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Daria Dibitonto

Messianismo e filosofia: un incontro

Non è certo scontato che si dia un rapporto tra messianismo e filosofia: l’attesa
del Messia e della salvezza intrastorica che egli donerebbe al mondo può essere
totalmente estranea a una prospettiva filosofica che escluda dall’orizzonte delle
possibilità mondane un essere trascendente portatore di salvezza, non conce-
dendosi, in quanto filosofia, di fare affidamento a una promessa che non possa
essere vagliata da prove razionali. Proprio per questo, però, il confronto tra
messianismo e filosofia è sommamente produttivo, poiché la filosofia non cessa
di mettere in questione il messianismo, di chiedergli ragione della sua speranza,
di cercare rispondenze nella ragione umana e nel mondo alla fede cui esso fa
appello. Allo stesso tempo la filosofia, che si ostina ad aver fiducia solo in ciò che
la ragione comprende, è messa sempre in questione dalla speranza in un essere
ultramondano che possa essere portatore di una salvezza ben più compiuta di
quella che pare essere in potere dell’uomo.
Questi temi sono stati dibattuti nei giorni 4 e 5 novembre 2003, nei quali
si è svolto presso l’Università di Genova il seminario Messianismo e filosofia,
promosso dal Dipartimento di Filosofia della stessa università. Il seminario
ha offerto, nell’arco delle sei relazioni di cui era composto, un ampio
panorama sul pensiero di quei filosofi di fine Ottocento e pieno Novecento
che si sono variamente occupati di messianismo, contribuendo ad alimenta-
re il dibattito sul tema anche in ambito teologico. Stimolante l’impostazione
dialogica della maggior parte degli interventi, nei quali sono stati presentati
due autori a confronto: Taubes e Scholem (G. Bonola), Buber e Levinas (F.
Camera), Susman e Bloch (A. Czajka), Cohen e Rosenzweig (P. Fiorato). Un
confronto tra più autori è emerso anche nel contributo sul messianismo
polacco (G. Cunico), mentre la relazione su Benjamin è stata l’unica incen-
trata su una figura singola (F. Desideri)1.

1
Elenchiamo qui di seguito autori e titoli delle relazioni in ordine di intervento: Gerardo Cunico
(Genova), Il messianismo polacco; Pierfrancesco Fiorato (Sassari), Assonanti divergenze. Un confronto tra

110 Fenomenologia e Società, n. 2/2004, XXVII, pp. 110-128 © Rosenberg & Sellier
Dalla breve carrellata di autori appena citati è possibile immaginare quali e
quante linee trasversali di lettura dei temi affrontati siano possibili. Scelgo quelle
che sembrano essere da sempre le questioni più scottanti nel rapporto tra
messianismo e filosofia, in cui ne va dell’identità stessa dei due termini in gioco.
Sarà dunque necessario soffermarsi sulle diverse sfaccettature del termine
messianismo e sui diversi significati che esso assume nelle differenti tradizioni
religiose o filosofiche che se ne sono appropriate, prestando attenzione alla sua
origine come ai suoi sviluppi; potremo cioè distinguere, nel pensiero degli autori
trattati nel seminario, un messianismo ebraico, un messianismo cristiano e un
messianismo ateo o intramondano, ben consapevoli del fatto che il primo è la
radice comune di tutte le forme successive, le quali però hanno via via assunto
un’identità propria. L’ambito tematico piuttosto vasto di questa prima parte
permetterà di svolgere qui il resoconto più completo dei singoli interventi,
operando invece nelle parti successive una più rigida selezione tematica.
Quale seconda linea di lettura affronteremo il problema che il messianismo
pone alla filosofia della storia: come pensare il processo che costituisce la
storia, se non in riferimento alla sua fine? Dovrà essere pensata come storia
di salvezza o piuttosto come una catastrofe, un accumularsi di macerie
dall’esito apocalittico? Potrà un’eventuale salvezza finale riscattare il male
compiuto nel percorso?
Strettamente connessa a queste domande è la terza linea di lettura: quale
salvezza può prospettarsi per il mondo? Come conciliare l’alterità di un
essere trascendente con la sua immanenza storica? Sono in gioco qui
l’alterità e l’immanenza della salvezza, come dell’essere che ne è portatore.
Infine, raccogliendo tutti gli spunti e rielaborandoli nella questione più
centrale, ci addentreremo nel rapporto tra salvezza e conoscenza: se
messianismo e filosofia s’incontrano e si legano, infatti, ciò avviene perché
condividono la speranza che non possa esserci salvezza senza conoscenza, né
conoscenza senza salvezza.

Quale messianismo?
Tutti gli autori trattati durante il seminario, esclusi i polacchi, avevano
origini ebraiche, eppure non tutte le loro concezioni messianiche possono

il messianismo di Cohen e Rosenzweig; Fabrizio Desideri (Firenze), Il Messia di Walter Benjamin; Anna
Czajka (Parma/Genova), Il dialogo messianico tra Ernst Bloch e Margarete Susman; Gianfranco Bonola
(Bologna), Taubes contro Scholem: una diatriba sul messianismo ebraico; Francesco Camera (Genova), I
giorni del Messia in Buber e Levinas.

111
considerarsi ugualmente interne a una prospettiva ebraica. Consapevole
della problematicità della distinzione che mi accingo a introdurre, vorrei qui
analizzare le posizioni di Cohen, Rosenzweig, Scholem, Taubes, Buber,
Levinas e Susman come rappresentanti del vasto dibattito interno al
messianismo ebraico, quella di Bloch come elaborazione critica di un
messianismo ateo o intramondano, quella di Benjamin come posizione a
cavallo tra queste prime due, quelle dei filosofi polacchi come rappresentan-
ti di un messianismo cristiano forse poco noto, ma emblematico.
All’interno del dibattito tra autori ebraici è emersa durante il seminario
l’alternativa tra pensatori che vogliono oltrepassare l’ambito particolaristico
della loro appartenenza etnica, culturale e religiosa e riproporre l’attesa
messianica come valore universale proprio di tutti gli uomini, e pensatori
che eleggono il messianismo a qualità propria e distintiva dell’ebraismo.
Particolarmente evidente risulta questa dinamica nel confronto tra Cohen
e Rosenzweig esposto da Fiorato. Il primo, neokantiano, si propone di
indagare e favorire quel processo di «idealizzazione» del Messia grazie al
quale egli viene a perdere caratteri personali e nazionali, per diventare la
«figura ideale di un periodo storico del genere umano»2. Il secondo invece
diffida dell’astrazione che questo termine e questo processo implicano, e vi
oppone la concretezza del legame di sangue del popolo ebraico (da Fiorato
indicato come «ambiguo modello di riferimento»). Il contrasto emerge
soprattutto in riferimento alla distinzione tra ebraismo e cristianesimo. Per
Cohen l’idealizzazione è il processo fondamentale attraverso il quale l’imma-
gine sensibile del Messia si ritrae nel tempo, diventando futuro e soltanto
futuro; non solo passato e presente sprofondano in questo tempo del futuro,
ma anche l’esistenza degli uomini si supera nella sua singolarità per diven-
tare storia, intesa da Cohen esclusivamente come storia messianica, in
cammino verso una meta. L’idealizzazione della propria appartenenza reli-
giosa diventa per Cohen l’unica garanzia contro l’intolleranza in fatto di
religione, ma egli non cesserà di indicare il monoteismo ebraico come
modello privilegiato di questo processo. Il cristianesimo, invece, secondo lui
non ha portato a compimento l’idealizzazione del Messia, sia a causa della
centralità assunta dalla figura di Cristo, che egli ritiene problematica – l’idea
di Messia si complica, infatti, con la persona storica di Cristo, e questo
finisce per conferire alla storia uno sguardo retrospettivo, nel quale il futuro
non può che essere il ritorno di ciò che una volta è già apparso – sia a causa
dell’importanza assunta nel protestantesimo dall’Erleben3 – seppur con

