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Facoltà di Medicina e Chirurgia San Luigi Gonzaga

CHIRURGIA GENERALE

VI anno di corso
AA. 2021-2022
Chirurgia Generale 06/10/2021 Degiuli
Sbobinatrice: Panziera, Revisionatrice: Boffi

PROGRAMMA DI CHIRURGIA GENERALE


Ci saranno 16 lezioni, ma si vedranno solo 1/5-1/6 degli argomenti del programma, quelli affrontati a lezione
sono i “preferiti” di Degiuli (ndr: ho segnato in corsivo quelli evidenziati e considerati molto importanti da
Degiuli). La frequenza di almeno ¾ delle lezioni è necessaria per essere ammessi all’esame. Dato che la chirurgia
è in stretta connessione con l’anatomia, all’esame ci potranno essere domande su descrizioni anatomiche,
soprattutto sull’anatomia vascolare. Per l’anatomia, si consiglia di guardare i video proposti. Non bastano le
slide (si consiglia di sfogliarle, per guardare immagini e video proposti).

Cap 1. PATOLOGIA DELL’ESOFAGO E DELLA GIUNZIONE ESOFAGO-GASTRICA


- Anatomia e fisiologia
- Lesioni da caustici
- Perforazioni esofagee
- Diverticoli esofagei
- Malattia da reflusso gastroesofageo
- Acalasia
- Esofago di Barrett
- Tumori di esofago e cardias (il K cardias è in grande aumento)
Cap 2. MALATTIE DEL DIAFRAMMA – Ernie diaframmatiche
Cap 3. STOMACO E DUODENO (lo stomaco è l’organo su cui il Prof. ha fatto ricerca negli ultimi 30 anni)
- Anatomia cenni
- Patologia peptica (es. perforazioni -> l’utilizzo di PPI ha ridotto le casistiche)
- Tumori benigni e maligni dello stomaco
- Tumori benigni e maligni del duodeno
- Neoplasie dell’ampolla di Vater
Cap 4. INTESTINO TENUE E CRASSO
- Anatomia, semeiotica e strumentale
- Patologia funzionale: malassorbimento e sindrome da intestino corto (cos’è e come si tratta)
- Patologia di appendice e del diverticolo di Meckel (domande molto gettonate all’esame)
- Malattia infiammazione croniche: Chron, CU e altre coliti croniche
- Malattia diverticolare del colon  Studiare almeno una delle due classificazioni tra la Hinchey o la WSES (molto
utilizzata, della Società mondiale di chirurgia d’urgenza)
- Poliposi intestinale e sindromi correlate
- Tumori di intestino tenue (all’esame sono chiesti più i k colon-retto, rispetto ai k tenue)
- Tumori del colon-retto (soprattutto l’iter diagnostico-terapeutico -> domanda in generale molto gettonata per
tutti gli organi)
Cap 5. PATOLOGIA DEL COMPARTIMENTO ANO-RETTALE
- Cenni di anatomia, semeiotica clinica e strumentale
- Proctiti aspecifiche
- Emorroidi
- Ragade anale
- Ascessi e fistole ano-rettali
- Incontinenza fecale e stipsi
- Sindrome del perineo discendente (raramente chiesta all’esame)
- Tumori dell’ano
Cap 6. ERNIE DELLA PARETE ADDOMINALE
- Introduzione, epidemiologia e classificazione e anatomia parete addominale
- Ernie inguinali
- Ernia crurale
- Ernia ombelicali
- Ernia epigastrica
- Ernia di Spigelio
- Ernie lombari
Cap 7. LAPAROCELE
Cap 8. FEGATO E VIE BILIARI

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- Anatomia chirurgica di fegato (8 segmenti), colecisti e vie biliari
- Patologia cistica di fegato e vie biliari
- Echinoccocosi
- Litiasi biliare (con trattamento della calcolosi colecistico-coledocica, trattamento gold standard della colelitiasi,
indicazione e cos’è il rendez-vous endolaparascopico  è una delle domande più frequenti)
- Colangite acuta
- Traumi del fegato e delle vie biliari
- Tumori benigni del fegato
- Tumori maligni del fegato
- Tumori delle vie biliari
- Trapianto di fegato (cenni): indicazioni, tempistiche
Cap 9. PANCREAS
- Cenni di anatomia (anche vascolare!)
- Patologia malformativa
- Pancreatite acuta
- Pancreatite cronica
- Tumori maligni del pancreas esocrino
- Tumori cistici del pancreas
Cap 10. MILZA
- Anatomia e fisiologia
- Splenomegalie e neoformazioni spleniche
- Traumi splenici
Cap 11. RETROPERITONEO (non tanto richiesto)
- Cenni di anatomia
- Tumori retroperitoneali
- Fibrosi retroperitoneale
- Sindromi retroperitoneali acute

Argomenti di patologia specialistica


Cap 12. CHIRURGIA VASCOLARE  NON DA FARE! (Riporto comunque gli argomenti)
- Generalità
- Dissezioni aortiche
- Aneurismi dell'aorta e dei suoi rami
- Ipertensione nefrovascolare
- Insufficienza celiaco mesenterica
- Insufficienza cerebro-vascolare
- Arteriopatie croniche ostruttive degli arti inferiori
- Malattia ischemica acuta degli arti
- Traumi vascolari
- Trombosi venosa profonda
- Varici degli arti inferiori

Cap 13. CHIRURGIA D’URGENZA


- Introduzione
- Addome acuto
- Occlusioni intestinali
- Peritoniti
- Infarto intestinale
- Emorragie digestive
- Politrauma (no)
- Traumi cranio-vertebrali (no)
- Traumi toracici (no)
- Traumi addominali

Sviluppo dei capitoli: Anatomia, eziologia e patogenesi (non soffermarsi troppo), clinica, diagnosi (TNM) e DD, anatomia
patologica, approccio terapeutico, complicanze e prognosi.

Testi consigliati: Chirurgia di Greenfield’s; il Bellantone non è troppo apprezzato dal Prof.

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ESOFAGO
ANATOMIA
Mostra un video di Agorà sull’anatomia dell’esofago – www.scienzebiomediche.it
L’esofago è un tubo muscolare di 24-25 cm che connette la faringe allo stomaco ed è uno dei pochi organi che
attraversa tre segmenti corporei: collo, torace e addome. L'esofago origina a livello della laringe, si porta a
decorrere nel mediastino per poi attraversare il diaframma e scendere in addome, dove si connette allo
stomaco. Quindi si può dire che si estenda dalla 6° vertebra cervicale fino all’incirca alla 10° v. toracica.
Dividiamo l'esofago in diverse parti:
• Esofago cervicale (C6 – T1): lungo 5 cm, che raggiunge la porzione superiore del torace e si ferma a
livello della 2° vertebra toracica;
• Esofago mediastinico (T2 - T10): lungo circa 16 cm che arriva fino al diaframma
• Esofago intra-diaframmatico: lungo un paio di centimetri;
• Esofago addominale (T11): lungo 2-3 cm che lo connettono con lo stomaco.

Non è un organo rettilineo, ma presenta 3 curvature


• 2 curvature sono sul piano frontale: la prima verso sinistra e la seconda verso destra, quest'ultima è
molto importante perché serve per fare spazio al cuore che sarà presente nel mediastino;
• La 3° curvatura si trova sul piano sagittale ed è una curvatura a concavità anteriore che segue quella
della cifosi toracica.

L'esofago si stacca dalla colonna vertebrale all'incirca a livello della 4° vertebra toracica poiché andrà a
decorrere al davanti dell'aorta discendente, che invece decorrerà nello spazio tra esofago e colonna vertebrale.
Sbobine 20/21: a livello di T4 si biforca la trachea, da questo punto in poi l’esofago non si trova più dietro le vie
respiratorie, l’aorta ascendente forma l’arco aortico diretto indietro e verso sinistra.

L'esofago non è un organo che mantiene sempre lo stesso calibro ma ha infatti dei restringimenti:
1. Restringimento cricoideo: a livello della cartilagine cricoide, cioè nel punto in cui l'esofago inizia subito
al di sotto della faringe;
2. Restringimento aortico: a livello dell'aorta che viene in contatto con l'esofago schiacciandolo
3. Restringimento bronchiale: a livello dei bronchi, principalmente del bronco di sinistra;
4. Restringimento diaframmatico: il diaframma forma attorno all’esofago un manicotto che lo comprime.

Le porzioni tra i restringimenti vengono chiamate fusi. Abbiamo quindi: il fuso crico-aortico, aorto-bronchiale,
bronco-diaframmatico, mentre l'ultima porzione, che sarà slargata nella sua parte terminale, si chiama imbuto
pre-cardiale proprio perché prelude al cardias.

Sbobine 20/21
L’esofago è delimitato da due sfinteri:
• UES (SFINTERE ESOFAGEO SUPERIORE): rappresenta lo sfintere situato tra ipofaringe ed esofago
cervicale; a differenza del LES (v. dopo), esso presenta una componente strutturale vera e propria e per
questo motivo è considerato uno sfintere anatomico.
Lo UES nasce dalle fibre striate del m. crico-faringeo e da fibre del m. costrittore inferiore della faringe,
in corrispondenza del margine inferiore della cartilagine cricoidea. L’orientamento trasversale dei fasci
del m. crico-faringeo e quello obliquo dei fasci del costrittore inferiore della faringe delimitano uno
spazio di relativa debolezza, noto come triangolo di Killian, il quale rappresenta il più frequente luogo
di formazione dei diverticoli faringoesofagei.
Lo sfintere esofageo superiore è innervato prevalentemente dal nervo vago (X n.c.) ed in misura minore
dal IX e XI paio di n.c., mentre non possiede una innervazione simpatica.
• LES (SFINTERE ESOFAGEO INFERIORE): non corrisponde a uno sfintere muscolare vero e proprio e si trova
in corrispondenza del cardias. Si tratta di una struttura molto importante in quanto la giunzione
esofagogastrica è l’unica area dell’apparato digerente in cui strutture cavitarie in continuità hanno
opposti valori pressori (pressione positiva intragastrica e negativa intratoracica) prevenendo così
l’aspirazione del contenuto gastrico in esofago. La pressione a livello del LES è di circa 15 mmHg. Le

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strutture che contribuiscono al mantenimento del tono dello sfintere e che impediscono il reflusso di
materiale gastrico in esofago sono rappresentate da:
 Laccio di Allison: caratterizzato da un’azione “a pinza”; rappresenta la parte del pilastro
diaframmatico dx che passa in corrispondenza dello iato esofageo
 Angolo di His (angolo acuto esofago-gastrico) e bolla gastrica
 Valvola di von Gubaroff: rilievo sotto la mucosa che separa il fondo dello stomaco dall’esofago
 Membrana freno-esofagea di Bertelli: costituita da tessuto lasso che mette a contatto
l’esofago con l’anello iatale e quindi permette di mantenere il tono della zona esofagea intorno
al diaframma
 Arteria gastrica dx: svolge un’azione traente.

Posizione e rapporti
► La PARTE CERVICALE DELL'ESOFAGO è tra le più
brevi e poggia posteriormente sulle prime due
vertebre toraciche.
Anteriormente è in rapporto con la parte
terminale della laringe e con l'inizio della
trachea (pars membranacea).
Posteriormente è in rapporto con la colonna
vertebrale.
A sinistra prende rapporti con un'estensione del
lobo sinistro della ghiandola tiroide, mentre
entrambe le facce laterali prenderanno rapporti
con il fascio vascolo-nervoso del collo che
comprende il nervo vago, l'arteria carotide
comune e la vena giugulare interna.
Tra esofago e colonna vertebrale è presente
uno spazio detto retroesofageo attraverso cui l’esofago entra in contatto prima con la fascia cervicale profonda
e poi con la colonna vertebrale (slide: lo spazio retro-esofageo comunica con lo spazio retro-faringeo in alto e
con il mediastino in basso).

Sbobine 20/21 (slide): Nella regione del collo l’esofago entra


Riassunto dei rapporti dell’esofago nel collo (sbobine 20/21):
quindi in rapporto coi nervi laringei ricorrenti.
- Dietro: colonna vertebrale
Il nervo vago di destra, che scende assieme al fascio vascolo-
- Davanti: trachea
nervoso del collo (dato più in alto dall’arteria carotide interna,
- Ai lati e attaccati ad esso: nervi laringei ricorrenti di
poi più in basso dalla carotide comune), quando giunge a destra
destra e sinistra
a livello dell’arco descritto dall’arteria succlavia, emette un ramo
- Più di lato e fuori: fascio vascolo-nervoso del collo
che passa sotto questa arcata formata dalla succlavia e poi risale,
La ghiandola tiroide può arrivare indietro a lambire l’esofago
ecco perché a questo nervo si assegna il nome di ricorrente. Di
qui esso, passando nell’angolo tra esofago indietro e trachea in
avanti, termina sulla faringe andando ad innervare tutti i muscoli della laringe tranne il cricotiroideo.
A sinistra il nervo vago scende più in basso, entra nel torace, passa sotto l’arco aortico per poi continuarsi sulla faccia
inferiore dell’aorta, creando un arco che torna indietro e sale. Nascendo però il nervo laringeo di sinistra più in basso, nel
portarsi verso l’alto esso ha il tempo per avvicinarsi maggiormente alla linea mediana.
Quindi il nervo laringeo ricorrente di sinistra è più vicino all’angolo formato fra trachea ed esofago, ma rimane comunque
di lato a questi due. Il nervo laringeo ricorrente di sinistra si porta ai muscoli di sinistra della laringe. Inoltre, esso nel suo
decorso si trova in stretto rapporto anche con la ghiandola tiroide.

► L'ESOFAGO MEDIASTINICO è più complesso in quanto attraversa uno spazio enorme ovvero il mediastino ed
entrerà in contatto con numerosissime strutture.
Innanzitutto, posteriormente verso la 4° vertebra toracica si stacca dalla colonna vertebrale e continua a
scendere in avanti, da questo punto in poi entrerà in rapporto con l'aorta discendente, rapporto che continuerà
anche nella porzione addominale, entrambi attraverseranno il diaframma.
Anteriormente avremo molte più strutture tant'è che si parla di esofago epibronchiale e ipobronchiale per
distinguere più chiaramente i rapporti anteriori.

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• L'esofago epibronchiale sarà in rapporto con la trachea e tra i due organi saranno presenti dei fascetti
muscolari che formano il muscolo tracheo-esofageo, mentre nella parte più bassa è in rapporto con il
bronco sinistro, o per meglio dire con la parte iniziale del bronco di sinistra.
A destra l'esofago mediastinico epibronchiale sarà in contatto con la pleura mediastinica del polmone
dx e con l'arco della vena azygos, mentre a sinistra ci sarà la pleura mediastinica del polmone sx e
l'arco della aorta. In questa zona intercalati tra i bronchi, l’arco aortico e le vene, si osservano anche
dei linfonodi.
A destra la pleura mediastinica del polmone sinistro forma un recesso tra l’arco dell’azygos ed esofago
che si chiama recesso interazigos-esofageo. A sinistra il fenomeno è lo stesso: la pleura si insinua tra
l'esofago e l'arco dell’aorta formando lo spazio interaortico-esofageo.
• Al di sotto della biforcazione tracheale, l'esofago ipobronchiale prende rapporti lateralmente con il
nervo vago, posteriormente con l'aorta discendente e anteriormente il suo rapporto principale diventa
il cuore, principalmente l'atrio sinistro con il seno delle vene polmonari.

Commento Prof: questa anatomia è fondamentale in vista della chirurgia del


cardias, uno degli interventi che si fanno nei tumori dell’esofago Siewert 1 (i più
alti): con pz in posizione prona, si effettuano una laparoscopia dell’addome e
una chirurgia resettiva in torace con il robot, dove si toglie l’esofago fino a livello
della biforcazione bronchiale, per fare poi la mobilizzazione dell’esofago e
l’anastomosi (ne parlerà più avanti, ndr)  Intervento di Ivor-Lewis: tubulo-
trasposizione gastrica, resezione esofago medio-toracico e anastomosi esofago-
tubulo gastrico. Si effettua anche linfoadenectomia dei LN sovra-aortici, sovra-
diaframmatici, peri-esofagei, in mezzo alla biforcazione bronchiale, sopra il bronco dx e il bronco sx, in zona
pericardica. Attenzione al rischio di lesioni aortiche. Bisogna inoltre legare la vena azygos per guadagnare spazio
operatorio.

Dalle slide: Dietro all’esofago osserviamo infine un’ultima formazione, il dotto Riassunto dei rapporti dell’esofago nel
toracico linfatico, che raccoglie linfa proveniente dalla cisterna del chilo localizzata tratto toracico libero dalle vie respiratorie,
a livello della seconda vertebra lombare. Trovandosi sotto al diaframma, esso lo procedendo dall’indietro in avanti:
attraverso per mezzo di un foro. Da questa zona tutta la linfa proveniente dagli arti - Colonna vertebrale
inferiori e dagli organi addominali viene trasportata al dotto toracico, quest’ultimo - Aorta
a livello di T8 devia verso sinistra e termina nell’angolo venoso di sinistra. - Plesso esofageo posteriore
Il nervo vago di sinistra, dopo aver emesso il nervo laringeo ricorrente di sinistra, si - Esofago
porta sulla parete anteriore dell’esofago e si immette tra l’esofago ed il cuore - Plesso esofageo anteriore
formando il plesso esofageo anteriore. Quello di destra invece si porta dietro - Sacco pericardico con cuore
l’esofago formando il plesso esofageo posteriore. Questi due plessi sono uniti fra loro
da anastomosi. Quando più in basso il vago raggiunge il diaframma, oltrepassa il muscolo attraverso lo iato esofageo e
termina poi presso il plesso mesenterico superiore (dopo il celiaco), dove i suoi rami seguiranno il decorso di quelli
dell’arteria mesenterica superiore.

► La PORZIONE DIAFRAMMATICA dell'esofago è estremamente piccola e il suo unico rapporto è rappresentato


dal diaframma che forma attorno all'organo il cosiddetto orifizio esofageo, che oltre a essere un orifizio è anche
un manicotto che lo stringe formando quindi anche uno dei quattro restringimenti principali dell'esofago. A
questo livello si può avere la presenza di un fascetto muscolare che unisce l'esofago al manicotto diaframmatico
e si chiama muscolo frenoesofageo.

Dalle slide: l’esofago passa attraverso il diaframma grazie allo iato esofageo, a livello di T10, e si tratta di un sistema a
forbici che passano dai pilastri del diaframma e circondano l’esofago con un anello muscolare.
Più sotto, a livello di T12, è invece presente lo iato aortico, foro diaframmatico attraverso il quale passa l’aorta, in questo
caso lo iato è un’arcata fibrosa che congiunge i due pilastri mediani.
Il diaframma è collegato alla parete dell’esofago attraverso il legamento freno-esofageo.

► L'ultima porzione dell'esofago detta IMBUTO PRE-CARDIALE rappresenta gli ultimi centimetri dell'esofago e si
dirige leggermente a sinistra slargandosi per dare origine al cardias, che rappresenta la prima regione dello
stomaco. I suoi rapporti anteriormente sono costituiti quasi esclusivamente dal fegato che occupa praticamente
tutta la cupola diaframmatica di destra e si porta anche in parte verso la cupola di sinistra.

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Lateralmente a destra prenderà rapporti con
una regione del fegato detta lobo caudato,
mentre lateralmente a sinistra si unirà allo
stomaco formando un angolo, detto angolo di
Hiss, la cui funzione è quella di creare un
restringimento tra esofago e stomaco al fine di
evitare il reflusso dei succhi acidi.
Posteriormente i suoi rapporti sono più difficili
da osservare: è in contatto con l'aorta
discendente, in questo caso la prima parte
dell’aorta addominale, e con i pilastri mediali
del diaframma.
Per quanto riguarda il peritoneo, l'esofago è un
organo molto particolare in quanto viene
rivestito solo nella sua porzione addominale e
solo davanti. Il peritoneo salirà quindi lungo
l'esofago, lungo la sua porzione anteriore e in
parte lungo le porzioni laterali per poi riflettersi
sul diaframma; a destra contribuirà a formare
uno dei legamenti peritoneali, il legamento
epatogastrico.
La faccia posteriore dell'esofago è
completamente scoperta, in quanto il
peritoneo gastrico della faccia posteriore non
risale al di sopra della zona cardiale.

VASCOLARIZZAZIONE E INNERVAZIONE
• Le arterie provengono da rami delle
Arterie intercostali, bronchiali e freniche,
tutte derivanti dall’Aorta toracica

• Il Plesso venoso esofageo va verso quasi


tutte le vene del torace (quindi circolo
sistemico), mentre la parte più bassa
costituisce le vene esofagee inferiori che
saranno tributarie della vena porta (quindi
circolo portale)  Anastomosi porto-
sistemica.

Commento Prof: ricordare questo


importantissimo plesso sottomucoso
perché qui si instaura un circolo collaterale
in caso di ipertensione portale con
conseguente formazione di varici esofagee.
Sbobine 20/21: il drenaggio venoso corrisponde alla distribuzione arteriosa. Per quanto riguarda le vene di ritorno, vi
sono: vene tiroidee, vene bronchiali, vene pericardiche, il sistema delle azygos, vena gastrica di sinistra. Normalmente
dal terzo inferiore dell’esofago, zona cardiale, il deflusso venoso avviene attraverso la vena gastrica sinistra o coronaria
stomacica nella vena porta (epatopato), invece andando verso l’alto il deflusso è epatofugo perché va a finire tramite
l’azygos ed emiazygos nella cava e succlavia, quindi nella circolazione sistemica. In caso di ipertensione portale il senso
di circolazione si inverte (da epatopato a epatofugo) e diventa: vena porta → coronaria stomacica → vena
gastroesofagea superiore o ascendente → plesso esofageo soEomucoso del terzo inferiore → azygos/emiazygos →
cava.

• Innervazione parasimpatica  da rami del N. Vago (stimolano la peristalsi esofagea)

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Innervazione ortosimpatica  da Nervi splancnici (rallentano peristalsi esofagea)
Sbobine 20/21: questa appena descritta è l’innervazione estrinseca; esiste anche l’innervazione intrinseca
caratterizzata dal plesso di Meissner (sottomucosa) e dal plesso di Auerbach (muscolare esterna)

Sbobine 20/21 (slide): Drenaggio linfatico  Le vie linfatiche si estendono riccamente in senso longitudinale.
I vasi linfatici drenano ai linfonodi periesofagei e da questi verso l’alto ai linfonodi del collo e verso il basso ai
linfonodi del plesso celiaco e della piccola curvatura gastrica.

STRUTTURA MICROSCOPICA
L'esofago è un viscere classico in quanto presenta: una tonaca
mucosa, una sottomucosa, una muscolare, un’avventizia e una
sierosa, anche se quest'ultima non per tutta la sua estensione.

♦ La TONACA MUCOSA è classicamente formata da 3 elementi:


• Epitelio di rivestimento: è un pavimentoso composto non
cornificato che deve dare una funzione di resistenza alla
trazione meccanica.
• Lamina propria: è un connettivo denso.
− Nella parte superiore e media dell'esofago essa Collegamento con AP:
presenta anche dei follicoli linfatici. ► Esofago superiore-medio  tumori
− Nel terzo inferiore invece sono presenti delle quasi sempre squamosi
ghiandole tubolari composte a secrezione mucosa che ► Esofago inferiore  possono essere
ricordano molto quelle della zona cardiale, la prima squamosi ma nel 90% casi sono
zona dello stomaco. La loro funzione è quella di adenocarcinomi (derivano dalle cellule
secernere un muco con azione sia protettiva che cilindriche delle ghiandole)
lubrificante.

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• Muscularis mucosae: un sottile straterello di fibre muscolari lisce posto al limite tra la lamina propria e
la sottomucosa. La muscularis mucosae è formata da 3-4 straterelli di fibre muscolari lisce disposte con
orientamento circolare.
♦ La SOTTOMUCOSA: connettivo lasso molto vascolarizzato; nei terzi superiori e medio vi sono ghiandole
tubulari-ramificate sottomucose che secernono un film sottile, simile alla saliva, che ricopre le pareti
esofagee per permettere lo scivolamento del bolo. I dotti escretori ovviamente raggiungono la mucosa e
nella lamina propria sono circondati da follicoli linfatici, poiché nell'ipotesi in cui un Ag estraneo dovesse
incunearsi nella mucosa questi dotti escretori sarebbero il punto più critico entro cui potrebbero formarsi
infezioni.
♦ La MUSCOLARE: questo strato è diverso tra il terzo superiore e i due terzi inferiori:
• Terzo superiore  tessuto muscolare striato (come in faringe)
• Tratto medio-inferiore  tessuto muscolare liscio disposto in una tonaca interna circolare e una
esterna longitudinale per dare due tipi di movimento diverso alla peristalsi.
Dalle slide: C’è un punto appena sotto il dorso della faringe in cui non esiste la muscolatura longitudinale
esterna (trigono di Laimer); un sondino messo male può bucare l’esofago creando una fistola esofagea (il
cibo esce dal foro, va nello spazio retro-esofageo per terminare nel mediastino).
♦ AVVENTIZIA: straterello di connettivo che si trova subito dopo lo strato muscolare.
♦ SIEROSA: è il peritoneo, presente solo ed esclusivamente nel terzo inferiore dell’esofago, e solo nella sua
faccia anteriore (la faccia posteriore non è ricoperta da peritoneo)

Immagini microscopiche (tratte sempre dal video)


A destra, vediamo l'epitelio pavimentoso composto, la lamina propria con i
vasi e la muscularis mucosae: stiamo osservando verosimilmente il terzo
prossimale dell'esofago in quanto non vediamo ghiandole nella lamina
propria.
Proseguendo più in basso, osserveremo la sottomucosa molto lassa e la
tonaca muscolare che in questo caso fa parte del terzo superiore in quanto
le cellule sono fibrocellule muscolari striate, lo si può dedurre dall’aspetto a
bistecca di carne e dalla presenza di piccoli nuclei alle estremità delle cellule
e non al centro.

A s, invece, vediamo la giunzione


esofago-gastrica con il passaggio dalla
mucosa esofagea a sinistra a quella
gastrica a destra; le ghiandole tubolari
composte della regione cardiale dello stomaco possono essere trovate
anche nella lamina propria della porzione terminale dell'esofago.
Sotto possiamo vedere l’esofago tagliato trasversalmente: il lume presenta
numerose irregolarità, perché l'esofago normalmente non è dilatato, ma
contratto. Al limite tra mucosa e sottomucosa possiamo notare un preciso
straterello di muscularis mucosae, la sottomucosa è piuttosto sottile ed è
molto lassa. Infine, ci sono i due strati muscolari: quello circolare interno e
quello longitudinale esterno con il loro diverso orientamento.
Commento del Prof: l’istologia esofagea è in rapporto con l’istologia del
tumore. Il tumore dell’esofago inferiore, specialmente quando c’è risalita
della giunzione esofago-gastrica, è un adenocarcinoma; invece, i tumori
dell’esofago medio toracico e cervicale nascono dall’epitelio pavimentoso,
quindi sono squamosi.

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PATOLOGIE DELL’ESOFAGO
 PATOLOGIA FUNZIONALE (trattata in un’altra lezione)
• Acalasia (eziologia ancora ignota)
• Spasmo esofageo diffuso
• MRGE – GERD – Malattia da reflusso gastroesofageo: molto importante e diffusa soprattutto
nelle popolazioni più civilizzate (es. maggiore obesità)
• Discinesie in corso di collagenopatie
 PATOLOGIA ORGANICA
• Traumi
• Lesioni da caustici
• Diverticoli (da pulsione e da trazione)
• Tumori benigni e maligni

DIVERTICOLI ESOFAGEI
DEFINIZIONE
I diverticoli sono estroflessioni sacciformi della parete con una base di impianto più o meno ampia (colletto),
comunicanti con il lume dell’esofago.

CLASSIFICAZIONI
Possono essere suddivisi in:
• Diverticoli VERI: tutte le componenti della parete partecipano alla formazione del diverticolo
• Diverticoli FALSI: di solito viene a mancare la componente muscolare. Il diverticolo origina perché ci
sono delle lacune muscolari o mancanze di fasci muscolari che favoriscono l’estroflessione di tutta la
sottomucosa e la mucosa, portandosi dietro l’avventizia.

Dal punto di vista eziologico:


• CONGENITI: rari; sono forme di duplicazione dell’esofago
• ACQUISITI: la maggioranza; 2 meccanismi principali di formazione:
► DA PULSIONE: graduale estroflessione, attraverso un’area di debolezza della parete muscolare,
ovvero una lacuna muscolare, della mucosa e della sottomucosa per effetto di un’elevazione
patologica della pressione endoluminale (sono diverticoli falsi); hanno solitamente un colletto
stretto, che corrisponde alla zona della lacuna muscolare.
Sbob. 20/21: In genere sono al di sopra di un apparato sfinteriale perché quando ipertonico si crea un
aumento della pressione al di sopra di esso che si ripercuote sulle pareti: se la muscolatura c’è si creerà
un’ipertrofia muscolare compensatoria, mentre se non c’è o se è presente una lacuna in quel punto
l’aumento di pressione farà estroflettere cronicamente e gradualmente i due strati di mucosa e
sottomucosa
► DA TRAZIONE: azione esercitata da un processo di retrazione cicatriziale esterno, secondario
a processi infiammatori contigui alla parete del viscere (sono diverticoli veri); sono diverticoli
intratoracici (esofago mediotoracico), che generalmente originano dove ci sono pacchetti
linfonodali infiammati che trazionano, verso di loro, la parete esofagea; hanno solitamente un
colletto largo; erano frequenti con la TBC, che determinava un’iperplasia infiammatoria dei
linfonodi mediastinici.

Dal punto di vista topografico distinguiamo:


• Diverticoli Ipofaringei o Cervicali - III Superiore
• Diverticoli Parabronchiali o Mediotoracici - III Medio
• Diverticoli Epifrenici - III Inferiore: al di sopra del diaframma

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DIVERTICOLO DI ZENKER
EPIDEMIOLOGIA ed EZIOPATOGENESI
E’ il diverticolo di più frequente riscontro (2/3 di tutti quelli
diagnosticati). Colpisce prevalentemente i soggetti di sesso
maschile e di età avanzata.
Tale diverticolo è acquisito con un meccanismo da pulsione
(quindi falso), che riconosce come locus minoris resistentiae il
triangolo di Killian.

Il triangolo di Killian è una zona localizzata tra il muscolo


costrittore inferiore della faringe e il muscolo cricofaringeo;
costituisce la giunzione faringoesofagea, sopra lo sfintere
funzionale esofageo superiore (UES).

La causa può essere un difetto anatomico, ovvero l’assenza delle fibre longitudinali esterne della muscolatura
esofagea. Lo sfintere si contrae, aumenta la pressione nella camera superiore: la pressione si esercita
dappertutto uguale, ma nel punto di minore resistenza estroflette la mucosa e la sottomucosa. Un altro
meccanismo patogenetico è un’alterazione della motilità esofagea, o perché c’è aumento della peristalsi al di
sopra dello sfintere esofageo o perché c’è una mancata/scordinata apertura dello sfintere quando la peristalsi
dovrebbe spingere il bolo in basso, o per entrambe le motivazioni.

Da slide: eziologia secondaria a discinesie esofagee:


• Mancato rilasciamento del muscolo cricofaringeo dopo l’inizio
della deglutizione (acalasia, discalasia, incompleto
rilasciamento del UES)
• Contrazione dell’UES prima che la contrazione faringea si sia
completata
• Ipertono dello sfintere secondario a MRGE
• Discinesia UES secondaria ad acalasia e spasmo esofageo
diffuso

Se avessimo una debolezza della parete anteriore dell’esofago, non si creerebbe il diverticolo perché davanti è
presente la pars membranacea della trachea, che impedirebbe la formazione del diverticolo. Invece,
posteriormente è presente lo spazio retroesofageo (spazio virtuale tra esofago e colonna), permettendo la
formazione di un diverticolo postero-laterale sinistro (nascono come posteriori, ma lo spazio retroesofageo
non può accogliere il diverticolo, che si sposta, di solito, verso sinistra, fino ad essere a volte addirittura palpabili
al di sotto della clavicola).

A volte il diverticolo di Zenker è una scoperta occasionale ed è rischioso perché


l’endoscopista trova un lume grande – falso (dietro) e un lume piccolo – vero (davanti)
[immagine a lato], a volte nemmeno visibile se compresso dalla parete del diverticolo, e
fuorviato entra nel lume del diverticolo con rischio di perforazione.
Il setto che divide il lume vero dal lume falso del diverticolo è quindi la parete posteriore
dell’esofago.

SINTOMATOLOGIA

• Disfagia episodica per solidi e liquidi: definita come sensazione di ostacolo al


passaggio del bolo durante la deglutizione. Il bolo farà fatica a passare nel lume naturale esofageo
perché il lume del diverticolo è molto più grande e per gravità tenderà a rimanere nella grossa cavità. Il
sintomo caratteristico (patognomonico) è la disfagia ritardata. Si tratta di una forma di disfagia in cui
il pz inizia a mangiare e deglutire senza problemi ma alla 3°/4° deglutizione comincia ad avere difficoltà,

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la quale tende ad intensificarsi con le deglutizioni successive (“disfagia del 3° boccone”). Spesso il pz
tende a bere di conseguenza dell’acqua, peggiorando invece la situazione. In molti casi deve
interrompere l’assunzione del pasto a causa dell’instaurarsi di una disfagia assoluta. Questo fenomeno
è dovuto al fatto che nelle prime deglutizioni il cibo entra nel diverticolo, dando la sensazione di una
deglutizione normale; tuttavia, nelle deglutizioni successive il diverticolo si riempie sempre più andando
a comprimere l’esofago finché il lume esofageo si ostruisce.
Slide: la disfagia può essere vera o paradossa, a seconda che sia dovuta alla disfunzione neuromotoria
di base o alla compressione ab estrinseco;
• Rigurgito posturale: passando dalla posizione ortostatica al clinostatismo c’è possibilità di rigurgito;
• Ruminazione: conseguente al rigurgito;
• Gorgoglio: c’è la presenza di aria all’interno;
• Tumefazione latero-cervicale, che è sempre a sinistra, riducibile alla compressione e con segni di
gorgogliamento e ruminazione;
• Scialorrea: segno del cuscino;
• Tosse e faringiti: per l’irritazione;
• Alitosi (o fetor ex ore): conseguente ai processi di macerazione del cibo che ristagna nel diverticolo;
• Disturbi respiratori: per ab ingestis;
• Rari effetti compressivi: disfonia per compressione nervo ricorrente e crisi sincopali per compressione
del nervo vago o dell’arteria carotide.

DIAGNOSI
• Raramente palpabile in regione latero-cervicale sinistro, con il tipico gorgoglio;
• RX transito con pasto baritato o mdc idrosolubile (gastrografin);
• EGDS: esame elettivo, ma attenzione al rischio di perforazione perché si incannula quasi sempre il lume
del diverticolo.

Il bolo alimentare spinto in basso dalla pompa faringea può assumere come direzione preferenziale quella del
diverticolo. Di conseguenza, il bolo alimentare, la saliva e le secrezioni mucose sono spinte dall'atto deglutitorio
nel diverticolo, che aumenta progressivamente di volume; si verificano così gli stadi di Lahey (classificazione
radiologica).
• Stadio 1: il mdc percorre preferenzialmente l’esofago
• Stadio 2: il diverticolo impronta l’esofago e il bolo ingerito si raccoglie in parte nel diverticolo e in parte
percorre l’esofago
• Stadio 3: il diverticolo è di grosse dimensioni e impedisce il passaggio del bolo in esofago; il paziente può
riferire una disfagia completa

Quando si vuole indagare più approfonditamente:


• Manometria esofagea: evidenzia il difetto muscolare ovvero discinesia o ipertonia UES;
• pHmetria: non è un esame essenziale per la diagnosi, ma si fa per escludere copresenza MRGE,
associazione pericolosa per l’insorgenza di complicanze;
Solitamente manometria e pHmetria si svolgono assieme.

COMPLICANZE
• Complicanze settiche dell’apparato respiratorio (es. polmonite ab ingestis e formazione di ascessi);
• Sanguinamento dovuto alla persistenza del cibo che determina flogosi cronica con ulcerazioni della
mucosa (raro). Nei casi più gravi queste ulcere diventano penetranti fino a perforare il diverticolo;
• Perforazione: può essere esterna come nel diverticolo di Zenker (perforazioni laterocervicali), mentre
nei parabronchiali e negli inferiori l’eventuale perforazione può dare mediastinite;
• Possibile insorgenza di carcinoma (0.3%) soprattutto a livello del III superiore: i fattori irritativi cronici
sono una delle cause dei carcinomi (lo è ad esempio la calcolosi della colecisti per i tumori della colecisti).

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DIVERTICOLI MEDIO-TORACICI O PARABRONCHIALI
15% dei diverticoli esofagei.
Raramente congeniti (spesso diagnosticati in età adulta); per lo più sono acquisiti da trazione,
quindi diverticoli veri, secondari ad aderenze fibrose tra la parete esofagea e i linfonodi sclerotici
per pregressi processi infiammatori (la causa principale sono stati gli esiti di TBC).
Tali diverticoli sono dotati di parete muscolare (sono diverticoli veri), di un ampio colletto ed
apice stirato verso l’alto.
A differenza dei diverticoli da pulsione, che hanno un colletto più piccolo del fondo, questi da
trazione hanno un colletto grande e un fondo più piccolo del colletto (inoltre, non hanno
posizione declive rispetto al transito): il cibo non ristagna e non sono quasi mai sintomatici.
Spesso sono multipli e di piccole dimensioni.
Nell’immagine si osservano linfonodi sotto-carenali infiammati, che attraggono per flogosi la
parete dell’esofago.

DIVERTICOLI EPIFRENICI
Restante 20% dei diverticoli esofagei.
Per lo più diverticoli acquisiti da pulsione (in questo caso si tratta di diverticoli falsi), provocati
da una discinesia dello sfintere esofageo inferiore (LES): da spasmo esofageo diffuso, acalasia,
malattia da reflusso (è importante la ph-manometria come approfondimento diagnostico).
Il meccanismo che provoca l’aumentata pressione è sempre una mancata o un’inadeguata
apertura del LES che determina la formazione, come nel caso degli Zenker, di una camera ad
aumentata pressione al di sopra del LES che favorisce l’estroflessione.
Meno frequentemente possono essere da trazione in seguito a pregresse linfoadenopatie a
carico dei linfonodi del legamento triangolare del polmone.
Situati negli ultimi 10 cm dell’esofago (esofago toracico distale).
Di solito, sono asintomatici e la diagnosi è occasionale, mediante endoscopia. È importante la
ph-manometria, perché siamo nella zona del LES, quindi possono essere legati alla coesistenza di MRGE.
Raramente RX-transito.
Tra le complicanze, essendo diverticoli da pulsione, abbiamo ristagno di cibo, ulcerazione con sanguinamento
cronico e perforazione.

TRATTAMENTO dei DIVERTICOLI


Il trattamento dipende dalla sintomatologia e dal tipo di diverticolo. Il trattamento è esclusivamente chirurgico.
In genere i diverticoli medio-toracici non vengono trattati (slide: L’indicazione al trattamento chirurgico si
diverticulectomia toracotomica solo se strettamente indicato), così pone per diverticoli:
come gli epifrenici, mentre il diverticolo di Zenker viene trattato,  Sintomatici
specialmente quando di vecchia data con mucosa internata ed ulcerata.
 Voluminosi
 Complicati: da flogosi cronica,
Il trattamento ha 2 obiettivi:
emorragia e perforazione
1. Asportazione del diverticolo stesso;
2. Correzione dell’alterazione della motilità alla base della formazione del diverticolo.

Slide:
- Miotomia cricofaringea senza resezione del diverticolo  Piccoli diverticoli;
- Miotomia con resezione del diverticolo  Grandi diverticoli;
- Diverticolopessi;
- Sezione sotto guida endoscopica del setto (diverticolotomia);

Fino ad una decina di anni fa non c’erano tante opzioni terapeutiche.

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Dal video mostrato a lezione (riferito al Diverticolo di Zenker) [video presente nelle slides]: in passato si
procedeva con un approccio cervicotomico (cervicotomia), si
incontrano la carotide e la giugulare (vengono retratte), il
triangolo di Killian (dove origina il diverticolo di Zenker), il m.
crico-faringeo, si isola il colletto e si reseca il diverticolo;
infine, si ricostruisce la parete, correggendo il difetto della
parete muscolare
(sbobine 20/21: 1. Incisione a livello del collo a sx; 2. Si
raggiunge l’esofago; 3. Si esegue la miotomia cranialmente e
caudalmente al diverticolo per esporre la mucosa da
entrambe le parti e per sezionare il m. crico-faringeo; quest’ultimo costituisce lo UES e rappresenta la base
patogenetica della malattia. Così facendo, si risolve la disfagia. 4. Si esegue la diverticulectomia)
Oggi l’approccio endoscopico ha cambiato l’iter terapeutico, in particolare la ripresa e le complicanze post-
operatorie.
Le complicanze principali (dell’approccio cervicotomico), infatti, erano le deiscenze delle suture della mucosa
(leak) che provocano un sanguinamento continuo, il quale esce dalla ferita nel collo e provoca un’infiammazione
cronica con lunga latenza di guarigione.
Ad oggi, quindi, si preferisce l’approccio mininvasivo, in sedazione con
broncoscopia rigida (si vede il lume esofageo anteriormente, e il diverticolo
posteriormente); usualmente in gastroenterologia si utilizzano degli endoscopi
flessibili. Si mettono due punti lateralmente sul setto per poter trazionare il
diverticolo una volta che verrà inserita la suturatrice.
La suturatrice meccanica lineare ha due branche (sopra e sotto) che sezionano il
tessuto morso tra le branche e al contempo inserisce 2-3 file di clip per lato, poste
in modo asimmetrico, per garantire l’emostasi.
Quindi, alla fine dell’intervento, la parete anteriore è e rimane esofagea, la parete posteriore è quella del
diverticolo. Questa è una tecnica in day-surgery, per cui il pz il giorno dopo torna a casa con un gastroprotettore
e una dieta semi-solida.

Per i diverticoli epifrenici si esegue una diverticulectomia + miotomia longitudinale del LES + plastica
antireflusso [video presente nelle slides]. Il pz viene messo in posizione prona, con una ventilazione mono-
polmonare, l’accesso in genere è tramite l’emitorace dx (si incontra l’azygos; è lo stesso accesso usato per la
chirurgia oncologica del cardias).
Il robot chirurgico viene posizionato di fianco al pz, possiede 4 bracci che vengono posizionati al di sotto del
campo operatorio e collegati a strumenti che entrano nel campo operatorio attraverso dei trocar (come la
laparoscopia), poi i bracci vengono governati da remoto, tramite una consolle chirurgica dove siede il chirurgo.
Si può, inoltre, effettuare un accesso in toracoscopia per l’operatore chirurgico al letto operatorio. Si procede,
quindi, con la dissezione esofagea, si misura il diverticolo, si utilizza una suturatrice meccanica che “taglia-cuce”
il diverticolo (posizionata in modo tangenziale all’esofago, taglia il colletto del diverticolo). Non bisogna andare
troppo in profondità altrimenti si rischia di creare una stenosi esofagea.
Il rischio di questo intervento è che le clip – i punti metallici – non tengano bene, anche se hanno una tenuta
superiore ai punti manuali; comunque, solitamente hanno una buona tenuta.

Sbobine 20/21: Tra gli interventi chirurgici a disposizione ricordiamo la miotomia e diverticulectomia, la diverticulopessi e
la diverticolo-esofagostomia.
• Diverticoli parabronchiali: si procede a diverticulectomia toracotomica solo se strettamente indicato (sintomatico
o grosse dimensioni) con sutura a strati della parete dell’esofago e eventuale miotomia.
• Diverticoli epifrenici: diverticulectomia + miotomia longitudinale del LES + plastica antireflusso.
Il trattamento è volto a risolvere primariamente il disordine motorio primario rispetto alla regressione del
diverticolo stesso. La diverticulectomia è indicata solo in caso di colletto stretto che non permetta un adeguato
svuotamento del diverticolo oppure in caso di infiammazioni mucose o compressioni dell’esofago distale.
• Diverticolo di Zenker: la chirurgia open non si fa quasi più e viene riservata ai casi di insuccesso endoscopico.

Tipi di intervento:

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• Se i diverticoli sono piccoli per prevenire un loro ingrandimento, si toglie la causa dell’origine del diverticolo ovvero
la stenosi dello sfintere esofageo superiore: miotomia longitudinale cricofaringea e della muscolatura esofagea
senza resezione del diverticolo;
• Se i diverticoli sono grandi, si fa la miotomia con resezione del diverticolo.
• Diverticolopessi ovvero legare il diverticolo in alto per favorire lo svuotamento (non si fa più)
• Sezione sotto guida endoscopica del setto (diverticolotomia) è il trattamento d’elezione: è un intervento non
cruento (dura 15 min, in narcosi) che si fa in day hospital mediante manovra endoscopica. Prevede l’apertura del
setto che divide il lume del diverticolo, posteriormente, dal lume dell’esofago, anteriormente, mettendo in
comunicazione tutta la superficie del diverticolo con tutta la superfice dell’esofago. Si utilizza un laringoscopio
rigido cha ha una suturatrice in punta (stapler) con una branca superiore che va nel lume esofageo e una branca
posteriore che va nel lume del diverticolo, si taglia il setto presente tra la parete anteriore del diverticolo e parete
posteriore dell’esofago creando un lume unico più grande. Il paziente viene dimesso dopo qualche ora e può bere
e mangiare dal giorno dopo. Questo intervento presenta:
− Vantaggi: non si deve fare un’incisione sul collo (intervento meno invasivo) ed è indicato in caso di anziani
defedati con diverticoli di grosse dimensioni
− Svantaggi: con questa tecnica non si riesce ad arrivare al fondo del diverticolo e questo può implicare una
permanenza della sintomatologia

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LESIONE DA CAUSTICI
DEFINIZIONE
L’ingestione di sostanze caustiche, sia accidentale, sia volontaria, è una sindrome complessa, caratterizzata da:
- Severe lesioni viscerali (in genere faringe, esofago, stomaco, fino alla prima ansa digiunale), spesso
irreversibili;
- In qualche caso effetti sistemici;
- Mortalità nei casi gravi molto elevata (>50%)
- L’approccio deve essere multidisciplinare, soprattutto in caso di ingestione da tentativo
anticonservativo, e mirato all’adozione di una serie tempestiva e integrata di misure diagnostiche per
effettuare una precisa stadiazione delle lesioni viscerali; successivamente si attuano misure
terapeutiche, conservative o interventistiche.

EPIDEMIOLOGIA
Rispetto alle curve di incidenza riferite ai primi anni 2000, sicuramente ora c’è un lieve calo, grazie a:
- Intervento da parte delle autorità;
- Incremento della sensibilità al problema da parte della popolazione;
- Le industrie produttrici devono segnalare sull’etichetta il tipo di sostanze presenti con adeguati segnali
di pericolosità, favorendone l’identificazione;
- Introduzione di contenitori con tappi di sicurezza, che dovrebbero proteggere i bambini.

DEFINIZIONI
Caustici: le sostanze caustiche sono di tre tipi, acidi forti (pH < 2), basi forti (pH >12) e agenti ossidanti.
• Acidi forti: acido solforico (vetriolo), acido cloridrico (muriatico), acido nitrico (acquaforte), acido
fosforico, acido ossalico.
Si trovano nelle batterie, nei detergenti dei sanitari o dei metalli, in quanto sono sostanze antiruggine.
In genere gli acidi forti provocano danni (disidratazione) per necrosi coagulativa, con formazione di
escara e lesioni penetranti soprattutto a livello dello stomaco, più che dell’esofago;
• Basi forti: idrossido di sodio (soda caustica o lisciva), di potassio (potassa o lisciva), di ammonio
(ammoniaca). Si usano nelle lavastoviglie, detergenti domestici, disinfettanti. L’azione è più immediata
e provocano danno soprattutto all’esofago; agiscono per denaturazione delle proteine (non per
disidratazione) e causano necrosi colliquativa (non coagulativa); hanno bisogno di un minor tempo di
contatto.
Slide: Entrambi sono fortemente igroscopici per cui attaccando l’acqua dei tessuti alle loro molecole
penetrano profondamente negli stessi.
• Agenti ossidanti: ipoclorito di sodio (candeggina), perossido di idrogeno (acqua ossigenata) e
permanganato di potassio, sono sbiancanti o disinfettatati. Azione per disidratazione con necrosi
coagulativa.

MECCANISMO DI DANNO
Le lesioni da caustici sono caratterizzate da intensa flogosi chimica in sede d’esposizione (pareti dei visceri cavi),
tendenza a produrre necrosi fino alla transmurazione e perforazione, in un tempo variabile da pochi secondi a
minuti.
Il danno nella maggior parte dei casi si verifica in pochi minuti (entro 15’), al massimo entro un’ora
dall’ingestione.
La perforazione del viscere rappresenta l’evento più temibile e potenzialmente letale per il paziente (mortalità
superiore al 50%). Se si perfora lo stomaco la mortalità è minore rispetto a quella dell’esofago.
Inoltre, soprattutto con gli acidi forti, che agiscono per più tempo, ci possono essere perforazioni multiple; la
perforazione può verificarsi contemporaneamente in diverse aree dell’esofago, dello stomaco e perfino del
tenue prossimale. Quando sono coinvolti in modo multiplo esofago e stomaco, si può avere una perforazione
mediastinica; in tal caso, l’intervento è una doppia derivazione (esofagostomia e gastrostomia), seguito da
ricostruzione con il colon destro (esofago-colon-plastica).
La perforazione in ogni caso è l’evento determinante per la prognosi: quando si studia il pz bisogna capire se è
perforato o no, per definire la prognosi e l’indicazione all’intervento chirurgico, che avrà un grado di emergenza
(e non solo urgenza).

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La gravità delle lesioni dipende da molteplici fattori, insiti sia nella sostanza, sia nelle caratteristiche del pz:
− Potere corrosivo intrinseco della sostanza, diverso da sostanza a sostanza;
− Sua concentrazione (se diluita o meno);
− Tipo di preparazione commerciale (liquido, in pasta, granulare), che determina il tempo di esposizione;
− Modalità di ingestione (volontaria o accidentale) tipiche di due età diverse, le prime sono degli adulti,
le seconde soprattutto pediatriche;
− Quantità ingerita, diversa nei due casi;
− Stato di pienezza gastrica, con possibile auto-tamponamento (anche solo la presenza di acqua è utile).

 Nei casi di ingestione accidentale le lesioni (soprattutto nei bambini) sono spesso limitate
all’orofaringe, poichè il paziente tende ad interrompere la deglutizione e ad espellere la sostanza;
 Nelle ingestioni volontarie, invece, l’atto deglutitorio forzato consente un rapido transito esofageo di
notevoli quantità di caustico con conseguenze lesionali più gravi.

La maggior parte delle soluzioni liquide alcaline sono insapori e inodori, quindi vengono deglutite prima
dell’intervento dei riflessi protettivi.

Il vomito, spontaneo o provocato, determina un secondo passaggio retrogrado della sostanza caustica in
esofago, aggravando il quadro  NON INDURRE VOMITO, non mettere sondini.

La maggior parte delle sostanze caustiche determinano effetti locali, in sede di contatto. Gli effetti sistemici si
manifestano con l’Acido fluoridrico e l’Acido fosforico: data la loro azione chelante il calcio, determinano
ipocalcemia grave con sequele cardiache aritmiche importanti, fino alla fibrillazione ventricolare, e problemi
neuromuscolari.

TERAPIA
Collaborazione multidisciplinare di diversi specialisti: il triagista (cerca anche di capire se il danno è volontario),
il medico di pronto soccorso, il tossicologo (raro che ci sia), l’anestesista/rianimatorie, il radiologo,
l’endoscopista e infine il chirurgo, che dovrà porre le indicazioni per il trattamento chirurgico d’urgenza.
Inoltre, devono essere attuati protocolli di diagnosi e stadiazione, al fine di rendere più “automatico” e quindi
più veloce l’iter del paziente, soprattutto durante le prime ore dopo l’ingestione, laddove le decisioni sono più
critiche ed in grado di condizionare la prognosi a distanza.

Cosa fare? (viene chiesto sempre all’esame, integrato con sbobine 20/21 e slide)
1. Valutazione e stadiazione: valutare la presenza di perforazione e capire se il pz è in shock, valutando
le funzioni vitali. Questa fase vede l’intervento del medico di PS, del rianimatore e del tossicologo; gli
obiettivi principali sono: mantenimento delle funzioni vitali e trattamento dello shock;

2. Se il pz è in shock allora bisogna trattarlo e ristabilire l’emodinamica, in modo da poter avviare il


percorso diagnostico e stabilire le indicazioni terapeutiche;

3. Appena possibile si farà la diagnosi esatta e la stadiazione delle lesioni: EO, ematochimici comuni, ed
ECG (importante l’ECG, sempre, soprattutto se ingestione dei due acidi sopracitati responsabili di effetti
sistemici).

 EO: Le lesioni del cavo orale non sempre sono presenti.


Nei bambini però tali lesioni sono spesso assai gravi ed esitano in cicatrici retraenti (stent periorali).
Una lesione delle labbra può causare restringimenti con necessità di interventi di chirurgia plastica.
Lesioni dell’ipofaringe possono causare stenosi serrate a livello dell’imbocco esofageo con associate lesioni
laringee.
Nel sospetto di tali lesioni è opportuno eseguire una laringoscopia ed una broncoscopia.
Nel sospetto di gravi lesioni dello stomaco e del duodeno una attenta palpazione dell’addome per escludere
una peritonite ed un addome diretto (perforazioni) sono indispensabili.
Indispensabile anche un Rx Torace per evidenziare versamenti o pneumotoraci (perforazioni esofagee).

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 Particolare attenzione va posta alla conta dei globuli bianchi e all’emogasanalisi  Leucocitosi e
acidosi metabolica sono infatti marker di gravità lesionale;

 L’età avanzata, l’ingestione di acidi forti, la presenza di ulcere gastriche profonde e di necrosi sono
correlabili alla mortalità;

4. Ricorda: non indurre il vomito e non effettuare gastrolusi (non mettere il sondino).

5. Segue poi la fase di diagnosi strumentale: si avvale del radiologo, in alcuni casi dell’ORL, ma
essenzialmente dell’endoscopista.

 Nella maggioranza dei casi è indicata una Rx toraco-addominale standard (2 proiezioni), mentre
indagini più approfondite con m.d.c. idrosolubile (gastrografin) o mediante TC sono riservate ai
pazienti con sospetta perforazione in atto.

 L’endoscopia, nell’ambito delle metodologie attuabili nella fase acuta, costituisce il cardine della
valutazione diagnostica e della stadiazione, poiché permette di verificare:
− La presenza di lesioni
− La gravità delle singole lesioni
− L’estensione delle lesioni per area considerata (ad esempio l’esofago)
− La distribuzione topografica nel tratto digestivo superiore (dal faringe al duodeno)
− La presenza di elementi oggettivi correlabili al rischio di perforazione
Quindi, ha un ruolo cruciale nello stabilire la decisione tra la terapia conservativa e l’intervento
chirurgico.

Timing dell’endoscopia: il più presto possibile in quanto ci serve per:


− Selezionare rapidamente i pz che possono essere dimessi, cioè che non necessitano di ulteriori
provvedimenti, come un pz che ha ingerito accidentalmente la sostanza, con pochi o nessun danno,
no leucocitosi o acidosi metabolica  Score 0.
− Identificare i pz con score 3-4 (lesioni severe o potenzialmente evolutive) dove invece c’è
l’indicazione chirurgica.
 Se c’è sospetto di perforazione però attenzione, questa è una controindicazione all’esame
endoscopico dato che si insuffla aria, che non farebbe che aggravare il quadro e diffondere batteri.
Quindi, in questi casi si porta direttamente il pz in sala, con valutazione intraoperatoria
dell’endoscopista, che sarà importante per guidare l’estensione della resezione chirurgica.

Classificazione endoscopica Niguarda: score dato dal punteggio dato dall’aspetto della mucosa,
dalla presenza e dal tipo di lesioni, dalla motilità del tubo digestivo e dalla motilità degli sfinteri.

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 Se c’è una mucosa normale, con normale motilità, apertura regolare degli sfinteri, il pz è normale:
score 0.
 Con score 2 c’è edema ed eritema della mucosa e necrosi superficiali, la mucosa non è più vellutata
nello stomaco e più chiara in esofago ma diventa bianca, lucida. Motilità normale, sfinteri con
motilità normale o appena ridotta.
 Score 4: mucosa nera, ulcera e necrosi diffuse, sanguinamento spontaneo o indotto, aree di
perforazione imminenti, motilità assente, sfinteri non mobili.

Di solito si possono vedere due tipi di ulcere: quelle biancastre e più lucide sono solitamente
superficiali, quelle bluastre/nerastre sono profonde e segno di perforazione imminente.

Ricapitolando: triage, valutazione parametri, diagnostica e stadiazione.


Ci si trova quindi davanti a tre gruppi di pz:
A. Pz con lesioni viscerali lievi o senza lesioni viscerali (solo eritema ed edema della mucosa): terapie di
supporto, ma dopo poche ore può essere dimesso con l’invito a fare controlli clinici e una valutazione
endoscopica a distanza.
B. Pz con score 3-4, quindi con lesioni più gravi, in genere con segni bioumorali di sofferenza sistemica,
perforazione imminente con ulcere bluastre-nerastre endoscopiche: consulenza chirurgica, si attiva la
sala operatoria, con aiuto dell’endoscopista per la scelta del tipo di resezione da eseguire (alta
probabilità di demolizione resettiva).
C. Pz né lievi né gravi con lesioni viscerali di grado medio: letteratura ancora controversa; con terapia di
supporto possono andare incontro a risoluzione del fatto flogistico e le ulcere non saranno penetranti
oppure, una piccola quantità, potrà peggiorare e andare nella categoria B. Quindi, si ripetono gli esami
ematochimici, per seguire il trend di PCR, pro-calcitonina e acidosi; dopo qualche ora, si può pensare
di ripetere la stadiazione clinica ed endoscopica e se il pz, per esempio, è passato da score 1 a 3 allora
si interviene. Nei casi dubbi è giustificato il ricorso alla chirurgia esplorativa (laparoscopia,
mediastinoscopia, laparotomia), nell’ottica di prevenire la perforazione.

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CHIRURGIA GENERALE - Prof. M. Degiuli
Martedì 19 ottobre 2021
Sbobina: Carolina Nosenzo – Revisione: Chiara Grispi

LESIONI DA CAUSTICI
Il contenuto di questa sbobina è stato fortemente integrato con le slide e la dispensa di chirurgia a nostra
disposizione.
[Ripasso della lezione precedente.
L’ingestione di sostanze caustiche, quali gli acidi o le basi forti, può determinare gravi lesioni al tratto digestivo
superiore, in funzione della categoria chimica, dello stato fisico del caustico, del pH, della concentrazione,
della quantità ingerita e del tempo di esposizione del tessuto. In questi casi la diagnosi e la cura del paziente
prevedono la stretta collaborazione di molteplici figure specialistiche. Poiché in questi pazienti la
sintomatologia non è strettamente correlata alla severità delle lesioni, l’endoscopia ha un ruolo fondamentale
nella gestione multidisciplinare del malato in quanto consente un immediato riscontro di presenza,
localizzazione, estensione e gravità del danno di mucosa.

L’accesso in PS di un pz che presenta lesioni da caustici richiede un approccio multidisciplinare, a causa dei
danni sistemici che queste sostanze possono causare.
L’ingestione di sostanze dette caustiche può avvenire in modo accidentale o volontario e causa una sindrome
piuttosto complessa, caratterizzata soprattutto da severe lesioni viscerali (problemi locali del primo tratto
GE), talvolta irreversibili, ma anche a volte da effetti sistemici.
È una sindrome che, nei casi più̀ gravi, ha una mortalità estremamente elevata: al di sopra del 50%,
corrispondente alla mortalità delle complicanze per anastomosi intratoraciche. Una sepsi di partenza
mediastinica infatti, indipendentemente dall’eziologia, ha una mortalità >50%.

Epidemiologia
Rispetto alle curve di incidenza riferite ai primi anni 2000, sicuramente ora c’è un lieve calo del fenomeno.
Questo perché c’è stato un intervento da parte delle autorità̀, un incremento della sensibilità̀ al problema da
parte della popolazione e infine le industrie produttrici attualmente sono tenute a segnalare sulle confezioni
il tipo di sostanze presenti, favorendone così l’identificazione; inoltre l’utilizzo di tappi di sicurezza, che
dovrebbero proteggere i bambini ha contribuito al calare di questo trend.

Definizioni
I caustici sono sostanze di tre tipi, acidi forti (pH < 2), basi forti (pH >12) e
agenti ossidanti.
- Acidi forti: acido solforico (vetriolo), acido cloridrico, acido nitrico,
acido fosforico, acido ossalico. Si trovano nelle batterie, nei
detergenti dei sanitari o dei metalli, in quanto sono sostanze
antiruggine. In genere gli acidi forti provocano danni per necrosi
coagulativa, con formazione di escara e lesioni penetranti soprattutto
a livello dello stomaco più̀ che dell’esofago.
- Basi forti: idrossido di sodio (soda caustica), di potassio, di ammonio (ammoniaca). Si usano nelle
lavastoviglie, detergenti domestici, disinfettanti. Hanno azione più̀ immediata, provocano danno
soprattutto all’esofago, agiscono per denaturazione delle proteine e non per disidratazione, causano
necrosi colliquativa e non coagulativa e hanno bisogno di un minor tempo di contatto.
- Agenti ossidanti: candeggina e acqua ossigenata, sono sbiancanti o disinfettatati. Azione per
disidratazione -> necrosi coagulativa.
Le sostanze caustiche in grado di determinare lesioni digestive sono solitamente acidi o basi forti, con
valori di pH inferiori a 3 o superiori a 12. Le preparazioni in commercio possono essere liquide, granulari,
in pasta o solide, con concentrazioni della sostanza caustica variabili.

19
I caustici sono in grado di provocare lesioni da intensa flogosi chimica delle pareti dei visceri cavi, con tendenza
alla necrosi, alla transmuralizzazione e alla perforazione. Il danno, nella maggior parte dei casi, si verifica
entro alcuni minuti, massimo 1 ora, dall’ingestione. La perforazione viscerale costituisce l’evento più temibile
e potenzialmente letale per il paziente: può verificarsi contemporaneamente in diverse aree dell’esofago,
dello stomaco e del tenue prossimale. La perforazione rappresenta un elemento determinante per la prognosi,
anche se in modo differente: la perforazione dello stomaco, infatti ha mortalità̀ minore rispetto a quella
dell’esofago.

Inoltre, soprattutto con gli acidi forti, che agiscono per più̀ tempo, ci possono essere perforazioni multiple.
La maggior parte delle sostanze caustiche provoca effetti rigorosamente locali, limitati alla sede di contatto.
Fanno eccezione:
- Acido fluoridrico: presenta un’azione tossica sistemica mediata dalla sua capacità di chelare il calcio
ionizzato plasmatico, con conseguente grave ipocalcemia. Ne derivano quindi gravi sequele cardiache
(FA) e neuromuscolari (disturbi di conduzione).
- Acido fosforico (parzialmente)

Nella gestione del paziente con lesioni da caustici intervengono molti professionisti: il medico di pronto
soccorso, il tossicologo (raro che ci sia), l’anestesista/rianimatorie, il radiologo, l’endoscopista e infine il
chirurgo che dovrà̀ porre le indicazioni per il trattamento chirurgico d’urgenza.] L’importante in questi casi è
procedere con un’adeguata diagnosi e stadiazione del quadro clinico del pz, in quanto ad ogni stadio
corrisponde un diverso percorso terapeutico. È fondamentale che i protocolli vengano attuati il più
velocemente possibile, in modo da agire entro le prime ore dall’ingestione che sono le più critiche e in grado
di condizionale la prognosi. In fase di accettazione del paziente gli obiettivi primari sono il mantenimento
delle funzioni vitali e il trattamento dello shock (quando presente). Si esegue poi un preciso staging clinico,
mediante esame obiettivo, test ematochimici e ECG. Si distinguono pertanto 3 grosse classi, cui
corrispondono 3 tipi fondamentali di strategie:
A. Classe di pz con lesioni viscerali lievi o solo eritema e edema della mucosa, che non presentano
compromissione sistemica e a cui vengono somministrate terapie di supporto. Il paziente viene
tenuto in osservazione per un breve periodo e poi dimesso con l’invito a effettuare controlli clinici e
valutazione endoscopica a distanza. In questo caso si ha sia clinica che imaging negativi.
B. Classe di urgenza: pz con lesioni gravi, che va operato subito, in quanto presenta dei segni clinici di
sepsi (leucocitosi e acidosi) e strumentali di perforazione. La perforazione può localizzarsi a livello
del mediastino (con mortalità >50% di base) o a livello addominale, quest’ultima con conseguenze
molto gravi e una mortalità molto alta, che dipende dalla tempestività dell’intervento. I pz che
presentano una perforazione del tratto gastroenterico se operati entro 2 ore dall’evento hanno oltre
il 90% di outcome positivo, mentre se operati oltre le 6 ore il rischio di morte arriva fino al 90%.
C. Classe di pz intermedia, con lesioni né gravi né lievi che hanno per esempio ulcere bianche multiple,
cui viene somministrata una terapia di supporto e possono andare incontro a risoluzione del processo
flogistico senza formazione di ulcere penetranti, oppure peggiorare e rientrare nella classe di
urgenza. In questi casi tuttavia è opportuno suggerire un’attenta valutazione dei segni bioumorali di
severità e la ripetizione dopo qualche ora della stadiazione clinico-endoscopica in ambiente protetto

20
(in ospedale il luogo in cui avviene è l’OBI= osservazione breve intensiva). In casi dubbi è del tutto
giustificato il ricorso alla chirurgia esplorativa (laparoscopia, mediastinoscopia, laparotomia),
nell’ottica di prevenire la perforazione.

Gli indici di gravità della situazione sono principalmente: leucocitosi e acidosi metabolica (verificata
mediante EGA). La gravità della lesione può dipendere inoltre da diversi fattori, insiti nella sostanza o legati
alle caratteristiche cliniche del paziente:
- potere corrosivo intrinseco della sostanza, diverso da sostanza a sostanza;
- dalla sua concentrazione (se diluita o meno);
- dal tipo di preparazione commerciale (liquido, in pasta, granulare) che determina il tempo di
esposizione;
- modalità̀ di ingestione (volontaria o accidentale) tipiche di due età̀ diverse, la prima è degli adulti, la
seconda soprattutto pediatrica;
- quantità̀ ingerita, diversa nei due casi;
- stato di pienezza gastrica, con possibile auto-tamponamento (anche solo la presenza dell’acqua è
utile).
 Anche fattori come l’età avanzata, l’ingestione di acidi forti, la presenza di ulcere gastriche, ma
soprattutto esofagee profonde e di necrosi sono indici di gravità della situazione.

[L’ingestione di caustici può essere:


- Accidentale nell’infanzia: dovuta alla curiosità dei bambini e leggerezza dei genitori o nonni
(conservano caustici in bottigliette, talvolta con etichette pericolose). L’ingestione in questi casi è
limitata al primo sorso per cui le lesioni sono più limitate (cavo orale, talora esofago), in quanto
intervengono i meccanismi di difesa: si interrompe la deglutizione e si espelle subito la sostanza.
- A scopo suicida nell’adulto: l’ingestione è massiva ed il danno si estende oltre che al cavo orale ed
all’esofago anche allo stomaco ed al duodeno (l’interessamento di stomaco e duodeno è raro
nell’infanzia). In questi casi l’atto deglutitorio forzato consente il rapido transito esofageo di notevoli
quantità di caustico. La maggior parte delle soluzioni liquide alcaline è insapore e inodore e viene
deglutita prima che possano intervenire riflessi protettivi. Il vomito, spontaneo o provocato,
determina un secondo passaggio (retrogrado) della sostanza caustica in esofago, aggravandone il
quadro lesionale. È importante quindi in questi casi NON provocare il vomito e NON effettuare
gastrolusi (lavanda gastrica).]

Quadro clinico
La sintomatologia del pz con lesioni da caustici dipende in parte dalle lesioni provocate dalla sostanza ingerita
e in parte dalla reattività intrinseca dell’individuo. È impossibile stabilire sempre una sicura correlazione tra

21
sintomatologia e severità del danno viscerale, per cui è necessario che lo staff sanitario presti particolare
attenzione al fine di evitare condizioni di sottostima del problema.

Fase di diagnostica strumentale e primo intervento


- [Il primo obiettivo è identificare il tipo di caustico
- La conoscenza di tale evento può indirizzare verso una prognosi
sull’estensione della causticazione
- Le basi come l’ammoniaca in genere causano lesioni più superficiali
che interessano la sola mucosa senza penetrare negli strati più
profondi della parete esofagea. Guariscono pertanto senza lasciare
stenosi a lungo termine.
- Esame obiettivo:
 Le lesioni del cavo orale non sempre sono presenti. Nei bambini
però tali lesioni sono spesso assai gravi ed esitano in cicatrici
retraenti (necessari stent periorali).
 Una lesione delle labbra può causare restringimenti con
necessità di interventi di chirurgia plastica
 Lesioni dell’ipofaringe possono causare stenosi serrate a livello
dell’imbocco esofageo con associate lesioni laringee
 Nel sospetto di tali lesioni è opportuno eseguire una laringoscopia ed una broncoscopia
 Nel sospetto di gravi lesioni dello stomaco e del duodeno un’attenta palpazione dell’addome per
escludere una peritonite ed un addome diretto (perforazioni) sono indispensabili
 Indispensabile anche un RX Torace per evidenziare versamenti o pneumotoraci (perforazioni
esofagee)
- Somministrazione di liquidi endovena con cannula centrale
- Antibiotici a largo spettro: Ampicilline o Cefalosporine]

Questa fase si avvale del radiologo, in alcuni casi dell’otorinolaringoiatra, ma


essenzialmente dell’endoscopista. Nei casi di lesioni non gravi si può ricorrere alla
sola radiografia toraco-addominale standard, mentre nei pazienti in cui si
sospetta la presenza di una perforazione in atto sono indicate indagini più
approfondite come la TC con mdc idrosolubile (non Bario!).
Dopodichè è indispensabile per fare diagnosi e stadiare i pz l’endoscopia.
Fase endoscopica: l’endoscopia costituisce il cardine della valutazione
diagnostica e della stadiazione, in quanto permette di verificare:
 La presenza di lesioni (da infiammatorie a ulcerative)
 La gravità delle singole lesioni (gli stadi)
 L’estensione delle lesioni per area considerata (ad es: faringe,
esofago, stomaco, duodeno)
 La distribuzione topografica del tratto digestivo superiore
 La presenza di elementi oggettivi correlabili al rischio di
perforazione, che sono principalmente aspetto e colore delle
lesioni ulcerative (se bianche sono meno gravi; se scure sono
invece penetranti e potrebbero già aver perforato l’organo).
L’endoscopista inoltre ha l’importante ruolo di stabilire l’indicazione alla terapia
conservativa o all’intervento chirurgico.
L’osservazione endoscopica deve essere il più precoce possibile, in base sia alla disponibilità della sala e
dell’endoscopista, sia alle condizioni del paziente, per distinguere rapidamente i pazienti che non necessitano
di ulteriori provvedimenti sanitari e che possono essere dimessi da quelli che invece presentano lesioni
severe e potenzialmente evolutive.
I pazienti con perforazione in atto (in torace o in addome, visibile alla TC come presenza di contenuto
fluido/gassoso nel mediastino o nella cavità addominale) costituiscono una forte limitazione o addirittura

22
controindicazione all’esame endoscopico, in quanto si tratta di un esame che prevede l’insufflazione di aria
all’interno del viscere, che non farà altro che favorire la manifestazione piena della lesione. Per questo motivo
spesso l’endoscopista è restio nell’eseguire l’esame in un paziente che presenta lesioni da caustici con
sospetto di perforazione. Se il paziente è perforato e ha un inizio di mediastinite o di peritonite l’indagine
endoscopica non serve più, ma è necessario intervenire chirurgicamente. In questi casi dunque si esegue
l’endoscopia in sede intraoperatoria, ove costituirà un validissimo aiuto per il chirurgo, per capire quanto
tessuto asportare. Nei casi invece ancora dubbi anche alla TC, nonostante si sospetti una perforazione, è
bene eseguire l’esame endoscopico ugualmente (nonostante gli endoscopisti siano restii).

La classificazione endoscopica dell’ospedale di Niguarda prevede l’utilizzo di uno score che è determinato
dalla valutazione di alcuni parametri, che sono:
- l’aspetto della muscosa alla visione endoscopica
- la presenza e il tipo di lesioni che sono visibili
- la motilità dell’organo cavo
- la funzionalità degli sfinteri (UES e LES).
Abbiamo diverse situazioni:
 Se la mucosa è normale, non ci sono lesioni, la motilità è normale e gli sfinteri non sono lesionati lo
score sarà 0 e il paziente può essere dimesso.
 Se c’è edema o eritema della mucosa, senza lesioni e con motilità e sfinteri lesionati lo score sarà 1
e il paziente viene tenuto più in osservazione e verrà dimesso nel breve tempo.
 Gli stadi 2 e 3 prevedono un’osservazione più intensiva, in OBI, in quanto nello stadio 2 oltre
all’edema ed eritema compare la necrosi superficiale (quindi il primo stadio delle ulcere); la motilità
è ancora normale e gli sfinteri possono essere o normali o possono presentare una riduzione del
tono. Nello stadio 3 invece compaiono delle vere e proprie ulcere anche confluenti, con emorragia
della mucosa e necrosi, riduzione della motilità e del tono degli sfinteri.
 Infine, un paziente in stadio 4 viene direttamente indirizzato alla sala operatoria, in quanto presenta
una necrosi diffusa della mucosa, ulcere scure e profonde, emorragia severa e aree di perforazione,
motilità assente e sfinteri atonici.

Ricapitolando quindi abbiamo 3 strategie di soluzione:


- Pz con lievi lesioni viscerali senza compromissione sistemica -> terapia di supporto + dimissione +
controllo endoscopico a 15gg;
- Pz con gravi lesioni viscerali con compromissione sistemica -> inviato in sala operatoria;
- Pz con ulcere di grado medio -> osservati e si vede dove finiscono, se nel gruppo delle urgenze o se
nel gruppo non urgente.

23
(Per chi è interessato nelle slide c’è un video dell’endoscopia di una pz con lesioni da caustici)

[Il professore cita tra i tumori benigni dell’esofago solo il leiomioma (+GIST maligno), che non spiega, ma sono
gli unici a sua detta da sapere. Per completezza si riportano le slide e il contenuto di altre dispense.
PATOLOGIA BENIGNA DELL’ESOFAGO (+GIST)
I tumori benigni dell’esofago costituiscono lo 0.5% - 2% delle neoplasie dell’esofago. Si distinguono in:
• proliferazioni tumorali:
leiomioma
leiomioblastoma
fibroma
lipoma
schwannoma
• proliferazioni non tumorali:
papilloma
polipo fibrovascolare
LEIOMIOMA
Il leiomioma origina dalla muscolatura liscia dell’esofago e rappresenta il 12.2% di tutti i leiomiomi
dell’apparato gastroenterico. Insorge più frequentemente nel III inferiore dell’esofago e di solito è unico, ma
può essere anche multiplo fino al quadro di miomatosi diffusa.
Anatomia patologica
Alla macroscopica si osserva:
• neoformazione ovalare che aggetta nel lume esofageo rivestita da mucosa intatta
• dimensioni variabili fino al mioma gigante che avvolge a cravatta l’esofago
Alla descrizione microscopica invece:
• fasci variamente intrecciati di miocellule
• ipocellularità, ipovascolarizzazione
• calcificazioni
• intensa fibrosi
Sintomatologia
- disfagia causata da:
• leiomiomi epicardiali
• leiomiomi sottomucosi
che causano ostacolo al transito alimentare
- tosse e dispnea da sforzo causata da:
• leiomiomi III superiore
• leiomiomi della tonaca esterna
con conseguente compressione e dislocazione della trachea.

24
Diagnosi
Prevede l’utilizzo dei seguenti imaging:
- Rx transito
- EGDS
- TC torace
- RMN torace
- Ecoendoscopia
È importante la DD con il GIST.
Terapia
- Enucleazione della massa per via toracotomica destra
- Enucleazione per via toracoscopica sotto controllo endoscopico
- Resezione esofagea (eccezionale)

TUMORI GASTROINTESTINALI STROMALI (GIST)


Derivano dalle cellule stromali appartenenti alla parete dell’organo. Si tratta di tumori leggermente più
comuni negli uomini, con un picco intorno ai 60 anni. Dal punto di vista eziopatogenetico è possibile
riscontrare:
- Mutazione oncogene codificante per c-KIT (80-85%): si tratta di un recettore tirosina kinasico,
espresso nelle cellule interstiziali di Cajal; sono cellule che regolano la peristalsi, comportandosi da
pacemaker GI e facendo da interfaccia tra il SNA e il sistema nervoso mio-enterico;
- Mutazione attivante del PDGFR-A (5-10%);
- Altre mutazioni (5-10%).

Dal punto di vista clinico, invece, possono comparire dolore addominale e melena con rischio di
anemizzazione, mentre la prognosi è influenzata da:
- Dimensioni della massa
- Tasso di mitosi (ovvero il numero di mitosi in 50 campi ad alto ingrandimento – HPF 40x)
- Tipo di mutazione di c-KIT
- Sede (i GIST gastrici hanno prognosi migliore rispetto a quelli intestinali, grazie a una diagnosi
precoce)
- Necrosi.
Per il GIST non vale la classificazione TNM (sarebbe già considerato un T2 per definizione), ma si sono stabilite
delle categorie di rischio, valutate in base ai seguenti parametri:

Per quanto riguarda la terapia, il trattamento primario è l’escissione chirurgica del tumore con margini ampi
(se GIST ampio si esegue gastrectomia subtotale). Il tipo e l’estensione dell’operazione dipendono molto dalle
dimensioni e dalla localizzazione del tumore. Le recidive sono rare se le dimensioni del GIST sono <5cm, mentre
sono frequenti se le dimensioni sono >10cm.
In caso di patologia metastatica, ricorrente o non asportabile, si ricorre alla terapia medica, somministrando
il Gleevec o Imatinib, il quale inibisce diverse tirosin-chinasi (ABL, c-KIT, BCR-ABL e PDGF).]

25
PATOLOGIA MALIGNA DELL’ESOFAGO (e condizioni predisponenti)
I tumori maligni dell’esofago hanno scalato la classifica della mortalità negli ultimi anni poiché costituiscono
la 15° causa di morte nei paesi occidentali e la 5° causa di morte nei paesi in via di sviluppo. Colpiscono
maggiormente i soggetti con età compresa tra i 50 e i 70 anni, con un picco massimo nella 6° decade.
Negli USA sono molto più colpiti i maschi rispetto alle femmine (3:1/4:1). In Italia il tumore dell’esofago
costituisce il 3% di tutte le neoplasie nel sesso maschile, l’1% nel sesso femminile. L’incidenza annua è
compresa tra il 3-5/100.000 con un rapporto M:F pari a 6:1 (il sesso maschile è un fattore di rischio altamente
significativo). Nel Friuli-Venezia-Giulia l’incidenza è ancora elevata (5/100.000 abitanti), ma lo era di più̀ nel
passato quando il consumo di cibi caldi (ad esempio: la polenta) era più̀ importante; questo perché́ il calore
ha un ruolo nella flogosi cronica.

Condizioni predisponenti e fattori rischio


- Tabagismo: il fumo di tabacco contiene sostanze ad azione promuovente e cancerogena (i prodotti
di combustione) e idrocarburi aromatici (cancerogeni diretti). Le elevate temperature sviluppate
durante la combustione esercitano un’azione irritativa sulle mucose. Inoltre agisce in maniera
indiretta a livello esofageo determinando riduzione del tono del LES e della clearance esofagea, con
conseguente aumento di reflusso ed esofagite cronica.
- Assunzione di superalcolici: contengono nitrosamine, composti N-nitroso-derivati (azione
cancerogena diretta) e conservanti ad azione promuovente. Possono inoltre determinare
l’insorgenza di esofagite cronica (legata anche all’alta gradazione alcolica).
- Combinazione tabacco+superalcolici: il rischio nei forti fumatori e alcolisti cronici di insorgenza di K
esofageo è aumentato del 54.2% rispetto ai soggetti non esposti.
- Assunzione accidentale o volontaria di caustici: aumentano il rischio di sviluppo di carcinomi
dell’esofago di 1000 volte rispetto alla popolazione generale e possono avere una latenza da 5 a 20
anni. Le neoplasie insorgono soprattutto sulle stenosi cicatriziali: infatti questa, come tutte le altre
cause di infiammazione, provoca una risposta cicatriziale che è una delle cause di evoluzione
cancerosa.
- Acalasia: questa patologia causa il ristagno di materiale, che macera e provoca irritazione della
mucosa andando incontro flogosi cronica.
- Acantosi nigricans (“lasciamo perdere”): manifestazione cutanea caratterizzata da zone
iperpigmentate, mal delimitate, che compaiono tipicamente a livello delle pieghe cutanee
(collo, ombelico, inguine, ascelle)1. Questa patologia è associata all’insorgenza di adenocarcinomi del
tratto gastrointestinale.
- HPV (solo alcuni ceppi): soprattutto nell’esofago cervicale.
Secondo la meta-analisi di PLOS-ONE: c’è associazione fra HPV + e carcinoma squamoso
dell’esofago. [sbobine 2019: sono 21 studi caso-controllo, per un totale 1200 casi e 1415 controlli. Si
è visto che l’infezione da HPV, in un’analisi multivariata, è un fattore predisponente per il carcinoma
spinocellulare dell’esofago con un Odd Ratio di 3.04→rischio triplicato, i pazienti con infezione HPV
hanno 3 volte la possibilità̀ di avere un tumore dell’esofago]. Questo era risaputo per il cancro
orale, ma è presente anche nell’esofago cervicale.
- Sindrome di Plummer-Winson (presente nelle slide ma non nominata da professore): caratterizzata
da disfagia (dovuta alla presenza di una membrana sul pilastro esofageo anteriore, che è una lesione
premaligna), anemia ipocromica microcitica e cheilite angolare.
- Fattori dietetici
- Malattia da reflusso gastroesofageo (GERD o MRGE): aumenta il rischio di esofago di Barrett
(metaplasia), che ha alta probabilità di evoluzione maligna.
- Esofago di Barrett (vedi dopo)
- Sesso maschile
- Obesità (legata alla MRGE in quanto quest’ultima è una conseguenza dell’obesità )

1
Definizione tratta da Wikipedia

26
- Ernia jatale
Questi fattori sono tutti collegati tra di loro: il sesso maschile, l’obesità, il fumo e l’alcol favoriscono l’ernia
iatale, che favorisce la MRGE, che causa lo sviluppo dell’esofago di Barrett, il quale predispone all’insorgenza
di carcinoma dell’esofago.

 Malattia da reflusso gastroesofageo (GERD, GastroEsophageal Reflux Disease)


La malattia da reflusso gastro-esofageo aumenta in
modo significativo l’incidenza dell’esofago di Barrett:
infatti 1/4 (2-24%) dei pazienti GERD sviluppa l’esofago
di Barrett, il quale è l’inizio del percorso dalla
metaplasia, alla displasia, fino all’adenocarcinoma.
Si passa da una condizione di reflusso gastroesofageo
alla presenza di metaplasia (Esofago di Barrett), che
evolve in displasia prima di basso grado e poi di alto
grado (=presenza di atipie nel nucleo e negli organelli),
fino all’adenocarcinoma.
[Sbobine 2019: la malattia da reflusso gastro-esofageo
non è da confondere con il semplice reflusso gastro- esofageo: tutti hanno il reflusso GE che però non è
patologico perché́ ha delle caratteristiche di acidità̀ assoluta, di numero di reflussi etc… che garantiscono
all’esofago di non sviluppare la flogosi. Dal reflusso, attraverso lo sviluppo di una flogosi cronica, c’è un
cambio dell’aspetto cellulare, le cellule diventano metaplasiche e possono sviluppare displasia in diversi gradi
fino ad arrivare all’adenocarcinoma. Spesso ciò̀ avviene anche attraverso lo sviluppo dell’esofago di Barrett.]
(vedi lezione sulla MRGE)

 Esofago di Barrett (EB)


L’epitelio (o esofago) di Barrett è una metaplasia ovvero un cambiamento anomalo delle cellule del terzo
inferiore dell’esofago (da Wikipedia: trasformazione di un tessuto già differenziato in un altro simile per
origine embriologica, del quale acquisisce le caratteristiche istologiche). Esso è caratterizzato dalla
sostituzione del normale rivestimento dell’epitelio squamoso stratificato dell’esofago con epitelio cilindrico
semplice con cellule mucipare caliciformi (tipiche del tratto intestinale).

(questa è la definizione di EB che il professore riporta nelle slide, ma lui preferisce utilizzare una definizione
più precisa che riportiamo qui sotto)

L’EB è una condizione precancerosa per la cui diagnosi è necessario soddisfare due requisiti:
1) uno di tipo anatomico (quindi endoscopico): mediante la valutazione della risalita della linea Z al di
sopra della giunzione gastroesofagea;
2) uno di tipo istologico: la presenza di metaplasia intestinale nelle biopsie della mucosa che è risalita.
Nell’ EB si avrà quindi un misto tra una condizione istologica e una anatomica. La diagnosi di EB è posta con
la presenza di entrambi i requisiti.
Attenzione: non tutte le risalite della linea Z sono esofago di Barrett.

(sostanzialmente il prof preferisce non definire l’EB come solo una metaplasia, bensì come una condizione
caratterizzata sia da metaplasia sia da risalita della linea Z, visibile all’endoscopia).

Il rischio di sviluppare un adenocarcinoma nell’esofago di Barrett è circa dello 0.5% per anno-paziente; per
questo motivo l’esofago di Barrett è considerato una condizione precancerosa. L’incidenza nella popolazione
generale dell’EB è dello 0.02-0.22%.

27
Storia naturale
La metaplasia quindi evolve poi in displasia (in cui
abbiamo la perdita di controllo sulla replicazione,
che però non ha ancora assunto caratteristiche di
invasione; c’è solo un’alterazione morfologica),
che a sua volta evolve in carcinoma in situ (alcuni
autori considerano la displasia di alto grado già
carcinoma in situ). Il carcinoma in situ è un
carcinoma che non supera la membrana basale
(che separa l’epitelio dalla lamina propria), per cui
non dà complicanze di tipo invasivo, in quanto
nell’epitelio non si trovano vasi sanguigni o
linfatici. Il carcinoma in situ è detto anche
carcinoma intraepiteliale. Se invece il carcinoma
supera la MB e infiltra la lamina propria o al massimo la muscolaris mucosae senza andare oltre, il carcinoma
si chiamerà carcinoma intramucoso. Una volta superata la muscolaris mucosae il carcinoma è detto invasivo
(è ciò che ha detto lui a lezione, ma da ciò che abbiamo studiato nelle altre materie e da ciò che c’è scritto su
internet il carcinoma è invasivo se supera la membrana basale).
I tumori che infiltrano la mucosa e raggiungono la sottomucosa sono suddivisi in tre categorie, a seconda del
fatto che invadano il primo terzo, i primi due o tutti e tre i terzi della sottomucosa (SM1, SM2, SM3). Questa
classificazione ha un risvolto terapeutico poiché i tumori che invadono il primo terzo della sottomucosa
possono essere trattati con un’asportazione locale, mentre per gli altri si agirà differentemente. La scelta di
un trattamento locale conservativo va fatta nel momento in cui il rischio di metastasi linfonodali è vicino allo
0 (non è mai 0, a meno che non sia in situ). Questo perché con un intervento locale di asportazione i linfonodi
locoregionali non vengono toccati.

(riassumendo)
Sequenza da reflusso a carcinoma invasivo: metaplasia (EB) -> displasia di basso grado -> displasia di alto
grado -> carcinoma (da in situ fino a invasivo).

Fattori di rischio dell’EB:


- Sesso maschile: più̀ facilmente è candidato a sviluppare MRGE per il BMI elevato.
- Storia di malattia da reflusso gastro-esofageo e duodeno-gastrico
- BMI elevato-obesità centrale
- Razza caucasica
- Età > 50 anni
- Fumo: riduzione della capacità sfinteriale del LES e della clearance esofagea.
- Alcol: come il fumo
- Eradicazione dell’Helicobacter pylori: negli anni 80-90 c’è stata una grossa campagna per
l’eradicazione dell’HP in quanto causa delle malattie peptiche e del carcinoma gastrico delle zone più
distali solitamente e quindi corpo e antro, ma a volte anche fondo. Un paziente dopo la terapia
eradicante torna ad avere un pH normale (quando invece l’HP aumenta il pH, rendendolo più basico,
agendo per distruzione delle ghiandole gastriche -> dopo terapia aumenta quindi il contenuto acido),
e quindi se presenta reflusso questo lo esporrà ad una esofagite cronica e a esofago di Barrett. Chi è
dunque affetto da gastrite atrofica da HP avrà un diminuito rischio di esofagite e EB, ma un
aumentato rischio di carcinoma gastrico. Le osservazioni epidemiologiche dei paesi occidentali degli
ultimi 20 anni confermano questa diminuzione, registrando una riduzione del tumore gastrico
antrale, con aumento dell’esofagite, della MRGE, della neoplasia della zona cardiale e dell’esofago
distale, che tra l’altro hanno una prognosi peggiore rispetto a un carcinoma gastrico.
[sbobine 2019: EB è una malattia in forte aumento nei paesi economicamente sviluppati per il
maggior numero di obesi, di fumatori ed ha cambiato l’aspetto del carcinoma gastrico nei paesi
occidentali (EU, USA) rispetto ai paesi asiatici: nelle nostre zone è aumentata tantissimo l’obesità , e

28
di conseguenza la malattia da reflusso, mentre l’Helicobacter Pylori è stato controllato; il carcinoma
distale dello stomaco che dipende dall’infezione di H.P, è in diminuzione mentre è in aumento il
tumore del cardias e dell’esofago. Il professore, che si occupa di tumori dello stomaco, riferisce che
questo è stato il primo anno in cui i tumori del cardias che hanno trattato sono stati superiori ai tumori
dello stomaco→situazione che rispecchia le popolazioni occidentali.]
- Ritardo diagnostico: questo perché spesso sono giovani, hanno 20-30 anni (-> problema della terapia
a vita)

Segni e sintomi
I segni e sintomi dell’esofago di Barrett sono quelli della malattia da reflusso, in quanto il passaggio da cellula
normale a cellula metaplastica non provoca alcun sintomo.
 Epigastralgia
 Pirosi e dolore retrosternale [sbobine 2019: dolore entra il DD con malattie ischemiche e calcolosi
della colecisti + domanda che fanno spesso agli esami: qual è la triade di Saint? Calcolosi della
colecisti, ernia jatale con malattia da reflusso, diverticolosi del colon]
 Disfagia per un’esofagite importante → una delle conseguenze delle esofagiti sono le guarigioni
con stenosi [sbobine 2019]
 Ematemesi (rarissima, solo per ulcere importanti)
 Perdita di peso (nelle fasi avanzate, quando sono presenti ulcere).

Classificazione
L’EB può̀ essere classificato a seconda dell’estensione:
 Segmento corto: minore di 3 cm
 Segmento lungo: maggiore o uguale a 3 cm. Questa forma diventa in realtà a rischio sopra ai 5 cm.
[Sbobine 2020: Recentemente sembra che già̀ il segmento lungo a 3 cm risulti essere rischioso (e non
solo oltre i 5 cm)].
[Sbobine 2019] Tutti i pazienti con Barrett dimostrato, a prescindere dal rischio istologico, vengono
sottoposti a follow up endoscopico; quando si fa diagnosi di Barrett questa va confermata con
un’endoscopia a breve, non tanto perché́ una non sia sufficiente per avere conferma, quanto per
essere sicuri che non ci sia il cancro; bisogna infatti essere sicuri di aver fatto bene le biopsie e di non
essersi dimenticati di qualche displasia o già̀ addirittura di un carcinoma infiltrante. Per questo motivo
si ripete la biopsia a breve, 3- 6 mesi. Nel Barrett senza displasia (quindi “semplice” metaplasia
intestinale o gastrico-fundica) l’orientamento è di effettuare 2 gastroscopie nel primo anno, di cui
una è quella di conferma, e poi ogni 2- 3 anni (differenza a seconda delle diverse scuole di pensiero
delle società̀ di endoscopisti dei vari paesi). Il principio è comunque che più̀ è alto il rischio e più̀ la
frequenza è alta, più̀ basso è il rischio e più̀ bassa è la frequenza. È però importante considerare che
l’endoscopia fatta così di massa ha un costo sociale ed ha anche un rischio per il paziente, seppur
minimo.]

Diagnosi Endoscopica
La linea Z rappresenta il punto di passaggio tra le mucose dell’esofago e dello
stomaco, che hanno caratteristiche e aspetto differenti, visibili all’endoscopia:
la mucosa esofagea normalmente è liscia bianco-grigiastra opaca, mentre
quella gastrica ha un colore di aspetto rosa salmone vellutato. Il confine tra le
due mucose, ovvero la giunzione esofago-gastrica, è segnata da una linea
frastagliata, che prende appunto il nome di linea Z. Il dislocamento della linea
Z può essere circonferenziale, ma anche a becco di flauto o a fiamma.
All’endoscopia, inoltre, è possibile distinguere altri due tipi di mucosa: la
mucosa cardiale e la mucosa fundica. A seconda del tipo di metaplasia e del
tipo di rischio a cui è esposto il singolo paziente si mette a punto un programma personalizzato di controlli
endoscopici.

29
L’endoscopista comunque può solo parlare di sospetto di esofago di Barrett e procedere alla descrizione
morfologica della mucosa, facendo affidamento alla classificazione di Praga. Questa classificazione descrive
la topografia della mucosa vellutata in esofago, misurando in centimetri dalla giunzione esofago-gastrica:
- il margine superiore del tratto “circonferenziale” più ampio (“C”) che è risalito
- il margine superiore dell’estensione a “fiamma” della mucosa di tipo metaplastico (“M”)
nell’immagine: C di 2 cm, M di 5 cm.

Maggiore è la risalita della linea Z, più il rischio è alto, per questo motivo si descrive il reperto endoscopico
attraverso la classificazione di Praga. I Barrett a basso rischio hanno una metaplasia di tipo gastrico-cardiale
o gastrico-fundica. Quelli ad alto rischio hanno una metaplasia di tipo intestinale, misto intestinale-gastrico
(in questo caso prende la classe di rischio dell’istotipo peggiore, ovvero l’intestinale), oppure una metaplasia
gastrico-cardiale o gastrico-fundica con estensione maggiore di 5 cm (anche solo una fiamma).

Basso rischio Alto rischio


Epitelio gastrico-cardiale Epitelio intestinale
Epitelio gastrico-fundico Epitelio misto
Epitelio a basso rischio (cardiale o fundico) con
estensione maggiore di 5 cm

Quando effettuare i controlli? Dipende dal tipo di displasia. Nella displasia le cellule diventano atipiche e se
ne possono distinguere 3 tipi: alto, medio e basso grado. Ad oggi in realtà i patologi utilizzano solo alto e
basso grado; si parla di displasia di basso grado quando meno del 50% delle cellule presenta alterazioni di
dimensioni, forma e organizzazione, mentre si parla di displasia di alto grado quando più del 50% delle cellule
è interessato da queste alterazioni.

[Da sbobine 2020: i programmi di controllo sono effettuati con intervalli molto brevi nei pazienti ad alto
rischio. Tuttavia, anche nei pazienti a basso rischio non è detto che 5 anni dopo non abbia sviluppato una
metaplasia con un altro epitelio, quindi il paziente rimane sotto controllo ma con intervalli più̀ lunghi.
A seguito dei soli criteri anatomici riscontrati con l’endoscopia, possiamo definirlo Endoscopically suspected
esophageal metaplasia (ESEM), in attesa del criterio istologico. A questo punto, per avere la conferma di
Barrett devo valutare la metaplasia attraverso la biopsia.
Ad esempio: potrei avere una risalita ed una fiamma a livello endoscopico (si parla di sospetto di Barrett o
ESEM), ma se non c’è la metaplasia alla biopsia NON E’ UN BARRETT, ed è un “finto Barrett”; non tutti quelli
che hanno la risalita della linea Z hanno EB.]

Biopsia esofagea
A questo punto quindi, dopo aver fatto l’endoscopia e aver avuto il sospetto di EB si esegue una biopsia che
può dare i seguenti risultati:
- Barrett senza displasia: alla biopsia è confermata la presenza di metaplasia, ma senza displasia.
Questi pazienti vengono controllati 2 volte nel primo anno: la prima endoscopia serve per
confermare l’assenza di displasia, per cui in questa sede verrà eseguita nuovamente una biopsia (3
prelievi); dopodiché si effettuerà ogni 3 anni poiché il rischio di evoluzione è bassissimo.
- Barrett con displasia lieve: sottoposto a stretta sorveglianza; la prima endoscopia sarà fatta dopo 6
mesi, dopodiché se è tutto confermato si passa a una sorveglianza ogni 6-12 mesi.
- Barrett con displasia grave: non è ancora evoluta in cancro, ma è in progressione, pertanto questi
pazienti devono essere trattati. Non essendoci ancora neoplasia, quindi nessun rischio di avere
metastasi linfonodali, il trattamento è locale endoscopico. I trattamenti locali sono sostanzialmente
due:
1) La resezione mucosa endoscopica (EMR, endoscopic mucosal resection): è una tecnica che si
utilizza anche per lo stomaco e il retto.
2) Ablazione: si serve di più tecnologie; la più utilizzata è quella con radiofrequenze.
Nel caso si decidesse di non intervenire (es. il pz rifiuta l’intervento) si effettuano controlli più ravvicinati.

30
Terapia
Il trattamento dell’EB consta di due parti essenziali: il trattamento dei fattori di rischio (controllo del reflusso)
e il trattamento del Barrett complicato (displasia).
1) Controllo del reflusso: terapia medica con inibitori di pompa protonica e antiacidi, associato a
correzione delle abitudini alimentari (evitare alimenti che aumentano acidità o che favoriscono il
rilasciamento del LES) e eliminazione di fumo e alcolici. Per la diagnosi di reflusso si esegue una pH
manometria: si tiene in sede il sondino pHmetrico per 24 h che è collegato ad un registratore e che
individua tutte le variazioni di pH nel corso della giornata. Il giorno dopo il registratore viene collegato
a un software che analizza i dati del pH e assegna uno score (DeMeester Score) che un tempo veniva
utilizzato per capire chi mandare alla chirurgia e chi no. Attualmente vengono indirizzati
all’intervento chirurgico:
a. Pazienti giovani (<40 anni) con MRGE da ernia iatale che rifiutano la terapia a vita con PPI;
b. Pazienti che non rispondono più alla terapia (capita che a volte all’inizio rispondano, ma poi
non più);
c. Pazienti con rigurgito persistente;
d. Se molto sintomatici.
In tutti questi casi i pz devono essere candidabili e fit per la chirurgia, pertanto saranno giovani
perlopiù. L’intervento è eseguito in laparoscopia o robotica, per cui è mininvasivo e consiste nella
riduzione dell’ernia jatale se questa è presente; successivamente si passa alla plastica iatale, che
consiste nel confezionamento di una cravatta, avvicinando i pilastri diaframmatici dx e sx (se
l’ernia è molto grossa si utilizzano anche protesi); infine si ricostruisce uno sfintere utilizzando la
parete del fondo gastrico e applicando 3 punti. La tecnica prevede una ricostruzione a 360°
(fundoplicazione secondo Nissen-Rossetti, vedi lezione sull’esofago di Reddavid), mentre quella
a 180° è riservata alla terapia dell’acalasia.
2) Terapia del Barrett complicato: il trattamento è chirurgico e dipende dalla gravità della displasia. Se
c’è:
a. Displasia grave
b. Presenza di focolai di carcinoma intraepiteliale
c. Carcinoma intramucoso (sotto MB, fino a muscolaris mucosae)
d. Carcinoma SM1 (primo terzo di sottomucosa)
Si possono utilizzare delle tecniche endoscopiche (questo perché fino allo stadio di carcinoma in situ
non c’è invasione della membrana basale e quindi non vi è rischio di metastasi linfonodali, men che
meno a distanza; mentre nei tumori SM1 il rischio di mts linfonodali va dallo 0% al 2-3%, molto basso
quindi (per SM3 arriva al 15%)). In questa condizione si può eseguire una resezione mucosa (da
epitelio fino a muscolaris mucosae compresa quindi) / sottomucosa endoscopica (EMR) oppure
un’ablazione (con radiofrequenze soprattutto, laser o argon plasma).
 Per essere sicuri che si tratti di una lesione superficiale si effettua una ecoendoscopia (l’endoscopio
della gastroscopia ha un canale operativo più largo, che permette il passaggio di una sonda ecografica
che consente di visualizzare la profondità della lesione). La sonda è una sonda lineare ad altissima
frequenza che in mani esperte permette di vedere se la lesione è intraepiteliale, intramucosa o
sottomucosa.
La resezione endoscopica è una tecnica utilizzata anche per i tumori dello stomaco o del retto e
consiste nell’iniettare nella sottomucosa una sostanza (soluzione salina con blu di metilene) che
permette di sollevare la lesione e poi di rimuoverla mediante l’utilizzo di un aspiratore che contiene
al suo interno un cappio che con una resistenza elettrica funge da elettrocoagulatore e ne permette
l’asportazione.
La radiofrequenza è una delle tecniche di ablazione termica, che permettono di aumentare il calore
dello strumento, portandolo fino a 100-110° selezionando un determinato raggio d’azione della
sonda (può agire o su una circonferenza mediante un palloncino o su un punto preciso della mucosa
mediante una spatola, posti sull’endoscopio), causando necrosi della mucosa, che verrà asportata e
poi guarirà per seconda intenzione.
Le percentuali di recidiva di queste lesioni con queste tecniche sono molto basse, poiché i pz vengono
inviati in centri specializzati.

31
 Carcinoma dell’esofago
L’esofago anatomicamente si divide in 3 tratti:
1) Esofago cervicale (toracico superiore)
2) Esofago medio toracico
3) Esofago inferiore
Il carcinoma dell’esofago si localizza con una frequenza del 55%
nel tratto medio, del 37% nel tratto inferiore e dell’8% nel tratto
cervicale. Nei due tratti superiori è più frequente l’insorgenza di
un carcinoma spinocellulare, mentre nell’ultimo tratto è più frequente l’adenocarcinoma, poiché infatti
quasi sempre si sviluppa a partire da un Barrett complicato (e quindi da cellule mucipare caliciformi).

1. Carcinoma spinocellulare
Si localizza principalmente nel primo e nel secondo tratto dell’esofago (toracico superiore e medio-toracico),
ma soprattutto nel secondo.
 I tipi istologici possono essere:
- Carcinoma a cellule squamose (70%)
- Carcinoma a cellule fusate
- Pseudocarcinoma
- Carcinosarcoma
- Carcinoma verrucoso
 Aspetto macroscopico: polipoide (sessile o peduncolato), necrotico-ulcerato, diffuso infiltrante la
parete. Le forme più frequenti sono le forme vegetanti necrotico-ulcerate.
 Modalità di diffusione:
- Per contiguità: spesso nelle forme avanzate c’è infiltrazione della trachea, dell’albero bronchiale, dei
polmoni (più raro) e dell’aorta (possono causare fistole esofago-aortiche, fatali per il sanguinamento
massivo che provocano).
- Per via linfatica (via di diffusione più frequente):
o Tumori del III superiore: stazioni paraesofagee, retrofaringee cervicali superficiali e profonde
(quasi sempre), sovraclaveari.
o Tumori del III medio: stazioni paraesofagee2, paratracheali, dell’ilo polmonare, bronchiali.
- Per via ematica (non molto frequente): metastasi a distanza a livello degli organi mediastinici.

2. Adenocarcinoma
Si localizza principalmente a livello del III inferiore. Può originare da un esofago di Barrett (nella maggior parte
dei casi), da isole ectopiche di mucosa gastrica o da epitelio ghiandolare.
 Microscopicamente può essere un adenocarcinoma (99%) o un carcinoma adenoidocistico,
mucoepidermoide o ancora adenosquamoso.
 Modalità di diffusione (importante per la prognosi):
- Per contiguità
- Per via linfatica: è molto importante nell’adenok e ci indica la prognosi del pz. Diffonde soprattutto
attraverso i linfonodi del meso-esofago, linfonodi della biforcazione tracheale, parabronchiali (destri
e sinistri), periesofagei, mediastinici posteriori, diaframmatici (anteriori e inferiori), linfonodi
pericardiali, celiaci, splenici (addominali quindi!). Soprattutto i linfonodi peridiaframmatici,
periesofagei inferiori, della piccola curva dello stomaco e del tripode celiaco sono molto spesso
interessati dalle metastasi (nel 70% dei casi). Ciò ci obbliga a effettuare un’operazione che
comprende anche il distretto addominale. Più è distale il tumore, più i linfonodi addominali saranno
interessati. (Per l’esofago distale ricordarsi: linfonodi cardiali, sopra e sotto-diaframmatici, peri-
esofagei e jatali).
- Per via ematica: mts a distanza a livello di fegato e milza

2
Sulla slide non sono presenti ma il professore ha detto che le stazioni paraesofagee interessano sia i tumori del terzo
superiore che quelli del terzo medio.

32
Presentazione clinica
- Disfagia (più comune, 87% dei casi): prima per i solidi, nelle forme avanzate anche per i liquidi
- Calo ponderale (non riescono a mangiare): più del 50% dei pz con k esofageo.
- Dolori retrosternali
- Rigurgiti
- Pirosi
- Singhiozzo
- Raucedine
- Astenia
- Tosse persistente
- Ematemesi
- Melena
- Dolore osseo per malattia metastatica
- Sintomi respiratori: possono essere dovuti ad
aspirazione di cibo non digerito oppure
invasione diretta dell’albero tracheobronchiale da parte del tumore (segno di non resecabilità).
Gli studi recenti hanno dimostrato la presenza di un rapporto fondamentale tra gli effetti metabolici, il calo
ponderale, la riduzione della conta leucocitaria e ipoalbuminemia nel preoperatorio e l’outcome, sia
operatorio che di sopravvivenza. L’aspetto nutrizionale è quindi diventato fondamentale per la preparazione
di questi tipi di interventi.
Quasi sempre i pazienti prima dell’intervento vengono sottoposti a terapia neoadiuvante che prevede come
minimo la chemioterapia e spesso anche la radioterapia (soprattutto se k gastrico o rettale). Per questo
motivo le condizioni con cui il paziente si presenta all’intervento non sono delle migliori e quindi l’outcome
ne risentirà.

Diagnosi
- Raccolta dei dati anamnestici: sintomi elencati sopra
- Esami ematochimici
- (Markers neoplastici (CEA, GICA))
- Indagini strumentali: esami radiologici + endoscopici.
o Endoscopia (EGDS): esame fondamentale per la diagnosi. Permette l’esplorazione visiva
dell’esofago, di valutare con accuratezza la parete dell’organo, di effettuare biopsie mirate e
di individuare zone displastiche mediante l’impiego di coloranti. Accuratezza diagnostica per
il T dell’80%.
o Rx torace: evidenzia la presenza di eventuali metastasi, polmoniti, fistole esofagee,
dislocazioni della trachea.

33
o (RX con pasto baritato opaco: permette di valutare la morfologia della parete, la presenza di
stenosi, l’irregolarità del calibro e di fistole esofago-tracheo-bronchiali.) -> non si fa più molto
o Ecotomografia addome: valuta la presenza di metastasi o epatiche o linfonodali (accuratezza:
85-95%). È complementare alle altre diagnostiche e costa molto meno.
o Ecotomografia del collo: valuta la presenza di linfoadenopatie sovraclaveari e laterocervicali
profonde e permette di eseguire biopsie mirate.
o TC: esame fondamentale per lo staging e la valutazione dell’operabilità. Valuta la dimensione
della massa neoplastica e la presenza di mts linfonodali o a distanza (quindi sia T che N).
o RMN: valuta il grado di invasione mediastinica con accuratezza sovrapponibile all’esame TC.
o Ecoendoscopia: nel caso in cui le lesioni siano molto piccole e superficiali (se la lesione è già
estesa non si effettua né l’ecoendo né l’FNA). Durante l’ecoendo è possibile anche eseguire
l’agoaspirato (FNA) su un linfonodo rotondo, >1cm e quindi sospetto, facendo passare
tramite l’endoscopio degli aghi che pungono il linfonodo in questione (è un citologico quindi).
L’FNA serve per caratterizzare molecolarmente il tumore e per vedere se è possibile
candidarlo all’immunoterapia o alla targeted therapy (effetto prognostico e terapeutico).
Infatti se il linfonodo risulta positivo cambia totalmente la strategia terapeutica perché non
si potrà più fare la resezione endoscopica e inoltre il pz andrà incontro a CT neoadiuvante.

o PET: accuratezza elevata nell’individuare mts, limitata a un piccolo numero di centri. È utile
quando si hanno lesioni dubbie alla TC (-> scintigrafia ossea non si fa quasi mai, solo se si
sospettano mts ossee).
o Broncoscopia: nei casi molto avanzati e di dubbio interessamento dell’albero bronchiale.

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Classificazione TNM e grading

(Il prof ha citato la TNM ma dice che “è esagerata e non la chiede quasi mai”, la riportiamo comunque per
sicurezza. Dice almeno di sapere la differenza tra tumori Tis, T1a e T1b, soprattutto per quanto riguarda
l’approccio terapeutico ai diversi stadi, senza entrare troppo nel dettaglio della classificazione. Sapere ancora
che la sottomucosa è divisa in 3 strati SM1, SM2 e SM3).

Più lo stadio è avanzato, più la prognosi si riduce.


In tutti i tumori si esegue la valutazione del grado di differenziazione cellulare, ovvero quanto la cellula
neoplastica si differenzia dalla cellula normale tipica di quel tessuto. Anche qui c’è un rapporto con la
prognosi: più le cellule sono indifferenziate peggiore è la prognosi.

Trattamento del tumore dell’esofago


1) Stadio 0-IA (fino al pT1a, ovvero tumori fino alla mucosa, al massimo fino a SM1): resezione
endoscopica. Per essere sicuri che il tumore sia confinato nella mucosa l’anatomopatologo dovrà
verificare all’istologico se i margini di resezione sono liberi o meno dalla malattia. Nel caso in cui
venisse confermato lo stadio di tumore intramucoso allora la resezione avrà avuto scopo terapeutico,
mentre invece nel caso in cui la lesione risulti essere più profonda la resezione avrà avuto scopo solo
diagnostico (e andrà a chirurgia).
2) Stadio IA (fino a pT1b, ovvero SM2 e SM3): tumori non più candidabili alla resezione endoscopica,
ma non ancora avanzati, per cui si procede direttamente con una chirurgia con esofagectomia totale
up-front senza terapia neoadiuvante in alcuni paesi orientali, ma non in Italia in cui si preferisce
procedere con la RT-CT neoadiuvante e poi con la chirurgia. Il confine tra i due stadi IA e IB è dato
anche dal grading.

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3) Stadio IB-IIIB (T1b-T3): terapia neoadiuvante (radio-chemio) + chirurgia
4) Stadio avanzato metastatico: non si prende in considerazione la chirurgia in quanto la malattia è
sistemica e la chirurgia è un trattamento locale. Per cui il pz andrà incontro a radio-chemioterapia
per ridurre la massa se ci sono problemi di stenosi esofagea (al massimo apposizione di uno stent se
la massa non permette al pz di alimentarsi), oppure passa direttamente alla terapia palliativa. Nei
casi di MSI (instabilità dei microsatelliti) è possibile l’immunoterapia.

(Il professore fa riferimento a questa flowchart, dicendo che è molto importante… Il problema è che è
aggiornata al 2013 e le LG AIOM hanno modificato la stadiazione, che riportiamo qui di seguito. Ciò che fa
fede è comunque il TNM patologico riportato tra parentesi)

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Nella chirurgia oncologica l’intervento ha un intento radicale, ovvero lo scopo è quello non solo di togliere il
tumore, ma anche di asportare tutto l’apparato linfoadiposo regionale, in quanto è una delle prime sedi di
recidiva postoperatoria, in modo da ottenere un periodo libero da malattia il più lungo possibile. Per questo
motivo, per quanto riguarda il carcinoma dell’esofago, sarà necessario asportare tutto il tessuto adiposo
periviscerale e anche tutti i linfonodi
esofagei, compresi quelli del tripode
celiaco, della piccola curva dello
stomaco e della zona cardiale. La zona
della grande curva non viene quasi mai
interessata dalle neoplasie
dell’esofago, pertanto non è mai
toccata dalla linfadenectomia.
Le tecniche chirurgiche di
esofagectomia totale si basano
sull’asportazione dell’esofago insieme
alla porzione superiore dello stomaco
(verso la piccola curva), con la
ricostruzione della continuità del
tratto alimentare mediante
tubulizzazione gastrica solitamente (si utilizza la grande curva, che rimane intatta poiché non vengono
eliminati i linfonodi che seguono la vascolarizzazione dell’organo: arcata gastroepiploica di dx e di sx sono
quelle che mantengono la vascolarizzazione del tubulo e pertanto non vanno toccate). Lo stomaco è uno
degli organi più irrorati dell’organismo, per cui può permettersi una rivascolarizzazione sufficiente se
trasferito a livello del mediastino. In alternativa, la continuità può essere ricostruita con il digiuno oppure
con il colon destro. Bisogna resecare almeno 5cm di tessuto apparentemente sano a monte del margine della
neoplasia per ottenere un margine adeguato libero da malattia.
NB. Studiare bene la vascolarizzazione degli organi, viene chiesta molto spesso!

Ci sono 4 tipi di linfadenectomia (non vuole sapere le stazioni specifiche):


- Standard: che asporta i linfonodi mediastinici e arriva fino alla biforcazione bronchiale (bronchi dx e
sx)
- 2 field: si aggiungono i paraesofagei e i paratracheali destri
- Totale: comprende anche i paraesofagei e paratracheali sinistri (difficili perché si può lesionare il
nervo ricorrente che esita quindi in paralisi delle corde vocali)
- 3 field: comprende anche le stazioni latero-cervicali e sovraclaveari.

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CHIRURGIA GENERALE - 20 ottobre 2021 - prof Degiuli
Sbobina: Daniele Bellotti
Revisione: Carolina Nosenzo
Il contenuto della sbobina è stato fortemente integrato dalle sbobine vecchie e dalle dispense di chirurgia.

ESOFAGO (continuazione lezione precedente)


Nell’esofago è importante individuare il margine superiore della lesione in modo da riuscire a conservare il
più possibile l’organo e non eseguire una demolizione totale. Per la maggior parte dei chirurghi questo
margine è di almeno 5 cm.

[I tumori di stadio 0 (T1a/Tis) hanno indicazione elettiva alla resezione endoscopica o RFA. Nei tumori
localmente avanzati (stadi da IB a IIIB) il trattamento prevede una terapia neoadiuvante che in questo caso
(e anche per l’adenocarcinoma) è l’associazione di radio e chemioterapia. Per quanto riguarda i tumori T1b,
che interessano la sottomucosa, che non sono localmente avanzati ma neanche stadio 0, se ci troviamo in un
centro ad alta specializzazione dove i risultati dell’ecoendoscopia sono affidabili in più del 90% dei casi e
l’endoscopista conferma un Sm1 il pz ricade nella resezione endoscopica, quindi trattamento conservativo,
in tutti gli altri casi (Sm1 non affidabile, perché magari non è un centro specializzato e Sm2 e Sm3) andranno
incontro a chirurgia senza trattamento neoadiuvante. Gli stadi IIIA (T4), IIIC e IVb non faranno più chirurgia
ma faranno solo radio-chemioterapia o best supportive care (protesi per l’alimentazione o terapia antalgica).]

TERAPIA CHIRURGICA del carcinoma dell’esofago

[Se il tumore non può andare incontro ad un


trattamento radicale è possibile inserire uno stent
espansibile come trattamento palliativo per
mantenere il lume pervio e permettere
l’alimentazione.
L’intento radicale ha lo scopo di offrire al pz un
periodo libero dalla malattia il più lungo possibile.
Le tecniche chirurgiche di esofagectomia totale o
subtotale si basano sull’asportazione dell’esofago
con la ricostruzione della continuità del tratto
alimentare attraverso l’utilizzo di un altro
condotto intestinale, che in genere è lo stomaco
tubulizzato e in alternativa la continuità può
essere riottenuta con il colon o con il tenue. Un intervento radicale deve prevedere l’asportazione dell’organo
malato con un tratto di tessuto sano di almeno 5cm a monte del margine macroscopico della neoplasia, ed
inoltre bisogna eseguire cellulo-mediastinectomia posteriore poiché qui sono contenuti i linfonodi
periesofagei ma dovrò anche fare una linfadenectomia locoregionale (vedi dopo). Nell’img a lato si osservano
i linfonodi periesofagei che verranno rimossi nel momento in cui si asporta l’esofago, in quanto adesi allo
stesso.]

L’intervento si divide in due fasi, una demolitiva e una ricostruttiva. La radicalità chirurgica si ottiene con la
resezione della sede del tumore con una distanza di almeno 5 cm 1 a monte del margine macroscopico
(superiore) della neoplasia, l’esecuzione di una cellulo-mediastinectomia posteriore e di una linfadenectomia
locoregionale. Si tiene come riferimento il margine superiore in quanto nell’esofago si cerca di conservare
l’organo creando anastomosi intratoraciche, evitando il più possibile una demolizione totale con
esofagectomia completa.

1
Dipende da organo a organo, ad esempio nel tumore del retto deve essere almeno di 0.5 cm.

39
Fase demolitiva:
- Esofagectomia totale: intervento di McKeown, con un’anastomosi esofago-organo sostituivo.
L’anastomosi viene fatta al collo, in particolare nella parte sinistra (infatti anatomicamente l’esofago
è leggermente spostato sulla sinistra rispetto al piano mediano).
- Esofagectomia subtotale
- Cellulo-mediastinectomia loco-regionale: non basta rimuovere solo il tumore ma anche tutto il
tessuto linfoadiposo, quindi pulire completamente il mediastino. Bisogna asportare i linfonodi del
piano aortico, della pleura omolaterale e controlaterale e del pericardio, in quanto questo tessuto
può essere sede di metastasi .
- Linfoadenectomia loco-regionale: non è limitata al torace ma anche all’addome .

Fase ricostruttiva: prevede l’anastomosi della porzione di esofago rimanente, sia che ci sia stata una
rimozione parziale o totale, con:
- Stomaco (Esofago-gastroplastica, è la tecnica più facile)
- Faringe (Faringoplastica)
- Colon (Esofago-colonplastica, sia destro, che sinistro che trasverso)
- Digiuno (Esofago-digiunoplastica, è la tecnica più difficile)
Il tipo di intervento dipende dalla sede del tumore, in quanto essa influenza le vie di accesso, la radicalità
dell’intervento e le tecniche chirurgiche. La tecnica d’elezione è quella che prevede l’anastomosi con lo
stomaco, mentre quella meno utilizzata è l’anastomosi digiunale.

Il professore ha poi parlato di tecniche chirurgiche in open che ad oggi non vengono più tanto utilizzate.
Queste tecniche richiedono un approccio addominale in laparoscopia o un approccio toracicoscopico con il
robot (intervento che si chiama ‘R.A.M.I.E.’, robot-assistend minimally invasive esophagectomy).
Il collo viene affrontato sempre in open poiché l’isolamento dell’esofago cervicale si fa sempre e solo con un
approccio anteriore. Mentre le altre due sedi, addome e torace, possono essere affrontate totalmente in
maniera mini-invasiva. In alternativa possono essere adottate delle forme miste, come la laparotomia e
toracoscopia (o tradizionale o robot-assisted), oppure il contrario con laparoscopia per la preparazione del
tubulo e toracotomia.

Si è visto man mano che un approccio totalmente mini invasivo e quello che da migliori risultati nel recupero
post-operatorio mantenendo la radicalità oncologica. Si è visto addirittura che l’approccio robotico è ancora
più preciso e permette di asportare un maggior numero di linfonodi (questo vale anche per il tumore dello
stomaco e per il tumore del retto).

[Il robot è composto da una console dove si siede il chirurgo e grazie a due anellini è in grado di comandare
4 bracci operativi: uno per l’ottica e tre per gli strumenti operatori. È poi presente uno schermo che amplifica
l’immagine di diverse volte e soprattutto è in grado di dare tridimensionalità rendendo il tutto più preciso
con la stessa sicurezza della chirurgia tradizionale].

Nei tumori dell’esofago cervicale è necessario


asportare tutto l’esofago, quindi l’intervento è di
esofagectomia totale. La prima scelta come organo
sostitutivo è lo stomaco, in particolare lo stomaco
tubulizzato sulla grande curva. In genere nelle
esofagectomie totali si fa il primo accesso toracico
(toracotomico o toracoscopico) e poi
contemporaneamente (spesso ci sono due equipe,
una cervicale e una laparoscopica) si fanno l’accesso
addominale e quello cervicale, e una volta preparato
il tubulo il chirurgo del collo tirerà su tutto il pezzo
operatorio e verrà su tutto l’esofago e il tubulo
gastrico.

40
Nei tumori del III medio (si parla sempre di tumori
squamosi), l’indicazione è ancora un’esofagectomia
totale. Questo intervento si esegue secondo McKeown e i
tempi sono gli stessi dell’intervento citato precedente.
Nell’immagine si vede il perfezionamento di un tubulo
gastrico. I tubuli gastrici vengono preparati con delle
suturatrici lineari elettriche.

[dalle slide:
Esofagectomia totale con 3 accessi (trans-toracica
destra):
- Tempo toracico:
- Toracotomia al V° spazio intercostale destro.
- Sezione della vena Azygos.
- Mobilizzazione e sezione dell’esofago.
- Linfoadenectomia
- Tempo cervicale
- Cervicotomia sinistra
- Esposizione dell’esofago cervicale
- Asportazione dell’esofago
- Trasposizione del tubulo gastrico al collo,
- Anastomosi T-T
- Posizionamento dei drenaggi.]

Nei tumori del III inferiore (o III distale) l’intervento cambia


completamente, in quanto viene effettuata un’anastomosi
intratoracica (esofagectomia secondo Ivor Lewis). Per avere
accesso alla parte anteriore dell’esofago nel tratto vicino alla
biforcazione bronchiale bisogna sezionare la vena azygos (che si
trova appena sotto la biforcazione). Attraverso il forame
diaframmatico che viene preparato dall’addome i tempi sono al
contrario:
- il primo tempo è addominale: si fanno la linfadenectomia e
l’esofagectomia, si prepara il tubulo gastrico e si fa quasi
completamente la resezione dello stomaco di destra.
- A questo punto avremo il forame iatale completamente dilatato dall’addome e possiamo tirare su il
pezzo operatorio. Il segmento di giunzione esofago-gastrico e di esofago distale è già stato rimosso
e si fa la sutura a mano. In realtà ad oggi anche le anastomosi vengono fatte quasi totalmente per
via meccanica.

Nei tumori del giunto esofago-gastrico l’intervento è


esattamente uguale a quello utilizzato nei tumori del III inferiore
(quindi intervento di Ivor Lewis). Anche qui si hanno due tempi
(laparotomia/laparoscopia + toracotomia/toracoscopia destra
tradizionale o robot-assisted). Se si fa toracotomia è sempre una
toracotomia destra perché a sinistra c’è l’ingombro del cuore. Ci
sono ancora chirurghi non ancora esperti di tecniche mini-
invasive che preferiscono fare il taglio toracotomico sul V spazio
intercostale dx. Si cerca di non fare più la toracotomia perché
con le tecniche mini-invasive c’è un miglior recupero del paziente nel post-operatorio, addirittura la sera
stessa dopo l’intervento sono in piedi e dopo 2/3 giorni possono mangiare e bere. Inoltre c’è una riduzione
significativa delle complicanze di tipo respiratorio, soprattutto infettive.

41
[Questo intervento di Ivor-lewis è mini-invasivo, mentre in altri casi lo stomaco viene fatto uscire dalla
cavità addominale per preparare il tubulo. L’esofagectomia in questo caso è parziale ma può essere totale
con l’anastomosi al collo.]

La tecnica tradizionale (prima dell’avvento della chirurgia mini-invasiva) prevedeva l’esofagectomia totale a
3 accessi (addominale, cervicale e toracico). Si procede con:
- toracotomia destra
- isolamento dell’esofago dallo iato esofageo allo stretto superiore del torace
- poi una equipe lavora in addome e l’altra nel collo.
Per il paziente è un grosso trauma chirurgico in quanto vengono coinvolti due distretti importanti, di cui uno
fondamentale per le funzioni respiratorie. Dopo di che si procede con la ricostruzione del tratto alimentare
mediante stomaco tubulizzato. Lo stomaco deve essere alimentato da almeno un peduncolo vascolare che
sia integro e funzionale.

[dalle slide:
Esofagectomia totale con 2 accessi o transjatale (addominale e cervicale):
1) Tempo addominale:
- Laparotomia longitudiale mediana xifo-ombelicale.
- Tubulizzazione gastrica alla grande curvatura.
- Mobilizzazione del duodeno Sec. Kocher,
- Piloroplastica
- Posizionamento di sondino enterale
2) Tempo cervicale:
- Cervicotomia sinistra
- Esposizione dell’esofago cervicale
- Asportazione dell’esofago con tecnica bimanuale o con sonda stripper.
- Emostasi compressiva con garze
- Trasposizione del tubulo gastrico al collo,
- Anastomosi T-T
- Posizionamento dei drenaggi.]

Tabella riassuntiva delle tecniche chirurgiche in base alla sede del tumore

42
Linfadenectomia:
Per quanto riguarda la chirurgia del carcinoma dell’esofago si possono
eseguire 4 tipi di linfadenectomia:
1) Linfadenectomia standard: arriva fino alla biforcazione
bronchiale, con asportazione di tutto il tessuto lasso.
2) Linfadenectomia estesa: prevede l’asportazione anche dei
linfonodi paratracheali destri (con rischio di lesioni
ricorrenziali), che si trovano sopra alla biforcazione.
3) Linfadenectomia totale: vengono asportati anche i linfonodi
paratracheali di sinistra.
4) Linfadenectomia three-field: prevede anche un campo
cervicale, quindi con asportazione di linfonodi cervicali superficiali e profondi (spesso questo
intervento si esegue in collaborazione con gli otorini). Ovviamente è un intervento più lungo,
complesso e con più complicanze (paralisi del ricorrente, fistole anastomotiche e complicanze
polmonari) ma che dà dei vantaggi consistenti in termini di sopravvivenza a 5aa. Le metastasi cervicali
sono causate soprattutto dai tumori che si localizzano nel tratto cervicale o toracico superiore
dell’esofago, ma per il 15% dei casi possono essere causate anche da tumori del tratto distale. Una
linfadenectomia più estesa migliora la sopravvivenza e aumenta la radicalità chirurgica.
Per le prime tre i campi sono due, addominale e mediastinico (linfadenectomia two-field o a due campi),
mentre per la quarta si ha un terzo campo, ovvero quello cervicale (linfadenectomia three-field o a tre campi).
Le complicanze si verificano soprattutto in seguito a interventi di linfadenectomia più estesi, e la più
frequente è la paralisi del nervo ricorrente
(importante, lo ripete più volte!). Il rischio di
insorgenza di questa complicanza è
significativamente più alto nella three-field.

[dalle sbobine 2020:


Nei tumori del III distale o ad es. insorti su
Barrett sono interessati (visibili nell’img
sopra) i linfonodi paracardiali, diaframmatici
inferiori, tripode celiaco, arteria gastrica
sinistra, perigastrici della piccola curva e della
grande curva, gastrici brevi e splenici. Sono
anche presenti i linfonodi mediastinici
inferiori, i paraesofagei (che sono suddivisi a
seconda della sede: inferiori, mediotoracici,
cervicali), peribronchiali, infracarinali,
ricorrenziali.

L’intervento prevede due fasi: demolitiva e ricostruttiva. Alcuni team cambiano l’equipe nelle due fasi poiché
la fase ricostruttiva è quella che “rimane” al pz e a cui sono associate tutte le complicanze. La fase demolitiva
prevede l’esofagectomia totale/subtotale, cellulomediastinectomia posteriore e linfadenectomia
locoregionale. Nella fase ricostruttiva verranno fatte le varie anastomosi possibili (faringoplastica, esofago-
gastroplastica, esofago-duodenoplastica, esofago-colonplastica). L’intervento cambia a seconda della sede e
di conseguenza cambieranno le vie di accesso, di radicalità dell’intervento e la tecnica chirurgica, ad oggi
effettuabile in mininvasiva con approccio robotico o laparoscopico sia addominale che toracico; la tecnica più
eseguita è quella della preparazione del tubulo per via laparoscopica e resezione dell’esofago toracico e
confezionamento dell’anastomosi per via toracotomica, quindi misto mininvasivo-open.]

43
Schema riassuntivo delle stazioni linfonodali esofagee:

SCELTA DELLA PROTESI


Per protesi (in particolare bioprotesi) si intende il sostituto dell’esofago, che deve avere specifice
caratteristiche:
- Buona irrorazione arteriosa
- Deflusso venoso valido (se assente si ha infarto della parete che porta poi a necrosi per compressione
vascolare)
- Funzionalità soddisfacente: deve essere in grado di muoversi e svuotarsi, in quanto se si ha stasi e
reflusso le suture che sono state fatte non tengono
- Tecnica agevole: deve essere riproducibile
- Lunghezza sufficiente: perché non sempre si effettua l’intervento secondo Ivor Lewis, quindi di
esofagectomia parziale, ma a volte è necessario anche l’intervento secondo McKeown, quindi di
esofagectomia totale. Se si esegue l’interventi di McKeown la protesi deve avere lunghezza
sufficiente da arrivare fino al collo.
L’organo perfetto che soddisfa queste caratteristiche è lo stomaco, in quanto ha una vascolarizzazione
ricchissima (è l’organo più vascolarizzato dell’organismo), rare volte ha anomalie anatomiche, ha estrema
duttilità chirurgica, permette di confezionare una sola anastomosi (o intratoracica o cervicale). Lo stomaco
in questo modo garantisce la continuità del tratto gastrointestinale. In addome non si fa nient’altro che
preparare il tubulo, quindi è l’intervento più facile e veloce da eseguire.
Scegliendo lo stomaco c’è possibilità di una seconda scelta, in quanto ci sono delle tecniche che permettono
di valutare la perfusione dell’organo (per esempio al San Luigi si utilizza il verde di indocianina). Quindi si
prepara il tubulo, quando è ancora in addome e non ha trazioni si fa il verde, poi quando si passa in torace
con il robot si tira su il tubulo e si rifà il verde per vedere se lo stiramento ha provocato delle lesioni vascolari:
in questo modo può succedere che lo stomaco che si è preparato abbia dei tratti non perfusi. Nel caso in cui
succedesse ciò si può abbandonare lo stomaco e la seconda scelta è generalmente il colon. Per questo motivo

44
tutti i pazienti che vanno in contro a una chirurgia demolitiva esofagea devono aver fatto una preparazione
intestinale, perché se si deve fare una colonplastica non si possono trapiantare 40-50 cm di colon pieno di
feci poiché si verificherebbe un’infezione dell’anastomosi esofago-colica, con probabilità altissima di avere il
leak anastomotico (deiscenza anastomotica).
[È importante ricordare che il tubulo non deve essere più grande di 4cm ed è irrorato dalla gastroepiploica
di sx.]

Questa è un’arteriografia dello stomaco:

1 2 3
[Lo stomaco si può utilizzare in vari modi come nelle immagini: la parte rossa viene conservata, quella a
righe gialle verrà resecata.
1. Può essere utilizzato in toto con il mantenimento della gastroepiploica di sx ma in questo caso si
mantiene anche la gastroepiploica di dx e l’anastomosi si fa a livello della freccia grande (fondo
gastrico).
2. (Metodica più vecchia) Oppure si fanno tubuli larghi ed in questi casi è importante mantenere la
doppia vascolarizzazione.
3. Tubulo classico con una sola arcata vascolare in genere, ad oggi dove nell’immagine si vede l’area
di anastomosi (gialla a pallini) questa viene resecata perché presenta dei linfonodi importanti che
devono essere tolti.]

Una delle tecniche ancora utilizzate,


nell’intervento di Ivor-Lewis (perchè nella
McKeown non arriva), è la mobilizzazione
completa dello stomaco con la manovra di
Kocher (ovvero la mobilizzazione del
blocco cefalo-pancreatico, che permette di
portare in torace tutto lo stomaco. Questa
è una delle tecniche più semplici poiché
prevede meno legature, legando solo
l’arteria gastroepiploica sinistra. Lo
stomaco rimane attaccato solo all’arteria
gastrica destra (ramo dell’epatica propria)
e alla gastroepiploica di destra (ramo della
gastroduodenale). Dalla piccola curva non
arriverà sangue, il sangue arriverà solo
dalla parte di sinistra.

Riassumendo ciò che è stato spiegato (descrizione del video nelle slide): laparoscopia per la preparazione del
tubulo, si lavora con quattro trocar (strumenti di accesso per laparoscopia) di cui uno è uno strumento ottico
situato in mezzo. Vengono utilizzate suturatrici moderne. Poi lo stomaco viene connesso, vengono effettuate
le legature vascolari, la linfadenectomia. Il paziente viene poi messo in posizione prona o semi prona.
Generalmente la fase addominale richiede uno pneumoperitoneo (la laparoscopia ha bisogno di uno spazio

45
vuoto perché altrimenti gli strumenti causerebbero lesioni agli organi): ciò si fa insufflando l’anidride
carbonica (NO ossigeno perché è infiammabile, dato che si utilizza l’elettrobisturi potrebbe causare lesioni
da scoppio) con una pressione di 12 mmHg. Anche in torace viene mantenuta l’insufflazione ma con una
pressione più bassa di 7-8 mmHg: questo permette l’esclusione del polmone in quanto, non essendo ventilato
e insufflandoci sopra ad una pressione tale da tenerlo schiacciato, non va ad occupare tutto il torace, perché
altrimenti non sarebbe possibile eseguire l’intervento in laparoscopia.
(per chi è interessato nelle slide c’è un video di questo tipo di intervento che viene descritto dal professore)

[dalle dispense:
Nel confezionamento del tubulo gastrico è necessario eseguire una piloroplastica (sezione e ricostruzione
del muscolo pilorico per allargarlo), in quanto un’anastomosi non deve mai avere a valle un punto di alta
pressione; in questo caso, infatti, nei giorni successivi all’operazione, possono saltare i punti di sutura
causando delle fistole.]

L’organo di seconda scelta per la sostituzione dell’esofago è il colon. Possono essere utilizzati sia il destro
(ascendente) che il sinistro (discendente), ma più frequentemente si utilizza il sinistro, o meglio ancora il
colon trasverso.
Si possono eseguire:
a. Esofagectomia totale con esofago-colon plastica sul
peduncolo vascolare sinistro.
b. Esofagectomia totale con esofago-colon plastica sul
peduncolo vascolare destro.
Anche il colon deve essere peduncolizzato solo da una parte
poiché l’altra deve rimanere molto mobile e arrivare fino al
punto di resezione. Anche in questo caso quindi è molto
importante la valutazione della vascolarizzazione
dell’organo: prima di legare i vasi si fanno delle prove, si
clampano con delle pinze apposite che simulano una
legatura vascolare e poi si fa il verde di indocianina per valutare se nonostante la legatura il tratto di colon
utilizzato rimane comunque vascolarizzato.
Le situazioni in cui non si può utilizzare lo stomaco e quindi si esegue una colonplastica sono:
- Nei pazienti gastroresecati (es gastroresecato per ulcera che dopo anni sviluppa un tumore).
- Patologia gastrica concomitante (es gastriti)
- Stomaco corto (es uno stomaco cicatriziale da guarigione di ulcere
gastriche)
- Fallimento dell’anastomosi esofago-gastrica: ci sono casi particolari in cui è
stata fatta una Ivor-Lewis, quindi si ha un’anastomosi esofago-
tubulogastrico intratoracica, che ha avuto una deiscenza e il paziente ha
sviluppato una mediastinite. Non c’è nessun modo per riparare questa
deiscenza a causa dell’infezione sistemica e quindi si smonta direttamente
mediante un intervento detto di deconnessione esofago-gastrica. Si fa una
totalizzazione dell’esofagectomia con cervicostomia esofagea (l’esofago
viene sezionato a livello cervicale e viene abboccato alla cute), il tubulo
gastrico viene riportato in addome e anastomizzato alla cute addominale
(gastrostomia). Il mediastino viene drenato per far guarire l’infezione. Dopo
sei mesi quando si è arrivati alla guarigione si fa la ricostruzione utilizzando
il colon perché il tubulo gastrico non è più utilizzabile.

46
Per quanto riguarda la vascolarizzazione del grosso
intestino, ci sono due grossi vasi: la mesenterica
superiore (arteria e vena) e mesenterica inferiore
(arteria e vena). Grossolanamente la mesenterica
superiore irrora, oltre a digiuno e ileo, tutta la parte
destra fino al trasverso distale. La mesenterica
inferiore irrora la flessura splenica, il colon
discendente, il sigma e il retto. È fondamentale
avere una buona arteria colica sinistra nel caso in
cui si dovesse eseguire una ricostruzione con il
colon trasverso, che è quello che avviene più
spesso.

Ciò che avviene più di frequente è la mobilizzazione


totale del grosso intestino, isolando dalla metà del
colon ascendente fino alla giunzione discendente-sigma. Tutto
questo segmento dovrà essere irrorato dalla sola arteria colica
sinistra. Le altre fonti arteriose, come la colica media, vengono legate
(non devono essere presenti delle connessioni posteriori, in quanto il
tubulo deve essere tutto mobile). Prima di effettuare tutte le legature
vengono utilizzate delle pinze che mimano la legatura vera e propria
in modo da verificare la vascolarizzazione del tubulo (in questo modo
si è ancora in tempo per tornare indietro).

Alcune volte la vascolarizzazione sinistra non funziona (per esempio a causa di


placche aterosclerotiche, anche perché la maggior parte dei pz con tumore
dell’esofago è anziana) e quindi si opterà per il colon di destra e l’ultima ansa
ileale. Vengono legate le arterie ileocolica e colica destra, lasciando la
vascolarizzazione alla colica media. Questo purtroppo è un segmento più corto
quindi non sempre si riesce a farlo arrivare al punto di resezione.

[dalle slide: per quanto riguarda l’esofago-colon plastica destra il


procedimento è il medesimo della sinistra con le seguenti differenze:
- Vascolarizzazione
- Esecuzione di appendicectomia
- Anastomosi ileo-colica T-L]

Se non si può utilizzare nemmeno il colon si esegue una digiuno-plastica2 ma è davvero l’ultima possibilità
terapeutica. Il digiuno è il tratto che viene dopo il duodeno e più o meno occupa metà del piccolo intestino,
che si continua poi con l’ileo. Per l’intervento è necessario avere
un’arteria importante e poi una serie di arcate che siano connesse una
con l’altra (come nell’immagine). Si cerca si asportare un pezzo più
lungo possibile ma non sempre si riesce e per questo motivo questa è
la tecnica chirurgica più difficile.

[dalle slide] I motivi per cui si esegue una digiunoplastica sono:


1. Anomalie della vascolarizzazione
2. Difficoltà nel confezionare una protesi lunga
3. Autoinnesti nei ca faringoesofagei

2
I tempi chirurgici sono i medesimi della colon-plastica.

47
I risultati della sola chirurgia non sono molto incoraggianti, ad esempio i tumori allo stadio I hanno una
percentuale di sopravvivenza del 60 % (stomaco 90% e colon 100%).

Ci sono poi casi che non sono operabili e quindi questi pazienti hanno bisogno di un trattamento differente
per far fronte all’occlusione del tratto digestivo, che può essere o la protesizzazione o la dilatazione (in
passato si eseguivano dei bypass lasciando l’esofago in sede e portando un tubulo colico in sede
retrosternale).
La dilatazione viene eseguita tramite delle sonde rigide con calibro crescente (dilatazioni meccaniche), che
in realtà ad oggi è un metodo po’ superato dalle dilatazioni pneumatiche, che prevedono l’utilizzo di palloni
cilindrici di diametro crescente che si gonfiano con delle siringhe apposite ad alta pressione.
La palliazione endoscopica prevede l’utilizzo di stent autoespansibili, possibilmente ricoperti da polipropilene
(ci sono anche degli stent aperti a maglia ma in casi oncologici non vengono utilizzati per il rischio di
infiltrazione neoplastica e recidiva dell’occlusione), che vengono passati nel lume del tumore e aperti
garantendo un lume esofageo sufficiente per il passaggio del cibo, in modo da permettere al paziente di
alimentarsi per os.

L’istotipo di K esofago più sensibile alla radiochemioterapia3 è lo squamoso, per cui in molti si rifiutano di
sottoporre i pz con adenocarcinoma a CRT, ma in realtà esiste un lavoro che ha dimostrato l’importante ruolo
della terapia neoadiuvante anche nell’adenoK.
La terapia neoadiuvante seguita da intervento chirurgico si è dimostrata più efficace rispetto alla chirurgia
up-front.

[dalle dispense:
COMPLICANZE CHIRURGICHE
Tra le complicanze post-chirurgiche che possono insorgere ricordiamo:
- FISTOLA ANASTOMOTICA (2-10% dei casi): l’organo sostitutivo viene devascolarizzato con
l'autonomizzazione, con presenza di zone ischemiche e minore tenuta dell'anastomosi. Nel tempo,
sono nate numerose tecniche per cercare di evitare tale complicanza, associata ad elevata mortalità
post-operatoria (mediastiniti da passaggio di saliva e materiale ingerito nel mediastino). In caso di
tumori del III superiore, alcune scuole preferiscono effettuare d'emblè un’anastomosi al collo, che
permette di gestire meglio un'eventuale fistola (drenaggio esterno) rispetto all'anastomosi
intratoracica. In ogni caso, prima che il pz torni a rialimentarsi è fondamentale effettuare studio
radiologico con blu di metilene (RX transito) per valutare la tenuta dell'anastomosi.
- STENOSI ANASTOMOTICA (10-20% dei casi nei primi 2 mesi post-operazione): caratterizzata dalla
ricomparsa di disfagia meccanica per i solidi in seguito a rialimentazione per os; essa viene trattata
endoscopicamente.
- NECROSI DELL’ORGANO DI SOSTITUZIONE: si tratta di un evento raro per lo stomaco, mentre è piu
frequente per il colon. Si tratta di un evento “catastrofico” con altissima mortalità che necessita di un
reintervento in urgenza. Nei pochi casi in cui il pz sopravvive, si ha una scarsa QoL a causa della
necessità di eseguire esofagostomia cervicale e successiva ricanalizzazione dopo 6-12 mesi.]

3
Il professore parla di ‘trattamento cross’, che prevede l’associazione di entrambe radio e chemioterapia.

48
Tumori della giunzione gastro-esofagea
Negli ultimi anni si è assistito ad un allarmante incremento dei tumori della giunzione gastro-esofagea nel
mondo occidentale. Le cause sembrano essere sia un incremento dell'adenocarcinoma dell'esofago distale,
sia una più frequente localizzazione delle neoplasie gastriche verso la porzione prossimale e il cardias.
Classificazione
All’interno di questa categoria rientrano gli adenocarcinomi localizzati 5 cm prossimalmente o distalmente
al cardias anatomico. La classificazione di Siewert divide i tumori del cardias in 3 zone:
- TIPO I: si tratta di un adenocarcinoma dell’esofago distale compreso tra 1 e 5 cm a monte della linea Z;
sovente e associato a ernia iatale e a MRGE cronica con fenomeni di metaplasia.
- TIPO II: si tratta di un carcinoma del cardias vero e proprio, sovente associato all’infezione da H. pylori.
- TIPO III: si tratta di un carcinoma gastrico, compreso tra 2 e 5 cm a valle della linea Z; come il tipo II, anche
questo tumore è sovente associato all’infezione da H. pylori.
Per quanto riguarda la diffusione linfatica, il tipo I diffonde sia verso il mediastino, sia caudalmente lungo
l’asse celiaco, mentre i tipi II e III diffondono verso l’asse celiaco, l’ilo splenico e i LFN para-aortici.
Terapia
Il trattamento chirurgico varia a seconda del tipo di tumore:
- TIPO I: è necessario eseguire l’intervento di Lewis, asportando il cardias, il III inferiore e il III medio
dell’esofago; l’intervento si completa con l’esecuzione di un’anastomosi tra esofago cervicale e stomaco.
- TIPO II: anche in questo caso è necessario eseguire l’intervento di Lewis.
- TIPO III: viene trattato solamente con intervento addominale come i tumori dello stomaco; in questo caso
si esegue una gastrectomia totale (v. capitolo sui tumori dello stomaco).

49
14-10-2021
Chirurgia Generale
Prof.ssa Rossella Reddavid
Sbobinatrice: Zaira Vicino
Revisionatrice: Silvia Lauria

MALATTIA DA REFLUSSO GASTRO-ESOFAGEO


(MRGE/GERD- acronimo inglese)
(Fondamentale per questo corso è sapere BENE l’anatomia, viene chiesta molto spesso all’esame)

Epidemiologia
Malattia frequente nella popolazione, ha uguale prevalenza nei due sessi e ha il picco di incidenza tra i 35-45
anni, con una riduzione dell’età all’esordio rispetto al passato, quando il picco era intorno ai 50 anni. La
giovane età rappresenta un punto a sfavore del trattamento medico ed invece a favore del trattamento
chirurgico, soprattutto quando la diagnosi viene fatta tardivamente, in seguito all’insorgenza di sintomi e
complicanze.
La MRGE è estremamente diffusa: il 15% della popolazione ha episodi di reflusso o pirosi almeno una volta
alla settimana. In particolare, reflusso o pirosi che vengono avvertiti come fastidiosi, infatti qualche reflusso
è relativamente normale e considerato fisiologico, ma se il paziente lo avverte con fastidio assume i connotati
di patologia.
La storia naturale della MRGE è molto variabile: ci sono pazienti che hanno sintomatologia lieve e
intermittente in assenza di complicanze e pazienti che invece arrivano alla diagnosi già con complicanze gravi
come il Barrett o stenosi.

Meccanismi anatomofunzionali esofagei di protezione


È importante considerare i fattori difensivi del nostro organismo a livello esofageo nei confronti dell’acidità.
Questi sono:
 Clearance esofagea
La saliva ha pH basico, è ricca di bicarbonati ed esercita quindi un effetto tampone, proteggendo la
mucosa esofagea dagli insulti acidi. La saliva ha un potere di clearance importante soprattutto in virtù
del suo contenuto di bicarbonato, considerando che circa 7 ml di saliva possono neutralizzare 1ml di
acido cloridrico. Il nostro organismo produce circa 0,5ml/min di saliva, produzione che può essere
alterate da pratiche specifiche, come ad esempio il masticare un chewing gum, che ne aumenta la
produzione, o il fumo, che causa ridotta salivazione e conseguente ridotta clearance esofagea. Nei
soggetti tabagisti, per questo motivo, è più frequente ritrovare lesioni ulcerative esofagee da MRGE.
Chiaramente, anche le patologie croniche che portano ad una ridotta produzione di saliva sono
associate all’esofagite da reflusso.
La peristalsi secondaria (onde secondarie) pulisce la parete esofagea eliminando i residui acidi e
impedendo che questi esercitino un effetto dannoso. Alterazioni della secrezione salivare (riduzione)
o della motilità esofagea, presenti in circa il 60% dei pazienti con MRGE, o ernia iatale, possono
compromettere la clearance.
 Barriera della mucosa
Un altro elemento protettivo è da ricercare nell’architettura dell’epitelio che compone la mucosa
esofagea. L’epitelio squamoso esofageo produce pochissimo muco e bicarbonato (la maggior parte
arriva con la saliva), ma il suo potere difensivo è rappresentato dalla presenza di tight junctions, che
costituiscono la difesa epiteliale, e dalla vascolarizzazione che rimuove gli ioni idrogeno e apporta ioni
bicarbonato, a rappresentare una difesa post-epiteliale. Le tight junctions non sono fatte per
sopportare gli stimoli acidi prolungati, quindi in condizioni di reflusso patologico queste giunzioni

50
lasciano passare ioni H+, che risultano così dannosi in quanto non smaltiti dal flusso vascolare. Si esita
dunque in una situazione di flogosi e, di fatto, di esofagite.
Quando i fattori aggressivi superano i difensivi (barriera anti-reflusso, motilità esofagea, resistenza mucosa,
svuotamento gastrico), si esplica il danno.

