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Quaderni del Concilio - 3

Dicastero per l’Evangelizzazione.


Sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo

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Rino Fisichella

La Tradizione
(DV 7-10)

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I volumi di questa collana sono stati curati dal «Dicastero per l’Evangelizzazione. Sezione per le
questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo».

© 2022, by Dicastero per l’Evangelizzazione. Sezione per le questioni fondamentali


dell’evangelizzazione nel mondo

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CAPITOLO 1
IL VALORE DELLA TRADIZIONE

La tradizione come memoria viva

La tradizione è uno dei temi più importanti per capire il presente. Senza tradizione non ci
sarebbe storia e non si potrebbe comprendere il momento che viviamo né il futuro. Purtroppo, si
confonde spesso tradizione con tradizionalismo e, in una cultura tesa a drammatizzare le
controparti, ci si divide tra conservatori e progressisti, destra e sinistra, democratici e
repubblicani… si tende a delegittimare l’avversario, accusandolo di essere legato alla tradizione in
contrapposizione alle prospettive aperturiste. Niente di più pericoloso che la messa in discussione
della tradizione, perché questa non è affatto una scelta conservatrice, ma all’opposto un incentivo al
vero progresso e allo sviluppo.
Tornano alla mente con la loro carica di provocazione le sagge parole del filosofo: «La
tradizione è la fede vivente dei morti, il tradizionalismo è la fede morta dei vivi. E suppongo che
dovrei aggiungere quanto sia il tradizionalismo che conferisce alla tradizione una così brutta
nomea» (Jaroslav Pelikan, The Vindication of Tradition, New Haven 1984, 65). È proprio così. Chi
oggi parla di tradizione è etichettato frettolosamente come tradizionalista e ha smesso di vivere!
Troppo strumentale e ingenua l’identificazione per non pensare che quanti la compiono hanno una
visione miope spesso prodotta dall’ignoranza. La tradizione è condizione di vita senza della quale
non si dà futuro. Nell’epoca di Internet, tutto questo diventa ancora più evidente. La cultura
dell’immediato, dell’“adesso e subito” sta fagocitando velocemente le categorie tradizionali dello
spazio e del tempo per immettere in un contesto privo di riferimenti. La composizione di un testo,
solo per fare un esempio: esce nitido e pulito dalla stampante dopo aver dato un semplice comando.
Lo sviluppo del pensiero dell’autore durante la scrittura, le correzioni apportate e quanto potrebbe
comportare la verifica della dinamica impressa nel testo: tutto è completamente superato e
cancellato. Quanti erano abituati a risalire di pagina in pagina per raggiungere il progresso compiuto
da un autore, devono cedere il passo ad altre forme di interpretazione più ricercate che al momento
sono ancora da scoprire. Ciò non toglie che, anche nell’era dell’intelligenza artificiale e di una
tecnologia di giorno in giorno più sofisticata, che conserva staticamente ogni cosa nella memoria di

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un computer, si possa con maggior convinzione ribadire l’esigenza di una memoria viva che si
rende partecipe di una trasmissione dinamica del patrimonio del passato.
In un contesto culturale sempre più privo del senso della storia come maestra di vita, diventa
alquanto inusuale per la stessa religione riproporre il tema del valore normativo della tradizione.
Eppure, proprio in un simile quadro emerge ancora di più l’esigenza di una criteriologia che abiliti a
conservare ciò che è meritevole e a trasmettere con maggior convinzione quanto è stato ricevuto.
Cedere alla voce delle sirene che si fa sentire in maniera più forte da parte di una cultura tecnicista
ogni giorno più imperante nello stile di vita delle giovani generazioni, sarebbe deleterio. Si dovrà
spiegare, infatti, come sia possibile che un uomo sempre più affascinato, anche se succube,
dall’estendersi delle varie forme tecnologiche che lo portano incredibilmente a connettersi in
contemporanea da una parte all’altra del pianeta, si senta tuttavia progressivamente più solo,
incapace di veri rapporti interpersonali e nostalgico di tempi e tradizioni di cui, forse, ha solo sentito
parlare dai nonni. A questo si deve necessariamente aggiungere il grande tema della memoria che
vive immagazzinata in un disco rigido (hard disk) o in un sempre più evoluto cloud, in grado di
raccogliere miliardi di dati che a tempo debito vengono utilizzati. Quanto stride questa dimensione
con il concetto di memoria viva è facile immaginarlo. In un disco tutto viene conservato in maniera
statica, senza alcuna forma di discernimento e tanto meno di creatività, mentre la memoria viva
della comunità è foriera di dinamica e creatrice di trasmissione. In un contesto simile, mentre tutto
ruota intorno al nuovo e al creativo, proiettato verso il futuro e sotto il dominio incontrastato del
progresso, sembra contraddittorio parlare della forza normativa della tradizione. E, tuttavia, non
sarà mai ribadito con la dovuta convinzione che una volta messo fuori gioco il richiamo al senso
profondo della storia, la vita personale e sociale si appiattisce in quelle forme ingenue di ripetitività
che sono sotto i nostri occhi nell’era della globalizzazione. Paradossale, eppure vero. La ricerca di
novità riporta inevitabilmente a scoprire quanto è stato donato nel passato.
Essere eredi di un patrimonio come la tradizione non ha nulla a che vedere con un rimando a
formule perdute, linguaggi esoterici o rovine sparse qua e là nell’ingarbuglio di costruzioni
moderne. Comprendersi eredi del passato, al contrario, comporta la consapevolezza di una relazione
che crea continuità con la storia precedente perché ci si scopre deboli, bisognosi, poveri e impotenti.
Qui, probabilmente, si gioca in pieno la responsabilità creativa che trova fondamento nel passato,
ma con l’obbligo di creare nel presente senza cedere alla nostalgia, piuttosto impregnati di speranza.
Rimanere relegati al solo passato diventerebbe una gabbia insostenibile per chi è proiettato
all’éschaton. Trasmettere, d’altronde, non è un mero e stanco atto nostalgico, ma un movimento
dinamico che guarda al ritorno di Cristo come propulsore di novità perenne: «Ecco io faccio nuove
tutte le cose, non ve ne accorgete?» (Is 43,19).

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È peculiare dell’uomo trasmettere i contenuti che costituiscono parte della sua storia.
Tramandare è un atto tipico della cultura con la quale si tende a conservare gli elementi che la
caratterizzano: la ricerca, la riflessione, le espressioni materiali e spirituali più significative. Tutto
concorre a formare un bagaglio di esperienze che creano identità e appartenenza e che si esprimono
con linguaggi diversi. A un uomo che vive in una costante tensione tra la propria finitezza e il senso
di trascendenza, la tradizione permette di mantenere viva questa aspirazione e di esprimerla come
fenomeno universale. Ciò significa che trasmettere il contenuto basilare dell’identità di un popolo
mentre, da una parte, qualifica sempre più il senso di appartenenza ad una propria cultura, dall’altra
rende partecipe di un movimento che va oltre i propri confini per condividere un processo più
ampio e universale.
È in questo sviluppo che entra con forza la necessità della tradizione. I popoli, infatti,
comunicano tra di loro e la storia di uno viene fatta conoscere ad un altro creando una forma di
complementarità. Strumento essenziale in questo processo è il ‘linguaggio’, nella sua accezione più
ampia, perché permette la comunicazione e la trasmissione di contenuti che creano una tradizione.
Con essa, ognuno forma sé stesso e la propria personalità, si autocomprende inserito in una
genealogia che lo ha preparato e che continua a condizionarlo, ma soprattutto scopre di essere
creatore di nuova cultura e primo trasmettitore presso i propri contemporanei. Insomma, senza
tradizione non si dà alcuna possibilità di comprensione di sé stessi né della storia. Con ragione Yves
Congar poteva scrivere: «Un ambiente esiste solo grazie a uomini e tra uomini. La tradizione come
ambiente nel quale riceviamo il cristianesimo e siamo formati secondo i suoi principi, esiste solo in
quanto è portata da quelli che, avendola ricevuta, ne vivono e la trasmettono ad altri affinché ne
vivano a loro volta… Abbiamo mai pensato qualche volta a quel che saremmo se fossimo ridotti a
contare solo su noi stessi? Saremmo un’umanità ben povera, che si esaurirebbe nell’assicurarsi le
basi più elementari di sussistenza senza poter intraprendere nulla di grande… come sarebbe povera,
come sarebbe incerta la nostra fede se fossimo veramente soli di fronte al testo biblico! E chi ce lo
avrebbe dato, da dove lo avremmo ricevuto, come l’avremmo trovato? Come sarebbe povera, come
sarebbe incerta la nostra comunione con Dio in Gesù Cristo se dovessimo costruircela da soli, a
partire da noi soli e da Dio solo, senza iniziazione materna, senza comunità cristiana, senza Chiesa
né comunione dei santi!» (La Tradizione e la vita della Chiesa, Cinisello B. 1983, 35-36). Come si
evince da queste considerazioni, dunque, la tradizione indica diverse esperienze umane che sono
necessarie perché formano un patrimonio di cui l’umanità ha bisogno per vivere e orientarsi.

