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La domanda rivolta al singolo (M.

Buber - il principio dialogico e altri


saggi)
Antropologia
Università di Pisa (UNIPI)
4 pag.

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Martin Buber (1878-1965) è stato un filosofo e teologo ebreo, ha insegnato presso
l’università Ebraica di Gerusalemme.

Egli sostiene che l’uomo non sia una sostanza, ma un fitta trama di rapporti e di
relazioni. Il mondo è duplice, così come l’io dell’uomo poiché esistono due modi per
l’uomo di porsi dinanzi all’essere: uno dialogico (io-tu) e l’altro monologico (io-esso).
Il rapporto io-tu esprime il mondo delle relazioni importanti dove c’è coinvolgimento
del mio essere; le due soggettività si trovano sullo stesso piano, per questo motivo
parliamo di reciproco rispetto. Il rapporto io-esso esprime invece le azioni che hanno a
che vedere con il mondo dell’esperienza, delle relazioni minori di convenienza e di
necessità.

Nell’elaborare il proprio pensiero, Buber fa riferimento alla tradizione ebraica. Egli


parla di come in principio c’è la relazione: l’ebraismo si fonda sulla relazione e il
dialogo costante tra Dio e il popolo; dalla relazione nasce l’identità (solo dalla
presenza degli altri è possibile distinguere la propria identità).

LA DOMANDA RIVOLTA AL SINGOLO (1936)


All’interno del saggio Buber analizza e definisce la posizione dell’individuo nella
relazione religiosa con Dio e in quella etica, politica e sociale con gli altri uomini. Nella
prima parte Buber metta a confronto la visione kierkegaardiana del singolo con l’unico
di Stirner, mentre nella parte conclusiva egli riflette sulle teorie etico-politiche di
Spengler, Schmitt e Gogarten.

«L’UNICO » E IL SINGOLO
Buber afferma che per comprendere la categoria del singolo di Kierkegaard dobbiamo
comprendere la sua solitudine*, quest’ultima nasce dalla rinuncia alla donna e al
mondo.

Tuttavia si tratta di una solitudine che non va paragonata a quella di un monaco o di


un eremita: per essi la rinuncia essenziale si da solo all’inizio, non è il tema della vita,
non è il problema del fondamento e della materia su cui si intesse ogni loro dottrina,
proprio questa è invece la rinuncia in Kierkegaard. Essa è dunque costituita dalla
categoria del singolo, categoria attraverso cui - in senso religioso - devono passare il
tempo, la storia, il genere umano.

Buber paragona il singolo di Kierkegaard e l’unico di Stirner. Entrambi sono estremi:


indicano la singolarità concreta (l’io non è soggetto e neppure uomo).

Stirner tenta di eliminare i resti dell’idealismo tedesco innalzando l’io : l’io non è più
concepito come il soggetto pensante e neppure come l’uomo, ma come l’individuo che
si scopre concretamente come l’unico io, portatore del suo mondo. In questo modo
Stirner si oppone ad ogni concezione pluralistica e dunque l’io non ha nessuna
relazione essenziale all’infuori di quella con se stesso (no relazione io-tu).

Invece, il singolo di Kierkegaard è costituito dalla dimensione relazione. Il filosofo


parla però di relazione esclusiva uomo-Dio che esclude tutte le altre. Buber qua si
separa dal suo pensiero, per lui infatti è impensabile la relazione dell’uomo con Dio
scissa dalle relazioni tra gli uomini.

Stirner → valorizza te stesso


Kierkegaard → conosci te stesso
Buber → trova te stesso

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Kierkegaard sostiene che «il singolo corrisponde a Dio», l’uomo può avere accesso a
Dio solo come singolo, perché non ci si può rivolgere a Dio se prima non abbiamo
conosciuto noi stessi.

Kierkegaard afferma che «ogni uomo è solo, solo sulla faccia della terra, solo di fronte
a Dio» : ciò è molto poco socratico (per Socrate è impensabile essere soli di fronte a
Dio) , il solo di Kierkegaard è abramitico (nella Genesi con lo stesso «Va’» capacità di
sciogliersi da ogni legame nei confronti del mondo paterno e filiale).

Buber parla di due limitazioni: mistica (uno degli aspetti della mistica che Buber
critica è l’annullamento dell’io nell’unione con Dio poiché con esso si rende impossibile
la relazione, che è sempre alterità) e individualismo.

Concetto di verità: per Stirner la verità è posseduta (è dentro di noi), mentre per
Buber no. Per Kierkegaard il singolo è la verità (perché la verità si deve realizzare
nell’esistenza - non ha caratteri noetici, come in Stirner, ma è verità vissuta - e il
singolo nella propria esistenza trova se stesso), Dio è la verità (perché Dio è, la verità
non può essere ricevuta se non al cospetto di Dio).

Concetto di responsabilità: per Buber significa farsi carico dell’altro. Stirner non
concepisce tale concetto, poiché se io sono il padrone di me stesso e di tutte le cose,
dunque del mondo, tutto è mio, nessuno mi affida niente. Per Kierkegaard il singolo
entra in contatto con la massa che lo vuole sottrarre a ogni responsabilità.

Ultimo punto di contatto e di contrasto tra Kierkegaard e Stirner : per Stirner «ogni
uomo è l’unico» mentre per Kierkegaard «ogni uomo può e deve divenire il singolo».

