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2. La teoria della formazione dei prezzi è un approccio che spiega il comportamento delle
imprese e la struttura del mercato avvalendosi dei modelli microeconomici. Di conseguenza, i
modelli che si basano su questa teoria spiegano i fenomeni di mercato mediante l’analisi degli
incentivi economici che si trovano di fronte i singoli individui e singole imprese. Nel corso degli
ultimi anni notevole consenso è stato raccolto da tre sviluppi teorici microeconomici:
a. L’analisi microeconomica dei costi delle transazioni, cioè delle spese che si devono
sostenere per effettuare uno scambio, parte dalla differenza esistente in tali costi per
spiegare la diversa SCR nelle diverse industrie. Ronald H. Coase, nel 1937, ha
affermato che l’impresa e il mercato rappresentano due mezzi diversi per organizzare
l’attività economica. Oliver Williamson, nel 1975, ha sostenuto che alla base dell’analisi
dei costi di transazioni vi siano quattro principi: 1) i mercati e le imprese sono due mezzi
diversi per compiere una serie di transazioni correlate; 2) il costo relativo del ricorso al
mercato rispetto all’uso delle risorse interne determina il tipo di scelta; 3) i costi di
transazione relativi alla stesura ed alla garanzia dell’osservanza di contratti variano a
seconda delle caratteristiche dei soggetti responsabili e delle caratteristiche oggettive
del mercato; 4) l’insieme dei fattori umani ed ambientali influenza i costi delle
transazioni. Questo approccio mira ad individuare i fattori ambientali (incertezza e
numero di imprese operanti nel medesimo mercato) ed umani (razionalità limitata e
comportamento opportunistico) che spiegano l’organizzazione interna delle imprese e
dei mercati. Il ricorso al mercato comporta elevati costi di transazione, qualora
l’incertezza e la razionalità limitata si combinano, oppure quando ci sono poche
imprese operanti nel mercato ed essere si comportano in modo opportunistico.
b. La teoria dei giochi è stata ideata, nel 1944, da Von Neumann e Morgenstern e si può
applicare nei contesti caratterizzati da un numero limitato di imprese. Questa teoria si
avvale di modelli formali per analizzare i fenomeni di conflitto e di cooperazione tra
imprese ed individui. La teoria dei giochi considera la concorrenza come un gioco di
strategie, cioè come l’interazione tra diversi piani di azione formulate dalle singole
imprese. Questa teoria spiega i criteri in base ai quali le imprese decidono le proprie
strategie e le modalità secondo cui tali strategie determinano i profitti di ciascuna
impresa.
c. L’analisi dei mercati contendibili , cioè quei mercati nei quali si può entrare ed uscire in
modo facile e rapido. Baumol, Panzar e Wilig ritengono che le imprese sono riluttanti ad
entrare in dei mercati quando uscirne comporta costi elevati. Nel caso di un numero
limitato di imprese il mercato contendibile ha le stesse caratteristiche del mercato
concorrenziale, in cui il prezzo è uguale al costo marginale (p = MC) e l’analisi del
comportamento strategico è irrilevante.
L’obiettivo di molte imprese è quello di fare profitti, di conseguenza esse vengono denominate
imprese a scopo di lucro (for – profit firms); tuttavia, esistono anche organizzazioni che operano a
fini caritatevoli o senza scopo di lucro (non – profit firms). L’ipotesi sottostante alla maggioranza
dei modelli economici è che l’obiettivo primario dei dirigenti di un’impresa consista nella
massimizzazione dei profitti dell’impresa stessa. A tal fine i dirigenti devono far sì che l’impresa
venda la quantità ottima di prodotto e realizzi l’efficienza produttiva, ciò significa che, partendo
dall’impiego di una certa quantità di fattori di produzione, si ottenga la massima produzione
possibile avvalendosi della tecnologia disponibile. Tuttavia, potrebbe accadere che i dirigenti
puntino alla massimizzazione di altri interessi, di conseguenza esistono fattori, come ad esempio la
proprietà di azioni o forme di compensi legate ai risultati aziendali, che riducono l’incentivo dei
dirigenti a tenere comportamenti non inerenti con la finalità dell’impresa. La proprietà di un’impresa
e il controllo sulle attività da essa svolte possono assumere forme diverse.
• Le forme proprietarie, più comuni USA sono: l’impresa individuale; la società di persone e la
Società per azioni. In Italia, invece, ne esistono, invece, diverse: ditta individuale; società di
persone (ss, snc, sas); società di capitali (srl, spa, sapa). Per le ditte individuali e per le snc i
soci rispondono illimitatamente dei risultati aziendali, di conseguenza sarà in rischio non solo il
patrimonio dell’impresa, ma anche il patrimonio personale, al contrario nelle sas il patrimonio
personale sarà messo in rischio solo per i soci accomandatari, mentre gli accomandati
rispondono, come nelle società di capitali, solo per il capitale da loro sottoscritto. Le società di
persone presentano un problema derivante dal fatto che in caso di abbandono da parte di un
socio, la società si dissolve automaticamente; in Italia questo vale solo per le società di
persone costituite da due soci. Il capitale delle S.p.A. è ripartito in azioni, le quali sono
possedute dai soci, i quali hanno una responsabilità limitata rispetto ai debiti aziendali, di
conseguenza qualora la società fallisca, essi non sono tenuti a pagare i debiti della stessa
ricorrendo al proprio patrimonio personale, ma sarà utilizzato solo il capitale sottoscritto.
L’aumento dell’importanza delle SpA e la corrispondente espansione dei mercati azionari sono
fenomeni recenti. Una S.p.A. può reperire fondi sia mediante la vendita delle proprie quote
azionarie, sia con l’emissione di obbligazioni; gli azionisti eleggono un Consiglio di
Amministrazione (Cda) a cui affidano la direzione della società. Gli azionisti possono ottenere
una remunerazione in diversi modi, ad esempio: tramite la cessione delle proprie azioni
(qualora il valore sia superiore a quello d’acquisto), oppure tramite l’eventuale distribuzione dei
dividendi. Gli obbligazionisti sono pagati prima rispetto agli azionisti, di conseguenza è più
prudente acquistare le obbligazioni, tuttavia a fronte di un minore rischio il rendimento di
quest’ultime sarà minore rispetto a quello ottenuto con il possesso di azioni, poiché sennò si
avrebbe un disincentivo ad acquistarle. Quando un’impresa aumenta il proprio indebitamento,
varia il rapporto tra obbligazioni ed azioni, infatti, a seguito di un maggior rischio, i rendimenti
attesi degli azionisti lieviteranno.
• Separazione tra proprietà e controllo. Il rapido aumento dell’importanza delle S.p.A. suscitò,
intorno agli anni ’30, un acceso dibattito circa l’efficienza di tale forma organizzativa.
L’elemento che scatenò il dibattito fu il libro di Berle e Means del 1932 (The Modern
Corporation and Private Propriety), poiché secondo gli autori la S.p.A. è la causa della
separazione tra la proprietà e il controllo, così facendo è possibile che i dirigenti potranno non
coincidere con gli azionisti, inoltre potrebbe accadere che questi soggetti abbiano interessi e
obiettivi che siano alternativi a quelli degli azionisti. Nonostante questa possibilità, spesso nelle
S.p.A. l’azionista non controlla, personalmente, l’operato dei dirigenti, poiché viene eletto un
Cda, finalizzato a tutelare gli interessi degli azionisti e a controllare l’efficiente gestione della
società. Il lavoro del Cda è oggetto di controllo da parte degli azionisti, i quali potrebbero
negare la possibile rielezione di un consigliere, minando così la credibilità di cui godeva,
tuttavia, secondo Berle e Means, questo controllo non dà garanzia di un comportamento
idoneo da parte dei dirigenti. Oltre al conflitto di obiettivi tra dirigenti ed azionisti, potrebbe
esserci un secondo tipo di conflitto, ossia tra obbligazionisti ed azionisti. Gli obbligazionisti
sono coscienti della divergenza esistente tra i propri interessi e quelli degli azionisti, quindi
insistono per la stipulazione di patti obbligazionari che comportano restrizioni sulle decisioni
della società in materia di progetti di investimento e di ulteriori finanziamenti.
• Dimensioni dell’impresa. L’impresa può seguire due modi diversi per procurarsi beni e
servizi, cioè fare ricorso: al mercato o alla produzione interna (scelta che si favorirà quando si
sostengono elevati costi di interazione e contrattazione con altre imprese). Un fattore che limita
il processo di espansione della produzione interna è il costo da sostenere necessariamente per
controllare in modo diretto e costante che tutta l’azienda opera secondo criteri di efficienza e di
redditività. La maggior parte delle imprese statunitense è di piccole dimensioni, nonostante
siano quelle di grandi dimensioni a partecipare al maggior parte delle vendite ed a dare
maggiori posti di lavoro. Tuttavia, recentemente a seguito della maggiore produttività dei
manufatti, la quota percentuale della forza lavoro occupata dall’industria manifatturiera si è
ridotta dal 34% al 13%, questo ha fatto si che l’occupazione si spostasse verso il settore dei
servizi, costituito da aziende di dimensioni ridotte.
Un’impresa può espandersi mediante l’investimento oppure mediante fusioni o acquisizioni, cioè
operazioni che permettono di combinare i capitali e le attività di diverse imprese esistenti, al fine di
crearne una nuova. In merito alle fusioni, si può distinguere:
Le fusioni conglomerali, in cui l’operazione riguarda imprese operanti in settori non correlati.
Le motivazioni che portano ad effettuare operazioni di fusione o di acquisizione sono: l’aumento
della profittabilità e il miglioramento del grado di efficienza economica complessiva. Le fusioni non
sempre soddisfano le motivazioni per cui vengono effettuate, infatti si hanno:
Le fusioni che aumentano il livello di efficienza sono molto desiderabili per le società e si
possono raggiungere in diversi modi:
Le fusioni che riducono il livello di efficienza possono, in alcuni casi, far trarre dei profitti ai
proprietari. Di conseguenza, esse possono avvenire per una serie di ragioni:
Per potere di mercato o di influenza politica, poiché si avrebbe una minore concorrenza
e si potrebbe stabilire un prezzo superiore al prezzo concorrenziale. In Italia e negli
USA le leggi antitrust proibiscono questo genere di fusioni.
Benché i giornali considerano che il periodo attuale è l’epoca d’oro delle fusioni, in passato questo
tipo di operazioni ha avuto un’importanza anche maggiore; tuttavia si hanno notevoli difficoltà nel
raccogliere dati, inoltre venivano ignorate le fusioni tra piccole aziende. Le maggiori ondate di
fusioni ed acquisizioni sembrano coincidere con le fasi di boom del mercato azionario. Analizzando
l’evoluzioni storica delle fusioni e delle acquisizioni, si possono individuare 5 periodi caratterizzati
da una grande intensità del fenomeno:
1. I primi anni del ‘900 è un periodo denominato da George Stilger “movimento delle fusioni
verso il monopolio”. In questi anni l’economia statunitense era in fase di mutamento dopo lo
sviluppo delle ferrovie e delle comunicazioni, inoltre da un lato, il mercato azionario stava
aumentando la sua importanza; dall’altro lato, si stava assistendo alla creazione di imprese di
grandi dimensioni. La fine dell’ondata delle fusioni coincise con il rallentamento dell’economia e
con il verdetto emesso dalla Corte Suprema, nel 1904, nel quale si affermava che talune
fusioni orizzontali violavano le leggi antitrust.
2. La fine degli anni ‘20 è un periodo denominato da George Stilger “movimento delle fusioni
verso l’oligopolio”.
3. La fine degli anni ’60 è un periodo denominato da George Stilger “movimento delle fusioni
conglomerali”, dato che molte fusioni concluse in questo periodo diedero vita alle imprese
conglomerali,ovvero (holding) capaci di controllare imprese operanti in settori diversi.
5. Gli anni ’90 è un periodo denominato “ondata delle fusioni da deregolamentazione”, dato che
molte fusioni interessavano settori oggetto di deregolamentazione, come il settore aereo e il
settore delle telecomunicazioni.
I mass media sostengono che le fusioni degli anni ’80 e degli anni ’90 hanno avuto un’intensità
superiore rispetto al passato. Quest’affermazione, tuttavia, è vera guardando solo il numero delle
operazioni, infatti l’economia di oggi è di dimensioni notevolmente maggiori, rispetto al passato,
quindi rapportando il numero delle fusioni alle dimensioni dell’economia (quindi il PIL reale, cioè
corretto in base al tasso d’inflazione), si otterrebbe che il fenomeno ha raggiunto il punto massimo
all’inizio del 1900. Tradizionalmente le fusioni in Europa, rispetto negli USA, sono meno comuni.
Uno degli argomenti più controversi delle economie di transizioni dell’Europa centrale e dell’Europa
orientale è stato la ristrutturazione delle imprese statali. Alcuni Paesi dell’Europa orientale hanno
privatizzato le imprese statali, mentre altri Paesi appartenenti al medesimo contesto geografico,
hanno cercato di trasformare le imprese, prima di procedere alla vendita. La questione circa gli
effetti economici dell’ondata di fusioni e acquisizioni è stata al centro di un dibattito, poiché se da
un lato le fusioni che aumentano l’efficienza sono altamente gradite, dall’altro lato sono
problematiche le fusioni finalizzate a ottenere guadagni di breve periodo per un piccolo gruppo di
speculatori disinteressati al buon andamento dell’impresa nel lungo periodo. Le fusioni, inoltre,
hanno la problematica di voler ottenere un aumento del potere di mercato, con la conseguenza di
far aumentare i prezzi oltre al livello concorrenziale, causando così un danno ai consumatori. Dagli
studi sulle fusioni e sulle acquisizioni, emerge che:
Profitti per l’impresa acquisita. Gli azionisti di un’impresa acquisita ricevono una somma che
va dal 16% al 25% superiore al prezzo di mercato delle azioni vigenti nel periodo pre –
acquisizione. L’incremento del prezzo delle azioni, avviene nel momento immediatamente
precedente al pubblico annuncio della transazione. La percentuale incassata dagli azionisti è
aumentata in seguito al Williams Act, che ha imposto di pubblicizzare i progetti di acquisizione,
inoltre i profitti degli azionisti sono incrementati nel tempo.
Effetti degli ostacoli alle acquisizioni. Le tattiche adottate dal management al fine di
impedire le acquisizioni riducono la probabilità di riuscita dell’acquisizione stessa, ma al
contempo aumentano il prezzo dell’acquisizione se essa si concretizzerà. Esistono diverse
misure difensive sui prezzi delle azioni, che possono essere attuate, ad esempio:
L’impresa può ricorrere alla maggioranza qualificata, secondo la quale i dirigenti
proprietari di una certa quantità di quote azionarie, potrebbero tentare di far approvare
una clausola, in base alla quale chiunque sia intenzionato ad ottenere il controllo
dell’impresa deve avere l’approvazione della maggioranza qualificata (superiore al
50%). Questa clausola provoca una riduzione del prezzo delle azioni.
L’impresa può ricorrere alla clausola greenmail, secondo la quale l’impresa riacquista
le azioni in possesso dell’investitore che sta tentando l’acquisizione pagando un premio
aggiuntivo rispetto al prezzo di mercato. Quest’azione influenza negativamente il
prezzo delle azioni.
L’impresa può ricorrere alla clausola poison - pills, secondo le quali la società acquisita
deve offrire le proprie azioni agli azionisti originari ad un prezzo molto conveniente,
riducendo il valore della quota azionaria controllata dal nuovo proprietario. Questa
clausola porta ad una riduzione notevole del prezzo delle azioni.
Profitti per l’impresa acquisitrice. Gli azionisti di un’impresa acquisitrice non hanno profitti
sostanzialmente superiori alla media in seguito all’esito positivo di un’acquisizione. Gli azionisti
avranno una situazione migliore, a seguito di un’acquisizione ostile, rispetto a quella che
avrebbero in caso di fusione amichevole. Il rendimento per l’impresa acquisitrice dipende dalla
modalità di finanziamento dell’acquisizione, poiché è superiore qualora il pagamento avvenga
a mezzo liquido. I dirigenti di un’impresa, dinanzi al tentativo di acquisizione ostile, possono
ricercare un acquirente alternativo (white knight) che vorrà assumere il controllo dell’impresa
mantenendo l’attuale management.
Effetti per la società nel suo complesso. Il valore complessivo delle azioni delle imprese
coinvolte in una fusione aumenta di una percentuale compresa dal 2% al 7,5%. L’aumento del
valore di un’impresa a seguito di una fusione non è dovuto alla creazione di potere di mercato.
Se la fusione è finalizzata a far ottenere un maggiore potere di mercato, i prezzi pagati dai
consumatori aumenteranno, di conseguenza la fusione avvantaggerà anche le imprese
concorrenti. Se, invece, il motivo dell’operazione consiste in un miglioramento dell’efficienza
produttiva, l’impresa derivante dalla fusione diventerà più forte nei confronti dei concorrenti,
questo porterà ad una riduzione del prezzo delle quote azionarie delle imprese concorrenti. Per
verificare la maggiore efficienza delle imprese nate a seguito di una fusione, alcuni ricercatori,
anziché basarsi sulle quote azionarie, utilizzano i dati contabili delle nuove imprese. Questo
cambiamento è stato pensato, perché altrimenti si potrebbe sostenere che le operazioni di
fusione e di acquisizione creano solo un valore fittizio sul mercato azionario, dovuto o
all’ingiustificato trasferimento di ricchezza agli azionisti dell’impresa acquisita, oppure ad errori
di valutazione da parte del mercato azionario. Dall’esame di Mueller, del 1997, su 20 studi
inerenti 10 Paesi emerge che solo pochi di essi attestano un aumento di profittabilità a seguito
di operazioni di fusione. A seguito di uno studio di Rousseau del 2001, il quale evinse che le
fusioni tendono a concentrarsi negli stessi settori industriali si può desumere che, le stesse
fusioni, hanno luogo per motivi di efficienza produttiva. Nel 1988, Hall sottolineò che le spese
per le attività di R&S non sono influenzate dai cambiamenti di proprietà delle imprese.
Un’impresa, se gestita in modo efficiente, è in grado di produrre al minor costo possibile; questo
significa che ogni impresa ha bisogno di conoscere i propri costi di produzione. Al riguardo
esistono vari metodi di misurazione dei costi, ed ogni concetto di costo può essere adeguato
all’analisi di alcuni problemi piuttosto che di altri. Esistono diverse tipologie di costo:
Il costo fisso (F), è una spesa che non varia al variare del livello di produzione (q) (esempio
spese di affitto mensile). Quando si prende una decisione, il costo fisso deve essere analizzato
prendendo in considerazione la parte di tale costo che può essere recuperata (costi evitabili),
invece può essere trascurata la parte del costo fisso che non può essere più recuperata, cioè il
costo non recuperabile (sunk cost).
I costi variabili (VC), sono costi che variano al variare del livello di produzione. Per questo
motivo sono indicati come funzione della quantità prodotta.
I costi totali (C) sono la somma dei costi fissi e dei costi variabili, quindi formalmente si avrà
che: C = F + VC
Il costo medio, al riguardo si possono distinguere tre tipologie di tale tipologia di costo:
1. Il costo totale medio(costo medio AC) (ATC), equivale al rapporto tra costo totale e
quantità prodotta, quindi formalmente si ha che: ATC = C(q)/q (è uguale alla somma di
AVC(q) e AFC(q)).
2. Il costo variabile medio (AVC), equivale al rapporto tra costo variabile e quantità
prodotta, quindi formalmente si avrà che: AVC = VC(q)/q
3. Il costo fisso medio (AFC), equivale al rapporto tra costo fisso e quantità prodotta,
quindi formalmente si avrà che: AFC = F/q
Il costo marginale (MC) è l’incremento di costo risultante dalla produzione di unità addizionale
di output. Questo, conseguenza delle distinzioni fatte prima, è pari al corrispondente aumento
del costo variabile. Poiché il costo marginale è indipendente dai costi fissi, e il costo medio non
lo è, non è sempre vero che, per qualunque livello di produzione il costo marginale sia inferiore
al costo medio. Il motivo per cui il costo marginale può essere superiore al costo medio è che
esso si riferisce alle variazioni di costo, e non ai livelli assoluti. MC=dC(q)/dq.
1. Elementi diversi dal livello di produzione. I costi di un’impresa dipendono dalla quantità di
output prodotta partendo da un determinato insieme di prezzi dei fattori di produzione, i quali,
tuttavia, non sono gli unici elementi ad influire sul costo. Il costo di produzione, di
conseguenza, non dipende solo dall’output, ma anche dalla relativa velocità di produzione e
dalla sua variazione nel tempo, dal momento che produrre velocemente comporta costi
maggiori, ma produrre seguendo un ritmo costante permette di avere un effetto riduttivo sui
costi stessi. Per un’impresa potrebbe risultare conveniente sostenere dei costi al fine di
rendere il proprio impianto a diversi livelli di produzione.
2. Breve periodo e lungo periodo. Il breve periodo è un lasso di tempo così breve da non
consentire una variazione a costo zero di alcuni tra i fattori di produzione impiegati. Il lungo
periodo è un lasso di tempo sufficientemente esteso da consentire, invece, una variazione di
tutti i fattori di produzione a costo zero. Tra breve e lungo periodo non esiste una linea netta di
demarcazione, poiché c’è un continuum di periodi dove l’aggiustamento è tanto più agevole
quanto maggiore è la durata del periodo considerato. L’impresa, quindi, dovrà sostenere costi
di aggiustamento tanto più elevati, quanto più rapido è l’aggiustamento della propria capacità
produttiva. Nel lungo periodo la configurazione di un’impresa può essere variata senza
restrizione mentre nel breve periodo la rosa delle scelte possibili è limitata; di conseguenza, il
costo medio di lungo periodo (LRAC) è minore o uguale al costo medio di breve periodo.
Questa relazione implica che la curva di lungo periodo sia costituita dall’avvolgersi delle curve
di breve periodo.
3. Costo opportunità. Adam Smith affermò che il prezzo effettivo di un bene corrisponde allo
sforzo ed alla preoccupazione per ottenerla. Questo significa che il costo opportunità di
un’azione equivale al valore della migliore alternativa di utilizzo delle risorse impiegate per
quella determinata azione. I costi opportunità indicano la convenienza o meno a proseguire
una determinata attività, il proprietario dell’impresa, infatti, calcola il profitto come: ricavo meno
il costo opportunità. Il concetto di costo opportunità è utile al fine di decidere se un’impresa
debba continuare a utilizzare i propri beni capitali, anche nel caso in cui questi potessero
essere facilmente dati in affitto. Il costo opportunità stima le risorse utilizzate ad un prezzo che
corrisponde alla massima valutazione possibile all’esterno, di conseguenza se tutti i costi
fossero stimati in base al costo opportunità basterebbe che il profitto sia nullo per affermare la
convenienza a continuare l’attività svolta. Alcuni economisti ritengono che il costo opportunità
attribuisca alla risorsa un profitto normale, cioè il più alto profitto possibile ottenibile da un uso
alternativo della risorsa, poiché assegna alle singole risorse il valore che queste avrebbero se
fossero utilizzate nel modo alternativo più redditizio.
4. Spese e ammortamento. I costi sono classificati in: spese quando si considera il costo di
acquisto; in ammortamenti, invece, se i costi si ripartiscono lungo il ciclo di vita del bene
acquistato.
Quando un’impresa aumenta il proprio livello di produzione i costi medi possono: rimanere
costanti, così l’impresa godrà di rendimenti di scala costanti ; possono aumentare, così l’impresa
avrà diseconomie di scala, denominate rendimenti di scala decrescenti, quindi il costo marginale è
maggiore del costo medio ; oppure possono diminuire, così l’impresa avrà economie di scala,
denominate rendimenti di scala crescenti, quindi il costo marginale è inferiore al costo medio .
Nel caso in cui un’impresa goda di economie di scala per qualsiasi livello di output, risulterà
efficiente che quell’impresa produca l’intero output relativo all’industria. Esistono diversi motivi che
inducono a prevedere una riduzione dei costi medi di un’impresa in corrispondenza dell’aumento
del suo livello di output, ad esempio:
La legge dei grandi numeri. Gli eventi casuali, in presenza di frequenti ripetizioni, tendono a
convergere a zero, così anche le scorte di magazzino tenderebbero allo zero all’aumentare
delle dimensioni dell’impresa.
