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3 Marzo 2015

La finanza ci deve far pensare subito al denaro, ai soldi. Anche il controllo di gestione tratta di soldi, ma
come già detto dal Professore, questa disciplina è una disciplina più operativa (nel senso di operations) cioè
più legata alle attività economiche dell’azienda. Nel bilancio, che è il documento di riferimento della finanza,
c’è una distinzione netta tra transazioni economiche e quelle finanziarie. Per transazione economica si
intende tipicamente il passaggio del bene mentre per transazione finanziaria si intende la cessione del
denaro. La finanza sicuramente ci fa pensare direttamente alla gestione delle risorse finanziario-monetarie. Il
controllo di gestione, pur occupandosi di aspetti monetari economici, li usa sostanzialmente per controllare le
attività dell’azienda e quindi per valutarne l’efficienza e l’efficacia ma anche per andare a capire dove sorge
qualche problema a livello operativo. La finanza è abbastanza se non totalmente indipendente dalle attività
economiche che ci sono sotto e, nel mondo di oggi questo è evidente perché oggi si parla di mondo
finanziario che vive per i fatti suoi che è sempre stato legato alle attività economiche e produttive ma che
negli ultimi decenni, invece, è visto come scollegato dal mondo economico produttivo. La finanza vive di
una vita sua, fatta di strumenti finanziari comprensibili solo agli “addetti ai lavori”. Se pensiamo ai derivati
(che sono strumenti finanziari come le opzioni, i futures, ecc), questi risultano incomprensibili all’interno
degli stessi istituti finanziari. La finanza sempre più sta vivendo un suo mondo di espansione sempre più
staccato dalle attività economiche reali. Nei livelli di base, la finanza sostanzialmente è una disciplina come
le altre cioè le imprese per vivere, sopravvivere e finanziarsi hanno bisogno di risorse finanziarie e quindi
hanno bisogno di persone, all’interno dell’azienda, che si occupino di questa specifica attività. Chi si occupa
di finanza all’interno delle imprese si occupa della gestione delle risorse finanziarie sotto vari aspetti.
Il Business Planning è il processo di realizzazione del Business Plan. Il Business plan è un piano di business
che è uno dei documenti più diffusi all’interno delle imprese. Il business plan è un documento di sintesi che
racconta una idea di business (il modo con cui la vogliamo realizzare, il modo con cui la vogliamo gestire ed
il modo con cui la vogliamo gestire da un punto di vista finanziario), quindi tipicamente, all’interno di una
impresa, quando si fa lo sviluppo di un nuovo prodotto si fa un business plan. Una della parti più tecniche dal
punto di vista gestionale-economica è la parte finanziaria ovvero lo sviluppo dell’investimento e la
valorizzazione di un progetto. Motivo per cui le due discipline (finanza e business planning) hanno
ovviamente un nesso importante che è quello dell’aspetto finanziario. In sostanza, il business planning è
quella parte che concretizza l’aspetto finanziario della valutazione degli investimenti. È una valutazione
finanziaria che riguarda fondamentalmente due aspetti che sono:

 Vale la pena fare questo investimento? Quindi si chiede quali sono le attese di profitto dell’investimento
 Se l’investimento è profittevole, da dove vado a prendere i soldi per finanziarlo?
Questo è il motivo per il quale queste discipline nel nostro corso vengono sviluppate insieme. Questo è il
forte legame precedentemente citato dal professore.
Se parliamo con un economista del business plan, questo pensa al 99% solo alla parte economica finanziaria
(cioè solo alla parte degli investimenti). La capacità di un ingegnere gestionale nell’analisi e valutazione di
un business plan è di dire che la valutazione economica finanziaria la sanno fare tutti, mentre l’ingegnere è
più attrezzato a capire meglio il business plan.
Il business plan è un documento che sta avendo enfasi non solo per il suo aspetto tradizionale, ma anche per
il fermento delle nascite delle startup. Il business non nasce solo nelle imprese ma nasce anche da iniziative
di non imprenditori.
Un argomento importante che tratteremo nel corso è la teoria del valore. Con teoria del valore andremo a
valutare attività di rischio cioè attività di business imprenditoriali e non ci occuperemo della valutazione dei
titoli di risparmio come le obbligazioni. I titoli finanziari si dividono in due grandi famiglie:

 Azioni: sono quote di partecipazione proprie dell’impresa.


 Obbligazioni: titoli o quote non del patrimonio proprio dell’impresa ma del suo debito.

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Entrambe le voci si trovano nello stato patrimoniale precisamente nel passivo. Il passivo è fatto dal
patrimonio e dai debiti. Il passivo sono proprio le fonti di finanziamento dell’azienda. Quindi le azioni sono
una quota del patrimonio mentre le obbligazioni sono una quota dei debiti. Noi non ci occupiamo della
valutazione dei titoli di Stato (che sono obbligazioni) per esempio: Spread, Btp, Bund, ecc, ecc. Noi ci
occuperemo degli investimenti produttivi, economici, di rischio cioè quelli che fanno le imprese e che sono
caratterizzate da attività economiche.
CHI E’ IL MANAGER FINANZIARIO?
Il Chief Financial Officer (CFO) ovvero il responsabile
finanziario di una azienda fa diverse cose:

 Il responsabile amministrativo: quindi si


occupa del bilancio (che è un documento fiscale che ha
delle responsabilità civili). Si occupa delle imposte, di
auditing (e quindi di valutazione) ed ha rapporti con le
banche.
 Tesoriere: abbiamo detto che la finanza è gestione del
denaro. Il CFO è il “cassiere” dell’azienda ovvero colui
che dice se i soldi possono essere presi o meno dalle
casse dell’azienda. Si occupa anche di capire da dove recuperare fonti di finanziamento. I soldi che ci
vogliono per far funzionare l’azienda non riguardano solo gli investimenti (attività fondamentale per lo
sviluppo e la sopravvivenza dell’impresa) perché sporadici.
 Controller: si occupa di tutta la parte di controllo di gestione.
RUOLO DEL MANAGER FINANZIARIO
Le attività del manager finanziario in azienda sono
tante ed importantissime tutte perché riguardano tutte le
attività finanziarie. Noi guarderemo questi fronti
decisionali:
oScelte di investimento sul fronte dello sviluppo.
Bisogna fare attenzione a non pensare che il manager
finanziario è colui che decide quali investimenti fare
(per esempio se aprire uno stabilimento in Romania o
Brasile). Il ruolo del manager è quello di valutare in
maniera economico-finanziaria gli investimenti. Quindi
lui supporta le scelte di investimento perché possiede la conoscenza degli strumenti che permettono questo
tipo di valutazione.
o Detto che vi è una situazione più redditizia il manager ha il ruolo di andare a capire come andarla a
finanziare.
Facciamo una distinzione tra attività reali e attività finanziarie. Nel bilancio, le immobilizzazioni sono di 3
tipi: materiali, immateriali e finanziarie. Questa è proprio la distinzione tra attività reali e quelle finanziarie.
Nelle attività reali consideriamo anche le attività immateriali (per esempio un progetto di ricerca). Le
attività finanziare sono i titoli di cui parlavamo prima e cioè un’azienda può decidere di investire i propri
soldi acquisendo un'altra impresa per esempio (Fiat Chrysler).

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RUOLO DEL MANAGER FINANZIARIO
Il ruolo del manager finanziario, è qui dipinto come una
interfaccia tra le attività dell’impresa e i mercati
finanziari. La gestione della finanza in azienda se
vogliamo può essere schematizzata secondo questo
flusso: io ho una idea di business (reale o futura) e
come faccio a svilupparla? Mi servono dei soldi! Dove
vado a prendere i soldi per sviluppare la mia idea?
Dalla banca (che è anch’essa un intermediario), perché
i soldi che sono in banca sono i risparmi che possono
finire o al consumo o agli investimenti. Quello che
l’impresa è investimento perché se si trattasse di consumo, l’impresa sarebbe un cliente e parleremmo di
acquisto. Il manager finanziario è quello che va da chi raccoglie il risparmio (e quindi in banca, in borsa, dal
fondo di investimento) per cercare soldi da spendere però sotto forma di investimento in attività. Quindi
stiamo guardando risorse finanziarie impiegate nel medio-lungo termine. Si investono questi soldi procurati
dalle istituzioni finanziarie (che raccolgono soldi dai risparmiatori), e realizzo impianti, stabilimenti, uffici,
personale. In sostanza spendo dei soldi che in qualche modo devono rientrare e rientreranno con un certo
reddito. Questo reddito alla fine finisce nuovamente nella disponibilità dell’impresa che potrà prendere
strade diverse: una parte sicuramente deve andare a remunerare chi ha prestato quelle fonti di finanziamento
tra cui c’è anche la proprietà (ovviamente), i creditori, i risparmiatori ed in parte vengono reinvestiti cioè una
parte degli utili, dei margini che fa l’impresa vengono utilizzati per fare nuovi investimenti quindi per fare
nuovo sviluppo di impresa. Quindi nella slide di cui sopra, vediamo il manager finanziario come
intermediario tra questi due fronti e cioè quello di chi procura le risorse finanziarie all’impresa per poter fare
il suo sviluppo ma si occupa anche della remunerazione delle fonti di finanziamento e quindi dei rapporti con
gli interlocutori finanziari dell’impresa stessa.
OBIETTIVI DELL’IMPRESA
Quali sono gli obiettivi dell’impresa? Sopravvivere, fare
utile, ROI. Sulla slide c’è scritto che gli azionisti
vogliono massimizzare il valore il che vuol dire che
vogliono guadagnare. Come guadagnano gli azionisti? Se
diventassimo azionisti di una certa impresa
guadagneremmo attraverso l’aumento del valore della
quota dell’azione oppure dai dividendi. Entrambe
queste forme di guadagno sono riconducibili alla
massimizzazione del valore di ciò che ho acquistato. Tra i
proprietari ed i manager esiste un problema, un conflitto
chiamato problema d’agenzia che nel mondo anglosassone è molto studiato mentre da noi non si sente
parlare molto poco di questo problema perché è un problema che è più sentito dove le imprese hanno un
azionariato più diffuso quindi dove non esiste di fatto il vero proprietario dell’azienda. Finchè l’azienda è di
qualcuno (Natuzzi, Ferrero, Divella, Barilla) e ci sono persone che gestiscono l’impresa, il problema non si
pone perché c’è l’imprenditore che la gestisce e quindi c’è assoluta assonanza di interesse e non c’è nessun
conflitto. Il problema è quando è il manager a gestire l’azienda di cui non è proprietario (per esempio
Marchionne, Montezemolo). In questo caso i manager sfruttano quanto più possibile il problema d’agenzia.
Perché c’è questo conflitto? Perché non è detto che il manager operi nella massimizzazione del valore
dell’impresa perché il manager ha più una prospettiva di breve termine quindi potrebbe essere orientato a
“spremerla” il più possibile perché può anche utilizzare dei benefit dell’azienda che non sono a vantaggio
degli azionisti (come per esempio avere una sede megagalattica anche costosissima così come faceva
Marchionne). I Manager hanno molti portatori di interesse. Si fa sempre l’esempio del responsabile degli

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acquisti che dovendo acquistare forniture da milioni di Euro ci fa pensare a quali benefit potrebbe avere se
acquistasse da un fornitore piuttosto che un altro.
ALTRI OBIETTIVI DELL’IMPRESA
Ci sono altri obiettivi, oltre a massimizzare il valore
degli azionisti, in cui entriamo nel tecnico. Per
esempio massimizzare il profitto aziendale è una delle
cose che ha sempre detto essere un obiettivo
dell’impresa. È sbagliato dire che l’obiettivo
dell’impresa è massimizzare il profitto? Ci sono
correnti di pensiero che dicono che massimizzare il
profitto non è la cosa fondamentale per l’impresa. È
più importante che l’impresa sopravviva. Questa è
una teoria abbastanza recente. Questo significa che
l’impresa ha una missione sociale (perché se per esempio chiudesse Natuzzi 5000 persone non saprebbero
dove andare a lavorare). Quindi massimizzare il profitto è sbagliato per questo motivo? In realtà l’impresa
non deve massimizzare il profitto ma ha altri problemi cui pensare: tessuto sociale, inquinamento, ambiente.
Alla finanza di tutto questo non gliene frega nulla! Nella slide non c’è scritto quel NO per questo motivo.
Non c’è scritto che dire che massimizzare il profitto non è corretto perché ci sono altri stakeholder (cioè i
dipendenti), ma dice che non è corretto massimizzare il profitto perché non è abbastanza “duro”. Per
massimizzare il profitto posso imbrogliare perché posso truccare il profitto. Degli stakeholder alle persone
che si occupano di finanza non gliene può fregare di meno! E qui si scontrano le culture: la cultura
anglosassone e la cultura europea. Recentemente c’è molta attenzione nel mondo alle risorse della terra,
all’inquinamento ma l’impresa in questo caso ha una missione sociale oltre che finanziaria? Si discute! Qui
si dice: massimizzare il profitto aziendale è un obiettivo migliore o è espresso meglio rispetto a valorizzare e
massimizzare il valore degli azionisti? No perché massimizzare il valore degli azionisti, è qualcosa di più
preciso rispetto alla massimizzazione del profitto. Noi abbiamo studiato in economia che massimizzare il
profitto è la ONE BEST WAY. Qui si dice attenzione ai costi e al profitto perché si può imbrogliare. Un
magare che massimizza il profitto perché ha le stock option (quote di capitale) e l’azione schizza verso l’alto,
la vende e capitalizza. L’anno dopo l’azienda fa una predita. Si può fare profitto un anno e una predita l’anno
successivo? Si perché alcuni costi posso rimandarli all’esercizio successivo e li faccio passare come costi di
investimento piuttosto che come costi correnti e quindi un anno faccio un bel profitto e l’anno dopo mi
ritrovo tutti i costi. Oppure posso non dare soldi agli azionisti dicendogli che non verranno remunerati
quest’anno perché abbiamo sottomano un investimento che li farebbe guadagnare il doppio l’anno dopo.
Altro concetto da non dimenticare è che il profitto è soggetto a principi contabili: valutazione delle
rimanenze, ammortamenti, aspetti fiscali. Massimizzare il profitto aziendale non va proprio bene perché il
profitto è una grandezza economica non precisa! E quindi non si guarda l’aspetto che si guardava in
microeconomia dicendo che il profitto è l’unico obiettivo dell’impresa si va a scavare ancora di più e si dice:
un momento, il profitto ora non mi piace! Cosa voglio veramente massimizzare? L’aspetto sociale? La
cultura? L’ambiente? Il CASH!!!! Più che il profitto a me interessano i soldi quindi quando si dice che vi
comprate l’azione noi guardiamo il dividendo e cioè i soldi che ci arrivano in mano, il cash! Il Cash è l’unica
cosa che per la finanza ha un vero valore.
Questa frase è tipica anglosassone dice “Turnover is vanity” cioè il fatturato, i ricavi sono vanità. Questa
frase è vera perché se una impresa fattura 150 milioni di euro ed un’altra 20, tra persone si ragiona per
esempio dicendo: ehi amico… che io lavoro in una impresa che fattura 150 milioni di euro. Quindi il
fatturato diventa una specie di carta di identità della dimensione dell’impresa. Una impresa più grossa ha il
vantaggio di avere più potere! Il fatturato sicuramente è molto importante perché molti elementi tecnici-
finanziari dipendono dal fatturato. Fatturato significa comunque giro di moneta, incassi. Però gli
anglosassoni dicono che agli investitori non importa molto il fatturato ma si preoccupano più del loro
guadagno a seguito di acquisto di azione allora si dice “profit is sanity”. Le aziende devono avere un
profitto, cioè devono essere in utile perché se sono in perdita sicuramente non è un fatto buono perché la
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perdita erode il capitale dell’azionista. Ma questo non basta! “Cash is reality” perchè per la finanza l’unica
cosa che conta davvero è il cash, cioè il flusso di cassa. Tu puoi avere anche un utile elevato ma un flusso di
cassa negativo e quindi hai speso più di quello che hai incassato. È possibile questo? Si, poi vedremo come!

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5 Marzo 2015

ALTRI OBIETTIVI PER L’IMPRESA?

Noi abbiamo studiato in vari corsi


(economia in primis) che tutti gli studi
economici (ad esempio gli studi dei
mercati e quindi concorrenza perfetta,
monopolio ecc) si basano sull’assunto
che gli operatori economici agiscano in
funzione di un obiettivo razionale che è
quello della massimizzazione dei profitti.
In finanza, questo concetto, diciamo che
è ulteriormente puntualizzato nel senso
che è vero che gli operatori economici
devono agire in modo tale da perseguire
l’obiettivo della massimizzazione del
profitto ma, nello specifico, di quale profitto si parla? Ovvero quale profitto si deve massimizzare?
Attenzione che di profitti ce ne sono tanti e questo soprattutto se dall’alto dell’economia, si scende a
“sporcarsi le mani” nella gestione e nell’organizzazione dell’impresa avendo quindi a che fare con i bilanci
ad esempio. Siccome alla fine l’utile o il profitto è un risultato aziendale che viene di fatto certificato dal
bilancio e quindi dalla contabilità, in finanza si dice di fare attenzione perché il profitto può avere dei
problemi. E quindi, sostanzialmente, si tende a parlare più di valore che di profitto e infatti vedremo che tutta
la teoria del valore è basata appunto sul flusso di cassa ossia sul cash o denaro contante. Quindi, in finanza, il
focus principale è ancora più sul denaro cioè sulla moneta perché solo questa ha veramente valore secondo
un approccio tipicamente Anglosassone. Però nella lezione scorsa, qualche studente diceva che in qualche
altra disciplina gli è stato spiegato che poi in realtà, non è vero che l’obiettivo dell’impresa sono i soldi
(profitto o flusso di cassa o denaro o valore) ma ci sono tanti altri obiettivi. E questa, appunto, è la tesi o il
risultato di tante altre discipline che si occupano di vedere qual è il ruolo dell’impresa nel sistema economico
e nel sistema sociale e cioè se si allarga la visione, si vede l’impresa non solo come una macchina da soldi
ma anche come una macchina “più umana” che ha aspetti sociali. Questo perché l’impresa oltre ad avere il
proprietario o gli azionisti, ha una serie di stakeholders ossia portatori di interesse come ad esempio
dipendenti, fornitori, l’indotto (tutte quelle aziende che nascono insieme all’azienda principale e si
sviluppano perché incominciano, con la specializzazione del lavoro, magari a realizzare componentistica,
lavorazioni, conto terzi dove per conto terzi si intende produrre gli stessi prodotti o servizi per conto
dell’azienda principale, ecc); è’ chiaro che quando si parla di obiettivi dell’impresa in senso lato quindi
includendo questi altri fattori, è come se si cambiasse punto di vista e quindi è come se si cambiasse politica
o strategia. Tutto questo, sostanzialmente, non riguarda la finanza e questo perché chi si occupa di finanza
predilige esclusivamente il lato finanziario ossia il lato monetario o economico dell’azienda. E’ chiaro che in
questa contrapposizione, c’è una diversità di vedute a monte di sistema economico o di cultura: il sistema
Anglosassone è sicuramente la cultura che predilige una separazione dei compiti in quanto, secondo questa,
l’impresa deve fare i soldi ossia deve preoccuparsi del profitto in termini finanziari e non economici.

CASO MICROSOFT: la Microsoft nella sua vita di azienda, ha fatto sempre più soldi strozzando e
ammazzando ogni suo concorrente. Attualmente è una delle aziende che ha maggiori soldi in cassa
(maggiore cassa) che le consente di fare, ogni tanto, delle elargizioni rilevanti ai propri azionisti. Questo
della Microsoft risulta essere un modello sbagliato o un modello giusto? Se io fossi un azionista lo riterrei
corretto.
Si preoccupa la Microsoft della comunità di dipendenti, delle proprie sedi, della pulizia dell’acqua,
dell’inquinamento, della povertà, ecc? No, perché fa il suo mestiere ovvero cerca di vendere il suo software,
cerca di far fuori ogni concorrente che provi a realizzare un software simile, cerca di andare in ogni punto del
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pianeta prima di qualunque altro per dire che il computer funziona solo con Windows, ecc. La strategia di
questa azienda è sempre stata molto aggressiva, in accordo con una filosofia tipicamente Anglosassone:
l’impresa deve fare soldi e deve eliminare qualunque ostacolo sulla sua strada per fare soldi arrivando anche
ai limiti del lecito come, ad esempio, utilizzando diversi regimi fiscali in diversi Paesi per cercare di pagare
meno imposte possibile ma questo, dall’altro lato, significa anche contribuire il meno possibile allo sviluppo
delle comunità presenti dove questa vende i propri prodotti (se la Microsoft paga meno tasse in Italia, vuol
dire che contribuisce meno allo sviluppo del Paese Italia pur vendendo qui molti suoi prodotti); anche la
stessa FCA (Fiat Chrysler automobiles) sta spostando la sua sede legale e quella operativa rispettivamente a
Londra e Amsterdam perché in questi Paesi si pagano meno tasse.

Dunque è giusto questo approccio (Anglosassone) o è più giusto tenere in conto altri obiettivi dell’impresa
quali l’impegno sociale, la tutela dell’ambiente, i dipendenti, i fornitori, ecc ? Questo è uno scontro di visioni
importante che attualmente è sfociato in un dibattito internazionale anche abbastanza importante che affronta
tematiche quali lo sviluppo sostenibile, ecc.
Perché gli Anglosassoni si focalizzano sul fatto che tutte le azioni e le decisioni dell’impresa alla fine
debbano essere orientate ad una sola cosa ovvero debbano essere orientate ad aumentare il valore finanziario
dell’impresa (per intenderci il valore dell’azione in borsa)? Tutte le decisioni devono essere orientate a
questo obiettivo perché per gli Anglosassoni, l’impresa non è un ente di beneficenza, non è una Onlus, non è
uno Stato che si deve preoccupare di ridistribuire il reddito sulla popolazione. Quindi perché la Microsoft
secondo gli Anglosassoni (e secondo anche il cittadino inglese o americano che non ha nulla a che fare con
l’impresa e che non ha, apparentemente, nulla da guadagnare) fa benissimo? O ancora, se io Microsoft avessi
un profitto un po’ più basso perché mi comporto meglio con i dipendenti, con i fornitori, con gli Stati in cui
opero e vendo ecc, mi piacerebbe di più?
In economia si studia che il mercato, in realtà, ha una serie di bachi o malfunzionamenti quali asimmetrie
informative, monopoli, oligopoli e quindi, il mercato, fallisce e non funziona bene quando non c’è
un’effettiva compartecipazione, informazione o regolamentazione. Ci sono dunque una serie di cose che nel
mercato non funzionano bene e non funzionano bene per chi e per cosa? Per il sistema economico e cioè per
l’insieme delle persone che vivono poi in quel contesto. Secondo l’economia, chi si deve occupare di
regolare e aiutare il mercato a funzionare meglio è qualche ente diverso dall’impresa e dal mercato.
Chi invece pensa che l’impresa debba avere un obiettivo diverso dal fare solo soldi, pensa che parte di questi
problemi siano invece dell’impresa e cioè pensa che l’impresa abbia una missione, più o meno accentuata a
seconda delle culture, anche sociale e ambientale; questi pensano dunque, che l’impresa debba tener conto di
altri obiettivi. Questo è un po’ lo scontro che sta avvenendo a livello internazionale fra chi pensa che
l’impresa abbia altri obiettivi oltre che fare solo soldi (ad esempio l’Europa tende a vedere il mondo sempre
più in questa lente ossia che non ci sono solo i soldi ma ci sono anche altre cose da fare come tener conto
delle risorse planetarie, del problema della disuguaglianza, ecc) e chi invece la pensa più in ottica
Anglosassone. Però il problema è che più o meno tutti, almeno a parole, sanno che vi sono altre
problematiche oltre al profitto ma la discussione è sul fatto se di queste altre problematiche debba
occuparsene l’impresa o meno. La filosofia Anglosassone, tipicamente, afferma che non è l’impresa che se
ne deve occupare perché chi si deve occupare di questo è lo Stato, le istituzioni, i cittadini che alla fine,
attraverso il loro voto, eleggono delle persone con certe idee. La mentalità Anglosassone è una mentalità più
a compartimenti stagni e cioè è vero che la Microsoft è forse l’ imprese di maggior successo di tutti i tempi e
che ha fatto probabilmente più soldi di tutti però, guarda caso, Bill Gates è il più grande filantropo del mondo
ossia è la persona che dona più quattrini di tutti in beneficenza, progetti per il terzo mondo ecc.; Bill Gates,
infatti, ha una fondazione il cui impegno economico in beneficenza è paragonabile a quello di uno Stato.
In definitiva, la mentalità Anglosassone afferma che io con l’impresa faccio i soldi, i soldi vanno in tasca alle
persone che posseggono l’impresa e poi le persone sono libere di fare quello che vogliono (come ad esempio
bonificare un’area inquinata o istruire bambini che non hanno la possibilità di andare a scuola, ecc) . Questa
di fare azioni con un impatto positivo ambientale o sociale è però, come detto, una decisione delle singole
persone che è diversa dalla decisione aziendale che deve essere unicamente orientata alla massimizzazione
del profitto finanziario ovvero al cash perché, senza questo, non si fanno grandi cose.

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Quindi da un certo punto di vista, da un lato (nel mondo della finanza) c’è stata una globalizzazione della
preponderanza dell’aspetto finanziario (anche con tutti gli eccessi che stiamo vivendo in cui c’è un distacco
fra il mondo finanziario e quello economico) e dall’altro lato, però, è anche vero che poi tutti questi obiettivi
correlati a quelli della moneta anch’essi stanno diventando abbastanza condivisi. Molte imprese infatti
utilizzano questi obiettivi e a conferma di ciò, se andiamo sui siti delle più grandi imprese, troviamo bilanci
sociali, aspetti ambientali ecc. Ma perché lo fanno? Lo fanno perché è un’arma commerciale. Infatti le
imprese hanno capito che i clienti ma anche gli stessi dipendenti sono diventati sensibili a queste variabili
(per cui noi compriamo una cosa più volentieri se è biologica o se è fatta in un Paese piuttosto che in un
altro) e quindi sui loro siti, danno risalto a queste tematiche non perché sono diventati buoni o perché per
loro è importante anche l’obiettivo dell’equità ecc ma perché ritengono che in questo modo possono vendere
di più (o meglio guadagnare più soldi perché non è detto che vendendo di più guadagnino più soldi) e quindi
l’obiettivo è sempre e solo quello di massimizzare il profitto finanziario; anche questi obiettivi correlati a
quello della moneta alla fine poi diventano degli strumenti al fine della prosperità dell’impresa.

DI CHI E’ L’IMPRESA?

Per vedere come questo aspetto sia diffuso, vediamo


questa slide e quindi di chi è l’impresa?
Sostanzialmente nei paesi Anglosassoni è più marcata
la concezione per cui l’impresa è esclusivamente dei
proprietari, cioè sono i proprietari che fanno e disfano
quello che vogliono della propria impresa essendo
loro gli artefici della fortuna dell’impresa stessa.
Negli altri Paesi questo è un po’ meno definito perché
in questi, le imprese non sono solo dei proprietari ma
sono anche degli altri stakeholders e cioè
appartengono in senso lato, anche alla comunità;
quest’ultimo è tipicamente l’approccio europeo e
giapponese nei confronti dell’impresa (nella slide la
prima barra di ogni Paese rappresenta gli Shareholders mentre la seconda gli Stakeholders).

DIVIDENDI VS OCCUPAZIONE
Oppure, stessa cosa, è più importante salvaguardare
l’occupazione e quindi i dipendenti o dare dividendi
agli azionisti? Per gli Anglosassoni i dividendi sono
più importanti della salvaguardia dell’occupazione
perché gli azionisti investono nell’impresa se hanno
un ritorno finanziario e anche economico. Invece, per
gli altri Paesi, questo è meno evidente (Francia,
Germania, Giappone); vediamo che in Giappone
praticamente non esisteva il licenziamento ossia non
era proprio contemplato il fatto che una persona
potesse essere licenziata da un’azienda.
In questi dunque era più importante la salvaguardia
dell’occupazione piuttosto che i dividendi (nella slide
la prima barra di ogni Paese indica i dividendi mentre la seconda, la salvaguardia dell’occupazione).
Abbiamo dunque aperto una finestra sulla diversità di attenzione rispetto gli obiettivi dell’impresa secondo le
diverse culture che comunque stanno in qualche modo incontrandosi. Le due visioni, appunto, stanno in
qualche modo convergendo però quando questo avviene a livello di Borsa (esempio obbligo report di
sostenibilità per quotazione nella borsa di Singapore), cioè nella tana del lupo, ci dobbiamo sempre chiedere
il perché. Come mai all’improvviso Singapore decide di fare una cosa del genere? Lo fa per due motivi: per
prima cosa lo fa perché probabilmente tutti gli uomini della terra vogliono un mondo perfetto ovvero un
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mondo uguale, che rispetti l’ambiente, ecc però quando saremo davvero tutti convinti che dobbiamo giocare
con queste regole? Quando lo facciamo tutti perché se c’è qualcuno che bara ossia qualcuno che gioca con
altre regole, farà fuori chi invece rispetta queste regole; infatti se arriva lo stesso prodotto ad un decimo del
prezzo, alla fine se noi rispettiamo le regole saremo fatti fuori. Allora c’è da un lato come primo motivo un
discorso di provare a globalizzare le regole mentre dall’altro, come secondo motivo, vi è il fatto che vi sono
alcuni Paesi specifici come Singapore che hanno problemi di immagine e problemi legali (Singapore è una
piazza globale molto importante che però è un Paese Black list ovvero uno dei Paesi opachi dal punto di vista
finanziario in cui si muovono grandi masse finanziarie di provenienza oscura; in questi Paesi, fra cui appunto
Singapore, Svizzera, Hong Kong ecc, è ancora o era possibile (la situazione è in evoluzione) mandare dei
soldi con la sicurezza di non essere tracciato). IN questi Paesi c’è in un certo senso l’obbligo o la costrizione
a diventare Paesi White list cioè ad osservare regole di trasparenza, sostenibilità ecc. Quindi tutto il
movimento globale si sta muovendo verso questa direzione e questo (sostenibilità, protocollo di Kioto ecc )
funzionerà veramente solo quando tutti decideranno di aderire. Se c’è qualcuno che rimane fuori, o bisogna
penalizzarlo in qualche modo in maniera evidente dal punto di vista economico oppure il sistema non
funzionerà mai (se gli Stati Uniti non aderiscono al protocollo di Kioto l’Europa, che gioca a fare
l’ambientalista, giocherà sempre con un handicap perché i suoi prodotti o i suoi servizi saranno sempre più
costosi alla fine). Quindi, sicuramente, c’è un movimento in questa direzione però è un cammino lento in cui,
se anche la finanza fa un passo di quel genere (borsa di Singapore), lo fa per una serie di convenienze o per
una serie di vincoli quasi obbligatori.

BILANCIO

L’elemento di base della finanza, forse ancor più


del controllo di gestione, è sempre il bilancio. In
particolare in finanza risulta essere tale perché
come abbiamo detto nella scorsa lezione, mentre
con il controllo di gestione ci troviamo di fronte
ad una gestione operativa dell’azienda e quindi
sostanzialmente ci serve sapere bene cosa sono i
costi e i ricavi, in finanza ci si occupa spesso di
valutazione (valore). Su cosa si basano quindi le
teorie del valore? Si basano naturalmente su
concetti economici e monetari e dunque, anche in
questo caso, il riferimento sta nel bilancio (anche
se poi vedremo che subito dopo che uno ha capito questo fatto, il bilancio poi rimane in secondo piano nel
senso che per un esperto di finanza, gli elementi di valutazione possono essere anche altri ma come detto va
dato per scontato che si conosca il bilancio).
Mentre in controllo di gestione ci serve maggiormente ricordare il conto economico e quindi quali sono i
costi secondo anche una classificazione economica di questi costi (terra-lavoro-capitale) e dunque costi di
acquisto, personale, ammortamenti ecc, in finanza, per certi versi, ci serve maggiormente lo stato
patrimoniale.
Quest’ultimo a differenza del conto economico, non è un documento di flusso ma è un documento di fondo
(una fotografia) che ci dice quali sono i beni dell’impresa (da qui capiamo bene il nesso fra valutazione
dell’impresa e i beni dell’impresa) e quali sono le fonti di finanziamento a cui l’impresa ha avuto accesso per
generare appunto i beni stessi. Quindi in relazione alla slide:
 Conoscere dove ci si trova nel presente per capire dove si potrebbe essere in futuro Il bilancio è
un documento che guarda ad un certo istante, guarda dati consuntivi e quindi non è sicuramente un
documento di programmazione ma è un documento che guarda al presente o al passato;
 I diversi stakeholder (creditori, azionisti, dipendenti, ecc.) si basano sui dati di bilancio Il bilancio
è inoltre il documento ufficiale dell’azienda e quindi tutti si basano in qualche modo sui dati di
bilancio;
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 I contabili hanno una certa libertà d’azione per la determinazione di utili e valori patrimoniali
sappiamo anche che ci sono dei margini di discrezionalità nella determinazione dei dati di bilancio
(quando si vuole ottenere un certo risultato si possono orientare i dati in un modo piuttosto che in un
altro);
 Regole di redazione diverse tra Paesi anglosassoni (orientate ad azionisti) e altri (orientati ai
creditori), ad esempio in termini di imposte e ammortamenti ovviamente ci sono regole di
redazione diverse come ad esempio quella che vige da noi che è basata sul principio del costo
storico (se io acquisto un impianto ad un milione di euro, nel bilancio questo impianto varrà un
milione di euro e poi nel tempo varrà sempre meno a causa degli ammortamenti).
 In Europa, regola del fair value (IAS, FAS): adeguare valori contabili dei beni ai valori di
mercato esistono come detto altre regole per cui i beni potrebbero essere contabilizzati anche al
fair value ossia al valore effettivo di vendita. Ad esempio un ufficio che abbiamo acquistato nel
2000 e che più o meno nel bilancio ha mantenuto lo stesso valore salvo un po’ di deprezzamento,
oggi sicuramente vale molto di più a seguito dell’euro, della rivalutazione degli immobili ecc.
Allora secondo la regola del costo storico vale poco mentre secondo la regola del fair value vale
molto di più e quindi quale delle due regole bisognerebbe considerare in contabilità? Ci sono
ovviamente pro e contro delle due cose ma diciamo che la recente crisi finanziaria del 2008, ha un
po’ inibito l’utilizzo del fair value perché ovviamente creava tanti bilanci gonfiati. Infatti se si ha
una crisi che mette a nudo tutta una serie di ipotesi perché queste poi alla fine sono delle ipotesi e
quindi delle stime di valore, ovviamente poi si crea una grande confusione a livello di valutazione.

ESEMPIO CREAZIONE DI IMPRESA 1/6

I due documenti principali del bilancio sono lo stato


patrimoniale e il conto economico. Lo stato
patrimoniale è il documento che in ogni istante ci dice
quali sono i beni dell’impresa e quali sono le rispettive
fonti di finanziamento; i beni dell’impresa vanno posti
all’interno dell’attivo dello stato patrimoniale mentre le
fonti di finanziamento vanno nel passivo. Quindi
quando costituiamo una società, da una parte (passivo)
avremo il patrimonio netto e in particolare il capitale
sociale che è la quota sottoscritta dai soci al momento
della costituzione della società e dell’altra parte (attivo),
avremo il corrispondente ossia quello che è stato
versato dai soci (al tempo 0 corrisponde alla cassa).

Questa è l’unica possibilità che abbiamo quando costituiamo una società? No, perché potrebbe esserci la
possibilità del conferimento di beni in natura ossia noi potremmo partecipare alla costituzione della società
attraverso un’idea ossia attraverso il conferimento di un’idea progettuale dal valore stimato ad esempio di
200 000 euro (40% di 500 000 euro); quindi in questo caso non versiamo soldi ma siamo gli ideatori
dell’idea su cui si basa il business dell’ impresa. Gli altri soci finanziatori metteranno gli altri 300 000 euro e
in questo caso, lo stato patrimoniale al tempo della costituzione dell’impresa (tempo 0), prevedrebbe nel
passivo sempre un capitale sociale di 500 000 euro mentre nell’attivo, ci sarebbe una voce di
immobilizzazione immateriale del valore di 200 000 euro (nostra idea ossia il know- how che qualche perito
certifica valere appunto 200 000 euro) più la voce cassa dal valore di 300 000 euro; in questo modo dunque
noi risultiamo soci al 40% di questa società non avendo versato nulla. L’esempio in slide naturalmente non
considera l’eventualità del conferimento di beni in natura e dopo la costituzione dell’impresa esso procede e
infatti, nel secondo stato patrimoniale, vediamo che la cassa si tramuta in una serie di acquisti che non sono
costi ma semplicemente dei passaggi da denaro a beni. Perché non sono costi? Perché sono investimenti
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ossia sono acquisti legati alla vita produttiva dell’impresa per un periodo superiore all’esercizio (un anno).
Quindi tutto ciò che è una spesa in beni strumentali e quindi funzionale al funzionamento dell’impresa per
più di un anno, diventa automaticamente un investimento e quindi una immobilizzazione. L’investimento o
immobilizzazione diventa poi un costo attraverso l’ammortamento che è presente come costo (-) nel conto
economico (vale ad esempio anche per una spesa sostenuta per una campagna pubblicitaria che dura 2 anni).

ESEMPIO CREAZIONE DI IMPRESA 2/6

Come si evince dal conto economico in


questa slide, si inizia poi a produrre e quindi
si incominciano a comprare (acquisti)
materie prime e componenti se si tratta di
un’azienda industriale (se non facciamo
servizi ma prodotti) e si inizia a pagare il
personale quindi si iniziano a spendere dei
soldi. Quando spendiamo dei soldi di questo
tipo (materie prime e personale) si generano dei costi o siamo ancora nel campo degli investimenti? In realtà
questi sono costi perché sono spese correnti a differenza degli investimenti però, tecnicamente, sono dei costi
sospesi in quanto per il principio di competenza economica i costi si scrivono a conto economico solo
quando si vendono i prodotti per la realizzazione dei quali, questi costi sono stati sostenuti. Se i prodotti non
li riusciamo a vendere ma continuiamo a pagare i dipendenti, l’energia, gli acquisti ecc che fine fanno
dunque questi costi? Fino a quando non si vende qualcosa tutto ciò che viene speso finisce in rimanenze
ossia tutto ciò che stiamo producendo assume un valore e questo anche qui nello stato patrimoniale,
corrisponde ad un passaggio di denaro dalla cassa alle rimanenze. Alla fine dell’anno avremo
presumibilmente venduto qualche cosa a fronte di certe spese e avremo però anche tutta una serie di prodotti
non ancora venduti o in corso di lavorazione e cioè avremo sostanzialmente speso di più di quanto abbiamo
realmente venduto (parte delle spese che abbiamo sostenuto non sono ancora diciamo confluite in una
vendita). Quindi alla fine dell’anno noi monetizziamo anche delle rimanenze per tener conto appunto del
fatto che non abbiamo venduto tutto ciò che abbiamo prodotto perché una parte della produzione è ancora in
azienda. A questo punto ci chiediamo perché nel conto economico quelle rimanenze finali sono
contabilizzate come ricavi? Perché vanno ad eliminare tutti quei costi che sono contabilizzati come tali ma
che in realtà, per il principio di competenza economico, non avremmo dovuto inserire.
Quindi in definitiva dato che nei costi vado ad inserire tutti gli acquisti, gli stipendi ecc senza fare troppa
discriminazione di ciò che ho venduto o non ho venduto, per equilibrare il conto economico, dall’altra parte
valorizzo le rimanenze in modo tale che queste rimanenze vadano ad eliminare la parte dei costi che hanno
generato rimanenze che dunque non sono state vendute. Il prospetto di conto economico a costi e ricavi cosi
come rappresentato in slide, oggi non si usa più perché viene utilizzato il prospetto scalare ossia si
rappresentano i costi con segno negativo e i ricavi con segno positivo nella stessa colonna. Come vediamo,
sempre nel conto economico, c’è una voce relativa alle imposte le quali si calcolano come percentuale
dell’utile lordo imponibile e infine vi è appunto la voce relativa all’utile netto che in questo caso si trova fra i
ricavi per far quadrare ovviamente le due colonne.

ESEMPIO DI CREAZIONE DI IMPRESA 3/6

Alla fine dell’anno ci ricostruiamo lo stato


patrimoniale che sarà un po’ più elaborato e
in questo caso specifico, nell’attivo
possiamo notare che ci sono dei soldi in
cassa, c’è un impianto, un terreno, un
fabbricato ecc tutti con i relativi valori e ci
sono anche le rimanenze finali. Dall’altra
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parte dovrò trovare a pareggio (perché i conti devono tornare) le fonti di finanziamento che mi hanno
generato questi beni e quindi ho il finanziamento iniziale e poi l’utile ossia il margine che si è creato fra
ricavi e costi che costituisce l’autofinanziamento dell’azienda.

ESEMPIO DI CREAZIONE DI IMPRESA 4/6

Qui c’è una successiva


elaborazione in cui si tiene conto
di due cose che non si erano
considerate ossia il fondo di
ammortamento e il fondo
imposte. Cioè nell’esempio di
prima non si era tenuto conto
degli ammortamenti dei bene
acquistati all’inizio oltre che del
fatto che a fine anno, le imposte
non erano state naturalmente
pagate perché non si sapeva bene
ancora quale fosse l’utile dell’impresa. Quindi c’è un meccanismo per cui in realtà le imposte non si pagano
tutte dopo ma si pagano in parte prima sulla presunzione di profitto (lo Stato chiede un’anticipazione delle
tasse perché lo Stato è sempre con l’acqua alla gola dal punto di vista finanziario e non può attendere che noi
facciamo i conti e poi paghiamo le tasse) e poi il saldo si pagherà l’anno successivo basandoci sui dati reali e
non presunti dell’utile lordo. Per quanto riguarda l’ammortamento esso compare sia nei costi del conto
economico dove rappresentare la quota annuale di decremento di valore dei beni (quota di ammortamento)
sia nello stato patrimoniale dove ovviamente le quote di ammortamento annuali si sommano (fondo di
ammortamento) e questo perché l’ammortamento va a ridurre il valore delle immobilizzazioni anno per anno.
Oggi l’ammortamento nello stato patrimoniale si porta direttamente a detrazione (segno meno) dell’attivo e
non più nel passivo.

ESEMPIO DI CREAZIONE DI IMPRESA 5/6

Alla fine del secondo anno vi sono


ulteriori voci perché inizia a
risultare un po’ di attività
commerciale (capitale circolante
dell’impresa). Il conto economico
alla fine del secondo anno è simile
a quello presentato alla fine
dell’anno 1 (slide precedente)
infatti anche qui abbiamo delle
vendite (ricavi) e dei costi e una
produzione che non è stata venduta
(rimanenze finali). Nei costi quali
sono le differenze rispetto al conto economico dell’anno 1? Le rimanenze iniziali (che sono i costi dell’anno
precedente che non ho considerato nell’anno precedente perché non avevo venduto i beni ma che ora
contabilmente considero perché quelle rimanenze le ho vendute) e gli oneri finanziari (sicuramente ho
chiesto dei prestiti e gli oneri finanziari sono dunque il costo di questo prestito ossia gli interessi che si
pagano sul debito). Quindi dato che ho chiesto 100 000 euro di prestito bancario (voce debiti bancari
presente nello stato patrimoniale passivo), pago un interesse annuo di 10 000 euro che è appunto il valore
dell’onere finanziario presente nei costi del conto economico.
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Per quanto riguarda l’attivo dello stato patrimoniale, esso risulta essere un po’ più elaborato e infatti in slide
ci viene mostrato la cassa, le rimanenze, il terreno, il fabbricato e gli impianti dove questi ultimi risultano
essere ancora al valore storico ma come detto, in realtà, oggi il valore degli impianti sarebbe riportato al
valore netto (storico meno ammortamento). Dunque vediamo che il fondo di ammortamento è raddoppiato
perché è cumulativo (in questo caso 30 della quota dell’anno precedente più 30 di quest’anno ne determinano
il valore di 60) e quindi il valore netto degli impianti alla fine del secondo anno risulta essere 300-60=260
(dunque è come se avessimo un automobile che andiamo a vendere dopo due anni e otteniamo 240 invece
che 300 perché l’abbiamo usata). Nell’attivo ci sono anche due voci del capitale circolante ossia del
commerciale classico (crediti vs. clienti e acconti a fornitori) e perché ci sono queste voci? E da cosa
dipendono? Perché i flussi finanziari non sono contemporanei ai flussi economici. Alla fine dell’anno 1, non
essendoci queste voci nello stato patrimoniale, avevo considerato l’ipotesi che tutta la merce venduta mi era
stata pagata e tutti i costi che avevo sostenuto gli avevo pagati mentre, durante il secondo anno, è successo
qualcosa di diverso sia sulle vendite che sui costi. Sulle vendite succede che noi vendiamo prodotti o servizi
e non ci pagano del tutto oppure per produrre e vendere, noi chiediamo addirittura degli anticipi (tipicamente
nelle produzioni per commessa avviene questo dove se dobbiamo ad esempio realizzare un aereo o una
semplice macchina utensile, chiediamo al committente un anticipo e questo perché è una produzione a lui
dedicata e cosi facendo siamo sicuri che questo non cambi idea cosi da farci piangere la produzione). I crediti
verso i clienti si riferiscono al fatto che noi abbiamo già venduto un prodotto o un servizio e al 31/12 non ci
hanno ancora saldato il conto (abbiamo ceduto il bene/servizio e non abbiamo avuto i soldi) mentre gli
acconti a fornitori, sono sempre un credito perché trovandosi nell’attivo dello stato patrimoniale, indicano il
fatto che noi azienda siamo nella posizione di aspettare qualcosa da qualcuno e quindi siamo nella posizione
di avere un diritto di restituzione da qualcuno. Gli acconti ai fornitori indicano dunque che noi abbiamo dato
un anticipo al fornitore ma questo non ci ha ancora consegnato la merce. Mentre per le imprese di
produzione queste voci sono quasi positive perché in effetti aumentano il capitale circolante e fanno vedere
che l’azienda ha qualcosa da riscuotere, per le banche queste voci non sono proprio positive almeno in
questo momento perché ad esempio i crediti verso i clienti, molto spesso, diventano inesigibili tanto appunto
da diventare sofferenze per le banche stesse.
Quindi prestiti o mutui che in passato sono stati dati dalle banche con una certa leggerezza soprattutto nel
mondo anglosassone, nel momento in cui non rientrano creano enormi problemi agli istituti di credito ed è
chiaro quindi che se sono crediti che diventano appunto inesigibili, il bilancio alla fine dovrà sopportare delle
perdite perché la riduzione di questi beni, si trasforma alla fine in una minusvalenza ossia in un costo per la
banca. Anche nel passivo dello stato patrimoniale abbiamo voci assolutamente speculari che sono gli acconti
dei clienti che stanno ad indicare che è l’impresa che è in debito verso i clienti perché ha ricevuto gli anticipi
e non ha ancora ceduto il bene o servizio e i debiti verso i fornitori, voce che rappresenta una delle principali
fonti di finanziamento delle aziende industriali. Le aziende infatti spesso si finanziano pagando i fornitori
dopo avere ricevuto i soldi dai propri clienti e quindi io azienda compro le materie prime, costruisco il
prodotto, lo vendo, incasso e poi pago i fornitori delle materie prime o dei componenti. Quindi generalmente
le voci più grandi del capitale circolante sono sia i crediti verso i clienti sia i debiti verso i fornitori. Poi vi
sono altre voci quali i debiti bancari che rappresenta un’altra fonte di finanziamento che non era presente alla
fine dell’anno 1 perché nell’anno precedente appunto, l’azienda era interamente finanziata dai propri soci a
differenza di questo secondo anno dove l’azienda si finanzia anche attraverso debito; quindi l’azienda ha
fatto una scelta di modifica della propria struttura finanziaria che discuteremo durante questo corso. Poi
possiamo vedere che il patrimonio netto si modifica nel senso che qui si accumulano i guadagni anno dopo
anno e quindi come si evince dalla slide, l’utile di esercizio in questo caso è 48 e questo si va a sommare
all’utile dell’esercizio precedente facendo crescere quindi il patrimonio di 48+18. In realtà l’utile
dell’esercizio precedente era maggiore e quindi che fine ha fatto la somma che manca? Vi sono stati dei
dividendi erogati ai soci ma nel bilancio questo non si nota perché nello stato patrimoniale eventuali
dividendi erogati ai soci non sono evidenziati in quanto lo stato patrimoniale è come detto una fotografia e
quindi come posso fare per capire se sono stati erogati dei dividendi ai soci? Attraverso il confronto fra due
stati patrimoniali successivi in modo tale da poter effettuare il delta.

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ESEMPIO DI CREAZIONE DI IMPRESA 6/6

Il flusso di cassa non è un documento


ufficiale del bilancio ma è un prospetto che
sempre più è riportato all’interno del
bilancio e che diventa, per quello che
abbiamo detto finora, un qualcosa di morto
importante per la finanza. Infatti se
abbiamo detto che per la finanza il bilancio
conta fino ad un certo punto dato che ciò
che conta è il cash, il flusso di cassa
proprio per questo motivo diventa
fondamentale. Ad esempio ci sono aziende
che fanno utili per anni ma se poi andiamo
a guardare i flussi di cassa di ogni anno,
essi risultano essere sempre negativi e
quindi ci chiediamo: “ E’ possibile che
un’azienda che fa utili tutti gli anni, ha flussi di cassa perennemente negativi e cioè che spariscano sempre
soldi invece che accumularsi?” Per dare una risposta bisogna analizzare il flusso di cassa a cominciare dagli
elementi da cui è costituito. Il flusso di cassa è la sommatoria fra entrate (+) e uscite (-) di denaro e cioè è un
prospetto che fornisce una visione solo ed esclusivamente di movimenti di denaro e non di voci economiche.
Se io faccio un guadagno il primo, il secondo e il terzo anno (sostanzialmente vendo cose che mi costano
meno, ad esempio compro a 10 e vendo a 12) come è possibile che alla fine possa trovarmi sempre meno
soldi? Questo può succedere ad esempio se io approfitto dei finanziamenti che ho dalle banche e li dò agli
azionisti ossia quando dò di più soldi agli azionisti di quelli che guadagno.
In modo un po’ più sano può accadere quando io azienda faccio degli investimenti e cioè io posso avere dei
guadagni ma proprio perché accade che ho sempre questi guadagni e proprio perché vedo l’attività sempre in
crescita, faccio degli investimenti per ingrandirmi sempre più e cioè spendo più di quello che guadagno
poggiandomi, in questo caso, ovviamente sulle banche perché non ho questo capitale. Ovviamente la mia
attività economica è prospera mentre dal punto di vista finanziario sto tirando fuori un sacco di soldi ogni
anno e dunque gli investimenti mi stanno erodendo sempre più liquidità (questa è la giustificazione più sana
al fatto che posso avere flussi di cassa negativi ogni anno pur con continui guadagni evincibili dalla presenza
di utili alla fine dell’anno). Nel nostro caso come si fa a fare un flusso di cassa? Semplicemente bisogna
guardare di tutte le voci che si hanno nel conto economico e nello stato patrimoniale, quali sono quelle che
generano flussi di moneta e di conseguenza quali sono quelli positivi che generano entrate e quali sono quelli
negativi che generano le uscite. Per esempio il primo anno ho come entrate il versamento del capitale sociale
e i ricavi delle vendite e questo ci fa capire che nel flusso di cassa vengono utilizzate voci sia del conto
economico che dello stato patrimoniale perché qui non è importante dove vado a mettere cosa ma
semplicemente le registrazioni di cassa. Quindi nel primo anno sono entrati 640 e sono usciti 574 (delle
imposte giustamente si scrive solo la parte che è stata versata in anticipo) e la differenza fra questi fa 66 che
è il valore della cassa e che deve essere uguale a quello che trovo alla voce cassa nello stato patrimoniale
attivo. Lo stesso avviene voce per voce il secondo anno e dunque, in definitiva, io con due stati patrimoniali
consecutivi e il conto economico di raccordo posso costruirmi il mio flusso di cassa. E’ chiaro che alcune
voci non sono esplicite ma le ricavo per differenza: ad esempio tipicamente i dividendi non sono dichiarati
ma poiché vedo che fra l’utile precedente ottenuto e l’utile dell’esercizio precedente esplicitato in bilancio vi
è una differenza, presumo che quella differenza sia dovuta ai dividendi. Nella slide c’è scritto alla fine del
secondo anno “valore finale cassa anno 2” pari a 130 ma il flusso di cassa del secondo anno è 64 (130-66)
perché se si considera solo il secondo anno, nel dare (+) non va considerata la cassa del primo anno. Nel
secondo anno abbiamo quindi un flusso di cassa pari a 64 contro un utile netto di 48, ma come è possibile
che il flusso di cassa sia superiore all’utile dello stesso anno? Bisogna andare a vedere nel flusso di cassa
quali sono i principali indiziati di questa cosa e da ciò che vediamo nella slide, si vede che questo è dovuto al
fatto che abbiamo contratto un prestito bancario e di questi soldi ricevuti, non ne abbiamo fatto un granché
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perché fondamentalmente li teniamo in cassa. Cioè non abbiamo fatto investimenti ma abbiamo finanziato la
gestione corrente in maniera più che abbondante e questa è una scelta che l’azienda può fare per avere
liquidità disponibile per necessità e rientra in una delle strategie di finanziamento possibile. Quindi al
prospetto del flusso di cassa durante il corso dedicheremo molta attenzione perché, ancora una volta, in
finanza ciò che conta è la cassa e in particolare questo vale anche per gli investimenti. Quando faccio una
valutazione degli investimenti che sono degli impieghi di risorse pluriennali, da un punto di vista economico-
finanziario li vado a valutare per il reddito che generano negli anni. Ma quale redito considero? Se io investo
un milione di euro per sviluppare un nuovo prodotto e voglio capire quanto e se mi conviene questo
investimento, come posso fare? Investo un milione e poi negli anni conto di vendere questo prodotto ad un
prezzo superiore di quanto mi costa e quindi avrò un profitto dalle vendite il primo, il secondo, il terzo e il
quarto anno ad esempio; devo quindi sommare i profitti e confrontarli con l’investimento inziale detto in
soldoni. Ma il profitto come lo calcolo? I profitti che io andrò a sommare ogni anno non sono gli utili netti di
ogni anno ma sono i cash flow (i soldi!) e questo perché non mi interessa nulla della politica fiscale di
ammortamento, delle valutazioni delle rimanenze ecc, cose che poi insieme alle altre voci mi andranno a
determinare gli utili netti di ogni anno ma mi interessa sapere esclusivamente dei soldi che entrano e di quelli
che escono. NB Quindi la valutazione degli investimenti si fa sul cash ossia sul flusso di cassa e questo
spiega il perché in finanza vi è una maggiore attenzione sui flussi di cassa piuttosto che sul conto economico,
sugli utili ecc . In finanza si fa questo perché c’è il problema dei criteri contabili che interferiscono, tra
l’altro, anche da Paese a Paese e quindi ovviamente creano una difficoltà di valutazione fra contesto e
contesto.

