Sebastiano Cuffari
Prologo
- Ciao Ewaniwe – proruppe una voce nel silenzio della sera di Bingrim.
Ewaniwe si voltò di scatto come cercando qualcuno, ma non trovò
nessuno né accanto a se né a lato.
- Ti sei già dimenticato di me? Eppure sono passati solo sei anni o poco
meno da quando ci siamo visti l’ultima volta. – Il Viandante fece un
passo verso il bardo e d’improvviso gli fu visibile – Ti sei dimenticato,
tu che eri l’unico capace di vedermi?
Ewaniwe allora riconobbe la voce e l’aspetto del vecchio amico, ma ad
un improvviso lampo di gioia si sostituì un malcelato timore nei suoi
occhi:
- Perché sei qui? Vuoi forse dire che è già venuto il tempo?
- Sai benissimo perché sono qui: e sai anche cosa devi fare. Io rimarrò
finché tutto non sarà compiuto. Di nuovo.
Ewaniwe iniziò a protestare:
- Ma è troppo presto! Non capirà cosa dobbiamo dirgli!
- Non preoccuparti, capirà se sarà destino che capisca – rispose il
Viandante – e poi, sai che il tempo e gli eventi non lo attenderanno.
- Ma come posso io insegnargli ciò che è giusto, ciò che lui dovrà
cercare per il resto della sua vita? – Chiese il bardo – Sai benissimo che
sono solo un uomo qualunque.
Ma il Viandante non rispose all’ultima domanda, invece si allontanò
lento, e mentre i suoi passi si facevano sempre più lontani e indistinti
iniziò ad intonare una canzone:
I
Padri e figli
- Io, Ewaniwe, tuo padre, nacqui nel 372 della Seconda Era da tuo nonno
Ewanian e tua nonna Tuliwe. Il Terrore era risorto da ormai sei anni, ma
tutti noi riconoscemmo il suo influsso solo molto più tardi. Mio padre
Ewanian era anch’egli bardo, e vivevamo tutti insieme presso il reggente
del Numer Findolis. Passai la mia infanzia assieme agli altri bambini del
castello, che si trovava all’interno di Nika. Fui educato da mia madre
Tuliwe fino all’adolescenza, quando mio padre m’insegnò il mestiere del
bardo. Findolis considerava tuo nonno, oltre che il bardo di corte, uno
dei suoi migliori amici, ed uno dei suoi consiglieri. Naturalmente però i
suoi migliori consiglieri erano altri: in politica il cavaliere Ledolan,
mentre il suo mentore era il saggio Baurin, una specie d’asceta che
viveva in una baracca nella città. Tuliwe era la balia del castello ed era
lei che si occupava della crescita e dell’educazione dei bambini che vi
dimoravano. Ricordo che attorno a lei si radunavano bambini di tutte le
età e lei era felice, era soddisfatta così; tutti noi eravamo soddisfatti così.
In quel castello nacque anche tua madre: Alinea nacque tre anni dopo di
me, ma io mi accorsi veramente di lei solo a vent’anni, quando lei ne
aveva ancora diciassette. Era una ragazzina vispa e spesso irascibile, ma
a quel tempo notai soprattutto la donna che cresceva in lei…dopo tutto
irascibile lo è sempre stata e lo è rimasta! Comunque lei era sempre stata
vicina a tutta la nostra famiglia e mia madre la amò come una figlia fin
dall’infanzia, né del resto lei ebbe altra famiglia che la nostra, dato che
sua madre era morta per il parto e suo padre era morto poco prima.
Alinea è sempre vissuta con mia madre nel castello di Nika, la residenza
di Findolis. Quel castello lo conosco come le mie tasche: da piccolo lo
9
avevo esplorato tutto quanto insieme agli altri bambini, e una volta
avevo trovato un piccolo cunicolo che dalle cucine conduceva fuori dalle
sue mura. Quella volta, ancora piccolo, fu la prima che uscii fuori dal
castello e passeggiai per la città da solo, avevo otto anni. La mia vita
scorreva comunque tranquillamente nel castello o al massimo
allontanandomi per le strade di Nika. La città era un posto tranquillo ed
era piacevole, ogni tanto, fuggire dalle regole della corte e vagare fra le
bancarelle del mercato. Vi potevi vedere merci da ogni luogo d’Arret:
sembrava spesso di vedere quelle terre lontane di cui mio padre m’aveva
insegnato le canzoni, anche se poi il sogno finiva e scorgevi la povertà
che dilagava fra i vicoli. Ma la gente della città era brava gente, ancora
non si sentivano gli effetti del Terrore. Allora amavo trascorrere il tempo
con mio padre fra i campi fuori città. Lì, tuo nonno iniziava a cantare, e
io, estasiato, ascoltavo a lungo e in silenzio, mentre il vento mi
scompigliava i capelli. Le ore passavano così fra i canti e lo studio, fra i
giochi e le stanze del castello, mentre intanto volava via la mia infanzia.
A ventidue anni fui nominato anch’io bardo di corte insieme a mio
padre. Comunque, tranne che per me, quello non fu un buon anno per il
Numer e per il Grande Regno: due anni prima era scomparso l’erede del
Grande Re Natul che aveva nome Lendelin, ed ora il Grande Re, ormai
vecchio, stava in fin di vita. Una nube nera era piombata dall’occidente,
svuotando la città: una nuova Corruzione era scesa su Arret e l’odio e la
discordia erano piombati anche sul Numer. Gli oppositori di Findolis si
moltiplicavano e fra tutti il più potente era Flaka, un giovane cavaliere
che si fingeva amico del reggente ma che in realtà era stato uno dei
primi Corrotti. Naturalmente tutto ciò lo scoprimmo in seguito, quando
gli eventi ci fecero consci della tristezza dei tempi. Quella fu l’annata
più dura per il Numer prima della Terza Grande Battaglia, ma anche le
successive non furono da meno; le razzie nel nord-ovest da parte di
piccole bande d’orchi erano sempre più frequenti e il Dwaralud incuteva
un Terrore infernale a noi e ai nani del nord. Eppure, anche altri
problemi, da lungi esistenti, si affacciavano fra i pensieri del mio
sovrano: allora, ricordo, Develaire d’Aledyef, una saggia, asceta, maga,
e quant’altro tu possa immaginare, venne a richiedere con insistenza
l’indipendenza per il suo popolo. Le terre d’Aledyef, un altopiano a nord
di Nika, erano da tempo abitate da genti che non si riconoscevano nel
Numer: d’esse, era guida spirituale quella donna, e a lei fummo inviati
ambasciatori io, mio padre e Baurin.
10
Alinea non poteva fare a meno di chiedersi che cosa avesse voluto dire il
marito con quella risposta:
- Inizierò ad insegnargli ad essere re, – aveva detto, ma cosa aveva
intenzione di fare. Dopotutto, quel bambino aveva già un’orda
d’educatori e di maestri che gli andavano dietro per insegnargli tutto ciò
che era possibile…non riusciva proprio a capire. Poi d’improvviso un
lampo: suo marito aveva intenzione di raccontare la Storia, cosa era
accaduto prima della nascita del bambino! Ciò però poteva voler dire
soltanto una cosa…il Viandante era tornato!
mancheremo nei confronti della giustizia, non temere. Anch’io vedo ciò
che accade attorno a noi, e il temporale che s’avvicina. Ma scorgo già
l’arcobaleno, anche se non vedo come sarà il mondo su cui esso si
mostrerà magnifico. Baurin, vedrai che, come da sempre sappiamo, gli
opposti si concilieranno, e una nuova armonia nascerà. È questo ciò che
deve accadere.
- Hai una visione più ottimistica della mia, Develaire. Ma tu leggi nella
volontà di uno, io in quella di molti. E oggi i molti non sono saldi come i
tuoi: perché so già che voi non userete violenza per il vostro scopo.
- Getta una pietra in uno stagno – disse Develaire maneggiando delle
pietre – e tanti cerchi ne nasceranno. Il loro ritmo è in un solo sasso. I
molti vengono dal singolo, Baurin, tu questo lo sai bene.
- A te il Creatore, Develaire, a me le sue creature. Questo è il nostro
destino, e così andrà.
- Spiace disturbare le vostre discussioni – intervenne mio padre – ma c’è
da discutere anche altro. Che cosa dobbiamo dire a Findolis?
- Dite che la mia gente vuole la sua terra e la sua tradizione. Non
useremo violenza, ma in ogni modo porteremo avanti le nostre richieste.
- Questo è quanto – concluse tuo nonno.
Stavamo per alzarci, quando la donna prese ad armeggiare con i
sassolini. Allora essi si sollevarono dalle sue mani, mentre gli occhi di
Develaire si facevano bianchi. Le pietre girarono vorticosamente, e poi
caddero a terra. Allora la donna mi fissò, ed esclamò:
- Baurin, hai con te una gemma e non ne riferisci? Tu, – e m’indicò – tu
avrai una gran sorte perché nulla desideri. È scritto:
II
Conversando al mercato
L’anno successivo Tuliwe, mia madre, morì per gli stenti cui tutti
eravamo sottoposti, compreso Findolis: piansi come un matto sul suo
letto mentre mio padre da quel giorno divenne irrimediabilmente cupo in
viso. Il posto di mia madre nel castello fu preso da Alinea che ormai
aveva vent’anni. Era la mia migliore amica e unica confidente; ci
facevamo forza a vicenda per sopportare ciò che ci accadeva attorno.
Ricordo che a volte aiutavo Alinea ad accudire i bambini e che insieme
cantavamo loro la canzone de “La città dell’oro”…la conosci? – Nelian
fece cenno di no con la testa, e il bardo, riprendendo, disse – allora ti
canterò i versi che il tempo non ha cancellato dalla mia mente:
Ricordo che passeggiavo per Nika quando ebbi per la prima volta
sentore di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Le bancarelle del
mercato erano semivuote per la povertà che era sempre più diffusa e
dietro una di queste intravidi Flaka, nascosto, parlare con un tizio che
scorsi di spalle, con i capelli lunghi fino alle gambe: parlavano di un
evento che sarebbe avvenuto di lì a cinque giorni, che avrebbe cambiato
completamente la loro vita. Sul momento non capii di cosa stessero
parlando e mi allontanai noncurante, mentre osservavo distrattamente
l’uomo che si voltava rapidamente e s’allontanava. Era il dodici di Neue
del 395, avevo 23 anni. Non mi fermai a parlare con Flaka, anche se lo
conoscevo, perché non lo avevo molto a simpatia, né lui provava quel
sentimento per me; anzi tutt’altro, tant’è che ogni volta che vedeva me o
mio padre aiutare Findolis da consiglieri, non perdeva l’occasione per
ricordarci la povertà della nostra nascita e il nostro differente stato
sociale. Così, proseguii per la mia strada. Tornando al castello inoltre
incontrai Baurin e conobbi il suo discepolo Bellig. Baurin era un uomo
pacato, cortese e amabile, sempre pronto ad una sottile ironia. Viveva
nella povertà, nondimeno era una delle persone più rispettate di Nika.
Spesso lo potevi vedere nelle piazze ad interrogare la gente su cosa fosse
il bene o il male e a chiedere come ci si dovesse comportare nella vita e
nelle varie occasioni; era strano vedergli porre queste domande, dato che
tutti sapevamo che, in fondo, fra noi lui era quello che conosceva meglio
le risposte. Eppure metteva tutto il proprio ardore in quei dialoghi, come
se davvero volesse conoscere a tutti i costi quelle risposte che già
conosceva. E non c’era volta che non avesse nuovi dubbi, nuove
15
incertezze che trasmetteva al tuo cuore solo per aiutarti poi a risolverle.
Findolis lo reputava il migliore dei suoi consiglieri, e non c’era volta alle
assemblee che Flaka non tentasse di metterlo in fallo solo per farsi bello
di fronte al reggente: non ci riuscì mai. Bellig, invece, a prima vista
sembrava una persona completamente diversa. Non era pacato né
gentile. Quando lo conobbi era sempre diretto, non usava giri di parole e
in ogni cosa usava sempre andare subito al sodo. Eppure l’ultima volta
che l’ho visto mi è sembrato una persona completamente diversa, molto
più simile al suo maestro. È proprio vero che il tempo cambia le
persone! Quando incrociai i due saggi, questi erano intenti in un’accesa
discussione con un uomo e una donna abbastanza noti in città. I due
vivevano secondo i loro canoni di bellezza e utilità, e in effetti, anche in
quel momento, discutevano di tali argomenti con Baurin, mentre Bellig
udiva attento. I due erano dei cultori del bello, e riempivano la loro casa
d’ogni cosa in cui scorgevano un che d’affascinante. Non avevano molti
amici, ma molti ne cambiavano, sempre in cerca di qualche nuova
emozione. Lui, tra l’altro, si dava arie da filosofo e da saggio. Dopo
questa discussione, presto ebbero a litigare per qualche screzio o qualche
litigio avvenuto fra di loro, ed in seguito, in città non se ne seppe più
niente dell’uno e dell’altra. Non so da quanto era iniziata la discussione
quando sopraggiunsi, ma queste furono le cose che udii:
- Guardaci – disse l’uomo, piuttosto giovane, come la compagna, a
Baurin – noi viviamo sempre alla ricerca della bellezza, ed in ciò siamo
felici. Anche tu sembri felice, Baurin, quindi pensiamo che anche tu,
come noi, credi nella bellezza e nel godimento dell’istante, giusto?
- A dire la verità, non credo in nessuna delle cose che dici, mio caro.
- Ma come? Cos’altro ci può essere da cercare in questa vita, se non
l’istante?
- Vuoi davvero saperlo? Ebbene, due cose sole io cerco ed indago, e di
altro non mi curo: l’anima in me e l’Uno sopra di me.
- Sono belle le cose che dici, ma del tutto irraggiungibili per l’uomo –
intervenne la donna.
- Sbagli, sono le uniche realtà. Ma forse vediamo le cose in maniera
diversa, e da ciò, credo, ci comportiamo anche in maniera opposta.
Ditemi, voi credete nell’amicizia e nell’amore? E nel peccato e
nell’errore?
- Certo, soprattutto nel godimento dell’amore. Esso dà attimi di felicità e
di quiete. Anche l’amicizia, come l’amore, e da un amico grande
16
proprio per questo che ho convinto il re, mi perdoni per ciò, ad indire
questa festa; difatti voglio il vostro appoggio per convincere il nostro
sire che l’unico modo per tenere salva la nostra salute è di attaccare
prima di essere attaccati. O, comunque, di agire. Voi tutti sapete a cosa
io mi riferisco…sto parlando del Terrore dall’ovest. Invano ho tentato di
convincere il sovrano ad iniziare una campagna contro le terre
occidentali, malgrado non avessimo nessuna autorizzazione dal Grande
Re Natul. Il fatto che il Grande Re Natul condanni a morte la sua gente,
non vuol dire che noi dobbiamo permettere che il nostro popolo subisca
la stessa sorte.
- Flaka – intervenne Findolis alzandosi dal trono – mi hai già fatto
questa ramanzina varie volte, e sempre ti ho risposto che non mi
muoverò senza l’appoggio di Natul. Sai benissimo anche tu che è meglio
avere un solo nemico invece che due, e questa sarebbe l’unica cosa che
otterremmo mettendoci contro il Grande Re…
-Sagge parole – riprese Flaka – e meditate; si vede proprio che sono nate
da un uomo che non ha nient’altro da fare che pensare ai cavilli nel
sonno! Sire, quando smetterete di essere un burattino nelle mani di
Baurin? Quando lascerete che la forza della gioventù irrompa in queste
aule, invece che le tremule parole di un vecchio moribondo? E poi,
dov’è ora questo grande uomo? Perché non è qui a mettere di fronte alle
mie parole la sua saggezza? Ve lo dico io dov’è – e si volse ai
commensali – il vile ha intuito che oggi non sarebbe stata la sua
giornata, ed è rimasto nella sua capanna a dormire! E noi lo lasceremo
dormire, ma non lasceremo che con lui dorma tutta la nostra terra…E
poi sapete bene, sire, che c’è anche un’altra via…ciò che non si può
combattere si può rendere amico…
Il brusio si levò nella sala, mentre tutti i presenti si guardavano colti dal
dubbio:
- Sono forbite le tue parole – proruppe una voce dall’entrata dell’aula –
taglienti come lame e avvelenate come serpi, ma saranno anche sagge? –
Riconobbi l’uomo che aveva parlato, era Bellig, il discepolo di Baurin –
Ma forse è proprio la saggezza ciò che ti manca – ciò dicendo si
avvicinò al trono – Flaka, mio buon Flaka, perché parli di ciò che non
conosci? – Continuò con fare ironico – Parli di guerra tu che al massimo
vai appresso ad una volpe; parli di nemici, ma dimmi, quanti ne hai
uccisi? Non hanno forse salvato il tuo castello ben scaldato dei poveri
uomini ai confini? E infine parli di sagge parole, ma quando mai ne sono
19
uscite dalle tue labbra? Vuoi forse metterti contro un nemico il cui
numero è infinite volte superiore al tuo? Cosa ti farà vincere? Forse quel
sorriso tirato sul tuo volto, o la fronte senza rughe di chi non ha mai
patito il freddo? E vuoi fare ciò perdendo l’unico alleato che abbia le
capacità di risollevare la situazione? Veramente un’ottima scelta…
ricordami d’andar via dal Numer quando tu ne sarai il sovrano! O peggio
ancora, parli d’alleati immondi, d’un’amicizia ad ovest…Flaka! Sai tu di
cosa parli? Non ci può essere amicizia con il Distruttore, né alleanza con
l’Ingannatore! – D’un tratto il suo volto si fece ancora più serio – Ora
siediti e se vuoi dormi, ché forse a te farebbe veramente bene, e non
parlare di ciò che non puoi capire.
Bellig si volse verso il re e lo raggiunse; i due iniziarono un fitto dialogo
privato mentre pian piano la calma e la normalità ritornarono nell’aula.
Flaka tornò a sedere con fare calmo ma sulle sue labbra lessi queste
parole:
- Non avrai il tempo di andartene perché morirai prima.
III
La notte delle congiure
Con quelle parole Ewaniwe fecce una pausa. Staccò un attimo gli occhi
fissi a terra e guardò verso l’alto. Intanto Nelian aspettava ansioso il
prosieguo della storia. Il sole batteva un po’ più forte sulle loro teste, ma
faceva ancora abbastanza freddo. Il bardo aiutò il proprio figlio
infreddolito a coprirsi meglio e poi gli parlò:
- Nelian, ti stai annoiando?
- No papà. Dai, riprendi, dimmi come finisce la storia!
- Guarda che la storia non finirà presto. Però hai ragione. Ora dobbiamo
proprio riprendere.
Alinea era sempre più terrorizzata. Temeva per il futuro di suo figlio.
Vagava per la fortezza in preda al panico e non c’era nessuno che
potesse calmarla. Cercò qualcuno che sapesse dove erano andati
Ewaniwe e Nelian, ma nessuno le seppe rispondere. Pensò allora di
andarli a cercare lei stessa, ma dove? E poi, cosa avrebbe potuto fare lei,
se già la decisione era stata presa? Il Viandante le aveva sempre messo
paura, anche se non l’aveva mai visto. Tutto ciò che sapeva di lui era
quello che le aveva detto Ewaniwe…lui si che lo conosceva bene.
Aveva dimenticato, quando alla fine di tutto, Ewaniwe le aveva detto ciò
che aveva lui riferito il Veida:
- Alinea, tu sai che nostro figlio diverrà Grande Re?
- Certo – aveva risposto lei arrossendo, con un po’ d’orgoglio.
- Ma sai perché gli Eida hanno scelto lui e hanno imposto a Lendelin di
non avere figli?
- A dire la verità no.
- Il Viandante mi diede la notizia. Disse che era stato scelto nostro figlio
perché Lendelin sarebbe dovuto andare fra gli Eida.
- Non capisco – disse Alinea – perché dovrebbe andare fra gli Eida?
24
- Questo non importa, del resto noi non possiamo capire il volere
d’Euon. Ciò che per noi conta è che nostro figlio a detta del Viandante
dovrà seguire lo stesso destino del suo predecessore, e per questo,
quando lui mi dirà di farlo, io, e solo io, dovrò narrargli tutto il recente
passato. Solo quando avrò svolto il mio compito, lui capirà ciò che dovrà
fare nella vita.
Quella fu una notte orribile, per me e per l’intero regno. Tutto d’un tratto
ci sembrò che crollasse ogni certezza. Non fu una lotta lunga, anche se
in quel momento mi sembrò interminabile. Le forze di Flaka erano
troppo superiori ad un re mezzo nudo, due bardi armati e poche guardie.
Io mi gettai nella mischia, gridando al re di fuggire, mentre accanto
avevo mio padre e una guardia appena giunta. Le altre furono presto
uccise dai congiurati, e quasi subito solo noi rimanemmo a tentare di
difendere Findolis. Un uomo mi venne addosso e mi gettò a terra
caricandomi. Quando mi risollevai la mia spada era infilzata nel suo
addome: avevo ucciso; era la prima volta, e purtroppo non sarebbe
rimasta l’unica, ma in quel momento non ebbi il tempo di compiangere
il mio atto. Estrassi la spada dal corpo dell’uomo e salii sulla schiena di
un altro che stava per trafiggere mio padre. Lo colpii con tutta la mia
forza e risollevai velocemente Ewanian. Intanto la guardia si
destreggiava fra i congiurati e teneva testa da sola a molti di essi. Feilon,
questo era il suo nome, da solo stava proteggendo la vita del re. Findolis
gridava l’allarme e tentava di difendersi da coloro che noi tre non
riuscivamo a fermare. Maneggiava bene la spada, ma la sua età lo
rendeva ormai troppo debole per riuscire a sopravvivere a lungo. Fu
questione di un attimo. Del tutto distratti dagli altri, non ci accorgemmo
dell’arrivo di Flaka di fronte al re. I due iniziarono a lottare; Flaka
tentava di disarmare il re, e per fare questo s’erano aggrovigliati l’uno
con l’altro. Ebbi a stento il tempo di voltarmi, che vidi l’uomo del
mercato dietro al re. Dietro ai suoi folti baffi proruppe un sorriso, e in un
attimo conficcò la sua spada fra le spalle di Findolis. Mio padre si gettò
addosso ai due, ma non fu abbastanza veloce. Feilon continuava
imperterrito a lottare con i congiurati, mentre io, immobile, rimasi come
impietrito. Riuscii ad emettere soltanto un lungo urlo, che morì nel caos
della stanza. Fu sempre questione di un attimo, che mio padre ordinò a
tutt’e tre di ritirarci. Tentai in vano di recuperare il cadavere del re, ma
fu tutto inutile. Ci avvicinammo alla porta, proteggendo l’uno le spalle
25
popolo.
- Soprattutto qualcuno che gli sia nemico quanto noi e sia abbastanza
saggio da guidarci.
Solo in quel momento pensai che dovevamo rivolgerci a Baurin. Lui ci
poteva aiutare; lui era saggio, pensai.
garante delle nostre sorti. Tu, di certo uomo d’onore, indichi in lui la
colpa, tu che hai colpito alle spalle il sovrano. Tu, nostro tiranno, accusi
Ewaniwe di parricidio, quando non hai avuto terrore di entrare di
soppiatto a palazzo per compiere le tue efferatezze. Tu accusi, ma sei
l’accusato. Tu ti proclami uomo d’onore, quando l’onore è l’unica cosa
che non hai mai posseduto.
Il popolo bisbigliò. Fra la folla riconobbi anche molte persone che
vivevano a castello, nascoste per non farsi vedere. Flaka trasalì e iniziò
ad urlare:
- Anche tu, anche tu ti opponi a me? Perché, anche se sono vere le tue
parole, cosa farai ora? Io sono il re, io il tuo signore. Mettiti sulla mia
strada e subirai la sua stessa sorte. – Così dicendo mi indicò – Anzi, l’hai
già fatto…Non ti preoccupare, subirai un giusto processo per alto
tradimento nei confronti del tuo signore. Sai quale è la pena per tale
reato? La morte!
Così dicendo, lo fece prendere dai suoi scagnozzi e portare insieme a
me, Bellig e i nostri compagni sul palco. Vidi che altri uomini
condussero lì anche Feilon febbricitante e Luia dalla baracca di Baurin.
Bellig cercò di aizzare la folla contro l’oppressore, ma nessuno rispose,
nessuno si fece avanti in nostro soccorso. Baurin fu posto di fronte a
Livre, vicino al patibolo, e quest’ultimo iniziò la propria inquisizione:
- Baurin, neghi dunque di esserti opposto al tuo sovrano?
- Certo che lo negherò – rispose il saggio – se qualcuno converrà con me
che nostro sovrano era Findolis, e che oggi non abbiamo sovrano. Ma se
tu vuoi sapere se invece mi oppongo a colui che hai messo al potere,
allora sì, sono colpevole.
- Ammetti allora – riprese Livre facendo finta di non avere udito
l’accusa rivoltagli – la tua colpevolezza?
- Di fronte alla legge io sono colpevole, non di fronte a te, né di fronte
ad un sovrano molto più ingiusto di me.
- E a che pena chiedi di essere condannato?
- Se dovessi seguire giustizia – rispose il saggio con una calma
sorprendente – mi condannerei a ricevere un premio e a vivere come un
re allo stesso modo della pena a cui voi vi state sottoponendo. Ma dato
che non mi concedo una simile grazia, mi condannerei ad una multa
pagata da voi, dato che siete senz’altro uomo d’onore.
Ormai Flaka non ci vedeva più dall’ira. Ordinò ai suoi di metterci nelle
prigioni e declamò che al tramonto saremmo stati condannati tutti a
32
Ledolan cavalcò veloce per giungere a Tedaran dal Grande Re. Era
partito di mattina presto, e ora, col sole a picco, giungeva nel luogo. Fu
presto condotto di fronte al Grande Re Natul e in fretta gli riferì gli
eventi. Natul fu veloce e deciso nel suo responso. Diede a Ledolan un
migliaio di uomini da condurre in fretta nel Numer per sanare la rivolta,
e inoltre gli affidò come aiuto, un uomo, dicendogli:
- Ledolan, costui verrà con te. Ti prego di difenderlo come fosse mio
figlio, perché il destino vuole che il nostro futuro sia nelle sue mani. Egli
viene da oriente e reca con sé la forza degli esseri divini, perciò lo puoi
chiamare Eidur, figlio degli Eida.
34
35
IV
Baurin
Alinea rimase dov’era nascosta, per lungo tempo immobile, per la paura
37
Ledolan arrivò alle porte della città insieme ai soldati mandati dal
Grande Re, che era ormai il tramonto. Pochi uomini erano rimasti di
guardia, seguaci di Flaka. Così, non appena le forze di Eidur e di
Ledolan furono all’orizzonte, temendo di essere coivolti nella
repressione della rivolta, gli sgherri dell’usurpatore si rifugiarono
ciascuno nelle proprie case; così Ledolan ed Eidur poterono entrare
rapidamente entro le porte della città. Ledolan si fermò e chiese ad
Eidur:
- Eidur, cosa hai intenzione di fare? Io devo assolutamente andare nella
mia dimora prima di agire contro Flaka, perché è lì che si trova la
testimone dei fatti, e a dirti la verità, in questo momento ho timore per la
sua vita.
- E sia – rispose quello – ma sbrighiamoci; non abbiamo tempo, se Flaka
è stato veloce come hai detto al Grande Re.
Si addentrarono per le vie della città con circospezione, ma nessuno gli
si fece in contro. Giunti di fronte alla dimora di Ledolan però si accese il
putiferio. Le guardie lasciate lì da Flaka, appena videro i soldati guidati
dal padrone di casa, si gettarono loro contro come degli ossessi. Ma
erano pochi, e non vi era nessuno a guidarli, mentre i soldati del Grande
Re erano tanti e ben armati. Le truppe di Ledolan lì debellarono
facilmente, poi il cavaliere corse dentro la casa alla ricerca di Alinea. Lo
accolse il caos e la distruzione. Flaka aveva provveduto a far distruggere
quasi tutto quello che si trovava nella casa, e ciò che si era salvato era di
poco valore. Eppure non era questo che importava a quell’uomo in quel
momento; invece anelava sapere dov’era la sua ospite.
39
Fummo condotti nella piazza. Qui la folla era già radunata, mentre
nessuno si trovava per le strade nel resto della città. Con passo lento e
greve salimmo sopra il palco; mentre Feilon era sull’orlo della perdita di
conoscenza, io e Bellig ci dimenavamo e subivamo regolari strattoni dei
nostri aguzzini. Baurin continuava ad essere imperturbabile. Flaka, sopra
il palco, e Livre, anch’egli là sopra accanto al boia, ci indicavano e ci
proclamavano colpevoli di fronte alla folla. Gli sgherri dei congiurati ci
deridevano, mentre un silenzio assordante proveniva dalla piazza. Di
tanto in tanto si sentiva un bambino piangere, e una madre celere
rimproverargli di tacere; ma nessuno interveniva.
Poi Flaka fece un cenno al boia, e ci furono indicati i cinque patiboli,
uno per ciascuno di noi. Le corde tese, apparivano resistenti, mentre il
boia, e accanto Livre, brandivano delle spade per ogni evenienza.
Non c’era via di fuga, ché tutt’attorno al palco gli sgherri erano pronti a
fare fuori chiunque di noi avesse tentato di scappare. Ci fecero
avvicinare e infilare la testa dentro il cappio, primo da sinistra Baurin,
accanto a Livre, ultimo io, in mezzo Bellig accanto al maestro, poi Luia
40
castello. Seppi che era stata ospitata da Ledolan e che gli uomini di
Flaka non erano riusciti a trovarla.
Intanto Lendelin Eidur parlava alla piazza, ma in quel momento non mi
interessava ciò che aveva da dire; mi interessava come tutto sembrasse
finito.
sepoltura che si svolse l’indomani. Poi cenammo, una magra cena, per
riprendere le forze, assieme al nuovo re e a Lendelin Eidur. Sia io che
Bellig eravamo scuri in volto e con gli occhi gonfi.
Lendelin Eidur ci chiese come stessimo e che cosa avessimo intenzione
di fare nell’avvenire. Tutt’e due a dire la verità avevamo la mente poco
lucida, ma mai quanto Feilon, che s’era però un po’ ripreso grazie alle
cure di Luia.
Ci chiese:
- Avete intenzione di rimanere nel Numer?
- Io – risposi – non ho più nulla che mi leghi a questa terra.
- Se è per questo neanche io – fece eco Bellig.
- Allora cosa ne direste di seppellire i vostri cari e di venire con me? Mi
serve gente come voi per ciò che deve accadere.
Acconsentimmo, ma nella mente avevamo altri pensieri. Andai poi nella
mia camera e preparai le poche cose che mi servivano per il viaggio. Mi
venne a cercare Ledolan, e si fermò a parlarmi. Mi congratulai con lui
per la sua nuova carica, ma nessuno dei due aveva voglia di festeggiare.
Dopo qualche attimo di silenzio mi disse:
- Ha parlato per tutto il tempo di te.
- Chi – chiesi.
- Alinea, la donna che ho ospitato nella mia casa. È una brava ragazza, e
penso che debba venire con te.
- Verrà solo se lo vorrà. – Risposi – non è donna da fare ciò che
vogliano gli altri per lei. Piuttosto, come stanno Bellig e Feilon?
- Feilon se la caverà. È Bellig che mi preoccupa. Sembra odiare tutti: mi
sembra quasi che abbia tutto d’un tratto dimenticato tutto ciò che gli ha
insegnato Baurin.
- Si riprenderà. E tu invece come stai? – Notai solo allora il viso stanco
di quell’uomo, non più giovane, e con i segni dell’esperienza addosso.
- Me la caverò anch’io, come tutto il regno, se è per questo.
Poi, la sera si era ritirata in quella che era stata la sua stanza nel castello,
la dove accudiva tutti i bambini. Fu solo allora che si accorse di come
tutto era cambiato, e che nulla poteva tornare come prima.
Ricordando queste cose temeva che il figlio dovesse provare quei dolori
anch’egli. Eppure era il suo destino, e la sua vita le aveva insegnato
quant’è difficile sfuggire a quella forza infinitamente grande.
difendervi.
Così dicendo finì il suo discorso e si allontanò dalla tomba e dalla
cerimonia senza degnare di uno sguardo alcuno di noi.
Ne perdemmo le tracce fino al giorno successivo, quello stabilito per
andare assieme al principe. Con noi c’erano anche Alinea, che s’era
decisa a seguirci, e Feilon con Luia. Ledolan ci salutò calorosamente;
bisbigliò qualcosa nell’orecchio a Bellig e ad Alinea. Il discepolo di
Baurin appariva più sereno, anche se il suo aspetto era profondamente
mutato da quando l’avevo conosciuto.
Durante il viaggio parlammo amichevolmente col principe, anche se non
volle dirci nulla riguardo alla sua sparizione e sul suo ritorno
improvviso. Poi Bellig gli chiese spiegazione delle sue parole sul destino
futuro:
- Sai meglio di me che cosa sta accadendo ad occidente.– Rispose il
principe – Ormai è solo questione di tempo. Per quanto riguarda le tue di
parole… ti assicuro che se tornerai in questa città, scoprirai che il
sacrificio di Baurin ha risvegliato i loro spiriti molto più di quanto tu
creda.
- Spero che tu abbia ragione. – Controbatté Bellig con un sorrisetto tirato
sul volto.
46
47
V
Lendelin Eidur
Lendelin Eidur era un uomo magro, d’altezza poco superiore alla media.
I suoi capelli erano folti e biondi, ma tendenti al castano. Gli occhi verdi
davano una sensazione di sereno, come i lineamenti del suo viso
esprimevano una grande calma interiore: in questo mi ricordava un po’
Baurin. Quel giorno vestiva ancora con la tunica marrone del giorno
precedente, sotto cui ora intravedevamo un’armatura argentea.
Cavalcava con andamento regale e allo stesso tempo riusciva a trattarci
con estrema umiltà. Credo avesse pochi anni più di me. Accanto a lui
Bellig sembrava una persona molto più tesa, nervosa. Anch’egli vestiva
poveramente, con una tunica avana, ma sapevo che non aveva con sé né
un’armatura né delle armi. La sua fronte era ampia, messa in risalto dalla
capigliatura tendente sempre più al brizzolato, già allora che aveva da
poco superato la trentina. Gli occhi vispi, neri, che saettavano in mezzo
al suo sguardo alla ricerca costante di qualcosa. I lineamenti del viso
tirati, di chi ha già assaporato la fatica e la povertà nel vivere. Poco più
alto e robusto di Lendelin, in quei giorni però la stanchezza e la
malinconia lo facevano così piccolo. Dietro quei due venivamo io e
Feilon, con accanto Luia e Alinea; Feilon era un uomo originario del
Numer, muscoloso ma non troppo alto, cosa che lo faceva apparire una
persona tarchiata. Aveva i capelli e la carnagione chiara e due occhi
azzurri come le profondità delle maree. Una rada barba copriva i suoi
tratti e lo faceva sembrare più vecchio di quanto era. Alla sua destra
cavalcava con noi Luia, e alla mia sinistra Alinea. Tua madre aveva
allora venti anni ed era bella come il sole a primavera. Magra e minuta,
con i capelli che le scendevano oltre le spalle, dei capelli neri che le
davano un tocco d’esoticità involontaria; come il suo colorito più scuro
delle persone della nostra terra, come il mio del resto. Anch’io all’epoca
portavo i capelli lunghi. Indossava un abito aderente che la metteva in
48
risalto, e non potei fare a meno di fissarla per tutto il tempo. Io invece
vestivo con dei vestiti da viaggio, piuttosto semplici. Infine Luia era una
donna sulla trentina, poco più grande di Feilon, a cui però già sembrava
legata da un profondo affetto. La sua bellezza non era ancora sbiadita,
ma già sembrava più matura di quella di Alinea, né, credo, fu mai bella
come tua madre. Teneva i capelli rossi raccolti, mostrando così delle
spalle che non potevano non apparire già abituate al lavoro.