2
Hermann Cohen, Jüdische Schriften, vol. I, a cura di Bruno Strauß, Schwetschke, Berlin 1924, p. 108.
3
Il termine tedesco indica un vivere che è allo stesso tempo fare esperienza di ciò che si vive, un sentire

112
questo termine non s’intenda un semplice abbandonarsi immediato alla vita,
ma un rinascere più profondo a vita nuova grazie all’esperienza interiore di
vita e morte del redentore, quest’esperienza resta un limite all’idealizzazione
di Cristo, la quale dovrebbe invece troncare con la realtà effettiva
(Wirklichkeit) per salire incessantemente verso l’infinito.
Fiorato sostiene che Rosenzweig abbia una posizione diametralmente
opposta, ma arriva ad affermarlo con cautela, solo dopo aver esplorato le
molteplici eredità del maestro Cohen ne La stella della redenzione4, e dopo
aver segnalato le affinità dei due pensatori anche attraverso particolari
biografici tutt’altro che irrilevanti. Secondo Rosenzweig, Cohen individua
bene il diverso orientamento di cristianesimo ed ebraismo, ma non scorge
la «necessità» di questa distinzione: l’ebraismo trova secondo lui fondamen-
to alla propria unità sia nel passato, nella natura, cioè tramite il legame di
sangue, sia nel futuro, nell’idea, cioè tramite la rivelazione profetica. Il
cristianesimo, invece, ha dietro di sé il proprio fondamento, perché non è
una comunità naturale, ma una comunità fondata tramite la rivelazione5.
Questo fondamento ideale non ha però per Rosenzweig pari dignità, o
meglio, pari realtà, di quello ebraico. L’«idea» ha, infatti, una realtà pallida
ed evanescente di fronte alla realtà dell’esistenza, tenace e addirittura
«eterna», del popolo ebraico: «Se Cristo sia più che un’idea, nessun cristiano
lo può sapere. Ma che Israele sia più che un’idea, questo lo sa, lo vede.
Perché noi viviamo. Noi siamo eterni, non come può essere eterna un’idea,
ma noi lo siamo, se lo siamo, in piena realtà. E così per il cristiano siamo ciò
che è davvero indubitabile»6. Questa priorità veritativa della vita sull’idea
emerge anche dal ruolo che secondo Rosenzweig svolge per la comunità
ebraica la temporalità messianica, anticipando il futuro nel presente: essa
«vivifica» il Dasein, l’esserci, l’esistenza, e in questo sta il suo valore, non
nella sua idealità. Anche questi esiti escatologici del suo messianismo sono

vivendo, un percepire nella vita che è apprendimento di ciò che si vive. In questo senso si contrappone
al semplice, immediato Leben, al vivere nel suo senso più prosaico, come stare al mondo, semplice
esistere. Si distingue però anche dall’Erfahren, il fare esperienza nel senso di acquisire un sapere più vasto
e complessivo, come bagaglio di conoscenze teoriche. L’Erleben è invece legato al sentire, al percepire,
all’esperienza dei sensi più che dell’intelletto.
4
Per un quadro più completo della presenza di Cohen nella Stella rinvio al saggio di P. Fiorato, H.
Wiedenbach, Hermann Cohen im «Stern der Erlösung», in M. Brasser (a cura di), Rosenzweig als Leser.
Kontextuelle Commentare zum «Stern der Erlösung», Niemeyer, Tübingen 2004.
5
Cfr. Franz Rosenzweig, Briefe und Tagebücher, 2 voll., Den Haag, Nijhoff, 1979, vol. I, p. 158 e Id.,
Der Stern der Erlösung, 4° ed., Nijhoff, Den Haag 1976 (rist., Suhrkamp, Frankfurt am Main 1988), pp.
440-442; tr. it. di G. Bonola, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 423-425.
6
Cfr. Franz Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, cit., p. 461; tr. it. cit., p. 443 s.

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distanti dal «messianismo antiescatologico» di Cohen, il quale resta invece
ancorato al significato etico che può rivestire per l’intera umanità7.
Nel confronto Taubes – Scholem il dibattito sul messianismo si svolge
invece su un piano più interno all’ebraismo: né Scholem, né Taubes si
preoccupano di fare del messianismo una categoria universalmente umana.
Piuttosto, l’aspra critica di Taubes a Scholem, che Bonola ha illustrato nella
sua originalità, ma anche nella sua incongruenza e parziale infondatezza, si
concentra sul significato del messianismo per l’ebraismo e la sua storia.
Taubes critica infatti l’uso da parte di Scholem della categoria di «interio-
rizzazione» come linea di demarcazione tra la concezione ebraica e quella
cristiana di redenzione in Per la comprensione dell’idea messianica
nell’ebraismo (1959): com’è noto, Scholem sostiene qui che per l’ebraismo
la redenzione si compia nella sfera pubblica, «sulla scena della storia e nel
bel mezzo della comunità», mentre per il cristianesimo si tratti di un evento
che «avviene nell’anima e nel mondo di ogni singolo», dove essa «produce
una misteriosa trasformazione a cui non deve necessariamente corrisponde-
re nulla di esterno nel mondo»8. Secondo Taubes invece l’interiorizzazione
indica una crisi all’interno dell’escatologia ebraica stessa, che si situa nel
momento dell’«attualizzazione» del messianismo in due precisi contesti
storici: la fase del cristianesimo paolino e il periodo del movimento sabbatiano,
nel XVII secolo9. Taubes vede in Paolo l’ebreo che riconosce in Cristo quel
Messia che secondo la legge ebraica è stato giustamente crocifisso, e perciò
non può che concepirlo come la fine della legge. Anche la distinzione
paolina tra ebrei solo «esteriormente» tali da coloro che lo sono anche
«interiormente» sarebbe da interpretarsi come fine della legge (Rm 2, 28).
La crisi paolina imperniata sull’interiorizzazione è dunque secondo lui
evento intimamente ebraico, così come lo è la nascita della «coscienza»
occidentale, e questa crisi rappresenta anche l’inizio dell’antinomismo che
troverà poi ulteriore sviluppo tra i sabbatiani10. Questi riferimenti storici

