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Libro secondo

Paolo
È il primo cristiano, l'inventore della cristianità! Fino ad allora c'erano solo alcuni membri di
sette giudaiche.
(Friedrich Nietzsche, Morgenröte, 1, 68)
È facile comprendere come mai il Cristianesimo di Gesù non riuscì a imporsi politicamente e
socialmente, e perché venne agevolmente oppresso dalla polizia e dalla chiesa, mentre il
Paolinismo... sommerse l'intero mondo occidentale civilizzato.
(Bernard Shaw, 108)
Oggi Cristianesimo vuol dire in massima parte Paolo.
(Il teologo cattolico Ricciotti)
19. LA COMUNITÀ PRIMITIVA
La conoscenza del periodo apostolico ci deriva, oltre che dalle Epistole paoline, soprattutto
dagli Atti degli Apostoli, anche se le loro forti tendenze alla trasfigurazione degli eventi sono
ben note da lungo tempo e riconosciute pressoché unanimemente. Composti parecchi decenni
dopo la morte di Gesù, ostentano un'evoluzione totalmente pacifica e armonica, benché in
realtà i contrasti fossero stati davvero aspri.
I discepoli sperarono fino all'ultimo che Gesù avrebbe salvato Israele (Lc. 24, 21);
probabilmente alcuni di loro restarono a Gerusalemme, ma la maggior parte tornarono forse in
patria, in Galilea 1, dove potevano riprendersi gradualmente dalle sofferenze dell'esperienza
patita. Ed è lì che si costituì, forse, la cellula prima della Chiesa cristiana (Lohmeyer) e che si
rafforzò l'idea della Resurrezione di Gesù.
Dopo qualche tempo, tuttavia, almeno una parte dei fuggiaschi tornò a Gerusalemme; in
effetti, anche gli Apostoli, come allora numerosi Ebrei, sul monte di Sion attesero il Messia, gli
eventi definitivi della storia e la Gerusalemme celeste. Ivi si raccolsero intorno a Pietro, ai figli
di Zebedeo e a Giovanni, allargando via via la loro cerchia di influenza con la predicazione e il
dialogo.
Questo gruppo, in ogni caso, appariva una setta giudaica più che una nuova comunità
religiosa, rappresentando in un primo tempo una mera corrente dell'Ebraismo fra le tante
allora in auge, una Sinagoga che si distingueva dalla fede degli altri Ebrei principalmente per la
credenza nell'immediato ritorno del Crocifisso 2. Gli Apostoli e i loro seguaci non intesero
proclamare al mondo una nuova religione. Come dimostra soprattutto il Vangelo di Matteo,
opera di un ebreo cristiano, l'immagine tradita di Gesù venne colorita prima di tutto proprio da
loro e reinterpretata nel senso del Giudaismo dei Farisei, ossequiente alla Legge.
È possibile indicare qualche prova di questo evento importante.
Gesù non si preoccupava del Sabato, come attesta anche Matteo (Mt. 12, 1 sgg.); eppure egli
in altra occasione gli fa dire : «Pregate soltanto che la vostra fuga non accada d'inverno o di
sabato (!)» (Mt. 24,20). Negli ambienti giudaico-cristiani, dunque, da cui proviene il Vangelo di
Matteo, evidentemente il Sabato veniva di nuovo rispettato con scrupolo. Nel passo
corrispondente del Vangelo di Marco (pagano-cristiano), al contrario, Gesù si limita a dire: «Ma
pregate anche che ciò non accada d'inverno! » (Mc. 13, 18).
Altro esempio: Gesù aveva proibito il divorzio senz'alcuna eccezione (Mc. 10, 11; Lc. 16, 18), e
tuttavia Matteo gli pone sulle labbra l'affermazione per cui il divorzio sarebbe lecito nel caso di
adulterio della donna, richiamandosi anche in questo frangente alle concezioni giudaiche 3.
Analogamente Matteo riplasma spesso la tradizione in senso giudaico, un processo questo
indubbiamente assecondato già dall'adesione di Giacomo, fratello di Gesù, che non era
personalmente un Fariseo e nemmeno un simpatizzante di questa corrente ebraica.
La frattura all'interno della Comunità primitiva
La cerchia più antica dei discepoli di Gesù constava esclusivamente di Ebrei, i quali erano da un
lato Israeliti rigidamente fedeli alla Legge, alla tradizione, alle festività giudaiche, alle norme
alimentari, ai riti purificatori e ai tempi stabiliti per le preghiere; dall'altro, tuttavia, non
mancavano adepti di stirpe ebraica, ellenizzati e di lingua greca. Rientrati dalla Diaspora, dove
vivevano in numero tre volte superiore agli Ebrei di Palestina 4, erano più vicini alla cultura
ellenistica; fra di loro si trovavano anche Greci convertiti all'Ebraismo, i cosiddetti proseliti.
Codesti Ellenizzati, ben presto numerosi nella Comunità primitiva, si sentivano meno vincolati
alle tradizioni nazionali e religiose degli altri Ebrei, per cui talvolta non nascondevano una certa
ostilità nei loro confronti. «Nei giorni in cui s'accrebbe il numero dei discepoli, si giunse alla
diatriba degli Ellenizzanti con gli Ebrei» - leggiamo negli Atti, che raccontano anche che gli
Ellenizzanti avevano propri capi, i «Sette», tutti recanti nomi schiettamente greci.
Il Nuovo Testamento, naturalmente, tenta di occultare l'esistenza di due fazioni all'interno della
Comunità primitiva, nella quale sarebbe stata presente solo una suddivisione di compiti: la
predicazione sarebbe stata riservata agli Apostoli; ai «Sette», cioè agli Ellenizzanti, il servizio
di mensa (Atti, 6, 1 sgg.). In realtà, però, non si accenna mai a questa attività diaconale dei
«Sette», al loro presunto servizio di mensa; al contrario, si parla dappertutto del loro servizio
kerygmatico, della loro predicazione, che avrebbe dovuto essere un esclusivo privilegio degli
Apostoli. E dunque non c'è dubbio che i «Sette» non esercitavano affatto il servizio di mensa,
ma erano i capi degli Ellenizzanti, come gli Apostoli lo erano degli Ebrei.
La causa prima della discordia potrebbe essere stata una forma di trascuranza verso le vedove
ellenistiche durante il pasto quotidiano (Atti, 6, 1): esse sarebbero state «trascurate»,
«lasciate da parte» continuamente, come lascia intendere il testo greco. Insomma, venivano
volontariamente poste in posizione di subordine. E allora tale conflitto non era causa, bensì
conseguenza di una tensione già presente, dietro la quale si intravedono non tanto le ovvie
differenze di lingua e di cultura, quanto il problema della predicazione, vale a dire due
differenti tendenze del Cristianesimo: i giudeo-cristiani conservatori, guidati dagli Apostoli, poi
chiamati «i Dodici», e gli Ellenizzanti, guidati dai «Sette», ben più radicali e sostenitori di
posizioni più avanzate.
Secondo il punto di vista comune della ricerca critica, nella Comunità primitiva i due gruppi si
trovarono fin dall'inizio l'uno accanto all'altro, ciascuno con una propria amministrazione. Julius
Wellhausen (Kritische Analyse, 11) vi scorge addirittura i primordi di uno scisma, che non si
attuò solo perché «a Gerusalemme il terreno divenne tanto scottante sotto i piedi degli
Ellenizzanti, che furono costretti a fuggire».
Questa fuga conferma irrefutabilmente la spaccatura della Comunità primitiva: la sua
componente più attiva, antisinagogale, fu ben presto combattuta dai Giudei 5, e dopo la
lapidazione del proprio portavoce Stefano, accusato di «bestemmiare contro Mosé», vale a dire
di aver attaccato il Tempio e la Legge, abbandonò precipitosamente la città ormai diventata
poco sicura 6. Gli Ellenizzanti, come raccontano ancora gli Atti, fuggirono fino in Fenicia, a
Cipro e in Antiochia, dando così inizio alla missione cristiana e alla vera e propria storia del
Cristianesimo. Il gruppo conservatore, invece, fedele alla Legge giudaica, cui appartenevano
anche gli Apostoli, in un primo tempo fu lasciato tranquillo, godendo - come raccontano ancora
gli Atti degli Apostoli - di pace «in tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria» (Cfr. Atti, 8, 1; 8,
4; 11, 19 con 9, 31).
E dunque la cerchia intorno agli Apostoli non venne infastidita, invece il gruppo degli
Ellenizzanti fu perseguitato; mentre Stefano veniva lapidato per la propria confessione, agli
Apostoli non fu torto un capello; mentre i seguaci del primo martire cristiano si disperdevano ai
quattro venti, gli Apostoli se ne stettero tranquilli in città.
E ciò significa, con tutta evidenza, che i contrasti interni alla Comunità primitiva erano noti
anche agli estranei; e prova, inoltre, che gli Apostoli non possono aver condiviso in aspetti
assolutamente fondamentali la fede di Stefano e dei suoi amici perseguitati, dai quali prese le
mosse la missione cristiana. Del resto, la ricerca teologica distingue nella Comunità primitiva
una gran messe di correnti e di concezioni le più svariate.
Il motivo principale di contrasto fra gli Ebrei e gli Ellenizzanti era costituito dal problema
escatologico. Per i giudeo-cristiani il nucleo centrale della fede si trovava nella speranza del
prossimo ritorno del Crocifisso, mentre i pagano-cristiani rimossero ben presto l'aspettazione
della fine mediante gli atti rituali di pietà, il misticismo, l'estasi, la glossolalia, la fede in un dio
vissuto e risorto sulla terra, onorato cultualmente come gli dèi delle pratiche misteriche e alla
cui resurrezione si partecipa con l'assunzione dei sacramenti.
Inoltre, c'era fra loro tutta una serie di rilevanti punti di frizione: per i giudeo-cristiani vigevano
il rigido rispetto della Legge, la permanenza nel Tempio, l'obbligo della circoncisione prima del
battesimo, un atteggiamento penitenziale pronunciato che ne costituiva addirittura una
caratteristica dirimente e, non da ultimo, la loro diffusa benché volontaria comunanza dei beni.
Tutto ciò era estraneo ai pagano-cristiani, che rifiutavano la Legge giudaica, trascuravano
l'appartenenza al Tempio, non esigevano la circoncisione prima del battesimo, sottolineavano il
carattere gioioso della nuova fede e non attribuivano soverchia importanza all'ideale
pauperistico.
I capi dei due gruppi erano Pietro e Giacomo da una parte, e Paolo dall'altra.
Pietro
I contestatori della storicità della figura di Gesù hanno visto anche in Pietro un'invenzione della
fantasia, una creazione mitica, da porre in relazione con divinità come Giano, Proteo, Atlante,
Petra ecc. Ma la sua persona è ritenuta storicamente fondata, tanto più perché non ne parlano
favorevolmente né Paolo né gli Evangelisti.
Ciò che gli Atti degli Apostoli, la nostra fonte principale, raccontano di Pietro è, per la verità, in
massima parte leggendario. La sua persona storica resta per noi quasi completamente oscura,
come quella degli altri Apostoli, a meno di non illustrarla con un noto agiografo cristiano sulla
scorta di una severa plastica romanica del XII secolo.
Secondo i Vangeli, Simone bar Jona, il nome originale del pescatore di Betsaida, insieme ai figli
di Zebedeo Giacomo il Vecchio e Giovanni, fu una delle persone più vicine a Gesù. Benché il
Signore, come è stato scritto un po' pomposamente, percorresse col discepolo prediletto strade
nelle quali neppure Pietro era in grado di addentrarsi, proprio a lui avrebbe conferito il primato
su tutti gli Apostoli, designandolo addirittura primo Papa. (Ma di questo avremo occasione di
parlare in seguito). Tuttavia il capo vero e proprio dei giudeo cristiani diventò, già nei primi
anni '40,
Giacomo, il fratello di Gesù 7
Quando il Signore era ancora in vita, a quanto pare Giacomo ebbe per lui scarsa
comprensione; in seguito, però, volle anch'egli andare incontro al Risorto, unendosi lla nuova
setta ormai in crescita (1 Cor. 15, 7; Atti, 1, 14). Giacomo divenne il primo personaggio
delineato con precisione della storia del Cristianesimo. In una descrizione pregnante risalente
alla fine del II secolo, in verità poco attendibile, di lui si dice:
«Egli fu santo fin nel seno materno. Non bevve vino o alcun'altra bevanda alcolica né mangiò
carni di animali. Nessuna lama toccò mai il suo capo, non si unse d'olio né prese un bagno. A
lui solo fu concesso di entrare nel santuario, perché non indossava abiti di lana, ma di lino. Si
recava nel Tempio sempre da solo, dove lo si poteva trovare inginocchiato a pregare Dio
perché perdonasse il popolo; così le sue ginocchia erano indurite come quelle di un cammello»
(In Euseb., h. e. 2, 23, 4 sgg.).
Consacrato Nasireo dalla madre Maria, Giacomo, che viveva notoriamente nell'ascesi e che si
richiamava alla Legge, dette l'avvio a una duplice rielaborazione della dottrina di Gesù, da un
lato nel senso di una vita monastica lontana dal mondo, dall'altro nell'inclinazione a una stretta
osservanza della Legge, a un rinnovato richiamo alla Thora, contro la quale Gesù aveva
combattuto fino alla morte. Con Giacomo ha inizio per il Cristianesimo un processo, gravido di
conseguenze, di rinnovata giudaicizzazione della religione, che influenzerà anche i Vangeli,
soprattutto quello di Matteo, particolarmente prediletto dalla Chiesa.
In alcuni elenchi falsificati e contraddittori di Episcopi, Giacomo compare quale primo Vescovo
di Gerusalemme 8. Il suo «seggio episcopale» - come ironizza lo Harnack - veniva ancora o già
mostrato nel IV secolo. In realtà Giacomo, ben presto al di sopra di tutti gli Apostoli, guidò
tutta la cristianità primitiva, godendo di un rango superiore allo stesso Pietro, che pare gli
abbia riconosciuto la primazia all'interno della Comunità originaria 9. Egli capeggiò, dunque, la
Comunità per vent'anni, finché i Giudei non lo lapidarono intorno al 62 10. Dopo la sua morte
fu Simeone, un cugino di Gesù, che venne crocifisso come supposto discendente di Davide
durante l'Impero di Traiano, ad assumere la guida della Comunità di Gerusalemme 11, di cui
intendiamo perseguire lo sviluppo e la fine almeno nei suoi tratti fondamentali.
La fine del Cristianesimo giudaico
Dopo la cacciata del gruppo di Stefano, contrario alla Legge, i membri conservatori della
Comunità primitiva rimasero incontrastati nella città ancora per alcuni decenni. Fu solo nel 66
o nel 67, poco prima dell'assedio di Gerusalemme da parte dei Romani che si trasferirono
compatti nei territori a est del Giordano, nella cittadina di Pella 12, perché - come scrive un
Teologo cattolico (Erhard) - non volevano impugnare le armi, atto allora impensabile per dei
cristiani.
Alcuni anni dopo la conquista di Gerusalemme per mano di Tito, i giudeo-cristiani rientrarono
da Pella; ma dopo che venne domata la rivolta di Bar Kochba (135 d.C.), cui non avevano
preso parte perché duramente perseguitati dal capo ribelle (Just., apol. 1, 31. Euseb., h.e. 4,
8, 4), essi furono scacciati dalla città insieme a tutti i Giudei. L'ingresso in Gerusalemme, ora
chiamata Aelia Capitolina, fu vietato a tutti gli Ebrei, pena la morte. Era così giunta la
conclusione definitiva del Cristianesimo giudaico in Palestina, la cui totale rottura con la
Sinagoga aveva avuto luogo alla fine del secolo, e fors'anche prima.
Il Cristianesimo giudaico perdurò a est del Giordano e in Siria fino al IV secolo inoltrato, ma
dopo la conquista di Gerusalemme si trattò di una minoranza priva di particolare rilevanza ai
fini dello sviluppo vero e proprio del Cristianesimo. Già nel II secolo gli eredi diretti degli
Apostoli, gli Ebioniti e i Nazorei, furono dichiarati eretici ed eterodossi dai rappresentanti del
Cattolicesimo nascente, e nel IV secolo i loro epigoni furono irrisi da San Gerolamo, che li
definì «Ebrei dimidiati» e «Cristiani dimidiati». Mentre il Cristianesimo più antico periva in
solitudine, le promanazioni del gruppo degli Ellenizzanti erano divenute potentissime nel
mondo greco-romano, tanto da segnare il destino futuro della nuova religione. Capo dei
pagano-cristiani divenne Paolo.
Note
1 Ciò si può evincere con una certa sicurezza da Mc,. 14, 28 e 16, 7.
2 Atti, 24, 5. 14. K.L. Schmidt, Die Kirche des Urchristentum, 279. Lohmeyer, Kultus u.
Evangelium, 123. Erbt, 21. Heiler, Urkirche u. Ostkirche, 66 sgg. Bultmann, Das
Urchristentum, 195. Dibelius Kümmel, 82. Goppelt, Christentum u. Judentum, 72. B. Le Roy
Kurkhart, 194. Wenschkewitz, 106 sg. Leipoldt, Jesu Verhältnis, 184 sg.; 201. Haenchen,
Apostelgeschichte, 186.
3 Mt. 5, 32; 19,9; inoltre, ad es., Leipoldt, Die Frau in der antiken Welt, 154.
4 Mentre i Giudei viventi in Palestina ai tempi di Gesù vengono stimati intorno al milione, quelli
della Diaspora dispersi per l'Impero Romano, compresi i Proseliti, vengono valutati in circa 3
milioni e mezzo. Cfr. Knopf, Einführung, 184 sg. Grundmann, Das Problem des hellenistischen
Christentums, 54 sgg.
5 Cfr. Atti, 8, 1 sgg.; 9, 1 sg.; 11, 19. Altresì Gal. 1,13; 1 Cor. 15, 9.
6 Atti, 8, 1 e 6, 11. Schoeps, Urgemeinde, Judentum, Gnosis, 13, dubita persino della storicità
di Stefano e lo definisce una probabile «controfigura inserita da Luca per motivi tendenziosi,
sulla quale dovevano essere scaricate dottrine imbarazzanti per l'autore».
7 Gal. 2, 9; Atti, 15; 21, 18 sgg.
8 Euseb., h.e. 2, 1, 2 sgg. Altresì Lohmeyer, Galiläa u. Jerusalem, 56.
9 Da Paolo, Giacomo viene citato prima di Pietro: Gal. 2, 9. Cfr. anche Atti, 12, 17; 15, 13 sgg.
Inoltre, E. Meyer, Ursprung und Anfänge III, 223. Wagenmann, 15 sgg. Schoeps, Theologie
des Judenchristentums, 125 con riferimento a Atti, 12, 17; recentemente ancora attenuato da
Schoeps, Paulus, 61. Urchristentum, Judentum, Gnosis, 7, nota l.
10 Joseph., ant. jud. 20, 9, 1. Egesippo sposta il martirio all'anno 66: in Euseb., h. e. 2, 23,
18.
11 Euseb., h. e. 4, 22, 4 sgg.; 3, 32, 1 sgg.
12 Euseb., h. e. 3, 5, 3. Cfr. anche Schoeps, Theologie u. Geschichte des Judenchristentums,
265 sgg. Idem, Urchristentum, Judentum, Gnosis, 8.