La Tradizione nella vita della Chiesa

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La Chiesa ha una sua propria Tradizione. Per molti versi, si potrebbe dire che tutto quanto i
cristiani possiedono appartiene alla Tradizione ed è stato trasmesso per via di Tradizione. Una
trasmissione anzitutto orale che ha consentito la formazione dei libri sacri e di molte altre prassi che
fino ai nostri giorni permangono come i segni fondanti della fede. Non si deve dimenticare che
centro e cuore pulsante della fede cristiana è Gesù Cristo, Rivelatore del Padre per mezzo del quale
riceviamo lo Spirito Santo. Il Mistero di Dio Trinità, amore misericordioso che invade la storia per
chiamarla alla comunione di vita con sé, rimarrà sempre fino alla fine dei tempi la professione di
fede dei cristiani. Uno degli elementi fondamentali di cui vive la fede, comunque, è la sua
trasmissione che di generazione in generazione segna la storia cristiana. Questa trasmissione si fa
forte della confessione di fede iniziale con la formula essenziale: «Gesù è il Signore» (1Cor 12,3);
nel corso dei secoli si è sempre più incrementata fino a giungere alle grandi professioni di fede che
conosciamo da Nicea e Costantinopoli fino a quella di Paolo VI. Questo sviluppo è stato possibile
per la forza della Tradizione che ha saputo mantenere insieme e trasmettere contenuti che nel tempo
diventavano patrimonio della fede di tutta la Chiesa.
Il concilio ecumenico Vaticano II ha affrontato con grande coraggio il tema della Tradizione
nel secondo capitolo della costituzione Dei Verbum. I padri conciliari hanno saputo concentrare in
pochi numeri un vero patrimonio di sapienza, provocando con alcune novità che fino a quel
momento erano ancora nascoste o sottoposte a diatriba teologica tra gli esperti del settore. Un
grande impulso per recuperare la ricchezza di questo capitolo sarebbe venuto nei decenni successivi
anche da parte di Giovanni Paolo II quando in Fides et Ratio scriveva: «È quanto mai significativo
che, nel contesto attuale, alcuni filosofi si facciano promotori della riscoperta del ruolo
determinante della tradizione per una corretta forma di conoscenza. Il richiamo alla tradizione,
infatti, non è un mero ricordo del passato; esso costituisce piuttosto il riconoscimento di un
patrimonio culturale che appartiene a tutta l’umanità. Si potrebbe, anzi, dire che siamo noi ad
appartenere alla tradizione e non possiamo disporre di essa come vogliamo. Proprio questo
affondare le radici nella tradizione è ciò che permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero
originale, nuovo e progettuale per il futuro. Questo stesso richiamo vale anche maggiormente per la
teologia. Non solo perché essa possiede la Tradizione viva della Chiesa come fonte originaria, ma
anche perché, in forza di questo, deve essere capace di recuperare sia la profonda tradizione
teologica che ha segnato le epoche precedenti, sia la tradizione perenne di quella filosofia che ha
saputo superare per la sua reale saggezza i confini dello spazio e del tempo» (FR 85).

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L’intuizione profonda della Dei Verbum verte sull’unicità della fonte della rivelazione che si
ritrova nella Parola di Dio. Come si può approfondire nel libretto sulla rivelazione, non ci sono due
fonti da cui i cristiani conoscono la loro fede, la Sacra Scrittura e la Tradizione, ma una sola
sorgente che è la Parola di Dio. È importante riprendere tra le mani l’insegnamento della Dei
Verbum per verificare la visione viva ed efficace della Tradizione. I padri conciliari hanno descritto,
anzitutto, il fatto della Tradizione come l’iniziativa di Dio il quale per un atto di bontà ha voluto che
tutte le generazioni dopo Gesù Cristo conoscessero il suo Vangelo. Per questo motivo Gesù ordinò
ai suoi dodici Apostoli di far conoscere a tutti la verità della sua rivelazione, dando loro la
responsabilità di trasmetterla. Essi obbedirono fedelmente al comando del Signore e con la
«predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla
bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai
suggerimenti dello Spirito Santo» (DV 7).
La Tradizione, quindi, comporta in prima istanza la trasmissione della rivelazione che trova
il suo compimento nella persona di Gesù di Nazareth. Questa è la volontà di Dio che attraverso
questa viva trasmissione continua a operare la salvezza dell’umanità. Il Vangelo che viene
annunciato non è altro che l’evento della salvezza operata dal mistero dell’Incarnazione del Figlio
di Dio che continua oggi nell’azione della Chiesa. Come Gesù rivelando l’amore del Padre
realizzava la salvezza, così oggi la Chiesa evangelizzando e rendendo efficace il suo annuncio con
la vita dei sacramenti continua a donare la salvezza agli uomini. Trasmettendo il Vangelo di Cristo,
la Chiesa rende evidente che la sua rivelazione permane e continua nel mondo come vero strumento
di salvezza. Certo, la Chiesa non aggiunge nulla a quanto gli Apostoli hanno trasmesso e,
comunque, la sua opera di trasmissione fedele comporta un’intelligenza sempre nuova e feconda
dell’unico Mistero rivelato. Si può affermare, quindi che per la Dei Verbum la Tradizione comporta
la predicazione apostolica della Parola di Dio e la comunicazione dei beni divini che rendono
efficace l’annuncio. Questi due momenti sono inseparabili tra loro e rendono la Tradizione un
evento fondamentale per la vita della Chiesa.
Gli Apostoli in questa fase diventano i primi ministri della Parola di Dio, ad essa servono
riconoscendo un primato su tutto, perfino nel servizio ai poveri, come si legge nel libro degli Atti
degli Apostoli: «I Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto che noi
lasciamo da parte la Parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette
uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi,
invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola”» (At 6,2-4). L’opera degli Apostoli
è stata quella di raccogliere le molteplici forme che avevano caratterizzato la loro convivenza con
Gesù; quindi, le parole, il comportamento, gli sguardi, l’esempio e lo stesso silenzio del Signore.

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Non si sono limitati, comunque, a ripetere l’insegnamento del Maestro che avevano personalmente
sperimentato. L’obbedienza al comando del Signore si estendeva anche a dare risposta alle varie
necessità della Chiesa che trovavano forma nelle differenti comunità. Guidati dalla preghiera e dal
consiglio dello Spirito Santo hanno, quindi, fissato anche delle norme, dei riti e degli strumenti che
in conformità con la volontà di Gesù Cristo permettevano alla Chiesa di annunciare fedelmente il
suo Vangelo e di darne coerente testimonianza con lo stile di vita. Tutto questo è la rivelazione che
giunge fino ai nostri giorni. Dopo alcuni decenni questa Parola di Dio ha trovato anche la sua forma
scritta in modo da rimanere per i credenti il fondamento e la colonna della fede.

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CAPITOLO 2
TRASMETTERE LA VERITÀ IN MODO VIVO

Per comprendere a pieno il senso della Tradizione possono venire in aiuto due testi che
hanno ispirato molto la sua corretta comprensione e il valore per l’unità della Chiesa.