7
Per un approfondimento di questo aspetto del pensiero di Cohen rimando a P. Fiorato, Una debole
forza messianica. Sul messianismo antiescatologico di Hermann Cohen, «Annuario filosofico», 12 (1996),
pp. 299-327. Per un’attenta analisi dell’escatologia rosenzweighiana cfr. invece Elliot R. Wolfson, Facing
the Effaced: Mystical Eschatology and the Idealistic Orientation in the Thought of Franz Rosenzweig, in
M. Brasser, Rosenzweig als Leser, cit.
8
Gershom Scholem, Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, in Über einige Grundbegriffe
des Judentums, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1970, pp. 121-170; tr. it. in Concetti fondamentali
dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986, pp. 105-150, ivi p. 107.
9
Cfr. Jacob Taubes, Il prezzo del messianismo, Quodlibet, Macerata 2000, p. 38.
10
Bonola ha sottolineato la differenza tra l’antinomismo paolino da quello sabbatiano, che invece
Taubes pare voler assimilare: secondo il primo, poiché la legge non salva, il suo precetto può essere

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dovrebbero inoltre comprovare, secondo Taubes, la sua tesi secondo la
quale la svolta interiore è una conseguenza legittima, nella storia, dell’idea
messianica. Bonola gli ha contestato a questo proposito di fare di una mera
questio facti una questio iuris, e di assumere così un’idea messianica che
contenga in sé, se non la propria dissoluzione, una grave contraddizione
circa la propria realizzazione; oppure di assumere, senza giustificarlo a
sufficienza, che all’idea messianica sia necessariamente inerente un fallimen-
to sul piano storico, il quale sarebbe a sua volta indispensabile per il
trasferimento della redenzione nella pura sfera interiore, vero ambito della
redenzione. Bonola ha poi illustrato nella terza parte della relazione il
motivo politico di questo forte accento sull’interiorizzazione da parte di
Taubes: finché il messianismo manterrà le connotazioni di realizzazione
storica del regno di Dio, esso potrà essere strumentalizzato a fini politici e
non farà che incorrere nel pericolo di trasformare la redenzione in «fiam-
meggiante apocalissi». Scholem era tuttavia consapevole di questo rischio,
e proprio perciò aveva cercato a più riprese di mantenere ben distinti
sionismo e messianismo, individuando quest’ultimo come l’elemento che ha
costretto la vita degli ebrei a un differimento continuo del compimento, ma
sempre come categoria religiosa da non confondere col progetto politico
sionista, mentre per Taubes sionismo e messianismo non sono affatto
termini tra loro scindibili, se il messianismo mantiene quella connotazione
di redenzione intrastorica che Scholem le attribuisce.
A controbilanciare questo dibattito concentrato sul significato del
messianismo ebraico si pone il contributo di Camera su Buber e Levinas:
entrambi i filosofi, infatti, ha sottolineato Camera, non intendono tanto
difendere i tratti particolaristici della categoria messianismo, quanto piutto-
sto operarne una traduzione in termini etici e farne una categoria filosofica
universale.
Buber, com’è noto, riscopre le leggende chassidiche e si ispira a questa
tradizione per rinnovare l’ebraismo: essere ebrei non è un’appartenenza
etnica né religiosa, ma il risultato di una decisione personale per un’auten-
tica forma di vita spirituale, che al dissidio e alla scissione contrapponga la
ricerca dell’unità (tiqqûn, nella tradizione chassidica). Proprio questa ten-
sione all’unità, oltre a essere il carattere specifico dell’ebraismo, è secondo
Buber ciò che rende «la questione ebraica una questione umana»11, trasfor-

disatteso, ma questa pratica non è necessaria alla salvezza, mentre per il secondo il precetto deve essere
violato intenzionalmene a significare l’ingresso del credente in una temperie messianica che supera la
legge stessa.
11
Martin Buber, DerJude und sein Judentum. Gesammelte Aufsätze und Reden, Lambert Schneider,

115
mandola in questione universale. La tensione all’unità ha due aspetti fonda-
mentali: il primato dell’azione sulla contemplazione e l’idea di avvenire;
l’unità ricercata, infatti, non può essere raggiunta soltanto attraverso la sfera
spirituale e la sua realizzazione pratica è ciò che deve ancora venire. L’attesa
della redenzione diventa in quest’impostazione l’atto che realizza l’unità
attraverso il superamento della contrapposizione polare tra mondo e Dio, e
il mondo messianico rappresenta proprio l’unità così instaurata. In questo
senso Buber considera il messianismo «l’idea più profonda e originale
dell’ebraismo»12: esso introduce nella storia una finalità ultima, l’idea di un
ultimo compimento che non si situa in un tempo prossimo o lontano, ma
«nel tempo definitivo, nella pienezza del tempo, alla fine dei giorni: nell’av-
venire assoluto»13; nonostante la radice ebraica di questo pensiero, il compi-
mento è però offerto a tutta l’umanità14. Egli distingue inoltre tra messianismo
passivo e messianismo attivo, contrapponendo all’attesa passiva di un inter-
vento redentore dall’alto, propria ad esempio del messianismo davidico,
un’operosa azione redentrice dal basso, che coinvolge e responsabilizza
l’uomo in quanto tale. L’aspirazione alla compiutezza e redenzione del
mondo diventa dunque in Buber un fatto etico, che si concretizza innanzitutto
nella «conversione» (teschuvah), con la quale ciascuno può attuare un
capovolgimento delle contrapposizioni polari unificando gli opposti. Come
Taubes, Buber è critico con lo Scholem di La neutralizzazione dell’elemento
messianico nel chassidismo antico, ma per motivi molto diversi. In quell’ope-
ra Scholem sosteneva che il chassidismo, conquistando il regno dell’interio-
rità, aveva dovuto rinunciare al messianismo come «forza storica attuale»;
Taubes gli contestava che proprio in quella svolta verso l’interiorità consi-
stesse l’esito più auspicabile del messianismo ebraico. Buber invece lo
contesta ancor più radicalmente: nel messianismo chassidico, infatti, secon-
do lui è realizzata tutta la tensione etica al compimento propria della
religiosità ebraica, in quanto l’agire del singolo è posto in stretta connessione
con la comunità e la via di perfezione etico-religiosa che ogni uomo percorre
prepara direttamente il regno storico futuro. Camera si è soffermato anche
a illustrare il nesso tra comunità messianica e comunità dialogica: la conver-
sione personale apre infatti, secondo Buber, alla relazione autentica io-tu in

Gerlingen 19932, p. 21; tr. it. parziale di D. Lattes e M. Beilinson, Sette discorsi sull’ebraismo, Gribaudi,
Torino 1996, p. 24.
12
Ivi, p. 40 ; tr. it. cit., p. 45.
13
Ibidem.
14
Cfr. ivi, p. 58; tr. it. cit., p. 65, ove parla dell’ultimo compimento che «il Signore porgerà a tutti i
popoli».

