cartesiano. Sugli assi indichiamo il consumo di x1 e x2. Ogni punto indica una
particolare combinazione di consumo (x1 , x2).

x2

A A(x1A, x2A)
x2

x1 A x1

Esprimiamo il vincolo di bilancio esplicitando la sua equazione rispetto a x2:

p2x2 = m – p1x1

m p1
x2 = − x1
p2 p2

questa equazione è rappresentata dalla retta del vincolo di bilancio del


consumatore. Per tracciare la retta sul grafico poniamo prima x1 = 0 così da
34

trovare l'intercetta sull'asse delle ordinate; poi poniamo x2 = 0 per trovare


l'intercetta sull'asse delle ascisse.

m
x1 = 0 → x 2 = intercetta del vincolo di bilancio sull'asse delle ordinate
p2

m p1
x2 = 0 → 0 = − x1
p 2 p2

p1 m
x1 =
p2 p2

p 1 x1= m

m
x1 = intercetta del vincolo di bilancio sull'asse delle ascisse
p1

x2

m
p2
m p
x2 = − 1 x1 equazione della retta
p2 p2

p1

p 2 coefficiente angolare

m x1
p1
35

Ovviamente la retta di bilancio rappresenta un vincolo. Tutte le combinazioni di


consumo al di sotto di essa sono alla portata del consumatore e quindi sono
ammissibili. Le combinazioni di consumo sulla retta sono le massime possibili,
dato il reddito di cui dispone il consumatore e i prezzi dei beni. Le combinazioni
di consumo situate al di sopra della retta non sono alla portata del consumatore:

x2

A, B, C combinazioni di consumo ammissibili

D combinazione di consumo non ammissibile


m/p2

C D

A
B

m/p1 x1

Come varia la retta di bilancio?

1) un aumento del reddito da m a m' > m: comporta una traslazione, un


movimento parallelo verso l'alto e verso l'esterno della retta di bilancio;
36

2) una riduzione del prezzo da p1 a p1' > p1: comporta una rotazione della
retta di bilancio verso sinistra (l'intercetta verticale resta ferma perché non
è variato il prezzo p2 mentre l'intercetta orizzontale diminuisce), cioè un
aumento della sua pendenza.

x2

effetto di un aumento del reddito da m a m' > m


m'
p2

m
p2

m m' x1
p1 p1

x2

effetto di una riduzione del prezzo da p1 a p1' < p1


m
p2
p1

p2
p1'

p2

m m x1
p1 p1 '
37

2.3 Utilità, ordinamento delle preferenze e curve di indifferenza

Esaminando il vicolo di bilancio abbiamo verificato quali combinazioni di


consumo sono alla portata del consumatore e quali non lo sono. Ora però si tratta
di capire quali sono le combinazioni di consumo che il nostro individuo
preferisce, cioè le combinazioni che gli consentono di massimizzare l'utilità.

L'utilità è intesa come l'attitudine di un certo bene (ad esempio l'acqua) a


soddisfare un determinato bisogno del consumatore (ad esempio la sete: il bisogno
di bere). Generalmente, l'utilità totale che l'individuo ricava dal consumo di una
certa quantità di bene è una funzione crescente di tale quantità: via via che il
consumatore assume dosi successive del bene (ad esempio bicchieri di acqua
aggiuntivi) il suo grado di soddisfazione (l'utilità) aumenta. Ma, gli incrementi di
utilità, corrispondenti ad unità successive del bene consumato, sono sempre più
piccoli (ogni bicchiere d'acqua aggiuntivo è sempre meno utile) perché il
corrispondente bisogno tende a ridursi (la sete si placa). Questo assunto viene
detto principio dell'utilità marginale decrescente. Al limite potrebbe anche
verificarsi che, se si è soddisfatto completamente il bisogno, il consumo di
ulteriori unità di bene facciano ridurre l'utilità totale, poiché ognuna di queste
unità aggiuntive presenta una crescente “disutilità” marginale che fa ridurre
l'utilità totale (continuare a bere ulteriori bicchieri di acqua, dopo aver soddisfatto
la sete, può provocare un malore crescente).

Rappresentiamo graficamente l’utilità totale dell’individuo. Possiamo riportare la


quantità del bene consumato x sulle ascisse di un grafico cartesiano, ponendo sulle
ordinate la corrispondente utilità totale UT.

UT
UT

30 ∆U T
5 ∆x
25
10
15

15

0 1 2 3 x
38

Rappresentiamo ora su un diagramma cartesiano anche l’utilità marginale


dell’individuo, ossia le variazioni dell'utilità totale conseguenti all'incremento di
ogni piccola quantità di consumo del bene considerato. Otteniamo così una
∆U T
rappresentazione della funzione dell'utilità marginale
∆x

15 utilità marginale

10

0 1 2 3 x

La funzione dell'utilità totale è concava perché, come si è detto, l'utilità marginale


è decrescente.

Consideriamo per semplicità una economia nella quale esistono solo 2 beni,
indichiamo con x1 e x2 le rispettive quantità. Come si è visto, esaminando il
vincolo di bilancio del consumatore, ogni combinazione di consumo (ogni paniere
di consumo) potrà essere rappresentato da un punto del piano cartesiano (positivo)
con coordinate (x1, x2). Per descrivere il comportamento del consumatore è
necessario ordinare i panieri di consumo in base alle sue preferenze.
39

Prendiamo ad esempio la combinazione di consumo A e poniamola a confronto


con le combinazioni B, C, D, e E. Dividiamo lo spazio in quattro quadranti.

x2
VI I

E B

Curva di indifferenza
A

D C

III II

x1

Di sicuro: A è preferito a D e a tutte le altre combinazioni di consumo che


appartengono al III quadrante: infatti, al paniere di consumo A è associata una
quantità consumata maggiore di entrambi i beni e quindi deve essere associato
anche un indice di utilità maggiore rispetto a tutte le combinazioni di consumo
che appartengono al III quadrante. Per motivi analoghi, B è preferito ad A e tutte
le combinazioni del I quadrante sono preferite ad A: al punto A è associato un
consumo di entrambi i beni e quindi un indice di utilità inferiore rispetto all'utilità
associata a tutti i panieri che appartengono al quadrante I.

Esisteranno poi delle combinazioni di consumo situate nel II e nel IV quadrante


che il consumatore reputa indifferenti rispetto ad A (due di queste potrebbero
essere E e C e presentano lo stesso valore dell'indice di utilità di A). Unendo tutti i
punti che rappresentano le combinazioni di consumo considerate indifferenti dal
consumatore rispetto al paniere A otterremo una curva di indifferenza.
40

Una curva di indifferenza è l'insieme di tutte le combinazioni di beni che danno al


consumatore la stessa utilità totale e che dunque egli reputa indifferenti tra loro.
Ovviamente panieri di consumo come B e D si trovano su curve di indifferenza
diverse, e ad essi saranno associati livelli di utilità diversi rispetto al paniere A.

In generale, più le curve di indifferenza sono distanti dall'origine degli assi


cartesiani, maggiore è l'utilità totale ad esse associata.

Le curve d’indifferenza presentano una pendenza negativa (ossia sono decrescenti


da sinistra verso destra) in quanto se il consumatore vuole conservare lo stesso
livello di utilità (cioè restare sulla stessa curva di indifferenza), dovrà compensare
ogni riduzione del consumo di uno dei due beni con un incremento dell'altro.

x2 UT3

UT2 UT3 > UT2 > UT1

UT1

x1

Si viene così a costruire una mappa di curve di indifferenza che esprime l'utilità
dell'individuo al variare del paniere di consumo.
41

E’ importante notare che, per i teorici neoclassici, la formazione di questa mappa


di curve di indifferenza è un processo introspettivo individuale, che almeno in
prima approssimazione non risulta condizionato dalla società. I neoclassici
ammettono che la pubblicità e altri condizionamenti esterni possano influenzare la
mappa delle preferenze del consumatore, ma la loro indagine sulle determinanti
sociali dei comportamenti appare limitata. Altri studiosi, di diverso orientamento,
contestano questa concezione dell’individuo: essi ritengono che le preferenze dei
singoli siano fortemente interdipendenti, dal momento che esse si formano in
una struttura sociale data. Studi recenti nel campo della psicologia e delle
neuroscienze tendono a confermare questa visione alternativa (cfr. ad esempio i
lavori di John Cacioppo ed altri). Noi tuttavia qui non approfondiremo il tema.

Una ipotesi fondamentale della teoria neoclassica del consumatore è che le curve
di indifferenza non devono intersecarsi. Si può infatti dimostrare che se le curve
si intersecassero, esprimerebbero un ordinamento dei panieri di consumo
irrazionale. La razionalità del consumatore, infatti, implica che le preferenze
siano transitive: se il paniere A è preferito al paniere B e il paniere B è preferito
al paniere C, allora il paniere A deve essere preferito al paniere C. In altre parole,
se le curve di indifferenza si intersecano, allora le preferenze del consumatore non
sono transitive e quindi viene meno la sua razionalità nella scelta dei panieri di
consumo. Verifichiamo questa importante condizione di transitività con un
esempio.

x2

B UT1
C

UT0

x1
42

Consideriamo il punto A, intersezione tra due curve d’indifferenza. Consideriamo


inoltre i due panieri di consumo A e B che si trovano sulla stessa curva di
indifferenza, e quindi per definizione sono indifferenti. Consideriamo poi i panieri
A e C, anch’essi su una stessa curva e quindi indifferenti per definizione. Se
valesse la condizione di transitività delle preferenza, allora essendo A e B
indifferenti e A e C indifferenti, anche B e C dovrebbero per forza di cose essere
indifferenti tra loro. Ed invece, dal grafico notiamo che B implica un maggior
consumo di entrambi i beni e quindi è certamente preferito a C. Questo risultato
è irrazionale: esso indica che il consumatore non è in grado di ordinare
correttamente le sue preferenze. Quindi, se si assume che il consumatore sia
razionale, allora le preferenze devono essere transitive e quindi le curve di
indifferenza non si possono intersecare.
E’ importante segnalare che alcuni studiosi, tra cui lo psicologo Daniel
Kahneman, che ha conseguito il Nobel per l’Economia nel 2002, hanno
realizzato numerose ricerche empiriche da cui si evince che in media gli
individui risultano irrazionali, nel senso che nelle loro scelte tendono a violare
l’assioma di transitività delle preferenze. Questo risultato empirico solleva
notevoli dubbi sulla capacità della teoria neoclassica del consumatore di
rappresentare la realtà economica. Qui tuttavia non approfondiremo il tema, e
proseguiremo nell’analisi della teoria.

Abbiamo già spiegato il motivo per cui la teoria neoclassica assume che di norma
le curve di indifferenza siano decrescenti. Inoltre, la teoria assume pure che di
norma tali curve siano convesse: dato un certo livello di utilità, muovendosi lungo
la corrispondente curva di indifferenza, all'aumentare del consumo di un bene il
consumatore è sempre meno disposto a rinunciare all'altro bene. La convessità
della curva di indifferenza è una diretta conseguenza dell'assunto di utilità
marginale decrescente. Via via che riduce di quote costanti il consumo di uno dei
due beni (che diventa sempre più scarso e prezioso in termini di utilità marginale),
il consumatore, per non far ridurre il suo livello di utilità, dovrà compensare
queste riduzioni mediante il consumo di quote crescenti dell'altro bene (sempre
più abbondante e meno prezioso in termini di utilità marginale).
43

x2
UT0

20 A

5
B C
15
5
D E
10

2 3 6
x1
1 3

Il grafico mostra che una riduzione del consumo del bene 2 da 20 a 15 unità
richiede, per lasciare invariata l'utilità totale a UT0, un aumento del consumo del
bene 1 di una sola unità. Ma, se il consumo del bene 2 si riduce di ulteriori 5
unità, allora è necessario un aumento del consumo del bene 1 di bene 3 unità. Ciò
è dovuto all'utilità marginale decrescente. La perdita di utilità che il consumatore
subisce passando a A a B è relativamente bassa e può essere compensata con una
sola unità del bene 1 (dotata di un'alta utilità marginale) che consente di
raggiungere il punto C. Invece, lo spostamento da C a D implica una perdita di
utilità maggiore (essendo il bene 2 ora più scarso per il consumatore) che, per
essere compensata, richiede una incremento di 3 unità di consumo del bene 1
(infatti queste 3 unità sono dotate di una utilità marginale più bassa perché il bene
1 è ora relativamente più abbondante) in modo da raggiungere il punto E.

La convessità delle curve di indifferenza può anche essere spiegata da una


preferenza del consumatore per la varietà nella composizione del proprio paniere
di consumo. Considerati due panieri A e B che risiedono sulla medesima curva di
indifferenza, il consumatore preferirà ad ognuno di essi un qualunque paniere C
44

ottenuto come combinazione lineare intermedia dei rispettivi contenuti di A e B.


Infatti, se le curve di indifferenza sono convesse, una siffatta combinazione
lineare risiederà su di una curva di indifferenza più alta (corrispondente ad un
livello di utilità maggiore).

x2

x2 A A

x2 C C

B B UT1
x2
UT0

x1 A x1 C x1 B
x1

Finora abbiamo considerato curve di indifferenza tipiche, che sono riferite a dei
beni sostituti tra loro, come ad esempio le mele e le pere. Tuttavia la teoria
neoclassica ammette anche l’esistenza di curve di indifferenza di altro genere, che
descrivono altri tipi di rapporti tra i beni considerati.

Quando due beni sono tra loro perfetti sostituti le curve di indifferenza assumono
una forma lineare (sono delle linee rette). È questo il caso della benzina offerta sul
mercato da due differenti compagnie di distribuzione (Total e Agip ad esempio):
evidentemente la maggior parte dei consumatori trovano indifferente rifornirsi
dall'uno o dall'altro distributore perché non sussistono differenze apprezzabili tra i
due carburanti. Il consumatore potrebbe consumare anche uno solo dei due beni
senza incorrere in una riduzione dell'utilità totale.
45

x2
A

x2 C C

UT0

B
C
x1
x1

Il caso opposto a quello dei perfetti sostituiti riguardi i beni che sono tra loro
perfettamente complementari (detti anche beni perfetti complementi; ad
esempio i due ingredienti necessari a preparare una particolare bevanda, si pensi
allo zucchero e al caffè). In questo caso le preferenze del consumatore assumono
una forma ad angolo: aumentando il consumo di uno solo dei due beni
(spostandosi dal punto A al punto C) il consumatore non ottiene incrementi di
utilità. Per accrescere l'utilità totale è necessario accrescere in misura
proporzionale il consumo di entrambi i beni (spostandosi nel punto B).
46

x2

x2 B B UT1

x2 A A C
UT0

x1 A x1 B
x1

Il consumatore potrebbe anche essere indifferente al fatto che il proprio paniere di


consumo contenga o meno un determinato bene (detto bene indifferente, volendo
dire con espressione imprecisa che il consumatore è indifferente rispetto ad esso).
Si pensi alla disponibilità di sigarette per un individuo goloso ma non fumatore: il
consumo di una maggiore quantità di dolci farebbe aumentare l'utilità di tale
consumatore ma egli resterebbe indifferente rispetto all'aumentare del numero di
sigarette di cui può disporre. In questo caso le curve di indifferenza sarebbero
parallele all'asse sul quale viene misurato il bene indifferente. Il consumatore non
otterrebbe nessun vantaggio spostandosi dal punto A al punto C se il bene 1 è un
bene indifferente, solo incrementando il consumo del bene 2 potrebbe ottenere un
aumento della propria utilità totale (ad esempio spostandosi nel punto B).
47

x2

x2 B B UT1

x2 A A C
UT0

x1 A x1 B
x1

In altri importanti casi le curve di indifferenza possono essere crescenti piuttosto


che decrescenti. Ciò avviene quando su uno degli assi cartesiani è misurata la
quantità di un “male” e non di un bene. Un male corrisponde ad un'attività o ad
consumo penoso che comporta, quindi, disutilità. Un esempio classico è fornito
dalla scelta tra il reddito di cui può disporre un consumatore-lavoratore e il lavoro
(il sacrificio) che è costretto a cedere per conseguire tale reddito.
48

Reddi
to
UT2 > UT1 > UT0

UT2

UT1

UT0

Ore di lavoro
49

L'inclinazione della curva di indifferenza è detta saggio marginale di


sostituzione (SMS o MRS). Esso indica la quantità incrementale del bene 2
(indicata con ∆x2) che il consumatore deve ricevere per essere compensato della
perdita di una certa quantità del bene 1 (indicata con ∆x1) affinché la sua utilità
resti invariata.

∆x 2 ∆x2
SMS = − = 
∆x1 ∆x1

x2

x2 A A
∆ x2
x2 B B
∆ x1
UT0

x1 A x1 B
x1

Essendo ∆x1 per definizione negativo e ∆x2 in generale positivo (almeno per beni
∆x 2
sostituti), anteponendo al rapporto il segno negativo, oppure prendendolo in
∆x1
valore assoluto, si ottiene un SMS positivo e decrescete (all'aumentare di x1) lungo
tutta la curva di indifferenza. Questa caratteristica del SMS è dovuta alla
convessità della curva di indifferenza (per cui al crescere di x1 aumenta il
50

numeratore del SMS si riduce) e, quindi, al principio dell'utilità marginale


decrescente.

x2

∆ x2
B
C
D
E
UT0

∆ x1 x1

Infine si dimostra che, fissato un certo livello di utilità (e quindi individuata la


corrispondente curva di indifferenza), il SMS è pari al rapporto tra le utilità
marginali dei due beni considerati. Infatti, se variano x1 e x2 possiamo calcolare la
variazione ∆U dell'utilità totale dell'individuo come somma delle variazioni dei
consumi moltiplicate per le rispettive utilità marginali (UM):

∆U = UM1 ∆x1 + UM2 ∆x2

ovviamente, restando sulla stessa curva di indifferenza, l'utilità non varia e


pertanto ∆U = 0 e quindi:

0 = UM1 ∆x1 + UM2 ∆x2


51

– UM2 ∆x2 = UM1 ∆x1

∆x2 UM 1
− =
∆x1 UM 2

∂U
UM 1 ∂ x1
SMS = = ∂U
UM 2
∂ x2

questa uguaglianza esprime il SMS come rapporto delle derivate parziali della
funzioni di utilità (le utilità marginali).

Ad esempio, se la funzione di utilità è definita da:

U(x1, x2) = x1x2

allora, fissato il valore dell'utilità a U0, le curve di indifferenza saranno delle


iperboli equilatere di equazione:
0
U
x2 = x
1

al variare del livello di utilità fissato si potrà costruire tutta la mappa delle curve
di indifferenza.
52

2.4 La scelta del consumatore

Dato il vincolo di bilancio, data la mappa delle curve di indifferenza, il


consumatore è in grado di scegliere il paniere di consumo ottimo perseguendo il
seguente obiettivo: scegliere la combinazione di consumo che massimizza l'utilità
sotto il vincolo delle risorse disponibili.