IL BILANCIO: STATO PATRIMONIALE

L’attivo dello stato patrimoniale è


fondamentalmente composto da due
grandezze ossia dalle immobilizzazioni
che costituiscono i beni durevolmente
legati alle attività dell’imprese e dal
circolante che costituisce l’insieme dei
beni o dei titoli che sono facilmente
liquidabili. In quest’ultimo quindi oltre
alla cassa, ai conti correnti, alle attività
finanziare semplici come titoli di credito
e titoli a breve termine, ci mettiamo
dentro anche i crediti commerciali
(qualcuno ci deve qualcosa) e le
rimanenze che come detto sono quella
valutazione dei costi sostenuti per beni
non ancora venduti. Tutte queste voci sono disposte in un modo che viene chiamato a liquidità crescente
dall’alto verso il basso. Nel passivo invece ci sono le fonti di finanziamento che sono di due tipi: le risorse
proprie dell’azienda ossia il patrimonio netto e le risorse di terzi ovvero i debiti. Le risorse proprie sono
costituite dal capitale sociale cioè quello a cui corrispondono dei titoli azionari (o delle quote nel caso dell’
S.r.l.) che sono in mano ai soci e da tutta una serie di voci che vengono fuori dall’utile dell’impresa (cioè se
l’impresa nasce e non fa mai un utile, probabilmente non fa nessuna di queste voci o meglio erode il capitale
sociale finché non si arriva alla chiusura dell’azienda stessa). Quindi quando un’azienda fa un utile questo va
in parte, anche proprio per motivi legali, ad arricchire il patrimonio netto in opportune riserve oppure è
l’impresa stessa che decide di mantenerlo in azienda come autofinanziamento e cioè come utili precedenti e
infine, un’altra parte dell’utile, viene erogata ai soci attraverso i dividendi. Tutte le altre voci presenti nel
passivo dello stato patrimonio sono debiti ossia questi beni vengono finanziati non soltanto attraverso risorse
proprie ma anche attraverso capitali presi in prestito. Da chi si prendono in presto i capitali? Attraverso le
obbligazioni ossia titoli emessi su mercato borsistico e quindi acquistati da enti, istituzioni finanziarie o
15
singoli risparmiatori che decidono di prestare del denaro all’impresa attraverso poi un piano di restituzione
con degli interessi secondo un sistema molto simile a quello dei BTP (buoni del tesoro pluriennali), dei BOT
(buono ordinario del tesoro) e dei titoli di stato e generalmente, questi sono dei debiti a medio-lungo termine.
Un altro debito a medio-lungo termine è quello delle banche (mutui o leasing anche se il leasing, che è un
contratto sostanzialmente di noleggio con previsione di acquisto del bene alla fine del noleggio stesso dove il
bene dunque rimane di proprietà dell’ente che noleggia , in realtà non viene riportato sempre in bilancio). Poi
ci sono i debiti di breve termine che sono i prestiti che l’azienda riceve e restituisce entro l’anno e che vanno
a comporre il passivo circolante. Dunque i debiti di breve termine sono il passivo circolante tant’ è che noi
parleremo di capitale circolante netto cioè l’attivo circolante al netto del passivo circolante (dunque attivo
circolante al netto dei debiti di breve termine). Tipicamente i debiti di breve periodo sono i debiti
commerciali cioè quelli verso i fornitori e clienti e i debiti di breve termine contratti con la banca che sono
forse il debito più rilevante perché la banca non fornisce solo prestiti a medio-lungo termine ma anche quelli
a breve che forse sono l’attività principale di queste. L’impresa non si finanzia solo pagando tardi i fornitori
ma si finanzia anche e soprattutto chiedendo anticipazioni alla banca, cioè ad esempio se io impresa ho una
commessa, con il contratto scritto posso andare in banca e chiedere un finanziamento per svolgere questa
commessa finché il cliente non mi paga. Le forme di finanziamento bancario di breve termine sono molte e
oltre a quella appena citata, troviamo l’anticipazione e lo sconto cioè quando noi azienda vendiamo qualcosa
ad un cliente con pagamento a 60/90 giorni e per questo motivo andiamo in banca e ci scontiamo la fattura
ovvero la banca ci paga al posto del cliente.
La banca quindi si prende un po’ di rischio ma naturalmente se lo fa pagare (interesse) e quindi noi in questo
rimaniamo debitori della banca per 2/3 mesi. Oppure un’altra forma di questo tipo di finanziamento è il fido
cioè lo scoperto di conto corrente; in questo caso la banca ci consente di andare in negativo sul conto
corrente e quindi di utilizzare soldi non nostri ma messi a disposizione dalla banca stessa ma anche qui, il
rientro deve avvenire nel breve termine. Fino ad ora abbiamo detto che il debito può essere commerciale
(verso clienti e fornitori) e bancario (a breve e medio termine) ma un altro debito è rappresentato dal fondo
del trattamento di fine rapporto (fondo TFR) dei dipendenti. Questa tipo di debito può avere un valore molto
elevato ed ha una voce dedicata nel passivo dello stato patrimoniale (ad es aziende grandi quali FCA,
Generali, Banca Intesa ecc, con questa voce finanziano un sacco di cose); se noi mettiamo insieme una
mensilità di ogni lavoratore per quarant’anni ad esempio, si arrivano a registrare cifre enormi in questa voce.
Poi ovviamente abbiamo un’altra voce che sono i debiti verso lo stato ossia le imposte che sono un’altra cifra
non trascurabile. Quindi l’azienda si finanzia sempre in due modi sostanzialmente cioè o attraverso i soldi
dei soci o attraverso dei prestiti ma chi eroga questi prestiti come abbiamo appena visto, sono diversi soggetti
(banche, mercato finanziario, stato, dipendenti, fornitori, clienti).

IL BILANCIO: CONTO ECONOMICO


Il conto economico qui rappresentato è in
forma scalare. Vi sono i ricavi che sommati
alla variazione delle rimanenze costituiscono il
valore della produzione. Se a questi andiamo a
sottrarre i costi della produzione ossia le tre
tipologie principali di costi quali acquisti,
personale e ammortamento, otteniamo l’utile
operativo. Poi vediamo tutta una serie di voci
che riguardano gestioni differenti e in
particolare la gestione finanziaria quindi i costi
ma anche i ricavi se l’azienda investe liquidità
in titoli (proventi e oneri finanziari) o se
l’azienda fa plusvalenze di carattere
patrimoniale oppure ancora di carattere
straordinario. Poi abbiamo infine le imposte
che determineranno l’utile o la perdita di
esercizio.
16
IL BILANCIO: RENDICONTO FINANZIARIO

Per ultimo abbiamo invece il rendiconto


finanziario ovvero il flusso di cassa che è
come precedentemente detto, la variazione
di liquidità ottenuta nel corso dell’esercizio.
Il flusso di cassa possiamo calcolarlo o in
modo diretto quindi registrando tutti i
movimenti di cassa che avvengono giorno
per giorno (se abbiamo un conto corrente
riceviamo ogni mese o leggiamo su internet
il saldo che si ottiene come differenza fra
entrate e uscite e questo altro non è che un
flusso di cassa) oppure da analisti, volendo
fare una valutazione, possiamo ricavare il
flusso di cassa dai documenti che abbiamo. Quindi in sintesi il flusso di cassa lo possiamo ottenere da tre
fattori;

 Cash flow operativo (flusso di cassa operativo): utile netto + ammortamenti e accantonamenti  è
sostanzialmente un derivato del conto economico perché alla fine il conto economico ci dice ricavi
meno costi che altro non è che una proxy di entrate meno uscite. Quindi decido di partire da qui
perché il mio primo flusso di cassa approssimato, altro non è che l’utile netto (naturalmente sto
considerando un conto economico annuale). Nel conto economico però ci sono anche dei costi
abbastanza rilevanti che in realtà non sono delle uscite di cassa: gli ammortamenti ad esempio sono
una ripartizione degli investimenti nei diversi esercizi ma dal punto di vista del flusso di cassa,
questo non funzione; per il flusso di cassa l’uscita di cassa è l’investimento iniziale e non gli
ammortamenti. Per cui quando voglio calcolare il flusso di cassa partendo dal conto economico e
quindi dall’utile netto, la prima operazione che faccio è considerare che l’utile netto è ricavi meno
costi dove fra questi costi ci sono anche gli ammortamenti che io, per ciò che abbiamo detto, devo
togliere motivo per cui vado a sommare gli ammortamenti all’utile netto (- ammortamenti e +
ammortamenti si semplifica). Questa operazione oltre che per gli ammortamenti va fatta per tutti gli
accantonamenti o fondi presenti nello stato patrimoniale (fondi per oneri e rischi, ecc) che sono dei
costi fittizi (costituiscono costi per il conto economico ma non sono uscite di cassa).
 Decrementi di attività (ad es. dismissioni) ed aumenti di passività (ad es. nuovi finanziamenti) il
secondo step prevede che al valore ottenuto dal primo step vi sia l’aggiunta (+) di riduzioni di
attività ossia vendite di immobili e (+) aumenti di passività ossia nuovi finanziamenti. A questo
punto dunque guardo lo stato patrimoniale e faccio il confronto fra i due stati patrimoniale che si
susseguono e mi accorgo ad esempio che un impianto che avevo prima non c’è più (vuol dire che è
stato venduto generandomi nuova cassa) e che ho avuto un nuovo finanziamento bancario (anche
questo mi genera cassa). Questo step in realtà non riguarda solo gli immobili o i grandi
finanziamenti ma riguarda anche l’attività commerciale e questo perché prima abbiamo parlato di
ricavi e costi ma sappiamo bene che a tutti i ricavi non corrispondono soldi contanti. Quindi cosa
devo aggiungere a questi ricavi? Devo aggiungere gli incassi relativi alle vendite dell’anno
precedente ossia gli aumenti o le riduzioni di crediti e debiti commerciali. In questo caso (secondo
step) devo aggiungere le riduzioni dei crediti commerciali (cioè se io l’anno scorso avevo che
dovevo incassare dai clienti una certa quota di denaro, quest’anno l’avrò incassata e quindi devo
aggiungere l’incasso dei crediti). L’incasso dei crediti sta a significare proprio un decremento di
attività commerciale. O viceversa nel conto economico, io ho una serie di acquisti ma gli ho pagati
tutti i fornitori? No, e questo vuol dire che sono aumentati i debiti verso i fornitori (aumenti di

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passività); quindi se nel conto economico ho considerato tutta una serie di pagamenti ai fornitori che
in realtà non ho ancora pagato, riaggiungo in questo step al valore proveniente dallo step precedente
ciò che non ho pagato ai fornitori. (questo mi ha fatto cassa perché il fatto di aver acquistato a
credito dei beni, naturalmente mi aumenta la cassa).
 Incrementi di attività (ad es. investimenti) e decrementi di passività ( ad esempio es. rimborso di
prestiti) Naturalmente vale il viceversa rispetto allo step precedente perché tutto quello che è
incremento di attività (quindi investimenti) mi va a ridurre la cassa. Allo stesso modo tutto ciò che è
riduzione di passività (per esempio restituisco i 100 000 euro che mi aveva prestato la banca) mi
costituisce una riduzione di cassa. Queste due voci dello step 3 vanno dunque sottratte al valore
proveniente dalla combinazione dello step 1 e 2 (fra i quali è stata fatta la somma).

Secondo questo semplice schema, voce per voce io mi arrivo a costruire in modo indiretto il flusso di cassa.
Quindi il flusso di cassa completo dell’esercizio, lo ottengo anche attraverso questo passaggio che
ricapitolando è: Partire dal conto economico e aggiungere e sottrarre le voci dello stato patrimoniale che mi
determinano un aumento o una riduzione della liquidità.

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10 Marzo 2015
In questa lezione ci occupiamo di una parte molto importante della Finanza. Inizieremo a parlare di teoria
del valore però in termini più tradizionale, cioè attraverso l’analisi di bilancio. Il metodo classico di
valutazione di attività economiche, come quelle di impresa, partono sempre dall’analisi di bilancio.
Ovviamente perché sappiamo che il bilancio è il documento principale dell’impresa, che ci dice un po’ di
tutto su quello che riguarda l’impresa stessa, come il resoconto delle sue attività economiche, ma anche la
fotografia dei suoi beni, delle sue fonti di finanziamento. I problemi dell’analisi di bilancio sono che il
bilancio non è scevro da discrezionalità. Però sicuramente un primo approccio importante alla valutazione
delle attività dell’impresa avviene tramite il bilancio.
L’analisi di bilancio non ha valutazioni standard, non definite da normative, a differenza del bilancio stesso
che è definito da delle norme. Si fanno anche attività di ricerca per capire quali sono gli indicatori che
possono far presupporre che un’azienda sia in difficoltà ad esempio.
Partiamo da un esempio e poi ci addentriamo nei
vari criteri di valutazione. Cominciamo dai dati
di sintesi. Quando si fa una valutazione, la prima
cosa che si fa è riclassificare le voci del bilancio,
nel senso di rendere quelle voci tendenzialmente
più sintetiche. Quando si fa una valutazione di
questo tipo, fondamentalmente si va a guardare
il Conto Economico (quindi l’attività
dell’impresa nell’ultimo esercizio) e lo Stato
Patrimoniale. Dato che però lo Stato
Patrimoniale è una fotografia, è buona norma
usare uno schema a due esercizi consecutivi che
ci faccia vedere la fotografia finale, quindi lo
stato dei beni e delle fonti di finanziamento a
Dicembre 2012, ma anche la fotografia iniziale,
che poi è quella finale dell’esercizio precedente.
Ad esempio abbiamo visto come le attività sono di due tipi, ovvero immobilizzazioni e capitale circolante.
Infatti nella slide sono riportate le principali voci dell’attivo. In questa slide abbiamo sintetizzato
l’ammontare dei beni dell’azienda. L’azienda è partita il 1 Gennaio 2012 con un totale attività di 1380,8 ed è
arrivata a 1450. Quindi c’è stato un incremento di 69,2. Questo incremento di attività viene scisso in due
parti, ovvero le due componenti fondamentali dell’attivo:

 Attività fisse o immobilizzazioni. Abbiamo visto che le immobilizzazione possono essere di tre
tipi cioè materiali, immateriali o finanziarie. In questo caso probabilmente sono tutte di tipo
materiale (impianti e attrezzature) che nell’anno aumentano di 70,5, riportando anche il valore di
detrazione dell’ammortamento, quindi di usura e obsolescenza di questi impianti che aumenta di
53,3. Per cui le attività fisse nette passano da 532,8 a 550 con un aumento di 17,2. Questo aumento
di 17,2 rappresenta gli investimenti. Dai dati si vede come l’azienda ha investito 70,5 perché non è
la differenza tra impianti e ammortamenti a dirci quanto l’impresa ha investito, ma ce lo dice
l’aumento delle immobilizzazioni al lordo degli ammortamenti, perché l’ammortamento è un costo
fittizio che non ha comportato nessuno costo reale, ma va solo ad intaccare il costo dell’immobile
dal punto di vista contabile. Quindi quello che si può dire è che gli investimenti netti (cioè
differenza tra quanto ho investito e quanto ha dismesso) sono 70,5, netto perché l’azienda avrebbe
potuto investire anche 200, ma potrebbe aver venduto altri beni per 130. Di solito però
l’alienazione degli immobili è abbastanza rara, per cui possiamo semplicemente pensare che
l’azienda ha investito 70,5.

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 Attività correnti. Queste sono passate da 848 a 900, aumentando così di 52. Questa variazione
rappresenta fondamentalmente i beni liquidi. Questa aumento deriva da un aumento della cassa, dei
crediti verso i clienti e delle scorte. Il fatto che sia aumentata prevalentemente la cassa è sempre un
aspetto positivo, perché un aumento del capitale circolante legato ad un aumento dei crediti e ad
una riduzione della cassa non è poi così positivo, come potrebbe sembrare. Se invece un aumento
delle attività correnti è legato soprattutto all’aumento della cassa è un fatto positivo.

Nel bilancio la voce “crediti” è riportata sia nelle immobilizzazioni che nell’attivo circolante, questo
soprattutto a causa del periodo di riferimento. In realtà sia i crediti presenti nell’attivo circolante sia i crediti
presenti nelle immobilizzazioni possono avere un periodo di riferimento che superi i 12 mesi (può sembrare
un po’ strano perché teoricamente abbiamo detto che nell’attivo circolante ci sono i beni liquidi, quindi con
una scadenza inferiore ai 12 mesi, mentre nelle immobilizzazioni abbiamo i beni a più lunga scadenza,
quindi con una scadenza superiore ai 12 mesi). Questo perché non bisogna valutare solo il periodo per
classificare un credito o nelle immobilizzazioni (attività fissa) o nell’attivo circolante (attività corrente). Ad
esempio se dilazionassi ai miei clienti il pagamento di un bene a 18 mesi, il credito non lo sposto nelle
immobilizzazioni perché comunque non si tratta di un investimento, ma resta nell’attivo circolante, perché la
sua natura sarà sempre quella di credito commerciale, in quanto ho semplicemente fatto una rateizzazione del
pagamento che mi andrà a superare, seppur di poco, il periodo di riferimento prestabilito. Quindi il credito
commerciale relativo alla vendita di un bene o di un servizio è comunque un’attività corrente anche se il
pagamento è posticipato oltre i 12 mesi, e bisognerebbe indicare a parte la quota che eccede i 12 mesi per
evidenziare al lettore che comunque non si riceverà il pagamento nel giro di pochi mesi. Viceversa, se ad
esempio l’azienda concede un prestito ad una impresa collegata (quindi ad una impresa del gruppo) per
l’acquisizione di un immobile, con un piano di restituzione triennale/quinquennale, quindi un prestito non
legato alla vendita di un prodotto o servizio ma un prestito legato ad un progetto di sviluppo, questo nella sua
natura è un credito che è orientato ad essere considerato una immobilizzazione. Anche questo prima o poi
arriverà ad essere riscosso dopo 6 mesi, ma probabilmente resterà una immobilizzazione. Quindi la cosa
fondamentale è la natura del credito, oltre che la scadenza.
La variazione del passivo tra il 2011 e il 2012 è uguale alla variazione dell’attivo, perché il totale attivo è
sempre uguale al totale passivo. Quello che ci
interessa vedere sono le due grandi voci del
passivo, ovvero il patrimonio netto e i debiti. Il
capitale netto è passato da 509,3 a 540, quindi
con un aumento di 30,7; quindi la variazione
delle passività (69,2) è determinata per quasi il
50% da un aumento di risorse proprie
dell’impresa, quindi è aumentata la
patrimonializzazione dell’impresa. Dalla slide
questo aumento di 30,7 del capitale netto non
possiamo dire con certezza che dipende tutto da
un aumento di utile d’esercizio, perché potrebbe
esserci stata anche una distribuzione dei
dividendi. Quindi teoricamente l’utile d’esercizio
dovrebbe essere maggiore di questi 30,7 a cui è
stata sottratta la quota di capitale devoluta in
dividendi. I debiti vengono suddivisi invece in
due categorie:

 Passività correnti che corrispondono ai debiti a breve termine. Questi debiti sono quelli che
devono essere estinti subiti, quelli per cui i creditori possono chiedere subito il rimborso. I debiti
a breve termine sono aumentati di poco, passando da 96,6 a 100, mentre i debiti verso fornitori
sono aumentati passando da 349,9 a 360. Il totale delle passività correnti è aumentata di 13,5.
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 Passività fisse che corrispondono ai debiti a lungo termine. Questi debiti sono quelli per cui non
si può chiedere subito il rimborso, e tipicamente sono gli azionisti in quanto non hanno nessun
diritto di chiedere la restituzione del capitale. I debiti a lungo termine sono aumentati un po’ di
più rispetto a quelli di breve termine, passando da 425 a 450.

Oltre queste due classificazioni, solitamente in debiti si scindono anche in debiti bancari. Dalle due
classificazioni di passività presenti nella slide, possiamo dire che le fonti di finanziamento sono pari a 1/3
(passività correnti), 1/3 (passività fisse) e 1/3 (capitale proprio).
Il valore di mercato del capitale netto è passato
da 598 a 708. Avendo lo stato patrimoniale
sotto mano il valore di una azienda lo
possiamo verificare dal suo patrimonio netto,
infatti uno dei primi metodi grezzi di
valutazione di una azienda è quello di
valutarne il suo capitale netto, perché
rappresenta la somma del valore di tutti i beni
posseduti ridotta dell’indebitamento, cioè
ridotta della quantità di denaro che l’azienda
deve restituire ai suoi creditori, che alla fine
corrisponderà ad una parte dei beni posseduti. Tendenzialmente questo sarà un valore minimo cioè quando
l’azienda è in buono stato. Questo poi lo si verifica dal valore di mercato, cioè se ad esempio l’azienda è
un’azienda quotata in borsa, questa ha delle azioni che vengono scambiate. Le azioni sono semplicemente le
quote del capitale sociale, quindi sono l’indicazione del valore del patrimonio netto a prezzi di mercato. Nel
2011 questa azione valeva 42,25 €, mentre a fine 2012 questa azione viene scambiata a 50 €. Per vedere il
valore dell’azienda basta moltiplicare il numero delle azioni per il relativo prezzo di mercato. Quindi in
realtà in termini di bilancio, il valore dell’azienda non è aumentato da 509,3 a 540 (valori presenti nella
precedente slide) quindi registrando solamente un aumento di circa il 6% (30,7 che è la variazione di capitale
netto fratto 540 che è il capitale netto nel 2012), ma in termini di valorizzazioni di mercato è aumentato di
circa il 15% (110 che è la differenza tra il valore di mercato del 2011 e del 2012, fratto il valore di mercato
nel 2012 pari a 708). Questa valutazione, che è differente dalla precedente stima contabile, ha una
controindicazione perché non possiamo essere certi che l’azienda valga 708, e quindi se volessimo comprarla
al 100%, il prezzo non sarà mai di 708 ma sarà nettamente più alto. A prescindere da tutto però, la stima è
abbastanza attendibile.
L’altra informazione importante è data dal capitale circolante netto che rappresenta la differenza tra le
attività correnti (cassa, crediti, scorte, ecc..) e le passività correnti (debiti a breve termine). È
un’informazione importante perché, dato che le passività correnti sono un valore che deve essere tenuto sotto
controllo visto che rappresentano gli esborsi che dovranno essere fatti a breve, è importante sapere che le
attività liquide sono in grado di coprire i debiti nel breve periodo. Se il capitale circolante netto è un valore
positivo, significa che siamo in grado di coprire i debiti nel breve periodo.

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Per quanto riguarda il conto economico è meno
importante avere due anni consecutivi di
riferimento, perché questo ci fa già vedere un flusso
che va dal 1 gennaio al 31 dicembre, quindi ci
descrive una attività lunga un anno. Per lo stato
patrimoniale invece è più importante avere due anni
consecutivi di riferimento per capire come si sono
mosse le attività e le passività. Nel conto economico
possiamo avere diverse riclassificazioni a seconda
dei valori intermedi che vogliamo ottenere. Al
fatturato abbiamo sottratto i costi operativi per
ottenere l’EBITDA (Earnings Before Interest, Taxes
Depreciation and Amortization), cioè il margine
operativo lordo (MOL) pari a 220. Se a questo
sottraiamo gli ammortamenti pari a 53,30 otteniamo
l’EBIT (Earnings Before Interest and Taxes) pari a 166,7. Se all’EBIT togliamo interessi e imposte
otteniamo il reddito netto che sarà pari a 74,5. L’incremento di reddito netto è nettamente maggiore rispetto
all’incremento di capitale netto.
Le fonti e gli impieghi rappresentano una
classificazione finanziaria che porta al
rendiconto finanziario. È un tipo di costruzione
particolare del rendiconto finanziario. Per prima
cosa l’utile netto lo andiamo a correggere con
quei costi che sono fittizi dal punto di vista
monetari, cioè costi che non corrispondo a
relative spese, quindi gli ammortamenti e gli
accantonamenti. Per cui dalla gestione
dell’attività operativa dell’azienda non abbiamo
guadagnato 74,5 ma dovremmo aver incassato
127,80 perché i soldi di quegli ammortamenti li
abbiamo spesi quando abbiamo fatto
l’investimento, quindi quando ad esempio abbiamo acquistato il macchinario, e non che li stiamo spendendo
adesso. Quindi dal punto di vista del flusso di cassa, in prima approssimazione, mi aspetto di avere uno
sbilancio positivo di 127,80 fra entrate e uscita dell’attività economica. In realtà sappiamo anche che quando
vendo i prodotti e/o i servizi non incasso subito, e che quando spendo per acquistare componenti non spendo
quel denaro subito. Avrò un certo lasso di tempo sia per incassare che per pagare, quindi dovrei correggere il
flusso di cassa operativo andando a considerare le eventuali dilazioni concesse ai clienti o le eventuali
dilazioni che mi sono state concesse dai fornitori. In realtà durante l’esercizio c’è un altro effetto, cioè che io
potrei incassare parte di quello che ho venduto l’anno prima o potrei pagare fornitori per le merci acquistate
l’anno prima. In tal caso sappiamo che la voce che tiene conto di queste differenze è l’investimento in
capitale circolante netto. Quindi piuttosto che fare uno scalare per individuare un flusso di cassa, in questo
prospetto sono semplicemente riportate le fonti da un lato e gli impieghi dall’altro. All’interno
dell’investimento in capitale circolante netto c’è anche la cassa, cassa che potrebbe essere aumentata o
diminuita. L’investimento in capitale circolante netto è un impiego, cioè è come se avessi messo soldi nel
capitale circolante netto. L’altro fattore da considerare che contribuisce al flusso di cassa è la variazione di
capitali, intesi come investimenti, immobilizzazioni e finanziamenti, quindi variazioni dello Stato
Patrimoniale. Le fonti sono gli aumenti di cassa, che da un punto di vista patrimoniale sono legati a nuove
fonti di finanziamento (aumenti di capitale, nuovi debiti intesi come prestiti ricevuti dalle banche). Viceversa
tra gli impieghi ci sono gli investimenti (se le immobilizzazioni crescono la cassa si riduce) e la restituzione
di capitale, sia alle banche (quindi a chi ci ha prestato quel capitale) sia agli azionisti sotto forma di
dividendi.
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Per esprimere una valutazione di questo bilancio,
di cui abbiamo già fatto delle considerazioni, in
maniera più approfondita lo si può fare attraverso
alcuni indici che ci vanno ad esprimere una
valutazioni di aspetti particolari. Gli aspetti che ci
interessano nella valutazione di una azienda, che
dipendono dal tipo di analisi che dobbiamo
effettuare, sono:

 Se siamo risparmiatori e vogliamo


acquistare una quota di una azienda per
guadagnare, ci interesserà vedere la redditività di
questa impresa; partire da quanto guadagna
l’impresa è sempre un buon punto di buon
partenza.
 Ci interessa anche vedere quanto questa impresa è valutata dal mercato. Noi possiamo renderci
conto che un’azienda è molto redditizia dal suo valore di mercato. Ad esempio se volessimo
acquistare la quota di una azienda che ci sembra redditizia, però andiamo sul mercato e vediamo
che il suo prezzo è valutato il doppio di quello che pensavamo, significa che questa azienda rende
esattamente la metà di quello che pensavamo, perché se compriamo il titolo al doppio di quello che
pensavamo vuol dire che guadagneremo la metà, perché così facendo divideremmo il guadagno di
quell’impresa per un investimento che è il doppio del valore che avevamo in mente. La redditività
dell’impresa e il suo valore di mercato possono essere diversi tra loro perché la redditività la
calcoliamo su valori di bilancio che sarà differente dalla redditività calcolata sui valori di mercato.
Se invece partiamo direttamente dai valori di mercato questo problema non si pone.
 Si considera anche il livello di liquidità perché la liquidità è un bene particolarmente importante in
certi momenti di mercato.
 Si considera quanto l’azienda è indebitata (leva finanziaria).
 Si considera anche quanto l’impresa è efficiente nelle sue attività.

Non esistono valori corretti degli indici, cioè quando vediamo un indice bisognerebbe fare delle valutazioni a
priori, non possiamo dire quale è il valore corretto di quell’indice. Ad esempio, se considerassimo il rapporto
di indebitamento, a priori non si può dire se quale deve essere un valore ottimo di indebitamento. Il tutto
dipende dalla situazione in cui ci si trova. Quello che si fa tendenzialmente è ragionare su vari fattori,
confrontando magari l’impresa con i suoi concorrenti, fare valutazioni del momento storico, perché ci
potrebbero essere momenti in cui l’indebitamento non lo usa nessuno, momenti in cui lo usano tutti,
momenti in cui ci sono tassi di interesse elevati o tassi di interesse bassi.
Non esiste una definizione unica di
indebitamento, però il concetto è
chiaro. In questi due rapporti si
considerano prevalentemente i debiti
a lungo termine, non considero né al
numeratore né al denominatore quelli
a breve.

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Posso anche considerare i debiti a
breve termine; in particolare il primo
rapporto di indebitamento che
vediamo nella slide a sinistra
rappresenta il rapporto tra totale
debiti sul totale delle passività.
Purtroppo questo è solo uno dei
metodi con cui si esprime
l’indebitamento. Queste due forme di
indebitamento si utilizzano
soprattutto in Italia dove nella
maggior parte dei casi, i debiti a breve termine rappresentano una fonte di finanziamento. Questi quattro
sono tutti indici che sono espressione di un rapporto tra le voci di finanziamento da debito e, o il totale delle
fonti o la parte di capitale proprio. Quindi rappresentano di quanto l’azienda si finanzia dall’esterno. Questi
vengono detti indici di leva finanziaria.
Poi ci sono altri indici di leva
finanziaria, come l’indice di
indebitamento totale che include tutte
i tipi di debito, quindi considerando
anche il passivo corrente, fratto il
totale delle attività (o delle passività, è
la stessa cosa). Poi ci sono altri due
indici che possono essere utilizzati
che non guardano tanto il rapporto di
indebitamento, ma sono strettamente
correlati al discorso
dell’indebitamento. Questi indici sono
utilizzati in particolar modo dai
finanziatori, cioè ad esempio dalle
banche o dalle fonti di finanziamento.
Questi indici guardano la copertura degli interessi, cioè se decidono di finanziarci la nostra azienda vogliono
in qualche modo assicurarsi che i flussi finanziari riescono a coprire gli interessi che dobbiamo pagare,
quindi in questo caso non sono rapporti tra le voci dello stato patrimoniale, ma rapporti tra voci del conto
economico, come ad esempio l’utile operativo sugli oneri finanziari (a cui si può aggiungere anche la quota
capitale cioè il pagamento delle rate; la rata di un mutuo è composta da due parti, una per il pagamento degli
interessi e una per la restituzione del capitale). Le banche vogliono sapere quant’è l’utile al servizio del
debito, quali sono i margini che l’azienda ha per ripagare non solo gli interessi ma anche la restituzione del
capitale. Quindi in definitiva, l’utile deve essere grande abbastanza per poter rimborsare il capitale. Anche
queste valutazioni sono importanti.
Poi ci sono gli indici di liquidità. In
precedenza abbiamo visto il capitale
circolante netto che era la differenza tra
attivo corrente e passivo corrente. Lo stesso
concetto lo possiamo esprimere come
rapporto tra attività correnti e passività
correnti. Questo rapporto definisce il
current ratio. Questo rapporto deve essere
molto maggiore di 1. Se il current ratio
fosse pari a 1,2, non è molto buono come
valore perché all’interno c’è anche il

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magazzino, ci sono i crediti verso i clienti, cioè è vero che sono attività correnti liquide, ma se la cassa fosse
pari a 0, quindi il valore delle attività correnti fosse dovuto solo al magazzino e ai crediti verso i clienti, non
è molto positiva come cosa. Quindi possiamo considerare altri indici in cui aumenta la prudenza. Ad esempio
nel quick ratio o acid test è escluso il magazzino. Avere un acid test maggiore di 1 è sicuramente una
ulteriore garanzia sul fatto che le attività correnti sono superiori alle passività correnti. Addirittura poi
possiamo considerare un altro indice, cash ratio, in cui andiamo ad eliminare anche i crediti verso i clienti.
Tutta questa analisi sulla liquidità rappresenta un focus importante. Quando ad esempio una azienda non è in
una situazione florida, bisogna considerare con molta attenzione tutti gli aspetti della liquidità, perché questi
sono quelli che fanno rischiare di più l’impresa, non tanto l’indebitamento.
Si può anche valutare qualche aspetto
dell’efficienza operativa e commerciale delle
imprese, andando a considerare i cosiddetti indici
di efficienza. Tra questi possiamo avere la
rotazione delle attività dato dal rapporto tra i
ricavi e le attività medie totali. Questo indice da
l’idea di quanto un certo ammontare di beni
immobilizzati nell’azienda determini un fatturato,
quindi un’attività economica importante. Poi
abbiamo la rotazione del capitale circolante che
è dato dal rapporto tra i ricavi e il capitale
circolante netto medio. Rappresenta la quota di
attivo “immobilizzata” nel capitale circolante
(quindi nelle scorte, nei crediti, ecc.). Altre rotazioni sono dovute all’efficienza, all’utilizzo di capacità
produttiva e al fatto di avere generalmente attività ad alti volumi con margini di prodotto relativamente bassi,
quindi ad attività standard. Si considera il capitale circolante netto medio perché il numeratore è un numero
che deriva dal conto economico, quindi da un esercizio, mentre il denominatore invece è un dato istantaneo,
quindi se io confronto un dato che matura lungo un certo periodo di tempo con un dato istantaneo, non saprei
quale dato istantaneo andare a considerare, per questo motivo prendo i due dati dallo stato patrimoniale e
faccio la media (attività iniziale più attività finale diviso 2).
Altri indici di efficienza interessanti
sono gli indici di rotazione delle
scorte e di periodo medio di
pagamento. La rotazione delle scorte
anche in questo caso è il rapporto tra
un valore di conto economico ed un
valore di stato patrimoniale. È dato
dal rapporto tra i costi dei prodotti e
quanto in media ho in magazzino.
Questo indice è buono quando è
elevato, perché significa che il
magazzino si rinnova molto
frequentemente. L’inverso di questo
indice ci da la durata delle scorte.
Questo indice è tanto più buono
quanto più basso è, perché significa
che non immobilizzo capitale. Lo
stesso ragionamento lo posso fare
anche con altri due fenomeni commerciali che sono le vendite e gli acquisti. Dal bilancio, posso calcolare
qual è il periodo medio di incasso, dato dal rapporto tra crediti medi (crediti iniziali più crediti finali diviso
2) sulle vendite giornaliere (diviso 365 se voglio il dato in giorni). Da questo dato posso capire qual è la
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dilazione media concessa dall’azienda. Questo indice è tanto migliore tanto più basso è. In modo equivalente
rapportando i debiti verso fornitori medi (debiti iniziali più debiti finali diviso 2) agli acquisti giornalieri
(diviso 365 se voglio il dato in giorni) per avere il periodo medio di pagamento. Questo indice invece è tanto
migliore quanto più alto è.
Un’azienda può anche non avere grandi margini di prodotto o di servizio, ma può avere una ottima gestione
finanziaria dei pagamenti, cioè se io riesco mediamente a incassare a 30 giorni e a pagare a 90 giorni, riesco
a fare un bel po’ di soldi, riesco a non finanziarmi dalle banche, quindi non pagare oneri finanziari, riesco ad
avere la cassa sempre piena. Sono valutazioni gestionali molto importanti.

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11 MARZO 2015

Nella lezione precedente abbiamo visto come dai dati di bilancio è possibile risalire all’efficienza operativa
dell’impresa (indici di efficienza), in particolare per quanto riguarda gli indici di rotazione (del capitale, delle
scorte dei pagamenti e degli incassi). Gli indici più importanti riguardano la redditività dell’impresa

INDICI DI REDDITIVITÀ
Gli indici di redditività sono tanti, per esempio,
come vediamo dalla slide abbiamo:

Redditività delle vendite (ROS=return on


sales); esso viene calcolato come rapporto tra
utile operativo privato delle imposte (in pratica
utile operativo prima degli oneri finanziari) e
fatturato. Possiamo anche considerarlo con le
imposte, l’importante è confrontare gli indici in
maniera omogenea, quindi se confronto gli
indici di diverse imprese devo considerarlo
nella stessa maniera.
È possibile rappresentare ogni voce del conto
economico in percentuale rispetto alla prima
voce (quindi in % rispetto al fatturato).
Nell’esempio precedente avevamo ricavi per
20MLN di €, poi avevamo variazione delle rimanenze 1 MLN €, costi della produzione 1 MLN €. Ciascuna
di queste voci, può essere espressa in % rispetto al fatturato, quindi la variazione delle rimanenze sarà il 5%
del fatturato (1/20=0.05).
Questi indici sono molto simili infatti il ROS è la percentuale di utile operativo a fronte di una determinata
vendita. Quindi il ROS rappresenta la quota di margine di guadagno rispetto a quanto ho incassato.
Il ROS, confrontato fra diversi settori, ci esprime le diverse marginalità dei diversi prodotti. È chiaro che uno
si immagina che dove le vendite sono molto grandi, la marginalità risulterà bassa (in quanto i soldi si fanno
sulle quantità vendute e non sul singolo prodotto). Mentre, dove è importante la personalizzazione, la vendita
su commessa, ci si immagina che a fronte di fatturati più bassi ci sia una marginalità più elevata.
Quindi il ROS esprime la marginalità del singolo settore.
Il ROI (o anche ROA return on investments o assets) esprime la redditività delle attività. In questo caso il
denominatore esprima la totalità dei beni impiegati dall’azienda(non esprime le vendite). È dato dal rapporto
tra l’utile operativo privato delle imposte diviso per il totale dei beni (totale attivo). Quindi a fronte di un
determinato insieme di beni (quindi capitale investito, tot.attivo) qual è la redditività di questo capitale? Lo
vedo dal ROI. Il motivo per cui consideriamo l’utile operativo e non l’utile netto è dettato dal fatto che se
consideriamo tutti i beni, considereremo indifferentemente le fonti di finanziamento. L’effetto delle fonti di
finanziamento sull’utile si misura su che voce? Se io ho un’azienda con un certo ammontare di beni, questa
azienda può essersi finanziata in due modi, o con capitale proprio o con capitale di credito (per esempio). Per
queste due fonti di finanziamento il ROI sarebbe diverso, a parità di altre circostanze? NO!!!! No perché
l’utile operativo non risente delle fonti di finanziamento, in quanto l’utile operativo è dato dai ricavi – costi
di produzione. Nell’utile netto noi avremmo questa distinzione in quanto, nell’utile netto, compaiono gli
oneri finanziari (che nel caso di finanziamento con capitale proprio sarà pari a zero menntre nel secondo caso
avrà un valore maggiore di zero). Per questo si dice che il ROI è spesso usato dagli ingegneri per misurare la
redditività di un settore, indipendentemente dalle fonti di finanziamento.
Il ROE (return on equity) è l’indice che interessa maggiormente l’azionista. Risponde alla domanda, se io
sono diventato un’azionista, quanto guadagnerò? Il guadagno (nel caso dell’azionista) è un interesse generato
dall’impresa per l’azionista. In tal caso il guadagno dell’azionista non lo vedo dall’utile operativo, in quanto
quest’ultimo serve a remunerare varie fonti di finanziamento (debiti, azionista ecc). Quindi il ROE è l’indice
di redditività dell’azionista (cioè del proprietario) ed è dato dal guadagno dell’azionista e il capitale da lui
apportato (o il suo capitale di riferimento).
Ripetiamo i tre indici, il primo (ROS) esprime un margine di guadagno rispetto a quanto il bene viene
venduto (vendo a 10 e guadagno 1, vendo a 15 e guadagno 2, ovviamente considero valori medi perché
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nessuna azienda vende un solo prodotto); il secondo esprime una redditività del business, tipicamente i ROI
di aziende dello stesso settore sono simili anche se non uguali; il terzo esprime la specifica redditività
dell’impresa per l’azionista (per cui anche due aziende come Coca Cola e Pepsi cola che appartengono allo
stesso settore possono avere ROE diverso).

INDICI CHE CONSIDERANO I DIVIDENDI

Esistono anche altri indici che considerano i


DIVIDENDI, come:

il rapporto di distribuzione degli utili che è


dato dal rapporto tra dividendi e utile, è
chiamato payout ratio, ovviamente questo
indice dovrà essere minore di 1. In realtà
bisogna vedere se gli utili e i dividendi si
riferiscono allo stesso periodo, in quanto ci sono
alcune aziende che riescono a distribuire
dividendi anche quando gli utili sono negativi.
Però tipicamente questo indice viene considerato
minore di 1, in quanto questo rapporto si
riferisce ad una politica di medio periodo, cioè ci dice qual è la quota (dei propri utili) che tipicamente
l’azienda destina ai propri azionisti.
Mentre, per sapere qual è la quota che l’azienda destina al reinvestimento dobbiamo vedere il PLOWBACK
RATIO (tasso di ritenzione degli utili), esso è dato dal rapporto tra la differenza tra gli utili e i dividendi
diviso per gli utili.
Ovviamente i due indici sono collegati infatti basta conoscere uno dei due per conoscere l’altro (basta fare 1-
payout oppure 1-plowback).
L’aumento del capitale netto da ritenzione degli utili rappresenta l’aumento di capitale a seguito della
ritenzione degli utili (non a seguito degli utili), cioè al netto di quanto viene erogato agli azionisti (mediante i
dividendi).

INDICI DI VALORE DI MERCATO

Esistono degli indici che vanno a considerare i valori di mercato (non i dati di bilancio). Quindi considera il
valore delle azioni. Dal valore
dell’azione si possono ricavare una
serie di indici, per esempio il rapporto
tra il prezzo dell’azione e l’utile per
azione. Il prezzo dell’azione, rispetto
al bilancio, rappresenta il patrimonio
netto (a valore di mercato) diviso il
numero di azioni. Il prezzo dell’azione
quindi è una stima del patrimonio
netto. Per questo motivo potremmo
paragonare tale rapporto ad un ROE al
contrario (quindi al reciproco del
roe=utile/prezzo). Ovviamente tale
rapporto sarà un multiplo (2,5,10
volte), non parliamo più di rendimento,
quindi non abbiamo più valori in
percentuale.
Perché lo utilizzano? Perché esso ci dice quante volte il mercato sta sovraprezzando un’azione. Se io compro
un’azione con un rapporto prezzo utile con un rapporto prezzo su utile pari a 100 vuol dire che stiamo
acquistando un titolo che ci fa guadagnare l’1%. Attenzione parliamo di guadagni di utile non di dividendo,
quindi probabilmente il guadagno del dividendo sarà lo 0.3%. Questo indicatore ci indica la stima, che fa la
comunità finanziaria, sul percorso di crescita dell’azienda. Spesso i valori di borsa scontano il percorso
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futuro dell’azienda. Se seguiamo i mercati borsistici, a volte nonostante l’economia stagnante, i valori di
borsa schizzano, questo avviene perché i valori di borsa si basano su previsioni future. Quando siamo in
periodi di crescita economica a volte i valori di mercato diminuiscano, perché scontano il fatto che le
previsioni non sono buone. Per questo si dice che la borsa anticipa.
Altri tipi di indici sono il rendimento (o tasso) del dividendo, che è dato dal rapporto tra il dividendo per
azione e il prezzo dell’azione. Questo rappresenta il vero rendimento quando andiamo a comprare il titolo.
Se compriamo il titolo di Fiat-Chrysler (15€), se il dividendo si aggira sui 75 centesimi, sappiamo che ci sta
dando un rendimento del 5%, cioè per ogni azione che compro guadagnerò il 5%. (La prossima slide la
salta).
Il rapporto tra valore di mercato
e valore contabile è dato dal
rapporto tra il prezzo dell’azione e
il valore contabile dell’azione, che
non è il valore nominale
dell’azione infatti non è più
capitale sociale diviso il numero di
azioni, ma patrimonio netto diviso
il numero di azioni. Quindi
incorpora anche le riserve e gli
utili che sono stati accumulati negli
anni. Questo rapporto non deve
essere assunto come un valore di rendimento, bensì come un confronto fra una stima del mercato e il valore
contabile da bilancio delle azioni (patrimonio netto diverso numero di azioni).
Nel nostro esempio vedremo i principali indici, bisogna fare attenzione ai dati che leggiamo perché, per
esempio, se leggiamo che abbiamo fatto un utile di 1 milione di € a fronte di 2 milioni di € di fatturato,
questo sarà positivo perché vorrà dire che abbiamo un ROS del 50% (eccezionale), ma se il fatturato fosse di
10 miliardi e l’utile fosse di un milione, vuol dire che non abbiamo fatto benissimo. Inoltre se il capitale in se
per se fosse di 10 miliardi con un utile di 1 milione vorrebbe dire un ROE praticamente nullo (cosa
estremamente negativa).
Lo stesso vale per gli indici, c’è sempre bisogno di fare un confronto.
Vediamo i valori del nostro caso dell’executive paper.

INDICI EXECUTIVE PAPER


Per quanto riguarda gli Indici di
indebitamento, già dalla scorsa
lezione ci eravamo accorti che
l’indebitamento era circa i due
terzi dell’indebitamento
complessivo dell’azienda. Di
questo indebitamento,
distinguevamo 1/3 riconducibile
al breve periodo, 1/3 al medio
lungo periodo e 1/3
riconducibile all’indebitamento
totale.
Qui non vediamo come viene
calcolato il rapporto di
indebitamento, probabilmente
viene calcolato con il metodo di
esclusione dei debiti a breve
(quindi rapporto tra debiti a
lungo / debiti a lungo+capitale netto)
La media dell’indebitamento medio del settore è più elevato rispetto all’indebitamento dell’executive paper.
Quindi l’azienda è meno indebitata rispetto la media del settore, a favore di tale tesi ci viene incontro il
rapporto tra debiti ed equity (più basso rispetto alla media del settore cartario).

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Coefficiente di copertura di interessi dell’azienda presa in considerazione è doppio rispetto alla media del
settore, quindi le banche probabilmente “fanno a pugni” per cercare di finanziare questa azienda.
Gli indici di liquidità: il current ratio è ben saldo (pari a 2), anche l’acid test è superiore ad 1 e sono entrambi
superiori (di molto) rispetto la media del settore. Per esempio l’acid test del settore è inferiore ad 1 quindi la
situazione non è molto tranquilla. Il cash ratio (che è il rapporto della cassa, dei beni liquidi) dell’azienda
(0.2) è 4 volte superiore rispetto alla media del settore (0.05).
I quozienti di mercato: il rapporto prezzo-utili dell’azienda (9.5) è più basso della media del settore (13.8),
quindi il titolo rispetto alla media del settore è più conveniente. Il tasso di dividendo dell’azienda è 6.2%
rispetto alla media del settore che è 0. Il rapporto tra valore di mercato e valore contabile dell’azienda è più
basso rispetto alla media di settore. Quindi da questi dati sembrerebbe che valga la pena comprare il titolo
dell’azienda. Naturalmente i fattori di acquisto dipendono anche da altri dati, come i fattori di governance, da
quanti sono i titoli disponibili sul mercato (perché l’azienda può far quotare solo una parte del capitale ad
esempio fa quotare solo il 20% e il restante 80% se lo tiene per se).
Quando il potere di controllo diminuisce l’appetibilità dei titoli cala.
Anche i quoazienti di
efficienza sono a favore
dell’azienda rispetto la media
del settore infatti la rotazione
delle attività totali dell’azienda
è maggiore rispetto quella della
media del settore, la rotazione
delle scorte è più o meno
simile (leggermente maggiore
quella del settore), l’elemento
negativo dell’azienda è il
periodo medio di incasso che è
molto più elevato rispetto alla
media del settore.
I quozienti di redditività:
l’azienda ha un ROS più basso
rispetto alla media del settore,
quindi l’azienda ha una politica
di minori margini sulla vendita, il ROI è molto elevato (stranamente), probabilmente l’azienda avrà dei
fattori tecnologici o di produzione che fanno aumentare il ROI rispetto al settore. La redditività dell’equity
dell’azienda è molto più alta del settore cartario, e la distribuzione degli utili dell’azienda è anche essa più
alta rispetto alla media del settore.
Quindi abbiamo una serie di dati, anche di confronto rispetto al settore, per poter valutare l’azienda.