S. Ireneo: la Tradizione della verità

Il primo appartiene al vescovo di Lione, Sant’Ireneo (circa 130-202), nato a Smirne dove fin
da ragazzo fu discepolo di Policarpo che era stato successore di San Giovanni. È facile intravvedere
nel suo pensiero la preoccupazione per l’unità del contenuto di fede, mentre si evidenzia la tensione
per la cattolicità della Chiesa. Il suo riferimento alla Chiesa di Roma fondata dagli apostoli Pietro e
Paolo costituisce la base per descrivere la vera Tradizione in contrapposizione alla dottrina gnostica.
Per lui, la predicazione del kérygma e la fede ricevuta dagli Apostoli continuano a essere trasmesse
dai loro successori e dai discepoli; la Chiesa non fa altro che tramandare fedelmente quanto ha
ricevuto perché tutto questo costituisce la «Tradizione della verità». Un passaggio chiave permette
di cogliere ancora meglio il suo pensiero: «La Chiesa, benché disseminata su tutto il mondo abitato
fino ai confini della terra, ricevette dagli Apostoli e dai loro discepoli la fede in un solo Dio e in un
solo Gesù Cristo, il Figlio di Dio, incarnatosi per la nostra salvezza, e nello Spirito Santo…
Ricevuto questo messaggio e questa fede, la Chiesa benché disseminata in tutto il mondo, lo
custodisce con cura come se abitasse una sola casa; allo stesso modo crede in queste verità, come se
avesse una sola anima e lo stesso cuore; in pieno accordo queste verità proclama, insegna e
trasmette come se avesse una sola bocca. Le lingue del mondo sono diverse, ma la potenza della
Tradizione è unica e la stessa. Né le Chiese fondate nelle Germanie hanno ricevuto o trasmettono
una fede diversa, né quelle fondate nelle Spagne o tra i Celti o nelle regioni orientali o in Egitto o in
Libia o nel centro del mondo. Ma come il sole, la creatura di Dio, è in tutto il mondo uno solo e il
medesimo, così la luce spirituale, il messaggio della verità dappertutto risplende e illumina tutti gli
uomini che vogliono giungere alla conoscenza della verità» (Adversus Haereses I, 9-10).
Come si evince dal testo, l’unità della fede non è messa in pericolo perché viene professata e
vissuta in maniera differente nella pluralità delle culture. Per Ireneo, la Tradizione si è ormai

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cristallizzata nelle Sacre Scritture, anche se non solo in quelle; quei testi, infatti, hanno bisogno di
essere interpretati e la certezza di essere nella verità proviene ai cristiani dalla Tradizione degli
Apostoli che costituisce la fonte e il contesto più coerente per esprimere la pienezza della
rivelazione. Per Ireneo, pertanto, la Tradizione apostolica è la mediazione vera e reale tra Cristo e la
Chiesa, ciò che permette la fede dei credenti e che permane nel corso dei secoli come la «regola
della verità».
Rimane un problema di fondo: come si può apprendere oggi questa Tradizione? Si conosce
la posizione dei fratelli evangelici che concludono affermando il solo riferimento alla Sacra
Scrittura. Qui, secondo loro, è possibile trovare tutto quanto è necessario sapere per la fede. Eppure,
si deve ribattere che anche questa prospettiva è limitata. Non si può isolare la Tradizione degli
Apostoli da quella delle Chiese che l’hanno accolta e vissuta. Essi hanno espresso con la loro
predicazione molto di più di quanto hanno messo per iscritto e ciò è entrato a far parte del
patrimonio di fede dei cristiani. Ciò significa che la Tradizione apostolica è inserita all’interno di un
vissuto storico che nel corso dei secoli si è sviluppato. Ne è segno tangibile l’insegnamento dei
Padri, le diverse fonti liturgiche che hanno espresso la varietà dei riti, le riflessioni dei maestri e
dottori della Chiesa, la vita di santità di uomini e donne che hanno dato testimonianza della fede di
sempre… Insomma, la Parola di Dio scritta e trasmessa è sempre molto più grande di quanto la sola
Sacra Scrittura e la sola Tradizione orale possono contenere.
È questo un tema che merita di essere affrontato nel momento in cui si parla della Parola di
Dio scritta e trasmessa, perché sia l’ermeneutica dei testi sacri sia la trasmissione che mantiene viva
la Parola di Dio nelle Chiese sparse per il mondo si inseriscono all’interno delle culture. Vale
quanto mai in proposito quanto scriveva Joseph Ratzinger: «Per sua natura, la Tradizione è sempre
interpretazione, non esiste indipendentemente, ma come esplicitazione, interpretazione “secondo la
Scrittura”… Certo, non è interpretazione nel senso di un’interpretazione puramente esegetica,
poiché si compie nell’autorità spirituale ricevuta dal Signore, la quale opera in tutta l’esistenza della
Chiesa, nella sua fede, nella sua vita e nel suo culto» («Un tentativo circa il problema del concetto
di Tradizione», in Karl Rahner – Joseph Ratzinger, Rivelazione e Tradizione, Brescia 1970, 49).
Come dire, la Tradizione comporta la presenza di due aspetti tra loro complementari: uno di
conservazione e uno di sviluppo. I due aspetti entrano a volte in conflitto nella vita della Chiesa
quando alcuni puntano soprattutto a salvaguardare l’integrità del “deposito della fede”, mentre altri
si appellano all’esigenza di giungere alla pienezza della verità. Non è la contrapposizione tra le due
fazioni che può rendere giustizia alla Tradizione. Nessuna delle due deve sacrificare qualcosa; la
Dei Verbum, infatti, insegna che il Magistero è chiamato a esercitare il suo ministero conservando e
sviluppando in modo tale che l’annuncio del Vangelo sia in ogni tempo capace di suscitare la

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risposta di fede (cfr. DV 10). Non si può dimenticare, comunque, che in questa opera di
‘interpretazione’ lo Spirito Santo gioca un ruolo fondamentale. È lui che ha ispirato i testi sacri
(2Tm 3,16; 2Pt 1,21), ma nello stesso tempo è sempre lui il protagonista che conduce la Chiesa
verso la verità piena (Gv 14,26; 16,13), sostenendo il percorso di chi ha la responsabilità di
esercitare il discernimento necessario tra la Tradizione che proviene a noi direttamente dagli
Apostoli (1Cor 11,23), e quelle successive che la comunità cristiana ha posto in essere. Questo fatto
ha segnato nel passato la vita della Chiesa e la provoca ancora ai nostri giorni. Si tratta, infatti, di
comprendere come attuare l’evangelizzazione in modo nuovo, anche se con il carico di conquiste e
di contraddizioni che segnano i duemila anni della nostra storia.

S. Basilio: la Tradizione non scritta

Il secondo testo a cui far riferimento appartiene a san Basilio (329-379), primo dei Padri
cappadoci e vescovo di Cesarea. Nella sua opera Sullo Spirito Santo espone con profondità il tema
della Tradizione, utilizzando per descriverla il termine «ágraphos», «non scritta». Alcuni brani in
particolare esprimono la convinzione e l’esigenza di mantenere viva la Tradizione per comprendere
a pieno la Sacra Scrittura e la vita della Chiesa: «È la fede che è attaccata e lo scopo comune a tutti
gli avversari e nemici della sana dottrina è quello di scuotere il fondamento della fede in Cristo,
sopprimendo la Tradizione apostolica, e distruggendola totalmente. Per questo, come vogliono fare
i debitori degni di fiducia, invocano le prove della Scrittura, mentre rifiutano come inattendibile la
testimonianza non scritta dei Padri. Ma noi non abbandoneremo la verità, né per timore tradiremo la
nostra alleanza con essa… Fra le dottrine e le proclamazioni custodite nella Chiesa, talune le
deriviamo dall’insegnamento scritto, altre le abbiamo ricevute dalla Tradizione apostolica, a noi
trasmesse segretamente. Ma entrambe hanno lo stesso valore per la pietà. E questo non lo potrà
negare nessuno che abbia una sia pur modesta esperienza delle istituzioni ecclesiastiche. Se, infatti,
noi tentassimo di scartare i costumi non scritti che non hanno grande incidenza, a nostra insaputa
danneggeremmo il Vangelo proprio nelle parti essenziali: anzi di più, ridurremmo la proclamazione
a un nome vuoto. Per esempio – per richiamare la prima diffusissima consuetudine – chi ci ha
insegnato per iscritto a segnare col segno di croce coloro che sperano nel nome del Signore nostro
Gesù Cristo? Quale Scrittura ci ha insegnato a star rivolti a oriente durante la preghiera? Le parole
dell’epiclesi, al momento della consacrazione del pane dell’Eucaristia e del calice della
benedizione, chi è il Santo che ce le ha lasciate per iscritto? Non ci accontentiamo, infatti, delle