Per il consumatore la migliore combinazione di consumo, quella che massimizza


l'utilità sotto il vincolo di bilancio, è rappresentata dal punto E di tangenza tra il
vincolo di bilancio e la curva di indifferenza.

x2

x2 * E
B UT2

UT1
C UT0

x1 * x1

Infatti il punto D sarebbe preferito a E ma non è raggiungibile perché non è un


paniere di consumo ammissibile (si trova al di sopra del vincolo di bilancio). I
punti A e C si trovano sul vincolo di bilancio (sono panieri di consumo
ammissibili) ma (come il punto B) appartengono ad una curva di indifferenza più
bassa (che corrisponde ad un livello di utilità inferiore) rispetto alla curva di
indifferenza che passa per il punto E.
53

Si noti che in corrispondenza del punto E abbiamo che l'inclinazione del vincolo
di bilancio (-p1/p2) è uguale alla pendenza della curva di indifferenza passante per
A (SMS = - ∆x2/ ∆x1). Cosa che invece non è vera per un punto come C oppure A.
Nel punto B, inoltre, a differenza del punto E, non è soddisfatto il vincolo di
bilancio (p1 x1 + p2 x2 = m).

Dunque la combinazione ottima del consumo al punto nel quale:

∆x  p
SMS =  2= 1
∆x1 p 2

oppure

∂U
∂ x1 p1
∂U = p
2
∂ x2

Finora abbiamo individuato la soluzione del problema d'ottimo del consumatore in


termini grafici, determiniamola ora in termini algebrici.

Il consumatore deve risolvere il seguente problema di massimo vincolato:

max U(x1,x2)

sub p1 x1 + p2 x2 = m

Considerato che il reddito m di cui il consumatore dispone e i prezzi di mercato p1


e p2 sono ritenuti tutti dei dati esogeni al problema, siamo di fronte a un sistema di
due equazioni in due incognite, rappresentate da x1 e x2. Risolvendo questo
sistema di equazioni otterremo la combinazione ottima di x1* e x2* che rende
massima l'utilità del consumatore.
54

Un esempio:

U(x1, x2) = x1·x2


M = 40
p1 = 4
p2 = 2

max U(x1, x2) = x1·x2


sub 4·x1 + 2·x2 = 40

Per risolvere questo problema possiamo applicare vari metodi. Il più semplice è il
metodo di sostituzione. In primo luogo esprimiamo il vincolo in termini di x2.

2·x2 = 40 – 4 x1
x2 = 20 – 2 x1

andiamo quindi a sostituire questa equazione nella funzione di utilità:

U(x1, x2) = x1·(20 – 2 x1) = 20 x1 – 2 x12

a questo punto deriviamo rispetto a x1 e poniamo pari a zero la derivata:

δU
= 20 – 4 x1 = 0
δx1

x1 =20/4 = 5

che sostituito nella equazione x2 = 20 – 2 x1 da:

x2 = 20 – 2 (5) =20 -10 = 10

Dunque le quantità di consumo che massimizzano l’utilità del consumatore sono


pari a x1 = 5 e x2 = 10.
55

2.5 La curva di domanda individuale

Supponiamo che il prezzo di una merce si modifichi e vediamo come cambia la


scelta ottima del consumatore. Ricordiamo che la variazione del prezzo implica
una “rotazione” del vicolo di bilancio.

Ipotizziamo una serie di riduzioni di p1: p1, p1' < p1, p1' ' < p1'
individueremo così una serie di punti di ottimo e l'insieme di tutti questi punti di
ottimo è definito “curva di prezzo-consumo”. Si noti che al diminuire di p1 la
quantità x1 domandata dal consumatore aumenta.

x2

m/p2

E'' curva di prezzo-consumo


E'
E

x1 x1' x1'' m/p1 m/p1' m/p1'' x1


56

Adesso prendiamo i valori di p1 e i corrispondenti valori ottimi di x1 e


collochiamoli su di un nuovo grafico, ponendo x1 in ascissa e p1 in ordinata.

p1

curva di domanda
p1 individuale
x1 = x1(p1)

p1 '

p1''

x1 x1 ' x1'' x1

La curva di domanda è decrescente: essa esprime una relazione inversa tra p1 e x1:
al diminuire del prezzo la domanda aumenta
all'aumentare del prezzo la domanda diminuisce

La forma decrescente della curva di domanda vale per tutti i beni cosiddetti
“normali”, e si ritiene che tale relazione sia solitamente valida.
57

2.6 Il surplus del consumatore

Data la curva di domanda individuale, è possibile misurare il benessere che


l'individuo trae dall'acquisto di un certo quantitativo di merce, ossia il surplus del
consumatore. Consideriamo la domanda annua di Tizio di biglietti per concerti:

1
xT = 15 - 2 p

ovvero
p1
p = 0 → xT = 15 È facile mostrare che il surplus
30 A del consumatore è rappresentato
xT = 0 → p = 30
dall'area ABC.
supponiamo che il
prezzo di mercato
di ogni biglietto
sia p = 10€.

La domanda sarà: B
10
C
1
xT = 15 - 2 10
xT = 10

10 15 x1

Il surplus del consumatore è dato dalla somma delle differenze tra quanto sarebbe
stato disposto a pagare per ottenere ogni unità aggiuntiva del bene acquistato e
quanto ha dovuto effettivamente pagare (il prezzo di mercato). Nell'esempio,
assumendo che il prezzo di mercato sia p = 10 euro allora la domanda del
consumatore è pari a 10 biglietti. Dunque la spesa effettiva totale del consumatore
è pari a 100. Calcoliamo ora il surplus. Sapendo che la funzione di domanda è:

1
xT = 15 - 2 p da cui p = 30 – 2xT

possiamo calcolare quanto il consumatore sarebbe stato disposto a pagare. Per xT


= 1, la funzione di domanda ci dice che egli sarebbe stato disposto a pagare un
prezzo p = 30 – 2 = 28. Per xT = 2, sarebbe stato disposto a pagare p = 26. Per xT
= 3, p = 24. E così via. Sommando le spese che il consumatore sarebbe stato
58

disposto a sostenere otteniamo 28 + 26 + 24 + 22 + 20 + 18 + 16 + 14 + 12 + 10 =


190. Dunque, visto che il consumatore sarebbe stato disposto a pagare le 10 unità
di merce anche 190 euro, mentre ne ha pagati soltanto 100, allora il suo surplus è
pari a 190 – 100 = 90 euro.

Il surplus del consumatore può essere determinato anche calcolando l'area del
triangolo ABC. Quell’area infatti può essere intesa come la differenza tra le spese
teoriche che il consumatore sarebbe stato disposto a sostenere per ciascuna unità
del bene, e le spese effettive realizzate al prezzo di mercato vigente. Nell’esempio
specifico, l’area del triandolo sarà data da (AC x BC)/2 = 20x10/2 = 100. (N.B. si
noti che calcolando l’area si ottiene un valore del surplus del consumatore
maggiore di 90; il motivo è che, trattandosi di un bene non divisibile, tale area
costituisce solo un'approssimazione per eccesso del surplus del consumatore).
59

2.7 la variazione della domanda individuale rispetto al reddito

La curva di domanda individuale reagisce anche alle variazioni del reddito del
consumatore (ad esempio m varia da m a m' > m).

x2
m'/p2

m/p2

E'
E

x1 x1' m/p1 m'/p1 x1


p1

p1

x1 x1' x1
in tal caso, a parità di p1 (che non è cambiato), assistiamo ad un aumento della
quantità domandata di x1. La curva di domanda, quindi, trasla verso destra al
crescere del reddito.
60

2.8 Dalla curva di domanda individuale alla curva di domanda di mercato

Per ottenere la curva di domanda di mercato è necessario sommare le quantità


domandate dai singoli consumatori per ogni livello del prezzo.

p p p

30 30 30

15 xT 10 xC 25 x

curva di domanda di Tizio p = 30 – 2 xT → xT = 15 - 1/2 p


curva di domanda di Caio p = 30 – 3 xC → xC = 10 - 1/3 p

curava di domanda x = xT + xC = 25 – 5/6 p → p = 30 – 6/5 x


di mercato

per ottenere la curva di domanda di mercato è quindi necessario esplicitare tutte le


domande individuali in termini di x e poi sommarle.
61

2.9 La teoria neoclassica dell'impresa

Dopo quanto detto sula scelta ottima dell'individuo (e in particolare del


consumatore) passiamo ora ad esaminare il lato delle decisioni dell'impresa
inerenti la produzione e i costi.

Così come dalla scelta dell'individuo abbiamo ottenuto la domanda delle merci,
dalla teoria dell'impresa otterremo l'offerta.

LA PRODUZIONE

Nell'analisi neoclassica di solito si ritiene che la produzione di una certa quantità


Q di merce viene effettuata utilizzando i fattori della produzione

L lavoro
Q
K capitale (di solito inteso come valore dei mezzi di produzione)

(L'analisi neoclassica del capitale presenta diversi problemi: es. se K è misurato


come valore di tutti i mezzi di produzione, allora bisognerebbe conoscere i prezzi
di tali mezzi di produzione. Ma la determinazione dei prezzi dovrebbe essere un
risultato dell'analisi non una premessa).

Ad ogni modo noi qui non ci occuperemo di questo problema. Anzi, per
semplicità riterremo che l'analisi sia di breve periodo per cui K può essere
considerato un dato esogeno, fisso.

Ciò significa che la funzione di produzione:

Q = Q(K, L)

può essere riscritta così:

Q = Q(L) con K fisso

Questa funzione di produzione è dunque sottoposta alla legge della produttività


marginale decrescente di un fattore produttivo, dati gli altri.

Dato il capitale disponibile (Macchine, impianti, etc.), i lavoratori impiegati da


un'impresa avranno via via una produttività marginale sempre più piccola.
62

Q PMGL

Q = Q(L)
32 10
31
28
PMGL
24 8
18
6
10 4
3
1

1 2 3 4 5 6 L 1 2 3 4 5 6 L

La produttività marginale del lavoro (PMGL) corrisponde alla variazione della


produzione totale derivante da una piccola variazione del lavoro impiegato.

In termini algebrici:

∆Q
PMGL =
∆L

in modo più preciso usando le derivate:

δQ
PMGL =
δL

Esempio: se la funzione di produzione è data da Q = L1/2, allora la produttività


marginale del lavoro sarà:

1

δQ 1 2 1 1
PMGL = = L = =
δL 2 1 2 L
2 L2

(nota che al crescere di L la PMGL si riduce)


Ovviamente si può anche ragionare all'inverso, calcolando la quantità di L
necessaria a produrre una certa produzione Q:
63

L = L(Q) ad es. per Q = L1/2 → Q2 = (L1/2)2 → L = Q2

Passiamo ora ai costi di produzione.

I costi totali di produzione sono costituiti dai costi fissi e dai costi variabili:

I costi fissi non variano al variare della produzione (almeno nel breve periodo).
Essi possono essere identificati con il costo del capitale:

(1 + r) → r K0

I costi variabili variano con la produzione e possono essere identificati con il


costo del lavoro:

w L(Q)

Dunque i costi totali sono:

CT = r K0 + w L(Q)

Nel nostro esempio con Q(L) = L1/2 otteniamo L(Q) = Q2 e quindi

CT = r K0 + w Q2

CT
CT

rK0

Q
64

Possiamo dunque calcolare il costo marginale CMG che corrisponde alla


variazione del costo totale conseguente a una variazione marginale (piccola) della
quantità prodotta:

δCT
CMG =
δQ

Nel nostro esempio:

δCT
CMG = = w2Q
δQ

CMG

2w
Q

È interessante notare che esiste una relazione tra CMG e PMGL. Infatti
(ricordando che K è costante):

δCT δL
CMG = =w
δQ δQ

δQ
ma sappiamo che PMGL = e quindi possiamo scrivere:
δL
65

w w
CMG = =
δQ PMGL
δL

Quindi quanto più bassa è la PMGL tanto più alto è il CMG.


Infatti nel nostro esempio:

CMG = w2Q

ma Q = L1/2 e quindi:

CMG = w2L1/2

che può essere riscritto così:

w
CMG = ← il denominatore di questa frazione è proprio la PMGL
1
2 L1 / 2

infine calcoliamo il costo medio di produzione (CM). Il costo medio è


semplicemente il costo totale diviso per le quantità prodotte e ci dice quanto costa
in media ogni unità di merce prodotta:

CT rK 0 + wL(Q )
CM = Q =
Q

notare per inciso che quindi CT = CM·Q

Il costo medio ha un andamento particolare. Esso è prima decrescente e poi


crescente.

Infatti all'inizio la crescita di Q consente di ammortizzare i costi fissi, cioè


consente di ripartire il costo del capitale su più unità prodotte e vendute. Ciò fa
ridurre CM.

Al tempo stesso l'aumento di Q fa aumentare i costi variabili necessari alla


produzione. Ciò fa aumentare i CM.

Finché la riduzione dei costi fissi prevale sull'aumento dei costi variabili, il costo
medio si riduce. Quando l'aumento dei costi variabili inizia a prevalere, il costo
medio aumenta.
66

Nel nostro esempio, avendo L = Q2:

CT rK 0 + wQ 2 rK 0
CM = Q = = + wQ
Q Q

supponiamo che w = 2 e r K0 = 20, abbiamo:


25
20
CM = + 2Q
Q
20

Q CM
1 22 15
2 14
CM

3 12,67
4 13 10
5 14
6 15,33 5

0
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9
Q

Più precisamente il minimo corrisponde a Q = 10 ≅ 3,2 e possiamo verificarlo


calcolando il minimo della funzione del costo medio.
Condizione necessaria per l'individuazione di un punto di un punto di minimo di
una funzione è che la sua derivata sia pari a zero (cioè che la funzione sia “piatta”
in quel punto):

δCT 20
= − 2 + 2 = 0 → Q2 = 10 → Q = 10 ≅ 3,2 ← costo medio minimo
δQ Q
Infine, è interessante notare che il costo medio e il costo marginale si intersecano
esattamente nel punto di minimo del costo medio. Per verificarlo nell'esempio
(con rK0 = 20, w=2 e L= Q2) poniamo CM=CMG :

20
+ 2Q = 2·2Q → Q = 10 ≅ 3,2
Q

l'intersezione tra CM e CMG corrisponde esattamente al CM minimo.

Ma perché CMG e CM si incrociano proprio in corrispondenza del CM minimo?


La ragione è questa, il CMG costituisce un costo aggiuntivo rispetto alla media
dei costi. Finché il costo aggiuntivo è minore della media, la media si riduce (QA).
67

Quando il costo aggiuntivo diventa maggiore della media, la media inizia a


crescere (QB).

CM,
CMG
CMG
CM

QA QB Q

2.10 La massimizzazione del profitto dell'impresa

Secondo i neoclassici lo scopo generale dell'impresa è massimizzare il profitto


(Π), inteso come differenza tra ricavi totali (RT = p·Q) e costi totali (CT).

Π = RT - CT ← Funzione del profitto

L'impresa deve dunque scegliere la quantità Q che massimizza Π. Ossia, occorre


derivare rispetto a Q e porre uguale a zero tale derivata:

δΠ δRT δCT
= − =0
δQ δQ δQ

δCT
sapendo che CMG =
δQ

δRT
e definendo RMG =
δQ
68

possiamo allora dire che il profitto è massimizzato in corrispondenza di quella


quantità Q* tale che:

RMG – CMG = 0

RMG = CMG

questa è la condizione del primo ordine per il massimo profitto.

Questa condizione è piuttosto semplice da comprendere. CMG è il costo


aggiuntivo che l'impresa deve sostenere se decide di produrre una unità in più di
merce. RMG è il ricavo aggiuntivo che deriva dalla produzione e dalla vendita di
una unità in più di merce.

Ora, è chiaro che finché RMG > CMG all'impresa conviene aumentare la quantità
prodotta Q perché le unità aggiuntive rendono più di quanto costano e quindi
consentono di aumentare il profitto Π. Quando però RMG=CMG conviene
fermarsi e non andare oltre poiché ogni unità prodotta ulteriore costerebbe più di
quanto rende e farebbero ridurre il profitto totale.

Questa regola di massimizzazione del profitto vale in generale. Tuttavia, come


vedremo, essa viene declinata in modi diversi a seconda del tipo di impresa di
fronte alla quale ci troviamo. Abbiamo infatti tipi diversi di imprese che
differiscono in base al tipo di mercato in cui operano e al grado di competizione
che fronteggiano. Qui considereremo tre forme di mercato: la concorrenza
perfetta, il monopolio e l'oligopolio.

2.11 L'impresa in concorrenza perfetta

Il mercato di concorrenza perfetta è quello in cui operano moltissime piccole


imprese che producono un bene omogeneo.

Queste imprese si presentano sul mercato senza disporre di alcun potere sui prezzi
di vendita.

È il caso dei piccoli produttori di mele che si presentano sul mercato ortofrutticolo
al mattino. Un banditore conta le mele offerte dai produttori e le mele domandate
dai fruttivendoli, e fissa il prezzo di equilibrio di mercato che uguaglia domande e
offerte. Una volta fissato il prezzo di equilibrio ogni produttore dovrà attenersi ad
esso. Se, infatti, prova a vendere a prezzi maggiori nessuno andrà a comprare da
lui. E non ha interesse a vendere a prezzi minori visto che al prezzo di equilibrio
69

lui sa già che venderà tutta la merce (praticare un prezzo più basso comporterebbe
solo una riduzione dei ricavi e degli eventuali profitti).
L'impresa in concorrenza perfetta dunque non ha alcun potere sul prezzo di
mercato. Si dice che essa è price-taker, cioè “prende”, “subisce” il prezzo fissato
dal mercato.
In concorrenza perfetta possiamo dunque affermare che il prezzo di mercato è un
dato esogeno:

p = p0

Vediamo allora quali sono le implicazioni di un p esogeno sull'obiettivo di


massimizzazione del profitto dell'impresa in concorrenza perfetta.

Abbiamo detto che:

Π = RT – CT

Ovviamente il ricavo totale non è altro che RT = p·Q, cioè il prezzo per la
quantità prodotta e venduta. Dunque:

Π = p·Q – CT

Imponiamo quindi la condizione di massimo profitto derivando rispetto a Q e


ponendo uguale a zero tale derivata. Otteniamo:

RMG = CMG

δCT
p– =0
δQ

δCT
p=
δQ

p = CMG

Questa è la condizione di massimo profitto in concorrenza perfetta.

Si noti che in concorrenza perfetta il RMG derivante da una unità in più di merce
prodotta e venduta corrisponde esattamente al suo prezzo.
Ecco perché la condizione generale di massimo profitto RMG = CMG diventa p =
CMG.
70

Dunque, scopo dell'impresa è di fissare un livello di produzione Q tale che il suo


CMG arrivi ad uguagliare il prezzo p (esogeno) di mercato.

Se p > CMG conviene aumentare la quantità prodotta e venduta visto che le


quantità aggiuntive si venderanno ad un prezzo maggiore del loro costo
marginale.

Se p < CMG occorre tornare indietro, produrre di meno, perché si sta producendo
troppo nel senso che le quantità in eccesso costano più di quanto renderanno
all'atto della vendita.

