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I volumi di questa collana sono stati curati dal «Dicastero per l’Evangelizzazione.

Sezione per le
questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo».

© 2022, by Dicastero per l’Evangelizzazione. Sezione per le questioni fondamentali


dell’evangelizzazione nel mondo

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Il mistero della Chiesa
(LG 1-5)

Cettina Militello

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INDICE

Premessa
Cos’è la Chiesa?
Cos’è un concilioconcilio?
Perché un concilioconcilio parla della Chiesa?

Capitolo 1: Il mistero della Chiesa


Perché parliamo di Mistero?
La Chiesa, sacramento in Cristo

Capitolo 2: Il disegno salvifico universale del Padre


Dal Padre
La missione del Figlio
Lo Spirito che santifica la Chiesa

Capitolo 3: Il regno di Dio


Cos’è il regno di Dio
Gesù e il Regno

Conclusione

Lumen Gentium 1-5

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PREMESSA

Cos’è la Chiesa?

Nell’uso comune la parola ‘chiesa’ richiama l’edificio dove ci si reca, se credenti, almeno
ogni domenica per partecipare all’Eucaristia. Ci si ritrova dentro le sue mura, credenti e non, in
occasione di matrimoni e funerali. Meno spesso in occasione di un battesimo. Ma l’edificio non è la
Chiesa. Piuttosto è il luogo dove si radunano quelli che ne fanno parte. Chiesa dal greco ekklesía,
convocazione, assemblea, raduno, dice nella composizione stessa del termine (ek-kaléo = chiamo
da) il convergere, il radunarsi. A compiere quest’azione, a radunarsi in assemblea sono i cristiani.
Essi si riconoscono in Gesù di Nazareth; sono membri della comunità da lui fondata. Una lunga
catena li lega a lui e ai suoi primi discepoli che, obbedendo al suo mandato, hanno portato
dovunque il suo Vangelo, il suo lieto annuncio di liberazione e di pace.
Un profeta, un maestro itinerante, qualificato “Messia” e “Signore” dai suoi; una raccolta di
poveri e sprovveduti pescatori; un numero imprecisato di uomini e donne che lo seguono…
Davvero un gruppo eterogeneo che afferma di avere visto vivo uno che è morto su un patibolo.
Eppure, forti di questa singolarissima esperienza, i discepoli e le discepole hanno percorso tutte le
strade allora conosciute superando persecuzioni e avversità e portando ovunque la buona novella
del “regno di Dio” da lui annunziata.
Gesù, dunque, ha i tratti del profeta, del rabbi, del maestro, ma i suoi, che pure così lo
riconoscono, vedono in lui l’unto del Signore, il Messia atteso, colui che avrebbe per sempre
restaurato il regno davidico, il redentore di Israele. Identificare Gesù come profeta (cfr. Lc 7,16) è
collocarlo nella tradizione religiosa di un popolo che, al pari di altri popoli, riconosce ad alcuni un
dono particolare, la capacità di farsi tramite di una Parola che non è la propria ma viene dall’Alto. È
la divinità a parlare per bocca del profeta. E, nella storia di Israele ciò si ripete innumerevoli volte.
Il profeta apre al futuro. Rimprovera, consola, esorta, assicura la presenza di Dio in seno al suo
popolo. Nella lucida lettura del presente lo guida verso il futuro.
Tuttavia Gesù parla con una autorità propria, agisce e opera con una singolare
autorevolezza. E ciò vale anche nel riconoscerlo quale ‘maestro’. In Israele sono molti i cultori, gli
esperti conoscitori della Legge che da Dio è stata donata al suo popolo. Sin dal vangelo
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dell’infanzia, Gesù mostra di stare loro a pari (cfr. Lc 2,45-47). Ci si meraviglia della sua sapienza
(cfr. Mc 6,1-3), lui che viene da un povero e marginale villaggio della Galilea, regione di confine,
dove, proprio perché prossimi a popolazioni altre, non si è particolarmente attenti alle osservanze
che caratterizzano il popolo di Israele, che assai più le coltiva in Giudea, a Gerusalemme, là dove
sta il grande tempio ricostruito da Erode il Grande.

Quando Gesù nasce, la Palestina è una provincia romana. Governa la Giudea un re fantoccio
filo-romano. Vessato dalla potenza occupante il popolo è in fermento. La singolarità della sua fede
monoteista lo rende sospetto alle autorità romane che, diversamente da quanto hanno fatto con tutti i
popoli via via sottomessi, non possono accogliere questo Dio ‘unico’ nel loro affollato pantheon.
Gesù si muove dunque su un terreno minato, in cui esplodono conflitti d’ogni genere,
politici e religiosi. Il suo messaggio è sì di liberazione, ma non nel senso politico di sottrarre Israele
dal giogo romano. Israele attende il Messia, l’unto del Signore, colui che libererà il suo popolo e
restaurerà il regno di Davide. I vangeli concordano nel mostrarci Gesù come corrispondente a
questa attesa (cfr. Lc 4,16-21). Ma il messianismo di Gesù non è politico e, d’altra parte, egli si
scontra con un certo modo di interpretare e osservare la Legge – si veda il conflitto circa
l’interpretazione del riposo sabbatico (cfr., ad es. Lc 6,6-10). Denuncia ipocrisie e formalismi (cfr.,
ad es. Mt 12,1-14). Si schiera dalla parte degli ultimi, guarendoli, confortandoli, dicendoli «beati»
(cfr. Mt 5,3-12).
Per diversi motivi, dunque, egli entra in conflitto con i poteri forti del suo tempo. Catturato,
sarà processato e condannato a morte. Ciò malgrado, i suoi lo incontreranno vivo e saranno ancora
ammaestrati da lui sino al suo definitivo sottrarsi ai loro occhi. La sua vicenda è narrata nei vangeli.
Corrono quasi in parallelo i sinottici (Matteo, Marco, Luca); diverso, più simbolico, è l’approccio
alla sua vicenda così come lo propone il vangelo secondo Giovanni. La storia della comunità delle
origini è invece narrata negli Atti degli Apostoli, una sorta di grande affresco o di foto di famiglia
che, idealizzandole, narra le vicende della prima comunità cristiana, della Chiesa madre di
Gerusalemme e poi della Chiesa di Antiochia e delle altre legate all’impegno missionario dei
discepoli. Tra di essi è Paolo, prima persecutore, poi seguace del Nazareno. Abbiamo le lettere che
egli invia a diverse comunità da lui fondate.
Emerge nel complesso l’autorevolezza dei testimoni che Gesù stesso si è scelto, i Dodici, e
d’altra parte la comunione, l’unione d’intenti, il sentire comune che caratterizza quanti entrano a far
parte della Chiesa (cfr. At 2,42-46; 4,32-35; 5,12-14), o, meglio, delle diverse Chiese che fioriscono
lungo le sponde del Mediterraneo.
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Cos’è un concilio?

I membri della comunità, sin dagli inizi, quando ancora si sentivano legati alla loro matrice
ebraica, hanno messo in atto pratiche e luoghi di dialogo e di confronto. Tra queste, l’assemblea
degli anziani (cfr. At 15,2.4.6.22). I responsabili delle comunità vi discutono i temi che di tempo in
tempo appaiono urgenti. Potremmo riconoscere in questo assetto assembleare un antecedente dei
concili. Non a caso chiamiamo così, magari impropriamente, quello di Gerusalemme, di cui ci parla
At 15,6-29. In esso la comunità nuova, che ancora frequenta il tempio e osserva le pratiche
giudaiche, si apre all’inclusione anche dei gentili, ossia ammette alla comunità persone estranee,
sedotte comunque dalla novità cristiana, senza imporre loro le regole stringenti del giudaismo,
prima tra tutte la circoncisione.
A questo cosiddetto concilio ne succedono altri nella storia. I primi sette appartengono alla
Chiesa unitaria del primo millennio. In uno dei primi viene redatta la formula solenne di fede, il
Credo niceno-costantinopolitano (381), lo stesso che ancora condividono tutte le Chiese cristiane.
Dopo la rottura con le Chiese d’Oriente (1054), la Chiesa di Roma ha dato vita ad altri concili.
Diversi e importanti quelli del medioevo; importante in età moderna quello di Trento. Secoli dopo,
un concilio si riunisce a Roma, in Vaticano. L’ingresso delle truppe piemontesi con la breccia di
Porta Pia lo interrompe il 20 settembre 1870 segnando la fine del potere temporale. Poiché vi si è
dichiarata l’infallibilità del Papa e il suo potere di giurisdizione sulla Chiesa universale, sembra non
esserci più bisogno di concili.
Invece, nel 1962, la Chiesa Cattolica di nuovo si raduna in concilio. Dobbiamo a Papa
Giovanni XXIII, quasi all’inizio del suo pontificato, la decisione di convocarlo. Una preparazione di
quasi quattro anni impegna vescovi, facoltà teologiche, fedeli qualificati, a proporne i temi. Dal
1962 al 1965 più di 2.000 vescovi convergono a Roma per celebrarlo. La loro fatica è supportata da
un numero significativo di esperti e di uditori, uomini e donne; partecipano anche a titolo di
osservatori esponenti delle altre Chiese cristiane. Tra gli argomenti da mettere a tema, appunto, la
Chiesa.