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parole che l’Apostolo o il Vangelo ci hanno riportato; altre noi aggiungiamo prima e dopo di esse,
che hanno grande significato per il sacramento e le desumiamo dall’insegnamento non scritto.
Benediciamo anche l’acqua del Battesimo e l’olio dell’Unzione e inoltre lo stesso battezzato.
Sull’autorità di quali scritti? Non è questo in virtù della Tradizione custodita in silenzio e nella
segretezza dagli iniziati? Che dire ancora? La stessa consacrazione dell’olio, quale testo scritto ce
l’ha insegnata? Da dove deriva la triplice immersione battesimale? E tutti gli altri riti connessi col
Battesimo, la rinuncia a Satana e ai suoi angeli, da quale scrittura proviene? Non è da questo
insegnamento privato e segreto, che i nostri Padri custodirono in un silenzio scevro da agitazione e
da curiosità, ben sapendo che nel silenzio si salva la sacralità del Mistero? […] Per questo noi
guardiamo tutti verso Oriente mentre preghiamo, ma pochi sanno che cerchiamo l’antica patria, il
paradiso che Dio piantò in Eden, in Oriente. Noi preghiamo in piedi, il primo giorno dopo il sabato,
ma non tutti ne sappiamo la ragione. Non è soltanto perché, come risorti con Cristo e cercando le
cose di lassù, ci ricordiamo, stando in piedi in preghiera nel giorno dedicato alla risurrezione, della
grazia che ci è stata donata, ma perché quel giorno sembra esser in qualche modo l’immagine
dell’eternità futura […]. Necessariamente quindi la Chiesa educa i propri piccoli a compiere le
preghiere, in quel giorno, ritti in piedi, affinché nel ricordo continuo della vita senza fine, non ci
dimentichiamo di fare le provviste per quel viaggio. […] Non mi basterebbe una giornata intera se
volessi esporre i misteri della Chiesa non scritti» (Sullo Spirito Santo X, 25; XXVII, 66-67).
Il testo meriterebbe un’esegesi coerente per entrare nel merito delle questioni sollevate e
della terminologia utilizzata. Non è compito di queste pagine addentrarsi in questo ambito. Ciò che
preme è solo evidenziare quanto l’esigenza della Tradizione sia considerata essenziale non solo per
comprendere le Sacre Scritture, ma per l’intera vita di fede. Proprio un testo come questo, con i
riferimenti costanti che Basilio compie ai segni liturgici, permette di sostenere che per l’Oriente la
liturgia permane come il luogo privilegiato in cui ritrovare la Tradizione e la genuina trasmissione
della fede. Di fatto, Basilio fa della liturgia lo spazio vitale per comprendere a fondo la realtà e il
valore della Tradizione proprio sul fondamento della Sacra Scrittura. Il “vangelo anteriore ai
vangeli” non è altro che la vita della prima comunità che ha sperimentato in sé l’insegnamento
ricevuto da Gesù insieme all’illuminazione dello Spirito di Pentecoste che ha fatto comprendere agli
Apostoli il senso profondo di quanto il Maestro aveva rivelato. Per celebrare l’Eucaristia, la
comunità non ha atteso che venisse messo per iscritto il racconto della cena pasquale. Fare memoria
di quanto Gesù aveva compiuto e comandato loro di fare è ciò che ha permesso di realizzare il
grande Mistero della fede. I pochi versetti in cui Paolo e gli evangelisti raccontano dell’ultima cena
non esauriscono certo la ricchezza della celebrazione che la prima comunità ha realizzato e che ha
generato nel corso dei secoli la profonda varietà dell’azione liturgica.

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Questi due testi antichi non fanno che evidenziare quanto attuale possano essere le parole
della Dei Verbum quando attesta la realtà della Tradizione come Parola viva di Dio per la vita della
comunità cristiana. In sintesi, insegnano che la Tradizione consiste nella conservazione dinamica
della dottrina, della vita e della liturgia della Chiesa che di generazione in generazione viene
trasmessa fin dai tempi degli Apostoli. La Tradizione non è da considerare, pertanto, come un
complesso di dottrine che gli Apostoli hanno comunicato in modo segreto e in forma non scritta; al
contrario, essa esprime la “regola della fede” insegnata in maniera pubblica e conservata perché la
«voce viva del Vangelo» (DV 8) non smetta mai di risuonare nel cuore delle persone.

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CAPITOLO 3
IL DINAMISMO DELLA TRADIZIONE

Una Tradizione viva

Con la morte dell’ultimo Apostolo si veniva a chiudere la testimonianza diretta di quanti


avevano «mangiato e bevuto» con il Signore. La loro predicazione era ritenuta giustamente come
l’espressione più autentica della rivelazione di Gesù Cristo. La Sacra Scrittura, a questo punto,
acquisiva un valore di riferimento decisivo perché quanto era stato messo per iscritto possedeva un
carattere ispirato e inviolabile. La Dei Verbum fornisce il suo insegnamento in proposito quando
scrive: «La predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser
conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi. Gli Apostoli perciò,
trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto, ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni
che avevano appreso sia a voce che per iscritto, e di combattere per quella fede che era stata ad essi
trasmessa una volta per sempre. Ciò che fu trasmesso dagli Apostoli, poi, comprende tutto quanto
contribuisce alla condotta santa del popolo di Dio e all’incremento della fede; così la Chiesa nella
sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che
essa è, tutto ciò che essa crede. Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa
con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce, infatti, la comprensione tanto delle cose quanto delle
parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro, sia
con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione
di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la
Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa
vengano a compimento le parole di Dio. Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante
presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa
che crede e che prega… Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del
suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella
Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere
la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza» (DV 8).
Il testo richiede una spiegazione perché la pregnanza dei contenuti è tale da confondere. Ai
due elementi che sono stati finora i punti di riferimento: la Sacra Scrittura e la Tradizione, si

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aggiunge ora un terzo elemento fondamentale, il Magistero della Chiesa, cioè i vescovi come
successori degli Apostoli. Con la loro predicazione e azione, i pastori della Chiesa hanno la
responsabilità di mantenere vivo l’insegnamento degli Apostoli e dei loro successori, consapevoli
che insieme a tutti i credenti hanno la responsabilità di conservare intatta la Tradizione. Il compito
del Magistero, comunque, è quello di essere garante dell’integrità della trasmissione della
Tradizione e di offrire un insegnamento ai credenti che sia fedele e attuale. Il compito peculiare che
i vescovi devono svolgere per esprimere al meglio il loro servizio alla Parola di Dio, quindi, si
concretizza nel permettere che questa Parola sia conservata viva, rispondendo alle esigenze dei
cristiani in ogni momento della storia. Nella misura in cui i vescovi ascoltano la Parola di Dio che
trova risonanza nella fede del popolo che la mantiene viva e la trasmettono, svolgono il servizio
autentico di maestri della fede. Il loro ministero, pertanto, consiste nell’insegnare sempre e soltanto
quanto essi stessi accolgono e conservano come tutti i battezzati, consapevoli tuttavia della
responsabilità che possiedono nei confronti dei fedeli perché ricevano da loro la vera e genuina
Parola di Dio.
Quanto sia fondamentale la trasmissione che conserva integra la Tradizione lo attesta
l’esempio di Paolo. Nel suo ‘testamento’, l’apostolo scrive: «“Voi sapete come mi sono comportato
con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con
tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non
mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico
e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro
Gesù… Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla purché conduca a termine la mia corsa e
il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia
di Dio. Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando
il regno di Dio. Per questo io dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa
riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la
volontà di Dio… Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non
risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni ad insegnare dottrine perverse
per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io
non ho cessato di esortare tra le lacrime ciascuno di voi. E ora vi affido al Signore e alla parola della
sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità per tutti i santificati…”. Detto
questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò» (At 20,17-38).
Si nota subito che l’Apostolo non parla di ciò che egli ha trasmesso – come ha fatto ad
esempio in altri due casi riferendo dell’Eucaristia (1Cor 11,23-25) e della risurrezione del Signore
(1Cor 15,1-5), ma di come si è comportato da Apostolo e da maestro della fede con il compito di

