Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
DEMM
Università del Sannio
APPUNTI DI
ECONOMIA POLITICA
SESTA VERSIONE
Gennaio 2016
2
INDICE
2. MICROECONOMIA NEOCLASSICA
2.1 La teoria neoclassica della scelta razionale individuale: il caso del
consumatore
2.2 Il vincolo di bilancio del consumatore
2.3 Utilità, ordinamento delle preferenze e curve di indifferenza
2.4 La scelta del consumatore
2.5 La curva di domanda individuale
2.6 Il surplus del consumatore
2.7 La variazione della domanda individuale rispetto al reddito
2.8 Dalla curva di domanda individuale alla curva di domanda di mercato
2.9 La teoria neoclassica dell'impresa
2.10 La massimizzazione del profitto dell'impresa
2.11 L'impresa in concorrenza perfetta
2.12 Rappresentazione grafica dell'equilibrio ottimale dell'impresa
2.13 Domanda, offerta ed equilibrio del mercato di concorrenza perfetta
2.14 L'elasticità della domanda rispetto al prezzo
2.15 Instabilità dell’equilibrio e modello della ragnatela
2.16 Speculazione e instabilità
2.17 Monopolio e concorrenza monopolistica
2.18 Oligopolio
2.19 Scatola di Edgeworth, efficienza ed equità
2.20 Impresa pubblica e privatizzazioni
4
3. MACROECONOMIA NEOCLASSICA
CENNI DI STORIA
DELL’ECONOMIA POLITICA
Perché alcuni paesi hanno visto crescere il loro reddito più rapidamente di altri?
Per quale motivo negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a una caduta della quota
di reddito spettante ai lavoratori salariati? E’ vero che la diffusione dei contratti
“precari” ha contribuito a ridurre la disoccupazione? Quali sono le cause della
crisi economica mondiale esplosa nel 2008? Perché la crisi ha colpito in misura
particolarmente accentuata i paesi della cosiddetta zona euro? La libertà degli
scambi internazionali di merci e di capitali tra paesi favorisce lo sviluppo o può
essere fonte di instabilità economica? Per uscire dalla crisi occorre affidarsi alle
cosiddette forze spontanee del mercato o c’è bisogno di un maggiore intervento
pubblico nell’economia?
A questo tipo di domande si risponde spesso con dei luoghi comuni. Per esempio,
è un convincimento diffuso che gli Stati Uniti rappresentino il paese del “sogno
americano”, dove anche la persona più umile, se sufficientemente abile e
volenterosa, può raggiungere le più alte vette della scala sociale. Ma le cose
stanno davvero così? Il grafico posto qui di seguito mostra i tassi di “immobilità
sociale” calcolati dall’OCSE per alcuni paesi. La misura rappresenta in un certo
senso un indice della probabilità che può avere un individuo di situarsi in una
posizione sociale analoga a quella della famiglia di origine. Essa cioè misura il
peso della classe sociale di provenienza sui destini di ciascun individuo. Più alto è
l’indice, più è probabile che un figlio, al di là dei meriti o demeriti individuali, si
6
ritrovi nella stessa posizione sociale dei genitori: il figlio di operai diventa
operaio, il figlio di professionisti diventa professionista. Ebbene, contrariamente
ai luoghi comuni sul “sogno americano”, si può notare che gli Stati Uniti si
caratterizzano per un elevato tasso di “immobilità sociale”. Peggio degli USA
fanno soltanto il Regno Unito e, purtroppo, l’Italia.
Un altro tipico luogo comune è quello secondo cui il Nord Europa è più
produttivo perché si lavora di più, mentre nel Sud Europa mancherebbe una
radicata “cultura del lavoro”. Abbiamo più volte ascoltato questa opinione nei
dibattiti sulla crisi dell’Unione monetaria europea. Ma quali sono i dati effettivi?
Il grafico seguente riporta i dati OCSE 2008 sul numero medio annuo di ore di
lavoro procapite in vari paesi. Ebbene, è interessante notare che mentre un
lavoratore tedesco eroga in media 1430 ore annue, un lavoratore italiano ne fa
registrare 1802, e un greco arriva addirittura a 2120 ore annue. Evidentemente,
quindi, le divergenze economiche tra i paesi del Nord e i paesi del Sud Europa che
si sono verificate in questi anni, non si spiegano con il maggiore o minore carico
annuo di ore erogate dai rispettivi lavoratori.
7
Un’altra idea ricorrente in questi anni è stata quella secondo cui rendere più facili
i licenziamenti indurrebbe le imprese ad assumere più lavoratori e quindi
contribuirebbe a ridurre la disoccupazione. I dati OCSE tuttavia non confermano
questa opinione. Il grafico seguente, tratto dall’appendice all’Anti-Blanchard,
riporta sulle ascisse il grado di tutele dei lavoratori, incluse le tutele contro i
licenziamenti, e sulle ordinate il tasso di disoccupazione. Ogni punto corrisponde
a un paese OCSE. Si vede chiaramente che non c’è correlazione statistica tra
minori tutele e minore disoccupazione: diversi paesi registrano alte tutele e
bassa disoccupazione, e diversi altri basse tutele e alta disoccupazione.
che hanno accettato lavori a bassa qualifica rispetto ai titoli di studio conseguiti,
sono il 40% del totale, contro appena il 18% in Germania.
Gli esempi di luoghi comuni messi in discussione dalle analisi dei dati sono
innumerevoli e potremmo proseguire a lungo. I casi menzionati sono comunque
già sufficienti per chiarire che, attraverso la raccolta dei dati e la loro corretta
interpretazione, l’economia politica può contribuire a valutare criticamente
certe semplificazioni, a sfatare dei “miti”, e può aiutarci a comprendere meglio
le caratteristiche della complessa realtà sociale che ci circonda.
I manuali oggigiorno più diffusi sono quelli realizzati da alcuni noti economisti
americani. Basti citare, per esempio, i testi di Paul Samuelson, Gregory Mankiw,
Joseph Stiglitz, Olivier Blanchard, tra gli altri. Si tratta di libri indubbiamente
molto apprezzati, sia per la ricchezza di contenuti che per la immediatezza del
linguaggio. Tuttavia questi testi presentano un limite: troppo spesso essi danno
agli studenti la sensazione che esista una sola rappresentazione possibile della
realtà economica, vale a dire una sola teoria, un solo “modello” universalmente
accettato dalla comunità degli studiosi.
11
Ma l’idea che per ogni fenomeno della realtà esista un solo modello interpretativo
è contraddetta dal fatto che, in tutti i campi di ricerca, ingenti risorse umane e
materiali vengono dedicate alla continua verifica dei diversi modelli esistenti, al
fine di valutare quale di essi sia maggiormente in grado di interpretare i fatti
concreti. Questo è vero in fisica, in chimica, in biologia, ma lo è ancora di più
nell’ambito dell’economia politica, dove i contrasti tra i ricercatori sulla teoria da
preferire sono particolarmente accentuati. Lo studente deve pertanto comprendere
che il più delle volte l’economia si presenta come un luogo concettuale di contesa
tra interpretazioni alternative della realtà che ci circonda. Una contesa
necessaria proprio per l’avanzamento della conoscenza scientifica.
In questo senso, come vedremo, per tutto il corso della trattazione verranno messi
a confronto due indirizzi alternativi di ricerca. Da un lato analizzeremo le versioni
passate e presenti del cosiddetto approccio mainstream, cioè dell’approccio
attualmente dominante. Il manuale “Scoprire la macroeconomia”, di Olivier
Blanchard, costituisce appunto un esempio di questo approccio. Dall’altro lato
studieremo il cosiddetto approccio critico, che prende spunto dalle opere di Karl
Marx, John Maynard Keynes, Piero Sraffa, Wassily Leontief e molti altri per
criticare l’impianto concettuale dell’approccio dominante e per indicare una
diversa interpretazione dei fatti economici e sociali.
In genere si ritiene che la nascita di una vera e propria scienza economica sia
avvenuta tra il 1760 e il 1830, ossia a cavallo di quella prima Rivoluzione
industriale che in Inghilterra e in altri paesi creò le basi per il superamento
definitivo del vecchio modo di produzione feudale e per la piena affermazione
del nuovo modo di produzione capitalistico. Il modo di produzione feudale era
infatti caratterizzato da economie radicate sulla terra di proprietà dei signori
feudali, chiuse in sé stesse, con pochi scambi commerciali verso l’esterno. Erano
economie in cui non esisteva un mercato del lavoro: i contadini erano “servi della
gleba” legati da un rapporto particolare alla terra del feudo, e avevano scarse
possibilità di movimento da un territorio all’altro. Con l’avvento del capitalismo
le cose cambiano. Il modo di produzione capitalistico si basa sull’applicazione
all’agricoltura e poi alla manifattura di nuove tecniche e nuovi mezzi di
produzione. Si tratta di un sistema in cui la classe dei capitalisti detiene il
controllo dei mezzi di produzione, mentre la classe dei lavoratori non è più
“serva” dei signori. I lavoratori infatti diventano almeno formalmente liberi: essi
si presentano sul mercato offrendo ai capitalisti la propria forza lavoro in cambio
di un salario. Il modo capitalistico è anche un sistema tendenzialmente aperto,
orientato agli scambi e alla competizione.
avvio l’ascesa sociale e politica di una nuova classe di soggetti, quella dei
capitalisti proprietari delle moderne imprese agricole e industriali.
Il successo dei capitalisti porta a una nuova concezione dello Stato: non più
espressione degli interessi del sovrano e dell’aristocrazia fondiaria, l’autorità
statale viene chiamata a favorire lo sviluppo del capitale. Nuovo scopo del potere
politico è dunque di salvaguardare gli interessi della nuova classe capitalista
emergente, in contrapposizione alle istanze provenienti dalla classe dei proprietari
terrieri.
benessere diffuso. A grandi linee, sono questi i motivi per cui secondo Smith è
bene lasciare che le forze del mercato e della concorrenza siano tendenzialmente
lasciate libere di operare.
La visione liberista verrà poi applicata da David Ricardo anche al caso dei
rapporti internazionali. Per Ricardo occorre infatti salvaguardare le libertà di
mercato non soltanto quando si considerino i singoli capitalisti in concorrenza tra
loro, ma anche quando si tratti di nazioni che competono negli scambi
commerciali. Ricardo quindi era non soltanto un fautore del liberismo ma anche
del “liberoscambismo”. Egli cioè non era semplicemente un sostenitore della
libera competizione tra le imprese e tra i singoli individui, ma sosteneva anche il
libero scambio tra paesi. Egli elaborò in questo senso il famoso “teorema dei
vantaggi comparati”. Questo teorema ci dice che il libero scambio di merci tra
paesi è sempre vantaggioso per tutti. Infatti, anche se un paese fosse il più
efficiente di tutti nella produzione di qualsiasi merce, gli converrebbe comunque
concentrarsi nella produzione delle merci in cui sia relativamente più efficiente,
mentre dovrebbe lasciare la produzione delle restanti merci agli altri paesi. In
quest’ottica anche l’Inghilterra, il paese all’epoca più avanzato dal punto di vista
tecnico, avrebbe tratto benefici se avesse rinunciato a produrre tutte le merci
all’interno e ne avesse importate alcune dall’estero. Ricardo sostenne dunque che
l’Inghilterra avrebbe dovuto specializzarsi nella produzione e nella esportazione
di manufatti industriali, mentre avrebbe dovuto importare grano dagli altri paesi.
Il consiglio che Ricardo dava all’Inghilterra era quindi di abbandonare il
protezionismo commerciale, cioè di rinunciare ai dazi con i quali il paese cercava
di proteggere l’agricoltura nazionale dalla importazione di grano proveniente
dall’estero. I dazi erano sostenuti dai proprietari fondiari inglesi, che
guadagnavano dalla produzione di grano sui loro terreni. La tesi di Ricardo era
dunque politicamente ostile ai proprietari terrieri inglesi, mentre rifletteva gli
interessi dei capitalisti industriali del paese. Ma per Ricardo gli interessi dei
capitalisti industriali coincidevano con quelli di tutto il paese. A suo avviso la
classe dei proprietari terrieri rappresentava un ostacolo allo sviluppo economico.
Il paese doveva quindi abbandonare le protezioni, specializzarsi nella manifattura
e aprirsi agli scambi internazionali.
