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PONTIFICIA UNIVERSITÀ URBANIANA


[PROF. GAETANO SABETTA]
CORSO MB1019: DIALOGO INTERRELIGIOSO
[AD USO ESCLUSIVO DEGLI STUDENTI]

TEMA 1
DIALOGO INTERRELIGIOSO: PROSPETTIVA BIBLICO-STORICA

Parte I
RADICE ONTOLOGICA
RADICE ANTROPOLOGICA
RADICE BIBLICO-TEOLOGICA:
LA BIBBIA E LE RELIGIONI
PUNTO DI PARTENZA
LA RELIGIONE DEI PATRIARCHI: ELIM, DIO PADRE, EL
ALLEANZA UNIVERSALE
LA TRADIZIONE PROFETICA: DAL DIO D’ISRAELE AL DIO DELLE NAZIONI
LA TRADIZIONE SAPIENZIALE
GESÙ E LE RELIGIONI
LA CHIESA APOSTOLICA E LE RELIGIONI
CONCLUSIONE
Parte II
IL CAMMINO STORICO FINO AL CONCILIO VATICANO II

Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2020-2021 – Prof. Gaetano Sabetta


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RADICI DEL DIALOGO


Il termine dialogo è entrato stabilmente nel lessico religioso del nostro tempo. Spesso è
quasi una moda nella quale non è raro considerare tutto per scontato.

RADICE ONTOLOGICA
Derivato dalla parola greca dia-logos, attraverso il logos, il dialogo in senso generale
può considerarsi una “comunicazione reciproca per raggiungere un fine comune o più
in profondità una comunione interpersonale”. Presso i maestri greci la parola logos
aveva diverse sfumature semantiche. Prima di tutto significava “ragione”, ovvero la
motivazione interiore della intellegibilità di ogni cosa. Il logos era la struttura base di
ogni fenomeno naturale ed il mondo era appunto cosmos opposto al chaos: insieme
ordinato, illuminato dall’intero dalla luce del logos. Il termine riguardava però anche la
facoltà umana di comprendere, ovvero il pensiero umano. L’essere umano è capace di
logos, cioè è capace di pensare, di intelligere (Aristotele). Infine logos indicò anche la
trasmissione di tale pensiero umano all’esterno ovvero la parola. Vi è dunque in questa
visione una corrispondenza fra essere, pensiero e parola tenuta insieme dal logos, il cui
significato etimologico è proprio quello di “legare insieme”. Nel mondo biblico,
invece, più che l’ordine astratto-logico del cosmo di matrice greca, ciò che contava era
il rapporto personale col Signore dell’universo. Il Signore del cosmo e della storia
mosso da amore, sapienza e misericordia che parla all’uomo e l’uomo che risponde: la
parola (dabar) è al centro di tale rapporto.
Queste due grandi visioni sono state assunte e sintetizzate sia da pensatori ebrei (Filone
d’Alessandria), sia dai Padri della Chiesa (Giustino e Clemente di Alessandria) e
costituiscono il nostro patrimonio comune.
Quello che mi preme sottolineare è che in tale sintesi la struttura logica dell’essere
umano è naturalmente dialogica. Gli esseri umani non sono isole, non sono monadi
con le finestre e le porte serrate, ma sono parti di un tutto, uniti da un insieme di
rapporti che li costituiscono e li mettono in relazione reciproca. Sia rapporti orizzontali,
interpersonali che rapporti verticali col Fondamento assoluto. Essere significa sempre
“essere con”, ovvero “con-essere”.

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I fondamenti del dialogo partono, dunque, da lontano, cioè intersecano la stessa


costituzione ontologica degli esseri. Ognuno di noi è persona, ovvero insieme di
rapporti, di relazioni e non semplice individuo. Ogni persona esiste non solo per sé ed
in sé, ma anche in rapporto con gli altri e in relazione a quel quid che ci supera e che
alcuni chiamano Dio.

RADICE ANTROPOLOGICA
L’essere umano è quindi un essere costitutivamente dialogico. Recentemente filosofi
come Martin Buber e Emmanuel Levinas hanno approfondito la categoria del dialogo
nella vita umana. Per essi l’esperienza del “tu” è più originaria di quella dell’”io”
poiché è nella relazione col “Tu”, anche col “Tu divino”, che l’“Io” diventa, si esprime,
cresce. Esiste una differenza radicale fra due esperienze umane fondanti: quella
interpersonale dell’“io-tu” e quella oggettiva dell’io-esso: solo la prima permette
all’essere umano di divenire persona! In principio è la relazione”, dirà Buber, ovvero la
categoria originaria della realtà umana non è l’essenza (sostanza) ma la relazione. L’io
esiste solo nel Tu. Infatti, il Tu costituisce l’Io allo stesso modo di come l’Io pone o
costituisce il Tu.
Allargando lo sguardo notiamo che tale interscambio è necessario non solo al singolo,
ma ad ogni gruppo umano, ad ogni comunità. L’intera storia umana potrebbe
interpretarsi come il cammino dialogico interumano nel tempo e nello spazio che tende
verso un punto finale percepito come il punto di convergenza di tutta la storia del
dialogo umano. Il cammino di fede cristiano, non diversamente da molte altre
tradizioni religiose, vede questo punto finale di compimento, di realizzazione e
rivelazione dell’essere nell’incontro con l’origine e fondamento del tutto, quando
l’Assoluto sarà “Tutto in tutti” secondo la formula di (1 Cor. 15,28).
Naturalmente il dialogo non chiude gli occhi alla realtà storica dell’umanità
profondamente segnata da contrapposizioni, fondamentalismi, violenza, ovvero da un
insieme di forze “disumanizzanti”. Per raggiungere il suo scopo, il dialogo deve
spingere l’essere umano verso il suo fine ultimo, verso la piena “umanizzazione”
capace di annichilire tutti quegli elementi di violenza ed oppressione che agitano le
profondità dell’essere umano.

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LA BIBBIA E LE RELIGIONI: INTRODUZIONE


Il ritmo che la Bibbia scandisce nel rapporto con l’altro è segnato costantemente
da una struttura binaria dove coesistono il lato universale (la volontà salvifica di Dio) e
quello particolare (Dio sceglie un popolo, nel Primo Testamento; Dio salva attraverso
Gesù-Cristo, nel Secondo Testamento). Tale ritmo è sintetizzato nel famoso testo della
prima lettera che Paolo scrive a Timoteo. Nel contesto della preghiera che Paolo rivolge a
Dio, ricordando i re pagani si legge:
«Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli
uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno
solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in
riscatto per tutti» (1 Tim 2,4-6).
Secondo il biblista francese Legrand l’elezione d’Israele, nell’ottica di Dio, non è
particolarismo e ancor meno esclusivismo, ma visione universale delle cose e del piano di
Dio poichè, se il Dio dell’elezione storica è anche il Dio delle benedizioni cosmiche
l’elezione non taglia Israele dalle nazioni, ma la situa in rapporto a esse1. Allo stesso
modo Senior e Stuhlmueller ritengono non definitive le risposte bibliche al problema delle
religioni, poichè alle posizioni d’ostilità si accompagna il riconoscimento della bontà
dell’esperienza religiosa dei singoli ‘pagani’ presenti in diversi scrittori biblici2. Rossano
prende le distanze sia dall’aut-aut Bibbia-religione inaugurato dall’Unglaube (incredulità)
barthiano e confermato dal Wesenlos (superstizione) di Bonhoeffer, che tanta influenza ha
avuto anche in ambito cattolico, sia dalla tendenza liberale della Religionsgeschichtliche
Schule, che con le sue intemperanze ha alimentato i timori di un livellamento tra il dato
biblico e quello della storia religiosa del Vicino Oriente mesopotamico. In tale prospettiva
mediana, l’esperienza religiosa umana autentica può – conclude Rossano – considerarsi
«preparazione provvidenziale» a Cristo nel quale gli uomini trovano la pienezza (cfr. NA
n. 2)3.
PUNTO DI PARTENZA

1
L. LEGRAND, Il Dio che viene. La missione nella Bibbia, Borla, Roma 1989, 29.
2
Cfr., D. SENIOR – C. STUHLMUELLER, I fondamenti biblici della missione, EMI, Bologna
1985, 479-481.
3
P. ROSSANO, Dialogo e annuncio cristiano, 42-43.

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Le maggiori critiche rivolte al dialogo sembrano essere basate sul dato biblico. Ma
è davvero così? La Bibbia è davvero contraria al dialogo? Davvero alimenta un giudizio
negativo delle religioni? Cosa dire poi di Gesù. Davvero Gesù era contrario al dialogo? Ci
pare importante dar conto di due difficoltà iniziali. Primo, la Bibbia non s’interessa
direttamente alle religioni, ovvero il rapporto Bibbia-religioni è solo incidentale al tessuto
biblico: la maggiore preoccupazione biblica è quella di alimentare la fede d’Israele. La
seconda difficoltà riguarda l’interpretazione. In questo caso più che confrontare i singoli
passi biblici che sembrano condannare il dialogo con quelli che invece sembrano
sostenerlo, battaglia che sembra destinata a non avere mai fine, appare decisivo, come
ricordano Odasso4 e Ariarajah5 domandarsi qual è nel complesso l’attitudine della Bibbia
di fronte al fenomeno delle religioni. In altre parole, occorre cogliere il carattere globale
dell’approccio nel solco di una “comprensione biblica della Scrittura”, evitando che
prospettive esterne, sia esse sistematiche o dogmatiche, distorcano il processo
ermeneutico.