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trasmettere il Vangelo ricevuto. Tutti i verbi che egli usa indicano un’azione concreta, uno stato
d’animo, una decisione di vita e un impegno che si è assunto: «come mi sono comportato», «ho
servito», «non mi sono mai sottratto», «predicare», «istruire», «condurre a termine», «rendere
testimonianza», «dichiarare», «affidare», «pregare»… La prima impressione che si ricava è quella
dell’Apostolo che nel momento in cui sta trasmettendo consegna sé stesso e la sua vita. L’atto del
trasmettere è, quindi, un atto mediante il quale ci si consegna. Non si offre primariamente un
contenuto; si consegna sé stessi e tutto ciò che si è. Questo è l’impegno della fede che si raccoglie
proprio nell’indissolubilità del credere come un atto con il quale ci si abbandona alla grazia di Dio
che agisce in noi e mediante il quale si accoglie il Vangelo di Gesù Cristo. Non potrà sfuggire che
l’atto della trasmissione, così concepita, comporta una nota di libertà che permette di verificare la
verità e la certezza della propria scelta. Se per tutta la vita si dovesse rincorrere un’ipotesi, senza
mai arrivare a mostrare la sua affidabilità, sarebbe difficile poter comprendere che la si lascia come
eredità.
Queste considerazioni, comunque, devono avere un loro fondamento che si ritrova nel modo
stesso in cui Gesù ha trasmesso la rivelazione. Essa consiste, anzitutto, nella consegna che il Padre
compie del Figlio, ed è quanto Gesù adempie e promulga di persona «come la fonte di ogni verità
salutare e di ogni regola morale» (DV 7). La prima vera trasmissione, quindi, è l’atto con il quale il
Padre dona sé stesso nel proprio Figlio. È una generazione che non conosce tramonto perché
permane come l’espressione massima dell’amore che sa donare senza nulla chiedere in cambio.
Gesù, nelle parole di Giovanni all’inizio del vangelo, viene proprio presentato come il Verbo che è
nel «grembo del Padre» e che nell’amore viene donato all’umanità. La trasmissione entra così nella
storia, e non rimane una pura teoria sulla vita di Dio. Al contrario, viene esplicitato il modo della
consegna: un donare tutto quanto Egli possiede ed è. In una parola, è l’amore che si consuma e si
offre fino alla fine, senza nulla chiedere in cambio perché nessuno potrebbe corrispondere
pienamente all’amore di Dio. L’atto della trasmissione e della consegna del Figlio da parte del
Padre è un atto che dice semplicemente amore. E la cosa diventa ancora più impressionante nel
momento in cui il Figlio stesso è chiamato alla sua consegna suprema. Prima di consegnare e
trasmettere qualcosa, egli consegna sé stesso al Padre in un atto che dice puro amore di obbedienza
alla sua volontà. È sempre l’evangelista Giovanni che coglie immediatamente la portata di questo
fatto quando sottolinea che nel momento della sua morte Gesù «consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).
Insomma, ciò che viene consegnato è tutta la vita della Trinità. Ai credenti Gesù consegna lo Spirito
Santo come presenza visibile e creatrice di un cammino che attraverserà i tempi e i mondi per
restituire alla fine dei tempi al Padre il popolo dei redenti. Da ogni parte si volge lo sguardo,
trasmettere è un atto fecondo che si fa forte della presenza dello Spirito che crea. D’altronde, non

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potrebbe essere altrimenti; anche una semplice verifica storica mostrerebbe che la Chiesa, quando
deve avere la coerente comprensione della fede e quando la trasmette e spiega, sente l’esigenza di
invocare il Creator Spiritus perché visiti la mente dei credenti.
Tutta la Chiesa, pertanto, è soggetto di trasmissione, in quanto comunità viva di persone che
nella loro storia esprimono tutte le risorse necessarie per imprimere alla Tradizione la vitalità che
porta in sé stessa. Essa, quindi, è viva perché la verità che contiene in sé è mantenuta viva da
soggetti che con un’opera concreta di interpretazione, crescita, adattamento e integrazione
sviluppano la verità del deposito della fede.

La Tradizione non è consuetudine

In una presentazione sul valore e la riscoperta della Tradizione non può mancare il
riferimento alla bella espressione di Tertulliano che apre uno scenario davvero innovativo quando
scrive che Gesù: «ha affermato di essere la verità, non la consuetudine» (De virginibus velandis I,
1). Con ogni probabilità, è proprio qui che si realizza lo scacco matto alla mentalità che ha spesso
identificato tradizione con consuetudine. Farsi difensori della consuetudine equivale ad avere una
visione statica della verità e di conseguenza si giunge a compromettere il presente perché sottoposto
passivamente al passato. Essere responsabili di tradizione, al contrario, immette in una dinamica di
conversione perenne perché permette di scoprire il presente come condizione creativa tra il passato
e il futuro in quanto aperta alla comprensione della verità come dono perenne dello Spirito del
Risorto (cfr. Gv 16,13). Il presente della Chiesa, pertanto, assume tutta la sua valenza significativa
solo se è capace di trasmettere il patrimonio ricevuto, rendendolo vivo e in grado di essere affidato
al futuro di nuove generazioni come eredità promessa.
Un’ulteriore distinzione, comunque, è necessaria tra la Tradizione e le tradizioni che ne
provengono. La prima grande questione che si apre coinvolge direttamente il fatto stesso della
Tradizione. Bisogna domandarsi, infatti, come si raggiunge il linguaggio originario di Gesù che è
costitutivo per la sua rivelazione in ordine alla salvezza? Cosa appartiene realmente alla Tradizione
in quanto Parola di Dio? Proprio questa problematica meriterebbe di essere affrontata prima di
modificare alcune espressioni per liberarsi sbrigativamente di quanto è stato tramandato come se
fossero delle tradizioni che non appaiono più in sintonia con i tempi moderni. La Parola di Dio deve
permanere con quell’impronta originale, unica e inesauribile di senso che Gesù le ha impresso con
tutta la sua persona nel voler rivelare il mistero della Trinità e offrire all’umanità la salvezza.

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Questo criterio ha bisogno di essere sempre ritrovato, conservato e trasmesso in maniera fedele.
Nessuno, infatti, potrebbe modificare questo linguaggio originario senza esprimere una hybris che
distruggerebbe l’evento della rivelazione nella sua originalità rendendolo vano.
Le tradizioni, da parte loro, esplicitano il ruolo creativo di una comunità che è inserita nella
cultura del proprio tempo. Pur essendo un prodotto limitato a un momento storico, le tradizioni
possono comunque contenere aspetti positivi che esplicitano la Tradizione, anche se impongono
l’esigenza di criteri in grado di compiere un vero discernimento. Queste tradizioni mentre
esprimono il radicato senso religioso presente nell’uomo, permettono di evidenziare anche il ruolo
del linguaggio religioso popolare. In questo senso, si dovrà coniugare questo linguaggio con la
necessaria crescita della fede che non ripudia, ma purifica e innalza il senso religioso. Il necessario
discernimento tra ciò che è Tradizione e quanto invece sono tradizioni impone di restituire con
audacia e coerenza il vero contenuto della Tradizione e ciò che è essenziale per la vita della Chiesa
e la sua capacità di comunicare in maniera efficace e fedele il Vangelo al mondo contemporaneo.
Confondere o identificare la Tradizione con le tradizioni è quanto di peggio si possa fare come
servizio alla Chiesa nel suo compito di trasmettere con fedeltà la rivelazione di Gesù Cristo. Proprio
su questo orizzonte, è possibile verificare quanto ancora lungo e fecondo sia il cammino da
compiere soprattutto nel contesto attuale che evidenzia drammaticamente l’interruzione della
trasmissione della fede. L’analfabetismo religioso rende questa trasmissione ancora più difficile.
Per far conoscere alle generazioni che verranno dopo di noi tutto ciò che la Chiesa è, tutto ciò che
essa crede (cfr. DV 8) è necessario che cresca la consapevolezza di essere parte viva della comunità
cristiana. Il senso di appartenenza alla Chiesa impone di crescere in questa responsabilità e
diventare artefici di una nuova evangelizzazione che sappia portare, anzitutto ai credenti,
l’immutata freschezza della Parola di Dio. È la convinzione di una rinnovata Pentecoste che può far
uscire i battezzati dalle sempre troppo strette pareti in cui si ritrovano, per offrire con coraggio e
convinzione l’annuncio di avere incontrato Cristo Risorto.