116
una comunità libera da legami di potere e in rapporto con l’infinito. Teoria,
questa, che trova riscontro negli scritti esegetici composti tra il 1935 e il
1950, in cui Buber, ricostruendo le origini dell’idea messianica sulla base
delle testimonianze bibliche, sosterrà che l’immagine messianica più consona
all’esperienza dell’esilio non è tanto quella vittoriosa e trionfante del Messia
figlio di Davide, quanto quella isaiana del «servo», che propone il valore
propriamente salvifico ed espiatorio della sofferenza.
Levinas è molto vicino a Buber soprattutto a questo riguardo. Camera lo
ha illustrato non prima di aver richiamato i concetti fondamentali della
filosofia levinassiana; ricordiamo qui in particolare il primato del «volto
d’altri» nella definizione della soggettività, che solo a partire dall’incontro
con l’altro può costituirsi come eticamente responsabile, e la concezione del
tempo infinito e discontinuo, secondo la quale ogni istante è un nuovo inizio
dotato di una propria differenza qualitativa, sempre aperto all’avvento del
nuovo tempo messianico.
L’interpretazione levinassiana della figura del Messia va compresa nel-
l’ambito della sua riflessione sulla soggettività responsabile, così com’è
svolta nell’opera Altrimenti che essere o al di là dell’essenza15. Qui, come ha
mostrato Camera, avviene la trasformazione delle nozioni di hypokeimenon
e di subjectum in quella di sostituzione vicaria: l’io si costituisce quando si
espone passivamente e involontariamente ad altri, fino a perdere il controllo
di sé, a farsi «ostaggio» dell’altro, così da spogliarsi della propria esistenza
soggettiva ed egoistica. L’assoggettamento all’altro avviene nel campo della
responsabilità: l’io «soggetto all’altro» è quello che si sostituisce a lui per
assumerne le colpe e le sofferenze, fino a espiarle e sopportarle al suo posto,
dilatando la propria responsabilità individuale. Anche Levinas, quindi, in
un gruppo di scritti di commento ad estratti talmudici degli inizi degli anni
Sessanta16, si schiera contro l’interpretazione «emozionale» del messianismo,
nella quale rientra anche il messianismo regale o davidico, secondo cui la
fine miracolosa del tempo avverrebbe grazie alla mediazione di una persona
dotata di poteri eccezionali, e difende invece l’approccio «razionalista» della
tradizione rabbinica, collegando le tematiche dell’attesa messianica alla
domanda di giustizia propria di ogni uomo in ogni epoca. Secondo Levinas,
dunque, come secondo Buber, non si può delegare l’aspirazione messianica

15
Emmanuel Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974 ; tr. it. di S.
Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983.
16
Emmanuel Levinas, Textes messianiques, in Id., Difficile liberté. Essais sur le judaïsme, Albin
Michel, Paris 1983, pp. 83-129; tr. it. di F. Camera, Il messianismo, Morcelliana, Brescia 2002.

117
all’azione di un mediatore unico che realizzi l’universale nella storia del
mondo, e la salvezza, come in Buber la conversione, resta possibile in ogni
momento, poiché in ogni momento l’uomo può rispondere all’appello del
comandamento che lo destina a essere responsabile nei confronti del pros-
simo.
In Levinas resta più aperta che in Buber la tensione tra passività e attività
dell’io: l’impegno morale, infatti, non è altro che la risposta dell’uomo alla
chiamata di Dio, che irrompe quindi nella storia «dal di fuori»; l’uomo
«riceve la salvezza e nello stesso tempo ne è l’artefice»17. Il Messia è l’uomo
pronto a ricevere la salvezza rispondendo alla chiamata di Dio alla respon-
sabilità, è l’uomo che soffre perché prende su di sé la sofferenza degli altri
attraverso la sostituzione vicaria. La definizione della personalità messianica
viene dunque a toccare la questione filosofica della struttura della soggetti-
vità: il Messia è allora il soggetto che non è per sé, ma per altri. In questo
senso Levinas scrive: «Il Messia sono Io. Essere Io è essere Messia»18. Ancora
una volta l’universalizzazione del messianismo avviene tramite una sua
interpretazione in senso etico.
Un’interpretazione non soltanto etica emerge dal «dialogo messianico»
tra Ernst Bloch e Margarete Susman, così com’è stato presentato da Anna
Czajka. Al centro del loro confronto sta infatti l’amore, come esperienza
vitale che non si limita all’ambito etico, ma abbraccia, vivifica e unisce le
esperienze di tutti gli ambiti della vita, con particolare centralità di quello
artistico, religioso e filosofico. Bloch e Susman s’incontrano nel 1910 a
Berlino al seminario di Georg Simmel, quando il primo è agli inizi del suo
lungo percorso filosofico (aveva da poco terminato e discusso la tesi di
dottorato su Rickert), mentre la seconda è già autrice affermata e riconosciu-
ta, sia come poetessa sia come critica letteraria (si era occupata di romanti-
cismo e di poesia tedesca). Nella prima fase della sua produzione, Susman
osserva a livello critico lo spostamento del centro della vita spirituale dalla
religione all’arte, a partire dal romanticismo, e individua nell’estetica del suo
tempo il nuovo campo della metafisica, nella lirica il luogo in cui si costruisce
un ponte tra la vita e la sostanza. Dalle sue liriche emerge più direttamente
il significato della sua teoria. Al centro della vita spirituale c’è l’esperienza
dell’abbandono di Dio, nella durezza del mondo in cui s’incontra il nulla, ma
proprio a partire da quest’esperienza si fa incessante e ineludibile la ricerca
dell’Altro, vissuta nella sua arte attraverso l’amore per tutto ciò che esiste.