20. IL MIRACOLO DI DAMASCO


...il suo capo era diventato di colpo lucente... ha il pensiero dei pensieri, la chiave delle chiavi,
la luce delle luci; d'ora in poi la storia gira intorno a lui.
(Friedrich Nietzsche, Morgenröte, 1, 68)
Il Paolo precristiano
L'Apostolo non assunse il nome di Paolo soltanto in occasione della sua conversione;
probabilmente portava da sempre un duplice nome, l'ebraico Saul e il romano Paulus. Per
altro, l'usanza di cambiar nome nel caso di conversione o iniziazione era normale sia nel
Giudaismo che nel Paganesimo, trapassando poi anche nel Cristianesimo. Già Simone riceve da
Gesù il nome di Pietro al momento della sua chiamata (Mc. 3, 16; Lc. 6, 14); in seguito
saranno cambiati i nomi di martiri e di santi, e ancor oggi quelli di suore e frati all'atto della
monacazione. Il cambiamento di nome dei Papi ha origini profane: avvenne per la prima volta
con Sergio IV (1009-1012), il cui vero nome, Bocca di Porco, parve poco adatto alla bisogna!
Circa l'aspetto fisico di Paolo, piccolo, calvo, con le gambe storte e il naso adunco, siamo
informati da un opuscolo cristiano del II secolo, fonte per altro piuttosto dubbia, che pare
ricalcare la descrizione della fisionomia di Socrate (Acta Paul. et Thecl. 3. Inoltre Baeck, 99).
Paolo era originario dell'Asia Minore, l'odierna Turchia, esattamente della città di Tarso,
culturalmente importante e profondamente impregnata di spiriti greci. Il padre, sicuramente un
benestante, faceva parte della setta dei Farisei e godeva della cittadinanza romana, diritto che
passò poi anche al figlio.
Quasi nulla sappiamo della sua giovinezza. Crebbe in un ambiente culturale ellenistico e fu
educato nella religione giudaica, due componenti decisive del suo pensiero, e forse studiò per
alcuni anni a Gerusalemme, nella scuola di Gamaliel I, nipote di Hillel, ma il fatto è ancora
oggetto di discussione (Atti, 22, 3 è un po' in contrasto con Gal. 1, 22 sg.).
Il Paolo precristiano compare nel N.T. come zelante cultore della Legge e nemico implacabile
dei cristiani: assistette con «piacere» alla lapidazione di Stefano e sembra sia stato uno degli
sgherri più accaniti (Atti, 8, 1; Gal. 1, 13 sg.), dediti alla persecuzione della componente
ellenizzata della Comunità. Soprattutto gli Atti degli Apostoli evocano icasticamente l'immagine
di un fanatico (Atti, 22, 4; 8, 3; 26, 9 sgg.), creata evidentemente per far apparire ancora più
grandioso il miracolo della sua conversione; si tratta, quindi, di un'esagerazione tendenziosa,
se non addirittura di una leggenda (Haenchen).
La conversione
Secondo gli Atti, Paolo ottenne dal Sommo Sacerdote il potere discrezionale di perseguire i
seguaci di Gesù anche fuori di Gerusalemme (Atti, 9, 2); ma un giorno incontrò il Signore sulla
via di Damasco. Paolo cita ripetutamente questa esperienza, ma ogni volta in maniera
stringatissima e sempre allo scopo di rafforzare la propria autorità di Apostolo (Gal. 1, 15; 1
Cor. 9, 1; 15, 8), contestata a Gerusalemme.
Dobbiamo agli Atti la descrizione pittoresca dell'evento, rappresentato in tre versioni ogni volta
diverse (Atti, 9, 3-9; 22, 6-11; 26, 12-18), il che - come opina il cattolico Ricciotti - rende le
notizie molto più interessanti «che se fossero effettivamente identiche». La storiografia
cattolica crede anche di sapere che l'accadimento meraviglioso si è svolto nel volgere di
«secondi», e nel VI secolo si era già in grado di precisare con esattezza anche il luogo: presso
la seconda pietra miliare prima di Damasco (Preuschen, 55).
Modelli o parallelismi presenti nella storia delle religioni
Secondo gli Atti, Paolo in pieno deserto, a mezzogiorno, venne scaraventato al suolo da una
luce soprannaturale, quindi si svolse il dialogo seguente:
«Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». «Signore, chi sei?»; «Sono Gesù, che tu perseguiti. Ti
sarà difficile recalcitrare.» (Atti, 9, 3 sgg.).
Ora, noi sappiamo che l'autore degli Atti si è inventato in buona fede gran parte del fatto, ma
ciononostante questa scena davanti a Damasco, mutatis mutandis, potrebbe essere
storicamente vera: infatti, in tutta la storia religiosa vengono rese mediante immagini poetiche
esperienze indescrivibili. E il calore accecante del sole favorisce le visioni, e soprattutto il
deserto è stato da sempre luogo particolarmente generoso di apparizioni di tal fatta. In Arabia
viandanti solitari si sentono così spesso chiamati da una voce misteriosa, che esiste in arabo
una precisa denominazione di questa voce, cioè il termine Hatif.
La voce del cielo che dice «Ti sarà difficile recalcitrare» è una citazione dalle Baccanti di
Euripide 1. È vero che si trova anche in Pindaro e in Eschilo 2, ma nelle Baccanti, dramma del
miracolo kat'exochén, (prima rappresentazione nel 406 a.C.), ricorre in una situazione del
tutto analoga alla storia della conversione di Paolo. La medesima locuzione, che qui Cristo
rivolge al suo persecutore Paolo, viene là usata da Dioniso, dio misconosciuto, nei riguardi del
suo persecutore Penteo.
Entrambe le volte la nuova divinità si serve di quel motto per esortare il suo più implacabile
persecutore, ed entrambi i persecutori vengono subito dopo colpiti dalla portentosa punizione
del dio, Penteo dalla morte, Paolo da una cecità momentanea. Tale sorprendente concordanza
di motivi non poteva essere casuale, tanto più che è possibile riscontrare ulteriori singolari
coincidenze fra il dramma euripideo e gli Atti degli Apostoli, in parte già individuate da Celso.
Sicuri parallelismi storico-religiosi si trovano anche in Omero, Sofocle, Virgilio e non da ultimo
nella leggenda veterotestamentaria di Eliodoro.
Eliodoro, ministro delle finanze del re di Siria Seleuco III, ricevette l'ordine di rubare il tesoro
del Tempio di Gerusalemme, ma proprio sulla soglia venne abbattuto al suolo da un cavaliere
splendente d'oro, e accecato e muto fu portato via dai suoi compagni. Analogamente cade
anche Paolo, il quale avrebbe dovuto rastrellare i cristiani di Damasco: a causa della visione
luminosa non può più vedere e i suoi compagni lo portano via.
E come la preghiera del Gran Sacerdote Onias salva Eliodoro, assegnandogli il compito di
proclamare la potenza del Dio che lo ha abbattuto, allo stesso modo Paolo viene guarito per
intermediazione di Anania, e incaricato di predicare quel Dio che lo ha gettato a terra. E come i
Giudei perseguitati da Eliodoro esaltano Dio per tale caso miracoloso, così lo esaltano i cristiani
già perseguitati da Paolo. Nella narrazione della conversione di Paolo ci sono addirittura echi
letterali della leggenda veterotestamentaria 3.
Incongruenze
Secondo una versione dei fatti, i compagni di Paolo ebbero un'audizione, secondo un'altra una
visione; secondo una narrazione essi udirono la voce ma non videro nessuno, secondo l'altra
videro la luce ma non sentirono nessuno (cfr. Atti, 9, 7 con 22, 9). (Il cattolico Daniel-Rops
trasforma la voce una volta sentita e una volta no in «un confuso mormorio»). Secondo le due
prime versioni la luce che si «aprì» a Paolo avvolse soltanto lui, secondo la terza versione
anche gli accompagnatori (cfr. Atti, 9, 3 e 22, 6 con 26, 13), ma accecò solo Paolo e non gli
accompagnatori, che pure, secondo la terza versione, l'avevano vista anche loro. Secondo una
versione i compagni rimasero impietriti, secondo l'altra caddero a terra (cfr. Atti, 9, 7 con 26,
14).
Più tardi Agostino, per giustificare le violente misure da lui imposte contro gli «eretici», si
richiamerà a questo passo. D'altra parte, nelle conversioni forzate nemmeno la Chiesa si
comporta diversamente da quel Cristo, che abbatte al suolo Paolo prima di chiamarlo alla sua
missione! 4
E così, fra portenti e contraddizioni, procede il racconto della conversione paolina.
A Damasco viveva un seguace di Gesù di nome Anania, che, prescelto per il Battesimo di
Paolo, apprende mediante visione l'arrivo di Paolo e il suo indirizzo (Atti, 9, 10 sgg.),
esattamente la casa in cui prende dimora, oppure, secondo la versione riveduta e corretta di
Daniel-Rops, a cui tale narrazione appariva piuttosto profana, «laddove egli verisimilmente
crollò... vegliando e pregando».
La providentia specialissima celebra qui i propri trionfi, non meno della fantasia cattolica. Paolo
viene battezzato a casa di un certo Giuda, e un Protestante meno recente, assai più
tradizionalista, i cui scritti sul nuovo Testamento un Collegio d'esperti un po' meno
conservatori definisce forse i più dotti, ma anche i più strampalati dell'intero secolo XIX
(Overbeck), crede di sapere addirittura che Anania compì questo atto sublime nell'attigua
stanza da bagno di Giuda 5. Dunque, ma solo nelle due prime versioni, Gesù spedisce Paolo a
Damasco, dove Anania gli impartisce le necessarie istruzioni; nella terza versione, invece, nella
quale Anania non compare affatto, è Gesù in persona che istruisce immediatamente Paolo 6.
In un punto importante, tuttavia, i racconti degli Atti coincidono, cioè laddove tutti e tre
parlano non della visione di una figura, ma dell'audizione di una voce: «Saulo, Saulo, perché
mi perseguiti?». Ma purtroppo soltanto Paolo in persona afferma e ribadisce d'aver visto il
Signore.

Note
1 Eurip., Bacch. 795. Cfr. anche Smend, 41. Klausner, Von Jesus zu Paulus, 306. Schneider,
Geistesgeschichte, 1, 291 sg.
2 Pind., Pyth. 2, 95. Aisch. Ag. 1624.
3 2 Mak. 3 specie vers. 27. In proposito Windisch, Die Christusepiphanie von Damaskus, 1 sgg.
4 Aug., ep. 185, 22.
5 Th. Zahn, Die Apostelgeschichte des Lucas, 327, nota 15.
6 Cfr. Atti, 9, 5 sgg. e 22, 10 con 26, 15 sgg.

21. LA LOTTA DI PAOLO CONTRO GLI APOSTOLI


Nel suo nuovo mondo cristiano Paolo era solo, e aveva alle sue spalle i peggiori avversari.
(Il teologo Lietzmann, Geschichte der alten Kirche, 1, 109)
...per ognuno gli avversari sono ingannatori guidati da volgari necessità materiali, non Apostoli
di Cristo, ma strumenti di Satana, il contrasto personale è insuperabile, una riconciliazione fra
Paolo e Pietro assolutamente esclusa.
(Eduard Meyer, Ursprung u. Anfänge, III, 459)
Dopo la conversione, Paolo visse alcun tempo in «Arabia» (Gal. 1, 17), come si chiamava
allora il territorio immediatamente a Sud di Damasco, e solo dopo tre anni si recò a
Gerusalemme per una breve presa di contatto con gli altri. Ma probabilmente già da prima
s'era formata una concezione del tutto personale della predicazione cristiana, della quale, in
ogni caso, doveva pur possedere un'idea almeno approssimativa, perché altrimenti non
avrebbe potuto perseguitare i seguaci di Gesù. Le sue conoscenze furono poi completate
presso i cristiani di Damasco, durante la sua prima visita a Gerusalemme e infine in Antiochia.
Paolo, in verità, pretende d'essere stato personalmente chiamato dal Signore, perché ribadisce
ripetutamente di non aver ascoltato il Vangelo da nessun uomo, nemmeno a Gerusalemme
dagli Apostoli, che talvolta definisce con scherno «superapostoli» o «arciapostoli» 1, ai quali
non ritiene d'essere affatto inferiore e il cui prestigio lo lascia indifferente (Gal. 1, 1 sgg.; 2, 6).
Egli sottace o sminuisce qualsiasi contatto coi cristiani, come l'incontro con Pietro e Giacomo:
«Solo dopo tre anni mi recai a Gerusalemme per parlare con Cefa, ma restai con lui solo
quindici giorni. In quell'occasione non vidi nessuno degli altri Apostoli, eccetto Giacomo,
fratello del Signore».
E ribadisce solennemente con un giuramento:
«Quel che vi scrivo adesso potrei testimoniarlo davanti a Dio, ché dico la pura verità» (Gal. 1,
18 sgg. Cfr. soprattutto anche Gal. 1, 12).
Il contatto con gli Apostoli, d'altra parte, non può essere stato molto stretto. Fatta eccezione
per i due personaggi più importanti, l'ex persecutore, oltretutto già allora avversario della
Legge, non s'incontrò personalmente con nessuno. Tuttavia gli Atti degli Apostoli,
estremamente tendenziosi e composti probabilmente da Luca, discepolo di Paolo, allo scopo di
occultare le divergenze fra le parti, racconta -in aperto contrasto con quanto dice Paolo -che
questi si trattenne da Barnaba, che Barnaba lo presentò agli altri Apostoli e che predicò a tutti
il Vangelo (Cfr. Atti, 9, 26-28 con Gal. 1, 18-24). In realtà, il conflitto fra lui e la Comunità di
Gerusalemme risale proprio a questo primo incontro, sulle cui esperienze - come si esprime il
Teologo cattolico Ehrhard - Paolo sorvola con fine delicatezza.
Gli inizi del Cristianesimo pagano
Non c'è momento che abbia più profondamente falsato la tradizione storica del Cristianesimo
primitivo del suo completo trapasso nelle mani dei pagano-cristiani.
(Il teologo Overbeck)
Con l'aiuto di Barnaba, un Levita proveniente da Cipro, da sempre di tendenze ellenizzanti,
poté recarsi nella capitale di Siria, Antiochia, che coi suoi 800.000 abitanti era la terza città del
mondo. Qui si era costituita una comunità cristiana riconducibile all'attività della cerchia di
Stefano, allora non più legata alla religione giudaica, e che Paolo - ivi attivo per 14 anni -
influenzò profondamente 2. E ancora da Antiochia prende le mosse la sua evoluzione
successiva, per molto tempo decisiva per la storia del Cristianesimo: la penetrazione
nell'Impero Romano, il passaggio dall'ambito culturale palestinese a quello ellenistico, la
liberazione dei pagano-cristiani dalla Legge Mosaica e ulteriori importanti riforme teologiche.
La confluenza ora incipiente delle correnti culturali dell'orientalismo ellenistico, della filosofia
greca e delle religioni misteriche modificò notevolmente l'insegnamento di Gesù. Mentre a
Gerusalemme i giudeo-cristiani ricadevano ampiamente nel Giudaismo, i pagano-cristiani
soccombettero lentamente, ma inesorabilmente, all'influsso del paganesimo. Anche la notizia a
tutti nota, secondo la quale furono proprio i discepoli d'Antiochia a essere chiamati per la prima
volta «Cristianici» (Atti, 11, 26), indica chiaramente che ivi la nuova religione aveva ormai
assunto una caratteristica tutta propria.
In un primo momento la Comunità originaria osservò in silenzio le tendenze dei cristiani
antiocheni, ma il suo atteggiamento mutò allorché, verso la metà degli anni '40, Paolo iniziò a
diffondere ben oltre Antiochia il suo Cristianesimo eslege durante la cosiddetta prima missione,
nella quale, per altro, il ruolo principale fu svolto ancora una volta da Barnaba.
Inoltre l'opposizione dei cristiani gerosolimitani venne rafforzata dalla cooptazione di molti
Farisei, aspramente combattuti da Gesù, coi quali, tuttavia, gli Apostoli si affratellarono: e non
furono i Farisei a recedere dalle loro posizioni, ma furono gli Apostoli a fare delle concessioni di
principio (Leipoldt, Jesu Verhältnis, 184).
Infine, sembra che la crescente pressione romana su Israele abbia favorito il sentimento
nazionale di molti cristiani di Gerusalemme e la consapevolezza della loro appartenenza al
Giudaismo. In ogni caso, s'accrebbe il loro risentimento verso la critica alla Legge Mosaica e
protestarono contro la diffusione di una fede, che si poneva in così aperta contraddizione con la
propria tradizione giudaica.
Alcuni inviati della Comunità apostolica si recarono ad Antiochia, «falsi fratelli intromessisi»,
come Paolo li definisce, e ne scaturì, come ammettono anche gli Atti degli Apostoli, una
«ribellione», una «violenta polemica» (Gal. 2, 4; Atti, 15, 2). Poiché non si pervenne a un
accordo, in compagnia di Barnaba, Paolo si recò per la seconda volta a Gerusalemme,
conformemente a una rivelazione, com'egli si esprime; cioè, commenta il Teologo Nock, «non
in seguito a un ordine di presentarmi e di fornire spiegazioni, e nemmeno per una naturale
sottomissione ai miei superiori, quali io non ritengo ch'essi siano» (Gal. 2, 2; Nock, Paulus,
83).
Il Concilio Apostolico
Nel «Concilio Apostolico» che ne conseguì, (così viene definita alquanto pomposamente questa
riunione assolutamente informale, avvenuta quattordici anni dopo il primo colloquio), Paolo e
compagni non si piegarono «neppure per un'ora (Gal. 2, 5) ai giudeo-cristiani. Per gli Atti tale
affermazione è troppo cruda, e l'importante manoscritto neotestamentario D, creato intorno al
500, falsificando il testo, la rivolta nel suo esatto contrario.
L'esito dell'incontro fu decisamente poco conciliante: i seguaci di Giacomo dovevano predicare
ai Giudei, Paolo e i suoi ai Pagani (Gal. 2, 9). Egli, insomma, era riuscito a strappare la
dispensa dalla Legge Giudaica per i pagano-cristiani e a ottenere per sé mano libera
nell'attività missionaria. Tuttavia dovette acquistarsi tale autonomia mediante un sostegno
finanziario alla Comunità originaria, per cui Lutero tradusse le raccolte di denaro citate in 2
Cor. 9, 13 non con «elemosine» o «opere di carità», bensì con il termine «tasse».
Secondo gli Atti, che su questo punto contraddicono Paolo più di una volta, fu anche obbligato
all'osservanza di un minimo rituale giudaico, al rispetto dei comandamenti di Noè, all'astinenza
dei pagano-cristiani dai sacrifici idolatri di animali uccisi versando sangue o mediante
soffocamento, e dall'impudicizia (Cfr. Gal. 2, 10 con Atti, 15, 28 sg.) Di codesta Clausula
Jacobaea, il «Decreto Apostolico», non si preoccuparono molto né gli estremisti giudaico-
cristiani né Paolo, nonostante la formulazione solenne «sia piaciuta allo Spirito Santo e a noi»
Atti, 15, 28).
Dai cristiani i primi pretesero di nuovo subito la circoncisione e una rigorosa osservanza della
Legge, il secondo promosse e favorì un distacco totale da essa (Cfr. 1 Cor. 8)!. In termini
complessivi il Concilio Apostolico fu un mero compromesso, in quanto non fu in grado di
portare una chiarificazione sul contrasto fondamentale, girandovi intorno senza affrontarlo,
come dimostra con evidenza
La controversia antiochena
Quando Pietro giunse subito dopo in Antiochia, ebbero luogo scontri nuovi e più gravi, e Paolo
a quel punto si mosse contro Pietro con estrema durezza, contrapponendoglisi «viso a viso»,
rinfacciandogli la sua «ipocrisia», e con lui - scrive Paolo - «cominciarono a simulare anche i
giudeo-cristiani, tanto che anche Barnaba fu indotto a simulare insieme a loro» (Gal. 2, 13).
Le decisioni del Vicario di Cristo, che inizialmente avrà pur guidato la Comunità originaria, non
vennero ripetutamente considerate vincolanti, almeno fin dall'inizio, come solo molti secoli
dopo lo diventeranno abitualmente quelle dei Papi. Anche cristiani assolutamente modesti
allora poterono permettersi di muovergli dei rimproveri (Atti, 11, 2 sg.). Durante la
controversia antiochena, Paolo pretese il diritto, di decidere autonomamente rispetto a Pietro;
per questa ragione tale atteggiamento fu sempre particolarmente imbarazzante per i Cattolici,
e a buon diritto venne utilizzato da Lutero come argomentazione contro la fede nell'infallibilità
del Papa.
Sono eloquenti in proposito le acrobazie esegetiche dei Padri della Chiesa.
Tertulliano ci insegna che siamo qui in presenza soltanto di un errore comportamentale, non
dottrinale (Tert,. praescr. haeret. 23); la Chiesa predilesse fin dal principio tali distinzioni
artificiose: anche quando in seguito procedette alla liquidazione di milioni di «streghe» si trattò
pur sempre e in ogni caso di un errore di comportamento. Gerolamo sostenne che Pietro e
Paolo avrebbero fatto finta di polemizzare fra loro, per poi poter procedere tanto più
efficacemente contro i giudeocristiani (Hieron., Comment. in Gal. 2, 11). Agostino, che trovò
sgradevole l'idea della finzione polemica dei Principi degli Apostoli, respinse il suggerimento di
Gerolamo, ammettendo la bocciatura di Pietro (Aug,. ep. 28; ep. 70).
Il che spiacque a S. Tommaso, che si limitò a definire veniale il peccato di Pietro. Ippolito, poi,
negò recisamente i contrasti fra gli Apostoli, trasformando sbrigativamente in Pagani e Giudei
gli avversari giudeo-cristiani di Paolo. Per Clemente Alessandrino l'avversario di Paolo non fu
affatto Pietro, ma un giovane sconosciuto. E Ireneo preferì stendere sulla diatriba il pietoso
velo del silenzio, lasciando credere che le discussioni di Gerusalemme si fossero svolte in
bellissima concordia d'intenti. Insomma, si evitò accuratamente di porre in risalto i contrasti e,
al contrario, si fece di tutto per sottolineare l'armonia all'interno della Comunità primitiva.
Ma cosa accadde in realtà?
In Antiochia Pietro si adeguò immediatamente all'ambiente nuovo, e, ignorando i
Comandamenti cerimoniali della Legge validi per la Comunità originaria, consumò i pasti
insieme ai pagano-cristiani. E continuò a farlo finché non giunsero alcuni inviati di Giacomo, e
Pietro mutò fulmineamente opinione, rifiutò quella compagnia, e, come se ciò non bastasse,
volle tutto a un tratto costringere i pagano-cristiani a vivere al modo dei giudeo-cristiani (Gal.
2, 12-14).
Evidentemente, dunque, Pietro, che «ebbe timore degli inviati di Giacomo», già da allora non
era più il primus apostolorum, l'autorità prima della Comunità gerosolimitana, e tanto meno
poteva esserlo fuori di essa. «Per il vasto ambito del Paganesimo cristiano le regole e le
direttive sono impartite da Paolo, che le impone contro Pietro» (Windisch, Paulus und Christus,
297).
Dopo questo conflitto non si pervenne mai più a un accordo; anzi, come anche il cattolico
Ehrhard è costretto ad ammettere, il cambiamento di atteggiamento di Pietro equivale
all'abbandono al proprio destino del Cristianesimo Pagano. Sicuramente Paolo non avrebbe
passato sotto silenzio un riconoscimento da parte di Pietro; al contrario, se ne sarebbe servito
a tutti gli effetti. Ma Paolo tace, e questo argumentum ex silentio è determinante. Inoltre, egli
si era inimicato anche con Barnaba, nonché con una grande parte dei cristiani antiocheni.
La Comunità primitiva contro Paolo
In primo luogo, poi, tutti i giudeo-cristiani furono ostili a Paolo, del quale contestarono
l'apostolato fra i Pagani, e che considerarono persona ipocrita, pronto a compiacere
superficialmente la gente, ad agevolare troppo l'accesso al Cristianesimo, a falsarlo e a
predicare non la parola di Gesù, ma se stesso. Fu anche accusato di truffa finanziaria e di
cupidigia, venne disprezzato come pessimo oratore, gli fu rinfacciata la sua viltà e venne
definito strambo e pazzo 3. E alla fine fu deciso - per dirla con un teologo cattolico (Ehrhard,
Urkirche u. Frühkatholizismus, 51) - di alienargli il consenso delle sue stesse comunità.
Da quel momento in poi, dunque, non si trattò più di diatribe su dottrine e princìpi, ma di una
lotta vera e propria per il potere. Mentre Paolo si trovava impegnato nei suoi lunghi viaggi
missionari, agitatori giudeo-cristiani penetravano nei territori di sua competenza, forniti di
lettere commendizie dei primi Apostoli 4, talvolta fors'anche falsificate 5. Nelle Comunità dei
Galati s'insinuarono «quelli di Giacomo», a Corinto si precipitarono i seguaci di Pietro e Pietro
medesimo, per «arginare la dottrina fuorviante di Paolo» 6. Anche un Cattolico (Koestner)
ammette l'esistenza di un «partito di Cefa a Corinto», ma solo per dimostrare «il prestigio di
Pietro»!
Alcuni decenni dopo, la Prima Epistola di Clemente definisce i Corinzi «militanti nei partiti degli
Apostoli», e un esegeta moderno parla di una Chiesa lacerata, che minaccia di frantumarsi in
piccoli gruppi forniti di parole d'ordine specifiche, di una crisi di fondo di prima grandezza (1
Clem. 47, 4; 46, 5. Eichholz, 52 e 49). Tutto lascia intendere, inoltre, che in Efeso i cristiani
antipaolini fossero molto più fanatici.
Paolo contro la Comunità Primitiva
Naturalmente la battaglia non fu condotta da una parte sola.
Nelle Epistole paoline ritornano di continuo le lamentele sui giudeocristiani di Gerusalemme,
tuonano le maledizioni, si moltiplicano la sua mordente polemica e il suo velenoso sarcasmo.
Nella Lettera ai Galati, dal cui tenore fu tanto impressionato Lutero, sostiene ch'essi non si
muovono nella verità del Vangelo, che lo stravolgono, che sobillano la Comunità, la stregano,
la confondono, la deviano, e non si perita di maledire ripetutamente e con energia i suoi
avversari 7.
In seguito Paolo divenne ancor più aspro, lamentando litigi, discordie, spaccature. Non parla di
due, ma di quattro partiti, che si richiamavano a lui, ad Apollo, a Pietro e a Cristo 8. Paolo
accusa gli avversari di predicare un altro Gesù, un altro spirito, un altro Vangelo; di falsare la
parola di Dio, di proclamare Cristo mossi solo dall'invidia, dall'odio e dalla discordia 9. Lascia
capire che asserviscono i suoi seguaci, li sfruttano, li schiaffeggiano, e che hanno
personalmente oltraggiato e umiliato lui stesso 10. Da parte sua, egli affibbia loro l'appellativo
di «cani» (questa parola aveva allora un valore un po' diverso), e di «mutilati» 11, con
sprezzante, allusione alla loro circoncisione e alla propaganda che ne facevano:
«Genti di tal conio sono falsi apostoli, operai imbroglioni, che di Apostoli del Cristo hanno
soltanto la maschera. E non c'è da meravigliarsi: infatti, lo stesso Satana assume la maschera
di Angelo della Luce» (2 Cor. 11, 13 sg.).
Ma chi erano codesti servitori di Satana, codesti falsi Apostoli? Chi osservi più attentamente -
scrive il Teologo Lietzmann - riconosce dietro di loro «le ombre dei grandi di Gerusalemme. Nel
suo nuovo mondo cristiano stava da solo, avendo alle spalle gli avversari peggiori».
Può servire a mettere meglio a fuoco il rapporto fra Pietro e Paolo la constatazione che
quest'ultimo evita il nome onorifico grecizzato di Pietro, la roccia, utilizzando al suo posto la
forma aramaica Cefa, che non significava nulla per il lettore di lingua greca. Su questo fatto
assai eloquente, da parte cattolica si tenta di scorgere semplicemente un richiamo di Paolo alla
tradizione originale, ch'egli, per altro, rispetta così poco che, per dare legittimazione al
complesso della sua dottrina, si richiama a un mandato personale ricevuto da Dio.
Negli ultimi anni della sua vita l'ostilità verso la Comunità originaria si acutizzò ulteriormente,
soprattutto nei confronti delle sue correnti più radicali. Nella Lettera ai Romani e nelle lettere
da Roma Paolo non fa più menzione di Pietro, ch'era ormai l'avversario principale, dopo aver
rotto per sempre ogni forma di relazione coi primi Apostoli. Ma già durante i due anni di
prigionia di Paolo in Cesarea, Giacomo, il primo «vescovo» di Gerusalemme, non fece
assolutamente nulla per lui. Al contrario, gli antipaolini raccolti intorno al fratello di Gesù
dispiegarono in tutto il mondo un'attività più intensa solo allo scopo - come lamenta Paolo - «di
aggiungere ulteriori motivi di preoccupazione alla mia prigionia» 12.
La lotta proseguì anche dopo la morte di Paolo
Tutte le correnti giudeo-cristiane scaturite dalla Comunità primitiva, anche le più moderate,
rifiutarono Paolo come Apostolo e continuarono la polemica anche dopo la sua morte, come è
in parte attestato persino nel N.T. La Lettera di Giacomo polemizza apertamente e
decisamente contro la dottrina paolina della giustificazione, nonostante che anch'egli,
stranamente, si fondi come Paolo sul medesimo passo veterotestamentario 13. Anche nel
Vangelo del giudeo-cristiano Matteo, composto circa vent'anni dopo la morte di Paolo, i non
giudei vengono definiti cani e porci, e tali espressioni, in contrasto con tutta la tradizione
sinottica, vengono poste sulla bocca di Gesù, per il quale gli uomini sono tutti uguali (Mt. 7, 6;
10, 5 sg.). E per qualche tempo fu guardato con estremo sospetto dalla Comunità di Roma,
anch'essa fondata da giudeo-cristiani.
Poco mancò poi che l'Apostolo, altamente stimato dai Marcioniti e da molti Gnostici, ma
totalmente ignorato da personaggi ecclesiastici di primo piano nel II secolo come Papias e
Giustino, venisse dichiarato eretico dalla Chiesa (Knox, 114). Il Padre della Chiesa Tertulliano
lo chiama spregiativamente «Apostolo degli eretici» (haereticorum apostolus) e avrebbe
preferito di tutto cuore disconoscergli anche quel titolo, per valorizzare maggiormente i meriti
dei primissimi Apostoli (Tert., adv. Marc. 3, 5; 1, 20).
Dall'altra parte, ovviamente, anche i seguaci di Paolo continuarono dopo la sua morte
un'acutissima polemica contro i giudeo-cristiani. Con accenti frementi di zelo la Lettera a Tito,
scritta qualche decennio dopo la sua dipartita, così si esprime:
«Perché esistono molti che rifiutano di sottomettersi, chiacchieroni e truffatori, specialmente
tra le file dei giudeo-cristiani; bisognerebbe tappar loro la bocca, in quanto gettano nello
scompiglio intere famiglie, propagando inaudite dottrine in nome di un lucro davvero turpe».
E Tito viene esortato a «combatterli senza alcun riguardo» (Tit. 1, 10 sgg.). Altrettanto
decisamente i giudeo-cristiani vengono combattuti nella Lettera a Timoteo, anch'essa un falso
(1 Tim. 1, 4 sgg.).
Questa specie di guerra lasciò tracce ancora più evidenti fuori dal N.T. Fu soprattutto il
Giudaismo cristiano a scagliare le accuse più aspre contro Paolo. Nelle Omelie
pseudoclementine, tramandate sotto il nome di uno dei primi Vescovi di Roma, i giudeo-
cristiani fecero di Paolo un eresiarca, l'eretico più antico della cristianità, anzi, addirittura
l'«Anticristo» 14.
Ma come si pone la storiografia ecclesiastica cattolica di fronte a questa polemica rovente
all'interno del Cristianesimo primitivo? Essa sminuisce, banalizza, marginalizza tale spettacolo
disastroso, sostenendo che l'opposizione giudeo-cristiana sarebbe stata costituita da un
gruppetto sparuto della Comunità originaria. Ma questa tesi appare già contraddetta dalla
semplice riflessione che una minoranza irrilevante non avrebbe potuto sostenere una simile
polemica tanto a lungo e con tanto vigore, e per di più contro l'autorità degli Apostoli. A meno
che il loro prestigio fosse davvero assai scarso!
Il tentativo di occultare questo enorme conflitto caratterizza già gli Atti degli Apostoli,
chiaramente pensati per appianare e mediare le controversie: Pietro e Paolo vivono le
medesime esaltazioni celestiali, compiono gli stessi miracoli e tengono discorsi pressoché
uguali. Quando diventa impossibile nascondere anche le tracce dei loro contrasti, li si
minimizza: non esistono differenze, ciascuna fazione è buona e agisce in piena legittimità.
A partire dal II secolo, così, la sintesi conciliatrice della Chiesa inventò lo splendido
parallelismo, l'accoppiata ideale dei Principi degli Apostoli Pietro e Paolo, i modelli della
cristianità, cui rivolgersi con assoluta venerazione. E ciò si verificò, forse, non senza un
discreto farsi da parte di Paolo (Cfr. Gal. 2, 7 sg.), che a poco a poco fu posto in ombra dal
«primo Papa». E nel 1647 Innocenzo X condannò come eresia l'equiparazione di Pietro con
Paolo (Mirbt, 381).
Il contrasto fra il Cristianesimo paolino e quello petrino venne posto in risalto nel XIX secolo
dalla Scuola di Tubinga, ma anche nella ricerca critica più recente o recentissima viene
unanimemente ammesso che, aldilà dei riconoscimenti formali, fra la Comunità originaria e
Paolo si giunse ad aspri conflitti, sostenuti non da una esigua minoranza giudeo-cristiana, ma
apertamente guidati in prima persona dagli Apostoli stessi; e che non si trattò sic et simpliciter
di diatribe limitate ad aspetti cerimoniali secondari, quali la circoncisione e le norme alimentari,
ma di differenze ben più sostanziali, concernenti la teologia di Paolo, assai lontana sia dalla
fede dei primi Apostoli che dall'insegnamento di Gesù.
Questo fatto decisivo verrà approfondito nei due capitoli successivi, che non potranno non
trattare, almeno di sfuggita, il problema delle fonti.