Eziofisiopatologia
Lo svilupparsi di questa patologia vede alla base l’alterazione dell’equilibrio presente tra gli agenti lesivi, o
fattori stimolanti i sintomi, ed i fattori difensivi fisiologici (l’effetto detergente dell’acidificazione esofagea e
l’integrità della mucosa); l’importanza dei sintomi e della lacerazione della mucosa sono infatti direttamente
proporzionali alla frequenza dei reflussi e alla durata dell’acidificazione della mucosa.
L’esofagite (infiammazione a livello dell’esofago) è risultante dall’infiammazione mediata dalle citochine,
come evidenziato dalle lesioni istopatologiche, le quali si sviluppano a livello dell’epitelio e non sulla faccia
luminale, sono pertanto più profonde.
Il reflusso è indotto da tre fattori patofisiologici:
1. Lassità dello sfintere esofageo inferiore. Condizione che riguarda in realtà solo alcuni dei pazienti
che soffrono di MRGE. Si definisce lassità importante e patologica del LES quando la pressione è <a
10mmHg (le modalità per misurare la pressione del LES vengono illustrate nella sezione dedicata alla
diagnosi).
Ci sono alcuni fattori che possono ridurre la pressione del LES, quali ad esempio la distensione
gastrica, la colecistochinica, il fumo, alcuni alimenti (alcol, thè o caffè, cibi molto piccanti o grassi, la
menta, che inibisce la contrazione del LES e facilita l’insorgenza del MRGE, ma anche la cioccolata) e
farmaci specifici (ad esempio i nitrati, che determinano il rilasciamento della muscolatura liscia del
LES).
2. Transitorio rilassamento dello sfintere esofageo inferiore. Fa parte del fisiologico meccanismo di
eruttazione, mediato dal sistema vagale e serve per far uscire l’aria dallo stomaco. Determina
reflusso quando, insieme all’aria, risale il contenuto gastrico. Il rilasciamento del LES coinvolge anche
l’inibizione della curva diaframmatica, ossia dove si trovano i pilastri diaframmatici (un difetto della
contrazione a livello diaframmatico), in quanto la continenza del LES è coadiuvata dalla contrazione
a livello diaframmatico.
3. Distruzione/alterazione anatomica della giunzione gastro-esofagea. Eventualmente associato ad
ernia iatale.
L’ernia iatale costituisce un fattore determinante nella genesi del MRGE. Consiste in una risalita,
attraverso lo iato diaframmatico, dello stomaco e nei casi più drammatici, quasi la metà degli organi
addominali in torace.
[Ernia iatale: Impegno di parte dello stomaco attraverso lo iato esofageo diaframmatico. Questo
provoca un’abolizione dell’angolo di His, incontinenza cardiale poichè si trova al di sopra del
diaframma quindi è sottoposto solo a pressioni negative, reflusso gastro-esofageo (ma non sempre),
esofagite peptica che è una complicanza molto importante da curare o prevenire perché può evolvere
a metaplasia.
Si possono distinguere tre tipi di ernie:
- Ernia con brachiesofago: quello vero è una condizione congenita di esofago corto, rara, pediatrica,
non riducibile. Più frequentemente una retrazione acquisita riducibile dell’esofago mediastinico che,
con il tempo, può causare reflusso e sclerosi. Trattamento con PPI e chirurgia.
- Ernia per rotazione, paraesofagea: il fondo gastrico ruota intorno allo iato verso il mediastino, ma
il cardias rimane sotto-diaframmatico quindi dal punto di vista sintomatologico sarà paragonabile
alle ernie in altre sedi (inguinale, addominale; non si ha reflusso). La complicanza più temibile è lo
strozzamento del fondo gastrico, perché si forma un vero e proprio sacco erniario; può comparire una
congestione venosa con microemorragie che portano lentamente ad anemizzazione. Può essere
asintomatica o dare segni di ischemia del fondo gastrico da trattare in acuto.
- Ernia iatale per scivolamento: scivolamento intratoracico del cardias, con risalita
sovradiaframmatica della linea Z e scomparsa dell’angolo di His. Può provocare MRGE (più

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frequente). In questa posizione vengono meno i meccanismi di contenzione del LES, in quanto in cavità
toracica si trova una pressione lievemente negativa e questo favorisce il reflusso.
Le cause di erniazione possono essere una lassità delle membrane (soprattutto della membrana
freno-esofagea di Bertelli che, per invecchiamento, perde il suo tessuto adiposo e la sua elasticità,
favorendo la risalita dello stomaco in torace) e tutte le cause che aumentano la pressione
endoaddominale (bronchiti, tosse, gravidanza, aumento ponderale). Risulta spesso accompagnata da
patologie addominali concomitanti come la colelitiasi e i diverticoli del colon (triade di Cent).
Come detto, l’incidenza di ernia iatale non correla con il reflusso. Il reflusso acido in questa condizione
può però essere favorito da due meccanismi:
- Intrappolamento di succo acido con inefficace clearance esofagea
- Aumento fasico del tono del LES durante la respirazione e aumento dei rilasciamenti transitori:
questo determina quindi una contrazione a rilasciamento del LES (che si mantiene per un tempo
eccessivamente lungo).]
Se a questi fattori si aggiunge un’aumentata pressione intra-addominale, che quindi facilita il trasferimento
del contenuto gastrico verso il torace, aumenta il reflusso gastro-esofageo.
Altri fattori che collaborano alla patogenesi della malattia da reflusso sono:
 Obesità. Fattore che facilita la malattia da reflusso gastro-esofageo e l’esofagite erosiva. Non è
totalmente compreso il motivo per il quale i soggetti obesi presentino una maggiore incidenza di
reflusso gastro-esofageo, però si sa che in essi vi è un’aumentata pressione intraddominale, che
facilita il reflusso, che presentano lassità a livello del LES ed un’aumentata frequenza di rilasciamenti
transitori dello sfintere. Inoltre, questi soggetti soffrono di iposalivazione, che riduce la clearance
esofagea;
 Gravidanza. Condizione che determina un’aumentata pressione intraddominale e pertanto
determina una maggiore comparsa di MRGE. L’utero, inoltre, nelle fasi più tardive della gravidanza
va a comprimere tutti gli organi, compreso lo stomaco;
 Estrogeni. Facilitano il reflusso gastroesofageo;
 Esofago corto congenito (brachiesofago vero). Patologia pediatrica da trattare chirurgicamente
riportando la linea Z al di sotto del diaframma;
 Insufficienza iatrogena del LES. Deriva, ad esempio da una miotomia correttiva in caso di acalasia:
prevede di aprire i fasci del LES ipertonico ed eseguire in seguito una plastica antireflusso di tipo
anteriore;
 Isole eterotopiche di mucosa gastrica in esofago;
 Sclerodermia. Abbastanza frequente perchè l’alterazione della parete, soprattutto a livello
muscolare, causa ipotonia primaria del LES.

Clinica
SINTOMI TIPICI SINTOMI ATIPICI
1
- Pirosi ; - Anemia microcitica sideropenica;
- Rigurgito2 - Ematemesi;
- Disfagia3 - Asma o malattie respiratorie;
- Chest pain4; - Raucedine;
- Eruttazione; - Tosse cronica
- Nausea, vomito; - Laringite;
- Odinofagia; - Granulomi alle corde vocali;
- Ripienezza gastrica. - Perdita dello smalto dentario;
- Otalgia.

1. Pirosi gastrica: bruciore retrosternale che normalmente compare dopo il pasto. La sua frequenza determina
la gravità della definizione del reflusso gastroesofageo: se la frequenza è di 1/sett, si tratta di sintomatologia
media, se si tratta di 1/gg con riduzione della qualità della vita, si tratta di sintomatologia severa.
2. Rigurgito: percezione di un flusso gastrico eventualmente contenente parti di cibo indigerito.
3. Nel caso della MRGE, la disfagia compare nelle situazioni reiterate.

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4. Il dolore toracico da MRGE può mimare un infarto miocardico acuto (IMA) o un’angina, per cui la diagnosi
differenziale diventa fondamentale.

Sicuramente la pirosi retrosternale è il sintomo cardine, ed ha partenza dall’epigastrio e irradiazione verso il


giugulo, aggravato dalla posizione clinostatica. Si associa nel 50% dei casi a rigurgito. Meno frequenti sono
invece gli altri sintomi, quali il dolore addominale o toracico, che si presente nel 30% dei casi. Le eruttazioni
sono tipiche dell’incontinenza vera cardiale. Il vomito è sempre un sintomo di allarme, perché può essere
indicativo già di complicanze.
Per quanto riguarda i sintomi atipici, l’ematemesi è segno di condizioni gravi con erosione dei vasi superficiali
ed è rara. Altri sintomi da aspirazione o rigurgito acido, pur essendo atipici sono piuttosto frequenti,
riguardando il 50% dei casi: si tratta di tosse cronica, raucedine e otalgia.
Nel 70% dei casi i pz con questa sintomatologia presentano una MRGE, mentre nel 30% dei casi presentano
un’altra patologia, come ad esempio gastrite, cardiopatia ischemica etc.

Complicanze
La MRGE può complicarsi causando una serie di condizioni importanti, come:
- Erosioni e/o ulcere esofagee. Le ulcere di II e III grado causano stillicidio ematico che può portare
anemia ipocromica;
- Stenosi esofagea cicatriziale. Grave complicanza che comporta un restringimento concentrico del
lume esofageo e si accompagna a disfagia;
- Esofago di Barrett (verrà poi spiegato in dettaglio dal prof. Degiuli ed è frequentemente oggetto di
domanda d’esame);
- Adenocarcinoma gastrico;
- Esofago corto acquisito. Ad insorgenza in seguito a una retrazione longitudinale causata dal reflusso
cronico.

Diagnosi differenziale
Avviene con condizioni come l’ernia iatale e la dispepsia funzionale, molto frequenti e rispondenti ai PPi.
L’ernia iatale, nello specifico, si distingue dalla MRGE quasi unicamente per la presenza associata di
eruttazioni. Importante è anche pensare al carcinoma dell’esofago, patologia che va esclusa prima di
cominciare una terapia specifica, che andrebbe a nasconderne la sintomatologia. Infine, come
precedentemente detto, bisogna fare riferimento, dato il dolore toracico, all’infarto miocardico acuto ed
all’angina.

Diagnosi
Nei pazienti con sintomi classici, la diagnosi è clinica ed indagini più approfondite sono riservate a soggetti
con fattori di rischio per lo sviluppo di complicanze, quali ad esempio l’esofago di Barrett. Nei pazienti con
tipico dolore toracico retrosternale, invece, è necessario escludere patologie cardiache.

1. GASTROSCOPIA
Indicazione
Non è indicata in tutti i pazienti con MRGE: si riserva ai pazienti con caratteristiche iatali di rischio o
in possesso di immagini radiologiche dubbie, in modo da definire se ci sono delle lesioni riconducibili
all’esofago di Barrett o per monitorare una diagnosi in tal senso nota.
N.B. Fattori di rischio per esofago di Barrett: durata del MRGE dai 5 ai 10 anni, età >50 anni,
sesso maschile, razza bianca, ernia iatale, obesità, reflusso notturno, fumatori ed ex fumatori.
Si possono essere effettuate delle biopsie se vi sono aree sospette di metaplasia, displasia o
neoplasia.
Indicazioni specificate all’esecuzione di una gastroscopia sono:
 Comparsa di dispepsia;
 Sanguinamento gastroesofageo;

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 Presenza di anemia da deficit di ferro;
 Anoressia;
 Calo ponderale non spiegabile con la dieta;
 Disfagia;
 Vomito persistente;
 Familiarità per neoplasia gastrointestinale.
Rilievi
Alla gastroscopia di può di fatto definire il grado di esofagite. In questo senso, esistono una serie di
classificazioni che si avvalgono proprio di questo strumento.
La classificazione più importante è la classificazione di Los Angeles, che qualifica un’esofagite:
a. Grado A. Una o più soluzioni di continuo della mucosa, <5 mm su una sola plica;
b. Grado B. Una o più soluzioni di continuo >5 mm;
c. Grado C. Una o più soluzioni di continuo che si estendono a 2 o più pliche ma per meno del
75% della circonferenza del lume;
d. Grado D. Una o più soluzioni di continuo a due o più pliche ma per più del 75% della
circonferenza del lume.
Quando tale esame viene eseguito per il puro MRGE, le biopsie non hanno un ruolo effettivo perché
MRGE non ha una diagnosi istologica precisa, ma viene effettuata per escludere metaplasia, displasia,
neoplasia.
Altra classificazione utilizzata è la classificazione di Savary-Miller, che considera:
1. Erosione isolata di una plica
2. Erosioni multiple su più pliche
3. Erosioni confluenti sulla circonferenza esofagea
4. Ulcera lineare o lesioni fibrotiche con iniziale stenosi
5. Esofago di Barrett (da confermare sempre con diagnosi istologica)
2. MANOMETRIA ESOFAGEA
Strumento che permette di misurare la contrattilità dell’esofago e del LES.
3. PH-METRIA
Gold standard insieme all’endoscopia per la diagnosi di reflusso acido.
Indicazioni
Le indicazioni alla pH-metria sono:
 Sintomi persistenti e endoscopia negativa;
 Sintomi tipici e refrattarietà a terapia;
 Sintomi extraesofagei;
 Valutazione preoperatoria o postoperatoria.
Tecnica
Si posiziona una sonda mantenuta in sede per 24 h con elettrodi distanti 5-10 cm che registrano il
pH. Si può così conoscere il numero di eventi di reflusso con pH < 4 nelle 24 h, il più lungo episodio
di reflusso, il numero di reflussi > 5 minuti (quindi patologici, mentre fisiologici se < 4 minuti),
l’estensione del reflusso in orto- e clinostatismo. Tutti questi dati permettono di ottenere un
punteggio secondo lo score di DeMeester, che risulta indicativo di MRGE se > 14,7 (v.n 0-14,7).
4. ESOFAGO-GASTROGRAFIA CON BARIO
Tecnica ad oggi non più usata molto, serve per studiare l’anatomia.
5. BILIMETRIA
Misurazione spettrofotometrica della presenza di bile in stomaco e esofago. Non si fa di routine per
la diagnosi di MRGE, ma solo in pazienti che hanno sintomi suggestivi di reflusso duodenogastrico,
cioè soggetti che non rispondono alla terapia massimale con PPI, gastroprotettori e procinetici. In
questi casi, nell’80% il paziente continua a non rispondere alla terapia e andrà alla chirurgia, nel 20%
dei casi il paziente avrà effettivamente il reflusso biliare.
6. PPi TEST

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Test di fatto poco utile, che prevede la somministrazione di PPi ad un paziente che lamenta reflusso.
Se la sintomatologia passa è probabile che si tratti di MRGE, ma non permette di capire l’eventuale
presenza di esofago di Barrett o di tumore. Il suo uso è sconsigliato.
7. PH-IMPEDENZOMETRIA
Permette di identificare anche i reflussi non acidi, in caso di pz con sintomi atipici (rigurgito amaro) e
non rispondenti ai PPI.
Quindi manometria e pH-metria fanno diagnosi funzionale di MRGE, mentre l’endoscopia fa diagnosi di
complicanze della MRGE e permette di valutare dal punto di vista anatomico il posizionamento del LES e della
linea Z (in particolare la sua risalita).

Terapia
a. Modifica dello stile di vita dei pazienti
Rappresenta un intervento importante per i pazienti, da non sottovalutare e da incoraggiare
fortemente. Il paziente dovrà sospendere l’assunzione di fumo e cambiare la sua alimentazione,
eliminando cibi quali cioccolata, bevande gassose, cipolle e menta. I pazienti obesi dovrebbero
ridurre il loro peso, in quanto è stato dimostrato da un recente studio che le donne che hanno ridotto
il loro BMI di 3-5 punti hanno riportato una riduzione della frequenza dei sintomi da MRGE.
Altri cambiamenti attuabili sono dormire con due cuscini per ridurre il reflusso gastro-esofageo
notturno, evitare di mangiare poco prima di coricarsi ed evitare possibilmente la posizione di
decubito destro.
b. Trattamento medico
 PPi (Omeoprazolo)
Hanno cambiato la storia delle ulcere gastriche in quanto fino agli anni ‘80 erano frequenti gli
interventi in urgenza per ulcere perforate. Hanno un ottimo risultato.
 Farmaci antiulcera (Gaviscon)
 Farmaci antagonisti dei recettori H2 dell’istamina (Ranitidina)
 Miorilassanti (Baclofen)
Per ridurre il rilascio del LES.
 Procinetici
 Antiacidi di superficie: sono protettori della mucosa
Queste terapie risultano efficaci perchè la soppressione acida migliora i sintomi, guarisce le lesioni,
riduce l’incidenza di complicanze e blocca l’evoluzione a esofago di Barrett.
Le linee guida prevedono l’applicazione di una step down therapy: si inizia con PPI a dosaggio
massimale per permettere la massima riduzione della secrezione gastrica (40 –60 mg), poi, nei
pazienti che rispondono bene a questi dosaggi, si scala al dosaggio normale (20 - 40 mg) per evitare
l’insorgenza di complicanze come la gastrite atrofica in seguito a prolungata assunzione di alti
dosaggi. Dopodiché, nel momento in cui si è raggiunto il controllo dei sintomi e la completa risposta
alla terapia, si passa agli anti-H2 a dosaggio standard che sono considerati la terapia di
mantenimento.
Tra i PPI i più usati sono Omeprazolo, Pantoprazolo, Esomeprazolo, Rabeprazolo: hanno tutti lo stesso
effetto ma quelli di più recente scoperta hanno meno effetti collaterali rispetto ai primi, in particolare
riducono il rischio di sviluppo di gastrite atrofica.
Per quanto riguarda l’utilizzo dei PPI nel trattamento dell’esofago di Barrett, non si ha ancora la
certezza che la riduzione del pH esofageo determini una riduzione dell’estensione del Barrett e una
riduzione del rischio di trasformazione neoplastica. Sicuramente questi pazienti entrano in un
percorso di follow up endoscopico molto più intenso rispetto agli altri pazienti.
Nella stragrande maggioranza dei pazienti la sintomatologia regredisce con i soli consigli igienico-
sanitari e i farmaci, senza bisogno di particolari manovre o interventi chirurgici. I PPI funzionano
benissimo ma a volte i pazienti, dopo magari 2 o 3 anni che ogni volta che interrompono la terapia il
reflusso si ripresenta, chiedono di essere operati. Allora a questi pazienti andrà spiegato che oramai
l’intervento si fa in laparoscopia e non è particolarmente invasivo, però è un intervento che ha
comunque un minimo di rischio ed è un intervento che purtroppo non funziona sempre.

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Nel caso in cui il paziente non risponda alla terapia medica o sia un giovane con complicanze
importanti, si passa alla terapia chirurgica, rappresentata dalla fundoplicatio laparoscopica ossia la
plastica antireflusso, di cui la più utilizzata è quella a 360° di Nissen-Rossetti. È una tecnica di facile
esecuzione con una mortalità prossima allo 0%, morbilità altrettanto bassa, degenza media richiesta
bassa ma efficacia a lungo termine molto alta (75-90%).
c. Trattamento chirurgico
Indicazioni
Questo approccio è riservato ai pazienti che presentano effetti collaterali della terapia medica, a
coloro che hanno poca compliance della terapia medica, a pazienti giovani che non hanno intenzione
di andare incontro a una terapia cronica di PPi, a pazienti molto sintomatici con ernia iatale
importante, a soggetti che lamentano fenomeni di rigurgito ed a soggetti con riscontro di alterazioni
alla pH-metria, nonostante l’assunzione della dose massima di PPi.
Altre indicazioni alla chirurgia sono esofagite di grado III-IV soprattutto in pazienti giovani con sintomi
gravi già all’esordio, esofago di Barrett che non risponde alla terapia medica, dipendenza dal
trattamento in pazienti (soprattutto se >50aa) che, pur non avendo danni alla mucosa, non riescono
a sospendere il farmaco senza avere ripresa della sintomatologia, presenza di sintomi respiratori o
atipici con buona risposta al trattamento (quindi eliminando la causa si eliminano anche questi
sintomi e si può sospendere il farmaco), presenza di fattori di rischio indicativi di mancata risposta
alla terapia medica (reflusso notturno, LES ipocontinente, reflusso misto acido + biliare, danno della
mucosa già presente all’esordio), reflusso sintomatico ed evidenza manometrica di difetto meccanico
del LES in caso di fallimento della terapia medica e presenza di complicanze della MRGE (esofagite
persistente, stenosi, esofago di Barrett, inalazione ricorrenze).
Tecniche
 Sistema LINX
Nuovo sistema di alternativa chirurgica ancora poco diffuso. Si tratta di un anello che andrà
a ricostituire il LES e che viene posizionato intorno al cardias.
Complicanze
Il rischio e la complicanza maggiore è la disfagia, poiché se si esagera a costringere il LES si
crea l’effetto contrario al rilasciamento del LES con insorgenza di disfagia.
 Fundoplicatio secondo Nissen (360°)
Tecnica più utilizzata.
Tecnica
Prevede l’accesso in laparoscopia con un retrattore, che alza il fegato esponendo la regione
sottodiaframmatica. Si seziona il piccolo epiploon, si identifica la piccola curvatura e la
porzione distale dell’esofago, importante anche riconoscere il nervo vago anteriore. Si passa
al di sotto del tessuto lasso che si trova posteriormente all’esofago e si isola l’esofago
inferiore. Molte volte si rende necessario legare alcuni vasi brevi per permettere la
mobilizzazione del fondo gastrico. Con una pinza si prende il fondo gastrico e lo si fa passare
al di sotto dell’esofago, “a cravatta”, dando poi alcuni punti (3 o 4) per chiudere l’esofago.
Per evitare la recidiva e la risalita della linea Z, spesso si associa appunto la plastica secondo
Rossetti (Fundoplicatio secondo Nissen-Rossetti, in cui non vengono sezionati i vasi brevi),
che prevede di dare punti laterali-inferiori che rinforzano la plicatura. In più, in caso di
necessità, se è presente uno iato diaframmatico importante viene riparato. La plastica deve
essere “floppy”, ossia morbida, per evitare la formazione di una stenosi esofagea e quindi
l’insorgenza di disfagia.
 Fundoplicatio parziale
Non si fa passare il fondo gastrico a 360 gradi attorno al cardias.
 Fundoplicatio a 270 gradi
 Fundoplicatio secondo Dor a 180 gradi (anteriore)
Spesso effettuata negli interventi per l’acalasia, in cui si esegue una miotonia, protetta con
una plastica.
 Fundoplicatio secondo Toupet (180° posteriore)

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Non più usata perché richiedeva la sutura tra fondo gastrico e parete dell’esofago, che non
avendo la sierosa poteva esitare in erosione della mucosa e fistolizzazione. Inoltre era
necessario ancorare anche al pilastro diaframmatico destro la parete dello stomaco.
La scelta della plastica è a discrezione del chirurgo anche se quella più attuata è la Nissen.
La cosiddetta “plastica antireflusso” si propone di ricostituire una barriera efficace tra stomaco ed
esofago in grado di impedire il passaggio inverso da stomaco a esofago, ma consentendo un agevole
passaggio dall’esofago allo stomaco. Questa barriera viene ottenuta avvolgendo parte dello stomaco
attorno alla giunzione esofago-gastrica. L’intervento viene effettuato generalmente mediante un
approccio laparoscopico (che attualmente rappresenta il gold standard del trattamento chirurgico):
vengono praticate 4 o 5 piccole incisioni sulla parete addominale e, dopo aver disteso la cavità
addominale con anidride carbonica in modo da creare uno spazio di lavoro, vengono introdotti
nell’addome, attraverso i TROCAR, una telecamera e gli strumenti chirurgici. Viene sollevato il fegato.
Viene sollevato anche lo stomaco e, trazionando lo stomaco verso sinistra, viene messo in tensione il
piccolo omento. A questo punto si può vedere la “pars membranacea” del piccolo omento, con una
faccia anteriore che si affaccia nella cavità peritoneale e una posteriore che si affaccia nella
retrocavità degli epiploon. Viene aperta questa membrana e, una volta nella retrocavità degli
epiploon, vengono individuati i pilastri del diaframma che vengono isolati. Viene liberato anche
l’esofago e viene passata una fettuccia dietro la parte terminale di quest’ultimo in modo da isolarlo.
Viene ridotta l’eventuale ernia gastrica. Il fondo gastrico viene quindi isolato dalla milza e avvolto
attorno alla parte terminale dell’esofago come una sciarpa. I lembi dello stomaco vengono fissati con
alcuni punti di sutura sui pilastri del diaframma in modo da restringere lo iato. Normalmente questo
intervento, che viene chiamato “fundoplicatura secondo Nissen” viene fatto a 360°. In alcuni casi
questa plastica fatta con il fondo dello stomaco può essere solo parziale (posteriore o anteriore). In
genere comunque, se viene calibrata bene, la Nissen non dà grossi problemi. Efficacia dell’intervento:
questo intervento funziona, se fatto bene fino al 90% dei pazienti è soddisfatto. Però in alcuni pazienti
nonostante tutto permarrà la sintomatologia (di questo ovviamente va avvisato il paziente prima
dell’intervento). C’è anche un tasso di recidiva nel corso degli anni non trascurabile, che può arrivare
al 25%.
Si tratta di una fundoplicatio completa in cui si crea intorno all’esofago un effetto valvola
unidirezionale che non permette al contenuto gastrico di risalire in esofago. Procedimento:
inizialmente si ha l’isolamento del fondo gastrico e dell’esofago distale, il quale viene poi trazionato
verso il basso; successivamente il fondo gastrico viene fatto passare dietro l’esofago come una sorta
di manicotto e viene suturato su se stesso (per questo motivo tale intervento viene definito plastica a
360°). Così facendo si forma una valvola unidirezionale in quanto, quando il fondo gastrico è vuoto,
non c’è pressione e il cibo passa attraverso questo neo-sfintere; invece, quando il materiale gastrico,
per effetto dell’aumento della pressione, vuole refluire verso l’alto, questo dispositivo antireflusso si
gonfia schiacciando l’esofago all’interno, impedendo così il reflusso. Questo intervento rappresenta
la terapia più efficace e può essere usato per qualsiasi tipo di reflusso.
Tra le complicanze che possono insorgere ricordiamo la disfagia (20-40%) e la “gas bloat syndrome”
(3-10%), che si manifesta con distensione gastrica post-operatoria dolorosa e impossibilità
all’eruttazione.
Nel 50% dei casi, cioè in tutti quei casi in cui la MRGE si associa ad ernia da scivolamento, si esegue
anche la iatoplastica. Questa prevede l’ancoraggio del fondo dello stomaco al pilastro destro
diaframmatico, in modo da ridurre la dimensione dello iato diaframmatico e ripristinare quindi la
continenza del diaframma.
Un’alternativa alla chirurgia invasiva è rappresentata dai trattamenti endoscopici, che si utilizzano in
pazienti non candidabili alla chirurgia ma che non giovano nemmeno della terapia medica.
Il trattamento endoscopico può consistere in:
- Radiofrequenza Stretta Procedure Curon: la più utilizzata. Si utilizza la radiofrequenza limitatamente
a livello del LES (tramite palloncino gonfiato in sede) causando piccole ulcerazioni che, guarendo,
portano ad una parziale stenosi e quindi maggiore continenza. Si utilizza nei pazienti che hanno
ipocontinenza del LES.
- Terapia iniettiva/endoprotesi inerti: Enteryx Boston Scientific o Gatekeeper Medtronics

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- Gastroplastica endoscopica con Endochinch Bard (o ESD Wilson-Cook o Plicard Ndo-Surgical non
citati a lezione): prevede l’uso di un endoscopio che pinza/lega una plica della muscolatura esofago-
gastrica a livello del cardias, formando una sorta di cuscinetto che riduce la lassità della zona e chiude
un po’ lo spazio impedendo il reflusso.

Queste tecniche hanno efficacia paragonabile.


Per quanto riguarda la terapia della stenosi cicatriziale da reflusso, complicanza purtroppo frequente,
è possibile eseguire una dilatazione endoscopica del lume esofageo con associato l’intervento di
plastica anti-reflusso (questo perché la dilatazione endoscopica a livello della stenosi provoca una
dilatazione delle fibre muscolari quindi la conseguenza sarà il reflusso e sarà necessaria la plastica
per via laparoscopica) oppure un’esofagoplastica transluminale con catetere a palloncino che
permette di dilatare di varie misure la zona.

ERNIA IATALE
Impegno di parte dello stomaco attraverso lo iato esofageo diaframmatico. Questo provoca un’abolizione
dell’angolo di His, incontinenza cardiale poiché si trova al di sopra del diaframma quindi è sottoposto solo a
pressioni negative, reflusso gastro-esofageo (ma non sempre), esofagite peptica che è una complicanza
molto importante da curare o prevenire perché può evolvere a metaplasia.
Si possono distinguere 4 tipi di ernie:
- Ernia iatale per scivolamento. Deriva dallo scivolamento intratoracico del cardias, con risalita
sovradiaframmatica della linea Z e scomparsa dell’angolo di His. Può provocare MRGE (più
frequente). In questa posizione vengono meno i meccanismi di contenzione del LES, in quanto in
cavita toracica si trova una pressione lievemente negativa e questo favorisce il reflusso. Le cause di
erniazione possono essere una lassità delle membrane (soprattutto della membrana freno-esofagea
di Bertelli che, per invecchiamento, perde il suo tessuto adiposo e la sua elasticità, favorendo la
risalita dello stomaco in torace) e tutte le cause che aumentano la pressione endoaddominale
(bronchiti, tosse, gravidanza, aumento ponderale). Risulta spesso accompagnata da patologie
addominali concomitanti come la colelitiasi e i diverticoli del colon (triade di Cent).
- Ernia di tipo 2/3/4 che sono di tipo paraesofageo, con la risalita di parte dello stomaco o anche di
altri organi di fianco al cardias. La causa di queste tre tipologie non è nota, ma normalmente sono
associate ad un’aumentata lassità legamentosa (legamento gastro-splenico e gastro-colico). In altri
casi possono essere di origine traumatica.
 Ernia di tipo 2. Difetto della membrana paraesofagea dove risale il fondo gastrico.
 Ernia di tipo 3. Composta, presenta caratteristiche sia della tipo 1 sia della tipo 2, con risalita
del cardias e anche del fondo gastrico.
 Ernia di tipo 4. Difetto maggiore a livello dello iato esofageo con risalita di vari organi
addominali come colon, milza, pancreas, intestino (non così rara).

Clinica
Nell’ernia di tipo 1 i pazienti sono asintomatici ed il riscontro è occasionale. Alcune volte possono presentare
sintomi gastro-esofagei come dolore retrosternale e disfagia. Nel tipo 2/3/4, i pazienti possono essere
asintomatici o avere sintomi.

Complicanze
Le complicanze delle ernie iatali possono essere gravi e meritevoli di approccio chirurgico. Si tratta
soprattutto della formazione di volvolo gastrico, originato dalla rotazione su sé stesso del tubo e conseguente
ischemia, sanguinamento, complicanze respiratorie nelle ernie più importanti e problematiche cardiache.

Diagnosi di ernia iatale


 Tipo 1. La diagnosi viene fatta su pazienti sintomatici che presentano ad esempio reflusso
gastroesofageo.

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 Tipo 2/3/4. Normalmente è diagnosticata sui pazienti che hanno degli interventi chirurgici a livello
dello iato.
La diagnosi può essere effettuata tramite:
1. RX CON PASTO BARITATO
Ormai in disuso.
2. GASTROSCOPIA
Permette di visualizzare in retroversione lo iato e la parte di stomaco risalita. In una gastroscopia
normale, senza retroversione, si può apprezzare il cambiamento di mucosa tipico (la mucosa esofagea è
rosata; la mucosa gastrica è più rossastra).
3. MANOMETRIA
Permette di misurare l’ampiezza delle onde peristaltiche e la pressione degli sfinteri, sia dell’UES che del
LES. Un dato necessario per prendere decisioni sul trattamento da intraprendere è il tono del LES, in
quanto se le sue condizioni sono molto brutte difficilmente la terapia medica sarà sufficiente. In
particolare, la sua pressione diventa patologica se <10 mmHg (v.n. 15-20 mmHg).

Trattamento
 Ernia da scivolamento (tipo 1, asintomatiche): non è indicato un trattamento.
 Ernia da scivolamento (tipo 1, sintomatiche): il trattamento corrisponde a quello per il reflusso
gastro-esofageo.
 Ernie paraesofagee: nei pazienti asintomatici, alcuni sostengono che il trattamento in pazienti
asintomatici non porti particolari benefici, in quanto vi è il rischio di sviluppare sintomi (nel 2% dei
casi). Altri sostengono che il non trattamento implichi il rischio di complicanze maggiore.
Nei pazienti sintomatici (dispnea, perforazione etc) è indicato il trattamento e spesso è in regime di urgenza.

ACALASIA
Alterato/mancato rilasciamento del LES durante la deglutizione con assenza di peristalsi.

Epidemiologia
Incidenza di 1/100000 persone all’anno; in Italia l’incidenza è pari a 1,5/100000 all’anno. È una patologia
abbastanza rara.

Eziologia
La causa vera e propria non è nota: vi sono varie cause che concorrono nella determinazione di questa
patologia. Sono state osservate correlazioni genetiche, in quanto su gemelli omozigoti è stata riscontrata
l’acalasia in entrambi, oppure può essere correlata ad anomalie genetiche (es. Sindrome di Down). È inoltre
teorizzata una eziologia autoimmune, in quanto associata al polimorfismo dell’interleuchina.
Se tuttavia il primum movens non è noto, è stata osservata una riduzione dei neuroni dei plessi mioenterici
di Meissner e Auerbach in corrispondenza del LES.
L’unica causa nota su base eziologica virale è additabile ad infezione da Tripanosoma cruzii (causa la malattia
di Chagas ed è endemico in Brasile e Sud-America. Va quindi considerato in pazienti provenienti da questa
area geografica) e da HSV e VZV, per cui in seguito all’infezione si ha una produzione di auto-Ab contro i
neuroni dei plessi.
Negli altri pazienti, tuttavia, la causa scatenante non è nota.

Patogenesi
Eventi che caratterizzano l’acalasia sono l’infiammazione del tessuto mioenterico, con successiva
diminuzione dei neuroni inibitori, un disequilibrio tra l’inibizione e l’eccitazione del LES ed il conseguente
mancato rilasciamento di esso con ipercontrattilità dell’esofago.
Si ha un’alterazione della meccanica motoria della parete esofagea; in particolare si osserva:
1. Assenza di onda peristaltica primaria

59
2. Insorgenza di onde peristaltiche terziarie insufficienti o inefficienti
3. Mancata apertura del LES con ostacolo al normale transito del bolo
4. Dilatazione dell’esofago.
Per quanto riguarda la storia clinica della malattia si possono riscontrare 3 stadi diversi:
- Stadio iniziale: ipertrofia della tonaca muscolare e del segmento esofageo inferiore al fine di vincere la
resistenza del LES; la parete esofagea, invece, risulta normale
- Stadio intermedio: dilatazione dell’esofago a monte del tratto ipertrofico
- Stadio finale: dilatazione massiva dell’esofago con assottigliamento della tonaca muscolare e della tonaca
mucosa (dolicomegaesofago); la parete esofagea assume un “aspetto a carta velina”.

Clinica
Il paziente con acalasia presenta sintomi tra cui disfagia paradossa ingravescent (più per i liquidi che per i
solidi, in quanto il cibo è più pesante e determina con maggior facilità l’apertura dello sfintere. Va messa in
DD con una neoplasia), calo ponderale legato alla disfagia ingravescente, rigurgito e vomito, dolore
retrosternale o pirosi, molto frequenti, dolore toracico , che insorge a causa degli spasmi esofagei (da mettere
in DD con ischemia cardiaca), dolore epigastrico, odinofagia, tosse o asma, causati dalla persistenza di liquido
a livello dell’esofago, poiché nel momento in cui si dorme senza essere rialzati (non si usano cuscini plurimi)
o si dorme senza cuscino il liquido tende a risalire e invadere le vie aeree superiori (altresì polmonite ab
ingestis). Frequenti sono anche l’abbassamento della voce derivante dall’irritazione a livello delle corde
vocali, Sensazione di apertura a scatto del LES con passaggio del contenuto dall’esofago allo stomaco e
dispnea in clinostatismo, che insorge a causa del passaggio del contenuto esofageo in trachea.
La sintomatologia, inoltre, varia a seconda dello stadio di malattia:
- STADIO INIZIALE (assenza di dilatazione esofagea): compaiono disfagia, odinofagia ed episodi di intenso
dolore toracico che possono simulare un’angina pectoris
- STADIO INTERMEDIO (presenza di dilatazione esofagea): compaiono alitosi con episodiche eruttazioni e
rigurgito
di saliva mucoide schiumosa
- STADIO FINALE (dolicomegaesofago): compaiono disfagia grave e persistente, rigurgito frequente e
compressione della funzionalià respiratoria.

Complicanze
L’acalasia predispone il soggetto ad un elevato rischio di sviluppare:
• Complicanze locali: esofagiti (fdr per lo sviluppo di neoplasie), emorragie e perforazioni;
• Complicanze sistemiche: calo ponderale, anemia, cachessia, bronchite cronica, ascesso polmonare
e polmonite ab-ingestis (legata al rigurgito).

Diagnosi differenziale
Importante distinguere acalasia dai tumori (dell’esofago, del cardias) oppure tumori ab estrinseco, da
occlusioni meccaniche da situazioni di fibrosi.

Diagnosi
La diagnosi di acalasia si basa su:
1. Anamnesi
Si valuta la presenza di disfagia e di altri sintomi.
2. RX CON PASTO BARITATO
Ad oggi non più utilizzata, fornisce informazioni sulla dilatazione dell’esofago e sul
comportamento del LES; in particolare, in caso di acalasia, l’esofago assume l’aspetto a
coda di topo (segno radiologico tipico).
3. ENDOSCOPIA

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Gold standard. L’endoscopista descrive un quadro di “passaggio a scatto a livello del LES”,
in quanto l’endoscopio deve essere spinto per passare. Inoltre, si apprezza una motilità
esofagea non coordinata, l’esofago appare molto dilatato sino ad arrivare a parlare di
“megaesofago”, con episodi di rigurgito, reflusso e ab-ingestis.
4. MANOMETRIA
Rivela l’incapacità del LES di rilassarsi con la deglutizione e la mancanza di peristalsi
funzionale della muscolatura liscia dell’esofago. Inoltre, in condizioni fisiologiche, la
pressione a livello del LES è di circa 15 mmHg, mentre in caso di acalasia può arrivare a
30 mmHg.
In seguito all’esecuzione di esami strumentali, è possibile classificare l’acalasia con la classificazione di
Chicago.

Terapia
Esistono diverse possibilità: il trattamento deve essere “tailored” per il paziente in esame, tenendo conto
dell’età ad esempio (sul paziente anziano non si adotterà una terapia chirurgica; nel paziente giovane invece
non si interverrà con il trattamento medico, in quanto quest’ultimo è prevalentemente palliativo dal
momento che la durata del suo effetto è breve).

a. Trattamento medico
Impiegato soprattutto per i pazienti anziani ed in pazienti non fit per il trattamento chirurgico o
endoscopico.
 Farmaci atti a rilasciare lo sfintere gastro-esofageo inferiore, come ad esempio i nitrati, i
calcio-antagonisti o ad esempio è impiegato anche il Sildenafil.
Effetti collaterali
Mal di testa, ipotensione ortostatica, edema. Molti pazienti, infatti, non tollerano tali
farmaci, i quali sono palliativi, curano i sintomi, ma non impediscono il progredire della
malattia.
 Iniezione di tossina botulinica a livello dello sfintere esofageo inferiore effettuato
dall’endoscopista.
Ha una durata limitata dai 6 ai 12 mesi e pertanto deve essere ripetuta per avere un effetto.
Per di più non è garantita l’efficacia.
Meccanismo
Si ha il blocco del rilascio dell’acetilcolina a livello delle terminazioni nervose. Si ha
un’efficacia del 60% per 6 mesi e per tale ragione non è il primo trattamento che viene
proposto ad un paziente giovane.
 Dilatazione pneumatica
Ha durata di 2-5aa e poi va ripetuta con tutti i rischi connessi (ad esempio la rottura
dell’esofago).
Tecnica
Viene eseguita posizionando a cavallo del LES un pallone cilindrico e pian piano si aumenta
la pressione per dilatare il LES con un manometro che indica la pressione che si sta
applicando. L’efficacia è compresa fra il 62 e il 90%.
Complicanze
Il rischio di perforazione durante la manovra è del 16%-per nulla trascurabile quindi- e si può
avere anche mediastinite, condizione con un tasso di mortalità molto elevato.

b. Trattamento chirurgico
 Miotonia chirurgica secondo Heller
Gold standard - eseguita in laparoscopia con un’efficacia pari a 88-95%. Ha durata dai 5 ai 10
anni (anche di più), effettuato in anestesia.
Tecnica

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Si vanno a sezionare le fibre muscolari circolari del LES. In particolare, si effettua un’incisione
delle fibre longitudinali fino ad arrivare a quelle circolari che vengono sezionate per circa 5
cm verso l’esofago e per circa altri 3 cm verso lo stomaco.
È necessario poi effettuare una plastica antireflusso, perché altrimenti può insorgere il
reflusso gastro-esofageo in mancanza del LES.
[L’intervento prevede l’isolamento dell’esofago addominale, il suo trazionamento verso il
basso e l’esecuzione di una miotomia longitudinale lungo tutto l’esofago addominale; .
necessario sezionare l’avventizia, le fibre longitudinali e circolari, comprendendo nella sezione
anche il LES, e proseguendo fino alle prime fibre muscolari dello stomaco. L’intervento, quindi,
ha lo scopo di ridurre la pressione
muscolare a livello del LES.
Ad ogni modo, riducendo la pressione del LES, aumenta il rischio di MRGE; per questo motivo
la miotomia di Heller . quasi sempre accompagnata da una contemporanea operazione di
fundoplicatio, al fine di ridurre l’entità dei reflussi acidi. Si tratta di una fundoplicatio parziale
con tecnica di Dor, in cui si prende la parte anteriore dello stomaco e lo si gira attorno
all’esofago anteriormente per 180 gradi. Il protocollo operatorio viene chiamato cardiotomia
esofagea secondo Heller con plastica secondo Dor.]
Complicanze
Per quanto riguarda la miotonia si può avere perforazione dell’esofago, mentre nella plastica
antireflusso stenosi.
 Per Oral Endoscopic Myotomy (POEM)
Miotonia endoscopica di recente introduzione, motivo per cui non si conosce l’esatta durata
dell’effetto.
Tecnica
Si esegue un’incisione a livello della mucosa dell’esofago tramite il gastroscopio e poi si crea
un tunnel sottomucoso sino ad arrivare al cardias. A questo punto, vengono sezionate le fibre
muscolari 6 cm sopra e 2 cm in basso. Si ha una buona risposta con un’efficacia del 90%; non
è ancora nota la durata dell’effetto.
Complicanze
Non viene effettuata la plastica anti-reflusso e pertanto tali pazienti avranno il reflusso.

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3 ERNIE
L’ernia si definisce come la fuoriuscita di un viscere dalla cavità che normalmente lo contiene attraverso un
orifizio, un canale anatomico o comunque una soluzione di continuo. Si distinguono:
- Ernie interne: il viscere si impegna attraverso un orifizio naturale/anomalo situato all’interno del corpo
(es. ernie diaframmatiche);
- Ernie esterne: il viscere, infiltrandosi tra le strutture che compongono una parete (in particolare quella
addominale – ernie addominali), si dirigono verso l'esterno diventando evidenti; in quanto esterne sono
le più facilmente rilevabili (comunemente, con il termine “ernie” ci si riferisce alle ernie esterne).
Fisiopatologicamente, le ernie possono inoltre essere distinte in:
- Ernie da pulsione: dovute per esempio all’↑P addominale che determina l’estroflessione del peritoneo
con conseguente formazione del sacco erniario
- Ernie da trazione: es. ernia di Richter (v. dopo) in cui vi è una porta erniaria piccola in cui entra un po’ di
grasso del meso che si porta dietro la parte antimesenterica dell’ansa intestinale
Ernia post-operatoria: quando si esegue un intervento chirurgico sul colon e al momento della chiusura non vengono avvicinati i
bordi del mesocolon, nel post operatorio un’ansa intestinale può farsi fa strada fra i due mesi e si avrà una erniazione di un'ansa
intestinale nella breccia del mesocolon con conseguente occlusione intestinale.

3.1 ERNIE ADDOMINALI


Con il termine ernia addominale si intende la fuoriuscita di un viscere o parte di esso dalla cavità addominale,
attraverso un orifizio anatomicamente preformato. Non rientrano quindi in questa definizione:
- Laparocele: fuoriuscita di un viscere da una ferita chirurgica (iatrogena)
- Eviscerazione (o prolasso viscerale acuto): fuoriuscita dalla cavità addominale non ricoperta dalla cute
(tutta la parete addominale cede e i visceri addominali del paziente si vengono a trovare fuori dalla parete
a contatto con l’esterno – l’ernia è invece sempre ricoperta da cute); si tratta di un’evenienza rarissima
e drammatica.

Classificazione
CLASSIFICAZIONE EZIOLOGICA
Le ernie addominali possono essere
- Congenite: sono conseguenti ad un difetto dello sviluppo presente sin dalla nascita (es. ernie ombelicali
e ernie inguinali – queste ultime spesso associate, nel sesso M, a criptorchidismo).
- Acquisite: insorgono durante il corso della vita in seguito a diversi fattori e sono nettamente più frequenti
rispetto a quelle congenite; si distinguono:
• Da debolezza (es. ernie crurali, obesità, episodi di bronchite recidivanti, stipsi, ecc.)
• Da sforzo (es. sollevamento di un peso mal effettuato con conseguente ↑P endoaddominale e fuo-
riuscita dell’ernia attraverso un’area di debolezza).
Solitamente nel caso delle ernie acquisite vi è una predisposizione del tessuto (il collagene è più lasso).
CLASSIFICAZIONE TOPOGRAFICA
- ERNIE DELLA PARETE ADDOMINALE ANTERIORE
• Inguinali (le più frequenti – sopra il legamento inguinale)
• Crurali (sotto il legamento inguinale)
• Ombelicali (più frequenti nei bambini)
• Epigastriche (o della linea alba)
• Otturatorie
• Ernia di Spigelio
- ERNIE DELLA PARETE ADDOMINALE POSTERIORE
• Ernia di Petit
• Ernia di Grynfelt
CLASSIFICAZIONE FISIOPATOLOGICA
- ERNIA DA SCIVOLAMENTO: si parla di ernia da scivolamento quando si crea un difetto di parete e il contenuto
intestinale scende e, spingendo, crea un sacco incompleto dove si inseriscono le anse intestinali (alle
volte il contenuto può essere anche un organo parzialmente retroperitoneale – es. vescica, cieco)

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- ERNIA DI RICHTER: affinché un'ernia possa essere definita di "Richter" il bordo anti-mesenterico dell'inte-
stino deve protendere nel sacco erniario, ma non fino al punto da interessare l'intera circonferenza
dell'intestino stesso (ernia da pinzamento laterale). È un’ernia da trazione in quanto è il grasso del meso
che, infilandosi nella porta erniaria stretta, si porta dietro la parte antimesenterica dell’ansa.
CLASSIFICAZIONE CLINICA
- ERNIA RIDUCIBILE: i visceri rientrano spontaneamente o per taxis (manovra di riduzione dell’ernia che deve
sempre andare dal basso verso l’alto)
- ERNIA IRRIDUCIBILE: i visceri non rientrano spontaneamente o per taxis (a causa di aderenze, di dimensioni
elevate o di sacco incompleto – gli organi retroperitoneali non si muovono facilmente come le anse).

Epidemiologia
Le ernie addominali rappresentano la più comune forma di ernia e colpiscono fino al 7% della popolazione.
FATTORI DI RISCHIO
I principali fattori di rischio per lo sviluppo delle ernie addominali sono:
- Anatomici (es. difetti a livello del canale inguinale)
- Calo ponderale
- Obesità
- Gravidanze ripetute
- Problemi respiratori (tosse, broncopatie, bronchiti ripetute, ecc.)
- Problemi di canalizzazione: stipsi (↑P per evacuare);
- Ascite
- Patologie urinarie (es. patologie prostatiche – ↑P per urinare).

Anatomia
Gli elementi costitutivi dell’ernia sono:
- Orificio o porta erniaria
- Viscere erniato
- Sacco erniario (sierosa) e suo colletto
- Involucri accessori (spesso il sacco erniario è circondato da un ac-
cumulo di grasso detto lipoma pre-erniario)
La porta erniaria può essere un fattore prognostico per la comparsa
di complicanze: se questa è larga con tessuto lasso, non contenuta tra
strutture rigide, con il tempo cede e le possibilità di complicanze le-
gate a strozzamento e intasamento sono più rare (es. ernia inguino-
scrotale). Se, al contrario, due dei tre elementi costitutivi anatomici
della porta sono derivati da tessuti che non possono cedere (es. ernia
crurale), vi è una ↑ probabilità che l’ernia si manifesti già intasata.
Anche il contenuto è molto importante nell'evoluzione clinica, soprat-
tutto se, per vari motivi, tende ad intasarsi o protrudere sempre più (se il contenuto dell'ernia è l'omento,
oltre al fastidio non ci sono particolari complicanze; al contrario, quando si ernia un'ansa intestinale, la situa-
zione si complica e c'è il rischio di lesioni e di disturbi alla canalizzazione, oltre ad un dolore molto più intenso).
3.1.1 Ernia inguinale
L’ernia inguinale è la fuoriuscita di visceri addominali (in genere intestino tenue o epiploon, raramente colon)
dall’addome attraverso un punto di debolezza della parete addominale.

Epidemiologia
L’ernia inguinale è la seconda patologia chirurgica dopo la patologia emorroidaria.
L’incidenza è di 15/1000/anno (nell'area torinese ci sono 10-15 mila portatori) e colpisce in misura maggiore
il sesso M (RR 4-7). Si manifesta maggiormente nell'età adulta ma colpisce tutte le fasce (anche bambini).
- Ernia congenita: colpisce il 3-5% dei bambini (80% sono M) e nel 15% dei casi sono bilaterali;
- Ernia acquisita: colpisce il 4% della popolazione (fino all’8% dei M) con rapporto M:F 8:1; il 15% dei pz ha
una doppia ernia (ricercare sempre un’ernia obliqua esterna in caso di ernia diretta – v. dopo)

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Classificazione
Le ernie inguinali si distinguono in:
- CONGENITE: sono dovute alla persistenza del dotto peritoneo-
vaginale che, in epoca fetale, mette in comunicazione il pe-
ritoneo con il testicolo (in età adulta esso si chiude completa-
mente poco per volta) e si manifestano in epoca pediatrica
(raramente >18aa); inoltre sono sempre oblique esterne.
- ACQUISITE: insorgono a causa di
• Anatomica debolezza parietale (fattore determinante)
• ↑P addominale (fattore favorente) es. da sforzo o da
forte dimagramento – ↓contenzione del t. adiposo.
La differenza tra ernia inguinale congenita e acquisita sta nel sacco e nei rapporti che essa contrae con il
funicolo: le ernie congenite hanno il sacco erniario molto adeso agli elementi del funicolo (perché nello svi-
luppo del feto essi sono a stretto contatto) e sono quindi più impegnative da trattare.

Anatomia
CANALE INGUINALE
Il canale inguinale è un tunnel che ha un orifizio di entrata (anello in-
guinale interno) e uno di uscita (anello inguinale esterno), un tetto, un
pavimento e delle pareti laterali (v. dopo). In esso sono contenuti il
funicolo spermatico nell’uomo e il legamento rotondo nella donna, che
ha la funzione di sostenere l'utero. Alcuni autori definiscono il canale
inguinale come una “saracinesca” (saracinesca inguinale di Keith) piut-
tosto che un tunnel, ma la definizione più utilizzata è la prima.
Considerando il pz sdraiato si possono identificare le seguenti compo-
nenti del canale inguinale:
- Pavimento (in azzurro): rappresentato dalla fa-
scia trasversalis (la struttura che si interpone tra
il grasso peritoneale e il peritoneo stesso).
- Tetto (arancione): rappresentato dall’aponeurosi
del m. obliquo esterno; essa arriva dall'alto, fa da
tetto al canale inguinale, si gira su sé stessa e crea
il legamento inguinale (giallo).
- Parete latero-inferiore: rappresentato dal lega-
mento inguinale (dato dalla riflessione dell'apo-
neurosi dell'obliquo esterno).
- Parete latero-superiore del canale inguinale
(rosso): rappresentata dalla fusione dei mm. obli-
quo interno e trasverso.
Nel canale inguinale decorre il funicolo spermatico, avvolto dai muscoli cremasteri e costituito da:
- Dotto deferente - Plessi venosi anteriori e posteriori
- Arteria deferenziale - Dotti collettori linfatici (LFN lombo-aortici)
- Arteria spermatica interna - Rami nervosi
- Arteria spermatica esterna o funicolare - Residuo fibroso del dotto peritoneo-vaginale
Tutte queste strutture sono avvolte da una estroflessione a dito di guanto della fascia trasversalis.

Eziopatogenesi
La faccia posteriore della parete addominale anteriore presenta, lungo il decorso del canale inguinale, 3 punti
di forza a cui corrispondono 3 punti di debolezza della parete stessa; in senso medio-laterale:
- PUNTI DI FORZA:
• Residuo dell’uraco (mediale)
• Residuo dell’arteria ombelicale (medio)
• Vasi epigastrici inferiori (laterale)

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- PUNTI DI DEBOLEZZA (situati tra i punti di forza, in cui la fascia trasversalis è meno resistente):
• Fossetta mediale (tra uraco e arteria ombelicale)
• Fossetta media (tra arteria ombelicale e vasi epigastrici)
• Fossetta laterale (laterale ai vasi epigastrici)
Da queste 3 fossette fuoriescono i 3 tipi di ernia inguinale:
- ERNIA INGUINALE DIRETTA: fuoriesce attraverso la fossetta media (compresa tra l'arteria ombelicale oblite-
rata e i vasi epigastrici inferiori). Non interessa il funicolo spermatico.
La causa è un indebolimento della parete (“ernia da debolezza”) tipico dell’età adulta-avanzata e spesso
conseguente a uno sforzo improvviso.
NB: quando si trova un’ernia diretta bisogna controllare che non ci sia un’ernia obliqua esterna coesistente.
- ERNIA INGUINALE OBLIQUA ESTERNA: fuoriesce attraverso la fossetta laterale (lateralmente ai vasi obliqui
esterni); è la più frequente ed è sempre contenuta nel funicolo (esce insieme ad esso – percorrono quindi
tutto il canale inguinale).
Le cause sono quasi sempre congenite (persistenza anomala nel dotto vagino-peritoneale – che è sempre
presente nelle forme congenite le quali non necessariamente sono neonatali ma possono presentarsi
anche in giovani adulti).
- ERNIA INGUINALE OBLIQUA INTERNA: fuoriesce attraverso la fossetta mediale, è la forma più rara e presenta
un decorso atipico (parte medialmente e arriva nel canale inguinale).
È tipica della popolazione anziana maschile che presenta ipertrofia prostatica/disuria, come conseguenza
dell’↑P addominale durante la minzione (infatti nell'ernia obliqua interna è contenuto anche il grasso
prevescicale – porre attenzione alla vescica durante l’intervento). Non interessa il funicolo spermatico.

Quadro clinico
La sintomatologia dell’ernia inguinale risulta essere soggettiva e occasionale e dipende dalla sede, dal vo-
lume, dalla riducibilità e dal contenuto del sacco (omento meno sintomatico dell’ansa – v. prima).
In seguito a sforzo si verifica un improvviso ↑P a livello dell’anello inguinale e Il paziente lamenta dolore
acuto, localizzato, di tipo muscolare, che tende in pochi giorni alla remissione.
In altri casi il dolore può essere sordo, aumentare con la tosse e con l’↑P endoaddominale e irradiarsi al
testicolo omolaterale o in sede sovra/retropubica.
Il momento più sintomatico di un'ernia inguinale è quello in cui essa si forma, ovvero quando l'anello ingui-
nale esterno non ha ancora ceduto del tutto (quando esso cede del tutto il dolore è meno importante – infatti
le voluminosissime ernie inguino-scrotali sono quelle meno sintomatiche). Un esempio di ernia sintomatica
può essere quando è presente un cercine fibrotico dentro il sacco: quando l'ernia va ad impegnarsi in
quest’ultimo provoca dolore.
In definitiva, i pazienti possono essere:
- Pz asintomatici;
- Pz con dolore gravativo in sede inguinale (che aumenta o compare in ortostatismo)
- Pz con dolore ad esordio improvviso acuto
- Pz con episodi ricorrenti di esacerbazioni dolorose che regrediscono in clinostatismo (evenienza peggiore
in quanto si tratta di tentativi di strozzamento).

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COMPLICANZE
Le più importanti complicanze dell’ernia sono lo strozzamento e l'intasamento: sono complicanze gravi che
possono portare a morte il pz. Le principali complicanze sono:
- INTASAMENTO: si verifica in seguito all’accumulo di materiale fecale nell’ansa intestinale erniata, il quale
ostacola il transito la riducibilità del viscere per taxis (con possibile ostruzione meccanica).
Si verifica in ernie voluminose che passano attraverso un anello largo; la tumefazione aumenta e diventa
irriducibile (ma non tesa né solitamente dolente). L’intasamento evolve naturalmente verso lo strozza-
mento. Nelle ernie voluminose esce molto materiale (omento), che va ad occupare il sacco erniario.
Nell’intasamento non vi è il danno viscerale, per è una complicanza meno urgente dello strozzamento.
- STROZZAMENTO: avviene quando un'ansa intestinale penetra nel sacco erniario e il colletto, il quale è
troppo stretto, impedisce all'ansa di tornare indietro per cui si avrà una compressione venosa (con con-
seguente edema) e ulteriore aumento della compressione a livello del peduncolo vascolare dell'ansa,
fino a interessare anche la circolazione arteriosa con conseguente ischemia e possibile necrosi e gan-
grena (dopo 3-5 ore – va operata immediatamente).
Lo strozzamento si verifica più spesso nelle ernie piccole, in genere riducibili con colletto stretto.
Un paziente con un’ernia strozzata si presenza con una tumefazione in sede inguinale che ha tre carat-
teristiche fondamentali dal punto di vista dell’esame obiettivo:
• Estremamente dolente
• Consistenza tesa
• Irriducibile.
- INCARCERAMENTO: irriducibilità che si manifesta in seguito alla formazione di aderenze tra contenuto,
sacco e porta erniaria.
- FLOGOSI DEL CONTENUTO/SACCO ERNIARIO: l’infiammazione può essere acuta (rara) o cronica (molto più fre-
quente – da piccoli traumi soprattutto nei pazienti portatori di cinto erniario), determinata da trauma o
da infezione batterica. Talora un trauma violento può determinare flogosi acuta del contenuto e del sacco
erniario (es. appendicite nel contesto di un'ernia inguinale).

Diagnosi
La diagnosi si basa soprattutto sull’esame obiettivo (effettuato sia in orto che in clinostatismo). Al fine di una
diagnosi corretta, si deve esplorare il canale inguinale con il dito in ortostatismo e chiedere al paziente di ↑
il torchio addominale: il sacco in questo modo tende più facilmente ad impegnarsi nel canale inguinale stesso
e la punta d'ernia tende a progredire verso l'esterno e a trasmettere l'impulso della tosse del paziente sul
dito dell'esaminatore. La visita va sempre fatta bilateralmente (nel 15% dei casi l'ernia è bilaterale, 15-30%
dei pazienti presentano ernia doppia diretta/obliqua esterna).
Dal punto di vista clinico-diagnostico le ernie inguinali si possono dividere in:
- PUNTA D'ERNIA: il sacco erniario non fuoriesce ancora dall’anello inguinale esterno o fuoriesce appena (è
ancora contenuto nel canale inguinale). Il paziente è già sintomatico ma l'ernia non è clinicamente mani-
festa, si evidenzia infatti con ↑torchio addominale attraverso il dito introdotto dall’esterno, invaginando
nel canale inguinale la cute della radice dell’emiscroto (in questo modo si può fare DD con le tumefazioni
neoplastiche e non – es cisti del funicolo, le quali non sono nè riducibili né modificabili con ↑P addomi-
nale). La tumefazione erniaria è in questo caso riducibile con la manovra per taxis (compressione dell’er-
nia partendo dal basso verso l’alto– onde evitare strozzamento o rottura del sacco/viscere erniato).
- ERNIA INGUINO-PUBICA (bubbonocele): si verifica quando il sacco erniario supera l’anello inguinale esterno,
occupa la radice dell’emiscroto o del grande labbro (DD con bartolinite) e si rileva osservando deforma-
zione della regione. Si può ridurre in addome con la manovra di decubito o con la manovra per taxis.
- ERNIA INGUINO-SCROTALE: si ha una marcata deformazione del canale inguinale e dei suoi orifizi da parte di
un sacco che può raggiungere dimensioni significative (ernie permagne). Nell'ernia inguino-scrotale può
capitare che l'anello inguinale esterno sia completamente sfondato e l'ernia esca abbondantemente, an-
dando ad impegnarsi nello scroto con risultati estetici eclatanti: tuttavia il paziente non rischia molto
perché è difficile che essa si strozzi, proprio in virtù della presenza di una porta erniaria larga. Bisogna
porre in DD l’idrocele e le tumefazioni del testicolo (ecografia e/o trans-illuminazione).

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DIAGNOSI DIFFERENZIALI DELLE MASSE INGUINALI
Per quanto riguarda le masse inguinali, è sempre necessario differenziare l’ernia inguinale da quella crurale
(anche ai fini terapeutici):
- Ernie inguinali: tutte le tumefazioni al di sopra del legamento inguinale,
- Ernie crurali: tutte le tumefazioni al di sotto del legamento inguinale (molto più frequente in sesso F in
cui non esiste il funicolo per cui l’anello inguinale esterno è molto piccolo – DD a volte difficile)
Altre possibili cause di masse inguinali sono:
- Adenite inguinale (ove però non c’è la trasmissione dell’impulso al dito dell’esaminatore – quindi è un
segno abbastanza caratteristico)
- Testicoli ectopici: prima di ricercare un’ernia si devono sempre ricercare i due testicoli (che in alcuni
maschi sono particolarmente mobili)
- Varicocele (anche qui non vi è una trasmissione dell’impulso al dito dell’esaminatore ed è una tumefa-
zione a carico del funicolo)
- Idrocele (DD con ernia inguino-scrotale attraverso US o trasluminescenza)
- Lipoma
DIAGNOSI DIFFERENZIALE DEL DOLORE INGUINALE
- Tendinite: in questa regione si inseriscono una serie di legamenti, di tendini e le aponevrosi dei muscoli
retti e degli adduttori
- Pubalgia (soprattutto nel soggetto sportivo o che cambia la postura – addirittura può insorgere con l’uti-
lizzo di calzature poco adatte).

Terapia
La terapia può essere chirurgica o non chirurgica.
TERAPIA MEDICA
- Cinti erniari (azione meccanica)
- Terapie sclerosanti (derivanti dal campo vascolare, usate per varici esofagee o emorroidi – oggi abban-
donate): al paziente veniva ridotta l'ernia e il medico iniettava nel sottocute delle sostanze sclerosanti
che producevano un indurimento del tessuto sottocutaneo (senza risolvere il problema alla base – di
conseguenza l'ernia trovava altre strade per uscire).
TERAPIA CHIRURGICA
La terapia chirurgica si suddivide in due grandi capitoli:
- SUTURA DIRETTA: ormai si esegue quasi esclusivamente nei bambini
• Metodo Bassini (1887): la tecnica consiste nella cucitura della fa-
scia trasversalis con dei punti (si basava sul fatto che nell'ernia
inguinale si ha un cedimento di questa struttura e si creano di
fatto due bordi) che prendevano il legamento inguinale, la fascia
trasversalis, poi ancora la fascia trasversalis e infine i due bordi
dei muscoli.
Questa metodica ha lo svantaggio di creare una struttura in ten-
sione causando dolore quando i pz si rialzano dal letto (solita-
mente in 4° giornata) e cedimento dei punti al primo ↑P addo-
minale (es. starnuto). Il ricovero durava 7 giorni e il rischio di re-
cidive era molto alto (10%).
• Tecnica Shouldice: è una variante del metodo Bassini in cui i punti
erano in continuo (non staccati).
- ERNIOPLASTICA PROTESICA: è la tecnica più utilizzata. Le protesi sono in ge-
nere posizionate per via anteriore, secondo l'intervento di Lichtestein
(poi modificato dal suo allievo Trabucco). Si utilizza una rete protesica
in polipropilene sagomata di dimensioni standard (la distanza tra pube
e anello inguinale esterno è la stessa in tutti i pazienti a prescindere
dalla statura) per chiudere il “buco” (tecnica tension-free): essa viene
posizionata a cavallo del funicolo e fissata con dei punti o con la colla
biologica; in seguito si ribalta sopra la fascia e si chiude. Nella variante

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di Lichtenstein la rete veniva suturata al legamento inguinale e non era libera di orientarsi secondo i
movimenti del paziente; oggi invece si preferisce lasciarla libera di orientarsi in base alla P endoaddomi-
nale di ciascun paziente e viene tenuta in posizione solo con alcuni punti (tecnica di Trabucco). Nel foro
passa il funicolo spermatico ed è necessario durante l’intervento legare i rami dei vasi epigastrici per
evitare sanguinamenti. Inoltre, la rete va sempre fissata, altrimenti potrebbe muoversi e andare ad inci-
dere sugli elementi del funicolo (infertilità nei maschi) o sui vasi iliaci.
Insieme alla rete si possono utilizzare inoltre i plug (degli "ombrelli", anche se il loro utilizzo è episodico
al giorno d’oggi perché possono dare reazione da corpo estraneo) che vengono messi nell'anello ingui-
nale interno da cui esce l'ernia obliqua esterna e fissati con dei punti.
I vantaggi di questa tecnica sono:
• Ricovero breve (6h) • Rapida ripresa lavorativa
• Immediata mobilizzazione del paziente • Basso tasso di recidive (< 1%)
• Bassa incidenza di dolore postoperatorio • Scarsa morbilità
Le controindicazioni all’utilizzo di questa tecnica sono:
• Soggetti ID (rigetto è rarissimo ma esiste) • Soggetto in accrescimento (il dispositivo
• Diabetici (↑rischio di infezione) non segue la crescita corporea e può cau-
• Intervento "sporco" in associazione sare dolori/fastidi).
- LAPAROSCOPIA: le indicazioni principali all’utilizzo dell’approccio laparoscopico sono le ernie bilaterali e le
recidive (nell'ernia inguinale semplice monolaterale è considerato scorretto – necessità di una anestesia
generale a fronte della semplice anestesia locale o, al limite, spinale, che viene fatta nella tecnica chirur-
gica classica). La tecnica può prevedere un approccio extraperitoneale (TEPP) o transperitoneale (TAPP).
TIPOLOGIE DI PROTESI
Le protesi che vengono utilizzate sono in polipropilene, un polimero inerte in monofilamento; le maglie della
rete sono saldate (e non intrecciate) per ↓al massimo la capacità di assorbimento capillare della rete e quindi
la capacità di veicolare i germi. Questo materiale ha inoltre il vantaggio di permettere la proliferazione dei
fibroblasti attraverso le maglie, quindi essa viene incorporata e oblitera così anche lo spazio morto (ovvero
lo spazio che si crea quando si scolla). Altre tipologie di materiale protesico sono:
- Goretex: anche questo materiale è inerte e non poroso ma, non essendo conformato a maglie, non viene
popolato dai fibroblasti e quindi non viene incorporato;
- Protesi biologiche
• Pericardio bovino: non utilizzato normalmente in questo tipo di intervento in quanto ha lo svantag-
gio di essere sottile
• Collagene porcino: viene trattato in modo da fare da scheletro per la crescita dei fibroblasti (hanno
il limite di essere spesse e di costare molto – 5000 euro) e si utilizzano soprattutto per lavorare in
un territorio infetto).
COMPLICANZE DELLA TERAPIA
Le principali complicanze della terapia chirurgica sono:
- RECIDIVA: il rischio varia in base a
• Esperienza del chirurgo • Utilizzo di mesh (l’incidenza dimezzata,
• Tipo di ernia senza differenza tra plug mesh, flat mesh,
• Età e stato di salute del paziente open mesh)
La recidiva è riportata nel 3,7% dei casi e in caso si verifichi è indicata la riparazione laparoscopica che
permette di evitare il preesistente tessuto cicatriziale.
- DOLORE CRONICO: complicanza presente nel 7,5% dei casi, il dolore è cronico alla gamba o all’inguine con
durata di almeno 3 mesi.
In uno studio clinico, la frequenza di dolore cronico era 60/1000 nel gruppo sottoposto alla laparoscopia e 90/1000 in quello
sottoposto alla chirurgia a cielo aperto. Il dolore può essere di entità minore con la laparoscopia rispetto alla chirurgia. È ripor-
tato come di entità lieve, e continua a diminuire nel tempo. Può essere trattato con FANS.
- RITENZIONE URINARIA: in questo caso può essere inserito un catetere urinario temporaneo.
- SIEROMA: raccolta di fluido trasparente/giallastro, si manifesta nell’8% delle riparazioni con mesh e nel
30% delle riparazioni senza mesh. Solitamente si forma intorno a quella che precedentemente era la
localizzazione dell’ernia. La maggior parte si risolvono spontaneamente ma può essere necessaria la ri-
mozione del fluido con ago sterile.

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- ALTRE COMPLICANZE:
• Dolore testicolare (8/1000 casi trattati con mesh)
• Calo della libido (<1/1000 casi trattati con mesh)
• Parestesie e insensibilità a livello dell’inguine/scroto
• Incarceramento nervoso (2/1000 casi trattati con mesh – necessario decarceramento)
• Dolore neurogeno (a causa della P, dei punti metallici o delle suture).
3.1.2 Ernia crurale
L’ernia crurale fuoriesce dall’anello crurale (anello femorale) nel triangolo di Scarpa. È la seconda ernia ad-
dominale come frequenza ed è tipica del sesso F e dell’età adulta. Inoltre, è sempre acquisita.

Anatomia
L'anello crurale nel triangolo di
Scarpa è una zona di debolezza posta
al di sotto del legamento inguinale il
quale si inserisce sulla cresta iliaca e
sul pube: le ernie crurali si trovano
dunque sotto il legamento inguinale.
L’anello crurale (e quindi la porta er-
niaria) è delimitato nel seguente
modo:
- Anteriormente/superiormente:
legamento inguinale
- Posteriormente/inferiormente:
legamento di Cooper (posto sulla cresta pettinea)
- Lateralmente: vena femorale
- Medialmente: legamento lacunare (di Gimbernat)
Inoltre, la porta erniaria è divisa dalla banderella ileo-pettinea in:
- Lacuna musculorum (m. Ileopsoas e n. crurale)
- Lacuna vasorum (vasi femorali e LFN di Cloquet o di Rosenmüller).
L'ernia crurale più frequente è quella della lacuna vasorum.
NB: quando si effettuano interventi in questa sede (per ernie o varici degli arti inferiori) bisogna tenere a
mente l'anatomia dei vasi e dei nervi, ricordando la loro posizione NAVE (nervo-arteria-vena – al contrario di
tutte le altre regioni anatomiche in cui la vena è laterale e l’arteria più mediale).
Alcune varianti rare dell’ernia crurale classica (quella della lacuna vasorum) sono:
- Ernia Muscolo-lacunare (nella lacuna muscolorum)
- Ernia Vaso-lacunare (nell’interstizio dei vasi femorali)
- Ernia di Laugier (attraverso il Legamento di Gimbernat)
- Ernia Pettinea (attraverso il Muscolo Pettineo)

Quadro clinico
L’anello crurale è posto tra due strutture che non sono elastiche, il legamento inguinale e la cresta pettinea,
perciò le ernie crurali hanno un anello rigido e vanno facilmente incontro a complicanze (≠ da ernia inguinale):
nella maggior parte dei casi il paziente si accorge dell’ernia quando è già intasata e lamenta una tumefazione
più o meno dolente (a seconda del contenuto dell’ernia) alla palpazione in regione inguino-crurale.
La sintomatologia può essere in definitiva:
- Tumefazione dolente o non dolente (contenuto omentale)
- Dolore epigastrico riflesso (a volte nel sacco può finire un'ansa intestinale, caso abbastanza raro, ma che
richiede un intervento d'urgenza).
Le principali complicanze sono lo strozzamento, l’intasamento, l’incarceramento e l’infiammazione

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Diagnosi
Nell’ernia crurale non si avverte l’impulso al dito esploratore (≠ernia inguinale): la si può vedere clinicamente
solo quando è già intasata (quindi complicata). La diagnosi risulta essere clinica.
La DD principale è quella con un’adenopatia (si esegue attraverso US delle parti molli), se non dirimente si
può eseguire un agoaspirato o direttamente l’asportazione.

Terapia
Rispetto all'ernia inguinale, l'ernia crurale causa più frequentemente complicanze (v. prima), per cui bisogna
sempre consigliare l’intervento (esclusivamente chirurgico).
- SUTURA DIRETTA (si può fare quasi sempre se l’ernia non è troppo grossa): si cerca di avvicinare le parti
anatomiche che hanno ceduto mettendo le strutture in tensione con un accesso inguinale o crurale at-
traverso punti staccati ancorati
• In alto: su legamento inguinale e sulla fascia trasversalis
• In basso: su legamento di Cooper e sull’aponeurosi del muscolo pettineo
- ERNIOPLASTICA PROTESICA: si esegue in anestesia locale con un’incisione a livello della regione crurale al di
sotto del legamento inguinale (è possibile anche l’accesso con incisione a livello inguinale – sempre open
surgery) seguita da una riparazione del difetto tramite il posizionamento di una mesh ripiegata a siga-
retta o di una protesi a tappo (alternativa migliore).
Se l’ernia è intasata bisogna prima di tutto aprire il sacco erniario per controllarne il contenuto e verificare
che non sia contenuta un’ansa intestinale o comunque verificarne la vitalità. Successivamente si può allargare
l’anello crurale con una piccola incisione sul legamento inguinale per ridurre l’ernia.
3.1.3 Altre ernie addominali
ERNIA OMBELICALI
Le ernie ombelicali possono essere classificate in:
- CONGENITE (bambini): molto spesso non devono essere operate (di solito l’anello ombelicale tende a chiu-
dersi autonomamente nei primi 3 anni di vita)
- ACQUISITE (adulti) molto frequenti in alcune condizioni
• Obesità
• Gravidanza: se l’ernia è preesistente si può riparare prima dell’eventuale gravidanza oppure si può
lasciar trascorrere la gravidanza e ripararla un anno dopo senza particolari problemi.
NB: questi due casi, spesso l’ernia ombelicale è associata alla diastasi dei muscoli retti; in questo caso il cedimento della fascia
predispone alla recidiva dell’ernia post-intervento riparativo.
• Cirrosi epatica: ipertensione portale con ascite (il liquido si fa strada attraverso porte di debolezza)
Queste ernie dell’adulto, quando sono grandi, si accompagnano spesso a disturbi distrofici della cute
(onfalite – flogosi del tessuto periombelicale).
ERNIE OMBELICALI ACQUISITE
Le ernia ombelicali dell’adulto presentano le seguenti caratteristiche:
- Insorgono in posizione superiore dell’anello ombelicale
- Presentano una crescita di volume progressiva
- Sono frequentemente irriducibili (a causa di aderenze viscero-sacculari)
- Tendono a incarcerarsi e strozzarsi (anche quelle di piccole dimensioni)
Le principali complicanze sono:
- Intasamento: l’ernia ombelicale può intasarsi e diventare molto grande, causando dolore nel paziente.
In genere il contenuto del sacco erniario è rappresentato da omento e parte del colon trasverso.
- Incarceramento (è frequentemente irriducibile a causa del formarsi di aderenze).
- Strozzamento
Per quanto riguarda il trattamento, le ernie ombelicali sono difficili da trattare e gli interventi sono gravati
da un’elevata quantità di recidive e insuccessi. Il trattamento chirurgico consiste in:
- ERNIE DI GRANDI DIMENSIONI: ernioplastica protesica
- ERNIE DI PICCOLE DIMENSIONI: plastica diretta con punti staccati (si avvicinano i margini della linea alba) con
eventuale addominoplastica (intervento lungo e molto impegnativo).

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ERNIA EPIGASTRICA
Le ernie epigastriche sono molto piccole (fino a 5-6mm di diametro) e rare e sono situate sulla linea alba (tra
l’ombelico e il processo xifoideo). Fuoriescono da piccole lacune vascolari della linea alba, normalmente pre-
senti nella fascia mediana.
È un’ernia tipica delle persone giovani e magre, che vanno in palestra, e sono causate dall’↑P endoaddomi-
nale durante lo sforzo. Molto spesso si manifestano come ernie intasate a contenuto omentale (il pz riferisce
all'anamnesi epigastralgie). Per quanto riguarda la diagnosi differenziale, deve essere posta con
- Lipomi sottocutanei (se non si fa una diagnosi corretta si rischia di tagliare l’epiploon con conseguente
emorragia)
- Patologie gastriche (fondamentale EO quando un pz lamenta epigastralgia)
ERNIA DI SPIGELIO
L’ernia di Spigelio è anche detta anche ernia semilunare o ventrale late-
rale. È un'ernia rara, di piccole dimensioni (↑complicanze) e solitamente
acquisita: fuoriesce nel punto d’incontro tra il bordo laterale dei muscoli
retti e la linea semilunare di Spigelio.
Sul versante addominale ci sono i muscoli retti con le fasce anteriore e
posteriore, i muscoli larghi (m. obliquo interno, esterno e trasverso) e la
fascia trasversale di rinforzo che arriva fino a poco sotto l’ombelico ter-
minando a semiluna (fascia semilunare). All’incrocio tra la fine del fascio
semilunare e i mm. retti c’è una zona di debolezza dove passano i vasi
epigastrici (porta erniaria).
La sintomatologia caratteristica è il dolore intermittente localizzato in questa sede specifica che spesso con-
duce il paziente ad eseguire una serie di accertamenti alla ricerca della origine del sintomo erroneamente
attribuito a strutture viscerali quali l’intestino, le vie biliari o urinarie.
La diagnosi risulta estremamente complessa (solo 1/3 dei pz presenta una tumefazione apprezzabile, specie
se presente sovrappeso/obesità) e spesso è tardiva, per questo sono molto utili le indagini radiologiche –
US/TC/RM). È necessario porre diagnosi differenziale il lipoma della parete addominale. Per la riduzione è
necessario un accesso laparotomico o laparoscopico.
ERNIE PERINEALI
Le ernie perineali sono estremamente rare. Queste sono ernie interne che insorgono soprattutto nel sesso F
in epoca senile (cedimento dei tessuti di sostegno).
ERNIE ADDOMINALI POSTERIORI
Le ernie addominali posteriori sono molto rare, escono verso
la zona sacrale e glutea attraverso le saracinesche muscolari
(es. dal muscolo piriforme). Possono essere di diversi tipi:
- Ernie lombari del triangolo di Petit (il triangolo di Petit è
formato dalla cresta iliaca, dal muscolo gran dorsale e dal
muscolo obliquo esterno)
- Ernie del quadrilatero di Grynfelt (il quadrilatero di Gryn-
felt è formato dai muscoli spinali, dal muscolo obliquo in-
terno e dal margine della XII costa).

3.2 ERNIE DIAFRAMMATICHE


L'ernia diaframmatica si distingue in congenita e acquisita ed è una particolare forma di ernia caratterizzata
dalla fuoriuscita di uno o più visceri dalla cavità addominale all'indirizzo della cavità toracica, attraverso il
diaframma. La patologia è piuttosto comune ma di difficile diagnosi. Numerosi orifizi possono causare il ma-
nifestarsi di un'ernia; quello che ne è più soggetto è lo iato esofageo. Le ernie addominali possono essere:
- CONGENITE: sono dovute alla persistenza del canale pleuro-peritoneale per mancato sviluppo dei pilastri
di Uskow o per difettosa fusione di essi con gli altri abbozzi. Tra di esse distinguiamo:
• Ernie di Bochdalek (o postero-laterali)
• Ernie di Morgagni-Larrey (antero-laterale): generalmente provviste di sacco peritoneale.

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72
- ERNIE ACQUISITE: sono dovute alla dislocazione in torace di visceri addominali, attraverso fori o passaggi
normalmente presenti nel diaframma. Tali ernie possono essere classificate, in base alla frequenza come:
• Ernie eccezionali: dello iato aortico o del forame della vena cava inferiore.
• Ernie iatali (dello Iato esofageo), a loro volta divise in
§ I tipo (Brachiesofago)
§ II tipo (Rotolamento)
§ III tipo (Scivolamento)
Esistono inoltre le ernie traumatiche, dovute al passaggio diretto di visceri addominali in cavità toracica at-
traverso una soluzione di continuo prodottasi nel diaframma, secondariamente ad un evento traumatico.

3.3 DIASTASI DEI MUSCOLI RETTI


La diastasi dei muscoli retti è causata dal cedimento della fascia dei muscoli retti ma senza che ci sia un’in-
terruzione (non rientra nella definizione di ernia). Tipici fattori predisponenti per questa patologia sono la
gravidanza e l’obesità (un classico esempio è la donna che dopo la gravidanza torna al suo peso forma man-
tenendo però la diastasi che si nota ad esempio quando si alza da una sedia o contrae i muscoli.
La problematica è esclusivamente estetica in quanto non vi
è perdita di sostanza e non si è in presenza di un’ernia vera
e propria, in caso di volontà del pz a risolvere la problema-
tica l’indicazione è chirurgica e si può affrontare nei se-
guenti modi:
- Sutura della fascia (attraverso un taglio sottombelicale
si esegue una sutura continua a fisarmonica e si vanno
a riavvicinare i bordi della fascia)
- Posizionamento rete di polipropilene (laparoscopia).

3.4 LAPAROCELE
Per laparocele si intende un’ernia post-operatoria (iatrogeno) che si forma attraverso una breccia muscolo-
aponeurotica della parete in corrispondenza di una precedente incisione chirurgica. Essendo un processo
iatrogeno, il laparocele non rientra nella definizione di ernia.

Classificazione
CLASSIFICAZIONE TOPOGRAFICA
- Laparoceli mediani (più frequenti)
• Peri-ombelicale
• Sotto-ombelicale
• Sopra-ombelicale
• Xifo-pubico
- Laparoceli laterali
• Parasettale
• Transrettale
- Laparoceli “di confine”
• Sottocostali
• Fossa iliaca
• Lombari
CLASSIFICAZIONE DIMENSIONALE
I laparoceli sono definiti in base al diametro come:
- Piccoli: < 5 cm;
- Intermedi: 5-10 cm;
- Grandi: > 10 cm;
- Giganti: >20 cm
CLASSIFICAZIONE DI CHEVREL
Assegna un punteggio in base alla sede, all’ampiezza e alla n. di recidiva del laparocele.

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Epidemiologia
L’incidenza arriva fino al 10% di tutte le laparotomie, nel 50% dei casi entro 6 mesi dall’intervento. L’incidenza
negli interventi in laparoscopia è decisamente inferiore, nonostante ciò esistono laparoceli anche sulle inci-
sioni laparoscopiche (diametro 10 -12 mm).
I principali fattori di rischio per lo sviluppo di laparocele sono:
- GENERALI:
• Obesità • Ascite
• BPCO • Occupazione professionale
• Età avanzata, sesso femminile • Stipsi prolungata
• Diabete • Decorsi postoperatori difficili (es. pazienti
• Fumo con addome disteso per diversi giorni)
- LOCALI:
• Infezioni a livello della ferita (RR3) • Intolleranza al materiale di sutura
• Ematomi • Sito di incisione mediano (mancanza di
• Tagli >10 cm strutture muscolari – più difficilmente si
• Tecnica chirugica utilizzata nella chiusura sviluppa in sede sottocostale perché si in-
della parete addominale cidono le fibre del muscolo obliquo)
NB: i materiali di sutura che vengono utilizzati nella chiusura possono avere una diversa predisposizione per lo sviluppo di laparocele:
- Non riassorbibili (seta, lino, acciaio – oggi utilizzati per la sutura di tessuti superficiali)
- Riassorbibili:
• Normale tempo di riassorbimento (60-80 giorni – acido poliglicolico o vycril)
• A riassorbimento (180 giorni – ferite in cui c’è molta tensione)
La sutura ideale per prevenire il laparocele è quella continua non riassorbibile (non è però la sutura ideale per prevenire le infezioni).

Quadro clinico
Il laparocele può essere causa di vari tipi di sintomi:
- Limitazione dei movimenti - Interferenza con le attività quotidiane
- Dolore - Problemi estetici
- Stipsi - Problemi nella vita affettiva/relazione
Inoltre, più il laparocele è grande più frequentemente può manifestare delle complicanze:
- Alterazione della dinamica respiratoria - Alterazione della peristalsi intestinale
- Insufficienza respiratoria cronica - Ipotrofia della parete addominale
- Insufficienza vascolare venosa - Frequente incarceramento e irriducibilità
- Distensione dei visceri cavi (soprattutto colon) - Strozzamento
Nei grossi laparoceli prima dell’intervento bisogna valutare la funzione respiratoria, infatti dopo aver ridotto
i visceri in cavità addominale e stringendo con punti e reti si innalza il diaframma rischiando così di causare
insufficienza respiratoria o versamenti pleurici. Inoltre, per lo stesso meccanismo patogenetico vi è il rischio,
dopo l’intervento, di sviluppare una sindrome compartimentale.

Diagnosi
La diagnosi è clinica e il pz deve essere visitato in posizione ortostatica oppure in clinostatismo facendogli
aumentare il torchio addominale. Nei pz in sovrappeso spesso non è possibile farsi un’idea precisa delle di-
mensioni e dell’entità del laparocele, di conseguenza si rende necessario un’indagine strumentale attraverso
la TC senza MdC, utile in caso di
- Pz obesi - Recidive
- Laparoceli complicati - Patologie associate
- Difetti multipli
È importante infatti definire bene il laparocele soprattutto per quanto riguarda l’impostazione della tecnica
chirurgica (valutare la dimensione della porta erniaria e la qualità dei tessuti circostanti).

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Terapia
Le dimensioni sono importanti per la definizione dell’intervento: è più difficile operare un laparocele con
diametro trasversale maggiore che uno longitudinale (più è largo il laparocele più è difficoltoso l’intervento).
Le tecniche chirurgiche di riduzione del laparocele sono principalmente:
- SUTURA DIRETTA (metodo Ramirez – in disuso): il laparocele viene chiuso in due strati dando dei punti sui
margini sovrapposti per aumentare la resistenza; non si usa più siccome aumenta la P addominale cau-
sando tensione e ischemia e in più i punti difficilmente tenevano (50% di recidive – ormai non si utilizza
più nemmeno per i laparoceli piccoli).
- ERNIOPLASTICA PROTESICA: la tecnica differisce a seconda che il laparocele sia
• MEDIE DIMENSIONI: viene effettuata una sutura diretta con rinforzo protesico
§ Sottomuscolare (più utilizzato): la protesi viene posizionata sotto il ventre dei muscoli retti
(questo comporta un grande scollamento e se la porta erniaria è grossa questa metodica non
sempre risulta agevole – v. dopo)
§ Soprafasciale: ha il problema dell’adesione alla cute della rete con discomfort del pz
§ Sottoperitoneale (se l’intervento è effettuato in laparoscopia)
§ Copertura semplice del difetto di parete: poco utilizzata per la bassa tenuta
• GRANDI DIMENSIONI: il problema della chiusura delle porte erniarie più grandi è la tensione che si crea,
la quale rende difficile il posizionamento protesico di conseguenza si utilizza la tecnica della separa-
zione dei componenti che prevede l’interruzione del margine che unisce la fascia del muscolo retto
con la fascia del muscolo obliquo esterno; in questo modo si libera la tensione e si possono scorrere
i retti medialmente in modo da chiudere la fascia. La separazione dei componenti può essere
§ Anteriore: richiede un grande scollamento (open surgery)
§ Posteriore (laparoscopia)
• UNICO E DI PICCOLE DIMENSIONI: si può effettuare l’intervento di ernioplastica protesica in laparoscopia
(evita gli scollamenti e quindi gran parte del traumatismo dell’intervento) ma è utilizzabile soltanto
nei laparoceli piccoli e unici siccome la protesi deve comunque avere un overlap di circa 3-4 cm
rispetto alla porta erniaria.
Le protesi a contatto con il peritoneo posso scatenare una reazione infiammatoria con conseguente for-
mazione di granulomi che possono esitare in fistole, è necessario quindi utilizzare protesi appropriate:
• Protesi Dual Mesh: si tratta di una rete intrecciata in polipropilene che da un lato ha una copertura
di polimero inerte che impedisce la reazione con l’intestino e dall’altra una superficie che reagisce e
riesce ad integrarsi alla parte profonda dei muscoli
• Protesi in GORE-TEX®: è un materiale morbido e quindi solitamente lo si arma con degli anelli di
rigidità che gli danno una forma fissa, il problema di questo materiale è che è totalmente inerte e di
conseguenza non aderisce in nessun modo ai tessuti.
• Collagene porcino: utilizzato soprattutto in casi di suppurazione o campi infetti (non vi sono molti
studi ancora per quanto riguarda l’utilizzo in altre situazioni); viene completamente riassorbita o per
lo meno completamente riabitata dalla nostra materia

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75
PATOLOGIE DELLO STOMACO
Il professore ribadisce il fatto che l’anatomia (soprattutto vascolare) verrà richiesta all’esame. La domanda
sulla vascolarizzazione dello stomaco è molto frequente.

Anatomia dello stomaco


La parte sull’anatomia è stata integrata dalle BBC.
[Lo stomaco è un organo addominale a forma di sacco allungato che occupa topograficamente le regioni
dell’ipocondrio sinistro e dell’epigastrio. Presenta un epitelio cilindrico semplice monostratificato con funzione
secernente e di rivestimento. La mucosa gastrica produce acido cloridrico e pepsina, importanti per i primi
processi digestivi. Lo stomaco origina dal cardias e si interrompe a livello del piloro, zona di passaggio con il
duodeno. Esso viene solitamente diviso in 4 parti, rappresentate da:
- Cardias
- Fondo
- Corpo
- Antro. ]

Vascolarizzazione arteriosa4:
[Tutte le arterie gastriche principali derivano dal tripode celiaco
dell’aorta addominale, il quale si ramifica in a. splenica, a.
epatica comune e a. gastrica sinistra. ]
L’arteria epatica comune diventa epatica propria a livello del
legamento epatoduodenale; dopo circa 1 cm parte l’a. gastrica
dx: quindi l’arteria gastrica destra è ramo dell’arteria epatica
propria, non comune (!!). L’arteria gastrica dx da origine
all’arcata gastrica che va ad irrorare la piccola curvatura.
Nello stesso punto in cui origina la gastrica dx, ma
caudalmente, parte l’arteria gastroduodenale che
scorre nell’angolo diedro che si forma tra testa del
pancreas, duodeno e bordo inferiore dello stomaco. Da
qui poi ha origine la gastroepiploica dx, fondamentale
per la formazione dell’arcata gastroepiploica che andrà
ad irrorare la grande curvatura dello stomaco.
Entrambi questi circoli arteriosi si inosculano a pieno
canale con un altro ramo, che è il ramo discendente
dell’arteria gastrica sinistra (terzo ramo del tripode). La
gastrica sinistra si divide in un ramo ascendente
gastroesofageo (che va verso cardias e esofago distale)
e un ramo discendente (che si unisce alla gastrica dx).
L’arcata della grande curva e completata sulla sinistra
dalla gastroepiploica di sinistra, che è un ramo della
splenica. Ci sono poi dei rami arteriosi brevi che arrivano
dall’ilo splenico che si portano a livello della parte superiore del corpo e del fondo. Questi rami sono contenuti
in un legamento, il legamento gastrosplenico (che contiene le arterie e le vene brevi), che va sezionato tutte
le volte che si esegue una gastrectomia.

[Grazie al suo ramificato circolo arterioso, le ischemie gastriche sono poco frequenti.
Riassumendo, tra i principali rami arteriosi ricordiamo:
- A. gastrica sinistra: dal tronco celiaco si divide in due rami:

4
Il motivo per cui il professore insiste molto soprattutto sulla vascolarizzazione dello stomaco è che la decisione sul
tipo di linfadenectomia da eseguire si basa sulll’anatomia vascolare dell’organo. Da sapere in particolare grande e
piccola curva.

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• ramo esofageo: sale verso l’alto e irrora la zona del cardias
• ramo che segue la piccola curvatura anastomizzandosi con l’a. gastrica dx
- A. gastrica destra: chiamata anche a. pilorica, è un ramo dell’a. epatica propria5; segue la piccola
curvatura anastomizzandosi con l’a. gastrica sx.
- Aa. Gastriche brevi: in numero variabile da 5 a 7, originano dall’a. splenica e irrorano il fondo dello
stomaco
- A. gastroepiploica sinistra: origina dall’a.splenica e segue la grande curvatura, anastomizzandosi con
l’a. gastroepiploica dx
- A. gastroepiploica destra: ramo della gastroduodenale; va a irrorare tutta la grande curvatura
anastomizzandosi con l’a. gastroepiploica sx. ]

Deflusso venoso:
[Le vv. gastriche drenano principalmente nella v. porta, nella v.
splenica e nella v. mesenterica superiore.
Tra i principali rami venosi ricordiamo:
- V. Gastrica sn: in caso di ipertensione portale permette
una via di deflusso attraverso le vv. dell’esofago
inferiore formando le varici esofagee; essa decorre
lungo la piccola curvatura e confluisce nella v. porta
- V. Gastrica dx: confluisce nella v. porta
- Vv. Gastriche brevi: drenano il sangue dal fondo dello
stomaco per poi confluire nella v. splenica
- V. Gastroepiploica di sn: decorre lungo la grande
curvatura e confluisce nella v. splenica
- V. Gastroepiploica di dx: decorre lungo la grande
curvatura e confluisce nella v. mesenterica superiore. ]
Il tronco gastrocolico è un grosso tronco che finisce nella
v. mesenterica superiore, ed è formato dalla v. gastroepiploica di dx, dalla v. pancreatico-duodenale
anteriore superiore e dalla v. destra accessoria.

[Drenaggio linfatico
La linfa proveniente dalle pareti gastriche si raccoglie in
un denso plesso sottoperitoneale di vasi che decorre sulle
facce anteriore e posteriore dello stomaco scorrendo in
direzione della grande e della piccola curvatura. Sulla
parte superiore della piccola curva sono situati i LFN
gastrici superiori, collegati ai LFN paracardiali che
circondano il cardias. Sopra il piloro vi è un piccolo gruppo
di LFN sovrapilorici, mentre al di sotto vi sono i LFN
sottopilorici. Sulla grande curva, lungo l’arteria
gastroepiploica destra vi sono i LFN gastroepiploici di
destra. Vi sono poi alcuni piccoli LFN gastroepiploici
sinistri e i LFN gastrosplenici sulla grande curva vicina
alla milza.]

5
Nelle dispense è riportato comune, ma il prof ci tiene che noi sappiamo che in realtà si tratta della propria.

77
Nell’immagine a fianco si può vedere molto bene la
stratificazione dei vari strati gastrici, ben visibile
all’ecoendoscopia (per questo motivo questo è un
esame fondamentale per la stadiazione dei tumori
precoci, anche per l’esofago6).
Si distinguono:
- L’epitelio, cilindrico, con caratteristiche diverse
a seconda della regione gastrica
(fondo/corpo/antro)
- La membrana basale
- La lamina propria con i vasi linfatici
- La muscolaris mucosae
- La sottomucosa (iperecogena)
- 3 strati di muscolatura propria (ipoecogeni):
obliquo è quello più interno, circolare intermedio, longitudinale
esterno.
È importante sapere la stratificazione della parete per riconoscere i diversi
stadi tumorali.

La vascolarizzazione è molto importante perché si è visto, soprattutto dai


Giapponesi grazie a studi arteriografici e linfografici, che i linfonodi
seguono i vasi arteriosi e venosi. Pertanto il flusso linfatico e i linfonodi
sono stati divisi in 3 livelli:
1- Perigastrici: linfonodi lungo la grande e la piccola curva
2- Intermedi: linfonodi dei grossi vasi retroperitoneali che nutrono
fondamentalmente il tripode
3- Retroperitoneali: linfonodi interaortocavali.
Sono tre livelli anche di importanza prognostica, infatti se viene
interessato il primo livello viene considerato N1 (e questi pazienti hanno
una prognosi ancora buona), mentre man mano che vengono interessati i livelli più profondi la prognosi
peggiora.

Fondamentalmente le stazioni principali sono 16: (il


prof sostiene non sia necessario saperle tutte, “per chi
vuole 30 e lode”)

I linfonodi perigastrici (da 1 a 6) sono: paracardiali


destri e sinistri, linfonodi della piccola curva, linfonodi
della grande curva, divisi in sinistri e destri, sovrapilorici
o della gastrica destra, infrapilorici.
I linfonodi numero 7, 8 e 9 sono nella zona celiaca
(arteria gastrica destro, tripode celiaco e arteria
epatica). I 10 sono i linfonodi dell’ilo splenico, gli 11
dell’arteria splenica, i 12 del legamento
epatoduodenale, i 13 retropancreatici. Abbiamo
ancora i mesenterici superiori (14) e dell’omento (15) .
I 16 sono gli interaortocavali che sono ancora poi divisi
in sottogruppi in base ai reperi anatomici (non da
sapere).

6
In un tumore avanzato l’ecoendo non serve a niente.

78
Nel tumore del cardias vengono tolti i linfonodi sopra e sottodiaframmatici, periesofagei iatali e periesofagei
distali.

La linfadenectomia si distingue in:


- D1: linfonodi perigastrici
- D1 +: una via di mezzo tra D1 e D2
- D2: viene fatta nei tumori gastrici avanzati
- D2 +: prevede la rimozione anche dei linfonodi posteriori, ovvero i linfonodi dietro all’arteria epatica,
alla testa del pancreas e al legamento epatoduodenale, e dei linfonodi interaortocavali.

MALATTIA PEPTICA
Definizione: Malattia cronica caratterizzata dalla presenza di ulcere o erosioni localizzate nello stomaco e/o
nel duodeno, con tendenza alla cicatrizzazione spontanea ed alla recidiva (è una malattia cronica
recidivante).
Distinzione tra ulcera e erosione:
a. ULCERA: soluzione di continuo della mucosa, con perdita di sostanza, che si estende oltre la
muscolaris mucosae. Essendo una lesione profonda la guarigione residua in una cicatrice.
b. EROSIONE: soluzione di continuo che interessa la muscolaris mucosae, senza oltrepassarla. La
guarigione non determina cicatrice, ma si ha restitutio ad integrum completa.
Nonostante le ulcere siano diminuite di frequenza grazie alla terapia eradicante l’H. Pylori, all’anno si
presenta almeno una ventina di pazienti che necessita un intervento chirurgico per ulcera peptica. È quindi
sbagliato pensare che non esistano più casi di ulcera dopo l’avvento della terapia per l’helicobacter.
La mortalità rimane comunque bassa, in quanto questi pazienti vengono operati con urgenza estrema perché
si presentano già in stato di shock (spesso si tratta di soggetti anziani). L’ulcera gastrica è più frequente negli
anziani, mentre l’ulcera duodenale è più frequente nei giovani.

ULCERA DUODENALE
[Sono le più comuni (80%) e insorgono più precocemente (30-40 anni); sono legate all’ipersecrezione di
acido e pepsina (meccanismo principale), ma anche all’invasione da H. pylori. Si hanno rapido svuotamento
gastrico a causa dell’iperstimolazione dell’acido (può causare dumping syn- drome tipo 1), aumentata
motilità duodenale e diminuito potere tamponante dei bicarbonati. Si associa al gruppo sanguigno 0 e

79
riconosce come fattore favorente lo stress; è presente per lo più nel ceto medio-alto. Quando guarisce può
comparire fibrosi nella parete, con formazione di diverticoli che determinano l’accor- ciamento e la
deformità del duodeno. Le ulcere duodenali non diventano mai maligne.]
L’ulcera duodenale colpisce più frequentemente la parete anteriore7, ma anche quella posteriore, del bulbo
duodenale, oppure entrambe, entro 2-3 cm dal piloro.
La differenza tra l’una e l’altra è che
l’anteriore provoca una perforazione libera
con perdita del contenuto e peritonite
abbastanza immediata, mentre la posteriore
provoca penetrazione nella testa del
pancreas e fistole biliari8. I vasi della testa del
pancreas e la gastroepiploica sono vicini al
duodeno e quindi facilmente vengono erosi
in caso di ulcera, per cui una delle
complicanze più frequenti dell’ulcera
duodenale è l’emorragia.
C’è elevata tendenza alla cicatrizzazione
spontanea con delle alterazioni morfologiche
del bulbo ma anche alla recidiva.
Queste ulcere sono fattori di rischio per il cancro, soprattutto quelle gastriche, le duodenali meno.
Localizzazioni multiple e distali rispetto al bulbo pongono diagnosi differenziale con gastrinoma (S. di
Zollinger-Ellison) (‘non complichiamoci la vita’)

ULCERA GASTRICA
[Sono meno frequenti (20%) e insorgono più
tardivamente (50-60 anni); sono associate a una
riduzione della secrezione acida, ma soprattutto a
una riduzione dei fattori di resistenza della mucosa.
Il primum movens, infatti, sembra essere un danno
della mucosa, dovuto al reflusso di bile/liquido
pancreatico o all’invasione della mucosa da parte
dell’H. pylori, che diminuisce la resistenza all’acido.
Insorgono generalmente su un quadro di gastrite
cronica. Le ulcere gastriche nel 95% dei casi si
localizzano a livello della piccola curvatura e dell’antro dello stomaco (Magenstrasse). Sono legate
all’assunzione di farmaci, alcol, sostanze acide, presenza di stasi gastrica ed eventi ischemici; sono diffuse
soprattutto nei ceti medio-bassi, probabilmente a causa del tipo di alimenta- zione e delle abitudini
voluttuarie.]
Le ulcere gastriche colpiscono molto spesso la piccola curva angolare, che è la zona di passaggio tra la zona
superiore acido-secernente e la zona inferiore alcalina che produce gastrina. Poi ci sono ancora la
iuxtacardiale e la iuxtapilorica. Quest’ultima è simile all’ulcera duodenale per quanto riguarda i sintomi,
mentre la iuxtacardiale è molto alta ed è rarissima (il prof sostiene di non averne mai vista una).
Questo tipo di ulcere hanno il problema di non guarire mai quindi richiedono una terapia continua e
recidivano continuamente. Si è poi capito che questa non guaribilità è legata alla presenza dell’Helicobacter
Pylori, per cui la sua eradicazione facilita la guarigione delle ulcere .
È associata alla gastrite cronica atrofica multifocale o del corpo.

7
quando colpisce la parete anteriore in laparoscopia è più facile da vedere.
8
In questo caso si procede con duodenocefalopancreasectomia, stesso intervento che si esegue per i tumori della
testa del pancreas

80
L’ulcera duodenale è più frequente negli uomini e in età giovane-media, tendenzialmente sono tossici o ex
tossici, fumatori, alcolisti, nevrotici. Mentre invece l’ulcera gastrica è più frequente nelle donne con età di
50-60 anni e obese (nelle slide c’è scritto invece che ha uguale frequenza nei due sessi).

Quadro clinico
Per quanto riguarda la clinica il sintomo principale è il dolore, sia per l’ulcera duodenale che gastrica. Questo
dolore è abbastanza caratteristico, c’è periodicità nella giornata (in relazione con i pasti) e nell’anno
(primavera-autunno). Spesso però possono essere anche asintomatiche o causare dispepsia.
[Il dolore si localizza in epigastrio e può irradiarsi posteriormente, in particolare:
- Nell’ulcera duodenale il dolore è urente con insorgenza a digiuno o a distanza di 2-3 ore dal pasto,
soprattutto di notte. Può essere attenuato dall’assunzione di cibo.
Il dolore è più a destra, compare a digiuno (postprandiale tardivo: 3-4 ore, anche 5), viene definito
come hunger pain. Spesso notturno, fine mattina e pomeriggio. È attenuato dal cibo (latte, biscotti,
pane), dagli antiacidi (che però sono meno efficaci rispetto al caso dell’ulcera gastrica), ed è meno
irradiato e più localizzato. Il vomito è più raro rispetto all’ulcera gastrica (spasmi e stenosi sono tipici
dell’ulcera gastrica).
- Nell’ulcera gastrica il dolore è sordo con insorgenza precoce subito dopo il pasto (postprandiale) e
può essere esacerbato dall’assunzione di cibo. È attenuato dagli antiacidi.]
Se l’ulcera è sulla piccola curva il dolore è epigastrico irradiato al dorso e alla spalla sinistra,
postprandiale precoce (1-3 ore dopo) e con periodicità semestrale. Se è prepilorica il dolore è
epigastrico, postprandiale più tardivo, ci saranno spasmi pilorici (vomito biliare) e stenosi pilorica
(vomito alimentare). Quest’ultima si presenta più tardivamente quando diventa cronica. Se è
iuxtacardiale il dolore sarà retroxifoideo, spasmo cardiale (rigurgito salivare o alimentare). Essendo
rarissima il professore non la spiega
La percentuale di recidiva a 12 mesi nei pazienti non trattati è del 75-80 %, e la maggior parte delle recidive
si verifica nella stessa sede (questo vale soprattutto nelle ulcere gastriche).
Le recidive possono essere sintomatiche o asintomatiche e tendono poi a ridursi dopo 10-15 anni di malattia.

Eziopatogenesi
I fattori implicati nella patogenesi dell’ulcera peptica sono:
- Fumo, alcol, caffe, the
- Aumento della secrezione di HCl (che può avere diverse cause)
- Ustioni, traumi, stress chirurgico
- Infezione da H. pylori (il più importante per l’u. gastrica)
- Reflusso duodeno-gastrico: la bile è irritativa sulla mucosa alcalina che fa aumentare la produzione
di gastrina , che agisce sulla mucosa acido-secernente di corpo e fondo
- Aumento della secrezione di pepsina
- Alterazioni della motilità gastrointestinale: nell’ulcera duodenale c’è un aumento della motilità, in
quella gastrica invece c’è stasi.
- Riduzione della produzione di muco
- FANS, cortisone

L’eziopatogenesi si divide in forme comuni:


- Helicobacter pylori
- Farmaci: FANS/Salicilati
Forme rare:
- Ipersecrezione acida
- Infezioni
- Radio e chemioterapia
- Insufficienza vascolare

81
L’infezione da H. Pylori è responsabile di oltre il 90% di tutte le ulcere duodenali e del 70-80% delle ulcere
gastriche. Circa il 60 % della popolazione mondiale ospita l’infezione (in realtà questi dati non sono più così
veri).

Modalità di azione dell’H. Pylori


Alterazione della barriera mucosa gastrica con retrodiffusione di ioni H+, flogosi cronica della mucosa (azione
diretta) e vulnerabilità ad acido, pepsina, bile. Aumento della concentrazione serica di gastrina basale, post-
prandiale, stimolata da gastrin-releasing peptide (GRP), secreta dalle cellule G antrali.
L’eradicazione dell’infezione riduce drasticamente la recidiva di ulcere gastriche o duodenali favorendo la
guarigione e la cicatrizzazione.

Diagnosi di infezione da H. Pylori


Esistono metodi invasivi:
- Test all’ureasi
- Istologia: se il pz deve fare una biopsia per altre motivazioni si preferisce fare direttamente
l’istologico
- Coltura
Metodi non invasivi:
- Test sierologico
- Urea breath test: viene fatto ingerire al paziente dell’ureasi marcata con carbone radioattivo, l’ureasi
passa nello stomaco dove l’H. Pylori lo catabolizza si forma anidride carbonica questa viene assorbita
in circolo e viene eliminata con la respirazione.
- Ricerca antigene fecale

I FANS possono agire in due modi:


- Danno mucoso diretto: i FANS sono acidi deboli che vengono concentrati nelle cellule dell’epitelio a
causa dell’acidità intragastrica
- Azione sistemica del farmaco: c’è inibizione della sintesi di prostaglandine conseguente ad inibizione
dell’enzima ciclossigenasi à modificazione dello strato di muco superficiale à alterazione della
barriera mucosa gastrica à retrodiffusione ioni H ++

Diagnosi
La diagnosi si fa mediante endoscopia + biopsie (le biopsie sono sempre richieste9), queste infatti ci
permettono di fare diagnosi differenziale con il carcinoma gastrico. Esistono poi una serie di esami radiologici
di nicchia che però non vengono più eseguiti come l’rx del tratto digestivo superiore che permette di vedere
spasmi, deformazione bulbo.

Complicanze
Le complicanze sono:
- Emorragia: da erosione dei vasi vicini all’ulcera, soprattutto per quanto riguarda l’ulcera gastrica che
penetra nella sottomucosa ricca di vasi arteriosi e venosi. [Il sanguinamento da ulcera gastrica può
portare ad anemia e rappresenta la principale causa di morte nei pazienti con ulcera. Il sanguinamento
viene valutato mediante la classificazione di Forrest:
Grado I: sanguinamento in atto (a getto o a scolo)
Grado II: sanguinamento recente (vaso visibile, coagulo, chiazza ematinica)
Grado III: assenza di segni di sanguinamento, con ulcera a fondo deterso. ]
- Penetrazione: se non si buca verso il cavo addominale ma si buca verso un altro organo l’ulcera
penetrerà verso questo organo. Gli organi che possono essere penetrati sono diversi a seconda della
sede dell’ulcera, come duodeno, legamento epatoduodenale, colecisti, via biliare, omento, nella
testa e corpo del pancreas, mesocolon, colon, ilo splenico.

9
Perché in DD con l’ulcera si ha il carcinoma gastrico. Anche durante l’intervento per perforazione si fa la biopsia dei
margini (procedura obbligatoria).

82
- Perforazione: rottura dell’ulcera nel cavo peritoneale, che da peritonite acuta. Questo avviene
soprattutto a livello della parete anteriore del duodeno (80-90 %), della piccola curva gastrica, detta
piccola curva angolare (10-20%). Il paziente generalmente si presenta in PS riferendo un dolore
improvviso, acutissimo, “a pugnalata”, in sede
epigastrica e variamente irradiato. Appena è possibile il
paziente farà una TC e con questa sarà possibile vedere
la perforazione e il versamento. La TC permette anche di
fare diagnosi differenziale tra ulcera duodenale e
gastrica. Un'altra caratteristica è la contrattura di difesa.
- Stenosi: sono un po’ la conseguenza delle ulcere a causa
della cicatrizzazione. Ovviamente sono più sintomatiche
se la stenosi avviene già in una zona stretta di per sé,
come il canale pilorico. Poi si può avere una stenosi
mediogastrica, che è più rara e una sua
conseguenza è lo stomaco a chiocciola a
causa della cicatrice, infatti c’è retrazione
e accorciamento della piccola curva con
attrazione del piloro verso il cardias.

Ci sono diverse indicazioni per la gastroscopia


nell’ulcera:
- Pazienti emodinamicamente instabili
- Pazienti emodinamicamente stabili ma
con segni di sanguinamento attivo: in realtà gli endoscopisti spesso non vogliono eseguire la
gastroscopia nei pazienti che sanguinano. Gli endoscopisti sono in grado di fermare l’emorragia e ci
sono diversi modi per farlo, come iniezione di adrenalina o con degli spray (emospray) che rivestono
la mucosa andando a stabilizzare il sanguinamento.

83
02/11/2021
Prof. De Giuli (assistente)
Sbobinatrice: La Piana Giorgia
Revisionatrice: Obert Alessia

TUMORE MALIGNO DELLO STOMACO


[Il prof De Giuli non ha ancora caricato le slides e la registrazione, sono da integrare le immagini]

Attualmente il tumore dello stomaco è quinto per incidenza a livello mondiale e dal 2020 è la terza
causa di morte per cancro, dopo polmone e colon.

La sua incidenza varia tra uomo e donna e tra nazioni, è più frequente in Sud America e in Asia. Per
questo motivo in Asia è presente un programma di screening per il tumore dello stomaco che non è
presente in occidente, in quanto il costo dello screening non è giustificato dall’incidenza della
patologia e dalla riduzione della mortalità per questo tipo di tumore. In Asia, al contrario, l’incidenza
è estremamente elevata, soprattutto in Giappone e Corea. In Sud America l’incidenza è
particolarmente alta in Cile, Brasile e Argentina.

L’incidenza è maggiore negli uomini e nella razza bianca. Spesso questo è correlato allo stile di vita,
soprattutto in alcuni Paesi. [Aneddoto interessante: in Asia è uso comune bere Sakè; in principio gli
uomini erano soliti mangiare prima delle donne cibi molto caldi e bere il Sakè molto caldo, mentre le
donne consumavano il cibo e il Sakè più freddi: questo si associava a tumori dell’esofago, del cardias
ed eventualmente anche dello stomaco con un’incidenza molto maggiore negli uomini rispetto alle
donne, associando a questo anche il vizio del fumo].

Esiste una distinzione netta tra il tumore dello stomaco e quello del cardias, sia da un punto di vista
dei fattori di rischio, sia da un punto di vista del trattamento, inteso come terapia adiuvante,
neoadiuvante e chirurgico. L’incidenza del tumore dello stomaco si è ridotta perché è un tipo di
tumore strettamente legato all’infezione da Helicobacter Pylori, eradicata ormai nella maggior parte
dei pazienti, invece, il tumore del cardias è correlato a MRGE, obesità e ad altri fattori ma non all’HP
e quindi la sua incidenza è in aumento, associandosi anche ad una prognosi nettamente peggiore
rispetto al tumore dello stomaco.
Si possono quindi distinguere due tipi di tumore dello stomaco: CARDIALI e NON CARDIALI.

FATTORI DI RISCHIO
o Età: Solitamente >60-70 anni.
o Sesso maschile (rischio 5x per i tumori cardiali e 2x per i tumori non cardiali; gli estrogeni
sembrerebbero essere protettivi)
o Fumo (aumenta del 60% il rischio di tumore gastrico negli uomini, del 20% nelle donne)
o Razza bianca
o Familiarità (soprattutto per mutazione del gene CDH1 per l’E-caderina nei tumori familiari dello
stomaco)
o Scarsa attività fisica
o Scarso consumo di fibre
o Radiazioni

Questi sono fattori di rischio comuni sia per i tumori cardiali che non cardiali.

84
Per quanto riguarda i tumori NON cardiali (ovvero dello stomaco propriamente detto) si
aggiungono:

o Helicobacter Pylori (rischio 6x nel tumore gastrico, questo per l’azione indiretta di HP che causa
gastrite e per l’azione diretta sulle cellule epiteliali)
o Basso stato socioeconomico (correlato essenzialmente all’alimentazione)
o Consumo di cibi salati e affumicati
o Scarso consumo di frutta e verdura

Per i tumori cardiali invece:

o Obesità
o MRGE (Esofago di Barret)

Hanno un’azione protettiva: antiossidanti, assunzione di FANS, attività fisica (riduce del 21% il rischio
di tumore gastrico).

SCREENING
In Italia il programma di screening per il tumore dello stomaco non esiste perchè, come già detto, non
è giustificato dall’incidenza e dalla riduzione di mortalità, mentre in Asia esiste in quanto l’incidenza
di questo tumore è altissima.

TUMORE DELLO STOMACO


Il tumore dello stomaco è diviso in 3 entità importanti: EGC (Early Gastic Cancer), AGC (Advanced
Gastric Cancer) e FAGC (Far-Advanced Gastric Cancer).

EGC è un tumore confinato alla mucosa, ossia T1a, o eventualmente alla sottomucosa, ossia T1b,
secondo il TNM.

AGC comprende tutti gli altri tumori più estesi, ovvero stadi più elevati rispetto ai precoci.

Il FAGC equivale ai tumori metastatici. È associato ad uno stato tumorale localmente avanzato
inoperabile o con presenza di metastasi a distanza.

La presenza di versamento peritoneale alla TC pone il dubbio di carcinosi [manca immagine dalla
slide].

CLASSIFICAZIONE MACRO E MICROSCOPICA [manca slide completa + immagini]

➢ TIPO 0 (superficiali): tipica dei tumori T1 (EGC)


➢ TIPO 1 (polipoidi): demarcato dalla mucosa circostante (AGC)
➢ TIPO 2 (ulcerati): con margine ben definito
➢ TIPO 3 (infiltrativi ulcerati): non margini evidenti
➢ TIPO 4 (infiltrativi diffusi): tumori che infiltrano dal fondo all’antro; lo stomaco è inspessito
➢ TIPO 5 (inclassificati)

[mancano tutte le slide con le immagini dei vari tipi]

85
TIPI TUMORALI COMUNI

1. Adenocarcinoma papillare
2. Adenocarcinoma tubulare
- Ben differenziato
- Moderatamente differenziato
- Scarsamente differenziato: solido, non solido
3. Tumore ad anello con castone: prognosi peggiore
4. Mucinoso: prognosi peggiore
5. Carcinoidi
6. Carcinoma endocrino più rari
7. Carcinoma linfoide
8. GIST: i più frequenti tra i tumori non epiteliali

Un paziente che si presenta in PS con anemia marcata associata ad una neoformazione gastrica visibile
agli esami di imaging non può essere subito trattato con un intervento chirurgico, in quanto potrebbe
trattarsi di linfoma. Il miglior trattamento nel caso di linfoma gastrico è la chemioterapia. Operare un
paziente con questo quadro clinico in una situazione non di emergenza è sbagliato perché con la
chemioterapia si ha una percentuale di sopravvivenza maggiore rispetto alla chirurgia.

CLASSIFICAZIONE DI LAUREN DEL 1960

2 tipi tumorali:

- Intestinali: 53% (in diminuzione), più frequente negli uomini, età intorno ai 55 anni; ne fanno
parte i papillari e i tubulari; ben differenziati; con struttura simil ghiandolare; prognosi migliore
(in relazione allo stadio).
- Diffusi: in aumento, stessa incidenza nei due sessi, più precoci come età d’insorgenza rispetto
agli intestinali; istotipo predominate “anello con castone”; nessuna struttura simil ghiandolare,
producono mucina; prognosi peggiore.

Una differenza importante tra i tumori intestinali e i diffusi è il riconoscimento con la PET: la maggior
parte dei tumori diffusi (40%) non vengono visualizzati alla PET, mentre i tumori intestinali captano e
sono visibili alla PET. Questo vuol dire che non sempre la negatività alla PET indica la non presenza di
un tumore gastrico perché bisogna tenere conto dei tumori diffusi che non captano.

[mancano immagini da slide]

LOCALIZZAZIONE

Per localizzare il tumore, lo stomaco viene suddiviso in più parti [manca immagine da slide]:

U: UPPER, parte superiore

M: MIDDLE, parte media

L: LOWER, parte inferiore

Oltre a questa distinzione si aggiunge la suddivisione in parte anteriore, parte della grande curva, parte
posteriore e parte della piccola curva.

86
CLASSIFICAZIONE TNM

TX: profondità di tumore sconosciuta

T0: no evidenza di tumore primitivo

T1: tumore confinato alla mucosa (M) o alla sottomucosa (SM)

- T1a: tumore confinato alla mucosa (M)


- T1b: tumore confinato alla sottomucosa (SM)

T2: tumore che invade la muscolare propria

T3: tumore che invade la sottosierosa

T4: tumore che invade la sierosa oppure tumore che invade le strutture adiacenti

- T4a: tumore che invade la sierosa senza coinvolgere gli organi circostanti
- T4b: tumore che invade le strutture circostanti (es. pancreas da tumore posteriore, fegato da
tumore della piccola curva)

NX: linfonodi regionali non valutabili

N0: no linfonodi regionali coinvolti

N1: metastasi in 1-2 linfonodi regionali

N2: metastasi in 3-6 linfonodi regionali

N3: metastasi in 7 o più linfonodi regionali

- N3a: metastasi in 7-15 linfonodi regionali


- N3b: metastasi in 16 o più linfonodi regionali

M0: non sono presenti metastasi a distanza

M1: sono presenti metastasi a distanza

La cosa più importante a livello chirurgico nel tumore gastrico è la rimozione dei linfonodi in aggiunta
della rimozione del tumore.

La classificazione TNM è di 3 tipi:

➢ cTNM (clinica): valutazione da effettuare prima di operare il paziente;


➢ pTNM (patologica): quando è presente il pezzo operatorio che può essere analizzato dal
patologo;
➢ yTNM: quando il paziente viene sottoposto a terapia neoadiuvante.

87
DIAGNOSI

In Giappone e Corea ci si avvale dello screening.

In occidente, per i pazienti sintomatici si evidenziano alcuni segni e sintomi: perdita di peso (il più
significativo, anche fino a 25 kg in poco tempo), disfagia (tumori del cardias e tumori di antro e piloro,
associata a vomito), dispepsia, sazietà precoce, anemia (sia perché son tumori che sanguinano sia
perché c’è malassorbimento; non sempre presente).

Richiediamo esami ematochimici per:


o evidenziare eventuale anemia
o assetto nutrizionale (spesso sono pazienti malnutriti)
o assetto epatico e renale

A seguito si richiede gastroscopia + biopsia. La gastroscopia permette di evidenziare il tumore e


definirne le caratteristiche, la biopsia permette di differenziarlo e classificarlo.

Segue poi la TC total body (in genere si fa solo torace+addome, in alcuni casi anche encefalo): con essa
si può stadiare con cTNM il tumore gastrico.

In alcuni casi viene anche effettuata l’eco endoscopia per definire il T, distinguendo un tumore
precoce da uno avanzato. Questo perché i tumori T1 possono avvalersi di un trattamento endoscopico
senza intervento chirurgico, mentre i T2 possono avvalersi di un trattamento chirurgico. Tutti gli altri
tipi tumorali devono essere sottoposti a terapia neoadiuvante, come da linee guida.

Un’altra stadiazione è possibile tramite laparoscopia diagnostica + washing: dopo aver lavato la cavità
addominale viene prelevato il liquido di lavaggio e viene inviato al patologo per un esame citologico,
per evidenziare la presenza di cellule neoplastiche. Se quest’ultime sono presenti, il paziente avrà
metastasi peritoneali e verrà trattato con chemioterapia.

La PET può dare falsi negativi.

I pazienti che presentano un tumore gastrico COMPLICATO devono essere sottoposti ad un


trattamento in urgenza. Sono pazienti con un’occlusione alta, con stenosi a livello dell’antro, con
difficoltà all’alimentazione, possono presentare sanguinamento (ematemesi o melena).

[mancano immagini da slide]

La lezione verrà ripresa da professor De Giuli.

MALATTIA PEPTICA (CONTINUAZIONE)


DIVERSITA’ DEI CARATTERI CLINICI E FUNZIONALI
Quadro clinico

- UG comparsa in età più avanzata


- UG relativa frequenza nelle donne, UD più frequente negli uomini di età giovane-media
- UG Spesso associata a nausea, vomito, eruttazioni acide anche senza stenosi pilorica
- UG buona risposta alla terapia medica

88
Motilità gastrica

- UG: motilità diminuita e


ristagno alimentare
- UD: ipermotilità gastrica e
svuotamento rapido
(per la sua evidenza non si
usa più il mezzo di contrasto
baritato perché,
specialmente nei casi di
ulcera, se c’è davvero una
perforazione può provocare
una peritonite chimica, si
usano invece mezzi di
contrasto idrosolubili.

Comportamento secretivo
- Nell’UG è presente una secrezione cloridrica a digiuno ridotta rispetto UD e anche ridotta dei
soggetti normali (GCA)
- Ipotesi di DRAGSTED: patogenesi di UG determinata da ipersecrezione HCl (prodotto dalle cellule
nel corpo e nel fondo) di origine ormonale (per eccesso di gastrina prodotta nell’antro e nel corpo),
che si libera nell’antro a causa del ristagno gastrico o del ritardo di svuotamento (stasi antrale).
- Nell’UD la patogenesi è determinata da ipersecrezione HCl interdigestiva, di origine nervosa
(ridotta da vagotomia, esaltata invece da stimoli emotivi).
- Nell’ulcera prepilorica è presente ipersecrezione interdigestiva come per UD.

Gastrite cronica

- nell’UD lo stomaco ha una mucosa integra.


- nell’UG c’è presenza costante di gastrite cronica (massima condizione predisponente all’ulcera
peptica).

Nello stadio avanzato la gastrite cronica diventa gastrite atrofica: alterazioni delle ghiandole piloriche
ed antrali che diventano simili alle ghiandole intestinali e perdono la protezione del muco contro l’HCl.

TERAPIA MEDICA
o Riduzione o neutralizzazione della secrezione acida:
- Antiacidi (idrossido di magnesio e alluminio);
- Anti H2 (Cimetidina, Ranitidina, Famotidina, Nizatidina);
- Inibitori della pompa protonica (Omeprazolo, Lansoprazolo, Pantoprazolo, Rabeprazolo).

o Eradicazione H.Pylori
- antibiotici in monoterapia: scarsa efficacia / resistenza.
- associazioni: Bismuto + Metronidazolo + altro antibiotico (Tetraciclina o Amoxicillina);
Omeprazolo + 2 antibiotici (Metronidazolo e Claritromicina).

89
TERAPIA CHIRURGICA
In caso di:
o Perforazioni
o Emorragia digestiva
o Ostruzione da stenosi (da malattia
prolungata nel tempo)
o Malignità (si sviluppa soprattutto a livello
del moncone chirurgico)

Da considerare anche:
o Frequenti recidive
o Resistenza alla terapia medica, specie
delle UG

Generalmente si tratta di pazienti con un


livello socioculturale basso che non seguono
la terapia medica, oppure non sono
responsivi: in questi casi si opta per una terapia chirurgica.

La perforazione è anche una complicanza del carcinoma dello stomaco, per cui quando è necessario
trattare un’ulcera gastrica perforata bisogna accertarsi che non sia un carcinoma gastrico perforato.
In questo caso è necessario fare la biopsia dei bordi dell’ulcera.

Un trattamento che non viene più utilizzato è la resezione gastrica (vedi immagine).

Principi della resezione gastropilorica

1. Resezione estesa al bulbo duodenale


2. Rimozione dell’antro e porzione pilorica (mucosa alcalina, stimolazione della secrezione con
meccanismo ormonale-gastrina): rimuovere 75-80% della piccola curvatura, interrotta al
punto di biforcazione dell’arteria gastricoepiploica sx, sezione al punto di Van Ghoetem della
grande curva

90
3. Rimozione di una parte estesa della mucosa acido-secernente sensibile alla stimolazione
nervosa, fino a demolire i 2/3 dello stomaco

Il punto di Van Ghoetem è il punto in cui l’arcata della gastroepiploica di dx (ramo dell’arteria
duodenale) si incontra con l’arcata della gastroepiploica di sx (ramo dell’arteria splenica), più o
meno a metà della grande curva.

In questo punto i rami dell’arcata di dx tendono a puntare verso l’alto, mentre i rami dell’arcata di sx
tendono a puntare verso il basso.

Ricostruzioni

[Sono storiche e vanno sapute!]

La resezione gastrica implica la rimozione di una parte di stomaco fino al duodeno, quest’ultimo viene
sezionato e nella ricostruzione si può ricreare la continuità gastro-duodenale con una tecnica chiamata
Billroth I, una gastroduodeno anastomosi.

Una seconda ricostruzione abbandona il moncone duodenale e ricostruisce la continuità intestinale


con un’ansa digiunale e si chiama Billroth II.

In questo modo, la Billroth II esclude dal transito il duodeno, invece la Billroth I lo rimette in transito.

91
I pazienti con Billroth I hanno spesso come complicanza un’esofagite da reflusso biliare (per l’assenza
dello sfintere pilorico) e quindi sono più a rischio per lo sviluppo dell’esofago di Barrett.

La Billoroth I è stata praticamente abbandonata in occidente a favore prima della Billoroth II e poi di
un’altra ricostruzione chiamata Ansa alla Roux.

Una variazione della Billroh II è la Reichel-Polya che consiste in una gastrodigiunostomia termino-
laterale transmesocolica: termino perché viene fatta sul termine della sezione gastrica, laterale perché
viene fatta su un lato del duodeno, transmesocolica perché l’ansa digiunale viene fatta passare
attraverso un forame realizzato attraverso i rami del mesocolon trasverso (il mesocolon è quella parte
di ventaglio che collega il retroperitoneo con il colon trasverso, ci sono due foglietti anteriore e
posteriore e nel mezzo c’è tessuto adiposo, vasi linfatici, linfonodi e vasi sanguigni; è presente l’arteria
colica media che si divide in branca dx e branca sx; tra un vaso e l’altro ci sono grossi spazi avascolari
in cui è possibile far passare l’ansa femorale).

Un’altra tecnica molto eseguita è la Hofmeister-Finsterer, una gastrodigiunostomia termino-laterale


parziale inferiore: parziale perché non tutto il moncone gastrico viene anastomizzato, inferiore perché
è nella parte inferiore dello stomaco. È antemesocolica perchè passa davanti al mesocolon.

Nella ricostruzione sottostante è evidenziata la differenza di una ricostruzione isoperistaltica, ovvero


con il braccio afferente che arriva alla grande curva. È presente il moncone duodenale a cui arrivano
la bile e i succhi pancreatici. La resezione duodenale si fa sempre al di sopra della papilla. Il flusso
biliare arriva nell’ansa afferente e quando quest’ultima è ricostruita sulla grande curva la ricostruzione
si chiama isoperistaltica.

92
Questa ricostruzione prende il nome di Moyniham.

La ricostruzione secondo Balfour è uguale alla Moyniham però è antiperistaltica perché l’ansa
afferente non va alla grande curva ma va alla piccola curva. Inoltre, è presente un’anastomosi al piede
per evitare complicanze di stasi, è una entero-entero anastomosi.

L’ansa alla Roux presenta un’anastomosi in più: ad un certo punto si taglia un’ansa digiunale e il
moncone distale viene portato allo stomaco (gastrodigiuno anastomosi su ansa ad Y secondo Roux).

Queste tre ricostruzioni, Billroth I, Billroth II e Ansa alla Roux, sono da sapere.

93
Vagotomia

È effettuata per favorire la guarigione dell’ulcera mediante


una marcata riduzione dell’attività cloridropeptica.
L’interruzione di entrambi i vaghi provoca però anche
l’arresto della motilità gastrica, della colecisti e pilorica,
quindi è necessario associare una gastrodigiunostomia o
una piloroplastica (plastica di allargamento dello sfintere
pilorico che riduce la sua funzione di valvola).

Vagotomia tronculare: sezione del vago sinistro anteriore,


prossimale all’origine del ramo epatico, sezione del vago
destro posteriore, prossimale all’origine del ramo celiaco.

La piloroplastica più eseguita è la Heineke-Mikulicz: può essere realizzata a livello chirurgico (alcuni
la propongono nel caso di tumori del cardias) oppure attraverso un palloncino che si introduce per via
endoscopica, si porta a livello pilorico e si dilata provocando una rottura delle fibre muscolari e quindi
una riduzione della competenza dello sfintere pilorico.

94
Vagotomia selettiva totale: sezione del vago sinistro anteriore, distale all’origine del ramo epatico,
che viene conservato, sezione del vago destro posteriore, distale all’origine del ramo celiaco, che viene
conservato.

Vagotomia selettiva prossimale (superselettiva): denervazione della sola porzione acidosecernente,


senza sacrificio dell’innervazione vagale dell’antro e del piloro, per conservare un normale
svuotamento gastrico. Non è necessaria la piloroplastica.

95
Reddavid 22/11/2021
Sbobinatrice: Stefania Chiesa
Revisionatrice: Doriana Sacco

TUMORI MALIGNI DELLO STOMACO (continuazione)


(In corsivo le integrazioni dalle sbobine dello scorso anno)

Clinica e diagnosi
Il tumore dello stomaco è prevalentemente asintomatico negli stadi iniziali, pertanto la comparsa dei
sintomi è compatibile con un quadro già avanzato.
I tumori early, essendo prevalentemente asintomatici, saranno scoperti o mediante lo screening (in misura
maggiore nei paesi asiatici) o in maniera incidentale attraverso gastroscopie eseguite per altri motivi (es.
controllo per ernia jatale o per presenza di sintomatologia sfumata).
- screening di massa: non si fa nello stomaco, non è giustificato dall’incidenza in Italia, a differenza
del Giappone. In paesi ad alta incidenza è giustificato a differenza di paesi a bassa incidenza dove è
costoso è da pochi risultati. Si fa solitamente con l’endoscopia, con costi non indifferenti o in posti
specializzati con l’rx transito intestinale
- screening opportunistico: in pz a rischio, es operati per ulcera, con infezioni non eradicate, gastrite
cronica atrofica, anemia perniciosa, con metaplasia intestinale completa, pz con HNPCC.

Segni e sintomi:
- Perdita di peso importante: fino al 10% del peso corporeo. Questo dato è predittore dell’outcome
di sopravvivenza, oltre che correlato ad un aumento della probabilità di deiescenza anastomotica.
- Disfagia: compare solo in alcuni casi, prevalentemente nei tumori cardiali e tumori del piloro con,
in quest’ultimo caso, gastrectasia importante che comporta vomito.
- Linite plastica
- Dispepsia: sintomo sfumato e aspecifico.
- Vomito: nei tumori dell’antro e del piloro per occlusione alta.
- Sazietà precoce.
- Anemia sideropenica: dal momento che molto spesso si tratta di tumori sanguinanti.

Come si vede dalla tabella sopra riportata gli ematochimici sono i primi esami che vengono richiesti per
approcciarsi alla diagnosi. Con questi si potrà riscontrare:
- la presenza di anemia sideropenica (sintomo correlato è l’astenia in un paziente che si presenta in
PS);
- la funzionalità epatica (una sua alterazione potrebbe essere secondaria alla presenza di metastasi
epatiche);
- la funzionalità renale.

96
La gastroscopia è l’esame cardine; è infatti utile sia per fare diagnosi (vengono infatti eseguiti prelievi
bioptici) sia per la pianificazione terapeutica (che si divide in approccio chirurgico ed oncologico).

Dopo aver posto diagnosi di tumore gastrico è fondamentale il ricorso all’imaging, in particolare è richiesta
l’esecuzione di una TC total body, con particolare attenzione a torace-addome. Questo esame è utile ai fini
della stadiazione TNM (per tutti e tre i parametri). In alcuni centri, come a Verona, viene anche eseguita la
TC encefalica, in quanto sono stati riscontrati anche tumori con mts encefaliche.

Successivamente si può procedere con l’ecoendoscopia per definire il tipo di malattia e quale trattamento
effettuare, molto utile soprattutto per il tumore del cardias al fine di capire l’estensione della neoplasia a
livello esofageo, dal momento che questo parametro influenza l’approccio chirurgico: se il tumore si
estende verso l’esofago toracico si opta per un intervento di esofago-gastro-plastica intratoracica sec. Ivor-
Lewis.
L’EUS serve inoltre per stadiare il tumore con maggiore precisione: infatti i tumori sopra T3 o con N+
devono essere sottoposti da linee guida a chemioterapia pre-operatoria e terapia adiuvante dopo la
chirurgia. Tale trattamento (studio FLOT pubblicato su Lancet 2019)1 ha infatti mostrato un importante
vantaggio della sopravvivenza a lungo termine.
Nel caso invece di tumore early si effettua una chirurgia upfront. Nel caso di tumori molto avanzati si
effettua una terapia di conversione o una terapia palliativa.

È poi possibile eseguire una laparoscopia con washing


peritoneale, che impiega trocar da 5mm e un’ottica. Si
ricerca sia la presenza di versamenti, che in realtà sono già
visualizzabili alla TC, sia di eventuali carcinosi peritoneali,
che nel 40% dei casi non captano la PET e non sono visibili;
pertanto è importante il washing proprio per individuare
eventuali cellule neoplastiche presenti.

La PET è un esame che viene fatto, ma come già detto non


identifica molte carcinosi (importante discordanza tra PET e
washing peritoneale nell’evidenziarle).

Tra tutti quelli elencati, l’esame cardine per la diagnosi rimane la gastroscopia, la quale permette infatti di:
- Valutare quadri macroscopici di neoplasia (già trattati nelle precedenti lezioni).
- Identificare le complicanze principali dei pazienti che arrivano in stadi già avanzati:
o Valutando la sede dell’ostruzione (di solito a livello dell’antro o del piloro).
o Identificare la presenza di sanguinamenti (più spesso si tratta di stillicidio cronico con
anemia, ma talvolta sono possibili anche eventi acuti con ematemesi massiva o con
melena).
- Effettuare prelievi bioptici: l’individuazione dell’istotipo tumorale è infatti basilare per porre
diagnosi.

1
ESMO 2017 Terapia tripla basata su docetaxel nel tumore gastrico: i risultati dello studio FLOT4 confermano la superiorità
rispetto alla terapia standard; la superiorità della terapia preoperatoria tripla basata su docetaxel (docetaxel, oxaliplatino,
leucovorina, e 5-fluorouracile [regime FLOT]) rispetto alla terapia standard (epirubicina, cisplatino, e 5- fluorouracile o capecitabina
[regime ECF/ECX ]) nei pazienti con carcinoma gastrico resecabile è stata confermata da un'analisi multivariata.

97
Classificazioni e stadiazione:
- EGC: carcinoma dello stomaco confinato alla mucosa (T1a) o alla mucosa e sottomucosa (T1b), a
prescindere dalle metastasi.
- AGC: tutto ciò che non è EGC.

Classificazione macroscopica (endoscopica) di Bormann, riconosce 5 tipi:


 Tipo 0 (superficiale): tumore T1EGC
 Tipo 1 (massa): AGC, tumori polipoidi, ben definiti e demarcati rispetto alla mucosa circostante
 Tipo 2 (ulcerativo): ulcerati, margini riconoscibili, circondati da parete gastrica ispessita a margini
netti.
 Tipo 3 (infiltrativo-ulcerativo): tutto lo stomaco sembra coinvolto (in spessore) ma in un’area ben
definita.
 Tipo 4 (diffuso infiltrativo): linite plastica, tutto lo stomaco dal fondo all’antro, ispessito.
 Tipo 5 (non classificabile): praticamente inesistente, si riesce sempre a classificare.

Classificazione endoscopica dell’EGC


 Tipo 1: protrudente o polipoide
 Tipo 2: superficiale, si divide in 3 sottotipi:
o 2a, superficiale elevato (meno di 3 mm),
o 2b superficiale piatto,
o 2c superficiale depresso
 Tipo 3: escavato

Classificazione istologica
1. Adenocarcinoma papillare
2. Adenocarcinoma tubulare ben differenziato o moderatamente differenziato
3. Adenocarcinoma scarsamente differenziato di forma solida o non solida
4. Carcinoma a cellule ad anello con castone
5. Adenocarcinoma mucinoso
6. tipi speciali, rari, non da sapere.

1 e 2 sono i più frequenti e con prognosi migliore

Classificazione secondo Lauren: ha importanti implicazioni cliniche, ad esempio il diffuso non capta alla
PET.
- Intestinale: forma più benigna, le cellule sono adese, strutturate in forme tubulari o ghiandolari,
spesso associate a metaplasia intestinale. Si associa a invasione linfatica e vascolare. Diagnosticati
in pz ad età più anziana, sede distale dello stomaco, prognosi molto migliore della forma diffusa.
- Diffuso: al contrario dell’intestinale, ha cellule con scarsa adesività, tendenza all’infiltrazione, a dare
mts a distanza e forme avanzate. Ne esiste una forma, scarsamente coesiva che è quella con
prognosi peggiore. Sono più frequenti nel sesso femminile e di età più giovane, sede nel fondo e
corpo, danno mts a distanza e carcinosi peritoneale.

TNM:

T
 T1 confinati a mucosa e sottomucosa: mucosi (M o T1a) o sottomucosi (SM o T1b)

98
 T2: infiltrano la muscolare propria (MP)
 T3 invadono sottosierosa ma non escono dalla parete (SS)
 T4: arriva sulla superfice, in laparoscopia si vede affiorare il tumore in cavità peritoneale (T4a) o
tumore che invade le strutture adiacenti (T4b)

N
 N0 no mts linfonodali
 N1 mts in 1-2 linfonodi regionali;
 N2 in 3-6;
 N3a > 7-15 e N3b se >16

C’è una relazione molto significativa tra T-N con la sopravvivenza.

M: M0/M1

Terapia
L’iter terapeutico è dipendente dalla stadiazione TNM.
La laparoscopia diagnostica e gli altri esami di stadiazione permettono di evitare interventi chirurgici,
soprattutto in open, in casi di non utilità.
La presenza di carcinosi o mts a distanza comporta l’attuazione di trattamenti palliativi o trattamenti di
conversione2.
Altro parametro che viene valutato è la resecabilità. Non è infatti detto che l’assenza di secondarietà renda
il paziente idoneo per l’intervento chirurgico: spesso se il tumore coinvolge altri organi o strutture vascolari,
quali ad esempio il pancreas o il tripode celiaco, la resezione d’amblèe non è praticabile e le linee guida
suggeriscono l’impiego del trattamento neoadiuvante: si tratta di un trattamento introdotto recentemente
per lo stomaco grazie allo studio inglese MAGIC che ha mostrato miglioramenti significativi in termini di
sopravvivenza globale (OS) e sopravvivenza libera da progressione (PFS) nei pazienti con adenocarcinoma
gastrico, della giunzione gastroesofagea o dell'esofago inferiore, resecabile, sottoposti a chemioterapia
neoadiuvante.
La professoressa fa poi un appunto poco comprensibile dall’audio che viene da noi interpretato come una
critica a questo studio per il fatto che in realtà c’è stato un bias per cui chi veniva sottoposto a CT
neoadiuvante andava comunque meglio di chi veniva sottoposto a intervento chirurgico d’amblè dal
momento che l’intervento chirurgico che veniva eseguito era diverso rispetto a quello corretto dal punto di
vista oncologico che adottiamo anche noi oggi, ovvero estendere la linfadenectomia fino a D2. L’ideale
sarebbe stato comparare il trattamento neoadiuvante + CH con la CH standard (con linfoadenectomia D2).
Nonostante ciò, lo studio rimane comunque importante per aver contribuito a introdurre l’approccio
neoadiuvante all’interno delle linee guida.

Oltre ai benefici sopra citati della laparoscopia diagnostica, quest’ultima risulta inoltre utile al fine del
posizionamento di una digiunostomia per permettere di avviare una nutrizione enterale in pazienti che

2
La chemioterapia rappresenta l’opzione terapeutica di riferimento per i pazienti con carcinoma gastrico localmente avanzato o
metastatico. In caso di tumore localmente avanzato, è indispensabile una corretta e attenta valutazione della potenziale
resecabilità della neoplasia. I pazienti con tumore localmente avanzato, ma potenzialmente resecabile infatti, saranno sottoposti a
poli-chemioterapia di conversione neo-adiuvante nell'ambito della strategia peri-operatoria secondo le più recenti evidenze, con
rivalutazioni strumentali al termine della fase primaria al fine di valutarne l’operabilità.

99
dovranno affrontare un lungo percorso oncologico e che avranno, o hanno già avuto, un importante calo
ponderale.

Le linee guida seguite al San Luigi sono quelle giapponesi:

- EGC (T1a o T1b, N0)Resezione endoscopica o resezione gastrica limitata


- Stadi >T1N0 ma ancora operabili chemioterapia neoadiuvante seguita da chirurgia con
successiva chemioterapia adiuvante. La chirurgia upfront (segnata con una freccia tratteggiata)
attualmente viene fatta prevalentemente in Asia. In Europa ci sono linee guida specifiche in cui è
possibile solo dal T3 in giù valutando successivamente se fare o meno chemioterapia adiuvante e/o
radioterapia
- dal T3 in su chemioterapia neoadiuvante con successiva valutazione circa la possibilità di
effettuare un intervento chirurgico
- I pazienti inoperabili per avanzamento o locale o a distanza
 chemioterapia palliativa: se HER-2 pos Trastuzumab + CF/CX, se HER-2 neg Platino +
Fluoropirimidine
 terapia di supporto

Esistono ad oggi terapie biologiche che hanno rivoluzionato il tipo di trattamento per i tumori gastrici, tra
questi:
- Trastuzumab per pazienti con tumore allo stomaco Her2+
- Bevacizumab, anti angiogenetico
L’FDI sta inoltre approvando nuovi farmaci che sembrano promettenti, seppur gravati da un alto numero di
effetti collaterali.

100
TIPI DI TRATTAMENTO CHIRURGICO

Di seguito riportate le linee guida giapponesi:

Con la gastrectomia viene rimossa la neoplasia lasciando circa 5 cm di margine libero, malgrado ciò, la
linfoadenectomia è forse il passaggio più importante per quanto riguarda la chirurgia dello stomaco.
Questi tumori hanno infatti un importante staging a livello linfonodale, motivo per cui ci sono vari studi, e
tra questi uno che vede la collaborazione del prof. De Giuli con un gruppo di studio olandese, ha dimostrato
che per tumori gastrici avanzati la gastrectomia associata a linfoadenectomia D2 rispetto alla
linfoadenectomia D1 migliora nettamente la sopravvivenza nei pazienti trattati.

1. Trattamento di resezione endoscopica

Viene effettuato in EGC per pazienti con bassissimo rischio di mts linfonodali, pertanto:
- T1a (quindi mucosali)
- ben differenziati
- non ulcerati
- di dimensioni inferiori ai 2cm
- da slide anche istotipo sec.Lauren intestinale.
The GIRCG guidelines on gastric cancer staging and treatment – 2015: due to the excellent prognosis of EGC,
endoscopic procedures have been increasingly adopted for the treatment of selected cases of EGC with very
low risk for LN metastases, with the aim of avoiding greater-than-necessary morbidity and mortality related
to gastrectomy.
La tecnica utilizzata si chiama EMR (endoscopic mucosal resection), e oggigiorno è un trattamento
standard eseguito in quasi tutti i centri e consiste nella rimozione del solo tratto di mucosa gastrica
interessato da neoplasia. Come si esegue una EMR? Viene sollevata la mucosa mediante iniezione di
soluzione salina e con un’ansa diatermica viene resecata la parte di mucosa comprendente EGC con
conseguente rimozione e successiva valutazione AP (nel caso non fosse confermato un EGC si dovrà
procedere con gastrectomia).

101
Si tratta di un trattamento ambulatoriale, il paziente rimane in ospedale una notte.
C’è poi ancora un altro sottotipo di tumori con bassissimo rischio di mts linfonodali ma un po’ più avanzati
(ovvero i T1b) che vengono invece sottoposti al trattamento di ESD
(endoscopic sub-mucosal dissection). In questo caso non ci si
limita solo alla mucosa, ma si estende il trattamento anche alla
sottomucosa. Attualmente questo trattamento è possibile sono in
contesti di trial clinici, mentre non è ancora stato inserito nelle
linee guida e si pratica solo in centri dedicati. I tumori coinvolti in
questa procedura devono avere le seguenti caratteristiche:
- T1b (si estendono fino alla sottomucosa)
- Differenziati
- Diametro <1.5cm

Quelli presentati sono rispettivamente i Criteri di Gotoda, che definiscono quando un EGC ha bassissimo
rischio di mts linfonodali che va a EMR, e i Criteri allargati, che definiscono quando un tumore ha ancora
basso rischio di mts linfonodali ma essendo un pochino più avanzato si rende necessaria una ESD.

102
2. Linfoadenectomia

È la parte più importante del trattamento chirurgico.


Lo stomaco ha una rete linfatica particolare, che vede il primo step di invasione dato dai linfonodi
perigastrici che vengono numerati dal 1 al 7 e la loro rimozione è diversa a seconda del tipo di gastrectomia
che viene effettuata, e che a sua volta dipende
dalla sede del tumore.
Nella linfoadenectomia D1 vengono rimossi
questi linfonodi (che sono quelli interessati da
infiltrazione neoplastica più precocemente).
La D1 ormai è in realtà stata rimpiazzata dalla
D1+, che risulta essere statisticamente migliore
in termini di livelli di sopravvivenza. In questo
caso vengono rimossi anche i linfonodi numero
8a (dell’epatica comune) e 9 (del tripode
celiaco).
Pertanto, nei tumori early che vengono
sottoposti a gastrectomia (perché non rientrano
nei livelli Gotoda), viene effettuata la linfoadenectomia D1+. In tutti gli altri casi verrà eseguita la D2.

Come precedentemente accennato, lo studio Magic ha dimostrato una sopravvivenza significativamente


maggiore nel braccio di pazienti trattato con chemioterapia peri-operatoria rispetto al gruppo trattato con
chirurgia upfront nei casi di tumore che va dal T3 in su. Si è inoltre valutato che nei pazienti del primo
braccio la linfoadenectomia risulta più limitata a seguito di questo tipo di trattamento.
C’è stato inoltre uno studio francese che ha dimostrato la validità di questo approccio.

3. Gastrectomia
Gli approcci possibili sono:
- Open: si esegue un’incisione mediana con rimozione del processo xifoideo per aumentare la visione
a livello addominale. Sono inoltre possibili altre incisioni (es. a livello sottocostale).
- Laparoscopia: prevede la realizzazione di un numero esiguo di piccole incisioni, necessarie per
introdurre gli strumenti.
- Robotica: operazione effettuata grazie a tecnologie avanzate, che prevedono l'utilizzo di una
sofisticata piattaforma chirurgica in grado di riprodurre, miniaturizzandoli, i movimenti della mano
umana all'interno delle cavità corporee.