Perché un concilio parla della Chiesa?


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Per strano che possa apparire, farlo era urgente e necessario. Le comunità cambiano
fisionomia e stile e modelli nel passare del tempo. La timida comunità del cenacolo non è la Chiesa
dei martiri o la Chiesa all’epoca di Costantino e poi del medioevo o dell’età moderna e
contemporanea.
Lo stesso mutare dello stile costruttivo delle chiese ci fa capire come nel tempo le comunità
hanno diversamente interpretato sé stesse, sia nei rapporti interni sia in quelli instaurati all’esterno.
Altro sono le catacombe o le case private dove ci si raccoglieva privatamente per la cena del
Signore (la domus ecclesia), altro sono le “case della Chiesa” (le domus ecclesiae) e poi gli edifici
d’età costantiniana, bizantini, romanici, gotici, rinascimentali, barocchi, neo-romanici, neo-gotici
sino alle chiese realizzate immediatamente prima o dopo il Vaticano II.
Al ‘divenire’ cristiani, è subentrato nel IV-V secolo il ‘nascere’ cristiani. Alla conversione
prodotta dall’annuncio, frutto di una scelta, vissuta attraverso le tappe del catecumenato, ossia
attraverso una preparazione che introduce alla fede, al Simbolo, alla preghiera liturgica, è subentrato
un vivere acquietato in una società tutta cristiana che nei secoli ha anteposto sé stessa e le sue
strutture al suo nativo impegno missionario. Certo non sono mancati, di tempo in tempo, pressanti
appelli alla radicalità dell’Evangelo. Lo provano i santi e le sante, i fondatori e le fondatrici di
famiglie religiose; lo prova il permanere del dono della profezia, della guarigione, della sapienza,
del discernimento che porta uomini e donne a destare le comunità dal loro torpore mostrando
l’inesauribile bellezza del Vangelo e della sequela…
Nel secolo passato, divenuto indice anagrafico più che scelta di fede, l’essere e fare Chiesa
richiedeva risposte nuove, nuova consapevolezza e nuove modalità in un mondo che, pur dicendosi
cristiano, si mostrava nei fatti sempre più secolarizzato. A metà del secolo XX era necessario e
urgente chiedersi – lo ha fatto Papa Paolo VI: «Chiesa, cosa dici di te stessa?», e, aggiungerei:
«Cosa hai da dire agli uomini e alle donne di questo tempo? Come puoi farti prossima e interprete
delle loro attese, delle loro gioie, dei loro timori e delle loro speranze?».
La Costituzione dogmatica sulla Chiesa voleva rispondere a queste domande. Comprendere
e aiutare a comprendere quale fosse la natura e la missione della comunità che si riconosceva in
Gesù Cristo. Non fu un percorso facile. Chiamata Lumen Gentium dalle parole sue iniziali, la
Costituzione venne promulgata il 21 novembre 1963, a conclusione del terzo periodo – il concilio si
era aperto il 21 ottobre 1962. Parliamo, dunque, di un evento di sessant’anni fa. Una data

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lontanissima per i più, quelli nati nei decenni successivi. L’elaborazione del documento impegnò a
lungo i padri conciliari – lo prova la storia della sua laboriosa redazione.
In qualche modo essi passarono a una diversa comprensione della Chiesa attraverso una
serie di importanti acquisizioni. La prima riguarda l’avere colto la Chiesa come ‘sacramento’. Come
vedremo a breve ciò vuol dire rimettere al centro Cristo, la cui luce si riverbera sul volto della
Chiesa, che è autenticamente tale nella misura in cui se ne fa strumento. Non meno importante,
forse più ancora, l’avere anteposto il tema del “popolo di Dio” (cap. II) a quello relativo alla
“gerarchia” (cap. III). Detto altrimenti, il Battesimo, l’essere membra della Chiesa precede e conta
assai più delle distinzioni successive, pure necessarie. La Chiesa tutta, tutti i battezzati costituiscono
il popolo di Dio. La locuzione non riguarda, dunque, una sua parte, i laici, ma riguarda tutti e tutte
indistintamente e previamente. Ministri ordinati e fedeli solamente battezzati appartengono a pieno
titolo all’unico popolo dei seguaci di Cristo; cooperano, ciascuno per la propria parte, alla sua
crescita e al suo sviluppo.
Altrettanto importane, nella ricomprensione dell’essere Chiesa, è l’aver parlato di una
“universale chiamata alla santità” (cap. V) prima di mettere a tema la “vita religiosa” (cap. VI).
Infatti, per molti secoli la santità sembrava riservata soltanto a quanti e quante operavano questa
scelta di vita e non al popolo di Dio tutto. Il matrimonio, la vita secolare pareva anzi un
impedimento alla santità. Insomma, alla distinzione/contrapposizione chierici-laici, si aggiungeva
quella di perfetti e imperfetti, santi e mondani.
Altro elemento nuovo, in verità antico, è stata la riscoperta dell’indole peregrinante (cap.
VII), oggi la diciamo ‘sinodale’, della Chiesa. Essa, infatti, è “popolo in cammino” che incede nel
tempo verso Cristo che torna, sempre bisognosa di purificazione e perdono. Affermarlo ha
significato legare strettamente la Chiesa alla storia e insieme abbandonare il trionfalismo
autosufficiente che sembrava anteporla a Cristo stesso, quasi si realizzasse a prescindere da lui,
peccatrice solo nelle membra, ma in sé santa, senza bisogno di conversione e perdono.
Certo la Chiesa è santa perché Dio la rende partecipe della sua vita, ma la santità è connotato
escatologico, almeno nel senso che sarà perfettamente e pienamente santa solo alla fine del suo
cammino nella storia. L’indole peregrinante riconduce la Chiesa all’orizzonte dell’umano,
dell’incedere umano nel tempo e nello spazio. La metafora del cammino è, infatti, la più comune
per indicare la vita umana e non a caso nel medioevo si parlava di viatores, persone in viaggio,
proprio per indicare i cristiani. Per altro negli Atti essi sono indicati come quelli della «via» (cfr. At
9,2; 19,9.23).

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In cammino, pellegrini verso Cristo che torna, i cristiani nel loro incedere sono animati dalla
speranza. Sono, per usare lo slogan del giubileo 2025, «pellegrini nella speranza». Il loro sguardo
fiducioso è diretto in avanti, verso la meta, che per ogni essere umano è la realizzazione di sé stessi,
il conseguire una migliore, anzi ottimale qualità della vita. Il che, per i cristiani, coincide con
l’andare, verso Cristo che torna, a lampade accese (cfr. Mt 25,1-12), ricolme – come commentano i
padri della Chiesa – dell’olio della carità.
Infine, non senza difficoltà, il capitolo VIII, l’ultimo, ha collocato all’interno della
trattazione sulla Chiesa la figura di Maria, leggendola nella storia della salvezza e mostrandone il
legame alla Chiesa stessa, di cui è ‘membro’, ‘tipo’ e ‘modello’. Si trattava ancora una volta di
recuperare una dottrina antica e riacquisire come prossima, come ‘sorella’, la madre del Signore.
Una lettura di lei sobria, biblica, ecumenica, pur affermandone l’assoluta singolarità, la riconduceva
al popolo di Dio peregrinante. Non a caso si parla di una sua «peregrinazione nella fede» (cfr. LG
58).
Nel complesso la Lumen Gentium ha davvero operato una rivoluzione. Lo esigevano la
mutata sensibilità culturale e quei fermenti di novità che, già presenti nell’800, compiutamente si
erano espressi nella prima metà del secolo XX: il movimento liturgico, il ritorno alle fonti (bibliche,
patristiche, magistrali…), la rinnovata attenzione ai laici. Strumenti nuovi spingevano a leggere la
Chiesa nel suo vissuto teologico e teologale, di nuovo riandando alle sorgenti, alla coscienza di
Chiesa dei primi secoli. Insomma, oltre una concezione di Chiesa societaria, segnata dall’assetto
istituzionale, diseguale nelle membra e disattenta allo Spirito, nell’assise conciliare trovava eco
quella “Chiesa delle anime” la cui novità era apparsa nei primi decenni del secolo XX. Il travaglio
redazionale disegnava ora una nuova immagine di Chiesa. Vi emergeva potente la natura
comunionale e in altra forma ne veniva ridisegnata la missione.

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CAPITOLO 1
IL MISTERO DELLA CHIESA

Perché parliamo di Mistero?

