Sei sulla pagina 1di 29

I volumi di questa collana sono stati curati dal «Dicastero per l’Evangelizzazione.

Sezione per le
questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo».

© 2022, by Dicastero per l’Evangelizzazione. Sezione per le questioni fondamentali


dell’evangelizzazione nel mondo

1
2
La rivelazione come Parola di Dio
(DV 1-5)

Rino Fisichella

3
INDICE

Capitolo 1: La Parola di Dio


Dio parla
Dio si rivela
Gesù, il compimento della rivelazione

Capitolo 2: Parola scritta


L’unica fonte
La Parola entra nelle culture

Capitolo 3: La risposta alla Parola di Dio


L’ascolto
La triplice risposta

Capitolo 4: La Parola di Dio corre


La corsa
L’evangelizzazione

Dei Verbum 1-5

4
CAPITOLO 1
LA PAROLA DI DIO

Quando il 18 novembre 1965 i 2.350 vescovi presenti al Concilio furono chiamati a


esprimere il loro giudizio definitivo erano ben coscienti che si trattava di un momento storico. La
Costituzione che dovevano votare aveva la qualifica di ‘dogmatica’ e impegnava ciascuno di loro in
maniera del tutto particolare perché il contenuto di quel documento toccava il cuore stesso della
fede e il fondamento della vita della Chiesa. Il testo in questione era stato presentato subito agli inizi
del Concilio, ma la redazione proposta non aveva affatto accontentato gran parte dei vescovi. Erano
seguite nel corso dei tre anni almeno otto redazioni fino a giungere allo schema finale che quel
giorno i vescovi avevano tra le mani. Il cammino fatto aveva recepito le loro istanze e ora
finalmente la Dei Verbum attendeva l’esito finale. Fu un autentico plebiscito. I voti a favore,
“placet” nel linguaggio rigorosamente latino, furono 2.344, mentre i contrari, “non placet”, solo 6.
Papa Paolo VI con la sua autorità promulgò la costituzione dogmatica che, come da consuetudine
per i testi del Magistero, prese il nome dalle sue due prime parole Dei Verbum, la Parola di Dio.
Si può affermare realmente che da quel momento prese avvio un autentico cambio di marcia
non solo per la teologia, ma soprattutto per la vita dei cristiani. Senza alcuna esagerazione, i vescovi
avevano prodotto il più bel documento del Concilio che ancora oggi a distanza di decenni affascina
e suscita continuamente nuove reazioni quando si entra sempre più nella profondità dei suoi
contenuti. Le novità che venivano alla luce erano talmente numerose che solo il passare degli anni
consente di verificare con coerenza quanto sia stato recepito e quanto ancora manca di essere
espresso, senza dimenticare ovviamente alcuni limiti che ogni testo prodotto da mani umane porta
con sé. Riflettere sulla Dei Verbum, quindi, equivale di fatto a ripercorrere l’intera storia del
concilio Vaticano II. Dopo circa cento anni dal precedente Concilio, il Vaticano I, si realizzava
decisamente un grande passo in avanti che portava a compimento decenni di studi e di
approfondimenti dei temi fondamentali della fede. Per queste ragioni, non si sbaglia affermando che
l’ultima costituzione approvata dal Vaticano II diventa il fondamento e l’orizzonte su cui leggere e
interpretare l’intero insegnamento conciliare. In forza di questo documento si può sostenere che i
credenti hanno riscoperto il vero volto di Dio e hanno ritrovato la familiarità con la Sacra Scrittura.
Queste due condizioni, infatti, sono necessarie per dare intelligente testimonianza della fede nel
mondo contemporaneo, e soprattutto per alimentare in modo coerente l’opera di evangelizzazione
quanto mai urgente in questo frangente storico.
5
Se si vuole conoscere l’evento della rivelazione cristiana, pertanto, è necessario accostarsi
alla Dei Verbum. La Costituzione entra direttamente nella complessa tematica di come sia possibile
che Dio si faccia conoscere e in quale modo comunichi sé stesso. Affronta i contenuti fondamenti
della trasmissione della fede, dell’ispirazione della Sacra Scrittura e della sua composizione storica
per confluire infine nella vita della Chiesa in riferimento alla Parola di Dio.

Dio parla

Uno dei fatti più esaltanti nella storia delle religioni è certamente quello di verificare come
l’uomo si è rapportato con Dio. È sufficiente uno sguardo all’antica Grecia per comprendere come il
mito sia stato capace di veicolare questo rapporto. Zeus e le varie divinità della corte divina non
solo parlano tra di loro sull’Olimpo, ma si rivolgono agli uomini e insieme a loro intrattengono
rapporti di vario genere. A supremo garante di tutto è posto il Fato che, mentre impedisce a
chiunque di intraprendere azioni che non siano predeterminate, limita la libertà di tutti
circoscrivendone la vita e la storia.
Non è così per la storia di Israele. La chiamata di Abramo possiede i tratti peculiari di una
libera e insondabile iniziativa di Dio che chiede al patriarca un atto di fiducia e obbedienza: «Il
Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso
la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e
possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno
maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. Allora Abram partì, come gli
aveva ordinato il Signore» (Gen 12,1-4).
Inizia in questo modo la storia biblica come una storia di rivelazione che conosce delle tappe
importanti. Il primo tratto che si può riconoscere è il colloquio permanente tra Dio e gli uomini alla
luce di una promessa. Le varie vicende storiche determineranno di volta in volta questo rapporto
fatto di fedeltà e tradimenti, dove comunque non viene mai meno la fedeltà alla promessa fatta e la
fiducia per il suo compimento. Tutta questa storia è una preparazione alla rivelazione che troverà il
proprio culmine in Gesù di Nazareth. Il Figlio di Dio realizza la promessa e rivela il vero volto di
Dio come un Padre che ama.
In questa lunga storia della rivelazione, il veicolo privilegiato con il quale Dio si rivolge al
popolo e ai singoli rimane quello della ‘parola’. Essa indica sempre la modalità della rivelazione
che permette di conoscere progressivamente la volontà di Dio e il suo piano, con il quale intende
6
andare incontro all’umanità. Nei libri dell’Antico Testamento la ‘parola’ viene espressa con il
termine ebraico dabàr, che indica nello stesso tempo il fatto del parlare e il contenuto. Nella
semplicità del termine, dabàr manifesta i pensieri, le intenzioni, le idee, l’essere e la personalità di
chi parla. Insomma, in quel termine si racchiude una profonda visione dell’uomo. Non si può
dimenticare, infatti, che la componente qualificante della persona è il suo parlare. Con la ‘parola’,
ognuno costruisce ed esprime sé stesso nel rapporto con gli altri e il mondo. Non si esagera
affermando che ciò che costituisce l’esistenza personale tanto da differenziarla da tutta la creazione,
ponendola al culmine, è essenzialmente la ‘parola’.
Mai come davanti al linguaggio, l’uomo sperimenta la grandezza e il limite del suo essere: è
aperto agli spazi infiniti nella scoperta di nuove espressioni, e la sua parola vive oltre sé stesso;
eppure, egli è debitore ad altri del proprio linguaggio. Niente come il linguaggio, d’altronde,
permette di verificare l’esperienza di gratuità e di dipendenza che si vive. La natura stessa, come si
sa, impone un tempo di solo ascolto perché l’infante possa apprendere a parlare. Con la ‘parola’,
quindi, ognuno comprende di essere intimamente legato e compromesso con il passato che lo ha
preceduto, ma nello stesso tempo sente la responsabilità di trasmettere a sua volta, creando nuove
forme di linguaggio. Insomma, la ‘parola’ diventa il luogo della comunicazione interpersonale e lo
spazio concreto per la propria realizzazione. Parlando, ognuno si conosce e mentre entra in
comunicazione con gli altri aumenta la conoscenza di sé e del mondo.
Questo patrimonio di conoscenza fa comprendere perché Dio utilizzi la ‘parola’ per
rivelarsi. Questa serve per entrare in una reale comunicazione con gli uomini toccando lo specifico
dell’esistenza umana. Dio, quindi, parla perché per gli uomini questo è il modo per conoscere e
comprendere. Non mancano, comunque, degli aspetti peculiari. Quando Dio pronuncia la sua
‘Parola’, questa possiede la forza di creare e manifesta un’efficacia unica. Le prime espressioni che
si incontrano nelle pagine iniziali della Bibbia lo affermano con chiarezza: «Dio disse: “Sia la luce”.
E la luce fu» (Gen 1,3). E di seguito tutta la creazione viene interpretata come il frutto della ‘parola’
che Dio pronuncia. Alla stessa stregua, la sua ‘Parola’ possiede un’intensità tale da renderla
irreversibile e feconda. Se ne fa interprete il profeta Isaia quando scrive: «Così sarà della mia parola
uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza
aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11).
Dire, quindi, che Dio usa la ‘Parola’ equivale pure ad affermare che Dio parla. Ciò
corrisponde a sostenere che esce dal silenzio e nel suo amore si rivolge all’umanità. Il fatto che Dio
parli implica che intende comunicare qualcosa di intimo, e di assolutamente necessario per l’uomo
senza del quale non potrebbe mai giungere a una piena conoscenza di sé stesso né del mistero di
Dio. Riprendendo l’inizio della Lettera agli Ebrei, la Dei Verbum sottolinea che Dio «ha parlato». Il
7
tempo del verbo al perfetto non è affatto casuale. Nel greco biblico quando vi si fa ricorso si intende
indicare che l’azione è nel passato, ma gli effetti sono ancora presenti fino nell’oggi. Il fatto che Dio
abbia parlato, quindi, non è per noi un evento chiuso nel passato della storia; piuttosto è un’azione
che permane. Dio continua a parlare alla sua Chiesa per aprirle i tesori nascosti della rivelazione e
immetterla nel senso sempre più profondo della verità rivelata.