Se viene dimostrato un vantaggio o una non inferiorità rispetto al trattamento precedente si può introdurre
una nuova tecnica di trattamento.

103
Un tempo lo standard era la chirurgia open, ora è stato rimpiazzato dalla chirurgia mini-invasiva (in
laparoscopia oppure robotica) perché sono stati dimostrati due criteri fondamentali per l’introduzione di un
nuovo approccio chirurgico, ovvero:
- Non viene aumentata la mortalità o le complicanze post-operatorie. Si tratta, pertanto, di interventi
che dimostrano una certa sicurezza
- Non peggiorano gli outcome oncologici (che invece rimangono del tutto sovrapponibili).

Per i tumori precoci si è dimostrata la sovrapponibilità dei trattamenti open e mini-invasivo, vista però la
migliore ripresa che si ha nel secondo, quest’ultimo viene privilegiato.
Per i tumori advanced si sta ancora cercando di dimostrare la sovrapponibilità dei due trattamenti e per ora
solo pochi studi lo dimostrano (è stato pubblicato uno cinese ma ha molti bias, si sta pertanto aspettando
uno studio coreano a tal proposito).

I motivi per cui le due tecniche potrebbero non essere sovrapponibili da un pdv oncologico sono:
- È più difficile eseguire alcuni tipi di manovre in laparoscopia piuttosto che in open; anche solo le
linfoadenectomie potrebbero essere meno incisive, con riduzione conseguente della
sopravvivenza.
- Potrebbe esserci inoltre una maggiore possibilità di insemenzamento si cellule neoplastiche a
livello peritoneale e/o livello dei trocar. Questo per ora è in realtà stato dimostrato solo per i
tumori della sierosa, non per i sottosierosi.

TIPOLOGIA DI RESEZIONE:

 per i tumori del cardias, soprattutto negli early, è sufficiente avere un margine libero da neoplasia
di 2 cm
 per i tumori avanzati deve essere di 5 cm

Il tipo di resezione viene effettuata in base alla localizzazione del tumore:


- Gastrectomia distale subtotale: se localizzazione a livello di corpo, antro e piloro (non è infatti
etico rimuovere porzioni di stomaco non interessate da neoplasia /quando non necessario e inoltre
le anastomosi gastro-digiunali tengono meglio rispetto a quelle esofago-digiunali).
- Gastrectomia totale: eseguita per tumori alti (fondo e piccola curvatura alta) al fine di avere il
margine libero di 5 cm e per garantire una completa rimozione dei linfonodi, sede di mts.
- Resezioni polari: fatte solo in caso di EGC e vengono fatte prevalentemente in Asia.

In alcuni tumori, cioè i T4b, la gastrectomia da sola non basta dal momento che c’è l’invasione di organi
circostanti, ad esempio, c’è invasione della milza. In questo specifico caso in base a quanto a quanto è
avanzato il tumore e dove si localizza si decide se fare la splenectomia con linfoadenectomia dell’ilo (lungo
l’arteria splenica corrono infatti un gran numero di linfonodi).
È possibile anche associare la resezione del colon, ove vi sia invasione.

104
Dalle slide: pancreas-preserving splenectomy (or, where technically possible, radical excision of the splenic
hilum lymph nodes through the Jinnai maneuver) should be reserved to cases of advanced gastric cancer of
the upper part of the stomach along the greater curvature, in which the malignancy is suspected to be T4 or
there are suspected nodes at splenic hilum.
The removal of the distal pancreas is foreseen only in case of direct invasion of the pancreatic capsule by the
tumor.
In case of D2 lymphadenectomy during total gastrectomy, it is not necessary to perform splenectomy de
principe.

4. Trattamento adiuvante e trattamento palliativo

I pazienti possono essere sottoposti in base al risultato istologico o a un chemioterapia adiuvante o a una
terapia palliativa.
In pazienti che hanno una prospettiva di sopravvivenza molto bassa (plurime metastasi che non possono
essere rimosse) si può fare la chemioterapia intraperitoneale ipertermica (Hipec): ovvero viene
somministrato un chemioterapico ad alte temperature all’interno della cavità addominale per cercare di
fare una pulizia del campo dalla carcinosi. La sopravvivenza di questi pazienti è comunque molto bassa:
alcuni muoiono in sala operatoria, per altri la sopravvivenza è allungata solo di qualche mese.
L’intervento palliativo viene invece effettuato in pazienti con patologie avanzate e che hanno delle
complicanze, quali: sanguinamento, costipazione.

5. Trattamento neoadiuvante
Circa invece il trattamento neo adiuvante queste sono le linee guida:
in cT3-4 and/or N+ gastric cancer, M0 and without eso- phago-gastric junction infiltration, the choice
between primary surgery and neoadjuvant chemotherapy should be discussed in a multidisciplinary setting.
For advanced gastric cancer with infiltration of the esophago-gastric junction, the utility of neoadjuvant
chemo or chemo– radiotherapy followed by surgery is demonstrated (Dutch Cross trial).
In linitis plastica, a first-line chemotherapy should preferably be performed.

105
TEMPO RICOSTRUTTIVO

Per ricostruire la continuità del canale alimentare esistono diversi approcci:

- Billiroth 1: ricostruzione molto in voga in Corea, non molto in uso in Europa. Consiste
nell’anastomosi tra il moncone duodenale e il moncone gastrico. In Europa questa tecnica è
sconsigliata per un aumentato rischio di reflusso biliare.

In Europa è più comune fare:


- Billiroth 2: l’anastomosi è termino-laterale tra il moncone gastrico e quello digiunale. Questa
ricostruzione viene fatta in laparoscopia. I punti possono essere normali sia posti con suturatrice
1. Antecolica: l’ansa passa davanti al colon trasverso
2. Retrocolica

- Ansa alla Roux: la prima ansa digiunale viene prima interrotta e poi
anastomizzata direttamente all’esofago, verso il basso viene effettuata
un'altra anastomosi tra l’ultima porzione duodenale e la parete laterale del
digiuno, permettendo il passaggio dei succhi bilio-pancreatici e il contatto con
il bolo alimentare. [da wikipedia]

Follow-up
I pazienti dopo gastrectomia radicale vengono seguiti regolarmente per almeno cinque anni.
La frequenza del follow up, la tipologia e le valutazioni raccomandate da effettuare, dipendono
primariamente dallo stadio TNM.
I protocolli sono diversi in base al centro o al tipo/aggressività di tumore e quindi in base al rischio del
paziente. Per esempio, al San Luigi per tumori gastrici avanzati ad alto rischio di recidiva:
- Primi due anni il follow-up è stretto con alternanza di ecografia e gastroscopia ogni 3 mesi
- Dopo i primi 2 anni ogni 6 mesi
- Dopo 5 anni una volta all’anno

106
5.3 NEOPLASIE GASTRICHE
Come nel caso delle neoplasie dell’esofago, si utilizza la classificazione WHO 2010. Le neoplasie secondarie
derivano da invasione per contiguità da parte di tumori di mammella e polmone, mentre le neoplasie primi-
tive sono indicate nello schema seguente.

5.3.1 Neoplasie benigne


Tra le neoplasie benigne dello stomaco è importante distinguere i tumori epiteliali e i tumori non epiteliali.
TUMORI EPITELIALI
I più diffusi sono gli adenomi. Si tratta di tumori benigni di origine ghiandolare, definiti come polipi neopla-
stici benigni; il termine polipo, usato in modo generico, fa riferimento alla morfologia della lesione che può
essere rilevata e sporgente.
I polipi dello stomaco possono essere divisi in:
- Tipo I (rigenerativi, iperplastici, infiammatori o amartomatosi): sono la maggior parte delle lesioni poli-
posiche gastriche (80%); macroscopicamente appaiono come rilevatezze multiple, piccole e ubiquitarie.
- Tipo II (neoplastici o adenomi): rappresentano il 20% di tutti i polipi gastrici; si tratta di tumori benigni
che si localizzano sovente a livello dell’antro. Tuttavia possono evolvere e trasformarsi in una forma ma-
ligna nel 3-4% dei casi a 7 anni. In base all’architettura di distinguono due tipologie di adenomi:
• Adenomi tubulari: appaiono come polipi peduncolati, con una base d’impianto stretta e verticale;
le cellule presentano scarsa atipia, infatti gli adenomi tubulari presentano una bassa percentuale di
trasformazione neoplastica (<1%)
• Adenomi villosi: sono più frequenti, presentano dimensioni maggiori e appaiono come polipi sessili,
a larga base d’impianto. Le cellule presentano atipia maggiore rispetto agli adenomi tubulari, con
aumentato rischio di degenerazione neoplastica (30%).

47
107
Se si riscontra la presenza di un polipo, esso va asportato ed analizzato per capire se si tratta di un polipo di
tipo I o di tipo II: nel secondo caso bisogna tenerlo sotto controllo, in quanto c’è la possibilità, seppur bassa,
di trasformazione neoplastica.
TUMORI NON EPITELIALI
All’interno di questo gruppo sono inclusi i leiomiomi, i lipomi e gli schwannomi.
Quadro clinico
Sono solitamente asintomatici e la diagnosi avviene generalmente come reperto occasionale in corso di
endoscopia. In alcuni casi, però, possono comparire:
- Epigastralgia - Sazietà precoce
- Nausea - Sanguinamento.
Diagnosi e terapia
La diagnosi si basa su:
- ANAMNESI: il pz può riferire patologie ereditarie o sindromi poliposiche, come ad esempio:
• Sindrome di Peutz-Jeghers: malattia AD causata dalla mutazione del gene LKB1/STK11, con polipi amartomatosi multipli
(più frequentemente nell’intestino tenue, ma nella forma sindromica presenti anche nello stomaco) e iperpigmentazione
mucocutanea. Si tratta di una sindrome ad aumentato rischio oncologico (ca. colon, pancreas, mammella, polmone, ovaio,
utero, testicolo)
• Sindrome di Cowden: malattia AD causata dalla mutazione del gene PTEN, con macrocefalia, polipi amartomatosi multipli
intestinali e tumori benigni cutanei. Si tratta di una sindrome ad aumentato rischio oncologico (ca. mammella, follicolare
della tiroide, endometrio)
• Sindrome di Cronkhite-Canada: è una malattia NON ereditaria che determina l’insorgenza di polipi giovanili multipli asso-
ciati ad alopecia, atrofia ungueale e iperpigmentazione; possono insorgere anche adenomi tubulari e carcinomi colo-rettali.
- ENDOSCOPIA
- RX CON PASTO BARITATO.
Per quanto riguarda la terapia, invece, è possibile eseguire una resezione endoscopica (mucosectomia) op-
pure eseguire una resezione segmentaria della parete gastrica in caso di invasione della sottomucosa.
5.3.2 Neoplasie maligne
I tumori maligni dello stomaco possono essere divisi in:
- Epiteliali: adenocarcinoma (95%)
- Non epiteliali: linfomi (2%), GIST, leiomiosarcomi etc.
ADENOCARCINOMA
Epidemiologia
L’adenocarcinoma gastrico rappresenta la principale neoplasia gastrica (90-95%), ma la sua incidenza varia
molto da regione a regione per cause ambientali e dietetiche (Italia 20-30/100k all’anno, diffuso soprattutto
in Toscana, mentre negli USA sono scesi da 30 a 6 casi/100k all’anno). Colpisce soprattutto individui di sesso
maschile con più di 50 anni. I Paesi più colpiti sono quelli orientali, in particolare il Giappone, dove l’adeno-
carcinoma gastrico presenta un’incidenza così alta da essere definito “epidemico”; in questi Paesi vengono
portati avanti dei progetti nazionali di prevenzione secondaria, che consentono una diagnosi precoce. Nel
resto del mondo, invece, compresa l’Italia, la maggior parte dei tumori viene diagnostica in fase avanzata.

Eziopatogenesi
I principali fattori di rischio per lo sviluppo di un adenocarcinoma gastrico sono rappresentati da:
- Dieta, fumo e alcol
- Gastrite cronica di tipo A (autoimmune, associata ad anemia perniciosa) o B (associata ad H. pylori)
- Precedenti gastrectomie (è più facile che insorga su moncone gastrico)
- Fattori genetici (mutazione E-caderina, p53 etc.)
- Infezione da EBV
- Polipi neoplastici (presenti soprattutto in malattie genetiche)
- Ulcera gastrica
- Chemio e RT
- Sindrome di Menetrier.

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108
6.8.4 Neoplasie non epiteliali maligne
TUMORI GASTROINTESTINALI STROMALI (GIST)
I GIST intestinali non differiscono da quelli gastrici (vedi capitolo Stomaco), tuttavia risultano maggiormente
aggressivi (a causa di una diagnosi più tardiva).
La terapia, allo stesso modo, ricalca quella per i GIST gastrici (chirurgia + Imatinib), precisando che l’escis-
sione chirurgica in questo caso prevede la resezione del piccolo intestino comprendente la lesione neopla-
stica, associata a un’ampia asportazione del ventaglio mesenterico (in quanto nel mesentere possono essere
presenti micrometastasi linfonodali).
ALTRE NEOPLASIE
Tra le altre neoplasie non epiteliali maligne ricordiamo:
- SARCOMI: generalmente sono fibrosarcomi o leiomiosarcomi; colpiscono soprattutto individui di sesso
maschile e si localizzano nell’ileo
- LINFOMI: rispondono bene alla terapia medica.

6.9 PATOLOGIA DUODENALE


VARICI DUODENALI
Si tratta di una patologia rara; dal punto di vista eziologico si differenziano forme primarie (idiopatiche) e
forme secondarie insorte in seguito a:
- Ipertensione portale per trombosi della v. porta extraepatica
- Angiodisplasia.
Clinicamente si possono manifestare con episodi emorragici e alterazioni epatiche, legate all’ipertensione
portale. La diagnosi viene posta attraverso indagini endoscopiche ed angiografia selettiva del tripode ce-
liaco, mentre il trattamento si basa sulla scleroterapia.
NEOPLASIE BENIGNE
Tra le neoplasie benigne che possono colpire il duodeno ricordiamo:
- Adenoma villoso - Miomi
- Adenoma di Brunner - Fibromi
- Lipomi - Angiomi.
Dal punto di vista clinico si possono manifestare con nausea, vomito, dolore in epigastrio e sintomi ostruttivi,
mentre la diagnosi viene posta attraverso indagini endoscopiche e strumentali (RX e TC). Dal punto di vista
terapeutico, invece, è necessario valutare caso per caso, in quanto nella maggior parte dei casi l’unico inter-
vento possibile è rappresentato dalla duodenocefalopancreasectomia.
NEOPLASIE MALIGNE
Le neoplasie maligne duodenali sono patologie rare che colpiscono soprattutto individui di 50-60 anni.
Si tratta principalmente di tumori extra-ampollari, i quali possono essere primitivi o secondari, legati all’in-
vasione da tumori del colon destro e della testa del pancreas.
Si tratta generalmente di lesioni infiltranti che possono determinare l’insorgenza di:
- Sintomi aspecifici (nausea, vomito, dolore epigastrio)
- Calo ponderale
- Ematemesi e melena
- Megaduodeno al di sopra della neoplasia con disturbi della canalizzazione
- Ittero (in caso di coinvolgimento della papilla di Vater).
La diagnosi si basa su indagini endoscopiche e strumentali (RX, TC), mentre la terapia prevede l’esecuzione di
una duodenocefalopancreasectomia. Nei tumori sopra-vateriani è utile la derotazione intestinale secondo
Valdoni, mentre nei tumori in stadio avanzato si eseguono solamente interventi palliativi.
DIVERTICOLI
Si rimanda alla patologia diverticolare dell’intestino tenue.

64
109
TUMORI CISTICI
I tumori cistici possono essere benigni (più frequenti) o maligni (più rari); la malignità viene definita in base
all’evoluzone e al risultato dell’analisi del liquido cistico.
Essi si trovano nell’ambito del parenchima, senza alterazioni del dotto di Wirsung (diversamente da IPMN).
I tumori mucinosi benigni (cistoadenoma mucinoso) si sviluppano di norma nel corpo/coda e sono caratte-
rizzati dalla presenza di stroma ovarico e dall’assenza di connessione al sistema duttale (distinzione rispetto
alle forme maligne associate a neoplasia intraepiteliale PanIN 3).
I tumori mucinosi maligni (cistoadenocarcinoma mucinoso) si sviluppano invece nella testa e possono rag-
giungere dimensioni importanti (2-35 cm).
11.3.3 Neoplasie della papilla di Vater
La papilla di Vater si trova nella parte mediale della seconda porzione del duodeno e rappresenta il sito di
confluenza della porzione intramurale della via biliare extraepatica principale (coledoco) e del dotto pancrea-
tico maggiore di Wirsung. Il passaggio dei secreti ghiandolari trasportati lungo i due dotti è regolato dall'at-
tività contrattile dello sfintere di Oddi (che avvolge entrambi il coledoco e il Wirsung) e da sfinteri propri dei
dotti stessi.
Ognuna di queste strutture anatomiche può essere sede di neoplasia, con conseguente ostruzione sia della
via biliare (ittero colestatico) sia del dotto pancreatico maggiore (pancreatite).
Queste neoplasie sono identificate abbastanza precocemente grazie ai sintomi a loro correlati e la diagnosi
avviene mediante ecoendoscopia.
La terapia prevede:
- Ampullectomia endoscopica: tumori piccoli e superficiali
- Ampullectomia chirurgica: tumori di dimensioni maggiori. Si tratta di un intervento conservativo.
- Duodenocefalopancreasectomia: tumori maligni con interessamento della testa del pancreas.

176
110
6 INTESTINO TENUE
Anatomia
L’intestino tenue è quella parte del canale alimentare che va dallo stomaco all’intestino crasso (origina dallo
sfintere pilorico e termina alla valvola ileo-cecale), per una lunghezza complessiva di circa 7 metri, e svolge
le seguenti funzioni:
- Propulsiva - Endocrina
- Assorbimento e digestione - Immunitaria.
Possono essere distinte, in base al comportamento del peritoneo e alla diversa mobilità che ne deriva, due
parti principali: il duodeno (parte fissa) e l’intestino tenue mesenteriale (parte mobile), il quale si divide a sua
volta in digiuno e ileo.
DUODENO
Rappresenta la prima porzione dell’intestino tenue e possiede una forma a “C”, la cui concavità abbraccia la
testa del pancreas. Si tratta di un organo retroperitoneale (eccetto la porzione superiore che è intraperito-
neale), essendo accollato alla parete posteriore della cavità addominale, dietro il peritoneo parietale. Per
questo motivo, a differenza delle altre due porzioni dell’intestino tenue, è caratterizzato da scarsa motilità.
Esso riceve la bile e il succo pancreatico (provenienti da fegato e pancreas), i quali sfociano nel duodeno
attraverso la papilla maggiore.
VASCOLARIZZAZIONE
Per quanto riguarda la vascolarizzazione arteriosa il duodeno è irrorato dall’a. pancreatico-duodenale supe-
riore (ramo dell’a. gastro-duodenale) e inferiore (ramo dell’a. mesenterica superiore), le quali si anastomiz-
zano tra di loro. Per quanto riguarda il drenaggio venoso, invece, la v. pancreatico-duodenale sfocia nella v.
mesenterica superiore, tributaria della v. porta.

INTESTINO TENUE MESENTERIALE


È la porzione più lunga dell’intestino e si estende dal duodeno, in corrispondenza della flessura duodeno-
digiunale, fino alla valvola ileo-cecale. Si divide a sua volta nel digiuno (corrisponde ai 2/5 prossimali) e
nell’ileo (corrisponde ai 3/5 distali), anche se non esiste nessun limite reale tra i due segmenti. Questa parte
viene chiamata mesenteriale in quanto è compresa nello spessore del margine libero di una plica del perito-
neo, chiamata appunto mesentere. Per questo motivo tale porzione dell’intestino possiede grande mobilità
e, data la sua lunghezza, si dispone a formare un grande numero di anse e circonvoluzioni.
VASCOLARIZZAZIONE
L’intestino tenue è vascolarizzato dall’a. mesenterica superiore, la quale origina caudalmente al tripode ce-
liaco; dal suo versante sinistro l’arteria mesenterica superiore dà dei piccoli vasi che irrorano il digiuno e l’ileo.
L’ultima ansa ileale, invece, riceve rami che provengono da un’arcata arteriosa che si forma per l’anastomosi
tra il ramo inferiore dell’a. ileo-colica e la terminazione della stessa a. mesenterica superiore.
Per quanto riguarda il drenaggio venoso, invece, le vv. intestinali sfociano nella v. mesenterica superiore,
tributaria della v. porta.

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111
DIVERTICOLO DI MECKEL
Equivale al residuo del dotto vitellino, il quale nell’embrione umano costituisce un canale di collegamento
tra il sacco vitellino e il lume dell’intestino. Alla nascita, questo dotto va incontro ad atrofia e obliterazione,
mentre rimane pervio nel 2% della popolazione, soprattutto nei maschi.
È un diverticolo vero da trazione, ma raramente è sintomatico. Si trova a circa 50-70 cm a monte della valvola
ileo-cecale, ed è lungo da 1-8 cm. La mucosa è per lo più intestinale, ma vi sono casi di mucosa gastrica
ectopica (in seguito alla presenza di un’ulcera), duodenale, colica e anche la presenza di tessuto pancreatico
(fenomeni di metaplasia). Tra le complicanze che possono insorgere ricordiamo:
- Formazione di un’ulcera peptica (da secre- - Ostruzione
zione acida, a livello dell’ileo adiacente) - Degenerazione neoplastica: quella predomi-
- Emorragia nante è il carcinoide, oltre all’adenoma villoso,
- Perforazione: causa addome acuto adenocarcinoma, GIST, leiomioma, leiomio-
- Formazione di una fistola sarcoma e melanomi maligni.
- Intussuscezione
NB: il sanguinamento della mucosa presente nel diverticolo di Meckel rappresenta la causa più frequente di
enterorragia nei bambini fino ai 10 anni.
La diagnosi di diverticolo di Meckel è quasi sempre intraoperatoria, in quanto viene identificato durante
l’intervento di appendicectomia. In questo caso deve essere rimosso chirurgicamente.
Esistono casi in cui il diverticolo di Meckel si localizza a ridosso dell’ombelico a causa di un dotto onfalo me-
senterico che non si è mai chiuso; questi possono dar luogo ad onfalite (infezione dell’ombelico).
DIVERTICOLI DUODENALI
Si tratta di diverticoli da pulsione, presenti nell’1-2% degli individui; nella maggior parte dei casi si tratta di
lesioni singole che si localizzano nella seconda porzione duodenale. Possono arrivare a dimensioni importanti
rimanendo silenti fin quando non causano complicanze, quali l’ittero ostruttivo, fistole, emorragie e perfora-
zioni. I diverticoli duodenali più pericolosi sono quelli che si sviluppano in corrispondenza della papilla di
Vater, in quanto possono andare a comprimere la via biliare e, in caso di esame endoscopico della VBP, im-
pediscono la corretta visione della papilla.
DIVERTICOLI DIGIUNALI
Vengono trovati in circa lo 0.3-1.4% delle autopsie, localizzati nella seconda porzione sul margine mesente-
riale. Sono spesso multipli, con parete sottile. Possono essere associati a diverticoli in altre regioni del tratto
GI. Alcuni sono congeniti e possono contenere tessuto pancreatico alla base.
La maggior parte è asintomatico, ma possono presentare delle complicanze con emorragia, perforazione,
ascessi, formazione di gas intramurale e disturbi metabolici come il malassorbimento vitaminico.
DIVERTICOLOSI COLICA
È la forma più frequente; si tratta di patologie acquisite in pazienti over-40 con evidenza clinica nel 10% di
essi (l’evidenza autoptica è più alta).
I diverticoli sono multipli, e si localizzano in quella porzione di parete in cui le arteriole penetrano ad angolo
retto a livello delle tenie mesenteriche (locus minoris resistentiae). La sede più frequentemente coinvolta è il
sigma (40%), seguito da colon discendente (30%), trasverso (4%) e intero colon (16%).
Tra le complicanze che possono insorgere troviamo emorragia, perforazione e diverticoliti.

6.5 SINDROME DELL’INTESTINO CORTO


Per sindrome dell’intestino corto (SIC) si intende una forma di malassorbimento che si sviluppa in seguito a
interventi di resezione estesa instestinale o a causa di gravi malattie instestinali. In genere la SIC si
manifesta dopo la perdita dei 2/3 della superficie assorbente. L’insorgenza della SIC può dipendere da:
- Resezioni chirurgiche per complicanze da IBD - Enterite attinica
(specialmente Crohn) - Eventi traumatici
- Forme neoplastiche - Forme congenite.
- Volvolo

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112
Quadro clinico
L’entità della patologia può dipendere da alcuni fattori:
- Estensione del tratto asportato - Patologia sottostante
- Zone resecate - Capacità adattive dell’intestino residuo.
- Presenza o meno, dopo l’intervento, della
valvola ileo-cecale
Dal punto di vista clinico possono comparire:
- Diarrea (sintomo costante): compare steatorrea, con feci maleodoranti e grasse per l’alto contenuto di
lipidi
- Dolore addominale
- Astenia
- Calo ponderale
- Edemi declivi
- Malassorbimento: risulta maggiore per i grassi, per le vitamine liposolubili (A, D, E, K) e per la vitamina
B12; si osserva, inoltre, deficit di Ca2+, Fe2+, Mg e acido folico. Col passare del tempo risultano evidenti i
deficit vitaminici e dei micronutrienti con desquamazione della pelle, deficit coagulativi, spasmi muscolari
e osteoporosi.
Tra le complicanze che possono insorgere ricordiamo:
- Degenerazione sistema nervoso (↓B12) - Calcoli biliari e renali
- Acidosi metabolica - Crescita eccessiva di batteri commensali.

Terapia
Le terapia consiste nel contrastare le manifestazioni diarroiche e nell’integrazione di vitamine e
micronutrienti con la dieta; nei casi estremi si può impostare una nutrizione parenterale.
Ad ogni modo, le funzioni assorbitive delle anse residue possono migliorare col tempo; si verifica, infatti, un
processo di adattamento intestinale nell’ambito del quale si osservano un aumento di dimensione dei villi,
un aumento del diamentro intestinale e un rallentamento della peristalsi.

6.6 ILEO PARALITICO


L’ileo paralitico (o ileo adinamico) è un transitorio e reversibile stato di occlusione intestinale in assenza di
una evidente causa di ostruzione. È dovuto ad un’inibizione della peristalsi a causa di una compromissione
dei plessi nervosi enterici da sostanze endogene o esogene). Si riscontrano distensione di stomaco e colon.
Tra le principali cause si ricordano:
- Intraperitoneali: corpi estranei, peritonite, appendicite, colecistite, chirurgia.
- Extraperitoneali: pancreatite acuta, AAA, traumi del rachide, colica renale.
- Extraaddominali: IMA, stroke, polmonite, sindrome di Ogilvie.
- Sistemiche: disionie (ipokaliemia, ipocalcemia), farmaci antispastici.

6.7 TERAPIA CHIRURGICA NELLE IBD INTESTINALI


L’intestino tenue può essere colpito solamente dalla malattia di Crohn, il quale può interessare tutto il
canale alimentare dalla bocca all’ano, mentre viene risparmiato in caso di rettocolite ulcerosa.
Si tratta di una malattia di interesse medico (terapia conservativa), la quale, però, richiede un trattamento
chirurgico in caso di complicanze. Tra le complicanze che possono insorgere ricordiamo:
- Fistole - Stenosi e ostruzioni
- Ascessi - Fallimento terapia medica.
- Perforazioni
Tra gli interventi che si possono eseguire ricordiamo gli interventi di resezione e le stritturoplastiche.
RESEZIONE INTESTINALE
Rappresenta l’intervento di prima scelta in caso di pz affetti da malattia di Crohn fistolizzante. In questo caso
le resezioni devono limitarsi solamente al tratto interessato dalla complicanza (bowel sparing surgery). Ad
esempio in caso di ileite terminale, non si esegue più come in passato una resezione dell’ultima ansa ileale
con emicolectomia destra, ma si esegue la resezione dell’ultima ansa e del ceco con confezionamento di
anastomosi tra ileo e colon ascendente. L’anastomosi, quindi, viene fatta subito dove l’intestino è normale,
in quanto non si tratta di una chirurgia oncologica e non è necessario avere margini sani molto ampi.

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113
Quadro clinico
Dal punto di vista clinico possono comparire:
- Dolore addominale
- Feci semiliquide sanguinolente
- Peritonismo: in caso di perforazione intestinale
- Occlusione: in caso di fibrosi con stenosi della parete
- Stato di shock: fasi finali di malattia.

Diagnosi e terapia
La diagnosi si basa sui seguenti accertamenti:
- Anamnesi ed EO - Pancoloscopia
- Ecografia/RX (scarsamente utili) - Arteriografia.
- TC addome
La terapia, invece, prevede l’idratazione del paziente e somministrazione di ATB e l’intervento chirurgico,
soprattutto in caso di perforazione o grave stenosi.

7.4 SINDROME DI OGILVIE


La sindrome di Ogilvie o pseudo-ostruzione intestinale è una malattia motoria dell'intestino (prevalente-
mente del colon), caratterizzata da un rallentato transito e da una ridotta capacità propulsiva che consenta
di spingere il cibo lungo il tubo enterico. È caratterizzata da una distensione del colon dx senza una causa di
ostruzione meccanica, in quanto il problema è rappresentato da un deficit di motilità. Questa patologia può
esordire ad ogni età e può essere una condizione primaria (idiopatica o ereditaria), oppure secondaria, ca-
ratterizzata da danni neuronali o da alterazioni della muscolatura liscia intestinale. Tra le cause secondarie
ricordiamo:
- Interventi di chirurgia toracica - Alcolismo
- IRC - Chirurgia ortopedica dell’anca
- Malattie croniche (BPCO, diabete, LES etc.) - Chirurgia urologica
- Parkinson - Traumi della colonna.
Clinicamente possono comparire:
- Nausea - Stipsi con episodi di diarrea paradossa
- Dispepsia - Distensione gassosa con rischio di
- Dolori addominali perforazione.
La diagnosi risulta molto complessa, in quanto si può riscontrare un quadro clinico e radiologico di occlusione,
con presenza di livelli idro-arei all’RX, ma senza una causa meccanica.
Per quanto riguarda la terapia, invece, si può ricorrere a:
- Terapia medica: prevede l’utilizzo di procinetici (es. prucalopride), i quali aumentano il transito
intestinale; inoltre si possono somministrare ATB per evitare il rischio di proliferazione e sovrainfezione
batterica
- Terapia chirurgica: utilizzata solo per prevenire complicanze (es. megacolon tossico) e per rimuovere anse
necrotiche.

7.5 APPENDICITE
L'appendicite è l’infiammazione acuta o cronica dell’appendice vermiforme, che costituisce un organo lin-
fatico vestigiale appartenente al cieco.
In passato era anche conosciuta come tiflite o peritiflite perché erroneamente attribuita al cieco. Nel 1827 fu descritta per la prima
volta da Meiler, in corso di un’autopsia, come causa di peritiflite. Nel 1880, venne inquadrata a livello nosologico e, nel 1886, si eseguì
il primo intervento di appendicectomia con intento curativo ed eziologico.

7.5.1 Appendicite acuta


L'appendicite rappresenta una delle malattie più frequenti (7% popolazione) in assoluto e la prima causa di
addome acuto chirurgico. Colpisce entrambi i sessi a tutte le età, con prevalenza tra i 10-30 anni d’età (rara
in neonati e anziani) interessando maggiormente il sesso maschile. La malattia è meno diffusa in Africa e Asia.
La mortalità per appendicite acuta si è ridotta drasticamente nel tempo (1880: 45% → 2000: 0,3%).

74
114
Eziopatogenesi
L’infiammazione deriva solitamente da un’occlusione luminale, favorita dal calibro ridotto, secondaria a:
- Coproliti (+ freq.): piccole concrezioni fecali disidratate;
- Corpi estranei: noccioli (uva, ciliegie, peperoni), parassiti intestinali (ossiuri);
- Iperplasia linfatica: in risposta a varie noxae patogene;
- Malposizione/compressione: da briglie aderenziali, angolature fisiologiche, tumori.
In seguito all’occlusione compare un quadro di infiammazione attraverso una sequenza di eventi:
1. FASE CATARRALE: congestione ed edema parietale, con accumulo di secrezioni mucose intraluminali; ciò
comporta ↑P venosa e linfatica, con conseguente ipossia che determina una proliferazione della flora
batterica patogena (Gram negativi) con infezione locale e risposta infiammatoria.
AP: appendice rossa, tumefatta, con i vasi arterosi dilatati e ben visibili.
2. FASE FLEMMONOSA: trombosi vasale con formazione di aree necrotiche e micro-erosioni, con conseguente
estensione dell’infezione allo strato esterno sieroso (peritonite localizzata).
AP: appendice congesta, di colorito violaceo, spesso con la punta ingrossata, ricoperta da essudato grigiastro. Il coinvolgimento
peritoneale è testimoniato da essudato siero-purulento.
3. FASE GANGRENOSA: ampie aree necrotiche, frequentemente perforate, con fuoruscita di materiale puru-
lento e fecaloide (raro) a livello del peritoneo circostante, che appare ricoperto da essudato denso ma-
leodorante e membrane fibrinose, e degli organi limitrofi con risposta infiammatoria.
AP: appendice di colorito grigio verdastro e alterazione peritoneo circostante; in alcuni casi l’appendicite può risultare invisibile
perché ricoperta da strutture mobili addominali (epiploon, tenue, mesentere – piastrone appendicolare) al fine di isolarla dal
resto dell’addome e prevenire un quadro di peritonite generalizzata, circoscrivendo il fenomeno infettivo-infiammatorio.
Queste tre fasi non hanno tempi di evoluzione certi e non è raro l’esordio con un quadro perforativo (appen-
dicite acuta fulminante). Esse rappresentano comunque un quadro localizzato che, se non prontamente trat-
tato, determina l’estensione del processo (pelvi-peritonite purulenta – potenzialmente letale).
APPENDICITE POST-OPERATORIA
Rappresenta una forma rara di appendicite acuta (incidenza: 0,1% interventi), secondaria a un intervento
chirurgico addominale complicato da un ileo paralitico post-operatorio. Pertanto, è indicata l’esecuzione di
un’appendicectomia profilattica in corso di interventi di chirurgia intestinale (eccetto in caso di colectomia).
MUCOCELE APPENDICOLARE
Il mucocele appendicolare è una rara patologia (0,3% appendicopatie), caratterizzata dall’accumulo di ma-
teriale mucoide all’interno del lume appendicolare. L’eziopatogenesi può essere infiammatoria o neopla-
stica. In base alle caratteristiche istologiche si distinguono diverse tipologie di mucocele appendicolare:
- Cistoadenoma - Semplice
- Cistoadenocarcinoma Forme neoplastiche - Iperplasia epiteliale
- Carcinoide
Per tale motivo, in caso di appendicite, è sempre indicato l’es. istologico estemporaneo, al fine di escludere
un’eventuale causa neoplastica e per prevenire eventuali complicanze peri-operatorie. In particolare, l’even-
tuale rottura di un mucocele di origine carcinomatosa può determinare l’insorgenza di un quadro di pseudo-
mixoma peritonei (vedi dopo).
Clinicamente, il mucocele può rimanere asintomatico a lungo o manifestarsi con dolore addominale, spesso
in fossa iliaca dx (DD con appendicite acuta), eventualmente associato a tumefazione palpabile.
PSEUDOMIXOMA PERITONEI
Rappresenta una gravissima complicanza (5yOS: 1-10%) dei ca. mucinosi, caratterizzata da: ascite mucinosa
estesa, impianti peritoneali cistici (carcinomatosi peritoneale) e adesioni fibrose. Si manifesta con sub-/oc-
clusione intestinale conseguente a impacchettamento anse intestinali da parte del materiale neoplastico,
fino a una condizione di “pelvi/addome congelato” (ostruzione completa).
Il primo obiettivo del trattamento è la canalizzazione dell’alvo, anche mediante una stomia temporanea. Le
lesioni neoplastiche peritoneali sono trattate con diffusione, durante il tempo chirurgico, con soluzioni che-
mioterapiche a 40-41 °C (↓microscopica), a scopo neoadiuvante la chirurgia (↓macroscopica).

Quadro clinico
Le manifestazioni cliniche caratteristiche dell’appendicite acuta (appendicopatia) sono riassunte nella triade:
- DOLORE: sempre presente, ma variabile per sede e caratteristiche; solitamente esordisce in sede epiga-
strica o mesogastrica, con successiva migrazione in fossa iliaca destra. Tuttavia, in alcuni casi il dolore è

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localizzato in sedi distanti, simulando colica biliare/renale destra
(appendice retrociecale ascendente) o patologia vescicale/gine-
cologica (appendice pelvica).
- NAUSEA/VOMITO/ANORESSIA: legati allo stato di ileo dinamico in-
dotto dall’infiammazione addominale.
- FEBBRE: solitamente non elevata (TC~38°C), legata a risposta in-
fiammatoria (↑CKs e IL); spesso è assente nel paziente anziano.
NB: nell’anziano il quadro è spesso sfumato, rendendo più complessa la DD.
In presenza di tale quadro è necessario sospettare un’appendicite
acuta fino a prova contraria. Si possono poi associare alla triade clas-
sica altri segni e sintomi indice di peritonite:
- Contrattura difensiva: inizialmente localizzata, quindi diffusa e
marcata (“addome a tavoletta”);
- Alterazione alvo: in seguito ad ileo dinamico, con quadro di
stipsi (prima alvo chiuso a gas, poi a feci); talvolta, si possono
osservare episodi diarroici che precedono la stipsi.
L’evoluzione del quadro non è prevedibile, pertanto tutte le appendiciti acute hanno indicazione per l’inter-
vento chirurgico, in particolare in età pediatrica (8-15 anni), in quanto l’evoluzione è più rapida. Tra i possibili
quadri evolutivi si riscontrano talvolta:
- Raffreddamento flogosi: remissione dolore in seguito a terapia sintomatica (ATB, analgesici e idrata-
zione); tale condizione può portare a un’appendicite cronica con decorso cronico-recidivante (vedi dopo).
- Ascesso appendicolare: spesso conseguente a trattamento conservativo (incruento), con persistenza sin-
tomatologica >24-48h; l’ascesso può poi andare incontro a rottura con peritonite generalizzata.

Diagnosi
- ESAME OBIETTIVO: fondamentale, prevede la palpazione addominale dei diversi quadranti e in particolare
a livello della fossa iliaca destra, in corrispondenza del punto di McBurney (tra 1/3 laterale e 2/3 medio
della linea che congiunge ombelico e SIAS dx). Inoltre, è possibile riscontrare alcuni segni tipici mediante:
• Segno di Blumberg: evocazione dolore violento in seguito a rilascio improvviso della mano dopo
aver applicato una certa pressione in fossa iliaca destra; è un segno di franco peritonismo.
• Segno di Rovsing: evocazione dolore in fossa iliaca destra in seguito a pressione a livello della fossa
iliaca sinistra in corrispondenza di colon discendente e sigma (crea distensione ciecale).
• Segno dello psoas: evocazione dolore in seguito a pressione in fossa iliaca e contemporaneo solle-
vamento dell’arto inferiore a ginocchio rigido (contrazione psoas che preme su cieco e appendice).
• Segno di Douglas: evocazione dolore vivo (“urlo del Douglas”) in seguito a esplorazione del cavo di
Douglas, mediante esplorazione rettale (uomo) o vaginale (donna); è un segno di pelvi-peritonite.
- ES. LABORATORIO: è possibile evidenziare una leucocitosi neutrofila e un ↑indici di flogosi (PCR, VES); è
indicata l’esecuzione di uno stick urine al fine di escludere cause urologiche.
- ES. STRUMENTALI: indicati qualora i precedenti accertamenti non siano
stati dirimenti (20% casi), mediante l’esecuzione di:
• US addome: presenza di appendice distesa, con versamenti pe-
riappendicolari; inoltre, consente di escludere patologie di tipo
annessiale o renale.
• RX addome diretto: in caso di appendice perforata, si evidenzia la
presenza di gas libero intraddominale (falce sottodiaframmatica).
• TC addome: riservata a casi dubbi (es. anziani), consente di avere
una visione globale e dettagliata.
NB: delle appendiciti acute che vanno all'intervento chirurgico soltanto nel 50% circa dei casi si ha un riscontro obiettivo intra-ope-
ratorio e la conferma istologica. Negli altri casi il chirurgo trova una appendice bianca (priva cioè di segni di flogosi) e soltanto in una
minima parte (10-20%), può risalire alla patologia che ha scatenato il quadro di tipo appendicolare.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
- PATOLOGIE GINECOLOGICHE: rottura/torsione cisti follicolare dx (anamnesi ciclo mestruale), GEU, annessite
dx (associata a xantoleucorrea vaginale), PID;
- PATOLOGIE NEFRO-UROLOGICHE: PNF dx, calcolosi ureterale dx, cistite (tipicamente estiva);

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- PATOLOGIE GASTROINTESTINALI: colecistite acuta, ulcera duodenale, diverticolo di Meckel, m. di Crohn (utile
anamnesi su caratteristiche dell’alvo), CCR, diverticolite (tipica anziano, utile TC), occlusione intestinale,
infarto intestinale, intussuscezione, gastroenterite;
- ALTRO: aneurisma aorta addominale (AAA), linfoadenopatia mesenterica, polmonite basale dx.

Terapia
In trattamento dell’appendicite acuta è di tipo chirurgico, mediante appendicectomia. Tuttavia, durante la
fase diagnostica e pre-operatoria può essere utile una terapia di supporto con ATB e.v. ed eventuale SNG. Il
ricorso a FANS e analgesici è assolutamente controindicato per il rischio di mascherare la sintomatologia.
Qualora il quadro regredisca con la terapia conservativa in <48h, si consiglia una bonifica della flora batterica
con fermenti lattici, a cui si associano norme dietetiche di prudenza (es. dieta in bianco per 1 sett.), evitando
cibi irritanti (piccante, salumi, spezie, cioccolato) o in grado di distendere il colon (legumi, farro, ecc.).
TERAPIA CHIRURGICA
L'appendicectomia è un intervento semplice e rapido se eseguito in fasi iniziali dell'infezione, mentre diviene
più rischioso e gravato da numerose complicanze se eseguito in fasi avanzate di malattia (es. presenza di
piastrone, ascesso o peritonite). L'intervento può essere svolto con due diversi approcci:
- Laparotomica: tecnica tradizionale 'aperta', preferibile nel sesso maschile;
- Laparoscopica: tecnica 'mini invasiva' più recente, preferibile in giovani donne fertili, anche con US-ad-
dome negativa, per una corretta DD con patologie ginecologiche (intento diagnostico-terapeutico).
L'appendice rimossa viene sempre inviata all'esame istologico estemporaneo, al fine di escludere una causa
neoplastica, seppur rara, alla base del quadro di appendicite.
APPENDICECTOMIA LAPAROTOMICA
Il procedimento chirurgico per l’esecuzione dell’appendicectomia con tecnica open prevede alcuni passaggi sequenziali:
1. Incisione laparotomica: con accesso alla cavità addominale; possono essere eseguite diverse incisioni in base a clinica e prefe-
renze operatore (taglio di McBurney – più usato, taglio di Battle-Jalaguier, taglio ombelico-pubico, taglio sovrapubico dx). Incisa
la cute, si giunge al sottocute e quindi al piano muscolare; viene quindi aperta la fascia del m. obliquo, che una volta spostato
consente di visualizzare il peritoneo. Si procede quindi con l’apertura della cavità peritoneale per la ricerca dell’appendice.
2. Ricerca ed esposizione appendice: mediante reperi chirurgici (es. con-
fluenza tenie, valvola ileo-ciecale) si identifica il polo ciecale e mediante
pinze si ricercherà l’appendice per estrarla. L’operazione può risultare più
complessa in caso di piastrone appendicolare, che richiederà lo sbriglia-
mento delle aderenze per esporre l’appendice.
3. Isolamento e sezione appendice: occorre isolare l’appendice dalla sua base
d’impianto, insieme al mesenteriolo, e sollevarla verso l’esterno; si procede
dunque con:
a. Legatura mesenteriolo e vasi contenuti al suo interno (rami a. ileo-co-
lica), quindi si procede con la loro sezione;
b. Legatura appendice alla base (lasciare moncone di pochi millimetri);
c. Esecuzione sutura a “borsa di tabacco” sul cieco, attorno alla base
dell'appendice, che consente poi di non lasciare libero in addome il
moncone, che potrebbe causare eventuali infezioni secondarie (stump
appendicitis);
d. Sezione ed asportazione corpo appendicolare;
e. Affondamento del moncone nel cieco, una volta disinfettato, e chiu-
sura della borsa di tabacco.
4. Chiusura per strati: occorre controllare la presenza di eventuale diverticolo
di Meckel (ultimi 60 cm di tenue); quindi si procede alla sutura per piani. In
caso di perforazione con peritonite è indicato un accurato lavaggio del cavo
peritoneale ed eventuale posizionamento di un drenaggio esterno, al fine
di rimuovere adeguatamente eventuali focolai infettivi residui.
APPENDICECTOMIA LAPAROSCOPICA
La procedura di isolamento e sezione appendicolare è analoga a quella laparotomica. L’accesso alla cavità addominale è ottenuto
mediante l’esecuzione di 3 piccole incisioni (2x1cm e 1x5mm), necessarie per l’inserimento dello strumentario laparoscopico. I prin-
cipali vantaggi nell’uso della tecnica laparoscopica sono rappresentati da:
- ↓invasività - ↓rischio laparoceli post-operatori
- Decorso post-op meno doloroso e ripresa più rapida - Intervento su patologie concomitanti (es. endometriosi)
- Valutazione completa cavità addominale (es. ricerca al- - Miglior risultato estetico
tre cause in caso di appendicite bianca) - Indipendenza da varianti anatomiche di posizione
Il principale svantaggio è legato al fatto che sia comunque rischiesta un’anestesia totale. c’è l’anestesia totale come la chirurgia open
Infine, non sono ritenute controindicazioni a questo tipo di intervento le appendiciti complicate o la gravidanza.

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7.5.2 Appendicite cronica
L’appendicite cronica rappresenta un’entità nosologica di difficile inquadramento clinico ed eziopatogene-
tico, definita in base alle caratteristiche anatomo-patologiche. Si distinguono due forme principali:
- CRONICA AB INITIO: nasce come cronica fin dall’inizio con una sintomatologia molto sfumata;
- ACUTA CRONICIZZATA: rappresenta l'esito di una forma acuta risoltasi spontaneamente, con fenomeni di
atrofia, sclerosi e fibrosi periviscerale (esiti di un episodio acuto).

Quadro clinico
L’appendicite cronica presenta un quadro più sfumato e oscillante, caratterizzato da:
- Dolore: più lieve e localizzato in fossa ileo-ciecale o irradiato in sede epigastrica o periombelicale;
- Nausea, anoressia: meno frequentemente associate a vomito.
Davanti a un quadro simile è difficile stabilire se si tratti di una recidiva di un episodio acuto o della croniciz-
zazione di una infiammazione precedente; solo l'esame istologico è in grado di dirimere il dubbio.

Diagnosi
La diagnosi, oltre alle indagini elencate per la forma acuta, si basa essenzialmente su:
- US intestinale: consente la valutazione di appendice e ultima ansa intestinale, al fine di consentire
un’adeguata DD con altre patologie (es. diverticolo di Meckel, m. di Crohn, annessiti, ecc.);
- Laparoscopia esplorativa: in casi dubbi, con intento diagnostico-terapeutico; permette di eseguire even-
tuali biopsie per l’esame istologico che consente una diagnosi definitiva.

Terapia
In linea generale, dopo un’attenta diagnosi differenziale, è indicato l’intervento chirurgico di appendicecto-
mia, in quanto talvolta la sintomatologia può essere legata alla posizione dell'appendice più che alla flogosi.
Inoltre, si tratta spesso di giovani, quindi attivi, per cui è preferibile evitare un’appendicite cronica.

7.6 MALATTIA DIVERTICOLARE COLICA


La diverticolosi colica è una condizione caratterizzata dalla presenza di diverticoli lungo la parete colica. Essa
è asintomatica e, se diventa sintomatica (es. diverticolite), prende il nome di malattia diverticolare. Inoltre,
si può distinguere un ulteriore quadro evolutivo in presenza di complicazioni, detto diverticolite complicata.
NB: i diverticoli possono formarsi in ogni punto dell’apparato digerente, generalmente in zone di relativa debolezza dello strato
muscolare (“locus minoris resistenziæ”), in particolare a livello di colon o esofago.
Cenni storici: 1904 – prima descrizione a livello anatomico; 1907 – dr. Mayo presenta primo pz con diverticolite; 1910 – 5% autopsie
mostrano diverticoli; 1970 – 40% autopsie mostrano diverticoli, in relazione a ↑aspettativa di vita e cambio abitudini alimentari.

Epidemiologia
La diverticolosi è una condizione relativamente comune (prevalenza: ~40%), con un'epidemiologia influen-
zata da vari fattori, tra cui i principali sono rappresentati da:
- ETÀ: la prevalenza varia secondo l'età (40 anni: 5%; >60 anni: 30%; >85 anni: >65%). Interessa maggior-
mente la popolazione anziana, con quadri cronici e lentamente progressivi; tuttavia, nella popolazione
giovanile è solitamente più grave, con quadri acuti (diverticolite complicata – es. perforazione).
- ETNIA: in relazione a predisposizione genetica, in grado di influenzare la localizzazione dei diverticoli (es.
etnia mongolica: diverticoli colon ascendente; etnia caucasica: diverticoli colon discendente).
- CONDIZIONE SOCIO-ECONOMICA: la patologia interessa più frequentemente paesi occidentali e industrializ-
zati, probabilmente in relazione ad abitudini alimentari e stile di vita.
Il 20% circa delle diverticolosi evolve in malattia diverticolare, che raramente richiede ricovero ospedaliero
(2%) o intervento chirurgico (0,5%). La mortalità connessa alla malattia diverticolare è estremamente bassa
(~0,01%), ed è lievemente superiore nel sesso femminile.
Infine, si noti come non vi sia correlazione eziologica, ma solo epidemiologica (stesse fasce d’età), con il CCR.

Eziopatogenesi
I diverticoli sono estroflessioni di mucosa e sottomucosa attraverso la tonaca muscolare, che non risulta
quindi coinvolta; pertanto, rappresentano dei diverticoli falsi (pseudodiverticoli).
NB: si distingue dal diverticolo vero in cui si ha estroflessione di tutta la parete, compresa la tonaca muscolare.

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Chirurgia- Prof Mao
18/11/2021
Sbobinatrice: Gaia Borletto
Revisora: Eleonora Romagnolo

LE PATOLOGIE BENIGNE DI INTESTINO TENUE, COLON,


RETTO E ANO
Anatomia
(Il professore non si sofferma sull’argomento in quanto viene dato per scontato, viene dunque integrato quasi
interamente dalle slide).
La parte superiore del tratto gastro-intestinale è composta da stomaco, duodeno, pancreas, fegato e vie
biliari. Tutto quello che si trova al di sotto del legamento di Treitz identifica la parte inferiore del tratto gastro
intestinale ed include il tenue, il colon diviso nei vari segmenti e il retto.
L’intestino tenue:
• Rapporti: anteriormente prende rapporto con la parete addominale, mediante il grande omento.
Posteriormente prende rapporto con il pancreas, entrambi i reni, con l’aorta e la vena cava inferiore.
Prende stretto rapporto con il grosso intestino.
• Funzione: vengono processati gli alimenti parzialmente digeriti provenienti dal duodeno.
• Descrizione: si compone di due parti, una iniziale il digiuno ed una parte terminale, l’ileo. Il tenue si
presenta interamente avvolto dal peritoneo, in particolare dal mesentere.
Il colon:
• Descrizione e rapporti: è la porzione terminale dell’intestino, fa seguito al tenue a livello della fossa iliaca
destra, dove inizia con una parte a fondo cieco e termina aprendosi all’esterno con l’orifizio anale. Ha
una lunghezza complessiva di 1,8 m e si divide in: cieco, colon ascendente, colon trasverso, colon
discendente e sigma. Il cieco è posto nella fossa iliaca dx e si porta in alto continuandosi nel colon
ascendente, che raggiunge la faccia inferiore del fegato a livello dell’ipocondrio destro, ove descrive una
curva verso sinistra formando la flessura epatica. Il colon trasverso si estende dalla flessura dx alla
flessura splenica in ipocondrio sx e si continua nel colon discendente, che si estende sino alla fossa iliaca
sinistra, dove ha origine il sigma, che all’altezza della terza vertebra sacrale prosegue nel retto.
• Funzione: produrre muco (lubrificante) ed immunoglobuline, ha principalmente la funzione di riassorbire
acqua, concentrare le feci e di occuparsi della loro espulsione.
Il retto e il canale anale:
• Descrizione: il retto è lungo 13-15 cm, se ne distinguono due parti, una peritoneale e una extra-
peritoneale. Il canale anale rappresenta gli ultimi 4 cm del tratto digerente.
• Funzione: ha un ruolo importante nell’immagazzinare le feci e presiede il meccanismo dell’espulsione,
ovvero un processo complesso, in parte volontario e in parte involontario, che richiede il coordinamento
di nervi e muscoli diversi, la cui mancata attività può determinare problemi di incontinenza da un lato e
problemi di ritenzione fecale dall’altro, che peraltro si accompagnano ai medesimi eventi a livello
dell’apparato urinario, poiché i due distretti condividono in parte la loro innervazione.
La vascolarizzazione:
L’intestino tenue ha una vascolarizzazione di tipo terminale: i vasi provenienti dalla mesenterica superiore
formano delle arcate anastomotiche che irrorano una singola porzione di intestino, dunque se un vaso si
ostruisce nella sua parte prossimale si possono attivare meccanismi di compenso da parte delle arcate
marginali, mentre in caso di ostruzione periferica nelle arcate principali si presenta un quadro complesso che
porta a ischemia segmentaria intestinale con necrosi conseguente. In caso di ischemia mesenterica massiva
si verifica un’ischemia totale dell’intestino.
L’intestino è irrorato da tre grandi vasi:
1. Tripode celiaco: irrora la parte superiore del digerente;
2. Mesenterica superiore: tra i suoi rami terminali sono importanti l’arteria ileo-colica, la colica destra
e la colica media che vanno ad irrorare la parte destra del grande intestino (cieco, ascendente e

119
trasverso) fino alla flessura epatica. (commento del prof: durante l’emicolectomia destra, in campo
oncologico dove bisogna essere radicali, è importante andare a legare questi vasi asportando anche
i linfonodi annessi, evitando però di ledere direttamente la mesenterica superiore che causerebbe
ischemia del piccolo intestino.)
3. Mesenterica inferiore: irrora due terzi del colon trasverso, il discendete e il sigma. Da essa origina
anche un’importante arteria, la rettale, che irrora il retto. A questo livello sono presenti anastomosi
tra il circolo mesenterico, che dà le arterie emorroidarie superiori e il circolo pelvico, che dà le arterie
emorroidarie medie e inferiori.

Patologia benigna ileo


L’ileo può essere interessaro da varie problematiche, molte di natura infiammatoria e vascolare mentre
risulta meno interessato da patologie tumorali rispetto agli altri tratti intestinali. Le patologie benigne
possono essere:
• Patologie congenite:
o atresie e stenosi;
o duplicazioni;
o malrotazioni e volvolo del tenue.
• Patologie funzionali:
o malassorbimento;
o sindrome da intestino corto.
• Patologie dell'Appendice e del Diverticolo di Meckel:
Il diverticolo di Meckel è un residuo del legamento onfalo-mesenterico, un vero diverticolo formato da
tutti gli strati della parete.
• Malattie Infiammatorie (Crohn, RCU, aspecifiche).
• Tumori benigni dell'intestino tenue.

Patologie benigna colon/retto


• Patologie congenite:
o atresie;
o megacolon agangliare (di Hirschprung);
o anomalie congenite ano-rettali.
• Malattie infiammatorie (Crohn - RCU).
• Malattia diverticolare: nel grosso intestino raramente si trovano veri diverticoli, spesso sono
estroflessioni della mucosa e dello strato sottomucoso in punti di debolezza dello strato muscolare. Si
formano sul lato mesenterico delle tenie antimesenteriche perché li sono presenti i punti di penetrazione
dei piccoli vasi.
• Tumori benigni del colon.

➔ Per lo studio di queste patologie è importante conoscere la semeiotica classica:


• Punto di Mc Burney: situato all'unione del terzo esterno con il terzo medio della linea che unisce
l'ombelico alla spina iliaca anteriore superiore
• Segno di Rovsing: dolore in fossa iliaca destra evocato dalla compressione caudo-craniale sul
colon discendente
• Il segno dello psoas: In corso di attacco appendicolare il pz. Preferisce tenere leggermente flessa
la coscia per un motivo antalgico. L'estensione della coscia può invece provocare dolore
stimolando la regione infiammata.

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Il morbo di Crohn
Il morbo di Crohn è una malattia infiammatoria multifattoriale: in parte immunologica, in parte influenzata
da fattori esterni e vi è anche una predisposizione ereditaria.
Si presenta come un’infiammmazione di tipo cronico granulomatoso, con formazione di accumuli cellulari
nell’intestino, dando granulomi o pseudogranulomi che determinano ispessimenti della parete con
conseguente guarigione con retrazione e stenosi. Interessa la parete intestinale in modo transmurale e può
coinvolgere l’intero apparato digerente, dalla bocca all’ano. Ha un andamento segmentario, ovvero non
colpisce mai tutto l’intestino, ma spesso dei tratti. Nel 40-55% dei casi colpisce sia il tenue che il colon. Nel
15-20% dei casi può colpire il colon da solo, in questi casi la DD con rettocolite o con tumori è complicata e
per questo viene richiesta una biopsia, che rivela che l’interessamento della parete è tutto spessore nel CD.
Si manifesta acutamente nell’ultima ansa ileale e nella valvola ileo-ciecale, andando in DD con l’appencite
acuta.
Risulta associato a molte manifestazione extra-intestinali.

Epidemiologia:
L’Incidenza è quasi uguale nei due sessi. Colpisce da 17 a 35 volte di più soggetti che hanno parenti con il
Crohn rispetto alla popolazione sana. Insorge in età comprese tra i 15 e i 30 anni e tra i 50 e 65 anni. Negli
ultimi anni c’è stato un aumento dell’incidenza del Crohn del colon/retto e della regione perianale rispetto
all’ileo (ultima ansa e valvola ileo-ciecale), che in passato era la localizzazione più frequente.

Eziologia:
Non è ancora chiaro quali siano i fattori scatenanti e le cause. Ci sono diverse ipotesi tra cui:
• Agenti infettivi: molti studi hanno cercato di dimostrare che il M. di Crohn è causato dal Micobacterium
Paratuberculosis senza successo. In alcuni studi terapie antimicobatteriche hanno avuto buoni risultati
nel trattamento del Morbo di Crohn, altri hanno dimostrato il contrario.
• Dieta: nelle placche di Peyer dei pazienti con M. Di Crohn sono state dimostrate particelle di titanio.
Numerosi anticorpi contro antigeni contenuti in vari cibi tra cui proteine del latte sono presenti in tale
patologia. E' quindi possibile che particolari cibi o agenti microbici o chimici possono essere incorporati
nella mucosa intestinale suscitando la risposta infiammatoria tipica del Crohn.
• Genetica: il rischio nei familiari di I° grado è aumentato fino a 10-20 volte rispetto al resto della
popolazione. Vi è una debole associazione con gli istotipi HLA-A2 e HLA-DR1-DQ5. Il Crohn è associato a
malattie genetiche legate all'aplotipo HLA-B27 come l'albinismo, la spondilite anchilosante, la sindrome
di Reiter.
• Immunologica: risulta presente una risposta impropria del sistema immunitario mucosale a stimoli
normalmente presenti. Le cellule epiteliali dell’intestino normale in coltura stimolano la proliferazione
dei linfociti T suppressor, mentre nel M.di Crohn stimolano le T Helper che, non inibite, potrebbero
indurre le cascate di attivazione immunitaria tipiche della malattia. Il Crohn, rispetto alla rettocolite
ulcerosa che spesso regredisce, tende a colpire il soggetto per tutta la vita cronicizzando. Attualmente ci
sono anche farmaci immunologici che possono controllare la malattia nelle forme croniche.

Patogenesi delle lesioni:

121
Presentazione clinica:
• dolore crampiforme: in fossa iliaca dx, periombelicale, sovrapubico che precede evacuazione;
• diarrea mista a sangue raramente;
• febbre;
• dimagrimento: dovuto sia ai sintomi subocclusivi che al dolore persistente, inoltre è noto che perdite di
peso eccessive sono sinonimo di malattia estesa, si arriva a perdere anche il 10-20% del peso corporeo
nella malattia cronica;
• rettoragia per ulcerazione profonde del colon, rara nelle localizzazioni ileali; c’è ematochezia nelle
forme localizzate più distalmente;
• fistole perianali: tipiche della localizzazione anale del M. di Crohn.
→Complicanze:
• Occlusione intestinale con nausea, vomito e distensione addominale. Nelle fasi iniziali della malattia è
dovuta a spasmo del viscere o a edema della parete, e risponde a terapia medica; nelle fasi tardive è
dovuta a ispessimento cicatriziale e fibrosi della parete intestinale e necessita della terapia chirurgica.
• Fistolizzazione:
o Fistole entero-enteriche, entero-coliche possono causare diarrea e malassorbimento;
o Fistole entero-cutanee;
o Fistole entero-vescicali provocano infezioni delle vie urinarie e pneumaturia;
o Fistole retto-vaginali con vaginiti.
• Ascessi intraddominali e pelvici: coinvolgono circa la metà dei pazienti, ad un certo punto del decorso
della malattia, e richiedono drenaggio chirurgico o guidato radiologicamente.

Diagnosi:
Sulla base del sospetto clinico, guidato dalle manifestazioni, si approfondisce con le seguenti indagini di
imaging, ma la diagnosi vera e propria si ha con l’endoscopia e la biopsia.
• Esami radiologici con contrasto baritato:
o Rx digerente;
o Tenue seriato;
o Clisma del tenue;
o Clisma opaco a doppio contrasto del colon.
• TC, RM: hanno un’importanza notevole per la valutazione degli ascessi, di fistole interne, di ispessimenti
della parete intestinale, del mesentere e per la valutazione dei pacchetti linfonodali.
• Esami endoscopici:
o Colonscopia: permette valutazione della mucosa, di cui si possono apprezzare l’aspetto ad
acciottolato, le ulcere serpiginose, ponti mucosi o eventuali stenosi.
o Ileoscopia attraverso la valvola ileo-cecale con biopsie leali. Uso terapeutico con dilatazione
pneumatica di stenosi del colon o ileo terminale.
o Esofagogastroduodenoscopia: si effettua in presenza di sintomi gastroduodenali e per la valutazione
di lesioni con biopsie ed esame istologico.

• Ecografia: è usata soprattutto nella fase acuta per la diagnosi differenziale con l'appendicite acuta, gli
ascessi tubo-ovarici, la gravidanza ectopica. Viene anche usata per la valutazione della parete dell'ileo
terminale e di eventuali ascessi intraddominali, dove però la TC è più accurata.
• Biopsia: fondamentale per la diagnosi di certezza.

Terapia:
La terapia prevede un approccio medico, che se non dovesse risultare sufficiente verrebbe seguito da un
approccio chirurgico.

122
La terapia medica prevede:
• Salazopirina: si usa da 70 anni, è efficace nel controllo delle remissioni nel Crohn ileale colico, oggi è stata
quasi del tutto rimpiazzata dalla Mesalazina per i minori effetti collaterali.
• Mesalazina: (5ASA) la parte antinfiammatoria attiva della salazopirina. È efficace anche nei pazienti
allergici alla salazopirina. Si usa sia per OS che sotto forma di clismi.
• Corticosteroidi: prednisone o metilprednisolone da 0.25 mg/kg a 0.75 mg/kg efficace nel Crohn ileale,
rettocolico e perianale. Si usano per via parenterale nelle forme acute, per via orale e sotto forma di
clismi. In quest'ultima via di somministrazione si usa anche il betametasone.
• Metronidazolo: antibiotico attivo contro gli anaerobi, che si usa nelle fasi stenosanti poiché, diminuendo
la flora batterica a livello della stasi fecale, diminuisce la diarrea e l’infiammazione mucosa. Si usa inoltre
nelle forme settiche.
• Anti – TNF e immunoterapia.

Per quanto riguarda la terapia chirurgica si cerca di operare il meno possibile e di rimuovere meno intestino
possibile. Anche perché sono pazienti che hanno frequentemente complicanze gravi e recidive che
richiedono interventi secondari per cui è necessario che sia presente tessuto residuo.
La chirurgia non cura il M.di Crohn, si sfrutta ad oggi per trattare le complicanze, in particolare le stenosi
gravi. Esse sono oggetto di stricturoplastica: una plastica in
allargamento della parete intestinale, con incisione
longitudinale sulla parete dell’intestino estesa per tutta la
lunghezza del segmento ristretto che viene poi richiusa
trasversalmente.

Un’altra opzione terapeutica, che però andrebbe limitata alla malattia grave ed estesa poiché pesa molto
sulla qualità di vita, è l’emicolectomia destra. In alternativa si potrebbe scegliere di posizionare un bypass
tra ileo e trasverso, permettere alla lesione di andare in remissione e poi ripristinare il transito. Va
sottolineato che queste misure che necessitano di stomie, non sono ideali in quanto possono andare in
contro a stenosi.
Nella pratica questi interventi sono molto complessi e spesso residuano complicanze, andrebbero dunque
eseguiti in centri specializzati.
il professore non si dilunga ulteriormente sulle tecniche chirurgiche né spiega il grado di approfondimento
necessario, sulle slide non sono presenti ulteriori informazioni, vengono quindi integrate le dispense BBC di
seguito:
[RESEZIONE INTESTINALE: Rappresenta l’intervento di prima scelta in caso di pz affetti da malattia di Crohn
fistolizzante. In questo caso le resezioni devono limitarsi solamente al tratto interessato dalla complicanza
(bowel sparing surgery). Ad esempio, in caso di ileite terminale, non si esegue più come in passato una
resezione dell’ultima ansa ileale con emicolectomia destra, ma si esegue la resezione dell’ultima ansa e del
ceco con confezionamento di anastomosi tra ileo e colon ascendente. L’anastomosi, quindi, viene fatta subito
dove l’intestino è normale, in quanto non si tratta di una chirurgia oncologica e non è necessario avere
margini sani molto ampi.
STRITTUROPLASTICA: Rappresenta l’intervento di prima scelta in caso di pz affetti da malattia di Crohn
fibrostenosante. Tale intervento prevede la correzione della stenosi intestinale senza resezione, ma solo con
tecniche di allargamento. Col passare degli anni si sono affinate diverse tecniche, tra cui ricordiamo:
1. STRITTUROPLASTICA SECONDO HEINEKE-MIKULICZ: prevede un’enterotomia in senso longitudinale,
comprendente tutta la stenosi e continuata per 1-2 cm di tessuto sano, seguita dalla sutura del
viscere lungo l’asse trasversale.

123
2. STRITTUROPLASTICA SECONDO FINNEY: impiegata per stenosi comprese tra 5 e 20 cm; consiste
nell’affiancare, disponendole a U, le parti di viscere interessate dalla stenosi e nell’affiancare
un’anastomosi latero-laterale antiperistaltica.
3. STRITTUROPLASTICA SIDE-TO-SIDE ISOPERISTALTIC ENTERO-ENTERIC (SSIS) SECONDO MICHELASSI:
si esegue in caso di stenosi lunghe (>20 cm) o in presenza di lunghi tratti intestinali caratterizzati da
stenosi brevi molto ravvicinate. Permette di correggere un lungo tratto stenotico, sezionando lo
stesso nel suo punto medio, facendo scorrere i due segmenti così ottenuti uno s opra l’altro e
anastomizzandoli fra loro antero-lateralmente (anastomosi isoperistaltica); questo permette di
formare un unico tratto di calibro regolare.]

Prima dell’intervento è importante ripristinare i deficit nutrizionali, ematologici, elettrolitici. Inoltre, è


importante operare solo i siti attivi e non quelli silenti.
Dalle slide:
Terapia sulla base del tratto interessato:
• Duodeno: non sono indicate, di solito, resezioni duodeno-pancreatiche. In caso di stenosi duodenali si
eseguono stricturoplastiche o anastomosi duodeno-digiunali laterolaterali.
• Digiuno e ileo: in caso di sintomi occlusivi nella fase iniziale della malattia si pratica terapia conservativa,
digiuno, TPN e corticosteroidi e.v. poiché gran parte della stenosi è dovuta all'edema della parete ed è
probabile raggiungere la remissione.
• Per il colon e il retto predominano gli interventi resettivi. In caso di stenosi sono limitati al massimo a due
prima di eseguire una colectomia totale, non avendo il colon funzione di assorbimento di nutrienti. In caso
di malattia rettale si cerca di risparmiare il retto non potendo eseguire, in caso di resezione di tutto il
grosso intestino, un reservoir ileale come nella RCU.
• Le fistole perianali da M. di Crohn si trattano conservativamente con setoni di drenaggio evitando il più
possibile le fistulotomie. Negli ascessi perianali ci si limita al drenaggio. Nei pazienti con Crohn perianale
è opportuno evitare interventi di emorroidectomia e trattamento chirurgico della ragade anale poiché le
ferite in questi pazienti tendono a cronicizzarsi e a non guarire.
Terapia sulla base del decorso:
• Nelle fasi croniche della malattia è presente fibrosi della parete intestinale che richiede quasi sempre poi
ricordo alla chirurgia che in prima istanza è resettiva (resezione ileo-colica).
• Nei reinterventi o nelle stenosi multiple si preferiscono le stricturoplastiche che consentono di risparmiare
tessuto intestinale.

La rettocolite ulcerosa
La rettocolite ulcerosa è una malattia della mucosa del colon e retto che colpisce per lo più la parte distale
del grosso intestino. Esordisce in maniera acuta, per poi cronicizzare.
La RCU è caratterizzata da episodi di remissione e riacutizzazione ed è una malattia grave che incide molto
sulla vita del paziente.
Dopo molti anni dalla insorgenza può dare origine a displasia grave e adenocarcinoma del grosso intestino.
In diversi pazienti si presentano quadri misti, che non sono ascrivibili soltanto alla RCU, si è dunque scoperto
che spesso può trovarsi associata ad altre forme di coliti anche meno note, come quella microscopica.

Epidemiologia
Più frequente nei paesi maggiormente industrializzati, soprattutto in ambienti cittadini. Colpisce
maggiormente adulti in terza - sesta decade, ma può colpire a qualunque età, anche in età pediatrica. Non
è raro vedere un esordio precoce, soprattutto nel sesso femminile, con una forma acuta che però risponde
bene alla terapia medica. Non ci sono differenze di prevalenza tra sesso maschile e femminile.

Eziologia
L’eziologia della patologia non è completamente nota, sicuramente ci sono più fattori implicati e si sospetta
di fattori infettivi e/o allergici e di una risposta immunitaria anomala ad antigeni batterici. È nota

124
un’importante componente autoimmunitaria, infatti la malattia si accompagna ad altre patologie
autoimmuni (es: colestasi intraepatica primaria e tiroiditi autoimmuni).
Nella patogenesi della malattia sono implicati meccanismi immunologici a livello della lamina propria che
coinvolgono sia la risposta umorale sia quella cellulare.
Come nel MC esiste un substrato genetico che può giocare un ruolo importante.

Decorso clinico:

Anatomia Patologica:
A causa del processo infiammatorio, la mucosa del retto e del colon appaiono iperemiche ed ulcerate, facili
al sanguinamento.
Le ulcere sono superficiali e diffuse. Si possono anche rilevare microascessi ed infiltrati infiammatori. La
rigenerazione delle zone di mucosa infiammata porta alla formazione di pseudopolipi infiammatori che
aggettano nel lume intestinale, che possono anche andare incontro ad ulcerazioni lineari.

Presentazione clinica:
La sintomatologia tipica presentata, che induce poi l’esecuzione di una colonscopia, è la seguente:
• diarrea;
• retroraggia;
• mucorrea;
➔ sintomi dominanti, praticamente sempre presenti.
• dolori addominali;
• malassorbimento con conseguente dimagrimento.
Nel 60-70% dei casi vi è completa assenza di sintomi fra gli attacchi, la cui durata è variabile ed influenzata
dalla terapia.
Nel 10-15% un attacco iniziale non va in remissione e si possono presentare complicazioni come rettorragia
irrefrenabile, perforazione o dilatazione tossica e si deve procedere a colectomia totale di emergenza.

In alcuni casi l'esordio può essere acuto fulminante, presentandosi come urgenza medica sottoforma di:
• Colite acuta fulminante: ormai è rara la sua presenza grazie alla diagnosi precoce e alla somministrazione
di terapie adeguate (infusione di liquidi, terapia immunosopressiva e antibatterica);

125
• Megacolon tossico: forma iperacuta, spesso si manifesta come esordio della malattia con dilatazione del
colon trasverso dovuto a danno tossico della tonaca muscolare e dei nessi nervosi. Si ha perdita della
capacità da parte del colon di far progredire il suo contenuto e di assorbire acqua, a causa
dell’infiammazione cronica, con conseguente ristagno di materiale e successiva dilatazione del lume,
assottigliamento delle pareti con aumento della pressione transparietale a discapito della pressione di
perfusione, che venendo meno può portare ischemia e possibili perforazioni con gangrena e peritonite.
Se non è ancora insorta necrosi il trattamento prevede lo svuotamento per mezzo di sonda rettale in
primo approccio e se non risulta sufficiente si opta per una endoscopia per distendere il colon e
permettere il ripristino della normale circolazione ematica. I quadri estremi, invece, necessitano di
resezione chirurgica.
Lastra di megacolon tossico: si nota che la flessura splenica del colon è estremamente dilatata.

• Perforazione;
• Emorragia.

Terapia chirurgica
La terapia chirurgica richiederebbe, dal momento che colpisce tutto il colon, una resezione molto importante:
• Colectomia subtotale con ileostomia terminale e fistola mucosa;
• Colectomia totale con ileostomia terminale.
➔ Sono interventi molto impattanti che riducono la qualità di vita del paziente: dev’essere creata una
ileostomia terminale, ovvero un ano artificiale confezionato con l’ileo e NON con il colon, ciò comporta
che il paziente avrà una perdita di 2-3 litri/giorno di feci con un’altissima componente acquosa, che
implica frequentissimi cambi di sacchetto e necessità di idratazione continua. Si può cercare di ricostruire
un tramite tra retto e ileo ma i risultati non sono ottimali: il paziente ha comunque scariche diarroiche
frequenti (8/9 al giorno). Per arginare queste problematiche sono stati studiati dei serbatoi, detti Pouch,
creati con il piccolo intestino che sostituiscono la funzione del grosso intestino che è stato asportato. Il
principio alla base è quello di creare una camera più grossa, dove le feci possano essere concentrate.
L’intervento di per sé non è complesso, ma il planning operatorio può essere arduo: è complesso dosare
la quantità di intestino impiegata, come è complesso studiare come dev’essere impiantato. Non sono
spesso funzionali, ma rappresentano l’unica opzione per lasciare al paziente un grado di defecazione
normale.

126
Richiedono un trattamento chirurgico in elezione pazienti con:
• Colite acuta che non risponde al trattamento farmacologico;
• Riacutizzazioni ricorrenti in pazienti pancolite, anemizzazione e calo ponderale;
• Coliti complicate da manifestazioni extra intestinali che non rispondono alla terapia medica;
• Displasia grave.

Polipi del colon


Rappresentano una delle patologie più frequenti del grosso intestino.
Con il termine polipo definiamo qualsiasi neoformazione -di qualsiasi natura- che aggetta nel lume di un
organo cavo.
Possono insorgere a livello della mucosa: epiteliali e mesenchimali; oppure interessare anche la
sottomucosa: mesenchimali.
La patogenesi dei polipi è varia e può essere: flogistica, da alterata maturazione, malformativa o neoplastica.
In particolare, distinguiamo polipi:

1. Polipi infiammatori:
Presentano infiltrato infiammatorio che solleva la mucosa.
Hanno dimensioni variabili, ma in genere hanno dimensioni < 1 cm. Spesso sono associati a colite ulcerosa,
morbo di Crohn, coliti infettive, diverticolosi, ma anche a problemi di alimentazione e dismicrobismo. Il loro
aspetto macroscopico è piuttosto tipico e viene facilmente riconosciuto all’endoscopia, ma di norma vengono
comunque rimossi, anche se non presentano rischio di evoluzione neoplastica, poiché ogni polipo merita di
essere esaminato istologicamente.

2. Polipi amartomatosi
Lesioni non neoplastiche caratterizzate da alterata organizzazione di tessuti autoctoni epiteliali e/o
mesenchimali.
La maggior parte appartengono a poliposi eredo-familiari come la sindrome di Peutz-Jeghers.

3. Polipi Iperplastici
Si sviluppano a seguito di aumentata proliferazione di cellule epiteliali. Sono di piccole dimensioni (<0,5cm).
Frequentemente sessili, raramente peduncolati.

4. Polipi neoplastici (adenomi):


Anatomia patologica:

127
Vengono descritti in funzione di alcune caratteristiche macroscopiche:
• In base alla superficie come:
o liscia;
o villosa.
• In relazione alla base d’impianto:
o sessili: originano direttamente dalla mucosa intestinale, sono piatti -> la loro rimozione è complessa;
o peduncolati: unite alla parete da un peduncolo, protrudono nel lume -> possono essere facilmente
rimossi.
• In base al numero:
o unici;
o multipli (1-100);
o poliposi (>100).
Classificazione istologica:
o Adenoma tubulare: ghiandole con architettura tubulare;
o Adenoma villoso: strutture vascolo-stromali ricoperte da epitelio adenomatoso (villi);
o Adenoma tubulo-villoso;
o Adenoma serrato: architettura sovrapponibile al polipo iperplastico con un epitelio che presenta le
caratteristiche citologiche dell’adenoma, ovvero in cui le cellule a palizzata, che generalmente
costituiscono l’epitelio intestinale, sono disposte così vicine che i nuclei si dispongono in più linee.

➔ Criterio dimensionale di malignità: “Se si asporta un polipo tubulare di 1 cm la possibilità di sviluppare


una neoplasia è molto più bassa rispetto a quando si asporta un polipo villoso o tubulo-villoso.”
➔ Il tubulo-villoso e il serrato vengono visti come lesioni di alto grado anche in assenza di altri segni di
displasia.
➔ La caratterizzazione istologica più importante è indicare qual è il grado di displasia che viene riscontrato,
poiché correla con la decisione terapeutica: la displasia grave viene trattata come una neoplasia maligna.
Sono criteri di malignità le seguenti caratteristiche microscopiche:
• Aumentata proliferazione cellulare;
• Alterata differenziazione epiteliale;
• Morfologia cellulare atipica;
• Disordine architetturale.

128
L’evoluzione prevede spesso il passaggio da adenoma a carcinoma in relazione ad alterazioni genetiche, quali:
attivazioni di oncogeni o
inibizione di
oncosoppressori. Queste
mutazioni sono ricercabili
anche a scopo terapeutico
per permettere al paziente
di fruire di farmaci
biologici, che presentano
le suddette mutazioni
come target.

Fattori di rischio
I fattori di rischio per lo sviluppo di polipi sono:
▪ Dieta (elevato consumo di carni rosse e di grassi saturi e basso consumo di fibre e di pesce);
▪ Obesità e scarsa attività fisica;
▪ Fumo di sigaretta;
▪ Storia familiare: rischio da 2 a 4 volte con 1 solo familiare, da 4 a 6 volte con 2 familiari.
Il tumore al colon è uno dei tumori più frequenti per questo vengono attivati programmi di screening come
la ricerca di sangue occulto nelle feci o colonscopia, intorno ai 50 anni per individuare precocemente le
neoplasie. In Piemonte è attivo il servizio di screening prevenzione Serena.

Sintomi
I polipi possono essere asintomatici oppure presentarsi con i seguenti segni e sintomi:
o Sanguinamento con anemizzazione cronica;
o Diarrea mucosa in caso di polipi adenomatosi villosi del retto;
o Prolasso del polipo;
o Coliche addominali dovute a sub-occlusione intestinale, intussuscezione;
o Tenesmo se la localizzazione del polipo è rettale;
o Disionia (molto rara).
➔ Questi sintomi, sebbene aspecifici, non devono essere sottovalutati specie in pazienti con età superiore
ai 60 anni: in particolare devono essere indagati i cambiamenti dell’alvo e il peggioramento di sintomi
anali già noti (es. sanguinamento emorroidario).

Diagnosi
La colonscopia è l’esame di 1° scelta, consente inoltre di:
• Asportare il polipo;
• Eseguire biopsie;
• Eseguire magnificazione delle immagini (cromoscopia).
Le complicanze associate a quest’esame sono: emorragia, perforazione intestinale, rottura del colon
(rarissima).

5. Poliposi Adenomatose
• Poliposi adenomatosa familiare: è una malattia genetica a trasmissione autosomica dominante ad alta
penetranza, caratterizzata dallo sviluppo in giovane età (50% entro i 15 anni) di centinaia/migliaia di
adenomi nell'intestino crasso. Questi pazienti vanno incontro all'insorgenza di carcinoma colon rettale
nella V decade di vita. Caratterizza 1/7000 individui. Una volta fatta diagnosi in un paziente, occorre

129
ricercare la mutazione anche nei figli, al fine di mettere in atto misure preventive con endoscopia: ogni
anno tra i 12 e i 25 aa, ogni due anni fino ai 35, ogni tre anni fino ai 50 anni. Il gene alterato è APC (locus
5q21) che codifica per una proteina che regola la migrazione e l'adesione cellulare. Non esistono ad oggi
sistemi che permettano di correggere il gene alterato, il trattamento infatti si basa sulla resezione
profilattica del colon non appena la malattia si rende manifesta, prima che sviluppi il carcinoma, cercando
ove possibile di conservare il retto o per mezzo di mucosectomia conservando lo sfintere. La prognosi
post resezione è buona.
La diagnosi è endoscopica, con esplorazione di tutto il tratto gastroenterico (coloscopia+EGDS) con prese
bioptiche.
• Sindrome di Gardner:
• Sindrome di Turcot.

LE MALATTIE CHIRURGICHE DEL COLON


Il carcinoma del colon-retto
Epidemiologia:
Tra le patologie chirurgiche del colon, il carcinoma colon-retto rappresenta sicuramente la più importante.
Almeno il 50% della popolazione occidentale sviluppa un adenoma a partire dall’età di 70 anni e nel 10%
degenera verso il cancro. L’età mediana di insorgenza è 60 anni, senza prevalenza di sesso.
In Italia ogni anno si ammalano circa 34 000 persone.
Il 10% dei cancri sono di origine ereditaria (es: poliposi familiare adenomatosa (FAP), Hereditary Non
Polyposis Colorectal Cancer (HNPCC)). La maggior parte dei casi è di origine sporadica.
Lo screening è molto importante, se la malattia viene diagnosticata in fase iniziale, la sopravvivenza a 5 anni
è del 90%, ma scende al 15-20% se la diagnosi è tardiva.
Colpiscono più frequentemente le porzioni distali, ma ogni
area dell‘intestino può essere colpita.

Ad oggi i tumori del colon vengono differenziati da quelli del retto dal momento che hanno uno sviluppo
locale diverso, anche se biologicamente sono molto simili. Il retto è deputato al meccanismo della
defecazione e la sua asportazione è particolarmente mutilante. Anche la metastatizzazione è differente: nel
carcinoma del colon si ha invasione delle strutture linfonodali e passaggio di cellule tumorali per via ematica

130
a livello del fegato, ciò si verifica anche a livello del retto, ma il Ca del retto ha la tendenza spiccata ad invadere
localmente una struttura detta meso-retto, ovvero il tessuto adiposo e il tessuto connettivo ivi presenti.
Questa caratteristica giustifica la volontà di essere sempre molto radicali, anche per tumori di stadio iniziale.
A tal proposito viene prima effettuata radioterapia o chemioterapia neoadiuvante, al fine di ridurre la massa
prima dell’asportazione, risparmiando tessuto dalla resezione cercando allo stesso tempo di conservare la
continenza. Attualmente si tende a conservare i meccanismi sfinteriali anche in carcinomi che arrivano a 2
cm dalla rima anale.
Fattori di rischio:
• Fattori nutrizionali;
• Fumo e inquinamento ambientale;
• Fattori genetici: storia familiare della malattia, sindromi trasmesse ereditariamente (adenomatosi
poliposa familiare o FAP; sindrome di Lynch);
• Età;
• Presenza di polipi nel colon: spesso si ha progressione da lesione sessile a peduncolata fino a carcinoma.

• Processi infiammatori cronici dell'intestino.

Sintomatologia:
I sintomi più comuni sono:
o calo ponderale;
o alterazioni dell’alvo;
o rettorragia;
o anemia;
o tenesmo.
Indipendentemente dalla sede, nel 10% dei casi esordisce con un’occlusione intestinale, mentre nel 5% la
perforazione costituisce la prima manifestazione.

Diagnosi:
o Anamnesi;
o Esame obiettivo;
o Esplorazione rettale, se la massa è molto bassa si può palpare o il dito esplorativo può sporcarsi di
sangue. In questi casi si va direttamente alla colonscopia.
o Sangue occulto;
o Retto-sigmoidoscopia;

131
o Colonscopia: esame principale che dà la diagnosi in quanto si effettua biopsia, permette di valutare
macroscopicamente l’estensione e se accompagnata da un’ecoendoscopia può valutare anche
quanto il tumore si estende sia in senso cranio-caudale, sia in profondità, valutando quali strati
dell’intestino sono interessati da neoplasia, inoltre è possibile valutare i linfonodi nelle strette
vicinanze.
La colonscopia virtuale è molto utile, ma difficile da realizzare perché risente molto della mancata
preparazione ottimale intestinale. Può essere molto utile però quando non è possibile eseguire la
colonscopia senza rischi.

o Laboratorio (CEA, Ca19.9);


o RX clisma opaco doppio contrasto (ormai non più eseguito, se non in presenza di stenosi serrata, che
non sarebbe apprezzabile con metodiche endoscopiche, al fine di valutare le caratteristiche
dell’intestino sopra e sotto la lesione);
o TC: addome con mdc vede gli ispessimenti della parete intestinale, TC di torace- cranio per valutare
secondarietà;
o RMN: utile per valutare i pazienti con tumore del retto, per prendere visione della pelvi;
o PET (per pazienti con tumore molto avanzato o nel follow up).

Stadiazione:
La stadiazione dopo la diagnosi è fondamentale per la gestione del paziente. Si esegue tramite endoscopia,
TC con mezzo di contrasto dell’addome e del torace. Utile può essere anche la RM pelvica.
Il sistema TNM si basa sulla valutazione di tre elementi:
T: estensione del tumore primitivo (il criterio dimensionale risulta essere meno importante della profondità
di infiltrazione);
N: assenza o presenza ed estensione di metastasi ai linfonodi regionali;
M: assenza o presenza di metastasi a distanza.

132
Lo stadio I e IIA sono quelli con prognosi
migliore, dopo l’asportazione completa
non necessitano di trattamento post-
operatorio. Con follow up attento, hanno
una prognosi a 5 anni superiore all’85%.
Nei pazienti in stadio IIB, in T3 N0, si tende
a evitare ulteriori trattamenti, salvo
abbiano fattori di malignità in istologico:
invasione vascolare o perineurale o un
indice mitotico elevato.
Dallo stadio IIIA, in cui si ha un tumore T4
che arriva alla superficie peritoneale,
anche se è N0, nel post-operatorio viene
richiesta la chemioterapia.
Nello stadio IV compaiono anche metastasi
a distanza, di conseguenza si valuta il
trattamento più adeguato sia per il tumore
primitivo che per le metastasi associate,
che è personalizzato. La sede di metastasi
più comune è il fegato, le secondarietà ivi
presenti possono essere rimosse
chirurgicamente prima, dopo o
contemporaneamente rispetto alla chirurgia sul tumore primitivo. Si ha la tendenza a proporre una
chemioterapia neoadiuvante per tentare di ridurre la massa prima di intervenire chirurgicamente: il razionale
alla base di questa opzione terapeutica è che una grossa resezione del colon generalmente porta ad una
pressione che favorisce lo sviluppo di metastasi.

Genetica:
Il cancro è considerata una malattia dei geni. Le cellule iniziano a dividersi in maniera incontrollata a causa di
danni ai geni che ne regolano la crescita.
È necessaria una serie di mutazioni prima che una cellula normale si trasformi in una cellula cancerosa.
Queste vanno a coinvolgere geni oncogeni, oncosoppressori, geni coinvolti nell’apoptosi o geni implicati nei
meccanismi di riparazione del DNA.
Possono essere mutazioni puntiformi, delezioni e amplificazioni geniche. Per quanto riguarda i geni
oncosoppressori, sono necessarie due mutazioni per inattivare un gene e quindi per perdere il controllo sulla
crescita cellulare.
Una tipica mutazione è, ad esempio, quella che coinvolge il gene K-RAS, oncogene, che codifica per una
proteina monomerica, ad attività GTPasica che si occupa di trasduzione dei segnali di proliferazione.

Fattori prognostici sfavorevoli:


1. Stadio avanzato (T3,T4, N+);
2. Età <= 40 aa (associazione grading elevato);
3. Sesso maschile;
4. Breve durata sintomi;
5. Ostruzione / Perforazione;
6. Assenza proctorragia;
7. Localizzazione al retto distale;
8. Forme infiltranti stenosanti;
9. Grading elevato;
10. Crescita radiale (correla con T);
11. Invasione venosa-linfatica all'istologia;
12. CEA elevato.

133
Screening:
Nelle categorie a rischio: ricerca sangue occulto nelle feci annuale (RSO), colonscopia o rettosigmoidoscopia
+ RX clisma doppio mdc ogni 1-3 anni. Sono pazienti a rischio: RCU da più di 10 anni, storia familiare di
poliposi, HPNCC.
Nella popolazione generale: RSO ogni anno > 50 aa + rettosigmoidoscopia ogni 3-5 anni, se la RSO è positiva
si va ad esami successivi.

Terapia:
• Chirurgia:
Prevede l’asportazione di circa la metà del colon (emicolectomia dx o sx) ponendo attenzione
all’asportazione concomitante di tutti i linfonodi. Viene oggi eseguito quasi sempre con approccio
laparoscopico favorendo una rapida dimissione, in quarta giornata, per permettere di riprendere la
propria vita velocemente. Anche perché in questo tipo di intervento si riduce di molto il dolore post-
operatorio.
Il professore non approfondisce ulteriormente, si limita a commentare vagamente dei video, pertanto di
integra dalle dispense BBC:
[Il trattamento chirurgico dei carcinomi colici è caratterizzato da tre tempi chirurgici fondamentali: -
Resezione: asportazione tratto affetto (con margini ~5 cm) + mesocolon; - Linfadenectomia: asportazione
di ≥12-18 LFN regionali (necessari per stadiazione pTNM); - Anastomosi: di tipo meccanico o manuale,
consente la ricanalizzazione. L’approccio chirurgico varia in base alla sede della lesione neoplastica: -
COLON DESTRO: prevede emicolectomia dx + linfadenectomia + anastomosi; occorre quindi eseguire:
1. Isolamento lesione neoplastica;
2. Legatura vasi: a. ileocolica + a. colica dx (NB: non legatura a. mesenterica superiore);
3. Linfadenectomia: LFN pericolici, paracolici e intermedi;
4. Resezione chirurgica: si asportano ileo terminale (10-20 cm), cieco, colon ascendente e fless. epatica
5. Anastomosi ileo-colon trasverso: L-L o T-L (NB: non indicata T-T); la scelta dipende dal chirurgo. –

COLON SINISTRO: prevede emicolectomia sn + linfadenectomia + anastomosi; occorre quindi


eseguire:
1. Isolamento lesione neoplastica;
2. Legatura vasi: v. mesenterica inferiore + a. mesenterica inferiore; NB: valutare sempre in precedenza
l’arcata marginale che dovrà irrorare la porzione rimanente.
3. Linfadenectomia;
4. Resezione chirurgica: si asportano colon trasverso (1/3 distale), colon discendente (compresa flessura
splenica), sigma e/o retto intraperitoneale.
5. Anastomosi colo-rettale: di tipo T-T o T-L (specialistica). In caso di estensione neoplastica limitata al
sigma, è possibile eseguire un intervento di sigmoidectomia che prevede l’asportazione completa del
solo sigma, con possibilità di conservare a. mesenterica inferiore (a. colica sn + a. emorroidaria
superiore), mediante legatura delle aa. sigmoidee.]
• Radioterapia:
o Preoperatoria;
o Postoperatoria.
• Chemioterapia:
o Neo-adiuvante;
o Adiuvante.

134
30/04/2021
Prof. Solej
Sbobina di Valeria Fava
Revisione di Marta Vitali

CHIRURGIA ONCOLOGICA DEL COLON-RETTO

Si tratta di tumori molto frequenti (anche se questi dati sono dati relativamente vecchi) tanto che, per
quanto riguarda l’incidenza, ricoprono il terzo posto nel sesso maschile dopo prostata (20% casi) e
polmone (15%) e il secondo in quello femminile dopo il k mammella (29%).

Se si parla invece di mortalità oncologica, questa è dipendente anche dall’età (questi dati sono da
sapere):
 Maschi: 3° posto tra gli 0-49 anni, 2° posto da 50 a 70+;
 Femmine: 3° posto tra 0-69 anni e 2° nella 7° decade.
La tabella a lato evidenzia da una parte come
l’incidenza del carcinoma del retto tra maschi e
femmine sia rimasta sostanzialmente invariata nel
tempo (la tabella considera l’intervallo di tempo
1996-2006), mentre vi è stata una lieve riduzione
della mortalità; dall’altra il carcinoma del colon
presenta un’incidenza aumentata nei maschi - in
particolar modo si vede che l’aumento delle
diagnosi dei tumori del colon destro sta influendo in
maniera positiva sulla curva dell'incidenza - con,
però, una mortalità che rimane sostanzialmente
invariata, se non per una riduzione nel sesso
femminile.

Osservando la retta di incidenza (sopra) si nota come, a fronte di un’incidenza importante che tende ad
aumentare nel tempo, la mortalità stia diminuendo, sia per i tumori del colon - a seguito di un miglioramento
degli schemi chemioterapici nei pazienti che devono fare terapia adiuvante - che per quanto riguarda i tumori
del retto, grazie all'utilizzo della chemioterapia neoadiuvante, che ha cambiato drasticamente e
radicalmente, insieme ai principi di tecnica chirurgica, i tassi di mortalità, prevalentemente legata alla
recidiva locale.

EZIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO


L’eziologia è sconosciuta, ma esistono diversi fattori di rischio tra cui:
 Dieta: Ridotte fibre e tanti grassi risultano essere i fattori principali nello sviluppo del tumore
sporadico o endemico. Le fibre, infatti, aumentano la velocità di svuotamento intestinale e allo
stesso tempo legano ed eliminano sostanze potenzialmente cancerogene, riducendo il tempo
di contatto del materiale fecale con le pareti intestinali; i grassi, invece, aumentano la secrezione
di acidi biliari, inducendo la proliferazione cellulare e favorendo quindi lo sviluppo di polipi (e,
successivamente, del cancro). Pare inoltre che i derivati del colesterolo siano responsabili di un
danno genetico diretto sull’intestino. [L’aumento della velocità di transito intestinale riguarda
soprattutto il colon sinistro che, assieme al retto, rappresenta la principale sede d’insorgenza];
 Genetica: è il caso delle poliposi familiari, come la Sindrome di Gardner e quella di Peutz Jeghers;
 Familiarità: condizione per la quale il cancro colon-rettale ha un’incidenza 2/3 volte maggiore
rispetto alla popolazione generale, anche nel caso di tumore endemico – il carattere
ereditario di questa neoplasia è stato dimostrato nelle sindromi di Lynch 1 e 2.
 Patologie preesistenti: malattie infiammatorie (CD, RCU), polipi adenomatosi, storia di K colon
retto, irradiazione della regione pelvica.
I POLIPI E L’EARLY COLON CANCER
Polipi Adenomatosi
I polipi adenomatosi sono considerati precursori del k colon retto e si differenziano dal punto di
vista anatomopatologico in:
 Adenomi tubulari 75%  la degenerazione in cancro avviene molto meno
frequentemente che negli adenomi villosi e questo spiega anche perché l’incidenza di
questi polipi sia maggiore degli altri;
 Adenomi villosi 10%  è più frequente la cancerizzazione, la quale infatti aumenta
all’aumentare della componente villosa;
 Adenomi tubulovillosi 15%.
La cancerizzazione è più frequente, quindi, nei villosi, nelle lesioni di maggiori dimensioni e nelle
forme multiple.
Hanno un’incidenza elevata (5-10%) e si possono presentare potenzialmente in qualunque età
anche se tendono ad essere infrequenti al di sotto dei 20 aa.
La sequenza di trasformazione adenoma – carcinoma, descritta per la prima volta nel 1951 da
Jackman e Mayo, è ora ampiamente dimostrata ed evidenzia le progressive modificazioni genetiche
che avvengono a livello del polipo e che sono responsabili della degenerazione in cancro: è perciò
diventata la base dei programmi di screening, basati su indagini istologiche e biomolecolari con
l’obiettivo di diagnosticarli e rimuoverli precocemente per prevenire la cancerizzazione
completa che avviene generalmente in un periodo compreso tra i 3 e i 20 anni [2 e 30 secondo le
sbobine 2019] ed è quindi tempo dipendente.

Early Colon Cancer


La conoscenza della sequenza adenoma – carcinoma è molto importante in un’ottica di
prevenzione primaria, perché se si riesce a intervenire su questa sequenza e a bloccarla si impedisce
sostanzialmente la cancerizzazione: le metodiche di screening e la polipectomia precoce riducono
l’incidenza di carcinoma colon retto di almeno il 50%.
Esiste però la possibilità che, al momento dell’asportazione, il polipo contenga già focolai di
carcinoma invasivo, in tal caso si parla di POLIPO CANCERIZZATO o EARLY COLON CANCER, ovvero
un carcinoma limitato alla mucosa o sottomucosa con parametri istologici favorevoli e
rappresenta il 19-22% dei carcinomi colon retto asintomatici identificati nel corso di screening.
Sono facilmente asportabili con una semplice polipectomia endoscopica che deve essere
preceduta da un’attenta valutazione dei fattori prognostici. In base all’asportazione stessa e
alla presenza dei parametri favorevoli/sfavorevoli si valuta se il paziente è stato curato
completamente oppure se necessita di un ulteriore intervento chirurgico. Il riconoscimento di
una neoplasia in fase “early” ha importanti benefici dal punto di vista della sopravvivenza:
infatti, un paziente con un tumore diagnosticato in fase precoce ha una sopravvivenza a 5 anni
del 97%, mentre un paziente con un cancro vero e proprio (stadiazione superiore a T2) ha una
sopravvivenza a 5 anni del 40%.

La fase intermedia: il Polipo Cancerizzato


Il diametro dell’adenoma dà un diverso rischio di evoluzione in cancro (le percentuali indicano le foci di
carcinoma):
 < 1 cm = < 1%;
 1-2 cm = 10%;
 >2 cm = 10-46%.
Questo sostiene la tesi per cui quanto più ci sono criteri di malignità, quindi sfavorevoli, tanto più aumenta
il rischio di positività linfonodale e quindi la necessità di interrompere la resezione endoscopia per
procedere con l’intervento chirurgico.

Anche l’istologia è un fattore


importante, infatti esiste una maggiore
probabilità di evoluzione in carcinoma
per gli adenomi villosi, sia in situ (20-
32%) che invasivi (2-4,5%) che hanno
una probabilità di presentare foci
carcinomatosi nel 30-40% dei casi; la
componente villosa aumenta
all’aumentare delle dimensioni. Le
percentuali sono invece più basse nel
caso di adenomi tubulari: il rischio di evoluzione in carcinoma in situ è del 2,2-4%, mentre
l’evoluzione in carcinoma invasivo è dell’1-2,8%.

La prognosi è anche influenzata dall’invasione della sottomucosa, per cui esiste la


Classificazione Giapponese per carcinoma T1:

Sm 1 = invasione del terzo superiore della sottommucosa  prognosi favorevole


Sm 2 = invasione del terzo medio prognosi sfavorevole: proseguire con chirurgia
Sm 3 = invasione del terzo inferiore

Dai dati della slide a sinistra si


nota come l’invasione della
sottomucosa sia uno dei
principali componenti che si
valuta durante un'asportazione
endoscopica di un polipo
cancerizzato, perché in base alla
profondità di della
dell'invasione si ha una
possibilità maggiore di avere
metastasi linfonodali.

DIAGNOSI
Poiché quasi sempre asintomatico, la diagnosi di early cancer dipende esclusivamente dalla sua
individuazione endoscopica, che può essere facilitata dalle metodiche di colorazione e
magnificazione: molte lesioni, essendo piatte, vengono così più facilmente individuate.
L’asportazione mediante polipectomia o mucosectomia consente di eliminare la neoplasia e comunque
di effettuare una valutazione istologica dettagliata per la scelta terapeutica definitiva.
La polipectomia endoscopica può essere definita “COMPLETA” E QUINDI CURATIVA quando:
 Margine libero > di 1 mm (almeno);
 Non c’è invasione vascolare del peduncolo. Si deve valutare anche l’interessamento linfatico;
 Non vi è polipectomia piece-meal precedente (usata per i polipi di grossi
dimensioni che si preferisce rimuovere a pezzi);
 Non è in G3, il che vuol dire che è differenziato quindi necessita trattamento chirurgico
radicale (il G2 è borderline).

POLIPO CANCERIZZATO AD ALTO RISCHIO


 Grading G3
 Infiltrazione dal margine <1 mm
 Invasione vascolare ed eventualmente linfatica (sul pezzo operatorio l’endoscopista riesce
a definire bene il tipo di invasione ma non discrimina vascolare e linfatico)
 Polipo maligno peduncolato con invasione dei livelli 3-4
 Polipo maligno sessile, difficile da rimuovere proprio perché è piatto
 Uso di polipectomia piecemeal, che di per sé è sempre considerata incompleta perché
l’anatomopatologo non sarà in grado di valutare il margine libero.

POLIPO CANCERIZZATO A BASSO RISCHIO


 Grading G1-2
 Margine libero >1mm
 Non invasione vascolare
 Polipo maligno peduncolato con invasione dei livelli 1-2

Un polipo viene invece definito MALIGNO AD ALTO RISCHIO DI POLIPECTOMIA NON CURATIVA (T1, NX,
MX) quando:
 È presente invasione linfovascolare
 Grading poor G2-G3
 Margini di resezione <2mm
 % di infiltrazione carcinomatosa del polipo elevata.
In questo caso la N va assolutamente indagata perché è un paziente a rischio metastasi linfonodali.

TRATTAMENTO
Il percorso terapeutico per i polipi cancerizzati dopo polipectomia completa è ancora oggetto di
discussione; in particolare bisogna valutare se sia necessario proseguire con:
 Sorveglianza con follow up intensivo ->
colonscopia a 6 mesi massimo 1 anno, con rischio
di undertreatment (si considera la polipectomia
completa ma vi è presenza di metastasi
linfonodali non rilevate che nel tempo danno
problemi);
 Resezione chirurgica con linfadenectomia, con
rischio invece di overtreatmen.
In letteratura, il polipo che è stato asportato con
polipectomia completa viene considerato meritevole di un
follow up intensivo con un primo controllo molto più
ravvicinato dei 6 mesi inizialmente previsti (quindi a 3
mesi) dopodiché si va a scalare in base anche all'età del
paziente e anche all'eventuale presenza di altri polipi nella successiva colonscopia.

 Nei pazienti low risk la percentuale di pazienti con malattia residua è dell’1.2 (vedi tabella
precedente) ed è dunque valutabile in maniera adeguata la possibilità di fare follow up stretto;
 In quelli high risk, invece, la percentuale di pazienti con malattia residua è del 21.4, con rischio di
recidiva nel 9.2 dei casi; di questi l’11.2 presenta poi metastasi linfonodali e il 7.1 metastasi a distanza:
per questa ragione, in questi pazienti è mandatoria la chirurgia, perché in caso di recidiva questa
impatta in maniera significativa sulla prognosi.

Indicazioni chirurgiche:
 Polipectomia completa:
o Low risk: follow up
o High risk: chirurgia, a meno che il paziente non sia fit per la stessa
 Referto istologico dubbio o non completo:
o Low risk: chirurgia, soprattutto se giovani e presentano familiarità per patologia
oncologica
o High risk: chirurgia
 Polipo non asportabile endoscopicamente perché si trova in una posizione anatomica
complessa o perché è piatto e molto largo:
o Chirurgia escissionale, specie se localizzato nel retto
o Chirurgia resettiva (emicolectomia)

SCREENING (Il professore legge rapidamente le seguenti linee guida)


Nella Sindrome di Lynch, la colonscopia deve essere effettuata già in età giovanile, a 35 anni, ad intervalli di
1-2 anni; se presenti già alla prima colonscopia polipi in generale (a maggior ragione polipi cancerizzati)
bisogna valutare la chirurgia ginecologica profilattica ma soprattutto la chirurgia colorettale profilattica:
capita spesso di pazienti con questa sindrome che, avendo dei polipi cancerizzati ma non una malattia
avanzata, vengono sottoposte a colectomia totale. Di solito se si trovano sul retto si aspetta perché è di più
facile gestione, in quanto può essere trattato non solo endoscopicamente ma chirurgicamente.

IN PIEMONTE
I test di screening per la prevenzione del tumore del colon-retto sono la sigmoidoscopia flessibile e il test per
la ricerca del sangue occulto nelle feci (FOBT) (tra i 50 e i 69 aa). Se la sigmoidoscopia è negativa ma il FOBT
è positivo, bisogna procedere con la colonscopia totale.
Sottoporsi ad una sigmoidoscopia all’età di 58 anni (tra i 55 e i 69 aa), una sola volta nella vita, permette di
ottenere una riduzione del 40% del rischio di ammalarsi di tumore del colon-retto.
Tutti gli uomini e le donne di 58 anni ricevono una lettera di invito, con appuntamento prefissato, per
effettuare una sigmoidoscopia flessibile una volta nella vita.
A tutte le persone di età compresa fra i 59 e i 69 anni che non hanno effettuato una sigmoidoscopia viene
offerta la possibilità di effettuare il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci (FOBT) ogni 2 anni. In
Piemonte c'è la possibilità di scegliere la colonscopia virtuale, ma nel caso in cui ci siano lesioni dubbie si
deve fare la colonscopia, quindi gli esami si raddoppierebbero.
Si stima che sottoponendosi ogni 2 anni, fino a 69 anni, a questo test si possa ridurre del 25% il rischio di
morire di tumore del colon-retto.

IL CANCRO DEL COLON RETTO

ANATOMIA PATOLOGICA
Macroscopica:
 Forma vegetante: il classico polipo peduncolato
 Forma ulcerata
 Forma infiltrante
 Forma anulare o stenosante.
La sede del tumore tendenzialmente cambia anche la crescita: nei tumori del colon destro il cancro
tende a essere esofitico, mentre nei tumori del sigma e del colon trasverso verso la flessura splenica
tendono ad avere più uno sviluppo circonferenziale, per cui è più facile avere una forma stenosante
a sinistra rispetto a destra.

Microscopica:
 Epiteliali:
• Adenocarcinoma, il più frequente (sebbene stiano aumentando anche le
altre forme)
• Adenocarcinoma mucinoso
• Adenocarcinoma con cellule ad anello con castone
• Carcinoma squamoso: può capitare soprattutto a livello del retto e molte
volte è difficile fare la diagnosi differenziale tra tumore del retto basso
tumore dell'ano, anche se hanno un comportamento differente
• Carcinoma adenosquamoso
• Carcinoma indifferenziato
 Non epiteliali:
• Leiomioma
 Carcinoidi, non molto frequenti:
• Argentaffini
• Non argentaffini
• Composito
 Neoplasie del sistema ematopoietico e dei linfonodi
 Neoplasie non classificabili.
CLASSIFICAZIONI
Dukes (1932)
A= Neoplasia confinata entro la parete intestinale, corrisponde a: T1-T2 N0 M0
B= Neoplasia che si estende oltre la parete, corrisponde a T3-T4 N0 M0
C= Qualsiasi neoplasia con metastasi linfonodali, equivale a ogni T N1-N2 M0
D= Metastasi a distanza, corrisponde a ogni T ogni N M1

Classificazione di Astler e Coller (1954)


A= Neoplasia confinata a mucosa e sottomucosa
B1= Neoplasia che invade la muscolaris propria ma non si estende oltre
B2= Neoplasia che si estende oltre la muscolaris propria
C1= Come B1 ma con metastasi linfonodali
C2= Come B2 ma con metastasi linfonodali

CLASSIFICAZIONE TNM

Le classificazioni, in particolare la TNM “guardatevela, sappiatela, ma l’importante è che sappiate ben


distinguere un early colon cancer da un cancro avanzato”
È importante notare come cambiano le sopravvivenze, che sottolinea l’importanza di agire quanto prima possibile:
infatti, negli stadi poco avanzati come dallo stadio 0 allo stadio 1 la sopravvivenza a 5 anni è elevatissima e man mano
che gli stadi aumentano tende a diminuire nettamente.

MODALITÁ DI DIFFUSIONE
 Localmente:
a. Lungo l’asse trasversale e longitudinale del viscere con invasione successiva dei
diversi strati della parete;
b. al grasso pericolico;
c. agli organi e strutture vicine;
d. carcinosi peritoneale: il carcinoma del colon ha una grande capacità esfoliativa, per cui
l’invasione del peritoneo diventa evidente una volta che la neoplasia sia extra-sierosa;
ciò non avviene in caso di carcinoma del retto.
 A distanza:
a. Linfonodi pericolici, paracolici, intermedi e principali;
b. Circolo portale (soprattutto) /circolo sistemico (fegato, polmone, ossa, cervello…) -> di
solito seguono i vasi principali del colon e del retto per cui:
(i) I tumori del colon di sinistra e retto seguono l’arteria e la vena mesenterica
inferiore,
(ii) I tumori del colon di destra seguono il tronco ileo colico, il colico destro, il colico
medio e il ramo destro del colico medio
(iii) I tumori del colon trasverso il tronco il colico sinistro.
NOTA BENE: Il tripode di Henle e i linfonodi della gastroepiploica di destra sono coinvolti dai tumori del
colon trasverso o della flessura epatica.

[Viene accennato frettolosamente dal Professore, ma se ne riparlerà in chirurgia generale, che al


momento sta andando per la maggiore un intervento sull’emicolectomia destra che si chiama
complete mesocolic excision ovvero, durante l’operazione, vengono rimossi, oltre al mesocolon anche
il suo peritoneo, il suo rivestimento e la sua fascia perché all'interno sono contenuti linfonodi,
arrivando quindi ad un’asportazione completa]

Nel tumore del retto, soprattutto medi e bassi, è probabile che ci sia una salto epatico e che il paziente si
possa presentare anche solo semplicemente con metastasi ossee, polmonari o cerebrali: questo è dovuto
al fatto che il retto è vascolarizzato sia dal circolo portale che sistemico.
SEDE E SINTOMI

Il 50%-60% delle patologie dei tumori del colon sono a


sinistra: proprio per questo lo screening indaga
prevalentemente in queste zone i polipi o tumori, quindi
se il sangue occulto nelle feci è positivo ci si concentra
principalmente a livello del retto sigma e discendente ma
bisogna fare attenzione perché c'è una distribuzione
abbastanza simile nelle altre regioni. È importante
ricordare che nel tumore del cieco è aumentata la
frequenza al 12 14% soprattutto nel sesso maschile.
La sintomatologia dipende proprio dalla sede
del tumore.

Colon destro:
 Anemia microcitica sideropenica,
legata alla perdita ematica cronica, può essere di riscontro casuale oppure nel 20% dei casi
apprezzabile macroscopicamente nelle feci;
 Dolore tardivo, gravativo sub continuo, di media intensità ai quadranti addominali dx e
talvolta epigastrico, è segno sempre di una massa importante, tranne nel caso in cui il
tumore cresca in corrispondenza della valvola ileocecale – in questo caso la sua diagnosi
sarà precoce, perché il paziente si recherà in ospedale per la sintomatologia occlusiva;
 Astenia
 Massa palpabile tardiva, in fossa iliaca destra
 Anoressia e dimagrimento

Colon sinistro
 Sangue nelle feci, in quantità variabile talora si associa all’emissione di muco, in alcuni casi si
può avere anche rettorragia ed ematochezia;
 Modificazioni dell’alvo: bisogna subito chiedere se le presenta, preoccupa soprattutto il
paziente che, di norma stitico, lamenta diarrea:
o Stipsi (concomitane a crisi subocclusiva o occlusiva) e/o diarrea paradossa perché,
nonostante ci sia un’occlusione, la parte liquida riesce a passare;
o Crisi subocclusive o occlusive;
 Dolore addominale di intensità variabile (dipende dalla gravità dell’occlusione stessa),
spesso intermittente; localizzato ai quadranti addominali sinistri o diffuso a tutto l’addome
I sintomi sono diversi in ragione del fatto che ha un lume ridotto rispetto al colon destro, il materiale
che lo attraversa è prevalentemente solido e le neoplasie che lo interessano sono per lo più di tipo
anulare-stenosante.

Retto sinistro:
 PORZIONE SOPRA-AMPOLLARE, intraperitoneale, la sintomatologia è simile a quella del colon di
sinistra
 PORZIONE AMPOLLARE, sottoperitoneale
o Tenesmo
o Rettorragia
o Mucorrea
 PORZIONE SOTTO-AMPOLLARE, sottoperitoneale
o Dolore perianale e perineale, da infiltrazione nervosa locale
o Evacuazione di feci nastriformi o caprine, per la presenza del tumore stenosante
o Tenesmo imponente

COMPLICANZE
ILEO MECCANICO
Frequente nelle localizzazioni di sinistra, principalmente in flessura splenica. Qui, infatti, si ha un'ulteriore
riduzione del lume con una piega, legata al fatto che il colon si deve girare dopo essere passato vicino alla
milza. Questo può succedere anche a livello del sigma, soprattutto nei pazienti con un dolico sigma (sono
stitici di natura) oppure che hanno avuto/hanno una diverticolosi in quella zona: infatti, a livello del giunto
retto-sigma c'è una curvatura, da cui l’ileo meccanico. I principali elementi clinici sono:
 La distensione addominale,
 L’iperperistaltismo con rumori a timbro metallico,
 Il dolore intermittente di tipo colico
 Il vomito
 L’alvo chiuso.

PERFORAZIONE
A livello della neoplasia, per fenomeni necrotici o nei segmenti colici a monte, per sovradistensione e
successiva fissurazione, specie nel cieco. Di per sé non frequentissima. È un quadro di urgenza/emergenza,
perché può esitare in una peritonite localizzata o, più spesso, diffusa, dovuta alla presenza di materiale fecale
all’interno della cavità addominale (peritonite stercoracea). I pazienti con un cancro che si perfora hanno
una prognosi nettamente più negativa.

DIAGNOSI
1. ESPLORAZIONE RETTALE
È fondamentale nelle neoplasie del retto, in quanto nel 50% dei casi si localizzano a livello dell’ampolla e
del retto inferiore [slide:30-40%]: è intuitivo il grande significato di questa manovra che consente la
definizione di alcuni importanti aspetti della neoformazione: sede, dimensioni, morfologia, mobilità,
rapporti con le strutture contigue. Tutti devono essere in grado di eseguire un’esplorazione rettale, anche
un medico di base, in quanto:
 È semplice
 Utile per documentare la presenza dei tumori del retto distale
 Limitata invasività.
2. RETTOSIGMOIDOCOLONSCOPIA

Se si ha una negatività ripetuta alla colonscopia, ma si ha un forte sospetto radiologico di cancro, si va in


sala operatoria.

3. RX CLISMA OPACO
Si tratta di un’indagine non più frequente per l’uso delle tecniche virtuali; era complementare alla
colonscopia, talora alternativa, che permette una accurata analisi della morfologia rettocolica.
Radiologicamente, si osserva un difetto di riempimento d'aspetto variabile. Qualora non sia possibile
eseguire una colonscopia totale occorre far eseguire all’esame endoscopico un RX clisma a doppio
contrasto o una colonscopia virtuale a completamento dell’indagine.
Ogni Servizio di Endoscopia dovrebbe attivare un processo di “audit” sui principali indicatori di processo,
come ad esempio il raggiungimento del cieco e l’insorgenza di complicanze.

4. DIAGNOSI E STAGING
Al fine di documentare: la profondità di infiltrazione (T), la presenza di linfoadenopatie (N) e
infine eventuali disseminazioni (M). Lo staging è importante sia per il colon che per il retto:
quest’ultimo ha diversi esami che possono aiutare (Endoscopia, RM con o senza endocoil, RM
pelvica), mentre, per la valutazione del colon, sono necessari un ECO addome per la valutazioni
di metastasi epatiche o peritoneali (queste ultime sono sospettate in presenza di versamento)
ed una TC total body o, almeno inizialmente, solo torace e addome – così si valutano anche N
e M – quest’ultimo parametro può modificare la strategia terapeutica da percorrere.

+ MARKERS TUMORALI (fanno parte della stadiazione)


CEA: Deve essere indagato in fase di diagnosi ma è fondamentale nel follow-up su eventuali recidive
postintervento: in genere scende drasticamente, se non accade è appunto per una recidiva oppure per la
presenza di una lesione occulta o ancora perché non si è asportato l’intero tumore.
È diffusamente impiegato anche il Ca 19.9 in associazione, ma non è sostenuto da uguali evidenze.
Figura 1 - Schema riassuntivo carcinoma colon

L’RX TORACE PUÒ ESSERE ACCETTATO IN URGENZA MA DEVE ESSERE COMUNQUE SEGUITO DA UNA TC
TORACE APPENA POSSIBILE, PER VALUTARE APPUNTO LE METASTASI.

Figura 2 - Schema riassuntivo carcinoma retto


LA RM DELLA PELVI SI FA PERCHÉ HA UNA MIGLIORE SENSIBILITÀ E UNA MAGGIOR SPECIFICITÀ PER IL T
E L’N DEL RETTO SOTTOPERITONEALE; LA TC DELL’ADDOME NON SERVE TANTO PER VALUTARE IL
CANCRO, QUANTO LA M (IL PROFESSORE TIENE MOLTO A QUESTO CONCETTO)
TERAPIA

La terapia viene affrontata con un approccio multimodale che comprende: chirurgia, chemioterapia,
radioterapia e l’endoscopia.

La chirurgia risulta l’opzione migliore e l’unica radicale, ma è adiuvata da altre terapie:


 Chemioterapia, con intento curativo ma con anche un ruolo importante nella palliazione,
soprattutto nei tumori del colon metastatici;
 Radioterapia, che può avere uno scopo adiuvante fondamentale nei tumori del retto;
 Endoscopia, che può avere una componente curativa ed una palliativa.
[“guardate questo schema, ma solo in maniera schematica” credo volesse dire di non farlo nel dettaglio]

TUMORI DEL COLON

La chirurgia è fondamentale nel trattamento di questa patologia, ma viene associata ad altri trattamenti
tra cui la chemioterapia, che ha un ruolo curativo ma anche palliativo, e la radioterapia, fondamentale
nei tumori del retto (ruolo neoadiuvante), e infine l’endoscopia.
Nella malattia non metastatica, se il paziente è operabile viene operato in base alla stadiazione
postoperatoria: in questo caso, nello stadio 1,2 e 3 ci sarà la possibilità di valutare se fare la terapia
adiuvante o meno in base ad una serie di cose importanti tra cui anche le caratteristiche del paziente.
Bisogna considerare, infatti, che c'è un netto incremento della popolazione anziana per il tumore del
colon quindi non tutti sono fit per la terapia adiuvante.
Nello stadio 1 non si fa la chemioterapia almeno che non ci siano dei grandi stadi di malignità come
l’invasione linfatica o l'invasione vascolare.
Nello stadio 2 bisogna valutare i fattori di rischio e distinguere se un paziente è ad alto o basso rischio:
in quest’ultimo caso si può valutare se farà un follow-up oppure la terapia, che di solito è il 5-FU o
Capecitabina per bocca; se, invece, è ad alto rischio si devono fare dei chemioterapici molto importanti
che sono il FOLFOX o XELOX oppure 5-FU o Capecitabina per 6 mesi in base alle caratteristiche del
paziente.
Nello stadio 3 si valutano diverse terapie, sempre a seconda delle caratteristiche del paziente, ma
comunque la chemioterapia adiuvante deve sempre essere compresa; nel caso di tumore localmente
avanzato non metastatico si procede con chirurgia palliativa o chemioterapia e se c’è una risposta si
prova ad intervenire chirurgicamente con intento curativo.

Nella malattia metastica resecabile si opta per la chirurgia, poi eventualmente si fa chemioterapia; si valuta
quindi la localizzazione delle metastasi e si cerca di toglierle.
Per quanto riguarda, invece, la malattia non resecabile si valuta la chemioterapia adiuvante che è sorta di
chemioterapia neoadiuvante con intento comunque citoriduttivo per poter andare poi alla chirurgia.

TUMORI DEL RETTO

Nella malattia resecabile non metastatica cambia tutto in base allo stadio: nello stadio 1 tendenzialmente il
tumore è localmente non avanzato quindi:
 nel T1Sm1 si ha un grado di infiltrazione non elevato della sottomucosa, per cui si può procedere con
una escissione locale, chirurgica endoscopica o con il follow up endoscopico, se fattibile: infatti,
questa è un’opzione per i pazienti anziani che hanno patologie e che avrebbero dei problemi a
sopportare un intervento importante come la Total Mesorectal Excision (TME);
 nel T1Sm2-3 si procede con la TME;
 anche nel T2N0 si opta per TME.

Negli stadi T2 - T3 la chemioterapia “fa da padrona”. Sulla base della stadiazione preoperatoria che si è
ottenuta attraverso la TC e la RM, si imposta una chemio-radioterapia adiuvante che prevede l’associazione,
appunto, tra un chemioterapico e la radioterapia.
Qualsiasi risposta avrà il paziente, sia essa parziale, totale o regressione della malattia, verrà comunque
sottoposto alla Total Mesorectal Excision in 6-10 settimane, in modo da dare il tempo alla radioterapia di
agire, per ottenere gli effetti benefici ricercati ed ottenere una regressione della lesione.
Questo tipo di approccio ha dimostrato una grandissima efficacia: in primis, l'approccio chemio-radioterapico
permette, in sede di intervento, di avere una notevole riduzione della massa e, quindi, di poter alzare la rima
di sutura inferiore preservando gli sfinteri (tant’è vero che l’amputazione addomino-perineale di Miles sta
diventando un intervento assai raro); inoltre, questo schema di terapia interviene sul problema principale
del tumore rettale, ossia la sua grande aggressività locale, spostando la curva della recidiva locale dal 50% al
3-4%, innalzando quindi la curva della sopravvivenza e della prognosi.
In caso di risposta completa alla terapia chemioterapica può essere considerato il follow-up stretto
esclusivamente se il paziente viene inserito in studi clinici randomizzati, quindi non nella clinica normale ma
solo in ambito di ricerca.
Nella malattia non metastatica non resecabile (stadio cT4b, quindi tumore soprattutto sottoperitoneale) si
esegue una chemio-radioterapia e, in seguito, possono verificarsi due situazioni:
 Tumore resecabile: si esegue la TME o bTME, con estensione della linfoadenectomia ai vasi iliaci;
 Tumore non resecabile: si attuano delle chirurgie palliative, come resezioni molto limitate o bypass
con stomia definitiva.

TERAPIA CHIRURGICA
L’approccio terapeutico al cancro del colon-retto è, in prima istanza, chirurgico.
Il tipo di intervento varia a seconda che l’intendimento perseguibile sia curativo o palliativo e in base alla
sede.
Le terapie neo-adiuvanti possono consentire un’estensione dell’indicazione chirurgica ed offrire la possibilità
di effettuare interventi radicali meno demolitivi.
I principi oncologici di radicalità in chirurgia (validi tutto sommato per colon e retto) sono:
1) L’asportazione radicale della massa tumorale con margini di tessuto sano;
2) L’asportazione dei linfonodi regionali con legatura dei vasi venosi ed arteriosi all’origine o poco al di là,
in quanto i linfonodi corrono lungo i vasi principali (lo chiede all’esame!). Nell’intervento palliativo non
è più necessario operare una legatura all’origine dei vasi (es nel caso di un tumore del sigma opero una
legatura in corrispondenza delle sigmoidee).

La possibilità di resecare radicalmente la neoplasia è in relazione a diversi fattori:

ESTENSIONE LOCALE
Se è presente l’infiltrazione di strutture od organi contigui la radicalità chirurgica è correlata alla possibilità
di asportare en bloc tutto ciò che è coinvolto dal processo neoplastico, altrimenti si rischierebbe di provocare
un R1, ossia un residuo microscopico.
La carcinosi peritoneale esclude invece qualsiasi potenzialità curativa; se il paziente non ha occlusione si
cerca di fare la terapia neoadiuvante e, se la risposta è positiva, si può tentare un approccio chirurgico
curativo. Se non può fare la chemioterapia ed ha carcinosi peritoneale l’intento non è più radicale ma sarà
solo palliativo.

ESTENSIONE REGIONALE
La diffusione al sistema linfatico condiziona la prognosi; la linfoadenectomia estesa è indispensabile per una
corretta stadiazione ed ha valore curativo; l’interessamento dei linfonodi interaortocavali viene comunque
considerato indice di malattia generalizzata e l'estensione regionale è fondamentale perché riguarda
prevalentemente i linfonodi, che sono i principali condizionanti della prognosi insieme alle metastasi a
distanza. Una linfoadenectomia viene considerata ottimale se sono stati asportati 12 linfonodi: al di sotto di
questa media, si considera un fattore di rischio elevato. Quindi, se a seguito di emicolectomia vengono
riscontrati solo, ad esempio, 10 linfonodi, il paziente merita la chemioterapia ugualmente adiuvante perché
quel risultato viene considerato come un fattore di rischio: infatti, gli altri due linfonodi rimasti potrebbero
essere positivi. Bisogna poi ammettere che in realtà 12 è un numero veramente basso nelle emicolectomie,
poiché molto spesso sono molti di più (proprio per questo bisognerebbe stimolare l’anatomopatologo a non
arrestare le ricerca dei linfonodi una volta che la conta sia di 10-12, ma di approfondire fino ad una conta
completa - la ricerca dei linfonodi per l’anatomopatologo è infatti assai lunga e noiosa). Con un risultato di
10 definitivo può essere colpa del chirurgo oppure può essere dovuto al fatto che il paziente sia anziano (ha
meno linfonodi) o che abbia fatto la terapia neoadiuvante.
(La media del San Luigi negli ultimi 5 anni di linfonodi rimossi in corso di emicolectomie si assesta intorno ai
20-22.)

METASTATIZZAZIONE A DISTANZA
Soltanto alcune ripetizioni epatiche o polmonari confinate sono suscettibili di exeresi ad intento radicale. Per
quanto riguarda la malattia epatica, l’intervento dipende dall'entità e dalla quantità di metastasi: si può
decidere di rimuoverle assieme al tumore primario oppure di agire separatamente, prima sul fegato e poi sul
colon o viceversa - la letteratura a riguardo è molto dibattuta, quindi la decisione è basata sulle varie scuole
di pensiero e sugli studi clinici. Nonostante l'intervento ideale sarebbe quello di agire in concomitanza, la
complessità dell'intervento necessario in questo caso fa più facilmente optare per l'operazione in due tempi.

Commento punto 2: Durante l’emicolectomia o la TME si deve eseguire anche la preservazione nervosa
che è fondamentale perché è legata prevalentemente all'origine dei nervi ipogastrici che avviene proprio al
di sotto dell'origine dell’arteria mesenterica inferiore: più è alta la legatura più c'è un rischio di ledere uno
dei due rami: questo può dare quei problemi, sia nell'uomo che nella donna, di continenza, di vescica
neurologica ma anche problemi della sfera sessuale (come eiaculazione retrograda nel maschio e
riduzione dell’orgasmo, lubrificazione, erezione del clitoride nella donna). Questo problema è molto
sentito nei pazienti che vengono operati a livello urologico ma a livello del retto, soprattutto se il tumore
non è avanzato, se si verificasse sarebbe un problema a carico della chirurgia mal eseguita.
Commento punto 3: Perché è il gold standard solo per il retto medio e basso? Perché per il retto superiore,
essendo intraperitoneale, è sufficiente fare una Partial Mesorectal Excision (PME) in cui il mesoretto può
essere interrotto 1-2 cm al di sotto del tumore. Questo concetto sarà poi importante quando si parlerà del
margine di resezione circonferenziale perché quello è il segno di aver eseguito eseguito in maniera
adeguata l’intervento senza R1, che indicherebbe una possibilità di recidiva locale.
I PUNTI CHIAVE DELLA RADICALITÀ ONCOLOGICA
(si tratta di una parziale ripetizione, si riporta comunque il contenuto delle slides)

1. Margine prossimale e distale di resezione: nel carcinoma del colon, i 2 cm sono il limite minimo
accettabile di margine libero, distalmente al margine inferiore della neoplasia.
2. Nelle resezioni coliche destre o trasverse va effettuata la legatura dei vasi ileocolici, colici destri
o colici medi alla radice del mesocolon, l’asportazione dei linfonodi apicali e comporta una
valutazione prognostica più accurata per il paziente. Nelle resezioni del colon sinistro è prevista
la legatura dei peduncoli colico sinistro e sigmoidei ed analoga linfadenectomia; in quelle del
sigma la legatura dell’arteria mesenterica inferiore dopo l’origine della colica sin. è ritenuta
sufficiente per la radicalità.
3. Nelle neoplasie del colon destro la linfadenectomia standard deve comprendere i linfonodi
ileo-colici e quelli del ramo destro dei colici medi, mentre in quelle del colon sinistro e sigma i
linfonodi alla radice dell’arteria mesenterica inferiore. Il vantaggio oncologico dell’escissione
totale del mesocolon con legatura vascolare centrale di routine nell’emicolectomia destra, che
prevede la legatura dei vasi ileocolici all’estrema origine preparando la vena mesenterica
superiore, è oggi suggerito da alcune importanti evidenze ma non ancora supportato da
rigorose meta-analisi; l’utilizzo di tale approccio è inoltre gravato da complicanze
potenzialmente severe.
4. La necessità di una resezione in blocco degli organi adiacenti infiltrati, al fine di assicurare una
resezione con margini liberi da malattia si presenta in circa il 3-5% dei carcinomi del colon. I
tassi di mortalità specifica a 5 anni e recidiva locale sono significativamente più alti quando la
resezione non viene eseguita in blocco.
5. La perforazione della neoplasia si osserva tra il 7,7 ed il 25% (ma nella casistica del San Luigi
sono intorno all’8%). Numerosi studi retrospettivi ne hanno documentato l’impatto
prognostico.
6. Le resezioni videolaparoscopiche offrono numerosi vantaggi, quali il minor dolore
postoperatorio, la precoce ripresa dell’alimentazione e delle normali attività quotidiane ed il
vantaggio estetico. Per il colon gli outcomes oncologici sono equivalenti alla tecnica
laparotomica. Una revisione sistematica ed analisi multivarita condotta nel 2018 su 9.302
pazienti ha evidenziato che il margine laterale di resezione istologicamente positivo è un
significativo fattore predittivo di recidiva locale (RR 12.51; p = .04) (20). La tecnica robotica è
ancora da valutare ma i costi sono elevati.
7. Sull’eventuale tumore residuo e/o sulle metastasi è consigliabile eseguire sempre una biopsia.
Sono gradi di raccomandazione altissime, quindi sono molto importanti. Per quanto riguarda la chirurgia
laparoscopica, questa ha dato grandissimi vantaggi nel post operatorio, nella ripresa dell'attività lavorativa
e senza cambiamenti dal punto di vista (gli outcomes oncologici sono identici rispetto alla open) con un
miglioramento della qualità di vita perioperatoria. La raccomandazione è molto forte per cui la chirurgia

laparoscopica deve esser fatta tutte le volte in cui è possibile farla ma non è ancora considerata il gold
standard della chirurgia colorettale (a breve lo diventerà).
[importantissima la definizione di CRM]

Sotto il profilo tecnico la demolizione deve comprendere:


- Il segmento intestinale sede della neoplasia con margini di sicurezza sufficientemente ampi
sia a monte che a valle 5-7 cm del colon (misura ideale perché si riesce ad ottenere un’ampia
resezione del mesolcolon all’interno del quale sono contenuti i linfonodi) 2-3 cm del retto (0,5
per il margine distale, per il prossimale più di 5cm) negli intenti curativi;
- Il relativo mesentere con le stazioni di drenaggio linfatico distrettuale, fino alle intermedie;
- Nel retto la TME e la NST (total mesorectal excision e nerve sparing).

TECNICHE CHIRURGICHE
EMICOLECTOMIA DX – Classica o allargata, utilizzata principalmente per i tumori di cieco, colon
ascendente, flessura epatica e trasverso prossimale. Prevede la resezione del colon destro,
dell’ultima ansa ileale e di parte del trasverso per poi ristabilire la continuità intestinale
mediante anastomosi ileo colica.

EMICOLECTOMIA SIN - Utilizzata prevalentemente per i tumori del trasverso distale, della flessura
splenica, del discendente e del sigma. In questo caso si asporta la metà distale del trasverso e
del colon sinistro fino alla giunzione rettosigmoidea con ricanalizzazione conseguente mediante
anastomosi colorettale che, di solito, è termino-terminale secondo Knight Griffen con
anastomosi meccanica circolare. In realtà sui tumori del colon trasverso distale e della flessura
splenica può anche essere sufficiente l'asportazione del blocco colon trasverso dalla metà e il
colon discendente con l'asportazione del ramo sinistro della colica media e del ramo dell'arteria
conica di sinistra.

RESEZIONE ANTERIORE - Utilizzata per i tumori della giunzione sigmoido-rettale, del retto
superiore, medio e inferiore, prevede l’exeresi della metà distale del colon discendente, del sigmae di
un’ampia porzione del retto con poi la confezione di un’anastomosi colonrettale bassa. La
resenzione anteriore senza TME è totalmente inutile (su questo concetto insiste molto).
Fondamentale in tutti i casi la preservazione dei plessi ipogastrici superiore e inferiore.

Quella illustrata è una suturatrice circolare che viene


utilizzata sempre a sinistra per i tumori del colon sinistro
e del retto. Taglia e cuce circolarmente su tre linee.

Il mesoretto è fondamentale anatomicamente [dà per scontato che sappiamo benissimo tutto
sull’anatomia]: è molto più sviluppato posteriormente che anteriormente e ha uno stretto
rapporto con i vasi emorroidari superiori medi e inferiori. È da ricordare inoltre che i rettali
superiori fanno parte ancora del drenaggio portale mentre gli altri sono di drenaggio cavale, e
che il rapporto con i nervi è fondamentale, soprattutto per quanto riguarda il plesso ipogastrico
superiore, che origina dai nervi ipogastrici destro e sinistro che vanno a livello dell’aorta dove
nasce l'arteria mesenterica inferiore, poi scendono e fanno il primo plesso ipogastrico superiore
e poi, subito dopo il promontorio, scendono verso il basso e si diramano in due porzioni che
vanno creare il plesso ipogastrico inferiore con nervi diretti alla vescica, al retto, alle vescichette
seminali ecc.: da qui l’importanza del nerve sparing.
[non chiederà mai cosa succede se si danneggia un nervo o un altro ma la slide è utile per capire i
problemi e i danni conseguenti]

AMPUTAZIONE ADDOMINO PERINEALE SECONDO MILES - Usata per tumori del retto
inferiore con infiltrazione del canale anale e/o apparato sfinteriale. Prevede l’asportazione del colon
discendente distale, del sigma, del retto e dell’ano nella sua interezza (canale anale con cute
circostante, apparato sfinteriale, muscoli elevatori, tessuto adiposo delle fosse ischio rettali e pelvi
rettali) con successiva colostomia definitiva in fossa iliaca sinistra.

L’approccio in ogni caso può essere open o mininvasivo l’importante è che si rispetti la radicalità
oncologica. Per ognuna di queste tecniche ci sono pro e contro:

Dal punto di vista tecnico la laparoscopia è una tecnica che permette, al pari della open, di avere
radicabilità ma è più complessa da eseguire. Efficace nell’isolamento vascolare.

Sul retto è molto usata la chirurgia robotica per la tridimensionalità e maggiore ampiezza di
movimento (articolazione degli strumenti).

La laparoscopia ha meno trauma chirurgico, con quattro cinque mini-incisioni addominali ed


una incisione sovrapubica nel colon sinistro: infatti i pazienti non hanno il sondino e mangiano
da subito, manifestando quindi tempi di degenza minori (costa di meno alla società stessa rispetto
alla open). Non si può fare se sono presenti precedenti interventi chirurgici (aderenze), tumori
avanzati per il rischio insemenzamento peritoneale (discusso l’insemenzamento dei trocar con
varianti t4), per le forme troppo avanzate si può sfruttare solo a scopo d’osservazione, poi si
procede con la chirurgia radicale, e neanche in caso di subocclusioni /occlusioni.
RIASSUMENDO:
Funzionamento del TEM (transanal Endoscopic Microsurgery)

Funziona molto similmente alla laparoscopia ma serve prevalentemente per i tumori non avanzati (early)
del retto oppure per i pazienti che non potrebbero sopportare un intervento chirurgico vero e proprio.
Indicazioni:
Lez. Chirurgia – 17/11/20 – Prof.ssa Moroni (Degiuli)
Spadotto Matteo

ELEMENTI DI PROCTOLOGIA

I pazienti proctologici si vedono molto frequentemente, tant’è che la proctologia è uno dei principali ambiti
in cui chirurghi, gastroenterologi ed endoscopisti operano la libera professione: questo anche perché spesso
i pazienti con problematiche proctologiche si sentono a disagio nel rivolgersi ai servizi ambulatoriali.

In ambulatorio può arrivare un pz che afferma di perdere gas e feci liquide senza volerlo: ciò è imputabile ad
un problema di CONTINENZA delle feci, problema estremamente diffuso che impatta in maniera importante
sulla qualità di vita del pz. La continenza si definisce come la capacità dell’individuo di eliminare feci e gas in
situazioni socialmente accettabili, ed è garantita da una serie di fattori.

La PERISTALSI fa progredire il bolo alimentare lungo tutto l’apparato digerente: essa è dovuta sia alla
distensione meccanica della parete sia all’irritazione chimica della mucosa, che determina una stimolazione
neuronale afferente con due effetti: 1. Attivazione motoneuroni prossimali al bolo → contrazione mm. liscia
prossimale al bolo (ACh, sostanza P) e 2. Inibizione motoneuroni distali → rilasciamento mm. liscia distale al
bolo (NO, VIP). La peristalsi si divide in PERISTALSI COSTANTE (movimento propulsivo caratterizzato da una
contrazione del muscolo liscio che si muove lungo un tubo anatomico, forzando in avanti il contenuto, verso
l’ano; è attiva durante tutto l’arco della giornata) e PERISTALSI DI MASSA (movimento propulsivo che
compare 2-3 volte al giorno, solitamente dopo i pasti; quest’ultima è indotta principalmente dal riflesso
gastro-colico: movimento che ha luogo quando il bolo alimentare entra nello stomaco, stimolando la
peristalsi in tutto il tratto gastro-enterico. Avviene, tipicamente, dopo colazione, in seguito ad una notte di
riposo). Il TEMPO DI TRANSITO INTESTINALE medio è di 6-8 ore, un esame che permette di capire se il pz ha
un transito regolare o rallentato è la “RX tempi di transito intestinale”, che valuta quanto tempo il bolo ci
impiega a percorrere l’intero tratto intestinale: il pz assume dei pasti con MdC radiopaco (solfato di bario) e
poi si eseguono delle RX seriate. Il tempo di transito intestinale è influenzato da: motilità intestinale, quantità
del materiale fecale, presenza di gas e presenza di sostanze irritanti.

La DEFECAZIONE (evacuazione/eliminazione intestinale) è l’espulsione delle feci dal retto, che si compie
periodicamente mediante un complesso meccanismo in parte riflesso ed in parte volontario1 . La normalità
dell’evacuazione varia da 1-2 volte al dì fino a 1 volta ogni 2 giorni.

1 Distensione retto-sigmoidea stimola il riflesso retto-rettale: colon prossimale al bolo si contrae, colon distale al bolo si
rilascia → rilasciamento riflesso dello sfintere anale interno → rilasciamento dello sfintere anale esterno → contrazione
volontaria del muscolo elevatore dell’ano.

154
ANATOMIA DEL RETTO E DEL CANALE ANALE
Il retto viene suddiviso in RETTO SUPERIORE, MEDIO E INFERIORE: questa suddivisione ha un risvolto
importante dal punto di vista della chirurgia oncologica. Il retto inferiore si continua nel CANALE ANALE.
Segue una descrizione anatomo-istologica del retto, con particolare attenzione rivolta alla transizione da
epitelio pavimentoso pluristratificato (o squamoso) del canale anale ad epitelio mucoso-ghiandolare del
retto, separati da una giunzione detta giunzione squamo-colonnare o linea pettinata o dentata. Lo sfintere
interno è un muscolo liscio, dunque involontario, mentre lo sfintere esterno è un muscolo striato, dunque
volontario. Il muscolo elevatore dell’ano (composto dai muscoli pubo-rettale, pubo-coccigeo ed ileo-
coccigeo) fa parte del diaframma pelvico. Tra l’orifizio anale e la linea pettinata vi è uno spazio di 4-5 cm,
detto CANALE ANALE CHIRURGICO, mentre il CANALE ANALE ANATOMICO è costituito solo dalla porzione
di canale anale dove si trova l’epitelio squamoso. Canale anale chirurgico e anatomico si sovrappongono in
corrispondenza del retto inferiore.

STIPSI
Il paziente proctologico si può presentare con diversi quadri clinici: un quadro estremamente comune e
frequente è la stipsi. La stipsi è un ritardo o una difficoltà alla defecazione, in rapporto a disturbi anatomici o
funzionali del transito intestinale o a cause extra-intestinali. La stipsi è definita dalla consistenza delle feci più
che dalla frequenza delle evacuazioni.

La definizione di stipsi secondo i Criteri di Roma II prevede la presenza di 2 o più dei seguenti sintomi per
almeno 12 settimane in un anno:
− Meno di 3 evacuazioni/settimana
− Sforzo evacuativo durante almeno il 25% delle evacuazioni in assenza di lassativi
− Sensazione di evacuazione incompleta dopo almeno il 25% delle evacuazioni in assenza di lassativi
− Presenza di feci dure in almeno il 25% delle evacuazioni, in assenza di lassativi

Segue la descrizione della scala di Bristol:


1. Feci caprine dure (o fecalomi)
2. Feci formate dure
3. Feci formate con superficie crepata
4. Feci formate morbide (ideali)

155
5. Feci caprine morbide
6. Feci semiliquide e/o mucose
7. Feci liquide

La stipsi ha una prevalenza nella popolazione generale del 20%, di questa percentuale il 3-4% rappresenta
una condizione cronica che può anche impattare notevolmente sulla qualità di vita dei pz. La stipsi interessa
prevalentemente due fasce di età: i bambini, nei quali si presenta durante lo svezzamento con una
percentuale variabile di 0.3-8%, e gli anziani, nei quali si presenta nel 50-80% dei casi.

CAUSE

• Alimentazione errata: dieta povera di fibre e di fluidi, dieta ricca di grassi saturi, carboidrati
• Fast-food
• Cause psicologiche: ansia, depressione
• Abitudine a ignorare “the call of bowel”
• Abuso di lassativi
• Metaboliche: ipotiroidismo, ipokaliemia, diabete mellito
• Neurologiche: malattia di Hirschsprung, neuropatie periferiche, sclerosi multipla, morbo di Parkinson,
intestino neurologico
• Sindrome del colon irritabile
• Slow-Transit Constipation
• Farmacologiche
• Disfunzione del pavimento pelvico: è dovuta alla dissinergia del pavimento pelvico, che provoca una
sindrome da defecazione ostruita che si presenta con dischezia (defecazione dolorosa), anismo
(infiammazione e dolore anali persistenti). È una condizione che si presenta piuttosto frequentemente in
ambulatorio di proctologia, è prevalente nelle donne in seguito al parto (complicanze ostetriche quali
presentazione di spalla, ma anche nel parto fisiologico si possono avere lesioni del pavimento pelvico
durante il passaggio del feto dal canale del parto), non è una condizione da sottoporre a intervento
chirurgico. Queste pz spesso fanno uso di lassativi o praticano la defecazione digitale (svuotamento
manuale dell’ampolla rettale o digitopressione sulla parete posteriore della vagina). Questa condizione
può essere trattata conservativamente con la fisioterapia, e cioè con la ginnastica di riabilitazione del
pavimento pelvico, che mira a rieducare la muscolatura striata coinvolta nella defecazione.
La stipsi nell’anziano può presentarsi in due modi: FECALOMI e/o INCONTINENZA FECALE.

FECALOMI
SINTOMI: dolori addominali inferiori, dolori lombari.
SEDE: 70% RETTO; 20% SIGMA; 10% COLON PROSSIMALE.
La visita di pazienti con questa sintomatologia deve necessariamente prevedere l’ ESPLORAZIONE RETTALE,
alla quale non esistono controindicazioni (se non “l’assenza di ano e l’assenza di
dita”). Nel caso di un pz con prostatite acuta bisogna solo fare più attenzione per
non causare troppo dolore.

In questa RX si notano i livelli idroaerei radiotrasparenti dati dalla distensione


delle anse intestinali e un enorme fecaloma radiopaco in corrispondenza del
forame pelvico.

Il pz in questione presentava però sia stipsi che incontinenza fecale: questo


perché il fecaloma, date le dimensioni, determinava con meccanismo pressorio

156
il rilascio degli sfinteri deputati alla continenza fecale. Il trattamento in questi casi prevede la frammentazione
manuale previa apposizione di gel anestetico con pz in decubito laterale.

INCONTINENZA FECALE
Aumenta con l’aumentare dell’età ed è frequentemente associata alla sindrome del colon irritabile e alla
stipsi cronica. Il 10-25% degli ospedalizzati e il 50% degli istituzionalizzati ne sono affetti. L’incontinenza
assume diversa rilevanza in base a quanto questa impatta sulla qualità di vita del pz.

FATTORI DI RISCHIO DI INCONTINENZA FECALE


− Età avanzata
− Feci liquide o diarrea di qualsiasi origine
− Parto (soprattutto con lesioni ostetriche di 3° e 4° grado)
− Malattia/lesione neurologica o spinale (spina bifida, ictus, sclerosi multipla, lesioni del midollo spinale)
− Deterioramento cognitivo severo o disabilità nell’apprendimento
− Prolasso degli organi pelvici
− Interventi di chirurgia colo-rettale
− Radioterapia pelvica (per tumori ano-rettali, uro-genitali o ginecologici)

SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE – SCORE DI WEXNER

Score 0 = pz continente
Score 20 = grave incontinenza

STUDIO FUNZIONALE – MANOMETRIA ANORETTALE


Il manometro ano-rettale è uno strumento che misura le pressioni all’interno del canale ano-rettale, è
collegato ad un computer su cui è installato un software dedicato. È un esame per cui è fondamentale la
compliance del pz: è pertanto controindicato nelle situazioni in cui il pz non è collaborante (ad es. pz
dementi). La manometria ano-rettale valuta:
− Compliance ampollare
− Lunghezza del canale anale
− Pressione sfinteriale basale a riposo: pressione presente all’interno del retto inferiore e del canale anale
dovuta alla contrazione involontaria del muscolo sfintere interno
− Pressione di contrazione massimale volontaria: indice della funzionalità di sfintere esterno e muscolo
pubo-rettale (elevatore dell’ano)
− Riflesso retto-anale inibitorio (RIRA)
− Durata della contrazione volontaria
− Pressione sfinteriale durante il ponzamento
− Sensibilità ampollare soggettiva

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Pressione sfinteriale basale a riposo: a sx pz sano, a dx pz incontinente

Pressione di contrazione massimale volontaria Riflesso anorettale inibitorio


TERAPIA STIPSI CRONICA

o DIETA RICCA DI FIBRE e IDRATAZIONE


o EDUCAZIONE (ad es. non procrastinare la defecazione!)
o BIO-FEEDBACK ANO-RETTALE (GINNASTICA del PAVIMENTO PELVICO): trattamento che utilizza stimoli
pressori, visivi e sonori attraverso i quali il paziente può prendere coscienza del proprio apparato
sfinteriale e dei meccanismi fisiologici della defecazione correggendone le alterazioni.
Requisiti per il bio-feedback: QI normale / Lesione spinale in L5-S1 / Sensibilità rettale < 60 ml / Tono e
funzionalità sfinteriale adeguati / Capacità di contrarre e rilassare i muscoli glutei / Età > 6 anni.
Scopi del bio-feedback:
− Attivazione muscolatura “perineale” sinergica allo sfintere volontario
− Sincronismo fra torchio addominale ed attività sfinterica volontaria
− Sincronismo fra distensione rettale ed attività sfinterica volontaria
− Addestramento al riconoscimento per volumi di distensione rettale decrescenti
− Imparare a riconoscere e contrarre selettivamente lo sfintere esterno
− Coordinare percezione dello stimolo e risposta contrattile
− Ridurre progressivamente il volume delle distensioni rettali
− Incrementare durata ed ampiezza delle contrazioni
o LASSATIVI: lassativi ad azione osmotica (LATTULOSIO 15 ml 2 volte/die; SOLFATO DI MAGNESIO 5-15
g/die); lassativi che aumentano la massa fecale (derivati dello Psyllium, alga che si gonfia in seguito a
contatto con l’acqua; creando volumi importanti devono essere assunti lontano dai pasti).