IL SISTEMA DU PONT
L’ultima cosa che vediamo è il sistema di
scomposizione del Roi o Roa e del Roe.
In particolare il Roi o il Roa può essere
scomposto come vediamo nella slide.
Il ROI è dato dalla redditività delle vendite
(ossia il Ros) x la rotazione delle attività.
Nel caso dell’executive paper il Roi era
parecchio più elevato rispetto al roi medio
del settore, ma questo dipende dalla
redditività elevata o dal fatto che l’azienda
ha un’ottima rotazione del capitale (cioè ha
investito poco nel suo volume di affari)?
Dipende dalla rotazione in quanto la
marginalità era più bassa rispetto al settore,
quindi questa azienda investe poco in beni rispetto al volume di affari generato. Quindi probabilmente le

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aziende del settore sono aziende di vecchia data che hanno investito molto in beni; mentre quest’azienda è
più dinamica, più moderna che ha fatto investimenti mirati (nuove tecnologie ecc) grazie ai quali riesce ad
avere una maggiore redditività anche senza avere una marginalità di guadagno elevata.
Il Roe può essere scisso nel prodotto tra una
componente delle fonti di finanziamento
(possiamo considerare l’equity o il debito, in
questo caso nella slide abbiamo considerato
l’equity, ovviamente il debito è il
complementare), e una componente che
considera il totale del finanziamento o il totale
dei beni che corrisponde all’inverso di un
indice che si chiama indipendenza finanziaria
(dato dal rapporto tra patrimonio netto e totale
delle passività o attività) per il Roi. Quindi
Leva Finanziaria
per il Roi (che
possiamo
scomporre come
abbiamo visto
prima) per un
ultimo fattore che
è un rapporto tra
utili (al
numeratore
abbiamo l’utile
detratto degli
oneri finanziari
diviso l’utile
operativo meno le
imposte). Quindi
il Roe, che nel
nostro caso
corrispondeva al
12%(valore
elevato), può essere determinato da una serie di fattori, il primo fattore che ci viene in mente è il ROI, anche
intuitivamente se un’azienda ha un alto ROI ha un’alta probabilità di guadagnare. Quindi c’è diretta
proporzionalità tra Roi e Roe, quindi più alto è il Roi più alto sarà il Roe. La proporzionalità tra Roi e Roe
viene amplificata dalla Leva Finanziaria, cioè dall’indebitamento, perché se l’azienda decide di indebitarsi
maggiormente, il rapporto attività/equity aumenta in quanto se aumentano i debiti aumentano le passività se
aumentano le passività aumentano anche le attività (ricordiamo che passività=attività) mentre l’equity rimane
costante. Avviene quindi un effetto leva sul Roe.
Da questo ci accorgiamo che l’azionista guadagna di più se l’azienda si indebita maggiormente.
Vedremo più avanti se conviene indebitarsi o meno.
L’ultimo fattore che è dato dall’utile netto più gli oneri finanziari è inversamente proporzionale ad un altro
indice di redditività (ROD) che non abbiamo citato, (indice di chi presta i soldi all’azienda) cioè il guadagno
delle banche o degli obbligazionisti o di chiunque presta i soldi all’azienda. Questo indice è dato dal rapporto
tra gli oneri finanziari/debito, se io faccio un debito di 2 milioni di euro, e devo pagare un interesse di 100
mila € vuol dire che sto pagando un interesse (cioè un ROD return on debts) del 5%.
Dato che questo rapporto (cioè l’ultimo fattore che stiamo considerando) è inversamente proporzionale al
ROD (cioè al costo del debito), succede che se il ROD è molto alto il ROE diminuisce. Quindi se il costo
del denaro è molto alto la rendita dell’azionista diminuisce. Se il costo del denaro diminuisce, a parità di altri
fattori, il ROE aumenta. Quindi il costo del denaro e il rendimento dell’azionista sono inversamente
proporzionali, vi suona questo? Certo che ci suona, basti pensare all’utile operativo. Ipotizziamo che
l’azienda guadagni 1 milione di €, a chi vanno questi soldi? Principalmente va a finire a tre soggetti, al
finanziatore, allo stato (tramite le tasse), l’azionista. Lasciando perdere lo stato, guardiamo gli azionisti e i
creditori cioè le banche, se il costo del denaro aumenta, l’azionista prende di meno e viceversa. Quindi un
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ROE elevato può dipendere innanzitutto dal ROI, che a sua volta dipende dalla rotazione delle attività e dalla
redditività delle vendite, poi dipende da due fattori l’indebitamento e il costo dell’indebitamento. Quanto più
è basso il costo dell’indebitamento tanto più all’azienda conviene indebitarsi (ed espandersi), in quanto i suoi
guadagni vanno in minima parte a remunerare i finanziatori e in massima parte a remunerare gli azionisti.
Quindi il ROE (guadagno dell’azionista) aumenta quanto più l’azienda si espande attraverso l’indebitamento
(ovviamente se il costo del denaro è basso). Oggi il costo dell’indebitamento è tra i più bassi registrati nella
storia.
Se i tassi e il costo del denaro aumentano ovviamente l’utile operativo erogato viene “mangiato” dal costo
del denaro, quindi l’azionista guadagna sempre meno. Esiste un punto in cui l’indebitamento è sfavorevole,
cioè all’aumentare dell’indebitamento, l’azionista inizia a perdere. Questo è il momento in cui il ROD è
maggiore del ROI. Immaginiamo se io pago più di oneri finanziari di quanto guadagno come redditività
operativa è chiaro che l’azionista ci viene a perdere.
Ricordiamo l’effetto leva, se il ROI è maggiore del ROD, il ROE cresce all’aumentare del debito, quindi
l’Ebit cresce più degli interessi passivi, quindi agli azionisti va il margine di guadagno.

Ora fa vedere in una slide non presente sul climeg i 40 principali titoli di azioni quotate in borsa italiana
MIB40. A maggior capitalizzazione significa che il loro valore è maggiore tra titoli della borsa italiana.
Come si calcola il valore dell’azienda? Si moltiplica il prezzo del titolo per il numero di azioni. Viceversa
per conoscere il prezzo dell’azione basta dividere il valore di capitalizzazione per il numero di azioni. La
maggior parte di questi titoli sono di banche, poi c’è Generali, Fiat, Enel, LUXOTTICA.
L’anno scorso i vostri colleghi fecero un’esercitazione su LUXOTTICA, titolo da 55€. Questo in teoria non
vuol dire niente, ma in pratica vuol dire che è un buon titolo, lo stesso possiamo riscontrare sui titoli di Coca
Cola, Pepsi, Microsoft, mentre se vediamo altri titoli come quello di Monte Paschi sono molto più bassi 0.52
€. In genere un’azione sono valori dell’€uro o 10€. Ovviamente dipende tutto dal numero di azioni che
un’azienda ha.
Ora parte l’esercitazione sui casi Campari-Ferragamo.
Su quale azione dovremmo investire ad esempio 1000€?
Dai dati possiamo notare che sono due buone imprese, Campari è più grossa di Ferragamo (in realtà
l’azienda Campari che abbiamo sui casi è solo una mini porzione della multinazionale, e nonostante questo
risulta leggermente più grossa, totale passivo di Campari è più grosso), l’azienda che guadagna di più (che
quindi ha un conto economico maggiore è Campari). Campari è più grande, quindi ha più investimenti quindi
minore utile, se facciamo un rapporto tra utile ed investimento o utile e patrimonio il risultato è vicino al
10% per Campari; Ferragamo ha un utile minore ma ha è molto più piccola come azienda rispetto a Campari,
infatti il patrimonio di Ferragamo è circa 1/6 rispetto a Campari. La cosa più sorprendente è il patrimonio
netto di Ferragamo ha valori confrontabile con quelli dell’utile (100 milioni di guadagno 280 milioni di
patrimonio netto, mentre Campari ha circa 150 milioni di utile e 1 miliardo di patrimonio netto).
Quanto vale per la borsa Campari? 3.7 miliardi (con un patrimonio di 1 miliardo).
Quanto vale per la borsa Ferragamo? 4.7 miliardi (con un patrimonio di meno di 300 milioni)
Questa azienda ha una plusvalenza del 30% di utile sul patrimonio. Avendo un valore alto avrà una
redditività per azione bassa (5% circa). A cosa è dovuto questo? Ai guadagni che fa Ferragamo, inoltre
questa azienda distribuisce tutti i suoi guadagni agli azionisti, ogni anno. Lo notiamo dai dati in bilancio.

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18 Marzo 2015
La pianificazione finanziaria è una delle attività che fanno capo al direttore finanziario dell’azienda ed è
un’attività sicuramente abbastanza importante. Parleremo di flusso di cassa e, in particolare, vedremo come il
flusso di cassa serve per effettuare una programmazione delle risorse finanziarie soprattutto a breve termine e
quindi parleremo di budget di cassa. Il budget di cassa per chi ha fatto controllo di gestione suona un po’, nel
senso che in controllo abbiamo visto
l’importanza del budget nella gestione
dell’impresa però abbiamo parlato soprattutto di
budget operativo, quindi di budget costi e ricavi;
nel master budget c’è anche un discorso di
budget degli investimenti e budget di cassa che
sono due argomenti più tipicamente finanziari,
ma che confluiscono comunque nel budget
annuale che viene fatto dall’impresa.
La pianificazione finanziaria comunque non è
solo una programmazione di breve terimne, è
anche una pianificazione di lungo termine e, in
particolare, pianificare nel lungo termine
significa sostanzialmente decidere che tipo di fonti di finanziamento attivare per la gestione delle attività
dell’impresa, ossia decidere la struttura finanziaria dell’impresa (ossia la quota di capitale che fa capo agli
azionisti, l’equity, e la quota di capitale che invece viene presa in prestito dai diversi operatori che
supportano l’azienda finanziariamente e quindi tipicamente le banche o gli obbligazionisti ma anche i
fornitori, il fisco, i dipendenti cioè tutti coloro che, in un modo o nell’altro, volontariamente o non
volontariamente, finanziano l’impresa).

Le decisioni di finanziamento a breve


riguardano sostanzialmente quello che
chiamiamo passivo circolante o passivo
corrente. Passivo perché ovviamente il
passivo esprime le fonti di finanziamento
dell’impresa (ricorda lo stato patrimoniale
in cui nell’attivo ci sono i beni, nel
passivo le fonti di finanziamento). Le
fonti di finanziamento però sono o a lungo
termine o a breve termine. In quelle a
lungo termine ci sono: innanzitutto il
capitale netto, l’autofinanziamento
dell’impresa (cioè i guadagni dell’impresa
che non vengono distribuiti agli azionisti),
e i debiti di medio e lungo termine che
sappiamo sono capitali prestati all’impresa senza l’obbligo di una restituzione a breve termine e quindi
tipicamente i prestiti obbligzionari, i mutui, il trattamento di fine rapporto e tutte quelle fonti di
finanziamento che l’impresa non deve restituire entro 12 mesi. Tutto ciò che invece l’impresa deve restituire
entro 12 mesi viene classificato come breve termine. I finanziamenti di breve termine sono generalmente
meno complicati da ottenere rispetto ai finanziamenti di lungo termine perché, essendo il finanziamento di
lungo termine come l’aumento di capitale, andare a chiedere soldi ai soci (soprattutto per società per esempio
quotate ma anche per una semplice s.r.l.) richiede tutta una serie di procedure e di acccordi fra soci, gestione
dell’impresa eccetera o ancora chiedere mutui alle banche o prestiti obbligazionari, sempre appunto in borsa,
richiede una serie di procedure e di accordi che può non essere semplice o comunque immediato recuperare.

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Generalmente invece i prestiti di breve periodo sono più semplici perché si poggiano naturalmente
sull’attività operativa dell’impresa quindi tipicamente se io voglio un finanziamento di breve termine dalle
banche per esempio mi basta far vedere una certa operatività (quindi un certo volume di vendite, di fatture
verso i clienti eccetera) per avere accesso ad una serie di finanziamenti come le anticipazioni bancarie, gli
sconti sulle fatture, i fidi quindi forme di prestiti a breve termine che sono generalmente non troppo
complessi da ottenere, senza contare poi naturalmente i rinvii di pagamemto ai fornitori e quant’altro. Il fatto
che siano forme di finanziamento più semplici non deve far dimenticare che sono comunque delicate proprio
per la scadenza ravvicinata della restituzione del capitale prestato, soprattutto in momenti di difficoltà
dell’azienda quando il fatturato comincia a decrescere sono i primi che cominciano a segnalare una serie di
allarmi: i fornitori che incominciano a chiedere ripetutamente che cosa sta succedendo, decreti ingiuntivi
eccetera. Quindi è comunque un ambito molto delicato che, se l’azienda poi non riesce a mantenere il regime
finanziario programmato, può portare addirittura all’insolvenza e quindi alla richiesta in casi estremi di
fallimento presso un tribunale da parte dei creditori; quindi le aziende non falliscono perché fanno degli
esercizi in perdita, cosa che le aziende possono essere benissimo in grado di tollerare se hanno soprattutto un
patrimonio che nel passato ha accumulato una quantità di utili o comunque un patrimonio di grandi
dimensioni, ma possono fallire invece se non hanno la liquidità sufficiente a rimborsare i debiti in scadenza.

Il fabbisogno finanziario è
l’oggetto della pianificazione cioè
perché c’è bisogno di una
pianificazione finanziaria? Perché
l’azienda da un lato impiega
capitali in beni durevoli quindi
acquista impianti, apre sedi
all’estero, acquista tecnologie,
assume persone e così via,
dall’altro gestisce l’attività
corrente quindi acquista i
componenti, i materiali che
servono per la produzione, spende
soldi per andare in giro,carburante,
auonoleggi, alberghi eccetera;
quindi ha bisogno, prima di vedere
il ritorno di queste attività attraverso le vendite dei prodotti o servizi, di finanziare queste attività. La
programmazione finanziaria serve sostanzialmente ad andare più nel dettaglio degli scompensi fra entrate e
uscite nel corso del tempo per poter appunto programmare quando e come recuperare le fonti di
finanziamento che servono sia per gli investimenti sia per la gestione corrente. Naturalmente se io guradassi
semplicemente un budget economico in cui ho una previsione di un guadagno, a fronte di certi ricavi e certi
costi, probabilmente potrei erroneamente pensare che non c’è bisogno di alcuna fonte di finanziamento ma
come evidenzia uno dei classici problemi, ossia quello delle oscillazioni stagionali, all’interno di un esercizio
il fatto che entro i 12 mesi le entrate saranno superiori alle uscite non vuol dire che a metà anno, per esempio,
questo si verifichi ugualmente: pensate a chi produce un prodotto appunto stagionale che quindi produce per
6 mesi e per gli altri 6 mesi vende. Quindi seppur all’interno dei 12 mesi la disponibilità finanziaria sembra
non allarmante, lungo l’esercizio invece ci può essere un picco di richiesta di risorse finanziarie che in
qualche modo bisogna programmare altrimenti succede che l’impresa non ha la disponibilità di risorse
finanziarie per produrre quello che poi dovrebbe vendere. Per questo è importante fare una programmazione
lungo l’esercizio. Questo vale naturalmente per quanto riguarda la gestione, per quanto riguarda gli
investimenti è la stessa cosa cioè anche per gli investimenti c’è bisogno di procurarsi delle risore per far
fronte agli esborsi legati agli acquisti per esempio di immobili, quindi impianti, attrezzature, sedi e
quant’altro.

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Se guardiamo nel corso del
tempo il fabbisogno finanziario
cumulato (cumulato vuol dire
sommato nel tempo) potremmo
trovare un andamento di questo
genere, cioè ci saranno periodi
nei quali l’impresa incassa più di
quanto spende e quindi il
fabbisogno finanziario scende,
poi ad un certo punto magari
l’impresa acquista in anticipo,
investe eccetera e quindi il
fabbisogno finanziario sale. Per
far fronte a questi andamenti
oscillatori, ma che possono
essere anche micro-oscillatori
(un mese rispetto all’altro),
l’azienda tipicamente come si comporta? Qui vedete per esempio 3 ipotetiche strategie: una strategia di
finanziamento A, una strategia di finanziamento B e una C. Queste diverse strategie si riferiscono a diversi
accessi al capitale di credito di lungo periodo, cioè il direttore finanziario sa che all’interno di un esercizio o
di più esercizi ci saranno momenti di alta esigenza di risorse finanziarie e momenti di bassa richiesta. Allora
potrebbe pensare di posizionarsi nel punto più alto di fabbisogno finanziario e finanziare interamente questo
fabbisogno di liquidità attraverso capitale di lungo termine (si decide di fare un aumento di capitale quindi
far mettere mano al portafoglio ai soci per finanziare l’impresa senza dover mai fare richieste di denaro dai
creditori), in questo caso quindi, una specie di strategia A, l’azienda anche nel momento peggiore di
fabbisogno finanziario avrà sempre queste risorse a disposizione. Oppure la strategia C: è una strategia
diversa che prende atto che il fabbisogno finanziario oscilli, ci saranno momenti in cui in cassa ci saranno più
soldi e momenti in cui ce ne saranno meno, però non posso chiedere denaro agli azionisti e tenerlo
parcheggiato mediamente all’interno dell’azienda senza essere impiegato, quindi chiedo il minimo
indispensabile di risorse agli azionisti, che tipicamente coincide con il denaro di cui c’è bisogno per gli
investimenti, per esempio, o parte degli investimenti; dopodiché le esigenze finanziarie che ci saranno nel
corso degli esercizi l’azienda le affronta con forme di finanziamento a breve quindi banche, fornitori ecc. La
strategia B è una via di mezzo. Quale delle due strategie fra A e C è la migliore? Tendenzialmente si
sceglierebbe la A, perché dà maggiore tranquillità, minore lavoro, resistenza agli stress, maggiore flessibilità
quindi sicuramente da preferire perché vi lascia coperti, pieni di disponibilità di cassa, nessun problema a
pagare gli stipendi, i fornitori, nessun problema a fare investimenti ecc. La C è una strategia forse più
efficiente dal punto di vista del rendimento, nel senso che si chiedono finanziamenti di lungo termine
sostanzialmente per assecondare quella che è una crescita naturale delle attività delle aziende ma si demanda
interamente la richiesta di disponibilità di risorse finanziarie, per gli scompensi tipicamente commerciali e
quant’altro, alle attività di breve termine. La strategia C è in genere la più efficiente perché i capitali costano
e quindi da questo punto di vista, ossia della redditività, molto probabilmente è la strategia migliore. Il
contraltare di C è che sei più vulnerabile e per cui se la programmazione, che è una previsione, alla fine non
è pienamente rispettata ti puoi trovare in difficoltà e quindi dover spendere molte attività per tappare i buchi
(e quindi andare in giro dai fornitori, dalle banche ecc.) per recuperare eventuali problemi finanziari. Qual è
invece lo svantaggio della strategia A? Si rischia di meno dal punto di vista della flessibilità, della
vulnerabilità eccetera, si rischia di più dal punto di vista dell’efficienza cioè si paga di più in termini di
rendimento perché chiedete dei capitali in prestito a lungo termine con dei tassi quindi più onerosi e perché,
anche se chiedeste il capitale agli azionisti, anche gli azionisti vogliono essere remunerati anzi gli azionisti
vogliono essere remunerati molto di più in genere degli obbligazionisti o comunque delle banche. Quindi è
vero che non si è obbligati a rimborsare gli azionisti ma se non li si offrono dei rendimenti elevati si rischia il
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posto (gli azionisti possono decidere di cambiare consiglio di amministrazione se non si vedono remunerati a
dovere).
La strategia B è probabilmente la
più diffusa perché ovviamente è
una via di mezzo, non bisogna
stare con l’acqua alla gola in
ogni momento (strategia C, la più
efficiente ma anche la più
vulnerabile) ma non bisogna
neanche cullarsi con le strategie
di tipo A dove sostanzialmente il
manager finanziario si dedica ad
altro perché tanto sa che la
liquidità, a meno di casi
eccezionali, non sarà mai un
problema, solo che tenere
liquidità parcheggiata potrebbe
far arrabbiare gli azionisti che
ovviamente sono poco contenti
di questo tipo di strategia. Naturalmente questi sono modelli teorici, servono giusto a inquadrare il problema:
il problema è la struttura finanziaria cioè come dotarsi nel senso di suddivisione non tanto di equity e debito
ma di lungo termine e breve termine, dove il lungo termine è sia equity che finanziamento di lungo termine e
il breve termine invece semplicemente finanziamento.
Ovviamente non è facile determinare numericamente il livello di finanziamento ottimale, esistono però delle
buone prassi se non proprio dei vincoli, degli obblighi. La prima che vedete nella slide è probabilmente la
principale cioè la corrispondenza fra immobilizzazioni e fonti di finanziamento a lungo termine, questa più
che una buona prassi è proprio un vincolo: quando trovate un bilancio, in particolare uno stato patrimoniale,
che non rispetti questo vincolo l’azienda ha un grosso problema, cioè se l’azienda non copre gli immobili
ossia non ha una quantità di fonti di finanaziamento maggiore o uguale dell’ammontare degli immobili
l’azienda ha dei problemi, che problemi ha? La cassa, come abbiamo visto noi questo problema: attraverso la
valutazione del bilancio ci sono degli indici che guardano proprio questo (cioè se io dovessi voler subito
verificare se un’azienda è a posto da questo punto di vista , cioè se sostanzialmente copre gli investimenti,
quindi le immobilizzazioni, con fonti di capitale a lungo termine), questi indici sono gli indici di liquidità; tra
questi c’è un indice che vi dice subito questa cosa come va che è il rapporto fra attività correnti e passività
correnti, che è speculare rispetto a questo ragionamento cioè se io ho un valore di immobilizzazioni superiore
alle fonti di finanziamento a lungo termine in compenso ho delle attività correnti minori delle passività
correnti, cioè ho più debiti a breve termine di quanti beni liquidi ho e l’indice di liquidità ci dice proprio
questo (valutandolo sulle attività correnti ci dice la stessa cosa cioè il rapporto fra attività correnti e passività
correnti deve essere maggiore di 1, cioè le attività correnti devono essere maggiori delle passività correnti il
che significa che le fonti a lungo termine devono essere maggiori delle immobilizzazioni). Ecco perché
ritorna il discorso dell’ importanza degli indici di liquidità, anche nei bilanci che abbiamo guardato gli indici
di liquidità erano addirittura pari a 2, cioè le attività correnti erano il doppio delle passività correnti, il che
significa che le fonti di finanziamento a lungo termine sono molto più grandi degli immobili e quindi
strategia B quanto meno, se non addirittura strategia A, cioè io mi tengo comunque una riserva di liquidità
non in scadenza a breve termine con cui gestire eventuali fabbisogni finanziari di breve. Quindi se non
possiamo dire che esiste un livello ottimale di finanziamento a lungo termine comunque esiste un livello
minimo che è quello di copertura delle immobilizzazioni, quindi tutti i beni immobili quindi durevolmente
legati alle attività dell’impresa devono essere finanziati con patrimonio netto e debiti di lungo termine, quali
sono i debiti di lungo termine nel bilancio? Il primo che trovate dopo il patrimonio netto è il tfr, che è un
debito verso i dipendenti ma è un debito che si sgonfia molto lentamente anzi generalmente si accumula

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perché più cresce l’impresa più diventa grande il tfr, e poi tipicamente i debiti obbligazionari, i mutui, i debiti
bancari a lungo termine che costituiscono il nocciolo dei finaziamenti a lungo termine: questi qua devono
coprire abbondantemente le immobilizzazioni. Purtroppo una norma che sembra così scontata, e che bene o
male troverete sempre funzionare in tutti i bilanci, poi nella realtà soprattutto in imprese in grande crescita,
dove ci sono imprenditori che sull’onda del successo intravedono delle possibilità di sviluppo dirompenti,
qualche volta non sempre viene rispettata per cui ci si butta a fare investimenti anche in assenza di
finanziamenti di lungo termine perché finchè si riesce ad ottenere un mutuo, un leasing eccetera passa tempo
ma tendenzialmente l’investimento si fa per cogliere opportunità che si colgono in quel momento, e può
succedere che a volte poi questi finanziamenti di lungo termine non arrivino e quindi incomincia un
barcamenarsi, con finanziamenti a breve termine per reggere investimenti di lungo, a navigare in strategie di
tipo C o ancora più basse. Succede questo nella pratica e quindi naturalmente quelle sono situazioni sempre
molto pericolose.
Quindi sostanzialmente ne deduciamo che tutte le imprese investono in capitale circolante netto, che vuol
dire questa strana affermazione? Sembra un controsenso dire investimento in capitale circolante perché non è
un investimento ovviamente, quello è un modo di dire abbastanza usuale che sta semplicemente a significare
che nell’attivo corrente netto si investe, netto cioè al netto dei finanziamenti a breve, semplicemente per
indicare che quella differenza è maggiore di zero cioè che le attività correnti sono maggiori delle passività
correnti. Se lo vediamo come un investimento, e quindi come un surplus di beni rispetto ai finanziamenti,
vuol dire che il delta viene coperto ovviamente con fonti di finanziamento a lungo termine, quindi è un modo
un po’ particolare di dire lo stesso concetto che abbiamo detto prima: se io copro con fonti di finanziamento
a lungo più del necessario delle immobilizzazioni vuol dire che l’extra mi va a coprire l’attivo corrente
eccedente le passività correnti, che poi in sostanza significa anche semplicemente che ho più soldi in cassa di
quello che serve in teoria, ma nella realtà non è detto perché dire che le attività correnti sono maggiori delle
passività correnti poterbbe anche voler dire che in cassa non c’è 1 euro? E’ possibile? Si che è possibile, io
potrei non avere 1 centesimo in cassa con attività correnti maggiori delle passività correnti essendo le attività
correnti tante cose, sono crediti, scorte, titoli quindi in teoria io potrei non avere 1 euro in cassa ma avere
comunque un attivo corrente più grande, ecco perché gli indici di liquidità poi incominciano a scendere un
po’ nel dettaglio: ok attivo corrente maggiore del passivo corrente (condizione necessaria) però cominciamo
a levare le scorte e quindi acid test, andiamo a vedere se il rapporto attivo corrente senza scorte è maggiore
delle passività correnti, poi leviamo i crediti e così via per capire effettivamente come è composto l’attivo
circolante.
In gnerale qualche ricerca ha evidenziato questo fatto: quali sono le imprese che dispongono di maggiore
liquidità? Quanti soldi inacssano le imprese? Mediamente si vede che, quindi assolutamente un dato
statistico non vale come né una norma né la verità assoluta (perché siccome sono valori medi potete trovare
l’azienda anche high tech che non ha una lira in cassa), tipicamente sono le imprese in forte sviluppo e che
non hanno neanche il tempo di pianificare per bene gli investimenti, che quindi in preda ad una crescita
molto elevata hanno livelli di liquidità elevati: facevamo l’esempio di Microsoft che oggi ormai non è
neanche più un’impresa in forte crescita high tech però è sempre un’impresa che ha elevato cash flow
rispetto alle possibilità d’investimento. E poi le pmi (piccole e medie imprese): spesso se una pmi funziona,
cioè è fortunata di stare in un mercato in cui comunque le cose vanno bene, generalmente tende ad avere
rispetto ad analoghe situazioni più strutturate una quantità di liquidità, quindi di sicurezza, maggiore per il
semplice fatto che è una piccola impresa e il mercato del credito è più complicato da ottenere (naturalmente
una piccola impresa che non abbia una storia dietro di sé abbastanza consolidata).

37
Per la programmazione finanziaria,
come abbiamo già detto quando
abbiamo parlato appunto di bilancio, lo
strumento di pianificazione di budget di
cassa alla fine è il flusso di cassa. Il
flusso di cassa, o rendiconto finanziario
dal punto di vista del documento a cui
generalmente si fa riferimento, lo
possiamo calcolare in due modi, in
modo diretto in cui andiamo a registrare
tutte le entrate e tutte le uscite o in
modo indiretto quindi partendo
dall’utile previsto o consuntivo (a
seconda che stiamo facendo un
documento consuntivo o di
programmazione) e andando ad
aggiungere poi tutte le variazioni che ci consentono di passare da un dato economico, l’utile, a un dato
finanziario, il flusso di cassa. Questi passaggi qui sono schematizzati nei 3 passi che abbiamo già accennato
cioè: si parte dall’utile netto perché l’utile netto è la sintesi dei ricavi e dei costi, sia programmati sia
consuntivi, dopodichè si incomincia a fare una serie di variazioni, la prima variazione è quella di correggere
l’utile netto con quei costi fittizi che l’utile netto contiene (tipicamente ammortamenti e accantonamenti a
fondi, per esempio accantonamenti a tfr) per generare quello che si chiama cash flow operativo, quindi primo
flusso di cassa che è anche quello che spesso gli ingegneri usano nella valutazione degli investimenti (quindi
il reddito prodotto da un investimento corretto al meno della voce dei costi fittizi). Al cash flow operativo poi
si aggiungono e si sottraggono una serie di altre voci correttive legate da un lato alla gestione commerciale
dell’azienda, quindi per parlare in termini di stato patrimoniale variazioni di capitale circolante, dall’altro
alle variazioni invece proprio di valori dello stato patrimoniale dal punto di vista delle immobilizzazioni e
delle fonti di finanziamento dell’impresa. In questo caso questi punti 2 e 3 non sono così suddivisi, cioè il
punto 2 è il punto delle correzioni di tipo commerciale e quindi di breve termine dell’impresa e il punto 3 è il
punto delle variazioni di tipo patrimoniale quindi investimenti, dismissioni o fonti di finanziamento nuove o
rimborsi, ma sono citati invece secondo il segno che questi presentano per la cassa. Il secondo: “decrementi
di attività (quindi alienazioni ossia dismissioni di beni ossia vendita di beni) e aumenti di passività (cioè
nuovi finanziamenti: aumenti di capitale, finanziamenti bancari, mutui, obbligazioni ecc.)”, che tipo di
variazioni della cassa presenta questo punto? Incrementi. In realtà in effetti gli esempi che ci sono sono solo
di tipo patrimoniale, però nel punto 2 potrei mettere anche una riduzione dei crediti (la riduzione dei crediti è
una voce positiva per la cassa, abbiamo incassato dei crediti e quindi una voce esattamente collocabile in
decrementi di attività), così come se ho un aumento dei debiti vs fornitori la cassa aumenta perché nell’utile
netto ho messo costi di acquisto, l’aumento dei debiti mi dice che io sto aumentando la parte di fornitori che
non sto pagando per cui io ho messo tutti quei costi di acquisto ma mica li ho pagati tutti, se i debiti
aumentano vuol dire che parte di quei costi io non li ho pagati quindi questi mi sono rimasti in tasca ossia mi
aumentano la cassa secondo questo schema, cioè alla fine l’aumento dei debiti vs fornitori è identico agli
accantonamenti e gli ammortamenti: mi aumentano la cassa perché sono dei costi che in realtà io non ho
ancora sostenuto dal punto di vista finanziario. Quindi decrementi di attività di tutti i tipi sia immobili che
circolanti, aumenti di passività anche qui sia di fonti di finanziamento a lungo che a breve, anche fornitori,
fisco e quant’altro. Il punto 3, incrementi di attività: se l’azienda fa degli investimenti questi nel conto
economico non sono proprio riportati, il conto economico registra solo i costi quindi al più avrà registrato il
costo di ammortamento di questi nuovi investimenti, ma se l’azienda ha fatto un investimento la cassa ne
risente sicuramente quindi l’incremento di immobilizzazioni è una correzione da fare sulla cassa in senso
però negativo; così come un incremento di crediti commerciali è una riduzione di cassa sempre per il motivo
di prima cioè io nell’utile ho messo i ricavi ma se i crediti sono aumentati vuol dire che io ho consentito a più
clienti di non pagare, allora come utile ho registrato una serie di “incassi” espressi come ricavi ma siccome
non mi hanno pagato quell’incremento di crediti mi va a ridurre la cassa nel senso di aggiustare i ricavi in
38
incassi quindi trasformare la voce economica dei ricavi in voce finanziaria di incassi. I decrementi delle
passività: ci sono i momenti in cui i finanziamenti vanno restituiti, mi sto occupando della restituzione del
capitale non degli interessi sul finanziamento, quindi ogni qual volta si restituisce il capitale che è stato
prestato ovviamente la cassa si riduce; così come se i debiti vs i fornitori scendono significa che dalla cassa
sono usciti più soldi per pagare i fornitori.
Quindi tutte le voci 2 sono delle voci che vanno ad incrementare la cassa e tutte le voci 3 sono voci che
vanno a ridurre la cassa. Questo modo diciamo indiretto di calcolare il flusso di cassa si chiama così perché
io lo posso calcolare guradando un conto economico e i due stati patrimoniali di partenza e di arrivo, quindi
semplicemente con questi tre documenti io mi posso costruire il rendiconto finanziario cioè il flusso di cassa
conseguente.

A volte invece che avere il flusso di


cassa come risultato si può avere il
capitale circolante netto, però
quest’ultimo spesso può essere usato
per un problema di sintesi nelle
considerazioni ma bisogna fare
attenzione che aumento del capitale
circolante netto non vuol dire
necessariamente aumento di cassa,
potrebbe anzi invece nascondere una
riduzione di liquidità perché il capitale
circolante contiene una serie di attività
correnti che non sono liquidità come
le scorte e i crediti. In questi casi
ovviamente i punti 2 e 3 si riferiscono
soltanto ad attività e passività di lungo
termine quindi patrimoniali in senso puro (cioè elimino dai punti 2 e 3 le variazioni di crediti, di debiti ecc.
che riguardano il capitale circolante).

Capitale circolante in sostanza si


genera secondo un flusso più o meno
di questo tipo: ci sono dei soldi che
vanno ad essere impiegati
nell’acquisto per esempio di materiali,
che a loro volta vengono trasformati in
prodotti finiti e che quindi generano
crediti commerciali che poi si
ritrasformano nuovamente in cassa.
Questo è un ciclo prettamente
finanziario, non è un ciclo economico
(cioè non è un ciclo da conto
economico), perché non sto parlando
di acquisti, vendite ma sto parlando
semplicemente di come all’interno

39
dell’attivo circolante le poste si spostano sostanzialmente da cassa a rimanenze di materie prime, rimanenze
di prodotti finali, crediti commerciali, nuovamente cassa: il motivo per cui spesso si ragiona in termini di
capitale circolante assimilando questo percorso ad un'unica famiglia o tipologia che è quella ovviamente del
ciclo operativo.

Veniamo ad un esempio di
un’azienda: stato patrimoniale
dell’azienda Materassi Flexo
suddiviso in attività e passività,
breve termine e lungo termine, anno
d’inizio e anno di fine quindi
abbiamo le categorie che ci servono
per poter esprimere sia valutazioni
che per calcolarci il flusso di cassa
(rendiconto finanziario). Di prima
impressione che valutazione
possiamo fare su questo stato
patrimoniale? Presenta problemi?
L’azienda è cresciuta (il volume di
attività e il volume conseguente di
passività è passato da 95 a 115), è
aumentato il patrimonio netto, è aumentato il totale attivo, attività correnti molto maggiori delle passività
correnti quindi un’azienda, dal punto di vista della liquidità, con un capitale circolante netto molto
importante. Da questo esempio si può notare un po’ che si intende per investimento in capitale circolante: se
guardate le attività correnti e le passività correnti sono in rapporto di più di 2:1 il che è sempre un buon
risultato, però effettivamente se guardate meglio dentro di cassa, ossia di liquidità, c’è poca roba ecco perché
l’investimento in capitale circolante netto: perché l’azienda investe in magazzino, che è una specie di
capitale immobilizzato, e in crediti commerciali, ossia investe anche nei propri clienti in maniera cospicua.
Quindi sicuramente un buon rapporto di liquidità però con una marcata propensione verso le attività correnti
meno liquide, le scorte e i crediti. Di converso è un’azienda molto coperta da un punto di vista finanziario
per quanto riguarda le immobilizzazioni perché il solo patrimonio netto già copre abbondantemente le
immobilizzazioni e in teoria quei debiti a lungo termine non hanno ragione di esistere, perché andarsi a
impellagare in un debito a lungo termine in questa situazione? Per una maggiore sicurezza, quindi
sicuramente fra A, B e C questa è un’azienda molto più spostata verso A che verso C, molto coperta dai
rischi anche se rimane quella propensione a gestire un circolante molto spostato verso la gestione
commerciale e quindi non è un’azienda che lascia la liquidità a non far niente, comunque si vede che per la
propria gestione ha una propensione, o forse una necessità, ad avere livelli di capitale circolante elevato e
quindi a questo serve fondamentalmente il debito a lungo termine: cioè se sommate alle attività fisse il
magazzino, cosa che non ha molto senso, vedete a che cosa serve il debito a lungo termine quindi in qualche
modo a garantire anche una buona fetta di investimento in circolante netto dato dalle scorte, se invece il
circolante netto fosse fatto da cassa 30 o 40 allora proprio non aveva senso il debito a lungo termine. Quindi
in questo caso si intuisce che è una forma di rafforzamento del patrimonio per parare la gestione
commerciale dell’impresa che richiede magazzino elevato, crediti elevati vs i clienti.

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Conto economico: l’utile operativo
(l’EBIT) 25, reddito imponibile 24, imposte
50%, reddito netto 12. Assumendo che i
dividendi siano stati pari a 1 abbiamo utili
non distribuiti per 11, un’informazione che
dal bilancio in termini di conto economico
e stato patrimoniale altrimenti non sarebbe
possibile desumere. Quindi possiamo
calcolare il flusso di cassa :

flusso di cassa operativo 16 (che


deriva da un reddito netto di 12 a cui
si aggiungono i costi fittizi, in questo
caso gli ammortamenti, di 4), poi
nella parte di sopra vi sono gli
aumenti di cassa quindi le fonti e
nella parte di sotto vi sono gli
impieghi quindi gli esborsi
finanziari. Tra le fonti ci sono:
emissione di obbligazioni a lungo
termine che secondo la
classificazione vista prima è un
aumento di passività, la riduzione
delle scorte che è una riduzione delle
attività, incremento dei debiti
comm.li che è un aumento delle
passività (anche un incremento dei debiti funziona per la cassa nel senso di avere più denaro a disposizione
di quanto riportato nel reddito netto che registrava soltanto i costi di acquisto). Tra gli impieghi invece ci
sono: un rimborso di prestito quindi una riduzione di passività, un investimento, in attività fisse per esempio
(guarda slide stato patrimoniale, da 56 a 70 era il valore degli investimenti mentre avevamo ammortamenti
già registrati nel flusso di cassa operativo), acquisto di titoli ancora è una riduzione di cassa quindi aumento
di attività, incremento di crediti comm.li ancora aumento di attività, vedete che senza quei dividendi non
avremmo fatto quadrare il flusso di cassa quindi c’è bisogno dell’informazione sui dividendi. Alla fine vien
fuori che totale fonti meno totale impieghi, ossia flusso di cassa, pari a 1.

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In termini di capitale circolante netto invece
abbiamo un aumento da 30 a 38. In questo caso
per avere questa differenza ci andiamo a
calcolare anche le variazioni soltanto in termini
di investimenti e variazioni del capitale a lungo
termine e degli investimenti a lungo termine.
Quindi se volessimo esprimere il rendiconto
finanziario in termini di capitale circolante netto
desumeremmo che il capitale circolante netto è
aumentato di 8 milioni a cui corrisponde però,
abbiamo visto, l’aumento di flusso di cassa di 1
milione soltanto.

Andiamo a considerare la parte per certi versi


più impegnativa e più stringente della
pianificazione che è quella dei fabbisogni di
cassa a breve termine. Perché fare la previsione
del fabbisogno di cassa a breve termine:
generalmente perché è una cosa importante per
l’impresa come abbiamo detto, cioè l’impresa
deve cercare di non trovarsi mai a corto di
liquidità per non incorrere in una serie di
problematiche molto stringenti tipo appunto
rincorrere fornitori, clienti, banche, ecc. e
quindi distogliere gran parte delle attività
dell’ufficio finanziario-amministrativo dalle
sue attività correnti. Una seconda motivazione è anche che ovviamente se l’azienda lavora sui budget, sugli
incentivi ecc. il fabbisogno di cassa e il mantenimento della liquidità sono in genere un indicatore di
performance fondamentale per il responsabile amministrativo-finanziario.

Naturalmente esistono molti modi per costruire


un budget e dipendono fondamentalmente dai
software utilizzati dall’impresa ma le fasi
tradizionali sono: la previsione delle entrate, la
previsione delle uscite e quindi il calcolo del
fabbisogno finanziario che poi genera degli alert
ovviamente che vanno a richiedere un intervento
da parte del programmatore, in questo caso
appunto il responsabile di cassa, per generare un
nuovo apporto di finanziamenti che consenta di
gestire il fabbisogno finanziario. Per capirci
veniamo alla Materassi Flexo.

42
Supponiamo che l’esercizio sia
caratterizzato da quattro previsioni
trimestrali, ovviamente le previsioni
possono essere anche mensili, in cui
abbiamo appunto il valore di vendite
previste quindi si parte dalla voce
principale delle entrate (così come nel
budget operativo si parte dal budget
delle vendite).

Le vendite poi dal punto di vista


finanziario dipendono naturalmente
anche dai pagamenti delle vendite, cioè
da quelli che sono i crediti commerciali
iniziali e i crediti finali. Quindi le
vendite le riportiamo nel punto 2 e prima
del punto 2 riportiamo quelle che sono lo
stock finanziario di vendite, cioè è come
se fosse un magazzino in cui le
rimanenze non sono nient’altro che i
pagamenti dei clienti che devono ancora
arrivare. Quindi all’inizio di ogni
periodo abbiamo due possibili fonti di
entrate: il pagamento dei crediti e il
pagamento delle vendite. Se supponiamo
che gli incassi vengano per 70 dal priodo corrente, per 15 dal periodo precedente abbiamo che il totale degli
incassi è 85 per cui alla fine del periodo, del primo trimestre, avremo dei crediti finali calcolati come 30+87-
85, cioè quelli che sono diventati il totale crediti dell’azienda meno i pagamenti (incassi) ricevuti. Quindi
crediti finali saranno 32,5 che rappresentano ovviamente il valore successivo di crediti commerciali iniziali
(del secondo trimestre) e così via. Quindi alla fine vedete che ci sono dei crediti commerciali iniziali e dei
crediti commerciali finali mentre il totale incassi è quella quantità 85, 80, eccetera al di sotto della linea
tratteggiata.
E’ chiaro che gli incassi sono spesso la fonte
più importante ma ovviamente non sono
l’unica, anche le vendite degli immobili, i
rimborsi fiscali e quant’altro sono possibili
fonti. Le uscite sono invece in genere più
articolate, ci sono molte più uscite che non
incassi (tipologie di uscite ovviamente si
intende). Supponiamo di riassumerle in 4
categorie principali: pagamento di acquisti e
debiti commerciali quindi il fattore fornitori
principalmente, il personale e le spese
amministartive, il rimborso dei finanaziamenti
quindi le spese in conto capitale e il pagamento
43
di imposte, interessi e dividendi. Quindi
nella nostra ipotesi abbiamo:
incassi da vendite e crediti comm.li, quindi
la voce al di sotto della linea tratteggiata
nella penultima slide, altre forme di incassi
12,5 nel terzo periodo, per cui totale fonti:
85, 80, 121 e 128. Dopodichè si mettono
invece non i costi ma le uscite di cassa:

quali di queste uscite di cassa sono costi? La


quarta voce? La prima? Allore tutte hanno
delle probabili voci di costo ma non
univoche, l’unica che mi sembra sia
esclusivamente una voce di costo pura è la
seconda che sono gli stipendi, le spese
amministrative e altre spese, che dal punto di
vista finanziario vengono sostenute. Perché
le altre non sono esclusiavamente voci di
costo pure: la prima voce è in realtà anche
una riduzione di debiti comm.li quindi
significa pagamenti di fornitori ma arretrati,
la terza, spese in conto capitale, dovrebbero
essere gli oneri finanziari ma anche i
rimborsi dei finaziamenti, la quarta va bene per imposte e interessi meno per dividendi, i dividendi non sono
un costo. Quindi questo flusso di cassa vien fuori da un metodo diretto o indiretto? Abbiamo detto cos’è il
metodo diretto: è quello che calcola tutte le entrate e le uscite di cassa. Il metodo indiretto è quello che
utilizza sostanzialmente i documenti contabili quindi il conto economico, l’utile e va a modificare poi l’utile
aggiustandolo in termini finanziari con le voci di variazione delle attività e delle passività. Vi suona più
come un metodo diretto o indiretto questo? Diretto, in realtà non sto passando dal conto economico infatti
sono tutte mischiate le voci, sto guardando semplicemente le entrate e le uscite di cassa. Che cosa entra:
denaro dalle vendite dei prodotti ma anche dal pagamento dei crediti, da nuovi finanziamenti, dal pagamento
dei dividendi. Cioè sto andando a vedere un pò le voci, voce per voce, che riguardano la cassa, non si parla di
ammortamenti, non c’è una discesa dal conto economico, cioè semplicemente andiamo a vedere tutte le voci
che comportano movimento di cassa cioè soldi che entrano o escono. Quindi abbiamo un totale fonti e un
totale impieghi, a questo punto abbiamo tutte le entrate e tutte le uscite quindi possiamo fare la differenza e
scopriamo che:
nel primo trimestre abbiamo un delta negativo
quindi -46, nel secondo lo stesso -15, nel terzo e nel
quarto invece abbiamo flussi di cassa positivi.
Quindi questa riga, fonti al netto degli impieghi,
non è nient’altro che il flusso di cassa trimestre per
trimestre. Abbiamo finito? Nel senso abbiamo il
nostro fabbisogno finanziario? Se queste previsioni
44
fossero la realtà domani mattina che dovremmo fare? Ci dobbiamo andare a procurare del denaro? Ci manca
almeno un dato, che dato? Se vi dicessero i flussi di cassa sono questi: primo trimestre -46 milioni, secondo
trimestre -15 e poi terzo +26 e quarto +35. Ok ma quanto avevo in cassa? Se in cassa avevo 100 milioni mi
dovevo preoccupare? Non mi devo preoccupare.
Cassa all’inizio del periodo: 5 nel primo
trimestre quindi parto da 5 milioni di euro.
Mi devo preoccupare? Abbastanza perché
se a 5 sottraggo 46,5 ottengo che la cassa
alla fine del periodo è -41 milioni di euro e
avrei qualche problemino sicuramente. Nel
secondo periodo dove ho un altro flusso di
cassa negativo arriverei a -56, poi -30, però
alla fine avrei +4,5. Che devo fare? Devo
ricorrere a un finanziamento? Quanto mi
devo procurare? Più di 56,5 che detta così
sembrerebbe che l’azienda deve procurarsi
almeno 56,5 milioni di euro, però in realtà
dipende anche da qualcos’altro, per
esempio da qual è la politica dell’azienda di
liquidità cioè è come per le scorte perché il denaro alla fine non è nient’altro che un bene come le scorte, ma
devo avere un po’ di scorta o non la devo avere? Per esempio l’azienda parte da 5 milioni di euro, perché? E’
una strategia dell’azienda quella di avere sempre almeno 5 milioni di euro di base di liquidità in cassa? E’
proprio il caso di questo esempio:
esiste un saldo minimo di cassa che
l’azienda deve sempre avere, per cui è
come se il fabbisogno aumentasse cioè
io non solo non devo andare in negativo
ma devo anche avere un saldo positivo
di 5 in cassa.

Quindi il fabbisogno finanziario finale, cumulato è


il seguente: 46,5 nel primo trimestre, 61,5 nel
secondo, fino ad essere negativo anche alla fine nel
senso che anche nell’ultimo periodo devo integrare
la liquidità di mezzo milione di euro. Quindi questo
è il fabbisogno finanziario.

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Quindi il problema è questo: supponiamo
che ci stiamo occupando in questo
momento di finanziamenti a breve,
dobbiamo individuare una strategia per
coprire il fabbisogno emerso. Come lo
possiamo coprire? Ovviamente ci sono
tante strade per finanziarmi, posso farmi
pagare prima dai clienti, posso pagare
dopo i fornitori, posso chiedere prestiti alla
banca, ecc. Supponiamo per semplicità di
avere due sole fonti di finanziamento:
prestiti bancari (quindi aperture di fido
sostanzialmente) non garantiti e secondo la
leva commerciale quindi un aumento di
dilazione dei pagamenti ai fornitori.
Tendenzialmente ovviamente sembra sempre più facile strozzare i fornitori (lo strozzamento è anche quando
in genere si tira sul prezzo oltre che sul rinvio nei pagamenti). I fornitori sono in genere quelli che più degli
altri vengono ad essere torturati dalle aziende in difficoltà anche se, qui si dice (nella slide), a volte può
essere più costoso: per esempio, attraverso gli sconti a cui spesso si è costretti a rinunciare se si vogliono
pagamenti molto dilazionati (gli sconti sono spesso una quantità di risparmio molto più grande degli oneri
finanziari cioè acquistare a pronti un prodotto con uno sconto del 20%, per avere un equivalente in una
dilazione di pagamento, si dovrebbe avere una dilazione di pagamento quasi infinita). Però a volte le
esigenze di liquidità fanno diventare quest’ultima la strada preferita.
Nel nostro esempio supponiamo di avere
una linea di credito con tetto massimo di
38 milioni di euro e di ricorrere per il
resto delle necessità, ossia del fabbisogno
finanziario a un rinvio di pagamenti ai
fornitori dove esistono però dei tetti
massimi che sono quelli evidenziati nei
diversi trimestri: si possono differire i
pagamenti ai fornitori per 52 milioni nel
primo trimestre, 48 nel secondo, 44 nel
terzo e 40 nel quarto. Ne vien fuori quindi
una tabella più articolata, quindi una volta
che avete identificato il fabbisogno parte
un meccanismo iterativo cioè in cui si
incomincia ad inserire il reperimento di
fonti di finanziamento. Perché è iterativo: perché se io inserisco una fonte di finanziamento questo mi genera
degli oneri, ossia degli ulteriori pagamenti che mi vanno a modificare il flusso di cassa e quindi devo
ricominciare il conteggio, quindi è iterativo in questo senso. Vediamo nel nostro caso:

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da dove partiamo? C’è
scritto punto di partenza,
da lì. La variazione del
flusso di cassa di
gestione nel primo
trimestre è 46,5, il valore
iniziale della cassa era 5
se ricordate dalle slide
precedenti, quindi se il
flusso di cassa è -46,5 e
il valore inziale è 5
avevo che il valore finale
di cassa era 41,5: quindi
la prima cosa che faccio
è trovare fonti di
finanziamento per 41,5.
Poi assommo una vendita
di titoli in portafoglio,
questa è una nuova fonte
di finanziamento che non era stata considerata, e trovo quindi nuove fonti di cassa per 46,5. Quindi siccome
partivo da un livello che era anche il livello obiettivo, 5, se trovo delle nuove entrate identiche al flusso di
cassa negativo vado in pareggio e ricomincio da 5. Secondo trimestre: che succede? Quant’è il flusso di
cassa negativo del secondo trimestre? Il flusso di cassa di gestione quant’è? -15, quindi devo trovare altri 15
milioni, perché parto da 5 e devo tornare a 5. Che faccio? Rinvio pagamenti, perché per 19,7 se me ne
servono 15? Perché dobbiamo pagare i 3,5 del primo trimestre e arrivo a 16,2 ma non è ancora 15, perché
16,2 e non 15? Per il discorso dell’iteratività fatto prima, ma se io incomincio ad aprire aperture di credito
devo incominciare a pagare interessi, se io rinvio dei pagamenti vuol dire che devo pagare in più ai fornitori
quindi in sostanza per il primo trimestre quei nuovi indebitamenti mi costano 1,2 per cui non mi basta
aumentare di 15 devo tenere conto del nuovo 1,2 e del nuovo 3,5 (quindi 15+3,5+1,2=19,7). Quindi per
fronteggiare questi due nuovi fabbisogni finanziari di 46,5 e 15 ho fatto ricorso a un’apertura di credito di 38
e al rinvio di pagamenti alla fine per 23,2 (3,5+19,7) milioni di euro. Terzo periodo: che succde?
Qualitativamente che abbiamo nel terzo periodo? Incominciamo a far entrare un po’ di soldi, questo vuol dire
che possiamo alleggerire la posizione finanziaria, che cosa succede infatti in questo periodo: abbiamo a
disposizione dalla gestione 26 milioni di euro, che facciamo? Innanzitutto paghiamo i fornitori per 19,7, poi
paghiamo gli interessi alla banca e gli interessi ai fornitori, ce la facciamo a pagare tutto questo
(19,7+2=21,7)? Con i 26 milioni che incassiamo ce la facciamo a pagare i fornitori e gli interessi sia per il
credito bancario che per i fornitori, anzi ci avanzano 4,3 milioni di euro che vanno a rimborsare parte
dell’apertura di credito cioè il fido si riempie un po’, da 38 passa ad essere 33,7. Infine quarto periodo: che
succede? Abbiamo un flusso di cassa positivo di 35, che facciamo di questi 35? La prima cosa che dobbiamo
fare è pagare gli interessi, 0,8, poi a questo punto abbiamo le risorse per estinguere la linea di credito e
arriviamo a 5,5, siccome il livello di liquidità che dobbiamo mantenere è 5 ci compriamo di nuovo 0,5 di
titoli. Quindi in realtà rispetto allo schema iniziale che diceva semplicemente di ricorrere a credito e fornitori
abbiamo anche questa vendita di titoli in portafoglio e il parziale riacquisto. Quindi il budget di cassa è una
roba di questo genere: parte da considerazioni ovviamente legate alla gestione sia operativa che finanziaria,
quindi determina il fabbisogno di cassa e poi va a trovare le coperture per il fabbisogno di cassa oppure i
metodi di impiego di eventuali esuberi di cassa rispetto ad un valore di liquidità obiettivo.