Il fatto che un’impresa goda di economie di scala o meno, dipende dal livello di incidenza delle
singole funzioni sul totale dei costi. La mera presenza di economie di scala non costituisce
necessariamente la soluzione più efficiente ed efficace per un’azienda. Di conseguenza bisogna
prendere in considerazione il costo totale medio. Questo si può comprendere mediante lo studio
del costo medio totale (AC), considerato come la somma delle economie di scala (ACp), e dei
costi di trasporto (ACt). I costi di trasporto aumenteranno con l’ingrandirsi ed allargarsi
dell’azienda, poiché si venderanno più beni e si copriranno maggiori distanze. La decisione di
localizzazione di uno stabilimento è determinata principalmente dalla comparazione tra i costi
relativi al trasporto delle materie prime allo stabilimento ed i costi relativi alla consegna del prodotto
finito ai clienti, quindi più alti saranno i costi di trasporto delle materie prime, maggiore sarà la
convenienza, per l’azienda, a localizzarsi nelle vicinanze del mercato di reperimento. Al contrario,
qualora le materie prime siano disponibili in zone diverse, gli stabilimenti si localizzeranno nelle
vicinanze del mercato di sbocco. Decidere in merito al numero ottimale di stabilimenti che
un’impresa dovrebbe avere dipende sia dai costi di trasporto delle materie prime e dei prodotti
finiti, sia dalle economie di scala relative alla produzione. Di conseguenza, tanto maggiore è
l’importanza delle economie di scala nella produzione, tanto più importante per l’azienda è avere
un numero limitato di stabilimenti; al contrario tanto maggiore è l’importanza dei costi di trasporto,
tanto più importante per l’azienda è avere un numero elevato di stabilimenti.
Alcune imprese hanno curve dei costi medi di lungo periodo a forma di U, che nel punto di minimo
è piatta, tuttavia, da alcuni studi sulle imprese manifatturiere emerge che le curve dei costi medi,
spesso, assumono una forma a L, poiché all’aumentare dell’output la curva tende verso il basso,
dapprima in modo repentino, poi più lentamente ed alla fine diventa piatta.
Questo significa che per bassi livelli di produzione esistono notevoli economie di scala, mentre per
livelli di produzioni elevati tali economie tendono ad esaurirsi ed i costi medi si mantengono
costanti. In tali curve il punto minimo si ha nel momento in cui la curva diventa piatta.
La SEM (Scala Efficiente Minima) è il livello minimo di produzione che permette di minimizzare i
costi medi di lungo periodo, la sua individuazione è utile per conoscere il numero di imprese che
potrebbero operare nel mercato. Stigler ha sviluppato un approccio utile alla valutazione delle
economie di scala, tale approccio ritiene che se una particolare dimensione di stabilimento è
efficiente, con il trascorrere del tempo tutte le imprese operanti nell’industria tenderanno ad
avvicinarsi a quella dimensione, di conseguenza qualsiasi dimensione che sopravvive nel tempo è
efficiente. Le economie di scala indicano la relazione esistente tra diminuzione dei costi medi ed
aumento dell’output, quando tutte le altre condizioni rimangono costanti.
La maggior parte delle imprese non offre un unico prodotto, ma una gamma di prodotti diversi,
quindi sono denominate imprese multi prodotto. Se un’impresa produce due o più tipi di prodotti, è
impossibile determinare il costo marginale o il costo medio, poiché non esiste un’unica misura
riferita all’output, tuttavia si possono definire dei concetti di costo simili a quelli definiti per le
imprese mono prodotto. Ad esempio se un’impresa produce q1 unità del Prodotto 1 e q2 unità del
Prodotto 2, il costo marginale CM relativo alla produzione del Prodotto 1 corrisponde al costo
aggiuntivo sostenuto dall’impresa per passare da una quantità di output q1 ad una quantità q1 + 1,
mantenendo costante la quantità q2 del Prodotto 2. Se il calcolo dei costi marginali è semplice,
stessa cosa non si può dire per i costi medi, infatti le difficoltà nascono quando si vuole stabilire se
il costo totale sia da dividere per la quantità q1 del Prodotto 1 oppure per la quantità q2 del
Prodotto 2, oppure ancora se dividere il costo totale per la somma delle due quantità (q1 + q2).
Quando la produzione congiunta di due prodotti è più conveniente rispetto alla produzione
separata di ciascuno dei due, si parla di economie di scopo: esse implicano che la produzione
congiunta è efficiente anche quando questa non avvenga all’interno di una singola impresa, poiché
la produzione potrebbe, anche, essere svolta da imprese affiancate. Le economie di scopo sono
determinate da una serie di fattori, ad esempio l’impiego di comuni fattori di produzione, come
l’informazione.
Capitolo 3: La concorrenza
Informazione perfetta. I venditori e gli acquirenti conoscono tutti i dati rilevanti del mercato,
compreso il prezzo e la quantità del prodotto. Tuttavia le imprese possono produrre e i
consumatori acquistare solo una piccola parte di output,così che non ci siano grandi
oscillazioni della domanda e della offerta.
Assenza di costi di transazione. I venditori e gli acquirenti non devono sostenere tasse o
costi per entrare nel mercato.
Price taker. Le imprese considerano il prezzo come dato, poiché, su di esso, non possono
esercitare alcuna influenza, di conseguenza i prezzi saranno definiti dal mercato.
Assenza di esternalità. Ogni impresa sostiene i costi totali del processo produttivo, questo fa
sì che non ci sono costi che un’impresa impone ad un’altra senza pagare una compensazione.
Ad esempio l’inquinamento è un’esternalità se l’impresa non paga i costi che dal suo
inquinamento produce alle altre imprese o ai consumatori.
Analizzando la curva di offerta dell’industria nel breve periodo, si può vedere che se nel breve
periodo ci sono n imprese identiche i cui costi fissi siano irrecuperabili, la curva di offerta, S, è la
somma orizzontale della curva di offerta di ciascuna impresa, cioè MC.
Il tratto orizzontale della curva di offerta evidenzia sia che l’output è pari a 0 se il prezzo è inferiore
al punto di chiusura; sia che ad un prezzo leggermente superiore a quello di chiusura tutte le
imprese produrranno. L’intersezione della curva di domanda con la curva di offerta dell’industria
nel breve periodo determina il prezzo e la quantità di equilibrio nel breve periodo (p0, q0).
Nell’equilibrio di breve periodo l’impresa potrebbe conseguire un profitto, e questo dà ad altre
aziende l’incentivo di entrare, tuttavia l’ingresso non può avvenire nel breve periodo.
Nel lungo periodo, invece, le imprese possono adeguare il loro livello di capitale così da entrare nel
mercato. I profitti o le perdite inducono le imprese ad entrare nel mercato o ad uscirne fino a
quando il prezzo non raggiunga il punto minimo della curva dei costi totali medi di lungo
periodo(AC). Nel breve periodo le imprese al prezzo p0 ottengono un profitto positivo; nel lungo
periodo questi profitti inducono nuove imprese ad entrare nel mercato. Se il numero delle imprese
che possono produrre allo stesso costo è molto grande, la curva di offerta del lungo periodo è
orizzontale al punto minimo della curva di costo totale medio. Il mercato si potrà trovare in una
situazione di equilibrio sia di breve sia di lungo periodo, qualora la curva di domanda intersechi la
curva di offerta di lungo periodo e la curva di offerta di breve periodo. La curva di offerta di breve
periodo identifica il numero di imprese in equilibrio (n*), di conseguenza la quantità di equilibrio
sarà (Q* = n*q*). Nell’equilibrio di lungo periodo le imprese ottengono profitto pari a 0.
Se un gran numero di imprese possono entrare nel mercato producendo agli stessi costi medi e
costi marginali delle imprese già operanti nel mercato, la curva di offerta di lungo periodo sarà
piatta, in corrispondenza del punto di minimo dei costi totali. Tuttavia la curva di offerta di lungo
periodo non sempre sarà piatta, infatti un’espansione dell’output farà lievitare i prezzi di alcuni
fattori produttivi, così la curva di offerta avrà pendenza crescente, spostandosi verso l’alto. Quando
i fattori di produzione hanno un’offerta fissa, i loro prezzi tendono a salire all’aumento dell’output,
invece se esistono delle economie di scala, all’incremento di output i prezzi dei fattori produttivi
possono scendere, di conseguenza si avrà che la curva di offerta nel lungo periodo avrà una
pendenza negativa. Un altro motivo per il quale la curva di offerta nel lungo periodo può avere
pendenza crescente, è che solo poche imprese possono produrre a costi bassi, quindi al crescere
dell’output dell’industria devono entrare nel mercato imprese meno efficienti(che producono di
più,trascurando l'efficienza). Ad esempio, nel mercato solo n1 imprese sono efficienti presentando
una curva di costo marginale MC e dei costi medi AC1. Se tali imprese producono q1 unità di
output si avrà il punto di minimo della curva dei costi totali medi AC1*. Fino ai livelli di produzioni
Q1 (n1q1) le imprese efficienti riescono a produrre al punto di minimo della curva dei costi totali
medi, di conseguenza la curva di offerta di lungo periodo è piatta. Se la domanda del mercato è
leggermente superiore a Q1 il costo totale medio deve aumentare, tale curva è la somma
orizzontale delle curve di offerta delle n1 imprese. Le imprese non efficienti (con elevati costi fissi)
presenteranno una curva di costo totale medio AC2, nella quale il suo punto di minimo, AC2*, è
maggiore di quello delle imprese efficienti. Se la quantità richiesta è superiore a Q* (n1q2) il prezzo
sarà AC2* ed entreranno nel mercato altre imprese con costi maggiori che soddisferanno la
domanda, rendendo piatta la curva dell’offerta. Quando la quantità domandata non può più essere
soddisfatta dall’ingresso di nuove imprese con costi elevati, la curva di lungo periodo sale
nuovamente, questo significa che per quantità superiori a Q2 l’offerta salirà nuovamente. Le
imprese con costi bassi potranno realizzare profitti elevati se la quantità domandata è compresa
fra Q1 e Q*.
Paragrafo 3.2: “Elasticità e curva di domanda residuale”.
Per analizzare sia le industria concorrenziali che quelle non concorrenziali, si può fare ricorso a
due concetti tra di loro connessi:
2. La curva di domanda di una singola impresa, cioè la curva di domanda residuale, questo
concetto consente di capire il comportamento dell’impresa. Le imprese concorrenziali sono
imprese price taker, cioè imprese che accettano il prezzo, considerandolo come un dato su cui
non poter esercitare alcuna influenza. Esistono diversi modi per indicare l’incapacità delle
imprese di influire sul prezzo:
Il costo sociale di un mercato che non funziona in modo efficiente viene definito perdita secca
(deadweight o DWL) ed è la somma delle riduzioni nei surplus del consumatore e del produttore
dovute ad una deviazione dall’equilibrio concorrenziale. Ad esempio, un equilibrio concorrenziale si
trova nei punti p0 e Q0, inoltre lo Stato esige un’imposta T per unità del bene venduta, quindi se un
cliente paga p, lo Stato riceve T e l’impresa riceverà p – T. L’imposta crea, quindi, un divario pari a
T tra il valore attribuito al bene dal consumatore (indicato nella curva di domanda) ed il costo che è
disposto a sostenere il produttore (indicato dalla curva di offerta). L’esazione dell’imposta, da un
lato, riduce la quantità venduta passando da Q0 a Q*, ma dall’altro lato, aumenterà il prezzo che
pagano i consumatori passando da p0 a p* e ridurrà il prezzo che ricevono le imprese passando
da p0 a p* - T. In questo equilibrio la quantità venduta (Q*) è inferiore alla quantità stabilita
dall’equilibrio concorrenziale (Q0) ed il valore che i consumatori attribuiscono al consumo di
un’unità addizionale (p*) sarà maggiore del suo costo marginale di produzione del valore T. I
consumatori subiscono una perdita di surplus pari alle A e B, mentre i produttori subiranno una
perdita di surplus pari alle aree C e D, infine lo Stato riceve un gettito fiscale pari alle aree A e C.
Di conseguenza il trasferimento dai consumatori e dai produttori allo Stato (il gettito fiscale) è
inferiore alla perdita secca, percepita in modo congiunto dai consumatori e dai produttori. Il costo
aggiuntivo per la società a seguito dell’output ridotto è la perdita secca, pari alle aree B e D. Il
triangolo della perdita secca rappresenta la perdita totale per la società se lo Stato facesse buon
uso del gettito fiscale. Il gettito fiscale indica una perdita in termini di efficienza, poiché il costo
marginale per la produzione di un bene è inferiore alla disposizione marginale dei consumatori a
pagare per acquistarlo. Finché lo Stato utilizza questo denaro in modo efficiente, il gettito fiscale,
tuttavia non costituisce una perdita di efficienza, ma piuttosto riflette una ridistribuzione del reddito
da acquirenti e venditori del bene a coloro che traggono beneficio dall’utilizzo che lo Stato fa di tali
fondi.
Paragrafo 3.4: “Entrata ed uscita”.
La facilità di entrata e di uscita svolge un ruolo importante nella determinazione della struttura del
mercato e delle conseguenti prestazioni delle imprese. Se le imprese che hanno lo stesso livello di
efficienza di quelle già presenti nel mercato non vi possono entrare facilmente, le imprese esistenti
possono esercitare il proprio potere di mercato fissando prezzi superiori ai costi marginali. In molti
settori industriali lo Stato o gruppi di imprese stabiliscono requisiti che di fatto limitano l’entrata, ad
esempio in molte città si impone un limite al numero massimo di taxi consentiti. Le barriere
all’entrata fanno aumentare i prezzi oltre il livello concorrenziale. Il grafico seguente mostra come
una restrizione all’entrata possa determinare un prezzo superiore al prezzo di equilibrio
concorrenziale di lungo periodo. Il grafico mostra due curve di offerta di lungo periodo per un
mercato con imprese che hanno gli stessi costi. In assenza di restrizioni all’entrata da parte dello
Stato, in questo mercato ci sono 150 imprese, di conseguenza l’equilibrio concorrenziale è
determinato dall’intersezione della curva di offerta e la curva di domanda di mercato; il prezzo di
equilibrio è p0 e ciascuna impresa produce al punto di minimo della curva dei costi totali medi di
lungo periodo. Se il governo limitasse il numero delle imprese nel mercato a 100, la curva
dell’offerta di lungo periodo si trova spostata a sinistra rispetto a quella originaria, così che il nuovo
prezzo di equilibrio diventa p*, di conseguenza i consumatori pagheranno un prezzo superiore
consumando una quantità minore (Q*). La perdita secca rappresenta la perdita di benessere
dovuta alla restrizione all’entrata e riflette la perdita in termini di surplus del consumatore connessa
al pagamento di p* piuttosto che di p0. Una restrizione all’entrata è inefficiente sia perché l’output
si riduce da Q0 a Q* e sia perché il costo totale medio è maggiore. Un’impresa che fa parte delle
100 imprese cui è consentito entrare nel mercato è in condizioni migliori di quelle in cui si
troverebbe se non ci fossero restrizioni all’entrata, infatti il prezzo elevato fa aumentare i profitti di
ciascuna delle 100 imprese. Le restrizioni all’entrata sono come un’imposta sul consumo di un
bene, tuttavia un’imposta trasferisce il danaro dai consumatori e dai produttori allo Stato, mentre le
restrizioni determinano un trasferimento dai consumatori alle imprese attive nell’industria.
Per questo motivo la FTC (Federal Trade Commission) si oppone a molte di queste barriere. In
senso letterale una barriera all’entrata è qualsiasi fattore che impedisce ad un imprenditore di
creare istantaneamente una nuova impresa in un mercato; tuttavia questa definizione raramente si
rivela utile, poiché in teoria tutti i mercati presentano una barriera all’entrata, infatti potrebbero
essere tali sia il costo della manodopera che il costo di costruzione degli impianti che il tempo utile
per prendere le decisioni. Le teorie economiche prevedono che l’entrata di nuove imprese porti
all’erosione dei profitti nel lungo periodo, infatti se in un’industria abbiamo molte imprese che
possono entrare nel mercato sostenendo i medesimo costi e praticando stessi prezzi, nessuna
impresa potrà realizzare profitti superiori ai costi di lungo periodo. Le barriere all’entrata possono
essere definite come costi che devono essere sostenuti dalle sole nuove imprese che vogliano
operare nel mercato,e non da chi è già presente. Una considerazione importante per capire
l’incentivo di un’impresa ad entrare in un mercato è la capacità dell’impresa stessa di uscirne,
poiché se l’attività di uscita richiede costi elevati, gli incentivi ad entrarne sono ridotti. Di
conseguenza le barriere all’uscita, così come le barriere all’entrata, servono ad impedire l’entrata
di nuove imprese in un determinato mercato. Se non ci sono costi di entrata o uscita,l’entrata
instantanea e la successiva uscita ,viene definita strategia “mordi e fuggi” (hit and run) che
garantisce che in ogni periodo i prezzi non superino i costi . Bain, nel 1956, ha individuato le
seguenti cause di barriere all’entrata:
1. Vantaggio assoluto di costo, poiché consente all’impresa già attiva sul mercato di ricavare alti
profitti senza temere l’ingresso di potenziali concorrenti. Ad esempio un’impresa A produce
costantemente ad un prezzo di 2, mentre tutte le altre imprese produrranno partendo da un
costo di 5, l’impresa A potrebbe praticare un prezzo di 4 garantendo così un prezzo sempre
inferiore ai costi che devono sostenere i concorrenti.
3. Differenziazione del prodotto, poiché ci potrebbero essere clienti fedeli a cui non
interesseranno prodotti di altre marche. Questo beneficio potrebbe andare all’impresa che per
prima introduce il bene, godendo così del vantaggio della prima mossa, poiché sosterrà costi di
marketing inferiori vista la mancanza di concorrenti.
Per valutare le barriere all’entrata di lungo periodo vengono usati diversi metodi: alcuni economisti
utilizzano giudizi soggettivi per prevedere le difficoltà di entrata in un’industria; altri metodi si
basano su domanda del tipo “quanto maggiori sono i costi dell’impresa entrante a causa di brevetti
o dell’esperienza acquisita dall’impresa già operanti sul mercato”. In alcuni mercati l’output totale è
piccolo rispetto alla dimensione efficiente di un’impresa, quindi le economie di scala di produzione
e delle vendite sono così importanti che solo una o alcune imprese possono produrre
efficientemente in un dato settore industriale. Anche in un tale scenario è possibile ottenere una
situazione concorrenziale. Se molte imprese identiche sono in grado di entrare nel settore e
produrre nel lungo periodo nessuna impresa può raggiungere un livello di profitti superiore al
normale. Questo significa che se sono assenti barriere all’entrata ed all’uscita le imprese avranno
un incentivo ad entrare ogni volta che il prezzo superi il costo medio. I mercati con entrata ed
uscita libere vengono definiti perfettamente contendibili.
Alcuni mercati soddisfanno la maggior parte dei requisiti del modello della concorrenza perfetta,
come ad esempio la Borsa di New York. In altri contesti le imprese hanno la capacità di influenzare
il prezzo e le azioni dei loro concorrenti mediante, ad esempio, azioni di marketing. Alcuni autori
ritengono che se la distribuzione del reddito non è equa, anche i mercati concorrenziali non
godono di un benessere ottimale. Il modello della concorrenza perfetta non ricompensa
necessariamente i più meritevoli ma chi produce di più,tant’è che una politica inefficiente a volte è
preferibile a una efficiente.
Alcuni autori utilizzano il termine “concorrenza” in riferimento ad un mercato in cui alcune imprese
che fissano il prezzo si contendono le vendite, di conseguenza in tal caso il termine concorrenza si
usa per descrivere la rivalità tra imprese. Questo uso differisce dalla definizione di concorrenza
perfetta in cui un’impresa accetta il prezzo come dato e può vendere tutto ciò che vuole al prezzo
di mercato. Anche se poche industrie rispondono ai requisiti della concorrenza perfetta, alcuni
economisti descrivono certi settori come ragionevolmente concorrenziali se presentano
determinate caratteristiche:
Se il monopolista abbassa il prezzo a p1 ottiene dei ricavi sull’unità aggiuntiva venduta a tale
prezzo.Per vendere quell’unità aggiuntiva il prezzo passa da p0 a p1 producendo una perdita sui
ricavi pari a p1-p0)Q0 (area A).Se l’area B>A ,vendere un’unità in più fa aumentare i ricavi ,che
saranno pari a p1(Q0+1)-p0Q0 e hanno il nome di ricavi marginali(Area B-Area A).In un’impresa
che opera invece in “concorrenza perfetta” i ricavi marginali sono uguali al prezzo.
I ricavi marginali ed i ricavi totali sono correlati, infatti quando ricavi marginali sono positivi i ricavi
totali aumentano all’espandersi dell’output, al contrario quando i ricavi marginali sono negativi i
ricavi totali diminuiscono all’espandersi dell’output. Di conseguenza i ricavi totali vengono
massimizzati quando i ricavi marginali sono uguali a zero. Un monopolista massimizza i profitti,
piuttosto che i ricavi, ed essi vengono massimizzati ad una quantità minore rispetto a quella che
massimizza i ricavi. Un monopolista massimizza i profitti quando il ricavo aggiuntivo derivante dalla
vendita di un’unità in più è esattamente uguale al costo di produzione di quell’ultima unità di output,
quindi quando il costo marginale è uguale al ricavo marginale, formalmente si ha che: MC = MR.
Dal grafico successivo si può evincere che la quantità di output di monopolio è inferiore alla
quantità di output concorrenziale, il quale è determinato dall’intersezione fra la curva di domanda e
la curva di costo marginale. Le caratteristiche della curva di domanda determinano il sovrapprezzo
di monopolio, cioè la differenza tra il prezzo di monopolio ed il prezzo concorrenziale. Si può
individuare una relazione tra il sovrapprezzo e l’elasticità della domanda rispetto al prezzo.
Formalmente il ricavo marginale può essere calcolato, come: MR = p (1 + 1/ξ ). Questo significa
che il ricavo marginale è positivo se la curva di domanda è elastica (ξ < -1), invece il ricavo
marginale sarà negativo se la curva di domanda è anelastica (-1 < ξ < 0). A seguito di queste
precisazioni, la condizione di massimizzazione dei profitti in monopolio si può scrivere come
equazione fra il margine prezzo – costo (denominato anche indice di Lerner del potere di mercato)
con il rapporto negativo di 1/ξ . Quanto detto può così essere formalizzato: (p – MC) / p = -1 / ξ .
Da questa equazione si può evincere che quando l’elasticità è molto elevata il prezzo del
monopolio è molto vicino al costo marginale MC (avvicinandosi al prezzo concorrenziale), al
contrario quando l’elasticità è molto bassa il prezzo supera il costo marginale.Maggiore è
l’elasticità della domanda,più il prezzo di monopolio si avvicina a quello concorrenziale.Quando la
domanda è relativamente anelastica,il markup di monopolio può assumere un certo spessore.
Il potere di monopolio si utilizza per descrivere un’impresa che ottiene dei profitti fissando il
prezzo al livello ottimale al di sopra del costo marginale
Il potere di mercato, invece, si utilizza per descrivere un’impresa che ottiene solo il profitto
concorrenziale quando fissa il prezzo al livello ottimale al di sopra del costo marginale.
Sia nel monopolio che nella concorrenza perfetta le conseguenze dovute ad un comportamento
inefficiente sono diverse. Un’impresa concorrenziale inefficiente può essere costretta a uscire dal
mercato perché realizza continuamente delle perdite, mentre un monopolista può essere
inefficiente e realizzare, lo stesso, dei profitti. Questa osservazione ha portato alcuni studiosi a
concludere che il monopolio presenta minori incentivi all’efficienza rispetto ad un’impresa
concorrenziale. Tuttavia alcuni economisti hanno rinnegato quest’ipotesi, poiché i monopolisti non
si accontentano del risultato, ma cercano sempre di migliorarlo, infatti si può notare che i
monopolisti hanno come obiettivo quello di massimizzare i profitti, questo obiettivo implica anche la
minimizzazione dei costi. Tuttavia un monopolista può non avere la stessa capacità di produrre
efficientemente di un’impresa concorrenziale, poiché quest’ultima ha il vantaggio di poter
osservare il comportamento delle altre imprese rivali. Se la domanda è anelastica non è possibile
soddisfare la condizione di massimizzazione dei profitti, quindi un monopolista non opererà mai
sulla parte anelastica della curva di domanda, infatti se lo facesse potrebbe accrescere i profitti
solo aumentando i prezzi fino ad operare nella parte elastica della curva. Se non ci fosse una parte
elastica, il monopolistica produrrebbe solo una piccola quantità di output, per il quale farebbe
pagare un prezzo infinito, così da avere profitti infiniti. Quest’osservazione vale solo per un modello
semplice ed atemporale, poiché nei mercati reali le curve di domanda variano nel tempo e quindi
un monopolista varierà il prezzo con il passare del tempo stesso. I consumatori presentano una
curva di domanda maggiormente anelastica nel breve periodo che nel lungo periodo, quindi se un
monopolista sfrutta la parte anelastica della curva di domanda di breve periodo ed aumenta i
prezzi è probabile che i consumatori sostituiscano il prodotto nei periodi successivi.