Dio si rivela

La ‘Parola’ serve a Dio per ‘rivelarsi’. Questo verbo è fondamentale non solo per la storia
del cristianesimo. Intorno al tema della rivelazione, infatti, si condensano le tre grandi religioni
monoteistiche – ebraismo, cristianesimo e islam – che attestano l’iniziativa di Dio su ogni pretesa
umana. Il verbo ‘rivelare’ e il sostantivo ‘rivelazione’ derivano dal greco (apokalypto-apokalypsis)
ed esprimono un importante valore non sempre sottolineato. Nel suo significato più immediato,
‘rivelare’ significa letteralmente “togliere il velo” che tiene nascosto qualcosa per permettere che si
conosca quanto è ‘velato’. Nel momento in cui si “toglie il velo”, l’oggetto si presenta come
conoscibile e può essere analizzato dalla ragione per scoprire quanto possa essere importante. Il
verbo ‘rivelare’, comunque, possiede anche un secondo significato: “velare di nuovo”, mettere di
nuovo il velo sopra l’oggetto. In questo caso quanto era stato svelato, viene ora ‘ri-velato’. Non è un
gioco di parole, ma il tentativo di esprimere la grandezza del Mistero. La rivelazione di Dio
possiede in sé i tratti di questo movimento dialettico che svela e copre continuamente, per
permettere che la rivelazione possa essere sempre libera di esprimere sé stessa e l’uomo di entrare
sempre più nella sua profondità. Il Mistero rivelato, quindi, consente di cogliere alcuni aspetti di
quanto Dio vuole far conoscere, e li mostra con evidenza, tanto che la ragione può analizzarli. Esso,
tuttavia, viene di nuovo ‘ri-velato’, perché la ragione non riesce a cogliere la totalità e, pertanto,
mentre è provocata ad andare sempre oltre a ciò che comprende, è ugualmente invitata ad
abbandonarsi al Mistero perché troppo grande.
La Dei Verbum presenta così la rivelazione come l’iniziativa gratuita di Dio che entra in
rapporto con l’uomo. A questi resta l’obbedienza della fede, che è abbandono totale al Mistero di
Dio che si rivela. La storia è lo scenario e il palcoscenico in cui si realizza questo ineffabile incontro
ed è anche il luogo in cui viene tramandato nei secoli e fatto conoscere. Con un’espressione tanto
semplice quanto immediata, Dei Verbum esprime l’insegnamento di duemila anni di storia in
proposito: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero
8
della sua volontà» (DV 2). In poche parole, sono delineate le grandi linee innovatrici tipiche della
teologia del Concilio. Questo testo, in effetti, è una citazione della costituzione del concilio
Vaticano I Dei Filius; eppure, con un semplice spostamento dei termini si presenta un orizzonte di
senso non affatto di secondo ordine. A differenza del Vaticano I, qui viene anticipato «bontà» a
«sapienza» e si sostituisce «decreti» con «mistero». Solo una lettura ingenua può concludere che il
cambiamento non abbia alcun significato. Lo spostamento terminologico, infatti, indica il recupero
del primato della Sacra Scrittura e della Tradizione. Dio si rivela anzitutto con il suo amore e la
rivelazione permane come un Mistero che attende di essere svelato.
Il testo, comunque, procede oltre e indica anche il modo con cui Dio si rivela: «nel suo
grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro» (DV 2). Come si nota, la
rivelazione consiste nel ‘parlare’ di Dio con gli uomini come fossero dei veri ‘amici’ conosciuti da
tanto tempo. Ciò che viene ulteriormente detto, comunque, possiede dei tratti stupendi: Dio «si
intrattiene» con noi. Il suo parlare non è frettoloso e neppure alterno a causa della stanchezza.
Siamo talmente abituati ad avere un rapporto spesso strumentale con le persone da non accorgerci
più della fretta che mettiamo nelle nostre conversazioni. Ormai è sufficiente un breve sms via
whatsapp per concludere perfino un rapporto di amore. Scopriamo che Dio non è come noi. Quanto
possa essere decisivo il verbo ‘intrattenersi’ lo conferma il suo riferimento al vangelo secondo
Giovanni dove il verbo ‘rimanere’ ha un valore paradigmatico. Insomma, la Dei Verbum insegna
che Dio non solo parla con gli uomini, ma si ferma a lungo con loro; rimane per condividere gioie e
dolori e dare alla vita il suo senso compiuto che non potrebbe essere ritrovato altrove. Il Concilio
non ha avuto timore a utilizzare le categorie del personalismo, per far comprendere il mistero della
rivelazione. Ciò che viene espresso, infatti, è il carattere personale del colloquio che possiede i tratti
dell’amicizia. Ciò implica che la comunicazione tocca l’uomo nel suo intimo perché lo coinvolge in
un rapporto di amore che comporta la piena e vera comunione, raggiungendo ognuno nella sua
storia per essergli vicino. In una parola, la rivelazione ha come suo scopo principale la condivisione
della vita di Dio. Viene qui utilizzato il termine decisivo per la fede cristiana di ‘comunione’, che
implica un rapporto di amore con una condivisione totale dell’esistenza. Con la sua rivelazione, Dio
fa comprendere che intende incontrare l’uomo con il solo scopo di salvarlo, cioè renderlo capace di
una comunione di vita con lui.
È necessario leggere le parole successive di questo testo per verificare un ulteriore
insegnamento: «Questa economia della rivelazione comprende eventi e parole intimamente
connessi» (DV 2). L’insistenza sulla ‘parola’ potrebbe far perdere di vista la globalità del
linguaggio, che non si riduce al solo discorso parlato. Vi si sottolinea, quindi, che l’evento della
rivelazione si estende oltre il parlare, comprendendo pure il ‘vedere’, l’‘udire’, il ‘toccare’, il
9
‘contemplare’, il ‘dare l’esempio’, il ‘trasmettere’, il ‘vivere’… insomma, tutto ciò che comporta
l’azione dei ‘gesti’ che sono compiuti. Come si nota, il tentativo è quello di mostrare che il
linguaggio della rivelazione è globale; non solo le parole, ma anche i gesti e i segni sono essenziali
per scoprire ciò che Dio vuole far conoscere. Senza questa prospettiva più ampia e unitaria del
linguaggio, si correrebbe il grande rischio di confinare la rivelazione nella forma di comunicazione
più conveniente a noi occidentali, tradendo le forme più originali con le quali Dio si fa conoscere.
Ciò che è determinante, pertanto, è l’esigenza di mantenere il senso di ‘parola’ nella sua globalità,
come se si volesse indicare l’unità della persona nel suo esprimersi.
Dinnanzi all’espressione ‘Parola di Dio’ il Concilio non intende un generico ‘parlare’ del
Padre, ma attesta l’evento definitivo del suo intervento nella storia: il mistero dell’incarnazione del
Figlio. Lui è la Parola che da sempre viene pronunciata e che ora diventa anche visibile. La ‘Parola
di Dio’, quindi, si identifica con la stessa rivelazione di Dio all’umanità. Ciò che viene fatto
conoscere agli uomini è la Parola, il Logos, il Verbo, la vita eterna... tutti termini che rimandano
all’idea centrale e fondativa: la persona di Gesù Cristo. È tutta la vita di Dio che viene rivelata nella
persona di Gesù; la Trinità si esprime nelle parole e nei gesti di Gesù di Nazareth. Lui è il rivelatore
del Padre e nello stesso tempo la sua rivelazione. Questa non si realizza solo tramite la sua
predicazione, ma anche attraverso i gesti che egli compie. La sola predicazione, dunque, non basta;
richiede di essere accompagnata dai segni che ne attestano la sua piena efficacia. La ‘voce’ che nel
passato si faceva sentire, adesso ha un contenuto e diventa ‘parola’. Per riprendere la bella
espressione di S. Agostino: Giovanni il Battista è «voce», mentre Gesù è la «parola». Solo lui,
infatti, racchiude in sé la voce, il contenuto della parola e il senso che essa possiede; lui è il Logos.
Il fatto fondamentale che sconvolge la storia dandole un orientamento differente è proprio questo: in
Gesù Cristo Dio parla in maniera piena e definitiva all’umanità.
La rivelazione pertanto assume la caratteristica di un vero colloquio che Dio realizza con gli
uomini mediante Gesù Cristo, Parola fatta carne. L’ordine stesso che viene utilizzato dai Padri
conciliari è significativo per la corretta interpretazione della Costituzione: in primo luogo, vi è Dio
nella sua libertà che sceglie il momento e i modi con cui rivelare il mistero della propria vita. Segue
poi la persona di Gesù Cristo che costituisce il culmine della rivelazione, perché una volta per tutte
Dio parla agli uomini facendosi lui stesso uomo e utilizzando il linguaggio umano. Infine,
l’attenzione è posta sull’uomo destinatario della rivelazione, perché è chiamato alla vita di
comunione con Dio, cioè alla sua salvezza. Non è possibile capovolgere questo ordine;
equivarrebbe a minare dall’interno l’evento stesso della rivelazione come presentato dal Concilio.
L’originalità della Parola di Dio non può essere sottoposta all’interpretazione degli uomini. Dio
deve rimanere nella sua sfera di libertà e quindi scegliere e decidere cosa rivelare e il modo stesso
10
con cui farlo. Se Dio vuole rivelarsi è perché intende comunicare qualcosa che gli uomini da sé non
potrebbero mai conoscere. Questo primato non può essere intaccato dalla presunzione umana.