LA RELIGIONE DEI PATRIARCHI: ELIM, DIO PADRE, EL 6


Hugo Gressmann nel suo studio sulla religione dei patriarchi del 1910 dal titolo
Mose und seine Zeit afferma che una delle caratteristiche della religione patriarcale è il
culto reso a più divinità. Anche se i diversi nomi di Dio devono intendersi più come
attributi dell’unico JHWH, rimane il fatto che la pluralità dei nomi tradisce uno stadio
arcaico della tradizione in cui esisteva un certo grado di monolatria [si tratta di una
posizione vicina all’enoteismo: si riconoscono una pluralità di dei, ma uno è preminente e a Lui
viene rivolto il culto]. Nell’incontro tra Abramo e Melkisedek raccontato da Gn14 si
afferma che questi è il «Dio dell’Altissimo» (El Eljôn), creatore del cielo e della terra.
Nell’episodio raccontato da Gn 17, dove Dio appare ad Abramo e Sara presso Mamre, si
parla invece di «Dio Onnipotente» (El Shaddaj), mentre in Gn 21,22-34 appare il nome
«Dio Eterno» (El Olâm). Lo studioso tedesco seguendo lo stesso ragionamento incontra
anche il dio Bet El (Gn 28,17), il dio «Visione» (El Roj), in Gn 16,13 e il dio «Alleanza»

4
G. ODASSO, Bibbia e religioni. Prospettive bibliche per la teologia delle religioni, UUP,
Roma 1998, 23.
5
S.W. ARIARAJAH, The Bible and the People of Other Faiths, WCC, Geneve 1985, xiii.
6
G. ODASSO, Bibbia e religioni,115-129.

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(El Berit) di Gdc 9,46. La sua conclusione è quella di affermare la natura politeistica della
religione dei patriarchi segnata da diverse divinità naturalistiche indicate dal nome Elim,
ognuna delle quali svolge una funzione specifica ed appare legata anche ad una particolare
località.
Nel 1929, Alt, con la sua ricerca Der Gott der Vatër completa ed approfondisce i
risultati di Gressmann. Egli dimostra che il culto degli Elim era di origine Cananea e che i
patriarchi avevano iniziato ad adorare gli Elim a partire dalla loro presenza nella terra dei
Cananei. Di conseguenza, l’autore si mette alla ricerca di un culto anteriore a quello degli
Elim che trova a partire da Es 3,6 dove si parla «del Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il
Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe». La conclusione a cui Alt arriva è che la forma
originaria della religione patriarcale è il culto del «dio padre». Tale culto presuppone una
cultura nomade nella quale ogni clan ha un proprio padre o antenato. Tale forma di
politeismo nomade si arricchisce grazie all’apporto della religione stanziale dei Cananei,
centrata intorno al culto degli Elim, una volta che i patriarchi si stabilizzano in Palestina.
La scoperta della città Cananea di Ugarit del 1929 e la decifrazione delle tavolette
rinvenute hanno chiarito la natura della religione siro-cananea della seconda metà del II
millennio a.C. In particolare è risultato evidente che nonostante la molteplicità dei culti
locali ci fosse un’unità di fondo espressa dalla disposizione a piramide delle diverse
divinità. All’apice del pantheon cananeo si trova il dio El, creatore del cielo e della terra.
Di conseguenza, conclude Cross nel suo studio Yahweh and the God of the Patriarchs non
si tratta di molti dei (Elim), ma di diversi attributi riferibili all’unico dio supremo El.
L’insieme di tutti questi dati raccolti porta Odasso ad affermare «che i patriarchi e i loro
clan veneravano El, la divinità suprema all’interno del pantheon siro-cananeo»7. Quali
conclusioni ai fini del dialogo possiamo trarre da questo studio preliminare sulla religione
dei patriarchi? 1. Senza dubbio il confronto biblico con la storia della religione patriarcale
mostra che non è biblicamente fondato affermare una totale separazione tra essa e le
religioni, quasi che essere fossero l’espressione dell’errore o della superstizione. 2. La
sostanziale continuità tra l’esperienza religiosa Cananea e la rivelazione biblica non ci
permette più di qualificare la prima come religione naturale rispetto alla seconda
considerata quale rivelazione (cristiana). In altri termini, anche le religioni sono il luogo in

7
Ibidem, 126.

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7

cui l’uomo incontra il divino e questo incontro esprime una relazione autentica col vero
Dio8.

ALLEANZA UNIVERSALE
Il ciclo che segna l’inizio della Bibbia, ovvero l’andamento ondivago di creazione-
distruzione-nuova creazione (Gn 1-11), a lungo trascurato dalla ricerca biblica perché
considerato non storico, è di fondamentale importanza per inquadrare nella giusta
prospettiva il rapporto che la Bibbia intrattiene con i popoli di fede diversa. Il racconto
della creazione non riguarda la nascita di una chiesa, nè tanto meno di una religione, ma si
riferisce al cosmo intero. È significativo che nei racconti della creazione si faccia
riferimento oltre al cosmo anche ad ‘adam, ovvero all’umano [essere umano] in sè e non
ad ‘ish, cioè all’uomo come diverso dalla donna, proprio a sottolineare che nulla rimane
fuori dall’amore misericordioso del Dio creatore.
Secondo Dupuis, l’alleanza (berith) crea l’identità di Israele come popolo di Dio,
ovvero carattereizza la fondazione dell’esperienza religiosa di Israele, esprimendo l’inizio
del dialogo salvifico proprio nel momento in cui Dio dichiara: «sarò vostro Dio e voi
sarete il mio popolo» (Lev 26,12); ma, proprio a partire dall’esperienza di liberazione del
Dio dell’Esodo (Es 3,3-15), che interviene potentemente nella storia, Israele, in maniera
retrospettiva, scopre la trascendenza del Dio creatore e del suo disegno d’amore che si
estende a tutto il cosmo e all’intera umanità, considerata come una sola famiglia9. Un
unico Dio, creatore di tutto e di tutti, che circonda l’intera creazione del suo inesauribile
amore: questa è l’immagine potente che ci consegnano i primi 11 capitoli del libro del
Genesi. L’umanità intera rimane tale, sia nel caso della partecipazione alla vita di Dio
(l’immagine e somiglianza di Gn 1,26), sia nell’alienazione, conseguenza della caduta.
Essa è nuovamente tutta unita nell’alleanza noaica (Gn 9) che interessa tutta l’umanità e
l’intera creazione.
Il fatto che i primi 11 capitoli della Bibbia siano un invito a riconoscere
l’universalità della volontà salvifica di Dio esprime il tentativo di immettere la storia
specifica d’Israele, che parte dal capitolo 12, nel contesto più largo dell’alleanza

8
Cfr, ibidem,128-129.
9
J. DUPUIS, Towards a Christian Theology of Religious Pluralism, 31.

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universale del Dio creatore. Lo stesso libro del Sir 17,10, a proposito della creazione,
parla dell’«alleanza eterna» che Dio stipulò con gli antenati, mentre Ger 33, 20-26 e il
Salmo 89 fanno espresso riferimento all’«alleanza cosmica» quando parlano della
creazione. Sia l’alleanza universale della creazione sia quella noaica non vengono
abrogate per effetto dell’alleanza specifica che Dio stipula con Abramo. Soprattutto, come
ci ricorda Dupuis, rifacendosi agli studi di Danièlou sui santi pagani dell’antico
testamento, non si tratta di religione naturale opposta all’ordine sovrannaturale di Cristo:
l’alleanza cosmica è già sopranaturale. Non appartiene ad un ordine differente rispetto
all’alleanza mosaica o a quella cristica. Lo stesso Ireneo nel suo Adversus Haereses III,
11, 8 parla di quattro alleanze: quella di Adamo, quella di Noè, quella di Abramo-Mosè e
quella di Gesù-Cristo.10 Ecco come G. Odasso sintetizza l’orizzonte teologico dello scritto
sacerdotale (P) che ha visto la luce durante l’esilio babilonese (586-538 a.C.). Il tema
fondamentale è il concetto teologico del berith che diventa strumento per illuminare la
storia dalla creazione fino alla morte di Mosè:
«Questa prospettiva suppone implicitamente che […] l’umanità nel suo cammino storico è in
rapporto speciale con Dio, e questo non come frutto di un impegno esistenziale o di una scelta,
che parte dall’uomo, ma come conseguenza dell’impegno con cui Dio, nella gratuità del suo
amore, che si relaziona salvificamente con l’uomo»11[evidentemente non è sbagliato parlare di
rivelazione N.d.R.].

LA TRADIZIONE PROFETICA: DAL DIO D’ISRAELE AL DIO DELLE NAZIONI12


Abbiamo già detto che la prospettiva biblica è quella di vedere la storia religiosa
delle nazioni soprattutto a partire da quella d’Israele. In tale contesto, ha senso dunque
parlare del Dio d’Israele; tale concretezza, viene completata nel racconto biblico dai
continui rimandi all’universalità del Dio delle nazioni. Questo ci dovrebbe convincere che
l’auto-comprensione d’Israele non esprime in toto la relazione che Dio intrattiene con le
nazioni.
La dimensione particolare, concreta, comporta tre momenti:

10
Ibidem, 33.
11
G. ODASSO, Bibbia e religioni, 185. [corsivo nostro].
12
S.W. ARIARAJAH, The Bible and the People of Other Faiths, 3-12.