«Il mistero della Chiesa» è il titolo del capitolo primo della Lumen Gentium. Mistero… Cosa
mai vuol dire? Usiamo la parola per indicare qualcosa di intricato, di astruso, di difficile da spiegare
o da comprendere. Ma nel linguaggio del concilio ha un significato più sottile. Indica, infatti, che,
parlando della Chiesa, le classificazioni abituali, quelle che usano i sociologi per identificare e
descrivere i gruppi umani, sono insufficienti. La Chiesa è certo costituita da tutti i battezzati e le
battezzate che, di tempo in tempo, obbediscono alle comuni regole socio-culturali e religiose. Ma
pensare che tutto si riduca a ciò che appare, a una somma di persone pure con talune caratteristiche
specifiche, non coglie che in parte ciò che la Chiesa è: appunto, un ‘Mistero’.
Questo termine viene dalla Scrittura e indica una realtà nascosta che viene svelata piano
piano. Nel linguaggio della fede ‘Mistero’ è il disegno, il piano di Dio relativo alle sue creature.
Esso viene manifestato nel tempo, quasi a tappe. Culmina in Cristo, nella sua morte e risurrezione.
Di questo piano salvifico la Chiesa è parte non secondaria, anzi ne costituisce un momento
determinante. Proviamo a capirne il perché.
Immaginiamo di trovarci in un deserto, senza cibo né acqua… immaginiamo pure d’essere
nel pieno di una tempesta di sabbia. Non si vede niente. Non c’è nessuno. Gridiamo aiuto e nessuno
ci risponde. Non c’è possibilità di restare in vita. Ambiente inospitale, assenza di altri esseri umani,
oscurità completa… morte sicura.
Ebbene, molto spesso smarriamo la percezione di stare all’interno di una catena che ci
consente la vita: se figli, pensiamo di fare a meno dei genitori… se ci nutriamo, dimentichiamo o
ignoriamo la lunga catena che ci assicura l’alimentazione: semina, coltivazione, trasformazione,
commercializzazione… se ci vestiamo, sembriamo non cogliere la fatica che sta dietro gli
indumenti che usiamo: fatica del procurarsi la materia prima, animale o vegetale, lavorazione in
tessuto, elaborazione dei capi, e ancora confezione, vendita… se abitiamo una casa, sembriamo non
renderci conto della complessità che le sta a monte: progetto, costruzione, arredamento… Insomma,
comunque ci muoviamo, quale che sia la realtà di cui fruiamo, di persone, di creature o di
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manufatti, essi hanno alle spalle catene lunghissime, ecosistemi complessi di cui, ci piaccia o no,
anche noi facciamo parte.
Il Mistero, ossia il disegno di Dio, su un altro piano vuole avvertirci della medesima cosa. Se
il cosmo c’è e se noi siamo al mondo, è perché facciamo parte di un progetto. Non sappiamo con
esattezza quando tutto ciò è cominciato, ma cogliamo nel vivere e morire delle piante, degli animali,
delle creature pensanti, quali ci consideriamo, che in tutto ciò c’è un progetto, fosse solo quello
della vita che prepotentemente trionfa della morte. Sbocciano fiori sotto le macerie, corpi
decomposti ne alimentano i colori. Abbiamo visto durante la pandemia come la natura si sia
riappropriata delle città: animali d’ogni tipo indisturbati le hanno percorse sotto ogni latitudine. E
abbiamo visto l’ininterrotta catena delle nascite anche sotto le bombe, nei rifugi, sui barconi di
migranti disperati… Basterebbe questa prepotente rivalsa della vita, si trattasse solo del conservare
specie e habitat, a dirci l’esistenza di un progetto. Ma è troppo poco pensare all’ineluttabilità del
nascere e del morire come unica ed esaustiva risposta. Se ci siamo, è anche per altro. Ci siamo come
persone in relazione, come soggetti che reciprocamente si legano condividendo una lingua, una
storia, delle regole, una cultura… Conosciamo reti familiari, amicali, prossimità a partire dal lavoro,
dallo sport, dagli hobby. Nessuno è un’isola. Se c’è, se sopravvive è perché sta in rete, in relazione,
in rapporto.
Il problema è, in tutto ciò, che senso dare alla vita, alla relazione, al rapporto? Il nostro è un
passaggio effimero, senza impegni, a breve termine? O non si tratta piuttosto di una possibilità che,
proprio nella necessità dell’incontro con l’altro, chiede altro incontro, altro senso, altra e più
profonda ragione circa l’essere al mondo? Non c’è forse Dio a dare senso alla nostra storia, al
nostro vivere in questo mondo? Ed è possibile che egli si sia fatto riconoscere, che abbia dato segni
di presenza, che abbia proposto alle sue creature un progetto di vita adeguato al suo aver chiamato
all’esistenza gli esseri umani?
Quando parliamo di Chiesa, di comunità credente, non stiamo forse scoprendo una
espressione, una tappa di questo progetto? Non è forse la Chiesa un luogo di interconnessione e di
rapporti? Non la esprimono similitudini, metafore di tipo relazionale? E lo stesso farsi prossimo di
Dio ha alla fine come luogo suo espressivo proprio questa comunità di uomini e di donne che ne
riconoscono la chiamata, che guardano a Cristo come colui che rivela il senso stesso di questa
chiamata: diventare la comunità che egli ha voluta per annunciare e testimoniare nel tempo che la
vera vocazione di ogni essere umano è avere parte alla vita di Dio. Ci soccorre, nel Nuovo
Testamento, un passaggio eloquente che scandisce le tappe del manifestarsi di questo disegno
salvifico:
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Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
Il lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediate Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui, mediate il suo sangue,
abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe,
secondo la ricchezza della sua grazia.
Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
facendoci conoscere il mistero della sua volontà,
secondo la benevolenza che in lui si era proposto
per il governo della pienezza dei tempi:
ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra (Ef 1,3-10).

Il Mistero è dunque il piano divino di salvezza, nascosto dall’eternità e ora rivelato: per esso
Dio stabilisce Cristo quale centro della nuova economia; lo costituisce per la sua morte e
risurrezione quale principio di salvezza per i giudei e i gentili e lo, fa capo di tutti gli esseri. Della
sua manifestazione luogo e strumento è la Chiesa: «Essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è
il perfetto compimento di tutte le cose» (Ef 1,23).
Certo viviamo in tempi nei quali la parola ‘Chiesa’ evoca anche disordini inaccettabili.
Purtroppo però connotano il nostro limite di persone umane, troppo spesso non orientate al bene.
Ma al di là degli scandali e delle strutture di peccato che toccano anche la comunità credente, la
domanda è: «Davvero la Chiesa ha qualcosa da dirmi? Vale la pena farne parte? Il piano di Dio
davvero mi interpella? Risponde pienamente alla mia domanda di alterità e comunione? Davvero
può dar senso pieno alla mia vita?».

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Proveremo a mostrare che il messaggio di Gesù di Nazareth seduce ancora. La bellezza del
suo annuncio non può essere offuscata dalle inadeguatezze della Chiesa, comunità che pure si
riconosce nel suo nome. La Lumen Gentium prova a presentarcela nel suo statuto inter-relazionale,
secondo il modello di comunione che le dà origine nelle peculiarità del regno di Dio che è chiamata
a promuover e a realizzare.

La Chiesa, sacramento in Cristo

Finiamo di dire che Chiesa niente altro è se non il luogo in cui si manifesta il progetto di
Dio, Padre Figlio Spirito. In senso stretto è strumento del suo annuncio ed esperienza della sua
salvezza. Mi si dirà ancora: «Salvezza… che parola è? Che significa?». Forse la capiamo meglio
nella sinonimia a ‘salute’. Ci teniamo tanto oggi a essere in forma, a stare in buona salute. Ecco: la
Chiesa è segno e strumento di una salute che ci riguarda nella totalità nostra di persone; e non
singolarmente prese, ma nel rapporto che ci lega le une alle altre.
Riandiamo alla Lumen Gentium, al suo paragrafo iniziale e lo capiremo meglio: «La Chiesa
è, in Cristo, in qualche modo il sacramento…». Di nuovo, cosa vuol dire, che cos’è un sacramento?
Bisogna innanzitutto ricordare che, nei primi secoli del cristianesimo, ‘sacramento’, ‘mistero’ erano
usati indifferentemente. Per meglio dire, ‘sacramento’ tradusse in latino la parola greca ‘mistero’,
che nel frattempo al plurale – i ‘misteri’ – indicava l’iniziazione cristiana (Battesimo,
Confermazione, Eucaristia) nel suo insieme. Sacramento era il rito mediante il quale si veniva
incorporati alla Chiesa. In esso il credente veniva sepolto con Cristo per risorgere con lui a vita
nuova. Il Battesimo per immersione, con la discesa e la risalita dalla vasca battesimale, bene
esprimeva questo essere sepolti con lui per risorgere con lui. Il rito dunque era insieme «il segno e
lo strumento» di questa partecipazione in Cristo alla vita nuova da lui elargita. Nella materialità
dell’acqua e nell’olio dell’unzione – quest’ultimo segno della forza abilitante dello Spirito – si era
resi idonei a partecipare all’Eucaristia. Insomma, si diventava una sola cosa con Cristo e insieme si
diveniva suo corpo, cioè si era pienamente Chiesa. Questo fondamentale rapportarsi a Cristo, questo
essere quasi sacramento, mezzo e strumento della sua salvezza, spiega le parole iniziali della
Costituzione. Sulla Chiesa risplende la luce di Cristo. Per questo essa esiste: per far risplendere sul
suo volto la luce di Cristo e così illuminare il mondo.