Gesù, il compimento della rivelazione

Il Nuovo Testamento presenta degli aspetti molto originali quando affronta il tema della
‘parola’. Il termine ebraico dabàr viene tradotto in greco con logos. L’evangelista Giovanni si fa
interprete dell’assoluta novità che viene introdotta quando apre il proprio vangelo con questa
espressione: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Un
testo esplosivo perché manifesta una tale unicità da non possedere confronti con l’intera letteratura
precedente. Le interpretazioni nel corso di questi duemila anni sono talmente tante e tali da
confermare l’inesauribile ricchezza racchiusa nel termine Logos applicato a Gesù di Nazareth. In tre
espressioni si concentra il tentativo di esprimere in termini umani il culmine del mistero di Dio che
si rivela, permettendo di raggiungere non solo la conoscenza della sua intima natura, ma soprattutto
l’invito alla comunione di vita con lui.
Il prologo giovanneo manifesta un’originalità inconfutabile con gli scritti precedenti perché
qui il Logos si incarna e diventa uomo. Nella personificazione del Logos diventa evidente la fede
della comunità primitiva che in Gesù di Nazareth aveva toccato con mano la presenza del Figlio di
Dio, e il ruolo da lui svolto come rivelatore del Padre. La decisione del Logos di farsi ‘carne’
corrisponde all’ultima possibilità offerta agli uomini per conoscere la verità su Dio. Gesù di
Nazareth, quindi, pienamente e realmente ‘Parola di Dio’, si sottomette all’esperienza umana e
diventa ‘linguaggio’ di rivelazione. Si può affermare, pertanto, che ci fu un tempo in cui la ‘Parola
di Dio’ fu bambina, adolescente, giovane e adulta, rivelando nei modi corrispondenti l’unico volto
del Padre. La globalità di questa ‘Parola’, quella che è rimasta scritta definitivamente e la gran parte
che non fu messa per iscritto, è ciò che costituisce per noi la rivelazione di Dio. Nelle parole e nei
gesti di Gesù di Nazareth, Dio incontra l’uomo nel modo umanamente più espressivo e nella forma
più comprensibile. Egli rispetta in tutto la complessità del linguaggio umano perché è uomo tra gli
uomini, ma vi aggiunge qualcosa che appare paradossale: la definitività. Solo lui può affermare: «Il
cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 24,35).
La sua Parola, quindi, diventa il criterio ultimo per accedere al Mistero di Dio e ognuno si
gioca la propria vita nell’accettarla o rifiutarla. È ancora una volta l’evangelista Giovanni che
permette di accedere a questa interpretazione. Egli fa ruotare il proprio vangelo intorno al tema
11
della fede o dell’incredulità attraverso l’accoglienza o il rifiuto del Figlio di Dio. Nel Logos che si
fa uomo si incontra veramente Dio e l’esistenza personale trova la luce per comprendere il proprio
enigma esistenziale. Il riferimento al fatto che Dio attraverso il suo Logos viene ad ‘abitare’ in
mezzo agli uomini non fa che consolidare l’idea della sua presenza permanente. L’Incarnazione è
un evento unico e irripetibile, ma i suoi effetti permangono per rivelare la permanente vicinanza di
Dio all’umanità. La Parola con la sua carica rivelativa rimane fino alla fine dei tempi mostrando
sempre il volto misericordioso del Padre.
È interessante osservare che nel proprio linguaggio Gesù provoca a scoprire i tratti
fondamentali della rivelazione. È sufficiente analizzare le tre forme strutturali del linguaggio
personale per scoprire l’uso che Gesù ne fa in vista della sua rivelazione. La parola esprime (io),
interpella (tu) e racconta (egli). Gesù parla di sé in prima persona, affermando contenuti che a prima
vista sembrano prodotti da una forma di arroganza, mentre invece rimandano a quanto udito e visto
dal Padre. Egli, inoltre, manifesta apertamente la richiesta di decidersi per lui e seguirlo perché ha la
consapevolezza di essere l’ultima risposta alla domanda di senso della vita. Infine, con la sua vita
racconta e spiega la vita stessa della Trinità come il mistero dell’amore che non avrà mai fine. La
rivelazione diventa così comprensibile all’uomo, perché illuminando il mistero di Dio ogni uomo è
riportato al centro di sé stesso, al suo mistero che percepisce e comprende.
Il Logos di Giovanni, pertanto, è molto più di una ‘parola’; è la Persona divina che in un
determinato momento della storia della salvezza si fa uomo pur rimanendo Dio. La sua presenza in
mezzo a noi esprime la vicinanza di Dio e l’offerta di accogliere in noi la stessa vita divina come
condizione per un’esistenza in comunione con il Padre e i fratelli. Dopo aver manifestato sé stesso
in tanti e differenti modi nel corso della storia, in Gesù Cristo Dio si rivela nella sua pienezza. Non
c’è possibilità alcuna di confronto con le espressioni precedenti, perché Gesù parla direttamente la
lingua di Dio e quella degli uomini. Egli è nello stesso tempo Rivelatore e Rivelazione. In lui si
riconosce la sintesi che mai in precedenza né nel futuro potrà essere espressa per raggiungere il
Mistero di Dio. La Dei Verbum lo afferma con l’originalità propria dicendo: «Gesù Cristo dunque,
Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” e porta a
compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre. Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il
Padre, col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le
opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i
morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione» (DV 4).
Tutta la vita di Gesù Cristo, pertanto, è la rivelazione di Dio. Al di fuori della sua parola e
dei suoi segni non è possibile trovare altra conoscenza coerente del Mistero di Dio. Per questo non è
affatto presunzione affermare che dopo Gesù Cristo nessun’altra rivelazione potrebbe mai
12
aggiungere o togliere qualcosa a quanto lui ha rivelato. Impegnando sé stesso direttamente nel
Figlio, Dio non vuole esprimere nessun’altra forma con cui rivelare il proprio Mistero di amore e il
proprio progetto di salvezza. L’irreversibilità della rivelazione, pertanto, si coniuga con la sua
definitività. A nessuno potrà mai essere chiesto di dare il proprio assenso di fede facendo leva su
altre presunte rivelazioni. Se queste dovessero avvenire, non potranno che essere conformi all’unica
rivelazione di Gesù Cristo e da questa giudicate per verificare se apportano un contributo alla vita di
fede della Chiesa.