Una pietra miliare

Comprendere il valore della Tradizione, la sua trasmissione e peculiarità in riferimento alle


tradizioni è stato un compito che la Chiesa ha sentito sempre molto forte. Un punto di riferimento
decisivo è certamente il cosiddetto “canone vincenziano”. Si tratta dell’espressione diventata quasi
normativa del santo monaco Vincenzo da Lérins (†450 circa), che afferma: «Si deve conservare ciò

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che in ogni luogo, sempre e da tutti è stato creduto». Quanto viene affermato in poche battute è il
tema dell’universalità, dell’antichità e del consenso che permangono come il criterio valido per
l’interpretazione della Tradizione. Bisogna evitare di pensare che Vincenzo ponga gli elementi della
triade sullo stesso piano o che affermi l’unicità del suo criterio. Se così fosse, il pericolo di una
sclerotizzazione della fede sarebbe immediato. Non è il caso di entrare nelle esemplificazioni, ma
emerge in maniera chiara che, se il criterio della triade fosse assunto in maniera assoluta,
difficilmente la Chiesa avrebbe potuto esprimere negli ultimi secoli nuovi dogmi quali l’Immacolata
Concezione, l’infallibilità del Romano Pontefice e l’Assunzione di Maria. Se questo è stato
possibile, oltre che per la giustificazione del loro fondamento nella Sacra Scrittura e nella
Tradizione vissuta della Chiesa, lo è stato anche perché il “canone vincenziano” non pretende di
porsi come unico principio per l’interpretazione della Tradizione. È ovvio, pertanto, che la triade
così come Vincenzo l’ha pensata dovrebbe essere interpretata per ciò che sostiene di affermativo,
non per quello che potrebbe negare in modo restrittivo. Il criterio, comunque, va inserito
nell’insieme dell’opera del monaco e solo così è possibile cogliere gli elementi innovativi che il suo
pensiero possiede per una interpretazione più coerente della Tradizione, soprattutto se riletta alla
luce della Dei Verbum che deve molto all’intuizione di questo santo monaco.

La sua opera, il Commonitorium, si presenta come un testo chiaro, limpido, elegante e


preciso, capace di riproporre la fede dei Padri per ammonire il lettore a non allontanarsi da essa,
sentendo comunque il desiderio per conoscere di più e scoprire sempre meglio la verità che tende
verso il suo compimento. Il testo introduce in una serie di problematiche sempre attuali per la vita
della Chiesa quali: il valore reale del contenuto della Tradizione, il discernimento necessario per la
sua autenticità, lo sviluppo del dogma e il soggetto abilitato a realizzarlo e interpretarlo. A più
riprese, il monaco porta a considerare il tema della Tradizione come un autentico deposito vivo, in
pieno sviluppo e in un progresso perenne che non può conoscere arresto alcuno né alterazione dei
suoi contenuti.

La motivazione che spinge Vincenzo da Lérins si può racchiudere nel suo interrogativo:
«Ma forse qualcuno dice: dunque nella Chiesa di Cristo non vi sarà mai nessun progresso della
religione? Ci sarà certamente, ed enorme. Infatti, chi sarà quell’uomo così maldisposto, così
avverso a Dio da tentare di impedirlo?» (Commonitorium, a cura di C. Simonelli, Milano 2008,
23.1). In poche battute, si pone l’esigenza di non umiliare la Tradizione della Chiesa e la sua fede.
Non sono pochi i tentativi di quanti ritengono che la fede sia ormai tutta confezionata in un bel
pacchetto da regalo per qualche occasione particolare. Sembra di assistere, in alcuni momenti, a
dibattiti che sanno più di archeologia conservativa che non di evangelizzazione. La Tradizione o
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rimane un deposito vivo oppure è destinata a subire la sua stessa decomposizione. Non c’è
alternativa a questa visione della fede che per sua natura è dinamica e tende alla sua pienezza come
dono dello Spirito. La fede non potrà mai essere un reperto da museo. Il Commonitorium si impone
di verificare in che modo la stessa Tradizione abbia bisogno di essere valutata e interpretata.
Scrive San Vincenzo: «Ti è stato dato dell’oro restituisci dell’oro, non voglio che tu mi dia,
imbrogliando, una cosa per un’altra; non voglio che sfrontatamente tu mi dia piombo o bronzo al
posto dell’oro; voglio la realtà non l’apparenza dell’oro» (Commonitorium 22,5). È interessante che
il santo monaco faccia riferimento a due metalli che rapportati all’oro sono molto ‘pesanti’ oltre che
privi di valore. Avrebbe potuto dire argento, invece fa riferimento al piombo e al bronzo come se
volesse suggerire che la trasmissione non deve appesantirsi con temi che affaticano il cammino
della Chiesa, oltre a toglierle il grande valore che le è stato consegnato. Infatti, una Tradizione che
aggiungesse contenuti estranei e non coerenti con la fede, perderebbe il suo valore normativo e si
presterebbe nel corso dei secoli a un’operazione di restauro non indifferente. L’arte ha insegnato
molto in tal senso. Tante volte è possibile verificare, ad esempio, quanto il progetto originario di
una chiesa in stile romanico si sia trasformato successivamente in un barocco facendo violenza al
progetto iniziale. L’esigenza di restare fedeli all’originale richiama al desiderio di mantenere integra
l’opera d’arte come è uscita dalle mani del suo architetto. Ciò avviene anche per la dottrina. In
questo senso, possono essere utili le parole di Papa Francesco in Evangelii Gaudium, quando scrive:
«Nel suo costante discernimento, la Chiesa può anche giungere a riconoscere consuetudini proprie
non direttamente legate al nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso della storia, che oggi
ormai non sono più interpretate allo stesso modo e il cui messaggio non è di solito percepito
adeguatamente. Possono essere belle, però ora non rendono lo stesso servizio in ordine alla
trasmissione del Vangelo. Non abbiamo paura di rivederle. Allo stesso modo, ci sono norme o
precetti ecclesiali che possono essere stati molto efficaci in altre epoche, ma che non hanno più la
stessa forza educativa come canali di vita» (EG 43).
La Chiesa si confronta anche oggi con alcune conflittualità che emergono
dall’interpretazione dei contenuti del suo Magistero. Il grande evento del Concilio Vaticano II ha
segnato una tappa fondamentale per il terzo millennio. Lo si voglia o no, studiare la storia di questo
mezzo secolo successivo comporta confrontarsi con i contenuti espressi da diverse parti che non
sempre si presentano conformi con l’insegnamento originario. Un esempio qualificante è
certamente quello di Benedetto XVI che all’inizio del suo pontificato ha sentito il dovere di
pronunciare un discorso proprio sull’interpretazione del Concilio e sulle letture errate che erano
state date (cfr. Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005).

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Un ulteriore importante criterio definito da Vincenzo da Lérins è la distinzione tra
‘progresso’ e ‘cambiamento’. La diversificazione è fondamentale perché fa comprendere l’ansia che
muove il santo monaco nel non voler ostacolare l’azione dello Spirito Santo che porta a una
comprensione sempre più profonda, coerente e attuale del contenuto di fede. Nel Commonitorium
scrive con acutezza: «Si può parlare di progresso quando una questione si approfondisce sempre di
più rimanendo la stessa, mentre si tratta di cambiamento quando una cosa viene cambiata in
un’altra. […] La legge del progresso richiede che la Tradizione si consolidi negli anni, si
approfondisca nel tempo, migliori con l’età» (Commonitorium 23,2.9), senza cedere ad alcun
cambiamento foriero di errori e divisioni. A questo passaggio aggiunge subito: «si deve parlare in
modo nuovo senza dire cose nuove» («dicas nove, non dicas novum», Commonitorium 22,7). La
questione qui diventa più delicata perché a differenza del passato, oggi sappiamo quanto sia
fondamentale la relazione tra linguaggio e verità in esso contenuta. Dire in modo nuovo senza dire
nuovi contenuti appare molto arduo.
In questo contesto, tuttavia, il santo monaco compie un’ulteriore, interessante distinzione tra
‘diverso’ e ‘nuovo’. Il fatto è fondamentale perché ammette l’integrazione di una verità raggiunta
con altre che proprio nello sviluppo e progresso dinamico della verità di fede si potranno
raggiungere successivamente. «Annunciare ai cristiani cattolici qualcosa di diverso da quanto hanno
accolto, mai è stato permesso, in nessun luogo, mai sarà permesso. E anatemizzare coloro che
annunciano qualcosa di diverso da quanto è stato accolto la prima volta, è sempre stato necessario, è
ovunque necessario, sempre sarà necessario. Pertanto, stando così le cose, chi sarà così audace da
annunciare qualcosa di diverso da quanto è stato annunciato nella Chiesa? E chi sarà così
superficiale da ricevere qualcosa di diverso da quanto riceve dalla Chiesa?» (Commonitorium 12).
Alla luce di questo si comprende quanto la verità della Tradizione sia sempre tesa verso il suo
compimento e mai compiuta in sé stessa. Insomma, il progresso è richiesto proprio dalla verità della
fede, dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione che ne sono la fonte. Sarà, comunque, vero progresso
nella misura in cui mantiene un nuovo contenuto in maniera coerente con il fondamento che lo
sostiene e, quindi, con la rivelazione e la fede: un progresso omogeneo che si sviluppa nel corso dei
secoli mantenendo fermo il paradosso peculiare della Tradizione tra immutabilità e sviluppo. È la
conclusione a cui giunge Vincenzo da Lérins quando scrive: «È necessario pertanto che cresca, che
aumenti molto e grandemente l’intelligenza, la scienza, la sapienza sia di ogni credente quanto di
tutti, tanto di un solo uomo quanto di tutta la Chiesa con il procedere delle età e dei secoli»
(Commonitorium 24). A queste parole fanno da eco quelle della Dei Verbum: «Questa Tradizione
progredisce […], cresce […], tende incessantemente alla verità finché non giungano a compimento
le parole di Dio» (DV 8).
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CONCLUSIONE