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1. Dio sceglie Israele come suo popolo (berith). Dio che dice a Mosè: «Vi prenderò come
mio popolo e diventerò il vostro Dio» (Es, 6,7);
2. Dio conferma l’alleanza prima con Abramo, poi con Mosè;
3. Israele sarà «luce tra le nazioni» (Gn 12,3), ovvero Dio benedirà le nazioni attraverso
Israele;
Questi tre passaggi che caratterizzano in maniera progressivamente stringente l’auto-
comprensione religiosa del popolo ebraico segnano indelebilmente la stessa auto-
comprensione cristiana. (cfr., 1 Pet 2,9 dove i cristiani sono considerati stirpe eletta,
nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue meraviglie).
La tradizione profetica, senza dubbio, apre il sentiero universale che porta dal Dio
d’Israele al Dio delle nazioni. Il capitolo iniziale del libro di Amos sottopone tutte le
nazioni, compreso Israele al giudizio di Dio, mentre nel capitolo finale (Am 9,7)
sorprendentemente dichiara:
«Non siete forse per me come i Kushiti, o figli di Israele? – detto di JHWH –
non ho forse fatto salire Israele dall’Egitto, Filistei da Caftor e gli Arami da Kir?»

La formula «ho fatto salire» (anche in Gdc 6,8) coincide con la formula dell’esodo «ho
fatto uscire Israele dall’Egitto» (es. Es 20,2), dunque ha valenza salvifica. Amos connette
l’elezione d’Israele a tutte le nazioni, evitando che venga vissuta come superiorità o
esclusione, perfino a quelle che sono i nemiche storiche d’Israele, specificando che JHWH
si rivolge a tutti in maniera salvifica. In definitiva, il Signore, che opera per la redenzione
di Israele, agisce in maniera salvifica anche nella storia di tutti i popoli. Inoltre, se l’auto-
comprensione di Israele è segnata dallo sviluppo di una teologia dell’esodo salvifico che
diventa poi storia della salvezza, tutto ciò risulta assente nella tradizione Filistea o
Aramea, nonostante l’iniziativa divina non sia da essi assente. Di conseguenza, la
rivelazione di JHWH, come ci ricorda Odasso, anche se rimane legata alla storia non può
identificarsi totalmente con essa dando perciò valore alla rivelazione cosmica e a quella
che fa appello alla coscienza.13 [A. Dulles, parla a proposito di modelli di rivelazione].

13
Cfr., G. ODASSO, Bibbia e religioni, 159-160.

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Il tema dell’universalità salvifica di Dio su tutte le nazioni viene ripreso in maniera


meravigliosa da Isaia (19, 19-23). Dio promette di fare con l’Egitto quello che ha già fatto
con Israele, compresa la salvezza dall’oppressione:

«In quel giorno ci sarà un altare dedicato al Signore in mezzo al paese d’Egitto e una stele in
onere del Signore […] Quando, di fronte agli avversari, invocheranno il Signore, allora egli
manderà un salvatore che li difenderà e li libererà. Il Signore si rivelerà agli Egiziani e gli
Egiziani riconosceranno in quel giorno il Signore, lo serviranno con sacrifici e offerte […] In
quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria […] in quel giorno Israele sarà il terzo
con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli
eserciti: “Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia
eredità».
Tutto questo accade per iniziativa di Dio, senza passare attraverso l’intermediazione
d’Israele, ovvero il Signore entra direttamente in relazione con le nazioni, rivelandosi loro
non diversamente da come ha fatto con Israele.

LA TRADIZIONE SAPIENZIALE14
Sempre più studiosi veterotestamentari sono interessati alla tradizione sapienziale
d’Israele soprattutto in considerazione del profondo dialogo che nasce tra essa e le
tradizioni sapienziali del Vicino Oriente Antico, in particolare quelle dell’Egitto e della
Mesopotamia. Possiamo suddividere il cammino compiuto dalla sapienza d’Israele in tre
tappe:
1. una fase arcaica detta «sapienza mondana», che ha come obiettivo l’osservazione della
realtà così come si presenta fenomenologicamente cercando di coglierla in maniera
sempre più profonda e penetrante. Le forme bibliche più significative rimangono i
proverbi (1 Re 5, 12-13);
2. una fase mediana chiamata «sapienza jahwistica» nella quale si cerca di armonizzare il
dato proprio della sapienza a quello più direttamente legato alla prospettiva della fede in
JHWH, prima in riferimento alla fede dei profeti - diversi esempi si ritrovano nella
sezione più antica del libro dei Proverbi dove si parla dell’ingiustizia e dell’oppressione
dei poveri nonché del loro riscatto (Pr 14,31; 17,5; 19,17; 21, 13) e di JHWH quale

14
Ibidem, 194-226.

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difensore della giustizia (Pr 17,15) - e poi in relazione alla prospettiva deuteronomistica,
che connette la Sapienza alla parola di JHWH e alla stessa Torah.
3. la fase finale, caratterizzata dalla «sapienza personificata», giunge a comprendere la
Sapienza come il disegno stesso di Dio che è alla base della creazione, della storia umana,
di quella d’Israele e della loro redenzione. (Gb 28,1-28; Pr 8,22-31; Sir 24, 1-32; Sap 9, 1-
18). Proprio in quest’ultima fase il dialogo già iniziato con la sapienza degli altri popoli
giunge ad una maturazione decisiva dando valenza teologica al dialogo interreligioso e
alla comprensione teologica delle religioni alla luce della Scrittura.
Approfondiamo alcuni di questi testi.
In Pr 8 la Sapienza si presenta come una persona che chiama gli uomini ad
ascoltare ed imparare (vv.1-4 e 32-36 formano un’inclusione che segna l’importanza del
tema dell’ascolto). Essa si presenta come fonte di giustizia e di equità (vv. 12-21), ma
soprattutto è in “principio” (vv.22-31), è cioè presente nella totalità della creazione. Essa
era «accanto a Lui [Dio] come sicurezza (‘mwn)», (v.30) [la bibbia di Gerusalemme
traduce «architetto»]. La sicurezza nel linguaggio biblico si presenta o come quella del
figlio nelle braccia dei genitori o come quella della sposa e dello sposo nella reciproca
comunione di vita. Di conseguenza, la Sapienza, l’eterno Disegno di Dio per la creazione,
è assieme a Lui al momento della creazione così da assicurare quella sicurezza sponsale
tra Dio e la creazione. In altri termini, l’essere umano ascoltando ed accogliendo la
Sapienza entra nel mistero e nella sicurezza del legame sponsale che lega Dio alla
creazione. Se questo è il dato biblico, allora la Sapienza non simbolizza più l’ordine
naturale che vede l’uomo proteso con le braccia aperte verso l’alto alla ricerca di Dio, ma
esprime il disegno stesso di Dio che si estende a tutto il «globo terrestre» (v.31b) e,
conclude Odasso, le stesse religioni in quest’ottica «rappresentano l’espressione storico-
culturale dell’esperienza che vive l’uomo quando si apre al dono della divina Sapienza»15.
In Sir 24,1-32 la Sapienza è «uscita dalla bocca di Dio» (v.3), è il Verbo di Dio; è
anche il «libro dell’alleanza del Dio altissimo» (v.22), ovvero è la Torah, intesa come
totalità della rivelazione divina. La Sapienza divina, dunque, pervade sia la creazione
(vv.4-6) sia la storia salvifica d’Israele (vv.12-ss) attribuendo alla storia dei popoli e a
quella d’Israele una valenza simbolica, in quanto rinvia alla presenza attiva di Dio, che è

15
Ibidem, 209.

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12

appunto la rivelazione. Ancora una volta l’universalità del disegno salvifico di Dio reso
presente per mezzo della Sapienza esclude quel dualismo, troppo semplicistico, tra
naturale e sopranaturale.
In Sap 9, infine, c’è la preghiera solenne all’Altissimo per ottenere la Sapienza che
siede sul trono accanto a Dio (v.4), che conosce, la volontà, il disegno (boulè) di Dio
perché era presente alla creazione (v.9), che rivela, ovvero media la conoscenza del
disegno di Dio poiché dove sta la Sapienza sta lo Spirito. «Chi conosce il tuo disegno
(boulè), se tu non doni la Sapienza e non mandi dall’alto il tuo Spirito Santo?» (v.17).
Proprio la stretta connessione tra lo Spirito e la Sapienza ne svela la funzione soteriologica
universale poiché «essi furono salvati per mezzo della Sapienza» (v.18). In altri termini,
l’Autore attribuisce alla Sapienza l’opera della «nuova alleanza» (cf. Ez 36,24-28)
tradizionalmente riservata allo Spirito, ovvero si trasferisce alla Sapienza divina ciò che
nella tradizione precedente era attribuito allo Spirito.
Dall’analisi dei tre testi sapienziali proposti non possiamo che convenire con
Odasso quando afferma:
«In realtà […] le religioni non possono essere comprese come l’espressione sociale e culturale
della conoscenza “naturale” di Dio, o come la concretizzazione comunitaria della ricerca di
Dio da parte dell’uomo. Le religioni, piuttosto, si presentano come il frutto dell’attività della
Sapienza nella vita degli uomini»16
Quali sono, dunque, le conseguenze che possiamo trarre dall’analisi dei testi sapienziali?
1. l’identificazione della Sapienza con la Torah e la sua profonda connessione con lo
Spirito non possono essere comprese nella giusta profondità se si considera la Sapienza
come sola auto-manifestazione della creazione. Essa è la voce del Signore, è l’auto-
rivelazione di Dio. Quando l’uomo nella sua ricerca percepisce una voce che lo trascende
quella è la voce della Sapienza divina che gli comunica un messaggio salvifico.
2. in questa prospettiva le religioni, pur con tutti i limiti, si configurano come il luogo,
forse quello privilegiato, dove l’uomo si lascia ammaestrare e guidare dalla Sapienza
verso la comunione con Dio.

