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PARTE PRIMA

I fondamenti

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CAPITOLO I
Il difficile governo del territorio
 Concetto di URBANISTICA:
Il diritto urbanistico è parte del diritto amministrativo e comprende un complesso di norme che regolano la
facoltà di edificare, anche attraverso la previsione di strumenti di pianificazione del territorio e di protezione
dell'ambiente.
- definizione metagiuridica: disciplina avente ad oggetto specifico la città, di cui studia le modalità di
sviluppo e le leggi di funzionamento e di cui progetta in tutto o in parte il rinnovamento e la crescita;
- concetto giuridico: è più ampio, perché fa riferimento non solo alla disciplina della città, ma al
governo dell'intero territorio comunale, sia nella parte urbana che extraurbana.
Occorre distinguere tra:
- urbanistica: consiste nell'attività di programmazione e di pianificazione delle modifiche del territorio
(i piani urbanistici stabiliscono se è possibile costruire o meno su un determinato territorio);
- edilizia: stabilisce le modalità attraverso cui può realizzarsi la trasformazione territoriale ammessa dal
piano (necessità di permesso di costruire o meno, caratteristiche dell'edificio, qualità tecniche, …).
Fino al 1942 è mancata una legislazione urbanistica generale: ciò ha alimentato l'idea di un disinteresse dei
poteri pubblici per i problemi dell'assetto del territorio.
[ Nei secoli del medioevo era generalmente il Principe a legittimare la nascita di un nuovo agglomerato urbano attraverso apposite
licentiae populandi: le norme sull'attività costruttiva all'interno del medesimo erano poi stabilite dal feudo o dalle università a
seconda della natura dell'aggregato urbano in discussione, attraverso appositi statuti cittadini.
In tempi più recenti, i Regolamenti edilizi comunali sono stati la fonte normativa primaria per l'attività urbanistico-edilizia. Molti
dei loro contenuti sono poi stati recepiti dalla legislazione urbanistica.]

 L’urbanistica degli antichi e dei moderni: nuovi problemi


Per molti secoli la logica prevalente della politica urbanistica è stata quella di creare degli avamposti in
territori non ancora urbanizzati. Questa logica rispondeva a due esigenze fondamentali: militare (creando
nuovi insediamenti abitativi era possibile difendere più agevolmente il territorio da attacchi esterni) ed
economica (consentiva inoltre di procedere ad una più adeguata utilizzazione delle risorse agricole).
Nei secoli passati l'urbanistica aveva posto problematiche differenti:
- XVIII sec.: il problema dell'organizzazione del territorio assume in questi anni connotazioni diverse,
in conseguenza del manifestarsi di due fenomeni concomitanti: l'accelerazione del tasso di crescita
della popolazione determinato essenzialmente da un rallentamento della mortalità infantile e l'avvio
del processo di industrializzazione, soprattutto in Inghilterra e Francia. Questi due fenomeni creano le
premesse per una modifica radicale degli insediamenti, dei modi di vita e dei modelli culturali.
L'organizzazione del lavoro ha alterato bruscamente l'antico equilibrio tra città e campagna e ha
creato il fenomeno della concentrazione della popolazione nelle grandi città con sprechi enormi di
risorse e gravissime tensioni nel tessuto sociale. Le conseguenze negative dello sviluppo industriale
sul piano urbanistico non vengono percepite immediatamente ma solo nel secolo successivo;
- XIX sec.: ciò che rileva in questi anni è soprattutto la situazione sub-umana in cui il proletariato è
costretto a vivere nelle periferie delle città. E è proprio in questi anni che viene collocata la data di
nascita dell'urbanistica moderna, che si pone come me tentativo non riuscito di correggere i mali della
città industriale;
- XX sec.: il secolo in cui viviamo e quello precedente hanno visto accentuare ulteriormente le suddette
patologie. La popolazione ha continuato sempre più a concentrarsi in poche aree urbane. Problemi
nuovi sono sorti, quali quelli della carenza di servizi, traffico, inquinamento, reperimento di aree per
la localizzazione di centrali elettriche, di discariche, di termovalorizzatori,….: impianti certamente
essenziali alla vita collettiva, ma che creano forti resistenze dei gruppi sociali più esposti al loro
impatto. Tanti interrogativi si pongono oggi: come frenare lo sviluppo delle metropoli, come
governare i flussi immigratori, come tutelare centri storici,….
[ Come sottolineava il Barman: le nostre città si stanno trasformando rapidamente da ripari contro il pericolo a fonte principale del
pericolo, in un curioso rovesciamento del loro ruolo storico e a dispetto delle intenzioni originarie dei costruttori e delle aspettative
degli abitanti.]

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 Lo scoglio della PROPRIETA’: la difficoltà di rispondere ai suddetti interrogativi è inoltre
aggravata dallo scoglio della proprietà, e in particolare dagli effetti discriminatori determinati dagli strumenti
urbanistici sulla proprietà stessa. È noto infatti che i piani regolatori, incidendo sulle destinazioni d'uso delle
diverse aree, diffondono vantaggi svantaggi in varie direzioni, arricchendo improvvisamente determinati
soggetti e impoverendone altri.
In ordine a tali fenomeni si pongono due importanti interrogativi:
- come azzerare o ridurre le rendite urbanistiche (considerate appropriazioni private di un plusvalore
non legato immediatamente al lavoro)?
- come PEREQUARE la posizione tra i diversi proprietari destinatari delle scelte urbanistiche?
Molti di questi problemi derivano proprio dall'effetto paralizzante e distorsivo esercitato dalle enormi
disparità che i piani regolatori producono tra i diversi proprietari. Per risolvere tali problemi, sono state
adottate nel tempo varie misure, tendenti a:
+ alleggerimento delle spese dei comuni per le opere di urbanizzazione
+ abbattimento delle rendite: il legislatore ha predisposto nel tempo varie misure per incidere sulle rendite:
- contributo di miglioria: nelle due forme del contributo di miglioria generica e specifica. Si tratta del
meccanismo originariamente predisposto dal legislatore;
- la misura fiscale del contributo di miglioria è stata sostituita nel 1963 dall'imposta sugli incrementi di
valore delle aree edificabili;
- quest'imposta è stata poi sostituita dall’INVIM, la soppressa dal decreto 504 del 1992;
- finalità di contrasto delle rendite aveva anche la legge di disciplina dei suoli, cosiddetta legge
Bucalossi, oggi inglobata nel t.u. dell'edilizia, che sancisce il principio dell'onerosità della
concessione edilizia, alleggerendo in tal modo il costo sociale del urbanizzazione;
- alcuni tentativi del passato non andati in porto: Progetto Sullo (ipotizzava l’ esproprio generalizzato delle aree fabbricabili
a prezzo agricolo, onde pacificare la situazione dei diversi proprietari, impedire la formazione delle rendite, consentire al
comune di effettuare l'urbanizzazione con costi accettabili per la finanza pubblica; tale progetto suscitò però reazioni
molto vivaci e rimase sulla carta); criterio del cosiddetto indice convenzionale di edificabilità (vigente in Francia e oggetto
di un certo interesse anche in Italia: si tratta del rapporto tra volume dell'edificio fuori terra e la superficie edificabile del
fondo);
+ perequazione urbanistica: negli ultimi anni le anzidette istanze, hanno trovato corpo nella cosiddetta
perequazione urbanistica. Sono previste due forme di perequazione urbanistica:
- di comparto: avendo come finalità la realizzazione di quanto previsto nel piano urbanistico, permette
ai proprietari di territori di accordarsi tra di loro riguardo alla concentrazione di volumetrie all'interno
di una determinata area, in modo tale da non creare svantaggi per alcuno. Quindi corollario necessario
di questa forma di perequazione è l'unitarietà di attuazione delle previsioni di piano e quindi l'accordo
tra i diversi proprietari;
- estesa: nell'ambito della realizzazione di quanto previsto nel piano urbanistico, dà la possibilità ai
proprietari di determinate aree, di realizzare su alcuni lotti una concentrazione delle volumetrie e nel
contempo, negli altri, la realizzazione di opere di interesse collettivo. Quindi tale forma di
perequazione si basa su una serie di contratti di cubatura dei diversi proprietari in modo tale da evitare
che solo alcuni proprietari debbano necessariamente sottostare ai traumi dei vincoli.
Alla luce di ciò e, con una certa approssimazione, si può ritenere perequativo il piano urbanistico nel quale
ricorrono questi due elementi: omogenea attribuzione dei diritti edificatori tra i proprietari (a prescindere
quindi dall'eventuale edificabilità dell'area) e possibilità di trasferire i diritti edificatori da un'area ad un'altra.

 Conoscenza del territorio: la c.d. funzione conoscitiva


Il governo del territorio richiede un'adeguata conoscenza del territorio, basata su una sistematica raccolta ed
elaborazione di dati e informazioni. Tale conoscenza deve riguardare non solo l'aspetto morfologico del
territorio, ma anche le attività in esse spiccate dai diversi soggetti pubblici e privati (ad esempio: gli eventuali
vincoli archeologici precedentemente imposti; individuazione di zone minerarie, costiere, boschive; vincoli
sui beni di interesse storico artistico; …).
Quindi, una volta redatto, il piano costituisce un importante strumento conoscitivo per quanti sono chiamati
ad operare sul territorio: tale attività di reperimento ed elaborazione dei dati dovrebbe assumere un aspetto
di continuità, apparendo necessaria non solo nel momento della formazione del piano, ma anche in quello
della gestione del medesimo. Infatti, nelle più recenti leggi urbanistiche, il piano viene spesso definito come
strumento conoscitivo e prescrittivo delle attività di trasformazione del territorio. Con l'espressione
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“strumento conoscitivo” si vuol dire che il piano, in quanto mappa generale di un certo territorio, esplica
un’importante funzione informativa per quanti sono interessati al medesimo. Anche se bisogna sottolineare
che alcune prescrizioni di piano non sono il frutto di una libera scelta del comune, ma la conseguenza quasi
obbligata di ciò che si riviene in un certo territorio.

 Le più rilevanti questioni di costituzionalità: i vincoli


Tra le problematiche vanno annoverate alcune questioni di costituzionalità:
- art. 42 c. 2 Cost.: “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi
di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a
tutti”. Data tale riserva di legge, il quesito che è stato posto è il seguente: se affidare al piano regolatore,
anziché direttamente alla legge, la conformazione del contenuto del diritto sia rispettoso o meno del disposto
costituzionale. Giurisprudenza e dottrina rispondono positivamente, sostenendo il carattere relativo e non
assoluto della riserva di legge in discussione. Tale impostazione rende possibile l'approvazione del piano con
atto amministrativo, anziché con legge;
- art. 3 Cost.: ci si è chiesti poi se le molte disparità che il piani regolatori determinano tra i diversi
proprietari ledano o meno il principio di uguaglianza. La risposta a tale quesito è generalmente negativa,
ritenendosi coessenziale a qualsiasi regolazione del territorio, una disciplina differenziata sotto il profilo
edificatorio delle diverse parti del territorio comunale. Ma ci sono dei casi più complessi in cui la disciplina
urbanistica incide in modo così penetrante sulla proprietà da azzerarla sostanzialmente: si pensi ad esempio
alle previsioni di spazi per opere di pubblica utilità che, creando un vincolo di inedificabilità assoluta, la
possono impedire anche per lunghi anni la possibilità di utilizzazione del bene. Uno dei problemi più discussi
negli ultimi anni è stato proprio questo: se alla luce dei principi costituzionali sia possibile imporre
attraverso gli strumenti urbanistici, vincoli di inedificabilità assoluta a tempo indeterminato, finalizzati ad
una futura espropriazione, senza corrispondere ai proprietari delle relative aree un indennizzo per il periodo
di durata del vincolo stesso;
- art. 42 c. 3 Cost.: “ la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo,
espropriata per motivi di interesse generale”. Si evince immediatamente che questo comma prevede sì un
obbligo di indennizzo, ma solo per le espropriazioni (cioè per i trasferimenti coattivi della proprietà), non per
i vincoli e le limitazioni su beni che rimangono intestati ai rispettivi titolari. L'interpretazione letterale
dell'articolo sembrerebbe quindi suggerire la piena costituzionalità dei vincoli anzidetti; tuttavia la corte
costituzionale, nella sentenza 55 del 1968 fa un discorso sostanzialistico: interpretando essenzialmente il
comma 3 dell'articolo 42, ritiene che tale norma si applichi sia alle espropriazioni vere e proprie, sia alle
cosiddette espropriazioni anomale, cioè a quei pesi che sebbene non comportino trasferimento del bene da
un soggetto ad un altro, la determinano tuttavia il sostanziale svuotamento della situazione proprietaria. Ma,
secondo la corte, non qualsiasi vincolo di inedificabilità si pone in contrasto con l'articolo 42, c. 3 Cost., ma
solo quelli in cui siano compresenti le tre anzidette caratteristiche: inedificabilità assoluta del bene, tempo
indeterminato diligenza del vincolo, non previsione di indennizzo. Ne consegue quindi che un vincolo di
inedificabilità limitato nel tempo sarebbe invece legittimo.
Inoltre, secondo la corte costituzionale, il problema dell'indennizzo si pone soltanto in presenza di un diritto
di proprietà conformato ab initio con l'attributo dello ius aedificandi: poiché l'articolo 42 c. 2 Cost. demanda
alla legge ordinaria il compito di definire il contenuto della proprietà, nulla impedisce che intere categorie di
beni vengano in partenza configurate dal legislatore senza l'attributo dello ius aedificandi. In questi casi,
l'imposizione di vincoli di inedificabilità assoluta assenza indennizzo sarebbe possibile.
La corte costituzionale ha fatto applicazione di questi principi nella sentenza 56 del 1968 relativa ai vincoli
paesistici, anch’essi di inedificabilità assoluta. La decisione, emanata lo stesso giorno di quella concernente i
vincoli urbanistici, perviene a conclusioni opposte, proprio in virtù del anzidetto ragionamento: i vincoli
paesaggistici a differenza di quelli urbanistici, anche se a tempo indeterminato non richiedono indennizzo,
poiché il diverso regime proprietario dei beni giustifica una diversa soluzione.
In conclusione quindi, il regime differenziato dei vincoli non discende direttamente dalla costituzione, ma
dalla concreta conformazione data alla proprietà dal legislatore ordinario (ne discende che se in un dato
momento storico la proprietà urbanistica venisse conformata ab initio nel senso della esclusione dello ius
aedificandi, neppure i vincoli urbanistici andrebbero indennizzati).
[Alcuni anni fa il nostro legislatore, trasformando con legge la “licenza” in “concessione edilizia”, cercò di introdurre un nuovo
regime proprietario onde sottrarre ab initio lo ius aedificandi al proprietario e poter così ripristinare vincoli di inedificabilità
assoluta sulla proprietà privata a tempo indeterminato, liberando i comuni dall'obbligo di indennizzo. Ma la corte costituzionale ha
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bloccato questo tentativo,, rilevando che la legge in discussione non aveva modificato dal punto di vista sostanziale il regime
proprietario, avendo solo reso oneroso lato permissivo dell'attività edilizia].

Oltre ai vincoli e alle conformazioni, trovano larghe applicazioni nel campo dell'urbanistica, le
espropriazioni vere e proprie: si tratta di trasferimenti coattivi della proprietà, aventi la loro base
costituzionale dell'articolo 42 c. 3 Cost.. Di esse in particolare i comuni si avvalgono: per la realizzazione di
opere pubbliche; per l'esecuzione di opere che il privato era tenuto a realizzare e non ha realizzato; per le
esigenze dell'edilizia pubblica residenziale e industriale; …. Due aspetti dell'espropriazione sono qui
rilevanti; quelli della:
+ misura dell'indennizzo: la corte costituzionale, partendo dalla constatazione che l'articolo 42 c. 3 Cost.
non parla di “giusta indennità”, ma di “indennizzo”, ritiene che anche indennizzi al di sotto del valore
venale possano ritenersi illegittimi, quando costituiscano per il proprietario espropriato un serio ristoro. Ma
ha anche affermato che quello del serio ristoro è un criterio storico, suscettibile di diversa valutazione nel
tempo. Inoltre, al fine di stabilire oggi quale sia l'indennizzo compatibile con i principi costituzionali, bisogna
considerare anche la normativa vincolante della CEDU. Per effetto di ciò si è assistito ad un progressivo
avvicinamento dell'indennizzo al valore venale del bene. La materia è oggi disciplinata dal Testo unico
sull’espropriazione (d.p.r. 327 del 2001), che adotta il seguente regime differenziato:
- suoli edificatori: si rifà con alcune varianti alla legge di Napoli del 1885. In virtù di tale normativa,
l'indennità di esproprio viene determinata attraverso la media tra il “valore venale” (giusto prezzo
secondo una libera contrattazione) e il “reddito dominicale”. L'importo così determinato è ridotto del
40% a meno che il soggetto espropriato convenga la cessione volontaria del bene. Tale criterio,
ritenuto in un primo momento conforme ai principi costituzionali, è stato invece recentemente
dichiarato dalla stessa corte non più rispondente a questi principi, facendo riferimento proprio alla
giurisprudenza della CEDU favorevole al criterio del valore venale. Il mutamento giurisprudenziale
della corte costituzionale è avvenuto con la sent. 348 del 2007 che ha dichiarato incostituzionali i
commi 1 e 2 del anzidetto testo unico;
- aree non edificabili: con riferimento alle aree non edificabili vige invece il criterio del valore
agricolo, con una serie di maggiorazioni ad personam (cd. indennizzo personalizzato) a favore di
taluni soggetti aventi un particolare rapporto col fondo espropriato: coloni, partecipanti, mezzadri,
proprietari diretti coltivatori, fittavoli.
+ accessione invertita: negli ultimi decenni, per effetto soprattutto della lunghezza dei procedimenti
espropriativi e delle connesse patologie, è accaduto in molti casi che l'opera pubblica sia stata iniziata o
realizzata prima ancora che il proprietario fosse stato ritualmente espropriato.
La corte di cassazione aveva inaugurato un indirizzo giurisprudenziale in base al quale la radicale
trasformazione del fondo, con l'irreversibile sua destinazione all'uso pubblico, avrebbe determinato
l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione del suolo a titolo originario in
testa all'ente occupante (cd. accessione invertita). La stessa corte riconosceva che all'ex proprietario dovesse
essere corrisposto il controvalore del bene, considerando l'occupazione abusiva come una sorta di illecito
permanente. Successivamente però l'articolo 5-bis della legge 359 del 192 equiparò il quid dovuto al
proprietario all'indennizzo di una normale espropriazione effettuata legittimamente, azzerando in sostanza le
conseguenze del carattere illecito dell'occupazione.
La corte di Strasburgo ha pesantemente censurato questo meccanismo, costringendo il legislatore nazionale a
modificare l'istituto: in accoglimento a tale giurisprudenza, l'articolo 43 del testo unico sull’espropriazione
abilita ancora oggi l'autorità che utilizza abusivamente un bene immobile per scopi di interesse pubblico ad
acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile. Ma ciò ad una doppia condizione: che al proprietario vadano
risarciti i danni e che venga attivato un apposito nuovo procedimento per l'acquisizione del bene, tramite
una nuova e autonoma ponderazione degli interessi in conflitto.

CAPITOLO II
Le fonti: il riparto delle funzioni legislative
 Concetto di urbanistica: si è già accennato che il concetto giuridico di urbanistica è più ampio di
quello comune. Esse infatti non riguarda solo la città, ma la disciplina dell'assetto dell'intero territorio, con
particolare riferimento alle destinazioni e alle modalità d'uso delle diverse parti del medesimo. Bisogna però
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sottolineare che nel nostro ordinamento esistono altre normative, non qualificabili come urbanistiche, che
hanno pure per oggetto la disciplina d'uso e i controlli su parti del territorio interessate da certe attività,
attraverso procedimenti attivati e gestiti da apparati amministrativi diversi da quelli addetti all’urbanistica (si
pensi ad esempio alla legge mineraria che regola lo sfruttamento delle miniere, al codice della navigazione
che disciplina le modalità d'uso del demanio marittimo, alla legislazione paesistica che impone vincoli su
parti del territorio). Alla luce di ciò, occorre quindi chiedersi quale sia il quid che distingue l'urbanistica dalle
altre discipline. La risposta più appropriata è quella data da Paolo Stella Richter, secondo cui bisogna
guardare all'elemento teologico: la finalità dell'urbanistica non è quella di soddisfare questo o quel
determinato interesse, che incida sul territorio. Essa ha invece ad oggetto tutti gli interessi che sul territorio
devono trovare soddisfacimento, poiché è la sua finalità è quella di ottimizzazione dell'uso del territorio
globalmente considerato. Ma cosa significa “ottimizzazione dell'uso del territorio”?
Significa che una delle più importanti attitudini dell'urbanistica è quella di creare delle sinergie in vista del
miglior soddisfacimento dei diversi interessi presenti nel territorio (ad esempio l'interesse alla salute,
giuridicamente distinto da quello urbanistico, può essere potenziato da una razionale pianificazione
urbanistica attenta allo snellimento del traffico, tale da abbattere significativamente l'inquinamento
atmosferico).
Altra attitudine dell'urbanistica è quella di guardare ai problemi del territorio in una logica di lungo periodo e
conseguentemente di erigersi a presidio di tutti quei beni collettivi che il mercato tende invece a sacrificare in
nome dell'immediatezza del risultato.

 La normativa comunitaria
Anche il normativa della comunità europea sembra avallare l'impostazione predetta e quindi valorizzare il
profilo protezionistico dell'urbanistica. Tra le diverse indicazioni protezionistiche contenute nei testi
comunitari, quella probabilmente più attinente all'urbanistica, è la previsione della v.a.s. (valutazione
ambientale strategica), sancita nella direttiva Cee 42 del 2001, con riferimento a tutta una serie di strumenti
pianificatori aventi potenzialmente un elevato impatto ambientale. Il codice dell'ambiente definisce la
v.a.s.come una valutazione strategica preordinata a garantire che gli effetti sull'ambiente derivanti
dall'attuazione di piani e programmi di intervento sul territorio siano presi in considerazione durante la loro
elaborazione e prima della loro approvazione. Scopo fondamentale di tale procedura è quello di garantire un
elevato livello di protezione ambientale, nel quadro del cosiddetto sviluppo sostenibile. Quindi la v.a.s.
costituisce, per una serie di strumenti pianificatori aventi effetti significativi sull'ambiente, parte integrante
del procedimento ordinario di adozione e approvazione, a pena di nullità dei provvedimenti di approvazione
assunti in carenza della medesima. In particolare, la legge impone la redazione di un rapporto ambientale, nel
quale devono essere individuati, descritti e valutati gli effetti significativi che l'attuazione del piano proposto
potrebbe avere sull'ambiente e sul patrimonio culturale, nonché le ragionevoli alternative che possono
adottarsi in considerazione degli obiettivi e dell'ambito territoriale del piano. Prima che venga espresso
definitivamente un giudizio di compatibilità/incompatibilità ambientale è prevista una fase di consultazione.

 Le norme costituzionali di riferimento: il riparto della materia tra Stato e regioni


Il nuovo testo dell'articolo 117 Cost. (risultante dalle modifiche apportate dalla legge cost. 3 del 2001),
annovera il governo del territorio nell'elenco delle materia competenza concorrente tra lo Stato e le
regioni; rimane quindi riservata allo Stato la sola determinazione, per mezzo di leggi quadro o cornice, dei
principi fondamentali cui la normativa regionale deve ispirarsi. Il testo originario dell'articolo parlava invece
di urbanistica. Va innanzitutto ricordato che nelle materie a competenza concorrente, la potestà legislativa
regionale incontra sempre il limite “dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”. Principi che
dovrebbero essere stabiliti espressamente da apposite leggi cornice, ma che in mancanza di esse possono che
essere desunti in via interpretativa dalla legislazione statale emanata secondo i canoni tradizionali. Nel nostro
paese manca tuttora un'organica legge cornice che abbracci l'intera materia “governo del territorio”. Tuttavia
vari tentativi in tal senso possono leggersi nei numerosi testi di riforma dell'urbanistica, nei quali vengono
generalmente individuati come principi fondamentali della materia quelli della:
- pianificazione, che obbliga tutti i comuni ad avere uno strumento urbanistico di base
- sostenibilità, che impone limiti allo sviluppo per la conservazione dei beni collettivi
- tutela e prevenzione dai rischi naturali
- sussidiarietà, la adeguatezza, equità e legalità del territorio
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Sinora una codificazione organica dei principi è avvenuta solo per la sub-materia “edilizia”, in virtù del testo
unico per l'edilizia. L'articolo 1 del medesimo precisa infatti che nel testo sono contenuti “i principi
fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell'attività edilizia”, che vincolano la futura
legislazione regionale.
Quanto si è detto sinora riguarda prevalentemente le regioni ordinarie; per quelle a statuto speciale (Sicilia,
Sardegna, Val d'Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia) e le due province di Trento e di Bolzano,
valgono principi parzialmente diversi, essendo dotate di potestà legislativa primaria. Ciò significa che queste
ultime possono anche dettare legittimamente normative che si distaccano dai principi fondamentali della
legislazione statale in materia, pur che non ledano norme e principi di maggiore pregnanza.
La nuova espressione “governo del territorio”: dopo la riforma del 2001, si è discusso se la nuova
espressione “governo del territorio” di cui all'articolo 117 Cost. fosse equivalente o meno a quella originaria
di urbanistica.
In un primo momento si era pensato che il legislatore costituzionale, con tale nuova denominazione, avesse
voluto spezzare l'originaria materia urbanistica in due sub-materie: governo del territorio (di carattere
concorrente) e urbanistica (di competenza esclusiva regionale, in quanto non espressamente enumerata).
Questa tesi non è prevalsa, sicchè oggi si ritiene che l'espressione “governo del territorio” alluda ad
un'unica materia concorrente, avente al suo interno diversi oggetti:
- urbanistica propriamente detta (che attiene alla disciplina dei piani regolatori)
- edilizia (che riguarda essenzialmente il controllo dell'attività edilizia attraverso la disciplina dei
permessi edilizi)
- edilizia pubblica residenziale (gli interventi per realizzare il cd. diritto alla casa)
- espropriazione, limitatamente ai suoi profili strumentali al governo del territorio (ad es.
espropriazioni finalizzate all'urbanizzazione, all'attuazione di determinate previsioni dei piani
regolatori,… )
Limiti alla potestà legislativa regionale: la potestà legislativa regionale, oltre a sottostare ai principi
fondamentali della legislazione statale in materia, è tenuta anche al rispetto di altri limiti desumibili in via
implicita dal sistema costituzionale, quali quelli:
- delle norme penali: la corte costituzionale ha più volte chiarito che le regioni, oltre a non poter
incidere direttamente sul regime sanzionatorio penale, non possono neppure modificarlo
indirettamente, liberalizzando ad esempio attività edilizie, il cui esercizio venga configurato dalla
legge dello Stato come reato. In tal modo è caduta sotto la scure della corte costituzionale è tutta la
legislazione regionale in tema di sanatoria edilizia;
- del principio autonomistico: questo limite è desumibile dall'articolo 118 Cost.. Ma ciò in via indiretta,
perché l'articolo in discussione in realtà non si occupa dei problemi del riparto della potestà
legislativa, ma dell'esercizio delle funzioni amministrative: la regola posta da quest'ultimo articolo è
quella della “attribuzione ai comuni delle funzioni amministrative, salve le esigenze della
sussidiarietà, della differenziazione e dell'adeguatezza amministrativa”. Da tale disposto si evince
implicitamente che il legislatore regionale non potrebbe allocare le funzioni amministrative in campo
urbanistico, senza osservare questo principio autonomistico.

 Materie limitrofe: tutela dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali


La salvaguardia dei beni di interesse collettivo (quali il paesaggio, i Beni Culturali e l'ambiente) costituisce
oggi prerogativa propria dell'urbanistica. In realtà però il ruolo protezionistico assunto da quest'ultima nei
confronti dei beni in discussione non è esaustivo. Esistono infatti nel nostro sistema apposite e più mirate
discipline che affidano ad altre amministrazioni e a procedimenti diversi da quelli urbanistici la cura di questi
interessi. Alcune di queste normative precedono addirittura la legislazione urbanistica. Anche il titolo V della
Costituzione accredita tale distinzione: infatti, mentre il governo del territorio è materia di competenza
concorrente, non può così dirsi per le altre materie sopra menzionate. Per esse il nuovo testo costituzionale
opera delle distinzioni: nella nuova formulazione dell'articolo 117 “tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e
dei beni culturali sono materie di competenza esclusiva dello Stato”. Lo stesso articolo include invece nel
catalogo delle materie a competenza concorrente la “ valorizzazione dei beni culturali e ambientali”.
In sostanza, il legislatore costituzionale accogliendo la distinzione tutela/valorizzazione ha ritenuto di dover
pervenire ad una sorta di compromesso.

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Occorre però chiarire i delicati rapporti che si pongono tra governo del territorio (materia di competenza
concorrente) e tutela dell'ambiente (paesaggio), dell'ecosistema (ambiente-inquinamenti) e dei beni culturali
(materie di competenza esclusiva statale).
La funzione dell'esclusività non è quella di precludere in assoluto alle regioni qualsiasi attività legislativa
rivolta alla tutela dei valori suddetti; ma di creare una cintura di sicurezza in favore della legislazione statale
specificamente protezionistica, per evitare e che essa possa essere travolta da eventuali interventi legislativi
abrogativi o modificativi provenienti dalle regioni (sarebbe illegittima una legge regionale che alterasse gli
strumenti di tutela previsti dalla normativa statale in materia quali ad esempio i procedimenti per
l'imposizione di vincoli, il regime giuridico di questi ultimi, ..; non sarebbe invece censurabile una
legislazione regionale che senza intaccare quei meccanismi, prevedesse ad esempio degli interventi finanziari
per incentivare il restauro di beni culturali o estendesse forme di tutela a beni culturali di interesse locale, non
contemplati dalla legislazione dello Stato). Questi interventi, oltre che dalle norme costituzionali sul riparto
delle funzioni, sarebbero anche legittimati dall'articolo 9 Cost. che impone a tutti i soggetti della Repubblica,
comprese ovviamente le regioni, di concorrere alla tutela del patrimonio culturale e paesaggistico.
La corte costituzionale negli ultimi anni ha espresso sostanzialmente gli stessi concetti ma con altra
terminologia: ha qualificato le materie contemplate nell'articolo 117 di cui si è detto, come materie
trasversali, per sottolineare appunto che l’esclusività della potestà legislativa statale nelle medesime non è poi
così esclusiva da impedire alle regioni di partecipare con proprie leggi alla tutela degli anzidetti beni.
Precisazioni terminologiche: è il caso inoltre di specificare che le espressioni “beni culturali”, “ambiente”
ed “ecostistemi”, contenute nell'articolo 117 lett. s Cost., non trovano nel linguaggio legislativo, dottrinario e
giurisprudenziale riscontri univoci. Ciò vale in particolare per l'espressione ambiente, rispetto alla quale il
Giannini ritenne di poter rinvenire tre diversi significati giuridici: ambiente come insieme di Beni Culturali
localizzati in un certo spazio; ambiente come paesaggio; ambiente come ecosistema aggredito
dall'inquinamento, al quale si pone rimedio attraverso le normative antinquinamento.
La tripartizione di Giannini rimane tuttora valida, ma con un'aggiunta: esistono anche casi in cui l'ambiente
assume un valore unitario (si pensi ad esempio al danno ambientale).
Alla luce di queste precisazioni occorre evidenziare qual è il significato che le anzidette espressioni
assumono in concreto nell'articolo 117 lett. s Cost.:
- ambiente: sembra alludere essenzialmente ai beni paesaggistici, denominati infatti da altre normative
come beni ambientali. Negli ultimi decenni si è molto discusso del rapporto urbanistica-paesaggio: in
un primo momento si era parlato di un paesaggio come sub-materia dell'urbanistica o, al contrario, del
paesaggio come materia regina attinente alla regolazione conformativa globale del territorio, dalla
quale discenderebbe come sub-materia l'urbanistica. Si tratta di un dibattito di grande interesse, ma
non estremamente rilevante in tale sede poiché nell'attuale diritto positivo, come risulta anche dalle
norme costituzionali, il paesaggio rimane una materia distinta dall'urbanistica, salvo come si vedrà
quella sorta di zona grigia costituita dai piani paesaggistici e a valenza paesaggistica
- ecosistemi: sembra alludere alla difesa dell'habitat dagli inquinamenti e alle aree naturali (parchi e
riserve);
- beni culturali: allude a tutte quelle cose costituenti “testimonianza materiale di civiltà” oggi
disciplinati dal titolo II del codice dei beni culturali sotto la diversa denominazione di “cose di
interesse artistico-storico”.