17
Ivi, p. 98; tr. it. cit., p. 71.
18
Ivi, p. 120; tr. it. cit., p. 105.

118
L’amore inteso come anelito all’adempimento è per Susman ciò che costi-
tuisce negli uomini un essenziale legame unificante che li destina alla
fratellanza. È questa la «pia eresia» della lotta per la salvezza contro il nulla,
a favore del legame amoroso che dona senso a persone e cose. Nel 1912
Susman pubblica un libro ancor più specifico sul tema: Vom Sinn der Liebe
(Sul senso dell’amore)19. Qui l’amore è indagato come strada di salvezza dal
carattere mutevole e multiforme, poiché quest’unica possibilità di relazione
con l’assoluto, di legame con l’essenza, si rinnova continuamente. In questo
legame si supera sia la vita nella sua cieca caoticità, sia la morte nella sua
unicità e rigidezza. Se l’amore nella sua aspirazione alla totalità non può mai
essere realizzato pienamente nella vita, esso però resta la forza capace di
attingere all’essenza, alla totalità, di vivificare così gli attimi di cui la vita è
composta, e permanere negli individui come desiderio, impulso ed ecceden-
za, come l’eterno più della vita e dell’individuo.
Czajka ci mostra come Susman e Bloch abbiano interagito attraverso un
dialogo personale, inizialmente intenso e tumultuoso, poi latente o
intermittente, ma persistente fino alla morte della poetessa, e come questo
dialogo trovi una forte ripercussione soprattutto in alcuni testi di Bloch
inseriti nella prima edizione di Spirito dell’utopia (1918), la sua prima opera
davvero importante20. Qui presenta gli ebrei come un simbolo: ciò significa
vedere in essi un segno vivente della scissione del mondo che tende alla
propria ricomposizione, nel senso indicato dalla Susman. Dopo aver
ripercorso la storia ebraica, Bloch constata un reciproco bisogno, da parte
di ebraismo e cristianesimo, di integrarsi l’uno con l’altro, bisogno che si
fonda sulle Scritture stesse. Primo punto di contatto tra le due religioni è la
figura del Messia come servo sofferente, così come viene descritta dal
Deutero-Isaia, citato anche da Levinas, Buber e Cohen. Il secondo punto è
la dottrina della grazia presentata da Paolo nella Lettera ai Romani, prospet-
tata come beatitudine finale anche per il popolo ebraico. Bloch propone poi
un incontro filosofico delle due religioni, attraverso lo sfociare della religiosità
nell’allargamento dell’anima e nel rinnovamento della metafisica, intesa

19
Margarete Susman, Vom Sinn der Liebe, E. Diederichs, Jena 1922.
20
Si tratta dei paragrafi «Symbol: Die Juden» [Simbolo: gli ebrei], «Grund in der Liebe»[Fondamento
nell’amore] e «Jesus», contenuti in Ernst Bloch, Geist derUtopie. Erste Fassung, Gesamtausgabe - Band
16, Suhrkamp Verlag, 1971, rispettivamente a pp. 319-332, 349-360 e 373-382. La traduzione italiana è
svolta sulla base della seconda e terza edizione del libro, non riporta quindi i testi qui citati, che nella
seconda edizione sono stati estromessi dall’opera. Ciò non comporta, però, che l’autore li abbia rinnegati,
tanto che ha deciso di inserire la prima edizione del Geist der Utopie nell’edizione completa delle sue
opere.

119
come luogo dell’incontro con il sé, come adempimento. In questa prospet-
tiva il cristianesimo può oltrepassare la teologia del centro, che insiste
sull’avvento di Cristo ormai avvenuto, accogliendo l’attendere ebraico.
Quest’attesa può essere estesa a tutti gli uomini, i quali, non essendo ancora
compiuti, possono seguire Gesù come «segno dell’amore e dell’interiorità
lungo la via»21. È nel paragrafo sull’amore come fondamento della realtà che
questa riflessione si completa: amore non è solo procreazione dell’umanità
fino alla nascita del Messia, ma anche «un altro ridestare, il geniale Eros per
l’altro» (Eros zum Anderen)22. La congiunzione nell’amore richiede una
nuova soggettività, che trova il proprio compimento solo nella conoscenza
delle altre soggettività, nel «noi» come «regno dei fini in sé», contenuto e
meta sia della relazione sia della comunità etica. L’amore è dunque al
contempo una chiamata del Messia, in cui il momento ebraico e quello
cristiano si congiungono, in una prospettiva che può anche essere letta
filosoficamente e che lascia comunque spazio a una specifica identità delle
due religioni nei loro compiti: quello ebraico attiene al compimento dell’in-
contro con se stessi tramite la «mistica pratica» della trasformazione di sé,
quello cristiano attiene al perfezionamento della moralità interiore attraver-
so l’amore del prossimo.
In questo confronto tra Susman e Bloch si fuoriesce, come si è visto, dalle
interpretazioni interne all’ebraismo, per soffermarsi su autori che attingono
al messianismo in un’ottica atea o intramondana23; in questo caso,
l’universalizzazione delle categorie messianiche, già vista tra autori ebraici,
pare potersi estendere a più sfere della vita umana e non limitarsi a quella
etica. La collocazione di Walter Benjamin è invece più problematica, in
quanto tuttora discussa tra i suoi interpreti, com’è emerso a più riprese nel
corso del seminario. Fabrizio Desideri, autore del contributo su Benjamin,
propende per inserire l’ultimo Benjamin entro l’alveo della tradizione del

21
Ernst Bloch, Geist der Utopie, cit., p. 331.
22
Ivi, p. 353. Sulla base di questa riflessione Bloch scinde qui, finalmente, il valore della figura
femminile dalla sua facoltà di procreare, per tessere della donna un elogio appassionato che la ritrae come
«ultima realtà che attende gli uomini al di là del mondo e nella vita eterna», ivi, p. 356.
23
In precedenza ho inserito Margarete Susman tra gli autori interni all’ebraismo a causa di quella che
Czaika definisce la seconda fase della sua produzione, quella forse più conosciuta in Italia, interamente
dedicata alla coltivazione del pensiero messianico ebraico e pacifista, fase alla quale la relatrice ha
dedicato minor spazio e cui qui non ho fatto riferimento per problemi di spazio e di coerenza tematica.
Nella sua prima fase, invece, la Susman, come emerge da quel che ho qui riferito, fa meno attenzione ai
contenuti religiosi concentrandosi su quelli estetici. Ciò rende problematica la posizione della Susman
nella suddivisione da me precedentemente elaborata (lo è anche quella di Benjamin, come illustro nel
corso del testo che segue). Questo mio schema in ogni caso vuole solamente essere funzionale alla
presentazione dei contenuti del seminario e non aspira a precisare altrimenti la collocazione degli autori.

120
messianismo ebraico, seppur con una posizione da lui definita «del tutto
originale». Desideri critica la lettura taubesiana di Benjamin come marcionita
moderno, critica che risulta complementare a quella svolta a tale riguardo
anche da Bonola: Desideri ha sottolineato la distanza di Benjamin dall’oriz-
zonte teologico del cristianesimo riportando la distinzione netta da lui fatta
tra messianismo apocalittico ebraico e messianismo escatologico delle prime
comunità cristiane24, insieme alla distanza da lui assunta più in generale dal
messianismo escatologico; Bonola ha invece messo in luce le incongruenze
del testo taubesiano25. Diventa dunque più interessante e produttivo ripor-
tare qui brevemente quel che Desideri ha presentato come il messianismo
senza escatologia di Benjamin, piuttosto che tentarne una precisa collocazio-
ne tra ateismo ed ebraismo, rischiando di tradire alcuni aspetti centrali del
suo pensiero.
Nelle Tesi di filosofia della storia Benjamin non si pone mai il problema
della fine del tempo, ma si sofferma sulle catastrofi che mandano in frantumi
l’apparenza del continuum del tempo storico. Nell’istante attuale, la Jetztzeit,
il materialista storico fa risplendere l’immagine dialettica che coglie il tempo
nella sua verità, cioè nella sua incompiutezza. Il tempo storico non può più
quindi essere pensato come progresso. La dimensione catastrofica e quella
redentiva qui si fondono, si congiungono: l’immagine attualizza una relazio-
ne irripetibile tra passato e presente, ciò che è citato come nuovo viene
ridestato ad un «grado di attualità più alto che al momento della sua
esistenza»26. Questo è il compito messianico della conoscenza storica, che
non è mai la fine assoluta della storia e può attuarsi in ogni momento.
Analogamente per il Messia: egli «tronca» la storia, non compare alla fine di
uno sviluppo27. Quest’interruzione non equivale comunque a una fine, il
giorno del giudizio è infatti per Benjamin indistinto da tutti gli altri, ogni
attimo è la piccola porta attraverso cui può entrare il Messia. Secondo