I classici tuttavia non nascondevano gli elementi di conflitto insiti nella società
capitalista. Non a caso Smith e Ricardo ritenevano che la società fosse divisa in
classi sociali: i proprietari terrieri, i capitalisti e i lavoratori. In varie circostanze
essi riconobbero che le classi sociali hanno interessi irriducibilmente contrapposti
tra loro. Ricardo, in particolare, riteneva che i salari fossero dati dagli “usi e
costumi” vigenti presso una data popolazione in un dato periodo storico. Dati i
salari, egli costruì una teoria secondo cui il profitto spettante ai capitalisti va
concepito come un “residuo”, come un “surplus” che si ottiene una volta che da
una data produzione totale siano state sottratte le merci spettanti ai lavoratori sotto
forma di salari (e anche quelle spettanti ai proprietari terrieri a titolo di rendite).
Ma allora, se viene inteso come un residuo, ciò significa che il profitto è tanto
maggiore quanto minori siano le rendite e i salari, il che mette chiaramente in
luce i motivi di contrasto tra le classi sociali nella ripartizione della produzione.
Proprio sulla concezione del profitto come “residuo”, e più in generale sugli
elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl
Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la
pubblicazione del Capitale nel 1867 Marx si propone esplicitamente il compito di
elaborare una compiuta critica dell’economia politica che era stata elaborata
dagli economisti classici. In questo senso sferra un attacco poderoso al teorema
della mano invisibile. Egli infatti descrive un sistema tutt’altro che armonico ed
eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da perenne instabilità e da crisi
ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto complessa e tuttora oggetto di
varie interpretazioni. Qui possiamo affermare che nella visione di Marx si
intersecano due spiegazioni della crisi: da un lato la tendenza alla caduta del
saggio di profitto, dall’altro la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e
consumi ristretti delle masse lavoratrici.
Sulla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, in questa sede
possiamo limitarci ad affermare che per Marx sussisterebbero forze che tendono
nel tempo a ridurre il saggio di profitto medio del sistema economico. La tesi di
partenza di Marx è che i capitalisti estraggono il profitto dal lavoro vivo degli
operai, cioè dal lavoro di coloro i quali sono direttamente impiegati nella
produzione e non dal lavoro già erogato, incorporato nei mezzi di produzione già
prodotti. Egli poi nota che le continue innovazioni tecniche spingono i capitalisti
ad accrescere l’impiego di mezzi di produzione rispetto ai lavoratori direttamente
impiegati nel processo produttivo. Ma se il rapporto tra lavoratori e mezzi di
produzione si riduce, e se si accetta l’idea di Marx secondo cui il profitto deriva
16
dal lavoro vivo degli operai direttamente impiegati nella produzione, allora si
deve giungere alla conclusione che si ridurrà anche il saggio di profitto, cioè il
profitto totale in rapporto al capitale impiegato per l’acquisto dei mezzi di
produzione e per il pagamento dei lavoratori. Una progressiva caduta del saggio di
profitto determina tuttavia una crisi generale del modo di produzione capitalistico.
Per Marx, infatti, il saggio di profitto rappresenta non solo la remunerazione del
capitalista ma anche il motore dell’accumulazione. Una sua precipitazione verso
lo zero frenerà l’azione del capitalista, quindi renderà a un certo punto impossibile
la riproduzione del sistema capitalistico e aprirà la via ad un’epoca di rivoluzione
sociale.
Tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è però anche il fatto
che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di
rivoluzioni tecniche e organizzative che aumentano al massimo la produttività di
ogni singolo lavoratore e al tempo stesso riducono il suo salario. Ciò tuttavia
implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la
capacità di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario
può determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è
che il processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a
licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità
produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso
fino al tracollo. Al riguardo Marx scrive: «…La causa ultima di tutte le crisi
rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla
tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive…»
(Capitale, vol. III).
Alla luce delle tendenze descritte Marx contesta dunque l’idea classica di un
capitalismo “naturale” e quindi “eterno”, sostenendo invece la tesi della sua
instabilità, della sua contraddittorietà e quindi anche della sua storicità, vale a
dire della sua finitezza. Per Marx, l’elemento di maggior contraddizione del
capitalismo è che la feroce competizione tra capitali da un lato sviluppa nuove
tecniche e nuove forze produttive, ma dall’altro scatena le crisi e quindi genera
17
Marx si attendeva in tal senso una svolta rivoluzionaria guidata dalla classe
lavoratrice, a seguito della quale potesse sorgere un sistema di tipo socialista: vale
a dire un sistema non più basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e
sul lavoratore salariato posto sotto il comando del capitalista, né basato sulla
competizione tra capitali e tra lavoratori, ma fondato invece sulla proprietà
collettiva dei mezzi di produzione e sulla pianificazione sociale del lavoro. In
una prima fase il sistema socialista si sarebbe per forza di cose basato sul
controllo statale sui mezzi di produzione, sulla divisione del lavoro e sulle
retribuzioni. Ma più in prospettiva, a seguito dello sviluppo delle forze produttive
e della ricchezza sociale, Marx preconizzava un futuro comunista, nel quale il
potere coercitivo dello Stato, la divisione del lavoro e lo stesso concetto di
“salario” sarebbero diventati superflui. Nella Critica al programma di Gotha del
1875, egli definì il comunismo in questi termini: «In una fase più avanzata della
società comunista, dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli
individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro
intellettuale e fisico […] dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono
aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze
18
collettive scorrono in abbondanza; soltanto allora la società può scrivere sulle sue
bandiere: da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni».
Marx riteneva tanto più probabile una svolta rivoluzionaria quanto più le
contraddizioni del capitalismo fossero state portate alle estreme conseguenze. Per
questo, nel 1848, in un celebre Discorso sul libero scambio, egli dichiarò di
ritenere preferibile il liberoscambismo internazionale al protezionismo. L’apertura
dei vari paesi agli scambi internazionali, a suo avviso, avrebbe elevato su scala
mondiale i processi di centralizzazione dei capitali, i divari tra sviluppo delle
forze produttive e consumi ristretti delle masse e la caduta tendenziale del saggio
di profitto. Una volta globalizzato, il capitalismo avrebbe dunque portato
l’instabilità e le contraddizioni a tal punto da rendere inesorabile una svolta
rivoluzionaria. Anche il giovane Marx dunque era liberoscambista, ma per
motivi decisamente diversi rispetto a Ricardo.
Naturalmente Marx non fu il primo comunista della Storia. Molti prima di lui
avevano sostenuto l’ideale superiorità di un sistema fondato sulla cooperazione
sociale anziché sulla competizione individuale, e sulla proprietà collettiva anziché
privata dei mezzi di produzione. E in passato non erano nemmeno mancate
esperienze di comunismo concreto, come ad esempio quello delle comunità
cristiane primitive. Marx tuttavia differiva dai suoi predecessori per un motivo:
egli intendeva poggiare la sua visione politica non su basi etico-morali e utopiche,
ma su una analisi scientifica delle contraddizioni del capitalismo e della sua
fragilità intrinseca. In verità, si potrebbe obiettare che in fondo anche le
premonizioni di Marx sull’avvento del socialismo e poi del comunismo fossero
implicitamente guidate da un’istanza utopica. Il dibattito, su questo fronte, è
aperto. Resta tuttavia il fatto che l’indagine marxiana ha effettivamente
contribuito a porre in evidenza le contraddizioni e l’instabilità del capitalismo, e
ha quindi fornito una base analitica alla tesi della sua storicità, ossia del suo non
essere necessariamente “eterno”. In ciò risiede la rilevanza scientifica di Marx,
che lo distingue nettamente dai comunisti del passato.
Ovviamente, una tesi può dirsi in quanto tale “scientifica” solo se può essere
verificata o smentita sulla base delle analisi teoriche ed empiriche. A tale
riguardo, i marxisti e i loro critici tuttora dibattono. Se si volesse comunque
provare a trarre dai dati qualche indizio sulla erroneità o meno delle previsioni
marxiane, alcune considerazioni in effetti si potrebbero trarre, sia pure molto
parziali. Si osservino in tal senso i seguenti grafici. Il primo grafico descrive
l’andamento di lungo periodo del saggio di profitto negli Stati Uniti. La dinamica
in effetti è controversa: dal 1944 si registra una tendenza alla caduta del saggio di
profitto, come preconizzato da Marx, ma se si prende un arco di tempo più lungo
l’andamento è più difficile da interpretare; inoltre, guardando la crisi recente,
esplosa nel 2008, essa sembra esser stata preceduta per circa un ventennio da
19
un’ascesa anziché da una caduta del saggio di profitto (il grafico è tratto da uno
studio di Gerard Dumenil e Dominique Lévy del 2010).
La tendenza alla caduta del tasso di profitto non sembra dunque trovare dei chiari
riscontri. Invece, la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i
consumi ristretti delle masse lavoratrici sembrerebbe trovare una conferma,
almeno per quanto riguarda l’ultimo trentennio. Il grafico seguente mostra
l’andamento, in vari paesi, della quota di reddito nazionale spettante al salari. La
tendenza al declino è piuttosto evidente (il grafico, tratto dall’Anti-Blanchard,
riporta dati Ameco Eurostat).
20
Ad ogni modo, se è vero che ancora oggi ci si interroga sul piano scientifico sulla
capacità o meno di Marx di cogliere alcune tendenze di fondo dello sviluppo
capitalistico, è altrettanto vero che un fenomeno di ben più ampia portata si
verificò verso la fine dell’Ottocento, quando le tesi marxiane divennero il punto di
riferimento del movimento operaio, cioè delle organizzazioni sindacali e
politiche dei lavoratori che in quel periodo andavano sviluppandosi e
consolidandosi in molti paesi. Probabilmente, il motivo principale per cui l’analisi
di Marx aveva all’epoca un tale successo risiedeva nel fatto che quegli elementi di
contraddizione, di instabilità e quindi di storicità che egli ravvisava nel
capitalismo venivano precipitosamente tradotti in un preciso messaggio politico:
comunicare ai lavoratori che con le loro lotte di emancipazione stavano
contribuendo a smuovere la Storia, accelerando la crisi del sistema capitalistico e
creando le condizioni per una nuova e superiore organizzazione della società.
Per scongiurare le tesi di Marx occorreva dunque sfidarlo sul terreno dell’analisi
scientifica dell’economia. Occorreva cioè proporre una chiave di lettura della
realtà che fosse alternativa a quella marxiana. Ma per far questo non si poteva
tornare al pensiero dei classici. Infatti, benché Smith e Ricardo esprimessero
nella sostanza un giudizio positivo sul modo capitalistico di produzione, le loro
teorie mettevano apertamente in evidenza gli elementi di conflitto insiti nei
rapporti tra le classi sociali, e quindi somigliavano troppo all’analisi di Marx per
potersi dire del tutto estranee e alternative ad essa.
Si pose dunque il problema di elaborare una nuova teoria, che non si concentrasse
sul carattere conflittuale e instabile del modo di produzione capitalistico ma che al
contrario fornisse una convincente rappresentazione armonica del sistema
economico. In effetti, proprio intorno al 1870 nasceva una nuova visione, detta
teoria neoclassica o marginalista. Jevons, Menger e Walras furono tra i
fondatori di questo approccio, seguiti poi da Marshall, Pigou, Wicksell, Bohm
Bawerk, Pareto, Robbins e molti altri. Del tutto indipendentemente dagli intenti
dei suoi ideatori, questa nuova scuola di pensiero registrò ampi consensi nelle
università e nei circoli finanziari.
Questo calcolo si basa sul principio che al crescere del consumo di un qualsiasi
bene, l’utilità dell’individuo tende ad aumentare ma con incrementi sempre più
piccoli. Il motivo è che mentre le dosi iniziali del bene sono particolarmente
gradite all’individuo, le dosi successive lo condurranno verso la sazietà e quindi
risulteranno meno “utili”. Tale principio è detto “legge della utilità marginale
decrescente”, ed è alla base di molte analisi neoclassiche. Dunque, nel caso
23
E’ bene precisare che questo tipo di calcolo può indifferentemente applicarsi non
solo ai lavoratori ma anche ai capitalisti, o a qualsiasi altro soggetto. Ad esempio,
il possessore di ingenti ricchezze deve decidere se consumare subito tali ricchezze
oppure prestarle ad altri, guadagnando così un tasso d’interesse e potendo quindi
consumare maggiori quantità di ricchezza in futuro. Anche in tal caso, dicono i
neoclassici, si applica il calcolo marginale: il soggetto distribuirà infatti le sue
ricchezze tra consumo immediato e consumo futuro in base al confronto tra le
utilità marginali della prima e della seconda opzione. Anche per questo motivo,
secondo i neoclassici, l’analisi basata sulla esistenza delle classi sociali è inutile
e per certi versi fuorviante, visto che il comportamento di ogni individuo,
indipendentemente dalla classe di appartenenza, può essere esaminato come un
problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse di
cui egli dispone, e più specificamente come un problema risolvibile con il calcolo
marginale.