Note
1 2 Cor. 11, 5; 12, 11. Interpretato come ironico dalla maggior parte degli studiosi. Cfr., ad
es., Ackermann, Jesus, 152. Hamack, Mission u. Ausbreitung, I, 353. Goguel, 51. Albertz, 150.
2 Grundmann, Das Problem des hellenistischen Christentums, 1, 73. Anche Heitmüller, Zum
Problem Paulus u. Jesus, 320 sgg.
3 1 Cor. 9, 1 sg.; Gal. 1, 6-10; Thess. 2, 3 sg.; 2 Cor. 12, 1-14; 4, 1-5; 12, 16-18; Thess. 2,
5; 2 Cor. 10, 1; 10, 10; 11, 6; 5, 13; 11, 1; 11, 1216 sgg. Inoltre Feine-Behm, 159 sg.
Schoeps, Paulus, 72 sgg. Sospetta una certa avidità di denaro in Paolo anche il teologo
cattolico Guardini, Das Bild von Jesus dem Christus, 41.
4 2 Cor. 3, 1. Inoltre Pfleiderer, 1, 87 sg. e 131.
5 1 Cor. 3, l; Kol. 4,18; Thess. 2, 2; 3, 17; inoltre Nock, Paulus, 116. E anche Ricciotti, Paulus,
162.
6 E. Meyer, Ursprung und Anfänge, III, 441. Cfr. anche Lietzmann, Geschichte der alten
Kirche, I, 110. Idem, Sitzungsbericht der Berliner Akademie der Wissenschaften, Phil. hist. Kl.
1930, 153 sgg. Nock, Paulus, 87.
7 Gal. 2, 14; 1, 6 sg.; 4, 17; 4, 9; 3, 13; 5, 1; 3, 1; 1, 8 sg.; 5, 12.
8 1 Cor. 3, 3; 11, 18; 1, 10-12.
9 2 Cor. 10, 12-18; 11, 4; 2, 117; Phil. 1, 15 sg.
10 2 Cor. 11, 20; 2, 5; 7, 12; 2, 1; 12, 21.
11 Phil. 3, 2. Che in questo passo si intendano i giudeo-cristiani e non, ad esempio, i Giudei,
viene espressamente rilevato da Ehrhard, Urkirche u. Frühkatholizismus, 55.
12 Phil. 1, 17. Inoltre Stauffer, Die Urkirche, 301.
13 Cfr. Jak. 2, 14 sgg. (a condizione, naturalmente, che la lettera di Giacomo non sia, come
alcuni suppongono, uno scritto puramente giudaico) con Rom. 4, 3; inoltre 1 Mos. 15, 6. In
proposito Diem, 400 sgg. Anche Lietzmann, Geschichte der alten Kirche, 1, 213.
14 Ps. Clem., rec. 3, 61. Cfr. specialmente anche Ps. Clem., hom. 17, 13 sgg.; 18, 6 sgg.
Schoeps, Theologie u. Geschichte des Judenchristentums, 118 sgg. Idem, Paulus, 77 sgg.
Idem, Urchristentums, Judentum, Gnosis, 1

