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La Digitale Purpurea di Giovanni Pascoli: appunti per un’analisi del testo.

Il poemetto, diviso in tre sezioni, ci presenta due personaggi femminili, la bionda Maria (che
adombra Mariù, la sorella minore di Pascoli che lo accudì fino alla fine, ne conservò le memorie e
ne scrisse una biografia) e la bruna Rachele. L’indugio sui colori delle due ragazze da una parte ci
riporta al cliché decadente della donna angelo (un cliché, come si sa, che ha antecedenti anche
danteschi e petrarcheschi) dai capelli d’oro e della donna carnale e peccaminosa, raffigurata come
bruna –antitesi sottolineata anche dagli occhi di Maria, “semplici e modesti” in contrapposizione a
quelli di Rachele “che ardono”–; dall’altra però ci introducono a una delle caratteristiche di questo
componimento che, a una lettura più approfondita, diventa evidente: l’abbondanza di notazioni
sensoriali.

Osserviamo prima questa caratteristica: i colori abbondano. Si parte dai capelli delle ragazze (tanto
più in antitesi quanto più le ragazze sono accomunate dall’aggettivo “esile” ai vv. 2-3 della prima
parte), per poi passare alle “bianche suore” (v. 8, sempre della prima parte), all’“azzurro” del cielo
di maggio (II, v. 1), al rossore delle ragazze (II, v.11), al “tramonto d’oro” (II, vv. 16), all’“orto
bianco (…) bianco e ciarliero” (II, vv. 18-19) –bianco perché pieno di educande di bianco vestite–,
ai “neri” occhi di Rachele (III, v. 9) e infine alle “cetonie verdi” (III, v. 11). Ma abbiamo saltato una
notazione cromatica, e non per caso: proprio quella relativa al fiore della digitale purpurea. Pascoli
non ne identifica denotativamente il colore, ma connotativamente, attraverso la metafora del sangue
su dita umane (il fiore infatti somiglia a delle dita, da cui il nome). Ci ritorneremo. La presenza di
verbi relativi al campo semantico della vista percorre tutto il componimento, e si riferiscono sia al
passato remoto (le ragazze quando erano educande), sia al passato recente (Maria che va a trovare le
suore), sia al presente, dove l’atto di guardare è triplice:

1. le ragazze si guardano reciprocamente, fissandosi negli occhi (“l’una guarda l’altra”, I, v. 1;


“i due occhi… fissano gli altri due”) e questo loro guardarsi accentua la distanza fra loro,
sottolineata dai correlativi “l’una… l’altra” insistentemente ripetuti (e attribuiti anche agli
occhi) e soprattutto dai puntini sospensivi al v. 4 dopo la replicazione di “l’altra”, che
proietta un alone di mistero e inquietudine sulla figura di Rachele;
2. le ragazze (ancora una volta “l’una e l’altra”!) “guardano lontano” (I, v. 25) e “vedono” (II,
v. 1: da notare la rimalmezzo a distanza con “siedono” del verso iniziale, a sottolineare
l’importanza della vista), rievocando il passato, e una volta finito il flashback “hanno veduto
la fanciullezza” (III, vv. 2-3);
3. Rachele nella chiusa del poemetto invita Maria a “vedere”, a fare attenzione (e Maria infatti
“vede ora”, III, v. 24) alla sua malattia mortale, irrazionalmente connessa con il
peccaminoso fiore.