Se un monopolista limita l’output ed aumenta il prezzo oltre il costo marginale, la società subisce
una perdita secca di benessere. Per massimizzare i profitti, un monopolista produce la quantità di
output individuata dal punto di intersezione tra il ricavo marginale ed il costo marginale. Il divario
tra prezzo di monopolio e costo marginale rappresenta la differenza tra il valore che gli acquirenti
attribuiscono al prodotto ed il costo marginale per realizzarlo. Se i consumatori devono pagare un
prezzo di monopolio superiore al prezzo concorrenziale, perdono una quota di surplus pari alla
somma della perdita secca ed una parte del profitto di monopolio (grafico pagina precedente). La
società è soggetta ad una perdita secca di monopolio, pari alla differenza fra la perdita del
consumatore ed il guadagno del monopolio. L’effetto in termini di efficienza del monopolio e
dell’introduzione di un’imposta inefficiente è il medesimo, cioè una perdita secca; tuttavia
differiscono per la diversa destinazione dei trasferimenti effettuati dai consumatori, poiché nel
monopolio il monopolista mantiene i profitti, mentre con l’imposta il trasferimento è a favore dello
Stato. Alcuni ricercatori sostengono che la perdita di efficienza per la società è maggiore del
triangolo della perdita secca, questo perché ritengono che anche una parte dei profitti di monopoli
rappresenti una perdita di efficienza. Al riguardo Posner, nel 1975, ha ritenuto che i profitti
possano essere una perdita per la società , perché i profitti rappresentano un incentivo ad
utilizzare risorse reali per ottenere il monopolio. Se esistono profitti di monopolio un’impresa
sarebbe disposta a spendere un importo pari a questi profitti per ottenere il monopolio, questa
spesa prende il nome di ricerca di posizioni di rendita (rent – seeking). In caso di rent – seeking il
calcolo della perdita secca deve comprendere anche quella parte del trasferimento che è
sperperato dall’impresa per ottenere il monopolio. Il costo del monopolio è quindi maggiore all’area
della perdita secca. Posner ricalcola la perdita secca partendo dal presupposto che l’intero importo
del profitto di monopolio sia sperperato nell’attività di ricerca della rendita. Lui pensa che gran
parte della perdita derivante dal monopolio possa essere ricondotta all’esistenza di istituzioni
statali. I profitti di monopolio ed il triangolo della perdita secca dipendono dalla forma della curva di
domanda; analizzando una curva di domanda lineare (p = a – bQ).
Analizzando la curva di domanda (più sottile) si nota che ci sono costi marginali costanti pari a 10,
che il monopolista vende una quantità di monopolio pari a 50 unità ad un prezzo di monopolio pari
a 35, e che la curva è elastica (ξ = -1,4). Il profitto di monopolio è l’area A(sotto B), mentre la
perdita secca è l’area D. Analizzando la curva di domanda (più spessa) che evidenzia la curva di
domanda ruotata verso l’alto, si nota che Il monopolista vende la stessa quantità pari a 50, ma ad
un prezzo di monopolio superiore pari a 50, questo fa sì che l’elasticità diminuisce (ξ = -1,25). Di
conseguenza, il profitto di monopolio aumenta, infatti è dato dall’area A + l’area B, tuttavia
aumenta anche la perdita secca, poiché è data dall’area C + l’area D. Quindi si può concludere
che più la curva diventa anelastica maggiore sarà la perdita secca. I danni al benessere
derivanti dal monopolio possono essere compensati da molti benefici, ad esempio la prospettiva di
ottenere profitti di monopolio potrebbe indurre le imprese a sviluppare nuovi prodotti così da
innovarsi. Se il monopolio non presentasse benefici compensativi è preferibile la concorrenza.
Diversi sono i modi con cui un’impresa può diventare e rimanere monopolista, ad esempio:
2. L’impresa può intraprendere azioni strategiche per prevenire l’entrata di altre imprese.
1. Vantaggio di conoscenza, quindi un’impresa può essere un monopolio perché solo essa
conosce il modo per produrre un determinato prodotto o può produrlo ad un costo inferiore
rispetto alle altre imprese. Un’impresa che detiene un importante segreto industriale affronta
una curva di domanda con pendenza negativa e non teme l’entrata dei rivali o di eventuali
validi prodotti sostitutivi. Inizialmente tutte le imprese nel mercato concorrenziale hanno un
costo marginale costante (m1), cosicché il prezzo di equilibrio (p1) è pari al costo marginale e
la quantità di equilibrio è Q1. In questa situazione, un’impresa scopre una nuova tecnica di
produzione che può mantenere segreta, che le permette di ridurre i costi marginali (passando
da m1 a m0). Essa opera a fronte di una curva di domanda residuale orizzontale al livello p1
fino a Q1, perché molte imprese possono produrre e vendere al prezzo m1. Oltre a Q1 la curva
di domanda residuale coincide con quella dell’industria, perché al di sotto di p1 nessun’altra
impresa può produrre con profitto. Se m0 è vicino a m1 l’impresa può massimizzare i profitti
vendendo ad un prezzo pari a p1. La curva dei ricavi marginali sarà orizzontale fino a quando
la curva della domanda residuale è orizzontale, invece sarà obliqua quando la curva della
domanda residuale è obliqua. Per massimizzare i profitti, l’impresa che conosce il processo
produttivo segreto produce Q0 unità di output nel punto in cui la sua curva dei ricavi marginali
corrisponde alla curva dei costi marginali. L’impresa fissa il prezzo a p0 cosicché nessun’altra
impresa rimanga nel mercato.
2.Monopoli creati dallo Stato: in tal caso lo Stato tutela l’impresa impedendo l’entrata nel
mercato ad altre imprese, un esempio lo si può avere con il diritto sulla proprietà intellettuale e con
i brevetti. In generale le limitazioni statali all’entrata consentono ad alcune imprese di produrre
(quindi non si tratta di monopolio), ma impediscono che le normali pressioni concorrenziali
facciano scendere il prezzo ed i profitti a livelli concorrenziali.
In alcuni mercati la soluzione produttiva efficiente prevede che una sola impresa realizza l’intero
output. Quando i costi totali di produzione aumentano se la produzione è realizzata da due o più
imprese piuttosto che una, l’industria viene definita monopolio naturale. Di conseguenza
un’impresa è un monopolio naturale, solo se può produrre la quantità di mercato ad un costo
inferiore rispetto a quanto possono fare due o più imprese, formalmente si avrà che C(q) < C(q1) +
C(q2) + … + C(q3). Se esiste questa diseguaglianza si dice che una funzione di costo è
subadditiva. Un monopolio naturale presenta spesso costi medi decrescenti e costi marginali
costanti o decrescenti nell’area in cui esso opera; al riguardo si nota che una curva dei costi medi
strettamente decrescente implica la subadditività. Spesso si sostiene che le società di fornitura di
energia elettrica,di gas,telefoniche e di televisione rappresentino dei monopoli naturali (non
sempre è vero).Se la produzione è caratterizzata da economie di scala su tutta la gamma
produttiva il costo medio diminuisce all’aumentare dell’output, quindi è più conveniente che una
sola impresa realizzasse l’intero output. Di conseguenza l’economia di scala è una condizione
sufficiente, ma non necessaria, per avere un monopolio naturale, poiché questa forma di mercato
si può verificare anche quando il costo medio non scende sempre al crescere del prodotto.
Spesso si associano gli elevati profitti con il monopolio o con la troppa poca concorrenza; i profitti
normali vengono associati con la concorrenza; ed infine le perdite vengono associate alla troppa
concorrenza. Tuttavia, nessuna di queste associazioni sono corrette, questo si può dimostrare
analizzando tre aspetti:
1. Per ottenere profitti superiori a quelli normali non per forza si deve avere di potere di
monopolio, poiché la scarsità delle risorse potrebbe portare alla determinazione di prezzi
elevati, così da far trarre vantaggio a coloro che le possiedono.
2. Il monopolio, non sempre consente di ottenere extra - profitti superiori a quelli normali,
poiché nel breve periodo anche un monopolista può riportare delle perdite. Un monopolista a
fronte di un’improvvisa diminuzione della domanda può decidere di continuare ad operare
anche se ottiene profitti di breve periodo negativi e se il prezzo è superiore al costo variabile
medio. Tuttavia nel lungo periodo, se ci sono costi irrecuperabili, nessuna impresa continuerà
ad operare se nell’industria si registrano solo perdite. Come nel caso della concorrenza, la
lunghezza del periodo in cui il monopolista può permettersi di subire delle perdite dipende dalla
durata del breve periodo, cioè dal tempo necessario perché si consumino le attrezzature e gli
impianti. Nel lungo periodo un’impresa concorrenziale ricava profitti pari a zero, mentre un
monopolista ottiene profitti pari o superiori a zero
3. Lo Stato non dovrebbe consentire fusioni che creino un monopolio in un’industria che
subisce perdite di breve periodo, poiché se nel breve periodo la fusione consente alle
imprese di fissare prezzi superiori al livello concorrenziale, essa crea una perdita secca per la
società. Questo significa che l’esistenza nel breve periodo di costi irrecuperabili non può
essere eliminata tramite la fusione. Di conseguenza la fusione modifica solo il livello della
concorrenza tra le imprese.
Un mercato in cui opera un singolo compratore viene definito monopsonio. La decisione del
compratore in merito a quanto comprare influenza il prezzo che deve pagare, di conseguenza egli
stabilisce quanto acquistare scegliendo una coppia di prezzo – quantità sulla curva di offerta
dell’industria. Questo significa, che un monopsonista aumenta la quantità acquistata finché il
valore del consumo aggiuntivo (come si evidenzia dalla curva di domanda) è maggiore o uguale al
costo marginale da sostenere per consumare un’unità in più. Supponiamo che vi sia un solo datore
di lavoro locale (un monopsonista poiché è colui che acquista le prestazioni lavorative) che si trova
di fronte ad una curva di offerta di lavoro con pendenza positiva. Per assumere un lavoratore
aggiuntivo, il monopsonista non solo deve pagarlo ad un tasso salariale più alto, ma deve anche
pagare tutti gli altri lavoratori già assunti al medesimo tasso, poiché solo aumentando il salario si
può indurre altra manodopera ad entrare nel mercato. Quindi il monopsonista assumerà il
lavoratore aggiuntivo solo se il beneficio marginale (rappresentato dalla curva di domanda) supera
il costo marginale di impiego di una persona in più. Per un monopsonista il costo marginale
sostenuto per acquistare unità aggiuntive è descritto da una curva di spesa marginale, analoga alla
curva dei ricavi marginali. Essa si trova al di sopra della curva di offerta con pendenza positiva
perché il monopsonista deve aumentare il salario corrisposto a tutti i lavoratori se vuole assumere
una persone in più. Un monopsonista che massimizza i profitti assume Lm lavoratori, cioè il livello
di occupazione in cui i benefici marginali, rappresentati dai punti della curva di domanda, sono
uguali alla spesa marginale. Poiché la curva di spesa marginale si trova sopra la curva di offerta, il
monopsonista assume meno lavoratori di quanto farebbe un’industria concorrenziale, in cui
l’occupazione sarebbe pari a Lc lavoratori (determinata dall’intersezione tra la curva di domanda e
la curva di offerta). Il tasso salariale in monopsonio (wm) è più basso di quello concorrenziale (wc).
Il potere di monopsonio può essere definito come la capacità di fissare i prezzi degli input sotto il
livelli concorrenziali. Nella soluzione di monopsonio (Lm, wm) si ha un divario tra la curva di
domanda e la curva di offerta, questo divario rappresenta la perdita di efficienza (perdita secca).
I mercati con una maggiore probabilità di un monopsonio sono quelli in cui le risorse sono riservate
a pochi impieghi, tuttavia il monopsonio può non perdurare nel lungo periodo, poiché nessun
imprenditore sarà disposto a produrre nuovi input specifici ad un singolo scopo se otterrà una
remunerazione più bassa di quella che otterrebbe con una produzione più ampia. In altri termini se
le risorse nel lungo periodo sono utilizzabili da più industrie, la curva di offerta di lungo periodo
tende ad essere piatta, quindi molto elastica, in tal caso è impossibile che si determini un potere di
monopsonio poiché il prezzo non può essere abbassato al di sotto di quello concorrenziale.
2. Imprese dominanti, cioè imprese price makers che, quindi, fissano il prezzo e che possiedono
una grande quota di mercato. Quando si verifica l’entrata nel mercato di imprese marginali,
l’impresa dominante non può più praticare un prezzo superiore al punto di minimo del costo
totale medio delle nuove imprese. Che un’impresa dominante possa esercitare o meno il
potere di mercato nel lungo periodo, dipende in modo determinante dal: numero di imprese che
possono entrate nell’industria; dalla differenza di costi fra le varie imprese; ed infine dalla
velocità con cui avviene l’entrata.
Esistono diverse ragioni che fanno sì che alcune imprese raggiungono un notevole potere di
mercato, al contrario di altre:
1. Le imprese dominanti possono avere costi inferiori rispetto alle imprese marginali,
poiché ad esempio è più efficiente delle altre,grazie a una migliore gestione o tecnologia
(potrebbe essere anche un brevetto); oppure può avere accumulato maggiore conoscenza del
mercato dato che da più tempo ci operi; o infine potrebbe aver ricevuto aiuti da parte dello
Stato.
2. Le imprese dominanti possono avere un prodotto migliore, questo risultato può essere
ottenuto grazie alla fedeltà dei consumatori o dalle diverse azioni economiche.
Il numero (n) di imprese marginali è fisso, quindi l’impresa dominante può aumentare il prezzo
dell’industria senza indurre nuove imprese ad entrare;
L’impresa dominante conosce la curva di offerta delle imprese marginali S(p) , questa curva è
crescente rispetto al prezzo.
Le ultime due ipotesi assicurano che l’impresa dominante disponga a priori di un livello informativo
sufficiente per fissare in modo ottimale il proprio livello di output. Immaginandoci di gestire
un’impresa dominante, si potrebbe pensare che date le grandi dimensioni si potrebbe far salire il
prezzo di mercato riducendo l’output. tuttavia così facendo si fa crescere anche l’output delle
imprese marginali, poiché la loro curva di offerta è crescente rispetto al prezzo. Di conseguenza
l’output dell’industria diminuisce meno di quanto si vorrebbe ed il prezzo non aumenta nella
proporzione desiderata. Di conseguenza il problema a cui vanno incontro le imprese dominanti è
più complesso delle imprese monopoliste, poiché oltre a considerare la curva di domanda del
mercato, e la curva dei costi marginali devono tenere presente anche i comportamenti delle
imprese marginali. Per massimizzare i profitti, le imprese dominanti potrebbero seguire il
ragionamento di lasciare libere le imprese marginali di vendere quanto vogliano al prezzo di
mercato, fissato dalle imprese price makers, poiché l’insieme delle imprese marginali non è in
grado di produrre un output sufficiente a coprire tutta la domanda del mercato. Di conseguenza
l’impresa dominante godrà di una situazione di monopolio per la parte di mercato
residuale ,potendo così determinare l’output ottimale. Nel grafico successivo, si può evincere che:
La figura a sinistra, mostra la curva di domanda del mercato, D(p), e la curva di offerta di
un’impresa marginale di tipo concorrenziale, tale curva è la curva dei costi marginali che giace
al di sopra del punto di minimo della curva di costo totale medio. Per livelli di prezzo superiori a
p segnato ciascuna impresa marginale produce profitti positivi; per livelli di prezzo uguali a p
segnato ciascuna impresa marginale produce profitti uguali a zero; infine per livelli di prezzo
inferiori a p segnato ciascuna impresa marginale chiude e l’impresa dominante diventa
monopolista. La curva di offerta delle imprese marginali, S(p), è la somma orizzontale delle
curve di offerta delle singole imprese marginali, quindi formalmente sarà S(p) = nqf(p),dove n è
il numero delle imprese marginali e qf l’output dell’impresa marginale rappresentativa. . La
curva di domanda residuale dell’impresa dominante, Dd(p), è la differenza orizzontale tra la
curva di domanda di mercato e la curva di offerta delle imprese marginali, di conseguenza
formalmente si ha che: Dd(p) = D(p) – S(p).
Nella figura a destra, si nota che la curva di domanda di mercato si trova al di sopra della curva
di domanda residuale per livelli di prezzo superiori a p segnato, invece coincide con essa per
livelli di prezzo inferiori a p segnato. Questo significa che le imprese marginali soddisfano tutta
o gran parte della domanda di mercato se il prezzo è superiore a p segnato, ma escono dal
mercato se il prezzo scende sotto lo stesso livello di prezzo. Al livello di p* la quantità fornita
dalle imprese marginali è pari alla quantità richiesta dal mercato, così l’impresa dominante non
avrà domanda residuale. L’impresa dominante massimizza i profitti scegliendo un prezzo tale
per cui il suo costo marginale è uguale al suo ricavo marginale (p**). La curva di ricavo
marginale deriva dalla curva di domanda residuale ed ha due sezioni distinte, poiché esiste un
tratto di discontinuità nel punto in cui si incontrano la curva di domanda residuale e la domanda
di mercato. Dal momento che la curva dei ricavi marginali è discontinua si possono avere due
tipi di equilibri, il cui verificarsi dell’uno o dell’altro dipende dalla curva di costo dell’impresa
dominante:
L’impresa dominante fissa un prezzo basso le imprese marginali chiudono per evitare di
incorrere in perdite, così l’impresa dominante è un monopolista;
L’impresa dominante pratica un prezzo elevato fa profitti positivi e le imprese marginali fanno a
loro volta profitti superiori o uguali a zero; questo equilibrio si verifica se i costi dell’impresa
dominante non sono nettamente inferiori a quelli delle imprese marginali. La curva di costo
marginale dell’impresa dominante, MCd, interseca il primo segmento con pendenza negativa
della curva di ricavo marginale, MRd. L’impresa dominante sceglie di produrre il livello di output
Qd al prezzo di p; al medesimo livello di prezzo, la differenza tra la domanda di mercato, Q, e
l’output dell’impresa dominante, Qd, è l’offerta delle imprese marginali, Qf. Se i costi
dell’impresa dominante sono elevati, le imprese marginali non abbandonano l’attività, poiché i
profitti dell’impresa dominante sono massimizzati ad un prezzo così elevato che le imprese
marginali ottengono profitti positivi. I profitti delle imprese dominanti sono indicati con πd,
mentre i profitti delle imprese marginali sono indicati con πf.
Al contrario del precedente modello, in cui era vietata l’entrata di altre imprese nel mercato, ora si
vuole analizzare un modello nel quale si rende possibile l’entrata ad un numero illimitato di
imprese. In tal caso l’impresa dominante non può fissare un prezzo elevato come farebbe nel caso
di entrata bloccata. Alla base di questo modello ci sono diverse ipotesi:
L’impresa dominante conosce la curva di offerta delle imprese marginali S(p) , questa curva è
crescente rispetto al prezzo.
In questo modello le imprese marginali non realizzano profitti nel lungo periodo. Se tutte le imprese
marginali sono uguali e producono, il prezzo di mercato nel lungo periodo non può salire oltre il
loro costo medio, e pertanto saranno al massimo in pareggio. Infatti, se nel lungo periodo esse
ottenessero profitti positivi, altre imprese entrerebbero nell’industria facendo scendere il prezzo al
livello in cui ogni impresa realizza profitti pari a zero. Poiché l’impresa dominante ha costi inferiori
rispetto a quelle marginali, ottiene profitti positivi, che però sono inferiori a quelli che avrebbe se
non si verificasse alcuna entrata. Anche con entrata illimitata l’impresa dominante può detenere
una grande quota di mercato, a condizione che abbia qualche vantaggio di costo. Man mano che
cresce il numero di imprese nell’industria, la pendenza della curva di offerta delle imprese
marginali diminuisce. Pertanto se n diventa molto grande, la curva di offerta delle imprese
marginali diventa orizzontale, quindi se il prezzo è almeno p segnato, le imprese marginali sono in
grado e sono disposte ad offrire qualsiasi quantità domandata dal mercato. Al livello dei prezzi di p
segnato, la curva di domanda residuale dell’impresa dominante è orizzontale, perciò la
corrispondente curva di ricavo marginale è anch’essa piatta. Al di sotto del livello di prezzo p
segnato, la curva di domanda residuale è la domanda di mercato, con pendenza negativa, così la
corrispondente curva dei ricavi marginali ha anch’essa pendenza negativa. Anche in tale modello
la curva dei ricavi marginali corrispondente alla curva di domanda residuale, ha una discontinuità
in corrispondenza dell’angolo della curva di domanda residuale. Quindi anche in questo caso si
hanno due possibili equilibri:
1. Se il costo marginale dell’impresa dominante è relativamente alto, quindi interseca la curva dei
ricavi marginali, il prezzo di equilibrio è p segnato; in questo caso una parte della domanda di
mercato è servita dalle imprese marginali. A questo prezzo ogni impresa marginale ottiene
profitti normali ed è indifferente rimanere in attività o lasciare il mercato. L’ammontare prodotto
dalle imprese marginali dipende dalla struttura dei costi dell’impresa dominante, la quale
determina l’output dell’impresa dominante (Qd). Nell’insieme le imprese marginali producono
un livello di output (Qf) che è dato dalla differenza fra la quantità di mercato e la quantità di
output prodotta dall’impresa dominante, formalmente si ha che Qf = Q – Qd.
Le imprese vogliono formare i cartelli per aumentare i propri profitti, tuttavia essi vengono
massimizzati con le imprese concorrenziali, quindi bisogna capire perché le imprese optano per la
formazione dei cartelli. Nel caso della concorrenza, ogni impresa considera il vantaggio che trae
da una riduzione del proprio output (fa aumentare i prezzi) e non tiene conto degli eventuali
guadagni delle altre imprese che beneficiano della diminuzione dell’output complessivo
dell’industria. Nel caso del cartello, invece, ogni impresa tiene conto dei benefici per tutti i suoi
membri derivanti dalla riduzione dell’output di ciascuna impresa. Questo significa che un’industria
concorrenziale (in cui ogni impresa ignora il beneficio collettivo derivante dalla riduzione del proprio
output) produce più output di un cartello. Ipotizziamo un’industria formata da molte imprese
concorrenziali price takers, le quali in seguito si coordinano per formare un cartello ed operare
come un monopolista. Il grafico che segue (pagina seguente) mostra la curva di costo marginale di
un’impresa tipica; la somma delle curve di costo marginale delle singole imprese è la curva di
offerta dell’industria (denominata MC nella figura a destra). L’output concorrenziale (Qc) è
determinato dall’intersezione tra la curva di offerta e la curva di domanda dell’industria, ciascuna
impresa produce qc unità di output ed il prezzo dell’industria è pari a pc. Analizzando il grafico si
può osservare che al cartello conviene ridurre il livello di output rispetto al livello concorrenziale,
poiché a tale livello il costo marginale del cartello è maggiore dei ricavi marginali. Il cartello
dovrebbe abbassare il livello di output fino a quando i ricavi marginali saranno uguali ai costi
marginali, questa condizione massimizza i profitti (passando da Qc a Qm e facendo salire il prezzo
da pc a pm). Poiché il cartello è costituito da n imprese, questo comporta che ciascuna impresa
riduca l’output (passando da qc a qm), formalmente si ha che: qm = Qm/n,output per ogni impresa.