 Le fonti ordinarie
Dopo aver delineato il quadro costituzionale di riferimento, si passa all'esame delle principali tappe di
svolgimento della disciplina urbanistica del nostro paese:
+ sino agli inizi del XX secolo le norme legislative in materia erano scarse e frammentarie: l'attività
edilizia era disciplinata prevalentemente dai regolamenti edilizi comunali e dagli annessi piani di espansione,
nonché dalle convenzioni urbanistiche tra comuni e proprietari. Strumenti di tipo contrattuale nati dalla
prassi, che resero possibile per lungo tempo la realizzazione di importanti urbanizzazioni con l'apporto
finanziario dei privati;
+ il primo testo legislativo post unitario che interessa è la legge 2359 del 1865 sull'espropriazione, che
dedica alcune disposizioni al piano regolatore comunale, visto come strumento facoltativo al quale potevano
accedere soltanto i comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti. Il piano costituiva essenzialmente
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una sorta di programma delle espropriazioni da porre in atto per il miglioramento viario e igienico dei
maggiori centri abitati;
+ a questo testo normativo si vanno pian piano affiancando varie leggi speciali, nate dall'esigenza di
risolvere situazioni specifiche di singole città: si ricordi la legge di Napoli del 1885, nata in seguito allo
scoppio del colera, che prevede un piano di risanamento, basato sul criterio delle espropriazioni a tappeto;
+ nel periodo fra le due guerre si sviluppa invece una legislazione speciale che estende il piano regolatore
ai comuni più importanti. In questa fase si assiste ai piani approvati con legge.
+ lo sbocco conclusivo di questo lungo processo normativo è la legge 1150 del 17 agosto 1942, cosiddetta
“ legge urbanistica”, che rappresenta ancora oggi il testo fondamentale di disciplina della materia.
+ nel 1967, in seguito alla frana di Agrigento, viene emanata la legge 765 del 1967, che apporta alcuni
ritocchi alla legge del 1942, nell'intento soprattutto di accelerare i tempi di formazione dei piani di limitare
l'attività costruttiva in assenza di strumenti urbanistici fondamentali;
+ l'anno successivo, in seguito alla sentenza della corte costituzionale 55 del 1968, il piano regolatore
subisce una sorta di metamorfosi: vengono infatti temporalizzati i cosiddetti vincoli di localizzazione. Ciò
avviene per effetto della legge tampone 1187 del 1968;
+ altra tappa fondamentale è la legge 10 del 1977, nota anche come legge Bucalossi, che trasforma la
licenza edilizia in concessione onerosa;
+ per tentare di riordinare la materia urbanistica, la legge 50 del 1999 dispose che il governo procedesse con
l'emanazione di testi unici al riordino delle norme in materia di ambiente e tutela del territorio, di urbanistica
ed espropriazione. In ottemperanza a ciò sono stati emanati:
- Testo unico dei Beni Culturali e ambientali (abrogato nel 2004);
- Testo unico in materia di espropriazione per pubblica utilità (d.p.r. 327 del 2001);
- Testo unico delle edilizia (d.p.r. 380 del 2001): detta “i principi fondamentali e generali e le
disposizioni per la disciplina dell'attività edilizia”. Si tratta, come si è già detto, di una legge-cornice,
che riguarda non l'intera materia dell'urbanistica, ma una parte di essa: la sub-materia dell'edilizia,
attinente essenzialmente al controllo preventivo dell'attività edilizia nonché alla vigilanza e alle
sanzioni contro gli abusi edilizi. Il testo unico ha inoltre abrogato molti degli articoli della legge
urbanistica del 1942; molti articoli della legge Bucalossi.
+ l'articolo 7 della legge 50 del 1999 (la disposizione che appunto prevedeva che il riordino normativo
avvenisse mediante l'emanazione di testi unici, è stato in seguito abrogato dalla cd. legge di semplificazione
2001 unto la nuova normativa prevede ora che il riassetto normativo si attui mediante la codificazione della
normativa primaria.
Proposte di riforma organica della materia: nel corso delle legislature che si sono susseguite negli ultimi
trent'anni, sono stati effettuati tentativi di una riforma urbanistica senza alcun esito. Carattere costante delle
diverse iniziative legislative è quella della definizione dei principi fondamentali della materia, la
configurazione di una nuova pianificazione urbanistica a carattere strutturale, nonché la previsione della
perequazione urbanistica. Tra le diverse proposte di legge della legislatura XV si ricordano: la proposta Lupi,
che riproduce un testo già prodotto nella precedente legislatura; la proposta Mantini, Iannuzzi; la proposta
Mariani, Fassino su principi fondamentali e fiscalità urbanistica immobiliare.
Le principali leggi regionali: tutte le regioni, sia ordinaria che speciali, hanno ormai legiferato ampiamente
in materia urbanistica. Ma in realtà parte cospicua del contenzioso urbanistico ha tuttora alla base di norme
statali o di derivazione statale. Tale circostanza trova giustificazione nel fatto che non sempre i legislatori
locali disciplinano in modo esaustivo la materia: in molti casi essi operano ad incastro, modificando o
integrando la normativa statale, senza abrogarla totalmente. Tra le regioni che hanno emanato leggi
urbanistiche organiche dai contenuti più innovativi: Toscana, Umbria, Lazio, Lombardia, Veneto, Friuli
Venezia Giulia.

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CAPITOLO III
Il sistema della pianificazione urbanistica: modello teorico e assetto
reale. I soggetti di governo e di gestione
 Il modello teorico: la pianificazione urbanistica disciplina la distribuzione spaziale degli interventi nel
territorio e organizza i relativi strumenti strutturali per un ordinato sviluppo del territorio che si dimostri
compatibile con lo sviluppo economico. Gli strumenti operativi della pianificazione urbanistica sono i
cosiddetti strumenti urbanistici, distinguibili per livello gerarchico, tipologia e funzionalità. In particolare, il
sistema tradizionale della pianificazione urbanistica prevede una sequenza gradualistica di piani sempre più
specifici, con due elementi di chiusura costituiti dal permesso edilizio (onde attestare la conformità della
singola opera al piano) e da un insieme di sanzioni per reprimere ogni ipotesi di abuso edilizio. Quindi i piani
urbanistici costituiscono strumenti di controllo e di indirizzo dello sviluppo urbanistico. Secondo la legge del
1942 la pianificazione urbanistica è gerarchicamente ordinata su tre livelli:
1) piani territoriali di coordinamento (regionali e provinciali): si trovano al livello più alto. I piani
territoriali di coordinamento (p.t.c.) sono strumenti urbanistici di direttive generali (che non obbligano
immediatamente i soggetti privati), nei quali avrebbero dovuto trovare organica sistemazione le
grandi infrastrutture e le più importanti destinazioni d'uso del territorio da immettere nei piani
regolatori;
2) piani comunali: piano regolatore generale comunale (p.r.g.: traduce le direttive generali in
prescrizioni più precise con riferimento alla totalità del territorio di un comune), programma di
fabbricazione (possono definirsi come elementari piani regolatori dei comuni minori), piano
intercomunale (coordinano le direttive riguardanti l'assetto urbanistico di due o più comuni limitrofi).
Sono redatti dal comune e approvati da organi statali;
3) piani attuativi: piani particolareggiati di esecuzione e piani di lottizzazione (presentano strumenti di
attuazione dei piani regolatori generali); piani speciali di zona (piani per l'edilizia economica e
popolare, piani di recupero, piani degli insediamenti produttivi: appartengono al genere dei piani
particolareggiati, ma se ne distinguono per essere finalizzati all'espropriazione dell'intero territorio da
essi considerato); programmi pluriennali di attuazione (perseguono finalità sia di predeterminazione
dell'assetto del territorio, sia di esecuzione del piano regolatore generale o del programma di
fabbricazione, indicando, nell'ambito del territorio comunale, le zone in cui lo sviluppo edilizio dovrà
indirizzarsi per un arco di tempo prefissato, compreso tra i 3 e i 5 anni). I piani attuativi si trovano alla
base della piramide e traducono in prescrizioni più dettagliate le previsioni dei piani regolatori
comunali.
Elementi fondamentali del modello sono:
- atemporalità del sistema (tutti i piani tranne quelli attuativi hanno valore a tempo indeterminato)
- vincolo gerarchico che lega tra loro gli strumenti urbanistici dei diversi livelli (il piano sottordinato
può sviluppare previsioni contenute nel piano più elevato ma non può apportare a questo deroghe o
correzioni). In particolare la dottrina classifica i piani urbanistici secondo un rapporto di gerarchia a
piramide rovesciata: nel senso che vi sono strumenti dotati di valore prescrittivo (pianificazione di
direttive) nei confronti dei piani di livello inferiore (pianificazione esecutiva).

 Il modello reale: se alla luce di ciò si considera la vicenda dell'urbanistica dell'ultimo quarantennio,
non è difficile cogliere una contraddizione di fondo. Un esame approfondito dimostra che il e ma non ha
retto: e ciò non solo perché alcuni tipi di piano (p.t.c.) non hanno avuto pratica attuazione o solo sporadiche
applicazioni, ma anche perché una legislazione settoriale sempre più cospicua e invadente ha snaturato il
modello fino a renderlo irriconoscibile.
+ Il piano regolatore generale rimane ancora oggi lo strumento fondamentale di disciplina del territorio,
ma le sue previsioni possono essere derogate o tra volte e sempre più frequentemente sia dagli strumenti
attuativi sia da procedimenti urbanistici atipici di variante: ciò avviene in particolare per le opere pubbliche
che, pur costituendo l'oggetto più qualificante del contenuto dei piani vengono oggi quasi sempre decise fuori
dal contesto pianificatorio sulla base della disponibilità del finanziamento immesse ex post in quest'ultimo
attraverso procedimenti urbanistici atipici che attribuiscono all'approvazione del progetto valore di variante
del piano. In altri termini, nell'attuale panorama normativo, coesistono procedimenti urbanistici in senso
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proprio (finalizzate cioè direttamente all’ordinato assetto del territorio) e procedimenti a valenza urbanistica
che, pur tendendo al soddisfacimento di specifici interessi pubblici (opere pubbliche, centrali elettriche,
impianti di depurazione, …) producono tuttavia effetti urbanistici potendo modificare i piani esistenti.
+ Altro importante fenomeno, anch’esso collegato ai singoli interventi, è quello della proliferazione della
cosiddetta urbanistica concordata, nel tentativo di sfruttare nei diversi campi le sinergie tra il pubblico e
privato, la affievolisce la reale efficacia della pianificazione urbanistica, riavvicinando paradossalmente il
sistema al periodo anteriore al 1942: quando cioè i grandi proprietari terrieri erano legittimati a proporre
attraverso le convenzioni urbanistiche, allora possibili in assenza di piano regolatore, nuovi insediamenti
edilizi e nuove destinazioni urbanistiche di determinate parti del territorio comunale.
Alla luce di quanto detto diventa estremamente difficile descrivere e valutare l'attuale vicenda
dell'urbanistica, cambiando radicalmente lo scenario a seconda dell'angolo visuale in cui ci si colloca:
- se indagine viene circoscritta alla legislazione generale (legge del 1942 ma anche leggi urbanistiche
regionali) l'assetto del territorio ci si presenta come la risultante di un sistema pianificatorio ordinato
che partendo da un impulso centralistico (le direttive dei piani territoriali di coordinamento, gli atti di
indirizzo e coordinamento statali, gli schemi di assetto territoriale delle regioni), va concretizzandosi
progressivamente in un processo che responsabilizza sempre più i comuni;
- se, viceversa, l'indagine si allarga alla prassi effettiva e alle innovazioni introdotte dalla legislazione
speciale, l'assetto del territorio appare piuttosto la risultante di una serie di spinte e controspinte
orizzontali provenienti da una pluralità di centri di potere pubblici, semi pubblici e privati che, pur
con fruendo sempre nel piano regolatore generale, fanno perdere allo stesso quel carattere di
organicità e di definitività che sembrerebbe avere. Viene anche ridimensionato il ruolo dei soggetti
preposti al governo del territorio: questi ultimi non appaiono più come veri pianificatori, arbitri
assoluti delle sorti di un certo territorio, ma piuttosto come mediatori o coordinatori dei diversi
interessi coinvolti dal piano.

 Il territorio come “terminale necessario” di tutte le attività umane


Occorre tenere presente che la pianificazione urbanistica, dovendo considerare la totalità del territorio
comunale sia nella sua parte urbana che extra urbana, finisce inevitabilmente per incidere non solo sulla
proprietà, ma anche su altri diritti fondamentali del cittadino (in primis sul diritto di iniziativa economica
privata ex art. 41 Cost.). Esso inoltre interferisce con una serie di funzioni e servizi riservati ad altri apparati
pubblici per la cura di interessi di rilevanza regionale e nazionale. I soggetti intestatari di siffatti diritti o
poteri, riconducibili direttamente o indirettamente alla costituzione, sembrano portatori di una sorta di pretesa
all'utilizzazione del territorio, senza la quale le anzidette posizioni giuridiche di diritto o di potere non
potrebbero trovare concreta esplicazione. Ciò fa intendere subito che la pianificazione urbanistica non è
espressione di un potere totalmente libero: essa non può svolgersi in assenza di vincoli e senza il
coinvolgimento dei soggetti pubblici e privati toccati dal piano. Se così non fosse si correrebbe il rischio di
vedere pregiudicati irrimediabilmente interessi fondamentali per la vita della collettività. In sostanza,
costituendo il territorio il terminale necessario della gran parte delle attività umane, ne consegue che le
autorità addette all’urbanistica non possono non fare i conti con tutti quegli altri soggetti titolari di diritti o
di poteri il cui esercizio implichi necessariamente delle trasformazioni del territorio: si che la pianificazione
urbanistica, da un lato, condiziona l'esercizio di diritti e poteri altrui, dall'altro, è condizionata dal peso di
questi ultimi.
Nasce quindi l'esigenza di incanalare i diversi interessi coinvolti nei processi pianificatori. La legislazione
urbanistica sembra fornire al riguardo le seguenti soluzioni:
- soggetti privati: prevede moduli di partecipazione ai diversi procedimenti di piano, talvolta sotto
forma di osservazioni talaltra sotto forma di opposizione. Il meccanismo delle osservazioni e delle
opposizioni è soggetto a numerose critiche: si osserva innanzitutto che lo stesso sovraccarica i
procedimenti, senza riuscire a dare effettiva evidenza pubblica alle scelte dell'amministrazione, cioè
senza chiarire i perché e i vantaggi di determinate opzioni rispetto ad altre possibili. Si invoca da più
parti una riforma di tali procedimenti: ma le proposte in tal senso non vanno oltre l'introduzione delle
cosiddette istruttorie pubbliche o l'estensione della partecipazione a momenti antecedenti all'adozione
del piano;
- soggetti pubblici: contempla forme di coordinamento orizzontale (intese o concerti), tutte le volte in
cui il piano tocca attività o interessi di altre amministrazioni statali. La più recente legislazione
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prevede talvolta conferenze di servizio. Quanto al coinvolgimento di altri rami di amministrazione nei
procedimenti urbanistici, occorre innanzitutto mettere in rilievo che tale esigenza nasce dal fatto che
anche i soggetti pubblici al pari di quelli privati devono normalmente sottostare alle scelte
urbanistiche. Uno dei problemi più rilevanti è se l'esistenza di un regime speciale inibisca il potere
pianificatorio urbanistico, creando una sorta di zona franca per quel dato territorio o quella certa
attività o se viceversa le autorità urbanistiche mantengono i loro poteri pianificatori e di controllo da
coordinare però con quelli degli altri soggetti titolari di quell'altro interesse pubblico. La
giurisprudenza costituzionale negli ultimi anni è stata più volte chiamata a pronunciarsi su vicende del
genere: l'orientamento della medesima sembra confermare la prevalenza delle discipline speciali ma
anche il carattere totalizzante della pianificazione urbanistica. Ciò comporta che porzioni di territorio
o categorie di beni assoggettati ad una disciplina speciale devono essere incluse ugualmente nel piano
regolatore, il quale però non può disporre una normativa contrastante con quella posta in essere dalle
autorità che reggono quelle aree. Quindi la disciplina speciale non annulla i poteri dell'autorità
urbanistica ma li limita drasticamente: non si tratta però di un recepimento passivo da parte
dell'autorità urbanistica di regole poste da altri apparati pubblici, ma di un intervento dialettico al fine
della razionale collocazione dei diversi interessi pubblici nel più vasto quadro dell'assetto del
territorio. La giurisprudenza ha tratto da tutto ciò un importante corollario: che quando la
pianificazione urbanistica incontra nel suo cammino beni soggetti al regime differenziato, le relative
prescrizioni devono nascere con l'apporto dell'autorità addetta a quel dato interesse pubblico di
settore. Questo criterio generale di coordinamento vale anche tra organi statali e regionali, ai quali la
corte costituzionale ha imposto più volte l'obbligo dell'intesa e della leale cooperazione.
L’analisi appena svolta consente di formulare alcune conclusioni in ordine al potere urbanistico:
+ è evidente innanzitutto l'intrinseca debolezza del potere urbanistico: sebbene il piano regolatore generale
sia abilitato a disporre in ordine all'intero territorio comunale, esso incontra una serie di limiti riconducibili
fondamentalmente all'esigenza di rendere possibile l'esercizio di tutti quei diritti e poteri radicati sul territorio
che non potrebbero essere azzerati o non considerati dalle scelte urbanistiche. Recentemente la corte
costituzionale ha fatto applicazione di tale principio in una vicenda relativa agli impianti di telefonia mobile,
sottolineando che il potere urbanistico del comune, pur non azzerato dalla normativa specifica della materia,
non può esplicarsi attraverso l'inibizione assoluta su tutto il territorio comunale delle predette
apparecchiature, ma attraverso più flessibili modalità tali da conciliare al meglio i diversi interessi. Si tratta di
un'ulteriore conferma dell'esistenza di limiti impliciti alla pianificazione urbanistica, definibili secondo i
consueti criteri della ragionevolezza e della proporzionalità;
+ la seconda riflessione mira ad evidenziare il retroterra contrattuale della pianificazione urbanistica
(talvolta visibile, talaltra invisibile). Tale profilo è immediatamente evidente in tutti quei casi in cui lo
strumento urbanistico, coinvolgendo interessi di altre amministrazioni, viene approvato previo concerto o
intesa con queste ultime. Ma la vicenda riguarda anche i soggetti privati: la legislazione degli ultimi anni ha
trasformato la gran parte della pianificazione urbanistica speciale in urbanistica contrattata (programmi di
trasformazione urbana, di recupero urbano,…). L'aspetto consensuale non è invece visibile in tutti quei casi
in cui la scelta urbanistica, formalmente unilaterale, è in realtà frutto di accordi taciti con interessi forti. Il
fenomeno della consensualità sarebbe segno della recessività del carattere autoritativo dell'azione
amministrativa e di un'evoluzione in senso democratico dell'amministrazione con un rafforzamento della
cittadinanza. Tale interpretazione non appare sempre realistica, perché nella stragrande maggioranza dei casi
gli interessi che riescono realmente ad affermarsi attraverso la consensualità non sono quelli nobili protese ad
elevare la qualità della vita, ma quelli di tipo economico speculativo intrecciati in vario modo al sottobosco
politico. Un recente studio a campione sui piani regolatori dei comuni piccoli e medi ha messo in evidenza
che la maggior parte delle destinazioni a verde pubblico, a verde attrezzato o ad infrastrutture ricade su
terreni di proprietari incapaci di relazionarsi con gli amministratori locali perché non residenti nel comune
interessato, perché appartenenti a fazioni politiche avverse,… Ciò conferma che la consensualità serve più
che altro a fare affari, piuttosto che a far crescere la democrazia e rendere più accogliente la casa comune.

 I soggetti preposti al governo del territorio e alle funzioni di controllo


Passiamo ora ai soggetti preposti alle funzioni amministrative e tecniche inerenti al governo del territorio.
In passato tali soggetti erano:

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- comuni: compito fondamentale dei comuni era quello di deliberare gli strumenti urbanistici e di
esercitare il controllo sull'attività edilizia, attraverso le licenze edilizie e l'applicazione delle sanzioni
amministrative per i casi di abusivismo edilizio;
- Stato: compito fondamentale dello Stato era quello di approvare gli anzidetti strumenti e di vigilare
sull'osservanza della normativa urbanistica.
Dopo l'istituzione delle regioni, il problema organizzativo è diventato più complesso: in un primo momento i
compiti originariamente intestati allo stato sono stati trasferiti ai nuovi enti, rimanendo però intestate a
quest'ultimo talune funzioni residue riassunte nell'espressione “linee fondamentali dell'assetto del territorio
nazionale, in funzione della tutela del territorio e della realizzazione delle reti infrastrutturali di interesse
nazionale”. Ciò risulta dai testi normativi che hanno attuato i trasferimenti delle funzioni amministrative
dallo Stato alle regioni e ai minori enti locali.
Dopo l'attribuzione di funzioni urbanistiche alle province e alle città metropolitane il sistema è divenuto
ancora più complesso. Può essere descritto in questo modo:
- Stato: l'apparato statale originariamente preposto all'urbanistica era il ministero dei Lavori Pubblici e
le sue articolazioni periferiche. Relative funzioni consultive tecniche erano affidate al consiglio
superiore dei lavori pubblici e ai comitati tecnici amministrativi. Il più recente testo normativo di
riordino dei ministeri del 1999 ha ritenuto invece di dover ripartire le residue funzioni statali in
materia tra due diverse strutture ministeriali: il ministero dell'ambiente e della tutela del territorio
(cui sono affidate le funzioni conservative, relative alla “identificazione delle linee fondamentali
dell'assetto del territorio con riferimento ai valori naturali e ambientali”) e il ministero delle
infrastrutture (cui sono affidate le funzioni di trasformazione relative in particolare all'identificazione
dell'assetto del territorio con riferimento alle reti infrastrutturali e al sistema delle città e delle aree
metropolitane, è reti infrastrutturali e opere di competenza statale, trasporti e viabilità, opere
marittime e infrastrutture idrauliche). Ciascuno dei quali dotato di una propria agenzia tecnica.
- Regioni: l'organizzazione regionale relativa all'urbanistica si presenta in maniera diversificata da
regione a regione. In quelle a statuto speciale è prevalente il modello monocratico di stampo
ministeriale con attribuzione delle relative funzioni al presidente della giunta regionale o all'assessore
preposto all'urbanistica. Nelle regioni di diritto comune prevale invece il modello dipartimentale allo
scopo di coordinare meglio le diverse funzioni aventi incidenza sul territorio. Al consiglio regionale
vengono generalmente attribuite funzioni di indirizzo e programmazione generale, mentre alla giunta
funzioni più specifiche di pianificazione con approvazione dei piani comunali.
- Comuni: nell'ambito comunale le funzioni in materia urbanistica sono ripartite tra il Consiglio
comunale (ha competenza in materia di strumenti urbanistici: adozione e talvolta anche approvazione
dei piani) e il dirigente (un tempo sindaco: ha competenza in ordine ai permessi edilizi, alla vigilanza
e alla repressione degli abusi edilizi) assistito dalla commissione edilizia comunale.
- Province, città metropolitane, comunità montane, comprensori: negli ultimi anni si sono affermati
nuovi soggetti pianificatori che rendono ancora più complesso e articolato il quadro organizzativo.
Negli anni 70 e 80 avevano avuto una certa diffusione i comprensori, aventi nelle intenzioni il
compito di disciplinare l'assetto del territorio in funzione di interessi sovra-comunali (sono figure
ormai recessive). Con la legge 142 del 1990 sono state infine attribuite funzioni urbanistiche rilevanti
alle province e alle città metropolitane. Tra i soggetti muniti di funzioni pianificatorie nel campo
urbanistico bisogna annoverare anche le comunità montane: istituite nel 1971 come enti di secondo
grado, a differenza dei comprensori, sono state rivitalizzate.
Il quadro organizzativo risulta molto complicato poiché tutti gli enti territoriali esistenti sono oggi chiamati a
svolgere funzioni o frammenti di funzioni a vario titolo nel campo urbanistico.

CAPITOLO IV
Standard e altri limiti al potere urbanistico
 Limiti al potere pianificatorio imposti espressamente dalla legge
Oltre ai limiti impliciti descritti nel capitolo precedente, le autorità urbanistiche sono anche tenute ad
osservare, nell'esercizio delle loro funzioni, una serie di parametri e criteri previsti espressamente dalla legge.

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Si tratta di una vicenda che è andata sempre più consolidandosi a partire dagli anni 60. I parametri previsti
direttamente o indirettamente dal legislatore sono di due tipi, potendo riguardare:
- il contenuto degli strumenti urbanistici nella fase della loro formazione: in questo caso destinatario
immediato della norma è il soggetto pianificatore. Ne consegue che le relative prescrizioni saranno
operative nei confronti dei privati solo dopo l'approvazione del piano e la loro ricezione da parte di
quest'ultimo;
- l'attività edilizia nel momento del suo concreto svolgimento: in questo caso destinatario immediato
della norma è l'autorità preposta al rilascio del permesso edilizio. Ne consegue che le relative
prescrizioni hanno efficacia immediata nei confronti dei soggetti privati.
STANDARD (nozione): gli standard urbanistici sono diretti a garantire la conservazione del paesaggio
urbano tradizionale, per assicurare ad ogni cittadino “un minimo livello di civiltà urbana” per migliorarne
sempre più le condizioni di insediamento. Esprimono, mediante un rapporto, le dotazioni di un insediamento
in termini di attrezzature. In altri termini lo standard è un modello, un tipo. Nel campo della pianificazione
territoriale, l'espressione è usata con il significato di riferimento normativo. Gli standard urbanistici
costituiscono parametri di relazione tra una condizione da perseguire necessariamente e il modo per
perseguirla. In senso più generale si intende l'insieme delle grandezze fisiche e dei fattori di qualità che
caratterizzano un insediamento.
Più precisamente, la definizione di standard comprende: (*)
- limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza fra fabbricati;
- rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali o produttivi e spazi destinati ad
attività collettive, verde pubblico e parcheggi;
- rapporti tra popolazione del territorio servito e attrezzature per l'istruzione superiore, attrezzature
sanitarie ed ospedaliere, parchi pubblici urbani e territoriali.

 STANDARD per la formazione degli strumenti urbanistici (standard ad operatività


differita): gli standard per la formazione degli strumenti urbanistici sono stati previsti per la prima volta
dalla legge 765 del 1967, ma strutturati concretamente da un successivo atto dell'esecutivo: il decreto 3519
del 1968. La funzione di tali standard, come precisato dallo stesso decreto, è quella di fissare i limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati
agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico
o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti. Ciò al fine di garantire un migliore equilibrio tra uomo e ambiente, nonché la conservazione e il
godimento del paesaggio urbano tradizionale. Si tratta quindi di limiti minimi inderogabili, da osservare
nella formazione degli strumenti urbanistici, relativi a quanto sottolineato in precedenza (*)
Questi gli standard sono stabiliti con decreto ministeriale, che introduce disposizioni distinte per zone e
rivolte agli organi comunali di pianificazione, i quali sono obbligati ad introdurli nei propri strumenti
urbanistici. Essi pertanto non hanno operatività immediata, ma differita al momento in cui vengono recepiti
dagli strumenti urbanistici.
Questi limiti non operano in modo uniforme su tutto il territorio comunale, ma secondo zone territoriali
omogenee individuate dallo stesso decreto, cioè porzioni di territorio ritenute idonee ad una specifica
destinazione per le loro caratteristiche intrinseche (ad esempio gli indici di sfruttamento edilizio previsti per
il verde agricolo saranno di gran lunga inferiori a quelli delle zone di espansione). Le zone territoriali
omogenee previste dal decreto sono le seguenti:
- zone A: parti del territorio interessate ad agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico e
di particolare pregio ambientale (centro storico);
- zone B: parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A;
- zone C: parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultano inedificate;
- zone D: parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati;
- zone E: parti del territorio destinate ad usi agricoli;
- zone F: parti del territorio destinate ad attrezzature e impianti di interesse generale.
Per ciascuna di queste zone sono stabiliti differenti limiti di cubatura e di altezze, spazi minimi di verde e di
servizi da riservare nelle medesime, differenti limiti di densità fondiaria e territoriale. Si tratta di valori
minimi che le autorità dette alla formazione dei piani, possono elevare in funzione di una migliore qualità
della vita, purché ricorrano esigenze di interesse pubblico corrispondenti a dati reali di fatto che giustifichino
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un maggior sacrificio delle posizioni proprietarie. La tendenza delle più recenti leggi regionali è quella di un
certo ammorbidimento degli standard nel tentativo di adeguarli meglio alle diverse realtà territoriali.
 STANDARD per i comuni sprovvisti di strumento urbanistico (standard ad
operatività immediata): si tratta di un insieme di normative edilizie di tipo fortemente restrittivo dettate
direttamente dalla legge e rivolte ai comuni ancora sprovvisti di strumento urbanistico (piano regolatore
generale, programma di fabbricazione). Sono stabiliti per legge e quindi validi su tutto il territorio nazionale.
Hanno operatività immediata, in quanto vincolano immediatamente i privati che richiedono il permesso di
costruire. La loro finalità è duplice:
- di vietare indici di sfruttamento edilizio elevati in territori non pianificati, che potrebbero
compromettere sul nascere le future scelte urbanistiche (questa finalità ha quindi carattere
precauzionale);
- di indurre le amministrazioni comunali a dotarsi prontamente di strumento urbanistico, in modo da
superare la situazione di stallo nel settore edilizio, derivante dalla carenza di piano.
Quanto alla tecnica e al funzionamento di questi standard:
+ innanzitutto sono individuate tre diverse parti del territorio comunale in relazione alla situazione in atto:
centro storico, centro abitato, zona esterna al perimetro del centro abitato. Per la concreta individuazione
delle medesime sono previste due apposite perimetrazioni a cura del consiglio comunale che riguardano il
centro storico e il centro abitato;
+ l'aggregato urbano da qualificare come centro storico deve rispondere ad appositi criteri. In esso devono
essere inserite:
- strutture in cui la maggioranza degli isolati contengono edifici costruiti in epoca anteriore al 1860,
anche in assenza di monumenti o di edifici di particolare valore artistico;
- strutture urbane si usa da antiche mura in tutto o in parte conservate, comprese le eventuali propaggini
esterne che rientrino nella definizione del punto a);
- strutture urbane realizzate anche dopo il 1860 che nel loro complesso costituiscono documenti di un
costume edilizio altamente qualificato.
+ le normative previste per le diverse parti del territorio come sopra individuate si sostanziano
essenzialmente nel divieto di procedere a lottizzazione prima dell'approvazione dello strumento urbanistico
generale, nonché in una serie di limiti volumetrici all'attività edilizia in relazione alle diverse zone e alla
funzione residenziale o produttiva degli edifici. Più particolare, la nuova disciplina, risultante oggi
dall'articolo 9 del t.u.ed. , statuisce i seguenti limiti:
- fuori del perimetro dei centri abitati l'edificazione a scopo residenziale non può superare l'indice di
metri cubi 0,03 per metro quadro di area edificabile. Le superfici coperte dagli edifici o dei complessi
produttivi non possono infine superare 1/10 dell'area di proprietà;
- nell'ambito dei centri abitati e dei centri storici sono consentiti invece interventi di manutenzione
ordinaria, straordinaria e di restauro e risanamento conservativo, con esclusione di altri interventi più
pesanti. Rimane naturalmente confermato l'assoluto divieto di lottizzazione.

 Parcheggi: l'esistenza di un'efficiente rete di parcheggi costituisce oggi una delle condizioni
fondamentali perché si possa parlare di un ordinato razionale assetto del territorio. Le principali fonti
normative in materia si rinvengono nella legge 765 del 1967, nella legge 47 del 1985 nella legge 122 del
1999. A ciò bisogna poi aggiungere una cospicua legislazione regionale che sembra tuttavia muoversi
secondo le coordinate della normativa statale.
In materia è innanzitutto basilare la distinzione tra:
- parcheggi pubblici: costituendo parte integrante degli standard ad operatività differita (sotto il profilo
dei limiti inderogabili delle aree da riservare ad esso nella formazione dei nuovi strumenti urbanistici
o nella revisione di quelli esistenti) di cui si è detto, non meritano una particolare attenzione. Essi
devono essere inseriti obbligatoriamente nei nuovi strumenti urbanistici. Inoltre, trattandosi di
standard ad operatività differita, il presupposto per la loro concreta operatività nei confronti dei
soggetti privati, è il previo inserimento dei medesimi negli strumenti pianificatori;
- parcheggi privati: prescindono, al contrario di quelli pubblici, da una loro specifica previsione dello
strumento urbanistico, costituendo condicio sine qua non per il rilascio del titolo abilitativo. È stato
infatti statuito che ogni nuova costruzione deve dotarsi di spazi per il parcheggio in misura non
15
inferiore ad 1 m² di parcheggio per ogni 10 m² di costruito. Oltre a questi parcheggi che potremmo
definire a regime ordinario, esiste poi una seconda categoria di parcheggi privati, disciplinati dalla
legge 122 del 1989 (cd.legge Tognoli) ed aventi un regime speciale. Si tratta in questo secondo caso
della possibilità attribuita ai proprietari di immobili esistenti di realizzare nel sottosuolo o nei locali
siti al piano terreno parcheggi a servizio della propria abitazione, legati da uno speciale vincolo
pertinenziale, che rende nulli gli eventuali atti di cessione separata dei medesimi dall'immobile
principale. Questi parcheggi sono soggetti a particolari regole sostanziali e procedimentali di favore:
innanzitutto possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti
edilizi, purché nel rispetto dei vincoli paesaggistici e ambientali. Agli stessi è poi applicabile il
meccanismo semplificato della d.i.a., sempre che il fabbricato oggetto dell'intervento non sia soggetto
dagli strumenti urbanistici a vincoli paesaggistici, storico-culturali, e non sia compreso in zona
omogenea A o oggetto di altre specifiche prescrizioni di vigenti strumenti di pianificazione. A
proposito dei parcheggi privati nelle due forme predette sia posto da tempo il problema se i medesimi
potessero essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale accedevano. La
giurisprudenza ha sin dall'inizio ha seguito un indirizzo binario: ha risposto negativamente per i
parcheggi speciali, posto che la legge Tognoli dispone espressamente la loro inseparabilità a pena di
nullità. Ha risposto invece positivamente per i parcheggi ordinari posto che per essi la legge non
dispone espressamente l’inseparabilità (la corte di cassazione ha affermato che la violazione del
vincolo pertinenziale non determina mai la nullità del contratto di trasferimento dell'immobile
principale, ma l'instaurazione comunque del vincolo pertinenziale sugli spazi destinati a parcheggio.
Recentemente il legislatore con la legge del 2005 n. 246, è andato oltre gli anzidetti indirizzi
giurisprudenziali, sancendo che “gli spazi per parcheggi realizzati in forza della legge del 1967 non
sono gravati da vincoli pertinenziali nè da diritti d'uso a favore dei proprietari di altre unità
immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse”.

 Altri limiti: per la conservazione dei boschi, per il rispetto dell'esistente, per la
protezione del nastro stradale, ecc.
Innumerevoli altri limiti e vincoli sono previsti da leggi speciali sia statali che regionali:
- decreto 1404 del 1968: fa obbligo di osservare nel edificazione al di fuori del perimetro dei centri
abitati distanze minime a protezione del nastro stradale, misurato a partire dal ciglio della strada;
- legge 353 del 2000 (legge quadro in materia di incendi boschivi): prescrive che le zone boscate e i
pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa
da quella preesistente all'incendio per almeno 15 anni; che in tutti gli atti di compravendita di aree e
immobili situati nelle predette zone, stipulati entro 15 anni dai predetti eventi, deve essere
espressamente richiamato il vincolo di cui sopra pena la nullità dell'atto; infine che è vietata per 10
anni sui predetti soprassuoli, la realizzazione di edifici, di strutture e infrastrutture finalizzate ad
insediamenti civili e attività produttive. Sono inoltre vietati per 10 anni il pascolo e la caccia,
limitatamente ai sopra suoli delle zone boscate percorsi dal fuoco;
- sempre nell'ottica della tutela urbanistica dell'ambiente merita un cenno il cosiddetto limite
dell'esistente: si tratta di quelle ipotesi in cui il legislatore impone il rispetto o il mantenimento di un
certo habitat. Ad esempio le leggi regionali hanno previsto fasce di rispetto per le zone costiere,
l'obbligo di non assoggettare ai terreni agricoli destinati a colture pregiate all'edificazione, l'obbligo
del rispetto dell'ambiente.