Nella parte conclusiva di questo primo capitolo, Stirner afferma di condurre ad un


campo aperto dove ciascuno è l’unico e il mondo la sua proprietà; Kierkegaard
afferma invece di condurre ad una “strettoia” (chiamata da Buber prima egoismo
individuale, poi egoismo collettivo ed infine disperazione), cioè “il singolo” ma egli
dichiara «io stesso affermo di non esserlo già» (pagina 239), questo perché divenire
singolo è un percorso infinito e alla fine non si diviene mai singolo (perché altrimenti
corrisponderesti a Dio - «secondo la misura più alta» - e non si può, non è possibile).

IL SINGOLO E IL SUO TU
In questo secondo capitolo, Buber parla di come il divenire un singolo di Kierkegaard
non è inteso in senso socratico : è infatti inserito in un diverso divenire, che non ha
come fine la “vita giusta” ma l’entrare in una relazione, il divenire della relazione
assoluta uomo-Dio.

Buber afferma che nell’elaborare il proprio pensiero, Kierkegaard va contro il suo


stesso maestro (Gesù) : alla domanda “qual è il grande comandamento ?” Gesù
risponde «ama Dio con tutte le tue forze» e «ama il tuo compagno come te stesso» ,
bisogna quindi amare entrambi.

Differenza dell’etico: per Buber l’etico è nel cuore del religioso, mentre per
Kierkegaard serve per arrivare alla stadio religioso.

IL SINGOLO E LA DIMENSIONE PUBBLICA


Kierkegaard rinuncia ad una relazione essenziale con una persona determinata (egli
non si sposa con Regina Olsen, il matrimonio è un legame che conduce ad avere un
confronto con la dimensione pubblica) e ad una relazione essenziale con il mondo:
se il singolo, come pensa Kierkegaard, deve essere l’uomo che non entra in relazione
essenziale con gli altri allora la relazione essenziale con una persona determinata

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(=matrimonio) e la relazione essenziale con il mondo (=con gli altri individui)
rappresentano un impedimento.

Buber afferma inoltre che la solitudine* di cui parla Kierkegaard porta in realtà ad un
allontanarsi da Dio, perché appunto non vi è relazione con l’altro, con il mondo.
Differente è invece la solitudine momentanea, che porta ad una riflessione.

Kierkegaard confonde la dimensione pubblica con la massa, quest’ultima viene da lui


definita come «contrario della verità» (appunto perché per Kierkegaard il singolo è la
verità, e il divenire massa impedisce all’uomo di divenire singolo). Per Buber la massa
è «contrario della libertà» e non coincide necessariamente con la dimensione pubblica:
la massa è infatti affastellamento (si vuole ciò che essa vuole, si pensa ciò essa
pensa), la dimensione pubblica non è affastellamento, è unione, legame; nella
dimensione pubblica l’uomo fa esperienza dell’alterità trasformando la massa in
singoli. Il singolo è colui che entra in contatto con Dio abbracciando l’intera
dimensione pubblica con le sue alterità.

Buber afferma che vi è differenza tra la dimensione privata (=matrimonio) e


dimensione pubblica: l’identificazione.

IL SINGOLO NELLA RESPONSABILITÀ


Buber afferma che nella relazione uomo-Dio, l’uomo non deve escludere il mondo ma
vivere la propria responsabilità mondana. L’individuo appartiene alla comunità in cui
nasce o in cui capita, è importante accettare tale appartenenza, in questo modo è
possibile comprendere ciò di cui sia la comunità che noi stessi abbiamo bisogno. In
questo modo nasce la responsabilità del singolo nel gruppo. Secondo Buber, oggi però
il gruppo tende ad eliminare tale responsabilità portando anche l’uomo di fede a
considerare il suo rapporto con Dio come auto-inganno. L’uomo di fede deve però
avere fede nel Signore e al tempo stesso aderire al gruppo.

TENTATIVI DI SEPARAZIONE
Alcuni studiosi vanno contro il concetto di singolo nella responsabilità di cui parla
Buber.

Spengler → l’etico non è il principio dell’ambito politico. Egli afferma che gli uomini
sono delle belve feroci.

Schmitt → il principio dell’ambito politico è il rapporto amico-nemico (per Buber non è


così, egli afferma che quando due individui hanno un conflitto che diviene conflitto
assoluto la soluzione è nell’annientamento di uno dei due, non si può parlare di
conciliazione).

Gogarten → l’etico deriva dall’ambito politico. Egli afferma che l’uomo è radicalmente
cattivo (per Buber non è così, l’uomo non è radicale ma è possibilità; non è possibile
afferma che l’uomo è cattivo o buono poiché l’uomo è cattivo-e-buono, conosce sia il
bene che il male. L’uomo è libero e può scegliere. Lo Stato deve tutelare tale libertà.
Lo Stato non può portare l’uomo sulla direzione della via giusta, soltanto il singolo
nella responsabilità può farlo).
LA DOMANDA
Nella parte conclusiva Buber affronta il tema della crisi dell’uomo occidentale ( rispetto
agli ebrei dell’Europa Orientale, gli ebrei dell’Europa Occidentale hanno avviato un
processo di identificazione che li ha portati a convertirsi al Cristianesimo). In tale crisi
ciò che viene messo in dubbio è la persona e la verità. La persona viene messa in
dubbio perché collettiva, la verità viene messa in dubbio perché politicizzata. Per

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tutelare l’uomo, affinché l’uomo non venga perduto, sono necessarie persone non
collettivizzate e una verità non politicizzata.

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