[Risposta a domanda di uno studente]

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STIPSI ACUTA: causata da qualsiasi ostruzione del tratto digerente quali neoplasie stenosanti, aderenze,
volvoli, bezoar. Non è di pertinenza proctologica ma urgentistica.

CASO CLINICO 1
Donna di 55 anni. Si reca dal suo medico di base perché da qualche
tempo vede sangue nelle feci. Aveva già sofferto di emorroidi in
passato, soprattutto dopo l’ultima gravidanza.

Il medico di base visita la paziente e vede questo quadro:

E referta: emorroidi di primo grado con piccolo polipo sentinella della


commissura posteriore.
Prescrive dunque la seguente terapia:
− Flavonoidi (Diosmina 500 mg 2 cp x 3 al dì per 5 giorni, poi 1
cp x 3 al dì per altri 5 giorni)
− Preparato topico a base di cortisone (Colifoam schiuma rettale 1 applicazione al giorno per 20 giorni)

La signora segue alla lettera la terapia, ma dopo un lieve miglioramento continua a vedere sangue nelle feci.
Ed è passato un ulteriore mese.

La pz viene quindi in ambulatorio di proctologia: il chirurgo indaga il sanguinamento e scopre che il


sanguinamento si verifica solo durante la defecazione e il sangue vernicia le feci (ematochezia).

ESPLORAZIONE RETTALE: presenza di piccole emorroidi esterne senza segni di sanguinamento. Normotono
sfinteriale. Presenza a circa 4 cm dalla rima anale, sulla parete anteriore, di neoformazione di consistenza
dura, mammellonata, con escavazione centrale, fissa sui piani profondi, di cui non si apprezza il limite
superiore.

RETTOSCOPIA CON BIOPSIA: CARCINOMA DEL RETTO INFERIORE

TERMINOLOGIA
ENTERORRAGIA: emissione di sangue di colorito scuro, frammisto a feci,
parzialmente digerito o non digerito (in relazione alla sede e all'entità
dell'emorragia).

RETTORRAGIA O PROCTORRAGIA: emissione di sangue rosso vivo, durante, dopo o indipendentemente dalla
defecazione. Espressione esclusiva di emorragia di pertinenza del sigma o del retto.

EMATOCHEZIA: presenza di sangue che bagna la superficie delle feci (verniciatura ematica delle feci).
Espressione esclusiva di emorragia di pertinenza del retto.

SANGUINAMENTO GOCCIA A GOCCIA: emissione di sangue durante la defecazione e soprattutto a termine


di questa, «goccia a goccia», non accompagnato da dolori anali. Espressione esclusiva di sanguinamento per
patologia emorroidaria.

159
CASO CLINICO 2
Donna di 24 anni. Lamenta la comparsa da 2 giorni di intenso
dolore anale, accompagnato dalla sensazione di fuoriuscita di
un nodulo dall’ano.

ESPLORAZIONE RETTALE: presenza a ore 7 di gavocciolo


emorroidario congesto, con segni di trombosi in atto →
Emorroide esterna trombizzata o tromboflebite emorroidaria.
La trombosi emorroidaria non è pericolosa, ma molto
dolorosa. Si risolve con terapia conservativa o chirurgica.

EMORROIDI
Varici del plesso emorroidario interno ed esterno, possono coesistere o presentarsi separatamente. Le
emorroidi si accompagnano sempre a un certo grado di prolasso anale, perché quando c’è un prolasso della
mucosa ano-rettale i vasi scendono, vengono stirati esternamente e si gonfiano, diventando patologici.

Nel canale anale sono presenti dei cuscinetti specializzati altamente vascolarizzati, di discrete dimensioni,
costituiti da mucosa compatta contenenti strutture vascolari, muscolatura liscia, tessuto elastico e
connettivo. Tali cuscinetti sono situati nei quadranti laterale sinistro, anteriore destro, e posteriore destro del
canale anale e contribuiscono alla continenza del canale stesso. Per definizione, il termine emorroidi deve
essere limitato alla situazione clinica nella quale questi cuscinetti sono di dimensioni anomale e danno luogo
ad una sintomatologia. Sono praticamente delle varici, cioè̀ delle dilatazioni varicose di vasi venosi e del
connettivo a livello del plesso venoso emorroidario. Quando cede il connettivo, prolassano verso il basso.

INCIDENZA: oltre il 50% della popolazione sopra i 50 anni presenta sintomi emorroidari.
EZIOPATOGENESI
I fattori di rischio sono rappresentati principalmente da sforzo cronico e stitichezza. La pressione basale
presente al livello del plesso emorroidario contribuisce in minima parte. Tutte queste strutture normalmente
presenti in ambito non patologico, contribuiscono alla continenza. Servono per creare delle aree di variazione
pressoria che proteggono le strutture sfinteriali, muscolari, in corso di evacuazione e nello stesso tempo
contribuiscono alla chiusura dello sfintere. Tutto ciò che determina una loro alterazione crea quindi dei
problemi di continenza.

DIAGNOSI
Normalmente in ospedale arriva un paziente affermando che ha defecato perdendo sangue con secrezioni
e che non sta andando bene di corpo.
Per prima cosa si Iniziano a separare le informazioni con l’anamnesi. Si chiede al paziente quando ha perso
sangue, se dopo defecazione o mentre era seduto normalmente.

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Se l’ha perso dopo defecazione gli si chiede il colore, rosso vivo o marroncino, si indaga se ci sono patologie
associate, se soffre di stipsi (responsabile di oltre 94% delle patologie emorroidarie): dobbiamo insegnare ai
pazienti a mangiare e bere bene.
Si procede quindi con un’esplorazione rettale, perché́ è uno degli esami che costa meno, ma può̀ salvare la
vita, è fondamentale. Permette di inquadrare. Vedendo del sangue ovviamente bisogna escludere patologie
più̀ serie. Ad esempio, con l’esplorazione rettale si possono sentire delle irregolarità̀ che possono essere indice
di un tumore del retto → il riscontro precoce di un’irregolarità̀ può̀ permettere di intervenire con tempestività̀
e salvare la vita al paziente.
Se per caso non si sente nulla all’esplorazione ma il paziente sanguina lo si manda dal proctologo che deve
fare delle indagini invasive per cercare le emorroidi dopo esplorazione rettale.
Si usa o l’anoscopia, strumento corto con fibra ottica che permette di vedere fino al passaggio ano-rettale.
Importante perché permette di vedere se le dilatazioni interessano solo dentro o anche fuori il canale anale,
o la rettoscopia con tubo rigido. Si usa uno strumento lungo 20 cm sempre con fibra ottica che, con una
pompetta permette di gonfiare e distendere il retto e poter fare così una valutazione di massima.
Se il soggetto è giovane tendenzialmente non si chiede una colonscopia ma se paziente è sopra i 50 anni ci si
deve pensare soprattutto se ha un’anamnesi positiva.
Lo screening per il tumore colon retto in Italia inizia a 58aa ma ci sono poche persone che rispondono allo
screening. Nella maggior parte di questi soggetti si trovano o dilatazioni emorroidarie o marische
(=masserella di cute che protrude dalla superficie dell'ano o della regione perianale. Sono espressione di
problema del canale anale che può andare da delle semplici emorroidi a esiti di congestioni emorroidarie
precedenti o di fenomeni ragadiformi). è possibile anche trovare emorroidi come epifenomeno associato a
delle patologie. Per esempio, possono essere una delle prime manifestazioni nei pazienti cirrotici.

STADIAZIONE
- I GRADO: INTERNE. Congestione emorroidaria interna, lieve dilatazione, un po’ di congestione, un po’
arrossate, all’esterno spesso non si nota niente, senso di peso percepito dal paziente. Non corretto
dire semplice ectasia del canale anale.
- II GRADO: SI VEDONO DIVARICANDO LE PLICHE ANALI. Dilatazioni più grandi con una congestione
più importante → prolasso con riduzione spontanea, possibile sanguinamento. Spingi e vengono fuori.
- III GRADO: FUORIESCONO, RIDUCIBILI. Interessa anche le vene all’interno del canale con prolasso
all’esterno. Però quando vengono fuori è facile rimetterle dentro → prolasso che richiede la riduzione
digitale (riducibili). Sono fuori ma rientrano.
- IV GRADO: PROLASSATE ESTERNAMENTE, NON RIDUCIBILI.

COMPLICANZE
− Sanguinamento anche importante, che può portare ad anemizzazione (2-4% dei sanguinamenti rettali)
− Trombosi emorroidaria
− Strangolamento (raro)

TERAPIA

EMORROIDI DI I-II GRADO


− Terapia medica.
Per quanto riguarda la dieta: consigliare un adeguato apporto di fibre (frutta e verdura in gran quantità)
e di bere acqua (almeno 2 litri). È fondamentale bere, perché in assenza di acqua le fibre da sole diventano
costipative. La maggior parte delle persone affermano di bere molto, ma non bevono nemmeno un litro
di acqua al giorno. Per quanto riguarda le spezie è bene ridurne l’introito, ma soprattutto prestare
attenzione alla “forma” in cui vengono assunte → il problema sono le polveri! Peperoncino, pepe o altre
spezie in polvere non sono digeribili, quindi penetrano nelle vallecule e fanno gonfiare, in quanto
estremamente irritative. Se invece si mangia il peperoncino a pezzetti questo non succede. La menta →
anche se potrebbe non sembrare, contiene degli acidi che a livello anale creano degli edemi non

161
indifferenti e in fase acuta di una patologia ano-rettale è assolutamente sconsigliato mangiare la menta
(incluse le gomme da masticare e le caramelle). Altra cosa da escludere è il cioccolato.
− Legatura elastica (procedura ambulatoriale, senza anestesia: pz in decubito laterale, si inserisce
l’anoscopio e si posiziona un laccio alla base dell’emorroide, che cadrà insieme ad essa durante la prima
defecazione) e iniezione di soluzione sclerosante (si impiantano aghi nelle emorroidi e si iniettano
sostanze che sclerotizzano, atrofizzano la mucosa → possono essere fatte se le emorroidi sono piccole
anche se non danno troppi risultati, se sono grandi invece non servono a nulla).

EMORROIDI DI III-IV GRADO


− Terapia chirurgica: EMORROIDO-PROLASSECTOMIA SEC. LONGO / EMORROIDECTOMIA SEC. MILLIGAN-
MORGAN. Progressivamente si è passati da una chirurgia demolitiva dei cuscinetti emorroidari ad una
conservativa, basandosi sul concetto che la patogenesi della malattia è nel prolasso e non nella
congestione dei gavoccioli: questi ultimi sono solo l’epifenomeno di una sofferenza della statica del
canale anale e\o di tutto il retto.

L’Intervento di Longo è indicato nel prolasso emorroidario di II, III e IV grado e consiste nell’asportazione
mediante suturatrice meccanica di una banda circolare di mucosa del canale anale con realizzazione di una
sutura muco-mucosa circa 2 cm sopra la linea pettinata. Il paziente viene posto in posizione litotomica. Dopo
un’accurata lubrificazione del margine anale viene introdotto il dilatatore anale circolare che viene fissato
alla cute con quattro punti di sutura. L’introduzione del dilatatore provoca la riduzione del prolasso.
Successivamente si confeziona una borsa di tabacco a 2 cm cranialmente dalla linea pettinata. Dopo aver
controllato la corretta esecuzione della borsa di tabacco si introduce la suturatrice circolare. La testa della
suturatrice oltrepassa il livello della borsa di tabacco e questa viene chiusa. Si aziona la suturatrice e si realizza
la resezione-sutura muco-mucosa. L’intervento termina con l’apposizione di alcuni punti di emostasi.

L’intervento di Milligan-Morgan, in genere, viene eseguito in anestesia loco-regionale anche se è possibile


effettuarlo, in casi selezionati, in anestesia locale. Il primo tempo dell’intervento è rappresentato dalla
corretta esposizione dei tre gavoccioli emorroidari che devono essere trazionati verso l’esterno. Si pone così
in evidenza il peduncolo di ciascun nodulo. Successivamente si separa ciascun nodulo dalla cute lungo il
versante esterno e per via smussa lo si scolla dallo sfintere fino a raggiungere il suo peduncolo che viene
legato. Successivamente si seziona il nodulo emorroidario. L’intervento, apparentemente considerato banale,
deve rigorosamente rispettare l’anatomia della regione così come dei ponti di mucosa tra i tre gavoccioli e
ciò al fine di evitare spiacevoli complicanze. Ad intervento ultimato, si verifica accuratamente l’emostasi e si
pone un tampone emostatico nel canale anale. L’emorroidectomia di Milligan-Morgan è associata ad un
trascurabile dolore post-operatorio se viene condotta con tecnica corretta. Alla dimissione i pazienti vengono
invitati a controllare per alcuni giorni la eventuale comparsa di sanguinamenti che se abbondanti richiedono
una revisione dell’emostasi in sala operatoria. Si consiglia loro di assumere dei blandi lassativi al fine di
assicurare l’evacuazione di feci morbide e di essere particolarmente accurati nell’igiene intima. Tutti i pazienti
vengono sottoposti ad un follow-up accurato nel corso del primo anno dall’intervento.

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Tromboflebite Emorroidaria
• Principale complicanza della malattia emorroidaria

• Vivo dolore

• All’ispezione una o più tumefazioni rosso bluastre in genere di piccole dimensioni, dolenti e irriducibili

• Quasi sempre si apprezza un cospicuo ipertono sfinterico riflesso

• Terapia medica
Semicupi (immersioni in piccole vasche da bagno) tiepido-caldi + eventuale autoriduzione manuale
Flebotonici
Terapia sistemica con antinfiammatori e analgesici
Applicazione topica di creme con nifedipina e lidocaina
Assunzione di integratori che ammorbidiscono la massa fecale

• Terapia chirurgica: incisione in anestesia locale e trombectomia (entro 24-48 ore dall’esordio)

CASO CLINICO 3
Uomo di 35 anni. Giunge in ambulatorio di coloproctologia
lamentando la comparsa da circa 15 giorni di intenso dolore anale,
soprattutto alla defecazione, stipsi e comparsa di tracce ematiche
quando si pulisce.
ESPLORAZIONE RETTALE: evidenza di ragade anale della
commissura posteriore, ipertono sfinteriale, non lesioni aggettanti
in ampolla.

RAGADE ANALE
Soluzione di continuo longitudinale del canale anale (tra linea dentata e margine anale), di solito a livello
della commissura posteriore o anteriore. La sede più tipica è posteriore mediana.
Il canale anale si può lacerare per tante ragioni legate principalmente alla stitichezza, a feci eccessivamente
dure. Tutti, almeno una volta nella vita soffriamo di ragade anale. è una patologia rara nell’anziano perché il
primum movens della ragade è un ipertono sfinteriale (facilmente percepibile tramite esplorazione anale),
che tende a decadere con il passare degli anni. è molto fastidiosa, in certi casi può diventare estremamente
dolorosa e in una piccola percentuale di casi diventa cronica.

163
CLASSIFICAZIONE: ACUTA / CRONICA
SINTOMI
− Dolore lacerante, urente, molto intenso
− Sanguinamento (sangue rosso vivo subito dopo l’evacuazione)
− Prurito
− Stipsi volontaria

• DOLORE: è il sintomo essenziale associato talvolta a rettorragia. Si manifesta come bruciore nella zona
anale, a difficile localizzazione e a volte irradiato al perineo e ai glutei, di grande intensità. Compare
durante la defecazione, poi dopo un intervallo libero di 5-10 minuti riprende e si accentua
progressivamente fino a diventare insopportabile. Infine, si attenua lentamente nell’arco di ore. Il
paziente pertanto ritarda il momento della defecazione ma la stipsi intenzionale contribuisce a
mantenere le condizioni che avevano promosso la comparsa della ragade.
• CONTRATTURA ANALE: è segno dello spasmo sfinterico. Può essere marcata fino a essere visibile
all’ispezione e a volte ostacola l’esplorazione rettale.
• LACERAZIONE: è il terzo elemento che caratterizza la sindrome. È tipicamente ovalare a forma di
racchetta. La sua estremità arrotondata, che è esterna, è spesso accompagnata da una marisca
(“emorroide sentinella”). La sua estremità sottile indica sulla linea pettinea una papilla ipertrofica.
• Tutto ciò determina un circolo vizioso che esita in IPERTONO SFINTERIALE.
I sintomi sono dolore, sanguinamento, tenesmo, disuria, sanguinamento post evacuazione (ematochezia),
fastidio, secrezione sierosa, prurito, feci liquide, eccesso di feci o stipsi a seconda del caso. Il dolore è legato
al fatto che ogni volta in cui si va di corpo la muscolatura viene distesa, la mucosa e la cute si distendono e si
lacerano ogni volta. La secrezione sierosa è legata al fatto che la ragade è una ferita quindi è normale perdere
siero. La disuria si ha perché c’è una contrazione del pavimento pelvico, tutti i muscoli sono contratti, per cui
a livello dell’uretra prostatica nell’uomo o membranosa nelle donne, durante la contrazione è facile avere dei
bruciori ad urinare. Il prurito si sviluppa perché c’è un processo infiammatorio.
DIAGNOSI
− Anamnesi con descrizione dei sintomi
− Ispezione con divaricazione della cute perianale (lesione a goccia o a spicchio sulla linea mediana):
paziente sul lettino in decubito sinistro, posizione genupettorale. Bisogna essere centrati dietro il
paziente. Con delicatezza si appoggia il polpastrello sull’ano e si fa spingere il paziente come se dovesse
defecare. Dietro la parete posteriore del retto si sente il coccige, si ruota di 90 gradi e si va sopra l’ischio-
pubico e poi si fa la torsione. A questo punto si cerca di avvertire la contrazione della muscolatura attorno
al dito → si può percepire chiaramente se c’è ipertono. Davanti nelle donne si sente la parete posteriore
della vagina e più in alto l’utero.

CLASSIFICAZIONE
A livello topografico le ragadi si dividono in: anteriore, laterale (rarissima) posteriore (90%).
Inoltre, possono essere profonde o superficiali. La ragade può essere anche cronica, è lì da tanto tempo, si
creano dei bordi ulcerosi molto spessi. è molto complicata da trattare. Si finisce per fare una serie di interventi
invalidanti e con risultati molto scarsi.
TERAPIA CONSERVATIVA (95% dei casi)
o AMMORBIDIRE LE FECI: dieta ricca di frutta e verdura, abbondante idratazione (almeno 1.5 L di acqua al
giorno), integratori con fibre, mucillagini a base di Psyllium.

164
o RIDURRE L’IPERTONO DELLO SFINTERE INTERNO: preparati topici con nitroglicerina 0.2%, cicli di
dilatazione meccanica 2 ed eventuale infiltrazione di tossina botulinica.
o CONTROLLO DEL DOLORE: analgesici.

TERAPIA CHIRURGICA: SFINTEROTOMIA LATERALE SINISTRA


▪ Indicazioni: ipertono sfinterico molto accentuato (obiettivato con manometria); fallimento della terapia
conservativa.
▪ Complicanze: INCONTINENZA FECALE 30%
Il tasso di chirurgia per le ragadi è praticamente azzerato. Le operazioni che comunque si effettuano sono la
sfinterotomia posteriore: dall’ano si infilano due strumenti per esporre la ragade, la si scolla, si taglia il
muscolo e poi con un bisturi si incide lo sfintere esterno posteriore. Si prende un lembo mucoso tirando giù la
mucosa da dentro, poi si danno 4 punti e l’intervento è fatto. In quella laterale si fa la stessa cosa però si
tagliano i muscoli a livello laterale. Complicanze: incontinenza o recidiva. Troppe. Perciò non si opera.

CASO CLINICO 4
Uomo di 29 anni. Giunge in ambulatorio di coloproctologia lamentando la
comparsa da qualche giorno di intenso dolore perianale e di tumefazione. Da
due giorni lamenta anche la comparsa di febbricola.

ESPLORAZIONE RETTALE: presenza a ore 3 di tumefazione flottante, con cute


arrossata, francamente dolente e dolorabile.
Normotono sfinteriale. Non lesioni aggettanti in
ampolla.
TERAPIA: incisione e drenaggio dell’ascesso in anestesia. Zaffo con garza
iodoformica.

ASCESSO ANALE
EZIOPATOGENESI: sepsi delle ghiandole anali3 (malattia suppurativa perianale). Un ascesso perianale è una
raccolta di pus localizzata in prossimità dell'ano o nella porzione terminale del retto. Originano quasi tutti da
strutture a nido di rondine circonferenziali che producono muco (= ghiandole). Se non si va di corpo o si
mangiano tante spezie, è facile che si infili del materiale dentro tali strutture e crei infiammazione. Dopo un
po’ il buco della ghiandola si chiude poiché è pieno di sostanze, si infetta e crea un micro-ascesso. Se il paziente
è fortunato l’aumento della pressione fa stappare il buco e l’ascesso sparisce, oppure sente un dolorino
perianale che va e viene. Questo significa che l’ascesso sta cercando la strada più rapida per sfogarsi e aprirsi.
In base a dove si apre ci saranno complicanze diverse.
• PRESENTAZIONE ACUTA: ASCESSO
• PRESENTAZIONE CRONICA: FISTOLA

2Dilatatori Anali (Dilatan) → dispositivi a forma cilindrica di diverse misure (il paziente deve essere istruito
dal medico per poterli utilizzare a domicilio) → si va dai 18mm fino ai 32mm → ogni misura deve essere
utilizzata per 10 o 15gg prima di passare alla misura successiva. La maggior parte delle persone sono restie a
utilizzare il dilatatore anale, ma in realtà questo dispositivo ha cambiato la chirurgia ano-rettale.
3
Descritte nel 1878 da Chiari. Nel 1880 Hermann e Desfosses ipotizzarono un loro ruolo nell’insorgenza degli ascessi e
delle fistole perianali. Nell’adulto sono presenti da 5 a 10 ghiandole distribuite su tutta la circonferenza anale e
terminanti con un orifizio a livello della linea dentata. Le ghiandole anali hanno una struttura ramificata, epitelio
colonnare stratificato con attività muco-secretiva e sono circondate da uno o due strati di cellule mioepiteliali.

165
Talvolta la fistola può precedere l’ascesso, ma solitamente una fistola segue ad un ascesso che cronicizza.
Incidenza 10/100.000/anno
M:F=1:2

SINTOMI
Dolore perianale vivo, persistente e poco trattabile (Perché? Perché è una cavità sotto pressione), tumefazione
che tira la pelle, il paziente sente dolore anche solo sfiorandola. Se il paziente mentre va in bagno sente
bagnato, significa che è uscita acqua, pus e siero e l’ascesso è scoppiato. Se invece ciò non accade dovrà
recarsi dal chirurgo il quale farà un’anestesia locale con lidocaina che agisce in 60 secondi. Il soggetto nella
maggior parte dei casi però sente tutto perché l’ascesso è talmente infiammato che le radici nervose non
reagiscono all’anestetico. Dopo l’anestesia locale si incide l’ascesso. è un evento molto comune, per esempio,
al Sanluigi capita tra le 10 e le 15 volte a settimana. L’ascesso prende il nome di piramidale quando forma
pus e si gonfia.

CLASSIFICAZIONE (SEDI)
1. ASCESSO PELVI-RETTALE SUPERIORE (SPAZIO
PELVI-RETTALE)
2. ASCESSO DELLA FOSSA ISCHIATICA (EXTRA-
SFINTERICO)
3. ASCESSO DEL MARGINE ANALE (SOTTO-
CUTANEO)
4. ASCESSO INTRAMURALE DEL RETTO (INTER-
SFINTERICO)
5. ASCESSO SOTTOMUCOSO (ENDOANALE)

Gli ASCESSI PELVI-RETTALI (localizzati al di sopra del pavimento pelvico ed esternamente alla parete rettale)
sono rari (5%) e rappresentano un problema complesso; se secondari ad un ascesso ischio-rettale possono
essere drenati per via pelvica, mentre l’estensione di una suppurazione inter-sfinterica richiede il drenaggio
per via rettale per non creare fistole sopra- o extra-sfinteriche complesse. La diagnosi differenziale è
importante. Un ascesso sopra gli elevatori, secondario a una sepsi pelvica, va drenato nel retto. Quelli
correlati a un’infezione criptoghiandolare vanno drenati all’esterno, con la possibile aggiunta di un lembo
mucoso per chiudere l’orifizio esterno.

Gli ASCESSI INTER-SFINTERICI sono BASSI se si sviluppano nello spazio inter-sfinterico, ALTI (o intermuscolari)
se invadono lo spazio compreso tra muscolatura circolare e longitudinale della parete rettale. I pazienti hanno
un dolore rettale sordo, che si accentua con la defecazione. L’es ame obiettivo può essere completamente
normale. Un attento esame in narcosi rivela una massa sottomucosa all’interno del canale anale. Questi
ultimi richiedono il drenaggio per via trans-rettale.

IMAGING NEGLI ASCESSI E NELLE FISTOLE PERIANALI

Obiettivi: determinazione della relazione tra tragitto fistoloso e complesso sfinterico, identificazione di
tragitti fistolosi secondari e sedi ascessuali.
Metodiche imaging: ENDO-ECOGRAFIA ANO-RETTALE, RMN
ECO ANO-RETTALE: eseguita dal proctologo, ecografo dedicato con sonda meccanica trans-anale rotante in
cui il cristallo ruota di 360°.

166
CANALE ANALE CRANIALE CANALE ANALE INTERMEDIO

FASCESSO ANALE: immagine ipoecogena, talora co


CANALE ANALE CAUDALE echi interni iperecogeni, che interrompe la
continuità delle strutture del canale anale.

RMN

FISTOLE ANALI
Una fistola è un piccolo tunnel che si forma sotto la pelle e che connette una ghiandola anale infetta con la
cute dei glutei al di fuori dell'ano.
SEMPLICI: singole, facilmente identificabili alla chirurgia, non recidivano.
COMPLESSE: multiple, componenti extra-sfinteriche a ferro di cavallo, ascessi ischio-rettali e/o sopra-
elevatore, recidivano, spesso associate a Crohn.
CLASSIFICAZIONE di PARKS

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− INTER-SFINTERICHE: decorrono tra sfintere interno e sfintere esterno
− TRANS-SFINTERICHE: il tramite fistoloso coinvolge entrambi gli sfinteri
− SOVRA-SFINTERICHE: si pongono al di sopra dello sfintere esterno e coinvolgono lo sfintere interno
− EXTRA-SFINTERICHE: passano nella fossa ischio-rettale

Le FISTOLE INTER-SFINTERICHE sono le più frequenti, nel 90% dei casi sono BASSE e nel 45% a sbocco
posteriore. Possono essere trattate con una fistulectomia primaria; cautela deve essere osservata nei pazienti
con pregresso danno sfinteriale. In caso di dubbio è preferibile il trattamento in due tempi (set one e
fistulectomia secondaria). Nelle fistole ad estensione verso il pavimento pelvico (ALTE) il trattamento varia
in presenza o meno di un ascesso, che deve essere drenato per via rettale. In questo caso la fistola viene
trattata in un secondo tempo.

Le FISTOLE SOVRA-SFINTERICHE incidono per il 20% e sono assai complesse da trattare; l’approccio in due
tempi è quello di scelta.

Le FISTOLE TRANS-SFINTERICHE basse possono essere trattate con la fistulectomia primaria in caso di tragitto
posteriore e sfintere integro; negli altri casi è consigliabile il trattamento in due tempi. La presenza di una
estensione verso l’alto non cambia l’approccio: il tragitto primario deve essere ricercato sistematicamente e
trattato in due tempi per permettere il drenaggio dei transiti secondari.

Le FISTOLE EXTRA-SFINTERICHE secondarie a trauma o a fistola trans-sfinterica (spontanee o iatrogene da


improprio uso dello specillo) sono mantenute dalla pressione rettale; il trattamento consiste nella
derivazione fecale e nel courrettage del tragitto. Nelle fistole secondarie a malattia anorettale (IBD,
diverticolite, tumori) la guarigione è subordinata al trattamento di quest’ultima.

TERAPIA CHIRURGICA

FISTULECTOMIA PRIMARIA: asportazione del tramite fistoloso. Si può eseguire questo intervento se la fistola
non interessa o interessa in minima parte gli sfinteri.

SETONE + FISTULECTOMIA SECONDARIA: viene posizionato un setone, lasciato in sede per 1-2 mesi e
successivamente si esegue una fistulectomia, eventualmente lasciando ancora in sede il setone per un altro
mese. Perché il setone? Determina una reazione fibrosa e taglia in maniera progressiva lo sfintere,
permettendo di “superficializzare” la fistola.

NEOPLASIE ANALI
2,5-5% delle neoplasie del colon-retto. Neoformazione spesso protrudente dall’ano, a superficie irregolare,
sanguinante.

Istologia: 90% forme epiteliali. Origine dagli epiteli di rivestimento del margine anale del canale anale oppure
dalle ghiandole delle cripte perianali.
FATTORE PROGNOSTICO PRINCIPALE: STADIO ALLA DIAGNOSI.

FATTORI DI RISCHIO
- Infezione da HIV
- Infezione cronica da HPV 16-18 → CONDILOMI ANALI costituiscono delle LESIONI PRECANCEROSE la cui
diagnosi precoce (Pap-Test anale) è fondamentale.

TERAPIA
CHEMIOTERAPIA (5-FUOROURACILE + MITOMICINA) e RADIOTERAPIA (45-55 Gy).

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05.11.2020
Prof.ssa Rossella Reddavid
Alice Ceretta
DIFETTI DI PARETE
Definizione di ernia: fuoriuscita o protrusione di un viscere o di una parte di esso, dalla cavità nella quale
normalmente si trova, verso l’esterno, contenuta in una estroflessione della sierosa che lo avvolge.

Dalle sbobine dello scorso anno: Le ernie della parete addominale sono una delle più comuni patologie
incontrate sia in ambito ambulatoriale che in urgenza. Queste condizioni presentano di norma trattamento
chirurgico, indipendentemente dalla sede, mentre non vengono usualmente trattate con presidi fisici o medici,
sebbene esistano tecniche di contenimento per i pazienti con controindicazioni alla chirurgia.

Nella stragrande maggioranza di casi, quando si parla di ernie si intendono le forme addominali, ma non va
dimenticata l’esistenza di altre forme: ernie iatali, con la risalita di parte dello stomaco attraverso lo iatus
diaframmatico; ernie toraciche, ovviamente meno appariscenti, caratterizzate da un rientro viscerale (in
modo opposto rispetto a quelle addominali) per via della pressione negativa; ernie muscolari, con la
fuoriuscita di parte del tessuto muscolare attraverso la fascia in seguito a lacerazioni; ernie cardiache o
polmonari, rarissime; ernie articolari, con estroflessione della cavità dell’articolazione.

Vengono chiamate erroneamente ernie anche quelle coinvolgenti il


disco intervertebrale, tuttavia si tratta di una definizione imprecisa in
quanto non fuoriesce nessun viscere da una cavità, bensì il nucleo
polposo attraversa le fasce dell’anulus fibrosus.

Il segno fondamentale che permette il riconoscimento dell’ernia è la


tumefazione, di dimensioni estremamente variabili, talvolta dolente.
Il sacco erniario è generalmente costituito da peritoneo, che può
irritarsi o infiammarsi e portare quindi a dolore sordo, anche se, nella
maggioranza di casi, l’ernia provoca un dolore da attività motoria e
tensione muscolare, conseguentemente alla costrizione dell’orifizio
erniario.

Classificazioni

Le ernie addominali vengono classificate in vari modi, uno di questi è la sede in cui esse sono collocate
all’interno della parete addominale:

• Parete addominale anteriore o ventrale: troviamo le ernie epigastriche (si trovano a livello
dell’epigastrio), le ernie ombelicali (si trovano a livello del mesogastrio), l’ernia di Spigelio (si trova
al passaggio tra i muscoli retti dell’addome e il muscolo obliquo), poi abbiamo le ernie parastomali,
dette anche laparoceli parastomali, dovute all’intervento chirurgico di confezionamento delle
stomie nel colon. Nelle vicinanze di queste stomie è possibile che ci siano delle protrusioni del colon
che portano alla formazione di ernie. Ci sono poi delle ernie incisionali, dovute all’incisione chirurgica

169
e che ovviamente possono variare
nella sede.
• Ernie inguinali: si suddividono in
ernie femorali e quelle inguinali e
si trovano nelle regioni inguinali.
• Ernie pelviche: come la sciatica e
l’otturatoria o quelle del
pavimento pelvico.
• Ernie del fianco: si trovano
prevalentemente sulle incisioni
lombari.

Un’ulteriore classificazione è quella eziologica:

• Le ernie congenite sono presenti fin dalla nascita come le gastroschisi e gli onfaloceli.
• Quelle acquisite sono dei difetti che si sviluppano come risultato di una debolezza o di una distruzione
delle fibre muscolari della parete addominale anteriore.

Distinguiamo inoltre ernie che si sviluppano senza una precedente incisione chirurgica e sono dette primarie,
mentre quelle secondarie si sviluppano su delle incisioni e sono dette laparoceli o ernie incisionali.

(Dalle sbobine dello scorso anno) Le ernie possono essere infine: riducibili, con possibile rientro del viscere
erniato all’interno della cavità di appartenenza. Un tipo particolare sono quelle da scivolamento (come le
vescicali o coliche) che hanno un sacco incompleto, per cui l’organo erniato si affaccia al tessuto connettivo
extraddominale e può formare delle aderenze in questa sede, divenendo solo parzialmente riducibile. Si
dicono invece non riducibili in caso di incarceramento, intasamento o strangolamento. Due tipi particolari di
non riducibilità sono legati alla Richter, quando l’intestino ernia attraverso un piccolo orifizio in modo parziale
tangenziale (pericoloso per il rischio di perforazione) e l’ernia di Littrè, che consiste nella presenza
dell’appendice o del Meckel nell’ernia che, se infiammati, rendono la tumefazione non più riducibile.

Eziopatogenesi

L’aumento della pressione endoaddominale rappresenta il principale fattore favorente. Sebbene il nostro
organismo sia costituito da vari rivestimenti esterni ai visceri, sono estremamente comuni punti di debolezza
che, in specifiche situazioni, possono cedere. Una volta che l’orifizio si viene a creare, si instaura un processo
di non ritorno in cui la situazione può solo progredire e peggiorare. Come enunciato dalla legge di Laplace,
la pressione necessaria ad aumentare la dimensione di una struttura sferica sarà tanto minore quanto
maggiore sarà la dimensione della sfera stessa (di conseguenza, man mano che l’ernia aumenta di
dimensione, sarà necessaria una pressione sempre minore per farla progredire). Si va dunque a creare una
perdita di integrità della parete addominale che in alcuni casi è favorita da una predisposizione ereditaria
allo sviluppo di ernie primarie, come nella malattia di Ehlers Danlos, nella lassità legamentosa e tutte le
condizioni di alterazione dello sviluppo del connettivo. Difetti nella guarigione delle ferite in seguito a
laparotomie sono invece dei fattori predisponenti per le ernie incisionali.

In altri casi invece troviamo una predisposizione strutturale allo sviluppo di laparoceli come: pazienti obesi
(hanno una pressione intra-addominale maggiore), ascite e cirrosi, gravidanza, sollevamento pesi, BPCO e
tosse cronica, stipsi, IPB e disfunzioni urinarie.

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Talvolta le ernie sono presenti in forma subclinica e divengono clinicamente evidenti nel momento in cui si
presenta un altro problema clinico (come la fuoriuscita erniaria nel paziente con adenoma prostatico che
deve aumentare eccessivamente la pressione endoaddominale al fine di svuotare la vescica).

Sintomatologia

La presentazione clinica delle ernie della parete addominale può variare in base alla sede e alla dimensione.
Le ernie semplici di piccole dimensioni, riducibili e non riducibili, non danno di norma una grande
sintomatologia, a parte la tumefazione e talvolta dolore o discomfort. Quest’ultimo può essere accentuato
se il paziente tossisce o se sta facendo uno sforzo (sport). Le ernie di dimensioni maggiori, come i laparoceli
o le ernie inguinali, invece possono esercitare una pressione maggiore sulla cute portando alla formazione di
eritema, ischemia o ulcerazione.

Nel momento in cui si complicano compaiono invece tutta una serie di sintomi, quali il dolore,
l’infiammazione, la necrosi e l’occlusione intestinale. Questa sintomatologia porta il pz a recarsi in PS, poiché
si tratta di condizioni acute. Va ricordato che la non riducibilità non avviene sempre in condizioni acute, può
infatti capitare che l’ernia diventi progressivamente di dimensioni tali da non poter più essere reintrodotta
nella cavità di appartenenza, senza comportare sintomatologia acuta.

Le complicanze più frequenti sono:

➢ L’intasamento, che è l’arresto del passaggio del contenuto addominale, con conseguente ripienezza
delle anse intestinali e sintomatologia correlata. In alcuni casi, con la manipolazione si riesce a ridurle,
in altri si può solo optare per la correzione chirurgica. Corrisponde ad un quadro di occlusione clinico
(per liquidi, feci e gas).
➢ L’incarceramento è quando l’ansa intestinale entra attraverso la porta erniaria e non riesce più ad
essere ridotta in addome. In questo caso non è detto che ci sia anche un’occlusione intestinale,
perché magari i liquidi e l’aria riescono ancora a proseguire.
➢ Lo strozzamento o strangolamento è la fase successiva dell’incarceramento (non per forza sono
coesistenti, lo strozzamento è più frequente se la porta erniaria è piccola). In particolare, c’è una
devascolarizzazione arteriosa, per questo motivo a lungo andare si ha un’ischemia. L’ischemia è data
dalla compressione del colletto erniario non solo del viscere, ma anche dei vasi, con conseguente
ischemia dell’ansa intestinale e necrosi nel giro di qualche ora. Si caratterizza per la comparsa in
prima istanza di edema, conseguente all’occlusione venosa, con successiva alterazione arteriosa e
necrosi. I sintomi sono quelli tipici dell’occlusione: nausea, vomito, dolore colico per la contrattura
della muscolatura addominale.

(Dalle sbobine dello scorso anno) Nel momento in cui subentra l’ischemia, il dolore diviene acuto e continuo,
si ha ileo paralitico, leucocitosi e aumento degli indici di flogosi. In questo caso è assolutamente necessario
l’intervento in urgenza. Essendo esposte, le ernie sono frequentemente soggette a traumi. La contusione di
per sé non è tanto preoccupante, ma la formazione di un ematoma potrebbe comportare lo strangolamento
impattando sul colletto del viscere. La rottura dell’ernia può riguardare il sacco, in genere il peritoneo, che si
ripara senza troppe difficoltà, oppure i visceri in esso contenuti, che possono invece determinare
sanguinamento o una grave peritonite. Il dolore in sede erniaria è in genere correlato ad una forma
complicata. Nel momento in cui l’ernia diventa dura, tesa ed irriducibile bisogna sospettare la
compromissione vascolare (a maggior ragione se compaiono anche singhiozzo, nausea, vomito, chiusura
dell’alvo o stato di prostrazione).

171
Epidemiologia

Nelle donne, le più frequenti sono le ernie crurali, seguite dalle ombelicali e dalle inguinali.

Nell’uomo sono di gran lunga più frequenti le ernie inguinali.

Va considerato che di norma le forme crurali ed inguinali sono di piccole dimensioni e asintomatiche, pertanto
può capitare che il paziente non si accorga neanche di averle, a differenza delle forme inguinali che, oltre ad
essere appariscenti, sono di norma sintomatiche.

Diagnosi

La diagnosi di ernie, se il pz non è obeso, è per lo più clinica. L’EO è fondamentale: il pz deve essere esaminato
in posizione supina, deve essere spogliato accuratamente in modo che sia visibile l’addome dalla linea
intermammaria fin sotto l’inguine (le ernie inguinali si vedono solo se ispeziono l’inguine in toto) e deve
essere visitato in modo approfondito. Per quanto riguarda le ernie addominali si può visitare il pz sia in
posizione supina che seduta, poiché è più facile visualizzare le ernie in quest’ultima posizione. Per le ernie
inguinali invece si può inserire il dito indice nell’anello inguinale esterno e fare eventualmente tossire il
paziente, se l’ernia non è già estroflessa.

Nei pazienti più complessi come quelli obesi, oppure in alcune ernie particolari come quelle pelviche o
lombari, o ancora in ernie molto piccole, la diagnosi necessita di una diagnostica strumentale. L’esame di
primo livello è sicuramente l’ecografia, che, nonostante sia operatore dipendente, rimane comunque un
buon esame diagnostico in termini di sensibilità e specificità. In alternativa, se l’ecografia non permette di
fare diagnosi sicura (ad esempio se il paziente è obeso e se è anziano), si usa la TC in cui si valuta la porta
erniaria, che altro non è che il tramite attraverso cui passa il contenuto addominale per creare poi l’ernia. La
TC, inoltre, ci indica anche se esistono più porte erniarie, come nel caso dei laparoceli, molto importante per
la chirurgia successiva e per valutare le dimensioni del viscere erniato.

Nell’immagine sovrastante a sinistra è presente un’ecografia in cui si vede il muscolo retto dell’addome
destro e sinistro con il difetto di parete al suo interno e l’erniazione di tessuto nel sottocute. A destra invece
è presente una scansione TC, con cui ovviamente si irradia il paziente, ma la visuale è molto più chiara. In
particolare, in questa immagine si vede il pz (posizionato supino con i piedi verso di noi) con la parete
addominale che contiene l’intestino (in cui l’aria è scura e va verso l’alto e i liquidi chiari vanno verso il
basso) con un difetto di parete attraverso cui passa l’intestino. Si tratta di un’ernia intasata in quanto
nell’ansa presente nell’ernia, oltre ad un’imbibizione del tessuto attorno all’ansa, segno di iniziale sofferenza,

172
sono presenti i livelli idroaerei che sono il segno radiologico per l’occlusione intestinale (di nuovo l’aria scura
va in alto e i liquidi chiari vanno in basso).

Infine, è necessario fare diagnosi differenziale con: orchiti, linfoadenopatie, ematomi, aderenze crurali e
aderenze inguinali. Nonostante per poter fare diagnosi il più delle volte basti un EO approfondito, al fine di
poter operare il paziente è sempre necessario almeno un esame strumentale, come l’ecografia, in modo da
poter avere una diagnosi certa e sicura e giustificare l’operazione (principio di medicina difensiva).

ERNIA EPIGASTRICA

È un’ernia abbastanza comune, rispetto alle ernie addominali è l’1.6-3.6%, mentre rappresenta lo 0.5-5%
delle ernie addominali operate. In genere il paziente osserva la presenza di una tumefazione tra ombelico e
xifoide nel quadrante epigastrico. La patogenesi è correlata ad una debolezza congenita della linea alba ed è
poi favorita da un eccessivo sforzo fisico, tosse cronica come nei pz BPCO o con bronchite cronica, obesità,
fumo, l’uso cronico di steroidi (gli steroidi non creano un’aumentata pressione addominale, come invece
accade per gli altri fattori di rischio, ma inducono una lassità dei tessuti), pazienti diabetici (sempre per la
lassità dei tessuti), pazienti anziani. È diagnosticata in media tra i 20 e i 50 anni ed è più comune negli uomini
rispetto alle donne.

Nell’immagine presa dall’Hernia Center in California del Dottor Trabucco da cui l’omonima tecnica di
ernioplastica, si vede come l’ernia epigastrica si localizzi tra il
processo xifoideo e l’ombelico. Nella maggior parte dei pazienti
è asintomatica, perché il difetto è molto piccolo e dunque la
porta erniaria non supera 1 cm. Nel 20% dei casi possono
essere multiple ed è raro che si presentino con complicanze
quali incarcerazione o strangolamento. L’ernia epigastrica può
essere classificata come piccola se è di 1 cm o meno, media da
1 a 4 cm e grande se supera i 4 cm.

I pz che vanno incontro all’intervento chirurgico il più delle volte sono pazienti sintomatici e viene fatto per
lo più in day surgery, poiché si effettua in anestesia locale con la tecnica open. Nel caso in cui, come
nell’immagine sottostante a sinistra, si scelga un approccio open: si effettua un’incisione verticale o
orizzontale sull’ernia, si incide il sottocute fino ad identificare il sacco erniario, il quale verrà ridotto in
addome e poi si eseguirà una sutura diretta o eventualmente si inserirà una protesi della fascia.

Per quanto riguarda l’approccio laparoscopico o mini-invasivo robotico, che è presente nell’immagine a
destra, si va a ridurre l’ansa intestinale in addome e si posiziona la protesi fissata con dei dardi alla parete
addominale anteriore.

173
Nella laparoscopia però l’anestesia è generale, per cui bisogna considerare il fatto che il paziente non potrà
essere operato in day surgery e che potrà andare incontro a effetti collaterali dovuti agli oppioidi, come la
nausea e il vomito post-operatorio (in realtà adesso con il protocollo HERAS gli oppioidi non vengono più
somministrati per le ernioplastiche).

Si predilige per cui la chirurgia open, perché è un intervento poco costoso con strumenti poliuso ed
eventualmente una protesi, mentre la laparoscopia utilizza degli strumenti poliuso e alcuni monouso, ha dei
tempi operatori più dilatati e il paziente deve essere addormentato.

In alcuni centri in Toscana si possono effettuare degli interventi robotici, che invece in Piemonte non sono
attuabili, poiché le attrezzature robotiche sono limitate e il loro costo è troppo alto per una ernioplastica.

Il vantaggio della tecnica laparoscopica rispetto alla chirurgia open riguarda solamente i difetti molto grossi
e recidivi, perché sono frequenti le recidive nei tessuti erniati, per cui posizionare una protesi, che tra l’altro
è molto più ampia rispetto alla tecnica open, in laparoscopia, rende molto meno frequente la recidiva. Il
vantaggio invece non riguarda l’incisione e quindi la ripresa post-operatoria, che invece è uno dei criteri che
normalmente si va a valutare negli interventi sul colon o su altri visceri per decidere quale tecnica utilizzare.

ERNIA OMBELICALE

È un’ernia anch’essa molto comune e per lo più asintomatica,


infatti questa tipologia di ernia è stata trovata tra il 23 e il 50%
di un campione di persone sottoposte a screening ecografico
per uno studio clinico. Può essere congenita o acquisita.

Le forme acquisite presentano maggiore frequenza nei pazienti


obesi o nelle donne, il cui rapporto è di 3:1 rispetto agli uomini,
soprattutto in seguito alla gravidanza e a travaglio prolungato,
che comporta lassità legamentosa. Spesso l’ernia ombelicale negli uomini ha una porta piccola per cui ci sono
possibilità di incarceramento, mentre nelle donne è più frequentemente riducibile. Possiamo classificarle in
piccole (<1cm), medie (1-4cm) o grandi (>4cm).

Normalmente all’interno dell’ernia troviamo dell’omento o del grasso preperitoneale, questi tessuti, se
vengono compressi nella porta erniaria, vanno incontro ad ischemia e dunque provocano dolore cronico
ombelicale. Se sono di dimensioni importanti possono portare a devascolarizzazione dei tessuti sovrastanti
con ischemia della cute.

La diagnosi è clinica tramite la palpazione e il trattamento delle ernie sintomatiche è simile a quello per le
ernie epigastriche per cui si può optare per un trattamento open o laparoscopico. Alcune ernie congenite (se
le dimensioni sono inferiori a 1.5 cm) possono essere trattate conservativamente, con cerotti o metodi di
contenimento.

174
ERNIA DI SPIGELIO

Si vede abbastanza raramente, è un’ernia che si crea attraverso un difetto dell’aponevrosi spigeliana, cioè
della fascia che contiene il muscolo traverso addominale. L’aponevrosi è delimitata lateralmente dalle linee
semilunari e medialmente dal margine laterale del muscolo retto. La sede tipica è nella “cintura dell’ernia
spigeliana”, una zona che si estende per circa 6 cm attorno alla linea arcuata.

Il paziente spesso si presenta con una tumefazione della parte bassa dell’addome, lateralmente al muscolo
retto. Sono più frequentemente diagnosticate in PS tramite ecografie e TC, perché si manifestano con un
quadro di incarcerazione dell’ernia, mentre è raro che venga diagnosticata quando asintomatica.

I LAPAROCELI

Sono delle ernie incisionali, perciò dovute a interventi chirurgici come


chirurgia dell’addome, vascolare, appendicectomie o laparoscopie. I
laparoceli possono dare delle ernie di dimensioni veramente importanti,
come ad esempio quella nell’immagine, poiché molto spesso si tende ad
operarli tardivamente. Nell’immagine si può vedere la precedente ferita
chirurgica sul laparocele, lo sfondamento totale della parete anteriore con
le anse intestinali contenute all’interno del sacco erniario senza la parete
muscolare, ma direttamente nel sottocute.

(Dalle sbobine dello scorso anno) In termini di prevalenza, le cause principali dei laparoceli sono gli interventi
chirurgici, che comportano un basso rischio a breve termine, ma un rischio decisamente maggiore a lungo
termine. Ad un anno, infatti, il 10- 11% dei pazienti operati per chirurgia addominale sviluppa un laparocele,
a maggior ragione se il chirurgo al termine dell’intervento lascia un difetto fasciale di 10 mm circa. Di questo
10%, solo un quarto dei pazienti sviluppa una sintomatologia e complicanze correlate (talvolta risulta
necessario un nuovo intervento chirurgico). Con un difetto di 12 mm o superiore, i pazienti presentano un
rischio di sviluppare un laparocele pari al 94%. La storia naturale di queste grandi ernie è sul lungo termine,
infatti nell’immediato post-chirurgico si formano ponti cicatriziali che di norma non comportano complicanze.

Il tipo di incisione influenza il rischio di successive complicanze: quella che comporta la maggiore probabilità
di erniazione è sulla linea alba verticalmente (di norma preferita perché comporta meno dolore non
interessando direttamente le strutture muscolari), mentre le orizzontali danno laparoceli con minore
frequenza. La chirurgia laparoscopica comporta invece piccoli difetti e non determina grossi problemi di
erniazioni a distanza, con un tasso inferiore al 2%. La stessa ventilazione può favorire l’apertura del difetto
nella parete addominale anteriore, con diastasi dei muscoli retti.

175
L’aumento della pressione endoaddominale può favorire a sua volta lo sviluppo di un’ernia iatale e non va
dimenticato che i laparoceli di grandi dimensioni possono ripercuotersi sul circolo comportando stasi venosa.

Trattamento dei laparoceli

La correzione può avvenire in diversi modi. Una delle tecniche utilizzate è la tecnica di separazione dei
componenti: prevede la creazione di un lembo di avanzamento del muscolo retto addominale, dopo di che
si fanno scorrere i vari strati del muscolo retto addominale per cercare di coprire tutta la circonferenza della
parete addominale anteriore. Il successo di questa tecnica è dovuto al fatto che si effettuano queste cinque
procedure:
1. Spostamento della parete addominale per aumentare la superficie tissutale.
2. Separazione degli strati muscolari per permettere un’espansione massima per ogni muscolo.
3. Si disconnette il muscolo dalla fascia per facilitare l’espansione.
4. Si utilizza la muscolatura della parete addominale per ricoprire l’interno dell’addome.
5. Si utilizza la mobilizzazione bilaterale piuttosto che quella unilaterale per l’avanzamento, in modo da
equilibrare le forze della parete addominale e centralizzarle medialmente.
In questo modo c’è abbastanza bulk o massa per prevenire l’erniazione successiva, è ben vascolarizzata e la
riparazione avviene tension-free e non tramite le suture.

Vi sono in particolare due tecniche che sfruttano la separazione dei componenti: la separazione anteriore di
Ramirez, in cui si incide la fascia e si fanno scorrere le fasce muscolari tra uno strato e l’altro e quella
posteriore di Rives-Stoppa in cui si fanno scorrere le fasce muscolari nella parte posteriore. [Le tecniche non
sono da conoscere nel dettaglio ai fini dell’esame.]

(Dalle sbobine dello scorso anno) In tutti i laparoceli di dimensioni pari a 3-4 cm o superiori si tende a
posizionare una rete di polipropilene in modo da irrobustire la parete. Il posizionamento può avvenire o
davanti ai muscoli e alla loro fascia, all’interno della fascia stessa o in sede preperitoneale (in quest’ultimo
caso per via laparoscopica). La sutura diretta viene fatta per laparoceli molto piccoli accettando comunque
un certo rischio di recidiva. Si possono utilizzare tecniche che permettono di raddoppiare la fascia, una volta
resecato il sacco erniario, tramite una seconda sutura e con rinforzo della parete anteriore.

Tra tutte queste possibilità, attualmente si preferisce l’utilizzo della rete di polipropilene, vicryl o materiali
biologici in posizionare retro-muscolare, fissata alla fascia, con la finalità di creare una tenuta cicatriziale e
fibrotica a lungo termine. I sistemi di bloccaggio permettono di fissare la rete in loco. In caso in cui il laparocele
sia di dimensione inferiore ai 10 cm si preferiscono le tecniche laparoscopiche, mentre per dimensioni
maggiori si utilizzano quelle combinate. Ovviamente tanto maggiore sarà la dimensione del difetto e
dell’erniazione e maggiore sarà il tasso di recidiva post-intervento, fino ad un massimo del 30%.

176
ERNIA INGUINALE

Anatomia del canale inguinale

La regione inguinale, ileo-inguinale, del canale inguinale o


porzione superiore della regione dell’anca è delimitata da tre lati:
in basso è delimitata dalla piega dell’inguine che la separa dalla
coscia, in particolare dalla regione femorale o inguino-crurale. In
questa sede, dunque, si sviluppano le ernie femorali o crurali.
Medialmente è delimitata dal margine laterale del muscolo retto
dell’addome e superiormente da una linea immaginaria
orizzontale che viene condotta dalla spina iliaca anterosuperiore
fino al margine laterale del muscolo retto, al cui interno troviamo
la regione inguino-addominale.

Il canale inguinale nell’uomo ha una lunghezza di 4-5 cm e il diametro varia in base al contenuto, quindi in
base alle dimensioni del funicolo spermatico.

Per quanto riguarda le pareti, il canale è delimitato dalla


parete anteriore, che è molto spessa e resistente grazie
alle sue componenti: partendo dalla parte più profonda
troviamo l’aponeurosi di inserzione del muscolo obliquo
esterno, poi la fascia del muscolo obliquo esterno e
ancora più superficialmente il tessuto sottocute e la cute.
Il funicolo spermatico con la sua faccia anteriore è in
rapporto con il fascio laterale del muscolo cremastere.

Parete posteriore: è più sottile e più irregolare, in senso latero-mediale è costituita: nel primo laterale
troviamo l’orifizio interno del canale inguinale e dai vasi epigastrici inferiori ed è inoltre rinforzata dai
legamenti di Hesselbach. Più medialmente troviamo la fascia trasversale e da un suo rinforzo, il legamento
inter-foveolare di Henle e dal legamento inguinale riflesso di Colles.

La parete posteriore è quindi costituita da tre zone che hanno diverso spessore: una zona laterale, piccola,
che limita medialmente l’orifizio interno del canale e che è relativamente resistente; una zona mediale,
molto più estesa e molto più resistente, la quale occupa tutta la larghezza del tendine congiunto; una zona
intermedia, infine, che si trova posta fra le due precedenti e che è sempre molto sottile, essendo ridotta alla
semplice fascia trasversale, in corrispondenza a quest’ultima zona, vero punto debole della parete posteriore
del canale, si formano appunto quelle ernie inguinali che vengono dette dirette.

Parete inferiore: è rappresentata da una specie di doccia a concavità diretta in alto. Questa doccia, formata
dalla porzione mediale del legamento inguinale, appartiene all’aponeurosi del muscolo obliquo esterno, la
quale si è incurvata indietro e in alto per venire ad inserirsi sul tubercolo pubico. In corrispondenza al suo
margine posteriore, essa è continuata dalle fibre trasversali della banderella ileo-pubica.

Parete superiore: è formata dal margine inferiore dei due muscoli obliquo interno e trasverso dell’addome e
dalle lamine cellulo-adipose che li separano.

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Oltre alle pareti, altre strutture importanti del canale inguinale sono gli orifizi o anelli; uno corrisponde
all’anello inguinale esterno, che è quello più caudale e sottocutaneo, mentre il secondo è detto anello
inguinale interno che è quello più profondo e peritoneale. Il primo si localizza a livello del pube, medialmente
al tubercolo pubico ed è caratterizzato da quattro pilastri:

1°. Pilastro laterale il quale si fissa al tubercolo pubico e alla superficie anteriore del pube, tra il tubercolo
e la sinfisi pubica;
2°. Pilastro mediale che va a inserirsi sulla sinfisi pubica;
3°. In alto dalle fibre arciformi che si formano da un pilastro all’altro;
4°. In basso dal pilastro posteriore o legamento inguinale riflesso di Colles.

L’anello inguinale interno è il punto da cui fuoriesce l’ernia inguinale indiretta e corrisponde alla parte media
del legamento inguinale. Il suo margine laterale è poco pronunciato; invece, il suo margine mediale, molto
più distinto, appare in forma di una piega semilunare o falciforme con la concavità volta lateralmente ed in
alto: questo margine è rinforzato dal legamento di Hesselbach.

Il canale inguinale nell’uomo contiene in funicolo spermatico, che a sua volta è costituito da:

• Dotto deferente, con l’arteria deferenziale al seguito, la quale è un ramo dell’arteria vescicale
inferiore o dell’arteria rettale media;
• Arteria testicolare o spermatica, ramo dell’aorta;
• Arteria funicolare, ramo dell’arteria epigastrica inferiore;
• Fascio venoso posteriore e anteriore, dei quali il primo si getta nella vena epigastrica inferiore, il
secondo nella vena cava inferiore e renale sinistra;
• Linfatici del testicolo, che si portano ai linfonodi lombari;
• Rami nervosi del simpatico.

Tutti questi organi sono uniti da un tessuto interstiziale e sono contenuti in una guaina di natura fibrosa che
viene chiamata tonaca vaginale comune. Su questa guaina fibrosa decorrono tre nervi, che è necessario
vengano preservati durante l’intervento di ernioplastica. Essi sono:

• Ramo genitale del nervo ileo-ipogastrico


• Ramo genitale del nervo ileo-inguinale
• Ramo genitale del nervo genito-femorale

Per quanto riguarda il canale inguinale nella donna, invece di


avere il funicolo spermatico abbiamo il legamento rotondo
dell’utero, ma troviamo anche qua i tre rami nervosi descritti
precedentemente.
In questo caso, durante l’ernioplastica, poiché si tratta di una
donna non è basilare la preservazione del legamento rotondo,
mentre è fondamentale nell’uomo preservare il funicolo
spermatico, in modo da non avere una devascolarizzazione
del testicolo e dunque necrosi del testicolo, oltre ad una
lesione al deferente.

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Delle altre strutture importanti, che si trovano sulla faccia posteriore del canale inguinale, sono le fossette
inguinali che sono delimitate da tre cordoni. In senso medio-laterale troviamo i vari cordoni che decorrono
nel sottoperitoneo e sono parzialmente avvolti dalla sierosa:

1) Uraco o legamento ombelicale medio, che proviene dall’obliterazione del peduncolo dell’allantoide;
2) Cordone fibroso dovuto all’obliterazione dell’arteria ombelicale;
3) Arteria epigastrica inferiore.

Ciascuno di questi tre cordoni, solleva il peritoneo e quindi va a formare delle pieghe che identificano queste
tre fossette inguinali (laterale, media e mediale), le quali sono importanti poiché al loro interno vengono a
formarsi le ernie inguinali.

Andando questa volta in senso latero-mediale troviamo: la fossetta inguinale laterale o esterna, che è posta
lateralmente all’arteria epigastrica inferiore, al dotto deferente e all’arteria testicolare. In essa, quando si
viene a formare un’ernia, si parla di ernia inguinale indiretta obliqua esterna.

Successivamente troviamo la fossetta inguinale media che si trova medialmente all’arteria epigastrica
inferiore e tra quest’ultima e il cordone residuo dell’arteria ombelicale. In essa vengono a formarsi le ernie
inguinali dirette.

Infine, troviamo la fossetta mediale che è posta tra il cordone dell’arteria ombelicale obliterata è l’uraco. In
essa vengono a formarsi le ernie inguinali indirette oblique interne. Le prime due sono le più frequenti.

Epidemiologia

L’ernia inguinale è più frequente rispetto a quella femorale, in particolare quest’ultima si trova in meno del
10 % delle ernie inguinale e normalmente si presenta come complicata. In particolare, le ernie inguinali sono
più frequenti negli uomini, mentre quelle femorali si trovano più frequentemente nelle donne e si presentano
come incarcerate o strangolate.

Patogenesi

Un’ernia inguinale congenita è data dalla persistenza del canale peritoneo-vaginale. Quando il testicolo
discende a livello scrotale trasporta parte della struttura peritoneale, formando il canale peritoneo-vaginale.
Se questo canale non va incontro a coalescenza, permane una comunicazione che può costituire un’ernia
inguinale congenita. Anch’essa può, sebbene meno frequentemente rispetto alle ombelicali, guarire
spontaneamente. Si presenta nel 3-5% dei neonati, con maggiore frequenza nel sesso maschile.

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Un’ernia inguinale acquisita si presenza nell’8-10% degli individui, anche in questo caso con prevalenza
maschile di 8:1 rispetto al sesso femminile. Di norma, l’unica correzione possibile in questi casi è chirurgica.
Sia nel maschio che nella femmina, l’ernia obliqua esterna rappresenta la forma più frequente, con una
prevalenza di oltre il 50%.

Classificazione

• Ernia inguinale indiretta, è il tipo più comune sia nell’uomo che nella donna. Passa attraverso l’anello
inguinale interno, che è il punto dove il funicolo spermatico o il legamento entrano nel canale
inguinale ed escono dall’addome.
• Ernia inguinale diretta si viene a creare dallo sfondamento della fascia trasversale e protrude
medialmente rispetto all’arteria epigastrica inferiore, precisamente nel triangolo di Hesselbach, il
quale è formato in basso dal legamento inguinale, medialmente dal muscolo retto dell’addome e
lateralmente dall’arteria epigastrica inferiore.
• Ernia femorale si localizza sotto il legamento inguinale e si estroflettono attraverso l’anello femorale,
che si localizza medialmente alla vena femorale e lateralmente al legamento lacunare (è un
legamento nella regione inguinale che collega il legamento inguinale al legamento pettineo vicino al
punto in cui entrambi si inseriscono sul tubercolo pubico). L’ernia femorale o crurale non esiste in
forma congenita ed è dovuta alla dilatazione dell’anello femorale medialmente alla vena femorale,
talvolta deformando la guaina dei vasi.

Complicanze

Il paziente può andare incontro ad un incarceramento, in cui il contenuto dell’ernia (può essere intestino,
appendice, omento, ovaio, vescica, ecc) si blocca all’interno del sacco erniario e non può essere ridotto né
per taxis cioè con le dita all’interno dell’addome, né spontaneamente. In questo caso si viene inizialmente a
ridurre l’afflusso venoso e linfatico, con un aumento dell’edema, poi si riduce anche il flusso arterioso, fino
ad avere una compromissione della vascolarizzazione dell’intestino, con conseguente ischemia e necrosi.
Inoltre, quando è presente un’ansa incarcerata e dunque il paziente deve essere operato, nel momento in
cui i pazienti vengono intubati e vanno incontro ad una curarizzazione, è possibile che l’ernia si risolva
spontaneamente poiché si detengono i tessuti e che quindi, durante l’operazione, non si riesca a visualizzarla.
Per questo motivo, se c’è un dubbio concreto di incarceramento, bisogna effettuare una laparoscopia in
modo da esplorare attentamente la cavità addominale e valutare se è presente o meno l’ansa necrotica
incarcerata, in modo da evitare un’ulteriore complicanza dell’incarceramento, cioè la perforazione.
[esempio: pz operato urgenza per ernia incarcerata di urgenza, ernioplastica ma non viene trovata ernia! Il
giorno dopo febbre, flogosi e addome disteso, alla TC ansa necrotica e perforata].

(Dalle dispense) Dal punto di vista clinico-diagnostico le ernie inguinali si possono dividere in:
• PUNTA D'ERNIA: il sacco erniario non fuoriesce ancora dall’anello inguinale esterno o fuoriesce
appena (è ancora contenuto nel canale inguinale). Il paziente è già sintomatico ma l'ernia non è
clinicamente mani- festa, si evidenzia infatti con ↑torchio addominale attraverso il dito introdotto
dall’esterno, invaginando nel canale inguinale la cute della radice dell’emiscroto (in questo modo si
può fare DD con le tumefazioni neoplastiche e non – es cisti del funicolo, le quali non sono nè riducibili
né modificabili con ↑P addomi- nale). La tumefazione erniaria è in questo caso riducibile con la
manovra per taxis (compressione dell’er- nia partendo dal basso verso l’alto– onde evitare
strozzamento o rottura del sacco/viscere erniato).

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• ERNIA INGUINO-PUBICA (bubbonocele): si verifica quando il sacco erniario supera l’anello inguinale
esterno, occupa la radice dell’emiscroto o del grande labbro (DD con bartolinite) e si rileva osservando
deforma- zione della regione. Si può ridurre in addome con la manovra di decubito o con la manovra
per taxis.
• ERNIA INGUINO-SCROTALE: si ha una marcata deformazione del canale inguinale e dei suoi orifizi da
parte di un sacco che può raggiungere dimensioni significative (ernie permagne). Nell'ernia inguino-
scrotale può capitare che l'anello inguinale esterno sia completamente sfondato e l'ernia esca
abbondantemente, an- dando ad impegnarsi nello scroto con risultati estetici eclatanti: tuttavia il
paziente non rischia molto perché è difficile che essa si strozzi, proprio in virtù della presenza di una
porta erniaria larga. Bisogna porre in DD l’idrocele e le tumefazioni del testicolo (ecografia e/o trans-
illuminazione).

Diagnosi delle masse inguinali

Per quanto riguarda la diagnosi, queste sono simili agli altri tipi di ernie, in particolare si può utilizzare in
alternativa alla TC anche la RM (quest’ultima in pz con molto dolore, ernie piccole, difficilmente localizzabili
e giovani).

(Dalle dispense) È sempre necessario differenziare l’ernia inguinale da quella crurale (anche ai fini terapeutici):

• Ernie inguinali: tutte le tumefazioni al di sopra del legamento inguinale,


• Ernie crurali: tutte le tumefazioni al di sotto del legamento inguinale (molto più frequente in sesso F
in cui non esiste il funicolo per cui l’anello inguinale esterno è molto piccolo – DD a volte difficile)

Altre possibili cause di masse inguinali sono:

• Adenite inguinale (ove però non c’è la trasmissione dell’impulso al dito dell’esaminatore – quindi è
un segno abbastanza caratteristico)
• Testicoli ectopici: prima di ricercare un’ernia si devono sempre ricercare i due testicoli (che in alcuni
maschi sono particolarmente mobili)
• Varicocele (anche qui non vi è una trasmissione dell’impulso al dito dell’esaminatore ed è una
tumefazione a carico del funicolo)
• Idrocele (DD con ernia inguino-scrotale attraverso US o trasluminescenza)
• Lipoma

DIAGNOSI DIFFERENZIALE DEL DOLORE INGUINALE

• Tendinite: in questa regione si inseriscono una serie di legamenti, di tendini e le aponevrosi dei
muscoli retti e degli adduttori
• Pubalgia (soprattutto nel soggetto sportivo o che cambia la postura – addirittura può insorgere con
l’utilizzo di calzature poco adatte).

Trattamento dell’ernia inguinale

Segue ora la visione di un’operazione in open in anestesia locale di un’ernia inguinale. Il sito da cui è preso è
dell’Università di Strasburgo ed è gratuito: www.websurg.com.

Descrizione dell’intervento in open https://websurg.com/en/doi/vd01en1065e/: si effettua un’incisione

181
inguinale con anestesia locale a livello del derma e poi più in profondità per anestetizzare anche i tessuti più
profondi. Si pratica l’incisione cutanea con vari tipi di incisione, come l’orizzontale secondo Trabucco. Si arriva
fino alla fascia dell’obliquo esterno, la quale viene sezionata e all’interno troviamo il funicolo spermatico (se
si tratta di un uomo), per cui si cerca di isolare il canale inguinale per arrivare al funicolo spermatico per
evitare di tagliare il deferente e i vasi che irrorano i testicoli. A questo punto si visualizza il sacco erniario (che
non bisognerebbe aprire) al cui interno ci sono gli elementi dell’ernia, che vengono isolati rispetto agli
elementi del funicolo. Si adduce l’ernia in addome, dopo di che si chiude il sacco peritoneale e viene ridotta
attraverso l’anello inguinale interno. C’è anche un’ernia inguinale diretta nella fossetta media, che viene
successivamente isolata con il sacco ributtandolo in addome. A questo punto faccio tossire il paziente per
vedere se sono presenti altre ernie. Prima di posizionare una protesi di propilene, ci si cambia i guanti (il
rischio più importante è l’infezione, se si infetta la protesi bisogna effettuare in re-intervento). La posiziono
sotto l’obliquo esterno con il funicolo spermatico al di sopra, utilizzando inoltre un plug che si infila nell’anello
inguinale interno in modo da evitare che si formino altre ernie.

Descrizione dell’intervento in laparoscopia o TAPP https://websurg.com/en/doi/vd01en5447/: si


preferisce effettuarla nei pazienti molto giovani, in modo da avere una cicatrice poco visibile o se le ernie
sono bilaterali. In laparoscopia al di sotto troviamo le anse intestinali e sopra la parete addominale anteriore.
Si utilizza un’ottica con i trocar e si insuffla aria con CO2 per poter creare una camera dentro cui si può lavorare.
A questo punto si vedono le ernie dirette e indirette andando a valutare entrambi i gruppi di fossette, nel
caso in cui ci siano delle ernie bilaterali. Con un crochet si va ad incidere il peritoneo parietale per creare una
tasca, al cui interno si posizionerà una protesi. Si solleva quindi il peritoneo per inserire nella tasca una protesi
di polipropilene. Il rischio di recidive è sicuramente minore ed è anche più veloce nel caso in cui l’intervento
si debba effettuare se le ernie sono bilaterali, anche se ovviamente il tempo operatorio è abbastanza lungo.
A questo punto si richiude la tasca fissandola con della colla o dei punti tramite dardi, posizionando la protesi
nel tubercolo pubico e nella parete anteriore. Dopo di che si va a richiudere il peritoneo sempre con i punti
con i dardi o tramite sutura, in modo che non si incastrino di nuovo le anse intestinali.

[dispense] TERAPIA MEDICA

• Cinti erniari (azione meccanica)


• Terapie sclerosanti (derivanti dal campo vascolare, usate per varici esofagee o emorroidi – oggi
abbandonate): al paziente veniva ridotta l'ernia e il medico iniettava nel sottocute delle sostanze
sclerosanti che producevano un indurimento del tessuto sottocutaneo (senza risolvere il problema
alla base – di conseguenza l'ernia trovava altre strade per uscire).

TERAPIA CHIRURGICA: la terapia chirurgica si suddivide in due grandi capitoli:

- SUTURA DIRETTA: ormai si esegue quasi esclusivamente nei bambini

Metodo Bassini: la tecnica consiste nella cucitura della fascia trasversalis con dei punti (si basava sul fatto
che nell'ernia inguinale si ha un cedimento di questa struttura e si creano di fatto due bordi) che prendevano
il legamento inguinale, la fascia trasversalis, poi ancora la fascia trasversalis e infine i due bordi dei muscoli.
Questa metodica ha lo svantaggio di creare una struttura in tensione causando dolore quando i pz si rialzano
dal letto (solita- mente in 4° giornata) e cedimento dei punti al primo ↑P addominale (es. starnuto). Il ricovero
durava 7 giorni e il rischio di recidive era molto alto (10%).

Tecnica Shouldice: è una variante del metodo Bassini in cui i punti erano in continuo (non staccati).

182
- ERNIOPLASTICA PROTESICA: è la tecnica più utilizzata. Le protesi sono in genere posizionate per via
anteriore, secondo l'intervento di Lichtestein (poi modificato dal suo allievo Trabucco). Si utilizza una rete
protesica in polipropilene sagomata di dimensioni standard (la distanza tra pube e anello inguinale esterno è
la stessa in tutti i pazienti a prescindere dalla statura) per chiudere il “buco” (tecnica tension-free): essa viene
posizionata a cavallo del funicolo e fissata con dei punti o con la colla biologica; in seguito si ribalta sopra la
fascia e si chiude. Nella variante di Lichtenstein la rete veniva suturata al legamento inguinale e non era libera
di orientarsi secondo i movimenti del paziente; oggi invece si preferisce lasciarla libera di orientarsi in base
alla P endoaddominale di ciascun paziente e viene tenuta in posizione solo con alcuni punti (tecnica di
Trabucco). Nel foro passa il funicolo spermatico ed è necessario durante l’intervento legare i rami dei vasi
epigastrici per evitare sanguinamenti. Inoltre, la rete va sempre fissata, altrimenti potrebbe muoversi e
andare ad incidere sugli elementi del funicolo (infertilità nei maschi) o sui vasi iliaci.

Insieme alla rete si possono utilizzare inoltre i plug (degli "ombrelli", anche se il loro utilizzo è episodico al
giorno d’oggi perché possono dare reazione da corpo estraneo) che vengono messi nell'anello inguinale
interno da cui esce l'ernia obliqua esterna e fissati con dei punti.

I vantaggi di questa tecnica sono:

• Ricovero breve (6h)


• Immediata mobilizzazione del paziente
• Bassa incidenza di dolore postoperatorio

- LAPAROSCOPIA: le indicazioni principali all’utilizzo dell’approccio laparoscopico sono le ernie bilaterali e le


recidive (nell'ernia inguinale semplice monolaterale è considerato scorretto – necessità di una anestesia
generale a fronte della semplice anestesia locale o, al limite, spinale, che viene fatta nella tecnica chirurgica
classica). La tecnica può prevedere un approccio extraperitoneale (TEPP) o transperitoneale (TAPP).

Trattamento dell’ernia crurale

Si effettua un’incisione inguinale bassa di circa 5-6 cm, parallela alla plica inguinale fino ad arrivare
all’aponeurosi del muscolo grande obliquo, in cui si incide la fascia cribriforme e poi si isola il sacco erniario.
Una volta individuato il sacco erniario, resecato o semplicemente ridotto, si effettua un’ernioplastica
andando a stringere il passaggio crurale abbassando il legamento inguinale sulla eminenza ileo-pettinea (o
crurale). Questo intervento non è tension-free e comporta deformazione del legamento inguinale, che può
generare dolore. La plastica si può fare con dei punti diretti oppure si può fare una borsa di tabacco per
chiudere i tessuti oppure un’altra possibilità è quella di mettere un tappo detto plug che tappa il buco da cui
si è formata l’ernia.

183
Malattie chirurgiche del fegato e delle vie biliari

Anatomia
È il più grande organo della cavità
addominale, arriva a pesare 1500-
1700g.
Occupa quasi interamente il lato
destro della loggia sovramesocolica.
Nell’immagine accanto si vede la
visione ventrale del fegato con i suoi
legamenti. Nell’immagine sottostante
invece è rappresentata la faccia
viscerale del fegato. La parte
posteriore è riportata superiormente, in corrispondenza della vena cava. Su questa faccia del fegato
abbiamo diverse impronte: a sinistra quella dello stomaco, a destra quella del rene e della flessura
epatica del colon. Nella parte centrale troviamo una struttura “a forma di H”, il cui braccio
orizzontale è formato dall’ilo epatico o porta hepatis. Questa presenta una triade formata da arteria
epatica, vena porta e dotto epatico. Il braccio verticale a sinistra, invece, corrisponde all’incisura
del legamento rotondo, residuo della vena ombelicale fetale, e a destra il dotto di Aranzio.

La maggior parte della chirurgia del fegato viene eseguita in questa regione oppure in alto in
corrispondenza delle vene sovraepatiche. Queste sono poste dorsalmente, nascoste dal fegato
stesso. È necessario sezionare tutti i legamenti del fegato e abbassarlo per poter accedere a queste
strutture.

L’ilo epatico presenta un’anatomia piuttosto complessa. Dorsalmente troviamo la vena porta che,
una volta dentro al parenchima, si divide in due rami principali. Il ramo sinistro è più lungo, decorre

184
orizzontalmente, assieme ai rami
dell’arterie epatica e delle vie
biliari, nella compagine del fegato a
dare poi i dotti per il segmento II, II
e il ramo sinistro del IV.
A destra il decorso è più breve e
danno i rami per i segmenti V e VIII
(parte supero mediale del lobo dx)
e per VI e VII (porzione laterale).

Al di fuori del fegato abbiamo la


colecisti e il dotto cistico, il quale si
va ad impiantare su quello epatico. L’arteria cistica origina dal ramo destro della arteria epatica.
Questo è importante perché il dotto cistico, il fegato e il dotto epatico delimitano il cosiddetto
Triangolo di Calot che è diviso in due, come fosse una bisettrice dall’arteria cistica. Si tratta di reperi
chirurgici molto importanti per la regione.

N.B. Dal tripode celiaco originano 3 arterie: gastrica sinistra, splenica e epatica. Quest’ultima,
portandosi in avanti, dà due importanti rami, l’arteria gastroduodenale e la gastrica di destra.
Infine, in prossimità dell’ilo si divide in arteria epatica di sinistra e di destra. Esistono moltissime
varianti anatomiche da tenere presenti quando si va ad operare sull’ilo epatico per fare resezioni o
trapianti. In questi casi si possono fare delle ricostruzioni mediante l’angioTC.

Nell’immagine soprastante è riportata l’anatomia chirurgica del fegato, diviso in due lobi e 8
segmenti di Couinaud (wikipedia chiama i lobi segmenti e questi ultimi subsegmenti). I segmenti
sono numerati in senso orario (lui ha detto antiorario) se visti dalla faccia viscerale del fegato.
Il primo corrisponde al lobo caudato, II e III costituiscono il lobo di sinistra insieme a parte del IV, da
IV a VIII formano il lodo destro. Tra il V e il VI troviamola fossa colecistica

Il lobo sinistro (II, III, e IV) è vascolarizzato dall’arteria epatica di sn, il ritorno venoso è garantito
dalla vena sovraepatica sn. La chirurgia resettiva dei segmenti II e III è piuttosto semplice mentre
bisogna ricordare che il IV riceve vasi arteriosi e venosi anche da destra (soprattutto la vena
sovraepatica media).

Possono essere asportai un vario numero di segmenti e, in base ad esso, distinguiamo: epatectomia,
lobectoma e (bi-, tri-) segmentectomia. È importante in questi interventi rispettare l’anatomia
chirurgica del fegato e legare non solo i vasi ma anche le vie biliari, al fine di prevenire eventuali
fistole biliari.
In un paziente sano si può asportare fino al 70% del fegato, sapendo che nell’arco di breve tempo
(in alcuni casi addirittura un mese) esso si rigenera e torna alle dimensioni normali.

[Successivamente il prof ha mostrato due video di epatectomie dei quali troverete il link sulle slides].

185
Chirurgia generale: Prof. Mao
Maria Vittoria Parola
15/10/2020
Patologia del fegato e delle vie biliari1
Nella scorsa lezione abbiamo trattato l’anatomia del fegato considerando la sua divisione in lobi e segmenti.
Si sono in seguito analizzati due esempi di resezione maggiore del fegato, l’epatectomia destra e sinistra,
l’una laparoscopica e l’altra in open. Oltre a questi interventi esistono interventi di resezione più limitata come
la segmentectomia o le resezioni atipiche. Esiste infine il trapianto di fegato che talvolta può essere anche il
più semplice fra gli interventi di resezione; tuttavia, per quanto riguarda il trapianto, in certi pazienti il
contorno clinico, la preparazione del paziente stesso, la sua gestione intra e post-operatoria sia dal punto di
vista rianimatorio che chirurgico, la gestione del prelievo di organo e della sua conservazione sono spesso
complessi. Nondimeno il trapianto di fegato è un intervento estremamente efficacie: la mortalità per tale
intervento è molto più limitata rispetto alle indicazioni che portano il paziente al trapianto stesso, è quindi
sicuramente vantaggioso purchè l’indicazione sia corretta. Ultimamente si è assistito ad una lieve riduzione
delle indicazioni al trapianto legata alla diminuzione dei casi di epatite B avanzata e alla possibilità di terapia
per l’epatite C, anche se gli effetti di queste terapie (per HCV) e campagne vaccinali (per HBV) si sentiranno
molto di più nei prossimi anni.

Anatomia delle vie biliari


Osserviamo l’anatomia delle vie biliari. A sinistra si osserva la colecisti. La
colecistectomia, ovvero la rimozione delle colecisti, è sicuramente l’intervento
laparoscopico più comune che viene eseguito in chirurgia generale, la sua
indicazione principale è la litiasi della colecisti, a seguire colecistiti e altre
indicazioni.
Dal punto di vista anatomico distinguiamo un fondo, un corpo, un infundibolo
(zona ad imbuto dove la colecisti si restringe) e successivamente un collo che
trapassa nel dotto cistico. Quest’ultimo fa parte delle vie biliari e a sua volta si
va ad innestare sul dotto epatico comune (dato dalla congiunzione del dotto
epatico sinistro e destro), a formare il dotto coledoco. Come si vede
dall’immagine la colecisti si trova di lato, non a caso viene anche chiamata via
biliare accessoria, mentre la via biliare principale è quella determinata dai dotti
epatici e dal dotto coledoco: in virtù di questa posizione anatomica, la colecisti
e il dotto cistico possono essere sezionati e legati abbastanza impunemente
senza che ci siano delle grosse conseguenze per la salute. In sintesi, in
condizioni fisiologiche la bile passa nella colecisti fra un pasto e l’altro (lo
sfintere di Oddi rimane chiuso) dove viene concentrata, successivamente viene
fatta defluire nel duodeno mediante contrazione della colecisti solo durante i
pasti; dopo la colecistectomia invece la secrezione di bile avviene in modo continuativo direttamente
nell’intestino. Tale condizione non determina grossi problemi di assorbimento, tuttavia in qualche paziente
può verificarsi un periodo in cui il passaggio di bile continuativa aumenta la frequenza dei movimenti
intestinali.
La colecisti è indovata in una tasca del fegato e ha un importante rapporto con tutto il duodeno sul quale
sta appoggiata, tanto che possono formarsi delle fistole fra colecisti e duodeno: questo fenomeno accade
soprattutto quando ci sono grossi calcoli che decubitano, erodono la parete e possono in seguito passare nel
duodeno e determinare un’occlusione da calcolo. Un’ importate dettaglio anatomico da ricordare è il
triangolo determinato da dotto cistico, dotto epatico e fegato (triangolo di Calot): il triangolo di Calot è

1
La lezione contiene nozioni introduttive e generali sulla patologia epatica e biliare. Mi sono limitata a integrare le patologie
neoplastiche su cui il professore si è soffermato maggiormente (HCC dalle sbobine dello scorso anno mentre le altre neoplasie dalle
dispense BBC).

186
importante per i chirurghi perché è attraversato come da una bisettrice dall’arteria cistica2 che va individuata
e legata quando si rimuove la colecisti. La dissezione accurata del triangolo di Calot rappresenta la chiave per
evitare di fare danni durante la colecistectomia.
A lato si vede un’immagine più grande che illustra
l’anatomia delle vie biliari. L’ albero biliare incomincia dai
dotti periferici che poi si raggruppano in dotti segmentari,
dunque nei dotti epatici di destra e di sinistra ed infine nel
dotto epatico comune.
A destra, il dotto dell’8° segmento confluisce con quello del
5° mentre il dotto del 6° segmento confluisce con il 7°, i due
dotti così formatisi genereranno il dotto epatico di destra.
Il dotto epatico di sinistra invece è un po' più prolungato,
arriva dal fegato di sinistra e forma il cosiddetto recesso di
Reitz e drena il 2° e il 3° segmento e parte del 4° mentre il
1° segmento ha delle piccole radici che vanno all’interno del
dotto epatico principale. Successivamente il dotto epatico
comune si dirige in basso a confluire con il dotto cistico per formare il coledoco. Quest’ultimo scende poi
dapprima dietro il duodeno nel retroperitoneo per poi penetrare nella testa del pancreas. Il coledoco si unisce
al dotto pancreatico principale di Wirsung generando l’ampolla di Vater che si apre in duodeno a livello della
papilla di Vater. Tale zona è molto importante perché i tumori che si generano in questa regione, i cosiddetti
tumori periampollari, sono causa di ittero: la causa neoplastica più comune è il tumore della testa del
pancreas ma esistono anche ampollomi, tumori del duodeno e tumori della papilla stessa. Tali neoplasie, a
prescindere dall’andamento più o meno maligno, sono accomunate dalla comparsa di un ittero ostruttivo
grave e continuo. In genere il paziente arriva in osservazione quando ha già valori di bilirubina abbastanza
alti, la dilatazione delle vie biliari da causa neoplastica infatti non è in genere associata a dolore (né a livello
delle vie biliari né a livello della colecisti): la dilatazione della colecisti legata ad una neoplasia è un’evenienza
tipica e si definisce segno di Courvosier-Terrier.

Sintomi e segni della disfunzione epatica


- Nausea (indotta da odori, cibi grassi, fumo di sigaretta);
- Iporessia o anoressia: soprattutto se si tratta di un tumore o di una infezione cronica delle vie biliari;
- Disturbi del sonno;
- Dolore addominale;
- Alterazioni dell’alvo;
- Alterazioni delle urine;
- Prurito e manifestazioni cutanee (connesse alla colestasi e all’eccesso di acidi biliari);
- Ascite;
- Ittero;
- Febbre, sudorazione e brivido: le ostruzioni delle vie biliari possono generare colangite che si associa
frequentemente, a brivido scotente (caratteristica in comune con le infezioni delle vie urinarie);
- Massa palpabile: sia colecisti ingrandita o indurita sia masse di origine epatica;
- Riscontro casuale: in molti casi la malattia epatica viene riscontrata in modo casuale perché il
paziente esegue degli esami del sangue dove sovente si riscontrano AST e ALT mosse, gli indici di
colestasi gammaGT e fosfatasi alcalina leggermente aumentati oppure alterazioni dell’albumina,
importante indice di sintesi epatica: se si ha sospetto di patologia epatica si procede in genere con
una ecografia, esame di primo livello per eccellenza.

2
L’arteria cistica proviene dal ramo destro dell’arteria epatica.

187
Anamnesi
Come al solito, l’anamnesi è importante perché ci aiuta a inquadrare il paziente in maniera corretta. È
importante indagare:
- Abitudini di vita: alcol, tossicodipendenza;
- Assunzione di cibi particolari;
- Viaggi in aree endemiche per epatite e altre infezioni;
- Infestazioni;
- Farmaci;
- Trasfusioni.

Semeiotica fisica del fegato: EO


ISPEZIONE
Nelle fasi avanzate di una cirrosi saranno comuni edemi, ascite,
spider nevi e circoli collaterali mentre in fasi più precoci possono
essere unicamente riscontrati subittero (a livello delle slere) e
alterazione del colore delle urine. Segni tipici della disfunzione
epatica sono:
- Subittero e ittero;
- Urine ipercromiche;
- Ascite;
- Circoli collaterali: i circoli collaterali cava-cava vanno dal
basso verso l’alto, mentre altri circoli collaterali quali il caput
medusae hanno un aspetto tipico (vedi immagine) legato ad una riabilitazione del legamento rotondo
ovvero del residuo della vena ombelicale;
- Edemi e anasarca da disprotidemia;
- “Spider nevi” tipici della cirrosi.
- Cachessia;
- Eritema palmare.
- Ginecomastia: il fegato ha la funzione di inattivazione di molte sostanze fra cui gli estrogeni (ormoni
sessuali presenti anche nell’uomo) pertanto, se il fegato non è funzionante, si potrà avere
ginecomastia di grado più o meno elevato.
PALPAZIONE
Mediante la palpazione è possibile cogliere il margine
epatico e valutarne la dolorabilità: i vecchi clinici si
basavano molto sulla palpazione e sulla valutazione del
riflesso epato-giugulare (segno tipico di scompenso
cardiaco), attualmente si fa una valutazione molto più
approssimativa della grandezza del fegato mediante
palpazione ed eventualmente la si perfeziona con
l’ecografia.
Per la palpazione epatica si consiglia di:
1. Iniziare dalla fossa iliaca destra;
2. Fare inspirare il paziente durante la palpazione.
Il corretto esame obiettivo dovrebbe tenere conto di:
- DIMENSIONI: indicare la distanza del margine epatico rispetto all’arcata costale sulla linea xifo-
ombelicale, paracentrale, ascellare anteriore;
- CONSISTENZA: parenchimatosa normale, aumentata (fibrosi, neoplasia, stasi cronica, steatosi),
diminuita (edema), ovviamente la valutazione della consistenza risulta in genere abbastanza
aleatoria;

188
- CARATTERI DEL MARGINE:
◼ Smusso ovvero normale o accentuato e tagliente (associato a fibrosi o cirrosi);
◼ Regolare o irregolare (talvolta associato alla presenza di macro-noduli e neoplasie).
- SUPERFICIE: la palpazione della superficie del fegato risulta essere molto difficile tuttavia è
importante ricordare che, quando si opera il fegato in open si palpa il fegato con la mano all’interno
dell’addome. Il fegato normalmente è molto soffice quindi se c’è una alterazione della superficie di
tipo nodulare è in genere rilevabile. Allo stesso modo, a livello intraoperatorio, attualmente è
possibile eseguire una ecografia intraoperatoria sia per via laparoscopica sia nella chirurgia
laparotomica. Quindi sia con a palpazione sia con l’ecografia è possibile definire le caratteristiche del
nodulo.
- DOLENZIA E DOLORABILITA’:
◼ Bisogna verificare se c’è o meno del peritonismo: se la colecisti è infiammata è facile che si
positivizzino sia il segno di Murphy (dolore che insorge quando la colecisti impatta sulle dita
dell’operatore e induce il paziente ad interrompere l’atto respiratorio) sia il segno di Blumberg
(dolore da rimbalzo che in questo caso può essere localizzato unicamente a livello del fondo della
colecisti per irritazione del peritoneo parietale);
◼ Distensione acuta della capsula glissoniana in caso di fegato da stasi acuta, epatite acuta;
◼ Necrosi epatica da occlusione venosa;
◼ Infiltrazione della capsula glissoniana in caso di neoplasie infiltranti.
PERCUSSIONE
La percussione epatica consente di:
- Definire il margine superiore epatico;
- Verificare la presenza dell’aia di ottusità epatica (si
ricorda che, come la palpazione, anche la percussione
deve essere iniziata in fossa iliaca destra a salire,
invitando il paziente ad inspirare durante la
percussione). È importante ricordare l’aia di ottusità
epatica perché quando c’è una perforazione
gastrointestinale soprattutto alta (per esempio perforazione di stomaco o duodeno da ulcera)
scompare l’aia di ottusità epatica perché l’aria si insinua fra la superficie del fegato le la concavità del
diaframma e della parete addominale. Quindi la scomparsa dell’aia di ottusità epatica è considerata
segno tipico di perforazione intestinale.
- La percussione è poi utile per l’identificazione dell’ascite mediante la manovra del ballottamento
che consente la percezione del fiotto ovvero la percezione di trasmissione di liquido quando si dia
un impulso con una mano. La mano del secondo operatore posta a taglio a metà dell’addome serve
per evitare la trasmissione da parte del grasso sottocutaneo. Il versamento ascitico è un versamento
libero all’interno del peritoneo (a meno che non ci siano aderenze) e si va a distribuire nella zona
declive per cui se facciamo girare il paziente su un lato durante la percussione ascolteremo una
ottusità nella zona più bassa. L’ecografia può rappresentare un esame di conferma per valutare
l’ascite.

Si ha suono timpanico dove c'è aria e suono ottuso dove ci sono masse palpabili o liquido

189
Diagnostica epatica
La diagnostica del fegato di primo livello è rappresentata dall’ecografia che è forse l’esame maggiormente
svolto. Per molte situazioni (come la definizione di noduli o angiomi, l’identificazione della patologia
colecistica e colelitiasica) è l’esame più sensibile, talvolta meglio della TC. Mediante ecografia si possono
individuare quadri di steatosi e di cirrosi, vedere noduli rigenerativi del fegato, identificare ascite, cisti
epatiche. Per la cisti la qualità della TC è superiore mentre per i noduli è spesso sufficiente l’ecografia. Si nota
in immagine a destra un ascesso epatico: l’ascesso epatico
batterico si può formare per via metastatica attraverso la
vena porta a partenza da una appendicite o da altre infezioni
addominali come una diverticolite perforante. Gli ascessi
epatici sono estremamente resistenti agli antibiotici e quindi
difficili da eradicare, se ci sono ascessi multipli la situazione
può diventare estremamente seria e complicarsi in una grave
sepsi. In immagine si osserva un ascesso epatico singolo che
necessiterà di un drenaggio sotto guida TC o ecografica
oppure, meno frequentemente, un drenaggio chirurgico. L’ascesso batterico è in genere abbastanza regolare
a pareti lisce, di forma rotonda e non anfrattuoso nei suoi contorni tuttavia esiste anche l’ascesso amebico.
Aspetto non dissimile dall’ascesso è quello dell’HCC (a
sinistra) che può essere almeno in parte necrotico al
suo interno e può generare dei dubbi nella diagnosi
differenziale. Ovviamente in caso di sospetto si andrà
a cercare con una TC la conferma di questa condizione
effettuando eventualmente una biopsia. Ancora più
frequenti dell’HCC sono le secondarietà a livello
epatico (a destra).

La TC dell’addome (spesso con mdc) permette una buonissima visione del fegato: se da un lato è l’esame
principale per la diagnosi delle malattie parenchimali e vascolari del fegato (perché con il mdc ci permette di
acquisire volumi in tempi diversi studiando sia la fase arteriosa sia quella portale sia la ramificazione sovra-
epatica) dall’altra non consente una visione ottimale delle vie biliari e del loro contenuto tanto che per la
diagnostica delle vie biliari ci si appoggia in primo luogo alla ecografia e in seconda istanza alla colangio-RMN.

La semplice RMN magnetica permette una visione del fegato molto buona con ricostruzioni multiplanari
ma non aggiunge molto a ciò che si vede con la TC dell’addome. Viceversa è molto utile la colangio-RMNche
rappresenta il gold standard diagnostico sulle vie biliari. Prima di eseguire una procedura transepatica, una
ERCP o una procedura chirurgica oramai viene sempre fatta prima una colangio-RMN che permette sia di
vedere bene le VBP, le biforcazioni e spesso anche il Wirsung sia di pianificare al meglio l’intervento. Viene
eseguito con specifici mezzi di contrasto o con il succo d’ananas3.

La PET evidenzia invece l’attività metabolica e viene utilizzata per caratterizzare tumori, molto utile per le
metastasi epatiche in congiunzione con la TC per comprendere meglio la distribuzione e la grandezza delle
stesse: ad oggi esistono dei macchinari ibridi TC-PET e RMN-PET che danno immagini ancora più complete e

3
Il professore parla di utilizzo di mezzo di contrasto durante la colangio-RMN tuttavia da Wikipedia: la colangio-RMN non necessita
di utilizzo di mezzo di contrasto ma fa uso di sequenze di impulsi pesate in T2. Queste immagini mostrano un segnale ad alta intensità
per i fluidi stazionari (questi fluidi appaiono iperintensi): pertanto i fluidi contenuti all'interno della cistifellea, dei dotti biliari e del
dotto pancreatico, si caratterizzano per un segnale elevato. Al contrario i tessuti circostanti (ed in particolare il fegato), così come
il sangue danno un segnale a bassa intensità: l'accostamento di queste immagini comporta un contrasto ottimale. Il paziente deve
presentarsi all'esecuzione dell'esame a digiuno nelle 6 ore precedenti, così da ridurre le secrezioni di liquidi all'interno dello stomaco
e del duodeno (favorendone lo svuotamento) e permettere il riempimento della cistifellea, riducendo la peristalsi intestinale. In
alcuni centri è abituale l'utilizzo di un mezzo di contrasto orale negativo (in genere circa 100 cc di semplice succo di mirtillo oppure
un liquido contenente ossido di ferro non assorbibile) al fine di migliorare il contrasto riducendo l'intensità del segnale dei fluidi
contenuti nello stomaco e nel duodeno.

190
con maggiore definizione. Comunque, nodi di grandi dimensioni vengono identificati con qualunque
metodica.

La RMN magnetica elastoscan viene eseguita in maniera particolare e consente di vedere una vera e
propria trasduzione dell’onda all’interno del fegato e di conseguenza la sua capacità visco-elastica. Risulta
essere molto importante non tanto per i chirurghi quanto per gli internisti che seguono l’evoluzione della
steatosi verso fibrosi e cirrosi o che seguano un paziente che abbia una epatite in trattamento in cui si cerchi
di far regredire lo stato di fibrosi del fegato mediante farmaci. In campo chirurgico invece ha sicuramente
meno importanza.

Un esame utile soprattutto per la via biliare e per la regione periampollare è l’econdoscopia che permette
di identificare bene tutte le strutture che stanno vicino al duodeno e alla testa del pancreas e consente di
effettuare dei prelievi bioptici mirati mediante FNA. Questo esame è considerato uno standard per la
diagnostica dei carcinomi della testa del pancreas. In realtà, con eco-endoscopia e prelievo con ago sottile
fino al 30% dei tumori del pancreas non può essere diagnosticato istologicamente tuttavia mediante l’utilizzo
congiunto di TC, RMN ed ecoendoscopia si riesce ugualmente a definire l’indicazione chirurgica e l’operabilità
dei pazienti (si ricorda che il coinvolgimento di alcune strutture quali ad esempio la vena porta e la vena
mesenterica superiore pregiudica l’operabilità di tali pazienti). Esiste il rischio di insemenzamento lungo il
tragitto seppur limitato.
Esistono ulteriori possibilità endoscopiche: ad esempio, attualmente sussiste la possiilità di entrare
all’interno della via biliare con piccoli endoscopi (definiti baby) che vengono portati in sede da un endoscopio
maggiore. Queste teste endoscopiche endobiliari hanno sia una sonda ecografica sia un sistema di laser che
consente di ingrandire la struttura fine delle vie biliari con una risolzione quasi microscopica.
Tutte queste metodiche nascono dal fatto che la dimostrazione della presenza di un tumore è sempre molto
difficile in questa zona. Gli interventi che devono essere svolti, come la duodenocefalopancreasectomia o la
pancreasectomia totale, sono complessi con mortalità intra-operatoria ancora elevata (4-5%) e una morbilità
post-operatoria importante che può arrivare al 60-70% (comprende fistole, dumping sindrome, disturbi
digestivi) pertanto i chirurghi devono essere estremamente cauti nel proporre questi interventi al paziente;
avere una diagnosi il più possibile precisa è quindi sempre molto desiderabile.
La sonda ecografia è circolare e dà immagini concentriche. Attorno all’endoscopio in genere, è presente un
palloncino per mantenere il contatto con la mucosa del duodeno. Consente di individuare con chiarezza i vari
strati della mucosa e le strutture che stanno intorno come il duodeno e l’ampolla.

La diagnostica invasiva comprende manovre come la ERCP e la PTC che, ad oggi, vengono per lo più
utilizzate a scopo terapeutico (posizionamento di stent, drenaggio biliare, estrazione di calcoli etc.) oppure
nella diagnostica avanzata in caso di elevato sospetto di neoplasia (necessità di biopsia).
- ERCP: mediante l’ERCP (Colangiopancreatografia Endoscopica Retrograda)) è possibile incannulare
la papilla e iniettare al suo interno mdc, evidenziando le vie biliari. Con questa metodica invasiva si
possono eseguire dei veri e propri interventi che vanno dalla papillectomia, all’estrazione di calcoli,
alla biopsia fino a interventi più complessi. La lezione procede con la vista di un filmato che descrive
una ERCP (htps://www.youtube.com/watch?v=XIpnftorspk)4: viene descritto un paziente con calcoli
all’interno della via biliare principale. Di seguito un riassunto.

4
NB: oltre a questo video le slides ne riportavano un altro sulla Rendez-vous che probabilmente verrà trattata nella
lezione sulla colelitiasi.

191
Si entra endoscopicamente in esofago, quindi nello stomaco e, grazie ad una manovra di retrazione
e rotazione si passa nel primo duodeno. Ovviamente il duodeno è vuoto perché il paziente si trova a
digiuno ed è stata insufflata dell’aria per consentirne una visualizzazione adeguata. Viene quindi fatta
una accurata esplorazione del duodeno e della papilla (identificabile come una goccia di bile). Si
procede all’incannulazione della papilla. Il filo utilizzato è molto idrofilo e morbido al fine di non
danneggiare le strutture delicate della via biliare. Tale filo viene inserito attraverso il canale operativo
dell’endoscopio, viene fatto quindi scorrere all’interno della via biliare.
A livello della papilla lo sbocco non è unico ma al suo interno ci sono due dotti: il dotto pancreatico
di Wirsung, che è più orizzontale, e il dotto coledocico che è più verticale. Per entrare nel coledoco è
necessario angolare maggiormente l’endoscopio. Una volta che la punta della cannula è stata
inserita si procede iniettando il mezzo di contrasto (nel caso del video mostrato si osserva come
iniettando mezzo di contrasto non si opacizza la via biliare probabilmente perché è stato incannulto
il Wirsung quindi bisogna procedere retraendo lo strumento ed angolandolo in modo diverso).
Bisogna iniettare meno liquido di contrasto possibile perché con alte pressioni si rischia di
determinare una pancreatite iatrogena (qualora si sia entrati accidentalmente nel Wirsung). Una
volta che si è riusciti ad inacannulare il coledoco, iniettando mdc, si opacizzerà tutta la via biliare
visualizzando il dotto epatico comune e il dotto coledoco: nel caso analizzato nella parte inferiore si
visualizza una zona dove non c’è contrasto che corrisponde alla zona dove ci sono i calcoli o la sabbia
biliare. Successivamente con uno strumento che può essere un palloncino o un cestello si procede
all’estrazione dei calcoli. In questo caso la papilla viene sezionata mediante un’ansa messa sotto
tensione (viene fatta passare della corrente come se fosse un elettrobisturi): la papillectomia
consente di allargare la via biliare e di far fuoriuscire il calcolo senza traumi della parete oppure di
posizionare una protesi all’interno della via biliare per drenare una stenosi5. I calcoli possono essere
rimossi mediante palloncino Fogarty (viene inserito nella via biliare, portato fin sopra i calcoli e
successivamente gonfiato e trazionato indietro in modo da rimuovere i calcoli che si trovano sotto)
oppure mediante canestro Dormia. Il calcolo rimosso con il Dormia in genere viene estratto, in
alternativa, se non è troppo grande, può essere rilasciato a livello duodenale ed eliminato
naturalmente. Alla fine della procedura viene fatto un controllo iniettando una seconda volta il
mezzo di contrasto per verificare che il difetto di riempimento che c’era prima non ci sia più.
- PTC (Colangiografia Trans-epatica Percutanea);
- Biopsia percutanea stereotassica;
- Biopsia laparoscopica.

Infine, è possibile eseguire delle rappresentazioni


tridimensionali che possono ruotare e dare appunto una
visione 3D con la visualizzazione di tutti i particolari dell’albero
biliare e vascolare del paziente permettendo di capire come
condurre e pianificare l’intervento (come nell’immagine).
L’ultimo livello di diagnosi subito prima di fare un grosso
intervento sul fegato e aprire l’addome per avere un ampio
accesso è rappresentato dalla laparoscopia esplorativa poiché
esistono pazienti con tumore del pancreas e del fegato con
metastasi peritoneali e sovra-epatiche che non vengono
diagnosticate alla TC (sebbene ad oggi la sensibilità della TC sia molto migliorata). La presenza di carcinosi
peritoneale (riscontro nel 10-20% dei casi, fino al 36% in alcune casistiche) controindica l’intervento
chirurgico maggiore. Durante la laparoscopia è possibile completare l’esame non soltanto con la visione
diretta ma anche facendo, come già accennato, una ecografia intra-operatoria.

5
Nel corso della lezione si ricorda che: Il contenuto della via biliare deve essere fatto defluire (mediante papillectomia)
quando c’è una stenosi o quando c’è una ostruzione (da calcolo) soprattutto se questa è associata ad una colangite (vedi
dopo).

192
Infine, l’angiografia ad oggi è invece poco usata. Viene utilizzata per lo più per motivi terapeutici ad esempio
per visualizzare i rami arteriosi che affluiscono al tumore in modo da consentire l’embolizzazione mirata della
regione e l’infusione di sostanze chemioterapiche mirate o di sfere radioattive (TACE e TARE) in modo da
consentire un trattamento locale della neoplasia.

Patologie malformative
Anomalie della colecisti
- Anomalie di numero: agenesia, duplicazione;
- Posizione: ectopia;
- Forma: pieghe, setti, diverticoli; si fa riferimento alla colecisti a cappello frigio, riportata su tutti i
libri. Sono relativamente importanti perché in
genere predispongono allo sviluppo della colelitiasi
e a causa delle anomalie di forma può essere più
complessa la loro estrazione per il chirurgo.
- Altro: ectopie, mobilità, aderenze congenite.

Anomalie dei dotti intraepatici


L’ anatomia dei dotti intraepatici è molto variabile (il tipo A,
in immagine, è “normale” e si presenta solo nel 57% dei
casi). Ovviamente il medico internista non ha necessità di
conoscerle mentre sono importanti per il chirurgo perché
se ci si trova davanti a delle anomalie bisogna sapere come
comportarsi per non ledere la via biliare principale. Ad
esempio, in caso di anomalia c) (in immagine) è molto facile
scambiare una struttura per un’altra e creare complicanze.

Varianti dell’ampolla di Vater


Le varianti dell’ampolla di Vater invece non sono molto
comuni. Secondo molti autori un lungo tratto comune
di Wirsung e coledoco (quindi una confluenza precoce
di questi due dotti) favorirebbe l’insorgenza di
pancreatiti. In altri termini, l’assenza di sfinteri separati
favorisce il reflusso biliare nel Wirsung (pancreatiti) e il
reflusso pancreatico nel coledoco (cisti).

Anomalie cistiche
Le cisti del coledoco e delle vie biliari sono
relativamente poco frequenti (da 1: 100.000 a 1:
10.000) tuttavia soprattutto i gradi più bassi possono
talvolta essere riscontrati. Esistono forme sia congenite
sia acquisite.
Dal punto di vista clinico non sono troppo problematiche tuttavia:
- Favoriscono stasi biliare quindi possono dare:
◼ Calcolosi al loro interno (l’unica citata);
◼ Colangiti;
◼ Ascessi;
◼ Cirrosi biliare e ipertensione portale;
- Possono rompersi con conseguente coleperitoneo;
- Sono lesioni precancerose per il colangiocarcinoma: le dilatazioni del coledoco sono considerate
precancerose se superiore ai 2 cm pertanto in questi casi bisogna intervenire.

193
Le cisti si classificano secondo la Classificazione di Il morbo di Caroli (malattia cistica diffusa, Tipo V
Todani in: → vedi a lato) è una patologia ereditaria (AR)
Tipo I: dilatazione dell’intero dotto epatocoledoco legata a malformazioni della placca biliare. In
(80%) genere si manifesta nell’adulto (intorno a 20-30
- Ia: cistica; anni) mentre è più grave se l’insorgenza è precoce:
- Ib: fusiforme; quando la patologia si palesa è necessario
- Ic: sacculare. ricorrere a trapianto di fegato. Spesso è inoltre
Tipo II: diverticolo isolato della via biliare (5%) associata a rene policistico o altre policistosi, a
Tipo III: coledococele calcoli (nel 95% dei casi), colangiti, fibrosi epatica
Tipo IV: cisti multiple e nei casi gravi ipertensione portale anche precoce
- IVa: intra ed extra-epatiche con ematemesi e insufficienza epatica. All’imaging
- IVb: solo extra-epatiche. si può notare l’aspetto molto peculiare come
Tipo V: malattia cistica diffusa dei rami intraepatici vuoto di parenchima epatico che viene totalmente
(morbo di Caroli). sovvertito da strutture cistiche.

Atresia delle vie biliari


L’atresia delle vie biliari è un’altra patologia congenita (1:10/15000 neonati, soprattutto maschi) di tipo
completo o incompleto: nella sua forma completa prende il nome di morbo di Kasai (causa ovviamente di
trapianto epatico). Si manifesta nel neonato (tra le 2 settimane e i 2 mesi di vita) con ittero ostruttivo
persistente associato a mal digestione e malnutrizione, feci acoliche, urine ipercromiche ed epatomegalia: è
la causa più comune di colestasi e cirrosi nel neonato, causa di oltre il 50% dei trapianti nei bambini. Può
accompagnarsi a: situs inversus, atresia intestinale, malformazioni cardiache.
Spesso si esegue un primo intervento che è rappresentato da una sorta di anastomosi fra la porta del fegato
e un’ansa intestinale6 che consente al paziente di raggiungere la maggior età. Successivamente il paziente
necessiterà di trapianto di fegato.

Cirrosi
Fino ad ora la causa più comune di
trapianto di fegato è rappresentata
dalla cirrosi. Come noto, viene
classificata in stadi in base alla
classificazione di Child Pugh (in
figura): lo stadio B è quello che
maggiormente beneficia del
trapianto poiché a mortalità a 5-10
anni in un paziente con cirrosi di
stadio B è molto superiore a quella di
un paziente trapiantato in queste
condizioni (90% di sopravvivenza a 5
anni e 80% a 10 anni). Al momento
quindi la cirrosi costituisce
l’indicazione più comune di trapianto
di fegato anche se non la migliore in termini di prognosi perché le malattie congenite (come quelle appena
viste e le glicogensoi) hanno, se sottoposte a trapianto, un outcome migliore.

6 Il trattamento iniziale è chirurgico e l'intervento si chiama portoenteroanastomosi o intervento di Kasai dal chirurgo giapponese
che l'ideò. Lo scopo di tale intervento è duplice: il primo è la conferma dell'atresia e il secondo far defluire nuovamente la bile dal
fegato all'intestino. In anestesia generale, previa adeguata preparazione preoperatoria, il chirurgo pratica un'incisione addominale a
livello dei quadranti addominali superiori e verifica l'assenza della via biliare extraepatica (atresia) sia direttamente sia mediante un
esame radiologico chiamato colangiografia intraoperatoria, confermando la diagnosi. Viene inoltre prelevato un pezzettino di fegato
(biopsia) che sarà analizzato al microscopio. In seguito, se l'atresia è confermata, il chirurgo collega una parte d'intestino tenue al
fegato (portoenteroanastomosi) per creare una via di drenaggio alla bile

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Ittero ostruttivo
Se ne farà solamente un accenno perché se ne è già parlato in altre situazioni. Si tratta di una patologia molto
comune, vista quasi quotidianamente: è una condizione caratterizzata da una colorazione gialla della cute e
delle sclere e delle membrane mucose come risultato di un aumento della bilirubina sierica per una causa
ostruttiva (bilirubina superiore ai 3g/100ml). Fortunatamente la causa più comune è benigna ed è
rappresentata dai calcoli della colecisti o della via biliare principale.
L’ittero è generalmente suddiviso in base a:
- Patogenesi: ittero pre-epatico, epatico e post-epatico;
- Causa: ostruttivo o non ostruttivo;
- Chirurgico o non chirurgico: il chirurgo ovviamente è interessato dall’ittero post-epatico soprattutto
di tipo ostruttivo.
L’ittero post-epatico ostruttivo viene poi ulteriormente classificato sulla base della sintomatologia, del
comportamento clinico e dell’eziologia.
Tipo I: ostruzione completa della via biliare→ la bilirubina continua a salire senza remissione ed è
generalmente associato a:
- Tumori (testa del pancreas, colangiocarcinoma, neoplasia della papilla e dell’ampolla di Vater);
- Legatura del coledoco legata all’atto chirurgico durante la colecistectomia;
- Malattia del parenchima epatico (nelle slides ma non citato).
Tipo II: ostruzione intermittente → è la forma più comune in genere legata a:
- Coledocolitiasi (nella grande maggioranza dei casi);
- Tumori peri-ampollari;
- Diverticoli duodenali;
- Cisti del coledoco;
- Papilloma del doto biliare;
- Parassiti intra-biliari;
- Emobilia.
Tipo III: ostruzione cronica incompleta con rialzo cronico della bilirubina e degli indici di colestasi. La bilirubina
ad un certo punto si ferma e non va oltre ai valori di 3-4-5 mg/100ml. È legata a:
- Stenosi delle vie biliari
◼ Congenita;
◼ Traumatica;
◼ Colangite sclerosante;
◼ Post-radioterapica.
◼ Più raramente può essere causata da un tumore a crescita molto lenta (come per esempio alcuni
tumori neuroendocrini)
- Anastomosi bilio-enterica stenosata;
- Fibrosi cistica;
- Pancreatite cronica;
- Stenosi dello sfintere di Oddi.
Tipo IV: ostruzione segmentaria → la distinzione di questa ostruzione verrà ovviamente fatta con ecografia e
con colangio-RMN tramite cui si osserverà che solo una parte del sistema biliare è dilatato.
- Traumatica;
- Epatolitiasi;
- Colangite sclerosante;
- Colangiocarcinoma (multifocale)

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Per riassumere, le cause più frequenti di ittero ostruttivo sono rappresentate dalla litiasi e dal
colangiocarcinoma. Cause meno frequenti ma comunque possibili sono:
- Traumatica o post-colecistectomia;
- Atresia delle vie biliari o altre malformazioni;
- Presenza di cisti;
- Colestasi intraepatica: non è di interesse chirurgico;
- Colangite sclerosante: la sua diagnosi può spesso essere difficile, colpisce soprattutto donne sotto i
40 anni che sovente possono avere contemporaneamente anche una calcolosi della colecisti → la
presenza di calcoli solo alla colecisti (e non alla VBP) associata a un reperto ecografico dubbio della
via biliare deve porre sospetto di questa patologia.
- Altre neoplasie della testa del pancreas, periampollare, del duodeno;
- Linfoadenopatia alla porta del fegato.
- Un’ulteriore causa di ostruzione della via biliare principale può essere una compressione del coledoco
da parte della colecisti, quadro definito come sindrome di Mirizzi.
Sospetto clinico (slide) Diagnostica (slide)
Età > 55 anni Ecografia: Documentazione di calcolo;
Documentazione/sospetto US di calcoli Dilatazione delle vie biliari.
Diametro del coledoco > 6 mm (con colecisti) Colangio-RMN: Morfologia delle vie biliari intra/extra-
Bilirubina diretta > 51 micromol/L epatiche
Colestasi persistente 72 h dopo la colica Scarsa accuratezza per calcoli < 5 mm;
- Tutti i fattori presenti: probabilità di EUS: Microlitiasi/fango bliare;
litiasi > 95% Calcolosi pre/intrapapillare.
- Assenza di un fattore: probabilità di ERCP: Accurata morfologia biliare e della giunzione bilio-
litiasi 20% pancreatica con rischio di complicanze

Colangite
È una infezione della via biliare principale legata generalmente alla stasi della bile con conseguente sovra-
infezione di batteri. Determina uno stadio settico con febbre alta e leucocitosi e può esitare in una grave
insufficienza d’organo. La triade classica definita triade di Charcot si caratterizza per febbre con brivido,
ittero, e dolore in ipocondrio di destra: con questi tre segni è quasi scontato che si tratti di colangite primaria
o secondaria. La cura medica antibiotica può avere un certo ruolo ma in questo contesto l’ERCP in urgenza è
mandatoria per poter drenare le vie biliari e risolvere la stasi.

Carcinoma della colecisti


Si tratta di una neoplasia relativamente frequente, la quinta neoplasia maligna
più comune dell’apparato digerente (dopo colon, stomaco, pancreas e fegato).
Colpisce soprattutto sopra i sessant’anni ed ha una sopravvivenza a 5 anni
dell’1% (ancora più bassa del pancreas, uno dei tumori più maligni, che è fra il 2
e il 4 %): in generale sono rari i pazienti che sopravvivono oltre 6 mesi/ 1 anno
dopo la scoperta del tumore. La prognosi è così scarsa perché la colecisti non sta
lungo la via biliare principale ma lateralmente e causa ostruzione della via biliare
solo nelle fasi avanzate. Spesso non dà una sintomatologia evidente e dolorosa
tanto che frequentemente il riscontro è occasionale nel corso di una
colecistectomia eseguita per altri motivi.
Non è quasi mai resecabile quando diagnosticato pre-operatoriamente mentre
se si riscontra durante un intervento (per esempio durante una colecistectomia
per colelitiasi) è resecabile. Un ulteriore fattore confondente è che molti tumori
della colecisti insorgono in una colecisti con calcoli (50-70% dei casi): considerando che spesso la calcolosi si
tratta conservativamente per molti anni e che all’imaging ecografico il carcinoma della colecisti si vede
raramente, ci possono essere degli importanti ritardi diagnostici.

196
Qualora si trovi accidentalmente del tessuto neoplastico dopo una colecistectomia il paziente in questo caso
deve essere richiamato per una seconda operazione per essere sottoposto ad una bi-segmentectomia
epatica cioè una asportazione del quarto e quinto segmento epatico a cui la colecisti si appoggia, ad una
asportazione completa del dotto cistico fino al coledoco e ad una linfadenectomia del peduncolo epatico.
In realtà non sono tutti concordi su questo intervento perché reintervenire su un paziente
colecistectomizzato con verosimili aderenze può non essere facile e i risultati in letteratura non sono
uniformi.
Da BBC: [In caso di carcinoma della colecisti la radicalità chirurgica è l’unica terapia ad intento curativo.
L’estensione dell’intervento chirurgico dipende dallo stadio in cui la neoplasia e stata diagnosticata:
- STADIO I: nella maggior dei casi rappresenta un rilievo occasionale all’esame istologico della colecisti
asportata per i calcoli. In questi casi la semplice colecistectomia è considerata un intervento curativo
(non bisogna, quindi, rioperare il paziente per eseguire un intervento più radicale). Se la presenza
della lesione è nota prima dell'intervento è consigliabile comunque eseguire anche l'asportazione dei
LFN del peduncolo epatico;
- STADIO II: la terapia consiste nella colecistectomia radicale, con resezione del letto colecistico per un
tratto di circa 2 cm di parenchima epatico circostante e linfadenectomia estesa del peduncolo epatico
fino al tripode celiaco. Se la diagnosi rappresenta un reperto occasionale dopo colecistectomia per
calcoli, è necessario radicalizzare la procedura con un secondo intervento chirurgico;
- STADIO III: l’intervento curativo consiste nella resezione del V segmento del fegato, della porzione
anteriore del IV segmento, e di parte del VI segmento, associato a linfadenectomia estesa del
peduncolo epatico fino al tripode celiaco;
- STADIO IV: l’intervento radicale prevede un’epatectomia maggiore, di solito un’epatectomia destra
allargata alla porzione anteriore IV segmento. Per ridurre il rischio di insufficienza epatica
postoperatoria, è opportuno effettuare l’embolizzazione preventiva del ramo destro della vena porta
al fine di indurre l’ipertrofia compensatoria del lobo residuo.
Per quanto riguarda la necessita o meno di resecare la VBP, è opportuno eseguire sempre un esame istologico
estemporaneo del dotto cistico. Se il margine è positivo, la via biliare deve essere resecata con successiva
derivazione bilio-digestiva.
Quando invece non è più possibile intervenire per eradicare la neoplasia (non è possibile effettuare una
resezione R0) si deve ricorrere a dei trattamenti palliativi, come ad esempio:
- Posizionamento di drenaggi biliari per prevenire l’ittero;
- By-pass intestinali per l’alimentazione.]

Tumori epatici benigni


I tumori benigni (angiomi, adenomi e iperplasia nodulare focale) sono poco importanti dal punto di vista
chirurgico a meno che crescano al punto da dare compressione e dolore come conseguenza della distensione
della glissoniana. Tranne rare eccezioni non hanno indicazione alla chirurgia: angiomi molto grossi anche di
10 cm non necessitano di trattamento e vengono lasciati in sede, in genere non si rompono e non sanguinano
nemmeno in seguito a traumi; stesso dicasi per l’adenoma che in genere ha una crescita molto lenta e che
facilmente è confondibile con una iperplasia nodulare focale. [a seguire il discorso del professore è integrato
con BBC].

Angioma
Rappresenta la neoplasia epatica benigna più frequente (5% della popolazione M:F → 1:2). È privo di
potenziale maligno, seppur possa andare incontro ad una eventuale lenta crescita voluminosa, che può
provocare dolore gravativo e precoce sensazione di pienezza post-prandiale per ingombro nella cavità
addominale.
Anatomia patologica. Esistono due sottotipi di emangioma:
- Emangioma capillare (piccole lesioni ipervascolari di dimensioni <2 cm);
- Emangioma cavernoso.
Entrambi non presentano un rischio di degenerazione maligna in angiosarcoma.

197
Quadro clinico. Solitamente asintomatico, può talvolta manifestarsi con dolore e sensazione di peso; può
essere rilevabile alla palpazione dell’addome. Talvolta la prima manifestazione è legata alla comparsa di
complicanze:
- Sindrome di Kasabach-Merrit: trombosi acuta con intrappolamento di eritrociti e piastrine
(piastrinopenia da “sequestro”), coagulopatia da consumo e rischio di embolia polmonare.
- Rottura post-traumatica o spontanea (rarissima), a livello intraparenchimale o intraperitoneale.
- Scompenso cardiaco con episodi di lipotimia recidivante: in caso di numerosi emangiomi cavernosi si
stabiliscono importanti shunt artero-venosi che sequestrano notevoli quantità di sangue.
Diagnosi. L’esame diagnostico per eccellenza è l’ecografia dove l’angioma
assume un tipico colore brillante/iperecogeno, è eventualmente possibile
completare l’esame ecografico con l’utilizzo di mezzo di contrasto, utile per la
caratterizzazione della sua vascolarizzazione.
Terapia. Il trattamento è di norma conservativo (follow-up ogni 1-2 anni). La
chirurgia è riservata a casi sintomatici o a rischio di complicanze: resezione dei
segmenti epatici interessati, risparmiando il parenchima sano. La prognosi è
buona in quanto il rischio di degenerazione maligna è nullo.

Adenoma
L’adenoma è una neoformazione benigna abbastanza rara (3-4 casi/100.00 abitanti), più frequente nelle
donne (9:1) giovani. A differenza del carcinoma epatocellulare, che il più delle volte compare in un fegato
cirrotico, l’adenoma epatocellulare si genera spesso in un fegato sano. I fattori di rischio sono:
- Estroprogestinici: l’incidenza ha infatti un picco nelle donne in età fertile che assumono EP. Di
conseguenza, il primo provvedimento è la sospensione dell’EP, con possibile regressione
dell’adenoma;
- Glicogenosi;
- Obesità e steatosi.
È a tutti gli effetti benigno ma può andare incontro a trasformazione maligna (HCC). Per questo motivo deve
essere trattato o comunque monitorato nel tempo (attenzione: questo differisce con quanto detto dal
professore secondo cui l’adenoma non si tratta quasi mai, vedi anche dopo).
Anatomia patologica. È una formazione rotondeggiante e dotata di capsula visibile all’ecografia e alla TC. È
costituita da epatociti sub-normali +/- steatosici disposti in cordoni o lamine con numerosi vasi. Compare
spesso singolarmente ma può sussistere una condizione di adenomatosi epatica (> 10 adenomi).
Clinica. Nella maggior parte dei casi l’adenoma epatocellulare è asintomatico, riscontrato con diagnosi
occasionale. Quando presente, il sintomo preponderante è un dolore acuto e improvviso, indicativo di
episodio infartuale o emorragico intratumorale. La comparsa del dolore può risultare da una correlazione
cronologica tra la rottura spontanea del tumore e l’inizio del ciclo mestruale o di una gravidanza.
Diagnosi. L’adenoma epatocellulare si diagnostica per esclusione utilizzando esami di imaging. Nello
specifico:
- ESAMI DI LABORATORIO: solitamente nella norma, talvolta con aumento di transaminasi e fosfatasi
alcalina a causa della compressione del parenchima circostante, di episodi di necrosi o emorragia
intratumorale o della rottura del tumore. I livelli sierici di α-fetoproteina sono normali (a differenza
dell’HCC).
- ECOGRAFIA: esame diagnostico principale, identifica una lesione nodulare iperecogena, a margini
netti, spesso capsulata, talvolta contenente aree centrali anecogene.
- TC: esame di conferma diagnostica utile anche per una corretta localizzazione e valutazione dei
rapporti anatomici (parenchima epatico, organi adiacenti, vasi) in vista di un trattamento chirurgico.
La lesione appare ipodensa, con marcato enhancement.
- RM: eseguito raramente se non in caso di dubbio con ecografia e TC.

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- BIOPSIA ECO-GUIDATA: utile per valutare il grado di malignità e per la DD con altre neoformazioni
(INF, HCC) anche se la maggior parte delle volete sono sufficienti le metodiche non invasive per la
diagnosi.
Terapia. È necessario in prima battuta sospendere l’eventuale trattamento estroprogestinico, così come
eliminare gli altri fattori di rischio; in questo modo si risolve una buona parte di adenomi. In caso di mancata
remissione nella donna dopo sospensione dei farmaci, oppure in caso di sesso maschile (maggior rischio di
evoluzione a HCC) il trattamento prevede la rimozione della lesione, per ridurre il rischio sia di rottura del
tumore sia di degenerazione maligna. La rimozione può essere di due tipi: exeresi chirurgica o ablazione
(riservata a noduli <3 cm; la tecnica più utilizzata è l’ablazione a radiofrequenze).

Iperplasia nodulare focale (NF)


È una malformazione epatica benigna del tutto priva di potenziale maligno che
consiste in una lesione circoscritta ma non incapsulata di consistenza dura, con
cicatrice centrale formata da collagene e arterie di medio calibro. Non è facilmente
distinguibile dall’adenoma se non per il fatto che non ha la capsula.
- Frequenza 10 volte maggiore dell’adenoma;
- M/F = 1/7;
- 20-50 anni.
Diagnosi. La diagnosi si avvale principalmente dell’ecografia, che mostra il tipico aspetto di central scar
(cicatrice stellata fibrotica centrale); l’ecocolor-Doppler (eventualmente con MdC) identifica il vaso arterioso
all’interno della lesione. Per la conferma diagnostica, spesso già ottenuta con l’ecografia, si possono eseguire
anche TC MdC e RM MdC, oltre che una biopsia. È opportuna la diagnosi differenziale con l’adenoma
epatocellulare.
Terapia. Il trattamento è in genere conservativo (follow-up ogni 2-3 anni); in caso di diagnosi dubbia (talvolta
neppure la biopsia è dirimente), lesione sintomatica (dolore, effetto massa) o accrescimento (15% delle INF)
si opta per l’exeresi chirurgica.

Tumori epatici maligni


I tumori maligni del fegato sono relativamente frequenti. Si dividono in primitivi e secondari (metastasi da
tumore del pancreas, dell’intestino o di tumori extraddominali), quest’ultimi sono i più frequenti. Tra i tumori
primitivi si riconoscono:
- HCC: epatocarcinoma (derivante dagli epatociti);
- Colangiocarcinoma (derivanti dalle cellule dei dotti);
- Epato-colangiocarcinomi (tumori misti piuttosto rari);
- Altri (leiomiosarcoma, angiosarcoma, epatoblastoma nei bambini).

Epatocarcinoma (HCC)
[gran parte del discorso è tratto da sbobine 2019/20 soprattutto la terapia, trattata rapidamente dal prof.]
Epidemiologia e fattori di rischio. L’epatocarcinoma è il tumore maligno primitivo del fegato più frequente,
rappresenta infatti il 90% di tutti i tumori epatici e il 7% di tutti i tumori maligni; è la terza causa di morte per
neoplasia e rappresenta un vero e proprio problema sociale. Colpisce soprattutto i soggetti sopra i 70 anni di
età, più frequente nel sesso maschile.
l’HCC insorge prevalentemente (85% dei casi) su un fegato cirrotico. In una scarsa percentuale di
casi, il 10%, colpisce le persone con fegato sano. Fattori di rischio sono:
- Esposizione a virus (HBV, HCV);
- Sostanze tossiche come l’alcool;
- Patologie metaboliche del fegato (sempre più frequenti), ovvero la steatosi epatica non alcolica
(NAFLD) e la steatoepatite non alcolica (NASH);
- Fumo di tabacco;
- Esposizione ad aflatossine, presenti negli alimenti (non nelle nostre zone);
- Altre patologie che sovraccaricano il fegato.

199
L’epatocarcinoma è un tumore spiccatamente maligno e, se non trattato, ha un’elevatissima mortalità; la
sopravvivenza a 5 anni è del 15%.

Anatomia patologica. È costituito da cellule che ricordano gli epatociti, possiede un circolo arterioso
sviluppato. Microscopicamente riconosciamo forme trabecolate, pseudo-ghiandolari, compatte e scirrose.
Si diffonde a sistema portale, vene sovra-epatiche, linfonodi, polmone, surrene, ossa, encefalo.
Sintomatologia. Si tratta di una neoplasia che si forma all’interno di un organo parenchimatoso piuttosto
grande pertanto la sintomatologia è spesso limitata o tardiva. Attualmente viene diagnosticato abbastanza
precocemente perché pazienti HBsAg + o con cirrosi o ancora con forme di fibrosi epatica avanzata vengono
sottoposti ad un monitoraggio ecografico così da poter cogliere processi espansivi sotto i 2-3 cm, dimensioni
entro cui, secondo i criteri di Milano, possono essere ancora trattati con RFA, metodo poco invasivo, o con
una sezione chirurgica.
Quando diventano tanto grandi da dare sintomatologia in genere si manifestano con dolori per distensione
della capsula glissoniana, ittero in fase molto avanzate per compressione delle vie biliari, epatomegalia,
rottura spontanea con emoperitoneo, emorragia digestiva (trombosi portale con incremento
dell’ipertensione portale), sindrome paraneoplastica.
Diagnosi. La diagnosi si fa tenendo conto dei fattori di rischio (infezione da HCV, HBC, storia di potus) e
dell’aumento dell’alfafetoproteina ma soprattutto mediante gli esami imaging ovvero mediante ecografia
con mdc seguita da TC (ha una ricca vascolarizzazione arteriosa molto tipica alla TC con mezzo di contrasto)
e RMN, angiografia e biopsia per la conferma della diagnosi.
Durante un’ecografia addominale, in caso di riscontro di un nodo epatico, bisogna comportarsi come indicato
dal seguente algoritmo:

- Per un nodo piccolo <1cm si tende a ripetere l’ecografia dopo 4-6 mesi, se la lesione si mantiene
stabile si possono anche fare controlli più diradati (annuali). Se, invece, questa lesione comincia a
modificarsi e a crescere di dimensioni, allora si metteranno in atto le indicazioni previste per i noduli
>1cm.
- Se viene riscontrato un nodo >1cm, è mandatorio mettere in atto una serie di accertamenti per capire
che tipo di lesione sia. L’esame strumentale di primo livello è quello ecografico, seguito da TC
quadrifasica con mdc.
L’epatocarcinoma si sviluppa su un fegato la cui struttura è già sovvertita e ciò, dal punto di vista radiologico,
gli fa acquisire delle caratteristiche tipiche (wash-in e wash-out); studiando la fase precoce (arteriosa e
portale) e quella tardiva della lesione è possibile caratterizzare meglio la sua natura. Nella fattispecie, la TC
con mdc permetterà di evidenziare una lesione che nel momento in cui viene iniettato il mezzo di contrasto
(fase precoce) si impregnerà molto rapidamente, perché questo arriva nella via arteriosa, e risulterà subito
iperdensa rispetto al parenchima circostante. Nelle fasi successive, quando il parenchima epatico dismette il

200
contrasto, essendo prevalentemente vascolarizzata da vasi arteriosi, la dismissione del mezzo di contrasto
sarà diversa rispetto al parenchima circostante e quindi si formerà come una specie di orletto intorno alla
lesione ancora un po’ più denso rispetto alla parte sana. Tutto questo viene descritto come fenomeno del
wash-in/wash-out. La TC, nella maggior parte dei casi, consente di fare diagnosi, ma qualora dovesse
sussistere un dubbio si ricorre alla RM con mdc epato-specifico, per fugare ulteriori dubbi si può ricorrere
alla biopsia della lesione. Tale indagine è da riservare solo a quei pazienti in cui non si è riusciti a formulare
una diagnosi con TC con mdc e successiva RM con mdc, è sbagliato eseguirla indistintamente su tutti i pazienti
perché:
- Fare la biopsia ad un paziente cirrotico aumenta il rischio di sanguinamento (non ha una buona sintesi
di fattori coagulativi, ha le piastrine basse);
- Anche se oggi esistono mezzi molto sofisticati, comunque si è sempre a rischio di disseminare il
tumore;
- Per lesioni così piccole non sempre si è in grado di effettuare un corretto campionamento (a meno
che non ci si trovi in un centro in cui si ha una grande esperienza di radiologia interventistica), e si
rischia di fare una biopsia inutile perché quello che si campiona non è tessuto patologico.
La biopsia è, quindi, indicata solo quando, nonostante gli approfondimenti diagnostici precedentemente
citati, sussistono forti dubbi sulla natura della lesione epatica. L’80-90% delle diagnosi si fa con le indagini
strumentali, sono rari i casi in cui alla diagnosi di HCC si arriva solo dopo biopsia.

Stadiazione. In caso di diagnosi di HCC si utilizza la classificazione di Child-Pugh per valutare lo stato di
funzionalità epatica residua (vedi sopra). Vengono così distinti i pazienti in classi di rischio in relazione al loro
grado di epatopatia, quelli di classe A ne hanno una in fase iniziale mentre quelli di classe C hanno
un’epatopatia di gravo avanzato; in relazione a ciò cambiano le strategie terapeutiche attuabili, nonché la
prognosi.
Sono stati formulati anche
altri score per stabilire la
prognosi di pazienti con
HCC, quello CLIP (Cancer of
the Liver Italian Program),
realizzato da un gruppo
italiano, prende in
considerazione diverse
variabili: il Child Pugh
score, la morfologia del
tumore (localizzato ad un
solo lobo, multinodulare o
7
extraepatico), i livelli di AFP e l’interessamento della vena porta (condiziona la possibilità di poter ricorrere
o meno alla chirurgia).
Associando le variabili del CLIP score è possibile avere un’idea di quale può essere la prognosi del paziente
affetto da HCC: la prognosi dipende sia dal grado di cirrosi, che dal HCC. Più lo score è basso più è alta la
sopravvivenza mediana. Un paziente che magari ha un nodo piccolo che interessa un solo segmento di fegato,
con AFP normale, vena porta normale, Child-Pugh A, ha una possibilità di sopravvivere mediana di 41.5 mesi,
che è molto elevata (considerando quali sono i tassi di mortalità del tumore se non trattato). Questo paziente,
inoltre, potrà fare una terapia più aggressiva il cui successo terapeutico è alto. Più aumenta lo score più la
prognosi diventa infausta.
Oltre al CLIP score, oggi, uno degli algoritmi più usati quando si ha a che fare con un paziente con HCC è
quello messo appunto dagli spagnoli, il Barcelona Clinic Liver Cancer (BCLC). È uno staging system molto

7
I livelli di AFP non sono diagnostici poiché, per esempio, gli epatocarcinomi indifferenziati non ne producono. Il suo dosaggio, invece,
può essere usato nel follow-up di quei tumori differenziati, secernenti quindi AFP, per valutarne un’eventuale ripresa di malattia.
Inoltre, un alto livello di APF alla diagnosi è indice di elevata malignità del tumore (fattore prognostico negativo) e correla, quindi,
con la prognosi.

201
usato e utile perché, oltre a dare un’idea della gravità della malattia tumorale del paziente, inquadra il
paziente dal punto di vista clinico (valutando il performance status e il Child-Pugh score), abbina quelle che
possono essere le strategie terapeutiche adatte e consente di stimare una prognosi in termini di
sopravvivenza (vedi sotto).
Vengono individuati 4 stadi di malattia:
- Stadio O: paziente in condizione cliniche generali buone, performance status buono, Child Pugh A,
con un nodo singolo <2cm, senza segni di ipertensione portale, con livelli di bilirubina normali.
Questo paziente potrà andare incontro ad una terapia resettiva chirurgica con dei risultati ottimi, il
quale sarà curativo nel 30-40% dei casi con una sopravvivenza a 5 anni fino al 70%.
- Stadio A: paziente in buone condizioni con Child Pugh A-B, con un nodo singolo entro i 3cm o
massimo 3 nodi <3cm. Dal punto di vista terapeutico se il paziente è in ottime condizioni e rispetta i
criteri per il trapianto (criteri di Milano), allora verrà messo in lista, altrimenti bisogna ricorrere a
interventi locoregionali. Anche in questo stadio i risultati che si ottengono sono molto buoni. Anche
il trapianto di fegato, nonostante sia una procedura molto pesante e che comporta poi per il paziente
la necessità di assumere dei farmaci a vita (immunosoppressori), ha dei risultati ottimi. Infatti, i
pazienti dopo 5 anni dal trapianto sono vivi nel 70% dei casi (oggi anche di più) e più di 50% a 10 anni.
- Andando avanti le condizioni del paziente si fanno sempre più gravi, ovvero si ha a che fare con
pazienti che hanno un Child Pugh B-C, con segni di ipertensione portale iniziale o già avanzata. In
questo caso le opzioni terapeutiche si riducono. Nello stadio B sarà ancora possibile trattare questo
tumore con una TACE, ma nello stadio C ci si avvale esclusivamente di terapie farmacologiche, con
efficacia non molto elevata. Il farmaco che si usa oggi è il Sorafenib.
- Infine, come per tutte le patologie tumorali i pazienti con stadio avanzato (stadio D) possono giovar
esclusivamente di terapie palliative.

Trattamento. I trattamenti disponibili sono:


- Chirurgia con resezione epatica o trapianto di fegato;
- Terapie locoregionali di radiologia interventistica (radiofrequenza e chemioembolizzazione
transarteriosa TACE);
- Terapia medica con il Sorafenib, la cui efficacia è comunque limitata. Non esistono farmaci
chemioterapici di dimostrata efficacia in caso di HCC.

Trattamenti chirurgici
Per quel che riguarda la chirurgia del fegato, il caposaldo è la conoscenza della sua anatomia. Il fegato si
suddivide in otto segmenti, considerabili delle unità anatomiche indipendenti. Tale peculiarità consente di

202
poter asportare una lesione limitandoci alla resezione del o dei segmenti in cui questa si trova; tutto ciò vale
sia per i tumori primitivi del fegato sia per le metastasi. La resezione epatica rappresenta l’approccio
terapeutico di elezione nel paziente con HCC insorto su fegato non cirrotico o nel paziente cirrotico con
funzionalità epatica preservata.
I criteri di resecabilità nei pazienti cirrotici sono:
- La presenza di una lesione singola;
- L’assenza di ipertensione portale;
- Bilirubina nella norma.
Esistono solide evidenze sul fatto che la resezione epatica possa essere effettuata con successo anche in
pazienti con ipertensione portale e con lesioni epatiche multiple, purché adeguatamente selezionati. La
sopravvivenza media a 5 anni è del 41–72%. Il rischio di recidiva di HCC dopo resezione supera il 70% a 5 anni,
includendo sia la disseminazione che l’insorgenza de novo del tumore; i predittori di recidiva sono l’invasione
micro-vascolare e la presenza di lesioni satelliti. Per questo, viene richiesto all’anatomopatologo di valutare
l’invasine micro-vascolare del tumore al fine di impostare un follow-up più stretto visto l’elevato rischio di
recidiva, in caso di invasione vascolare.
L’altra strategia chirurgica, in caso di epatocarcinoma, è il trapianto di fegato; seguendo i criteri di Milano è
indicato nel paziente con:
- Tumore singolo ≤ 5 cm o con massimo 3 noduli di dimensioni ≤ 3 cm;
- Senza invasione vascolare macroscopica;
- Senza disseminazione extraepatica (es. linfonodi ilo epatico).
Questo trattamento è radicale e aggressivo, i pazienti che possono essere sottoposti al trapianto devono
essere ben selezionati (se non lo fossero o non supererebbero il post-operatorio o avrebbero, dopo poco,
una recidiva di malattia). In attesa del trapianto, dato che a causa della lunga attesa si ha un elevato numero
di pazienti che escono dai criteri di Milano, il soggetto candidato può andare incontro a interventi
locoregionali di asportazione della massa, si tratta di trattamenti bridge. La sopravvivenza a 5 anni dopo il
trapianto è alta, > 70%. Il trapianto epatico rappresenta la metodica ideale in quanto: cura la patologia di
base (cirrosi), riduce il rischio di recidive neoplastiche o di lesioni residue occulte e annulla il rischio di
complicanze, come quelle secondarie all’ipertensione portale. Infatti, il paziente che non può beneficiare del
trapianto di fegato dovrà, durante il corso della malattia, fare i conti con le complicanze dovute alla cirrosi.

Trattamenti locoregionali non chirurgici


Chi non può sottoporsi a trattamenti chirurgici radicali può beneficiare dei trattamenti locoregionali ablativi
di termoablazione con radiofrequenza (RFA) o con alcolizzazione percutanea (PEI); sono considerati i
trattamenti di scelta nei pazienti con BCLC 0-A, qualora il paziente non sia candidabile alla chirurgia. Possono
essere usati sia per i tumori epatici primitivi sia per le metastasi. Tali metodiche hanno una buona efficacia
necrotizzate per lesioni fino a 3 cm, oltre tale diametro, nel paziente non resecabile, è ragionevole
considerare l’impiego di trattamenti combinati/ sequenziali. La PEI è raccomandata quando la RFA non è
tecnicamente possibile (lesione in prossimità del diaframma, lesioni peri-colecistiche e in prossimità dell’ilo
epatico). Nei tumori < 2 cm, BCLC 0, con entrambe le tecniche si ottiene una risposta completa in più del 90%
dei casi con un buon outcome a lungo termine.
I trattamenti endovascolari sono invece: l’embolizzazione (TAE), la chemioembolizzazione (TACE) la
radioembolizzazione (SIRT)e la chemioembolizzazione con somministrazione locale di Sorafenib. Si applicano
soprattutto sulla malattia multinodulare.

Metastasi epatiche
Le metastasi epatiche costituiscono attualmente il tumore epatico più frequente e derivano soprattutto da
neoplasie del territorio di drenaggio portale (70% dei casi) come colon-retto, pancreas, stomaco, ma anche
da tumori di altri distretti (polmone, mammella, cute, ossa etc.). Si è molto aggressivi nel trattarle soprattutto
se derivano da neoplasie del colon si fa generalmente un trattamento di CHT neoadiuvante seguito, se
possibile, da una bonifica del fegato e successivamente dal trattamento del tumore primitivo nell’intestino.
L’approccio “liver first” nell’ambito delle metastasi epatiche è attuato perché consente di acquisire alcuni
vantaggi: nello specifico l’immunodepressione che deriva da un importante intervento sul colon potrebbe
condizionare una più rapida crescita delle metastasi o una maggior farmacoresistenza delle stesse nel periodo

203
che precede l’intervento sul fegato quindi si opta prima per la chirurgia sul fegato e poi per la chirurgia del
colon.

Colangiocarcinoma
Epidemiologia e fattori di rischio. È la neoplasia primitiva delle vie biliari, rispetto all’HCC ha un’incidenza di
1:5 (un colangiocarcinoma ogni 5 HCC) pur non essendo in termini assoluti un tumore così raro (da 0.74 a
0.05 per 100000 abitanti in costante aumento negli ultimi 40 anni). Costituisce il 3% dei tumori dell’apparato
gastroenterico ed è al secondo posto tra i tumori epatici primitivi. La mortalità è pressochè sovrapponibile
all’incidenza.
- Nel 15% dei casi si trova nella parte parenchimale (colangiocarcinoma intraepatico o periferico, IH-
CCA);
- I restanti colangiocarcinomi sono extraepatici (EH-CCA) e a loro volta sono divisi in:
◼ Tumori della confluenza/peri-ilari o di Klatskin: 80%;
◼ Tumori distali della VBP, a valle dell’impianto del dotto
cistico (5%).
Si presenta nel 15% dei casi come neoplasia mista con il più
frequente carcinoma epatocellulare (HCC).
Nel riquadro si osservano le condizioni precancerose/fattori di
rischio che si possono associare al colangiocarcinoma, ad esempio
nei pazienti con rettocolite ulcerosa 1:256 sviluppa questa
neoplasia, stesso vale per la colangite sclerosante, per malattie
virali o condizioni congenite del fegato.

Clinica. Dal punto di vista clinico soprattutto se coinvolge le vie biliari terminali e la confluenza delle vie biliari
(forme extraepatiche) è abbastanza tipico con ittero ostruttivo. I sintomi caratteristici sono colestasi ittero e
prurito e si manifestano precocemente così come la perdita di peso.
Più nello specifico [BBC]:
- Forma intraepatica o periferica: spesso il tumore rimane asintomatico per lungo tempo,
determinando un ritardo diagnostico e una prognosi negativa. Nelle fasi avanzate compaiono sintomi
aspecifici, come ad esempio dolori addominali continui e persistenti in ipocondrio destro (DD con
colica biliare), accompagnati da dimagrimento, astenia e sudorazioni notturne. Altri sintomi più rari
possono essere causati dalla stasi biliare e dall’aumento della bilirubina, come prurito, ittero ed
episodi colangitici.
- Forme extraepatiche:
◼ Tumore peri-ilare: la sintomatologia del tumore di Klatskin è caratterizzata da ittero
ingravescente, astenia ed episodici colangitici;
◼ Tumore distale: dal punto di vista sintomatologico, diagnostico e terapeutico è uguale ai tumori
della testa del pancreas, del duodeno e della papilla di Vater. Possono comparire, inoltre, ittero
senza dolore e la colecisti risulta palpabile (segno di Courvoisier-Terrier).
Diagnosi. Si basa sulla collaborazione di esami biochimici, profilo epatico, markers tumorali, markers virali,
ecografia con contrasto, TC con mcd ma soprattutto colangio RMN.

204
In alto a destra la classificazione di Bismuth-Corlette del tumore della confluenza epatica (il tumore di
Klutskin): l’80% dei colangiocarcinomi si sviluppa alla confluenza e solo il 20% si sviluppa in regione più distale
o più periferica (parenchima). I tumori della confluenza possono, di volta in volta, interessare la parte inziale
del dotto epatico con o senza l’interessamento della confluenza (I e II) oppure interessare principalmente un
ramo (IIIa e IIIb) o tutta quanta la confluenza inclusi anche i dotti epatici di destra e di sinistra (IV). Ciò che
accomuna questi tumori è il fatto che per avere qualche possibilità di successo nel trattamento è necessario
asportarli in blocco preferibilmente “senza vederli” (vedi a seguito).
Caratteristiche del tumore e conseguente trattamento
chirurgico. Da tanti anni è noto che il colangiocarcinoma è
uno sticky tumor ovvero un tumore appiccicoso,
considerazione fatta già a partire dagli anni 60-70 del
secolo scorso, periodo in cui si osservò che questa
neoplasia anche asportata interamente durante un
intervento tendeva a recidivare localmente, per
inseminazione sul peritoneo circostante o addirittura lungo
i tramiti dei drenaggi. Questo accade perché la biologia del
colangiocarcinoma è davvero particolare. La spiegazione si
è avuta tanti anni dopo grazie allo studio di un gruppo del san Raffaele di Milano e un gruppo di Padova nel
quale è emerso che le cellule del colangiocarcinoma hanno la capacità di modulare il comportamento di altre
cellule che compartecipano nella genesi macroscopica del tumore, in particolare dei fibroblasti. Le cellule di
colangiocarcinoma sono in grado di far differenziare le cellule del sistema reticolare del fegato in fibroblasti
e di farle crescere in modo peculiare. Il fatto che tali cellule compartecipino alla genesi macroscopica delle
masse tumorali fa sì che questo tumore abbia proprio un atteggiamento di appiccicosità che ne condiziona
la facilità di recidiva. Per tale motivo è noto che l’approccio chirurgico deve essere molto particolare (vedi
dopo).
Molti di questi tumori quando vengono diagnosticati sono già in stadio molto avanzato per essere trattati.
Tumori degli stadi III e IV hanno una sopravvivenza non superiore ai 5 anni e una mortalità molto elevata,
purtroppo anche gli stadi I e II sono gravati da una mortalità progressiva con sopravvivenza complessiva a 5
anni del 30%.