16
PARTE SECONDA

Gli strumenti urbanistici

17
CAPITOLO I
Piani urbanistici di area vasta
crisi e riproposizione
 Il deficit di effettività: la pianificazione di area vasta è quella che registra il maggior tasso di
ineffettività. Per questa ragione essa assume di regola un ruolo marginale nelle trattazioni di diritto
urbanistico: ma una tale scorciatoia non sembra consentita anche perché è questa pianificazione oltre ad
avere una base nella legge urbanistica del 1942, viene riproposta continuamente dalla legislazione più
recente. La legislazione recente assegna ai piani urbanistici di area vasta una funzione ulteriore a quella
esclusivamente urbanistica di un tempo: quella di essere cioè allo stesso tempo piano urbanistico e piano
paesaggistico.
Occorre procedere con ordine:
+ pianificazione di vasta area nella legge del 1942: la pianificazione di area vasta nella legge del
1942 è affidata essenzialmente al piano territoriale di coordinamento. Esser concepito come piano facoltativo
e non obbligatorio, sovraordinato agli strumenti urbanistici comunali. La sua funzione è quella di
condizionare i contenuti dei singoli strumenti urbanistici comunali (compresi nel perimetro del p.t.c.) in
modo da poter orientare e coordinare gli insediamenti, secondo le esigenze economiche, tecniche e sociali
considerate unitariamente al di sopra del particolarismo comunale. Il piano avrebbe dovuto individuare: le
zone da riservare a speciali destinazioni (cd. zonizzazione funzionale), quelle soggette a speciali vincoli o
limitazioni di legge (vincoli paesistici, monumentali, ..), le località da scegliere come sedi di nuovi nuclei
edilizi o impianti di particolare natura ed importanza (aeroporti, grandi complessi ospedalieri, sportivi, ..), la
rete delle principali linee di comunicazione stradali, ferroviarie, elettriche, navigabili esistenti e in
programma. Il piano era concepito come strumento urbanistico di semplici direttive: avente cioè come
destinatari i comuni e le altre amministrazioni (non anche i privati): i primi traducendo le direttive del piano,
la lesse con de adottando tutti quei provvedimenti necessari per l'attuazione del piano nelle materie di propria
competenza. Tutto il procedimento era concentrato a livello ministeriale, con esclusione dei comuni e dei
privati da ogni forma di partecipazione. Tale esclusione era giustificata dal carattere nazionale degli interessi
coinvolti.
+ pianificazione di area vasta OGGI: la pianificazione di area vasta, dopo una serie di esperienze
fallimentari degli anni 70 e 80, sembra oggi affidata a due strumenti urbanistici generali (ai quali bisogna
aggiungere due figure speciali destinate ad operare in certi territori: il piano metropolitano per le cosiddette
aree metropolitane e il piano della comunità montana per i territori montani) su due distinti livelli:
- livello regionale: quasi tutte le regioni prevedono uno strumento urbanistico di livello regionale,
variamente denominato “schema di assetto territoriale”, “piano urbanistico regionale”, “piano
territoriale di coordinamento regionale”, ... La funzione fondamentale di tali piani è quella di cercare
di operare una saldatura tra l'assetto territoriale e le politiche più generali, con riferimento specifico
sia alle più importanti destinazioni d'uso del territorio (zone industriali, insediamenti turistici, zone da
preservare) sia alle grandi infrastrutture (aeroporti, autostrade, ..). Del resto le nuove normative
regionali sembrano divergere in più punti da quella originaria: un primo aspetto di differenziazione è
il carattere misto dei nuovi piani (si tratta di piani di direttive, ma non solo di direttive: talune
prescrizioni hanno infatti la capacità di incidere direttamente nella sfera giuridica dei soggetti privati);
inoltre mentre i p.t.c. venivano approvati con un procedimento tutto concentrato nell'ambito
ministeriale, i piani di corso prevedono il coinvolgimento dei comuni e anche dei privati; ma l'aspetto
più significativo è che essi aspirano ad una reductio ad unum (tendono cioè ad unificare la
pianificazione urbanistica e quella paesaggistico-ambientale: ciò sulla scia di un lungo processo
evolutivo, il cui momento iniziale può farsi risalire alla legge Galasso. Quest'ultima, oltre a rendere
obbligatorio per le aree previamente vincolate il piano paesaggistico, prima solo facoltativo, ha
previsto anche una nuova tipologia di piano, che unifica in un solo documento e le prescrizioni
urbanistiche e quelle paesaggistiche: il piano urbanistico territoriale con specifica considerazione dei
valori paesistici ed ambientali);
- livello provinciale: con la legge 142 del 1990, la provincia viene investita per la prima volta di
funzioni urbanistiche. È previsto il piano territoriale di coordinamento della provincia, recepito ora
dal codice degli enti locali. Spetta a tale piano il compito di determinare, ferme restando le
18
competenze dei comuni: a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione
delle sue parti; b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di
comunicazione; c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, in geologica ed idraulico forestale
e in genere per il consolidamento del suolo e la regimentazione delle acque; d) le aree nelle quali sia
opportuno istituire parchi o riserve naturali. L’intento della reductio ad unum è qui rafforzato: è infatti
previsto che il piano possa assumere il valore e gli effetti de i piani di tutela nei settori della
protezione della natura, della tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela
delle bellezze naturali, sempre che la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di
intesa fra la provincia le amministrazioni, anche statali, competenti. La disciplina del procedimento di
formazione e approvazione del piano è demandata alla legge regionale, con il solo limite della
previsione della partecipazione dei comuni al procedimento stesso. Spetta anche alla legge regionale
di indicare le modalità di intervento della provincia nei procedimenti di formazione degli strumenti
urbanistici comunali, onde soddisfare le esigenze del coordinamento. Ci si è chiesti se il piano possa
incidere immediatamente nella sfera dei privati: a tale quesito sembra dare risposta negativa l'articolo
20 t.u.enti locali, il quale, mentre specifica che gli enti e le amministrazioni pubbliche nell'esercizio
delle rispettive competenze, si conformano ai piani territoriali di coordinamento delle province, non
può né uguale dovere di conformazione a carico dei privati. La tesi prevalente cataloga pertanto lo
strumento urbanistico in discorso tra i piani di direttive o di indirizzo, essendo lo stesso preordinato a
condizionare la pianificazione comunale e gli interventi delle altre amministrazioni pubbliche, non
anche i privati;
- aree metropolitane: la 142 del 1990, oltre ad attribuire poteri urbanistici alle province, ha affrontato
per la prima volta il problema delle aree metropolitane, prevedendo un regime giuridico differenziato
per alcune grandi città e i territori circostanti. Le aree contemplate sono quelle di Torino, Milano,
Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli. Anche questa normativa è stata recepita dal
codice degli enti locali. Per questi territori vengono previsti due livelli di governo: la città
metropolitana, come autorità di area vasta preposta al governo dell'intera area metropolitana e i
comuni siti all'interno della medesima. Ai fini della distribuzione delle funzioni urbanistiche tra i due
livelli di governo, legge si limita a denunciare alcuni criteri, demandando al legislatore regionale il
compito di disciplinare in dettaglio la materia. L'elemento caratterizzante della normativa sembra
comunque essere il seguente: che alcune funzioni normalmente affidate ai comuni possono essere
attribuite all'autorità di area vasta quando le medesime abbiano precipuo carattere sovracomunale e
debbano, per ragioni di economicità e di efficienza, essere svolte in forma coordinata nell'area
metropolitana. Ciò significa che la città metropolitana, oltre ad esercitare le competenze proprie della
provincia (formazione del piano territoriale di coordinamento) potrà anche svolgere funzioni di
pianificazione operativa, espletate normalmente dai comuni attraverso i piani regolatori generali. È da
supporre che in questi casi i poteri urbanistici dei comuni compresi nell'area metropolitana degradino
ad una funzione più circoscritta di carattere attuativo;
- comunità montane: istituite con legge 1102 del 1971, con il compito di promuovere lo sviluppo
socio-economico delle zone montane, esse originariamente si configurano come enti locali con
funzioni essenzialmente di programmazione: redazione di piani di sviluppo socio-economico e di
piani urbanistici di direttive per indirizzare i p.r.g.dei singoli comuni inclusi nelle zone montane.
L'esperienza di tali enti non è stata esaltante, tant'è che negli anni 80 se ne era talvolta auspicata la
soppressione. Viceversa il legislatore statale, con la legge di riforma delle autonomie locali, con la
legge per le zone montane poi e da ultimo col testo unico degli enti locali, ha rivitalizzato l'istituto,
potenziando i compiti di tipo gestionale-attuativo e affievolendo quelli programmatori. Questi ultimi
si sono stanziano ora essenzialmente nell'adozione di un piano pluriennale di sviluppo che viene
approvato dalla provincia secondo le modalità previste dalla legge regionale. Le indicazioni
urbanistiche di tale piano concorrono alla formazione del piano territoriale di coordinamento della
provincia. La comunità montana più che pianificare autonomamente il proprio territorio, si limita
quindi a partecipare con le direttive del programma pluriennale di sviluppo alla formazione di uno
strumento urbanistico di direttive di un altro ente: la provincia;
- comunità isolane e di arcipelago: valgono principi analoghi a quelli dettati per le comunità montane;
- unificazione comprensoriale: maturata negli anni 70 e 80 in diverse regioni e ormai recessiva. La
vicenda dei comprensori si collega alla problematica della ricerca di un livello intermedio di governo
19
locale tra la regione e il comune, nel tentativo di poter effettuare opzioni urbanistiche più razionali
sotto il profilo della scelta degli insediamenti e sotto quello delle infrastrutture e dei servizi. Nascono
così nella legislazione regionale degli anni 70 i comprensori configurati dalle varie regioni con
caratteri diversi. Le esperienze sono state fallimentari.

Conclusioni: dopo aver tentato di ricostruire le principali tipologie di piani di area vasta, offerte
dall'esperienza degli ultimi anni, si rendono necessarie alcune riflessioni conclusive per individuare le
tendenze dell'ordinamento oggi:
- il primo dato che emerge è che nonostante i ripetuti fallimenti riscontrati sul campo, la pianificazione
di area vasta non ha subito momenti di arresto, risultando addirittura potenziata. L’originario e unico
livello di pianificazione sovracomunale della legge del 1942 (costituito dal p.t.c.) si è infatti sdoppiato
in due livelli: uno regionale, l'altro provinciale. L'attribuzione di compiti urbanistici alla provincia
sembra il frutto di un'operazione rivolta essenzialmente a dare un da fare ad un ente alla continua
ricerca di un ruolo e soggetto a tensioni contrapposte. Il risultato è che il sistema della pianificazione
urbanistica si è ulteriormente complicato, sino a contare ben 4 gradi di pianificazione: piano
urbanistico regionale / piano territoriale di coordinamento della provincia / piano regolatore
generale comunale / piani attuativi;
- il secondo dato da registrare è il tentativo di attribuire al p.t.c. della provincia non solo valore di piano
urbanistico-paesaggistico (come avviene per il livello regionale), ma anche di inglobare in esso tutte
le pianificazione di settore nel campo dell'ambiente e della bonifica;
- un ultimo aspetto da segnalare è l'innesto nei procedimenti di pianificazione territoriale in esame della
procedura di valutazione ambientale strategica (v.a.s.), oggi imposta dal diritto comunitario ed
all'articolo 7 c.amb. per tutti gli strumenti pianificatori, compresi quelli urbanistici, a 21 impatto
rilevante sull'ambiente.

Valutazione Strategica Ambientale: è un processo finalizzato ad integrare considerazioni di natura


ambientale nei piani e nei programmi, per migliorare la qualità decisionale complessiva. In particolare,
l'obiettivo principale è valutare gli effetti ambientali dei piani o dei programmi prima della loro
approvazione, durante e al termine del loro periodo di validità. Ciò serve soprattutto a sopperire alle
mancanze di altre procedure parziali di valutazione ambientale, introducendo l'esame degli aspetti
ambientali già nella fase strategica. Altri obiettivi della VAS riguardano sia il miglioramento
dell'informazione della gente, si ha la promozione della partecipazione pubblica nei processi di
pianificazione-programmazione.

CAPITOLO II
La PIANIFICAZIONE COMUNALE di base
Si descriveranno due modelli di pianificazione urbanistica comunale: quello tradizionale (concepito dalla
legge urbanistica del 1942 e tuttora operante in alcune regioni con qualche modifica e integrazione) e quello
nuovo (vigente o in fase di realizzazione in altre regioni).
Il sistema di pianificazione concepito nel 1942 è espressione di un modello che ha la pretesa di affrontare di
petto tutti i problemi dell'assetto del territorio.
I nuovi modelli pianificatori sembrano invece adottare la strategia di affrontare questi problemi
separatamente. Il piano dovrebbe stabilire le invarianti, le regole per l'esistente e le strategie per le zone di
espansione; appositi strumenti urbanistici di attuazione e di settore elaborati in tempo successivo dovrebbero
fare tutto il resto, attraverso un metodo basato prevalentemente sulla consensualità.

A) Modello tradizionale
 Indicazioni della legge del 1942: occorre esaminare gli strumenti urbanistici comunali di
carattere generale coniati dalla legge del 1942. Essi sono:
a) PIANO REGOLATORE GENERALE: concepito come piano obbligatorio per i comuni più
importanti, inclusi in appositi elenchi formulati dal ministero (era anche prevista la possibilità di redigere un
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unico piano intercomunale al posto di singoli piani regolatori, quando per le caratteristiche di sviluppo dei
rispettivi aggregati edilizi si rendeva opportuno il coordinamento delle direttive dell'assetto urbanistico. Tale
piano, adottato da ciascun comune per le parti di rispettiva pertinenza e approvato con un unico decreto
ministeriale, ha trovato limitatissime applicazioni). Tutti gli altri comuni hanno comunque la facoltà di
formare il piano regolatore generale del proprio territorio.
Il piano regolatore generale lo strumento urbanistico che fissa le direttive generali di sistemazione della
totalità del territorio di un comune, anche con imposizione di limiti e condizioni d'uso alla proprietà
privata dei suoli.
Contenuti: il piano deve innanzitutto considerare la totalità del territorio comunale, sia nella parte urbana
che extra urbana. Il suo contenuto, originariamente circoscritto alle localizzazioni e alle zonizzazioni, ha
subito negli anni una progressiva dilatazione, con l'introduzione ad esempio di prescrizioni per la tutela del
paesaggio, dell'ambiente, dei beni culturali e di normative a valenza economica. Ciò è avvenuto
prevalentemente in virtù della legislazione regionale e delle normative di settore sia statali che regionali. La
complessità dei contenuti dell'odierna pianificazione urbanistica a sì o poi per influenzare profondamente le
tecniche di redazione degli strumenti urbanistici e l'efficacia degli stessi: ad esempio può accadere che in
certi casi il piano fornisca immediatamente una disciplina con più tardi certe parti del territorio tale da
imporsi immediatamente ai privati e da essere anche attuata direttamente senza la mediazione di una
pianificazione ulteriore a carattere attuativo; in certi altri casi invece può accadere che le previsioni di piano
siano improntate a una certa genericità che richiede successive specificazioni. La tecnica di redazione dei
piani finisce così per condizionare a sua volta il complesso rapporto: pianificazione generale - pianificazione
attuativa - singoli interventi edilizi.
Tenendo conto di ciò, il contenuto-base del piano regolatore generale può essere così ricostruito:
a) localizzazioni: sono le aree destinate a sede di opere o impianti pubblici e come tali e preordinate
all'espropriazione. Tra queste aree sono da considerare non solo quelle necessarie per la realizzazione
di opere di interesse comunale, ma anche quelle finalizzate a infrastrutture di più generale interesse
(quali opere statali, regionali, ..). Tali previsioni determinano vincoli di inedificabilità assoluta sulla
proprietà privata, che possono avere l'effetto pratico di rendere impossibile per anni qualsiasi
utilizzazione della medesima, trasformando di fatto quello che formalmente è un diritto in un peso
insopportabile. Si tratta di una delle problematiche più delicate dell'intero diritto urbanistico, su cui la
giurisprudenza costituzionale ha avuto modo più volte di pronunciarsi a partire dalla sentenza 55 del
1968, che ha dichiarato incostituzionali le norme della legge urbanistica che consentivano senza la
previsione di un indennizzo l'imposizione di vincoli di inedificabilità assoluta a tempo indeterminato
sulla proprietà privata. Il legislatore, per adeguare il sistema ai principi costituzionali, è intervenuto
con due generi di normative: in un primo momento si è limitato a temporalizzare i vincoli di
localizzazione; in un secondo momento ha imposto la corresponsione di un indennizzo, la il caso di
reiterazione dei vincoli dopo un periodo di franchigia;
b) zonizzazione: è la divisione dell'intero territorio comunale in “zone”, con la precisazione per ciascuna
di esse delle destinazioni d'uso e la normativa urbanistica da osservare, in termini di volumetrie,
tipologie e delizie, vincoli e altro. I criteri fondamentali per effettuare la zonizzazione sono stabiliti
dalla normativa sugli standard, che fornisce l'ossatura fondamentale del piano. Le zone-tipo previste
sono: centro storico (A), zona di completamento (B: parte del territorio comunale parzialmente
edificata in cui esistono però ancora delle aree libere), zona di espansione (C), zona di servizi (D),
zona agricola (E). L'autorità urbanistica gode di ampia discrezionalità in ordine alla formulazione di
queste zone: sia nel decidere se una certa area debba avere questa o quell'altra destinazione; sia in
ordine al suo dimensionamento, sia relativamente ai parametri edilizi da applicare nelle medesime.
Ma tale potere incontra il limite degli standard, non potendo il comune superare nella determinazione
dei parametri edilizi quel minimum essenziale previsto dai medesimi a garanzia della qualità della
vita. Il vigente sistema della zonizzazione non è così rigido da escludere, nell'ambito di una stessa
zona, ulteriori sub-zonizzazioni o la realizzazione di immobili aventi diverse funzioni. Proprio per la
possibile coesistenza in una stessa zona di edifici con diverse funzioni, nasce il problema delle
modifiche di destinazione d'uso.
Approfondimenti sulla “zonizzazione”: occorre fare riferimento specifico alle cosiddette destinazioni
produttive:

21
 destinazioni agricole: gli standard urbanistici prevedono per le zone agricole (zone E)
limitatissime possibilità edificatorie. Ciò con il chiaro intento di preservare tali aree da
processi di urbanizzazione. Si è discusso a lungo se la destinazione a verde agricolo debba
necessariamente rispondere alla finalità di un effettivo svolgimento dell'attività agricola o
possa avere carattere residuale. La giurisprudenza sembra ormai a favore di questa seconda
tesi, attribuendo alla destinazione in esame valore di una prescrizione anche orientata a fini di
salvaguardia: ne consegue che anche le aree non aventi a rigore l'attitudine allo sfruttamento
agricolo possono ricevere l'anzidetta destinazione. Esistono oggi numerosi problemi
urbanistici legati alle destinazioni agricole che determinano l'incertezza del legislatore
regionale, oscillante tra impostazioni miranti alla conservazione dell'esistente e di
trasformazione delle medesime per usi diversi da quelli strettamente agricoli;
 destinazioni commerciali: uno dei tanti compiti dei piani urbanistici è certamente quello di
inserire le attività commerciali nel tessuto urbano. La legge sul commercio del 1971 nella sua
versione originaria prevedeva una vera e propria pianificazione della rete distributiva, la quale,
pur ispirata a finalità essenzialmente economiche, era caratterizzata da forti implicazioni
urbanistiche. La normativa successiva a non è più orientata alla fissazione di barriere selettive
di nuovi operatori sul mercato, ma a considerare le conseguenze indotte da ogni nuovo
insediamento commerciale. La nuova normativa poggia fondamentalmente sui seguenti
principi fondamentali: le regioni fissano i criteri di programmazione urbanistica riferiti al
settore commerciale, tenendo conto di una serie di prescrizioni disposte dalla legge; e i
comuni sono tenuti ad adeguare entro il termine fissato dalla regione ma non superiori a 180
giorni gli strumenti urbanistici generali e attuativi, nonché i regolamenti di polizia urbana alle
disposizioni di cui sopra; e i comuni sentite le organizzazioni dei consumatori e quelle
imprenditoriali del commercio, la adottano i criteri per il rilascio delle autorizzazioni di
commercio in correlazione alle concessioni e autorizzazioni edilizie necessarie;
 destinazioni industriali: esistono fin dai tempi più remoti due generi di normative: talune
ispirate ad esigenze precauzionali (si pensi ad esempio al divieto di ubicazione delle industrie
insalubri nell'ambito del perimetro urbano), altre a finalità promozionali (ad esempio quelle
dirette alla realizzazione di zone industriali che si sostanze hanno non solo nella previsione
attraverso i piani regolatori di apposite aree da destinare alle attività industriali o produttive,
ma anche nella predisposizione da parte dei pubblici poteri di particolari forme di
organizzazione infrastrutturale del territorio, in modo da attirare la localizzazione di impianti
produttivi.
c) ricognizione del patrimonio culturale e ambientale e tutela delle cosiddette identità minori: il piano
deve inoltre individuare le zone di interesse paesaggistico, nonché i complessi storici, monumentali,
ambientali e archeologici con la previsione dei relativi vincoli. Ciò è stato scaturito per la prima volta
dalla legge 1187 del 1968; successivamente dalla gran parte delle leggi regionali. La giurisprudenza
ha chiarito che tali indicazioni non hanno carattere meramente ricognitivo: non devono cioè limitarsi
a trascrivere vincoli precedentemente imposti dalle autorità competenti in materia, ben potendo
estendere la tutela ad altri beni. Le leggi regionali hanno più volte confermato tali indirizzi. Attraverso
gli strumenti urbanistici i comuni hanno così la possibilità di salvaguardare luoghi e beni che, pur non
rivestendo per l'arte e la storia nazionale grande rilievo, hanno tuttavia importanza per la memoria di
quelle più limitate comunità di cui sono espressione e servono quindi alla salvaguardia delle
cosiddette identità minori;
d) ricognizione del patrimonio urbanistico edilizio da recuperare: la legge 475 del 1989, al fine di
favorire il riuso del patrimonio edilizio esistente ed economizzare l'uso del territorio, ha statuito che
attraverso il piano regolatore generale o successivamente mediante apposita delibera consiliare,
devono essere individuate le zone degradate, in modo da disporne il recupero mediante interventi
rivolti alla conservazione, al risanamento, alla ricostruzione e alla migliore utilizzazione del
medesimo. L'esecuzione di questi interventi avviene normalmente attraverso piani di recupero;
e) norme per l'attuazione del piano: si tratta di un insieme variegato di norme urbanistico-edilizie,
rivolte ad esempio a precisare i caratteri e le limitazioni di zona, le altezze, i vincoli attinenti a
particolari servitù discendenti dal piano

22
f) zone bianche: nel diritto urbanistico, tale espressione serve a individuare parti del piano regolatore
generale prive di specifiche prescrizioni urbanistiche. A prima vista tale ipotesi sembrerebbe in
contrasto col carattere totalizzante del piano regolatore predica la regola della disciplina dell'intero
territorio comunale. In realtà si possono presentare “zone bianche”: ad esempio quando il piano venga
approvato con degli stralci che lascino temporaneamente un vuoto di normativa; annullamento
parziale di un piano regolatore prima che venga colmata la lacuna; ... Il problema che si pone in tutti
questi casi è quello della disciplina da applicare nel periodo di vuoto della normativa urbanistica. La
giurisprudenza in un primo momento aveva considerato le zone bianche come zone di libera
edificabilità assoggettate solo ai limiti sulle distanze e altezze stabilite dal codice civile e dal
regolamento edilizio. Ma da parecchi anni prevalgono atteggiamenti più rigorosi che ritengono
ammissibile in queste zone l'estensione della normativa valevole per i comuni sprovvisti di piano.
Procedimento di formazione: il procedimento di formazione del piano regolatore è inquadrabile tra i
procedimenti composti, costituenti cioè la risultante di due sub-procedimenti connessi, allocati nel caso
specifico presso due enti diversi: il comune e la regione. A questo procedimento non si applicano le regole
valevoli per i normali procedimenti amministrativi. Momenti fondamentali di tale complesso iter
procedimentale sono: adozione (intestata al comune) e approvazione (intestata alla regione). Inoltre nel
procedimento in esame si inserisce la Valutazione Strategica Ambientale.
1) sub-procedimento COMUNALE: si articola essenzialmente nelle seguenti fasi:
a) redazione tecnica del progetto di piano: dovrebbe essere espletata dagli uffici tecnici del
comune. Ma può anche accadere che sia affidata a tecnici esterni quando i predetti uffici non
sono sufficientemente attrezzati. Poiché il potere decisionale in ordine ai contenuti del piano
spetta all'organo politico (consiglio comunale) e non ai progettisti si è affermata la prassi di
una preliminare delibera di indirizzo per far sì che gli elaborati tecnici di piano siano coerenti
con gli orientamenti di politica urbanistica del comune;
b) adozione del piano con apposita delibera consiliare: il piano deve essere adottato dal consiglio
comunale con delibera a semplice maggioranza, preceduta nel caso di comuni sismici dal
parere dell'ufficio tecnico della regione. Delicati problemi di incompatibilità si pongono in
tutte quelle ipotesi in cui i consiglieri siano direttamente o indirettamente interessati rispetto
agli oggetti sui quali sono chiamati a deliberare. Spesso il consiglio si paralizza e dovrà
ricorrersi alla nomina di un commissario ad acta;
c) deposito e pubblicazione del piano adottato per assicurare la partecipazione dei soggetti
pubblici e privati: una volta superata la fase dell'adozione, il piano deve essere depositato nella
segreteria comunale per 30 giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha facoltà di prenderne
visione;
d) presentazione delle osservazioni: il deposito nella segreteria comunale è finalizzato alla
presentazione di osservazioni da parte di chiunque, entro il termine di 30 giorni decorrenti
dalla scadenza del periodo di deposito. Secondo la giurisprudenza le osservazioni
costituiscono semplici forme di collaborazione esterna al perfezionamento del piano.
Servirebbero ad accrescere le conoscenze dell'amministrazione in ordine ai fatti materiali e
agli interessi toccati dal piano;
e) formulazione delle controdeduzioni: la competenza a pronunciarsi sulle osservazioni spetta al
consiglio comunale che vi provvede con ospita delibera (controdeduzioni). L'amministrazione
non ha un vero obbligo, ma solo la facoltà di prendere in considerazione le osservazioni e di
pronunciarsi su di esse. Affermazione tuttavia fortemente temperata da riconoscimento di un
principio di parità di trattamento che obbliga la stessa ad esaminare tutte le osservazioni
presentate, una volta prese in esame alcune di esse. Inoltre la giurisprudenza ha ritenuto che
sia sufficiente una motivazione unica per ogni gruppo di osservazioni aventi analogo
contenuto. Nel caso di rigetto delle osservazioni, la delibera si atteggia come un atto di
semplice controdeduzione, con la conseguenza che non è soggetto alle stesse forme di
partecipazione e di pubblicità previste per la delibera di adozione. Dubbi invece sono stati
avanzati nell'ipotesi di accoglimento delle osservazioni: La giurisprudenza ha parlato talvolta
di un obbligo di seconda pubblicazione della delibera in quanto considerata come riadozione
del piano. Ma la giurisprudenza prevalente tende invece a configurare l'accettazione come la
fase di un unico procedimento che si conclude con l'approvazione dello strumento urbanistico;
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f) presentazione del piano adottato con le relative osservazioni e controdeduzioni all'organo
regionale per l'approvazione: l'ultimo adempimento di questo procedimento è quello della
presentazione del piano adottato all'organo regionale competente per l'approvazione. La legge
sull'urbanistica si sa per tale adempimento il termine di due anni decorrenti dalla data di
inclusione del comune in elenco. Le leggi regionali stabiliscono spesso altri termini,
prevedendo anche degli interventi sostitutivi in caso di inerzia.
2) sub-procedimento REGIONALE:
a) approvazione del piano: l'approvazione del piano è normalmente deferita alle
regioni, ma talvolta le leggi regionali affidano tale incombenza alla provincia o
addirittura allo stesso comune. Sempre le leggi regionali disciplinano il
procedimento di approvazione. Lo schema più seguito è quello di sottoporre il
piano adottato con le relative osservazioni e controdeduzioni al parere di un organo
tecnico regionale (es. consiglio regionale dell'urbanistica), dopo aver acquisito le
intese o i concerti con altre amministrazioni interessate, tutte le volte in cui le
previsioni di piano incidano su interessi a regime differenziato. Il termine di
definizione del procedimento è fissato da una legge statale in 12 mesi decorrenti
dalla data di presentazione del piano da parte del comune. Termine definito
perentorio, che potrà essere interrotto una sola volta per motivata richiesta di
integrazione documentale. La legge però non precisa quali conseguenze derivino
dall'inosservanza di questo termine: in mancanza di specifiche indicazioni sul
punto sembra plausibile optare per la tesi del silenzio-rifiuto. Alcune legislazioni
regionali e speciali sono però orientate nel senso del silenzio-assenso. In sede di
approvazione possono verificarsi diverse ipotesi:
+ la regione, condividendo in pieno le scelte comunali, approva lo
strumento urbanistico al suo esame;
+ la regione, non condividendo in toto il piano, lo restituisce al
comune per la rielaborazione;
+ approvazione “con stralci”: si realizza quando la regione, pur
condividendo l'impostazione generale del piano, manifesta talune
riserve su alcune scelte urbanistiche relative a parti circoscritte del
territorio. Esigenze pratiche possono consigliare in tali casi
l'approvazione parziale del piano e il rinvio ad un momento successivo
dell'approvazione della parte stralciata. La giurisprudenza ammette la
legittimità di tale prassi, solo quando lo stralcio non venga ad
assumere proporzioni tali da togliere al piano approvato quella
finzione di indirizzo urbanistico che ne costituisce la primaria finalità;
+ approvazione del piano “con modifiche d'ufficio” introdotte
direttamente dalla regione: è un'ipotesi prevista dalla legge,
circoscritta a quei casi tassi attivi in cui la modifica sia necessaria per
adeguare il piano a precisi obblighi di legge o ad interessi che
trascendono la mera sfera locale (adeguamento agli standard, a vincoli
preesistenti, a direttive di area vasta,…);
b) pubblicazione: il decreto di approvazione deve essere pubblicato nel bollettino
ufficiale della regione. La giurisprudenza ritiene sufficiente in realtà la
pubblicazione per sunto o per estratto. Dopo tale adempimento il piano, insieme ad
una copia del decreto, viene depositato nella segreteria del comune a libera visione
del pubblico per tutto il periodo della sua operatività. La giurisprudenza, partendo
dal presupposto che il procedimento di pubblicazione del piano regolatore generale
consiste, oltre che nella pubblicazione in senso stretto nel bollettino ufficiale, anche
nel deposito presso la segreteria del comune, ritiene che solo dopo quest'ultimo
adempimento il piano possa dirsi entrato in vigore. Nella più recente legislazione
statale e in alcune leggi regionali si tende tuttavia ad anticipare, limitatamente ai
comuni sprovvisti di strumento urbanistico, l'efficacia del piano a momenti
anteriori all'approvazione.
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c) Attuazione: può accadere che nella fase di attuazione del piano si manifesti la
necessità o l'opportunità di una revisione. A ciò si provvede a mezzo di varianti.
L'introduzione di queste ultime era originariamente soggetta ad una preventiva
autorizzazione regionale, venuta meno successivamente per dare un contributo alla
semplificazione dei procedimenti urbanistici. L'introduzione delle varianti
dovrebbe avvenire secondo le stesse modalità previste per la formazione e
approvazione del piano regolatore (salvo l'obbligo di una più specifica motivazione
delle scelte urbanistiche dato il carattere derogatorio delle medesime). Queste
regole hanno però subito negli ultimi tempi profonde inclinazioni per effetto della
legislazione di settore, che ha previsto sempre più spesso varianti anomale dello
strumento urbanistico principale: varianti che si realizzano sia attraverso le
procedure di approvazione delle opere pubbliche (con la variante di rito
“l’approvazione del progetto produce la variante del p.r.g.”), sia attraverso piani
attuativi a 20 e la potenzialità di prevalere è alle prescrizioni del piano regolatore,
limitatamente a certi specifici contenuti.
Il doppio regime della motivazione: la complessità del procedimento pianificatorio descritto rende evidente
l'impossibilità di estendere al medesimo i principi valevoli per i comuni procedimenti amministrativi.
L'articolo 13 della legge 241 del 1990 conferma tale impostazione.
Nasce in particolare il problema della motivazione delle scelte urbanistiche: la giurisprudenza ha enunciato il
criterio della non necessità di una motivazione specifica delle singole opzioni di piano, ritenendo sufficiente
una motivazione ricavabile dai criteri tecnico-urbanistici seguiti nella redazione del piano. Ciò in quanto la
contestualità della ponderazione di interessi, derivante dal carattere totalizzante del piano, rappresenterebbe
una garanzia di imparzialità dell'azione pubblica, di fronte alla quale la variegata mappa degli interessi si
pone originariamente in una situazione di indifferenza.
Viceversa, l'onere di esporre dettagliatamente le ragioni di pubblico interesse delle scelte operate
dall'amministrazione ricorrerebbe tutte le volte in cui queste ultime dovessero incidere su interessi privati
fondati su aspettative precedentemente ingenerate da quest'ultima e nel caso di varianti singolari (ad esempio
per la realizzazione di una singola opera pubblica non prevista).
In conclusione, le scelte urbanistiche, pur imprecando un altissimo grado di discrezionalità e pur
beneficiando di un regime della motivazione meno rigoroso di quello consueto, dovrebbero sempre garantire
un'imparziale ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, compresa l'osservanza del principio
di proporzionalità nella distribuzione dei vantaggi degli svantaggi (ad esempio una soluzione urbanistica
teoricamente ottimale, potrebbe rivelarsi in concreto incongrua per l'altissimo sacrificio degli interessi privati
che da essa potrebbero derivarne).
Efficacia nel tempo: l’art. 11 della legge urbanistica stabiliva che il piano regolatore ha vigore a tempo
indeterminato con riferimento all'intero suo contenuto. Ma la sentenza della corte costituzionale 55 del 1968
ha dichiarato costituzionalmente illegittimo tale articolo nella parte in cui consentiva l'imposizione di vincoli
di inedificabilità assoluta a tempo indeterminato su aree determinate senza la previsione di un indennizzo. Si
è detto che il legislatore si è adeguato a tali enunciati con due diverse operazioni:
- in un primo momento ha temporalizzato gli anzidetti vincoli con la legge 1187 del 1968 che ha
sancito la regola della durata quinquennale dei medesimi, con la possibilità di un ulteriore periodo di
vigenza di 10 anni nel caso in cui gli stessi venissero travasati nei piani particolareggiati;
- in tempi più recenti ha statuito che se gli anzidetti vincoli dovessero comunque protrarsi ulteriormente
(ad esempio in virtù di successivi atti pianificatori), al proprietario deve essere corrisposto
un'indennità commisurata all'entità del danno effettivamente prodotto.
A tale risultato si è pervenuti ancora una volta in seguito ad un'altra importante sentenza della corte
costituzionale (179 del 1999), che ha sanzionato, come elusiva e contraria al criterio della ragionevolezza, la
prassi della reiterazione degli anzidetti vincoli fiorita negli ultimi decenni in conseguenza dei ritardi nelle
espropriazioni delle aree vincolate.
Dopo questo lungo travagliato iter è giurisprudenziale legislativo il regime, originariamente unitario,
dell'efficacia temporale del piano regolatore generale si è spezzato:
- zonizzazioni: il p.r.g. mantiene il suo carattere di strumento urbanistico a tempo indeterminato per ciò
che riguarda le zonizzazioni;