13
CAPITOLO 2
PAROLA SCRITTA

L’unica fonte

Quando si parla della rivelazione una domanda necessaria da porsi è: quali sono le fonti per
conoscere che Dio si è davvero rivelato? La Dei Verbum non si ritrae a questo interrogativo e, anzi,
presenta una risposta che permette di verificare non solo il superamento di secoli di diatriba
teologica, ma soprattutto l’originalità peculiare emersa dal Concilio, soprattutto se confrontata con i
concili di Trento e del Vaticano I. La teologia precedente identificava due fonti a cui far
riferimento, la Sacra Scrittura e la Tradizione. Il grande problema mai risolto, tuttavia, era quello di
comprendere in quale modo l’una e l’altra fonte comunicassero tra loro e in che misura
contenessero la rivelazione. Le risposte erano tra le più svariate. Qualcuno sosteneva che una parte
era contenuta nella Sacra Scrittura e un’altra parte nella Tradizione, facendo sorgere ulteriori
interrogativi circa la consistenza del contenuto rivelato nell’una e nell’altra. Insomma, un groviglio
che sembrava irrisolvibile ponendo di fatto una frattura nella stessa rivelazione. Recuperando la
tradizione patristica e medievale Dei Verbum compie un vero passo in avanti e propone l’unicità
della fonte. La Sacra Scrittura e la Tradizione non sono altro che l’unica Parola di Dio trasmessa in
forme differenti.
La Costituzione conciliare ancora una volta sorprende perché punta tutto sulla Parola di Dio.
Questa, comunque, non può essere identificata con la sola Sacra Scrittura; se avvenisse, sarebbe un
impoverimento della rivelazione e avrebbe delle conseguenze nocive anche per la vita della Chiesa.
Per comprendere la posta in gioco, è necessario analizzare il linguaggio utilizzato dalla Dei Verbum.
Chi volesse avventurarsi in questo esercizio scoprirà qualcosa di estremamente interessante. I due
termini che vengono sempre utilizzati per descrivere la Sacra Scrittura e la Tradizione non fanno
mai riferimento a qualcosa di ‘scritto’. Quando si definisce la Sacra Scrittura si dice che è ‘parola’
(locutio, in latino), cioè qualcosa che viene detto e non che viene scritto. Utilizzando questo termine
è chiaro che i padri conciliari pensavano al modo con cui Dio si è rivelato; appunto con la sua
‘parola’, non scrivendo qualcosa. Quando si descrive la Tradizione, cioè la trasmissione del
Vangelo, ci si imbatte nel termine ‘Parola’ (verbum, in latino).

14
Come si può notare, nell’uno e nell’altro caso è utilizzata una terminologia che indica una
realtà viva, in movimento come è tipico della parola. Ciò che la Costituzione vuole indicare è che la
Sacra Scrittura vive nella vita della Chiesa che la rende sempre attuale con il suo annuncio e non si
stanca mai di riproporla come immutata Parola di rivelazione, mediante la quale Dio non cessa di
far udire la propria voce per introdurre i credenti alla verità tutta intera. La stessa cosa viene detta
per la Tradizione, che consiste in una trasmissione viva di fatti, eventi, parole, riti, gesti e usanze
che fin dal tempo degli Apostoli sono stati comunicati oralmente. D’altronde, tutti sanno che i
contenuti dei vangeli prima di essere messi per iscritto sono stati tramandati a voce, custoditi nella
memoria e trasmessi da una comunità all’altra secondo le vicende che ognuna di queste viveva.
Insomma, la ‘parola’ ancora una volta permette di evidenziare la dimensione dinamica della
rivelazione che non potrà mai essere pensata alla stregua di un fossile di epoche remote.
Non sarà inutile, in questo contesto, riportare la riflessione che Tommaso d’Aquino compiva
nella sua Summa Theologiae proprio in riferimento alla questione del perché Gesù non avesse
scritto nulla. Nella sua risposta, San Tommaso fa emergere il senso profondo della comprensione
della rivelazione come Parola di Dio. Dice, infatti, che Gesù non ha scritto per almeno tre motivi:
anzitutto, perché era un grande maestro e come tale voleva che il suo insegnamento fosse impresso
nel cuore dei suoi discepoli. Inoltre, per la sua profondità che non avrebbe potuto trovare nella
scrittura uno spazio adeguato alla ricchezza che possiede. Infine, perché si creasse un ordine nella
trasmissione: da lui ai suoi discepoli e da questi a tutti attraverso le forme che avrebbero trovato per
dare un ordine al suo insegnamento (Summa Theologiae III,42,4). Le motivazioni del grande
teologo hanno una valenza che ancora oggi è sottolineata dalle recenti riflessioni filosofiche. Si
pensi, ad esempio, al tema della «gabbia del linguaggio» con la quale Ludwig Wittgenstein descrive
l’impossibilità per il linguaggio di dire tutto; oppure all’efficacia che ogni insegnamento autentico
produce nelle persone provocandole a riflettere e quindi a conservare in sé l’insegnamento ricevuto.
Il fatto che Gesù non abbia scritto nulla, pertanto, mantiene fermo il carattere vivo della sua parola e
non lascia spazio ad alcuna forma di fondamentalismo. Solo a questo punto si chiude il cerchio
della relazionalità della Parola di Dio: la rivelazione è affidata alla Chiesa la quale, attraverso il
ministero ‘vivo’ dei successori degli Apostoli, non solo la trasmette, ma la interpreta
«autenticamente […] insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso» (DV 10). Insomma, la Parola
di Dio vive di una inscindibile unità che permette di vedere la Sacra Scrittura, la Tradizione e il
Magistero come una perenne fonte a cui attingere per conoscere la verità della rivelazione.
Come si può osservare, la grande e giusta preoccupazione della Dei Verbum è quella di far
emergere il carattere vivo della ‘Parola di Dio’ che coinvolge la fede della Chiesa e dei credenti. In
forza di questo, è bene sottolineare che il cristianesimo non potrà mai essere identificato come la
15
“religione del libro”. Questa espressione non è corretta perché corre il grave rischio di ridurre tutto
alla Sacra Scrittura. Certamente questa rimane per la Chiesa insieme alla Tradizione la «regola
suprema della propria fede» (DV 21) e, comunque, richiede di non essere mai lasciata al solo testo
scritto. La Parola possiede un primato tale che non ne permette equivoco alcuno e salvaguarda la
fede dal cadere in forme di fondamentalismo sempre presenti quando il riferimento è solo al testo
scritto.