24
Cfr. Walter Benjamin, Lettere 1913-1940, tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Einaudi, Torino 1978,
pp. 37-38.
25
Bonola faceva riferimento in particolare a Jacob Taubes, Walter Benjamin – ein moderner
Marcionit? Scholems Benjamin-Interpretation religionsgeschichtlich überprüft, in N. Bolz, R. Faber (a cura
di), Antike und Moderne. Zu Walter Benjamins „Passagen“, Königshausen & Neumann, Würzburg 1986,
pp. 138-147; tr. it. in Jacob Taubes, Il prezzo..., cit., pp. 57-71. Desideri invece cita Jacob Taubes, La
teologia politica di San Paolo, tr. it. di P. dal Santo, Adelphi, Milano 1997 e suggerisce di consultare anche
T. Tagliacozzo, Jacob Taubes interprete della teologia politica di Benjamin, in «Paradigmi», anno XIX, n.
56, Nuova Serie, maggio – agosto 2001, pp. 283-311.
26
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, tr. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997,
p. 114.
27
Cfr. ivi, p. 88.

121
Desideri, la porta è quella della giustizia, categoria in stretta connessione con
il messianismo, ma da non risolvere in equazione definitiva con esso, perché
altrimenti lei stessa, trascendenza rispetto a ogni logica del possedere,
diventerebbe oggetto di possesso. Se invece il tempo messianico è il tempo
in cui il Messia è atteso in ogni secondo la tensione tra categoria ed evento
(cioè tra messianico e Messia) resta, poiché resta quell’incompiutezza del-
l’origine, e della storia stessa, che proprio l’unità di catastrofe e redenzione
rivela.
Di tutt’altra natura il messianismo cristiano polacco analizzato da Cunico,
collocato in un contesto storico e culturale completamente diverso. I tre
autori presi in esame, Hoene Wronski (1776-1853), Adam Mickiewicz
(1798-1855) e August Cieszkowski (1814-1894) appartengono al secolo XIX,
che per la Polonia significò la spartizione tra le potenze di Austria, Prussia
e Russia e le conseguenti ribellioni, peraltro vane, contro gli invasori per
riconquistare l’indipendenza perduta (1830-31 e 1863-64 contro la Russia,
1848 contro la Prussia). Quest’aspetto della storia polacca influenza soprat-
tutto il messianismo di Mickiewicz, che assume un carattere mistico-nazio-
nale, mentre quello di Wronski è piuttosto un messianismo speculativo,
nella cui scia si colloca poi Cieszkowski, pur se in modo autonomo.
Mickiewicz, emigrato a Parigi come Wronski, è più attento di quest’ultimo
al dramma della sua nazione oppressa e smembrata: essa si configura nel suo
pensiero come l’immagine dolorosa della nazione crocifissa, tuttavia chia-
mata a riscattare il proprio martirio tramite la sua missione redentrice che
farà trionfare alla fine libertà e fratellanza. La figura del Messia nei suoi
scritti è dapprima rappresentata da un singolo individuo, personalità ecce-
zionale, capace di guidare il futuro risorgimento della nazione; poi prevale
invece la figura collettiva di una nazione-Messia associata più direttamente
al sacrificio di Cristo, che redime in forza delle sue sofferenze. Compito
religioso e compito politico della nazione qui si fondono: insegnare ai popoli
la vera civiltà cristiana significa portare loro libertà e amore, fino a raggiun-
gere la realizzazione di questa nuova civiltà in una futura «Confederazione
Europea». Nelle lezioni degli anni ’40 emerge un nuovo cambiamento di
orientamento: Mickiewicz lega la missione nazionale della Polonia a un’in-
tima conversione della Chiesa e all’attesa di una nuova era del cristianesimo,
e prende Napoleone ad esempio per sottolineare la necessità di una nuova
figura messianica che sia dotata di potenza e sapienza insieme, per realizzare
sulla terra il Regno di Dio. La sua opera, che si pone in continuità sia col
messianismo ebraico davidico, sia col chiliasmo cristiano dei primi secoli, si
contrappone invece al messianismo filosofico: respinge violentemente il
primato della ragione e della conoscenza speculativa, riconoscendo invece

122
fede, speranza e amore quali unici strumenti per far progredire lo spirito e
attuare il suo potere egemonico.
Sotto questo aspetto la sua opera è molto distante da quella di Wronski,
secondo il quale il messianismo, inteso come compimento finale dell’esisten-
za e della storia dell’uomo, è meta e senso della filosofia assoluta. Quest’ul-
tima, infatti, indaga quell’assoluto che è la base di ciò che esiste, ovvero quel
principio incondizionato che è condizione di se stesso e di tutta la realtà, ma
in questa ricerca riconosce quale scopo finale dell’uomo quel conseguimen-
to dell’immortalità che è scopo supremo della religione. L’immortalità si
compie secondo Wronski attraverso un vero e proprio atto di autocreazione,
che avviene nell’adeguazione dell’uomo alle proprie leggi e ai propri fini,
riconosciuti e compresi quali fini dell’assoluto stesso. La realizzazione della
piena spontaneità creatrice umana viene però rimandata da Wronski a
quell’era paracletica della storia che ancora deve venire. Proprio que-
st’aspetto, il paracletismo, ovvero l’attesa della terza era dello Spirito, che
segue quella del Padre e del Figlio (tradizione spirituale gioachimita ripresa
da Lessing), è ciò che accomuna Wronski a Cieszkowski. In quest’ultimo,
tuttavia, è più accentuata l’attenzione al cristianesimo e alla sua centralità,
come alle sue allora attuali insufficienze. La sua «istoriosofia» si occupa
infatti del futuro, del prossimo avvento di una terza età, sia concepita
hegelianamente come compimento della dialettica della storia, sia attesa e
annunciata come regno di Dio sulla terra, come realizzazione delle promesse
profetiche di Gesù Cristo.
Il vasto panorama appena presentato su alcuni dei più importanti intrec-
ci tra messianismo e filosofia lascia aperti molti problemi teorici. Su di essi
ci si può ancora soffermare con qualche riflessione.

La storia: catastrofe o salvezza?