GESÙ E LE RELIGIONI

16
Ibidem, 215.

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Pochi studiosi saranno contrari all’affermazione che il cuore della Bibbia, dalla
creazione fino all’Apocalisse, è il dialogo amorevole che Dio intrattiene con tutti gli
uomini a prescindere dalla loro cultura o dalla loro religione. I Vangeli raccontano, a
modo loro ed in diversa maniera l’uno dall’altro, la storia di quello stesso Amore di Dio
nella sua incarnazione. Il Vangelo, quale Buona Novella, rivela, dunque, la natura
dell’amore di Dio, indicandone in maniera decisiva il significato (cf. Gv 1,18).
Questo ha due conseguenze che possono intendersi come l’orizzonte di ogni
successivo discorso: 1. Chiarire qual è la priorità quando si parla di «Dio in Cristo»; 2.
Riconoscere il sì preventivo di Dio all’uomo, ovvero porsi nell’ottica della grazia
preventiva e decisiva mostrataci da Dio in Cristo.
1. l’affermazione «Dio in Cristo» non significa tanto chiedersi come Dio è presente in
Cristo, magari attraverso una natura divina, né confusa e nemmeno separata da quella
umana, quanto piuttosto cosa significa, qual è il senso della presenza di Dio in Gesù-
Cristo, a partire dalla specificità di Gesù: lo svuotamento (kenosi) proprio dell’amore
vulnerabile (croce). È come se Gesù diventasse una finestra, un prisma, che ci permette di
guardare Dio in profondità (cf. Gv 1,18). Se poniamo in questi termini la questione, il
dialogo diventa il cuore del Vangelo. Nel non-essere della croce, ovvero nella kenosi
finale, in quel vuoto svuotante ultimo, si manifesta l’essere per, l’alterità, il
riconoscimento dell’altro da me, il dialogo. A tale proposito, l’allora Cardinal Ratzinger,
saggiamente scriveva, nel lontano 1998: «God’s kenosis is itself the place where the religions
can come into contact without arrogant claims to domination»17
2. il messaggio biblico, ed evangelico in particolare, è intrinsecamente dialogico proprio
perché ha il suo fondamento nella grazia preventiva di Dio mostrata in Gesù-Cristo in
maniera esemplare. È il riconoscimento che la persona che ho di fronte è già figlio di Dio,
così come lo sono io, a dover guidare il mio atteggiamento nei suoi confronti più che la
considerazione se sia cristiano o se sia battezzato. Se continuiamo ad affermare che
coloro che non riconoscono apertamente di credere in Gesù e non appartengono alla
chiesa sono fuori dalla grazia di Dio, stiamo dicendo qualcosa che stride profondamente
con la Buona Novella del Dio di Gesù.

17
J. RATZINGER, «Interreligious Dialogue and Jewish-Christian Relations», in Communio
25 (1998).

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Il Regno di Dio: centro dell’evento Gesù-Cristo


La specificità kenotica del Dio di Gesù-Cristo e la grazia preventiva ed
irrevocabile mostrata da Dio in Cristo sono due facce della stessa realtà: quella del Regno
di Dio che rimane il centro e l’essenza dell’intero evento Gesù-Cristo. Tutte le parabole e
tutte le azioni miracolose compiute da Gesù sono simboli del Regno, inaugurato con la
sua venuta (cf. Mc 1,15) e concretizzatosi per tutti attraverso il mistero della vita-morte-
resurrezione-seconda venuta di Gesù-Cristo. La manifestazione della regalità di Dio tra gli
uomini significa novità di rapporti, non più basati sul dominio, il sopruso e la violenza,
ma sulla libertà, la fratellanza, la pace, la giustizia e l’amore.
Il Regno di Dio, ovvero la centralità di Dio nella missione di Gesù, è l’orizzonte, la
prospettiva a partire dalla quale egli si rivolge, insieme, ai membri del popolo
dell’alleanza e agli stranieri, poiché «Dio non usa parzialità» (cf. Dt 10,17), «non fa
preferenze di persone» (cf. Rm 2,12).
L’episodio del centurione romano di Cafarnao (Mt 8,5-13), che va incontro a Gesù
per chiedere la guarigione del suo servo paralizzato, e del quale Gesù dice che «presso
nessuno in Israele ha trovato una fede più grande», si conclude con la solenne
affermazione che molti verranno, provenienti da oriente e da occidente, e saranno
ammessi al Regno dei cieli (cf. Mt 8,11-12). La partecipazione di tutti al Regno non è
soltanto una visione escatologica, ma anche una realtà storica, come attestato dalla
parabola del banchetto (Mt 22,1-14; Lc 14,15-24) nella quale Gesù chiede di uscire per le
strade a cercare gli invitati, che certamente rappresentano uomini e donne di religioni
diverse, così che la casa si riempia. La partecipazione di tutti al banchetto è il simbolo
della partecipazione di tutti alla salvezza. Per Gesù, conclude Dupuis:
«la fede e la conversione che conducono alla salvezza non coinvolgono un passaggio ad una
religione diversa qualsiasi, ma sono conversione al Dio della vita, dell’amore e della libertà,
cioè al Dio del Regno di Dio, di tutti gli uomini»18
Tutti i miracoli operati da Gesù nei confronti degli stranieri (Mt 15, 21-28 si
riferisce alla donna cananea) hanno lo stesso significato che nei Vangeli viene attribuito ai
miracoli: sono simboli della presenza concreta del Regno di Dio. Essi consentono a Gesù
di allargare la visione della salvezza di Dio, poiché mostrano come anche la gente fuori

18
J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 57.

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15

del recinto ebraico era capace di una fede autentica, cioè di una fede che salva: «io vi dico
che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!» (Lc 7,9). Gesù, dunque,
attraversa la frontiera che separa i Giudei dai gentili, la frontiera che ritiene la verità
salvifica racchiusa in una religione particolare, escludendone altre.19
Testimonianza eloquente dell’universalità del Regno che travalica i limiti religiosi
è senza dubbio l’episodio in cui i discepoli volevano impedire ad uno che non apparteneva
al circolo di Gesù di scacciare i demoni nel «nome di Gesù» (Mc 9,38-39). La risposta del
loro Maestro è eloquente: «chi non è contro di noi è per noi». Gesù dunque oltrepassa le
barriere di razza, cultura e religione nel corso della sua vita e nel suo stesso mistero, una
volta risorto, acquisendo oltre ad una dimensione storica anche un aspetto tran-storico (cf.
GS 22).
Degni di nota sono anche gli episodi evangelici nei quali i protagonisti
appartengono al popolo Samaritano. In Lc 10, 19-37 (la parabola del buon Samaritano) e
in Lc 17, 11-19, (la guarigione dei 10 lebbrosi) le persone appartenenti al popolo
samaritano vengono visti da Gesù come esempi e modelli di un atteggiamento di fede
autentica che certamente apre la strada al Regno. Com’è noto, al tempo di Gesù una
diatriba religiosa divideva i Samaritani dal popolo ebraico. Il monte Gazirim era per loro
il luogo dove adorare il vero Dio mentre l’universo spirituale dei giudei ruotava attorno a
Gerusalemme. Proprio tale questione è al centro del dialogo tra Gesù e la Samaritana (Gv
4) e Gesù dichiara senza mezzi termini che ogni culto, non solo straniero ma anche
giudaico, deve cedere il passo alla vera adorazione spirituale, “in spirito e verità” (cf. Gv
4,23). Questa affermazione legata a quella, altrettanto famosa, di Mt 5,17, dove Gesù
dichiara di essere venuto non per abolire ma per dare compimento, ci permette di
affermare che Gesù più che sostituire il giudaismo con un’altra religione, intendeva
rivitalizzare il vero spirito di ogni religione, mostrando una rinnovata azione/presenza di
Dio nella storia di tutti gli uomini e le donne a qualsiasi religione essi appartenessero.20
Quest’ultima affermazione ci permette di passare dal piano individuale a quello
delle tradizioni religiose, da quello dei singoli credenti a quello delle religioni in sè. In
altri termini, se è apparso chiaro ce nel pensiero di Gesù gli uomini e le donne fuori dal