La Parola entra nelle culture

Sorge, in questo contesto, la problematica inerente l’inculturazione a cui spesso si fa


riferimento come principio a cui attenersi nel rendere attuale la rivelazione nei vari contesti in cui
viene annunciato il Vangelo. L’ingresso della Parola di Dio nelle culture è un fatto che accompagna
da sempre la storia dell’evangelizzazione. Si possono rilevare in questi duemila anni aspetti positivi
di intuizioni e realizzazioni che hanno portato a una maturazione della cultura universale. Non sono
mancati, purtroppo, fatti inquietanti che hanno compromesso l’azione missionaria. L’inculturazione,
comunque, è una condizione da cui non si può prescindere, pena l’efficacia della predicazione. La
valorizzazione della cultura in cui avviene l’annuncio cristiano è un criterio fondamentale perché
porta a riconoscere anzitutto gli aspetti positivi che sono in ogni caso “semi del Verbo” impressi
dovunque per consentire la ricezione della proposta cristiana. A partire da questi elementi comuni si
apre un dialogo fecondo che permette di superare gli ostacoli e raggiungere obiettivi che consentono
una reale maturazione della cultura.
Si pone, comunque, l’esigenza di comprendere i criteri a cui la nuova via
dell’evangelizzazione ha bisogno di richiamarsi. Da una parte, si deve ovviamente riconoscere che
Gesù entrando nella storia e nella cultura del suo tempo ne ha assunto le forme espressive. È
altrettanto vero, tuttavia, che Gesù ha impresso nella storia un linguaggio che spesso era in piena
discontinuità con la cultura del suo tempo. Ciò significa che egli era ben consapevole di immettere
delle novità con il suo comportamento che avevano un genuino valore rivelativo. Gesù, infatti, ha
utilizzato linguaggi che stridevano radicalmente con il modo di pensare dei suoi contemporanei; ciò,
comunque, era necessario perché doveva esprimere l’originalità della sua rivelazione. Questo
linguaggio di Gesù non può essere modificato oggi in nome di un rispetto delle culture senza
capovolgere il primato della Parola di Dio a favore dell’interpretazione degli uomini. Gli esempi
sarebbero molti, ma alcuni possono aiutare a comprendere la grande sfida sottesa.
16
È risaputa la concezione degli Ebrei nei confronti del sangue. In esso è presente la vita e
insieme alla carne definisce i tratti essenziali dell’antropologia dell’antico popolo ebraico. Su questa
convinzione si fonda il divieto assoluto di cibarsi del sangue (cfr. Gen 9,4; Lv 3,17; 7,26; 17,10-14).
Poiché nel sangue risiede la vita dell’uomo, quando questo viene versato equivale a gridare
vendetta, perché attesta la violenza che sopprime la vita. Nonostante questa comprensione, Gesù
non ha esitato a utilizzare espressioni che cozzavano completamente con la mentalità comune dei
suoi contemporanei: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo
risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,54-56). Il linguaggio è
certamente paradossale; eppure, esso esprime il pensiero e l’agire di Gesù: ogni volta che si beve
quel vino consacrato, si beve il sangue del Signore. Questo linguaggio pur nella sua
incomprensibilità è stato assunto ed è divenuto normativo perché Gesù stesso lo ha utilizzato. Chi
potrebbe cambiare il pane e il vino per celebrare la santa Eucaristia con altre sostanze più vicine alla
cultura di un popolo senza pretendere di modificare un elemento costitutivo della rivelazione? Alla
stessa stregua la preghiera del Padre Nostro. Qualcuno potrebbe prendersi l’arroganza di modificare
l’invocazione «Padre» con «Madre» o altro per andare incontro a un fantomatico dialogo, senza
pensare che modifica il linguaggio stesso con il quale Gesù ha parlato di Dio? Insomma, nessuno
può cambiare la novità della rivelazione come emerge dal linguaggio diretto di Gesù senza
assumere una tracotanza che distruggerebbe per primo chi se ne facesse carico oltre che vanificare
l’evento della rivelazione nella sua originalità.
Forse, può essere utile la riflessione che San Giovanni Paolo II faceva in proposito,
sottolineando i pregi e i limiti della cultura in riferimento alla rivelazione: «Una cultura non può
mai diventare criterio di giudizio ed ancor meno criterio ultimo di verità nei confronti della
rivelazione di Dio. Il Vangelo non è contrario a questa od a quella cultura come se, incontrandosi
con essa, volesse privarla di ciò che le appartiene e la obbligasse ad assumere forme estrinseche che
non le sono conformi. Al contrario, l’annuncio che il credente porta nel mondo e nelle culture è
forma reale di liberazione da ogni disordine introdotto dal peccato e, nello stesso tempo, è chiamata
alla verità piena. In questo incontro, le culture non solo non vengono private di nulla, ma sono anzi
stimolate ad aprirsi al nuovo della verità evangelica per trarne incentivo verso ulteriori sviluppi»
(Fides et ratio 71). La Parola di Dio, pertanto, deve permanere con quell’impronta originale, unica e
inesauribile di senso che Gesù le ha impresso con tutta la propria Persona nel voler rivelare il Padre
e offrire la salvezza.