Altre notazioni visive riguardano, nella terza parte il chiaroscuro della “grave sera” in cui Rachele
andò ad annusare il fiore della digitale purpurea. In particolare ai vv. 17-18 (“l’aria soffiava luce di
baleni silenzïosi”) troviamo accomunati tatto, vista e udito, con una doppia sinestesia, la seconda
rimarcata dall’enjambement e dalla dieresi che prolunga l’aggettivo creando un effetto alquanto
inquietante. Da notare che la sera è “grave” come la parola di confessione che Rachele rivolge a
Maria. Anche qua ci ritorneremo.
Le notazioni uditive, invece, sono poche e di supporto: i tordi “zirlano” (I, v. 13), e questo verbo
unisce in sé il linguaggio pregrammaticale delle onomatopee e il linguaggio postgrammaticale della
precisione da lingua settoriale; le “melodie” dei canti delle educande (II, v. 8), il canto dell’Ave
Maria (II, vv. 13-14), l’“orto bianco e ciarliero” già notato (e qui si uniscono vista e udito, come poi
quando Maria “vede ora e ascolta”, e questi due passi sono chiaramente in antitesi: l’uno presenta
una situazione serena, l’altro invece presenta l’orrore di Maria davanti al destino della compagna, e
come nella “grave sera”, la scena clou), e infine il “suono di vele al vento” (II, 19-21) dove
l’enjambement è quasi bilanciato dall’allitterazione della v (prolungato nel verbo “vengono”) che
riproduce fonosimbolicamente il fruscio del vento nei panni bianchi delle ragazze.

Tutte le notazioni acustiche, inoltre, riguardano il passato.

Il gusto è praticamente assente se non per metafora (tutte le occorrenze dell’aggettivo “dolce” infatti
o sono perfettamente metaforiche o si riferiscono all’olfatto, come pure i “bussi amari”, I, v. 14).

Il tatto è anch’esso di supporto, eppure la scena in cui “le mani si premono” (III, vv. 1-2), come
sottolinea l’ennesimo enjambement, è importante e patetica, e crea un clima confidenziale in cui
però c’è dell’eros latente e nascosto, in un torbido languore che ammanta il rapporto fra le due
ragazze di inconfessabili inquietudini.

Domina invece l’olfatto. Soprattutto, l’odore del fiore della digitale purpurea, che accoglie in sé il
bello e il mortifero, la “dolcezza” (III, v. 22, addirittura “molta”) del “miele” (I, v. 19) e l’“oblio
dolce e crudele” (I, v. 21) e che si colloca anche spazialmente “in disparte” rispetto alle educande
“agili e sane” (II, v. 22), e sappiamo quanto la collocazione spaziale sia importante in un poeta
come Pascoli, ossessionato dall’immagine protettiva del nido. Fior di morte come lo chiamano in
botta e risposta le due ragazze, e la parola “morte” è pronunciata da Rachele, anticipazione della
battuta finale in cui la giovane confessa di essere destinata a precoce morte.

Le notazioni visive e olfattive quindi si dispongono anche esse in antitesi tra le due ragazze: colori
chiari e luminosi per il polo positivo, raccolto in Maria (tranne per la luce dei baleni silenziosi, che
non è una luce buona, ma livida e inquietante, come inquieto è il cuore di Rachele), colori scuri per
Rachele, la peccatrice, colei che è attratta dal fiore color di sangue, colei che dà in un certo qual
modo un senso ai turbamenti delle educande, che arrossiscono per la visita di un ospite e reprimono
la loro pulsione erotica cantando l’Ave Maria o leggendo qualche “libro buono” (II, v. 21), mentre il
suo “languido fermento” di un sogno erotico la spinge a cercare il fiore, che si umanizza e la chiama
(II, vv. 21-22: “e dirmi sentia: Vieni! Vieni!”) come se fosse un amante pieno di desiderio.

E Rachele, non a caso, è destinata a morire, perché va ad annusare il fiore, che, ricordiamo, era “in
disparte”, che si allontana dal monastero nottetempo (quindi lascia in un certo qual modo il nido) e
poi a distanza di anni si separa da Maria, è colei che turba Maria premendole le mani, guardandola
con gli occhi ardenti, confessandole il suo “peccato mortale” causandole un brivido. Rachele è colei
che ha compiuto simbolicamente un atto sessuale e peccaminoso, violando l’innocenza da educanda
che avrebbe dovuto avere, e infrangendo un divieto (forte la presenza del Super-Io) che invece
Maria ricorda di non aver mai infranto.

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