La decisione di formazione di un cartello è illegale in molti Paesi capitalistici (tra cui gli USA),
tuttavia perchè le imprese decidono di partecipare ad esso?Un primo elemento che influenza la
decisione è sicuramente il guadagno, che permetterebbe che tutte le imprese dell’industria
(eccetto l’azienda che deve decidere) dessero vita ad un cartello. Questo significa che esse
limitando l’output e facendo alzare i prezzi, l’azienda che non si è unita al cartello potrebbe
scegliere liberamente il livello di output produttivo che massimizza il profitto. Questa soluzione ha
un problema: le altre imprese potrebbero indurre l’impresa a partecipare al carrello, altrimenti
nessun’altra impresa ridurrà il proprio output. Così l’impresa si troverà davanti due strade:
partecipare al cartello illegale, ed eventualmente andare incontro a delle multe se lo Stato li
scopra, o non partecipare al cartello. Questo porta a pensare che se la perdita attesa dovuta alla
scoperta da parte dello Stato sia bassa, l’impresa entrerà nel cartello. Tuttavia una volta entrato
nel cartello, andrà sempre alla ricerca di ulteriori margini di profitto, quindi si chiederà perché non
dovrebbe barare e produrre maggiori output, così da massimizzare i profitti (quindi in tal caso
produrrebbe q*, cioè il punto in cui il costo marginale della singola impresa è uguale al pm).
Una volta formato il cartello le imprese, se vogliono avere successo, devono fissare il prezzo. Non
sempre però tutti i cartelli hanno successo, infatti si nota che ci sono cartelli che funzionano in
alcune industrie, e ci sono cartelli che falliscono in altre industrie. Le conoscenze che si
possiedono sono buone per i soli cartelli scoperti, ma non lo sono altrettanto per tutti quei cartelli
che sfuggono alla giustizia. Alcune ricerche empiriche indicano che i cartelli che vengono indagati
dalle autorità antitrust sono quelli non remunerativi; altre ricerche empiriche suggeriscono che i
cartelli tendono a formarsi nelle industrie meno redditizie. Le grandi imprese possono decidere in
modo indipendente di comportarsi come se avessero sottoscritto un accordo di cartello senza
realizzare un incontro formale, infatti ognuna di essa può ridurre l’output sperando che le altre
facciano lo stesso. Quando le imprese oligopolistiche coordinano le loro azioni nonostante la
mancanza di un accordo di cartello esplicito, la collaborazione che ne deriva viene definita
collusione tacita. I fattori che determinano la formazione di un cartello sono tre:
2. Basse perdite attese, quindi i cartelli si formano solo se i membri non prevedono che le
autorità governative li individuino e li puniscano severamente.
3. Bassi costi organizzativi, quindi i cartelli si formeranno solo se i costi di coordinamento non
siano troppo elevati, di conseguenza più complessi sono i negoziati, maggiore sarà il costo
insito nella formazione del cartello. Diversi sono i fattori che contribuiscono a mantenere basso
il costo organizzativo:
a. Solo poche imprese fanno parte del cartello ,ed è per questo che l'autorità governative
hanno difficoltà nell'identificarlo. Al riguardo dei 606 casi di cartello studiati, il numero
medio delle imprese coinvolte in ciascuno di essi era 16,7, mentre la mediana era 8, e
la moda era 4. Il numero delle imprese è un fattore essenziale, non sono nei cartelli
illegali, ma anche in quelli legali.
Un cartello può non avere successo se i membri vogliono deviare dall’accordo. Alcuni fattori che
permettono la formazione di un cartello contribuiscono, anche, ad individuare deviazioni ed a far
rispettare l’accordo. Le deviazioni sono più facili da individuare se: l’industria ha poche imprese
attive, poiché il cartello può controllare più agevolmente ciascuna delle imprese e le loro quote di
mercato (indice di riduzione dei prezzi); oppure se i prezzi non variano a causa di fattori esogeni e
sono conoscenza comune; o infine se tutti i membri del cartello vendono prodotti omogenei nel
medesimo punto della catena di distribuzione. In determinate circostanze il cartello può attuarsi
facilmente, questo perché le imprese non hanno incentivo a deviare se:
La loro curva dei costi marginali è anelastica , quindi è disincentivata perché le costerebbe
troppo aumentare l’output. Di conseguenza se la curva di costo marginale fosse verticale q*
sarebbe troppo vicino a qc;
Salvo che un cartello possa individuare le deviazioni ed impedire che si verifichino, le imprese
partecipanti possono tagliare i prezzi e distruggere il cartello. Oggi molti economisti e giuristi sono
a conoscenza di molti meccanismi che aiutano il cartello a far rispettare gli accordi. I principali
meccanismi sono:
c. Mantenere fisse le quote di mercato, così facendo si riduce l’incentivo per ogni impresa a
ridurre i prezzi, poiché se lo facesse la quota di mercato aumenterebbe e se le quote sono
facilemente osservabili,le altre imprese se ne accorgerebbero immediatamente;
d. Inserire nell’accordo clausole del tipo “nazione privilegiata” , tale clausola garantisce al cliente
che il venditore(altra imprese del cartello) non sta vendendo ad un altro acquirente lo stesso
bene ad un prezzo inferiore;
e. Inserire nell’accordo clausole del tipo “garantiamo il prezzo più basso” , tale clausola garantisce
all’acquirente che se un’altra impresa offrisse un prezzo inferiore, il venditore gli venderà il
bene al medesimo prezzo o lo libererà dal contratto;
f. Stabilire prezzi di intervento (trigger price) , quindi tutte le imprese aderenti al cartello
potrebbero convenire che se il prezzo di mercato scende oltre un certo livello (prezzo di
intervento), ogni impresa espanderà l’output al livello di quello precedente il cartello, quindi
tutte le imprese abbandoneranno l’accordo di cartello. I prezzi di intervento vengono stabiliti in
quei mercati dove è difficile capire la variazione dei prezzi (se dipende dai costi o da deviazioni
del cartello.Tuttavia se l'accordo si infrange temporaneamente,può essere ripristinato subito.
Alcuni osservatori, osservando grandi fluttuazioni dei prezzi in un mercato, notano che le imprese
cercano di formare un cartello che però continua ad infrangersi; quest’osservazione porta ad
affermare che l’intervento dello Stato risulta essere non necessario. Queste fluttuazioni, tuttavia,
potrebbero rientrare in una politica (razionale) di lungo periodo del cartello. Le guerre dei prezzi
sono più probabili durante inaspettate fasi decrescenti del ciclo economico (recessioni e
depressioni) quando è probabile che il prezzo scenda in seguito ad una minore domanda.Di
conseguenza durante queste fasi ci attendiamo che i cartelli abbiano termine. Altri economisti,
invece, sostengono che le guerre dei prezzi dovrebbero verificarsi in periodi di domanda elevata e
ritengono che il beneficio derivante dalla riduzione del prezzo di cartello è massimo durante le fasi
di espansione.
Le imprese che rispettano gli accordi stipulati formando il cartello sono poco accondiscendi nei
confronti delle imprese che producono più di quanto prescritto. Gli scartellamenti portano un
aumento del benessere dei consumatori, poiché le imprese che aumentano l’output fanno sì che il
prezzo si abbassi. Per capire gli effetti del mancato rispetto delle regole di cartello da parte di
alcune imprese si può, ad esempio, immaginare un’industria composta da 50 imprese con funzioni
di costo identiche e nella quale non possono entrare altre imprese. Di queste 50 imprese, j imprese
non rispettano l’accordo, di conseguenza producono quanto desiderano e sono price taker. In tal
caso il cartello opera come un’impresa dominante che concorre con imprese marginali di tipo
concorrenziale. La domanda residuale cui si trova di fronte il cartello si ottiene sottraendo la curva
di offerta delle imprese marginali dalla domanda residuale. Il grafico a destra mostra la curva di
domanda residuale che si trova sotto la curva di domanda del mercato ai prezzi superiori al livello
di chiusura delle imprese concorrenziali (p = 10). La curva di domanda residuale forma un angolo
nel livello di chiusura delle imprese concorrenziali. Poiché le imprese del cartello hanno le
medesime funzioni di costo di quelle non appartenenti al cartello, neppure quest’ultimo può
permettersi di produrre sotto a p = 10, quindi la parte inferiore della curva di domanda residuale
non interessa. Il cartello che massimizza i profitti sceglie l’output a 240 unità, poiché è il punto in
cui la curva dei ricavi marginali uguaglia la curva dei costi marginali. Quest’output determina il
prezzo delle imprese che appartengono al cartello (p = 24, si nota guardando la curva della
domanda residuale); invece le imprese che non appartengono al cartello, al medesimo livello di
prezzo, riusciranno a produrre 280 unità.
Capitolo 6: L’oligopolio
L’analisi delle forme di mercato presenta un solo modello di concorrenza perfetta, un solo modello
di monopolio, ma tanti modelli di oligopolio; con quest’ultimo termine si identifica un mercato in cui
operano un numero ridotto di imprese indipendenti, le quali però sono consapevoli l’una
dell’esistenza dell’altra. Nel monopolio esiste una sola azienda che quindi non ha rivali; nella
concorrenza perfetta, le singole imprese concorrenziali sono troppo piccole per influire sul prezzo
dell’industria, quindi nessuna di esse tiene conto delle iniziative dei suoi rivali; infine nell’oligopolio
sono presenti solo poche imprese, le quali possono influire sul prezzo di mercato e quindi sui
profitti dei rivali, di conseguenza devono prendere in considerazione il comportamento delle
imprese concorrenti. I fattori che influiscono sul successo di un cartello, incidono anche sulle
modalità di interazione di rivali oligopolistiche; per questo motivo Stigler ha considerato che la base
per comprendere le forze che operano in un oligopolio fosse la teoria dei cartelli. Gli oligopoli sono
comuni nei mercati in cui i costi di trasporto ed i dazi doganali sono così elevati che non è
conveniente inviare i prodotti al di fuori di una piccola regione geografia o mercato locale. Le
ipotesi che stanno alla base di un oligopolio sono: i consumatori accettano il prezzo come
dato(price takers); tutte le imprese producono prodotti omogenei; il numero di imprese rimane
costante nel tempo; ogni impresa stabilisce solo il prezzo o l’output; ed infine le imprese nel loro
insieme hanno potere di mercato, quindi possono fissare il prezzo sopra il costo marginale. Il
prezzo di equilibrio in un mercato oligopolistico viene fissato ad un livello intermediario tra quello
concorrenziale e quello monopolistico. I profitti attesi da ogni impresa oligopolistica vengono
massimizzati quando il ricavo marginale atteso è uguale al costo marginale (RM=CM). Tutti i
modelli di oligopolio possono essere visti come esempi di teoria dei giochi non cooperativi che
utilizza modelli formali per analizzare i casi di conflitto e di collaborazione tra i giocatori (cioè le
imprese). Un gioco è una particolare situazione di competizione in cui è importante il
comportamento strategico, quindi la vincita di ogni impresa dipende dalle azioni di tutte le imprese.
I modelli di oligopolio differiscono per il tipo di azioni svolte dalle imprese o per l’ordine con cui
possono effettuarle. Al riguardo i modelli di oligopolio più noti sono: il modello Cournot, il modello
Bertrand ed il modello Von Stackelberg. Nei modelli Cournot e Von Stackelberg le imprese
stabiliscono i livelli di output, mentre nel modello di Bertrand le imprese fissano i prezzi. Nei modelli
Cournot e Bertrand le imprese agiscono contemporaneamente, mentre in quello Von Stackelberg
un’impresa stabilisce il livello di output prima delle altre. Un’altra distinzione che caratterizza i
mercati di oligopolio, si può vedere nella distinzione tra i mercati che durano un solo periodo ed i
mercati che durano in molti periodi. Un modello di gioco uniperiodale (o gioco statico) è
appropriato per un mercato rappresentato da una fiera di prodotti artigianali in cui tutte le imprese
di un Paese si incontrano una sola volta, quindi dopo aver fissato il prezzo o l’output non hanno la
possibilità di osservare i diversi comportamenti. Un modello di gioco multiperiodale (o gioco
ripetuto), invece, è adatto per analizzare il caso di due negozi di prodotti artigianali posti l’uno
accanto all’altro che concorrono tra loro giorno dopo giorno, quindi hanno il tempo per modificare
le loro convinzioni sul comportamento dei rivali e per poter utilizzare strategie credibili (azioni che
rappresentano scelte ottimali) più complesse.
La teoria dei giochi analizza le interazioni tra individui razionali che predono decisioni e che non
sono in grado di prevedere con certezza gli esiti delle loro decisioni. I modelli di comportamento
oligopolistico possono essere considerati giochi di strategie o di azioni. I giochi oligopolistici
presentano tre elementi comuni: pluralità di giocatori; ogni giocatore tenta di massimizzare il
proprio profitto; ed infine ogni impresa è consapevole che le azioni dei rivali possono influire sul
suo profitto. I profitti di equilibrio nel mercato oligopolistico dipendono dal numero di imprese, dalle
regole del gioco e dalla durata di quest’ultimo. I principali modelli di oligopolio uniperiodale
differiscono nelle regole del gioco.
I primi lavori sulla teoria dell’oligopolio consideravano un solo periodo, quindi erano giochi statici. I
tre modelli di oligopolio più noti, ance se risalgono a prima dell’introduzione della teoria dei giochi,
possono essere interpretati come modelli di tale teoria. Tutti i modelli di oligopolio uniperiodali
utilizzano il concetto di equilibrio di John F. Nash( cioè che nessuna impresa vuole cambiare
strategia). In atri termini, un insieme di strategie è definito equilibrio di Nash, se mantenendo
costanti le strategie di tutte le altre imprese, nessuna impresa dell’industria può ottenere una
vincita maggiore variando la propria strategia. I tre modelli di oligopolio uniperiodali più noti sono
nati prima della teoria dei giochi ,ma possono essere interpretati da tale teoria,e sono:
1. Il modello di Cournot (il più usato oggi) ipotizza che ogni impresa agisca in modo
indipendente e tenti di massimizzare i profitti scegliendo l’output. Il modello inizia Ipotizzando
una situazione di duopolio,per poi verificare cosa succede al crescere del numero delle
impres.Nel modello di Cournot, le ipotesi sono:
d. La curva di domanda è una funzione lineare del prezzo, data da: Q(p) = 1000 – 1000p
(quindi se p è 1,Q sarà 0 );
L’impresa per scegliere il suo livello di output, quindi dovrà considerare il comportamento dell’altra
impresa, presente nell’industria. Infatti, se l’impresa 1 è convinta che l’impresa 2 venderà q2 unità
di output, l’impresa 1 potrà stabilire q1 unità di output per massimizzare i propri profitti, cioè quella
quantità che corrisponde al punto in cui la curva dei ricavi marginali interseca la curva dei costi
marginali(RM=CM). In altre parole l’impresa 1 può vendere una quantità pari alla domanda di
mercato meno q2, così facendo essa affronta una curva di domanda residuale, quindi formalmente
q1 = Q(p) – q2. La curva di domanda residuale si ottiene spostando verso sinistra di q2 unità di
output la curva di domanda di mercato.
Nel grafico seguente si ipotizza una q richiesta di 1000 meloni e q2 fissato a 240 unità.L’impresa 1
ha quindi un monopolio su quei consumatori non soddisfatti dall’impresa 2,ottenendo una
massimizzazione dei profitti nel punto in cui MC = RM.
Il rapporto tra la quantità che massimizza i profitti dell’impresa 1 e la quantità dell’impresa 2, può
così essere formalizzata: q1 = R1 (q2). Quest’equazione viene definita funzione di risposta
ottimale (o funzione di reazione) e mostra la migliore azione da parte di un’impresa date le sue
convinzioni sull’azione dell’impresa rivale. Per ottenere la funzione di risposta ottimale è
necessario ottenere algebricamente il punto in cui si ha l’intersezione tra la curva dei ricavi
marginali e la curva dei costi marginali. Nelle ipotesi si è detto che se la curva di domanda
residuale fosse lineare, così dicendo, anche la curva dei ricavi marginali sarà lineare ed avrà il
doppio della pendenza(poichè la curva MR taglia l’asse della quantità a metà della quantità della
curva di domanda residuale). In generale la curva di domanda residuale interseca la curva dei
costi marginali a 720 – q2; invece la curva dei ricavi marginali relativi alla curva di domanda
residuale interseca la curva dei costi marginali a (720 – q2) / 2. Quindi formalmente la funzione di
risposta ottima dell’impresa 1 è: q1 = R1 (q2) = 360 – q2 / 2; mentre dell’impresa 2 è: q2 = R2 (q1)
= 360 – q1 / 2.Se q2=0 l’impresa 1 produce 360(livello output di monopolio).In caso di nessuna
concorrenza la curva di domanda residuale è la domanda di mercato:in questo caso dato che tale
domanda si interseca con la curva dei MC a 720,la curva RM interseca MC a metà ,ovvero
360.Viceversa l’impresa 1 non cessa di produrre fino a q2=720.Il punto di intersezione delle
funzioni di risposta ottimale è detto equilibrio di Cournot, in tale punto nessuna impresa ha un
incentivo a cambiare condotta,poichè ottiene una massimizzazione dei profitti .Un’impresa non è
disposta a produrre in un punto che non faccia parte della funzione di risposta ottimale,perchè
altrimenti avrebbe un profitto inferiore.L’unico punto in cui entrambe le imprese si trovano
rispettivamente nelle loro funzioni di risposta ottimale è il punto di intersezione fra le due funzioni.
In un modello uniperiodale in cui le imprese scelgono solo i livello di output, senza nessun
incentivo a cambiarlo, è per definizione un equilibrio di Cournot, quindi per ogni combinazione di
output tale equilibrio è l’unico plausibile.Tale equilibro è un caso particolare dell’equilibrio di
Nash ,in cui le imprese hanno strategie relative alle quantità e viene definito equilibrio di Cournot-
Nas o equilibrio di Nash nelle quantità. L’assenza di una base teorica relativa alle aspettative ,è
una critica al modello di Cournot e ad altri modelli statici: infatti l’impresa per definire quanto
produrrà l’impresa rivale, non potrà fare uso dell’esperienza, poiché si andrebbe ad inserire un
elemento dinamico in un modello statico. Questa critica ha indotto Stigler a sviluppare la sua
analisi del cartello e ha indotto i teorici dei giochi a elaborare modelli di giochi multiperiodali.
Volendo fare un confronto tra l’equilibrio di Cournot e l’equilibrio di cartello, si nota che nel primo le
imprese realizzano profitti inferiori rispetto a quelli che ottengono formando un cartello, mentre i
consumatori godranno un benessere maggiore nell’equilibrio di Cournot. Il margine prezzo – costo
di Lerner ( che misura il potere di mercato delle imprese,più l’indice è vicino a 1 più è alto il potere
di mercato ) (p – MC) / p è inferiore nell’oligopolio di Cournot rispetto a quello che si realizza con
un cartello. Le imprese del modello di Cournot hanno un incentivo a formare un cartello. Il profitto
più elevato che un’impresa potrebbe ricavare, mantenendo costante quello dell’altra impresa, è
rappresentato dalla frontiera delle possibilità di profitto. L’equilibrio di Cournot si trova ben
all’interno della frontiera delle possibilità di profitto, e le imprese hanno pertanto incentivo a
colludere, in modo da aumentare i profitti ai livello della frontiera.
Inoltre volendo fare un confronto tra l’equilibrio di Cournot e l’ottimo sociale (situazioni in cui il
prezzo è uguale al costo marginale, come accade nell’equilibrio concorrenziale), si nota che se
entrambe le imprese fissano un prezzo uguale al costo marginale, esse otterranno un profitto pari
a zero per ogni unità di output venduta, quindi le imprese saranno indifferenti rispetto al numero di
output da produrre. Nella situazione di ottimo sociale viene prodotto un livello di output doppio
rispetto a quello del cartello. L’equilibrio del duopolio alla Cournot si trova, quindi, tra l’equilibrio
concorrenziale e l’equilibrio monopolistico. Se ci sono più di 2 imprese identiche si può utilizzare lo
stesso tipo di analisi per derivare l’equilibrio di Cournot; la funzione di risposta ottimale dell’impresa
1 è q1 = R1 (q2…qn). Se le altre n-1 imprese producono una quantità identica di output la funzione
di risposta ottimale dell’impresa 1 è 360 – q (n - 1)/2. Le altre imprese hanno funzioni di risposta
ottimale simili, quindi la quantità di equilibrio di Cournot è q = 720 / (n+1) ed il prezzo di equilibrio è
p = (1 + 0,28n) / (n + 1). Al crescere di n diminuisce l’output per impresa e cresce l’output
dell’industria, quindi scende il prezzo. L’effetto dell’introduzione di un’ulteriore impresa sulla
quantità e sul prezzo di equilibrio inizialmente è molto forte, ma tende a svanire all’aumentare del
numero di imprese. I consumatori godono di un maggiore benessere e le imprese ottengono profitti
inferiori al crescere del numero di imprese.
2. Il modello di Bertrand, nel criticare il contributo di Cournot, Joseph Bertrand affermava che
nei mercati oligopolistici se non si assume che siano le imprese a fissare i prezzi, è difficile
individuare quale altro soggetto lo possa fare. Cournot facendo scegliere alle imprese l’output e
non il prezzo, non riesce a spiegare il meccanismo mediante il quale vengono determinati i
prezzi. Nel modello di Bertrand le imprese, anziché fissare l’output, fissano i prezzi. Se i
consumatori hanno informazioni complete e si rendono conto che le imprese producono
prodotti omogenei acquisteranno dall’impresa che fissa il prezzo più basso. Nel modello di
Bertrand ogni impresa ritiene che il prezzo del rivale sia fisso, così facendo con un leggero
taglio dei prezzi, l’impresa è in grado di servire tutto il mercato. Nell’equilibrio di Bertrand le
imprese ottengono profitti pari a zero, quindi il prezzo di equilibrio è pari a quello dell’ottimo
sociale (equilibrio concorrenziale). Le ipotesi che sottostanno all’equilibrio di Bertrand sono:
a. L’entrata bloccata;
d. La curva di domanda è una funzione lineare del prezzo, così si avrà che: Q(p) = 1000 –
1000p;
e. Ogni impresa ha nessun costo fisso ed un costo marginale di produzione costante , pari
a p = 0,28
***i numeri sono ovviamente degli esempi(probabilmente fanno riferimento al grafico di prima***
Ipotizzando che l’impresa 1 pratichi un prezzo p1 maggiore del costo marginale, se l’impresa 1
riesce a vendere a questo prezzo ottiene un profitto positivo. Tuttavia, poiché entrambe le imprese
producono prodotti omogenei, i consumatori acquisteranno dall’impresa 2, se p2 < p1; invece,
nessuno consumatore acquisterà dall’impresa 2 se p2 > p1; infine per i consumatori sarà
indifferente comprare dall’impresa 1 o dall’impresa 2 se p1 = p2. Di conseguenza la domanda
residuale dell’impresa 2 è zero quando p2 è superiore a p1, è uguale alla domanda di mercato
quando p2 è inferiore a p1, ed è orizzontale quando i due prezzi sono uguali. Quando entrambe le
imprese fissano un prezzo pari al costo marginale, nessuna ottiene un incremento nei profitti
modificando il prezzo, poiché se un’impresa abbasso il prezzo otterrà una perdita, invece se lo
aumenterà non troverà alcun consumatore pronto ad acquistare l’output. L’unico possibile
equilibrio di Bertrand è p = MC.
Utilizzando le funzioni di risposta ottimale nello spazio dei prezzi si nota che dato un qualsiasi
prezzo p1, che l’impresa 2 ritiene sarà praticato dall’impresa 1, l’impresa 2 vorrà fissare un prezzo
p2 inferiore a p1, ma nello stesso tempo maggiore al costo marginale. questo significa che la
funzione di riposta ottimale dell’impresa 2 si troverà sotto la bisettrice degli assi a partire dal punto
di coordinate (MC, MC). Analogamente la funzione di risposta ottimale dell’impresa 1 si trova
leggermente al di sopra della bisettrice. L’unica intersezione di queste funzioni di risposta ottimale,
quindi l’unico equilibro, si ha nel punto in cui il prezzo è uguale al costo marginale.
Quando i beni sono omogenei e tutte le imprese praticano il medesimo prezzo, la curva di
domanda residuale di un’impresa di Bertrand è ad angolo, così grazie ad una variazione del
prezzo si può ottenere l’intera quota di mercato. Questo nella realtà avviene raramente, infatti
spesso le curve di domanda delle singole imprese sono continue (come nel modello di Cournot)
poiché l’output di ogni impresa varia leggermente in seguito a piccole variazioni di prezzo. Nel
1897 Francis Edgeworth mostrò che se le imprese hanno capacità produttiva limitata non esiste un
equilibrio statico di Bertrand con un unico prezzo. Per analizzare il modello di Edgeworth
supponiamo che la capacità produttiva massima per ogni singola impresa sia di 360 unità di output
ad un prezzo uguale al costo marginale(p=MC). Questo significa che ad un livello di prezzo di p =
0,28 le curve di costo medio e marginali di ogni impresa sono orizzontali fino a 360 unità di output
e poi diventano verticali. In tali situazioni l’equilibrio di Bertrand non è più un equilibrio, poiché in
equilibrio nessuna delle due imprese dovrebbe essere incentivata a modificare il prezzo. Questo,
tuttavia, non si verifica poiché ogni impresa è indotta ad aumentare il prezzo, infatti nella parte di
quota di mercato che non potrà essere soddisfatta dall’altra impresa, l’impresa restante potrà
comportarsi come un monopolista. Di conseguenza non esiste un equilibrio statico con un unico
prezzo.