19
Cfr., ibidem, 59.
20
Cfr., ibidem, 50-51.

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16

popolo dell’alleanza possono entrare nel Regno di Dio attraverso la fede e la conversione
a Dio, qual è il suo atteggiamento nei confronti delle tradizioni religiose degli stranieri? È,
cioè ipotizzabile dalla lettura dei Vangeli una netta discontinuità tra le singole persone di
altre religioni e i sistemi religiosi a cui essi appartengono. Brutalmente potremmo dire: i
primi sì e i secondi no? Naturalmente ammettere una tale dicotomia non terebbe conto di
come ogni singolo credente sia, come ogni altro essere umano, anche un essere sociale e
di come ciò che egli/ella è (ortodossia) e ciò che fa (ortoprassi) come credente è
strettamente legato alla sua specifica appartenenza religiosa.
Ma ritorniamo a Gesù. Senza dubbio egli rigettava l’ipocrisia, l’autorefenzialità e
la vuota appartenenza religiosa senza alcuna profondità spirituale. Nell’ottica del
Sermone della pianura, così come raccontato da Luca, cuore del messaggio di Gesù, la
religione falsa è qualsiasi tradizione che scambia le cerimonie esteriori per la spiritualità
interiore. Tutte le Beatitudini si configurano come una chiamata ad “interiorizzare” la
legge così che potesse diventare una forza spirituale centrata sull’amore. Diversamente,
non sembrano esserci evidenze bibliche che mostrano Gesù condannare direttamente le
tradizioni religiose in quanto tali. Inoltre, la riscoperta dell’identità profondamente
ebraica di Gesù ha mostrato come egli si recasse regolarmente nella sinagoga, come fosse
profondo conoscitore della Torah e come rispettasse tutte le festività ebraiche. Tale
posizione, profondamente dialogica del Gesù, storico non sembra molto coerente col
rifiuto cristiano sic et simpliciter delle altre tradizioni religiose in se stesse, né tanto meno
col rifiuto di dialogare con loro in maniera teologica, spesso fermandosi al solo impegno
comune per il bene del prossimo, tutto sommato non rischioso, soprattutto se tale rifiuto è
fatto a priori, senza cioè una reale conoscenza delle altre religioni.21

LA CHIESA APOSTOLICA E LE RELIGIONI


Abbiamo appena visto come l’opera del Gesù storico fosse segnata dall’ orizzonte
del Regno col corollario della sua apertura universale. Pur affermando la continuità tra la
centralità del Regno - e dunque di Dio - che fu del Gesù storico, e la centralità
cristocentrica della chiesa apostolica - poiché quel Regno divenne realmente presente
mediante la Sua morte e resurrezione - non possiamo negare, seguendo gran parte degli

21
Cfr., S.W. ARIARAJAH, The Bible and the People of Other Faiths, 33-35.

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studiosi del Nuovo Testamento, che l’origine della chiesa apostolica sia da rintracciare
nella confessione del Cristo risorto. Il kerygma apostolico sintetizzato nella formula:
«Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,36) lega
indissolubilmente il Gesù storico al Cristo risorto.
Come affermano Odasso22 e Dupuis23, l’evento della resurrezione, mediante il
quale Cristo diventa trans-storico, è la prospettiva a partire dalla quale la nascente
comunità cristiana configura la propria identità religiosa e, di conseguenza, quella
dell’intera umanità. Da questa realtà scaturiscono due conseguenze per il dialogo: 1. La
fede nella resurrezione consente al Gesù che ha trasceso la storia divenendo il Cristo della
fede di essere il paradigma dell’esistenza del cristiano; 2. La partecipazione alla
resurrezione di Cristo non rimane esclusivamente all’interno della Chiesa, ma raggiunge
tutti gli uomini che si aprono a Dio nell’interiorità del loro cuore e nella concretezza
esistenziale-storica delle loro religioni (cf. GS 22). Di conseguenza, la missione profetica
della chiesa (punto 2) è quella di cogliere nel paradigma di Gesù-Cristo risorto i valori
fondamentali che caratterizzano ogni autentica esperienza del divino. Tale discernimento
significa dialogare profondamente con le tradizioni religiose dei popoli, rimanendo
coscienti che la partecipazione di tutti all’evento trascendente del Signore risorto non si
esaurisce certo nella storia, né s’identifica necessariamente nella crescita numerica della
comunità cristiana.
La Legge scritta nei cuori
Nel capitolo 2 della lettera ai Romani Paolo dimostra l’universalità della potenza salvifica
della resurrezione di Cristo che raggiunge anche i gentili in quella che è la vera e propria
«nuova alleanza». Si tratta della «legge iscritta nei cuori» (Rm 2,14-16). Anche se non
hanno ricevuto la rivelazione della Torah come i giudei, i pagani naturalmente agiscono
secondo la legge poiché la legge è scritta nei loro cuori, come risulta dalla loro coscienza
e dai loro stessi ragionamenti. La legge iscritta nei loro cuori è l’amore, l’agape del
Nuovo Testamento. Essa richiama, anche stilisticamente la «nuova alleanza» di Ger.
31,31-34 dove si dichiara che Dio scriverà la sua legge sul cuore degli uomini. Quali
sono le conseguenze per il dialogo interreligioso?

22
G. ODASSO, Bibbia e religioni, 289.
23
J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 71-73.

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La prima conseguenza del testo paolino è l’impossibilità di considerare l’espressione


legge scritta nei loro cuori rivolta ai gentili nel senso della legge naturale24. Si tratta
dunque, alla luce della Bibbia, di rivedere il concetto di «religione naturale», frutto dello
sforzo umano verso Dio, rispetto a quella sopranaturale, segnato dall’iniziativa di Dio
(rivelazione). Stoeckle nel suo studio sulle religioni del mondo osserva giustamente:
«non è lecito interpretare la peculiarità delle religioni extrabibliche di fronte alla religione
biblica dell’Antico e del Nuovo Testamento, basandosi sulla differenziazione teoretico-astratta
tra conoscenza naturale e soprannaturale (in senso tradizionale) di Dio. Poiché è propria della
creazione, sulla base del suo “essere progettata per Cristo”, un’originale finalizzazione
soprannaturale; in ciò che le religioni pagane rinviate al cosmo offrono di valori umani
significativi […] vi si esprime […] vera grazia di Cristo, genuina comunicazione
soprannaturale di salvezza»25
La seconda conseguenza, come ci ricorda Odasso, è la giustificazione teologica al dialogo
interreligioso inteso nel senso della reciprocità:
«Se lo Spirito di Cristo è presente nell’uomo che cerca il Signore, se le diverse religioni, con i
loro modi di agire e di vivere, con i loro precetti e le loro dottrine, “non raramente riflettono
un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini (Nostra Aetate, n. 2), appare chiaro che
anche i cristiani possono trovare, nel modo in cui gli appartenenti ad altre religioni professano
e vivono la propria dimensione religiosa, interpellanze ed esperienze che orientano ad una
comprensione più illuminata e a una testimonianza maggiormente genuina della propria
fede»26
Al Dio ignoto
Un altro brano significativo è il discorso di Paolo nell’Aeròpago di Atene (At 17, 22-31).
Il testo permette di cogliere il valore positivo di ogni esperienza umana. Tale esperienza
viene addirittura caratterizzata dall’apostolo dal verbo “cercare” (v.27). Il riferimento al
filosofo greco Efimenide (IV sec. a.C.) quando dice: «in lui viviamo, ci muoviamo ed
esistiamo» (v.28) equivale al riconoscimento che nella tradizione greca (stoica e
platonica) c’è una genuina «ricerca di Dio». L’esplicito riferimento al verbo “cercare

24
G. ODASSO, Bibbia e religioni, 323.
25
B. STOECKLE, «L’umanità “extrabiblica” e le Religioni del mondo», in Mysterium
Salutis, 4, 877.
26
G. ODASSO, Bibbia e religioni 333-334. [corsivo nostro]. Si veda anche J. DUPUIS, Il
Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 78.

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Dio” si comprende nella sua profondità se si considera che esso nella tradizione biblica è
il culmine del cammino di fede compiuto da Israele. Si tratta della ricerca della
rivelazione stessa poiché, in definitiva, Dio si rivela per essere cercato. Non siamo
dunque nel campo della mera ricerca naturale di Dio, quanto piuttosto in quello della vera
e propria ricerca di fede, ovvero della ricerca salvifica. Essa, alla luce di At 17, si estende
all’esperienza religiosa umana non solo considerata individualmente ma anche nella
dimensione sociale, poiché l’esperienza religiosa singola è vissuta all’interno di una
religione, di una socialità. A riprova dell’intrinseca relazione tra le due dimensioni
religiose, individuale e sociale, Paolo al v. 23b va riferimento all’annuncio del Dio ignoto
da fare ai singoli uditori mentre al v. 26 si riferisce alle «nazioni degli uomini».
La seconda parte del discorso (vv.30-34) evidenzia invece una discontinuità tra le
religioni e la fede cristiana. Si tratta della prospettiva apocalittica di chi ha fede nella
resurrezione. Proprio l’evento della resurrezione fonda l’annuncio cristiano, così come
condensato nei vv. 30-31. Si tratta, comunque, di una missione profetica nel senso che il
riconoscimento della dimensione trascendente della resurrezione non consente alla Chiesa
d’identificarsi col Regno di Dio. Anche se i cristiani partecipano della resurrezione di
Cristo, tale partecipazione è solo iniziale, poiché sono ancora in questo mondo. Chiamata
a testimoniare il Vangelo della resurrezione, la Chiesa è contestualmente chiamata a
discernere i valori presenti nel cammino religioso dell’umanità. In questo spazio il
dialogo interreligioso si configura quale luogo privilegiato di ricerca e di discernimento.
Dio non fa preferenze di persone
Un altro episodio significativo è quello di Pietro che si reca dal centurione romano
Cornelio (At 10, 1-48). Cornelio è un uomo timorato di Dio con tutta la sua famiglia,
anche se si tratta di un romano. Le sue preghiere sono state ascoltare dal Signore che in
una visione gli comunica che Pietro verrà a fargli visita nella sua casa di Cesarea.
Cornelio dunque manda degli uomini nella città di Giaffa, dove si trova Pietro, per
portarlo a Cesarea. Nel frattempo Pietro ha una visione che cambia completamente il suo
modo di vedere l’opera di Dio e la partecipazione dei pagani nel piano di Dio per la
salvezza. Si tratta di una vera e propria conversione, tanto che il brano più che la
conversione di Cornelio, dovrebbe essere chiamato la conversione di Pietro! Al centro
della visione c’è la voce del Signore che ricorda a Pietro che tutto quello che è stato da