La mattinata passò così sotto un sole sempre più caldo e immersa nella
piana che si estende fra Nika e Tedaran, la capitale del Grande Regno.
Circa a metà viaggio scorgemmo il bosco di Aulon alla nostra destra, e
in corrispondenza alla nostra sinistra riuscimmo ad osservare i lontani
bastioni della fortezza dove oggi abiti, Nelian. Dietro di noi le forze
mandate dal Grande Re Natul andavano compatte e allegre per il ritorno
alla loro casa, e una generale allegria in realtà pervadeva un po’ tutti noi.
Non nascondo però che quando giungemmo quasi al confine con il
Tedar non potei fare a meno di voltarmi e osservare, pensando che,
probabilmente, avrei perso per sempre la mia casa natia.
Tedaran è una città popolosa ma non particolarmente ricca. Eppure la
sua importanza non sta nella sua ricchezza, ma nel fatto che in quella
città si stabiliscono le sorti di tutti gli uomini. Le sue vie sono rette,
perfettamente parallele e perpendicolari, secondo strutture insegnate nel
passato agli uomini dagli elfi. Le linee degli edifici sono austere, ma la
città ha comunque una certa aria d’imponenza.
Appena giungemmo lì, Lendelin Eidur volle subito condurci da suo
padre, il Grande Re Natul. Fummo così annunziati al sovrano, ancora
con le vesti del viaggio.
Il re era un uomo ormai molto anziano, penso più vecchio anche di
Baurin prima che morisse, e la sua vecchiaia era evidente in ogni sua
azione o parola. Non appena vide il figlio tentò di rizzarsi in piedi dal
trono, riuscendoci solo dopo un immane sforzo e patimento. Volle
comunque venire in contro al suo figlio compiendo pochi passi, mentre
Lendelin Eidur corse ad abbracciarlo, mostrando un rapporto che aveva
poco di regale e molto di familiare. Poi, col sorriso stampato sul volto,
Lendelin, come voleva che noi lo chiamassimo, ci presentò a suo padre.
Fu una presentazione veloce, informale, e subito il sovrano volle sapere
esattamente com’erano andate le cose; così suo figlio raccontò per filo e
per segno tutti gli avvenimenti, dalle morti di Findolis e Baurin, alla
deposizione di Flaka e alla salita al trono di Ledolan. Natul fu
49
amareggiato per la morte dei suoi vecchi amici; ci disse, infatti, che
aveva conosciuto Baurin quand’era più giovane, ma fu contento di
vedere che Lendelin aveva trovato degli uomini a suo dire valorosi. Così
dicendo però ci annunziò di doversi ritirare nelle sue camere perché la
sua età ormai non gli concedeva che pochi momenti di fatica, e così
dicendo, ci licenziò.
Lo stesso Lendelin volle mostrarci dove eravamo alloggiati e ci fece da
guida nel castello. Io venni alloggiato in un’ampia camera provvista di
ogni bene nei piani alti dell’ala destra del castello, proprio come Bellig e
Feilon, mentre alle donne furono date altre camere nell’ala sinistra,
come era uso del luogo. Ci ritirammo così nelle nostre stanze, mentre un
paggio ci annunziava, dopo che il principe s’era allontanato, che una
festa si sarebbe tenuta sul far della sera per il ritorno di Lendelin dal
Numer, e che eravamo invitati a partecipare. Io mi ritirai a riposare per
qualche ora, dopo aver consumato un povero pranzo, e in seguito mi
preparai per la festa.
La festa di quella sera fu una classica festa di corte, a cui anche tu ti
dovrai abituare, in cui i nobilotti locali fanno sfoggio delle loro
magnificenze e si mostrano zelanti nei confronti del loro sovrano solo
per ingraziarselo. A dire la verità Natul era poco interessato, forse anche
meno di noi, spaesati di fronte a quelle persone a noi sconosciute.
Sempre vicino al Grande Re, stava il fido e vecchio cancelliere
Zoradeas, ormai calvo e piegato dagli anni. C’erano stati dati degli abiti
sontuosi per l’occasione, ma Bellig li rifiutò cordialmente e indossò
un’altra tunica, un po’ più fine di quelle che usava di solito per i viaggi o
per la vita quotidiana. Alinea indossava invece uno splendido abito blu
notte, lungo e con strascico, mentre Luia vestiva un più austero abito
rosso che finiva alle caviglie. Io e Feilon eravamo vestiti da parata, con
degli abiti blu scuro venati ai fianchi d’azzurro, in cui la guardia
sembrava un grande cavaliere, mentre io non riuscivo a trovarmi a mio
agio.
Ma Lendelin quella sera sembrava veramente il principe che era; vestito
di tutto punto e ingioiellato, non poteva fare a meno di sembrare un'altra
persona da quella che avevamo conosciuto. Accanto a lui, il suo cugino
e amico Abantur: il nobile era alto quanto Lendelin, e anch’egli era
vestito nobilmente, fino al punto che i due cugini smbravano gareggiare
in splendore. Abantur aveva capelli corti e neri, e occhi neri. Una corta
barba incorniciava il suo viso, alla vista serio e intelligente. Sempre
50
provenivano dal suo male. Stringeva le mani del figlio con le sue e nel
frattempo bisbigliava:
- E’ giunto alla fine il tuo turno, mi raccomando, adempi il dovere che ti
è stato affidato, fino in fondo.
- Padre, non è questo il momento di pensare a queste cose…
- Sai benissimo che non avrò altri momenti per pensarci…fai ciò per cui
sei tornato…loro ti aiuteranno…devono farlo…non possono scegliere
altro…sono uomini giusti…ricordati della Profezia. Ora ti lascio; ho
adempiuto il mio compito, e senza remore né pentimenti, ora posso
andare via.
I suoi occhi si chiusero e si addentrò in un sonno che non avrebbe mai
trovato risveglio. Si spense regalmente, senza lamenti, nella notte.
Accanto a lui ci fu per tutto il tempo Lendelin, mentre noi tutti
attendevamo fuori della porta sperando in un risveglio di Natul. Neanche
Lendelin versò una lacrima, ma il dolore si leggeva nei suoi occhi.
Vegliammo il corpo del re per tutta la notte, in silenzio, osservando
meditabondi la salma e il viso del principe, su cui una folla di pensieri
s’inseguivano. Anche noi fummo presi dai nostri ricordi, ciascuno
ripensando ai propri cari. Quando ormai s’era quasi fatta l’alba Lendelin
ci congedò ordinando che nella mattinata si facesse il funerale e nel
pomeriggio la cerimonia d’incoronazione. Venerava suo padre, ma il
dovere che gli era stato imposto lo chiamava. Ci disse d’andare a
riposare e noi eseguimmo di buon grado i suoi comandi, mentre lui
rimase ancora un po’ nella camera del morto.
Salendo ciascuno alle proprie camere, mi fermai un attimo a parlare con
Feilon e Bellig. Il saggio mi chiese:
- Cosa credi accadrà ora?
- Lendelin sarà il nuovo Grande Re – risposi disattento.
- Sarà così facile?
- Cosa intendi dire…
Lo sguardo di Bellig era teso.
- Intendo dire che Lendelin è ricomparso da poco sulla scena, e qualcuno
potrebbe non voler stare sotto la sua ala protettiva. Nel Numer Ledolan
gli deve obbedienza, ma altrove?
- Non ti preoccupare, – c’interruppe Feilon – lui sa quel che deve fare;
ha trascorso tutta la vita imparando come comportarsi per momenti di
questo tipo. Non credo ci sia da preoccuparsi.
55
Era stato il destino a far divenire lei, Alinea, la madre del futuro Grande
Re. Non poteva smettere di pensarci, di pensare a quando lei e il marito
divennero da persone qualunque, fidati amici del Grande Re e
consiglieri. Personaggi prestigiosi e insieme ambasciatori dei nuovi
tempi. Quella cerimonia di incoronazione di Lendelin aveva trasformato
le loro sorti e assieme segnato il destino del loro figlio. Eppure non
56
Prescelto è il sovrano
Dal destino, dagli Eida.
Guida degli uomini,
Primo in battaglia.
La tua spada sia incisa
Da giusta lama
E la corona bagnata
Da saggezza divina.
Era una stanza povera e piccola, forse ricavata da poco dalle enormi
mura della stanza del trono. C’invitò a sedere e disse:
- Miei consiglieri, siete soddisfatti dal vostro nuovo ruolo?
- In effetti – rispose Bellig – nessuno di noi si aspettava un simile
trattamento.
- E come avrei dovuto trattarvi, voi che siete stati scelti dal destino per
aiutarmi? Comunque altri ancora si aggiungeranno. Ora però non è il
momento di pensare a queste cose. Difatti ho già bisogno di voi. Sapete
infatti che probabilmente, data la mia lunga assenza, qualcuno potrà
sfruttare la morte di mio padre per tentare di sconvolgere la pace del
regno. Perciò ho bisogno che delle persone fidate, voi, vadano
ambasciatori ai regni a noi alleati per annunziare che sono il nuovo
Grande Re, e sedare eventuali rivolte. Ognuno di voi porterà con se
mille soldati, per ogni evenienza, anche se spero in bene: con voi
partiranno anche i generali del mio esercito, qui presenti. Perciò tu
Bellig, andrai ambasciatore nel Rogan, tu Feilon, nel Minar, tu
Ewaniwe, nell’Oldar, Alinea andrà nel Ducato e Luia infine porterà la
notizia presso il suo vecchio signore Ledolan. Suppongo che sarà felice
di rivederla. Preparatevi perché partirete domani stesso; confido in voi.
Questo è quanto ho deciso. Avete domande da pormi?
Nessuno rispose né fiatò. Le decisioni di Lendelin ci apparvero
improvvise, ma nessuno ebbe in cuore, conoscendolo, di opporsi.
Improvvisamente, però, fu Abantur a prendere la parola:
- Grande Re Lendelin, non ho nulla da opporre alle tue decisioni. Invece,
ho da porti una richiesta.
- Parla Abantur – disse serio Lendelin.
- Sai bene cosa sto per dirti, perché già avevo posto la stessa questione a
tuo padre. Già molti volontari sono pronti a partire, e le mie truppe
desiderano seguirmi…
- Abantur, mio caro, perché desideri così tanto morire?
- Non desidero morire, Lendelin. Ma non posso attendere oltre: non
posso attendere finché tutto sarà perduto.
- Perché diffidi così tanto della Profezia? Rinuncia a procurarti ora la
rovina, e attendi quando tutto dovrà accadere.
- Mi spiace Lendelin. Se vuoi, fermami, ma so che non lo farai. Presto
partirò con quanti vogliono seguirmi, e assieme ci volgeremo ad ovest,
verso la vittoria, o la morte. Sai perché agisco così, e sebbene non ci sia
posto per me nella Profezia, tuttavia, abbi fiducia, e prega per me.
59
VI
Abantur e Lutian
uomini. In tutto ciò, solo gli occhi limpidi di Lutian brillavano sotto lo
sguardo invisibile del Viandante. Il giovane rallegrava col suo fare
allegro quanti incontrava, portando un po’ di ristoro e quiete fra i
pensieri che si affacciavano alla mente dei più. Naturalmente, un occhio
di riguardo, nella sua giovane incoscienza, aveva per il fratello
maggiore. Abantur era per Lutian un modello: tuttavia, Lutian non era
un guerriero, cosa che invece era Abantur. Lutian era ancora un ragazzo,
e per di più aveva trascorso tutta la vita sui libri. Non sapeva nulla, in
realtà, di sangue e spade: e pur tuttavia, aveva voluto partecipare alla
spedizione. Lì, per Lutian, ci sarebbe stato bisogno di lui. Lo sentiva nel
cuore.
Ma intanto, malgrado il ragazzo, il deserto ingoiava nelle sue aride gole
gli uomini che erano giunti ad affrontarlo. E per di più, dei nemici, delle
creature che si andava a distruggere, neanche l’ombra. Il Viandante
sapeva, aveva già visto come quella spedizione, in cerca di gloria,
avrebbe trovato solo la morte: e in cuor suo piangeva. Quante di quelle
persone si sarebbero potute salvare, se per il troppo ardire non avessero
seguito il loro coraggio? Non trovava risposta per quella domanda, e del
resto sapeva che, anche se avesse potuto sapere come sarebbero andati
gli eventi senza la decisione d’Abantur, tuttavia la cosa non avrebbe
influito. Vedeva ciò che accadeva, ciò che sarebbe accaduto e ciò che
già era passato. Nondimeno il suo cuore sanguinava, mentre la fine di
quelle genti s’apprestava.
Secondo i calcoli, l’esercito s’avvicinava all’estremo confine del
deserto, quando, come un fulmine ed un lampo, venne la battaglia.
Fiaccato dal calore, dalla marcia, e soprattutto, stanco in cuore, l'esercito
d’Abantur si trovò davanti le forze del Nemico: quindicimila Uomini
Neri, spuntati chissà da dove, chissà quando, avevano accerchiato le
forze degli uomini. Quell’esercito di creature malvagie attendeva da
tempo di attaccare battaglia, e in realtà seguiva da molto le forze
d’Abantur: ora, in luogo favorevole, in un’amena valle dove le forze del
Grande Regno apparivano strette, si apprestava all’attacco.
Lo sconforto prese le forze degli uomini, ora che giungeva ciò che
avevano ricercato. Fra tutte, due sole voci si mantenevano salde.
Abantur allora rinfrancava le anime, mentre Lutian riscaldava i cuori.
Infine, poco prima della battaglia, Abantur si rivolse alle truppe:
- Soldati, compagni, voi che mi avete seguito: udite ora le mie parole, e
assieme affrontiamo il destino che ci siamo guadagnati. Abbiamo
63
Così perì Lutian, con un dolce sorriso sul volto, sotto gli occhi, in
lagrime, del Viandante. Di quell’esercito di valorosi stolti, non uno fece
ritorno a casa, né alcunché se ne seppe a Tedaran.
66
67
VII
Incontri nell’Oldar
essere divisi. Suvvia, non fare caso a ciò che questi ubriachi t’hanno
detto, e rifletti.
Mi lanciò uno sguardo penetrante, come se avessi colpito nel segno:
- Conducimi dal tuo re, e poi si vedrà.
- Va bene, se è questo che vuoi, per accettare.
Ci ritirammo, io e i soldati nelle nostre tende, lui nella sua camera nella
taverna, convenendo che l’indomani saremmo partiti assieme.
Giungemmo alla nostra meta il giorno dopo. La capitale dell’Oldar è in
realtà poco più che un villaggio, se paragonata ad altre grosse cittadine
del Grande Regno. Quando vi giungemmo, chiedemmo subito di essere
accolti dal re Orennir. Fummo accolti nella sala del trono. Appena
entrato mostrai il sigillo e dichiarai:
- Buongiorno, re Orennir. Io, Ewaniwe, vengo a te come messaggero del
nuovo Grande Re, Lendelin.
- Lendelin? Ma non era scomparso? E suo padre che fine ha fatto?
- Come anche tu sai Lendelin era scomparso, ma ora è tornato dai luoghi
dove è stato, col nome di Lendelin Eidur, al suo stesso padre che,
riaccoltolo, l’ha poi mandato a sanare una rivolta nel Numer. Natul è
morto pochi giorni fa di vecchiaia e Lendelin ha ereditato la corona in
una cerimonia ufficiale.
- E così il Grande Re Natul è morto, giusto?
- Si, sire.
Il re mandò tutti i presenti fuori e rimanemmo nella sala solo io e lui.
Scese dal trono e iniziò a passeggiare ossessivamente:
- Dimmi, Ewaniwe, perché dovrei riconoscere Lendelin come nuovo
Grande Re?
- Sire, perché non credo che voi vogliate lo scontro con il Tedar.
- Già, né Lendelin vuole lo scontro con noi.
- Credo proprio di no.
- Ma io che cosa ci guadagno?
Mi guardò fisso negli occhi, e io guardai fisso nei suoi.
- La sua gratitudine non vi basta, vero?
- Esatto.
- Cosa volete?
- Mia figlia moglie del re.
- Non posso decidere io sulla consorte del Grande Re.
- Lo so, – il suo sguardo si faceva sempre più intenso – per questo voglio
che tu comunichi al Grande Re la mia proposta.
70
occhio un barbaro aggirarsi fra quelle case. Melin mi portò nella piazza
centrale della città, mostrandomi da lontano l’edificio più imponente di
tutto il regno:
- Ammira, quello è il Tolliak.
- Ammira? Non speravo di poterle dare del tu, principessa.
- Non ti preoccupare.
Mi guardò negli occhi e il mio sguardo rimase ammaliato dal suo.
- Sai cos’è il Tolliak.
- Veramente – risposi – non ne ho idea.
- E’ il più grande stadio del mondo, oltre che il più importante. Lì si
tengono i giochi dei gladiatori.
- Non sono banditi?
- Qui no. Seguimi, oggi è giornata di spettacoli.
Andammo così al Tolliak. Lì una folla era radunata in attesa di quei
cruenti giochi. La principessa Melin si sedette alla mia destra, mentre il
re e i suoi dicnitari stavano seduti una fila sotto di noi. Accanto a me
Colwey rabbrividiva ogni volta che vedeva la fine di un gladiatore, ed io
con lui:
- Sai quante volte ho rischiato quella fine? Ormai non le conto più.
Dopo che proferì quelle parole si voltò assieme a me verso una curva
dello stadio. Era appena finita la terza gara dei gladiatori che un urlo si
levò da quella curva: era stata decretata la fine del gladiatore sconfitto.
Dapprima pensammo che quegli uomini protestassero per la morte di
uno dei loro prediletti, poi però lo sguardo di Colwey si fece di ghiaccio
e con fare frenetico si alzò e trascinando per le braccia me e Melin ci
disse:
- Dobbiamo fuggire! È una rivolta!
Ci levammo senza ben comprendere, ma poi vedemmo anche noi ciò che
il gladiatore aveva osservato per primo. Da lontano vedevamo le
scintille delle lame, mentre correvamo verso le uscite: non ci curammo
di Orennir, ma fuggimmo veloci, senza voltarci. Alle uscite degli uomini
stavano cercando di richiuderle, ma io e Colwey con una spallata
riuscimmo a tenerle aperte e a scappare. Proseguimmo di corsa per le
strade, trascinando con noi Melin e quei pochi dei miei uomini che
riuscivamo a trovare. Correvamo in direzione dell’accampamento,
mentre, dietro di noi, la folla ci inseguiva brandendo qualsiasi tipo di
utensile avesse trovato nelle proprie dimore. Giungemmo
all’accampamento, e qui disposte rapidamente le difese, iniziammo la
73
battaglia.
I rivoltosi avevano deciso che tutto sarebbe nato al Tolliak, alla fine
della terza gara. Sicuramente gli importanti ospiti del re sarebbero stati
invitati ad ammirare i famosi giochi dei gladiatori dell’Oldar, e quella
sarebbe stata la migliore occasione per agire. Se li avessero presi e fatti
fuori, o meglio ancora, se avessero loro imposto di dichiarare l’assoluta
indipendenza dell’Oldar, avrebbero già compiuto un grosso passo verso
la loro meta. Tutto fu così deciso, nella notte, sicché la mattinata
risvegliò nella folla espressioni di sottile complicità. Non potevano
sbagliare, pena la distruzione dei loro propositi. Ma non avrebbero
sbagliato, o almeno così erano spinti a credere dalla loro foga.
Rimasi altri due giorni nell’Oldar, poi ritornai con Colwey a Tedaran.
Lasciai lì una parte dei miei uomini per evitare nuove rivolte, mentre io
tornavo da Lendelin ad avvertirlo dell’avvenuto riconoscimento del suo
regno. Viaggiammo per altri sei giorni, compiendo lo stesso tragitto, ma
all’inverso, dell’andata. Tornando a Tedaran ebbi modo di scorgere di
nuovo le calme rive del Lolin alla mia destra, scendere placidamente dal
Lago Maggiore attraversando due regni, il Tedar ed il Rogan, per poi
gettarsi sulle acque tranquille del Mare Interno. Giunsi a Tedaran che era
sera. Quando giunsi alla dimora del Grande Re, vi ritrovai già tutti i miei
amici che mi attendevano con evidente preoccupazione. Non appena mi
75
che il futuro ci imporrà nuove guerre e nuove lotte molto più pericolose
di quelle fino adesso affrontate. La carica datati rende anche te membro
del mio Consiglio: confido nella tua maestria nel combattere. Ora voi
tutti andate a riposarvi, ma sappiate che ho deciso che ciascuno di voi
risiederà nei luoghi dove è stato ambasciatore finché non lo richiederà
qui la necessità. Tu, Colwey, affiancherai Ewaniwe nell’Oldar, dato che
ci serve lì un uomo d’armi. Partirete il prima possibile, quindi ora andate
a riposare i vostri corpi e le vostre menti.
Ci ritirammo in quelle che già erano state le nostre camere, mentre a
Colwey ne venne data una nuova. Non riposammo parecchio quella
notte, anzi io, Bellig, Feilon e Colwey rimanemmo a chiacchierare con
in mano un buon bicchiere di vino, nella camera del saggio:
- Il Minar – fece Feilon – è un luogo bellissimo; sembra di vivere in
un’altra epoca, con tutte quelle vecchie costruzioni. Là vicino poi vivono
gli elfi, e la loro vicinanza porta molti benefici alla popolazione, che ha
uno stretto rapporto con la natura, dicono inferiore solo alle genti
d’oriente.
- Il Rogan – intervenne Bellig – è invece una terra di mercanti. Lì tutti
sono industriosi e si interessano di scambi con popoli lontani. Non
interessa loro la guerra, eppure fanno di tutto per avere più beni o più
ricchezze del loro vicino di casa. La loro cupidigia si può definire unica.
- Gli Oldariani – feci io – sono un popolo strano. Sono amanti delle
armi, ma non della guerra, e se sono esperti guerrieri, lo sono per timore
di invasioni esterne. Orgogliosi di nascita, arrivano a praticare le più
ignobili barbarie e a dedicare tutta la vita all’addestramento militare.
Eppure penso che il loro valore non si possa discutere e che in qualsiasi
caso sia meglio averli alleati che nemici.
- Il mio popolo – concluse Colwey – è diverso da tutti quelli che avete
nominato. Sempre in guerra con le vostre genti e con i popoli di
Gnomanar, vive alla giornata, sperando ogni mattina di giungere alla
sera. Viviamo di stenti e spesso siamo venduti come schiavi presso i
signorotti che vi governano. Altre volte siamo costretti a subire la voglia
di sangue del popolo presso gli stadi, tutto a causa degli odi intestini alle
nostre diverse tribù. Ma un giorno anche noi saremo un regno, un solo
popolo, e un re giusto ci guiderà alla libertà e ad una vita che sia degna
di questo nome.
In quel momento ci raggiunsero anche Luia e Alinea, che pretesero di
rimanere con noi. Sedutesi tutt’e due accanto a Feilon, anche Alinea ci
77
VIII
La Profezia
di più che scaramucce. Colwey, come me, aveva preso casa e risiedeva
anch’egli ad Oldaran. Ci vedevamo, di tanto in tanto, e tutt’e due
sembravamo tranquilli così, persi nelle nostre occupazioni. Talora
venivano Orennir e alcuni cortigiani a trovarmi, o io andavo da lui: ben
presto il re chiedeva che gli cantassi qualcosa, e io, ogni volta, cantavo
le gesta di Hentar, un condottiero Oldariano, che visse durante la
Seconda Grande Battaglia.
Bellig trovò alla fine la casa di Colwey. Era una piccola casa povera,
con mura di pietra grezza. Appena entrato, una donna, minuta ma
gentile, lo accolse e lo fece accomodare in una stanzetta scarsamente
illuminata. Colwey, il barbaro consigliere di Lendelin, arrivò poco dopo
che la donna s’era allontanata. Non appena vide Bellig lo strinse in un
caloroso abbraccio e gli chiese come stesse. Dopo i convenevoli, Bellig
passò subito al dunque:
- Hai saputo delle popolazioni scappate dalle Terre di Confine?
- Ti riferisci alla mia gente fuggita da occidente?
- Esatto.
- Ho saputo qualcosa, ma nulla più.
- Nel Rogan alcuni di loro ci hanno avvertito che folle di esseri
mostruosi si affollano nell’occidente, e che loro sono scappati per paura.
- Il mio popolo non scappa mai per paura.
- Dillo a quelli con cui ho parlato.
83
Nella mente di Alinea sbucarono anche i ricordi dei tempi che seguirono
la Notte delle Congiure. Lei andò fra i Timber del ducato, piccoli ometti,
allegri, gioviali. Non furono tempi difficili, anche se, di tanto in tanto, la
malinconia e la nostalgia prendevano il suo cuore: in quei tempi non
amava ancora Ewaniwe. Trascorreva giornate tranquille, fra quelle terre
placide, immerse nel Lago Maggiore, ogni tanto chiedendosi se la
leggenda dell’Isola dei Morti fosse vera o solo invenzione. Nessun grave
problema le si pose, né, tra l’altro, le terre dei Timber dovettero subire
invasioni di barbari come gli altri regni in quegli anni, perché di fronte si
paravano le ampie distese del Tedar e del Numer. Il cielo però era
84
sempre nero in quegli anni, quando a sera, il sole giungeva là dove cala,
e, lontane, le nubi all’orizzonte richiamavano oscuri presagi e lotte di
tempi passati e dimenticati. La dimenticanza, era questo il sentimento
che dominava allora. L’oblio. Ciascuno si occupava solo del presente,
non si ricordava dei sentimenti che aveva provato nel passato o delle
paure per il futuro. Si continuava così, senza una meta precisa, mentre
lontane, le nubi ad occidente, si facevano sempre più dense.
Colwey bussò con forza alla mia porta. Lo accolsi senza sorriso né frasi
di benvenuto, ma con una domanda:
- Ti ha mandato Bellig?
- Non mi manda nessuno, ricordatelo sempre.
Lo feci entrare e parlammo nell’ampia stanza color cremisi che usavo
come sala d’accoglienza. Melin, accanto a me, ascoltava attenta:
- Credo alle parole del mio popolo.
Proruppe con quella frase, e mi guardò squadrandomi dalla testa ai piedi:
- Puoi credere in ciò che vuoi!
- Dobbiamo prepararci.
- E per cosa? – Esclamai esterrefatto.
- Per la guerra!
- Non ci sarà alcuna guerra! – Gridai aggirandomi rabbioso per la stanza
– Tu, Bellig, Lendelin, sembrate non desiderare altro. Parlate solo della
guerra! Non avete altro a cui pensare? Tu hai una moglie! Perché non
pensi solo a lei e non ti riposi?
- Ma cosa stai dicendo, Ewaniwe?
La risposta di Colwey mi colse di sorpresa, e per un attimo, un attimo
solo, le idee mi si schiarirono:
- Ti rendi conto che il nemico è alle porte? O sei stato preso anche tu
dalla Corruzione, come quel Flaka di cui mi hai parlato tanto quando eri
in te? Non sei più tu!
- Come osi paragonarmi a Flaka? Ti rendi conto di quello che dici?
- E tu? – Mi prese, sollevandomi e scotendomi violentemente – E tu ti
rendi conto di quello che dici?
Ormai esasperato Colwey scappò via da casa mia, mentre io ero sempre
più perplesso sul da farsi, e Melin invano cercava di calmarmi. Anche lei
ora era presa dal dubbio, ma cercava di non mostrarlo, come per farmi
vedere che tutti e due avevamo ragione. Eppure, anche se io e Melin
eravamo convinti di avere ragione, qualche giorno dopo avvenne ciò che
85
tutt’e due temevamo. L’otto di Nroue una folla mai vista di barbari si
riversò sull’Oldar. Le mura della Nuova Frontiera, nel nord-ovest, al
limite delle Terre di Confine, non riuscirono a contenerli. Si riversarono
sul territorio già impoverito da lunghi anni di carestie, saccheggiandolo.
Le truppe di difesa, allestite in fretta e in malo modo, non riuscirono a
contenerne la foga, e questi barbari proseguirono congiungendosi poi nel
Rogan con altri che si erano riversati su quelle terre. Tutti assieme, poi,
giunsero infine nel Tedar, dove trovarono altri della loro stirpe, giunti
anche dal Numer. Ma quei barbari non si spinsero tanto oltre nella loro
fuga per sete di conquista o brama di potere. Quando si riusciva a
catturarne uno, per chiedere cosa li spingesse a fuggire, non si otteneva
altra risposta che questa:
- Mostri! Mostri, ad occidente… Ci portavano via…Le nubi…sono tutti
morti.
Il terrore era lampante nei loro visi, mentre le loro parole ci risultavano
sempre meno chiare. Eppure una volta Orennir mi fece udire ciò che non
volevo. Convocatomi a corte, mi presentò un vecchio, proveniente dalle
Terre di Confine, cieco. Il re iniziò ad interrogarlo sugli avvenimenti
recenti, in particolare voleva sapere da quell’uomo, che appariva
piuttosto calmo, il perché stessero scappando:
- Scappiamo perché abbiamo visto con i nostri occhi di cosa sono capaci
gli orchi di Gnomanar. Scappiamo perché abbiamo visto, evidentemente
non io, i nostri figli portati via, bruciare in immensi roghi ai nostri
confini. Cosa credete che siano quelle nubi che si levano ad occidente?
Sono le ceneri dei nostri cari.
Rimasi sconvolto da quelle parole. Orennir mi chiese il da farsi, in
quanto io ero lì il rappresentante di Lendelin; ma per la prima volta, non
gli seppi rispondere. Corsi via dalla corte, in mezzo alle vie, fra i
cunicoli più stretti. Corsi per ore, mentre intanto una fitta pioggia, e
scura, iniziò a calare da quelle nubi. Corsi verso una porta amica.
Quando la raggiunsi, bussai con tutto l’impeto che avevo in me. Fui
accolto da un volto silente. In una camera stretta e con poca luce, un
volto a me noto mi chiese:
- Come mai sei qui?
Cercai con i miei occhi il suo sguardo, lo sguardo di Colwey:
- Avevi ragione. Loro, le forze del Nemico, sono ai confini. Non
permetterò che prendano i miei cari.
86
- So bene cosa siamo noi e cosa sei tu. Io so tutto. Non è questo che
conta. Del resto è scritto che sarà un mortale a sconfiggerti.
Un grugnito di Gnomanar accompagnò quelle parole:
- Cosa accadrebbe se tutto ciò che sai, tutte quelle righe scritte da tempi
immemori, non risultassero veritiere? Cosa, dimmelo, Aliturn? Io sono
qui per dimostrare che non tutto è previsto, non tutto giace sotto di Lui.
Ricordati chi sono io, e da chi fui generato. Ricordatelo, Aliturn, e
temimi, perché non avrò pietà di chi oserà sfidarmi. Poi l’Oscuro si
volse veloce verso l’uscita e scomparve così nella sua notte, mentre con
un cenno della sua mano i libri della sconfitta di suo padre iniziarono a
prendere fuoco. Il Viandante era lì e osservò tutto, nella sua solita
silenziosa presenza. Aliturn ritornò a chinarsi sopra il libro di prima,
mentre, con un movimento della mano, dal suo sedile, spense quelle
fiamme dall’altro lato della stanza. Il libro era un unico canto, dalla
prima pagina all’ultima. Non aveva le pagine numerate, perché al suo
lettore non servivano, mentre scorrevano velocemente sino al punto che
egli desiderava. Iniziò a leggere un lungo brano:
IX
Tutto crolla
schieramento.
Da quel momento ho solo cavalcato, il più velocemente possibile, per
giungere fino a qui. Ma c’è dell’altro: tornando a questo luogo m’è
capitato spesso di incontrare sulla via delle spie di Gnomanar che
perlustravano alla ricerca di nemici o di prede. Con i miei uomini
abbiamo ucciso tutti quelli che abbiamo visto, ma temo che altri ci siano
scampati e che ora portino nuove notizie sulla via da percorrere al loro
sovrano nella sua reggia, lontano, molto oltre l’orizzonte.
Io ed Orennir ci lanciammo un lungo sguardo, mentre il gelo era calato
nella sala. Balbettai qualcosa, ma le parole morirono fra le labbra.
Seduto sulla mia sedia, ero rigido per il nervosismo. Orennir si grattava
il mento, passando le dita fra i peli della barba bianca. La tensione
s’avvertiva chiara, quando il re proferì parola:
- Tu dunque consigli la fuga?
- Si, mio signore.
- Secondo te abbiamo il tempo di mobilitare tutta la gente?
Colwey rimase in silenzio per un attimo, poi rispose:
- A dire la verità, non so. Spero che il tempo rimasto ci basti.
- Così com’è ora la situazione, non basterà. Abbiamo bisogno di
bloccare il nemico, preferibilmente in un punto in cui si possa farlo
senza grosse perdite, e lontano dalle nostre terre. Dobbiamo allestire una
forza che serva a prendere tempo, mentre intanto il popolo potrà fuggire
lontano, nel Tedar, o meglio ancora, Nel Minar. Dovremo avvertire
Lendelin, sebbene credo che anche lui si trovi alle prese con la nostra
stessa situazione. Nelle vostre ricognizioni, avete visto qualche territorio
che secondo te può essere adatto ad attaccare battaglia contro il nemico?
- Credo che la zona migliore per un tale scopo sia il vallo di Onidar,
subito ad est della Nuova Frontiera. Il vallo è il passaggio più accessibile
della Nuova Frontiera, se non l’unico, e ciò spingerà il nemico a tentare
di passare da lì: eppure il vallo è il punto più sicuro per attaccare
battaglia, per chi già lo tenga. È un passaggio stretto, posto al confluire
delle mura, dove al massimo si può combattere in file di tre uomini. I
carri non possono passarvi, a meno che non si riesca a distruggere le
mura qualche chilometro più a sud. Se riusciremo a bloccare lì il
nemico, penso che arriveremo a guadagnare anche una settimana.
Rimasi in silenzio a guardare quei due che dibattevano di guerra,
ammettendo la mia ignoranza in materia di strategia. Colwey smise di
parlare con quelle ultime parole, lasciando di nuovo nel silenzio il re:
92
questi continuava a passare la mano fra i peli della barba. Poi, smesso
quel movimento, passò la stessa mano fra i capelli, e disse:
- Va bene, è deciso. Raduna al più presto un contingente di mille uomini.
Io poi lo guiderò in battaglia al vallo di Onidar. Tu, Ewaniwe,
organizzerai la fuga del popolo, compresa mia figlia, e manderai un
messaggero al vallo quando sarete già lontani. Io e l’esercito, sperando
di aver resistito tutto quel tempo, fuggiremo quando arriverà quella
notizia. Mia figlia Melin e Colwey verranno con te, cosicché, se io
cadrò, almeno il regno avrà viva l’erede; questo è quanto è deciso. Ora
andate ad attuare quanto vi ho chiesto di fare. Cercate di fare più in
fretta possibile perché non abbiamo molto tempo.