3. modello leader – follower di Von Stackelberg prevede che le imprese fissano l’output ed
una di esse (impresa leader) agisce prima delle altre (imprese followers). In alcune industrie
fattori storici, istituzionali o fattori giuridici stabiliscono quale sia l’impresa leader. Ipotizziamo
che l’impresa 1 sia l’impresa leader, mentre l’impresa 2 sia l’impresa follower. L’impresa 1 sa
che una volta fissato il proprio output, q1, l’impresa 2 userà la sua funzione di risposta ottimale
alla Cournot per scegliere l’output che massimizza i suoi profitti, quindi q2 = R2 (q1).
Nell’equilibrio di Von Stackelberg l’impresa leader ottiene un profitto maggiore rispetto
all’equilibrio di Cournot, mentre l’impresa follower ne otterrà uno minore. Questo significa che
sapere come si comporterà l’impresa rivale (lo sa perché hanno medesimi costi) consentirà
all’impresa leader di avvantaggiarsi a spese del follower. Sottraendo l’output dell’impresa
follower dalla domanda totale, l’impresa leader calcola la sua curva di domanda residuale;
l’impresa 1 sceglie l’output q1 dove il suo ricavo marginale è uguale al costo marginale.
L’impresa 1 massimizza i profitti producendo 360 meloni,l’impresa 2 ne produce solo 180 (livello
output determinato sostituendo il valore 360 nella sua funzione di risposta ottimale).
Il gioco di Von Stackelberg può essere analizzato utilizzando anche la rappresentazione in forma
estesa (albero decisionale) che mostra l’ordine in cui le imprese effettuano le mosse. Esiste un
numero infinito di combinazioni di output che le due imprese possono produrre. Nel modello di Von
Stackelberg, l’impresa leader e l’impresa follower producono, rispettivamente, più e meno output
rispetto a quanto accadrebbe ad un’impresa di Cournot. L’output totale nel modello di Von
Stackelberg è maggiore rispetto a quello nel modello di Cournot, ma è minore rispetto a quello di
Bertrand. Il prezzo nel modello di Von Stackelberg è maggiore rispetto a quello nel modello di
Bertrand, ma è minore rispetto a quello di Cournot.
In uno dei primi modelli di oligopolio le imprese affrontano curve di domanda residuale. Nella
versione di Sweezy un oligopolista ritiene che i rivali eguaglieranno ogni sua riduzione di prezzo,
mentre seguiranno lentamente gli aumenti di prezzo. Questo modello può essere presentato come
la risposta ottimale da parte di un’impresa ad una strategia di imitare le riduzioni di prezzo, ma
ignorare gli aumenti di prezzo. In tale situazione il prezzo p* è quello che massimizza i profitti nel
punto in cui qualsiasi curva di costo marginale intersechi la sezione verticale della curva dei ricavi
marginali. Il modello Sweezy si basa su una teoria che considera probabile che i prezzi rimangano
invariati per piccole variazioni dei costi. Questa teoria, tuttavia, non dice nulla su come venga
fissato il prezzo e nemmeno quale sarà la nuova situazione di equilibrio dato il nuovo livello dei
prezzi.Inoltre la teoria prevede che non ci sarà alcun angolo (ovvero che i prezzi diventano più
flessibili ) quando gli oligopolisti collaborano e che quello che comporta grandi variazioni nei costi
porta a una variazione del prezzo (a differenza di piccole variazioni).Stigler respinge questa
previsione screditando la teoria della domanda ad angolo.
In molti mercati le imprese sono impegnate nella concorrenza monopolistica, cioè imprese che
hanno sia potere di mercato, che la capacità di aumentare i prezzi sopra il costo marginale. tali
imprese, tuttavia realizzano profitti pari a zero. Questa struttura di mercato (concorrenza
monopolistica) unisce le caratteristiche del monopolio (potere di mercato) e della concorrenza
perfetta (profitti π = 0). Un’industria presenta concorrenza monopolistica se l’entrata è libera
(quindi nel lungo periodo i profitti sono pari a 0) e se l’impresa affronta una curva di domanda
residuale con pendenza negativa (quindi le imprese hanno potere di mercato). Una ragione per cui
le imprese affrontano una tale curva di domanda residuale è che i consumatori considerano il suo
prodotto diverso da quello di altre imprese dell’industria, quindi data l’eterogeneità e la
differenziazione, i prodotti vengono considerati sostituti imperfetti. In questo caso l’impresa può
vendere i propri prodotti ad un prezzo superiore rispetto a quello dei rivali senza correre il rischio di
perdere tutta la quota di mercato. Se le imprese producessero prodotti omogenei, un aumento di
imprese va a beneficiare i consumatori, poiché l’aumento dei concorrenti causa prezzi inferiori; se
le imprese producono prodotti eterogenei, l’entrata di nuove imprese favorisce i consumatori sia
perché fa abbassare i prezzi, sia perché aumenta la varietà dei prodotti tra i quali scegliere.
Esistono due principali tipi di modelli con entrata libera e con prodotti eterogenei:
1. Il modello del consumatore rappresentativo: prevede che tutte le imprese sono in concorrenza
per vendere a tutti i consumatori (ad esempio il mercato dei ristoranti). In questo modello la
domanda individuale di un’impresa varia continuamente al variare dei prezzi delle altre
imprese.
2. Il modello spaziale (o di localizzazione): prevede che ogni consumatore preferisce prodotti che
presentano determinate caratteristiche o che vengono vendute da imprese situate vicino a lui,
inoltre il consumatore è disposto a pagare un premium price al fine di ottenere questo tipo di
prodotti. Il consumatore, infine, potrebbe non essere interessato al prezzo di altri prodotti
venduti nel mercato. In questo modello la domanda di un bene può essere indipendente (se i
beni non sono sostituti stretti) o notevolmente dipendente (se i beni sono sostituti stretti)dal
prezzo di un altro bene.
Entrambi i modelli possono essere utilizzati per studiare il benessere dei consumatori ed il surplus
delle imprese, confrontando l’equilibrio in termini di prezzo e varietà in caso di concorrenza
monopolistica con quello dato dall’ottimo sociale.
Lo studio di un’industria con prodotti differenziati è basato su due concetti: in primo luogo, i
prodotti sono differenziati perché i consumatori pensano che siano diversi (magari sono identici
chimicamente o fisicamente,ma se i consumatori acquistano pensando che siano differenti ,
quest’ultimi non vanno considerati prodotti omogenei ); in secondo luogo, il prezzo di un bene
differenziato influenza maggiormente il prezzo di un altro bene quando i due prodotti sono sostituiti
stretti rispetto a quando non lo sono. Un’industria ha prodotti relativamente omogenei se i
consumatori non si curano della marca che acquistano. Esistono due approcci per analizzare la
differenziazione: nella teoria standard del consumatore, i consumatori hanno preferenze in
relazione ai beni; in una formulazione alternativa, i consumatori hanno preferenze in relazione alle
proprietà o caratteristiche dei beni. Nelle industrie con prodotti omogenei la domanda di
un’impresa dipende solo dall’offerta totale dei rivali, invece nelle industrie con prodotti eterogenei
essa dipende dall’offerta di ciascun rivale considerato singolarmente. In generale, possiamo
indicare la curva di domanda inversa dell’impresa, come p1 = D(q1, …, qn). Ciò significa che il
prezzo p1 che l’impresa i fa pagare per il suo prodotto dipende dalla quantità venduta del suo
prodotto e dalla quantità venduta di tutti gli altri prodotti. Si può anche scrivere la curva di domanda
dell’impresa i come funzione dei prezzi dei prodotti di ogni rivale q1 = D(p1, p2, …, pn). Se però i
consumatori considerano tutti i prodotti omogenei la cura di domanda può essere scritta in forma
più semplice. I consumatori non sono disposti a pagare di più per i prodotti di un’impresa rispetto a
quello di un’altra, perciò tutte le imprese se vogliono vendere i loro prodotti devono praticare lo
stesso prezzo p. Nel caso di articoli indifferenziati nella determinazione del prezzo, p, importa solo
l’output totale del mercato Q = q1 + q2 + … + qn. In questo caso l’equazione inversa della
domanda residuale può essere scritta come segue: p1 = p = D(q1 + q2 + … + qn) = D(Q).
La condizione di entrata afferma che le imprese entrano nell’industria finché i profitti sono positivi,
quindi formalmente si avrà: π = pq – C(q) = 0. In equilibrio il costo totale medio di ogni impresa è
uguale al prezzo(AC=p), quindi i profitti per ogni unità prodotta è pari a 0, di conseguenza saranno
nulli anche i profitti globali. Per stabilire il numero di imprese di equilibrio si determina l’output di
equilibrio di Cournot per ogni numero possibile di imprese e si sceglie quell’equilibrio dove le
imprese ricavano profitti nulli. Minori sono i costi fissi, più elevato è il numero di imprese di
equilibrio in concorrenza monopolistica: esse aumentano perché essendo minori i costi fissi
saranno maggiori i profitti, quindi per far scendere i profitti a zero è necessario che entrino
nell’industria nuove imprese. Sebbene i costi fissi influiscano sulla decisione di un’impresa di
produrre o meno, essi non influenzano i livelli di output, infatti ogni impresa fissa il proprio output
ad un livello in cui i ricavi marginali sono uguali al costo marginale (RM=CM), di conseguenza né i
ricavi marginali né i costi marginali sono influenzati da una variazione del costo fisso. Quando non
vi sono costi fissi, nell’industria entrano un numero sufficiente di imprese a spingere il prezzo verso
il costo marginale, che rappresenta la soluzione concorrenziale. Con l’equilibrio di concorrenza
monopolistica sorgono problemi di benessere o efficienza. Innanzitutto perché il prezzo è superiore
al costo marginale(p>CM), quindi l’industria produce troppo poco output totale, questo significa che
un’unità aggiuntiva del prodotto per i consumatori costa di più rispetto a quanto alle imprese costa
produrla. Secondariamente, quando i costi marginali non fanno si che aumenta il numero di
imprese di equilibrio ,significa che è troppo elevato rispetto a quello dell’ ottimo sociale. Ogni
impresa aggiuntiva deve, infatti, pagare un costo fisso F e perciò i costi fissi sostenuti globalmente
dalle imprese sono eccessivi dal punto di vista del benessere collettivo. La funzione di costo di
ogni impresa è data da C(q) = mq + F (m è il costo marginale costante), così la soluzione ottima
per la società consiste nel sovvenzionare un’impresa perché produca tutto l’output ed esigere che
il prezzo sia fissato ad un livello pari al costo marginale(p=CM). La migliore soluzione viene
definita ottimo first – best.
In questo equilibrio si avrà il prezzo pari al costo marginale ed i consumatori acquisteranno q* unità
di output. Al livello di p l’impresa è in perdita, poiché il prezzo è inferiore al costo totale medio,
quindi lo Stato se vuole che l’impresa rimanga in attività la dovrà sovvenzionare. Quando
un’impresa presenta una curva di costo totale medio con pendenza negativa, viene definita
monopolio naturale, perché una sola impresa può soddisfare le richieste di tutti i consumatori ad
un prezzo inferiore a quello praticato da due o più imprese. Ogni imprese potrebbe, infatti, produrre
al costo marginale, ma l’entrata di un’impresa aggiuntiva richiederebbe un esborso aggiuntivo di
costi fissi, quindi nell’equilibrio di concorrenza monopolistica non solo il prezzo è superiore al
costo marginale, ma se più imprese sono attive la spesa relativa ai costi fissi è troppo elevata. Di
conseguenza una sola imprese potrebbe produrre l’output di concorrenza monopolistica
risparmiando costi rispetto a quelli che sosterebbero nel complesso le diverse imprese. Di solito lo
Stato non è in grado di regolare un’industria in modo da raggiungere la soluzione di first – best e
massimizzare il benessere della società(è impossibile politicamente ad esempio per l’energia
elettrica). In alcune industrie lo Stato può riuscire a controllare il numero di imprese(es.taxi), ma
può non essere in grado di costringerle a produrre più della quantità che massimizza i loro profitti,
se non è disposto a sovvenzionarle. Scegliendo il numero ottimale di imprese lo Stato può
raggiungere la soluzione di second – best, cioè il miglior risultato possibile soggetto ad un vincolo
che viola una delle condizioni necessarie per ottenere il risultato di first – best. Questo significa che
il benessere viene portato al più alto livello possibile posto che lo Stato non sovvenzioni le
imprese. Ponendo dei vincoli all’entrata, lo Stato ottiene l’ottimo di second – best, questo sebbene
sia inferiore all’equilibrio di first – best, è superiore all’equilibrio che si determina nella concorrenza
monopolistica priva di limitazioni.
Il prodotto che ha maggiori probabilità di essere realizzato è quello per cui la curva di domanda è
ad angolo retto, poiché i consumatori presentano una domanda anelastica fino ad un prezzo, p*,
nel quale la loro domanda diventa perfettamente elastica. Con un tale curva non vi è differenza
fra i ricavi totali ed i benefici sociali totali, perché non esiste surplus del consumatore al prezzo p*.
A parità di altre condizioni, più piccolo è il rapporto tra surplus del consumatore e ricavi totali, più
probabile è che l’impresa produca un bene socialmente desiderabile. Se non ci sono costi fissi ed i
costi marginali sono costanti, allora il costo totale medio è uguale al costo marginale (AC=CM),
quindi se un output è socialmente auspicabile, le imprese otterranno un profitto dal produrlo.
L’equilibrio ottimale riflette il compromesso tra il numero di prodotti realizzati e la quantità di ogni
bene prodotto (che è determinata dal prezzo). Se si ipotizza che il numero di prodotti, n, rispecchi il
valore della varietà, più imprese o prodotti sono presenti, maggiore è il benessere dei consumatori.
Se tutti i beni vengono prodotti con la medesima funzione di costo ed hanno la stessa curva di
domanda, in condizioni di equilibrio il numero di unità di output, q, è il medesimo per ciascun
prodotto. I dati essenziali relativi all’equilibrio sono il numero dei prodotti (n) e dall’output (q).La
frontiera delle possibilità di produzione (PPF) rappresenta le possibili combinazioni del numero
di prodotti e di quantità per prodotto che si possono realizzare con gli input totali a disposizione
della società. Le preferenze della società tra quantità e varietà si evincono dal grafico che segue. Il
punto O (q*, n*), cioè il punto di tangenza tra la curva PPF e la curva di indifferenza, rappresenta la
scelta ottimale della società. In qualsiasi punto su qualsiasi curva di indifferenza che si trova sotto
la curva di indifferenza passante per il punto O la società vede ridotto il proprio benessere. I punti
sulle curve di indifferenza poste al di sopra di quella che passa per il punto O sono al di fuori della
PPF e quindi non possono essere prodotti. Il punto B sulla PPF rappresenta un possibile equilibrio
di concorrenza monopolistica, in quel punto l’industria produce troppo pochi prodotti, ma più output
per prodotto rispetto al livello ottimale.; al contrario nel punto A sulla PPF l’industria produce più
prodotti rispetto al livello ottimale, ma meno output per prodotto.
La concorrenza tra le imprese è tanto più forte quanto maggiore è il grado di sostituibilità dei
prodotti che esse vendono; questo fa sì che il prodotto sia localizzato in un punto particolare del
suo spazio caratteristico (o spazio geografico). I modelli di localizzazione (o modelli spaziali) sono
modelli di concorrenza monopolistica in cui i consumatori ritengono che il prodotto di ogni impresa
abbia una particolare collocazione nello spazio geografico del prodotto. Più vicini sono due prodotti
nello spazio geografico, più sono sostituibili. In questi modelli i consumatori sono a loro volta
collocati nello spazio geografico, poiché risulta loro costoso fare acquisti in negozi più lontani da
casa. Poiché le imprese ed i prodotti competono direttamente solo con i prodotti a loro vicini, ogni
impresa ha del potere di mercato che deriva dalla preferenza dei consumatori ad effettuare
l’acquisto presso l’impresa più vicina o a comparare il prodotto preferito. Esistono diversi modelli di
localizzazione, i più importanti sono:
Fissando la località e lasciando le imprese libere di competere sul prezzo, si può stabilire un
equilibrio di Nash. Ipotizziamo che il negozio 1 ed il negozio 2 vendano i loro output
rispettivamente al prezzo p1 ed al prezzo p2 e siano posizionati ai due estremi della città (il
negozio 1 nell’estremo sinistro “A”, mentre il negozio 2 nell’estremo destro “Z”).Un generico
consumatore i che si trovi nel punto A, se vorrà comprare un’unità di output nel negozio 1 pagherà
p1 (poiché in questo caso c = o), mentre se vorrà comprare la stessa unità di output nel negozio 2
pagherà p2 + c. Consideriamo un consumatore collocato in un generico punto t la sua funzione di
utilità viene così definita: u – p1 – ct (se acquista nel negozio 1), u – p2 – c(1 – t) (se acquista nel
negozio 2).
Il consumatore collocato nel punto t, sarà indifferente tra l’acquistare nei due diversi negozi, quindi
formalmente si avrà che: u – p1 – ct = u – p2 – c(1 – t); di conseguenza isolando l’incognita t si
potrà trovare l’esatta collocazione. I due negozi che competono sul prezzo, date le loro
localizzazioni, per massimizzare i loro profitti fissano prezzi pari ai costi di trasporto dei
consumatori. Quando le imprese possono cambiare sia i prezzi che la loro localizzazione, senza
incorrere in costi, non esiste alcun equilibrio.
2. Il modello di localizzazione di Salop (anche denominato modello della circonferenza di
Salop) introduce due variazioni rispetto al modello di Hotelling. Innanzitutto le imprese sono
situate lungo una circonferenza, e non più in una retta (il motivo di tale scelta è perché il
cerchio non ha punti estremi, quindi equivale ad una retta infinita.Infatti una delle cause
principali della non esistenza di un equilibrio nel modello di Hotelling è la presenza du punti
estremi). Secondariamente il modello di Salop tiene conto di un secondo bene (bene
esterno,che potrebbe essere una determinata marca,un determinato gusto,ecc.). Ipotizzando
che i clienti siano localizzati in un cerchio di circonferenza unitaria e che per semplicità ogni
cliente si compra una singola unità di output. La localizzazione di un cliente, t*, rappresenta il
tipo di output preferito dal cliente stesso. Il benessere (l’utilità) che un consumatore trae da un
output di un’impresa localizzata in t è : U(t, t*) = u – c|t – t*|.La differenza tra t e t* è la distanza
del prodotto t dal gusto preferito t*. Il grafico che segue indica la funzione di utilità del
consumatore; in tal grafico, per ottenere una linea, si raddrizza un arco della circonferenza di
Salop. La figura mostra due localizzazioni nelle quali il consumatore ha un’utilità pari a zero,
queste sono: t = t* + u/c e t = t* - u/c. il grafico mostra che il benessere che il consumatore
riceve dal consumo di un prodotto situato a desta o a sinistra di quello ottimale(cioè quello
preferito) è inferiore a quello che egli ottiene consumando il prodotto preferito.
Ogni consumatore tenta di massimizzare il proprio surplus, che è la differenza tra il benessere
derivante dal consumare un prodotto situato in t ed il prezzo da pagare per quel prodotto, quindi
formalmente: U(t, t*) – p. Il consumatore potrebbe optare di non acquistare altri tipi di output, ma
preferire il bene esterno, se questo rappresenta il miglior acquisto, cioè garantisce una maggiore
utilità per una data somma di denaro:effetuiamo quello che viene definito il miglior acquisto,cioè la
il prodotto che consente di ottenere il surplus maggiore,la migliore combinazione prezzo-qualità.
Se l’output preferito dal consumatore è localizzato in t* e venduto al prezzo p*, il surplus che il
consumatore può ricavare dall’output è u – p*; quindi il consumatore sarà disposto ad acquistarlo
solo se esso è maggiore del surplus derivante dal bene esterno, quindi formalmente u – p* >
u’,oppure rispetto a p* si avrà che u-u’>= p*. Questo significa che il consumatore ha un prezzo di
riserva (v = u – u’), cioè il prezzo più elevato che è disposto a pagare per il tipo preferito di
prodotto. L’equilibrio simmetrico nel modello di Salop dipende da dove sono localizzate le imprese
e da come esse fissano il prezzo. A parità di altre condizioni ogni impresa vorrà collocarsi il più
lontano possibile dai concorrenti più stretti, poiché così aumenta il loro potere di mercato. In
seguito al tentativo di posizionarsi il più lontano possibile, i negozi finiscono per essere equidistanti
l’uno dall’altro (quindi distanza 1/n). Salop partendo dall’equidistanza si chiede quale prezzo faccia
pagare ciascun negozio. Egli ipotizza che una particolare impresa (situata nella parte bassa della
circonferenza) faccia pagare il prezzo p e che i suoi due più vicini concorrenti facciano pagare
prezzo p’, di conseguenza si chiede come dovrebbe fissare il prezzo p.
L’impresa che vende il suo output si assicura tutti i consumatori che non si trovano ad una distanza
superiore a xm da entrambi i lati della sua posizione, o tutti i clienti nel segmento di circonferenza
2xm. Se ci sono L consumatori posti uniformemente lungo la circonferenza, la domanda di
monopolio di quest’impresa (qm) è pari a 2xmL oppure: qm = (v – p)2L/c.
b. La regione concorrenziale. Se ci sono più imprese, quindi che sono posizionate più vicine tra
loro e competono per gli stessi consumatori, ogni impresa nel fissare il proprio prezzo deve
tenere conto del prezzo praticato dai rivali. Quando le imprese sono in concorrenza tra loro,
un’impresa non si assicura tutti i clienti, poiché ne perde alcuni a vantaggio dei rivali più vicini.
Entrambi i concorrenti più vicini all’impresa che stiamo considerando distano 1/n e fanno
pagare p. L’impresa facendo pagare il prezzo p, si assicura tutti i clienti entro la distanza xc,
dove xc è tale che i consumatori ottengono la stessa utilità del consumo del tipo di output
prodotto dall’impresa e da quelli prodotti dai rivali più vicini. Quindi formalmente si ha: v – cxc –
p = v – c(1/n- xc ) – p’. il primo membro è l’utilità netta derivante dal consumo dell’output
dell’impresa, mentre il secondo membro rappresenta l’utilità netta derivante dal consumo
dell’output dell’impresa concorrente più vicina. Il grafico precedente, con l’immagine a destra,
mostra come il limite della regione concorrenziale (xc) sia determinato dal punto in cui non vi è
differenza tra i due beni, quindi nel punto in cui l’equazione precedente è uguale per entrambi.
Di conseguenza nel punto in cui si intersecano le rette del surplus netto relativo alle due
imprese rivali, per un consumatore è indifferente acquistare una marca o l’altra.
Con prezzi elevati le regioni di domanda delle imprese non coincidono perché ogni impresa
costituisce un monopolio locale. Al diminuire del prezzo ci sono più consumatori interessati
all’output e le regioni si sovrappongono ed inizia la concorrenza tra le imprese. Il grafico seguente
mostra le regioni di domanda relative al monopolio ed alla concorrenza: ad un livello superiore a
pm la regione di domanda è monopolistica, quindi i clienti non prendono in considerazione
l’acquisto presso alcun’altra impresa, mentre sotto il livello pm l’impresa è in concorrenza con le
imprese più vicine.