Esempio algebrico: CT = r K + w Q2

poniamo: p = 16 w =2 r K = 20

Il profitto è dato da:


Π = RT – CT = p·Q – CT

la condizione di massimo profitto per l'impresa in concorrenza perfetta è:

δΠ δRT δCT
= − =0
δQ δQ δQ

δCT
p– =0
δQ

δCT
p=
δQ

ossia sostituendo i valori:

16 = 4 Q → Q=4

Questa è la quantità che massimizza il profitto dell'impresa.


71

2.12 Rappresentazione grafica dell'equilibrio ottimale dell'impresa in


concorrenza perfetta

Il prezzo di mercato è esogeno, ossia è indipendente dalla quantità che la singola


impresa ha deciso di produrre ed offrire sul mercato (pertanto, sul grafico il
prezzo è rappresentato da un retta orizzontale, parallela all'asse delle ascisse).

Basterebbe che l'impresa aumentasse anche di pochissimo il prezzo p al quale


vende il proprio prodotto e si ritroverebbe con una domanda pari a zero (punto A).

Al prezzo di mercato l'impresa può vendere tutte la merce che riesce a produrre
(naturalmente, considerati i costi di produzione, ad un certo punto dovrebbe
fermarsi per non andare in perdita).

A
p0

Q0 Q1 Q2 Q
72

Disegniamo le curve di costo e la retta orizzontale del prezzo:

p,
CM,
CMG
CMG
C CM
A E D
p0

QA Q* QB Q

La quantità Q che massimizza il profitto:

non è QA (P > CMG) segmento AB

non è QB (P < CMG) segmento CD

è Q* (P = CMG) punto E
73

Rappresentiamo graficamente il profitto dell'impresa:

p,
CM,
CMG
CMG

CM
E
p0
A F

O Q* Q

Il ricavo totale RT = p0·Q corrisponde al rettangolo OQ*Ep0

Sapendo che CM = CT/Q allora CT = CM·Q e quindi possiamo dire che il costo
totale corrisponde al rettangolo OQ*FA.

È chiaro che il profitto Π = RT – CT corrisponde alla differenza tra i due


rettangoli, cioè all'area AFEp0 (area tratteggiata).

Ovviamente, poiché questa impresa rispetta la condizione p=CMG, il profitto


tracciato nel grafico sarà il massimo possibile.

Esercizio: in base ai dati dell'esercizio precedente, calcoliamo il profitto massimo:

CT = r K0 + w Q2 p0 = 16 w=2 r K = 20

Abbiamo già detto che Q* = 4

Quindi RT = p0·Q = 16 * 4 = 64

CT = 20 + 2 (4)2 = 52

Π = 64 – 52 =12
74

Si verifichi che se cambia la Q non si riesce più ad ottenere un Π così alto.


Ovviamente può anche accadere che il prezzo di mercato si riduca e che l'impresa
si ritrovi addirittura a produrre in perdita (se il prezzo scende al di sotto del costo
medio).

p,
CM,
CMG
CMG

CM

A E

p0
F

O Q* Q
Quando p0 si situa al di sotto del CM l'impresa incorre in una perdita (cioè in un
profitto negativo) data da:

Π = RT – CT = OQ*Ep0 – OQ*FA = AFEp0 (che è negativo, ossia perdita)

Chiaramente l'impresa no può resistere a lungo in una tale situazione. Se p non


cresce o se un miglioramento tecnico non le consente di abbassare i costi,
l'impresa sarà costretta a ritirarsi dal mercato (con probabile bancarotta visto che
non è in grado di ripagare r K0).

Ma oltre all'uscita dal mercato delle imprese inefficienti, può anche accadere che
si verifichi l'ingresso nel mercato di nuove imprese. Ciò accade soprattutto quando
le imprese già presenti sul mercato realizzano profitti positivi.

Il fatto che le imprese operanti sul mercato stiano realizzando profitti positivi,
stimola l'ingresso di nuovi concorrenti.

Ma cosa accade quando entrano nuovi concorrenti? Semplice: la competizione si


intensifica e quindi il prezzo di mercato diminuisce.
75

Questa tendenza prosegue fino a quando non si raggiunge l'equilibrio di lungo


periodo per il quale p0 = CMG = CMMINIMO dove i profitti sono nulli e quindi
nono c'è più incentivo ad entrare nel mercato:

p,
CM,
CMG
CMG

CM
p'
p''
E
p0

O Q* Q

RT = CT = OQEP0 e quindi Π=0

A questo punto possiamo definire la curva di offerta dell'impresa. La curva di


offerta ci dice come varia la quantità prodotta dall'impresa al variare del prezzo di
mercato.

p,
CM,
CMG
CMG

CM
p0
p1
p2

O Q2 Q1 Q0 Q
76

Ipotizziamo che il prezzo diminuisca e determiniamo i corrispondenti livelli ottimi


Q di produzione.

Si vede che se il prezzo diminuisce (p2 < p1 < p0), la quantità prodotta ed offerta si
riduce (Q2 > Q1 > Q0). Viceversa quando il prezzo aumenta, la quantità prodotta
ed offerta aumenta.

p offerta
dell'impresa

CM

Sussiste, quindi, una relazione diretta tra p e Q e tale relazione corrisponde


esattamente alla curva CMG al di sopra del CM (al di sotto del CM l'impresa a
lungo andare non può reggere).

Dunque, possiamo affermare che la curva di offerta dell'impresa corrisponde alla


curva del CMG dalla intersezione con il CM in su (in realtà sarebbe dal CMV in
su).

Come si vede l'offerta è crescente, il che indica che all'aumentare di p cresce Q e


al diminuire di p diminuisce Q.
77

Così, come avveniva per la domanda, è possibile sommare orizzontalmente le


curve di offerta delle singole imprese per ottenere la curva di offerta del mercato:

p p p
CMG1 CMG2
offerta di
mercato

Q Q Q
Impresa 1 Impresa 2 ecc.

2.13 Domanda, offerta ed equilibrio del mercato di concorrenza perfetta

Dalla teoria della scelta del consumatore sappiamo che la domanda è di questo
tipo:
p
Qd = a - b p

ossia
se il prezzo aumenta, la quantità domandata diminuisce, D
se il prezzo diminuisce, la quantità domandata aumenta.
Q
Dalla teoria dell'impresa sappiamo che l'offerta è di questo
tipo:
p
s
Q =c+dp S
ossia
se il prezzo aumenta, la quantità offerta aumenta,
se il prezzo diminuisce, la quantità offerta diminuisce.
Q
78

Graficamente, l’equilibrio di mercato è:

p
S

P'
E
p*

D' Q* S'
Q

I neoclassici sostengono che le forze del mercato, lasciate a sé stesse,


conducono automaticamente all'equilibrio tra domanda e offerta. Ad
esempio, se il prezzo di equilibrio è p* ma il prezzo di mercato è p' > p*, allora si
verificherà un eccesso di offerta sulla domanda: S' > D'. In una situazione di
eccesso di offerta la merce è sovrabbondante rispetto alle richieste dei
consumatori. Di conseguenza il prezzo della merce tenderà a ridursi, e questo
comporterà due effetti: da un lato i consumatori saranno incentivati ad aumentare
la loro domanda, dall’altro le imprese dovranno ridurre la loro offerta. La
diminuzione del prezzo di mercato proseguirà fino a quando non si raggiunge il
livello p* per il quale domanda e offerta sono in equilibrio: S=D.

Oltre alla rappresentazione grafica dell’equilibrio del mercato di concorrenza


perfetta, esiste anche la rappresentazione algebrica, che riportiamo qui di seguito:

Qd = a – b p

Qd = c + d p

Imponiamo la condizione di equilibrio Qd = Qs:

a–bp=c+dp
79

a–c=bp+dp

(b + d) p = a – c

a−c
p=
b+d

Andiamo a sostituire p in una qualsiasi delle equazioni originarie

a−c
Q=c+dp=c+d( )
b+d

a−c
Qd = Qs = c + d p = c + d ( )
b+d

2.14 L'elasticità della domanda rispetto al prezzo

Quando si vuole conoscere la sensibilità della domanda alle variazioni del prezzo
si adopera il concetto di elasticità.
L'elasticità della domanda rispetto al prezzo indica la variazione percentuale della
quantità domandata conseguente ad una variazione dell'1% del prezzo.

Definendo con ∆Q/Q la variazione percentuale della domanda e con ∆p/p la


variazione percentuale del prezzo, si ha che l'elasticità εD è data da:

∆Q
Q ∆Q p ∆Q p
εD = = =
∆p Q ∆p ∆p Q
p

∆Q
ricordando che ovviamente < 0 in quanto la domanda è normalmente una
∆p
funzione decrescente del prezzo. Quindi:

∆Q p δQ p
εD = che in termini di derivate diventa εD =
∆p Q δp Q

Quindi si possono avere due casi estremi:


80

- una domanda perfettamente elastica, ε D = - ∞, dove una piccola variazione di p


provoca una enorme variazione di Qd;
- una domanda perfettamente rigida, ε D = 0, per le quali anche se p varia molto, la
domanda Qd non cambia.
Ma, più in generale, ci troveremo di fronte ad una di domanda con elasticità
intermedia, 0 < ε D < - ∞.

p p p
0 < εD < - ∞
εD = - ∞ εD = 0

Q Q Q

Esercizio:

sapendo che Qd = 90 – 2 p e che Qs = (3/2) p + 20

1) determinare il valore di equilibrio di p e Q,


2) disegnare le curve sul grafico,
3) disegnare il surplus del consumatore e determinarlo algebricamente.

Qd = Qs

90 – 2 p = (3/2) p + 20

90 – 20 = (3/2) p + 2p

(7/2) p = 70

p = (2/7) 70 = 20

Q = 90 – 2 p = 90 – 2 (20) = 50

Disegniamo:
81

Qd = 90 – 2 p

per p=0 → Qd = 90

per Qd = 0 → p = 45

Qs = (3/2) p + 20

per p = 0 → Qs = 20
per Qs = 0 → p = - 40/3

p
45 A
surplus del consumatore

B
20
C
D

20
50 90 Q

-40/3

Il surplus del consumatore può essere calcolato come area del triangolo ABC.
Ossia, nel nostro esempio: (50 x 25)/2 = 625.

Calcoliamo anche l'elasticità della domanda (nel punto B di equilibrio tra


domanda e offerta):
82

δQ p p 20 4
εD = = -2 = - 2 =−
δp Q Q 50 5

2.15 Instabilità dell’equilibrio e modello della ragnatela

Abbiamo detto che per i neoclassici le forze del mercato, lasciate a sé stesse,
conducono automaticamente all'equilibrio tra domanda e offerta. Nell’esempio
mostrato in precedenza, abbiamo notato che se si parte da una qualsiasi situazione
di disequilibrio, ad esempio descritta dal prezzo p’, le forze del mercato
spingeranno il sistema verso il prezzo p* cui corrisponde l’equilibrio E. In questo
tipo di situazione si dice che l’equilibrio è stabile. A ben guardare, tuttavia, non è
detto che le cose vadano sempre in questi termini. Partendo da una situazione di
disequilibrio, può anche accadere che le forze del mercato non siano in grado di
riequilibrare domanda e offerta ma tendano piuttosto ad allontanare ulteriormente
il sistema economico dal punto di equilibrio: in questi casi si dice che l’equilibrio
è instabile.

Il fatto che l’equilibrio del mercato possa essere stabile o instabile dipende da
diversi fattori. Uno di questi, come vedremo, è la pendenza relativa delle curve
di domanda e di offerta. Un caso tipico è quello che si verifica quando
sussistono le seguenti condizioni: 1) l’offerta delle imprese in un dato periodo è
decisa sulla base del prezzo che vigeva nel periodo precedente, ossia: St = S (pt-1);
2) La merce prodotta è deperibile, per cui in ogni periodo i produttori sono
disposti a venderla al prezzo di domanda, cioè al prezzo al quale i consumatori
sono disposti ad assorbirla interamente. Il grafico seguente mostra che, in questo
tipo di situazione, l’equilibrio sarà stabile se la curva di domanda è relativamente
piatta rispetto alla curva di offerta; l’equilibrio invece risulta instabile se la curva
di domanda è relativamente ripida rispetto all’offerta.
83

Il grafico in alto a sinistra descrive una situazione in cui la domanda è


relativamente piatta. Partendo da una ipotetica situazione in cui il prezzo di
mercato sia p0, in base a quel prezzo le imprese fisseranno la quantità offerta del
periodo successivo S1. Quella quantità sarà interamente assorbita dalla domanda
D1 dei consumatori al prezzo p1. Dato questo prezzo, per il periodo seguente le
imprese fisseranno una quantità S2, e così via. Seguendo questo percorso, si può
notare che il sistema converge verso il prezzo di equilibrio p*, in corrispondenza
del quale domanda e offerta coincideranno. Il grafico in alto a destra evidenzia
l’andamento corrispondente del prezzo di mercato, che col passare del tempo si
84

avvicina all’equilibrio. Possiamo dunque affermare che in tal caso l’equilibrio è


stabile. Completamente diverso è il caso descritto dal grafico posto in basso a
sinistra, in cui la domanda è relativamente ripida. Seguendo lo stesso
ragionamento, si può notare che in questo caso il prezzo tende via via a divergere
dal punto di equilibrio, e domanda e offerta risultano sempre più distanti tra loro.
Il grafico in basso a destra mostra che in questa circostanza il prezzo di mercato
oscilla sempre di più col passare del tempo. In tal caso, dunque, l’equilibrio è
instabile. L’esempio così descritto prende il nome di modello della ragnatela, a
causa di quella sorta di “reticolo” che si forma sui grafici quando si descrive il
movimento dei prezzi e delle quantità nel tempo.

2.16 Speculazione e instabilità

Un altro fattore che può determinare instabilità è il comportamento degli


speculatori. Si definisce speculativa l’attività di quegli operatori che
scommettono sull’andamento futuro dei prezzi per cercare di conseguire guadagni
dalla compravendita di merci, titoli, immobili, eccetera. Speculatori possono
essere gli operatori finanziari che anticipano un crollo dei valori di borsa, ma
anche gli agricoltori che decidono di rinviare le vendite di grano in vista di un
probabile aumento di prezzo, e così via. Scopo di chi specula, in generale, è
sempre quello di cercare di comprare a prezzi “bassi” e vendere a prezzi “alti”, in
modo da ottenere guadagni di capitale. Ovviamente tratta anche di un’attività
rischiosa: se si sbagliano le previsioni si conseguono perdite.

Ipotizziamo un incremento improvviso del prezzo di una data merce, ad esempio


causato da un aumento della domanda e da un connesso spostamento a destra
della curva di domanda. Ebbene, si può verificare che la speculazione avrà
effetti stabilizzanti sull’equilibrio del mercato se gli operatori sono convinti
che la variazione del prezzo sia solo temporanea. Osserviamo in tal senso la
figura (a). Partiamo dal punto di equilibrio A, dato dall’intersezione delle curve
di domanda e offerta D1 e S1 e corrispondente al prezzo di equilibrio p1.
Immaginiamo ora che la domanda aumenti e che la rispettiva curva diventi D2: il
nuovo equilibrio è B, corrispondente al prezzo p2. Assumiamo ora che gli
operatori prevedano che questo incremento del prezzo non sarà duraturo. E’
chiaro allora che i produttori cercheranno di approfittarne aumentando le vendite:
la curva di offerta va a destra e diventa S2; viceversa i compratori decideranno di
rinviare gli acquisti, per cui la curva di domanda va a sinistra e diventa D3. Il
nuovo punto di equilibrio è dunque C, corrispondente al prezzo p3. I movimenti si
susseguono fino a quando non si convergerà di nuovo sul vecchio equilibrio A.
85

Al contrario, la speculazione avrà effetti destabilizzanti se gli operatori sono


convinti che l’aumento di prezzo sarà seguito da incrementi ulteriori nei
periodi successivi. Osserviamo in tal senso la figura (b). Si parte sempre
dall’equilibrio indicato dal punto A, corrispondente a p1. L’aumento iniziale di
domanda da D1 a D2 fa aumentare il prezzo di equilibrio, che diventa p2. In tal
caso i compratori si affrettano ad acquistare prima che si verifichino ulteriori
incrementi di prezzo, mentre i produttori decidono di rinviare le vendite
aspettandosi aumenti ulteriori: la domanda diventa D3 e l’offerta diventa S2.
L’equilibrio si sposta su C, il prezzo aumenta ulteriormente a p3 e tende ad
allontanarsi sempre di più dal punto iniziale.

E’ interessante notare che in entrambi i casi descritti il comportamento degli


speculatori fa sì che le loro previsioni siano confermate. Se essi ritengono che
l’aumento di prezzo sia temporaneo, effettivamente il mercato tornerà di nuovo al
vecchio equilibrio; se invece ritengono che il boom dei prezzi sia destinato a
durare, il mercato farà davvero registrare aumenti continui dei prezzi e
allontanamenti progressivi dal punto iniziale. In queste circostanze, si dice che le
aspettative degli speculatori di auto-realizzano.

Il fatto che la stabilità o instabilità dell’equilibrio possa dipendere dalle aspettative


e dalle azioni conseguenti degli speculatori, solleva nuovi interrogativi sulla
opportunità o meno di affidare l’organizzazione della produzione e degli scambi
al libero gioco delle forze del mercato. Tali forze, come si è visto, possono in
86

alcuni casi determinare instabilità, movimenti dei prezzi violenti e conseguenti


perturbazioni sulla domanda e sull’offerta.

Esercizio: lo studente verifichi i casi della stabilità e della instabilità


dell’equilibrio partendo da un ipotetico calo di domanda.

2.17 Monopolio e concorrenza monopolistica

Fino a questo momento abbiamo analizzato mercati di concorrenza perfetta.


Esaminiamo ora altri tipi di forme di mercato. Iniziamo dal caso del monopolio,
in cui una sola impresa formula l'offerta sul mercato.

La differenza tra concorrenza perfetta e monopolio risiede nelle diverse modalità


in cui l’impresa si confronta con la domanda e determina il prezzo di vendita. Per
l'impresa in concorrenza perfetta il prezzo è un dato esogeno e la domanda è
perfettamente elastica. L'impresa infatti è molto piccola: essa sa che se si adegua
al prezzo di mercato potrà vendere tutta la merce che desidera (se non si
adeguasse al prezzo di mercato, o non venderebbe nulla – praticando un prezzo
superiore a quello di mercato - oppure non massimizzerebbe il profitto –
praticando un prezzo inferiore a quello di mercato).

Per l'impresa in monopolio le cose sono diverse. L'impresa monopolista controlla


l'intero mercato, il che significa che essa si trova di fronte alla domanda
complessiva del mercato che può rivolgersi solo a lei.

Il problema del monopolista è quindi quello di posizionarsi sulla curva di


domanda del mercato in modo da scegliere la combinazione (p, Q) che
massimizza il suo profitto.

Ovviamente il monopolista dovrà tenere conto del fatto che se decide di


aumentare il prezzo, i consumatori diminuiranno la quantità domandata. Egli deve
quindi fare la sua scelta tenendo conto della reazione dei consumatori (e in
particolare della εD).

Ad ogni modo, è chiaro che il monopolista prende decisioni sia su Q che su p e


quindi non è più un price-taker ma è un price-maker.

Esaminiamo ora in dettaglio il comportamento del monopolista.