Uscimmo fuori dalla sala e corremmo tutti ai nostri compiti, prima però
andai a trovare Melin nella sua camera a castello e le riferii le notizie.
Melin corse allora ad abbracciarmi, preoccupata per me e per suo padre
e mi chiese:
- Ewaniwe, dimmi la verità, secondo te moriremo tutti?
- Ma cosa dici, – le risposi – andrà tutto bene, vedrai.
- Spero che tu abbia ragione, ma ho un brutto presentimento per mio
padre.
- Non preoccuparti, tu e tuo padre starete per sempre assieme.
Chiusi la discussione con quella frase, tentando di rincuorarla. Mi
allontanai di corsa da palazzo, avvisando degli uomini fidati di dare
l’ordine alla popolazione dell’Oldar, di evacuare il più in fretta è
possibile il paese. Ordinai anche di tentare di non spargere inutilmente il
panico, ma di essere decisi nel comunicare l’ordine.
I mille uomini furono radunati abbastanza in fretta e partirono con il re
alla volta del vallo, fuori dalle frontiere dell’Oldar. La nostra
mobilitazione fu terminata due giorni dopo la partenza del re. Guidati da
me e Colwey, partimmo con tutto il popolo dell’Oldar che s’era adunato
fuori dalle mura di Oldaran; altra gente, però, già era fuggita ad oriente,
non appena le notizie s’erano diffuse. Tutti quelli che fuggimmo dalla
capitale del paese avanzammo per un paio di giorni, ma il nostro passo
era lento e discontinuo. Nella retroguardia stavano Colwey con gli
uomini dell’esercito, mentre io stavo nelle prime file a guidare la fuga.
Melin faceva la spola fra la folla per cercare di rincuorare gli animi e
incitare ad andare più veloci.
Giungemmo ai monti Kaldei e li superammo in due giorni di viaggio.
Non ottenevamo notizie dal vallo, né i nostri osservatori ci informavano
93
voi nella lotta, sebbene ormai i capelli bianchi incornicino il mio volto.
Non chiederò la vostra pietà, né il vostro aiuto in battaglia: oggi invece
vi chiedo coraggio e pietà verso coloro per cui combattete.
Orennir si spostò e si diresse verso le mura. Prese la sua spada e iniziò a
graffiare uno di quei mattoni che componevano la Nuova Frontiera. Vi
scrisse qualcosa, poi tornò a parlare ai suoi sudditi:
- Uomini, qui ci coglierà la morte da eroi, e se il cielo vorrà, la salvezza
delle nostre famiglie. E questa dedica che qui ho inciso, sia per tutti voi
monito e incitamento quando brandirete la vostra lama.
Si volse indicando il mattone ai suoi uomini, e lesse:
O Uomo, ricorda,
Che ubbidienti al nostro dovere
Noi qui giaciamo.
- Questo è tutto. Ora chiunque di voi non sia di guardia vada a dormire,
perché domani ci accoglierà la battaglia.
Gli uomini si accovacciarono tutti per terra, cercando di riposare. Pochi
di loro ci riuscirono davvero, mentre tutti gli altri furono presi dai ricordi
delle mogli lontane. Ricordi di volti assalivano quei soldati, mentre
accanto la spada non rifletteva la luna, coperta da un velo nero, spezzato
lontano da una stella che sola splendeva a nord est. Orennir fece un
breve giro fra i suoi uomini per tentare di rincuorare quelli più abbattuti,
e poi fece la stessa cosa fra quelli di guardia. Dopodiché si distese
anch’egli per terra, tenendo fra le due mani la sua spada. Questa aveva
nel manico incassato un piccolo scarabeo blu, ricordo della nascita di
Melin. Ripensò alla figlia, ammettendo che fra breve sarebbe divenuta la
regina del suo popolo; in fondo anch’egli era convinto che Ewaniwe
sarebbe stato un buon re. Poi calò il sonno e il resto della notte furono
sogni insondabili.
La mattina li risvegliò con il fuoco. Le schiere nemiche avevano acceso
con l’arrivo del sole dei falò tutt’attorno alle mura, e i fumi che venivano
da quelle fiamme impedivano di vedere con chiarezza. Schieratisi poi in
strette file, le orde nemiche erano pronte per l’attacco. Orennir, dette le
ultime parole, si sistemò nel posto che egli s’era affidato e poi disse ai
suoi di aspettare l’attacco al Vallo.
A mezzodì gli orchi si lanciarono all’attacco. Fu un attacco violento, che
fece cadere velocemente le prime due file di uomini. Nessuno degli
95
orchi però riuscì a penetrare le mura, ma anzi per ogni uomo caduto ne
cadevano quattro di essi. Le lame degli uomini erano sporche di sangue,
e il puzzo di quei mostri si faceva sempre più nauseabondo per il sudore
e il caldo. Nuove ondate arrivavano, facendo sempre la stessa strage di
uomini. La situazione era di stallo, e se le perdite erano nettamente
superiori fra gli orchi, il ricambio delle file del Nemico sembrava
infinito, quando già una cinquantina dei mille uomini erano periti. Le
loro salme venivano semplicemente spostate, se non calpestate e lasciate
come scudi umani di fronte al passaggio nella Nuova Frontiera.
Tutta la giornata trascorse così nella lotta, mentre la sera Orennir
approntò dei turni, per cui per qualche ora era la metà dei superstiti che
presidiava il vallo, mentre poi l’altra metà dava il cambio.
Giunse la nuova giornata, che fra i mille erano morti un centinaio di
persone. L’atmosfera era pregna dell’odore dei cadaveri, su cui lontani
volteggiavano già dei corvi. Quando si aveva un po’ di tempo si cercava
di bruciarli, per evitare malattie, o peggio ancora, che divenissero
vittime delle malefiche manipolazioni di Gnomanar. Orennir, sempre fra
le prime file, continuava a maneggiare la sua lama, e le file nemiche
continuavano a cadere, apparentemente senza difficoltà di ricambio. Il
sole si levò così all’orizzonte, pallido e distante, apparentemente
incurante delle lotte sotto i suoi raggi.
La figura nera, alla guida dell’esercito nemico, andava e veniva fra le
prime file, dileguandosi fra le gambe dei suoi soldati e scomparendo fra
i fuochi accanto alle mura. Un brusio, come di spade e armi che si
scontrano contro la pietra, accompagnava la giornata, continuo.
Sembrava come il canto e le musiche che talora i generali fanno suonare
durante le battaglie per incitare le proprie forze: o così almeno
pensarono gli uomini. Durante il mezzogiorno anche gli orchi smisero di
attaccare, evidentemente riarsi dalla calura, ma quel rumore non si
placò. I fuochi continuavano ad essere alimentati, e anzi gli orchi si
davano grande cura, anche mentre non combattevano, di mantenerli vivi.
Su quelle fiamme ardevano tutto ciò che avevano a tiro, compresi i
cadaveri dei loro compagni. Nel pomeriggio ripresero le lotte, fra le
forze sempre più stanche che custodivano il vallo e l’esercito del
Nemico: le nuove ondate d’attacchi fecero di nuovo un centinaio di
vittime, sicché all’arrivo della sera Orennir poteva contare soltanto su
circa ottocento soldati. Come la sera precedente, anche questa volta non
si sospesero gli scontri. Stabiliti turni come la notte precedente, Orennir
96
X
Genti d’oriente
Viaggiammo tre giorni verso nord. Feilon conduceva i soldati del Tedar,
mentre gli arcieri vestiti di bianco viaggiavano un centinaio di metri più
avanti di noi, davanti al popolo in fuga. Erano elfi provenienti dal Lovar,
una terra ad est del lago maggiore. Quella era la famosa batteria d’arcieri
chiamata Elfidraghi, e il loro comandante era Innioles. Vestivano
completamente di bianco, tranne l’elmo, che aveva ai lati delle
sporgenze a forma di ali di drago e che era di color rosso acceso. Non
seppi altro per il momento sul perché si trovassero lì, né mi informai,
dato che avevo già i miei problemi. Melin era morta, e il dolore per la
sua perdita mi bruciava il cuore, ardendo le membra. Colwey era
abbastanza ammaccato dopo la lotta, ma tutto sommato stava bene.
Anch’egli aveva perso la moglie, che aveva invano cercato d’allontanare
da sé, ma senza risultato. Era morta press’a poco come era morta Melin,
assalita dagli orchi bramosi di sangue.
Avevamo contato numerose perdite fra la popolazione che aveva lottato
contro gli orchi, e inoltre l’arrivo di quell’esercito poteva significare
solo la sconfitta di Orennir al vallo di Onidar. Il viaggio non fu funestato
da nessun altro attacco, e pian piano la calma tornò fra la gente, anche se
all’arrivo della sera serpeggiava nuovamente la paura di essere assaliti,
magari nel sonno. Alla sera ci accampavamo alla bell’e meglio,
cercando di allestire turni di guardia, ma la poca abitudine alla vita
militare da parte della popolazione civile e la stanchezza portavano
spesso molte guardie ad addormentarsi. Giunti a Tedaran, il problema
principale fu trovare una sistemazione per quella massa di persone.
Molti altri fra gli Oldariani e i Roganiani che erano fuggiti, erano già
giunti nel Tedar. Altri erano morti sulla via. Ora una massa di gente
attendeva una sistemazione provvisoria, nell’attesa che i tempi
mutassero ancora. Lendelin ci accolse e ordinò, con un bando, ad ogni
famiglia del Tedar di ospitare almeno due fuggiaschi, ma alla fine della
100
circa un metro e ottanta, l’uno con carnagione dorata, l’altro molto più
chiaro in viso. I capelli corti e scuri, quello vestito di blu, lunghi e rossi,
l’altro. Ma ciò che spiccava evidentemente di più erano le orecchie a
punta ai lati del loro viso, l’elemento che distingueva chiaramente quegli
elfi da noi uomini, almeno a prima vista. Lendelin li presentò:
- Miei cari, vi presento Ronilis del Morien e Mel del Lovar; – indicò
prima quello vestito di blu e poi l’altro – prego signori, accomodatevi,
dato che da oggi anche voi fate parte di questo Consiglio.
I due si accomodarono su due sedie libere e rimasero in silenzio.
Lendelin tornò a prendere la parola, volendo evitare il silenzio che stava
scendendo sulla sala:
- Bene, dato che neanch’io so molto di voi, sebbene mi fidi ciecamente
di chi vi ha mandato, vorrei conoscervi di più; vi prego di presentarvi a
me e ai miei amici.
Quello con la pelle più scura si alzò dalla sua sedia e si presentò:
- Il mio nome è Ronilis e sono nato a Norenar, capitale del Morien,
settant’anni fa; – s’accorse dello stupore nei volti di tutti tranne che in
quelli di Lendelin e dell’altro elfo – i miei anni sono pochi a paragone
della vita degli elfi, chiamati gli eterni perché non muoiono mai, a meno
che non si macchino di qualche colpa; allora sono condannati ad una vita
mortale di circa cinquecento anni. Ben presto sono entrato a studiare
nella Torre della Magia dell’acqua, nell’est della mia terra, dove ho
appreso per lunghi anni le arti della magia. Fra i miei conterranei sono
considerato un saggio, malgrado la mia giovane età, e per questo motivo
sono stato mandato qui a recarti il mio servizio, Grande Re Lendelin
Eidur. La mia terra s’estende fra il Mare Interno e l’Oceano delle
Cascate. Attraversata dai monti Mellorion, da cui nasce lo splendido
fiume con lo stesso nome. Verdi i campi e fertili le pendici dei monti,
ma non di questo vive la mia gente. Amiamo il mare e l’acqua è la
nostra più grande amica, sicché, a differenza degli altri elfi, navighiamo
con navi e tentiamo di esplorare tutto il mondo, anche là dove esso non è
conosciuto, nei mari del sud, oltre l’Isola dei Druidi. Norenar, la nostra
capitale, attraversata dall’omonimo fiume, è famosa per il suo immenso
porto, grande quanto tutto il resto della città, dove giungono da ogni
parte le genti di tutte le terre per commerciare con noi, per conoscere la
nostra cultura e per udire le nostre scoperte. Poi, la Torre della Magia
dell’acqua è il luogo più straordinario del Morien. Eretta dagli
incantesimi dei maghi, è fatta di acqua che scorre dal basso verso l’alto e
104
Mel m’interruppe con la mano, e senza dire alcun altra parola e senza
spiegazioni, iniziò a cantare così:
L’alba risveglia le case,
Le stanze, le vie, la gente.
Tutto è un fremito di vita
E mani industriose lavorano.
Splende la luce del sole,
Splendono le acque alle fonti,
E la città del Bianco si sveglia
Nel giorno che svelto s’innalza.
I bimbi giocano nei vicoli,
Le madri lavorano la tela.
Canti s’innalzano dalle piazze
E nel silenzio rimangono le armi.
Splende la luce del sole,
Splendono le foglie delle piante,
E la città del Bianco si sveglia
Nel giorno che svelto s’innalza.
109
XI
Alinea
Alinea continuava a vagare fra i suoi ricordi, di quando ancora stava fra i
Timber del Ducato, in mezzo al Lago Maggiore. Abitava una casetta
proprio sulla riva occidentale dell’isola di Hena, vicina al Lago, e le
placide acque del luogo la accoglievano ogni mattina al risveglio e la
salutavano alla sera quando andava a dormire. Conosceva molti di quei
Timber che abitavano nelle vicinanze, così piccoli e gioviali – avevano
tra l’altro preso l’abitudine di rubare anche a casa sua, restituendole
naturalmente tutto dopo un po’, come loro uso; – ma non aveva
realmente degli amici lì. Ogni tanto Luia in quegli anni veniva a trovarla
dal Numer, raccontandole di come le terre producessero sempre meno, o
di come la folla fosse sempre più povera. Non erano certo bei tempi,
però non le sarebbe dispiaciuto di venire a sapere qualcosa di più frivolo
da quella donna. Ogni tanto le chiedeva di come andassero le cose con
Feilon, e quella allora, arrossendo in viso, usciva compiaciuta da una
borsa che teneva sempre con sé, delle lettere mandate dal generale dal
Minar. Erano lettere piene di passione, d’un amore lontano ma vivo.
Invidiava allora profondamente Luia, perché lei, in fondo, allora era
felice; aveva trovato in un modo o nell’altro ciò che cercava nella vita.
Invece lei allora si sentiva così sola, senza niente, abbandonata.
Malediceva il proprio destino che l’aveva voluta prima senza i genitori,
e poi, quando si sentiva in una famiglia e credeva d’avere trovato un
fratello, lontana anche da quello e priva dei cari. Non resisteva più nel
Ducato. Aveva bisogno di stare con altri uomini, con persone che le
fossero care. Il fatto che Luia era stata richiamata nel Tedar la faceva
sentire ancora più sola, perché almeno quella donna ora stava assieme ai
suoi amici, mentre lei si ritrovava ancora in mezzo ad estranei. Decise
così di lasciar perdere, di fare di testa propria. Lendelin non poteva
pretendere che lei reggesse tutto quel tempo la solitudine, senza
oltretutto dover fare nulla di particolare in quel luogo fin troppo
112
salvare chi perderai per strada. Non sarà il tuo destino salvarli, che ad
altre braccia toccherà liberare quelle genti. Non riferire a nessuno ciò
che ti ho detto, perché toccherà a me parlare con i destinati all’impresa.
Va ora, non perdere tempo, che quando tu sarai giunto a Tedaran questa
biblioteca sarà distrutta!
Il grande Re corse via, mentre, immobile, Aliturn lo osservava. Cavalcò
via, verso Tedaran, dove giunse però solo sul far del sole. Nello stesso
tempo giunsero le forze del Nemico e distrussero la biblioteca. Nessuno
vi era più al suo interno, e un solo tomo era scomparso da quegli
scaffali, prima che tutto ardesse in un fumo nero.
Il Viandante si aggirava sopra quello che era stato fino a poco tempo
prima un campo di battaglia, e che ora era solo una vasta piana desolata.
I mannari ringhiavano sopra la popolazione impaurita, sebbene molto
maggiore di numero, vinta dal terrore. Un fischio li fece però arretrare, e
sopra quella folla inerme giunsero allora gli Uomini Neri. I tre Stregoni
Neri li guidavano, mentre passeggiando fra quelle persone le facevano
svenire dalla paura che essi incutevano. Tutta quella gente venne
incatenata e condotta ad ovest dagli orchi e dagli Uomini Neri che
ritiravano, mentre la piana era lasciata allo svago dei mannari. A capo
delle truppe che viaggiavano verso ovest, i tre Stregoni lanciavano le
loro magie di controllo sulle menti dei prigionieri, mentre fra questi,
stordita e sonnolente, Alinea marciava inconsapevole.
121
XII
Ritorni
Alinea, come tutti quelli che stavano con lei, fu condotta all’interno del
Rogan. Camminavano lentamente, ma si fermavano solo poche volte, di
tanto in tanto, quando erano gli stessi mostri che li conducevano a
necessitare di una sosta. I tre Stregoni non si voltavano mai verso di
loro, eppure solo la loro vista le incuteva grandissimo terrore. I mostri
erano ancora più orrendi, visti da vicino, e ancora maggiore era il loro
puzzo; parlavano fra loro in una lingua che le risultava per la maggior
parte incomprensibile; solo ogni tanto riconosceva qualche parola che le
sembrava simile a quelle degli elfi o degli uomini, ma pronunciate fra
grugniti e rumori di ogni genere, con cadenze e accenti a lei del tutto
estranei. Alcuni mannari venivano dietro alla lunga fila umana, famelici
nell’aspetto, attendendo soltanto che qualcuno, stremato dalla fatica,
cedesse e rimanesse indietro, fra di loro. Viaggiarono così, sempre
lentamente, per non sapeva dire quanti giorni, cosicché la fame e la
stanchezza s’erano sempre più impadroniti di lei. Eppure tentava di
rincuorare chi le stava attorno, facendo di tutto pur di non far vedere di
avere terrore quanto gli altri. Gli orchi torturavano chi rimaneva indietro,
se non lo lasciavano ai mannari, o chi tentava la fuga. Le loro sevizie
potevano essere atroci, potevano arrivare fino alla morte della vittima.
La sera si viaggiava ancora più velocemente del mattino, quando invece
la calura imponeva di riposare per non morire disidratati. Non c’erano
vettovaglie, provviste o qualsiasi altra cosa di cui nutrirsi, ma invece gli
orchi ogni sera mandavano a caccia una pattuglia, che tornava
regolarmente con delle prede, spartite per la maggior parte fra i mostri e
solo in piccole razioni fra i prigionieri. Molti non ce la fecero più e
morirono per gli stenti, mentre il loro cadavere veniva sbranato dai
mannari; talora però erano gli stessi orchi a mangiare i cadaveri di chi
moriva per gli stenti, avendo così la possibilità di cacciare di meno la
122
Io, Colwey e Feilon stavamo già preparando gli uomini sopravvissuti per
uscire dalle mura e andare a riprendere le persone catturate, quando
Lendelin ci ordinò di non compiere alcun atto insensato. Fu organizzato
un Consiglio in una piccola tenda tirata su alla bell’e meglio al
momento, per decidere sul da farsi. Io e Colwey, assieme al generale,
iniziammo a protestare:
- Lendelin, perché non vuoi che cerchiamo di salvare il nostro popolo?
Cosa ti prende in questo periodo?
Lendelin era scuro in viso, cupo, indeciso. Iniziò a tormentarsi le mani e
il volto, poi ci rispose:
- Miei amici, non è per la mia volontà che vi chiedo di seguire i miei
ordini, ma perché questo ordine parte direttamente dagli Eida.
- Cosa vuoi dire? E poi, hai intenzione di abbandonare così il tuo
popolo? Di tradirlo? Se tu hai questa intenzione, io non ce l’ho, anche
perché fra quella gente c’è Alinea.
- Calmati Ewaniwe, capisco le tue ragioni, il tuo affetto per Alinea…
- E allora non impormi un ordine a cui sai che io non potrò obbedire.
Lendelin stava per replicare, quando un nunzio entrò di fretta nella
tenda. Corse all’orecchio del Grande Re e dopo aver sussurrato qualche
parola si dileguò fuori. Lendelin si fece ancora più scuro:
- Buone nuove? – Chiese ironico Colwey.
Lendelin gli lanciò uno sguardo che avrebbe potuto uccidere:
- Il Numer è caduto, vittima di un altro attacco.
Luia trasalì:
- Ledolan e il mio popolo si sono salvati? – Chiese ansiosa.
123
- Il nunzio diceva che il re Ledolan assieme a parte del suo esercito e del
suo popolo è riuscito a fuggire e sta giungendo qua attraverso la stessa
via che abbiamo intrapreso noi.
Ci guardammo in viso. Eravamo tutti evidentemente stravolti, per la
fatica del viaggio come per la dura lotta che ci aveva visti sconfitti.
Alinea era scomparsa, ed io ero fermamente intenzionato a cercarla.
Lendelin interruppe il silenzio:
- Bene, non ci resta altro da fare che attendere l’arrivo di Ledolan e
concordare tutti assieme il da farsi. Non sarò io a decidere, dato che non
esiste re senza il suo popolo. Seguirò le indicazioni della maggioranza
fra di voi.
Uscimmo fuori dalla tenda e attendemmo che arrivasse Ledolan con i
suoi.
accompagnato dal Grande Re. Prima però si riposò dopo quel lungo
viaggio, dopo quella frettolosa fuga e il disonore della sconfitta, e
soprattutto, dopo l’abbandono delle sue genti, quelle persone che gli
erano state affidate dall’allora Grande Re Natul. Dopo il breve riposo
venne a Lendelin, cui raccontò come ogni cosa s’era svolta.
così:
- Penso che l’opinione di Ewaniwe, Feilon, Colwey e Luia sia nobile,
ma il loro comportamento sarebbe inutile. Che senso avrebbe sprecare la
vita per una morte gloriosa, che lascerebbe al loro destino sia coloro per
cui ci muoviamo, che quelli che lasceremmo qui, incitandoli ad andare
ad oriente? Inoltre il Minar e la Grande Muraglia sono luoghi assai
difendibili, cosicché avremmo il tempo di cercare davvero i Numenali,
come dice Lendelin. Oggi dobbiamo essere realisti e cercare il modo
migliore per sopravvivere, non quello migliore per morire. Io sono
d’accordo con il Grande Re.
La decisione fu presa così. Io, Colwey, Feilon e Luia ci guardammo in
volto, adirati e stanchi, accettando malamente quella scelta. Il Consiglio
fu sciolto e uscimmo dalla tenda. L’ultimo ad uscire fu Lendelin,
anch’egli provato, sebbene la sua opinione alla fine avesse prevalso.
andare da solo a cercare Alinea, magari con Colwey, che insisteva per
seguirmi. Eppure non ebbi il tempo di realizzare i miei piani, che un
nunzio ci avvisò di nuovi eserciti nemici che giungevano alla Grande
Muraglia. Lendelin decise di lasciare il popolo lì dove si trovava, mentre
furono, per l’ennesima volta, reclutati in fretta e furia tutti coloro che
potevano combattere per difendere il confine. La cavalleria del Numer
fu però lasciata a difesa del popolo, anche perché, dato che ci si
accingeva a difendere le mura, non sarebbe stata di grosso aiuto nella
battaglia. In mezza giornata fummo alle mura, dove erano già pronti
degli uomini del Minar. Tellon ordinò loro di prepararsi alla difesa,
mentre Rendall guidò i pochissimi Roganiani rimasti in vita. Colwey ed
io prendemmo il controllo degli Oldariani; Innioles con Mel e Ronilis
comandava gli elfi, Feilon i Tedariani, mentre il Grande Re Lendelin
comandava tutto l’esercito. Mezza giornata dopo il nostro arrivo, di
notte, l’esercito nemico giunse alle mura. Alla sua testa erano, questa
volta, quattro di quelle figure completamente vestite di nero, che si
perdevano nella notte. Scuri poco meno di loro, stavano ritti alla destra
dello schieramento gli Uomini Neri. Al centro gli orchi, in numero
incredibile, mentre sulla sinistra un piccolo numero di figure che
sembravano costituite di fuoco, così come le aveva descritte Ledolan.
Tutt’attorno all’esercito un nugolo di mannari ululava alla luna e
sbavava desideroso di sangue. Per primi si gettarono contro le mura i
mannari, ma le frecce elfiche li costrinsero ad arretrare. La maestria
degli elfi permise di colpire con quelle frecce anche lo schieramento
nemico, posto a poca distanza dalle mura, costringendolo ad arretrare in
blocco. Comunque le figure nere non sembravano avere intenzione di
attaccare velocemente le nostre difese, ma invece sembravano avere
intenzione di logorare le nostre forze. Lendelin chiese allora ad Innioles
fino a dove potesse colpire i nemici con le frecce e questi, scagliandone
una, gli mostrò che la maestria degli elfi con l’arco era nettamente
superiore alla nostra e che la gittata si raddoppiava con la loro bravura. Il
Grande Re decise allora di farci allontanare tutti dalle mura, eccezion
fatta per gli elfi che dovevano continuare a difenderle, nascosti. Tutto il
resto delle nostre forze si ammassò vicino alle porte, pronto ad un veloce
assalto. Quando scomparimmo dai bastioni, l’esercito nemico, non
convinto della nostra ritirata, dapprima rimase fermo. Passata qualche
ora però si avvicinò quanto bastava per essere colpito dalle frecce
elfiche. A quel punto uscimmo velocemente fuori delle mura e
128
Sempre avvolta dai suoi pensieri, Alinea ricordò anche i periodi più
brutti, quando assieme alla folla di prigionieri giunse a Ronin. Da lì
coloro che erano stati catturati si diressero bruscamente verso nord. Poco
fuori della città vennero incontro altri mostri provenienti da nord-est,
guidati da un’altra creatura, vestita tutta di nero, e scura, proprio come
quella che guidava il gruppo di prigionieri di Alinea. Con i nuovi venuti
anche altre persone, catturate chissà dove. Le due folle di creature si
unirono, e anche i prigionieri furono radunati. Ci si diresse allora verso
nord-ovest, fino ad intravedere i monti Kaldei. A quel punto la carovana
tornò di nuovo a dirigersi verso nord, senza superare i monti,
addentrandosi in quelle che un tempo erano le Terre di Confine.
Io non capii cosa volesse dire, come anche tutti gli altri: Lendelin allora,
vedendoci perplessi, disse:
- Questa è parte della Profezia di cui ho parlato ad alcuni di voi. E, in
effetti, in essa è descritto ciò che accadrà in futuro; ma solo la mente di
Aliturn può cogliere attraverso questa l’esattezza degli avvenimenti. I
prescelti per portare i Numenali sono fra quelli che stanno in questa
tenda…
- Ma – lo interruppe Aliturn – non tutti voi parteciperete alla ricerca, ché
certamente Gnomanar tenterà di prevenirvi e portare a compimento le
sue conquiste, prima che voi troviate ciò che cercate. Egli infatti conosce
la Profezia, e tenterà in ogni modo, con ogni suo potere, di far sì che
questa non si realizzi.
Lendelin stava per prendere la parola, quando intervenni io:
- Lendelin, mi spiace, ma non sarò né fra quelli che staranno qui né fra
quelli che attueranno la tua ricerca. Ho altro da cercare.
- Anch’io, come lui, non ti ubbidirò – fece Colwey – e lo aiuterò nel suo
viaggio. Se vuoi impedirlo puoi solo punirci con la morte, perché
nient’altro ci distoglierà.
Prima che il Grande Re intervenisse, Aliturn ordinò:
- Lasciali andare, perché fra loro ci sarà uno dei portatori. E tu stesso
partirai, Lendelin Eidur, ché anche tu sei destinato alla ricerca. Qui
rimarrano i re dei regni e l’elfo dal lungo occhio, perché loro destino è la
difesa. In otto andranno alla ricerca, ma in nove li accoglierà l’oriente.
Fui nuovamente smarrito, senza comprendere cosa intendesse Aliturn
con quelle parole riferite a me e Colwey. Lendelin, non appena il
vecchio smise di proferire, si sollevò e disse:
- Ebbene, se questo è scritto, così accadrà. Ewaniwe e Colwey, voi
compirete il vostro viaggio assieme. Tellon, Rendall e Ledolan, i re dei
regni, con Innioles, l’elfo dal lungo occhio, se intendo bene le tue parole
131
I
Partenze
sempre contare sull’oriente e sugli Eida. Essi s’erano chiusi nel loro
esilio dorato oltre l’Oceano delle Cascate per non interferire nelle loro
sorti, e ora rivendicavano sempre più per se stessi il rispetto della loro
decisione. Solo lui fra i Veida, il Viandante, continuava a recare loro
aiuto, nei limiti concessigli. Ewaniwe riprese a parlare, e con quelle
parole ripresero i viaggi.
Preparammo tutti dei bagagli leggeri per la partenza. Misi nella mia
sacca solo qualche indumento e del cibo come scorta, mentre Colwey mi
chiese di portare la mia lira, per rallegrarci quando la tristezza ci avesse
colto di notte. Portai con me anche una piccola spada e un arco con
poche frecce, che pensavo d’usare per procacciarci cibo durante il
viaggio. Mel venne alla mia camera e mi diede dei pani di origine elfica.
Mi disse che li usavano quando erano impegnati in lunghi viaggi senza
sapere quando sarebbe giunta l’ora del ritorno. Ognuno di quei pani
nutriva come il cibo di un mese circa, così saremmo potuti sopravvivere
per lungo tempo anche senza altro cibo. Colwey invece portò con sé solo
altre due vesti e una spada lunga e ben affilata. Oltre a ciò portava anche
delle erbe che, diceva lui, avevano il potere di guarire dalle ferite, e altre
erbe ancora di cui non mi volle descrivere l’utilità. Mi fidai di lui, dato
che in tutta la sua vita aveva fatto molta più esperienza di me nel suo
vagare nelle Terre di Confine. Così armati partimmo verso occidente,
uscendo dal Minar dopo una giornata di cavalcata attraverso la Valle del
Lugg e la Grande Muraglia. Nel territorio del Rogan non trovammo
l’orda di mostri che ci attendevamo, ma solamente desolazione e rovine;
tutto sommato però quella visione, rispetto a ciò che credevamo di
trovare, ci rinfrancò. Così iniziammo a dirigerci verso nord-ovest.
Lendelin con Mel e Ronilis. Il Grande Re con i due elfi si diresse verso
sud, con l’intenzione di andare a cercare i Numenal nel Regno dei
Druidi. Giunto a Minaran, Lendelin s’imbarcò sulla prima nave verso
l’isola di là del Mare Interno. I suoi occhi caddero sul mare torbido, ma
non volle interpretarlo come un cattivo presagio. Poi fissò l’oriente,
speranzoso in un aiuto da quelle terre lontane. Nel Minar rimasero i re
dei regni e l’elfo dal lungo occhio, così come aveva detto la Profezia.
Coloro che erano rimasti si accordarono, seguendo un invito del Grande
Re, per dividersi i poteri in pari modo. Ognuno di loro aveva pari
importanza, dato che le genti erano ora riunite, e ogni decisione era
presa assieme, con un voto per ciascuno.
occidente. Aliturn era scomparso così come era giunto, senza lasciare
traccia alcuna e senza dire se sarebbe mai tornato. Alla partenza di
coloro che erano stati scelti dalla Profezia, Ledolan e Innioles, assieme
agli altri, furono presi da forti dubbi sulle loro capacità di reggere, nella
situazione corrente, il peso del comando. A loro era delegata la difesa
del Minar, mentre gli altri si addentravano in quella ricerca, la ricerca
dei Numenali. Ma che senso avrebbe avuto ritrovare quelle gemme se gli
uomini, e poi dopo tutta Arret, fossero caduti? Tale dubbio li angosciava
mentre intanto i giorni passavano senza novità da nessun fronte.
- Però ora mi rendo conto d’una cosa…non credo d’averti mai detto chi
fu Gnornak.
Ewaniwe guardò suo figlio in volto. Nelian fece cenno di no con la testa,
però rispose:
- Gnornak era il padre di Gnomanar, giusto? Colui che fu sconfitto nelle
prime due Grandi Battaglie, non è così papà?
- Esatto, ma come hai saputo queste cose?
- I miei maestri mi hanno parlato di quelle battaglie; però nessuno mi ha
mai raccontato la storia che mi stai narrando tu, papà.
- Nessuno te l’ha mai raccontata per ordine mio, Nelian, e ora è tempo
che io riprenda la mia narrazione.
142
Ora non hanno davvero speranza! Va via, prima che ti riduca in cenere
assieme al tuo servetto!
Si sedette sul trono e scoppiò in una lunga risata agghiacciante, mentre
Aliturn si allontanava dalla stanza con sguardo profondo come il cielo,
impassibile, e con passo silenzioso. Il Viandante rimase, ancora pochi
istanti, in quella reggia, fissando gli occhi di Gnomanar; vi lesse come
un accenno di malinconia, malcelata dalle infinite arti dell’Ingannatore.
Poi scomparve per ritrovarsi altrove.
145
II
Aqua
le azioni altrui. E poi, non hai udito Aliturn? Se fra quei due si trova uno
dei portatori, non temere, i Numenal verranno trovati. A noi uomini è
dato di scegliere, con il nostro comportamento, il momento e il luogo, il
modo, forse, in cui si svolgono i casi della nostra vita. Ma essi sono già
decisi. Ricorda che su di noi, persino sugli Eida e i Veida, persino su
Gnornak, si muove un’altra potenza. E il suo giudizio è sempre l’ultimo.
Feilon stava per replicare alle parole del saggio, quando Luia lo fermò e
intervenne:
- Bellig, hai perfettamente ragione. Perdona questa testa dura, se ancora
insiste, con le sue domande, a farti perdere tempo. È che la malinconia ci
prende per il viaggio, la lontananza da casa e la tristezza della
situazione. Ma ora forse conviene a me e al mio compagno di andare a
dormire, e di lasciarti alle tue meditazioni.
I due si alzarono e si ritirarono verso la tenda. Prima che entrassero però,
Bellig disse loro:
- La malinconia è una cattiva compagna di viaggio, anche se naturale.
Non la considerate come una vostra amica da seguire fedelmente, ed
evitate che essa diventi qualcosa di peggiore, frutto della Corruzione da
occidente.
Chiuse così il discorso e rimase davanti al fuoco, ritornando ad
immergersi nei suoi pensieri Feilon e Luia si ritirarono all’interno della
loro tenda, e in fretta, per la stanchezza, si assopirono. Rimasto solo,
Bellig meditava: i suoi pensieri erano molto meno astratti di quanto
Feilon credesse. Pensava che presto sarebbero giunti ad Aqua, dove
sperava di trovare, almeno, notizie, su dove si potessero nascondere i
Numenali. Il fuoco si faceva sempre più piccolo, così lo dovette
alimentare con un po’ di legna raccolta quando si erano accampati. Il
legno iniziò a scintillare sopra al fuoco, emettendo fumi che giungevano
alti nel cielo. Osservò il fumo che si diradava veloce nella notte,
pensando che, in fondo, assomigliava un po’ alla loro condizione di
esseri umani. Di fronte, le acque del lago, immobili e placide.