22. DA GESÙ A CRISTO (parte prima)


Il Cristianesimo è la religione fondata da Paolo, la quale in luogo del Vangelo di Gesù introduce
un Vangelo su Gesù.
(Wilhelm Nestle, Krisis, 89)
Le false Epistole di Paolo
Come già su Gesù e sugli Apostoli, nemmeno su Paolo possediamo testimonianze storiche
autonome. Ciò che di lui conosciamo deriva quasi esclusivamente dalle sue Epistole e dagli Atti
degli Apostoli, che non sono solo poco attendibili, ma spesso sono in aperta contraddizione con
le lettere, delle quali parecchie furono falsificate, alcune completamente, altre soltanto in
parte; certune poi non sono altro che centoni rappezzati coi brandelli di altri scritti.
Non appartengono sicuramente a Paolo le «Epistole pastorali» (così definite da circa due
secoli), vale a dire le due Lettere a Timoteo (Schleiermacher se ne accorse a proposito della
Prima) e la Lettera a Tito. L'inautenticità di queste tre Epistole fu stabilita per la prima volta
dallo studioso di Tubinga Johann Gottfried Eichhorn nel 1812: furono composte in Asia Minore
alcuni decenni dopo la morte di Paolo, adottando sapientemente lo stile di quelle autentiche. Il
Teologo Hans von Campenhausen compendia il risultato critico dell'intera ricerca critica sulla
Bibbia nella dichiarazione che qui
«abbiamo a che fare con una falsificazione esemplare, quantunque di alto livello culturale, che
con ogni probabilità si colloca nella prima metà del II secolo».
Non a caso proprio queste tre Epistole mancano nelle raccolte più antiche delle lettere paoline,
dichiarate spurie non per ragioni storicofilologiche, ma soltanto teologiche, già nel II secolo da
Marcione (che pure si richiamava a Paolo), e rifiutate anche da altri «eretici» cristiani dei primi
tempi 1. Con tutta probabilità le Lettere Pastorali furono composte proprio per poter
combattere Marcione per mezzo di Paolo. Nel II e nel III secolo in ambienti cattolici venne
falsificata tutta una serie di scritti, attribuiti poi agli Apostoli, soprattutto per combattere i
Marcioniti, considerati estremamente pericolosi per la Chiesa; a Paolo venne, ad esempio,
attribuita anche una Terza Epistola ai Corinzi.
In seguito proprio le lettere paoline falsificate acquistarono una particolare importanza per il
Cattolicesimo montante: Ireneo, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene e altri le usarono
addirittura contro quelle autentiche, nei confronti delle quali erano naturalmente molto più
sofisticate sotto il profilo della teologia e del diritto ecclesiastico. Anzi, furono propriamente tali
attività falsarie a rendere conformi alle esigenze della Chiesa le Epistole autentiche e ad
accrescere il prestigio di Paolo all'interno della Chiesa cattolica.
Come abbiamo già ricordato, mancò poco che questi venisse dichiarato eretico, perché essa
non poteva ancora utilizzare ai propri fini l'autore delle Lettere autentiche. In seguito anche i
Papi citarono con particolare predilezione proprio le pseudo-lettere pastorali, soprattutto per
giustificare le condanne contro gli eretici e per rafforzare la loro pretesa di riconoscimento delle
proprie scelte dottrinali.
Anche la Lettera agli Efesini viene definita un pietoso inganno da quasi tutta la Teologia critica,
da molti anche la Lettera ai Colossesi e soprattutto la Seconda Lettera ai Tessalonicesi, ma su
questi scritti non è stata raggiunta un'unanimità di giudizio.
È invece generalmente negata la paolinità della Lettera agli Ebrei: Tertulliano ne indicò come
autore Barnaba, altri l'attribuirono a Luca o a Clemente di Roma. Ma essa entrò nel N.T. solo in
quanto presunta opera di Paolo, dove venne accettata senza obiezioni fino a Lutero, il quale,
forse giustamente, ne ritenne autore Apollo.
Le altre lettere paoline neotestamentarie sono oggi considerate autentiche, anche se
contengono aggiunte di mani estranee o vennero messe insieme, sulla base di «determinati
punti di vista della comunità cristiana», da un ignoto scrittore, che si servì di testi paolini
risalenti a epoche assai differenti, com'è il caso della Seconda e anche della Prima Lettera ai
Corinzi 2.
Al problema dell'autenticità si aggiunge quello della esegesi.
Molti passi sono plurivalenti, la loro interpretazione è difficile e la traduzione stessa è già in
certa misura (molto più che in altri scritti neotestamentari) un'interpretazione.
L'autore della Seconda Lettera di Pietro riscontrava nelle epistole paoline la presenza di «molte
cose di difficile comprensione» (2 Petr. 3, 16). Il Vescovo Policarpo, forse proprio l'autore delle
Lettere Pastorali attribuite all'Apostolo, non era in grado di «tener dietro alla sapienza del
santo e celebre Paolo» (Polyc., ad Phil. 3, 2). Lo stesso Agostino confessò che molte cose gli
«erano del tutto oscure» (Aug., civ. Dei, 20, 19, 2).
Lutero, poi, come prima di lui Marcione, aprì la strada a un'interpretazione corretta, per certi
aspetti, del pensiero paolino; altri, invece, si limitarono a perseverare nel travisamento di
Paolo. Perciò Goethe poté affermare a buon diritto che l'Apostolo ha scritto cose, che l'intera
Chiesa cristiana non è in grado di comprendere fino al giorno d'oggi.
E ciò vale ancora per i nostri tempi. Divenne addirittura famoso un motto del teologo di Basilea
e amico di Freud, Franz Overbeck, rivolto durante un colloquio al teologo Harnack, a lui molto
ostile: Paolo ebbe un solo discepolo che lo comprese, Marcione - e questi lo travisò. E ancora di
recente H.J. Schoeps (Paulus, 1) ha scritto di Paolo: «Da Marcione a Karl Barth, da Agostino a
Lutero, a Schweitzer o a Bultmann, o è stato travisato o compreso solo parzialmente».
E da codesto Paolo, che, come compendia Schoeps (ibid.) alla fine della sua opera
sull'Apostolo, fu sostanzialmente frainteso dai suoi seguaci, non solo, ma che lui stesso «fin dal
principio ha tutto inteso erroneamente», derivano i nuclei centrali della fede cristiana.
Come dovremo spiegare in seguito, fu Paolo che per primo favorì l'evoluzione della concezione
determinante, che consentì di trasformare Gesù in Cristo, una persona umana in un Dio
insegnato, venerato e oggetto di culto da parte della Chiesa: in un principio metafisico,
un'essenza spirituale ultraterrena inviata sulla terra a redimere l'umanità e da Dio nuovamente
innalzata al cielo dopo la sua Resurrezione 3.
Ma come si pervenne a tale innovazione?
Il Gesù storico non si ritenne un Dio
Gesù non si identificò mai con Dio, né disse «Io» per intendere Dio.
(Il teologo Wendland)
La frase: «Io sono figlio di Dio» non venne inserita da Gesù nel suo Vangelo, e chi ve la
introduce come una frase accanto a tante altre, aggiunge al Vangelo qualcosa di estraneo.
(Il teologo Harnack)
Nonostante molteplici ritocchi e aggiustamenti, i Vangeli consentono ancora di determinare con
chiarezza quanto fosse lungi dalle intenzioni del Maestro di Galilea la propria identificazione con
Dio. Proprio i perfezionamenti apportati dai Vangeli più recenti al testo più antico svelano il
processo neotestamentario di divinizzazione, come abbiamo già dettagliatamente mostrato. A
questo punto ci limiteremo ad alcune aggiunte chiarificatrici del mutamento gravido di
conseguenze che, attraverso i primi Apostoli, condusse da Gesù alla Cristologia paolina.
Nel N.T. Gesù rivolge le proprie preghiere non a se stesso ma a Dio, giungendo persino a un
certo grado di tensione manifesta nei suoi riguardi, quando gli chiede di allontanare il calice
amaro e prorompe nella celebre lamentazione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
» (Mc. 14, 36; 15, 34), che ben presto divenne tanto imbarazzante, che il Vangelo Apocrifo di
Pietro la modifica: «Mia forza, o mia forza, perché mi hai abbandonato?» (Ev. Petr. 19), e il
Vangelo di Luca sostituisce quella dubbia espressione con la frase: «Padre, nelle tue mani
raccomando lo spirito mio» (Lc. 23, 46. Cfr. inoltre Ps. 31, 6).
Inoltre, il Gesù sinottico distingue sovente fra sé e Dio, definendo buono lui, non se stesso, il
che gli Evangelisti più recenti non tralasciano di comunicare. Per Gesù è poi chiaro che non è
lui, ma Dio a concedere i posti nel Regno, del cui avvento solo Dio possiede la conoscenza (Mc.
10, 40; 13, 32). Soprattutto nel Vangelo più antico, benché già sottoposto allo stravolgimento
di una pluridecennale tradizione orale, Gesù appare ripetutamente come un uomo, che è ben
conscio dell'enorme distanza da Dio.
È certamente vero che alla domanda del Gran Sacerdote se Gesù fosse il Cristo, il figlio
dell'Altissimo, ivi si legge la chiara risposta:
«Sì, lo sono; e vedrete il figlio dell'uomo assiso alla destra della potenza e giungere con le
nuvole dei cielo» (Mc. 14,60 sgg.).
Ma già C.G. Montefiore osserva opportunamente:
«Come possiamo sperare di arguire anche soltanto approssimativamente ciò che Gesù ha
inteso con queste parole, se non sappiamo con certezza nemmeno quel che ha effettivamente
detto?».
La Teologia critica ritiene storicamente infondata qualsiasi affermazione messianica di Gesù
nella Bibbia: infatti non esiste alcuna prova che il Gesù storico abbia preteso per sé uno solo
dei titoli messianici - Messia, Figlio di Dio, Figlio di Davide, Figlio dell'Uomo - che circa mezzo
secolo dopo la sua morte gli furono attribuiti dagli Evangelisti. E secondo il parere unanime dei
teologi critici, Gesù non sollecitò alcuna forma di fede in se stesso; anzi, è loro propria
l'osservazione importantissima, che al centro della sua predicazione si trova l'annuncio
dell'approssimarsi del Regno, ma nessun comandamento di fede; e che il concetto di «fede» in
Gesù penetrò solo in seguito in alcuni passi evangelici di creazione recente, come invenzione
della Comunità successiva e della sua attività propagandistica; insomma, che Gesù non entra
affatto nella dottrina da lui proclamata. Solo il Quarto Vangelo pone sulla bocca di Gesù
esortazioni alla fede, mentre le due uniche eccezioni nei Sinottici sono nate in seguito a una
rielaborazione posteriore, come risulta chiaramente dalla comparazione testuale 4.
Taluni particolari, apparentemente insignificanti, tradiscono il processo di esaltazione della
figura di Gesù, che abbiamo già indicato. Così se Marco a proposito di Giuseppe di Arimatea
dice che anch'egli «attendeva il Regno di Dio», Matteo, con una sottile ma eloquente
differenziazione, scrive che anch'egli «era diventato un discepolo di Gesù» 5. In tal modo il
«Regno di Dio» annunciato nel Vangelo di Marco, in quello di Matteo diventa più spesso il
Regno di Gesù o del Figlio dell'Uomo, e l'Annunciatore si trasforma in Annunciato 6. O ancora,
se in Marco Gesù parla degli umili «che ci credono», Matteo aggiunge «che credono in me»
(Cfr. Mc. 9, 42 con Mt. 18, 6). Se in Marco gli Apostoli, dopo la passeggiata di Gesù sulle
acque, sono solo «fuori di sé per la meraviglia», in Matteo si prostrano ed esclamano:
«Davvero Tu sei il Figlio di Dio! » (Cfr. Mc. 6, 51 sg. con Mt. 14, 33).
E dunque il Maestro di Galilea pose al centro della sua predicazione non se stesso, ma Dio e il
Prossimo; annunciò non il Cristo, ma il «Regno»; non si presentò agli uditori gridando «credete
in me!» (appare ridicolo solo pensarci); egli non pretese per sé una venerazione religiosa, né
fu mai oggetto di culto da parte della Comunità primitiva.
Neppure i primi apostoli ritennero Gesù un Dio
Rispetto a Paolo, i primissimi Apostoli «non erano ancora così teologicamente evoluti».
(Il teologo cattolico Meinertz, 1, 218)
Per i primi Apostoli Gesù era una persona umana: «un uomo privilegiato da Dio mediante
azioni straordinarie, miracoli e portenti»; era il «profeta» annunciato da Mosé, era il «servo» di
Dio, «il santo e il giusto», che fu «innalzato». Solo dopo la Resurrezione, Dio «lo ha fatto
Signore e Cristo» 7. Cristo è la traduzione greca di messia (aram. mescîha, ebr. maschîach),
che, secondo le concezioni veterotestamentarie, è certo creatura al di sopra di tutti gli uomini,
straordinariamente privilegiata, ma pur sempre un essere mortale. Nel Giudaismo non è mai
esistito un Messia che fosse Dio stesso o che possedesse un'essenza divina.
E agli occhi di Apostoli rigidamente monoteisti come avrebbe mai potuto apparire Signore del
cielo e della terra e di tutte le creature un uomo, col quale condividevano la vita quotidiana, col
quale viaggiavano da un luogo all'altro e col quale erano fuggiti? Se gli abitanti di Nazareth
potevano permettersi di dire: «Ma questi non è il figlio del falegname e di Maria, fratello di
Giacomo, Joses, Giuda, Simone? E le sue sorelle non vivono forse fra noi?» (Mc. 6, 3); gli
Apostoli, che dovettero sperimentare proprio a Nazareth il fallimento della sua taumaturgia,
come avrebbero mai potuto ritenerlo il Creatore dell'Universo? Questo dogma venne
proclamato dalla Chiesa, la quale accusò di primitiva eresia i giudeo-cristiani ben fermi nella
loro antica fede.
Gli Apostoli e la Comunità primitiva - come dichiarano all'unisono i teologi e gli storici moderni
- non erano affatto divisi dal popolo ebraico e dalla sua religione; essi non conoscevano né una
fede in Gesù né la sua nascita da una Vergine, della quale non sa nulla nemmeno Paolo, né
una sua preesistenza, idea estranea anche ai Sinottici, e con certezza almeno a Marco. La
Comunità primitiva non aveva alcuna dottrina consapevolmente strutturata e nemmeno un
credo religioso saldamente determinato. Infatti anche
Il «Credo Apostolico» non deriva dagli Apostoli
Il cosiddetto «Credo Apostolico» non fu messo insieme dagli Apostoli e non riproduce i loro
convincimenti: il testo originale, come ha dimostrato inequivocabilmente l'indagine storico-
filologica, nacque nel II secolo, molto probabilmente nella primissima età cattolica fra il 150 e il
175, a Roma, e non in Asia Minore.
Questo Symbolum Romanum, forse creato per combattere i Marcioniti, è la forma più antica
del Credo cristiano, che in un lungo corso di tempo incorporò tutta una serie di aggiunte: per
esempio, l'articolo attuale «Credo in una santa Chiesa cattolica, nella comunità dei santi»,
originariamente suonava: «Credo in una santa chiesa». Le parole «cattolica» e «comunità dei
santi» sono appendici inserite nei secoli successivi (Trillhaas, 14; 28; 86).
Ancora nel III secolo la lettera del Credo era fluida, come viene attestato da innumerevoli
varianti, e il testo definitivo venne fissato solo nel Medioevo. Non ci sono due scrittori cristiani
antichi che citino un'identica formula, e accade addirittura che uno stesso Padre della Chiesa
utilizzi forme differenti.
La tesi della composizione apostolica del Credo venne diffusa alla fine del II secolo 8 e
accreditata per più di un millennio. Fu l'Umanista Lorenzo Valla (1407-1457), funzionario
curiale sotto molti Pontefici, che demolì tale leggenda. Nel 1865 un Sinodo tenuto a Zurigo fece
decadere l'obbligo dei parroci Protestanti al cosiddetto Credo Apostolico, e in seguito anche le
autorità ecclesiastiche di Berna e di Basilea lasciarono perdere quest'obbligo, come fece anche
Württemberg nel 1912.
E allora, che cosa hanno insegnato gli Apostoli?
Essi si limitarono a completare la predicazione di Gesù con la notizia della sua morte e della
sua Resurrezione (fatto non raro in quel tempo), mentre per il resto si attennero alla speranza
nel suo immediato ritorno e nella prossima realizzazione del Regno di Dio (Atti, 3, 20). Infatti,
era proprio della fede giudaica il convincimento che i Profeti sarebbero ritornati per proseguire
la loro missione terrena: soltanto poche generazioni prima anche il «Maestro di Giustizia» degli
Esseni subito dopo il trapasso venne innalzato al rango di Messia e di Giudice Universale, il cui
ritorno veniva dato per certo. E fu grazie all'accettazione delle future aspettazioni giudaiche
(Cfr. Mc. 13) che la Comunità primitiva venne rinsaldata nella speranza in codesto Regno
messianico terreno.
Anche Paolo aveva contato sull'immediato ritorno di Cristo
Paolo fu «ossessionato dalla preoccupazione che l'annunciazione si sarebbe realizzata con
estrema rapidità e che il tempo fosse assai ristretto; infatti - a suo giudizio - Gesù risorto
sarebbe stato sottratto alla terra solo per poco, e il suo ritorno sarebbe accaduto in tempi
brevissimi, in pochi anni, se non in poche settimane».
(Il teologo Overbeck)
È innegabile che Paolo, come l'intera cristianità primitiva, si sia ingannato: la Parusia attesa in
un tempo assai prossimo non si realizzò affatto.
(H.J. Schoeps)
Anche da cristiano Paolo conservò le tradizionali convinzioni escatologiche, ma senza le valenze
politiche nazionalistiche loro proprie. Come tutti i cristiani del tempo credette che il mondo si
avviasse alla fine, e l'attesa dell'immediato ritorno di Cristo ispirò e infiammò l'intera sua
opera, e difese apertamente tale credenza con estrema decisione.
«Noi, quelli che viviamo, quelli che sopravviviamo fino all'arrivo del Signore».
Così scrive nella Prima Lettera ai Tessalonicesi (1 Thess. 4, 15), ma è un concetto che emerge
chiaramente anche da Epistole successive:
«Lo spazio di tempo che rimane è assai breve - esorta i Corinzi - il mondo qual è va incontro al
tramonto» (1 Cor. 7, 29 sgg.),
e promette solennemente:
«Ecco, vi svelo un segreto: non tutti noi moriremo, ma tutti saremo trasformati»,
concludendo con l'invocazione dei cristiani più antichi: «Vieni, o Signore!» (1 Cor. 15, 51; 16,
22).
... e poi abbandonò tale fede
A poco a poco, col passare degli anni, la speranza di Paolo nella prossima Parusia svanì, e la
delusione fu accelerata dalla morte di molti cristiani, ai quali aveva solennemente promesso
che sarebbero vissuti fino all'arrivo del Signore (1 Thess., 4, 15). E allora spiegò i casi di morte
non previsti come castigo di Dio per l'assunzione peccaminosa dell'Eucaristia 9, assicurando
però che anche i fratelli defunti sarebbero subito risorti all'arrivo del Cristo, mentre tutti gli
altri trapassati avrebbero dovuto attendere fino alla resurrezione finale 10.
Ma alla fine lasciò perdere del tutto tale credenza originaria, spiritualizzando l'ingenuo realismo
della propria escatologia e insegnando, contro ogni evidenza concreta, che il mutamento
eonico tanto atteso, la palingenesi, benché esteriormente invisibile, almeno per i credenti era
già avvenuta mediante la morte e la Resurrezione di Gesù. Per l'uomo «in Cristo» è
improvvisamente incominciato il nuovo Eone:
«Se uno è in Cristo - così egli si sente in dovere di affermare - costui è una nuova creatura (2
Cor. 5, 17): il vecchio è trapassato, ecco, è divenuto qualcosa di nuovo».
Finalmente la salvazione profetizzata da Isaia è diventata presente.
«Vedete, ora c'è il tempo tanto atteso, vedete, ora c'è il dì della salvazione» (2 Cor. 6, 2).
Mentre i primi Apostoli, insieme a tutta la loro Comunità, credevano nell'immediato irrompere
del nuovo Eone, in stridente contrasto con essi Paolo afferma che codesto Eone ha già avuto
principio con la morte e con la resurrezione di Gesù. Ormai non è più il Cristo che dovrà
giungere sulla terra, ma è il cristiano che soffre e muore per lui che otterrà con la morte il
ricongiungimento con Cristo.
Allora si comprese che tale mutamento della fede paolina, data la promessa contenuta nella
Prima Lettera ai Tessalonicesi, (forse la testimonianza più antica del N.T.), per cui i cristiani
ancora in vita sarebbero «sopravvissuti fino all'arrivo del Signore» (1 Thess. 4, 15), non
poteva evidentemente reggersi in piedi. Perciò venne falsificata la Seconda Lettera ai
Tessalonicesi, in tutto o in parte, interpolandovi alcuni passi.
L'intervento si evince dal fatto che la Seconda Lettera ai Tessalonicesi è una copia pressoché
integrale della Prima, ma riguardo alla Parusia dice esattamente il contrario: se nella Prima
Epistola Paolo ne aveva sostenuto l'arrivo assolutamente inaspettato, condannando ogni
calcolo apocalittico, il «Paolo» della Seconda Lettera (a detta di tutti i sostenitori della sua
autenticità scritta solo pochi mesi dopo la Prima) prende posizione contro l'idea di un
immediato ritorno di Gesù.
Se nella Prima lettera egli dichiara che questo giorno è inatteso e giunge improvvisamente,
come un ladro nella notte, l'autore della Seconda comunica ai destinatari l'esistenza di tutta
una serie di tappe importantissime non ancora compiute (Cfr. 1 Thess. 5, 1 sgg. con 2 Thess.
2, 3 sgg.).
Inoltre, prega i confratelli, contemporaneamente sconfessando come falsa la Prima Lettera
autentica di Paolo, affinché non si lascino trascinare nella confusione da un'epistola che «si
millanta dovrebbe provenire dalla mia penna»! (2 Thess. 2, 2). Evidentemente la Seconda
Lettera si propone di svalutare e svuotare di significato la Prima, data la scarsissima credibilità
della dottrina sull'attesa della fine prossima, ormai sconfessata dai fatti, e di abituare i fedeli
all'inevitabile ritardo del ritorno di Cristo.
A dispetto di tutto ciò non mancano studiosi assai seri che sostengono l'autenticità della
Seconda Lettera, che sarebbe quindi l'espressione del cambiamento d'opinione di Paolo, anche
se in questo caso non potrebbe assolutamente essere stata scritta subito dopo la Prima (cosa
per altro indimostrabile), come pure sostengono perlopiù i propugnatori della sua autenticità.

Note
1 Cfr. Clem. Al., strom. 2, 11, 52. Hieron., praef. comm. in ep. ad Tit.
2 Nock, Paulus, 7. Barnikol, Mensch und Messias, 5. Bornkamm, Studien zu Antike u.
Urchristentum, II, 139. Cfr. anche A. Schweitzer, Die Mystik des Apostes Paulus, 49 sg. Una
serie di lettere e di rnissive più ampie alle comunità andarono perdute, ad esempio, ai
Laodicesi, assai probabilmente anche altre lettere ai Corinzi e ai Filippesi. Cfr. Kol. 4, 16; 1
Cor. 5, 9. 2 Cor. 2, 3. Philip. 3, l.
3 Phil. 2, 5-11. È controverso se qui Paolo citi un canto a Cristo formatosi già prima, come
ritiene Lohmeyer in Kyrios Christos. Cfr., ad es., contro di lui Windisch, Paulus u. Christus,
163. Nel contesto che qui ci interessa ciò non è importante. Cfr. su Phil. 2, 5 sgg. anche Rom.
1, 11 sgg.; 8, 3; 1 Cor. 1, 23; 15, 23 sgg.; 2 Cor. 8, 9. 2 Cor. 3, 1. Inoltre Pfleiderer, 1, 87 sg.
e 131.
4 L'eccezione Mt. 18, 6. Mc. 9, 42. Inoltre Mt. 18, 10; Lc. 17, 2. Bousset, Jesus, 93.
5 Cfr. Mc. 15, 43 con Mt. 27, 57. In proposito Dibelius, Formgeschichte, 198.
6 Cfr., ad es., Mc. 9, 1 con Mt. 16, 28. Altre prove cita Bousset, Kyrios Christos, 52. Cfr. anche
Grässer, 201.
7 Atti, 2, 22; 3, 22; 7, 37; 4, 27; 3, 14; 2, 33; 2, 36.
8 Iren., adv. haer. 1, 10, 1; 3, 4, 1. La prova più antica per la leggenda che ne scaturì:
Apostol. Constitutiones, 6, 14.
9 1 Cor. 11, 29 sgg. In proposito A. Schweitzer, Die Mystik des Apostels Paulus, 93.
10 1 Cor. 15, 22 sgg. Cfr. anche 1 Thess. 4, 16 sg.