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Possibili azioni alternative per il piano Flexo:
incrementare il fido invece che torturare i
fornitori, coprire il fabbisogno con fondi a
lungo termine (strategia A, mi servono 60
milioni di euro faccio un bel prestito
obbligazionario da 60 milioni di euro così mi
rimane anche per gli esercizi successivi),
rivedere il piano investimenti e la gestione
operativa cercando di differire le uscite di
cassa dei primi due trimestri, ridurre il livello
di altre attività correnti quindi non solo i titoli
ma anche magari le scorte, i crediti. In genere
si procede per trial & error, processo iterativo
che a seconda del tipo di fonti di
finanziamento richieste va a modificare gli interessi, gli oneri, ecc.

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25 Marzo 2015
In questa lezione cominceremo la parte relativa alla valutazione degli investimenti, in particolare alla teoria
del valore, che è una delle componenti più importanti nella finanza e che richiede alcune semplici nozioni di
matematica finanziaria collegate al concetto del tempo, che è una variabile che influenza il concetto di
equivalenza di flussi monetari.
Gli argomenti che tratteremo saranno i seguenti:

Su che cosa si basa la teoria del valore? Essa si basa


su due principi fondamentali molto semplici che
sono:
 Il valore temporale del denaro: può essere
riassunto dall’espressione “1€ oggi vale più di 1€
domani”, cioè il denaro non ha lo stesso valore nel
tempo.
Perché? NON perché c’è l’inflazione, perché questa
non c’entra niente ora. La risposta è che potrei
investirlo e farlo fruttare, cioè si pensa che il denaro
abbia un rendimento perché c’è un mercato quindi
una domanda e un’offerta di questo bene. Ci sono
attori economici, ma soprattutto imprese, che richiedono denaro e ci sono attori economici,
risparmiatori o investitori, che offrono denaro in cambio di un rendimento. Per cui se noi in mano
abbiamo 1€ oggi, domani presumibilmente avremo 1€ più qualcosa e questo qualcosa è la
remunerazione dell’impiego di questo euro.
Perché abbiamo detto che la risposta inflazione è sbagliata o meglio non appropriata in questo
discorso? L’inflazione è una distorsione del mercato, è un errore sistematico quindi non ha niente a
che fare con il concetto di interesse, di domanda e offerta, di richiesta. È come se misurassimo le
lunghezze con un metro che però ogni settimana/ogni mese cambia un pochino di dimensioni, invece
che essere per esempio 1000mm dopo un mese diventa 1001mm. Il problema dell’inflazione è un
problema di sistema di misura; purtroppo la moneta soffre di questo problema cioè del fatto che il
suo valore cambia nel tempo perché cambia l’unità di misura. Non è un problema di inflazione.

 Investimenti e incertezza. Il problema cardine per la valutazione degli investimenti è confrontare


entrate e uscite con l’unico accorgimento di rendere omogenee le entrate e uscite cioè i flussi di
cassa diversi nel tempo. Per fare questo abbiamo bisogno di qualche meccanismo di matematica
finanziaria che li renda equivalenti dal punto di vista temporale. Una volta che assolviamo questo
problema, dovremmo aver finito, perché dovremmo fare solo una sommatoria algebrica tra domande
e uscite e vediamo che se le entrate sono maggiori delle uscite allora l’investimento è buono.
Il problema per cui non ci fermiamo qui è che purtroppo l’investimento è futuro, il che significa che
a meno che non abbiamo la sfera di cristallo, non lo può conoscere nessuno. Discuteremo quindi di
come in qualche modo poter tenere conto del fatto che i dati su cui stiamo lavorando e i criteri che
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stiamo considerando, che sono davvero molto semplici dal punto di vista matematico, alla fine hanno
un grandissimo problema e cioè che si basano su dati assolutamente ipotetici, incerti. L’analisi degli
investimenti è proprio questo, cioè non siamo assolutamente certi della gran parte dei casi sui dati
che maneggiamo. Quindi il mercato ci dice che tendenzialmente 1€ sicuro vale di più di 1€ rischioso,
che tradotto in termini finanziari, cosa significa? Questa dizione si traduce sostanzialmente nel fatto
che dato che 10 € investiti in un bund tedeschi o anche per esempio nella Coca Cola sono più sicuri
di 10 € investita in Google ad esempio, il tornaconto sarà diverso perché saranno diversi i
rendimenti. Tutti corrono a comprare l’€ sicuro, pochi corrono a comprare l’€ più rischioso. Quindi
tendenzialmente vedremo che nel mercato finanziario a maggiori rischi l’incontro della domanda e
offerta fa’ corrispondere maggiori rendimenti.
Pagheremo più cara una quota di un investimento di un titolo più sicuro con maggiori certezze e con
maggiore rendimento l’euro rischioso. Si fa tendenzialmente riferimento nel mondo finanziario
all’esistenza di investimenti privi di rischio.
Facciamo un esempio: se si guardano le obbligazioni dei titoli di stato greci, dove la rischiosità è
molto maggiore perché abbiamo una discreta probabilità di non rivedere più i soldi investiti o di
rivederne solo una piccola parte, però nel frattempo prendiamo un 15%/20% di interessi sul capitale
prestato. Quindi esiste questo rapporto tra rendimento e rischio.
CHE COS’È UN INVESTIMENTO?
L’investimento è un impiego di risorse monetarie,
altro non è che un’immobilizzazione di risorse
monetarie. Dal punto di vista aziendale si dice per un
lungo periodo, sicuramente superiore all’esercizio.
Perché si fa un investimento? Perché si impiegano le
risorse finanziarie in un bene immobile?
Per i motivi che leggiamo nella slide, cioè
sostanzialmente per avere un ritorno
dall’investimento che naturalmente include il
recupero del capitale iniziale investito adeguato alla
durata e al rischio dell’operazione (tempo e
incertezza).
Per considerare queste due variabili, tempo e
incertezza, poiché la complessità del tema è molto elevata, li analizzeremo per semplicità separatamente,
cioè analizziamo dapprima quella per certi versi più semplice perché è più facile, matematica da trattare che
è quella del tempo e poi faremo alcune considerazioni sull’incertezza dove sull’incertezza c’è tutto un lavoro
su previsioni che possono essere utilizzati per cercare di trattare l’incertezza con maggiore consapevolezza.
Ci occupiamo dapprima, per porre appunto le basi della teoria del valore, del fattore tempo.
Perché ci occupiamo del fattore tempo? Per il primo principio che abbiamo visto, perché 1€ oggi è diverso da
1€ domani, ma allora se questo è vero come facciamo a risolvere questo problema?
Risposta: si ignora il breve termine, cioè per 12 mesi assumiamo che non ci siano problemi. Tutti i flussi di
cassa che differiscono per periodi di breve termine, che sono dai 9 ai 15 mesi, non si considera ovviamente il
problema; a maggior ragione in periodi che stiamo vivendo, dove il rendimento del denaro cioè il tasso di
interesse che remunera il possessore di denaro è estremamente basso.
Quando l’orizzonte temporale invece diventa maggiore dell’anno e quindi parliamo di tot anni, non si può
prescindere da un discorso di omogeneizzazione delle quantità monetarie.
Se faccio un investimento cerco una remunerazione del capitale negli anni con un rimborso non posso fare a
meno di considerare il problema della equivalenza economica che è uno stretto parente del costo opportunità
perché se quei soldi li investissi in un’altra cosa otterrei un certo rendimento. Quindi dobbiamo tener conto
che flussi di cassa di anni differenti hanno valori differenti.

50
Gestire il tempo nella valutazione degli investimenti cioè di impieghi di risorse destinati a lungo termine non
può prescindere da un discorso di equivalenza tra flussi monetari, questo è il motivo per cui consideriamo i
vari criteri di valutazione che vedremo in seguito.
Vi sono due metodi principali per riportare quantità
di denaro riferite a due istanti diversi allo stesso
periodo perché naturalmente dobbiamo
omogeneizzare capitali riferiti a momenti diversi. Per
omogenizzarli abbiamo delle possibilità: possiamo
riportare queste diverse quantità di denaro al valore
di una di queste somme oppure possiamo trasportare
tutte queste somme ad un altro istante a mia scelta,
ma sostanzialmente i concetti sono due o li porto tutti
avanti nel tempo o tutti indietro nel tempo oppure
potremmo anche metterci in un punto di mezzo
quindi vuol dire che le somme che stanno prima le
devo posticipare e le somme che stanno dopo le devo
anticipare. Dobbiamo rendere queste somme
indipendenti dal fattore tempo nel quale si verificano, in particolare parliamo di attualizzazione quando
anticipiamo delle somme, quindi una somma tra due anni la possiamo attualizzare all’anno precedente o a
questo istante se la vogliamo anticipare di due anni mentre parliamo di capitalizzazione quando vogliamo
invece posticipare un investimento che facciamo adesso tra dieci anni quando magari l’investimento si
conclude e quindi vogliamo capire qual è il vero valore di quel capitale fra 10 anni.
Nella capitalizzazione si parla di montante o valore futuro del capitale, nella attualizzazione si parla invece di
valore attuale.
Lo strumento che consente di calcolare questa
equivalenza tra somme diverse è il costo del
capitale (il rendimento del capitale o interesse) per
il fatto che il denaro è caratterizzato da un mercato
costituito da una domanda, come quella delle
imprese che devono fare investimenti e che quindi
sono disposte a retribuire i prestiti attraverso il
costo del capitale, e un’offerta come quella
costituita dalle famiglie, dagli investitori attraverso
le banche o gli istituti di credito o in generale le
fonti di finanziamento.
Come si esprime questo interesse o costo del
capitale?
Si esprime naturalmente in funzione del capitale
impiegato F, quindi il costo del capitale I si misura
generalmente come una quantità proporzionale al capitale F impiegato nella transazione.
Quindi è generalmente un prodotto fra il capitale impiegato F (flusso) per un certo tasso di rendimento 𝑟𝑡 ,
riferiti tutti naturalmente ad un certo orizzonte temporale (periodo t dal momento in cui il capitale viene
impiegato al momento in cui vogliamo fare i conti all’istante t).
Da cui possiamo anche calcolare il tasso di rendimento r come rapporto tra l’interesse (gli oneri finanziari
che conosciamo) e il capitale impiegato F. In realtà quindi quando parliamo di interesse dobbiamo fare
attenzione se intendiamo r o I, dove r è il tasso quindi la misura percentuale del costo del denaro mentre I è
proprio l’ammontare del denaro.
Per esempio dato un capitale iniziale 𝐹0 , come si calcola il valore del capitale iniziale dopo un primo
periodo, ad esempio 1 anno?
Il capitale 𝐹0 dopo 1 anno diventa 𝐹0 + gli interessi quindi: 𝐹0 + 𝐹0 × r , oppure possiamo esprimerlo anche
come 𝐹0 × (1 + 𝑟)1 dove r è il tasso di rendimento annuo del capitale.

51
E se volessimo calcolare 𝐹0 dopo 2 anni? Cosa
dobbiamo fare? La somma (𝐹0 + 𝐹0 × r) che abbiamo
ottenuto alla fine del primo anno è il nostro nuovo 𝐹0
quindi partiamo dal nuovo 𝐹0 e naturalmente la
formuletta è sempre la stessa.
Dopo un anno otterremo il Montante1 + il prodotto del
rendimento r per il Montante1 , da cui raggruppando il
Montante1 si ottiene: Montante1 × (1 + 𝑟).
Oppure possiamo sostituire Montante1 nella formula e
otteniamo 𝐹0 × (1 + 𝑟)2 e così via.
In generale quindi in questo caso semplice, la
capitalizzazione di una quantità di denaro si esprime
moltiplicando il capitale, in questo caso all’istante
attuale quindi il capitale iniziale 𝐹0 , per un fattore di capitalizzazione che è il nostro (1 + 𝑟)𝑛 , riferito
all’anno n.
Quando vale questa formula? Quando r è costante, quindi quando abbiamo un tasso di rendimento del
capitale costante lungo tutto il periodo n. Ovviamente capiamo cosa succede se r non è costante, ogni anno
avremo un r diverso. Viceversa, se dovessimo fare l’operazione inversa, cioè se avessimo a disposizione il
valore di questo capitale tra n periodi e volessimo calcolare adesso a quanto sarebbe equivalente questo
capitale, cioè se noi dovessimo scegliere tra 1mln di euro tra 10 anni e un certo capitale adesso come
facciamo a scegliere? 1 mln tra 10 anni equivale ad 1mln adesso? A priori non lo possiamo dire.
Dipende, potrebbe essere vero o addirittura potrebbe essere anche di più se il tasso r è negativo.
La risposta è che dipende da quello che è il tasso di attualizzazione o capitalizzazione, però teoricamente ci
aspettiamo che 1mln tra 10 anni sia minore adesso per due motivi:
1) Perché i tassi di rendimento del capitale sono positivi, per cui ci aspettiamo che per creare un 1mln
tra 10 anni basta che investiamo 900'000 € adesso (numero a cavolo) e poi basta solo l’1% all’anno
di rendimento per arrivare a 1mln tra 10 anni.
2) Il secondo motivo per cui ci aspettiamo che il valore attuale sia più basso di 1 mln è l’incertezza tra
avere qualcosa adesso e averla fra 10 anni; è chiaro che siamo disposti a rinunciare a qualcosa
percheè non si sa cosa può succederci tra 10 anni. Però qui stiamo facendo discorsi soltanto sul
tempo, matematica, equivalenza finanziaria, quindi non stiamo considerando l’incertezza. Stiamo
considerando un sistema pieno di certezze.
Quindi un valore attuale si ottiene da un
valore futuro per un coefficiente di
attualizzazione, dove quest’ultimo è uguale
1
ad (1+𝑟)
ed r è il tasso di attualizzazione del
periodo che sto considerando. Invece il
valore futuro o valore montante è uguale
sempre al valore attuale per un coefficiente
di capitalizzazione che è sempre uguale a
(1+ r). Siccome noi, parlando di
investimenti, quasi sempre attualizziamo
tutte le somme di denaro al momento attuale
perché siamo più abituati a ragionare in
termini di denaro al momento attuale,
utilizzeremo molto di più l’attualizzazione
rispetto la capitalizzazione. Quando faremo
la parte economica-finanziaria del business plan, i flussi generalmente li attualizziamo perché li riportiamo
con i valori futuri al valore presente.

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Esempio: abbiamo 2 offerte per un terreno. Ci vogliono dare 98000 € subito oppure 103000 € fra un anno
supponendo che l’incasso sia privo di rischio e supponiamo che il costo opportunità, cioè il tasso di
remunerazione r tipico di questi investimenti, sia pari al 3,5%. Quale conviene?
Se utilizziamo il discorso dell’attualizzazione (attualizzando quindi il flusso di cassa posticipato) 103000/(1+
0.035) fa di più di 98000. Se vogliamo invece posticipare il flusso di cassa attuale, moltiplichiamo 98000 ×
(1.035) ed otteniamo 101430€, che è minore di 103000€. Tutte e due le metodologie, pur dando numeri
diversi, ci dicono tutte e due che la soluzione più conveniente è la seconda (103000) perché ha un tasso di
rendimento superiore al 3,5% rispetto a 98000.
Diamo qualche definizione:
 valore attuale: valore attualizzato di un futuro flusso
di cassa 𝐶𝑡 ;
 tasso di sconto: si usa anche questa dizione per
tasso di interesse, perché sconta, cioè se attualizziamo non
facciamo altro che dividere 100 per un valore maggiore di 1
(perché (1+ r) è > 1) quindi il capitale si riduce, perciò il
tasso di attualizzazione viene anche chiamato tasso di
sconto;

 fattore di sconto: discount factor, cioè il valore attuale di


un futuro pagamento di 1 €, quindi si può dire che il valore
1
attuale = fattore di sconto (1+𝑟)× il capitale 𝐶𝑡 .

Gran parte dei metodi che studieremo di valutazione economica


si chiamano anche discounted method, quindi discounted factor,
discounted cash flow, proprio per significare che sono
attualizzati, cioè scontati, ridotti al momento inziale della
valutazione.
In generale quindi il valore attuale è uguale ad un fattore di
sconto per un capitale.

Che differenza c’è tra queste due formule?


E’ chiaro che se mettiamo l’anno già ci togliamo un
problema, cioè se l’unità di misura è anno, la prima formula è
semplicemente di 1 anno e la seconda è relativa a t anni, dove
l’ipotesi è che 𝑟𝑡 ( tasso di capitalizzazione annuo nel periodo
t, cioè se t è un quinquennio qui non avremo un tasso
quinquennale, ma avremo il tasso annula in tutti e 5 gli anni)
sia costante.
Questa formula (la seconda) va bene quando abbiamo un
certo periodo fatto di n anni in cui conosciamo il tasso annuo
costante nei diversi anni.
Quando vediamo i tassi delle obbligazioni potremmo far
confusione, perché bisogna esattamente capire di che tasso
stanno parlando, a che periodo è riferito, per quanto tempo
ecc. per creare delle equivalenze monetarie che non siano
sballate.
Facciamo un esempio:
Supponiamo di aver appena comprato un computer da 3000€;
il contratto prevede un pagamento fra 2 anni, cioè un
posticipo di pagamento. Se il costo opportunità del denaro,
53
cioè se noi potessimo impiegare questi 3000€ all’8%, oggi quanto denaro dovremmo mettere da parte per
pagare l’importo alla scadenza?
Supponendo che possiamo guadagnare l’8%, in pratica quanto ci costa adesso? Di più o di meno?
Sicuramente per poterlo pagare tra 2 anni, stiamo pagando un extra costo; viene a costare di meno se lo
paghiamo prima.
Viene a costare di meno se lo paghiamo oggi perché significa sostanzialmente che mettiamo da parte una
certa somma più bassa che da sola, guadagnando l’8%, andrà poi a costituire i 3000€ finali. In particolare,
3000
calcoletto semplice: (1.08)2 = basta mettere da parte circa 2570€.
La prova del nove è che se facciamo la capitalizzazione, dai 2572 ovviamente otteniamo i 3000€.

I valori attuali possono essere naturalmente anche


sommati, cioè possiamo avere una serie di flussi di cassa
relativi a periodi differenti e anche relativi a tassi di
𝐶
rendimento differenti. Quindi valore attuale non solo (1+𝑟)𝑡
𝐶1
, ma anche (1+𝑟1 )1
se abbiamo un certo capitale alla fine
del primo anno; se abbiamo un altro capitale alla fine del
secondo anno con un suo diverso tasso annuo costante di
attualizzazione nei due anni e così via per tutti.

Vediamo ora un esempio che ci fa capire un po’ quanto sia complicato ragionare in termini di tassi di
interesse quando siamo difronte a orizzonti temporali pluriennali. Qual è un tasso annuo di investimento che
dura un periodo t?
Prendiamo un’obbligazione come un btp (buono del tesoro pluriennale), come ci aspettiamo che l’acquisto ci
remuneri il capitale? Lo spread famoso di cui si parla tanto è il confronto tra un btp decennale e un bund
decennale, cioè prestiamo soldi allo Stato italiano o tedesco e lo Stato oltre a restituircelo dopo 10 anni, ci
paga ogni anno un interesse. Quindi quando si parla di tasso di interesse di quei titoli, che tasso di interesse
è? È un tasso di questi?
Bund decennale significa in sostanza che abbiamo un investimento iniziale (esborso per acquistarlo), quindi
un 𝐶0 , 𝐹0 , poi ogni anno avremo una somma di denaro che corrisponde al tasso di interesse che ci è stato
garantito (cedola) che è il tasso di interesse dell’obbligazione per tutti e 10 gli anni. L’ultimo incasso sarà il
capitale iniziale cioè l’identico valore che abbiamo prestato, quindi se abbiamo acquistato 1000€ alla fine
dopo 10 anni ci saranno dati i 1000€. Quindi avremo una sommatoria sostanzialmente di 10 termini in cui il
primo, l’𝐹0 , è negativo del nostro investimento anche se qui non è rappresentato e poi avremo il 𝐶1 , il 𝐶2 …
𝐶10 dove è fatto da 2 fattori d’interesse e di restituzione del capitale, che dovremo in qualche modo
attualizzare a un tasso di interesse. Alla fine quale sarà il valore attuale del nostro capitale investito in quella
obbligazione? Se non consideriamo il capitale iniziale perché non è un valore attuale netto, ma solo un valore
attuale dei flussi in entrata, alla fine quanto varrà tutta questa rendita che abbiamo fatto in 10 anni?
Se abbiamo investito 1000€ alla fine otterremo, attualizzando tutti i flussi di cassa degli interessi e della
restituzione del capitale finale, un valore attuale pari a 1000 perché stiamo attualizzando tutti i rendimenti col
tasso di rendimento dell’obbligazione.
Tutto questo discorso l’abbiamo fatto per capire cos’è l’ 𝑟2 , l’ 𝑟3 .
Questi tassi 𝑟1 , 𝑟2 , 𝑟3 ed 𝑟4 sono tutti uguali?
No, perché questo è un tasso annuo di un investimento che dura un periodo t.
Se leggiamo la slide precedente, sotto c’è scritto obbligazioni pluriennali a zero coupon che significa che non
ci danno le cedole cioè investiamo i 1000€ e alla fine del periodo, dopo i 10 anni, ci ridanno 1100€ tutti alla
fine.
Se ci dicono che quell’obbligazione è al 10%, questo è il tasso di interesse dei 10 anni, qual è il tasso annuo
corrispondente a un 10% collettivo? Non è l’1%, perché il tasso annuo corrispondente a questo periodo t,

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soffre del fatto che ipotizza che noi reinvestiamo anche gli interessi allo stesso tasso di interesse negli anni
successivi, quello che si chiama un interesse composto.
Per cui attenzione a maneggiare questi 𝑟𝑡 !

Vediamo un paradosso:
Dati 2 euro, uno ricevuto fra un anno e l’altro tra 2 anni, il
valore di ciascuno, siccome stiamo parlando di 1€, equivale
al fattore di sconto, cioè se il capitale è uguale ad 1
ovviamente il valore attuale è 1 × fattore di sconto = fattore
di sconto.
Se assumiamo che 𝑟1 sia pari al 20% e 𝑟2 sia il 7% quindi
proprio un tasso di attualizzazione annuo per un biennio,
qual è il loro valore attuale? Anche qui attualizzo e trovo che
il valore attuale, che coincide con il fattore di sconto perché
stiamo parlando di 1€, è uguale a 0,83 nel caso del primo
euro ed è uguale a 0,87 nel secondo anno.
Per cui il valore attuale dei due euro è 0,83+ 0,87.
Se qualcuno ci chiedesse in cambio di qualcosa questi 2€
(fatti da 1€ tra un anno, 1€ tra due anni, 1 al tasso del 20% e 1 al tasso del 7%), noi dovremmo chiedergli
1,70€ subito. Perché l’abbiamo definito paradosso?
Perché c’è una cosa strana: se è lo stesso valore 1€, come fa 1€ tra due anni a valere di più di 1€ tra un anno?

Ovviamente non è possibile, quindi è un esercizio


numerico che non ha un riscontro nella realtà
perché se fosse vero noi potremmo prendere in
prestito al tasso 𝑟2 del capitale e investirli al tasso
𝑟1 .
1
Generalmente deve succedere che (1+ 𝑟2 )2
1
dev’essere < di (1+ 𝑟 ) , altrimenti si creerebbe una
1
macchina da soldi.

Abbiamo detto che progetti di investimento a


rischio più elevato, richiedono un più elevato tasso di rendimento. Anche se non parliamo per il momento di
incertezza o rischio, abbiamo assunto che chi chiede o offre denaro a progetti di maggiore incertezza
generalmente troverà valori di quei progetti a minore incertezza più bassi e quindi con un più elevato tasso di
rendimento.
C’è dunque un legame tra il tasso di rendimento e valore dell’investimento che vogliamo fare.

Pensiamo al valore di investimento sempre come un prezzo


di un titolo, come abbiamo detto prima parlando del caso
Coca Cola o Google. A parità di bilanci, ovviamente
troveremo sul mercato più caro il titolo Coca Cola e meno
caro il titolo Facebook, perché il titolo Facebook è più ad
alto rischio mentre quello Coca Cola è più a rendimento
sicuro e quindi il prezzo è più alto, il che significa tassi di
remunerazione più bassi.

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Esempio:
Valore attuale di un capitale 𝐶1 =400 con un tasso 7%, quindi
se dobbiamo calcolare il valore attuale di una somma pari a
400 tra un anno otteniamo 374.
Se invece il tasso fosse il 12%, vediamo che il valore attuale è
più basso.
Se il tasso di rendimento è una proxy del rischio (più alto è il
tasso di rendimento, più rischioso è il titolo e viceversa)
vediamo che tendenzialmente il valore di quell’attività sarà più
basso.
Questo significa anche che quando attualizziamo dei flussi di
cassa 400 e dobbiamo scegliere un tasso di attualizzazione,
teniamo presente che più è elevato questo tasso, più penalizziamo (scontiamo) il valore di quei flussi di
cassa. Quindi un investimento, un business plan, con dei bellissimi flussi di cassa elevati ecc, in cui però
l’attività è molto incerta e rischiosa e quindi presuppone un costo del capitale particolarmente elevato,
vediamo già che questo dopo i primi anni va a tagliare le gambe a valori che stiamo considerando; perché se
consideriamo un tasso del 10/15 o 20%, dopo 3/4/5 anni i valori sono già più che dimezzati.
Pertanto attualizzazione e tasso comportano una riduzione dei tassi di attualizzazione.
Il V.A.N. che cos’è? Altro non è che l’attualizzazione di questi flussi futuri meno l’investimento iniziale.
Quindi nella formula più generica, possiamo esprimere la
formula del Valore Attuale Netto come somma dei capitali
riferiti anche all’anno 0, con il 𝐶0 , dove sappiamo che lo
possiamo esprimere anche con una sommatoria per n o per t che
va da 0 a n, perché se mettiamo il valore 0 anche a questo
rapporto otterremo (1 + 𝑟1 )0 che fa 1, quindi 𝐶0 o 𝐹0 .
Se esprimiamo i capitali in forma algebrica, ovviamente C sarà
tendenzialmente negativo e i flussi di cassa sono generalmente
positivi. Questo vale sia per le obbligazioni, cioè per i titoli di
risparmio, di debito delle imprese o degli Stati, ma
tendenzialmente vale anche per gli investimenti industriali cioè
non è un caso particolare il caso in cui si abbia un investimento iniziale e successivamente una serie di flussi
di cassa positivi; è sicuramente il caso più diffuso in assoluto. L’investimento nel 99% dei casi ha un
investimento iniziale, quindi un esborso iniziale, e una serie di flussi di cassa positivi.
Quello che può succedere al più, anche nei nostri business plan, è che potremmo trovarci a discutere di questi
primi due fattori, perché l’investimento iniziale può essere in genere un po’ dilazionato, possiamo comprare
alcune cose subito, alcune cose dopo, può essere a step, ma tendenzialmente il grosso dell’investimento in
gran parte delle attività economiche avviene all’inizio.
Vediamo un altro esempio:
Quanto guadagniamo se acquistiamo un immobile a
350 e lo rivendiamo dopo 1 anno a 400?
Risposta: il guadagno è di 50, cioè del 15% più o
meno.
Quindi quando ci dicono investimenti a uguale grado
di rischio nel mercato dei capitali offrono un
rendimento del 7%, lo facciamo o no questo
investimento?
Se abbiamo già calcolato velocemente prima che c’è
un guadagno del 15%, di fronte a una domanda del
genere andiamo veloci senza basarci poi su chissà
quali regole.

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Se poi vogliamo calcolare il valore attuale, dividiamo 400 per 1,7 e troviamo 374.

Per cui Valore Attuale Netto = 𝐶0 + ( 𝐶1 × Fattore di


sconto ) che è pari a 24.
Quanto abbiamo guadagnato da questo investimento?
24? NO! Abbiamo guadagnato 50!
Che cos’è invece questo 24, se abbiamo già detto che
abbiamo guadagnato il 15%?
Perché alla fine come delta ci troviamo quel 24 e non 50?
Supponiamo che il prezzo di vendita sia 374 anziché 400,
attualizzando 374 ci viene 350, cioè VAN = 0.
Ma noi in questo caso abbiamo venduto a 350 e abbiamo
incassato 374, quindi quanto abbiamo guadagnato?
24, che in percentuale corrisponde al 7%, in linea col
mercato, ma il VAN = 0.
Ritornando al VAN = 24, questo 24, per il fatto che è > di 0 ci dice che l’investimento è andato a buon fine, e
rappresenta il guadagno oltre il tasso di interesse che abbiamo considerato, cioè è l’extraprofitto rispetto al
7%. Tant’è che se guadagniamo il 7% il VAN è = 0, il che non vuol dire che l’investimento fa schifo o che
incassiamo la stessa cifra che abbiamo investito, anzi, noi guadagniamo molto di più rispetto quello che
abbiamo investito perché guadagniamo il 7%.
Senza extraprofitti ( VAN=0, viene chiamata condizione di indifferenza) è un investimento analogo a quelli
medi del settore, cioè tutti comprano e vendono al 7%. Quindi questo guadagno che esprime il VAN
possiamo inquadrarlo in questo senso, cioè è un guadagno che eccede rispetto all’attualizzazione che
abbiamo considerato, ovvero rispetto al rendimento del capitale che abbiamo considerato.
In sostanza, VAN = 0 significa guadagnare un tasso di rendimento che è pari al tasso di attualizzazione che
deve recuperare.

REGOLA DEL VALORE ATTUALE NETTO:

tutta la teoria del valore si basa su questa semplice regoletta.


Quando la teoria del valore dice che si fa un investimento? Quando il VAN è positivo, perché significa che
l’investimento almeno rende il tasso di sconto che abbiamo considerato.
VAN = 0,1 € si fa l’investimento? In un investimento in cui abbiamo utilizzato un tasso di attualizzazione del
20% vuol dire che quell’investimento rende 20%, quindi 0,1€ in quell’ottica non è male.
In condizioni di certezza, dati precisi, bei tassi di interesse ecc 0,1 è una cosa buona, ma anche 0 in queste
condizioni va bene. 10 centesimi è un valore positivo, cioè la teoria del valore dice che basta che il VAN sia
positivo; è chiaro che se poi abbiamo diversi investimenti in cui in uno il VAN è 1€ e l’altro è 10000€
ovviamente faremo altre considerazioni quindi queste regolette che vediamo sono ovviamente delle regolette
tutte ceteris paribus (latino: a parità di tutte le altre condizioni).
Esempio:

Supponiamo di investire 50€ e di riceverne 60 fra un anno,


quindi se facciamo un investimento in cui investiamo 50€
oggi e fra un anno ce ne danno 60, lo faremmo?
Dipende, se il tasso di attualizzazione fosse 50% ovviamente
non avrebbe senso, se è il 10% quello che otteniamo è che
quei 60€ valgono 55,50€, quindi avremo un VAN positivo, il
che significa che guadagniamo più del 10%.

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Accettiamo investimenti che offrono un rendimento maggiore del costo opportunità del capitale, cioè
sostanzialmente abbiamo fatto questo. Se il costo del capitale è 10 e noi abbiamo già calcolato che il
rendimento era il 20, è ovvio che stiamo girando l’ottica accettando investimenti non che hanno VAN
positivo ma che hanno tassi di rendimento superiore al costo opportunità del capitale o tasso di
attualizzazione.
Se vogliamo calcolare quello che abbiamo già fatto a
mente, dividiamo il profitto per l’investimento e
otteniamo il rendimento pari al 20% che è > del 10%
quindi l’investimento va fatto.

ATTENZIONE: qualche volta, all’esame, c’è qualcuno che parla di tassi di rendimento degli investimenti
e questo è dovuto fondamentalmente a questa slide. Purtroppo non si può parlare di tasso di rendimento degli
investimenti perché vedremo che il tasso di rendimento nella nostra accezione è un tasso di rendimento
annuo. Quando parliamo di tassi di rendimento parliamo del 5/10/20 % cioè parliamo di tassi di rendimento
annui. Il tasso di rendimento di un investimento, se lo mettiamo come rapporto profitto su investimento, in
molti casi non ha senso perché il profitto è molto maggiore dell’investimento!
In ogni investimento, se sommiamo i profitti ricavati lungo tutti gli anni a volte superano lo stesso
investimento quindi dovremmo pagare dei rendimenti del 250% ecc.
Il problema è che questi esempi funzionano perché stiamo ragionando su un anno, su un periodo. Tutti questi
esempi che abbiamo visto e che fa il testo, si riferiscono a dei concetti semplici che generalmente si
riferiscono a un anno. Quando però si allarga il discorso e introduciamo i criteri di valutazione, vediamo
degli esempi di investimenti in cui generalmente abbiamo diversi anni di valutazione, dunque il concetto di
rendimento dell’investimento non lo troveremo più perché perde di significato. Potremo parlare di
rendimento medio, alto, di altri concetti ma che in realtà non vengono utilizzati.

Possiamo considerare in qualche modo l’incertezza?


Finora abbiamo parlato soltanto di equivalenze quindi di
attualizzazione e capitalizzazione. Come facciamo a
tener conto dell’incertezzza?
Un caso tipicamente ingegneristico semplice per
considerare l’incertezza potrebbe essere quello di
considerare delle distribuzioni di probabilità dei valori,
cioè quali saranno i ricavi del prossimo anno, i costi del
prossimo anno con una distribuzione β, individuando un
minimo, un massimo, un valore più probabile e
facciamo una media di quei valori. Questo è un
approccio tipicamente ingegneristico per concretizzare e
tenere in mano degli ordini di grandezza. Nella slide
vediamo descritto un esempio.
A seconda dello stato dell’economia, se ci troviamo in recessione, in una fase normale o in una fase di
crescita, potremmo avere valori di flussi di cassa quindi valori economici significativamente diversi.
Come facciamo quindi per tener conto dell’incertezza?
Prendiamo il valore medio e consideriamo quindi un cosidetto valore attuale netto atteso.

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Vedremo esempi di questo genere quando parleremo per esempio dell’albero delle decisioni, che sono
appunto strumenti che vedremo dopo aver affrontato i criteri di valutazione degli investimenti dal punto di
vista più deterministico, che possono essere utilizzati per incorporare l’incertezza nelle valutazioni.
Naturalmente ci sono metodi molto più sofisticati, cioè se abbiamo delle distribuzioni di probabilità
possiamo fare delle simulazioni, oppure si possono utilizzare delle analisi di sensitività quindi variare alcuni
parametri per volta e vedere quali sono i fattori critici di un investimento, quindi quali sono le voci di costo,
di acquisto, di ricavo che possono influire maggiormente sui valori economici di un investimento.
Quindi la considerazione dell’incertezza è sicuramente più complicata e andrà poi analizzata a parte.

Facciamo ora un altro esempio:

questo ci fa vedere come faremo anche noi i


conti nei nostri fogli Excel, cioè alla fine delle
valutazioni quando avremo stimato i ricavi, i
costi e i flussi di cassa dei relativi periodi,
faremo un foglio in cui metteremo i diversi
periodi, un tasso di attualizzazione (in questo
caso il 7%) che ci genera un fattore di sconto e
come i nostri valori dei flussi di cassa,
provenienti da rendiconto finanziario, diventano
poi dei valori attuali.
Alla fine poi la somma del valore attuale ci dà il
valore attuale netto.

59
26 Marzo 2015
La scorsa lezione abbiamo visto i principi base della teoria del valore, in particolare abbiamo parlato di
valore attuale e valore attuale netto come principale criterio per definire la convenienza economica di un
investimento. E’ un concetto molto semplice, sommatoria di entrate e uscite di cassa (impiego iniziale di
risorse e flussi in entrata che abbiamo dobbiamo rendere omogenee temporalmente con l’investimento
iniziale). Questa omogeneizzazione si determina attraverso l’attualizzazione o capitalizzazione a seconda che
volgiamo trasportare tutti i flussi al momento iniziale, finale o intermedio. Generalmente li si riporta al
momento presente parlando appunto di valore attuale o valore attuale netto nel caso in cui si fa questa
valutazione per determinare se le entrate sono almeno pari alle uscite nel senso che con l’attualizzazione si
vanno a scontare i flussi futuri di cassa ed è chiaro che dire che le entrate pareggiano le uscite non vuol dire
che tanti soldi sono usciti, tanti ne sono entrati ma i soldi che sono entrati sono sicuramente superiori a quelli
usciti scontati dell’attualizzazione. L’attualizzazione tiene conto del costo opportunità del denaro quindi del
suo rendimento richiesto con un impiego di risorse di questo tipo. Facendo un po’ di calcoli ci si rende conto
che si può semplificare, essendo il calcolo del valore attuale noioso per via della lunga sommatoria di flussi
di cassa nel tempo, con delle scorciatoie. Se volessi fare un calcolo sul valore attuale netto di un
investimento su 20 anni come per esempio quello in fotovoltaico dovrei costruirmi 20 fattori di sconto,
eseguire moltiplicazioni, divisioni, sottrazioni, ma esistono delle formule che semplificano utilizzabili solo in
casi particolari che consentono per lo meno di avere un ordine di grandezza dei valori di cui stiamo parlando.
Uno di questi è la rendita perpetua:
pensiamo ad una bella eredità, 10.000€/anno
per tutta la vita, la domanda è: questa somma
ricevuta ogni anno, a quanto equivale in termini
monetari allo stato attuale?
L’alternativa sarebbe avere 1.000.000€ subito.
Qual è l’equivalente monetario attuale di una
rendita perpetua e cioè infinita di
10.000€/anno?
Per poterla calcolare usiamo la formula a
sinistra. Rendimento è come al solito un
guadagno su un investimento o somma di
capitale. I nostri 10.000€ corrispondono al
flusso di cassa, la nostra incognita corrisponde
al VALORE ATTUALE (a cosa equivale avere
10.000€/anno?)
L’ordine di grandezza per i tassi di interesse al giorno d’oggi è 0,5-1-2 % (anni fa trovavamo fino al 10%).
Se avessi un milione di euro e mi comprassi dei BTP (1.2%) riuscirei a prendere 12.000€/anno di interesse,
se invece compro i BUND tedeschi lasceremo un po’ di soldi. Non sapendo il valore attuale vorremmo
sapere in questo momento storico a quanto equivale avere una rendita di 10.000€/anno:
Con la formula inversa calcoliamo il valore attuale come rapporto tra cash flow e tasso di interesse. Nel
nostro caso 10.000€/0.01= 1.000.000€ se invece la rendita del capitale fosse 10% oggi avrei in tasca
100.000€. risulta quindi semplice la conversione tra una rendita, flusso di cassa e un capitale iniziale
dividendola per il tasso d’interesse. Di conseguenza quando compriamo qualcosa a rate, sapere che
pagheremo 1.000€/anno possiamo trasformarlo subito in un ordine di grandezza in un pagare tutto subito più
o meno equivalente alla rata diviso il tasso d’interesse. 1.000€/anno diviso il 5% equivarrebbe a pagare
subito 20.000€.

60
È un ordine di grandezza perché stiamo parlando di una rata infinita, quindi è un’approssimazione. La
formula che leggiamo può essere corretta tenendo conto di una rata non costante. Se i 10.000€ ogni anno
incrementano di un certo tasso (g= tasso di crescita di C) lo devo sottrarre al tasso d’interesse al
denominatore.
Il caso più esatto è un caso in cui la rendita
non è infinita ma dura un certo periodo. Per
calcolare l’equivalente di una rendita per 10
anni posso attualizzare ciascun flusso di cassa
(rendita per il fattore di sconto); se volessi
una formula sintetica:
con una rendita perpetua otterrei il valore
trovato prima (C/r), quindi a questo punto
devo togliere tutti i pagamenti da un certo
anno in poi (t+1) che corrisponde sempre a
(C/r) attualizzata all’istante (t+1)
moltiplicandola per il fattore di sconto 1/(1+r)t
Con una semplice sottrazione tra la prima e la seconda rendita ottengo l’attualizzazione della rendita per t
periodi. Ho così ottenuto la rendita perpetua dall’anno 1 all’anno t.

La formula definitiva è questa che leggiamo a


sinistra senza dover sommare tanti addendi,
come accade negli investimenti in energie
alternative come impianti eolici, fotovoltaici
con flussi di cassa tutti uguali per 20 anni.
Nella seconda formula è presente il tasso (g) di
crescita del capitale.

In questo esempio non ci sono ne anticipi ne


scadenze di contratto e ci viene dato il costo
opportunità del capitale pari al 0.5% al mese, si
vuole sapere l’equivalente dei 14.400€ pagati
mensilmente attraverso il costo di leasing. Ho 48
rate da 300€, potremmo attualizzare le 48 rate
ciascuna per un fattore di sconto pari a 1+0.005
elevati a 1,2,3,…48 oppure rifacendoci alle
formule appena viste calcoliamo il valore attuale di
questi pagamenti come la rata per il fattore di
rendita pari a [1/r – 1/r(fattore di sconto)48]. Se ci
offrono una rateizzazione possiamo evincere che
dando 12.000€ subito, ci andiamo a guadagnare
qualcosa rispetto ai 14.400€ distribuiti in 48 anni.
Qui non abbiamo un tasso annuale, l’importante è
che ci sia assoluta coerenza fra il tasso e il periodo.

61
Se volessi calcolare il valore attuale come se fosse una rendita perpetua verrebbe 60.000€ rispetto il valore
attuale di una rendita limitata nel tempo di 12.000€, hanno comunque lo stesso ordine di grandezza. Dovendo
generare una rendita infinita, il capitale non deve praticamente essere mai toccato, deve essere sempre
disponibile per generare reddito. Nel caso della rendita finita, alla fine del periodo, il capite ce lo giochiamo
per pagare gli interessi.
Questo esempio tratta della pensione integrativa:
Quanto devo mettere da parte durante la mia vita
lavorativa per assicurarmi, una volta in pensione,
12.000€/anno? Prevediamo di lavorare 40 anni e di
vivere altri 20 anni, quanto dobbiamo risparmiare
considerando un tasso d’interesse pari al 3% (tutti
dipende da lui)?
In particolare notiamo tasso di interesse REALE
perché i tassi cambiano nel tempo e insieme ai tassi si
muovono le inflazioni quindi quando il tasso
d’interesse si abbassa molto anche l’inflazione si
abbassa molto e viceversa. Il tasso d’interesse reale è
pari alla differenza tra il tasso d’interesse e l’inflazione
è un po’ più costante e ragionevole. Una stima grezza è fatta supponendo che non ci sia la bestia
dell’attualizzazione perché costo del denaro e opportunità si azzerano, diventa tutto più facile, non dobbiamo
utilizzare le formule attuariali ma effettuo il calcolo come se il denaro non abbia nessun costo o rendimento.
Volendo 12.000€/anno di pensione per 20 anni, devo mettere da parte un totale di 240.000€ da cui spillare
ogni anno i 12.000€ senza oneri ne interessi. Quanto devo risparmiare ogni anno per mettere da parte questo
tesoretto? Siccome lavoro 40 anni 240/40= 6.000€/anno in pratica devo mettere da parte 500€/mese.
Se in questo calcolo dovessi considerare l’attualizzazione verrebbe:

La cosa importante è attualizzare i flussi futuri, parlando di flussi reali che incorporano l’inflazione, i
12.000€ /mese per vent’anni a partire da quando avrò 65 anni fino a 85 mi fa capire che il valore della
pensione all’inizio dell’età da pensionato (65 anni) varrà 120.000 per il Fattore Di Rendita per dare
178.530€. Questa formula mi dice in termini pratici che devo accumulare 178.000€ uno sconto per ottenere i
desiderati 12.000€/anno perché mentre i soldi stanno in banca rendono aumentando del 3% all’anno. Il
secondo passaggio è capire quanto valgono i 178.530€ in termini attuali. Se avessi a disposizione moneta e
volessi mettere da parte sin da subito (25 anni di età) quanto dovrei mettere da parte? Il valore scenderà
automaticamente perché attualizzo il valore trovato calcolato tra 40 anni (65 anni d’età) portandolo a oggi
attualizzandolo con una formula di attualizzazione semplice. Se avessi 54.730€ da parte e li versassi in banca
senza toccarli con un fondo che mi garantisce il 3% all’anno, tra 40 anni mi troverei 178.530€ oppure potrei
discutere con l’assicurazione chiedendo al posto dell’intera somma 12.000€/anno per 20 anni. Qui entra in
gioco l’equivalenza dei flussi di denaro. Ora sapendo la somma attuale di cui necessito, non avendola
immediatamente a disposizione, voglio arrivare a capire qual è il risparmio che ogni anno devo fare. La mia
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incognita ora non è più il valore attuale ma la rata. La rata che per 40 anni corrisponde ad avere un capitale
iniziale di 54.730€ equivale 2.370€/anno = 200€/mese.
Se il tasso fosse del 5% la rata da mettere da parte scende ancora perché il denaro frutta ma i tassi reali non
cambiano molto perché come salgono i tassi, sale anche l’inflazione.
L’equivalenza economica fra tassi d’interesse su
periodi di versi:
nella prima colonna troviamo i periodi per anno (in
quanti periodi decido di dividere l’anno) e nella
seconda l’interesse per il periodo (per un anno è del
6% da dividere per i periodi considerati).
12 periodi (4^ RIGA) equivale a un interesse mensile.
La terza colonna è del tasso annualizzato (o tasso
semplice) ed è restituito dal numero di periodi per
l’interesse relativo ad esso Is.
Ia è il valore dopo un anno, raramente si considera un
tasso d’interesse semplice, generalmente si utilizza il
tasso d’interesse composto Ic.
Pensiamo all’acquisto dei BOT semestrale (dopo 6 mesi restituiscono il capitale) con tasso d’interesse pari al
3%. Se investo 1€, dopo 6 mesi avrò guadagnato 0.03€, se i 3 centesimi me li intasco alla fine dei sei mesi, e
ricompro il BOT a 1€ avrò sempre lo stesso guadagno, ma se oltre l’euro vado a reinvestire anche gli
interessi guadagnati, alla fine dell’anno avremo un ammontare maggiore pari a 6.09€. l’interesse composto in
sostanza considera l’equivalenza monetaria comprendendo il frutto dell’investimento, tutti gli interessi
finiscono a sorte capitale e rendono anche loro lo stesso tasso d’interesse. Se compriamo un BOT annuale al
6% con cedola semestrale (ogni 6 mesi ci paga l’interesse) ci aspetteremo di guadagnare ogni sei mesi meno
dei 0.03€ perché se il 6% è calcolato su l’anno, vuol dire che l’interesse semestrale è più basso quindi
bisogna sempre fare attenzione a come vengono dichiarati gli interessi. In generale, nelle formule di
equivalenza finanziarie e monetaria si utilizzano i tassi d’interesse composti, nella pratica purtroppo si
utilizzano diversi tipi di tassi.
Basti vedere la differenza tra i due tassi d’interesse, con
quello semplice non andremmo da nessuna parte,
dovremmo accumulare tantissimo non riuscendo a sfruttare
l’effetto esponenziale del tasso composto che remunera tutti
gli interessi che vengono reinvestiti nel capitale quindi il
valore futuro di 1€ nel tempo, calcolato con una produttoria
periodi per interessi semplice è diversa da una esponenziale
che considera l’interesse composto come nella formula di
attualizzazione. Formule di attualizzazione e di
capitalizzazione sono formule che utilizzano interessi
composti, infatti abbiamo esponenti, non produttorie.

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Stesso casino per periodi di capitalizzazione
diversi (mensili, annuali). Alla base c’è sempre
l’equivalenza monetaria quindi se passiamo da
un tasso mensile, annuale, semestrale, l’unica
certezza che abbiamo è che la quantità di denaro
in un certo momento deve essere sempre la
stessa. Se ad esempio voglio avere 1.000€ tra un
anno quindi F0 capitalizzato con un tasso mensile
o con tasso annuale posso utilizzare la formula di
equivalenza tra tasso mensile e annuale che leggo
a sinistra. Con il tasso semplice dovrei
semplicemente moltiplicarlo per 12 ma qui
consideriamo il tasso composto. Per capire la
relazione tra tasso annuale e tasso semestrale
devo inserire in tale formula anziché 12, il valore
2 all’esponente.
Vediamo l’esempio:
se ho un tasso mensile dell’1%, a quale tasso annuale corrisponde? Su periodi piccoli fare numero di periodi
per il tasso ci da per lo meno un’idea 12%, ma se lo calcolo in maniera corretta vedo dalla slide che ottengo
12.68% superiore a quello approssimato.
L’INFLAZIONE
Tutti i ragionamenti fatti fino
ad ora sono stati fatti
considerando la moneta una
unità di misura assolutamente
indiscutibile e costante priva di
distorsioni. Purtroppo la
moneta non è una grandezza
fisica come quelle che
conosciamo perché si dilata e si
restringe, il problema
dell’inflazione. Quando
parliamo di un tasso d’interesse
nominale, parliamo di un tasso
di crescita comunemente
trasferito, se non ci fosse
chiarezza sul rapporto tra
quanto investiamo e quanto
dobbiamo incassare sarebbe
tutto più difficile. Dato che è
una distorsione, si fa finta che
non esista e non se ne tiene conto, però esiste. Inflazione è un aumento generale dei prezzi o rappresenta la
diminuzione del potere d’acquisto. Con la stessa quantità di soldi e l’aumento dell’inflazione posso comprare
sempre meno roba, essendo diminuito il potere d’acquisto della moneta. Oggi siamo in un problema
esattamente opposto e cioè deflattivo dove abbiamo problemi nel non avere l’inflazione che è un altro
rovescio della medaglia.
Il tasso di inflazione lo misuriamo prendendo un bene di riferimento come la benzina, i pomodori e si vede
se il suo prezzo aumenta o diminuisce nel tempo. Nel caso di aumento c’è stata inflazione, il delta (p 1-p0) va
al numeratore e p0 (prezzo nominale) va al denominatore.
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L’inflazione si misura su un indice che riporta tutte le categorie di un bene che vengono ad indicare le
proporzioni con cui vengono acquistati i vari beni. La relazione tra i valori del denaro è legata dal tasso
d’inflazione: la quantità di denaro che ci vuole per comprare lo stesso bene tra un anno è uguale alla quantità
di denaro che ci voleva l’anno prima moltiplicata per 1+j. In questo caso l’effetto inflattivo va contro
corrente rispetto all’attualizzazione, il prezzo futuro è più grande del prezzo passato ma non ha nulla a che
vedere con il costo del denaro visto fino ad ora, è solo un effetto distorsivo della moneta.
Il tasso di interesse reale è il modo con cui un capitale viene remunerato al netto della variazione del potere
d’acquisto della moneta, quindi voglio sapere che se mi compro un BOT con tasso di rendimento 1% e
quindi investo 1.000€ e alla fine dell’anno mi ritrovo 1.010€, so che ho guadagnato l’1%. Potrei aver
guadagnato l’1% ma il potere della moneta potrebbe essere diminuito dell1%e alla fine non ho guadagnato
niente, in quel caso il tasso d’interesse reale sarebbe 0. Possiamo comunque calcolarlo attraverso una serie di
passaggi legati a relazioni di equivalenza tra flussi di moneta. Senza inflazione ho che il capitale all’anno 1 è
uguale al capitale all’anno 0 più l’interesse:
Foj è in presenza di inflazione,
Ir è il tasso d’interesse reale
Se eguaglio le due equazioni
viene fuori la formula che ci
interessa
il tasso di interesse reale (ir) si
misura con la formula a
sinistra.
I dati che conosciamo sono
l’inflazione e il tasso di
interesse nominale che è quello
dichiarato da banche ecc ecc.
Il tasso di interesse reale lo calcoliamo, per nostra comodità, come differenza tra l’interesse nominale e
l’inflazione.
Esempio:
Vogliamo calcolare quanto guadagno investendo 1.000€
in un BOT. Al 5,9% avrò 1059€ ma so che il tasso
d’inflazione è del 3,3% da sottrarre a 5,9% è come se
avessi guadagnato il 2.6%.
Nella slide vediamo entrambi i modi di calcolare il tasso
d’interesse reale, sia con la formula più complicata sia
con la semplice differenza tra interesse nominale e
l’inflazione, alla fine varia solo dell’1%, quindi conviene
usare la seconda formuletta.
Ha importanza considerare l’inflazione quando l’inflazione è alta, viceversa influisce poco, questo dal punto
di vista qualitativo.