205
Poiché l’albero biliare si accompagna frequentemente
alla vena porta e all’arteria epatica è spesso necessario
fare delle resezioni piuttosto estese: la strategia
chirurgica è quella di “non vedere il tumore” ovvero
asportare un blocco di fegato che comprenda il
tumore, il lobo destro o sinistro a seconda dei casi e
talvolta anche la parte centrale della vena porta che
viene poi ricostruita in qualche modo per riuscire ad
evitare la recidiva locale o a distanza. La tecnica no
touch (don’t look/ don’t touch) consiste, come detto,
nella resezione “di principio” della biforcazione portale
e dell’arteria epatica. Per motivi tecnici è più facile se
eseguita insieme ad una epatectomia destra +
resezione del caudato. Permette di raggiungere R0 fino
a 94% dei casi e una sopravvivenza a 5 anni del 52%
contro il 28%. A lato i risultati dello studio italiano dove
ci si accorge che a 10 anni è vivo un paziente su 4
mentre il grosso crollo lo si ha nei primi due o tre anni.
L’embolizzazione portale è una metodica che può essere utilizzata per
aumentare le dimensioni di un lobo per esempio del lobo sinistro a
scapito del destro embolizzando la porta di destra: l’obiettivo è quello
di consentire una resezione epatica nel caso in cui il fegato rimanente
sarebbe troppo limitato. Come si vede in immagine con l’embolizzazione
portale si sono diminuite le dimensioni del fegato di destra con
conseguente ipertrofia del lobo di sinistra: se il colangiocarcinoma è
prevalentemente a carico del lobo destro posso asportarlo senza
indurre una insufficienza epatica iatrogena.
Tale tumore non determina particolare invasione linfatica per questo motivo ci si limita alla linfadenectomia
del peduncolo. Dalle slides: [La linfadenectomia è di dubbio valore soprattutto nei tumori soprailari. Nelle
casistiche in cui era estesa ai paracavali o ai paraortici o celiaci la positività si accompagnava ad una
sopravvivenza dello 0% a 5 anni].
In alcuni centri è stato e viene fatto tuttora il trapianto di fegato: il Klatskin non ha una grossa tendenza a
dare metastasi o a dare invasione linfatica pertanto la sostituzione del fegato dà degli ottimi risultati. In
questo caso la sopravvivenza è molto più alta del trattamento normale e a seconda delle casistiche si arriva
al 50% a 5 anni contro il 25% a 5 anni delle casistiche di semplice resezione tuttavia dobbiamo ricordare che
l’attesa per il trapianto, avendo questo tipo di tumore una bassa priorità nella lista di trapianti, è lunga e solo
1 paziente su 4, tra quelli selezionati, può arrivare all’intervento chirurgico.
Dalle slides: [È indicato in caso di tumori non resecabili ma N0M0, spesso se c’è una associazione con
colangite sclerosante o cirrosi biliare. È in genere preceduto da trattamento neoadiuvante con capacitabina
e radioterapia. In alcuni centri si fa solo da donatore vivente.]
Quando non è possibile fare chirurgia ci sono trattamenti palliativi mirati per esempio all’ablazione (RFA)
per indurre la necrosi del tumore oppure semplicemente il drenaggio della bile per ridurre il dolore, il prurito
e l’ittero, la chemioterapia palliativa, l’infusione arteriosa (TACE, chemiobeads, TARE con Ittrio 90) e
l’alcolizzazione.
Per riassumere:
- Il colangiocarcinoma è un tumore poco frequente ma non raro (capita anche in PS di diagnosticarlo
nella dd di ittero anche se più frequenti sono il tumore della testa del pancreas e ancor di più la
calcolosi);
- Ha una biologia complessa che ne condiziona la storia naturale e il trattamento chirurgico (no touch);

206
- La sintomatologia è tardiva (sia nelle forme centrali dell’ilo epatico ma ancora di più nelle forme
periferiche che si trovano nel parenchima epatico), va cercato attivamente nei pazienti a rischio.
Di seguito il trattamento del colangiocarcinoma a seconda delle regioni di insorgenza [BBC].
Colangiocarcinoma intraepatico
Il trattamento di prima scelta è rappresentato dalla resezione chirurgica. Ad ogni modo, come già detto
prima, la diagnosi viene spesso effettuata tardivamente con tumore in stadio avanzato non operabile (60%
dei pz). Per questo motivo la prognosi è pessima, con una sopravvivenza media di 6-12 mesi. Nei casi non
operabili si può effettuare solamente una chirurgia palliativa (drenaggio esterno dei dotti ostruiti/drenaggio
interno-esterno8) oppure una CT palliativa.
Colangiocarcinoma extraepatico
TUMORE PERI-ILARE
Per la terapia dei tumori peri-ilari e necessario fare riferimento alla classificazione di Bismuth-Corlette:
- TIPO I e II: si effettua una resezione locale curativa a livello del dotto epatico comune e si costruisce
un’anastomosi bilio-digestiva;
- TIPO III: è necessario eseguire una resezione biliare associata ad una resezione epatica omolaterale
dx o sx a seconda che si tratti del tipo A o B; in molti casi, però, già questi tipi di tumore non possono
essere operati e si ricorre ad una terapia palliativa;
- TIPO IV: rappresenta una controindicazione alla chirurgia; è necessario fin da subito impostare una
terapia palliativa con CT e posizionamento di endoprotesi con ERCP.
In generale, la 5yOS è comunque bassa: raggiunge il 33% per gli stadi iniziali trattati con intento curativo,
mentre è praticamente nulla per gli stadi avanzati (3yOS: 11%).

TUMORE DISTALE
Nel tumore distale è necessario effettuare un trattamento chirurgico assimilabile a quello dei tumori della
testa del pancreas. Per questo motivo, nei casi operabili, si effettua una duodenocefalopancreasectomia: tale
intervento prevede la resezione in blocco della via biliare distale con un margine di tessuto sano, la testa del
pancreas, il duodeno e i LFN circostanti; in seguito si devono costruire le anastomosi della via biliare, dello
stomaco e del pancreas con le anse intestinali.
Tra le complicanze post-operatorie ricordiamo:
- Fistola pancreatica: complicanza più preoccupante in quanto si riversano i succhi pancreatici in
addome con rischio di erosione dei vasi ed emoperitoneo;
- Fistola biliare;
- Fistola gastrica;
- Infezioni;
- Emorragie.
Nei pz inoperabili, invece, è necessario effettuare un trattamento palliativo con CT e posizionamento di
endoprotesi tramite ERCP. I pz si definiscono inoperabili quando presentano le seguenti caratteristiche:
- Metastasi peritoneali, polmonari etc.;
- Infiltrazione vena porta;
- Infiltrazione vasi arteriosi o venosi mesenterici;
- Infiltrazione nervi plesso celiaco.

8
Nel drenaggio interno-esterno si utilizza un catetere con fori a monte e a valle della ostruzione, in modo che la bile
venga raccolta a monte dell’ostruzione e rilasciata a valle, nel duodeno; permane il catetere che esce dalla parete
addominale, ma è meno disagevole del drenaggio esterno perché il catetere viene mantenuto chiuso all’estremità
esterna.

207
L’aumento del flusso ematico ai segmenti residui dopo la resezione non li danneggia, anzi ne favorisce l’iper-
trofia (grazie ai meccanismi di rigenerazione del fegato, che può recuperare le dimensioni normali entro 3-6
mesi da una resezione anche >60%); infatti, una tecnica per agevolare la rigenerazione epatica è la legatura
del peduncolo vascolare del segmento che sarà asportato, aumentando il flusso agli altri segmenti.
Le complicanze della chirurgia epatica sono ittero, edemi declivi, sanguinamenti, fistola biliare, vers. pleurico.

9.1 PATOLOGIE BENIGNE NON NEOPLASTICHE


9.1.1 Cisti epatiche
Le cisti epatiche sono neoformazioni benigne cavitate, delimitate da parete propria, a contenuto in genere
liquido. Le cisti solitarie sono reperti accidentali in quanto asintomatiche, tuttavia possono talvolta fare parte
di sindromi policistosiche che colpisono fegato e rene in misura diversa rispetto alla mutazione:
- ADPKD (Autosomal Dominant Polycystic Kidney Disease): più frequente, colpisce gli adulti
- ARPKD (Autosomal Recessive Polycystic Kidney Disease): meno frequente, colpisce i bambini.
Le cisti epatiche hanno un comportamento del tutto benigno e non evolvono a neoplasia.
Una rara patologia è poi la peliosi epatica, caratterizzata da cavità multiple ripiene di sangue in fegato, rene, polmoni, milza. La
patogenesi è incerta; si associa ad AIDS, steroidi anabolizzanti, azatioprina.

Quadro clinico
Le cisti epatiche sono in genere asintomatiche; tuttavia qualora raggiungano dimensioni notevoli possono
causare sintomi da effetto massa: fastidio/dolore in ipocondrio destro, sensazione di pienezza postprandiale.
Qualora la cisti abbia una crescita rapida (es.: emorragia intracistica), può comparire un dolore acuto in ri-
sposta alla distensione repentina della glissoniana.
COMPLICANZE
Rottura accidentale in caso di trauma: la chirurgia non è una terapia preventiva necessaria, a meno di un
chiaro ingombro della cisti

Diagnosi
La diagnosi si avvale di ecografia e TC (la TC quadrifasica valuta accuratamente la vascolarizzazione). In alter-
nativa si utilizza la RM, che valuta meglio i rapporti anatomici e l’eventuale contenuto emorragico della cisti
(la colangio-RM valuta l’eventuale interessamento dell’albero biliare). In caso rimanga il dubbio circa la pre-
senza di bile nella cisti, si può aspirarne il contenuto.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
Le cisti epatiche vanno distinte dalle cisti idatidee (cisti sepimentate) e dagli ascessi (accompagnati da febbre
e aumento di indici di flogosi).

Terapia
In genere le cisti epatiche vengono solamente monitorate con un follow-up annuale: se dopo due controlli
non ci sono variazioni, si interrompe il follow-up.
Le cisti epatiche dunque non richiedono intervento chirurgico, a meno che sopraggiunga una complicazione
(emorragia, comunicazione con vaso o via biliare, compressione della VCI) o si riscontri una crescita eccessi-
vamente rapida. Si deve tenere conto del rapporto rischi/benefici in caso di intervento: le cisti sono neofor-
mazioni benigne che non provocano un’insufficienza funzionale del fegato (i segmenti circostanti vanno in-
contro a ipertrofia, vicariando quello interessato da cisti: con la volumetria epatica si calcola il volume epatico
residuo funzionante, espresso in millilitri).
Gli interventi possibili sono:
- Asportazione della cisti con la porzione di parenchima circostante (intervento raramente eseguito, in
quanto non necessario). È preferibile in laparotomia (incisione sottocostale destra).
- Marsupializzazione/fenestrazione: apertura di un orifizio nella cisti, che consenta il drenaggio del liquido
all’interno della cavità peritoneale (dove sarà riassorbito). È preferibile in laparoscopia.
- Riempimento della cisti utilizzando grasso omentale (casi molto particolari).
Qualora la cisti comunichi con un vaso o ramo biliare e si nota l’orifizio all’interno della cisti, si sutura tale
orifizio. In rari casi è necessaria una derivazione biliare su ansa intestinale, per raccogliere la bile reflua.
Le sindromi policistosiche richiedono invece il trapianto, in quanto le cisti si riformano continuamente sosti-
tuendo il parenchima (con calo della funzionalità epatica) e possono determinare emorragie.

120
208
9.1.2 Patologie infettive
ASCESSI EPATICI
L’ascesso è una raccolta di essudato purulento all’interno del parenchima di un organo; si differenzia dal-
l’empiema, in cui l’essudato purulento riempie una cavità anatomica pre-esistente.

Eziopatogenesi
In generale gli ascessi epatici possono essere:
- PRIMITIVI: derivazione da infezioni con particolare tropismo per il fegato. Un esempio tipico, seppur raro,
è l’ascesso da Ameba.
- SECONDARI:
• Embolo settico tramite la vena porta
• Traslocazione batterica: l’infezione primitiva è a livello intestinale (diverticolite, periviscerite,
ascesso appendicolare, Crohn). Questi pazienti sono in genere scarsamente immunocompetenti.
• Colangite: infezione delle vie biliari a partenza da una colecistite; la bile che ristagna può infettarsi
in seguito a fenomeni di traslocazione batterica attraverso il circolo portale (evento comune, ma di
solito arginato dal SI).
• Peritonite con ascesso subfrenico, che erode la glissoniana e interessa il fegato.
• Trauma addominale.

Diagnosi
La diagnosi è innanzitutto clinica ed ematochimica, secondariamente strumentale:
- Ecografia: contenuto corpuscolato e pseudocapsula disomogenea
- TC: contenuto corpuscolato, bolle gassose (fermentazione batterica), alone edematoso perilesionale.

Terapia
La terapia preferibile, accanto all’antibioticoterapia sistemica, è il drenaggio percutaneo dell’ascesso (eco-
guidato o TC-guidato). Si utilizzano drenaggi fino a 12 French (4 mm di diametro), con punta a “pig tail” che
ne previene lo sfilamento.
In caso di fallimento del drenaggio percutaneo (o se la localizzazione dell’ascesso è difficilmente raggiungibile
con il tubo), si esegue un drenaggio chirurgico. Se anch’esso fallisce, si opta per la resezione epatica.
ECHINOCOCCOSI EPATICA (IDATIDOSI EPATICA)
L’echinococcosi (o idatidosi) è una zoonosi causata da larve di Echinococcus granulosus, un platelminta (te-
nia) che misura circa 6 mm ed è composto da testa, collo e corpo; l’ultimo anello del corpo contiene le uova,
le quali sono molto resistenti e possono sopravvivere anche 18-24 mesi nell’ambiente esterno.
Attualmete l’echinococcosi è rara, mentre un tempo era tipica ad esempio della Sardegna.

Patogenesi
CICLO VITALE
Il ciclo vitale dell’echinococco prevede come ospite definitivo il cane e come ospite intermedio un ovino (la
patologia è infatti endemica in zone rurali dedicate a pastorizia ovina: Mediterraneo, Africa, Medio-Oriente);
l’uomo, invece, rappresenta un ospite incidentale, il quale entra in contatto con l’echinococco tramite:
- Via digestiva diretta (contatto con il cane)
- Via digestiva indiretta (alimenti contaminati, quali verdure non lavate).
All’interno del piccolo intestino dell’ospite intermedio (o incidentale), le uova di echinococco si schiudono
grazie all’azione delle secrezioni gastrointestinali e dall’embrioforo fuoriesce l’embrione esacanto. L’ospite
intermedio/incidentale elimina con le feci gli embrioni, che vengono ingeriti dall’ospite definitivo (cane);
all’interno dell’intestino di quest’ultimo, gli embrioni matureranno a larve adulte le quali, espulse con le feci,
deporranno le uova che replicheranno il ciclo.
ECHINOCOCCOSI UMANA
L’echinococco, giunto nell’intestino dell’uomo, si ancora alla parete intestinale tramite uncini e la attraversa,
riversandosi nel circolo portale e raggiungendo il fegato. Nel fegato la larva perde gli uncini e, nell’arco di tre
settimane, forma una vacuolizzazione che si trasforma in una cisti (cisti idatidea, vedi dopo).

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209
L’echinococcosi è una patologia sistemica: l’echinococco incontra come primo filtro il fegato, che rappre-
senta per questo motivo la localizzazione più frequente di malattia; qualora superi il fegato, l’echinococco
può localizzarsi anche a livello polmonare, splenico o, raramente, cerebrale, osseo e renale.
Qualsiasi sia la localizzazione dell’infezione, i reperti caratteristici sono:
- Cisti idatidea (o idatide): l’elemento parassitario vero e proprio, generalmente di forma sferoidale (tut-
tavia le strutture vascolari possono modificarne la forma). È costituito da tre elementi:
• Cuticola (o membrana esterna): membrana di 1-2 mm, di colore biancastro, adesa al pericistio (da
cui talvolta può staccarsi). Rappresenta l’interfaccia di scambio tra parassita e ospite.
• Membrana proligera o germinativa: più sottile e fragile rispetto alla cuticola, produce costante-
mente i protoscolici (le larve) che sedimentano nel liquido cistico.
• Liquido cistico: aspetto acquoso, privo di soluzioni colloidali e ricco di echinococchi. Ha un elevato
potere immunogeno, pertanto la manipolazione chirurgica della cisti idatidea deve essere molto at-
tenta (rischio di shock anafilattico).
- Pericistio: non è una vera e propria membrana, bensì si tratta delle cellule epatiche compresse dalla cisti
in espansione, affastellate le une alle altre e immerse in una pseudocapsula fibrosa reattiva (per questo
motivo non esiste un piano di clivaggio tra pericistio e parenchima epatico sano). Il pericistio può essere
in continuità con cisti idatidee “figlie”, che possono lacerarsi durante la chirurgia ed entrare in comuni-
cazione con la via biliare.
Con il tempo la cisti cresce e comprime il parenchima circostante, determinando un aumento di spessore del
pericistio (con conseguente intralcio degli scambi tra parassita e ospite) e uno stiramento di vasi e vie biliari.
Successivamente la cisti perde acqua e la membrana (cuticola + membrana proligera) si stacca dal pericistio,
galleggiando sul liquido cistico residuo (segno del camalote o della ninfea).
Ridotto l’effetto della compressione sulle vie biliari, si può verificare il passaggio di bile tra fegato e forma-
zione cistica, a causa di una comunicazione tra cisti e vie biliari (motivo per cui l’iniezione di sostanze scle-
rosanti nella cisti può determinare una colangite sclerosante).
La sofferenza del microrganismo, per via dei ridotti scambi con l’ospite, determina la formazione di cisti figlie,
le quali possono essere endofitiche (contenute all’interno della cisti originaria) oppure esofitiche (all’interno
del parenchima epatico, formando un nuovo pericistio).
La storia naturale dell’infezione esita in una calcificazione della cisti, in seguito alla morte dei parassiti per
via dell’impedimento agli scambi con l’ospite. La calcificazione è del tutto inerte e in genere asintomatica.

Quadro clinico
Una piccola cisti non complicata da sovrainfezioni può essere asintomatica (80%); viceversa una cisti di grandi
dimensioni, in funzione anche della sua localizzazione, può manifestarsi con:
- Dolore (80%) - Ittero (10%)
- Disturbi digestivi (30%) - Disturbi allergici di tipo orticarioide (5%)
- Febbre (15%) - Shock anafilattico (raro, per rottura di cisti).
Le localizzazioni più frequenti sono:
- Localizzazione epatica (70%): tumefazione alla palpazione addominale, colangiti, ascessi, sintomi da ef-
fetto massa (compressione, dislocazione, perforazione, adesione).
- Localizzazione polmonare (30%): può svilupparsi una flogosi bronchiale, con tosse persistente ed emis-
sione di organismi tramite la vomica.
COMPLICANZE
Le complicanze puù frequenti dell’echinococcosi sono:
- Sovrainfezione della cisti o della cavità residua
- Compressione di vasi (specialmente venosi, a causa della minore pressione) o di vie biliari (con conse-
guente colangite)
- Rottura della cisti: in seguito a flogosi cronica e ischemia locale. Il pericistio può erodere una struttura
adiacente con cui la cisti può entrare in contatto:
• Vie biliari: il caso più frequente, che determina passaggio di bile nella cisti e viceversa dei parassiti
nelle vie biliari.
• Polmone: l’erosione del diaframma può provocare un riversamento di bile nell’albero bronchiale,
fistole bronchiali e caverne polmonari.
• Peritoneo: la rottura può essere acuta (con reazione anafilattica) oppure cronica e subclinica.
122
210
Diagnosi
La diagnosi si basa su esami di imaging, in cui la cisti appare ben demarcata e non infiltrante.
- Ecografia: identifica le cisti (anche le cisti figlie endoficiche) e l’ostruzione delle vie biliari.
- TC: in aggiunta rispetto all’ecografia, mostra le calcificazioni (20-30% dei casi) e fornisce informazioni
sulla vitalità della cisti (in base alla sua densità). Inoltre, definisce i rapporti con le strutture anatomiche
e rintraccia eventuali cisti in altri organi.
- RM: rileva il pericistio meglio rispetto alla TC. La colangio-RM indaga inoltre eventuali comunicazioni con
l’albero biliare.
La sierologia per anticorpi anti-echinococco è poco specifica, così come l’eosinofilia.

Terapia
La terapia può essere di tipo chirurgico o di tipo medico.
TERAPIA CHIRURGICA
- Cisto-pericistectomia: asportazione della cisti insieme al pericistio, preservando il parenchima sano. È il
trattamento auspicabile, ma non sempre eseguibile (cisti esofitiche, cisti totalmente intraparenchimali).
- Resezione epatica parziale (rara): si asporta la cisti insieme a una porzione di parenchima epatico sano.
Solitamente la cisti madre è di grandi dimensioni, quindi una resezione epatica comporterebbe un’ampia
perdita di parenchima; essa si riserva dunque ai casi con erosione dell’albero biliare.
- Terapia conservativa/palliativa: qualora l’asportazione della cisti sia impossibile (motivi anatomici, tec-
nici, anestesiologici), si iniettano nella cisti soluzione ipertonica (glucosata 30-50%, con rischio di edema
cerebrale in caso di riassorbimento peritoneale) oppure formaldeide (rischio di colangite sclerosante in
caso di comunicazione con le vie biliari, pertanto si preferisce la soluzione ipertonica). Bisogna assicurarsi
che la cisti non abbia eroso un ramo biliare, in tal caso lo si deve suturare prima dell’iniezione.
Se si elimina il parassita con un trattamento conservativo, persiste la cavità anfrattuosa del pericistio,
che non collabisce. All’interno è frequente la presenza di bile o sangue che può infettarsi (ascessi).
TERAPIA MEDICA
Si somministrano antiparassitari (metronidazolo, albendazolo). Questa terapia è poco utile se non affiancata
alla chirurgia.

9.2 NEOPLASIE EPATICHE


9.2.1 Neoplasie primitive benigne
I tumori primitivi benigni del fegato sono neoplasie molto frequenti, spesso riscontrate nel corso di ecografie
eseguite per altra ragione.

Classificazione
La classificazione è di tipo morfologico-istologico in base all’origine delle cellule neoplastiche:
- Origine epatocellulare: - Origine mesenchimale:
• Adenoma epatocellulare • Emangioma
• Adenomatosi diffusa • Emangioendotelioma epitelioide
• Iperplasia nodulare focale. • Lipomi e Angiomiolipomi
- Origine colangiocellulare: • Tumori rari:
• Cisti biliare § Amartomi
• Cistoadenoma biliare (vedi dopo). § Teratomi
§ Mixomi
§ Leiomiomi.

Quadro clinico
Questi tumori sono solitamente asintomatici; tuttavia, possono talvolta manifestarsi con:
- Dolore: dovuto allo stiramento della capsula di Glisson (contenente terminazioni nervose)
- Compressione degli organi adiacenti (effetto massa)
- Compressione delle vie biliari (con comparsa di ittero)
- Complicanze: ascessualizzazione delle regioni necrotiche, emorragia intratumorale.

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211
09-11-2021
Dott.ssa Maroni
Sbobinatrice: Laura Tavaglione
Revisionatrice: Elisa Laminarca

N.d.R. La lezione, così come nell’aa 2020-21, è stata impostata commentando diversi casi clinici. Alcuni dei
concetti esposti sono quindi stati riordinati al fine di ottenere un testo più consono allo studio e, inoltre, a
inizio documento sono state riassunte tra parentesi quadre le nozioni presenti nelle sbobine dell’aa 2019-20,
in cui la lezione era stata tenuta con approccio più didattico. Le integrazioni presenti nei casi clinici
provengono invece dalle sbobine 2020-21 o, quando esplicitato, dalle slide.

CALCOLOSI COLECISTOCOLEDOCICA
[La presenza di calcoli nella colecisti è una condizione patologica che può essere grave e può addirittura portare
ad exitus un paziente fragile come un anziano con comorbidità. I calcoli possono essere contenuti:
- esclusivamente nella colecisti (95%) à litiasi isolata della colecisti
- nella colecisti e nel coledoco (4%) à litiasi colecisto-coledocica
- esclusivamente nel coledoco (rarissimo) à coledocolitiasi isolata, principalmente in pazienti
colecistectomizzati in cui un calcolo è migrato nel tratto del coledoco più distale (calcolosi residua) o in
pazienti con calcolosi recidiva e disturbi metabolici (es. pazienti con patologia ematologica che porta a
importante emolisi)]

CENNI DI ANATOMIA E FISIOLOGIA


La colecisti è un viscere connesso ai segmenti epatici S4 – S5,
con una superficie ricoperta dalla sierosa e l’altra no. Ha
rapporti con: duodeno, peduncolo epatico (o ilo epatico,
comprendente il dotto epatico, l’arteria epatica e la vena porta)
e flessura destra del colon.
[La vascolarizzazione è rappresentata dall’arteria cistica,
originante dall’a. epatica di destra o dall’a. epatica propria. Il
circolo venoso defluisce in vena porta o nelle vene gastriche.]
La colecisti è connessa alla via biliare principale attraverso il
dotto cistico, che si inserisce sul dotto epatico. A valle di tale
inserzione la via biliare prende il nome di coledoco. [Il coledoco
decorre verso il duodeno, contrendo nel suo ultimo tratto stretti
rapporti con il pancreas, e drena il secreto biliare nella papilla di
Vater, dotata di sfintere, dove converge anche il dotto di
Wirsung. Un repere chirurgico importante da ricordare e nel
quale di norma si trova l’arteria cistica è il triangolo di Calot,
delimitato dal dotto cistico, dal dotto epatico comune e dal
margine inferiore del fegato. La colecisti può presentare delle
variazioni anatomiche di conformazione e di drenaggio.]
[Si tratta di un organo accessorio con la funzione di modificare parte della bile attraverso il riassorbimento di
ioni e acqua. La bile modificata, una volta immessa nel tubo digerente, favorisce l’emulsione degli alimenti
contenenti grassi affinché questi possano essere digeriti e metabolizzati.]

EPIDEMIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO


[La calcolosi della colecisti è la più frequente patologia a carico del sistema biliare e > 90% dei pazienti con
colecistite presenta calcoli biliari. È una condizione più frequente nelle donne (14% vs 10% degli uomini) e con
prevalenza in aumento dopo i 40 anni (incidenza del 50% in persone > 70 aa).

212
Tra i fattori di rischio sono riconosciuti:
- Obesità, a causa dell’elevato introito e metabolismo dei grassi
- Sesso femminile
- Gravidanze multiple
- Frequenti variazioni di peso
- Terapie con estrogeni
- Resezioni o patologie dell’ileo
- Diabete mellito]
Essendo una patologia così frequente i fattori di rischio individuati sono relativi, ma ai fini della memorizzazione
si può seguire la “regola delle 5F” (spesso chiesto all’esame): Female, Forty, Fatty, Fertility, Familiar -anche se
in realtà, data l’ampia diffusione, il rischio dato dalla familiarità non è così impattante-. [Sulle slide i FR riportati
sono: sesso femminile, gravidanze multiple, obesità].

[EZIOPATOGENESI
L’eziopatogenesi della calcolosi non è ancora nota precisamente. Alla formazione dei calcoli possono concorrere
una serie di alterazioni nella modificazione della bile che determinano l’accumulo e la successiva precipitazione
di sostanze che si raccolgono in concrezioni solide sempre più voluminose e che non riescono più ad essere
espulse:
- Bile sovrasatura in colesterolo, bilirubina o sali di calcio e conseguente tendenza alla precipitazione
- Carenza di acidi biliari o lecitine, responsabili della solubilizzazione del colesterolo nella bile
- Stasi biliare, che favorisce il riassorbimento da parte della mucosa e conseguente aumento della
concentrazione dei soluti
- Fenomeni infiammatori che determinano la presenza di sostanze quali muco, proteine o sali di calcio
che favoriscono la precipitazione dei soluti biliari
I calcoli possono essere composti da:
- Pigmento, per aumento della concentrazione di bilirubina non coniugata nella bile e sua conseguente
precipitazione (30% dei casi)
- Colesterolo, per deficit di produzione di acidi biliari
- Pigmento e colesterolo (i più frequenti)]

[CLINICA E COMPLICANZE
La colelitiasi può presentarsi come non complicata o complicata.
- Colelitiasi non complicata: asintomatica / paucisintomatica / sintomatica (colica biliare)
o Asintomatica: in una buona percentuale della popolazione, la presenza di calcoli in colecisti
non è associata a sintomi e i calcoli sono spesso scoperti occasionalmente con indagini
radiologiche effettuate per altre indicazioni.
o Paucisintomatica: leggera sensazione di peso in epigastrio con turbe della digestione
o Sintomatica (colica biliare): i pazienti riferiscono dolore localizzato ai quadranti superiori
dell’addome, sensazione di immediata sazietà, nausea, vomito e disturbi digestivi. In
particolare, quando il calcolo è in colecisti il paziente riferisce dolore in ipocondrio destro e
irradiato alla spalla destra, mentre se il calcolo è migrato in VBP il dolore è di tipo colico e
riferito come “una coltellata alla bocca dello stomaco”. All’EO l’addome sarà dolorabile in
regione epigastrica nel punto cistico e con segno di Murphy positivo.
Altro segno di presenza di calcolosi biliare è l’ittero, se il calcolo fa da ostacolo al deflusso della
bile: la bile, accumulandosi a monte, porterà a un incremento dei livelli ematici di bilirubina,
soprattutto diretta perché si tratta di un ittero post-epatico, e alla comparsa della tipica
colorazione gialla a livello delle sclere (sub-ittero) e poi della cute (ittero franco).

213
- Colelitiasi complicata: nei casi in cui la calcolosi è sintomatica, invece, questa può andare incontro a
complicanze via via più temibili, tra cui:
o Colecistite acuta: processo infiammatorio che di solito costituisce la complicanza d’esordio e
che, se non trattato, può cronicizzare e causare ulteriori temibili complicanze.
o Idrope della colecisti: da incuneamento del calcolo e sovradistensione dell’organo stesso
o Empiema della colecisti: da sovrainfezione, in cui il liquido contenuto all’interno dell’organo
diventa purulento
o Perforazione della colecisti
(Questi primi quattro punti evolvono consequenzialmente l’uno all’altro. Il susseguirsi di tali
complicanze può essere interrotto con la somministrazione di antibiotici fino al raggiungimento di
una condizione subclinica, che però può riacutizzarsi e la cui gestione non è semplice.)
o Colecistite cronica
o Litiasi della via biliare principale (VBP)
o Papillite e oddite: i calcoli possono avere un diametro variabile da pochi mm a 4-5 cm. Quelli
di ridotte dimensioni, grazie alla peristalsi della colecisti, riescono a fuoriuscire
spontaneamente dalla cistifellea e migrare nella VBP. Tale migrazione comporta la
progressione del calcolo sino alla papilla: se di dimensioni sufficientemente ridotte il calcolo
riesce ancora una volta a progredire, altrimenti si incunea e determina localmente
infiammazione (papillite)
o Pancreatite acuta e cronica
o Fistola biliare e ileo biliare: complicanze che si osservano quando il calcolo nella colecisti
decubita sulle strutture anatomiche contigue, portando alla formazione di fistole o a livello
della via biliare stessa o a livello del duodeno (fistola colecisto-duodenale). Se il calcolo è di
grandi dimensioni, una volta nel tratto digerente può dare una successiva occlusione -specie a
livello della valvola ileociecale- configurando il quadro di ileo biliare.
o Sindrome di Mirizzi:
§ Tipo I: un calcolo nel dotto cistico comprime l’epatico comune e può portare a
un’ostruzione della VBP.
§ Tipo II: il decubito del calcolo può portare a una fistola colecisto-coledocica
In questo caso il trattamento può anche essere conservativo, posizionando una protesi per via
endoscopica.
o Colangite: la litiasi della VBP può portare a un quadro di ittero ostruttivo e associarsi a una
sovrainfezione delle vie biliari sia intra sia extraepatiche. I pazienti con colangite, oltre a dolore
e prurito dovuto all’ittero, hanno febbre con brivido.
o Carcinoma della colecisti: solo l’1% dei pazienti con colelitiasi di lunga data sviluppa neoplasie
della colecisti. Un segno della colelitiasi di lunga data è il quadro di colecisti a porcellana:
l’organo appare duro, lucido e con all’interno calcoli fusi in conglomerati non più mobili. In tal
caso, la colecistectomia è da prendere in considerazione date le probabilità di sviluppo di un
tumore maligno.]

[DIAGNOSI
1. Anamnesi ed EO
2. Esami di laboratorio à neutrofilia e innalzamento di: PCR, fibrinogeno, plts, bilirubina diretta e
indiretta, AST (soprattutto) e ALT -ma comunque meno che in patologie primitive del fegato-, gamma-
GT. L’aumento isolato di GB e PCR fa pensare a una colecistite, mentre se questo si associa ad aumento
della bilirubina e delle transaminasi si propende per il passaggio di un calcolo nella VBP.
3. Diagnostica strumentale à ecografia. Nella maggior parte dei casi per fare diagnosi non sono
necessarie ulteriori indagini, ma a volte è necessario ricorrere alla colangio-RM e alla ERCP.]

214
[TERAPIA
1. Paziente sintomatico à colecistectomia laparoscopica. L’approccio laparotomico è seguito di rado,
ma comunque previa esplorazione laparoscopica.
2. Casi sub-acuti o acuti con alterazioni degli esami di laboratorio, ma senza movimento di transaminasi
o bilirubina à terapia medica con antibiotici, antidolorifici e digiuno. Contemplata la terapia litolitica
orale (acidi biliari per os),
efficace però solo in caso
di calcoli di colesterolo.
Se il paziente non
risponde in 48-72h si
procede con l’intervento
chirurgico.
3. Litotrissia extracorporea:
non più eseguita, perché
la frammentazione dei
calcoli e la loro
migrazione può condurre
a un quadro peggiore di
quello iniziale.

L’intervento chirurgico di colecistectomia, sia per via laparoscopica sia laparotomica, consiste nel dissezionare
le strutture che mantengono la colecisti attaccata al fegato, alla VBP e all’arteria epatica. Nella colecistectomia
anterograda si procede sezionando e legando l’arteria e il dotto cistico e poi scollando la colecisti dal letto
epatico. Quando si opta per la laparoscopia si utilizzano 4 trocar: in sede ombelicale quello che porta l’ottica,
gli altri tre posizionati in epigastrio, ipocondrio destro e sinistro. Tra i diversi strumenti utilizzati vi sono: crochet
(per dissezione elettrica), pinze di Joan (per afferrare la colecisti e le strutture che devono essere dissezionate),
dissettore, ecc.]

CASO CLINICO 1 – COLELITIASI ASINTOMATICA

Costanza, studentessa del III anno di medicina, si reca dal suo


ginecologo per farsi prescrivere la pillola. Il ginecologo le fa
un’ecografia, che vede: vescica normo-distesa, con pareti di regolare
spessore e profilo, senza evidenza di lesioni aggettanti endoluminali;
utero in sede, retroverso, normale spessore endometriale; ovaio dx e
sx regolari per sede, dimensioni ed ecostruttura. Si segnala
collateralmente la presenza di sludge e microlitiasi della colecisti, che
appare normodistesa.

Per “sludge” si intende una bile densa, fangosa, mentre per “microlitiasi” si intende la presenza di microcalcoli.

Viene dunque effettuata una visita chirurgica e il chirurgo, dopo aver raccolto l’anamnesi e vista la
documentazione, decide di non operarla.

215
LA SCELTA DEL CHIRURGO È CORRETTA?
Un studio italiano1 del 2010 ha valutato la storia naturale della colelitiasi in un ampio campione di popolazione
per confrontare il management attendistico con l’intervento attivo: 11’229 soggetti furono esaminati tramite
ecografia addome e i 580 casi di colelitiasi asintomatica riscontrati furono seguiti con un follow-up di 8.7 anni;
al termine di tale periodo il 78,1% degli individui era ancora completamente asintomatico, il 10,5% aveva
sviluppato sintomi lievi e l’11,4% sintomi severi (ovvero complicanze quali colecistite, pancreatite, calcolosi
del coledoco).
I risultati ottenuti hanno permesso di poter raccomandare nelle linee guida di non intervenire
chirurgicamente in caso di colelitiasi asintomatica. (È però possibile che in alcuni ospedali / cliniche il paziente
venga comunque sottoposto all’intervento, erroneamente, con l’idea di poter così prevenire le coliche).
La scelta del chirurgo di non operare Costanza, pertanto, è corretta: [c’è infatti il 78% di probabilità che ella
rimanga asintomatica per un periodo di tempo estremamente lungo.]

La paziente però non è convinta della spiegazione, perché dice che i suoi calcoli sono molti e piccoli.

Il dubbio della paziente si basa sul fatto che i suoi calcoli sono piccoli e, pertanto, potrebbero fuoriuscire dalla
colecisti e ostruire il dotto cistico, causando idrope della colecisti, oppure ostruire il coledoco, provocando
calcolosi del coledoco con ittero ostruttivo.
[È effettivamente vero che le linee guida non prendono in considerazione le dimensioni dei calcoli, ma solo la
presenza o meno di sintomi, e che i calcoli di dimensioni minori hanno una maggiore possibilità di fuoriuscire
dalla colecisti.] Tuttavia, in caso di diagnosi di colelitiasi asintomatica, vi è solo una probabilità del 3% che la
prima manifestazione sintomatica sia una complicanza (colecistite acuta, pancreatite acuta, ostruzione),
mentre nella maggioranza dei casi la colelitiasi si presenta con una colica biliare.
L’indicazione all’intervento chirurgico di colecistectomia, pertanto, è la colelitiasi sintomatica esordita o con
una complicanza (caso rarissimo, come visto) o con una colica biliare. La colica biliare si presenta clinicamente
con dolore colico, ovvero con andamento a poussée, in epigastrio, rendendo necessaria una diagnosi
differenziale soprattutto con la gastrite. Se il paziente riferisce dolore in ipocondrio destro di solito è già insorta
una complicanza. [I pazienti sintomatici non rappresentano comunque un’emergenza chirurgica, in quanto
hanno un rischio di complicanza dell’1.2% / anno; il vero problema nei pazienti con colelitiasi sintomatica è
rappresentato dalla colica biliare recidiva, che ha un rischio del 50% / anno.]
Per avvalorare il concetto della non necessità -e del rischio- di sottoporre un paziente asintomatico a un
intervento chirurgico, la professoressa racconta la storia di una ragazza di 19 anni sottoposta a colecistectomia
laparoscopica in un ospedale della periferia di Bergamo, nonostante l’assenza di sintomi, a seguito del riscontro
ecografico di calcoli in colecisti. In prima giornata post-operatoria venne riscontrata la fuoriuscita di bile dal
drenaggio addominale e, pertanto, fu eseguita una ERCP. Sorto il dubbio che il dotto cistico fosse aperto, venne
posta una protesi endoscopica, il drenaggio fu rimosso e la ragazza dimessa. Dopo un certo periodo, tuttavia,
la paziente si era presentata in ambulatorio dalla professoressa, a Milano, con un addome estremamente
gonfio: a seguito di un’ecografia, che aveva posto il sospetto della presenza di bile in addome, venne posto un
drenaggio percutaneo dal quale furono drenati 4 litri di bile (la presenza di bile in addome, senza reazione di
difesa peritoneale, determina la condizione di coleperitoneo; quando c’è reazione, invece, si parla di peritonite
biliare).
La causa di tale versamento era stata la sezione iatrogena di un tratto della via biliare, che nella ragazza
presentava un’anatomia anomala -evento in realtà piuttosto frequente nella popolazione-: il dotto dei
posteriori, infatti, si univa con il dotto degli anteriori a formare il dotto epatico di destra al di fuori del fegato

1
Festi D, Reggiani ML, Attili AF, Loria P, Pazzi P, Scaioli E, Capodicasa S, Romano F, Roda E, Colecchia A. Natural history
of gallstone disease: Expectant management or active treatment? Results from a population-based cohort study. J
Gastroenterol Hepatol. 2010 Apr;25(4):719-24. doi: 10.1111/j.1440-1746.2009.06146.x PMID: 20492328.

216
e non al suo interno -come di norma-. Durante l’intervento chirurgico il dotto dei posteriori era stato scambiato
per il dotto cistico e sezionato; pertanto, anche se clampato sul versante della via biliare, era stato lasciato
beante a livello epatico e tutta la bile prodotta dal V e dal VI segmento epatico si riversava in addome.
Fu allora necessario un nuovo intervento che vide coinvolte le figure del radiologo e dell’endoscopista: con un
ingresso rispettivamente dal fegato e dal duodeno i due operatori si incontrarono a metà e inserirono una
protesi per rimediare all’errore. La paziente, a seguito del danno, è andata incontro a distanza di anni ad atrofia
completa dei segmenti epatici coinvolti e ha chiesto, ottenendolo, un risarcimento (NB in caso di lesioni
iatrogene della via biliare la % di liquidazione, senza andare in causa, è del 98%: l’ospedale paga praticamente
sempre). Questo spiega il motivo per cui è sconsigliato operare in caso di assenza di sintomi: il rapporto
costo/beneficio deve essere sempre orientato verso il beneficio del paziente.
Domanda di una collega: perché non si eseguono esami di imaging per evidenziare eventuali anomalie della
via prima di procedere all’intervento?
à L’unico esame che lo permetterebbe è la colangioRM, tuttavia non è un esame eseguito di routine in caso di
colelitiasi, soprattutto se asintomatica.
INDICAZIONI ECCEZIONALI DI COLECISTECTOMIA IN CASO DI COLELITIASI ASINTOMATICA
Le uniche eccezioni in cui si prende in considerazione la chirurgia anche in caso di colelitiasi asintomatica sono:
- Colecisti a porcellana: nelle pareti della colecisti si crea un deposito di calcio e l’organo diventa spesso,
duro e presenta un aspetto radiologico peculiare. Tale condizione è rara e più tipica del paziente
anziano, ma dato il rischio relativo di cancerizzazione a 5 anni del 13-25% è da conoscere e prendere
in considerazione per l’intervento chirurgico (anche se, in caso di paziente molto anziano e con
comorbidità, è possibile che alla fine si scelga di non operare).

- Colelitiasi con calcolo di diametro > 3 cm: il rischio relativo di cancerizzazione è in questo caso dello
0,3 %, quindi in realtà l’approccio chirurgico è comunque discutibile. [Nella realtà molto spesso è una
condizione almeno paucisintomatica, perciò arriva all’attenzione dei chirurghi.]
- Polipo della colecisti con diametro > 1 cm: i polipi sono più frequenti e riconoscibili già all’ecografia,
dove a differenza dei calcoli non determinano la comparsa di coni d’ombra e non si spostano con i
movimenti del paziente. Quando i polipi presentano ø > 1 cm
o raddoppiano di dimensioni in 1 anno hanno un rischio
relativo di cancerizzazione del 25%, motivo per cui vengono
escissi chirurgicamente. [I polipi della colecisti sono
controllati ecograficamente ogni 6 mesi. Alla loro rimozione
non è raro trovare già focolai di adenocarcinoma e, per
questo motivo, è estremamente importante non aprire la
colecisti durante l’intervento chirurgico, altrimenti si
rischierebbe di diffondere la neoplasia al peritoneo.]
- Pazienti che si trovano in zone con scarsa assistenza sanitaria, come ad esempio un paziente che
parte per una lunga missione in un luogo isolato (es. in Antartide). In questo caso deve essere però
formulato un consenso informato ad hoc e il paziente deve essere pienamente cosciente di sottoporsi
a un intervento avendo un’indicazione non realmente motivata da cause cliniche.

217
CASO CLINICO 2 – COLECISTITE ACUTA LITIASICA

A.L., uomo di 40 aa, lamenta la comparsa dalla serata di ieri di dolori addominali localizzati in epigastrio e
irradiati al fianco destro. Lieve beneficio con l’assunzione antispastici (es. buscopan).
EO addome: piano, cicatrice ombelicale normointroflessa, dolente e dolorabile alla palpazione in
ipocondrio destro, segno di Murphy positivo.

Il segno di Murphy è un segno semeiologico di irritazione della colecisti evocato invitando il paziente a inspirare
durante la palpazione del punto cistico, eseguita con mano ad uncino al di sotto della sua arcata costale destra.
Durante l’inspirazione il diaframma si abbassa e spinge la colecisti contro la mano dell’operatore. Se la colecisti
è infiammata, il paziente interrompe bruscamente l’inspirazione a causa del dolore provocato.

Esami ematochimici à Hb 13.4 g/dl, GR 4,5, GB 14'000, PCR 11 mg/dl, AST 120, ALT 150, bilirubina totale
0,69, bilirubina diretta 0,32

Il quadro obiettivo, unito all’anamnesi e ai risultati degli esami ematochimici che rivelano leucocitosi (v.n.
4’500-11’000/mm3) e PCR innalzata (v.n. 5-10 mg/dl), è evocativo di una colecistite acuta, complicanza della
colelitiasi. Anche le transaminasi sono alte (v.n. AST 8-45 U/L, ALT 7-40
U/L), ma non allarmano in quanto normale conseguenza epatica
dell’infiammazione evidenziata.
[In un paziente del genere è obbligatorio procedere con un esame di
imaging: in primis si esegue l’ecografia dell’addome.]

Eco addome: colecisti di dimensioni aumentate, con pareti inspessite


(circa 9 mm), presenza nell’infundibulo di formazione ecogena con
cono d’ombra posteriore.

Le pareti appaiono inspessite e slaminate (immagine “a doppio binario”) a causa dell’edema flogistico, con i
tessuti imbevuti di liquido. [La presenza di una formazione ecogena con cono d’ombra posteriore è il tipico
aspetto ecografico di un calcolo.]
[FATTORI RESPONSABILI DEL PROCESSO INFIAMMATORIO
- Fattori meccanici:
o Attrito del calcolo contro le pareti
o Ostruzione infundibolare
o Distensione del viscere
- Fattori chimici, conseguenti a quelli
meccanici
o Rilascio di lisolecitina
o Rilascio di prostaglandine
- Fattori batterici, da sovradistensione sulle
situazioni causate dai fattori meccanici: E.
coli, Klebsiella, Streptococco, Stafilococco,
Clostridium (raro)]

DIAGNOSI
Per la diagnosi sono sufficienti:
- Clinica (vedi quanto indicato
nell’immagine a lato)
- Esami ematochimici

218
- Ecografia, che ha sensibilità del 90-95%, specificità del 75-80% e accuratezza diagnostica nel 77%
(ricordare che è comunque un esame operatore dipendente).
Si eseguono altri esami e non si porta immediatamente il paziente in sala operatoria solo se la storia clinica, gli
esami ematochimici o l’ecografia mostrano altri elementi di interesse (es. dilatazione delle vie biliari, calcoli in
colecisti, 6 mg/dl di bilirubina).

STRATEGIA TERAPEUTICA
Un paziente del genere (fit for surgery: giovane, senza comorbidità, magro e con dolore comparso la sera
precedente) è candidato all’intervento chirurgico d’urgenza (diverso dall’emergenza). Non sarebbe corretto,
invece, trattarlo esclusivamente con terapia antibiotica o, peggio, dimetterlo (la terapia antibiotica ha
comunque un ruolo, ma secondario rispetto all’intervento chirurgico).
Secondo le linee guida di Tokyo 2013, poi revisionate nel 2018 e nel 2020, infatti, in caso di paziente fit e con
dolore comparso da non oltre cinque giorni il trattamento di prima scelta e che deve seguire quanto prima la
diagnosi è la chirurgia (ovviamente se la diagnosi è notturna l’intervento si rimanda al mattino, ma il concetto
è che l’intervento va fatto il prima possibile).
[Secondo le linee guida il paziente dovrebbe essere sottoposto a intervento entro 72/96 ore: se il chirurgo è
bravo può farlo entro le 96 ore, se è poco esperto è meglio che l’intervento venga fatto entro le 72 ore. Oltre i
5 giorni, infatti, il quadro flogistico evolve già verso la fibrosi, perciò i tessuti sono molto duri, è difficile aprire i
piani in maniera corretta e si rischiano lesioni.
Secondo una revisione Cochrane2, inoltre, la degenza post-operatoria è in media di 1.6-7.6 giorni per la
colecistectomia in urgenza e di 3-12 giorni per la colecistectomia differita a 6-8 settimane. La necessità di
eseguire un intervento chirurgico d’urgenza in pazienti in cui la colecistectomia è stata differita è del 14-25%,
ovvero in media del 17.5%, a causa della comparsa di complicanze o di recidive di colecistite.]
In particolare, il primo approccio in caso di colecistite acuta deve essere la colecistectomia laparoscopica, ad
eccezione di quei pazienti che presentano controindicazioni assolute dal punto di vista anestesiologico. (E
infatti insieme all’appendicectomia è stato uno dei primi interventi sdoganati in laparoscopia anche in urgenza:
la prima colecistectomia laparoscopica fu eseguita dal ginecologo francese Philippe Mouret nel 1987.)
Procedura. L’addome del paziente viene gonfiato con CO2, permettendo la creazione di una camera
laparoscopica. Sono quindi inseriti l’ottica laparoscopica e tre strumenti laparoscopici, 2 utilizzati dal primo
operatore e 1 dall’aiuto. Uno degli strumenti utilizzati è l’uncino (o crochet o hook). Si incide il peritoneo al di
sopra del Triangolo di Calot (delimitato dal margine inferiore del fegato, dalla via biliare principale e dal dotto
cistico) e poi posteriormente. Si devono individuare il dotto cistico e l’arteria cistica e, per farlo, si uncinano i
tessuti con il crochet e li si brucia con corrente monopolare. Sia l’arteria sia il dotto cistico sono chiusi con delle
clip o in materiale plastico o in titanio (due clip sui monconi rimanenti in addome, una sola clip per i monconi
che vengono rimossi insieme alla colecisti), dopodiché le strutture sono sezionate - [in genere si taglia prima
l’arteria e poi il dotto].
La colecisti viene distaccata dal letto epatico sempre avvalendosi dell’uncino, [facendo attenzione a lavorare
restando nel piano corretto, tra colecisti e letto epatico: è importante da un lato non entrare nella colecisti],
per scongiurare lo spargimento di bile, [dall’altro non entrare nel fegato, altrimenti si verificano sanguinamenti
anche importanti che possono portare alla conversione a laparotomia]. È possibile però che, a causa dell’edema
infiammatorio, inizi a colare del liquido dalla colecisti; anche per questo motivo l’intervento precoce è la scelta
migliore in caso di colecistite acuta, in quanto evita che l’edema diventi fibroso e renda difficoltoso scolpire i
tessuti.
[Una volta staccata completamente dal letto epatico, la colecisti viene messa in un apposito sacchetto sterile e
asportata; a quel punto il chirurgo può eventualmente posizionare un drenaggio esterno e si conclude
l’intervento. Normalmente il paziente viene ricoverato per 2 giorni.]

2
Gurusamy KS, Samraj K. Early versus delayed laparoscopic cholecystectomy for acute cholecystitis. Cochrane Database
Syst Rev. 2006 Oct 18;(4):CD005440. doi: 10.1002/14651858.CD005440.pub2. Update in: Cochrane Database Syst Rev.
2013;6:CD005440. PMID: 17054258.

219
[Terapia antibiotica. Le linee guida non sono chiare: si fa antibiotico-profilassi con cefazolina o augmentin o
tazocin (a seconda della LG) e poi, dopo l’intervento, si decide come procedere in base al quadro
intraoperatorio, ossia si può scegliere di proseguire con terapia antibiotica vera e propria oppure mantenere
solamente i dosaggi di profilassi. Se la colecisti non viene aperta e il chirurgo decide di non mettere il drenaggio
in genere non si fa la terapia antibiotica, così come quando viene drenato un ascesso: salvo compromissioni
importanti del paziente, come una sepsi o una SIRS, si fa solo profilassi. Sono proscritti completamente i
fluorochinolonici, come la ciprofloxacina e la levofloxacina: non sono da usare sulle vie biliari, a causa della
resistenza dei batteri a questi antibiotici; sono da preferire invece le cefalosporine oppure l’associazione di
piperacillina e tazobactam.]

CASO CLINICO 3 – CALCOLOSI COLECISTO-COLEDOCICA

Uomo di 57 anni si reca in PS per la comparsa di dolori addominali localizzati in epigastrio e ipocondrio
dx presenti da alcuni giorni.
All’EO: Subittero sclerale. Addome piano, diffusamente dolente e dolorabile alla palpazione, in
particolare a livello dei quadranti superiori, senza difesa. Murphy negativo.
Agli esami ematochimici: Hb 14,5 g/dl, GR 5, GB 8'000, PCR < 5, AST 156, ALT 250, Bil tot 1,7 Bil diretta
1,3.

In questo caso non c’è leucocitosi né innalzamento della PCR, mentre si nota un’alterazione delle transaminasi
e un’iperbilirubinemia a prevalenza diretta. (Quando si vuole richiedere l’analisi dei valori di bilirubina si deve
richiedere al laboratorio la bilirubina reflex: il laboratorio esegue prima la misura della bilirubina totale e poi,
se questa è aumentata, studia anche i valori di quella diretta, altrimenti non analizzati.)

Eco addome: iniziale dilatazione delle VBI (vie biliari


intraepatiche) più evidente a sx. Epatocoledeco con ø
8 mm. Non evidenza di coledocolitiasi. Colecisti a
pareti non ispessite, distesa, contenente sludge e
microcalcoli.

La presenza di sludge si riconosce all’ecografia perché il


contenuto della colecisti non è perfettamente nero, ma un
po’ opacato. [Le dilatazioni delle vie biliari sono distinguibili
dai rami vascolari grazie alla mancanza del segnale
doppler].
Nella valutazione dell’ostruzione delle vie biliari, tuttavia, l’ecografia è una tecnica estremamente operatore
dipendente:
- Sensibilità nell’evidenziare il livello di ostruzione: 71-88%
- Sensibilità nel valutare l’eziologia dell’ostruzione: 48-57%
- Conferma della coledocolitiasi: solo del 33%.
[Dalle slide] Nelle ASGE clinical guidelines3 sono elencati i fattori predittivi della coledocolitiasi:
- Molto forti à probabilità di coledocolitiasi >50%:
o Coledocolitiasi all’ecografia

3
ASGE Standards of Practice Committee, Buxbaum JL, Abbas Fehmi SM, Sultan S, Fishman DS, Qumseya BJ, Cortessis VK,
Schilperoort H, Kysh L, Matsuoka L, Yachimski P, Agrawal D, Gurudu SR, Jamil LH, Jue TL, Khashab MA, Law JK, Lee JK,
Naveed M, Sawhney MS, Thosani N, Yang J, Wani SB. ASGE guideline on the role of endoscopy in the evaluation and
management of choledocholithiasis. Gastrointest Endosc. 2019 Jun;89(6):1075-1105.e15. doi: 10.1016/j.gie.2018.10.001
Epub 2019 Apr 9. PMID: 30979521.

220
o Colangite
o Bilirubina > 4 mg/dl
- Forti à probabilità di
coledocolitiasi 10-50%:
o Dilatazione del
coledoco all’ecografia
> 6 mm (con colecisti in
situ)
o Bilirubina 1,8 – 4
mg/dl
- Moderati à probabilità di
coledocolitiasi <10%
o Movimento delle
transaminasi, GGT e
fosfatasi alcalina
o Età > 55 anni
o Pancreatite biliare
È quindi necessario proseguire l’iter
diagnostico con un esame di II livello
dopo aver ricoverato il paziente (la
professoressa puntualizza che
idealmente si dovrebbe mandare a
casa il paziente e prenotare per il
giorno seguente l’esame, ma che in
realtà è molto difficile che accada in
Italia).
Le opzioni diagnostiche elencate a
lezione sono state: TC addome con Figura 1 Algoritmo diagnostico - terapeutico (Singhvi G, Ann Gastroenterology
2016) [Dalle slide, non visto a lezione]
mdc, ecoendoscopia del pancreas e
delle vie biliari, RMN addome superiore, colangioRMN, ERCP, altro. La scelta più corretta è rappresentata dalla
colangioRMN, ma anche l’ecoendoscopia è una buona alternativa.

COLANGIO-RMN
La colangioRMN ha sensibilità del 77-100% e specificità 73-99%, non usa il mdc, non è invasiva e fornisce una
buona rappresentazione dell’anatomia delle vie biliari senza essere operatore dipendente. Si utilizzano
sequenze veloci fortemente pesate in T2 che determinano l’esaltazione segnale dei liquidi statici.

Figura 2 - A sinistra si nota una anomalia anatomica: il dotto dei posteriori si inserisce
direttamente sulla via biliare principale. A destra, invece, si vede una via biliare piena di calcoli
dotti sono molto più distesi
[È importante richiedere correttamente l’esame: una risonanza dell’addome superiore non è una colangioRMN.
Quest’ultima richiede circa 10 minuti, mentre la RM addome invece dura dai 40 ai 50 minuti. Se il paziente ha
un quadro clinico, laboratoristico ed ecografico suggestivo per calcolosi colecistocoledocica, allora deve fare

221
una colangioRMN. Se invece si sospetta una patologia della regione cefalopancreatica oppure una patologia
intraepatica, allora si richiede una risonanza magnetica dell’addome superiore, possibilmente con mezzo di
contrasto, tenendo in conto che è un esame che richiederà qualche giorno prima di poter essere effettuato.]
La colangioRMN presenta tuttavia una serie di controindicazioni e problematiche:
- Paziente claustrofobico: la risonanza aperta per le indagini addominali non è adatta, pertanto se il
paziente è claustrofobico non può essere utilizzata come alternativa.
- Paziente con scarsa compliance: ad esempio un individuo che non è in grado di stare fermo e di
respirare seguendo le indicazioni del tecnico.
- Dimensioni del paziente: un paziente obeso potrebbe non entrare nella macchina di risonanza, motivo
per cui a volte è necessario misurarne la circonferenza della vita.
- Paziente portatore di protesi metalliche [non risonanza compatibili]
- Paziente portatore di pacemaker / ICD
- Paziente con proiettili/schegge nel corpo, piercing, tatuaggi estesi
Un aspetto da tenere in considerazione nel richiedere la colangioRMN è inoltre quello dei costi: il tariffario
della Regione Lombardia, simile a quello piemontese, prevede per l’ospedale un rimborso di € 161 a fronte,
però, dei circa € 460 di costo dell’esame (è necessario, infatti, considerare il tempo di occupazione della
macchina e le retribuzioni di € 35 /20 min per il radiologo e di € 25 /20 minuti per il tecnico).
ECOENDOSCOPIA
Nel paziente che non può essere sottoposto alla colangioRMN l’alternativa è
costituita dall’ecoendoscopia, un esame eseguito in sedazione profonda e
simile per procedura alla gastroscopia, ma in cui lo strumento introdotto per
via transorale fino al duodeno presenta all’apice una sonda ecografica convex
che, poggiata sulla papilla, permette lo studio della via biliare.
Anche tale esame presenta tuttavia una serie di problematiche:
- Invasività
- Lunga curva di apprendimento: l’endoscopista deve dedicare tempo e
sforzi per imparare a eseguire l’esame e, pertanto, non tutte le
strutture hanno personale in grado di effettuarlo (ad esempio i
pazienti del San Luigi sono inviati a Torino)
- Assistenza anestesiologica necessaria
- Impossibilità di esecuzione in caso di riscontro di stenosi pilorica o
duodenale
- Fortemente operatore dipendente
È una tecnica che permette un buono studio morfologico se l’endoscopista vi è dedicato, anche se è fortemente
operatore dipendente, fornendo una buona rappresentazione delle vie biliari ed evidenziando calcoli anche <1
mm senza usare mezzo di contrasto. Se vengono riscontrati calcoli è possibile eseguire una ERCP terapeutica
nella medesima seduta (bonifica endoscopica della via biliare).
È un esame più costoso della colangioRMN, ma è previsto un rimborso maggiore all’ospedale (€ 300-350).
Una revisione Cochrane4, selezionando diversi studi attraverso criteri stringenti (specialmente RCT), è giunta
alla conclusione che le due tecniche diagnostiche sono praticamente sovrapponibili in termini di sensibilità e
specificità.

4
Giljaca V, Gurusamy KS, Takwoingi Y, Higgie D, Poropat G, Štimac D, Davidson BR. Endoscopic ultrasound versus
magnetic resonance cholangiopancreatography for common bile duct stones. Cochrane Database Syst Rev. 2015 Feb
26;2015(2):CD011549. doi: 10.1002/14651858.CD011549. PMID: 25719224; PMCID: PMC6464848.

222
La colangioRMN evidenzia difetti di riempimento a livello del
coledoco distale condizionante un’iniziale retrodilatazione delle vie
biliari.

Viene quindi posta la diagnosi di calcolosi colecistocoledocica


condizionante ittero ostruttivo lieve (i valori di bilirubina erano
contenuti).
STRATEGIA TERAPEUTICA
QUALE SUCCESSIVA AZIONE È QUELLA CORRETTA?
1. Terapia con acidi biliari
2. ERCP e follow-up
3. Colecistectomia e ERCP
4. ERCP e colecistectomia
5. Intervento chirurgico in un unico tempo
6. Altro
Le opzioni da scartare per questo tipo di paziente sono la terapia con acidi biliari, l’ERCP seguita da follow up
e “altro”.
In particolare, la terapia medica con UDCA (acido ursodesossicolico: Deursil) [al dosaggio di 8-10 mg/Kg al
giorno]:
- Presenta un tasso di dissoluzione dei calcoli intorno al 30-60 % con efficacia maggiore se calcoli < 5
mm
- Ha efficacia scarsa nei calcoli multipli o > 20 mm
- Comporta un alto tasso di recidiva (30-50 % a 5 anni)
Inoltre, l’assenza o solo minimi cambiamenti nel diametro dei calcoli dopo 6-12 mesi di terapia è un fattore
prognostico negativo di efficacia. Per questi motivi non costituisce una valida opzione, [se non nel paziente
anziano che non può essere operato].
La scelta fra gli altri tipi di intervento varia in base all’ospedale, anche se il grande dibattito è tra l’intervento
chirurgico in unico tempo, con rendez-vous laparoendoscopico, o l’intervento sequenziale (ERCP +
colecistectomia).
Una meta-analisi non recentissima5 ha analizzato le differenze tra le due strategie, che però non sono eclatanti
e spiegano l’assenza di raccomandazioni nelle linee guida su quale sia l’approccio più corretto:
- Il tempo chirurgico necessario per la sola colecistectomia è di 20-30 minuti, mentre l’intervento in
unico tempo è più lungo e rende necessario occupare la sala operatoria per un paio d’ore.
- Se si opta per l’intervento sequenziale, tuttavia, il ricovero ospedaliero si allunga.
Entrambe le opzioni presentano un’incidenza analoga per le complicanze, costituite dalla pancreatite acuta
lieve / screzio pancreatico in caso di ERCP e dalla perdita biliare (postoperative biliar leak) in caso di intervento
in unico tempo.
QUAL È L’APPROCCIO PIÙ UTILIZZATO?
L’approccio più utilizzato al San Luigi, privo di una tradizione endoscopica nell’ambito delle patologie della
colecisti, è l’intervento in unico tempo. Le preferenze nel resto mondo sono state studiate attraverso un
survey6 inviato a 32.932 chirurghi. Dalle 750 risposte ricevute è emerso che la maggior parte dei professionisti

5
Zhu HY, Xu M, Shen HJ, Yang C, Li F, Li KW, Shi WJ, Ji F. A meta-analysis of single-stage versus two-stage management
for concomitant gallstones and common bile duct stones. Clin Res Hepatol Gastroenterol. 2015 Oct;39(5):584-93. doi:
10.1016/j.clinre.2015.02.002. Epub 2015 Apr 27. PMID: 25936687.

6
Baucom RB, Feurer ID, Shelton JS, Kummerow K, Holzman MD, Poulose BK. Surgeons, ERCP, and laparoscopic common
bile duct exploration: do we need a standard approach for common bile duct stones? Surg Endosc. 2016 Feb;30(2):414-
423. doi: 10.1007/s00464-015-4273-z. Epub 2015 Jun 20. PMID: 26092008.

223
preferisce la bonifica pre-operatoria con ERCP seguita
poi da colecistectomia, sia negli ospedali
metropolitani sia in quelli non metropolitani.
Solo una minoranza fa il rendez-vous
laparoendoscopico intraoperatorio (un po’ più diffuso
negli ospedali non metropolitani) oppure l’ERCP post-
operatoria, mentre l’esplorazione chirurgica della via
biliare (CBDE, Common Bile Duct Exploration) è scelta
ancora più di rado.
I motivi per cui non viene effettuato il rendez-vous
intraoperatorio anche quando sarebbe in teoria
indicato sono vari: la maggior parte dei chirurghi
afferma di non effettuarlo a causa della presenza di un
endoscopista affidabile in grado di bonificare le vie
biliari attraverso l’ERCP; altri hanno invece attribuito la
loro preferenza alla mancanza di equipaggiamento o
alla difficoltà dell’intervento in unico tempo, che non
è alla portata di tutti.
[Dalle slide] Vi è infatti una lunga curva di
apprendimento del trattamento in un unico tempo
chirurgico e questo incide sulla durata media
dell’intervento:
- 1-250 pz à 95 minuti (70-130)
- 251-708 à 77 minuti (60-111)
- P < 0,001
TRATTAMENTO SEQUENZIALE
Quale timing?
Se il paziente esegue l’ERCP e non si sono complicanze, la colecistectomia può essere effettuata già il giorno
successivo.
[Dalle slide]
- Dopo 24-72 ore
- Differito di 6-8 settimane: eseguire la colecistectomia laparoscopica 6-8 settimane dopo la bonifica
della VBP, in realtà, può comportare la possibile recidiva della litiasi coledocica (15-20%)
Alternative all’ERCP
Vi sono situazioni però in cui l’ERCP può essere infattibile:
- Diverticolo duodenale: soprattutto se para-Vateriano, con la papilla che risulta non incannulabile in
quanto dentro al diverticolo.
- Procedura tecnicamente complessa: ad esempio quando si continua a incanulare il dotto di Wirsung,
[in caso di litiasi impilata, calcoli di grosse dimensioni, papilla sclerotica a causa di plurimi episodi
infiammatori...]
- Pregressa chirurgia gastrica: se il paziente ha subito una gastroresezione con successiva anastomosi,
in quanto è necessario percorrere il digiuno prima di arrivare alla papilla.
[Nel caso in cui l’ERCP non sia fattibile si può chiedere aiuto ai radiologi interventisti, i quali possono eseguire
il PTBD (Percutaneous Transhepatic Biliary Drainage). La procedura prevede di pungere la via biliare per via
percutanea trans-epatica, spingendo poi il calcolo in coledoco. Il PTBD presenta però una serie di complicanze:
- Dolore
- Infezione: si va a smuovere la bile, che quando rimane ferma e non raggiunge l’intestino può sovra-
infettarsi dando colangiti, fino ad arrivare allo shock settico
- Sanguinamento
Inoltre, è una procedura che richiede una sedazione anestesiologica, più sedute per l’esecuzione, una adeguata
gestione del drenaggio (se si sfila accidentalmente è un problema, soprattutto se la via biliare non è stata

224
bonificato nel punto di accesso al fegato, poiché si crea una sovrapressione e la bile si riversa in addome dando
un coleperitoneo) e una notevole dose di radiazioni.
è Descrizione della procedura mostrata nel video presente sulle slides: la via biliare viene punta sotto
guida ecografica (il radiologo fa un piccolo punto con il bisturi e punge con uno strumento dedicato).
Iniettando il mdc controlla di aver punto la via biliare. Inserisce poi una serie di strumenti che possono
spingere il calcolo verso il basso (ad esempio anche uno stent). Infine, collega il drenaggio biliare con il
tubo che esce dal fianco.
C’è anche la possibilità di un rendez-vous radiologico-endoscopico, nel quale il radiologo spinge fino al
duodeno il filo guida, che poi è afferrato dall’endoscopista il quale riesce così ad accedere alla papilla.]

TRATTAMENTO COMBINATO IN UN UNICO TEMPO


Trattamento chirurgico-endoscopico
(Descrizione del video presente sulle slides) La procedura prevede l’inserimento di un filo guida nel dotto cistico,
precedentemente aperto. Il filo non prosegue verso il fegato, ma prende come via preferenziale il coledoco in
direzione del duodeno. Tramite visione con l’endoscopio si vede fuoriuscire dalla papilla di Vater il filo, che
viene agganciato dall’endoscopista e portato fino al di fuori del cavo orale. Dopodiché l’endoscopista rientra
nel tubo digerente con lo strumento dell’ERCP (sfinterotomo) ed esegue la sfinterotomia, tagliando la papilla
e accedendo così alla via biliare per estrarre i calcoli. Gli strumenti utilizzabili per la bonifica della via sono il
palloncino di Fogarty (un catetere che presenta al fondo un palloncino gonfiabile, studiato dai chirurghi
vascolari per rimuovere i trombi dai vasi) o il cestello di Dormia (uno strumento studiato in origine dal dott.
Dormia, urologo, per rimuovere i calcoli dell’uretere).
[Questo approccio presenta una serie di vantaggi e svantaggi:
- Vantaggi:
o Trattamento in un unico tempo della calcolosi colecisto-coledocica
o Limita la sfinteretomia endoscopica ai soli casi non altrimenti bonificabili
- Svantaggi:
o Necessità di avere un endoscopista in sala operatoria per la sfinteretomia endoscopica]
o Difficoltà tecniche: l’endoscopista, insufflando aria per permettere la visione, determina una
distensione del piccolo intestino che “infastidisce” le manovre chirurgiche; inoltre, il paziente
si trova in posizione supina e non in decubito laterale sinistro, ovvero la posizione
normalmente assunta in caso di gastroscopia.
o Necessità di tecnologia avanzata (2 telecamere, amplificatore di brillanza, 2 monitor,
coledocoscopio da 5 mm, litotritore)
L’equipe richiesta, inoltre, è numerosa ed è costituita da: 2 – 3 chirurghi, anestesista, infermiere
dell’anestesista, strumentista, infermiere di sala, tecnico di radiologia con la colonna di brillanza, endoscopista
con la colonna endoscopica e 1-2 infermieri.
Bonifica chirurgica della via biliare: open o VLS
Se non è possibile eseguire il rendez-vous laparoendoscopico è necessario procedere con la bonifica chirurgica
della via biliare, un intervento complesso che può essere eseguito in open o laparoscopia. Non c’è infatti
un’indicazione precisa alla laparoscopia come nel caso della colecistectomia e non sono neanche stati condotti
dei trial clinici randomizzati per stabilire la superiorità di una tecnica rispetto all’altra.
In generale, l’approccio open è preferito se:
- Il chirurgo non è esperto in laparoscopia
- Il paziente ha subito una pregressa chirurgia addominale [(soprattutto della loggia sovra-mesocolica)]
- Il coledoco è molto dilatato con impilamento di grossi calcoli
[Ad esempio, in presenza di una via biliare molto dilatata da un calcolo di 4 cm, il paziente subirà una bonifica
della via biliare con anastomosi bilio-digestiva, in quanto una via biliare del genere è sfiancata e svilupperà
nuovamente calcoli nonostante la colecistectomia.]
Nel caso si decida, invece, per la via laparoscopica le opzioni sono la bonifica transcistica e quella
transcoledocica. [Vi sono una serie di indicazioni che fanno propendere per l’una o l’altra tecnica, ma nessuna

225
linea guida vera e propria. Il 49% dei chirurghi preferisce l’approccio transcistico, il 35% quello transcoledocico
e il 16% combinato. In realtà la scelta dipende da:
- Dimensione e sede dei calcoli
- Diametro della via biliare principale
- Anatomia biliare
È quindi importante studiare l’anatomia con una colangioRMN e pianificare al dettaglio l’intervento chirurgico.]
Le indicazioni alla bonifica trans cistica sono:
- Calcoli con ø < 5 mm: [le dimensioni dei calcoli devono essere contenute poiché il dotto cistico ha un
piccolo calibro]
- Calcoli a sede distale e poco numerosi (≤ 3)
- VBP di calibro < 8 mm (NB la via biliare ha normalmente un calibro di max 5 mm): [controindica a
tagliare il coledoco perché esso potrebbe guarire con una stenosi]
- Impianto del cistico alto e sul lato dx della VBP, ovvero in posizione anatomica: [se si ha un dotto cistico
che si impianta verso il pancreas, sul lato sinistro della via biliare, la bonifica trans-cistica diventa
tecnicamente non eseguibile. Anche per questo aspetto la colangioRMN è d’aiuto.]
Procedura. Nel video presente sulle slides è visibile la colecisti isolata, in cui è
possibile riconoscere il dotto cistico clippato con clip metallica, il calcolo e la via
biliare. In seguito al taglio del dotto cistico fuoriesce una minima quantità di bile,
ma non è un evento preoccupante. Dopodiché è possibile entrare nella via
biliare con il coledoscopio per individuare il calcolo (anche se in realtà non è un
passaggio necessario) e, inserendo il cestello di Dormia, è possibile scalzare il
calcolo.
Le indicazioni alla bonifica transcoledocica, invece, sono costituite da:
- Calcoli con ø > 5 mm
- Calcoli numerosi (>3) e a sede anche prossimale
- VBP di calibro > 8 mm
- Anomalo impianto del cistico sulla VBP (es. dotto cistico che si impianta a sinistra dopo aver compiuto
un giro anteriormente o posteriormente)
- Superficie anteriore della VBP ben accessibile
- Fallimento della via transicistica
In questo caso è obbligatoria la coledocoscopia, con utilizzo di un coledocoscopio di calibro 5 mm, per essere
sicuri che nella via biliare non sia rimasto alcun calcolo.
In questo caso, oltre al cestello di Dormia, è possibile utilizzare per scalzare il calcolo anche il catetere di
Fogarty, [che non è possibile utilizzare la bonifica trans-cistica]. Entrambi gli strumenti sono introdotti
attraverso il coledocoscopio.
Procedura. Nel video presente sulle slide si vede, a seguito dell’isolamento della colecisti, l’apposizione di due
punti di repere sulla VBP. La VBP viene poi aperta, con modalità indifferente ([esistono anche dei bisturi
laparoscopici dedicati]), e i calcoli iniziano a uscire sotto pressione. Dopodiché si entra nella via biliare con il
coledocoscopio: se sono visibili calcoli rimanenti lo strumento permette di eseguire un minimo di bonifica
grazie a un getto d’acqua. In questo caso è importante essere a conoscenza del numero di calcoli presenti, in
modo da contarli via via che vengono rimossi. Infine, la via biliare deve essere chiusa accuratamente per evitare
la fuoriuscita di bile, [ma allo stesso tempo bisogna avere cura di non causare una stenosi: il coledoco deve
essere chiuso utilizzando un filo di diametro adeguato, non riassorbibile o a lentissimo assorbimento.]

COLEDOCOLITIASI: entità del problema


La coledocolitiasi è una condizione frequente, con prevalenza del 10-12%, di cui sintomatica nell’8% dei casi e
insospettata nel 4%. Dai dati di letteratura si ricava infatti che circa il 4% dei pazienti colecistectomizzati ha un
calcolo in via biliare non sospettato intra-operatoriamente.
La casistica personale della professoressa conferma l’entità del problema, con un 4,8% di litiasi insospettata in
pazienti operati (17 calcoli non sospettati su oltre 300 pazienti). [Dalle slides:

226
- Scansione longitudinale: 2 casi
- Scansione trasversale: 4 casi
- Scansione da entrambi gli accessi: 11 casi
(La professoressa racconta il caso di una paziente che, da lei operata per colelitiasi sintomatica, tornò in DEA
per ittero. Con il timore che la paziente potesse avere una lesione della via biliare, fu eseguita una colangioRMN
che rivelò la causa dell’ittero: un calcolo in via biliare. Il calcolo non era stato visto pre-operatoriamente, dal
momento che non era stata eseguita la colangio-RMN (in modo giustificato, trattandosi di una colica biliare e
non di una complicanza) né intra-operatoriamente, ma era diventato sintomatico a pochi giorni dalla
colecistectomia.)
Se il chirurgo si accorge intra-operatoriamente della presenza di un calcolo in coledoco, ovviamente, deve
attuare la bonifica: è necessario far arrivare un endoscopista in sala per procedere con il rendez-vous oppure
essere in grado di eseguire una bonifica chirurgica. Il calcolo in via biliare può essere trovato durante
l’intervento per mezzo di due tecniche:
- tramite ecografia intra operatoria con scansione longitudinale trans-epatica dell’ilo epatico: si utilizza
una sonda apposita per l’accesso laparoscopico che viene poggiata sul coledoco;
- tramite colangiografia intra-operatoria, con apertura del dotto cistico (come accade per la bonifica
della via biliare), inserimento del catetere colangiografico e introduzione di mdc per lo studio della via
biliare.
Nel tempo si è alzato un dibattito circa la necessità di ricercare i calcoli presenti nella via biliare: in passato si
consigliava sempre la ricerca dei potenziali calcoli tramite colangioRMN intra-operatoria, seguita da eventuale
bonifica, perché si credeva evitasse il danno delle vie biliari; secondo le linee guida attuali, invece, non è
raccomandato eseguire lo studio intraoperatorio a meno che non ci sia un ragionevole sospetto della presenza
del calcolo (e infatti lo studio7 portato come esempio per il confronto tra tecnica colangiografica ed ecografica
risale a vent’anni fa).
Lo studio della via biliare non può essere condotto di routine in quanto costoso, richiedente una buona
organizzazione e con possibili falsi negativi. Lo studio selettivo intraoperatorio della via biliare è invece previsto
in casi difficili e in casi con alta probabilità di coledocolitiasi.
Inoltre, se effettivamente è presente un calcolo in via biliare, è molto probabile (33%) che ci sia poi una
clearance spontanea e non sia quindi necessaria la successiva bonifica della VBP. Per tutti i motivi elencati,
pertanto, lo studio con colangioRMN non è assolutamente giustificato per tutti i pazienti.

Figura 3 - Esempio di clearance spontanea: nella prima immagine RM, acquisita intra-operatoriamente, sono visibili
dei calcoli in coledoco. Nelle immagini successive, acquisite a 48h e a 6 settimane di distanza, i calcoli sono prima
ridotti e poi assenti.

7
Falcone RA Jr, Fegelman EJ, Nussbaum MS, Brown DL, Bebbe TM, Merhar GL, Johannigman JA, Luchette FA, Davis K Jr,
Hurst JM. A prospective comparison of laparoscopic ultrasound vs intraoperative cholangiogram during laparoscopic
cholecystectomy. Surg Endosc. 1999 Aug;13(8):784-8. doi: 10.1007/s004649901099. PMID: 10430685.

227
[Dalle slide: dal survey precedentemente
nominato a cui hanno risposto 750 chirughi
si ricavano i dati a lato circa l’approccio
terapeutico preferito a seguito del riscontro
intra-operatorio di calcoli in coledoco.]
In conclusione, in caso di calcolosi
colecistocoledocica il gold standard attuale
è costituito dal trattamento sequenziale in
unico ricovero (ERCP + colecistectomia) o
dal rendez-vous laparo-endoscopico.
[Dalle sbobine 19-20: Il vantaggio del
rendez-vous, rispetto alla colecistectomia e
successiva bonifica delle vie biliari per via
endoscopica eseguito in due tempi, è di
facilitare l’incanalamento della papilla
all’endoscopia: infatti sia per conformazione anatomica sia in risposta all’infiammazione la papilla risulta poco
accessibile. In caso di rendez-vous, il chirurgo, quando seziona il dotto cistico, introduce un filo guida che
arriverà a livello della papilla duodenale e l’endoscopista riuscirà quindi ad incanalarla più facilmente,
servendosi del filo guida.]

CARCINOMA DELLA COLECISTI


Una signora anziana subisce una colecistectomia e in 2° giornata post-operatoria arriva l’esito della
valutazione AP della sua colecisti.
- Macro: colecisti di 7 x 3 cm; a 15 mm dal fondo rilevata neoformazione grigiastra di aspetto
gelatinoso di 10 mm.
- Micro: adenocarcinoma papillare ben differenziato, aspetti mucinosi, margini di resezione
indenni, G1 pT1b

La professoressa ricorda che, ormai, non si apre più la colecisti per contare il numero di calcoli, ma si manda il
pezzo integro direttamente in anatomia patologica; se si è aperto accidentalmente l’organo lo si segnala sulla
richiesta dell’esame istologico.
[Durante una colecistectomia non viene mandato immediatamente il pezzo operatorio al patologo per l’analisi
intraoperatoria, perché non si potrebbe comunque cambiare il planning operatorio: anche se si trovasse un
cancro della colecisti, non si potrebbe in ogni caso effettuare un altro intervento chirurgico (che sarebbe una
resezione del letto della colecisti, o segmentectomia, oppure una epatectomia maggiore) poiché non si ha il
consenso informato del paziente. Tutto quello che non è scritto esplicitamente nel consenso informato, infatti,
non può essere eseguito, se non per salvare la vita al paziente nell’immediato. Quindi se si riscontra un aspetto
sospetto per neoplasia della colecisti si rimuove comunque l’organo, con ancora maggiore attenzione a evitare
di aprirlo e favorire la disseminazione delle cellule neoplastiche, e poi si controlla l’esame istologico in modo
serrato, ma tutto nell’ottica di intervenire in seguito e non durante il medesimo intervento.]
In generale i pazienti non vengono richiamati di routine per fornire il risultato dell’esame e quando questo
accade c’è qualcosa che non va, come nel caso clinico presentato: la paziente ha un cancro della colecisti, che
è un tumore aggressivo.
Il colangiocarcinoma viene stadiato secondo la classificazione TNM (8° edizione), pubblicata tre anni fa.
- Tis: carcinoma in situ
- T1:
o a: infiltrazione della lamina propria
o b: infiltrazione della tonaca muscolare
- T2: infiltrazione del connettivo perimuscolare

228
- T3: perforazione della sierosa o infiltrazione degli organi adiacenti (fegato, stomaco, duodeno,
pancreas, omento, colon)
- T4: infiltrazione dell’arteria epatica o della vena porta, o infiltrazione di due o più organi adiacenti.
Il patologo poteva essere ancora più preciso e, oltre a dire che la neoformazione si trovava sul fondo della
colecisti, avrebbe potuto esplicitare se questa si trovasse sul lato libero dell’organo o su quello in rapporto con
il fegato, dal momento che la posizione influenza il possibile coinvolgimento del fegato e, quindi, lo stadio.

Entità del problema


Il riscontro accidentale, ovvero in assenza di alcun elemento sospetto pre-operatorio, di un carcinoma della
colecisti in corso di colecistectomia accade nello 0,2-2,9 % dei casi. Di questi, il 78% avviene in pazienti di sesso
femminile e il 76% in pazienti di età > 70 anni.

Criteri di re-intervento e problemi aperti


In caso di riscontro di una neoformazione della colecisti è necessario porsi due domande:
- Bisogna sempre rioperare il paziente con una neoplasia della colecisti scoperta all’esame istologico?
- Quale intervento bisogna prendere in considerazione?
La necessità di procedere a un re-intervento dipende dall’esame istologico, che risulta essenziale sia per
decidere se re-intervenire o no, sia per decidere il tipo di reintervento, in quanto lo stadio della neoplasia
influenza la prognosi: la sopravvivenza a 5 anni in caso di T1 è del 100%, ma scende al 40% in caso di T2 e allo
0% in caso di T3 o T4 (l’altro cancro che ha una sopravvivenza simile è quello del pancreas).
Da tali dati sono state tratte le seguenti conclusioni:
- In T1a la colecistectomia è sufficiente. Il paziente è giudicato guarito, perché la probabilità di
disseminazione anatomica a livello del fegato è quasi pari a zero.
- T1 b / T2: è necessario re-intervenire con una resezione epatica (del letto della colecisti o del IV e V
segmento del fegato) e una linfadenectomia dei linfonodi del peduncolo epatico. La linfadenectomia
è difficile da attuare, in quanto è necessario togliere tutto il tessuto che riveste l’arteria epatica, la via
biliare principale e la vena porta, che è posteriore. Dato l’alto rischio di causare lesioni vascolari, la
competenza chirurgica richiesta è elevata e l’intervento non è pertanto alla portata di tutti gli ospedali:
il paziente deve essere centralizzato.
- T3: si può optare per una resezione epatica maggiore con linfadenectomia dell’ilo epatico e resezione
della via biliare, poi ricostruita con il digiuno (anastomosi bilio-
digestiva: [si rimuove l’epatico destro e il dotto epatico,
sezionando al di sotto dell’inserzione del cistico e rimuovendo
circa metà del coledoco; si pratica quindi un’anastomosi tra
dotto biliare di sinistra e intestino]). Si tratta di un intervento
con alto tasso di complicanze e che può necessitare anche di una
resezione estremamente estesa: in alcuni casi viene rimosso in
toto il fegato di destra, con il risparmio dei soli segmenti II, III e
parte del IV (il IVa). [Dalle slide: l’estensione della resezione
epatica dovrebbe essere dettata dal grado di malattia
riscontrato, con l’obiettivo di ottenere margini chirurgici liberi].
Ovviamente in questi pazienti il cancro non è riscontrato
occasionalmente, ma già visibile all’imaging (vedi figura a lato).
Sorge, però, il dubbio circa l’utilità del re-intervento -specialmente nei
casi avanzati-, tenendo conto che, spesso, al re-intervento si riscontra una malattia avanzata e che spesso la
prognosi non viene modificata.
Tuttavia, il re-intervento costituisce attualmente l’unica strategia possibile, in quanto:
- La storia naturale è rapidamente fatale
- Il re-intervento comporta una bassa mortalità
- Può portare a una sopravvivenza a lungo termine (ma comunque non oltre i 18-36 mesi).

229
Quadro clinico
La clinica è variabile e dipende da grado ed estensione dell’occlusione delle vene sovra-epatiche. Il paziente
può essere asintomatico o a volte avere un’insufficienza epatica (acuta o cronica).
- Forma acuta (a volte con risoluzione entro 24 ore) con sintomatologia simile ad un’epatite virale:
• Dolore addominale gravativo
• Epatomegalia severa
• Ascite (da ipertensione portale).
- Forma cronica: si determina ipertensione portale da occlusione post-epatica.

Diagnosi
Il sospetto clinico viene confermato con l’ecografia, che mostra le dimensioni del fegato e, attraverso l’eco-
Doppler, il flusso delle vene sovraepatiche e della vena porta.
Altri esami utili sono la TC con mdc e l’angiografia (quest’ultima anche con intento terapeutico).

Terapia
La terapia può essere:
- Radiologica: dilatazione, TIPS
- Chirurgica: shunt portosistemico, rimozione membrane con plastiche vascolari. Queste metodiche sono
state sostituite dal TIPS.
- Trapianto di fegato: si effettua quando il TIPS o la derivazione sono insufficienti. Corregge anche gli stati
emocoagulativi preesistenti che hanno causato la sindrome di Budd-Chiari.
9.4.6 Traumi epatici
In caso di trauma addominale, il fegato è il secondo organo più frequentemente coinvolto dopo la milza
(25%); infatti, nonostante la sua sede apparentemente protetta, la lesione epatica si verifica nel 10-15% dei
traumi chiusi e nel 20-25% di quelli aperti.
Rispetto alla milza, le lesioni del fegato possono coinvolgere non solo il parenchima, ma anche vena cava e
vie biliari, aumentando così la difficoltà dell’approccio chirurgico e i tassi di mortalità e morbilità.

Eziopatogenesi
In più del 60% dei casi, la causa di queste lesioni deriva dalla traumatologia stradale e/o del lavoro.
Nel 60-70% le lesioni sono legate a traumi chiusi dell’addome, mentre nel 30-40% a traumi aperti (arma
bianca o arma da fuoco). Nel trauma di tipo aperto la lesione è determinata con modalità diversa a seconda
del tipo di traumatismo e generalmente la prognosi è migliore rispetto a quella del trauma chiuso (proprio a
causa del meccanismo patogenetico).
Le lacerazioni derivanti da traumi epatici possono essere di diversa natura:
- Lacerazioni semplici - Lacerazione capsulare semplice
- Lacerazioni stellate o multiple - Avulsione o crush injury.
- Lesioni delle vene epatiche

Classificazione
I traumi epatici venivano un tempo distinti, secondo la classificazione di Calne, in 4 gradi di gravità crescente:
- Grado I: ferita della capsula, con arresto spontaneo dell’emorragia.
- Grado II: ferita parenchimale più profonda. Cura: sutura semplice.
- Grado III: ferita profonda con emorragia severa da lesione d’arteria e/o vena intraepatica.
- Grado IV: Come III più lesione della vena cava o sovra-epatica.
Attualmente vengono invece classificati secondo la Liver Injury Scale redatta dalla American Association for
the Surgery of Trauma (AAST) che prevede la suddivisione in 6 classi ad andamento progressivo che valutano
essenzialmente due parametri:
- Profondità della lacerazione parenchimale
- Superficie volumetrica dell’ematoma con l’eventuale coinvolgimento vascolare.

145
230
Diagnosi e terapia
Inizialmente è opportuna una valutazione dello stato generale e emodinamico. L’ecografia e la TC chiariscono
poi la diagnosi e orientano la terapia (specialmente circa il ricorso alla chirurgia).
In prima battuta è necessaria la stabilizzazione emodinamica (ripristino della volemia, correzione di difetti
coagulativi, correzione acido-base) per scongiurare l’insorgenza della “triade della morte” costituita da ipo-
termia – coagulopatia – acidosi metabolica. Il trattamento del trauma epatico può poi essere di due tipi:
conservativo o chirurgico.
TRATTAMENTO CONSERVATIVO
Per trattamento conservativo si intende il riscorso a tecniche mini-invasive quali: drenaggio eco-guidato/TC-
guidato, ERCP, angiografia operativa, laparoscopia.
Il trattamento conservativo è attuabile se alla TC il paziente presenta:
- Ematoma intra-epatico o sub-capsulare
- Lesione uni-lobare
- Assenza di tessuto devitalizzato
- Assenza o minima presenza di emoperitoneo
- Assenza o associazione di lesioni intra-addominali.
TRATTAMENTO CHIRURGICO
Circa il 20% dei pazienti necessita di intervento chirurgico in emergenza, che risulterà essere “salvavita”:
fondamentale risulta perciò la gestione in Pronto Soccorso, evitando perdite di tempo inutili (golden hour).
Le tecniche chirurgiche impiegate sono:
- Packing: tamponamento dell’emorragia con garze o altro materiale igroscopico. Il packing è indicato se
il chirurgo è poco esperto nella gestione operatoria di traumi epatici, oppure se sono presenti:
• Coagulopatia incontrollabile
• Ampio ematoma non in espansione
• Avulsione della capsula con lesione epatica bilobare.
Gli svantaggi di tale procedura sono determinati dal fatto che è necessaria una nuova laparotomia entro
1-2 giorni, il rischio di sepsi è aumentato e si può avere difficoltà nella chiusura della parete addominale
con eventuale compressione delle vene renali e vena cava.
Un’alternativa al packing è la manovra di Pringle, che prevede il clampaggio del legamento epatoduode-
nale, al cui interno decorrono l’arteria epatica e la vena porta.
- Mesh Wrapping: si avvolge il fegato con la mesh, una rete di polipropilene. Questa metodica è utilizzata
nei traumi di grado III-IV per la prevenzione di rottura di ematomi intraepatici. Non necessita di nuova
laparotomia. È controindicato se sono coesistenti lesioni parenchimali iuxta-cavali o a carico delle vene
sovraepatiche.
- Epatoraffia: sutura della lesione epatica. Risulta essere la tecnica più facile e frequentemente utilizzata
nel caso di lesioni parenchimali <3 cm (grado I, II). Il rischio è la permanenza di cavità (aumentata inci-
denza di bilomi o ematomi) e lo sviluppo di necrosi tissutale.
- Resezione epatica: adottata nel 3-9% dei casi, con pratica di diverse modalità di resezione anatomica
(segmentectomia o epatectomia dx/sn), complessivamente gravate da una mortalità del 50%.
La resezione epatica è indicata qualora non siano possibili altre modalità di emostasi, oppure ci sia una
estesa devascolarizzazione lobare con o senza lacerazioni profonde coinvolgenti vasi maggiori o dotti
biliari. I risultati dipendono in maniera inequivocabile dalla esperienza del chirurgo e dal supporto tecno-
logico esistente.
- Trapianto: indicato in presenza di un danno vascolare e/o biliare senza possibilità di trattamento, o co-
munque che pregiudichi un completo recupero funzionale; altra importante indicazione è l’insufficienza
epatica. Non viene eseguito in emergenza ma dopo attento monitoraggio ed eventuale primo tratta-
mento chirurgico; è controindicato in presenza di stato settico o sia associato un severo danno d’organo.

Prognosi
La prognosi è proporzionale non solo al numero di altri organi eventualmente coinvolti, ma soprattutto an-
che alla gravità del trauma epatico stesso. Inoltre, la prognosi immediata di questi pazienti è dipendente
dall’entità dell’emorragia e quindi dello shock emorragico correlato al danno anatomico che si verifica.
Il tasso di mortalità è direttamente proporzionale alla gravità del trauma (100% nei traumi di V-VI grado).

146
231
25.11.2020

Mao

Giorgia Brodini

IL PANCREAS
Ci sarà un’altra lezione di emergenze riguardante le pancreatiti e le indicazioni chirurgiche in tali occasioni. Nella
maggior parte dei casi non è opportuno operare una pancreatite acuta; in questa lezione si parlerà in generale della
pancreatite, con focus su quelle acute e croniche.
[La parte iniziale – fino alla pancreatite acuta – è un mix tra lezione, sbobine vecchie e BBC delle molinette: non ho
usato il corsivo perché mi sembrava piuttosto confusionario]

Il pancreas è un organo a funzione esocrina (90%: proteasi, lipasi, amilasi, secretina) ed endocrina (10%:
insulina, glucagone, somatostatina, polipeptide pancreatico PP).

Il pancreas può essere interessato da:

- Anomalie congenite: pancreas divisum, pancreas anulare, fibrosi cistica, cisti multiple congenite
- Patologia infiammatoria: pancreatite acuta, pancreatite cronica
- Patologia neoplastica: tumori del pancreas esocrino, tumori cistici, tumori del pancreas endocrino

EMBRIOLOGIA

Il pancreas origina da due abbozzi i quali, in seguito alla rotazione, formano un’unica ghiandola. Nell’adulto
normalmente non si riconosce questa divisione embrionaria. Ci sono due dotti, il maggiore (o di Wirsung) e
il minore (o di Santorini), che sfociano separatamente nella papilla major e minor. Non rispecchiano in
realtà la divisione embriologica: il dotto maggiore deriva dalla fusione di due dotti (abbozzo corpo-coda +
abbozzo della testa), mentre il dotto minore deriva da un'altra fusione. Questo spiega le possibili anomalie
che si possono osservare, prima tra tutti il pancreas divisum.

ANATOMIA

- Organo ghiandolare (endocrino ed esocrino), multilobulare, non capsulato;


- Sede: è l’organo più retroperitoneale insieme ai reni, nello spazio pararenale anteriore a cavaliere
della linea mediana, a livello delle prime vertebre lombari (L1-L2), anteriore ai grossi vasi. È
ricoperto da peritoneo nella sua parte anteriore e la maggior parte di questo peritoneo fa parte
della retrocavità degli epiploon;
- Disposizione trasversale, la testa è lievemente più caudale rispetto alla coda. Lungo il pancreas
decorre l’inserzione del mesocolon trasverso; la parte inferiore del pancreas è un po’ coperta dal
peritoneo della loggia sottomesocolica;
- Suddiviso in:
o Testa: dal margine laterale alla vena porta (comprende il processo uncinato, che avvolge la
vena porta), inclusa nella C duodenale
o Istmo
o Corpo: dalla vena porta all’aorta
o Coda: dall’aorta al margine mediale, insinuandosi nell’ilo splenico.
Testa e corpo sono retroperitoneali, mentre la coda è intraperitoneale;
- Il pancreas contrae rapporti con vasi (vena splenica, aorta, VCI, v. e a. mesenterica superiore: il
pancreas è infatti compreso tra l’emergenza del tripode celiaco e l’emergenza della a. mesenterica
superiore), duodeno (infatti è impossibile asportare la testa e preservare la C duodenale), stomaco,
radice del mesocolon trasverso e del mesocolon destro, parte craniale del mesocolon sinistro,

232
retrocavità degli epiplon, via biliare (coledoco), radici nervose (plesso celiaco), stazioni linfonodali,
ilo della milza.
La testa del pancreas è attraversata dal coledoco, motivo per cui una patologia a questo livello (o a livello
dell’ampolla di Vater / sfintere di Oddi) determina ostruzione della via biliare con ittero ed epatomegalia.

Accessi chirurgici:
Si può accedere al pancreas sia facendo uno scollamento colo-epiploico (scollamento del grande omento) e
arrivando alla retrocavità degli epiploon (così da aggredire il pancreas a livello della testa, del corpo o della
coda) oppure si può arrivare dalla loggia sottomesocolica (raro, solo per piccoli interventi) oppure si può
arrivare per via laterale, cioè scollando il fondo dello stomaco, la milza, la flessura splenica del colon e
ribaltando a sinistra tutti questi organi (manovra di Mattox) così da raggiungere posteriormente il pancreas
e arrivare fino ai suoi rapporti con l’arteria mesenterica superiore.
Dal lato destro del pz si può accedere al blocco duodeno-pancreatico ribaltando completamente il duodeno
e la testa: per farlo si incide il peritoneo parietale e si porta il duodeno e la testa del pancreas medialmente
in modo da scoprire la faccia posteriore del pancreas.
Manovra di Kocher: incidere il peritoneo che si trova lateralmente alla testa del pancreas e al duodeno e
ribaltare medialmente (cioè verso la parte sx del pz) il duodeno e la testa del pancreas. Permette di
accedere al retroperitoneo (e quindi accedere alla parte mediale del rene, all’arteria e vena renale, alla
vena cava inferiore nel tratto sottoepatico e alla vena porta che va verso il fegato; un tempo in questa
regione veniva fatta l’anastomosi porto-cavale).

Nel 95-97% della popolazione il dotto coledocico si unisce al dotto pancreatico a formare l’ampolla di Vater
che si trova all’interno della papilla e permette alla bile e al succo pancreatico di passare dalla via bilare e
dal pancreas all’interno del duodeno in risposta allo stimolo ormonale della colecistochinina e pancreatina
che fanno contrarre le vie biliari e pancreatiche per poi rilasciare il contenuto nello sfintere di Oddi per la
digestione.

Vascolarizzazione
VASCOLARIZZAZIONE ARTERIOSA

Il pancreas è vascolarizzato mediante le arcate vascolari intraparenchimali provenienti dal tripode celiaco e
dall’arteria mesenterica superiore. L’arteria splenica dà diversi rami pancreatici che si distribuiscono alla
faccia anteriore e posteriore del pancreas, formando diverse arcate che si occupano di vascolarizzare corpo
e coda. Dal basso invece arrivano due arcate dall’arteria mesenterica superiore, una posteriore e una
anteriore. Più nel dettaglio:

- L'arteria pancreaticoduodenale superiore è un ramo di piccolo calibro dell'arteria gastroduodenale,


che subito dopo essere emersa dalla precedente si divide in un ramo anteriore e in uno posteriore.
Entrambi i rami confluiscono inferiormente con i corrispondenti dell'arteria pancreaticoduodenale
inferiore.
- L'arteria pancreaticoduodenale inferiore è un ramo dell'arteria mesenterica superiore, nasce al di
sotto del corpo del pancreas, subito si biforca in un ramo anteriore e in uno posteriore che si
anastomizzano con i rami corrispondenti dell'arteria pancreaticoduodenale superiore. È la principale
arteria responsabile della vascolarizzazione del processo uncinato.
- L'arteria pancreatica dorsale è costituita da due rami dell'arteria splenica, irrorando la porzione
inferiore del corpo ed anastomizzandosi con l'arteria pancreatica maggiore.
- L'arteria pancreatica maggiore è un ramo dell'arteria splenica che si porta a sinistra e posteriormente
al corpo del pancreas. Prosegue verso la coda costituendo l'arteria della coda del pancreas.

233
- L'arteria mesenterica
superiore, che nasce
dall'aorta addominale sotto il
tronco celiaco, oltre
all'intestino tenue
mesenteriale e la metà destra
dell'intestino crasso irrora
anche il pancreas.

VASCOLARIZZAZIONE VENOSA

La testa e il processo uncinato del pancreas sono drenati da piccole vene, rami delle vene
pancreaticoduodenali superiori ed inferiori. La vena pancreaticoduodenale inferiore sbocca nella vena
mesenterica superiore che a sua volta drena nella vena porta dietro il collo del pancreas, mentre la vena
pancreaticoduodenale superiore sbocca direttamente nella vena porta.

Il corpo e la coda del pancreas sono drenati da numerose vene minori (vene del corpo e della coda del
pancreas) che drenano direttamente nella vena lienale, oppure nella vena mesenterica inferiore, che subito
dopo però sbocca di nuovo nella vena lienale.

Una volta ruotato verso destra il pancreas si possono osservare la vena cava e buona parte dell’aorta, tanto
che si può procedere alla linfoadenetomia della stazione 16 dello stomaco (linfonodi aorto-cavali che si
trovano in questa zona; stazione molto importante perché se ci sono mts in questa sede si considera il
tumore gastrico già in stadio IV). Sempre per motivi oncologici è importante ricordare i rapporti della testa
del pancreas con la vena porta e con la vena mesenterica superiore: quest’ultima passa proprio nell’uncino
del pancreas ed è in esteso rapporto con tutta la faccia posteriore della testa pancreatica (divide la testa dal
corpo pancreatico). Questi due rapporti sono molto importanti: l’invasione della mesenterica superiore è,
in linea di massima, una controindicazione all’intervento; attualmente si valuta questa invasione in modo
molto sottile, cioè se è avvenuta per un quarto, metà o tutta la circonferenza della vena mesenterica, in
quanto nelle prime fasi si può ancora tentare l’intervento, oppure si può (teoricamente) sostituire la vena
con una protesi o un tratto di safena (ma i risultati non sono particolarmente buoni).

INNERVAZIONE

Il pancreas è innervato dal sistema nervoso autonomo simpatico e parasimpatico. Le fibre simpatiche
pregangliari originano nei mielomeri toracici T5-T10; le fibre nervose postgangliari di questi due plessi
seguono il decorso dei vasi arteriosi. Le fibre simpatiche hanno azione vasocostrittrice e in parte
secretomotoria; le fibre parasimpatiche derivano dal nervo vago posteriore e dai nervi parasimpatici del
plesso celiaco ed hanno funzione vasodilatatrice e secretomotoria. La sensibilità dolorifica (o di altro tipo)
non contatta direttamente il pancreas (motivo per cui lesioni tumorali intraparenchimali vengono
diagnosticate tardivamente), bensì l’innervazione riguarda la capsula (peritoneo).

FISIOLOGIA PANCREATICA

Il pancreas è un organo fondamentale per la digestione, infatti secerne gli enzimi digestivi che hanno un
elevato potere proteolitico e per tale motivo vengono contenuti in granuli di zimogeno e, in linea teorica,
dovrebbero essere attivati solo a livello digiunale. Gli enzimi sono deputati alla scissione delle proteine,
degli zuccheri e dei grassi.

Il pancreas esocrino produce in 24 ore 1000- 3000 ml di succo a pH alcalino (7.9 – 8.6; l’azione tamponante
del succo pancreatico è necessario per l’attivazione degli enzimi gastrici e pancreatici atti alla digestione); la
quantità di succo pancreatico prodotto dipende dalle dimensioni della persona e della stimolazione

234
alimentare: a digiuno la secrezione è ridotta molto (il principale momento terapeutico nella pancreatite
acuta è proprio quello di mettere il pz a digiuno in modo completo). Il secreto pancreatico è composto:

- Per il 97% da acqua ed elettroliti:


o È secreto dalle cellule duttali e centroacinari
o Il principale soluto è il bicarbonato
o Il bicarbonato è secreto in concentrazione 4-5 volte maggiore rispetto al sangue e
neutralizza l’acido proveniente dallo stomaco (8-18 gr/24 h)
o Il bicarbonato determina un pH duodenale ottimale per l’attività degli enzimi (6.8)
- Per il 3% da proteine (enzimi digestivi): è secreto dalle cellule zimogene
o Enzimi proteolitici
▪ Endopeptidasi: tripsina, chimotripsina, elastasi
▪ Esopeptidasi: carbossipeptidasi A e B
o Enzimi glicolitici: Alfa amilasi → è l’enzima che si dosa normalmente negli esami del sangue,
anche se in realtà è il meno importante dei tre; in genere, quando c’è un’attivazione degli
enzimi pancreatici impropria nel parenchima pancreatico, nell’interstizio o che vengono
immessi in circolo, gli enzimi proteolitici e lipolitici sono quelli più dannosi, infatti i lipolitici
alterano e distruggono le membrane cellulari, mentre quelli proteolitici distruggono la
componente del tessuto interstiziale (collagene e fibre elastiche)
o Enzimi lipolitici: lipasi pancreatica

Tutti gli enzimi vengono secreti come proenzimi e vengono attivati nel lume intestinale dalle enterochinasi,
presenti sull’orletto a spazzola.

La componente endocrina del pancreas è in realtà poco importante nelle pancreatiti, è molto più rilevante
in ambito oncologico (glucagonoma, insulinoma… ); è costituita da isole, composte soprattutto da quattro
tipi di cellule:

- Cellule A (alfa): sintetizzano e secernono glucagone; queste cellule sono poco importanti in
relazione alla pancreatite: può eventualmente esserci una distruzione come conseguenza
dell’infiammazione;
- Cellule B (beta): sintetizzano insulina (parte centrale delle isole);
- Cellule D (delta): producono la somatostatina e la gastrina (localizzate alla perilinfa insulare);
l’ipersecrezione di gastrina provoca la sd di Zollinger-Ellison (ulcera multipla a livello gastrico e
duodenale [classica domanda d’esame]); la somatostatina è importante da ricordare soprattutto
per l’uso terapeutico che si fa dei suoi analoghi (es. per i tumori neuroendocrini); è meno
importante dal punto di vista fisiologico;
- Cellule D1: sono il tipo cellule più raro e secernono polipeptidi, VIP, PP

DIAGNOSI

Le tecniche diagnostiche di studio del pancreas si distinguono in esami di primo livello e di secondo livello.

Esami di primo livello

- RX addome diretto: consente di visualizzare le calcificazioni conseguenti a infiammazione, ma non


visualizza l’anatomia del pancreas né eventuali masse. Viene eseguito in decubito supino e in
stazione eretta (proiezioni A-P e L-L).
- Ecografia: essendo il pancreas situato in profondità, l’ecografia è utile in pazienti magri senza
meteorismo intestinale (si visualizza il pancreas e i suoi rapporti anatomici con vasi o altri organi). In
generale, l’ecografia ha una sensibilità solamente del 70% e un basso VPN.
- TC: spesso è il gold standard, in quanto mostra con buona affidabilità il pancreas e i rapporti.

235
- RM: esame complementare alla TC, utile in caso di infiammazione (pancreatite) nell’individuazione
di aree necrotico-emorragiche. Il pancreas è normalmente iperintenso in T1 rispetto al fegato.

Esami di secondo livello

- Ecoendoscopia (EUS): si utilizza una sonda ecografica montata su un endoscopio. Il pancreas è ben
visualizzato in quanto è in contatto con il tratto GI (in particolare duodeno); con la tecnica eco-
Doppler si valuta la vascolarizzazione. L’ecoendoscopia è anche utile per guidare un prelievo
bioptico (EUS-FNA).
- Colangio-Pancreatografia Endoscopica Retrograda (ERCP): manovra endoscopica invasiva che
sfrutta endoscopi a visione laterale che scorrono su un filo guida inserito nella papilla di Vater e di
qui nel coledoco e/o nel dotto pancreatico, iniettando MdC all’occorrenza. Può essere anche una
metodica operativa, con posizionamento di stent/protesi per dilatare via biliare o dotto pancreatico
in caso di ostruzione. Le complicanze della ERPC, che giustificano il ricorso in primo luogo alla
colangio-RM, sono:
o Emorragia, specialmente in occasione della sezione della papilla di Vater
o Pancreatite (10% delle ERCP), in seguito all’incannulamento del Wirsung (più stretto e
delicato).
- Colangio-RM: metodica non invasiva che studia vie biliari e dotti pancreatici; non utilizza MdC, sono
immagini T2-pesate. A differenza della ERCP è meno invasiva e consente anche di visualizzare il
parenchima; pertanto è da eseguire prima della ERCP a meno di intento operativo della ERCP
stessa.
- Scintigrafia (Octreoscan): si utilizza l’octreotide radiomarcato, analogo della somatostatina. È una
metodica utilizzata in caso di sospetto NET.

ANOMALIE ANATOMICHE CONGENITE

Per comprendere le anomalie anatomiche congenite del pancreas è utile richiamare l’embriologia. Il
pancreas nasce da due abbozzi (pancreas dorsale e pancreas ventrale), ciascuna porzione connessa al tubo
digerente tramite il proprio dotto pancreatico. Durante l’organogenesi, il pancreas ventrale ruota attorno al
tubo digerente e si va a fondere con il pancreas dorsale. Inoltre, il dotto pancreatico del pancreas ventrale
(che diventerà la porzione terminale del Wirsung) si fonde con il dotto del pancreas dorsale.

Pancreas divisum

Nel pancreas divisum (riscontrato nell’8% delle ERCP) i due segmenti (ventrale e dorsale) si sono uniti ma i
loro dotti sono rimasti separati. Pertanto, il Wirsung drena la porzione inferiore della testa e il Santorini
tutto il resto della ghiandola. Di per sé non rappresenta una patologia, ma solo un’anomalia anatomica. È
tuttavia vero che il dotto di Santorini, di norma più piccolo del Wirsung, può non essere in grado di drenare
buona parte del parenchima e ciò può scatenare una colica pancreatica dovuta alla dilatazione del dotto
(rare pancreatiti). È importante identificare il pancreas divisum con colangio-RM prima di eseguire ERCP, in
quanto potrebbe rappresentare un problema per la progressione del filo guida.

Pancreas anulare

Il pancreas anulare è una rara (5 su 100.000) patologia malformativa pediatrica che comporta uno
strozzamento del duodeno (completo o incompleto) da parte della testa del pancreas. Si verifica anche in
questo caso per un difetto di organogenesi, con il pancreas ventrale che si sviluppa attorno al duodeno
invece di ruotarci attorno. Spesso è associato ad altre patologie quali atresia intestinale, malrotazioni,
fistola tracheo-esofagea, difetti cardiaci, sindrome di Down. Nel 70% dei casi è asintomatico, mentre nel
30% i sintomi si manifestano entro il primo anno di vita (vomito, dolore addominale, pienezza
postprandiale, emorragie del tratto GI superiore, pancreatite, raramente ittero ostruttivo). Questa
condizione aumenta il rischio di neoplasie ampollari. La terapia chirurgica prevede non la

236
cefalopancreasectomia (richiederebbe l’asportazione del duodeno), bensì una anastomosi gastro-digiunale
per bypassare l’ostruzione duodenale.

Altre patologie congenite: fibrosi cistica, cisti multiple congenite

PANCREATITE ACUTA
La pancreatite acuta è un evento che fino agli anni ‘60 veniva definito come “catastrofico” perché non
c’erano ancora le terapie intensive come quelle odierne quindi anche la forma lieve (con una scarsa
propensione al danno d’organo), in realtà aveva una mortalità molto elevata. Questo perché non c’erano
trattamenti che non fossero primariamente chirurgici per trattare la causa principale di pancreatite acuta
ovvero la calcolosi del coledoco. Il dover fare un intervento sul coledoco in un paziente che aveva in corso
una pancreatite acuta aumentava esponenzialmente la mortalità intraoperatoria. Nonostante sia una
patologia di cui si parla dall’800 solo nel 900 è stata scoperta l’associazione con la litiasi che tutt’ora è la
causa più frequente di pancreatite. Nel 1917 l’alcol viene inserito nei fattori eziologici di pancreatite.
Attualmente le nuove linee guida inserisco l’alcol al terzo posto (nelle precedenti era al secondo posto) nei
fattori eziologici di pancreatite acuta. Al secondo posto vi è la causa idiopatica. Questo perché le linee guida
sono americane: in Italia l’alcol rimane al secondo post nell’eziologia della pancreatite acuta.

Ancora oggi in realtà la pancreatite acuta è considerata un evento “esplosivo”. Oggi sappiamo che le
conseguenze catastrofiche principali della pancreatite acuta sono dovute all’attivazione (per diverse cause,
in parte ancora non chiare) dei proenzimi pancreatici. I rimedi efficaci sono ancora oggi limitati: il digiuno è
il trattamento fondamentale, a cui si deve aggiungere il supporto vitale. Questa patologia veniva
considerata una reazione irreversibile in quanto spesso la diagnosi veniva svolta all’autopsia; con l’avvento
della misurazione dell’amilasi (anni ’50) è stato possibile fare la diagnosi anche delle forme lievi.

EPIDEMIOLOGIA

A livello mondiale non è una patologia particolarmente rara; sembra ci sia un aumento negli ultimi anni
(verosimilmente dovuto all’aumento di noxe patogene quali diabete, alimentazione scorretta);
generalmente colpisce sopra i 40 aa (40-80 aa è la fascia tipica), ma ci sono forme gravi possibili anche nei
giovani. Nonostante la prevalenza non così elevata quando viene diagnosticata porta al ricovero del pz e al
trattamento, che è prevalentemente medico; si può andare poi alla chirurgia dopo aver risolto l’attacco
acuto così da rimuovere l’eventuale condizione sottostante (es: la calcolosi biliare). Esiste una forma di
pancreatite cronica recidivante in cui ci sono molteplici piccoli attacchi di pancreatite acuta e invece forme
di pancreatite con un attacco poco importante seguito da un attacco grave magari poco dopo la dimissione.

La mortalità non è particolarmente elevata, arriva al 10%, ma quando c’è una pancreatite grave con una
necrosi la mortalità può arrivare al 40-50%.

DEFINIZIONE ANATOMO-PATOLOGICA

La grande divisione nell’ambito delle pancreatiti viene fatta tra le pancreatiti acute lievi (circa l’85%) e
severe (in cui si ha l’attivazione dei mediatori con conseguenze a carico di diversi organi). La differenza è
nello stato del parenchima.

L’infiammazione della ghiandola pancreatica caratterizzata da edema interstiziale ed infiltrato


infiammatorio indica una pancreatite lieve. Tale quadro può evolvere verso la necrosi cellulare e poi verso
l’infezione e si parla in questo caso di pancreatite acuta grave (o severa). Uno dei maggiori problemi è che
inizialmente non si è in grado di capire se il pz evolverà verso una pancreatite necrotica o se rimarrà una
pancreatite edematosa: la rilevanza prognostica è enorme, infatti la pancreatite edematosa si risolve in
pochi giorni con un trattamento molto semplice, al contrario delle pancreatiti necrotiche che hanno

237
un’elevata mortalità. Esistono delle linee guida internazionali che possono aiutare nella definizione della
diagnosi.

L’elevata mortalità si sta riducendo negli ultimi anni grazie alla precocità dell’intervento. Il timing è
fondamentale perché la mortalità dipende dalla rapidità di evoluzione della pancreatite da lieve a grave. Se
nelle prime 48 ore abbiamo i segni clinici di peggioramento della pancreatite e quindi MOFS (sindrome da
malfunzionamento multiorgano) la prognosi tenderà ad essere infausta. Ci sono diversi criteri per stabilire la
gravità della malattia, ad esempio i Criteri di Ranson, i Criteri di Balthazar e i criteri di Marshall (vedi dopo).
Se questi criteri danno un punteggio in genere superiore alla metà del punteggio massimo ottenibile
potenzialmente il tasso di mortalità aumenta in maniera considerevole. Quindi dal punto di vista clinico ciò
che fa la differenza tra pancreatite lieve e pancreatite grave è l’interessamento di altri organi, prima
addominali poi extraddominali. Una delle peggiori complicanze è l’aumento della pressione addominale
perché questa scatena la MOFS. Nelle nuove linee guida l’aumento della pressione addominale deve infatti
essere considerato come un’indicazione all’intervento chirurgico. Nelle precedenti linee guida non era così,
mentre nelle nuove l’aumento della pressione addominale è sullo stesso piano della pancreatite necrotico-
emorragica. Questo perché detendere la pressione addominale è uno dei modi per poter rendere reversibile
una MOFS che rimane comunque difficilmente reversibile. La pressione alla quale bisogna intervenire è
18mmHg. Di solito la pressione addominale varia dagli 8mmHg ai 12 mmHg, tra 12 mmHg e 18 mmHg è
borderline, sopra i 18 mmHg bisogna intervenire. Si interviene facendo una laparotomia decompressiva.
Questo consente di mettere dei drenaggi pancreatici anche se i centri che hanno un’elevata incidenza di
pancreatite acuta sconsigliano il drenaggio per il frequente verificarsi di tramiti fistolosi e aggiungere una
fistola ad un paziente che ha una pancreatite ne aumenta la mortalità.

EZIOLOGIA

Cause più frequenti di pancreatite acuta: ricorda Eziologia della pancreatite acuta in Italia:
l’acronimo “I GET SMASHED”1
- Malattie delle vie biliari: 33%
- Litiasi biliare o Litiasi
- Abuso etilico o Infezioni
- Pancreatiti acute idiopatiche o Anomalie congenite
- Post-ERCP - Alcolismo cronico: 20%
- Post-operatorie - Mista: alcolica e biliare: 15%
- Dislipidemie - Post-operatoria: 10%
- Post-traumatiche - Idiopatica 8%
- Farmaci - CPRE, traumi, farmaci, iperparatiroidismo: 7%
- Ipertrigliceridemia

Eziologia PA biliare: - Anomalie della giunzione del dotto


pancreatico-biliare (S.O.D.)
- Calcoli biliari e colesterolosi
- Colangite sclerosante
- “sludge” (fango) biliare
- Litotrissia Cause più frequenti di pancreatite acuta in età
- ERCP/ES pediatrica:
- Chirurgia delle vie biliari
- Post traumatiche (21%)
- Colangiocarcinoma e tumori ampollari
- Pancreatiti acute idiopatiche (20%
- Cisti coledociche e coledocele
- Alterazioni dell’albero biliare (17%)

1
I= idiopatic; G= gallstones (calcoli biliari) o genetic (fibrosi H: hyperlipidemia/hypercalcemia/hyperparathyroidism
cisitca); E= ethanol; T= trauma (Mao fa rientrare in trauma (disordini metabolici); E= ERCP; D= drugs (tetracicline,
anche ERCP); S= steroids; M= mumps (e altre infezioni) o furosemide, azatioprina, tiazidici e altri). Le quattro cause
malignancy; A= autoimmune; S= scorpion stings/spider principali sono quelle contenute in I GET, le altre
bites; contenute in SMASHED sono secondarie

238
- Farmaci (15%) - Anomalie congenite (6%)
- Infezioni (10%) - Fibrosi cistica e sindrome di Reye

PATOGENESI

Fisiologicamente sono presenti dei meccanismi di


difesa:

- Gli enzimi pancreatici sono prodotti come


proenzimi inattivi;
- Si ha la compartimentalizzazione sub-cellulare
dei proenzimi in granuli di zimogeno;
- Sono presenti inibitori locali e circolanti
(inibitori secretori della tripsina, alfa1
antitripsina, alfa2 macroglobulina);
- Flusso pancreatico continuo;
- Contrazione dello sfintere di Oddi che
impedisce la retrodiffusione del contenuto
duodenale.

Indipendentemente dall’eziologia, nella pancreatite


acuta si ha che i granuli di zimogeno che normalmente
impediscono l’attivazione intrapancreatica degli
enzimi proteolitici, rilasciano gli enzimi all’interno del
pancreas in seguito alla loro fusione con i lisosomi; la
maggior parte delle volte questo meccanismo è
dovuto all’impossibilità del secreto pancreatico di
fuoriuscire in seguito ad un’ostruzione. Non è noto
perché si abbia questo rilasciamento enzimatico e
l‘attivazione intrapancreatica. Gli enzimi così attivati
determinano l’autodigestione del parenchima
pancreatico prima e poi di quello circostante.

Se il meccanismo è localizzato (quindi nelle forme


lievi) si osserva solo l’infiammazione di una parte della
ghiandola, aumento della permeabilità capillare e
fuoriuscita di liquido plasmatico nell’interstizio con
edema; se si espande si ha una pancreatite acuta che
nell’80% dei casi rimane comunque lieve.

Nelle forme più gravi invece si osserva l’attivazione


delle chinine, del complemento e dei fattori locali
dell’infiammazione, attivazione locale della
coagulazione nei capillari e una serie di complicanze
che portano a ischemia e necrosi delle cellule
pancreatiche (le quali vanno in parte in apoptosi e in
parte in necrosi) con automantenimento del danno.
Sulla porzione necrotica del pancreas si può poi instaurare un’infezione con rischio di sviluppare SIRS. È
molto difficile decidere se intervenire o meno in queste situazioni: in causa di non intervento su un quadro
di necrosi si può avere l’evoluzione a stenosi, in caso di intervento si può favorire l’insorgenza di sepsi.

239
Spesso l’evento trigger è una grossa mangiata e/o bevuta (soprattutto super alcolici).

Riassumendo, le fasi della pancreatite sono:

1. Danno cellulare: attivazione zimogeno


a. Autoattivazione del tripsinogeno
b. Attivazione catepsina B
c. Attivazione inappropriata del tripsinogeno
d. Ruolo del Ca2+
2. Infiammazione locale: caratteristica, con reclutamento eccessivo di leucociti; i mediatori
dell’infiammazione sono fondamentali nella patogenesi e nella risposta infiammatoria. 2
a. TNF-alfa e IL-1β:
i. Livelli elevati in corso di pancreatite
ii. Inibizione TNF e IL-1β attenua la gravità della pancreatite in modelli sperimentali
iii. Blocco recettori IL-1beta riduce gravità
b. IL-6: è utile, ma si innalza a livelli significativi dopo 48 ore
i. Prodotta da: monociti/macrofagi, cellule endoteliali, fibroblasti e cellule muscolari
lisce dietro stimolo di endotossine, TNF, IL-1B e miofibroblasi periacinari
ii. Si correla con anomalie emodinamiche
iii. Si correla con la gravità della pancreatite
3. Infiammazione sistemica
a. ARDS, mediatori: MIF (macrophages migration inhibitor factor), MCP-1 (monocyte
chemoattractant cytokine), GM-CSF (Granulocyte Colony stimulating factor), NO, COX-2. Si
ha una riduzione della compliance polmonare per un aumento del contenuto di acqua
extravascolare ed eventualmente edema che rende il polmone più resistente
all’espansione, con conseguente affaticamento dei muscoli respiratori;
b. Ipoperfusione renale, mediatori: NO, Endotelina -1, Sostanza P. Si può avere oliguria,
anuria, aumento della creatinina
c. Traslocazione batterica a livello intestinale, mediatori: alterazione barriera muscosa
intestinale, ipoperfusione/ischemia, overgrowth batterico indotto da antibiotici.
Allentamento delle tight-junctions con la perdita della fisiologica barriera intestinale →
rischio di avere focolai settici in vari organi
4. Infezione della necrosi
a. 30-70% delle pancreatiti necrotiche diventa infetta
b. Interviene dopo 2-4 settimane
c. Mortalità doppia
d. Vie di infezione:
i. Ematogena
ii. Reflusso duodenale
iii. Diffusione transperitoneale
iv. Traslocazione via linfatici intestinali
e. Richiede terapia intensiva
f. In caso di dubbio → agoaspirato TC o ECT
g. È l’unica indicazione chirurgica davvero riconosciuta (drenaggio)

2
Mediatori pro-infiammatori: TNF-alfa, IL-1beta, IL-6, PAF, IL-8, MCP-1, Sostanza P, Nf-kB, ICAM-1, Selectine, AP-1
Mediatori anti-infiammatori: IL-10, IL-2, PAR-2, componente C5a del complemento, recettori solubili del TNF,
antagonisti del recettore IL-1, NEP

240
DIAGNOSI
Si basa sulla presenza di dolore addominale (presente in oltre il 95% dei casi) associato a nausea, vomito,
talora ittero ed aumento degli enzimi pancreatici sierici e/o urinari. Tuttavia, nel 2-5% dei casi (pz
neuropatici, diabetici) il dolore può essere assente; in questi casi la malattia esordisce con shock o sintomi
neurologici. Inoltre, talora le concentrazioni degli enzimi pancreatici sierici possono essere normali, anche
se il dosaggio delle lipasi risulta più sensibile e specifica dell’amilasemia.

Pertanto, la diagnosi di pancreatite acuta deve essere considerata mediante una valutazione combinata di
elementi clinici (sintomi e segni, fattori favorenti), laboratoristici e morfologici (ecografia e TC), dato che
nessuno degli elementi diagnostici (eco e TC incluse) possiede un valore predittivo assoluto.

Sintomi

- Sintomi precoci:
o Dolore addominale localizzato in epigastrio o irradiato agli ipocondri e posteriormente a
sbarra (95%). Il dolore è di origine chimica: le sostanze stimolano le terminazioni libere dei
nervi.
o Vomito (60%)
o Ileo paralitico (50%), per via della reazione infiammatoria che blocca la peristalsi
o Difesa addominale (40%)
o Febbre (60%); può essere presente anche senza infezione in corso
o Ittero o subittero (10-15%) (per compressione parte terminale del coledoco)
o Massa epigastrica palpabile (10%)
o Shock ed ipotensione (30%)
- Sintomi tardivi (48-72 ore)
o Ascite
o Versamento pleurico (> sinistra)
- Complicanze sistemiche: cuore, polmone, rene, stomaco, CID, etc…

Esami di laboratorio

I risultati di laboratorio non sono costanti

- Amilasi aumentata (x5)


o Aumentata precocemente
o Test sensibile ma poco specifico; si eleva anche per insufficiente clearance renale, ulcera
perforata, coliche biliari, infarto intestinale, patologia delle ghiandole salivari
- Lipasi aumentate. L’aumento della lipasi è molto più caratteristico perché patognomonica di
pancreas, l’amilasi è molto meno significativa. Entrambe aumentano di almeno 5 volte, nella
pancreatite severa l’aumento è nettamente superiore.
- Leucocitosi
- Glicemia aumentata. L’aumento della glicemia è detenere in considerazione perché indice di danno
d’organo ed è un fattore prognostico negativo
- Calcemia ridotta. L’ipocalcemia è indice di sequestro di calcio da parte del pancreas e indica che il
paziente sta evolvendo verso lo shock settico → è un indice di gravità
- Transaminasi e bilirubina aumentate (10-20%)
- Trigliceridi aumentati (30%)
- PCR e procalcitonia sono indici di gravità.

Se la leucocitosi, l’iperamilasemia e l’aumento della PCR persistono indicano la formazione di una


pseudocisti.

241
Esami strumentali

- Rx diretta dell’addome e del torace


- Ecografia delle vie biliari e del pancreas. È il primo esame da effettuare ma di fronte ad un paziente
con ileo paralitico il pancreas è poco accessibile, deve essere effettuata l’eco delle vie biliari e del
pancreas.
- TC addome con mdc. Di fronte ad un paziente con clinica ed ematochimici positivi nelle prime 12
ore vale la pena fare la TC per vedere quanto pancreas è stato interessato perché è indice
dell’evoluzione della pancreatite stessa (le linee guida dicono di aspettare 48 ore).
- ColangioRM. Non ha scopo diagnostico ma serve per verificare la presenza di calcoli a livello delle
vie biliari.
- ERCP con sfinterotomia (nelle forme biliari, con significato diagnostico-terapeutico). Non ha più
valore diagnostico, secondo le linee guida attuali si cerca di differire l’intervento ERCP dopo aver
risolto l’infiammazione.

Quando l’evoluzione è molto rapida il sintomo dolore può non esserci e il paziente può presentarsi o con lo
shock settico/ipovolemico con sintomi neurologici o con addome a tavola perché il processo patologico ha
portato a ileo paralitico oppure ad un aumento drastico della pressione addominale. Per misurare la
pressione addominale c’è un metodo invasivo, che non si fa quasi mai, e uno non invasivo: si misura la
pressione vescicale perché è l’organo più comprimibile e mettendo il manometro nella vescica si misura la
pressione addominale.

CRITERI PER LA VALUTAZIONE DELLA GRAVITA’

È utile riconoscere quanto prima le forme severe di malattia per prevenire e trattare l’insorgenza di
complicanze. Per la valutazione di gravità vi sono criteri prognostici clinici, laboratoristici e radiologici.
Tuttavia, è spesso difficile fare questa differenziazione.

1. Criteri clinico - laboratoristici

Ci sono diversi criteri che si possono utilizzare e in realtà nessuno è davvero soddisfacente.

Criteri clinici di Banks: misura le complicanze ma pz che


abbiano shock, dispnea e i punti della diapositiva sono pz
avanzati, è ovvio che siano pz con una forma grave: se si
osservano questi segni vuol dire che il pz è già nella forma
grave, non serve per distinguere la forma lieve e severa
precocemente.

Criteri clinici di Agarwall e Pitchumoni: hanno il vantaggio


che sono pochi e quindi rapidi da determinare. L’alterazione
di almeno un paio di questi indica una pancreatite severa.

In realtà le forme lievi e gravi si trattano poi allo stesso


modo (sebbene alcuni preferiscano aggiungere la terapia
antibiotica nella forma severa). [la sbobina dell’anno scorso fatta da Solej – le slide sono le stesse di

242
quest’anno – nella parte del trattamento non fa una distinzione in merito a quando fare o meno la terapia
antibiotica]

Criteri clinico-laboratoristici di Ranson: erano considerati fondamentali e sono quelli che tendenzialmente
si valutano in PS. Sono clinicamente molto attendibili.

I criteri di Ranson e di Marshall sono quindi i più utilizzati. Servono per valutare in senso prognostico quale
sia la possibilità che vi sia l’evoluzione verso una pancreatite acuta severa. Se i criteri danno uno score
maggiore di 7 la mortalità è del 99%. Ovviamente non bisogna aspettare che la pancreatite diventi severa e
tutte vanno tratte con il digiuno e nutrizione parenterale

I criteri di Glasgow sono molto simili a quelli di Ranson ma in Europa


vengono poco utilizzati.

2. Criteri laboratoristici

Anche questi vengono poco utilizzati, sono stati in passato sperimentati a livello di ricerca ma non è
possibile ricercarli rapidamente;
- PCR > 10 mg/dl indica malattia severa, con sensibilità di 60-80% dopo 48 ore.
- IL-6, IL-8: le interleuchine richiedono 24-48 h per alzarsi a livello ematico.
- CAPAP peptide di attivazione della carbossipeptidasi 8

243
3. Criteri radiologici

I criteri radiologici di Balthazar vengono invece tutt’oggi molto utilizzati. Il punteggio viene stilato mediante
la valutazione delle acquisizioni TC valutando alterazioni morfo-densitometriche del parenchima
pancreatico, estensione delle aree di necrosi, individuazione di raccolte fluide peripancreatiche, complicanze
settiche. Per visualizzare i siti di infezione all’interno della necrosi si osservano delle bollicine di aria in
quanto l’infezione avviene generalmente ad opera di batteri anaerobi che producono gas.

TRATTAMENTO

Si divide in:
- Medico
1. Terapia di supporto
2. Terapia intensiva
3. Terapia specifica
- Chirurgico
1. Bonifica della via biliare
2. Complicanze

Il trattamento medico è quello più importante: attualmente la pancreatite acuta è una patologia di
pertinenza internistica e anestesiologica nel senso che il chirurgo ha perso il ruolo centrale degli anni ’60 in
cui non c’era molto da fare con la malattia. La bonifica delle vie biliare per via chirurgica o endoscopica con
ERCP deve essere fatta in estrema urgenza, nei casi in cui c’è un’infezione: l’ERCP in linea di massima deve
essere fatta se c’è un’ostruzione delle vie biliari principali unita a una pancreatite; la semplice presenza di
calcoli nella colecisti e, in molti casi, anche la colecistite (se è lieve) non devono essere operate in corso di
una pancreatite, va operata una volta risolta l’infiammazione (tanto meno se c’è una necrosi senza
carattere di infezione, perché si rischia di renderla infetta).

La maggior parte delle pancreatiti è dovuto ad una litiasi colecisto-coledocica che il paziente non sa di
avere. In questi casi, prima si cura la pancreatite e poi si elimina la causa intervenendo chirurgicamente o
endoscopicamente o con intervento combinato “rendez vous”. Il paziente che arriva con la pancreatite
acuta grave riceve un trattamento diverso da quello chirurgico che deve essere il più possibile differito o
evitato a causa dell’elevata mortalità e complessità di intervento sul tessuto pancreatico così infiammato.
Se nel momento in cui si presenta in pronto soccorso il paziente ha già i segni dello shock, da SIRS si passa a
MOFS e il tasso di mortalità è altissimo.
Ci sono dei fattori che influenzano la gravità della situazione, quali insufficienza renale, obesità e malattia
cardiovascolare. Il primo organo a soffrire dopo il pancreas è il rene seguito da cuore e polmoni. Una delle
idee che si è fatta avanti negli anni, per capire come mai una pancreatite evolvesse o si limitasse, afferma

244
che nel caso della limitazione si abbia apoptosi e nel caso dell’evoluzione si abbia necrosi. In realtà non è
mai stato provato. Quando si ha necrosi nella maggior parte dei casi si rivela essere mortale. Bisogna
prevenire l’infezione della necrosi. Una volta il paziente veniva direttamente portato in sala, si faceva la
laparotomia per accedere alla loggia pancreatica ma non si riusciva a rimuovere la necrosi di per sé oppure
si portava via tessuto sano legato alla necrosi aumentando il rischio di sanguinamento. Una terapia
antibiotica ad ampio spettro che comprende gli antimicotici previene l’infezione della necrosi e consente un
outcome migliore. Anche in caso di infezione si deve cercare di differire il più possibile il trattamento in
modo di dare il tempo alla necrosi di delimitarsi per poi poter essere rimossa. Ovviamente il paziente non
deve già essere in MOFS.

1. Supporto del paziente

Si basa su:

- Sedazione del dolore (fase molto importante)


- Riequilibrio idroelettrolitico
- Correzione iperglicemia: l’iperglicemia favorisce l’insorgenza di infezione
- Copertura antibiotica (ad ampio spettro, non pensare solo ai gram- tipici dell’intestino) e la terapia
antifungina
- Apporto nutrizionale. L’apporto nutrizionale deve essere fornito per via parenterale e non inficia la
gravità della pancreatite. L’alimentazione enterale precoce con una sonda che vada oltre il
duodeno, è considerata utile ed importante ma non nei primissimi giorni, generalmente dopo un
po’, soprattutto per preservare la funzionalità intestinale.

Per quanto riguarda il controllo del dolore si va a step a seconda della sintomatologia del paziente. Si parte
con i FANS ma vanno utilizzati con attenzione per il rischio di sanguinamento. In alternativa si fa la puntura
epidurale. Più nel dettaglio:

- Fase 1: SNG in caso di vomito e/o dolore con ileo paralitico. Il SNG deve essere messo quando c’ò
una gastrectasia o una distensione delle anse legate all’ileo paralitico; non è indispensabile in tutti i
pz, a differenza del digiuno che è invece indispensabile in tutti i pz.
- Fase 2: usare spasmolitici o FANS
- Fase 3: usare Tramadolo
- Fase 4: usare Pantoprazolo o Meperidina (evitare Morfina perché contrae lo sfintere dell’Oddi)
- Fase 5: nel dolore intrattabile usare Bupivacaina3 con catetere peridurale

La filosofia è quella di supportare il paziente che oltre a poter volgere in shock settico potrebbe volgere in
shock ipovolemico a causa dell’ileo paralitico e dell’edema addominale. Il supporto del paziente non è
aggressivo ma bisogna iniziare lentamente e precocemente con la somministrazione di sostanze isotoniche.
Il rischio è che in caso di dilatazione massiva della volemia si abbia un peggioramento dell’aumento della
pressione addominale. Il paziente non ha infatti possibilità di effettuare facilmente gli scambi a livello
addominale a causa dell’edema e i liquidi andrebbero nel terzo spazio. La somministrazione valuta inoltre
peso, età e comorbilità del paziente. Eventualmente il supporto può essere fornito in terapia intensiva.

2. Terapia intensiva

Prevenzione/trattamento dello shock e delle complicanze generali. Attenzione all’idratazione eccessiva: se


da un lato è fondamentale somministrare liquidi (perché il pz vomita o sequestra liquidi nelle anse
intestinali/nell’intorno del pancreas) è altrettanto importante trovare il rapporto giusto evitando di

3
La bupivacaina è un anestetico locale amidico. Viene utilizzato in chirurgia e in odontoiatria, talvolta associato con un
agente vasocostrittore per prolungarne la durata d'azione, come l'adrenalina o la noradrenalina.

245
sovraccaricare il cieco (soprattutto in pz anziani) e di causare edemi periferici/polmonari per sovraccarico
capillare.

3. Terapia specifica

Si basa su:

- Inibizione della secrezione pancreatica:


o Digiuno
o SNG
o Somatostatina4 6 mg/24h infusione continua. È la più usata perchè priva di effetti collaterali
o Octreoride 0.1-0.2 mgx3 s.c. (analogo della somatostatina)
- Inibizione degli enzimi pancreatici
o Gabesato mesilato 5900-1500 mg/24 h infusione continua

Bisogna fornire una terapia inibitoria della funzionalità pancreatica ma attualmente sta perdendo piede
perché non è stato effettivamente provato il vantaggio del trattamento. Il Gabesato mesilato, una volta
ritenuto miracoloso, adesso non si usa più perché inattiva gli enzimi pancreatici una volta che questi sono
già nel duodeno. Allo stesso modo sono state tentate delle altre terapie che funzionano sui mediatori
dell’infiammazione, come l’interleuchina 106, ma sono trattamenti che agiscono troppo a valle.

4. Chirurgia

Attualmente solo la necrosi infetta rappresenta indicazione chirurgica e anche in quei casi alcuni chirurghi
preferiscono essere conservativi.

4
Somatostatina/octreotide:
- molecole peptidiche attaccabili dalle proteasi sieriche.
- Alto PM: scarsa diffusibilità locale.
- Inibitori secrezione pancreatica, anche in caso di flogosi pancreatica (ma dati non certi).
- Riduzione del flusso splancnico.
- Effetto negativo sullo sfintere di Oddi
- Attività su fenomeni infiammatori ed autoimmuni
5
Gabesato-mesilato (FOY):
- Emivita breve: somministrazione ev continua
- Basso PM: diffusibilità cellulare ed interstiziale buona
- Inibitore potente sulle principali proteasi, inclusa la fosfolipasi 2 e tripsina legata all’alfa2macroglobulina
- Effetto rilassante sullo sfintere di Oddi
- Documentato effetto profilattico nel danno pancreatico indotto da ERCP
- Attività sul microcircolo pancreatico e attività sull’immunità cellulare
6
L’interleuchina 10 è una citochina espressa da molte cellule, ma è principalmente attivata dai macrofagi e dai linfociti
T helper 2 CD4. Ha molte proprietà anti-infiammatorie:
- Inibizione della trascrizione di citochine con blocco e riduzione della traslocazione delle cellule NF-KB
- Favorisce la crescita e differenziazione dei linfociti CD8, NK e dei linfociti B
- Potenzia le proprietà citotossiche delle cellule NK ecc
- Vantaggi:
o Efficace nella prevenzione PA post ERCP
o Facile da usare
o Necessita di un solo bolo 30 min prima ERCP
o Rimane attiva per 24 h
- Svantaggi
o Costosa
o Non è ancora stata definita la dose efficace

246
L’intervento va differito il più possibile a quando la necrosi è localizzata in modo da poter eliminare solo il
tessuto necrotico preservando il più possibile il pancreas per evitare il rischio di diabete permanente. Le
indicazioni alla chirurgia sono:

- Necrosi pancreatica infetta


- Necrosi sterile estesa con MOF
- Patologie biliari non dominabili con terapia medica e/o endoscopica
- Complicanze precoci e tardive (emorragie, ascesso, pseudocisti)

Necrosi pancreatica infetta

- Tessuto pancreatico e peri-pancreatico necrotico o semi-liquefatto con colture microbiche positive


- Compare nel 30-70% dei casi di P.A. severa
- Responsabile di oltre l’80% della mortalità per P.A.
- Il rischio di infezione della necrosi è correlato con:
o Estensione della necrosi
o Durata della malattia
- Compare in genere entro le prime 3 settimane
- Fondamentale diagnosi precoce e trattamento tempestivo
- Meccanismo dell’infezione pancreatica: traslocazione batterica e colonizzazione dei tessuti
necrotici (soprattutto germi Gram negativi e anaerobi, anche se sono via via in aumento
microorganismi Gram + non enterici per l‘utilizzo di antibiotici ad ampio spettro e l’insorgenza di
infezioni nosocomiali)

Il pancreas non prende contrasto e spesso all’interno si formano delle bolle.

Necrosi sterile

Rappresenta una potenziale indicazione all’intervento chirurgico, soprattutto in presenza di una forma
severa con significativa necrosi pancreatica e peri-pancreatica ma con infezione non dimostrata.

Il drenaggio del tessuto necrotico sterile si rende necessario in caso di:

- Insufficienza multiorgano
- Persistenza di sintomi quali dolore addominale, difficoltà allo svuotamento gastrico, massa
epigastrica

La presenza di infiammazione, ileo paralitico ed edemi possono aumentare la pressione all’interno della
cavità peritoneale fino a livelli pericolosi e cioè fino a livelli in cui si può verificare un’insufficiente
perfusione tissutale. In questi casi da un lato si tende ad intervenire chirurgicamente, dall’altro si tende a
lasciare l’addome aperto in quanto consente di non aumentare la pressione a livello addominale e
permette di riesplorare la cavità addominale del pz più volte nei giorni successivi così da rimuovere
ulteriore necrosi e migliorare l’outcome.

Il trattamento medico dovrebbe durare almeno 3-4 settimane. È indicata la profilassi antibiotica al fine di
ridurre il tasso di infezione della necrosi e, quindi, la mortalità.

Quale chirurgia?

1. Pancreatectomie: rimozione segmentaria del tessuto fonte delle sostanze biologicamente attive. Difetti:
- alta morbilità e mortalità: è un intervento svolto su pz che hanno già una malattia sistemica e,
inoltre, si deve sempre considerare della posizione sfortunata del pancreas (attaccato al duodeno,
incastrato con lo stomaco ecc: si danneggiano troppi organi)
- rimozione di rilevanti quantità di tessuto sano

247
- sproporzione lesione/asportazione

2. Necrosectomie-sequestrectomie: trattamento convenzionale, open management, lavaggio continuo

Dal punto di vista chirurgico attualmente viene effettuato anche il trattamento endoscopico con la
rimozione della necrosi per via transgastrica. Il trattamento è definito endoscopico-laparoscopico. Il
debridement può anche essere fatto per via lomboscopica, si fa un minitaglio come per la nefrectomia e si
aspira il tessuto necrotico. Questi sono interventi che vengono effettuati nei centri di riferimento. Altrove,
come al San Luigi, si fa una laparotomia che ha il vantaggio rispetto agli altri interventi poco invasivi di
abbassare la pressione intra-addominale. Dopo aver aperto l’addome si inserisce uno strumento a pressione
negativa che crea il vuoto che permette di mantenere la sterilità e permette l’aspirazione del liquido
pulendo la regione. Il trattamento chirurgico forse più importante è l’eliminazione dei calcoli nella colecisti.
Quando abbiamo la necrosi infetta l’intervento chirurgico ha poche chance e prima compare peggiore è la
prognosi, la sovrainfezione avviene in genere nei 10 giorni. Per prevenirla l’unica strategia è effettuare TC
seriate dopo le 48 ore. Quello che NON si deve fare è la pancreasectomia.

COMPLICANZE DELLA PANCREATITE ACUTA

1. Sistemiche: ARDS, insufficienza renale acuta, shock, CID,


iperglicemia, ipocalcemia
2. Locali: emorragia gastrointestinale, necrosi infetta,
necrosi intestinale; ascesso e pseudocisti sono
complicanze tardive.

La fistola pancreatica rappresenta, il più delle volte, la


complicanza di un intervento chirurgico di posizionamento di
drenaggi per pancreatite acuta severa; è raramente un evento
spontaneo della malattia

Emorragia gastrointestinale

Il pancreas è molto vascolarizzato ed è vicino a vasi molto


importanti quali il tripode celiaco, l’arteria mesenterica, la vena
mesenterica inferiore che forma la vena porta dietro la testa del
pancreas e il tripode di Henle.

Raccolte fluide acute (RFA)

Non sono in sé indicazione chirurgica/drenaggio, ma vanno monitorate perché esprimono uno stato di
alterazione locale del parenchima e dei vasi e la presenza di edema. Sono complicanze semplici. Il
versamento però, dopo aver interessato il pancreas, può poi raccogliersi a qualunque livello dell’addome.
Nel 30% dei casi se si verificano nelle pancreatiti semplici guariscono spontaneamente, nel 30-50% dei casi
se si verificano nelle pancreatiti complicate diventano pseudocisti e poi se le pseudocisti si infettano,
ascesso.

- Le RFA compaiono precocemente in corso di pancreatite acuta;


- Localizzate in regione pancreatica e peripancreatica, in particolare si formano a livello:
retroperitoneale, radice dei mesi, retrocavità degli epiploon, subfrenico, pararenale (l’aumento di
spessore della zona interposta tra rene e pancreas è considerato uno dei più precoci indici di RFA),
paracolico;
- Mancano sempre di una parete di tessuto fibroso o di granulazione (elemento distintivo con
pseudocisti e ascessi);
- Si verificano nel 30-50% dei casi di pancreatite acuta severa;

248
- Regressione spontanea in oltre il 50% dei casi;
- Negli altri casi rappresentano i precursori di pseudocisti e ascessi.

Necrosi pancreatica
- Problematica principale e complicanza più temibile perché il tessuto si infetta facilmente;
- Presenza di una o più aree, diffuse o focali, di parenchima pancreatico non vitale;
- Tipicamente si associa a necrosi del tessuto adiposo peripancreatico;
- TC con mdc gold standard diagnostica (aree ben delimitate di parenchima ipodenso, diametro
>3cm o comprendenti più del 30% della regione pancreatica);
- Densità eterogenee del tessuto peripancreatico→ steatonecrosi, raccolte fluide ed emorragia;
- Limitata validità clinica dei markers plasmatici (PCR, PMN-elastasi, TAP);
- Fondamentale distinzione tra necrosi sterile e infetta.

Pseudocisti acuta
Le necrosi non infette lasciate a sé prima o dopo si colliquano dando una pseudocisti che si presenta come
una raccolta liquida omogenea all’interno del pancreas spesso a confini rotondi priva di una vera parete.
Vanno trattate ma non nella fase acuta, normalmente si lasciano passare 2-3 settimane. Devono essere
trattate soprattutto se sono > 4 cm, se determinano un aumento cronico degli enzimi pancreatici a livello
ematico e se hanno un effetto massa (causano dolore al paziente o alterazioni nella digestione); si possono
pungere dall’esterno (cisto-gastro-anastomosi) oppure drenarle dall’interno endoscopicamente.

- Raccolta di succo pancreatico ricco di enzimi, racchiusa da una parete di tessuto fibroso o di
granulazione;
- Dette anche “cisti false”;
- È quasi sempre sterile;
- Richiede 4 o più settimane dall’esordio per formarsi;
- Tipicamente viene diagnosticata mediante US o TC;
- La presenza di batteri è espressione di contaminazione piuttosto che di infezione clinicamente
significativa.

Ascesso pancreatico

- Raccolta purulenta intra-addominale circoscritta, di solito in prossimità del pancreas, contenete o


meno modica componente di necrosi ghiandolare;
- Richiede 4 o più settimane dall’esordio per formarsi;
- L’ascesso differisce dalla necrosi infetta per il quadro clinico e l’estensione della necrosi associata
(differenti approcci terapeutici e tassi di mortalità);

CONSIDERAZIONI FINALI

- La pancreatite acuta è una malattia primariamente medica


- L’ERCP riveste un ruolo chiave nella diagnosi e nel trattamento della pancreatite acuta biliare
- La colecistectomia, meglio se VLC, previa bonifica della VBP, rappresenta il gold standard del
trattamento della pancreatite acuta biliare
- Il ruolo della chirurgia è riservato alle complicanze della necrosi pancreatica, in particolare quelle
settiche, responsabili di elevata morbilità e mortalità

249
PANCREATITE CRONICA
Definizione: fibrosi con distribuzione progressiva e irreversibile del pancreas.
Due forme: PC calcifica e ostruttiva (più rara).