Tutt’attorno la quiete, come se la lotta fosse lontana da quel luogo,
remota. Pensò che gli sarebbe piaciuto vivere in pace in una terra come
quella su cui ora meditava, e che, se un giorno, gli fosse stata concessa
una simile occasione, sarebbe venuto ad abitare proprio vicino a quel
lago. Dall’acqua saltò fuori un pesce, schizzando un po’ attorno. Quel
movimento sulla cresta immobile del lago lo fece discendere dalle nubi
di quelle immagini nella sua mente, e ritornare alle necessità attuali.
149
solo vanità. Tutto ciò che puoi vedere qui è vanità, il mercato dei ricchi
che hanno interesse a mostrare la loro ricchezza. Le pietre e i gioielli che
si vendono qui, sono solo vanità di vanità. Tutto qui è vanità di vanità, e
ogni sfoggio che si fa, arrogante e smisurato di se stessi, ogni cosa è
vanità.
Così parlò Bellig, e riprese a camminare. Giunsero dove li aveva accolti
tempo addietro il guardiano Minariano. Li salutò cordialmente, ed essi
risposero allo stesso modo. Usciti dalla città ripresero di nuovo il loro
viaggio, continuando a procedere verso nord. Dietro di loro, la città sotto
il lago, la città delle meraviglie e dei mercanti, Aqua, rimaneva
immobile e indifferente alla loro partenza.
155
III
Nell’Isola dei Druidi
Mel e Ronilis apparivano più sereni sulla nave che li stava conducendo,
assieme al Grande Re degli uomini, Lendelin Eidur, nel Regno dei
Druidi. Il Mare Interno era agitato, e le acque apparivano torbide, mentre
nubi di tempesta sembravano addensarsi sopra le onde. Lì, Lendelin
fissava costantemente le acque e il vuoto, perso nei suoi pensieri. I due
elfi, resisi conto della situazione, cercarono di distrarre il Grande Re;
mentre anche loro fissavano il mare, chiesero:
- Lendelin, conosci la storia del vostro più famoso marinaio, Ellinor del
Rogan?
Lendelin, ripresosi dai suoi pensieri nefasti, rispose all’interrogazione
dei due:
- Si la conosco, perché me lo chiedete?
- Perché fra gli elfi si raccontano tante storie su quest’uomo, e
vorremmo sapere da te quale è la verità sulle sue azioni, se la conosci e
hai volontà di narrarcela.
- Ebbene – Fece Lendelin – Ellinor fu uno degli uomini più illustri della
sua generazione, e grandi erano le sue ricchezze e i suoi mezzi, sicché
poteva vivere nell’ozio e non era affaticato dalla piaga del lavoro.
Eppure, malgrado la propria condizione privilegiata, Ellinor non era
appagato, e sempre si sentiva bramoso, ardente di un desiderio che
neanch’egli sapeva spiegare. Si da il caso che Ellinor possedesse delle
navi, le più belle, sicure e veloci che mai uomo abbia costruito, inferiori
solo alle vostre; ma si racconta che potessero rivaleggiare anche con
esse. E allora Ellinor si diede alla navigazione, lasciando le proprie
ricchezze ai propri familiari che non vollero venire con lui. Sulle sue
nere navi Ellinor solcò ogni mare conosciuto, approdò ad innumerevoli
porti, superò tempeste e mostri marini, ma mai riuscì a giungere oltre
l’Oceano delle Cascate; era però convinto che molto più a sud dell’isola
ora abitata dai druidi, lì, finissero le immense cascate che proteggono le
156
Terre dei Sogni e il passaggio alle acque che circondano quelle terre
fosse praticabile. Ma dopo aver molto navigato, giunse il tempo in cui lo
prese la voglia di rivedere la casa, ed erano passati innumerevoli anni da
che s’era allontanato dalla sua terra, cosicché tutti credevano ormai che
egli fosse morto in qualche sciagura sul mare. Giunto di nuovo nel
Rogan, trovò così che i propri familiari avevano dilapidato tutti i suoi
beni, e i propri cari, dimentichi di lui, s’erano costruiti nuove famiglie. E
in effetti causa della sua colpa fu egli stesso, che per così tanto tempo
era stato lontano da casa, né aveva avuto cura della propria famiglia e di
chi un tempo gli aveva voluto bene. Ellinor rimase solo, senza beni,
solamente con le sue navi, senza ciurma alcuna, ché i marinai degli
antichi viaggi lo avevano anch’essi abbandonato, ormai vecchi, per
aspettare serenamente la morte. Per sopravvivere Ellinor dovette
vendere molte delle sue navi, e alla fine gliene rimase una sola, quella
che amava di più, chiamata Alitra; quel nome vuol dire “la nave d’oro e
d’argento”. Visse per lungo tempo su quella nave, ormeggiata nel golfo
di Lolin, curandola egli stesso, come l’unica cosa che gli fosse rimasta al
mondo, come in effetti era. Mentre viveva così, accadde che Gnornak
attuò una seconda volta i suoi piani immondi di conquista, e tutti gli
uomini furono in fermento. Nuovamente lo prese la brama di solcare i
mari, ancora alla ricerca delle Terre dei Sogni. Ma non solcava i mari
perché era privo di ciurma. Poi venne a lui Alton, il mago vincitore di
Gnornak. Anch’egli desiderava raggiungere le Terre dei Sogni, e lì poter
così chiedere aiuto agli Eida; ma coloro che conoscevano i passaggi che
conducono in oriente erano tutti morti, e grande era il pericolo che
correva tutta Arret. I due giunsero ad un accordo, e così Ellinor ebbe la
sua ciurma, e Alton e il manipolo che guidava ebbero il modo di cercare
l’oriente. Ellinor veleggiava fiero, ora, e sicuro sopra Alitra, e il suo
equipaggio, composto dai più valorosi di Arret, era di grande aiuto
durante la navigazione. Alton però premeva per dirigersi direttamente
verso oriente, e lì, sicuro che gli Eida li avrebbero accolti, era convinto
che in un modo o nell’altro avrebbero superato l’Oceano delle Cascate.
Ellinor invece voleva tentare la via del sud, ma alla fine, spinto dalla
volontà del suo equipaggio, dovette acconsentire alle richieste d’Alton.
Alitra giunse così di fronte alle cascate che separano l’oriente dal resto
del mondo. Non appena giunse di fronte a quelle cascate, onde e
tempesta accolsero la nave di Ellinor, e la forza della corrente dell’acqua
che scendeva dalle cascate si fece più forte; tutto l’equipaggio fu
157
imponente e duratura di quella che aveva sbalzato fuori dalla nave il suo
equipaggio. Come previsto per il dono di Teon, la sua nave non fu
danneggiata da alcunché. Ellinor però, ormai vecchio, morì di stenti e
per la fatica, e non ultima, a causa della tempesta. Alitra rimase così
immobile di fronte alle cascate che si trovano anche a sud di fronte
all’oriente, e il corpo d’Ellinor incustodito nella nave. Degli aironi
giunsero sulla nave, e preso il cadavere, mandati da Teon, volando lo
portarono fino ad un’isola sconosciuta ai popoli d’Arret, che è uno dei
luoghi preferiti dall’Eida. Lì Teon seppellì colui che era il suo preferito
fra gli uomini, sebbene avesse disubbidito al suo comando, e facendo un
cenno con la mano, lì giunse anche Alitra, che ancora è ormeggiata e fa
la guardia alla tomba del suo capitano. Questa è la storia d’Ellinor il
marinaio, così come è stata raccontata da Alton, appresala dagli Eida. Io
non conosco cosa voi sappiate fra gli elfi di quest’uomo, ma questa è la
sua storia, ed egli non fece mai più ritorno alla sua casa, se mai ne
avesse avuta una, ma seguì fino alla morte il suo desiderio e il richiamo
del mare.
Mel e Ronilis furono contenti di aver udito la storia d’Ellinor, ma ora un
nuovo dubbio tormentava il loro cuore, così, dopo qualche istante,
chiesero nuovamente a Lendelin:
- Lendelin, grazie per averci raccontato le opere d’Ellinor; e ora che ci
hai raccontato questa storia, nuove domande s’affacciano nella nostra
mente. A dire la verità, ciò che vorremmo udire spiegato da te, è ciò che
nessuno degli elfi capisce dell’animo degli uomini. Perché voi uomini vi
affaccendate tanto in imprese vane, e nel vostro bramare sembrate più
simili all’Oscuro Signore, che agli elfi cui per il resto tanto
assomigliate? Questo dubbio da sempre è fisso nella mente degli elfi, né
riusciamo a capire il vostro comportamento, ma sempre ci affatichiamo
senza risultato.
- Vedete – rispose Lendelin – a voi è data l’immortalità, ed in questo gli
elfi sono realmente diversi dagli uomini. Voi conoscete solo
parzialmente il dolore della vecchiaia, il veloce consumarsi della vita.
Voi, così dite, non morite, se non per ferite, oppure acquisite una vita
mortale per degenerazione, e per questo vi tenete lontani da tutto ciò che
vi può causare questo male. Ma per l’uomo, l’unità di misura del tempo
è la morte, e per ciò ci affaccendiamo alla ricerca di qualcosa che ci
appaia come una nostra conquista eterna, che sia la fama o quant’altro.
La vita dell’uomo è breve, e presto scappano via le forze. Così, impauriti
159
Poco fuori la città, uno degli Stregoni avvertì della magia vicino, nella
campagna. Si avvicinò con fare circospetto, e rimase ad osservare degli
uomini evocare delle visioni dall’Eida Forman, signora della sapienza.
Per vie traverse, anch’egli alla ricerca dei Numenali, era giunto sino a
quel luogo. Il Terrore s’era sparso al suo passaggio, e tuttavia era stato
cauto, tanto che nessuno s’era accorto della sua presenza in quella terra
ostile. Osservò disgustato, senza riuscire a scorgere le visioni che
venivano prodotte, ma solamente potendo stare immobile per non essere
scoperto. Si nascose dietro una siepe, ma sfortunatamente uno di quegli
uomini si avvicinò per fare i suoi bisogni: vistolo, avvertita subito la sua
potenza malefica, gettò un urlo, proprio nel mentre il rito finiva. Il
druido che aveva propiziato il rito cadde a terra, senza forze, mentre tutti
gli altri, tutti uomini, tutti druidi, eccetto quello che era all’interno del
cerchio sacro, e due elfi di cui lo Stregone s’accorse solo in quel
momento, si voltarono verso di lui. Uscì dal suo nascondiglio, convinto
di liberarsi facilmente di quelle creature, e ingaggiò battaglia.
Un uomo uscì da una siepe. Anche Lendelin avvertì, non appena quello
uscì dal suo nascondiglio, un forte terrore e potere provenire da
quell’essere, cosicché pensò subito ad un emissario di Gnomanar. Poi, di
fronte a tutti loro, quell’essere smise il suo travestimento, e apparve
come uno dei sette Stregoni. Subito i druidi gli lanciarono alcune delle
loro magie, mentre anche Ronilis preparava le proprie, e Mel armava il
proprio arco. Lendelin, uscito dal cerchio di pietre, estrasse la propria
spada dal fodero, e s’avvicinò ai due elfi. Lo Stregone sibilò qualcosa, e
poi si gettò sul druido più vicino, che rimase fermo, come paralizzato.
Lo uccise in un attimo, trafiggendolo con la mano, come se questa fosse
una spada. Si avvicinò ad un secondo druido, mentre una freccia
scoccata da Mel lo colpiva in fronte: del sangue nero sgorgò, e per un
attimo lo stregone indietreggiò. Si volse allora verso colui che l’aveva
colpito, e anche Mel rimase immobile, senza più riuscire a fare o a dire
qualcosa. Anche Lendelin era come immobilizzato, ma con uno sforzo
di volontà si scagliò contro lo stregone che s’avvicinava veloce all’elfo.
I due s’abbracciarono nella lotta, e con un colpo veloce, Lendelin infilò
163
IV
Incubi nella notte
Il Viandante era lì, anche quella sera, quando Ewaniwe fece la sua prima
esperienza dei poteri del Nemico. Fu la fortuna del bardo, e con lui, di
Colwey, a far sì che egli non perdesse completamente i sensi in quel
167
sonno. Egli non cadde perché il Viandante era lì: o forse anche questo
era deciso? Per qualche tempo la domanda balenò fra i pensieri del
Viandante, poi quando il bardo s’accinse a raccontare il suo incubo al
figlio, l’osservatore tornò a quella sera.
Ascolta, straniero:
Se seguirai la via senza meta,
Se cercherai la città perduta,
170
potenza.
V
I passi del Viandante
commenti osceni (e, in effetti, Alinea sapeva che quella sera molte di
quelle donne, quelle che ancora avevano una parvenza di bellezza,
furono portate via dalle loro celle e subirono violenza dalle creature
perverse). Poste sotto delle protuberanze nelle mura, furono colpite da
getti d’acqua. Stavano facendo loro la doccia! Alinea non s’aspettava un
simile trattamento, come se quelle bestie fossero interessate a
mantenerle sane e a non far scatenare epidemie. Comunque, quella
doccia durò poco, e quasi subito furono chiamate a ritornare nella loro
aula nera e umida. Con loro avevano fatto la doccia anche donne poste
in altre aule; almeno fino a quel momento, erano quasi tutte vive: nulla
invece continuavano a sapere degli uomini. Quando le donne tornarono
nella loro camera, Grama fu chiamata da un orco. Alinea rincuorò la
vecchina, dicendole che le avrebbero fatto una doccia, e nulla più, ma
Grama non ne era così sicura. S’avviò mesta, seguendo il mostro, e
scomparve nel buio fitto. Uomini Neri vennero a prendere le donne, e le
condussero al centro della città. Dove erano ora, doveva essere una
specie d’antica piazza della città dei nani sotto la montagna. La
maestosità degli edifici adiacenti era ancora chiara sotto i ruderi delle
distruzioni dell’esercito del Nemico; ma tutto era cadente, fatiscente. Al
centro della piazza, un enorme, immenso braciere: un sistema di tubi
conduceva fuori della montagna il fumo che nasceva da quel fuoco. Ai
prigionieri era imposto d’alimentare quel braciere, che con le sue
fiamme illuminava la piazza. Nella piazza, tutta una pira d’enormi
tronchi, corpi morti e inutilizzabili dagli Stregoni, e quant’altro potesse
bruciare, era pronto per essere arso. Mentre alle donne era dato
d’alimentare il braciere, uomini venivano e andavano, portando il
materiale da ardere. Una folla di mostri controllava che non avvenissero
rivolte, e per evitare problemi, a due a due, i prigionieri erano stati legati
con catene. Passarono molte ore lavorando così, fin quando, ad un nuovo
turno, un gruppo di donne e d’uomini venne a dare il cambio a quanti
lavoravano con Alinea. Di nuovo nell’aula, Alinea non trovò Grama, e
rimase da sola con il resto delle sue compagne. Fu portato del cibo, e
questa volta anche lei ci si gettò sopra, per prenderne un po’ per la sua
amica anziana, e per saziare una sua fame insaziabile. Udì il vociare
d’altre donne: una di loro diceva ad un’altra di essere incinta. Un coro di
voci le consigliava di abortire; le dicevano che avrebbero pensato loro
ad aiutarla. Alinea continuò ad ascoltare: aveva capito d’essere incinta, e
non sapeva come comportarsi, soprattutto ora che erano prigioniere in
175
servo, vista la sua forza. Un gran vociare veniva dai rami: lo Stregone,
voltandosi, zitti gli abitanti del bosco, bruciando un albero di fronte a lui
con un gesto della mano. Ritornò a fissare Colwey, sempre paralizzato.
Un ringhio dietro di sé lo distolse: si voltò e vide che un branco di lupi
lo fissava inferocito. Avanzando un po’, i lupi gli si gettarono addosso, e
con essi degli orsi. Intento com’era lo Stregone alla lotta contro quelle
bestie, Colwey si riprese dall’incantesimo. Il destriero dello Stregone
venne avanti, e fu assalito anch’esso da alcuni lupi, mentre si difendeva
scalciando. Ripresosi, Colwey si mise Ewaniwe sulle spalle e fuggì via,
recuperando quanto poté. Il richiamo di un uccello intanto aleggiava sul
bosco: l’animale scese in picchiata sullo Stregone a folle velocità, e lo
colpì in testa. Sangue nero fuoriuscì dal capo di quello, assieme ad un
urlo di dolore fra le sue labbra. Con un impeto di forza il servo del
Nemico scagliò via tutte le bestie che gli erano addosso. Poi, recitando
di nuovo delle formule incomprensibili, lanciò un incantesimo
sull’uccello che l’aveva colpito. Immediatamente l’uccello, che volava
abbastanza lontano, cadde a terra senza riuscire a volare. Nello scuro
della notte, lo Stregone non scorse dove cadde, né si rese conto di dove
fosse fuggito Colwey con Ewaniwe. Era stato scoperto, ma poco
importava. Nessuno sarebbe sfuggito in eterno al suo odio. Al pensiero
della vendetta, sopraggiunse presto quello della missione:
immediatamente non ebbe dubbi sul da farsi; anche se avvertiva chiaro
l’odore della morte e del sangue su quel bosco, decise di non fermarsi lì.
Era sicuro che i Numenali non si trovavano fra quei rami vivi e quelle
belve. Così liberò il proprio destriero, una specie di cavallo che emetteva
vapori infernali. Gli occhi rossi, iniettati di sangue, mezzi coperti dai
copricapi grigi. Montò il cavallo, che nitrì, e facendolo alzare sulle
zampe posteriori, emettendo un lungo, assordante richiamo, si gettò in
una folle cavalcata. Ben presto si trovò fuori del bosco, in direzione del
Lago Maggiore. Uscito dal bosco, si voltò un’ultima volta indietro,
come per cercare di scorgere chi l’aveva ferito, ma non ne trovò traccia.
Cavalcò poi verso ovest, perdendosi presto lontano dal bosco. Proseguì
nella sua ricerca: non aveva tempo per lotte contro miserabili raminghi.
Intanto Colwey fuggiva, il più in fretta che poteva, convinto d’essere
inseguito. Udì un tonfo poco davanti a lui, e per la paura si fermò.
Fattosi coraggio dopo qualche istante, avanzò con circospezione. Si
trovò davanti un uomo, a terra, rannicchiato e dolorante. S’avvicinò e gli
chiese come si chiamasse e che cosa avesse. Aveva una spalla lussata,
180
VI
Segreti fra le acque
per cavalcare verso la loro meta. La città era splendida, con mura
bianche o tinte di colori vari e brillanti. Il Grande Re poté solamente
intravedere da lontano la parte alta della città, dove si trovavano gli
antichi templi e le opere d’arte, mentre fu colpito dalla grandezza e dalla
funzionalità del porto della città, inferiore solo a quello che aveva visto
ad Atlasa, nell’oriente degli Eida. Mel e Lendelin furono guidati da
Ronilis, da Norenar fino alla Torre della Magia dell’acqua. La torre si
trovava nel lato orientale della penisola, in pratica dal lato opposto
rispetto a dove si trovavano i tre; nel mezzo, la catena montuosa
chiamata Mellorion. Cavalcarono su i tre cavalli, abbastanza veloci, per
qualche giorno, sempre tenendo la direzione, riposandosi di notte, anche
per fare rifiatare i cavalli. La sera, Ronilis raccontava le tradizioni
elfiche sul nome del luogo in cui s’erano fermati, o sui posti che
avevano attraversato: le sue descrizioni erano sempre particolareggiate,
frutto degli studi e della sua passione per l’argomento. Mel ascoltava,
disapprovando spesso ciò che diceva il Morieniano, esponendo per
risposta la versione dei Lovariani, ma non è che in realtà ci fosse
disaccordo fra i due; semplicemente per spirito di campanilismo, tutt’e
due, come in ogni altra occasione, cercavano di far protendere la
preferenza di Lendelin verso l’una o l’altra tradizione e cultura. Lendelin
ascoltava i racconti degli elfi, ma in cuor suo era preoccupato da ciò che
aveva lasciato nel Minar. Si chiedeva come stesse procedendo la guerra,
se Gnomanar era riuscito ad avanzare, o se le forze che lui aveva
allestito erano riuscite a contenere la potenza dell’Oscuro Signore.
Inoltre, pensava alla missione: era certo che Bellig, Feilon e Luia
avrebbero raggiunto il loro obiettivo; invece era titubante per Ewaniwe,
anche se Aliturn l’aveva rincuorato, assicurandogli che il Viandante
sarebbe andato con il bardo. Temeva che Ewaniwe non si dedicasse alla
ricerca del Numenal, immerso com’era nel dolore per la scomparsa
d’Alinea. Si sentiva colpevole, lui, il Grande Re, per la prigionia di parte
del suo popolo, e in mezzo ad esso, Alinea, una delle sue migliori
consigliere e amiche, oltre che l’amata di Ewaniwe. Con questi
sentimenti il Grande Re procedeva nel viaggio, mentre l’allegra
compagnia, a dire la verità più di Mel che dell’altro elfo, lo rimetteva un
po’ in animo, alleviando un po’ le fatiche e la pressione da cui Lendelin
si sentiva schiantato, e che non sapeva fin quando avrebbe retto.
Lendelin e gli altri giunsero alla fine alla torre. Li guidò Ronilis:
avvistati da lontano, fu chiesto loro di farsi identificare sempre
188
Poco lontano dalla torre, Alimbar avvertì una forte potenza magica. Egli
raccoglieva componenti per una magia, per rafforzare le mura della
torre, quando accadde l’imprevisto. Anche lo Stregone avvertì la
presenza d’Alimbar. Voltisi uno verso l’altro, il maestro della torre urlò:
- Tu, creatura di Gnomanar, cosa ci fai qui?
Non ebbe risposta dallo Stregone, che gli venne addosso. Dapprima
Alimbar cercò di scagliargli addosso qualche stregoneria, ma lo
Stregone Nero le evitò con destrezza. Il servo di Gnomanar saltò su
d’Alimbar, tentando di colpirlo con la mano, ma un getto d’acqua dal
corpo del maestro della torre lo spinse via. Rialzatisi, i due stregoni
iniziarono uno scontro mentale. Entrambi stavano uno di fronte all’altro,
cercando d’abbattersi a vicenda con i propri poteri mentali. Fra i loro
occhi, come tuoni e fulmini; l’energia della loro mente sprigionava da
tutto il corpo: erano entrambi arrivati al massimo del loro potere, giunti
allo spasimo. Poi, Alimbar si fece bianco in viso, e il suo antico corpo
cedette alla potenza del servo di Gnomanar. Svenne e s’accasciò a terra,
privo di coscienza. Anche lo Stregone Nero era affaticato, ma con le
forze rimastegli si avvicinò, e con i potenti poteri fornitigli da
Gnomanar, salmodiando, cercò di corrompere Alimbar. Stette così sopra
il suo avversario per qualche tempo, sempre recitando versi. Poi, la
mente del maestro della torre cedette e fu prigioniera del servo di
Gnomanar. Si rialzarono entrambi: lo Stregone Nero e Alimbar in suo
controllo si diressero verso la torre, e vi giunsero poco dopo. Lo
Stregone aveva letto nella mente di Alimbar che nella Torre della Magia
era conservato uno dei Numenali; così, sicuro di ottenerlo facilmente, si
lasciò condurre dal maestro della magia dell’acqua.
VII
Fenici
bestiale appetito, nitrì con soffi mefitici. Nessun altro orco osò più
avvicinarsi allo stregone. Messo così ordine fra i suoi sgherri, il servo di
Gnomanar continuò il viaggio, rallentato dal suo seguito. Passò fra i
monti in cui giace la dimenticata Kala, Kala la persa, l’innominabile, la
città dell’oblio, come la chiamano, in tutti questi diversi modi, i nani del
Dwaralar. Varcati i monti con il suo seguito, lo accolse la Palude degli
orchi, formata dal Nifilan, l’Oroko e il Koro. Qui gli orchi, da quando
hanno conquistato queste terre, risiedono indisturbati, come branchi di
lupi famelici saccheggiandosi gli uni con gli altri e attuando scorrerie
rapide ed incisive verso est, contro i nani sempre all’erta. Anche qui
giunse lo Stregone, col suo carico di terrore. Non appena gli abitanti
della palude, non orchi ma orchetti, avvertirono la sua presenza, furono
colti da grand’agitazione ed eccitazione. Giunti dinnanzi allo Stregone,
recarono orrendi doni e la loro prostrazione. Lo Stregone fu compiaciuto
della loro intelligenza, molto superiore a quella degli orchi, malgrado la
loro forza fosse molto minore. Lo schieramento così formato fu condotto
ancora più a nord, verso i confini estremi delle terre d’Arret. Gli orchi,
come sentendosi derubati del loro ruolo d’eletti, accolsero in malo modo
i nuovi giunti, più piccoli e più gracili, ma molto più intelligenti.
Quando il seguito dello Stregone si fermava per riposare, subito
nascevano liti fra le due fazioni: gli orchetti facevano scherzi crudeli agli
orchi più stupidi, e i compagni di questi s’issavano per difenderli. La
lotta allora si faceva serrata fra gruppi numerosi, finché una delle due
fazioni non perdeva un buon numero di vittime e si ritirava. Di solito gli
orchi cadevano in vere e proprie trappole degli orchetti, subdoli e astuti,
e raramente vincevano in quelle scaramucce. A volte lo Stregone non
interveniva, lasciando sfogare quei mostri in questo modo; altre volte
invece, decideva di calmare gli animi, e lo faceva a modo suo. Si gettava
allora in una cavalcata portentosa verso la mischia. Al rombo degli
zoccoli del suo destriero, chiunque si poteva destare, e persino i litiganti
si placavano. Poi, giungendo come una furia, s’avventava su i mostri,
divisisi come le onde del mare. A quel punto afferrava una vittima a
caso: presala con una mano, la tranciava di netto con l’altra. La mostrava
alta come un trofeo, a tutti coloro si trovavano accanto a lui. Fatto ciò,
gettava per terra la salma, lasciando la propria cavalcatura libera di
cibarsene. Finito il macabro rito, atteso che le fazioni si ritirassero,
s’allontanava lento dal luogo dove aveva fornito la sua prova di forza.
Tornava una calma pesante nello schieramento, mentre orchi e orchetti,
195
nostri voli giungono rapidi e nascosti fino a molto più a sud di queste
terre disperate. Fra poco anche noi scenderemo in campo, e la guerra
presto sarà molto più ampia di ciò che è stato fin ora. Va via da qui,
servo. Non ti fare vedere ancora sotto questo monte, perché la prossima
volta non avremo pazienza. Allontanati veloce, e ringrazia il tuo signore
se non scendiamo a distruggere te e il tuo seguito.
Lo Stregone fu furibondo. Innalzate le braccia verso l’alto, salmodiando,
avvenne una forte tempesta, e gli occhi dello Stregone si fecero tuonanti.
Nacque una grande agitazione fra gli orchi e gli orchetti, mentre i
mannari ululavano nervosamente. Le Fenici accelerarono il ritmo del
loro batter d’ali. I loro richiami si fecero più acuti e frequenti. Anche la
Fenice più grande si levò in volo. Salì all’altezza della cima, iniziando a
volare assieme ai suoi simili. Volavano in circolo proprio sopra allo
Stregone, che intanto continuava a recitare formule arcane. Guidando la
picchiata, la Fenice più grande scese velocemente dalla cima verso il
servo di Gnomanar. Proprio sopra di lui, un soffio di fuoco uscì dalle sue
fauci, seguito da quello delle altre Fenici. Lo Stregone fu inondato di
fuoco, e per qualche istante scomparve fra le fiamme; poi fece qualche
passo, ed era ancora lì, apparentemente incolume. Uscendo dalle
fiamme, lo Stregone rideva: salita di nuovo in quota, la Fenice tornò a
scendere. Questa volta non colpì lo Stregone con il suo soffio di fuoco.
Giuntagli vicinissima, la Fenice virò rapida contro l’avversario. Colpì il
mostro con l’ala, e in un attimo, le vesti dello Stregone furono cenere e
fiamme. Frattanto le altre Fenici lanciavano fiamme contro gli orchi, che
fuggivano da ogni lato. Lo Stregone fu sballottato contro la parete d’un
monte dal colpo infertogli. Si rizzò inferocito, urlando contro la Fenice
nel crepuscolo della tempesta, camminando con passo deciso.
Nuovamente la Fenice gli si scagliò contro, mentre tutt’attorno erano
fiamme e tuoni. Il volatile colpì di nuovo lo Stregone, che la infilzò con
la sua mano in un’ala. La Fenice, ferita, s’allontanò veloce,
lamentandosi. Anche lo Stregone cadde a terra, e risollevatosi, mostrò
d’esser ferito ad una gamba, spostandosi claudicante. Allora il volatile
s’appollaiò su un picco, proprio di fronte allo Stregone:
- Servo, va via. Se proseguirà questa lotta, tutt’e due troveremo la morte.
Ma non è oggi che ciò deve accadere. Raccogli coloro che sono con te e
allontanati; questo sarà l’ultimo avvertimento.
Lo Stregone rimase fermo. Voltosi verso il suo esercito, lo vide nel
panico. Si tornò a voltare verso la Fenice, e fissandola con occhi
197
sulfurei, gridò:
- Tu morirai, prima o poi, e io non avrò pietà di te!
- Lo stesso – rispose pronta la Fenice – vale per te, servo!
Lo Stregone s’allontanò sibilando, e raccolto il suo esercito si volse ad
est. La Fenice volò ferita verso la cima del monte, osservando ancora
quell’esercito che s’allontanava. Da sud intanto continuavano a salire in
cielo fumi scuri, e il sole, se ancora esisteva, era ormai un ricordo.
L’esercito d’orchi fu veloce a giungere nel Dwaralar. Arrivò preso Aiak
per recarvi la guerra, mentre lo Stregone sibilava di gioia per il
realizzarsi dei suoi piani.
Bellig, Feilon e Luia avevano già viaggiato per buona parte dei territori
occidentali del Lovar. Nel loro viaggio, avevano visto le mura di legno
della Torre della Magia della foresta. Prima, erano passati accanto
all’insediamento attorno allo Stagno del Destino, dove si dice, si possa
scorgere il futuro. Un tempo lì, si radunarono gli elfi. Luia aveva
proposto di recarsi in quel luogo per scoprire come si sarebbero svolte le
vicende future, ma Bellig aveva risposto:
- Donna, credimi, è già un male che ci sia stato riferito della Profezia,
ma ne bisognavamo per convincerci a partire per la nostra ricerca. Non è
un bene per l’uomo che vuole essere razionale e saggio, conoscere il
proprio futuro, che sia buono o cattivo, perché allora si comporta in
funzione di ciò che è venuto a sapere, non in relazione al giusto o allo
sbagliato nel presente. Se tu venissi a sapere che Feilon morirà fra poco,
cosa faresti? Forse cercheresti di impedirlo, affannandoti inutilmente se
la cosa è davvero già scritta. Forse cercheresti di dimenticare il suo
amore, per non soffrire alla sua dipartita. Comunque non ti
comporteresti per ciò che sei, ma per ciò che diverrai, e le tue azioni non
avrebbero più coerenza. Saremmo davvero schiavi del destino, mere
marionette nelle sue mani. Ma almeno agiamo, convinti, anche se a
torto, d’agire dandoci noi la nostra sorte.
Luia fu convinta da quel discorso, anche se un po’ quel desiderio covò
sempre nel suo animo. Comunque in questo caso non poté non obbedire
a Bellig, e i tre, il saggio, Luia e Feilon, proseguirono dritto senza
fermarsi allo stagno. Dopo qualche giorno furono alla fine nel Dwaralar,
o almeno nei suoi territori più meridionali, là dove ancora non svettano
le altissime cime. La catena del Sud, i monti più meridionali del
Dwaralar, era ancora distante, mentre di fronte ai viaggiatori scorreva il
198
Feilon e Luia seguivano il saggio, del tutto convinti di non andare via
dalla città finché non avessero avuto la gemma. Salirono al primo piano,
nella prima aula che avevano incontrato. Infuriati com’erano, non
riuscivano a pensare serenamente a come comportarsi. I tre stranieri
discutevano vivacemente sul da farsi, convenendo solo sul dover
ottenere il Numenal. Ma i loro piani vennero di nuovo sconvolti. Un
boato venne da fuori città; un urlo si sparse fra i nani, dalle sentinelle
vicine alle porte:
- Gli orchi! Un esercito d’orchi alle porte! Tutti si armino per la
battaglia!
Bellig, Feilon e Luia corsero verso la sentinella che aveva requisito loro
le armi. Offrirono il loro aiuto, e dopo lunghe discussioni, riuscirono a
farsi restituire le armi, mentre il rumore di un ariete avvisava della
guerra anche i nani del Dwaralar.
203
VIII
Verso l’Oriente
del fiume questa volta si divise di fronte agli stregoni. Lo Stregone Nero
non attese questa magia, ma assieme al suo destriero cavalcò attraverso
il fiume, incurante dell’altezza delle acque. Alimbar e lo Stregone
proseguirono così nel loro inseguimento, non essendosi distanziati molto
dai fuggitivi. Mel volgendosi all’indietro scagliava frecce, ma la sua
precisione non poteva essere la solita mentre cavalcava a tutta velocità.
Ronilis era in pratica distrutto, dopo il numero di magie che aveva
lanciato. L’ultima poi l’aveva sfiancato, e così si reggeva a stento sul
cavallo.
Di fronte ai tre s’apriva una piana che si concludeva nella costa
sull’Oceano delle Cascate. Furono spinti da qualche speranza
all’apparenza infondata a dirigersi verso il mare, come se la cosa avesse
poi potuto salvarli. La piana era rigogliosa, ancora quasi incontaminata
dagli effetti delle nubi del Nemico. Eppure anche lì era ancora difficile
scorgere il sole, e in quel momento particolare, per la presenza lì dello
Stregone, era ancora più difficile capire se oltre le nuvole scure
splendeva qualche astro; quello comunque non era un loro problema.
Alimbar da dietro scagliava stregonerie potenti e per fortuna di Lendelin
imprecise: una di quelle magie, una specie di frusta di liquido vischioso,
colpì le zampe del cavallo di Ronilis, che stramazzò. Il mago, che a
stento si reggeva, crollò per terra, rotolando ripetutamente costringendo
Mel e Lendelin a fermarsi. Ronilis giaceva svenuto, mentre il suo
cavallo, rialzatosi, era già fuggito via per un’altra direzione. I due
stregoni sopraggiunsero. Mel scagliò delle frecce, colpendo una zampa
del destriero dello Stregone; l’animale s’impennò, gettando a terra
Alimbar. Questi non si fece male, e anzi si rialzò subito, puntando verso
Ronilis, come se ormai non sentisse più il dolore. Mel frattanto
continuava con le sue frecce a tener distante il servo di Gnomanar.
Lendelin cavalcò impetuoso su Alimbar, per salvare l’amico: reggendo
le briglie della sua cavalcatura con una mano, estrasse la spada con il
Numenal. Alimbar non ebbe il tempo di lanciare stregonerie: la spada di
Lendelin lo colpì al petto, di punta, con un colpo preciso e potente;
subito Alimbar cadde per terra, esalando il suo ultimo respiro. Morendo
per quella ferita, riprese colorito, come se nella morte il servo del
Nemico avesse perso il controllo su di lui. Lendelin raccolse sul cavallo
il mago svenuto, Ronilis, e postolo davanti a sé, tornò ad avvicinarsi a
Mel. Le frecce del Lovariano da vicino erano precisissime, e facendo
imbizzarrire il cavallo dello Stregone Nero, gli impedivano di
208
vidi, accanto ad Alinea, la donna che aveva acceso una luce, e che, ora
lo notavo, in realtà emetteva luce, trasformarsi in qualcos’altro.