22. DA GESÙ A CRISTO (parte seconda)


Paolo trasse dal Paganesimo la sua Cristologia
Alla metamorfosi della fede paolina, che sostituì la predicazione gesuana del prossimo avvento
del Regno di Dio con concezioni soggettivistiche dell'Aldilà e con l'illusione dell'immortalità
personale, contribuì in modo decisivo l'ambiente pagano nel quale egli viveva. Era diviso da
Gesù in egual misura non solo dalla Comunità primitiva, ma anche dai cristiani Ellenizzati, dai
quali trasse tutti gli elementi determinanti dei proprio pensiero. In ultima istanza, la dottrina
concernente l'aspettazione della fine del mondo era estranea ai Greci, che nella religione
cercavano «conoscenza», «verità», «vita» «immortalità», tutti strumenti di salvazione, che poi
diventeranno anche cristiani 1.
E così Paolo fu necessitato alla riformulazione della sua teologia non solo dal mancato ritorno
del Cristo e dai dubbi che ne derivavano, ma anche dall'abito mentale affatto diverso dei Greci.
Egli cominciò allora a diffondere il mito del Figlio di Dio che muore e risorge (credenza nutrita
da secoli), già prima di lui trasferito alla persona di Gesù nelle comunità pagano-cristiane. E
come abbiamo già visto, anche figure storiche vissute ben prima di Gesù erano state venerate
come esseri soprannaturali, come sotéres e kyrioi, uomini come Zarathustra o Buddha, che per
altro, proprio come Gesù, non avevano mai levato pretese di divinizzazione.
Per i primi cristiani di Gerusalemme Gesù era il «Signore» (Mali = mio Signore; Maran =
nostro Signore), nient'altro che un titolo onorifico ebraico, una formula di cortesia scevra di
pretenziosità dogmatiche, usata nei riguardi di un Maestro e di una Guida. Ma quando
quest'espressione fu ellenizzata e fatta propria dai Greci, si usò la parola kyrios, con la quale
però la Septuaginta, la più antica traduzione greca del Vecchio Testamento, indicava sempre
Jahvè, cioè Dio, con la conseguenza che il concetto originario cadde nel dimenticatoio, mentre
quello nuovo s'impose ben presto nell'uso della Chiesa.
Tale scivolamento semantico venne agevolato dal fatto che anche molte divinità precristiane
erano sovente definite «Signore/a», e che ancor prima della composizione dei più antichi scritti
neotestamentari gli Imperatori Romani, venerati ormai come divinità, erano denominati kyrioi.
Quindi, dal culto dei re il nome trapassò alla figura neotestamentaria di Gesù, unitamente alla
parola sotér, «Salvatore», «Redentore», così che dalla venerazione di Gesù quale sotér e
kyrios a poco a poco ebbe inizio il processo della sua divinizzazione. Come gli imperatori furono
prima insigniti del titolo di «Redentore» e «Signore», ottenendo poi la definizione di «Dio», allo
stesso modo tale predicato si impose per Gesù.
E non si trattò soltanto di una nuova denominazione, ma anche di un modo nuovo di porsi nei
suoi confronti, perché nelle cerimonie religiose della Comunità si cominciò a farlo oggetto di
venerazione, inaugurando il culto del Cristo: la Comunità primitiva vide in lui il Messia tanto
atteso e i pagano-cristiani trasformarono il Messia in Figlio di Dio in accezione metafisica: era
nato il Cristianesimo. Probabilmente già le prime Comunità pagano-cristiane pensavano a Gesù
come al Figlio di Dio disceso dal cielo, dato che queste persone vivevano in un milieu religioso,
che pullulava di kyrioi e di Signori divini, ai quali adesso si sovraordinò il Signore. Paolo scrive
ai Corinzi:
«Infatti, se anche vi sono delle pretese divinità sia in cielo che in terra - e ci sono molti dèi e
molti signori - per noi esiste soltanto un Dio» (1 Cor. 8,5 sg.).
Dobbiamo ricordare, inoltre, che i confini fra Dio e Creatura non erano allora invalicabili;
soprattutto i Greci ellenistici, dai quali prese avvio la divinizzazione di Gesù, furono
particolarmente permeabili e sempre pronti a ritenere un'incarnazione della divinità anche
piccoli benefattori. Un antico autore della Chiesa attesta che «la superficialità dei Greci ama
assegnare attributi divini a chi ha loro procurato qualcosa o li ha aiutati in qualche circostanza
col consiglio o l'azione» (Firm. Mat., err. 7, 6). Una prova lampante di questa tendenza si trova
anche nel N.T.: dopo la guarigione di un paralitico ad opera di Paolo e di Barnaba, gli abitanti
di Lystra esclamarono:
«Gli dèi hanno assunto sembianze umane e sono discesi fra noi! E allora chiamarono Barnaba
Zeus, e Paolo Ermes».
E il sacerdote del tempio di Giove s'affrettò a portare tori e corone da sacrificare agli Apostoli
(Atti, 14, 8 sgg.).
Anche l'arrivo di Apollonio sarebbe stato celebrato dagli Spartani quale epifania divina, se egli
lo avesse consentito; e ancora nel IV secolo a Efeso venivano concessi onori divini alla sua
statua 2.
Nell'antichità i processi di eroizzazione, di deificazione e di apoteosi erano all'ordine del giorno,
e si volgeva lo sguardo intorno alla perpetua ricerca di Salvatori e di Redentori. Specialmente
fra i Greci la venerazione divina costituiva quella forma specifica di ringraziamento, che poi
trapassò nel Cristianesimo attraverso Paolo e la sua Comunità.
Come abbiamo già dettagliatamente mostrato, anche per il Cristo biblico si ripropone il destino
dei Redentori pagani: vivono dall'eternità, giungono al mondo in modo portentoso, perlopiù
partoriti da una vergine, e sono Demiurghi, Profeti, Salvatori. Anch'essi proclamano: «Io sono
il Pastore», «Io sono la verità», «Io sono la luce del genere umano», «Chi crede verrà salvato,
chi non crede andrà incontro alla condanna» (Bultmann, Das Urchristentum, 183) ecc.
Agiscono anch'essi per amore del prossimo, si distinguono per mezzo di miracoli e di profezie,
discendono negli Inferi per liberare i defunti, resuscitano spesso il terzo giorno o dopo tre
giorni, innalzandosi quindi al Padre celeste. Come i cristiani, anche i loro fedeli, mediante
l'unione cultuale, partecipano della nuova vita eterna del Dio risorto, redenti dalle sue
sofferenze. «Consolatevi, voi Misti! Come il Dio viene salvato, così dai suoi dolori (ek ponòn)
scaturisce per voi la salvazione» - recita un'invocazione misterica (Firm. Mat., err. 22, 1).
È significativo che Paolo descriva la beatitudine con parole schiettamente greche ed
ellenistiche. Le sue Lettere, come vedremo, sono zeppe di formule tratte dal lessico religioso
dei Pagani, che in modo sorprendente spesso coincidono anche concettualmente con le idee
delle religioni misteriche e con la filosofia greca.
Il culto di Mitra, che denota tanti e tanto sorprendenti parallelismi col Cristianesimo, proprio a
Tarso, patria di Paolo, aveva un santuario già in epoca precristiana (Plutarch., Vita Pompei,
24). Nella stessa Tarso è attestato, poi, il culto di una divinità agreste che muore e risorge,
Sandan, protettrice della città, la cui morte e resurrezione veniva celebrata solennemente tutti
gli anni. Ovviamente in quella città erano ben conosciuti Adone, Attis e Osiride, divinità che
muoiono e risorgono.
L'intero dramma salvifico del Cristianesimo -preesistenza, incarnazione, martirio, morte,
resurrezione, discesa all'Inferno e ascesa in cielo -è una contaminazione di concezioni
misteriche e di filosofia ellenistica; esso contiene un evidente parallelismo con quei Figli di Dio
precristiani discendenti dalla luce celeste, che sulla terra combattono, patiscono, muoiono,
ritornano a Dio trasfigurati e continuano ad essere venerati nel culto.
A tutto questo si ricollega Paolo, imbevuto del patrimonio culturale ellenistico fin dalla più
tenera età, aprendo la strada a un mutamento radicale, lui, il «Rabbi in abiti di predicatore
stoico itinerante», il «sognatore ed estatico» 3, la cui Teologia entusiastico-intuitiva il teologo
Pfleiderer definì della stessa natura della concezione e della produzione artistiche. Paolo
traspose il mito dell'uomo che discende dai cieli al profeta di Galilea, trasformando il suo
insegnamento in una religione misterica e lui stesso in una divinità misterica, e creando quindi
la grandiosa fede nel Cristo figlio di Dio. Secondo un dotto cattolico (Meinertz), così facendo
Paolo attinse «dal più profondo della sua anima»; infatti, anche per i Cattolici questa
metamorfosi del Cristo, la sua preesistenza, la sua comparsa come falegname con annessa
ascesa al cielo e intronizzazione, non possono essere immediatamente evinti dalla dottrina di
Gesù.
...e ignorò il Gesù storico
Non abbiam bisogno di ribadirlo: la Teologia paolina non definì affatto l'opera e la figura umana
di Gesù. Su questo dato di fatto non c'è nulla da discutere. Colui, del quale Paolo volle essere
discepolo e servo, non fu propriamente la persona storica di Gesù, bensì un altro.
(Il teologo Wrede)
Come ammettono quasi tutti gli studiosi, Paolo non conobbe il Gesù storico 4, e in ogni caso
non fu mai suo discepolo. Dopo la conversione attese tre anni prima di presentarsi per la prima
volta al Principe degli Apostoli, e la visita fu breve e niente affatto cordiale. In un secondo
momento, la Comunità primitiva sostenne che si discostava dal Vangelo, rendendolo oscuro e
falso. Ma egli fa riferimento a una rivelazione celeste. Paolo menziona Gesù tanto raramente
che viene scomodato l'argumentum ex silentio: tutto ciò ch'egli poté dire su Gesù non
necessariamente si deve trovare nelle sue Lettere. Ipotesi resa piuttosto fragile dalla
dichiarazione dello stesso Paolo:
«Anche se noi abbiamo conosciuto Gesù secondo la carne, ora non lo conosciamo più in questo
modo» (2 Cor. 5, 16).
Le Lettere non recano traccia di una tradizione palestinese di Gesù: Paolo accenna solo
incidentalmente alle parole di Gesù (anche un Cattolico lo dice!: Ricciotti, Das Leben Jesu, 92)
e si discute se si riferisca a lui quattro, tre o due volte 5. Solo tre volte egli raccomanda
l'imitazione di Cristo, pensando però non a Gesù, ma alla sua preesistenza divina 6.
A tal proposito è singolare che il titolo messianico di «Il Cristo» (che è la traduzione
dell'ebraico l'Unto) solo nella Lettera ai Romani ricorre due volte, di più che in tutti i Vangeli
sinottici. E d'altra parte Paolo evita chiaramente il semplice nome di «Gesù», che in tutto il
corpus Paulinum conosce solo 15 occorrenze, mentre la definizione di «Cristo» ricorre ben 378
volte.
L'indagine critica è pressoché unanime nel riconoscere che la figura paolina del Cristo non è
definita né dalla personalità di Gesù né dal complesso della sua predicazione etico-religiosa, e
che anzi l'Apostolo appare inventore di una sua personale teologia proprio in questioni
essenziali. Già Nietzsche sorride ironicamente sulla libertà con la quale Paolo
«ha affrontato, quasi evitandolo, il problema della persona di Gesù: uno che è morto, che
sarebbe stato veduto dopo il decesso; un tizio mandato a morte dai Giudei... Un puro e
semplice motivetto conduttore, al quale egli aggiunge la propria musica» (Nietzsche, Wille zur
Macht, Aph. 101).
Un esimio contestatore della storicità di Gesù, Arthur Drews, non avrebbe potuto dichiarare
senza ragioni plausibili che Paolo di Gesù non sapeva nulla.
Come che sia, non si trova alcuna relazione storica fra Paolo e Gesù. Una vaga affinità interiore
trova le proprie radici nell'utilizzazione di entrambi della tradizione giudaica, ma Paolo non si
preoccupa né del carattere e della condotta di Gesù né tampoco della sua dottrina morale.
Della vita di Gesù gli sta a cuore soltanto un aspetto: la sua morte, e definisce apertamente il
proprio Vangelo come «la parola della croce», scrivendo inoltre: «Mi sono proposto di non
mostrarvi altra scienza se non quella di Gesù il Cristo, cioè del Crocifisso» (1 Cor. 1, 18; 2, 2).
E mentre in tal modo si smarrisce la conoscenza del Gesù storico, si consolida la fede nel Cristo
mitico.
«Io dimentico tutto ciò ch'è alle mie spalle e mi protendo a ciò che mi è innanzi, e vado verso
la meta prefissata, verso il gioiello» (Phil. 3, 13 sg.).
confessione più volte ripetuta da Paolo, che caratterizza la sua evoluzione. Egli proietta Gesù
sempre più decisamente in ambito mitico e metafisico, facendolo diventare alla fine da
individuo umano per così dire una figura cosmica, un'entità spirituale ultraterrena: il Cristo
mistico. Ma con esso poteva giustificare qualsiasi contenuto religioso, attribuendogli, come poi
fece realmente, qualunque cosa volesse.
Vediamo di riassumere: Gesù (in ebraico Jeschua o, in forma più antica, Jehoschua, grecizzato
in Jason o Jasios, diffuso nome proprio giudeo, che significa «soccorso di Jahvè»,
corrispondente grosso modo al nostro cognome Diotaiuti) non molto dopo la sua morte diventa
il Cristo, da un Ebreo deriva un Cristiano, dalla sua fede nasce la fede in lui, cioè, per dirla con
Herder, da un vivente disegno di Gesù per il bene dell'uomo scaturisce una spensierata
adorazione della sua persona.
Già il filosofo inglese Lord Bolingbroke (m. 1751) individuò nel N.T. due Religioni, quella di
Gesù e quella di Paolo; analogamente Kant distinse acutamente fra la dottrina di Gesù e quel
che di essa fecero già, a suo avviso, gli Apostoli, i quali
«in luogo del concreto insegnamento religioso del santo Maestro, esaltarono la venerazione dei
Maestro stesso» 7.
Altrettanto decisamente Lessing separò la religione del Cristo, cioè
«quella religione ch'egli stesso conobbe e praticò come persona umana, e che ogni uomo
potrebbe condividere», dalla religione cristiana «che presuppone come vero ch'egli fu più che
uomo, facendone come tale un oggetto di venerazione» 8.
Anche Fichte e Schelling riconobbero che, per usare le parole di quest'ultimo,
«già nella spiritualità di Paolo, l'Apostolo delle Genti, il Cristianesimo divenne altra cosa da quel
che fu negli intenti dei suo fondatore» (Schelling, IX Vorlesung, 198).
Paolo diede inizio, dunque, a questo mutamento radicale, decisivo per la Chiesa. Con lui
cominciò il trapasso dall'originario Cristianesimo escatologico a quello sacramentale; al posto
del prossimo avvento del messianico Regno sulla terra, ansiosamente atteso dagli Apostoli e
dai giudeo-cristiani, subentrò il concetto greco di immortalità, il profeta ebreo divenne il
cristiano Figlio di Dio. In altri termini: la delusione dell'attesa venne compensata con la fede
nell'Aldilà. Senza questa trasformazione, la mancata realizzazione del Regno avrebbe segnato
il destino finale della giovane setta di Gesù.
Tuttavia per Paolo Gesù non si identifica con Dio, come insegna la Chiesa, e tanto meno è in lui
presente una qualsiasi traccia di dottrina trinitaria. Ma fu lui a dissolvere il monoteismo
veterotestamentario, introducendovi una dottrina biteistica. Appoggiandosi a Paolo, la Chiesa
collocò in second'ordine l'etica dell'amore, che fu al centro della predicazione di Gesù, ponendo
in primo piano la fede in lui, mai proclamata dal Nazareno, al posto della di lui fede. Metafisica
invece di ethos, fede invece di amore, cristologia invece di discorsi della montagna; questo è
stato, grosso modo, il suo cammino: la dogmatica diventò più importante dell'etica, la retta
fede più importante dell'agire rettamente.
Gesù fu innalzato al cielo perché non desse più fastidio in terra, come attesta
significativamente il presunto credo «apostolico», che non contiene una sola parola
dell'insegnamento di Gesù, ma solo le dottrine della Chiesa posteriore! La posta in gioco reale
si trova formulata nella memorabile frase del Padre della Chiesa Ippolito:
«Il Verbo balzò dal cielo nel corpo della Vergine, dal corpo della Vergine sulla croce, dalla croce
nell'Ade; poi saltò nuovamente sulla terra - oh! la nuova resurrezione! - e dalla terra in cielo. E
così si assise alla destra dei Padre» (Cit. da Werner, Entstehung, 714).
I nobili ideali di Gesù furono rimossi dallo pseudoideale di una fede e di una ecclesiasticità, che
la massa (ma non solo quella) scambiò per il valore originario, mentre in realtà poneva
esigenze tanto insignificanti da potere essere adempiute comodamente anche dai più fiacchi.
Va da sé che era necessario lasciare in vigore i comandamenti biblici, tuttavia sviliti nella loro
importanza e vieppiù deprivati della loro radicalità.
Nel Medio Evo, poi, il teologo ufficiale della Chiesa, Tommaso d'Aquino, sostituì i principi del
Discorso della Montagna con l'Etica del pagano Aristotele, in ogni caso per la massa dei fedeli,
mentre i pochi cristiani decisi a vivere con maggior rigore dovettero darsi alla vita monastica,
istituzione della quale Gesù non aveva mai parlato.

Note
1 Cfr. Jh. 14, 6; 17, 3; Did. 9, 3; 10, 3; 2 Clem. 20, 5. Cfr. Knopf, Das nachapostolische
Zeitalter, 373 sgg.
2 Philostr., vita Apoll. 4, 31. Lact., div. inst., 5, 3, 14.
3 Fascher, Das Neue Testament, col. 941. Klausner, Von Jesus zu Paulus, 305.
4 Il passo controverso: 2 Cor. 5, 16; 1 Cor. 9, 1 si riferisce certamente alla visione presso
Damasco. Cfr. anche 1 Cor. 15, 8.
5 I passi in questione: 1 Cor. 7, 10; 9, 14; 11, 24 sg.; 1 Thess. 4, 15. I due ultimi passi non
sono in discussione. Cfr. ad es. Bultmann, Theologie des N. T., I, 185. Cfr. anche la sezione
«Le parole del Signore» in Drews, Díe Christusmythe, 11, 134 sgg.
6 1 Thess. 1, 6; Rom. 15, 7; Kol. 3, 13. In proposito Nock, Paulus, 195. Bultmann, Theologie
des N. T., 185.
7 Lettera a Lavater dell'8/4/1774. Cit. da Nestle, Krisis, 280.
8 Lessing, Die Religion Christi, 1780, cit. da Nestle, Krisis, 280.