87

Ovviamente, anche per il monopolista l'obiettivo è di massimizzare il profitto


seguendo la regola generale:

δRT δCT
RMG = CMG ovvero =
δQ δQ

Nel calcolo dell'impresa in concorrenza perfetta il ricavo marginale coincideva


con il prezzo, per cui si poteva scrivere p = CMG. Infatti, il ricavo derivante da
ogni unità in più prodotta e venduta coincide in concorrenza perfetta proprio con
il prezzo di ogni unità di merce.

Ma in monopolio le cose cambiano. Il monopolista infatti fronteggia una domanda


di mercato decrescente, per cui egli sa che se vuole produrre e vendere una unità
in più di merce dovrà accettare un riduzione del prezzo su tutte le unità vendute
per convincere i consumatori a comprare la merce aggiuntiva.

Esempio: se il monopolista vuole vendere 5 unità di merce può fissare p = 12€ ma


se vuole venderne 6 dovrà farlo fissando il prezzo a p = 11€. Passando da A a B,
quindi, il monopolista guadagna altri 11€ ma perde 1€ sulle 5 unità che prima
vendeva a 12€ ognuna.

12 A

B
11

5 6
Q

Ciò significa che il ricavo marginale derivante dalla produzione e vendita di una
merce in più corrisponde in monopolio a:
88

∆p ∆p
RMG = p + Q (con < 0)
∆Q ∆Q

p è il prezzo della unità riduzione necessaria a convincere i consumatori a


di merce in più comprare una unità in più, moltiplicata per la quantità
prodotta e venduta che il monopolista già poteva produrre e vendere.
Questo stesso risultato può anche essere espresso in modo più preciso tramite le
derivate.
A questo riguardo noi sappiamo che:

RT = p·Q

dove però in monopolio p non è più esogeno ma si trova in relazione con q sulla
base della funzione di domanda decrescente (cioè p = p(Q)). Quindi possiamo
scrivere:

RT = p(Q)·Q

se, dunque, vogliamo calcolare

δRT
RMG = dove RT = p(Q)·Q
δQ

ci tocca utilizzare la regola di derivazione de prodotto di funzioni: la derivata del


primo termine moltiplicata per il secondo termine più il primo termine
moltiplicato per la derivata del secondo termine:

δRT δp δRT
RMG = = Q+p con ( < 0)
δQ δQ δQ

che esattamente lo stesso risultato ottenuto precedentemente mediante le


variazioni finite e che adesso è riferito a variazioni infinitesime.

Quindi, possiamo dire che la quantità ottima che il monopolista deve produrre ed
offrire sul mercato deve soddisfare la seguente equazione:

δp δCT
RMG = CMG ↔ Q+p=
δQ δQ
89

Vediamo un esempio. Supponiamo che la domanda di mercato sia data dalla


seguente equazione: Q = 100 – 2·p. Supponiamo inoltre che i costi totali del
monopolista siano dati da: CT = 10 + 2·Q2.

Determiniamo la combinazione (p, Q) che massimizza i profitti del monopolista.


Riscriviamo la domanda esplicitandola rispetto al prezzo:

p = 50 – (½)·Q
Il ricavo totale sarà:

RT = p·Q = [50 – (1/2)·Q]·Q = 50·Q - (½) Q2

RMG = 50 – Q

CMG = 4·Q

la condizione di ottimo è:

RMG = CMG

50 – Q = 4·Q → Q = 50/5 = 10

10 è la quantità che il monopolista deve vendere per massimizzare i profitti.

Inoltre notiamo una cosa:

Noi ipotizziamo che esiste una relazione tra CMG e PMGL, nel senso che:

w
CMG =
PMGL

la condizione di massimo profitto del monopolista può quindi essere scritta anche
così:

RMG = CMG

δp w
Q + p = PMG L
δQ
90

 δp Q  w
p1+  = PMG
 δQ p 
L

Ma sappiamo pure che:

δQ p
εD =
δp Q

e quindi possiamo scrivere:

 1  w
p1+  =
 εD  PMGL

da cui si ricava:

 
 
1
p=  w
 1  PMG L
 1+ 
 εD 

 
 
1
il termine   rappresenta il mark-up sul costo unitario di produzione e il
 1 
 1+ 
 εD 

w
temine è il costo unitario di produzione (in realtà, come si è detto prima,
PMGL
sarebbe uguale al costo marginale ma con rendimenti costanti di scala le due
configurazioni di costo tendono a coincidere, ciò è ammissibile in considerazione
del fatto che le imprese monopoliste sono generalmente imprese di grosse
dimensioni che sfruttano largamente le economie di scala).

Quest'ultima equazione ci fa capire in che modo si determina il prezzo per


un'impresa dotata di potere di monopolio: il prezzo corrisponde al costo unitario
di ogni merce moltiplicato per un mark-up (ricarico, o margine di profitto) che
sarà tanto maggiore quanto meno elastica è la domanda dei consumatori.
91

Notiamo inoltre che in monopolio p > CMG cioè è maggiore del prezzo
concorrenza.

Rappresentiamo graficamente l'equilibrio del monopolista:

Come abbiamo detto il monopolista ha di fronte l'intera domanda di mercato.

Inoltre, possiamo tracciare la curva del RMG sotto la curva di domanda.

Perché il RMG si traccia al disotto della curva di domanda?

In concorrenza perfetta l'impresa poteva aumentare la Q di una unità e come RMG


otteneva il prezzo “pieno” della unità in più venduta. Quindi in concorrenza
perfetta D ≡ RMG. Invece in monopolio l'impresa ottiene RMG < p, poiché per
vendere deve ridurre il prezzo sulle altre unità. Per cui, visto che la domanda
esprime il prezzo, RMG si situa sotto di essa. Il che risulta chiaramente anche
dall'esempio di prima:

p = 50 – (1/2)·Q domanda

RMG = 50 – Q Ricavo marginale

50

D
RMG

50 100 Q
92

Per determinare l'equilibrio del monopolista, aggiungiamo ora, alle curve di


domanda e del RMG, le curve di costo che non cambiano rispetto alla concorrenza
perfetta.

p,
CM,
CMG
H
CMG

B CM
p*
pc C
F
A
E
D
RMG

O Q* Q

Il punto di ottimo E è determinato dall'intersezione del CMG e del RMG. Esso


individua la quantità prodotta ed offerta che consente di massimizzare il profitto,
dato il prezzo che la domanda di mercato è disposta a pagare per questa quantità e
i costi di produzione. Il massimo profitto coincide con l'area rettangolare p*BFA
che è la differenza tra i ricavi totali p*BQ*O e i costi totali AFQ*O.

È da notare che il surplus del consumatore è HBp* ed è più piccolo di quello che
si avrebbe in concorrenza perfetta (dove i consumatori pagherebbero un prezzo pc
pari al CMG di produzione in cambio di una quantità maggiore di Q* e
corrispondente all'ascissa del punto C). Confrontiamo dunque il punto E e il punto
C.

Rispetto all'impresa in concorrenza il monopolista dunque: 1) produce meno;


2) vende ad un prezzo più alto; 3) gode i un profitto superiore; 4) riduce il
surplus del consumatore. Per tutti questi motivi alcuni neoclassici ritengono che
il monopolio danneggi l'economia e che vada quindi contrastato con opportune
leggi anti-trust.
93

Esistono casi nei quali il monopolista può essere soggetto a fenomeni di


concorrenza da parte di altre imprese? Si. Si parla in tal caso di concorrenza
monopolistica. In queste circostanze il monopolio è solo temporaneo. Il
monopolista infatti non è protetto da barriere all'entrata e quindi può accadere che
dei concorrenti entrino nel mercato. La conseguenza è che la domanda si
ripartisce tra più imprese, per cui la curva di domanda dell’ex-monopolista si
abbassa fino a diventare tangente alla curva del costo medio, ossia fino a quando
il profitto diventa pari a zero. A quel punto non ci sono più incentivi a ulteriori
ingressi sul mercato di altre imprese, e quindi la situazione si stabilizza.
L’equilibrio di lungo periodo della concorrenza monopolistica è dunque il
seguente:

p,
CM,
CMG
CMG

CM
E
pE

O QE Q

2.18 Oligopolio

L'impresa in concorrenza perfetta e l'impresa monopolistica presentano una


caratteristica comune: non si pongono problemi di strategia, cioè problemi nei
quali le azioni di ognuno dipendono anche da ciò che si prevede che facciano gli
altri. Il problema della strategia e del connesso rapporto tra azioni e reazioni dei
94

vari soggetti in campo diventa invece fondamentale nel caso in cui il mercato sia
caratterizzato da una situazione di oligopolio, cioè di poche grandi imprese.

Numerosi sono i modelli che consentono di analizzare il comportamento delle


imprese oligopoliste. Qui adotteremo una metodologia particolare detta teoria dei
giochi, alla cui realizzazione hanno contribuito vari economisti, tra cui il premio
Nobel John Nash. La teoria dei giochi si propone di analizzare tutte le situazioni
in cui sussistono problemi di strategia: non solo nel campo dell’economia con il
caso delle imprese oligopoliste, ma anche altri settori, dai semplici giochi come
gli scacchi fino alle strategie militari o diplomatiche.

Applichiamo qui la teoria dei giochi al caso di due imprese: la RAI e


MEDIASET, la cui attività consiste nel vendere spazi pubblicitari nei propri
palinsesti. Il problema per RAI e MEDIASET è di scegliere se adottare una
strategia conflittuale oppure cooperativa. La strategia conflittuale consiste in:

1) ingenti spese per mettere in palinsesto film e spettacoli che attirino il


pubblico
2) prezzi di vendita degli spazi bassi pubblicitari bassi per attirare le imprese
3) fare lobbying per ottenere legislazioni favorevoli a sé e dannose per gli
l'avversario.

La strategia conflittuale è molto costosa, ma se coglie impreparato l'avversario


può dare notevoli vantaggi. La strategia cooperativa invece consiste:

1) nell'accordarsi son il “nemico” (che diventa “partner”) per spartirsi il


mercato senza conflitti (la strategia cooperativa costa poco ma espone al
rischio di un attacco da parte del “partner”).

Supponiamo che RAI e MEDIASET si trovino ad esempio nella situazione


descritta dalla seguente tabella. I valori, detti pay-off, indicano i profitti attesi da
RAI e MEDIASET a seconda delle situazioni:

MEDIASET
conflitto cooperazione
conflitto 2, 2 10, 0
RAI
cooperazione 0, 10 6, 6

La matrice dei pay-off indica i profitti attesi dalle due aziende a seconda delle
strategie adottate. Ad esempio: se RAI coopera e MEDIASET confligge, RAI
95

ottiene profitti pari a zero e MEDIASET 10 miliardi. E così via. Si può dimostrare
che il conflitto, sotto date condizioni, è la strategia dominante, cioè quella che
sarà preferita da ciascuno indipendentemente dalle scelte dell'altro. Infatti dal
punto di vista della RAI:

se MEDIASET confligge → alla RAI conviene confliggere


se MEDIASET coopera → alla RAI conviene confliggere

Lo stesso discorso vale per MEDIASET. Risultato: entrambe le imprese


sceglieranno il conflitto. L’equilibrio corrisponderà dunque alla combinazione (2,
2). Questo è detto equilibrio non cooperativo di Nash. È interessante notare che
si perviene a questo equilibrio nonostante che esso generi per entrambe le imprese
un risultato peggiore rispetto al caso della cooperazione.

In certi casi tuttavia il risultato non-cooperativo è inevitabile, poiché la tentazione


di defezione da un accordo o anche solo la paura della defezione dell'altro
giocatore spinge entrambi al conflitto. Se tuttavia il gioco è “ripetuto” le cose
possono cambiare: la cooperazione può diventare più probabile.

2.19 Scatola di Edgeworth, efficienza ed equità

Il libero mercato di concorrenza perfetta è quello in cui nessun agente economico


abbia un potere di mercato e non ci siano vincoli di nessun tipo alla libertà degli
scambi. Gli economisti neoclassici attribuiscono alla libertà degli scambi che si
realizza in questo mercato una serie di importanti proprietà. In particolare, la
teoria neoclassica stabilisce che gli scambi di mercato condurranno a un equilibrio
in cui non si potranno effettuare altri scambi mutuamente vantaggiosi per tutti,
ossia nessun agente potrà migliorare ulteriormente la propria posizione senza
peggiorare quella degli altri. Questo tipo di equilibrio è definito “Pareto-
efficiente”, dal nome di Vilfredo Pareto, l’economista italiano che per primo lo ha
enunciato.

La tesi secondo cui la libertà degli scambi su un mercato concorrenziale determina


un equilibrio Pareto-efficiente rappresenta il cosiddetto “teorema dell’economia
del benessere”. Per descrivere le caratteristiche di questo teorema possiamo
avvalerci qui di una situazione molto semplificata. Immaginiamo di trovarci di
fronte a una economia di puro scambio, in cui cioè esistono solo dei consumatori
e non esistono imprese. Ogni consumatore dispone di una dotazione di beni e può
scegliere se effettuare o meno scambi con altri consumatori. Per semplificare
ulteriormente, immaginiamo che esistano sul mercato solo due consumatori, Anna
e Paolo, nessuno dei quali tuttavia ha un potere di mercato. E assumiamo pure che
96

i consumatori abbiano a disposizione solo due tipi di beni: cibo e vestiario.


Possiamo così rappresentare le mappe di curve di indifferenza dei due
consumatori avvalendoci della cosiddetta scatola di Edgeworth:

La “scatola” è costruita come due mappe di indifferenza sovrapposte: quella di


Anna nella posizione consueta e quella di Paolo rovesciata. Ovviamente, più i due
consumatori si allontanano dalle loro rispettive origini degli assi (i due punti O
della “scatola”), più cresce rispettivamente la loro utilità: ciò significa che l’utilità
di Anna aumenta man mano che ella si sposta su punti più in alto e più a destra sul
grafico, mentre l’utilità di Paolo cresce man mano che si muove verso punti situati
in basso e a sinistra.

Supponiamo ora che le dotazioni iniziali di cibo e di vestiario di Anna e Paolo


siano rappresentate dal punto A sul grafico. Ebbene, si può notare che entrambi i
consumatori potrebbero trarre mutuo vantaggio da una serie di scambi. Per
esempio, se Paolo cedesse un po’ del suo cibo e Anna cedesse in cambio un po’
del suo vestiario, i due potrebbero posizionarsi su un nuovo punto, ad esempio C,
dove entrambi si troverebbero su una curva di indifferenza caratterizzata da una
utilità più alta. Più in generale, possiamo affermare che se i due consumatori
partono da dotazioni di cibo e vestiario rappresentate dal punto A, allora si potrà
determinare un miglioramento dell’utilità di entrambi o almeno di uno dei due
97

consumatori effettuando liberamente scambi che consentano uno spostamento su


uno qualsiasi dei punti situati sulla linea B, C, D. Questi sono punti di equilibrio
perché sono punti di tangenza tra le curve di indifferenza dei due consumatori: ciò
significa che, giunti su uno di quei punti, non sarà più possibile effettuare scambi
mutuamente vantaggiosi per entrambi, cioè non si potrà migliorare ulteriormente
la situazione di un consumatore senza peggiorare quella dell’altro (lo studente noti
che, per esempio, una volta giunti su un punto come C qualsiasi movimento
comporterà o un peggioramento della situazione di Paolo o un peggioramento
della situazione di Anna, e quindi è chiaro che da quel punto non ci sarà più
mutuo interesse a effettuare scambi e a spostarsi). Dunque, una volta che si giunga
su un punto di tangenza, gli scambi si fermeranno e l’equilibrio Pareto-efficiente
sarà raggiunto.

Nel nostro grafico la curva che va dall’origine O di Anna all’origine O di Paolo è


l’insieme di tutti i punti di tangenza tra le curve di indifferenza dei due
consumatori ed è definito “curva dei contratti”. Tale curva rappresenta l’insieme
di tutti i punti Pareto-efficienti che si possono raggiungere tramite libertà degli
scambi.

Ovviamente, non è difficile notare che il punto di posizionamento sulla curva dei
contratti dipenderà in misura significativa dalle dotazioni iniziali. Se si parte da un
punto come A allora gli scambi potranno condurre a uno dei punti lungo il
segmento B-D. Se però si parte da un punto come G, allora il gioco degli scambi
di mercato potrà condurre a un punto situato lungo il segmento E-H. In tutti i casi
si tratta di equilibri Pareto-efficienti, nel senso che una volta giunti in essi non ci
saranno altri scambi mutuamente vantaggiosi da realizzare e quindi non ci sarà più
incentivo a effettuarli. Ma è ovvio che per Anna e Paolo si tratta di situazioni
molto diverse tra loro. E’ chiaro cioè che lungo la curva dei contratti esisteranno
equilibri Pareto-efficienti preferiti da Anna (ad esempio F), altri preferiti da Paolo
(ad esempio H), altri ancora che appaiono maggiormente “equi” (per esempio C).
Il fatto che si raggiunga l’uno o l’altro di questi equilibri dipende dalla situazione
da cui si parte, cioè da quante dotazioni di beni dispone ciascuno dei due soggetti.
Se si parte da una situazione come il punto G, in cui Paolo è chiaramente “ricco”
di dotazioni mentre Anna è chiaramente “povera”, gli scambi potranno portarli su
un punto come E che determinerà mutui vantaggi per entrambi. Ma è evidente che
dal punto di vista della equità tra i due soggetti le cose non cambieranno granché.

Abbiamo dunque compreso che la libertà degli scambi in un mercato di


concorrenza perfetta può condurre a una situazione di efficienza nel senso di
Pareto, ma non può risolvere problemi di equità distributiva. I problemi di equità,
dicono i neoclassici, potranno al limite essere risolti politicamente modificando le
dotazioni iniziali dei soggetti: per esempio intervenendo con tasse e sussidi per
modificare le dotazioni di partenza da un punto come G a un punto come A.
98

L’importante, dicono i neoclassici, è che gli interventi politici per fini di equità
non ostacolino poi la libertà degli scambi sul mercato necessaria per raggiungere
anche l’efficienza.

Pareto tuttavia era più estremo: egli si dichiarava contrario agli interventi politici
per fini di equità. A suo avviso, i livelli di utilità di due consumatori sono del
tutto soggettivi e quindi non sono confrontabili. Se prendiamo ad esempio un
punto come G, è evidente che in esso Paolo dispone di una dotazione iniziale di
cibo e vestiario molto maggiore rispetto ad Anna. Paolo, insomma, è
oggettivamente più ricco. Per Pareto, tuttavia, ciò non consente di affermare che
Paolo abbia un’utilità superiore a quella di Anna. In altre parole, le curve di
indifferenza di Paolo possono essere ordinate tra di loro, partendo da quella che
fornisce l’utilità più bassa e arrivando a quella che fornisce l’utilità più alta. Ma
quelle curve non possono in alcun modo essere messe a confronto con le curve
d’indifferenza e i rispettivi livelli di utilità di Anna. In base a questa concezione
dell’utilità, Pareto arrivava quindi a contestare qualsiasi intervento
redistributivo sulle risorse iniziali. In quest’ottica, quindi, un intervento politico
per spostare il punto di partenza da G ad A sarebbe inammissibile e bisognerebbe
invece lasciar fare alle forze spontanee del mercato, che porteranno il sistema dal
punto G iniziale a un punto di equilibrio compreso tra E e H. Si tratta ovviamente
di una posizione liberista estrema, molto conservatrice, che suggerisce di affidarsi
solo al mercato e contesta qualsiasi intervento pubblico votato all’equità
distributiva.