Improvvisamente m’apparve Aliturn. Non disse d’essere felice di
vederci, né ci chiese come li avessimo trovati. Semplicemente Aliturn
tagliò corto la nostra gioia, e parlò:
- Bene, finalmente siete giunti. Ora sollevatevi. Avete una missione da
compiere. Dovete portare via queste persone da qui, e trovare il
Numenale. Non c’è più tempo da perdere.
213
IX
La caduta dei nani
L’ariete spingeva alla porta della città d’Aiak. Bellig, Feilon e Luia,
all’interno delle mura, erano riusciti a farsi rendere le loro armi e si
preparavano alla lotta. Dentro la città s’era propagato lo scompiglio. In
effetti, il fatto che un esercito d’orchi fosse giunto sino alle porte della
città, indicava che aveva già sbaragliato gli insediamenti dei nani più ad
ovest, le resistenze dei nani di guardia. Insomma quello che ora gli
abitanti della città non potevano vedere doveva essere un forte esercito
di mostri se era giunto sino a lì. La notizia dell’assedio inaspettato
giunse fino ai piani bassi, dove si trovava Mur. Subito il re dei nani
accorse al primo piano, dove si trovavano anche i tre stranieri. Si fece
accompagnare da una guardia attraverso un piccolo cunicolo, ad una
finestrella nascosta da cui poteva osservare le dimensioni della potenza
nemica. Affacciatosi, Mur osservò un enorme esercito d’orchi, orchetti e
mannari. Nel caos anche Bellig, Feilon e Luia s’affacciarono col re e con
quanti l’avevano seguito, e con questi anche loro si poterono rendere
conto di ciò che stava per accadere. Data la situazione, Bellig richiamò il
sovrano:
- Sire, usate il potere del Numenal! Così avrete qualche speranza di
sopravvivenza per la vostra città…
- Uomo – fu la risposta del sovrano – ti ho già detto di tacere!
- Ma re – tentò nuovamente di replicare Feilon – così sarete sconfitti!
Anche voi avete visto quanti sono fuori i nemici, giusto?
- Un re dei nani – troncò la discussione Mur – non ha bisogno di consigli
d’uomini! Ora sparite dalla mia vista, prima che pensi che voi siate dalla
loro parte!
Mur s’allontanò di fretta dai tre stranieri. Giunto in mezzo alla sala del
primo piano, dove era radunata una gran folla in preda al panico, parlò:
- Sudditi, non dovete temere! Le mura di questa città non cadranno mai
di fronte agli attacchi degli orchi. Noi nani le difenderemo con tutto il
214
Lo Stregone stava fuori della città, mentre suoi servi con un ariete
tentavano di abbattere la porta e le mura che proteggevano i nani
all’interno. Molti di quelli che usavano l’ariete cadevano vittime
d’attacchi veloci e precisi portati dall’interno da quelli che si
nascondevano nella montagna: ma poco importava al servo di
215
Gnomanar. La città sarebbe caduta, e con essa il signore dei nani, e, con
tutta probabilità, secondo lui, i Numenali sarebbero finiti nelle sue mani.
Bellig, Feilon e Luia intanto facevano la stessa cosa che gli orchi
compivano qualche metro più in alto di loro. Al piano dove si trovavano
si sentivano chiaramente i rumori della battaglia, ma nessuno riusciva a
capire come stesse andando la lotta e a chi arridesse la vittoria. Poi si
sentì il rumore delle pietre che venivano scaraventate via.
Inspiegabilmente all’inizio quel rumore fu accolto con gioia, come se
indicasse che i sopravvissuti fra i cinquemila venivano a liberare coloro
che erano stati posti in salvo di sotto, dopo aver vinto la battaglia: ma
poi qualcuno s’accorse dei grugniti assieme al rumore, e il terrore e lo
sconforto si fecero grandi in mezzo alla folla. Il rumore si faceva sempre
più vicino, mentre anche i tre stranieri erano quasi riusciti a spostare tutti
i massi che erano stati posti a difesa delle stanze di Mur. Quando ci
riuscirono, un rombo provenne dal piano più in alto. Subito Bellig e gli
altri si lanciarono nelle scale che portavano più in basso, mentre gli
orchi e i mannari giungevano impetuosi e desiderosi di sangue sulla
folla. Per fortuna dei tre stranieri i mostri non s’avvidero subito che le
scale continuavano ancora verso il basso, e così le creature si lanciarono
sulla folla facendo innumerevoli vittime. Alla fine di quel massacro
nessun nano che si trovasse in quella stanza durante la lotta si salvò: i
mostri che fecero più vittime però non furono né gli orchi né i mannari;
bensì gli orchetti, con la loro astuzia e la loro crudeltà. Quei mostri
meschini e crudeli assalivano le loro vittime a gruppi, come feroci
predatori, e mentre il malcapitato si difendeva da chi gli stava innanzi,
altri lo attaccavano e finivano da dietro. Fu un vero massacro: i nani
fuggivano in ogni direzione, ma non riuscivano a fare che pochi passi.
Se per fortuna qualcuno era riuscito a non cadere vittima di un mostro
che lo stesse assalendo, subito un altro lo attaccava. Non c’era spazio per
fuggire, tanto era ricolma l’aula, di creature di Gnomanar e di nani. Al
centro della stanza, anche lo Stregone mieteva vittime col suo pugno.
Alcuni, coloro che cercavano di resistergli, li paralizzava prendendone il
controllo mentale, e ordinava loro d’uccidere quelli della stessa specie.
Così nani erano uccisi in maniera inaspettata dai loro simili, mentre il
servo del Nemico gioiva vicino. Le mura venivano imbrattate di sangue;
le opere dei nani distrutte. Mostri s’aggiravano per i corridoi, alla ricerca
di chi malauguratamente s’era nascosto nelle proprie stanze. E così i
mostri scoprirono anche, o meglio si resero conto di ciò di cui non
s’erano avveduti nella foga di uccidere, che esisteva anche un passaggio
verso le stanze inferiori. Scorte le scale libere da massi, i mostri ci si
218
tornò al saggio. Gli prese la mano e la aprì, poi, tremante, gli porse la
gemma. Intanto boati venivano dalle scale, a prova che gli orchi
giungevano all’ultimo piano. Mur parlò allora così:
- Forse, Bellig, hai ragione, forse non è giunta l’ultima ora per noi tutti.
Fuggi da qui: dietro il trono, accanto al nascondiglio in cui era celato il
forziere, un passaggio attraverso un falso muro ti condurrà lontano, oltre
le montagne. Da lì potrai scappare con dei cavalli che dei miei servi
tengono sempre pronti per una mia fuga, per qualsiasi caso. Ti chiedo
solo di portare con te Menhan; lui sarà il nuovo sovrano dei nani, e
condurrà il mio popolo alla vittoria, mentre io muoio con le guardie.
Dicendo questo il sovrano riprendeva colore. Mur indicò allora ai tre
stranieri di attendere accanto al passaggio che avevano trovato grazie
alle sue indicazioni, e, uscito dalla sala, chiamò Menhan. Il futuro
sovrano era un giovane nano, poco più alto della media, con lunga barba
castana e degli occhini neri come la cenere. Dopo un po’ di reticenza, il
nano fu convinto, e vistosi consegnare la corona da Mur come simbolo
del suo potere, condusse i suoi compagni al passaggio che richiuse
velocemente appena furono dentro. Mur prese allora il comando delle
sue guardie, per dare il tempo ai fuggitivi di scappare in tutta tranquillità
e senza correre rischi. Gli orchi giunsero alle sale reali, e lì, la guardia
reale, qualche attimo prima guidata da Menhan, dimostrò tutto il suo
valore: i guerrieri combatterono fino allo stremo, come se avessero
dovuto resistere ancora per le genti della città, di cui erano invece gli
ultimi sopravvissuti. Caddero molti mostri in quella lotta, finché quasi
tutto l’esercito radunato dallo Stregone non scomparve. Ma prima che
fosse sconfitto lo Stregone, la guardia reale era stata tutta debellata, e la
città d’Aiak era diventata una delle proprietà di Gnomanar. Per fortuna
dei fuggitivi, nella furia della battaglia, le sale reali furono incendiate, e
così il passaggio segreto rimase a lungo nascosto, almeno finché non
tornò la pace assoluta nella città. Lo Stregone cercò a lungo ciò per cui
era veramente partito, il Numenal, ma non lo trovò. Adirato, si rifece sui
suoi servi, sottoponendoli a sevizie immani per svagarsi un po’ dalla
delusione. Poi lasciò campo libero nel Dwaralar alle sue creature, mentre
lui ritornava al Regno Nero, senza il Numenal, ma con il regno dei nani
ai suoi piedi. Del resto, pensava, se la gemma non si trovava nel regno
dei nani, in quella città, non si poteva trovare in nessun altro posto. Era
sicuro che già i Numenali fossero stati ritrovati da qualcun altro, ma che
fossero gli altri Stregoni o chissà chi, questo non era in grado di dirlo.
220
X
Kala liberata
troverai molto più di ciò che cerchi. Io baderò a queste donne, ma voi tre
dovete proseguire la ricerca.
- Questa non è una ricerca! – urlai contro il Veida, insondabile nella sua
reazione – io ho già trovato ciò che cercavo! E questo non è più il tempo
degli oracoli e di frasi criptate, immortale! Dicci chiaramente cosa c’è la
dentro e cosa dobbiamo fare!
Il mio impeto d’ira sorprese un po’ tutti, me compreso, ma non infastidì
il saggio, per mia fortuna (se ciò fosse accaduto avrei potuto fare
immediatamente una mala fine). Aliturn però tacque, lasciando così me
nella mia rabbia, e Colwey e Aulon nell’indecisione. Alla fine il barbaro
si prese di coraggio, e guidando tutti e tre si diresse di nuovo verso
l’entrata secondaria, per discendere nuovamente all’interno della
montagna. Le mura fredde ci guidarono fino alla sala dove era prima
prigioniera Alinea. Arrivati, ci trovammo di fronte all’ennesimo
problema: come arrivare alle altre sale dei prigionieri? Aulon pensò di
richiamare l’attenzione delle guardie, e di tentare di assalirle;
probabilmente quegli stessi orchi avevano le chiavi delle altre stanze,
almeno lo speravamo, e così, forse, procurandocele, saremmo riusciti a
liberare i prigionieri. Rimaneva il problema di come riuscire poi a
fuggire senza essere di nuovo catturati, ma cercammo di rimanere lucidi
e di affrontare una cosa per volta. Fummo d’accordo con l’idea d’Aulon,
e del resto, non ci veniva in mente niente di meglio; dato che avevo la
voce più acuta fra tutti e tre, fui io a chiamare le guardie:
- Aiuto! Degli intrusi! Aiuto! Qualcuno ci aiuti!
Urlai la prima cosa che mi venne in mente, a ripensarci delle
stupidaggini belle e buone, ma tanto bastò perché giungessero tre orchi.
Le guardie spinsero rumorosamente la porta della sala, dimentichi che
era chiusa con varie serrature. Facendo allora stridere e cigolare i
meccanismi, aprirono la porta ed entrarono uno dietro l’altro. Colwey,
nascosto dietro la porta, colpì la prima guardia con l’elsa della sua
spada, eliminandola sul colpo; Aulon, nascosto dall’altro lato, assalì il
secondo orco, colto di sorpresa dalla rapida morte del suo compagno.
Anche questa guardia, però, non sopravvisse tanto a lungo da capire
cosa gli stesse accadendo. L’ultima guardia fu più veloce a
comprendere: scorti Colwey e Aulon, corse via dalla stanza, per dare
l’allarme; imbracciai allora il mio arco e scoccai una freccia al buio,
sperando di colpire il mostro. Per mia fortuna lo colpii alla nuca,
uccidendolo sul colpo, poco fuori della stanza. Sconfitte le guardie,
225
trascinammo gli orchi dentro la sala e frugammo i loro corpi alla ricerca
delle chiavi delle altre stanze. Per nostra fortuna, la supposizione di
Aulon era esatta, e così ci appropriammo delle chiavi. Uscimmo poi con
circospezione dalla stanza, tentando di fare meno rumore possibile: ci
trovammo in una via di quella antica città, probabilmente una delle vie
periferiche.
Tutt’attorno a noi altre sale, con dentro altri prigionieri. Giungevamo
alle loro porte come salvatori, e non appena coloro che erano all’interno
erano liberati, subito indicavamo loro la via in silenzio, attraverso le
scale da cui eravamo scesi, per uscire dalla montagna. I più fuggivano,
sia che fossero donne, o poco più avanti nella via, uomini. Ma qualcuno
ci seguiva, per aiutarci nella nostra impresa, o alla ricerca di qualche suo
caro, o perché temeva di uscire fuori della montagna da solo, senza la
protezione delle armi. Incontravamo poche guardie, a dire la verità, nel
nostro cammino: quelle che trovavamo, venivano uccise quasi subito da
Colwey, divenuto in quel viaggio un ancor più grande guerriero. Il mio
amico mulinava la sua spada con maestria, e la dove non arrivava con la
sua lama, la sua incredibile potenza fisica faceva il resto. Sollevava i
mostri per il collo, anche se erano alti anche più di lui. La sua forza gli
permetteva di alzarli di slancio, e con incredibile impeto, di schiacciarli
con la testa per terra; ma il più delle volte non doveva ricorrere alle sue
braccia, e grazie alla sua lama affilata che con facilità trapassava il petto
dei mostri, ci spianava la strada. Aulon gli veniva dietro per dargli una
mano, ma la sua forza era molto minore, e il grosso dello sforzo così lo
faceva il barbaro, mentre l’altro guardava le spalle. Io, accesa una
freccia come una torcia, guidavo quelli che ci venivano dietro, e andavo
di stanza in stanza a liberare i prigionieri. Continuando così giungemmo
alla fine della via senza essere stati scoperti. Quelli che venivano con noi
ci avvertirono però che c’erano ancora altri prigionieri, nella piazza della
città, costretti a lavorare come schiavi. Facendoci quindi condurre da
quelli che erano con noi, silenziosamente camminammo verso la piazza.
La città di Kala era desolata e visibilmente consunta: molte zone fra le
mura erano crollate, e altre erano consumate dal tempo. Le stanze che i
nani solitamente usano come case erano vuote, e nessuno vi abitava,
neanche gli orchi o qualche prigioniero. Venimmo in seguito a sapere
che i mostri occupavano come bestie la zona opposta a questa, oltre la
piazza, mentre le stanze attorno a noi erano occupate dai due Stregoni
che erano venuti assieme ai prigionieri in città. La piazza era circolare, e
226
portava al collo, e nel frattempo impugnava con l’altra mano la sua lama
tenendola dall’elsa. Gli uomini che erano con noi erano nervosi ma
decisi: non erano tutti esperti nell’usare le armi che avevamo recuperato
per loro, ma nondimeno c’era fra loro qualcuno che aveva militato
nell’esercito e che sapeva cosa fare in quel caso. Avevamo intenzione di
continuare ad uccidere ad uno a d uno tutte le guardie, come c’era
riuscito fino a quel momento, senza farci scoprire, per poi liberare i
prigionieri: ma naturalmente, le cose non andarono così come
speravamo. Non so di preciso cosa successe, forse uno dei nostri
inciampò e finì a terra, forse qualcuno fece semplicemente rumore. In
effetti, ora, questo dettaglio non conta. In ogni modo, una delle guardie
si voltò improvvisamente verso qualcuno dei nostri, e scorgendolo nel
luccichio della sua lama, riconobbe che non era né un orco né un Uomo
Nero. A quel punto diede l’allarme, e tutte le guardie che erano nella
piazza s’avvidero di noi. I prigionieri si fermarono, allarmati per ciò che
stava accadendo, senza ben capire. Le guardie ci balzarono addosso, e
noi addosso a loro. Ero distante da Colwey e Aulon, dall’altro lato della
piazza, e così dovetti arrangiarmi a difendermi da solo: un primo orco
mi venne addosso urlando, ma quando fu a pochi passi da me lo colpii in
faccia con una freccia. Un altro lo seguiva a poca distanza, ma anche
questo fu infilzato nel petto da un mio dardo. M’avvicinai ad uno di
quelli che era con noi, che usava abbastanza bene un pugnale che gli
avevamo affidato, così, ci proteggemmo reciprocamente le spalle. La
battaglia andava lo stesso male, perché le guardie erano poco meno che
il doppio di noi, sicché spesso ciascuno di noi si ritrovava a combattere
contro due di quelle creature contemporaneamente. Io e il mio
compagno nella battaglia corremmo al centro della piazza, verso i
prigionieri. Quando questi si accorsero che eravamo uomini ed eravamo
lì per liberarli, urlarono di gioia; c’indicavano le catene, e ci pregavano
di spezzarle. Allora il mio compagno fu assalito da un Uomo Nero,
mentre io ero libero d’usare la mia spada per tentare di spezzare le
catene. Mi gridò di non pensare a lui, e di pensare ai prigionieri. Lo
guardai bene; era un uomo sulla cinquantina, visibilmente possente, ma
con i segni dell’età sul fisico. Doveva essere originario dell’Oldar, forse
l’avevo conosciuto quando avevo vissuto là. In ogni modo l’Uomo Nero
lo uccise con un colpo secco al torace, dopo averlo immobilizzato
ferendolo profondamente alla gamba destra. La creatura era ora libera di
colpirmi, dato che le davo le spalle mentre ero intento alla mia opera. Io
228
- Lorfobeth, Fenici, basta! Non è destino che qui muoia qualcun altro,
come non è destino che voi Lorfobeth vi battiate con me qui, ché altrove
verrà la nostra lotta. Così, non provate a ribellarvi al mio potere!
Stregoni, andate via da questa città, e non rimetteteci mai più piede!
Annunziate al vostro signore che nulla è cambiato nella Profezia!
Gli Stregoni rimasero fermi, come se non volessero ubbidire al Veida:
- Cercate la mia collera? Fuggite, finché ve ne do l’occasione!
Gli Stregoni si recarono allora nelle sale che avevano prima occupate: lì,
i loro destrieri scalpitavano. Montatili in sella, cavalcarono fino innanzi
ad Aliturn. Dinnanzi al Veida si fermarono per qualche attimo, poi
ripresero la loro corsa, senza fiatare. Usciti da Kala, presero la via per
l’occidente fino alle sale di Gnomanar, maledicendo il loro nemico.
A Kala, Aliturn condusse fuori le Fenici e Aulon. Sulla cima della
montagna, i prigionieri, Colwey, Alinea ed Ewaniwe in coma,
attendevano il Veida. Di fronte ai tre, Aliturn richiamò Lindore:
- Conducili a Luma, la città degli Eida, assieme alle tue due compagne
più fidate; lì gli Eida sapranno cosa fare. Sulla strada troverete forse altri
loro compagni, che condurrete con loro ad oriente. Fra loro, un altro
porterà uno dei Numenali. Le tue compagne, le rimanenti, condurranno
queste persone sino al Minar, e con esse Aulon, e lì tutti si fermeranno,
nell’attesa degli eventi futuri. Lindore, sappi che oggi avete riabilitato la
vostra sorte, cancellato la vostra onta. Ora regnate assieme alle Aquile,
sottomessi solo ai Draghi. Ricorda le mie parole, perché presto verrà la
battaglia a cui anche voi avete in sorte di partecipare!
Detto ciò, Aliturn sparì nel nulla. Lindore scelse due compagne, Meliki e
Terda, e presi in groppa Colwey, Alinea ed Ewaniwe, le tre Fenici
partirono. Sulla via per l’oriente, scorsero fra i monti Bellig, Feilon e
Luia. Posatisi vicino a questi, Colwey e Alinea salutarono con gioia i
loro amici, e li fecero salire in groppa a Meliki e Terda. Bellig fu
sorpreso di non bruciare al contatto di quei corpi infiammati, ma le
Fenici spiegarono che il loro tocco bruciava solo coloro che esse
volevano bruciare. Rassicurato così il saggio, il volo riprese. Le Fenici
volavano a velocità inaudita per fare presto, così come aveva detto loro
di fare Aliturn. Era giorno quando erano partite, e dopo ventiquattro ore
raggiungevano, di nuovo col giorno, la loro meta. Le Fenici atterrarono
allora nel centro di Luma, attese. In città già era giunto Lendelin, con
Mel e Ronilis, ed erano i tre ad attendere con più impazienza l’arrivo dei
compagni. Ewaniwe fu adagiato mollemente per terra, e subito portato in
232
I
La favola d’Euon
Anche a quel tramonto intonò questi versi; poi, rimasto ancora a fissare
per qualche attimo il paesaggio, Ewaniwe si alzò, e mentre Nelian
scorazzava davanti a lui allegro, padre e figlio tornarono alla fortezza di
Bingrim.
Ewaniwe entrò nella stanza di suo figlio: trovò che una delle balie che
l’aveva cresciuto assieme a lui e ad Alinea lo stava mettendo a letto; le
disse di lasciarli soli, e la ringraziò. Quando di nuovo padre e figlio
furono soli, il bardo chiese al figliolo sotto le coperte se voleva ascoltare
la conclusione della Storia che fino a poco prima gli aveva narrato: il
piccolo fu entusiasta. Ewaniwe rise contento della vitalità del figlio, e
presa una sedia, piccolina per la sua taglia, e, postala vicino al letto dalle
pesanti lenzuola bianche, si sedette e riprese da dove aveva lasciato.
poi, pian piano, i ricordi degli ultimi tempi si affacciarono alla mia
mente. Mi ricordai della ferita, d’Aulon, di Kala, della gemma e di
quando persi i sensi, come morto. A quel ricordo andai d’istinto a
toccarmi la ferita, che inspiegabilmente non c’era più. Mi accorsi anche
che non riconoscevo la stanza in cui mi trovavo: il letto aveva lenzuola
rosse, brillanti; le mura erano semplici, di marmo bianco e rosato; delle
colonnine intagliate di foglie reggevano il tetto, alto, di travi dorate
incastrate come a scacchiera; la stanza era grande, non saprei dire
quanto. Di fronte, poggiata sul muro opposto a me, una scrivania: una
pila di libri sul tavolo, tutti ordinati e accatastati; innanzi alla scrivania,
una sedia dorata e intagliata di fregi bellissimi, di foglie, rose, rami e
uccelli. Ai miei lati, Alinea e Colwey seduti su sedie altrettanto
splendide. Tutto era incantevole dove mi trovavo, ma non lo riconoscevo
e facevo fatica ad immaginare dove potessi essere. Pensai di trovarmi fra
gli elfi, nelle città di Mel o Ronilis, così chiesi conferma ad Alinea. Tua
madre rise, e poi guardandomi e avvicinandosi, rispose:
- No mio caro, non ti trovi fra gli elfi. Ti trovi in un posto ben più
meraviglioso, vicino alla terra che ogni sera sogni quando t’addormenti.
Siamo sul continente dove risiedono gli Eida, e questa in cui ti trovi è
una delle tante stanze del palazzo degli Eida nella città di Luma, dove
signore è Ilwanar.
Rimasi a bocca aperta: Colwey rise di gusto per la mia reazione, e con
lui anche Alinea. Io invece, me ne infischiavo delle loro battute
sull’espressione del mio viso. Era incredibile! Mi trovavo a Luma, la
città degli Eida! Mi sollevai un po’ sul letto, sempre rimanendo sotto le
lenzuola:
- Ma, come siamo arrivati qua?
- Te l’ho detto, portati dalle Fenici.
Per Alinea la cosa doveva essere abbastanza naturale, ma per me non lo
era! È già abbastanza strano credere di aver volato in groppa ad una
Fenice, poi il pensare di essere a Luma usciva completamente
dall’ordine delle mie idee, o almeno dal mio concetto d’ordinario:
- Eppure è così – riprese affabilmente il mio amico barbaro.
Rimasi di nuovo un po’ in silenzio, rimuginando sui miei pensieri. Poi
chiesi:
- E gli altri?
- Ma mi ascolti quando parlo? – Alinea si stava divertendo da matti a
prendermi in giro – Bellig, con Feilon e Luia sono venuti con noi dopo
240
che li abbiamo trovati soli soletti su una montagna nel Dwaralar; invece
Lendelin, Mel e Ronilis li abbiamo trovati qui quando siamo giunti.
Erano riusciti a raggiungere queste terre da un passaggio nel Morien, e
da dove sbucarono furono condotti fin qui.
- Ma da quanto tempo è che dormo? – chiesi.
- Cinque giorni; anche se non hai proprio dormito; – lo sguardo di tua
madre era più serio – sei stato in coma per parecchio tempo…a dire la
verità ho temuto…tutti abbiamo temuto che tu morissi. Per causa tua ho
avuto una gran paura!
Alinea mi diede uno schiaffo che era più una carezza. Colwey sorrise e
arrossì un po’ mentre tua madre mi abbracciava, e alzandosi dalla sua
sedia, disse senza che lo ascoltassimo:
- Va bene piccioncini, ho capito che è ora di lasciarvi soli!
Uscì dalla stanza, richiudendo con cura la porta dietro di sé senza fare
rumore. Io e tua madre rimanemmo abbracciati ancora per qualche
istante, poi, con sguardo incuriosito, chiesi:
- Come mai la mia ferita è guarita senza lasciare traccia?
- Perché – rispose Alinea con sguardo ironico – a quanto pare qui stai a
cuore a qualcun altro oltre che a me; sei stato in questa stanza, in cui
ogni giorno ti veniva a medicare Aliturn. Ma la cosa più incredibile, è
che quando noi chiedevamo come stavi e se ti saresti ripreso, il Veida ci
assicurava che lui stava seguendo le istruzioni degli Eida; solo loro
sapevano se saresti guarito. Capisci? Tu devi la vita ad Aliturn e agli
Eida che ti hanno voluto salvo!
- Capisco…senti, voglio uscire da qui! Credo di essere rimasto in questa
stanza già abbastanza!
Detto questo mi sollevai in piedi scendendo dal letto. Avevo indosso una
tunica bianca: mi feci consegnare da Alinea i miei vestiti, ma scoprii che
ce n’erano per me pronti di nuovi e puliti, così, indossatili, mi feci
accompagnare da tua madre per il palazzo dove mi trovavo. Feci pochi
metri, il tempo di ritrovarmi al centro d’un ampio corridoio dalle mura
chiare e ben illuminate, impregnato dal profumo di gelso, che vidi in una
stanza Lendelin e gli altri. Bussai delicatamente, e spingendo la porta
semiaperta, entrai. Alla mia vista si levarono parole di gioia. Nessuno
sapeva eccetto Alinea e Colwey che m’ero ripreso, e il barbaro giunse
poco dopo di me nella stanza; tenevo ancora in mano il Numenal, così,
per istinto. Bellig, Lendelin e Feilon corsero assieme ad abbracciarmi, e
con loro Luia, Mel e Ronilis un po’ più contenuti. In disparte, Aliturn
241
- In principio vi fu Euon.
Tutto era Euon, e niente esisteva fuorché Euon.
Ed Euon raccontò la sua favola, la storia d’Arret.
Per prime vennero le genti d’Oro; i Primi, gli Eida e Veida. Ed essi
242
furono con Euon, e tutto era Euon al di fuori degli Eida, ma anch’essi
erano Euon.
Ed Euon, finito il primo capitolo, intraprese un nuovo racconto.
Sorse Arret, nel vuoto; e attorno ad Arret furono le stelle, e la luna e il
sole. Ma Arret era deserta, vuota e brulla. Euon allora disse agli Eida di
narrare ciascuno una sua storia, e su Arret sorsero le piante e i fiumi, i
monti e le pianure, i mari e i cieli, le nevi e i ghiacci, i laghi e le isole.
Gli Eida allora osservavano dall’alto la loro creazione, estasiati. Ed
Euon concesse loro di scendere su Arret e abitarla. Gli Eida abitarono a
lungo da soli le lande d’Arret, attribuendo un nome ad ogni cosa,
rimodellando le terre e i cieli, le isole e i fiumi, secondo il loro
gradimento: e gli Eida abitarono l’oriente, ma la loro casa era tutta Arret.
Ilwanar governava i cieli d’Arret, mentre Teon regnava sui mari. Link
modellava il sole e la luce, e sua sorella Nea era ricca di messi. Forman
e Mianar attendevano il tempo in cui anche i capitoli della loro storia si
fossero realizzati, ma in quel tempo aiutavano gli altri Eida nelle loro
opere; ma già Mianar si dilettava delle foreste.
Gnornak solo non aveva raccontato la sua storia, né era sceso su Arret:
ed Euon interrogò Gnornak, ma questi tacque, e già nei suoi pensieri
covavano i suoi desideri. Gli Eida abitarono a lungo le lande d’Arret
così, finché non li prese il desiderio di vedere realizzati i capitoli di
Forman e Mianar. Pregarono allora Euon, e su Arret sorsero le stirpi
d’Argento. Gli elfi e le stirpi elfiche sorsero a quel punto della storia, e li
accolsero gli abitanti dell’oriente, gli Eida. Forman e Mianar erano gli
Eida più legati ai nuovi giunti, e trascorrevano gran parte del tempo con
loro, insegnandogli tutto il loro sapere e il loro amore per Arret. Gli elfi
vissero per secoli a contatto con gli Eida, e diedero un nome ad ogni
cosa; abitarono tutta Arret, tranne l’oriente degli Eida, che però a quel
tempo trascorrevano lungo tempo con loro. E venne il tempo in cui gli
elfi conobbero ogni cosa d’Arret, e provarono per la prima volta
desiderio di nuove visioni e di nuovi incontri. Pregarono allora gli Eida
d’aggiungere nuovi capitoli alla loro storia, ma non ce ne fu bisogno,
che a quel tempo si realizzò il capitolo di Mianar. Sorsero gli animali e i
Draghi, le Aquile e le Fenici. Le stirpi d’Argento furono felici con gli
animali di Mianar, e li amarono, mentre si realizzavano i capitoli degli
Eida tutti tranne che di Gnornak. Fu quello il tempo in cui i pensieri di
Gnornak divennero manifesti, e questi, abbandonata ogni remora, narrò
il suo capitolo, come aveva ordinato un tempo Euon. Gnornak narrò la
243
II
La stirpe d’Elettro
sapienza e del perdono di Euon, mentre invece si recava fra gli uomini.
Diede agli uomini vari doni, fra cui le armi, e per farseli grati donò loro
la magia, il dono più grande che l’Oscuro Signore potesse recare: e mai
prima di allora la magia era stata a disposizione di qualche stirpe, se non
quella d’Oro, o se non come pietre e oggetti magici. Ma Gnornak donò
agli uomini l’arte della magia, rendendoli le creature più potenti e più
fragili di tutto il creato. Allo stesso tempo Gnornak tentava gli uomini
con le sue lusinghe, mentre continuava ad odiare sempre più
chiaramente gli elfi. L’Oscuro Signore insegnò agli uomini che gli elfi
erano il male, che la stirpe d’Argento avrebbe distrutto la stirpe d’Elettro
non appena l’avesse conosciuta, per l’invidia della magia. Così gli
uomini crescevano nell’odio degli elfi, come i precedenti figli di
Gnornak, anche se erano ancora del tutto ignari di cosa fosse un elfo, né
i loro occhi ne avevano mai scorto uno.
La voce d’Aliturn mutò di nuovo, divenne bassa e suadente come quella
di una donna, ma con una profonda e insondabile eco:
- Giunse l’ora che stirpi d’Argento e d’Elettro s’incontrassero. Gli
uomini su zattere di legno, povere e malandate, varcarono il Lago
Maggiore, e furono di fronte agli elfi. Questi li accolsero con sorpresa ed
entusiasmo: difatti per loro i nuovi arrivati erano simili e distanti; in loro
non scorgevano la profondità dell’occhio elfico, né la sua infinita
sapienza; nondimeno gli uomini amavano e odiavano come gli elfi, e
pregavano e gioivano delle bellezze d’Arret; ma gli uomini, non come
gli elfi, in ciò più simili ai nani, seppur molto meno longevi, morivano
per la vecchiaia e gli stenti. Gli elfi non comprendevano il destino degli
uomini, come del resto neanche quello dei nani: a lungo interrogavano
gli Eida, sul perché loro era toccata una vita eterna, cui solo ferite
mortali potevano strapparli, mentre a quasi tutti gli altri abitanti di Arret
era toccata un’altra sorte. Io, Forman, Eida della sapienza, risposi loro.
Agli elfi tocca il loro destino, perché più simili agli Eida di qualsiasi
altro abitante di Arret. Ma gli elfi non sono come noi, e così anche loro
possono conoscere la morte. E lo stesso del resto può loro capitare di
invecchiare e morire, come succede a chi desidera malamente, e come
accade anche a Gnornak e Gnomanar fra di noi, della stirpe d’Oro,
sebbene il loro decadere sia infinitamente lento per la loro antica e
immortale potenza. E Gnomanar più di Gnornak è simile a mortale, ché
anche la morte scura e tetra più delle sue nubi, potrà coglierlo per la sua
brama di potere, infatti, la Profezia annuncia che egli perirà per mano di
249
mortali suoi pari. Gli uomini invece, la stirpe d’Elettro, sono partecipi
sia dell’oro che dell’argento, ma sono insieme imperfetti in tutto. Il loro
destino già scritto è il desiderio, la loro sorte è il pentimento e la
sofferenza, il loro fine ultimo è la morte. Ma Euon non diede loro una
tale sorte per gusto del dolore; essi, infatti, vivono in seguito alla sua
corte, unici fra tutti, eccetto quanti raggiunsero queste terre. Dei nani
invece, niente si sa né si racconta, e c’è chi assicura che dopo la morte
essi rimangano legati alla terra che hanno abitato, dove riposano per
sempre. Quanti però muoiono fra quelli delle stirpi d’Argento e d’Oro
tornano qui, e attendono in questa terra privi di corpo e immemori, e
vivono come una seconda vita vicino a noi Eida, come nostri compagni,
finché Euon non assegna loro una nuova vita e un nuovo destino. La
stirpe d’Argento comprese in parte le mie parole, ma nondimeno gli elfi
furono soddisfatti, e accolsero a sé gli uomini giunti alla loro terra. Gli
uomini abbandonarono presto ogni remora e paura; videro che quanto
aveva detto loro Gnornak era menzogna, videro la bellezza degli elfi, il
loro splendore e la loro sapienza. Gli elfi insegnarono loro la vera
religione, la scienza che io avevo loro donato, e quanto conoscevano del
mondo. La stirpe d’Elettro non aveva nulla con cui contraccambiare il
dono, eccetto il regalo di Gnornak. Gli uomini così mostrarono agli elfi
la potenza della Magia, frutto del potere dell’Oscuro Signore: le genti
elfiche furono sorprese d’un tale potere presso quei popoli da poco
apparsi e così primitivi, nondimeno accettarono con gioia lo scambio, e
così su Arret si diffuse la Magia. Il piano di Gnornak sembrava allora
fallire, e intanto gli uomini gli sfuggivano, ché andavano ad abitare le
terre che le genti d’Argento donavano loro a sud del Lago Maggiore. La
rabbia e l’odio dell’Oscuro Signore divennero allora chiari e manifesti a
tutti. Quanti fra gli uomini morti sotto il suo triste consiglio tornarono in
vita, mentre creava i giganti dai troll, gentili creature delle stirpi di
Bronzo! Ma alcuni fra gli uomini anche allora gli rimasero alleati; essi
erano già vinti dal suo malefico fascino, e sempre di più divenivano
l’ombra di se stessi, fredde creature che ora chiamano Uomini Neri,
come il colore del loro gelido cuore. Gnornak abitò nuovamente l’ovest,
e di nuovo la sua potenza fu enorme, e il rischio grande per tutta Arret.