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- localizzazioni: vige la regola dell'efficacia temporanea dei vincoli con una ulteriore specificazione:
che per un periodo massimo di 15 anni (cd. periodo di franchigia) essi non vanno indennizzati; mentre
nel caso di reiterazione dei medesimi scatta l'obbligo di indennizzo.
[Un accenno alla complessa problematica della reiterazione dei vincoli urbanistici manifestatasi nella prassi degli
ultimi decenni, nel caso di vincoli scaduti per decorso dei termini:
+ il primo quesito è quello del regime edificatorio vigente nelle aree interessate da un vincolo di inedificabilità assoluta
scaduto e quindi non più operante. La giurisprudenza risponde che: trattandosi di un'area priva di disciplina urbanistica
si applicano le norme limitative degli standard dettate per i comuni privi di normativa urbanistica;
+ il secondo quesito riguarda invece gli adempimenti che incombono sul comune dopo la scadenza dei vincoli.
Quest'ultimo è tenuto ad integrare il piano per colmare la lacuna, con l'ulteriore conseguenza che in caso di inerzia il
privato che ne abbia interesse ha il potere di attivare il meccanismo della messa in mora. Ma il comune, in sede di
integrazione o rifacimento del piano, non è tenuto a dare una destinazione edificatoria all'area interessata, potendo
anche reiterare il vincolo scaduto con un'adeguata motivazione e previa attenta ponderazione dei diversi interessi
pubblici e privati coinvolti nella nuova determinazione. In caso di reiterazione del vincolo si applica oggi l'indennizzo;
+ questi principi, formulate originariamente per i vincoli di localizzazione, sono stati estesi dalla giurisprudenza anche
ai cosiddetti vincoli procedurali, ossia a quelle disposizioni che subordinano ogni tipo di edificazione alla previa
adozione di uno strumento esecutivo di iniziativa pubblica.]
Il piano regolatore generale può essere però eventualmente modificato, attraverso successive varianti: le
varianti sono dunque gli strumenti mediante i quali può procedersi ad una revisione del piano regolatore,
qualora questa si renda necessaria “per sopravvenute ragioni che determinano la totale o parziale inattuabilità
del piano medesimo o la convenienza di migliorarlo”. Le varianti possono essere classificate in:
- varianti generali: determinate dalla necessità di adeguare lo strumento vigente ad intervenute
modifiche della normativa statale o regionale;
- varianti parziali: quando è necessario disciplinare in modo diverso l'utilizzo di particolari porzioni del
territorio. Una tipologia particolare di variante parziale è costituita dalle cosiddette varianti implicite,
che comportano automatica variazione del piano e sono determinate dall'approvazione di strumenti
attuativi del piano regolatore generale o di progetti di opere pubbliche (cui dare un'allocazione
originariamente non prevista dal piano).
Natura del piano: un problema importante è quello della natura e degli effetti delle prescrizioni di piano sui
diversi soggetti toccati dal medesimo. Per lunghi anni il dibattito è stato essenzialmente incentrato sul
problema del carattere:
- normativo: la cassazione in un primo momento era orientata a favore di questa tesi considerando il
piano come “fonte di produzione normativa” e traendo da ciò una serie di corollari quali ad esempio: i
principi ignorantia legis non excusat, iura novit curia, l'esenzione dall'obbligo della motivazione delle
scelte urbanistiche, l'applicabilità dei criteri dettati per gli atti legislativi, ...
- provvedimentale: la dottrina amministrativistica, partendo dalla considerazione che il piano incide
concretamente sulle specifiche situazioni proprietarie, è stata sempre orientata a favore di quest'altra
tesi, considerando il piano come “atto amministrativo a carattere generale”, appartenente secondo
alcuni alla categoria degli ordini, secondo altri a quella degli atti a contenuto precettivo o
conformativo. Quest'ultima posizione è oggi maggioritaria, anche in giurisprudenza.
Ciononostante, gli strumenti urbanistici odierni sono molto più complessi articolati di quanto non appaia
dall'enunciazione astratta delle due predette tesi contrapposte: infatti per effetto della copiosa legislazione
regionale esistente in materia, il piano regolatore tende ormai ad assumere caratteri variegati, che vedono
spesso coesistere prescrizioni concrete conformative della proprietà, norme astratte sull'attività costruttiva,
previsioni immediatamente operative e disposizioni essenzialmente programmatiche. Alla luce di tutto ciò le
due tese sopra richiamate appaiono oggi schematiche. La stessa distinzione proposta degli strumenti
urbanistici (in piani di direttive, operativi e di attuazione) si rivela poco rigorosa, mantenendo soltanto una
validità didattica diretta segnalare che alcuni strumenti urbanistici hanno in prevalenza carattere
programmatico, altri operativo, altri attuativo. Alcuni autori prospettano quindi una natura mista.
La tutela giurisdizionale: gli atti impugnabili: si affronta ora il problema dell'impugnativa del piano dinnanzi
agli organi di giustizia amministrativa (Tar e Consiglio di Stato). Innanzitutto l'ambito dei soggetti legittimati
a ricorrere non coincide con quello dei soggetti abilitati a presentare le osservazioni al piano adottato (quali i
soggetti pubblici, le associazioni private e anche i singoli cittadini).
Mentre infatti ai fini della presentazione di queste ultime è sufficiente la titolarità della cittadinanza, ai fini
della presentazione del ricorso è necessaria la titolarità di una situazione giuridica qualificata: proprietà,
diritti reali e anche determinati rapporti obbligatori.
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L’impugnazione è ammessa solo in presenza dell'attualità della lesione: questa, nella maggior parte dei casi è
riscontrabile immediatamente, dato il carattere tendenzialmente operativo dello strumento urbanistico in
discorso. Ma, poiché possono anche coesistere negli odierni strumenti urbanistici prescrizioni
immediatamente vincolanti, previsioni indicative o astratte (in idonei a concretare un pregiudizio immediato
e diretto per i soggetti toccati dal piano), può accadere in questi ultimi casi che la tutela sia rinviata al
momento della concretizzazione della lesione a mezzo di altro atto.
Quanto al termine per ricorrere, esso decorre dal momento in cui l’atto è efficace. La giurisprudenza con
riferimento al p.r.g. ha specificato che il termine decorre non dalla data di pubblicazione del decreto di
approvazione del piano nel bollettino ufficiale, ma dall'ultimo giorno di deposito del piano e di tutti i suoi
allegati presso la segreteria comunale, dopo regolare avviso nel foglio degli annunci della provincia o nei
quotidiani.
Negli anni 70 è stato introdotto un nuovo tassello: la giurisprudenza, prendendo atto della circostanza che il
piano regolatore possa produrre taluni effetti lesivi fin dal momento della sua adozione, ha ammesso la
possibilità di impugnativa del piano “solo adottato” congiuntamente però al provvedimento comunale di
salvaguardia (sospensione del rilascio della concessione edilizia). La recente giurisprudenza è andata oltre,
ritenendo che il soggetto che si ritenga leso dal piano abbia una serie di possibilità: quella di impugnare l'atto
di adozione congiuntamente o meno al provvedimento di cui sopra, quella di impugnare l'atto di adozione
contestualmente all'approvazione, quella di impugnare il solo decreto di approvazione in quanto atto
conclusivo del procedimento.
Quanto agli effetti della pronuncia di annullamento: se l’annulllamento è totale, l’effetto ex tunc fa rivivere la
normativa urbanistica preesistente. Se la annulllamento a parziale si viene a creare una zona bianca che va
colmata attraverso una nuova normativa urbanistica.

B) PROGRAMMA DI FABBRICAZIONE: si tratta dell’altro strumento urbanistico comunale


previsto dalla legge urbanistica del 1942. È uno strumento urbanistico destinato ai comuni minori: non
obbligati a dotarsi di piano regolatore generale, o lo scopo di assicurare quel minimo di disciplina urbanistica
indispensabile per un ordinato sviluppo edilizio degli abitati. Ai sensi dell'articolo 34 della legge urbanistica,
il programma di fabbricazione deve indicare:
- i limiti di ciascuna zona secondo le delimitazioni in atto o da adottarsi (cd. zonizzazione);
- i tipi edilizi propri di ciascuna zona (cd. tipologia edilizia)
- le eventuali direttrici di espansione
Il programma di fabbricazione è inoltre uno strumento urbanistico di carattere generale perché riguarda lo
sviluppo dell'intero territorio comunale.
Confrontando tali indicazioni con quelle relative ai piani regolatori che emergono delle differenze:
a) il carattere facoltativo e non obbligatorio delle “zone di espansione” per quanto riguarda il
programma di fabbricazione (spiegabile con il fatto che quest'ultimo è destinato generalmente a
comuni minori con popolazione non in crescita);
b) il mancato riferimento alle localizzazioni, spiegabile con la sufficienza delle opere di urbanizzazione
in atto;
c) la contestuale adozione e approvazione del programma di fabbricazione con il regolamento edilizio (il
programma di fabbricazione rappresenta infatti un allegato del regolamento edilizio);
d) la mancata previsione nel procedimento del programma di fabbricazione delle “osservazioni” e delle
relative controdeduzioni da parte del comune
e) inoltre, mentre il programma regolatore generale disciplina l'intero territorio comunale, il programma
di fabbricazione regole il territorio urbanizzato o da urbanizzare.
Queste diversità originarie tra i due strumenti urbanistici si sono però sempre stemperate: infatti il
programma di fabbricazione ha finito via via per assumere contenuti propri del piano regolatore generale: con
l'inclusione delle localizzazioni.si discuteva se il programma di fabbricazione potesse contenere le
prescrizioni che normalmente formano oggetto del piano regolatore generale(quali ad esempio i vincoli di
inedificabilità).
In particolare, la questione è stata portata anche davanti alla corte costituzionale che con sentenza del 1978 ha
riconosciuto la piena equiparazione, quanto agli effetti, del programma di fabbricazione al piano
regolatore generale.

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B) NUOVI MODELLI
 MODELLO - BASE: le notevoli disfunzioni riscontrate nel vigente sistema della pianificazione
urbanistica (tempi estremamente lunghi nella formazione dei piani, progressivo ampliarsi del fenomeno delle
varianti atipiche, scarsa effettività della pianificazione urbanistica) hanno fatto fiorire negli ultimi anni un
dibattito vivace sui temi dell'urbanistica, che è sfociato prima in alcune proposte di riforma, poi nel adozione
da parte di parecchie regioni di un nuovo modello pianificatorio, denominato piano strutturale. In realtà non
si tratta di una mera sostituzione del piano regolatore generale con uno strumento urbanistico di diversa
nomenclatura e contenuti, ma di una vera che propria metamorfosi dell'intero sistema pianificatorio, non più
basato sul ogni ho (p.r.g. e p.p.), ma su un piano essenzialmente strategico (piano strutturale) una serie di
piani operativi.
L’obiettivo che si vuol perseguire è quello di una pianificazione più elastica e meno conflittuale, orientata al
cosiddetto sviluppo sostenibile e attenta alla salvaguardia delle risorse essenziali del territorio (cd. invarianti).
Secondo alcune analisi e l'adozione del nuovo modello sarebbe anche consigliata da alcuni fattori oggettivi: il
basso tasso di crescita demografica, la rilevante consistenza del patrimonio edilizio esistente che renderebbe
possibile una politica urbanistica meno espansiva, l'evoluzione ormai consolidata del sistema normativo che
ha soppiantato la rigidità del tradizionale p.r.g. attraverso le numerose varianti atipiche previste nella
legislazione di settore.
Il maggiore artefice del nuovo corso è Stella Richter: allo stesso si deve il disegno di legge “legge quadro in
materia urbanistica e riordino dell'attività statale incidente sull'uso del territorio”, rimasto ancora senza esito
positivo. Tale circostanza però non ha impedito a parecchie regioni di introdurre nel proprio ordinamento il
nuovo modello, pur nell'assenza di una legge-cornice statale.
Il piano strutturale, nell'esperienza delle regioni che lo hanno recepito, assume essenzialmente i seguenti
compiti:
- una funzione strategica (quella di costituire una guida per l'insieme degli atti pianificatori ulteriori del
comune
- la funzione di individuare le cosiddette invarianti (parti di territorio destinate ad essere preservate da
sostanziali trasformazioni)
- La funzione di indicare le aree destinate alla trasformazione
L’aspetto nuovo consiste nel fatto che il piano non potrebbe imporre vincoli precisi di localizzazione sulle
singole proprietà, ma dovrebbe limitarsi ad indicare criteri-guida da sviluppare in 1 s momento. Stella Richter
esprime tale concetto in questo modo: la conformazione del territorio è compito del piano strutturale, la
conformazione delle singole proprietà del piano operativo.
Varianti al modello-base: negli ultimi anni, quella che costituiva la caratteristica peculiare degli
strumenti urbanistici (disegno dell'assetto del territorio) ha perso ulteriore consistenza. In alcune esperienze
recenti, come quella lombarda, lo strumento urbanistico comunale di base assume essenzialmente una
funzione strategica. Una funzione di orientamento generale, che non è quella propria dei tradizionali piani di
direttive (di delineare cioè un primo abbozzo di assetto del territorio), ma di “dettare gli obiettivi (in chiave
più quantiva che territoriale) e di fissare le grandezze perseguibili nell'intero piano di governo del
territorio”. Un compito riservato fino ad oggi più agli standard che non ai piani. Ma con una fondamentale
differenza: mentre negli standard le misure previste sono formulate in termini generali secondo astratti criteri
scientifici, nei piani strategici esse nascono da una conoscenza specifica di quel particolare territorio oggetto
del piano e dalle correlative scelte urbanistiche.
Occorre individuare gli strumenti ai quali è riservato il compito di effettuare il disegno del territorio e le altre
funzioni più tradizionali, sempre essenziali ai fini del governo del territorio. A differenza di quanto avviene
nei sistemi tradizionali, queste funzioni sono svolte da specifici documenti facenti parte dello stesso piano:
a) piano dei servizi: per ciò che riguarda la localizzazione dei servizi pubblici
b) piano delle regole: per l'edilizia esistente
c) piani attuativi di iniziativa pubblica o privata per i nuovi insediamenti
Perequazione urbanistica e centralità della pianificazione attuativa : quindi alla luce di quanto
detto è evidente che nel nuovo contesto urbanistico, i piani attuativi assumono un'importanza decisiva per
quanto riguarda il nuovo da costruire (la cd. espansione urbana). Ciò in realtà non costituisce una novità
sconvolgente perché anche nei modelli tradizionali la pianificazione attuativa costituisce la condicio sine qua
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non per il rilascio dei singoli permessi edilizi. Esiste però una differenza sostanziale tra i tradizionali piani
attuativi e quelli nuovi connessi alla pianificazione strategica. Il dentro di differenziazione consiste in ciò:
mentre i tradizionali piani attuativi costituiscono specificazione di un disegno del territorio già abbozzato, i
piani attuativi nuovi connessi alla pianificazione strategica non sono soggetti a tali condizionamenti, ma
sono tenuti ad osservare una serie di criteri che attengono essenzialmente al dimensionamento da insediare e
alla compatibilità. Un'altra peculiarità è data dalla coniugazione della pianificazione attuativa con la
perequazione urbanistica, nelle due forme della perequazione di comparto (comporta l'unitarietà di
attuazione delle previsioni di piano e quindi l'accordo tra i diversi proprietari con tutte le difficoltà connesse
soprattutto quando il numero dei proprietari da mettere d'accordo è particolarmente elevato) e di quella
estesa (basata sull'idea della concentrazione delle volumetrie e su una serie di contratti di cubatura per
consentire gli indici di sfruttamento edilizio elevati in determinati lotti in, lasciando non edificate altre aree
per consentire la realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico, attraverso un sistema di
compensazioni tra i diversi proprietari).
Procedimenti di formazione e approvazione del piano: nel modello tradizionale abbiamo visto
che due sono i segmenti fondamentali del procedimento (quello comunale che sfocia nell’adozione del piano
e quello regionale che si conclude con l'approvazione).
Nel piano strutturale invece i sub-procedimenti rilevanti sono tre:
a) preliminare alla fase dell'adozione che tende alla formazione di un documento preliminare di piano:
questa fase assume valore procedimentale perché, a differenza da quanto avviene nei sistemi
tradizionali, non si esaurisce in una delibera di indirizzo del consiglio comunale, costituendo invece
l'esito di un vero e proprio procedimento nel quale si inseriscono soggetti pubblici e privati in
funzione di partecipazione;
b) dell'adozione
c) dell'approvazione
L’introduzione della v.a.s. nella procedura di formazione dei piani urbanistici esalta inevitabilmente la fase
preliminare della redazione del piano perché gli istituti finalizzati all'individuazione dell'impatto ambientale
(coma la v.a.s.) hanno un senso quando operano in una fase anteriore al consolidamento delle scelte, non
quando il processo decisionale si trova già ad un punto di non ritorno.
Inoltre, nel sistema tradizionale, la partecipazione assume carattere essenzialmente documentale,
realizzandosi attraverso le osservazioni e le opposizioni. Nel nuovo modello prevalgono invece audizioni
pubbliche e conferenze di servizio.
Carattere strategico del piano comunale e piani di area vasta : secondo autorevole dottrina, nei
nuovi sistemi caratterizzati da una pianificazione strategica, la pianificazione sovra-comunale sarebbe
recessiva, assumendo carattere centrale quella comunale. Tale impostazione può essere condivisa soltanto in
un'ottica fattuale, mostrando la legislazione urbanistica regionale è la coesistenza di piani comunali strutturali
e di piani di area vasta.
Legislazione regionale: diverse regioni, come accennato, hanno adottato, con molte varianti l'una
dall'altra, il modello del piano strutturale, rivoluzionando l'assetto della pianificazione urbanistica comunale:
a) Toscana: la prima regione ad avere adottato il modello strutturale. Il piano regolatore viene
trasformato in un documento composito, costituito da:
- piano strutturale
- regolamento urbanistico (strumento obbligatorio per tutti i comuni che disciplina l'attività edilizia
degli insediamenti esistenti)
- programma integrato di intervento (strumento facoltativo con il quale l'amministrazione comunale
individua le trasformazioni del territorio da attuare, la in attuazione del piano strutturale)
Gli interventi minori vengono realizzati con i normali strumenti attuativi. Il procedimento di
formazione del piano passa attraverso le fasi di adozione e approvazione, ma con l'importante novità
che tutto il procedimento è intestato al comune (è però previsto il parere della provincia e l'invio degli
atti di adozione e approvazione alla regione).
b) Umbria: anche qui il p.r.g. costituisce uno strumento composito costituito da due parti:
- parte strutturale: individua in conformità agli indirizzi urbanistici dei piani sovra-comunali le
vocazioni territoriali a livello generale e le cd. invarianti

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- parte operativa: individua e disciplina le previsioni urbanistiche nelle modalità, forme e limiti stabiliti
nella parte strutturale.
Molto sofisticato è il procedimento di formazione e approvazione nel quale, per la prima volta, trova
utilizzazione il metodo della “conferenza di servizio” e dove per la prima volta si codificano due
momenti partecipativi: un no all'interno della conferenza partecipativa per acquisire proposte scritte e
memorie sul documento di indirizzo formulato dal consiglio comunale prima che il piano venga
redatto. La seconda sulla delibera di adozione. Il piano, dopo la fase delle osservazioni e delle
controdeduzioni, è trasmesso alla provincia che si pronuncia sul medesimo. Ma anche qui
l'approvazione formale non è rimessa alla provincia ma allo stesso consiglio comunale.
c) Liguria: l'aspetto più significativo della legge ligure è costituito anche qui dalla sostituzione del
piano regolatore generale tradizionale e con un piano urbanistico comunale dall'impronta strutturale.
In questo strumento urbanistico coesistono contenuti strutturali (strategici) e contenuti attuativi, la cui
distinzione trova il proprio riscontro giuridico nella loro differente rigidità. Nel procedimento di
formazione assume particolare importanza il progetto preliminare di piano, costituito dalla parte
strutturale del piano, dallo schema delle norme di conformità e dall'indicazione di eventuali proposte
di varianti al p.t.c. provinciale.
d) Veneto: anche qui lo strumento urbanistico comunale è distinto in una parte strutturale strategica e in
una parte operativa (che definisce gli interventi da attuare o direttamente tramite comparto o
attraverso piani urbanistici attuativi di iniziativa pubblica o privata). Sono poi previsti i piani di
assetto del territorio intercomunali finalizzati al coordinamento tra più comuni da formare su
iniziativa dei comuni o anche della provincia. Anche qui particolare attenzione è dedicata al
documento preliminare di piano, ha provato con un accordo di pianificazione e orientato alla
predisposizione dello strumento urbanistico. Il piano adottato dal consiglio comunale viene approvato
dalla giunta provinciale, dopo l'indizione da parte del comune di una conferenza di servizi all'interno
della quale avviene il pronunciamento sulle osservazioni.
e) Lombardia: assume una posizione centrale il piano di governo del territorio. Questo, oltre ad
effettuare la ricognizione delle cd. invarianti, esprime una cornice di grandezze derivanti da
un'approfondita analisi dello stato di fatto e da una valutazione di sostenibilità. Stabilisce in
particolare gli obiettivi di sviluppo, di miglioramento e di conservazione. A valle di questo piano si
collocano il piano dei servizi e il piano delle regole. Sul terreno organizzativo spicca l'autorità per la
programmazione territoriale e una rete conoscitiva concordata tra le diverse amministrazioni
interessate, essenziale per l'espletamento della funzione conoscitiva.

CAPITOLO III
La PIANIFICAZIONE URBANISTICA di ATTUAZIONE
Le scelte urbanistiche contenute nei piani regolatori generali devono trovare attuazione in ulteriori strumenti
di pianificazione, finalizzati a disciplinare nel dettaglio l'edificazione nelle varie parti del territorio vinto i
piani di attuazione, per la loro natura esecutiva, devono rispettare le disposizioni degli strumenti di
pianificazione generale (cd. principio di conformità), ma varie disposizioni normative consentono ai piani
attuativi di derogare in casi particolari al piano generale.
Il rapporto tra piano regolatore generale e piani attuativi non è molto semplice. Probabilmente nelle
intenzioni del legislatore del 1942, il “piano particolareggiato” avrebbe dovuto rappresentare lo strumento
normale di concretizzazione delle scelte urbanistiche e quindi di condicio sine qua non sia per la concreta
attività edilizia privata che per la realizzazione delle opere pubbliche. Per una serie di ragioni però, questo
disegno si è andato offuscando, così che oggi accade che parte non secondaria dell'attività costruttiva e degli
interventi pubblici venga effettuata al di fuori dei piani particolareggiati.
In virtù della prassi e dell'elaborazione giurisprudenziale, le ipotesi in cui il piano regolatore può essere
attuato direttamente senza la mediazione di un ulteriore livello di pianificazione sono le seguenti:
- quando l'area interessata è sufficientemente organizzata
- quando il piano regolatore contiene già al suo interno prescrizioni così puntuali e dettagliate da
rendere superfluo l'ulteriore livello pianificatorio

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- quando si tratta di intervenire sul patrimonio edilizio esistente con opere di manutenzione, di restauro
è altro che non modifichino il peso urbanistico della zona
Da tutto ciò si evince: da un lato il carattere non sempre necessario della pianificazione attuativa; dall'altro
una certa ambiguità del piano regolatore che, pur venendo definito genericamente “piano operativo”
(capace cioè di conformare immediatamente la proprietà e di creare in negativo vincoli di varie intensità sulla
proprietà stessa) presenta in realtà al suo interno una diversa efficacia in relazione alle modalità della sua
attuazione: per certe parti è piano operativo in senso proprio, potendo essere attuato immediatamente
attraverso singoli permessi edilizi; per certe altre parti è piano programmatico, richiedendosi un ulteriore
livello di pianificazione.
Infine, nei sistemi in cui vige il cd. piano strutturale, la situazione è diversa: è evidente che quando il piano
strutturale rinuncia ad effettuare un disegno del territorio, limitandosi a fornire indicazioni strategiche per la
pianificazione, potrà accadere che g9li strumenti attuativi assumano contenuti più pregnanti di quelli sopra
indicati.
Occorre individuare i caratteri peculiari della pianificazione attuativa e le regole comuni che la riguardano:
- il primo dato che emerge è l’aspetto pluralistico della medesima: mentre la pianificazione comunale
generale si ispira al criterio dell'unità (fino a vagheggiare l'idea di un unico piano per ciascun
territorio), la quella qui in esame si ispira al principio opposto della molteplicità degli strumenti
attuativi (piani particolareggiati, piani di lottizzazione, piani speciali di iniziativa pubblica o privata,
…);
- altro elemento è il vincolo gerarchico che lega tale pianificazione e quella generale: per effetto di
questo vincolo non solo non sarà possibile dare vita a strumenti attuativi in assenza di piano
regolatore, ma non sarà neppure consentito disattendere o derogare attraverso un piano attuativo, lo
strumento urbanistico fondamentale;
- per quanto riguarda infine il procedimento, va segnalata la tendenza di concentrare nel solo comune
tutto il procedimento di formazione e approvazione dei piani in discussione, con esclusione di regola
della regione. L'organo comunale competente, sia per l'adozione che per l'approvazione del piano, è
normalmente il consiglio comunale. Si tratta però di un procedimento delegificato e quindi
suscettibile di mutamenti affidati a procedure più rapide di quelle ordinarie.

A) piani PARTICOLAREGGIATI
I piani particolareggiati di esecuzione costituiscono il principale strumento di attuazione del piano regolatore
generale. Sono affidati al iniziativa del comune e hanno la funzione di specificare, con prescrizioni più
dettagliate, le indicazioni di massima contenute nel piano regolatore, senza porsi in contraddizione con esse.
Il piano particolareggiato di esecuzione ha il compito di dare attuazione al piano regolatore generale,
relativamente alle parti del medesimo non disciplinate dettagliatamente. Esso, di regola, non può contraddire,
a pena dì legittimità, la disciplina stabilita nello strumento urbanistico principale, dovendo invece svilupparla
con prescrizioni più dettagliate (ad esempio si ammette che il piano particolareggiato possa effettuare,
nell'ambito della zonizzazione disposta dal piano regolatore, una zonizzazione di specie, che tenga conto cioè
di alcune particolarità territoriali non considerate dallo strumento principale; non che è alla determinazione di
aree per la localizzazione di opere e impianti pubblici non previsti nel piano generale, sempre che tali
prescrizioni non sconvolgano i criteri generali cui si informa lo strumento urbanistico fondamentale e
rappresentino opere di minore rilievo rispetto a quelle tipiche del p.r.g.).
Tali principi hanno subito negli ultimi anni deroghe sempre più vistose: numerose leggi speciali hanno
ammesso in un primo momento i piani attuativi possono in certi casi derogare alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici fondamentali; successivamente anche la legislazione di carattere generale con valore di
“legge-cornice” ammette quest'evenienza, demandando alle regioni di disciplinare con proprie leggi
procedure semplificate per l'approvazione dei piani attuativi in variante non essenziale agli strumenti
urbanistici generali.
I piani particolareggiati di esecuzione vengono redatti per limitate porzioni del territorio comunale.
Quanto al contenuto del piano particolareggiato, esso, analogamente a quanto già visto per il p.r.g., contiene
due diverse categorie di prescrizioni:

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- quelle incidenti sull'attività edilizia privata (masse e altezze delle costruzioni lungo le principali vie e
piazze; edifici destinati a demolizione o ricostruzione o soggetti a restauro o a bonifica edilizia;
suddivisione degli isolati in lotti fabbricabili secondo la tipologia indicata nel piano);
- quelle relative ad opere e attività di pubblico interesse (reti stradali, spazi riservati ad opere o impianti
di interesse pubblico, …).

Procedimento ORDINARIO: il procedimento di formazione e approvazione del piano


particolareggiato presenta evidenti analogie con quello relativo al piano regolatore generale. Nella sua
versione originaria, qual è quella del 1942, esso si presenta in questo modo:
a) il comune provvede direttamente (o tramite tecnici specializzati esterni) alla
redazione del piano
b) il consiglio comunale provvede successivamente alla sua adozione
c) pubblicazione attraverso il deposito nella segreteria comunale a libera visione del
pubblico per la durata di 30 giorni consecutivi
d) anche qui si apre una fase partecipativa, ma con un'importante differenza: mentre
nel caso del p.r.g. sono previste solo osservazioni da parte di chiunque, qui invece
oltre a queste ultime sono previste anche opposizioni da parte dei “proprietari di
immobili compresi nei piani”. Secondo la giurisprudenza, il riconoscimento di una
posizione differenziata ai proprietari, avrebbe questo significato: che mentre le
osservazioni hanno una funzione meramente collaborativa, le opposizioni hanno
una funzione di garanzia, con la conseguenza che l'amministrazione ha il dovere, e
non la facoltà, di prenderle in considerazione. Effettuate, con una seconda delibera
consiliare, le controdeduzioni, si apre la fase dell'approvazione
e) delibera di approvazione del piano: la delibera di approvazione India definitiva
deve intervenire nei 30 giorni successivi alla scadenza del termine per le
osservazioni e le opposizioni. L'atto di approvazione deve prevedere il termine di
validità del piano nonché i termini entro i quali dovranno essere eseguite le relative
espropriazioni, termini che in ogni caso non devono superare i 10 anni. L'articolo
24 della legge 47 del 1985, in una prospettiva di snellimento dei procedimenti di
formazione dei piani attuativi, ha soppresso la necessità di approvazione regionale
del piano particolareggiato sancita dalla precedente normativa statale, che prevede
l'approvazione regionale: in particolare, l'autorità regionale cui il piano è stato
trasmesso, sentito l'organo tecnico e acquisito se del caso l'assenso della
soprintendenza, procede all'approvazione del medesimo entro 180 giorni, con
eventuali modifiche d'ufficio, nei soli casi tassativi previsti dalla legge. Rimangono
soggetti alla procedura tradizionale (adozione comunale e approvazione regionale)
i piani concernenti aree e ambiti territoriali individuati dalle regioni come di
interesse regionale in sede di piano territoriale di coordinamento o, in mancanza,
con specifica deliberazione
f) segue la fase della pubblicazione che consiste nel deposito nella segreteria
comunale del piano a libera visione del pubblico per tutto il periodo di validità del
medesimo
g) oltre alla pubblicazione si richiede anche la notifica del piano a ciascun
proprietario degli immobili vincolati, entro 30 giorni dall'annuncio dell'avvenuto
deposito.
In caso di inadempienza del comune alla formazione dei piani particolareggiati, la regione può imporre
termini e, qualora questi non venissero rispettati, sostituirsi all'amministrazione comunale inadempiente e
provvedere direttamente alla compilazione.
Procedimento SEMPLIFICATO: come si è visto sopra, il procedimento ordinario è stato
drasticamente semplificato dalla legge 47 del 1985, la quale attribuisce ai comuni e non più alla regione il
compito dell'approvazione dei piani particolareggiati, tuttavia con l'onere di trasmettere all'ente-regione il
piano adottato ai fini della formulazione di possibili osservazioni.

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Solo in alcuni casi continuerà a valere la procedura tradizionale (adozione comunale; approvazione
regionale): quando il piano interessa aree indicate dal piano di coordinamento regionale come di “interesse
regionale”.
Efficacia: a differenza del piano regolatore generale che ha durata illimitata, il piano particolareggiato
deve essere attuato nel tempo massimo di 10 anni. Scaduto inutilmente questo termine, esso diventa
inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, e rimanendo soltanto fermo a tempo
indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli
esistenti, le prescrizioni di zona stabilita nel piano stesso.
L’effetto fondamentale del piano particolareggiato è il vincolo di espropriazione sui beni destinati a sede di
impianti pubblici: l'approvazione del piano equivale infatti ad una dichiarazione di pubblica utilità delle
opere nello stesso previste. Ciò comporta un notevole snellimento della procedura espropriativa, in quanto
permette all'amministrazione comunale di procedere direttamente alle necessarie espropriazioni senza dover
intraprendere il complesso procedimento di dichiarazione della pubblica utilità. Le aree espropriabili sono
innanzitutto: quelle destinate dal piano a sede di impianti pubblici comunali; le aree inedificate e quelle su
cui vi siano costruzioni in contrasto con la destinazione di zona o abbiano carattere provvisorio, a seguito
dell'approvazione del piano regolatore generale, per consentirne l'ordinata attuazione nelle zone di
espansione.
Accanto a queste espropriazioni, sono consentite altre espropriazioni, costituenti mezzi indiretti di coazione
per i proprietari che non provvedano ad effettuare determinate trasformazioni e sistemazioni edilizie
prescritte. In tali ipotesi, l'espropriazione rimane l'estremo rimedio attraverso cui l'amministrazione può
direttamente dare attuazione a prescrizioni di piano rimaste inattuate (non accompagnandosi alla
determinazione positiva del modo d'uso del bene un meccanismo atto ad imporre al proprietario renitente
l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo o dell'onere inadempiuto). Inoltre trattandosi di ablazioni
strumentali ad un facere, e non di misure sanzionatorie, esse vanno regolarmente indennizzate. I casi in cui
tali espropriazioni possono avere luogo sono ora indicati nell'articolo 7 t.u.espr.: casi di modifiche di
situazioni di confine; di mancata esecuzione di sistemazioni previste nel piano; di aree inedificate e di
costruzioni da trasformare secondo speciali prescrizioni quando decorre inutilmente il termine, non inferiore
a 90 giorni, fissato nell'atto determinativo della formazione del consorzio notificato ai proprietari interessati.

In conclusione, il particolareggiato:
- può interessare qualsiasi porzione del territorio comunale che presenti esigenze di intervento
esecutivo prioritario in una prospettiva di attuazione organica del piano regolatore;
- non può contenere norme e prescrizioni difformi da quelle poste con il piano regolatore;
- deve garantire la copertura finanziaria delle spese occorrenti per le opere in esso previste.
L’attuazione concreta del piano particolareggiato avviene nei seguenti modi:
- il comune espropria le aree destinate a sede di impianti e di servizi pubblici, senza dover ricorrere
alla procedura della dichiarazione di pubblica utilità;
- i proprietari privati utilizzano direttamente le aree attuando le prescrizioni del piano;
- il comune può espropriare le aree a destinazione privata nei casi di mancata esecuzione di
sistemazioni previste nel piano deviar ingiunzione e diffida ad eseguire con assegnazione di un
congruo termine; mancata esecuzione delle modificazioni dei confini tra proprietà diverse richieste
per l'attuazione del piano;
- infine il comune può imporre la formazione di comparti edificatori (aggregati di aree tra loro
confinanti, anche appartenenti a diversi proprietari, rivolto alla costituzione di un complesso
edilizio di carattere unitario o alla trasformazione dei fabbricati su di esse esistenti: si attua
mediante l'assunzione da parte dei singoli proprietari dell'obbligo di edificare nei modi prescritti o,
in mancanza di accordo, a mezzo dell'espropriazione delle aree), comprendendovi aree e
inedificate o costruzioni da trasformare secondo speciali prescrizioni e procedere al loro esproprio
nel caso in cui proprietari interessati rifiutino di adeguarsi alle prescrizioni del piano.
Tutela giurisdizionale: il piano particolareggiato, venendo ad incidere immediatamente e direttamente
sulle posizioni giuridiche soggettive, può essere ovviamente impugnato da coloro che vi abbiano interesse, di
fronte ai competenti organi giurisdizionali. Possono esperire l'impugnativa anche coloro che non abbiano a
suo tempo presentato opposizioni. La giurisprudenza ha da tempo chiarito che l'inerzia del privato in tal caso
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non può considerarsi acquiescenza, non essendo rivolte le opposizioni ad un atto già perfetto ed efficace, ma
ad un atto in via di formazione.