17
CAPITOLO 3
LA RISPOSTA ALLA PAROLA DI DIO

L’ascolto

Quando Dio parla, la prima risposta richiesta è il silenzio dell’ascolto. Sembra ovvio, eppure
questo è un tema rilevante non solo per la fede, ma in generale per la cultura contemporanea. Ai
nostri giorni, infatti, sembra prevalere, soprattutto nei dibattiti che tendono a raggiungere tanto
pubblico, una forma di espressione che favorisce l’interruzione, la sovrapposizione e quanto altro
con l’intento di impedire all’interlocutore di esprimere il suo pensiero. Il fenomeno non fa che
attestare un movimento di non ascolto dell’altro. Ci si ferma a una parola senza considerare il
contesto; oppure, si pretende di avere già compreso l’intenzione dell’interlocutore e quindi gli si
contrappone la propria versione. Dove si è teorizzato il primato dell’opinione sulla verità, è evidente
che anche il rispetto per le posizioni altrui entri in discussione. Quando tutto è posto sullo stesso
livello senza più una gerarchia di giudizio che emerge dal rapporto con la verità, è ovvio che cresca
l’arroganza del più furbo o di chi possiede maggior dialettica. Tutto questo non significa, come
barbaramente alcuni sostengono, che si sia raggiunto un alto livello di ‘democrazia’ dove ognuno
pensa e dice ciò che ritiene purché non rechi danno a nessuno. Il primo danno che ne consegue,
infatti, è nei confronti di sé stessi; imbevuti di soggettivismo non si è più in grado di distinguere il
bene dal male.
La Dei Verbum fin dalle prime parole permette di scoprire il valore del silenzio come
condizione necessaria perché la ‘parola’ pronunciata abbia la sua valenza e raggiunga il suo
significato. «In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia» (DV 1),
attesta la risposta coerente dinanzi alla rivelazione. Non si considererà mai a sufficienza il valore
del silenzio. Non va confuso con la mancanza di parole; si identifica, invece, con la volontà di
recepire al meglio quanto viene detto. La Sacra Scrittura è talmente ricca del silenzio che potrebbe
essere facilmente definita come il libro del “silenzio di Dio”. Proprio così. Per scoprire la ricchezza
contenuta nei testi sacri è fondamentale analizzare il silenzio che contengono perché sotto l’azione
dello Spirito Santo aprono orizzonti insperati. Si fece artefice di questa dimensione il vescovo
Ignazio, primo successore di San Pietro nella Chiesa di Antiochia, quando scrive: «Meglio è tacere
ed essere, piuttosto che parlando non essere. Buona cosa è l’insegnare se colui che insegna agisce.
18
Vi è dunque un solo maestro il quale parlò e ciò che disse fu fatto; ma le cose che egli fece tacendo
sono degne del Padre. Chi possiede la parola di Gesù può ascoltare anche il suo silenzio affinché sia
perfetto, affinché operi attraverso le cose che dice e venga conosciuto per mezzo delle cose che
tace» (Lettera agli Efesini XV, 1-2).
Alla Parola di Dio che viene svelata, quindi, bisogna rispondere con la fede che accoglie in
sé il Mistero di Dio. La Costituzione parla di «obbedienza della fede» (DV 5). L’obbedienza è
l’altra faccia dell’ascolto. Nel linguaggio di Paolo i due termini non fanno altro che esplicitare il suo
pensiero sulla fede. L’Apostolo è convinto che alla fede si può giungere se si accoglie la sua
predicazione che trova il proprio fondamento nella Parola stessa del Signore. Per questo parla
volentieri di «fede che viene dall’ascolto» (Rm 10,17), creando un’impressionante circolarità: la
fede proviene dall’ascoltare la parola della predicazione e conduce all’obbedienza; alla stessa
stregua l’obbedienza della fede comporta l’ascolto alla Parola del Signore. Insomma, con la fede, il
credente si abbandona a Dio pienamente, con tutto sé stesso e crede che la Parola a lui rivolta
proviene veramente da Dio per salvarlo.
Non si può dimenticare, comunque, che la prima ad essere chiamata ad accogliere, ascoltare
e credere alla rivelazione è la Chiesa. Un grande teologo che fu nominato come esperto al Concilio
lavorando anche alla stesura della Dei Verbum, Henri de Lubac (1896-1991), commentava: «Queste
due prime parole che daranno il nome alla costituzione dottrinale sulla Rivelazione divina,
riassumono con grande esattezza il suo oggetto. Si tratta della Parola di Dio. Nel testo ufficiale, esse
sono scritte interamente in lettere maiuscole: non si può quindi precisare se designino la Parola di
Dio in generale, presa in senso ancora più o meno astratto, o se invece indichino già direttamente
quel Cavaliere bianco dell’Apocalisse che porta il nome di Parola di Dio e che tiene una spada nella
sua bocca, quella Parola personale, Parola di vita (Ap 19,3; Gv 1,1), unica Parola del Padre,
“Sapienza vivente e Figlio di Dio” (Origene, Contra Celsum 1.3), “Splendore della sua gloria e
immagine della sua sostanza…” (Eb 1,3), Cristo Gesù insomma. Conviene forse lasciarle nella loro
indeterminatezza, anche perché il seguito della Costituzione non tarderà a chiarirle» (La rivelazione
divina, Milano 1985, 8). Sia che Dei Verbum voglia indicare l’uno o l’altro significato indicato dal
teologo, ciò che emerge ancora una volta è il silenzio che la Chiesa è chiamata a porre dinanzi alla
rivelazione.
Rivelando il Mistero della propria esistenza personale, Dio apre alla vita di comunione con
lui. Questa è la verità profonda della rivelazione. Solo chi accoglie il Logos e ha familiarità con la
Parola di Dio può diventarne annunciatore veritiero e credibile. Diventa chiaro perché Paolo può
scrivere agli Efesini che non siamo «più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di
Dio» (Ef 2,19). La comunione che si viene a creare è dono e offerta di salvezza che trova nel
19
Mistero Pasquale di Gesù morto e risorto il suo culmine. Questa comunione di vita non è una teoria
né cede il passo alla retorica. È la condizione fondamentale richiesta alla Chiesa non solo nella sua
relazione con Dio, ma in forza di questo come criterio e stile di vita per tutti i credenti in Cristo. È
quanto traspare dalla costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium quando afferma: «È piaciuto a Dio
di santificare e salvare gli uomini non separatamente e senza alcun legame fra di loro, ma ha voluto
costituirli in un popolo che lo riconoscesse nella verità e lo servisse nella santità» (LG 9).
La rivelazione, dunque, è la Parola di Dio rivolta alla Chiesa che nel silenzio dell’ascolto
deve successivamente creare delle condizioni di risposta coerente all’offerta che le viene rivolta.
Quando Cristo parla con la Chiesa sua sposa attende da lei la reazione adeguata per essere nel
mondo «in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell‘intima unione con Dio e
dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1).

La triplice risposta

Si possono schematizzare brevemente tre risposte che la Chiesa pone in atto. La prima che
balza evidente, consiste nel narrare. La Parola di Dio racconta le diverse vicende che costituiscono
l’evento della salvezza. Non si pensi che la narrazione sia solo una tecnica letteraria; infatti, mentre
la Chiesa annuncia la Parola di Dio narrando le varie fasi della storia della salvezza, nello stesso
tempo deve coinvolgere l’interlocutore perché risponda con la fede. È proprio della narrazione,
infatti, la sfera del coinvolgimento e la richiesta di partecipazione. Senza questo orizzonte narrativo,
ci si troverebbe dinanzi a una separazione tra l’evento della rivelazione e la vita personale di
ognuno; questa non sarebbe toccata a livello esistenziale e rimarrebbe estranea alla chiamata,
privando del carattere salvifico. Il valore narrativo della Parola non impedisce di vedere in essa la
sua forma normativa per la vita della Chiesa. Qui, infatti, in quell’unità basilare che lega l’evento
con il suo significato, vengono a trovarsi espresse le vicende di ogni uomo. Il carattere storico della
Parola di Dio impone di verificare che le attese della creatura trovano risposta dal momento che Dio
parla e si lascia coinvolgere nella vita quotidiana portando a compimento il senso dell’esistenza.
Un secondo elemento consiste nell’evocare. Questo è peculiare del linguaggio liturgico
quando la Chiesa si trova dinanzi al Mistero e comprende il limite delle proprie parole e
l’impossibilità di poter dire tutto. Qui sorge la consapevolezza dell’evocare e dell’immettersi
maggiormente nei segni che esprimono ciò che dicono. Non è da sottovalutare il fatto che la Dei
Verbum crei un parallelo tra la Sacra Scrittura e l’Eucaristia. Questo parallelismo ruota intorno
20
all’immagine del ‘nutrimento’ di cui la Chiesa diventa in prima persona la responsabile. La
venerazione delle Scritture sacre in quanto Parola di Dio non è da comprendere come un semplice
atto formale che pone i testi in uno spazio cultuale di rispetto. Ciò che viene detto è molto di più. La
venerazione, infatti, implica l’esigenza di comprendere che quella Parola è regola suprema della
fede che viene celebrata. Nel contesto liturgico, pertanto, la Parola di Dio che viene proclamata in
maniera efficace evoca all’esigenza di un ascolto sempre nuovo e maggiormente capace di
conformare la vita dei credenti alla “voce dello Spirito”.
Un’ultima reazione si esprime nella performatività. Il linguaggio performativo per sua
natura quando viene pronunciato obbliga chiunque ad essere coinvolto e compromesso in ciò che
dice. La Parola di Dio è un linguaggio performativo. Come si è visto, è una Parola che crea e
trasforma. La performatività della Parola coinvolge anche il credente quando la ascolta, perché si
sente chiamato a porsi nella sequela di Cristo diventando suo discepolo. La Dei Verbum lo ricorda
quando afferma: «Nei libri sacri il Padre che è nei cieli con molta amorevolezza viene incontro ai
suoi figli ed entra in conversazione con loro; nella Parola di Dio poi è contenuta una così grande
efficacia e potenza, da costituire per la Chiesa sostegno e vigore, e per i figli della Chiesa saldezza
della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale» (DV 21). Come dire, la
chiamata a essere testimoni veritieri della Parola di Dio impegna anzitutto la Chiesa, perché
nell’annunciare il Vangelo sia sempre fedele al suo Signore e viva in maniera coerente con la sua
chiamata. Ogni credente, comunque, è ugualmente coinvolto perché consapevole di essere segno
visibile e tangibile dell’amore di Dio che trasforma l’esistenza.