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La Chiesa, dunque, non esiste per sé stessa. Essa ha come destinataria l’umanità intera. Se
per un verso è segno e strumento dell’«intima unione con Dio» che si realizza in ogni credente, essa
è anche diretta a significare e perseguire «l’unità di tutto il genere umano».
Ecco, quella interconnessione che ci contraddistingue come creature, animate e inanimate,
raziocinanti e non, quella complessità che lega la necessità di essere gli uni per gli altri e di pensare
a monte della catena Qualcuno che le dia l’avvio e il senso ultimo, ha un suo strumento nella
Chiesa, che, dunque, non è un raduno di sfaccendati o un club esclusivo e selettivo. Piuttosto è il
luogo che dovrebbe rendere manifesto, che dovrebbe far percepire agli uomini e alle donne tutti e
tutte che sono chiamati e chiamate sia all’unione con Dio sia a realizzare l’unità del genere umano.
Unione con Dio… Unità del genere umano… Sì, possono sembrarci parole vuole o belle
parole. In verità non lo sono, se abbiamo la pazienza di rifletterci un poco. Domandiamoci ancora:
«Perché mai siamo al mondo? Perché l’inquietudine del vivere ci attanaglia? Perché ci assillano
mille domande a cui non troviamo risposta?». Probabilmente perché non abbiamo il coraggio di
lasciarci andare riconoscendoci nel nostro limite. Non ci salviamo da soli. Non è da soli che diamo
senso alla vita. La nostra inquietudine è segnaletica di un appello, di una domanda che ci interpella.
La risposta, solo che rinunciamo alla presunzione di essere sufficienti a noi stessi, è l’affidarsi a
Qualcuno che sia lui stesso la Risposta.
Così dicendo diamo per scontato che Dio c’è e diviene. E accettiamo per indicare questa
realtà il linguaggio immaginifico della Scrittura, Antico e Nuovo Testamento. Quanto in essa
raccolto e tramandato ci significa il farsi incontro di Dio, il suo darsi a conoscere, il suo
manifestarsi alle creature, il suo chiamarle a essere un unico popolo consacrato al suo nome (cfr.
LG 9). Senza questo riconoscimento previo il nostro riflettere sulla Chiesa non avrebbe senso.
I padri conciliari si mettono in quest’alveo di fede accolta e trasmessa. In essa spartiacque
della storia è il farsi uomo del Verbo, del Figlio di Dio. Se parliamo di Chiesa è perché partiamo da
lui, dall’appello da lui rivolto, dal suo annuncio del farsi prossimo in lui del regno di Dio: «Il tempo
è compiuto e il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc1,15). Ai suoi egli ha
rivelato il Padre e ha promesso il dono dello Spirito. La natura e la missione della Chiesa nient’altro
chiedono se non di cogliere il rapporto che la stessa ha con Dio, Padre Figlio Spirito, e con il Regno
che Gesù ha annunciato.

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CAPITOLO 2
IL DISEGNO SALVIFICO UNIVERSALE DEL PADRE

Dal Padre

Il numero 2 del capitolo primo della Costituzione disegna la storia della salvezza e in essa il
progetto del Padre che non è riservato a pochi, ma è diretto alla umanità intera. Nel creare
l’universo egli ha voluto, nel Figlio, rendere gli esseri umani partecipi della sua vita. Malgrado
l’umanità sin dall’inizio abbia disatteso il suo disegno – il libro della Genesi al capitolo 3 ce ne
descrive la prima caduta – non per questo il Padre l’ha abbandonata, tutti predestinando a essere
conformi all’immagine del Figlio, perché fosse primogenito di una moltitudine di fratelli (cfr. Rm
8,29).
L’ultimo dei documenti conciliari, la Costituzione pastorale su “La Chiesa e il Mondo
contemporaneo” Gaudium et Spes, disegna più ampiamente, nei paragrafi iniziali, il progetto
creatore di Dio sotto il profilo antropologico. Ma è chiaro anche in Lumen Gentium come il disegno
del Padre vuole gli esseri umani tutti conformi all’immagine del Figlio, egli stesso immagine del
Padre. Nell’economia del capitolo primo, il numero 2 vuole, appunto, mettere in luce il Padre, la
sua identità e il suo agire.
Presso molti popoli, ‘padre’ è uno dei nomi con cui ci si rivolge alla divinità. Lo si
comprende perché, nelle culture patriarcali, quella paterna è la figura di riferimento. Se ne fa
esperienza al positivo e al negativo. Il termine, infatti, culturalmente suggerisce, più che la
tenerezza, un rapporto di dipendenza e soggezione. Anche Israele chiama Dio con il nome di Padre
così collegando a lui le dodici tribù. Il mito serve a cementare il rapporto con lui, ma anche a
rafforzare il legame all’interno del popolo che, a partire da questa comune origine, si riconosce
come ‘fratria’, fratellanza. Nella flessione della paternità di Dio davvero singolare è il brano di Os
11,1-4, nel quale l’attitudine paterna acquisisce i toni inusuali della tenerezza materna.
Nel Nuovo Testamento Dio da Gesù è chiamato ‘Padre’; nel farlo ricorre al termine
affettuoso e familiare di ‘abbà’. Egli invita i suoi, pregandolo, a rivolgersi a lui come «Padre
nostro» (cfr. Mt 6,9-13). Ne declina la paternità misericordiosa nella celebre parabola “del figliol
prodigo”, oggi chiamata appunto “del padre misericordioso” (cfr. Lc 15,11-32). Più volte nelle
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parabole del Regno i termini ‘padre’ e ‘figlio’ esprimono il rapporto con Dio e il manifestarsi del
suo disegno di salvezza (cfr., ad es. Lc 20,3-16).
Ma perché chiamiamo Dio con il nome di padre e indichiamo Gesù come il figlio?
Sappiamo che questi termini esprimono una relazionalità familiare. Essa appartiene all’esperienza
immediata, comune di ogni essere che viene al mondo. Proprio per ciò ce ne serviamo. Dicendo Dio
‘Padre’, ‘Figlio’ e ‘Spirito’, si tratta, però, di significare anche la loro diversità in quanto Persone. Il
Dio cristiano, infatti, è Uno, ma la sua unità supporta la Trinità delle Persone. La traduciamo con i
termini che ci sembrano più prossimi a significarla. Chiamiamo ‘Padre’ chi che genera sin
dall’eternità il Figlio, sua Parola e sua Immagine, e ‘Figlio’ chi da lui è eternamente generato. In
gioco sono, dunque, le relazioni reciproche di generazione e filiazione, di cui è eccedenza
sovrabbondante lo ‘Spirito’ che ne è gratuità e dono.
In questo nostro balbettare la realtà di Dio, sta però consolante il disegno di cui è parte la
Chiesa. Se, infatti, Cristo, il Figlio, è primogenito di molti fratelli e sorelle, se, cioè, la paternità di
Dio si dirige, in lui, all’umanità tutta, quelli che credono in Cristo egli li ha chiamati a formare la
Chiesa. Lo ha bene espresso la benedizione di Ef 1,3-10 che abbiamo già citato.

Come già detto, questo disegno è annunciato sin dall’inizio del mondo. Il testo richiama la
storia del popolo d’Israele e l’antica alleanza. Gesù appartiene al popolo di Israele. Agisce e opera
all’interno di quell’orizzonte religioso e culturale. Studi recenti mostrano il legame di Gesù con il
suo popolo, malgrado la libertà con cui lo esprime. I primi credenti in lui, come lui israeliti, hanno
considerato la sua morte e risurrezione come la fase ultima e definitiva dell’alleanza di Dio con il
popolo eletto, suggellata dall’effusione dello Spirito, preannunciata per i tempi ultimi (Gl 3,1ss.).
Il concilio, che in Lumen Gentium 16, e poi nel decreto Nostra Aetate precisa meglio i
rapporti tra Israele e la Chiesa, ricorre qui, al numero 2 a tre participi: «prefigurata», «preparata»,
«istituita». Nel farlo rinvia a Cipriano, Agostino e ad altri Padri, i quali hanno sottolineato la
continuità tra il disegno originario di Dio (prefigurazione), la vocazione d’Israele (preparazione) e
poi la nascita della Chiesa (istituzione). La nostra attuale sensibilità interreligiosa lascia a Israele
tutta l’originalità dell’alleanza che nulla può infrangere perché radicata nella fedeltà stessa di Dio.
Oggi preferiamo piuttosto sottolineare quanto ci unisce a Israele, senza sottrargli nessuna sua
prerogativa. La Chiesa si colloca dunque in quest’alveo e ha in Gesù il proprio fondatore.
Infine il testo conciliare, facendo sua una espressione patristica, si chiude nella visione del
raduno di tutti i giusti, a partire da Adamo. La formula «dal giusto Abele fino all’ultimo eletto»

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bene esprime il disegno del Padre di raccogliere tutta l’umanità salvata nella Chiesa. Una
aspettativa che oltrepassa barriere e confini religiosi e apre a un respiro universale.
Se questo è il disegno di Dio e se ne è il mezzo e lo strumento, la Chiesa ha davvero da
oltrepassare sé stessa e i propri confini, in fedeltà al progetto di Dio che vuole tutti gli uomini salvi.
Potremmo dire che, magari senza saperlo – Gaudium et Spes parla al numero 22 di «un modo che
Dio solo conosce» – tutti gli uomini sono orientati a Cristo e alla sua salvezza. Su tutti si riverbera
la sua missione.