B) piani di LOTTIZZAZIONE
Lottizzazione edilizia: qualsiasi utilizzazione di aree, assolutamente inedificate o già parzialmente
urbanizzate, per la realizzazione di uno o più fabbricati a scopo residenziale, turistico o industriale, che
obiettivamente esigano la realizzazione e il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria (strade,
spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua, dell'energia elettrica,…) e secondaria
(scuole, asili nido, mercati, chiese, impianti sportivi, centri sociali e culturali, …).

Il piano di lottizzazione è, come il piano particolareggiato, uno strumento di attuazione del piano generale.
Rappresenta il primo caso di pianificazione contrattata: prima dell'avvento della legislazione urbanistica, in
una fase quindi di carenza di pianificazione generale del territorio, la lottizzazione svolge il compito
fondamentale di far sì che i nuovi insediamenti urbani non nascano all'insegna del disordine. Quando più
tardi la legge del 1942 farà obbligo a tutti i comuni di dotarsi di uno strumento pianificatorio esteso all'intero
territorio comunale (p.r.g. o p.f.), vengono poste le premesse per una mutazione genetica dell'istituto. Il piano
di lottizzazione, da strumento urbanistico parziale (destinato cioè ad operare in un deserto non pianificato),
diviene l'ultimo anello di un sistema di pianificazione multilivello che abbraccia l'intero territorio comunale.
Tale metamorfosi però non viene percepita immediatamente: il mutamento effettivo dell'istituto avverrà solo
quando la legge 765 del 1967 detterà una corposa normativa volta a rivitalizzare una serie di istituti giuridici
già previsti dalla legge urbanistica del 1942 ma rimasti fino a quel momento inattuati.
La legge del 1967 configura la lottizzazione come strumento urbanistico di attuazione, alternativo al piano
particolareggiato. Da tale impostazione fa discendere per la prima volta l’assoluto divieto di lottizzazione nei
comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione. La specifica funzione del piano di
lottizzazione è quella di operare una saldatura tra la città vecchia e la nuova attraverso la suddivisione degli
isolati in lotti edificabili e la previsione delle necessarie opere di urbanizzazione.
In altri termini, qualora i comuni non abbiano proceduto alla formazione del piano particolareggiato, la
normativa consente ai privati che intendono apportare modifiche all'assetto del territorio comunale , di
inserirsi nella disciplina urbanistica presentando appositi piani di lottizzazione, contenenti prescrizioni di
dettaglio sostitutive di quelle omesse dalle amministrazioni.
Il procedimento ORDINARIO di formazione del piano di lottizzazione si svolge in questo modo:
a) istanza del proprietario corredata dal progetto e dallo schema di convenzione: il
privato che intenda procedere alla lottizzazione di un’area deve presentare
all'amministrazione comunale un piano di lottizzazione, conforme alla normativa
edilizia e agli standards urbanistici vigenti, accompagnato da uno schema di
convenzione;
b) approvazione del progetto e dello schema di convenzione da parte del consiglio
comunale con apposita delibera
c) nulla osta dell'organo regionale competente
d) stipula della convenzione: convenzione con la quale il privato assume a proprio
carico specifici oneri patrimoniali connessi all'urbanizzazione primaria e
secondaria, fornendo congrue garanzie per l'adempimento
e) trascrizione di quest'ultima nei registri immobiliari
f) rilascio dell'autorizzazione comunale, da cui scaturisce la facoltà dei proprietari di
chiedere il rilascio del permesso di costruire necessario per dare esecuzione al
progetto
g) rilascio del permesso di costruire, subordinato però alla stipulazione della
convenzione e alla trascrizione della stessa nei registri immobiliari a cura e a spese
del proprietario lottizzatore.
Anche per la lottizzazione è previsto procedimento semplificato alternativo che esclude il momento
regionale. Inoltre va ricordato che la legge urbanistica prevedeva anche una lottizzazione di iniziativa
comunale che affidava al comune il compito di promuovere l'accordo dei privati (tale diversa forma di
lottizzazione è rimasta sulla carta).
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Convenzione: la stipulazione e la trascrizione della convenzione di lottizzazione costituiscono condizioni
di efficacia del provvedimento di autorizzazione. Si tratta di contratto unilaterale, poiché non prevede
prestazioni corrispettive ma comporta l'assunzione di obbligazioni solo per la parte privata.
Lo scopo è quello di addossare gli oneri dell'urbanizzazione sui proprietari delle aree interessate.
Quanto ai contenuti della convenzione, il criterio originario del riparto degli oneri di urbanizzazione, come
sancito dalla legge del 1967, era il seguente: gli oneri dell'urbanizzazione primaria gravano integralmente sui
proprietari, quelli dell'urbanizzazione secondaria sono invece ripartiti pro quota tra comune e privati in base a
criteri di equità attivi che tengano conto dell'importanza dell'insediamento, delle sue caratteristiche, delle
entità delle opere previste. Questo regime deve ritenersi implicitamente modificato dalla legge 10 del 1977,
la quale, introducendo il principio della onerosità della concessione edilizia, determina il quantum a carico
del privato secondo apposite tabelle. Dopo l'introduzione di questo principio si ritiene che la convenzione di
lottizzazione debba essere formulata non più in base ai criteri originari, ma in base alle tabelle previste da tale
legge. In particolare, la convenzione deve prevedere:
a) cessione gratuita da parte dei proprietari lottizzatori delle aree necessarie per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria relativi alle
lottizzazioni;
b) assunzione a carico dei proprietari medesimi degli oneri finanziari per la realizzazione
delle opere di urbanizzazione primaria, di una quota-parte delle opere di
urbanizzazione secondaria delle opere necessarie per allacciare la zona ai pubblici
servizi;
c) termini non superiori a 10 anni entro cui i privati devono eseguire le opere a loro
carico;
d) congrue garanzie finanziarie (deposito di danaro, titoli di Stato, fideiussioni bancarie)
o ipotecarie per l'adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione stessa.
Esiste una copiosa giurisprudenza in tema di lottizzazione, dati i ricorrenti dubbi in ordine a:
- effetti della convenzione: si ritiene che l'equiparazione fatta dalla legge del piano di lottizzazione al
piano particolareggiato sia elemento sufficiente per escludere la limitazione degli effetti della
convenzione alle sole parti. Così come i piani attuativi di iniziativa pubblica producono effetti
percettivi erga omnes sia sfavorevoli che favorevoli, lo stesso deve dire sì piani all'iniziativa privata;
- resistenza o meno della convenzione e quindi del piano di lottizzazione, a successive previsioni di
piano regolatore generale incompatibili con la medesima: la giurisprudenza ritiene che una nuova
normativa di piano regolatore generale incompatibile con il piano di lottizzazione abbia la forza di
travolgere quest'ultimo, dato il carattere sovraordinato della disciplina urbanistica generale rispetto a
quella attuativa. Ma, nello stesso tempo, essa condiziona il potere discrezionale dell'amministrazione
a rigorosi limiti di ragionevolezza. Per dare concretezza questi limiti la giurisprudenza richiede una
puntuale motivazione delle scelte;
- indennizzabilità del soggetto frustrato nel suo disegno lottizzatiorio dalla nuova scelta urbanistica: la
tesi favorevole alla concessione dell'indennizzo potrebbe contare sull'argomento dell'assimilazione
della convenzione agli accordi sostitutivi, per i quali la legge prevede l'indennizzo nel caso di recesso
della pubblica amministrazione. Ma altra parte della dottrina dubita di tale soluzione, rilevando che
l'ipotesi in esame è cosa ben diversa dal recesso della pubblica amministrazione, derivando
quest'ultimo dal venir meno dell'interesse pubblico all'attuazione dell'accordo, e non dal mutamento di
una normativa urbanistica di livello superiore;
- strumenti giuridici attivabili dalle parti nel caso di inadempimento agli obblighi assunti con la
convenzione: quanto ai privati, la dottrina più recente richiede che essi abbiano essenzialmente due
possibilità (quella di promuovere dinanzi al giudice amministrativo le azioni civilistiche contemplate
per il caso di inadempimento del contratto e quella di promuovere azione contro il silenzio nel caso in
cui la doglianza riguardi la mancata emanazione di provvedimenti promessi in convenzione. Per
quanto riguarda invece gli strumenti attivabili dalla amministrazione, oltre agli strumenti privatistici
predetti, alla stessa aspetta anche un potere pubblicistico aggiuntivo, che consente all'amministrazione
di ingiungere l'adempimento dell'obbligo, pena l'espropriazione del bene.
Lo scoglio della frammentazione della proprietà: una delle maggiori difficoltà che si incontrano
nell'utilizzazione dell'istituto della lottizzazione, è costituita da un assetto proprietario dei suoli
eccessivamente frammentato (cd. proprietà polvere). Altro è infatti stipulare un accordo con un solo
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proprietario che ha la disponibilità dell'intera area; altro stipularlo con una pluralità di soggetti. A tale
inconveniente la prassi ha cercato di rimediare attraverso il cd. contratto di cubatura: contratto tra privati
attraverso il quale due o più soggetti dispongono a favore di altri il proprio ius aedificandi onde consentire la
realizzazione di opere di urbanizzazione.

Cubatura o volumetria: la cubatura è il volume edificabile espresso in metri cubi che il piano regolatore
fissa per ogni terreno in relazione all'estensione dello stesso al fine di garantire uno sviluppo armonico
del territorio e la tutela della salute degli individui.
Contratto di cubatura (o cessione di cubatura): la cessione di cubatura è il contratto con il quale il
proprietario di un suolo edificabile cede in via definitiva al proprietario di altro suolo, in tutto o in parte,
la sua volumetria edificabile di modo che l'acquirente possa beneficiarne in aggiunta alla propria, nella
costruzione di un edificio sul proprio fondo.

Lottizzazione ABUSIVA: abbiamo visto che la funzione primaria della lottizzazione è quella di ancorare
il sorgere dei nuovi insediamenti edilizi all'assetto territoriale preesistente e fa sì che questi ultimi nascono
muniti di tutte quelle opere di urbanizzazione primaria e secondaria essenziali per una stabile qualità della
vita e secondo le modalità previste dagli standard.
Le norme sulla lottizzazione abusiva colpiscono con sanzioni amministrative, civili e penali tutti quei
comportamenti che tendono a vanificare queste finalità, attraverso
a) alterazione fisica del territorio (lottizzazione materiale) : utilizzazione dei suoli in carenza di
strumento attuativo, mediante cioè l'asservimento di un'area non ancora organizzata ad insediamento edilizio.
La lottizzazione materiale è disciplinata dall'articolo 30 t.u.ed. , in virtù del quale si ha lottizzazione abusiva
di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica ed
edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati o
comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione. La disposizione non è di
facile comprensione, poiché stando alla lettera, sembrerebbe che qualsiasi violazione della normativa
urbanistica configuri un'ipotesi di lottizzazione abusiva, mentre non è così. Si possono infatti verificare casi
di violazione urbanistiche ed edilizie che non danno luogo a lottizzazione abusiva, bensì a costruzione
abusiva o a vizi del permesso edilizio.
Le possibili infrazioni cui allude il testo normativo sono le seguenti, a parere degli interpreti:
- la prima consiste nell'aver trasformato una zona non destinata dal piano regolatore ad utilizzazione
edilizia intensiva in zona residenziale (cd. lottizzazione vietata): l'ipotesi tipica è quella di Tizio,
proprietario di un terreno agricolo, che richiede simultaneamente o in tempi diversi una pluralità di
permessi edilizi, ma che hanno l'effetto di lottizzare il terreno stesso, vanificando la destinazione
agricola e imprimendo arbitrariamente una destinazione residenziale. Secondo la giurisprudenza per
stabilire quando ricorra o meno lottizzazione abusiva bisogna tener conto di una serie di criteri
sintomatici, quali ad esempio: l'entità dell'insediamento, il numero degli interventi edilizi, la presenza
di opere di urbanizzazione, la tipologia edilizia, ...;
- la seconda ipotesi è molto diversa: si tratta di interventi su aree in cui è ammessa un'edificazione
intensiva e proprio perciò è necessario che ogni nuova attività edificatoria sia subordinata alla previa
formazione di un piano attuativo o alla preesistenza di un adeguata urbanizzazione, necessaria per
garantire un minimo di qualità di vita. In questi casi la lottizzazione abusiva si realizza proprio
quando viene violata l'anzidetta normativa che impone l'obbligo della previa lottizzazione (cd.
lottizzazione imposta). Il problema che si è sviluppato in ordine a questa ipotesi riguarda i requisiti
minimi di urbanizzazione del territorio necessari per escludere l'obbligo della previa lottizzazione:
nelle più recenti sentenze si afferma che può prescindersi dal piano attuativo e quindi dalla
lottizzazione solo quando nel comprensorio interessato dall'intervento edilizio sussista una situazione
di fatto del urbanizzazione corrispondente a quella derivante dall'attuazione della lottizzazione stessa,
ovvero la presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici
minimi prescritti. La giurisprudenza ritiene poi che possa prescindersi dalla lottizzazione nel caso in
cui si tratti dell'unico lotto intercluso esistente nella zona.
b) frazionamento giuridico dei terreni (lottizzazione cartolare) : un'altra ipotesi di lottizzazione
abusiva è quella che si realizza non attraverso la trasformazione materiale del territorio nelle due forme
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predette, ma per effetto del frazionamento giuridico dei terreni. Secondo l'articolo 30 t.u.ed. tale evenienza si
verifica quando la trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni venga predisposta attraverso il
frazionamento o la vendita o atti equivalenti del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno, la sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il
numero, l'ubicazione o l'eventuale previsione di opere di urbanizzazione e in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio. Anche per questa
fattispecie deve ritenersi valevole la distinzione tra lottizzazione imposta e lottizzazione vietata.

SANZIONI: per le lottizzazioni abusive sono previste varie sanzioni:


a) sanzioni CIVILI: l'articolo 30 dispone innanzitutto la nullità assoluta degli atti tra vivi, stipulati in
forma pubblica o privata, aventi per oggetto il trasferimento di diritti reali relativi a terreni ove agli
stessi non si ha legato il certificato di destinazione urbanistica, contenente tutte le prescrizioni
urbanistiche riguardanti l'aria interessata. Lo stesso regime vale per la costituzione e lo scioglimento
della comunione. Va sottolineato però che l'esibizione del certificato di destinazione urbanistica serve
soltanto a rendere più consapevole l'acquirente circa le reali possibilità edificatorie del terreno e gli
strumenti da utilizzare allo scopo, ma non ha l'effetto di rendere lecito il comportamento delle parti e
di evitare il danno urbanistico derivante dall'eventuale lottizzazione abusiva;
b) sanzioni AMMINISTRATIVE: quando il comune accerta l'effettuazione di una lottizzazione abusiva
nelle due fattispecie predette, dispone con ordinanza la sospensione. Il provvedimento deve essere
trascritto nei registri immobiliari e comporta l'immediata interruzione delle opere in corso e il divieto
di disporre dei suoli e delle opere stesse con atti tra vivi. La trasgressione a quest'ultimo divieto
determina la nullità dell'atto. Trascorsi 90 giorni, ove non intervenga la revoca del provvedimento di
sospensione, le aree lottizzate sono acquisite di diritto quindi automaticamente al patrimonio
disponibile del comune, il quale provvede alla demolizione delle opere. In caso di inerzia del comune
interviene in via sostitutiva la regione;
c) sanzioni PENALI: per il reato di lottizzazione abusiva è previsto l'arresto fino a due anni e
l'ammenda. La giurisprudenza parla di reato a condotta libera casualmente orientata: qualunque
consapevole comportamento idoneo per perseguire uno scopo edilizio è sufficiente ad integrare la
fattispecie penale in questione. La sentenza definitiva del giudice penale che accerta l'esistenza di una
lottizzazione abusiva dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere
abusivamente costruite e produce l'effetto dell'acquisizione al patrimonio del comune nel cui territorio
la lottizzazione abusiva è stata realizzata;
d) sanzioni ACCESSORIE: l'articolo 47 stabilisce infine che il ricevimento e l'autenticazione da parte
dei notai di atti nulli, comporta l'applicazione delle sanzioni previste dalla legge notarile, disponendo
un esonero di responsabilità quando i medesimi abbiano allegato agli stessi il certificato di
destinazione urbanistica o abbiano trasmesso, nell'ipotesi di atti relativi a terreni di superficie inferiore
a 10.000 m², copia degli atti medesimi al comune.

CAPITOLO IV
La pianificazione temporale
I programmi pluriennali di attuazione
 Il programma pluriennale di attuazione: la pianificazione temporale, introdotta con la legge sui
suoli 10 del 1977 costituisce un tentativo non troppo riuscito di funzionalizzazione della proprietà, che tende
ad attribuire al potere pubblico ogni determinazione non solo sulla forma del territorio, ma anche sui tempi
degli interventi urbanistico-edilizi. Si tratta di un istituto costituisce un importante mezzo di
programmazione-controllo per un'efficace politica territoriale. I programmi pluriennali di attuazione degli
strumenti urbanistici, sono destinati ad individuare nel quadro del piano regolatore generale e le priorità
con cui intervenire sui settori del territorio, così da indirizzare l'espansione urbanistica nell'ambito di
scadenze ben definite.
In sostanza, al programma pluriennale di attuazione spetta di stabilire, in correlazione con gli obiettivi di
politica territoriale del comune e con le risorse finanziarie del medesimo le modalità temporali di attuazione
degli strumenti urbanistici (ad esempio se il piano regolatore prevede due zone di espansione una ad est e una
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ad ovest, il programma pluriennale di attuazione potrà scaturire che nel primo triennio l'attività edilizia e di
approntamento delle infrastrutture si concentri in una delle due zone). Lo scopo è quello di evitare gli
interventi a pioggia e il fenomeno molto diffuso dei quartieri dissestati sempre alle prese con i cantieri di
lavoro. Il programma pluriennale di attuazione definisce quindi i tempi per la realizzazione di quanto
disposto dagli strumenti pianificatori generali: per questo motivo si parla di pianificazione temporale.
L’art. 13 della legge 10 del 1977 fissa alcuni principi fondamentali in tema di “programmi pluriennali” allo
scopo di orientare la successiva legislazione regionale in materia. Tali principi si possono enunciare in questo
modo:
- l’attuazione degli strumenti urbanistici generali è di regola subordinata all'emanazione di programma
pluriennale di attuazione, cui la legge demanda il compito di delimitare le aree e le zone in cui
debbano realizzare sì le previsioni di detti strumenti e le relative urbanizzazioni;
- la validità dei programmi va da tre a cinque anni;
- nell'elaborazione formazione dei programmi pluriennali di attuazione è fatto obbligo di osservare la
proporzione tra aree destinate alle delizie economiche popolare e aree riservate all'attività edilizia
primaria (40% - 70%);
- per la formazione dei programmi pluriennali di attuazione non è richiesta approvazione regionale né
alcun parere preventivo di altre amministrazioni statali o subregionali, ma solo l'obbligo di inviare
copia dei programmi alle regioni;
- nei comuni obbligati il permesso edilizio è rilasciato solo per le aree incluse nei programmi
pluriennali di attuazione;
- sui proprietari e altri aventi titolo per le aree incluse nei programmi pluriennali di attuazione incombe
l'onere di presentare istanza di permesso edilizio pena l'espropriazione delle aree stesse. Questa
previsione dovrebbe servire ad evitare il formarsi di rendite di attesa conseguente al congelamento dei
suoli edificabili.
La materia è stata oggetto alla fine degli anni 90 di un nuovo intervento legislativo ad opera della legge 136,
che circoscrive la funzione dell'istituto alla sola programmazione della formazione dei piani attuativi di
nuovi insediamenti o di rilevanti ristrutturazioni urbanistiche, individuati territorialmente in modo univoco,
anche in coordinamento con il programma triennale dei lavori pubblici del comune e con lo stato delle
urbanizzazioni nel territorio interessato, e riferiscano i criteri di obbligatorietà alle esigenze di sviluppo e di
trasformazione degli aggregati urbani.
Quasi tutte le regioni hanno ormai legiferato in materia con norme che stabiliscono il contenuto, il
procedimento di formazione degli anzidetti piani, i casi di esenzione, le forme e le modalità di esercizio dei
poteri sostitutivi nei confronti dei comuni inadempienti.

CAPITOLO V
Le misure di salvaguardia
 Le misure di salvaguardia NORMALI: i piani urbanistici (sia generali che di attuazione)
divengono pienamente operanti soltanto con l'approvazione: prima di questo momento non possono produrre
alcun effetto. Tuttavia, questa regola subisce un temperamento con le cd. misure di salvaguardia, che hanno
lo scopo di evitare che nel periodo intercorrente tra l'adozione e l'approvazione dei piani possa essere
compromesso, con l'eventuale rilascio di permessi edilizi, l'assetto urbanistico fissato nei piani adottati.
Per questo motivo, la legge attribuisce al sindaco il potere-dovere sospendere ogni determinazione sulle
domande di permesso edilizio contrastanti con i piani adottati. Prima di questo momento le misure di
salvaguardia non operano.
Le misure di salvaguardia sono obbligatoriamente previste per:
- piano regolatore generale intercomunale e comunale
- programma di fabbricazione
- piano particolareggiato
Sino all’approvazione del piano adottato le domande di permesso edilizio dovranno essere vagliate
esclusivamente alla luce della normativa urbanistica originaria (quella del preesistente strumento
urbanistico): con la conseguenza quindi che se un dato progetto contrasti con la medesima dovrà essere
negato il permesso. Invece, il potere soprassessorio scatta allorché il progetto, pur autorizzabile in base alla

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vecchia normativa, non sia aderente a quella del piano in corso di approvazione: in tale caso l'autorità
comunale non potrà, a differenza dell'ipotesi precedente, rigettare la domanda, ma sospenderà qualsiasi
determinazione sulla stessa in attesa dell'entrata in vigore del nuovo piano.
Sono queste le misure di salvaguardia cd. “normali” che si applicano a tutti gli strumenti urbanistici generali
e di attuazione, con esclusione dei soli piani territoriali di coordinamento e la cui funzione si esaurisce nella
determinazione di direttive generali non vincolanti per i privati.
 Le misure di salvaguardia ECCEZIONALI: legge prevede un altro tipo di misure di
salvaguardia di competenza delle regioni, che la dottrina qualifica eccezionali. Esse, a differenza di quelle
precedenti, riguardano i permessi edilizi già regolarmente rilasciati ma che si vengono a trovare in contrasto
con un piano successivamente adottato, difforme. In questo caso la regione, su richiesta del comune, può
procedere alla sospensione dell'efficacia del permesso edilizio, ordinando anche la sospensione dei lavori
eventualmente intrapresi. Tutto ciò allo scopo di non compromettere o rendere più onerosa l'attuazione del
piano.
A differenza delle misure di salvaguardia normali, quelli eccezionali sono discrezionali: ciò si spiega col fatto
che esse, dato l'effetto sospensivo dei lavori, agiscono più pesantemente sulle situazioni giuridiche private,
postulando pertanto l'esigenza di un'attenta ponderazione degli interessi coinvolti.

Durata: la durata delle misure di salvaguardia (sia normali che eccezionali), fissata originariamente in due
anni dalla data di delibera di adozione dei piani, è stata successivamente ampliata da leggi successive. Oggi
la disciplina dei termini è la seguente:
- cinque anni: se lo strumento urbanistico sia stato trasmesso per l'approvazione entro un anno
dall'adozione
- tre anni: se lo strumento urbanistico è stato trasmesso per l'approvazione tardivamente.
Il diverso istituto della “efficacia anticipata del piano”: i principi della salvaguardia sopra descritti
subiscono delle vistose eccezioni comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, nell’ambito dei quali il regime
dell'attività edilizia è disciplinato dagli standard ope legis azzerano quasi del tutto le possibilità edificatorie,
per i loro parametri estremamente limitativi. In questi casi, proprio allo scopo di sbloccare l'attività edilizia, è
previsto che la trasmissione del piano adottato alla regione e il decorso infruttuoso del termine previsto per
l'approvazione producono l'anticipazione degli effetti propri dello strumento urbanistico, consentendo in
particolare al comune di approvare piani di lottizzazione conformi al piano adottato e trasmesso e il rilascio
di singoli permessi edilizi. In questi casi si è fuori dalla salvaguardia, trattandosi invece di un'anticipazione
degli effetti del piano, in deroga al principio fondamentale secondo cui lo strumento urbanistico comincia ad
operare solo dopo l'approvazione.

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PARTE TERZA

Interventi e forme di
pianificazione urbanistica speciale

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CAPITOLO I
Norme introduttive
I piani urbanistici considerati nella parte precedente rappresentano gli strumenti fondamentali dell'assetto del
territorio. Essi però non esauriscono la vasta gamma degli strumenti urbanistici vigenti nel nostro paese:
accanto o in alternativa ad essi esiste tutta una serie di altri atti pianificatori sempre di natura urbanistica, per
soddisfare interessi pubblici di settore (ad esempio lo sviluppo industriale di certe zone, il recupero
dell'edilizia esistente, ..). Si tratta nella maggior parte dei casi di piani equiparati espressamente o
implicitamente ai piani particolareggiati e quindi destinati a dare attuazione agli strumenti generali.
Il riferimento alla “legislazione speciale” potrebbe far pensare al carattere marginale o eccezionale di questi
strumenti rispetto quelli attuativi normali disciplinati dalla normativa generale (piani particolareggiati e piani
di lottizzazione). La vicenda degli ultimi anni dimostra invece che alcune figure in discorso hanno acquistato
un ruolo fondamentale nel sistema della pianificazione urbanistica, tanto da offuscare gli strumenti attuativi
tradizionali.
Legislazione speciale negli anni:
- uno dei primi strumenti di pianificazione speciale del secondo dopoguerra è stato il piano di
ricostruzione degli abitati danneggiati dalla guerra: esso era concepito come qualcosa di intermedio
tra il piano regolatore generale e il piano particolareggiato. Obbiettivo era quello di permettere una
sollecita ricostruzione delle zone colpite dalle distruzioni belliche, senza tuttavia compromettere il
futuro sviluppo urbanistico delle città interessate. Questi piani hanno oggi quasi del tutto esaurito la
loro funzione;
- a partire dagli anni 60 è tutto un fiorire di disciplina urbanistiche speciali e di piani di settore per la
più rapida realizzazione sia di programmi di edilizia pubblica residenziale, sia di programmi per
l’infrastrutturazione di aree da destinare agli impianti produttivi;
- negli anni 90 tale tendenza sia ulteriormente consolidata e articolata: sono state prefigurate forme di
programmazione contrattata, che dovrebbero servire a superare l'astrattezza delle previsioni
urbanistiche e a far convergere nella realizzazione di programmi concreti amministrazioni pubbliche,
comuni e regioni, imprese private. Una di tali figure è l’accordo di programma: uno schema
operativo generale di cui gli enti locali possono avvalersi al fine di pervenire alla definizione e
all'attuazione di opere, di interventi o di programmi di interventi che richiedono per la loro completa
realizzazione l'azione integrata e coordinata di comuni, di province e regioni, di amministrazioni
statali e di altri soggetti pubblici. L'accordo una volta approvato può avere effetto di variante agli
strumenti urbanistici, purché ci sia l'adesione del sindaco e la successiva ratifica del consiglio
comunale.

CAPITOLO II
Dall’edilizia residenziale pubblica agli interventi plurifunzionali per
la riqualificazione urbana
I primi interventi per favorire l'accesso alla casa di categorie ritenute svantaggiate risalgono all'inizio del
secolo e sfociano nel Testo Unico 1165 del 1938: all'origine si trattava di una normativa basata
essenzialmente su un sistema di stanziamenti pubblici, di mutui, espropriazioni e agevolazioni per la
realizzazione di case popolari. Non era previsto alcun collegamento tra i predetti interventi e gli strumenti
urbanistici.
Il provvedimento legislativo più importante dell'età repubblicana è probabilmente la legge 167 del 1962: essa
crea per la prima volta un collegamento forte tra il regime delle incentivazioni e la disciplina urbanistica,
disponendo che l'attivazione degli strumenti finanziari operativi del settore in argomento potessero avvenire
soltanto all'interno di un territorio pianificato (cioè all'interno di comuni uniti non solo dello strumento
urbanistico di base, ma anche di un piano di zona per l'edilizia economica e popolare, previsto dalla stessa
legge e avente valore di piano attuativo). Inoltre la legge del 1962, per facilitare la messa in opera dei piani di
zona, mitiga la gerarchia della pianificazione urbanistica tradizionale: il piano di zona infatti, pur essendo un
piano attuativo, non solo può in certi casi derogare allo strumento urbanistico di base, ma può anche essere
redatto contestualmente a quest'ultimo.
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La produzione legislativa degli ultimi decenni ha assunto un ritmo ancora più accelerato: accanto ad una
normativa ordinaria di finanziamento di programmi di edilizia residenziale pubblica, ha avuto grande
espansione una legislazione di emergenza a favore di determinate categorie o specifici territori. Gli strumenti
finanziari e operativi previsti dai provvedimenti legislativi in discussione non sono infatti solo orientato a
soddisfare il bisogno di casa, ma anche a risolvere problemi legati alla qualità della vita quali recupero del
patrimonio edilizio esistente e la riqualificazione urbana. Raggiungimento di tali scopi ulteriori i testi
normativi più recenti prevedono talvolta nuove figure pianificatorie che si aggiungono al piano di zona per
l'edilizia economica e popolare.
Secondo la corte costituzionale, la materia dell'edilizia residenziale pubblica si estende essenzialmente su tre
livelli:
- quello dell'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti secondo
criteri uniformi di assegnazione su tutto il territorio nazionale, di competenza esclusiva dello Stato;
- quello concernente la programmazione degli insediamenti di edilizia residenziale pubblica, riferibile
alla materia “governo del territorio”;
- quello concernente la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica.
Tradizionalmente, l'insieme degli interventi pubblici, che va sotto il nome di edilizia pubblica residenziale,
tende ad agevolare tipologie di edilizia:
- edilizia sovvenzionata: cioè realizzata in via diretta dallo Stato, dalle regioni e da altri enti pubblici
con mezzi finanziari esclusivamente pubblici;
- edilizia agevolata: cioè realizzata con contribuzione pubblica sui mutui;
- edilizia convenzionata: cioè sorretta da un'apposita convenzione tra soggetto beneficiario dell'area e
comune relativamente alle modalità di utilizzazione della medesima.
Per molti anni, l'assetto organizzativo e funzionale dell'edilizia pubblica residenziale era caratterizzato dalla presenza del comitato
per l'edilizia residenziale (CER): esso provvedeva alla redazione del piano nazionale decennale dell'edilizia residenziale pubblica,
articolato in programmi quadriennali. Alle regioni spettava il compito di redigere sulla base dei programmi nazionali, propri
programmi quadriennali e progetti di intervento; ai comuni quello di individuare entro termini perentori le aree da mettere a
disposizione. La gestione delle risorse finanziarie, dapprima affidata unitariamente alla cassa depositi e prestiti era stata poi
devoluta al ministero dei lavori pubblici. L’insieme degli stanziamenti previsti veniva distribuito tra i tre tipi di edilizia sopra
richiamati.
Questo impianto normativo ha subito una significativa trasformazione nel 1998 con il trasferimento delle funzioni dallo Stato alle
regioni: in virtù del decreto 112 del 1998, lo Stato mantiene il compito della determinazione dei principi e delle finalità di carattere
generale, quali standard di programmi di edilizia residenziale pubblica aventi interesse a livello nazionale. Provvede anche
all'istituzione di un osservatorio per la condizione abitativa. Il comitato per l'edilizia residenziale è stato invece soppresso.