23. ULTERIORI DEFORMAZIONI DELL'INSEGNAMENTO DI GESÙ AD OPERA DI PAOLO


Tutti gli aspetti più belli del Cristianesimo sono legati a Gesù, tutti quelli deteriori a Paolo.
(Il teologo Overbeck, 55)
La dottrina cristiana della salvazione non deriva da Gesù
Per quanto si sia radicata profondamente fra i cristiani, di questa dottrina il Gesù autentico non
sapeva nulla.
(Il teologo Grimm, 180)
DIALOGO NELL'ANNO 33
A.: La sa l'ultima?
B.: No. Cos'è successo?
A.: Il mondo è redento.
B.: Se lo dice Lei.
A.: Sì. Il buon Dio ha assunto forma umana e si è fatto giustiziare
a Gerusalemme; e con ciò il mondo è ora redento e il diavolo è buggerato.
B.: Eh, ciò è davvero molto carino 1.
Sulla base di tutto ciò che è stato tramandato su Gesù si può dire che la dottrina paolina della
redenzione gli fu completamente estranea. Infatti, egli predica un «Padre» che non perdona il
peccatore pentito solo mediante una mediazione espiatoria, ma tutti coloro che sono essi stessi
disposti al perdono e alla conversione; un «Padre» che, come nella parabola del figliol prodigo,
va egli stesso alla ricerca del peccatore. Gesù non fa dipendere la remissione dei peccati dalla
sua morte, bensì, come insegna nel Pater Noster e in altri luoghi, unicamente dalla disponibilità
degli uomini a perdonare il prossimo (Mt. 6, 12; 6, 14 sg.; Mc. 11, 25 sg.).
Se la sua morte fosse stata da lui ritenuta necessaria per la redenzione e per la remissione dei
peccati, come avrebbe potuto dire che quel calice amaro venisse allontanato e «i tuoi peccati ti
sono perdonati»? (Mc. 2,9 sgg.). La teoria della redenzione sorse solo quando lo scandalo
inatteso della morte sulla croce - «in realtà nient'altro che una disgrazia» - (Blüher, 282. Cfr.
anche Pfleiderer, 1, 372) costrinse i cristiani a una differente interpretazione. Ma in questo
modo l'insegnamento originario non venne solo modificato, ma anche svuotato di significato.
Come molte altre cose, in seguito valorizzate dalla Chiesa, nei Sinottici la dottrina della
redenzione non svolge ruolo alcuno. Si allude ad essa esclusivamente in due passi, che per
altro, secondo il giudizio della maggior parte degli esegeti più moderni, non sono autentici.
L'espressione concernente il sacrificio della vita quale riscatto per «molti», che Matteo e Marco
pongono sulla bocca di Gesù, ma che manca in Luca (Mt. 20, 28; Mc. 11, 25), o risale alle
concezioni paoline oppure è un'invenzione della comunità ellenistica, se non addirittura della
Comunità palestinese intorno a Gesù, essendo la sussunzione di un versetto dal capitolo 53 di
Isaia. Il secondo e ultimo passo che pone espressamente in relazione la morte di Gesù con la
remissione dei peccati si trova solo in Matteo, ma manca in Marco, in Luca e nella Prima
Lettera ai Corinzi 2.
È significativo il fatto che per gli Ebioniti, gli immediati credi della Comunità primitiva, la morte
di Gesù sulla croce non ebbe alcun carattere conciliatorio né alcun significato salvifico, e perciò
essi non usavano calici durante la cerimonia eucaristica, celebrata significativamente con
estrema semplicità con pane e sale, secondo la tradizione più antica. Com'è noto, i discendenti
degli Apostoli negavano anche la divinità di Gesù e la sua nascita da una vergine.
E allora, da dove trasse Paolo la propria teoria della salvazione?
La purificazione dai peccati mediante il sangue era già ben nota anche ai popoli primitivi, ed è
del pari antichissima la credenza nella salvazione dell'umanità mediante il «figlio». Nell'antica
religione babilonese Marduk venne inviato sulla terra dal padre Ea per salvare gli uomini;
Eracle e Dioniso discesero anch'essi sulla terra come divinità redentrici; nel culto di Mitra il
sangue di un toro ucciso, versato sul peccatore, lo purificava dalle colpe; in sanscrito la parola
significante «venerare religiosamente» (ârâdh) vuol dire esattamente «riconciliare», «placare
la collera».
Nell'antichità era altresì diffusissima l'idea del re, che soffre e muore per il suo popolo.
Un'opera cristiana del I secolo ricorda i numerosi monarchi pagani, che in circostanze critiche,
in seguito a un responso oracolare, avevano sacrificato la vita «per salvare i concittadini col
proprio sangue» (1 Clem. 55, 1). Anche il Sommo Sacerdote Caifa allude a tale concezione,
quando consiglia ai Giudei ch'era meglio per loro
«che un singolo perisse per il popolo, e non che un intero popolo precipitasse nella rovina» 3.
Tertulliano, Padre della Chiesa, intorno al 200 scrive:
«Nel mondo pagano era consentito riconciliarsi mediante sacrifici umani con la Diana degli
Sciti, col Mercurio dei Galli e col Saturno degli Africani; ancor oggi, proprio a Roma, viene
versato sangue umano in onore di Giove Latino» (Tert., Scorpi. 7. Cfr. anche Firm. Mat., err.
26, 2. Cicero, in Vatin. 6).
Verso la metà del III secolo anche Origene fa un chiaro riferimento a questa usanza specifica
del Re e del Giusto, che patisce e muore per le colpe del suo popolo, parlando dei
«numerosi racconti di Greci e Barbari, che trattano della morte di pochi in nome dei bene
comune, per liberare le loro città e i loro popoli dalle disgrazie che li opprimevano» 4.
In occasione di questi atti di riconciliazione, spesso venivano uccisi anche dei malfattori, come
avveniva ancora in epoca tarda nella greca Rodi e a Marsiglia.
Gli Ebrei d'età più antica condividevano con Cananei, Moabiti e Cartaginesi l'usanza di uccidere
dei bambini per riconciliarsi con la divinità; in seguito al posto dei bambini subentrarono i
delinquenti. Anche l'agnello pasquale, arrostito a forma di croce (simbolo religioso presente già
in epoca precristiana), era un surrogato dell'uccisione del primogenito.
Simili usanze erano note a Paolo, che una volta vi allude; e alle concezioni sottese a tali
costumanze poteva ricorrere tanto più facilmente per il fatto che anche Gesù era stato
giustiziato come malfattore 5. Come il sangue di tutti gli uomini immolati prima di lui
possedeva una forza espiatoria, la medesima virtù doveva possedere anche il suo. Paolo
predica continuamente la riconciliazione (katallaghé) e la redenzione (apolytrosis), lo
strumento d'espiazione «nel suo sangue», la redenzione «mediante il suo sangue», la
pacificazione «attraverso il sangue versato sulla croce»(Rom. 3, 25; Eph. 1, 7; Kol. 1, 20).
Evidentemente non fu nemmeno sfiorato dal pensiero che Dio potrebbe, forse, perdonare una
colpa anche senza una riparazione «ufficiale».
A Paolo erano ovviamente ben note anche le idee di espiazione presenti nel V.T., soprattutto i
patimenti del giusto come riparazione sostitutiva delle colpe di tutti 6, ma non è possibile
stabilire se e in quale misura fu condizionato dalle relative tradizioni teologiche della Comunità
primitiva. In ogni caso le cose erano talmente comuni, che i Vangeli non forniscono per la
morte espiatoria di Gesù nessuna spiegazione ulteriore.
Ancora nel nostro secolo accade che si tenti di riconciliare la collera celeste mediante sacrifici
umani: qualche decennio fa in India una madre uccise la figlia di quattro anni per placare l'ira
di una divinità, dopo che tutti gli altri mezzi avevano fallito. Negli Stati Uniti nel 1933 due
persone vennero uccise come vittime sacrificali da una setta religiosa, e nel 1960 degli Indi
cileni sacrificarono agli dèi due membri della propria schiatta a causa di una catastrofe
naturale. Qualcuno se ne potrebbe meravigliare o scandalizzare, e poi forse pregare Cristo, la
cui morte ha redento lui stesso.
Resta naturalmente imperscrutabile la ragione per cui tutto ciò si verificò così in ritardo, perché
gli uomini dei millenni trascorsi non furono salvati; ma è chiaro che Gesù doveva diventare il
Redentore, che si doveva andare incontro in qualche modo a una necessità religiosa delle
masse, che dappertutto si attendevano Redentori, Salvatori e Messia. E se il Cristianesimo
voleva ottenere una qualche influenza determinante, anche nel suo caso alla domanda doveva
conseguire l'offerta adeguata. «In fondo si trattava proprio di questo: il Pagano di quei tempi
aveva bisogno di questo e questo andava cercando» 7.
Quanto più cattivo è l'uomo, tanto più è necessaria la sua redenzione
Perché la fede cristiana si fonda quasi totalmente sulla conoscenza chiara di due cose: la
corruzione della natura umana e la redenzione per opera di Gesù Cristo.
(Blaise Pascal, Pensées, III, 194)
Ma Gesù non ha parlato nemmeno del presupposto di tale dottrina della redenzione, cioè di
quella connaturata malvagità di tutti gli uomini parimenti sostenuta da Paolo 8. È vero il
contrario: egli nutre un ottimismo morale: non si trova in lui nessuna affermazione
dell'incapacità dell'uomo al bene, della sua ineluttabile condanna senza l'opera mediatrice del
Cristianesimo. Paolo, invece - come viene ammesso anche da parte cattolica - dedica i primi
tre capitoli della Lettera ai Romani alla dimostrazione di questa tesi: infatti, quanto più cattivo
è l'uomo, tanto più necessaria è la sua redenzione.
Di conseguenza egli pone in primissimo piano la dottrina dell'universalità della corruzione
umana: gli uomini sono cattivi «per natura», sono scellerati, «creature dell'ira», «schiavi del
peccato» (Eph. 2, 3; Rom. 6, 17), immersi fino al collo nella «sporcizia della lussuria», nelle
«passioni nefande». Non c'è vizio cui non siano abbarbicati:
«Sono ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia e malizia, pieni d'invidia, di istinti
assassini, di discordia, di perfidia e abiezione; essi sono denigratori, calunniatori, nemici di Dio,
gente violenta e altezzosa, millantatori, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali,
privi d'amore e di misericordia» (Rom. 1, 29 sgg.).
La dottrina del peccato originale
In nessun passo dei Sinottici Gesù riconduce la peccaminosa miseria degli uomini a una colpa
primigenia, e tanto meno al peccato originale. Evidentemente la narrazione biblica della caduta
non ebbe per lui quell'importanza decisiva, attribuitale poi da Paolo e dalla Chiesa.
(Il teologo Gross, Entstehungsgeschichte des Erbsündendogmas, 1, 66 sg.)
Da questo totale disprezzo del mondo naturale venne dedotta la dottrina del peccato originale,
elevata ad articolo di fede solo nel XVI secolo, che non viene sostenuta né da Paolo né da
nessun altro autore neotestamentario. Secondo tale dogma ogni creatura umana viene al
mondo già come capro espiatorio, perché la sua anima è stata contaminata dalla «caduta» di
Adamo ed Eva; ma i Padri della Chiesa più antichi dichiarano esplicitamente che i bambini sono
senza colpa 9! Del resto, Paolo stesso attesta che nella sua comunità di Corinto i figli di
genitori cristiani non erano battezzati. Soltanto assai più tardi, quando scoprì il peccato
originale, la Chiesa stabilì come obbligo rigoroso di coscienza dei seguaci che battezzassero
tutti i neonati «fin dal seno materno» (Gross, ibid., I, 66).
Intorno al 400 il monaco irlandese Pelagio, insieme all'amico Celestio, giureconsulto romano,
protestò vigorosamente contro il dogma nascente: sostenendo che l'uomo è in grado di agire
secondo la morale, che la dottrina del peccato originale lo trasforma in una sorta di marionetta
e serve solo come alibi di cristiani infingardi, essi provocarono la polemica pelagiana (411-
431). L'episcopato orientale inclinava, perlomeno sentimentalmente, verso le loro concezioni e
il Vescovo di Roma Zosimo, in un primo momento favorevole a Pelagio e Celestio, fu poi
aizzato contro di loro.
Ma l'avversario vero e proprio fu Agostino. In principio costui chiamò Pelagio «nostro fratello»,
poi lo fece condannare quale eretico a Cartagine prima, quindi a Roma, e infine nel Concilio di
Efeso del 431. In realtà Agostino rappresentava le nuove tendenze di pensiero, Pelagio la
tradizione; e fu esattamente lui «il padre del dogma del peccato originale nel vero senso della
parola» (Gross, ibid., I, 375), che conobbe in seguito un processo di estremizzazione con la
Riforma. Zuinglio, tuttavia, sotto molti aspetti un'eccezione fra i Riformatori, definito da Lutero
addirittura «pagano» a causa della sua tolleranza, condannò come non evangelico l'articolo
dottrinale concernente il peccato originale. Nemmeno la maggior parte delle Chiese cristiane
d'Oriente conosce una dottrina ben definita intorno al problema, e nel XIX secolo una scuola
teologica abissina negò recisamente il peccato originale.
Taluni teologi cattolici tentano di spiegare il silenzio assoluto di Gesù sul dogma del peccato
originale, sostenendo che i suoi uditori non sarebbero stati ancora in grado «di cogliere il
significato di un tale mistero» 10. Singolare davvero che solo pochi anni dopo, con Paolo,
fossero capaci, come si presume, di comprenderlo, e di comprendere oltretutto anche Gesù,
che proclamava un segreto terribilmente più complicato e, secondo il punto di vista dei
cattolici, incomparabilmente più estraneo alla cultura ebraica, vale a dire il mistero della
Trinità.
Ma neppure l'astruso teologismo del peccato originale è specificamente cristiano, se è vero che
concezioni analoghe erano assai diffuse nelle religioni pagane: intorno al 2000 a.C. un poeta
sumerico scrive: «Mai da donna nacque bambino senza peccato» (Kuschke, 74).
La dottrina della predestinazione
Si aggiunga infine che quel Dio, il quale prescrive comprensione e perdono di qualsiasi colpa,
non li mette in pratica, ma si adopera esattamente a favore del contrario... fino a quelle poche
eccezioni, che, chissà mai perché, vengono salvati per grazia. Ma lasciando pure da parte
questa riflessione, ne risulta che il buon Dio avrebbe creato il mondo perché il demonio se ne
impadronisse; e allora avrebbe fatto molto meglio a lasciar perdere.
(Arthur Schopenhauer, 318)
Nemmeno il dogma sconfortante della predestinazione, connesso a quello del peccato originale,
fu mai accennato da Gesù. Ma a sentir Paolo, Dio si comporta come un despota senza scrupoli,
destinando ab aeterno uno alla salvazione, un altro alla dannazione: tutto dipende
«non dalla volontà o dagli sforzi di ciascuno, ma dalla misericordia divina... Dio ha pietà di chi
vuole, e, se vuole, lo indurisce» (Rom. 9,16 sgg. Cfr. anche Rom. 9, 8 sgg.; 8, 28);
il che, detto en passant, prova che il Nuovo Testamento nega la libera volontà dell'uomo.
E non era poi un concetto originale, giacché sopravvive nel Cristianesimo non poco della fede
pagana nel Fato e dell'arbitrio del Dio veterotestamentario. Ma anche agli Esseni era familiare
una concezione identica a questa propagandata da Paolo. Il Corano, poi, che accentua l'idea
della predestinazione con particolare rigore, insegna - come Paolo - che
«Dio consente che si perda nell'errore chi vuole, e chi vuole egli guida per il giusto sentiero»
(Sura 6, 125).
Certo, Paolo sostiene anche il contrario:
«Infatti Dio ha chiuso tutti nella disobbedienza, per usare poi a tutti misericordia» (Rom. 11,
32),
ragion per cui di tanto in tanto la sua dottrina sulla predestinazione viene contestata. Ma resta
decisivo il fatto che le frasi sopra citate ebbero il loro seguito, anche se relativamente tardi.
Agostino riprese, elaborò e difese con estrema radicalità tale concetto, benché non lo avesse
accolto fin dall'inizio della sua attività dottrinale. E anche i Riformatori lo fecero proprio:
Calvino ne divenne il propugnatore più famigerato.
Il Gesù della Bibbia non ne sapeva nulla: nella sua predicazione, come scrive Wilhelm Nestle
(Krisis, 56), ci si viene a trovare quasi sempre all'interno di una sfera concettuale naturalistica,
schietta e puramente umana: «il cuore vi dà il suo assenso, e la ragione non vi si oppone».
Gli esordi dell'ascesi
Contrariamente a un'opinione assai diffusa, condivisa anche da uomini come Schopenhauer e
Tolstoi, pur con tutte le esortazioni a una rinuncia a se stessi, Gesù non insegnò mai il rifiuto
della società né la negazione della sensualità e della natura. È vero che nei Sinottici si trovano
parole che paiono indicare questa tendenza, ma se ne trovano assai più numerose e decisive
che vanno in senso opposto (Mt. 19, 10 sgg.; 19, 21; Lc. 12, 33).
In primo luogo va detto che il Gesù sinottico non vive affatto da asceta, e nemmeno i suoi
discepoli 11. Certo, l'Evangelista pone in bocca a Gesù le parole:
«Finché lo sposo si trova con loro, essi non possono digiunare. Ma verranno giorni in cui lo
sposo sarà loro tolto; allora, in quei giorni, digiuneranno» (Mc. 2, 19 sg.).
Solo che tale riferimento al costume cristiano del digiuno è un'interpolazione postuma, una
giustificazione della successiva prassi ecclesiastica, nata quando i cristiani digiunavano senza
rendersi conto, per altro, che così si scostavano dall'esempio di Gesù (Dibelius, 97). Che
questo rinvio al futuro contenga un vaticinium ex eventu dimostra con particolare evidenza
l'espressione «in quei giorni digiuneranno», chiara allusione all'astinenza cristiana del venerdì.
Il presunto digiuno osservato da Gesù per quaranta giorni nel deserto non è che un calco della
storia di Mosè e di Elia, che digiunarono per quaranta giorni e quaranta notti 12.
Il Gesù della Bibbia non abita nel deserto, come Giovanni Battista, dal quale si allontanò
proprio perché rifiutava le sue predicazioni penitenziali, la sua ascesi, la sua insistenza più sulla
minaccia che sulla promessa del prossimo regno di Dio; non respinge il mondo, non fugge le
gioie e le feste, anzi, come già Buddha prima di lui, viene bollato dai suoi avversari come
«ghiottone e ubriacone», insulti coi quali gli Ebrei schernivano il frutto di una relazione
illegittima, quando il comportamento tradiva la macchia originaria della nascita.
E con tutto ciò, pur in stridente contrasto con Gesù, la pratica ascetica penetrò nel
Cristianesimo già ad opera di Paolo: astinenza e mortificazione delle passioni assumono in lui
toni solenni. Sarx, la carne, vi compare addirittura come sede del peccato: nel corpo non c'è
assolutamente «nulla di buono», è un «corpo di morte», tutto ciò ch'esso vuole «significa
morte» e «odio contro Dio» (Rom. 7, 18; 7, 24; 8, 6 sg.). Il cristiano deve «spossare e
asservire il corpo», «ucciderlo» (1 Cor. 9, 27; Gal. 5, 24; Rom. 8, 13; Kol. 3, 5), e così via.
Paolo è instancabile nel predicare l'odio della carne, tanto che appare difficile svalutare la
corporeità più di quanto egli abbia fatto.
Esordisce il dispregio della donna
All'Apostolo (Paolo) non importa proprio nulla dell'equiparazione dell'uomo con la donna.
(Il teologo Leipoldt, Der soziale Gedanke, 119)
Nella donna scorge con marcato disprezzo soltanto un'entità sessuale.
(Il teologo Preisker, Das Ethos des Urchristentums, 150)
Come dimostra il celebre Codice di Ammurabi, nella Babilonia del 2000 a.C. la donna godeva di
un prestigio superiore a quello assegnatole 1500 anni dopo dal giudaismo veterotestamentario.
Nel Codice di Ammurabi, per esempio, il ripudio facile veniva combattuto, mentre nel V.T.
viene addirittura considerato come una punizione dover mantenere una moglie vita natural
durante 13.
A differenza degli antichi Ebrei, il Gesù della Bibbia non giudicò inferiori le donne, che fecero
parte della cerchia dei suoi discepoli e che fra i suoi seguaci furono forse più numerose degli
uomini 14. Secondo un'antica lezione del Vangelo di Luca, Gesù venne posto sotto accusa dagli
Ebrei anche perché, a loro avviso, induceva all'abiura le donne (e i bambini). A lui fu estranea
qualsiasi forma di deprezzamento della figura femminile: prese sotto la sua protezione una
donna contro il disprezzo dei Farisei, additò a modello di corretto comportamento nelle
cerimonie sacrificali una povera vedova, guarì donne ammalate e accettò i loro servigi e il loro
appoggio finanziario 15.
Già Renan (115), che scade spesso tanto facilmente nel kitsch, percepì con finezza
l'atteggiamento di straordinaria delicatezza di Gesù verso le donne, e gli studi moderni ne han
dato conferma. Né Gesù insegnò mai qualsivoglia forma di ostilità nei riguardi del matrimonio;
alcuni discepoli erano sposati e tali restarono, come il primo Apostolo, che aveva anche figli
16; lo stesso Pietro compì un viaggio di missione in compagnia della moglie 17, e per lungo
tempo i primi predicatori cristiani si spostavano per il mondo insieme alle loro famiglie.
Per Paolo, al contrario, l'uomo e la donna sono eguali solo in teoria (Gal. 3, 28); nella pratica
la donna appare totalmente subordinata: ad essa viene interdetto in linea di principio il diritto
di parlare nelle riunioni della Comunità e se vuol sapere qualcosa deve chiederla al marito, in
casa (1 Cor. 11, 3 sgg; 14, 33 sgg.). La Prima Lettera ai Corinzi mostra con chiarezza la scarsa
considerazione ch'egli nutre per la donna, quando stila la graduatoria Dio - Cristo - Uomo -
Donna; inoltre prescrive il velo durante la preghiera e il servizio religioso, segno esteriore della
sua bassezza, in quanto portare il velo significa «vergognarsi a causa del peccato introdotto nel
mondo ad opera della donna» 18.
Ma la diffamazione paolina della donna non si arresta qui: l'uomo è «immagine e gloria di Dio»,
la donna semplicemente «gloria dell'uomo»; l'uomo non deriva dalla donna, ma la donna
dall'uomo; né l'uomo è stato creato per la donna, bensì la donna per l'uomo (1 Cor. 11, 3 sg.).
Secondo alcuni esegeti, qui Paolo ha trasformato la donna in un uomo di second'ordine.
Solo davanti a Dio le donne sono eguali agli uomini (come, d'altra parte, anche gli schiavi sono
per lui eguali ai padroni) (1 Cor. 11, 11 sg.), parità religiosa già esistente nel culto di Iside e
nei Misteri di Eleusi e di Andania.
Tuttavia lo stesso Paolo ebbe, a quanto pare, buoni rapporti con le donne, i cui nomi si trovano
nelle elencazioni delle persone salutate nella maggior parte delle sue Epistole, e il primo
discepolo in Europa fu una donna di Lidia. Ma ciò che rimase e si affermò presso la posterità
furono le tesi da lui sostenute nelle Lettere.
L'avversione paolina verso le donne riproduce l'analogo disprezzo proprio del Rabbinismo: per
gli esperti della Thora la donna era in assoluto un soggetto inferiore, quantunque coniugassero
con tale dispregio una grandissima stima del sesso. Infatti nel V.T. Jahvè aveva sempre
consentito la poligamia, perché, come spiega Agostino, i Patriarchi avevano il dovere di
moltiplicare il popolo di Dio! Anzi, gli Ebrei avevano addirittura un Angelo Custode addetto
all'istinto sessuale, che Paolo, purtroppo, non andò a predicare, forse perché - come si è
ipotizzato - era impotente fin dall'infanzia 19.
La diffamazione del matrimonio
Paolo è pieno di un profondo disprezzo verso gli aspetti naturali del matrimonio, che attenua a
semplice svalutazione di questo principio per lui fondamentale solo per una forma di riguardo
verso i fratelli cristiani. Per lui la femmina è soprattutto portatrice dell'elemento sessuale
nonché sua causa prima. Perciò viene esposta come tale alla medesima svalutazione, anzi al
suo dispregio.
(Il teologo Delling, 154)
Nella trattazione paolina della questione matrimoniale incidono evidentemente anche le
concezioni giudaiche, che non solo consideravano la femmina un essere inferiore, ma
giudicavano una contaminazione anche il rapporto sessuale (2 Mos. 19, 15; 2 Cor. 6, 17; 1
Cor. 7, 14). Per Paolo il matrimonio non è altro che una concessione alla carne peccaminosa,
un male necessario, consentito solo «onde evitare di cadere in preda alla concupiscenza» (1
Cor. 7, 1 sg. Cfr. anche 7, 8 sg.). Anche i mariti però dovranno avere le mogli come se non le
avessero; e sarebbe molto meglio rimanere scapoli, giacché il matrimonio non reca con sé
nulla di buono (1 Cor. 7, 28 sgg. Inoltre Delling, 62 sgg.).
Paolo esclude un sincero legame matrimoniale; per lui non esiste una comunione né spirituale
né sentimentale né sociale fra marito e moglie; come ammettono anche i suoi ammiratori, può
sussistere soltanto un'attrazione di natura sessuale. Su questo punto Kant, il quale scorge nel
matrimonio un contratto stipulato per l'uso reciproco del sesso (Kant, Metaphisik der Sitten, I,
24), si viene a trovare in ottima compagnia con S. Paolo.
Ma l'Apostolo non va d'accordo con Gesù nemmeno sul problema del divorzio, sul quale anche i
Sinottici si pronunciano in modo contraddittorio. In Marco e in Luca, Gesù vieta assolutamente
la separazione, ma in Matteo la approva, e in più luoghi, in caso di adulterio da parte della
donna (Cfr. Mc. 10, 11; Lc. 16, 18 con Mt. 5, 32; 19, 9). In stridente contrasto col divieto
presente in Marco e Luca, Paolo ammette il divorzio nel cosiddetto Privilegium Paulinum, in
caso di matrimonio misto fra cristiani e pagani, qualora questi ultimi richiedano la separazione
20. Ma anche la motivazione di questa concessione è in contrasto con le ragioni addotte in
Matteo, che sono sicuramente spurie, precisamente un'aggiunta giudeocristiana dell'autore.
Secondo Clemente Alessandrino Paolo era sposato, ma si tratta di un'ipotesi avallata da
pochissimi studiosi 21.
Dovrebbe essere ormai chiaro che lo schietto messaggio di Gesù fu da Paolo alterato nei suoi
tratti fondamentali. La distanza fra i due è innegabile ed enorme. Vari dogmi risalgono
all'Apostolo: il dogma di Gesù figlio di Dio in senso spirituale, il dogma del suo ritorno nel
Giudizio Universale, il dogma della predestinazione; inoltre, la contrapposizione di spirito e
carne e soprattutto, come vedremo, la dottrina dell'Eucaristia.
L'importanza centrale che Paolo attribuisce all'amore per il prossimo, la presa di distanza dalle
norme religiose del Giudaismo spesso esteriori e ormai sopravvissute a se stesse
corrispondono, tuttavia, alla predicazione originaria. Sotto questo aspetto, anzi, Paolo andò
anche al di là di Gesù, ma certamente seguendo un suo proprio progetto. Al posto della Legge
da Gesù combattuta e della meritorietà della fede, egli introdusse la fede in Gesù, facendone
una Nuova Legge.
Paolo ha lasciato nel Cristianesimo un'impronta talmente profonda, che una sua
depaolinizzazione equivarrebbe alla sua distruzione. E infatti non esiste nessuna corrente
cristiana di una qualche consistenza che non si sia richiamata anche e soprattutto a lui, che
non abbia ispirato e sorretto, a cominciare da Marcione e dallo Gnosticismo cristiano fino a
Lutero. La Riforma, in realtà, si rifece non a Gesù, ma al Paolinismo, come pure la teologia
dialettica moderna.
Da tutto ciò si evince che l'autentico fondatore del Cristianesimo fu Paolo, l'Apostolo delle Genti
come viene ammesso senza riserve dagli osservatori sgombri da pregiudizi, fra i quali non
mancano molti teologi. Contro questo dato di fatto i Cattolici si limitano a qualche fiacca
giustificazione, dicendo, ad esempio, che l'attività di Paolo non si fonda più sulla semplice
predicazione di Gesù, ma su una propria elaborazione personale, sulla sua personale fede in
Cristo; che la sua rappresentazione del Cristo risplende con colori più vivi e ricchi di quanto
siano in grado di fare le affermazioni dello stesso Gesù, e altri eufemismi del genere. Eppure
anche da parte cattolica si ammette che «oggi Cristianesimo significa in grandissima misura
Paolo» (Ricciotti, Paulus, 570), per cui essere anticristiani equivale perlopiù a essere
antipaolini.
Però tale contrasto non riguarda soltanto il messaggio di Paolo, ma anche la sua prassi, poi
proseguita e sviluppata in alto grado dalla Chiesa.

Note
1 Arthur Schopenhauer, cit. da Th. Ussing, Europa u. Asien, 138.
2 Cfr. Mt. 26, 28 con Mc. 14, 24; Lc. 22, 20; 1 Cor. 11, 25.
3 Jh. 11,50. Cfr. anche 18, 14. Inoltre Zehren, 98.
4 Orig. Cels. 1, 31. Cfr. anche la lunga enumerazione di sacrifici umani dei pagani in Euseb.,
praep. ev. 4, 16.
5 1 Cor. 4, 13; cfr. in proposito Schneider, Geistesgeschichte, 1, 127; 454 sgg. Leipoldt,
Antisemitismus in der alten Welt, 28 sg. Weinel, Biblische Theologie, 232. Zehren, 98 sg.
Schöpf, 22 sgg. Schwenn.
6 Cfr. 1 Cor. 15, 3; Rom. 4, 25; Gal. 3, 13 e altrove.
7 Seeberg, 1, 189. Cfr. anche Harnack, Marcion, 17.
8 Rom. 3, 9-17; 5, 12-21; 7, 14-25; Eph. 2, 3.
9 Aristides, Apol. 15; Athenag., res. mort. 14. Hermas, sim. 9, 29, 1.
10 Così A. Gaudel; secondo Gross, ibid 1, 52. Cfr. ibidem anche per quel che segue.
11 Mc. 2, 18; Mt. 9, 14; Lc. 5, 33. In proposito Heussi, Ursprung des Mönchtums, 15 sgg.
12 Lc. 4, 1 sgg.; Mt. 4,1 sgg.; Mc. 1,12 sg.; 2 Mos. 34, 28; 1 Re 19, 8.
13 5 Mos. 22, 13 sgg.; 22, 28 sg. In proposito Delitzsch, Die große Täuschung, 1, 77 sgg.
Leipoldt, Die Frau in der antiken Welt, 77 sgg. Idem, Der soziale Gedanke, 72 sgg. Preisker,
Christentum u. Ehe, 77.
14 Leipoldt, Die Frau in der antiken Welt, 142 sgg. Sulla cerchia dei discepoli, Mc. 15, 40 sg.;
Lc. 8, 2 sg.; 10, 38 sgg.
15 Lc. 10, 38 sgg.; 23, 27sgg.; 7, 36 sgg.; Mc. 12, 41 sgg.; Lc. 8, 1 sgg. Inoltre Leipoldt, Die
Frau in der antiken Welt, 119 sgg. Idem, Der soziale Gedanke, 87. Nielsen, 205.
16 Mc. 1, 29 sgg.; 10, 29; 1 Petr. 5,13. Inoltre W. Bauer in Hennecke, 117 sg.
17 1 Cor. 9, 5; Mc. 1, 30; Mt. 8, 14; Lc. 4, 38.
18 Delling, 108sg. Inoltre 1 Cor. 11, 3; 14, 34.
19 Fascher, Zeitschrift für neutestamentliche Wissenschaft, 28, 1929, 65.
20 1 Cor. 7, 12 sgg. soprattutto v. 15 sg. All'uopo Bornkamm, Die Stellung des N.T zur
Ehescheidung, 283 sgg.
21 Clem Al, strom. 3, 6, 53. Per il matrimonio di Paolo, Jeremias, War Paulus Witwer?, 310
sgg.