Ricordiamo che anche Ricardo era liberista. Egli tuttavia interpretava la realtà in
base all’idea che per ogni data produzione il profitto fosse calcolato come un
residuo al netto dei salari. Stando a questa chiave di lettura il salario e il profitto
sono legati tra loro da un rapporto antagonistico, poiché se uno aumenta l’altro
diminuisce. Pertanto, nella vecchia ottica classica, tra percettori di profitto e
percettori di salari vi è sempre un irriducibile conflitto nella ripartizione della
produzione. Invece, nell’ambito della visione neoclassica si stabilisce che il lavoro
e tutti gli altri fattori produttivi sono remunerati in base alle rispettive produttività
marginali, cioè al contributo dato da ciascuno di essi alla crescita della
produzione. Il conflitto svanisce, soppiantato da una interpretazione armonica
della distribuzione del prodotto tra lavoratori e capitalisti.
Inoltre, nel 1917 si verifica un evento che sembra per certi versi dare ragione ad
alcune premonizioni di Marx: in una Russia devastata dalla guerra e dalla miseria
si verifica infatti una nuova Rivoluzione. Il partito che la guida si dichiara
espressamente marxista, e punterà a riorganizzare i rapporti economici su basi
socialiste.
I tempi erano dunque maturi per una nuova rivoluzione delle idee in campo
economico. Tra i portatori della medesima vi fu l’economista inglese John
Maynard Keynes, autore della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e
della moneta del 1936. Nella sua critica ai neoclassici Keynes sceglie una
posizione “intermedia”, nel senso che accetta una parte della loro teoria ma rifiuta
un’altra parte. In particolare, Keynes condivide la tesi neoclassica secondo la
quale in equilibrio il salario reale coincide con la produttività marginale del
lavoro. Egli accetta pure la tesi secondo cui, dati gli altri fattori di produzione, la
produttività marginale del lavoro decresce al crescere del numero dei lavoratori
occupati. Tuttavia, Keynes aggiunge pure che i neoclassici trascurano un punto
fondamentale, e cioè che il numero degli occupati dipende dalla domanda
effettiva di merci. Le imprese cioè assumeranno solo i lavoratori necessari a
27
La domanda effettiva a sua volta dipende dalle aspettative sul futuro. Se tra gli
imprenditori si diffonde una ondata di pessimismo, gli acquisti di beni di
investimento (macchinari, impianti, attrezzature, ecc.) verranno ridotti, il che
provocherà una serie di licenziamenti, quindi un calo dei consumi dei lavoratori,
quindi ulteriori licenziamenti, e così via in una spirale negativa che può condurre
a una crisi generale. Nella teoria keynesiana questo meccanismo cumulativo va
sotto il nome di “moltiplicatore”.
Keynes riteneva che i neoclassici trascurassero tutti questi problemi, e per questo
non fossero in grado di fornire una adeguata rappresentazione del sistema
economico.
Dal principio della domanda effettiva e dalla teoria del moltiplicatore Keynes
faceva anche scaturire una critica al liberismo prevalente tra i neoclassici. Egli
infatti riteneva che le forze del mercato, lasciate a sé stesse, non sarebbero mai
state capaci di generare una domanda effettiva tale da eliminare la
disoccupazione. In questo senso Keynes criticò l’idea di Pigou, secondo il quale
la grande crisi dipendeva dal fatto che i sindacati dei lavoratori si opponevano alla
riduzione dei salari e quindi impedivano il libero funzionamento del mercato. Al
contrario, Keynes sosteneva che la riduzione dei salari non avrebbe risolto la crisi.
Anzi, avrebbe potuto aggravarla. La riduzione dei salari avrebbe infatti dato avvio
a un lungo periodo di calo dei prezzi delle merci, che avrebbe indotto molti
operatori a rinviare gli acquisti in attesa di ulteriori cadute dei prezzi. Il che
avrebbe solo accentuato la crisi. Pertanto, non si poteva imputare la depressione
economica ai sindacati.
Per Keynes il vero problema è che il capitalismo risulta afflitto da una domanda
effettiva molto instabile, condizionata dai cambiamenti nelle aspettative sul
futuro, e in genere mai sufficiente per garantire la piena occupazione dei
lavoratori. Keynes proponeva dunque l’abbandono del laissez-faire. A suo avviso
soltanto un massiccio intervento statale nell’economia avrebbe potuto garantire
livelli alti e stabili della domanda effettiva, tali da scongiurare le crisi ricorrenti
del capitalismo e in grado di condurre sempre alla piena occupazione del lavoro.
In questo senso Keynes parlava di «socializzazione di una certa ampiezza
dell’investimento», ossia di un ampio intervento dello Stato per il finanziamento
degli investimenti in opere pubbliche, servizi sociali, beni di interesse collettivo.
28
Dalla Seconda guerra mondiale il liberismo uscì perdente. Dopo la guerra era
infatti diffusa un po’ ovunque l’opinione che le forze spontanee del capitalismo,
lasciate a sé stesse, fossero causa di instabilità, crisi e conflitti. Questa idea era
ovviamente supportata dall’esperienza recente. Essa inoltre veniva sostenuta dai
sindacati dei lavoratori, che in molti paesi uscirono dalla guerra legittimati e
rafforzati, anche per le battaglie antifasciste che avevano condotto. Infine, non si
poteva trascurare il fatto che tra i vincitori della guerra vi fosse anche l’Unione
Sovietica, lo stato socialista nato dalla rivoluzione russa del 1917. Questa
presenza costituiva una sfida ulteriore per i fautori del capitalismo. Al termine
della guerra le tesi di Keynes trovarono dunque un ambiente propizio per
svilupparsi, sia in ambito accademico che politico. Le politiche economiche del
dopoguerra furono in varie circostanze ispirate dalla critica della ideologia
liberista degli anni precedenti. In particolare, era diffuso il convincimento che
l’intervento statale nell’economia fosse in una certa misura necessario per
rimediare alla instabilità e alla debolezza della domanda tipiche del capitalismo.
In questa fase venne a costituirsi una nuova scuola, detta “sintesi neoclassica”.
Tra i suoi esponenti spiccavano i nomi di John Hicks, Franco Modigliani e Don
Patinkin. Questi economisti proposero una sintesi, per l’appunto, tra le idee di
Keynes e la teoria neoclassica.
Dopo vari passaggi teorici, da questa sintesi emerse negli anni Cinquanta un
nuovo modello, portatore della seguente soluzione di compromesso: 1) il
principio keynesiano della domanda effettiva e il moltiplicatore determinano i
livelli della produzione e della occupazione nel breve periodo; 2) l’equilibrio
“naturale” del mercato del lavoro e la funzione di produzione determinano i livelli
della occupazione e della produzione nel lungo periodo. L’idea di fondo è che le
oscillazioni della domanda possono in effetti provocare cambiamenti continui
nella produzione e nella occupazione ma ciò può avvenire solo nel breve periodo.
Nel lungo periodo, invece, le forze del mercato dovrebbero comunque condurre
l’economia al suo equilibrio “naturale” di piena occupazione. Gli interventi di
politica economica dello Stato, dunque, non possono cambiare l’equilibrio
“naturale” di lungo periodo ma possono essere d’aiuto per ridurre le oscillazioni
di breve periodo e favorire la convergenza del sistema economico verso
l’equilibrio “naturale”. La cosiddetta Sintesi neoclassica era dunque compiuta. Il
problema keynesiano della domanda effettiva non veniva negato, come facevano i
vecchi neoclassici, ma veniva ridotto a una questione di “breve periodo”. Il
primato neoclassico dell’equilibrio “naturale” di piena occupazione veniva
29
Nel corso del Novecento la critica della teoria dominante ha tratto nuova linfa dal
contributo dell’economista italiano Piero Sraffa. Nel suo celebre Produzione di
merci a mezzo di merci del 1960, Sraffa sferrò un nuovo attacco alla teoria
neoclassica, ancor più radicale di quello di Keynes. Sraffa considera infatti la
teoria neoclassica incoerente sul piano logico. La critica sraffiana è complessa, e
non può esser trattata in un corso base di economia. Tuttavia a grandi linee si può
affermare che essa rientra in una serie di critiche che sono state da più parti rivolte
al concetto neoclassico di “capitale”. Proviamo a fornire qualche spunto
derivante da tali critiche. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione
disponibili in una data epoca. Se si vuole calcolare il capitale nel suo complesso
allora occorre prendere in considerazione l’aggregato dei mezzi di produzione.
Questi mezzi però sono eterogenei tra loro e quindi per aggregarli è necessario
moltiplicare la quantità di ogni mezzo di produzione per il rispettivo prezzo, e poi
sommare tutti i valori tra loro. In tal modo si ottiene una misura del capitale “in
valore”. Questa dotazione del capitale può quindi essere impiegata nella teoria
neoclassica per determinare salari e interessi. Ad esempio, dato il capitale, è
possibile ottenere la domanda di lavoro, che può essere quindi intersecata con
l’offerta di lavoro per ottenere il salario reale. Inoltre, noto il capitale, è possibile
ricavare l’investimento, che assieme al risparmio contribuisce a determinare il
tasso d’interesse, e così via. La teoria neoclassica, come vedremo, procede nella
sostanza in base a questa sequenza. Il problema è che essa è viziata sul piano
logico. Infatti, stando a questa teoria, il salario, il tasso d’interesse, ecc. sono
determinati una volta che sia dato il capitale. Ma noi abbiamo detto che per
conoscere il capitale occorre conoscere i prezzi dei singoli mezzi di produzione
che lo compongono. Ma per conoscere i prezzi bisognerebbe conoscere i costi,
cioè occorrerebbe che i salari e i tassi d’interesse fossero già noti. La teoria
neoclassica presenta dunque un vizio di circolarità.
II
MICROECONOMIA
NEOCLASSICA
p1x1 + p2x2 ≤ m
p1x1 + p2x2 = m
cartesiano. Sugli assi indichiamo il consumo di x1 e x2. Ogni punto indica una
particolare combinazione di consumo (x1 , x2).
x2
A A(x1A, x2A)
x2
x1 A x1
p2x2 = m – p1x1
m p1
x2 = − x1
p2 p2
m
x1 = 0 → x 2 = intercetta del vincolo di bilancio sull'asse delle ordinate
p2
m p1
x2 = 0 → 0 = − x1
p 2 p2
p1 m
x1 =
p2 p2
p 1 x1= m
m
x1 = intercetta del vincolo di bilancio sull'asse delle ascisse
p1
x2
m
p2
m p
x2 = − 1 x1 equazione della retta
p2 p2
p1
−
p 2 coefficiente angolare
m x1
p1
35
x2
C D
A
B
m/p1 x1
2) una riduzione del prezzo da p1 a p1' > p1: comporta una rotazione della
retta di bilancio verso sinistra (l'intercetta verticale resta ferma perché non
è variato il prezzo p2 mentre l'intercetta orizzontale diminuisce), cioè un
aumento della sua pendenza.
x2
m
p2
m m' x1
p1 p1
x2
m m x1
p1 p1 '
37
UT
UT
30 ∆U T
5 ∆x
25
10
15
15
0 1 2 3 x
38
15 utilità marginale
10
0 1 2 3 x
Consideriamo per semplicità una economia nella quale esistono solo 2 beni,
indichiamo con x1 e x2 le rispettive quantità. Come si è visto, esaminando il
vincolo di bilancio del consumatore, ogni combinazione di consumo (ogni paniere
di consumo) potrà essere rappresentato da un punto del piano cartesiano (positivo)
con coordinate (x1, x2). Per descrivere il comportamento del consumatore è
necessario ordinare i panieri di consumo in base alle sue preferenze.
39
x2
VI I
E B
Curva di indifferenza
A
D C
III II
x1
x2 UT3
UT1
x1
Si viene così a costruire una mappa di curve di indifferenza che esprime l'utilità
dell'individuo al variare del paniere di consumo.