 Piani di zona per l'edilizia economica e popolare : il piano di zona è uno strumento urbanistico
di attuazione del programma residenziale pubblico, equiparato dalla legge al piano particolareggiato,
finalizzato a definire ed inquadrare urbanisticamente comprensori di aree da destinare alla costruzione di case
economiche e popolari nonché alle opere e ai servizi complementari, urbani e sociali.
Condizione essenziale perché gli interventi a favore dell'edilizia pubblica residenziale possano essere
operativi è che il comune sia dotato di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione.
Eccezionalmente è consentita la possibilità di mettere in opera questi interventi in presenza di un piano
regolatore soltanto adottato purchè trasmesso ai competenti organi per l'approvazione. In tal caso il piano di
zona è vincolante in sede di approvazione del piano regolatore.
Elementi costitutivi del piano di zona:
- rete stradale e delimitazione degli spazi riservati ad opere e impianti di interesse pubblico, nonché ad
edifici pubblici o di culto
- suddivisione in lotti delle aree, con indicazione della tipologia edilizia e se del caso l'ubicazione e la
volumetria dei singoli edifici
- specificazione delle aree contigue ad opere pubbliche, la cui occupazione serve ad integrare le finalità
delle opere stesse e a soddisfare prevedibili esigenze future.
Funzione e dimensionamento: la programmazione pubblica nel settore dell'edilizia abitativa deve coesistere
e armonizzarsi con l'iniziativa privata.
I piani di zona (obbligatori solo per i comuni più importanti, facoltativi per gli altri) assolvono
fondamentalmente a due funzioni:

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- inquadrare gli interventi di edilizia residenziale pubblica in un razionale disegno urbanistico, onde
evitare la ghettizzazione dei ceti meno abbienti in quartieri periferici non collegate al resto della città;
- dare i comuni la possibilità di acquistare attraverso l'esproprio a aree da destinare alla costruzione di
alloggi popolari e alla realizzazione dei relativi servizi.
A tale scopo la legge pone specifici criteri di dimensionamento del piano per l'edilizia economica e popolare,
stabilendo che:
 l'estensione superficiaria delle zone da includere in esso deve essere determinata in
correlazione al prevedibile incremento del fabbisogno abitativo complessivo della popolazione
ha portato ad un decennio dalla data di adozione del piano (limite temporale);
 la quota di questo fabbisogno, il cui soddisfacimento può essere riservato all'iniziativa
pubblica, non può essere inferiore al 40% nè superiore al 70%, tenendo conto che queste
percentuali devono interpretarsi con riferimento alla volumetria delle costruzioni (limite
quantitativo);
 le aree da comprendere in questi piani devono essere scelte di regola nelle zone destinate dagli
strumenti urbanistici generali ad edilizia residenziale con preferenza nelle zone C (zone di
espansione dell'aggregato urbano), aggiungendo che si provvede, qualora ciò non sia
possibile, a mezzo di modifica i piani regolatori. In tal caso i piani di zona costituiscono vere e
proprie varianti al piano regolatore.
Procedimento di formazione: si articola nelle tradizionali fasi:
- compilazione
- adozione
- approvazione: l'approvazione del piano, originariamente riservata alla regione, con e che oggi allo
stesso comune, tranne il caso in cui il piano non costituisca variante allo strumento urbanistico
generale;
- pubblicazione
- deposito: è previsto il deposito del piano adottato nella segreteria comunale per la durata di 10 giorni,
del quale deve essere data notizia al pubblico mediante avviso all'albo del comune e inserzione nel
foglio degli annunzi legali della provincia, nonché mediante manifesti.
Efficacia: l'efficacia del piano è fissata in 18 anni dalla data del decreto di approvazione, prorogabile di altri
due anni per giustificati motivi su domanda del comune.
Attuazione: la sua attuazione avviene a mezzo di appositi programmi pluriennali di attuazione approvati dal
consiglio comunale entro sei mesi dall'approvazione dei piani di zona. Tutte le aree comprese nei piani di
zona devono essere espropriate dai comuni o dai loro consorzi per essere poi cedute ai soggetti beneficiari.
Regime di utilizzazione delle aree espropriate:
- la regola fondamentale è quella della cessione del diritto di superficie per una durata non inferiore a
60 anni e non superiore a 99 anni; la cessione in proprietà è ammessa nei limiti di una quota non
inferiore al 20% e non superiore al 40% in termini volumetrici delle aree comprese nei piani.
Acquirenti della proprietà dei suoli possono essere sia cooperative che singoli, in possesso dei
requisiti previsti dalla legge per l'assegnazione degli alloggi economici e popolari, nonché imprese di
costruzione e loro consorzi;
- tanto per la cessione del diritto di superficie che di proprietà è prevista la stipula di una apposita
convenzione tra ente concedente e richiedente.
 Delibera consiliare di perimetrazione: la legge sulla casa del 1971, con l'intento di semplificare
le procedure per l'utilizzazione degli stanziamenti per l'edilizia residenziale pubblica, ha previsto che in
determinate ipotesi possa prescindersi dal piano di zona. L'articolo 51 della legge 865 del 1971 agisce in
particolare che nei comuni ancora sprovvisti di piani di zona, i programmi pubblici di edilizia abitativa
possono essere localizzati con una semplice delibera del consiglio comunale e equiparata al piano di zona
nell'ambito delle zone residenziali dei piani regolatori o programmi di fabbricazione, sempre che questi
risultino approvati o perlomeno adottati e trasmessi per le approvazioni di legge.
Come accade anche per i piani di zona, l'indicazione delle aree è comporta la dichiarazione di pubblica
utilità di tutte le opere che sulle stesse devono essere eseguite e di urgenza e indifferibilità dei relativi lavori.
Può procedere se con questo più semplice strumento non solo quando il comune non si è ancora dotato di
piani di zona, ma anche nell'ipotesi in cui il piano di zona sia esaurito o non più attuabile per le mutate
condizioni sociali ed economiche.
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 Piani di recupero: dalla fine degli anni 70 cominciano ad affermarsi orientamenti culturali che
puntano sulla riqualificazione urbana e sul recupero dell'esistente.
La legge 457 del 1978, nell'ambito degli interventi a favore dell'edilizia residenziale pubblica, appresta per la
prima volta una nuova strumentazione che ha come scopo il riuso del patrimonio edilizio esistente. Essa
prevede:
a) ricognizione delle zone da recuperare: le zone di recupero sono costituite da quelle aree ove per le
condizioni di degrado si rende opportuno il recupero del patrimonio edilizio e urbanistico esistente,
mediante interventi rivolti alla ricostruzione, conservazione, risanamento, migliore utilizzazione del
patrimonio stesso. L'individuazione di queste zone (che possono essere anche estremamente
circoscritte fino a riguardare singoli immobili) è fatta direttamente dal piano regolatore o
successivamente con deliberazione del consiglio comunale, nel caso di comune già munito di piano
regolatore;
b) formazione di piani di recupero per la concreta messa in opera degli interventi: il di recupero ha
valore di piano particolareggiato. Il procedimento di formazione è analogo a quello del piano
particolareggiato e non vede l'approvazione regionale. Si avrà questa sequenza procedimentale:
redazione, adozione, osservazioni e opposizioni, delibera consiliare di decisione delle opposizioni e di
approvazione definitiva del piano. Dal punto di vista contenutistico il piano deve indicare la disciplina
per il recupero degli immobili, dei complessi edilizi, degli isolati e delle aree. Gli interventi ammessi
possono essere sia leggeri che pesanti: è consentita anche la cd. ristrutturazione urbanistica, cioè la
sostituzione dell'esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme di
interventi edilizi anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale.
Ma poiché il piano di recupero è equiparato al piano particolareggiato, questi interventi devono
ritenersi possibili solo in quanto previsti dal piano regolatore generale. Inoltre i piani di recupero
possono essere attuati dai privati mediante convenzionamento col comune o dai comuni (che possono
intervenire, oltre che nell'ipotesi in cui operano su immobili di propria proprietà o per motivi di
rilevante e preminente interesse pubblico, anche in via sostitutiva nei confronti dei privati
inadempienti). Tutti gli interventi nelle aree e nei piani di recupero godono dei benefici dell'edilizia
convenzionata agevolata.
 Nuovi strumenti per la riqualificazione urbana:
a) programmi integrati di intervento: sono strumenti sperimentali destinati a cadere allorché sarà
emanata la nuova legge sull'edilizia residenziale pubblica. Sono finalizzati a riqualificare il tessuto
urbanistico, edilizio e ambientale;
b) programmi di recupero urbano: anche questi diretti alla realizzazione, manutenzione,
ammodernamento delle urbanizzazioni primarie; edificazione di completamento e integrazione dei
complessi urbanistici esistenti; inserimento di elementi di arredo urbano; manutenzione ordinaria e
straordinaria, restauro e risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia degli edifici;
c) interventi di trasformazione urbana: le città metropolitane e i comuni, anche con la partecipazione
della provincia e della regione, possono costituire società per azioni per progettare e realizzare
interventi di trasformazione urbana, in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti.

CAPITOLO III
Centri e agglomerati storici
Le problematiche dei centri storici superano di gran lunga la portata delle discipline settoriali, esigendo una
trattazione più mirata. Il problema dei centri storici (meglio, degli agglomerati storici) nasce in tempi
piuttosto recenti, allorché si prende coscienza dell'esigenza di salvare tutto un patrimonio urbanistico-edilizio
irripetibile, formatosi in gran parte in epoca preindustriale, oggetto nell'ultimo secolo di gravissime
aggressioni. Dopo l'unificazione le maggiori città italiane subirono pesanti ristrutturazioni, motivate talvolta
da ragioni di risanamento igienico-sanitario; dall'altra da esigenze di modernizzazione. La tecnica usata per
tali interventi era quella del cd. sventramento che, sconvolgendo il vecchio tessuto viario, tendeva anche ad
isolare, per valorizzarli, taluni monumenti, come se l'opera d'arte fosse un'entità autonoma staccata o
staccabile dal contesto urbanistico in cui è inserita.
Intorno alla metà degli anni 50 comincia però a maturare una sensibilità diversa per i centri storici. L'aspetto
nuovo di questa impostazione è triplice:
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- di consistenza la distinzione tra centri storici maggiori e minori e si aderisce ad una concezione
conservativa valida per tutti gli ambienti antichi;
- si afferma l'idea che la tutela del centro storico non mira alla tutela della singola opera d'arte, ma
piuttosto alla conservazione della compattezza di un certo tessuto urbanistico indipendentemente dal
carattere più o meno pregiato dei singoli elementi che lo compongono;
- i centri storici sono visti non soltanto come beni culturali da salvaguardare conservare, ma anche
come ambienti da rivitalizzare e funzionalizzare nel contesto della pianificazione generale.
Il testo legislativo in cui è possibile cogliere aspetti di questa nuova filosofia è probabilmente la legge 765 del
1967 la quale, pur dedicando al tema normative assai scarne, ha il merito di aver elevato per la prima volta i
centri storici alla dignità di Beni Culturali urbanistici: partendo proprio dalla irriproducibilità dei prodotti
culturali della civiltà preindustriale e contadina, ha apprestato una tutela giuridica per tutti i centri storici, allo
scopo dichiarato di non disperdere una così importante millenaria testimonianza di civiltà diffusa su tutto il
paese.
Un altro aspetto importante di tale normativa è il superamento della tutela puntiforme del bene da proteggere:
il centro storico non rileva più per la presenza in esso di cose di eccelso valore artistico, storico, ambientale,
ma per il suo valore di insieme. Il vero discrimine con il passato sta proprio nel fatto che le esigenze di tutela
conservativa sono più forti rispetto a quelle dell'innovazione.
Tecniche di tutela: le tecniche basilari di tutela ricavabili dalle scarne norme contenute nella richiamata
legge 765 del 1967, la prima che si è occupata di centri storici, si possono così riassumere:
- è fatto innanzitutto obbligo ai comuni di effettuare la perimetrazione del centro storico, secondo
criteri appositamente stabiliti dall'autorità amministrativa. La circolare del 1967, che ha provveduto a
tale adempimento, ha assunto quale criterio fondamentale per individuare il centro storico quella parte
della città preindustriale sviluppatasi prima dell'unificazione;
- è stato sancito a evidenti scopi precauzionali, il divieto assoluto di nuovi interventi edilizi nei centri
storici, nei casi in cui i comuni siano ancora sprovvisti di strumento urbanistico. In tale periodo di
vuoto normativo sono consentite soltanto opere di manutenzione e di restauro conservativo;
- è stato fatto obbligo ai comuni di recepire in sede di formazione dei nuovi piani regolatori gli standard
della zona A (standard di tipo essenzialmente conservativo dell'esistente).
La legislazione regionale in questi anni ha modificato e arricchito il predetto impianto normativo, ampliando
ad esempio il concetto di centro storico anche a parti più recenti nella città, incrementando gli strumenti
conoscitivi, disponendo incentivi per il restauro e per le attività compatibili con questi siti.
Problema degli usi e della conservazione dei locali storici : tra i diversi problemi emersi in questi
anni assumono notevole rilevanza quelli del come impedire i cd. usi impropri dei centri storici e più
specificamente, della salvaguardia delle attività tradizionali qui ubicate (librerie, caffetterie, farmacie, …) che
fanno parte della storia viva della città al pari delle pietre.
Questi problemi vengono innanzitutto affrontati da quelle norme di piano regolatore che stabiliscono le
funzioni delle diverse parti del territorio e le regole sui mutamenti di destinazione d'uso. Inoltre vanno
richiamate anche alcune recenti normative sul commercio, che dispongono espressamente che la
programmazione commerciale deve tendere a salvaguardare e riqualificare i centri storici anche attraverso il
mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti e a tutelare gli esercizi aventi valore
storico e artistico ed evitare il processo di espulsione delle attività commerciali artigianali.
Per quanto riguarda in particolare quest'ultimo aspetto (il mantenimento di locali storici quali caffetterie,
librerie, farmacie, ..), da tempo si è pensato di poter utilizzare la normativa sui Beni Culturali: in particolare è
il codice dei beni culturali consente di vincolare beni che, sebbene privi di intrinseco valore artistico, abbiano
tuttavia un collegamento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere (cd.
vincoli di attività). La giurisprudenza ha precisato che oggetto del vincolo in esame possono essere solo le
cose e non le attività. Diviene quindi particolarmente complesso il problema della motivazione del
provvedimento, poiché l'amministrazione deve non solo enunciare gli accadimenti della storia o della cultura
idonei a stabilire la relazione storico culturale con il bene, ma anche evidenziare che l'immobile nelle sue
strutture e/o negli arredi conservi traccia di memorie storico-culturali. Il vincolo sul bene strumentale tuttavia
non garantisce la continuazione dell'attività ma ne disincentiva la dimissione.

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CAPITOLO IV
Strumenti urbanistici per lo sviluppo economico e per le
infrastrutture
Si analizzano ora una serie di strumenti, coniati in tempi diversi, per attirare determinate iniziative
economiche in certi territori.
Le prime esperienze in questo campo sono quelle delle cd. zone industriali: aree destinate ad insediamenti
industriali, acquisite generalmente alla mano pubblica e apprezzate dal punto di vista infrastrutturale per
incentivare e agevolare la localizzazione industriale nelle medesime. Si tratta di una vicenda che prende
corpo gli inizi del 900, quando mancava ancora il P.R.G. come strumento urbanistico totalizzante. Per effetto
di ciò, le zone industriali del primo periodo nascono come episodi insediativi a sé, non inquadrati in una
logica urbanistica complessiva.
Nel secondo dopoguerra l'esperienza della zona industriale viene ripresa: viene finalizzata in un primo
momento alla politica meridionalistica. La legge 634 del 1957 (una delle prime leggi sull'intervento
straordinario per il mezzogiorno) prevede infatti il piano regolatore delle aree e dei nuclei di sviluppo
industriale, per realizzare i cd. poli di sviluppo, concepiti come zone di concentrazione industriale finalizzati
a produrre effetti diffusivi esterni.
I piani delle aree da destinare ad insediamenti produttivi : un salto di qualità in materia è
compiuto dalla legge 865 del 1971 che per la prima volta si occupa della localizzazione degli impianti
produttivi, con una normativa generale che non riguarda più come in passato singoli comuni o determinate
parti del territorio nazionale, ma potenzialmente tutti i comuni.
La tecnica adottata è quella consueta (piano generale-piano attuativo). Le aree prescelte come sede di
impianti produttivi devono innanzitutto essere previste dallo strumento principale (p.r.g. o p.f.). Segue quindi
la fase attuativa, che si concretizza nel piano degli insediamenti produttivi, avente valore di piano
particolareggiato di esecuzione.
Il piano degli insediamenti produttivi abilita il comune ad acquisire le aree nelle zone di espansione, da
destinare ad insediamenti di carattere industriale, artigianale e turistico per stimolare l'espansione produttiva e
assicurare un ordinato assetto urbanistico nella zona. Queste aree, una volta espropriate, vengono immesse
nel patrimonio del comune: una parte di esse non superiore al 50% viene ceduta poi in proprietà; la rimanente
in concessione per una durata non inferiore a 60 anni e non superiore a 99 anni. Tra il comune e il
concessionario o l'acquirente viene stipulata una convenzione per atto pubblico, con la quale vengono
disciplinati gli oneri posti a carico del concessionario o dell'acquirente e le sanzioni per la loro inosservanza.
Aree ecologicamente attrezzate: l'articolo 26 del decreto 112 del 1998, con una disposizione che
richiede l'ulteriore intervento legislativo regionale, sottolinea l'esigenza della tutela ambientale. Ai sensi di
questo articolo le regioni dovranno disciplinare con proprie leggi aree industriali e aree ecologicamente
attrezzate, dotate delle infrastrutture e dei sistemi necessari a garantire la tutela della salute, della sicurezza
dell'ambiente. Gli impianti produttivi localizzati in queste aree sembrerebbero godere di alcuni privilegi,
essendo esonerati dall'acquisizione delle autorizzazioni concernenti l'utilizzazione dei servizi presenti. Le
stesse leggi regionali devono poi stabilire le forme di gestione delle infrastrutture e dei servizi delle aree
ecologicamente attrezzate, attraverso forme che potranno coinvolgere anche i privati.
Piani speciali per le infrastrutture; piani regolatori dei porti : particolare importanza rivestono i
piani regolatori dei porti, oggi riordinati dalla legge 84 del 1994. Questa legge, dopo aver statuito che le
previsioni del piano regolatore portuale non possono contrastare con gli strumenti urbanistici vigenti, ha
stabilito che quest'ultimo viene adottato dal comitato portuale o dall'autorità marittima d'intesa con il comune
o i comuni interessati. È poi approvato dalla regione dopo essere stato sottoposto alla procedura di impatto
ambientale.
Pianificazione dei trasporti: un'altra pianificazione speciale di notevole importanza è quella dei
trasporti. La legge quadro 151 del 1981 in tema di trasporti pubblici locali vede al riguardo un complesso
sistema di pianificazione che va dal piano generale dei trasporti, a quello regionale, al piano dei bacini di
traffico (quest'ultimo di competenza degli enti locali minori).

46
PARTE QUARTA

Il controllo dell'attività
edilizia

47
CAPITOLO I
Il regolamento edilizio
Si è già detto che l’edilizia (nella quale trovano collocazione gli istituti relativi al controllo dell'attività
costruttiva) è l'unica parte della più ampia materia “governo del territorio” già munita di un'organica legge-
cornice statale, contenuta nel Testo Unico dell'edilizia (d.p.r. 380 del 2001). Quest'ultimo detta “i principi
fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell'attività edilizia” che le “regioni ordinarie,
nell'esercizio della potestà legislativa concorrente in materia sono tenute ad osservare”. In realtà, questo
testo non si limita a definire i principi, disciplinando in modo esaustivo la materia. Ma le disposizioni di
dettaglio del testo unico trovano applicazione immediata, sino a quando le regioni non avranno disciplinato
la materia.
Per quanto riguarda invece le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano, il testo
unico dispone che esse continueranno ad esercitare la propria potestà legislativa esclusiva, nel rispetto e nei
limiti degli statuti di autonomia e delle relative norme di attuazione.

CAPITOLO I
Il regolamento edilizio
M ORIGINI: il regolamento edilizio è uno strumento di disciplina edilizia dal contenuto molto variegato:
l'eterogeneità delle relative previsioni è spiegabile con la storia dell'istituto.
L’origine del regolamento edilizio risale al medioevo, epoca in cui i comuni emanavano già norme
sull'attività costruttiva con finalità di igiene, di difesa, di decoro cittadino, …. Inoltre sino agli inizi del XX
secolo, quando mancava ancora una legislazione statale di carattere generale, i regolamenti edilizi comunali
costituivano la fonte principale della disciplina urbanistica: in essi si riscontravano disposizioni per la
regolamentazione dell'attività costruttiva (altezze, distanze, sporgenze, …), per il rilascio delle licenze
edilizie (modalità per la presentazione delle domande di licenza, tempi di istruttoria, …), per l'organizzazione
degli apparati tecnici abilitati ad esaminare soggetti. In molti casi inoltre i regolamenti edilizi contenevano
veri e propri atti di pianificazione, occupandosi anche delle modalità di attuazione delle nuove urbanizzazioni
(erano ad esempio frequenti convenzioni con i proprietari delle aree interessate anche per alleggerire il
comune dalle spese dell'urbanizzazione).
Quando, dopo il 1942, in Italia comincia a prendere corpo la legislazione urbanistica, questa erode
progressivamente spazi prima occupati dalla fonte normativa comunale. Ma l'avvento della legislazione
urbanistica non sopprimere il regolamento edilizio comunale che trova anzi un esplicito riconoscimento della
legge urbanistica del 1942, mantenendo i suoi connotati tradizionali di atto normativo dal contenuto molto
variegato.
M CONTENUTO: il testo unico dell'edilizia dispone che “i comuni, nell'ambito della propria
autonomia statutaria e normativa, e emanano il regolamento edilizio, che deve contenere la disciplina
delle modalità costruttive, con particolare riguardo alle rispetto delle normative tecnico estetiche, igienico
sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi”. Così, mentre lo strumento
pianificatorio effettua la suddivisione in zone del territorio comunale (specificando per ciascuna di esse
funzioni e indici differenziati di sfruttamento edilizio), il regolamento edilizio disciplina le modalità
costruttive, disponendo sulle altezze, sulle distanze dei fabbricati, sull'ampiezza dei cortili, sull'aspetto dei
fabbricati, ….
Le norme del regolamento edilizio, sebbene ispirate a finalità pubblicistiche, sono rilevanti anche nei rapporti
interprivati. Ma le conseguenze della loro inosservanza variano a seconda che la violazione riguardi:
- il regime delle distanze: in questo caso è ammessa l’azione di riduzione in pristino (tranne che
l'interessato non ritenga più opportuno chiedere il risarcimento del danno)
- altre disposizioni del regolamento stesso: in questo caso è ammessa l'azione risarcitoria.
Tale diverso regime suole spiegarsi generalmente con la diversa natura delle norme in discussione: mentre
quelle sulle distanze sarebbero integrative del codice civile e quindi dirette prevalentemente alla tutela di
interessi di natura privatistica, tutte le altre sarebbero rivolte alla tutela di interessi generali.
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M TUTELA GIURISDIZIONALE: relativamente agli strumenti giurisdizionale azionabili dai
privati, è da precisare che in questa materia vige il regime della cd. doppia tutela, riconoscendosi la
possibilità di agire sia innanzi al giudice ordinario (per ottenere il risarcimento del danno o la riduzione in
pristino), sia dinanzi al giudice amministrativo per l'annullamento del permesso edificatorio illegittimo.
M NATURA: nessuno ha mai dubitato del carattere normativo del regolamento edilizio. Da tale
considerazione la giurisprudenza ha tratto due corollari:
- il dovere di conoscenza del giudice delle disposizioni regolamentari analogamente a quanto avviene
per ogni altra norma giuridica primaria o secondaria
- il regolamento, a differenza del piano regolatore generale e del programma di fabbricazione, non può
normalmente essere impugnato ex se, data la generalità ed astrattezza del suo contenuto. Solo in casi
eccezionali, allorché la disposizione regolamentare sia capace di ledere direttamente e
autonomamente l'interesse di privati, è stata riconosciuta la possibilità di una sua immediata
impugnativa, non collegata a quella dell’atto applicativo.
M PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE: il procedimento di formazione consta, analogamente a
quanto avviene per gli strumenti urbanistici, delle fasi:
a) adozione: di competenza del comune, non trova nella legge urbanistica una
specifica disciplina;
b) approvazione: di competenza della regione. Non è previsto l'apporto collaborativo
dei privati attraverso le osservazioni. Della questione si è occupata la corte
costituzionale, la quale ha ritenuto però legittima la relativa normativa;
c) pubblicazione: si applicano le apposite prescrizioni degli statuti comunali.

CAPITOLO II
I titoli abilitativi dell'attività edilizia
A) REGIME ORDINARIO
Si è già detto che l'esigenza di un controllo puntuale dei comuni sulle singole iniziative edificatorie è stata in
un primo momento realizzata in via extralegislativa, attraverso i regolamenti edilizi: sono stati questi ultimi a
prevedere atti di assenso preventivi sulle iniziative edificatorie dei privati. Più tardi la disciplina dei titoli
abilitativi è invece divenuta appannaggio principale della legge.
+ La licenza edilizia sembra avere avuto il suo primo riconoscimento legislativo nel 1935, limitatamente
però ai comuni sismici;
+ La legge urbanistica del 1942 dà all'istituto una valenza più generale, prescrivendo l'obbligo della licenza
per tutte le nuove costruzioni. Ma solo per quelle da sorgere nell'ambito dell'aggregato urbano, non anche
nelle zone agricole;
+ La legge 765 del 1967 estende l'ambito di applicazione della licenza a tutto il territorio comunale,
comprese le zone agricole, e riguarda non soltanto le nuove costruzioni, ma anche gli ampliamenti, le
modifiche o le demolizioni di quelle esistenti, nonché l'esecuzione di opere di urbanizzazione di cui si
afferma per la prima volta il principio della loro precedenza rispetto alle costruzioni. Vengono inoltre
assoggettate all'obbligo della licenza le opere di privati su aree demaniali, prima ritenute escluse dal controllo
dell'autorità comunale, in quanto realizzate in virtù di concessione demaniale. In questa prima fase, la licenza
viene inquadrata tra le “autorizzazioni”;
+ La legge 10 del 1977, di riforma dei suoli, sembrò sconvolgere l'impalcatura originaria. Infatti, non solo
sostituì la tradizionale locuzione “licenza” con quella di “concessione”, ma attribuì anche al nuovo titolo
abilitativo carattere oneroso. Dopo un intervento della corte costituzionale prevalse l'idea che la concessione
edilizia altro non fosse che un atto autorizzatorio, che differiva dalla vecchia licenza edilizia soprattutto per il
suo carattere oneroso;
+ Dopo la riforma dei suoli del 1977, il regime dei titoli abilitativi è divenuto sempre più complesso e
articolato, soprattutto sotto la spinta della legislazione di settore. Accanto alla concessione edilizia
(necessaria per le nuove costruzioni e gli interventi edilizi più pesanti) sono stati creati altri due titoli

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abilitativi: l’autorizzazione edilizia non onerosa (per gli interventi più rilevanti sul patrimonio edilizio
esistente) e la denuncia di inizio di attività (D.I.A.: per altri interventi minori).
+ Gli ultimi ritocchi al sistema sono stati dati dal T.U. dell'edilizia, che ha sostituito il regime concessorio
con quello più pertinente del permesso di costruire e ha riordinato tutta la materia, secondo la tecnica propria
delle leggi cornice, che riserva allo Stato la determinazione dei principi.
Il Testo Unico delle edilizia prevede tre diversi regimi costruttivi:
a) attività edilizia libera
b) denuncia di inizio attività
c) permesso edilizio (che prende il posto della vecchia concessione edilizia)
d) è stato invece abrogato il regime dell'autorizzazione edilizia
Per stabilire in concreto quale sia la disciplina ad applicare, bisogna guardare innanzitutto alla tipologia
dell'intervento che si intende porre in essere distinguendo in particolare le seguenti ipotesi:
- interventi di manutenzione ordinaria: riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione
delle finiture e quelle necessarie ad integrare e mantenere in efficienza gli impianti tecnologici
esistenti;
- interventi di manutenzione straordinaria: necessari per rinnovare e sostituire parti anche strutturali
degli edifici, nonché i servizi igienico-sanitari e tecnologici, senza alterazione dei volumi e delle
superfici e senza modifiche delle destinazioni d'uso;
- interventi di restauro e risanamento conservativo: rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad
assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi
tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con esso
compatibili;
- interventi di ristrutturazione edilizia: portano ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente, comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti e delle superfici;
- interventi di nuova costruzione: di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti
nelle categorie precedenti;
- interventi di ristrutturazione urbanistica: rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con
un altro diverso mediante un insieme sistematico di interventi edilizi anche con la modificazione del
disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale.
Per ciascuno di questi interventi è stabilito il titolo abilitativo da applicare: tuttavia sono previsti
specificamente i casi in cui le leggi regionali o gli strumenti urbanistici comunali possono adottare un regime
diverso. Ad esempio l'articolo 6, dopo aver disciplinato l'attività edilizia libera, fa salve le “più restrittive
disposizioni previste dalla disciplina regionale e dagli strumenti urbanistici”.

1) ATTIVITA’ EDILIZIA LIBERA: gli articoli 6 e 7 del testo unico lontano gli interventi e le
attività edilizie possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo:
- interventi di manutenzione ordinaria
- interventi in edifici privati volti all'eliminazione di barriere architettoniche, che non comportino la
realizzazione di rampe, di ascensori esterni, di manufatti di che alterino la sagoma dell'edificio;
- opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico o siano
eseguite in aree esterne al centro edificato.
Questo elenco non è tassativo: le regioni e gli strumenti urbanistici possono prevedere disposizioni più
restrittive.
Occorre però sottolineare che quando si parla di attività libere, non si intende affermare che le medesime
possano essere poste in essere in piena libertà, al di fuori di ogni controllo pubblico. Sono infatti fatte salve le
più restrittive disposizioni previste dalla legge regionale e dagli strumenti urbanistici e soprattutto le altre
eventuali normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e in particolare le
disposizioni contenute nel T.U. Beni Culturali e ambientali).
2) DENUNCIA di INIZIO di ATTIVITA’ (D.I.A.): disciplina della d.i.a. sventa una
particolare complessità. L’articolo 22 T.U. , non si è limitato a riproporre l'istituto, ma lo ha addirittura
elevato a titolo abilitativo preferenziale. Infatti sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività:

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- tutti gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 (interventi per i quali è obbligatorio
il permesso di costruire) e all'articolo 6 (attività edilizia libera), che siano conformi alle previsioni
degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente;
- le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che
non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non
violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire;
- inoltre la denuncia di inizio attività può essere utilizzate in alternativa al permesso di costruire nei
seguenti casi: si tratta in particolare delle ristrutturazioni cd. innovative e anche degli interventi di
nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica, tutte le volte in cui la pianificazione urbanistica
attuativa sia così dettagliata da non lasciare spazi di manovra al autorità urbanistica. In tutti i casi in
cui la d.i.a. è adottata in alternativa al permesso edilizio, essa non è gratuita ma onerosa.
La d.i.a., da atto di parte privata in funzione dell'attivazione di un possibile controllo, è stato trasformato in
un provvedimento amministrativo atipico proveniente da un soggetto privato o in un atto privato cui si
ricollegano gli effetti del provvedimento tacito di assenso. A tale metamorfosi ha contribuito in modo
determinante la novella del 2005 alla legge 241 del 1990, che prevede ora espressamente la possibilità per
l'amministrazione “di assumere determinazioni in via di autotutela” anche nel caso della d.i.a. e
implicitamente la possibilità per i terzi lesi dalla d.i.a. di poter impugnare la medesima a tutela delle proprie
posizioni giuridiche soggettive.
Il procedimento ha inizio con la presentazione allo sportello unico della denuncia,30 giorni prima
dell'effettivo inizio dei lavori. La denuncia va accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un
progettista abilitato, nonché dagli opportuni elaboratori progettuali, in cui si asseveri la conformità delle
opere da realizzare agli strumenti urbanistici adottati o approvati e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il
rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie. Il progettista assume la qualità di persona
esercente un servizio di pubblica necessità. A lavori ultimati il progettista emana il certificato di collaudo
finale, attestante la conformità dell'opera al progetto presentato. Il comune, ove riscontri l'assenza di una o
più delle condizioni stabilite, emette ordine motivato di non effettuare le previste trasformazioni nel termine
di 30 giorni dalla presentazione della denuncia.
La d.i.a. viene generalmente considerata come una delle conquiste fondamentali degli anni 90: uno strumento
che oltre a rimuovere le tradizionali lentezze della pubblica amministrazione, da un contributo fondamentale
al miglioramento dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. In realtà,1'analisi più attenta non
sembra confermare un giudizio così ottimistico: la d.i.a., piuttosto, riesce ad esprimere le sue maggiori
positività laddove esiste il presupposto di un’amministrazione capace di operare secondo standard qualitativi
accettabili, mentre può addirittura aggravare la situazione, ove queste condizioni non sussistano.
[E’ spesso ricorrente questo tipo di contenzioso: Tizio presenta una d.i.a. per un intervento quasi sempre di notevoli dimensioni
(che nessun amministratore si sentirebbe probabilmente di assentire con un provvedimento avente un nome e un cognome).
L'amministrazione lascia decorrere il fatidico termine dei 30 giorni previsto per la inibizione dei lavori; ma appena trascorso questo
termine inibisce precipitosamente i lavori, disponendo l'annullamento della d.i.a.. Ma lo fa quasi sempre senza motivare
adeguatamente le ragioni dell'annullamento, né comunicare l'avvio del procedimento. A questo punto il costruttore impugna il
provvedimento; il giudice lo annulla per vizio di motivazione contribuendo indirettamente a legittimare l'iniziativa edilizia. Inoltre
la d.i.a. non viene quasi mai utilizzata per i piccoli interventi, ma per quelli più pesanti. ]
3) PERMESSO EDILIZIO: il permesso edilizio è richiesto per le attività di “trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio” di più forte impatto e a carattere non precario. Esso in particolare è
necessario per:
- interventi di nuova costruzione
- interventi di ristrutturazione urbanistica
- interventi di ristrutturazione edilizia cd. innovativi (cioè che portino ad un organismo edilizio in tutto
o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici). Le altre ristrutturazioni edilizie invece sono
assoggettate al regime della d.i.a., tranne che riguardino edifici ubicati nelle zone A (centri e
agglomerati storici);
- interventi edilizi su aree demaniali o suoi immobili di proprietà dello Stato effettuati da parte di
privati o enti pubblici che abbiano diritto di godimento.
Il permesso edilizio viene inquadrato tra i provvedimenti autorizzatori (atti aventi l'attitudine di rimuovere un
limite legale all'esercizio di un diritto). Ma con una importante peculiarità: gli effetti del permesso non si