EZIOLOGIA

- Alcolismo cronico (85-90%)


o Durata abuso alcool: 10-15 aa. È estremamente difficile arrivare a una risoluzione in questi
pazienti perché dovrebbero risolvere l’alcolismo cronico alla base
o 10:1 = M:F (40 aa)
- Altre cause:
o Ipercalcemia (1%)
o PC ostruttive (tumori), ereditarie, mucoviscidosi…
o Idiopatiche (10%)

CLINICA

- Dolore addominale 95%


o Epigastrico, trafittivo
o Scatenato dai pasti e dall’assunzione di alcolici
- Perdita di peso (anoressia, malassorbimento, cachessia)
- Steatorrea (tardiva) e alvo irregolare
- Ittero infrequente

ESAMI DI LABORATORIO

- Enzimi pancreatici utili solo nella poussée


- Ricerca di un diabete
- Esami epatici: ricerca di colestasi
- Analisi feci per steatorrea

DIAGNOSI

Radiologica:

- RX addome diretto: calcificazioni L1-L2


- Ecografia: poco sensibile

250
- TC addome: esame più sensibile, calcificazioni, pseudocisti, neoplasie
- ERCP: irregolarità dotti pancreatici (dilatazioni, stenosi, immagini lacunari). Utile per ridurre le
ostruzioni
- Pancreato-RMN
- Ecoendoscopia: possibilità di effettuare biopsie
- EGDS: ulcere, varici esofagee

COMPLICANZE

- Poussée di pancreatite acuta


- Pseudocisti
- Stenosi o compressione della VBP
- Stenosi duodenale (rara)
- Ascite pancreatica: rottura spontanea o traumatica di una pseudocisti nel peritoneo
- Insufficienza pancreatica
o Diabete (IP) endocrina)
o Steatorrea (IP esocrina)

TRATTAMENTO

- Medico: importantissimo, ma il danno a livello del pancreas è irreversibile


o Guarigione non possibile
o Sospensione assunzione alcolici +++ → è la cosa più importante, ma è quasi impossibile
ottenerla
o Antidolorifici
o Dieta (ipolipidica)
o Insulina o ADO
o Enzimi pancreatici (compresse, origine bovina)
- Chirurgico
o Complicanze: derivazioni cisto-digiunali, Wirsung-digiunali
o Dolore incoercibile: derivazioni o exeresi chirurgiche → l’unico intervento fatto è
l’intervendo di Puestow7 che consta di una pancreatico-digiuno-stomia così da drenare il
dotto del Wirsung non attraverso l’Oddi ma direttamente nell’intestino.
L’altro tipo di intervento ormai non più fatto è l’exeresi delle fibre nervose dal plesso
celiaco.

7
[l’audio non è chiaro ma dovrebbe essere questo il nome della procedura]

251
28/10/2021
Chirurgia generale – Prof. Degiuli (assistente)
Sbobinatore: Marco Russo
Revisionatrice: Giorgia La Piana

TUMORI DEL PANCREAS


[Il professore non ha ancora caricato le slides della lezione, questa sbobina è stata integrata con quella dello
scorso anno e con immagini prese da internet].

TUMORE DEL PANCREAS ESOCRINO


Quando si parla del tumore del pancreas esocrino ci si riferisce ai tumori duttali del pancreas, che
costituiscono il 95% dei tumori pancreatici. Questo tumore rappresenta la 4° causa di morte per tumore, ha
un’incidenza di 8.8/100'000 abitanti e ha un alto tasso di mortalità, con una sopravvivenza del 20% ad un
anno e del 4% a 5 anni.

FATTORI DI RISCHIO
• Sindromi (elencate nella slide): aumentano il rischio dalle 10 alle 70 volte rispetto alla popolazione
generale; si tratta, tuttavia, di sindromi rare, che provocano solo il 5% delle neoplasie pancreatiche.
o Pancreatiti croniche
o Poliposi famigliare adenomatosa
o Cancro papillare intraduttale non polipoide
o Mutazioni di BRCA 1 e 2
o Atassia teleangectasia
o Pancreatite ereditaria
• Fattori di rischio connessi allo stile di vita:
o Fumo: aumenta il rischio di ca pancreatico di 2-3 volte; si riscontra nel 30% dei soggetti affetti da
carcinoma del pancreas. La cessazione del fumo è un fattore protettivo per lo sviluppo di tale
neoplasia: più è lungo il tempo di astinenza da fumo, minore è il rischio di svilupparla.
o Abitudini alimentari: consumo di carne rossa e alcolici, scarso consumo di frutta e verdura fresca;

252
SINTOMATOLOGIA
La Pancreatic Cancer Europe ha stilato un elenco dei 10 “segnali di allarme” che devono indirizzare un
paziente a ricercare un consulto medico specialistico, perché spesso correlati al ca pancreatico:

SEDI
Il tumore del pancreas si localizza più
frequentemente a livello della testa (60-
80% dei casi), mentre a livello del corpo-
coda solo nel 25% circa dei casi.

253
STADIAZIONE

Sulla base dei parametri T, N ed M è possibile definire lo stadio di malattia,


purtroppo però, gran parte dei tumori pancreatici sono al IV stadio alla
diagnosi (54% dei casi, con una sopravvivenza a 5 anni dell’1%).

Solo nell’8% dei casi si riesce a fare diagnosi in stadio 1, con una
sopravvivenza comunque abbastanza bassa, del 20% a 5 anni. La stadiazione
è fondamentale per giudicare se un paziente sia candidabile all’intervento
chirurgico oppure no: solo il 20% dei pazienti con diagnosi di ca pancreatico
hanno indicazione all’intervento.

DIAGNOSI

254
Nel momento in cui si presenta un paziente con sospetto clinico (“segnali di allarme” di cui si è parlato
precedentemente) oppure strumentale (es. ecografia addominale che mostra dilatazione delle vie biliari e/o
del dotto pancreatico o che indica la possibile presenza di una massa a livello cefalo-pancreatico), è indicato
eseguire una TC con mdc. La TC è molto importante non solo perché è in grado di mostrare la lesione, ma
anche perché dà informazioni riguardo a:

− Vascolarizzazione
− Infiltrazione
− Metastasi
− Linfoadenopatie

Grazie a questa indagine radiologica è quindi possibile distinguere i tumori in due importanti categorie:

• Tumori non resecabili: ad esempio pazienti affetti da tumori già metastatici; in questo caso si tratta di un
quadro clinico di pertinenza oncologica.
• Tumori resecabili: tumori non metastatici.

La TC non è un esame sufficiente: ha una sensibilità che va dall’86 al 97% ed è in grado di distinguere
correttamente un tumore metastatico da uno che non lo è, ma non è in grado di definire in modo così
accurato la resecabilità sulla base delle dimensioni e dell’infiltrazione. Per questo la TC deve essere
completata da un’ecoendoscopia, fondamentale per valutare l’infiltrazione vascolare (oltre che essere la
metodica di accesso per eseguire la biopsia).

Tramite ecoendoscopia, quindi, si potrà giungere a diagnosi di:

a. Tumore resecabile: non infiltra le strutture vascolari adiacenti;


b. Tumore borderline-resectable
c. Tumore non resecabile: si tratta sia di tumori localmente avanzati che di tumori metastatici.

L’ecoendoscopia consiste nell’introduzione di una sonda endoscopica (EGDS) associata ad una sonda
ecografica: oltre ad esaminare accuratamente le dimensioni e l’estensione della neoplasia, permette di
eseguire un FNA (Fine Needle Aspiration, cioè l’esame citologico). Questa tecnica ha un’alta capacità di
valutazione dell’infiltrazione vascolare e un’alta predittività di resecabilità, inoltre, la sensibilità della TC cala
al 77% per i tumori < 2 cm.

VASCOLARIZZAZIONE
Conoscere la vascolarizzazione del pancreas è
fondamentale per poter giungere al giudizio di
operabilità, infatti, la presenza e l’estensione
dell’infiltrazione vascolare sono parametri
fondamentali per poter considerare un tumore
come resecabile, borderline resectable o non
resecabile.

255
RESECABILITÁ [i criteri di resecabilità sono molto importanti ai fini dell’esame NdR]

TUMORE RESECABILE
Si definisce tale un tumore che non abbia contatto:

a. ARTERIOSO con
i. Arteria mesenterica superiore
ii. Asse celiaco
iii. Arteria epatica comune
b. VENOSO con
i. Vena porta
ii. Vena mesenterica superiore
iii. Oppure che abbia un contatto venoso <180° senza determinare un’irregolarità del contorno
vascolare

DRENAGGIO BILIARE PREOPERATORIO


Uno dei segni più comuni presenti nei soggetti affetti da ca pancreatico è l’ITTERO: questo segno
frequentemente porta il paziente all’attenzione del medico. L’ittero, però, determina una serie di
problematiche a livello sistemico:

− Disfunzione epatica
− Alterazioni della coagulazione
− Anemia
− Rischio di infezione delle vie biliari
− Malnutrizione
− Insufficienza cardiaca e renale

256
Quindi, nel momento in cui ci si trova davanti ad un paziente candidato all’intervento chirurgico con elevati
livelli di bilirubinemia (e quindi ittero), è indicato il posizionamento di uno stent biliare, questo perché un
ittero severo (bilirubinemia > 15 mg/dl) è correlato a peggiori outcome chirurgici.

Lo stent può essere inserito sia per via endoscopica che per via transepatica. La decisione di posizionare uno
stent biliare è ancora oggetto di discussione, dal momento che esistono sia vantaggi che svantaggi. Al
momento le linee guida raccomandano questa metodica esclusivamente nei pazienti con colangite o che
abbiano una bilirubinemia > 15 mg/dl.

VANTAGGI DEL DRENAGGIO BILIARE NEL PREOPERATORIO:

• Correzione delle anomalie della coagulazione;


• Migliorata immunità cellulo-mediata;
• Migliorata nutrizione;
• Prevenzione della disfunzione cardiaca e renale;

SVANTAGGI:

• Complicanze dello stent (colangiti, dislocazione, ostruzione);


• Long hospital stay;
• Contaminazione della bile (soprattutto per i drenaggi che drenano nel duodeno, da cui possono
risalire batteri);
• Formazione di ascessi;
• Aumentate difficoltà operatorie durante a dissezione;
• Ritardo dell’intervento;
• Tumor seeding.

INDICAZIONI:

• Pazienti che presentano colangite (i cui segni sono rappresentati dalla triade di Charcot: febbre,
dolore e ittero);
• Pazienti che manifestano prurito severo;
• Intervento programmato a più di 10 giorni;
• Bilirubinemia > 15 mg/dl.

CHIRURGIA
[Per quanto riguarda l’accesso chirurgico abbiamo già accennato che il pancreas è un organo particolarmente
difficile a causa della sua posizione profonda retro peritoneale e i suoi stretti rapporti con numerosi altri organi.
Per raggiungerlo bisogna superare ciò che c’è davanti:

• Stomaco
• Colon

Inoltre, si deve prestare attenzione agli organi adiacenti e al loro eventuale coinvolgimento:

• Fegato anteriormente
• Milza e vasi splenici lateralmente a sinistra
• Tripode celiaco a circa 1cm
• Vasi mesenterici inferiormente
• Vena porta medialmente anche se leggermente più distante
• Strettamente connesso al duodeno che lo avvolge tanto è vero che per rimuovere il pancreas è necessario
asportare completamente anche il duodeno stesso (dcp)]

257
Intervento chirurgico: DUODENOCEFALOPANCREASECTOMIA

È l’intervento di scelta nel caso di tumori della testa del pancreas.

In questo intervento vengono asportati:

➢ C duodenale
➢ Testa del pancreas
➢ Dotto epatico e colecisti

E vengono eseguite 3 anastomosi:

1. Anastomosi Wirsung- digiuno;


2. Anastomosi epatico-digiunale;
3. Anastomosi gastro-intestinale.
4. Nel caso di ricostruzione a Y, si aggiunge una quarta anastomosi: entero-enterica

Per quanto riguarda i TEMPI CHIRURGICI [integrato dalle sbobine di oncologia dell’anno scorso]:

• Un tempo demolitivo con


o La resezione dell’antro/piloro gastrico
o La resezione della via biliare completa, ovvero il coledoco fino al di sopra del dotto cistico che si
differenzia dalla via biliare extraepatica vera (dotto epatico comune)
o Resezione del duodeno in toto
o Rimozione della testa del pancreas
o Asportazione associata dei linfonodi regionali ed eventuali organi che possano essere interessati
a distanza garantendo così l’R0 finale

• Un tempo ricostruttivo: la ricostruzione può essere effettuata su un’unica ansa o su due anse diverse
(ricostruzione secondo Roux con ansa autonomizzata); in genere l’utilizzo di due anse diverse è preferibile
in quanto rende autonoma l’ansa su cui si fa l’anastomosi pancreatica rispetto alle altre e in questo modo
si rende più facilmente gestibile quella che è la complicanza più frequente di questo intervento, ovvero la
fistola pancreatica; con questa metodica infatti è possibile agire chirurgicamente sulla complicanza
salvaguardando l’anastomosi gastrodigiunale e quella biliodigiunale. Se mettessi tutte le anastomosi
sulla stessa ansa rischio di dover smontare tutto in caso di complicanze.
In genere comunque esistono diverse tecniche ricostruttive e ciò suggerisce che nessuna è realmente
ottimale in ogni circostanza per prevenire le complicanze.

258
Intervento chirurgico: SPLENOPANCREASECTOMIA DISTALE (sinistra)

Nel caso invece di un tumore che coinvolga il corpo


o la coda del pancreas, l’intervento di scelta è la
splenopancreasectomia sinistra; in questo caso
vengono asportati:

➢ Coda del pancreas


➢ Vasi splenici
➢ Milza

[Si tratta di un intervento più semplice rispetto al


precedente che comprende meno passaggi e nel
quale sostanzialmente non c’è molto da ricostruire
dal momento che non vengono coinvolti altri organi
oltre al pancreas stesso.

• Identificazione del cancro


• Separazione della lamina posteriore
• Se è necessario rimuovere la milza per
infiltrazione dei vasi splenici o della stessa, è necessario sezionare vena e arteria splenica
• Se invece la milza e i suoi vasi non sono ancora stati coinvolti, si deve salvaguardare la vena e l’arteria
splenica.

Questo intervento è evidentemente più semplice e gravato da minori complicanze, la fistola pancreatica può
esserci anche in questo caso se pur molto più raramente.]

[Intervento chirurgico: PANCREASECTOMIA TOTALE


Nel corso di questo intervento si
procede con la rimozione di tutto il
pancreas e del duodeno, perciò in
fase ricostruttiva sarà opportuno
fare solo due anastomosi: epato-
digiunale o digestiva e gastro-
duodeno/digiunale (duodeno
perché in realtà in Giappone e
Corea si fa la duodeno-preserving,
anche se in Europa non è così).

I tempi dell’intervento prevedono:

• Si apre l’addome facendo


una laparotomia mediana o una
Mercedes (accesso bisottocostale
che dà un più facile accesso alla
retrocavità degli Epiploon)

• Si valuta l’operabilità del paziente


• Si procede con lo scollamento colo-epiploico staccando lo stomaco e il grande omento dal foglietto caudale
del mesocolon trasverso
• Si entra nella cavità degli epiploon
• Si accede facendo la sezione dell’antro gastrico facendo un’adeguata separazione gastroepiploica a dx (si
tratta di una manovra che vedremo anche nella chirurgia dello stomaco, infatti chi si occupa di chirurgia
pancreatica solitamente fa anche quella gastrica perché sono entrambe chirurgie sovramesocoliche)

259
• A questo punto si può accedere al pancreas
• Si va a sezionare e separare la lamina posteriore ponendo attenzione a non ledere i vasi
• Si seziona il pancreas e la via biliare e si asporta
• Viene inoltre asportato tutto il duodeno fino al Treitz e lo si scolla completamente dai vasi (sia mesenterici
che vena porta)]

TUMORI BORDERLINE-RESECTABLE
Si definisce una malattia borderline-resectable:

1: CHA = Common Hepatic Artery; SMA = Superior Mesenteric Artery; CA = Coeliac Axis; SMV = Superior Mesenteric Vein; PV = Porta
Vein; IVC = Inferior Vena Cava.

Questi tumori sono a più elevato rischio di resezione incompleta e quindi recidiva post-chirurgica rispetto ai
precedenti; si utilizza il criterio R per parlare della radicalità dell’intervento chirurgico:

• R0: malattia sia macroscopicamente che microscopicamente negativa (cioè rimossa);


• R1: malattia macroscopicamente negativa, ma microscopicamente positiva (cioè con margini positivi);
• R2: malattia sia macroscopicamente che microscopicamente positiva.

Dal momento che il carcinoma borderline-resectable è ad alto rischio di R1 ( spesso si presentano già con
infiltrazione vascolare, seppur parziale), durante l’intervento chirurgico vengono mandati ad eseguire un
esame istologico estemporaneo delle trance di sezione. L’obiettivo è quello di ottenere un R0.

Il trattamento in questi pazienti consiste nell’esecuzione di una chemioterapia neoadiuvante che ha come
obiettivi:

✓ ridurre la possibilità di R1 e di recidive locale;


✓ aumentare la DFS (Disease Free Survival);
✓ aumentare la OS (Overall Survival).

Il razionale dell’eseguire una chemioterapia neoadiuvante è dato dal fatto che:


➢ Questi pazienti presentano nell’80% dei casi già delle micrometastasi a distanza (non visibili alla TC);
➢ Permette di valutare precocemente la risposta del tumore alla chemioterapia;

260
➢ Permette di distinguere i pazienti che gioveranno di un intervento chirurgico di alta complessità, gravato
da molte complicazioni e comorbidità, dai pazienti che già con la sola chemioterapia presentano delle
complicanze e che, quindi, avrebbero complicazioni molto più importanti a seguito di un intervento
chirurgico di questo tipo.
➢ Permette di candidare i pazienti che rispondono bene all’intervento chirurgico.

Per questi tumori:

− Un R0 porta i pazienti ad una sopravvivenza media di 22 mesi;


− Un R1 porta i pazienti ad una sopravvivenza media di 14 mesi.

Per questi pazienti è sempre necessario eseguire il drenaggio biliare se è presente ittero ed è necessaria la
conferma istologica, prima di iniziare la chemioterapia; come per il tumore resecabile, la conferma istologica
si ottiene tramite biopsia (FNA) in ecoendoscopia.

I tumori del pancreas vengono definiti borderline-resectable sulla base dell’invasione vascolare (vedi slide
sulla resecabilità):

Nella figura sottostante è riportata la flowchart riassuntiva della gestione del ca pancreatico
borderlineresectable.

261
TUMORI NON RESECABILI
Si definiscono non resecabili i seguenti tumori:

In questi casi la chirurgia trova un ruolo non terapeutico ma palliativo:

➢ Derivazioni biliari: stent biliare;


➢ Derivazioni digestive: bypass gastrico;
➢ Controllo del dolore (molto importante quando c’è infiltrazione del plesso celiaco): analgesia peridurale.

COMPLICANZE DELL’INTERVENTO CHIRURGICO

Ci sono dei fattori di rischio di maggiori complicanze:

• Età
• BMI
• Durata dell’intervento
• Comorbidità pregresse del paziente
• Eccessivo sanguinamento durante l’intervento
• Diametro del dotto pancreatico < 5 mm: su un dotto molto piccolo è più difficile mettere dei punti per
un’anastomosi che tenga;
• Consistenza soffice del parenchima pancreatico: tenuta minore alla sutura.

Gli ultimi due soprattutto sono importanti fattori di rischio per la deiscenza della anastomosi Wirsung-digiuno.

Le complicanze che si possono verificare sono:

➢ Fistole pancreatiche: è una delle complicanze più temibili;


➢ Ritardo nello svuotamento gastrico: nel 10% dei casi;
➢ Ascessi addominali
➢ Emorragie
➢ Fistole biliari
➢ Altre complicanze comuni alla chirurgia: IVU, complicanze polmonari, complicanze cardiache,
allettamento, embolie polmonari etc.

Fistole
Le fistole (biliari, pancreatiche, gastriche etc) vengono classificate con la classificazione ABC:

A. Fistole transitorie: si tratta di fistole che si ritrovano casualmente durante esami di imaging eseguiti
per altri motivi; sono fistole guarite, asintomatiche, che non necessitano di un trattamento specifico.
B. Si tratta di fistole di gravità maggiore, che necessitano di un trattamento (es. analoghi della
somatostatina, antibiotici, degenza), ma non di un trattamento chirurgico.

262
C. Fistole gravi: spesso il paziente è settico; per queste è necessario re-intervenire chirurgicamente,
anche perché sono pazienti che spesso finiscono in terapia intensiva e richiedono nutrizione
parenterale totale o enterale.

Grado A B C
Condizioni cliniche Buone Spesso buone Aspetto malato/cattive
Trattamento specifico No Sì/no Sì
ECO/TC Negativa Negativa o positiva Positiva
Drenaggio persistente No Generalmente sì Sì
Re-intervento No No Sì
Morte correlata alla No No Possibile
fistola
Segni di infezione No Sì Sì
Sepsi No No Sì
Riammissione No Sì/no Sì/no
ospedaliera

La diagnosi di fistola pancreatica si ottiene analizzando le amilasi sul drenaggio in I, III e V giornata post-
operatoria (ovviamente nel caso di forte sospetto o positività i prelievi possono essere anticipati); le amilasi
del drenaggio si definiscono positive se sono di tre volte superiori rispetto all’amilasemia del paziente nella
stessa giornata.

Emorragie
Le emorragie vengono classificate in:

➢ Precoci: se si manifestano entro 24h dal termine dell’intervento chirurgico; queste sono causate da
inadeguata emostasi intraoperatoria o patologie coagulative (frequenti in pazienti che hanno avuto
ittero e sofferenza epatica). Solitamente per le emorragie precoci è fondamentale una diagnosi
tempestiva (in base ai segni e sintomi del paziente) ed un re-intervento rapido: si accede nuovamente
alla cavità addominale e si ricerca la sede del sanguinamento per eseguire un’emostasi (nel caso in
cui si abbia un sanguinamento intraluminale è possibile eseguire emostasi per via endoscopica).

➢ Tardive: se si manifestano dopo 24h dal termine dell’intervento chirurgico fino a 30 giorni; queste
emorragie possono essere causate da ascessi intraddominali, erosione di vasi peripancreatici ad
opera delle amilasi rilasciate in seguito alla formazione delle fistole, ulcerazioni delle anastomosi,
pseudoaneurismi. Per quanto riguarda le emorragie tardive, è ancora oggetto di dibattito quale sia il
momento più opportuno per riportare in sala operatoria il paziente.

TUMORI NEUROENDOCRINI DEL PANCREAS (pNET)


Si tratta di neoplasie che originano dalle cellule del sistema APUD (Amine Precursor Uptake and
Decarboxylase): sono cellule chiare ed endocrine che non appartengono al sistema ghiandolare e sono
localizzate a livello di tutto l’apparato digerente.

Una distinzione importante per quanto riguarda questi tumori è:

• Tumori funzionanti: detti così perché le cellule endocrine da cui sono composti producono ormoni e
quindi hanno una sintomatologia che dipende dall’ormone prodotto; in base all’ormone prodotto,
cambiano sia la malignità che la sintomatologia.

263
o Insulina → Insulinomi
o Gastrina → Gastrinomi
o Glucagone → Glucagonomi
o VIP → VIPomi
o Somatostatina → Somatostatinomi
o Altri
• Tumori non funzionanti: questi tumori danno segno di sé solo per l’effetto massa che creano e nel 35%
dei casi si tratta di Incidentalomi asintomatici; nel caso di ricerca di Cromogranina-A sul sangue, questa
sarà positiva.

Questi tumori si ritrovano in quattro sindromi genetiche:

1. Sindrome di Von Hippel Lindau


2. Sindrome di Von Recklinghausen
3. Sclerosi tuberosa
4. MEN-1

GASTRINOMA
Dal momento che si tratta di tumore secernente gastrina, la sintomatologia sarà:

− Dolore addominale
− Diarrea
− Ulcere
− Esofagite

Nel 60% dei casi si localizza a livello del pancreas, nel 30% a livello del duodeno e nel 10% in altre sedi; dal 60
al 90% dei casi si tratta di tumori che evolvono verso la malignità.

Le sindromi associate al Gastrinoma sono associate alla sindrome di Zollinger-Ellison, sindrome dovuta
all’ipercloridria. Ogni volta che si hanno ulcere digiunali resistenti alla terapia con PPI, bisogna andare a
studiare il pancreas che potrebbe essere sede di un Gastrinoma.

La DIAGNOSI si basa su:

✓ Dosaggio della gastrina plasmatica a digiuno: attenzione al fatto che i PPI causano un aumento della
gastrinemia;
✓ Test di stimolazione con secretina: normalmente la secretina inibisce la secrezione di gastrina,
mentre un soggetto affetto da Gastrinoma non vedrà questa riduzione.

INSULINOMA
Nel 99-100% dei casi si tratta di tumori localizzati a livello pancreatico e nel 5-15% dei casi hanno
un’evoluzione maligna. Questo tumore causa i sintomi dell’ipoglicemia.

Il test che si utilizza per la diagnosi è il test del digiuno: il paziente viene lasciato a digiuno per 72h, già dopo
12h inizierà a manifestare i sintomi di iperinsulinemia e conseguente ipoglicemia, con la presenza di elevate
concentrazioni di C-peptide e sintomi quali:

− Amnesia
− Confusione
− Alterazioni visive
− Convulsioni
− Debolezza

264
− Tremori

GLUCAGONOMA
I sintomi dati dall’iperproduzione di glucagone sono:

− Rash
− Anemia
− Diabete
− Calo ponderale
− Eritema necrolitico migrante

Nel 60% dei casi si tratta di tumori maligni.

La DIAGNOSI si avvale di:

✓ Valutazione del glucagone plasmatico


✓ TC ed endoscopia per lo studio morfologico del pancreas e della lesione

Il TRATTAMENTO consiste in:

➢ Malattia localizzata: exeresi chirurgica


➢ Malattia metastatica: chemioterapia
➢ Octreotide per sopprimere la produzione di glucagone

VIPOMA
Questo tumore secerne VIP (Peptide Intestinale Vasoattivo) che provoca come sintomatologia:

− Diarrea severa
− Ipopotassiemia

DIAGNOSI

✓ Studio dell’osmolarità delle feci per confermare che si tratti di diarrea secretiva e DD con le altre
patologie che possono dare diarrea secretiva
✓ Dosaggio del VIP sierico, che può essere elevato anche nella sindrome dell’intestino corto e nelle IBD

SOMATOSTATINOMA
L’iperproduzione di somatostatina causa:

− Diabete
− Colelitiasi
− Diarrea
− Calo ponderale

La DIAGNOSI viene fatta:

✓ Cercando tramite ecoendoscopia e TC la presenza di lesioni duodenali o pancreatiche


✓ Dosaggio della somatostatina sierica

GRFoma (tumore secernente Growth hormone Releasing Factor)


Questo tumore si studia andando a cercare le concentrazioni ematiche di GRF.

265
TUMORI CISTICI DEL PANCREAS
Ne esistono 3 tipi principali:

1. Mucinosi: 50% dei casi


2. Sierosi
3. Neoplasie intraduttali mucosecernenti (IPMN = Intraductal Papillary Mucinous Neoplasm)

Tra le lesioni cistiche del pancreas si ritrovano anche le pseudocisti, formazioni che non hanno una vera
propria parete e che si possono ritrovare frequentemente in pazienti con esiti di patologia infiammatoria del
pancreas (pancreatite), che vanno in diagnosi differenziale con i tumori cistici.

Si tratta di tumori rari, corrispondendo all’1.1% di tutti i tumori pancreatici.

Questi tumori possono presentarsi come asintomatici oppure dare una sintomatologia vaga e aspecifica:

− Dolore addominale nel 25% dei casi


− Sensazione di massa o peso addominale
− Solo nel 7% dei casi si manifesta ittero (presente in quei tumori che crescono in prossimità delle vie
biliari e che le comprimono)
− Nausea e vomito
− Astenia
− Malessere

Ci sono delle differenze per quanto riguarda i tumori cistici sierosi e quelli mucinosi:

SIEROSI MUCINOSI
75% sesso maschile 95% sesso femminile
Età media 50-60 anni Età media 40-50 anni
Più frequenti a livello di corpo e coda, ma possono 95% dei casi nel corpo e coda
coinvolgere tutto l’organo
Dimensioni minori (circa 2 cm), cicatrice centrale a Lesioni singole, capsulate, multilobulate,
stella. Più frequentemente benigni. dimensioni maggiori
Micro/oligo/macrocistici, contengono liquido Raramente comunicano con il dotto pancreatico
brunastro. principale
Capsula costituita da monostrato di cellule Istologico: pareti rivestite da epitelio colonnare
epiteliali piatte o cubiche. Lobulazioni con aspetto alto cuboidale in monostrato che può essere
ad “alveare” supportato da uno stroma intensamente cellulato
definito “ovarian like”
Meno frequentemente maligni Nel 40% sono già presenti cellule maligne
Tumori < 2 cm → osservazione e follow-up Terapia chirurgica sempre indicata (se pz fit): se
radiologico. Escissione in caso di dubbio. maligni, hanno prognosi molto simile agli
Tumori > 2 cm → resezione pancreatica minima adenocarcinomi pancreatici
Carcinoma → terapia chirurgica (DCP o Intervento = escissione completa della massa +
pancreasectomia distale in base alla sede) linfoadenectomia peripancreatica

266
Per quanto riguarda, invece, gli IPMN, questi si distinguono in:

A. Branch-duct IPMN: derivano solo da un dotto secondario


B. Main-duct IPMN: derivano dal dotto principale
C. Tipo misto

Questi tumori sono importanti da conoscere per il loro rischio di portare a lesioni maligne: i tumori branch-
duct hanno un rischio di evoluzione maligna del 20% a 10 anni, mentre quelli main-duct hanno un rischio del
70% a 10 anni.

Per questi tumori è importante andare a valutare se sono presenti segni morfologici “preoccupanti”,
chiamati worrisome features che includono:
• Dimensione IPMN ≥ 30 mm
• Ispessimento delle pareti della cisti all’imaging
• Pancreatite associata
• Dimensione del dotto pancreatico principale da 5 a 9 mm di diametro
• Presenza di un nodulo murale
• Noduli che non prendono mdc (non enhanced)
• Un brusco cambiamento nel calibro del dotto pancreatico con atrofia pancreatica distale
• Linfoadenopatia associata

Se sono presenti questi segni, aumentano le probabilità che si tratti di una lesione maligna.

Esistono, inoltre, delle caratteristiche di alto rischio, le high risk stigmata:

• Ittero ostruttivo (in un paziente con lesione cistica della testa del pancreas)
• Componente solida che prende contrasto a livello della lesione
• Wirsung con un diametro > 10 mm

Se sono presenti queste caratteristiche, il paziente è direttamente candidato alla chirurgia (sempre che sia
fit).

267
Si riporta la flowchart derivata dalle linee guida per la gestione dell’IPMN di tipo branch-duct (per il main-
duct è indicato generalmente l’intervento chirurgico data la sua alta probabilità di evoluzione maligna).

[La flowchart non è da sapere nei dettagli, serve per dare un’idea del processo diagnostico-terapeutico di
questa patologia].

[viene mostrato un video di chirurgia laparoscopica del pancreas].

268
Sara Roetti
Prof. Solej
29/10/2020
PATOLOGIE DELLA MILZA
NB. Traumatismi e rotture di milza sono parte anche del programma di emergenze medico-chirurgiche
Corsivo= integrazioni dalle sbobine dello scorso anno

Anatomia
La milza si sviluppa nel mesogastrio, a partire dalla V settimana di
gravidanza ed origina dalle cellule mesenchimali. È situata
profondamente nel quadrante superiore sinistro dell’addome
(ipocondrio sinistro).
Dal punto di vista macroscopico, presenta una superficie liscia e
convessa, con un diametro cranio-caudale di circa 12 cm e un diametro
latero-mediale di 7 cm. Il suo spessore è di circa 3-4 cm ed il peso medio
ammonta a 150 g, con un range tra gli 80 g e i 300 g a seconda del BMI
del soggetto. Questo organo presenta una vascolarizzazione di tipo
terminale e contiene fino ad 80 ml di sangue.
La milza presenta rapporti con le seguenti strutture:

- Diaframma (in alto, posteriormente e a sinistra)


- Sfondato pleurico costodiaframmatico, il quale si estende verso il basso e raggiunge il polo inferiore
della milza stessa (quando tale organo risulta di dimensioni normali, altrimenti il polo inferiore si
localizza molto più inferiormente)
- Rene sinistro  in rapporto con il polo inferiore della milza
- Grande curvatura gastrica  rapporto più importante
- Coda del pancreas
- Flessura splenica del colon e colon discendente

È bene ricordare lo stretto rapporto che questo organo contrae con diaframma e stomaco superiormente (fig
1) e con la coda del pancreas a livello più inferiore (fig 2): una delle più frequenti complicanze della chirurgia
splenica risulta infatti essere la fistola pancreatica, in cui l’apertura del legamento splenorenale può
provocare la rottura della capsula con conseguente fistola successiva all’intervento. Il polo inferiore della
milza è in rapporto con il rene e la fascia di Gerota, il colon discendente e la flessura splenica (fig 3)

269
Rene, stomaco, pancreas e colon sono connessi alla milza tramite dei legamenti che fanno parte dei
legamenti di sostegno di tale organo.
Il peritoneo parietale aderisce strettamente alla capsula splenica, ad eccezione della regione dell’ilo, dove si
sdoppia e si estende verso l’alto, verso il basso e posteriormente andando a formare i legamenti
frenosplenico, splenocolico (relativamente avascolari) e splenorenale. Quest’ultimo è leggermente
posteriore e si estende dalla faccia anteriore del rene sinistro all’ilo splenico; tra i suoi due foglietti decorrono
i vasi splenici (soprattutto l’arteria splenica) e si localizza la coda del pancreas. I due foglietti peritoneali si
continuano anteriormente ed in alto sulla grande curvatura gastrica andando a formare il legamento
gastrosplenico, dove nascono i vasi gastrici brevi. Questi legamenti, uniti al legamento frenocolico, sono detti
sospensori e contribuiscono a mantenere in loco la milza anche quando essa aumenta di volume in maniera
importante. L’aumento di peso dell’organo comporta l’allungamento di tali legamenti che diventano
maggiormente lassi, facendo di conseguenza
discendere la milza per gravità.
Ha dei rapporti molto importanti con diversi
organi, alcuni dei quali sono connessi alla milza
dal punto di vista vascolare (stomaco), altri
tramite dei legamenti (esili e non fondamentali
per il sostegno dell’organo), infatti la milza è
tenuta in sede principalmente dai vasi tra i quali
l’arteria splenica stessa. Tra i legamenti si
ricordano i posteriori, il gastro-colico (esile, fa
parte della parte terminale sinistra del grande
epiploon), spleno-colico (molo esile, importante
soprattutto nella chirurgia colica, quando si
lavora sulla flessura splenica).

Vascolarizzazione
L’organo è irrorato dall’arteria splenica, che origina dal tripode celiaco. Essa decorre dapprima sul margine
superiore del pancreas (segmento sovrapancreatico), successivamente si porta sulla sua faccia posteriore
(segmento retropancreatico). Raggiunge poi il bordo superiore della coda dando origine al segmento
prepancreatico. Giunta a 3-6 cm dall’ilo della milza generalmente si biforca in due tronchi principali, superiore
e inferiore. È bene tenere tuttavia a mente che esiste una notevole variabilità nella vascolarizzazione
terminale dell’arteria splenica e non è così raro imbattersi in triforcazioni/quadriforcazioni di tale vaso.
Ognuno dei tronchi si divide a sua volta in diversi rami secondari che entrano nella milza. Si distinguono due
tipologie di ilo: sparso o distribuito (70%), nel quale le arterie terminali originano a distanza dalla milza e
compatto o magistrale (30%), in cui esse sono brevi (vedi figura). La lunghezza media dell’arteria splenica è
di 18-20 cm e la sua tortuosità aumenta con l’età. Data la notevole variabilità anatomica dei vasi splenici, in
vista di una splenectomia è mandatorio uno studio vascolare.
L’arteria splenica è un vaso grosso, può arrivare ad 8 mm, quando sanguina lo fa in maniera considerevole.
La funzione emocateretica della milza le conferisce una vascolarizzazione già di per sé importante, lo diventa
ancora di più in caso di ipersplenismo. Spesso, a causa del copioso sanguinamento, è necessario eseguire una
splenectomia in urgenza in seguito alla rottura di milza spontanea in corso di patologia ematologica, ciò è
causato da un eccessivo ingrossamento dell’organo che ha portato alla lacerazione della capsula.

270
La vascolarizzazione venosa è garantita dalla vena
splenica, che raccoglie il sangue refluo dalla milza.
Essa mantiene rapporti molto stretti con l’omonima
arteria e, giunta in prossimità della vena
mesenterica inferiore, vi confluirà andando a
costituire l’oliva portale che a sua volta entrerà nella
porta insieme alla vena mesenterica superiore. La
milza si comporta come un serbatoio di sangue. Per questo motivo, nel momento in cui subisce un
traumatismo, l’emorragia è frequente e può avere esiti molto seri.
Dal web:
La vena lienale si costituisce nell’ilo per confluenza di 6-8 grossi rami che emergono dal parenchima, i quali si
riuniscono in due tronchi principali che convergono a formare la vena lienale. Questo vaso, dopo aver ricevuto
la vena gastroepiploica sinistra in corrispondenza della faccia anteriore della coda del pancreas, decorre
parallelamente e al di sotto dell’arteria, riceve la vena mesenterica
inferiore e raggiunge quindi il tronco della vena porta.
Al fine di praticarne una corretta preservazione, è importante essere
ben consapevoli della presenza della milza e dei suoi rapporti
durante qualsiasi intervento chirurgico che coinvolga organi di
ipocondrio e fianco sinistro (surrene, rene e uretere sx, coda
pancreatica, flessura splenica colica, colon discendente). Questo
perché la milza costituisce un organo facilmente speritoneizzabile e
la sua capsula può facilmente essere lesionata, portando a
sanguinamento.
Microscopia
La milza è composta da polpa rossa e bianca.
La maggior parte della polpa, in seguito al ricco apporto di sangue,
ha un caratteristico colore vinaceo ed è denominata polpa rossa.
Questa consiste di vasi a lume ampio e parete sottile, i seni venosi
splenici (o sinusoidi) e da accumuli di cellule del sangue. La
vascolarizzazione, di tipo terminale capillare, è molto ricca.
Dispersi nella polpa rossa si trovano aggregati di cellule linfoidi, che
si presentano come noduli grigiastri, e che costituiscono la polpa
bianca. Questi aggregati linfoidi circondano rami arteriolari e
formano le guaine (o manicotti) linfoidi periarteriolari.

Funzioni
Polpa rossa: controllo e mantenimento della qualità e della
quantità degli eritrociti con rimozione di quelli invecchiati o difettosi (funzione emocateretica);
Polpa bianca: sintesi di anticorpi;
Rimozione dal circolo di batteri complessati con l’anticorpo

Patologie
Possono avere diversa origine:
- Anomalie congenite: di numero (milze accessorie), di dimensione (es splenomegalia). Nella maggior
parte dei casi sono del tutto asintomatiche e diagnosticate casualmente. Nel corso di un intervento
di splenectomia vanno rimosse tutte per ottenere gli outcomes desiderati;
- Lesioni focali (che possono essere tumori benigni o maligni), rientrano nella splenomegalia;
- Infarto splenico: in base alla sua entità la milza può essere rimossa o meno;
- Traumatismi e rottura di milza

271
Splenomegalia
Con questo termine si indica l’aumento di dimensioni dell’organo con ipertrofia parenchimale. Solitamente
asintomatica, non è una patologia molto frequente in ambito chirurgico, mentre lo è maggiormente in ambito
ematologico: il riscontro è infatti quasi sempre casuale o secondario ad una diagnosi di malattia ematologica.
Il 30% delle splenomegalie risulta essere primitiva, ovvero non associata a malattia, senza alterazioni
ematochimiche.
Cause
Si tratta per la maggior parte di splenomegalie secondarie a
 Aumentata richiesta di funzione splenica (emocateresi), la quale può essere provocata da:
A) patologie che alterano qualitativamente gli eritrociti, quali
o sferocitosi, anemia falciforme, talassemia ed emoglobinopatie;
o iperplasia da patologie autoimmuni;
o alcune malattie infettive (alcune epatiti virali, malaria, AIDS);
o ascesso splenico
B) Patologie autoimmuni, quali
o Artrite reumatoide;
o Lupus: il lupus è una delle indicazioni principali alla splenectomia da patologia autoimmune.
Ci sono, infatti, delle fasi acute del lupus caratterizzate da un aumento di funzione della milza,
con conseguente ingrandimento;
o Tireotossicosi, in particolare il morbo di Basedow che può creare agglomerati di
immunocomplessi all’interno della milza
C) Emopoiesi extramidollare, conseguente a:
o Danno midollare da tossine/farmaci;
o Infiltrazione tumorale del midollo;
o Mielofibrosi midollare
 Aumentato flusso splenico o portale
o cirrosi (elemento portante);
o ipertensione portale;
o trombosi venosa splenica/portale;
o Echinococcosi epatica;
o malattia di Banti  splenomegalia congestizia solitamente provocata da ipertensione
portale
 Infiltrazioni
A) Da deposito
o Amiloidosi
o Iperlipidemie
B) Da infiltrazioni benigne/maligne
o leucemie
o linfomi
o angiosarcomi, emangiomi, istiocitosi (più rare)
 Eziologia sconosciuta
o Splenomegalia idiopatica, tipica dei bambini;
o Berilliosi, amiloidosi (“le ho messe qui perché spesso il quadro non è chiaro”);
o Anemia sideropenica, anche se molto di rado

272
Sintomi
Nella gran parte dei casi questa patologia risulta asintomatica, ad eccezione dei sintomi della patologia di
base. Tuttavia, quando la milza raggiunge dimensioni importanti può provocare sensazione di peso in
ipocondrio sinistro e senso di sazietà precoce per compressione dello stomaco. Può essere presente astenia
ma il dolore è quasi sempre assente, a meno che non ci troviamo davanti ad un infarto splenico in cui può
essere presente dolore da distensione capsulare.

Diagnosi
EO: la milza costituisce di norma un organo difficilmente obiettivabile, in quanto completamente nascosta
dall’emicostato sinistro. La si percepisce solo nel momento in cui risulti molto ingrandita, nel qual caso
diventa palpabile e si verifica un aumento dell’ottusità alla percussione, soprattutto in inspirazione profonda
quando la milza viene spinta verso il basso. Anche se difficile da sentire, si può notare inoltre uno sfregamento
all’auscultazione, analogo a quello che si sente tramite l’auscultazione dell’ipocondrio destro per il fegato.
Anche se meno utilizzate rispetto al passato, esistono diversi metodi finalizzati al riscontro dell’obiettività di
tale organo:
- Metodo di Nixon – palpazione: paziente disteso sul
lato destro così da poter apprezzare lo sporgere del
margine dall’arcata costale. Solitamente si fa
sollevare anche il braccio in modo tale da
permettere al paziente l’abbassamento della milza in
inspirazione profonda. Con le due mani (una davanti
e l’altra dietro) si va quindi a toccare il fianco, come
mostrato nell’immagine a lato.
- Metodo di Castell – percussione: paziente in
posizione supina con braccio sulla nuca così da
apprezzare meglio la presenza di ottusità percussoria durante gli atti respiratori.
- Metodo di Traube – auscultazione: paziente in posizione supina con il braccio abdotto così da
apprezzare meglio il suono ottuso di sfregamento.

Ematochimici
L’emocromo ci permette di effettuare conta eritrocitaria, granulocitaria e piastrinica. È inoltre importante
valutare la presenza di innalzamento degli indici di flogosi.

Diagnosi strumentale
Il gold standard per l’identificazione dell’organo è rappresentato da
ecografia ed ecocolordoppler. Sia nelle milze normali che in quelle
ingrandite permette di valutare i diametri trasversale e longitudinale,
la vascolarizzazione (se assente è possibile fare diagnosi di infarto
splenico), la presenza di lesioni. Si tratta di un esame operatore
dipendente, ma fornisce molte informazioni. Chiaramente, in
particolare nel sospetto di patologie maligne ematopoietiche verrà
eseguita anche una TC total body, che rappresenta un esame di
secondo livello fondamentale per diagnosi e stadiazione.

273
In alto: lesioni ipoecogene da linfoma
NH, visibili alla TC come localizzazioni
multiple miliariformi.
Dx in basso: Splenomegalia da
ipertensione portale, la quale può essere
valutata attraverso la misurazione del
flusso portale tramite Ecodoppler.
Sx in basso: linfoma sistemico con
localizzazioni spleniche. In questi casi
l’indicazione chirurgica alla
splenectomia è successiva al
trattamento chemioterapico.
La milza è molto difficile da individuare:
spesso per vederla in ecografia bisogna
far mettere il paziente in decubito
laterale sinistro, facendolo inspirare profondamente, perciò, se l’organo è nella norma, è difficile da
inquadrare dal punto di vista ecografico. Al contrario in un paziente con ipersplenismo all’ecografia risulta di
più immediata visualizzazione, proprio a causa del suo volume aumentato.
Terapia
Le splenomegalie sintomatiche vengono trattate chirurgicamente attraverso splenectomia curativa, in
associazione alle terapie ematologiche. Nei pazienti che non sopporterebbero l’intervento chirurgico
un’ottima alternativa è rappresentata dall’embolizzazione, facendo in tal modo una sorta di “splenectomia
conservativa” (non chiamarla così, Solej l’ha
detto solo per rendere l’idea). Dopo aver
incannulato l’arteria femorale si raggiunge
l’arteria splenica e si introducono gli agenti
embolizzanti provocando così un infarto
selettivo (es. uno dei due rami dell’arteria). Ciò
permette di ridurre le dimensioni della milza
funzionante.

Infarto splenico
Alterazione della perfusione ematica con conseguente danno parenchimale su base ischemica. Può essere
più o meno esteso a seconda del vaso interessato.
Sintomi
Spesso l’infarto non presenta sintomi o, se lo fa, questi sono molto lievi. Quando però l’infarto interessa più
del 30% della milza, la capsula viene distesa comportando dolore importante di tipo parieto-viscerale
(simile a quello provocato dalla distensione della glissoniana epatica).
Segni
Dolore alla palpazione. L’EO può essere del tutto negativo oppure, può esserci una sintomatologia dolorosa
alla palpazione profonda e/o superficiale; nei casi più gravi ci sarà Blumberg+.
Respiro antalgico (poco frequente), dato dal diaframma che muovendosi tocca la capsula splenica,
provocando dolore. Nella maggior parte dei casi però segni e sintomi rimangono del tutto aspecifici.
Diagnosi
Prima di tutto è necessario pensare all’eventualità di un infarto splenico in corso, in particolare in presenza
di dolore in ipocondrio sinistro, quadrante che solitamente non dà troppi problemi in questi casi pensare
sempre all’infarto. Successivamente è fondamentale praticare un’ecografia, esame sufficiente ad escludere

274
la nostra ipotesi. Qualora non fosse sufficiente, praticare un’angio-TC (la milza ipoperfusa appare più
scura).
Gli esami di laboratorio, in caso di infarto splenico, non forniscono alcuna informazione: gli indici di flogosi
possono essere alterati e può esserci una lievissima anemia (ma non è la regola).
Terapia
Splenectomia (trattata in seguito). La parte essenziale dell’intervento consiste nell’identificazione di arteria
e vena splenica in prossimità della coda pancreatica cercando di lasciare intatto il foglietto posteriore del
legamento renosplenico. Questo perché la sua lesione potrebbe comportare la lesione della coda pancreatica
e l’insorgenza di una fistola pancreatica nel post-intervento. I vasi vengono poi legati e si procede con la
splenectomia.

Traumatismi e rottura di milza


(→ Ematoma= la capsula è ancora integra; Rottura= la capsula è lacerata)
La milza è un organo fragile e sensibile alle decelerazioni improvvise. È ancorata in maniera abbastanza salda
ai legamenti, i quali a loro volta sono connessi alla capsula, elemento molto fragile e suscettibile a
decelerazioni improvvise (oltre che e traumi diretti).
“La cintura di sicurezza in questo senso rappresenta un danno, tuttavia il suo non utilizzo porterebbe a danni
di maggiore gravità”.
Cause
La rottura di milza rappresenta una delle poche vere emergenze chirurgiche e può verificarsi a seguito di un
traumatismo diretto o indiretto; in tutti e due i casi l’effetto è quello di un trauma da rimbalzo. Una delle
situazioni più frequenti in cui si verifica il trauma indiretto è il frontale in automobile/moto, mentre
qualunque trauma all’ipocondrio sinistro o alla parete toracica di sinistra viene denominato diretto (oltre alla
contusione una componente importante del danno è determinata dal rimbalzo). Fondamentale il
monitoraggio emodinamico, perché permette di cambiare in maniera sostanziale il trattamento al paziente
con trauma della milza.
Sintomi
Può capitare che il paziente, almeno nelle fasi iniziali, risulti del tutto asintomatico. Spesso il dolore è
correlato al trauma osteomuscolare (coste, parete toracica, addome) piuttosto che alla rottura della milza.
Vi è dolore nei casi più gravi ed acuti.
Segni
Presenza di dolorabilità alla palpazione in ipocondrio sinistro; ci può essere respiro antalgico.
Nei casi più gravi, si può osservare difesa addominale in emoperitoneo massivo. Essa può però non essere
presente nelle fasi iniziali nonostante si sia verificata una rottura di milza completa: fondamentale è quindi
ipotizzare questo tipo di lesione quando ci troviamo di fronte a qualsiasi traumatismo ad alta cinematica. Un
altro aspetto che dovrebbe portare a sospettarla è l’instabilità emodinamica del paziente. “Quando vi arriva
un paziente emodinamicamente instabile che è caduto dall’albero atterrando sul fianco sinistro sospettate
subito una rottura di milza”.
Diagnosi
Nel momento in cui si accoglie un paziente con una rottura di milza fondamentale è valutare la stabilità
emodinamica.
Esami di laboratorio: di solito i risultati dell’emocromo sono aspecifici in quanto, come accade in tutte le
emorragie, il movimento dei valori di Hb e Ht risulta tardivo.
Esami strumentali: l’ecografia FAST va fatta il prima possibile, per andare a valutare la presenza di
versamento intraddominale. Se questo è presente ed il paziente è emodinamicamente stabile, si prosegue
con l’esecuzione di una angio-TC per confermare la diagnosi e verificare se il sanguinamento deriva dai vasi
o dalla milza stessa. Se il mezzo di contrasto fuoriesce dalla milza durante la fase arteriosa e portale si verifica
il cosiddetto blushing, segno di sanguinamento.

275
È importante inoltre tenere a mente che la milza può andare incontro ad una rottura in due tempi: per
questo motivo, anche se la lesione è lieve (es. ematoma sottocapsulare) va monitorata almeno per 24 h per
scongiurare la comparsa di un emoperitoneo.
Se il paziente fosse invece emodinamicamente instabile, dopo l’esecuzione dell’ecoFAST con riscontro di
versamento è indicata la laparoscopia/laparotomia esplorativa alla ricerca della causa del versamento, che
nel nostro caso sarà l’emoperitoneo da rottura di milza.

Il professore mostra ora il titolo della più recente review sulla classificazione del trauma splenico, su cui i
chirurghi fanno affidamento. Sulla base di tale documento sono stati definiti gli iter relativi ai vari interventi
da attuare in caso di stabilità/instabilità emodinamica.
Titolo: Splenic trauma: WSES classification and guidelines for adult and pediatric patients
Allego qui il link: https://wjes.biomedcentral.com/articles/10.1186/s13017-017-0151-4

Classificazione AAST dei traumatismi della


milza (un po’datata ma ancora accettata)
Esistono 5 gradi di traumatismo, legati alla
presenza o meno di ematoma, fratture o
lesioni vascolari.
Grado 1: ematoma sottocapsulare <10%
oppure frattura capsulare <1 cm di
profondità, non lesioni vascolari;
Grado 2: ematoma sottocapsulare dal 10 al
50% con diametro <5 cm oppure rottura di
parenchima tra 1 e 3 cm di profondità, non
lesioni vascolari;
Grado 3: ematoma sottocapsulare >50%
con rottura sottocapsulare o
intraparenchimale ed ematoma >5 cm
oppure frattura di 3 cm di profondità, non
lesioni vascolari;
Grado 4: lesione di un segmento completo, iniziale lesione dei vasi dell’ilo con devascolarizzazione >25%;
Grado 5: scoppio completo della milza, totale devascolarizzazione. Rottura completa dei vasi, sanguinamento
copioso. Emergenza chirurgica assoluta! (sperando che il paziente riesca ad arrivare in PS in condizioni
accettabili).

Terapia
Inizialmente, l’iter attuato era il seguente:
 Instabilità emodinamica  splenectomia
 Stabilità emodinamica:
o Grado 1,2,3  vediamo, potrebbe essere indicata
la sola sorveglianza
o Grado 3 con anomalie vascolari ed abbondante
emoperitoneo, grado 4  embolizzazione o
sorveglianza
o Grado 5  splenectomia
Attualmente, tale iter è cambiato relativamente poco ed il fattore principale è rimasta la stabilità
emodinamica:
Se il paziente è emodinamicamente stabile, dopo ecoFAST e RX della pelvi e del torace è indicata l’angio-TC
al fine di valutare il grado delle lesioni.

276
- Nei gradi 1,2 (WSES I) e 3 (WSES II) può essere attuato un management non operativo (osservazione).
Nei casi in cui però sia presente blushing si può valutare se fare l’angioembolizzazione, anche se nella
gran parte dei casi è sufficiente la sola osservazione.
- Nelle lesioni WSES III (grado 4 e 5) emodinamicamente stabili (rare ma possono verificarsi), si fa
un’angiografia. Qualora venga identificato un blushing attivo si attua un’angioembolizzazione.
Necessaria in ogni caso la rivalutazione dopo 24-48 h. Se indicata si può rifare l’angio-TC e, se necessario, è
possibile ripetere l’embolizzazione.

In presenza di instabilità emodinamica (WSES IV), a prescindere dal grado della lesione è indicata la
laparotomia d’urgenza con splenectomia o con splenic salvage (preservazione della milza). Quest’ultimo
viene eseguito prevalentemente nei pazienti pediatrici ma si può usare anche negli adulti con lesioni non
eccessivamente gravi. Il paziente non è trasportabile, lo si porta direttamente in sala operatoria.
Ciò che differenzia quindi la classificazione WSES dall’AAST (vecchia classificazione) è il dare la priorità alla
stabilità emodinamica.

Nella figura a lato si osserva una lesione di grado 3-4 con sanguinamento
attivo (non più presente poiché la foto è stata fatta successivamente al
clampaggio dei vasi).

277
Nella figura si può osservare un ematoma splenico >5
cm (grado 3), contrassegnato dall’asterisco, trattato
con embolizzazione selettiva al fine di risparmiare la
restante milza sana. L’arteriografia selettiva
dell’arteria splenica conferma la rottura, con stravaso
di sangue (blushing). Se dovessimo fare l’intervento,
la laparotomia sarebbe l’opzione di scelta. Ciò è
dovuto al fatto che l’emoperitoneo risulta di difficile gestione dal punto di vista
laparoscopico; il sangue che riempie la cavità addominale sporcherebbe troppo
limitando la possibilità di lavorare. Molte volte è inoltre necessario agire rapidamente
per limitare il sanguinamento.
La laparotomia d’elezione è detta esplorativa mediana (fig 1) la quale, rispetto alla sottocostale, amplia il
campo di esplorazione permettendo un’adeguata pulizia.

Procedimento: la prima manovra da attuare è detta manovra di Pringle (fig 1), con cui si va a sollevare la
milza. Si tratta di una manovra di fondamentale importanza, perché stacca il legamento freno-splenico
rendendo possibile la mobilizzazione della milza. Tramite questa manovra si toglie l’organo dal campo
operatorio rendendola visibile agli occhi (perché è nascosta). Inoltre, rende visibili i vasi, i quali costituiscono
le prime strutture da ricercare. Con la manovra si solleva anche la coda del pancreas e, per evitare di causare
danni, si vanno a clampare i vasi a livello dell’ilo della milza, bloccando il sanguinamento. Successivamente,
nel caso dell’intervento in urgenza, si inizia la dissezione vera e propria. Se la lesione fosse invece ridotta
potrebbe essere sufficiente utilizzare delle protesi che la comprimono a scopo emostatico. Si posiziona un
telino (fig 3) nella sede della milza, in modo da tenerla sollevata permettendo l’intervento stesso. Si vanno
poi a legare alcuni vasi brevi (fig 4), al fine di separare la milza dallo stomaco. Si procede legando i vasi splenici
il più distalmente possibile dall’ilo (fig 5). Questo perché l’arteria splenica, vaso più importante, è un’arteria
ad altissima pressione; legando vicino all’ilo si rischierebbe di provocare un aneurisma nel futuro. Non si può
tuttavia neanche legare troppo distalmente dall’ilo poiché poco prima del passaggio corpo-coda del pancreas
origina l’arteria gastrica posteriore, il quale di per sé non è un vaso fondamentale, ma lo diventa nel corso di
chirurgia gastrica oncologica (gastroresezione) in quanto l’organo è già stato devascolarizzato attraverso la
legatura di vasi gastrici brevi, arteria gastrica destra e sinistra e gastroepiploica di destra. Risulta in sintesi
importante legare il più prossimalmente possibile ma non dopo l’origine dell’arteria gastrica posteriore.

1 2

278
3 4

6 7

Nel caso si voglia fare una spleen preserving splenectomy, si legano e sezionano i vasi dell’area interessata
(fig 6). Il drenaggio è fondamentale: la splenectomia è infatti una delle poche chirurgie in cui tale pratica
risulta utile, perché drena l’eventuale reflusso ematico rimasto per lavaggio inadeguato evitando
complicanze di tipo infettivo. Inoltre, anche se complicanza molto rara, può essere utile nell’emorragia
occorsa in seguito al cedimento delle legature dei vasi principali. Ancora, l’intervento può complicarsi con
una fistola pancreatica, solitamente localizzata a livello della coda ed a bassa portata; il drenaggio è utile nel
far fluire all’esterno i succhi pancreatici.
Esistono alcune protesi a lento riassorbimento che possono essere utilizzate nelle
lesioni traumatiche della milza con lo scopo di compattare e mantenere integro tale
organo. Funzionano come una cuffia che avvolge la milza permettendone la
compressione, rendendo possibile la spleen preserving splenectomy. Sono state
inizialmente utilizzate dai veterinari e dagli anni ’90 sono utilizzate anche sugli esseri
umani. Dal 2000 ne sono state create moltissime di materiali differenti. Sono
utilizzate prevalentemente nel paziente pediatrico.

Splenectomia laparoscopica
Questo tipo di splenectomia rappresenta l’indicazione principale, anche se tecnicamente non vi è una grossa
differenza con quella laparotomica. In urgenza è però preferita la laparotomia in quanto risulta più semplice.
Il limite principale di tale tecnica è costituito dalle dimensioni della milza, in quanto se l’organo occupa molto
spazio non si riesce a creare lo pneumoperitoneo e quindi la cavità entro cui si va a lavorare. Secondo le linee
guida, il diametro massimo della milza per poter andare incontro a laparotomia è pari a 20 cm “anche se,
affrontata in laparoscopia, una milza con queste dimensioni sembra un’anguria”. In laparoscopia si perde
meno tempo rispetto all’open perché non si deve cucire il paziente, poiché chiudere un sottocostale vuol dire
chiudere 3 fasce muscolari-obliqui esterni, trasverso e parte del retto. La laparoscopia è più delicata e
permette di vedere molto più da vicino la milza stessa, oltre al fatto che permette di essere più precisi
nell’isolamento dei vasi e che permette di ridurre notevolmente il rischio di avere una fistola pancreatica,
perciò, laddove possibile, è da preferire.
Dalle slides:
- Minor numero di conversioni (3.9%)
- Minor tempo operatorio
- Meno perdite ematiche

279
- Riduzione ospedalizzazione e costi
- Ridotto rischio di rottura capsula e splenosi
Le indicazioni sono tutte, non ci sono differenze rispetto alla chirurgia open. In particolare, la laparoscopia è
ben consolidata in anemie emolitiche con emolisi splenica, piastrinopenia con porpora, AIDS con porpora,
patologie neoplastiche (è stato dimostrato che oncologicamente funziona meglio della open), cisti non
parassitarie (non parassitarie in quanto la laparoscopia comporta un maggior rischio di rottura).
Tale tecnica non risulta invece consolidata in ipertensione portale con varici esofagee sanguinanti (a causa
del sanguinamento importante che potrebbe verificarsi), aneurisma dell’arteria splenica e traumi. Fino ad
una decina di anni fa, il trauma splenico costituiva una controindicazione assoluta all’esecuzione della
splenectomia laparoscopica; attualmente è una controindicazione relativa ed entra in gioco l’esperienza del
chirurgo. Il professore corregge la slide - a sua detta un po’ datata - per quanto riguarda l’incidentaloma,
ovvero la lesione accidentale della milza in seguito a pancreasectomia distale: al giorno d’oggi l’intervento è
effettuato anche per via laparoscopica, così come la splenectomia nell’anemia grave in pazienti che rifiutano
la trasfusione.

Tipologie di approccio
Esistono vari modi per effettuare una splenectomia laparoscopica, ma sono due quelli maggiormente
utilizzati: la via anteriore (suspended pendicle), più usata, e la via postero-laterale (hanging spleen). Essi si
differenziano in quanto nel primo caso viene affrontato per prima il
peduncolo vascolare, nel secondo si fa penzolare la milza e, procedendo
da posteriormente ad anteriormente si affrontano per primi i legamenti
raggiungendo successivamente i vasi.
Posizione del paziente: dalle slides - decubito laterale 90°, decubito
laterale 30-45°, decubito supino. La più utilizzata è il decubito supino a 30-
45°. Il braccio viene sollevato con lo scopo di alzare l’emicostato favorendo
la successiva induzione dello pneumoperitoneo. Inoltre, il movimento dell’emicostato abbassa il diaframma
e fa scendere un po’ più in basso la milza.

Posizione dei trocar: anche in questo caso esistono vari metodi; il più
utilizzato è quello mostrato in figura, in cui quello da 12 mm (A) è il trocar
ottico, B e C (5 mm) corrispondono ai trocar con cui il chirurgo opera, D è il
trocar dell’aiuto, che serve principalmente ad abbassare la coda del
pancreas ed eventualmente la flessura splenica per poter permettere
l’accesso.

Tecnica
Fondamentale ricordare che nel 15-30% de casi sono presenti milze accessorie, che vanno rimosse in toto
(sia in open che in laparoscopia). Spesso ne siamo già a conoscenza perché rilevate nella TC, altre volte
bisogna ricercarle. Analogamente, qualora la milza risultasse frantumata, è necessario rimuoverne tutti i
frammenti, in quanto avendo capacità angiogenetica si può andare a reimpiantare in sedi dove non dovrebbe
farlo. Esempio portato dal prof: pz di 67 anni, splenectomizzato 20 anni prima in seguito ad incidente stradale,
mandato dall’oncologa per un sospetto tumore del retto. All’esplorazione rettale è presente una
compressione esterna, tuttavia la colonscopia risulta negativa. La TC mostra invece una milza di circa 8 cm
impiantata dopo l’intervento e cresciuta molto lentamente. Le milze reimpiantate non sono funzionali e
rappresentano solo un rischio di ulteriore rottura e sanguinamento.
Il procedimento della laparoscopia è il seguente:
- Si approccia per primo il legamento splenocolico, mobilizzando il polo inferiore;
- Si legano i vasi brevi, con l’apertura del legamento gastrosplenico, mobilizzando anche l’ilo;

280
- Viene così scoperto il legamento
renosplenico permettendo
l’accesso alla faccia antero-
superiore della coda pancreatica,
dove sono presenti i vasi: se
l’anatomia classica è rispettata si
affronta per prima l’arteria, poi la
vena splenica.
- Si prosegue con legatura ed
apertura dell’ultima parte del
legamento gastrocolico;
- Si affronta il polo superiore, a
milza già devascolarizzata,
dissecando il legamento
frenosplenico ed andando così a
mobilizzare la milza.
- Una volta mobilizzata, la milza viene posizionata nell’apposito sacchetto (endobag) e si può decidere
di rimuoverla dall’addome integra, facendo una sorta di mini-laparotomia, oppure di morcellarla. Nel
primo caso si utilizza spesso il Pfannenstiel, ovvero l’incisione sovrapubica che si fa per il taglio
cesareo. Nel secondo caso invece, attraverso l’utilizzo del morcellatore, la milza viene frantumata
divenendo una sorta di pappetta. Questa tecnica può andare bene nelle patologie ematologiche, in
cui l’importante è la ricerca delle cellule; bisogna però assicurarsi che il sacchetto sia ben chiuso
perché soprattutto nei tumori secondari (es. rene, colon…) c’è un rischio di disseminazione
endocavitario. Esiste una terza modalità di estrazione, detta “hand assisted technique”, molto usata
negli anni 90’. La splenectomia veniva eseguita per via laparoscopica ma con l’aiuto di una mano: nei
passaggi più complessi è utilizzato un macchinario che mantiene dilatata la zona interessata al fine
di potervi inserire la mano. In alcuni centri questa tecnica viene tuttora usata solo per rimuovere la
milza, andando a dissezionare il legamento frenosplenico con la mano.

Da internet:
Via anteriore

281
Via postero-laterale

Zone difficili: non sono solo un problema quando si interviene laparoscopicamente, ma devono essere
considerate in qualunque tipo di splenectomia. È chiaro che in urgenza si dovrà essere un po’ meno
delicati poiché si punta a raggiungere subito i vasi splenici per poter bloccare il sanguinamento, tuttavia
i tempi anatomici (che poi sono i tempi chirurgici in quanto essi risultano dettati dall’anatomia), sono gli
stessi.
Sono alcuni esempi: legamento gastrosplenico (fig a lato), legamento
splenopancreatico, contenente il peduncolo splenico. Questa struttura
presenta una notevole varietà anatomica. Nel 50% dei casi la coda del
pancreas si trova in posizione normale e nel 42% essa è più vicina al polo
inferiore della milza  queste due posizioni non rappresentano un
problema nel reperimento dei vasi. Nell’8% dei casi in cui la coda si trova
leggermente sollevata rispetto all’ilo splenico, invece, siccome i vasi spesso
decorrono sulla faccia antero-superiore della coda per poi dirigersi
posteriormente e passare all’ilo, il rischio di lesione della coda stessa
diventa nettamente superiore. Il legamento splenofrenico è generalmente
facilmente dissecabile perché avascolare, ma se per esempio il paziente ha
avuto precedenti pleuriti, patologie infiammatorie, secondarietà tumorali che infiltrano il legamento,
potrebbe rappresentare una problematica; non solo rischiamo di provocare la rottura della milza e di far
quindi sanguinare rovinando l’approccio laparoscopico (maggiormente controllabile in open), ma
potremmo anche dover togliere un tassello di diaframma. In sintesi, nel 95% dei casi questo legamento
non rappresenta un problema, ma nel restante 5% dei casi rappresenta un problema serio.

Caso clinico
Ragazzo di 15 anni con politrauma a seguito di un incidente. GCS 15, emodinamicamente stabile e buona
saturazione. Presenta una contusione al fianco destro con escoriazioni, non segni evidenti di frattura. Gli
ematochimici sono nella norma. L’ecoFAST evidenzia un modesto versamento nel Douglas. Il paziente viene
tenuto in osservazione.
Circa un’ora dopo il paziente si destabilizza, l’ecoFAST evidenzia versamento periepatico e perisplenico, con
netto incremento del versamento nel Douglas  viene portato in sala operatoria dove viene eseguita una
spleen preserving splenectomy. La lesione riscontrata risulta di tipo 2 (rottura di 1-3 cm con sanguinamento

282
attivo). L’intervento riesce bene ed il ragazzo torna a casa in decima giornata post-intervento. Nella TC di
controllo è presente ancora un po’ di versamento ed è visibile la capsula della protesi, riassorbita poi
completamente.

283
Prof. Patrizio Mao
12/03/2020
Fabrizio Tealdi

La chirurgia della Tiroide


Anatomia
La tiroide è una ghiandola endocrina (peso 15-25 g) situata nella porzione inferiore del collo, subito
al di sopra del giugulo. Anteriormente alla trachea troviamo l’istmo della tiroide che mette in
comunicazione due masse laterali dette lobi.

Come si può vedere nell’immagina a sinistra la tiroide è


irrorata da molti vasi, l’apporto ematico è di circa 4-6
ml/g/min.
Tra questi quello più importante, che va a vascolarizzare
una grossa porzione del lobo inferiore, è l’arteria tiroidea
inferiore. Essa origina dal tronco tireo-cervico-scapolare,
rampo prossimale dell’arteria succlavia, passa
medialmente alla carotide per portarsi al lobo inferiore
contraendo rapporti con il nervo laringeo ricorrente del
quale va assolutamente evitata la lesione.
Ricordiamo anche l’Arteria laringea superiore, ramo della
carotide esterna, che vascolarizza il peduncolo superiore.
Quest’ultima è più facile da legare e staccare dalla zona “di
pericolo” cioè quella a contatto con il Nervo laringeo
superiore, spesso avviene già ribaltando il lobo.

Nella seconda immagine a lato, invece, possiamo osservare


la veduta dorsale della tiroide e la sua vascolarizzazione
venosa.
Si osservano due vene principali, le vene tiroidee medie,
accompagnate dalle vene tiroidee superiori ed inferiori.
Chirurgicamente durante la dissecazione de lobo laterale
della tiroide la vena tiroidea media è la prima struttura che
si incontra e va isolata per poter procedere.

La ghiandola contrae importanti rapporti con il nervo laringeo ricorrente il quale decorre
posteriormente tra trachea ed esofago e, proprio a questo livello, descrive un’ansa portandosi
anteriormente per inserirsi nella laringe ed innervare le corde vocale. Più cranialmente invece
troviamo il nervo laringeo superiore.
Durante gli interventi chirurgici alla tiroide è necessario isolare questi nervi per evitare complicanze
quali la disfonia e la dispnea.

A livello del collo abbiamo almeno tre catene di vasi linfatici che decorro dall’alto verso il basso. Il
drenaggio della tiroide è garantito soprattutto dalla catena giugulare, che si trova lateralmente, ma
anche i linfonodi del compartimento centrale, posto al di sotto di essa, e quelli più distanti possono
essere coinvolti in caso di metastatizzazione (possibile solo nel caso di tumori follicolari). In tal caso

284
verranno asportate tutti i linfonodi sospetti e, qualora il tumore sia ancora sensibile allo Iodio, si
somministrerà la terapia con I125.

Embriologia
La tiroide e le paratiroidi originano dalle 3° e 4° tasca branchiale, vanno incontro a un fenomeno di
inversione tale per cui le cellule che originano dalle 3° tasca andranno a costituire i lobi inferiori e
quelle della 4° i lobi superiori.
Questo fa sì che le paratiroidi possano avere diverse localizzazioni ectopiche (nel torace o addirittura
a livello dell’ovaio). Esse normalmente sono 4, adese alla tiroide una superiore ed una inferiore. Si
possono osservare ruotando la tiroide lateralmente.

Ciascuna presenta un piccolo fascio vascolare che va risparmiato e lasciato in sede per evitare che il
paziente sviluppi una delle complicanze peggiori della chirurgia alla tiroide cioè la tetania
paratireopriva, estremamente invalidante. Il PTH ha un’emivita di soli 6 minuti, quindi non è al
momento possibile supplementarlo, perciò l’unica terapia risulta essere la somministrazione di
calcio fatta più volte al dì in dosi elevate. Per evitare questa complicanza, quando l’intervento
richiede l’asportazione delle paratiroidi, è possibile fare criopreservazione di una delle ghiandole e
reimpiantarla in un muscolo (solitamente a livello dell’avambraccio) per garantire la produzione di
PTH.

NB Le peggiori complicanze della chirurgia tiroidea sono la lesione mono o bilaterale del nervo
laringeo ricorrente e la tetania paratireopriva.

Istologia
La tiroide ha una struttura follicolare. Essa infatti è costituita da circa 3.000.000 di follicoli che ne
rappresentano l’unità anatomo funzionale. Gruppi di 20-40 follicoli formano un lobulo.
Ciascun follicolo è costituito da un monostrato di cellule follicolari che delimitano una cavità
contenente la colloide formata dal preormone tiroideo tireoglobulina.

Tra i follicoli sono presenti le cellule parafollicolari o cellule C, responsabili della produzione di
calcitonina.

Fisiologia
Il professore non si sofferma sull’aspetto della produzione della tireoglobulina, T3, T4 e la
regolazione da parte dell’ipofisi. È importante sapere che deficit o alterazioni enzimatiche così come
del TSH possono portare a variazioni dell’aspetto e del volume della tiroide.

Esiste un vero e proprio Asse tireo-ipofisario con controllo della secrezione dell’ormone tiroideo che
risponde a diversi stimoli (il freddo, l’attività fisica…). La secrezione di TSH è particolarmente
importante durante la crescita, tanto che possono esserci delle forme di nanismo tiroideo legato ad
alterazione di questo meccanismo di controllo.

I livelli ematici di T3 e T4 sono a loro volta responsabili di un meccanismo a feedback negativo sulla
produzione di TRH e TSH. Per questo motivo, nel post-operatorio, i pazienti tiroidectomizzati e
trattati con supplementazione di ormone tiroideo vengono monitorati valutando i livelli di TSH.

La sintesi degli ormoni è complessa: inizia con il processo di organificazione dello iodio mediato de
numerosi enzimi. Questi possono essere alterati e determinare un rallentamento della produzione

285
e quindi delle forme di ipotiroidismo e gozzo che rappresenta un adattamento ai bassi livelli di T3 e
T4. Aumenta infatti il rilascio di TSH che ha un’azione eutrofizzante sulla tiroide e si riescono così ad
ottenere dei livelli normali o quasi di ormoni tiroidei, a prezzo di un aumento di dimensioni della
ghiandola. Si parla in questo caso di gozzo normofunzionante, spesso di dimensioni modeste.
Esistono altre forme di gozzo di dimensioni maggiori legate invece ad una scarsa assunzione di Iodio
con la dieta o a deficit enzimatici.

Alcuni autori sostengono che il gozzo possa rappresentare una precancerosi, ad oggi non ci sono
dati statisticamente rilevanti a sostegno di questa ipotesi. Al di fuori dei problemi estetici perciò è
da considerarsi una lesione benigna (anche se forse potrebbe portare a malacia della cartilagine
laringea)

La seconda fase è la sintesi della tireoglobulina, anch’essa posta sotto il controllo del TSH che viene
depositata sotto forma di colloide nel lume del follicolo. È un a proteina che contiene i precursori
degli ormoni tiroidei cioè gli aminoacidi iodati, la tirosina iodata, in particolare, che diventerà
tiroxina. La colloide, sempre in seguito allo stimolo del TSH, verrà riassorbita, processata in T3 e T4
che verranno rilasciati in circolo quando necessario.

La patologia neoplastica della tiroide


Nella patologia della tiroide distinguiamo malattie funzionali, infiammatorie e, appunto,
neoplastiche.

Epidemiologia
 Prediligono il sesso femminile
 Non è frequente
 Al 25° posto tra i tumori maligni
 Aggressività biologica modesta
 Sopravvivenza globale a 10 anni oltre 80%
Si tratta di tumori relativamente comuni. Fortunatamente, pur essendo maligni, le due forme più
frequenti (circa il 90% delle neoplasie della tiroide) sono tumori ben differenziati: il tumore
Follicolare e il tumore Papillifero. Essi hanno una buona prognosi e verranno trattati con
tiroidectomia con o senza terapia con radioiodio.

In presenza di un nodulo tiroideo possiamo avere due gruppi di pazienti:


1) Nodulo + sintomi di ipo/ipertiroidismo: sospetteremo malattie funzionali (il morbo di
Basedow, l’adenoma di Plummer…) oppure una tiroidite
2) Nodulo senza sintomi: cisti o neoplasia

Valutazione clinica
Qualsiasi ingrandimento della tiroide viene chiamato Gozzo (o struma), sia che interessi tutta la
tiroide, sia che coinvolga solo un lobo o parte di esso come nel caso del nodulo.

Nel sospetto di una neoplasia bisogna valutare se il nodulo è singolo o multiplo, se la tiroide è
ingrandita in toto o in parte.

286
Bisogna inoltre cercare la presenza di eventuali
linfonodi palpabili a livello laterocervicale.

Una volta verificato che si tratta di un Nodulo il


primo esame a nostra disposizione è l’ecografia,
che mi permette di individuare la lesione e
discriminare tra contenuto solido (ipo o
iperecogeno) e liquido (anecogeno cisti).
Il problema dell’ecografia è che per essere
dirimente richiede molte informazioni aggiuntive.
Per questo molti preferiscono attuare come primo
esame la scintigrafia che fornisce informazioni di
tipo funzionale (nodulo caldo o freddo), cioè se è metabolicamente attiva e se capta lo iodio.

Quindi: scintigrafia + esami funzionalità tiroidea (T3, T4, TSH) e successivamente eco e agobiopsia.
Quando si riscontra un nodulo solido all’ecografia si tende a procedere immediatamente con la
biopsia.

Caratteristiche del nodulo a rischio neoplastico:


1) Nodulo solido all’eco e freddo alla scintigrafia: il 25% di questi risulta essere un tumore;
2) Precedente terapia radiante al collo;
3) Citologia sospetta;
4) Dimensioni superiori a 3 cm;

Un altro aspetto da valutare è la modalità di insorgenza: con che rapidità si è ingrandita la tiroide?
La crescita è stata continua o improvvisa?
Un nodulo non dolente, presente da qualche tempo che solo recentemente è aumentato di volume,
è quasi sempre neoplastico.

Eziologia e fattori di rischio


Tra i fattori di rischio per i tumori della tiroide ricordiamo:
 Stimolazione continua con TSH
 Pregresse radiazioni al collo
 Nodulo tiroideo di lunga durata
La tiroide è un organo molto radio sensibile, sia nei confronti degli insulti esterni che della
radioterapia. Ad esempio, negli anni 70’ e 80’ i tumori tiroidei erano molto comuni nei pazienti
trattati con terapia radiante per linfoma. Oggi sono disponibili farmaci chemioterapici efficaci e la
RT non è più utilizzata per queste neoplasie.
La tiroide, inoltre, ha la capacità di captare e concentrare, non solo lo iodio, ma anche altri elementi
come il cesio radioattivo (Cs134). Negli anni successivi all’esplosione di Chernobyl, si è registrato un
aumento di almeno 4000 casi in più di tumori alla tiroide all’anno in Italia.
Si stima inoltre che, negli USA, le sole radiografie alla colonna, eseguite in seguito ad incidenti
stradali, causino circa 4000 nuove neoplasie l’anno. Per questo motivo si è cambiato il protocollo
per ridurre il numero di rx eseguiti.

287
Sintomatologia
Il tumore esordisce con la comparsa di un nodulo. All’aumentare delle dimensioni della lesione
generalmente il paziente inizierà a preoccuparsi e si rivolgerà ad un medico. Ad eccezione a questo
si tratta di neoplasie generalmente asintomatiche.
Possono talora associarsi voce rauca, la sindrome dello stretto superiore del torace, sindrome
cervicale ecc. limitate ai tumori più invasivi, tipicamente le forme anaplastiche.

Valutazione strumentale del nodulo


Come già anticipato la valutazione strumentale si
compone di:
1) Scintigrafia
2) Esami della funzionalità tiroidea: T3, T4 e TSH
3) Ecografia
4) Agobiopsia
Le ultime due spesso vengono eseguite insieme, perciò è
utile all’ecografista avere già delle informazioni funzionali
per decidere se procedere o meno alla biopsia.

Istotipi di Carcinoma Tiroideo


In nessun organo come nella tiroide esiste una differenza di comportamento clinico così marcata tra
i vari tipi istologici, tanto che si può ritenere i che i diversi istotipi costituiscano malattie neoplastiche
completamente separate.

Classificazione istologica:
 Carcinoma differenziato (90%)
o Follicolare (20%)
o Papillare (80%)
 Carcinoma a cellule di Hurtle
 Carcinoma midollare (5%)
 Carcinoma indifferenziato (4%)
Fortunatamente quelli ben differenziati sono i più frequenti e dal punto di vista di trattamento e
prognosi sono molto simili.
Tra le forme più rare invece troviamo il carcinoma midollare che origina dalle cellule C, secerne
calcitonina e può rientrare nel quadro si una sindrome a origine genetica (MEN2 e FMTC).
Il Carcinoma a cellule di Hurtle deriva da cellule residue presenti nella tiroide (gli oncociti) e ha un
aspetto simile a quello renale.
Infine, quello Indifferenziato costituisce dall’1 al 4% dei tumori della tiroide, predilige i soggetti più
anziani e ha una prognosi assai peggiore rispetto agli altri. Talvolta progredisce rapidamente
nonostante la terapia e la chirurgia e arriva determinare compressione sulla trachea con
soffocamento.

Adenocarcinoma follicolare
 Rappresenta il 20% dei tumori ben differenziati
 Più frequente nell’età media (30-50 anni)
 Spiccata tendenza angioinvasiva
 Metastasi per via ematogena

288
 Nelle fasi più precoci è capsulato (sopravvivenza del 100% a 10 anni)
 Nelle fasi più tardive invade e diventa extra capsulare (sopravvivenza del 30% a 10 anni)

All’esame microscopico presenta un aspetto tipico caratterizzato da follicoli molto stipati e


moderate atipie.
La caratteristica più preoccupante di questa neoplasia è la tendenza a dare metastasi per via
ematica. Tuttavia, anche per i tumori metastatici resta disponibile la terapia con radioiodio, per cui
non rappresentano come in altri casi una condanna a morte.

Adenocarcinoma papillare
 Rappresenta il 50-80% dei tumori della tiroide
 Più frequente nella giovane età (20-40 anni)
 Spesso plurifocale fin dell’esordio (25-70%)
 Metastasi per via linfatica (laterocervicali)
 Prognosi ottima (sopravvivenza 80% a 10 anni)

È il più frequente in assoluto. Ha una forte tendenza a diffondere per via linfatica, quindi, al
momento dell’exeresi, sarà necessaria un’attenta valutazione dei linfonodi laterocervicale e,
soprattutto, profondi (giugulari e del compartimento centrale) ed eventuale asportazione.
La prognosi è ottima soprattutto quando risulta possibile la terapia con radioiodio.

Carcinoma midollare
 Rappresenta il 4-5% dei tumori della tiroide
 Origina dalle cellule C parafollicolari (non è quindi sensibile al TSH)
 Non è capsulato
 Metastasi per via linfatica ed ematica
 Produce calcitonina (ipercalcemia, nefroliatiasi, diarrea)
 Diagnosi per riscontro di alti livelli di calcitonina

Le cellule parafollicolari sono cellule che derivano dalla cresta neurale e secernono la calcitonina,
un ormone peptidico. Si tratta perciò di un tumore neuroendocrino che può rientrare nel quadro
della MEN2 ed altre malattie genetiche.

Carcinoma indifferenziato
 Rappresenta il 5% dei tumori della tiroide
 Più frequente in età avanzata
 Rapida crescita
 Metastasi precoci
 Invasività locale
 Prognosi pessima (sopravvivenza 20% a 3 anni)

Colpisce soprattutto pazienti anziani che hanno subito RT alla regione del collo.
La crescita è rapidissima, può arrivare ad essere destruente nell’arco di giorni o settimane.
Ad influenzare la prognosi è soprattutto la forte invasività locale tanto che, a dispetto della terapia
chirurgica, chemioterapica e radioterapica (con radioiodio o esterna se insensibile), la sopravvivenza
a 3 anni è del 20% paragonabile a quella del tumore al pancreas.

289
Terapia
[da slides] Il trattamento e la prognosi dipendono più dall’istotipo che dal grado di estensione
anatomica del tumore.

Tanto più è precoce la diagnosi tanto migliore sarà la prognosi: se un tumore può essere asportato
chirurgicamente l’outcome sarà buono, altrimenti dovremo utilizzare dei trattamenti di tipo
radiante o chemioterapico.

Interventi chirurgici:
 Emitiroidectomia (un lobo + istmo): per tumori maligni oggi non viene più fatta ed è riservata
solo all’Adenoma di Plummer. Può essere un’alternativa allettante perché evita al paziente
l’ipotiroidismo iatrogeno che però è un prezzo accettabile per la guarigione completa;
 Tiroidectomia totale (rimozione dei due lobi e dell’istmo)
 Linfadenectomia (solo in presenza di nodi palpabili)

L’intervento chirurgico previsto in caso di Carcinoma follicolare infiltrante, C. papillifero, C. midollare


e C. indifferenziato è la tiroidectomia totale.
A far propendere questo intervento ci sono:
 Frequenza di tumori multifocali e quindi localizzati anche nel lobo apparentemente sano;
 Miglior valutazione della scintigrafia total body: una volta rimossa interamente la tiroide sarà
più facile andare a individuare eventuale tessuto residuo, sedi ectopiche e metastasi che
risultano non essere più inibite e quindi oscurate dalla tiroide funzionante;
 Miglior risposta alla terapia con I125, qualora sia necessaria: il radioiodio deve concentrarsi
nelle metastasi e quindi è meglio se non è presente tessuto tiroideo normale che capterebbe
e concentrerebbe l’isotopo riducendo la dose che giunge alla neoplasia;
 Semplicità dalla terapia sostitutiva.

A sfavore della tiroidectomia depongono:


 Aumento delle complicanze:
o Lesioni del nervo laringeo ricorrente
o Lesione di tutte le paratiroidi con conseguente ipoparatiroidismo iatrogeno, mentre
nell’emitiroidectomia 2 ghiandole vengono sicuramente conservate;
o Ipotiroidismo;
o Emorragie, ematoma del collo: si tratta di complicanze acute che in questa sede
assumono particolare importanza per cui bisogna porre molta attenzione
sull’emostasi;
 Ottimo controllo dei piccoli focolai neoplastici nel lobo controlaterale con la terapia

Follow-up
 A un mese dell’intervento: Scintigrafia total body con I131 per l’identificazione di eventuale
tessuto residuo o metastasi a distanza trattati con RT con I125;
 Terapia ormonale: dosaggio di T3, T4 e TSH in modo da adeguare la terapia sostitutiva con
ormone tiroideo allo scopo di abbassare ma non azzerare il livello di TSH;

290
 Nel Carcinoma midollare:
o Dosaggio della calcitonina e del calcio;
o Terapia solo sostitutiva in quanto il tumore è
insensibile allo I125;

Problematiche della chirurgia alla tiroide:


 Ricerca delle paratiroidi: nell’immagine accanto
possiamo vedere evidenziata una delle 4 ghiandole,
tenendo conto che l’immagine è ingrandita almeno 4x
possiamo capire la difficoltà nell’isolarle. Esse infatti sono
piccole e di aspetto simile al resto del parenchima (il
colore è un giallo più pallido rispetto all’ocra della
tiroide);
 Ricerca del nervo ricorrente;
 Sanguinamento nell’immediato postoperatorio: la regione
della tiroide è estremamente vascolarizzata perciò è
opportuno utilizzare lacci, clip e i diversi tipi di coagulatore in
modo corretto per assicurare un’emostasi adeguata.

Novità nel campo dell’emostasi: si è cercato di mettere a punto nuove


tecniche che riducessero il danno causato al nervo. I nuovi sistemi
ledono comunque, sia direttamente che indirettamente, mediate
calore il NLR ma possono essere applicate su un’area molto piccola in
modo da evitare di causare lesioni a questa struttura:
 Ligasure: procedura di elettrochirurgia che applica alta
corrente a basso voltaggio per coagulare vasi e tessuti
(l’Elettrobisturi mono-bipolare invece utilizza bassa corrente e
alti voltaggi;
 Sistema harmonic scapel ultacision: utilizza gli ultrasuoni per vaporizzare l’acqua nei tessuti;

Si tratta di sistemi che, come


detto, ledono comunque tessuti e
nervi, quindi bisognerà valutare in
base al raggio d’azione e alla
vicinanza alle strutture nobili.
Vi sono dei casi in cui i vasi da
coagulare si troveranno a meno di
0.5mm dal NLR, in tal caso è invece
consigliabile l’utilizzo di un Laccio.
Se invece riusciamo a creare una
dissezione e ad allontanare di
pochi millimetri il vaso questi
nuovi sistemi possono essere
utilizzati con grande risparmio tempo.

Monitoraggio intraoperatorio del Nervo ricorrente: l’altra modalità con cui possiamo andare a
proteggere il nervo è l’utilizzo di un tubo endotracheale con un rilevatore di movimento delle corde
vocali (nelle slides è mostrato un tipo particolare che misura l’impedenza). Se con gli strumenti o

291
con le sonde utilizzate per identificare il nervo andiamo troppo vicino al nervo stesso il segnale
proveniente dalle corde vocale risulterà alterato. Viene utilizzato nei centri specializzati perché
serve una certa esperienza per il suo utilizzo.
[Il prof. ha saltato le diapositive che illustravano il funzionamento e i vantaggi del tubo EMG dicendo
di non soffermarci].

M.I.V.A.T. (Minimally invasive video assisted thyroidectomy)


La chirurgia mininvasiva è cresciuta moltissimo negli ultimi anni. C’era
già stata un’evoluzione negli anni ’80 con il superamento dell’incisione
di Kocher, che prevedeva un taglio a partire dal margine sternale del
muscolo sternocleidomastoideo prolungato fino quasi al giugulo e poi
continuato controlaterlamente. Si tratta di un taglio lungo e deturpante,
per cui si era già iniziato a ridurlo con gli strumenti tradizionali
utilizzando lenti aggiuntive per il chirurgo, sistemi retrazione illuminati,
lampade frontali ecc. grazie a cui si è arrivati a fare dei tagli orizzontali di
3-4 cm. Attraverso questa incisione o altre ancora più piccole (fino a 1,5-
2,5 cm) può essere utilizzato un sistema con telecamera e altri strumenti
appositi per attuare una chirurgia mininvasiva.

Sono state messe a punto tecniche anche più recenti, un esempio è la NOTES (Natural Orifice
Translumenal Endoscopic Surgery) che ci permette di operare per via transorale oppure attraverso
le ascelle, in modo da non lasciare cicatrici. Un altro esempio è la chirurgia robotica che però richiede
sempre un taglio di circa 1,5 cm.

Il risultato estetico non è comunque la priorità ma qualora sia possibile, per ridurre il fastidio al
paziente, vengono impiegate anche queste tecnologie. I criteri di selezione sono:
 Noduli massimo di 30-35 mm;
 Volume tiroideo massimo di15-20 ml;
 Masse sia benigne che maligne (carcinoma
papillare a basso rischio osservato con
FNAB);

Le controindicazioni sono assai di più e in questi


casi si attuerà invece la chirurgia tradizionale.

Masse tiroidee ad impegno mediastinico


Vi sono masse, tipicamente lo struma, che vanno ad impegnare lo spazio mediastinico anteriore,
dietro lo sterno attraverso lo stretto toracico superiore.

In questi casi, l’intervento deve prevedere la


necessità di dissecare anche la porzione inferiore
della tiroide. Qualora la massa non arrivi troppo in
profondità, potrebbe essere sufficiente una
dissezione cauta trazionando l’organo. Quando
invece la ghiandola raggiunge dimensioni
importanti va a localizzarsi a livello del
compartimento anteriore e si procederà con uno

292
Split sternale, si apre qualche centimetro di sterno fin sotto il manubrio, così si riescono ad asportare
masse anche di grandi dimensioni.

Terapia chirurgica delle paralisi cordali monolaterali


Nel caso in cui durante l’intervento di tiroidectomia sia stato lesionato
monolateralmente un nervo, vedremo la corda vocale sana tesa
lateralmente e quella lesionata lassa in posizione neutra, a causa del
mancato trazionamento della cartilagine aritenoide.
Il paziente non avrà dispnea perché lo spazio respiratorio è conservato
ma presenterà una voce bitonale.

Si può intervenire in vari modi per arrivare a riposizionare la corda:


 Iniezione di grasso autologo;
 Tireoplastica secondo Montgomery: utilizzo di vere e proprie protesi;

Terapia chirurgica delle paralisi cordali bilaterali


In caso di lesione bilaterale del nervo la situazione è più grave. Il paziente può parlare, anche se avrà
una voce rauca, sussurrata, però le due corde paralitiche ostruiscono la laringe come i lembi di una
valvola mossi solo passivamente, causando un forte aumento dello sforzo respiratorio, dispnea,
episodi di ostruzione respiratoria anche gravi. La situazione è perciò invalidante e spesso si rende
necessario l’intervento di disostruzione: un esempio è la cordotomia mediante laser CO2 con o
senza aritenoidectomia.

Fisiopatologia della tiroide


Come accennato precedentemente la patologia della
tiroide comprende non solo le neoplasie ma anche le
malattie funzionali e le tiroiditi.
Tratteremo brevemente queste patologie in relazione al
loro interesse chirurgico.

Tiroiditi
 Malattia di Hashimoto: è una tiroidite
autoimmune caratterizzata da una secrezione
tiroidea altalenante, con ipertiroidismo nelle fasi
iniziali e ipotiroidismo nelle fasi avanzate. La
mattia in genere guarisce in 6-8 mesi e non lascia reliquati. In alcuni casi può invece
continuare in fase attiva oppure esitare in un ipotiroidismo anche grave. Tali casi possono
essere meritevoli di una terapia.
 Tiroidite subacuta (di De Quervain): esordio più lento, senza episodi di tempesta tiroidea.
Si sviluppa un gozzo solitamente di dimensioni modeste e in seguito ipertiroidismo. Il
paziente giungerà alla nostra attenzione o per il gozzo o per ipotiroidismo conclamato con
bassi valori di T3 e T4, alti di TSH, aumento di peso, letargo ecc.
 Tiroidite acuta (specifica o batterica): sono molto rare. Quelle batteriche posso evolvere in
mediastinite e causare gravi complicanze al paziente.

293
 Struma di Riedel (tiroidite cronica o lignea): è uno struma che si indurisce pian piano e può
portare a dispnea.
[Il professore ha saltato tutte le slides su questi argomenti accennandoli appena.]

Generalmente non sono patologie di interesse chirurgico. È però importante essere in grado di fare
un adeguato inquadramento clinico e diagnosi differenziale in questi casi. Inoltre, sia le forme acute
che quelle croniche posso richiedere un intervento qualora sin instaurino disturbi respiratori,
fonatori o di deglutizione.

Gozzo o struma adenomatoso


Non è di per sé pericoloso, generalmente la terapia medica (supplementazione di Iodio o di ormone
tiroideo) è sufficiente a tenerne sotto controllo i sintomi e ridurne le dimensioni se è ben tollerato,
altrimenti si interviene con l’asportazione chirurgica in genere totale della ghiandola per evitare
recidive.
Diagnosi: ricalca quella del nodulo tiroideo. Se troviamo un singolo nodulo iperfunzionante di parla
di Adenoma di Plummer. Il paziente può avere ipertiroidismo da adenoma della tiroide con un
corredo sintomatologico tipico che va da segni come il tremore, all’intolleranza al calore,
nervosismo, iperglicemia eccetera, oppure forme più sfumate.

Struma da morbo di Basedow (-Flajani-Graves)


Il morbo di Basedow è un ipertiroidismo cronico
dovuto all’iperstimolazione dei recettori del TSH
operata da autoanticorpi (meccanismo
autoimmune) oppure ad iperfunzionalità
dell’asse ipotalomo-ipofisi-tiroide.
Ne risulta un gozzo iperfunzionante
caratterizzato dalla sintomatologia riportata
nella slide.
Un sintomo particolare è l’esoftalmo che risulta
essere particolarmente fastidioso per il paziente perché si accompagna spesso a disturbi visivi,
oftalmoparesi e diplopia.

Gli altri tipi di gozzo sono di interesse più specialistico.

L’intervento mostrato nelle foto è eseguito ancora con l’incisione di


Kocher da un muscolo sternocleidomastoideo all’altro. Viene così
ottenuto un enorme lembo che viene scolpito nel sottocute fino al
pomo d’Adamo verso l’alto e il giugulo verso il basso. Questo
scollamento permette al chirurgo di fare un’apertura della muscolatura
propria della regione sottoioidea (mm. sternioideo e sternotiroideo).

Si accede così alla loggia tiroidea, ci si sposta lateralmente prima su un


lobo e poi sull’altro. Una delicata trazione permette di individuare la
vena tiroidea media, legarla, dividerla e ribaltare il lobo per andare a
cercare il peduncolo superiore ed inferiore (immagine in basso a destra)
con i loro rapporti con le paratiroidi e il nervo laringeo ricorrente.

294
Completato un lato si procede con il lobo controlaterale fino ad
asportare l’intera ghiandola. Completata l’emostasi e inseriti i
drenaggi, si può chiudere la ferita chirurgica.

295
15 PARATIROIDI
Si definiscono paratiroidi delle ghiandole endocrine poste nel collo in prossimità della tiroide. Ve ne sono
quattro, due superiori (o interne), situate dietro alla tiroide, e due inferiori (o esterne). In certe persone, si
possono trovare anche paratiroidi ectopiche in altre regioni del collo, o nel mediastino.

Anatomia
Le paratiroidi sono quattro ghiandole neuroendocrine, talvolta soprannumerarie (5%), localizzate a livello
del collo, tra tiroide e trachea, o in sedi ectopiche (timo, mediastino). Hanno dimensioni di 6x3mm per il peso
di 40-70mg ciascuna, forma ovale o reniforme, consistenza soffice e colore rosso-scuro o giallo (t. adiposo).
Il loro aspetto è simile a LFN, pertanto durante il contesto operatorio è necessario un esame estemporaneo
al congelatore, insieme alla valutazione pre- e post- rimozione di PTH e calcemia, per sincerarsi di aver ri-
mosso effettivamente tessuto paratiroideo.
In condizioni normali, la posizione anatomica delle paratiroidi è
- Paratiroidi superiori: in genere più piccole delle inferiori, si trovano più frequentemente all’unione del
terzo superiore con il terzo medio della faccia posteriore dei lobi tiroidei
- Paratiroidi inferiori: contraggono rapporto costante con un ramo dell’arteria tiroidea inferiore e si tro-
vano generalmente a breve distanza (1-2 cm) dal nervo ricorrente.
La vascolarizzazione delle paratiroidi inferiori dipende dall’arteria tiroidea inferiore; quella delle paratiroidi
superiori dall’arteria tiroidea inferiore nell’80% dei casi, dalla branca posteriore dell’arteria tiroidea superiore
o dall’arcata marginale posteriore di Evans nei casi restanti. Il drenaggio venoso è assicurato dalla rete di
scarico capsulare tiroidea, dal peduncolo venoso del corpo tiroideo o da entrambi.
EMBRIOGENESI
Le paratiroidi originano in associazione con timo e tiroide, a partire da III (ghiandole inferiori) e IV (ghiandole
superiori) tasca branchiale, con discesa attraverso il collo.
Ciò spiega l’ampio spettro di sedi anormali. Esse possono essere interessate da anomalie di sviluppo, quali:
- AGENESIA: completa (rara) o parziale, associata a abnorme sviluppo di timo e cell. C (sdr di George, ID Iaria)
- ECTOPIA: dovute ad alterazioni della migrazione embrionale, possono riscontrarsi in sede
• Paratiroidi superiori: faringe (discesa imperfetta – paratiroidi superiori faringee); laringe (muscolo
cricofaringeo o dietro, dove il nervo ricorrente gira a ridosso della succlavia), verso il mediastino
posteriore lungo l'esofago; lungo i grossi vasi del collo (carotide e succlavia di sinistra), lungo l'angolo
tra trapezio ed esofago, intratiroidee (paratiroidi interne)
• Paratiroidi inferiori: legamento tireo-timico tra i grossi vasi del collo; all'interno del timo stesso;
all'interno del sacco pericardico (se cadono nel mediastino anteriore).
Peculiarità delle paratiroidi è che possono essere reimpiantate in qualunque sede e riprendere funzionalità.
ISTOLOGIA
La struttura istologica delle varie ghiandole paratiroidi risulta costituita da:
- Componente ghiandolare: composta da cellule disposte intorno a rete capillare in diverse strutture (base
genetica)
- Tessuto adiposo: determina scarso peso e consistenza soffice; la percentuale di grasso varia in funzione
dell’età, fino a raggiungere circa 30% intorno ai 25 aa, quando si stabilizza (involuzione adiposa)
NB: la prima anomalia che permette di riconoscere l’iperplasia è data dal fatto che, a parità di dimensioni, si ¯%t. adiposo
- Capsula: mal definita e sottile, formata da tessuto fibroso periferico
- Bande fibrose: associate alla capsula, che identificano i lobuli a livello del parenchima
I criteri fondamentali da valutare alla biopsia sono la compresenza di componente adiposa e parenchimale, e
il rapporto peso-dimensioni. Il parenchima paratiroideo è costituito da diverse tipologie cellulari, quali
- Cell. principali (8µm): più rappresentate, di colore rosa chiaro o scuro (colorazione EE) a seconda del
contenuto di glicogeno, che se particolarmente elevato le conferiscono aspetto chiaro (cell. chiare).
Hanno forma poligonale con nucleo centrale, uniforme e rotondo; contengono granuli secretori di PTH.
- Cell. ossifile o transizionali od oncocitiche (7-18µm): caratterizzate da citoplasma ampio, eosinofilo (os-
sifile) e granulare (numerosi mitocondri). Ritenute cellule funzionalmente inattive, in realtà possono pro-
durre PTH. La loro prevalenza come tipo cellulare è indice di possibile adenoma o carcinoma.

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I marcatori paratiroidei, comuni a tutte le cellule neuroendocrine, sono:
- Cromogranina A (CgA – ¯Se, ­Sp) - Enolasi neurospecifica (NSE – ­Se, ¯Sp)
- Sinaptofisina - S-100
Il PTH è poco antigenico (degradazione in formalina), per questo non è stato possibile sviluppare dei buoni
Ab per la valutazione IHC di tale tessuto. Tuttavia è possibile valutare mediante ISH (ibridazione in situ) la
presenza di mRNA-PTH. Il gold standard per la valutazione di tale tessuto pertanto è: CgA + mRNA-PTH.

Fisiologia
Le paratiroidi secernono PTH, un ormone coinvolto nella regolazione dell’omeostasi Ca2+, insieme a calcito-
nina (cell. C tiroidee) e 1,25-vit. D. L’attività ghiandolare è modulata dalla calcemia, che se ridotta induce
secrezione di PTH con effetto ipercalcemizzante, attraverso diversi meccanismi a livello di:
- Osso: ­riassorbimento osseo (OC, via RANK) + ¯apposizione ossea (OB)
- Rene: ¯riassorbimento renale PO4- (TCP) + ­riassorbimento Ca2+ (TCD) + idrossilazione vit. D
- Intestino: ­assorbimento Ca2+ e PO4-
Pertanto, in caso di elevati livelli di PTH la manifestazione clinica sarà sotto forma di ipercalcemia.

15.1 IPERPARATIROIDISMO
L’iperparatiroidismo rappresenta una condizione di iperfunzionalità delle ghiandole paratiroidi, con conse-
guenti elevati livelli di PTH. Può essere distinto in tre tipologie in base a livelli ormonali e di elettroliti sierici
(NB: morfologicamente indistinguibili):
- IPERPARATIROIDISMO PRIMARIO o PRIMITIVO (­PTH, Ca2+,¯Pi): iperproduzione autonoma e spontanea di PTH,
con ipofosfatemia e ipercalcemia, di cui rappresenta la causa principale
- IPERPARATIROIDISMO SECONDARIO (­PTH, Pi, ¯Ca2+): iperplasia paratiroidea di tutte e quattro le ghiandole
in seguito a ipocalcemia cronica da IRC o ipovitaminosi D (malassorbimento, ipoMg2+, resistenza perife-
rica vit. D); può essere trattato rispettivamente con trapianto renale o supplementazione di vit. D
- IPERPARATIROIDISMO TERZIARIO (­PTH, Ca2+, Pi): cronicizzazione di un iperparatiroidismo secondario non
trattato in modo tempestivo, con produzione autonoma e indipendente di PTH (perdita feedback nega-
tivo da Ca2+).
Sia la forma primaria sia la forma terziaria richiedono un intervento chirurgico. Ad inizio intervento vengono
valutate: calcemia e PTH. Si rimuovono quindi le paratiroidi (Iario: una; IIIario: tutte 4), si invia il materiale ri-
mosso per l’analisi AP estemporanea al congelatore (DD iperplasia, adenoma o carcinoma) e vengono rivalu-
tate Ca2+ e PTH (se persiste elevato è indice di residui secernenti).
Si reimpianta in sede ectopica una paratiroide e un’altra viene criopreservata, tagliata in modo sterile in azoto
liquido. In caso di ipoparatiroidismo iatrogeno conseguente alla rimozione delle paratiroidi e al mancato at-
tecchimento della paratiroide in sede brachiale, si procede all’impianto della paratiroide criopreservata.
15.1.1 Iperparatiroidismo primitivo
L’iperparatiroidismo primitivo è una delle endocrinopatie più comuni e rappresenta una delle principali cause
di ipercalcemia; si caratterizza per ­PTH non giustificata da livelli sierici di Ca2+. Colpisce prevalentemente il
sesso F (F:M=4:1) in età avanzata (50-60aa).

Eziopatogenesi
Le principali lesioni paratiroidee responsabili di iperfunzione e iperparatiroidismo primitivo sono:
- Adenoma paratiroideo (85-95%): più frequentemente di tipo sporadico (mutazioni di ciclina D1 o MEN1),
e in una minoranza di casi di tipo familiare associato a sdr genetiche quali
• MEN1: mutazione MEN-1
• MEN2A: mutazione RET
• Ipercalcemia ipocalciurica familiare: AD, con ¯sensibilità recettore parotideo al Ca2+
Rappresenta una proliferazione monoclonale di cellule parenchimali
- Iperplasia primitiva (5-10%): distinta in diffusa o nodulare, di tipo sporadica o associata a MEN; rappre-
senta una proliferazione policlonale di cellule parenchimali, in rari casi monoclonale
- Carcinoma paratiroideo (~1%)
Tale condizione può associarsi a quadri di neoplasie tiroidee o t. di Hashimoto (NB: non sono una causa).

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ADENOMI PARATIROIDEI
Solitamente solitari (raramente interessano 2 ghiandole), localizzati a livello intratiroideo (90%) o in sede
ectopica (10% – es. mediastino), si presentano come noduli circoscritti (peso: 0,5-5g; dimensioni: 0,6-10 cm),
molle, di colore rosso scuro e capsulati. Le altre ghiandole sono normali o ridotte (feedback negativo iperCa).
L’adenoma paratiroideo è sempre benigno e una volta escisso si ha guarigione del pz.
IPERPLASIA PRIMITIVA
Interessa classicamente tutte 4 ghiandole (15% casi), tuttavia più spesso (75% casi) si ha un coinvolgimento
asimmetrico con evidente risparmio di 1 o 2 ghiandole, complicando la DD con l’adenoma. Tale condizione
deriva da proliferazione componente ghiandolare, con riduzione della componente adiposa (analogo ad ade-
noma). Il peso totale delle ghiandole raramente supera 1g, assumendo forma ovale e color salmone.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
- Adenoma: miglior criterio è il coinvolgimento di una sola ghiandola (NB: però presente nel 75% casi di
iperplasia), in quanto in entrambe le condizioni istologicamente si ha proliferazione ghiandolare con ri-
dotta componente adiposa, che non consente la distinzione microscopica.
NB: tuttavia a livello clinico ha poca importanza in quanto l’exeresi è curativa in entrambi i casi
- Paratiroide normale: peso inferiore e componente adiposa ben rappresentata (~30%)
CARCINOMI PARATIROIDEI
I carcinomi paratiroidei sono rari e difficilmente distinguibili dagli adenomi in quanto analoghi morfologica-
mente e mancanti di atipie marcate.
Inoltre, non sempre sono secernenti, rimanendo asintomatici, con riscontro solamente quando le dimensioni
sono notevolmente aumentate. Possono insorgere ex-novo o da precedenti lesioni (iperplasia o adenoma).
Il decorso è indolente, segnato dalla presenza di recidive locali e complicanze legate a ipercalcemia; la meta-
statizzazione a distanza è tardiva, spesso alla recidiva (follow-up: PTH). La 5yOS è del 30-70%.
Si presentano come lesioni ben circoscritte, simili ad adenomi, o come neoplasie chiaramente invasive, inte-
ressanti una sola ghiandola. Formano masse di grosse dimensioni (fino a 6 cm, peso 2-10g), talvolta palpabili
(30%), di colore grigiastro e consistenza dura (reazione desmoplastica). La diagnosi di ca. paratiroideo su
criteri citologici è inaffidabile, e gli unici criteri di malignità certi sono:
- Invasione capsulare e/o vascolare: con estensione a tessuti circostanti
- Metastasi a distanza: segno indiretto di invasione vascolare

Quadro clinico
In base alle manifestazioni cliniche l’iperparatiroidismo può essere distino in:
- IPERPARATIROIDISMO ASINTOMATICO (80%): riscontrato accidentalmente in esami ematochimici per altre
cause, come ipercalcemia asintomatica associata a ­PTH;
NB: nel caso in cui si rilevi invece ipercalcemia con ¯PTH è da escludere la presenza di tumori maligni in
altre sedi (es. polmone, MM) responsabili di sdr paraneoplastica (PTHrP)
- IPERPARATIROIDISMO SINTOMATICO: si manifesta con segni e sintomi conseguenti a ipercalcemia a livello di
• SNC: depressione, letargia, convulsioni, coma
• Sist. neuromuscolare: astenia, ipotonia, miopatia prossimale
• CV: bradicardia, ¯QT, ­PR, onda T larga, aritmia, calcificazioni valvolari
• GI: nausea, vomito, costipazione, ileo paralitico, pancreatiti, ulcera peptica, colelitiasi
• Sistemico: presenza di calcificazioni metastatiche a livello cutaneo, responsabili di prurito, e di molti
altri tessuti (polmoni, cuore, stomaco, vasi)
Inoltre, l’iperparatiroidismo (effetto PTH) determina più specificatamente lesioni a livello di
• Rene: poliuria, nefrolitiasi e nefrocalcinosi (calcificazioni interstiziali) con possibile evoluzione a IRC
e diabete insipido (poliuria, polidipsia)
• Osso (malattia ossea): con dolore osseo secondario a fratture di ossa indebolite da
§ Osteoporosi: da riassorbimento osseo per prevalenza OC, con liberazioni di sali di Ca2+; ciò
porta a ­OB con deposizione di nuova matrice ossea, caratterizzata da trabecole distanziate
§ Osteite fibrosa cistica: in casi gravi, si ha assottigliamento corticale con midollo fibrotico, asso-
ciato a focolai emorragici e zone cistiche
In alcuni casi gli OC possono aggregarsi insieme a cell. giganti reattive e detriti emorragici, formando
masse con aspetto radiografico simile a lesioni tumorali, dette tumori bruni dell’iperparatiroidismo

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In base alle manifestazioni è possibile distinguere tre forme principali di iperparatiroidismo primitivo
- Forma paucisintomatica (80%): con sintomatologia aspecifica legata maggiormente a ipercalcemia
- Forma a prevalente danno renale: con nefrolitiasi recidivante e nefrocalcinosi che possono portare a IRC
- Forma a prevalente danno osseo: con sintomatologia algica e fratture legata a malattia ossea

Diagnosi
La diagnosi di iperparatiroidismo è biochimica e si basa sul riscontro di iperPTH + ipercalcemia in pz con
normofunzione renale. È utile eseguire esami strumentali volti alla ricerca di eventuali manifestazioni ossee
(demineralizzazione – RX scheletro, densitometria) e renali (nefrolitiasi, nefrocalcinosi – RX addome, US re-
nale). In seguito, è necessario stabilire se sussistono le indicazioni all’intervento:
- HPT sintomatico: sempre
- HPT asintomatico: indicazione se
• Età < 50aa
• Evidenza di coinvolgimento osseo (T score < 2.5)
• Evidenza di coinvolgimento renale (creatinina < 60ml/min/kg oppure evidenza di calcoli renali)
• Ca2+ sopra il limite massimo > 1 mg/dl
Se le indicazioni non sussistono, il pz sarà sottoposto a un follow-up annuale dei livelli di calcio e della densità
minerale ossea. Se, invece, le indicazioni sussistono, è necessario un imaging di localizzazione paratiroideo
da effettuarsi tramite
- US collo (paratiroidi > 5 mm)
- Scintigrafia dual phase con Tecnezio 99 e sestaMIBI (indagine di sottrazione – accurata ma risente dei
movimenti del pz) oppure scintigrafia con wash out (MdC eliminato più rapidamente dalla tiroide – meno
accurata ma non risente dei movimenti del pz)
- TC/RM (se si sospettano paratiroidi ectopiche – es. mediastiniche)
NB: evitare biopsia delle paratiroidi (rischio di insemenzamento iatrogeno – paratiromatosi).

Terapia
CHIRURGICA
LOCALIZZAZIONE
La paratiroide patologica pesa 2-3 g e misura al massimo 2-3 cm e molto spesso è difficile da localizzare
(inoltre, è necessario valutare anche le sedi ectopiche). Nel caso in cui non si trovino le paratiroidi nemmeno
nelle sedi ectopiche, è necessario eseguire una lobectomia tiroidea dal lato più sospetto agli esami preope-
ratori (paratiroidi interne); per questo motivo è necessario un taglio che permetta anche l’esplorazione dei
lobi tiroidei.
INTERVENTO
Esistono due livelli di radicalità:
- Paratiroidectomia subtotale: prevede l’asportazione di tutte le paratiroidi eccetto un frammento di tes-
suto paratiroideo prelevato dalla ghiandola (quella che sembra meno iperplastica) e che viene lasciato in
sede con una clip o un punto di prolene (in modo tale da riconoscerlo in caso di recidiva)
- Paratiroidectomia totale: prevede l’asportazione di tutte e quattro le paratiroidi, la più piccola viene
divisa in frammenti e criopreservata. Successivamente, alcuni di questi frammenti vengono innestati (au-
totrapianto) in piccole tasche a livello del muscolo brachio-radiale del braccio. Dopo un mese i frammenti
impiantati ricominciano a funzionare con produzione del PTH (i frammenti vengono impiantati nel brac-
cio in modo che, se il paziente andasse incontro a una ripresa dell’ipercalcemia, l’intervento si più agevole
ed eseguibile in anestesia locale).
Negli ultimi 15 anni è stata introdotto il dosaggio intraoperatorio del PTH al fine di valutare la corretta aspor-
tazione della lesione (normalmente i valori del PTH dovrebbero normalizzarsi al fine di considerare l’aspor-
tazione correttamente avvenuta). Attualmente le principali tecniche chirurgiche sono:
- Chirurgia open mini-invasiva: si esegue tramite un’incisione di 3 cm e l’utilizzo di un complesso sistema
di divaricatori e luci sul campo operatorio; prevede l’utilizzo di occhiali a ingrandimento con visione 3D
- Chirurgia videoassistita: attraverso un'incisione mediana di 1,5-2cm e l'utilizzo della telecamera;
- Chirurgia videoscopica: l’intervento avviene dopo aver insufflato gas attraverso utilizzo di trocar (au-
mento del tempo chirurgico con possibili disagi conseguenti all’insufflaggio dei gas);

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La paratiroidectomia dura circa 45-60 min e comporta una degenza di 24/48h; la percentuale di successo è
pari al 99% (mortalità 0,2%, morbilità 0,5%). Le principali complicanze sono:
- Recidiva: 4% (2% se adenoma singolo, 15% se multighiandolare) a causa di
• Inesperienza del chirurgo
• Anomalie ghiandolari (paratiroidi ectopiche)
• Malattia multighiandolare
• Carcinoma
- Sanguinamento (complicanza più frequente)
- Insuccesso (intervento complicato, vedi prima)
POST-INTERVENTO
Dopo l’intervento chirurgico, è possibile che la calcemia non diminuisca delineando due scenari
- Malattia persistente: ipercalcemia che non diminuisce dopo l'intervento chirurgico
- Malattia recidivante o ricorrente: ipercalcemia che ricompare >6 mesi di normocalcemia dopo l'inter-
vento chirurgico.
In questi casi è necessario rivalutare tutte le indagini preoperatorie, rivedere l'atto operatorio e rivalutare i
preparati istologici precedentemente prelevati, il PTH intraoperatorio e la criopreservazione.
ALTERNATIVE ALLA CHIRURGIA
Le principali alternative alla chirurgia (caratterizzate però da alte percentuali di insuccesso) sono:
- Alcolizzazione
- Embolizzazione
- Radioterapia
- Ablazione con radiofrequenze (basse percentuali di successo).

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17/11/2021 – Chirurgia generale
Dott.sa Paola Salusso
Sbobinatrice: Alice Magnino
Revisora: Erica Leila Ahngar Fabrik

PATOLOGIA E CHIRURGIA DELLA MAMMELLA

ANATOMIA DELLA MAMMELLA


La mammella è formata da tre componenti:
1. COMPONENTE GHIANDOLARE è
costituita da 15-20 lobi, ognuno dei quali
sbocca nei dotti galattofori che
convogliano il secreto a livello del
capezzolo.
2. COMPONENTE ADIPOSA (quantità
soggetta a variabilità individuale) in cui
sono inserite ed immerse le strutture
ghiandolari.
3. COMPONENTE FIBROSA O STROMA:
corrisponde all’apparato sospensore della
ghiandola. La mammella è composta da
una fascia superficiale posta davanti al
muscolo grande pettorale. Essa si
inserisce superiormente sulla clavicola e si
sdoppia in una parte:
- Profonda, che giace sul muscolo
grande pettorale;
- Superficiale, a livello
sottocutaneo. Da questa
porzione prendono origine dei
sepimenti fibrosi, detti legamenti
sospensori di Cooper, che costituiscono lo scheletro fibroso della mammella (contenuta tra
questi due foglietti). Le strutture fibrose dividono la componente ghiandolare in lobi, lobuli e
acini.
L’ aspetto della fascia varia in rapporto alla ghiandola:
- La fascia intralobulare e periduttale è la fascia di Cooper propriamente detta;
- La fascia interlobulare e segmentaria è densa e reticolare, ricca in tessuto adiposo e in fibre
elastiche;
- La fascia lobulare è la componente più vascolarizzata.
Lo stroma lobulare e probabilmente quello periduttale sono sotto controllo ormonale.

301
La mammella, nella pratica clinica, viene suddivisa in quattro quadranti (+1)
da due linee perpendicolari passanti per il complesso areola-capezzolo:
- QSE quadrante superiore esterno (Q1) che si continua nel
prolungamento ascellare. [Dalle sbobine 2020/2021: Q6 è il
prolungamento ascellare e contiene il linfonodo sentinella (prima
stazione linfonodale).]
- QSI quadrante superiore interno (Q2);
- QIE quadrante inferiore esterno (Q3);
- QII quadrante inferiore interno (Q4);
- “complesso areola capezzolo” (CAP, Q5).

Complesso areola-capezzolo
Il capezzolo è una sporgenza esterna di forma conica, nella cui regione apicale sono presenti 15-20 pori
galattiferi che drenano nei dotti galattofori. È circondato dall'areola, una regione circolare pigmentata con
delle piccole sporgenze (tubercoli di Montgomery), dovute alla presenza sottostante di ghiandole sebacee,
dette anche ghiandole areolari. Sia il capezzolo che l'areola sono dotati di fibre muscolari lisce, circolari e
radiali, che vanno a costituire i muscoli areolari.

TDLU
Al suo interno la mammella è formata
anatomicamente da 15-20 lobi, ciascuno dei quali è
composta da più lobuli e da un dotto principale, il
quale si apre nel capezzolo e si ramifica nella sua
parte finale, formando l’unità terminale dutto-
lobulare (UTDL). Quest’ultima è quindi formata da:
- dotto terminale extralobulare;
- lobulo, a sua volta composto da più acini e
dal dotto terminale intralobulare. Il secreto
viene generato negli acini (o duttuli) per
essere convogliato nel dotto terminale
intralobulare e poi in quello extralobulare.
Il lobulo è formato da acini (o duttuli) e dal dotto
terminale intralobulare.
La TDLU è l’unità funzionale della ghiandola
mammaria e la sede anatomica più frequentemente
colpita da neoformazioni benigne e maligne. La
mammella si adagia sulla parete toracica e, dalla
superficie alla profondità, si riscontrano
rispettivamente:
 Fascia del muscolo pettorale
 Muscolo grande pettorale
 Muscolo piccolo pettorale
 Muscolo dentato anteriore

302
ISTOLOGIA
Le ghiandole mammarie sono ghiandole esocrine:
- di tipo apocrino (cioè costituite prevalentemente da sostanza lipidica);
- di tipo merocrino (contenente la proteina caseina).
Ogni lobulo comprende gli acini che fungono da unità secernenti e sono rivestiti da epitelio cubico semplice,
il quale poggia su una membrana basale all’interno della quale sono intercalate le cellule mioepiteliali
responsabili della progressione del secreto attraverso dotti di calibro progressivamente crescente.
Durante il tragitto, l’epitelio passa da essere cubico semplice nei dotti alveolari a pluristratificato non
cheratinizzato nei dotti galattofori.

DRENAGGIO LINFATICO
Conoscere le vie di drenaggio linfatico è importante per
il trattamento dei tumori mammari. I vasi linfatici della
mammella, infatti, drenano lungo tre direttrici maggiori:
- Ascellare (il più importante);
- Transpettorale;
- Mammaria interna;
Lungo queste vie sono presenti le stazioni linfonodali di
maggiore interesse.
I linfonodi mammari interni sono posti negli spazi
intercostali, lungo il margine laterale dello sterno,
all’interno della fascia endotoracica.
I linfonodi sovraclaveari sono invece situati nella fossa
sovraclaveare, in un’area triangolare delimitata da:
- muscolo omoioideo e il suo tendine (bordo
laterale e superiore);
- la vena giugulare interna (bordo mediale);
- clavicola e la vena succlavia (bordo inferiore).
I linfonodi adiacenti ma posti al di fuori di questo triangolo
sono i linfonodi cervicali inferiori (M1) e qualora fossero
interessati da infiltrazione tumorale si parlerà di metastasi
a distanza.
I linfonodi ascellari sono, invece, suddivisi in tre livelli in
base alla loro posizione rispetto al muscolo pettorale:
 Livello I (ascella inferiore): comprende i linfonodi
posti lateralmente al bordo laterale del muscolo
piccolo pettorale.
 Livello II (ascella intermedia): costituito dai
linfonodi compresi tra i margini mediale e laterale
del muscolo piccolo pettorale e i linfonodi
interpettorali (di Rotter).
 Livello III (apice ascellare): formato dai linfonodi
situati medialmente al margine mediale del
muscolo piccolo pettorale (compresi quelli
designati come apicali).
Quando si effettua una dissezione ascellare solitamente ci
si ferma al primo e al secondo livello ma qualora si volesse
procedere con lo svuotamento del cavo ascellare, verrà
interessato anche il terzo livello.

303
VASCOLARIZZAZIONE
La mammella presenta una duplice
vascolarizzazione:
 Superficiale, che veicola il sangue alla
cute sovrastante la ghiandola;
 Profonda, destinata propriamente
alla ghiandola mammaria.
La vascolarizzazione arteriosa è garantita dai
rami dell’arteria ascellare e della toracica
laterale, le quali raggiungono tutto il
territorio laterale della mammella e il corpo
ghiandolare. Quest’ultimo riceve sangue
anche dai rami dell’arteria toracica interna,
mentre le arterie intercostali vanno a
costituire una fitta rete vascolare a livello
della superficie della mammella e nei setti
connettivali.
La rete venosa sottocutanea è composta
superiormente da:
- vena giugulare esterna;
- vena cefalica;
- vena epigastrica superficiale;
- vena sternale laterale;
mentre inferiormente dalle vene superficiali dell’addome. I vasi venosi profondi, infine, si aprono nelle vene
intercostali.

INNERVAZIONE
I nervi destinati alla cute derivano dai nervi
intercostali (dal 2° al 6°) mentre l’innervazione
motoria e sensitiva del cavo ascellare e della parete
toracica laterale è di pertinenza dei rami del plesso
brachiale.
Questo è fondamentale perché durante un intervento
chirurgico sulla mammella si possono determinare
delle lesioni nervose a tale livello, con conseguenti
deficit sensitivi e motori. Se a questo si accompagna
una dissezione del cavo ascellare possono comparire
delle alterazioni della sensibilità a braccio,
avambraccio e parete toracica.
Se vengono lesi i nervi motori del cingolo scapolo-
omerale (ad esempio durante una mastectomia),
come il nervo toracico lungo, si può causare un
quadro clinico di scapola alata iatrogena. Esso deriva dalle terminazioni nervose
di C5, C6, C7 e decorre nella porzione laterale della parete toracica. Il capezzolo
contiene, infine, un fitto plesso sensitivo ricco di terminazioni libere (dischi di
Merkel) e corpuscolate (corpuscoli di Meissner), estremamente importanti ai fini
della trasmissione degli stimoli nervosi durante la suzione.

304
AZIONE ORMONALE
La mammella è sottoposta ad uno stimolo
ormonale importante, soprattutto durante la
gravidanza, la quale incide profondamente
sulla struttura macroscopica e microscopica
della ghiandola. Infatti:

- Nel I trimestre si registrano delle iniziali


variazioni del tessuto epiteliale.
- Nel II trimestre si assiste ad una vera e
propria modificazione della ghiandola
mammaria definita adenosi della
gravidanza. In questo caso gli elevati
livelli di estrogeni, progesterone e PRL circolanti determinano un aumento delle dimensioni dei lobuli
a causa di un’iperplasia degli acini lobulari, molti dei quali si riempiono di secreto, a cui segue una
riduzione della componente adiposa.
- Nel III trimestre si denota anche una riduzione del tessuto fibroso, con un rapporto ghiandola-tessuto
fibroso/adiposo a favore della componente ghiandolare.
- Dopo il parto, l’adenoipofisi rilascia una grande quantità di PRL, che rappresenta il principale stimolo
all’allattamento, mentre la neuroipofisi secerne ossitocina, la quale agisce sulle cellule mioepiteliali.
Quest’ultime si allungano e, in risposta all’ossitocina, si contraggono per consentire il passaggio del
latte verso i dotti. La stimolazione tattile proveniente dal capezzolo sembra essere il segnale
fisiologico per il proseguimento della secrezione di prolattina e di ossitocina, ragione per cui è
fondamentale attaccare subito al seno il neonato.
- Alla fine dell’allattamento si verifica una caduta della prolattina e dell’ossitocina che porta
all’involuzione delle strutture ghiandolari e alla riduzione del volume della mammella che, a causa
della permanente dilatazione dei tubuli, non ritorna quasi mai alle dimensioni originarie.

PATOLOGIA MAMMARIA BENIGNA


La classificazione del 2018 suddivide la patologia mammaria benigna in quattro grandi classi:

305
LESIONI NON PROLIFERATIVE
La maggior parte sono lesioni cistiche. Un tempo ci si riferiva a questo tipo
di patologia con il termine mastopatia fibro-cistica ma attualmente il
termine è desueto ed è stato sostituito dall’espressione mammella
irregolarmente nodulare. Le cisti possono essere:
 MACROCISTI, dunque palpabili;
 MICROCISTI, evidenziabili in ecografia.
Derivano da uno stimolo ormonale importante, motivo per cui vengono
spesso riscontrate in donne in età fertile (35-50 aa) o in donne con età>50
anni, ma in TOS.
Clinica: si presenta come una tumefazione teso-elastica, liscia e con fluttuazione. L’aspirazione della cisti
non è necessaria di routine ma può essere utile se le tumefazioni sono dolorose o di grosse dimensioni.
Qualora si rilevi la presenza di sangue nell’aspirato è mandatorio eseguire un esame citologico.
Classificazione ecografica: suddivide le cisti in:
 SEMPLICI: le quali hanno una parete ben definita con assenza di echi interni;
 COMPLESSE: fornite di una parete spessa, con bordi irregolari ed echi interni per detriti e per la
presenza di setti. Le cisti complesse meritano sempre un approfondimento con mammografia
seguita eventualmente da un agoaspirato con biopsia delle irregolarità interne, poiché possono
essere precursori di carcinoma;
 COMPLICATE: sono caratterizzate da echi interni per la presenza di detriti, ma non sono presenti i
setti, né ispessimenti o irregolarità dei bordi.

LESIONI PROLIFERATIVE SENZA ATIPIA

FIBROADENOMA
È una lesione dell’unita terminale duttulo-
lobulare “bifasica”, perché costituita da
elementi cellulari e stromali (origine dallo
stroma intralobulare).
Talvolta i fibroadenomi contengono cisti,
adenosi sclerosanti, calcificazioni e una
modificazione apocrina papillare.
Fisiopatologia: sono lesioni sensibili alle
concentrazioni di estrogeni, per cui si
presentano nel corso della vita fertile ed è
noto anche un’associazione con l’assunzione
di ciclosporina A nelle donne sottoposte a
trapianto di rene (in tal caso sono spesso
multipli e bilaterali).
Trattamento: il fibroadenoma non sempre
viene operato, ma quando si ha indicazione chirurgica è sempre di tipo conservativo perché è una lesione
quasi sempre benigna perciò ci si deve limitare ad asportare esclusivamente il fibroadenoma con la minor
quantità possibile di tessuto adiposo e ghiandolare circostante per poter ottenere anche un miglior risultato
estetico.

306
TUMORE FILLOIDE
Viene così denominato perché forma delle protrusioni polipoidi e delle fenditure attorno al tessuto
circostante, che ricordano i profili delle foglie. Origina dallo stroma intralobulare ed è pseudocapsulato e si
riconoscono tre varianti istologiche distinte sulla base dell’atipia delle cellule stromali, dell’attività mitotica,
e margini (circoscritti/infiltrativi) in:
- benigno (di basso grado);
- maligno (di alto grado);
- borderline (di grado intermedio);

ADENOSI SCLEROSANTE
È una lesione caratterizzata dalla distorsione dell’architettura epiteliale, mioepiteliale e stromale che
coinvolge l’unità terminale duttulo-lobulare.

RADIAL SCAR
È una lesione iperplastica benigna caratterizzata da un’area centrale di elastosi dalla quale si irradiano
strutture duttali e tubulari. Difficilmente si riesce a distinguere mammograficamente da un carcinoma e può
avere una possibile relazione patogenetica con quest’ultimo. Alla mammografia la radial scar appare come
una lesione stellata, distorta, con strie radiali tipicamente lunghe e sottili, a differenza del carcinoma dove
sono più corte e tozze (non è comunque facile notare questa distinzione) e un altro elemento distintivo – se
presente – è la minore densità della zona centrale rispetto alla periferia, differenza legata all’elastosi che
invece manca nel carcinoma.

PAPILLOMA
È una lesione benigna che in genere compare negli ultimi anni di vita fertile e nel post-menopausa (età media
di presentazione 48 anni). Per quanto non siano ancora ben comprese e pur trattandosi di condizioni benigne,
la loro importanza risiede nella possibile associazione con il carcinoma, soprattutto laddove coesistano
atipie. In La sede di riscontro più tipica sono i seni galattofori in prossimità del capezzolo e spesso compaiono
più lesioni nella profondità del sistema duttale.
Clinica: è accompagnato quasi sempre dalla secrezione dal capezzolo che può essere sierosa, siero- ematica
o francamente ematica. È indispensabile, quindi, eseguire l’esame citologico e altri approfondimenti
radiologici come:
- Ecografia: in cui si osserva la presenza di una massa ben definita, ipoecogena, all’interno di un dotto
ectasico o di una cisti.
- Duttogalattografia: esame in cui si inietta del mezzo di contrasto all’interno dei dotti e
successivamente si fa una valutazione radiografica. In questo modo si identifica il classico difetto di
riempimento all’interno dei dotti dove è presente il papilloma che si sta formando.

307
TUMORE DELLA MAMMELLA
Incidenza
Questi dati derivano dalla terza edizione del Cancer Atlas e
mostrano l’incidenza di tutti i tumori del mondo nel 2018. In
termini di entità del problema di salute, il tumore della
mammella si colloca al secondo posto dopo il tumore del
polmone, con 15 milioni di nuove diagnosi (fascia rosa),
superando l’incidenza mondiale del tumore del colon.
Nel 2040 è previsto un aumento dell’incidenza annuale fino
a 17 milioni di casi all’anno in tutto il mondo ed è un
problema di salute che sta continuando a crescere a causa
dell’aumento dell’esposizione ai fattori di rischio, ma
l’incidenza è anche correlata all’adesione alle campagne di
screening in tutto il mondo. Questo non è affatto un cattivo
segno perché l’obiettivo finale dello screening è di ridurre la
mortalità facendo diagnosi precoce.

In Italia
Nel 2020 è stato presentato il dato
riguardante “I numeri del cancro in Italia
2020” che deriva da un censimento nazionale
volto a valutare l’incidenza di tutti i tumori in
Italia, grazie al lavoro dell’Associazione
Italiana di Oncologia Medica (AIOM),
dell’Associazione Italiana Registri Tumori
(AIRTUM), della Società Italiana di Anatomia Patologica e di Citologia Diagnostica (SIAPEC-IAP), della
Fondazione AIOM, PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia) e PASSI d’Argento.

308
Il tumore più frequentemente diagnosticato nel 2020 è stato il carcinoma della mammella (54.976 casi).
La sopravvivenza a 5 anni nelle donne in Italia è pari all’87%, abbastanza in accordo con quanto capita negli
USA dove è stata stimata essere del è del 90,3% tra il 2011 e il 2017 .
Si conferma una diminuzione della mortalità per carcinoma mammario (meno 6% dal 2015 al 2020),
attribuibile alla maggiore diffusione dei programmi di diagnosi precoce e ai progressi terapeutici.

Fattori di rischio
Nel grafico a fianco sono elencati 12
modi per ridurre il rischio di
sviluppare qualsiasi tipo di tumore
secondo The Cancer Atlas.

I fattori di rischio specifici per la


mammella sono:
 Età: questa correlazione
potrebbe essere legata al
continuo e progressivo
stimolo proliferativo
endocrino che subisce
l’epitelio mammario nel
corso degli anni unito al
progressivo
danneggiamento del DNA
e all’accumularsi di
modificazioni epigenetiche che alterano l’equilibrio tra oncogeni e geni soppressori.
La curva di incidenza cresce esponenzialmente sino agli anni della menopausa (intorno a 50-55 anni),
poi rallenta con un plateau dopo la menopausa, per poi riprendere a salire dopo i 60 anni. Questo
specifico andamento è legato sia alla storia endocrinologica della donna sia alla copertura dei
programmi di screening mammografico. La probabilità di sviluppo di cancro della mammella è del
2,3% fino all’età 49 anni (1 su 43 donne), del 5,4% nella fascia di età 50-69 anni (1 su 18 donne) e
del 4,5% nella fascia di età 70-84 (1 su 22 donne).
 Lunga durata del periodo fertile, ovvero un’abbondante esposizione all’attività estro-progestinica
per lungo tempo.
 Nulliparità, prima gravidanza a termine dopo i 30 anni e mancato allattamento al seno.
 ipertensione arteriosa;
 ipercolesterolemia o ipertrigliceridemia
 Fattori dietetici e metabolici: in particolare è correlato con il diabete insulino-resistente e
l’iperinsulinismo. [Dalle sbobine 2020/2021:
o assunzione di alcool e di grassi animali;
o obesità addominale in menopausa o sindrome metabolica,
Questi fattori sono ormai ben riconosciuti per i tumori in post-menopausa e la correlazione tra
l’indice di massa corporea (BMI) e il rischio di sviluppare il tumore della mammella, soprattutto in
periodo post-menopausale, appare influenzata dai livelli di estrogeni totali e dal grasso addominale.
Qui è presente la leptina (che aumenta nelle persone obese), ormone in grado di aumentare l’attività
dell’aromatasi presente negli adipociti, la quale converte l’androstenedione surrenalico in estrone.
L’aumento di leptina è fonte di un incremento degli estrogeni tant’è che nelle donne in post-
menopausa con recettori ormonali positivi viene spesso somministrato è l’inibitore dell’aromatasi.
Ilcontrollo del peso e il ruolo della dieta nella prevenzione di tipo primario del cancro della mammella
sono fondamentali ed è raccomandato ridurre:

309
- l’apporto calorico e il consumo di alimenti con alto indice glicemico, come le farine raffinate,
le patate, il riso bianco, i fiocchi di mais, lo zucchero, privilegiando alimenti dal potere saziante
come cereali integrali, legumi, verdure.
- l’utilizzo di grassi saturi a favore invece di grassi vegetali non raffinati, come l’olio extravergine
e l’olio evo e i semi oleaginosi.
- l’apporto di proteine di origine animale, a eccezione del pesce, sostituendole con proteine
vegetali (soia), anche per prevenire l’insorgenza di altri tipi di tumore.
L’alimentazione è una grossa fonte di studi in questo periodo. Da poco è iniziato uno studio con la
Breast Unit della Città della Salute per valutare il ruolo della dieta in chi fa chemioterapia prima
dell’intervento chirurgico, perché le prime evidenze suggeriscono che ridurre nettamente l’introito
calorico nel giorno precedente, durante la terapia e il giorno successivo aumenti l’efficacia delle cure.
Lo studio sta arruolando delle pazienti in braccio doppio cieco per capire se questa evidenza teorica
ha realmente una base. Anche l’attività fisica è estremamente importante: sembra che riduca le
recidive di tumore della mammella. Questa ipotesi è stata portata avantiin epoca precovid dalle
associazioni per dare la possibilità alle pazienti operate di fare attività fisica o di seguire corsi di
alimentazione ma lo studio non è stato portato avanti.
 TOS e terapia estro-progestinica;
 Radioterapia toracica e precedenti displasie o neoplasie mammarie.
[Dalle sbobine 2020/2021: le pazienti che in età giovanile avevano avuto un linfoma e venivano
sottoposte a radioterapia a mantellina della parete toracica oggi seguono un programma di
sorveglianza promosso dalla Città della Salute e vengono testate ogni anno e a partire dai 30 anni.]
 MUTAZIONI EREDITARIE: sono correlate al 5-7% di tutti i tumori della mammella e i geni
principalmente responsabili sono:
o BRCA 1-2
o ATM, CHEK2
o PALB2
o Sindrome di Li-Fraumeni p53
o Sindrome di Cowden PTEN
o Sindrome di Peutz-Jeghers
Il sospetto clinico deve insorgere soprattutto quando si è di fronte ad una donna giovane con un
tumore della mammella. Questo sospetto deriva anche da un’interazione stretta tra le figure
(chirurgo, oncologo e genetista) che coinvolgono una donna affetta da carcinoma della mammella
con mutazione genetica e ruolo fondamentale ce l’ha il genetista. Il quale opera il counselling
genetico e decide se effettuare o meno l’indagine molecolare per permettere:
 diagnosi in stadio precoce;
 avviare una chirurgia profilattica o chemio-prevenzione;
 ridurre il rischio di recidive nelle pazienti sopravvissute al primo cancro;
 individuare i familiari affetti da mutazioni per coinvolgerli in protocolli di sorveglianza
efficaci;
 ridurre la mortalità per tumore della mammella nei familiari a rischio del 60-70%.

310
Screening nazionale/regionale
Lo screening mammografico è
un’attività di prevenzione
secondaria periodica rivolta a
donne asintomatiche col fine di
effettuare una diagnosi di
carcinoma mammario in stadio
precoce, di offrire trattamenti
meno aggressivi e più efficaci e
di ridurre la mortalità.
La mammografia è tuttora
ritenuto il test più efficace in
tutte le linee guida e lo
screening viene fatto sulla
popolazione a rischio:
questa modalità è preferibile rispetto a quella spontanea e la tecnica digitale (digital mammography, DM)
supera la mammografia analogica (film-screen). In Italia, i programmi di screening mammografico prevedono
l’esecuzione di una mammografia ogni due anni nelle donne tra i 50 e i 69 anni, con delle piccole variazioni
in alcune regioni in cui ad esempio lo screening viene effettuato fino all’età di 74 anni o viene esteso a donne
tra 45 e 49 anni con mammografia annuale.
Quest’ultima è una tecnica 2D che permette l’identificazione di
caratteristiche morfologiche sospette per tumore della
mammella ma non fa diagnosi, per cui la donna verrà
eventualmente ricontattata per eseguire degli accertamenti
diagnostici. Le caratteristiche morfologiche rilevanti sono:
 Masse
 Calcificazioni (micro/macro)
 Asimmetria
 Aree con distorsione architetturale
Lo screening mammografico prevede due proiezioni:
 Medio-laterale-obliqua (MLO);
 Craniocaudale (CC) di entrambe le mammelle.

Nel corso del 2019 sono state pubblicate le nuove Linee guida
europee per lo screening mammografico redatte dalla European
Commission Initiative on Breast Cancer (ECIBC15). Si hanno diverse forze di raccomandazione per lo screening
a seconda delle diverse fasce di età.

Prevenzione Serena
Prevenzione Serena si rivolge alle donne residenti o domiciliate in Piemonte, di età compresa tra 45-75 anni,
su scelta del medico di medicina generale e con le seguenti modalità:
 per le donne tra i 45 e i 49 anni non è previsto un programma di screening di popolazione, per cui
non ricevono il primo invito. Queste persone possono però aderire spontaneamente, contattando il
centro di screening della propria zona di residenza o rivolgersi al CUP della propria ASL per prenotare
la mammografia ed essere inserite nel programma. Dopo il primo accesso spontaneo, queste donne
verranno inserite nel programma di screening ed invitate ogni anno fino ai 49 anni e poi ogni 2 anni
fino ai 69 anni.

311
 alle donne tra i 50 e i 69 anni (popolazione a rischio) viene inviata una lettera di invito, con
appuntamento prefissato, a firma del proprio medico di famiglia. L’intervallo di tempo stabilito tra
un test con esito negativo e il successivo è 2 anni.
 alle donne tra i 70 e i 75 anni non viene inviata la lettera di invito, ma possono continuare a
partecipare al programma aderendo spontaneamente. L’intervallo previsto tra una mammografia
con esito negativo ed il successivo è di due anni.

Diagnosi
Può prevedere:
- Autopalpazione è una metodica che permette di sospettare una patologia a livello della mammella.
- Anamnesi accurata: ponendo attenzione alla familiarità per indirizzare eventualmente la paziente
verso un counselling genetico.
- Esame obiettivo
- Indagini di laboratorio (biomarcatori CEA, Ca 15.3)
- Ecografia mammaria: molto importante soprattutto in giovani donne con mammelle più fibromatose
e dense. [Dalle sbobine 2020/2021: L’ecografia è un esame di completamento, ma non è detto che
le lesioni possano vedersi, anche se rare volte possono essere evidenziate all’ecografia ma non in
mammografia; pertanto, prima di portare su un tavolo operatorio la paziente è fondamentale avere
sia la mammografia 3D sia l’ecografia.]
 Mammografia
 Tomosintesi: esame diagnostico raccomandato dalle linee guida ECIBC come tecnica di approfondimento
nei casi di sospetto clinico e di richiamo allo screening. Essa permette di eseguire delle scomposizioni a
strati sottili di 0,5 mm di spessore del tessuto mammario, ottenute da diverse angolazioni. DBT ha il
potenziale di superare i limiti della mammografia 2D standard perchè:
o riduce la sovrapposizione di ombre e tessuto fibro-ghiandolare;
o aumenta l’accuratezza diagnostica, differenziando caratteristiche benigne e maligne;
o aumenta la visibilità delle lesioni, in particolare nelle mammelle con tessuto più denso.
Molti studi retrospettivi e prospettici hanno dimostrato che è una tecnica accettabile per le donne, in
quanto aumenta sì la dose radiante del 20% ma incrementa la diagnosi di tumore di circa il 15-30%.
[Dalle sbobine 2020/2021: La mammografia attualmente è fatta in 3D e la tecnica di tomosintesi applicata
alla mammografia dà informazioni decisamente più esaustive della classica 2D. I programmi di screening
in Piemonte hanno quasi tutti la 3D, ma in alcune parti possono ancora non averla. È importante, nel
momento in cui si valuta una paziente, sapere che tipo di mammografia ha fatto (3D o 2D), perché con
quest’ultima alcune lesioni possono sfuggire alla vista.]
 FNA – citologico: la classificazione citologica suddivide il reperto da C1 a C5.
[Dalle sbobine 2020/2021: viene ancora fatto da qualche parte, ma le informazioni che fornisce sono
decisamente poco adeguate e importanti.]
 Biopsia mammaria che può essere effettuata in
diversi modi:
o Agobiopsia con ago sottile (FNA)
o Agobiopsia “core biopsy”:
 con ago automatico
 vacuum assisted (Mammotome)
 A.B.B.I.
[Dalle sbobine 2020/2021: Con la core biopsy
si possono determinare anche i fattori
biologici e prognostici, ormai fondamentali e
imperativi: recettori per gli estrogeni e per il
progesterone, il fattore di amplificazione

312
genica HER2 e l’indice di proliferazione Ki67. La biopsia del radiologo può essere effettuata su guida
palpatoria, ecografica, stereotassica (mammografia tradizionale o vacuum assisted) o con risonanza
magnetica (quest’ultima è fatta in pochi posti in Italia e non in Piemonte).
B3: è una categoria in cui risiedono molte definizioni radiologiche. Alcune sono a bassissimo sospetto,
tanto che si può decidere di non portarle all’intervento chirurgico; altre sono fortemente sospette e
devono essere biopsate chirurgicamente oppure si deve ripetere il prelievo, magari con degli aghi
molto più grandi e sotto tecnica vacuum, che dà dei frustoli decisamente migliori con la possibilità di
fare una diagnosi preoperatoria.]

Donne ad alto rischio


Le donne ad alto rischio vengono definite se presentano:
• mutazione BRCA1 o BRCA2
• lifetime risk 20–25% (Donne con rischio di sviluppare un tumore della mammella nei futuri 5 anni ≥
1.66% secondo il modello statistico di Gail o con un rischio > 8% a 10 anni nella decade 40-50 o >30%
lifetime secondo il modello Tyrer-Cuzick)
• sindrome di Li-Fraumeni, Cowden
• pregressa radioterapia toracica tra i 10 e i 30 anni
In questi casi i controlli strumentali vengono iniziati all’età di 25 anni o 10 anni prima dell’età di insorgenza
del tumore nel familiare più giovane. Per questo motivo non trova indicazione la mammografia come
metodica di screening, ma la Risonanza Magnetica Mammaria (RM) con mezzo di contrasto (MdC) a cadenza
annuale. In queste donne si può optare per la chemioprevenzione, per lo screening annuale o per la chirurgia
profilattica: non esistono linee guida perché la scelta dipende dalla volontà della paziente.

Chemioprevenzione
In Italia, con la determina del 29.11.2017, AIFA ha inserito:
- il tamoxifene nell'elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale
istituito ai sensi della legge 23 dicembre 1996, n. 648, per il trattamento preventivo del carcinoma
mammario in donne ad alto rischio.
- Il raloxifene, anch’esso erogabile gratuitamente per il trattamento preventivo del carcinoma
mammario soltanto in donne in postmenopausa ad alto rischio.
Ad oggi l’indicazione all’uso degli inibitori dell’aromatasi per la chemioprevenzione del cancro della
mammella non è registrata in alcun Paese ed il loro utilizzo è quindi off-label.

Genetica del tumore


In seguito alle analisi dell’espressione genica mediante metodica di “microarray” che hanno identificato una
“intrinsic gene list” di 496 geni, sono stati individuati quattro sottotipi di carcinomi invasivi, differenti sia in
termini di prognosi sia in termini di risposta alle terapie:
- Luminali A:
o recettori estrogenici e progestinici positivi con valore di positività superiore al 20%. La
positività ormonale di un tumore correla con la probabilità che esso risponda ad
un’ormonoterapia.
o HER2 negativo
o basso Ki67 (cut off 20% e non più 14% come riportato nella Consensus 2009 Saint Gallen)
Tumori tipici della donna in post-menopausa con sindrome metabolica.
- Luminali B
o HER2 negativi:
 recettori ormonali positivi
 HER2 negativo
 Alto Ki67 > 20%

313
o HER2 positivi:
 recettori ormonali positivi
 HER2 sovraespresso (score 3+ delle reazioni di immunoistochimica) o amplificato
 qualsiasi valore di attività proliferativa/Ki677
- HER2 positivi (non luminali):
o HER2 sovraespresso (score 3+ delle reazioni di immunoistochimica) o amplificato (FISH o
altre metodiche): anche in questo caso la positività di HER2 permette il trattamento con una
target therapy.
o entrambi i recettori ormonali negativi
- Triplo-negativi (basal like): beneficiano della chemioterapia neoadiuvante. [Dalle sbobine
2020/2021: Si stanno studiando schemi di terapia sempre più aggressivi per aumentare la
percentuale di risposta patologica completa].
o assenza di espressione dei recettori ormonali
o negatività di HER2

I luminali A sono carcinomi a esito favorevole rispetto ai Luminali B


mentre quelli HER2 positivi e Basal-like hanno prognosi peggiore rispetto
a tutti i sottogruppi.
Nella pratica clinica, la valutazione immunoistochimica dello stato dei
recettori ormonali, del Ki67 e di HER2 permette di identificare in maniera
surrogata i 4 sottogruppi fenotipici di carcinoma mammario che
presentano una “relativa” corrispondenza con i 4 derivati dai profili di espressione genica.
[Dalle slide: All’interno di questi sottotipi esiste un’elevata eterogeneità. Alla luce delle nuove conoscenze
patologiche e molecolari vi è una definizione di ulteriori sottotipi di carcinoma mammario: è stato ad esempio
identificato un altro sottogruppo di neoplasie con assenza di espressione dei recettori ormonali e di HER2,
ma con markers di cellule staminali, bassa espressione di claudine (proteine di giunzione cellula-cellula) e
infiltrato linfocitario di accompagnamento alla crescita tumorale, definito “claudin low” e caratterizzato da
cattiva prognosi. Inoltre, un’analisi dell’espressione genica di 587 carcinomi mammari triplo negativi ha
permesso di identificare ben sei differenti sottotipi contraddistinti da una diversa biologia molecolare e da
un diverso comportamento clinico: basal like 1 e 2 (BL1 e BL2), immunomodulatory (IM), mesenchymal (M),
mesenchymal stem-like (MSL) e luminal androgen receptor (LAR).]