41
Una ipotesi fondamentale della teoria neoclassica del consumatore è che le curve
di indifferenza non devono intersecarsi. Si può infatti dimostrare che se le curve
si intersecassero, esprimerebbero un ordinamento dei panieri di consumo
irrazionale. La razionalità del consumatore, infatti, implica che le preferenze
siano transitive: se il paniere A è preferito al paniere B e il paniere B è preferito
al paniere C, allora il paniere A deve essere preferito al paniere C. In altre parole,
se le curve di indifferenza si intersecano, allora le preferenze del consumatore non
sono transitive e quindi viene meno la sua razionalità nella scelta dei panieri di
consumo. Verifichiamo questa importante condizione di transitività con un
esempio.
x2
B UT1
C
UT0
x1
42
Abbiamo già spiegato il motivo per cui la teoria neoclassica assume che di norma
le curve di indifferenza siano decrescenti. Inoltre, la teoria assume pure che di
norma tali curve siano convesse: dato un certo livello di utilità, muovendosi lungo
la corrispondente curva di indifferenza, all'aumentare del consumo di un bene il
consumatore è sempre meno disposto a rinunciare all'altro bene. La convessità
della curva di indifferenza è una diretta conseguenza dell'assunto di utilità
marginale decrescente. Via via che riduce di quote costanti il consumo di uno dei
due beni (che diventa sempre più scarso e prezioso in termini di utilità marginale),
il consumatore, per non far ridurre il suo livello di utilità, dovrà compensare
queste riduzioni mediante il consumo di quote crescenti dell'altro bene (sempre
più abbondante e meno prezioso in termini di utilità marginale).
43
x2
UT0
20 A
5
B C
15
5
D E
10
2 3 6
x1
1 3
Il grafico mostra che una riduzione del consumo del bene 2 da 20 a 15 unità
richiede, per lasciare invariata l'utilità totale a UT0, un aumento del consumo del
bene 1 di una sola unità. Ma, se il consumo del bene 2 si riduce di ulteriori 5
unità, allora è necessario un aumento del consumo del bene 1 di bene 3 unità. Ciò
è dovuto all'utilità marginale decrescente. La perdita di utilità che il consumatore
subisce passando a A a B è relativamente bassa e può essere compensata con una
sola unità del bene 1 (dotata di un'alta utilità marginale) che consente di
raggiungere il punto C. Invece, lo spostamento da C a D implica una perdita di
utilità maggiore (essendo il bene 2 ora più scarso per il consumatore) che, per
essere compensata, richiede una incremento di 3 unità di consumo del bene 1
(infatti queste 3 unità sono dotate di una utilità marginale più bassa perché il bene
1 è ora relativamente più abbondante) in modo da raggiungere il punto E.
x2
x2 A A
x2 C C
B B UT1
x2
UT0
x1 A x1 C x1 B
x1
Finora abbiamo considerato curve di indifferenza tipiche, che sono riferite a dei
beni sostituti tra loro, come ad esempio le mele e le pere. Tuttavia la teoria
neoclassica ammette anche l’esistenza di curve di indifferenza di altro genere, che
descrivono altri tipi di rapporti tra i beni considerati.
Quando due beni sono tra loro perfetti sostituti le curve di indifferenza assumono
una forma lineare (sono delle linee rette). È questo il caso della benzina offerta sul
mercato da due differenti compagnie di distribuzione (Total e Agip ad esempio):
evidentemente la maggior parte dei consumatori trovano indifferente rifornirsi
dall'uno o dall'altro distributore perché non sussistono differenze apprezzabili tra i
due carburanti. Il consumatore potrebbe consumare anche uno solo dei due beni
senza incorrere in una riduzione dell'utilità totale.
45
x2
A
x2 C C
UT0
B
C
x1
x1
Il caso opposto a quello dei perfetti sostituiti riguardi i beni che sono tra loro
perfettamente complementari (detti anche beni perfetti complementi; ad
esempio i due ingredienti necessari a preparare una particolare bevanda, si pensi
allo zucchero e al caffè). In questo caso le preferenze del consumatore assumono
una forma ad angolo: aumentando il consumo di uno solo dei due beni
(spostandosi dal punto A al punto C) il consumatore non ottiene incrementi di
utilità. Per accrescere l'utilità totale è necessario accrescere in misura
proporzionale il consumo di entrambi i beni (spostandosi nel punto B).
46
x2
x2 B B UT1
x2 A A C
UT0
x1 A x1 B
x1
x2
x2 B B UT1
x2 A A C
UT0
x1 A x1 B
x1
Reddi
to
UT2 > UT1 > UT0
UT2
UT1
UT0
Ore di lavoro
49
∆x 2 ∆x2
SMS = − =
∆x1 ∆x1
x2
x2 A A
∆ x2
x2 B B
∆ x1
UT0
x1 A x1 B
x1
Essendo ∆x1 per definizione negativo e ∆x2 in generale positivo (almeno per beni
∆x 2
sostituti), anteponendo al rapporto il segno negativo, oppure prendendolo in
∆x1
valore assoluto, si ottiene un SMS positivo e decrescete (all'aumentare di x1) lungo
tutta la curva di indifferenza. Questa caratteristica del SMS è dovuta alla
convessità della curva di indifferenza (per cui al crescere di x1 aumenta il
50
x2
∆ x2
B
C
D
E
UT0
∆ x1 x1
∆x2 UM 1
− =
∆x1 UM 2
∂U
UM 1 ∂ x1
SMS = = ∂U
UM 2
∂ x2
questa uguaglianza esprime il SMS come rapporto delle derivate parziali della
funzioni di utilità (le utilità marginali).
al variare del livello di utilità fissato si potrà costruire tutta la mappa delle curve
di indifferenza.
52
x2
x2 * E
B UT2
UT1
C UT0
x1 * x1
Si noti che in corrispondenza del punto E abbiamo che l'inclinazione del vincolo
di bilancio (-p1/p2) è uguale alla pendenza della curva di indifferenza passante per
A (SMS = - ∆x2/ ∆x1). Cosa che invece non è vera per un punto come C oppure A.
Nel punto B, inoltre, a differenza del punto E, non è soddisfatto il vincolo di
bilancio (p1 x1 + p2 x2 = m).
∆x p
SMS = 2= 1
∆x1 p 2
oppure
∂U
∂ x1 p1
∂U = p
2
∂ x2
max U(x1,x2)
sub p1 x1 + p2 x2 = m
Un esempio:
Per risolvere questo problema possiamo applicare vari metodi. Il più semplice è il
metodo di sostituzione. In primo luogo esprimiamo il vincolo in termini di x2.
2·x2 = 40 – 4 x1
x2 = 20 – 2 x1
δU
= 20 – 4 x1 = 0
δx1
x1 =20/4 = 5
Ipotizziamo una serie di riduzioni di p1: p1, p1' < p1, p1' ' < p1'
individueremo così una serie di punti di ottimo e l'insieme di tutti questi punti di
ottimo è definito “curva di prezzo-consumo”. Si noti che al diminuire di p1 la
quantità x1 domandata dal consumatore aumenta.
x2
m/p2
p1
curva di domanda
p1 individuale
x1 = x1(p1)
p1 '
p1''
x1 x1 ' x1'' x1
La curva di domanda è decrescente: essa esprime una relazione inversa tra p1 e x1:
al diminuire del prezzo la domanda aumenta
all'aumentare del prezzo la domanda diminuisce
La forma decrescente della curva di domanda vale per tutti i beni cosiddetti
“normali”, e si ritiene che tale relazione sia solitamente valida.
57
1
xT = 15 - 2 p
ovvero
p1
p = 0 → xT = 15 È facile mostrare che il surplus
30 A del consumatore è rappresentato
xT = 0 → p = 30
dall'area ABC.
supponiamo che il
prezzo di mercato
di ogni biglietto
sia p = 10€.
La domanda sarà: B
10
C
1
xT = 15 - 2 10
xT = 10
10 15 x1
Il surplus del consumatore è dato dalla somma delle differenze tra quanto sarebbe
stato disposto a pagare per ottenere ogni unità aggiuntiva del bene acquistato e
quanto ha dovuto effettivamente pagare (il prezzo di mercato). Nell'esempio,
assumendo che il prezzo di mercato sia p = 10 euro allora la domanda del
consumatore è pari a 10 biglietti. Dunque la spesa effettiva totale del consumatore
è pari a 100. Calcoliamo ora il surplus. Sapendo che la funzione di domanda è:
1
xT = 15 - 2 p da cui p = 30 – 2xT
Il surplus del consumatore può essere determinato anche calcolando l'area del
triangolo ABC. Quell’area infatti può essere intesa come la differenza tra le spese
teoriche che il consumatore sarebbe stato disposto a sostenere per ciascuna unità
del bene, e le spese effettive realizzate al prezzo di mercato vigente. Nell’esempio
specifico, l’area del triandolo sarà data da (AC x BC)/2 = 20x10/2 = 100. (N.B. si
noti che calcolando l’area si ottiene un valore del surplus del consumatore
maggiore di 90; il motivo è che, trattandosi di un bene non divisibile, tale area
costituisce solo un'approssimazione per eccesso del surplus del consumatore).
59
La curva di domanda individuale reagisce anche alle variazioni del reddito del
consumatore (ad esempio m varia da m a m' > m).
x2
m'/p2
m/p2
E'
E
p1
x1 x1' x1
in tal caso, a parità di p1 (che non è cambiato), assistiamo ad un aumento della
quantità domandata di x1. La curva di domanda, quindi, trasla verso destra al
crescere del reddito.
60
p p p
30 30 30
15 xT 10 xC 25 x
Così come dalla scelta dell'individuo abbiamo ottenuto la domanda delle merci,
dalla teoria dell'impresa otterremo l'offerta.
LA PRODUZIONE
L lavoro
Q
K capitale (di solito inteso come valore dei mezzi di produzione)
Ad ogni modo noi qui non ci occuperemo di questo problema. Anzi, per
semplicità riterremo che l'analisi sia di breve periodo per cui K può essere
considerato un dato esogeno, fisso.
Q = Q(K, L)
Q PMGL
Q = Q(L)
32 10
31
28
PMGL
24 8
18
6
10 4
3
1
1 2 3 4 5 6 L 1 2 3 4 5 6 L
In termini algebrici:
∆Q
PMGL =
∆L
δQ
PMGL =
δL
1
−
δQ 1 2 1 1
PMGL = = L = =
δL 2 1 2 L
2 L2
I costi totali di produzione sono costituiti dai costi fissi e dai costi variabili:
I costi fissi non variano al variare della produzione (almeno nel breve periodo).
Essi possono essere identificati con il costo del capitale:
(1 + r) → r K0
w L(Q)
CT = r K0 + w L(Q)
CT = r K0 + w Q2
CT
CT
rK0
Q
64
δCT
CMG =
δQ
δCT
CMG = = w2Q
δQ
CMG
2w
Q
È interessante notare che esiste una relazione tra CMG e PMGL. Infatti
(ricordando che K è costante):
δCT δL
CMG = =w
δQ δQ
δQ
ma sappiamo che PMGL = e quindi possiamo scrivere:
δL
65
w w
CMG = =
δQ PMGL
δL
CMG = w2Q
ma Q = L1/2 e quindi:
CMG = w2L1/2
w
CMG = ← il denominatore di questa frazione è proprio la PMGL
1
2 L1 / 2
CT rK 0 + wL(Q )
CM = Q =
Q
Finché la riduzione dei costi fissi prevale sull'aumento dei costi variabili, il costo
medio si riduce. Quando l'aumento dei costi variabili inizia a prevalere, il costo
medio aumenta.
66
CT rK 0 + wQ 2 rK 0
CM = Q = = + wQ
Q Q
Q CM
1 22 15
2 14
CM
3 12,67
4 13 10
5 14
6 15,33 5
0
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9
Q
δCT 20
= − 2 + 2 = 0 → Q2 = 10 → Q = 10 ≅ 3,2 ← costo medio minimo
δQ Q
Infine, è interessante notare che il costo medio e il costo marginale si intersecano
esattamente nel punto di minimo del costo medio. Per verificarlo nell'esempio
(con rK0 = 20, w=2 e L= Q2) poniamo CM=CMG :
20
+ 2Q = 2·2Q → Q = 10 ≅ 3,2
Q
CM,
CMG
CMG
CM
QA QB Q
δΠ δRT δCT
= − =0
δQ δQ δQ
δCT
sapendo che CMG =
δQ
δRT
e definendo RMG =
δQ
68
RMG – CMG = 0
RMG = CMG
Ora, è chiaro che finché RMG > CMG all'impresa conviene aumentare la quantità
prodotta Q perché le unità aggiuntive rendono più di quanto costano e quindi
consentono di aumentare il profitto Π. Quando però RMG=CMG conviene
fermarsi e non andare oltre poiché ogni unità prodotta ulteriore costerebbe più di
quanto rende e farebbero ridurre il profitto totale.