La missione del Figlio

Dopo aver messo a fuoco il disegno del Padre, il testo conciliare passa, al numero 3, a
declinare la missione del Figlio. Si tratta di leggere la ragione del suo farsi uomo. Sì, la fede
cristiana afferma che la parola di Dio si è fatta carne. Gesù di Nazareth, nato da Maria ad opera
dello Spirito Santo (cfr. Lc 1,26-35), è il figlio diletto del Padre, l’amato (cfr. Mt 17,5), colui che
egli ha inviato non per giudicare il mondo, ma per salvarlo per mezzo di lui (cfr. Gv 3,17). Sia nei
vangeli sinottici che nel vangelo secondo Giovanni si sottolinea che Gesù è l’inviato del Padre (cfr.
Lc 4,18.43; Gv 3,17; 5,38; 8,42). Egli stesso, poi, chiama alcuni dei discepoli perché gli siano
compagni e annuncino anch’essi il suo messaggio (cfr. Mc 3,14). E dice di inviarli così come il
Padre lo ha mandato (cfr. Gv 17,18).
Lumen Gentium al numero 3 precisa ulteriormente la missione di Gesù ancora riferendosi a
Ef 1,4-5 e 10. Il Figlio di Dio si è fatto uomo per fare degli esseri umani i figli adottivi del Padre e
ricapitolare in sé stesso tutte le cose. Si tratta dunque un atto di obbedienza. Gesù aderisce al volere
del Padre. Con quest’atto – afferma ancora il testo – egli ha inaugurato in terra il Regno dei cieli e
ha rivelato il mistero del Padre.
Chi altri se non il Figlio avrebbe potuto farci conoscere il Padre? Se la tradizione d’Israele
ha riconosciuto l’Unico, il Misericordioso, Colui il cui nome è indicibile e che tuttavia con quel
popolo ha voluto stringere un’alleanza, solo il Figlio, facendosi uno di noi, avrebbe potuto farci
conoscere il Padre e il mistero delle divine Persone. Più volte Gesù rivendica la sua conoscenza del
Padre; afferma anche che chi vede lui vede il Padre. Il che ci dice come solo il Figlio lo conosce e
come il Padre e il Figlio siano una cosa sola. Temi ben presenti nel vangelo secondo Giovanni: «Chi
ha visto me ha visto il Padre… Io sono nel Padre e il Padre è in me» (cfr. Gv 14,9-10.16).
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Fine dell’incarnazione è la Redenzione, la restituzione dell’uomo a una piena e amicale
relazione con Dio. Ciò implica la realtà del Regno, che Gesù annuncia e promuove. Il nostro testo
indica la Chiesa come «il regno di Cristo già presente in mistero» che, per la potenza di Dio, cresce
visibilmente nel mondo. Ritorneremo più avanti su queste affermazioni. Tuttavia non vogliamo far
cadere l’espressione «già presente nel mistero», perché ribadisce ancora come la Chiesa sia
strumento, mezzo di salvezza.
Il tema del paragrafo riguarda però l’opera del Figlio relativamente alla Chiesa. Il testo
richiama che il suo inizio e la sua crescita «sono significati dal sangue e dall’acqua, che uscirono
dal costato aperto di Gesù crocifisso (cfr. Gv 19,34)». Nel raccontare la morte di Gesù l’autore del
quarto vangelo annota il particolare dell’acqua e del sangue che scaturiscono dal fianco trafitto del
Crocifisso. I Padri hanno lungamente commentato questo passaggio, cogliendo in quel sangue e in
quell’acqua proprio il momento d’inizio della Chiesa. Sangue ed acqua rinviano, infatti, al
Battesimo e all’Eucaristia, ossia ai sacramenti a partire dai quali si entra a far parte della comunità
credente. Nel fianco trafitto, poi, hanno visto una simmetria al secondo racconto della creazione,
quello in cui il Creatore plasma dal fango il primo uomo e trae dal fianco, dalla carne di lui, la
prima donna (cfr. Gen 2). Secondo il loro mondo immaginifico, dal fianco del primo Adamo
addormentato sarebbe nata la prima Eva e, analogamente, dal fianco squarciato di Cristo, ovvero da
Cristo dormiente sulla croce, sarebbe nata la Chiesa, la “nuova Eva”. A supporto ulteriore, il
paragrafo cita ancora un passaggio del vangelo secondo Giovanni che preannunciando la morte di
Gesù sulla croce afferma che, levato in alto, tutti avrebbe attratto a sé (cfr. Gv 12,32).
Insomma, preme ai padri conciliari sottolineare fortemente il nesso che intercorre tra la
morte di Cristo, il suo darsi per noi, e la nascita della Chiesa. La quale ne celebra nell’Eucaristia la
morte e la risurrezione. In ogni celebrazione la Chiesa fa memoria del darsi del Signore per noi. Di
più, la partecipazione all’unico pane ci rende in lui un solo corpo (cfr. 1 Cor 10,17). Il testo che, su
quest’ultimo tema, ritornerà più diffusamente, mette così in evidenza il rapporto che intercorre tra il
corpo che è la Chiesa e il corpo eucaristico del Signore. È cibandoci di lui che diventiamo un solo
corpo. Il che, nel testo citato di 1 Cor, è espresso con il termine koinonía, comunione. È questo un
aspetto fondamentale, direi fondante, il mistero della Chiesa. Infatti, a somiglianza delle divine
Persone essa è chiamata a viverne e attestarne la comunione. Si tratta di una comunione profonda,
misterico-sacramentale, affidata al pane e vino, cibandosi dei quali la comunità sa di comunicare al
corpo del Signore. C’è una assimilazione sui generis, nel senso che pane e vino non nutrono la
nostra carne, ma ci fanno carne di Cristo, suo corpo, realizzando così una unione altrimenti
impensabile.
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Di nuovo questo linguaggio può sembrarci lontano. Non lo è, se prestiamo attenzione al
fatto che la fede cristiana assume la carne, la stessa debolezza della nostra carne, come mezzo di
salvezza. La kénosis, l’umiliazione del Figlio di Dio nell’incarnazione, gli merita per la sua
obbedienza filiale la gloria (cfr. Fil 2,6-11). Ma a questa gloria anche noi siamo chiamati e non
avendo in odio il nostro limite, ma sapendolo trasfigurato, partecipe di quanto egli ci ha acquistato.
Certo: ci sono state epoche in cui non si è abbastanza sottolineato il nesso tra carne e
salvezza. Già Tertulliano diceva la carne «cardine» della salvezza. Oggi possiamo serenamente
accogliere la sfida dell’avere un corpo, comprendere che dire la Chiesa corpo di Cristo esalta la
nostra sensibilità, la nostra corporeità. Non a caso i sacramenti tutti ci vengono donati anche
attraverso elementi materiali (acqua, olio, pane, vino, il nostro corpo stesso). E più in generale la
nostra sensibilità dovrebbe essere coinvolta al meglio tutte le volte che radunandoci come
assemblea sperimentiamo anche con le orecchie, la vista, il gusto, il tatto, l’odorato la bellezza di un
incontro che niente sacrifica di ciò che siamo, ma ne fa condizione di piena intercomunione.
Sì, siamo chiamati a una comunione piena, gioiosa, corposa, saporosa. Una comunione a cui
non è destinata soltanto la Chiesa. Infatti, anche il numero 3 si chiude con un afflato universalistico:
«Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da lui
veniamo, per mezzo suo viviamo, a lui siamo diretti».