Classificazione anatomo-patologica
Il carcinoma invasivo o infiltrante non di istotipo speciale (no special type, NST), comunemente noto come
carcinoma duttale di tipo non altrimenti specificato (NAS), comprende il gruppo più ampio di carcinomi
invasivi della mammella (70%-80%).
Il termine NAS rappresenta una definizione che identifica un gruppo eterogeneo di carcinomi che non hanno
caratteristiche sufficienti per poterli classificare come tipi istologici speciali (così come avviene invece per
altri tumori e.g. carcinoma lobulare o tubulare).
Esistono in realtà moltissimi istotipi del tumore alla mammella:

Tumori epiteliali Tumori rari del tipo ghiandole salivari


• Carcinoma invasivo o infiltrante non di • Carcinoma a cellule a ciniche
istotipo speciale (no special type, NST) • Carcinoma adenoideo cistico
• Carcinoma tubulare • Carcinoma secretorio
• Carcinoma cribriforme • Carcinoma mucoepidermoide
• Carcinoma mucinoso • Adenocarcinoma polimorfo
• Cistoadenocarcinoma mucinoso • Carcinoma a cellule alte con polarità
• Carcinoma infiltrante micropapillare invertita
• Adenocarcinoma apocrino
• Carcinoma metaplastico

314
Neoplasie neuroendocrine Tumori fibroepiteliali e amartomi della
• Tumore neuroendocrino mammella
• Carcinoma neuroendocrino • Amartoma
• Fibroadenoma
Tumori mioepiteliali • Tumore fillode
• Adenoma pleomorfo
• Adenomio-epithelioma NAS Tumori del capezzolo
• Adenomio-epithelioma con carcinoma • Adenoma del capezzolo
• Carcinoma epiteliale-mioepiteliale • Tumore siringomatoso
• Malattia di Paget del capezzolo
Neoplasie papillari
• Papilloma intraduttale Tumori mesenchimali della mammella
• Carcinoma duttale in situ • Tumori vascolari
• Carcinoma papillare incapsulato • Tumori fibroblastici e miofibroblastici
• Carcinoma papillare incapsulato con • Tumori dei nervi periferici
invasione • Tumori del muscolo liscio
• Carcinoma solido-papillare in situ
• Carcinoma solido-papillare con invasione • Tumori del tessuto adiposo
• Adenocarcinoma intraduttale papillare • Altri tumori mesenchimali e condizioni
con invasione simil-tumorali

Neoplasia lobulare non invasiva Tumori emolinfopoietici della mammella


• Iperplasia lobulare atipica Linfomi
• Carcinoma lobulare in situ NAS
• Carcinoma lobulare in situ classico Tumori della mammella maschile
• Carcinoma lobulare in situ florido • Carcinoma invasivo
• Carcinoma lobulare in situ pleomorfo • Carcinoma in situ

Carcinoma duttale in situ (CDIS) Tumori metastatici


• Carcinoma intraduttale non infiltrante
NAS Sindromi genetiche tumorali
• CDIS di basso grado
• CDIS di grado nucleare intermedio
• CDIS di alto grado nucleare
In generale per tutti i tumori si definisce una:
 classificazione clinica: fatta tramite gli accertamenti (citologico/biopsia) preoperatori;
 classificazione patologica: si ottiene per esempio dal pezzo operatorio.
Il TNM delle linee guida AIOM è quindi suddiviso in queste due classificazioni, ma per definire il T la
classificazione clinica è uguale a quella patologica.
[Sono state lette le principali voci del T, con particolare attenzione al T4d: carcinoma infiammatorio che è di
default un tumore di piccole dimensioni, ma quando è presente è T4.]

315
Fattori prognostici e predittivi
I fattori prognostici sono correlati alla sopravvivenza del paziente, mentre
quelli predittivi alla eventuale efficacia di un trattamento antitumorale.
[Dalle sbobine 2020/2021: Attualmente le lesioni che hanno una dimensione
superiore ai 2 cm devono essere sottoposte ad una valutazione dei fattori
biologici perché ci può essere l’indicazione ad una chemioterapia
neoadiuvante. Questa è nata come una terapia che potesse permettere una
chirurgia di salvataggio nelle forme molto estese. Successivamente si è passati
a considerare questo tipo di intervento in persone che non volevano fare una
mastectomia e che potevano beneficiare di una risposta chemioterapica prima
di una chirurgia di tipo conservativo. Queste due opzioni sono attualmente
valide, ma esiste un’altra situazione molto più frequente, caratterizzata
dal fatto che le lesioni superiori ai 2 cm possano essere positive per il
fattore di amplificazione per l’HER2, perciò possono beneficiare di una
chemioterapia neoadiuvante con risposta completa. Questo è un dato
prognostico estremamente favorevole, anche se attualmente si utilizza
ancora solo per chi non ha avuto una remissione completa in seguito a
chirurgia. Ad esempio, a una paziente di 50 anni viene fatta una
chemioterapia neoadiuvante per il suo tumore di 2.5 cm e operandola si
trovano ancora 5-6 mm di malattia sul pezzo operatorio: a questo punto si può aggiungere altra terapia per
potenziare ulteriormente le sue possibilità di sopravvivenza.
I recettori ormonali per gli estrogeni e il progesterone si valutano in immunoistochimica e vengono espressi
in percentuale di cellule neoplastiche positive.
Il Ki67 è un antigene nucleare espresso in ogni fase del ciclo cellulare eccetto che in G0 e viene ricercato con
un anticorpo MIB1. Anche in questo caso ki67 è espresso in percentuale di cellule neoplastiche positive e una
paziente con tumore ki67>20% ha un tumore aggressivo, con ki67<20% ha un tumore con migliore prognosi.
L’Amplificazione genica Erb2 (Her2) è un protoncogene localizzato sul cromosoma 17 che codifica il
recettore per Epithelial Growth Factor di tipo 2. È un recettore di membrana citoplasmatica della mammella

316
e l’anatomopatologo lo andrà a cercare e dirà se Her2 è positivo o meno con immunoistochimica (score 0,
1+, 2+, 3+). Nei casi dubbi usa una tecnica di ibridizzazione in situ con fluorescenza (FISH).]

Stadiazione sistemica
Lo stadio di malattia è determinante per la gestione delle pazienti con tumore mammario primitivo,
soprattutto per quanto riguarda la stadiazione locoregionale e a distanza. Nelle pazienti con carcinoma
mammario in stadio I e II, il rischio di riscontrare metastasi asintomatiche a distanza mediante scintigrafia
ossea, ecografia epatica e radiogramma del torace è talmente basso che vi è indicazione alla sola stadiazione
locoregionale. Nella pratica clinica, tuttavia, non succede quasi mai che la paziente venga mandata al tavolo
operatorio senza aver accertato che non abbia, ad esempio, metastasi epatiche.
L’esecuzione di una TC del torace, di un’ecografia o TC dell’addome e di una scintigrafia ossea è indicata
nelle pazienti a più alto rischio di malattia metastatica asintomatica all’esordio con:
• positività clinica dei linfonodi ascellari, ovvero alla palpazione vengono rilevati dei linfonodi ascellari,
confermata poi da una biopsia;
• tumori di grandi dimensioni (superiori ai 5 cm);
• biologia aggressiva;
Stesse indicazioni sono rivolte alle pazienti sintomatiche o che presentano segni clinici (es. dorsalgia da 4-5
mesi) o di laboratorio suggestivi per la presenza di metastasi.
La PET/TC con FDG è indicata solo come approfondimento diagnostico nei casi in cui le metodiche
convenzionali sopra descritte risultino inconclusive.
La RM non viene utilizzata di routine nella stadiazione sistemica, ma può essere utile laddove vi sia:
• sospetto di lesione multifocale/multicentrica alla RM perché è la metodica che permette di studiare
in toto la mammella e la controlaterale (esempio: il carcinoma lobulare è spesso multicentrico per
cui si studia molto meglio con la RM);
• per valutare l’estensione linfonodale locoregionale;
• l’infiltrazione del muscolo pettorale;
• valutazione dell'effetto della chemioterapia neoadiuvante in previsione dell’intervento chirurgico.
La RM è lo strumento migliore per la valutazione della risposta in corso e al termine della terapia
neoadiuvante (NAC) e consente una stima più accurata rispetto a quanto dimostrabile con l’esame
clinico, la mammografia ed ecografia mammaria.
• Diagnosi differenziale di lesioni pericicatriziali;
• CUP syndrome: ricerca di carcinoma mammario occulto in pazienti con metastasi linfonodali ascellari
clinicamente palpabili e mammografia ed ecografia negative;
• Risultati equivoci alla mammografia/ecografia se non possibile la biopsia;
• Sospetto clinico o all’imaging convenzionale donne con protesi mammarie;
• [Dalle sbobine 2020/2021: È infine utilizzata nella mammella secernente, quando è presente
secrezione dal capezzolo, o se c’è una malattia di Paget, la quale è un carcinoma in situ che interessa
il capezzolo.]

Tra gli istotipi più frequenti:

CARCINOMA DUTTALE IN SITU (CDIS)


È una lesione pre-invasiva nonché un precursore non-obbligato del carcinoma infiltrante della mammella. È
caratterizzato da:
• Iperproliferazione dell’epitelio dei dotti;
• È in situ, pertanto, non vi è infiltrazione della membrana basale.
• La lesione ha spesso un centro necrotico;
• Calcificazioni abbondanti;
• Distrofia.

317
Dal punto di vista istologico vengono definiti diversi istotipi (es. cribriforme, micropapillare, papillare,
comedonico), ma solo il grado nucleare (basso, alto, intermedio) ha un impatto prognostico.
Generalmente:
- il basso grado nucleare correla con l’espressione di recettori estrogenici;
- il DCIS di alto grado nucleare e con necrosi comedonica più frequentemente possono essere HER2
positivi.
Pertanto, sia la diagnosi precoce che il management del DCIS sono critici per prevenire lo sviluppo di una
malattia infiltrante. La sua incidenza è aumentata di 4 volte dall’introduzione degli screening mammografici
e attualmente rappresenta circa il 25% di tutti i carcinomi della mammella sottoposti a trattamento. La
rilevanza della malattia è evidenziata dalla mole di lavori scientifici, con oltre 10.000 articoli pubblicati in
letteratura. Le lesioni sono tendenzialmente palpabili all’esame obiettivo e la mammografia è quasi sempre
positiva.
Trattamento chirurgico: possono essere
effettuati due tipi di terapia:
 Chirurgia conservativa +/-
radioterapia: attualmente sia per
desiderio della paziente che per motivi
estetici rappresenta la metodica
maggiormente considerata qualora il
risultato oncologico sia la radicalità
poiché sovrapponibile alla chirurgia
radicale e conservativa.
 Il ruolo della mastectomia (Skin o
Nipple-sparing) associata alla ricostruzione immediata appare assodato:
o se la malattia è troppo estesa per essere resecata conservativamente con un buon risultato
estetico;
o se vi è impossibilità di raggiungere margini di resezione negativi;
o in caso di controindicazioni alla radioterapia.
Inoltre, da pratica clinica, viene generalmente discussa anche in caso di:
- DCIS micropapillare;
- DCIS con sanguinamento sospetto dal capezzolo;
- Desiderio della paziente.
La biopsia del linfonodo sentinella in caso di diagnosi di DCIS preoperatoria non è indicata, a parte in casi
particolari:
• forte sospetto di micro-invasione (per esempio per lesioni > 1-2 cm di alto grado);
• mastectomia per lesioni estese, ovvero in presenza di multipli focolai di microcalcificazioni;
• DCIS si associ a una lesione nodulare.
È consigliabile il posizionamento di una o più clip magnetiche sul letto operatorio dopo chirurgica
conservativa per facilitare la localizzazione dell’area di resezione da parte dell’anatomo-patologo (boost
radioterapico). L’orientamento del pezzo operatorio con due o tre reperi posizionati dal chirurgo, ovvero con
inchiostramento colorato di alcune facce per direzione l’orientamento, è essenziale per una corretta analisi
istologica del caso. Nelle pazienti con carcinoma duttale in situ (DCIS) un margine di resezione >2 mm, in caso
di intervento conservativo seguito da radioterapia post-operatoria, deve essere considerato sufficiente.
Radioterapia: Nelle pazienti con carcinoma duttale in situ (DCIS) di grado alto/ intermedio il ruolo della
radioterapia dopo chirurgia conservativa come prima opzione rispetto alla sola chirurgia conservativa è
ampiamente assodato in pratica clinica allo scopo di ridurre la recidiva mammaria omolaterale (sia in situ
che infiltrante). L’incidenza di recidive locali in situ o non infiltranti tende a raggiungere un plateau dopo 10
anni dal trattamento mentre per quelle infiltranti l’incidenza rimane stabile nel tempo, sottolineando la
necessità di un follow up adeguato (almeno 10 anni) per valutare correttamente gli effetti del trattamento.

318
Nelle pazienti con carcinoma duttale in situ di basso grado, con una forza di raccomandazione positiva debole,
può essere omessa la radioterapia dopo chirurgia conservativa.
Terapia ormonale: sul pezzo istologico si va a valutare la classificazione molecolare del tumore e ad esempio,
nelle pazienti con carcinoma duttale in situ (DCIS) e recettori estrogenici positivi, dopo chirurgia conservativa
e radioterapia, può essere preso in considerazione il trattamento con tamoxifene (raccomandazione positiva
debole). Nel caso in cui il carcinoma duttale in situ non esprimesse i recettori, si può effettuare un follow up
clinico-strumentale. Non esiste alcuna evidenza a sostegno della chemioterapia nel trattamento sistemico
del DCIS.

CARCINOMA LOBULARE IN SITU CLIS


Nelle nuove LG AIOM 2020 viene considerato come un’entità benigna ed è più comune nelle giovani donne
(epoca pre-menopausale). Si caratterizza per:
 Iperproliferazione dell’epitelio dei lobuli;
 Essere un tumore In situ, pertanto, non vi è infiltrazione della membrana basale;
 Calcificazioni rare.
Le lesioni non sono quasi mai palpabili all’esame obiettivo e la mammografia è spesso dubbia; a volte è
necessaria la RM per la frequente multi-focalità e la diagnosi certa si ha solo mediante biopsia.
LCIS è stato riclassificato (WHO 2019) in tre forme: classica, florida e pleomorfa. Queste ultime due forme
spesso mostrano comedonecrosi e calcificazioni e sono associate a un’elevata prevalenza (fino all'87%) di
carcinoma invasivo associato.
LCIS non è più stadiato come pTis secondo la versione AJCC 8, entrata in vigore il 1° gennaio 2018 perché
viene considerato un marcatore di rischio più che un precursore di neoplasia infiltrante.
Trattamento: A differenza del carcinoma duttale in situ, in cui la terapia è chirurgica, le strategie sono
essenzialmente tre:
 Sorveglianza
 Chemioprevenzione
 Mastectomia profilattica bilaterale
Possono essere prese in considerazione tutte e tre le opzioni anche a seconda della volontà della paziente.
Una variante istologica rara (circa il 7% dei casi) è denominata LIN pleomorfo (PLCIS) e ha un comportamento
biologico più aggressivo perciò se lo si diagnostica con la core-biopsy necessita di norma un’escissione
chirurgica, in quanto in circa il 20-36% dei casi l’istologia definitiva consente un upgrade diagnostico ad un
cancro invasivo. In questi casi la RT post-chirurgica non è impiegata e, dal punto di vist AP, il PLCIS è costituito
da cellule con marcato pleomorfismo, nuclei grandi ed eccentrici. Spesso vi è il riscontro di necrosi centrale
e calcificazioni ed è comune l’overespressione di HER2. Rispetto al classico LCIS, la variante pleomorfa
sembrerebbe avere una potenzialità di evoluzione verso il carcinoma infiltrante simile a quella del DCIS.

CARCINOMA DUTTALE INFILTRANTE (CDI)


È la neoplasia mammaria più comune e si caratterizza per:
a. Infiltrazione stromale delle cellule neoplastiche iperproliferanti;
b. Reazione stromale di necrosi infiammatoria periferica;
c. Prognosi dipendente dal grado istologico;
d. Terapia multistep (vedi trattamento del carcinoma infiltrante operabile) dipendente
dall’istologia e dalla positività o meno per i recettori per gli estrogeni.

CARCINOMA LOBULARE INFILTRANTE (CLI)


Rappresenta il 10% delle neoplasie mammarie e si caratterizza per:
e. Invasione stromale centrolobulare con aspetto caratteristico “a fila indiana” all’istologia;
f. Assenza di caratteri distintivi alla mammografia;
g. Frequentemente bilaterale e multifocale;

319
h. Prognosi generalmente più favorevole rispetto al duttale infiltrante.
[Dalle sbobine 2020/2021: La RM deve essere fatta perché questo tumore ha la caratteristica di crescere con
aspetto a cellule piccole, monomorfe e disposte in fila indiana. Questa modalità di crescita nello stroma della
ghiandola fa sì che non ci sia una distorsione del parenchima o una crescita concentrica tipica del nodo: per
lungo tempo possono quindi crescere senza dare segni e poi improvvisamente queste file cellulari parallele
si uniscono e si affastellano dando, nel giro di 2-3 mesi, una lesione di 2-4 cm assente alla precedente
mammografia (effettuata anche solo 6 mesi prima). Non è che sei mesi prima la lesione non ci fosse, ma non
era visibile e la paziente può pensare di avere una lesione velocissima nella sua crescita, mentre invece è
soltanto una lesione che non si fa vedere per le sue modalità di crescere.]

CARCINOMA INFIAMMATORIO
Lesione maligna equivalente sempre allo stadio T4 della classificazione TNM, anche se di piccole dimensioni.
Ha prognosi infausta e frequentemente sono presenti metastasi a distanza già alla diagnosi.
Nei casi non metastatici, la terapia di elezione prevede escissione chirurgica + svuotamento ascellare +
terapia medica combinata con una sopravvivenza a 5aa del 50%.

TRATTAMENTO DEL CARCINOMA INFILTRANTE TRATTABILE


La chirurgia della mammella dovrebbe essere effettuata in Centri di Senologia multidisciplinari, certificati o
comunque deliberati dalle regioni, di alto volume (> 150 casi) per aumento della percentuale delle terapie
conservative e riduzione dei tassi di riescissioni, trattamenti inappropriati, riammissioni in ospedale, ritardo
dell’inizio delle terapie adiuvanti e con conseguente aumento della sopravvivenza dopo diagnosi di cancro
della mammella.
Nelle pazienti con carcinoma invasivo stadio I-II (e in casi selezionati più avanzati) la chirurgia conservativa
associata alla radioterapia della mammella (whole breast irradiation) rappresenta comunemente il
trattamento di prima scelta.
La mastectomia trova applicazione quando l’approccio conservativo non è indicato o non è tecnicamente
possibile, ovvero per desiderio della paziente e la scelta del tipo di intervento a (chirurgia radicale vs
conservativa) dipende da:
• localizzazione e dal rapporto tumore/dimensioni della mammella: una mammella piccola con un
grosso tumore renderà più difficile effettuare una chirurgia conservativo.
• dalle caratteristiche mammografiche;
• dalla preferenza della paziente;
• dalla presenza o meno di controindicazioni alla radioterapia.
La chirurgia conservativa, laddove tecnicamente possibile, può garantire un buon risultato estetico ed
oncologico anche mediante resezioni più estese e ricostruzione con tecniche oncoplastiche.
Nella pratica clinica comune le tradizionali controindicazioni “generali all’approccio conservativo”
includono:
• impossibilità di accedere ad un centro di radioterapia per problemi logistici;
• condizioni fisiche generali o psichiche della paziente compromesse;
• presenza di microcalcificazioni diffuse, sospette o maligne;
• tumori multicentrici. Tuttavia, una Consensus Conference di San Gallen ha suggerito che la presenza
di multicentricità non rappresenta in assoluto una controindicazione alla chirurgia conservativa, nel
caso in cui la resezione sia completa con margini negativi.

Concetto di “NO INK ON TUMOR”


A differenza del carcinoma duttale in situ in cui esiste la richiesta di avere dei margini di resezione >2 mm per
considerare l’intervento radicale, nelle pazienti con carcinoma invasivo della mammella trattate con chirurgia

320
conservativa e successiva radioterapia, un margine di resezione con “no ink on tumor” rispetto a margini di
resezione più ampi rappresenta uno standard adeguato perché:
• garantisce un buon controllo locale;
• diminuisce l’incidenza di riescissioni;
• contribuisce a migliorare l’outcome estetico.
In questo caso, infatti non è necessario avere tanto tessuto mammario esterno al tumore, ma c’è necessità
di asportare completamente il tumore.

MALATTIA METASTATICA
La malattia metastatica ha prognosi infausta con sopravvivenza compresa tra 18 e 24 mesi. Spesso viene
trattata con una terapia ormonale e nelle neoplasie ormono-insensibili si utilizzano i modulatori selettivi del
recettore per gli estrogeni e la chemioterapia.
Gli anticorpi monoclonali contro HER2 vengono aggiunti alla chemioterapia nelle neoplasie sensibili mentre
i difosfonati e il calcio sono indicati per il trattamento delle metastasi ossee.

Chirurgia del cavo ascellare


Il cavo ascellare è una profonda depressione
posizionata sulla radice dell'arto superiore che, a
braccio abdotto, ha la forma di una piramide
quadrangolare con apice in alto. Presenta 4 pareti:
 Anteriore: che ha rapporto con il muscolo
grande pettorale e (dietro questo) i muscoli
succlavio e piccolo pettorale, connessi tra loro
dalla fascia clavicoracopettorale, che va a
costituire in basso il legamento sospensorio
dell'ascella (di Gerdy).
 Posteriore: confina con dall'alto in basso con il
muscolo sottoscapolare.
 Laterale: si interfaccia con il muscolo
coracobrachiale e il capo breve del bicipite
brachiale.
 Mediale: costituita dalla faccia esterna delle prime quattro coste, con i muscoli intercostali esterni e
il muscolo dentato anteriore.
La chirurgia del cavo ascellare è profondamente cambiata nel corso degli anni:
 Alla fine del 1800, quando si facevano le mastectomie secondo Halsted, veniva eseguita la dissezione
ascellare nel 100% dei tumori alla mammella.
 Negli anni 80 si scoprì che tra tutte le dissezioni ascellari eseguite, solo il 22% risultava positivo con
un tasso del 78% di inutilità dal punto di vista oncologico.
 Ad oggi si utilizza la tecnica della biopsia del linfonodo sentinella.

CONCETTO DELLA BIOPSIA DEL LINFONODO SENTINELLA (LNS)


È nato nel 2003 per trovare un’alternativa alla dissezione ascellare, grazie ad Umberto Veronesi. La biopsia
del linfonodo sentinella (LS) rappresenta lo standard terapeutico per le pazienti con carcinoma mammario
stadio clinico I-II e linfonodi clinicamente negativi o con linfonodi clinicamente sospetti ma con successivo
agoaspirato negativo, in quanto comporta una forte riduzione della morbidità del trattamento in presenza
di una equivalenza dei dati di sopravvivenza rispetto alla dissezione. La biopsia del LS è comunemente
applicata anche nelle seguenti situazioni cliniche:

321
 Tumori multicentrici;
 Pregressa chirurgia della mammella e dell’ascella.

Modalità di localizzazione
La localizzazione del linfonodo sentinella, primo linfonodo
maggiormente captante, può essere eseguita in due modi:
 Con iniezione di colorante vitale (tecnica di marcaggio colore -
vital blue dy/patent blue) con alta affinità per il parenchima
linfonodale e per il liquido linfatico.
 Con radioisotopi (tecnica di marcaggio calore – Tc99m) con
iniezione di radioisotopi radioattivi e loro identificazione con
sonda rilevatrice.
La captazione del radioisotopo o del colorante vitale viene valutata
mediante sonda radioguidata e registra la maggiore intensità di
captazione nel momento in cui essa incontra il linfonodo sentinella,
identificando la zona anatomica ove poterlo asportare (nella prima
immagine in alto a destra viene mostrato il linfonodo sentinella
tracciato con colorante vitale mentre nella seconda figura viene
raffiguata una captazione del radiofarmaco con la sonda).
Successivamente, il linfonodo sentinella viene inviato all’esame
estemporaneo per andare a ricercare la presenza di micro o macrometastasi. Ad oggi viene eseguito anche
l’esame anatomo-patologico morfologico e volendo, con la metodica OSNA, si può definire l’aspetto
molecolare del tumore.
[Metodica OSNA: procedura automatizzata di amplificazione degli acidi nucleici che verifica la presenza del
gene della CK 19 nel tessuto linfonodale e fornisce un risultato negativo di macro o micrometastasi.]
La presenza di micro- o macrometastasi è importante perché condiziona il tipo di intervento successivo. In
particolare:
 Micrometastasi: non viene eseguita la dissezione ascellare. Indicato da tutte le linee guida e
confermato da lavori recenti con FU a 10 anni: analoga OS e DFS.
 Macrometastasi: almeno fino a poco tempo fa veniva eseguita la dissezione ascellare in tutti i casi.
Negli ultimi anni anche la dissezione ascellare per macrometastasi è stata messa in dubbio: non viene
eseguita di default perché è stato dimostrato da studi clinici randomizzati su ampia scala che la scelta
tra dissezione ascellare o meno è basata su un bilancio tra rischi e benefici.
o Rischi: complicanze a breve e lungo termine (linfedema, infezioni, sieromi, parestesie, dolore);
o Benefici: impatto sulla sopravvivenza (globale e libera da malattia).
L’atteggiamento chirurgico è progressivamente cambiato (da non conservativo a più conservativo) grazie ai
più recenti studi clinici che indicano che un’estensione più limitata della chirurgia ascellare, non presenta
svantaggi in termini prognostici. Grazie a due grossi studi, e ai conseguenti criteri Z0011 e AMAROS che sono
stati formulati, è stato dimostrato che è sufficiente limitarsi alla sola biopsia del linfonodo sentinella in
pazienti con MACROMETASTASI in 1-2 LNS:
o criteri Z0011 (Giuliano et al. 2011):
 cT1-2, pazienti sottoposte ad intervento conservativo
 Linfonodi clinicamente negativi alla diagnosi
 1 o 2 LNS metastatici
 Confronto tra 446 pazienti sottoposte alla sola LNS e 445 pazienti sottoposte a DA  OS e
DFS analoghe a 10 aa di FU.
o criteri AMAROS:

322
 Il confronto tra la DA e la radioterapia ascellare eseguita dopo positività al linfonodo
sentinella (sempre con 1-2 macrometastasi) ha mostrato uguale prognosi a 10 aa, con un
minor tasso di linfedema.
 le linee guida AIOM 2020 iniziano a considerare l’omissione della dissezione ascellare in questo
particolare sottotipo di pazienti, nonostante non sia pratica clinica comune.
Attualmente la biopsia del linfonodo sentinella non è ancora sostenuta dalle recenti linee guida per:
 MACROMETASTASI in 1-2 LNS in caso di mastectomia;
 MACROMETASTASI in 3 o più LNS.

DISSEZIONE ASCELLARE
Indicazioni
La dissezione ascellare (con asportazione di almeno 10 linfonodi per la valutazione patologica accurata
dell’ascella) secondo pratica clinica comune è indicata:
- in presenza di linfonodi ascellari clinicamente patologici e confermati da studio cito-microistologico
preoperatorio;
- in casi selezionati e dopo discussione multidisciplinare in presenza di linfonodo sentinella positivo
con macrometastasi all’esame istologico (tenendo conto delle possibili omissioni sopra giustificate);
- nel caso di mancato reperimento del linfonodo sentinella;
- nei tumori T4 e nel carcinoma infiammatorio.
La dissezione ascellare al III livello viene di norma effettuata solo in caso di malattia macroscopica al II o III
livello. In caso contrario, la dissezione include i linfonodi situati inferiormente alla vena ascellare, dal muscolo
latissimo del dorso al bordo mediale del muscolo piccolo pettorale (Livello I- II).
La dissezione ascellare è gravata da importanti complicanze:
 linfedema: complicanza particolarmente invalidante che la paziente impara a gestire nel corso della
sua vita e che necessita spesso di punture evacuative per drenare la raccolta di linfa.
[Dalle sbobine 2020/2021: è una complicanza che può comparire anche a distanza di molti anni
dall’intervento chirurgico ed è più frequente in soggetti ipertesi, obesi, fumatori. Spesso però il
primum movens di un linfedema è un’infezione del braccio, susseguente a fratture, reazioni di tipo
allergico a punture di insetti ma anche a fatti banali della vita.]
 linfangite
 parestesie
 dolore cronico
 fibrosclerosi: se alla dissezione del cavo ascellare viene associata la radioterapia.

CHIRURGIA ONCOLOGICA DELLA MAMMELLA


Il concetto di chirurgia conservativa
nasce dall’accesso ai programmi di
screening, che ha permesso di effettuare
diagnosi precoci. Ad oggi è raro trovare
tumori della mammella non trattabili con
la chirurgia conservativa. L’evoluzione
delle tecniche diagnostiche, la
disponibilità di target therapy e di terapia neoadiuvante ne hanno inoltre permesso lo sviluppo, mantenendo
un risultato oncologico sovrapponibile alla chirurgia più estesa.
Si è partiti dal concetto di “massimo trattamento tollerabile” con la mastectomia secondo Halsted, dove
veniva asportata tutta la parete toracica compresi i muscoli, o l’amputazione interscapolo-toracica; e si è
arrivati al concetto di “minimo trattamento efficace” con la chirurgia conservativa (quadrantectomia) e

323
l’identificazione del linfonodo sentinella. È stata sicuramente una rivoluzione concettuale degli ultimi 40 anni
che ha spinto i chirurghi all’utilizzo di tecniche conservative, ma anche ricostruttive e di rimodellamento
mammario.
In chirurgia conservativa spesso l’obiettivo della radicalità oncologica non coincide con l’esigenza di un
risultato cosmetico adeguato e la crescente domanda di nuove procedure per conseguire buoni risultati, sia
sul piano della radicalità oncologica che del risultato estetico, ha promosso la naturale evoluzione e la nascita
di tecniche chirurgiche innovative dedicate interamente alla mammella, talvolta prese in prestito e ispirate a
quelle della chirurgia plastica (nascita dell’oncoplastica).
La collaborazione tra chirurgo generale e chirurgo plastico sarebbe auspicabile nel momento della
pianificazione dell’intervento e le due figure professionali dovrebbero interfacciarsi in modo complementare
in sala operatoria; tuttavia, non tutte le strutture ospedaliere del territorio nazionale sono dotate di reparti
o servizi di chirurgia plastica, per cui è sempre necessario indirizzare la paziente ai centri di riferimento.
Il punto cruciale della chirurgia mammaria è stabilire una selezione attenta delle pazienti che possono essere
sottoposte ad un trattamento conservativo, anzichè ad un trattamento di mastectomia, con salvataggio della
cute ed eventualmente del complesso areola-capezzolo.
Nella pratica clinica la mastectomia non è stata totalmente abbandonata perché esistono ancora indicazioni,
ma la maggior parte degli interventi
(78,8%) sono di chirurgia conservativa
seguiti da ricostruzione mammaria.
Quest’ultima viene eseguita dal chirurgo
plastico e può essere:
- immediata (70% dei casi);
- differita;
Nonostante venga generalmente preferita la ricostruzione immediata, la differita può essere effettuata, ad
esempio, nei casi in cui siano state rimosse grandi quantità di tessuto e cute, per cui è necessario posizionare
un espansore, prima della protesi definitiva, al fine di permettere la distensione della cute ed ottenere un
risultato adeguato e simmetrico alla mammella controlaterale.
[Dalle sbobine 2020/2021: Sono molte le tecniche di chirurgia plastica che sono state modificate per dare un
esito estetico migliore, facendo attenzione a:
 Generare cicatrici in posti nascosti e che siano facilmente mimetizzabili al di sotto di reggiseni e
costumi da bagno;
 Utilizzare delle tecniche particolari a seconda del quadrante che si va a operare.
Es. se si deve operare un quadrante centrale portando via il complesso areola-capezzolo, esistono
delle tecniche per ottenere un cono mammario adeguato e soddisfacente, in cui la donna non avrà il
complesso areola-capezzolo, ma un profilo mammario esteticamente migliore. Poi verrà ricostruito
il capezzolo chirurgicamente e si manderà la donna a fare un tatuaggio dell’areola con degli esiti
decisamente buoni.
 Un’altra ottima tecnica molto utilizzata è quella di passare attorno all’areola (avendo una cicatrice
soltanto periareolare e quindi facilmente mimetizzabile) per raggiungere la lesione, rimodellando la
ghiandola per avere un esito senza cicatrice eccessivamente visibile.
 La tecnica più impiegata è la mastoplastica a peduncolo: per una paziente con la 4° di seno e una
ptosi evidente che desidera ricostruire le mammelle con una pessi, si usano interventi chirurgici
codificati, dove si conserva il peduncolo che porta la vitalità del complesso areola-capezzolo, si
sospende la ghiandola e si toglie la cute in eccesso. È ovvio che in queste pazienti si devono fare
interventi bilaterali e tutto questo viene discusso nella Breast Unit. Se il chirurgo non ha l’appoggio
dei chirurghi plastici, sovente non viene fatta o comunque viene fatta da un lato solo. Bisogna
considerare che la mastoplastica a peduncolo per togliere la lesione associata alla simmetrizzazione
può richiedere 4-5 ore di sala operatoria.]

324
Vengono di seguito mostrate le principali tipologie di chirurgie che si sono susseguite negli anni:
1. Mastectomia radicale secondo Halsted
o Escissione di:
 Ghiandola mammaria
 Piccolo pettorale
 Grande pettorale
 Linfonodi ascellari in toto
 Linfonodi lungo la vena ascellare fino al
legamento costo-clavicolare
o Attualmente in disuso ed applicata solo nei
casi più avanzati
o Modificazione estetica della spalla
2. Mastectomia radicale modificata secondo Patey
o Escissione di:
 Ghiandola mammaria: viene sospesa la cute e si
procede, al di sotto della cute, alla sezione di
tutta la ghiandola compreso il tessuto adiposo. In
questo modo si conserva la maggior quantità di
cute possibile.
 Piccolo pettorale (non viene asportato nella
tecnica secondo Madden)
 Linfonodi ascellari in toto, I II e III stazione. La
dissezione del cavo ascellare è comunque una
tecnica rischiosa per la presenza dell’arteria e
della vena ascellare.
o Tecnica maggiormente utilizzata
o Esteticamente più accettata
o Alto tasso di sopravvivenza
o Attualmente associata a terapia medica, chemioterapica e/o ormonale
[Dalle sbobine 2020/2021: In qualche caso si fa ancora la mastectomia radicale senza rimozione dei
muscoli sottostanti e senza ricostruzione.Indicazioni:
- paziente con più di 70 anni;
- situazione oncologica è così avanzata che non conviene dare un traumatismo ulteriore alla
zona e conservare parte della cute;
Consiste nella rimozione di tutta la ghiandola, di una losanga di cute sovrastante e dell’asportazione
del complesso areola-capezzolo.
Attualmente si fa molto più spesso la mastectomia conservativa che rappresenta circa il 22% degli
interventi delle Breast Unit per patologia oncologica. Indicazioni:
- Tumori in situ alto grado, perché sono tumori che spesso interessano tutto un lobo della
ghiandola mammaria, quindi dalla periferia fino al retro-capezzolo;
- Tumori infiltranti multifocali con 2-3 lesioni in quadranti diversi;
- Mastite carcinomatosa: può essere confusa con una mastite post-allattamento. È un’entità
oncologica importante e, anche se ha un’ottimale risposta alla chemioterapia neoadiuvante,
deve essere sottoposta a mastectomia.
- Altre volte la mastectomia non viene fatta per aggressività della lesione, ma per un rapporto
decisamente sfavorevole tra il volume del tumore e quello della mammella.
- Rarissime volte può essere eseguita per una decisione della paziente, che deve sempre
essere valutata e mediata da una serie di informazioni fornitele, prima che decida di fare un

325
intervento da cui non può più tornare indietro (mentre da un intervento conservativo si può
sempre procedere con una mastectomia, non si può viceversa).
Esistono diverse tecniche di mastectomia conservativa:
- Skin Sparing Mastectomy (con risparmio di cute, il più
possibile): si asporta tutta la ghiandola mammaria
comprendente il complesso areola-capezzolo, ma si
conserva una buona parte della cute che permette di
iniziare la ricostruzione.
- Nipple Sparing Mastectomy (con risparmio di tutta la
cute e del complesso areola-capezzolo): rappresenta
l’evoluzione successiva. Deve essere preceduta dalla RM
perché questa fornisce la distanza della lesione dal
complesso areola-capezzolo. Se è molto distante si può
proporre questo tipo di mastectomia, se la lesione è troppo vicina, a 15-18 mm dal capezzolo,
si deve proporre la skin-sparing. Durante l’intervento chirurgico si controlla che il disco
rimosso immediatamente retrostante al complesso areola-capezzolo, sia effettivamente
indenne da malattia; se l’anatomopatologo sostiene un coinvolgimento da malattia, si deve
togliere la cute del complesso areola capezzolo. È un intervento molto delicato perché si
conserva tutta la superficie cutanea, che sarà vascolarizzata solamente dai vasi intracutanei
e non più da quei vasi che dalla mammella si portano alla cute e che rappresentano almeno
il 40% della vascolarizzazione della cute. Questi lembi molto sottili fatti dai chirurghi devono
avere una buona vascolarizzazione e per questo motivo la paziente fumatrice è destinata
molto frequentemente a perdere l’impianto (in quanto i vasi del microcircolo sono troppo
sclerotici).
- Skin Reducing Mastectomy: indicata specie in una paziente con una grossa mammella e con
ptosi mammaria. Non si può mettere subito una protesi di ricostruzione perché non ne
esistono di così voluminose (di solito arrivano fino a 500 cc) perciò si usa la tecnica di
mastopessi riduttiva (riduzione del parenchima mammario con la riduzione della cute) e in
più si fa la ricostruzione. Sono interventi uguali alla mastoplastica riduttiva per la chirurgia
estetica, ma al di sotto viene tolta tutta la ghiandola. [Da slide: consiste in una incisione
cutanea come da mastoplastica riduttiva per chirurgia estetica con cicatrice cutanea residua
a T invertita].
Fatta questa conservazione di gran parte della cute (nella skin sparing), di tutta la cute (nella nipple
sparing), della cute eccedente (nella skin reducing), si ottiene un involucro mammario che permette
di iniziare una ricostruzione.]
3. Quadrantectomia
Questa tecnica prevede:
- Ampia escissione locale della neoformazione;
- Rimozione di 1-2 cm di tessuto mammario sano attorno al tumore ed asportazione quindi
della quasi totalità del quadrante affetto;
- Rimozione del tassello di cute sovrastante la neoformazione;
- Associata a radioterapia postoperatoria di almeno 4.500 Gy
- Associata a studio del linfonodo sentinella
Tipi di incisioni diversi, in caso di quadrantectomia, permettono l’exeresi della lesione; è tuttavia
importante considerare il risultato estetico, soprattutto nei casi in cui si debba asportare anche la
cute, eseguendo lembi di rotazione che permettono una maggior conservazione anatomica.
Vengono eseguite inoltre suture continue estetiche intradermiche per avvicinare il tessuto
sottocutaneo.

326
Nell’immagine in basso a destra è possibile vedere un’incisione peri-areolare, con allungamento del
prolungamento ascellare, asportazione della cute e avvicinamento dei lembi al capezzolo.
[Dalle sbobine 2020/2021: La valutazione intraoperatoria del pezzo è fondamentale in una chirurgia
conservativa. Quando infatti viene tolta la lesione in un intervento conservativo è fondamentale che il pezzo
rimosso venga radiografato nella stessa sala operatoria, perché si deve documentare di aver tolto la lesione
in modo adeguato. Può succedere che si vada in sala operatoria con una lesione con soltanto
microcalcificazioni, che ovviamente non si vedono o palpano intraoperatoriamente, e bisogna avere la
certezza di aver tolto quello che il radiologo aveva notato precedentemente, eseguendo una radiografia
intraoperatoria. Tale lesione microcalcifica può essere rimossa dai chirurghi grazie al repere posizionato dal
radiologo per poter rimuovere la lesione.
Egli può inoltre dire al chirurgo che la lesione è stata rimossa oppure che si è troppo vicini al margine per cui
è necessario allargare il bordo di resezione. Il corretto orientamento è un’esigenza fondamentale perché un
margine non sicuro o coinvolto deve essere identificato con certezza. Inoltre si devono fornire chiare
indicazioni al radiologo e all’anatomopatologo circa l’orientamento del pezzo che sarà sottoposto a verifica
radiologica e dovrà essere allineato con fili e marcatori radiopachi (clips metalliche).
Alla fine dell’intervento conservativo bisogna mappare il letto chirurgico per il radioterapista, posizionando
sopra delle clips di repere perché le lesioni della mammella, dall’in situ all’infiltrante, hanno bisogno di una
radioterapia complementare di tutta la ghiandola mammaria. Con queste tecniche di oncoplastica,
frequentemente la cicatrice chirurgica non corrisponde ad un letto chirurgico sottostante, perché magari la
cicatrice chirurgica è al solco, ma la lesione è molto più vicina al capezzolo. Il radioterapista ha bisogno di
certe clip sul letto per capire quale è la zona (che prima corrispondeva alla lesione) che deve ricevere un
supplemento di radioterapia, il cosiddetto boost.

La ricostruzione della mammella è oggi considerata parte integrante del trattamento del tumore mammario.
La richiedono praticamente tutte le pazienti e qualche volta sono i chirurghi stessi a dover loro spiegare che
non è la strada migliore per avere una guarigione veloce. Quello che le pazienti chiedono frequentemente è
se mettere un espansore pregiudica la successiva guarigione o il poter fare dei controlli successivi: la
ricostruzione non influenza negativamente la storia naturale della patologia mammaria e non interferisce
con le indagini diagnostiche e la successiva terapia, basta richiedere una RM durante il follow up della
paziente ricostruita. In compenso la ricostruzione ha un effetto decisamente positivo sull’equilibrio psico-
fisico della paziente, ripristinando anche la sua integrità fisica perché influenza positivamente tutti i carichi
sulla colonna. Quasi tutte le pazienti sotto i 70 anni la richiedono e la tecnica preferita dai chirurghi è di tipo
eterologo, ovvero con delle protesi che sono le stesse utilizzate in estetica additiva.
Questa chirurgia può dare diversi problemi, perché la protesi nella paziente oncologica non si inserisce sotto
la ghiandola mammaria come in quella additiva (parete toracica, protesi, ghiandola mammaria, cute), bensì
al posto della mammella (parete toracica, protesi e subito la cute). Si deve quindi creare una capsula che
accolga la protesi in modo adeguato, che non decubiti e non apra la cute.

Il rigetto delle protesi in oncologia è di tipo meccanico. Per creare la tasca di alloggiamento: si stacca il
muscolo gran pettorale dall’inserzione
distale, lo si solleva e si mette dentro la

327
protesi. Fare solo uno scollamento del muscolo spesso obbliga i chirurghi a usare delle protesi molto piccole
e quindi, per le pazienti che hanno necessità di protesi di volume maggiore (dai 300-350 cc in su), si deve
chiudere la tasca con una matrice dermica acellulare commerciale di origine suina o bovina, chiamata mesh
(la tasca sarà in parte muscolare in parte mesh) scollando il muscolo dalla parete toracica e posizionando la
matrice al di sotto.
La Città della Salute si può anche creare il proprio mesh con del derma proveniente dal cadavere umano, che
però non viene utilizzato in tutti i casi in quanto non può essere riprodotto su larga scala (è un progetto
costoso in termini di tempo, portato avanti da 3-4 anni, con mesh prodotti dalla banca della cute del CTO).
Il mesh commercializzato ha delle misure standard (es. 10X12 o 8X16), mentre il CTO deve cucire dei
frammenti, ma il primo caso dà comunque grossi risultati con una cifra contenuta (un mesh commerciale
costa 3500 euro).
L’ultima evoluzione è quella di mettere in sede pre-pettorale la protesi, sotto la cute, ma anche in questo
caso il problema è che il decubito problemi quindi si avvolge la protesi in matrici dermiche acellulari apposite
(fatte a sacchetto) in modo da non scollare il muscolo e non dare alterazione funzionale della parete toracica
e del braccio.
Si mette l’espansore (cioè la protesi sgonfia) quando non ci si fida del volume della tasca costruita. Questa
protesi sgonfia viene poi gonfiata con soluzione fisiologica in ambulatorio ogni 3-6 settimane (a seconda che
la paziente faccia la chemioterapia dopo o altri fattori). In questo modo si distendono la cute e il muscolo
progressivamente senza dare uno stress unico e improvviso, come accadrebbe mettendo subito il volume
finale della protesi. Nelle pazienti che mettono l’espansore si deve fare un secondo intervento chirurgico per
togliere l’espansore e mettere la protesi. Questo a volte consente di avere un esito estetico più bello rispetto
a una protesi messa subito, ma chiaramente c’è il doppio intervento per la paziente.
Complicanze legate alla presenza della protesi:
- Ematomi e deiscenze della ferita con esposizione della protesi o dell’espansore;
- Contrattura della capsula: se nel tempo la capsula contenente la protesi si retrae per una cicatrice,
si avrà una contrattura della capsula dolorosa, perché il contenuto (la protesi) rimane uguale ma la
sacca risulta più piccola.
- La protesi può dislocarsi, quasi sempre lateralmente e quindi può richiedere un intervento di
sostituzione, magari allargando e dando fiato alla capsula con delle capsulotomie (anche parziali) o
può richiedere un ricollocamento della protesi con secondo intervento.
- La protesi può anche rompersi: non è una rottura improvvisa, ma sono micropori da cui fuoriesce il
silicone (a volte lo si ritrova a livello dei linfonodi ascellari formando i siliconomi). Se la rottura è
all’interno della capsula, si cambia la protesi, si fa una pulizia del silicone filante che viene fuori, ma
non si hanno grossi danni. Se la rottura avviene al di fuori della capsula e il silicone è extracapsulare,
il danno è di più difficile gestione.
Queste complicanze tardive possono avvenire anche soltanto per una chirurgia estetica di tipo additivo;
infatti, queste donne spesso sono destinate dopo qualche anno a un cambio delle protesi.
La presenza delle protesi mammarie può stimolare il sistema immunitario a far sviluppare un linfoma
anaplastico a grandi cellule: rarissima forma di linfoma a cellule T che solitamente insorge dopo 4-8 anni dal
posizionamento della protesi. Se trattato in modo precoce con l’asportazione della protesi guarisce senza
necessità di ulteriori trattamenti. Ci sono invece rari casi in cui la donna deve fare la chemioterapia dei linfomi
anaplastici. Il sintomo più frequente è il sieroma, un rigonfiamento improvviso di tutto il seno sede della
protesi e può essere in parte riassorbito e dopo 6 mesi/1 anno ritornare. Questo tipo di linfoma si associa ad
1 protesi ogni 30.000 messe (frequenza veramente rara). In Piemonte si preferisce fare una ricostruzione
eterologa con protesi, ma ci sono altri tipi di ricostruzioni (autologhe), che di solito si riservano alle pazienti
che hanno una recidiva o che hanno già fatto una radioterapia:
- TRAM trasverse rectums abdominis myocutaneous flap: sono lembi chirurgici con il retto addominale
e a volte anche lembi microchirurgici con l’anastomosi sulla mammaria interna (chirurgia
delicatissima eseguita in pochi centri, come Candiolo e CTO).

328
- Gran dorsale: un altro lembo che si usa molto (tessuto muscolare e se necessario anche cutaneo), lo
si prende da dietro la schiena e lo si porta avanti.
- DIEP deep inferior epigastric perforator flap.
- TRAM libero: trasverse rectums abdominis myocutaneous free flap.]

329
01.12.2020
Prof. Mao
Sbobinatore: Irene Mombellardo

ADDOME ACUTO TRAUMATICO

Epidemiologia
Il professore si riferisce a dati non molto recenti ma revisionati qualche anno fa a livello europeo.
Il trauma è la principale causa di morte tra 1 e 44 anni, fascia di età nella quale risulta predominante
rispetto ad altre malattie tumorali e cardiovascolari (che rappresentano invece le patologie principali nei
soggetti più anziani). Il trauma è la terza causa di morte in assoluto in tutte le fasce di età, tallonato da
malattie respiratorie e infettive (quest’anno probabilmente a causa del Covid sarà superato).
Negli Stati Uniti ogni anno si osservano circa 60 milioni di traumi.
Il trauma causa in Italia tra i 7 e i 12 mila morti/anno, dei quali 3500 sono morti per incidenti stradali (dati
del 2017); il numero di morti sulle strade si è ridotto negli ultimi anni grazie all’introduzione delle misure
di sicurezza stradale, sia all’interno degli autoveicoli1 sia sulle strade2, e ad una maggiore attenzione al
consumo di sostanze da parte del guidatore3: all’inizio degli anni ’90 avevamo circa 12000 morti annue
per incidenti stradali. Attualmente molti incidenti sono legati alla distrazione causata dall’uso del
telefonino durante la guida (anche in questo caso, se colti in flagrante, si è puniti con il ritiro della patente).
Il trauma ha costi sociali molto elevati: per ogni persona che muore, circa il triplo (10000 persone/anno)
va incontro a sequele irreversibili come la perdita di un arto e l’indebolimento di una funzione, ma anche
paraplegia, tetraplegia e traumi cranici gravissimi; questo, in persone giovani, determina una conseguente
riduzione della produttività e del reddito sia per il singolo sia per la società.
La commissione europea propone piani quinquennali con l’intento di dimezzare i numeri attuali, entro il
2025, grazie all’introduzione di misure di prevenzione più rigide ma anche di migliori procedure di gestione
del trauma.
Nei Paesi in via di sviluppo i sistemi di sicurezza sono molto carenti e l’incidenza dei traumi è quindi molto
elevata: la distribuzione geografica dei traumi è minore nei Paesi in via di sviluppo in relazione alla
popolazione, ma non in relazione al numero di veicoli presenti.
Nel mondo ogni anno gli incidenti stradali causano più di 1 milione di morti e 20-50 milioni di lesioni
significative.

Oltre agli incidenti stradali, gli incidenti sul lavoro rappresentano un’importante causa di mortalità per
traumi: in Italia sono circa 1000/anno. Ottenendo un ambiente di lavoro sicuro, queste morti si
potrebbero (e dovrebbero) evitare.
Nei Paesi europei le lesioni da violenza privata sono meno frequenti rispetto ad altri Paesi, in primis gli
Stati Uniti, dove nei centri urbani il 50% dei traumi è di tipo penetrante contro un 2-3% in Europa.
Gli incidenti stradali rappresentano il 25% di tutte le morti per trauma (altre cause 17%; violenza
autoinflitta 16%; violenza interpersonale e annegamento 10% ciascuno; guerre, precipitazione,
avvelenamento e incendi 5% ciascuno).

1
Airbag, frenata assistita.
2
Obbligo di indossare cinture di sicurezza, caschi per i motociclisti, decurtazione di punti sulla patente, limiti di
velocità, sostituzione di semafori con rotonde.
3
Attualmente i soggetti coinvolti in incidenti vengono sottoposti ad alcol-test dalle forze dell’ordine e, se il test
risulta positivo, la pena è il ritiro della patente.

330
Distribuzione trimodale della mortalità
Uno studio degli anni ’60, molto importante per le conoscenze cliniche, ha studiato la distribuzione nel
tempo delle morti conseguenti a trauma.

Morti immediate: il 50% dei soggetti sottoposti a trauma muore contestualmente all’incidente, o per il
ritardo dei soccorsi o per l’eccessiva gravità del trauma: questi numeri si possono ridurre solo con le
misure di prevenzione.
C’è poi un 30% di morti definite precoci, che avvengono entro poche ore dal trauma, causate da traumi
cerebrali o addominali gravi che devono essere trattati rapidamente: in questo caso, per ridurre questa
percentuale, è necessario un trattamento corretto.
Infine ci sono le morti tardive (10-20%), dovute a sepsi sostenute da batteri del tratto intestinale, spesso
resistenti, che causano una disfunzione multiorganica che non permette all’organismo di combattere
l’infezione. Queste morti vennero anche chiamate “vendetta dello shock emorragico”, per il fatto che lo
shock emorragico iniziale aveva portato a un’insufficienza multiorgano che successivamente faceva morire
il paziente.

Nel corso degli anni, come abbiamo visto, il numero


assoluto di morti per trauma si è ridotto in modo
consistente. La mortalità immediata si è un pochino
ridotta grazie alla maggiore prevenzione e al
miglioramento dei sistemi di soccorso, i quali hanno però
soprattutto allargato questa fetta del grafico, perché
prolungano la sopravvivenza soltanto di qualche minuto
o ora; la riduzione maggiore della mortalità si è invece
verificata sulle morti precoci, grazie a un miglioramento
della gestione dei pazienti dall’accettazione in PS al
trattamento. Anche la mortalità tardiva è diminuita,
grazie ad una migliore gestione dei trattamenti antibiotici
e alle migliori strumentazioni in dotazione alla terapia
intensiva.
Nel grafico a lato l’istogramma mostra l’andamento attuale, le curve quello dei decenni scorsi.

331
Fisiopatologia
Dopo un trauma grave si riduce l’ossigenazione polmonare per contusioni o pneumotorace, per traumi
alle vie aeree, o per alterazione della GC (anemia, emorragie, riduzione di pompa, trauma cardiaco) con
conseguente riduzione dell’O2 che può essere consumato, anche a riposo, con scopi diversi nei vari organi:
nel SNC serve per mantenere la funzionalità sinaptica, nel cuore per la contrattilità, nell’intestino per
mantenere le giunzioni strette dell’epitelio e impedire la traslocazione di batteri, nel fegato per la sintesi
di proteine della coagulazione, eccetera. Ne consegue un debito di ossigeno, cioè una riduzione dell’O2 a
disposizione rispetto a quello che servirebbe per il metabolismo basale (linea orizzontale nel grafico).
In condizioni fisiologiche il debito di ossigeno si può facilmente osservare negli atleti che corrono per 10-
20 secondi alla massima velocità, con totale consumo dell’ATP presente nei muscoli, che deve essere
ripristinato nei momenti immediatamente successivi alla corsa (fiatone per ripagare il debito).
In seguito ad un trauma, questo debito di ossigeno causa una riduzione dell’ATP a livello cellulare e un
aumento dell’acido lattico e piruvico per blocco della respirazione cellulare e del ciclo di Krebs e
attivazione della glicolisi, nettamente inefficiente rispetto alla fosforilazione ossidativa (2 ATP vs 36 ATP
per ogni molecola di glucosio: in 20-30 minuti si instaura un debito di ossigeno tale che, se non si apporta
un’assistenza respiratoria o emodinamica rapida per ripagare il debito, le cellule subiscono un danno tanto
più grave quanto più lungo è il periodo di permanenza del debito di ossigeno → si instaura la condizione
di disfunzione multiorgano (MODS) che causa quel 10-20% di morti tardive; se il ripagamento del debito
non avviene, il debito di O2 diventa eccessivo e il paziente decede.
Quindi, se il ripagamento del debito è rapido, le cellule non subiscono danno e riprendono la loro normale
funzione; se invece il ripagamento del debito è lento, le cellule accumulano danno e, anche quando il
debito viene completamente ripagato, il danno cellulare permane.

Come ottimizzare la sopravvivenza in caso di trauma addominale?


Circa il 25% dei soggetti che muoiono in seguito a trauma presentano proprio un trauma addominale, che
rappresenta infatti la seconda causa di mortalità per trauma dopo il trauma cranico (50% dei casi); il
restante 23% muore per trauma toracico e la restante parte è legata a ustioni o traumi più rari.

332
Caratteristica peculiare del trauma addominale è che, se viene trattato precocemente e adeguatamente,
la sopravvivenza è buona (70-80%).
Il tempo che intercorre tra il trauma e il trattamento definitivo (chirurgico, angioradiologico, medico) ha
una correlazione con la sopravvivenza: si parla di golden hour, cioè il tempo massimo in cui intervenire
per evitare la morte del paziente (ovviamente questo correla con il debito di ossigeno che, come detto, in
20-30 minuti inizia a determinare un danno cellulare irreversibile). Tuttavia in un’ora dal momento del
trauma all’intervento si verificano molti eventi: si devono chiamare i soccorsi (oggi questa operazione è
rapida grazie ai telefoni cellulari: 1-2 minuti), che devono ricevere le corrette informazioni, scegliere il
mezzo adeguato da inviare, e arrivare sul luogo dell’incidente (tempo di 8 minuti in ambito urbano e 15
minuti in extraurbano; quest’anno le tempistiche si sono allungate a causa dell’ampio impiego di
ambulanze per il trasporto di pazienti Covid), individuare i soggetti coinvolti, spesso più di uno, estricarli
(tempi molto lunghi se è necessario l’intervento dei vigili del fuoco) e eseguire i trattamenti di base sul
campo (ABCDE, richiede circa 10 minuti), per poi tornare in ospedale: il tempo totale di queste procedure
ammonta a un minimo di 30 minuti, che per i gravi traumatismi è molto. L’unico modo per agire in questo
ambito, con lo scopo di ridurre le tempistiche, è aumentare le possibilità di intervento sul campo, che
rimane comunque molto limitata sulla C e D. Oggi le manovre sul campo dovrebbero rientrare nei “10
minuti di platino” e il personale viene formato tramite i protocolli del PHTLS (Pre-Hospital Trauma Life
Support) per essere il più efficace possibile nel minor tempo.
Una volta giunti in ospedale, il paziente solitamente non viene subito trattato ma si devono fare
valutazioni primarie: si effettua il Triage con valutazione delle funzioni vitali e conseguente correzione
delle condizioni pericolose per la vita con un trattamento primario; dopodiché si passa alla valutazione
secondaria, seguita da indagini diagnostiche e trattamento definitivo. Sicuramente l’esecuzione di
indagini diagnostiche allunga molto il tempo che trascorre prima di arrivare all’intervento.

I possibili interventi per il trauma addominale sono molti, quindi la possibilità che il paziente sopravviva è
elevata. Tuttavia, spesso in caso di traumi chiusi in pazienti stabili non si procede subito con interventi
chirurgici perché non si è sicuri che siano la scelta migliore e si fanno altri esami, stando sempre attenti al
rischio di shock irreversibile.

L’Advanced Trauma Life Support è il corso interspecialistico più diffuso al mondo per la gestione dei
traumatismi. Prevede:
1. Valutazione primaria
2. Trattamento primario: volto a stabilizzare il paziente ed evitarne il decesso
3. Rivalutazione
4. Valutazione secondaria: dettagliata
5. Trattamento definitivo
6. Rivalutazione
7. Ottimizzazione delle condizioni del paziente

Valutazione primaria:
A: vie aeree e colonna cervicale
B: respiro
C: circolo ed emorragie (alcuni considerano la valutazione dell’emorragia come un’azione da fare
prima di tutto il resto, e la segnano con una X prima della A)
D: stato neurologico
E: esposizione completa del soggetto e valutazione dell’ambiente (evitare soprattutto l’ipotermia).
Questo ordine rispecchia la gravità delle condizioni e la loro associazione con la mortalità del paziente:
per esempio si muore più rapidamente per un problema alle vie aeree che di respiro o per uno
pneumotorace iperteso rispetto allo shock.

333
Oltre a questi aspetti, è necessario monitorare i segni vitali (pressione, frequenza, temperatura,
saturazione; nel paziente instabile vengono valutate ogni 3-4 minuti), fare un ECG, ossimetria e
capnometria, EGA, inserire un catetere vescicale per monitorare la diuresi, fare un Rx torace e bacino,
FAST (ecografia rapida volta a valutare la presenza di liquido in addome).

Trattamento primario:
Come detto, è volto a correggere le condizioni più gravi e stabilizzare il paziente:
A. Proteggere e assicurare la pervietà delle vie aeree,
B. ventilare e ossigenare,
C. arrestare le emorragie,
D. trattare lo shock in modo adeguato (attualmente si considera come approccio migliore lasciare
un certo grado di ipotensione finché non si arresta e tratta completamente l’emorragia),
E. correggere l’ipotermia4 (importante perché rallenta il metabolismo, i processi enzimatici e
chimici, e la funzione cellulare; in particolare si riduce la contrattilità cardiaca, la funzionalità
sinaptica e la coagulazione).
In alcuni casi è necessario mettere in atto manovre salvavita, come cricotiroidotomia, intubazione,
drenaggio toracico, accesso venoso, pericardiocentesi o finestra pericardica per trattare un
tamponamento cardiaco, arresto delle emorragie.

Valutazione secondaria:
1. Anamnesi
2. AMPLE: allergie, medicine, patologie precedenti, ultima volta che il paziente ha mangiato, eventi
che hanno determinato l’accesso al PS.
3. Meccanismo del trauma
4. Esame fisico testa-piedi
5. Esame neurologico completo
6. Test diagnostici
Anche in questo caso possono essere necessarie indagini aggiuntive: Rx, angiografia interventistica,
ecografia ed ecocardiografia, TC, RMN, endoscopia, …
Nessun organo e apparato è infatti immune dal trauma: bisogna indagare a fondo.

Trattamento definitivo:
Questo può essere chirurgico o soltanto intensivistico (per esempio in assenza di contaminazione
peritoneale e di emorragie in un paziente stabile). Il trattamento angioradiologico spesso implica il
trasferimento del paziente e questo ne limita l’utilizzo, nonostante sia un’opzione importante soprattutto
per traumi di fegato e milza: nei trauma center che dispongono della possibilità di eseguire il trattamento
angioradiologico l’80% dei traumi a fegato e milza viene infatti così trattato.

Meccanismi di trauma
- Traumi chiusi:
• Compressione
• Rottura
• Decelerazione ed accelerazione: meccanismo spesso riscontrato a carico di milza, fegato,
rene, che sono gli organi più pesanti, e organi cavi come l’intestino (appeso tramite i mesi al
suo peduncolo vascolare).

4
Il professore sottolinea più volte la sua importanza

334
Un classico meccanismo inerziale che si può osservare a carico del rene riguarda il paziente
che cade in piedi dall’alto (Sindrome da don Giovanni5): l’aorta è strettamente legata alla
colonna da connettivo denso e ne segue i movimenti quindi, una
volta che il paziente impatta col terreno, questa si ferma; il rene
invece, pesante e con elevata energia cinetica, tende a proseguire
la sua corsa verso il basso e non ha molti mezzi di fissità, se non la
capsula di Gerota costituita da tessuto adiposo e l’arteria renale,
che viene tirata verso il basso e si può lacerare a livello dell’intima
(determinando ipertensione ad insorgenza nei giorni successivi) o
strappare, causando sanguinamenti cospicui peritoneali (lesioni da strappamento).
Un’altra lesione frequente per trauma da decelerazione si riscontra in seguito ad incidenti
d’auto: il corpo continua il movimento in avanti colpendo lo sterzo e causando lesioni da
compressione di fegato, milza, cuore o altri organi addominali come l’aorta: l’aorta
discendente è fissa alla colonna, mentre l’arco aortico no; perciò in questo caso la lacerazione
potrà avvenire a livello della giunzione delle due, cioè all’istmo aortico. Se la lesione si apre
verso la pleura è fatale per la quantità di sangue liberato in poco tempo nella cavità; se invece
l’avventizia è in grado di contenere l’ematoma, il paziente potrà anche solo avere dolore
toracico.
- Traumi penetranti:
• Lacerazione: per azione di armi a bassa energia. L’arma lacera i tessuti direttamente
interessati dal colpo ma, se non sono tessuti troppo importanti, il danno è limitato. Sono
spesso lesioni da armi bianche, multiple, con direzioni diverse e bassa velocità.
• Cavitazione: per armi ad alta energia, soprattutto proiettili di armi da guerra. L’energia viene
dispersa non solo lungo il tragitto, ma anche lateralmente (effetto massimizzato da particolari
proiettili che si dilatano o esplodono), quindi il tessuto viene lacerato anche a distanza
dall’asse di passaggio del proiettile. Il danno quindi in questo caso è maggiore all’interno di
quanto si veda all’esterno.
Per esempio non è necessario che il proiettile attraversi il cuore per causare il danno, ma è
sufficiente che passi a 10 cm da esso per causare un’onda d’urto che può ferire la parete
cardiaca o causare una fibrillazione che determina la morte del paziente.

VALUTAZIONE DEL MECCANISMO DEL TRAUMA


Vi sono molti aspetti da analizzare (velocità, impatto, posizione, tipo di arma, distanza…), ma questi
interessano di più i balistici e i medici legali; normalmente in clinica traumatologica interessano per i
traumi penetranti a bassa energia il punto di entrata e la lunghezza dell’arma e per i traumi ad alta energia
i fori di entrata e di uscita.

Esame fisico del trauma addominale


L’esame fisico si basa su ispezione, palpazione, percussione e auscultazione ma non è sufficiente, dà molti
falsi positivi e falsi negativi, perché non è un esame sensibile né specifico: ci sono infatti casi di addome
molto dolente, teso, contratto in cui c’è solo una contusione della parete addominale o una frattura di
una costa bassa o di un processo trasverso, senza quindi interessamento della cavità addominale; inoltre
in un paziente in coma o sedato l’addome non è ben valutabile.
Si devono quindi sempre utilizzare esami specifici: FAST (eco addome) o TC, la quale però richiede lo
spostamento del paziente quindi viene di solito riservata a pazienti più stabili.

5
nelle tante volte che questo è scappato dai balconi delle case delle donne quando il marito rientrava, non si è mai fatto
niente

335
L’esame fisico comprende anche: esplorazione locale della ferita, mobilizzazione della pelvi, esaminazione
rettale, vaginale, genitourinaria, perineale e glutea, catetere vescicale e sonda gastrica.
Spesso si ha un concomitante interessamento del torace, che va infatti valutato con una RX: si parla di
traumi del torso.

DPL: lavaggio peritoneale diagnostico. Non si fa quasi più perché invasivo.


FAST: rapida, viene fatta al letto del paziente, è però operatore dipendente.
TC: più specifica ma richiede il trasferimento del paziente, quindi si fa di solito ai pazienti stabili.

Immagine TC: ematoma di terzo grado al fegato con segno di sanguinamento attivo detto blush, cioè
schizzi di mdc da parte di qualche vaso all’interno dell’ematoma, ed emoperitoneo con sangue accumulato
tra fegato e parete. Di solito in presenza di blush non si opta per un trattamento conservativo, che si può
invece considerare in sua assenza. Nello stesso paziente l’ecografia dà meno indicazioni sul parenchima
epatico, ma fa vedere bene l’emoperitoneo tra rene e fegato: la FAST serve infatti per identificare la
presenza di liquido, che in un paziente stabile condiziona le scelte terapeutiche, e non per identificare le
singole lesioni.

336
In caso di imaging positivo, instabilità
emodinamica, peritonismo, presenza di aria libera
o ernia diaframmatica, il paziente deve essere
sottoposto a trattamento chirurgico. Negli altri
casi si può attendere e lasciare il paziente in
osservazione in terapia intensiva con
monitoraggio continuo.
In caso di traumi penetranti vengono esplorati
tutti i pazienti in cui c’è stato il superamento del
peritoneo parietale.

Trattamento
Esistono molti diversi tipi di trattamento applicabili al trauma addominale.
Trattamento non operatorio: sono stati approvati dei criteri per mettere in atto un trattamento non
operatorio, in centri specifici. Per ciascun organo l’AAST (American Association for the Surgery of Trauma)
ha stabilito una scala di lesioni che va dal grado 1 al grado 5 (da lacerazioni <2cm per il fegato, fino a
strappamento dal peduncolo epatico…). Per le lesioni di grado 1 o 2 (e in alcuni casi anche 3 se non ci sono
patologie concomitanti) molto spesso non si fa nulla, perché il sanguinamento si limita da solo, ma si attua
solo un trattamento medico (es. trasfusione). In realtà bisogna fare attenzione, perché se c’è una
lacerazione d’ansa con contaminazione ovviamente non si può optare per questa strategia, e qualche volta
può essere difficile stabilirlo già all’inizio. Questo trattamento rimane comunque un atteggiamento attivo,
perché richiede un attento monitoraggio del paziente in terapia intensiva, la ripetizione di tc ed eco
addome… Spesso è il trattamento del trauma cranico, in cui l’operazione nella maggior parte dei casi non
si fa e il paziente rimane in terapia intensiva con monitoraggio della pressione endocranica, ottimizzazione
dell’ossigenazione, della temperatura…
Trattamenti di radiologia interventistica, se disponibile in tempi brevi e senza dover trasferire il paziente,
soprattutto con l’angiografia che permette di embolizzare il vaso sanguinante, come l’arteria epatica e i
suoi rami, per bloccare il sanguinamento di organi parenchimatosi.

337
Trasferimento in altri reparti/strutture: ustionati, lesioni di grossi vasi o cuore, lesioni vertebrali o midollari
complesse, …
Chirurgia mini-invasiva: trova indicazioni limitate, come per le lacerazioni del diaframma (sutura
diaframmatica).
Chirurgia definitiva immediata o DCS: negli emoperitonei o nelle contaminazioni peritoneali da peritonite
si ricorre a chirurgia addominale che può essere definitiva immediata o una delayed surgery.

Immagine TC di ematoma splenico. La raccolta perisplenica si


autorisolve se il sanguinamento non continua.

ARRESTO CARDIACO NEL TRAUMA: è spesso fatale. In alcuni casi


di trauma penetrante si tratta con una toracotomia di urgenza
per fermare il sanguinamento, mentre nel trauma chiuso spesso
si manifesta PEA (attività elettrica senza polso) in cui il paziente
non risponde a defibrillazione.

DAMAGE CONTROL SURGERY


È una strategia chirurgica entrata in auge negli ultimi vent’anni che si basa su conoscenze fisiopatologiche.
Si analizzano i diversi comportamenti attuabili di fronte a un problema grave:
- Aggirare il problema: negare l’urgenza o dichiarare insufficienti le proprie risorse (attenzione ai rischi
legali). È un approccio molto pericoloso per il paziente perché si accumulano acidosi e ipotermia.
- Affrontarlo aggressivamente: a volte può essere un atteggiamento eccessivo, soprattutto se il
paziente è instabile.
- Prendere tempo: è un approccio che si applica a pazienti con grossi problemi addominali ma
condizioni precarie. Consiste nel controllare principalmente l’emorragia e la contaminazione, anche
con metodiche temporanee come shunt in silicone, poi sostituito dopo un paio di giorni, o come
l’inserimento di garze, in modo da consentire al paziente di sopravvivere ed essere ricoverato in
terapia intensiva per stabilizzare le sue condizioni e dopo qualche giorno intervenire in maniera più
invasiva. Si tratta di una staged-surgery o bail-out surgery, cioè una chirurgia rapida, non completa,
ma necessaria per la sopravvivenza del paziente; in questi casi si tralasciano alcune manovre
prediligendo azioni più rapide seppur grossolane: per esempio in caso di lesioni intestinali estese ci si
limita a dare suture temporanee o colpi di cucitrice per bloccare la contaminazione peritoneale,
compromettendo temporaneamente la ripresa funzionale dell’intestino che verrà ripristinata dopo
qualche giorno con l’intervento di resezione e ricostruzione.
Nella DCS la priorità assoluta è l’aumento delle possibilità di sopravvivenza del paziente. A bassa
priorità sono invece:
• Ricostruire l’integrità anatomica; tante volte viene lasciata la pancia aperta.
• Effettuare procedure definitive; spesso viene interrotto l’intestino con dei colpi di cucitrice
automatica.
• Ripristinare completamente le funzioni.
• Seguire i canoni classici della chirurgia.
• Riprodurre procedure sofisticate
Questo approccio serve per ripristinare l’ossigenazione ed evitare l’insorgenza di ipotermia, acidosi e
alterazione della coagulazione (triade killer), che vengono favoriti da lunghe procedure chirurgiche.
Triade killer
• Acidosi metabolica: altera ulteriormente la funzionalità cellulare a causa dell’aumento della
produzione dei lattati e acidi organici dovuta al prevalere del metabolismo anaerobio.
• Ipotermia: molto frequente nel paziente traumatizzato con anemia o trauma epatico, ma
anche in seguito all’apertura dell’addome perché la superficie del peritoneo è molto maggiore

338
di quella della parete addominale quindi disperde un’enorme quantità di calore, anche in sale
operatorie riscaldate.
L’ipotermia ha una eziopatogenesi multifattoriale (ipoperfusione, immobilità, alterata
termogenesi, esposizione ambientale, reinfusione massiva di liquidi, pancia aperta del
paziente che disperde grandi quantità di calore) e provoca disfunzioni del miocardio, del SNC
e della coagulazione
• Coagulopatia. Anche la coagulopatia ha un’origine multifattoriale (emorragia, acidosi,
ipotermia, diluizione, trasfusioni) e ognuno di questi fattori provoca alterazioni delle
piastrine, dei fattori della coagulazione e della fibrinolisi
Queste tre condizioni si autoalimentano e sono potenziate dai lunghi tempi operatori. La persistenza
di questa condizione porta ad accumulo di edemi e ematomi e ad infarcimento del contenuto
dell’addome, che può determinare l’insorgenza di una sindrome compartimentale addominale, con
aumento della pressione endoaddominale che peggiora ulteriormente l’ipoperfusione a livello
addominale, aggravando il debito di ossigeno in questo compartimento. Per evitare questa sindrome
è necessario abbreviare i tempi operatori e a volte si preferisce addirittura lasciare l’addome aperto.

Si parla quindi di un 3 stage approach:


1. Sala operatoria: questa prima chirurgia serve per controllare l’emorragia, identificare le
lesioni, controllare la contaminazione e decidere se eseguire una chirurgia definitiva o una
damage control, in base alle condizioni del paziente e all’opinione dell’anestesista. In questa
fase, nei pazienti instabili, si attuano trattamenti temporanei e limitati per salvare il paziente.
Il controllo dell’emorragia in pazienti instabili può essere fatto anche solo con il packing, che
consiste nello stipare garze in addome finchè il sanguinamento si arresta, togliendole poi
durante il successivo intervento6, o con manovre come clampaggi dei vasi in seguito a loro
esposizione. Il controllo della contaminazione può essere fatto con suture temporanee o
chiusura temporanea del canale alimentare. A volte non si chiude la parete addominale, si
usano telini o sacchetti di plastica o altri sistemi che si possono rimuovere dopo 24-48 h: ad
esempio al San Luigi viene utilizzato il modello ABTHERA, che
prevede di inserire un foglio di plastica in addome, al di sopra una
spugna coperta da un secondo foglio di
plastica tra i quali viene creato il vuoto; si
tratta quindi di un sistema di packing
sottovuoto, che permette un ottimo
drenaggio della cavità addominale ed è molto rapido da mettere e
togliere.
Nella ricerca delle sedi di emorragia si hanno tre zone di priorità come
si vede in figura [non spiegate a lezione]: nella zona 1 occorre
esplorare l’origine di tutti gli ematomi, nella zona 2 sono da esplorare solo gli ematomi
pulsanti e da ferita penetrante, nella zona 3 solo gli ematomi da ferita penetrante.
2. Terapia intensiva: bisogna correggere l’ipotermia, operazione molto complessa che permette
di solito di avere al massimo la risalita di 1°C per ora, correggere la coagulazione
(somministrare plasma o fattori della coagulazione), ripristinare l’emodinamica, ventilare.
Eventualmente è possibile evidenziare altre lesioni.
3. Sala operatoria: si rimuove il packing e si completa l’intervento chirurgico su un paziente ora
più stabile.

6
È molto efficace, di solito alla rimozione delle garze non c’è ripresa del sanguinamento.

339
Questa metodica non è evidence based ma, secondo gli studi condotti, l’applicazione della DCS riduce la
mortalità soprattutto di pazienti instabili dopo traumi gravi. Tuttavia è difficile stabile endpoints in quanto
aumenta le complicanze, aumenta la degenza in ICU e costringe a interventi multipli.

Traumi candidati alla DCS: traumi gravi e multipli, toraco-addominali, in pazienti con instabilità
emodinamica e/o a rischio per coagulopatia e ipotermia. Ad esempio: gravi traumi chiusi
toracoaddominali, traumi penetranti multipli del torso, traumi addominali con lesioni vascolari-viscerali,
traumi in più distretti.

TRAUMA CRANICO
Il trauma cranico è una lesione cerebrale traumatica molto frequente nei traumi multipli; causa il 50% dei
decessi conseguenti a traumi.

Le lesioni dell’encefalo riguardano soprattutto la corteccia e i nuclei della base; più rare le lesioni del tronco
anche se, in caso di aumento di pressione nella loggia sovratentoriale, si forma un cono di pressione che va
a comprimere il tronco cerebrale.
Il cranio è rigido, non espansibile e occupato da cervello, liquor e sangue. Il flusso ematico cerebrale è
autoregolato, ma le lesioni cerebrali traumatiche ne alterano i meccanismi di compenso.
La normale pressione intracranica presenta valori < 10
mmHg; fino ai 20 mmHg si ha un compenso efficace ma, se
si superano, questo diventa insufficiente: sopra i 20 mmHg
inizia ad esserci ischemia e se > 40 mmHg risulta molto
grave. In caso di traumi gravi il meccanismo di compenso,
rappresentato da un adeguamento del flusso ematico
cerebrale per mantenere una adeguata perfusione, spesso
non funziona, quindi l’encefalo va incontro a ischemia.
Dopo il trauma quindi si può avere un aumento della
pressione endocranica causato dall’effetto massa
conseguente all’edema o all’emorragia, che a sua volta
contrasta il flusso ematico e determina un danno
secondario ischemico. Quando la pressione intracranica
diventa molto alta e si associa a danno ischemico esteso, il paziente “decerebra” e muore perché la funzione
del SNC definisce lo stato di vitalità del soggetto.

340
Si assiste quindi a due tipi di danno:
- Danno cerebrale primario, causato dal trauma stesso o dal contraccolpo. È un danno irreversibile a
carico del neurone, che non può rigenerarsi.
- Danno cerebrale secondario, intorno alla zona di lesione primaria, con edema e ischemia che possono
implementare la perdita di neuroni. È reversibile se trattato rapidamente. Esistono anche cause
sistemiche di danno secondario: ipossia, aumento o riduzione di CO2 che media la vasocostrizione
cerebrale, anemia, ipotensione, alterazione della glicemia. Vanno quindi assolutamente evitate le
condizioni di ipossia e ipotensione in soggetti con trauma cranico!

Un altro meccanismo di compenso è rappresentato dalla risposta di Cushing ad una riduzione della pressione
di perfusione. La pressione di perfusione è data dal rapporto tra la pressione sistemica media e la pressione
intracranica: se la pressione endocranica aumenta, aumenta anche la sistemica in modo da ripristinare un
corretto rapporto [il prof parla di rapporto, ma in realtà sarebbe una differenza; il ragionamento comunque
non cambia]. Se però il paziente è ipoteso in seguito a emorragia, ipovolemia o ipotensione, questo
meccanismo non funziona e la pressione di perfusione cala drammaticamente in seguito all’aumento della
pressione endocranica.

Fratture craniche
Possono interessare la volta o la base, e possono essere lineari semplici, depresse o aperte.
Le più importanti sono le fratture depresse, che possono interessare i vasi sottostanti come l’arteria
meningea media con sviluppo di un ematoma extradurale o i seni venosi della dura madre che possono
determinare emorragie importanti.
La diagnosi si fa con RX o TC.
Il rischio principale delle fratture aperte è sicuramente la contaminazione.

Ematomi cranici
Distinti a seconda della sede in:
- Epidurali: esterni alla dura madre, conseguenti alla
rottura di un’arteria meningea media in seguito ad
una frattura cranica. Alla TC si evidenzia come una
lente biconvessa perché contenuta tra dura madre ed
endocranio; questo accumulo causa una
compressione del parenchima, ma di solito il danno
non è irreversibile: se si decomprime rapidamente si
ripristina la funzione cerebrale.

341
- Subdurali: dovuti alla lacerazione di vene a ponte, vene all’interno dell’aracnoide o tra la pia e la dura.
Alla TC l’ematoma ha aspetto diffuso al di sotto
della dura madre e di solito c’è una lesione
sottostante importante irreversibile; spesso si può
anche osservare uno spostamento delle strutture
mediane dovuto non tanto all’ematoma ma
soprattutto all’edema sottostante, ed è il
principale fattore che influenza mortalità e
morbidità. Si raccomanda una rapida evacuazione
chirurgica soprattutto in presenza di una
deviazione della linea mediana > 5 mm. La prognosi
è quindi peggiore rispetto all’ematoma epidurale.

Contusioni
Sono lesioni da colpo-contraccolpo. Anche queste
aumentano la pressione endocranica.
Il danno parenchimale conseguente può avere gravità
variabile, in relazione alla zona della corteccia interessata.
Per esempio lesioni del lobo frontale determinano danni
gravi solo in seguito a compressione sul tronco, mentre a
livello occipitale o della corteccia visiva, uditiva o motoria
possono determinare deficit neurologici di vario grado; le
più frequenti interessano i lobi temporale o frontale. Le
alterazioni alla TC sono generalmente progressive.

Glasgow coma scale


Il trauma cerebrale viene classificato in diversi livelli in base al GCS:
- Trauma lieve: GCS 14-15. Si deve fare l’anamnesi, escludere lesioni sistemiche, fare l’esame
neurologico, RX se indicate e dosaggio alcol/droghe se indicato; il paziente viene tenuto in
osservazione ed eventualmente si fa una TC.
- Trauma moderato: GCS 9-13, è un range di valori molto ampio: comprende quindi dal paziente
confuso fino a pazienti che richiedono intubazione. In questi casi la valutazione iniziale è la stessa del
trauma lieve, ma va sempre fatta la TC, la valutazione frequente da parte del neurochirurgo e
l’ospedalizzazione. Bisogna essere pronti a correggere la causa ma anche a ottimizzare la pressione
endocranica e ripetere la TC ogni volta che lo si ritiene necessario. In caso di deterioramento si deve
trattare come un trauma grave.
- Trauma grave: GCS 3-8. Il paziente va intubato per controllare i livelli di CO2 e gestito in terapia
intensiva. È necessario eseguire un esame neurologico mirato e rivalutare il paziente frequentemente;
se si può ridurre la pressione endocranica si interviene chirurgicamente ma non se la lesione cerebrale
è diffusa.

Trattamento
Il trattamento si basa su: controllo della pressione endocranica, prevenzione dell’accumulo di danno
secondario e trattamento delle altre lesioni concomitanti.

342
Raccomandazioni:
- Bisogna evitare grossi valori di PAP o ventilazione perché determinano un aumento della P
endocranica,
- Evitare valori troppo alti o troppo bassi di CO2 che alterano la vascolarizzazione cerebrale,
- Se il paziente presenta ipertensione bisogna stare molto attenti a ridurla perché potrebbe trattarsi di
un meccanismo di Cushing compensatorio; deve essere mantenuta almeno sui 90-100 mmHg,
- Si deve controllare l’Hb per evitare l’anemizzazione, controllare le emorragie interne ed esterne,
iniziare il ripristino volemico già durante il trasporto.
- Anche le convulsioni riducono la vascolarizzazione a livello cerebrale quindi devono essere trattate,
ma attenzione all’utilizzo delle BDZ che possono determinare depressione ventilatoria e ipotensione.
- Segni di allarme di un possibile incremento della PIC o di una erniazione imminente:
• Decremento di 2 o più punti del GCS
• Comparsa di riflesso pupillare rallentato o assente
• Comparsa di emiplegia o emiparesi
• Fenomeno di Cushing
Le opzioni di trattamento sono: sedazione, paralisi muscolare, mannitolo, moderata iperventilazione
controllata.
- Lo shock è un segno tardivo nei pazienti con LCT: considerare sempre l’ipovolemia.

343
3.12.2020

Emergenze-Chirurgia-Mao

IS

[in corsivo integrazioni da slide; segnalate le integrazioni da dispense e sbobine 2019]

ISCHEMIA INTESTINALE
Cokkinis, chirurgo del 1926 descrive l’ischemia mesenterica come “una condizione la cui diagnosi è
impossibile, la prognosi senza speranza e il trattamento inutile”. Ancora oggi la diagnosi non è facile, il primo
passo è pensarci, prendere questa patologia in considerazione nella diagnosi differenziale di addome acuto,
ricordando che può associarsi ad una sintomatologia anche molto limitata, quasi silente. Una volta che si ha
il sospetto, l’esame cardine è l’angioTC.

I pz spesso hanno delle caratteristiche in comune: critici, anziani, vasculopatici e con neuropatia periferica.
Un’ulteriore categoria di pz sono coloro che sono ricoverati per un’insufficienza cardiaca e del circolo.

La prognosi, ancora oggi, è pessima: da un lato, a causa del fenotipo del pz, dall’altro, in base all’intervallo di
tempo fra sintomi e angioTC. È frequente che l’ischemia non venga trattata e, invece, si instauri una terapia
per il dolore. Tuttavia nei centri specializzati, anche con pz critici, attraverso delle tecniche angio-
radiologiche si è in grado di trattarli, se il danno instaurato dall’ischemia non è permanente.

Definizione

Per ischemia intestinale si intende un flusso ematico inadeguato in un particolare segmento intestinale
tramite i vasi mesenterici. I vasi1 coinvolti sono i 3 peduncoli arteriosi e le arterie ipogastriche.

Classificazione

Possiamo classificarla come:

● Acuta o cronica: nelle forme acute abbiamo una brusca interruzione della circolazione; invece, nelle
forme croniche il circolo è sufficiente a riposo, tuttavia manifesta un’inadeguata vascolarizzazione
quando è sottoposto a degli sforzi (digestione, avanzamento del cibo, secrezione e assorbimento).
Quest’ultima condizione si manifesta con l’angina abdominis, che rappresenta il sintomo cardine
della ischemia cronica🡪 Nel pz vasculopatico, il sintomo cardine potrebbe non essere il dolore, allora
assume importanza la modificazione dell’alvo, ad esempio l’insorgenza di stipsi (è sempre necessario
indagare negli anziani dei cambiamenti dell’alvo, rispetto ad una situazione stabile).
● Arteriosa o venosa: a livello sintomatologico spesso sono simili, le forme venose sono più spesso
segmentarie, colpiscono persone più giovani con coagulopatie. La differenza dei circoli si studia dalla
angio-TC.
● Occlusiva o non occlusiva: nelle forme occlusive si ha deposito di materiale trombotico (tipico il
primo tratto dell’arteria mesenterica superiore per placche aterosclerotiche nel 3^-4^ decennio),
mentre nelle forme non occlusive il vaso è pervio, ma si ha una gittata cardiaca inadeguata.

1
Soprattutto per quanto riguarda il letto vascolare di piccolo intestino e colon, questo è particolarmente
sensibile alle catecolamine e tende a ischemizzarsi facilmente. Per tale motivo, intervengono dei meccanismi
di feedback, quali ADP e acidosi locale, che possono controllare tale vasocostrizione. Tuttavia, nel momento
in cui il pz è vasculopatico, questi meccanismi non sono sufficienti e può insorgere una patologia quale la
colite ischemica (situazione cronica, non acuta), la quale può evolvere in una forma acuta.

344
Vascolarizzazione

Per quanto riguarda il circolo arterioso, dall’aorta addominale abbiamo i 3 peduncoli fondamentali del circolo
addominale: il tripode celiaco, l’arteria mesenterica superiore e l’arteria mesenterica inferiore.

Il tripode celiaco è composto dall’arteria gastrica sx, dall’arteria splenica e l’arteria epatica comune;
quest’ultima si ramifica nell’arteria gastroduodenale, la quale ha un ramo terminale che è l’arteria
pancreaticoduodenale superiore (in giallo, nell’imm. in alto a dx) che si anastomizza con arteria
pancreaticoduodenale inferiore, collaterale dell’arteria mesenterica superiore. Questa anastomosi
funzionalmente è poco importante, poiché l’ostruzione dell’arteria mesenterica superiore avviene proprio a
livello dell’arteria pancreaticoduodenale inferiore, impedendo allo shunt di compensare.

L’arteria mesenterica inferiore attraverso l’arcata di Riolano connette il circolo inferiore ai collaterali
dell’arteria mesenterica superiore. Anche in questo caso, in alcune situazioni lo shunt può compensare, ma
non sempre.

A parte i 3 peduncoli principali, hanno un importante ruolo le arterie ipogastriche o le arterie iliache interne,
le quali hanno dei rami rettali che si anastomizzano con l’arteria rettale (o emorroidaria) superiore, ramo
appartenente all’arteria mesenterica inferiore. Spesso il danno vascolare si manifesta su tutto il circolo, e
questi collaterali sono vasi molto piccoli, quindi non risultano essere shunt funzionali.

345
Per quanto riguarda il circolo venoso, l’intestino e il fegato
formano il circolo mirabile, con doppio letto capillare. La vena
porta, le cui radici sono la vena mesenterica superiore e la
vena splenica, si inserisce nel fegato. La vena mesenterica
inferiore confluisce nella splenica. La presenza di flebite della
vena porta, induce il compenso degli shunt porto-cavali: questi
shunt venosi sono presenti a livello esofageo-gastrico,
ombelicale ed emorroidario.

Ricordiamo che il circolo sia arterioso che venoso è


principalmente terminale, senza importanti anastomosi
laterali: se si occlude un vaso, una parte segmentata
dell’intestino andrà in ischemia (non c’è completo compenso
dai circoli collaterali!).

La manifestazione della patologia come danno del circolo arterioso si presenza con la stessa frequenza del
circolo venoso. Da ricordare che le forme prossimali sono più frequenti delle forme distali [9:1]. Il professore
sottolinea che, nonostante la perdita del piccolo intestino e del colon, si dovrebbe sempre salvaguardare
almeno 70 cm di intestino, evitando che sviluppi gravi patologie da malassorbimento. La forma occlusiva è
più frequente di quella non occlusiva [7:3] e l’arteria mesenterica superiore e inferiore sono coinvolte più
frequentemente della celiaca.

Fisiopatologia arteriosa

Acuta Cronica
1) Placca ateromasica, la cui rottura può instaurare un trombo 1) Arteriosclerosi, la quale
con occlusione. è la causa prevalente.
2) Emboli da malattie cardiache, spesso è associato a FA dell’atrio 2) Displasia
sx. L’infarto può essere intestinale, ma anche splenico e renale. fibromuscolare.
3) Aneurismi dell’aorta addominale con dissezione dell’a. 3) Vasculiti.
mesenterica superiore.
Esistono sia come forme non
4) Per quanto riguarda le forme non occlusiva, per ipoperfusione
occlusive sia come forme
secondaria a shock ipovolemico o ad un’insufficienza cardiaca.
occlusive.

Fisiopatologia venosa

La causa principale non sempre è chiara, sono meno frequenti e con una mortalità generalmente inferiore.
La patogenesi è correlata ad una diminuzione del deflusso del sangue deossigenato. La vena mesenterica
superiore è più coinvolta di quella inferiore. I fattori di rischio predisponenti sono:

1) Trombosi: alla cui base abbiamo la triade di Virchow.


2) Interventi addominali recenti.
3) Infezioni.
4) Stati di ipercoagulabilità (ad es. la sindrome da anticorpi antifosfolipidici APS).
5) Sono infarti venosi anche la torsione, lo strangolamento (delle ernie), l’intussuscezione e le
aderenze: le caratteristiche del paziente e la clinica assumono degli aspetti specifici, però per
l’infarcimento di sangue, rientrano in questa categoria di sofferenza del circolo venoso.

Diagnosi differenziale

346
Pazienti con malattie intestinali infiammatorie (IBD) e coliti infettive possono presentarsi con sintomatologia
simile a quella dell’ischemia: dolori crampiformi, diarrea, leucocitosi, ematochezia. D’altra parte, la peculiare
distribuzione dell’ostruzione vascolare può restringere la diagnosi differenziale.

ISCHEMIA MESENTERICA CRONICA


È una patologia associata al danno non di un solo vaso: in quanto ci sono delle possibilità di compenso dei
circoli poiché, se la richiesta si instaura in modo cronico, i compensi diventano molto efficaci2. Il danno è di
due vasi nel 60% o tre vasi nel 35%.

Più frequente nelle donne, rispetto agli uomini (2 pazienti risultano donne su 3). I pz nel 70% sono fumatori
e nel 75% sono vasculopatici. Nel 50% è presente il soffio addominale3. Nel 40% la diagnosi è autoptica.

Sintomatologia

Nel 24% è asintomatica. Queste ischemie subcliniche sono aumentate in proporzione all’aumento dell’uso
delle angio-TC per altri motivi. Negli altri casi si può presentare:

● Angina o claudicatio abdominis: si tratta di un dolore addominale crampiforme associato ai pasti; il dolore
inizia quando le richieste di ossigeno al tenue aumentano, in genere da 15/30 minuti dopo il pasto, e
prosegue per almeno 2-3 ore (durata del processo di digestione). [Dispense]
● Perdita di peso, fino alla cachessia, in parte associata al malassorbimento e in parte associata alla paura
del cibo.
● Ematochezia.
● Altre patologie in conseguenza al malassorbimento, quali l’anemia.
● Necessità di effettuare piccoli pasti, steatorrea, nausea, vomito, gonfiore addominale. [Dispense]

Diagnosi

Alla base della diagnosi ci deve essere il sospetto. Le indagini che si possono fare sono:

● L’ecodoppler addominale, semplice e di prima battuta per supportare il sospetto si osservano delle
alterazioni della velocità del flusso.
● L’angio-TC alla base della diagnosi: osservo stenosi e circoli interrotti.
● Nei pz giovani posso effettuare degli studi più approfonditi attraverso la RMN.
● L’angiografia ha un ruolo in quanto ci permette di effettuare anche il trattamento.
● Endoscopia

2
Ad esempio, nella chirurgia vascolare, la chiusura dell’arteria mesenterica inferiore viene effettuata di routine nel
trattamento dell’aneurisma dell’aorta, in quanto i chirurghi sanno che, nell’inserire la protesi, i circoli possono
compensare.
3
Il soffio peri-ombelicale deve far sospettare la presenza di una dilatazione dell’aorta (aneurisma).

347
Terapia

Medica: esiste, ma è poco efficace. Ci sono diverse tipologie di farmaci con i quali si può intervenire: dagli
anticoagulanti, ai vasodilatatori e ai vasoprotettori, tuttavia queste famiglie di farmaci agiscono poco. Un
ulteriore supporto medico è quello di ridurre la secrezione sfruttando dei PPI e studiare delle diete apposite.
Possono agire sulla sintomatologia, ma non sono particolarmente utili.

Gli interventi chirurgici, invece, sono utili ma con delle limitazioni, le quali sono legate alle condizioni del pz
e dei vasi. Gli interventi che si possono effettuare sono:

1. Bypass usando materiale sintetico (graft) o vene o arterie del pz.


2. L’endoarteriectomia con o senza patch🡪 viene asportata la
tonaca interna dell’arteria, permettendo di asportare le placche;
intervento ideale ma con delle complicazioni. [nell’imm. a dx]

La mortalità operatoria di questi 2 interventi è alta, dal 2-10%, associata


al fenotipo del pz (anziani e vasculopatici). L’indice di complicanze degli
interventi di bypass e di endoarteriectomia è del 33%. La sopravvivenza
a 5 anni è del 71%, e senza sintomi è del 63%, quindi alta se si considera
che la mortalità ad 1 anno dall’insorgenza dell’angina abdominis è del
90% (quelli che possono essere trattati, hanno una buona prognosi).

I bypass possono essere effettuati per via anterograda o retrograda. [il prof non aggiunge molto, inserisco una
slide a dx dal web]

L’accesso può essere per via transperitoneale (più immediato) o per via retroperitoneale (con rotazione
completa del colon, pancreas e milza per esporre i vasi mesenterici alla radice, attraverso la manovra di
Mattox4, si osserva in modo adeguato il tratto prossimale della a. mesenterica superiore, la più colpita). [I
due accessi sono visibili in quest’imm. Sottostante: a sx transperitoneale e a dx retroperitoneale].

4
La manovra di Mattox è la mobilizzazione verso destra del colon sinistro, milza, pancreas e eventualmente
rene, che consente un’esposizione ottimale dell’aorta addominale soprarenale [web]

348
Esistono anche delle tecniche percutanee di radiologia interventistica, le quali hanno un ruolo fondamentale
in queste situazioni croniche, nelle quali il paziente può essere studiato a sufficienza.

La chirurgia open e l’angioplastica- stenting percutaneo sono due tecniche che sono state messe a confronto
con risultati simili.

ISCHEMIA MESENTERICA ACUTA


Aprire l’addome e trovare un embolo che blocca l’a. mesenterica
superiore, con successiva necrosi del piccolo intestino, del cieco, del
colon ascendente e della flessura epatica, può anche essere
indicazione all’astensione dal trattamento.
Se si rivascolarizzasse, si potrebbe incorrere in una massiva sindrome
da riperfusione5, la quale potrebbe mandare in arresto il pz e i pochi
cm di intestino non necrotici salvati, non potrebbero permettere un
adeguato assorbimento.

L’ischemia intestinale acuta o infarto intestinale è una patologia drammatica del tenue; rappresenta la
necrosi di un tratto di intestino provocata da un’insufficiente perfusione/occlusione delle arterie o delle vene
mesenteriche. [Dispense] Possiamo quindi parlare di Ischemia Mesenterica Acuta o IMA.

L’IMA si può classificare attraverso 4 varianti:

1. Ischemia mesenterica acuta embolica,


2. Ischemia mesenterica acuta trombotica,
3. NOMI (Non-occlusive mesenteric ischemia),
4. Trombosi venosa mesenterica.

Indipendentemente dall’eziologia, la sintomatologia iniziale è simile.

5
La brusca riperfusione dopo un lungo periodo ischemico porta all’immissione in circolo di radicali liberi
derivanti dal metabolismo anaerobico, i quali possono condurre all’arresto cardiaco e ad insufficienza
multiorgano; tale fenomeno è noto come shock da riperfusione. [Dispense]

349
1. Ischemia mesenterica acuta embolica

È la forma la cui presentazione è la più brusca e dolorosa, viene anche definita apoplessia addominale. La
maggior pare degli emboli sono di origine cardiaca (dalla fibrillazione atriale o per un infarto recente, più rare
alterazioni valvolari).

L’addome inizialmente non teso e trattabile, poi dolente e contratto e nelle fasi finali, peritonitico.

Sono frequenti vomito e diarrea; in altri casi possiamo avere una sintomatologia abbastanza silente
(importante ricordare in questo caso che il primo passo è sempre il sospetto). La rettorragia è un segno
importante, ma purtroppo tardivo!

2. Ischemia mesenterica acuta trombotica:

Un’arteria parzialmente bloccata dall’arteriosclerosi si occlude completamente (con rottura della placca e
deposito piastrinico). Circa un 50% di questi pazienti presenta una storia di angina abdominis. Spesso sono
pz già indagati con un’angio-TC in quanto presentano già precedentemente dei sintomi, quali la paura del
cibo, la sazietà precoce, la perdita di peso e le variazioni dell’alvo; improvvisamente peggiorano, con quadro
di dolore e peritonismo, vomito e rettorragia.

Un'altra funzione importante dell’intestino è quella di barriera verso la traslocazione batterica: se ci sono
delle alterazioni del circolo, questa funzione può venire a meno, e si può osservare un rapido passaggio di
batteri in circolo che scatena PCR elevata, leucocitosi, fino all’infezione sistemica.

Nell’immagine, si osserva che il trombo si sviluppa


principalmente nella parte più prossimale della
mesenterica superiore.
Mentre l’embolo può o avvenire allo stesso livello,
per la preesistenza di un restringimento, o
leggermente più distale, a livello del ramo della
colica media, poiché si ha una brusca riduzione del
calibro.

3. NOMI (Non-occlusive mesenteric ischemia).

L’evento precipitante può essere:

a) Un’improvvisa caduta della gittata cardiaca (Infarto cardiaco o Scompenso cardiaco acuto),
b) Disidratazione,
c) Sepsi.

I sintomi risultano meno intensi, in quanto la progressione graduale induce il reclutamento dei circoli
collaterali con maggior preservazione della vitalità: infatti i sintomi si sviluppano in vari giorni e possono avere
dei prodromi di malessere e di dolori addominali vari. Quando si verifica l’infarto, il dolore aumenta, con
vomito, ipotensione, tachicardia e diarrea ematica.

All’anamnesi è presente malattia arteriosclerotica o precedenti interventi di ricostruzione vascolare. È


frequente nei pz anziani e nelle terapie intensive l’uso delle catecolamine, le quali se somministrate possono
portare ad un’ulteriore ischemia e sintomatologia.

4. Trombosi venosa mesenterica

Si verifica in pz più giovani, al di sotto di 40 anni. Si manifesta con una sintomatologia meno drammatica, che
può perdurare per più di un mese. Il dolore addominale può risultare essere acuto o subacuto, un esempio
di trombosi venosa mesenterica acuta è quella che si è osservata in questi mesi di pandemia, in quanto il

350
Covid è associato all’ipercoagulabilità. In anamnesi i pz presentano altri fdr per ipercoagulabilità
(contraccettivi, epatopatie, neoplasie, TVP in anamnesi e chirurgia porto-cavale).

Esempio di infarto venoso, il quale colpisce in modo segmentario


e ben delimitata. L’ischemia non ha dato completa necrosi, ma
osserviamo infarcimento di sangue per la stasi, scuro.
Possiamo facilmente resecare un tratto, preservando comunque
l’attività di assorbimento dell’intestino. Importante è ricordare
che, una volta resecato intestino, il pz deve essere scoagulato, per
evitare che abbia una nuova trombosi subito dopo l’intervento o
durante (si usa eparina in vena).

Fisiopatologia

Lo strato mucoso, il più lontano dalla vascolarizzazione, diventa anossico con fragilità e necrosi epiteliale.
Quindi il pz si presenta con diarrea e sanguinamento dal retto. Se subentra una necrosi e questa non viene
trattata si sviluppa una peritonite e uno shock settico.

Epidemiologia

A differenza delle forme croniche, in questo caso non c’è differenza fra sesso o razza. La fascia d’età più
giovane è tipica delle forme venose, mentre nell’anziano (over 60) è tipica la presenza di alterazioni del
circolo.

Sintomatologia

La sintomatologia è quella di un addome acuto, prima crampiforme e poi continuo, con vomito e diarrea
ematica, fino allo shock (ricorda che esistono delle manifestazioni più lente o silenti!). A seconda del
segmento coinvolto il dolore può essere più o meno rappresentato ad un lato dell’addome: quando interessata
l’arteria mesenterica superiore tende ad essere più diffuso, quando l’inferiore tende ad essere più sul lato sx.

[Dispense] L’estensione della necrosi e la sintomatologia dipendono dalla localizzazione dell’occlusione:

● Occlusione a. mesenterica in prossimità dell’aorta: sintomatologia acuta e di notevole intensità


● Occlusione a. mesenterica distale: sintomatologia sfumata.

La diarrea sanguinolenta è un segno di prognosi sfavorevole.

Imaging

RX addome, è stata un’indagine importante quando non c’era la possibilità di fare altro! Ad oggi si preferisce
effettuare un’angio-TC. All’RX si può osservare aria libera in addome, volvolo e intussuscezione, livelli
idroaerei e ispessimento parietale.

L’angio-TC permette di precisare l’estensione e la sede dell’ostruzione. L’unica eccezione in cui si esegue un
esame prima dell’angio-TC è quando è presente un radiologo in grado di effettuare nel modo efficace un
ecocolordoppler, la quale quindi risulterà altrettanto utile e più rapida.

L’angiografia è precisa e chiara per mostrare lo stop del trombo-embolo: tuttavia non tutti i centri hanno a
disposizione questo esame strumentale, inoltre si effettua in seconda battuta, dopo ecodoppler o angio-TC.
L’angiografia spesso rientra come prima fase del processo terapeutico di embolectomia o di dilatazione
percutanea.

RMN: usata per valutare l’occlusione, ruolo limitato nella diagnostica.

DD

351
Con altre cause di addome acuta quali diverticolite, appendicite, Crohn, malattia peptica, malattia
infiammatoria pelvica, trauma, adenocarcinoma e colite pseudomembranosa, enterocolite necrotizzante,
tiflite, colite ulcerosa, pneumatosi intestinale.

Mortalità e complicazione

La mortalità da tutte le cause raggiunge il 70% e la maggior causa di mortalità è la necrosi intestinale.
L’adeguatezza dei circoli collaterali e un appropriato trattamento possono diminuire la percentuale di
mortalità.

Trattamento

Il trattamento medico è un trattamento di accompagnamento. Alla base abbiamo sempre un supporto


intensivistico in quanto sono pz in shock e spesso con comorbidità; i pz sono complessi ed è fondamentale
un’equipe multidisciplinare.

Se sono da effettuare degli interventi chirurgici, non bisogna esitare: gli interventi possono essere

● Embolectomia
● Bypass
● Resezione intestinale

Altri trattamenti possono sfruttare la radiologia interventistica, anche in questo caso in modo tempestivo,
per permettere di perdere meno tessuto possibile: si può effettuare una trombolisi o un’angioplastica. Più
breve è il tempo door-baloon, meglio sarà la prognosi per la sopravvivenza e per la funzionalità dell’organo.
Gli interventi chirurgici non sono mini-invasivi, sono interventi di chirurgia tradizionale:

Nell’embolectomia in questa immagine si


effettua un accesso dal retroperitoneo, al di
sopra dell’aorta, e si ricerca l’arteria
mesenterica dal meso. Si incide l’arteria e
viene estratto l’embolo con l’aiuto di
Fogarty6 o con delle pinze e si ricostruisce il
vaso con un patch per aumentare il lume.

Questi sono esempi di bypass: per ripristinare il circolo,


prendendo dall’aorta direttamente, dall’iliaca o dalla
renale, sfruttando come vaso una vena safena invertita.

Attenzione! Il ricircolo di sangue nell’arteria non garantisce che sia vitale il tratto di intestino, in questa
situazione diventa fondamentale il second look chirurgico a 24-48 h, in modo laparoscopico: si valuta
aspetto, colore e polso e doppler.

6
Il catetere per embolectomia arteriosa di Fogarty è un dispositivo medico finalizzato alla rimozione di emboli
e trombi che si vengono a formare all'interno di un vaso della circolazione arteriosa.

352
Complicazioni

1. Necrosi massiva,
2. Shock settico,
3. MODS, MOF e morte,
4. I pz con diagnosi alla comparsa dello stato settico hanno una mortalità superiore al 90%,
5. Anche con trattamento ottimale, la mortalità è stimata dal 50-80%,
6. Chi sopravvive alla resezione, presenza malassorbimento se l’ileo residuo è inferiore a 70 cm è
necessaria la nutrizione parenterale.

Conclusioni

● Popolazioni a rischio (anziani, ipoperfusi, ipercoagulabilità),


● Sintomatologia dolorosa sfumata,
● Lab: leucocitosi, elettroliti e amilasi,
● Imaging RX-TC-angio,
● Digiuno, Ab, correggo liquidi ed elettroliti, terapia intensiva se MOD,
● Trattamento chirurgico o di radiologia interventistica.

ULCERA PEPTICA PERFORATA

UPP è una soluzione di continuità a tutta parete7 di un’alterazione peptica ulcerosa a livello gastrico o
duodenale con conseguente peritonite chimica (=generata da una perforazione di un viscere cavo). È una
vera e propria emergenza, un addome acuto catastrofico.

Classificazione
• in base alla sede: gastrica o duodenale. Circa il 25% sono perforazioni da ulcere gastriche, mentre il
75% sono ulcere duodenali, di quest’ultime, la sede più frequente è la parete anteriore del duodeno
(a livello del bulbo).
[Sbobine 2019] spesso non si riesce a capire fino all’intervento. In questi casi non si fa un’endoscopia,
ma si porta direttamente in sala.
• in base al confinamento peritoneale: localizzata (in qualche raro caso, se all’ulcera sono associate
delle aderenze, si possono vedere delle forme tamponate, delle raccolte peritoneale, degli ascessi) o
generalizzata (la forma più frequente).
• in base alla insorgenza dei sintomi: precoce (< 6 ore) o tardiva (> 6 ore); il timing nei confronti
dell’insorgenza dei sintomi era un elemento importante nel passato, ad oggi molto meno.
⇒ Nel passato, se si era entro le 6h si procedeva ad effettuare degli interventi più complessi,
nell’intento di curare l’ulcera; mentre oltre le 6h la contaminazione peritoneale precludeva
questa opzione.
⇒ Tuttavia, ad oggi questa distinzione non si fa più! La possibilità di eradicare l’Helicobacter
Pylori, ci permette di non essere demolitivi nel trattamento chirurgico: sarà sufficiente
suturare e mettere un patch di omento al di sopra della perforazione + trattare il pz con
inibitori di pompa protonica, per evitare che si ripeta l’evento.

Sintomi
• Si tratta di un dolore addominale di insorgenza molto acuta, drammatico, accusato come una
coltellata in regione epigastrica.
Per valutare il dolore addominale, in emergenza, si può utilizzare l’acronimo OPQRST:

7
Differisce quindi dall’ulcera semplice in cui parliamo di una soluzione di continuità parziale: anche nell’UP
possiamo avere delle condizioni acute, gravi e che richiedono un trattamento di emergenza (medico o
endoscopico o chirurgico).

353
O Onset Molto acuto, coltellata R Irradiazione Tutti i quadranti addominali

P Pallation-Provocation Non si modifica S Severity Intensità molto elevata

Q Quality Trafittivo T Timing Precoce insorgenza del dolore

[EOA addome piano, dolente alla palpazione e contratto, con peritonismo e in assenza di borborigmi].
• È accompagnata da peritonismo. Il pz tende ad assumere una posizione laterale e con gambe flesse,
per cercare di diminuire la tensione a livello addominale.
• Si ha la scomparsa dell’ottusità epatica8, segno fondamentale in quanto indice del passaggio di aria
nel peritoneo (visibile anche a livello radiologico).

Fisiopatologia
1. Progressione della patologia peptica, con erosione progressiva della parete fino alla sierosa.
2. Spandimento del contenuto in peritoneo, fino all’irritazione peritoneale inizialmente chimica.
3. Reazione flogistica fibrinosa e poi purulenta per sovrapposizione batterica con quadro di peritonite
generalizzata o localizzata.

Diagnosi

Il segno patognomonico di perforazione di organo cavo è la presenza della falce


d’aria sottodiaframmatica, la quale è visibile attraverso una radiografia in posizione
ortostatica o al massimo seduta. La falce d’aria può essere anche presente nelle
perforazioni di un diverticolo del sigma.
L’aria può non essere presente al di sopra del fegato nel caso in cui siano presenti
delle aderenze, si possono osservarle al di sotto o nelle proiezioni tangenziali.

Anche se non è necessaria, la TC ormai è così disponibile che viene sempre associata: questa metodica non
solo ci permette di vedere aria libera, ma ci può indirizzare anche sulla sede della perforazione anche se quasi
mai si ha la sicurezza.

Terapia
Indicazione chirurgica è assoluta, nel giro di 1-2h si opera. Ci sono rari casi in cui il paziente non si opera
immediatamente, ad esempio se c’è un grave squilibrio metabolico (acidosi), idrico, emodinamico o
farmacologico (in terapia con TAO). Ciò nonostante, anche in questi casi, una volta trattato lo shock,
l’intervento viene comunque effettuato tempestivamente!

Tipi di intervento:
• Intervento laparotomico:
⮚ Ulcorrafia
⮚ Ulcorrafia + piloroplastica + vagotomia
⮚ Resezione gastrica
• Intervento laparoscopico:
⮚ Ulcorrafia
Nell’intervento laparotomico viene esposta la zona della perforazione, viene suturata direttamente oppure
ricoperta con un patch di peritoneo che permette di evitare uno spandimento. Nelle ulcere callose e dure,
con tessuto retratto e raggrinzito, la sutura potrebbe solo peggiorare la perforazione e ampliarla: è quindi
più indicata la resezione. Tuttavia, l’ulcorrafia laparoscopica è l’intervento più effettuato.

8
L’ottusità epatica è presente fisiologicamente in tutti gli individui, a parte in quei rari pz che presentano un
tratto di colon davanti al fegato o Sindrome di Chilaiditi.

354
Nell’intervento video-laparoscopico della riparazione UPP con patch le fasi sono:
1. Posizionamento: il pz viene posizionato supino, alcuni chirurghi preferiscono posizionarsi fra le
gambe del pz, altri alla sinistra.
2. Viene creato lo pneumoperitoneo.
3. Viene posizionato un trocar da 10 mm sovra-ombelicale per l’ottica e per visionare l’addome. Sotto
visione, viene inserito un port da 5 mm lungo il margine costale sx, sulla linea emiclaveare e un port
da 5 mm lungo la linea emiclaveare, in ipocondrio dx. Nel caso in cui il fegato mascheri la
perforazione, va posizionato un port da 5 mm in epigastrio.

4. La perforazione viene chiusa con un duplice strato di punti


e viene posizionato un patch omentale (omentopessi)
direttamente sulla sede di perforazione. Questo approccio evita
la tensione sui margini infiammati dell’ulcera e che i punti
seghino i tessuti.

5. Un’altra manovra chiave dell’intervento è il lavaggio


peritoneale: il quale va eseguito in tutti i quadranti, con il pz in
diversi decubiti; affinché si possano rimuovere tutti i detriti e la
fibrina.

Il professore sottolinea che l’intervento è uno dei più rapidi, anche di 40 minuti.

Alcuni studi alternativi hanno optato per ulcorrafie con ausilio di colle di fibrina.

Esiste una terapia alternativa che va sotto il nome di Taylor, per il pz con pluri-comorbidità. In questo caso
non si opera il paziente, si mette un sondino nasogastrico, si mettono antibiotici e si inibisce la secrezione
gastrica. Questa opzione ha una mortalità dal 30-60%, la quale diminuisce nel momento in cui si associa
all’approccio di Taylor una laparoscopia rapida (10 minuti) per posizionare un drenaggio.

Post-operatorio e prognosi
Nei casi senza gravi alterazioni metaboliche, con un intervento laparoscopico precoce, si avrà un recupero
rapido e favorevole. Nei casi di grave compromissione o intervento tardivo, la prognosi sarà peggiore.

Conclusioni
● È una patologia frequente, ad esordio repentino che evolve in addome acuto.
● La diagnosi è semplice guidata dalla sintomatologia e dall’imaging.
● L’intervento chirurgico è indispensabile, precoce e preferibilmente mininvasivo.
● La prognosi variabile dalle condizioni di basi.

GRAVIDANZA ECTOPICA

Si tratta di un’emergenza molto importante. È l’impianto dell’ovulo fecondato al di fuori della cavità uterina
che determina, tramite l’erosione coriale, emorragia nella sede di impianto. È una patologia frequente (fino
al 2% delle gravidanze) e rappresenta il 9% dei decessi in gravidanza.

Fisiopatologia
La fecondazione avviene in modo normale, è l’annidamento che avviene in sede anomala. Nella maggioranza
dei casi il prodotto del concepimento si va a impiantare a livello tubarico (principalmente a livello

355
dell’ampolla). Il corion erode la mucosa della parete tubarica, fino a causarne la rottura con sanguinamento
cospicuo in peritoneo. Causa irritazione peritoneale, ma il problema principale è l’emorragia. Il
sanguinamento è molto consistente in quanto il corion non è solo in grado di erodere la parete fino ai vasi
(placenta emocoriale), ma anche di rilasciare dei fattori anticoagulanti.

Sedi
• 99% Tuba:
⮚ 64% Ampolla
⮚ 25% Istmo
⮚ 9% Infundibolo
⮚ 2% Giunzione intramurale
• 0.5% Ovaio,
• 0.4% Cervice,
• 0.1% Addome,
• 0.05% Intralegamentosa.

Fattori che favoriscono la gravidanza extrauterina:


• IUD (spirale),
• Endometriosi,
• IVG,
• PID,
• Precedente chirurgia tubarica,
• Precedente chirurgia addominale,
• Aderenze addominali,
• Miomi,
• Contraccettivi progesterinici,
• Clomifene (per tumore alla mammella),
• Utero a T,
• Precedente gravidanza extrauterina.

Sintomatologia
• Dolore acuto addominale, solitamente inferiore, nella regione sovrapubica (in qualche caso il dolore
può essere molto limitato o addirittura silente).

O Acuto ai quadranti inferiori R Ai genitali, al dorso

P Non risponde molto ai FANS S Intensità da 6 a 10, lieve a volte

Q Crampiforme, trafittivo T Spesso preceduto da dolori meno intensi

• Stato di shock, legato all’emorragia, quindi la pz è tachicardica con ipotensione, a volte


completamente asintomatiche dal punto di vista ginecologico, ma che giungono in PS per sincope.
[sbobine 2019]
• Riferita amenorrea (90%) o spotting,
• Quando si instaura l’emoperitoneo, si ha peritonite e contrattura peritoneale con Blumberg +, segno
che si riflette all’esplorazione vaginale, nel dolore al cavo del Douglas in prossimità del fornice
posteriore (o grido del Douglas, ma non è una costante).
• Può esserci massa annessiale (raro).

Diagnosi
Si effettua con la concomitate presenza di test gravidanza positivo + ecografia che si mostra:
1. Utero disabitato, senza prodotto del concepimento,

356
2. Tumefazione tubarica,
3. Versamento peritoneale.
→ se l’utero è vuoto siamo davanti a una gravidanza extrauterina o c’è stato aborto molto recente in cui la
gonadotropina non si è ancora ridotto. [sbobine 2019]

Terapia
La terapia chirurgica è assoluta e precoce. Lo shock, anche grave, è di tipo ipovolemico e viene trattato
contestualmente all’intervento.
In centri specializzati, se non c’è shock ed è presente un sanguinamento limitato si può pensare, previa
valutazione ginecologica, di fare astensione chirurgica. In questi casi si può utilizzare il methotrexate, farmaco
per indurre la necrosi del corion a livello tubarico. [sbobina 2019]

Tuttavia, le LG sottolineano che lo standard è il trattamento chirurgico. In prima istanza si tenta un


trattamento laparoscopico, ma se non si controlla in modo adeguato l’emorragia, si converte in
laparatomico. A meno che non si sia in un ospedale specialistico, l’operazione è di tipo demolitivo: con
rimozione della tuba e del prodotto di concepimento.

Nell’intervento chirurgico:
1. Si aspira l’emoperitoneo.
2. Si identifica la sede della gravidanza ectopica e si controlla l’emorragia: si solleva la tuba e si sfrutta una
suturatrice lineare GIA in grado di tagliare e suturare contemporaneamente.
3. Si effettua una valutazione tubarica:
a. Nei centri specializzati si può optare per la conservazione con incisione e spremitura,
b. Nelle situazioni standard, si effettua resezione e asportazione della salpinge.
4. Si evacua il prodotto del concepimento
5. Aspirazione e lavaggio dell’emoperitoneo.

Postoperatorio e prognosi
Generalmente non vi sono complicanze, il decorso postoperatorio è breve e la ripresa è rapida.

Conclusioni

● Sospetto diagnostico su anamnesi ed esame obiettivo,


● Conferma con ecografia e test di gravidanza,
● Intervento immediato,
● Talvolta è subdola in quanto può dare shock e mortalità significativa.

357
Prof. Solej
Marta Boschero

ADDOME ACUTO
Con il termine addome acuto si intende una sindrome caratterizzata da dolore addominale che duri da meno
di una settimana. Questa definizione è stata coniata nel 1921 da Sir Zachary e può essere ancora accettabile,
anche se le definizioni più importanti sono quelle che cercano di descrivere in maniera più accurata
l’insorgenza acuta e l’eventuale richiesta di un intervento tempestivo, quindi acuto.
Altre definizioni di addome acuto sono:
• Ogni condizione acuta addominale che richieda un intervento chirurgico immediato (Dorland)
• Ogni condizione in cui l’inizio o l’esacerbazione dei sintomi addominali non duri da più di 7 giorni e
che, se non trattata, determini la morte o migliori entro una settimana
• Qualunque situazione di disturbi addominali acuti che derivano da una malattia che minacci o possa
minacciare la vita
• Addome acuto è quella patologia che richiede una decisione acuta definizione di Moore,

La definizione migliore di addome acuto è quella che descrive il tempo di insorgenza (l’addome acuto ha
un’insorgenza acuta) e che descrive la tempestività dell’azione che ne segue, che è prevalentemente
chirurgica.

CARATTERISTICHE
• Segni e sintomi a genesi addominale o riferiti all’addome tra i quali il dolore addominale è sempre
presente
• Insorgenza acuta, di solito improvvisa
• Quasi sempre ha un interesse chirurgico
• L’addome acuto classico è presente nei 2/3 dei casi, mentre in 1/3 dei casi vi sono quadri atipici o si
tratta di falso addome acuto.

PRIORITÀ
• Valutare se c’è un pericolo di vita e supportare ABCD
• Individuare le cause extraddominali di sintomatologia, come l’infarto, o incompatibili con la vita,
come la dissezione aortica
• Individuare la necessità di un intervento di urgenza o emergenza
• Individuare i pazienti in cui è opportuno un approfondimento diagnostico o un periodo di
osservazione dai pazienti che necessitano di intervento immediato

358
FLOWCHART
Fondamentali sono le
valutazioni delle condizioni
generali, quindi anamnesi ed
esame fisico se si possono fare,
eventuale ABCD nel caso in cui
il paziente abbia una
condizione di shock settico o
sepsi generale, valutare se il
nostro trattamento riesce a
ripristinare l’ABCD; a questo
punto il paziente può anche
andare incontro a indagini
standard e orientamento
diagnostico che permettono di
fare diagnosi chirurgica, cosa
che non sempre è possibile
fare.
Se la diagnosi è incerta bisogna passare all’osservazione, se possibile, ed eventualmente a ulteriori indagini.
Se la condizione non è chirurgica bisogna passare al ricovero o alla dimissione.
Sulla diagnosi chirurgica influisce la stabilità emodinamica del paziente, se è possibile fare ulteriori indagini
per poter affinare la diagnosi stessa oppure se è necessario fare direttamente l’intervento chirurgico.
Nella parte destra della flow chart se ha la situazione in cui il ripristino dell’ABCD non è fattibile: in questo
caso l’intervento chirurgico non sarà più d’urgenza, bensì d’emergenza, come ad esempio in caso di rottura
di milza.

SINTOMI
Il sintomo principale dell’addome acuto
è il dolore addominale, che può essere
di tipo somatico o di tipo viscerale. Il
primo è ben localizzabile dal paziente e
origina da muscoli, ossa e aponeurosi. In
ambito addominale il peritoneo
parietale e il diaframma seguono queste
vie di trasmissione, per cui il dolore
viene riferito alla superficie corporea
corrispondente. In casi particolari anche
le strutture viscerali sono in grado di
produrre un dolore (tracimazione dello
stimolo) di tipo somatico che però nella
maggior parte dei casi è di tipo viscerale
e può essere provocato da stimoli di
natura diversa quali la distensione, lo
spasmo, gli stimoli chimico-fisici come il
sangue o le feci. Il dolore viscerale è
riferito ad aree e regioni corporee più ampie e meno precise ed è avvertito in aree distanti dall’organo di
origine. Il più tipico è quello dell’appendicopatia, quindi dell’appendicite acuta, dove l’iniziale dolore viene
avvertito in epigastrio-mesogastrio e poi tende a localizzarsi e diventare somatico in fossa iliaca destra. Il
dolore viscerale può essere associato a riflessi neurovegetativi come nausea, vomito, tachicardia, tachipnea
e sudorazione.
Sono due dolori diversi ma sono presenti entrambi.

359
I punti di sezione del dolore viscerale, si dividono in: parte
alta, centrale e bassa. I primi sono stimoli legati al tronco
celiaco, i secondi all’arteria mesenterica superiore e gli
ultimi all’arteria mesenterica inferiore, quindi in
mesogastrio e regione pubica.
Solitamente il dolore viscerale è medio-epigastrico od
ombelicale, diffuso, vago, poco localizzato. Può essere
sordo e costante soprattutto negli organi solidi,
crampiforme o colico intermittente negli organi cavi e può
evolvere in un dolore di tipo parietale.

Il dolore parietale è ben più localizzabile in 4 quadranti:


superiore destro, superiore sinistro, inferiore destro e
inferiore sinistro. Questi sono gli esempi della colecistite
acuta (superiore destro), dell’appendicite acuta o del
morbo di Crohn (inferiore destro), della diverticolite
acuta o della perforazione in generale (inferiore sinistro).
Il dolore parietale è ben localizzato, intenso, tende ad
essere unilaterale, costante, molto vivo, il paziente per
questo dolore tende ad assumere posizioni antalgiche,
può essere provocato dai movimenti e da stimoli
parietali come tosse o respirazioni profonde.

I dolori addominali irradiati, sono dovuti principalmente


a linee nervose del dolore che sono in comune.
Il dolore irradiato è un dolore avvertito in una sede
diversa da quella di origine, può essere intraddominale o
extraddominale, ed è dovuto ad una convergenza
sensitiva somatoestesica e visceroestesica, per cui vi è
un’interpretazione incongrua ed inadeguata da parte del
cervello e il dolore viene localizzato anche in una sede
differente da quella dov’è presente la causa dolorosa.
L’esempio tipico è quello della colecisti, con il dolore che
si irradia alla spalla destra, oppure quello della pancreatite, con il dolore irradiato a barra.

Il dolore diffuso è tipico delle fasi iniziali, di patologie acute


che possono non essere necessariamente chirurgiche.
Insorge negli organi o nel peritoneo, è legato a stiramento
o irritazione delle terminazioni nervose libere. Gli esempi
tipici sono la peritonite, la pancreatite, le gastroenteriti se
sono acute e importanti, l’ischemia intestinale,
l’occlusione intestinale nelle fasi iniziali, le IBD, gli
aneurismi dell’aorta addominale, le malattie metaboliche
e sistemiche. È un dolore di tipo vago, poco localizzato,
sordo e poco evocabile. È un dolore e non una dolorabilità.

La genesi del dolore addominale nell’addome acuto può


essere:
• Distensione da dilazione delle anse
• Trazione (tendere o stirare)
• Edema (congestione vascolare)
• Infiammazione

360
• Ostruzione (peristalsi+distensione+flogosi)
• Ischemia che può essere diretta (come nel caso dell’infarto intestinale) o indiretta (ex da volvolo
intestinale o ernia inguinale che crea un’ischemia)
• Irritazione chimica (da sangue, peritonite stercoracea, sepsi, etc...)

I fattori che alterano la percezione del dolore possono essere:


• Età: i bambini non localizzano esattamente il dolore, gli anziani hanno una riduzione della percezione
del dolore
• Sopportazione: gli anziani e gli obesi hanno una sopportazione del dolore maggiore degli adulti
normali, all’interno della stessa fascia d’età ci sono persone che sopportano meglio il dolore
• Condizioni pre-esistenti: neuropatia diabetica, etilica o da farmaci
• Percezione del dolore: differisce tra i soggetti
• Lo stato mentale: isterismo e stress emotivo tendono ad aumentare la percezione del dolore.

ANAMNESI
Quando si fa l’anamnesi è importante sapere quando è insorto il dolore, se ci sono possibilità di palliazione,
la qualità del dolore, l’irradiazione, l’entità e la durata. Attraverso il OPQRST si valuta: insorgenza (onset),
palliazioni, qualità (continuo, crampiforme, etc), irradiazione, entità, durata; questo è fondamentale nella
gestione del dolore. In più bisogna chiedere se ci sono stati episodi analoghi in passato.
Bisogna valutare se ci sono:
• Precedenti esami diagnostici,
• La presenza di vomito, nausea e anoressia,
• La canalizzazione a feci e gas,
• La minzione, ad esempio vi sono casi di appendicite o diverticolite che presentano una sintomatologia
identica ad una colica renale, soprattutto quando il calcolo è già nella parte bassa dell’uretere; quindi
molte volte il paziente con colica renale con calcolo già inoltrato nell’uretere presentano il segno di
giordano negativo e il paziente ha una sintomatologia dolorosa uguale a quella dell’appendicite. La
diagnosi differenziale in questi casi si fa solo attraverso la diagnostica strumentale. In particolare, nel
sesso femminile è più difficile fare diagnosi differenziale del dolore addominale nei quadranti inferiori.
• Le mestruazioni, le perdite o gravidanze nelle donne è d’obbligo la ricerca di una gravidanza, poiché
non è frequente, ma neanche così infrequente la diagnosi di gravidanza ectopica
• Calo ponderale importante poiché molte situazioni acute derivano da patologie neoplastiche
• AMPLE: -Allergie-Medicine-Patologie precedenti -L’ultimo pasto-Eventi
Non è un’anamnesi mirata ma ci permette man mano che si parla co il paziente di cercare di orientarci verso
quella che può essere la causa del dolore e dell’addome acuto.

ESAME FISICO
• Atteggiamento antalgico/posture obbligate: è fondamentale osservare il paziente. Ex: paziente con
vero addome acuto è un paziente che sta immobile nel letto, se ci riesce si mette in posizione fetale
per far riposare i foglietti peritoneali e star un po’ meglio, se si cerca di muovere questo paziente ha
malissimo. Il paziente con la colica reale invece non riesce a stare fermo dal dolore insopportabile che
ha, stessa cosa per la colica biliare. Solitamente nei dolori di tipo colico il paziente è agitato, nei dolori
perforativi il paziente è fermo perché il movimento dei foglietti peritoneali gli provoca dolore.
• Cicatrici di pregressi interventi che ci possono indirizzare verso una sindrome occlusiva o aderenziale
o tumorale
• Segni non locali di patologia (facies...)
• Dolore spontaneo / alla palpazione/di rimbalzo dato da irritazione peritoneale (Blumberg)
• Contrattura di difesa addominale, dato molto significativo di perforazione e peritonite. Caratteristica
del vero addome acuto, come nella peritonite vera da perforazione (ex da perforazione colica: i
pazienti con questo quadro hanno solitamente una vera contrattura addominale, poiché le feci hanno
un forte potere irritativo, oltre ad essere contaminate da batteri in modo importante), a differenza

361
della perforazione gastrica, dove il dolore a pugnalata è presente all’inizio, poi dipende da molte
caratteristiche, principalmente da quanto era pieno lo stomaco, quindi il dolore è da irritazione
chimica, non batterica. Ci sono infatti pazienti, soprattutto anziani, che arrivano in PS con
perforazione gastrica, con sintomatologia non così eclatante.
• Peristalsi: può essere presente/aumentata/ridotta/assente. Ex: paziente occluso nelle prime ore ha
un peristaltismo importante, che si accompagna ad una sintomatologia dolorosa importante.
L’occluso da 3-4 giorni avrà un addome disteso, meteorico, ma senza peristalsi, né dolore: è un segno
negativo, indice che la parete intestinale non ha più forza per poter fare nulla, con possibile
perforazione.
• Canalizzazione: concludere sempre l’esame obiettivo con un’esplorazione rettale
• Timpanismo/ottusità epatica, per la ricerca di eventuali perforazioni. È difficile trovare l’ottusità
epatica solo con la percussione, a meno che il paziente non abbia una perforazione importante.

L’esame obiettivo si fa cominciando dalle zone meno dolenti (sempre che il paziente abbia l’addome
trattabile), in senso orario o antiorario (questo perché se comincio palpando la zona dolente, il paziente
contrae e l’addome non sarà più trattabile):
• Ispezione
• Palpazione
• Percussione
• Auscultazione
• Segni speciali, caratteristici di alcune patologie (Blumberg, Murphy, Mc Burney, Giordano...)
• L’esplorazione rettale è fondamentale, va fatta sempre nell’EO e nell’esame fisico, ma nell’addome
acuto ancora di più perché ci permette di valutare l’ampolla, se c’è dolore alla palpazione, l’eventuale
presenza di sangue o masse, ci permette di valutare la prostata, di capire se ci sono feci come sono
queste ultime.
• Nella donna è importante anche l’esplorazione vaginale soprattutto se il dolore è basso nei quadranti
inferiori per valutare se ci sono perdite, dolore, masse, utero e annessi anche se non valutabili con la
solo esplorazione.

TIPOLOGIE
• Catastrofico o drammatico: classico in caso di emoperitoneo o perforazione con peritonite
stercoracea. L’addome acuto drammatico o catastrofico è dato dalla rottura di un grosso vaso
viscerale o dell’aneurisma dell’aorta addominale o dalla perforazione di un organo o viscere cavo,
dalla pancreatite necrotica emorragica, dalla gravidanza ectopica e dall’infarto intestinale, che è
drammatico nelle fasi iniziali, ma poi in realtà il dolore tende ad attenuarsi. Ogni volta che vi è
sospetto di infarto intestinale è necessario eseguire un’angioTC e non perdere tempo, per evitare che
diventi un infarto massivo. L’infarto intestinale solitamente non è massivo e non richiede un
trattamento chirurgico; può essere embolico o stenotico; se stenotico si può rivascolarizzare, se
embolico si può mettere una protesi.
• Infiammatorio: su base irritativa per processo flogistico che interessa un organo cavo o non cavo che
trasmette. Può essere dato da appendicite acuta, colecistite acuta, pancreatite acuta, colangite
acuta, Pelvic Inflammatory Disease, IBD, malattia peptica non perforata e non complicata, peritoniti
possono essere non solo secondarie ma anche primitive, NSAP (non specific abdominal pain).
• Colico/occlusivo: da occlusione intestinale o dalle coliche biliari o renali
• Traumatico
• Falso addome acuto:
o Pseudo addome acuto
o Patologie non addominali come la polmonite basale destra che mima in tutto i sintomi della
colecistite acuta
o Patologie sistemiche
Patologie intraperitoneali che possono simulare un addome acuto possono essere: colon irritabile,
adenite mesenterica, ileo paralitico, angina abdominis, (Gastro)enterite (tifo, staph.), malaria,

362
tubercolosi, epatite acuta.
Le patologie retroperitoneali che possono simulare l’addome acuto sono: calcolosi reno-ureterale,
pielonefrite, infarto renale, lombosciatalgia, mieliti.
Anche patologie toraciche possono indurre interventi inutili come: infarto miocardico, pericardite,
scompenso cardiaco, polmonite, pleurite, embolia polmonare.
Patologie sistemiche che possono simulare un addome acuto sono: porfiria acuta intermittente,
diabete, leucemie e linfomi, anemia a cellule falciformi, ittero emolitico, emocromatosi, iperlipemia
familiare, sifilide, tetano.

ESAMI di LABORATORIO
• Emocromo
• Glicemia
• Azoto ureico, Creatinina
• Transaminasi
• Bilirubinemia
• Amilasemia
• Elettroliti (Na,K,Ca,Cl)
• EGA
• Coagulazione, albumina, D dimero
• Creatin-fosfo-chinasi(CPK), troponina
• Esame urine
• Test di gravidanza (per le donne in età fertile)

PROCEDURE COMUNI
Tra le procedure comuni troviamo il posizionamento del sondino naso-gastrico (non a tutti, ma se il paziente
presenta: vomito > rischio ab ingestis, presenza di sangue, valutazione ristagno (tipo e quantità)), del catetere
vescicale (che permette di valutare diuresi oraria, caratteristiche, ritenzione urinaria acuta) e accesso venoso
periferico di calibro elevato o il centrale per il monitoraggio della PVC. Queste sono manovre che non si fanno
solo nell’addome acuto, ma nel paziente che viene accolto in PS o in reparto che abbia condizioni acute come
le emorragie digestive.

DIAGNOSI
In ogni paziente con dolore addominale va comunque fatto l’ECG nei primi 10 minuti, in quanto capita molte
che volte che i pazienti che lamentano dolore addominale alto hanno poi un sotto slivellamento all’ECG.

L’Rx addome diretto dev’essere eseguito per vedere se ci sono


livelli idroaerei, sovradistenzione ileocolica, aria libera o calcoli
radio-opachi.
L’Rx torace è importante per valutare la presenta o l’assenza di una
patologia intratoracica e la presenza di aria libera. Di solito si fanno
in associazione. A destra la semi luna gassosa che indica la presenza
di aria.

L’ECOGRAFIA può essere utile per valutare molte patologie in


quanto permette: valutazione parenchima epatico, valutazione
parenchima splenico, patologia biliare, patologia pancreatica,
patologia urinaria, patologia genitale, versamento libero, raccolte endoaddominali, aneurisma aorta
addominale.

L’esame fondamentale è la TC con mezzo di contrasto che permette di vedere la presenza di:
• Versamenti
• Di studiare in maniera più adeguata gli organi cavi

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• Parenchimi e quindi il pancreas
• Vasi
• Parete
Nella stragrande maggioranza delle patologie che determinano addome acuto la TC rimane l’esame di
secondo livello che viene quasi sempre chiesto per accertare l’origine del problema.

Domande: basta la TC senza mdc? In generale no, la TC va fatta con mdc, poiché i parenchimi si vedono solo
col mdc, anche se ci sono delle eccezioni, per esempio se si fa solo per visualizzare un versamento; o anche se
c’è l’infiammazione, come una diverticolite, si vede senza mdc, quindi può bastare. In questo quadro però se
vedessi delle bollicine (= segno di perforazione) potrei non riuscire a capire se sono dentro il colon o fuori
(anche se non cambia l’indicazione chirurgica, che dipende dalla stabilità emodinamica del pz e non da una
bollicina). Altro caso in cui basta solitamente la TC basale è quello dell’appendicite acuta: quando c’è un
dubbio all’ECO e alla TC basale si evidenzia una “palla a cerchio con la classica immagine a bersaglio con
coprolita dentro” quella è un’appendicite acuta. Altro caso eccezionale è quando il paziente è allergico
specificatamente al mdc o nel sesso femminile se il soggetto è giovane, meglio farla senza mdc. Nella
gravidanza ectopica serve la TC? Solitamente basta l’ECO, associata a un quadro di addome acuto spesso con
instabilità emodinamica + ormoni della gravidanza positivi >>si porta direttamente in sala.

Ci sono poi anche altri esami che possono essere richiesti non in urgenza, ma come secondo livello e che
permettono di affinare la diagnosi. Questi sono: Rx digerente o clisma con mezzo di contrasto, risonanza
magnetica (colangio RMN), angiografia, eco-doppler e scintigrafia. Vi sono poi EGDS, RCP, colonscopia e
rettoscopia che possono essere eseguiti in acuto quando sospettiamo una causa emorragica o per calcolosi
del coledoco.
Si può ancora fare una puntura esplorativa (si fa una puntura sotto guida eco per vedere cosa c’è, oppure si
può fare una mini-incisione (solitamente a dx, dove c’è il cielo più facilmente rimovibile). Questi esami si
facevano quando non c’era la TC), ma di fatto poi questa è seguita da una laparoscopia. Quindi, in caso non
si arrivi ad una diagnosi definitiva, la laparoscopia è un esame da fare, quando non si capisce la causa della
sintomatologia.

Nella tabella a destra sono presenti


alcune delle patologie localizzate a
stomaco e duodeno che possono essere
causa di addome acuto, divise per gravità.
Le prime sono l’ulcera perforata o
sanguinante, dove si richiede un ricovero
urgente e molte volte anche un
intervento eseguito in urgenza.

[Dalla sobina 19/20]


L’ulcera o gastroduodenite può evolvere
in ulcera perforata o sanguinante;
entrambe sono un’urgenza, con la
differenza che l’ulcera sanguinante è un’urgenza endoscopica: si esegue gastroscopia, ma se in pz non
risponde dopo 2 o 3 tentativi endoscopici si passa ad una laparotomia super selettiva o una resezione gastrica;
mentre l’ulcera perforata necessita una gestione chirurgica.
L’ulcera duodenale interessa prevalentemente il bulbo duodenale, ma a seconda della sede, la gestione può
essere più complessa, per esempio se l’ulcera è in prossimità della via biliare non è più sufficiente una
resezione gastrica.
Il dolore dell’ulcera gastrica è un dolore molto acuto, di tipo chimico, che è provocato dall’entrata dell’aria
(come il dolore durante la colonscopia è provocato dall’abnorme distensione dell’intestino data dall’aria, che
provoca la compressione delle fibre nervose); questo dolore con tempo si attenua, per ragioni chimiche,
ovvero per la saliva e i succhi gastrici. Dopodiché il paziente può diventare peritonitico e sviluppare una
contrattura addominale.

364
COLECISTI E VIE BILIARI
La colica biliare può causare un addome acuto,
da calcolosi della colecisti, con calcolo che si è
incuneato nella via biliare: l’addome acuto in
questo caso si può risolvere con
somministrazione di antidolorifico e
antispastico.
La colecistite acuta, nonostante non sia
solitamente una urgenza chirurgica immediata e
si può cercare si raffreddare, è necessario
comunque fare attenzione, poiché questo
quadro può evolvere in ileo per empiema in 12h,
il quale può evolvere in gangrena della colecisti
in 24h. È quindi necessario capire quando è
iniziato il dolore, che può iniziare come colica biliare, che diventa una colecistite acuta, che si può perforare.
Questi pz necessitano di ricovero e intervento chirurgico immediato o, solitamente, si prova a fare una terapia
antibiotica prima dell’intervento. Altro problema è quello dei pz che hanno già subito manovre sulle vie biliari,
come un ERCP o che hanno una fistola tra colecisti e intestino e sviluppano una colangite ascendente: questi
pz non necessitano di intervento chirurgico, ma necessitano trattamento adeguato e tempestivo, per evitare
che si sviluppi uno shock settico fatale. Il prof racconta di una pz che aveva fatto un ERCP, arriva in PS con una
colangite post-ERCP; le si somministra Atb, ma non avendo guardato tutti gli esami del sangue, non ci si
accorge che la pz era in shock settico, nonostante lei non avesse segni evidenti. Nella notte si è deteriorato il
quadro generale ed è deceduta. Cosa si sarebbe dovuto fare? Togliere la protesi, preferibilmente con un’altra
ERCP.

PANCREAS

INTESTINO TENUE

365
Le gastroenteriti sono causa camune di falso addome acuto.
Da ricordare: nell’ernia strozzata, almeno all’inizio, il dolore è continuo, non crampiforme, nonostante ci sia
occlusione, perché la sintomatologia predominante è quella dell’occlusione vascolare e non dell’occlusione
intestinale.
Domanda: è un dolore diffuso quello delle ernie inguinali o crurali? Inizialmente no, è un dolore acuto, ma
non in regione inguinale o crurale, però solitamente quando arriva in PS il dolore è diventato diffuso
Nell’EO addominale, non tralasciare mai le regioni inguinali e non dimenticare l’esplorazione rettale; la
diagnosi del tumore del retto è fatta al 50% con l’esplorazione rettale.
Prof sottolinea l’importanza legale di agire all’interno delle linee guida evidence based e del consenso
informato. (Ora, prima di operare un pz è necessario informarlo di tutte le complicanze e le alternative e
quindi lasciargli la possibilità di scegliere).

COLON
Le perforazioni diastasiche
La diastasi è un allentamento, le perforazioni
diastasiche sono perforazioni coperte, legate
alla distensione cronica di una parte di un
organo cavo che si distende fino a
raggiungere la tensione massima possibile
finché non si strappa (legge di Laplace). Non
si stratta interamente, ma si strappa la
componente
muscolare, mentre quella mucosa tende a
restare integra, perché è solitamente un po’
più debordante rispetto alla parte
muscolare. Sono pericolose: è una delle
principali cause di urgenza chirurgica in pz con k colon. Esempio: k colon non completamente stenosante, con
pz paucisintomatico, con distensione addominale importante, finché ad un certo punto il primo tratto del
crasso e il cieco si distendono fin ad arrivare al diametro massimo di 8-9 cm e infine si perfora. Da questa
perforazione esce solitamente poca aria, ma il fattore più preoccupante è la traslocazione batterica > pz arriva
in PS in shock e addome acuto. Una delle poche occasioni in cui si porta in sala un pz perforato con k colon.

Il colon irritabile mima la


diverticolite, a guidare la DD è
l’anamnesi: ex pz che riferiscono
tenesmo, dolore diffuso, sordo, non
crampiforme, alternanza dell’alvo>
orientano più verso il colon irritabile
(nella diverticolosi pz tipicamente
stitico); DD anche con tumore del
retto, questo però prima o poi
sanguina.

366
Ritenzione acuta di urina
Nel cateterismo per ritenzione acuta di urina è
importante lo svuotamento lento poiché lo
svuotamento rapido può causare un’emorragia
vescicale e una sindrome vagale importante, con
conseguente bradicardia fino all’arresto cardiaco.
Domanda: qual è la differenza tra pertonite e
peritonismo?
La peritonite è la patologia, il peritonismo è il
segno, quindi ciò che si rileva quando si fa l’esame
obiettivo al pz. Il peritonismo si evidenzia con il
segno di Blumberg e la posizione antalgica.
La contrattura addominale è un segno di
peritonite.
Il segno di Murphy e di Mc Burney sono segni di
peritonismo? No, sono segni di dolorabilità perché
vanno a toccare la colecisti e appendicite
rispettivamente, in cui ci può essere
un’infiammazione del peritoneo viscerale;
mentre in segno di Blumberg è segno di
irritazione del peritoneo parietale > solo
quest’ultimo è un segno di peritonismo (e di
peritonite).
È quindi possibile avere un segno di Blumberg - e
Murphy+ (appendicite acuta senza paritonite) ;
com’è anche possibile avere Blumberg + e
Murphy - e avere cmq l’appendicite acuta.
Nella DD dell’appendicite acuta ricordarsi
nell’uomo del Morbo di Crohn, nella donna è
necessaria l’eco, se non la TC, poichè la DD è più
complessa.

PERITONITI
Il peritoneo è una membrana sierosa della cavità addomino-pelvica che, pur essendo una lamina unica, è
distinguibile in due parti:
• Parietale che è adesa alla cavità addomino-pelvica
• Viscerale che deriva dal peritoneo parietale che riveste i vari organi accolti nella cavità che prendono
quindi il nome di organi intraperitoneali
La superficie del peritoneo è di circa 2 metri quadrati, la sua funzione primaria è di formare una superficie
anti-attrito sulla quale i visceri scivolano. Funge inoltre da membrana semipermeabile attraverso la quale
avviene un trasporto bidirezionale di acqua, elettroliti e piccole molecole, dato importante in quanto a volte
può essere la causa del versamento nell’occlusione intestinale, e tenta di risolvere e circoscrivere i processi
infiammatori.

367
La peritonite è il processo infiammatorio che
coinvolge i foglietti peritoneali. Essa può essere:
• Acuta o cronica
• Diffusa o circoscritta
• Primaria o secondaria

La peritonite acuta, che molte volte si presenta


con addome acuto, può essere determinata da
una moltitudine di cause, intraperitoneali o
extraperitoneali.
Le cause più frequenti di peritonite sono:
• Appendicite acuta
• Perforazioni gastroduodenali
• Perforazioni coliche
• Colecistite acuta
• Pancreatite acuta necrotizzante ma anche la semplice può dare una peritonite locale
• Traumi addominali

Le peritoniti primitive sono quelle che derivano direttamente dal peritoneo e possono essere o
emometastatiche, quindi da trasferimento di germi o di infezione da un’altra zona all’addome, o da infezione
dell’ascite nel cirrotico oppure ancora da infezioni in pazienti in dialisi peritoneale.
Le peritoniti secondarie possono essere date da: perforazione spontanea del tratto GI, delle vie biliari, delle
vie urinarie o delle vie genitali femminili, oppure da rottura in peritoneo libero di ascessi circoscritti, da
peritoniti post-traumatiche o post-operatorie in seguito a fistole anastomotiche o deiscenze.

La condizione più grave che in teoria richiede un trattamento chirurgico urgente è la peritonite acuta diffusa
e in secondo luogo la peritonite settica batterica secondaria. L’esempio più classico è la diverticolite acuta
perforata con peritonite stercoracea che porta una peritonite acuta diffusa e batterica, oltre alla
contaminazione delle feci.

Dal punto di vista fisiopatologico si ha


infiammazione con formazione di essudato e
con migrazione in cavo peritoneale di una
notevole quantità di liquido ricco in elettroliti
e proteine che porta a disidratazione,
ipoprotidemia e ipovolemia. L’infiammazione
inoltre porta ad assorbimento di tossine
legate a endotossine di aerobi Gram-negativi
e di E. coli, che provocano danno vasale e
ipovolemia, ed esotossine portate da aerobi
Gram-positivi e Clostridi, che portano ad
emolisi e alterazioni metaboliche.
Tutto questo porta una paralisi intestinale
legata all’irritazione, all’ileo dinamico, con un sequestro di liquidi e infine all’ipovolemia.
Se si ha una sovrainfezione batterica quindi una diffusa batterica, dopo una fase precoce il paziente può
presentare segni di shock settico e quindi il paziente avrà rischio di MOF e quindi di mortalità.