Queste imprese si presentano sul mercato senza disporre di alcun potere sui prezzi
di vendita.
È il caso dei piccoli produttori di mele che si presentano sul mercato ortofrutticolo
al mattino. Un banditore conta le mele offerte dai produttori e le mele domandate
dai fruttivendoli, e fissa il prezzo di equilibrio di mercato che uguaglia domande e
offerte. Una volta fissato il prezzo di equilibrio ogni produttore dovrà attenersi ad
esso. Se, infatti, prova a vendere a prezzi maggiori nessuno andrà a comprare da
lui. E non ha interesse a vendere a prezzi minori visto che al prezzo di equilibrio
69
lui sa già che venderà tutta la merce (praticare un prezzo più basso comporterebbe
solo una riduzione dei ricavi e degli eventuali profitti).
L'impresa in concorrenza perfetta dunque non ha alcun potere sul prezzo di
mercato. Si dice che essa è price-taker, cioè “prende”, “subisce” il prezzo fissato
dal mercato.
In concorrenza perfetta possiamo dunque affermare che il prezzo di mercato è un
dato esogeno:
p = p0
Π = RT – CT
Ovviamente il ricavo totale non è altro che RT = p·Q, cioè il prezzo per la
quantità prodotta e venduta. Dunque:
Π = p·Q – CT
RMG = CMG
δCT
p– =0
δQ
δCT
p=
δQ
p = CMG
Si noti che in concorrenza perfetta il RMG derivante da una unità in più di merce
prodotta e venduta corrisponde esattamente al suo prezzo.
Ecco perché la condizione generale di massimo profitto RMG = CMG diventa p =
CMG.
70
Se p < CMG occorre tornare indietro, produrre di meno, perché si sta producendo
troppo nel senso che le quantità in eccesso costano più di quanto renderanno
all'atto della vendita.
Esempio algebrico: CT = r K + w Q2
poniamo: p = 16 w =2 r K = 20
δΠ δRT δCT
= − =0
δQ δQ δQ
δCT
p– =0
δQ
δCT
p=
δQ
16 = 4 Q → Q=4
Al prezzo di mercato l'impresa può vendere tutte la merce che riesce a produrre
(naturalmente, considerati i costi di produzione, ad un certo punto dovrebbe
fermarsi per non andare in perdita).
A
p0
Q0 Q1 Q2 Q
72
p,
CM,
CMG
CMG
C CM
A E D
p0
QA Q* QB Q
è Q* (P = CMG) punto E
73
p,
CM,
CMG
CMG
CM
E
p0
A F
O Q* Q
Sapendo che CM = CT/Q allora CT = CM·Q e quindi possiamo dire che il costo
totale corrisponde al rettangolo OQ*FA.
CT = r K0 + w Q2 p0 = 16 w=2 r K = 20
Quindi RT = p0·Q = 16 * 4 = 64
CT = 20 + 2 (4)2 = 52
Π = 64 – 52 =12
74
p,
CM,
CMG
CMG
CM
A E
p0
F
O Q* Q
Quando p0 si situa al di sotto del CM l'impresa incorre in una perdita (cioè in un
profitto negativo) data da:
Ma oltre all'uscita dal mercato delle imprese inefficienti, può anche accadere che
si verifichi l'ingresso nel mercato di nuove imprese. Ciò accade soprattutto quando
le imprese già presenti sul mercato realizzano profitti positivi.
Il fatto che le imprese operanti sul mercato stiano realizzando profitti positivi,
stimola l'ingresso di nuovi concorrenti.
p,
CM,
CMG
CMG
CM
p'
p''
E
p0
O Q* Q
p,
CM,
CMG
CMG
CM
p0
p1
p2
O Q2 Q1 Q0 Q
76
Si vede che se il prezzo diminuisce (p2 < p1 < p0), la quantità prodotta ed offerta si
riduce (Q2 > Q1 > Q0). Viceversa quando il prezzo aumenta, la quantità prodotta
ed offerta aumenta.
p offerta
dell'impresa
CM
p p p
CMG1 CMG2
offerta di
mercato
Q Q Q
Impresa 1 Impresa 2 ecc.
Dalla teoria della scelta del consumatore sappiamo che la domanda è di questo
tipo:
p
Qd = a - b p
ossia
se il prezzo aumenta, la quantità domandata diminuisce, D
se il prezzo diminuisce, la quantità domandata aumenta.
Q
Dalla teoria dell'impresa sappiamo che l'offerta è di questo
tipo:
p
s
Q =c+dp S
ossia
se il prezzo aumenta, la quantità offerta aumenta,
se il prezzo diminuisce, la quantità offerta diminuisce.
Q
78
p
S
P'
E
p*
D' Q* S'
Q
Qd = a – b p
Qd = c + d p
a–bp=c+dp
79
a–c=bp+dp
(b + d) p = a – c
a−c
p=
b+d
a−c
Q=c+dp=c+d( )
b+d
a−c
Qd = Qs = c + d p = c + d ( )
b+d
Quando si vuole conoscere la sensibilità della domanda alle variazioni del prezzo
si adopera il concetto di elasticità.
L'elasticità della domanda rispetto al prezzo indica la variazione percentuale della
quantità domandata conseguente ad una variazione dell'1% del prezzo.
∆Q
Q ∆Q p ∆Q p
εD = = =
∆p Q ∆p ∆p Q
p
∆Q
ricordando che ovviamente < 0 in quanto la domanda è normalmente una
∆p
funzione decrescente del prezzo. Quindi:
∆Q p δQ p
εD = che in termini di derivate diventa εD =
∆p Q δp Q
p p p
0 < εD < - ∞
εD = - ∞ εD = 0
Q Q Q
Esercizio:
Qd = Qs
90 – 2 p = (3/2) p + 20
90 – 20 = (3/2) p + 2p
(7/2) p = 70
p = (2/7) 70 = 20
Q = 90 – 2 p = 90 – 2 (20) = 50
Disegniamo:
81
Qd = 90 – 2 p
per p=0 → Qd = 90
per Qd = 0 → p = 45
Qs = (3/2) p + 20
per p = 0 → Qs = 20
per Qs = 0 → p = - 40/3
p
45 A
surplus del consumatore
B
20
C
D
20
50 90 Q
-40/3
Il surplus del consumatore può essere calcolato come area del triangolo ABC.
Ossia, nel nostro esempio: (50 x 25)/2 = 625.
δQ p p 20 4
εD = = -2 = - 2 =−
δp Q Q 50 5
Abbiamo detto che per i neoclassici le forze del mercato, lasciate a sé stesse,
conducono automaticamente all'equilibrio tra domanda e offerta. Nell’esempio
mostrato in precedenza, abbiamo notato che se si parte da una qualsiasi situazione
di disequilibrio, ad esempio descritta dal prezzo p’, le forze del mercato
spingeranno il sistema verso il prezzo p* cui corrisponde l’equilibrio E. In questo
tipo di situazione si dice che l’equilibrio è stabile. A ben guardare, tuttavia, non è
detto che le cose vadano sempre in questi termini. Partendo da una situazione di
disequilibrio, può anche accadere che le forze del mercato non siano in grado di
riequilibrare domanda e offerta ma tendano piuttosto ad allontanare ulteriormente
il sistema economico dal punto di equilibrio: in questi casi si dice che l’equilibrio
è instabile.
Il fatto che l’equilibrio del mercato possa essere stabile o instabile dipende da
diversi fattori. Uno di questi, come vedremo, è la pendenza relativa delle curve
di domanda e di offerta. Un caso tipico è quello che si verifica quando
sussistono le seguenti condizioni: 1) l’offerta delle imprese in un dato periodo è
decisa sulla base del prezzo che vigeva nel periodo precedente, ossia: St = S (pt-1);
2) La merce prodotta è deperibile, per cui in ogni periodo i produttori sono
disposti a venderla al prezzo di domanda, cioè al prezzo al quale i consumatori
sono disposti ad assorbirla interamente. Il grafico seguente mostra che, in questo
tipo di situazione, l’equilibrio sarà stabile se la curva di domanda è relativamente
piatta rispetto alla curva di offerta; l’equilibrio invece risulta instabile se la curva
di domanda è relativamente ripida rispetto all’offerta.
83
δRT δCT
RMG = CMG ovvero =
δQ δQ
12 A
B
11
5 6
Q
Ciò significa che il ricavo marginale derivante dalla produzione e vendita di una
merce in più corrisponde in monopolio a:
88
∆p ∆p
RMG = p + Q (con < 0)
∆Q ∆Q
RT = p·Q
dove però in monopolio p non è più esogeno ma si trova in relazione con q sulla
base della funzione di domanda decrescente (cioè p = p(Q)). Quindi possiamo
scrivere:
RT = p(Q)·Q
δRT
RMG = dove RT = p(Q)·Q
δQ
δRT δp δRT
RMG = = Q+p con ( < 0)
δQ δQ δQ
Quindi, possiamo dire che la quantità ottima che il monopolista deve produrre ed
offrire sul mercato deve soddisfare la seguente equazione:
δp δCT
RMG = CMG ↔ Q+p=
δQ δQ
89
p = 50 – (½)·Q
Il ricavo totale sarà:
RMG = 50 – Q
CMG = 4·Q
la condizione di ottimo è:
RMG = CMG
50 – Q = 4·Q → Q = 50/5 = 10
Noi ipotizziamo che esiste una relazione tra CMG e PMGL, nel senso che:
w
CMG =
PMGL
la condizione di massimo profitto del monopolista può quindi essere scritta anche
così:
RMG = CMG
δp w
Q + p = PMG L
δQ
90
δp Q w
p1+ = PMG
δQ p
L
δQ p
εD =
δp Q
1 w
p1+ =
εD PMGL
da cui si ricava:
1
p= w
1 PMG L
1+
εD
1
il termine rappresenta il mark-up sul costo unitario di produzione e il
1
1+
εD
w
temine è il costo unitario di produzione (in realtà, come si è detto prima,
PMGL
sarebbe uguale al costo marginale ma con rendimenti costanti di scala le due
configurazioni di costo tendono a coincidere, ciò è ammissibile in considerazione
del fatto che le imprese monopoliste sono generalmente imprese di grosse
dimensioni che sfruttano largamente le economie di scala).
Notiamo inoltre che in monopolio p > CMG cioè è maggiore del prezzo
concorrenza.
p = 50 – (1/2)·Q domanda
50
D
RMG
50 100 Q
92
p,
CM,
CMG
H
CMG
B CM
p*
pc C
F
A
E
D
RMG
O Q* Q
È da notare che il surplus del consumatore è HBp* ed è più piccolo di quello che
si avrebbe in concorrenza perfetta (dove i consumatori pagherebbero un prezzo pc
pari al CMG di produzione in cambio di una quantità maggiore di Q* e
corrispondente all'ascissa del punto C). Confrontiamo dunque il punto E e il punto
C.
p,
CM,
CMG
CMG
CM
E
pE
O QE Q
2.18 Oligopolio
vari soggetti in campo diventa invece fondamentale nel caso in cui il mercato sia
caratterizzato da una situazione di oligopolio, cioè di poche grandi imprese.
MEDIASET
conflitto cooperazione
conflitto 2, 2 10, 0
RAI
cooperazione 0, 10 6, 6
La matrice dei pay-off indica i profitti attesi dalle due aziende a seconda delle
strategie adottate. Ad esempio: se RAI coopera e MEDIASET confligge, RAI
95
ottiene profitti pari a zero e MEDIASET 10 miliardi. E così via. Si può dimostrare
che il conflitto, sotto date condizioni, è la strategia dominante, cioè quella che
sarà preferita da ciascuno indipendentemente dalle scelte dell'altro. Infatti dal
punto di vista della RAI:
Ovviamente, non è difficile notare che il punto di posizionamento sulla curva dei
contratti dipenderà in misura significativa dalle dotazioni iniziali. Se si parte da un
punto come A allora gli scambi potranno condurre a uno dei punti lungo il
segmento B-D. Se però si parte da un punto come G, allora il gioco degli scambi
di mercato potrà condurre a un punto situato lungo il segmento E-H. In tutti i casi
si tratta di equilibri Pareto-efficienti, nel senso che una volta giunti in essi non ci
saranno altri scambi mutuamente vantaggiosi da realizzare e quindi non ci sarà più
incentivo a effettuarli. Ma è ovvio che per Anna e Paolo si tratta di situazioni
molto diverse tra loro. E’ chiaro cioè che lungo la curva dei contratti esisteranno
equilibri Pareto-efficienti preferiti da Anna (ad esempio F), altri preferiti da Paolo
(ad esempio H), altri ancora che appaiono maggiormente “equi” (per esempio C).