Lo Spirito che santifica la Chiesa

Abbiamo già ricordato la pavida comunità raccolta nel Cenacolo. La stessa però cambia
atteggiamento il giorno di Pentecoste. At 2 attesta il dono dello Spirito, il suo posarsi sui presenti e
la forza e i doni che lo accompagnano. Pietro, proprio quel mattino, dà la prima testimonianza
solenne su Gesù Messia e Signore.
Il nostro testo, dopo aver parlato del disegno del Padre e della missione del Figlio, chiude il
riferimento alla Trinità chiamando in causa lo Spirito. Soprattutto i così detti “discorsi d’addio” del
vangelo secondo Giovanni (cfr. Gv 14–17), ci descrivono il ruolo dello Spirito nella comunità dei
discepoli. Lumen Gentium al numero 4 afferma che è inviato a santificare la Chiesa. Il suo compito
è consentire ai credenti l’accesso al Padre nel tramite del Figlio.
Abbiamo già ricordato che i nomi con i quali cerchiamo di cogliere la realtà delle divine
Persone provano a dircene la relazione. Non è stato facile cogliere come terza Persona divina lo
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Spirito Santo. Per evidenziarne l’identità si ricorre a una serie di espressioni e di immagini che
provano a dirne la natura e la funzione.
Il numero 4 raccoglie tutta una serie di luoghi neotestamentari che in qualche modo sono
utili a questo scopo. Dello Spirito si narra che dà la vita e, in effetti, è così sul piano antropologico,
come prova l’espressione italiana ‘spirare’, ossia “emettere l’ultimo respiro”. Anche per Gesù in
croce si usa una espressione similare, da molti letta più che come spirare nel senso di morire, come
spirare in senso attivo, ossia effondere lo Spirito (cfr. Gv 19,30). Altra immagine è quella
dell’acqua zampillante, di un’acqua sorgiva inesauribile. Il riferimento è al dialogo di Gesù al pozzo
di Sicar con la donna Samaritana (cfr. Gv 4,17) e all’espressione usata da Gesù in Gv 7,38-39: «“Se
qualcuno ha sete venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo
sgorgheranno fiumi di acqua viva”. Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti
in lui». Allo Spirito viene attribuito anche il ritorno alla grazia di chi è nel peccato, di chi vive in
una condizione di morte spirituale, di privazione della vera vita. E restituirci alla vita è quanto lo
Spirito farà allorché risorgeremo in Cristo al compiersi della storia. Possiamo dire che parlare dello
Spirito è evocarne la forza vivificante. Non a caso confessiamo nel Simbolo «che è Signore e dà la
vita».
Tra le tante immagini di cui si serve la Scrittura per indicare la permanenza dello Spirito
nella Chiesa (e nei fedeli) preziosa è quella del tempio. La si comprende se si pensa che Israele
edifica il tempio come dimora, come luogo che Dio possa abitare, segno tangibile della sua
presenza in seno al popolo. Abbiamo bisogno di segni, di luoghi memoriali della ‘presenza’ (per
questo costruiamo chiese e santuari…), ma, in effetti, Dio si fa presente in noi stessi, solo che
accogliamo la sua grazia. Comprendiamo allora il significato del tempio riferito alla Chiesa (e ai
credenti). Dire la Chiesa ‘tempio’, o indicare come tempio gli stessi credenti, è riconoscere in essa e
in essi la presenza dello Spirito di Dio, che prega e intercede con gemiti inesprimibili (cfr. Rom
8,26) e testimonia l’acquisita condizione di figli.
Una presenza santa e santificante che unifica la Chiesa. Lo Spirito, infatti, è per essa il
“principio di unità”. Come cercare altrove, o chi preporre alla dinamica che dei molti fa uno, che
smussa le contrapposizioni lasciando integra tutta la ricchezza delle differenze? Lo Spirito niente
omologa o assimila, ma catalizza, rende esplicite e mutuamente fruttuose le diversità. Senza di lui
nel mistero trinitario non sarebbe avvertita la fecondità della relazione Padre-Figlio. La svela la
gratuità che lo costituisce e che supporta, oltre la polarità del duale, il circolo relazionale trinitario.
L’indole santa e santificante, gratuita e gratificante propria dello Spirito agisce sulla Chiesa
sempre rinnovandola. La fa ringiovanire di continuo così che, senza macchia né ruga (cfr. Ef 5,27),
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raggiunga la perfetta unione con Cristo suo sposo. Abbiamo già evocato il linguaggio nuziale che
della Chiesa, la nuova Eva, fa la sposa di Cristo nuovo Adamo. Lo Spirito sovrintende a questi
sponsali. Non a caso nella simbolica complessa del primo dei segni di Gesù, in Cana di Galilea, a
significare la sua presenza e la sua azione è la trasformazione dell’acqua in vino, la bevanda
inebriante che rallegra il cuore degli esseri umani (cfr. Sal 104[103],15).
Ed è ancora lo Spirito che assieme alla sposa, nell’ultimo dei libri del Nuovo Testamento,
invoca il Signore Gesù perché venga presto (cfr. Ap 22,17). La Chiesa, dunque, è creatura dello
Spirito. Senza il suo soffio essa non può nulla. È lui che rende in lei fruttuoso l’amore di Cristo-
sposo. È lui che la abbellisce rendendola degna sposa del suo Signore.

Due passaggi del testo meritano una particolare attenzione, perché risultano innovativi,
anche se, in verità, recepiscono istanze antiche che, riacquisite, aprono a una diversa comprensione
dei rapporti all’interno della Chiesa.
Una delle questioni che ha sicuramente reso difficile il cammino ecclesiale, è stata la
divisione del popolo di Dio in classi contrapposte. Malgrado tutto il comparto di 1 Cor 12–14
disegni la Chiesa primitiva nel segno dello Spirito e dei suoi doni, ed essi siano effusi su tutti e tutte
senza significative pregiudiziali, alle discriminazioni di genere prestissimo si è aggiunta la
distinzione tra carisma e ministero, legando solo quest’ultimo all’istituzione, come se nella Chiesa
fosse possibile alcunché senza il supporto dello Spirito.
Il nostro testo ricorre alla locuzione: «doni carismatici e gerarchici». Ossia colloca anche i
compiti ministeriali nell’alveo del dono. Potremmo dire che c’è una sorta di ripetizione perché
‘dono’ è sinonimo di ‘carisma’. Ma riandando agli anni in cui la Costituzione è stata formulata e
alla teoria allora comune che i doni dello Spirito avessero caratterizzato solo la Chiesa primitiva e
che successivamente fossero scomparsi, si comprende quanto rivoluzionario sia questo passaggio
che riconduce l’operatività della Chiesa sempre e comunque al dono dello Spirito. Doni, insomma,
sono quelli straordinari – questo il senso dei «doni carismatici»; ma sono anche quelli «gerarchici»,
aggettivo con il quale ci si riferisce all’episcopato, al presbiterato, al diaconato, ossia al ministero
ordinato, ancora contraddistinto da un aggettivo che mostra quanto sia difficile la conversione a una
concezione di Chiesa davvero e globalmente segnata dalla comunione.
Che la tensione corra in questa direzione lo prova la citazione che chiude il numero 4.
Mutuata da Cipriano dice la Chiesa come «un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo». Il testo di Cipriano in verità suona «de unitate Patris et Filii et
Spiritus Sancti plebs adunata», la Chiesa, insomma, come popolo adunato dall’unità di Padre,
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Figlio e Spirito Santo. Ecco, la Chiesa ha nelle divine Persone la sua sorgente. Essa scaturisce dal
disegno del Padre, dall’opera del Figlio, dal soffio santificante dello Spirito Santo. Come si dirà
ampiamente nel post-concilio, la Chiesa parte dalla Trinità e cammina verso la Trinità. Ne è
immagine nel tempo e nello spazio. Dovrebbe attestarne il mistero interrelazionale e realizzarlo
facendo degli uomini e delle donne tutte un unico popolo animato dallo Spirito.
Il termine ‘popolo’ che il capitolo secondo della Lumen gentium declinerà nella sua valenza storico-
salvifica, fa qui la sua comparsa. Come già detto, in latino – la lingua di Cipriano – il termine è
plebs, un sinonimo di popolo. Di plebs sancta Dei parla la preghiera eucaristica prima, l’antico e
venerando Canone Romano. Ciò per dire che malgrado gli schemi sociali abituali nelle società del
passato, società gerarchiche, patriarcali e androcentriche, in verità mai si perde del tutto l’idea che
la Chiesa sia il popolo di Dio. Né si perde l’idea che sorgente della Chiesa sia la Trinità, Padre
Figlio Spirito. E che la loro unità amante, la loro interrelazione è quanto la Chiesa è chiamata a
vivere e a testimoniare e a realizzare nel suo cammino nella storia.

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CAPITOLO 3
IL REGNO DI DIO

Cos’è il regno di Dio

Più volte abbiamo incontrato l’espressione: “regno di Dio”. La prende in esame e la sviluppa
il numero 5 della Lumen Gentium. Vi si afferma che il mistero della Chiesa «si manifesta nella sua
stessa fondazione». Il riferimento è al Signore Gesù che le ha dato inizio «predicando la buona
novella, cioè l’avvento del regno di Dio». Analogamente a “regno dei cieli”, più comune in Matteo
(cfr., ad es. Mt 4,17), veicola una visione teologica, un contenuto di fede e insieme una aspettativa
che attraversa tutta la Scrittura.
Ci chiediamo ora cosa voglia dire. Conosciamo il regno come forma politica. Tale è una
nazione, piccola o grande, a capo della quale c’è un sovrano che la governa per diritto ereditario o
per cooptazione, o anche per elezione se a decidere in questo senso è un gruppo ristretto di pari. La
monarchia, il governo di uno solo, di un re, è una delle forme possibili di governo. Nel nostro
mondo prevale la repubblica in cui è un soggetto, eletto direttamente o tramite rappresentanti del
popolo, a impersonare l’unità della nazione. Si succede al re solo dopo la sua morte; un presidente,
invece, è eletto a tempo. Conosciamo la tirannide, analoga nella rappresentatività del soggetto, ma
non nel processo che lo porta a rappresentare l’unità di una nazione. Il tiranno raggiunge il potere
con mezzi non elettivi o li rinnega una volta che ha raggiunto il suo scopo. Governa senza che altri
ne moderino l’azione, a volte nella confusione del potere di chi fa le leggi e di chi esercita la
giustizia. Poteri che in età moderna sono distinti proprio per evitare l’abuso di una monarchia
assoluta o di una dittatura.
La vicenda di Israele al cui interno matura la espressione “regno di Dio” è diversa. Si tratta
di un popolo nomade che converge in una legge, in una lingua, in un costume, in una identità,
insomma, a partire dal dato teologico dell’alleanza. Israele si sa chiamato da Dio, vincolato a lui da
un patto. E questo fonda per lui il culto, la legge, il costume.
Israele sa che Dio è il suo pastore, il suo re. Lo avverte come nume tutelare a cui spetta ogni
sovranità, ogni diritto sul popolo. Perciò, non siamo davanti a un concetto territoriale, non all’inizio.
Come già detto, si tratta piuttosto di un dato teologico: Dio è il re d’Israele e Israele è il popolo su
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cui egli regna. L’acquisizione della terra, la prossimità con gli usi di altri popoli, fa però nascere in
Israele il desiderio di un re. Il profeta Samuele prova a dissuadere il popolo mostrando gli oneri che
un re terreno comporta (cfr. 1 Sam 8). Ciò malgrado Israele si darà un re. L’investitura è legata alla
sua unzione. Egli sarà, dunque, l’unto del Signore, il suo luogotenente. Sì, perché malgrado tutto, il
re rappresenta Dio stesso, a cui solo appartiene la regalità. Ciò non impedisce che il regno in Israele
venga gestito come altrove con esiti non entusiasmanti. Se l’epopea di Saul e poi di Davide vede la
monarchia vincitrice sotto il profilo della conquista della Terra promessa, e se con Salomone il
paese sperimenta una guida pacifica e saggia, le fasi successive non lo saranno altrettanto. Il regno
si scinderà in due unità politiche e conoscerà guerre e sconfitte, sino alla fine del regno del nord e
poi alla caduta di Gerusalemme e alla deportazione dei suoi abitanti. Al ritorno dall’esilio la
leadership politico-religiosa e militare conoscerà altre forme.
Non si spegne tuttavia l’attesa del re messianico, discendente di Davide (cfr. 2 Sam 7), un re
portatore di pace (cfr. Is 11,1-9), restauratore d’Israele, ma resta ancor di più l’aspettativa del regno
di Dio, ossia di una situazione radicalmente altra che sancisca il pieno ripristino dell’alleanza e il
riconoscimento della piena e totale regalità di Dio, della quale per grazia è partecipe il popolo
stesso, così com’è partecipe della sua santità, secondo le parole di Es 19,6: «Voi sarete per me un
regno di sacerdoti e una nazione santa».