21
CAPITOLO 4
LA PAROLA DI DIO CORRE

La corsa

La Dei Verbum è spesso attraversata da tratti poetici. Non deve meravigliare. La poesia e
l’arte, alla fine, sono il linguaggio che in modo coerente esprime il Mistero evocando pensieri e
contenuti a cui la ragione da sola non riuscirebbe a dare risposta. In questo orizzonte si inserisce
anche la conclusione della Costituzione conciliare quando scrive: «Così dunque, con la lettura e lo
studio dei libri sacri “la Parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata” (2 Ts 3,1) e il tesoro
della rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre più il cuore degli uomini. Come dall’assidua
frequenza al mistero eucaristico prende vigore la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo
impulso di vita spirituale dall‘accresciuta venerazione della parola di Dio, che “permane in eterno”
(Is 40,8; 1Pt 1,23-25)» (DV 26).
La citazione del testo di Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi permette di verificare la
descrizione della Parola di Dio in forma personificata, come se questa fosse in grado di compiere
una corsa. Più volte i testi del Nuovo Testamento fanno ricorso all’immagine della corsa. Il
richiamo intende evocare l’entusiasmo e la fretta di portare a tutti la Parola di Dio. Tra i tanti, un
esempio raccontato dal libro degli Atti degli Apostoli è sintomatico. Si fa riferimento al diacono
Filippo che stava «seduto» nella sua casa; a lui lo Spirito chiede di «andare incontro» all’Etiope che
da Gerusalemme faceva ritorno a casa e leggeva il libro del profeta Isaia senza comprenderne a
fondo il senso. Filippo non si fa ripetere due volte l’invito e mentre lo Spirito non ha ancora finito di
parlare «corre» verso l’Etiope per annunciargli la salvezza e donargli il battesimo (cfr. At 8,26-31).
Il tema della corsa, comunque, riporta alla mente quanto avvenne all’indomani
dell’annuncio di Pasqua. Viene raccontato dall’evangelista che dinanzi alla preoccupazione di
Maria Maddalena di avere visto la pietra del sepolcro spostata, Pietro e Giovanni andarono in fretta
verso il sepolcro (cfr. Gv 20,1-10). Il racconto è conosciuto e la corsa di Pietro e Giovanni non si
discosta da quella che ogni credente è chiamato a compiere per dare testimonianza della
risurrezione, una volta che è rimasto coinvolto seriamente nell’esperienza di fede. Il vangelo,
comunque, sembra voler imprimere un senso particolare al correre più veloce di Giovanni e a quello
più lento di Pietro; ambedue corrono, ma uno arriva prima dell’altro. Non ci si allontana molto dal
22
suo senso se si interpreta la corsa dell’apostolo più giovane come il segno dell’amore che per primo
scopre la novità che Pasqua racchiude. Pietro, e con lui tutta l’istituzione che egli rappresenta, è più
lento; gravato probabilmente dal peso dell’autorità e del servizio giornaliero che deve essere reso, è
più affannato e il suo ritardo rallenta la presa di coscienza della novità pasquale. In ogni caso, viene
confermato che l’amore giunge sempre per primo e intuisce che il mistero del sepolcro vuoto è solo
preludio per una testimonianza che cambierà il volto della storia. Proprio perché ama, comunque,
Giovanni non entra subito nel sepolcro; egli attende che anche Pietro lo raggiunga in modo che lui,
per primo, possa varcare la soglia e comprendere l’evento, diventandone il primo testimone. La
corsa dei due è impari per l’età, ma il fine è identico per entrambi: la meraviglia e lo stupore del
sepolcro vuoto si trasformano in un’ansia per la comunicazione che non conosce confronto alcuno.
A partire da Gerusalemme per giungere fino a Roma, la corsa di Pietro e Giovanni non conoscerà
più sosta alcuna. Il loro: «non possiamo non parlare» (At 4,20), pronunciato davanti ai capi dei
sacerdoti e agli anziani del popolo che promettevano di rimetterli in libertà, purché non
annunciassero più la risurrezione di Gesù, è testimonianza di una fede che sarà a fondamento
perenne del kérygma. Fino al dono totale della vita, gli apostoli e i discepoli del Risorto saranno
chiamati a fare proprie le parole di Paolo quando scrive: «Avremmo desiderato trasmettervi non
solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita» (1Ts 2,8), per rendere testimonianza al mondo di un
evento che ha dell’irreale, eppure si pone come inizio di una ininterrotta storia di evangelizzazione
che permane fino ai nostri giorni.