Lo seguirono quanti erano stati il suo antico popolo e la sua nuova
progenie. I sogni di Gnornak tornavano a manifestasi e nel frattempo
cataclismi ed epidemie infestavano il mondo.
Scoppiò di nuovo la guerra, da allora chiamata Seconda Grande
250
III
Il segreto dei Numenali
addestrati per l’uso di queste gemme. Voi siete i portatori, voi i prescelti
per portare il fardello di quest’incarico. Il potere vi darà una tremenda
responsabilità, e a voi starà l’ultima scelta, e a nessun altro. Nessuno vi
potrà consigliare, né a noi Eida è dato di stabilire come voi vi dovrete
comportare nel momento in cui vi sarà dato di scegliere. Nostro destino
è quello di fornire la saggezza, ma nient’ altro più possiamo fare per
Arret, che tanto amiamo. Voi non conoscete il reale potere di queste
gemme, e, in effetti, ciò è toccato in passato a pochi, e a nessun altro è
stato concesso di conoscere questo segreto. Un tempo, come v’è stato
narrato, i tre Numenali furono creati, assieme, dall’arte della stirpe
d’Argento e di quella di Bronzo; e alla loro creazione non furono
neanche estranei Link, l’Eida, né Gnornak, e da ciò deriva il loro potere
tremendo anche per noi. Il loro potere è grande se essi sono adoperati da
soli, ma diviene immenso se essi sono usati insieme. Chi adopera il
Numenal blu controlla l’acqua nelle sue infinite forme, e il suo potere su
quell’elemento è inferiore solo a quello di Teon signore dei mari. Il
possessore del Numenal rosso forgia ed è padrone della terra,
adoperandola a suo piacimento; il potere del Numenal è minore solo a
quello di Link e di Nea signora della terra. Il Numenal bianco, infine, è
padrone dell’aria; ogni cosa che sia soggetta all’aria del cielo gli è
sottomessa, e solo Ilwanar ha maggior potere su quest’elemento. Questi
sono i già grandi poteri che queste gemme danno ai singoli portatori. I
portatori sono di gran lunga gli esseri più potenti fra le stirpi d’Argento,
d’Elettro e di Bronzo, e anche di molti fra le genti d’Oro meno potenti.
Già solo per questi poteri il Nemico desidera queste gemme, ma ancora
di più per il vero segreto dei Numerali; sappiate però che il vero potere
delle gemme si sviluppa solo se esse sono portate da una stessa persona,
e quindi, se desidererete adoperarlo, due di voi dovranno rinunziare al
proprio dono. Se farete questa scelta, e solo se la farete, il vero potere
dei Numenali si rivelerà. Prima di compiere questa scelta, però, sarà
bene che voi conosciate qual è il segreto delle gemme.
Le gemme un tempo erano conservate assieme, nel guanto di Filteor, e
allora il loro potere era massimo ed era temuto da chiunque né fosse a
conoscenza. Ben presto le gemme furono divise, e noi Eida non
sappiamo dire se questa fu una fortuna o un dramma. Mai i portatori
sono stati d’altra stirpe che di quella d’Elettro, se non quando le gemme
furono create e divise. Durante la Seconda Grande Battaglia, le gemme
furono portate da Alton, e solo per poco da Nemo. In quel caso Euon
257
volle che il portatore fosse uno, perché allora ritenne un uomo solamente
degno di tale potere. Oggi i portatori sono tre, perché così è stato deciso
dal Narratore, e c’è un motivo se anche ora le gemme sono divise fra
uomini. Alle stirpi d’Argento e di Bronzo non è dato un dono che invece
v’è proprio, e che non appartiene a nessun altro su Arret. Voi come tutti
avete un destino, ma come nessun altro avete la capacità di modellarlo;
ed è per questa vostra libertà che Euon vi diede una vita così breve, ché
se no sareste stati ben le creature più potenti e maestose, o arroganti e
terribili di tutto il creato. Per questa vostra libertà v’è dato anche di
scegliere se usare o no il potere delle gemme, ed è tempo che finalmente
ve ne parliamo. Le gemme, se riunite e se il suo portatore lo desidera,
possono distruggere: la distruzione che esse possono creare è grande, e
persino noi Eida tutti la temiamo, e Gnomanar ancora di più perché certo
che da quel potere sarebbe sconfitto. Il Nemico sarebbe annientato quasi
certamente, e la vittoria arriderebbe ai popoli liberi. Questi i vantaggi del
segreto delle gemme, ma purtroppo la medaglia di questo potere ha
anche un’altra faccia. Un male incurabile s’espanderebbe dopo l’uso
delle gemme, forse per tutta Arret, colpendo ogni essere vivo nel creato.
Le terre diverrebbero sterili, le madri genererebbero mostri o bambini
già morti. Forse questi effetti un giorno scomparirebbero, ma certamente
voi non avreste il tempo di vedere quel momento, perché anche voi
perireste nell’esplosione dovuta ai Numenali: né lo vedrebbero i vostri
figli, o i figli dei vostri figli, né chissà quante generazioni.
Probabilmente anche la stirpe d’Argento soffrirebbe gli effetti di tale
potere, ma su questo neanche noi Eida possiamo pronunciarci, perché
fino ad ora nessuno mai ha osato adoperare il segreto delle gemme.
Questo è quindi il segreto dei Numenali, che avevamo promesso di
svelare a voi, che ne siete i portatori.
Aliturn tacque, ma dalle sue mani, come una sfera d’aria si creò
d’incanto; essa sfavillava di luci bianche all’apparire, mentre, pian piano
scendeva e si muoveva verso di noi allibiti. Non appena ci fu innanzi,
immagini apparvero, e vedemmo cosa volevano dire le parole del Veida.
Fuoco e fiamme ci si mostrarono, e fumi e nubi bianche e rosse,
immense. Venti e polveri si sollevavano fra le immagini, e un lungo
crepuscolo accoglieva nel suo sterile grembo la notte e il giorno. Nulla
era chiaro, nulla resisteva a quell’irresistibile violenza; gemiti e lamenti,
urla e lagrime da ogni stirpe ci apparivano, e nient’altro. Capi chini per
il lutto, la fame e la sofferenza per la povertà. E deserti, immani, in ogni
258
nuova storia, e i loro visi saranno profondi come quelli di noi Eida.
Bene, questo era ciò che dovevamo dirvi. Ora potete uscire anche voi da
questa stanza e riposare; presto vi faremo sapere quando sarà per voi il
tempo di partire. Tu, Lendelin, puoi rimanere; infatti, leggiamo nel tuo
cuore che hai qualcosa da chiederci.
Io e Bellig uscimmo dalla sala, frastornati. Fuori della stanza, chiusa la
porta dietro di noi, tirammo un profondo sospiro di sollievo, e nel
frattempo fissammo nelle nostre mani i Numenali. Mentre io risollevavo
il volto, vedevo che il saggio continuava a fissare con gli occhi la sua
gemma, senza però che riuscissi a sondare la sua mente: poi, resosi
conto d’essere osservato, Bellig sollevò il viso e stentò un sorriso.
Facemmo quattro passi assieme, senza però parlare, dirigendoci nel
frattempo nella stanza dove avevo incontrato tutti i miei amici quando
ero rinvenuto, prima di venire all’altare degli Eida. Lì, come pensavamo,
li trovammo tutti ad attenderci. Nessuno chiese niente, ma tutti avevano
sguardi perplessi e interrogativi. Alla fine Feilon si decise a parlare:
- Bellig, tu sei saggio; ho una domanda da farti, come tante te ne ho fatte
durante il nostro viaggiare: perché gli Eida ci hanno narrato cose che,
chi più, chi meno, conoscevamo tutti? Perché c’è stata narrata la storia
d’Arret?
- Qualcuno dice – rispose Bellig – che la storia sia maestra di vita, e
forse quanto si dice è vero. Non so darti una risposta precisa, però sappi,
Feilon, che io oggi ho saputo quanto non avrei mai voluto sapere, e da
oggi, fin quando non so, il carico delle mie conoscenze s’è fatto molto
più pesante e doloroso di quanto fosse prima. Forse quanto è stato
narrato era rivolto solo a noi tre portatori, o forse c’era un motivo che
nessuno di noi può capire: sai meglio di me quanto sono oscure talora le
vie del Creatore.
Nessuno fece più domande, nemmeno su dove si trovasse Lendelin. Io
desideravo solo andare nella mia camera, così mi congedai da tutti e mi
ritirai: Alinea volle però venire con me, così esaudii il suo desiderio.
Entrati in camera, mi gettai subito sul letto; in mente non avevo altro che
le parole degli Eida sul segreto dei Numenali. Alinea non parlava, ma si
stese anche lei accanto a me. Rimanemmo in silenzio per un po’, poi tua
madre, per distrarmi un po’, disse:
- Sai, Aliturn ci ha spiegato il perché queste sono chiamate Terre dei
Sogni. Diceva che tutt’attorno al continente ci sono infiniti scogli e
isolotti, e che lì, per volere d’Euon, giunge l’anima di chi si addormenta,
260
non giungerai qui. Queste sono tutte le condizioni, e ora sai ciò che gli
Eida possono fare per te affinché tu sia felice nelle loro terre. Di nuovo,
a te sta la scelta.
Allora Lendelin finalmente fu libero di parlare. Non rispose subito, ma
stette un attimo a riflettere su quanto gli era stato detto e imposto.
Ripensò alla felicità d’Ewaniwe con Alinea e a quella di Feilon con
Luia. Ripensò anche alla gioia che aveva provato un tempo in quella
terra, quando vi aveva risieduto per il suo addestramento. Si ricordò
degli amori che vi aveva lasciato, e chiese:
- Se io accetterò le vostre condizioni, giungerò a queste terre vivo e
ancora giovane?
- Ciò che per te è stato disposto – rispose Aliturn – è in parte oscuro
anche a noi. Per ciò considera le nostre condizioni per quelle che sono, e
non ti porre altre domande. Dopo la tua risposta, saprai chi è il bambino
di cui ti è stato detto.
Lendelin allora non esitò più, e rispose:
- Va bene, accetto le condizioni, pur di tornare qui al più presto, e di
risiedervi per sempre.
- Hai fatto la tua scelta, Lendelin Eidur, e dovrai seguirla fino alla fine.
Ora saprai chi è il bimbo. Il suo nome sarà Nelian, e ora cresce nel
grembo d’Alinea. Suo padre è Ewaniwe, e a tempo debito, egli condurrà
di nuovo i tre Numenali contro il Nemico. A te non è dato di sapere di
più su questi fatti. Sappi solo che fra diciotto anni egli prenderà il tuo
regno, e tu sarai libero di fare ritorno presso di noi. Ora puoi andare,
Lendelin Eidur: o hai ancora altre domande da porci?
- Non ho altro da chiedere…grazie infinite! Forse voi immortali non
potete capire quanto il vostro dono allievi ora le mie sofferenze!
Lendelin si allontanò inchinandosi, poi però, davanti alla porta della
stanza, si voltò e chiese:
- Si, ho ancora in verità un’altra domanda, cui non riesco a dare una
risposta: si narra che Gnornak apparisse in battaglia, e sempre come una
creatura immensa, possente e orribile. Si sostiene che oggi Gnomanar
sieda sul suo trono, anch’egli di carne e sangue. Perché invece voi che
abitate queste terre non apparite, se non come voci attraverso il corpo
d’un Veida? Questa è la mia ultima domanda, e spero di avere una
risposta, se non è troppo chiedere.
- Lendelin Eidur, risposero gli Eida – Gnornak e Gnomanar – pur
essendo della nostra stessa stirpe, appaiono come creature in carne ed
263
ossa, perché hanno preferito il desiderio alla loro condizione. Essi ogni
giorno hanno bramato il dominio del mondo più d’ogni altra cosa, fino a
perdere ogni parvenza, se non i loro poteri, della loro nascita fra le genti
d’Oro. Così essi hanno guadagnato un corpo mortale, sebbene
potentissimo. Di più; sappi che Gnomanar è ancora più imperfetto del
padre, se così si può chiamare Gnornak nei suoi confronti. Egli è legato,
oltre che al suo corpo, anche ad un oggetto che tiene sempre al riparo
nella sua dimora: lì, un braciere arde senza che sia mai spento. Ma quel
fuoco si spegnerà quando Gnomanar sarà sconfitto, o Gnomanar sarà
sconfitto quando quel fuoco si spegnerà. Per i motivi opposti noi non
abbiamo corpo, e ci manifestiamo a te come voci attraverso il corpo del
Veida che voi chiamate Aliturn. Così anche la tua ultima domanda ha
trovato risposta, e adesso puoi andare a riposarti nelle tue camere,
Lendelin Eidur.
Così dicendo Aliturn crollò a terra, come sfinito, e i suoi occhi non
brillarono più. Lendelin corse verso il Veida, ma quello gli fece cenno
che era tutto a posto e che poteva andare. Il Grande Re uscì così a passi
lenti dalla sala, voltandosi spesso, dubbioso e preoccupato. Chiusa la
porta, si guardò per qualche attimo attorno, spaesato, poi si recò nella
sua camera a riflettere. Il Viandante vide tutte queste cose, poi si trovò
di fronte ad Ewaniwe nella sua camera.
Dopo quelle parole, io e Alinea corremmo subito nella sala dove stavano
i nostri amici. Lì regnava un’atmosfera pesante, che strideva fortemente
con i nostri sorrisi. Quando ci vide, Luia chiese perché fossimo così
allegri: io e Alinea ci guardammo in viso, soddisfatti, poi rispondemmo:
- Ci sposiamo! Abbiamo deciso di sposarci! Sta sera!
- Cosa? – urlò la compagna di Feilon assieme al generale.
Spiegammo cosa era successo, compreso che tua madre era incinta di te,
figliolo. Tutti furono felici per noi, e ci abbracciarono per
complimentarsi. La più felice era Luia, mentre, un po’ in disparte, Feilon
era imbarazzatissimo. M’avvicinai a lui e dissi:
- Beh, non sei felice per me e Alinea?
- Oh, sì, certo… – fece quello sconsolato per l’impressione che aveva
dato – il fatto è un altro: è che io e Luia, anche noi ci amiamo, e il fatto
che voi vi sposiate… ho paura che lei si senta come ferita dal fatto che
voi facciate “il grande passo” prima di noi…
- Qual è il problema: se la ami, sposala.
264
Dissi quella frase ridendo come un matto, mentre Feilon rimaneva con
un’espressione inebetita. M’allontanai mentre il generale s’avvicinava
furtivo a Luia dopo qualche minuto d’esitazione. Li osservai che
sgattaiolavano in un angolo della stanza, e poi vidi la donna piangere e
abbracciare il mio amico, commossa. Gridai:
- A quanto pare sta sera non saremo solo io e Alinea a sposarci!
Guardate quei due!
Tutti si voltarono verso Feilon e Luia, mentre quelli come impazziti di
gioia annuivano con la testa e le braccia e confermavano. Li
abbracciammo per complimentarci e festeggiarli. Rimanemmo ancora
per un po’ di tempo in quella stanza a festeggiare e a parlare, poi Luia e
Alinea corsero nelle loro camere per prepararsi, Bellig andò a cercare
Aliturn e Lendelin assieme a Mel, Ronilis e Colwey, mentre io e Feilon
ci ritiravamo nelle nostre stanze per riposare in vista della magnifica
serata. Quando fui dentro la mia camera, però, mi vidi di fronte il
Viandante. Sorpreso, chiesi:
- Tu cosa ci fai qui? Che cosa è successo?
- Hai saputo di tuo figlio, giusto?
- Sì, ma…cosa c’entra mio figlio?
- Ebbene, adesso saprai qualcos’altro sul suo destino. Il suo nome sarà
Nelian, e sarà Grande Re. Lendelin lo dichiarerà suo erede al termine
della Grande Battaglia, e quando avrà diciotto anni erediterà il trono,
mentre Lendelin, senza figli né eredi, verrà ad abitare queste terre. Un
giorno tuo figlio porterà i tre Numenali contro un nuovo Nemico, ma per
quanto riguarda la tua sorte, non so se allora tu sarai vivo né cos’altro
toccherà alla tua vita dopo questi eventi. Mi rivedrai, e allora sarai di
nuovo istruito.
Così dicendo, il Viandante scomparve, così come l’avevo visto apparire
dal nulla nella mia stanza. Fissai il vuoto, in direzione dell’immagine
che avevo visto sino a pochi secondi prima. Poi mi gettai sul letto, e
subito m’addormentai vinto dalla stanchezza e dalle emozioni. Quando
mi risvegliai era già quasi sera e l’ora del matrimonio: mi preparai in
fretta e uscii dalla camera.
265
IV
Matrimoni
pomeriggio v’attende assieme agli altri ospiti nella sala dell’altare degli
Eida, per parlarvi.
Detto questo Deroina se n’andò salutando, e io e tua madre ci
rituffammo nei problemi che avevamo abbandonati per una sera. Quel
pomeriggio ci presentammo nella sala, più o meno tutti assieme.
L’ultimo ad arrivare era stato Lendelin, visibilmente provato e col
fiatone. Quando fummo tutti riuniti, Aliturn, che era già nella sala prima
che arrivassimo tutti, senza farci disporre in qualche modo, proferì
parola, con la sua voce normale, almeno quella volta:
- Finalmente siete tutti riuniti. Ho da dirvi poco, e sarò breve. È finito il
tempo del riposo e dello svago: è giunto il tempo della partenza e del
dovere. Avete appreso ciò che dovevate apprendere, e siete stati istruiti
sul futuro e sul passato. Ora tutti voi tornerete al vostro destino, e gli
Eida non influiranno né vi consiglieranno sulle vostre azioni; ma non
partirete tutti assieme: i tre portatori dovranno fare un viaggio diverso,
più lungo e pericoloso degli altri. Loro dovranno lottare contro
Gnomanar, ad occidente. Gli altri giungeranno nel Minar, e lì
difenderanno Arret. Spero che voi portatori abbiate già deciso sull’uso
del segreto dei Numenali, ma questa è una cosa che non mi riguarda,
perché anch’io ora dovrò andare incontro al mio destino. Riposatevi per
queste ultime ore, perché domani con l’alba voi lascerete questa città e
queste terre, ed Euon solo sa se mai ci tornerete: questo era quanto
dovevo dirvi.
Finì così il discorso d’Aliturn, e il Veida ci fece cenno d’andare via dalla
stanza. Bellig e io, fuori della sala dell’altare, ci avvicinammo a
Lendelin, e io chiesi al Grande Re cosa credesse volesse dire Aliturn
riguardo al nostro viaggio:
- Credo – affermò Lendelin con un sorriso amaro sul volto – che si
riferisse al fatto che noi dovremo recarci alla reggia di Gnomanar, e che
dovremo combatterlo nella sua terra. Pensavo che questo compito
dovesse toccare solo a me, e lo speravo per voi, prima di giungere a
questa città, ma evidentemente mi sbagliavo.
Io impallidii, mentre Bellig, assorto nei suoi pensieri s’allontanava.
Lendelin gli gridò:
- Bellig, dobbiamo prendere una decisione, fare una scelta, tutti e tre
assieme!
- Lo faremo in viaggio – gridò di risposta il saggio – quando i dolori
d’Arret ci renderanno più obiettivi.
272
alla fine tutto finirà per il meglio. Per quanto riguarda tuo figlio, quando
tutto finirà, un grande destino gli si aprirà dinnanzi: ma non è questo il
momento di parlarne; verrà l’ora in cui anche tu saprai ciò che ho saputo
io su di lui.
Evidentemente però non ero riuscito a confortare troppo tua madre, che
facendo finta di niente, riprese:
- Ti prego, dà via quella gemma; dalla ad Aliturn, o a Colwey, o a chi
vuoi tu. Ma tu rimani qui con me, non te n’andare e non allontanarti da
me!
Non risposi. Tua madre sapeva che non avrei mai fatto ciò che chiedeva
e la discussione finì lì. Dopo un po’ Alinea si calmò, e assieme uscimmo
di nuovo dalla stanza per passeggiare nuovamente fra le vie della città
degli Eida. Tornammo nel cortile dove c’eravamo sposati, e anche lì
trascorremmo un po’ di tempo. Cenammo come la sera prima assieme
agli altri, ma questa volta tutto era più parco e calmo. Tutti eravamo un
po’ preoccupati in viso, anche se si cercava di scherzare per allentare la
tensione. Dopo un po’ andammo a dormire, dato che la sveglia per
l’indomani era puntata per mattina molto presto, poco prima dell’alba; in
realtà quella notte dormii poco, ma rimasi tanto a pensare. Provai anche
a sgranchire le gambe nel corridoio per prendere sonno, ma non ci fu
nulla da fare. Vidi che gli stessi miei problemi avevano Colwey e Feilon,
mentre Alinea era crollata, o faceva finta d’essersi addormentata per non
innervosirmi ulteriormente. Rimasi così un po’ a parlare con i miei amici
del più e del meno, facendo finta di niente, come del resto facevano
anche loro, poi alla fine, che era quasi ora di alzarci, tornai nella stanza e
mi distesi senza riuscire ad addormentarmi. Giunsero, qualche ora più
tardi, a chiamarci dei servitori del palazzo. A noi venne a svegliarci
Deroina, ma fu un viaggio inutile, dato che io e tua madre quando l’elfo
bussò alla nostra porta eravamo già svegli. In ogni modo lo
ringraziammo, per tutto quello che aveva fatto per noi e lui ci benedisse.
Prima di uscire dalla camera preparai tutte le mie cose, e come me fece
tua madre. Prestai attenzione a raccogliere il mio Numenal, e lo
conservai in una collanina che Aliturn m’aveva donato apposta per
quello scopo. In seguito, ci ritrovammo tutti fuori del palazzo. Lendelin
teneva la sua solita spada, ma l’incavo era colmato dal suo Numenal.
Teneva, come un normale guanto, il guanto di Filteor. In effetti, il
Grande Re aveva preso l’abitudine di tenere sempre con sé il Numenal,
quando poteva nella spada, se non poteva, nel guanto. Bellig invece
274
V
Il responso dei morti
alti e innevati: quelli erano i monti della Catena del Pizzo. Volammo
sopra quelle cime che solo Ilwanar aveva potuto scalare, e vidi ciò di cui
già m’aveva parlato tua madre. Scogli e isolotti, piccoli ma in numero
infinito, tutt’attorno alla costa; quelli erano gli scogli su cui, diceva tua
madre, ogni volta che dormono, giungono le anime degli uomini e
sognano. Non vidi se c’erano abitanti su quegli scogli, o forse non
potevo vederli. Volavamo velocissimi, e il vento schiacciava la pelle sul
mio viso; così istintivamente portai la mano al Numenal e, non so se
fosse un’impressione, sentii come se l’aria che sbatteva contro la mia
faccia si facesse d’un tratto più fine e morbida, come se s’aprisse di
fronte al mio passaggio senza recarmi dolore. Man mano che ci
allontanavamo da Luma il tempo e il clima si facevano più inclementi.
Varcati i monti delle Terre dei Sogni, il limite settentrionale di quel
continente, avvertimmo inaspettato il freddo del nord e delle grandi
altitudini. Varcammo le Grandi Cascate dell’oceano, che separavano le
Terre dei Sogni dal resto di Arret: le acque vicine alle terre che
lasciavamo scendevano potenti e distruttive con boati enormi sulle
correnti dei mari di Arret. Impossibile n’era la risalita, e certa la morte
per chi provava una tale impresa senza l’approvazione degli Eida. Ben
presto volando sopra l’oceano avvistammo Lizara, l’isola dei Draghi.
Scorgevo alte e scoscese coste, e cascate che s’abbattevano sul mare; il
territorio era alto e brullo, fitto di canyon e di caverne, di scoscesi pendii
e rupi. Nessuna creatura si poteva vedere che vivesse alla luce del sole,
sicché sembrava che quella terra fosse soltanto il ricordo della landa che
si narra da secoli ospiti i Draghi. Vidi degli sbuffi di fumo provenire da
talune caverne, e sentii un odore acre di zolfo che impregnava l’aria.
Sorvolata per un’ora circa quella terra, Lendelin sussurrò di nuovo a
Lindore, e scendemmo improvvisamente in una veloce picchiata
seguendo tutti la grande Fenice. Volammo verso una di quelle caverne
da cui fuoriusciva quel denso fumo: era un fumo strano, tinto di rosso e
di bianco, non come quello nero e tetro che avevo conosciuto mentre
vagavo fra le terre conquistate da Gnomanar. Giunti veloci dinnanzi
all’entrata della caverna, le Fenici si poggiarono bruscamente per terra;
quella sembrava una terra infernale. La neve non aveva occasione di
depositarsi, nonostante il clima, che subito si scioglieva per il calore del
terreno, come se dentro ribollisse un magma denso e fluente. Il fumo
proveniva ad intermittenza, come se fosse il respiro di chissà quale
creatura. Lendelin ci guidò nella caverna, buia, pregna d’odore di zolfo
277
ancor più che il suo esterno, seguito dapprima da Lindore, e poi in fila
da tutti gli altri. Un calore incredibile ci accolse all’interno.
Evidentemente per me quello era il tempo in cui tutti i miei sogni
d’infanzia, i racconti e le canzoni dei tempi antichi e dimenticati, si
dovevano fare vivi e reali dinnanzi ai miei occhi increduli, perché poco
oltre l’entrata della caverna, si stagliava infatti l’immensa mole di un
Drago: quella creatura che vedevamo, era enorme, molte volte più
grande di me, Lendelin e Bellig messi assieme, e persino Lindore di
fronte a quel Drago impallidiva per grandezza; poco contava che
Lendelin ci bisbigliasse che quello era Thorn, il più antico e maestoso
fra i Draghi, perché avevo paura di fronte a tanta imponenza, e allo
stesso tempo infinito rispetto e ammirazione, quasi quanto ne avevo
avuto fino a poche ore prima di fronte all’altare degli Eida.
Istintivamente portai di nuovo la mano alla gemma che tenevo appesa al
collo. Thorn dormiva, e ad ogni suo respiro quei fumi invadevano la
caverna e ne uscivano poi dall’entrata. Non temeva alcunché, quel
Drago, e per questo poteva permettersi di dormire in quella maniera così
tranquilla. Le Fenici erano nervose quanto me e Bellig, anche lui colpito
da tanta imponenza, e solo Lindore dimostrava tanta tranquillità quanto
il Grande Re. Poi Lendelin avanzando di qualche passo rispetto a noi,
svegliò il Drago:
- Thorn, della stirpe dei Draghi, svegliati! È un tuo giovane amico che ti
chiama e che si rivolge a te nella tua caverna.
Thorn emise, un verso, come uno sbadiglio: una ventata di fumo ci
colpì. Il Drago sollevò la testa, che teneva abbassata sul terreno. Era
come quella di un serpente, o meglio ancora di una lucertola. Aveva
però delle orecchie che assomigliavano a quelle di un cavallo. Visto il
Grande Re, Thorn si alzò sulle zampe, mostrandoci anche tutto il resto
del suo corpo in maniera ancora più chiara di prima: era anche più
grande di quanto m’era sembrato. Thorn fece qualche passo, agitando le
grandi ali che teneva sulla schiena, e poi, avvicinata la testa al Grande
Re, avendolo squadrato ben bene con i suoi occhi da serpente, disse:
- Lendelin Eidur, Grande Re degli uomini, cosa ti porta alla caverna del
tuo amico Thorn?
- Thorn – rispose Lendelin – sai cosa mi porta qui. Sai anche cosa sto
per chiederti: perciò, non mi costringere a pregarti per ottenere ciò che
voglio.
Il Drago guardò oltre Lendelin, osservando me, Bellig e le Fenici, che
278
fastidio. Per quanto riguarda la tua domanda, conosci già la risposta che
il tuo cuore vuole dare.
Detto questo, la voce che aveva parlato si assopì, e con lei scomparvero
anche i sibili: solo noi tre, io, Bellig e Lendelin, con Lindore, Meliki e
Terda, rimanemmo sull’isola. Ci guardammo l’uno nel viso dell’altro
finché non fu Bellig ad interrompere il silenzio:
- Le anime hanno dato anche la mia risposta alle tue domande, Lendelin.
Per quanto mi riguarda il segreto delle gemme deve rimanere tale, né
quest’epoca né alcuna mai dovrà conoscerlo, se è davvero quel tremendo
potere che gli Eida hanno descritto. Questa la mia opinione, ma per la
decisione mi rimetto anche alla vostra scelta.
Allora intervenni io:
- Per quanto poca possa essere la mia esperienza, penso che Arret non
necessiti d’altre distruzioni; e sarebbe ancora un fatto peggiore se
fossimo noi che difendiamo i popoli liberi, a causare loro altri dolori. Per
quanto mi riguarda, noi non utilizzeremo il potere delle gemme riunite.
Solo a Lendelin rimase di parlare:
- Ebbene, questa è la vostra scelta, e anche la mia. Questo guanto dovrà
rimanere sempre vuoto, e mai contenere tutte e tre le gemme che
portiamo assieme, almeno finché tanto fardello è posto sull’animo di
deboli uomini. Speriamo solo che questa scelta che oggi noi facciamo in
buona fede, non sia la rovina d’Arret, e la sua condanna. Come ha detto
oggi Thorn, ci sono parti della storia che Euon ha narrato, incomprese
anche dagli Eida, e altre che possono essere riscritte, soprattutto fra
quelle che riguardano gli uomini: preghiamo che questa non sia una di
quelle, e che la nostra opinione sia seguita da esito felice.
Queste furono le ultime parole pronunciate quella sera su quell’isola,
riguardo a quell’argomento. L’Isola dei morti risuonò ancora dello
strepitio d’un fuoco con cui ci riscaldammo, e del rumore che la terra
emette sotto il corpo d’uomini che vi si distendono sopra per cercare uno
stentato riposo. Ma non trovammo quel riposo, se non per poche ore, e la
notte dalle luci deboli sopra le nubi trascorse così, nell’attesa d’un nuovo
giorno che riscaldasse il mattino e rischiarasse l’orizzonte.
284
285
VI
Tre piccoli uomini
Quella sera rimanemmo soli, tutt’e tre: io, Lendelin e Bellig, tre uomini,
soli di fronte al destino. Nessuno di noi riusciva a dormire, ma tutti
eravamo presi da mille e da nessun pensiero: nessun’idea si fermava
nella nostra mente, ma tante immagini e ricordi vagavano, senza meta,
nell’animo. D’un tratto Bellig sospirò profondamente, disteso per terra
accanto a me, e d’istinto, come per umana solidarietà, chiesi:
- A cosa pensi, Bellig?
- Chissà! Forse a niente, forse a tutto…ora non so darti risposta,
Ewaniwe, e per l’ennesima volta nella mia vita, scopro di non esser
pronto; per nulla.
- Calmati, Bellig, ti stai lasciando andare alla malinconia, proprio tu che
dovresti guidarci con la tua saggezza…
- La mia saggezza! Di tanto in tanto mi chiedo se tutta la mia saggezza
valga un granello di sabbia, Ewaniwe. Dov’era la mia saggezza quand’è
morto Baurin? Dov’era la mia saggezza quand’è caduto il Numer?
Dov’era la mia saggezza quando i nani d’Aiak sono periti tutti sotto i
colpi del Nemico? Non trovo risposte, Ewaniwe.
- Bellig – risposi, ma non feci in tempo ad intervenire, che Lendelin
c’interruppe per confortare l’amico:
- La tua saggezza si trovava nei luoghi dov’era richiesta. Me nessuno
l’ha scorta, Bellig. Eppure tu c’eri, e hai fatto tutto ciò che era in tuo
potere.
- In mio potere allora c’è solo il fallimento!
La risposta sarcastica di Bellig ci stroncò le parole in bocca, e tutti e tre
rimanemmo in silenzio, senza saper cosa dire. Poi, cambiando
completamente discorso, il saggio riprese a parlare:
- Quand’ero piccolo immaginavo la mia vita: vedevo la gloria di qualche
libro, l’ammirazione come un famoso consigliere di corte. Agognavo
286
VII
I nemici alle porte
Mentre Ewaniwe e gli altri con lui viaggiavano in groppa alle Fenici
verso occidente, anche le Aquile con addosso gli altri sei ospiti della
città di Luma volavano verso le lande di Arret: Feilon, Luia, Alinea,
Colwey, Mel e Ronilis viaggiavano ciascuno in groppa ad un’Aquila.
Alinea in particolare volava grazie alle ali spiegate di Ro, la regina; e
ovviamente il Viandante era anche con loro. Così i sei partirono poco
dopo il Grande Re, il saggio e il bardo, puntando dritti verso il Minar. Le
Aquile erano meno veloci e potenti delle Fenici, ma ugualmente la loro
forza e maestria nel volare erano grandi. Ro guidava lo stormo, in forma
di triangolo. A fianco d’Alinea volavano Colwey e Feilon; dietro la
madre di Nelian si trovava Luia, e ai suoi lati Mel e Ronilis. Ben presto
anche le Aquile varcarono le ultime terre e gli scogli delle Terre dei
Sogni e già gli occhi degli elfi, di vista più aguzza degli uomini,
scorgevano rive amiche e conosciute. Già apparivano le spiagge del
Morien, e il cuore di Ronilis giubilò mentre attraversava la sua patria, e
la trovava ancora integra dagli assalti di Gnomanar: vide però dall’alto
che la sua scuola era crollata. Pensò che ciò fosse accaduto perché dalle
mura di quell’edificio era stato portato via il potere del Numenal, che da
solo reggeva in piedi quella magnificenza. Allora l’animo dell’elfo fu
colmo d’amarezza per la perdita di quella meraviglia, di quella che per
lunghi anni era stata la sua casa, mentre nelle ore faticose studiava fra
quelle stanze e apprendeva le arti della magia. Ma quella torre era caduta
perché il Numenal doveva essere di nuovo adoperato, e non c’era
giustificazione per tenere quella gemma lontana dal campo di battaglia.
Forse, finita la guerra, pensò ancora l’elfo, forse quella gemma sarebbe
potuta tornare fra gli elfi, e una nuova torre essere edificata; anche se
allora mancavano i custodi di quella torre, forse in futuro nuovi stregoni
adatti a quel compito sarebbero sorti, e allora la Torre della Magia
290
- Già: sapete che il regno dei nani è caduto, e con quello il suo re; e oggi
Menhan è il nuovo sovrano del nord, per quanto la sua potenza sia molto
minore a quella del passato.
Ronilis si fece avanti e aggiunse:
- E inoltre la Torre della Magia dell’acqua è crollata, e con essa i suoi
custodi.
Colwey concluse:
- Ma soprattutto, Kala, la Maledetta, è di nuovo libera; ma credo che
questo lo sapete già, perché qui con voi dovrebbe esserci un uomo
speciale che ha contribuito a tale impresa.
- Se ti riferisci ad Aulon – rispose Ledolan – sappi che egli è a Minaran,
e lui presiede ora alla difesa della città. Con quell’uomo sono giunte qui
delle creature, Fenici si chiamano, ed esse riposano poco più a nord, e
vegliano che nessuno arrivi da occidente di malvagio: Aulon ci ha
narrato parte di ciò che avete detto nel vostro racconto, ma molte altre
cose neanche lui sapeva, e ora le apprendiamo con gioia da voi.