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esauriscono nella semplice rimozione del limite, ma incidono in via permanente sulla disciplina
dell'immobile, cristallizzandone il regime giuridico. I problemi connessi al cambiamento di destinazione
d'uso nascono proprio dalla permanenza di tale regime oltre l'espletamento dell'attività edificatoria unto
Permesso in “deroga”: nei primi anni di applicazione della legge urbanistica del 1942 si era affermata la
prassi delle cd. licenze in deroga. Una prassi che partiva dall'idea del carattere discrezionale della licenza
edilizia, che avrebbe consentito all'autorità comunale anche di autorizzare nel caso concreto deroghe a
disposizioni di piano regolatore o di regolamento edilizio. La legittimità di tale prassi non fu contestata, ma
gli abusi furono gravissimi tant'è che il legislatore ha ritenuto un certo punto di dover dettare talune regole
limitative per arginare il fenomeno:
- la deroga è stata circoscritta ai casi in cui è prevista dal piano regolatore;
- è soggetta ad una procedura aggravata (che contempla la previa delibera del consiglio comunale);
- è circoscritta agli edifici impianti pubblici (appartenenti ad enti pubblici o destinati a finalità di
carattere pubblico: scuole, ospedali, chiese, caserme, ..) o di interesse pubblico (indipendentemente
dalla qualità dei soggetti che li realizzano, enti pubblici o privati, sono destinati a finalità di carattere
generale sotto l'aspetto economico, culturale, industriale, igienico, religioso, …: conventi, ospedali,
alberghi, biblioteche, teatri,..);
- potrà riguardare soltanto i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra fabbricati, salvo il
rispetto degli standard.
Problemi di approfondimento: si pongono diversi problemi approfondimento:
a) natura degli apprezzamenti connessi al rilascio del permesso edilizio: sino alla metà degli anni 60
(fino cioè a quando la pianificazione urbanistica ebbe applicazioni molto limitate), era assolutamente
consolidata l'idea del carattere discrezionale della licenza edilizia. Ma quando la pianificazione
urbanistica cominciò a diventare una realtà operante, questa tesi divenne recessiva, in base al rilievo
secondo cui il potere discrezionale del comune in ordine alla disciplina del territorio si consumerebbe
con la formazione del piano. Pertanto, in questa nuova configurazione, la licenza edilizia diviene un
atto applicativo, attraverso cui viene attestata la conformità del progetto edilizio al piano. La
circostanza poi il comune, nell'esercizio del suo potere autorizzatorio, possa imporre modalità
esecutive per migliorare il progetto, viene spiegata come esercizio di discrezionalità tecnica e non di
vera discrezionalità. In realtà, la complessità della legislazione urbanistica dei nostri giorni e
l'articolazione degli strumenti di disciplina del territorio fanno apparire eccessivamente schematica
questa impostazione, suggerendo dei distinguo in relazione alle diverse situazioni concrete che
possono verificarsi. Probabilmente le ipotesi in cui è possibile ancora oggi parlare di un residuo
potere discrezionale sono essenzialmente due: quella in cui il permesso edilizio operi su un territorio
non pianificato e quella degli interventi in deroga (per “interventi in deroga” si intendono non soltanto
il caso del permesso edilizio in deroga, ma tutte quelle altre vicende in cui il legislatore consente di
operare in deroga a certe destinazioni o a certe prescrizioni di piano);
b) se attraverso il permesso edilizio è consentita la tutela dei beni culturali e ambientali: mentre, con
riferimento all'attività pianificatoria può dirsi ormai consolidato l'indirizzo favorevole alla possibilità
di inserimento negli strumenti urbanistici di prescrizioni per la salvaguardia degli anzidetti interessi,
anche in mancanza di preesistenti vincoli imposti dalle competenti autorità, relativamente al permesso
edilizio prevalgono enunciati di segno opposto. Secondo la giurisprudenza infatti l'autorità preposta al
rilascio del permesso edilizio non potrebbe negare quest'ultimo per ragioni di tutela ambientale,
paesistica, igienica, … trattandosi di interesse in affidati alla cura di altre amministrazioni. Il
permesso edilizio ebbe unicamente rivolto a disciplinare l'ordinato sviluppo della residenza e della
distribuzione dei benefici e dei carichi urbanistici e non la tutela di quegli altri interessi. In realtà,
nella stragrande maggioranza dei casi in cui la giurisprudenza nega che attraverso il permesso edilizio
possa darsi spazio ad altri interessi, si tratta di comuni muniti di strumenti urbanistici non contenenti
specifiche prescrizioni inibitorie dell'attività costruttiva. Si può quindi convenire che in tale ipotesi il
diniego del permesso, motivato da esigenze paesistiche o affini, sia in fatto quasi sempre il legittimo;
ma ciò non perché è l'autorità urbanistica sia in assoluto impotente a far valere questi interessi, ma
perché il piano regolatore non ha dettato apposite prescrizioni di tutela. In sostanza, ciò che la
giurisprudenza sembra voler affermare è questo: in presenza di un piano regolatore non contenente
una disciplina ostativa rilascio del permesso edilizio il comune non può negare discrezionalmente
quest'ultimo. Al più può imporre modalità esecutive, di ordine essenzialmente tecnico, per adeguare il
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progetto ad elementari esigenze estetiche e di decoro cittadino che l'amministrazione comunale è
sempre tenuta a seguire;
c) mutamento di destinazione d'uso: un tema che negli ultimi anni ha assunto una notevole importanza,
anche a causa del ampliarsi degli interventi sull'esistente dell'assenza fino a qualche tempo fa di una
specifica normativa a riguardo. I casi di maggior rilievo sono quelli della riconversione di un edificio
destinato originariamente ad uso residenziale o commerciale, o di un complesso edilizio agricolo in
abitativo. La giurisprudenza, in una situazione di sostanziale vuoto legislativo, sembra attenersi ai
seguenti criteri: il comune, di fronte ad una richiesta di modifica di destinazione d'uso, dovrà
innanzitutto valutare la rilevanza e la compatibilità della trasformazione con il contesto urbanistico in
cui viene realizzarsi, potendo essere accolta solo se il mutamento sia conforme o compatibile con la
normativa urbanistica vigente. Se tale mutamento è accompagnato dalla realizzazione di opere è
necessario acquisire il titolo abilitativo proprio delle opere che si intendono realizzare. Si ritengono in
genere sottratte al regime autorizzatorio i mutamenti di destinazione d'uso non accompagnati da
modifiche strutturali. L'articolo 10 T.U. ha parzialmente colmato il vuoto legislativo con una norma di
principio indirizzata alle regioni che, secondo questa norma, stabiliscono con legge e quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono
subordinati a permesso di costruire o a denuncia di attività. Il legislatore ha quindi voluto lasciare
alle regioni il compito di dettare una normativa nell’ambito di uno spettro molto ampio di possibilità:
regime di permessi di per alcune variazioni, di denuncia di inizio di attività per altre variazioni, di
esenzione di qualsiasi adempimento per altre ancora. Gli unici limiti che incombono sul legislatore
regionale sembrano riguardare: gli interventi di ristrutturazione nei centri storici che quando
comportino mutamenti di destinazione d'uso devono essere assoggettati al permesso edilizio; i
mutamenti di destinazione d'uso che implicano variazioni degli standards la cui realizzazione abusiva
è considerata variazione essenziale al permesso edilizio.
Procedimento: per accelerare i procedimenti relativi all'attività edilizia è stata prevista la costituzione di
uno sportello unico per l'edilizia presso i diversi comuni. Ha il compito della ricezione e istruttoria delle
domande di permesso edilizio, delle denunce di inizio di attività e di ogni altro atto di assenso in materia
edilizia, nonché di rilascio del permesso.
Le fasi fondamentali del procedimento si possono così descrivere:
- presentazione della domanda corredata dal progetto delle opere allo sportello unico: i soggetti a ciò
abilitati sono il proprietario dell'immobile o altri soggetti aventi titolo (ad esempio i titolari di diritti
reali allorché le trasformazioni che intendano realizzare rientrano nel contenuto del loro diritto:
l'usufruttuario per gli interventi di restauro) e altri soggetti ancora (come ad esempio l'assegnatario di
alloggio popolare a riscatto);
- comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento al richiedente: per tale
adempimento è fissato il termine di 10 giorni dalla presentazione della domanda;
- istruttoria: il termine previsto per la conclusione di quest'ultima è di 60 giorni dalla presentazione
della domanda. Entro questo termine e responsabile del procedimento deve acquisire tutti pareri e gli
assensi richiesti e formulare, a conclusione dell'istruttoria, una proposta di provvedimento,
accompagnata da una dettagliata relazione con la qualificazione tecnico giuridica dell'intervento
richiesto. Questo termine di 60 giorni può essere interrotto per una sola volta ne ipotesi di richiesta,
entro 15 giorni dalla presentazione della domanda, di integrazioni procedimentali. Il termine
ricomincerà a decorrere dalla data di presentazione della documentazione integrativa. In ordine
all'acquisizione dei pareri e degli assensi: alcune di esse sono acquisiti d'ufficio da parte dello
sportello unico; altre vengono acquisite dallo stesso su richiesta del responsabile del procedimento. Il
parere della commissione edilizia comunale è richiesto solo se previsto dal regolamento edilizio. Tutti
termini previsti sono raddoppiati per i comuni con più di 100.000 abitanti;
- rilascio del permesso edilizio: è effettuato dal dirigente entro il termine perentorio di 15 giorni dalla
proposta del responsabile del procedimento, sempre che il progetto non sia in contrasto con le
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed edilizi e con le altre norme che regolano lo svolgimento
dell'attività edilizia. È richiesta la motivazione: sia nel caso di rigetto sia nel caso di rilascio. In
quest'ultimo caso la motivazione dovrà indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che
hanno determinato la decisione dell'amministrazione. Nel primo caso la motivazione dovrà essere

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invece ancora più specifica per mettere in grado il privato di presentare un nuovo progetto pienamente
rispondente alle valutazioni dell'amministrazione comunale;
- pubblicità: dell'avvenuto rilascio del permesso deve essere data notizia al pubblico, mediante
affissione nell'albo pretorio, con la specificazione del titolare e della località nella quale la costruzione
deve essere eseguita. Tale forma di pubblicità è preordinata anche all'eventuale impugnativa del
permesso. Nella legislazione regionale infine si sta facendo strada la tendenza a imporre l'onere della
trascrizione nei registri immobiliari dei provvedimenti in esame con le relative convenzioni. Il
permesso ha carattere reale ed è quindi trasferibile ai successori o aventi causa del proprietario
dell'area o di chi abbia titolo a richiederla.
L’intervento sostitutivo regionale: il problema del comportamento omissivo dell'amministrazione
rispetto ad un'istanza di costruzione trovava soluzione fino a poco tempo fa tradizionali rimedi giurisdizionali
contro il silenzio rifiuto, tuttora esperibili. Però il testo unico vede in aggiunta un possibile rimedio
amministrativo che punta sull'intervento sostitutivo regionale: l’interessato, decorso inutilmente il termine
per il rilascio del permesso edilizio, richiede allo sportello unico che l'amministrazione pronunci entro 15
giorni dalla ricezione dell'istanza. Decorso inutilmente anche quest'ultimo termine, inoltra l'istanza al
presidente della giunta regionale competente il quale, entro il 15 giorni successivi nomina un commissario ad
acta. Quest'ultimo nel termine di 60 giorni dalla sua nomina adotta il provvedimento. Se anche quest'ultimo
termine trascorre inutilmente si intende formato il silenzio rifiuto.
Contributo di costruzione: il permesso edilizio è di regola oneroso: il suo rilascio è infatti condizionato
al pagamento di un contributo commisurato a:
- incidenza delle spese di urbanizzazione: la determinazione degli oneri di urbanizzazione avviene alla
stregua di tabelle parametriche definite dalla regione. La concreta incidenza di tali oneri è però
stabilita dal comune con delibera consiliare. Sono previsti i casi di permesso edilizio gratuito o
parzialmente oneroso. La quota relativa all’ urbanizzazione deve essere corrisposta al comune all’atto
del rilascio del permesso;
- costo di costruzione: la quota relativa al costo di costruzione viene solo determinata nel momento del
rilascio del permesso (il pagamento effettivo avverrà in corso d'opera con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune e comunque non oltre 60 giorni dall'ultimazione delle opere). Il costo di
costruzione dei nuovi edifici è determinato periodicamente dalle regioni ed è soggetto ad
aggiornamenti. Il contributo comprende una quota di detto costo, variabile dal cinque al 20%, che
viene determinata dalle regioni in funzione delle caratteristiche e delle tipologie delle costruzioni. Per
gli interventi su edifici esistenti, è determinato dal comune (norme di favore sono previste per
incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente).
Quanto alla natura del contributo: l'orientamento prevalente riconosce il carattere tributario del medesimo
distinguendo però la quota di urbanizzazione che è qualificata come tassa (corrispettivo di una prestazione
resa o da rendere da parte dell'amministrazione); la quota relativa al costo di costruzione considerata come
imposta anche con fini extra fiscali. Probabilmente però si tratta di una figura atipica.
Per il ritardato o mancato versamento del contributo le regioni sono tenute a stabilire le relative sanzioni
pecuniarie che però non possono essere inferiori nè superiori al doppio della misura richiesta. In particolare,
il mancato versamento nei termini comporta:
- aumento del 20% qualora il versamento sia effettuato nei successivi 120 giorni;
- aumento del 50% qualora, superato il termine di 120 giorni, il ritardo si protrae non oltre i successivi
60 giorni;
- aumento del 100% qualora, superato il termine dei successivi 60 giorni, il ritardo si protrae non oltre i
successivi 60 giorni;
- decorso anche quest'ultimo termine il comune provvederà alla riscossione coattiva del complessivo
credito con ingiunzione.
Decadenza del permesso edilizio: nel permesso edilizio devono essere indicati i termini di inizio e di
ultimazione dei lavori: quello di inizio non può essere superiore a un anno, quello di ultimazione non può
normalmente eccedere i tre anni dalla data di inizio. La possibilità di una proroga è prevista quando fatti
estranei alla volontà dell'interessato hanno determinato un ritardo nei lavori. La proroga è concessa dal
dirigente e deve essere congruamente motivata. Un termine più lungo dei tre anni può essere accordato in via
eccezionale, in considerazione della mole dell'opera da realizzare o alle sue caratteristiche tecniche

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costruttive, ovvero quando si tratta di opere pubbliche il cui funzionamento sia previsto in più esercizi
finanziari.
Tanto il mancato inizio che la mancata ultimazione dei lavori nei termini previsti determina la decadenza del
permesso di costruire. La decadenza deve essere dichiarata espressamente. Il relativo provvedimento ha
carattere dovuto e non richiede peraltro la preventiva contestazione degli addebiti, non trattandosi di un
provvedimento sanzionatorio.
Problema delicato è quello di stabilire l'esatta portata delle locuzioni:
- “inizio”: la giurisprudenza ha elaborato una copiosa casistica sottraendosi ad ogni tentativo di
generalizzazione (ad esempio l'esecuzione di uno scavo e la costruzione di un muro di contenimento
costituiscono inizio dei lavori, come pure l'inizio dei getti per le fondamenta e i lavori di escavazione
necessari per la costruzione dell'edificio). Nella più recente giurisprudenza si rileva un tentativo di
maggiore approfondimento: si afferma che ciò che è realmente rilevante ai fini della determinazione
dell'inizio dei lavori non è la realizzazione della singola opera, ma la sussistenza dell’animus
aedificandi e cioè l’effettiva e reale volontà di realizzare la costruzione. Il termine di inizio
dell'efficacia del permesso è quello della data del suo rilascio;
- “ultimazione”: l'ultimazione dei lavori si verifica quando l'opera è abitabile o agibile. Il mancato
inizio o la mancata ultimazione dei lavori nei termini prescritti determinano come s'è visto la
decadenza. Un nuovo permesso per i lavori non eseguiti potrà essere richiesto solo se non siano
intervenute nuove previsioni urbanistiche incompatibili con le opere che si intendono realizzare. Il
rinnovo del permesso comporta l'obbligo del pagamento di un nuovo corrispettivo se nel frattempo
sono intervenute variazioni in più nei costi di urbanizzazione e di costruzione. Ovviamente tale
contributo sarà costituito dalla differenza tra il nuovo ammontare degli oneri e quello originario.
Annullamento del permesso; ad opera di:
a) Comune: oltre che per effetto di una sentenza del giudice amministrativo, il Assoedilizia suscettibile
di annullamento innanzitutto da parte dell'autorità che ha emanato l'atto. I presupposti perché un
siffatto provvedimento possa essere legittimamente adottato sono due: l'esistenza di un vizio di
legittimità del permesso edilizio (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) e la
sussistenza di un interesse pubblico concreto all'annullamento. L'interesse pubblico di cui si parla non
è quello generico al ripristino della legalità, ma va individuato nello specifico pregiudizio che dal
permesso illegittimo venga subire l'interesse urbanistico in concreto. Da ciò la giurisprudenza ha
tratto la conclusione che la motivazione del provvedimento di annullamento deve specificare il danno
urbanistico concretamente prodotto. Per l'annullamento d'ufficio, operato cioè dalla stessa
amministrazione, non sono previsti termini di sorta, ma recentemente è stato stabilito che il potere di
annullamento deve comunque essere svolto entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei contro interessati.
b) Regione: trova la sua specifica disciplina nell'articolo 39 T.U.. I presupposti che giustificano tale
annullamento sono sempre l'illegittimità del provvedimento e la sussistenza di un interesse pubblico
concreto all'annullamento. Ma in questo caso sono previsti limiti temporali ben precisi per l'esercizio
del potere: un termine di decadenza di 18 mesi decorrenti dall'accertamento delle violazioni e un
termine di prescrizione decennale dall'emanazione del permesso. Il procedimento si articola nelle
seguenti fasi:
- accertamento della violazione d'ufficio o su denuncia
- contestazione delle violazioni, con l'invito a presentare controdeduzioni entro un termine fissato
- eventuale sospensione dei lavori, con provvedimento da notificare al titolare del permesso, al
proprietario, al progettista e all'amministrazione comunale
- decreto di annullamento, da emettere entro il termine perentorio di 18 mesi dall'accertamento delle
violazioni e non oltre 10 anni dall'emanazione dell'atto illecito.
Si pongono tuttavia una serie di problemi giurisprudenziali:
- quanto all'accertamento, la giurisprudenza ha affermato la necessità di un atto ufficiale attestante la
violazione;
- quanto ai termini utili per l'emanazione del provvedimento, si è discusso se entro i 18 mesi predetti
l'amministrazione debba emettere il provvedimento di annullamento o debba anche comunicarlo agli
interessati;

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- quanto alla sospensione dei lavori, la giurisprudenza ha affermato che la stessa costituisce un
provvedimento cautelare distinto e autonomo rispetto all'eventuale provvedimento finale di
annullamento, censurabile per vizi suoi propri. L'ordine di sospensione cessa di avere efficacia se
entro sei mesi dalla sua notificazione non sia stato emesso il decreto di annullamento. Tanto il
provvedimento di sospensione che il decreto di annullamento sono resi noti al pubblico mediante
affissione all'albo pretorio del comune.

Rimedi giurisdizionali: occorre prendere in considerazione diverse situazioni:


 rimedi del terzo contro il permesso edilizio illegittimo al fine di ottenere l'annullamento: uno
dei problemi più delicati con riguardo a questo profilo è quello dei soggetti legittimati
all'impugnativa. Sotto l'impero della legge del 42 la questione trovava soluzione nei normali
principi relativi alla tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche lese da atti della pubblica
amministrazione: potevano impugnare il provvedimento soltanto i soggetti aventi una
posizione qualificata, cioè quelli lì che venivano a subire dalla costruzione autorizzata a un
pregiudizio particolare. Con l'entrata in vigore della legge 765 del 1967 l'ambito della tutela si
è allargato: l'articolo 10 T.U. dispone infatti che chiunque può prendere visione presso gli
uffici comunali della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio
della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di legge o di regolamento e
con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione.
L'uso della locuzione “chiunque” portò, in un primo momento, una parte della dottrina della
giurisprudenza a ritenere che il legislatore avesse introdotto nella materia un'azione popolare
di tipo collettivo, legittimante tutti i cittadini a ricorrere in via giurisdizionale.
Successivamente però la giurisprudenza ha cambiato avviso, ritenendo che la norma non abbia
introdotto alcuna nuova ipotesi di azione popolare abbia soltanto ampliato la cerchia dei terzi
legittimati a ricorrere, nel senso di comprendervi oltre i soggetti direttamente interessati anche
coloro i quali si trovino stabilmente insediati nella zona in cui sorge la costruzione (criterio del
cd. insediamento abitativo). In tal modo il “chiunque” di riferito soltanto al diritto di prendere
visione della licenza, non anche al potere di proporre ricorso. Tra i soggetti legittimati a
ricorrere vanno annoverati anche i soggetti collettivi che possono vantare un interesse
qualificato;
 rimedi del richiedente contro il provvedimento di diniego al fine di ottenere il permesso e
l'eventuale risarcimento del danno: questi rimedi consistono innanzitutto nel impugnativa del
provvedimento lesivo dinanzi al giudice amministrativo per ottenere l'annullamento del
diniego e successivamente il rilascio del permesso. Oggetto di discussione è invece se, in sede
dì esecuzione del giudicato favorevole al ricorrente, si debba fare riferimento alla normativa
vigente al momento della domanda del permesso ovvero a quello della notifica della sentenza
di annullamento. La giurisprudenza sembra propensa per quest'ultima tesi. Un altro problema
posto negli ultimi anni è quello della risarcibilità dei danni subiti dall'interessato per effetto
dell'illegittimo diniego del permesso edilizio. Oggi il problema va risolto in senso positivo,
non vedendosi più ostacoli al risarcimento degli interessi legittimi.
Giurisdizione amministrativa sulle controversie urbanistico edilizie : la competenza esclusiva
del giudice amministrativo sulle controversie edilizie era stata introdotta per la prima volta dalla legge 10 del
1977. Essa era poi stata estesa alle controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti
delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia urbanistica ed edilizia. Inoltre
questa normativa precisava che ai fini della giurisdizione, la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti
dell'uso del territorio, compresi quelli relativi alla tutela del paesaggio, dell'ambiente, dei beni artistici e
storici.
La corte costituzionale ha però ridimensionato, con sentenza 204 del 2004, l'ambito di tale giurisdizione
dichiarando incostituzionale la normativa in discussione nella parte in cui attribuiva al giudice
amministrativo competenza in ordine ai comportamenti: ciò ha portato ad un restringimento della
giurisdizione amministrativa, soprattutto nelle controversie relative alla materia dell'espropriazione, dove i
casi di comportamenti non preceduti da provvedimenti trovano notevole riscontro.
Quanto all'ambito della giurisdizione esclusiva in tema di edilizia, esso riguarda essenzialmente i ricorsi
contro:
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- i provvedimenti di assenso di diniego dei permessi edilizi e contro le d.i.a.
- la determinazione e la liquidazione del cd. contributo concessorio (o di permesso edilizio)
- i provvedimenti sanzionatori: però l'articolo 22bis della legge 689 del 1981 assegna al giudice
ordinario la competenza a conoscere delle opposizioni contro l'ordinanza-ingiunzione, anche quando
si riferiscano alla materia urbanistica ed edilizia e alla tutela dell'ambiente dall'inquinamento, della
flora, della fauna e delle aree protette. L'ultimo comma dell'articolo precisa tuttavia che restano salve
le competenze stabilite da diverse disposizioni di legge.
Certificato di agibilità: gli edifici ultimati, per poter essere abitati o comunque utilizzati anche ad usi
diversi dall'abitazione, abbisognano di un’ulteriore autorizzazione. Tale autorizzazione dei è passato
denominata licenza di abitabilità per gli edifici di civile abitazione e licenza di agibilità per quelli destinati
ad altri usi. La materia trova oggi un'organica disciplina nel testo unico delle edilizia, il quale ingloba sotto
l'unica voce certificato di abitabilità le due precedenti denominazioni. Si tratta di un'autorizzazione diretta
originariamente alla tutela della salute, ma che tende oggi ad attestare la sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti installati, delle condizioni
qualitative degli edifici valutate secondo quanto disposto dalla normativa vigente. Quindi il certificato di
abitabilità, nato originariamente per attuare un controllo sanitario dell'immobile, ha assunto anche quello di
certificare la conformità della costruzione finita alle modalità costruttive prescritte nel permesso edilizio.
Inoltre l'articolo 25 del testo unico subordina il rilascio del abitabilità anche alla conformità dell'opera al
progetto approvato.
Il certificato di agibilità, un tempo rilasciato dal sindaco, è oggi rilasciato dal dirigente o responsabile del
competente ufficio comunale, con riferimento ai seguenti interventi: nuove costruzioni, ricostruzioni o
sopraelevazioni, interventi sugli edifici esistenti che possono influire sulle questioni di sicurezza.
Il procedimento si articola in questo modo: il direttore dei lavori o un tecnico incaricato dal proprietario,
entro 15 giorni dall'ultimazione dei lavori, deve presentare allo sportello unico la richiesta di rilascio del
certificato sottoscritta dal proprietario dell'ufficio e tutta la documentazione elencata. Entro 30 giorni dalla
ricezione di quest'ultima, il dirigente rilascia il certificato. Trascorso infruttuosamente tale termine si forma il
silenzio assenso.
Certificazione energetica degli edifici: nel quadro della politica di risparmio energetico, la legge 10
del 1991 detta una serie di disposizioni per il contenimento del consumo di energia negli edifici, prescrivendo
criteri per la progettazione, messa in opera ed esercizio di edifici e impianti. È prevista una normativa che
impone tra l'altro il deposito presso il comune del progetto e della relazione tecnica delle opere, il collaudo
delle medesime e la certificazione energetica degli edifici che devono essere portati a conoscenza, nel caso di
trasferimenti dell'immobile, dell'acquirente e del locatore. Sono anche previsti controlli, verifiche e sanzioni
pecuniarie a carico dei trasgressori.

B) REGIMI SPECIALI
La più recente dottrina definisce opera pubblica qualsiasi intervento dei pubblici poteri (costruzione,
ristrutturazione, demolizione, riqualificazione ambientale, attività di bonifica) finalizzato a modificare
durevolmente il mondo fisico in relazione a qualche interesse pubblico della collettività. Anche soggetti
privati possono eseguire opere di interesse pubblico per soddisfare un bisogno collettivo.
La legge urbanistica del 42 dispone che le opere necessarie per la collettività devono essere previste nei piani
territoriali di coordinamento, nei piani regolatori comunali e nei piani particolareggiati. Viene affermato
come principio generale che qualsiasi opera pubblica deve essere localizzata in conformità alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici. Il collegamento con la pianificazione urbanistica si estende anche alle
espropriazioni necessarie per realizzare le dette opere: tant'è vero che la legislazione urbanistica attribuisce,
come si è visto, valore di dichiarazione di pubblica utilità ai piani particolareggiati di esecuzione e agli altri
strumenti attuativi ad essi equiparati.
Ma i ritardi nella pianificazione urbanistica e soprattutto l'esigenza di non bloccare le opere pubbliche (quasi
sempre legate a finanziamenti da utilizzare in tempi brevi e a procedure speciali) hanno indotto la
giurisprudenza e il legislatore ad attenuare fortemente la portata degli anzidetti principi, fino a rendere
l'originario modello irriconoscibile. Così in passato la giurisprudenza ha ritenuto possibile la realizzazione di
singole opere pubbliche, non solo in carenza di piani attuativi, ma anche in comuni del tutto sprovvisti di

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strumento urbanistico generale, sganciando per di più le medesime dagli standard ope legis previsti in via
generale per l'attività edilizia negli anzidetti comuni.
In questi casi, in cui l'opera pubblica non trova una precisa collocazione nello strumento urbanistico, è da
ritenere che il provvedimento di assenso che precede la realizzazione dell'opera, si trasformi da mero
accertamento di conformità urbanistica, in una vera e propria valutazione di compatibilità dell'intervento
con l'assetto territoriale in atto e quello prevedibile.
Negli ultimi anni, il legislatore, per mantenere il principio della necessaria conformità dell'opera pubblica allo
strumento urbanistico, ha previsto numerosissimi casi di immissione automatica dell'opera pubblica nel
piano, usando l'espediente di attribuire al provvedimento di deliberazione dell'opera stessa valore di variante
di quest'ultimo.
Nella legislazione più recente il coordinamento tra opere pubbliche e piani urbanistici viene demandato agli
istituti della:
- accordo di programma: è un istituto per la realizzazione di opere, interventi o programmi di
intervento che richiedono per la loro completa realizzazione l'azione integrata e coordinata di comuni,
province, regioni, amministrazioni statali o di altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra i
soggetti predetti;
- conferenza dei servizi: è un istituto nato con l'intento di semplificare il procedimento amministrativo.
Con essa si realizza la composizione della pluralità di interessi pubblici solitamente coinvolti in
procedimenti di particolare complessità. Nella conferenza di servizi quindi il legislatore ha inteso
individuare: da un lato un rimedio di carattere generale alla complessità e alle complicazioni
procedimentali; dall'altro lo strumento essenziale nei procedimenti preordinati alla realizzazione di
opere pubbliche. Viene in particolare utilizzata come procedura per la localizzazione di opere
pubbliche, la cui rapida realizzazione costituisce interesse prioritario nelle previsioni legislative: ad
essa viene pertanto attribuito anche l'effetto di apportare varianti integrazioni agli strumenti di
pianificazione.
Dopo aver fatto queste considerazioni generali sulla disciplina relativa al rapporto pianificazione urbanistica-
opere pubbliche, si analizzeranno i principali regimi speciali delle opere pubbliche:
a) opere “statali” e di “interesse statale”:
- opere statali: sono le opere eseguite dalle amministrazioni dello Stato;
- opere pubbliche di interesse statale: sono quelle opere eseguite da enti pubblici non facenti parte
dell'organizzazione dello Stato e destinate ad un pubblico servizio che abbia rilevanza per le finalità
statali (ad esempio: costruzione di un elettrodotto da parte dell'Enel).
La legge del 42, all'articolo 29 prevede un regime speciale: non la licenza, ma un accertamento di conformità
da parte del ministero dei Lavori Pubblici attestante che le opere stesse non siano in contrasto con le
prescrizioni del piano regolatore e del regolamento edilizio vigenti nel territorio comunale in cui esse
ricadono.
Dopo un periodo di incertezze, caratterizzato dalle numerose varianti atipiche introdotte dalla legislazione
speciale, la materia aveva trovato un nuovo assetto nei decreti di trasferimento delle funzioni alle regioni.
La materia trova oggi una più razionale disciplina nell'articolo 7 T.U. ed. il quale parifica le opere pubbliche
da eseguirsi da amministrazioni statali, le opere pubbliche di interesse statale da realizzarsi dagli enti
istituzionalmente competenti e anche quelle dei concessionari di pubblici servizi. Tutti questi interventi sono
sottratti al regime del permesso edilizio e assoggettati invece al previo accertamento di conformità, così
come disciplinato dal d.p.r. 383 del 1994: quest'ultimo prevede un doppio regime a seconda che l'opera sia:
- conforme agli strumenti urbanistici: il procedimento è in questo caso più semplice, concludendosi con
un accertamento di conformità da emanarsi di intesa Stato-regioni;
- difforme dagli strumenti urbanistici: in questo caso bisognerà indire una conferenza di servizio per la
localizzazione dell'opera, le cui determinazioni hanno effetto di variante dello strumento urbanistico
Procedimenti speciali sono previsti per le infrastrutture autostradali e viarie e per le infrastrutture e
insediamenti produttivi strategici.
b) opere pubbliche dei comuni: la legge urbanistica non prevedeva uno specifico meccanismo
autorizzatorio per la realizzazione di queste ultime. Sicché fino a qualche tempo fa era controverso se il
comune dovessero meno rilasciare a se stesso la concessione edilizia prima di intraprendere la costruzione di
una certa opera: prevaleva la tesi positiva. La normativa oggi vigente prevede invece una particolare verifica
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di conformità: la validazione del progetto a cura del responsabile del procedimento in contraddittorio con i
progettisti.
c) opere e interventi che richiedono l'azione integrata di una pluralità di
amministrazioni pubbliche: il regime normale del permesso edilizio è sostituito dall’accordo delle
predette amministrazioni, con l’assenso del comune interessato.
d) insediamenti produttivi e sportello unico: un regime speciale è previsto dalla normativa
sullo sportello unico per le attività produttive. L'intento di semplificazione e accelerazione che sta alla base di
questa normativa si realizza attraverso la creazione di una nuova figura di autorizzazione: autorizzazioni
all'insediamento di attività produttive, la cui istruttoria, assicurata appunto dalla struttura dello sportello
unico responsabile dell'intero procedimento, ha per oggetto in particolare i profili urbanistici, sanitari, della
tutela dell'ambiente e della sicurezza. Spetterà pertanto allo sportello unico e non più al privato richiedente di
acquisire tutte le autorizzazioni e gli atti di assenso richiesti dalle diverse normative di settore per la
realizzazione dell'impianto.
L’autorizzazione all'insediamento unico si configura pertanto come l'atto che attesta l'avvenuto rilascio dei
diversi assensi da parte delle autorità che curano i molteplici frammenti di interesse pubblico in cui si articola
il nostro ordinamento. L'acquisizione di questi assensi avviene col metodo della conferenza di servizio. Può
accadere che il progetto da realizzare sia in contrasto con lo strumento urbanistico: la regola che si applica in
questi casi è quella generale del rigetto della domanda. Ma è prevista la possibilità di recuperare l'iniziativa: il
responsabile del procedimento ha facoltà di indire una conferenza di servizio dalla quale può scaturire una
proposta di variante dello strumento urbanistico sulla quale si pronuncia definitivamente entro 60 giorni il
consiglio comunale. Si tratta del cosiddetto procedimento semplificato che si conclude con un provvedimento
formale di rilascio o di diniego dell'autorizzazione.
Per gli impianti a struttura semplice è prevista poi la possibilità di ricorrere al procedimento mediante
autocertificazione per l'attestazione da parte dello stesso interessato, sotto la propria responsabilità, della
conformità del progetto alle singole prescrizioni delle norme vigenti. Rimangono però esclusi dal congegno
dell'autocertificazione la valutazione favorevole di impatto ambientale e la concessione edilizia. Si tratta
pertanto di una sorta di autorizzazione tacita.
e) centrali termoelettriche e termonucleari: un particolare regime è previsto per la
realizzazione degli impianti per la produzione di energia elettrica e delle centrali elettronucleari, mantenendo
ferme le disposizioni contenute nella legge 880 del 1973 e nella legge 393 del 1975. I procedimenti previsti
da queste leggi tentano faticosamente di conciliare le esigenze della politica energetica affidata alla
responsabilità dello Stato, con quelle della tutela del territorio affidata alle regioni e ai comuni.
f) impianti di telefonia mobile: notevole importanza ha assunto in questi anni la localizzazione e
l'attivazione degli impianti di telefonia mobile. La materia ha subito negli anni diverse modifiche per i
connessi problemi urbanistici, ambientali e sanitari. L'articolo 87 del “codice delle comunicazioni” prevede
una autorizzazione unica rilasciata dall'ente locale previo accertamento dell’ARPA della compatibilità del
progetto con gli standard tecnici previsti. Il responsabile del procedimento indice una conferenza di servizio
per acquisire gli assensi delle amministrazioni interessate.

CAPITOLO III
Gli abusi edilizi
Negli ultimi anni la materia, a seguito del dilagare dell'abusivismo edilizio, è stata oggetto di numerosi
interventi legislativi che hanno portato ad una maggiore articolazione del sistema repressivo:
 la legge del 42 aveva due sole sanzioni per i casi di costruzione senza licenza o in difformità
alla medesima: demolizione e rimessa in pristino;
 la successiva legge 765 del 1967 ha arricchito il sistema con l'introduzione, in alternativa alla
demolizione, di una sanzione pecuniaria pari al valore delle opere abusive;
 più tardi, la legge 10 del 1977 ha introdotto la confisca per le ipotesi di inottemperanza
all'ordine di demolizione.
Il sistema repressivo contro gli abusi edilizi e urbanistici oggi sistemazione nel Titolo IV t.u., prevedendo
quattro tipi di sanzioni:
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a) sanzioni amministrative: dirette a garantire l'osservanza dei doveri imposti dall'ordinamento e
a rimuovere repressivamente gli effetti conseguenti all'offesa arrecata all'interesse pubblico dalla condotta
dell’amministrato. Il legislatore, nel disegnare il regime delle sanzioni amministrative in campo edilizio,
sembra aver tenuto conto di due criteri fondamentali: quello della maggiore o minore gravità dell'infrazione
formale perpetrata (opere assolutamente prive di titolo o difformi dal permesso edilizio); quello dell'intensità
del danno urbanistico sostanziale arrecato. Occorre distinguere le diverse ipotesi contemplate:
 opere eseguite in assenza di permesso di costruire: le conseguenze giuridiche derivanti dall'inizio o
dalla realizzazione di un'opera in assenza di permesso edilizio possono variare in relazione all'entità
del danno urbanistico arrecato, nonchè in riferimento al tipo di opera realizzata. Si può tuttavia
affermare che le due sanzioni-base sono quelle della demolizione e della confisca: una volta accertato
il carattere abusivo di un'opera, il dirigente ingiunge la demolizione. Se il responsabile dell'abuso non
provvede alla medesima e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 90 giorni dall'ingiunzione,
il bene è acquisito gratuitamente al patrimonio del comune. Avvenuta l'acquisizione possono
verificarsi due evenienze: la demolizione d’ufficio dell'opera a cura del comune, ma a spese del
contravventore; ovvero il mantenimento della medesima. Questo sistema, che costituisce quello base,
può subire alcune varianti in relazione al tipo di opera realizzata, alla maggiore o minore gravità del
danno urbanistico, nonché alla pluralità di interessi pubblici lesi. Occorre descrivere le sub-fattispecie
previste dal legislatore:
- opere eseguite senza permesso edilizio ma conformi agli strumenti urbanistici: in questo caso è
previsto che, fino alla scadenza del termine di 90 giorni dall'ingiunzione a demolire, il
contravventore possa presentare una richiesta di permesso in sanatoria, pagando a titolo di
oblazione il contributo edilizio in misura doppia da quello normalmente richiesto. La sanatoria
viene a bloccare il procedimento sanzionatorio. Nessuna sanzione pecuniaria è invece prevista
per le varianti in corso d'opera conformi alla normativa urbanistica che non comportino
modifiche della sagoma, delle superfici utili e delle destinazioni d'uso, purché non si tratti di
interventi di restauro conservativo o di lavori su immobili di interesse storico-artistico o
paesaggistico. L'approvazione della variante deve comunque essere richiesta prima della
dichiarazione di ultimazione dei lavori;
- opere eseguite su aree assoggettate da norme di piano regolatore o da norme di legge al
vincolo di inedificabilità o destinati ad opere o spazi pubblici: il procedimento sanzionatorio
segue in questo caso il suo corso più tipico: ingiunzione alla demolizione; eventuale acquisizione
gratuita nel caso di inottemperanza da parte del privato ad effettuare l'effettiva demolizione;
demolizione d'ufficio da parte del comune. È stata dettata una minuziosa normativa che consente
l'utilizzazione delle strutture tecnico-operative del Ministero della Difesa, date le note difficoltà
pratiche dei comuni nel porre in atto le demolizioni. Il procedimento subisce alcune varianti
quando le aree su cui l'opera insiste siano assoggettate a vincoli diversi da quelli urbanistici
(archeologici, monumentali, …): in questi casi l'acquisizione gratuita si verifica di diritto a
favore delle amministrazioni cui compete la vigilanza sull'osservanza del vincolo, le quali
provvedono alla demolizione delle opere abusive e al ripristino dello stato dei luoghi a spese dei
responsabili dell'abuso;
- opere di ristrutturazione edilizia: le opere di ristrutturazione edilizia più impegnative e eseguite
in assenza di permesso edilizio sono demolite o rimosse in modo da rendere gli edifici conformi
alle prescrizioni degli strumenti urbanistici. La procedura è la seguente: il dirigente, con propria
ordinanza, intima la demolizione delle opere assegnando al trasgressore un termine per
provvedere; trascorso infruttuosamente l'ordinanza è eseguita dal comune a spese del
responsabile dell'abuso. In alternativa alla demolizione il dirigente irroga una sanzione
pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile. Se le opere sono state eseguite su
immobili compresi nei centri storici, i due anzidetti provvedimenti sanzionatori devono essere
assunti dietro parere vincolante dell'amministratore preposto alla tutela dei beni culturali e
ambientali; mentre se le opere riguardano immobili vincolati ai sensi della legge sulle cose d'arte
o sulle bellezze naturali, la restituzione in pristino viene ordinata ed eventualmente curata
direttamente dall'amministrazione competente all'osservanza degli anzidetti vincoli.