L’evangelizzazione

La Dei Verbum, presentando il grande tema della Parola di Dio, diventa anche una
provocazione a riflettere sulla missione propria della Chiesa e di ogni credente: l’evangelizzazione.
Un brano della Costituzione lo afferma senza mezze misure: «Così quel Dio, che ha parlato in
passato, non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del
quale la viva voce del Vangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di essa nel mondo, guida i credenti
alla verità tutta intera e in essi fa dimorare abbondantemente la parola di Cristo» (DV 8). Questa
sollecitazione di chiaro stampo missionario provoca tutti i credenti a una duplice riflessione.
La prima, è l’invito a prendere in seria considerazione il valore della Parola di Dio nella vita
della Chiesa. La Sacra Scrittura non può essere il libro più venduto al mondo, ma nello stesso tempo
quello più ricoperto di polvere negli scaffali di casa. Non è sufficiente possedere la Bibbia, se
23
questa non diventa una Parola che ogni giorno provoca i credenti a lasciarsi plasmare per orientare
in modo cristiano la vita. «L’ignoranza delle Sacre Scritture è ignoranza di Cristo», affermava con
ragione San Girolamo. Non si può negare che a seguito della Costituzione conciliare siano sorte nel
mondo tante iniziative per riportare i battezzati a riprendere tra le mani la Sacra Scrittura per dare
fondamento e sostegno alla fede. La Domenica della Parola di Dio istituita da pPapa Francesco con
la lettera Aperuit Illis (2019), è certamente una risposta alla istanza della Dei Verbum, eppure si
richiede ancora tanto lavoro ed entusiasmo perché possano rinascere nei cristiani l’interesse e la
passione per radicare nella parola di Dio la propria vita. Questa Parola deve diffondersi tra le
persone, i popoli, tra le strade delle nostre città, entrare nelle nostre case e lì trovare lo spazio
dell’ascolto e dell’accoglienza perché porti la salvezza. Solo nella misura in cui si riuscirà a
permettere un vero e coerente colloquio con la Parola di Dio, con una sua assidua frequentazione,
allora ogni credente avrà svolto il servizio che gli deriva dal Battesimo. Ogni credente in Cristo,
infatti, è diacono di questa Parola, chiamato a rendere il servizio dell’obbedienza fedele e libera.
Una seconda riflessione non meno importante deriva da questo testo della Dei Verbum e
tocca l’istanza veritativa della Parola di Dio. È stato ampiamente dimostrato quanto il tema della
verità sia onnipresente nei documenti conciliari. Un nesso particolare, comunque, è posto dalla Dei
Verbum tra la Parola di Dio e la verità. Prescindere da questa intima connessione equivarrebbe a
fraintendere non solo l’intero documento, ma il cristianesimo stesso e la sua pretesa di portare al
mondo la definitiva rivelazione di Dio all’umanità con l’incarnazione di Gesù Cristo. Se la missione
della Chiesa prescindesse dalla questione veritativa, allora la sua proposta di fede non potrebbe
essere originale. Ciò che spinse gli Apostoli fin dall’inizio alla missione, infatti, fu la convinzione
profonda che il kérygma aveva con sé una tale carica veritativa e salvifica che non poteva rimanere
rinchiusa nell’ambito di un solo popolo. Se il martirio di Stefano fece comprendere ai Dodici che le
parole di Gesù possedevano un valore che travalicava i confini di Israele, l’azione missionaria di
Paolo fu certamente trainante per dare lo slancio universale alla Chiesa nascente. In questa azione
missionaria non c’è distinzione alcuna; tutti sono chiamati a divenire ministri della Parola e suoi
servitori in forza del Battesimo ricevuto.
Si dovrebbe prendere con forza e convinzione questa tematica e trarne le debite
conseguenze. In un periodo come il nostro in cui emerge un forte desiderio di verità, in mezzo a un
confuso relativismo e a un permanente flusso di fake-news alimentate a dovere da poteri forti,
volgere lo sguardo alla Parola di Dio come parola di verità non è affatto ovvio né inutile. Solo a
questa condizione si può giungere a percepire la sua essenziale novità e il valore insostituibile per la
vita personale. Nella misura in cui la Parola di Dio è vera, allora può chiedere l’obbedienza della
fede, perché risulta credibile e degna di essere seguita. Come si è visto nelle pagine precedenti,
24
quando ci si pone dinanzi alla Parola di Dio ciò che si realizza è un colloquio sincero tra due
‘amici’, dove uno si sente provocato in ciò che costituisce l’essenza della propria esistenza
personale: la risposta alla domanda sul senso della vita. La Parola di Dio permette realmente di
cogliere la verità sulla propria vita e apre spazi di libertà inimmaginabili. Nessuno può rinchiudere
sé stesso all’interno di una fortezza inaccessibile, perché il rischio di non trovare la felicità è all’erta
e si perde l’opportunità di amare ed essere amati. La Parola di Dio offre orizzonti di senso che
vanno oltre noi stessi per approdare al mistero di amore che ognuno percepisce come necessario e
insostituibile.
Si tratta di comprendere, dunque, se la Costituzione conciliare in questi decenni abbia
realmente messo le ali nella vita della Chiesa per fare della Parola di Dio la sua fonte unica e
originaria da cui tutto deve essere normato. I primi a fare un serio esame di coscienza in tal senso
sono i vescovi. Come insegna la Dei Verbum: «Il Magistero […] non è superiore alla Parola di Dio
ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con
l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella
Parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato
da Dio» (DV 10). Immersi ogni giorno in tante questioni che spesso non sono le più essenziali, può
accadere che a fine giornata anche il vescovo debba chiedersi se il suo ministero è stato annunciare
e testimoniare Gesù Cristo.
Il luogo privilegiato per la Chiesa perché possa cogliere la verità profonda della Parola di
Dio rimane l’Eucaristia. I padri conciliari nella conclusione della Costituzione hanno
intenzionalmente creato per la seconda volta un parallelo tra la Parola di Dio e il banchetto
eucaristico: «Come dall’assidua frequenza al mistero eucaristico prende vigore la vita della Chiesa,
così è lecito sperare nuovo impulso di vita spirituale dall’accresciuta venerazione della Parola di
Dio» (DV 26). Sembrano voler dire che la Parola di Dio porta con sé gli effetti creativi che pongono
in essere il Corpo mistico. Questa, di fatto, è la realtà che permane visibile dinanzi agli occhi dei
nostri contemporanei. La consapevolezza di essere segno visibile di Cristo che continua a vivere nel
mistero eucaristico dovrebbe provocare i credenti a essere sempre di più segno di unità, di amore e
di chiamata alla partecipazione. Come, dunque, l’Eucaristia alimenta la vita della Chiesa per farla
essere segno della presenza di Cristo nel mondo fino al suo ritorno, così la Parola di Dio deve
nutrire la vita dei credenti perché la loro testimonianza permanga come forma creatrice e visibile
della vocazione a trasformare il mondo per renderlo una città ‘affidabile’ per tutti, dove ognuno si
sente amato dall’unico e insuperabile amore che proviene dalla Trinità.

25
DEI VERBUM 1-5

Proemio
1. In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo
Concilio fa sue queste parole di San Giovanni: «Annunziamo a voi la vita eterna, che era
presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito,
affinché anche voi siate in comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col
Figlio suo Gesù Cristo» (1Gv 1,2-3). Perciò seguendo le orme dei concili Tridentino e
Vaticano I, intende proporre la genuina dottrina sulla divina rivelazione e la sua
trasmissione, affinché per l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda,
credendo speri, sperando ami.

Natura e oggetto della rivelazione


2. Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il
mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo,
Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della
divina natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col
1,15; 1Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv
15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione
con sé. Questa economia della rivelazione comprende eventi e parole intimamente
connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e
rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le
opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa
rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il
quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione.

Preparazione della rivelazione evangelica


3. Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre
agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20); inoltre,
volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò sé stesso ai
progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò alla
speranza della salvezza (cfr. Gen 3,15), ed ebbe assidua cura del genere umano, per dare
26
la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del
bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo (cfr. Gen
12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché
lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stesse in
attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via all’Evangelo.

Cristo completa la rivelazione


4. Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla
fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo
Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e
spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne,
mandato come «uomo agli uomini», «parla le parole di Dio» (Gv 3,34) e porta a
compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli,
vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza
e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i
miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con
l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la
testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della
morte e risuscitarci per la vita eterna. L’economia cristiana dunque, in quanto è l’Alleanza
nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun’altra rivelazione pubblica
prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1Tm 6,14 e Tt
2,13).

Accogliere la rivelazione con fede


5. A Dio che rivela è dovuta «l’obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2Cor
10,5-6), con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli «il
pieno ossequio dell’intelletto e della volontà» e assentendo volontariamente alla
rivelazione che egli fa. Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di
Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e
lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia «a tutti dolcezza nel consentire e nel
credere alla verità». Affinché poi l’intelligenza della rivelazione diventi sempre più
profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi
doni.

27
Quaderni del Concilio

1. Il concilio Vaticano II

Dei Verbum
2. La rivelazione come Parola di Dio
3. La Tradizione
4. L’ispirazione
5. La sacra Scrittura nella vita della Chiesa

Sacrosanctum Concilium
6. La liturgia nel mistero della Chiesa
7. La sacra Scrittura nella liturgia
8. Vivere la liturgia in Parrocchia
9. Il mistero eucaristico
10. La Liturgia delle Ore
11. I sacramenti
12. La Domenica
13. I tempi forti dell’Anno liturgico
14.La musica nella liturgia
15. La bellezza della liturgia

Lumen Gentium
16. Il mistero della Chiesa
17. Le immagini della Chiesa
18. Il popolo di Dio
19. La Chiesa è per l’evangelizzazione
20. Il Papa, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi
21. I laici
22. Le persone consacrate
23. La santità come vocazione universale
24. La Chiesa pellegrina verso la pienezza
25. Maria la prima dei credenti

28
Gaudium et Spes
26. La Chiesa nel mondo di oggi
27. Il grande tema del senso della vita
28. La società degli uomini
29. Autonomia e servizio
30. La famiglia
31. La cultura
32. L’economia e la finanza
33. La politica
34. Il dialogo come strumento
35. La pace

29

Potrebbero piacerti anche