SINTOMI
• Dolore, sempre presente, acuto, solitamente violento, dapprima localizzato poi diffuso
• Febbre
• Alvo chiuso a feci e gas
• Vomito riflesso, sia per l’ileo paralitico che per il dolore

368
• Polso frequente che può essere dato sia dal dolore che dall’inizio della sepsi.
Il dolore addominale deve essere distinto tra viscerale e parietale, molte volte il dolore è localizzato nella
zona dove c’è la patologia, poi si diffonde e diventa continuo e violento, rendendo più difficile l’obiettività.

OBIETTIVITÀ
All’ispezione il paziente risulta immobile, in posizione antalgica, con un incremento del dolore con la tosse;
il respiro è costale.
Alla palpazione si può avere una contrattura muscolare nella zona di interesse infiammatorio, quindi prima
circoscritta poi diffusa, è importante il segno di Blumberg, c’è iperestesia cutanea. Nella colecistite acuta c’è
un’iperestesia cutanea all’ipocondrio di destra, l’appendicite acuta dà iperestesia in fossa iliaca destra.
Il segno di Blumberg rimane un segno di estrema importanza per la gestione del quadro clinico e del
peritonismo, per cui nel caso di paziente con addome trattabile il segno di Blumberg, o rimbalzo, è un segno
di irritazione.
Per concludere si esegue la percussione, in cui in caso di perforazione possiamo rilevare la
scomparsa/diminuzione dell’aia di ottusità epatica per la presenza di falce d’aria e l’auscultazione, di solito
c’è silenzio nell’ ileo paralitico. Di fondamentale importanza è l’esplorazione rettale. C’è dolore alla
palpazione del cavo del Douglas (“grido del Douglas”).

Una serie di quadri ci permettono di fare diagnosi, tuttavia a volte non è sempre così facile e la diagnosi
diventa intraoperatoria: se il paziente ha addome acuto con iniziali segni di shock settico e non si è riusciti a
trovare con tutti gli esami necessari la diagnosi corretta la si fa in
laparoscopia esplorativa o laparotomia.

A destra l’RX di uno pneumoperitoneo, classico esempio di


addome acuto da causa perforativa, con la presenza della falce
d’aria sottodiaframmatica.

TRATTAMENTO
Oltre al monitoraggio dei parametri vitali e alla terapia
medica e di supporto che serve per il riequilibrio
idroelettrolitico, all’eventuale sondino naso-gastrico e
all’antibiotico terapia, la cura si basa sul trattamento
chirurgico urgente della patologia.
Il trattamento può riguardare l’appendicite acuta, il
diverticolo di Meckel, le perforazioni gastro-duodenali, la
malattia diverticolare, i tumori del colon sinistro, le IBD, la
peritonite biliare e l’empiema della colecisti, la
pancreatite acuta necrotizzante, l’infarto intestinale e la
perforazione ileale.

CONCLUSIONI
La peritonite può essere primitiva o secondaria, in ogni caso la reazione della sierosa è quella di limitare il
processo infettivo e questo ci permette, se interveniamo non solo dal punto di vista chirurgico ma anche
medico nelle fasi precoci, di evitare quelle alterazioni che possono portare alla sepsi e successivamente allo
shock settico.
Quando c’è ad esempio una patologia perforativa: la fuoriuscita di germi e di materiale infiammatorio-
necrotico viene riassorbito dal peritoneo, questo può provocare non solo peritonite, ma anche il
riassorbimento di materiale che può portare a diversi quadri come lo shock settico. Il peritoneo è una sierosa
con funzione di protezione, circoscrive la patologia infiammatoria, molte volte il motivo per cui una patologia
rimane localizzata e non diventa diffusa è legato al fatto che il peritoneo riesce a limitare la dispersione.

369
OCCLUSIONI INTESTINALI
Per occlusione intestinale si intende l’arresto della progressione di solidi, liquidi e gas all’interno del canale
alimentare. Può essere divisa in:
• Ileo meccanico cioè la presenza di un reale ostacolo alla progressione intestinale
• Ileo dinamico cioè paralitico in cui si intende l’incapacità di peristalsi con rilassamento muscolare
diffuso della parete intestinale.

EZIOPATOGENESI
L’ileo meccanico può essere causato da:
• Ostruzione: di solito riguarda un ostacolo, che può essere endoluminale, come per esempio i tumori
vegetanti, corpi estranei, calcoli biliari e fecalomi.
• Stenosi: presenza di un processo infiltrante parietale, di solito tumori o morbo di Crohn.
• Compressione: presenza di una patologia extraluminale, come tumori retroperitoneali, renali,
linfoadenopatie, masse occupanti spazio.
• Angolatura: formazione di angoli acuti lungo il decorso intestinale, come aderenze viscero-viscerali
e viscero-parietali e aderenze viscero-viscerali e viscero-parietali, sono la prima causa di occlusione
del piccolo intestino e possono essere dovute sia ad esiti di interventi chirurgici che per processi
infiammatori/infettivi a carico dell’addome.
• Strangolamento: può avvenire per l’ernia o per una rotazione sull’asse vascolare del piccolo o grande
intestino o per una grave compressione vascolare del tratto occluso, dovuto ad invaginazione,
volvolo, strozzamento da cingolo. È un’emergenza perché abbiamo una compromissione vascolare
del tratto occluso con ischemia, necrosi e perforazione con rapida evoluzione verso lo shock settico.
Nello strozzamento abbiamo una compressione venosa del peduncolo mesenterico con congestione
venosa, edema e cianosi che porta a infarcimento emorragico e spasmo prima venoso e poi arterioso
infine gangrena della porzione interessata con successiva perforazione, sepsi ed eventuale shock
settico.

L’eziopatogenesi dell’ileo dinamico è dato da:


• Peritonite
• Traumi dell’addome anche senza lesioni. Molte volte sono dovuti a stiramento del meso; negli
incidenti stradali con forte decelerazione che portano a stiramento possono dare come patologia
l’ileo dinamico
• Interventi chirurgici: nei laparotomici in particolare a causa di stress ossidativo da intervento
chirurgico, la laparoscopia ha ridotto di molto l’ileo dinamico nei pazienti operati. In particolare la
laparotomia molto spesso inibisce per almeno 48/72h la peristalsi oltre il quale il rischio di occlusione
si alza e bisogna pensare ad altre cause alla base. Nella laparoscopia invece questi tempi
praticamente si azzerano perché la ripresa della canalizzazione è moto più precoce (entro le prime
24h si ricanalizza ai gas). Il classico ileo dinamico che da un quadro di addome acuto è l’anziano o il
post operatorio più spesso dopo emicolectomia destra perché l’anastomosi ileocolica è spesso
edematosa nell’immediato post-op e quindi può portare a occlusione meccanica non completa a cui
si associa anche un ileo paralitico dinamico da intervento. Quindi spesso i pazienti manifestano dolore
reale e si fa una TC per vedere che non ci sia una fistola anastomotica.
• Alcuni farmaci come i neuroplegici, i miorilassanti e gli oppiacei
• Neuropatie come quelle diabetiche e vasculopatie
Nelle fasi iniziali dell’ileo dinamico all’Rx si possono osservare i livelli che si perdono invece nelle fasi finali, nel
momento in cui ho i livelli e non ne conosco la causa chiaramente questo paziente viene inquadrato come
addome acuto, fa la TC per escluderlo.

QUADRO CLINICO
Può esserci dolore addominale, ma non è detto, in quanto nel quadro dell’ileo paralitico il dolore può non
essere presente, mentre nel quadro dell’ileo meccanico di solito c’è e può essere crampiforme per poi
diventare diffuso e poi sparire, per cui la sua presenza dipende dal momento in cui si visita il paziente.

370
Può esserci una chiusura dell’alvo a feci e gas.
Può esserci il vomito e ha delle caratteristiche che cambiano in base all’altezza della chiusura addominale.
C’è uno squilibrio idro-elettrolitico dovuto alla raccolta e all’accumulo di liquidi nell’intestino che non
vengono riassorbiti, ma c’è una traslocazione di liquidi tra le membrane quindi dall’intraintestinale a
peritoneale con uno squilibrio che può essere assoluto o relativo a seconda della quantità di liquidi.

Nell’ileo meccanico semplice classico da massa occupante spazio o da ostruzione, il dolore è di tipo
discontinuo, legato alla peristalsi, dovuto al fatto che l’intestino cerca di superare l’ostacolo, spingendolo.
Questo porta ad aumento della peristalsi con un dolore aumentato, a questo segue un rilassamento del
dolore. Poi una dilatazione dell’intestino con uno sfiancamento muscolare e la peristalsi cessa, il paziente
non avverte più dolore ma il quadro si è aggravato.
Nell’ileo meccanico con strangolamento il dolore è acuto, continuo, con recrudescenze legate alla peristalsi,
in questo caso succede il contrario ma nel momento in cui termina il dolore, vuol dire che si ha la gangrena
della parte intestinale.

La chiusura dell’alvo a feci e gas nell’ileo paralitico può essere totale, ma non ci sono i livelli idroaerei, mentre
nell’ileo meccanico è totale o parziale a seconda della sede dell’occlusione, vi sono i livelli idroaerei a livello
del piccolo intestino, a volte anche nel grande intestino, e vi può essere un’emissione paradossa perché se
per esempio c’è un fecaloma o una lesione occupante spazio nel colon si hanno comunque feci liquide, viene
svuotato il contenuto dei secreti delle porzioni più a valle dell’ostruzione. Il paziente dichiara di essere
canalizzato a feci liquide o diarroiche, ma in realtà non è una vera e propria diarrea ma sono feci paradosse
segno di un’occlusione da ileo meccanico.

Il vomito nell’occlusione alta duodenale nelle fasi precoci è un vomito di tipo gastrico-biliare; nelle occlusioni
basse a livello dell’ileo terminale, colon e nelle fasi tardive il vomito è fecaloide.
Dal punto di vista temporale, il vomito è tanto più precoce quanto più alta è la sede dell’occlusione.

La deplezione idrica nell’ileo meccanico è


importante perché noi produciamo 7-8 litri di
liquidi al giorno tra saliva, succo gastrico, bile,
succo pancreatico ed enterico. È molto rapida e
porta alla disidratazione, quindi ad un amento
della massa globulare rispetto a quella
plasmatica con uno shock ipovolemico assoluto.

Oltre a questo si ha uno squilibrio


idroelettrolitico che dipende anche dalla sede.
Nelle occlusioni alte si ha perdita di saliva e
quindi di potassio e perdita di cloro per il vomito. Quindi si può avere un’alcalosi.
Nelle occlusioni del tenue si ha una perdita di sodio, potassio e cloro legati a vomito, bile, succo pancreatico
e enterico si può quindi avere un’iperazotemia.
Nelle occlusioni del colon si ha prevalentemente una distensione gassosa quindi senza grosse perdite
elettrolitiche ma può provocare più precocemente una perforazione con perdita batterica e peritonite
diffusa.

371
La deplezione elettrolitica può portare
a iponatriemia e ulteriore perdita
idrica, l’ipokaliemia può portare a una
riduzione della conduzione nervosa, a
letargia, fino ad arrivare a deficit di
conduzione e contrattilità cardiaca.
L’ipocloremia può portare ad alcalosi
metabolica e anche questa può portare
a ipocalcemia e tetania.

Nell’ileo meccanico la perdita di


potassio porta non solo ad alterazioni
dell’ECG ma anche a una diminuzione
della contrattilità muscolare e
diminuzione della conduttività nervosa
e può portare ad ileo paralitico. Quindi
non c’è solo lo sfiancamento della
parete intestinale ma anche un ileo paralitico da ipopotassiemia.

ESAME CLINICO
Si valuta la sintomatologia, anamnesi, EO e esplorazione rettale. Per poi passare agli esami radiologici.
EO:
• Ispezione: si ha un addome disteso e meteorico
• Palpazione: addome teso o elastico
• Percussione: suono timpanico per la presenza di livelli idroaerei, nel paziente sdraiato l’aria si spinge
verso l’alto
• Auscultazione:
o Silenzio nell’ileo dinamico
o Borborigmi con rumori metallici che sono testimonianza di un iperperistaltismo legato al
tentativo di superare l’ostacolo da parte dell’intestino

Esempio di addome acuto con aumento importante della


cavità addominale con sollevamento degli emidiaframmi.

Rimane fondamentale l’esplorazione rettale perché è


negativa nell’ileo meccanico da ostruzione colica in altre
parole l’ampolla è vuota, non ci sono segni di sangue, può
esserci un fecaloma nei soggetti anziani che è una delle cause più frequenti di occlusione intestinale nel
paziente geriatrico allettato. Nel 60% di questi pazienti la causa dell’occlusione è il fecaloma e il 50% dei
tumori del colon-retto si trovano a livello dell’ampolla rettale, quindi con un banale esame si può
quantomeno arrivare ad un dubbio diagnostico.

372
RX addome: è importante perché permette di vedere i livelli
idro-aerei. Nell’ileo meccanico si vede una distensione
limitata alla porzione di intestino a monte dell’ostacolo e
presenza di livelli idroaerei dovuti al ristagno del liquido
sovrastato dal gas. Nell’ileo dinamico si ha distensione
diffusa e assenza di livelli idroaerei. Si possono evidenziare
segni diretti e indiretti. Indiretti sono per esempio il
sollevamento del diaframma nelle occlusioni importanti e la
presenza della falce d’aria sotto il diaframma è un segno
indicativo di perforazione, nel RX fatta in ortostatismo è ben
definita sottodiaframmatica, se eseguita in clinostatismo il
quadro è molto più sfumato e meno evidente. I segni diretti
invece sono i livelli idroaerei.

In base alla quantità di livelli idro-aerei siamo autorizzati a fare un esame di secondi livello come la TC. È
l’esame dirimente perché ci dà informazioni anche sulla parete intestinale, soprattutto del piccolo intestino.
Nei casi di occlusione intestinale dovuta ad aderenze l’elemento da ricercare è il passaggio ansa piena-ansa
vuota cioè un punto netto di transizione. Il mdc di contrasto è anche fondamentale per vedere se è presente
sofferenza vascolare o se l’ansa colpita è ischemica perché è proprio quello che discrimina tra trattamento
conservativo o trattamento chirurgico.

La diagnosi può proseguire con altri esami sempre se le condizioni cliniche lo permettono. Tra le più
importanti abbiamo colonscopia e EGDS, nel piccolo intestino non sono importanti perché non riescono a
visualizzare e quindi si opta per la TC.
Se siamo in una condizione di urgenza altri esami non sono possibili perché il paziente è in una condizioni di
sepsi relativa.

CAUSE DI OCCLUSIONI DEL PICCOLO INTESTINO


Da lesioni estrinseche:
• Aderenze, causa più comune di occlusione meccanica
• Ernie
• Malrotazione o malformazione che sono abbastanza rare
• Volvolo
• Masse a sviluppo da altri segmenti
Da lesioni intrinseche:
• Lesioni intra luminali come tumori, corpi estranei, calcoli biliari, invaginazioni
• Lesioni della parete intestinale

Sono per l’80% legate a cause aderenziali, quindi pregressi interventi, processi infiammatori del colon e del
peritoneo etc. Nei bambini una delle cause più frequenti di occlusione è il volvolo.
Di solito l’aspetto radiologico presenta anse del piccolo intestino prossimali alla sede dell’occlusione dilatate
da gas o liquido, disposte in sede centrale perché si muovono. Aspetto delle anse dilatate “a canne d’organo”
o “a gradini”.
Se vi è un anomalo contenuto di gas nell’intestino (di solito il piccolo intestino non ha gas o ne ha poco)
nell’aspetto radiologico si vedono i livelli idro-aerei e ciò significa che il gas nel tenue è maggiore del gas nel
colon: in caso di occlusione completa, si ha assenza di gas nel colon. In ortostatismo o in tangenziale: multipli
livelli idroaerei, spesso a livelli diversi lungo la stessa ansa.
Ci può essere il segno dei grani di rosario: bolle di gas intrappolate tra le valvole conniventi, visibili solo in
ortostatismo quando il piccolo intestino è molto dilatato e quasi completamente pieno di liquido.
“Gasless abdomen”: le anse sono completamente ripiene di liquido e non aria. Questo di solito è il segno
radiologico classico dell’ileo paralitico.

373
Nell’Rx a sinistra si possono
vedere multiple anse del
piccolo intestino dilatate dal
gas, evidenza di valvole
conniventi, quindi indice di
occlusione importante, con
assenza di gas nel colon
(gasless).
Nell’Rx in alto a destra si
vedono i grani di rosario
(indicati dalle frecce)

Nell’Rx a destra si vede un gasless


abdomen, tipico dell’ileo
paralitico.

L’Rx permette di dividere i pazienti che avranno bisogno di eseguire


una TC da quelli che necessitano della sola osservazione. Per questo
motivo l’RX è il primo esame che viene eseguito nel paziente con
occlusione intestinale.

ILEO BILIARE
È legato alla presenza di una fistola che va a formarsi tra la colecisti e il lume intestinale, dovuta al fatto che
i calcoli possono erodere la parete della colecisti e penetrare nel lume intestinale; normalmente avviene tra
la colecisti e il duodeno, nella Sindrome di Mirizzi 1.
Il calcolo si spinge all’interno del piccolo intestino, andando ad occludere un livello diverso a seconda della
sua dimensione, in quanto può essere troppo grosso per procedere lungo
l’ileo.
Mentre la fistola si forma normalmente con il duodeno, l’occlusione avviene
generalmente a livello dell’ileo distale. Il rischio maggiore è che vada ad
impattare contro la valvola ileo-cecale e lì si fermi diventando un’occlusione
distale e quindi tardiva.
All’Rx può essere presene e visibile il calcolo, come ad esempio nell’immagine
a destra, in cui si vede l’aria nelle vie biliari (nei dotti intraepatici di destra e
sinistra, indicati con le frecce, e nel dotto epatico comune D), il calcolo che si
è formato e l’occlusione
del piccolo intestino.
Nell’immagine a sinistra si
nota il dettaglio del
calcolo, proiettato in fossa
iliaca destra e che si è
andato a fermare a livello
della valvola ileo-ciecale.

1
Da Wikipedia: La sindrome di Mirizzi è una complicanza della calcolosi biliare, in cui un calcolo va ad incunearsi a livello
del dotto cistico o dell'infundibolo e può determinare la stenosi del dotto biliare comune o del dotto epatico comune, con
insorgenza di ittero. L'ostruzione determina stasi biliare, che esita facilmente in infiammazione e fibrosi. Il processo di
rimodellamento a seguito degli eventi infiammatori può causare la comparsa di fistole tra colecisti e coledoco.

374
ILEO PARALITICO DIFFUSO
Le cause principali sono: peritonite, alterazioni metaboliche, farmaci,
sepsi, shock, trauma, post-intervento.
Si tratta di una dilatazione comune, proporzionata di stomaco, piccolo
intestino e colon, con livelli idro-aerei di entità nettamente inferiore, a
volte addirittura assenti, e distribuiti più regolarmente.
A destra si può vedere un esempio precoce di ileo paralitico.
Nel caso si avesse una fase avanzata si vedrebbe un quadro molto
simile al gasless abdomen.

A sinistra: occlusione intestinale,


probabilmente da volvolo.

A destra: dilazione diffusa del piccolo e


grosso intestino, dovuto ad un ileo
paralitico nelle fasi iniziali.

ILEO PARALITICO FOCALE


È caratterizzato da un punto di vista radiologico dall’aspetto
dell’ansa a sentinella, che molte volte è un segno secondario di
flogosi localizzata (pancreatite, appendicite, colecistite,
diverticolite…).
Può essere individuato a livello del mesogastrio o dell’ipocondrio
destro nei casi di colecistite o pancreatite, in fossa iliaca destra nei
casi di appendicite o in fossa iliaca sinistra o mesogastrio in caso di
diverticolite.
Nell’immagine a destra: ansa a sentinella per appendicite acuta; è
un segno classico che si può identificare in molti casi. È un segno
diretto di peritonite circoscritta.

CAUSE DI OCCLUSIONI DEL GRANDE INTESTINO


La causa più frequente è l’adenocarcinoma del colon.
Tipicamente si presenta con dilatazione colica a monte dell’occlusione. Il colon, dato che produce molta aria,
può essere disteso da gas, liquidi o feci.
A livello del retto la quantità di gas normalmente presente va a diminuire, fino ad essere totalmente assente,
in quanto l’occlusione è a monte.
L’occlusione del grande intestino può accompagnarsi ad una dilatazione del piccolo intestino nel caso vi sia
una valvola ileocecale incontinente: questa è la situazione migliore e meno grave, in quanto nel caso la
valvola ileocecale sia continente la dilatazione sarà più evidente.
Nel caso di riscontro di un’occlusione del grande intestino in cui il diametro trasverso del cieco supera i 9-10
cm ci si deve allarmare perché in questo incomincia ad esserci uno sfiancamento della muscolatura e quindi
c’è un rischio di perforazione; il limite massimo entro cui bisogna intervenire è 12 cm ed in questo caso
l’intervento è subito chirurgico (c’è un 60-70% di rischio di lacerazione della parete).

375
Nelle immagini a destra si possono vedere degli
esempi di occlusione del grosso intestino da
tumore del colon.
Nell’immagine a sinistra si può vedere un
restringimento del lume, con una dilatazione a
monte e l’assenza di aria nel retto: questo deve
far pensare o ad un fecaloma o ad un tumore
del colon.

VOLVOLO DEL SIGMA


È relativamente comune, soprattutto nei pazienti magari con diverticolosi del
colon o con stipsi, in cui c’è un dolicosigma.
L’aspetto radiologico è a chicco di caffè, un aspetto molto particolare e
riconoscibile: il sigma si dilata, assume un aspetto a “U” invertita; di solito si
posiziona a livello del fianco sinistro.
Ci può essere anche il volvolo del cieco, ma è una condizione molto rara,
anche se è da tenere in considerazione per la diagnosi differenziale.
Nell’immagine a destra: sigma ruotato, disteso con aspetto a chicco di caffè.

Nel volvolo, oltre al monitoraggio dei parametri vitali e ad una terapia di


supporto, il primo approccio è un tentativo di trattamento endoscopico in cui
si cerca di devolvolare il sigma svuotandolo dall’aria; si cerca di entrare dal retto e si cerca di superare la
volvolazione distendendo il sigma. Se ciò non avviene il rischio è che ci sia un interessamento vascolare con
successiva sofferenza ischemica, per cui il trattamento diventa chirurgico.
Altre cause: Megacolon tossico, intussuscezione su cancro (abbastanza frequente, soprattutto a DX, sui
tumori della valvola ileo- ciecale), sindrome aderenziale e corpi estranei (ovuli di cocaina, raro ma capita).

TRATTAMENTO
Trattamento:
1. Monitoraggio dei parametri vitali: PA, ECG, emocromo, diuresi
2. Terapia di supporto: digiuno assoluto, SNG, apporto idroelettrolitico
3. Trattamento chirurgico (ileo meccanico)
In generale, il trattamento dell’occlusione è un trattamento medico e chirurgico, soprattutto nell’ileo
meccanico in quanto nel 95% dei casi l’ileo dinamico non è chirurgico, anche se ci sono casi di perforazione
da ileo dinamico in cui bisogna intervenire chirurgicamente.

Quindi il trattamento è un trattamento base: ristabilire l’equilibrio idro-elettrolitico (in particolare Na e K,


soprattutto quest’ultimo che di solito è il primo che si abbassa, mentre il Na è più tardivo) che sicuramente si
è alterato, cercare di “scaricare” il paziente (con un’associazione di diuretici e terapia iperproteica), idratarlo,
infine ridurre la distensione addominale o posizionando un sondino naso-gastrico (è chiaro che se ho
un’occlusione molto molto bassa, sarà molto più difficile ottenere un completo svuotamento dell’intestino,
mentre se ho un’occlusione un po’ più alta magari riesco anche a svuotarlo in maniera definitiva) o una sonda
rettale (o fare delle rettoclisi in un secondo tempo; è chiaro che se io faccio delle rettoclisi a un paziente che
ha un tumore stenosante del sigma, svuotar solo l’ampolla rettale). Dopodichè quando è il momento giusto,
bisogna portarlo in sala operatoria. Il trattamento chirurgico è indicato nelle condizioni di ileo meccanico che
non beneficiano della terapia conservativa, non bisogna lasciare che la condizione peggiori e di conseguenza
il rischio di perforazione aumenti, bisogna intervenire con il timing giusto.

Il tipo di trattamento dipende dalle cause. La cosa fondamentale è che non si deve perdere tempo, in quanto
c’è il rischio di far sì che il paziente si perfori, provocando una peritonite diffusa con relativo shock settico.

376
A destra: ernia inguinale strozzata, una delle più importanti cause di
occlusione intestinale trattata in urgenza, quasi emergenza. Molto spesso
l’ernia che protrude nel canale inguinale può riempirsi di feci perdendo la
possibilità di una riduzione manuale, in questi i pazienti arrivano con una
grave occlusione intestinale, non è raro che dopo l’anestesia la muscolatura
si rilassi e l’ansa strozzata rientri autonomamente in sede, verificato questo
i chirurghi sono obbligati a eseguire l’ernioplastica + controllo dell’ansa per
escludere una sofferenza ischemica a rischio perforazione.

A sinistra: esempio di
intussuscezione colica da
cancro, non così frequente
come l’adenocarcinoma
stenosante del colon o da
metastasi.
Sono da considerare anche le
occlusioni da corpi estranei,
come ad esempio gli ovuli
(immagine a destra).

CONCLUSIONI
• L’occlusione intestinale è una sindrome assai frequente
• Causata da un enorme numero di cause
• Diagnostica complessa
• Lasciata a sè porta a gravi alterazioni come shock che può essere solo ipovolemico o diventare uno
shock settico
• Timing operatorio complesso, in base alla compromissione vascolare perché può diventare
un’emergenza
• Tecniche chirurgiche multiple che variano in base alla causa

377
APPENDICITE ACUTA
[N.B. La nostra registrazione non si sentiva, ho riportato la lezione dell’anno scorso, appena il professore
ricaricherà il file verrà sostituita/revisionata.]

La cosa più importante che bisogna ricordare riguardo l’appendicite acuta è che c’è una lunga lista di
patologie che presentano una sintomatologia analoga in tutto e per tutto alla patologia appendicolare,
difficile diagnosi differenziale. Es. maschio di 27 anni che arriva in DEA con dolore in fossa iliaca DX all’ 89%
è appendicite acuta, il restante 11% può essere morbo di Chron o coliche renali ma comunque danno
sintomatologia parzialmente diversa. Per una donna della stessa età si apre un ventaglio di possibilità molto
ampio e difficile da escludere.

Diagnosi differenziale:
• Morbo di Chron (ileale o colico).
• Diverticolite del colon Dx è molto rara e se presente spesso è una condizione ereditaria.
• Gravidanza ectopica, se arriva una donna in età fertile sempre fare un test di gravidanza
• Annessite acuta (tutti i processi infiammatori dell’apparato genito-urinario femminile possono essere
interessati)
• Calcolosi ureterale, quando il calcolo è a livello della fossa iliaca Dx il giordano può essere negativo,
con Blumberg e McBurney positivi mimando appunto l’appendicite acuta.
• Ernia inguinale complicata.
• Ulcera peptica perforata, (l’appendice di “Rodolfo Valentino”) in particolare con ulcera duodenale
perché il versamento che viene rilasciato a livello della perforazione di solito è antero-laterale a
livello della parete del duodeno, corre lungo la doccia parieto-colica dx e si va a depositare sulla
fossetta ciecale, inizialmente il paziente avrà dolore in epigastrio poi la perforazione si copre ma il
dolore permane in fossa iliaca dx, in un caso del genere si è convintissimi di essere di fronte ad
un’appendicite acuta ma alla TC invece risulta una perforazione da ulcera. (di solito in questi pazienti
si fa la TC perché ci sono altri sintomi o quadro clinico che pone il dubbio)
• Mesenterite colica: prevalentemente da virus influenzali, non da una vera gastroenterite ma i
pazienti hanno una sintomatologia identica all’appendicite acuta, questa condizione si chiama
Linfadenite Mesenterica.

EPIDEMIOLOGIA
Lo 0.25% della popolazione mondiale ha un episodio di appendicite, patologia molto frequente. Si hanno due
picchi di incidenza, il primo è tra i 12-14 anni il secondo picco è tra i 60-70 anni. Attenzione che nei soggetti
anziani può essere sentinella del tumore del colon Dx, quindi in questi soggetti se durante l’intervento non si
riesce a escludere la presenza di tumore devono esguire una colonscopia.
L’intervento sull’appendice di per sé è un intervento molto semplice ma è resa complicata dalla grandissima
variabilità di posizione elevatissima, infatti, la condizione che viene definita come normale (ciecale) (che si
trova a livello della fossetta ciecale appoggiata al muscolo psoas) è in realtà presente solo nel 20% dei casi.
In un altro 20% è retro-ciecale (più complessa perché si trova dietro il cieco e attaccata alla parete
addominale e molte anche se “bruttissima” il paziente ha una sintomatologia scarsa, quindi a maggior rischio
di perforazione e può anche essere obbligata una resezione polare del cieco perchè si fonde completamente
con la parete), 25% pre-ciecale (ed è la situazione più facile per intervenire perché si trova più mediale e di
solito presenta meno aderenza), extra-ciecale ( si può trovare sul colon ascendente o sulla flessura epatica).
La vascolarizzazione dell’appendice sia arteriosa che venosa è di tipo terminale della vascolarizzazione
mesenterica, dell’arteria ileo-colica e di per sé l’appendice si trova a livello della congiunzione delle tre tenie.

EZIOPATOGENESI
• Ostruzione luminale che deriva prevalentemente da una linfoadenite (infiammazione con infiltrato
linfocitario a livello dell’anello del Waldeyer). La causa principale nei bambini e adolescenti è
l’infiammazione batterica o virale a livello della faringe o laringe con interessamento delle tonsille e
traslocazione di linfociti alla base dell’appendice cioè dove si trova l’anello del Waldeyer, che diventa

378
edematoso, quindi si gonfia occludendo il lume e portando a sviluppo del processo infiammatorio.
• Impatto fecale, le feci si approfondano nell’appendice, stazionano in sede e si induriscono con
un’altra probabilit di infettarsi. Questo è uno dei rari casi in cui l’infiammazione inizia dalla punta
dell’appendice e non dalla base.
• Sovrainfezione batterica, magari legata a un’infezione di altro tipo

FORME ANATOMO-PATOLOGICHE
• Forma lieve: edematosa
• Con sovrainfezione batterica all’interno: appendicite acuta purulenta.
• Infezione trasmessa a livello della parete: appendicite acuta empiematosa.
• Appendicite acuta emorragica (rara).
• Appendicite acuta gangrenosa, quando si gangrena ovviamente si perfora, la parte che di solito si
perfora per un problema vascolare è la punta, se si perfora la base diventa un trattamento
complesso. La perforazione può essere coperta (è un bene) e molte volte lo è, altre volte invece no
e quindi si va incontro a peritonite.

DIAGNOSI
• Quadro clinico: dolore caratteristico nel 75% dei casi, avverte un leggero fastidio/dolorabilità in
meso/epigastrio che nel giro di poche ore si trasloca in fossa iliaca destra. Nausea e vomito sono
frequenti correlati al dolore, alvo chiuso a feci e gas.
• Esame obiettivo: segno del muscolo psoas → il paziente ha dolore quando solleva lo psoas, ma poi
l’appendice rimanendo ferma sul muscolo non causa più dolore quindi sta meglio a gambe piegate,
segno di McBurney→ è il segno distintivo per la ricerca dell’appendice, che si trova a liv dei 2/3 della
linea immaginaria che unisce l’ombelico e la spina iliaca superiore, segno di
Blumberg→patognomonico per peritonite acuta, segno di Rovsing→è un segno caratteristico, è il
dolore in fossa iliaca destra alla compressione della fossa iliaca sinistra ed è dovuto allo spostamento
dell’aria di tutto il colon verso la parte infiammata, positivo nel 75% dei casi. Il grido del
douglas→nell’uomo può essere segno di appendice retro-ciecale.
• Nel paziente pediatrico si utilizza l’Alvarado
score che prende in considerazione diversi
parametri, è lo score con più alto valore
predittivo positivo. >7 appendicite
probabile, >9 appendicite certa.
• Laboratorio: leucocitosi e neutrofilia, PCR
elevata se i sintomi sono da più di 12-24h,
negli adulti se dopo 24h la PCR è normale si
esclude l’appendicite acuta.
• Imaging: ECO è l’indagine di primo livello
prioritario per la diagnosi di appendicite
(“immagine a bersaglio”, ispessimento di
parete, ipomobilità di parete,
ipocomprimibilità dell’appendice, linfonodi
reattivi e scarsa peristalsi dell’ultima ansa
ileale), reperti indiretti (versamento libero in addome che però può essere segno di molte patologie
addominali e ileo dinamico). La TC in italia è riservata solo a pazienti selezionati, cioè con una
sintomatologia importante ma con ECO muta, si può anche fare una TC basale e se anche con questa
metodica non si vede allora quasi sempre l’appendice è retro-ciecale.

COMPLICANZE
Se la peritonite da circoscritta diventa diffusa può portare a sepsi, la laparoscopia ha diminuito di molto
l’incidenza degli ascessi pelvici e subfrenici perché permetta un lavaggio abbondante della cavità addominale
togliendo così eventuali residui di infezione. Abbastanza frequenti, anche a distanza di tempo gli ascessi

379
epatici per migrazione del batterio.

TRATTAMENTO
Fino al 2016 l’appendicectomia gold standard era con tecnica open secondo McBurney con taglio di 5cm
para-rettale andando ad aprire le fibre muscolari, prendendo poi il peritoneo si tirava fuori il cieco con
l’appendice, una volta eseguita l’appendicectomia si rimetteva tutto in sede con il rischio di tralasciare
un’altra patologia concomitante.
Dal 2016 le linee guida sono cambiate e sia per l’uomo che per la donna il gold standard è l’appendicectomia
laparoscopica, prima veniva eseguita più nella donna perché permetteva di dare D.D. con malattie
dell’apparato genito-urinario. Il chirurgo Leonid Rogozov, il primo a farsi ad un’autoappendicectomia.
Ci sono pazienti che possono non essere portati in sala operatoria, sono i pazienti che hanno un’appendicite
subacuta, senza segni di sepsi, sintomatologia dolorosa controllabile e in questo caso si prova a fare una
terapia antibiotica (amoxicillina-acido clavulanico + fans) + dieta in bianco e osservazione per 5/6 giorni. Il
tasso di evoluzione della forma subacuta ad acuta è del 50%, quindi metà dei pazienti andranno comunque
in sala operatoria.

380
25-11-2021
Prof. Solej
Sbobinatrice: Laura Tavaglione
Revisore: Dan Michael Mbadinga

In parentesi quadre e corsivo quanto riportato dalle slides, ma non trattato a lezione dal professore.
In doppie parentesi quadre e corsivo i concetti tratti da sbobine di anni precedenti.

MALATTIA DIVERTICOLARE DEL COLON E DIVERTICOLITE


La malattia diverticolare del colon è una patologia caratterizzata dalla presenza di estroflessioni, generalmente
di tipo sacciforme, della mucosa e della muscolaris mucosae attraverso la tonaca muscolare circolare: si tratta
quindi di diverticoli falsi (o pseudodiverticoli, in quanto non contengono tutte le componenti della parete),
acquisiti e da pulsione. In genere non superano la sierosa e si formano a livello dei punti di minore resistenza,
in particolare in corrispondenza della tenia anti-mesenterica; nelle malattie più gravi ed estese, però,
soprattutto nei pazienti anziani e stitici, possono essere più localizzati più diffusamente.
La malattia diverticolare può presentarsi in tre stati:
1. Stato pre-diverticolare: stato di alterazione locale della motilità e della morfologia della parete colica
che precede la formazione di diverticoli. Si tratta di un periodo di transizione tra sindrome del colon
irritabile e malattia diverticolare del colon vera e propria.
2. Diverticolosi del colon: presenza di diverticoli in assenza di infiammazione della parete del colon o di
patologia acuta.
3. Diverticolite: al diverticolo si associa la presenza di eventi flogistici a carico della parete del colon,
ovvero si ha l’infiammazione di uno o più diverticoli. Può essere non complicata (semplice) o
complicata.

EPIDEMIOLOGIA
- La frequenza globale è molto elevata nei Paesi occidentali: è però bassa (5%) sotto ai 40 anni, mentre
raggiunge il 60% sopra i 65 anni -da riscontro autoptico-.
- Spesso il riscontro è occasionale, mentre il 20% dei portatori di diverticoli manifesta sintomi, sia
correlati alla malattia diverticolare sia alla diverticolite. Di questi (in genere i pazienti con diverticolite),
il 2% necessita di uno o più ricoveri e lo 0,5% richiede un intervento chirurgico.
- [La mortalità per cause legate ai diverticoli è di 1/10'000.]
- Il rapporto M / F è di 1:2: lo svantaggio delle donne è legato alla maggiore frequenza di stipsi, elemento
importante nella patogenesi, nel sesso femminile.

PATOGENESI
I diverticoli si formano in zone di debolezza della parete che si
localizzano in corrispondenza del punto in cui i vasa recta, che
vascolarizzano mucosa e sottomucosa, e i nervi attraversano la parete. Il
meccanismo alla base è quello della pulsione, facilitato dalla carenza di
fibre nella dieta e in cui giocano un ruolo importante tre problematiche,
di cui le prime due correlabili alla formazione del diverticolo e una al suo
ingrandimento dimensionale e volumetrico, ovvero:
1. Attività motoria: la pressione endocolica è determinata da
onde, ritmi e azioni peristaltiche che, di norma, sono sincrone
fra loro e hanno la funzione di far progredire le feci verso
l’ampolla rettale. Nei pazienti stitici le onde e i ritmi peristaltici
sono alternati, non coordinati fra loro, e questo provoca pulsioni
soprattutto a livello delle zone di ingresso dei vasi. Si determina
quindi un “rilassamento” tissutale, con debolezza parietale, che

381
inizialmente viene corretto da un’ipertrofia muscolare della muscolaris mucosae. Quando i livelli di
pressione endoluminale continuano a crescere, tuttavia, l’ipertrofia della muscolaris mucosae non è
più in grado di contrastarla e si forma il diverticolo.
2. Segmentazione: [[ ipertensione endoluminale da peristalsi di tipo segmentario]]
3. Legge di Laplace [[P = T/r]]
Come già accennato, la maggior parte dei
diverticoli si forma a livello della tenia anti-
mesenterica. In pazienti con malattia
diverticolare diffusa, però, questi possono
formarsi anche in sul versante mesenterico e
presentarsi in diverse conformazioni:
- Marginali, in genere a livello della tenia
anti-mesenterica
- Intramurali
- Sacculari, il tipo più frequentemente
riscontrato in colonscopia.

LOCALIZZAZIONE
La localizzazione più frequente (95%) è in colon sinistro: a questo livello, infatti, grazie al restringimento del
calibro rispetto al colon di destra avviene un rallentamento della progressione delle feci, evento che permette
il riassorbimento della componente liquida e il compattamento delle feci, con conseguente aumento della
pressione endoluminale. Nel 65% dei casi, in particolare, è coinvolto solo il sigma e nel 30% il sigma è coinvolto
insieme a un altro tratto.
Possibile, ma raro (5%), che il sigma non sia coinvolto e i diverticoli si trovino a livello del colon trasverso,
oppure che ci sia una malattia diffusa che coinvolge tutto il colon.
Nello 0,7-1,5% dei casi si possono avere anche diverticoli solitari nel cieco.
La diverticolosi del colon destro è più frequente in Estremo Oriente e presenta una serie di caratteristiche
(NdR a lezione il professore riferisce che i diverticoli solitari sono più frequenti negli afroamericani e attribuisce inoltre le
seguenti caratteristiche a tutti i diverticoli, sebbene nella slide queste facciano riferimento esclusivamente a quelli del
colon destro. Anche nella sbobina dell’anno scorso tutte le caratteristiche sono attribuite ai diverticoli del colon destro):
- Si tratta spesso di diverticoli unici (diverticoli solitari)
- La genesi è discussa, ma probabilmente si tratta di diverticoli veri
- Il meccanismo prevalente è l’ipertensione endoluminale
- La morfologia è caratterizzata da un colletto più ampio e più breve
- I diverticoli si localizzano principalmente a livello della faccia antero-mediale
- Sta aumentando la prevalenza anche nei soggetti più giovani (circa 45 anni), soprattutto a causa di
un’alimentazione sempre più scarsa di fibre, che come già sottolineato sono fondamentali per il
corretto movimento del colon e il conseguente rimescolamento delle feci, e senza differenze tra sessi.
- I diverticoli non hanno tendenza a evolvere in senso flogistico (diverticoli stabili)
- Hanno però tendenza al sanguinamento

CLASSIFICAZIONE, DEFINIZIONI E MANIFESTAZIONI CLINICHE DELLA MALATTIA


DIVERTICOLARE
[La malattia diverticolare si presenta con un ampio spettro di sintomi e di livelli di gravità.] Può essere del tutto
asintomatica o continuare a dare sintomi tipo colite / colon irritabile o complicarsi con diverticolite ed
eventualmente diverticolite complicata.
[Il ricorso al chirurgo, e quindi alla chirurgia, deve restare l’ultima necessità: spesso nelle crisi acute bastano
antibiotici e dieta. Bisogna prestare particolare attenzione nella scelta delle tecniche di indagine: alcune, come
la colonscopia o l’Rx con clisma opaco con bario, possono facilitare la perforazione e non sono pertanto indicate
in fase acuta.]

382
La classificazione clinica prevede la suddivisione in:
- Malattia sintomatica non complicata (75%)
- Malattia recidiva sintomatica
- Malattia complicata
o Diverticolite semplice (25%).
Ulteriori complicanze (75%): nella maggior parte dei casi, infatti, quando si arriva alla
diverticolite arrivano anche le complicanze, a causa delle conformazione dei diverticoli
(diverticoli falsi) e della facilità con cui possono andare incontro alla perforazione. Tra queste
sono possibili:
 Emorragia: in realtà è difficile che l’emorragia si presenti nella diverticolite, mentre è
più frequente nella malattia diverticolare;
 Perforazione: coperta (o tamponata) o scoperta;
 [Ascesso, flemmone, peritonite fecale o purulenta, stenosi, fistola, ostruzione del
piccolo intestino da sindrome aderenziale post-flogistica.]
In particolare, è possibile allora definire clinicamente:
- Diverticolosi: presenza di diverticoli asintomatica
- Malattia diverticolare: dolori addominali vaghi e diffusi, flatulenza, modeste alterazioni dell’alvo
(sintomatologia che ricorda quindi l’IBS)
- Diverticolite (non complicata): flogosi
diverticolare con o senza sintomi / segni locali.
Il paziente tipo è una donna di 60 anni, con dolore
acuto in fossa iliaca sinistra o in sede sovrapubica,
costante e non peristaltico (non è una colica
addominale), fisso e forte; ci possono essere
febbre e sintomi urinari associati (stranguria,
pollachiuria) [[legati all’irritazione peritoneale]].
Agli ematochimici gli indici di flogosi sono
aumentati. Spesso alla palpazione profonda si
avverte una massa palpabile dolente, in fossa iliaca
sinistra, a causa dell’indurimento flogistico della
corda colica conseguente alla diverticolite
(pseudotumore infiammatorio), con segni più o meno evidenti di peritonismo.
Si tratta quindi di segni e sintomi analoghi a quelli che accompagnano l’appendicite, ma ribaltati a
sinistra (manca solo il corrispettivo del segno di Rovsing).
- Diverticolite (complicata): flogosi diverticolare con sintomi / segni locali e complicanze, tra cui
o Ascesso: si hanno febbre e tensione localizzata e talvolta si riesce a palpare una tumefazione.
La classificazione di Hinchey, descritta di seguito, basa la suddivisione degli stadi proprio sulle
caratteristiche dell’ascesso, ma nel 2018 è stata revisionata da parte della WSES (World Society
of Emergency Surgery) in quanto troppo focalizzata sulle raccolte fluide e non sui principali
elementi di accompagnamento alla perforazione, ovvero la perdita di aria e la sua presenza in
addome. La classificazione WSES è quindi molto più dettagliata e corretta anche dal punto di
vista clinico-sintomatologico.
o Fistola
 Colo-vescicale: il sigma è aderente alla vescica, quindi la presenza di fistole colo-
vescicali è un problema frequente. Nei casi meno gravi e più frequenti queste
provocano cistiti ricorrenti, ma non è così infrequente, soprattutto in un paziente con
attacchi di diverticolite acuta complicati e ripetuti, che la fistola si manifesti con
pneumaturia e fecaluria. [Altri segni e sintomi sono ematuria, febbre, setticemia.]
 Colo-vaginale: si manifesta con il passaggio di aria o feci dalla vagina
 Colo-enterica: è forse la meno grave, ma può dare malassorbimento, [dolore
addominale, diarrea]

383
 Colo-cutanea, soprattutto da diverticoli a livello della tenia anti-mesenterica del
sigma: si manifesta quasi sempre con arrossamento della cute e una specie di stomia
spontanea, [ con fuoriuscita di
materiale enterico e drenaggio di
ascesso parietale]
o Perforazione: si presenta con tensione
addominale, massa palpabile e peritonismo
locale o diffuso
o Stenosi: si presenta con quadro di
subocclusione o occlusione completa
o Emorragia: si può presentare con
un’anemizzazione per stillicidio cronico fino
a un’emorragia massiva. È un evento molto
più frequente nella malattia diverticolare
che nella diverticolite, ma nel secondo caso
è più grave soprattutto perché la
diverticolite acuta controindica la
colonscopia che, invece, può essere
utilizzata come metodo di correzione del
sanguinamento in caso di malattia
diverticolare.

DIVERTICOLITE ACUTA
La diverticolite acuta può essere ulteriormente classificata in (importante, da sapere):
- Diverticolite isolata, non complicata, ovvero con un singolo episodio di diverticolite acuta. NB un
primo attacco già molto grave espone il paziente a un maggior rischio di andare incontro a un secondo
attacco ancor più grave.
- Diverticolite ricorrente, non complicata (cronica): attacchi ricorrenti senza complicanze, [ovvero
episodi multipli e discreti di diverticolite acuta], sono indicativi di una malattia diverticolare cronica che
si riacutizza ogni tanto. Si tratta dei pazienti che più frequentemente vanno incontro allo
pseudotumore infiammatorio.
- Diverticolite complicata: è la classica diverticolite acuta, con tutte le manifestazioni prima elencate,
[ovvero ascesso, fistola, ostruzione, perforazione o stenosi]. Nella maggior parte dei casi il paziente che
arriva in pronto soccorso con diverticolite complicata è perforato.
- Diverticolite smoldering: classica diverticolite acuta associata anche a sintomi cronici.

Classificazione di Hinchey
La classificazione di Hinchey [consente di classificare la
progressione del processo infiammatorio iniziale nei
pazienti con diverticolite] definendo quattro stadi:
- Stadio 1: piccolo ascesso peridiverticolare
- Stadio 2: diviso in A e B sulla base delle
dimensioni dell’ascesso, ma soprattutto sulla
presenza di un ascesso a distanza rispetto al
punto della diverticolite, con o senza fistola
o 2A: ascesso a distanza
o 2B: ascesso complesso con / senza
fistola
- Stadio 3: peritonite suppurativa, con presenza di
materiale corpuscolato nell’addome
- Stadio 4: peritonite stercoracea

384
Come già accennato, questa classificazione non considera l’elemento base della perforazione, ovvero la
presenza di aria, cosa che è invece presente nella classificazione delle linee guida WSES (che il professore ci
invita caldamente ad andare a guardare).1
Evoluzione naturale e strategie terapeutiche in correlazione allo stadio di Hinchey
[Per sua natura, la diverticolite acuta è un processo di tipo dinamico e il quadro clinico e la terapia sono
fortemente influenzati dallo stadio evolutivo. Vi sono due estremi:
- Elevata tendenza alla risoluzione
con trattamento medico negli
stadi più precoci
- Mortalità molto elevata per lo
stadio più avanzato (peritoninte
stercoracea)
Vi è inoltre la sovrapposizione di ulteriori
eventi complicanti (stenosi, fistole) nelle
forme recidivanti.]
La diverticolite acuta o si risolve o va
incontro a progressione con eventuale
perforazione e peritonite diffusa. In
quest’ultimo caso va valutata la stabilità
emodinamica del paziente, ovvero lo
stato di shock settico e sepsi, e solo dopo
lo si può portare in sala.
Anche la strategia terapeutica cambia in base allo stadio.
1. Stadio 1: in genere è una diverticolite non complicata, in cui la terapia medica (antibiotici e
antinfiammatori) associata al digiuno e allo scarso apporto di fibre tendenzialmente portano a
un’evoluzione favorevole. Vi
sono casi in cui, però, si può
optare per una chirurgia in
elezione.
2. Stadio 2: gli stadi 2A e 2B
possono trarre un beneficio dal
trattamento associato medico–
interventistico, con il
posizionamento di drenaggi sotto
guida ECO o TC. In caso di
successo si opta poi per una
chirurgia elettiva differita
(opzione ovviamente preferita);
in caso di insuccesso è necessario
ricorrere alla chirurgia d’urgenza.
3. Stadio 3 e 4: la peritonite è certa
e si procede quindi con la
chirurgia d’urgenza

1
Linee guida: Sartelli, M., Catena, F., Ansaloni, L. et al. WSES Guidelines for the management of acute left sided colonic
diverticulitis in the emergency setting. World J Emerg Surg 11, 37 (2016). https://doi.org/10.1186/s13017-016-0095-0
Update 2020: Sartelli, M., Weber, D.G., Kluger, Y. et al. 2020 update of the WSES guidelines for the management of acute
colonic diverticulitis in the emergency setting. World J Emerg Surg 15, 32 (2020). https://doi.org/10.1186/s13017-020-
00313-4

385
Classificazione di Hinchey modificata sec. WSES
[[La classificazione di Hinchely è stata poi modificata ed aggiornata nel 2020.]]
[Anche la classificazione modificata consente di classificare la progressione del processo infiammatorio iniziale
nei pazienti con diverticolite], dividendo la diverticolite in “non complicata” e “complicata” e considerando la
presenza di aria libera in addome come elemento dirimente oltre alle caratteristiche dell’ascesso:
- Non complicata
o Stadio 0: presenza di diverticoli, inspessimento della parete colica o incremento della densità
del grasso pericolico
- Complicata: il diverticolo è infiammato, si perfora e fuoriesce, oltre all’aria, una quantità variabile di
fluido che contamina l’ambiente addominale determinando la formazione di una ascesso. La
perforazione di norma è tamponata.
o Stadio 1a: presenza di bollicine d’aria pericoliche o piccole raccolte fluide pericoliche senza
ascesso (a un massimo di 5 cm di distanza dal tratto di intestino infiammato)
o Stadio 1b: ascesso ≤ 4 cm (NB la presenza delle bollicine d’aria continua a essere compresa)
o Stadio 2a: ascesso > 4 cm (NB la presenza delle bollicine d’aria continua a essere compresa)
o Stadio 2b: può essere presente l’ascesso, ma soprattutto vi è aria a distanza (> 5 cm verso
l’alto dal tratto infiammato). È lo stadio più frequente. NB La perforazione può essere coperta.
o Stadio 3: fluidi diffusi senza aria a distanza (perforazione “coperta”)
o Stadio 4: fluidi diffusi con aria a distanza (sotto diaframmatica o inter-epato diaframmatico)
La perforazione è già chiaramente visibile alla TC, quindi non è tamponata, e vi è la presenza
di feci in addome. [[Nella classificazione di Hinchey sarebbe la peritonite stercoracea]]
[[La differenza tra stadio 3 e 4 nella precedente classificazione è l’entità della peritonite, cosa che difficilmente
si può definire nel pre-operatorio; in questa è la presenza di aria libera a distanza.]]
Strategie terapeutiche in relazione allo stadio WSES
(NdR Il discorso sulla terapia viene ripreso anche successivamente. Ho preferito non unire le due parti per
rispettare l’ordine seguito a lezione)
[Trattamento della diverticolite acuta non complicata (stadio 0):
- La terapia antibiotica può essere evitata in pazienti immunocompetenti con diverticolite non
complicata senza manifestazioni sistemiche di infezione (raccomandazione 1A).
- Se i pazienti necessitano di una terapia antibiotica, la somministrazione può essere effettuata per via
orale (1B).
Trattamento della diverticolite complicata localizzata (stadio 1a):
- Pazienti con dimostrazione TC di aria pericolica o di una piccola raccolta fluida andrebbero gestiti con
una terapia antibiotica (1C).]
Trattamento dell’ascesso diverticolare (stadi 1a – 2a)
- [Pazienti con un piccolo ascesso diverticolare (< 4-5 cm) possono essere trattati solo con la terapia
antibiotica (1C).
- Pazienti con grandi ascessi (> 4-5 cm) possono essere trattati nel modo migliore con il posizionamento
di un drenaggio percutaneo in associazione alla terapia antibiotica (1C).
- Ogni qualvolta non sia realizzabile o disponibile il drenaggio percutaneo dell’ascesso, basandosi sulle
condizioni cliniche, i pazienti con un grande ascesso possono essere trattati inizialmente con la sola
terapia antibiotica. Tuttavia, è mandatorio un attento monitoraggio clinico (1C).]
I pazienti che hanno una diverticolite complicata (fino a stadio 2a, al massimo 2b), quindi, vanno trattati con
terapia antibiotica. Si è inoltre ridotta l’aggressività: in passato si sarebbe messo comunque un drenaggio
percutaneo, che invece ora si mette solo quando c’è un ascesso > 5 cm.
Trattamento dello stadio 2b
- [Pazienti con reperti TC di aria a distanza senza raccolte fluide diffuse possono essere trattati in modo
conservativo in casi selezionati. C’è comunque un rischio di insuccesso della terapia e potrebbe essere

386
richiesta la chirurgia d’urgenza. È mandatorio un attento monitoraggio. La TC dovrebbe essere presto
ripetuta sulla base della valutazione clinica e laboratoristica (1C)]
La principale differenza rispetto alla precedente classificazione si ritrova, pertanto, nella gestione dello stadio
2b WSES (aria a distanza con presenza o meno di ascesso). Un paziente in questo stadio, che secondo la
classificazione di Hinchey era invece considerato uno stadio 3 e portato in urgenza in sala operatoria, viene ora
gestito in base alla stabilità emodinamica e allo stato settico: può infatti anche essere trattato in modo
conservativo e spesso risponde bene alla terapia antibiotica; dopodiché andrà sicuramente operato, ma
almeno non lo si sottopone a un intervento in urgenza, con tutte le complicanze del caso, e si apre la strada
dell’approccio laparoscopico.
Se si opera casi del genere in urgenza, infatti, non ci sono dubbi che si effettuerà una Hartmann (vedi dopo)
oppure una resezione in cui viene abbandonato il moncone colico e confezionata una stomia, con tutte le
problematiche correlate all’infezione della stomia, alla presenza di aderenze portate dall’infezione della cavità
addominale e alla difficoltà nell’insufflare aria e procedere quindi con un intervento in laparoscopia.
Nello stadio 2b la terapia antibiotica serve quindi a “prendere tempo” e raffreddare l’infiammazione. In
generale, un 70% dei casi si risolve e si procede poi con la chirurgia in elezione, ma un 30% necessita invece
comunque della chirurgia d’urgenza o in elezione molto ravvicinata.
(Potrebbe essere presa in considerazione questa strategia anche in alcuni casi di stadio 3, ma solo se ci si trova
in un centro che fa comunemente chirurgia colica e tratta anche la chirurgia colica d’urgenza: in qualsiasi
momento, infatti, la situazione può cambiare e potrebbe essere necessario procedere urgentemente
all’intervento.)
Trattamento della peritonite diffusa (stadi 3 e 4)
Gli stadi 3 e 4 sono molto simili alla vecchia classificazione e vanno in sala operatoria.
[Nonostante la maggior parte dei pazienti ospedalizzati per diverticolite acuta possa essere gestita con
interventi conservativi, fino al 25% di essi potrebbe richiedere un intervento chirurgico d’urgenza. I pazienti con
peritonite diffusa sono tipicamente pazienti critici e richiedono una rapida reintegrazione di liquidi,
somministrazione di antibiotici e chirurgia non differibile.
Nonostante la prevalenza assoluta di diverticoliti perforate complicate da peritonite diffusa sia bassa, si tratta
di una condizione con una mortalità post-operatoria significativa, a prescindere dell’approccio chirurgico scelto.
Un elemento critico potrebbe essere la presenza TC di aria libera a distanza senza fluidi diffusi (fluidi in ≥ 2
quadranti addominali), poiché lo pneumoperitoneo a distanza è patognomonico di perforazione sigmoidea
anche in assenza di evidenza TC di raccolte fluide diffuse.
- Se il trattamento conservativo fallisce in pazienti con aria a distanza senza fluidi diffusi, è suggerita la
resezione chirurgica e l’anastomosi con o senza stomia o la resezione sec Hartmann in accordo con le
condizioni cliniche e le comorbidità del paziente (1B)
- Il lavaggio-drenaggio peritoneale laparoscopico non dovrebbe essere considerato il trattamento di
scelta in pazienti con peritonite generalizzata (1A)]
Fino a qualche anno fa per lo stadio 3 era indicato come strategia di scelta il drenaggio / lavaggio laparoscopico,
che consisteva nel posizionamento di un drenaggio a livello dell’area infiammata dopo essere entrati in cavità
addominale e averla lavata laparoscopicamente (senza ricercare la perforazione). Attualmente, e con un livello
di evidenza alto, non è più il trattamento di scelta.
Il paziente in questo stadio deve infatti essere trattato o con terapia medica-radiologica o trattato
chirurgicamente optando per un intervento definitivo (resezione del colon sinistro, sigmoidectomia etc.).
- La resezione secondo Hartmann è ancora consigliata per la gestione della peritonite diffusa in pazienti
critici e in pazienti con comorbidità multiple. Tuttavia, in pazienti clinicamente stabili senza comorbidità
andrebbe eseguita la resezione con anastomosi con o senza stomia. (1B)]
L’Hartmann è quindi ancora oggi l’intervento di scelta nel paziente con diverticolite acuta perforata WSES 4,
perché fare l’anastomosi in un paziente che ha contaminazione fecale “significa condannarlo a morte”.
(Secondo il professore diventerà raccomandazione 1A nel prossimo aggiornamento previsto nel 2022)

387
- [La damage control surgery può essere suggerita per pazienti clinicamente instabili con peritonite
diverticolare (sepsi severa / shock settico) (1B)]
In pazienti in stadio 4 WSES con peritonite stercoracea e shock settico, la strategia di scelta è la damage control
surgery (la raccomandazione è alta ed è sempre più avvalorata da nuovi studi, pertanto anche in questo caso
è possibile che diventi presto 1A), ovvero: si opera il paziente il più velocemente possibile per togliere la fonte
della sepsi, si lascia l’addome aperto (spesso non si confeziona nemmeno una stomia) e si porta il paziente in
rianimazione per stabilizzarlo. [[L’addome viene lasciato aperto con una Bogota Bag o Vitera, un sistema che
crea il vuoto nella cavità addominale e che permette di gestire la stabilizzazione emodinamica]]
L’intervento chirurgico di scelta viene eseguito solo in un secondo tempo.
L’addome non si chiude e non si fa l’intervento definitivo perché, data la contaminazione addominale, vi sono
alte probabilità di complicanze ulteriori quali raccolte intra-addominali successive, infezioni alla ferita, infezioni
del sito chirurgico (moncone rettale, moncone colico, tutti i punti scollati...).
(Una situazione simile può accadere ad esempio anche in caso di importanti traumi epatici se il centro, come il
San Luigi, non è specializzato nella chirurgia epatica: si apre l’addome del paziente, lo si pulisce dal sangue e
si inseriscono dei telini per tamponare il sanguinamento, dopodiché il paziente è portato in rianimazione e, una
volta stabilizzato, viene trasferito in un centro di chirurgia epatica.)

Diagnosi di diverticolite
- Indagini laboratoristiche
o Leucocitosi, tendenzialmente neutrofila [(assente nel 60%)]
o PCR innalzata [[NB: può impiegare 12-24h a innalzarsi anche se la diverticolite è già
complicata]]
o Procalcitonina e lattati in aumento: in un paziente in cui temiamo sepsi / shock settico si
devono monitorare anche la PCT e i lattati. I lattati in aumento, in particolare, devono far
sospettare un imminente shock settico anche in quei pazienti che hanno solo una lieve
leucocitosi e la PCT ancora nei limiti.
- Indagini strumentali
o Rx addome: permette di visualizzare eventuale aria libera in addome
o Ecografia: se l’operatore è competente l’ecografia
intestinale può anche essere considerata un’indagine
di I livello estremamente valida, soprattutto nella
diverticolite non complicata. [Ha il grande vantaggio
di avere valenza diagnostica e terapeutica in casi
selezionati,] in cui permette l’inserimento di un
drenaggio ecoguidato. La sensibilità è alta (84-98%) e
la specificità più varia (80-97%), in quanto tecnica
operatore dipendente.
Nell’esempio a lato si riconoscono la parete, il sigma e
la raccolta peri-sigmoidea.
o TC: è fondamentale per fare diagnosi di diverticolite,
[delle sue complicanze], per poterla classificare [e per
fare diagnosi differenziale]. Si tratta infatti di una
tecnica con una sensibilità altissima (85-97%). È
inoltre utile come guida per il posizionamento del
drenaggio percutaneo degli ascessi addominali. I
reperti TC in diverticolite sono:
 Ispessimento del mesocolon (mesosigma)
 Ispessimento parietale
 Ispessimento fasciale (retroperitoneo)
 Cavità diverticolari: appaiono come delle
“bolle”
 Ascessi mesocolici

388
 Ascessi extracolici
[[Nell’ambito della DD ci sono situazioni complesse -es: paziente con ascesso adiacente a un
segmento inspessito del colon, con stenosi- che non sono di facile distinzione rispetto a un
cancro: può essere quindi necessaria la colonscopia con biopsia]]
o Colonscopia: è importante per fare diagnosi di
diverticolosi / malattia diverticolare, ma NON IN
ACUTO (elevato rischio di perforazione). È infatti
necessario attendere 2-3 mesi dall’eventuale episodio
infiammatorio. [Mediante biopsia può consentire la
diagnosi differenziale tra stenosi diverticolare e
neoplastica].
In mani esperte permette inoltre di trattare
un’eventuale emorragia diverticolare -non durante la
diverticolite, ma durante la diverticolosi- con iniezioni
di adrenalina, evitando l’intervento chirurgico (Il
classico paziente che sanguina è un paziente anziano
con FA scoagulato con Coumadin).
A sinistra è possibile vedere l’immagine endoscopica
di un diverticolo perforato: i diverticoli erano già
infiammati (diverticolite), ma è stata comunque
eseguita una colonscopia pensando si trattasse ancora
solo di una malattia diverticolare. Ci si è resi conto
della perforazione immediatamente, poiché il
paziente ha avvertito un dolore molto intenso
(normalmente il primo tratto indagato durante la
colonscopia non provoca dolore) e, inoltre, lo ha
riferito in ipocondrio destro e non in FIS come ci si
sarebbe aspettato. Eseguita l’Rx e confermata la
presenza di una falce d’aria sottodiaframmatica, il
paziente è stato portato in sala e operato.
In generale, è fondamentale che nei pazienti con diverticolosi venga eseguita una colonscopia
di controllo almeno una volta: non tanto per la malattia diverticolare in sé, ma perché in caso
di problematiche a livello del colon bisogna sempre escludere una patologia neoplastica
associata.
o [Colonscopia virtuale,
o RM,]
o Clisma opaco: tecnica obsoleta

Diagnosi differenziale
- IBD
- Colon irritabile
- Tumori del colon
- [Colite ischemiche
- Colite pseudomembranosa]
- Appendicite acuta: [[soprattutto nel dolico-sigma, spinto verso la fossa iliaca destra]]
- Ulcera peptica perforata: quando un paziente arrivare in peritonite acuta, con addome difeso e teso,
e all’Rx addome si vede aria libera, ci può essere una perforazione in qualunque organo addominale
cavo. Un paziente del genere, se emodinamicamente instabile, va direttamente in sala operatoria
anche se non la localizzazione della perforazione non è nota, mentre se il paziente è stabile si può fare
diagnosi differenziale.
(Questa tra l’altro è una condizione che entra in DD con l’appendicite acuta: è infatti frequente che un
paziente con perforazione gastrica o, soprattutto, duodenale abbia dolore in fosse iliaca destra; l’aria
infatti sfrutta l’unica zona libera della retrocavità degli epiploon, passa nella doccia ileocolica di destra,

389
scende verso il basso e il paziente ha dolore. Chiaramente si tratta di perforazioni coperte, che sono
rare.)
- Patologie urologiche
- Patologie ginecologiche

TERAPIA
Nell’ambito della malattia diverticolare, i quesiti essenziali sono COME, QUANDO e COSA...
- Trattare con terapia medica
- Trattare chirurgicamente in urgenza
- Trattare chirurgicamente in elezione
[La terapia è fortemente influenzata dallo stato clinico di presentazione e dalla evoluzione. Il range oscilla tra:
- TERAPIA MEDICA sotto sorveglianza chirurgica: nelle forme di più frequente osservazione e nei primi
episodi (riconducibili agli stadi I e II e di Hinchey)
- TERAPIA OBBLIGATORIAMENTE CHIRURGICA
o In urgenza nelle peritoniti diffuse e in quelle perforativa
o In elezione dopo più episodi trattati con terapia medica
o In urgenza differita, dopo parziale risoluzione con terapia medica]

Indicazioni alla sorveglianza chirurgica


- Attacchi frequenti (almeno 2, ravvicinati)
- Pazienti che hanno avuto al primo attacco o continuano ad avere ad ogni attacco fistole / ascessi
- Sub-occlusione intestinale sintomatica (ci può essere già un’aderenza tra il piccolo intestino e il colon)
- Sintomi urinari persistenti ogni volta che si presenta un attacco diverticolare (nuovamente, dato il
rapporto tra colon e vescica, è possibile che vi siano aderenze alla cupola vescicale [con rischio di fistola
colo-vescicale])
- Primo episodio molto grave (stadio 2b-3) in paziente con < 50 aa: questo punto non è regolamentato
da linea guida vera e propria, ma è più un consensus. Inoltre, oggi si tende a innalzare l’età soglia
poiché la vita media si è allungata: un paziente di 60 anni ha ancora 25 anni di vita davanti e, se è
possibile, si evita di lasciargli il rischio di avere in seguito una perforazione con shock settico,
preferendo invece operarlo in elezione.

Motivi di ospedalizzazione
Un paziente che presenta i seguenti criteri è un paziente con il 25% di rischio di sviluppare complicanze e, per
tale motivo, è preferibile gestirlo in regime di ricovero:
- Febbre > 39° C (anche se in realtà la febbre non è sempre presente)
- Leucocitosi neutrofila
- Segni di coinvolgimento peritoneale: è un segno di diverticolite acuta grave -magari ancora non
complicata, ma che può complicarsi-
- Dolore che richiede analgesici maggiori: un paziente con diverticolite acuta, anche se non complicata,
prova molto dolore. Se questo non è controllato dal paracetamolo per os e sono richiesti analgesici ev,
il paziente non può essere gestito a domicilio.

Terapia medica
Per la diverticolosi e la malattia diverticolare non complicata, il ricorso alla chirurgia (es. emicolectomia
profilattica) non è giustificato.
[Un primo episodio di diverticolite acuta, infatti, viene trattato di regola con successo con la terapia medica,
con risoluzione in circa il 70% dei casi senza ulteriori problemi. Solo nel 20% dei casi, infatti, i pazienti al primo
attacco sviluppano una complicanza, a differenza dei casi recidivi in cui l’incidenza delle complicanze si aggira
intorno al 60%.
La terapia medica può rappresentare:
- L’unica tipologia di trattamento ( risoluzione completa e stabile)
- Una forma di trattamento “ponte”

390
Nel periodo di acuzie, in assenza di peritonite diffusa o perforativa, sono indicati:]
- Digiuno / dieta priva di fibre.
- Antibiotici per os / e.v. (se in ricovero): [ ad ampio spettro, con efficacia contro i Gram – e gli anaerobi:
metronidazolo, gentamicina, aztreonam, cefalosporine]. [[Negli attacchi lievi possono bastare
amoxicillina + acido clavulanico]]
- Fluidi e.v. ed eventuale nutrizionale parentale nelle prime fasi (appena si abbassano i globuli bianchi,
però, è importante far riprendere a mangiare il paziente)
- Analgesici al bisogno
- Antibiotici per os (mantenimento): [amoxicillina + acido clavulanico / ciprofloxacina + metronidazolo]
[Queste strategie hanno un 70-100% di successo. Possono anche essere indicati la sorveglianza chirurgica e un
eventuale drenaggio ecoguidato.] Il rischio di recidiva varia dal 7 al 45%: tendenzialmente più sono ravvicinati
gli episodi di diverticolite, più la tendenza alla recidiva tende ad aumentare.
Nel periodo di quiescenza e per prevenire le recidive di acuzie è fondamentale una dieta ricca di fibre,
unitamente all’assunzione di antibiotici per os (rifaximina) e probiotici per mantenere le feci il più morbide
possibili (bisogna infatti ricordare che un paziente che ha avuto un episodio di diverticolite è un paziente con
colon irritabile).

Quando la Chirurgia? Indicazioni alla chirurgia elettiva


- Come già accennato, la colectomia profilattica non è indicata in assenza di storia di flogosi.
- Vanno considerati per la chirurgia elettiva pazienti con almeno 2 episodi di diverticolite; secondo
alcuni studi addirittura 3, ma in Europa tendenzialmente si interviene dopo due episodi, perché di
norma ogni nuovo attacco è peggiore del primo.
- Solo in alcuni casi si può prendere in considerazione l’opzione chirurgica già dopo il primo attacco:
o Pazienti immunocompromessi
o Soggetti giovani (< 50 anni con episodio già grave)
o Portatori di patologie del tessuto connettivo: questi pazienti vanno più frequentemente
incontro o a perforazione o a stenosi da pseudotumore infiammatorio.

Domanda di una collega: da che stadio in poi si definisce un episodio “grave” e quindi si opera un soggetto con meno di
50 anni?
Dallo stadio WSES 2B in poi, ma comunque non in urgenza: si porta il paziente in sala solo dopo un’adeguata terapia
antibiotica. Dai dati di letteratura è noto infatti che un soggetto giovane, dopo un primo attacco diverticolitico grave, ha
una qualità di vita che tende a peggiorare nel tempo e, inoltre, molto probabilmente andrà nuovamente incontro a un
successivo attacco diverticolitico peggiore del primo e richiedente una chirurgia d’urgenza.
La ratio è evitare di arrivare alla perforazione franca, che porta con sé complicanze sistemiche e, soprattutto nei soggetti
più anziani, una mortalità molto alta legata alla malignità intrinseca della sepsi e dello shock settico. Inoltre, evitare di
arrivare alla chirurgia in urgenza significa evitare un intervento come l’Hartmann, che pur essendo un intervento salvavita
implica in seguito un altro intervento chirurgico maggiore per ricanalizzare il paziente. Re-intervenire su un paziente che
ha avuto una peritonite stercoraria ed è già stato aperto non è una passeggiata: spesso le anse sono aderenti al mancone
rettale e prima di procedere all’anastomosi è necessario speritonizzarle ed effettuare una stomia di protezione.
Considerando l’aspettativa di vita e le spese ospedaliere che deriverebbero da plurimi interventi “riparatori”, si spiega il
perché si preferisce operare un paziente giovane già dopo il primo episodio. Ovviamente se il primo episodio è stato lieve
non lo si opera, ma lo si tiene in osservazione e lo si valuta nel tempo.

Seconda domanda: e se un paziente giovane presenta un’importante anemizzazione da sanguinamento massivo da un


diverticolo?
In questo caso si può pensare a un intervento endoscopico, ma è importante ricordare che anche se il sanguinamento
nella malattia diverticolare è più frequente che nella diverticolite, si tratta comunque di un evento non frequente. Tra
tutte le complicanze quella principale e più frequente è la perforazione.

[Trattamenti conservativi
- Ascesso: drenaggio TC guidato
- Stenosi: dilatazioni endoscopiche
- Emorragia: iniezioni endoscopiche di adrenalina

391
Tali procedure possono permettere di procrastinare un intervento chirurgico o possono rappresentare l’unico
momento terapeutico per pazienti con rischio operatorio eccessivamente elevato.
Alcuni chirurghi, sebbene sottolineino come la diverticolite nei giovani abbia un più elevato tasso di complicanze
acute, sostengono l’opportunità di un atteggiamento chirurgico conservativo, poiché sembrerebbe dimostrato
che in circa il 50% dei casi la diagnosi di diverticolite non sarebbe corretta e che il decorso clinico sarebbe
sovrapponibile a quello dei pazienti più anziani. Inoltre non esistono fattori predittivi per lo scatenarsi di altri
episodi di diverticolite acuta. ]

[Indicazioni alla chirurgia d’urgenza


- Sepsi
- Fistola
- Occlusione]
[[I casi di peritonite generalizzata, che sono il 25%, in genere hanno segni di sepsi o addirittura shock settico e
hanno bisogno di intervento chirurgico. Nello scegliere la strategia chirurgica diventa importante l’esecuzione
della TC per valutare presenza di aria libera e liquidi, che deve essere in 2 o più quadranti addominali; questo è
indicativo di perforazione per cui va gestito chirurgicamente.
I pz devono essere attentamente monitorati perché possono peggiorare in shock settico, vanno rivalutati con
la TC a distanza di tempo, entro le prime 24 ore (seriali).]]

Terapia delle complicanze


Stadio Hinchey 1 e 2. [La slide 61 è stata saltata in quanto inerente a trattamenti e indicazioni non più valide]
I pazienti con Hinchey 1-2, non vanno più in sala operatoria. Se però un paziente ha 5 episodi di Hinchey 1-2
(ovvero fino a uno stadio WSES 2A) andrà comunque in sala: vi sarà uno stato infiammatorio molto lieve e si
riuscirà a fare una resezione del sigma / emicolectomia con anastomosi in un unico tempo.

Stadio Hinchey 3 e 4
- Resezione e anastomosi in un unico tempo + stomia
- Resezione sec. Hartmann (in due tempi) vedi dopo
La tecnica prescelta varia in funzione dell’abilità/esperienza del chirurgo e del quadro riscontrato al momento
dell’intervento. Ad esempio l’ora in cui arriva il paziente può far propendere per una scelta o per l’altra: se un
paziente arriva alle 15 in stadio Hinchey 3, quindi con un po’ di peritonite purulenta, lo si opera in un unico
tempo (resezione + anastomosi) in tranquillità; se arriva alle 4 del mattino e magari il chirurgo è anche
inesperto si preferisce procedere con la Hartmann.

Quanto resecare?
[La resezione si considera “appropriata quando:
- Ha bassa % di recidive
- L’anastomosi è sicura
- Tiene conto del comfort del paziente]
Tendenzialmente l’intervento corretto è l’emicolectomia sinistra, con abbassamento della flessura splenica e
anastomosi con il retto.
[In pratica:
- Sezione prossimale che escluda i foci flogistici. (La resezione di tutto il colon coinvolto non è necessaria)
- Sezione distale a livello della porzione superiore del retto, dove scompaiono le tenia, senza lasciare
diverticoli distalmente all’anastomosi]
Ma anche in questo caso la risposta è basata più sul tempo a disposizione, l’esperienza del chirurgo e il tipo di
paziente che sull’evidenza. Ad esempio, in un paziente con 30 di BMI è difficoltoso arrivare sulla flessura
splenica – e spesso si accompagna anche un dolicosigma -, pertanto ci si accontenta a volte di fare una
resezione del sigma.

392
Opzioni attuali
- In generale, si cerca sempre di
evitare l’intervento in urgenza nei
pazienti in cui si può fare un
tentativo di terapia medica. Questo
permette di fare la resezione-
anastomosi in un unico tempo e
risparmia un successivo altro
intervento.
- Molti studi dimostrano che la
diverticolite acuta può essere
trattata in laparoscopia nello stesso
identico modo in cui viene trattata
in open. Chiaramente questa
possibilità dipende dall’esperienza
del chirurgo (ci sono chirurgie,
soprattutto negli ospedali
provinciali, in cui l’intervento in laparoscopia esiste solo per colecisti e appendice, mentre tutto il resto
viene eseguito in open).
- [Colostomia di protezione indicata nelle anastomosi “a rischio” (“stoffa” colica, sepsi locale, condizioni
generali etc.)]
- Nei pazienti a rischio o shockati: damage control surgery o resezione sec Hartmann, che lascia il
moncone rettale affondato e la stomia.
Nella two stage procedure si procede prima con
l’intervento di Hartmann (che risale agli anni ’80:
prima si confezionava solo la stomia, ma non si
resecava), che lascia una stomia terminale e il
moncone rettale affondante, e poi con l’intervento di
ricanalizzazione. In passato si procedeva alla
ricanalizzazione dopo almeno 6 settimane, mentre
oggi si lasciano passare
almeno 6 mesi.
Da dati recenti del
reparto di chirurgia del
San Luigi è noto però che solo il 60% dei pazienti che ha subito la resezione sec.
Hartmann ritorna effettivamente in sala per l’intervento di ricanalizzazione.
Spesso infatti i pazienti sono anziani e, vista la facilità di gestione della colostomia,
preferiscono non sottoporsi a un nuovo intervento chirurgico.

IL TRATTAMENTO CHIRURGICO IN URGENZA DELLE IBD


Nota di inizio argomento - Le IBD sono già state trattate nel corso di chirurgia generale. Nel corso di emergenze
ci si sofferma maggiormente sulle complicanze, sulla gestione delle manifestazioni e in particolare
sull’associazione del Morbo di Crohn all’appendicite acuta.
NdR Per questo motivo molte delle informazioni contenute nelle slide sono state completamente lasciate alla
nostra lettura autonoma. Sono comunque state integrate nelle solite modalità e, in caso di uno specifico
commento da parte del professore, questo è segnalato.

Le malattie infiammatorie croniche intestinali sono un insieme di patologie complesse a carattere cronico, che
comprendono:
- Rettocolite ulcerosa (RCU)
- Colite ulcerosa – Enterite associata (UCAE)

393
- [Digiunoileite cronica ulcerativa
- Colite indeterminata]
- Morbo di Crohn
Le più importanti e frequenti sono la rettocolite ulcerosa e il morbo di Crohn. Per queste patologie le
indicazioni alla chirurgia in urgenza sono sovrapponibili, poiché lo sono anche le complicanze [fatta eccezione
per le ileiti acute e le occlusioni intestinali, che sono proprie del MC]. La differenza fra la due risiede nel fatto
che l’intervento esteso (proctocolectomia totale o colectomia totale) nella RCU risolve la patologia pur
diminuendo la qualità di vita (anche se il professore si dice non completamente d’accordo), mentre nel morbo
di Crohn non si può pensare di eseguire un intervento resettivo / demolitivo esteso per rimuovere il problema.
Tra le complicanze è possibile infatti avere:
- Colite acuta severa (in entrambi casi)
- Megacolon tossico (prerogativa della RCU, ma in aumento anche in MC): è una complicanza per
fortuna non così frequente e molto grave che consiste in una dilatazione acuta del colon, in modo
simile a quello che accade nel morbo di Hirschsprung.
- Perforazione
- Emorragia (prevalentemente in RCU): la diarrea ematica può essere presente anche nel MC, ma è
soprattutto la RCU che causa sanguinamenti anche estremamente importanti.
- Ileite acuta (più frequente nel MC): il MC in passato veniva chiamato “ileite terminale”, poiché la sede
più frequentemente colpita dalla patologia è proprio l’ultima ansa dell’ileo (e per questo motivo è
molto importante la DD con l’appendicite acuta: a volte i pazienti con ileite terminale presentano
anche associata un’appendicite e in questo caso la gestione deve essere il più possibile clinica, poiché
se si opera un paziente con MC attivo si crea sicuramente una fistola).
- Occlusione intestinale (più frequente nel MC, soprattutto per quanto riguarda quella ileale)

Caratteristiche principali
La RCU è prevalente a sinistra, mentre il Crohn è prevalente a destra. Ultimamente è però aumentato il MC a
livello rettale, in particolare nei soggetti più giovani, con conseguente maggiore frequenza delle fistole peri-
anali.

[Rettocolite ulcerosa
Si tratta di un’infiammazione diffusa della mucosa limitata al colon (non risale mai a monte della valvola
ileociecale). In base all’estensione della malattia si distingue:
- Malattia “distale”:
o Proctite (se confinata al retto)
o Proctosigmoidite (al retto e sigma)
- Malattia estesa:
o Colite sinistra (fino alla flessura splenica)
o Colite estesa (fino alla flessura epatica)
o Pancolite (estesa all’intero colon)
Si può associare a un’infiammazione di lieve entità a carico dell’ileo terminale, detta “ileite da reflusso”.

Malattia di Crohn
Si tratta di un’infiammazione segmentaria, transmurale,, che può colpire ogni parte del tratto gastrointestinale
(dalla bocca all’ano). Può essere classificata in base a:
- Topografia delle lesioni: ileo terminale / colon / ileocolica / gastrointestinale superiore
- Caratteristiche della malattia: infiammatoria / fistolosa / stenotica

Colite ulcerosa-enterite associata


È la compresenza nello stesso paziente di RCU e infiammazione superficiale del piccolo intestino, con distorta
architettura delle cripte (solo 12 casi descritti al mondo).

394
Digiuno-ileite cronica ulcerativa
È caratterizzata da ulcerazioni multiple e focali e spesso da atrofia dei villi; si può complicare con la formazione
di stenosi o perforazioni. Può essere associata a linfomi o insorgere a complicare un’enteropatia glutine-
sensibile.

Colite indeterminata
Rappresenta il 5% dei casi di IBDs. Riassume caratteristiche cliniche, radiologiche, endoscopiche e patologiche
di RCU e Crohn, restando inclassificabile. È caratterizzata da infiammazione transmurale non specifica che
risparmia il piccolo intestino.]

Sintomatologia
Nella RCU: diarrea ematica, dolore, malassorbimento.
Nel MC: dolore addominale, malassorbimento, diarrea (più raramente ematica)
[In RCU: diarrea, feci miste a sangue e muco, dolore addominale crampiforme, sanguinamento rettale, senso
di incompleta evacuazione, urgenza, stipsi (nella proctite), sintomi generali (febbre, perdita di peso, calo
dell’appetito).
In MC: dolore addominale, diarrea con presenza o meno di sangue, febbricola, astenia e calo ponderale,
sanguinamento rettale e muco (interessamento del colon), sintomi extra-intestinali (artralgie, lesioni perianali,
cutanee, orali e oculari), ritardo della crescita (bambini)]
Le IBD possono avere in realtà moltissime altre manifestazioni, alcune delle quali sono preponderanti nel
morbo di Crohn. (Il professore faceva riferimento alla tabella seguente, ma non ha nominato alcuna
manifestazione).

Un esempio di manifestazione extra-intestinale di IBD è il


pioderma gangrenoso (foto a lato), ormai per fortuna
molto raro da vedere in uno stadio così avanzato.

Caratteristiche patologiche
Il MC è saltatorio, può interessa tutto l’intestino, è
caratterizzato da ulcere aftoidi e l’infiammazione è
transmurale, causando più frequentemente inspessimento
parietale, subocclusioni, fistole e perforazioni.
Nella RCU la mucosa ha come reazione la formazione di
pseudopolipi infiammatori.

395
Già all’inizio degli anni 80 era chiara ed evidente l’associazione tra RCU e rischio aumentato di cancro al colon,
motivo per cui i pazienti erano sottoposti a proctocolectomia. Oggi l’associazione è nota anche per il MC,
seppur con rischio minore, soprattutto nelle forme di MC colico.
- [Distribuzione
o RCU: solo colon, coinvolgimento rettale, sempre continua
o MC: colon e/o tenue, lesioni anali, può essere discontinua
- Aspetto macroscopico
o RCU: mucosa granulare, ulcerazioni superficiali, pseudopolipi, essudato ematico e purulento
o MC: ulcere aftoidi, ulcerazioni serpiginose profonde, stenosi
- Aspetto microscopico
o RCU: infiammazione mucosa, interessamento delle cripte
o MC: infiammazione trans-murale, granulomi (<15%)]

Focus on: Rettocolite ulcerosa


NdR Le slide dalla 78 all’81 compresa sono state saltate con l’indicazione a guardarle in autonomia. Sono
riportati di seguito i contenuti, comprese le tabelle.
[Estensione
In base all’estensione del processo patologico, possiamo definire le seguenti entità:
- Proctite: malattia che coinvolge solo il retto (15% dei casi)
- Proctosigmoidite: se localizzata al retto-sigma (35%)
- Colite sinistra: se estesa fino alla flessura splenica (40%)
- Colite totale o pancolite: se interessa l’intero colon (15%)
Quadro clinico e decorso
Si manifesta con emissione di feci non
formate e secrezioni muco-ematiche,
dolori addominali crampiformi, senso di
incompleta evacuazione, urgenza. Nella
proctite può essere talora presente anche
stipsi.
Il decorso clinico è caratterizzato da
un’alternanza di esacerbazioni e
remissioni:
- Circa il 50% dei pazienti ha una
recidiva ogni anno
- Una minoranza significativa ha
recidive frequenti
- Una quota minore di pazienti ha
una malattia continua.
La remissione si può verificare o
spontaneamente o in risposta alle
terapie.
Complicanze
- Dilatazione / rottura del colon: megacolon tossico
- Perforazione
- Pseudopolipi (tessuto di granulazione e fibrosi)
- Displasia-carcinoma
- Intussuscezione intestinale (su pseudopolipo)
- Eventi tromboembolici venosi / arteriosi]

396
Terapia
La terapia medica è importante e
almeno quella iniziale si basa su FANS,
soprattutto 5-ASA, o cortisonici.
Possono però essere necessarie anche
le terapie biologiche.
[[ Il farmaco di seconda scelta è
l’Azatioprina. Nell’ambito di studi clinici
o in singoli casi si può ricorrere a:
Metotrexate, Ciclosporina A, Fattore
XIII.]]
Si può giungere invece
all’emicolectomia in caso di:
- mancata remissione con la
terapia medica, magari con
importanti rettorragie e rischio
aumentato di megacolon
tossico.
- Complicanze (quelle elencate
all’inizio del paragrafo)
- Effetti collaterali della terapia
conservativa: i farmaci utilizzati
possono dare effetti collaterali,
soprattutto se la malattia
esordisce in giovane età e,
quindi, il tempo per cui il
soggetto fa uso di farmaci si
allunga.
- In caso di carcinoma o displasia
Le indicazioni assolute all’intervento sono:
- Perforazione
- Sanguinamento non controllabile: il sanguinamento tipico della RCU non è un sanguinamento da un
vaso, ma da tutta la sottomucosa del tratto interessato, in quanto la mucosa è stata completamente
esfoliata.
- Megacolon tossico: in questo caso il paziente di solito è anche in shock settico
- Carcinoma, displasia grave
Le indicazioni relative sono:
- Stenosi: molto rara
- Recidive frequenti: la qualità di un paziente, magari giovane, è molto inficiata se presenta recidive
frequenti e se non riesce a sospendere la terapia medica perché la malattia non va in remissione
- [Fallimento della terapia conservativa; evidenti effetti collaterali della terapia conservativa; displasia
lieve]

Se non vi sono complicanze acute importanti si interviene solo sul tratto intestinale interessato (a meno che
non ci sia una malattia diffusa).
La colectomia totale o subtotale [con retto lungo e ileostomia di protezione] si esegue in urgenza in pazienti
con colite fulminante / megacolon tossico / [con DD difficile tra RCU e Crohn]. Si hanno due possibilità:
1. Proctocolectomia con anastomosi tra piccolo intestino e ano
2. Colectomia con risparmio del retto – che è un tratto monitorabile clinicamente con più facilità anche
se lasciato in sede- e anastomosi tra ileo e retto.

397
Con la seconda opzione si evita l’anastomosi ileo-ano, complessa sia da confezionare sia da gestire,
considerando anche che questo intervento lo si fa in soggetti giovani e la qualità di vita ne risente molto.
Salvando il retto, invece, si permette la continenza (ovviamente ci sono comunque delle problematiche, però
esistono addensanti che permettono di compattare le feci).
[[Soprattutto in caso di megacolon tossico e nei pazienti più anziani in shock settico si può procedere
all’intervento di Mikulicz, in cui ]] si confezionano poi più stomie possibile, in genere una destra, una sul
trasverso e una a sinistra: l’ileostomia è quella canalizzante, mentre le altre sono anche dette “fistole mucose”
e sono funzionali alla fuoriuscita dell’aria.
In realtà, però, molto spesso i pazienti con colite fulminante e megacolon tossico sono pazienti in shock a cui
non si fa nulla se non la damage control-surgery: se si riesce si lascia l’addome aperto e poi si rivaluta il paziente
(non è comunque un evento così frequente).
[Tra i vantaggi della colectomia vi sono:
- Riduzione dei problemi per il paziente acuto e defedato legati a:
o Tempi operatori lunghi
o Dissezione pelvica
- Asportazione del colon affetto dalla malattia
- Possibilità di un intervento chirurgico ricostruttivo in tempi successivi
Tra gli svantaggi, i problemi connessi a:
- Presenza di malattia residua nel retto / sigma
- Sanguinamento rettale]

Focus on: Morbo di Crohn


[La malattia di Crohn prende il nome dal chirurgo che all’inizio degli anni Trenta descrisse questa patologia
dell’intestino, differenziandola dall’enterite tubercolare.]
Localizzazione. Il MC interessa più spesso l’ultima ansa ileale [Generalmente il 50% dei pazienti presenta un
interessamento contemporaneo sia dell’ultima ansa dell’intestino tenue, sia del colon; nel 25% dei casi è
coinvolta soltanto l’ultima ansa ileale, mentre nel 20% soltanto il colon, diffusamente o solo in parte. Nel
restante 5% vi può essere presenza di lesioni dell’esofago, dello stomaco, del duodeno e del digiuno, in genere
associate all’interessamento dell’ileo e /
o del colon. Le lesioni sono tipicamente
segmentarie.]
Decorso clinico: alternanza di
esacerbazioni e remissioni.
Complicanze: fistole (con qualsiasi
organo), ascessi, [pseudopolipi,
intussuscezione, eventi tromboembolici
venosi / arteriosi.]
Terapia medica (a lato) non vista a
lezione. [[è una terapia medica
prevalentemente immunosoppressiva ]]
Trattamento chirurgico
Il ricorso al trattamento chirurgico è molto più frequente rispetto a quanto accade nella RCU e si rende
necessario almeno una volta nella vita del paziente affetto da MC. La probabilità di subire un intervento
chirurgico, infatti, aumenta in modo importante nel corso della malattia: 20-40% nel primo anno, 30-70% nei
dieci anni e 70-90% nei 15 anni dopo la diagnosi. Confrontando tali dati con l’età di insorgenza si comprende
perché l’intervento sia così frequentemente necessario: la RCU ha un’età media di insorgenza di 35-40 anni,
mentre il MC ha due fasce interessate, una più anziana e una giovane (i pazienti possono anche avere meno di
18 anni e una lunga storia di malattia davanti a sé).

398
[La chirurgia è generalmente indicata per complicanze occlusive o settiche, per l’insuccesso della terapia
medica, per l’insorgenza di displasia e cancro, o per il ritardo di crescita in età pediatrica. D’altra parte, la
chirurgia non cura il MC: circa 1 anno dopo la resezione chirurgica il 70% dei pazienti presenta una recidiva
endoscopica, dopo 5 anni il 20-60% dei pazienti sviluppa una recidiva clinica e il 15-20% dei pazienti necessita
di un ulteriore intervento chirurgico. Alcuni studi di popolazione hanno evidenziato che il paziente tipo con MC
spende mediamente il 40% della sua vita in remissione post-chirurgica. Questa osservazione rende ben conto
del fatto che la chirurgia offre comunque il periodo di remissione clinica più lungo al momento disponibile, e
apre le controversie su quale sia il momento più appropriato per inserire l’intervento chirurgico nell’algoritmo
terapeutico della MC.]
Per questo motivo la chirurgia NON deve essere demolitiva, ma risparmiare più tratti possibile. Ad esempio,
nei pazienti con stenosi di solito si eseguono stenosi plastiche di allargamento, mentre in caso di fistole si
reseca solamente il tratto fistoloso. Anche le suture e le anastomosi sono eseguite in modo particolare, spesso
aggiungendo stomie di protezione - su cui però può comunque attivarsi il MC-.

Morbo di Crohn e appendicite


Quasi un quarto (23,5%) dei pazienti con MC riceve la diagnosi in seguito al verificarsi di un episodio di addome
acuto (importante) e quasi sempre questo è portato da un’appendicite acuta.
Immaginario caso clinico: un ragazzo di 25 anni arriva in PS con una sintomatologia classica di appendicite.
All’eco addome viene descritto anche un inspessimento dell’ultima ansa. Il paziente va in sala e, una volta
entrati con il laparoscopio, si capisce che c’è qualcosa che non va: l’intestino è estesamente arrossato, a tratti,
ed è effettivamente coinvolta l’appendice, con già un ascesso. Questi reperti, insieme all’inspessimento
dell’ultima ansa ileale, fanno sospettare che il paziente sia affetto da MC.
Con livelli di evidenza bassi e gruppi di raccomandazioni altrettanto bassi, la letteratura raccomanda di non
intervenire chirurgicamente: è mandatorio fare solo il lavaggio-drenaggio delle raccolte, ma se possibile è
meglio evitare di toccare l’appendice, a meno che non sia perforata. In questo ultimo caso è obbligatorio
toglierla e a volte è necessario effettuare una resezione polare ciecale o magari anche ileo-ciecale, perché
magari è coinvolto anche il colon e, soprattutto, la tenuta dei punti dati dalla suturatrice meccanica alla base
di un’appendice infiammata in MC è molto scarsa.
[Il livello di evidenza dell’importanza del trattamento chirurgico si basa su un numero limitato di studi
prospettici randomizzati, ma con indicazioni sufficienti a stabilire che le resezioni estese oltreché non
necessarie, sono potenzialmente dannose, quindi non raccomandata (LE II-III, GR B).
In linea di massima, in presenza di diagnosi accertata di MC, in caso di appendicite è indicato, in prima battuta,
un tentativo di terapia medica conservativa che induca alla remissione della flogosi acute: altrimenti, in caso di
irrinunciabile necessità chirurgica, le manovre operatorie dovrebbero essere indirizzate a trattamenti di
minima, con drenaggio delle raccolte (LE III, GR C) e massimo controllo dell’ampiezza delle eventuali resezioni,
limitate, se possibile, alla semplice appendicectomia (LE III-IV, GR C).]

Trattamento delle complicanze


[Il decorso del MC è caratterizzato fondamentalmente a livello locale da due tipi di complicanze conseguenti
all’iniziale forma infiammatoria: complicanze di tipo stenosante e complicanze di tipo penetrante. Vari studi
sono concordi nello stimare che esse si svilupperanno nel 18.6% dei pazienti entro 90 giorni dalla diagnosi e nel
50% entro i 20 anni, influenzando in maniera notevolmente negativa la qualità di vita dei pazienti e costituendo,
a volte, un problema terapeutico di particolare complessità.]
Una volta ricevuta diagnosi di MC si imposta la terapia con corticosteroidi e, dal momento che il MC risponde
molto meglio rispetto alla RCU, la terapia chirurgia in urgenza del MC è un’evenienza poco frequente. Questa
può rendersi necessaria, infatti, solo per le complicanze, [che sono poco frequenti: da una review di casistica
dal 1970 al 2002 si evince che la chirurgia di urgenza si esegue nel 19,1% dei casi. Si nota anche che l’incidenza
di interventi in urgenza si è progressivamente ridotta negli anni e, di contro, sono aumentati i casi di
perforazione intestinale libera e di peritonite.

399
Per ciò che concerne la localizzazione ileo-colica, l’intervento d’urgenza si rende necessario solo in condizioni di
perforazione in peritoneo libero o nei casi di emorragia massiva (rare evenienze), oltre che in caso di egacolon
tossico o colite severa non rispondente alla terapia medica.]
Le complicanze croniche sono infatti gestite
in vario modo (di seguito quelle nominate
dal professore; le altre sono visibili in
tabella):
- Occlusione intestinale acuta 
trattamento medico
- Occlusione intestinale ricorrente 
chirurgia d’elezione
- Ascesso addominale  drenaggio
percutaneo. Se si va in sala si esegue
un lavaggio – drenaggio e nulla di
più.
- Perforazione  ovviamente
chirurgia, non si avvale di
trattamento medico.

OCCLUSIONE INTESTINALE
[È la complicanza più frequente e si associa
alla localizzazione più frequente della
malattia (ileite terminale: 35-54%), ma può
presentarsi anche in caso di localizzazione
digiuno-ileale (22-36%) o colica (5-17%). È
difficile che la diagnostica non possa almeno
far sorgere il sospetto di MC non
diagnosticata, occludente.
Posto almeno il sospetto di MC, l’occlusione
è quasi sempre reversibile con l’opportuna
terapia medica (digiuno, NPT,
decompressione intestinale, cortisone) e
pertanto, in assenza di febbre o segni di
peritonite, il paziente non necessita di
chirurgia in urgenza. Il paziente può quindi essere trasferito in un Centro di riferimento per la valutazione
multidisciplinare e la terapia più adatta.]
Se è necessario portare il paziente in sala operatoria si esegue un intervento abbastanza caratteristico: la
stricturoplastica, ovvero una plastica di allargamento che permette di bypassare la stenosi.
[La stricturoplastica rappresenta, in caso di stenosi, un’alternativa valida, con risultati sovrapponibili sia a breve
sia a lungo termine, in termini di sicurezza e di efficacia (LE II, GR C)]
Esistono due tipi di stricturoplastica: Heinecke-Miculitz (indicata per tratti stenotici < 10 cm di lunghezza) e la
Finney (per tratti di 10-20 cm).

400
La stricturoplastica di Heinecke-Miculitz (figura 1)
consiste nell’esecuzione di una sutura trasversale
praticata su un taglio longitudinale in modo da
allargare l’intestino.
La stricturoplastica di Finney (figura 2) è più
elaborata: si fa un taglio longitudinale, poi si
“chiude a panino” e si effettua una sutura a strati,
prima suturando il versante mediale,
posteriormente, e poi quello laterale, che viene
chiuso al di sopra. (Da internet: si incide l’ansa per
tutta la lunghezza della stenosi fino a raggiungere
la zona normale e, quindi, si ripiega l'ansa su se
stessa e si suturano i bordi aperti, vedi figura sotto)

Figura 1

Questa manovra è più facile a darsi che a farsi


perché il presupposto è un colon integro: se
l’intestino non è perfetto, perché magari la stenosi
si è formata su una pregressa fistola è possibile che
sia necessario resecare il tratto (ovviamente
resecando il meno possibile).
In generale, infatti, in un paziente con MC è bene
evitare le recisioni eccessive: si tratta di un paziente
che presenta di suo malassorbimento, che va
incontro a numerose recidive e un importante
rischio aumentato di andare nuovamente in sala
operatoria. Se si eseguono resezioni troppo estese
si rischia poi di avere pazienti che a 50 anni hanno
l’intestino corto.
Per fortuna, comunque, è raro che vi siano pazienti
così gravi, ma ce ne sono alcuni che rispondono
malissimo alla terapia medica e in cui dobbiamo
evitare il più possibile di peggiorare
chirurgicamente la situazione. Figura 2

ASCESSO
[L’ascesso è una massa flogistica (“piastrone”) che origina sempre da una microperforazione intestinale e si
associa a fistola visibile nel 40%, a stenosi severa a carico dell’ileo, più raramente del colon o della recidiva
anastomotica nel 51%. Si verifica in circa il 25% dei pazienti. Il “piastrone si manifesta come un groviglio di
alcune anse in cui sono coinvolte anche anse sane adiacenti. C’è presenza di fibrina sulle superfici, cosa che è
alla base delle aderenze. Al centro può essere visibili la cavità ascessuale con le pareti necrotiche
(intramesenterico, interintestinale, enteroparietale, retroperitoneale o pelvico) e l’ostio della fistola.
Il quadro clinico può essere sub-acuto (dolore, massa palpabile, febbre) o acuto con dolore spontaneo
significativo, segni di sepsi generalizzata (nel 28% dei casi di una casistica di 36 pazienti del St Mark’s Hospital
di Londra).]

401
La terapia di scelta è il lavaggio-drenaggio o drenaggio percutaneo con terapia antibiotica associata.
[Nei casi in cui questo approccio non sia praticabile o non abbia sortito risultati ottimali, la viscerolisi e il
drenaggio chirurgico sono obbligatori.]

NdR Nelle slide 97-100 sono riportate le indicazioni presenti da diverse linee guida, ma il professore, a parte
specificare che alcune di queste sono tratte da Linee Guida italiane del 2012 e tutt’ora valide, non è andato
oltre quando detto sopra. Riporto comunque i contenuti:

402
PERFORAZIONE INTESTINALE
[Va praticata una toilette peritoneale, resezione e ileostomia di protezione in urgenza (EL III, GR B)]

EMORRAGIA
L’emorragia è una complicanza rara. Quando si verifica è legata in genere a un’ulcera che ha eroso un vaso. Il
sanguinamento può essere intra o extra-peritoneale (intra-luminale): nel primo caso il paziente va in sala.
[La sede più frequente è il tenue (65%) e non identificata nel 23%].
[È opportuno escludere altri motivi di sanguinamento (ulcera duodenale).
Primariamente bisogna fare un tentativo di controllo endoscopico o
radiologico. Se esso è infruttuoso o impossibile, se il paziente è
emodinamicamente instabile oppure l’emorragia è ricorrente o quando ci
sono anche altre indicazioni alla resezione bisogna fare la resezione in
urgenza.]

Focus on: megacolon tossico


Per megacolon tossico si intende uno stato permanente di dilatazione
colica, di solito acuta e con associati ipertrofia della parete, allungamento
del viscere e del meso. Si può classificare in:
- Primitivo
o Funzionale (qui trattato)
o Congenito: malattia di Hirschsprung

403
- Secondario: in per ostruzione da parte di un processo stenosante infiammatorio, come la diverticolite,
o da cancro (in tal caso si tratta di una dilatazione cronica). Una causa di megacolon tossico acuto
secondario, abbastanza frequente in pazienti anziani con dolicosigma, è il volvolo: questo genera
torsione vascolare, poi necrosi e ischemia del tratto volvolato con sviluppo immediato di megacolon
ed elevato rischio di perforazione.

[Eziologia
- Colite psuedomembranosa (da Clostridium difficile): raro
- RCU (nel 5-10% dei casi)
- MC: raro
- Colite ischemica
- Malattia diverticolare complicata
- Tumori del colon stenosanti
- Sepsi, stati di shock, MOF, etc.]

Quadro clinico
- [Distensione addominale
- Dolore crampiforme diffuso
- Alvo diarroico (anche 10 scariche/die); in secondo tempo chiuso a feci e gas
- Arresto della peristalsi (ileo paralitico)
- Febbre, tachicardia, ipotensione, nausea
- Confusione mentale (apatia o agitazione psichica)
- Shock settico – CID]
Fondamentalmente si tratta di un addome acuto.

Terapie non chirurgiche


- [Correzione degli stati di ipoperfusione
- Idratazione e nutrizione parenterale
- Terapia antibiotica
- Decompressione intestinale con sng e sonda rettale a permanenza
- Farmaci che stimolano la peristalsi
- Non praticare clisteri evacuativi
- Non somministrare purganti lassativi]

Intervento chirurgico e sue indicazioni


- Diametro del viscere > 12-13 cm [per rischio rottura diastatica]
- Adinamia: colon paralitico con distensione enorme del colon [che non giova del trattamento medico]
- Peritonismo [con o senza shock]
- Segni di perforazione
L’intervento chirurgico può consistere in:
- Decompressione immediata del viscere mediante confezione di colostomia (anche multiple)
- Resezione di tratto di colon la cui parete dimostra segni di sofferenza vascolare e confezione di
colostomia
- Resezione totale del colon (pancolectomia, colectomia totale) con confezione di ileostomia (con o
senza reservoir) da riservare ai pazienti giovani e in discrete condizioni cardiovascolari (mortalità 50%):
questo intervento non è sopportato da tutti, perché con la pancolectomia si perdono anche 1,5 litri di
sangue e molta acqua, quindi la mortalità è elevatissima. Ecco perché nella maggior parte delle volte
si fanno semplicemente multiple stomie + ileo stomia e si lascia l’addome aperto (damage control
surgery).
- NB Non confezionare anastomosi perché cedono sempre

404
Domande di fine lezione
1. Esiste l’ascesso pancreatico?
Sì, esiste. L’ascesso è una forma di raccolta fluida visibile in caso di pancreatite. Di solito nella
pancreatite edematosa si forma una raccolta fluida peri-pancreatica; se però si continua ad avere
pancreatite dopo 1-2 settimane, in unione a ileo paralitico e altre complicanze, è possibile che avvenga
una traslocazione batterica e si formi l’ascesso. Questo è una formazione tardiva che, quasi sempre, è
indicativa almeno di una pancreatite mild – se non addirittura severe -. (Il professore consiglia di
consultare il documento sulla valutazione della pancreatite acuta elaborato dalla WSES, in cui c’è anche
un aggiornamento della classificazione rispetto a quella di Atlanta).
2. Perché i vasi splenici perché sono nel legamento spleno-renale? Non dovrebbero essere nel
pancreatico lienale?
Perché i vasi splenici sono posteriori (e infatti sono immediatamente visibili quando si entra nella
retrocavità degli epiploon). L’arteria splenica si riconosce perché si diparte del tripode celiaco; poi si
dirige verso il basso, rimanendo sulla faccia caudo-craniale del pancreas (subito sotto c’è proprio il
rene), per poi emergere a livello dell’ilo splenico, molto posteriormente.
Il legamento pancreatico-lienale contiene invece le divisioni della vena splenica.

Il professore ricorda che nel programma di esame di emergenze chirurgiche rientrano anche la pancreatite
acuta e i traumi splenici , nonostante siano state argomento di lezione nel corso di chirurgia generale.

405
3/11/2020
Prof. P. Mao
Giorgia Durante
EMORRAGIE DIGESTIVE e SHOCK
Come sempre in ambito chirurgico, è importante conoscere nel dettaglio l’anatomia della regione di
interesse. Cenni di ANATOMIA VASCOLARE del tratto digestivo (da approfondire autonomamente):

L’anatomia vascolare dell’INTESTINO ha tre capisaldi fondamentali:


- Il tripode celiaco: vascolarizza gli organi mesocolici con estensione di circoli anastomotici che a
partire dalla testa del pancreas e in direzione del duodeno creano arcate con l’altro capitello della
vascolarizzazione intestinale: l’arteria mesenterica superiore.
- L’arteria mesenterica superiore. Questa è la più coinvolta nella patologia ischemica intestinale per
la sua emergenza ad angolo acuto dall’aorta, perché è più craniale rispetto alla mesenterica inferiore
e per il suo calibro maggiore; quindi qualsiasi corpo estraneo endovasale si localizza
preferenzialmente a questo livello. L’arteria mesenterica superiore emette delle arcate sulla sua
convessità; a partire dalla seconda porzione del duodeno vascolarizza tutto l’intestino tenue. Si
trovano 3/4 arcate anastomotiche nel digiuno, 2/3 nell’ileo distale. Nel digiuno le arcate sono più
evidenti con carico maggiore e si avvicinano molto all’interno di un meso più sottile e corto, invece
nell’ileo distale il meso diventa più spesso e i vasi prendono il nome di vasa recta (porzioni terminali
degli ordini anastomotici) se si posizionano ono più in profondità nella parete intestinale.
Ricordiamoci che dal 2016 il mesentere è considerato un organo, dopo diversi studi anatomochirurgici il
mesentere ha assunto una sua dignità d’organo.
- L’arteria mesenterica inferiore: vascolarizza il restante intestino. La mesenterica superiore arriva al
terzo distale del trasverso, a livello dell’arcata di Riolano si anastomizza con rami della mesenterica
inferiore, che parte quindi dalla flessura splenica e si anastomizza distalmente con rami delle arterie
emorroidarie superiori, che sono invece di competenze dell’arteria pudenda e iliaca.

Circolo collaterali:
- arcata pancreatico duodenale: circoli tra tripode e mesenterica superiore
- arcata di Drummond: a livello dell’intestino crasso, la così detta arteria marginale.
- arcata di Riolano
- collaterali emorroidarie

Esistono due aree predisposte all’ischemia: sono punti di passaggio anastomotici tra territori di
competenza arteriosa differenziata
- punto di Griffith: a livello della flessura splenica
- punto di Sudeck: a livello del giunto sigma-retto
Sono importanti nell’eziopatogenesi della colite ischemica.
L’anatomia vascolare venosa ricalca l’arteriosa, ad eccezione dell’immissione di vena splenica e mesenterica
in vena porta.

VASCOLARIZZAZIONE DEL COLON

La mesenterica superiore irrora l’intestino medio, ovvero tutto il tenue e la parte dx del colon (cieco,
colon ascendente, flessura epatica) fino alla porzione prossimale del trasverso tramite (per quanto
riguarda il colon):

1) il ramo destro della colica media (N.B.: La colica media si divide in ramo destro e sinistro con cui
irrora il colon trasverso)
2) la colica destra (incostante, non c’è in tutti gli individui)
3) l’ileo-colica (ramo terminale della mesenterica superiore, dato prima della fine della mesenterica
stessa che poi va a dare dei rami ileali)
Perciò, per il colon destro: ramo destra della colica media, colica destra e arteria ileocolica.
Per il colon trasverso: arteria colica media.

L’arteria mesenterica inferiore è più distale, va verso sinistra, entra nel meso del colon discendente e
dà come rami:
1) l’arteria colica di sx, che nutre il colon sinistro e tramite alcuni rami marginali si anastomizza con la
colica media
2) le arterie sigmoidee, che possono nascere da un tronco comune o singolarmente e possono essere
in numero variabile.
3)l’arteria emorroidaria superiore, ramo terminale della mesenterica inferiore, che irrora il retto
superiore (1/3) intraperitoneale (il resto del retto è irrorato da arterie emorroidarie medie e inferiori che
originano dalle iliache interne).

19.3 EMORRAGIA DIGESTIVA


Capitolo abbastanza importante, si tratta di una patologia frequente. Quest’anno le emorragie digestive non
verranno trattate nel modulo di emergenze per una questione di ore, che nel modulo di emergenze sono
poche, e quindi si cercherà di dare spazio ad altri argomenti.

Epidemiologia:
Si tratta di una patologia frequente. Negli USA si hanno circa 100, 150 casi per 100.000 persone ogni anno.
In Europa e, in particolare, in Italia i numeri sono più bassi. Come incidenza si hanno attorno i 30, 35 casi per
100.000 persone ogni anno. Questo significa che, in una città come Torino si verificano circa 350/500 casi
all’anno circa. In una città metropolitana con circa 3 milioni di abitanti si arriva fino a 1000/1500 casi ogni
anno, che vengono distribuiti nei vari ospedali ma rimangono comunque numeri altri di casi che vanno a
impegnare in modo particolare i pronto soccorso. In Italia si stimano esserci tra i 12/15000 casi ogni anno e
la mortalità si aggira attorno al 10%, quindi è elevata. Negli ultimi anni non è cambiata molto, ma lo è rispetto
al passato, quando non erano disponibili gli interventi di endoscopia o di radiologia interventistica che
abbiamo oggi a disposizione. Si è avuto un miglioramento progressivo attorno agli anni 80 e 90, ed un ruolo
cruciale ha avuto in tale senso il miglioramento della gestione delle varici esofagee, principale causa di morte
per sanguinamento. Questo soprattutto grazie all’introduzione di procedure endoscopiche più sofisticate, di
clip, legature metalliche, colle per gestire il sanguinamento in questa sede.
La popolazione maggiormente colpita da questa patologia è tutta la popolazione, tutte le età anche se a
cambiare sono le cause sottostanti. Nel bambino spesso emorragie legate ad alterazioni di tipo genetico o
malformazioni, mentre nell’adulto e nell’anziano le cause cambiano con l’avanzare dell’età. Nel soggetto
giovane prevalgono cause come l’ulcera, la patologia peptica e alcuni tipi di alterazioni della coagulazione.
Dopo 45-50 anni emorragie da varie cause sia diverticolari che da epatopatie, meno da ulcera. Prevarranno
inoltre le emorragie digestive basse come quelle da diverticoli.
In generale, la maggior parte delle patologie
addominali può portare a gravi conseguenze se
non trattata tempestivamente. Infatti, le
perdite ematiche massive quali quelle da
emorragie digestive o rottura di aneurisma
possono condurre a shock e morte.
Sempre a livello epidemiologico, i maschi sono
più colpiti delle donne, in particolare soggetti
bevitori, fumaroti, che consumano FANS
abitualmente. Si ha una correlazione la con
colonizzazione da Helicobacter Pylori (causa di
ulcere peptiche) che rende più gravi le
emorragie anche in soggetti con varici
esofagee. La colonizzazione da h.p. aumenta
con il passare degli anni e questo andrà a
incidere negativamente sulle cause di sanguinamento tipiche del paziente anziano. Spesso tutti questi fattori
di rischio sono compresenti nei pazienti con emorragia digestiva.

Classificazione e sede:
A questo proposito si ricorda la distinzione tra emorragie digestive alte e basse a seconda della sede
dell’emorragia. Secondo una distinzione anatomica fino al Treitz parleremo di sanguinamenti alti, dal Treitz
in giù parleremo di sanguinamenti bassi. Potremo, inoltre, individuare la sede del sanguinamento
osservandone le manifestazioni cliniche. Per esempio, in caso di ematemesi dovremo sospettare un
sanguinamento alto, non si verifica quasi mai in caso di sanguinamento basso. Tuttavia, in caso di melena,
rettoragia, ecc. potrà trattarsi di entrambi i tipi di sanguinamento e dovrò proseguire con indagini più
approfondite per individuarne l’origine.

Ricordiamo sempre che il sanguinamento è un sintomo che può essere manifestazione di numerose
patologie. Inoltre, spesso non sempre è facile identificare l’origine del sanguinamento. Importante, in ogni
caso, sarà intervenire tempestivamente per evitare che il paziente vada in stato di shock rischiando di
perdere la vita, cosa che purtroppo, nonostante tutti i mezzi che abbiamo oggi a disposizione per impedirlo,
a volte accade. Non dimentichiamo però che il 90% delle emorragie digestive si risolve da sola, dovremo
quindi essere in grado di individuare questo tipo di pazienti e in questi casi agire con cautela, evitando che il
paziente venga sottoposto a procedure inutili e talvolta invasive che potrebbero aggravarne le condizioni.
questo però non significa però poter sottovalutare il problema. Esistono delle condizioni in cui la terapia
medica non è sufficiente ad interrompere l’emorragia, dobbiamo saperle riconoscere e adottare strategie
alternative tempestivamente. Una volta riconosciuta la causa di emorragia, quando possibile, si procederà
con la strategia più adeguata tra endoscopia, radiologia interventistica o chirurgia. In alcuni casi, la difficoltà
nell’identificare l’origine del sanguinamento rende necessaria l’esecuzione di esami diagnostici non di
routine, come l’ileoscopia con endoscopio lungo, la scintigrafia con emazie marcate ecc. Il professore fa
l’esempio di un caso clinico in cui l’iter appena descritto non ha portato a risultati univoci, per cui la diagnosi
era stata effettuata solo una volta eseguita una angioTC in concomitanza di un evento di sanguinamento, che
aveva rilevato la presenza di una fistola aorto-duodenale, che è una causa di emorragia esclusiva di quei
pazienti che hanno subito un intervento di sostituzione della aorta addominale con una protesi. Si tratta di
condizioni di difficile identificazione anche a causa della localizzazione in un’area difficilmente studiabile, il
quarto duodeno. In questo caso si era tentato un intervento di protesizzazione, che però non è andato a
buon fine.

La terapia medica delle emorragie digestive è un aspetto molto importante e deve venir messa in atto fin da
subito, ma non dovremo dimenticare che nelle forme più gravi il paziente non risponderà adeguatamente
alla terapia medica e saranno richiesti altri tipi di intervento a seconda della causa di emorragia. Quindi
sempre e comunque prima individuare l’origine del sanguinamento (con endoscopia e radiologia
interventistica) e solo dopo intervenire nel tentativo di risolvere le cause. Questo ci permette di parlare di
quanto spesso lo stesso individuare l’origine del sanguinamento non sia così semplice. Nonostante tutte le
armi diagnostiche che abbiamo a disposizione non sempre si riesce a capire.
Mortalità:
La mortalità dipenderà anche dall’età del paziente,
dal suo livello di fittness. Il rischio di morte è 30 volte
maggiore nei soggetti di 80 anni rispetti a quelli di
età inferiore ai 30. La mortalità resta elevata per
l’incremento dell’età media e delle comorbidità.
Ogni episodio di sanguinamento aumenta del 5-10%
il rischio di morte.
Secondo un principio elaborato da un americano è
bene adottare misure più aggressive con i pazienti
anziani perché più a rischio di morte e con riserva
funzionale minore. Questo si pone in contraddizione
con il senso comune, che suggerirebbe una
maggiore indulgenza per non danneggiare i soggetti
anziani, più fragili. Questo non significa che con i
giovani sia corretto temporeggiare.
Digressione sulla popolazione che invecchia e sull’età media che aumenta: se la popolazione anziana corrisponde alla maggior parte
della popolazione, come da noi, è normale che sarà la maggior contributrice agli alti tassi di mortalità registrati per questa patologia.

Qui di seguito sono riportati i sintomi più frequenti:

Classificazione per entità:


Le emorragie digestive possono essere distinte in base all’entità̀ del sanguinamento in:
1. Cronica: tipicamente da lesioni neoplastiche o da emorragie del tratto digestivo inferiore. Come
manifestazioni danno astenia, aritmia, pallore cutaneo, talvolta fibrillazione atriale (emoglobina
molto bassa, anemia grave, fino 4/5 Hb), sincopi, episodi lipotimici, dispnea per sforzi lievi, angina,
anemia microcitica, ipocromica, sideropenia. Facilmente passano inosservate anche agli occhi del
medico, il paziente potrebbe non sentire bisogno di presentarsi all’occhio del medico se non in fasi
molto avanzate.
Per esempio, in un paziente giovane che sviluppi acutamente una anemia da carenza di ferro dovrò
sospettare fenomeni di sanguinamento, ma anche la presenza di lesioni neoplastiche. Quindi, dovrò
assolutamente indagare il tratto gastrointestinale con angiotc, endoscopia e colonscopia.
Nell’anziano invece è più frequente che derivi da patologie del grosso intestino (angiodisplasie,
tumori). Il piccolo intestino è meno frequentemente sede di sanguinamento, ma può essere
interessato da patologie come quelle infiammatorie, malattia diverticolare, che qualora portassero a
sanguinamento sono difficili da identificare. Quindi, intestino, fegato e pancreas1 sono le sedi meno
frequenti ma sono anche quelle in cui è più difficile fare diagnosi.
2. Acuta: progressivo instaurarsi di shock emorragico. La manifestazione più eclatante e facile da
indentificare.

In termini di frequenza avremo:


- 75-85% sopra il Treitz
- 15-25% grosso intestino
- <5% piccolo intestino

La gravità può anche essere valutata in base a vari score, tra cui:
- Blatchford score: richiede la valutazione di vari parametri clinico-laboratoristici: BUN, emoglobina,
pressione arteriosa sistolica, frequenza cardiaca, melena o sincope, cardiopatia o epatopatia.
- Rockall score: richiede, tra le altre, una valutazione della classificazione di Forrest all’EGDS, pertanto
è poco applicabile in acuto.
- AIMS-65:
• Albumina <3g/dl • Sistolic blood pressure ≤90mmHg
• INR >1,5 • Age ≥65.
• Mental state impairment

La classificazione delle emorragie digestive suggerisce anche la diagnosi differenziale:


- EMORRAGIE DIGESTIVE ALTE, prossimalmente al legamento sospensore duodeno-digiunale del
Treitz. Possono dipendere da patologie di bocca, lingua, faringe, esofago, stomaco, duodeno,
pancreas, fegato.
• Ulcera peptica e gastrite erosiva (~70%)
• Varici esofagee e gastriche (~30%)
• Ulcere da stress
• Sindrome di Mallory-Weiss (lacerazioni della mucosa esofagea in seguito a sforzi di emesi)
• Rare: neoplastiche, fistola aorto-duodenale (sovente mortali, trattamento con
embolizzazione angiografica), emobilia.

- EMORRAGIE DIGESTIVE BASSE, distalmente al legamento sospensore duodeno-digiunale del Treitz.


Possono dipendere da patologie di ileo, meckel, colon, sigma, retto, ano.
• Emorroidi (prima causa)
• Carcinoma del colon-retto
• Polipi adenomatosi
• Diverticolosi
• Malattie infiammatorie croniche intestinali
• Angiodisplasie (quasi mai indicazione al trattamento chirurgico, ma coagulazione bipolare o
con laser ad argon dopo scollamento della mucosa con un ponfo di salina)
• Ulcera solitaria del retto (complicanza di cattiva defecazione, riccamente vascolarizzata, va
biopsiata e trattata con acido 5- amino salicilico/mesalazina in schiume).

1
Per fegato e pancreas comunque si avranno comunque sempre segni correlati alla disfunzione d’organo, come
alterazione nella formazione di sali biliari, prodotti di accumulo della bilirubina o suo alterato metabolismo ecc.
Valutazione:
Come gestire un paziente “acuto” con sanguinamento GI in atto.
Posto il sospetto di emorragia andrà iniziato il trattamento immediatamente e nel frattempo procedere al
perfezionamento della diagnosi individuando la sede del sanguinamento per poter agire sulle cause. I pazienti
con quadri di shock evidenti hanno perso quantità di sangue elevate e vanno individuati per una gestione più
tempestiva. Gli obiettivi del trattamento saranno: non solo rianimare e stabilizzare il paziente (ABCD), ma
anche individuare l’origine e la causa, fare diagnosi di sede, controllare il sanguinamento e prevenire la
recidiva.

Indice di stop bleeding: l’indice di successo del trattamento dipende dal tipo di emorragia digestiva e dalla
causa sottostante. Per esempio, un paziente con varici esofagee sanguinanti può avere stop bleeding attorno
al 70%, un valore basso che indica l’elevata mortalità legata a questo tipo di sanguinamento. Oggi questa
percentuale è aumentata grazie all’introduzione delle nuove procedure di gestione del sanguinamento
(legature e clip).
Un altro aspetto impotante è la percentuale di rebleeding: percentuale di pazienti che entro 24-48 ore
ricominciano a sanguinare. È un aspetto da prevenire, trattandosi di eventi che possono essere anche gravi
come il primo evento e con minori possibilità terapeutiche, che talvolta richiedono il trasferimento dei
pazienti in centri di riferimento per l’esecuzione di procedure specialistiche (per es. shunt porto-cavale
transepatico). In caso di risanguinamento ripeterò l’iter partendo dall’endoscopia, se necessaria, andrà
attuato un trattamento massimale (se non in atto) e potremo adottare strategie alternative in base alle
cause.
Ad oggi, di fronte ad un paziente con sanguinamento, andremo ad attuare da subito procedure
endoscopiche, parallelamente alla terapia medica, e solo in seconda battuta interventi risolutivi come
radiologia interventistica o terapia chirurgica.

Segni e sintomi del sanguinamento:


- Precoci: tachicardia e sudorazione;
- Tardivi: ipotensione, pallore, sudorazione, affaticamento, tachicardico, pallido, confuso. L’infarto da
discrepanza potrebbe essere una complicanza dello stato di shock.
NB. Non aspettare la comparsa di ipotensione per fare diagnosi di shock, perché il paziente una volta che
manifesta ipotensione ha già perso circa il 30% della massa circolante.
- Segni in rapporto alla sede: Alte: ematemesi e melena; basse: ematochezia.

DIAGNOSTICA
Per le emorragie alte la prima cosa da fare è l’endoscopia digestiva. In contesto endoscopico, è importante
posizionare il SNG. Il posizionamento del sondino naso gastrico permette di ‘’lavare’’ lo stomaco e facilita il
compito dell’endoscopista. Infatti, il SNG riduce il rischio di aspirazione, permette di identificare i pazienti
con lesioni a rischio più alto. Tuttavia, l’aspirato negativo non esclude un SGIA (42% di sensibilità, 91%
specificità). Nel posizionarlo è importante non provocare lesioni. Oggi sono fatti con materiali siliconati molto
morbidi, ma in un paziente anziano fragile e poco compliante il rischio di causare lesioni rimane. Faremo
posizionare il paziente in posizione semi seduta, e si inserisce con l’aiuto di un lubrificante anestetico,
antiacidi o lavaggi con ghiaccio (ora meno).

L’iter in sospetto di emorragia digestiva prevede la valutazione clinica iniziale, rianimazione e stabilizzazione
emodinamica a cui seguiranno le procedure endoscopiche e la contemporanea somministrazione di terapia
medica. Nei quadri clinici in cui questo non è sufficiente si procederà con gli interventi di radiologia
interventistica o con terapia chirurgica.

Oggi si predilige l’uso di endoscopia o angio-tc già in prima battuta proprio per cercare di accorciare i tempi
di diagnosi.
In DEA faremo ABC:
- trattamento con ossigeno,
- posizionamento degli accessi venosi,
- sondino naso gastrico,
- esami di laboratorio di base inclusa la coagulazione,
- e poi infusione di fisiologica o di lattato,
- anamnesi ed esame obiettivo in attesa dell’esecuzione dell’endoscopia.
Si monitorano nel tempo i parametri vitali (pressione e frequenza cardiaca), l’ematocrito, si tiene il paziente
sotto attento monitoraggio fino a arrivare all’esofagogastroduodenoscopia per individuale la sede del
sanguinamento o escludere un sanguinamento GI in caso di esame negativo. Le emorragie digestive massive
rendono difficoltosa l’esecuzione di tale procedura ma sono anche i casi in cui possiamo intervenire già in
endoscopia, somministrando adrenalina, posizionamento di clip per ridurre il sanguinamento. Le emorragie
massive sono quelle più difficili da gestire anche perché il paziente precipita, lo stato di shock subentra più
rapidamente. Quindi anche in questo caso attueremo delle misure di supporto, ma ricordiamo che lo scopo
rimane arrivare a individuare l’origine del sanguinamento per intervenire su di esso.
Una volta stabilizzato, il paziente va rianimato seguendo tutte le misure di stabilizzazione emodinamica.
Uso di un litro di cristalloidi continua ad essere lo standard.

Per le emorragie massive bisogna essere pronti a fare trasfusioni massive, che richiedono un attento
monitoraggio e precisi protocolli di gestione perché in questi casi la stessa trasfusione, quando arrivo ad
usare 2 o 3 sacche di sangue, potrebbe provocare:
- dei problemi di infusione,
- di riduzione fattori coagulazione,
- ipocalcemia,
- ipotermia,
- piastrine possono essere diluite o consumate
e tutto questo rema contro al ristabilimento delle condizioni del paziente. Questi protocolli prevedono che
assieme alle emazie concentrate vengano infuse piastrine, ma soprattutto plasma e fattori della coagulazione
per ripristinare la coagulazione.
I parametri che valuteremo saranno INR e classici parametri coagulativi, che però non sono sempre così
affidabili. Sta entrando in uso in tale senso l’analisi del trombo-elastogramma che permette di capire dove si
trova il problema, se dipende da difetto di parete, o da alterazione dei fattori della coagulazione, alterazione
del sistema di fibrinolisi o alterazione della capacità piastrinica di formare coaguli e in base a questa potremo
organizzare quella che oggi chiamiamo rianimazione della coagulazione.
Raccomandazioni per la stabilizzazione emodinamica:
- la soluzione fisiologica è il fluido di scelta per la stabilizzazione iniziale (1000 cc di cristalloidi);
- i pazienti ad alto rischio devono essere trasfusi per mantenere Htc > 30%. In quelli con migliori
condizioni generali il target è >20%;
- I pz con INR >1,5 o PLTs <50000, in sanguinamento attivo, devono essere trattati con plasma e
piastrine rispettivamente;
- L’intubazione orotracheale deve essere considerata in quei pazienti con ematemesi massiva e
alterazione dello stato di coscienza per ridurre il rischio di aspirazione.

Il trattamento prevede:
- Nil per os → (nihil/non/nulla per os);
- Fluid challenge (somministrazione di piccole quantità di liquidi per stabilire se il paziente ha una
riserva di precarico tale da sostenere un’ulteriore somministrazione);
- Ossigenoterapia;
- Emazie concentrate;
- PPI e.v.

L’introduzione di sondino nasogastrico in corso di ematemesi è indicata solamente in caso di pasto recente,
per conferma di riferito vomito ematico in assenza di segni visibili dello stesso, o in caso di vomito protratto.
In caso di melena o di sospetto sanguinamento da varici gastroesofagee è indicata direttamente l’EGDS, da
richiedere in urgenza esclusivamente in presenza di segni di shock e sanguinamento da varici gastroesofagee.

Terapia medica:
ha lo scopo di ridurre i risanguinamenti, la necessità di interventi chirurgici, la mortalità.
Si utilizzano:
- Farmaci che riducono la secrezione acida e innalzano il pH intragastrico (antiH2, PPIs),
- farmaci che riducono il flusso splancnico (somatostatina o octreotide), ma anche acido tranexamico.
- Vasopressina, glipeptide (?), beta bloccanti.

Tecniche di emostasi:
- Terapia iniettiva: adrenalina, cianoacrilato, colla di fibrina;
- Trattamento con clips metalliche, legature;
- Terapia coagulativa: argon, laser, bipolare o monopolare.

Il trattamento endoscopico ha dei tassi di riuscita molto elevati.

L’opzione chirurgica non va esclusa a priori. Un tempo venivano fatte delle gastroresezioni che oggi non
vengono più fatte. Talvolta per gastrite acuta una gastrectomia totale può essere unica misura salvavita
attuabile. Le indicazioni sono: sanguinamenti ricorrenti, resistenti al trattamento endoscopico o non
raggiungibili con l’endoscopia, pz anziani e scompensati, emorragie massive. Alcune strategie di prevezione
delle recidive prevedono la vagotomia, per i sanguinamenti alti o ulcere, in particolare, la piloroplastica,
l’antrectomia e la gastroresezione.
CAUSE PRINCIPALI DI EMORRAGIA E RISPETTIVO TRATTAMENTO
Cause esofagee di sanguinamento: varici, esofagiti, ulcere di Barrett, tumori, striature di sangue nel vomito.
Altre cause di sanguinamento esofageo possono essere l’esofagite emorragica, ingestione di caustici,
infezioni, HIV, radiazioni. La presenza di ematoma sottomucoso può essere segno di Mallory-Weiss o
neoplasia. Le lesioni sanguinanti della parte dell’esofago si classificano in base alla Forrest:

Le ulcere peptiche sanguinanti, in particolare, hanno un’incidenza di 50/100000 casi ogni anno. I
sanguinamenti delle ulcere duodenali sono a carico dell’a. gastroduodenale, ed è più frequente, quelli delle
ulcere gastriche sono a carico dell’a. gastrica, e può essere un epifenomeno del k gastrico. Oggi si verificano
raramente per il maggiore utilizzo di PPI. Le cause principali sono le infezioni da H. Pylori, presenza di
gastrinoma e l’uso di FANS, steroidi. I fattori di rischio sono il consumo di alcol, fumo, l’età avanzata, lo stress.
L’80% delle ulcere smettono di sanguinare spontaneamente, il 30% dei casi va incontro a recidiva, la mortalità
è attorno il 2-10%, più bassa nei centri specializzati. La prevenzione delle recidive prevede il trattamento di
eradicazione di H.P., interruzione FANS e somministrazione di PPIs.

Cause gastroduodenali: ulcera peptica, ipertensione portale, gastropatia ipertensiva, Mallory-Weiss (può
riguardare sia stomaco che esofaco, talvolta preceduto da comparsa di ematoma sottomucoso), tumori,
lesioni di Dieulafoy (piccole angiodisplasie), malformazioni arterovenose.
Nella gastrite emorragica potremo osservare forme atrofiche o ipertrofiche, l’intervento chirurgico è
insoddisfacente. Nel cancro si procede con emostasi ed angioembolizzazione, il trattamento chirurgico
permette un maggior controllo del sanguinamento (ma comunque va fatto per rimuovere il tumore). La
sindrome di Mallory-Weiss abbiamo detto prevedere dissezione di mucosa e sottomucosa, trattamento
endoscopico, spesso necessità di collaborazione endoscopico-chirurgica per una gestione ottimale.

Cause coloniche: diverticolite, emorroidi, colite ischemica, neoplasie, malformazioni arterovenose, malattie
infiammatorie intestinali.
Non dare mai per scontato che la comparsa di sanguinamento rettale sia causata da emorroidi perché non
possiamo essere sicuri che siano dei polipi nel colon a sanguinare. Fare sempre attenzione ai segni clinici e
valutare se opportuno eseguire una colonscopia.
I diverticoli sono una causa frequente, e dipendono da un quadro infiammatorio di questo tipo di
invaginazioni della parete intestinale. Solitamente il sanguinamento è autolimitante, soprattutto se si
interviene tempestivamente a correggere le alterazioni della coagulazione. La chirurgia si riserva ai casi più
gravi, emorragie massive o ricorrenti e consiste in interventi di resezione segmentaria o colectomia.
Le angiodisplasie del colon sono comuni. L’aumento delle diagnosi dipende dall’uso più frequente
dell’endoscopia. Si tratta di dilatazioni di arteriole e venule della sottomucosa, il meccanismo non è noto. I
fattori di rischio sono l’età avanzata, la presenza di comorbidità, l’uso di anticoagulanti, malattie renali e
collagenopatie. le possibilità terapeutiche sono le seguenti: ablazione endoscopica (Nd:YAG laser, argon
beam, coagulazione bipolare), embolizzazione angiografica, chirurgia (resezione segmentaria, suture).
Le malattie infiammatorie intestinali, soprattutto in passato, sono spesso associate a sanguinamento. Il
trattamento spesso prevede resezione del tratto intestinale interessato. Il trattamento cortisonico,
antifiammatorio, talvolta anche locale, ad oggi consente di gestire il paziente senza necessità di intervenire
chirugicamente e di dover creare una stomia.
Nella colite ischemica il tratto di intestino interessato viene rivascolarizzato grazie ai circoli collaterali. In
questi pz episodi ipertensivi o di altro tipo possono portare a sanguinamento di queste regioni più fragili per
via dell’ischemia. È soprattutto a carico della mucosa, per la sua lontananza dai vasi e minore
vascolarizzazione. Il trattamento è medico. Si tratta di pazienti fragili per cui spesso un evento di questo tipo
può essere terminale.
In presenza di sanguinamenti bassi o comparsa di sangue occulto nelle feci, dovremo sospettare la presenza
di carcinomi, si tratta di una diagnosi che dovremo andare a eslcudere sempre, soprattutto se di recente
insorgenza.
L’infarto intestinale può dare sanguinamento, ematochezia, fino a diarrea ematica, talvolta si ha comparsa
di shock e/o di un quadro peritonitico. Questa condizione necessita di una diagnosi rapida e di intervento
tempestivo.
Cause del piccolo intestino: malformazioni arterovenose (angiotc, scintigrafia, videocapsula… ci sono molte
possibilità diagnostiche ma rimane una diagnosi difficile), diverticolo di Meckel’s (spesso paziente
asintomatico tutta la vita, sintomi talvolta simil appendicite acuta, talvolta è parafisiologico con tessuto
mucoso-gastrico che produce acido cloridrico, con danno ai tessuti e sanguinamento), malattie
infiammatorie intestinali. Carcinoma gastrico: si cerca di ottenere una prima emostasi con angio-
embolizzazione seguita da trattamento chirurgico definitivo programmato con intento di resezione ed
eliminazione della lesione e i suoi margini (bonifica).

Le varici esofagee sono le cause più comuni. Le altre cause più comuni sono: ulcera peptica, gastriti, Mallory-
Weiss, esofagite erosiva, ingestione di caustici2.
Cause meno comuni (5%): tumori orofaringei, esofago, stomaco, teleangectasie, emobilia, sindrome di
Boerhave3, assunzione di anticoagulanti. Si tratta qui di una rottura spontanea della parete dell’esofago per
vomito. Emopatie, tao (prima Coumadin molto più rischio).
Fisiopatologia varici esofagee: a livello della regione cardiale e del fondo gastrico è presente uno shunt
porto-cavale naturale in cui il circolo può facilmente invertirsi. Metà di tutti i pazienti cirrotici sviluppano
varici. Il 30% sanguina entro due anni dalla diagnosi iniziale.
La diagnosi si basa sul riscontro di aspetti clinici tipici del cirrotico (spider naevi, ascite, facies, fetor, ittero,
atrofia testicolare, eritema palmare) e i reperti endoscopici (varici, gastrite da IP).
Le possibilità terapeutiche consistono nel
controllo temporaneo in urgenza (lavaggio
ghiacciato, sonda di Blackemore), controllo a
breve termine (endoscopia e sclerosi, tips in
emergenza), controllo a lungo termine (tips e
anastomosi porto cavale). In emergenza si
useranno farmaci come la vasopressina e
octreotide (attenzione a bradicardia e
ischemia da vasopressina). La farmaco-
profilassi, invece, prevede la
somministrazione di beta bloccanti con o
senza nitroderivato, e octreotide.

2
Citata per completezza, anche se si tratta di una condizione a sé stante, con dei suoi rischi e un suo trattamento.
3
lacerazione della mucosa esofagea che può manifestarsi con mediastinite ed emorragia.
SHOCK
‘’rude inceppamento del meccanismo della vita’’ S. Gross

Definizione:
1. “Insufficienza circolatoria o metabolica generalizzata caratterizzata da perfusione tessutale
inadeguata, assoluta o relativa, con conseguente sofferenza cellulare”. Questa definizione è
importante in quanto sottolinea lo stato di deficit di riperfusione tessutale con danno metabolico
cellulare che si instaura in corso di shock.
2. “sindrome causata da una ridotta perfusione a livello sistemico con conseguente sbilanciamento fra
la disponibilità di ossigeno e la sua domanda metabolica a livello tissutale che, se non trattata, ha
evoluzione rapida e ingravescente fino alla morte del paziente”.
Infatti, il flusso ha il ruolo di fornire ossigeno e nutrienti ai tessuti, rimuovere cataboliti. Di conseguenza, una
condizione di flusso insufficiente conduce a disfunzione cellulare, per i risvolti biochimici e metabolici che
conosciamo, con morte e necrosi dei tessuti, fino a insufficienza d’organo e morte dell’individuo.

Patogenesi dello shock


L’iniziale insufficienza di apporto d’ossigeno ai tessuti
determina l’attivazione di risposte compensatorie con
rilascio di catecolamine, shift da metabolismo aerobio ad
anaerobico con accumulo di mediatori e piruvato che
diventa acetato, incremento della quota di acidi fissi,
instaurazione di uno stato di acidosi fino a disfunzione
cellulare e morte. Progressivamente si avrà accumulo del
debito di ossigeno → golden hour. Il debito aumenta
man mano che la disponibilità di ossigeno si riduce. Se
riesco a intervenire mantenendo il consumo di ossigeno
in un range limitato il paziente, una volta ristabilito il
quadro emorragico, recupererà il debito accumulato, se
no comparirà deficit cellulare fino a vari gradi di deficit organico. E’ quello che accade quando il paziente
arriva al trattamento tardi, con un debito di ossigeno maggiore.

Risposta compensatoria allo shock


Si tratta di una serie di eventi fisiologici volti al mantenimento della pressione arteriosa media e del volume.
L’ottimizzazione della performance cardiaca prevede un aumento della contrattilità per stimolazione
simpatica ed adrenergica; ridistribuzione della perfusione per regolazione estrinseca del tono adrenergico
sistemico e autoregolazione di organi vitali come il cuore e il SNC; l’ottimizzazione dell’estrazione di ossigeno
per aumento del 2,3DPG, acidosi tissutale, piressia, riduzione della PO2 tissutale (vasocostrizione periferica).
Tutto questo avviene a scapito del funzionamento degli organi periferici, fino al raggiungimento di un quadro
di anasarca ed edema diffuso. Il meccanismo alla base è la Legge di Starling.

Classificazione fisiopatologica dello shock ipovolemico


Le cause di shock si suddividono in 2 gruppi in base alla causa:
Diminuzione della gittata cardiaca
1. Shock cardiogeno
- miogeno (IM, cardiomiopatia dilatativa)
- meccanico (insufficienza mitralica grave, difetti del setto interventricolare, stenosi
aortica, cardiomiopatia ipertrofica)
- aritmico
2. Shock ostruttivo
- Tamponamento pericardico
- Embolia polmonare massiva
- Mixoma atriale, trombo a palla
- Pneumotorace iperteso
3. Shock ipovolemico
- Post-emorragico
- riduzione di liquidi da disidratazione o ustioni
Diminuzione delle resistenze periferiche totali (shock distributivo, o periferico, o vasculogenico)
• S. settico
• S. anafilattico
• S. neurogeno (sincope vasovagale)
• S. spinale

Classificazione eziologica
1. Emorragico: riduzione della
pressione e riduzione della gittata;
2. Cardiaco (cardiogeno + ostruttivo):
aumento della pressione e riduzione
della gittata;
3. Settico: può verificarsi sia aumento
che riduzione della gittata cardiaca.
4. Neurogeno
5. Anafilattico
Il quadro generale è comune a tutti i tipi di
shock. È ciò che osserviamo in caso di
emorragia digestiva, ma anche in caso di
trauma.

In basse alla gravità distingueremo in:


- Classe I (< 15%, 750 ml): paziente lievemente ansioso, diuresi 30 ml/ora, frequenza cardiaca <
100/min, frequenza respiratoria 14-20/min, pressione arteriosa nel range di normalità →
somministrazione di cristalloidi. A livello intestinale questa quantità di sangue dà sicuramente
melena, nello stomaco ematemesi.
- Classe II (750-1500 ml, 15-30%): il pz è agitato e inizia ad essere tachicardico, aumenta la frequenza
respiratoria, la pressione differenziale si riduce ma la sistolica non aumenta.
- Classe III (1500-2000, 30-40%) abbiamo sintomi classici dello shock. Il paziente è confuso, ansioso,
disorientato, tachipnoico, diuresi quasi assente e frequenza cardiaca e respiratoria aumentate. La
pressione si riduce;
- Classe IV (>2000): elevato rischio di morte. Il pz è confuso, letargico, frequenza respiratoria > 35/min,
cardiaca >140/min, la pressione scende gravemente. Urgente bisogno di liquidi, sangue, intervento
chirurgico.
Il nostro corpo reagirà a questa situazione di deficit di ossigeno e disfunzione metabolica e cellulare in diversi
modi:
- liberando le catecolammine (dal surrene e da altre parti dell’organismo, che determina in senso
clinico un aumento della pressione diastolica, perché la pressione differenziale diminuisce senza
variazioni della sistolica);
- lo shift del metabolismo da aerobio ad anaerobio (all’EGA avremo quindi una acidosi metabolica);
- infine, la disfunzione della cellula fino alla morte della stessa (conseguenza del venir meno della
funzione di membrana).
Distretti funzionali interessati da MODS sono il cuore, il circolo, il respiro, digestione, fegato, reni cervello,
muscoli, immunità e metabolismo. In presenza di più di 3 distretti coinvolti abbiamo mortalità superiore al
70%.
La presenza di acidosi metabolica, ipotermia e coagulopatia contribuisce a peggiorare il quadro. l’ipotermia
si instaura a causa di diversi fattori (ipoperfusione, immobilità, alterata termogenesi, reinfusione massiva di
liquidi, esposizione ambientale, interventi) e provoca disfunzione del miocardio, del SNC e della coagulazione
per alterazione di tutti i sistemi enzimatici. Questi aspetti sono a loro volta peggiorati da periodi lunghi di
ipoperfusione, come l’attesa preoperatoria, e dai lunghi tempi operatori. Per questo, si prediligono strategie
terapeutiche tempestive come legature e clampaggi.

Clinica (integrazione)
- Valutazione della cute (pallida, fredda e sudata). Il paziente è pallido perché è vasocostretto per risposta
noradrenergica. Questa risposta nei bambini è molto più accentuata, hanno una risposta agli ormoni
migliore rispetto un paziente di 50 anni;
- Agitazione e alterazione dello stato di coscienza dovuti all’ipossia;
- Tachicardia, per mantenere la gittata4;
- Tachipnea;
- Ipotensione;
- Contrazione della diuresi. Ricordiamo che l’organo che meglio ci indica lo stato ipovolemico del nostro
paziente è il rene (ovviamente se sono in mezzo alla strada non posso valutarla).

Secondo l’American College, di questi sei segni, tre sono fondamentali perché ci dicono che il paziente sta
sanguinando:
1. valutazione della cute (pallida e fredda),
2. tachicardia
3. alterazione dello stato di coscienza.

Quindi la prima cosa da fare è capire che il mio paziente è in stato di shock. Una volta individuato il problema
dovrò occuparmi di risalire alle cause dello shock.
In acuto sarà fondamentale capire, prima di tutto, se si tratta di shock ipovolemico (emorragico / ustioni),
perché tutti si presentano con lo stesso quadro. Pensiamo al caso di un paziente politraumatizzato, o quello
da pneumotorace iperteso (shock ostruttivo), al tamponamento cardiaco ACUTO, o a quello cardiogeno (o
per contusione cardiaca o il trauma, immaginiamo un incidente avvenuto perché il paziente ha avuto
un’ischemia miocardica); oppure ancora a quello settico, che è correlato sempre al meccanismo del trauma
e che comunque si sviluppa in un secondo momento; a quello neurogeno, che è legato ad una ipofunzione
del sistema simpatico per lesione cervicale, ad esempio, e che si differenzia dagli altri tipi di shock per la
bradicardia e per la cute calda e rosea.
Il nostro obbiettivo è SEMPRE escludere uno shock emorragico, dopo penso agli altri. Per avere conferma
faremo RX torace, bacino ed eco FAST, che è quella che in assoluto mi dice più velocemente cosa c’è dentro
l’addome.
In caso di shock emorragico, dovremo poi individuare la sede, l’origine del sanguinamento. Il versamento di
sangue potrà andare a raccogliersi in diverse sedi:

4
Gittata cardiaca = frequenza cardiaca x gittata sistolica
• nel cavo peritoneale;
• nel torace;
• nel retro-peritoneo;
• valuteremo l’esterno (“the floor ”, ossia il sangue che vedo sul pavimento);
• ossa, come per frattura degli arti. La frattura di due femori, per esempio, può farci perdere fino a 3
litri di sangue (1500 cc di sangue per ogni femore). Se a questa aggiungiamo anche una frattura
dell’omero si muore (fino a 750 cc di sangue);
• Il sangue si può anche accumulare nei fasci muscolari, come in caso di traumi.
NB: È impossibile che un paziente muoia di shock emorragico per un sanguinamento cerebrale! Invece, la
frattura del bacino in un trauma fa sanguinare molto; può essere causa di morte.

TERAPIA
Prevede il trattamento della condizione che ha causato lo shock, delle alterazioni fisiopatologiche sottostanti.
Infine, prevenzione delle complicanze e delle conseguenze.
Terapia iniziale: con paziente in posizione supina in lieve trendelemburg e ossigenazione 5-10 L/min. Si
posiziona un accesso venoso, eseguo emocromo, elettroliti, funzione renale, EGA, coagulazione, emogruppo,
enzimi cardiaci; si somministrano fluidi in base alla causa; si esegue cateterismo urinario per esame delle
urine e controllo della diuresi; si ricerca la causa per terapia specifica.
Terapia dello shock emorragico: fermare l’emorragia, somministrazione di colloidi, cristalloidi, sangue;
mantenere la temperatura e la pressione sistolica. I target di pressione sistolica sono 90 mmHg nei traumi
penetranti, 100 in quelli chiusi e 120 nei cranici.
Terapia dello shock cardiogeno: liquidi, dopamina, dobutamina, noradrenalina o altri ionotropi,
vasodilatatori, rivascolarizzazione, contropulsazione, by-pass o trapianto.
Terapia dello shock settico: liquidi, dopamina, antibiotici empirici o specifici se possibile, eparina se CID,
terapia chirurgica se c’è indicazione. → indicazioni fornite e aggiornate periodicamente da surviving septic
shock group.
Terapia dello shock neurogeno: in caso di sezione del midollo spinale, in cui si ha soppressione della
secrezione di adrenalina e noradrenalina sia dal surrene che a livello simpatico con discrepanza tra volume
ematico e letto vascolare. Somministrerò dopamina o analoghi.

VALUTAZIONE E RISPOSTA DEL PAZIENTE ALLA TERAPIA:


Se stiamo agendo in maniera corretta:
1. la cute del nostro paziente da fredda e pallida diventerà calda e ci sarà riempimento capillare (si
schiaccia il polpastrello e diventa rosa in meno di due secondi)
2. Guarderemo la diuresi che gradualmente tornerà a ristabilirsi.
3. I parametri vitali cambiano in meglio: la frequenza scenderà, la gittata e il livello di coscienza
migliorano

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