Il grande capitolo della Tradizione ruota intorno ad alcune tematiche: in cosa consiste, come
la si interpreta, quali contenuti le appartengono e a quali condizioni si può modificare, se si può.
Questi argomenti appartengono alla vita quotidiana della Chiesa dei nostri giorni. La risposta che il
Concilio offre non può essere semplicisticamente racchiusa in alcune motivazioni che oggi si
sentono per giustificare il cambiamento, ma che appaiono prive di argomentazione. Alcuni
sostengono che bisogna abolire i temi non presenti nella Sacra Scrittura; altri asseriscono che ci
sono comportamenti oggi non più capiti; altri ancora criticano queste posizioni perché la Chiesa
deve mettersi al passo con i tempi… Simili espressioni, pur portando con sé qualcosa di vero,
tuttavia fanno sorridere perché mostrano quanta poca dimestichezza si abbia con la natura della
propria fede, quanto limitata sia la visione che spesso riduce tutta la Chiesa al solo Occidente, e
quanta miopia si nasconda nel ritenere che questi tempi siano davvero i migliori. La fede obbliga a
entrare in profondità, non ad arrestarsi agli slogan o alle indagini sociologiche.
La tentazione di buttare via ogni riflessione e prassi che ha segnato il passato perché
incapace di rispondere alle questioni che emergono nel presente è stata sempre presente nella vita
della Chiesa. Eppure, si deve osservare che con una buona dose d’arroganza si sono buttate al vento
tradizioni solo perché frutto dei secoli passati. Se si avesse almeno l’umiltà di cogliere il significato
immesso in alcuni segni, allora si potrebbe comprendere il senso che aveva mosso a realizzarli.
Probabilmente, questo processo favorirebbe un’intelligenza più profonda e renderebbe più cauti nel
classificare tutto troppo velocemente come “tradizioni passate”. Non si può essere mossi da sogni
nostalgici di restaurazione, ma neppure cedere in maniera frettolosa e privarsi di un necessario
senso storico che favorisce la comprensione delle culture e dei popoli nel loro esprimersi. È quanto
meno imprudente ritenere che il passato non abbia nulla da insegnare anche ai nostri improvvisati
maestri del presente. Il tempo fugge, ma la storia rimane. Questa dimensione richiede che ci siano
sempre discepoli disposti ad ascoltare e disponibili a lasciarsi affascinare dalle conquiste prodotte
da un periodo. La discontinuità come regola del progresso non ha radici profonde, e volerla seguire
porta alla sterilità. La regola della continuità, invece, rende feconda l’opera del ricercatore, perché
lo immette in un processo certamente più faticoso, ma necessario per entrare nello spirito del tempo
e coglierne il senso del movimento in atto.
È un riferimento ormai ricorrente quando si affrontano alcune tematiche l’espressione “nani
sulle spalle di giganti”. Nel nostro contesto è bene ribadire da subito che è necessario evitare di

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sentirsi dei giganti, quando si è solo dei nani. L’aforisma ha una sua storia e mostra quanto sia
profondo, veritiero e carico di insegnamento anche per noi. Nell’epoca della saccenteria dove tutti
parlano e sparlano mentre è difficile trovare chi ascolta, sembra emergere la pretesa arrogante di
insegnare agli altri cosa fare purché al di fuori e indipendenti dalla propria sfera. Nessuno deve
disturbare la quiete, ma forse sarebbe meglio dire il sonno, in cui sembra essere caduta la ragione.
Si perde in questo modo il gusto di interrogare, di provare meraviglia e stupore verso qualcosa di
nuovo che viene presentato anche se appartenente ai secoli passati. Domandarsi il perché delle cose
è un’urgenza che riporta forza alla ragione nel tempo in cui, senza pensare, “Siri” o chi per lei
provvede a tutto lasciando nella comodità di non pensare a nulla. La ragione in questo modo si
assopisce e diventa, ogni giorno in più, incapace di cercare il senso e il significato di ciò che ci
circonda. La consapevolezza di essere un mistero a noi stessi e parte di un mistero più grande che ci
avvolge non porta ad annientarsi, ma a scoprire il senso di questa appartenenza che affascina se ci si
incammina per il giusto sentiero. Evitare le domande più significative che la ricerca del senso della
vita impone non è una conquista, ma il collasso della propria personalità.
D’altronde, la scoperta dei grandi ideali come la giustizia, la verità, l’amore… scaturisce
dalla loro comune appartenenza al senso di responsabilità che ha bisogno di rimanere vivo nei nostri
animi sempre più dediti a ricercare solo il proprio individuale benessere. Dimenticare che si
appartiene a una cultura, a una civiltà e a una religione che consente di avere stili di vita consolidati
non è prodromo per una nuova cultura e neppure per una nuova civiltà. Se ci si vergogna delle
proprie origini e tutto quanto appartiene al passato deve essere valutato come irrilevante, temo che i
prossimi decenni produrranno uomini e donne capaci solo di relazionarsi gelosamente con il proprio
cellulare, privi sempre più di veri sentimenti e determinati solo dall’effimero desiderio del
momento. Automi che saranno innocui perché infastiditi dal pensare e porre domande, abituati solo
a ricevere le risposte confezionate da altri nel più breve tempo possibile, senza alcun desiderio di
conoscere la verità. Considerare invece che abbiamo avuto dei giganti e che possiamo stare sulle
loro spalle permetterebbe di avere una visione lungimirante e certamente più profonda.
Tornano alla mente le belle pagine di Roger Scruton, un filosofo non cattolico, ma pur
sempre un uomo libero e per questo profondo, quando facendo da eco al poeta Thomas S. Eliot
scrive: «La vera originalità è possibile solo di una tradizione; quest’ultima, infatti è qualcosa di
vivente e il suo significato può cambiare via via che nuove opere si aggiungono a essa solo nella
misura in cui ogni scrittore è giudicato sulla base di chi è venuto prima di lui… Le parole hanno
cominciato a perdere la loro precisione a causa del predominio della scienza, dello smarrimento del
credo religioso, della proliferazione dei termini tecnici. Il nostro modo di parlare oggi non ci rende
più capaci di partire da una parola e di far scaturire da essa il mondo; al contrario, le parole oggi

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nascondono il mondo poiché non offrono risposte. Sono solo delle pedine usate per giocare,
designate a riempire il silenzio, a mascherare il vuoto che è sceso su di noi… La religione è la linfa
vitale della cultura. Fornisce un repertorio di simboli, storie e dottrine che ci rendono capaci di
parlare del nostro destino. Va a formare, attraverso i testi sacri e la liturgia, il punto di riferimento
costante al quale possono fare ritorno il poeta e il critico, dà forma al linguaggio del credente
comune, così come quello dei poeti, che si trovano davanti alle sempre nuove condizioni di vita
come conseguenze della conoscenza, e alla vita in un mondo in decadenza… Riscoprire la nostra
religione non significa liberarsi delle istituzioni temporali, non significa negare la storia e la
corruzione in modo da contemplare le verità senza tempo. Al contrario, significa entrare più
profondamente nella storia, in modo da trovare nella mera transitorietà delle cose l’impronta e il
segno di ciò che non passa mai… Il tentativo di riscoprire una tradizione a cui appartenere, che dia
senso e significato al linguaggio, è il tentativo di trovare una tradizione di pensiero, di azione, di
fedeltà storica che dia senso e significato alla comunità… Il nostro compito è riscoprire il mondo
che ci ha resi come siamo, vedere noi stessi come parte di qualcosa di più grande, la cui
sopravvivenza dipende da noi e che può ancora vivere in noi» (La tradizione e il sacro, Milano
2015, 82-96).
Rimpiangere il passato non serve se si è capaci di farlo rivivere nel nuovo che si viene a
creare. Questo orientamento suppone che ci sia transizione senza rottura. È la continuità ciò che
consente di superare la contestazione e accettare l’innovazione. In questo contesto, potrebbe entrare
con tutta la sua forza espressiva la categoria della memoria. Una cultura senza memoria andrebbe
alla deriva. È facile notare il pericolo se si pensa a diversi interventi ambigui a cui è sottoposta
soprattutto la cultura dell’Occidente che tende a far diventare folklore e pezzo da museo ciò che ha
costituito la vita di intere generazioni. La memoria non è un archivio polveroso entro cui
racchiudere documenti semispenti del passato, né un disco rigido che immagazzina dati senza anima
e del tutto privi di interesse per quanto possano contenere. La memoria è una viva catena di
trasmissione che permette di vivere nel presente quanto ha costituito ricchezza e patrimonio del
passato. Dante Alighieri o Fëdor Dostoevskij, Johann S. Bach o Rembrandt non sono pezzi da
museo di un’arte occidentale del passato, ma memoria viva di una cultura universale che ha trovato
nella fede cristiana il senso più alto del suo cammino di evoluzione. Perché una cultura dovrebbe
rinchiudersi e opporsi con il rifiuto a una simile conquista se questa ha segnato una tappa
oggettivamente di crescita per l’umanità intera? Forse che in un momento in cui le culture scoprono
le proprie ricchezze di tradizione, proprio in forza di un processo di globalizzazione, non si impone
più forte la capacità di coordinare le proprie ricchezze per farle diventare patrimonio comune per
interi popoli? Perché mai la distruzione delle grandi foreste del Brasile dovrebbe trovarmi disattento