Capitolo 8: Struttura industriale e risultati economici(grafici non necessari)
La teoria dei mercati affermano che meno concorrenza si trova di fronte un’impresa, maggiore è il
suo potere di mercato, cioè la sua capacità di fissare il prezzo in modo profittevole al di sopra del
costo marginale. Il potere di mercato (quindi il prezzo ed i profitti) dovrebbe pertanto essere più
elevato in industrie con sostanziali barriere all’entrata che riducono la concorrenza effettiva e
potenziale. Per molti decenni gli economisti hanno condotto studi di struttura – comportamenti –
risultati economici (SCR) incentrata su quali siano i fattori che determinano il potere di mercato. Il
risultato economico del mercato rappresenta la capacità del mercato di produrre benefici per i
consumatori. La struttura di mercato consiste, invece, in quei fattori che determinano la
concorrenzialità del mercato. La struttura influisce sul risultato economico mediante il
comportamento o la condotta delle imprese. Il rapporto tra il prezzo (p) il costo marginale (MC) e la
persistenza di profitti economici dipende dalla struttura di mercato. In un’industria concorrenziale
composta da imprese identiche con libertà d’entrata, il prezzo è pari al costo marginale di breve
periodo, quindi i profitti di breve periodo sono positivi o negativi ed i profitti di lungo periodo sono
pari a zero. Anche se tutte le imprese sono price taker, il profitto nel lungo periodo di ciascuna di
esse è pari a zero solo se ognuna ha uguale accesso alla medesima tecnologia ed agli stessi
fattori di produzione. Se alcune imprese presentano costi inferiori ad altre imprese i loro profitti non
saranno completamente erosi, infatti la libera entrata garantisce solo che il profitto dell’impresa
meno efficiente che entra nel mercato sia uguale a zero nel lungo periodo. Nel monopolio e
nell’oligopolio il prezzo supera i costi marginali, quindi i profitti nel breve periodo sono positivi o
negativi, ed i profitti di lungo periodo sono pari a zero o sono positivi. Nella concorrenza
monopolistica il prezzo è superiore al costo marginale, quindi l’entrata fa scendere a zero i profitti
di lungo periodo.
Il tradizionale approccio struttura – comportamento – risultati economici utilizzò per la prima volta
deduzioni derivanti dall’analisi microeconomica. Nel paradigma SCR i risultati economici di
un’industria dipendono dalla condotta o dal comportamento dei venditori e degli acquirenti, che si
basa sulla struttura del mercato. A sua volta, la struttura del mercato è determinata da condizioni
fondamentali come la tecnologia e la domanda di un prodotto. Molti economisti criticano
l’approccio SCR in quanto più descrittivo che analitico. Un tipico studio SCR consta di due fasi: si
misurano i risultati economici (direttamente o indirettamente mediante una loro stima) e si
utilizzano osservazioni trasversali sull’industria per definire le regressioni dei risultati economici su
varie misure dalla struttura di mercato. Per valutare quanto il risultato economico di un’industria si
avvicini a quello di un’industria concorrenziale, vengono utilizzate diverse misurazioni:
Il tasso di rendimento è una misurazione che si basa sui profitti ricavati per ogni euro di
investimento. Ci sono importanti distinzioni tra profitti economici e contabili: la più importante
riguarda il capitale fisso di lunga durata. I profitti economici sono pari ai ricavi meno il costo del
lavoro, dei materiali ed una misura dei costi di capitale. Quest’ultimi sono difficili da misurare e
sono pari ai canoni annui d’affitto. Nel calcolo del canone d’affitto il capitale fisso dovrebbe
essere valutato al costo di sostituzione, cioè il costo di lungo periodo che si deve sostenere per
acquistare un bene di qualità paragonabile. Se il capitale viene valutato al proprio costo di
sostituzione, un basso tasso di rendimento è un segnale che nell’industria non dovrebbe
entrare nuovo capitale; al contrario un alto tasso di rendimento indica che nell’industria
dovrebbe entrare nuovo capitale. I ricercatori, spesso dividono i profitti economici per il valore
del capitale dell’impresa, al fine di ottenere un tasso di rendimento sul capitale. Quello che più
conta per un investitore è il rendimento dopo la detrazione dell’ammortamento, quindi il costo
del capitale può essere espresso come tasso di rendimento (r) più il tasso di ammortamento
(S). Questo significa che il profitto può essere espresso come: π = R – Cl(costo lavoro) –
Cm(costo materiali) – (r + S)pkK. Il valore del capitale è pkK, infatti pk è il prezzo del capitale e
K la su quantità. Il tasso di rendimento realizzato è quel valore di r che rende nullo il profitto
economico, quindi si pone il profitto uguale a zero e si risolve rispetto a r. Il calcolo corretto dei
tassi di rendimento pone diverse difficoltà, ad esempio:
I tassi di rendimento possono non essere aggiustati adeguatamente per tenere conto
del rischio. Per stabilire se un’impresa ottiene un tasso di rendimento troppo elevato, è
opportuno confrontare il tasso di rendimento effettivamente ottenuto ed il tasso di
rendimento aggiustato per tenere conto del rischio (cioè il tasso di rendimento ottenuto
dalle imprese concorrenziali impegnate in progetti con livello di rischio pari a quello
delle imprese analizzate).
Altri problemi riguardano la valutazione di attività R&S (cioè del valore che si attribuisce
a questi costi),l’inflazione,il fatto che i profitti di Monopolio possono essere inclusi in
modo non appropriato nel tasso di rendimento calcolato e infine il tasso di rendimento
potrebbe essere calcolato al lordo piuttosto che al netto dell’imposte.
Il margine prezzo – costo (o indice di Lerner) è una misurazione che dovrebbe essere
fondata sulla differenza tra il prezzo ed il costo marginale rapportata al prezzo stesso, sebbene
in pratica il costo marginale, spesso, viene sostituito dal costo totale medio. Questa
misurazione viene utilizzata per evitare i problemi connessi al calcolo dei tassi di rendimento. Il
margine prezzo – costo per un’impresa che massimizza i profitti è uguale al reciproco (con
segno negativo)dell’elasticità della domanda al prezzo dell’impresa,ovvero -1/ε. Il costo
variabile medio viene calcolato come ricavi meno i salari meno i costi dei materiali e tutto ciò
diviso per le vendite.
La q di Tobin, cioè il rapporto tra il valore di mercato di un’impresa ed il suo valore basato sul
costo di sostituzione delle sue attività. Questa misurazione viene utilizzata raramente.
Per esaminare le modalità di variazione dei risultati economici al variare della struttura, sono
necessarie misure della struttura del mercato. Esse sono diverse, ad esempio:
Concentrazione industriale. Nella maggior parte degli studi SCR la variabile strutturale che si
mette in rilievo è la concentrazione industriale, la quale si misura in funzione delle quote di
mercato di alcune o di tutte le imprese del settore. La variabile più comunemente usata per
misurare la struttura del mercato di un’industria è il rapporto di concentrazione delle prime
quattro imprese (C4) che rappresenta la quota delle vendite realizzata dalle prime quattro
imprese principali dell’industria. Per misurare la concentrazione sarebbe, anche, possibile
utilizzare una funzione di tutte le quote di mercato delle singole imprese. La funzione più
comunemente usata è l’indice di Herfindahl – Hirschman (HHI) che è uguale alla somma del
quadrato delle quote di mercato di ogni impresa dell’industria. In generale si ritiene che la
facilità di entrata assicura la relativa assenza di concentrazione. Purtroppo le misure della
concentrazione presentano due gravi problemi: molti fattori influiscono sulle misure dalla
concentrazione dei venditori (ad esempio la profittabilità) e molte misure di concentrazione
sono distorte a causa di definizioni improprie di mercato. Per un prodotto, il mercato rilevante
include tutti i prodotti che influenzano in modo significativo il prezzo del prodotto stesso.
Perché la concentrazione industriale sia un indicatore significativo della performance,
l’industria su cui viene misurata si deve riferire al mercato rilevante. Se l’estensione geografica
del mercato è locale, le statistiche sulla concentrazione nazionale possono indicare in modo
fuorviante una concentrazione inferiore alla realtà, pertanto si usa la distanza di spedizione per
individuare mercati in cui l’impiego dei dati nazionali è fuorviante, infatti se la distanza di
spedizione è piccola, la concentrazione del mercato locale può essere molto diversa da quella
del mercato locale. In modo analogo,le misure di concentrazione spesso sono distorte perché
ignorano le importazioni e le esportazioni. Nello stesso modo che la concentrazione dei
venditori può portare a prezzi più elevati, una concentrazione degli acquirenti può condurre a
prezzi inferiori, facendo da contraltare al potere dei venditori.
Joe Bain classifica le industrie in base alla sua stima soggettiva dell’entità delle barriere all’entrata,
egli ritiene che i profitti dovrebbero essere superiori in industrie con elevata concentrazione ed alte
barriere all’entrata. Brozen critica i risultati di Bain, si ritiene infatti che le industrie esaminate da
quest’ultimo potrebbero non essere in equilibrio: infatti le industrie indicate da Bain come redditizie
hanno subito un successivo declino, mentre le industrie poco redditizie hanno subito un successivo
aumento di profitti. Un’altra critica fatta da Brozen a Bain è relativa al fatto che l’uso dei tassi di
profitto delle imprese principali anziché di quello dell’industria potrebbe aver distorto i risultati.
Sono state effettuate molte stime econometriche del rapporto tra tassi di rendimento
concentrazione ed una quantità di altre variabili; la stima di questo rapporto viene definito
regressione. Gli studi econometrici forniscono una stima dell’effetto di una variabile su un’altra ed
anche una misura statistica del fatto che l’effetto stimato possa essere diverso da zero. Gli studi di
Weiss hanno portato a concludere che esisteva un rapporto significativo tra profitti, concentrazione
e barriere all’entrata; negli studi recenti si riscontra solo un rapporto debole tra le variabili strutturali
ed i tassi di rendimento. Secondo Collins e Preston molti economisti esaminano il rapporto in tutte
le industrie tra margini prezzo – costo variabile medio in base ai dati del censimento ed a diverse
variabili che approssimano la struttura industriale.
L’originaria teoria SCR mirava a stabilire una relazione sistematica fra prezzo e concentrazione,
tuttavia ad essa si possono muovere delle critiche, ad esempio: la concentrazione non costituisce
una caratteristica del settore da poter utilizzare per spiegare i prezzi, poiché la stessa
concentrazione viene determinate dalle condizioni economiche del settore. Sutton ha sviluppato un
approccio che si basa sull’idea del paradigma SCR sia per sviluppare dei modelli sistematici di
comportamenti concorrenziali nei vari settori industriali, che per determinare l’entrata. La teoria di
Sutton tratta due distinti casi:
a. I mercati con prodotti omogenei, cioè un mercato in cui l’unica variabile su cui l’impresa
può concorrere è il prezzo e non la quantità. Ogni impresa è soggetta ad un costo fisso
F e ad un costo marginale costante m. Per prezzi bassi la curva di domanda del settore
è Q = s/p, in cui Q è la quantità prodotta dal settore, s è la dimensione del mercato e p
è il prezzo. Ad un prezzo pm la curva di domanda è perfettamente elastica. L’equilibrio
finale e la sua variazione all’aumentare delle dimensioni del mercato sono determinate
dalla forma assunta dalla concorrenza.
a.i. Con il livello di concorrenza di un cartello (in cui tutte le imprese colludono
esplicitamente) il prezzo rimane fisso a pm indipendentemente dal numero di
imprese; questo significa che il profitto di ogni impresa diminuisce all’aumentare
di n, poiché il profitto totale di monopolio deve essere diviso per un numero
maggiore di imprese.
a.ii. Con il livello di concorrenza di un oligopolio alla Cournot, dove per ogni n il
prezzo di equilibrio è p(n) = m[1 + 1/(n-1)]; quindi il prezzo p scende a m
all’aumento di n. Il livello di output q per ciascuna impresa è (s/m)[(n – 1)/n 2,
mentre il profitto per ogni impresa è [p – q]q – F.
a.iii. Con il livello di concorrenza alla Bertrand il prezzo sarà pari a m per n > 1,
quindi l’unico equilibrio si verifica in presenze di un’impresa con profitti positivi,
infatti nel caso in cui subentri una seconda impresa, il prezzo si avvicina al costo
marginale, per cui il profitto diventa negativo e l’impresa è destinata al
fallimento.
Relazione fra i prezzi ed il numero di imprese in tre strutture di mercato
Il grafico seguente riporta una misura della concentrazione del settore industriale in equilibrio 1/n
rispetto alla dimensione s del mercato per ciascun modello di concorrenza, là dove per
concentrazione di mercato in equilibrio si intende che n è tale che il profitto totale è pari a zero.
Tale grafico riporta due risultati. Innanzitutto per tutti i giochi, tranne che per il mercato
maggiormente concorrenziale (Bertrand), la concentrazione diminuisce all’aumentare delle
dimensioni del mercato, questo perché i mercato più grandi possono accogliere un maggiore
numero di imprese. Secondariamente la concentrazione in equilibrio è tanto maggiore quanto più
spietata è la concorrenza, quindi la concentrazione è meno elevata nel cartello, nonostante
quest’ultimo presenti il prezzo più elevato, questo perché una concorrenza spietata implica un
prezzo poco elevato, che scoraggia l’entrata.
b. Nei mercati con prodotti differenziati la concentrazione del mercato dipende dalla
natura del gioco, cioè da quanti prodotti diversi un’impresa è in grado di produrre e dal
fatto che ha un vantaggio se può scegliere prima dei concorrenti i suoi prodotti. Sutton
ha affermato che la spietatezza della concorrenza diminuisce muovendosi da un
prodotto omogeneo ad un prodotto eterogeneo, così la concentrazione in equilibrio
tende a diminuire per una data dimensione del mercato. Quest’affermazione si basa sul
presupposto che i costi fissi siano esogeni e che vi sia una data qualità del prodotto.
Data questa proprietà la concentrazione dovrebbe essere inferiore nei grandi Paesi
piuttosto che in quelli più piccoli.
Gli studi SCR trascurano il problema di come misurare i risultati economici, al contrario i moderni
approcci empirici si concentrano su questo problema, in primo luogo, respingendo le tradizionali
misure dei risultati economici, poiché contengono errori dovuti a problemi di natura contabili; in
secondo luogo stimano il potere di mercato mediante modelli basati su teorie formali di
comportamento volti alla massimizzazione dei profitti. La maggior parte degli studi moderni basati
su modelli statici possono essere suddivisi tra quelli che stimano direttamente i costi marginali,
quelli che stimano interi modelli di un mercato (ottenendo quindi stime dei costi marginali e del
markup) e quelli che prendono in esame il rapporto tra variazioni del prezzo e dei costi dei fattori
per verificare se un’industria è concorrenziale.
Stima dei costi marginali utilizzando dati sui costi. Sebbene i dati sui prezzi siano spesso
disponibili, le informazioni sul costo marginale non lo sono. Se, però, sono disponibili notizie
sui costi totali si può stimare il rapporto tra costi totali ed output totali e poi calcolare i costi
marginali. Si calcola poi il margine prezzo – costo. Tuttavia, anche i dati sui costi totali sono
disponibili di rado, infatti nella maggior parte di studi si stimano le funzioni dei costi per
industrie regolamentate, poiché esse sono obbligate a fornire dati sui costi.
Stima dei markup con l’utilizzo di un modello relativo ad un’industria . Se i dati sui costi non
sono disponibili e quindi non è possibile stimare direttamente i costi marginali, il markup prezzo
– costo si può calcolare utilizzando ipotesi sulla forma delle curve di domanda e dei costi
marginali; questo per dedurre il markup da osservazioni sulle variazioni del prezzo e della
quantità di equilibrio nel corso del tempo. Tale approccio viene denominato “nuovi studi
empirici di organizzazione industriale”. Ipotizziamo che in un’industria la curva sia D1 e che il
costo marginale dell’industria sia costante, questo porta a indicare l’equilibrio (E*) nel punto p*
e quantità q*. Questo equilibrio potrebbe essere realizzato da un’industria concorrenziale con
un costo marginale relativamente elevato (MCc) o da un monopolista con un costo marginale
relativamente basso (MCm). Se nel periodo successivo la nuova curva di domanda è D2, si
può stabilire se l’industria è concorrenziale o monopolistica: se l’industria è concorrenziale si
trova nel punto Ec, perciò il prezzo rimane costante e l’output aumenta fino a Qc. Se, invece, lo
spostamento della domanda porta ad un nuovo equilibrio (Em) nel quale il prezzo aumenta da
p* a pm e la quantità aumenta solo fino a Qm. Se il prezzo non varia, il mercato è
concorrenziale, altrimenti se il prezzo aumenta si ha potere di mercato
Metodi indiretti. Alcuni economisti utilizzano le variazioni di prezzo connesse a variazioni dei
costi per verificare se un’industria è concorrenziale senza fare ipotesi dettagliate sulla forma
delle curve di domanda ed offerta. Se il costo marginale si sposta verso l’alto di un certo
importo in un’industria con costi marginali costanti, il prezzo concorrenziale aumenta della
stessa somma perché il prezzo è uguale al costo marginale. In un mercato concorrenziale, ad
esempio, una tassa per ogni unità di prodotto pari a 1 fa salire il prezzo di 1. Osservando il
rapporto tra variazioni di prezzo e variazioni di costi si può verificare se un’industria è
concorrenziale. Hall dimostra che, se un’industria ha rendimenti di scala costanti, le variazioni
dei costi sono sufficienti ad individuare il potere di mercato. Quando un’industria con
rendimenti di scala costanti espande l’output in risposta ad uno spostamento della domanda, il
valore totale del suo output (le entrate) aumenta di un importo esattamente pari all’incremento
del suo costo totale, se l’industria è concorrenziale. Se il valore aumenta più del costo
aggiuntivo, il prezzo si trova sopra il costo marginale e l’industria non è concorrenziale.
Quasi tutti i mercati del mondo reale durano per molti periodi. Un modello multiperiodale dovrebbe
essere dunque usato per stimare il potere di mercato se le imprese, nello stabilire le loro strategie,
tengano conto del comportamento tenuto in passato, oppure se i costi di aggiustamento sono
significativi, tanto che i costi dipendono dalle decisioni prese nei periodi precedenti, o anche se la
domanda attuale dipende dal consumo precedente. Gli economisti utilizzano almeno due tipi di
modelli multiperiodali per stimare il potere di mercato:
1. Collusione e giochi statici ripetuti. Stigler sosteneva che l’opportunità ed il desiderio delle
imprese oligopolistiche di colludere fornisce la base per spiegare il comportamento di
oligopolio. In questa teoria i prezzi sotto il livello di monopolio sono dovuti a fallimenti nella
completa attuazione del cartello. In questo contesto, anche la struttura del mercato importante,
poiché ad esempio più imprese sono attive in un’industria più è difficile individuare se una
qualsiasi di esse scartelli, perciò è possibile imbrogliare di più ed il prezzo medio è inferiore. Gli
esperti di teoria dei giochi rappresentano l’intuizione di Stigler come un supergioco in giochi
statici e ripetuti. Per impedire alle altre imprese di scartellare tutti i membri del cartello
convengono che, se il prezzo di mercato scende sotto un certo livello (prezzo di intervento) per
un determinato periodo di tempo, ogni impresa espanderà il proprio output fino al livello
precedente al cartello e quindi i prezzi scenderanno.
Si consideri un oligopoio con n imprese uguali con prodotto omogeneo ,ogni impresa max i
profitti scegliendo la quantità→ Profitti= p(Q)qi-mqi. Il prezzo è indicato con p,ed è funzione
dell’output totale Q=nqi ;m è il costo marginale.Le imprese giocano alla Cournot e quindi
MR=p+qip’=MC:la formula può essere riscritta secondo l’indice di Lerner (prezzo costo) ,cioè
L=- p’Q/p x qi/Q=-si/ε=-1/nε. si=1/N è la quota di output dell’impresa i,mentre 1/ε = (p’Q)/p è il
reciproco dell’elasticità della domanda.L’HHI diviso per il valore assoluto dell’elasticità della
domanda è uguale alla media ponderata dei margini prezzo-costo delle imprese→ -HHI/ ε.
Molte imprese fissano prezzi non uniformi. Alcuni tipi semplici di discriminazione del prezzo sono:
Tariffa in due parti. Un’impresa fa pagare ad un consumatore una quota fissa (la prima parte
della tariffa) per il solo diritto ad acquistare un numero illimitato di unità, pagando poi queste
unità ad un prezzo prestabilito (la seconda parte della tariffa).Es.un circolo sportivo fa pagare
ai soci una quota annuale d’iscrizione e quote poi aggiuntive per utilizzare altre
strutture;oppure un parco divertimento che fa pagare il biglietto d’ingresso ma che per alcune
attrazioni occorre acquistare biglietti aggiuntivi a parte.
Sconti sulla quantità. In questo modo il prezzo varia con il numero di unità del bene
acquistate dal cliente.E’ molto frequente lo sconto a fronte di grandi quantità di output (es.per il
consumo di energia sono previsti blocchi decrescenti per il consumo).
Vendite abbinate di due (o più) beni. Con questo metodo, un cliente può acquistare un
prodotto solo se ne acquista anche un altro.(es.macchina Polaroid usa solo pellicola polaroid).
Non tutti i venditori che fanno pagare prezzi uniformi allora discriminano:questo perché uno sconto
sulla quantità può essere dovuto a un risparmio sui costi di produzione per ordini di maggiore
dimensione .Un’impresa solitamente discrimina il prezzo per aumentare i profitti, però può farlo
solo in certe condizioni. La discriminazione del prezzo è una strategia conveniente per l’impresa
perché i consumatori che assegnano un valore elevato al bene lo pagano di più di quanto
farebbero se i prezzi fossero uniformi. Tutti i metodi di discriminazione del prezzo possono essere
considerati tentativi di minimizzare l’effetto sui ricavi marginali, che deriva dall’espansione delle
vendite. Il tentativo è quello di far pagare il prezzo più basso solo ad uno o alcuni clienti senza
praticare contemporaneamente il ribasso a tutti i consumatori. Anche se tutte le imprese
vorrebbero discriminare il prezzo, molte non sono in grado di farlo, poiché devono sussistere tre
condizioni:
1. Un’impresa deve avere potere di mercato (cioè deve poter fissare il prezzo al di sopra dei
costi marginali e realizzare profitti) altrimenti non potrà mai riuscire a far pagare ad alcun
consumatore più del prezzo di concorrenza.
2. L’impresa deve conoscere la disponibilità dei consumatori a pagare per ciascuna unità
del bene. In altre parole l’impresa deve essere in grado di individuare a chi far pagare il prezzo
più elevato. Analogamente se la curva di domanda di ogni individuo ha pendenza negativa,
l’impresa può essere in grado di far pagare un prezzo diverso per le diverse unità che un
consumatore acquista(es.10 prima unità,5 seconda unità).
3. Un’impresa deve essere in grado di impedire o limitare la rivendita del bene da parte dei
clienti che pagano un prezzo inferiore a coloro che pagano un prezzo maggiore (arbitraggio).
Solo impedendo l’arbitraggio e quindi la rivendita si favorisce la discriminazione.
Garanzie. Un produttore può rendere nulla una garanzia se il prodotto viene rivenduto,quindi
farla valere solo per il primo acquirente,il secondo dovrà sostenere più costi.
Clausole contrattuali. All’interno delle proprie condizioni di vendita, un’impresa può impedire
contrattualmente la rivendita.Tuttavia se le restrizioni alla rivendita non sono giuridicamente
vincolanti o non sono facilmente attuabili,tali clausole non possono impedire la rivendita del
tutto.
Integrazione verticale.Nel caso di un’impresa integrata verticalmente (cioè che produce in più
di uno stadio del processo produttivo) può far pagare ai consumatori finali dell’output un prezzo
basso e far pagare comunque ai produttori che si avvalgono dell’output ,un prezzo elevato
senza timore di rivendita poiché il produttore dell’output è monopolista e controlla le azioni
della divisone della produzione e impedisce ai propri clienti (non consumatori finali)di rivendere
l’output.Questo metodo è simile all’adulterazione.
Intervento del governo. Il governo può emanare delle leggi che consentono alle imprese di
un’industria concorrenziale di agire collettivamente per impedire la rivendita.