Il fatto che si raggiunga l’uno o l’altro di questi equilibri dipende dalla situazione
da cui si parte, cioè da quante dotazioni di beni dispone ciascuno dei due soggetti.
Se si parte da una situazione come il punto G, in cui Paolo è chiaramente “ricco”
di dotazioni mentre Anna è chiaramente “povera”, gli scambi potranno portarli su
un punto come E che determinerà mutui vantaggi per entrambi. Ma è evidente che
dal punto di vista della equità tra i due soggetti le cose non cambieranno granché.
L’importante, dicono i neoclassici, è che gli interventi politici per fini di equità
non ostacolino poi la libertà degli scambi sul mercato necessaria per raggiungere
anche l’efficienza.
Pareto tuttavia era più estremo: egli si dichiarava contrario agli interventi politici
per fini di equità. A suo avviso, i livelli di utilità di due consumatori sono del
tutto soggettivi e quindi non sono confrontabili. Se prendiamo ad esempio un
punto come G, è evidente che in esso Paolo dispone di una dotazione iniziale di
cibo e vestiario molto maggiore rispetto ad Anna. Paolo, insomma, è
oggettivamente più ricco. Per Pareto, tuttavia, ciò non consente di affermare che
Paolo abbia un’utilità superiore a quella di Anna. In altre parole, le curve di
indifferenza di Paolo possono essere ordinate tra di loro, partendo da quella che
fornisce l’utilità più bassa e arrivando a quella che fornisce l’utilità più alta. Ma
quelle curve non possono in alcun modo essere messe a confronto con le curve
d’indifferenza e i rispettivi livelli di utilità di Anna. In base a questa concezione
dell’utilità, Pareto arrivava quindi a contestare qualsiasi intervento
redistributivo sulle risorse iniziali. In quest’ottica, quindi, un intervento politico
per spostare il punto di partenza da G ad A sarebbe inammissibile e bisognerebbe
invece lasciar fare alle forze spontanee del mercato, che porteranno il sistema dal
punto G iniziale a un punto di equilibrio compreso tra E e H. Si tratta ovviamente
di una posizione liberista estrema, molto conservatrice, che suggerisce di affidarsi
solo al mercato e contesta qualsiasi intervento pubblico votato all’equità
distributiva.
A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso è stata avviata, in molti paesi, una
vasta campagna di privatizzazione delle imprese pubbliche, di proprietà statale o a
partecipazione statale. In numerosi settori dell’economia, dall’industria, alle
telecomunicazioni, ai trasporti, e in alcuni casi persino negli ambiti della sanità e
dell’istruzione, si sono realizzate vendite ai privati di attività produttive o di
servizio precedentemente affidate all’operatore pubblico. Questa politica è stata
giustificata con la tesi secondo cui le imprese pubbliche presentano una
organizzazione interna di tipo burocratico, priva di stimoli concorrenziali e quindi
generatrice di inefficienze e costi di produzione più alti. Le privatizzazioni, si
diceva, avrebbero accresciuto l’efficienza, ridotto i costi e quindi avrebbero
contribuito a diminuire i prezzi, con beneficio per i consumatori e per la
collettività.
Col senno di poi, non si può dire che tutti gli auspicati effetti delle privatizzazioni
si siano realizzati. Da un lato, è stato fatto notare che la riduzione dei costi nelle
99
Uno dei casi per cui le privatizzazioni possono dar luogo a un aumento
anziché a una riduzione dei prezzi è quello in cui l’azienda pubblica venduta ai
privati opera in regime di monopolio. Per semplicità, immaginiamo una situazione
in cui i costi marginali dell’impresa siano costanti e quindi possano essere
rappresentati da una retta orizzontale. Consideriamo in tal senso il grafico
seguente:
III
MACROECONOMIA
NEOCLASSICA
Abbiamo detto che mentre i classici e Marx facevano partire le loro analisi
direttamente dallo studio del comportamento delle classi sociali, al contrario i
neoclassici fondavano le loro teorie sull'individualismo metodologico. Essi
quindi partivano sempre dallo studio del comportamento del singolo individuo: il
singolo consumatore, il singolo lavoratore, la singola impresa, ecc. Finora,
studiando i neoclassici, abbiamo fatto esattamente questo: abbiamo infatti visto in
che modo il singolo consumatore punta a massimizzare l'utilità, in che modo la
singola impresa punta a massimizzare il profitto, ecc.
Il fatto però che i neoclassici si concentrino sul comportamento dei singoli non gli
impedisce di gettare uno sguardo sul funzionamento complessivo dell'intero
sistema economico. Infatti, è vero che i neoclassici partono sempre dalla
microeconomia, cioè dallo studio del comportamento dei singoli individui e dalle
singole imprese. Ma è anche vero che essi ritengono possibile passare dalla
microeconomia alla macroeconomia, cioè allo studio dei grandi aggregati
sociali e dell'economia nel suo complesso.
Il passaggio dal micro al macro per i neoclassici consiste nella sommatoria dei
comportamenti individuali (qualcosa del genere l'abbiamo già intravista
esaminando il passaggio dalla domanda individuale alla domanda di mercato,
ecc.). Si vengono così a creare i cosiddetti agenti rappresentativi, che sono
espressione delle sommatorie dei comportamenti individuali. Seguendo questo
intento diventa possibile costruire un modello neoclassico di tipo
macroeconomico, che ci consente di studiare l'economia nel suo complesso, e che
quindi ci permette di esaminare l'andamento di variabili importantissime come la
disoccupazione, l'inflazione, i salari, i tassi d'interesse, ecc.
102
1) concorrenza perfetta: i singoli agenti (le imprese, lavoratori, etc. ...) sono
troppo “piccoli” e troppo numerosi per avere un potere di mercato.
2) Consideriamo l'economia di una nazione autarchica, cioè chiusa agli
scambi con l'estero.
3) Si produce un solo bene (es. grano).
4) Studiamo solo il cosiddetto breve periodo (cioè consideriamo un periodo
di tempo limitato, un anno o poco più, in cui la quantità di capitale è data).
Iniziamo l'analisi del mercato del lavoro, esaminando la domanda di lavoro delle
imprese. Attenzione: in economia il gergo è opposto rispetto al senso comune, nel
senso che le imprese domandano lavoro e i lavoratori offrono lavoro.
Y PMGL
Y = Y(N)
32 10
31
28
PMGL
24 8
18
6
10 4
3
1
1 2 3 4 5 6 N 1 2 3 4 5 6 N
P = CMG
W
P= → P·PMGL= W
PMGL
da cui:
W
PMGL =
P
w/P, PMGL
PMGL0
PMGL1= w/P
PMGL2
PMGL
N0 N1 N2 N
Quale sarà il numero di lavoratori che l'impresa domanderà? È chiaro che sarà N1.
Abbiamo così dimostrato che la curva della PMGL corrisponde esattamente alla
curva di domanda di lavoro delle imprese: ND = PMGL. Quindi la domanda di
lavoro ND è decrescente rispetto al salario reale: se W/P aumenta allora ND si
riduce, se w/P diminuisce allora la ND aumenta.
105
Y = (w/P)·N
w/P
N* N
L'ipotesi è che abbiamo a che fare con un bene (le merci prodotte e acquistate Y)
e con un male (la fatica derivante dal lavoro N). Dunque lo scopo dei lavoratori è
di massimizzare l'utilità situandosi il più possibile in alto a sinistra. Sullo stesso
grafico tracciamo pure la retta del vincolo di bilancio dei lavoratori. È chiaro che
questi potranno acquistare un ammontare di beni Y che dipende dalla quantità di
lavoro N erogato e dal salario W/P, secondo l'equazione:
Il livello del salario reale W/P è determinato in modo esogeno dal mercato: anche
i lavoratori non hanno potere di mercato, e quindi sono price-takers. Il vincolo di
bilancio ci dice che, a parità di W/P, se N aumenta ciò implica un incremento
della produzione Y acquistabile e consumabile dai lavoratori (si tratta di un
movimento lungo la retta di bilancio). Oppure, se a parità di N aumenta W/P,
allora i lavoratori potranno acquistare più merce senza bisogno di aumentare la
106
quantità di lavoro erogato (la retta di bilancio, in questo caso, ruota verso sinistra
e verso l'alto, in senso antiorario con centro nell'origine degli assi).
Come si vede dal grafico precedente, dato il vincolo di bilancio (e quindi dato il
livello di W/P determinato dal mercato), i lavoratori possono determinare la
quantità di lavoro (N*) che massimizza la loro utilità, cioè che li colloca sulla
curva di indifferenza più alta possibile. Il punto ottimo è quello in cui la curva
d’indifferenza è tangente al vincolo di bilancio.Vediamo ora cosa accade se si
verifica un aumento esogeno del salario reale W/P:
Y
Y = (w/P)1·N
Y = (w/P)0·N
(w/P)1
(w/P)0
N0 N1 N
w/P
Ns
(w/P)1
(w/P)0
N0 N1 N
107
In tal caso, cioè, un aumento del salario reale induce le famiglie a rinunciare al
tempo libero per lavorare di più e poter quindi consumare di più. Si dice al
riguardo che al crescere del salario reale prevale l’effetto di sostituzione del
tempo libero con il consumo. Questo risultato, si badi, dipende dalla forma della
funzione di utilità. Se l’utilità avesse una forma diversa, potrebbe anche accadere
che al crescere del salario reale le famiglie decidano di riposare di più. In questa
diversa circostanza si direbbe che prevale l’effetto reddito: avendo un salario più
alto le famiglie preferiscono aumentare il tempo libero. In un caso del genere
l’offerta di lavoro diventerebbe decrescente.
Esercizio: lo studente verifichi che con una diversa forma delle funzioni di utilità
l’offerta di lavoro può risultare decrescente anziché crescente.
w/P
NS
E
(w/P)*
ND
N* N
108
(w/P)0 → NS > ND
w/P
NS
A B
(w/P)0
E
(w/P)*
ND
ND0 N* NS0 N
Restano però dei disoccupati volontari, ossia coloro che al salario vigente non
sono disposti a lavorare ma che si renderebbero disponibili ad un salario
maggiore: si tratta del segmento NS0-N*.
E’ bene tener presente che questo risultato dipende dalle inclinazioni delle
funzioni di domanda e di offerta di lavoro. Se le inclinazioni cambiano, può
accadere che il meccanismo spontaneo del mercato non sia più in grado di
determinare l’equilibrio. Per esempio, se prevale il cosiddetto effetto reddito,
allora un aumento del salario reale provoca una riduzione dell’offerta di lavoro
delle famiglie: in questo caso, anche l’offerta di lavoro ha un andamento
decrescente rispetto al salario.1 Ora, se l’offerta di lavoro è anche più “piatta”
1
La tesi secondo cui un aumento del salario reale potrebbe ridurre l’offerta di lavoro risale
addirittura al XVII secolo. Alcuni esponenti di una corrente pre-classica, detta “mercantilista”, in
110
della domanda di lavoro, può accadere che con un salario reale più alto del salario
di equilibrio si abbia che l’offerta è minore della domanda, e quindi, anziché
diminuire, il salario aumenta ulteriormente. Si parla in questo caso di un equilibrio
instabile. In tal caso, è evidente che le forze spontanee del mercato non sono in
grado di determinare l’equilibrio, e quindi non possono eliminare la
disoccupazione involontaria. Per escludere questa scomoda circostanza i
neoclassici solitamente assumono che l’effetto sostituzione prevalga sempre
sull’effetto reddito delle famiglie.
Questa spiegazione tuttavia sembra contrastare con il fatto che negli anni della
grande crisi il potere dei sindacati non fu così pervasivo come Pigou sosteneva:
per esempio, negli Stati Uniti i salari monetari diminuirono in tutti i settori, il che
solleva dubbi sulla effettiva capacità di “resistenza” delle forze sindacali. In difesa
di Pigou, si potrebbe obiettare che in quel periodo i prezzi diminuirono anche più
dei salari monetari, con un conseguente aumento dei salari reali. Ma non andò
esattamente così. In realtà i salari reali diminuirono in agricoltura e in diversi altri
settori. E in altri paesi il calo salariale fu anche più accentuato e diffuso.
particolare, ritenevano che un aumento delle retribuzioni avrebbe indotto i lavoratori “al vizio e
all’ozio”, e li avrebbe resi meno produttivi e meno partecipi al lavoro.