Il messianismo, com’è noto, tende a costringere la storia in un meccani-
smo teleologico in virtù del quale il suo significato dipende dall’esito che
essa avrà. Sarà allora interessante raggruppare le diverse concezioni della
salvezza ora emerse, per indagare i corrispondenti significati che la storia
assume. Si sono delineate almeno le seguenti alternative teoriche:
a. il messianismo concepito come attesa della salvezza per tutti gli uomini
(o per tutto un popolo), offerta dalla venuta di un Messia personale, che
compirà con la sua venuta una promessa già fatta da Dio stesso e testimonia-
ta dalle Scritture – prospettiva del messianismo cristiano (almeno negli

123
autori qui proposti, peraltro emblema di una posizione piuttosto diffusa nel
cristianesimo) e del messianismo regale o davidico ebraico (dagli autori qui
esaminati preso in considerazione soprattutto come obiettivo polemico);
b. il messianismo concepito come attesa di un futuro di salvezza intrastorica,
reso possibile da una conversione interiore degli uomini concepita come
risposta a un’istanza superiore, etica e/o religiosa – prospettiva di Buber,
Levinas, Cohen, Rosenzweig, Taubes;
c. il messianismo come attesa della realizzazione nella storia di un regno
di Dio sulla terra tramite la mediazione del popolo da Lui prescelto –
prospettiva di Gerschom Scholem, seppur nel rapporto critico sopra ricor-
dato in cui egli pone sionismo e messianismo;
d. il messianismo come categoria dell’adempimento dell’uomo e della sua
storia ad opera dell’uomo stesso – prospettiva di Bloch e di Susman, nella
sua prima fase di produzione;
e. il messianismo come luce sulla verità catastrofica della storia – prospet-
tiva di Benjamin.

Se il significato della storia dipende dal suo esito, la storia che conduce
alla salvezza può essere considerata storia di successi, di ricchezza, di
compimento, mentre le perdite, i fallimenti, le sconfitte che la costellano
possono sempre essere preservati dai loro esiti più disastrosi, in quanto
conosceranno, in un giorno futuro, il loro riscatto. La fede in un essere
trascendente diventa garanzia della sua effettiva venuta, seppur in un
indeterminato futuro, e la salvezza che egli porta sarà perfettamente com-
piuta perché opera di un essere perfetto. La versione filosoficamente più
elaborata di quest’interpretazione della storia è, com’è noto, la filosofia
hegeliana. In questo caso, a farsi garante del perfetto esito della storia è la
necessaria logicità del processo razionale che determina il suo sviluppo.
Queste filosofie della storia «a successo garantito» hanno conosciuto nel
Novecento, sia in ambito teologico che filosofico, la loro grande disfatta. Le
tragedie storiche verificatesi in questo secolo, così come l’accresciuta co-
scienza dell’irrevocabilità della morte, della frantumazione dei significati,
della fragilità delle certezze, hanno persino ridicolizzato queste prospettive.
Eppure non sembrano aver vaccinato l’umanità da ciò che questi orizzonti
di significato sembravano aver così tanto favorito: l’utilizzo di categorie
religiose, o filosofiche, per giustificare la gestione e l’espansione del potere
politico; l’uso ideologico di quest’interpretazione della storia ha, infatti,
permesso ai poteri di volta in volta in auge di presentarsi come tramite di una

124
liberazione dell’umanità (o di una sua parte), che avrebbe garantito pace,
benessere e felicità nella storia. Il ricorso a ingiustizie, soprusi e violenze di
ogni tipo diventava così un momento «obbligato», «inevitabile», «necessa-
rio» al raggiungimento della liberazione finale.
Così i nostri autori del Novecento si impegnano a smascherare l’illegitti-
mità di questo meccanismo. Benjamin si prodiga a svelare attraverso l’imma-
gine dialettica il cumulo di macerie cui la storia è ridotta, Cohen, Buber,
Levinas, e in altro modo Taubes, percorrono le vie dell’etica e dell’interiorità
degli uomini come via privilegiata al loro compimento e alla scoperta
dell’alterità che li costituisce, Margarete Susman esprime nelle sue nostalgi-
che poesie l’amore per tutte le cose del mondo, Rosenzweig dileggia la
filosofia che combatte la morte con la vana astrazione; tutti questi percorsi
sono volti a disinnescare quell’alleanza mortale tra visione progressista della
storia e potere politico. Eppure la filosofia e la religione, così indebolite e
ammaccate sul nascere del nuovo millennio, appaiono, oggi, solo molto
affaticate e stanche, impotenti di fronte al ripetersi, nella storia attuale, di
quella strumentalizzazione ideologica che nel Novecento hanno già tanto
strenuamente combattuto. I temi svolti e dibattuti nel seminario contribui-
scono dunque da un lato a non dimenticare la strada fin qui percorsa,
dall’altro a proseguire una ricerca di senso che non rinunci alla speranza, ma
sia consapevole dei rischi in cui essa incorre. Una domanda radicale sembra
però affiorare a questo proposito, domanda che sembra acquisire oggi un
senso diverso rispetto al passato: quale incidenza può avere sulla storia stessa
il senso che le si attribuisce?
Il messianismo resta, da orizzonte a questa domanda, nel monito che esso
rappresenta di fronte al nichilismo e alla frantumazione del senso: sottrarre
alla storia una meta, dunque un significato forte, comporta sempre per
l’uomo impotenza e paralisi, sia di fronte alle sue perenni esigenze di
comprensione del mondo, sia di fronte ai tentativi di appropriazione inde-
bita delle varie categorie di significato da parte di chi persegue il proprio
personale interesse economico e politico.
La filosofia resta, invece, quale garanzia della criticità e dunque della
libertà del pensiero: come Benjamin insegna, l’immagine dialettica svela la
storia nella sua miseria, le impedisce di sacrificare i vinti a suo vantaggio e
apre al Messia quella piccola porta, attraverso la quale egli, chissà, forse sta
entrando proprio ora.

125
Alterità e immanenza della salvezza
Resta aperta la domanda sulla salvezza: quale salvezza stiamo attendendo
e da chi proviene? Si tratta di una salvezza immanente al mondo, o di una
totalmente trascendente? Si può pensare un’alterità trascendente che si
faccia tramite di una salvezza per il mondo? A questo proposito può essere
interessante un breve confronto tra le posizioni di Levinas e Bloch, in quanto
rappresentano emblematicamente i corni opposti di un’alternativa.
In Levinas l’alterità è trascendenza assoluta, che salvaguarda gli uomini e
Dio stesso da ogni tentativo di asservimento, sia esso politico, economico o
ideologico. Filosoficamente, riconoscere il primato dell’alterità significa
innanzitutto e originariamente dare una risposta etica a quest’ingiunzione
che viene dal volto dell’altro, figura simbolica di una vita a noi indisponibile.
La filosofia è seconda all’etica, ne chiarisce i termini, ma non fonda ciò che
non dipende, né può, né deve dipendere dall’uomo: l’Altro del volto, l’Altro
di Dio. La salvezza, dunque, potrà giungere solo in conseguenza a un atto
di sottomissione a quest’alterità, la sostituzione vicaria sopra analizzata.
In Bloch la prospettiva è tutt’altra: l’alterità, nient’affatto assente dal suo
pensiero, è l’alterità dell’incompiuto, della non-identità con se stesso del
soggetto nell’attimo in cui vive (l’oscurità dell’attimo vissuto). È un’alterità
negativa, a fronte dell’alterità levinassiana che trascende le dimensioni di
positività e negatività. In questo modo, l’alterità blochiana, oltre a essere il
motore del divenire del mondo, come impulso al compimento, al superamento
di ciò che manca28, è aperta al suo annullamento nel giorno dell’identità
raggiunta, quando l’uomo perverrà a se stesso con il mondo per lui finalmen-
te riuscito. «Naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura»
indicano la mediazione tra uomini e mondo naturale verso la reciproca
identificazione: il processo di compimento è un processo di reciproca
trasformazione dei due elementi, l’uno ad opera dell’altro, e avviene attra-
verso una messa alla prova quotidiana delle possibilità reali di ciò che l’uomo
spera; gli obiettivi pratici dunque si adeguano di giorno in giorno alle mutate
situazioni, senza però perdere di vista la meta finale, la realizzazione del
regno della libertà in cui tutti gli uomini possano sentirsi a casa, insieme alla
natura stessa. L’identità allora, a partire da queste premesse, non è ciò che
dà adito all’asservimento dell’uomo, ma la meta della sua liberazione.