Tutti i metodi di discriminazione del prezzo vengono adottati per estrarre il surplus del
consumatore. Al riguardo esistono vari metodi per far pagare prezzi non uniformi(1,2,3 grado),
alcuni di essi sono (secondo grado,viene fatto nel cap.10):
a. Ogni consumatore acquista una sola unità. Si ipotizzi che ogni consumatore
domandi solo un’unità di prodotto e che abbia una disponibilità a pagare diversa
dagli altri, pertanto la curva di domanda ha pendenza negativa. Un’altra ipotesi
prevede che l’impresa conosca la disponibilità a pagare di ogni consumatore. Se
può impedire la rivendita, l’impresa farà pagare ad ogni cliente un prezzo
esattamente uguale alla sua disponibilità a pagare e quindi il cliente rimarrà senza
surplus. L’impresa continua a vendere fino a quando il prezzo che viene fatto
pagare ad ogni consumatore è uguale ai costi marginali (che per semplicità si
considerano costanti). In altri termini il monopolista perfettamente discriminante
vende Q* unità di output, mentre il consumatore marginale paga p*. Anche
un’industria concorrenziale venderebbe Q* unità, ma farebbe pagare a tutti un unico
prezzo p*, uguale ai costi marginali. La differenza sta nel fatto che il monopolista
perfettamente discriminante fa pagare a tutti i consumatori, eccetto quello
marginale, più di p*, perciò non esiste surplus del consumatore. Quest’ultimo viene,
invece, massimizzato in condizioni di concorrenza (l’area sotto la curva di domanda
e sopra p*) ed eliminato (in quanto totalmente estratto) da un monopolista
perfettamente discriminante. Pertanto, la discriminazione perfetta del prezzo non
implica perdita di efficienza (il prezzo dell’ultimo acquisto è ancora uguale ai costi
marginali), ma influisce sulla distribuzione del reddito. Un monopolista non
discriminante fa pagare un prezzo unitario, pm, e produce Qm unità nel punto in cui
i suoi ricavi marginali sono uguali ai costi marginali. I consumatori ottengono una
piccola parte del surplus del consumatore (l’area sotto la curva di domanda e sopra
pm) che è inferiore a quello che essi ottengono in condizioni di concorrenza.
b. Ogni consumatore acquista più unità. Si ipotizzi che i consumatori sono identici, ma
richiedono più unità man mano che il prezzo scende; inoltre si ipotizza che ogni
consumatore sia identico a tutti gli altri ed abbia una curva di domanda con
pendenza negativa e che tale curva rifletti quella di ogni consumatore (anziché
rappresentare la domanda aggregata del mercato). Si ipotizzi, infine che i costi
marginali sono costanti. Un monopolista perfettamente discriminante fa pagare un
prezzo diverso per ogni unità del prodotto venduta e quindi, praticando prezzi
diversi a seconda delle quantità acquistate, ottiene tutto il surplus del consumatore
da ciascun cliente. Il monopolista fa pagare un prezzo elevato per la prima unità
consumata, un prezzo più basso per l’unità successiva e così via fino a quando fa
pagare il costo marginale (m) per l’ultima unità. In altri termini, il monopolista fissa la
griglia dei prezzi che decide di far pagare in modo che essa coincida con la curva di
domanda di ogni cliente. Un metodo alternativo ed equivalente di discriminazione
perfetta del prezzo consiste nel far pagare una tariffa in due parti in cui ogni cliente
paga una quota fissa per il solo diritto ad acquistare il bene più un prezzo unitario
pari a m per ogni unità consumata indipendentemente dal numero acquistato da
ogni consumatore. Se il surplus del consumatore è CS quando il prezzo è m, il
monopolista pone la quota fissa pari a CS. Il consumatore è indifferente tra
acquistare e non acquistare, perché il monopolista estrae tutto il suo surplus.
Questo metodo di determinazione del prezzo produce un livello di output pari a
quello concorrenziale e lo stesso profitto della discriminazione perfetta del prezzo.
Se tutti i consumatori hanno una curva di domanda con pendenza negativa, ma
differiscono tra loro, il monopolista fa pagare a ciascuno di essi un prezzo pari a m
per ogni unità consumata ed una quota fissa diversa in modo da estrarre, per ogni
consumatore, tutto il surplus. Nei mercati del mondo reale un monopolista
difficilmente è in grado di conoscere la curva di domanda di ogni consumatore,
quindi spesso non è in grado di adottare una politica di prezzo che gli permetta di
estrarre tutto il surplus di ogni consumatore. In questo caso, però, può utilizzare le
politiche di prezzo più complesse. Dato che la discriminazione perfetta del prezzo
richiede conoscenze dettagliate sui singoli acquirenti è più probabile che si verifichi
quando si realizzano singoli accordi.
Le imprese possono praticare la discriminazione del prezzo di 3* grado in altri modi, ad esempio in
molti mercati i consumatori sono meglio informati di altri sui prezzi. Quindi un modo che le imprese
hanno per poter praticare prezzi diversi ai consumatori consiste nel fissare un prezzo di listino
elevato, così l’impresa farà pagare il prezzo di listino a meno che un cliente non reclami, poiché in
tal caso il negozio praticherà un prezzo più basso. Questo metodo di fissazione del prezzo porta i
consumatori disinformati a pagare prezzi più elevati rispetto a quelli informati. Altri metodi
consistono ad esempio nel fare pagare un prezzo più basso a chi va ritirare il prodotto in negozio
piuttosto che farselo spedire a casa,oppure nello sfruttare la diversa propensione dei consumatori
ad attendere per un nuovo prodotto (es. quei consumatori che pagherebbero qualsiasi prezzo per
essere i primi a poter usufruire del nuovo prodotto,come un nuovo smartphone o un nuovo
film).Tuttavia quest’ultima tecnica non sempre è efficace poiché alcuni consumatori posticipano
l’acquisto sapendo che il prezzo col tempo tenderà a scendere.
Non esiste ambiguità sugli effetti di benessere della discriminazione di 1° grado. L’output è al
livello efficiente, concorrenziale, ma i consumatori sono più poveri che in condizioni di
concorrenza, quindi la discriminazione di 1° grado non distorce l’efficienza, ma influisce sulla
distribuzione del reddito. Gli effetti della discriminazione di terzo grado sono più difficili da
analizzare: i consumatori finiscono con l’avere meno soldi che in condizioni di concorrenza, inoltre i
prezzi superano i costi marginali, quindi non sono efficienti. La discriminazione del prezzo di 3°
grado, però può essere migliore o peggiore dal punto di vista dell’efficienza rispetto alla situazione
che si determina con un monopolista non discriminante a seconda della forma delle curve di
domanda e di costo. Più la discriminazione imperfetta del prezzo si avvicina a quella perfetta, più è
probabile che porti ad un esito più efficiente rispetto a quello del monopolista non discriminante.
Nella discriminazione di 3° grado sono presenti tre fonti di inefficienza: in primo luogo si ha
un’inefficienza nella produzione, poiché il prezzo supera i costi marginali e quindi si ha una
riduzione dell’output; in secondo luogo si ha un’inefficienza nel consumo, poiché i consumatori
diversi pagano prezzi unitari diversi per il medesimo prodotto; infine i consumatori devono
impiegare risorse per ottenere un prezzo basso, tuttavia queste risorse spesso non vanno a
beneficio dell’impresa (ad esempio aspettare la coda), quindi l’impresa considererà
quest’inefficienza costringendo il consumatore ad acquistare anche un “male” (ad esempio il tempo
di attesa). Le leggi antitrust proibiscono certi tipi di discriminazione del prezzo. L’analisi delle
normative più recenti mostra che non costituisce una violazione della legge antitrust discriminare il
prezzo tra i consumatori finali, ma lo è farlo tra le imprese in modo da influire sulla loro
concorrenza.
Analizziamo metodi più complessi di discriminazione del prezzo si nota che essi consentono alle
imprese di aumentare i propri profitti, a condizione che esse abbiano potere di mercato e possano
impedire la rivendita. I metodi più complessi di discriminazione del prezzo sono, ad esempio: la
fissazione di un prezzo non lineare; le tariffe in due parti; gli sconti sulle quantità; le vendite
abbinate di due (o più) prodotti e la scelta di qualità. Questi metodi non esigono che l’impresa
abbia tante informazioni sui consumatori.
Si ha un prezzo non lineare quando la spesa totale di un consumatore per un prodotto non
aumenta in modo lineare (cioè proporzionalmente) con la quantità acquistata, infatti il prezzo
unitario varia al variare del numero di unità acquistate dal cliente. I prezzi non lineari vengono
utilizzati per attuare una discriminazione del prezzo di 2° livello, mediante la quale un’impresaè in
grado di impedire la rivendita tra i singoli consumatori e fa pagare a clienti diversi prezzi diversi,
pur non conoscendo la domanda dei singoli. L’impresa utilizza, invece, le sue conoscenze sulla
distribuzione della domanda tra la popolazione. Esistono diversi meccanismi di prezzo non lineare,
ad esempio:
1. Tariffa unica in due parti. Un’impresa che utilizza una tariffa in due parti fa pagare ai
consumatori una somma fissa per avere il diritto ad acquistare i prodotti ed un prezzo unitario
per l’uso dei prodotti. Quando viene usata una tariffa in due parti, un’impresa deve poter
impedire la rivendita; in caso contrario un cliente potrebbe pagare la sua quota fissa ed
acquistare tutti i prodotti, per poi rivenderli agli altri consumatori. Così facendo l’impresa
incasserebbe solo una quota fissa. Quando i consumatori sono uguali,si può usare una tariffa
in due parti per estrarre tutto il surplus del consumatore. Di solito, però, esiste più di un tipo di
consumatore e l’impresa non è in grado di distinguere i vari tipi. Ipotizziamo allora che
l’impresa sappia che la domanda varia tra la popolazione, ma manchi di informazioni specifiche
sulla domanda di ogni singolo consumatore. Per esempio servendosi di sondaggi di mercato
l’impresa può essere consapevole che il 50% dei suoi clienti attribuisce un grande valore ai
beni che essa vende, mentre l’altro 50% potrebbe passare facilmente ad un altro prodotto.
Anche se l’impresa conosce la distribuzione generale della domanda, può non riuscire a
stabilire a quale gruppo appartiene un particolare cliente. Ipotizziamo che esistano solo
consumatori di due tipi e che le relative curve di domanda siano quelle presentante nel grafico
seguente, il quale indica: in primo luogo che un cliente del tipo 2 è disposto a comprare di più
al livello di prezzo p rispetto ad un cliente del tipo 1; in secondo luogo che un cliente del tipo 2
beneficerà di un maggiore surplus rispetto ad un cliente del tipo 1 (T1 > T2). Se un’impresa che
pratica un prezzo unitario p, potesse individuare il tipo di cliente, potrebbe far pagare ad un
cliente del tipo 1 una quota fissa pari a T1 e ad un cliente del tipo 2 fa pagare una quota fissa
pari a T2. Ipotizziamo che l’impresa debba scegliere un’unica tariffa in due parti, quindi dovrà
scegliere una quota fissa, T, ed un prezzo unitario, p, così da massimizzare i profitti. Se
l’impresa non è in grado di distinguere tra un tipo di cliente e l’altro e fa pagare una tariffa in
due parti unica che consiste di un prezzo unitario pari a p, se vuole che i clienti del tipo 1
comprino il prodotto, la somma fissa che essa decide di applicare non può superare T1.
L’impresa si trova di fronte ad un dilemma, cioè se fa pagare un pezzo basso vende una
quantità maggiore del prodotto e può ottenere una somma fissa più elevata. D’altro canto,
però, la sua capacità di far pagare una quota fissa per estrarre il surplus dei consumatori del
tipo 2 è vincolata dalla scarsa disponibilità a pagare dei consumatori del tipo 1. In molti casi
l’impresa può ottenere profitti più elevati concentrandosi sui clienti del tipo 2, lasciando che i
clienti del tipo 1 decidano di non acquistare il prodotto. Meno simili sono i consumatori del tipo
1 ai clienti del tipo 2, più è difficile per l’impresa ottenere il surplus del consumatore dai clienti
del tipo 2 con una tariffa unica in due parti.
Di solito la tariffa ottimale in due parti produce più profitti di un prezzo unico perché quest’ultimo è
un tipo particolare di tariffa in due parti in cui la quota fissa è pari a zero. La tariffa ottimale in due
parti determina minori profitti della discriminazione del prezzo di 1° grado, ma può produrre
secondo le circostanze, profitti superiori o inferiori rispetto alla discriminazione del prezzo di 3°
grado. A differenza di quanto accade nel caso di quest’ultima discriminazione non è necessario
che un’impresa sia in grado di individuare quale tipo di consumatore utilizzerà la tariffa in due parti.
Si può concepire una tariffa in due parti come una tariffa che consiste in una quota fissa per un
prodotto e una marginale per un altro(Es.macchina polaroid che usa solo pellicole polaroid).In
generale la quota fissa aumenta al diminuire della differenza tra la quantità media acquistata e la
quantità acquistata dal cliente marginale e a mano a mano che l’elasticità della domanda cresce.Il
prezzo legato all’utilizzo del bene aumenta con la diminuzione dell’elasticità della domanda e con
la crescita della differenza tra le quantità acquistate dal cliente medio e da quello marginale.
2. Tariffe in due parti doppie. Identificare il meccanismo di fissazione di un prezzo non lineare
che porti un’impresa a massimizzare i profitti di monopolio è un’operazione complessa.
Ipotizziamo che un’impresa conosca le curve di domanda di due tipi di consumatori (del tipo 1
e del tipo 2) e la prevalenza dei due tipi di consumatori nella popolazione, ma non conosca a
quale tipo appartenga ogni singolo consumatore. L’impresa può offrire ai consumatori la
possibilità di scegliere tra due listini diversi di tariffe in due parti. Ogni consumatore sceglie o
autoseleziona il listino che corrisponde al livello più elevato di utilità. Le intercette sull’asse
delle ordinate corrispondono alla quota fissa prevista dalla tariffa in due parti e la pendenza
delle curve rappresenta, invece, i costi marginali costanti. In base all’esame dei due listini il
consumatore che vuole acquistare poche unità del bene, paga una somma inferiore scegliendo
il listino 1, mentre il cliente che vuole acquistare molte unità spende meno optando per il listino
2 delle tariffe in due parti. Seguendo questo ragionamento i consumatori, come si nota nel
grafico seguente, scelgono sempre l’inviluppo inferiore delle due curve. Se l’impresa sapesse
quali consumatori appartengono ad ogni gruppo (e se potesse impedire la rivendita) potrebbe
elaborare una tariffa in due parti per ogni gruppo di clienti.
La politica ottimale quando l’impresa è in possesso delle informazioni necessarie, consiste nel
praticare a ciascun consumatore un prezzo pari al costo marginale,m, ed assicurarsi il surplus di
ogni consumatore facendo pagare una quota fissa.Quindi se nella figura 10.1 p=m,l’impresa fa
pagare al consumatore del tipo 1 una tariffa T1 e al consumatore del tipo 2 ,T2.Supponiamo che
l’impresa abbia annunciato di praticare due tariffe in due parti:una pari a (T1,m) e l’altra
(T2,m),dove il primo numero tra parentesi è la quota fissa e il secondo è il prezzo marginale.Se i
due tipi di consumatori hanno curve di domanda come il grafico 10.1 nessuno di loro sceglierebbe
mai la tariffa numero 2 in due parti,perchè T2 sarebbe maggiore di T1.Quindi tutti i consumatori
opterebbero per T1 in due parti.Questo fa si che l’impresa non possa applicare una
discriminazione del prezzo perfetta ed elabora la propria struttura dei prezzi in modo da
massimizzare i profitti ma condizionata al vincolo di autoselezione ,ossia una restrizione della
struttura dei prezzi dell’impresa tale per cui i consumatori di qualsiasi gruppo non preferiscono la
tariffa in due parti di un altro gruppo.
Ipotizziamo che ad ogni dato prezzi consumatori del tipo 2 domandino un maggior numero di unità
dei consumatori del tipo 1. La politica ottimale dell’impresa consiste nel fare in modo che la quota
fissa che devono pagare i consumatori del tipo 2 (T2) superi quella del consumatori del tipo 1 (T1)
e che il prezzo marginale dei consumatori del tipo 2 (p2) sia inferiore a quello per i consumatori del
tipo 1 (p1). Offrendo un prezzo basso a chi ha una domanda elevata i clienti ottengono un grande
surplus del consumatore che l’impresa si assicura mediante la quota fissa (T2), il quale essendo
elevato scoraggia gli acquirenti di piccole quantità (del tipo 1) i quali preferiscono pagare un prezzo
marginale più alto per le quantità più piccole che comprano. In altre parole, gli acquirenti di grandi
quantità (del tipo 2) attribuiscono un valore maggiore ai prezzi bassi rispetto agli acquirenti di
piccole quantità (del tipo 1), consentendo così all’impresa di distinguere i due gruppi.
I consumatori del tipo 2 beneficiano della presenza dei consumatori del tipo 1.Senza quest’ultimi,i
consumatori del tipo 2 otterrebbero un’utilità pari a 0.La diversità dei consumatori aiuta quindi i
clienti con domanda elevata.
Una vendita abbinata di due (o più) beni è una vendita in cui un consumatore può acquistare un
prodotto solo se ne acquista anche un altro(es. caffè e zucchero). A seguito delle vertenze sorte a
causa delle restrizioni legali all’uso delle vendite abbinate esiste un’ampia documentazione sulle
imprese che utilizzano questo tipo di vendita. Le vendite abbinate possono essere utilizzate per
discriminare il prezzo perché consentono ad un monopolista di aumentare i propri profitti ben oltre
quello che guadagnerebbe se i due prodotti venissero offerti in vendita singolarmente a prezzi
costanti. Anche se le vendite abbinate possono essere usate per discriminare il prezzo, è
importante riconoscere che esistono molti altri motivi per effettuare questo tipo di vendite, che non
sono connessi alla discriminazione del prezzo. Le vendite abbinate possono essere usate per
diversi scopi:
a. Aumentare l’efficienza. Le scarpe con i lacci, per esempio, di solito vengono vendute con i
lacci, poiché risulta più efficiente (cioè fa abbassare i costi di transazione) vendere questo tipo
di scarpe con i lacci inclusi, piuttosto che vendere scarpe e lacci separatamente. Inoltre le
vendite abbinate fanno risparmiare sui costi derivanti dalla scelta dei singoli componenti di un
prodotto, poiché si riducono i costi totali di ricerca se l’acquirente deve comperare vari articoli
insieme.
b. Evitare la regolamentazione dei prezzi. Un metodo per aggirare i controlli dei prezzi consiste
nel vendere l’acciaio al prezzo imposto, ma solo a condizione che il consumatore paghi una
somma pari a 5,25 perché deve acquistare una matita che costa 0,25 alla produzione. Così
facendo il prezzo di equilibrio dell’acciaio (p = 5) viene mantenuto e si ottempera alla
regolamentazione dei prezzi.
c. Praticare tagli segreti sui prezzi. Un’impresa che opera in un oligopolio, per esempio, potrebbe
trovare conveniente concedere sconti sui prezzi senza che i concorrenti lo sappiano. Essa può
farlo vendendo un prodotto al prezzo di oligopolio, ma abbinando quella vendita ad un altro
prodotto con un prezzo molto basso.
d. Garantire la qualità. La Kodak, per esempio, sosteneva di aver abbinato lo sviluppo dei
negativi, alla vendita delle pellicole ,poiché non riteneva che i negozi fotografici indipendenti
potessero effettuare il servizio con una professionalità pari alla sua. Di solito un’impresa può
assicurare la qualità costringendo i consumatori ad acquistare un altro dei suoi prodotti o
servizi oppure a non utilizzare sostituti.
Un ulteriore motivo a giustificazione delle vendite abbinate, è l’aumento dei profitti di monopolio. In
altre parole, se un’impresa detiene il monopolio di un prodotto può essere in grado di aumentare i
propri profitti abbinando un altro bene alla vendita del prodotto monopolizzato. Esistono due tipi
piuttosto comuni di vendite abbinate.
1. La vendita abbinata a pacchetto (raggruppamento) che si verifica quando due o più prodotti
vengono venduti solo in proporzioni fisse, per esempio un negozio esige che se si acquista un
barattolo di caffè si deve comprare, anche, un pacco di zucchero.
1. Comportamento strategico cooperativo è l’insieme delle azioni che rendono più semplice
alle imprese di un’industria coordinare le proprie iniziative e limitare il dinamismo competitivo.
Questo comportamento mira a far aumentare i propri profitti e quelli di tutte le imprese di un
mercato, così facendo si riduce la concorrenza.
Le leggi antitrust, che tentano di limitare l’acquisizione di potere di mercato che riduce il benessere
collettivo, vengono utilizzate per combattere certi tipi di comportamento strategico. La prima legge
antitrust statunitense è lo Sherman Act, che fu approvata nel 1980, proibisce tutti i contratti ,le
alleanze e le cospirazioni che limitano gli scambi.
1. Vantaggio della prima mossa. L’impresa deve avere un vantaggio sui propri rivali, ad esempio
deve essere in grado di agire prima dei concorrenti, per così svolgere azioni contro il loro
interesse, prima che queste agiscono contro di lei.
Affinché il comportamento strategico di un’impresa abbia successo i rivali devono essere convinti
che l’impresa continuerà a perseguire la strategia fino a quando è necessario. Ad esempio,
un’impresa già esistente (incumbent) può preannunciare di adottare una rappresaglia molto dura
se un’impresa entra nel suo mercato, tuttavia, il solo annuncio non farà sì che i rivali le diano
importanza, infatti è necessaria una minaccia credibile, ovvero le concorrenti devono ritenere
che la strategia sia razionale, nel senso che l’impresa che la applica deve continuare ad usare
tale comportamento. Esistono diverse strategie per rendere una minaccia credibile. Queste
strategie sono efficaci quando ci sono barriere all’entrata e all’uscita che impediscono ad un’altra
impresa identica di utilizza la medesima strategia. Esempi di strategie sono:
La politica predatoria dei prezzi. Un’impresa adotta una politica predatoria dei prezzi
quando, innanzitutto, riduce il proprio prezzo ad un livello molto basso per spingere i
concorrenti ad uscire dal mercato e per scoraggiare l’entrata da parte di potenziali imprese;
secondariamente, adotta una tale strategia quando aumenta il prezzo una volta che i rivali
sono usciti dal mercato. In altri termini, l’impresa incorre in perdite di breve periodo per
ottenere profitti di lungo periodo. L’impresa per rendere la minaccia credibile, deve convincere i
concorrenti che è disposta a far scendere il prezzo al di sotto dei costi e mantenerlo a tal livello
fino a quando essi lasceranno l’industria. Quando l’impresa riesce a eliminare i concorrenti
attuali , aumenta il prezzo:si crea un incentivo poiché nuove imprese vorranno entrare
nell’industria; di conseguenza, l’impresa esistente dovrà abbassare nuovamente il prezzo per
costringere queste nuove imprese ad uscire dal mercato. Perché la politica predatoria dei
prezzi abbia successo le imprese potenziali devono credere che non sia conveniente entrare
nel settore, a causa del comportamento relativo ai prezzi da parte dell’impresa dominante. Se
l’impresa che attua questa strategia riesce a spingere i concorrenti fuori dal mercato, dovrebbe
tentare di ottenere il controllo dei loro capitali o assicurarsi che si siano ritirati definitivamente
dall’industria. In caso contrario, i rivali potrebbero utilizzare quei capitali per entrare
nuovamente nel mercato e fare concorrenza all’impresa che attua la politica predatoria dei
prezzi.
Le politiche predatorie dei prezzi con imprese tutte uguali . Il comportamento predatorio
ha poche probabilità di avere successo se le imprese sono identiche, poiché nel
periodo in cui l’impresa esistente pratica prezzi predatori incorre in perdite molto
maggiori di quelle di un rivale, infatti essa deve soddisfare tutta la domanda del mercato
ad un prezzo basso per potere mantenere il prezzo a tale livello. Tuttavia, il concorrente
è libero di ridurre l’output così da minimizzare le perdite. Si ipotizzi che vi siano solo
due imprese (una già presente “incumbent” ed una entrata di recente). Come mostra il
grafico seguente, l’impresa esistente abbassa il prezzo di mercato fino a p* per
infliggere delle perdite al rivale e spingerlo a uscire dal mercato. La curva di domanda
mostra che affinché il prezzo rimanga a tale livello, devono essere vendute q* unità di
output. Se il concorrente non esce dall’industria e produce qe unità, per le quali p* è
uguale al suo costo marginale, subisce una perdita pari ad A; di conseguenza per
mantenere il prezzo al livello p* l’impresa già esistente deve produrre qi unità di output
(q* - qe) in modo tale che l’output totale dell’industria sia q*. Questo significa che
l’impresa esistente produce ad un costo marginale ed ad un costo totale medio più
elevato di quello del suo concorrente e subisce delle perdite totali pari all’area A più
l’area B; di conseguenza, la perdita dell’impresa già esistente è maggiore di quella del
concorrente, di un importo pari a B.