- Ma altri ci hanno aiutato nel nostro viaggio – Mel parlò interrompendo
le parole di Ledolan – e ora mi ricordo del suggerimento che ci ha dato
Lendelin prima di partire. Egli ci disse di mandare un messaggio per
mare alla città di Mala, cui signore è Cerdon, così come ci avevano detto
di fare gli abitanti di quella città sul mare, e di inviare nunzi veloci a
sud, all’Isola dei Druidi, per richiedere celere l’aiuto; inoltre dovremmo
mandare altri araldi a nord, per richiamare qui Menhan. Egli certamente
verrà, se potrà, perché l’odio che oggi cova verso gli orchi è certamente
cresciuto rispetto al passato. Infine, qui ci sono due persone che possono
correre dei rischi – Mel fissava ora Alinea e Luia – e penso che sia
meglio per loro ritirarsi in un luogo più sicuro.
Innioles, riprendendo le parole dell’amico elfo, concluse:
- Ebbene, questa è la decisione di questo Consiglio: manderemo in
groppa ad alcune Aquile Luia ed Alinea a Minaran. Dei nunzi
viaggeranno su quelle creature verso sud e verso nord, mentre il
messaggio per la città di Mala, a me sconosciuta, sarà mandato secondo
il modo che tu ritieni giusto.
Alinea e Luia presero a lamentarsi per la decisione: dato che anche loro
avevano fatto parte di quella ricerca, ora volevano rimanere sul campo di
battaglia per concludere la faccenda; ciò nonostante fu Feilon a ribadire
la decisione:
- Non posso permettere che voi rimaniate qui. Non voglio che mia
293
moglie corra qui dei rischi! Noi non stiamo giocando, e questa è una
situazione troppo seria per sindacare su questa decisione… la stessa cosa
vorrebbe Ewaniwe, per ciò anche tu, Alinea, seguirai mia moglie.
Questa è una decisione del Consiglio del Grande Re, e voi dovrete
ubbidire; inoltre necessitiamo di qualcuno che pensi ad organizzare le
cose a Minaran, nel caso che qui la sorte volga al peggio. Suvvia, ora
riposatevi un po’, perché fra poco partirete.
Ledolan intervenne:
- Prima di chiudere il Consiglio, un’ultima cosa. Verso dove sono diretti
il Grande Re, Bellig ed Ewaniwe?
- I portatori – rispose Alinea, ora preoccupata al pensiero del marito
lontano e in pericolo, – sono diretti ad occidente. Essi hanno per sorte di
giungere alla reggia di Gnomanar, e di lottare contro di lui. Se Euon
vorrà, la loro lotta si volgerà al meglio, e la Profezia s’avvererà: mai
come ora, spero nelle parole d’Aliturn, e temo che quella profezia non
s’avveri.
- Perché temi una tale cosa? – Una voce dall’entrata della tenda disse
queste parole – Non hai fiducia negli Eida e in quello che è stato
predetto?
Aliturn entrò nella stanza; il viso al solito imperturbabile, la barba lunga
e perfettamente curata. I capelli, bianchi tanto quanto la barba,
incorniciavano un viso rugoso e indefinitamente vecchio. Gli occhi,
profondi come l’infinito, fissavano la moglie d’Ewaniwe, mentre questa
rispondeva sorpresa per l’arrivo del Veida, farfugliando qualcosa, con
gli occhi abbassati. Innioles subito si mise in ginocchio di fronte al
vecchio per pregarlo, ma questi non gliene diede il tempo e lo fece
rimettere seduto:
- Mio signore – rispondeva Alinea – ho fiducia negli Eida e in ciò che è
stato predetto, ma sono un’umana, e il dubbio e lo sconforto sono miei
compagni di vita. Per ciò non biasimarmi per le mie parole!
- Non ti preoccupare, non ti biasimo, perché conosco la vostra natura e i
vostri sentimenti. Piuttosto t’invidio perché hai la possibilità di
provarli…comunque non sono qui per parlare dei sentimenti degli
uomini. Ho udito solo parte delle vostre decisioni, ed esse sono giuste.
Sono convinto che anche il resto di ciò che avete ordinato sarà
altrettanto giusto; ma io sono qui perché qui si svolgerà parte della
Profezia, quella che mi riguarda, e voi vedrete per la prima volta Aliturn
il Veida imbracciare un’arma e combattere la sua battaglia. Presto la
294
infatti, grossi attacchi da quando avevano dato inizio alla ricerca, ma più
che altro scaramucce dinnanzi alla Grande Muraglia. C’era chi pensava
che Gnomanar s’era acquietato perché già aveva soddisfatto con le sue
conquiste il suo desiderio di potenza: ovviamente c’erano anche molti
altri, la maggior parte, che erano sicuri che prima o poi l’Oscuro Signore
sarebbe tornato alla carica, e per ciò ci si preparava, anche quel giorno, e
si viveva sempre all’erta. Le Aquile s’appollaiarono sul tetto del palazzo
reale, l’edificio più alto del Minar, anche loro nell’attesa degli eventi; le
altre Aquile volarono ai druidi oltre il Mare Interno, e in breve quelli
furono avvertiti. Ci volle tempo però a quelli per armare le navi e
preparare le truppe di Templari. Altre Aquile ancora giunsero a nord, a
Menhan, e annunziarono la loro richiesta d’aiuto: Menhan però non fece
in tempo a partire, che altri ospiti giunsero a lui, anche più inaspettati
delle Aquile. Il messaggio per Cerdon fu mandato da Alinea stessa,
attraverso una bottiglia, verso la città, in continuo movimento, di Mala.
Esso fu raccolto da una delle navi corsare della città, e con segnali di
luce giunse rapido a Cerdon, che subito ordinò d’armare le navi.
Intanto era calata la notte sul Minar, e rombi di guerra provenivano da
più a nord, assieme al battito delle ali delle Fenici. Queste volavano
veloci dall’occidente verso l’accampamento di Ledolan e Innioles;
atterrate, in fretta fu annunziato ciò che già Aliturn aveva predetto: un
esercito ad occidente marciava verso la Grande Muraglia. Alla sua guida
i Lorfobeth, non tutti e sette, ma senza il maggiore fra loro, in sei, e
guidavano infinite schiere di mostri; l’esercito era davvero imponente.
Probabilmente Gnomanar aveva messo assieme per mesi tutte le sue
forze per sferrare ora un attacco definitivo. Non solo i Lorfobeth
componevano quell’esercito: per terra orchi, orchetti, goblin, Elfi ed
Uomini Neri, non morti, giganti, mannari, ed ovviamente i ghensfir, tutti
questi, a migliaia, o a centinaia di migliaia, marciavano contro il Minar.
Era uno spettacolo orribile e incredibile assieme; L’orizzonte era
completamente coperto dalla distesa dell’esercito di Gnomanar che
avanzava verso la Grande Muraglia, e l’esercito si distendeva per miglia
e miglia, senza quasi avere fine. Forse altri mostri, inoltre, avanzavano
anche da altre direzioni, o forse dal mare, mentre il cielo era solcato da
altre creature infernali, e fra queste spiccavano gli Avvoltoi, antichi
nemici dei Draghi e delle Aquile, e soprattutto gli Uccelli di Fuoco, che
devastavano le terre su cui volavano voraci, quando queste non erano già
state distrutte dalle passate o dalla presente spedizione. Queste furono le
296
VIII
Bosco Scuro
approntando dei turni di guardia, dato che non avevamo trovato nulla di
meglio, trascorremmo la notte, infreddoliti e stanchi per il lungo
viaggiare. Ci risvegliammo nelle stesse condizioni in cui eravamo andati
a dormire, e la notte ci aveva portato solo incubi e paure. In ogni caso,
caricatici di nuovo delle nostre poche cose, riprendemmo il cammino. I
fiumi di lava si facevano sempre più consistenti e frequenti, mentre
sorgeva una nuova giornata, o forse sorgeva altrove, ma non in quella
terra dimenticata dal sole e dalla luna. Trascorremmo camminando
anche quasi tutto il quinto giorno dalla nostra partenza da oriente, finché
scorgemmo da lontano, massiccia e imponente, la sagoma del vulcano,
Lingua di Fuoco, come è comunemente chiamato su Arret: ai piedi del
monte, la reggia di Gnomanar. Camminammo piano, circospetti,
prestando attenzione che non ci fosse nessuno nascosto pronto ad
assalirci. Non c’era nascondiglio che potesse renderci sicuri in quel
luogo, e tuttavia non scorgevamo alcun nemico. Anche i posti per le
vedette sulle torri erano vuoti, e la nostra sensazione riguardo alla
povertà d’abitanti di quelle lande era confermata. Nondimeno la reggia
incuteva grandissimo timore, con i suoi fiumi di lava tutt’attorno,
provenienti dal monte vicino, e le sue torri, collegate fra loro da mura
nere come la notte, come le torri del resto. Al centro delle mura, l’entrata
esterna della reggia, aperta, come se nessuno s’attendesse rischi, o li
attendesse felice. Anche il cortile interno era sgombro: questo era
completamente coperto da un fitto banco di nebbia. Ci sembrava
infinito, mentre lo percorrevamo cauti e all’erta. Anche la luce del mio
Numenale non perforava quella nebbia, sicché alla fine smisi d’usarla.
Ci perdemmo l’uno con l’altro, o forse una magia non ci fece più
scorgere, non lo so: lo stesso non vidi più Lendelin e Bellig. Delle voci
allora iniziarono a parlare, ed erano voci suadenti, femminili e calme.
Esse mi parlavano, sussurrando come all’orecchio: chiedevo in vano chi
fossero e cosa volessero, ma non ricevevo risposta. Invece le voci
continuavano a ripetere la stessa litania; dicevano:
- Lascia questa reggia, lascia i tuoi amici e fuggi; ritorna ad oriente, dai
tuoi cari, ritorna ad oriente. Lì c’è chi ti attende, e attende che tu la
difenda. O unisciti a noi e in eterno vivi con il signore Gnomanar.
Cercavo di non ascoltare quelle parole, ma esse penetravano fin dentro
l’animo. In vano tentai di coprirmi le orecchie, ma nulla serviva a zittire
quelle voci. Poi una voce maschile, possente, come se ruggisse, iniziò a
ripetere con forza quelle parole, e io sentivo la mia mente come cedere a
307
che portava, della decisione sul segreto. Non poteva lasciare un tale
potere a chi n’avrebbe fatto il peggiore degli usi! Brandendo
nuovamente con forza la spada, Lendelin tentò di cacciare l’immagine di
suo padre davanti a lui: Natul lo rimproverò perché non ascoltava le sue
parole, e gli si avvicinò, mentre Lendelin invano tentava di intimare al
padre di non muovere alcun passo; ma quello sordo alle parole del figlio
gli venne vicino. In un attimo, Lendelin piangente sollevò la spada, e
diede un colpo di taglio dall’alto in basso. Non guardo ciò che faceva,
eppure compì quell’atto, come spinto da chissà quale forza, a lui
infinitamente superiore: Natul, la sua immagine, sparì così come era
apparsa. Al suo posto la porta della reggia.
309
IX
Aliturn
giovane con l’arte del combattere. Sempre da suo padre, generale allora
fra gli elfi, aveva appreso i segreti della guerra, e ora rimaneva come
uno degli ultimi grandi combattenti delle genti elfiche. La sua vista era
aguzza, e il suo ordine meditato, per questo era così rispettato fra gli
Elfidraghi che comandava. Anche Mel e Ronilis lo rispettavano
grandemente, e in particolare per il Lovariano Innioles era una vera e
propria leggenda vivente, per quante volte era stato al fronte nelle
piccole scaramucce che da quando era sorto Gnomanar avevano visto
coinvolti anche gli elfi. Le truppe marciarono veloci accanto al Lugg:
quando capitava, chi poteva adoperava delle navi che salpavano sul
fiume, e così a poco a poco gran parte dei combattenti in marcia salì su
numerose imbarcazioni, e rapidamente, attraverso le correnti del fiume,
raggiunse le porte della capitale del Minar. Giunte nei pressi della città
di Minaran, le truppe abbandonarono le imbarcazioni, e assieme, con in
prima linea coloro che guidavano quell’esercito, si presentarono
dinnanzi alle porte della città. Non appena l’esercito fu scorto da coloro
che erano dentro la città, subito fu accolto all’interno delle mura.
Rapidamente Colwey e gli altri furono condotti al palazzo reale, quello
che era l’abitazione di Tellon e che ora ospitava Luia, Alinea e Aulon.
Luia, non appena seppe che era giunto in città il suo Feilon, subito corse
ad abbracciarlo. Erano arrivati che era pomeriggio inoltrato, e non
sapevano come stesse andando la battaglia nella valle a nord:
raccontarono come, alla vista dell’esercito che s’apprestava alle mura,
Aliturn avesse ordinato a tutti loro di allontanarsi, e che solo Ledolan
aveva insistito per rimanere con il Veida fino ad ottenere il permesso.
Quelli che ora si trovavano nella città erano fuggiti prima a piedi, poi
attraverso delle navi sul Lugg, che giungeva sino alla capitale e la
attraversava. Non sapevano altro, né altro potevano dire, e così tutti
allora rimasero in silenzio, attendendo che qualcuno prendesse la parola
e desse un po’ d’animo agli spiriti spenti; ci penso Innioles a farlo.
Naturalmente fece la cosa alla propria maniera: ordinò a tutti di
preparare presto la città all’assedio. Se Minaran fosse stata conquistata,
pensava, la guerra sarebbe stata irrimediabilmente perduta. Comandò a
Tellon d’annunziare dal palazzo reale gli ultimi avvenimenti ai suoi
sudditi, mentre intanto tutti gli altri preparavano i reparti e gli uomini
dell’esercito. Lui si sarebbe occupato delle cose nel porto, assieme a
Ronilis e Mel. Così furono disposti gli ordini, e tutti andarono ad
intraprenderli. Luia e Alinea furono invece chiuse nella stanza della
311
seconda, e fu allestita per questa una scorta speciale di elfi, pronta anche
alla morte più orribile pur di difenderla. Calò la notte mentre si
apprestavano questi dispositivi di difesa e Tellon annunziava il probabile
assedio dalle finestre del suo palazzo, ad una popolazione impaurita e
scoraggiata.
Frattanto nella valle del Lugg era accaduto ciò che tutti temevano: il
migliaio di uomini scelti, e fra loro non c’erano più elfi, s’apprestava
alla difesa della Grande Muraglia già dalla mattinata. Le Fenici
volavano sulle mura, e di fronte a loro volavano in segno di sfida gli
Avvoltoi e gli Uccelli di Fuoco. Gran rumore di tamburi proveniva dallo
schieramento del Nemico, mentre i sei Lorfobeth a capo di esso
passeggiavano fra le schiere, sempre con lo sguardo alle mura, e
incitavano le creature di Gnomanar. Aliturn, sulle mura, mirava a
quell’infinito esercito, e con lui Ledolan; anche l’uomo era convinto
ormai della sua morte, e così la attendeva in pace con la sua coscienza.
Non c’era molto da fare: quei volontari potevano solo attendere le mosse
del Nemico, e sperare di sopravvivere il più a lungo possibile.
Stranamente gli uomini che proteggevano le mura erano allegri. Alcuni
cantavano, altri, fra quelli che stavano meglio, facevano esercizi ginnici.
In pochi invece trascorrevano le ore d’attesa pregando gli Eida ed Euon.
In quest’atmosfera s’attendeva l’attacco che giunse nell’ora più calda
della giornata. Gli Elfi Neri non attaccarono, ma rimasero chiusi nelle
tende, aspettando l’arrivo della notte. In compenso, tutte le altre orde di
creature del nemico si gettarono contro la Grande Muraglia ad un cenno
dei Lorfobeth. Il rumore dei passi fu assordante, così come quello degli
arieti che percuotevano le porte, mentre all’interno, Aliturn e Ledolan
incitavano a resistere coloro che tentavano di tenere chiuse le porte, e
altri gettavano cera bollente e olio contro le creature di fuori che
spingevano. Corde dall’esterno venivano gettate per tentare di scalare la
Grande Muraglia, facendosi sempre di più. Per qualche ora gli uomini
riuscirono a non far salire sulle mura le schiere dei Lorfobeth, ma alla
fine, sotto la spinta di quel numero impressionante di mostri, dovettero
abbandonare le loro posizioni e arretrare o scendere dalle mura. Ledolan
combatteva brandendo la sua spada: non era certo giovane, e tuttavia
faceva rispettare la sua forza. Ma anche il cavaliere del Numer dovette
cedere allo strapotere del Nemico, quando fu colpito alle spalle da un
Ghensfir che aveva scalato la Grande Muraglia e che si era trovato dietro
di lui. Gli uomini non cadevano però in preda allo sconforto, mentre
312
erano su tre navi diverse, e lottavano contro gli Uomini e gli Elfi Neri
che guidavano le imbarcazioni che venivano loro addosso. Le magie di
Ronilis saettavano sul mare al pari dei dardi scagliati da Mel e Innioles
sui ponti delle loro navi. Le navi corsare di Cerdon aggredivano per
prime quelle dei nemici, e gli equipaggi di corsari della città di Mala
erano lesti a salire sui ponti nemici e a far fuori coloro che gli si
opponevano. Le bianche navi degli elfi e quelle color oro del Minar,
invece, combattevano una lunga guerra di dardi infuocati e di lenti
speronamenti, ed in ciò gli elfi si dimostravano più abili degli uomini.
Per terra invece le mura della città ancora reggevano. Olio bollente, cera
e bitume, preparati in gran fretta per l’assedio, tenevano lontane le scale
degli assalitori e i loro arieti. Gli Avvoltoi non riuscivano ad assalire
coloro che stavano sulle mura, che subito le Aquile di Ro erano addosso
e li colpivano con i loro artigli. Tuttavia le forze del Nemico
sembravano infinite, e anche fra questi esistevano frecce e opere che
servivano per facilitare l’assedio: inoltre i Lorfobeth scagliavano magie
potenti e malefiche dal basso, e nessuno riusciva a mirare loro
incrociando con quelli lo sguardo, tanto il terrore che procuravano solo
alla vista. Le loro magie colpivano gli uomini, invischiandoli come se
ricoperti di cera o bitume nero, che li consumava fino a bruciarli. Due
dei Lorfobeth richiamarono allora l’attenzione di due Uccelli di Fuoco e
questi scesero ai loro piedi, mansueti. Salitici sopra, i Lorfobeth,
nascosti in orribile e spettrale mantello scuro, volarono sino ad alcune
delle navi. Ed essi salirono su due di quelle, e n’assunsero il comando.
Così anche sui mari si diffuse il loro potere, mentre gli altri due
continuavano la loro opera sotto le torri della città. La notte trascorse in
un bagno di sangue, e con il sangue sorse anche l’alba del nuovo giorno.
Con la tenue luce che filtrava dalle nubi, superiore in realtà a quella del
giorno precedente, gli abitanti di Minaran, coloro che non potevano
combattere per qualsiasi motivo e stavano al porto o in città nell’attesa
di nuove notizie, s’accorsero di quanto nella notte le navi del Nemico,
soprattutto con l’approdo su di esse dei due Lorfobeth, avessero superato
in numero quelle degli alleati e dei Minariani. Le forze del Nemico
erano quasi il doppio per mare di quelle degli uomini e degli elfi. Questi,
arretrando, s’avvicinavano sempre più al porto, come per volersi
barricare anch’essi in città. Le navi del Nemico, come fulmini cupi sul
mare, avanzavano veloci, e spaccavano in due gli scafi delle navi degli
uomini; gli elfi, unici fra gli alleati dei Minariani, non arretravano
316
verso il basso, come volendola piantare per terra: la testa del Lorfobeth
fu mozzata di netto dal suo corpo, e ben presto volò via come cenere
perdendosi sul mare. Innioles corse a raccogliere Ronilis svenuto, e lo
portò sulla sua nave: proprio allora si rese conto che la battaglia sul mare
era vinta.
319
X
Un soffio nel fuoco
s’oppongono a me, ora siete in mio potere; che cosa pensavate di fare
venendo alla mia reggia? Pensavate davvero di sconfiggermi? Me? Il
signore della speranza perduta?
Gnomanar rideva mentre urlava. Intanto anche Bellig era rimasto
immobile davanti all’Oscuro Signore:
- Voi non conoscete la profondità del mio pensiero, la grandezza del mio
potere. Eppure siete venuti a me, armati di tre miserevoli gemme,
convinti di potermi sconfiggere. Voi non sapete cos’è il potere, qual è la
disarmante grandezza del mio desiderio. Voi non conoscete la
pesantezza del mio dolore e l’infinita maestà del mio odio! Voi non
sopravvivrete a me, e con voi periranno anche le vostre futili speranze!
- Mai!
L’urlò di Lendelin segnò anche il momento in cui si liberò dalla potenza
della mente del Nemico. Con uno scatto furibondo gli fu addosso, e la
sua spada colpì al petto l’Oscuro Signore, purtroppo solo di striscio.
Intanto anche Bellig si liberava dall’incanto che lo tratteneva dal
muoversi. Gnomanar fu d’improvviso serio, e la sua ira scoppiò nella
sala. Issatosi in piedi, abbatté per terra accanto a sé il Grande Re. Bellig
diede un colpo per terra con il suo bastone, e un baratro s’aprì davanti al
trono, vicino a Gnomanar, senza però inghiottirlo, ché quello, avendo
trascinato per la spada Lendelin, era già giunto accanto al saggio. L’Eida
era molto più alto di Bellig, e facendo scintillare gli occhi lo colpì con il
pugno al viso. Il saggio perse conoscenza, mentre il Nemico lo sollevava
per il bastone che quello non smetteva di stringere neanche svenuto.
Sollevò allo stesso modo dalla spada Lendelin, incurante del sangue che
perdeva dalla mano. Fra le dita del Grande Re, scintillava nell’elsa della
spada il Numenal, e allo stesso modo brillava quello che si trovava nel
bastone di Bellig. Gnomanar li guardava compiaciuto, meditando la fine
di coloro che gli si erano opposti. Intanto il Lorfobeth, Tanasza, tentava
di strozzarmi sul fuoco del braciere. Era tanto, infinitamente, più forte di
me. Avevo davvero già ceduto, e mi stavo abbandonando alla morte: la
mano dello Stregone spezzò la collana che avevo al collo. Questa con, il
Numenal nel suo centro, precipitò nel fuoco del braciere; sbattendo sulla
pira sacra di Gnomanar, la gemma emise il suo ultimo soffio prima di
spegnersi priva del suo portatore. Quel soffio fu forte, abbastanza da
spegnere la fiamma del braciere: in un attimo tutti i progetti dell’Oscuro
Signore crollarono assieme a Lendelin e Bellig dalle sue braccia, mentre
si sforzava di capire cos’era accaduto. Un urlo infinito dilaniò la stanza.
328
Durò a lungo quell’urlo, e credo che si potesse udire in tutta Arret, tanto
gridò forte l’Eida. Poi a poco a poco Gnomanar iniziò a sbriciolarsi: per
prime caddero le sue ali. Tanasza preso dal terrore, guaiendo, fuggì via
dalla stanza portando le mani alle orecchie per non ascoltare. Non feci
caso a dove andò, e in seguito non riuscimmo più a trovarlo. Questa è la
cosa di cui più mi dolgo, fra i fatti di quella sera memorabile.
Lentamente Gnomanar continuava a sbriciolarsi, sempre gridando:
sembrava che chiedesse aiuto. Intanto io, Lendelin e Bellig assistevamo
attoniti alla morte dell’Oscuro Signore. La Profezia s’avverava. Dopo
che fu in mille pezzi e il suo urlo era ormai solo un ricordo, ciò che
rimaneva di Gnomanar divenne cenere, come arso dal fuoco del vulcano
vicino alla reggia. Rumori di crolli provenivano dalle mura. Resici
conto, dopo lo stupore, di ciò che accadeva, sostenendoci l’uno con
l’altro, io, Bellig e Lendelin fuggimmo via dalla reggia. Prima però
avevo recuperato dal braciere, ancora sopra i tizzoni ardenti, il
Numenale, che ricominciò a splendere nella mia mano. Fuori della
reggia che crollava su se stessa, ci sedemmo, senza curarci più di dove
fosse Tanasza. Assistevamo a quel crollo fragoroso seduti al sicuro poco
lontano. Rimanemmo così, stanchi e feriti, ad attendere che qualcosa
accadesse, mentre la luna salutava la nostra vittoria.
329
XI
Ritorno a casa
più calda. Scendemmo di quota planando, scorti dal basso da quelli della
città, e poi, dolcemente, atterrammo dinnanzi alla porta abbattuta del
palazzo reale. Quelli di dentro, chiamati da coloro che ci avevano visto
da fuori, e avvertiti dal boato d’acclamazione all’arrivo di Lendelin,
corsero all’esterno. Ultima, stanca quanto a coloro che avevano
combattuto, ma per motivi diversi, giunse Alinea, che camminava piano
con la pancia che s’intravedeva fra le vesti. Tua madre mi corse incontro
e m’abbracciò con forza; poco dopo, fecero la stessa cosa Feilon,
Colwey, Luia e Aulon. Intanto giungevano da poco distante Mel,
Ronilis, Innioles, e due uomini che non conoscevo; seppi in seguito che
erano Cerdon e Dardarin. Ultimo, vidi arrivare una figura bassa e
robusta, e intuì che quello doveva essere il re dei nani Menhan. Subito
tutti vollero sapere cosa era accaduto ad occidente, e allo stesso modo
chiedeva la folla che s’era raccolta attorno a noi; Lendelin allora volle
salire sulla torre più alta del palazzo assieme a me e Bellig, e da lì ci
affacciammo per parlare, ma per tutti noi parlò il Grande Re:
- Uomini, elfi, nani, e quanti vi siete raccolti in questa città, vi sono
grato per l’aiuto che avete recato a coloro che hanno combattuto questa
guerra. Sappiate che ho una lieta notizia da portarvi: l’Oscuro Signore ad
occidente è caduto, scomparso nella sua stessa terra, distrutto! Di lui e
del suo orrore più niente è rimasto, tranne la devastazione che ha
lasciato sulle terre d’Arret. Ora rimane a noi di costruire ciò che è andato
distrutto, arare le terre disastrate, ridare vita alle lande d’Arret. Molti
sono periti in questa guerra, ma essa ora s’è conclusa: i suoi orrori ci
rimarranno sempre impressi negli occhi, non li dimenticheremo mai. Ciò
che è accaduto a molti di noi deve rimanere sempre nella nostra
memoria! Ma questa è stata anche la guerra che ci ha coinvolti tutti, e
questa battaglia, quest’assedio, ne è stata il culmine. Questa battaglia
passerà alla storia, entrerà nelle leggende e nelle canzoni dei bardi,
perché qui, in questa città, hanno combattuto assieme dopo tanto tempo
e discordie, nani, elfi e uomini, e su questi cieli hanno volato i Draghi, le
Aquile e le Fenici assieme. Questa sarà la Battaglia delle sei stirpi,
perché qui tutti assieme hanno lottato uomini, elfi, nani, e le regine e i re
d’Inagel e di Lizara, assieme per gli stessi fini. Sappiate genti, che io,
Lendelin, e Bellig ed Ewaniwe, qui vicini a me, non abbiamo
presenziato alla battaglia, perché combattevamo la nostra lotta ad
occidente, nelle stanze dell’Oscuro Signore. Ed egli è perito, grazie ai
poteri dei Numenali che abbiamo riuniti! Festeggia, popolo di Minaran,
332
perché la guerra è finita, e solo fra tre giorni tornerà il tempo di pensare
alle incombenze presenti!
Con quelle parole finì il discorso di Lendelin, mentre si alzava un urlo di
gioia dalla folla; allora salutammo e scendemmo di nuovo all’entrata del
palazzo. Lì ottenemmo il nostro bagno di folla esultante. Ci fu festa nella
città per tre giorni da quando giungemmo sulle spalle delle Aquile, e ai
festeggiamenti s’unirono anche i nostri alleati nella guerra. Poi, finiti i
giorni di giubilo, tutti tornarono alle proprie terre. Menhan e i nani
furono trasportati a nord dai Draghi che li avevano condotti con sé anche
quando erano giunti a noi; le Aquile che erano andate da Menhan ci
raccontarono di come, quando erano giunte in ambasceria dal re dei
nani, avessero incrociato Thorn e la sua stirpe, e l’avessero convinto a
portare con sé la gente di Menhan che avevano radunato. Cerdon ci
lasciò, ma accettò un’offerta di Lendelin: il Grande Re aveva chiesto al
signore di Mala di trasferire la sua città galleggiante ai confini fra Rogan
e Oldar, e lì la città fiorì come porto libero nel Mare Interno. Dardarin e
i suoi templari degli scudi gialli fecero ritorno all’Isola dei druidi a sud
con le loro navi, mentre le imbarcazioni degli elfi si volgevano ad
oriente. Con quelle navi salparono anche Mel, Ronilis e Innioles, anche
se i primi due vennero in seguito sovente a trovarci, e altre volte siamo
andati noi a visitare le loro terre. Aulon tornò al suo bosco nel Numer,
salutandoci calorosamente pochi giorni dopo la fine della festa: a
Minaran, durante la ricostruzione, restammo io e tua madre, Feilon e
Luia, Bellig e Colwey, oltre che, ovviamente, il Grande Re Lendelin.
Rimanemmo a lungo, anche perché ancora c’era il problema di
risistemare le terre che erano state conquistate, o che erano rimaste prive
dei loro governanti: mancavano dei sovrani per il Numer e l’Oldar,
mentre nel Minar e nel Rogan si tornavano ad insediare Rendall e
Tellon. Lendelin chiese a Bellig e a me se desideravamo governare
quelle terre, ma tutt’e due rifiutammo: io non volevo proprio una simile
responsabilità, dopo quanto già avevo passato, ed in ciò anche tua madre
era d’accordo, e Bellig aveva altri progetti, e, pur ringraziando il Grande
Re, rifiutò la proposta. Altre persone erano però ben liete di quegli
incarichi, e così Feilon fu proclamato sovrano del Numer, mentre
manteneva la sua carica di generale di Lendelin. Per Colwey poi
cominciò allora il suo regno sull’Oldar, divenendo credo, il primo
straniero ben accettò in quella terra così orgogliosa. Feilon e Colwey ci
salutarono così, chiamati ai loro incarichi di ricostruzione dei loro nuovi
333
Nella stanza, il Viandante rimase nel buio con il bambino. Nelian, prima
d’addormentarsi, lo salutò:
336
- Ciao Viandante!
- Ciao Nelian.
La risposta del Veida fu un po’ velata di sorpresa. Poi, ricompostosi, il
Viandante camminò in mezzo alla stanza. S’avvicinò alla porta, ma
senza aprirla, scomparve nel buio. Poco dopo Nelian s’addormentò, per
risvegliarsi solo il giorno dopo con il sole già alto.
337
I
Nelian
340
II
Gwinomir e Uallo
La storia degli elfi nasce con due fratelli, due gemelli, Gwinomir e
Uallo, i primi della stirpe d’Argento. Nessuno fra i mortali e gli elfi sa
da dove essi giunsero, ma essi erano già al mondo quando sorsero gli
altri elfi. Gwinomir era alto, i suoi capelli giungevano sino alle gambe,
biondi e bianchi già nella sua giovinezza. Gli occhi erano verdi e
profondi come quelli di un Eida, ma egli non lo era, e nemmeno suo
fratello Uallo. Uallo era alto quanto Gwinomir, ma i suoi capelli erano
scuri come la pietra, e rigati d’azzurro, a volte, sotto i raggi del sole. Gli
occhi erano di un blu scuro, secondo quanto dicono le canzoni, come il
mare d’insondabili profondità, e il cuore già lo anelava. Dapprima i
gemelli sorsero, e attesero l’arrivo di quanti li avrebbero seguiti.
Attesero a lungo, presso lo Stagno del Destino, che gli altri giungessero,
finché ciò accadde. Improvvisamente Arret era viva, d’elfi, di genti della
stirpe d’Argento, e parte della creazione d’Euon sorgeva alla fine fra le
terre immacolate. Gli elfi giungevano, splendenti, e le loro lingue e le
loro gole popolavano di suoni e canti le pianure e i boschi. E gli elfi
giungevano, e s’adunavano attorno a Gwinomir e ad Uallo, e questi
rimanevano, silenti e immobili, mentre le genti d’Argento gli si facevano
attorno. Poi, dall’acqua un guizzo, e una luce apparve: questa immerse i
due gemelli nel suo bagliore, e allora le stirpi d’Argento fecero silenzio,
e udirono le parole che provenivano dallo Stagno:
- Le genti nascono, popolo prediletto delle terre d’Arret; s’avvera il
racconto. Ora le lande hanno un nome, e le pietre e gli alberi cantano e
danzano, perché giunti sono coloro che li ameranno.
Allora fra gli elfi fu grande la meraviglia, e innanzi allo Stagno fu un
gran vociare: solo i due gemelli tacevano, ancora immersi nella luce. Ma
quando molte parole furono dette, allora Gwinomir uscì dalla luce, e di
nuovo apparve a quanti gli si erano raccolti intorno. La sua voce
proruppe su tutte, come un canto melodioso fra schiamazzi, anche se
quelle erano le voci più belle del mondo. E Gwinomir parlò, e di nuovo
fu silenzio attorno:
- Non riconoscete la voce di vostro padre? Figli d’Euon, figli di Forman
e di Mianar, non siete ancora desti? Eppure siete giunti qui innanzi a
queste acque benedette! Svegliatevi, e ammirate!
Allora gli elfi tutti si sentirono come colpiti, e una nuova leva li accolse
a più alti pensieri. Ora Arret appariva loro in tutta la sua grandezza, e
346
l’eco delle sante parole d’Euon rimbombava nelle loro orecchie; allora
una voce rispose a Gwinomir:
- Sì, mio signore, riconosciamo la voce del Creatore; e ora siamo qui,
desti innanzi a te: guidaci!
Thorindalle fu da allora il nome fra le genti dell’elfo che rispose, ed egli,
come dice il suo nome, fu davvero il più nobile fra gli elfi, e la sua vita
una delle più tristi. A quella risposta, anche Uallo uscì dalla luce che lo
avvolgeva, e un passo innanzi, s’avvicinò al fratello. Sollevata la mano,
l’elfo parlò, e la sua voce, cristallina e flebile, sommessa, invase le menti
delle genti d’Argento:
- Le genti sono deste: seguiteci, e che tutto abbia vita.
Allora i gemelli si misero alla testa del proprio popolo, e questo li seguì;
Gwinomir guidava, e Uallo, un passo indietro, parlava a coloro che
seguivano. Allora i passi condussero quel popolo verso il Grande Bosco,
e lì solo un nuovo riposo e nuove parole accolsero benevoli menti e
animi giovani. Nulla vi era oltre agli alberi in quel bosco, né un animale
pascolava fra le erbe: solo gli elfi si spargevano fra le piante, sui rami.
Gwinomir, giunto ai piedi d’un immenso abete, proprio al centro del
Grande Bosco, si fermò, e allora Uallo disse al suo popolo di sedere e
ascoltare:
- Udite genti, e pronunziate il giuramento delle stirpi d’Argento: come
quest’albero, nel mezzo delle nostre terre, ma molto più di questo,
amiamo Ela, ad Oriente, l’albero della vita. A lui rechiamo in dono le
nostre parole per Euon e gli Eida, e a lui le nostre promesse; di lui
saremo custodi, e con lui invecchieremo, e antichi e stanchi saranno i
nostri occhi, quando antiche e stanche saranno le sue radici. Se la morte
guasterà il suo fusto, allora la morte colpirà anche noi: a te, Mianar, il
nostro giuramento e la nostra obbedienza, e a tutti gli Eida! Tu accoglili
benevola!