2.20 Impresa pubblica e privatizzazioni

A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso è stata avviata, in molti paesi, una
vasta campagna di privatizzazione delle imprese pubbliche, di proprietà statale o a
partecipazione statale. In numerosi settori dell’economia, dall’industria, alle
telecomunicazioni, ai trasporti, e in alcuni casi persino negli ambiti della sanità e
dell’istruzione, si sono realizzate vendite ai privati di attività produttive o di
servizio precedentemente affidate all’operatore pubblico. Questa politica è stata
giustificata con la tesi secondo cui le imprese pubbliche presentano una
organizzazione interna di tipo burocratico, priva di stimoli concorrenziali e quindi
generatrice di inefficienze e costi di produzione più alti. Le privatizzazioni, si
diceva, avrebbero accresciuto l’efficienza, ridotto i costi e quindi avrebbero
contribuito a diminuire i prezzi, con beneficio per i consumatori e per la
collettività.

Col senno di poi, non si può dire che tutti gli auspicati effetti delle privatizzazioni
si siano realizzati. Da un lato, è stato fatto notare che la riduzione dei costi nelle
99

imprese privatizzate non sempre avveniva, oppure in alcuni casi si realizzava a


seguito di una riduzione dei salari e di un deterioramento della qualità dei servizi,
più che in conseguenza di un incremento dell’efficienza produttiva. Dall’altro, si è
rilevato che anche quando si registrava una riduzione dei costi, non sempre si
notava una diminuzione proporzionale dei prezzi. Anzi, a volte capitava
addirittura che dopo le privatizzazioni i prezzi risultassero invariati o addirittura
crescenti.

Uno dei casi per cui le privatizzazioni possono dar luogo a un aumento
anziché a una riduzione dei prezzi è quello in cui l’azienda pubblica venduta ai
privati opera in regime di monopolio. Per semplicità, immaginiamo una situazione
in cui i costi marginali dell’impresa siano costanti e quindi possano essere
rappresentati da una retta orizzontale. Consideriamo in tal senso il grafico
seguente:

Supponiamo di partire da una situazione in cui un’azienda statale eroga un certo


servizio ad un costo marginale rappresentato dalla retta CMGstato. Possiamo
supporre che l’impresa, in quanto pubblica, non ha interesse a generare
extraprofitti per cui, pur operando in una situazione di monopolio, fissa quantità e
prezzi di vendita in corrispondenza dell’equilibrio di perfetta concorrenza che è
dato, come sappiamo, dalla intersezione tra costo marginale e domanda. In tal
100

caso, quindi, il punto di equilibrio corrisponderà a Es e la combinazione di prezzo


e quantità di equilibrio sarà data da Ps e Qs. Supponiamo ora che l’azienda venga
privatizzata e che il passaggio di proprietà determini una riduzione del costo
marginale da CMGstato a CMGprivato. Possiamo esser certi che tale riduzione
determinerà pure una diminuzione dei prezzi? La risposta è negativa. Infatti, se
l’impresa privatizzata operasse come se fosse in concorrenza, allora il suo
equilibrio corrisponderebbe all’intersezione tra domanda e costo marginale
rappresentata dal punto Ep, con conseguente riduzione del prezzo di equilibrio a
Pp e aumento della quantità prodotta e venduta a Qp. Ma è ragionevole prevedere
che in una situazione del genere, avendone l’opportunità, l’azienda privata
deciderebbe di agire da monopolista, fissando l’equilibrio in corrispondenza della
intersezione tra ricavo marginale e costo marginale rappresentata dal punto E’p,
col risultato finale di determinare un aumento del prezzo a P’p e una diminuzione
della quantità a Q’p rispetto al precedente equilibrio dell’azienda pubblica. In
questa circostanza, come è facile verificare, la privatizzazione comporta una
riduzione dei costi ma al tempo stesso determina un aumento dell’extraprofitto
dell’impresa e una diminuzione del surplus dei consumatori.
101

III

MACROECONOMIA
NEOCLASSICA

3.1 Dalla microeconomia alla macroeconomia neoclassica

Abbiamo detto che mentre i classici e Marx facevano partire le loro analisi
direttamente dallo studio del comportamento delle classi sociali, al contrario i
neoclassici fondavano le loro teorie sull'individualismo metodologico. Essi
quindi partivano sempre dallo studio del comportamento del singolo individuo: il
singolo consumatore, il singolo lavoratore, la singola impresa, ecc. Finora,
studiando i neoclassici, abbiamo fatto esattamente questo: abbiamo infatti visto in
che modo il singolo consumatore punta a massimizzare l'utilità, in che modo la
singola impresa punta a massimizzare il profitto, ecc.

Il fatto però che i neoclassici si concentrino sul comportamento dei singoli non gli
impedisce di gettare uno sguardo sul funzionamento complessivo dell'intero
sistema economico. Infatti, è vero che i neoclassici partono sempre dalla
microeconomia, cioè dallo studio del comportamento dei singoli individui e dalle
singole imprese. Ma è anche vero che essi ritengono possibile passare dalla
microeconomia alla macroeconomia, cioè allo studio dei grandi aggregati
sociali e dell'economia nel suo complesso.

Il passaggio dal micro al macro per i neoclassici consiste nella sommatoria dei
comportamenti individuali (qualcosa del genere l'abbiamo già intravista
esaminando il passaggio dalla domanda individuale alla domanda di mercato,
ecc.). Si vengono così a creare i cosiddetti agenti rappresentativi, che sono
espressione delle sommatorie dei comportamenti individuali. Seguendo questo
intento diventa possibile costruire un modello neoclassico di tipo
macroeconomico, che ci consente di studiare l'economia nel suo complesso, e che
quindi ci permette di esaminare l'andamento di variabili importantissime come la
disoccupazione, l'inflazione, i salari, i tassi d'interesse, ecc.
102

Il modello macroeconomico che studieremo è ispirato alla teoria della


disoccupazione di Arthur C. Pigou del 1933. Come vedremo, questo modello
perviene a risultati tipicamente liberisti, che saranno poi criticati da Keynes.
L'analisi viene qui effettuata sulla base di quattro ipotesi semplificatrici:

1) concorrenza perfetta: i singoli agenti (le imprese, lavoratori, etc. ...) sono
troppo “piccoli” e troppo numerosi per avere un potere di mercato.
2) Consideriamo l'economia di una nazione autarchica, cioè chiusa agli
scambi con l'estero.
3) Si produce un solo bene (es. grano).
4) Studiamo solo il cosiddetto breve periodo (cioè consideriamo un periodo
di tempo limitato, un anno o poco più, in cui la quantità di capitale è data).

Ovviamente tali ipotesi semplificatrici possono essere rimosse (alcune le


rimuoveremo), ma per ora le manterremo per non complicare l'analisi.

Il modello macroeconomico neoclassico esamina il sistema economico di una


nazione, preso nel suo complesso, suddividendolo in quattro grandi mercati:

− mercato del lavoro


− mercato dei beni
− mercato dei titoli (cioè dei prestiti)
− mercato monetario.

3.2 La domanda di lavoro

Iniziamo l'analisi del mercato del lavoro, esaminando la domanda di lavoro delle
imprese. Attenzione: in economia il gergo è opposto rispetto al senso comune, nel
senso che le imprese domandano lavoro e i lavoratori offrono lavoro.

Definiamo: Y produzione nazionale, P prezzo della merce prodotta, W salario


monetario dei lavoratori, N numero dei lavoratori occupati. Da notare che W/P
indica il salario reale dei lavoratori, cioè il potere d'acquisto del salario. Es. se il
salario mensile è W = 1000 € e se il prezzo di un kg di grano è P=10 € allora i
lavoratori ogni mese possono comprare W/P = 1000/10 = 100 kg di grano.

Tracciamo ora la funzione di produzione di una ipotetica impresa


“rappresentativa” data dalla sommatoria di tutte le imprese della nazione:
103

Y PMGL

Y = Y(N)
32 10
31
28
PMGL
24 8
18
6
10 4
3
1

1 2 3 4 5 6 N 1 2 3 4 5 6 N

La funzione di produzione ha la solita forma dettata dalla legge della produttività


marginale del lavoro decrescente, dato il capitale K. Dalla funzione di produzione
si può ricavare appunto la curva della produttività marginale (PMGL) decrescente.
Ora, è facile dimostrare che la curva della PMGL decrescente corrisponde
esattamente alla domanda di lavoro delle imprese. Noi sappiamo che in
concorrenza perfetta le imprese massimizzano il profitto solo se:

P = CMG

Ma sappiamo pure che il CMG = W/PMGL per cui possiamo scrivere:

W
P= → P·PMGL= W
PMGL

da cui:

W
PMGL =
P

L'impresa continua ad assumere finché i lavoratori aggiuntivi rendono più di


quanto costano, cioè fino a quando PMGL > W/P, e raggiunge il livello ottimale
di assunzioni nel momento in cui il lavoro rende esattamente quanto costa:
PMGL = W/P. Se l’impresa andasse avanti con le assunzioni, si troverebbe con
lavoratori che costano più di quanto rendono, il che non converrebbe.
104

Ora, sappiamo che in concorrenza perfetta le imprese sono piccole e numerose e


quindi non hanno potere di mercato. Esse sono price-takers. Il mercato dunque
determinerà i prezzi P e i salari W di equilibrio e le imprese si adegueranno ad
essi. Dunque, nel grafico che esprime la PMGL possiamo fissare un ipotetico
W/P dato esogenamente dal mercato:

w/P, PMGL

PMGL0

PMGL1= w/P

PMGL2
PMGL

N0 N1 N2 N

Quale sarà il numero di lavoratori che l'impresa domanderà? È chiaro che sarà N1.

Per N0 → PMGL > W/P conviene aumentare N (c'è ancora margine)

Per N2 → PMGL < W/P conviene diminuire N (si produce in perdita)

Per N1 → PMGL = W/P è soddisfatta la condizione di massimo profitto

Abbiamo così dimostrato che la curva della PMGL corrisponde esattamente alla
curva di domanda di lavoro delle imprese: ND = PMGL. Quindi la domanda di
lavoro ND è decrescente rispetto al salario reale: se W/P aumenta allora ND si
riduce, se w/P diminuisce allora la ND aumenta.
105

3.3 L'offerta di lavoro degli individui

Consideriamo un individuo “rappresentativo”, “sommatoria” di tutti i lavoratori


della nazione. Su un grafico poniamo sugli assi l’offerta di lavoro N e la quantità
di prodotto che i lavoratori possono comprare Y, e tracciamo le curve di
indifferenza del lavoratore.

Y = (w/P)·N

w/P
N* N

L'ipotesi è che abbiamo a che fare con un bene (le merci prodotte e acquistate Y)
e con un male (la fatica derivante dal lavoro N). Dunque lo scopo dei lavoratori è
di massimizzare l'utilità situandosi il più possibile in alto a sinistra. Sullo stesso
grafico tracciamo pure la retta del vincolo di bilancio dei lavoratori. È chiaro che
questi potranno acquistare un ammontare di beni Y che dipende dalla quantità di
lavoro N erogato e dal salario W/P, secondo l'equazione:

Y = (W/P)·N vincolo di bilancio dei lavoratori

Il livello del salario reale W/P è determinato in modo esogeno dal mercato: anche
i lavoratori non hanno potere di mercato, e quindi sono price-takers. Il vincolo di
bilancio ci dice che, a parità di W/P, se N aumenta ciò implica un incremento
della produzione Y acquistabile e consumabile dai lavoratori (si tratta di un
movimento lungo la retta di bilancio). Oppure, se a parità di N aumenta W/P,
allora i lavoratori potranno acquistare più merce senza bisogno di aumentare la
106

quantità di lavoro erogato (la retta di bilancio, in questo caso, ruota verso sinistra
e verso l'alto, in senso antiorario con centro nell'origine degli assi).

Come si vede dal grafico precedente, dato il vincolo di bilancio (e quindi dato il
livello di W/P determinato dal mercato), i lavoratori possono determinare la
quantità di lavoro (N*) che massimizza la loro utilità, cioè che li colloca sulla
curva di indifferenza più alta possibile. Il punto ottimo è quello in cui la curva
d’indifferenza è tangente al vincolo di bilancio.Vediamo ora cosa accade se si
verifica un aumento esogeno del salario reale W/P:

Y
Y = (w/P)1·N

Y = (w/P)0·N

(w/P)1

(w/P)0

N0 N1 N

w/P

Ns

(w/P)1

(w/P)0

N0 N1 N
107

L'aumento del salario reale da (w/P)0 a (w/P)1 fa ruotare il vincolo di bilancio in


senso antiorario e modifica quindi il punto di ottimo. La conseguenza è che i
lavoratori si rendono disponibili a offrire più lavoro (da N0 a N1). Possiamo quindi
riportare i livelli del salario reale e i corrispondenti livelli di lavoro offerto dagli
individui su di un grafico sottostante. Otteniamo così la curva di offerta di lavoro
(Ns) da parte di lavoratori. La curva di offerta è crescente:

se w/P aumenta, allora Ns cresce,


se w/P diminuisce, allora Ns si riduce.

In tal caso, cioè, un aumento del salario reale induce le famiglie a rinunciare al
tempo libero per lavorare di più e poter quindi consumare di più. Si dice al
riguardo che al crescere del salario reale prevale l’effetto di sostituzione del
tempo libero con il consumo. Questo risultato, si badi, dipende dalla forma della
funzione di utilità. Se l’utilità avesse una forma diversa, potrebbe anche accadere
che al crescere del salario reale le famiglie decidano di riposare di più. In questa
diversa circostanza si direbbe che prevale l’effetto reddito: avendo un salario più
alto le famiglie preferiscono aumentare il tempo libero. In un caso del genere
l’offerta di lavoro diventerebbe decrescente.

Esercizio: lo studente verifichi che con una diversa forma delle funzioni di utilità
l’offerta di lavoro può risultare decrescente anziché crescente.

3.4 L'equilibrio del mercato del lavoro

w/P

NS

E
(w/P)*

ND

N* N
108

I neoclassici sostengono che le forze del libero mercato, lasciate a sé stesse,


porteranno automaticamente a quel salario reale (w/P)* che garantisce
l'equilibrio tra domanda (ND) e offerta (NS) di lavoro. L’equilibrio così
determinato, è detto equilibrio naturale.

Supponiamo infatti che il salario reale di mercato sia (w/P)0. In corrispondenza di


questo salario si ha un eccesso di offerta di lavoro rispetto alla domanda di lavoro:

(w/P)0 → NS > ND

Questa è una situazione di disoccupazione. I lavoratori che si offrono al salario


reale vigente sono NS0 ma le imprese assumono solo ND0. C'è quindi un numero di
disoccupati involontari pari al segmento NS0-ND0.

w/P

NS
A B
(w/P)0

E
(w/P)*

ND

ND0 N* NS0 N

Questi disoccupati si dicono involontari perché al salario di mercato vigente


(w/P)0 essi vorrebbero lavorare ma un lavoro non lo trovano. Per i neoclassici
tuttavia questa situazione è solo temporanea. Il meccanismo di mercato condurrà
109

spontaneamente il sistema all'equilibrio nel punto E. I lavoratori disoccupati,


infatti, sono in concorrenza tra loro e con i lavoratori occupati, e quindi
eserciteranno una pressione verso il basso sui salari, che farà aumentare la
domanda di lavoro ND e diminuire l'offerta NS fino all'equilibrio. La riduzione di
W/P provoca:

− un aumento della domanda di lavoro ND: riducendosi il costo del lavoro le


imprese possono assumere lavoratori aggiuntivi, che hanno una
produttività marginale inferiore.
− Una riduzione dell'offerta di lavoro NS: alcuni lavoratori, vedendo che il
salario si riduce, ritengono che il gioco non valga la candela e scelgono di
ritirarsi dal mercato.

In corrispondenza dell'equilibrio (E) la domanda di lavoro ND è uguale all'offerta


NS (cioè E → ND=NS ). Tutti i lavoratori disposti a lavorare (ad offrire lavoro) al
salario reale vigente (w/P)* troveranno una corrispondente domanda di lavoro e
quindi la caduta del salario si arresta. Si noti che in corrispondenza di E non ci
sono più disoccupati involontari: le forze spontanee del mercato hanno
permesso di riassorbire la disoccupazione involontaria.

Restano però dei disoccupati volontari, ossia coloro che al salario vigente non
sono disposti a lavorare ma che si renderebbero disponibili ad un salario
maggiore: si tratta del segmento NS0-N*.

I neoclassici tuttavia sostengono che i disoccupati volontari hanno liberamente


scelto di non lavorare. E quindi essi non dovrebbero costituire una priorità, né sul
piano analitico né su quello politico. L'importante per i neoclassici è che il
mercato sia in grado di assorbire spontaneamente la disoccupazione involontaria,
cioè sia in grado di garantire un posto a tutti i lavoratori disposti a lavorare al
salario di mercato di equilibrio. Visto che in equilibrio il sistema riesce ad
eliminare la disoccupazione involontaria, allora si può affermare che l’equilibrio
naturale neoclassico è un equilibrio di piena occupazione.

E’ bene tener presente che questo risultato dipende dalle inclinazioni delle
funzioni di domanda e di offerta di lavoro. Se le inclinazioni cambiano, può
accadere che il meccanismo spontaneo del mercato non sia più in grado di
determinare l’equilibrio. Per esempio, se prevale il cosiddetto effetto reddito,
allora un aumento del salario reale provoca una riduzione dell’offerta di lavoro
delle famiglie: in questo caso, anche l’offerta di lavoro ha un andamento
decrescente rispetto al salario.1 Ora, se l’offerta di lavoro è anche più “piatta”

1
La tesi secondo cui un aumento del salario reale potrebbe ridurre l’offerta di lavoro risale
addirittura al XVII secolo. Alcuni esponenti di una corrente pre-classica, detta “mercantilista”, in
110

della domanda di lavoro, può accadere che con un salario reale più alto del salario
di equilibrio si abbia che l’offerta è minore della domanda, e quindi, anziché
diminuire, il salario aumenta ulteriormente. Si parla in questo caso di un equilibrio
instabile. In tal caso, è evidente che le forze spontanee del mercato non sono in
grado di determinare l’equilibrio, e quindi non possono eliminare la
disoccupazione involontaria. Per escludere questa scomoda circostanza i
neoclassici solitamente assumono che l’effetto sostituzione prevalga sempre
sull’effetto reddito delle famiglie.

Esercizio: lo studente verifichi che se la curva di offerta di lavoro è decrescente


ed è più “piatta” della domanda di lavoro, le variazioni del salario reale non
consentono di raggiungere l’equilibrio.