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Nell’analisi dell’inflazione in 100 anni si può notare che è
aumentata molto nei periodi di guerra (due guerre
mondiali) e diminuisce molto nei periodi di depressione
come adesso. Nei nostri Business Plan possiamo trascurare
l’inflazione perché molto bassa adesso, possiamo
considerare solo il costo del denaro. In generale il problema
è che quando calcoliamo i valori dei criteri di analisi degli
investimenti (VAN ecc.) abbiamo due strade. Consideriamo
i ricavi e le vendite del nostro prodotto o servizio, quando
ragioniamo sulle vendite, ragioniamo con i prezzi attuali e
consideriamo 10-15 anni di Business Plan, ma i prezzi
muteranno nel tempo in funzione dell’inflazione. O
consideriamo tutto lo studio come se l’inflazione non esistesse e non inflazioniamo ne i prezzi di vendita ne i
costi di acquisto delle materie prime, stipendi del personale ecc. e utilizziamo i tassi reali perché stiamo
ragionando al netto dell’inflazione. Non aumentando i costi e i prezzi nel corso del Business Plan vuol dire
che stiamo incorporando l’inflazione nei tassi. Se invece consideriamo i prezzi variabili nel tempo con un
tasso d’inflazione del 3-4% quando consideriamo il costo del denaro dobbiamo considerare i tassi nominali
perché stiamo facendo una fotografia di come variano i prezzi e userò i tassi nominali che effettivamente
sono presenti nel sistema economico. La diatriba inflazione-si inflazione-no diventa importante quando
dobbiamo ragionare sulla congruenza dei nostri dati. Se analizzate un fenomeno nel tempo, devo avere
congruenza tra i valori delle cose considerate e i tassi d’interesse. In un sistema deflazionato (non considero i
tassi d’inflazione) dobbiamo utilizzare tassi d’interesse reali (deflazionati). Se invece considero l’inflazione e
aumento i prezzi nel tempo dobbiamo considerare i tassi d’interesse nominali.
VALUTAZIONE DEGLI INVESTIMENTI
Entriamo nel dettaglio sulle tecniche di valutazione degli investimenti. L’attività economica genera, si spera,
denaro. Presentare un Business Plan con VAN negativo significa che i poveri investitori non rivedranno più i
soldi indietro. L’impresa recupera del danaro che
va o ad ampliare le attività dell’impresa e in parte
a remunerare i capitali che sono stati dati
all’impresa. Ci sono gli azionisti, che sperano di
essere pagati prima che il Cash Flow sia
disponibile o per remunerare gli azionisti o per
essere reinvestito. L’idea, nella valutazione degli
investimenti, è che l’azienda decida di andare in
una specifica direzione a seconda della redditività
del denaro. L’azionista, il proprietario
dell’impresa, è disponibile a lasciare del denaro
nell’impresa se investito in attività economiche
molto redditizie. A livello di azienda esiste la
Agency Theory che è il problema di scontro tra
l’azionista e il manager perché hanno obiettivi diversi. Il VAN di queste attività deve essere positivo, al suo
interno l’azionista quando valuta le attività ci mette un costo opportunità del capitale opportuno. La
valutazione economica dell’investimento è importante perché è un elemento critico di sconto tra i proprietari
e i gestori dell’impresa, così come la valutazione dell’investimento di una nuova idea di business. Gli
investitori basano la loro valutazione sulla convenienza economica di questa attività.

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Esistono anche altre metodologie di
valutazione dell’investimento da parte dei
manager come per esempio TIR (tasso
interno di redditività), tempo di recupero
(PBP), Tasso di rendimento contabile e indice
di redditività. Questi sono solo gli indici, poi
esistono diverse metodologie per la
valutazione degli investimenti. Non esiste
solo il VAN, nonostante sia il più importante,
perché tutti i criteri si basano su dati che sono
i flussi di cassa che sono la fine delle entrate
e delle uscite che non sono sicuri, la cui
certezza dipende dal tipo di investimento.
Investimenti in energie alternative come
fotovoltaico o eolico è un investimento poco
rischioso perché quando vengono incentivati
come negli ultimi anni con una tariffa fissata per 20 anni, diventano dei prodotti assicurativi. Negli
investimenti economici industriali l’incertezza è assoluta, sono tutte scommesse avvallate da studi di settori,
mercato, governance, concorrenza, tecnologie, ecc. Esistono una serie di criteri, ciascuno dei quali restituisce
un’informazione diversa partendo dagli stessi dati. Dal grafico si evince che nonostante la teoria del valore ci
dica che un investimento è conveniente se il VAN>0, ma vediamo che il metodo più utilizzato è il TIR
nonostante il VAN sia il principio base della teoria del valore. Anche il PBP è molto utilizzato anche se dal
punto vista finanziario non ha grande senso. Da un punto di vista dell’equivalenza finanziaria non ha alcun
valore questa informazione. L’incertezza gioca un ruolo importante nella valutazione dell’investimento che
rimane una cosa complessa dati i fattori di vario tipo.

La domanda fondamentale che fa all’esame è l’ultima:


ora questa domanda ci dice poco, ma alla fine di tutto il
corso, tirando le somme di tutto quello che ci ha detto,
dobbiamo aver capito come rispondere.

67
1 Aprile 2015
Nella precedente lezione si è parlato del VAN e di modelli di valutazione che verranno argomentati in questa
lezione. Perché si considerano altre tecniche e altri metodi? Perché la teoria del valore attuale ci dice che se
l’investimento è positivo è da effettuare ma in assenza di altri vincoli. Il problema è l’incertezza. Si ricorre
ad un complesso di tecniche e valutazioni poiché i dati su cui si basa quest’analisi sono incerti. Tranne in
alcune eccezioni ( titoli di debito, titoli di stato etc…) ci ritroviamo di fronte ad un piano di ritorno rischioso.
Anche se il Valore Netto ci dice la “bontà” di un investimento ( in caso sia positivo) e quindi ci da la
condizione necessaria affinché un investimento venga preso, allo stesso tempo ha bisogno di altri strumenti
di supporto per avere altri “punti di vista”che ci permettano di vedere l’investimento da altre angolazioni.
Facendo ad esempio riferimento al bilancio, sono tanti gli aspetti che possiamo osservare per fare valutazioni
di investimento: analisi di liquidità dell’impresa, fornitori, clienti, redditività, fondi di finanziamento e
indebitamento.
Un metodo è: Tasso di rendimento contabile
È visto come il rapporto tra un guadagno (
reddito) e un investimento. È un rapporto tra
voci di bilancio contabili Medie (reddito
medio e valore dell’investimento nell’arco
dell’operazione). È un reddito su attivo quindi
ci ricorda il ROI. Non è un indice
consigliabile, perché? Perché non è basato sul
flusso di cassa. È corretto dire così anche se
questo aspetto è un po’ mitigato dal fatto che
parliamo di “ valori medi” . Parlando di valori
medi , infatti, il flusso di cassa all’inizio può
non essere in linea con il reddito ; ma, alla fine
avremo degli incassi e quindi risulteranno nel
reddito. Stessa cosa qualora fossimo in perdita
e quindi se non avessimo dei flussi di cassa,
comunque risulterebbe sempre sottoforma di reddito. Bisogna immaginare quest’indice in sola relazione
all’investimento non all’attivo e al reddito dell’intera impresa. Bisogna sempre isolare la componente
“Investimento” dalle altre attività, parleremo quindi di: reddito dell’investimento e attività dell’investimento.
Un'altra caratteristica che non soddisfa (oltre al non essere finanziario) è che non si tiene conto
dell’attualizzazione , ovvero del fattore tempo in termini matematici. In un certo senso fare una media risulta
utile perché fare un analisi sui rendimenti al netto dell’attualizzazione risulta difficile da comprendere poiché
anche l’attualizzazione è un rendimento e quindi un tasso. Non è comunque uno degli indici su cui si affida
uno studio professionale sulle analisi di investimento, tuttavia risulta utile utilizzare un ROI medio perché è
facilmente comprensibile da tutti anche se non preciso, non finanziario e non attualizzato.
Un altro indice è il Tempo di Recupero PBP
All’inizio abbiamo detto che gli obiettivi
dell’investimento sono : recuperare il denaro investito
ed ottenere un certo rendimento. Sulla prima voce fa
riferimento questo indice, ovvero: quando si recupera il
capitale investito? se faccio un investimento di un
milione di euro, a prescindere da quanto mi renderà
questo investimento, quando rientro in possesso di
questi milione di euro? In quanti anni?
E’ un indice, quindi, indipendente dalla redditività. Un
investimento, infatti, potrebbe anche far guadagnare
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molto ma avere un indice di ritorno di 15 anni e viceversa.
Che senso ha considerare un criterio di questo genere? Perché mi dovrei preoccupare di un tempo di ritorno?
Un periodo di ritorno breve può essere utile per effettuare un altro investimento: SBAGLIATO!!! ( non dirlo
all’esame).
È sbagliata dal punto di vista teorico perché qui parliamo di equivalenze finanziarie e non di razionamento
del capitale. Se esprimiamo le nostre valutazioni in funzione dell’equivalenza finanziaria e supponiamo che
non ci sia un problema di scarsità di risorse finanziare, il problema di recuperare prima o dopo non esiste. Per
cui, se ho due investimenti che mi rendono allo stesso modo in cui uno recupera prima e uno dopo, non
preferisco quello che recupera prima perché non è il mio obiettivo quello di reinvestire quel denaro perché ho
fatto un ipotesi di disponibilità finanziaria ( come detto prima) . Piuttosto, il motivo per cui mi interessa il
PBP e per il quale viene usato è L’INCERTEZZA ed il fatto che recuperare le risorse finanziarie è costoso.
Prima le recupero , più contenti e soddisfatti sono gli imprenditori e gli azionisti. In conclusione: non è
completamente indifferente il recupero prima o dopo del denaro, ma, in maniera astratta e parlando della
teoria del valore e di equivalenza finanziaria potremmo dire che indifferente ( secondo quanto detto prima).
In generale il PBP viene calcolato senza attualizzare i flussi di cassa, si direbbe PBP semplice ma viene
omesso il termine “semplice”. Questo concetto fa capire ancora meglio il perché è meglio avere un recupero
nel tempo breve. Se non considero l’attualizzazione e l’equivalenza dei flussi finanziari questo ha ancora più
significato. Molto spesso questo strumento viene usato dalle aziende anche per selezionare le diverse
proposte di investimento fatte dai responsabili ( prodotti, produzione ricerca e sviluppo …). Può risultare
quindi utile per effettuare una scrematura dei progetti in base al periodo di recupero. Nelle imprese si da una
grande importanza al risultato “SUBITO”. A meno che non si tratti di progetti “ senza rischio” (come negli
impianti fotovoltaici) in cui c’è una normativa che garantisca un guadagno e dia garanzia di risultati e
performance in cui non interessa se il PBP di lungo termine. In generale, però, nelle imprese queste garanzie
non ci sono e questo indice può risultare molto utile per effettuare valutazioni. Le aziende pongono
generalmente una soglia di “cut off” al di sopra dei quali in genere gli investimenti non vengono presi in
considerazione. Il problema è che non tiene conto della redditività e taglio gli investimenti semplicemente su
questa soglia di cut off; facendo così potrei rinunciare a possibili fonti di reddito elevate. Alle volte gli
investimenti con un ritorno immediato possono poi non essere cosi redditizi. Un'altra limitazione è che non
viene calcolato attualizzando i flussi. Questo , in realtà, è un problema relativo poiché potrebbe farsi
attualizzando i flussi, è un calcolo semplice.
Perché non si attualizzano i flussi? Perche il PBP viene generalmente usato senza l’attualizzazione?
- Perché si suppone che sia breve.( risposta data in aula). Potrebbe essere una buona risposta perché se
il periodo di ritorno è breve l’attualizzazione non conta moltissimo. Ma non è questo il motivo
principale. L’attualizzazione rimpicciolisce i flussi di classa e aumenta il PBP e quindi lo penalizza.
Sicuramente senza l’attualizzazione il PBP è imperfetto però viene usato perché è più semplice.
Risulta più semplice non solo per i calcoli ma anche per una questione di comunicazione. Se
usassimo l’attualizzazione potrebbero sorgere domande quali: perché hai usato questo tasso di
interesse? Che succede se ne usassi un altro? È lo stesso ragionamento fatto prima con il ROI medio,
viene usato perché più semplice e dialogabile. Se pensate a tutti i problemi che abbiamo detto (
flussi di cassa, attualizzazione, valori contabili precisi o non etc…).se volessi aggiustare il ROI con
queste considerazioni alla fine considerate il VAN e non più il ROI.

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Esempio:
Cut off 2 anni. Abbiamo 3 investimenti tutti
di 2 milioni di euro con flussi di cassa per i
primi 3 anni. In particolare sono disegnati
con l’evidenza che non soltanto il periodo
di recupero di a –b-c è di due anni ma che b
e c sono proprio investimenti di due anni e
il terzo anno non esistono più. Sto
confrontando un investimento di tre anni (
probabilmente) con due di due anni. Il
periodo di recupero è 2 per B e C e per
l’investimento A è 3. Per calcolare il PBP
bisogna solo sommare i flussi di cassa per
vedere quando superano lo zero. Non sappiamo a priori se l’investimento è di due milioni. Potrebbe essere
anche 2,3. E’ scritto come 2 milioni ma nulla vieta che nel primo anno ci sia stato un altro investimento e che
quello qui scritto sia un flusso di cassa netto. In ogni caso il PBP lo otteniamo semplicemente sommando.
Qual è l’investimento migliore? Dipende dal contesto. Se utilizzassimo il criterio del Cut-off allora
l’investimento A sarebbe da escludere perche ha un PBP di 3 anni>2. E quindi tra Be C quale sarebbe il
migliore? C. Non ho motivi di scegliere l’investimento B . l’esempio serve per far capire che se io per una
considerazione a priori di cut-off potrei buttar via un investimento molto più redditizi. Quando in azienda ci
si pone regole di questo tipo su corre il rischio di perdere redditività. E’ stato calcolato il VAN al 10%,
negativo per L’investimento B, rispetto a C perché l’attualizzazione penalizza l’investimento b rispetto a
quello c.
Il PBP viene usato perché ci da un informazione diversa rispetto al VAN. Un informazione che se
considerata dal punto di vista della teoria del valore non ha senso, ma se vista dal punto di vista
dell’incertezza che coinvolge i flussi di cassa , i tassi di attualizzazione e al razionamento del capitale assume
senso.
Altro criterio : TIR Tasso Interno di Rendimento.
Il TIP o IRR è il tasso che azzera il VAN. È quel
particolare tasso di attualizzazione che annulla ,
quindi, la sommatoria dei flussi di cassa ( negativi e
positivi) attualizzati. Per cui il valore attuale dei
flussi di cassa generati dall’investimento è
esattamente uguale all’investimento stesso.
In quale senso questo tasso che mi annulla il VAN è
un criterio di valutazione dell’investimento? Se ho
un investimento con TIR 15% che faccio? È buono
o no? Lo devo confrontare con il tasso di
attualizzazione. Se il VAN è positivo so che
l’investimento è buono ma se ho un informazione
sul TIR es: 8% non so che fare.
Il TIR è il rendimento di un investimento? Se ho un
tir del 10% vuol dire che l’investimento rende il 10%? NON PROPRIO. Non ha questa semplicità di
comunicazione, ne ha altre e le vedremo dopo.
Vediamo come varia il VAN in relazione al TIR. Tasso al denominatore con esponente a ciascun flusso di
cassa. Cioè nel fattore di sconto il tasso sta al denominatore ed è caratterizzato da un esponente. Quindi, più
in la negli anni si va più i flussi di cassa sono ridotti all’aumentare del tasso di sconto.

70
Se il tasso di sconto ( attualizzazione ) è zero il VAN 2000 cos’è?? Significa che stiamo solo sommando
algebricamente i flussi di cassa. Quindi questo grafico che riporta il VAN in funzione del Tasso di
attualizzazione il valore di incertezza con l’asse delle ordinate rappresenta la semplice sommatoria dei flussi
di cassa con tasso =0, senza attualizzare. Questo investimento della slide, è un investimento in cui i flussi di
cassa in entrata superano quelli in uscita di 2000. Se incomincio a mettere un tasso di attualizzazione , 10-
20% etc, noto che il VAN si riduce , perché rimpicciolito dal tasso di attualizzazione fino a diventare
negativo.
Come fa ad essere negativo il VAN? Perché nel vostro investimento c’è sicuramente il flusso di cassa
iniziale che è -2000 ed è l’unico che non viene mai penalizzato da tasso di attualizzazione poiché l’esponente
è 0. Per cui qualsiasi tasso di attualizzazione ci mettete, il primo flusso di cassa all’anno zero è indifferente
ed è sempre negativo. Se io con un tasso di attualizzazione molto alto vado a penalizzare gli altri flussi di
cassa ( faccio un ipotesi per eccesso, lo considero cosi lato da rendere nulli tutti gli altri flussi di cassa)
ovviamente mi rimarrà solo valore negativo. Il VAN ha sempre dei valori negativi per alti di attualizzazione.
Tra valori positivi e negativi ci sarà quindi un punto il cui il VAN si annulla. In questo caso al 28% (
l’intercetta è sbagliata è più corretto dire al 32%). Quindi per questo investimento se il Tasso di
attualizzazione sarebbe 32% il VAN sarebbe nullo. Questo è il tipico grafico che rappresenta il VAN in
funzione dell’attualizzazione. Dove i punti importanti sono quello iniziale (sommatoria flussi di cassa in
entrata ed uscita) e l’intercetta ( tasso di sconto che mi rende equivalenti il flusso in uscita di cassa iniziale e
il flusso in entrata successivo). Il TIR è l’incognita, la variabile indipendente sulle ascisse.
Come si calcola IL TIR? Con excel. Esiste un
equazione come quella qui a fianco, ma è una
cosa oldfashion!!! Excel è più semplice ma
conviene controllarlo se suona bene o no. Il
problema di Excel qual è? Che mi può dare più
valori di TIR, ma se le rate sono costanti o no, se
il tasso è uguale nel tempo etc.. alla fine ci
disorienta. Quindi bisogna ricordarsi come si
calcola e fare delle prove per capire se il TIR che
abbiamo scelto è quello giusto o no.

Esempio
Innanzitutto la prima cosa da chiedersi è: esiste il TIR?
Come faccio a sapere se esiste? Potrei rispondere in
maniera aulica dicendo: se l’investimento è di tipo
convenzionale. Ma non basta. cosa significa
convenzionale? Che abbiamo un investimento all’inizio e
dei flussi di cassa positivi dopo. Questa cosa non la
trovate sul testo. La prima risposta è: se l’esborso iniziale
è minore di quello finale. Cioè i flussi di cassa in uscita
sono almeno minori di quelli che entrano? Si incassa più
di quanto si spende? È la prima verifica per capire se il
TIR esiste senza impazzire con Excel. Partite da un
grafico ,come quello iniziale ,che ha un punto sotto zero . se parto da un punto sotto lo zero all’aumentare di
i andrà sempre sotto ( a meno di altre cose con un investimento non convenzionale che ha valori negativi
all’inizio e positivi dopo). La formula è sempre quella del Van il qui il tasso I o R ( potete chiamarlo come
volete) è la mia incognita. Se lo volessi calcolare senza Excel come faccio?
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1. Sostituisco (1+ TIR) con una variabile e risolvere l’equazione di secondo grado. NO!!!
2. Metto un valore a tentativo del TIR e vedo se esce positivo. Procedo per tentativi. Trovo quello
negativo e capisco che il valore giusto sta tra quei due valori e procedo per approssimazione.
RISPOSTA DA INGEGNERE!!

Ora che ho capito come si calcola a cosa serve questo TIR? Ho un investimento con TIR 28% cosa vi
aspettate?
Il criterio di scelta con il TIR:
La regoletta : se il VAN è positivo
l’investimento si fa, per il PBP si fa se il periodo
di recupero è minore di una certa soglia, per il
ROI medio la regola dice che se questo è
maggiore di una certa quantità si fa. Qual è la
regola per il TIR?
Se il TIR è maggiore del costo opportunità del
capitale allora l’Investimento è conveniente in
caso contrario no.
Quindi quando io comunico un investimento
attraverso il TIR la valutazione
dell’investimento non è proprio immediata (
positivo o negativo) ma richiede un confronto
con un altro tasso : il costo opportunità del capitale ,tasso di attualizzazione( o di sconto come volete potete
chiamarlo) che il TIR non vi da. Quindi quando si comunica il rendimento di un investimento attraverso il
TIR le informazioni non sono sufficienti, cosi come per il PBP e per il ROI, devono essere supportati da altri
valori di confronto.
Nel grafico notavamo che se il TIR era maggiore del costo capitale opportunità il VAN era maggiore di zero.
Se il TIR è maggiore del costo opportunità del capitale vuol dire che il tasso di attualizzazione è a sinistra
dello zero, quindi a sinistra dell’intercetta del VAN con l’asse delle ascisse e quindi siamo nell’area di VAN
positivo. Se invece il TIR è più basso del costo opportunità del capitale , vuol dire che il tasso di
attualizzazione è più alto , sta a destra e quindi VAN negativo. Per calcolare il TIR non è necessario
conoscere il costo opportunità del capitale e ce ne accorgiamo subito da excel. Abbiamo bisogno, quindi di
un dato in meno. Però per decidere se fare o meno un investimento basandomi sul TIR è necessario sapere il
costo opportunità del capitale.
Perché il TIR è comunque così usato anche se complicato nei calcoli? Perché è un tasso e ragionare in
termine di tassi e percentuali è in genere molto più semplice e comunicabile rispetto al ragionare in termini
assoluti. Se vi chiamasse un amico chiedendovi di fare un investimento con un VAN di 1000€. Un altro
amico vi propone lo stesso investimento con TIR 30%. Quale sceglieresti? Quale ti piace di più? Né con il
TIR né con il VAN so quanto devo investire all’inizio. L’investimento è lo stesso e mi chiedono quanto
voglio investire. Non cambia molto da questo punto di vista la scelta. La risposta è: se dico VAN>0 vuol
dire che è positivo e l’investimento so che è buono. Ma se parlo di TIR non so se l’investimento è buono.
Eppure perché è così usato anche se il VAN è più completo? Il VAN è calcolato con flussi di cassa
attualizzati, ma il problema è proprio il tasso di attualizzazione. Qual è stato usato ? devo fidarmi di chi ha
calcolato il VAN. E se ha fatto al sommatoria senza tasso? Se ha usato un tasso di 0.01? non è corretto. Se mi
dicono invece TIR 30% so che i flussi di cassa sono sempre incerti così come nel VAN ( è un fattore incerto
a prescindere da qualsiasi criterio scelto e sul quale non si può agire) , però l’indipendenza del TIR dal tasso
di attualizzazione è un fatto positivo. Infatti , noi sappiamo in generale quali sono i tassi del momento per gli
investimenti rischiosi, quindi, faccio dei miei calcoli di valutazione e mi calcolo il VAN. In questo modo non

72
corro il rischio che si corre con il VAN ovvero che l’idea di tasso che ho io per quel particolare prodotto sia
diversa da quella pensata da colui che sta calcolando in quel momento il VAN che mi hanno proposto.
Cosa da in più il TIR rispetto al VAN?
- Ho un criterio che è facile da gestire in quanto è un tasso ( e non un valore assoluto) e posso
confrontare con i titoli di stato e con il costo del denaro bancario.
- Facilità di comunicazione perché parliamo di dati in %.
- Ha una fonde di incertezza minore nel suo calcolo.

Nel testo troveremo una serie di “trappole” che fanno sembrare il calcolo del TIR assolutamente pericoloso e
da evitare, nel senso che vi sono flussi di cassa che possono portare confusione.
Trappola 1 In questo caso c’è un andamento
inverso in cui VAN cresce all’aumentare del
tasso di sconto. Abbiamo due progetti A e B. In
entrambi i casi il TIR è il 50% con un VAN però
diverso. È una cosa possibile se avete dei flussi
di cassa di questo genere. Qual è la probabilità
che un investimento abbia una serie di flussi di
cassa come il secondo? Molto bassa, è raro un
investimento che vi dia un flusso di cassa
positivo all’inizio e negativo dopo. In termini
astratti potremmo arrivare a questo paradosso in
cui a parità di TIR il VAN è rovesciato.

Trappola 2 esempio 1: Può capitare anche


che il TIR non generi soluzione o che si abbiano
due diverse soluzioni. In questo caso abbiamo -
1000, una serie di flussi positivi e poi un flusso
negativo alla fine. Non è una situazione molto
rara poiché potrebbe capitare che alla fine ci
siano dei costi di bonifica , di aggiustamento,
smaltimento etc…In questi casi può venir fuori
un andamento di questo tipo: TIR positivo
15.2% e negativo -50% (che però non ha alcun
senso, è solo un risultato matematico che azzera
la soluzione).
esempio 2: più complicato, esempio di questo tipo
con flusso di cassa positivo, negativo e poi di nuovo
positivo negli anni potrei avere un doppio TIR 10%
e 25%. In questo caso non sapremmo cosa fare. Per
essere un buon investimento il Tasso di sconto come
dev’essere? Excel ci fornisce l’andamento della
funzione e ci possiamo rendere conto meglio della
situazione. In questo caso la somma dei flussi di
cassa è maggiore quando TIR <10% e quando
TIR>25%. Se il costo del denaro fosse maggiore del
10 ma inferiore al 25 questo investimento non
avrebbe convenienza perche il VAN sarebbe
negativo. Che tipo di investimento è questo? sicuro
73
non un investimento convenzionale, dipende dal caso che stiamo esaminando. Queste “trappole” servono
esclusivamente per mettere in guardia dai casi particolari.
esempio3: flussi tutti positivi e quindi non esiste il
tasso di interesse che ci annulla questa sommatoria.
Non abbiamo TIR.

La cosa più interessante su cui riflettere non è una


vera e propria “trappola” ma è un confronto tra
investimenti (trappola3). Non è molto frequente nel
senso che nelle imprese tradizionali ( piccole, medie)
generalmente si decide di fare un investimento al più
due e li si valuta. In questi casi si può avere una
scelta di definizione di scelta di investimenti. Se il
capitale è buon razionato e non è scarso per la teoria
del valore non ho problema nella scelta degli
investimenti. Tutti gli investimenti a VAN positivo
vanno fatti. Se io considero un confronto tra
investimenti , uno mi da il 30% e l’altro mi da TIR
20%, quale scelgo? Non esiste una regola.
Tendenzialmente si sceglierebbe il 30 % perché? Primo vero motivo: per un problema di sicurezza, perché
TIR 30% presenta una garanzia dal costo del capitale più alta del 15%. Se ho un costo capitale del 15 allora
con il TIR 20% starei più stretto e mi sento più in bilico. Il secondo vero motivo è che la gente confonde il
TIR con il tasso di rendimento di investimento. In questo caso ho messo i dati su Excel ed ottengo questo
grafico di incognita tasso di attualizzazione. TIR B 30% >TIR A 20% ragion per cui se scelgo l’investimento
B non sbaglio e sono più certo del mio investimento. Ma siamo sicuri? L’investimento A non può essere
altrettanto buono? Si va a calcolare il Van in corrispondenza del costo del denaro che in questo momento è
5% e si scopre che il VAN di A > VAN di B. Quindi, il confronto di investimento basato esclusivamente sul
TIR mi da delle informazioni ma non mi garantisce che guadagnerei in un modo piuttosto che in un altro (
più in B che A), dipendere dall’effettivo andamento costo del denaro. In questo caso sto basando la mia
scelta sul VAN: potrei comunque scegliere l’investimento B nonostante abbia un VAN inferiore rispetto al
costo del denaro del 5%, ma lo sceglierei perché voglio un margine di sicurezza più ampio. Notate che
ottengo risultati diversi con due dati del tasso di attualizzazione rx e ry. C’è in questo esempio un punto di
inversione tanto che esistono dei metodi che mi danno direttamente il tasso di inversione di due investimenti
di questo tipo. Ovviamente anche l’andamento dei tassi può avere l’influenza del TIR, non dimentichiamo
che il tasso interno di rendimento è il risultato di un’equazione che ipotizza un tasso uguale per ogni anno (
non ci interessa sapere se sono a breve a lungo, se hanno scadenza o diversi valori).

74
Allo stesso tempo questo rappresenta un problema
più per il Van che per il TIR ,a meno che il VAN
non sia stato calcolato in maniera molto dettagliata
con tassi diversi a seconda del periodo in cui quei
flussi di cassa vengono generati. Quindi, il TIR
non ha un significato semplice e NON
rappresenta un rendimento annuo e non è un
tasso di rendimento. Ma,se fosse un investimento
in cui il tasso di obbligazione fosse del 30% egli
interessi venissero reinvestiti nell’investimento
steso, solo in questo caso rappresenterebbe un
rendimento. Il TIR rappresenta un rendimento per
l’investimento quando effettivamente è il tasso di
rendimento per lo stesso investimento ( quindi nel
caso del reinvestimento degli stessi utili/ interessi).
Ci sono dei casi di obbligazioni in cui il calcolo del
TIR equivale al calcolo del rendimento. Lo “zero
coupon”(??? Credo dica cosi) è un obbligazione in
cui è come se il rendimento fosse ricapitalizzato; vi
danno delle cedole che dovreste reinvestire e vi
danno poi tutto alla fine. Per tutto il periodo il
rendimento viene accumulato e dato alla fine.

Provate a ragionare su questi tre investimenti


che rappresentano la relazione tra TIR e
inconvenienza economica. In tutti e tre
l’investimento iniziale è lo stesso, e orizzonte
temporale due anni. Abbiamo flussi di cassa,
periodo e il tasso interno di rendimento. Qual è
l’investimento migliore? Risposta data: A
perché il TIR è maggiore e un periodo di
ritorno immediato. Perché in generale il TIR è
elevato quando il PBP è basso?Le due cose
non sono poi cosi scollegate perché se il PBP è
basso vuol dire che gli ultimi flussi di cassa
“probabilmente” non sono cosi elevati, o
meglio, se io recupero subito e il mio PBP è basso vuol dire che i primi flussi di cassa sono importanti. Se io
recupero subito, per far si che il VAN venga zero devo usare dei tassi elevati, e se uso tassi elevati i primi
flussi di cassa si abbassano. Ecco perché sono correlati ma non è una regola il fatto che se uno è alto l’altro è
basso, anche se capita spesso. Vedendo i tre investimenti ho : recupero immediato, intermedio e tardi.
Una cosa da evidenziare è la composizione di questi flussi di cassa, nei quali non compare l’aspetto
finanziario, ovvero, l’aspetto legato al procurarsi le fonti di finanziamento. Ci sono gli oneri di
finanziamento in questi flussi di cassa? Da dove prendo quei 100? Hanno un costo? Se li prendo dalla banca
e devo pagare un certo tasso, questi interessi da pagare stanno nei flussi di cassa? NO, perché si sta
considerando il flusso di cassa operativo. La componente finanziaria , invece, la accorpo al costo
opportunità; cioè quando vado ad attualizzare i flussi di cassa. Questa è un IPOTESI IMPORTANTE!! 
la faremo nella realtà e nel Business Plan da fare per il progetto!
Supponiamo di metterci nel caso in cui questo dia un investimento dell’imprenditore che ha liquidità di
questi 100 mila euro. Quale investimento fareste? Ipotizziamo di mettere i tre investimenti nel grafico di
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prima, VAN in funzione del tasso di Interesse, il TIR ci dice qual è l’incertezza (18, 20,24). Se sono dalla
parte dell’investitore che ha questi soldi da investire in quali condizioni di tasso mi metto? qual è il costo
opportunità del capitale? ZERO. In corrispondenza di tasso zero qual è l’investimento più conveniente? C.
Qui quindi capiamo che il TIR non è il tasso di rendimento dell’investimento. L’investimento che ci fa
guadagnare di più non è A. Se accettassi il consiglio dell’imprenditore che mi propone il TIR del 24%
perderei 15000.00 euro.
LA redditività dell’investimento dipende dal costo opportunità del capitale, che poi è il costo del denaro. Se
eliminiamo questo lato limite in cui il costo opportunità è zero e supponiamo che chiedendo denaro alla
banca loro ci chiedano il 15%. Nei flussi di cassa non troveremmo questo 15%. Su quale di questi
investimenti il costo del denaro avrà il maggiore impatto?
Dobbiamo guardare ai flussi di cassa. Quali sono i flussi di cassa più penalizzati dal costo opportunità7 dal
tasso di attualizzazione? Gli ultimi.
Ciò non vuol dire che ogni volta che ho denaro disponibile devo considerare sempre un costo opportunità
uguale a zero, è solo un esempio per dimostrare come il costo opportunità del capitale abbia un impatto sulla
redditività dell’investimento e che il TIR di per se non è il rendimento dell’investimento; anche se ciò nella
pratica crea confusione.
Questa tabella serve per far capire che non sempre TIR più elevati evidenziano
tempi di recupero più bassi. Guardando al primo investimento: -100,10,120
evidenzia un TIR del 15% ma un PBP di 2 anni. Il secondo -100,110,0 con TIR
10% e PBP 1 anno. Ma il PBP non è più basso per il primo investimento. Non si
può generalizzare, però il genere le due cose possono viaggiare insieme : alto TIR
basso PBP.
Nella slide precedente quelli cerchiati in rosso per i tre investimenti sono i valori
netti con tasso uguale a zero, ovvero, l’intercetta all’origine.
Mi calcolo il VAN per ciascuno dei tre investimenti in
corrispondenza di 4 tassi di interesse ( costo
opportunità del capitale : 0% ,10%, 20%, 30%.
Guardando al primo investimento A il quale ha un TIR
24 % ha VAN sempre positivo tranne che per il 30%
(siamo nella parte destra del diagramma).

Stessa cosa avviene per


l’investimento B, zero per il 20% e
negativo per il 30%. Attraverso
quattro punti mi costruisco il
diagramma degli investimenti ABC
in funzione del tasso di interesse.
Grazie a questo grafico posso dire
qual è migliore tra questi
investimenti a seconda del costo di
capitale vigente. Se il tasso è zero
l’investimento migliore è C. se il
tasso è 10 risulta C , se il tasso è
20% risulta migliore A e cosi via.
Nella tabella il verde sta per il
migliore, l’arancione per valori
intermedi e il rosso per il peggiore.
76
Questo è un riepilogo fatto prima supponendo un certo
costo opportunità del capitale quando il VAN è zero. Ci
sarebbe un guadagno? Sicuramente i flussi di cassa in
entrata sarebbero maggiori dei flussi in uscita ma, il
problema è che il costo del denaro pareggia gli esborsi e
gli incassi. Qual è il TIR dell’investimento? Il 10%.

Un altro indice da considerare è l’indice di


Redditività. Esprime sempre un guadagno su un
investimento, ma in questo caso il guadagno è
rappresentato dal VAN. Quindi, voglio esprimere la
redditività dell’investimento attraverso questo PI
inteso come : guadagno al netto del costo
opportunità del capitale ( quindi il VAN non il
reddito medio) su investimento. Quando risulta
interessante utilizzare questo criterio? Quando si ha
una serie di progetti e risorse limitate . Quindi,
scelgo i progetti ( possono essere anche più di uno)
a fronte di un certo ammontare di disponibilità
liquida. Un esempio con 4 progetti con
investimenti 200,125,175,150 e con il relativo Van
calcolato per ciascuno di essi. Un VAN superiore
all’investimento è possibile? L’investimento è
iniziale, i flussi di cassa sono su 20 anni e quindi
SI!!!  possono cumularsi e superare
enormemente l’investimento iniziale. Nella tabella
è calcolato anche il PI. Ecco perché il rendimento
può non essere il 10% ,20 o 30. Il rendimento
complessivo dell’investimento può essere il 113%,
108% etc…Se abbiamo solo 300 mila euro da
investire che facciamo? Quale scegliamo? Questo
criterio serve proprio ad ordinare gli investimenti e
a sceglierli in base al rapporto tra quanto fanno
guadagnare e l’investimento stesso. Se ho come
vincolo disponibilità limitate ( max 300) posso
scegliere tra tre alternative:

 A: da solo perché se investo 200 con gli altri


100 non avrei abbastanza capitale da investire in
altri.
 B+C: per un totale complessivo di 300.
 B+D: 275 in totale. In più se calcolo per
esempio il PI dell’investimento B+D ottengo PI
medio rapportato all’investimento pari a 1.01 . (N.B
nell’equazione al numeratore terzo termine ho 0.0
suppongo che la somma residua non abbia nessun

77
rendimento e rimanga li ferma a rendimento nullo)

Eseguiamo lo stesso calcolo per tutte e tre le coppie di


investimenti. Noto che la migliore soluzione è quella
di combinare L’investimento B e C. Si potrebbe creare
un programma che mi scelga automaticamente le
combinazioni migliori. Il passo successivo è la
programmazione lineare. È raro il caso in cui si fanno
scelte di questo genere. Perché non vengono molto
usati? Perchè sono più grandi i problemi relativi
all’incertezza e anche perché difficilmente ci si trova
nella possibilità di poter fare certi investimenti.

La teoria del valore non discute l’entità delle risorse finanziarie. La domanda è: il razionamento del capitale
esiste o no? Può esistere un razionamento debole che può essere quello che viene implementato in azienda
quando si vuole limitare il numero di iniziative che vengono messe in campo. Perché ogni iniziativa non ha
solo problemi finanziari ma anche gestionali e organizzativi che possono anche distogliere dalle attività
tradizionali dell’impresa. Il razionamento debole è quindi quello che non ha motivazioni finanziarie vere
quanto perlopiù i motivo organizzativo. Un razionamento forte in realtà esiste se il mercato non è efficiente.
Il capitale, quindi, non è assolutamente disponibile per qualunque tipo di iniziativa. Perché gli investitori
potrebbero chiedere ad esempio garanzie e sulla base di queste decidere se cedere o meno l’investimento. La
regola del Van rimane valida se è maggiore di zero e se siamo presenti in un mercato efficiente e che le
previsioni dei flussi di cassa e del tasso di sconto siano stati fatti anch’essi con efficienza ed efficacia.
Come riprenderemo in seguito:
L’analisi degli investimenti è comunque un’ attività
complessa. Bisogna considerare l’apporto
informativo utile di ciascun criterio. Una regola è
vera ( come quella del VAN legata all’incertezza )
ma dipende anche dalle condizioni a contorno che
possono verificarsi: Quindi non abbiamo una regola
“principe”. Se un interlocutore ci chiede un
investimento bisogna focalizzasi sugli argomenti di
maggiore interesse per il nostro interlocutore.

78
22 Aprile 2015
DECISIONI DI INVESTIMENTO CON IL METODO VAN

Quando parliamo di analisi degli investimenti ci rifacciamo sempre al concetto di flusso di cassa piuttosto
che parlare di profitto; guarderemo agli esborsi e agli incassi dell’impresa.

Considerazioni di riepilogo
 Attenzione a non isolare l’investimento dal resto dell’azienda non rendimento medio, ma
rendimento marginale! Ad esempio, in casi di riammodernamento degli impianti, introduzione di una
nuova linea di prodotto o un semplice caso di “make or buy”, occorre fare sicuramente un
investimento perché ci servono risorse durevoli ma, molto spesso, queste risorse sono in comune con
altri processi o altri prodotti già esistenti dell’impresa. Dobbiamo, quindi, isolare la componente
marginale o addizionale.
 Considerare gli effetti collaterali all’investimento. Essi non riguardano soltanto i costi e ricavi più
evidenti, ma potrebbero essere effetti organizzativi, motivazionali, impatti sull’ambiente e
stakeholders.
 Non dimenticare la necessità di capitale circolante. Da un punto di vista di risorse finanziarie,
bisogna considerare non soltanto quelle relative all’investimento ma anche quelle che riguardano la
gestione corrente delle attività (debiti, crediti, scorte, ecc..).
 Non considerare i costi sommersi (costi già sostenuti). Quando si valuta se supportare o meno un
investimento si procede con lo studio di fattibilità o business plan; quest’ultimo molto spesso viene
commissionato e quindi i costi relativi che l’impresa sostiene non verranno considerati nei flussi di
cassa dell’investimento perché non è un fattore decisionale. I costi verranno sostenuti a prescindere
se l’investimento si farà o meno.
 Tener conto dei costi opportunità. Quando utilizziamo delle risorse dobbiamo considerare se queste
risorse potranno essere utilizzate per altre attività e rendere profitto in altro impiego.
 Prestare attenzione all’allocazione dei costi comuni. Isolare tutti gli elementi dell’investimento e
valutare il contributo di ognuno alla causa comune.

INFLAZIONE
Quando sentiamo parlare di “tassi di
interesse” e di “valore del denaro nel tempo”,
una delle prima cose che viene in mente è il
concetto di inflazione. Sbagliato!
Tutti i ragionamenti che abbiamo fatto finora
sull’analisi degli investimenti sono
nell’ipotesi che l’inflazione non esista (per
noi il denaro ha un potere d’acquisto costante
nel tempo).

Considerando l’inflazione, invece, sappiamo che c’è una relazione tra tassi di interesse nominali (sono i tassi
che vengono comunicati pubblicamente dalle fonti di stampa, cui si garantisce un certo rendimento o costo
del denaro) e reali (modificati in modo da tener presente l’inflazione).

TASSO D’INTERESSE REALE = TASSO D’INTERESSE NOMINALE – INFLAZIONE

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Quando utilizzare gli uni o gli altri? Importante è la congruenza tra flussi di cassa e tassi.

Flussi di cassa nominali. I flussi di cassa nominali, alla stregua dei tassi d’interesse, sono quelli che
effettivamente vedremo. Ipotizzando che non ci sia incertezza, andremo a costruire un piano
finanziario futuro con dei valori monetari che saranno quelli che fluiranno in entrata e in uscita, che
l’impresa realmente otterrà vendendo i propri prodotti a prezzi inflazionati (che subiscono
inflazione).

IPOTESI: supponiamo che il primo anno si vendano 1000 prodotti a 5 €. Il valore dei ricavi, nel flusso di
cassa del primo anno, sarà 5000 €. Nel secondo anno, i prodotti venduti saranno sempre 1000, ma il prezzo
di vendita seguirà il processo inflattivo, supponiamo del 10%, per cui il prezzo di vendita sarà 5,50 € ed i
rispettivi ricavi saranno 5500 €.
Il valore intrinseco dei prodotti è lo stesso, la misurazione però è cambiata perché la moneta ha perso potere
d’acquisto.

Flussi di cassa reali. Per flussi di cassa reali intendiamo i flussi di cassa deflazionati e cioè
considerando il valore della moneta costante nel tempo. Questo è il caso più comune. Nella
redazione di un piano finanziario si ragiona “a potere d’acquisto attuale” senza considerare
l’inflazione negli anni a venire. Ovviamente, useremo tassi d’interesse reali.
Che si utilizzino dati inflazionati o deflazionati, alla fine della fiera, dobbiamo ottenere gli stessi risultati!

ESEMPIO: L’anno prossimo il vostro contratto di locazione vi costerà 8.000 € (al 31 dic), con un aumento
del 3% annuo (tasso di inflazione previsto) per altri tre anni (totale 4 anni).
Se i tassi di sconto sono del 10%, qual è il costo del contratto di locazione attualizzato?
Se volessi pagare 4 anni di affitto anticipato, quanto dovremmo pagare?

Sappiamo che, se il tasso di sconto è del 10%, il tasso d’interesse reale è del 7%.
Oppure dobbiamo applicare la formula:

Questi sono flussi di cassa NOMINALI, quindi dobbiamo utilizzare un tasso di sconto nominale, quello
comunicato e supposto costante tutti gli anni.

80
Se volessimo invece considerare il valore deflazionato otterremmo un valore di cassa reale di 7767 €.

Attualizziamo non più al 10% ma al 6,8% e attiamo sempre la stessa cifra finale.
A fine anno pagheremmo, in termini deflazionati, sempre 7767 € che equivale sempre a versare adesso
l’intera somma.
Quindi, per quanto riguarda l’inflazione l’unico accorgimento è utilizzare flussi di cassa e tassi d’interesse
coerenti; i risultati che otterremmo se utilizzassimo i questi due elementi in modo non coerente potrebbe
essere significativi qualora i tassi fossero elevati (se i tassi sono bassi la differenza è trascurabile).

Vedremo adesso un caso in cui bisogna prendere una decisione che dipende anche dal tempo (dal momento
in cui la decisione viene fatta). Nella stragrande maggioranza dei casi il tempo non è un fattore decisivo nella
scelta perché non viene preso in considerazione. Il problema diventa rilevante quando siamo sicuri che le
condizioni cambino nel tempo.

Ad esempio, nell’attività di disboscamento è necessario considerare un valore futuro dell’operazione perché


è chiaro che se un’attività di legname venisse rimandata o anticipata cambierebbe il valore delle risorse che
sto utilizzando (le piante crescono!).
Operazioni a VAN positivo possono risultare maggiormente redditizie se rinviate; il VAN si configura
quindi come valore attuale dei valori futuri (VF) dell’operazione rinviata.

ESEMPIO: Potete abbattere una serie di alberi in qualsiasi momento dei prossimi 5 anni. Considerato il VF
(valore futuro) legato al rinvio di tale operazione, quale data di taglio ottimizza il VAN corrente (r = 10%)?

Il valore futuro netto cresce col


passare perché aumenta il peso del
legno, mentre la variazione di valore
diminuisce col passare degli anni.
Come prima cosa non devo fare altro
che omogeneizzare tutti questi dati
perché devo capire qual è l’equivalenza tra i 50 di adesso e i 64,4 tra un anno. Per fare ciò, devo attualizzare i
64,4 oppure capitalizzare i 50.

81
Ho deciso di attualizzare tutti i dati ma
adesso devo scegliere quando tagliare
questi alberi. Nel quarto anno ottengo il
valore attuale maggiore quindi questo
sarà l’anno giusto; ho ottimizzato il
VAN fino a quando il tasso di crescita
non diventa inferiore del costo del
capitale (avrei potuto accorgermi che il
quarto anno era il migliore guardando
direttamente l’andamento del valore perché nei primi quattro anni è sempre maggiore del 10%, mentre al
quinto anno diventa inferiore al tasso di rendimento).

Un altro caso di analisi riguarda il confronto tra due investimenti (acquisti di materiali, impianti,
immobilizzazioni, ecc.) che hanno una vita utile differente. Devo poter confrontare, ad esempio, una
Mercedes che costa 20.000 € con una vita utile di10 anni e una Panda che costa 10.000€ con una vita utile di
5 anni. Quando si è di fronte ad investimenti alternativi con durata differente, ed il confronto è valido
considerando tutte le condizioni di contesto nel tempo (come il cambiamento tecnologico o effetti fiscali), si
può utilizzare il criterio di maggior CAE.
Costo Annuo Equivalente (CAE): flusso di cassa annuo corrispondente al VAN dell’investimento nel
periodo di vita dell’investimento.
Per permettere il confronto, si ipotizza di riacquistare la Panda dopo 5 anni e cioè rendere i due investimenti
coerenti come se fosse un investimento perpetuo nello stesso orizzonte temporale.

Il CAE è possibile calcolarlo attraverso il concetto di Rendita: è il valore attuale dei flussi di cassa (capitale)
diviso il fattore di rendita corrispondente (tiene conto del periodo nel quale andiamo a valutare
l’investimento).

𝑉𝐴 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑙𝑢𝑠𝑠𝑖 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑠𝑠𝑎


VA = rendita annua × fattore di rendita CAE =
𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑡𝑎

ESEMPIO: Dati i seguenti costi di utilizzo di due macchinari (replicabili) e un costo del capitale del 6%,
scegliere il macchinario dal costo inferiore.

Abbiamo due piani di investimento rappresentati da sole uscite senza profitto perché c’è un investimento
iniziale e poi solo costi di gestione. Per il macchinario A abbiamo costo 15 di investimento e 5 per tre anni
cioè la durata dell’operazione; allo stesso modo, per il macchinario B abbiamo costo 10 iniziale e 6 per i
successivi due anni.
A guardare come sono stati impostati i conti non ci sarebbe spazio di indecisione; il primo macchinario costa
nettamente di più, sia per l’esborso inziale e sia per i costi di gestione perché sono da sostenere in un periodo
più lungo.
Andando ad attualizzare i flussi di cassa, e quindi le spese dei diversi periodi, ottengo una conferma. Per cui,
spendere 15+5+5+5 equivale oggi a spendere 28,37, mentre spendere 10+6+6 equivale a spenderne oggi 21.
Senza altre considerazioni e sapendo che il macchinario potrà servirmi per soli due anni dovrei scegliere il
macchinario B.

82
Se invece ipotizzassimo che il macchinario ci serva per un periodo più lungo (se dopo 5 anni la Panda la
devo cambiare con un’altra Panda), lo scenario cambierebbe perché devo ripetere l’investimento: trasformo
l’investimento in una rata annua, costante ed equivalente tra le due opzioni, utilizzando la formula del CAE
vista nell’esempio precedente (andremo a mettere 28,37 al denominatore nel primo caso e 21 nel secondo,
diviso il fattore di rendita che mi rende equivalente la spesa attuale ad una rata nel tempo).
In conclusione, ripetere nel tempo l’investimento A piuttosto che ripetere l’investimento B, mette in
evidenza come sia più conveniente comprarsi una Mercedes invece che una Panda!

ESEMPIO: dimensionamento ottimale della capacità operativa.


Siamo di fronte ad una produzione stagionale in estate 1.000 unità, d’inverno 500 unità; questi prodotti
vengono realizzati utilizzando macchinari vecchi con soli costi di funzionamento 2 €/unità; il costo
opportunità del capitale è 10%.
 Macchinari vecchi
o Produzione annua per macchinario = 750 unità (media tra le due stagioni);
o Costo operativo per macchinario = 2 × 750 = 1.500 €;
o VA del costo operativo per macchinario = 1.500/0,1 = 15.000 €;
o VA del costo operativo dei due macchinari = 2 × 15.000 = 30.000 €.

Un venditore ci propone l’acquisto di due macchinari nuovi con un investimento di € 6.000 x 2. Il costo di
realizzazione delle unità si dimezza (1 €/unità).
 Macchinari nuovi
o Produzione annua per macchinario = 750 unità;
o Investimento iniziale per macchinario = 6.000 €;
o Costo operativo per macchinario = 1 × 750 = 750 €;
o VA del costo operativo per macchinario = 6.000 + 750/0,1 = 13.500 €;
o Va del costo operativo dei due macchinari = 2 × 13.500 = 27.000 €.

Ad occhio, la sostituzione di entrambi i macchinari sembrerebbe vantaggiosa. E se considerassimo un solo


macchinario nuovo?

Abbiamo una produzione stagionale e quindi per metà dell’anno potrei mettere in funzionamento solo un
macchinario. Il più nuovo funziona tutto l’anno, il vecchio solo d’estate!