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solo perché impegnato a difendere la pianta del mio giardino? Oppure, perché dovrei rifiutare il
Vangelo, che ha impresso nella vita delle persone lo spazio più grande di libertà, per restare
attaccato ai Dharmashāstra che mi obbligano a una visione di casta dove l’ultimo subisce sempre
l’umiliazione più grande? È meglio agire, piuttosto, come la vanga nel terreno: rivoltare la terra ad
ogni stagione, perché rimanga viva e capace di accogliere sempre il seme del nuovo che le viene
offerto senza inaridirsi mai. Senza l’ascolto come forma di appartenenza che crea identità, non
sarebbe possibile né offrire la propria risposta di fede né essere produttori di ricchezza culturale.
Solo un forte recupero del concetto di tradizione renderà tutto questo possibile. La
Tradizione cristiana, infatti, è forma di una trasmissione che inserisce in un processo più ampio, che
genera conoscenza sempre più profonda del mistero di Gesù Cristo. Essa esprime una risorsa di cui
i credenti dovrebbero farsi carico. Questa Tradizione non significa solo il riferimento a una storia
bimillenaria che, nel bene e nel male, ci appartiene. Indica, piuttosto, la partecipazione diretta a una
viva trasmissione della fede che fa conoscere l’amore di Dio. La pienezza infinita di questo amore
rivelato non può più crescere dopo l’apice raggiunto in Gesù Cristo, ma solo irradiarsi senza fine
nel mondo intero presso quanti ancora non lo conoscono. I cristiani dovrebbero ricuperare, in questo
momento, la memoria perenne dell’evento salvifico di cui sono responsabili nel mondo e,
all’interno di questo frangente, ripensare il ruolo della loro partecipazione alla missione
evangelizzatrice della Chiesa. Ogni agire dei cristiani, infatti, quando opera nel sociale, nella
politica e nella cultura porta con sé la peculiarità di essere annuncio del Vangelo che salva. Il
recupero del senso della Tradizione e del suo valore per il futuro, dunque, è una strada da
percorrere. Essa non è semplice; richiede, infatti, uno sforzo di originalità e un accentuato spessore
speculativo, ma soprattutto un atto con il quale si prenda coscienza della sua validità e una
decisione di riproporla come carica di senso per il futuro.
La verità cristiana conservata nella Parola di Dio che ci è stata consegnata è come la manna
nel deserto per gli Ebrei: non può essere conservata pena il dover ammuffire. Ha bisogno invece di
essere sempre raccolta ogni giorno come un dono che viene dall’alto. Se trasmettere equivale solo a
conservare senza ripensare, allora temo che non si sia nel corretto rapporto con la verità cristiana e
tanto meno con il senso della Tradizione viva che fin dalle origini è stato preservato e che la Dei
Verbum ha riproposto. Come scriveva Hans Urs von Balthasar negli anni precedenti il Vaticano II:
«Onorare la Tradizione non esime dal dovere di cominciare tutto e sempre da capo: non da San
Tommaso o da Newman, ma da Cristo. I grandi della storia cristiana della salvezza si onorano
facendo oggi ciò che essi fecero allora o ciò che essi farebbero se vivessero oggi» (Abbattere i
bastioni, Torino 1966, 46). È proprio così. Per entrare nei meandri della verità cristiana è necessario
il coraggio e l’audacia con cui tentare di aprire nuovi percorsi mai esplorati e per questo alcuni

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potranno essere presi dal timore. Quando queste qualità vengono meno ci si rifugia nella ripetitività
di quanto già acquisito come antidoto alla paura del nuovo, con il grande rischio però di impoverire
il Vangelo e cadere vittime della noia.

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Dei Verbum 7-10

CAPITOLO II
LA TRASMISSIONE DELLA DIVINA RIVELAZIONE

Gli Apostoli e i loro successori, missionari del Vangelo


7. Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza
di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni.
Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la rivelazione di Dio
altissimo, ordinò agli Apostoli che l’Evangelo, prima promesso per mezzo dei profeti e da
lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro predicato a tutti come la fonte di
ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad essi i doni divini. Ciò
venne fedelmente eseguito, tanto dagli Apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli
esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo
vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai suggerimenti dello
Spirito Santo, quanto da quegli Apostoli e da uomini a loro cerchia, i quali, per ispirazione
dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza.
Gli Apostoli poi, affinché l’Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella
Chiesa, lasciarono come loro successori i vescovi, ad essi «affidando il loro proprio posto
di maestri». Questa Sacra Tradizione e la Scrittura Sacra dell’uno e dell’altro Testamento
sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal
quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com’egli è (cfr. 1Gv 3,2).

La sacra Tradizione
8. Pertanto la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri
ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi.
Gli Apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto, ammoniscono i
fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce che per iscritto (cfr. 2Ts
2,15), e di combattere per quella fede che era stata ad essi trasmessa una volta per
sempre. Ciò che fu trasmesso dagli Apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla
condotta santa del popolo di Dio e all’incremento della fede; così la Chiesa nella sua

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dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò
che essa è, tutto ciò che essa crede.
Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza
dello Spirito Santo: cresce, infatti, la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole
trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro
(cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose
spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno
ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende
incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le
parole di Dio.
Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione,
le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega.
È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei libri sacri e nella
Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse
sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa
del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo
risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità
intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16).

Relazioni tra la Scrittura e la Tradizione


9. La Sacra Tradizione dunque e la Sacra Scrittura sono strettamente congiunte e
comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse
formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti, la Sacra Scrittura è
Parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto
alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la Parola di Dio – affidata da Cristo
Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli – ai loro successori, affinché, illuminati dallo
Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la
diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non
dalla sola Scrittura e che di conseguenza l’una e l’altra devono essere accettate e
venerate con pari sentimento di pietà e riverenza.

Relazioni della Tradizione e della Scrittura con tutta la Chiesa e con il Magistero
10. La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito
della Parola di Dio affidato alla Chiesa; nell’adesione ad esso tutto il popolo santo, unito ai

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suoi Pastori, persevera assiduamente nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione
fraterna, nella frazione del pane e nelle orazioni (cfr. At 2,42 gr.), in modo che, nel ritenere,
praticare e professare la fede trasmessa, si stabilisca tra pastori e fedeli una singolare
unità di spirito.
L’ufficio poi d’interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa, è
affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù
Cristo. Il quale Magistero però non è superiore alla Parola di Dio ma la serve, insegnando
soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello
Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella
parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come
rivelato da Dio.
È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della
Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti
che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo
proprio, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza
delle anime.

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INDICE

Capitolo 1: Il valore della Tradizione


La tradizione come memoria viva
La Tradizione nella vita della Chiesa

Capitolo 2: Trasmettere la verità in modo vivo


S. Ireneo: la Tradizione della verità
S. Basilio: la Tradizione non scritta

Capitolo 3: Il dinamismo della Tradizione


Una Tradizione viva
La Tradizione non è consuetudine
Una pietra miliare

Conclusione

Dei Verbum 7-10

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