24. LA PRASSI PAOLINA


Tutto lo stile comportamentale, di cui ormai da due millenni la Chiesa Romana si serve con
tanta maestria e che costituisce uno strumento essenziale per la conservazione del suo
dominio mondiale, appare già prefigurato in Paolo in misura davvero sconcertante.
(Eduard Meyer, Ursprung und Anfänge, III, 413)
Paolo era attivissimo nell'azione, perché confuso nella teoria.
(Will Durant, 657)
Pochi aspetti della personalità di Paolo sono stati soggetti a valutazioni tanto controverse
quanto i modi d'esercizio della sua opera missionaria. Gregorio di Nazianzio, per esempio, lo
definì «il più nobile dei combattenti» e lo Harnack e altri teologi liberali videro in lui «il
missionario più eccelso dell'età antica» 1; ma già Porfirio nutrì una marcata avversione contro
la prassi di Paolo, Voltaire lo additò al disprezzo come un fanatico altezzoso e ambizioso,
Spengler lo accusò «di attività brutale, senza tatto né spessore», e soprattutto Nietzsche
riversò sopra di lui tutta la propria collera, definendolo il contromodello della buona novella, il
più grande di tutti gli Apostoli della vendetta, il genio dell'odio.
«La vita, l'esempio, l'insegnamento, la morte, il significato e il giusto dell'intero Vangelo, nulla
sopravvisse, quando questo falsario concepì per mero odio ciò di cui soltanto lui aveva
bisogno. Non la realtà, non la verità storica!» 2.
È necessario circoscrivere l'analisi alle sue Lettere, per costituire la premessa obiettiva di un
giudizio corretto su Paolo. Tutti i tratti opportunistici del suo carattere derivano principalmente
dalle notizie contenute negli Atti, utilizzabili quale fonte storiografica solo con la massima
circospezione. È vero che anche le Lettere attestano spesso un'elasticità non trascurabile, un
certo qual scendere a patti col mondo: se una volta dice: «Dico a voi, Pagani; come Apostolo
delle Genti io farò onore al mio ministero», altrove scrive: «Noi siamo Giudei per nascita, e non
peccatori pagani», per poi affermare chiaro e tondo: «Sono diventato tutto per tutti, per poter
in ogni caso salvare qualcuno» (Rom. 11, 13; Gal. 2, 15; 1 Cor. 9, 19 sgg.).
È chiaro che il missionario doveva parlare ai Giudei in modo diverso che ai Greci, giacché erano
nutriti da retroterra culturali e da interessi differenti. Paolo non fu affatto un opportunista,
perché con il totale sacrificio della propria persona rinunciò a tutto, conducendo spesso
un'esistenza assai dura in nome delle sue concezioni religiose; ma fu intollerante e autoritario,
prototipo di un invasato zelota confessionale, o, se si vuole usare la definizione del Teologo
Deißmann,
«...un classico dell'intolleranza»
In effetti, la tesi per cui Paolo sarebbe stato come Apostolo un fanatico ingentilito o persino
magnanimo, fornito di grandissima tolleranza, uomo bonario, assolutamente mite,
l'incarnazione vivente di quel che predicava, viene contraddetta in modo evidentissimo dal
contenuto delle sue Epistole, le quali dimostrano inconfutabilmente che dopo Damasco Paolo
modificò certamente la sua fede, ma niente affatto il suo carattere.
Appare qui decisiva la sua posizione nei riguardi del comandamento dell'amore pel prossimo,
che anche per lui costituì certo il nucleo centrale della predicazione, ma tale concetto di
prossimo appare di già circoscritto e riferito più ai confratelli che a coloro che la pensavano
diversamente: «Facciamo del bene a tutti - scrive nella Lettera ai Galati - ma specialmente ai
fratelli nella fede» 3. Ma così si introduce un elemento concettuale di rilevanza decisiva, se è
vero che il comandamento di Gesù all'amore non conosceva barriere di alcun genere; il Cristo
di Giovanni, modellato su quello di Paolo, finirà poi col pregare Dio solo ed esclusivamente per
i cristiani 4, mentre per il Quarto Evangelista l'amore per il nemico non esiste già più.
Inoltre tale comandamento sussiste per Paolo in forma singolarmente alterata, cioè collegato
alla fiducia consolatoria in un atto di vendicativa giustizia di Dio; Paolo, infatti, raccomanda:
«Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; perché così facendo
accumulerai carboni accesi sul suo capo» (Rom. 12, 17 sgg.).
Il risentimento che promana da questo passo, quest'arte sublime della vendetta, sono stati
percepiti allo stesso modo da uomini pur così diversi come Nietzsche, Kierkegaard e Scheler.
Ma anche a giudizio del teologo Preisker è stato così ferito al cuore l'intendimento profondo di
Gesù, ed è penetrato nel concetto cristiano dell'amore uno spirito totalmente diverso.
Le Epistole più importanti sono scritti direttamente polemici; una volta egli stesso definisce la
propria opera addirittura un incontro di pugilato (1 Cor. 9, 26), e la metafora della lotta, che
ricorre tanto spesso nel Paganesimo (specie nella Stoa), viene accolta e utilizzata volentieri da
Paolo: per Cristo egli presta un «servizio militare» e i suoi collaboratori sono «commilitoni» (2
Cor. 10, 3; Phil. 2, 25).
Ma non mancò di combattere anche contro le sue stesse comunità e, almeno sporadicamente,
persino contro i loro capi più in vista (Cfr. Gal. 2, 13; 1 Cor. 1, 12; Atti, 15, 37 sgg.), per
esempio Barnaba, cui pur doveva la sua chiamata ad Antiochia, col quale, già prima del
secondo viaggio di missione, «giunse a uno scontro assai acceso, in conseguenza del quale i
due si separarono» (Atti, 15, 39. Cfr. in proposito le attenuanti del cattolico Schuchert, 66):
dopo tale evento Barnaba non viene più nominato negli Atti degli Apostoli.
Egli amava imporre agli altri la propria opinione e non tollerava che intorno a lui ci fosse
qualcuno capace di pensiero autonomo. Anche un Cattolico (Ricciotti, Paulus, 574) è costretto
ad ammetterlo: «Apollo, pensatore dalle idee originali, non resistette a lungo; per non parlare
di Barnaba». Rimasero con Paolo giovani come Timoteo, neofiti come Tito o personaggi
malleabili come Luca. Chiunque insegni qualcosa di diverso viene da lui anatemizzato:
«Ma se anche noi o un Angelo dal cielo (!) vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi
abbiamo predicato, sia anatema!».
Dopo aver ribadito tale maledizione nello stesso passo e dopo aver ripetuto anche verso la fine
di questa lettera:
«Dio voglia che siano annichiliti coloro che vi recano turbamento! »,
subito di seguito proclama:
«Perché tutta le Legge trova il compimento in un unico comandamento: amerai il prossimo tuo
come te stesso» (Gal. 1, 8 sgg.; 5,12 sgg.).
Altrettanto grottesca suona la predica di Paolo alla fine della Prima Lettera ai Corinzi, dove
tuona:
«Sia anatema per chi non ama il Signore», per continuare subito dopo: «La grazia del Signore
Gesù sia con voi! Il mio amore è con voi tutti in Gesù Cristo!» 5.
Questo metodo, canonizzato nel N.T., fece scuola: la Prima Lettera di Clemente, lo scritto
postpaolino più antico, che definisce Paolo «il massimo modello di pazienza», minaccia i Corinzi
con queste parole:
«Ma se voi non siete obbedienti e non mi date ascolto, possa trapassarvi la spada!».
In seguito Agostino solleciterà dallo Stato quella stessa spada distruttrice per combattere gli
eretici, e tale prassi sarà poi completamente legittimata dalla Chiesa. Il paolino Anathema sit!,
che spesso andava oltre le forme giudaiche di scomunica, ricollegandosi direttamente a
concezioni magiche e a formule malediche proprie del Paganesimo, diventerà il modello
primigenio delle Bolle cattoliche di scomunica.
Ma Paolo ad altri insegna:
«Non giudicate prima del tempo, finché non sia giunto il Signore», oppure: «In questo, o
uomo, non ti puoi discolpare, chiunque tu sia a giudicare. Perché quando giudichi un altro,
condanni te stesso; poiché tu fai la stessa cosa che giudichi» (1 Cor. 4, 5; Rom. Cfr. anche
Gal. 6, 1; e la pseudopaolina, forse, 2 Thess. 3, 15).
Come non condividere l'esclamazione di Nietzsche:
«"Non giudicate!", essi dicono, ma spediscono all'Inferno tutto quel che li ostacola»?
Facendo propria l'espressione usata da uno scrittore greco a proposito dei Cretesi, i nemici non
cristiani sono per Paolo «fiere selvagge» con cui lottare (1 Cor. 15, 32). La rottura coi Giudei fu
immediatamente radicale. Già nella sua Prima Epistola, quegli Ebrei che secondo un teologo
cattolico (Ricciotti) erano per l'Apostolo «oggetto del massimo affetto», diventano esseri odiati
da Dio, maledetti fino al giorno del giudizio: sono le stesse espressioni stereotipe dei vecchi
antisemiti 6. Nella Lettera ai Filippesi (3, 8) definisce «sterco» l'intero patrimonio religioso e
spirituale del Giudaismo.
Già in Paolo ricorre, dunque, quella funesta distinzione fra «orto»dossi ed «etero»dossi, che,
attraverso la formulazione di Cipriano, secondo la quale non v'ha salvezza fuori dalla Chiesa, e
l'intolleranza di Agostino, condusse alle Crociate, ai pogrom contro gli Ebrei, alle camere di
tortura e ai roghi.
Benché fisicamente debole e malaticcio, Paolo fu uomo di straordinaria energia e
propagandista così possente, che durante il Terzo Reich taluni teologi protestanti paragonarono
le sue comunità agli «stendardi delle camicie brune dell'esercito hitleriano», parlando di una
«SA di Gesù Cristo» 7. Paolo stesso, poi, con la modestia che gli fu propria, definì se stesso
«collaboratore di Dio» 8. Eppure, le sue missioni nelle più svariate regioni non erano allora
nulla di eccezionale: molto prima di lui lo avevano fatto in grande stile Senofane, Empedocle
ed Eraclito, e predicatori buddhisti si erano spinti fino in Egitto. In quell'epoca e ancora in
seguito per molto tempo viaggiavano per il mondo missionari-filosofi, soprattutto Stoici e
Cinici, diffusori delle religioni misteriche e del Giudaismo. il Vangelo di Matteo dice a proposito
di Scribi e Farisei: «Percorrete la terra e il mare per fare un solo proselita» (Mt. 23, 15).
La situazione complessiva favoriva l'azione missionaria: strade eccellenti dall'Eufrate alla
Britannia, buoni collegamenti marittimi, ricettività religiosa e superstizione, l'unità politica della
monarchia universale di Roma, l'unità giuridica e la garanzia della legge, l'esistenza di una
lingua internazionale come il Greco, l'analogia delle condizioni materiali di vita, la
multirazzialità e la permeabilità etnica, e, non da ultimo, la tolleranza della politica religiosa dei
Romani. Un'epigrafe sepolcrale di un mercante frigio del II secolo ci informa che compì 270
volte il viaggio a Roma. Per quanto concerne Paolo, però, il cattolico Guardini esclama: «Non
comprendiamo come abbia potuto farlo»; e subito allude a un soccorso divino.

Note
1 Greg. Naz., or. 2, 84. Harnack, Marcion, 10.
2 Per Porfirio ad es. Fr. 27 (Harnack). Spengler, Der Untergang des Abendlandes, 2a ed., 524.
Nietzsche, Antichrist, 42. Cfr. 45.
3 Gal. 6, 10. Cfr. anche Rom. 12,18. In proposito Preisker, Das Ethos des Urchristentums, 184
sg.
4 Jh. 17, 9. Cfr. anche 1 Jh. 2, 9 sgg.; 3, 14 sgg.; 4, 20 sg. Inoltre Preisker, ibid., 205. Cfr.,
ad es., anche Werner, Jesus Christus-Das Licht der Welt, 29 sg.
5 1 Cor. 16, 22 sgg. Cfr., ad es., le attenuazioni giustificatorie nei cattolici Daniel-Rops, Die
Kirche, 89 oppure di Schuchert, 75: «non è uomo di fiacchezze umanitarie!».
6 1 Thess. 2, 15 sg. Leipoldt, Jesus u. Paulus, 13. Schneider, Das Frühchristentum als
antisemitische Bewegung, 5. Oepke, 198 sg. E. Meyer, Ursprung u. Anfänge, III, 85.
7 Le SA, Sturmabteilungen, erano reparti speciali d'assalto del Partito nazista [n.d.t.].
8 1 Cor. 3, 9. Sulla superbia Pauli (Lutero), autoesaltazione e umile boriosità, che farà poi
scuola nella Chiesa, cfr., ad es., 2 Cor. 3, 6 sgg.; 11, 22 sgg.; 12, 1 sgg; 1 Cor. 3, 10 sgg.;
11, 1; 2 Cor. 6, 3 sgg.; Thess. 2, 10; 1, 6; Phil. 3, 17. 3, 4. 4, 9; 1 Cor. 2, 6 sgg.; 4, 16; 9,
15; 14, 18; 2 Cor. 1, 12; 1, 14; 3, 1; 5, 12; 10, 13. Sull'accusa di autoesaltazione da parte dei
cristiani: 2 Cor. 3, 1; 5, 12; 10, 13. Inoltre: Fridrichsen, Zum Stil des paulinischen
Peristasenkatalogs 2 Cor 11, 23 sgg.; 25 sgg. idem, Peristasenkatalog und Res Gestae, 78
sgg. Windisch, Paulus u. Christus, 189. Schneider, Geistesgeschichte, 1, 107. K.L. Schmidt,
Der Jude u. der Christ Paulus, 207.