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ESEMPIO: Il progetto guano di C&G (Concimi e Giardini). Esempio, tratto dal libro di testo, di cui
disponiamo dei seguenti dati.
 Investimento = 10 Mln €;
 Valore residuo di realizzo = 1 Mln € (valore finale nel caso terzi volessero acquistare, ipotizziamo di
andare a cambiare la Panda e qualcuno ci dia dei soldi in cambio);
 Periodo = 7 anni;
 Ammortamento lineare (la quota di ammortamento annuale è uguale nei 7 anni, occhio che devo
terminare con 1 Mln residuo quindi andrò a calcolare l’ammortamento su 9 Mln);
 Inflazione = 10%;
 Costo opportunità capitale (nominale) = 20%.
Prima ipotesi l’inflazione non influenza il progetto: i prezzi aumentano per coprire l’aumento dei costi.

Il piano economico-finanziario del progetto si presenta come un foglio Excel.

Da notare la linea tratteggiata che divide la voce 5 dalla 6: sotto la linea riconosciamo il Conto Economico,
sopra invece vediamo la parte dell’immobile con il suo fondo di ammortamento, con il totale attivo (capitale
circolante e valore contabile totale) e cioè una delle due colonne dello Stato Patrimoniale. Questo perché
quando si parte con il Business Plan di una attività si ignora completamente la voce “fonti di finanziamento”,
non ci poniamo questo problema inizialmente perché se l’attività è profittevole i soldi si trovano (banche,
super ricchi, ecc.).
Il “valore contabile di fine anno” è il valore in quel momento, contabile del bene; si può notare come nel
fondo di ammortamento non è stato contemplato il valore residuo ma, nel settimo anno, avremo una
plusvalenza (qualcuno ci offre 1.000), un profitto improvviso su cui paghiamo le tasse. Inoltre, il bene verrà
ammortizzato in 6 anni perché, ipotizziamo, la normativa ce lo consente: questo è un fatto positivo; la rata
mensile sarà più alta ma io, su quella rata, pagherò meno tasse. In altre parole, anticipo un risparmio sui
flussi di cassa ma i conti economici sarà peggiore perché l’utile sarà peggiore.
84
Il capitale circolante (attività correnti – passività correnti) rappresenta una somma di tre voci fondamentali:
crediti vs. clienti, rimanenze o magazzino (scorte), debiti vs. fornitori.

Per quanto riguarda il C.E.:


 vendite (ricavi o fatturato),
 costo del venduto (costo dei prodotti venduti senza considerare l’apporto delle rimanenze).
 Sotto la voce “altri costi” (presenti anche all’anno 0) ritroviamo i costi di impianto, i quali sono
ancora un investimento (installazione, collaudi),
 costi generali e amministrativi.
 quota di ammortamento costante che va ad incrementare il fondo;
 “profitto al lordo delle imposte” (vendite – voci di costo), negativo al primo anno. Se ipotizzassimo
che questo sia il bilancio di esercizio, potremmo affermare si stanno considerando come costi di
gestione dei costi di investimento; perché le aziende possono decidere se capitalizzare (sommarlo ai
10.000 di investimento e ammortizzarlo) oppure se considerarlo come un costo di gestione.
Conviene percorrere questa seconda strada, cioè quella in esempio, quando l’impresa esiste già e ha
dei bei profitti e quindi scaricarsi subito questi costi significa pagare meno tasse. Infatti, le imposte
sul reddito vengono considerate negative, come se ci fosse un’aggiunta: siccome l’impresa paga
10.000 di tasse, se mi porto 4.000 di costi pagherò le tasse non più sull’ammontare iniziale ma su di
un ammontare più piccolo, perciò risparmio 1.100 di tasse. Per cui, il profitto, in questo caso una
perdita, non è più 4.000 ma 2.900.
Infine, possiamo vedere come le vendite e di conseguenza i costi abbiano un andamento a campana; hanno
un massimo raggiunto il quarto anno di attività per poi decrescere simultneamente.

Seconda ipotesi Proiezioni riviste in base all'inflazione: costante per vendite e costi (aumentano del 10%
ogni anno), ma non per ammortamenti (ed effetti fiscali).

Una prima differenza sostanziale la si può notare nella voce “investimento”: infatti se prima il potere
d’acquisto al settimo anno era 1.000, adesso, considerando l’inflazione, raddoppia la quantità di moneta
rispetto al presente. Il valore è sempre lo stesso, ma la quantità di moneta necessaria per remunerare quel
85
valore, dopo sette anni, diventa il doppio (il segno è negativo però risulta un esborso; nella tabella precedente
invece il segno era stato omesso ma è comunque un esborso).

Analizziamo adesso i flussi di cassa, facendo uno spaccato del terzo anno. Quest’analisi non è del tutto
uguale a quella che solito abbiamo visto e cioè in modo indiretto: partendo dal profitto si aggiungevano gli
ammortamenti e costi fittizi, poi i componenti capitale circolante e infine i componenti degli investimenti.
In questo modo invece, abbiamo già le voci che ci interessano, perciò partiremo dalle vendite, costo del
venduto, imposte, flusso di cassa operativo (utile + ammortamenti), ecc.
Qui aggiungo il discorso di variazione debiti, crediti e magazzino, cioè variazione del capitale circolante.
Quest’ultimo è negativo nei primi quattro anni perché potrei aver consegnato dei prodotti a clienti che non
mi hanno ancora pagato; la tendenza si inverte alla fine perché il capitale circolante diminuisce (lo vediamo
dalle tabelle di prima) perché stiamo svuotando i magazzini e i clienti ci pagano.
Controlliamo che la sommatoria dei flussi di cassa lungo tutti gli anni sia positiva nel senso che entrano più
soldi di quelli che escono.
Abbiamo dei dati nominali che tengono conto dell’inflazione, ovviamente anche il tasso di attualizzazione
deve essere nominale perciò esce fuori che il valore attuale alto (20%). Se invece avessimo utilizzato il
valore costante della moneta (deflazionato), avrei dovuto considerare un tasso di interesse reale, a potere
d’acquisto costante. Infine, vediamo che il VAN è positivo. Difficile dire invece quanto si guadagna da
questo investimento, è più che altro un surplus: viene evidenziato quanto guadagno in più di quanto spendo.
Qualche utile delucidazione: gli incassi da vendita sono pari alle vendite meno le quote concesse in dilazione
del pagamento ai clienti stessi. Le uscite invece sono dati dal costo del venduto, altri costi e imposte +
aumento delle scorte – l’aumento dei debiti vs. fornitori, cioè il modo con cui l’azienda si finanzia.

86
23 Aprile 2015
In questa lezione ci occuperemo di alcuni metodi per la gestione dell’incertezza. Finora abbiamo considerato
una serie di tecniche e di criteri per esprimere delle considerazioni sulla redditività di un investimento
tenendo in considerazione fondamentalmente il fattore tempo, cioè il problema che flussi di cassa relativi ad
anni differenti devono essere resi omogenei, quindi mediante il concetto di attualizzazione o di
capitalizzazione. Il tutto facendo una grande ipotesi, ovvero che il tasso di attualizzazione deve essere una
grandezza nota (cosa che in realtà non è, perché se fosse nota sapremmo prevedere il futuro), l’abbiamo
considerato come un dato certo (anche se nella maggior parte dei casi non lo è) e l’abbiamo considerato
anche costante, e questo ci ha consentito di utilizzare delle formule molto semplici. Abbiamo però in realtà
considerato anche il caso in cui i tassi sono diversi per ogni anno, e anche in questo caso abbiamo
individuato delle formule per attualizzare.
Dato che parliamo di incertezza, a meno che non siamo certi che un tasso di sconto all’anno 1 sia pari al 3%,
che un tasso di sconto all’anno 2 sia pari al 2,5%, e che un tasso di sconto all’anno 3 sia pari al 2,3%, ecc.., a
quel punto ci conviene utilizzare un tasso costante. In sostanza ci ritroviamo, anche parlando del fattore
tempo, a dover comunque gestire il fattore dell’incertezza, cioè dopo che facciamo tutti i nostri calcoli, siamo
consapevoli che quei calcoli (che sono precisi dal punto di vista algebrico) hanno dei dati che al loro interno
non sono certi. Cioè ad esempio se il prezzo e le quantità dei prodotti all’anno 3 sono diversi da quelli che io
ho ipotizzato non è colpa nostra. Il problema dell’incertezza mina tutte le nostre certezze sulla valutazione
dell’investimento e di questo bisogna tenerne conto.
Se dobbiamo valutare un investimento che ci viene presentato, sui dati non possiamo dire assolutamente
nulla, perché quelli ci hanno presentato e su quelli ci dobbiamo basare, e quindi la nostra abilità deve essere
quella di esprimere punti di forza e punti di debolezza dell’investimento pressoché deterministico, cioè data
una certa sequenza dei flussi di cassa possiamo tranquillamente determinare il VAN e dare una valutazione
all’investimento. Diverso è il discorso se invece l’investimento lo dobbiamo costruire noi, e quindi i dati
dell’investimento sono di nostra responsabilità, i quali avranno un’importanza maggiore anche dello stesso
metodo di valutazione. Diventa quindi importante capire l’effetto di alcune variazioni dei dati sulla bontà
dell’investimento. Non sempre degli investimenti vengono considerati come black box dai manager. È chiaro
però che in altri casi si è responsabili dei dati presenti all’interno della black box e in quel caso possiamo
utilizzare degli strumenti idonei.
Incertezza significa che possono succedere più
cose di quante ne accadranno in realtà, cioè
nella realtà ne accade una, ma quando non lo
sappiamo per noi possono succederne tante.
L’analisi di sensibilità è uno degli strumenti
che abbiamo a disposizione per analizzare
l’effetto dell’incertezza sul nostro progetto. È
l’analisi degli effetti provocati da variazioni di
vendite, costi, ecc..
L’analisi di scenario è l’analisi di un progetto
in presenza di diverse combinazioni di variabili
(spesso correlate tra loro), che solitamente sono
condizioni macroeconomiche differenti.
Un’altra cosa che si può fare è l’analisi con la simulazione, utilizzando degli strumenti che si poggiano su
distribuzione di probabilità delle variabili. Quindi rappresenta la stima delle probabilità che si verifichino i
diversi possibili esiti. Questo metodo nell’analisi degli investimento si usa però pochissimo.
Infine abbiamo l’analisi del punto di pareggio. Ricordiamo che il punto di pareggio è il volume di vendita
minimo per recuperare i costi aziendali.
87
ANALISI DI SENSIBILITA’
Quando facciamo questo tipo di analisi bisogna
prestare attenzione alla variabili non identificate
(unk-unks). Dato che il nostro problema principale è
l’incertezza, bisogna effettuare una stima sulle
variabili; c’è una certa consapevolezza che alcune
variabili considerate importanti ovviamente possono
avere una situazione delicata. Ad esempio se
consideriamo la produzione di energia elettrica da
biomasse, il punto ultra-delicato è appunto il prezzo
delle biomasse. La cosa più semplice da fare è
identificare un range caratterizzato da un valore
ottimistico ed uno pessimistico. La peculiarità
dell’analisi di sensibilità è che, una volta costruito il
progetto, bisogna verificare l’impatto che ha sui miei
criteri di valutazione la variazione di una variabile per volta, cioè se per esempio io identifico che le mie due
variabili critiche sono prezzo delle materie prime e il tasso di interesse e che possono assumere valori incerti,
fisso un valore delle mie variabili incerte e mi calcolo il VAN. A questo punto fisso il prezzo delle materie
prime con l’altro valore che poteva assumere e lascio il tasso di interesse con lo stesso valore, e mi ricalcolo
il VAN. Poi cambio soltanto il tasso di interesse e ricalcolo il VAN. Quindi l’analisi di sensibilità va a
determinare la variazione della mia valutazione modificando un solo valore per volta, quindi isolando
l’effetto di una variabile alla volta. Vediamo l’esempio presente nella slide soprastante:
la traccia dice che si modifica il flusso di cassa.
Ovviamente dire semplicemente che si modifica il
flusso di cassa, può significare tutto e niente, perché
potrebbe modificarsi semplicemente una voce del
flusso di casi. C’è stato un investimento iniziale di
15 Mld, vendite per 37,5 Mld costanti dall’anno 1
all’anno 10, costi variabili pari a 30 Mld, costi fissi
pari a 3 Mld, ammortamento pari a 1.5 Mld per un
profitto lordo annuo di 3 Mld; togliendo le imposte
che sono il 50% del profitto lordo, per un profitto
netto di 1.5 Mld. Il flusso di cassa operativo è pari a
3 Mld perché è dato dalla somma tra il profitto netto
e gli ammortamenti. In realtà non lo dovrei
considerare l’ammortamento perché all’anno 0 ho
già 15 Mld di investimento, ma lo utilizzo perché
devo calcolare le imposte. Negli anni di gestione il flusso di cassa netto è uguale al flusso di cassa operativo
perché non è contemplata la variazione di capitale circolante netto e la variazione di immobilizzazioni,
quindi ha utilizzato un metodo molto semplificato. Infine calcolo il VAN al 10%, ma non facendo una
sommatoria, perché avendo 10 anni di gestione tutti uguali tra loro, ha usato una formula che è quella del
flusso di cassa rapportato al fattore di rendita. Il VAN quindi risulta essere pari a 3,4 Mld.
Supponiamo che le variabili importanti in questo
settore siano le dimensioni del mercato (numero di
potenziali clienti cioè quali sono le vendite globali
di motociclette), la quota di mercato (percentuale di
vendita dell’azienda i-esima sulle vendite totali nel
settore), il prezzo, il costo variabile italiano
(principalmente le materie prime) e i costi fissi
(principalmente l’ammortamento). Per ogni variabile
88
viene assegnato un valore atteso (quindi un valore medio) a cui poi è associato un valore pessimistico e un
valore ottimistico. Per determinare questi valori pessimistici e ottimistici posso o effettuare una analisi sui
dati storici, oppure posso aumentare e diminuire il valore atteso di un valore percentuale standard (10%),
oppure posso rivolgermi a degli esperti. In questo caso specifico vediamo che per le dimensioni del mercato
è stato attuato un ±10%, per la quota di mercato è stato attuato un ±60%, prezzo unitario è stato attuato un
aumento massimo del 2% e una riduzione del 7%, per il costo variabile unitario è stato attuato un aumento
dell’8% e una riduzione del 20%, ed infine per i costi fissi è stato attuato un ±30%.
Calcolo il VAN considerando tutti i valori attesi.
In corrispondenza dei valori di riferimento
ottengo un VAN di 3,4 Mld. Poi è stato
ricalcolato il VAN, in corrispondenza di tutte le
variabili, nel caso in cui variasse solo una
variabile alla volta, cioè se io considero tutti i
valori attesi tranne per le dimensioni del mercato,
che subisce una variazione del 10%, succede che nel caso pessimistico avremo un VAN di 1,1 Mld mentre
nel caso ottimistico avremo un VAN di 5,7 Mld.
Ora passo a modificare la quota di mercato. Se la quota di mercato dovesse crollare del 60%, il VAN diventa
pari a -10,4%, mentre se dovesse aumentare del 60%, il VAN diventa pari a 17,3; e così via per tutte le altre
variabili.
Il problema fondamentale è che nessuno ci può dare la certezza che il VAN che noi ci calcoliamo sia quello
corretto, perché la probabilità che noi azzecchiamo i dati che inseriamo in quel calcolo è pari a 0. È
impossibile prevedere da oggi a 5 anni che ricavi, costi saranno proprio quelli che si verificheranno nella
realtà. Ipotizzate delle situazioni differenti, quindi, questo studio ci fa capire quali sono le variabili critiche, o
meglio quali sono i punti di forza e i punti di debolezza dell’investimento. Questo investimento non teme
fluttuazioni delle dimensioni del mercato, così come, nonostante l’impatto sui valori finali, non è un
problema il costo fisso. Invece le tre variabili che risaltano subito all’occhio sono prezzo unitario di vendita,
la quota di mercato e il costo variabile unitario perché in condizioni pessimistiche possono portare a dei
VAN negativi, che è una cosa inconcepibile, anche se le variabili assolutamente critiche sono quota di
mercato e il costo variabile unitario.
Bisogna prestare molta attenzione alla quota di mercato, ovvero bisogna fare attenzioni ai concorrenti; i
concorrenti in questo settore sono critici, quindi devo investire molto in pubblicità verso i clienti.
Infine bisogna prestare molta attenzione ai costi variabili unitari che dipendono dal costo delle materie
prime, andamento dell’economia, effetto del prezzo sulla domanda, ecc.. come si può notare dai dati, a fronte
di un piccolo aumento della variabile (20%) si ha un aumento mostruoso del VAN (250-500%).
Per quanto riguarda il prezzo, a fronte di una variazione del 5% del prezzo su un orizzonte temporale di 10
anni di investimento comporta una variazione del VAN compresa tra il 50 e il 200%.
ANALISI DI SCENARIO
L’analisi di scenario differisce dall’analisi di
sensibilità per quanto riguarda il confronto tra le
variabili. Nel caso dell’analisi di sensibilità abbiamo
la variazione di una variabile alla volta, mentre nel
caso dell’analisi di scenario abbiamo la variazione di
più parametri nello stesso momento. Cioè ad esempio,
se consideriamo il caso precedente, se il costo delle
materie prime cala, cala anche il prezzo di vendita. In
questo caso si fa l’analisi di scenario per vedere cosa
succede. quando faccio un’analisi di questo tipo, vado
89
a modificare un set di parametri tutti in una volta, e mi calcolo il VAN in corrispondenza del diverso
scenario. Quindi nel nostro caso, sempre facendo riferimento all’investimento sulla motocicletta, suppongo
di considerare uno scenario con un aumento del prezzo del petrolio e recessione economica. In
corrispondenza di un dato scenario di aumenti del prezzo e di recessione, potremmo avere una dimensione
del mercato più piccola, una quota di mercato crescente, prezzo unitario crescente, costo variabile unitario
crescente e costi fissi crescenti. Secondo questa stima vado a calcolare l’effetto che questo avrebbe in
particolare come se questa variazione abbia un effetto su tutte le variabili del flusso di cassa costante per 10
anni. Serve comunque a creare un altro scenario, anche se molto semplificato.
Possiamo vedere come, in seguito ad un aumento dei
prezzi del petrolio e ad una recessione economica,
l’azienda venderebbe di più (i ricavi passano da 37,5
Mld a 44,9 Mld) perché secondo le ipotesi fatte, si
può giustificare un prezzo di vendita maggiore, così
come quando in borsa aumenta il prezzo del petrolio e
paradossalmente le aziende petrolifere guadagnano di
più. Quindi alla fine possiamo notare come ci sia stato
un aumento del VAN rispetto al caso base.
Naturalmente l’analisi di scenario per certi versi è più
complicata perché i dati di scenario sono dati di
variabili correlate tra loro, cioè si possono avere
elementi per poter giustificare che degli aumenti del prezzo del petrolio comportano un aumento dei costi
fissi, un aumento dei prezzi di vendita, ecc.. È chiaro quindi che sono necessarie stime piuttosto delicate da
parte degli esperti.
ANALISI DEL PUNTO DI PAREGGIO
Un altro strumento è l’analisi del punto di pareggio. In
un esercizio il punto di pareggio è il volume di vendite
minimo e necessario per chiudere con i ricavi pari ai
costi, senza profitti ma anche se perdite. Nel caso in
cui ci occupiamo di più anni, cioè di recupero di un
investimento, è chiaro che il focus del punto di
pareggio si sposta un po’, perché non si parlerà più di
parità fra costi e ricavi, ma si parla di parità tra
investimento e recupero dell’investimento, cioè in
questo caso io non vado a annullare il profitto, così
come facevo nel punto di pareggio dell’esercizio, ma
vado ad annullare il VAN, cioè qual è il numero di
volume minimo di vendite per cui l’azienda non ci
perde. È chiaro che il pareggio contabile sarebbe una perdita per l’azionista perché non prevede
remunerazione dell’investimento. L’esempio è sempre lo stesso, ovvero l’investimento in biciclette.
Abbiamo tre dati in funzione di volumi di vendita differenti. Se i volumi di vendita sono differenti anno per
anno la cosa diventa più complicata. In corrispondenza di 0, 100.000 e 200.000 unità vendute, ci calcoliamo i
ricavi, costi variabili, costi fissi, ammortamento e profitto. Quindi fondamentalmente, se dovessimo calcolare
il punto di pareggio dal punto di vista economico sarà un po’ meno di 100.000 unità. Considerando il
progetto come un investimento, vado a considerare anche il valore attuale e l’investimento, per cui
attualizzando i ricavi e attualizzando i costi, viene fuori che, anche in termini di VAN il punto di pareggio
sarà sotto le 100.000 unità.

90
Se facciamo i conti, otteniamo che il punto di pareggio
per quanto riguarda l’investimento è di 85.000 unità. Se
invece calcolassimo il pareggio contabile, cioè
imponendo il profitto pari a 0, otteniamo che il punto di
pareggio è pari a 60.000 unità. Se ci costruiamo anche i
grafici, sulle ordinate abbiamo il VAN mentre sulle
ascisse il volume delle vendite, e rappresentando i ricavi
(cioè il valore attuale delle entrate) e i costi (cioè il
valore attuale delle uscite), otteniamo il punto di
intersezione in corrispondenza di 85.000 unità. Se
consideriamo anche il punto di pareggio contabile,
quello da costi di esercizio, avremo che il punto di
pareggio si ottiene in corrispondenza di 60.000 unità. La
differenza quindi sta proprio nel recupero dell’investimento, quindi nel fatto che quando ragioniamo in
termini di investimento attualizziamo i flussi di cassa per portarli tutti nello stesso periodo, quando invece
consideriamo l’esercizio ignoriamo il fattore tempo. Quando superiamo l’esercizio, quindi ragioniamo in
termini di 3,4,5 anni ci poniamo il problema della remunerazione del capitale e questo ci porta allo
spostamento del punto di pareggio da 60.000 unità a 85.000 unità. In teoria quindi potremmo dire agli
investitori che dobbiamo vendere almeno 85.000 unità, però anche se ne facciamo 60.000 unità l’azienda non
ci va a perdere.
LEVA OPERATIVA
Quando si fa un investimento, potremmo decidere ad
esempio se investire molto in tecnologie e poco in
personale, o viceversa. In molti business si ha la
possibilità di scegliere tra lavoro manuale e lavoro
automatizzato. Questo, in termini di costi, comporta
assumersi dei costi fissi (legati all’automazione,
quindi all’acquisto di tecnologie, impianti) o dei costi
variabili (legati all’acquisto di materie prime,
personale, ecc..). Sempre riprendendo il solito
esempio, originariamente avevamo costi variabili pari
a 30 Mld e costi fissi pari a 3 Mld, adesso invece c’è
stato uno spostamento forte sui costi fissi, quindi in
questo caso si fa anche un confronto tra due
possibilità di investire, quindi seguire una strategia
volta ai costi fissi (con costi di investimento elevati,
legati all’acquisto degli immobili e delle tecnologie) oppure mantenersi bassi a livello di investimento e
puntare molto sulla flessibilità (costi variabili). L’opzione con maggiori costi fissi porta ad un flusso di cassa
netto che è maggiore di quello precedente; in questo caso ci sono anche minori costi complessivi, e questa è
una delle cause che ha portato ad un flusso di cassa netto maggiore. Però l’aumento del flusso di cassa non è
così elevato (prima era pari a 3 Mld, ora è pari a 4 Mld). Questa configurazione porta anche all’aumento del
VAN che è adesso pari a 9.6 Mld. A fronte di questa nuova configurazione, segue chiaramente una nuova
analisi di sensibilità, per vedere se quei parametri critici sono ancora critici e in che modo. Quindi andare a
vedere come si comporta l’investimento in seguito a questa variazione.

91
Naturalmente l’effetto leva operativa comporta, con
un aumento dei costi fissi e una riduzione dei costi
variabili, a parità di attività, un aumento del reddito
se chiaramente il business ha successo. Se viceversa
le vendite si contraggono la leva operativa si porta
dietro maggiori rischi. Aumentare gli investimenti in
costi fissi comporta maggiori profitti nel caso sia
positivo, ma allo stesso tempo maggiori perdite nel
caso in cui vi sia una reazione negativa. Per esempio
ricalcolando il punto di pareggio in questa
configurazione, viene fuori un punto di pareggio
superiore (il punto di pareggio rappresenta anche
una misura di redditività del prodotto) e quindi i
rischi aumentano, legati chiaramente alla possibile
perdita in caso di riduzione delle vendite.
OPZIONI REALI
L’ultimo aspetto che analizziamo, sempre come
strumento a disposizione per cercare di considerare
l’incertezza nelle nostre considerazioni, è il discorso
legato all’albero delle decisioni. Gli alberi delle
decisioni negli investimenti non si usano speso
perché poter utilizzare questo metodo negli
investimenti, è necessario che l’investimento si
presti cioè l’investimento deve essere fatto per step,
non con un investimento una tantum all’inizio, ma
con un investimento in più riprese. Ad esempio se
consideriamo una catena di negozi, non aprirò tutti
insieme 10 negozi, ma farò prima un investimento
per i primi 5 e poi, dopo aver visto come è andata,
farò un successivo investimento per gli altri 5. Per
quegli investimenti per cui è possibile pianificare una serie di step di investimenti in cui gli investimenti
successivi si possono o non si possono fare (quindi c’è un’opzione), si può usare questo strumento. In
generale i progetti che possono essere modificati valgono di più rispetto a quelli che non possono essere
modificati, perché per esempio l’analisi di sensibilità non prevede la possibilità di modificare il progetto.
Questo aspetto in molti progetti ha valore, cioè se io, dopo il primo investimento, mi rendo conto che non
vado da nessuna parte, piuttosto che continuare ad investire, chiudo e mi porto a casa una piccola perdita
piuttosto che una grande perdita. Le opzioni reali possono essere opzioni di crescita (quando appunto posso
fare investimenti addizionali), opzioni di abbandono (soprattutto per i beni tangibili), opzioni di attesa e
opzioni di conversione.
L’albero delle decisioni è un diagramma di decisioni
sequenziali e possibili risultati. Ragionare in termini di
alberi delle decisioni aiuta le imprese ad individuare quali
possono essere le opzioni di investimento successive, e a
quantificare il valore dei diversi step, dei diversi contributi.
Quando si ragiona in termini di alberi delle decisioni ci si
può far prendere la mano andando a valutare tutte le
possibili alternative di un investimento. Bisogna però far si
che l’impresa valga la spesa, ovvero non bisogna
complicare troppo il modello. Diventa efficace se non è
scomposto al massimo. In teoria si dovrebbero considerare
92
tassi diversi in corrispondenza della diversa rischiosità dei diversi step di avanzamento, cosa che ovviamente
spesso non avviene.
L’albero delle decisioni è composto fondamentalmente da
due tipi di nodi:

 nodo delle decisioni: è semplicemente un momento


di scelta; come si può vedere dall’esempio, in
corrispondenza della decisione c’è l’opzione testare o non
testare;
 nodo degli eventi: non dipende dalla scelta presa;
se decidiamo di testare, si ha una realizzazione costi, ricavi,
ecc.. con certe distribuzioni di probabilità.

ESEMPIO:
Una azienda di trasporto aereo si trova di fronte ad una
duplice possibilità di investimento. O può investire in un
nuovo aereo in turboelica oppure investire in un piccolo
aereo tradizionale (motore a pistoni), con la possibilità di
acquistare un altro dopo un anno se la domanda dovesse
essere sufficiente.
Quindi dobbiamo fare un confronto fra queste due
modalità di investimento.

Si costruisce un semplice albero delle decisioni per i due


casi. Il primo caso corrisponde all’investimento del
turboelica, e il secondo corrispondente all’investimento
in due fasi dell’aereo a pistoni. All’anno 0 in entrambi i
casi avremo un nodo degli eventi. Consideriamo in
primis l’investimento del turboelica. Per quanto riguarda
i flussi di cassa, abbiamo un investimento iniziale di 550.
Dopo di che avremo due scenari, domanda alta e
domanda bassa; assieme a questi due scenari ci sono due
distribuzioni di probabilità: 60% nel caso in cui la
domanda è alta, e 40% nel caso in cui la domanda è
bassa. Naturalmente la valutazione di questa
distribuzione di probabilità influisce sul risultato finale.
E così via.
Poi considerando l’investimento dell’aereo a pistoni, per quanto riguarda i flussi di cassa, abbiamo un
investimento iniziale di 250. E si procede come nel caso precedente.
I flussi di cassa ovviamente sono stati determinati considerando ricavi, costi, ecc.. anche se qui sono riportati
solo i risultati finali.
Poi, in entrambi i casi si procede con un altro scenario (avremo sempre un mercato ad elevata domanda o a
bassa domanda), che si va a ripercuotere su ciascuno degli eventi con la particolarità però che, se la domanda
dopo il primo anno è alta, l’investimento dell’aereo a pistoni ha un’opzione, ovvero quella di effettuare un
secondo acquisto, oppure di non acquistarlo. E quindi faremo lo stesso calcolo dei flussi di cassa, così come
fatto in precedenza.

93
Vediamo un po’ come sono stati calcolati questi flussi
di cassa. Il calcolo di un albero decisionale si effettua
dalla fine all’inizio. Abbiamo sempre la probabilità
domanda alta e domanda bassa. Quel flusso di cassa
atteso si calcola facendo la media ponderata:
(960 × 0.8) + (220 × 0.2) = 812
E così via.
La differenza principale quindi nell’utilizzare un albero
decisionale piuttosto che uno dei metodi visti in
precedenza è che i valori di valutazione che vengono
fuori in questo caso sono dei valori medi, mentre negli
altri casi sono dei valori deterministici.

Il secondo passaggio consiste nel calcolare all’inizio del


primo anno il valore attuale netto dell’opzione acquisto
secondo aereo. Considerando un tasso di attualizzazione
del 10% avremo che:
660
− 150 = 450
1.10
nel caso in cui l’azienda decidesse di acquistare un
secondo aereo a pistoni, mentre avremo che:
364
− 0 = 331
1.10
nel caso in cui l’azienda decidesse di non acquistare il
secondo aereo a pistoni. Quindi se mi trovo a fine primo
anno, confrontando questi due valori, all’impresa conviene acquistare il secondo aereo perché i flussi di
cassa combinati con la distribuzione di probabilità che al secondo mi dicono che la probabilità che la
domanda sia alta è dell’80% e che la probabilità che la domanda sia bassa è del 20%, mi dicono che è meglio
acquistare l’altro aereo.
E così via. Andando a ritroso ovviamente mi calcolo
l’attualizzazione di tutti gli altri flussi di cassa. Per cui,
per esempio, il VAN del primo arco è pari a:
812
+ 150 = 888.18
1.10
E così mi calcolo tutti i valori.

94
Il passaggio successivo è quello di determinare il VAN
mediato tra la probabilità che vi sia alta domanda e la
probabilità che vi sia bassa domanda.
(888,18 × 0,6) + (444,55 × 0,4) = 710,73
Quindi il valore attuale della scelta turboelica è pari a
710,73. Così come il valore attuale della scelta aereo a
pistoni è di 403,82.

Alla fine non mi resta che calcolare il VAN andando a


sottrarre l’investimento iniziale. Quindi nel caso
turboelica avremo che:
710,73
− 550 = 96.12
1,10
Mentre nel caso di aerei a pistoni avremo che:
403,82
− 250 = 117,00
1,10

In conclusione possiamo dire che all’impresa conviene


investire nell’aereo a pistoni in quanto il VAN è
maggiore rispetto all’investimento del turboelica. La
convenienza è legata all’opzione di ampliamento, cioè
nella possibilità di acquistare un secondo aereo. Se non
avessimo la possibilità di investire al secondo anno, il
VAN si ridurrebbe da 117 a 52 e quindi a quel punto
converrebbe investire nel turboelica.

95
29 Aprile 2015
VALORE DI OBBLIGAZIONI, AZIONI, IMPRESA
Un’obbligazione è un titolo di credito o quota di debito dell’emittente (impresa, ente, ecc.), posseduta da chi
la compra, cioè chi presta denaro all’emittente, con la promessa di restituzione di denaro a lungo termine
(>1anno). In cambio di prestito non c’è soltanto la restituzione ma anche il pagamento di oneri finanziari,
ossia l’interesse del debito.

VALUTAZIONE DI UN’OBBLIGAZIONE
La valutazione dell’obbligazione può essere scissa in due: una rendita (pagamento delle cedole) e il
pagamento finale.
I prezzi delle obbligazioni (valore) si calcolano sulla base del:
 Tasso di interesse nominale, interesse garantito, che troviamo su di un quotidiano. Il valore
dell’interesse può cambiare solo in “titoli a tasso variabile” (indicizzati all’inflazione, se cambia
l’inflazione periodicamente viene aggiornato il tasso di interesse della cedola) e deve essere
chiaramente esplicitato;
 Tempo di scadenza, cioè quando avviene la restituzione del capitale, influisce sul prezzo (non può
cambiare nel tempo);
 Tasso di interesse di mercato, costo opportunità del capitale, strumento con cui rendiamo equivalenti
somme di denaro riferiti ad istanti diversi (attualizzazione). Mi serve per valutare a scadenza il mio
potere d’acquisto.
Per invogliare i risparmiatori ad acquistare obbligazioni italiane bisogna fargli uno “sconto”; cioè
assicurargli un interesse maggiore rispetto ai titoli tedeschi che sono più sicuri. Ad esempio, l’interesse di
mercato e all’1%, io vendo obbligazioni assicurando un interesse del 3%; dopo due anni anche l’interesse di
mercato sale al 3%. Se il tasso di mercato aumenta, la remunerazione dell’obbligazione risulta meno
conveniente (vado ad attualizzare i flussi di cassa al 3% perché cambia il costo opportunità del capitale),
perciò il prezzo d’acquisto diminuisce.
 Tasso interno di rendimento (TIR) o rendimento alla scadenza è il tasso che mi annulla il VAN ed è
il rendimento atteso dell’obbligazione dato il suo prezzo. Questo è vero perché ipotizzo un flusso di
cassa alla scadenza, dove gli interessi maturano alla fine del periodo con un rendimento pari a quello
calcolato. In realtà, il TIR non è il valore del rendimento di un investimento. Se il TIR è al 10% ma i
tassi di attualizzazione sono al 6%, il VAN sarà positivo e darà un guadagno di un certo tipo.

ESEMPIO: Un titolo governativo tedesco (Bund) paga una cedola annua del 5,375% per 6 anni. Il valore
nominale del titolo è 100 €, il tasso di sconto (tasso di mercato) è 3,8%.
Se oggi è il primo giorno di contrattazione del titolo (appena emesso), qual è il prezzo (valore atteso) della
obbligazione?
Nel momento in cui il titolo è stato emesso iniziano le contrattazioni in borsa. Chi l’ha già comprato lo può
vendere e chi non è riuscito a comprarlo lo può acquistare di chi l’ha comprato; non a caso la borsa viene
chiamata “mercato secondario” perché il mercato primario e appunto quello di prima emissione, dove esiste
una relazione diretta tra chi emette e chi acquista.
Il prezzo che si formerà in borsa dipende dal confronto tra i due tassi (interesse nominale e interesse di
mercato); se abbiamo avuto la fortuna di acquistarlo subito abbiamo una rendita annua del 5,375%, quando
successivamente sarebbe del 3,8%. Molta gente vorrà acquistare il titolo da me e se sono in cerca di liquidità
potrei anche venderlo. Ne deriva che il prezzo dell’obbligazione aumenterà.
Analiticamente, il prezzo sarà:

96
Non dobbiamo fare altro che attualizzare tutti i flussi di cassa al 3,8%, cioè le diverse rate tutte uguali più il
flusso finale di 100 €. Il prezzo finale avrà VAN=0.
Chi acquista un titolo il cui valore è aumentato, guadagna il 3,8% (tasso di sconto) e non c’è alcun affare; se
compro a 107,05, ho un interesse del 3,8% perché lo sto comprando ad un prezzo maggiore.
In realtà chi ci guadagna è chi ha scommesso dall’inizio sul titolo. Acquistare ex-ante un titolo è comunque
un rischio perché non si sa cosa può succedere dal momento dell’acquisto fino al momento della sua
quotazione in borsa; se il tasso di sconto arriva a 5,375% non ci ho guadagnato niente e lo rivendo a 100.
Quindi, chi sottoscrive per primo corre un rischio superiore rispetto a chi compra il titolo in borsa perché sta
acquistando in base ad una promessa di rendimento maggiore del tasso di mercato; esiste un intervallo di
tempo tra il primo acquisto e la quotazione in borsa durante il quale può succedere di tutto (può scoppiare
una guerra, i tassi vanno al 10% e perdiamo dei soldi). Solitamente, l’acquisto di titoli in prima emissione è
sinonimo di grandi guadagni.

CONTINUAZIONE ESEMPIO: qual è il TIR che annulla il VAN dell’obbligazione? Ovviamente dipende
dal prezzo.
Se il prezzo dell’obbligazione (I0) è 100 €, il TIR è 5,375% (il tasso del mercato è uguale al tasso di
rendimento delle cedole).
Se il prezzo dell’obbligazione (I0) è 107,05 €, il TIR è 3,8%

Nel grafico vediamo due


obbligazioni: quella con i
pallini rossi (1450) a 5 anni
mentre quella con pallini
gialli (1090).
Il grafico riporta il valore
attuale dell’obbligazione,
cioè il prezzo che viene
scambiato ogni giorno sul
mercato, in funzione del
costo opportunità del
capitale (tasso di sconto).

Per tassi < 9% l’obbligazione quinquennale è maggiore di quella annuale e viceversa. Questo vuol dire che la
scadenza (secondo parametro dopo l’interesse nominale) influenza il valore del titolo perché maturo più
interessi in più anni.
In corrispondenza di un tasso di sconto uguale a 0, il prezzo sulle ordinate sarà dato dalla somma dei flussi di
cassa (senza moltiplicare per alcun fattore di attualizzazione). Man mano che ci spostiamo sulle ascisse il
tasso di attualizzazione aumenta e peserà di più sui flussi di cassa. Se il tasso di mercato fosse proprio del
9%, il valore di entrambe le obbligazioni sarebbe 1.000; se, invece, il tasso è > 9%, sto investendo in
qualcosa che ha un rendimento inferiore a quello corrente di mercato (mi aspetto di perdere denaro), e ne
risente di più il titolo di 5 anni.
Quindi anche la scadenza influenza il prezzo del titolo: quando le obbligazioni hanno una scadenza
ravvicinata, avremo variazioni limitate del valore perché magari avremo un solo flusso di cassa; se invece la
scadenza è più lontana, le fluttuazioni, in funzioni del tasso di sconto, sono più elevate, e ciò comporta un
maggior rischio ma anche una maggiore opportunità di guadagno.

97
AZIONI E MERCATO DELLE AZIONI
La valutazione delle azioni è qualcosa di molto vicino alla valutazione di un investimento, infatti il valore di
un’azione rappresenta il valore dell’impresa o almeno in quota parte.
Il valore di un’azione si calcola, nel momento in cui l’impresa è quotata in borsa, con il suo prezzo di
mercato. Ma noi abbiamo anche imparato ad utilizzare la “teoria del valore”, che si esprime attraverso la
somma dei flussi di cassi attualizzati ad un costo del capitale, il quale riflette il rischio di quell’investimento.
Noi ci aspettiamo che il prezzo dell’azione rifletta questa teoria.
Il valore attuale di un’azione dovrebbe essere pari al valore attuale di una serie di flussi di cassa futuri.

Rendimento atteso Il profitto, espresso in percentuale, che un investitore prevede di ottenere da un


investimento su un dato periodo di tempo. Anche detto tasso di capitalizzazione del mercato.

Il rendimento è sempre un guadagno sul prezzo d’acquisto. Il numeratore sarà dato dai dividendi erogati più
il capital gain (quando andremo a rivendere l’azione otterremo un delta tra quanto investito e quanto
ottenuto alla vendita).

ESEMPIO: Oggi Fledgling Electronics è scambiata a 100 euro per azione e si aspetta di veder crescere il
prezzo dell’azione fino a 110 euro fra un anno. A quanto ammonta il rendimento atteso, se il dividendo nel
prossimo anno è di 5 euro?
5 +(110 −100)
Rendimento atteso r = = 15%
100

Come abbiamo visto, c’è una quota


di rendimento relativa al dividendo
e una quota di rendimento relativa
al capital gain. La stragrande
maggioranza dei titoli azionari non
da nessun dividendo, quindi la
quota di guadagno che deriva da un
investimento del genere è tutta in
capital gain. Ogni tanto però,
l’azienda dovrà dare soddisfazione
ai suoi investitori visto che il
proprio titolo sta crescendo di valore: potrebbe esserci un aumento di capitale gratuito, cioè dei “regali” agli
azionisti in termini di quote di capitale (se possiedo l’1% di Generali Assicurazioni dopo un po’ potrei
ottenere un altro 1%).

98
MODELLO DI SCONTO DEL DIVIDENDO

Dato un certo rendimento atteso, voglio conoscere il prezzo dell’azione attraverso la somma del valore
attuale di tutti i dividendi attesi futuri.

T- orizzonte temporale del proprio


investimento.
r – tasso di rendimento del mercato, cioè
rendimento costo opportunità del capitale di
un investimento simile. Per Generali
Assicurazioni sarà il tasso di rendimento del
mercato dei titoli assicurativi medi del mercato italiano.

Avendo considerato sia la quota di


dividendo sia la quota di capital gain,
il valore attuale dipende
fondamentalmente dai dividendi, cioè
dai flussi di cassa, salvo il valore
finale del prezzo dell’azione all’anno
successivo all’anno T. Infatti se
facessimo tendere quest’ultimo
all’infinito, l’ultimo rapporto sarebbe
0; man mano che il tempo aumenta,
considerando un orizzonte temporale
più grande, il valore dell’impresa
dipenderà esclusivamente dai
dividendi e non dall’aumento del
prezzo dell’azione (capital gain). Se un’azienda non eroga dividendi, il ragionamento è analogo se avessi
delle azioni gratuite (invece di darmi 1€ per dieci anni ottengo un’azione che
vale 10€ è la stessa cosa); l’aumento di capitale gratuito è un modo diverso
per erogare dividendi, oppure c’è il anche il “buy-back” dove l’azienda
riacquista le proprie azioni dalle tasche dei risparmiatori.

MODELLO DI SCONTO DEL DIVIDENDO A CRESCITA COSTANTE


Questa formuletta può essere semplificata con la rendita perpetua. Se è prevista
crescita zero (dividendi costanti) e si pianifica di detenere le azioni indefinitamente, le
azioni si possono valutare come una rendita perpetua. Il prezzo è dato dal rapporto tra
il dividendo ed il rendimento.

Se invece considerassimo una crescita dei dividendi a tasso costante (ad esempio dell’1% ogni anno),
possiamo ancora considerare questa formula ma con una piccola modifica.
La presenza del tasso di crescita costante (g) fa lievitare il valore di P0.

99
ESEMPIO: Secondo le attuali previsioni, nei prossimi tre anni la società XYZ pagherà dividendi per,
rispettivamente, 3 €; 3,24 €; 3,50 €. Al termine dei tre anni, potete preventivare di vendere le vostre azioni a
un prezzo di mercato di 94,48 €. Considerato un rendimento atteso del 12%, a quanto ammonta il prezzo
delle azioni?
Attualizzo i tre flussi di cassa includendo il
valore finale.

Se vado sul mercato e vedo che l’azione quota 84 € la compro? Se mi sono fatto i miei calcoli vedo che non
mi conviene; se invece la trovassi a 70 € la compro pensando di aver fatto un affare. Anche se non dobbiamo
credere troppo alle nostre stime ma solo a quelle del mercato!

Sui quotidiani finanziari possiamo trovare una serie di informazioni riguardo un titolo azionari:

 i valori minimo e massimo dell’azione in un biennio; questo è un dato che ci serve per capire se quel
titolo oggi è sopravvalutato o sottovalutato;
 il dividendo e la data in cui è stato erogato;
 dati relativi alla quantità di azioni scambiate per far vedere se un titolo è richiesto o meno (può
essere importante nel caso di compra-vendita);
 la media del prezzo a 30 gg, ottenuta dai due valori iniziali (max e min), vista l’entità delle
oscillazioni, ci fa capire che è abbastanza stabile;
 il prezzo di riferimento è l’ultimo dato disponibile sul prezzo;
 le variazioni percentuali indicano gli aumenti giornalieri;
 prezzo di apertura con la prima contrattazione del giorno, prezzo minimo e massimo della seduta e
prezzo di chiusura;
 il numero di contratti chiusi (vendite), quantità di titoli relativi ai contratti
 capitalizzazione totale è il valore dell’impresa stimata dal mercato (prezzo x q.tà di azioni);
 P/U, prezzo su utile. Sappiamo che il rapporto inverso (U/P) esprime il guadagno o rendimento, in
finanza si usa il primo rapporto perché così facendo ci si incentra di più sul valore dell’impresa;
 Div/P, dividendo su presso, esprime quanto ci entra in tasca (rendimento) perché rappresenta la
cedola dell’azione. Autostrade è un titolo che eroga dividendi. L’utile deve risultare più grande del
dividendo perché una parte degli utili l’azienda li conserva per investire e crescere.

100
 P/mezzi propri. Il denominatore è il patrimonio netto per azione. Il fatto che il valore dell’azione sia
superiore al valore del patrimonio netto non deve stupire più di tanto perché ci sono dei flussi di
cassa sicuri per un numero di anni molto elevato (dipende dal tipo di azienda).

Il rendimento atteso di un investimento in azioni è anche il costo opportunità dell’investimento (a pari


rischio), nonché il tasso di capitalizzazione del mercato.
Con crescita zero, in un periodo di tempo infinito, si ottiene:

Con crescita perpetua ad un tasso costante g (g < r) dei dividendi si ha:

Possiamo avere vari tipi di rendimento:

In termini di azione, il ROE è anche uguale al patrimonio netto diviso il numero di azioni ed ottengo il
“patrimonio proprio” o “mezzi propri” per azione.
Quando è vera questa relazione?
Se si assume che l’utile aziendale
venga interamente distribuito agli
azionisti (nella migliore delle
ipotesi, l’azienda non cresce).

Se un’azienda sceglie di pagare un dividendo inferiore all’utile e di reinvestire i fondi (caso più reale), il
prezzo delle azioni può aumentare (o diminuire) in vista di dividendi futuri più elevati (bassi).
Ha più senso per la comunità finanziaria che l’impresa non distribuisca tutti gli utili agli azionisti se quei
soldi vengono investiti in attività più che remunerative (VAN > 0), così che il valore dell’azione possa
esclusivamente crescere. L’altra faccia della medaglia, invece, prevede che gli utili vengano trattenuti per
pagare i debiti.

 Tasso di distribuzione degli utili (Payout Ratio) Rapporto fra dividendo e utile per azione
(Div/EPS). Tendenzialmente sarà < 1 per le aziende che hanno opportunità di crescita; può anche
essere > 1 nel caso in cui l’azienda per un anno faccia perdite, ma riesce comunque a distribuire utili
se è una grossa azienda che in passato ha solo fatto che bene. Ecco perché in genere la quota di
dividendi è sempre abbastanza bassa, proprio per avere un risultato mediato nel tempo, per
permettere agli azionisti di avere un rendimento anche nei periodi di recessione.

 Tasso di ritenzione degli utili (Plowback Ratio) Frazione degli utili trattenuta dalla società

101
Payout Ratio = Div/EPS = 1 – Plowback Ratio

La crescita dei dividendi può essere derivata dall'applicazione del rendimento del capitale netto alla
percentuale di utili ritenuti nelle attività aziendali, quindi mi aspetto che dipenda da quanto rende il capitale
netto (ROE) e dal denaro trattenuto.
Crescita g:
(rendimento capitale netto) x (tasso ritenzione utili)
g = ROE x (1 - payout)

“g” = massimo tasso di crescita sostenibile di impresa. Cioè se io mi affido esclusivamente sul rendimento
delle attività delle impresa, sul suo autofinanziamento.

ESEMPIO: Un titolo viene scambiato a 100 € e ci si attende paghi un dividendo annuo di 3 € da qui
all’infinito. Qual è la previsione del mercato circa la crescita dei dividendi, se il tasso di sconto coerente con
l’investimento è del 12%?

div div
P ; g r  € 100 = € 3 / (0,12 – g) g = 0,09
rg p
Il mercato prevede una crescita dei dividendi del 9% annuo.

Alcune difficoltà:
Tutto ciò che abbiamo appena visto sono modelli di riferimento, difficili da calare nella realtà dinamica e
turbolenta dei mercati finanziari.
 Ipotesi di crescita regolare (g) e stima di g.
 Valutazione di r (tasso di capitalizzazione del mercato. Vado a considerare un campione di imprese a
rischio simile (ad es. settore o mercato analogo) e valutazione media.
 Stime ottimistiche di r dagli analisti finanziari con riferimento sempre al passato
 Non applicare le formule per verificare la stima delle azioni da parte del mercato!
 Non applicare le formule a imprese ad elevati tassi correnti di crescita (20%): non sostenibili perché
guadagni elevati sono molto limitati nel tempo (a meno che non ci siano provvedimenti governativi
che proteggano determinati mercati)! Perciò si utilizzano modelli di valutazione a stadi.

Tabella per verificare i rapporti che ci sono tra rendimenti, equity, utili (tutti i valori sono riportati al valore
della singola azione, per ottenere i dati assoluti bisogna moltiplicare per il numero di azioni).
Nel primo anno si può vedere come l’azienda abbia un ottimo ROE (ottenuto dal rapporto tra EPS ed Equity)
che le permette di guadagnare il 25%; a fronte di un utile di 2,50, l’azienda eroga 1/5 come dividendi.

102
Il secondo anno l’equity (patrimonio) aumenta: 10 (equity anno 1) + 2,50 (EPS anno 1) – 0,50 (div) = 12;
anche l’utile è aumentato del 20% (da 2,50 a 3,00) con una redditività dell’equity identica all’anno
precedente perché anche i dividendi hanno avuto un incremento del 20%.
Il terzo anno abbiamo un ulteriore aumento del patrimonio: 12 + 3 – 0,6= 14,40 (stesso calcolo di prima);
l’utile però scende (2,30) insieme al ROE (16%); a questo punto gli azionisti protestano e vogliono più soldi
ottenendo il 50% dell’utile (1,15).
Il quarto anno abbiamo comunque un equity superiore: 14,4 + 2,3 – 1,15= 15,55; tuttavia la redditività del
ROE rimane bassina (16%). Si vuol erogare ancora il 50% dell’utile agli azionisti (1,24) con un conseguente
crollo precipitoso del tasso di crescita dei dividendi (da 0,92 a 0,08).

IL RAPPORTO PREZZO/UTILI
Finora abbiamo sempre detto che i rendimenti sono espressione di un guadagno (investimento) diviso un
valore (prezzo). In assenza di crescita (g = 0) e con distribuzione totale degli utili (payout = 1) possiamo
scrivere l’equivalenza tra dividendo e utile, da cui ricaviamo il prezzo.

Div1 EPS1 Div1 EPS1


r   P0  
P0 P0 r r
L’eguaglianza vale anche nel caso di ritenzione degli utili, cioè se non distribuisco tutti gli utili agli azionisti
(payout < 1), a patto che il rendimento degli investimenti in azienda è uguale al tasso di capitalizzazione del
mercato (TIR = r, VAN=0).
In generale, però, in presenza di ritenzione di utili (con investimento a VAN > 0) e crescita, posso scrivere
che il valore dell’azienda lo ottengo come:
DIV1 EPS1
P0    VAOC
rg r
Se esprimo il valore del prezzo non in funzione del dividendo ma in funzione dell’utile, mi aspetto che
quest’ultimo mi generi un valore dell’azienda maggior che è frutto degli investimenti che sostengo; viene
perciò chiamato “valore attuale delle opportunità di crescita” (VAOC).
Rispetto al valore del rendimento, il rapporto U/P risulta più piccolo; cioè, il rapporto utile/prezzo sottostima
il rendimento r, nel caso in cui l’impresa (come di solito) investe risorse finanziarie per produrre ricchezza
(in attività a VAN>0).
EPS1  VAOC 
 r  1  
P0  P0 

Vediamo il caso di un’azienda che ha a disposizione un investimento di 10 € in corrispondenza di diversi


tassi di rendimento. Questa tabella ci mostra come il rapporto U/P (EPS/P 0) sopravvaluti il tasso di
rendimento quando il progetto presenta un VAN negativo (cattivi investimenti) e lo sottovaluti quando il
VAN è invece positivo.