28
«Il non è mancanza di qualcosa e allo stesso modo fuga da questa mancanza; così è impulso verso
quel che gli manca. Col non viene dunque riprodotto l’impulso degli esseri viventi», Ernst Bloch, Das
Prinzip Hoffnung, Gesamtausgabe - Band 5, Suhrkamp Verlag 1971, p. 356; tr. it. a cura di Enrico De
Angelis e Tomaso Cavallo, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994, p. 360.

126
Levinas naturalmente critica l’impostazione blochiana, e sulla sua scia
molti altri pensatori hanno riproposto quella stessa critica: l’alterità, in
quanto pensata, è già da sempre presupposta; inoltre è pensata come ciò che
va sacrificato a un’identità da raggiungersi, tentativo che rischia sempre di
risolversi in una prospettiva totalizzante e opprimente.
Non sembra, però, che la filosofia possa e debba prescindere per questo
motivo dall’esigenza di identità che il pensiero, luogo della differenza,
rappresenta. La filosofia levinassiana, infatti, può farlo solo perché pone al
di sopra del pensiero un’altra istanza, che possiamo chiamare etico-teologi-
ca; in questo caso però l’io, come abbiamo visto, può giungere a conoscere
il Messia, e a riconoscerlo in se stesso, solo negando la propria soggettività,
il proprio egoismo, i propri bisogni, riconoscendo come prioritaria l’istanza
dell’altro e della sua sofferenza (realizzando quindi una sorta di identità
«derivata»). L’io va insomma incontro a un percorso di sofferenza e frustra-
zione, cui la filosofia non può opporre alcuna critica se non esponendosi
all’accusa di irresponsabilità etica. Di fronte all’Altro può solo abbassare la
testa e mettere a disposizione i suoi strumenti concettuali, affinché l’etica
possa compiere la giusta opera pedagogica che ritiene di dover compiere.
Non soddisfa, però, che l’immanenza della salvezza risulti in questa
prospettiva inaccettabile per motivi di tipo morale. È giusto e opportuno che
il messianismo religioso, insieme a quello etico, fungano da principio critico
alle pretese totalizzanti della filosofia, ma non della filosofia in quanto tale,
bensì di alcune sue specifiche cadute o manifestazioni di superbia. Parlare
d’immanenza della salvezza significa, infatti, avere un amore estremo per il
mondo e avere una tale fiducia nelle sue risorse, da cercare faticosamente la
strada attraverso la quale uomo e natura possano contare sulle proprie
risorse per contribuire al reciproco benessere, senza fare ricorso a una
potenza talmente altra da essere inconoscibile, insondabile e infine, forse,
inattingibile.
Il pensiero di Bloch può rappresentare a mio parere quest’appello del
pensiero: che la ricerca di libertà e autonomia, d’identità e compiutezza non
vengano bollate, in quanto tali, come tracotanza.

Salvezza e conoscenza
Quale rapporto, infine, tra salvezza e conoscenza?
Vorrei qui richiamare il principale motivo di distanza tra Cohen e
Rosenzweig: l’alternativa idealità/vitalità. L’idealizzazione del messianismo

127
ebraico, che Cohen considerava via somma della filosofia per universalizzare
il messaggio religioso, appare a Rosenzweig un eccessivo raffreddamento dei
suoi contenuti vivificanti. Secondo Cohen non è credente colui che spera
nella propria salvezza terrena, né nella propria salvezza eterna, o in quella
dei suoi cari, o del suo popolo, ma colui che spera nel futuro dell’umanità.
Secondo Rosenzweig la redenzione è qualcosa di ben più determinato, è
l’eternità che s’inserisce nel tempo presente di chi crede, anticipando il
futuro nell’attimo, vivificando l’intera esistenza. Si possono dunque consi-
derare salvezza e conoscenza come percorsi alternativi, e addirittura oppo-
sti? Si può attribuire alla prima la dimensione della vita e alla seconda quella
del pensiero, fermandosi a quest’opposizione?
Il pensiero di Buber offre un’altra prospettiva. Quella questione ebraica
che secondo lui fa dell’ebraismo una questione umana, la ricerca dell’unità,
è anche ciò che consente di pensare un rapporto più stretto tra redenzione
e conoscenza. Se è vero che Buber afferma il primato dell’azione, e che la
conversione attraverso la quale ciascuno può attuare un capovolgimento
delle contrapposizioni polari, unificando gli opposti, avviene principalmen-
te attraverso l’attività etica della persona, ciò non esclude dal messianismo
attivo l’acquisizione da parte dell’io della conoscenza di sé.
Anche in Benjamin, seppur in modo molto diverso, salvezza e conoscenza
si congiungono. Esse si saldano nell’immagine dialettica: mandare in fran-
tumi l’apparenza del continuum del tempo storico, rovesciando il rapporto
tra storia e coscienza, è l’unico modo di aprire una piccola porta al Messia.
In Bloch, invece, la conoscenza istruisce la speranza a perseguire con più
efficacia la propria meta, facendosi non luogo della meta, ma cammino
anche etico-pratico verso di essa.
Così come si possono fruttuosamente congiungere e mettere in relazione
salvezza e conoscenza, si possono mettere in rapporto messianismo e filoso-
fia; il loro confronto risulta produttivo a più livelli, fondamentale nella
definizione dei limiti reciproci, ma anche nell’apertura a nuove soluzioni di
sintesi. Se il messianismo incita la filosofia a non adeguarsi all’incompiutezza
del mondo e a cercare la strada della salvezza, ponendosi anche come
orizzonte ulteriore ai limiti del mondo, la filosofia, oltre a sottoporre il
messianismo al vaglio critico della ragione, àncora saldamente ogni salvezza
al finito, rendendola consapevole fonte di senso per l’esistenza nella storia.

128

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