- Giuriamo! – fu un coro unanime di voci limpide e profonde, e gli elfi
legarono allora la loro esistenza all’albero della vita, l’albero da cui
nasce ogni giorno il sole, ad est, per sempre. Istantanea venne la risposta
dell’Eida, e la sua approvazione, e ai piedi di Gwinomir una piantina
crebbe rapida sino a diventare cespuglio; così Mianar accettò le
promesse delle stirpi d’Argento, e a loro donò il proprio amore. Allora
Gwinomir riprese la parola, e disse:
347
- E così sia: qui abiteremo in pace, secondo il volere d’Euon. Ora, miei
compagni, spargetevi fra queste lande e donate loro la vita; inondate di
canti e di racconti queste terre, perché così è stato deciso per noi.
E così fecero gli elfi, e le loro genti si sparpagliarono per tutta Arret,
seguendo le parole di Gwinomir: ma i due gemelli rimasero nel bosco, e
con loro molti fra gli altri antichi delle genti d’Argento. Allora tutto
prese un nome, e nacquero il ricordo e l’esperienza delle cose, perché
ora gli elfi apprendevano e conoscevano il mondo. Infiniti anni e infinite
ere trascorsero così, mentre gli elfi da soli abitavano su Arret: e venne in
tempo in cui ogni cosa ebbe un nome, ogni cosa fu conosciuta dalla
prima stirpe. Gli elfi allora erano tanti, e le loro case e le loro voci
inondavano come il mare in piena ogni luogo, eccetto le fredde terre del
nord. Eppure ancora gli elfi non vivevano vicini al mare, e in pochi
anelavano di navigare sulle onde e fra i flutti: fra questi, Uallo più di
tutti lo desiderava, ma sapeva che ancora non era il tempo per lui di
prendere quella via. Altri anni trascorsero ancora così, e questa fu
l’epoca di più grande splendore per le stirpi d’Argento, ché nessun male
li colpiva, né loro conoscevano. Ma i tempi trascorrono, e ogni cosa
invecchia e cambia. Anche i cuori degli elfi presero a cambiare, e la
compagnia di se stessi non bastò più: allora molti fra gli elfi vennero a
Gwinomir, pregandolo. Essi iniziavano a sentirsi stanchi, e i loro cuori
anelavano nuove cose; come loro, anche Uallo aveva un suo desiderio da
realizzare, ma per il momento tacque, perché conosceva gli eventi futuri:
egli solo fra gli elfi, e neanche Gwinomir, cui altro destino era stato
assegnato, leggeva fra le righe degli eventi, e solo comprendeva quanto
quel desiderio della sua gente avrebbe scosso il mondo. Gwinomir
ascoltò le parole del popolo, e decise che era giunto il tempo di parlare
con gli Eida: così, chiamato a sé il fratello, i due partirono, di nuovo
volgendosi allo Stagno del Destino. Giuntivi, i primi fra i primi,
pregarono a lungo. Gwinomir e Uallo pregarono gli Eida, perché nuove
meraviglie prendessero vita; gli Eida udirono misericordiosi quelle
preghiere, e alla loro misericordia nuovi eventi seguirono su Arret, che
nuove parti dei capitoli della creazione prendevano forma, sia benevoli
che oscuri. Sorsero su Arret nuove creature: Draghi, Aquile e Fenici
solcarono i cieli, e tutti gli altri animali furono compagni di vita degli
elfi. Allora, per la prima volta, sorse nel mondo ciò che le stirpi
d’Argento faticano a comprendere: la morte, ché, infatti, tranne i Draghi,
le creature che nacquero allora furono tutte mortali. La gioia invase i
348
credo un nemico, a nord, fra i monti e le gole che noi non visitammo.
Suvvia, corri lì veloce, e controlla tu stesso se è vero ciò che dico; se
vuoi, verrò con te.
- No fratello, andrò da solo, ché è meglio che uno solo corra rischi. Tu
rimani, e guida il popolo finché io non tornerò.
Così dicendo Gwinomir partì, in groppa ad un Drago, e assieme i due
volarono a nord, mentre Uallo rimaneva a guardia del Grande Bosco.
Dieci anni di guerra, di sangue e dolore, di morte e di disperazione, tanti
erano passati da quando era stata mossa la prima arma contro gli elfi,
quando Gwinomir e Intorin dei nani s’incontrarono; fu miracolo, o
volere degli Eida, ma essi quel giorno parlarono la stessa lingua, e
accordo vi fu fra gli elfi e i nani, e assieme le genti scesero in battaglia. I
nani non avevano mai visto altra gente, eppure, grati a Link e da sempre
suoi prediletti, vennero in soccorso a Gwinomir. Gwinomir fece ritorno
fra i suoi con la notizia di nuovi alleati, e subito la gioia si sparse fra le
stirpi d’Argento: Draghi furono cavalcati dagli elfi, e la loro potenza
scosse le file dei nemici. Allora gli orchi arretrarono, mentre Gnornak
dall’ovest vedeva fuggire la sua vittoria: spinte a nord, le sue creature
furono improvvisamente assalite dai nani, e fra loro, Intorin, re del nord,
morì portando con sé centinaia di mostri. Molti fra i figli di Gnornak
caddero per mano di nani ed elfi, finché Gnornak non comprese d’essere
sconfitto. Allora fuggì da Arret, ritirandosi supplichevole presso d’Euon:
ma presso il Narratore vennero anche gli altri Eida, ciascuno chiedendo
condanna per l’agire dell’Oscuro. Fra tutti Mianar, Forman e Link erano
più in collera con Gnornak. A tutti, dopo aver a lungo ascoltato in
silenzio e meditato, infine rispose Euon:
- Riponete le armi e gli odi, perché Gnornak è già stato sconfitto.
Sincero è per me il suo pentimento, anche se forse egli stesso se lo
nasconde. Smettete la collera, concedete il perdono e una nuova
possibilità. Tu, Gnornak, sei libero, ma sarai con gli elfi, e loro
t’accoglieranno in pace, non temere.
Questa fu la decisione d’Euon, come si dice: ed egli forse vide in
profondità nel cuore dell’Oscuro, forse più in profondità di chiunque,
Gnornak compreso; ma per questo quesito, non c’è risposta. Per gli elfi
intanto la guerra era finita, non certo il dolore per le morti e per le
devastazioni; nondimeno rimaneva un mondo da ricostruire. Così le
stirpi d’Argento acclamarono, alla fine della guerra, i loro signori, e
Gwinomir e Uallo furono sovrani. Gwinomir era il re delle stirpi
352
d’Argento, ma volle donare parte del suo territorio al gemello, così gli
elfi si divisero fra quanti vollero seguire Gwinomir e quanti seguirono
Uallo: nacquero il Lovar e il Morien. Lì dove il re del Lovar, Gwinomir,
aveva giurato per l’albero Ela, lì fondò la sua capitale, Gnyalan, così
parlando al suo popolo:
- Questo è da oggi il nostro regno, e qui sorgerà la nostra città; Gnyalan
s’innalzerà su ridenti prati e fra rami portatori di vita, e quest’albero e
questo cespuglio saranno fra gli elfi sacri, e guai e disgrazie colpiranno
chi li violenterà impunemente.
Gwinomir era il più bello e il più alto allora fra gli elfi, e nemmeno il
suo gemello poteva competere con lui per maestà e imponenza: ed egli
fu re del suo popolo, e dove lui desiderò e ordinò, la stirpe d’Argento si
stanziò e prese a vivere in pace. Uallo invece regnò a sud, attendendo
sempre più che il suo desiderio s’avverasse, potendo, libero, solcare il
mare verso il meridione.
353
354
III
Thorindalle
Con quelle parole Ewaniwe concluse il suo racconto per quella sera.
Nelian neanche protestò, che subito, vinto dal sonno, s’assopì. Allora il
bardo uscì dalla camera del figlio, senza fare rumore, assieme ad Alinea,
e insieme, marito e moglie si ritirarono nella loro stanza e diedero riposo
alle loro membra dopo un ultimo bacio. Il giorno successivo, Ewaniwe
ed Alinea furono svegliati da una piacevole sorpresa: alla porta di
Bingrim, due amici erano giunti senza preavviso. Chiamato dai servitori,
Ewaniwe non fece in tempo ad uscire per accogliere gli ospiti, che una
voce amica chiese:
- Salve, mio buon bardo, a letto fino a tardi, vero?
- Lendelin! – urlò Ewaniwe per risposta, e subito corse ad abbracciare il
suo Grande Re. Accanto, sorridente, Bellig. Solo allora, corso fuori,
Ewaniwe s’avvide della presenza del saggio, e subito la sua gioia e la
sua commozione raddoppiarono. Salutato calorosamente anche il
discepolo di Baurin, il padrone di casa condusse i suoi ospiti veloce
dentro il palazzo; Alinea venne immediatamente a ringraziare i vecchi
amici per la visita, e poi li condusse a mangiare qualcosa: dovevano
essere sfiniti, pensava, se, come credeva, avevano viaggiato di notte per
arrivare di mattina presto. Rinfocillati i viaggiatori, allora Ewaniwe
chiese quale fosse il motivo di quella visita:
- Nulla di particolare, non temere – rispose Lendelin – semplicemente
era un po’ che io e Bellig programmavamo un viaggio per il Grande
Regno, e ci sembrava giusto passare anche da questa tua dimora.
- Grazie davvero!
Ewaniwe ed Alinea erano davvero felici di rivedere il resto dei portatori:
- Ma naturalmente voi rimarrete qui per qualche tempo, non è vero? –
chiese il padrone di casa tutto preso dai suoi doveri d’ospite.
355
Thorindalle era un grande fra gli elfi, e il suo nome n’era dimostrazione:
egli era il più nobile fra quanti seguivano Gwinomir e Uallo, e il più
saggio, e il suo consiglio era sempre ben accetto e giusto. Così
Thorindalle visse dalla nascita della sua gente fino ai giorni dopo la
caduta di Gnornak in pace, e Gnornak né temeva il pensiero e la
grandezza, e tuttavia i suoi tranelli erano fino ad allora volti a Gwinomir
e Uallo. Venne la pace intanto su Arret, e con essa l’esilio di Gnornak
fra gli elfi: questi lo accolsero fiduciosi nel suo pentimento, ignari del
futuro, tutti, forse, tranne che Uallo e Thorindalle; il primo leggeva
ancora assai lontano nel futuro, il secondo dubitava ancora dell’Oscuro.
Tuttavia ora Gwinomir era in pace con Gnornak. A quel tempo nacquero
i figli di Gwinomir e Uallo, Gwinahindil ed Endion, e questi furono
principi. Thorindalle invece non aveva figli, mentre i suoi occhi e i suoi
anni si facevano sempre più pesanti e stanchi. Venne allora il tempo in
cui il sogno d’Uallo si realizzò, ed egli, non curante più del futuro e del
passato, partì su una nave, solo con il figlio, promettendo ritorno. Ma la
nave fu colta da una tempesta, e Uallo perì, perso nel profondo delle
acque: eppure il figlio, Endion, fu salvato dalle onde, e il suo corpo
stanco e ferito riportato sulle sponde del Morien. Endion fu re d’un
regno a lutto, e fra i grandi elfi del passato, il primo fu perduto. Era
tempo di pace, quello, ma non forse di macchinazioni, che presto nuove
sciagure colpirono l’antico popolo: anche Gwinomir cadde, in
circostanze misteriose e insondabili, colpito dalla freccia d’uno della sua
gente. Frattanto nella sua casa, nel Lovar, nascevano i Numenali, ma
subito erano dispersi e causa d’odio. Gwinahindil fu re e sovrano degli
elfi, ma ancora il re, com’Endion ma più di quello, era giovane e
inesperto, insicuro e nervoso, e dietro al suo trono Gnornak macchinava
e ordiva. La sua vendetta giungeva nella casa dei nemici, là dove non era
giunto con i suoi eserciti. Numerosi anni passavano, e intanto il cuore di
Thorindalle si faceva scuro, e il suo animo cupo, e sempre più l’elfo
s’allontanava da Gnyalan alla ricerca di pace, ché una inspiegata
inquietudine lo colpiva e fiaccava. A quel tempo Gnornak anch’egli
s’allontanava sempre più dalla città di Gwinahindil, non temendo più la
saggezza degli elfi: in uno di quei suoi viaggi nascosti e maligni, egli,
per primo, vide il nuovo frutto della Creazione. Ad ovest del Lago
Maggiore, lì era sorta la stirpe d’Elettro, ancora debole e malferma,
imbelle e pavida. Allora l’Eida avvicinò quelle genti, tentando di
357
sedurle: egli era splendido ai loro occhi, e saggio, e recava doni, e fra
essi il più grande, la Magia. Insegnò agli uomini la paura della stirpe
d’Argento, e questi gli credettero, e nei loro cuori crebbe l’odio per
quelle genti sconosciute. Così gli uomini crescevano al di là del lago
nell’inganno, mentre Thorindalle viveva sempre più a lungo nei pressi
della sponda opposta. Giunse però il giorno in cui anche Thorindalle
desiderò allontanarsi del tutto dal suo popolo, e abbandonato
Gwinahindil, egli prese una nave e si recò ad ovest del lago, ignaro della
stirpe d’Elettro. Giunto sull’altra sponda, Thorindalle riposò il suo corpo
stanco, sdraiato sulla verde erba presso le acque del Lolin, ché lì vicino
era approdato. Era vecchio Thorindalle, eppure meraviglioso alla vista.
Aveva occhi e capelli neri, velati da ciuffi bianchi, lunghi fino alle
spalle, e mossi come onde. La vista si perdeva nel vuoto mentre
osservava in silenzio le nubi, quando qualcosa destò la sua attenzione.
Fra le erbe alte qualcosa si muoveva, circospetta. Non un’elfa, ché non
n’aveva l’altezza e la regalità, eppure simile. I suoi occhi se n’avvidero
sebbene quella creatura si nascondesse, e invano cercarono di capire.
Allora Thorindalle s’issò da terra, e subito la donna corse via impaurita,
resasi conto che quello non era un uomo. Ma Thorindalle non sapeva
degli inganni di Gnornak presso gli uomini, né sapeva dell’odio di questi
verso gli elfi: allora rincorse la donna, gridandole di fermarsi, senza
ottenere risposta. I due corsero, finché non giunsero ad un villaggio
d’uomini vicino al lago: la donna gridò l’allarme, e uomini vennero a
sua difesa; tanti, deboli e male armati, ché forse Thorindalle avrebbe
potuto difendersi, se avesse voluto, ma così non fu. Senza capire la sua
colpa, l’elfo fu legato con fragili corde ad un palo, mentre la sera e le
stelle s’affacciavano su di un cielo limpido. Stupore e paura si levarono
sui visi degli uomini alla vista dell’elfo, e fracasso e urla per decidere
cosa fare di lui: tutto il villaggio era riunito attorno al prigioniero, bello e
vestito di splendidi tessuti, mentre gli uomini vestivano di stracci ed
erano sporchi di fango e polvere. Mentre tutti urlavano e si dimenavano,
e mostravano lame rudimentali, un vecchio giaceva sofferente poco
lontano da Thorindalle. Questi lo vide, e l’uomo vide l’elfo: nei suoi
occhi Thorindalle non lesse odio, ma solo dolore e paura di morire; il
volto dell’elfo si riempì di pietà e stupore, perché scorgeva il seme della
morte in quel popolo. Allora spezzò le corde con debole sforzo, e si
mosse verso il vecchio fra lo stupore e le grida. Nessuno però corse
contro l’elfo, ché troppo grande fu la sorpresa per le sue azioni. Gnornak
358
diceva che gli elfi odiavano gli uomini, ma Thorindalle invece pose una
mano sulla fronte del sofferente, e la baciò; Gnornak diceva che la stirpe
d’Argento temeva quella d’Elettro, ma Thorindalle pose l’altra mano sul
corpo dell’uomo, e pregò. Le preghiere dell’elfo vennero ascoltate, dopo
che questi aveva salmodiato a lungo e con passione: il corpo del vecchio
guariva dal suo male, e la sua anima s’acquietava. Alla fine delle
preghiere Thorindalle fu stremato, e i suoi capelli e i suoi occhi
apparvero per qualche attimo più chiari: eppure il vecchio ora si reggeva
in piedi, e anzi cantava e ballava, mentre prima soffriva solo a respirare.
Il dubbio colse il villaggio, mentre il vecchio e i suoi festeggiavano: fra
di loro, la donna che era fuggita prima alla vista di Thorindalle, ora in
lagrime, rideva e scherzava con il nonno. Allora il vecchio parlò al
villaggio nella sua rozza lingua, e il villaggio ascoltò le sue preghiere:
Thorindalle fu libero. Ma Thorindalle non andò via dal villaggio, perché
ancora grande era in lui il desiderio di conoscere quelle strane genti: le
vedeva simili ad elfi, ma in loro scorgeva, sempre più chiari, dolore e
sofferenze, e passioni e innocenza facile all’idiozia. Così Thorindalle
rimase nel villaggio, e in cuor suo dimenticò sempre più il suo popolo,
né ebbe pensiero di tornare fra le genti d’Argento per narrare l’accaduto.
Ma non tutti fra gli uomini amavano quell’elfo, anzi, la maggior parte di
loro diffidava di Thorindalle, ché troppo forte era stato il potere di
Gnornak fra di loro. Ma Thorindalle non faceva niente per giustificare
quell’odio, e anzi, portava le sue conoscenze fra gli uomini. Così, come
Gnornak aveva portato l’odio e le armi, la magia e l’astuzia in dono ai
nuovi popoli, così ora Thorindalle portava le sue capacità di guaritore:
ed egli stesso si stupiva di esse, perché mai aveva avuto tali poteri sugli
elfi. Eppure l’elfo si rendeva conto da solo che fra gli uomini qualcosa
era cambiato in lui; ora leggeva i cuori, ascoltava dolori e sofferenze,
avvertiva passioni e desideri, e faceva quanto era in suo potere per
alleviare e confortare quelle anime deboli. Così passarono gli anni per
Thorindalle fra quegli uomini, e l’elfo era sempre più accetto, e la sua
fama si diffondeva fra i villaggi vicini, mentre ancora uomini ed elfi non
si conoscevano e non avevano tenuto contatti che per quell’unico caso.
Thorindalle curava gli abitanti dei villaggi, e loro insegnava la lingua
degli elfi, per loro cuciva abiti. La sua opera era ignota persino a
Gnornak, ché ancora non teneva in pugno tutti gli uomini, anche se da
tutti era conosciuto come l’Alto Signore. Ma Thorindalle non si curava
dell’Alto Signore, perché anche lui era allora vittima delle umane
359
passioni che curava: i suoi capelli si facevano sempre più bianchi, ogni
volta che aiutava un uomo, e così i suoi occhi. La sua vista si fiaccava, e
il suo animo si faceva sempre più pesante e malinconico. Suo unico
conforto, la donna che per prima aveva conosciuta: essa aveva nome
Darea, e viveva con il nonno che Thorindalle aveva guarito, primo fra
gli uomini. Ora quello, Aram, era il più vecchio del villaggio, e si dice, il
più vecchio allora fra gli uomini, e la sua voce era udita e il suo
consiglio seguito fra molti della stirpe d’Argento. Egli sapeva dell’Alto
Signore, e comprendeva quanto fosse quello diverso da Thorindalle:
comprendeva le differenze fra i due e l’amore di Thorindalle, tanto
diverso dall’odio dell’Oscuro Signore. Eppure Aram non parlava a
Thorindalle di Gnornak, né quello chiedeva alcunché, tutto preso dalle
sue fatiche fra gli uomini. L’elfo allora viveva su di un albero accanto
alla capanna di Aram, e suo grande conforto nei momenti di malinconia
era Darea: Thorindalle era legato alla donna, le aveva insegnato per
prima la lingua degli elfi, e spesso la donna lo teneva in grembo dopo
che quello, fiaccato dall’uso del suo dono, crollava vinto dalla fatica.
Darea stessa allora lo accudiva nella sua capanna, e badava a lui finché
quello non si risvegliava. Thorindalle scoprì ben presto d’amare la
donna, eppure temeva il suo sentimento, giacché mai elfo aveva sino ad
allora amato una figlia delle stirpi d’Elettro: egli ora soffriva d’umana
passione. Ma i cuori degli uomini sono deboli, e spesso si volgono a ciò
che non dovrebbero, più che a ciò che è loro più caro: Darea non amava
Thorindalle, né provava per lui sentimento alcuno, se non sincera
amicizia e gratitudine infinita. Ciò che Thorindalle non capiva, egli che
fra tutti leggeva i cuori, egli non comprendeva nell’animo della donna.
Vi era nel villaggio anche gente che però non amava Thorindalle, e anzi
vedeva in lui un nemico, avverso, sebbene così non si potesse certo dire,
all’Alto Signore. Fra questi, Nesat, un uomo più o meno coetaneo di
Darea: Nesat odiava inoltre Thorindalle, giacché il suo cuore da lungi
non pensava ad altro che alla donna, e sempre più bruciava alla vista di
lei con l’elfo. Aram era ormai molto vecchio, né i poteri di Thorindalle
riuscivano più a fermare la sua veloce decadenza, così Aram si spense,
ma prima di perire egli così parlò all’elfo:
- Sta attento all’Alto Signore, perché egli trama, e presto gli giungerà
voce di te. Presto sciagure s’abbatteranno sulla mia casa, Thorindalle,
ma non scorgo se queste colpiranno anche te. Ascolta il mio vaticinio!
Allontanati alla mia morte dal villaggio, oppure dolore e disperazione
360
giunse alla fine alla barca che tanti anni prima aveva lasciato sulle
sponde del Lago Maggiore. Essa era ancora lì, come in attesa.
Imbarcatosi, sciolti gli ormeggi, l’elfo navigò di nuovo sul lago, finché
non giunse nuovamente fra le sue genti. Molti non lo riconobbero al suo
ritorno, ma molti si ricordarono di quel vecchio elfo: nessuno egli però
cercava, se non il sovrano degli elfi che tanto tempo prima aveva
lasciato. Giunse così alla corte di Gwinahindil, e da quello fu accolto. Il
sovrano però, ancora giovane e bello, non ebbe il tempo di parlare e
chiedere all’elfo dove fosse stato e cosa gli fosse accaduto, che subito
Thorindalle prese la parola:
- Sire, accogli mio figlio nella tua casa, ché già molto ha patito, e temo
ancora molto patirà. Egli non è elfo; forse non è neanche come sua
madre. Sappi che al di là del lago, nuove genti abitano ormai da tanto, e
loro si chiamano uomini, e fra di loro è sovrano d’odio Gnornak. Questo
è il frutto delle mie sventure fra loro: amalo e proteggilo come un
fratello, perché su di lui, come su di te, grava l’odio dell’Oscuro. Egli è
Voton, e fra gli uomini Adeila. Un fratello egli ebbe, non mio figlio, ma
cosa sia di lui, io lo ignoro.
Così dicendo Thorindalle cadde in ginocchio, e chiudendo per un’ultima
volta gli occhi ciechi, cantò:
IV
Gwinahindil
tutti volti al proprio destino, come già conscio della tragica sorte in
attesa, il re raggiungeva gli anni delle responsabilità del tutto indolente
del proprio lignaggio, dei propri doveri. Egli era invece solito trascorrere
il tempo fra i divertimenti e i giochi. Solo la presenza di Voton
rasserenava l’animo del re, mentre il mezz’elfo era capace di distogliere
la sua mente dai suoi pensieri solo dinnanzi all’ilarità dell’amico. E
venne il tempo in cui i due conobbero l’amore, e Gwinahindil trovo una
moglie che fosse capace di sopportare il suo carattere irrequieto, e Voton
sposò invece una donna, da tempo sua cara, che sola fra tutte giungeva
fino alle insondabili profondità dei suoi pensieri. Infatti, stirpe
d’Argento e d’Elettro vennero a contatto dopo il nunzio di Thorindalle, e
si legarono in amicizia e alleanza, sebbene le macchinazioni di Gnornak.
Questi fu scacciato dalla casa degli elfi, e solo e odiato si ritirò ad ovest.
Da lì l’Oscuro lanciava maledizioni contro il mezz’elfo, ignaro di chi
fosse, e accudiva Cahen. Allora nacque la sua promessa: la morte di
Voton avrebbe segnato l’ultima ora del re Gwinahindil. Eppure anche
dopo quest’allontanamento, le sorti continuavano ad incrociarsi, mentre
Voton continuava ad essere il migliore amico del sovrano degli elfi, e
l’affetto era ricambiato da questi con grandi e magnifici doni. Allora
Endion, figlio d’Uallo, aveva consegnato anche il suo regno al figlio di
Gwinomir, e di nuovo tutti gli elfi stavano sotto lo stesso sovrano,
sebbene Endion apparisse a molti più saggio e prudente di Gwinahindil.
La moglie di Gwinahindil perì partorendo il suo primo figlio, che poi
divenne in seguito il re degli elfi. Gwinahindil stava sul trono del padre,
avendo così da poco perso la persona più cara, e trascorsero tempi in cui
il male non si manifestò e la quiete era assopita fra la strisciante opera
dell’Oscuro Signore. Gwinahindil frattanto regnava, e suo consigliere e
paladino era Voton. Il mezz’elfo era ora cavaliere del re, e a questo
elargiva consigli, come spronato da infinita saggezza: era veramente
infinita saggezza quella che suggeriva le parole di Voton, ed egli era
guidato dagli Eida d’oriente. Un Veida, infatti, Aliturn, gli era maestro
segreto e nascosto fra le mura della casa di Gwinahindil. Eppure
Gwinahindil e Voton, lontani dall’Oscuro, stavano ansiosi e all’erta,
avendo udito della promessa di Gnornak. La maledizione del Nemico
turbò gli animi dei due amici, ed essi sentivano come questa si sarebbe
realizzata, e come, ora e per sempre, la sorte dei due sarebbe stata legata.
Il re divenne più cupo, e il suo sguardo già da tempo non più spensierato
e gaio, divenne scuro, più serio anche di quello di Voton, come malato.
369
Così, come in ogni cosa, il mezz’elfo era più moderato del re, e il suo
sguardo sull’avvenire si estendeva sempre di molto più avanti di quello
di Gwinahindil. Allora, un giorno, Voton venne a portare notizie al suo
sovrano: il re e il mezz’elfo si trovavano entrambi nella sala del trono.
Voton, dinnanzi a Gwinahindil, annunziava solerte, venuto da occidente:
- Sire, il Nemico, a quanto si dice fra gli uomini, si arma ad occidente, e
forse prepara la vendetta contro queste terre.
Gwinahindil, immobile, ascoltava e meditava le parole del mezz’elfo.
Non una parola di commento uscì dalla sua bocca. Anche Voton rimase
muto attendendo risposta, per un po’, ma poi, come per rompere il
silenzio che era sorto nella sala, continuò il suo discorso:
- Non pensate, mio sovrano, che sia prudente prepararsi per ogni
evenienza? Dopotutto conosciamo ora le reali intenzioni del Nemico.
- Hai ragione, Voton, come sempre, e sempre il tuo consiglio mi è stato
utile. Eppure oggi temo il tuo suggerimento, ho paura della guerra più
che mai, e temo soprattutto la maledizione che ora incombe su di noi. E
invece tu, qui dinnanzi a me, sembri non far caso alla sorte che incombe
sulle nostre vite.
- Sire – replicò Voton – non parlate così…
- Voton – lo interruppe il re – tu mi sei amico da quando venisti con tuo
padre a questa casa, e da allora sei sempre stato più saggio di me e
lungimirante. Forse questo trono sarebbe stato meglio custodito da te!
Ah, se solo mio padre avesse scorto ancora più in là di ciò che ha visto, e
avesse lasciato ad altri il mio regno! Da me non avrebbe avuto altro che
gratitudine…
- Sire, non parlate così! A voi appartiene questo regno, e a nessun altro!
Così è stato deciso da chi vede molto più in là di tutti noi e tutto
decide…
- Voton, mio caro amico, parli della sorte come fosse per te un peso
leggero. Ma guarda al nostro destino, al futuro che ci aspetta. Come fai
ad essere così impassibile?
- In realtà, mio sovrano, ho da confessarvi una cosa. Già da qualche
tempo conosco la mia sorte; invero essa mi fu rivelata da bambino dagli
Eida e dai Veida. Così, di nascosto fra queste aule, io sono stato istruito
da alti maestri per sopportare il mio destino e farmi carico delle mie
responsabilità. E soprattutto, mio sovrano, sono stato allevato per
aiutarvi quando anche voi affronterete il vostro compito.
370
come quello d’un tempo, e i miei passi veloci sulle erbe di primo
mattino…sì, farò così, lascerò per oggi ogni fardello e correrò libero per
i campi!
Gwinahindil corse allora via dalla stanza, fuori, dalla porta da cui prima
era uscito Voton. Un tonfo sordo accompagnò l’uscita del re, mentre un
alito di vento spegneva le candele e le torce che illuminavano la stanza.
Passarono i giorni dopo questo dialogo, e la Grande Battaglia scoppiò su
Arret. Anche fra gli elfi si diffuse l’agitazione, e allora come sempre, le
parole di Voton si rivelarono sagge e prudenti. L’esercito fu allestito in
gran fretta, e i più valorosi fra gli elfi s’adunarono a Gnyalan e
formarono le guardie di Gwinahindil: loro guida era Voton, generale di
tutto l’esercito, sottomesso solo al volere del re. Gwinahindil guidava
anche gli elfi del sud, i Morieniani, lui che era re del Lovar. Allora, per
l’ultima volta, non ci fu distinzione alcuna fra le genti elfiche, e tutti
furono sotto la stirpe di Gwinomir. Quando le truppe furono adunate, il
re e i suoi guerrieri partirono da Gnyalan: per le strade i bambini e le
donne, e fra questi l’unico figlio di Gwinahindil, Gelen, e i cari di
Voton. Fra le vie le donne cantavano e parlavano assieme:
L’esercito degli elfi viaggiò allora a lungo, finché venne a portare aiuto
agli uomini, riparatisi dietro la Grande Muraglia, mentre già il Nemico
aveva conquistato le terre ad occidente delle mura. Voton era la vera
guida delle genti elfiche, ma anche Gwinahindil combatteva
valorosamente sul campo di battaglia, e la sua spada, che prima era
appartenuta a Gwinomir, era il terrore delle schiere nemiche. Tuttavia
allora la forza del nemico era grande, e le sorti volgevano al peggio per
le genti d’Arret, anche se, con l’aiuto degli elfi, gli uomini erano riusciti
a spingere avanti le proprie forze sino al fiume Lolin. Così, sulle rive di
quel fiume, si svolse una delle battaglie più importanti di quella guerra,
mentre gli orchi assalivano di sorpresa le schiere alleate: guida delle
creature dell’Oscuro era Cahen, ignaro del fratello e tutto preso dalle
congiure del Nemico. Voton e coloro che egli guidava furono i primi ad
accorgersi dell’attacco, mentre ancora nessuno avvisava il re nel suo
accampamento, ché grande era lo scompiglio e la sorpresa. Quando il re
e le forze rimanenti furono pronti alla battaglia, già lungo tempo era
passato, e pochi fra quelli di Voton erano ancora in vita. Il Mezz’elfo,
373
groppa, fece ciò che la voce gli aveva detto di fare. Il re degli elfi vide
anche ciò che aveva detto la voce, gli alleati in rotta, i nemici padroni
del campo, sebbene senza più guida. Eppure, al suo passaggio tutto si
quietava: ogni combattimento si fermava, e tutto era come in attesa di
qualcosa. Gwinahindil giunse dinnanzi alla tenda del nemico,
indisturbato: nessuno gli si fece incontro. Ma giunto a quel luogo,
ancora il silenzio lo accolse, e nessuno fra i nemici. Si fermò. Diede un
urlo di sfida, e, conficcando la spada per terra, attese l’arrivo di
qualcuno. Nessuno era lì, che chi per il terrore, chi perché impegnato a
difendersi, nessuno fra gli elfi e gli uomini o qualsiasi altra gente di
Arret ha potuto assistere nello scontro l’elfo. Tuttavia in seguito fu un
gran vociare fra gli uomini nell’accampamento sull’esito dello scontro,
l’ardire del re degli elfi e gli avvenimenti successivi. Queste parole si
dissero e questi canti s’intonarono:
Epilogo
- Ciao Nelian – risuonò una voce fra le stanze della reggia di Tedaran.
- Ciao Viandante – rispose il Grande Re.
Nelian aveva ormai ventidue anni, ed erano passati già quattro anni da
quando Lendelin s’era ritirato ad oriente:
- Ho recuperato i Numenali – esclamò il giovane sovrano al Veida che
gli veniva in contro dal nulla.
- Bene – fu l’unica risposta che ottenne.
- Le forze di Tanasza ad occidente sono tenute sotto controllo dalle
Fenici di Meliki.
- Lo so. Dove sono gli altri due portatori? Dove sono Elur ed Elea?
- Nelle loro stanze nel palazzo.
Il Grande Re sembrava tranquillo, o almeno nascondeva le sue
emozioni; aveva trascorso troppo tempo con quel Veida che ora gli stava
davanti, ad oriente, per non aver imparato almeno a nascondere i suoi
sentimenti:
- Come stanno i miei genitori? E Feilon e Luia?
- Sono tutti al sicuro con Lendelin – rispose calmo il Viandante.
- Bene – esclamò il Grande Re.
Nella sala del trono erano presenti solo loro due. Sapevano bene, che
sebbene la Quarta Grande Battaglia non fosse ancora iniziata,
giungevano i tempi peggiori della vita del giovane sovrano. Nelian era
pronto, o almeno si sentiva tale. Sollevatosi dal trono, il Grande Re parlò
al Veida:
- Domani io e i gemelli partiremo verso la reggia di Tanasza sulle spalle
delle Aquile di Ro. Qui rimarrà Colwey a guidare gli uomini, assieme a
quanti sono sorti in nostra difesa.
Il Viandante non rispose, ma pian piano iniziò a sparire; prima però che
379
fosse del tutto scomparso, Nelian salutò il Veida che era stato suo
maestro:
- A domani, Viandante.
- A domani, Grande Re.
Dopo poco, anche Nelian si ritirò nella sua camera.
380
Appendici
381
382
Appendice A
Sulle lingue
Appendice C
Indice
Prologo 5
I Padri e figli 7
II Conversando al Mercato 13
III La notte delle congiure 23
IV Baurin 35
V Lendelin Eidur 47
VI Abantur e Lutian 61
VII Incontri nell’Oldar 67
VIII La Profezia 79
IX Tutto Crolla 89
X Genti d’oriente 99
XI Alinea 111
XII Ritorni 121
I Partenze 135
II Aqua 145
III Nell’Isola dei Druidi 155
IV Incubi nella notte 165
V I passi del Viandante 173
VI Segreti fra le acque 183
VII Fenici 193
VIII Verso l’Oriente 203
IX La caduta dei nani 213
X Kala liberata 223
I Nelian 339
II Gwinomir e Uallo 343
III Thorindalle 354
IV Gwinahindil 366
Epilogo 378
Appendici 380
Indice 393
395
396