In che modo il modello neoclassico spiegava la Grande Depressione degli anni


’30? Come è noto, Pigou elaborò questo modello nel 1933, allo scopo di fornire
una interpretazione neoclassica del fenomeno della crisi che in quella fase
storica attanagliava le economie occidentali. In particolare, bisognava spiegare la
presenza di tanti disoccupati, che in Gran Bretagna erano passati dal già elevato
10% del 1929 al 20% del 1933, e negli Stati Uniti da un basso 3% nel 1929 alla
enorme cifra del 25% nel 1933. Per Pigou, ovviamente, non li si poteva
considerare tutti disoccupati volontari. A suo avviso, dunque, il problema verteva
sul comportamento dei sindacati. Secondo Pigou, le forze sindacali impedivano
che il salario si riducesse fino al livello di equilibrio. I sindacati cioè
“inchiodavano” il sistema economico nel punto A del grafico precedente
bloccando il libero operare delle forze del mercato e generando disoccupazione
involontaria pari ad AB. Secondo la visione di Pigou, dunque, la disoccupazione
involontaria corrisponde a un fenomeno di squilibrio tra domanda e offerta di
lavoro.

Questa spiegazione tuttavia sembra contrastare con il fatto che negli anni della
grande crisi il potere dei sindacati non fu così pervasivo come Pigou sosteneva:
per esempio, negli Stati Uniti i salari monetari diminuirono in tutti i settori, il che
solleva dubbi sulla effettiva capacità di “resistenza” delle forze sindacali. In difesa
di Pigou, si potrebbe obiettare che in quel periodo i prezzi diminuirono anche più
dei salari monetari, con un conseguente aumento dei salari reali. Ma non andò
esattamente così. In realtà i salari reali diminuirono in agricoltura e in diversi altri
settori. E in altri paesi il calo salariale fu anche più accentuato e diffuso.

Gli esponenti contemporanei della teoria neoclassica, come Edward Prescott ed


altri, hanno allora cercato di proporre una interpretazione alternativa della elevata

particolare, ritenevano che un aumento delle retribuzioni avrebbe indotto i lavoratori “al vizio e
all’ozio”, e li avrebbe resi meno produttivi e meno partecipi al lavoro.
111

disoccupazione degli anni ’30. L’analisi di questi studiosi è detta dell’equilibrio


continuo del mercato. A loro avviso, in sostanza, un punto come A non
rappresenta un punto di squilibrio, ma indica sempre un punto di equilibrio, cioè
un punto di intersezione tra le curve di domanda e offerta verso il quale l’una e
l’altra si sono mosse. Nella sostanza, possiamo affermare che questo tipo di
analisi assume che negli anni della crisi le curve di offerta e di domanda di lavoro
si siano spostate. Per esempio, si può supporre che la curva di offerta abbia subito
una traslazione verso sinistra e verso l’alto, a causa di un cambiamento nelle
funzioni di utilità delle famiglie che implica una maggiore preferenza verso il
tempo libero. In altri casi questi studiosi parlano di spostamenti della domanda di
lavoro causati da shock nella produttività. Questo tipo di spiegazioni, per certi
versi sorprendente, ha goduto di un certo successo in campo accademico e ha
consentito a Prescott di conquistare il Premio Nobel nel 2004. Tuttavia essa ha
pure suscitato accese critiche. Interpretata in termini estremi, infatti,
l’impostazione dell’equilibrio continuo pretenderebbe di ricondurre qualsiasi
cambiamento nei livelli di occupazione a mutamenti nelle preferenze degli
individui o a shock nella produttività. In quest’ottica, il mercato del lavoro si trova
sempre in un punto di intersezione tra domanda e offerta, per cui la
disoccupazione involontaria viene sempre esclusa. Inoltre, è interessante notare
che questa interpretazione esclude tutte le possibili cause alternative della
disoccupazione. Vengono cioè negati, anche in via solo temporanea, i problemi
derivanti da un crollo della domanda di merci e dalla conseguente necessità delle
imprese di licenziare. Ma in sostanza viene anche negata la rilevanza dei sindacati
nel generare la crisi, sulla quale invece si soffermavano i vecchi neoclassici.

La teoria dell’equilibrio continuo dei neoclassici contemporanei risulta oggi


minoritaria in ambito accademico. L’attuale mainstream , cioè la visione oggi
prevalente, si basa sui contributi degli esponenti della moderna “sintesi
neoclassica”, come Olivier Blanchard ed altri. Come vedremo in seguito, questi
studiosi ritengono che le fluttuazioni della domanda di merci abbiano effetti sulla
disoccupazione, sia pure temporanei. Inoltre essi ritengono che anche in
condizioni di equilibrio possa esservi una situazione di disoccupazione
involontaria, a causa di una serie di imperfezioni del mercato. Vedremo in seguito
che questa tesi costituisce per certi versi una novità sia rispetto ai vecchi che ai
nuovi neoclassici.
112

3.5 Dal mercato del lavoro al mercato dei beni

Prima di approfondire gli sviluppi successivi, occorre però completare l’analisi


del modello neoclassico di Pigou. Si pone infatti il problema di chiarire i legami
tra l’analisi del mercato del lavoro e l’analisi degli altri mercati. A questo scopo,
partendo dall’occupazione di equilibrio determiniamo il livello di produzione
corrispondente:

w/P

NS

E
(w/P)*

ND

N* N

Y = Y(N)
Y*

N* N
113

Una volta determinato l'equilibrio sul mercato del lavoro, è noto il numero dei
lavoratori occupati N*. Noto il numero degli occupati, in base alla funzione di
produzione Y=Y(N) si può determinare il livello di produzione Y* di equilibrio.

Una volta determinato il livello di produzione, si pone il problema fondamentale:


cosa garantisce che l'intera produzione Y* venga assorbita dalla domanda?
Chi ci assicura cioè che le imprese riescano a vendere tutta la merce prodotta. La
questione è cruciale: è chiaro infatti che l'equilibrio di pena occupazione può
reggere solo se Y* viene venduto interamente.

I neoclassici rispondono a questo interrogativo attraverso due proposizioni:

1) per ogni data produzione Y realizzata le imprese distribuiscono alle famiglie


dei lavoratori e capitalisti un reddito Y di importo equivalente (attenzione: ciò
significa che Y rappresenta sia la produzione nazionale sia il reddito nazionale).

2) Le famiglie di lavoratori e capitalisti, una volta ricevuto il reddito Y, lo


spendono interamente per l'acquisto della produzione.

reddito Y

IMPRESE FAMIGLIE

produzione
Y
spesa di tutto il reddito

Ora, se le famiglie dei lavoratori e dei capitalisti spendessero tutto il loro reddito
per l'acquisto di beni di consumo, non vi sarebbe alcun problema. Ma nella realtà
le famiglie spendono per consumi (C) solo una parte del reddito, mentre un'altra
114

parte la risparmiano (S). Dunque poiché una parte del reddito nazionale viene
risparmiata, a quanto pare una parte della produzione resterà invenduta. Infatti,
visto che produzione e reddito sono equivalenti la produzione sarebbe interamente
acquistata solo se tutto il reddito venisse speso. I neoclassici reagiscono a questo
problema sostenendo che la parte di reddito che le famiglie risparmiano verrà
interamente prestata alle imprese che useranno questo reddito per fare
investimenti (I), cioè per acquistare mezzi di produzione (macchine, impianti,
ecc.). Dunque, ricapitolando: dall'equilibrio del mercato del lavoro emerge un
livello di produzione Y corrispondente alla piena occupazione. Tale produzione
sarà interamente venduta solo se viene rispettata questa condizione:

produzione = domanda
Y=C+I
C+S=C+I
S=I

Ma chi ci garantisce che S e I saranno uguali? Dopotutto si tratta di decisioni


prese da soggetti diversi. La risposta dei neoclassici è che il tasso di interesse i
garantirà il perfetto equilibrio tra S e I. Infatti:

- Le famiglie decidono tra C e S in base a i. Se i aumenta le famiglie riducono i


consumi e S aumenta.
- Le imprese decidono I in base al costo dei prestiti i. Se i aumenta, allora I si
riduce.

Quindi possiamo tracciare due funzioni, S e I. Le forze spontanee del mercato,


lasciate a sé stesse, garantiranno un tasso di interesse di mercato i tale che S=I.

S
0
A B
i

E
i*

I0 I*=S* S0 S, I
115

Dunque così come il salario reale W/P garantisce l'equilibrio tra domanda e offerta
di lavoro, così il tasso di interesse i garantisce l'equilibrio tra risparmi S e
investimenti I (ossia, C+S = C+I e Y = C+I). Con ciò i neoclassici dimostrano che
l'equilibrio di piena occupazione è stabile, visto che la produzione di piena
occupazione sarà interamente assorbita dalla domanda, o come domanda di C o
come domanda di I. Se si lascia fare al mercato, non sussiste alcun rischio di
merci invendute.

3.6 La teoria quantitativa della moneta

Le conclusioni del modello macroeconomico neoclassico possono esser definite di


stampo “liberista”. Le forze del mercato, lasciate a sé stesse, garantiscono il pieno
impiego dei lavoratori e l'acquisto dell'intera produzione realizzata. L'intervento
statale al fine di aumentare l’occupazione è dunque considerato inutile: se c'è
disoccupazione, la responsabilità è dei sindacati. Non solo: i neoclassici puntano a
dimostrare che l'intervento delle autorità di politica economica può anche essere
dannoso. Un esempio in questo senso è dato dalla teoria neoclassica della moneta,
detta teoria quantitativa, elaborata da Irving Fisher (1911). Per esaminare
questa teoria definiamo:

M quantità di moneta (banconote) creata dalla Banca Centrale.


V velocità di circolazione della moneta (numero di volte che ogni banconota
passa di mano in un anno
P livello dei prezzi
Y produzione

Definiamo quindi: con MV la quantità di moneta complessivamente offerta in un


anno. Infatti, se moltiplichiamo il numero di banconote per il numero delle volte
che ogni banconota passa di mano, è chiaro che calcoliamo il totale della moneta
offerta e scambiata in un anno. Con PY definiamo il valore della produzione
offerta e scambiata, cui corrisponde ovviamente una quantità equivalente di
moneta domandata in cambio. Possiamo dunque stabilire che:

MV = PY

Questa al momento è una mera tautologia, cioè una ovvietà contabile. È chiaro
infatti che a fronte del totale della moneta MV scambiata corrisponderà il valore
della produzione PY scambiata (che coincide con il totale della moneta
domandata). I neoclassici tuttavia trasformano la tautologia in una teoria
imponendo delle ipotesi:
116

M è data dalle autonome decisioni della banca centrale


V è data dalle abitudini di pagamento della produzione
Y è data dall'equilibrio di piena occupazione sul mercato del lavoro.

L'unica incognita dell’equazione, dunque, è il livello dei prezzi P:

PY = MV

V
P= M
Y

Questa equazione ci dice che, dati V e Y, se la banca centrale decide di aumentare


M, l'unico effetto di questa decisione sarà un aumento del livello dei prezzi P.
L’azione di politica monetaria della banca centrale crea solo inflazione.

Il risultato dipende strettamente dall'ipotesi di piena occupazione. Infatti, se la


Banca Centrale aumenta M in circolazione, gli individui disporranno di più
moneta. Essi quindi useranno la moneta per comprare merci. Ma essendo la
produzione già al livello di piena occupazione allora non potrà aumentare. Di
conseguenza, di fronte all'incremento di domanda di merci le imprese finiranno
per aumentare P. L'intervento politico della Banca Centrale, magari finalizzato a
stimolare la domanda, ad aumentare Y e l'occupazione N, in realtà è inutile (Y è
già al pieno impiego) ed è pure dannoso (poiché genera inflazione). Le
conclusioni del modello sono ancora una volta liberiste:

- neutralità della moneta: cioè irrilevanza della moneta ai fini della


determinazione delle variabili “reali”, ossia le variabili fisiche, come la
produzione e l’occupazione;

- e si può trarre anche un orientamento restrittivo della politica monetaria,


visto che si può ottenere una riduzione dei prezzi senza determinare effetti
negativi sulla produzione e sull’occupazione.

3.7 Il sistema di equazioni del modello macroeconomico neoclassico

Riportiamo il modello macroeconomico neoclassico completo. Esso è costituito


dalle seguenti 9 equazioni in 9 incognite:
NS = NS (W/P)
ND = ND(W/P)
117

NS = ND
Y = Y(NS)
S = S(i)
I = I(i)
S=I
MV = PY
W = (W/P)·P

Esempio: l’economia è descritta dalle seguenti equazioni.

NS = 60 + (W/P)
ND = 120 – 2 (W/P)
NS = ND
Y = (NS)1/2
S=2+i
I = 11 – 2 i
S=I
45 · 2 = P·Y
W = (W/P)·P

Soluzione:

60 + (W/P) = 120 – 2 (W/P)

3 (W/P) = 120 – 60

W/P = 60/3 = 20

NS = 60 + 20 = 80

Y = (80)1/2 = 80 ≅ 9

S=I → 2 + i = 11 – 2 i → 3i=9 → i = 9/3 = 3

S=I=2+3=5

P·Y = 45·2 = 90 → P·9 = 90 → P = 90 / 9 = 10

w = (w/P)·P = 20 * 10 = 200
118

3.8 La crisi di fiducia secondo i neoclassici

Notiamo un'ultima cosa. Supponiamo che si verifichi una crisi di fiducia delle
imprese, che determina un peggioramento delle aspettative di profitto futuro. Di
conseguenza, gli imprenditori riducono gli investimenti I.

I'

S, I

Per i neoclassici, il gioco delle forze del mercato e il connesso movimento del
tasso di interesse rimetterà in equilibrio il sistema. Infatti il tasso di interesse si
ridurrà portando in equilibrio il risparmi e investimenti. Alla riduzione dei
risparmi corrisponderà subito un aumento dei consumi che compenserà la
riduzione degli investimenti. Il che significa che la domanda complessiva di merci
non si riduce, e quindi la produzione e l’occupazione rimangono ai livelli di
equilibrio naturale.
119

Ma se volessimo tornare ai livelli di investimento precedenti? Basterà che


l'orientamento al risparmio delle famiglie aumenti: con l'aumento dei risparmi
delle famiglie (la curva dei risparmi S ora si sposta verso destra) si ridurrebbe il
tasso di interesse e quindi aumenterebbero gli investimenti. La virtù della
parsimonia è dunque considerata la giusta risposta a una crisi, e più in generale il
fattore chiave dell'accumulazione e dello sviluppo economico.

i
S

S'

I'

S, I
120

IV

DISPENSE INTEGRATIVE
DEL MANUALE DI BLANCHARD

4.1 Una specificazione del modello di determinazione della produzione di


equilibrio

Nei primi tre capitoli del libro di Blanchard avete studiato il modello di
determinazione della produzione di equilibrio, in funzione del livello della
domanda di merci. Blanchard ritiene che questo modello valga solo nel breve
periodo, e sotto condizioni piuttosto restrittive. Noi pensiamo invece che tale
modello abbia una valenza esplicativa più vasta, e quindi riteniamo opportuno
approfondirne qui le caratteristiche.

Come sapete, la struttura di partenza del modello è questa. La domanda


complessiva di merci è data dalla spesa per beni di consumo, dalla spesa per beni
d’investimento e dalla spesa pubblica:

Z = C +I +G

Dove la spesa per consumi è data da:

C = c0 + c1 (Y − T )

mentre investimenti, spesa pubblica e tasse possono essere considerati esogeni,


cioè dati dalle decisioni autonome delle imprese e del governo. La condizione di
equilibrio tra produzione e domanda è dunque:

Y =Z

Ricordiamo che il termine Y sta ad indicare sia il livello della produzione di merci
realizzata, sia il reddito distribuito. Produzione e reddito infatti sono sempre
equivalenti, dal momento che il valore della produzione venduta finisce
interamente, sotto forma di reddito, nelle mani dei capitalisti e dei lavoratori che
121

hanno concorso a realizzarla. Dunque un aumento della produzione realizzata e


venduta deve sempre corrispondere ad un aumento equivalente del reddito
distribuito ai capitalisti e ai lavoratori che hanno concorso alla sua realizzazione.
Ecco perché, nel definire Y, noi useremo indifferentemente sia il termine
“produzione” che il termine “reddito”.

Detto ciò, torniamo alla condizione di equilibrio tra produzione domanda Y = Z.


Effettuando le sostituzioni e dopo qualche passaggio matematico:

Y = C + I +G
Y = c0 + c1 (Y − T ) + I + G
Y − c1Y = c0 + I + G − c1T
(1 − c1 )Y = c0 + I + G − c1T

alla fine si ottiene:

1
(1) Y= (c0 + I + G − c1T )
1 − c1

che è appunto l’equazione di equilibrio sul mercato dei beni, vale a dire
dell’equilibrio tra produzione e domanda. Il termine tra parentesi è detto spesa
autonoma (poiché include le componenti della spesa dette autonome, nel senso
che non dipendono dal reddito), mentre il termine 1/1-c1 è detto moltiplicatore
della spesa autonoma. Conoscendo i livelli delle variabili esogene che concorrono
a determinare la domanda di merci (cioè I, G, T, c0 e c1), questa equazione
consente di determinare il livello di equilibrio della produzione Y.

Ovviamente l’equazione può essere modificata per calcolare non i livelli ma


direttamente le variazioni. Si può cioè ipotizzare che le componenti della
domanda si modifichino, e si può desiderare di calcolare la variazione della
produzione che ne consegue. In tal caso l’equazione diventa:

1
( 2) ∆Y = (∆c0 + ∆I + ∆G − c1∆T )
1 − c1
122

Chiaramente può ben darsi che tra le variabili che compongono la domanda solo
una si modifichi mentre le altre rimangono costanti. Supponiamo ad esempio che
si verifichi una “crisi di fiducia” da parte delle imprese sulle loro aspettative di
profitto. Gli imprenditori risultano cioè sfiduciati sull’andamento futuro
dell’economia, temono che venderanno poco e quindi ritengono che riusciranno a
conseguire ben pochi profitti. In tal caso essi non avranno alcuna intenzione di
espandere la loro attività, e quindi decideranno di ridurre gli investimenti (cioè
decideranno di ridurre la domanda di nuovi macchinari e impianti).2 Ciò significa
che gli investimenti si riducono (quindi ∆I<0), mentre c0, G e T per ipotesi restano
costanti (e quindi ∆c0 = ∆G = ∆T = 0). L’equazione (2) allora diventa:

1
∆Y = ∆I
1 − c1

Ovviamente, poiché abbiamo assunto che la variazione degli investimenti sia


negativa, anche la variazione della produzione lo sarà: ∆Y<0. Il termine ∆Y indica
dunque la riduzione della produzione causata da una riduzione della domanda di
beni d’investimento.

Date queste equazioni, possiamo adesso effettuare alcuni esempi numerici.