103
30 Aprile 2015
Riprendiamo dal discorso sulla
valutazione dei titoli finanziari che sono
comunque connessi all’idea del valore e
quindi anche alla valutazione degli
investimenti perché abbiamo detto che il
valore in particolare delle azioni
(tralasciando per un attimo il discorso
delle obbligazioni e quindi del debito
dell’impresa che riprenderemo quando
parleremo di struttura finanziaria) è
nient’altro che il valore di un’attività di
business. Quindi abbiamo parlato di
rendimento del mercato e abbiamo visto
come fondamentalmente il rendimento sia
legato al rapporto fra dividendo e prezzo
perché la parte di capital gain, cioè la parte che remunera l’investitore sotto forma di plusvalenza nella
acquisizione e vendita di un titolo, nel lungo termine diventa trascurabile e quindi diventa fondamentale il
dividendo. Abbiamo anche visto perché parliamo di dividendo e non di utile, e in realtà possiamo anche
parlare di utile, quando? In particolari circostanze cioè quando tutto l’utile viene distribuito ai soci quindi
non rimane traccia dell’autofinanziamento dell’impresa all’interno di un business (i guadagni vengono tolti
dall’impresa e distribuiti ai soci) e anche quando, abbiamo detto, non si ha una crescita dei dividendi,
ovviamente se io non mantengo delle risorse finanziarie aggiuntive all’interno dell’impresa l’ipotesi che non
ci sia crescita dei dividendi è abbastanza correlata. Da questa relazione, quindi in questo caso particolare,
possiamo sempre ricavare il prezzo:

,
da cui discende appunto che il valore di un’azione è pari al rapporto tra dividendo e tasso di costo
opportunità o tasso di capitalizzazione del mercato ed è anche uguale naturalmente all’utile (l’utile per
azione, EPS) diviso il tasso sempre nell’ipotesi suddetta.
Abbiamo anche detto che questa eguaglianza fra dividendo e utile vale anche nel caso in cui parte degli utili
rimangano all’interno dell’azienda che però effettua, quindi è un caso limite, investimenti allo stesso tasso di
capitalizzazione cioè a VAN=0.
Cosa succede se invece esiste una
crescita dell’impresa cioè esiste
quindi una remunerazione maggiore
del capitale trattenuto all’interno
dell’impresa per fare nuovi
investimenti, per crescere, ecc. Ci
aspettiamo che la relazione sarà
diversa tra dividendo e utile e non ci
consenta più di imporre quella
eguaglianza: per cui a quel punto
ipotizzando sempre un tasso di
crescita costante e noto, dividendi
pari a g, abbiamo visto che la stima
del valore dell’azione è data dal
rapporto dividendo/(r-g), con tutte
104
però le ipotesi del caso che abbiamo visto. Se volessimo esprimerla in termini di utile, quindi di EPS, ci
troviamo di fronte ad un’incognita nel senso che ipotizziamo che questo valore dipenda naturalemnte
dall’utile, che quindi ci sia un guadagno sulle attività dell’impresa, ma una parte di questo utile, che viene
natuarlamente trattenuto, genererà nuovi investimenti con nuovi redditi che sintetizziamo nell’addendo
VAOC (valore attuale delle opportunità di crescita). Da cui otteniamo che:

,
il rapporto utile su prezzo (il cui inverso, prezzo su utile, si trova spesso nelle informazioni finanziarie) è
dato dal prodotto del tasso di interesse per quella differenza (1-VAOC/P0), da cui notiamo che questo
rapporto utile su prezzo è correlato al tasso di rendimento r però dipende anche dal rapporto VAOC/P0 e, in
particolare, dal fatto che questo VAOC sia positivo o negativo. Cioè se, come ci aspettiamo, il VAOC è
positivo, perché l’impresa investe in attività ad elevata remuneratività, quel rapporto è positivo e quindi la
parentesi va a ridurre il valore del rapporto EPS/P0 rispetto al tasso r, per cui il rapporto utile su prezzo
sottostima il rendimento r. Nel caso in cui invece l’impresa investa quindi si mantiene dei soldi all’interno
dell’impresa non per fare investimenti ad elevata redditività ma per magari tappare qualche buco che si è
creato nel corso degli anni ovviamente accade il contrario cioè il rapporto utile su prezzo sovrastima il
rendimento r e lo abbiamo visto anche attraverso un esempio:
in cui un investimento, in
questo caso particolare, di
10 euro in un anno,
nell’anno 1, a seconda dei
tassi di rendimento del
progetto determina un
rapporto utile su prezzo,
EPS/P0, che vedete è
maggiore del tasso di
rendimento del mercato
(0,10) quando il tasso di
rendimento del progetto è
basso, e quindi
sostanzialmente il valore
attuale delle opportunità di
crescita è negativo, e lo
sovrastima invece negli
altri casi.
Naturalmente invece risulta
indifferente proprio nel caso in
cui il tasso di rendimento del
progetto è pari al tasso del
mercato, cioè un investimento
fondamentalmente a VAN pari
a 0.

105
Vediamo anche un altro esempio
su questo concetto del valore
attuale delle opportunità di
crescita. La Primaelettronica
prevede di pagare un dividendo
di 8,33 euro che rappresenta la
totalità degli utili, quindi
distribuisce tutti gli utili
aziendali. Questo dividendo
fornisce agli investitori un
rendimento del 15%.
Alternativa: si potrebbe decidere
di reinvestire il 40% degli utili
all’attuale rendimento del
capitale netto aziendale, il ROE,
che è pari appunto al 25%. A
quanto ammonta il valore delle
azioni prima e dopo la decisione di reinvestire? Cioè come reagiscono sostanzialmente gli investitori di
fronte alle due opportunità, caso in cui viene disribuito l’intero dividendo e caso in cui viene distribuito
soltanto il 60% degli utili? Nel caso nessuna crescita, cioè nel caso in cui l’azienda decide di distribuire
interamente il guadagno ai soci, dalla formuletta che abbaimo visto (dividendo/tasso di rendimento del
mercato) abbiamo 8,33/ 0,15 e la stima del valore dell’azione è pari a 55€. Nel caso in cui invece si opta per
il reinvestimemto di una quota di questi utili, in particolare il 40%, la valorizzazione dell’azione segue la
formula dividendo/(r-g): quindi il dividendo diventa il 60% di 8,33 che è pari a 5, r è sempre pari a 0,15, g lo
calcolo come l’ incremento legato all’investimento di quel 40% a un tasso del 25% che è il ROE (come vi ho
detto la volta scorsa: come faccio a valorizzare g? Un’idea è valuto la ritenzione degli utili, cioè quanto
rimane degli utili all’interno dell’ azienda, il 40%, e lo moltiplico per il tasso di rendimento del capitale cioè
quanto rende il capitale investito all’interno dell’azienda). Vien fuori da questo rapporto P0=100€: qui
sostanzialmente gli investitori valutano molto di più l’azione, cioè tutti corrono a comprare l’azione, se
l’impresa mantiene una quota di quei soldi all’interno: perché questo? Perché investe al 25%, quindi se
investe al 25% vuol dire che una parte di quel maggiore rendimento finirà nuovamente agli azionisti e quindi
quello è un titolo molto buono, la gente quindi corre a comprare un’attività di business che rende il 25%, e
quindi vedete come la quotazione si sposta notevolmente verso l’alto quindi l’azienda vale di più (l’attività di
business viene stimata di maggior valore).
La differenza fra questi due valori
è detta Valore Attuale (quindi
un’attualizzazione) delle
Opportunità di Crescita, VAOC,
cioè VAOC è proprio la
differenza fra il non investire
(cioè quando dividendi e utile
sono la stessa cosa, distribuisco
tutti gli utili) e il reinvestimento
in attività a VAN>0, o se volte al
contrario in questo caso: 100-55
quindi 100 la situazione in cui si
reinveste in attività a VAN>0, 55
invece il caso in cui l’utile viene
interamente distribuito all’interno
dell’azienda.

106
Gli analisti finanziari considerano in
modo indifferente i titoli delle attività di
business soprattutto a seconda di questo
parametro, che poi è un parametro che
sostanzialmente testimonia delle
capacità, dei tassi di crescita delle
aziende. Quindi i titoli growth stock
sono i titoli che si focalizzano molto
sulla crescita quindi sul reinvestimento
delle fonti di finanziamento e quindi su
quelle che ci aspettiamo siano le attività
più innovative, più tecnologiche.
Mentre i titoli che mediamente
distribuiscono ricchezza sono titoli che
vengono chiamati income stock (stock
sta appunto per investimento, risparmio in questo senso dove sostanzialmente il risparmiatore si attende di
avere una rendita, una remunerazione piuttosto elevata).
Sempre nel nostro esempio facciamo un’altra
considerazione:
il payout abbiamo visto 60%. Semplicemente
queste due slide sono un approfondimeto
matematico di quello che abbiamo visto.

In sintesi il rapporto prezzo/utili, che è il rapporto che abbiamo trovato nella tabella del Sole 24 ore quindi un
elemento molto usato dagli analisti finanziari, è buono quando è alto? E se io vi dicessi il rapporto
utile/prezzo è buono quando è alto? Che cos’è il rapporto utile/prezzo? È un rendimento, è un rapporto fra un
guadagno e l’investimento quindi è buono quando è alto. Ora qui è l’inverso e quindi dovrebbe essere buono
quando è basso invece nella slide si dice: “buono quando alto? Generalmente si”, come si concilia questo
107
fatto col fatto che anche l’inverso è buono quando è alto? Se non avessimo studiato questa parte avremmo
detto che il rapporto prezzo/utile non deve essere alto perché senò vuol dire che il rendimento è basso ma il
problema è che il prezzo qui non è il valore patrimoniale dell’azione. È un valore di mercato che dipende
proprio dal fatto che gli analisti, gli investitori, i risparmiatori stanno considerando che quel titolo (ossia
quell’attività di business) avrà una serie di flussi di cassa futuri di una certa entità e quindi stanno scontando
quei flussi di cassa futuri dell’attività per determinarne il prezzo e quindi continuano a comprarlo finchè non
trovano conveniente comprare un titolo che è oberato di quei flussi di cassa futuri e succede che arriviamo a
dei multipli di quel prezzo, cioè all’8,32 che abbiamo visto ieri. Quindi il segnale che il prezzo/utile sia un
multiplo non è un segnale di rendimento ma è più un segnale di opportunità di crescita cioè un segnale di
stima che quell’attività di business è un’attività di business promettente, o sicura, o tutt’e due le cose
insieme, eccetera. Quindi attraverso questo rapporto io non sto tanto valutando un rendimento finanziario che
vi ricordate (sempre nel grafico di Autostrade) era meglio rappresentato dal rapporto dividendo/prezzo, se
invece voglio capire se il mercato considera un buon business questo e quali sono le aspettative di
rendimento futuro valuto il rapporto prezzo/utile però ricordandomi che è sempre l’inverso di un rendimento
quindi ATTENZIONE non è che il rapporto è eleveto perché l’utile si è all’improvviso ridotto, ma questo
ovviamente non capita diciamo nel medio periodo può valere soltanto in momenti transitori perché se l’utile
crolla sicuramente state certi che la comunità finanziaria se ne accorge e poi il prezzo ovviamente cala.
Può servire a valutare imprese che si vogliono quotare sul mercato? Cioè qual è il premio di prezzo che il
mercato riserva a imprese nel campo delle energie alteranative? Vado in Borsa e vedo Sorgenia quanto è
quotata, Enel quanto è quotata, Edison quanto è quotata: vedo che i multipli prezzo/utile sono di un certo
ordine di grandezza, questo può servire a definire il prezzo di un’impresa che vuole quotarsi in Borsa.
Non è ovviamente in relazione col tasso di capitalizzazione r e lo abbiamo visto nella formuletta, addirittura
potrebbero essere in parte inversamente proporzionali.
Attenzione poi, come al solito, a maneggiare il concetto di utile perché sappiamo che non essendo un
concetto prettamente finanziario si presta a possibili eventuali manipolazioni contabili.
In questa slide si riporta
qualche prezzo/utile
della Borsa, non mi
ricordo riferito a che
anno. Per esempio, la
parte di sopra, sono
imprese del mercato
americano: in cui vedete
il prezzo, l’utile per il
prezzo, il tasso di
capitalizzazione del
mercato e il VAOC che
da quella formula
vedete è anche uguale
alla differenza fra P0 ed
EPS/r, in ultima
colonna vedete il valore
attuale delle opportunità
di crescita in
percentuale sul prezzo
delle azioni. Vedete in quetso esempio le principali aziende che hanno il valore più alto in percentuale delle
opportunità di crescita sono Amazon, Cisco, Microsoft, poi c’è anche Starbucks un po’ più bassa, comunque
3 su 4 sono aziende tecnologiche; mentre più basse sono le classiche aziende che hanno da sempre
guadagnato, secolari direi come la Dow Chemical, la Citygroup quindi banche, industrie petrolifere, industrie

108
chimiche, automobili (automobili in questo caso era negativo perché probabilmente la General Motors non
versava in un grande periodo e quindi i soldi che tratteneva all’interno non erano poi così profittevoli infatti
il valore attuale delle opportunità di crescita era negativo), la grande distribuzione di C. Penney. Italiane:
alcuni income stock (quindi alcune aziende che tipicamente vengono acquistate non perché abbiano chissà
quali prospettive di crescita o tecnologiche) come le aziende municipalizzate, le Autostrade, l’editoria,
banca, telefonia, mentre quelle un po’ più growth stock (quindi un po’ più tecnologiche) come Finmeccanica,
Pirelli, STMicroelectronics, curiosamente c’è anche Generali dove però il valore percentuale vedete
comunque non è molto alto (Generali è un classico titolo da cassettista, da rendimenti anche se vi ricoradate,
vi ho detto ieri, non da dividendi ma da azioni quindi alla fine è la stessa cosa, non è molto diverso).
Passiamo a quest’ultima parentesi
sulla valutazione che è la
valutazione d’impresa, ovviamente
sulla valutazione d’impresa si può
fare un corso intero. Qui vi do
qualche pillola di alcuni capisaldi
basati sulle cose che abbiamo visto.
Ricordiamoci che una prima grezza
valutazione del valore di un’impresa
si ottiene sempre dal bilancio perché
il bilancio è, almeno per lo stato
patrimoniale, una fotografia dei beni
dell’impresa e delle sue fonti di
finanziamento e proprio da questa
fotografia ne vien fuori almeno un
valore statico che è quello del
patrimonio netto, l’equity
(differenza fra il totale dell’attivo, cioè tutti i beni, e i debiti che sono una parte generalmente consistente del
passivo).
Naturalmente dal patrimonio si può calcolare il valore delle singole azioni dividendo il patrimonio netto per
il numero di azioni che è il valore a cui quel multiplo di 8,32 si riferiva cioè prezzo/mezzi propri, che non è il
valore nominale dell’azione che è un’altra cosa ancora (il valore nominale dell’azione discende dal capitale
sociale).
In genere il valore patrimoniale dell’azione è maggiore proprio perché il patrimonio netto è superiore al
capitale sociale (riserve, utili non distribuiti, eccetera).
Ovviamente questo è un valore grezzo di partenza, lo stesso fatto che sia un valore statico ormai dovrebbe
rendervi abbastanza consapevoli che manca tutt’una parte a questa valutazione cioè la capacità di produrre
reddito, la capacità di produrre flussi di cassa per cui se io valuto un’appartamento per quanto vale in
bilancio cioè il suo valore di acquisto meno gli ammortamenti sto valutando il bene per quello che è (ossia
per i mattoni, l’arredamento, lo stato di usura, eccetera) ma non sto valutando la sua capacità di produrre
reddito, se lo affittate l’appartamento vi da una rendita al netto naturalmente dei costi di gestione: ecco
questa seconda parte è la parte che manca nella valutazione del patrimonio netto, che chiamiamo anche
avviamento. Quindi tipicamente quando, secondo voi, un’azienda vale più o meno quanto il valore del
patrimonio netto? Quando non è una macchina da soldi cioè quando fa pochi utili, sostanzialmente quando
un’azienda non è particolarmente florida cioè non ha utili significativi però chiude più o meno abbastanza
bene in pareggio (quando la sua storia dimostra questo e le sue prospettive future dimostrano questo) il
valore del patrimonio netto è un valore adeguato, ecco perché molte transazioni di rami d’azienda avvengono
anche a questi valori (ossia perché non sono imprese che non valgono niente piochè non fanno utili). Perché
un’impresa che fa utili può anche valere molto? Perché paga gli stipendi, pensate ad un’azienda di 1000
dipendenti che non fa utili ma paga 1000 dipendenti quindi il valore dal punto di vista non finanziario ma

109
diciamo economico-sociale di un’impresa, come può essere una cooperativa, una no-profit, può essere anche
molto alto: l’Unesco o Save the children se hanno 10000 dipendenti e quindi stipendiano 10000 persone e
non fanno utili o gli utili che fanno li reinvestono nelle attività, a prescindere dal fatto che siano attività di
livello morale, sociale eccetera ma comunque sono attività che si reggono anche dal punto di vista
economico, il fatto che non facciano utili è relativo, sono comunque imprese di valore. Quindi la valutazione
del patrimponio netto è una buona stima per tutte queste attività di business che non producono particolari
guadagni ciò non toglie che possono avere una valenza notevole infatti un’azienda di questo genere potrebbe
avere anche un patrimonio netto di qualche miliardo di € in teoria.
Detto questo un’altra possibilità di calcolare il prezzo delle azioni poterbbe venir fuori proprio dal P0 che
abbiamo visto:
io conosco i dividendi (per avere
dei dividendi non c’è bisogno di
essere quotati in Borsa, pensate a
società come Barilla o Divella
che non sono società quotate in
Borsa, pensate che non eroghino
dividendi? Ai soci sicuramente)
quindi se io ho i bilanci e in
funzione dell’utile, dei dividendi,
della crescita eccetera voglio
stimare il valore di questa azienda
posso farlo attraverso i metodi
che abbiamo visto. Il tasso r di
capitalizzazione del mercato lo
posso ricavare dai mercati
borsistici dove sicuramente
esistono delle aziende simili e
quindi posso tranquillamente ottenere una stima così come abbiamo visto.
Esistono anche delle formule empiriche molto utilizzate nella pratica dalle banche, dai consulenti finanziari
eccetera che funzionano su formulette di questo tipo cioè un multiplo tipicamente o dell’utile operativo,
l’EBITDA, o del fatturato: questa sarà forse la cosa che più vi capiterà di sentire nella vostra attività
professionale, per sapere quanto vale quell’azienda la domanda è quanto fattura? Che per gli studi che avete
fatto dovrebbe porvi una domanda del tipo e che c’entra quanto fattura, che me ne frega? Dal fatturato io
posso ricavare il valore di un’impresa? Non credo che abbiate studiato niente del genere, sarei sorpreso che
collegaste il valore di un’azienda al fatturato, beh nella pratica esiste così come esiste risalire al valore di
un’impresa attraverso la valutazione dell’utile operativo cioè dell’utile ante oneri finanziari, imposte
eccetera. Naturalmente queste sono formule empiriche che vengono fuori da ragionamenti simili a quelli che
stiamo facendo nonché da analisi storiche di valutazioni nei diversi settori infatti quei moltiplicatori A e B
non sono dei moltiplicatori diciamo univoci, noti, standard ma variano molto nell’utilizzo a seconda del
periodo e soprattutto a seconda del settore economico, tipicamente i multipli dell’utile come ordine di
grandezza sono dell’ordine del 10 (fino a 10 diciamo) invece del fatturato sono di un ordine inferiore, cioè 1,
e quindi per fissare il concetto: il valore del fatturato corrisponde al valore dell’impresa, mentre il valore
dell’impresa corrisponde a 10 volte il valore dell’utile. Cos’è la posizione finanziaria netta? Mentre l’utile e
il fatturato sono entità dell’attività economica quindi del conto economico, la posizione finanziaria netta
invece è un’entità finanziaria quindi da stato patrimoniale e in particolare consiste nella sommatoria dei
debiti finanziari a cui vado a sottrarre la liquidità dell’azienda. La PFN è pari a debiti finanziari meno le
disponibilità finanziarie. Quindi spesso vedrete utilizzare criteri di questo genere.
Naturalmente se l’azienda è quotata in Borsa avete un metodo principe di valutazione, come dicevamo ieri,
che è il prezzo di mercato. Il prezzo di mercato dovrebbe essere di gran lunga una stima superiore a tutto

110
questo perché è una stima che vien fatta dall’incontro di un numero molto elevato di investitori, risparmiatori
e che quindi è una media molto importante di valutazioni singole di importanti istituzioni finanziarie sul
valore di quell’impresa. Il prezzo di Borsa è sicuramente il metodo principe quando questo esiste.
Naturalmente abbiamo detto anche che il prezzo è molto volatile quindi ora è un valore, tra due ore è un
altro, domani magari ha perso il 5% quindi è chiaro che quando si valuta un’azienda sul valore borsistico poi
si valutano le medie, si valuta quant’è il flottante, cioè quanto viene scambiato del capitale di quell’azienda
in Borsa perché una parte del capitale tipicamente non viene scambiata ma viene tenuta in cassetto, la parte
dei proprietari, quindi magari si scambia solo il 20% o il 40% delle azioni di quella società quindi comprare
quel 20 o 40 % non è la stessa cosa che comprare anche il 40 o 60 % detenuto dai proprietari al di fuori del
capitale borsistico.
In ultimo non dobbiamo dimenticarci che
per la teoria del valore, che poi è un po’
alla base di quelle sintesi di valutazione, il
metodo principe è sempre questo cioè il
valore di un’attività è dato semplicemente
dall’attualizzazione dei flussi di cassa che
questa determina. È chiaro che ha influenza
che cosa? Oltre alla stima dei flussi di
cassa, che è una cosa ovviamente sempre
da maghi stregoni, ha naturalmente anche
influenza il periodo di osservazione che
voglio considerare: attualizzo i flussi di
cassa per quanti anni, ossia se io dovessi
comprare un’azienda il valore che le do,
basato sui flussi di cassa futuri, per quanti
anni? Per 10 anni, per 5 anni, per 20, per 100? È chiaro
che il valore dipende dal numero di flussi di
cassa che io considero quindi è una
valutazione che in genere poi alla fine non
viene fatta, viene fatta molto raramente,
perché è troppo dipendente da stime future
e da un’incertezza troppo elevata e su
troppe variabili quali tassi, l’orizzonte
temporale, i flussi di cassa, le eventuali
sinergie con altre attività di chi compra,
eccetera.

111
In questi capitoli che sono tre, ma che io vi
condenso un po’ nelle trattazioni che più ci
interessano, si parla di incertezza quindi ancora
se volete stiamo parlando di aspetti che possono
riguardare l’analisi degli investimenti, la teoria
del valore però è chiaro che hanno poi un loro
più marcato utilizzo nella valutazione dei titoli,
nelle attività più connesse al risparmio gestito,
all’investimento in Borsa quindi
all’investimento in titoli azionari e
obbligazionari. Per la natura di questo corso io
vi consiglio di fare uno sforzo di collegamento
di questi temi all’analisi degli investimenti. Che
nesso c’è con un’analisi degli investimenti? Il
nesso è che se un’attività di un certo settore voi con un valore di un’azione di una Borsa avete un riferimento,
in particolare ancor più che il valore del titolo quello che interessa maggiormente per certi versi un’analisi
degli investimenti di questi argomenti è il tasso di attualizzazione, abbiamo visto nel capitolo scorso il tasso
di capitalizzazione del mercato che cos’è? È un tasso di rendimento del settore ma nel nostro task, nel nostro
business plan, nella nostra analisi degli investimenti che cos’è per noi quel tasso? Un tasso di attualizzazione
perché abbiamo sempre detto che il tasso di attualizzazione è un tasso che rende omogenei flussi di cassa
relativi ad anni diversi a parità di rischio d’investimento che significa sostanzialmente investimenti dello
stesso tipo quindi dello stesso settore, con le stesse caratteristiche, quindi dove lo vado a prendere questo
tasso? È una domanda che vi dovete porre e che pochi capiscono che è una delle domande fondamentali di
questo corso (di questi tassi ne abbiamo visti 4 o 5 nel corso). Quindi anche questi capitoli che in qualche
modo sembrano un po’ staccati da un tradizionale business plan, da una tradizionale ananlisi degli
investimenti contengono delle informazioni importanti anche per i business plan, per una start up di un
nuovo prodotto, processo, eccetera.
E’ chiaro che se io leggo l’indice di questa
roba qua qualcuno mi potrebbe dire il
portafoglio di Markowitz che c’entra con
un’analisi degli investimenti? Contiene
sicuramente dei concetti che in qualche
modo possono essere utili anche per
l’analisi degli investimenti, in particolare il
Capital Asset Pricing Model alla fine non è
nient’altro che un tasso, uno di quei famosi
tassi che può essere utilizzato per
attualizzare i flussi di cassa di un

112
investimento, così come il beta, eccetera, però qui vi do anche un suggerimento: non iniziate l’esame con
questa roba qua (il rischio, il portafoglio, eccetera) perché anche ammesso che abbiate capito e imparato
questa roba poi vi faccio una domanda tipo che cos’è il flusso di cassa? Scena muta, perché vi costruite e
imparate i vostri modelli sofisticati matematici ma non avete proprio idea di che cosa contengano e su cosa si
basino, a che cosa servano. Quindi tendenzialmente io considero questi argomenti come argomenti sofisticati
che vanno bene per quelli che hanno imparato bene le cose fondamentali, di base, come si fa un’analisi degli
investimenti (a cosa devo fare attenzione, cosa devo considerare, devo dare la giusta importanza ai diversi
fattori), sapere bene il bilancio (cosa contiene, dove stanno i diversi documenti) e poi magari parlare di
diversificazione del portafoglio, perché questo non è un corso di finanza di secondo livello che in qualche
modo più si addice a discorsi di questo genere.
Comunque questo argomento
sicuramente è inerente ad uno
dei fattori principali dell’analisi
degli investimenti che è
l’incertezza, ricordate all’inizio
abbiamo detto che tempo e
incertezza sono le due variabili
fondamentali; quasi
sicuramente la teoria del rischio
si basa sulla problematica
dell’incertezza. Che ci dice
questo grafico? Ci dice quanto
ha guadagnato chi ha investito
all’inizio del 900 e alla fine del
secolo si ritrova un certo valore
finanziario tra le mani. Chi ha
guadagnato di più? Sembra che
la linea più in alto sia quella
della Borsa Piccole imprese cioè chi ha investito 1$ nel 1926 in Piccole e medie imprese nel 2000 si è
ritrovato 6400$, chi ha investito invece nell’ indice di Borsa medio, lo Standard and Poor’s, ha guadagnato
2587$ cioè in termini percentuali quant’è? Se da 1$ guadagno 1000$ in termini percentuali quant’è?
100000%, mentre vedete si guadagna molto meno investendo in obbligazioni. Titoli di breve termine
dovrebbe essere il più basso, 16 volte, titoli di lungo termine un po’ più alto, obbligazioni aziendali ancora
un po’ più alto: perché i rendimenti sono più alti? Perché, l’abbiamo detto ieri, per far acquistare un’
obbligazione si promettono rendimenti maggiori a quelli normali naturalmente, senò nessuno ti compra
l’obbligazione.
Gli stessi numeri in rendimenti reali,
che vuol dire? Al netto
dell’inflazione cioè il 10% annuo, in
realtà, è un 7% reale perché devo
togliere il 3% magari di inflazione.
Quindi in termini deflazionati reali
comunque vedete che il
moltiplicatore rimane piuttosto
elevato per le attività di business,
molto più limitato per le obbligazioni
cioè alla fine in 75 anni se uno
avesse solo investito in BOT avrebbe
guadagnato il 70%, quindi in 70

113
anni, quindi l’1% all’anno mediamente.
I rendimenti ovviamente
comunque cambiano anno
per anno, ci sono anni dove
prendete un -40% e ci sono
anni dove prendete un
+60% quindi ecco il motivo
per cui si dice che gli
investimenti azionari sono
di lungo termine perché se
entrate anche nel 1970 e
prendete due -25 come
questi vi terrorizzate,
perdete un sacco di soldi,
uscite e non se ne parla più
invece che cosa dovreste
fare: perdete e investite altri
soldi qui dentro perché
sapete che poi mediamente
dovete risalire (se foste i grandi gestori di patrimoni mobiliari).
Quindi in sostanza diciamo che si
può ragionare in termini di
premio di rischio di mercato, che
vuol dire? Che, riferiti a un
rendimento sostanzialmente privo
di rischio, si può ragionare in
termini differenziali cioè premio
significa che se io invece che
investire in obbligazioni di stato a
breve termine investo in azioni, a
fronte di un rischio parecchio più
elevato, qual è il rendimento in
più, il premio che mi aspetto?
Perché ragionare in termini di
premio può essere utile lo vedete
scritto sulla slide, perché in realtà
i rendimenti cambiano troppo nel
tempo quindi ragionare in termini di rendimenti può non essere molto indicativo, anche addirittura gli
investimenti privi di rischio cambiano nel tempo mai come in questo periodo lo possiamo dire: oggi i
rendimenti in investimenti privi di rischio sono addirittura negativi come vi ho già detto qualche altra volta,
oggi i titoli di stato di stati diciamo più appetibili (cioè con più elevato standard di sicurezza, la tripla A che
definiscono le varie agenzie specializzate come Fitch Ratings, Standard and Poor’s e Moody’s) sono
rendimenti negativi cioè voi investite in titoli di stato austriaci o finlandesi o tedeschi eccetera e pagate il -
0,5% cioè già per il fatto che vi consentano di darvi sicurezza li dovete pagare. Quindi ha più senso parlare di
delta y: mentre io prendo il -0,5% lì, quanto prendo se investo in Borsa? Ragionando in termini di premi
(guarda tabella) si vede che i valori sono un pochino più bassi ovviamente cioè vedete che il rendimento dei
titoli di stato a breve termine nominale 4 reale già diventa 1,1, ovviamente per definizione quelli sono i tassi
privi di rischio quindi hanno un premio pari a 0; già i titoli di stato a lungo termine sono più rischiosi,
pensate a un paese come la Grecia, l’Argentina eccetera, e quindi hanno un premio leggeremente più alto,

114
1,2, naturalmente il premio più alto ce l’hanno gli investimenti in attività di business quindi investimenti non
privi di rischio, per definizione, e poi dipende naturalmente anche dai diversi stati:
qui vedete una graduatoria dove
più o meno gli ordini di grandezza
possono essere considerati simili
però vedete fra questi paesi c’è già
un’oscillazione fra il 5 e il
10/11%. In particolare, in questo
grafico, l’Italia è quella che ha
dato nel periodo 1999-2000 il
premio di rischio più elevato. Oggi
a naso potrebbe essere la
Germania perché la Germania da
interessi negativi sui titoli di stato
e sta avendo dei rendimenti
paurosi sualla Borsa, che è
aumentata nell’ultimo anno forse
del 40/50%, però su un orizzonte
piccolo natuaralmente questo ha
poco significato.
Come si può considerare il
discorso dell’incertezza?
Naturalmente da un punto di vista
matematico si può tener conto
dell’incertezza prevalentemente
guardando media e varianza, in
particolare l’incertezza è proprio la
varianza sulla media, cioè dato un
certo valore atteso noi misuriamo
il rischio di incertezza a seconda di
quante cose possono accadere,
qual è generalmente stata la
variabilità di dati nel passato e
quindi questo lo riflettiamo nel
futuro ipotizzando quante cose
possono accadere. Questa varianza
del passato corrisponde proprio al fatto che a quella media può corrispondere un più o meno 50%, un più o
meno 10%,un più o meno 2%, ovviamente più è piccolo il più o meno minore è l’incertezza. Che sono la
varianza e lo scarto quadratico medio? Che relazione c’è tra varianza e scarto quadratico medio? La radice
quadrata. Come vedete nella tabella, nell’Italia addirittura dall’unificazione ad oggi (dal 1860 al 1994),
quindi un orizzonte temporale forse fin troppo grande, a fronte di un tasso medio di rendimento reale del 7%
si è avuto uno scarto quadratico medio del 26 contro lo scarto quadratico, che poi non è neanche tanto
piccolo, dei titoli a medio-lungo termine del 14 e di 10 dei depositi bancari e postali, questi ultimi (depositi
bancari e postali) con addirittura vedete tassi medi di rendimento reale negativi. E quindi vedete che il
premio ovviamente è superiore al rendimento delle azioni, cioè mentre le azioni rendevano il 6,7 il premio
era dell’8,8 perché i depositi erano quei rendimenti negativi.

115
Varianza, come dicevo, ormai concetti
abbastanza acquisiti.

Un istogramma del tasso di


rendimento delle azioni
americane nel periodo 1900-
2006, quindi secolo scorso
fino a quasi 10 anni fa. Vedete
che il rendimento ha un
andamento abbastanza simile
ad una normale, con una
media naturalmente maggiore
di 0 spostata verso il 10, da cui
ricaviamo anche la varianza o
lo scarto quadratico medio.

116
Nel grafico in basso, riferito sempre alla Borsa americana nello stesso periodo (1990-2006), vedete lo scarto
quadratico medio nei diversi periodi: più alto in certi periodi (nel periodo della depressione degli anni 30’),
eccetera. Nel grafico in alto si può vedere lo scarto quadratico medio delle diverse Borse: anche questo è
abbastanza simile fra i diversi paesi, cioè gli ordini di grandezza sono gli stessi (attorno al 20%).

Naturalmente la variabilità, che fin qui


abbiamo visto in termini di titoli in
generale e di mercati borsistici in
generale, può essere focalizzata anche
su una singola attività di business (cioè
io posso studiare l’andamento di
un’impresa del settore del petrolio o
del farmaceutico o della Barilla,
eccetera). La cosa singolare è che è
vero che alcuni titoli sono più variabili
di altri, magari la Telecom ha una
variabilità nel tempo superiore a Banca
Intesa, ma ciascun titolo è più variabile
degli indici che abbiamo appena visto
cioè di quei grafici che abbiamo visto.
Ciascun titolo è più variabile dell’indice del mercato cioè di un paniere di titoli, di un insieme di attività di
business.
Come mai questa variabilità non me la ritrovo anche nei panieri? La grande scoperta di questo fattore ha
proprio un nome che è la diversificazione cioè si è scoperto che mettendo insieme e quindi, se volete,

117
ponderando gli investimenti su diverse attività di business si otteneva un effetto particolarmente significativo
che era quello di ridurre fortemente il rischio di quell’investimento cioè la diversificazione riduce la
variabilità con un impatto decrescente all’aumentare della diversificazione stessa: invece che investire in
Banca Intesa investo in Banca Intesa e in Enel, questo accoppiamento riduce drasticamente la rischiosità
degli investimenti. Questa scoperta è alla base di quello che chiamiamo portafoglio di Markowitz, eccetera
cioè la diversificazione è fondamentale.
La diversificazione è una strategia volta
a ridurre il rischio mediante
l’allargamento dell’investimento ad un
portafoglio di attività di business
diverse. Questo ci serve quando
facciamo business plan? Non ci serve,
come diremo anche in una slide la
diversificazione non è una roba neanche
di un’azienda, neanche un’azienda
dovrebbe diversificare, chi diversifica è
il risparmiatore, l’investitore, il venture
capitalist.
Ci sono due tipologie di rischio che
andiamo a scoprire facendo questo
ragionamento. Il rischio specifico o
unico dell’attività di business, questo è un rischio caratteristico del fatto che avete per le mani un business
plan di un’attività agricola o un’attività commerciale, un’app. Dal punto di vista del rischio però è il rischio
più facile, è il rischio più ammortizzabile perché è diversificabile cioè potete ridurlo questo rischio, dal punto
di vista dell’investitore, se investite un po’ in quello e un po’ in qualche altra cosa quindi potete ridurre il
rischio specifico.
Quello che invece non potete ridurre è il rischio sistemico, il rischio del mercato cioè la Borsa valori di
Milano, di New York o di quelli che abbiamo visto prima sono rischi sistematici, rischi di sistema. Quel
rischio che già proviene da una diversificazione su un paniere molto grande non è riducibile.
Quindi il rischio connesso all’investimento in attività di business ha queste due componenti: il rischio in una
specifica attività di business e il rischio di mercato nel suo complesso.
Quando vi occupate quindi di un
investimento vi dovete occupare alla
fine di due fattori cioè quando vi
faccio la classica domanda se avete
10000€ e dovete investire in due titoli,
come li scegliete questi due titoli, che
cosa guardate? Dovete guardare
generalmente due cose, quali sono
queste due cose? Rendimento e
rischio? Rendimento più alto possibile
e rischio più basso possibile. Qua
vedete per esempio uno dei due
fattori, se investite in più di un titolo
quale sarà il rendimento atteso dei
vostri 10000€? Se investite 5000€ in
Banaca Intesa e 5000€ in Eni quale sarà il rendimento che vi aspettate? 50% del rendimento di Banca Intesa
e 50% del rendimento di Eni, cioè una media ponderata per la quantità di soldi che investite nei due titoli.
Per quanto riguarda il valore del tasso di rendimento come ve lo recuperate poi torniamo alla lezione di
118
prima, cioè come calcolo il rendimento di un investimento in Eni? Se il periodo è infinito per esempio
dividendo/prezzo, se invece è un anno dividendo+capital gain. Se ci metto il 50% la frazione del portafoglio
sarà 0,5 (una media ponderata classica). Il problema invece sul rischio è un pochino più complesso ed è di
quello che ci cerchiamo di occupare però non vi dimenticate del rendimento quando vi faccio questa
domanda: andate sul rischio vabbè e il rendimento non conta niente? Cioè se mi scelgo due titoli di cui uno
rende l’1% e l’altro 0,5% dove c’è rischio 0, si ma mi compro i titoli di stato a quel punto non mi vado a
comprare i titoli azionari.
Il problema del rischio è che
naturalmente all’aumentare del
frazionamento dell’investimento cioè
se invece che 1 titolo ne prendo 2, se
invece che 2 ne prendo 3, che succede
al rischio? Si riduce,

io all’aumentare della
diversificazione riduco il rischio ma
al di sotto di un certo livello non
riesco ad andare (rischio
sistematico), posso prendere pure
tutti i 40 titoli del FTSE MIB della
Borsa di Milano ma al di sotto di un
certo valore di rischio, abbiamo
visto il 15/20% di scarto quadratico
medio, non riesco ad andare. Riesco
però ad abbattere naturalmente il
rischio unico: se prendo due soli
titoli faccio una buona discesa però
posso ovviamente ancora scendere,
quindi come si sceglie? Si sceglie
facendo dei compromessi, non
esiste l’ottimo probabilmente o
almeno anche se si può calcolare poi cambia dopo 2 secondi, ma esiste diciamo una diversa preferenza cioè
c’è chi vuole rinunciare un po’ di più al rendimento per avere meno rischio e c’è chi vuole un po’ più
rendimento consapevole che questo porta un rischio un pochino più elevato, ma sono tante poi le variabili
quali il tempo, la scadenza, ecceterera.

119
Ora, per quanto riguarda la
valutazione del rischio, quello era
un grafico ma se io poi lo voglio
calcolare questo rischio per capire
di che ordini di grandezza stiamo
parlando gli strumenti ce li ho. La
varianza di un portafoglio di due
azioni è data dalla somma di
quattro componenti. X sono le
quote, ossia la ponderazione (cioè
50% e 50% oppure 40% e 60%), le
altre sono le sigma quindi le
varianze dei titoli (in particolare
sigma1 è la varianza dell’azione1 e
sigma2 è la varianza dell’azione2).
Le sigma non sono però le uniche
due componenti perché esiste
anche la covarianza in quanto i titoli in genere hanno statisticamente un qualche grado di correlazione cioè
gli andamenti dei titoli non sono completamente scollegati però è importante sapere come sono collegati,
cioè esiste un coefficiente di correlazione che determina la covarianza ro12sigma1sigma2. Lo vediamo
attraverso un esempio (slide successiva).
Supponete di investire il 65% del vostro
portafoglio in Coca Cola e il 35% in
Reebok. La Coca Cola rende il 10%, la
Reebok il 20%, allora il rendimento atteso
dell’intero portafoglio è facile, si ragiona
solo in termini di medie e di rendimento,
quindi media ponderata, viene fuori un
rendimento medio del 13,5. Questa scelta
è una scelta che premia il rischio o il
rendimento? Mettete i 2/3 della vostra
somma sul titolo che rende di meno
quindi sicuramente è a vantaggio del
rischio, cioè della protezione dal rischio,
perché mettete solo 1/3 sul titolo che rende il doppio dell’altro ma ha un rischio superiore, una volatilità
superiore quindi sicuramente il portafoglio è un portafoglio spostato per il non rischiare troppo. Vediamo la
valutazione del rischio: slide successiva.
Prima di tutto i due titoli li scelgo
cercando un rendimento obiettivo o
guardando un certo tipo di rendimento,
magari a parità di rischio. Quindi, in
sostanza, Reebok è mediamente più
redditizio ma più volatile, Coca Cola
meno redditizio ma più stabile e lo
vedo in base alla deviazione standard:
31 per Coca Cola, 58 per Reebok quasi
il doppio. Ora è importante non solo la
varianza (o la deviazione standard) dei
due singoli titoli ma, dalla tabella
precedente, ho capito che è anche

120
molto importante capire come sono correlati i due titoli cioè quando uno cresce che succede all’altro, quando
Coca Cola cresce Reebok che fa? Cresce? Se cresce è correlato positivamente, se invece Reebok non cresce
ma diminuisce è correlato negativamente. Supponiamo che il coefficiente di correlazione sia pari a 1, dove il
coefficiente di correlazione varia tra -1 e 1, 1 è perfetta correlazione, 0 è correlazione assente, -1 è perfetta
correlazione inversa. Quindi supponendo che la correlazione sia pari a 1 abbiamo che lo scarto quadratico
medio, se i due prezzi delle azioni avessero un’andamento identico, sarebbe dato dalla media ponderata
(quindi le x per le varianze dei due titoli) cioè avremmo, nel caso di pesare 2/3 e 1/3, 41%.
Quindi, alla fine, mettendo i
numeretti nella nostra tabella
potremmo calcolare questa roba
qua. Vien fuori 41%. Dunque
abbiamo aumentato, rispetto alla
Coca Cola, il rendimento dal 10
al 13% quindi un aumento del
rendimento del 30% a fronte di
un aumento della deviazione
standard, quindi della
rischiosità, più o meno
equivalente (del 30%).

Vediamo che succede se le 2


azioni sono inversamente
correlate. Quanto vale la varianza
del portafoglio in questo caso?
Mettendo i numeri viene varianza
0, che vuol dire varianza 0?
Compro 2/3 di azioni Coca Cola,
1/3 di Reebok, il rendimento è il
13% PUNTO, quello è il
rendimento: cioè diversificando
1/3 della somma con un titolo
correlato inversamente io ottengo
3 punti in più percentuali di
rendimento e 0 rischio, cioè
ottengo meno rischio che
addirittura con la sola Coca Cola
che rende pure meno. Un risultato
pazzesco perché mi sembrava di aver aumentato il rischio, perché avevo comprato un titolo molto più
rischioso ma il coefficiente di correlazione inversa mi annulla completamente il rischio. È chiaro che è un
caso quindi pressochè impossibile da provare però matematicamente capisco l’importanza della
diversificazione, guadagno di più e rischio di meno.

121
Coefficiente pari a 0,2 (il caso più
normale): in genere i titoli sono
correlati purtroppo positivamente,
più o meno, ovviamente il numero
può variare. Se la correlazione è
0,2 guardate come va a finire la
deviazione standard. Praticamente
ho investito 1/3 dei miei risparmi
in un titolo molto più redditizio, la
Reebok, e il rischio non è
aumentato minimamente, cioè
ottengo un rendimento più elevato
con un rischio pressochè identico
o, se volete, quindi volevo
investire in Reebok se investo
invece parecchio in Coca Cola
ottengo un rendimento si più
basso ma dimezzando praticamente il rischio, dipende da dove partite (se partite con un confronto vs Coca
Cola soltanto o vs Reebok soltanto).
Un’ulteriore curiosità:
coefficiente di correlazione pari
a 0 cioè se i due titoli fossero
indipendenti, che cosa mi
aspetto? Il rischio che fa?
Dovrebbe ridursi. Infatti se
addirittura ho pescato un titolo
come Reebok, che è
assolutamente indipendente dal
titolo Coca Cola, riesco a
ottenere un rendimento più alto
addirittura ad un rischio
inferiore, quindi la
diversificazione da dei risultati
fantastici naturalmente in
dipendenza della correlazione fra
i titoli stessi.

122
06 Maggio 2015
La volta scorsa abbiamo visto come la diversificazione degli investimenti sia una opportunità che consenta di
ottenere e combinare il vantaggio di un rendimento che sia la media dei rendimenti degli investimenti
effettuati e un’incertezza. E’ un rischio che può essere mitigato dal fatto che i due investimenti possono non
avere andamenti omogenei. Dalla formula è possibile notare che la varianza del portafoglio (insieme degli
investimenti fatti) dipende non soltanto dalle varianze dei due singoli investimenti ma anche dalla covarianza
(come questi investimenti siano correlati). Con l’esempio Coca Cola e Reebook abbiamo visto che a seconda
del tipo di correlazione tra i due titoli da un ρ(covarianza)=1 completa omogeneità fino ad una covarianza
opposta ρ= -1, che azzera il rischio, può risultare molto conveniente investire in due titoli o investimenti
differenti. Naturalmente possiamo estrapolare tale discorso, visto che la diversificazione conviene molto tra
due titoli è chiaro che convenga con n titoli dal punto di vista statistico.
Le varianze dei titoli sia sulle ascisse che sulle ordinate
sono rappresentate dalla diagonale, le altre sono le
covarianze. Da questa tabella si capisce come la varianza
complessiva della media ponderata dei titoli e delle
attività (la x che sono le quote di capitale investite nei
diversi investimenti) dipenda fortemente dalle covarianze
che sono molto di più delle varianze dei titoli presi
singolarmente. In ogni casella di varianza e covarianza c’è
(1/n2) con n caselle di varianza e (n2 – n) caselle di
covarianza. In sostanza la varianza di portafoglio è uguale
a la covarianza media (+ 1/n) per la varianza meno la
covarianza media. Al crescere di N la varianza di
portafoglio tende alla covarianza media. Per N molto alto
il secondo termine si annulla diventando molto
piccolo per cui il rischio dipende da quanto gli
investimenti non sono perfettamente correlati. La
covarianza tra i titoli generalmente non è negativa e
pone dei limiti ai benefici della diversificazione
perché con la covarianza negativa, abbiamo visto
nell’esempio, il rischio si annulla. Questo limite
prende il nome di rischio sistematico, al di sotto di
un certo valore anche se comprassi una quota di tutti
titoli presenti nella borsa non riuscirei a ridurlo più
di tanto. Il portafoglio di mercato rappresenta il
portafoglio di tutte le attività presenti nel mercato.
Questo è quello che comunemente troviamo sotto
forma di indici di borsa di Milano, New York,
Londra. All’interno delle singole borse esistono indici diversi come l’indice dei 40 titoli a maggiore
Capitalizzazione vuol dire che ho un paniere costituito da investimenti dei primi 40 titoli con migliore
Patrimonio Netto. “Capitalizzazione” è un’impresa con degli asset, i beni dell’impresa li trovo nell’ attivo, a
questi beni corrispondono fonti di finanziamento nel passivo tra cui distinguiamo quelle proprie e i debiti.
Capitalizzazione è capire qual è la quota di capitale proprio. A fronte di 100 milioni di beni degli
investimenti, quanto è capitalizzata l’impresa? Vuol dire quanto di questi investimenti sono generati dal
capitale degli azionisti (proprio). Un impresa ben capitalizzata vuol dire che ha il 30-40% dei beni di sua
proprietà, il restante 70-60% sono i debiti. Per capitalizzazione di borsa si intende il valore del patrimonio
netto ai prezzi di borsa perché il patrimonio netto ha un suo valore di bilancio che genera un valore
dell’azione (patrimonio netto diviso il numero delle azioni).

123
La borsa determina un prezzo diverso dell’azione per esempio nel multiplo prezzo sui mezzi propri (8.3 sulla
società Autostrade la borsa dice che l’azione vale 8 volte il valore di capitale netto e quell’impresa è
capitalizzata per prezzo dell’azione di borsa per il numero di azioni) è una stima della borsa sul valore di
quell’azienda. Per conoscere il contributo di un singolo titolo a rischio di portafoglio bisogna misurare il suo
rischio sistematico, cioè stimare quanto il titolo sia sensibile ai movimenti di mercato. Se ho un portafoglio
di 20 titoli e voglio aggiungere un titolo, per capire quale sia il suo contributo al rischio devo capire come si
muove questo titolo quindi la sua covarianza rispetto al portafoglio medio che ho già in mano.
L’indice che misura la sensibilità del rendimento di
questo titolo rispetto al mercato viene chiamato BETA.
Beat è l’inclinazione della retta fra il rendimento atteso
del mercato di un certo paniere e il rendimento
dell’attività.
Supponendo che quello che vediamo nella slide sia il
rendimento del nostro titolo, il rischio totale è dato dal
rischio diversificabile più il rischio del mercato dove il
rischio del mercato è misurato dal Beta.
Per fare alcuni esempi possiamo leggere il Beta di
alcune aziende, quando il Beta è maggiore di 1, il
rendimento del titolo è maggiore del rendimento medio
del mercato, quando il rendimento scende, scende più
velocemente. Nella tabella abbiamo anche alcuni valore
di scarto quadratico medio (non si dilunga su questo).
Quindi Beta è l’inclinazione della retta interpolante da
analisi statistiche del rendimento dei punti che
rappresentano la combinazione del rendimento del titolo,
e rendimento del mercato. Rendimenti del titolo non
sono perfettamente correlati al rendimento del mercato,
l’attività ha anche un rischio suo specifico che può
oscillare rispetto al mercato stesso.

In un portafoglio ben diversificato il


rischio che non si può diversificare
dipende dal beta del portafoglio, cioè da
come questo portafoglio si comporta
rispetto al rendimento del mercato quindi
al beta medio dei suoi titoli. Se dovessi
scegliere un portafoglio particolare posso
scegliere rispetto al rischio di mercato
che include tutti i titoli e attività
rappresentate nel mio mercato. Posso
scegliere tre diversi: se il rischio del
mercato è rappresentato da una sigma del
20% io posso scegliere un portafoglio di
500 azioni selezionate in modo casuale,
finisce per avere un Beta uguale a 1 e
quindi uno scarto quadratico medio uguale a quello del mercato e avrò statisticamente uno stesso
comportamento rispetto al mercato prendendo tutti i titoli del mercato.
124
Se invece prendo un portafoglio composto da 500 azioni con beta uguale a 1.5 ottengo uno scarto quadratico
medio pari al 30% quindi questo portafoglio è più azzardoso. Voglio quindi guadagnare di più rispetto al
mercato perché mi aspetto che il mercato cresca posso costruirmi un portafoglio che abbia una maggiore
rischiosità e quindi maggiore rendimento. Il problema è solo constatare se il mercato sale o scende oppure se
volessi una serie di titoli più prudenti, scelgo 500 azioni con un beta medio pari a 0.5 le cui azioni si flettono
di meno rispetto a quanto si modifica il mercato, sono più stabili e meno soggette alle fluttuazioni dei mercati
azionistici.

Alla fine il beta del singolo titolo è praticamente il rapporto tra


la sigma di covarianza tra il titolo e l’andamento del mercato e
la sigma di varianza del mercato.