Se le due imprese hanno le stesse funzioni di costo, l’impresa che subirà la politica predatoria dei
prezzi non avrà motivo per credere che l’impresa già esistente sia in grado di subire perdite
maggiori delle sue, per tutto il tempo necessario a far sì che essa esca dall’industria. Per tale
motivo l’azione non viene considerata razionale e quindi non risulta credibile. Se un’impresa
entrante teme che il suo ingresso nel mercato possa scatenare una guerra dei prezzi e far
scendere i prezzi sotto i costi unitari, può evitare questo problemi in diversi modi, ad esempio:
l’impresa entrata si può fondere con l’impresa già esistente (tuttavia le leggi antitrust limitano le
fusioni a scopo monopolistico); l’impresa entrante può stipulare contratti con gli acquirenti così da
determinare il prezzo, prima della sua entrata nel mercato, così da rendere nullo l’effetto della
riduzione del prezzo dell’impresa già esistente; infine l’impresa entrante può diminuire l’output nei
periodi in cui vengono attuate politiche predatorie dei prezzi in modo tale da ridurre le perdite. Il
concorrente può cambiare facilmente settore se non incorre in elevati costi irrecuperabili, quindi se
egli ha costi irrecuperabili limitati l’impresa esistente non ha speranza di attuare delle politiche
predatorie dei prezzi di successo, perché non esiste modo per imporre delle perdite al rivale. In
altre parole, in mercati perfettamente contendibili le politiche predatorie non possono mai avere
successo.
Le politiche predatorie dei prezzi quando un’impresa ha un vantaggio . Il motivo per cui
è poco probabile che le politiche predatorie dei prezzi abbiano successo quando le
imprese hanno costi identici è che le imprese che le mettono in atto subiscono perdite
maggiori di quelle che dovrebbero essere vittime. Di conseguenza, perché la politica
predatoria abbia successo l’impresa già esistente deve avere un vantaggio intrinseco
sui rivali. Nei primi studi sulle politiche predatorie dei prezzi, l’impresa già esistente
veniva immaginata come una grande impresa ed il concorrente come una piccola
impresa, poiché si ipotizzava che le grandi imprese potessero permettersi di incorrere
in perdite durante i periodi di politica predatoria in misura maggiore delle piccole
imprese. Questi primi studi non spiegano perché successivamente non entrino altre
grandi imprese. Se le piccole imprese sono svantaggiate nella competizione con le
grandi imprese, solo quest’ultime rimarranno sul mercato; dunque si avranno settori con
sole grandi imprese.Tuttavia la concorrenza solamente fra le grandi imprese non porta
necessariamente a profitti di monopolio, pertanto non è detto che tali politiche
garantiscano profitti monopolistici anche quando le piccole imprese sono inefficaci. Gli
studi recenti sul comportamento predatorio spiegano, invece, che differenze nelle
aspettative delle imprese sui rivali possono portare a politiche predatorie dei prezzi di
successo. Ad esempio si ipotizza che l’impresa già esistente possa avere sia costi
bassi sia costi elevati, e che solo lei conosca il livello effettivo dei suoi costi. L’impresa
esistente, in seguito all’entrata, può abbassare i prezzi sia perché rappresenta una
mossa concorrenziale vantaggiosa se ha costi bassi, sia perché vuole adottare una
politica predatoria dei prezzi se ha costi elevati. L’impresa già esistente può, quindi,
avere la fama di essere molto efficiente perché è in grado di rispondere ad un’eventuale
entrata con prezzi molto bassi.
La fissazione di un prezzo limite. Un’impresa attua una strategia di prezzo limite se fissa il
prezzo e l’output in modo che non rimanga domanda sufficiente ad un’altra impresa per entrare
con profitto nel mercato. Nei primi modelli l’impresa potenziale entrante ritiene che quella
esistente non cambierà i volumi produttivi dopo l’entrata della nuova impresa.. di conseguenza,
l’impresa entrante ritiene che l’output totale dell’industria sarà pari al proprio più quello attuale
dell’impresa già esistente, date le aspettative del potenziale entrante, sceglie il livello di output
in modo da eliminare l’incentivo del rivale ad entrare. Ipotizziamo che l’impresa già presente ed
una potenziale entrante abbiano la medesima curva dei costi totali medi; se l’incumbent
produce qi unità (e continuerà a farlo in caso di entrata dell’impresa concorrente) la curva di
domanda che affronta l’impresa entrante (quindi la domanda residuale) sarà uguale alla curva
di domanda del mercato meno qi. Se l’impresa potenziale entrante non entra nel mercato,
l’incumbent vende le qi unità ad un prezzo di p*. Se, invece, la nuova impresa entra nel
mercato e produce qe unità di prodotto, l’output totale dell’industria è pari a qi + qe ed il prezzo
di mercato sarà par a p’. A causa della scelta di produrre qi unità da parte dell’incumbent, p’ è
uguale ai costi medi per la produzione di qe unità, di conseguenza per la nuova impresa è
indifferente entrare o non entrare (quindi presumibilmente non entrerà). Quindi il prezzo limite
p’ impedisce l’entrata. L’incumbent per impedire l’entrata non deve produrre qi, ma deve
convincere l’impresa potenzialmente entrante che produrrà qi unità se si verificasse l’entrata.
Il principale problema connesso al comportamento strategico di fissazione di un prezzo limite, è
che con due imprese aventi le medesime funzioni di costo, la minaccia da parte dell’impresa già
esistente non sarà credibile, poiché tale comportamento non farà massimizzare i profitti
all’incumbent.
Per evitare la strategia di prezzo limite, l’impresa entrante potrà entrare nell’industria con contratti
a prezzo fisso già stipulati (stabilendo un prezzo leggermente inferiore a p* e ben superiore ai
costo medi). Per rendere credibile ed efficace la politica di prezzo limite, un’impresa già esistente
deve perseguire una strategia in cui risulta per lei ottimale produrre qi unità al prezzo limite p’
dopo l’entrata. Se le due imprese hanno le stesse curve di costo medio, non è credibile che
l’incumbent mantenga l’output invariato una volta che si verifica l’entrata di un’altra impresa;
tuttavia, la minaccia sarà credibile se l’impresa già esistente può modificare la situazione di
mercato, così da avere l’incentivo a produrre qi unità dopo l’entrata. Ad esempio, l’incumbent potrà
rendere credibile la minaccia di produrre sempre qi unità, costruendo prima dell’entrata uno
stabilimento capace di produrre solo qi unità di prodotto. Nella prima fase di questo gioco l’impresa
esistente deve sostenere delle spese per limitare le proprie possibilità produttive (ad esempio, la
costruzione di uno stabilimento). Così facendo sembrerebbe che l’impresa si autodanneggi:
tuttavia trae un vantaggio da questa restrizione, poiché rende credibile la sua minaccia e fa sì che
l’impresa entrante non entri nel mercato. In generale un’impresa può avvantaggiarsi se si può
vincolare anticipatamente. Il grafico seguente mostra la rappresentazione in forma estesa del
gioco della strategia del prezzo limite, cioè illustra la sequenza delle azioni e degli esiti possibili per
entrambe le imprese. Ogni linea rappresenta un’azione ed ogni riquadro un punto decisionale. Gli
esiti delle azioni sono indicati tra parentesi, dove per primi vengono elencati i profitti dell’impresa
esistente. Nella prima fase del gioco l’incumbent sceglie tra due tecnologie produttive: una
tecnologia flessibile ed una tecnologia rigida (permette di produrre solo qi). Nella seconda fase
l’impresa entrante decide se entrare nel mercato o non entrarvi. Per stabilire la strategia ottimale
nel primo stadio, l’impresa esistente risolve il gioco a ritroso, iniziando dalla parte in alto a destra
del diagramma, quindi l’impresa entrante scarterà (due trattini sulla linea) l’ipotesi di entrare nel
mercato se l’incumbent adotterà una tecnologia rigida. Allo stesso modo l’impresa entrante
scarterà l’ipotesi di non entrare nel mercato se l’incumbent adotterà una tecnologia flessibile.
L’incumbent sceglierà la propria tecnologia studiando i profitti ottenibili, a seguito delle scelte fatte
dall’impresa entrante (2.000 se adotta una tecnologia rigida e l’impresa entrante decide di non
entrare nel mercato; 500 se adotta una tecnologia flessibile e l’impresa entrante decide di entrare
nel mercato). Di conseguenza si stabilisce che l’impresa già esistente massimizza i propri profitti
producendo una tecnologia rigida, quindi scarta l’ipotesi di adottare una tecnologia flessibile.
Comportamenti adottati per aumentare i costi dei concorrenti. Un’impresa può beneficiare
di un comportamento strategico che fa aumentare i costi dei suoi concorrenti. Nei modelli di
oligopolio, un’impresa presenta profitti che dipendono dal differenziale esistente tra i suoi costi
e quelli dei concorrenti. Se un’impresa può aumentare questo differenziale senza incorrere in
spese, può realizzare profitti maggiori a scapito dei suoi rivali. Per influenzare sui costi di un
concorrente, un’impresa deve godere di potere di mercato o di influenze politiche. Un’impresa
si avvantaggia se fa crescere il differenziale tra i suoi costi e quelli dei concorrenti; inoltre può
anche beneficiare di azioni che fanno lievitare i propri costi se però le medesime azioni fanno
crescere in modo maggiore i costi dei concorrenti. L’impresa potrebbe usare diversi metodi:
Metodi diretti. Un’impresa può far salire in modo diretto i costi dei concorrenti se riesce
ad inferire con i metodi di produzione o di vendita dei concorrenti (un esempio estremo
potrebbe essere sabotare i macchinari di un’impresa concorrente). Se l’impresa sleale
deve sostenere dei costi per far salire i costi del concorrente, deve bilanciare le
maggiori spese sostenute per il sabotaggio con il beneficio derivante dall’aumento dei
costi del concorrente.
Aumento dei costi di cambiamento. Un’impresa può rendere difficile per il consumatore
che acquista il suo prodotto passare in futuro al prodotto di un’impresa entrante.
Aumentare i salari o i prezzi di altri input . Un’impresa esistente che utilizza una diversa
tecnologia di produzione rispetto a quella dei suoi concorrenti può riuscire a far
aumentare sproporzionatamente i costi di quest’ultimi facendo salire il costo di un
particolare input per tutte le imprese dell’industria. Ad esempio, se un’impresa
concorrente utilizza più lavoro per prodotto unitario di quanto faccia l’impresa già
presente, i costi di questa salgono meno di quelli dell’impresa entrante in seguito a un
aumento dei salari. Anche se i profitti totali dell’industria scendono, in caso di aumento
dei salari, la quota di mercato dell’impresa con tecnologia a minore intensità di lavoro
può crescere in modo sufficiente da far salire i suoi profitti. Per capire come l’aumento
dei costi di un concorrente può far crescere i profitti di un’impresa già esistente anche
se i suoi costi aumentano, si può analizzare, con il grafico seguente, il caso di
un’impresa esistente che utilizza meno lavoro per unità di prodotto di un concorrente. Si
ipotizza che l’impresa già presente abbia costi marginali e costi medi costanti pari a m,
fino al raggiungimento della piena capacità (q1 unità di output), punto in cui essi
diventano infinitamente grandi. Esistono diversi concorrenti che presentano costi
marginali costanti ad un livello di m1. In assenza di un comportamento strategico il
prezzo di equilibrio dell’industria è m1 e per l’impresa già esistente sarà ottimale
produrre alla capacità q1, poiché i profitti saranno pari a: (m1 – m)q1. Si ipotizzi che
l’impresa già esistente possa far aumentare i costi marginali delle imprese concorrenti
(da m1 a m2) restando invariati i propri costi. Così facendo il prezzo di equilibrio diventa
m2 ed il livello ottimale di produzione rimane fisso a q1. Quindi i profitti aumentano
diventando pari a: (m2 – m)q1.
L’impresa esistente può trovare conveniente far aumentare i costi di tutte le imprese presenti in
un’industria (compresi suoi). Spesso esiste un’asimmetria tra l’impresa già esistente e le imprese
potenzialmente entranti, poiché la prima ha già sostenuto le spese (costi irrecuperabili), quindi si
rende improbabile la sua uscita dall’industria. Avendo già sostenuto le spese, l’impresa già
esistente si è vincolata a rimanere nell’industria e da questo ne trae un vantaggio strategico,
poiché disincentiva le altre imprese a entrare nell’industria. Dal grafico seguente, si evince che
prima dell’entrata l’impresa ottiene profitti di monopolio pari a 100. Con l’entrata, l’impresa già
presente e l’impresa entrante ottengono complessivamente un profitto di duopolio pari a 80. Se
l’impresa già presente e quella entrante si dividono equamente i profitti di duopolio, l’impresa
entrante sarebbe disposta a spendere la metà dei profitti di duopolio (40) per entrare nell’industria,
mentre l’impresa già esistente pagherebbe la differenza fra il profitto di monopolio e la metà dei
profitti di duopolio (60) per tenere fuori l’impresa entrante. Poiché il profitto di monopolio è
superiore al profitto di duopolio sarà più vantaggioso per il monopolista tenere fuori l’impresa
entrante che per quest’ultima entrare nel mercato. Se l’impresa già presente può far salire di 50 i
costi di tutte le imprese, i profitti dell’impresa già presente saranno pari a 50 se l’entrante non
entrerà nell’industria, al contrario l’impresa già presente nel mercato avrà perdite pari a 10 se
l’impresa entrante deciderà di entrare. Questo significa, in primo luogo, che l’impresa
potenzialmente entrante deciderà di non entrare nel mercato per non incorrere in perdite; in
secondo luogo, che l’impresa già presente aumenterà di 50 i costi di tutte le imprese attive nel
mercato perché i profitti di monopolio saranno maggiori ai profitti di duopolio in assenza di
aumento dei costi.
Sebbene, spesso, un’impresa già presente abbia un vantaggio naturale che può sfruttare a suo
favore, a volte è l’impresa entrante ad avere questo vantaggio. Ad esempio una grande impresa
che soffre di una maggiore diminuzione dei profitti rispetto ad un’impresa più piccola se il prezzo
cala, può scegliere di consentire l’entrata piuttosto che impegnarsi in una guerra dei prezzi. Quindi
un’impresa che entra con una piccola scala produttiva può farlo senza timore di rappresaglie. Se
una grande impresa decide di reagire all’entrata, un’alternativa alla riduzione uniforme del suo
prezzo è l’introduzione di una nuova marca (fighting brand) il cui prezzo è basso e la disponibilità è
limitata, solo in quelle zone in cui ha successo un concorrente. Così facendo la grande impresa
può combattere l’entrata senza abbassare il prezzo a tutti i clienti. Allo stesso modo, un’impresa
che produce molti prodotti sostituibili considera costosa la concorrenza in termini di prezzo
relativamente ad un solo prodotto perché influisce anche sui ricavi degli altri prodotti. Al contrario,
per un’impresa che produce beni complementari non è molto costosa una guerra dei prezzi relativa
ad un prodotto, dato che la diminuzione dei profitti su tale prodotto è compensata dall’aumento dei
profitti relativi ai prodotti complementari.
Il termine comportamento strategico cooperativo designa le azioni effettuate da imprese rivali nel
proprio interesse e che innalzano il prezzo di oligopolio ad un livello più vicino a quello di
monopolio. La teoria del comportamento strategico cooperativo si fonda sulla teoria dei cartelli,
secondo la quale i profitti di oligopolio dipendono dalla capacità di ogni membro del cartello di
assicurare agli altri che non sta tentando di sottrarre clienti all’impresa rivale. Maggiore è la
reciproca sicurezza, più facile è per le imprese riuscire a far pagare un prezzo superiore al livello
concorrenziale. Esistono diverse azioni strategiche cooperative per innalzare i prezzi:
Prezzi uniformi. Se a tutti i clienti di un’impresa viene fatto pagare lo stesso prezzo sarà
costoso per l’impresa tentare di rubare i clienti ad un concorrente offrendo loro un prezzo
leggermente inferiore (poiché il prezzo dovrà essere applicato a tutti i clienti). L’uniformità del
prezzo riduce i guadagni che l’impresa potrebbe realizzare sottraendo i clienti al rivale; inoltre,
se tutti i clienti dell’impresa pagano il medesimo prezzo, sarà più facile per il rivale identificare il
taglio del prezzo.
Penalità per sconti sui prezzi. Un ulteriore incentivo prevede che qualora un’impresa adotti una
politica di riduzione dei prezzi, esso verrà esteso a tutti i clienti dell’impresa per un certo
periodo di tempo.
Preavviso di variazione dei prezzi. I cartelli hanno difficoltà a mantenere un accordo sui prezzi
quando quest’ultimi sono frequentemente soggetti a variazioni. Al momento della variazione di
prezzo le imprese non si fidano l’una dell’altra perché è probabile che ogni impresa venda a
prezzi diversi. La prima impresa ad aumentare il prezzo (impresa leader) si trova in svantaggio
perché perde quote di mercato a causa del prezzo elevato, quindi nessuna impresa vorrebbe
essere un’impresa leader. Un modo per ovviare a tale problema consiste nel dare un preavviso
degli aumenti di prezzo, questa tattica consente alle altre imprese dell’industria di decidere se
sottoscrivere l’aumento dei prezzi prima che entri in vigore; se le concorrenti decidano di non
sottoscrivere l’accordo, l’impresa che ha annunciato l’aumento può annullarlo. Così facendo le
imprese non realizzano mai prezzi diversi sul mercato e questo elimina il disincentivo ad
aumentarli.
Scambi di informazioni. Gli scambi di informazioni tra le imprese possono sia facilitare la
formazione di cartelli che promuovere l’efficienza. Un modo che un’impresa ha per convincere i
concorrenti che non sta cercando di sottrarre loro i clienti mediante sconti sui prezzi è quello di
annunciare l’identità dei nuovi clienti e le condizioni di prezzo e quantità offerte. Così facendo
quando un cliente cambia fornitore, non si determina una guerra dei prezzi da parte dei
concorrenti che ritengono che il cambiamento dei prezzi sia dovuto ad un prezzo inferiore. Un
altro metodo di comunicare informazioni consiste nel rendere pubblica la strategia dell’impresa,
in modo tale che i rivali non la interpretino in modo sbagliato e possano agire in linea con essa.
Prezzo alla consegna. Un sistema di prezzi alla consegna specifica che il prezzo totale alla
consegna è funzione della distanza dell’acquirente da una specifica località (punto base) e non
della localizzazione del venditore. Un sistema di prezzi alla consegna può essere realizzato
specificando il prezzo totale alla consegna come somma di un prezzo corrente di mercato nel
punto base più il trasporto a partire da quel punto. Questo sistema facilita la collusione perché
impedisce a imprese rivali di concedere segretamente sconti mascherati da tariffe di trasporto
più basse. Costringere tutte le imprese a far pagare lo stesso costo di trasporto o lo stesso
prezzo rende facile individuare le deviazioni da un accordo sui prezzi. Il sistema dei prezzi che
molti economisti prevedono debba emergere in un mercato concorrenziale viene definito
sistema di prezzi FOB, nel quale l’acquirente paga oltre all’effettivo costo di trasporto un prezzo
FOB (Free – On – Board) con cui il venditore carica la merce sul vettore di trasporto senza
costo per l’acquirente. Uno svantaggio della collusione attuata mediante l’impiego di prezzi alla
consegna consiste nell’impossibilità di ripartire il mercato tra i venditori.Se ad esemio ci sono
due venditori di acciaio ,uno a Torino e uno a Brescia,se Brescia è il punto base del prezzo alla
consegna ,potrebbe essere conveniente per entrambe vendere vicino Torino.Se invece le
imprese adottassero il prezzo FOB dello stabilimento più il costo di trasporto,il mercato
sarebbe diviso e un consumatore acquisterebbe in base alla vicinanza a Torino o a
Brescia.Come rappresentato nel grafico seguente,tutti i clienti a ovest di Milano acquistano da
Torino e tutti quelli a est di Milano da Brescia.Se si notasse che l’acciaieria di Brescia vende
nella zona di Torino,significherebbe che non sta rispettando l’accordo sui prezzi FOB.Per
contro,con prezzi alla consegna,tutte le imprese praticano lo stesso prezzo e non c’è divisione
netta di mercato.Inoltre,con i prezzi alla consegna l’impresa di Torino potrebbe vendere a
Brescia e viceversa ,con trasporti incrociati del prodotto inefficienti.In generale,maggiore è la
distanza tra le imprese e più importanti sono le spese di trasporto,migliori sono i prezzi FOB
come mezzo di allocazione del mercato e di collusione rispetto ai prezzi alla consegna.
Scambi.
Capitolo 12: Integrazione verticale e restrizioni verticali
Un’impresa viene detta integrata verticalmente quando realizza internamente più stadi successivi
di produzione o distribuzione di beni e servizi. La maggior parte delle imprese sono solo in parte
integrate verticalmente. Un’impresa non integrata verticalmente può stipulare con le altre imprese,
contratti vincolanti a lungo termine (restrizioni verticali) in cui specifica non solo il prezzo, ma
anche altre condizioni o forme di comportamento. Altre imprese non integrate potrebbero acquisire
sul mercato da un numero non specificato di imprese anonime, le quali non impongono restrizioni
verticali. La decisione di un’impresa di integrarsi verticalmente, di redigere contratti con restrizioni
verticali o di rivolgersi al mercato è una decisione strategica molto importante, poiché influisce sul
comportamento in relazione ai prezzi ed alle attività promozioni dell’impresa e dei suoi rivali.
Nella maggior parte dei casi le imprese decidono di integrarsi verticalmente per ridurre i costi di
produzione o per eliminare un’esternalità di mercato. La stessa integrazione, tuttavia, implica dei
costi, quindi essa avverrà solo se i vantaggi superano i costi. I principali costi cui un’azienda che
vuole integrarsi verticalmente, affronterà sono:
Il costo di fornitura dei fattori di produzione o di distribuzione del prodotto può essere superiore
per un’impresa che si integra verticalmente rispetto a quello di un’impresa che si rivolge ai
mercati concorrenziali, poiché quest’ultimi sono capaci di effettuare tali funzioni in modo
efficiente.
I costi di gestione, così come le difficoltà, aumentano con l’aumentare delle dimensioni
dell’impresa.
L’integrazione verticale non presenta solo dei costi, ma anche numerosi vantaggi:
1. La riduzione dei costi di transazione (ad esempio costi per la stipulazione e l’applicazione
dei contratti). Quando questi costi sono elevati, quindi si hanno contratti complessi, un’impresa
può ottenere un vantaggio tenendo un comportamento opportunistico, poiché il contratto
stesso potrebbe avere delle difficoltà a specificare tutte le possibili contingenze, di
conseguenza potrebbe contenere clausole che nel tempo si possano dimostrare sfavorevoli
per una delle parti. Al contrario, se i costi sono semplici è improbabile che vi sia un
comportamento opportunistico. La possibilità di sfruttare a proprio vantaggio una determinata
situazione è maggiore quando un’impresa dipende da un’altra, tuttavia anche qualora si
individuino questi rapporti di dipendenza è difficile stipulare un contratto che elimini gli incentivi
a comportarsi in modo opportunistico. Un modo per ridurre i costi di transazione è che
l’impresa si integri verticalmente, svolgendo l’attività al suo interno. Quest’operazione trasforma
il problema del controllo da quello tra imprese a quello sui dipendenti all’interno dell’impresa
stessa. Esistono diverse situazioni in cui i costi sono tali da rendere desiderabile l’integrazione,
ad esempio: l’incertezza; le transazioni che prevedono informazioni; la necessità di un ampio
coordinamento; ed infine, i beni capitali specialistici (beni prodotti su misura per un determinato
acquirente).
2. La costanza della fornitura. Garantirsi la fornitura per tempo è importante nei mercati in cui il
prezzo non è il solo strumento utilizzato per allocare i beni. In molte industrie di beni
strumentali i clienti privilegiati spesso ottengono il prodotto anche in periodi di eccesso di
domanda, mentre gli altri devono aspettare. Quando un razionamento di tale genere è
possibile c’è un incentivo all’integrazione verticale poiché si aumenterebbe la probabilità di
ottenere per tempo il prodotto. Un’impresa ha un incentivo a produrre i propri input per
soddisfare il livello prevedibile della domanda e a far affidamento su altre imprese per i
rifornimenti necessari a soddisfare la domanda meno stabile. I fornitori esterni reagiranno a
tale situazione aumentando il prezzo quando l’impresa ordina degli input a causa di un
incremento non previsto di domanda da parte del suo mercato di sbocco.
a.iii. Monopolio a monte, quindi esiste un’unica impresa che fornisce energia e non
è possibile l’entrata di altre imprese.