ESEMPIO N.1: determinazione della produzione di equilibrio, date le


componenti della domanda. Ipotizziamo, a scopo puramente esemplificativo, che
le componenti autonome della domanda di merci e la propensione al consumo
all’interno del paese esaminato assumano i seguenti valori:3

2
E’ sempre importante distinguere tra investimenti produttivi e investimenti finanziari. Nel
linguaggio corrente quando si parla genericamente di “investimenti” di solito ci si riferisce agli
investimenti finanziari, cioè all’acquisto di titoli da parte dei risparmiatori. Invece, salvo
specificazioni, quando parlano di “investimenti” gli economisti si riferiscono agli investimenti
produttivi, cioè agli acquisti di nuovi macchinari, impianti e attrezzature da parte delle imprese. In
questo caso stiamo dunque parlando di investimenti produttivi delle imprese.
3
Le componenti autonome della domanda c0, I, G, T sono espresse in miliardi di euro. La
propensione al consumo c1 indica invece la quota del reddito Y che viene consumata, e quindi può
essere espressa come una frazione (ad esempio c1=0,5=1/2 significa che i cittadini del paese
esaminato tendono a consumare il 50% del loro reddito e a risparmiare il restante 50%).
123

c0 = 50
I = 200
G = 100
T = 100
c1 = 0,5 = 1 / 2

Sostituendo questi valori nella equazione (1), otteniamo il livello di equilibrio


della produzione:

1
Y= (50 + 200 + 100 − (1 / 2)100)
1 − 1/ 2
Y = 2 (300)
Y = 600

ESEMPIO N.2: la crisi di fiducia. Supponiamo ora che si verifichi una “crisi di
fiducia” sulle prospettive di profitto, e quindi che gli investimenti delle imprese si
riducano. Ipotizziamo ad esempio che adesso I = 150. Ciò significa che, rispetto al
valore precedente, gli investimenti si sono ridotti di 50 miliardi. Possiamo dunque
usare l’equazione (1) per calcolare il nuovo livello della produzione, tenendo
conto del nuovo livello di I. Avremo:

1
Y= (50 + 150 + 100 − (1 / 2)100)
1 −1/ 2
Y = 2 (250)
Y = 500

La produzione è adesso pari a 500 miliardi, rispetto ai 600 realizzati prima della
crisi. Alternativamente possiamo anche calcolare direttamente la variazione ∆Y,
senza bisogno di calcolare i livelli. Sapendo che gli investimenti si sono ridotti di
∆I = − 50, mentre per ipotesi ∆c0 = ∆G = ∆T = 0, sostituendo questi valori nella
equazione (2) otteniamo:

1
∆Y = (−50)
1 − 1/ 2
∆Y = 2 (−50)
∆Y = −100
124

La produzione dunque si è ridotta di 100 miliardi (che corrispondono appunto alla


differenza tra il valore iniziale di 600 e quello successivo alla crisi di 500).
Insomma, la crisi innesca una caduta della domanda di merci, la quale costringe le
imprese a ridurre la produzione. Ed è chiaro che questo dovrebbe implicare anche
una serie di licenziamenti e quindi una riduzione del numero degli occupati. Il
calo della domanda comporta dunque un calo della produzione e un aumento della
disoccupazione.

Si noti che, a fronte di una riduzione iniziale della domanda di merci (e in


particolare di beni d’investimento) pari a 50, alla fine si assiste ad una riduzione
della produzione di 100. La produzione cioè varia più di quanto sia variata
inizialmente la domanda. Si ricordi che questo fenomeno è dovuto al
moltiplicatore della spesa autonoma. Il moltiplicatore tende ad accentuare la
variazione iniziale della spesa autonoma. Il meccanismo tramite il quale esso
agisce è il seguente: nel momento in cui la domanda di macchinari si riduce, le
imprese che producono i macchinari non riescono a venderli e quindi sono
costrette a licenziare; i lavoratori divenuti disoccupati non disporranno più di un
reddito, e quindi ridurranno a loro volta i consumi; ciò provocherà una serie di
licenziamenti anche presso le imprese che producono beni di consumo; ci saranno
pertanto altri lavoratori disoccupati costretti a ridurre le loro spese, il che
provocherà ulteriori cali di produzione e licenziamenti, e così via. Alla fine di
questo processo cumulativo il calo della domanda e della produzione risulterà per
l’appunto “moltiplicato” rispetto al calo iniziale degli investimenti.

4.2 Il paradosso del risparmio

Abbiamo appena esaminato una caduta degli investimenti e quindi della


produzione e dell’occupazione. Alcuni economisti di stampo liberista talvolta
hanno affermato che per rimediare a un calo degli investimenti occorre aumentare
i risparmi. L’idea è che le famiglie consumano troppo e quindi forniscono poco
risparmio alle imprese per il finanziamento degli investimenti. Secondo questa
visione, solo se la popolazione riduce il consumo e decide di rendere disponibili
maggiori risparmi per le imprese, queste ultime potranno usarli per aumentare gli
investimenti in nuovi macchinari e attrezzature e rendere così più efficiente e
produttiva l’economia. Stando a questa concezione – che era molto in voga tra gli
economisti liberisti dell’Inghilterra “vittoriana” di fine ‘800 e che oggi pare
tornata di moda - è solo attraverso le virtù della parsimonia e dell’astinenza dai
consumi, che si può uscire da una crisi e sviluppare l’economia.
125

Questa visione è stata fortemente criticata da John Maynard Keynes, autore della
Teoria generale del 1936. Keynes, che scriveva in un’epoca di grave crisi
economica mondiale, sostenne che il tentativo di risollevare l’economia riducendo
i consumi per aumentare i risparmi avrebbe soltanto peggiorato la situazione
economica. In particolare, Keynes mise in luce l’esistenza di un “paradosso del
risparmio”, che andava contro i luoghi comuni dei teorici dell’astinenza: il
paradosso infatti evidenzia che se si riducono i consumi la produzione non
aumenta ma si riduce, ed inoltre i risparmi non aumentano ma restano invariati.

Per comprendere il senso della critica di Keynes, applichiamo la ricetta dei


liberisti e vediamo cosa accade. Supponiamo che per uscire dalla crisi si decida di
ridurre il consumo autonomo c0. Si spera che in tal modo i consumi si riducano, i
risparmi aumentino e quindi vi siano più risorse finanziarie per riattivare gli
investimenti delle imprese e per rilanciare la produzione. Ma al di là degli auspici,
quali saranno gli effetti reali di questa riduzione del consumo autonomo? Come
vedremo, gli effetti sono due: la domanda, la produzione e il reddito si riducono,
mentre il risparmio resta invariato.

Dimostriamo questi risultati riprendendo l’equazione (1) della produzione di


equilibrio:

1
(1) Y= (c0 + I + G − c1T )
1 − c1

Da questa equazione rileviamo facilmente che la riduzione di c0 implica una


riduzione della domanda di merci e quindi anche della produzione,
dell’occupazione e del reddito. Si viene pertanto a determinare un effetto
esattamente opposto a quello auspicato, e questo per una ragione molto semplice:
gli economisti che intendono applicare le ricette dell’epoca “vittoriana”, e che
propongono quindi la riduzione dei consumi e l’aumento dei risparmi per
risollevare l’economia, non tengono conto del fatto che se si riducono i consumi si
determina un calo ulteriore di domanda, di produzione, di occupazione e di
reddito, e quindi un aggravamento della crisi.

Ma c’è di più. E’ possibile infatti dimostrare che, contrariamente alle attese, la


riduzione del consumo autonomo non riesce nemmeno a provocare un aumento
dei risparmi. Il che in effetti sembra strano, nel senso che di fronte a un calo dei
consumi pare naturale attendersi un aumento corrispondente dei risparmi. Per
spiegare questo apparente “paradosso” prendiamo l’equazione del risparmio S.
Questo è dato dal reddito al netto delle tasse, meno i consumi:

S = Y −T −C
126

da cui, sostituendovi l’equazione del consumo, otteniamo:

S = Y − T − c0 − c1 (Y − T )
S = −c 0 + (1 − c1 )(Y − T )

Da quest’ultima equazione possiamo trarre le seguenti considerazioni. Vediamo


subito che la riduzione del consumo autonomo dà luogo a due effetti contrastanti:
da un lato essa provoca effettivamente un aumento diretto del risparmio S;
dall’altro lato, però, come abbiamo visto prima, al diminuire di c0 si verifica pure
una riduzione della domanda, quindi una riduzione della produzione e del reddito
Y e dunque anche un calo del risparmio S. Il che dopotutto è ovvio: la caduta dei
consumi provoca cali di produzione e di occupazione, ed è chiaro che se
aumentano i disoccupati questi si ritroveranno senza reddito e quindi anche senza
possibilità di risparmiare.

La riduzione del consumo autonomo produce dunque due effetti contrastanti sul
risparmio: uno diretto che è positivo, e l’altro mediato dalla domanda e dal reddito
che invece è negativo. Ma quale dei due effetti tende a prevalere? Alla fine si
dimostra che i due effetti si elidono a vicenda, e quindi il risparmio non subisce
alcun mutamento in seguito alla riduzione del consumo autonomo. Infatti,
partendo dalla equazione dell’equilibrio tra produzione e spesa:

Y =C +I +G

Sottraendo a destra e a sinistra T e C, otteniamo:

Y −T −C = I +G −T

Ma il termine a sinistra corrisponde proprio al risparmio S, e quindi possiamo


scrivere:

S = I +G −T

Ora, si vede chiaramente che in equilibrio il risparmio dipende esclusivamente


dagli investimenti delle imprese e dalla spesa pubblica al netto delle tasse. Ma
questi come è noto sono tutti dati esogeni. Per cui, se questi dati non si
modificano, nemmeno il risparmio può modificarsi, nonostante che il consumo
autonomo si sia ridotto. Ecco dunque dimostrato il paradosso del risparmio.
127

ESEMPIO N.3: il paradosso del risparmio. Il fatto che la riduzione del consumo
autonomo non riesca a risollevare l’economia, ma provochi al contrario un calo di
produzione e lasci pure del tutto invariato il risparmio, può essere verificato
tramite un esempio numerico. Supponiamo che, dopo la crisi di fiducia e la caduta
degli investimenti, si cerchi di risollevare l’economia tramite una riduzione di c0
da 50 a 40 miliardi. I dati dunque sono:

c0 = 40
I = 150
G = 100
T = 100
c1 = 0,5 = 1 / 2

Calcoliamo la produzione di equilibrio:

1
Y= (40 + 150 + 100 − (1 / 2)100)
1 −1/ 2
Y = 2 (240)
Y = 480

Rileviamo subito che la riduzione del consumo autonomo, anziché migliorare la


situazione, ha provocato un ulteriore calo della produzione. Vediamo infine cosa è
accaduto al risparmio. Data l’equazione del risparmio riportata in precedenza:

S = −c0 + (1 − c1 )(Y − T )

calcoliamo innanzitutto il livello del risparmio prima della riduzione del consumo
autonomo, cioè con c0 = 50 e Y = 500:

S = −50 + (1 − 1 / 2)(500 − 100) = 150

Ricalcoliamo quindi il risparmio dopo la riduzione del consumo autonomo, cioè


con c0 = 40 e Y = 480:

S = −40 + (1 − 1 / 2)(480 − 100) = 150

Come si vede, la riduzione del consumo autonomo non ha provocato alcun effetto
sul risparmio, visto che il calo di c0 è perfettamente compensato dal calo di
domanda e quindi di Y. Il “paradosso” è dunque confermato. Per uscire dalla crisi
occorre cercare altre strade. Ad esempio, come vedremo, la politica espansiva.
128

4.3 Spesa pubblica, tassazione e teorema di Haavelmo sul bilancio in pareggio

ESEMPIO N.4: una politica di espansione della spesa pubblica. E’ chiaro che la
crisi di fiducia, e la conseguente riduzione della domanda e della produzione,
avranno scatenato un’ondata di licenziamenti, e avranno quindi accresciuto la
disoccupazione. In tal caso le autorità politiche potrebbero cercare di effettuare
politiche espansive, al fine di aumentare la domanda di merci ed uscire così dalla
crisi. Supponiamo ad esempio che le autorità di governo decidano di aumentare la
spesa pubblica. Ad esempio, possiamo assumere che la spesa pubblica diventi G =
150, ossia aumenti di ∆G = 50 rispetto al suo valore iniziale di 100. Dunque ora
abbiamo:

c0 = 50
I = 150
G = 150
T = 100
c1 = 0,5 = 1 / 2

Utilizzando sempre l’equazione (1), possiamo calcolare il nuovo livello di


equilibrio della produzione:

1
Y= (50 + 150 + 150 − (1 / 2)100)
1 − 1/ 2
Y = 2 (300)
Y = 600

Si noti che, grazie all’aumento della spesa pubblica, il governo è riuscito a


riportare l’economia al livello di produzione antecedente alla crisi. Ovviamente lo
stesso calcolo poteva essere direttamente effettuato sulle variazioni, senza passare
per il calcolo dei livelli. Sapendo che ∆G = 50, e assumendo sempre per ipotesi
che ∆c0 = ∆I = ∆T = 0, usando la (2) otteniamo:
129

1
∆Y = (50)
1 − 1/ 2
∆Y = 2 (50)
∆Y = 100

che corrisponde esattamente all’aumento della produzione dal livello di 500


causato dalla crisi al nuovo livello di 600 generato dall’espansione della spesa
pubblica. Si noti che il moltiplicatore della spesa autonoma funziona non solo “in
negativo”, come nel caso precedente, ma anche “in positivo” come in questo caso.
Infatti, al governo è bastato un aumento di spesa pubblica di 50 per ottenere un
aumento finale della produzione di 100. Posto ad esempio che il governo abbia
speso 50 miliardi per la costruzione di nuovi edifici scolastici, evidentemente avrà
impiegato nei cantieri dei lavoratori che precedentemente erano disoccupati e
quindi nullatenenti. Questi lavoratori, essendo occupati, adesso dispongono di un
reddito e quindi potranno aumentare a loro volta i consumi, il che farà aumentare
l’attività delle imprese produttrici di beni di consumo, e dunque anche
l’occupazione di ulteriori lavoratori presso di esse, e così via. Alla fine l’aumento
della spesa complessiva, e conseguentemente anche della produzione e degli
occupati necessari a realizzarla, è maggiore della spesa pubblica iniziale.

Si noti che il moltiplicatore, rappresentato dal termine 1/1-c1, genera effetti tanto
più intensi quanto maggiore è la propensione al consumo. Ad esempio, se c1
aumenta da 1/2 a 2/3 il motiplicatore 1/1-c1 aumenta da 2 a 3 e quindi tende ad
accentuare la variazione iniziale della spesa autonoma. La spiegazione è semplice:
se i lavoratori hanno una forte propensione a consumare, allora nel momento in
cui vengono assunti e retribuiti tratterranno poco reddito per fini di risparmio e
tenderanno a spenderne molto per consumi. Ciò significa che solo una piccola
parte del reddito resterà giacente nei portafogli, mentre la maggior parte verrà
rimessa nel circuito economico, il che darà luogo ad un elevato effetto
moltiplicativo sulla domanda e sulla produzione.

ESEMPIO N.5: una politica di riduzione della tassazione. In effetti, per stimolare
la domanda di merci e uscire così dalla crisi, il governo potrebbe anche ridurre le
tasse anziché aumentare la spesa pubblica. Le tasse sono fondamentali per
finanziare l’amministrazione dello Stato e i servizi essenziali come l’ordine
pubblico, la sanità, l’istruzione, ecc. Al tempo stesso però esse sottraggono
reddito ai singoli cittadini, e quindi tendono a deprimere le loro spese per consumi
privati. Abbattendo la tassazione, il governo può quindi lasciare ai privati una
maggiore disponibilità di reddito, e permette ad essi di accrescere la domanda di
merci. In sostituzione di ∆G = 50, il governo può dunque decidere di ridurre le
130

tasse di ∆T = − 50. Senza bisogno di calcolare il livello, soffermiamoci


direttamente sulla variazione della produzione che consegue alla riduzione delle
tasse. Sapendo che ∆T = − 50, e che per ipotesi ∆c0 = ∆I = ∆G = 0, sostituendo
questi valori nella equazione (2):

1
∆Y = (∆c0 + ∆I + ∆G − c1∆T )
1 − c1

otteniamo che:

1
∆Y = (0 + 0 + 0 − (1 / 2)(−50))
1 − 1/ 2
∆Y = 2 (25)
∆Y = 50

A questo punto è fondamentale notare una differenza tra la politica precedente, di


espansione della spesa pubblica, e la politica appena esaminata, basata sulla
riduzione delle tasse. L’aumento di spesa pubblica pari a 50 aveva infatti
provocato un aumento complessivo della produzione pari a 100. In questo caso,
invece, una riduzione delle tasse di 50 (ovvero una riduzione di pari entità rispetto
all’aumento della spesa pubblica) provoca un aumento della produzione di soli 50
miliardi, ossia molto minore. Dunque la politica basata sulla espansione della
spesa pubblica G risulta più efficace della politica fondata sulla riduzione delle
tasse T. Quali sono le cause di questa diversa efficacia? La risposta può essere
individuata osservando nuovamente l’equazione (2):

1
∆Y = (∆c0 + ∆I + ∆G − c1∆T )
1 − c1

Da questa equazione si rileva chiaramente che mentre le variazioni di G si


scaricano interamente sulla produzione Y, invece solo la percentuale c1 delle
variazioni di T si ripercuote su Y. La ragione è che se il governo aumenta ad
esempio G di 50 miliardi, questi si trasformeranno interamente in maggiore spesa
(es. per la costruzione di edifici scolastici, di strade, ecc.) e quindi anche in
maggiore produzione e in maggiore reddito per i lavoratori che partecipano alla
produzione. Al contrario, se il governo riduce T di 50 miliardi, i cittadini
effettivamente si ritroveranno con un reddito disponibile maggiore, ma di questo
maggiore reddito essi ne spenderanno soltanto una parte. Ad esempio, se la
propensione al consumo è c1 = 1/2, questo significa che i cittadini spendono solo il
50% dei loro redditi a fini di consumo, mentre accantonano l’altro 50% sotto
forma di risparmio. Dunque, se a seguito di una riduzione delle tasse i cittadini si
131

trovano con 50 miliardi in più di reddito disponibile, essi ne spenderanno solo 25


e quindi alla fine questa politica darà luogo ad un aumento di domanda e di
produzione inferiore rispetto a quella basata sulla spesa diretta del governo.

La maggiore efficacia di G rispetto a T può essere formalizzata attraverso il


cosiddetto teorema di Haavelmo sul bilancio in pareggio. Per descrivere il
teorema, partiamo dalla seguente ipotesi: per evitare di aggravare il disavanzo
pubblico il governo intende finanziare tutti gli aumenti di spesa pubblica con
uguali incrementi della tassazione. Il disavanzo (detto anche deficit) di bilancio
pubblico è dato infatti dall’eventuale eccesso di spese dello Stato G rispetto alle
entrate fiscali T.

(3) Deficit pubblico = G - T

Se si vuole evitare questo disavanzo, se cioè si vuole mantenere il bilancio


pubblico in pareggio, occorre che G e T siano uguali e si muovano assieme. Ossia,
partendo da una ipotetica situazione di pareggio, per mantenerla occorre che: ∆G
= ∆T.

A prima vista si potrebbe pensare che questo tipo di politica non provochi alcun
effetto sul livello di equilibrio della produzione Y. Si può infatti presumere che
l’espansione della domanda di merci causata dall’aumento di G venga
perfettamente neutralizzata dalla riduzione della domanda causata dal pari
aumento di T. In realtà, contrariamente alle apparenze, il teorema di Haavelmo
dimostra che la politica basata sul bilancio in pareggio (cioè su ∆G = ∆T) dà
luogo a un incremento di Y.