111
w/P
NS
E
(w/P)*
ND
N* N
Y = Y(N)
Y*
N* N
113
Una volta determinato l'equilibrio sul mercato del lavoro, è noto il numero dei
lavoratori occupati N*. Noto il numero degli occupati, in base alla funzione di
produzione Y=Y(N) si può determinare il livello di produzione Y* di equilibrio.
reddito Y
IMPRESE FAMIGLIE
produzione
Y
spesa di tutto il reddito
Ora, se le famiglie dei lavoratori e dei capitalisti spendessero tutto il loro reddito
per l'acquisto di beni di consumo, non vi sarebbe alcun problema. Ma nella realtà
le famiglie spendono per consumi (C) solo una parte del reddito, mentre un'altra
114
parte la risparmiano (S). Dunque poiché una parte del reddito nazionale viene
risparmiata, a quanto pare una parte della produzione resterà invenduta. Infatti,
visto che produzione e reddito sono equivalenti la produzione sarebbe interamente
acquistata solo se tutto il reddito venisse speso. I neoclassici reagiscono a questo
problema sostenendo che la parte di reddito che le famiglie risparmiano verrà
interamente prestata alle imprese che useranno questo reddito per fare
investimenti (I), cioè per acquistare mezzi di produzione (macchine, impianti,
ecc.). Dunque, ricapitolando: dall'equilibrio del mercato del lavoro emerge un
livello di produzione Y corrispondente alla piena occupazione. Tale produzione
sarà interamente venduta solo se viene rispettata questa condizione:
produzione = domanda
Y=C+I
C+S=C+I
S=I
S
0
A B
i
E
i*
I0 I*=S* S0 S, I
115
Dunque così come il salario reale W/P garantisce l'equilibrio tra domanda e offerta
di lavoro, così il tasso di interesse i garantisce l'equilibrio tra risparmi S e
investimenti I (ossia, C+S = C+I e Y = C+I). Con ciò i neoclassici dimostrano che
l'equilibrio di piena occupazione è stabile, visto che la produzione di piena
occupazione sarà interamente assorbita dalla domanda, o come domanda di C o
come domanda di I. Se si lascia fare al mercato, non sussiste alcun rischio di
merci invendute.
MV = PY
Questa al momento è una mera tautologia, cioè una ovvietà contabile. È chiaro
infatti che a fronte del totale della moneta MV scambiata corrisponderà il valore
della produzione PY scambiata (che coincide con il totale della moneta
domandata). I neoclassici tuttavia trasformano la tautologia in una teoria
imponendo delle ipotesi:
116
PY = MV
V
P= M
Y
NS = ND
Y = Y(NS)
S = S(i)
I = I(i)
S=I
MV = PY
W = (W/P)·P
NS = 60 + (W/P)
ND = 120 – 2 (W/P)
NS = ND
Y = (NS)1/2
S=2+i
I = 11 – 2 i
S=I
45 · 2 = P·Y
W = (W/P)·P
Soluzione:
3 (W/P) = 120 – 60
W/P = 60/3 = 20
NS = 60 + 20 = 80
Y = (80)1/2 = 80 ≅ 9
S=I=2+3=5
w = (w/P)·P = 20 * 10 = 200
118
Notiamo un'ultima cosa. Supponiamo che si verifichi una crisi di fiducia delle
imprese, che determina un peggioramento delle aspettative di profitto futuro. Di
conseguenza, gli imprenditori riducono gli investimenti I.
I'
S, I
Per i neoclassici, il gioco delle forze del mercato e il connesso movimento del
tasso di interesse rimetterà in equilibrio il sistema. Infatti il tasso di interesse si
ridurrà portando in equilibrio il risparmi e investimenti. Alla riduzione dei
risparmi corrisponderà subito un aumento dei consumi che compenserà la
riduzione degli investimenti. Il che significa che la domanda complessiva di merci
non si riduce, e quindi la produzione e l’occupazione rimangono ai livelli di
equilibrio naturale.
119
i
S
S'
I'
S, I
120
IV
DISPENSE INTEGRATIVE
DEL MANUALE DI BLANCHARD
Nei primi tre capitoli del libro di Blanchard avete studiato il modello di
determinazione della produzione di equilibrio, in funzione del livello della
domanda di merci. Blanchard ritiene che questo modello valga solo nel breve
periodo, e sotto condizioni piuttosto restrittive. Noi pensiamo invece che tale
modello abbia una valenza esplicativa più vasta, e quindi riteniamo opportuno
approfondirne qui le caratteristiche.
Z = C +I +G
C = c0 + c1 (Y − T )
Y =Z
Ricordiamo che il termine Y sta ad indicare sia il livello della produzione di merci
realizzata, sia il reddito distribuito. Produzione e reddito infatti sono sempre
equivalenti, dal momento che il valore della produzione venduta finisce
interamente, sotto forma di reddito, nelle mani dei capitalisti e dei lavoratori che
121
Y = C + I +G
Y = c0 + c1 (Y − T ) + I + G
Y − c1Y = c0 + I + G − c1T
(1 − c1 )Y = c0 + I + G − c1T
1
(1) Y= (c0 + I + G − c1T )
1 − c1
che è appunto l’equazione di equilibrio sul mercato dei beni, vale a dire
dell’equilibrio tra produzione e domanda. Il termine tra parentesi è detto spesa
autonoma (poiché include le componenti della spesa dette autonome, nel senso
che non dipendono dal reddito), mentre il termine 1/1-c1 è detto moltiplicatore
della spesa autonoma. Conoscendo i livelli delle variabili esogene che concorrono
a determinare la domanda di merci (cioè I, G, T, c0 e c1), questa equazione
consente di determinare il livello di equilibrio della produzione Y.
1
( 2) ∆Y = (∆c0 + ∆I + ∆G − c1∆T )
1 − c1
122
Chiaramente può ben darsi che tra le variabili che compongono la domanda solo
una si modifichi mentre le altre rimangono costanti. Supponiamo ad esempio che
si verifichi una “crisi di fiducia” da parte delle imprese sulle loro aspettative di
profitto. Gli imprenditori risultano cioè sfiduciati sull’andamento futuro
dell’economia, temono che venderanno poco e quindi ritengono che riusciranno a
conseguire ben pochi profitti. In tal caso essi non avranno alcuna intenzione di
espandere la loro attività, e quindi decideranno di ridurre gli investimenti (cioè
decideranno di ridurre la domanda di nuovi macchinari e impianti).2 Ciò significa
che gli investimenti si riducono (quindi ∆I<0), mentre c0, G e T per ipotesi restano
costanti (e quindi ∆c0 = ∆G = ∆T = 0). L’equazione (2) allora diventa:
1
∆Y = ∆I
1 − c1
2
E’ sempre importante distinguere tra investimenti produttivi e investimenti finanziari. Nel
linguaggio corrente quando si parla genericamente di “investimenti” di solito ci si riferisce agli
investimenti finanziari, cioè all’acquisto di titoli da parte dei risparmiatori. Invece, salvo
specificazioni, quando parlano di “investimenti” gli economisti si riferiscono agli investimenti
produttivi, cioè agli acquisti di nuovi macchinari, impianti e attrezzature da parte delle imprese. In
questo caso stiamo dunque parlando di investimenti produttivi delle imprese.
3
Le componenti autonome della domanda c0, I, G, T sono espresse in miliardi di euro. La
propensione al consumo c1 indica invece la quota del reddito Y che viene consumata, e quindi può
essere espressa come una frazione (ad esempio c1=0,5=1/2 significa che i cittadini del paese
esaminato tendono a consumare il 50% del loro reddito e a risparmiare il restante 50%).
123
c0 = 50
I = 200
G = 100
T = 100
c1 = 0,5 = 1 / 2
1
Y= (50 + 200 + 100 − (1 / 2)100)
1 − 1/ 2
Y = 2 (300)
Y = 600
ESEMPIO N.2: la crisi di fiducia. Supponiamo ora che si verifichi una “crisi di
fiducia” sulle prospettive di profitto, e quindi che gli investimenti delle imprese si
riducano. Ipotizziamo ad esempio che adesso I = 150. Ciò significa che, rispetto al
valore precedente, gli investimenti si sono ridotti di 50 miliardi. Possiamo dunque
usare l’equazione (1) per calcolare il nuovo livello della produzione, tenendo
conto del nuovo livello di I. Avremo:
1
Y= (50 + 150 + 100 − (1 / 2)100)
1 −1/ 2
Y = 2 (250)
Y = 500
La produzione è adesso pari a 500 miliardi, rispetto ai 600 realizzati prima della
crisi. Alternativamente possiamo anche calcolare direttamente la variazione ∆Y,
senza bisogno di calcolare i livelli. Sapendo che gli investimenti si sono ridotti di
∆I = − 50, mentre per ipotesi ∆c0 = ∆G = ∆T = 0, sostituendo questi valori nella
equazione (2) otteniamo:
1
∆Y = (−50)
1 − 1/ 2
∆Y = 2 (−50)
∆Y = −100
124
Questa visione è stata fortemente criticata da John Maynard Keynes, autore della
Teoria generale del 1936. Keynes, che scriveva in un’epoca di grave crisi
economica mondiale, sostenne che il tentativo di risollevare l’economia riducendo
i consumi per aumentare i risparmi avrebbe soltanto peggiorato la situazione
economica. In particolare, Keynes mise in luce l’esistenza di un “paradosso del
risparmio”, che andava contro i luoghi comuni dei teorici dell’astinenza: il
paradosso infatti evidenzia che se si riducono i consumi la produzione non
aumenta ma si riduce, ed inoltre i risparmi non aumentano ma restano invariati.
1
(1) Y= (c0 + I + G − c1T )
1 − c1
S = Y −T −C
126
S = Y − T − c0 − c1 (Y − T )
S = −c 0 + (1 − c1 )(Y − T )
La riduzione del consumo autonomo produce dunque due effetti contrastanti sul
risparmio: uno diretto che è positivo, e l’altro mediato dalla domanda e dal reddito
che invece è negativo. Ma quale dei due effetti tende a prevalere? Alla fine si
dimostra che i due effetti si elidono a vicenda, e quindi il risparmio non subisce
alcun mutamento in seguito alla riduzione del consumo autonomo. Infatti,
partendo dalla equazione dell’equilibrio tra produzione e spesa:
Y =C +I +G
Y −T −C = I +G −T
S = I +G −T
ESEMPIO N.3: il paradosso del risparmio. Il fatto che la riduzione del consumo
autonomo non riesca a risollevare l’economia, ma provochi al contrario un calo di
produzione e lasci pure del tutto invariato il risparmio, può essere verificato
tramite un esempio numerico. Supponiamo che, dopo la crisi di fiducia e la caduta
degli investimenti, si cerchi di risollevare l’economia tramite una riduzione di c0
da 50 a 40 miliardi. I dati dunque sono:
c0 = 40
I = 150
G = 100
T = 100
c1 = 0,5 = 1 / 2
1
Y= (40 + 150 + 100 − (1 / 2)100)
1 −1/ 2
Y = 2 (240)
Y = 480
S = −c0 + (1 − c1 )(Y − T )
calcoliamo innanzitutto il livello del risparmio prima della riduzione del consumo
autonomo, cioè con c0 = 50 e Y = 500:
Come si vede, la riduzione del consumo autonomo non ha provocato alcun effetto
sul risparmio, visto che il calo di c0 è perfettamente compensato dal calo di
domanda e quindi di Y. Il “paradosso” è dunque confermato. Per uscire dalla crisi
occorre cercare altre strade. Ad esempio, come vedremo, la politica espansiva.