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20

Lui purificato non può essere considerato immondo (v.15). Quest’esperienza si rivela
fondamentale quando Pietro entra nella casa di Cornelio - gli ebrei non potevano entrare
nelle case dei non-ebrei - e gli fa dire, in una versa e propria confessione di fede: «Dio mi
ha mostrato che non si deve dire profano e immondo nessun uomo» (v. 28). Più in là in
maniera decisiva afferma: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di
persone (e qui il richiamo è al famoso principio di Dt 10,17, confermato da Rm 2,11), ma
chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (vv. 34-
35).
Quali sono le conseguenze per il dialogo interreligioso?
Sopra parlavamo della conversione di Pietro. Pietro capisce che le religioni non
possono ingabbiare Dio che rimane sempre libero di agire come meglio crede. Lasciare
che Dio sia Dio, questa è la conversione di Pietro. I problemi nascono quando le
religioni si considerano assolute.
La seconda lezione che Pietro impara riguarda l’accesso diretto che Dio ha con le
persone. Non è detto che abbia bisogno della nostra mediazione.
La terza lezione è la santità di Cornelio, le cui preghiere sono ascoltate da Dio, e come
attraverso la santità di questo romano Pietro approfondisce la propria fede. Il confronto
con la santità e la fede di un musulmano o di induista può essere fonte di arricchimento
per il nostro cammino di fede, come cristiani?
L’ultimo aspetto attiene nuovamente all’impossibilità teologica di considerare queste
esperienze religiose quali mere espressioni dello sforzo umano verso Dio, ovvero
religioni naturali. Si tratta di cristalizzazioni di esperienze religiose con al loro interno
elementi soprannaturali. Cornelio anche prima di diventare discepolo di Cristo
attraverso il battesimo godeva di una relazione speciale con Dio ed è stato Pietro a
dover imparare quella lezione!
affermazioni non esclusioni!
Tutto quello che abbiamo detto non esclude certo la specificità costitutiva di Gesù-
Cristo quale salvatore universale dell’umanità, solamente ci immunizza da una lettura
esclusivista delle altre religioni e dalla tendenza a considerare il dialogo come
pericoloso per la fede. In tale contesto, sembra significativo confrontarsi con alcuni

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21

testi che spesso vengono citati per evidenziare la mancanza di fondamento biblico
relativamente al dialogo.
Cominciamo dal testo di At 4,12 «in nessun altro nome c’è salvezza». Il
problema di questo testo è che spesso viene preso fuori dal contesto originario per poi
essere proiettato come verità a-temporale fuori da ogni contesto storico. Il contesto
originario non è quello del rapporto tra la nascente religione e le altre religioni extra-
giudaiche quando invece quello della polemica intra-giudaica tra le autorità religiose
giudaiche del tempo che detenevano il potere e il nascente culto, che non si chiamava
ancora cristiano, che invece si opponeva a quel potere. All’interno del conflitto politico
e religioso intra-giudaico, Pietro e Giovanni sono chiamati in giudizio davanti al
sinedrio (At 4,5-6); è la parte più potente che chiede ai due discepoli di giustificare il
loro comportamento. Sembra davvero una forzatura far derivare da questo testo una
teologia cristiana che escluda ogni altra religione a partire dalla formula «nessun altro
nome».
Il testo di (1 Tim 1-6), dove si parla dell’uomo Cristo-Gesù come «solo mediatore»,
rappresenta, secondo Dupuis, l’affermazione matura della chiesa apostolica del ruolo
insostituibile del Cristo risorto per la salvezza dell’umanità.27 Il contesto è quello della
preghiera che Paolo rivolge a tutti, compresi i pagani. La realtà fondamentale che
l’apostolo propone è la volontà salvifica universale di Dio (grazia). Essa è la realtà
assoluta costitutiva della salvezza, connessa al tema “dell’imparzialità di Dio” (Dt
10,17; At 10,34; Rm 2,11).
In questo senso la funzione di mediatore (mesites) del Cristo risorto poggia su
di essa, ne è l’espressione concreta, il sacramento efficace ed operativo, senza che
quest’affermazione, che dice qualcosa di profondo e decisivo sul Dio di Gesù-Cristo,
possa essere intesa come esclusiva di altre figure salvifiche. Affermare una cosa di
Gesù-Cristo non significa escludere altre mediazioni, sia pur partecipate28. In questa
direzione sembra andare anche il testo originale greco che non dice «uno solo il
mediatore fra Dio e gli uomini», ma, omettendo il fra, afferma: «uno solo il mediatore
di Dio e degli uomini» (mesitês theou kai anthropon). In questa maniera Gesù-Cristo

27
J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 90.
28
LG, 62; RM, 5; DI 14.

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22

diventa il solo mediatore non perché è in assoluto l’unico, ma perché e il solo che
contestualmente è mediatore di Dio, perché è Dio, e mediatore dell’uomo, perché è
veramente umano, proprio come la tradizione intende il mistero delle due nature
nell’unica persona e senza che questo infici la possibilità di altri mediatori. In altri
termini, quello che è specifico nella funzione mediatrice di Gesù-Cristo è la sua
capacità di essere il solo Dio-uomo29.
La stessa affermazione di Gesù in Gv 14,6: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno
viene al Padre se non per mezzo di me» svela qualcosa di Gesù, ma questo non esclude
altre figure salvifiche. In particolare, Gesù mostra la via filiale verso il Padre, ma ciò
non esclude altre vie o altre figure salvifiche nel senso delle «mediazioni partecipate»
di Redemptoris Missio n. 5 e Dominus Iesus n.14.

CONCLUSIONE
A conclusione della sua analisi biblica, Dupuis individua tre osservazioni basilari
che confermano l’alternanza tra universalismo e particolarismo di cui parlavamo
all’inizio. Esse sono decisive soprattutto nell’orientare la lettura biblica delle religioni, il
pensiero di Gesù e quello della chiesa nascente.
1. Astenerci da una lettura direttamente ed esclusivamente ‘cristiana’ dei vangeli: il
discorso della Montagna, così caro a Gandhi, non può leggersi solo come la Magna Carta
dei cristiani quanto piuttosto come la Magna Carta del Regno di Dio, che come tale è
aperta a tutti;
2. Considerare le asserzioni bibliche come affermazioni e non come esclusioni: nella
chiesa delle origini proclamare Gesù come “il Figlio unigenito di Dio” aveva lo scopo di
dire qualcosa su di lui non quello di dire qualcosa di negativo sul Buddha;
3. Evitare di considerare il valore delle altre tradizioni religiose solo in termini ‘naturali’
(Rm 1,20), ma superare il paradigma del compimento, rinvenendo in esse i “doni
soprannaturali elargiti da Dio”30.

29
Cfr., J. KUTTIANIMATTATHIL, Jesus Christ Unique and Universal, KJC Publication,
Bangalore
30
J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 93-95. La
conclusione di Dupuis tiene conto dello studio di Odasso secondo cui: «che le religioni
siano altrettante espressioni del disegno di Dio è un dato ormai acquisito, proprio perché esse,

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23

4. Evitare di considerare i testi biblici come contrari al dialogo tra le religioni.


Diversamente il principio dialogico è il cuore, l’orientamento fondamentale delle
Scritture. Di più, la via maestra del dialogo passa attraverso una conoscenza delle
potenzialità dialogiche del testo biblico e dal suo confronto con testi di altre religioni in
un’ottica di mutua illuminazione nell’autenticità della propria identità31.

IL CAMMINO STORICO FINO AL CONCILIO VATICANO II


Nei primi tre secoli della storia cristiana i Padri della chiesa preservarono la
dimensione della presenza salvifica universale di Dio attraverso la concretezza del
simbolo del Lógos spermatikós. L’intuizione giovannea di coniugare nel Lógos l’aspetto
personalistico giudeo a quello cosmico d’ispirazione ellenistica rappresenta la radice della
teoria della progressiva manifestazione del Lógos divino, così come elaborata da Giustino,
da Ireneo e da Clemente di Alessandria. Dupuis sintetizza in quattro punti la teoria di
Giustino sul Lógos seminatore che si pone quale principio dinamico dell’intera creazione:
a) esistono tre tipi di consapevolezza religiosa: quella delle nazioni, quella ebraica e quella
cristiana; b) la fonte di tale consapevolezza è unica: il Lógos; c) l’influenza e l’intervento
del Lógos si estende a tutto il cosmo e a tutti gli uomini, anche se in maniera differenziata:
diviene più incisivo con Israele, si completa solo con l’incarnazione in Gesù, ma è
presente ovunque; d) tutti coloro che vivono secondo coscienza in maniera retta
partecipano del Lógos e fanno esperienza della Verità32. La visione di Ireneo, fondatore
della teologia della storia, considera tutte le manifestazione, a partire dalla creazione di
Dio, come Logo-fanie33. L’ordine della creazione non è che la prima fase della
manifestazione di Dio attraverso il Lógos; ad essa segue l’economia (dispensationes =
oikonomías) giudaica e poi quella cristiana, senza che questa progressione a spirale
offuschi la novità dell’evento Cristo, poichè l’assunzione della carne umana esprime la
decisività del Padre di essere presente nella storia, e senza che essa fagociti le precedenti

come risulta dalle prospettive dell’Antico e del Nuovo Testamento, sono sulla terra un dono di
Dio a tutte le genti e perciò, segno della presenza salvificamente operante della Sapienza», G.
ODASSO, Bibbia e religioni. Prospettive bibliche per la teologia delle religioni, 372,
come citato da ibidem, 95.
31
Cfr., G. ODASSO, Bibbia e religioni, 374-378.
32
J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro,, 281-284.
33
IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, IV, 20, 7, (PG 7, 1037).