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 opere eseguite in totale difformità dal permesso edilizio o con variazioni essenziali: il regime è quasi
del tutto equiparato a quello delle opere totalmente abusive. L'articolo 32 t.u. include tra le variazioni
essenziali i mutamenti di destinazione d'uso che implichino una variazione degli standard;
 opere eseguite in parziale difformità dal permesso di costruire: per questa fattispecie è prevista la
demolizione o in alternativa la sanzione pecuniaria. Più particolare, il dirigente ordina la demolizione
assegnando ai trasgressori un congruo termine, scaduto il quale le opere sono demolite a cura e spese
del comune. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte conforme si
applica una sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione della parte dell'opera realizzata
in difformità se l'ufficio è ad uso residenziale e pari al doppio del valore venale per le opere adibiti ad
uso diverso da quello residenziale;
 opere eseguite in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività: il sistema sanzionatorio
per i casi di violazione della normativa sulla d.i.a. è molto articolato in conseguenza delle ipotesi
altrettanto differenziato in cui è possibile utilizzare questo istituto. L'articolo 37 t.u. segue il seguente
schema: stabilisce innanzitutto alla regola generale secondo cui gli interventi riservati alla d.i.a. sono
suscettibili di una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore venale dell'immobile. Si
sofferma poi su una casistica più minuta: opere di restauro e risanamento conservativo insistenti nel
centro storico; opere su beni vincolati. Sono previste sanzioni pecuniarie di diversa natura
accompagnate talvolta da provvedimenti sanzionatori di demolizione o rimessa in pristino;
 opere eseguite in base a permesso di costruire annullato: le fattispecie contemplate nell'articolo 38
sono due:
- annullamento da vizio procedimentale: la legge fa obbligo all'amministrazione di valutare la
possibilità di concedere una sorta di sanatoria da attuare attraverso la rimozione dei vizi delle
procedure amministrative;
- annullamento da vizio sostanziale: l'amministrazione dovrà tentare la strada della restituzioni in
pristino. Ma qualora neppure questa sia praticabile dovrà applicarsi una sanzione pecuniaria pari
al valore venale delle opere eseguite;
 opere eseguite da soggetti privati o pubblici purché diversi dalle amministrazioni statali su suoli di
proprietà dello Stato o di enti pubblici: nei casi di opere eseguite da parte di soggetti diversi dalle
amministrazioni statali su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, in assenza
di permesso di costruire o anche in totale o parziale difformità dal medesimo, vale il seguente regime:
il dirigente previa diffida al responsabile dell'abuso ordina la demolizione e il ripristino dello stato dei
luoghi. Una volta constatata l'inosservanza della diffida, la demolizione è eseguita direttamente dal
comune a spese dei responsabili dell'abuso. In questo caso non è contemplata l'acquisizione gratuita al
patrimonio del comune, trattandosi di aree di proprietà dello Stato o di altri enti pubblici. Questo
sistema sanzionatorio speciale si spiega col fatto che anche le opere eseguite dai privati su beni
demaniali sono soggette a permesso edilizio;
 opere eseguite abusivamente da parte di amministrazioni statali: diversa si presenta la vicenda per le
opere abusive eseguite da parte delle amministrazioni statali su area demaniale, patrimoniale
disponibile, indisponibile, .. in contrasto con norme e prescrizioni urbanistiche. Non essendo queste
opere soggette a permesso di costruire ma ad accertamento di conformità, la legge sottrae all'autorità
comunale il potere repressivo. Quest'ultima, venuta a conoscenza delle infrazioni, deve limitarsi ad
informare immediatamente di ciò il presidente della giunta regionale e il ministro delle infrastrutture e
dei trasporti al quale compete, d'intesa con il presidente della giunta regionale, l'adozione dei
provvedimenti necessari.

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Soggetti responsabili: conformità delle opere alla normativa urbanistica sono il titolare del permesso di
costruire, il committente e il costruttore. È da ritenere, a norma dell'articolo 29 t.u. che tali soggetti
siano innanzitutto passibili delle sanzioni penali. Inoltre gli stessi sono tenuti al pagamento delle
sanzioni pecuniarie nonché delle spese necessarie per l'esecuzione in danno, salvo che dimostrino di
non essere responsabili dell'abuso. La responsabilità del direttore dei lavori è invece limitata alla
conformità delle opere al permesso edilizio. E da tale responsabilità è esentato qualora abbia contestato
agli altri soggetti la violazione delle prescrizioni del permesso di costruire, fornendo al dirigente
contemporaneo e motivata comunicazione della violazione. Nei casi di totale difformità o di variazione
essenziale rispetto al permesso edilizio, il direttore dei lavori è tenuto a rinunziare all'incarico, essendo
altrimenti passibile della sospensione dall'albo professionale da tre mesi a due anni.
Poteri della regione: in tutti i casi di abusi edilizi predetti, qualora il comune non abbia provveduto entro
i termini stabiliti, può scattare l'intervento sostitutivo della regione. La regione infatti, in base all'articolo 40
t.u. è legittimata a disporre la sospensione o la demolizione delle opere eseguite e l'eventuale esecuzione in
danno. La tendenza della legislazione regionale è quella di delegare le funzioni di controllo alle province.
b) sanzioni penali: con le quali si puniscono quali reati le inosservanze delle norme urbanistico-
edilizie, al fine di rendere i consociati più inclini alla loro osservanza. Nei confronti dei trasgressori delle
disposizioni urbanistico-edilizie la legge appresta, in aggiunta alle sanzioni amministrative finora
considerate, delle sanzioni penali graduate secondo la gravità dell'illecito. Queste misure, già contemplate
dalla legge del 42 sono state progressivamente inasprite. L'articolo 44 t.u. prevede:
 ammenda sino a € 20.000 per l'inosservanza delle norme di legge, di regolamento edilizio, delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici e delle modalità esecutive del permesso edilizio;
 arresto fino a due anni e ammenda da 10.000 a 103.000 € nei casi di esecuzione dei lavori in totale
difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l'ordine di sospensione. I
giudici di merito hanno talvolta equiparato alla fattispecie della costruzione in assenza di permesso
quella di costruzione effettuata con permesso illegittimo, argomentando che l'autorità giudiziaria ha
per legge il potere di disapplicare i provvedimenti illegittimi;
 arresto fino a due anni e ammenda da 30.000 a 103.000 € nel caso di interventi edilizi nelle zone
sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale in variazione essenziale, in
totale difformità o in assenza del permesso edilizio. L'azione penale relativa alle violazioni edilizie
rimane però sospesa finché non siano esauriti gli eventuali procedimenti amministrativi di sanatoria,
previsti come si è visto per il caso di opere abusive conformi alla normativa urbanistica; il rilascio
della sanatoria estingue il reato di cui sopra.
Si ritiene infine che, in aggiunta alle sanzioni penali espressamente previste dalla legge urbanistica, il giudice
possa anche applicare la sanzione del sequestro penale dell'immobile abusivamente costruito e del relativo
cantiere di costruzione, sia per esigenze probatorie sia per impedire che il reato venga portato ad ulteriori
conseguenze.
c) sanzioni civili: incidenti sugli atti conclusi da privati e finalizzate, mediante la previsione di nullità,
vincoli di circolazione e responsabilità personali, a limitare la circolazione di edifici e parti di essi
illegittimamente costruiti, ovvero di terreni abusivamente frazionati. L'articolo 46 t.u. sancisce la regola della
nullità degli atti tra vivi aventi per oggetto trasferimento, costituzione, scioglimento della comunione di diritti
reali relativi ad edifici privi di permesso edilizio o in contrasto con esso, la cui costruzione abbia avuto inizio
dopo il 17 marzo 1985 (data di entrata in vigore della legge 47 del 1985). Per rafforzare tale principio la
norma prevede che per la stipula degli atti è necessaria, pena la nullità dell'atto stesso,1 dichiarazione
dell'alienante attestante gli estremi del permesso di edificare o di quello in sanatoria. Questa dichiarazione
dovrà risultare dall'atto o anche da una dichiarazione unilaterale successiva che serve a confermare l'atto
medesimo impedendone la dichiarazione di nullità.
d) sanzioni accessorie: si aggiungono a quelle penali, civili e amministrative per scoraggiare
ulteriormente l'abusivismo:
a) divieto di erogazione di servizi pubblici: sulle aziende erogatrici di servizi pubblici
incombe un duplice divieto: quello di somministrare le loro forniture per l'esecuzione
di opere prive di permesso; quello di somministrare le loro forniture ad opere già
realizzate prive di permesso. Il secondo di questi divieti subisce però, a differenza del
primo, delle deroghe: innanzitutto riguarda gli edifici iniziati dopo il 30 gennaio 1977
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e per i quali non siano stati stipulati contratti di somministrazione anteriormente
all'entrata in vigore della legge 47 del 1985. Inoltre tale divieto non opera per le
costruzioni abusive per le quali è in corso il procedimento di sanatoria o che abbia già
ottenuto il permesso in sanatoria;
b) perdita dei benefici fiscali e di altre agevolazioni: per le opere contra ius è prevista
inoltre la perdita delle agevolazioni fiscali, dei contributi e in genere di altre
provvidenze statali o di enti pubblici. La decadenza di tali benefici si applica tuttavia
solo nel caso in cui l'infrazione sia di una certa entità, ovvero nel caso di mancato
rispetto delle destinazioni e degli allineamenti indicati nel programma di
fabbricazione, nel piano regolatore generale e nei piani particolareggiati di esecuzione.
È fatto obbligo al comune di segnalare all'intendenza di finanza, entro due mesi
dall'ultimazione dei lavori o dalla richiesta della licenza di abitabilità o di agibilità,
ovvero dall'annullamento della licenza stessa, le infrazioni perpetrate.

Provvedimento cautelare di sospensione dei lavori: costituisce la prima forma di intervento che
l'autorità comunale può esercitare per la repressione degli abusi edilizi. È un provvedimento cautelare
rivolto ad impedire che dalla prosecuzione dei lavori abusivi derivi un danno di maggiori dimensioni.
L'articolo 27 t.u. attribuisce al dirigente o a responsabile del competente ufficio comunale il compito di
esercitare la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurare la rispondenza
delle costruzioni alle prescrizioni urbanistiche vigenti e alle modalità esecutive fissate nel titolo abilitativo.
Per tale scopo egli potrà avvalersi di funzionari e agenti comunali e di ogni altro mezzo di controllo che
ritengo opportuno. Tale normativa ha tentato di puntualizzare i doveri dei diversi soggetti coinvolti in tale
attività:
- obbligo per gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria di dare immediata comunicazione all'autorità
giudiziaria, al presidente della giunta regionale e al dirigente del competente ufficio comunale di tutti
i casi di presunta violazione edilizia, imponendo quest'ultimo di verificare entro 30 giorni la regolarità
delle opere e di disporre gli atti conseguenti;
- obbligo per il direttore dei lavori di dare al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale
motivata comunicazione della violazione stessa;
- obbligo per il segretario comunale di redigere e pubblicare mensilmente l'elenco dei rapporti
comunicati dagli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria riguardanti opere o lottizzazioni realizzate
abusivamente e delle relative ordinanze di sospensione, da trasmettere all'autorità giudiziaria
competente, al presidente della giunta regionale e, tramite la competente prefettura, al ministero dei
Lavori Pubblici;
- obblighi ai notai per impedire sul nascere fenomeni di lottizzazione abusiva.
Quindi, a corollario di tutto ciò e per rendere ancora più incisiva l'azione repressiva, è prevista la misura della
sospensione dei lavori: provvedimento che precede normalmente i provvedimenti definitivi (demolizione,
rimessa in pristino, …).

CAPITOLO IV
I condoni edilizi
Nell’arco di poco più di 25 anni sono stati varati ben tre condoni edilizi:
- il primo nel 1985: è stato disposto dalla legge 47/1985. Questa legge distingue l'abusivismo sparso da
quello diffuso, per il quale erano previsti complessi procedimenti di recupero urbanistico-ambientale
che manifestarono numerosi limiti. Questo primo condono si riferisce agli abusi edilizi perpetrati
entro il 10 ottobre 1983 e è subordinato: alla richiesta degli interessati, al pagamento dell'oblazione,
alla corresponsione del contributo concessorio;
- il secondo nel 1994: è stato disposto dalla legge 724/1994: ha prorogato i termini del primo condono
dall'ottobre del 1983 al 31 dicembre 1993, novellando in più punti la normativa originaria. È stata di
fatto abolita o attenuata la distinzione tra abusivismo sparso e abusivismo diffuso, ma è stata
soprattutto accentuata la finalità di reperimento di risorse all'erario. È stato inoltre semplificato il
procedimento per l'ottenimento del condono;

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- il terzo nel 2003: è stato disposto dalla legge 326/2003: ha prorogato ancora una volta il termine utile
per beneficiare del condono alle opere ultimate al 31 marzo 2003 e quello per la presentazione della
domanda al 31 marzo 2004. Ha ulteriormente allentato le ipotesi di non condonabilità.
L’intento dichiarato è quello di porre fine al fenomeno dell'abusivismo edilizio, di recuperare un tessuto
urbanistico caratterizzato da un forte degrado, di bonificare il territorio: intento puntualmente ripetuto nelle
successive leggi di condono. Il condono ha la funzione di far rientrare nella legalità ciò che all'inizio era un
abuso.
Ambito del condono: possono ottenere la sanatoria le costruzioni e le altre opere abusive ultimate entro il
31 marzo 2004 che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria
della costruzione originaria ovvero un ampliamento superiore a 750 m³. Non tutte le opere sono suscettibili di
sanatoria: non lo sono quelle in contrasto con vincoli di inedificabilità imposti precedentemente
all'esecuzione delle opere stesse, nonché quelle realizzate in terreni boschivi distrutti o danneggiati per cause
naturali o atti volontari. Sono infine sanabili solo a certe condizioni le opere realizzate su aree soggette a
vincoli, ma non di inedificabilità assoluta (in questi casi il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria è
subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso). Esistono poi
delle ipotesi di insanabilità soggettiva, conseguente alla commissione di reati di particolare gravità come
quelli di associazione mafiosa e di riciclaggio.
Procedimento: legittimati a chiedere la sanatoria sono oltre al proprietario dell'immobile, i soggetti aventi
titolo a richiedere il permesso edilizio e ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria salvo
rivalsa nei confronti del proprietario. Il procedimento è ad istanza di parte. La relativa domanda va presentata
al comune entro il 31 marzo 2004; alla stessa deve essere allegata apposita dichiarazione per la descrizione
delle caratteristiche delle opere effettuate, documentazione fotografica e prova dell'avvenuto pagamento
dell'oblazione.
Condizione necessaria per il rilascio del permesso edilizio in sanatoria e per il condono è l’integrale
versamento dell'oblazione: quest'ultima consiste in una somma di denaro determinata con riferimento
all'opera abusiva, in relazione alla tipologia dell'abuso, al periodo in cui è stato commesso, al comune in cui è
stato perpetrato.
Sono poi previste ipotesi di riduzione in relazione: al disagio abitativo, alla situazione soggettiva del
richiedente, alle fasce di reddito.
E’ poi prevista una determinazione forfetaria per i piccoli abusi, mentre per i grandi abusi è ammessa solo la
possibilità di una corresponsione a scaglioni.
Beneficiario dell'oblazione è lo Stato.
L’altra condizione necessaria per l'accoglimento della domanda è la corresponsione al comune del
contributo per il permesso edilizio (cd. contributo concessorio).
Il rilascio del permesso in sanatoria produce l'inapplicabilità delle sanzioni amministrative e fa venir meno
anche la incommerciabilità del bene.
Contenzioso di costituzionalità con le regioni : la vicenda dei condoni ha suscitato nel tempo un
contenzioso di costituzionalità molto complesso tra lo Stato e le regioni. In anni passati la regione Sicilia, in
nome della specialità del suo statuto e dell'esclusività della sua potestà legislative in materia urbanistica, tentò
di disporre una sanatoria a sua misura: la corte costituzionale ha giustamente bloccato questo tentativo,
facendo leva sull'assenza da parte della regione di una potestà legislative in materia penale. Riconoscere alle
regioni la possibilità di sanare degli illeciti urbanistici equivale a disapplicare la normativa dello Stato che
sanziona penalmente l'attività edilizia non assistita da un valido titolo di legittimazione.
Dopo l'ultimo condono del 2003 si è sviluppato un altro genere di contenzioso che vede come protagoniste
soprattutto le ragioni ordinarie: questa volta le regioni non pretendono di dettare norme di sanatoria edilizia,
ma di escludere nel proprio territorio l'applicazione del condono disposto dalla legge dello Stato. Anche in
questa occasione la corte costituzionale ha bloccato l'iniziativa regionale facendo appello a due argomenti: il
carattere di legge-cornice della legge di condono e la sua impronta finanziaria.

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PARTE QUINTA

Urbanistica e interessi
differenziati
Tentativi di reductio ad unum

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CAPITOLO I
Il sistema multiplo di controllo delle trasformazioni territoriali
La vigente legislazione attribuisce alle autorità ha dette all'urbanistica ha poteri di regolazione e di controllo
assai incisivi sulla gran parte delle attività di trasformazione del territorio. I piani urbanistici infatti stabilendo
gli usi e le modalità di utilizzazione delle aree, specificando il dove e il quando realizzare gli impianti
collettivi, descrivendo vincoli per la tutela dei beni culturali e ambientali, indicando gli usi degli immobili,
coprono praticamente l'intera gamma delle attività che si svolgono e si localizzano nello spazio. Inoltre sono
previsti meccanismi di controllo che consentono all'autorità pubblica di valutare la conformità delle singole
opere agli strumenti urbanistici vigenti. L'ampiezza di questi poteri e si spiega con il fatto che il compito
precipuo dell'urbanistica consiste proprio nel rendere compatibili tra loro i vari usi del territorio. Queste
considerazioni potrebbero indurre a pensare che i soggetti gestori dell'urbanistica siano le sole autorità
pubbliche abilitate a pianificare e controllare le trasformazioni del territorio: non è così. Acanto alla
legislazione urbanistica esistono infatti altre discipline con incidenza territoriale: si tratta di normative a:
- finalità prevalentemente economiche: prevedono quasi sempre delle deroghe al normale regime
urbanistico
- finalità protettive: mirando alla salvaguardia di territori più o meno estesi, tendono a dar luogo a
sistemi multipli di controllo delle trasformazioni, che consentono ad ogni potere pubblico interessato
di provvedere in via relativamente autonoma alla cura di quello specifico interesse cui è addetto (ad
esempio: se Tizio intende costruire in una località di interesse paesaggistico dovrà richiedere non solo
il permesso di costruire, ma anche il nulla osta della soprintendenza ai beni architettonici e
ambientali. Se poi la località rientra tra le zone classificate come sismiche, occorrerà richiedere anche
l'autorizzazione all'ufficio tecnico regionale e, se esiste un vincolo idrogeologico, sarà necessaria
inoltre l'autorizzazione dell'autorità forestale e così via).
Per comprendere ciò bisogna innanzitutto tenere presente un dato storico e cioè che molte delle tutte le
settoriali oggi esistenti hanno un'origine anteriore alla normativa urbanistica; in secondo luogo anche la
gestione di certi interessi richiede molte volte un alto grado di specializzazione che non è dato riscontrare
negli apparati organizzativi dei comuni: tutto ciò ha contribuito a far coesistere la tutela urbanistica con altre
forme più specifiche di tutela e che da normative di settore e attuate da apparati amministrativi diversi da
quelli dell'urbanistica.
Oggi è fortemente avvertita l'esigenza di una reductio ad unum attraverso la concentrazione dei diversi
meccanismi di pianificazione e di controllo.
 Funzioni di tutela: tutele concorrenti e parallele : il sistema delle tutele concorrenti crea seri
problemi per il cittadino e non poche incertezze per l'interprete: specie quando si tratta di stabilire l'incidenza
delle normative speciali su quella urbanistica. Problemi possono sorgere nei momenti di:
- formazione del piano: un principio base è quello secondo cui l'autorità urbanistica nel momento della
redazione del piano deve tener conto di tutti quegli eventuali vincoli preesistenti posti in essere da
altre amministrazioni a difesa di interessi settoriali;
- operatività del piano: si verificano problemi soprattutto quando il legislatore non discipline raccordo
tra i diversi provvedimenti.
Talvolta il legislatore si preoccupa, allo scopo di rendere più efficiente il coordinamento dei diversi interessi,
di assicurare la partecipazione delle amministrazioni al procedimento urbanistico. Altre volte sono previste
forme di concerto. In molti casi invece nessun meccanismo di raccordo è esplicitamente previsto: ma anche
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in tali ipotesi è da ritenere necessario un accordo mediante intesa tutte le volte in cui le previsioni di piano
abbiano una qualche incidenza sul vincolo preesistente.
 Tendenza alla semplificazione e alla reductio ad unum attraverso le conferenze di
servizio: la legge sul procedimento amministrativo (241 del 1990), nell'intento di semplificare l'azione
amministrativa e incentivare il confronto diretto di diversi centri di potere pubblico, ha previsto la possibilità
di promuovere apposite conferenze di servizi per superare momenti della segmentazione procedimentale. Le
determinazioni concordate in queste ultime tengono luogo degli atti del procedimento (intese, concert, nulla-
osta, assensi). La legge prevede anche un meccanismo di assenso tacito nel caso di amministrazioni che, pur
regolarmente convocate a partecipare alla conferenza non vi abbiano partecipato o non siano intervenute
tramite rappresentanti privi della competenza ad esprimere definitivamente la volontà.

CAPITOLO II
Il patrimonio culturale: beni culturali e paesaggistici
L’art. 9 Cost. dispone che la Repubblica tutela “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della
Nazione”.Il riferimento a due tipi di beni (paesaggio e patrimonio storico e artistico della Nazione) deriva
dalla tradizionale impostazione della materia, basata su due distinte normative:
- legge 1497/1939 relativa alle “bellezze naturali” (ossia al paesaggio o ai beni ambientali)
- legge 1089/1939 relativa alle “cose di interesse storico-artistico (ossia ai beni culturali).
In entrambi i casi ci si trova di fronte a beni che esigono regimi conservativi rigorosi, in quanto aventi valore
essenziale per il gruppo.
Nell’ultimo trentennio l’impostazione che stava alla base delle due normative è stata oggetto di numerose
critiche: la critica più importante riguarda la visione estetizzante del bene culturale e del paesaggio, in nome
di una più moderna concezione che dovrebbe invece privilegiare il valore di memoria, di testimonianza di
civiltà insita in tali beni e giustificarne la conservazione come mezzo per assicurare la continuità tra presente
e passato. La più moderna concezione del bene culturale lo definisce appunto “bene costituente testimonianza
materiale avente valore di civiltà”.
Per quanto riguarda il “paesaggio”, la relativa tutela si è andata via via arricchendo negli anni, con i temi
dell’equilibrio ecologico e della conservazione della natura indipendentemente dal valore estetico-culturale
del medesimo. Questa nuova visione della tutela paesaggistica ha trovato riconoscimento legislativo nella
legge Galasso che ha sottoposto alla tutela paesistica-ambientale intere categorie di beni (fiumi, laghi,
vulcani, ..) indipendentemente dalla loro bellezza.
Recentemente la normativa sui beni culturali e ambientali è stata opportunamente concentrata: dapprima nel
testo Unico sui beni culturali e ambientali, successivamente nel Codice dei beni culturali e del paesaggio
(d.lgs. 42/2004). Il codice, pur con una diversa nomenclatura, mantiene la tradizionale diversità delle due
discipline: dopo aver introdotto la nuova omnicomprensiva espressione “patrimonio culturale”, precisa poi
che detto patrimonio è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici.
 Conformazione del patrimonio culturale: il regime giuridico dei beni costituenti il patrimonio
culturale (paesaggio e beni culturali) è caratterizzato da un tipo di conformazione che tende a privilegiare la
conservazione e la fruizione universale degli anzidetti beni. Si ricordi il Giannini che, partendo dalla
distinzione tra cosa e bene, ritiene che sui beni in esame coesistano due diritti: un diritto della collettività a
fruire del bene (fruizione universale), un diritto del proprietario (ente pubblico, soggetto privato) a goderlo
nei limiti in cui il primo lo consente. Altra parte della dottrina, seguita dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale, ricorre invece alla categoria dei beni di interesse pubblico considerati come una sorta di
tertium genus tra i beni pubblici e quelli privati, in quanto finalizzati direttamente al perseguimento in un
interesse pubblico. Ciò che si ricava da entrambe le interpretazioni è che i poteri del proprietario, per effetto
della presenza di un interesse pubblico coessenziale al bene stesso, si presentano estremamente limitati.
La Corte costituzionale ha tratto interessanti corollari pratici dalla configurazione dei beni paesaggistici come
beni di interesse pubblico, precisando che i vincoli paesaggistici di in edificabilità assoluta, a differenza di
quelli urbanistici, non sono soggetti all’obbligo di indennizzo. Lo stesso ragionamento è seguito anche per i
vincoli archeologici e storico-artistici.
 Profili organizzativi: per quanto riguarda le funzioni amministrative attinenti alla tutela dei beni
culturali, esse spettano al Ministero per i beni e le attività culturali e alla relativa organizzazione periferica.

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Quest’ultima è costituita essenzialmente dalle sopraintendenze regionali archeologiche, per i beni artistici e
storici, per i beni ambientali e architettonici, nonché dagli archivi dello Stato e dalle biblioteche pubbliche
statali. L’art. 118 c. 3 Cost. però prescrive che la legge statale disciplina “forme di intesa e di coordinamento
nella materia della tutela dei beni culturali”.
Le funzioni di tutela in tema di paesaggio competono invece in gran parte alle Regioni e agli enti locali
minori, salve alcune residue funzioni statali.

Occorre ora esaminare gli strumenti di tutela delle due categorie di beni:
a) BENI CULTURALI: il codice definisce “beni culturali” le cose mobili e immobili che ai sensi degli
artt. 10 e 11 presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e
bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di
civiltà. Questa definizione in realtà non è esaustiva. Per stabilire infatti se un dato bene sia assoggettato o
meno al regime giuridico in discussione, bisogna fare riferimento ai più dettagliati elenchi di cui agli artt. 10
e 11 dello stesso Codice e a tutti quegli altri beni che siano individuati da altre leggi come “beni culturali in
quanto testimonianza avente valore di civiltà”.
Quanto alla tutela, la legge prevede:
- un procedimento di dichiarazione di interesse pubblico: questo procedimento interessa solo i beni
culturali appartenenti ai privati. Quando il bene appartiene ad un ente pubblico, è soggetto a vincolo
indipendentemente dall’inclusione negli elenchi;
- la statuizione dell’obbligo della conservazione del bene da parte del proprietario: se il proprietario
lascia perire il bene, il pubblico potere potrà intervenire in via sostitutiva ponendo le spese a carico
del proprietario e può anche espropriare il bene;
- il conferimento di una serie di poteri alla p.a. per il controllo dell’uso del bene
b) BENI PAESAGGISTICI: l’art. 131 Cod. definisce il paesaggio come parte omogenea di territorio
i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni.
I meccanismi di tutela rispecchiano lo sviluppo storico della disciplina, avvenuto sulla base di due leggi
fondamentali recepite nel Codice:
- legge sulle bellezze naturali: prevede l’accertamento del “valore paesistico” e il conseguente vincolo
mediante atto amministrativo;
- legge Galasso: prevede una tutela paesistica per beni di notevole estensione con lo novità di far discendere
il vincolo direttamente dalla legge. L’altra importante novità è quella di aver reso obbligatorio il piano
paesaggistico, considerato invece facoltativo dalla legge precedente con riferimento alle sole bellezze
d’insieme.
Sulla scia di ciò, il Codice disciplina gli strumenti di tutela in questo modo:
 immobili e aree di notevole interesse pubblico da vincolare mediante procedimento amministrativo:
coincidono con le “bellezze individue” (cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza
naturale o di singolarità geologica; le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la
tutela delle cose di interesso artistico e storico, si distinguono per la loro non comune bellezza) e le
“bellezze d’insieme” (complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente
valore estetico e tradizionale; le bellezze panoramiche considerate come quadri e quei punti di vista o
di bel vedere accessibili al pubblico dai quali si gode lo spettacolo di quelle bellezze). Di questi beni
le regioni compilano due distinti elenchi ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico.
L’approvazione degli elenchi è riservata alla Regione, ma il Ministero ha facoltà di integrare gli
elenchi su proposta della sopraintendenza competente. E’ prevista la pubblicazione degli elenchi sia
nella GURI che nel Bollettino ufficiale della Regione. Ma, mentre per i beni del primo elenco è
prevista la notifica individuale e la trascrizione del provvedimento di dichiarazione di notevole
interesse pubblico, per i beni del secondo elenco è prevista una pianificazione da realizzare attraverso
il piano territoriale paesistico. Va precisato che l’imposizione del vincolo paesistico non si traduce
necessariamente in un divieto assoluto di edificare, comportando soltanto l’obbligo per i proprietari,
possessori, detentori degli immobili di non distruggerli né introdurvi modificazioni che rechino
pregiudizio al loro aspetto esteriore che è oggetto di protezione. Spetterà alla regione valutare,
attraverso il suo potere autorizzatorio, se i lavori che si intendono effettuare siano o meno compatibili
con le esigenze di tutela paesaggistica evidenziate.

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 Beni vincolati ex lege: sono i territori costieri inclusi in una certa fascia, quelli contermini ai laghi,
fiumi, torrenti, corsi d’acqua iscritti in appositi elenchi, le montagne, i ghiacciai, zone umide, vulcani,
zone d’interesse archeologico, parchi, riserve nazionali e regionali, foreste e boschi, aree assegnate ad
università agrarie e quelle gravate da usi civici. Il legislatore, dato l’elevato numero dei beni compresi
nell’elenco e l’ampiezza dei territori interessati, ha avvertito l’insufficienza del solo vincolo ex lege,
ritenendo anche necessaria una più concreta graduazione del vincolo stesso fatta sul campo attraverso
successivi atti amministrativi della Regione. Le Regioni devono pertanto individuare le aree di più
alto valore ambientale al fine di preservarne l’integrità. Il provvedimento relativo, da notificare ai
proprietari interessati, ha l’effetto di vietare, fino all’approvazione dei piani paesaggistici, qualsiasi
modificazione del territorio o opere edilizie (cd. Misure di salvaguardia paesaggistiche). Una volta
redatto e reso operativo il piano, cessa la genericità del vincolo ex lege e subentra una più adeguata
normativa per le diverse zone.
 Immobili e aree comunque sottoposti a tutela dei piani paesaggistici: sono beni considerati meritevoli
di tutela anche se non rientranti nelle categorie prima indicate.
 Piano paesaggistico: i piani paesistici trovano oggi la loro disciplina negli artt. 143-145 del codice. Si
tratta di strumenti pianificatori complessi e variegati dal contenuto descrittivo, prescrittivo e propositivo.
Il piano paesaggistico ripartisce l’intero territorio regionale in ambiti omogenei, distinguendo quelli di
elevato pregio paesaggistico fino a quelli compromessi o degradati. Gli obbiettivi della pianificazione
paesaggistica possono prevedere:
- mantenimento delle caratteristiche, degli elementi costitutivi e delle morfologie
- previsione di linee di sviluppo urbanistico e edilizio compatibili con i diversi livelli di valore
riconosciuti e tali da non diminuire il pregio paesaggistico del territorio, con particolare salvaguardia
dei siti inseriti nella lista del patrimonio dell’UNESCO e delle aree agricole;
- recupero e riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposte a tutela compromessi o degradati .
Le previsioni dei piani paesaggistici sono cogenti per gli strumenti urbanistici comunali e provinciali e sono
anche immediatamente operativi per i privati, prevalendo anche sulle eventuali disposizioni urbanistiche
difformi.
Un’importante novità consiste nella riconosciuta fungibilità tra “piani paesaggistici” e “piani urbanistico -
territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”.
 Autorizzazioni, controlli e sanzioni: l’attività costruttiva nelle zone vincolate è soggetta a specifica
autorizzazione della Regione che deve essere rilasciata o negata entro il termine perentorio di 60 giorni. Il
decorso infruttuoso di tale termine comporta la possibilità da parte degli interessati di richiedere al Ministro,
anch’esso tenuto a pronunciarsi entro 60 giorni. Al Ministro vanno poi comunicate da parte delle regioni la
autorizzazioni rilasciate, che lo stesso può annullare entro 60 giorni dalla loro comunicazione.
A differenza del regime autorizzatorio dei beni culturali, quello dei beni paesistici è molto permissivo. L’art.
149 esenta dall’autorizzazione gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento
statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici; ….
(cioè tutti quegli interventi che non alterino significativamente l’aspetto estetico del bene).

Nei confronti delle zone e dei beni non ancora inclusi negli elenchi , la regione e il ministero hanno la
facoltà di inibire l’esecuzione di lavori senza una preventiva autorizzazione e anche in assenza di tale diffida
possono ordinare la sospensione dei lavori già iniziati. Questi provvedimenti perdono efficacia se, nei tre
mesi successivi dalla loro adozione, non sia stato comunicato all’interessato che l’apposita commissione ha
espresso parere favorevole all’apposizione del vincoli.

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