128
ESEMPIO N.4: una politica di espansione della spesa pubblica. E’ chiaro che la
crisi di fiducia, e la conseguente riduzione della domanda e della produzione,
avranno scatenato un’ondata di licenziamenti, e avranno quindi accresciuto la
disoccupazione. In tal caso le autorità politiche potrebbero cercare di effettuare
politiche espansive, al fine di aumentare la domanda di merci ed uscire così dalla
crisi. Supponiamo ad esempio che le autorità di governo decidano di aumentare la
spesa pubblica. Ad esempio, possiamo assumere che la spesa pubblica diventi G =
150, ossia aumenti di ∆G = 50 rispetto al suo valore iniziale di 100. Dunque ora
abbiamo:
c0 = 50
I = 150
G = 150
T = 100
c1 = 0,5 = 1 / 2
1
Y= (50 + 150 + 150 − (1 / 2)100)
1 − 1/ 2
Y = 2 (300)
Y = 600
1
∆Y = (50)
1 − 1/ 2
∆Y = 2 (50)
∆Y = 100
Si noti che il moltiplicatore, rappresentato dal termine 1/1-c1, genera effetti tanto
più intensi quanto maggiore è la propensione al consumo. Ad esempio, se c1
aumenta da 1/2 a 2/3 il motiplicatore 1/1-c1 aumenta da 2 a 3 e quindi tende ad
accentuare la variazione iniziale della spesa autonoma. La spiegazione è semplice:
se i lavoratori hanno una forte propensione a consumare, allora nel momento in
cui vengono assunti e retribuiti tratterranno poco reddito per fini di risparmio e
tenderanno a spenderne molto per consumi. Ciò significa che solo una piccola
parte del reddito resterà giacente nei portafogli, mentre la maggior parte verrà
rimessa nel circuito economico, il che darà luogo ad un elevato effetto
moltiplicativo sulla domanda e sulla produzione.
ESEMPIO N.5: una politica di riduzione della tassazione. In effetti, per stimolare
la domanda di merci e uscire così dalla crisi, il governo potrebbe anche ridurre le
tasse anziché aumentare la spesa pubblica. Le tasse sono fondamentali per
finanziare l’amministrazione dello Stato e i servizi essenziali come l’ordine
pubblico, la sanità, l’istruzione, ecc. Al tempo stesso però esse sottraggono
reddito ai singoli cittadini, e quindi tendono a deprimere le loro spese per consumi
privati. Abbattendo la tassazione, il governo può quindi lasciare ai privati una
maggiore disponibilità di reddito, e permette ad essi di accrescere la domanda di
merci. In sostituzione di ∆G = 50, il governo può dunque decidere di ridurre le
130
1
∆Y = (∆c0 + ∆I + ∆G − c1∆T )
1 − c1
otteniamo che:
1
∆Y = (0 + 0 + 0 − (1 / 2)(−50))
1 − 1/ 2
∆Y = 2 (25)
∆Y = 50
1
∆Y = (∆c0 + ∆I + ∆G − c1∆T )
1 − c1
A prima vista si potrebbe pensare che questo tipo di politica non provochi alcun
effetto sul livello di equilibrio della produzione Y. Si può infatti presumere che
l’espansione della domanda di merci causata dall’aumento di G venga
perfettamente neutralizzata dalla riduzione della domanda causata dal pari
aumento di T. In realtà, contrariamente alle apparenze, il teorema di Haavelmo
dimostra che la politica basata sul bilancio in pareggio (cioè su ∆G = ∆T) dà
luogo a un incremento di Y.
Per dimostrare questo teorema partiamo dalla equazione (2), che ci dice di quanto
varia Y al variare delle componenti autonome della domanda, cioè nel nostro caso
al variare di G e di T:
1
∆Y = (∆c0 + ∆I + ∆G − c1∆T )
1 − c1
1
∆Y = (∆G − c1∆T )
1 − c1
132
Ma noi sappiamo pure che, per ipotesi, il governo sta effettuando una politica di
bilancio in pareggio, per cui ∆G = ∆T. Possiamo quindi sostituire il termine ∆T
con ∆G e ottenere:
1
∆Y = (∆G − c1∆G )
1 − c1
1
∆Y = (1 − c1 ) ∆G
1 − c1
(1 − c1 )
∆Y = ∆G
1 − c1
∆Y = ∆G
E’ possibile tuttavia che un governo possa essere spinto ad effettuare delle spese
in disavanzo (detto anche deficit). Dall’equazione (3) noi sappiamo che il deficit
pubblico si viene a creare quando la spesa pubblica eccede le entrate fiscali. Ci
sono varie ragioni per cui questo eccesso di spesa può venirsi a creare. In primo
133
Quando uno Stato si trova in una situazione di deficit, può finanziare le spese
eccedenti in due modi. Il primo modo consiste nel farsi prestare denaro dai
privati, ossia nell’indebitarsi con i privati vendendo loro titoli del debito pubblico
(esempio tipico sono i BOT); in tal caso si avrà una emissione di nuovi titoli, e
quindi un aumento del debito pubblico: qui definiremo tale aumento con il
termine ∆B. Il secondo modo di finanziamento verte sulla creazione di nuova
moneta, ossia sulla stampa di banconote da parte della banca centrale; in tal caso
si avrà un aumento dell’offerta di moneta, che qui definiremo con ∆M. Dunque, in
linea di principio, dato un certo livello del deficit pubblico G - T, si potrà
finanziarlo con una pari variazione del debito pubblico, o della quantità di moneta,
oppure di una combinazione dei due:
G − T = ∆B + ∆M
Fino alla seconda metà degli anni ’70, era prassi abbastanza consolidata favorire
l’espansione della spesa pubblica al di là delle entrate fiscali attraverso l’aumento
del debito e la creazione di moneta. Questo orientamento ha indubbiamente dato
luogo a un’espansione dell’apparato burocratico dello Stato. D’altro canto esso ha
pure consentito ai governi di finanziare politiche di espansione della spesa
pubblica per accrescere la domanda e quindi la produzione e l’occupazione.
Inoltre, la medesima impostazione ha favorito lo sviluppo del cosiddetto “stato
sociale”, vale a dire dell’istruzione e della sanità pubblica garantita a tutti i
cittadini, e dei sistemi di previdenza e di assistenza sociale per i meno abbienti.
Tuttavia a partire dagli anni ’80 si è imposto un diverso orientamento, talvolta
definito “liberista”, teso ad impedire le politiche espansive e a contrastare la
crescita del bilancio statale attraverso l’introduzione di rigidi vincoli all’aumento
del debito pubblico e della massa monetaria.
Il Trattato di Maastricht del 1991, che ha dato avvio al progetto della moneta
unica europea, è stato fortemente ispirato da questa impostazione liberista. Infatti,
tra le altre cose, ai paesi membri dell’Unione monetaria europea il Trattato
impone i seguenti divieti: 1) il divieto per la Banca centrale europea di finanziare
i deficit pubblici tramite creazione di moneta, un divieto che può essere
facilmente espresso in termini algebrici nel seguente modo:
134
∆M = 0
G − T = ∆B
G − T ∆B
=
Y Y
G − T ∆B
= ≤ 0,03 (ossia ≤ 3%)
Y Y
ESEMPIO N.6: verifica del rispetto o meno del vincolo del 3% del Trattato di
Maastricht. Se prendiamo i dati del terzo esempio precedente - nel quale si
cercava di rimediare a una crisi di fiducia tramite la spesa pubblica – si può
verificare se quella situazione rispetti o meno il vincolo del Trattato. Sapendo che
G = 150, che T = 100 e che il livello di equilibrio della produzione è Y = 600,
otteniamo:
G − T 150 − 100
= = 0,083 = 8,3%
Y 600
Fino a questo momento abbiamo assunto che, a seguito di una crisi di fiducia e di
una conseguente caduta degli investimenti delle imprese, il governo intervenga
attraverso una politica di espansione della spesa pubblica e/o di riduzione delle
tasse. Tuttavia è anche possibile che in una situazione del genere intervenga la
banca centrale al posto del governo (o al limite in concerto con esso). Ad
esempio, in Europa la Banca centrale europea (BCE) potrebbe esser chiamata a un
intervento per contrastare la crisi, negli Stati Uniti questo compito spetta alla
Federal Reserve (FED), ecc.
Quando c’è una crisi la banca centrale interviene con una politica monetaria
espansiva, cioè con un aumento della quantità di moneta M in circolazione. La
banca centrale può decidere di aumentare M al fine di ridurre il tasso d’interesse.
La riduzione dei tassi d’interesse rappresenta infatti una riduzione del costo dei
prestiti e può quindi stimolare le imprese a chiedere finanziamenti alle banche per
riattivare gli investimenti, e con essi la domanda di merci e quindi la produzione e
l’occupazione.
molto semplice, e può essere facilmente rintracciata nel capitolo 4 del manuale di
Blanchard. Qui però ci soffermiamo sulla spiegazione economica, cioè concreta,
del fenomeno.
Assumiamo ora che i titoli sul mercato siano “a reddito fisso”. Un caso tipico di
titoli a reddito fisso sono i titoli di Stato, emessi dai governi per farsi prestare
denaro dai privati (per esempio in Italia abbiamo i BOT). Un titolo a reddito fisso
è definito così poiché alla scadenza di fine anno chi lo ha emesso è tenuto a
pagare sempre la stessa somma al proprietario del titolo, ad esempio 100 euro.
Dunque il tasso d’interesse su questo titolo sarà dato dalla differenza tra
rendimento e costo del titolo, cioè sarà dato dalla cedola di 100 euro che il
proprietario ottiene alla scadenza di fine anno, meno il prezzo al quale il
proprietario ha acquistato il titolo, il tutto diviso per il medesimo prezzo:
100 − PT
i=
PT
100
i= −1
PT
La formula chiarisce la relazione inversa tra prezzo del titolo e tasso d’interesse:
una operazione di mercato aperto basata su una maggiore offerta di moneta e su
una maggiore domanda di titoli da parte della banca centrale, farà aumentare il
prezzo di mercato PT del titolo e quindi (visto che il denominatore della frazione
137
aumenta) farà diminuire il tasso d’interesse i. Il che del resto è ovvio: l’operazione
espansiva della banca centrale fa aumentare il prezzo di mercato del titolo, ma al
tempo stesso il rendimento assoluto che il titolo garantisce è rimasto fisso a 100
euro. Pertanto, dopo l’operazione della banca centrale accade che chi compra il
titolo sul mercato lo paga di più, ma alla fine ottiene sempre la stessa somma di
cento euro. Pertanto è chiaro che il tasso d’interesse – cioè il rendimento
percentuale del titolo rispetto al prezzo - si riduce.
Tuttavia, così come accadeva per le manovre sulla spesa pubblica e sulla
tassazione, anche la politica monetaria risulta oggigiorno fortemente vincolata. Il
Trattato di Maastricht, infatti, non solo vieta alla Banca centrale europea di
finanziare i deficit pubblici con moneta, ma più in generale le impone di
perseguire politiche fortemente restrittive, al fine di contenere il più possibile
l’inflazione. Il risultato è che la Bce difficilmente potrà decidere di espandere la
moneta in circolazione al fine di ridurre i tassi d’interesse per dare sostegno alla
domanda e alla produzione. Anche per questo motivo il Trattato di Maastricht è
oggetto di numerose critiche.
Gli speculatori cercano dunque di prevedere l’andamento futuro dei prezzi dei
titoli, in modo da poter lucrare su di essi. A seconda che prevedano rialzi o cadute
dei prezzi, essi si dividono in rialzisti (detti anche “tori”) e ribassisti (detti “orsi”).
Qui di seguito sono riportati due esempi di strategie speculative, rispettivamente
dei rialzisti e dei ribassisti:
1) Mi faccio prestare 100∈ al tasso del 10% 1) Mi faccio prestare 50 titoli al tasso del 10%
(quindi dovrò restituire 110∈) (quindi dovrò restituire i titoli più il 10% del
2) Compro 50 titoli al prezzo corrente PT=2∈ loro
3) Attendo che il prezzo dei titoli aumenti valore corrente)
4) Rivendo i 50 titoli al nuovo prezzo PT=3∈ 2) Vendo i 50 titoli al prezzo corrente PT=3∈
5) Dalla vendita ricavo 150∈ ed ottengo quindi 150∈
6) Restituisco i 110∈ dovuti al prestatore 3) Attendo che il prezzo dei titoli diminuisca
7) Ed ottengo dunque 150 – 110 = 40∈ 4) Ricompro i 50 titoli al nuovo prezzo PT=2∈
di guadagno speculativo netto. spendendo quindi 100∈ per l’acquisto
5) Restituisco i titoli al proprietario e pago
anche un
interesse di 15 (cioè il 10% dei 150∈ che
valevano all’inizio)
6) Alla fine mi restano 150 – 100 - 15 = 35∈
di guadagno speculativo netto
ESEMPIO N.7: speculazioni errate. Si calcoli il risultato netto del rialzista nel
caso in cui il nuovo prezzo di mercato del titolo sia PT = 1∈ anziché PT = 3∈. Si
calcoli poi il risultato netto del ribassista nel caso in cui il prezzo di mercato del
titolo rimanga al livello iniziale PT = 3∈ anziché diminuire a PT = 2∈. Si
139