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24

economie34. Clemente alessandrino segue Ireneo nel considerare ogni manifestazione del
Padre come Logo-fanica e pur parlando di un’intuizione naturale di Dio presso tutti gli
uomini e dell’azione del Lógos come capace d’introdurre nei segreti di Dio, considera
quest’ultima più vasta della tradizione ebraico-cristiana. La filosofia greca e l’economia
ebraica sono entrambe delle alleanze (diaqh/kh) pensate per condurre a Cristo35 e ciò è
valido anche per le filosofie orientali, dove ci sono i gimnosofisti chiamati Sarmani e
Brahmani36.
Purtroppo a partire dal IV secolo e fino al XVI secolo la dimensione universale
cadde progressivamente nell’oblio. Tracce di questo progressivo offuscamento possono
già notarsi però a partire dalla fine del II secolo. Ignazio di Antiochia (35-107 d.C.), nel
pieno della polemica gnostica, identifica i cristiani come figli della vera luce rispetto agli

34
J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 284-288.
35
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromati, VI, 8, (PG 9, 283-292).
36
Ibidem, I,15, (PG 8, 767-784). Nel pensiero di Dupuis il significato di Lógos utilizzato
da questi primi pensatori cristiani, seguendo il prologo giovanneo, tiene insieme
l’intuizione stoica di principio d’intelligibilità (ragione) della creazione, del mondo e
della storia e quello biblico della Parola di Dio (dâbâr) presente fin dall’inizio, trovando
la sua definitività nella personificazione di quel Verbo eternamente presente presso Dio.
Questo rappresenta per l’autore belga un invito dei Padri della chiesa ad affermare una
presenza del Verbo di Dio anche al di fuori della tradizione ebraico-cristiana, ed anche
successivamente alla venuta dell’evento storico di Gesù Cristo, poichè il ruolo
provvidenziale di queste ‘filosofie’ non può ritenersi esaurito fin quanto le singole
persone non fossero state “esistenzialmente” interpellate dal Vangelo. Proprio per tale
motivo il simbolo del Lógos spermatikós non può ridursi ad una conoscenza naturale di
Dio da parte dell’uomo, come gran parte della riflessione teologia successiva ha
affermato, ma deve comprendere la stessa presenza e azione universale del Verbo di Dio
che si auto-comunica a tutti gli uomini. Tutto questo, conclude il gesuita belga, permette
di scoprire un valore positivo delle religioni nell’ordine della salvezza secondo il piano
divino per l’umanità il cui centro rimane sempre l’evento Gesù-Cristo, J. DUPUIS, Il
Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 291-295; Geffrè conferma
l’interpretazione del gesuita belga circa il valore teologico dei semina Verbi, C. GEFFRÈ,
«La parola di Dio delle altre tradizioni religiose», in Concilium 46, 2 (2010), 48;
diversamente per D’Costa quella stessa dottrina dei semina Verbi è vista,
nell’interpretazione del Concilio Vaticano II, come la conferma del principio tomista
gratia non tollit naturam sed perficit con la conseguenza che non può parlarsi di valore
salvifico delle altre religioni, stante la loro “naturalità”, G. D’COSTA, The Meeting of
Religions and the Trinity, Orbis Book, Maryknoll New York 2000, 104;

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scismatici che non erediteranno il Regno di Dio37 e Origene (185-254 d.C.), pur
rifacendosi alla teologia del Logos universale di Giustino, non risparmia occasione per
ricordare che la salvezza è solo nella chiesa38. Sarà con Cipriano (210-258 d.C.), vescovo
di Cartagine, che l’assioma extra ecclesia nulla salus entrerà di prepotenza nella tribolata
storia delle persecuzioni dei cristiani da parte dei romani; tutti i cristiani che si erano
allontanati dalla Chiesa, sia essi scismatici o eretici non potevano arrivare alla salvezza.
Sullivan39, nella sua ricerca sulla storia del famoso assioma, dichiara che non esistono
scritti di Cipriano che estendono l’extra ecclesia ai pagani del suo tempo.
Sarà Agostino, sull’onda emotiva delle invasioni barbariche, che cominciò a considerare
la grazia di Dio presente solamente all’interno della chiesa40 ed il suo allievo Fulgenzio di
Ruspe non esitò ad estendere l’adagio extra ecclesia nulla salus, anche agli ebrei e a tutti
i pagani41. Tale rigida interpretazione dell’assioma che prevedeva l’adesione di fede

37
Ecco il testo della lettera: “State lontani dalle erbe cattive che Gesù Cristo non coltiva,
perché non sono piantagione del Padre. Non ho trovato divisione in mezzo a voi, ma selezione.
Quanti sono di Dio e di Gesù Cristo, tanti sono con il vescovo. Quelli che pentiti rientrano
nell’unità della Chiesa saranno di Dio perché vivono secondo Gesù Cristo. Non lasciatevi
ingannare fratelli miei. Se qualcuno segue lo scismatico non erediterà il regno di Dio. Se
qualcuno marcia nella dottrina eretica egli non partecipa della passione di Cristo.” [Lettera ai
Filadelfiesi 3,3 (Ignazio di Antiochia)].
38
Ecco cosa scrive nell’Omelia a Giosuè: extra hanc domun, id est extra ecclesiam,
memo salvatur [PG 12, 841-842].
39
F. A. SULLIVAN, Salvation outside the Church? Tracing the History of the Catholic
Response, Paulist Press, New York 1992, 22-23.
40
P.F. KNITTER, Introduzione alle teologie delle religioni, 138; J. DUPUIS, Towards a
Christian Theology of Religious Pluralism, 90-91. Eloquente quest’affermazione del De
Spiritu et littera:
«Dio poi vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità, ma senza
togliere tuttavia ad essi il libero arbitrio, del cui uso buono o cattivo saranno giudicati con
assoluta giustizia. Usando male del libero arbitrio, gli infedeli che non credono al Vangelo
agiscono certo contro la volontà di Dio, ma non per questo vincono contro di essa: piuttosto
privano se stessi di un grande e sommo bene e si condannano a mali punitivi, destinati come sono
a sperimentare nei castighi la potenza di colui del quale hanno disprezzato la misericordia nei
doni». [De Spiritu et littera (33,58)]. Secondo Theisen: «Augustine transmits to the Middle
Ages a rather exclusivist understanding of the adage Extra ecclesiam nulla salus […] Union with
the church is conceived rather rigidly; it is required for the reception of the Holy Spirit and eternal
life», J.P. THEISEN, The Ultimate Church and the Promise of Salvation, St. John’s
University Press, Collegeville Minnesota 1976, 16.
41
«Non dubitare in nessun modo che non solo tutti i pagani, ma anche tutti gli ebrei e tutti gli
eretici e scismatici che terminano la vita fuori dalla chiesa cattolica andranno “nel fuoco eterno
preparato per il diavolo e per i suoi angeli”», FULGENZIO DI RUSPE, Le condizioni della
penitenza. La fede, Città Nuova, Roma 1986, 170-171, come citato da P.F. KNITTER,

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esplicita a Cristo attraverso la chiesa, divenne parte della dottrina ufficiale con il concilio
Lateranense IV del 121542, la Bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII del 130243 e il
concilio di Firenze del 144244.
La presunzione assoluta di colpevolezza dei pagani e degli ebrei nel non voler diventare
cristiani, basata sul presupposto che oramai il vangelo fosse stato annunciato a tutto il
mondo, si sciolse come neve al sole all’indomani della scoperta dell’America del 1942 ed
inaugurò una nuova prospettiva teologica centrata sulla sufficienza della fede implicita. Si
trattava della teoria della salvezza degli infedeli, ovvero dei singoli credenti che senza
colpa non avevano sentito parlare di Cristo, considerati dunque nella sola dimensione
individuale. Fu così che il concilio di Trento (1545-1563), sulla spinta della riflessione
teologica di Bellarmino e Suárez, fece propria la dottrina del battesimo di desiderio:
seguire nella propria coscienza i dettami di Dio e vivere moralmente erano segni di un
desiderio implicito di unirsi alla chiesa45, per poi definitivamente abbandonare
l’interpretazione esclusivista dell’antico assioma con la lettera del sant’Uffizio
all’arcivescovo di Boston, sotto il pontificato di Pio XII, del 194946. Tale prospettiva
individualista, centrata sulla possibilità di salvezza o meno dei membri delle altre
religioni, come se ciò accadesse privatamente, rimase, salvo pochissime eccezioni47,
invariata fino ai decenni che precedettero il Concilio Vaticano II (1962-1965). In altre
parole, come ricorda Rossano, il clima del Concilio e gli anni che lo precedettero, fecero

Introduzione alle teologie delle religioni, 139; sullo stesso punto si veda J. DUPUIS,
Towards a Christian Theology of Religious Pluralism, 92; ID, Il Cristianesimo e le
religioni. Dallo scontro all’incontro, 377.
42
DH 802.
43
DH 870; 872; 875.
44
DH 1351.
45
DH 1524.
46
DH 3866-3872.
47
Il riferimento è a Nicola Cusano (1401-1464). Stupefacente quest’affermazione del De
pace fidei: «C’è una sola religione, un unico culto, quello di tutti coloro che vivono secondo i
principi del Logos-ragione; questa religione unica è soggiacente alle differenti pratiche religiose
[…]. Ogni culto degli dèi testimonia in favore della divinità», come citato in J. DUPUIS, Gesù
Cristo incontro alle religioni, 187. Per un approfondimento in chiave dialogica della
figura del grande pensatore di Coblenza si veda: J. RIES, Opera Omnia vol. I/2. Incontro e
Dialogo. Cristianesimo,religioni e cultura, Jaca Book Milano, 2009, 3-12. Altra figura
importante è Raimondo Lullo (1233-1316). Per un approfondimento si veda: ID, Opera
Omnia vol. I/I. I Cristiani e le religioni. Dagli Atti degli Apostoli al Vaticano II, Jaca
Book, Milano 2006, 250 - 253.