APPENDICE II
L'antifemminismo della Chiesa antica e le sue conseguenze
Questo tema così importante, già accennato a proposito di Paolo, sarà ora oggetto di un'analisi
di massima fino ai nostri giorni.
L'ascesi, qua e là condannata anche nelle Epistole neotestamentarie (1 Tim. 4, 3; 4, 8), ben
presto si impose ampiamente nel Cristianesimo 1, adeguandosi a una tendenza molto viva e
diffusa nell'atmosfera di stanchezza culturale e mondana della tarda antichità.
Ai primi del III secolo grandi Teologi come Tertulliano, Origene o Cipriano fanno già a gara
nell'esaltazione della vita ascetica. Nel IV secolo le esortazioni dei Padri della Chiesa divennero
ancor più pressanti: quanto più la Chiesa si mondanizzava, tanto più predicava la rinuncia al
mondo. Basilio proibì ai fedeli non solo ogni divertimento, ma persino il riso. Il lutto per
l'infelice esistenza terrena dev'essere espresso già dallo sguardo obliquo dei cristiani, dai
capelli incolti, dalle vesti miserabili ecc. Gregorio di Nissa paragona la vita intera a un
«letamaio». Lattanzio scorge nel profumo d'un fiore un'arma del demonio (Lact., div. inst. 6,
22). E per Zeno di Verona il maggior vanto della virtù cristiana consiste nel «calpestare la
natura».
Il Teologo Harnack, tuttavia, vede nel disprezzo della donna la peggiore conseguenza
dell'ascesi cristiana.
La diffamazione della donna nella Chiesa antica
Le donne, da Gesù equiparate agli uomini, presto prevalsero numericamente fra i cristiani, e
proprio a ciò si deve la penetrazione della nuova religione nei ceti più colti. L'autore degli Atti
una volta definisce «discepola» la cristiana Tabitha, con ciò riconoscendo implicitamente la
posizione elevata delle donne nella cristianità più antica 2, le quali per lungo tempo
esercitarono un'attività assai vasta all'interno del Cristianesimo: le profetesse cristiane sono
forse più antiche dei profeti, non poche donne fondarono comunità o ne furono a capo, già in
epoca apostolica esisteva un'organizzazione delle vedove e l'ufficio delle Diaconesse,
corrispondente in parte a quello dei Presbiteri, ma poi soppresso dalla Chiesa cattolica (Linton,
115; Leipoldt, Die Frau in der antiken Welt, 201 sgg.,).
All'inizio del IV secolo le donne erano ancora prevalenti, anche se già nel III secolo era stata
loro interdetta qualsiasi funzione sacerdotale durante il servizio divino e nel II secolo un
eminente Dottore della Chiesa dichiarò che le profetesse erano esseri posseduti dal demonio
(Iren., adv. haer. 1, 13, 3).
La subordinazione della donna potrebbe risalire alla Comunità primitiva, evidentemente per
l'influsso determinante della tradizione giudaica; ma poi non mancò di esercitare la sua
influenza l'avvento dell'ascetismo, nonché, l'atteggiamento di Paolo.
Nella nascente Chiesa cattolica alla fine del II secolo la donna appare ormai soltanto come una
creatura volgare, carnale e seduttrice dell'uomo: è Eva, la peccatrice per antonomasia.
Tertulliano presenta la donna come una «breccia, attraverso la quale s'insinua il demonio» e le
attribuisce la colpa della morte di Gesù
«Sei proprio tu - prosegue la requisitoria tertullianea - che hai aperto la porta la demonio, tu
hai spezzato il sigillo di quell'albero, tu hai violato per prima la legge divina, sei ancora tu che
hai affascinato coloro ai quali il demonio non era capace di accostarsi. Tu hai facilmente
gettato a terra l'uomo, che è immagine di Dio: a causa della tua colpa, cioè in nome della
morte, dovette morire anche il figlio di Dio; e ciononostante ti viene anche in mente di
applicare monili e ornamenti sopra la tua veste di pelli!?» 3.
Ma non bastava che la donna fosse disadorna: Gerolamo avrebbe desiderato raderle il capo a
zero (Hier., ep. 93); molti sostenevano che dovesse astenersi anche dal canto. C'erano
cristiani che evitavano di recarsi nella casa di Dio al fine di evitare «tentazioni», il che alla
Chiesa apparve un po' eccessivo, così che uno scrittore ordinava: «Ama le donne nelle sante
festività, ma odiale nella vita privata!».
Non sempre veniva loro consentito l'ingresso in chiesa: gravidanza e mestruazione le
rendevano inadatte al rapporto con Dio. Per Dionisio di Alessandria (m. 265) era cosa
assolutamente ovvia che le donne non dovessero entrare in Chiesa, per evitare «di toccare il
corpo e il sangue di Cristo» nei giorni della mestruazione. La pensa allo stesso modo anche
Timoteo di Alessandria (m. 385). La Chiesa siriaca puniva le donne mestruate, che avessero
frequentato la chiesa, con una penitenza settennale; i sacerdoti che avessero distribuito loro la
Comunione in taluni casi venivano allontanati dall'ufficio.
I Canones Hippoliti, un importante regolamento ecclesiastico del III secolo, vietavano
l'amministrazione del Battesimo alle donne quando «su di loro giunge l'impurità» e proibivano
la partecipazione «ai Misteri» a coloro che avessero assistito una partoriente, precisamente per
venti giorni se era nato un maschio, quaranta se era nata una femmina. Il tempo per la
purificazione della madre era di quaranta giorni se aveva partorito un maschio, di ottanta se
aveva dato alla luce una femmina. Ancora nella seconda metà del V secolo i preti si rifiutavano
di battezzare puerpere morenti, prima della scadenza del tempo prescritto per la purificazione.
A giudizio di uno studioso cattolico del N.T. (Meinertz) «col Cristianesimo la donna conobbe
una dignità del tutto nuova», ma si tratta di una valutazione che capovolge la realtà dei fatti,
benché non si debba sottacere che non pochi «eretici» preferissero ricordare apertamente l'alta
stima di Gesù per le donne. Marco, gnostico e discepolo di Valentino, le ammetteva al servizio
divino e alla celebrazione dell'Eucaristia, e nel Montanismo potevano diventare persino
sacerdoti e vescovi.
Insieme alla donna, la Chiesa svalutò fortemente anche il matrimonio
Anch'esso si basa su un identico atto di fornicazione. Perciò, la cosa migliore per l'uomo è non
toccare la donna.
(Tertulliano) 4
... vivere a guisa di bestie.
(Gerolamo, adv. Jovin.)
Già nel Nuovo Testamento vengono esaltati «coloro che non si sono contaminati con
femmine», dal che si evince che nel Cristianesimo esisteva una corrente di pensiero, che per
principio combatteva il matrimonio.
Alcune tarde fonti cristiane sostengono che Pietro, il primo «Papa», coniugato con figli, evitava
qualsiasi posto in cui si celasse una donna; non solo, ma fu anche definito «misogino» e gli fu
attribuita la frase: «Le donne non sono degne di vivere». Dell'Apostolo Giovanni si sottolinea
sempre e comunque la verginità. La Prima Lettera di Clemente si fa autorevole propugnatrice
della rinuncia al matrimonio, e nel II e III secolo la tendenza misogina della Chiesa emerge
sempre più chiaramente.
Secondo Giustino, l'apologeta più importante del II secolo, è peccato qualsiasi soddisfacimento
dell'istinto sessuale, ed è illegittimo il matrimonio in qualche modo legato alla soddisfazione di
un istinto maligno (Theiner, 1, 37). Nel III secolo il Padre della Chiesa Cipriano raccomanda
alle fanciulle cristiane una tranquilla esistenza senza figli, contemporaneamente terrorizzandole
con l'evocazione dei dolori del parto (Cypr. testim. 3, 32; hab. virg. 22).
Lo stesso farà il Dottore della Chiesa Ambrogio (Ambr. virg. 1, 6), che tenterà di persuadere le
ragazze cristiane a restare nubili anche contro la volontà dei genitori: «Supera
immediatamente il timore reverenziale dei genitori!» (Ambr. virg. 3, 11. Cfr. anche Hieron. ep.
5 ad Heliod.). Zeno, Vescovo di Verona, consiglia alle giovani dame di non andarsene in giro
per nove mesi con un fardello addosso. Agostino promette alle figlie vergini un posto in
Paradiso migliore di quello assegnato ai genitori, e si augura che nessuno più contragga
matrimonio, onde affrettare la fine del mondo (August. Serm. 354 ad continentes habit. 8. De
bono coniugali, 10).
Gerolamo sa essere forse ancor più seducente, allorché esorta la vergine a parlare, sospirare e
scherzare sul letto solo con lo sposo spirituale; non appena sarai stata colta dal sonno -
sussurra allettante Gerolamo, qui ispirato forse più dai ricordi di una giovinezza scapestrata
che dallo Spirito Santo - Egli verrà «e sfiorerà il tuo ventre» (et tanget ventrem tuum) (Hieron.
ep. 18 ad Eustochium). Infatti, come Gerolamo premette, qualcosa bisognerà pur amare, ma
«l'amore carnale viene superato da quello spirituale»!.
Del matrimonio egli valorizza solo la generazione di vergini. «Se è un bene non toccar donna -
pontifica richiamandosi a Paolo -allora è un male toccarla!» (Hieron. adv. Jovin. 1, 4). I coniugi
vivono, a suo dire, «a guisa di bestie», e nel rapporto sessuale gli uomini «in nulla si
distinguono dai porci e dagli animali privi di ragione»! (ibid., ed ep. ad Vigilantium). Contro il
monaco Gioviniano, poi, il quale verso la fine del IV secolo a Roma sosteneva con notevole
successo il concetto che non essere sposati e digiunare non costituiva un merito particolare,
equiparando alle vergini e alle vedove le donne maritate, il Dottore della Chiesa suddetto,
segretario e amico di Papa Damaso, Santo della Chiesa Cattolica e Protettore dei Dotti,
indirizzò un libello, nel quale, fra l'altro apostrofava l'avversario con queste parole:
«Tu sei ben disposto verso le prosperose, le graziose e le eleganti. Aggiungici anche tutte le
scrofe e le cagne, e, dal momento che sei un amante della carne, anche avvoltoi, aquile e
civette... Tutti i bei volti, tutte le ricciolute, tutte le rubiconde fan parte della tua mandria,
oppure grugniscono piuttosto fra i tuoi maiali... I tuoi porcari sono più ricchi dei nostri pastori,
e i capri attirano molte capre. Sono diventati come stalloni che nitriscono frementi alle
giumente: basta che vedano una donna e nitriscono. Anche le povere donnicciuole intonano il
canto del loro maestro: Dio non esige altro che sperma» (Hieron. adv. Jovin. cit. da Theiner, 1,
134).
Significativamente nella Chiesa romana si incontrerà un fidanzamento ecclesiastico solo a
partire dal XIV secolo, e solo dal XVI secolo sarà celebrato all'interno di un edificio consacrato.
Questo fatto dipende indubbiamente dal declassamento e dal disprezzo ecclesiastico della
donna, la quale era tenuta, invece, a un'obbedienza incondizionata e sempiterna al marito,
anche nel caso che si ubriacasse e la malmenasse. Infatti, come insegnava il Vescovo Basilio
nella sua predicazione, egli è un membro di lei «e invero il più eccellente dei membri»
(Basilius, 7 Hom. 5).
Conseguenze della predicazione ecclesiastica dell'ascesi
All'inizio del II secolo Ignazio dovette raccomandare al Vescovo Policarpo di esortare «le sorelle
ad amare il Signore e a prendere soddisfazione dei loro mariti in carne e spirito». Qualche
tempo dopo la Chiesa raccomandava di non aprire le labbra nell'abituale «bacio d'amore» dopo
l'Agape «e di non ripetere il bacio, se scatena sensazioni di piacere».
Non sarà inopportuno accennare qui anche ai matrimoni spirituali, cioè alla convivenza di
«santi», maschi e femmine, sotto uno stesso tetto o nello stesso letto, vale a dire alle gynài
syneisaktheioi, lat. virgines subintroductae. Tale fenomeno esisteva già, a quanto pare, nella
Corinto paolina e deve questa denominazione al termine col quale il Sinodo di Antiochia definì
quelle attraenti signore che il Vescovo Paolo di Samosata si portava appresso come dame di
compagnia (Euseb. h.e. 7, 30).
In Erma (inizio del II secolo) il profeta dorme «come un fratello» in mezzo a dodici vergini;
esse lo baciano e abbracciano, ma alla fine «non facevano null'altro che pregare, e io pregavo
incessantemente con loro e non meno di loro» (Herm. sim. 9, 11). All'incirca nello stesso
periodo anche la Didachè menziona la strettissima convivenza con una donna, senza rapporti
sessuali, considerata per lungo tempo segno della più alta forma di astinenza, mentre le
seconde nozze di una vedova da molti erano sentite come scandalose e assolutamente
riprovate.
Ma questi sponsali «spirituali» divennero progressivamente sospetti: Tertulliano racconta di
gravidanze di vergini consacrate, e ritiene che per molti Dio sia il ventre. Cipriano Vescovo
esige che le vergini che si rifiutano di lasciare i loro preti siano visitate da levatrici, benché
sappia troppo bene che si può peccare anche con organi non suscettibili di indagini: fu
necessaria una battaglia secolare per sopprimere siffatti matrimoni «spirituali».
Il celibato
Non preoccupavano Gregorio VII gli amorosi sospiri di suore ammalate, i secreti calli dei frati, i
peccati silenziosi o sonori dei chierici, i matrimoni rovinati da loro... e ogni altra turbativa che
ne doveva scaturire; ma nel libro della storia i suoi risultati sono sotto gli occhi di tutti.
(Il teologo J. G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte, Libro II, 4)
La proibizione del matrimonio dei sacerdoti risale all'idea, un tempo ampiamente diffusa nel
Paganesimo e presente in ogni forma di culto dell'età imperiale, che il rapporto sessuale
rendesse inadatti al servizio divino. In Oriente, dove l'Eucaristia veniva celebrata solo in giorni
determinati, in quegli stessi giorni ai preti veniva proibito il coito; in Occidente, invece, dove si
celebrava quotidianamente, si impose un'astinenza matrimoniale totale.
Il celibato è affare esclusivamente cattolico. Nella Chiesa ortodossa d'Oriente il matrimonio dei
sacerdoti è rimasto fino ai nostri giorni un fatto assolutamente ovvio. Nella Chiesa romana, a
partire dal III secolo, Vescovi e Preti rimanevano scapoli dopo l'ordinazione, perché ciò
avrebbe dovuto accrescerne il prestigio agli occhi del popolo, il quale cominciava a percepire il
matrimonio come condizione peccaminosa.
Ma accanto al motivo cultuale ebbe un suo ruolo importante anche quello economico, perché i
parroci erano obbligati a consegnare tutte le entrate ai Vescovi, ai quali i sacerdoti scapoli
erano quindi ben più graditi di quelli con mogli e figli. Nel IV secolo molti preti venivano
ricompensati con tanta parsimonia, che potevano intraprendere le usuali pratiche religiose solo
grazie al contributo dei fedeli.
Ma fu solo a partire dal VI secolo che si iniziò a dichiarare nulli i matrimoni di chierici contratti
dopo l'ordinazione. Il Terzo Concilio di Toledo (539) prescrisse ai Vescovi di vendere le donne
sospettate di usare commercio sessuale coi preti, e di distribuire ai poveri il ricavato! E così
anche il Quarto Concilio sempre di Toledo del 633.
Tuttavia solo il decreto sul celibato di Gregorio VII del 1074 proibì ai preti sposati l'esercizio di
funzioni ecclesiastiche e definì «concubine» le loro mogli legittime: da allora vige nel mondo
cattolico il Celibato, quantunque in diretto contrasto col Nuovo Testamento, che pretende dai
Vescovi e dai Diaconi che siano mariti di una sola donna e guidino correttamente i propri figli
(1 Tim. 3, 2 sgg.; 3, 12). Il basso clero si oppose appassionatamente al Papa, chiamandolo
pazzo, eretico, ignorante le Sacre Scritture e fautore di lussuria.
Le conseguenze furono enormi: l'ipocrisia, definita da Richard Wagner il tratto caratteristico
assoluto e il vero e proprio stigma dei secoli cristiani, e il meretricio crebbero in misura quasi
inimmaginabile. La libidine dei chierici era talmente generalizzata, che, secondo Isidoro, non
veniva più considerata un vizio, ma veniva tollerata. Per tutto il Medioevo un gran numero di
ecclesiastici si trascinava dietro veri e propri sciami di concubine; le loro dimore e le abitazioni
vicine, nelle quali si sistemavano siffatte femmine, brulicavano di marmocchi.
In una missiva a Papa Zacaria, Bonifazio, l'Apostolo dei Tedeschi, tratteggia un quadro molto
vivace della Chiesa franca dell'VIII secolo: da più di ottant'anni i Franchi non tenevano
assemblee ecclesiastiche, non nominavano Arcivescovi o rinnovavano i regolamenti della
Chiesa; gli Arcivescovadi erano nelle grinfie di laici avidi di denaro o di preti adulteri; c'erano
Diaconi che vivevano nella lussuria fin dalla giovinezza;
«così sono pervenuti al Diaconato e ancora mantengono di notte nei loro letti quattro, cinque o
più concubine, né si vergognano di leggere il Vangelo e di definirsi Diaconi. E in siffatte
condizioni diventano sacerdoti, anzi persino Vescovi».
Tra questi ultimi Bonifazio trova anche personaggi che «scendono in campo armati, e con le
proprie mani versano sangue umano di Pagani e Cristiani».
La lotta innaturale della Chiesa contro il matrimonio dei preti fece sì che il clero privato di un
tal diritto si abbandonasse al concubinaggio; si verificarono persino casi di stupro dentro le
Chiese, e non mancarono congressi carnali con parenti stretti, se il Concilio di Metz del 753 si
sentì in dovere di proclamare:
«Qualora i preti intrattengano rapporti sessuali con monache, madri (!), sorelle ecc., se
occupano posizioni gerarchiche elevate saranno deposti, se appartenenti al basso clero,
saranno fustigati».
Alla fine del secolo VIII il Vescovo Teodulfo di Orleans minacciava severe sanzioni contro coloro
che coltivassero relazioni sessuali con animali (già la Bibbia è costretta a ribadire
continuamente ai figli di Dio, anche di sesso femminile, l'intimazione contro i rapporti sessuali
con le bestie, anche con la minaccia della punizione capitale 5; in tal caso dovevano essere
uccise insieme alle persone anche le bestie «depravate»!).
La Chiesa inglese previde forme di castigo per Vescovi e Preti, che usassero commercio
sessuale con animali quadrupedi, con le madri e con le sorelle oppure con le monache per
instrumentum. Ancor oggi, del resto, la regola 32a del Regolamento Generale della Compagnia
di Gesù, che impone di «non toccare altri nemmeno per gioco» per la conservazione della
castità, viene estesa da eminenti Gesuiti italiani anche ai contatti con animali.
Fino al secolo XVI inoltrato molti membri del clero conducevano una vita dissoluta alla luce del
sole: per esempio, durante la Guerra dei contadini, i cittadini di Würzburg si rifiutarono di
scendere in campo, perché ritenevano che le donne rimaste a casa non fossero al sicuro dalle
grinfie dei preti. In una lettera pastorale del 1517 il Vescovo Hugo di Costanza lamentò il gioco
d'azzardo, l'ubriachezza e la sregolatezza sessuale di tutti i parroci della Diocesi. A Zurigo
alcuni preti si picchiarono nella pubblica piazza per contendersi una bella puttana. I cittadini di
Regensburg, che nel 1513 avevano catturato il Canonico Zenger perché nottetempo e con
grandi clamori tentava di penetrare in un bordello, e gli abitanti di Augsburg, che spedirono in
catene al Vescovo il prete Frischhans, perché aveva stuprato un bambino, subirono l'interdetto
dei loro Vescovi.
In molti conventi fioriva la fornicazione: verso la fine del Medioevo il monastero di Lipsia
veniva definito una delle meraviglie del mondo, perché conteneva tanti bambini e nemmeno
una donna; il convento svevo di Gnadenzell si chiamava «La casa aperta», perché le suore lo
avevano trasformato in un pubblico bordello. Alla fine del XV secolo erano rinomati come veri
propri e bordelli anche i conventi di suore di Interlaken, Frauenbrunn, Brun, Gottstadt presso
Berna, Ulm e Mülhausen. Il Consiglio Comunale di Lausanne prescrisse pubblicamente alle
suore di non fare concorrenza sleale ai bordelli, e quello di Zurigo emanò una severa ordinanza
«contro l'immondo andirivieni nel convento delle suore».
La lotta dei Concili contro questo comportamento era destinata a rimanere lettera morta, tanto
più se si tien presente che spesso vi contribuivano massicciamente le più alte gerarchie
ecclesiastiche, e non solo nel periodo della pornocrazia, cioè del regime fornicatorio dei Papi.
Nel secolo X il Papa Sergio III mise al mondo con Marozia, moglie del Margravio Alberico, un
bambino, che salì poi al soglio di Pietro col nome di Giovanni XI (931-936). Giovanni XII (955-
963), che divenne Papa a 18 anni e nominò Vescovo un bambino di 10 anni (Giovanni X aveva
fatto di meglio, nominando Arcivescovo di Reims un fanciullino di 5 anni), visse
incestuosamente con le sorelle e fu ammazzato in flagrante adulterio.
Durante la permanenza a Lione nel secolo XIII i Papi, come attestano i teologi, trasformarono
la città in un bordello. I Vescovi tenevano come concubine badesse e suore. Il Papa Giovanni
XXIII (1410-1415), poi cassato dagli elenchi papali perché Antipapa di Gregorio XII (e di
Benedetto XIII), ebbe una relazione con la moglie del fratello, e sembra che a Bologna (ma la
cosa appare un po' esagerata) abbia reso felici duecento fra vedove e verginelle. Innocenzo
VIII (1484-1492), che si portò dietro in Vaticano due figli, criticò aspramente l'ordinanza di un
Vicario apostolico, che prevedeva l'allontanamento delle concubine dei preti. Alessandro VI
(1492-1503), giunto in Vaticano con quattro figli, diede il cappello cardinalizio al diciottenne
figlio Cesare, ebbe una relazione con la figlia Lucrezia (che a sua volta se la intendeva coi
fratelli) e fece dipingere una delle sue amanti, la bella Giulia Farnese, come Madonna, e se
stesso ai suoi piedi in pompa papale.
Dopo il Concilio di Trento (metà del secolo XVI) almeno in apparenza tali fenomeni
diminuirono, ma ancora nel 1883 il Teologo cattolico Curci poteva scrivere:
«Ora però io credo d'avere sufficienti informazioni per assicurare che, prescindendo dalla
circospezione un po' più attenta comprensibilmente adoperata, dovuta al progresso della
cultura, in alcune provincie oggi le cose non vanno meglio che nel secolo XVI prima
dell'introduzione delle riforme tridentine, quando le concubine dei Prelati, accompagnate dai
servi in livrea dei loro protettori, scorrazzavano per le vie di Roma. Tempi passati davvero
ignominiosi! Ma essi non fanno altro che mostrarci quanto incerto sia sempre stato
l'atteggiamento del Vaticano riguardo a tali problemi: durante gli ultimi anni del pontificato di
Pio IX in una provincia meridionale c'era una piccola Diocesi, nella quale per alcuni anni non ci
fu prete, né il Vescovo faceva eccezione, che non mantenesse pubblicamente la sua donna».
Questa notizia riguardava l'Italia, ma anche nella Spagna del secolo XIX la Chiesa ritenne di
dover conservare intatta la severità dell'Inquisizione, onde impedire «che il confessionale
venisse trasformato in un bordello».
Sempre nel secolo scorso, si diceva che l'amoralità del clero cattolico sudamericano superasse
quella di tutte le altre categorie sociali, comportandosi «come se solo ad esso competesse
l'esercizio della lussuria e dovesse illuminare col proprio esempio i laici non meno corrotti».
Nel 1889 un Teologo cattolico ammette a proposito dei preti cattolici del Perù:
«Sono pochi coloro che non sono pubblici concubini... Un colono assolutamente degno di fede
scrisse all'autore d'essere costretto a superare molte esitazioni prima di mandare a confessarsi
una ragazzina di dodici anni».
Anche dei Cardinali romani si diceva che si facessero prestare le donne dai loro mariti:
«In nome dell'ordine - ritiene Rousseau - era lecito che solo le maritate avessero dei figli da
uomini di religione» 6.
Eppure queste sono le conseguenze più innocue dell'obbligo al celibato del clero cattolico: i
Teologi cattolici Johann Anton e Augustin Theiner raccolsero, sempre per il XIX secolo, un
materiale probatorio schiacciante sulla seduzione di bambini, pratiche sadiche, aborti, delitti
compiuti da preti e monaci per gelosia e lussuria. Particolarmente raccapricciante appare il
caso di quel parroco bavarese, che battezzò i suoi due figli prima che la cuoca li assassinasse.
D'altro canto i religiosi che prendevano seriamente il dovere all'astinenza conducevano una
battaglia logorante, si mortificavano giorno e notte in modo assurdo o addirittura si
castravano.
Ma fino a tempi assai recenti ci fu un'aperta opposizione del clero cattolico alla costrizione
celibataria dei Papi, come testimoniano, ma non sono i soli, i sopra citati fratelli Theiner
nell'opera in tre volumi L'introduzione dell'obbligo al celibato per i preti cristiani e le sue
conseguenze. La Chiesa cattolica fece tutto il possibile per acquistare e distruggere il libro;
Anton Theiner fu privato della sua cattedra universitaria, fu assegnato a una parrocchia e morì,
alla fine, in estrema povertà come segretario della Biblioteca Universitaria di Breslau: lo
stipendio bastava appena a non farlo morire di fame. Il fratello minore Agostino si riconciliò
con la Chiesa e diventò Prefetto dell'Archivio Vaticano, ma durante il Concilio Vaticano,
sospettato di fornire ai Prelati dell'opposizione indicazioni e fonti bibliografiche, fu licenziato; la
porta che conduceva dalla sua abitazione all'Archivio venne murata. Il Teologo Friedrich
Nippold curò la riedizione della loro opera nel 1893.
Breve rassegna di teologia morale cattolica e di medicina pastorale
Si sarebbe tentati di annoverare fra la pornografia numerose produzioni di teologia morale.
(Il teologo Heiler)
... sono sorprendenti l'ampiezza e lo scrupolo dedicati da studiosi eminenti alla trattazione di
tali questioni... Si può affermare senza tema di smentite che non c'è libro sconcio che, sotto
questo aspetto, sia peggiore di un trattato di teologia morale.
(Il teologo Alighiero Tondi)
Quanto il celibato sia una condizione contro natura, oltre che contro il Nuovo Testamento, si
evince dalla produzione letteraria di molti maestri di Teologia morale. Un Prelato romano così
si esprime sulla Teologia morale del secolo XVII:
«Quanta sporcizia contengono i trattati di teologia morale, quante sconcezze diffondono! Dov'è
possibile trovare tanti luridi cenci, quanti si ritrovano nelle loro pagine! Al confronto, qualsiasi
bordello della Suburra potrebbe definirsi pudico. Io stesso, che pure ho condotto una
giovinezza scapestrata, disonorandola con ogni sorta di azioni lussuriose, confesso d'essere
arrossito non poco alla lettura del Gesuita Sánchez, dal quale ho appreso più turpitudini di
quante me ne avrebbe potuto insegnare la più svergognata delle puttane... Ma perché mi
limito solo a Sánchez?» 7.
Il Gesuita Sánchez viene ancor oggi citato come un'autorità nel campo della Teologia morale.
Nei paragrafi che seguono faremo alcune citazione dettagliate, traendole dall'opera di un noto
esperto cattolico, composta con la collaborazione dei Gesuiti, e la cui 19a edizione venne
diffusa nel 1923.
Già nelle prime righe del capitolo dedicato al sesto comandamento si legge «che piccoli
fanciulletti iniziano a masturbarsi fra le braccia della madre», dopodiché la masturbazione
viene definita un tactus impudicus teso direttamente a scatenare la polluzione. La sezione
dedicata alla perversione sessuale si occupa ancora della masturbazione con i capelli caduti a
una donna, «i ben noti tagliatori di trecce» [espressione gergale n.d.t.].
Molti luoghi sono davvero ridicoli, come, ad esempio, gli excursus sulla polluzione: quella che
si verifica durante il sonno non è peccaminosa, a patto che non sia stata favorita da fantasie
sensuali. Ma cosa fare, se ci si sveglia e si è lì lì per emettere il seme o se la cosa è già
iniziata? Il nostro esperto cattolico si domanda: «In tal caso si è tenuti a evitare la emissio
seminis». Il revisore dell'edizione più recente entra a questo punto in contrasto con l'autore
della precedente: quest'ultimo ritiene un dovere morale impedire l'evento imminente,
soprattutto mediante energici esercizi della volontà «legati, ad esempio, a una elevatio cordis
ad deum (!)». Inoltre ritiene «cosa ragionevole cercare nel letto un cantuccio più freddo,
oppure saltarne fuori».
Il revisore, al contrario, consiglia l'impedimento della polluzione solo se è presente «un alto
rischio di consentimento al piacere», diversamente non scorge nulla di male (come si affretta
ad aggiungere con formula addirittura classica) «nel consentire il corso spontaneo di un evento
puramente fisiologico e nel dominio di qualsivoglia pericolo di consentimento della volontà,
rivolgendosi a Dio con atti di devozione religiosa». Per il resto anche questo espertissimo
pastore di anime raccomanda di attenuare l'eccitamento connesso cercando un angolino più
freddo del letto ecc. Tuttavia conclude rassegnato: «Però, in ultima istanza, è tutto inutile».
Accenniamo adesso brevemente alla Theologia moralis in lingua latina (come è proprio delle
opere cattoliche sull'argomento) dei Teologi pontifici Aertnys e Damen, pubblicata in due
volumi a Roma nel 1944. Basta menzionare solo pochi problemi di cui si occupano costoro: si
chiedono:
«se sia lecito a una donna pregare un uomo dedito all'onanismo affinché abbia luogo il coito»;
«se la donna possa assolvere ai doveri coniugali qualora il marito eserciti l'onanismo tramite
strumenti preservativi»; «se il marito debba prestare il dovere coniugale, qualora gli sia noto
ch'essa ha occluso artificialmente con un pessario la propria vagina in prossimità dell'orifizio
dell'utero»; «se sia lecito emettere il seme proprio all'ingresso della vagina»; «se i coniugi
commettano peccato mortale qualora durante il rapporto trattengano il seme volontariamente,
perché non si sono ancora molto eccitati»; «se la moglie commetta peccato mortale, quando,
mentre il marito emette il seme, lei trattiene il proprio»;
e così via. Nell'opera cattolica si può ancora leggere ad esempio:
«Si ha un coito contro natura se si adopera un organo inadeguato o si fa uso contro natura
dell'organo deputato al rapporto, onde evitare la fecondazione. Nel primo caso si ha sodomia
impropria, nel secondo si tratta di onanismo. La sodomia impropria è il coito compiuto
nell'organo posteriore della donna, a prescindere dal fatto che l'uomo emetta il seme fuori o
dentro»;
o ancora, come scrivono i due Teologi pontifici:
«L'introduzione del membro virile nella bocca della donna, nella misura in cui avviene
rapidamente e senza pericolo di emissione dei seme, a seconda dei casi non viene considerato
un peccato mortale, poiché la bocca non costituisce organo adeguato al rapporto sodomitico e
l'atto in questione, quindi, rappresenta un tactus impudicus... Sant'Alfonso (de' Liguori), in
accordo col giudizio generale, ritiene un peccato mortale l'introduzione del membro virile nella
bocca della donna soprattutto perché quasi sempre sussiste il rischio dell'eiaculazione».
L'ex professore dell'Università Gregoriana Alighiero Tondi racconta che i cervelli dei cattolici,
soprattutto dei preti, vengono torturati con una specie particolare di mania sessuale, di natura
chiaramente psicoanalitica. I Teologi si intrattengono assai spesso e con evidente soddisfazione
sulle cose più ripugnanti:
«Tutti i professori di morale della Pontificia Università Gregoriana, fatta una o due eccezioni, ne
parlano incessantemente e si occupano della "soluzione morale" dei casi più strampalati e più
rari, purché rigurgitino di accadimenti piccanti. Davanti a un simile atteggiamento mentale e
alla struttura della dottrina cattolica ci si può facilmente immaginare il carattere delle lezioni di
Teologia morale. L'aula traboccava. Un pigia pigia di preti, di seminaristi imberbi che
bisbigliavano estasiati, con le gote roventi e le orecchie aguzze. Lo spettacolo mi dava la
nausea. Taluni insegnanti tengono nelle loro camere raffigurazioni anatomiche e modelli in
gesso per illustrare privatamente ai discepoli che facciano richiesta di spiegazioni ulteriori la
struttura degli organi genitali e l'atto sessuale».
Sono queste alcune delle conseguenze che i Cattolici traggono dall'insegnamento di Gesù

Note
1 Cfr. 1 Clem. 38, 2; 48, 5; 2 Clem. 8,4; 14, 4 sg.; 15, 1; Did. 6, 2 sg.; 11, 11; Herm., vis. 2,
2, 3; sim. 9, 11; Tert., resur. carn. 61; cultu fem. 9, 11; Orig., Hom 9 in Levt.; Hom 13 in
Exod.
2 Atti, 9, 36. Leipoldt, Der soziale Gedanke, 155 sg.
3 Tert., cultu fem. 1, l. La polemica contro gli adomarnenti femminili si trova già nei Pitagorici.
4 Tert, exh. cast. 9. Cfr. anche monog. 3; exh. cast., 10.
5 2 Mos. 22, 18; 3 Mos. 18, 23; 20, 15; 5 Mos. 27, 21. Inoltre Henry, passim, soprattutto
28.».
6 J.J. Rousseau, Confessioni, Ed. H. Bühler, 1948, 172.
7 Cit. da Heiler, Der Kathoizismus, 250, nota 10.

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