Per dimostrare questo teorema partiamo dalla equazione (2), che ci dice di quanto
varia Y al variare delle componenti autonome della domanda, cioè nel nostro caso
al variare di G e di T:

1
∆Y = (∆c0 + ∆I + ∆G − c1∆T )
1 − c1

Se assumiamo che gli investimenti e i consumi autonomi non mutino, allora si ha


che ∆c0 = ∆I = 0 e quindi possiamo riscrivere l’equazione nel seguente modo:

1
∆Y = (∆G − c1∆T )
1 − c1
132

Ma noi sappiamo pure che, per ipotesi, il governo sta effettuando una politica di
bilancio in pareggio, per cui ∆G = ∆T. Possiamo quindi sostituire il termine ∆T
con ∆G e ottenere:

1
∆Y = (∆G − c1∆G )
1 − c1
1
∆Y = (1 − c1 ) ∆G
1 − c1
(1 − c1 )
∆Y = ∆G
1 − c1

da cui, semplificando numeratore e denominatore della frazione, si ottiene:

∆Y = ∆G

Abbiamo dunque dimostrato che, con ∆G = ∆T, le due politiche non si


neutralizzano a vicenda ma hanno invece un effetto positivo sulla produzione. Più
precisamente, l’aumento di Y sarà esattamente pari all’aumento iniziale di
spesa pubblica. Ma perché l’aumento delle tasse, pur essendo identico
all’aumento della spesa pubblica, non riesce a neutralizzare quest’ultima? La
ragione è sempre la stessa. L’aumento di spesa pubblica ∆G si traduce
interamente in spesa e quindi in un aumento della produzione. Invece l’uguale
aumento delle tasse ∆T, pur rappresentando una sottrazione di reddito ai privati,
se fosse rimasto nelle tasche di questi sarebbe stato speso non interamente ma solo
in parte, ossia nella percentuale data dalla propensione al consumo c1. Alla fine
dunque l’effetto espansivo della spesa prevale sull’effetto restrittivo delle
tasse, e quindi domanda e produzione aumentano.

4.4 Il finanziamento del disavanzo pubblico e il Trattato di Maastricht

Abbiamo appena esaminato una politica basata sull’obiettivo di mantenere il


pareggio di bilancio pubblico, finanziando gli incrementi di spesa pubblica G con
uguali incrementi delle entrate fiscali T.

E’ possibile tuttavia che un governo possa essere spinto ad effettuare delle spese
in disavanzo (detto anche deficit). Dall’equazione (3) noi sappiamo che il deficit
pubblico si viene a creare quando la spesa pubblica eccede le entrate fiscali. Ci
sono varie ragioni per cui questo eccesso di spesa può venirsi a creare. In primo
133

luogo, è possibile che le autorità politiche siano indotte ad effettuare maggiori


spese per tentare di stimolare l’attività produttiva e quindi l’occupazione. Inoltre,
più in generale, i governi possono essere sottoposti a vari tipi di pressioni
politiche. Alcuni gruppi sociali chiederanno infatti di accrescere la spesa pubblica
(magari per migliorare i servizi sanitari, scolastici, i trasporti pubblici, ecc.), altri
reclameranno una riduzione della tassazione. Di conseguenza è possibile che di
fronte a simili spinte contrastanti le autorità politiche finiscano per generare
deficit pubblici, ossia eccessi sistematici delle spese sulle entrate.

Quando uno Stato si trova in una situazione di deficit, può finanziare le spese
eccedenti in due modi. Il primo modo consiste nel farsi prestare denaro dai
privati, ossia nell’indebitarsi con i privati vendendo loro titoli del debito pubblico
(esempio tipico sono i BOT); in tal caso si avrà una emissione di nuovi titoli, e
quindi un aumento del debito pubblico: qui definiremo tale aumento con il
termine ∆B. Il secondo modo di finanziamento verte sulla creazione di nuova
moneta, ossia sulla stampa di banconote da parte della banca centrale; in tal caso
si avrà un aumento dell’offerta di moneta, che qui definiremo con ∆M. Dunque, in
linea di principio, dato un certo livello del deficit pubblico G - T, si potrà
finanziarlo con una pari variazione del debito pubblico, o della quantità di moneta,
oppure di una combinazione dei due:

G − T = ∆B + ∆M

Fino alla seconda metà degli anni ’70, era prassi abbastanza consolidata favorire
l’espansione della spesa pubblica al di là delle entrate fiscali attraverso l’aumento
del debito e la creazione di moneta. Questo orientamento ha indubbiamente dato
luogo a un’espansione dell’apparato burocratico dello Stato. D’altro canto esso ha
pure consentito ai governi di finanziare politiche di espansione della spesa
pubblica per accrescere la domanda e quindi la produzione e l’occupazione.
Inoltre, la medesima impostazione ha favorito lo sviluppo del cosiddetto “stato
sociale”, vale a dire dell’istruzione e della sanità pubblica garantita a tutti i
cittadini, e dei sistemi di previdenza e di assistenza sociale per i meno abbienti.
Tuttavia a partire dagli anni ’80 si è imposto un diverso orientamento, talvolta
definito “liberista”, teso ad impedire le politiche espansive e a contrastare la
crescita del bilancio statale attraverso l’introduzione di rigidi vincoli all’aumento
del debito pubblico e della massa monetaria.

Il Trattato di Maastricht del 1991, che ha dato avvio al progetto della moneta
unica europea, è stato fortemente ispirato da questa impostazione liberista. Infatti,
tra le altre cose, ai paesi membri dell’Unione monetaria europea il Trattato
impone i seguenti divieti: 1) il divieto per la Banca centrale europea di finanziare
i deficit pubblici tramite creazione di moneta, un divieto che può essere
facilmente espresso in termini algebrici nel seguente modo:
134

∆M = 0

e 2) il divieto per gli stati membri dell’Unione monetaria di finanziare i deficit


pubblici tramite emissione di titoli oltre il vincolo del 3% del Pil (che corrisponde
al livello di produzione Y). Questo secondo divieto può essere espresso
algebricamente nel modo che segue. Partiamo dalla definizione del deficit
pubblico. In tal caso esso coincide con la sola emissione di nuovi titoli del debito
pubblico, visto che il Trattato esclude il finanziamento tramite creazione di
moneta:

G − T = ∆B

dividiamo tutto per il Pil, ossia per il livello di produzione Y:

G − T ∆B
=
Y Y

Infine, introduciamo il vincolo del 3% imposto dal Trattato di Maastricht:

G − T ∆B
= ≤ 0,03 (ossia ≤ 3%)
Y Y

ESEMPIO N.6: verifica del rispetto o meno del vincolo del 3% del Trattato di
Maastricht. Se prendiamo i dati del terzo esempio precedente - nel quale si
cercava di rimediare a una crisi di fiducia tramite la spesa pubblica – si può
verificare se quella situazione rispetti o meno il vincolo del Trattato. Sapendo che
G = 150, che T = 100 e che il livello di equilibrio della produzione è Y = 600,
otteniamo:

G − T 150 − 100
= = 0,083 = 8,3%
Y 600

Dunque ci troviamo di fronte a un livello del deficit pubblico che in base al


Trattato dovremmo considerare “eccessivo”, poiché esso andrebbe ben al di là del
limite del 3% previsto dagli accordi europei. Anziché accrescere la spesa pubblica
il paese dovrà dunque ridurla per rientrare nei limiti del Trattato, nonostante la già
bassa domanda causata dalla crisi. L’esempio chiarisce che il vincolo del Trattato
può mettere in seria difficoltà un paese attraversato da una crisi, poiché impedisce
di rimediare ad essa tramite l’espansione della spesa pubblica.
135

Gli economisti di orientamento liberista tendono a difendere i divieti al


finanziamento dei deficit pubblici imposti dal Trattato di Maastricht. Molti di essi
infatti auspicano che i divieti del Trattato comprimano il bilancio pubblico e
quindi riducano la presenza dello Stato nell’economia. Altri economisti, talvolta
ispirati dalle opere eterodosse di Marx e di Keynes, hanno invece criticato i divieti
imposti dal Trattato di Maastricht. Essi ritengono che tali vincoli impediscano di
effettuare politiche espansive e quindi costringano i paesi membri dell’Unione
monetaria europea in una situazione di bassa domanda e quindi di bassa
produzione e occupazione. Gli stessi economisti ritengono inoltre che tali divieti,
restringendo il bilancio statale, provocheranno una drammatica riduzione della
produzione di beni e servizi pubblici destinati ai cittadini europei, e soprattutto ai
lavoratori e alle fasce sociali più deboli. Viene dunque sollecitata una riforma del
Trattato di Maastricht, che elimini o almeno attenui i vincoli vigenti. La grave
crisi economica in corso potrebbe in effetti dare man forte alle loro tesi,
costringendo le istituzioni europee a rivedere almeno le clausole più controverse
del Trattato.

4.5 La politica monetaria e il Trattato di Maastricht

Fino a questo momento abbiamo assunto che, a seguito di una crisi di fiducia e di
una conseguente caduta degli investimenti delle imprese, il governo intervenga
attraverso una politica di espansione della spesa pubblica e/o di riduzione delle
tasse. Tuttavia è anche possibile che in una situazione del genere intervenga la
banca centrale al posto del governo (o al limite in concerto con esso). Ad
esempio, in Europa la Banca centrale europea (BCE) potrebbe esser chiamata a un
intervento per contrastare la crisi, negli Stati Uniti questo compito spetta alla
Federal Reserve (FED), ecc.

Quando c’è una crisi la banca centrale interviene con una politica monetaria
espansiva, cioè con un aumento della quantità di moneta M in circolazione. La
banca centrale può decidere di aumentare M al fine di ridurre il tasso d’interesse.
La riduzione dei tassi d’interesse rappresenta infatti una riduzione del costo dei
prestiti e può quindi stimolare le imprese a chiedere finanziamenti alle banche per
riattivare gli investimenti, e con essi la domanda di merci e quindi la produzione e
l’occupazione.

Ma qual è la relazione che lega un aumento della quantità di moneta in


circolazione a una riduzione del tasso d’interesse? La spiegazione grafica - basata
sulla intersezione tra la curva di domanda di moneta e l’offerta di moneta - è
136

molto semplice, e può essere facilmente rintracciata nel capitolo 4 del manuale di
Blanchard. Qui però ci soffermiamo sulla spiegazione economica, cioè concreta,
del fenomeno.

La procedura solitamente adottata dalla banca centrale per modificare la quantità


di moneta circolante è la cosiddetta operazione di mercato aperto, che non è
altro che una operazione di compravendita di titoli e di moneta sul mercato
finanziario. La banca centrale entra cioè in relazione con gli operatori privati che
agiscono su quel mercato. Ad esempio, se l’obiettivo è di ridurre il tasso
d’interesse e stimolare così l’economia, allora la banca centrale dovrà da un lato
offrire moneta e dall’altro domandare titoli. In questo modo infatti la banca
centrale crea un eccesso di domanda di titoli sul mercato che farà aumentare il
prezzo dei titoli stessi (come accade per i prezzi di tutte le merci, anche i prezzi
dei titoli aumentano se c’è un eccesso di domanda, mentre diminuiscono se c’è un
eccesso di offerta).

Assumiamo ora che i titoli sul mercato siano “a reddito fisso”. Un caso tipico di
titoli a reddito fisso sono i titoli di Stato, emessi dai governi per farsi prestare
denaro dai privati (per esempio in Italia abbiamo i BOT). Un titolo a reddito fisso
è definito così poiché alla scadenza di fine anno chi lo ha emesso è tenuto a
pagare sempre la stessa somma al proprietario del titolo, ad esempio 100 euro.
Dunque il tasso d’interesse su questo titolo sarà dato dalla differenza tra
rendimento e costo del titolo, cioè sarà dato dalla cedola di 100 euro che il
proprietario ottiene alla scadenza di fine anno, meno il prezzo al quale il
proprietario ha acquistato il titolo, il tutto diviso per il medesimo prezzo:

100 − PT
i=
PT

Questa formula ovviamente può essere riscritta così:

100
i= −1
PT

Per esempio, se un operatore privato compra al prezzo di 95 euro un titolo che a


fine anno darà una cedola fissa di 100 euro, è chiaro che il tasso di interesse del
titolo sarà pari a i = 100/95 – 1 = 0,052 = 5,2%.

La formula chiarisce la relazione inversa tra prezzo del titolo e tasso d’interesse:
una operazione di mercato aperto basata su una maggiore offerta di moneta e su
una maggiore domanda di titoli da parte della banca centrale, farà aumentare il
prezzo di mercato PT del titolo e quindi (visto che il denominatore della frazione
137

aumenta) farà diminuire il tasso d’interesse i. Il che del resto è ovvio: l’operazione
espansiva della banca centrale fa aumentare il prezzo di mercato del titolo, ma al
tempo stesso il rendimento assoluto che il titolo garantisce è rimasto fisso a 100
euro. Pertanto, dopo l’operazione della banca centrale accade che chi compra il
titolo sul mercato lo paga di più, ma alla fine ottiene sempre la stessa somma di
cento euro. Pertanto è chiaro che il tasso d’interesse – cioè il rendimento
percentuale del titolo rispetto al prezzo - si riduce.

In generale possiamo quindi scrivere che le operazioni di mercato aperto della


banca centrale possono essere:

Operazioni La banca centrale offre Conseguenza: eccesso di PT ↑ i↓


espansive moneta e domanda titoli domanda di titoli
Operazioni La banca centrale Conseguenza: eccesso di PT ↓ i↑
restrittive domanda moneta e offre offerta di titoli
titoli

Abbiamo dunque chiarito il rapporto intercorrente tra quantità di moneta,


prezzo dei titoli e tasso d’interesse. Più in particolare, abbiamo mostrato in che
modo la banca centrale può aumentare la moneta in circolazione, aumentare il
prezzo dei titoli, ridurre il tasso d’interesse e cercare così di stimolare gli
investimenti per far uscire l’economia da una situazione di crisi.

Tuttavia, così come accadeva per le manovre sulla spesa pubblica e sulla
tassazione, anche la politica monetaria risulta oggigiorno fortemente vincolata. Il
Trattato di Maastricht, infatti, non solo vieta alla Banca centrale europea di
finanziare i deficit pubblici con moneta, ma più in generale le impone di
perseguire politiche fortemente restrittive, al fine di contenere il più possibile
l’inflazione. Il risultato è che la Bce difficilmente potrà decidere di espandere la
moneta in circolazione al fine di ridurre i tassi d’interesse per dare sostegno alla
domanda e alla produzione. Anche per questo motivo il Trattato di Maastricht è
oggetto di numerose critiche.

4.6 Politica monetaria e speculazione

Ma se anche i vincoli del Trattato venissero eliminati o attenuati, la politica


monetaria espansiva potrebbe incontrare altri tipi di ostacoli in grado di renderla
comunque inefficace.
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Un primo ostacolo risiede nel comportamento degli speculatori, vale a dire di


quegli operatori privati che effettuano compravendite sul mercato finanziario al
fine di lucrare guadagni dalle variazioni dei prezzi dei titoli. Gli speculatori
cercano infatti di comprare quando ritengono che i prezzi dei titoli siano bassi e
siano quindi destinati ad aumentare, e cercano invece di vendere quando ritengono
che i prezzi siano alti e siano pertanto destinati a cadere.

Gli speculatori cercano dunque di prevedere l’andamento futuro dei prezzi dei
titoli, in modo da poter lucrare su di essi. A seconda che prevedano rialzi o cadute
dei prezzi, essi si dividono in rialzisti (detti anche “tori”) e ribassisti (detti “orsi”).
Qui di seguito sono riportati due esempi di strategie speculative, rispettivamente
dei rialzisti e dei ribassisti:

Caso A: I rialzisti scommettono Caso B: I ribassisti scommettono


su un aumento futuro di PT su una riduzione futura di PT

1) Mi faccio prestare 100∈ al tasso del 10% 1) Mi faccio prestare 50 titoli al tasso del 10%
(quindi dovrò restituire 110∈) (quindi dovrò restituire i titoli più il 10% del
2) Compro 50 titoli al prezzo corrente PT=2∈ loro
3) Attendo che il prezzo dei titoli aumenti valore corrente)
4) Rivendo i 50 titoli al nuovo prezzo PT=3∈ 2) Vendo i 50 titoli al prezzo corrente PT=3∈
5) Dalla vendita ricavo 150∈ ed ottengo quindi 150∈
6) Restituisco i 110∈ dovuti al prestatore 3) Attendo che il prezzo dei titoli diminuisca
7) Ed ottengo dunque 150 – 110 = 40∈ 4) Ricompro i 50 titoli al nuovo prezzo PT=2∈
di guadagno speculativo netto. spendendo quindi 100∈ per l’acquisto
5) Restituisco i titoli al proprietario e pago
anche un
interesse di 15 (cioè il 10% dei 150∈ che
valevano all’inizio)
6) Alla fine mi restano 150 – 100 - 15 = 35∈
di guadagno speculativo netto

Chiaramente questi esempi si riferiscono a situazioni in cui gli speculatori vedono


confermate le loro attese. Ben diversa sarebbe la situazione se l’andamento dei
prezzi non confermasse le previsioni di tali operatori.

ESEMPIO N.7: speculazioni errate. Si calcoli il risultato netto del rialzista nel
caso in cui il nuovo prezzo di mercato del titolo sia PT = 1∈ anziché PT = 3∈. Si
calcoli poi il risultato netto del ribassista nel caso in cui il prezzo di mercato del
titolo rimanga al livello iniziale PT = 3∈ anziché diminuire a PT = 2∈. Si
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verificherà che in queste diverse circostanze gli speculatori conseguono delle


perdite in conto capitale.

Descritto a grandi linee il comportamento degli speculatori, si tratta ora di capire


in quale circostanza questi possono rendere inefficace una politica monetaria
espansiva. La circostanza in questione è quella in cui sul mercato prevalgono
nettamente i ribassisti. Questi soggetti sono convinti che i titoli siano destinati a
deprezzarsi, e quindi non vedono l’ora di liberarsi degli stessi non appena
troveranno un acquirente. Pertanto, nel momento in cui la banca centrale
interviene sul mercato offrendo moneta e domandando titoli, essa si ritroverà con
una gran massa di operatori pronti a venderle tutti i titoli di cui dispongono.
Questo significa che l’offerta di titoli da parte dei ribassisti sarà tale che non si
verrà a creare nessun eccesso di domanda. La conseguenza è che il prezzo dei
titoli non aumenta e il tasso d’interesse non diminuisce. La politica della banca
centrale risulta quindi inefficace a causa dell’interferenza degli speculatori.

In letteratura questo caso va sotto il nome di trappola della liquidità. Il nome


indica quelle situazioni in cui molti operatori finanziari vanno a caccia di moneta
liquida e cercano invece di liberarsi delle scorte di titoli, poiché ritengono che
questi siano destinati a perdere valore. Essendo convinti di un prossimo ribasso
dei prezzi dei titoli, gli operatori cercano di venderli e di ottenere in cambio
moneta, detta anche liquidità.

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