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maturare prospettive nuove, ovvero una valutazione teologica delle religioni in sé si


profilava come inevitabile: era la nascita delle teologie delle religioni48. In ambito
cattolico, prima e durante il Concilio Vaticano II, proprio in relazione alla valutazione
delle religioni in quanto tali, si profilarono due interpretazioni divergenti. La prima, nota
come “teoria del compimento”, considerava le religioni dell’umanità come l’aspirazione
innata dell’uomo ad unirsi col divino, di cui le religioni erano le diverse espressioni
culturali. La seconda vedeva nelle religioni dell’umanità degli interventi specifici, anche
se iniziali ed imperfetti, di Dio nella storia della salvezza. In altre parole, se nello schema
della praeparatio evangelica (prima interpretazione) le religioni rimanevano espressioni
diversificate dell’homo naturaliter religiosus e solo il cristianesimo, godendo
dell’iniziativa di Dio, poteva dirsi religione soprannaturale, nella teoria “della presenza
nascosta di Cristo” (seconda interpretazione) nessuna religione poteva dirsi naturale
poiché animata dalla presenza divina ed orientata a Cristo49. In definitiva, il primo
orientamento pur riconoscendo alcuni valori positivi alle altre tradizioni religiose,
rimaneva fondato sulla relazione orizzontale tra le diverse religioni con al centro il
cristianesimo con la conseguenza che nessun concorso alla salvezza poteva essere
riconosciuto alle altre tradizioni religiose. Viceversa, il ri-centramento cristologico del
secondo orientamento, ponendo le religioni in rapporto verticale col mistero di Cristo, era
compatibile con una partecipazione di tutte all’unico mistero, anche se in maniera
asimmetrica rispetto al cristianesimo. L’accenno alla soluzione che si raggiunse a
conclusione del concilio rappresenta il ponte ideale per cogliere la terza prospettiva aperta

48
«In particolare di fronte all’emergere delle religioni del mondo i cristiani cominciavano a
interrogarsi non più tanto sulla possibilità di salvezza di chi non è cristiano […] ma sul valore
salvifico di quei complessi socio-culturali che sono le religioni dell’Asia e dell’Africa», P.
ROSSANO, Dialogo e annuncio cristiano. L’incontro con le grandi religioni, 113. Sulla
stessa linea Dupuis afferma come: «A partire dagli anni cinquanta […] andarono
sviluppandosi diverse teorie che proponevano una problematica non più esclusivamente
individualista [salvezza degli infedeli], ma socialmente orientata. Il problema non si limitava più
alla salvezza individuale delle singole persone che non erano membri della chiesa, ma a quella del
riconoscimento di valori positivi nelle tradizioni stesse che, […], potessero influenzare la
salvezza personale dei loro membri», J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo
scontro all’incontro, 20.
49
J. DUPUIS, Gesù Cristo incontro alle religioni, 173-179; ID, Il Cristianesimo e le
religioni. Dallo scontro all’incontro, 96-100.

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dagli studiosi successivamente al concilio stesso50. Essa si muove nella direzione di una
teologia interreligiosa che allargando la prospettiva rispetto al cul-de-sac della salvezza o
meno delle religioni, assume come orizzonte il pluralismo di principio51 e come metodo

50
Secondo Dupuis non è possibile affermare in maniera definitiva quale fu la scelta del
Concilio Vaticano II in merito ai due orientamenti; l’andamento ondivago riflette senza
dubbio l’importanza e la delicatezza dell’argomento, ma anche la difficoltà di prendere
una posizione netta a favore dell’una o dell’altra soluzione. In tale empasse il Concilio
scelse saggiamente di rimettere la problematica alla ricerca teologica. Detto ciò, continua
il teologo gesuita, se la prospettiva cristocentrica trova spazio, senza alcuna esitazione,
nel caso della salvezza delle singole persone (cfr. LG 16; GS 22) essa viene totalmente
oscurata dalla relazione orizzontale tra il cristianesimo e le religioni una volta che si tocca
il nodo del loro significato teologico: lo stesso titolo della dichiarazione Nostra Aetate
“sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane” ne è la prova più eclatante,
cfr., J. DUPUIS, Gesù Cristo incontro alle religioni, 130-131; Nel pensiero di Geffrè,
invece, il risultato del Vaticano II sembra più facilmente leggibile: si tratta di un
superamento dell’antica teologia della salvezza degli infedeli, centrata sulla dimensione
individuale, per arrivare al piano della positività storica delle religioni, cfr., C.GEFFRÈ,
Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia, 113-114; contrariamente al
dominicano francese, il teologo anglo-indiano D’Costa afferma chiaramente che il
concilio si rifiutò di considerare le religioni vie di salvezza e rimbrotta Knitter per la
facilità con la quale afferma che la maggioranza dei teologi cattolici interpreta
l’insegnamento conciliare in senso positivo, G. D’COSTA, The Meeting of Religions and
the Trinity, Orbis Book, Maryknoll New York 2000, 101-105; lo stesso Rahner,
principale artefice durante quegli anni dell’orientamento cristocentrico, ritiene che il
Vaticano II abbia lasciato indeterminata la qualità propriamente teologica delle religioni
non cristiane, K. RAHNER, Dio e rivelazione. Nuovi Saggi 7, Paoline, Roma 1981, 425-
426. Interessante, infine, ci sembra l’argomentazione di Colzani secondo cui la qualità
teologica delle religioni nel concilio deve inquadrarsi a partire dalla dottrina dei semina
Verbi e che l’esitazione dei Padri conciliari a trarre conclusioni definitive riflette proprio
la diversa percezione sul valore teologico degli stessi. In altre parole, conclude Colzani
«la questione teologica delle religioni non cristiane non è risolta dal concilio; pur chiarendo
alcuni punti fermi, questo problema è consegnato alla teologia», G. COLZANI, Missiologia
contemporanea. Il cammino evangelico delle Chiese: 1945-2007, 259-260.
51
Secondo Dupuis: «Non basta più chiedere se e che cosa le tradizioni religiose abbiamo a che
fare con il mistero della salvezza in Gesù Cristo dei loro membri [teologie cristiane delle
religioni]. Più in profondità, ci si chiede quale significato positivo abbiamo le tradizioni religiose
stesse nell’unico piano globale di Dio per la salvezza [teologie cristiane del pluralismo
religioso]», J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 21.
[parentesi nostre]; in maniera più diretta, il dominicano Geffrè, a commento della
dichiarazione Dominus Iesus, prende le distanze, in continuità con la dichiarazione, dalle
derive teologiche che mettono in discussione l’unicità e l’universalità del mistero di
Cristo, ma ritiene increscioso che la dichiarazione condanni i teologi che distinguono un
pluralismo di fatto e uno de jure, poichè, conclude l’autore, si tratta di un’ipotesi
teologica feconda non legata necessariamente alle negazioni delle verità enumerate al n. 4

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quello induttivo, frutto della svolta ermeneutica e contestuale52, ovvero interculturale e


interreligiosa. Se ci si pone nell’orizzonte di scoprire quale può essere il contributo di ogni
religione al piano di Dio, non si tratta più solo di elaborare uno schema teologico a
tavolino che permetta poi di dialogare. Diversamente, la riflessione teologica nasce anche
nell’incontro con l’altro: non più solo una teologia per il dialogo, ma anche una teologia
in dialogo quali momenti insopprimibili ed inconfondibili di un unico processo di
avvicinamento creativo e reciprocamente illuminate al religiosamente altro.
***

della dichirazione stessa., C.GEFFRÈ, Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della


teologia, 9. Lo stesso autore, successivamente, specifica il suo pensiero in questo senso:
«[…] teologi eminenti come Edward Schillebeecks e Jacques Dupuis non esitano a parlare, a
partire dall’esperienza storica di un pluralismo religioso di fatto, di un pluralismo di principio. È
preferibile evitare di parlare di un pluralismo di diritto o de jure come se Dio condonasse le gravi
ambiguità di molte tradizioni religiose. Ma teologicamente è lecito comprendere il pluralismo di
principio nel senso di un volere misterioso di Dio che cerca di salvare gli essere umani a partire
dai valori positivi delle religioni del mondo.», ID., «La parola di Dio delle altre tradizioni
religiose», in Concilium 46, 2 (2010), 47.
52
J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 28-35.

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