Gesù e il Regno

Questa è l’aspettativa che caratterizza l’Israele fedele ai tempi di Gesù e questo è l’annuncio
che lui porta: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Gesù parla
del Regno che si è approssimato, che è giunto, che sta per venire. E dietro questa variegata
indicazione temporale non nasconde che è nella sua persona che il regno di Dio si manifesta. Sono
le sue parole e i gesti che egli compie ad indicare la presenza del regno di Dio (cfr. Mt 12,28; Gv
2,23; 6,2).
Lumen Gentium al numero 5 richiama una delle modalità di cui si avvale Gesù per indicare
questo compiersi del tempo, questa approssimazione-presenza-attesa del regno di Dio. Si tratta delle
parabole che ne dicono le caratteristiche e lo sviluppo. Quella del seme (cfr. Mc 4,26-29), ad
esempio, affida la nascita, l’accoglienza, lo sviluppo del regno di Dio alla virtualità del seme stesso
gettato in un campo. Altrove il seme che è la parola di Dio cade su un terreno variegato, idoneo ad
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accoglierla, facendola fruttificare, sia pure in modo diverso, ovvero a soffocarla. Della parabola del
seminatore Gesù stesso dà ai suoi la spiegazione (cfr. Mt 13,3-9.18-23).
Per diverse e immediate che siano, non sono solo le parabole, le tante parabole – ad esempio
quella del lievito (Mt 13,33); del granello di senape (Mt 13,31-32), della rete (Mt 13,47-50) – a
significare il Regno e la sua crescita. Anche le opere di Gesù, i miracoli che lui compie indicano
questo cambio di passo. L’azione potente di Gesù, soprattutto il suo prevalere sul Maligno (cfr. Mt
12,22-30), dice che il Regno è giunto. Esso è tutt’uno con la sua persona, con la sua realtà di Figlio
di Dio e Figlio dell’uomo.
Gesù preferisce questa seconda locuzione per indicare sé stesso e il suo compito (cfr. Mt 8,3;
9,6; 12,8, 20,22). “Figlio dell’uomo” è una figura, legata alla parola e alla aspettativa profetica (cfr.
Dn 7,13). “Figlio di Dio” è invece il titolo che la comunità dà a Gesù, il quale comunque non esita a
chiamare Dio con il nome di Padre e dunque a dirsene Figlio (cfr. Gv 16,22-39).
Il fatto è, e il testo di Lumen Gentium lo mette bene in risalto, che la regalità di Gesù e il
Regno che in lui si è approssimato ed è presente ribalta i canoni tradizionali del potere. Il regno di
Dio, come già cantato nel Magnificat di Maria di Nazareth (e nei testi che ne costituiscono
l’entroterra) rovescia le regole vigenti. In esso sono gli ultimi ad essere i primi; i potenti vengono
umiliati e gli umili esaltati; gli affamati saziati e i ricchi rimandati a mani vuote. In qualche modo
manifesto del Regno è il discorso sul monte (cfr. Mt 5–7). In esso la consolazione della beatitudine,
che tocca emarginati e socialmente sconfitti, si intreccia all’appello a interiorizzare il rapporto con
Dio oltre i formalistici disposti della legge – ritorna l’appello già dei profeti a una religiosità
radicata nell’intimo del cuore e non esibita con pratiche eclatanti. La diffidenza, anzi, la presa di
distanza dalle ricchezze si intreccia all’invito ad abbandonarsi alla Provvidenza, a tenersi lontani dai
facili giudizi. E soprattutto esprime bene i valori del Regno la regola d’oro: fare agli altri quello che
si vorrebbe fosse fatto a noi. E più compiutamente amare Dio e il prossimo come sé stessi, fare
dell’altro, del rispetto, della promozione, della realizzazione dell’altro lo scopo della propria vita.
Il regno di Dio ha regole rigorose. Nella parabola del banchetto nuziale, si può accedervi
solo con la veste idonea (cfr. Mt 22,1-14) e in quella delle dieci vergini occorre conservare l’olio
necessario alle lampade (cfr. Mt 25,1-13). Più in generale nella consumazione escatologica del
giudizio occorre avere soccorso, nutrito, dissetato, vestito i più piccoli (cfr. Mt 25,31-46). Senza
dimenticare che il Regno è rivelato proprio agli umili e ai piccoli: «Ti rendo lode, Padre, Signore
del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai
piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre

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mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al
quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,25-27).
Va detto che le priorità del Regno si scontrano con umanissimi desideri, duri a morire. In Mt
20,25-28 a Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, la cui madre ha chiesto a Gesù che nel suo regno
siedano l’uno alla sua destra l’altro alla sinistra, egli dice: «Voi sapete che i governanti delle nazioni
dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così, ma chi vuole diventare grande tra
voi sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi sarà il vostro schiavo. Come il Figlio
dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Questa visione del suo compito e della sua regalità torna prepotentemente anche altrove (cfr. Mc
10,42-45; Lc 22,24-27). Si pensi al suo cingersi di un grembiule per lavare i piedi dei discepoli
prima di andare incontro alla passione (cfr. Gv 13,1-16).
Che il regno di Dio e la regalità di Gesù siano d’altra natura lo attesta anche la risposta che,
nell’interrogatorio al pretorio, egli dà a Pilato. Il suo regno non è di questo mondo. Se così fosse ci
sarebbero eserciti a liberarlo (Gv 18,33-37). La regalità di Gesù è piuttosto quella del “Messia
sofferente”, del giusto che viene ad espiare i peccati del popolo. Il profeta Isaia ne ha anticipato la
vicenda nei quattro carmi che lo riguardano. Di questa figura si appropria Gesù facendone il tratto
peculiare della propria identità messianica (cfr. Mt 12,7-21).
Quella del servo sofferente è una “regalità-servizio”, un essere per gli altri che obbliga i
discepoli di Gesù ad assumere questo suo modello: «Vi ho dato un esempio […] perché anche voi
facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo
padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato» (Gv 13,15-16).
Di più, come dirà LG 36, «servendo a Cristo negli altri» si conducono i fratelli «al re, servire
il quale è regnare». Insomma, là si manifesta la potenza di Dio, il suo far nuove tutte le cose
allorché il potere diventa servizio, attenzione all’altro, farsene carico, prendersene cura, secondo
quel modulo di simpatia misericordiosa che cambia anche le regole della prossimità, non più etnica
o religiosa, ma dettata unicamente dal bisogno dell’altro che mi è prossimo, più prossimo proprio
nel manifestarsi della sua indigenza. La parabola del buon Samaritano ne è il manifesto (cfr. Lc 10,
25-37).
Non manca tuttavia un manifestarsi potente della regalità di Gesù e del regno di Dio. Essa si
iscrive nella sua morte e risurrezione. I padri della Chiesa commentando Gv 19 leggono la croce
come il suo trono regale. È lì che il Signore Gesù regna, ormai attraendo tutti a sé. Paradossalmente
lo stesso titolo apposto come d’uso sul patibolo lo dice «re dei giudei». Ma ciò che lo dichiara
Messia e Signore è il suo risorgere dai morti. Egli apparirà più volte ai suoi mostrando le sue
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piaghe, segno indelebile della sua identità di Crocifisso-Risorto. E la potenza di Dio rivelatasi nella
sua risurrezione avrà coronamento nell’effusione dello Spirito.
Parte da questi eventi la Chiesa che ha come compito quello di annunziare in lui, il
Crocifisso-Risorto, il mistero del regno di Dio, e di instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di
Dio. Essa ne costituisce «in terra il germe e l’inizio». Se pure c’è stato un tempo in cui la Chiesa si
è identificata nel Regno quasi trasformandosi in una centrale di potere alla maniera dei potentati
umani, ora il concilio prende le distanze da questa prospettiva per sottolineare piuttosto come essa
del regno di Dio costituisca soltanto il germe e l’inizio. Segno evidente che il regno di Dio, pur
approssimatosi e presente, attende ancora il compimento. Esso verrà alla fine dei tempi, quando
definitivamente la Chiesa-sposa potrà riunirsi al suo Signore. Nel frattempo essa cresce e opera per
raggiungere ciò che spera: l’unione con il suo Signore nella gloria.

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CONCLUSIONE

L’esame dei restanti numeri del capitolo primo, e degli altri sette capitoli della Lumen
Gentium, mette ulteriormente a fuoco quanto sin qui ne abbiamo detto. Ad esempio, al numero 6,
l’indole relazionale della Chiesa si mostra nelle molteplici immagini che la declinano nel Nuovo
Testamento. E, tra di esse il numero 7, la illustra quale «corpo di Cristo». Infine, il numero 8 insiste
sulla singolarità della Chiesa, sul suo statuto divino e umano a un tempo, in analogia, a somiglianza
del Verbo fatto carne, suo Salvatore e Signore.
I numeri esaminati ci consentono tuttavia di additare alcuni punti fermi: lo statuto misterico-
sacramentale della Chiesa; la sua radice trinitaria, il compito dì annunciare il regno di Dio e di
operare per la sua crescita. In tutto ciò emerge la Chiesa come comunità credente non ripiegata su sé
stessa, ma aperta all’umanità intera. Esiste con essa e per essa. Luogo paradigmatico, ma non
esclusivo della salvezza, ha proprio il compito di renderla evidente come chiamata universale. Di
più, originata nella relazionalità uni-trina di Padre Figlio Spirito ha il dovere di ricordare a tutti che
non si vive né ci si salva da soli.
La seduzione della fede cristiana sta proprio nell’essere chiamati come popolo a partecipare
al mistero amante di Padre Figlio Spirito. Far conoscere il disegno del Padre, il darsi per noi del
Figlio e il dono vivificante dello Spirito costituisce la ragion d’essere della Chiesa. Così istituita e
arricchita, essa incede verso il suo Signore che torna. Il quadro declinato nei numeri iniziali della
Lumen Gentium, e dalla Costituzione nel suo insieme, non è però qualcosa di definitivamente
acquisito. Per entusiasmante o avvincente che sia la proposta, resta la difficoltà di tradurla nel
concreto vissuto delle comunità cristiane.
Il post-concilio, nell’immediato, ha realizzato grandi entusiasmi come pure sentimenti
avversi. Era difficile lasciare schemi rassicuranti e sicuri e percorrere le vie nuove della comunione
e della missione. I decenni che si sono susseguiti hanno portato con sé altri problemi, altre svolte di
tipo culturale o politico o religioso. Le Chiese pure cresciute nel dialogo, nella partecipazione, nella
coscienza di sé hanno dovuto misurarsi con sfide nuove. Un certo fideismo millenarista ci ha dato
l’illusione che fossimo davvero andati avanti, puntando più su fenomeni di massa che sulla vita
delle piccole comunità. Si è pensato che il ‘movimento’ desse più garanzie di successo pastorale,
dimenticando che la Chiesa accade nel luogo e deve rispondere alle domande di luogo e tempo.

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Rileggere il concilio deve, dunque, costituire un incentivo a una conoscenza innanzitutto, ma
anche a maturare un discernimento su come testimoniare la natura della Chiesa, su come viverla e
mostrarla vissuta. Il che è già farne propria la missione.
Il nostro tempo chiede solidarietà compassionata, attenzione all’altro, misericordia, ossia
capacità di essere toccati sin nelle viscere, di fare attento il nostro cuore a chi è indigente e in ogni
possibile senso. Viviamo le sfide di una globalizzazione che ha ricadute pesanti sull’ambiente. Ai
sentimenti solidali ha ceduto l’egoismo del proprio interesse. Pandemie e guerre provocano a monte
e a valle insicurezza, degrado, povertà, fame. Ci sembra d’essere sconfitti, come persone umane e
come credenti. Davvero non abbiamo costruito né comunità né un mondo a misura del regno di
Dio!
Eppure, questo resta il nostro compito. «Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta
ripeta: “Vieni!” […]. “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni Signore Gesù» (Ap 22,20).

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Lumen Gentium 1-5

Capitolo 1

Il mistero della Chiesa

La Chiesa è sacramento in Cristo

1. Cristo è la luce delle genti: questo santo concilio, adunato nello Spirito Santo,
desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15),
illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E
siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo
strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il
tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al
mondo intero la propria natura e la propria missione universale. Le presenti condizioni del
mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi più
strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire
la piena unità in Cristo.

Disegno salvifico universale del Padre

2. L’eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà, creò


l’universo; decise di elevare gli uomini alla partecipazione della sua vita divina; dopo la
loro caduta in Adamo non li abbandonò, ma sempre prestò loro gli aiuti per salvarsi, in
considerazione di Cristo redentore, «il quale è l’immagine dell’invisibile Dio, generato
prima di ogni creatura» (Col 1,15). Tutti infatti quelli che ha scelto, il Padre fino dall’eternità
«li ha distinti e li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli
sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). I credenti in Cristo, li ha voluti chiamare a
formare la santa Chiesa, la quale, già annunciata in figure sino dal principio del mondo,
mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza, stabilita
infine «negli ultimi tempi», è stata manifestata dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso
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compimento alla fine dei secoli. Allora, infatti, come si legge nei santi Padri, tutti i giusti, a
partire da Adamo, «dal giusto Abele fino all’ultimo eletto», saranno riuniti presso il Padre
nella Chiesa universale.

Missione del Figlio

3. È venuto quindi il Figlio, mandato dal Padre, il quale ci ha scelti in lui prima della
fondazione del mondo e ci ha predestinati ad essere adottati in figli, perché in lui volle
accentrare tutte le cose (cfr. Ef 1,4-5 e 10). Perciò Cristo, per adempiere la volontà del
Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di lui, e con la sua
obbedienza ha operato la redenzione. La Chiesa, ossia il regno di Cristo già presente in
mistero, per la potenza di Dio cresce visibilmente nel mondo. Questo inizio e questa
crescita sono significati dal sangue e dall’acqua, che uscirono dal costato aperto di Gesù
crocifisso (cfr. Gv 19,34), e sono preannunziati dalle parole del Signore circa la sua morte
in croce: «Ed io, quando sarò levato in alto da terra, tutti attirerò a me» (Gv 12,32). Ogni
volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato
immolato (cfr. 1 Cor 5,7), viene celebrato sull’altare, si rinnova l’opera della nostra
redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed
effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1 Cor 10,17). Tutti
gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da lui
veniamo, per mezzo suo viviamo, a lui siamo diretti.

Lo Spirito santificatore della Chiesa

4. Compiuta l’opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv 17,4), il
giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa e
affinché i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cfr.
Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, una sorgente di acqua zampillante fino alla vita
eterna (cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il
peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo
Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19)
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e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (cfr.
Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv
16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni
gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22).
Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla
perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù:
«Vieni» (cfr. Ap 22,17).

Così la Chiesa universale si presenta come «un popolo che deriva la sua unità
dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

Il regno di Dio
5. Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua stessa fondazione. Il Signore
Gesù, infatti, diede inizio ad essa predicando la buona novella, cioè l’avvento del regno di
Dio da secoli promesso nella Scrittura: «Poiché il tempo è compiuto, e vicino è il regno di
Dio» (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle
parole, nelle opere e nella presenza di Cristo. La parola del Signore è paragonata appunto
al seme che viene seminato nel campo (cfr. Mc 4,14): quelli che lo ascoltano con fede e
appartengono al piccolo gregge di Cristo (cfr. Lc 12,32), hanno accolto il regno stesso di
Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (cfr. Mc
4,26-29). Anche i miracoli di Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra: «Se con il
dito di Dio io scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio» (Lc 11,20; cfr.
Mt 12,28). Ma innanzi tutto il regno si manifesta nella stessa persona di Cristo, figlio di Dio
e figlio dell’uomo, il quale è venuto «a servire, e a dare la sua vita in riscatto per i molti»
(Mc 10,45). Quando poi Gesù, dopo aver sofferto la morte in croce per gli uomini, risorse,
apparve quale Signore e messia e sacerdote in eterno (cfr. At 2,36; Eb 5,6; 7,17-21), ed
effuse sui suoi discepoli lo Spirito promesso dal Padre (cfr. At 2,33). La Chiesa perciò,
fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e
abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di
Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va
lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di
unirsi col suo re nella gloria.
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