125
La Diversificazione ha senso per gli investitori. Se io ho la possibilità di investire 10.000€ in due titoli, come
li scelgo? Devo scegliere il mio rischio e il mio rendimento con buon senso misto a competenza, quindi
sceglierò per prima titoli con un buon RENDIMENTO ad esempio superiori al 5%, da questo paniere scelgo
i due titoli che sono poco correlati o correlati negativamente tra loro andando a vedere la COVARIANZA.
Questa diversificazione è sensata anche per l’impresa perché rappresenta la strategia adottata dalle
multinazionali secondo la quale se ho tanti fondi e voglio tutelarmi non puntando tutto quanto su un unico
prodotto, mi conviene comprare un po’ di tutto dalle banche, assicurazioni, telefonia ,ecc. L’impresa non è
obbligata a farlo, è l’imprenditore che avendo soldi decide di diversificare i suoi ricavi, l’azienda non deve
fare altro che focalizzarsi sulla sua attività di business. Infatti quando andrà a chiedere soldi all’azionista,
quest’ultimo dovrà sapere cosa compra, non comprerà mai un’azienda diversificata ma diversifica da solo
comprando quello che più gli piace. Non ha
senso che un’azienda diversifichi, perché deve
concentrarsi sul prodotto che realizza e deve
venderlo per guadagnare. Per realizzare un
buon prodotto deve possedere la giusta
competenza (know how) verticale sul prodotto
sfruttando le economie di scala, bisogna essere
abbastanza grandi per avere dei rendimenti
sull’utilizzo di capitale realizzando alti volumi.
Anche la R&S si deve concentrare su un solo
settore o pochi. I Business Plan che stiamo
realizzando rappresentano le aziende, quindi
l’idea di business concentrata, quando
diversifico non mi comporto più come azienda,
infatti le multinazionali e le imprese con
diverse linee di business sono diverse società
che hanno tra loro partecipazioni di capitale, è
solo una questione di investitori. Quando l’impresa fa business diversi con clienti e mercati diversi lo fa
sempre per competere meglio nel suo mercato. L’integrazione verticale, in tal senso, consiste nel acquisire
un fornitore per questioni strategiche perché considerati beni complementari fondamentali del proprio
prodotto. Dal punto di vista finanziario immaginiamoci un manager che deve massimizzare il valore di
diverse unità di business, è complicato. Ad oggi addirittura si tende a non possedere più gli immobili che
vengono presi in fitto perché non direttamente funzionali all’attività produttiva.
Harry Markovitz ha elaborato i principi fondamentali della
costruzione di un portafoglio, alla base della relazione tra
rischio e rendimento. Tale teoria consiste nel combinare più
azioni possibilmente con andamenti non del tutto concordi in
un portafoglio per ridurre lo scarto quadratico medio del
rendimento al di sotto della media dei singoli titoli, questo è
reso possibile dei coefficienti di correlazione. Al variare della
percentuale della ponderazione del nostro portafoglio in un
titolo o nell’altro avremo vari rendimenti con vari scarti
quadratici medi.

126
Se uniamo tutte le coppie ti titoli trovabili in un
mercato avremo tante curve come vediamo nella slide.
L’insieme di tutte quelle combinazioni costituisce la
frontiera efficiente. Una relazione ottimale di
portafoglio non esiste perché posso avere diverse
propensioni al rischio volendo diversi rendimenti attesi
avendo diverse propensioni a rischiare. Maggior rischio
in generale porta maggior rendimento.

Ogni titolo ha il suo rendimento atteso come vediamo nella tabella qui sopra con relativi scarti quadratici
medi. I quattro portafoglio (A-D) sono differenti:

 A) Solo Amazon, voglio rischiare perché ho uno scarto quadratico medio molto alto rispetto agli
altri. Probabilmente questo investitore non ha studiato la teoria della diversificazione ;
 B) 3-4 titoli con 50% Amazon perché ha un alto rendimento e mitiga il suo rischio andando a
compensare con altri titoli con correlazione non positiva;
 C) Tutto Heinz, ¼ Microsoft, 1/5 Amazon, 1/10 IBM, da 23% di rendimento atteso scendiamo nel B
a 19% con scarto del 36% a un rendimento del 14% con scarto del 17%
 D) rendimento atteso del 10% e scarto del 10%

Il miglior portafoglio? Dipende dalla propensione al rischio, quelli intermedi sono in genere i migliori. In
genere tutti investono però in D.

127
I 4 portafogli riportati rappresentano le coppie rendimento scarto quadratico medio, l’area ombreggiata
rappresenta la possibile combinazione di rendimento atteso e rischio di mix di queste azioni. Se desideriamo
rendimenti più elevati per determinati scarti quadratici medi preferiremo portafogli che si trovano lungo la
linea scura. ABCD sono quattro portafogli efficienti.
Un esempio:
Leggiamo i dati nella slide qui a fianco, prendendo quasi
50% e 50% con una sigma tra 28 e 42 con coefficiente di
correlazione positivo ma minore di 1 abbiamo uno scarto
quadratico medio del 28.1, con una media ponderata
senza correlazione ci verrebbe 33.6. Grazie alla
correlazione 0.4 ho la stessa rischiosità del titolo ABC,
acquistando insieme la Big Corp e l’ABC ottengo un
rendimento parecchio superiore a 15% di 2.5 punti alla
stessa rischiosità dell’ABC. Diversificando con il
secondo titolo mi spingo verso la frontiera in alto.

Aggiungendo al portafoglio le azioni della New Corp con


rendimento medio del 19% e una sigma di 30 però con
coefficiente di correlazione pari a 0.3. Se investo 50% e
50% quindi pari quote ottengo una salita del rendimento
da 17.4 a 18.2%. La media ponderata sarebbe di 29.05
ma grazie al coefficiente di correlazione 0.3 diventa
23.43. Riesco ad aumentare il rendimento riducendo lo
scarto attraverso un ulteriore DIVERSIFICAZIONE.

Mettendo insieme abbiamo


creato una opportunità rischio
rendimento definito dalla
linea rossa. Partendo da A e B
possiamo ottenere un
rendimento che al massimo
raggiunge il rendimento di B
però rischiosià per tutte le
altra componenti minore.

128
Se inserisco anche la New Corp vediamo la possibilità di
aumentare il rischio continuando a creare ulteriore
diversificazine avvicinandosi alla frontiera rendimento-rischio.
Obiettivo è muoversi verso l’alto e verso sinistra.

Esiste un ulteriore passaggio che complica le cose ma


avremo opportunità più elaborate. Si può superare la
frontiera efficiente? Si attraverso quello che vediamo
rappresentato nella slide. Esistono i titoli free risk a
rendimento sicuro quindi a scarto 0. Quindi il tassso rf
(tasso free risk) è per esempio l’1% posso investire anche in
titoli del genere oppure posso addirittura indebitarmi ad un
certo tasso e investire in azioni. Cosa comportano tali
strategie?
Il paniere S è a metà della curva di efficienza, buon
rendimento con un discreto scarto quadratico medio, i titoli
di stato sono a un tasso del 5% con sigma pari a 0 perché
appunto privi di rischio. Il rendimento del portafoglio a
50% e 50% sarà 10% di rendimento e sigma 8%. Se
compro una quota di portafoglio di tassi di rendimento rf di
nuovo mi trovo sulla retta ottenendo tassi di rendimento
medi tra 5 e 15. L’altra possibilità è di comprare altre
azioni finanziate da debito, finanziate ad un tasso analogo
al tasso privo di rischio. Supponiamo di avere un
portafoglio del doppio di azioni più soldi da doveri
rimborsare ad un tasso rf. Rendimento del portafoglio è
dato dalle due quote 15% meno una quota da restituire al
5% quindi otterrei nel secondo caso un rendimento del portafoglio al 25% con una sigma al 32. Attraverso
questa combinazione ottengo rendimenti ancora più alti e mi muovo sulla retta rossa tangente la curva. In
sostanza l’impiego in titoli a tasso fisso o l’indebitamento mi consente di avere maggiori rendimenti in
corrispondenza di opportuni scarti quadratici medi.
Compito dell’investitore è quindi quello che leggiamo nella slide.

129
La finanza ci suggerisce che non è assolutamente
da guardare se un titolo è sopravvalutato o
sottovalutato, non è un’indicazione sensata. Ci sono
milioni di operatori che operano su quel titolo, se
esso ha quel prezzo quella è la migliore stima del
valore di quella azienda. Tutto il resto è pura
congettura. Portafoglio più efficiente è in genere un
portafoglio indicizzato del mercato. Che vuol dire
portafoglio indicizzato del mercato? Prendiamo
l’indice MIB che è rappresentativo di tutti i titoli
della borsa, supponiamo che i titoli di questo indice
siano 40. Quali sono le x di questo indice? In quale
quota questo indice rappresenta FIAT piuttosto che
Mediaset ecc? Le x sono in questo caso le quote di
capitalizzazione, cioè il mercato di questi 40 titoli
vale 50 miliardi che sono la somma delle
capitalizzazioni di questi 40 titoli. Questa somma è
proporzionale alla sua capitalizzazione per cui la
quota più grande ce l’ha ad esempio ENI e le altre via via più basse. La linea del mercato azionario, dato il
rendimento del mercato privo di rischio si suppone sia quella retta che vediamo sopra. Il portafoglio
efficiente come quello rappresentativo dell’indice di mercato, la linea del mercato azionario consiste nel
combinare il paniere dei diversi titoli con eventuali utilizzi di capitale con tasso privo di rischio. Il
rendimento dei titoli di stato a brave termine a cui si fa
riferimento per determinare l’rf pari all’1% in teoria
non è influenzato da quello che succede al mercato,
quindi rf ha beta uguale a 0; il portafoglio di mercato
invece ha un beta pari a 1 quindi si muove come il
mercato stesso. La differenza tra i due rendimenti
corrisponde al premio per il rischio di mercato.

Qual è il premio atteso, quanto si guadagna in più


rispetto al tasso dell’1% dei BOT se ho un portafoglio
con un beta più piccolo che si muove più lentamente del mercato rischiando un po di meno? La risposta ce la
da il modello del CAPM:
Dato questo rendimento in funzione del beta, l’equazione della
retta del rendimento SML (Security Market Line) risulta essere
quella che vediamo nella slide. Quella R che vediamo corrisponde
infine al tasso d’interesse che dipende dai due riferimenti (tasso
medio del mercato e tasso privo di rischio) e dal beta specifico del
mio particolare portafoglio o investimento. Il CAPM può essere
un tasso che ipotizziamo per attualizzare i flussi di cassa di un
investimento. Può essere lo specifico tasso di un rendimento
atteso di uno specifico business. Per calcolarlo ci servono i
rendimenti medi del mercato e free risk che sono più o meno noti
e il beta specifico dell’attività.

130
Se devo valutare un investimento
bancario per esempio di UNICREDIT
nell’apertura di un nuovo mercato in
Vietnam valuto il suo classico
rendimento attraverso il beta. E in
corrispondenza di un premio di mercato
pari al 5.7% dove il tasso privo di rischio
è 4.14 ottengo il rendimento atteso pari a
11.36% Può essere uno dei tanti tassi di
rendimento che vediamo per poter
stimare un’attualizzazione dei flussi di
cassa di una attività di business e quindi
di un investimento. Nella tabella ci sono
i beta dei diversi titoli di diverse attività
di business in un certo periodo.
Di criticità a questo modello ce ne sono
tanti e le possiamo leggere qui a fianco. In particolare
sappiamo che questo tasso di rendimento atteso non
dipende solo dal beta ma anche dalla grandezza
dell’impresa. Oppure possiamo avere un’impresa di tipo
value stock o growth stock e quindi che sia alto il valore
del rapporto tra il valore contabile e di mercato o
viceversa che quindi il mercato premi o meno le
aspettative di crescita del titolo.
Quello che vediamo è l’andamento del rendimento
di due parametri: quello in rosso ci dice che il
rendimento è stato molto più alto per le piccole
imprese rispetto le grandi perché proprio quelle
piccole tendono ad esplodere, le grandi crescono
in termini percentuali di meno così come se le
aziende siano più o meno già apprezzate dal
mercato.
Esistono dei modelli CAPM che tengono in
considerazione tutti questi problemi elencati
prima. L’ipotesi più forte alla base del capm è che
ci sono due soli portafogli di riferimento e che il
CAPM dipende da rischio sistematico ma
quest’ultimo dipende dalla natura del portafoglio
di riferimento e quindi da quale portafoglio di
rischio stiamo considerando. Anche questo
modello che convince meno che in passato viene
utilizzato per individuare rendimento atteso in
corrisapondenza del rischio di una determinata
attività di business.

131
7 MAGGIO 2015
Vedremo le fonti di finanziamento, quindi i debiti, vedremo i titoli del capitale netto quindi dell’equity,
vedremo cos’è un venture capital, cos’è un IPO (cioè una prima offerta pubblica), parleremo anche di
aumenti di capitale.
Fino ad ora abbiamo parlato di teoria del valore cioè di equivalenza monetaria o di valorizzazione di beni, di
attività, di titoli, tutte caratterizzate da due fattori fondamentali che sono tempo e incertezza.
Quando dobbiamo fare una valutazione su cosa ci basiamo (cioè su quali dati)? Ci basiamo sui FLUSSI DI
CASSA!!! Per la teoria del valore è fondamentale il flusso di cassa (cioè il cash), non basta basarci sui costi
e ricavi. Quindi il primo mattoncino fondamentale è il flusso di cassa (da un punto di vista finanziario quindi
dell’esame bisogna sapere benissimo da cosa è composto e come si calcola un flusso di cassa, flusso di cassa
operativo, f.d.c. circolante, le variazioni di voci dello stato patrimoniale rispetto al flusso di cassa ecc..).
Il secondo parametro fondamentale che ci serve
per l’attualizzazione, per la capitalizzazione
ecc... è il tasso di interesse o di attualizzazione
definiti anche costo opportunità del capitale.
Abbiamo visto una metodologia nella lezione
precedente, cioè il CAPM. Nella maggior parte
dei casi utilizzeremo i tassi di interesse che sono
fortemente collegati alle fonti di finanziamento.
Il Capital Asset Pricing Model (CAPM) è un
tasso che si riferisce all’equity cioè al capitale
libero degli azionisti, che l’azienda decide di
investire in una determinata attività di business,
caratterizzata da un certo rischio e quindi
caratterizzata da un certo costo opportunità.

DECISIONI DI FINANZIAMENTO E PRIVATE EQUITY

Quindi d’ora in poi ci occupiamo di questa caratteristica cioè l’azienda per finanziare l’attività come fa? Cioè
come fa a procurarsi le fonti finanziarie (PASSIVO) per dotarsi di beni necessari alla propria attività
(ATTIVO)?
In base a cosa scegli di
chiedere soldi ai soci oppure
alle banche oppure al
mercato obbligazionario
oppure ai fornitori? Quali
sono le linee guida o qual è
la logica di buon senso da
seguire?
Quando un’azienda si dice
che è capitalizzata, significa
che ha una quota di
patrimonio netto rilevante,
quindi che usa risorse proprie
in maniera importante.

132
Un’impresa si dice INDEBITATA quando è piena di debiti, cioè quando il rapporto di indebitamento
(rapporto tra fonti di finanziamento esterne/totale dell’attivo o passivo) è molto alto.
Quindi le imprese per svolgere le proprie
attività possono reperire i fondi o da fonti
esterne (quindi indebitamento, prendere a
prestito i soldi da qualcuno, ad esempio da
banche o da soci mediante un aumento di
capitale) o da fonti interne (mediante
generazione di soldi che proviene dalla
differenza tra incassi e costi). Ribadisce il
concetto che quando prendiamo soldi dai
soci parliamo di fonti esterne!
Dagli studi la fonte di finanziamento
preferita dalle imprese è sicuramente
l’autofinanziamento. Come mai? Perché il
debito ha un costo (costo di transazione,
costo di personale ecc..), perché l’utile è già
disponibile (lo troviamo nella cassa), perché
gli azionisti possono essere contenti di dover rinunciare a parte dei loro dividendi per finanziare l’azienda se
i soldi che reinvesto sono a VAN POSITIVO, cioè se investo ad un tasso superiore al costo opportunità.
Il costo di altre fonti: il costo dell’indebitamento in teoria è fra i più bassi (non è particolarmente elevato),
ovviamente occorre confrontare il costo di un debito bancario con il rendimento dell’attività, se andiamo in
banca per chiedere un prestito e ci chiedono il 5-6% può sembrare tanto in quanto i rendimenti del denaro
oggi sono pari all’1-2%, però quanto rende il capitale investito nelle attività dell’azienda? Cioè il ROI
quant’è? Se il Roi è il 4-5% è folle andare a prendere il denaro che ci costa il 5-6%, significa chiedere ai soci
di perdere del denaro sostanzialmente. Se il Roi è il 10-15% abbiamo un delta di rendimento, quindi
conviene indebitarsi.
Ma i soldi che chiedo agli azionisti costano meno dei soldi che chiedo alla banca? In teoria si, infatti
inizialmente se chiedo alla banca dei soldi ci chiedono un tasso di interesse, mentre i soci in teoria
inizialmente non possono chiedere nulla. Ma in realtà, i soci non danno i soldi senza un ritorno economico.
In termini finanziari, o in termini di teoria del valore, il costo del finanziamento dai soci è più alto
dell’indebitamento da banche, perché il costo opportunità dell’azionista è più alto del debito. Questo lo
abbiamo visto nei rendimenti fra obbligazioni e titoli azionari. Il rendimento dei titoli azionari è più alto del
rendimento delle obbligazioni. Quindi l’azionista si attende un rendimento maggiore.
La prevalenza di fonti interne è dovuta a considerazioni di questo tipo, disponibilità, investimenti a van
positivo, ecc…
Per quanto riguarda le fonti esterne, se un’azienda decide di ricorrere a finanziamenti dall’esterno, che cosa
sceglie? L’indebitamento con le banche o sceglie i soldi dei soci?
Solitamente le aziende scelgono l’indebitamento con le banche, come mai?
Se decidessimo di aprirci una nuova sede in Brasile probabilmente dovremo ricorrere ad un aumento di
capitale mentre l’apertura di un nuovo stabilimento in generale, è un’attività che si finanzia con un debito
con banche e non con un aumento di capitale. Perché? Perché è più facile percepire il denaro in questa
maniera.
Se andiamo a chiedere dei soldi in banca per intraprendere una nuova attività di business, le banche ci
chiudono le porte in faccia solamente perché non capiscono di cosa stiamo parlando ecco perché in quei casi
si ricorre ai soci. In banca sono abituati a finanziare gli immobili, le attività attive da 20 anni. Ma comunque

133
il debito ha un costo, mentre il capitale azionario può non costare nulla (l’abbiamo già detto), in realtà non è
vero che non costa nulla (può costarvi il posto!), perché se non remuneriamo l’azionista (almeno nelle grandi
aziende), rischiamo di essere mandati via. Senza contare che l’aumento di capitale nelle grandi società ha un
altro problema ovvero il problema del controllo. Per esempio FIAT ha fatto recentemente un aumento di
capitale dopo trent’anni, quale problema di controllo ci potrebbe essere per FIAT? Il problema è che
l’azienda potrebbe non avere le risorse economiche per mantenere il controllo dell’azienda. Cioè se io ho
investito 100 MLD nel tempo, nell’azienda, e oggi voglio raddoppiare il capitale io non ho altri 100 MLD.
Che significa? Significa che se ieri avevo il 30% del capitale (oggi giorno il maggior azionista ha quella
percentuale) e oggi voglio raddoppiare il capitale sociale significa che la mia quota percentuale passerà dal
30% al 15%, quindi il controllo diminuisce. Quindi il problema dell’aumento di capitale è anche legato alla
governance dell’impresa, cioè alla capacità dell’azionista di riferimento di mantenere il controllo
dell’azienda; inoltre si aggiunge il problema del costo dell’operazione, cioè un aumento di capitale ha, in
realtà, una serie di costi non indifferenti.
Domanda di un ragazzo: “Un’azionista non dovrebbe essere contrario ad un aumento di capitale, dato che
vedrebbe la suo quota di capitale scendere?”, il prof. Risponde che ci sono due risposte possibili.
La prima, se anche gli azionisti sottoscrivono (quindi partecipano) all’aumento di capitale, le loro quote
rimarranno inalterate. Ovviamente se si fa un aumento di capitale è perché si vogliono aumentare le attività
dell’impresa (nuovo stabilimento nuovo mercato). Se l’azionista fa tale investimento mantenendo la stessa
quota si aspetta di guadagnare di più di prima in quanto prima aveva il 10% di 100 ora se raddoppiamo il
capitale sociale, l’azionista avrà sempre il 10% ma questa volta di 200.
(La seconda risposta) Può essere che l’azionista sia contrario all’aumento di capitale, in quanto se l’azionista
non partecipa all’aumento di capitale, vedrà la sua quota diminuire (come abbiamo detto prima), inoltre
l’azionista se fa un investimento iniziale ha come obiettivo quello di ricevere denaro e non doverne mettere
altro.
Quindi tendenzialmente un investitore diversifica i suoi investimenti in diverse società. Non prende tutti i
suoi soldi e li investe in una sola azienda.
Vediamo in linea generale qual è la
ripartizione media delle fonti di
finanziamento delle aziende
Questo è un bilancio aggregato delle
società manifatturiere negli USA, il
totale attivo/passivo è circa 5000
miliardi di $.
Dall’attivo vediamo che abbiamo un
po’ meno di un terzo di attività
correnti e più di due terzi di beni
immobili.
Dal passivo vediamo che abbiamo
2/5 di patrimonio netto (40%) e il
60% di indebitamento.
Rispetto al lungo termine, nell’attivo
più di 2/3 delle attività sono immobili. Quindi ci aspettiamo che nel passivo, le fonti di finanziamento a
lungo termine, debbano ammontare almeno quanto gli immobili. Per una legge finanziaria, le fonti di
finanziamento a lungo coprano le immobilizzazioni, questo significa che le attività correnti debbano essere
maggiori delle passività correnti.

134
Avviene proprio questo infatti le passività a lungo sono circa l’80% (5000-1213 cioè tot. passivo meno pass.
correnti).
Se vediamo i dati delle aziende italiane, in
media mantengono le stesse proporzioni.
I debiti generalmente sono superiori agli
equity, questo significa che le aziende si
finanziano prevalentemente attraverso
l’indebitamento. Questo ci dicono i dati.
Cercheremo di discutere il perché di tutto
questo.
Prima, però, vediamo la differenza tra il
caso italiano e quello americano.
La peculiarità del caso italiano, come
notiamo da questa slide, è che le aziende
vengono finanziate a breve, questo ci fa
sorgere un dubbio, ovvero che non sono
coperte a sufficienza le immobilizzazioni. Anche qui ho il 60% di indebitamento, ma è ripartito in modo
inverso cioè solo 200,000 sono ripartiti a lungo termine e 300,000 sono ripartiti a breve (equity). Quindi per
capire se le immobilizzazioni sono coperte, cioè se il capitale circolante netto è positivo, devo o guardare
direttamente attività correnti e passività correnti, o guardare fonti a lungo e immobilizzazioni.
Le imprese italiane hanno, mediamente, questo problema cioè hanno fonti a lungo termine risicate, non è tun
problema di capitalizzazione, bensì un problema di mercato obbligazionario. Sono pochissime le società
italiane quotate in borsa che possono emettere obbligazioni, l’unica strada per tali imprese è chiedere prestiti
bancari a breve termine.
Quindi i due mercati, statunitense e italiano, hanno più o meno lo stesso livello di equity, invece a livello di
rapporto tra debiti a lungo / fonti a lungo (cioè capitale più debiti a lungo) siamo più deboli rispetto agli
americani.
Questo è un grafico che rappresenta come negli
anni passati, le aziende si siano finanziate. La
maggior parte delle fonti di finanziamento sono
fonti interne poi viene il debito, mentre
l’aumento di capitale è praticamente
inesistente.
Recentemente su ilSole24ore, hanno scritto un
articolo sul BUYBACK. Che cos’è il buyback?
Invece che un aumento di capitale (cioè
l’emissione di nuove azioni), il buyback è il
riacquisto delle azioni da parte dell’azienda.
Cioè FIAT va sul mercato e consente ai suoi
azionisti di vendere le proprie azioni ad un
prezzo X. Cioè l’azienda paga per cancellare le
azioni proprie. Perché l’azienda, per legge, non può tenersi le azioni ma le deve eliminare.
Perché l’azienda fa questo? Solitamente per motivi fiscali, perché all’azionista costa meno vendere
all’azienda rispetto alla tassazione che dovrebbe pagare se ricevesse un dividendo dall’azienda.

135
L’INDEBITAMENTO
Come definiamo l’indebitamento?
Lo abbiamo già visto,
l’indebitamento è definito dal
rapporto o fra debiti e totale attivo
oppure se vogliamo escludere il
capitale circolante netto, possiamo
definire l’indebitamento come
rapporto tra debiti a lungo su debiti a
lungo più capitale netto.
Che situazione abbiamo nei vari
paesi? Come vediamo dalla slide
successiva, non c’è molta disparità
tra un paese e l’altro. Nel grafico
(prox pagina immagine a sinistra)
vediamo che la % di indebitamento
oscilla tra il 50 e il 70%.
Quindi quando vediamo che
un’impresa è indebitata noi
dobbiamo sapere che la situazione generale prevede un indebitamento medio che oscilla tra il 60-70%.
Quindi avere un’impresa che ha un indebitamento al 70% non vuol dire che sta messa male, innanzitutto
dovremmo vedere se sono debiti a lungo o a breve.

Vediamo, dall’immagine a destra, come cambia (anche se rimane più o meno costante nel tempo) il rapporto
di indebitamento visto a medio-lungo termine (più basso) rispetto all’indebitamento totale.

TIPOLOGIE DI AZIONI

136
Le azioni principali sono le azioni
ordinarie, in Italia per legge devono
costituire almeno il 50% del capitale
sociale.
Esistono altri tipi di azioni? Si le
vedremo tra poco.
Abbiamo detto più volte che il valore
dell’azione può essere riferito a più
aspetti. Il vero valore dell’azione è
quello di mercato!!!!!
Però esistono anche il valore nominale e
quello contabile.
Il valore nominale è dato dal rapporto
fra capitale sociale (cioè quello che si
sottoscrive dal notaio, che costituisce parte del patrimonio netto) e numero di azioni emesse.
Nel caso di s.r.l. non ci sono le azioni ma ci sono le
quote.
Il valore contabile è il rapporto tra patrimonio netto
e numero di azioni.
Esistono altre tipologie di azioni, in particolar modo
in Italia esistono le azioni privilegiate e le azioni di
risparmio. Però queste azioni stanno via via
scomparendo. Innanzitutto non possono essere più
alte delle azioni ordinarie.
Le azioni di risparmio sono quelle azioni che
garantivano un certo rendimento, superiore alle
azioni ordinare. In termini di dividendo sono delle
azioni che fanno guadagnare di più, in cambio di
non avere diritto di voto (mentre con le azioni ordinarie si ha diritto di voto), inoltre con questa azione si
aveva diritto di prelazione nel caso di fallimento. Quindi il vantaggio principale è un maggior margine di
guadagno delle azioni di risparmio rispetto all’azione ordinaria.
Con l’azione privilegiata, si ha
diritto di voto nelle sole
assemblee straordinarie (dove
si decide il nome della società,
dove si decidono le attività
diverse da quelle ordinarie e
non dove si approva il bilancio)
inoltre gode di diritti di
prelazione sull’azione
ordinaria.
Quali azioni valgono di più
quelle ordinarie o quelle
sussidiarie?
137
DIPENDE!
Dipende da diversi fattori, una guadagna di più ma non ha diritto di voto, l’altra guadagna di meno e non ha
diritto di voto, quindi la vera domanda è quanto vale il diritto di voto?
La borsa tende a premiare le azioni che danno diritto di voto, cioè le azioni che determinano le decisioni
dell’impresa.
Quindi generalmente le azioni sussidiarie valgono meno delle azioni ordinarie e le cause sono molteplici. Ad
esempio bisogna vedere se esistono delle forme di tutela degli azionisti di minoranza (OPA Offerte
pubbliche di acquisto, come quando fu ceduta Telecom dallo stato, si presentarono degli azioniste con delle
OPA, in quel caso gli azionisti di risparmio non hanno contato nulla e sono state cedute il 90% di azioni).
Quindi le azioni ordinarie, difronte ad un OPA, esplodono. Ad esempio abbiamo acquistato le azioni ad 1€
l’una, un acquirente ci offre 1,5€ (+50%), ovviamente vendiamo e le azioni in borsa schizzano, mentre le
azioni di risparmio rimangono ad 1€. Quindi se gli azionisti di minoranza non vengono tutelati rischiano di
perderci.
Poi ci può essere una presenza di azionista di maggioranza assoluta, in quel caso è più difficile far rispettare i
propri diritti.
Se non esiste una convertibilità delle azioni di risparmio in ordinarie può essere un problema.
Se voglio vendere le azioni di risparmio trovo qualcuno che le compra o sono talmente poche che nessuno le
vuole comprare.
Avere controllo dell’azienda può portare ad avere benefici personali (beni di lusso) e aziendali (transazioni
inter-aziendali). Questi sono tutti motivi per cui è meglio avere diritto di voto, perciò possiamo dire che è
meglio avere un’azione ordinaria.

IL DEBITO DELL’IMPRESA
Il debito di impresa secondo questa definizione
(slide a sx), è la possibilità di non pagarlo in cambio
delle cessione delle attività della società. Possiamo
definire il debito come una fonte di finanziamento
che ha un rischio di insolvenza cioè se un’impresa
non riesce a restituire i soldi del mutuo, con cui ha
comprato il capannone, succede che la banca si può
prendere il capannone e i dipendenti perdono il loro
posto di lavoro. Questo è il reale problema, bisogna
pensare sempre che ci sono delle persone che
rischiano il posto di lavoro.
Se l’impresa non riesce a far fronte al debito
bancario la fregatura chi se la becca?

 I soci, cioè quelli che hanno investito nell’azienda e saranno gli ultimi a vedere i guadagni;
 Tutte le imprese che hanno lavorato con la suddetta impresa e che aspettano dei soldi, quindi i
fornitori, distributori e tutti i creditori dell’impresa.

Tra i prestiti ci sono le obbligazioni, quando un investitore investe soldi tramite obbligazioni, può leggersi un
documento di analisi del debito che aiuta l’investitore a valutare il rischio di insolvenza.

138
DEBITI DELL’IMPRESA
Di che tipo sono i debiti dell’impresa?
A breve o a lungo termine, a tasso fisso o
variabile (i pro del tasso variabile sono che
chi 10 anni fa ha scelto un tasso fisso al 4%
oggi paga di più perché il costo del denaro
oggi è circa dell’1%), a valuta nazionale o
estera (diatriba €/$ cosa conviene di più?
Dipende dal periodo), di cassa o di firma (di
cassa vuol dire che chiedo del cash, di firma
vuol dire che chiedo ad un’azienda o ad una
banca di concedermi una garanzia, cioè se
ho un cliente/fornitore all’estero e questo
vuole una garanzia, chiedo ad una banca di
concedermela in modo da non perdere il
cliente).
Quando una banca ci fa un prestito che garanzie chiede? Sulla merce, su nulla. Dipende ci sono diverse
soluzioni.
Se il debito è obbligazionario esistono due tipi di azione, semplice o convertibile. Convertibile significa che
alla fine del prestito abbiamo un’opzione, cioè trasformare il nostro prestito in azioni.

VAN DEL FINANZIAMENTO

Il modo con cui vado a finanziare


quell’investimento influenza la convenienza
economica dell’investimento? Cioè abbiamo
calcolato sempre il van, per attualizzare i flussi
abbiamo messo un tasso di interesse (di
attualizzazione), un costo opportunità.
Il costo opportunità del capitale, se per esempio
consideriamo il CAPM, è un costo da
considerare come finanziamento interamente
proprio (cioè come se fosse tutto capitale
sociale). Se invece chiediamo un finanziamento
particolare, ad esempio noi del sud abbiamo
finanziamenti agevolati.
Ovviamente questo influenza il costo opportunità, che cala. È come se avessi già un van positivo, quindi è
come se avessi un guadagno immediato dal finanziamento.
In questo caso il flusso di cassa iniziale è positivo perché ci sono delle entrate di denaro, e poi ci sono delle
tasse da pagare, quindi ci saranno dei flussi di cassa negativi dovuti alla rata del debito più gli interessi.
La variabile importante è la “r”, che corrisponde al costo opportunità del capitale, che vuol dire? Il prestito o
la fonte di finanziamento è data da un tasso predeterminato, per esempio se lo stato ci dà un tasso di interesse
agevolato, le rate si calcolano sulla base del tasso dichiarato. Il problema nostro è come attualizzare le rate
139
del finanziamento. Il costo opportunità con cui attualizziamo le nostre rate dovrebbe essere intorno al 4-5%,
ora se noi abbiamo un costo del denaro pari all’1% e attualizziamo al 6% come sarà il van del
finanziamento? Considerando che il primo flusso è positivo e gli altri sono negativi, quando attualizzo con
un tasso più grande quelli negativi diventano più piccoli ovviamente. Quindi la somma sarà sicuramente
positiva (ricapitolando nel primo anno abbiamo un flusso positivo, poi diventa negativa ma questi numeri
vanno attualizzati, dato che sono negativi attualizzandoli con un tasso elevato, diminuiranno rendendo un
van positivo). Per cui che può succedere?
Succede che un investimento che poteva essere poco conveniente o non conveniente da un punto di vista
economico-finanziario, con un finanziamento agevolato può diventare molto favorevole. Quindi se i tassi di
attualizzazione sono più bassi dei tassi di mercato, possiamo ribaltare la decisione di un finanziamento.
Naturalmente se il mercato è efficiente, il VAN sarà molto probabilmente negativo.
Se io prendo un finanziamento al 5 % e dopo un anno o due, i tassi diventano del 10% perché sale il costo
del denaro, ottengo lo stesso effetto cioè il van potrebbe essere negativo. Se invece i tassi scendono all’1%
succede che chi ha stipulato un accordo per tassi fissi andrà a pagare di più (come abbiamo detto poc’anzi).

Venture capital

Questa fonte di finanziamento è un


investimento su nuove imprese (startup
solitamente). Che tipo di fonte di
finanziamento è?
Fonti esterne a medio lungo termine?
Può essere, ma alla fine quello che ci
interessa sapere è di che tipo, di equity o
di debito?
Tipicamente il venture capital non è un
soggetto che ti presta il denaro (quindi
non è debito ma è equity), non è una
banca, ma è un investitore cioè un socio
che in cambio chiede una quota di
capitale.
In genere i gruppi di startup non sono contenti con fondi provenienti dalle società di venture capital, invece
dovrebbero essere contenti perché grazie a loro riuscirebbero a realizzare la propria idea, anche se ci
andrebbero a perdere in termini di guadagno.
Il venture capital solitamente da dei soldi,
ma in genere con un piano di uscita, cioè
lui non vuole rimanere più di un certo
periodo (ad esempio 3 anni) guadagnando
sull’investimento. Ad esempio dà 100,000€
e tra tre anni vuole 200,000€.
Qualche definizione:

140
 Private o business angels sono i singoli investitori;
 Corporate venturer sono le imprese che investono in capitale di rischio;
 Limited partnership, partecipazione limitata del venture capitalist;
 Private equity è il nome che si da solitamente a questo tipo di investimento, quando si parla di fondi
di private equity, si intende fondi di investimento in attività di sviluppo di idee imprenditoriali, ce ne
sono tantissimi finanziatori;
 Rientro dall’investimento, cessione ad altra impresa oppure quotazione in borsa.
Due regole fondamentali:
a) Non bisogna fuggire dall’incertezza, cioè non bisogna spaventarsi troppo del rischio legate alle
attività di business nascenti, non bisogna non investire solo perché non si capisce il tipo di business;
b) Tagliare le perdite, il finanziatore che finanzia un progetto di sviluppo, un business plan, su una
attività economica, che prevede una serie di step, di raggiungimento di obiettivi, se questi step non
vengono raggiunti, la decisione non è investire di più o investire meglio ma è CHIUDERE! Perché il
tasso di successo di nuove idee è molto basso, perciò è meglio chiudere una strada che conteneva dei
piani che già contenevano delle risposte ad incertezza elevata; la seconda ragione è che quando si
fanno i business plan, sono dei video sogni, cioè ci si immagina che esistano una miriade di clienti,
che il prodotto sia super efficiente, più si va avanti più si cercano giustificazioni a problematiche. Ma
l’investitore che non capisce alcune dinamiche tecniche, non perde tempo, ci sono altri 100 mila
business su cui investire.

Proviamo a vedere degli esempi:

Cavatappi a controllo numerico

Una coppia di inventori (marito e moglie)


hanno speso 100 mila € e hanno ipotecato
la loro casa. Hanno brevettato il
cavatappi. Ad un certo punto volevano
sviluppare il prodotto che avrebbe
fruttato milioni di €, che fanno?
Vanno da un venture capitalist e gli fanno
un bel pitch cioè spiegano in 5 slides la
loro idea, che decide di investire e chiede
ai soci volete essere soci al 50%? La
prima risposta dei soci Marvin è dipende!
Ci vuole un finanziamento di 1 milione di
€, le banche non danno più nulla, quindi l’unico pazzo che può investire è un pazzo come i due soci. In
cambio di questo milione di € chiede di essere soci al 50%, la risposta potrebbe essere no perché la gente è
pazza. Se uno non ha alternative non può fare altro che accettare.
Che vuol dire che l’investitore da un milione di € e vuole il 50% della società? Da un punto di vista tecnico
finanziario significa che l’investitore sta valutando la nostra idea come 1 milione di € e non 100.000€.

141
Se leggiamo lo stato patrimoniale (che vediamo nella slide qui sopra), vediamo che a fronte di un milione di
€ in contanti, il capitale dell’azienda è di 2 milioni di € di cui un milione di € lo mette l’investitore mentre
l’altro milione di € lo mettono i soci Marvin, ma come li mettono? Il milione di € dei soci Marvin lo mette
sempre l’imprenditore. Quindi
l’imprenditore in realtà versa due
milioni uno per l’idea (cioè per
intraprendere e iniziare l’attività) e uno
per aumentare il capitale sociale e
prendersi il 50% dello stesso.
Dopo due anni se si raggiungono tutti gli
obbiettivi di vendite ecc…se volessimo
crescere di 14 volte, dovremmo fare un
nuovo investimento di 4 milioni di €, chi
li mette? 1.5 lo mette l’investitore e altri
2.5 li mettono altri investitori che trova
sempre l’investitore iniziale.
Che succede? Qual è il prezzo da pagare
per questo sviluppo? C’è una riduzione
delle quote dei soci Marvin al 33%.
Cioè servono 4 milioni, di cui tangibile è 1 milione versato all’inizio. Quello che prima erano 2 milione di €
di capitale ora è stato valorizzato a 10 mln€. Cioè il fatto di avere avuto dei successi nei primi due anni, porta
al fatto che chi investe dopo si becca molto meno di chi stava già dentro. C’è un salto di 8 milioni di €. Cioè
si passa da 2 a 10 mln di €, ricordiamo che i soci Marvin avevano versato solo 100,000€ quindi anche se
hanno il 33% delle quote hanno aumentato di 5000 volte l’investimento iniziale, inoltre saranno sicuramente
sono i gestori dell’impresa perché sono gli unici che capiscono qualcosa.
Che vantaggi ha in tutto questo il venture capital? Fare soldi! Ecco perché se si fallisce il primo step il
finanziatore chiude. Bisogna rispettare le attese.

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143
20 Maggio 2015
La volta scorsa stavamo parlando di venture capital, abbiamo visto l’esempio del cavatappi numerico che è
importante per capire la dinamica dell’ingresso dei
finanziatori in una startup quindi una dinamica
che a fronte di una certa quota di capitale,
generalmente richiesto da un partner in equity,
vede un apporto di capitale significativo ma
soprattutto una valorizzazione (forse la cosa più
importante che si vede nell’esempio) dell’idea che
nasce con un contributo tuttosommato minimo da
parte dell’imprenditore/ideatore (almeno in
termini economici) e si vede valorizzare ad un
multiplo da chi generalmante apprezza l’idea ed è
disposto ad investirci. Poi è chiaro, come nella
domanda fatta dalla professoressa Inglese, che il
venture capitalist nell’accordo prevede un wayout
cioè una uscita dalla società attraverso o il
riacquisto della quota da parte dell’imprenditore o attraverso la vendita della quota in un mercato
(tipicamente nella quotazione in borsa). Proprio di questo parliamo in conclusione di questo capitolo sul
venture capital.

Alla fine di questa operazione generalmente c’è


una clausola di questo tipo e cioè c’è una clausola
in cui l’investitore (che investe non perché lo
startupper gli sta simpatico o perché si innamora
dell’idea) investe per fare soldi e deve recuperare
questi soldi con un rendimento significativo e
siccome nella stragrande maggioranza dei casi non
può cedere la sua quota all’imprenditore (che se
avesse avuto i soldi lo avrebbe sviluppato da solo)
ma il passaggio della cessione delle proprio quote
(quindi la remunerazione del proprio capitale)
avviene attraverso una quotazione. In pratica,
attraverso una vendita delle quote sul mercato
azionario, dove gli investitori sono milioni e quindi è più facile trovare una via alla vendita. Questa si chiama
IPO (Initial Public Offering) che è appunto la quotazione della società nel mercato secondario, quindi nel
mercato borsistico. Vediamo qualche definizione. Il sottoscrittore è generalmente chi si affida in queste
operazioni ad un banca di investimenti. Sappiamo che esistono due tipi di banche che sono le banche
commerciali e quelle di investimento. Alcuni esempi di banca di investimento sono Morgan Stanley,
Mediobanca e Lehman Brothers. Le banche di investimento sono quelle che si occupano prevalentemente di
sviluppo di business e sono quelle che per esempio fanno queste operazioni. Si occupano cioè di trovare una
serie di operatori pronti a sottoscrivere questi titoli. Naturalmente c’è un rischio di insuccesso e ci sono
diverse strategie e cioè o si “quota la migliore quotazione” o “si raggiunge o non se ne fa nulla”, quindi ci
sono diverse possibilità. Sicuramente anche il sottoscrittore ci vuole guardagnare e dove ci guardagna? Ci
guadagna nel senso cha a lui viene offerto un pacchetto scontato rispetto a quello che sarà il prezzo che sarà
sottoscritto dagli acquirenti finali. Ovviamente tutte queste quotazioni hanno un ricchissimo prospetto
informativo nel quale, per motivi di legge, vengono anche esasperati i rischi relativi all’acquisto di questi
titoli perché sono promesse di imprese che hanno già un mercato e cioè una attività di business ed è chiaro
che il salto nella quotazione prevede uno sviluppo molto forte quindi una moltiplicazione del business e
questo è sulla carta e nessuno può garantire che questo avvenga. Un esempio è il caso della apple che quando
144
era quotata all’inizio aveva un prospetto informativo “terroristico” per cui solo leggendolo nessuno avrebbe
mai puntato 1$ su quell’azienda che poi è diventata l’azienda a maggiore capitalizzazione mondiale (in
questo momento) cioè l’impresa più grande dal punto di vista del valore superando anche imprese
petrolifere, la Microsoft e quant’altro.
Che tipo di operazione si fa? Esistono
operazioni di vendita, sottoscrizione o
mista. L’opzione di vendita è tipicamente
quando io mi quoto sul mercato per
vendere la mia quota e questo vale sia per
il venture capitalist ma anche per
l’imprenditore. Per esempio un giorno si
vuole quotare in borsa la Barilla e Barilla
può decidere o di quotarsi in borsa o
vendendo le quote dei proprietari o può
fare una offerta pubblica di
sottoscrizione e cioè Barilla oggi ha un
capitale di 1 miliardo di € e decide di
quotarsi in borsa emettendo azioni per un
altro miliardo di €, raddoppiando il
capitale e trovandosi dal 100% del controllo al 50% del controllo. Oppure mista e cioè un po’ si vende ed un
po’ si emettono nuove azioni. Esiste un Road Show ovvero una raccolta di offerte informali (che fanno parte
dei contatti e delle relazioni tra operatori del settore per arrivare a definire un prezzo di emissione).
Tipicamente esiste una forchetta di valori che deve essere stabilita e che poi rimane in pieni a lungo, anche
fino alla decisione finale del prezzo di emissione. Un aspetto importante dell’ IPO è proprio la definizione
del prezzo. Tutto quello che abbiamo visto finora (teoria del valore, valutazione del prezzo dell’azione, la
valutazione dell’impresa) nuovamente torna a diventare importante. Come si fa a valutare una attività come
quella del cavatappi numerico per poi proporre questo titolo agli operatori del mercato. Per poter parlare di
underpricing e cioè per poter dire che io offro al mercato azionario un titolo a sconto del 20% (per
esempio), devo aver definito il prezzo corretto. E qual è il prezzo corretto? Come si individua il prezzo
corretto? Attraverso le metodologie che i qualche modo abbiamo già accennato e cioè per esempio stimando
i flussi di cassa previsti e valorizzandoli al momento dell’emessione (che è il metodo teoricamente migliore
per la valorizzazione del titolo). Perché definire un prezzo scontato? Sostanzialmente qui si dice che è il
maggior costo ma già si vede che, per quanto è scritto qui, è anche nell’interesse dell’emittente.
Immaginiamo che un nostro amico ci venga a chiedere se volessimo partecipare ad una iniziativa di business
che vale un tot e che a noi sarebbe costato un 20% in meno. Qual è il nostro problema? Bhe sicuramente
dobbiamo capire il valore reale e poi dobbiamo capire se questo sconto è effettivamente uno sconto o meno,
allora è chiaro che il problema dell’underpricing è un problema che in realtà non è sullo sconto ma è sul
valore originario. È un po’ come quando ci vendono la merce nei negozi e ci fanno lo sconto del 50%, ma
noi cosa pensiamo? Che il prezzo di partenza è stato gonfiato come minimo del 50%. Ed è proprio questo lo
stesso problema del concetto commerciale spiegato prima e cioè che lo sconto serve per far comprare le
merci (e i titoli sono la stessa cosa delle merci) e per convincermi a rischiare i miei risparmi in un’attività.
Quando ci vengono ,quindi, a chiedere una cosa del genere, noi siamo sicuramente, da un lato perplessi sul
valore ma invogliati sul fronte dello sconto perché sul valore ci possono dire quello che vogliono (e
possiamo regolarci noi valutando i flussi di cassa passati o possiamo valutare per attività simili quali sono i
rendimenti) ma se in questi elementi c’è qualcosa di convincente il fatto di avere uno sconto è un fatto che
psicologicamente è molto forte. Qui parliamo comunque in un ambito di correttezza e cioè supponendo che il
valore reale sia un valore ragionevole e che sia un valore cui la comunità finanziaria pensa che quel titolo
tenderà anche nel breve termine (subito dopo la collocazione). Sottoscrivere subito un’azione con il 20-30%
di sconto è una scommessa più facile ed ecco perché è nell’interesse dell’emittente. Quando l’azienda non è
ancora quotata (quindi quando la società non è niente) deve raccogliere fonti di finanziamento perché è più
importante recuperare grandi quantità di denaro per lo sviluppo che non perdere il 20-30% su un valore
ipotetico. È chiaro che possiamo parlare del maggior costo perché 20-30% di solito è un valore grande ma
145
naturalmente su un valore che è stimato e su cui nessuno può metterci la mano sul fuoco. Una spiegazione
psicologia, nota in letteratura per questo fenomeno, è la cosiddetta MALEDIZIONE DEL VINCITORE:
quando partecipiamo ad un’asta alla fine c’è un vincitore e la sensazione del vincitore qual è? Quella di aver
speso troppo! Questo perché nessuno è stato disposto a spendere quella cifra. Quindi, quando un soggetto
vince un’asta non si mette a dire hip hip hurrà! Ma si chiede comunque come mai solo lui ha speso così
tanto. Questo è uno degli aspetti cui fa riferimento il discorso dell’underpricing. Si raccoglie una forchetta di
valori che sono disposti a spendere i vari operatori finanziari e spesso conviene più dare un valore più basso
all’inizio andando a perderci qualcosa rispetto allo stabilire un prezzo alto anche per provocare affetto (un
legame) tra gli acquirenti e la società. Ovviamente è importante cosa la società fa dopo.
Questo grafico, anche se un po’
datato si riferisce ai rendimenti medi
nelle IPO nelle settimane successive
alle collocazioni. Quindi, una volta
che sono state vendute le quote, si
vede cosa è successo alle imprese.
Possiamo notare come nei diversi
paesi i rendimenti nelle settimane
successive alla quotazione sono
mediamente elevati e cioè si va dal
10% fino ad un 40% ma possiamo
arrivare anche al raddoppio della
quotazione anche nel giro di poche
settimane. Si tratta di attività
mediamente molto remunerative. È
ovvio che tutti, noti questi dati,
corrono a sottoscrivere le azioni di
queste nuove società. Il caso più eclatante di situazione inversa a queste, è stata Facebook che ha avuto un
crollo di quotazione subito dopo la collocazione.
Visto che stiamo parlando di quotazione, quindi
di emissione o vendita di nuove azioni, diciamo
qualcosa sugli aumenti di capitale che è una delle
fonti di finanziamento delle aziende. Le aziende
si possono finanziare o attraverso la richiesta di
soldi ai soci (equity) oppure attraverso
l’indebitamento ovvero chiedendo soldi in
prestito. Quando si vuole chiedere soldi ai soci,
che è una operazione abbastanza rara, che cosa
succede? Quindi parliamo della vendita di un
titolo di nuova emissione da parte di una società
già esistente. La domanda è: che cosa succede
quando una società annuncia al mercato un
aumento di capitale? Che incidenza ha sul valore
dell’azienda? Supponiamo che Enel, che quota 5/6 €, decida di fare un aumento di capitale per aumentare il
capitale proprio del 10%. Che influenza ha questo sul mercato? Che succede all’azione Enel? Dipende da
tante cose! Sicuramente quando non sappiamo cosa succede dobbiamo osservare e poi dobbiamo studiare i
dati. Nel mercato principe, la borsa degli Stati Uniti ovvero la New York Stock Exchange, quello che
succede è che le azioni perdono valore. L’annuncio di un aumento di capitale determina una riduzione
del valore dell’impresa. È chiaro che il management può dichiarare che quell’aumento di capitale può
servire a cogliere opportunità di investimento (come per esempio per crescere ovviamente per aumentare i
guadagni). Se crescere vuol dire aumentare il potere contrattuale nei confronti dei fornitori quindi vendere di

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più e meglio, sfruttare economie di scala e quindi guadagnare di più, allora ha un senso. Naturalmente uno
può chiedere un aumento di capitale perché magari non danno più credito, le ultime stagioni sono andate
male, abbiamo fatto delle perdite clamorose come sta facendo la Monte dei Paschi di Siena che è arrivata a
chiedere il secondo aumento di capitale in 2 anni per risanare perdite passate. Tranne questi casi, in cui la
riduzione del prezzo è abbastanza ovvia, l’aumento di capitale serve per cogliere nuove opportunità. Però
esiste questo fenomeno per cui ogni volta che c’è una dichiarazione di aumento di capitale, il valore
dell’azienda diminuisce. Perché? Ci sono vari effetti. È chiaro che se noi fossimo dei manager che vogliamo
ingrandirci bla bla bla, e dobbiamo decidere quando sottoporre al mercato l’umento di capitale, quando lo
faremmo? Quando il prezzo dell’azione è alto o basso? Bhe ovviamente quando è alto perché prenderemmo
più soldi senza diluire eccessivamente il capitale. Se noi volessimo incassare 1 miliardo di $, se lo facciamo
quando l’azione vale 100$ significa un certo numero di azioni (aumento di capitale del 10%) mentre se lo
facciamo quando l’azione vale 10 $ significa fare un aumento di capitale enorme (significa raddoppiare il
capitale sociale). Sempre un miliardo abbiamo ma l’effetto sul moltiplicativo della quotazione è molto
diverso. Chi decide se aumentare il capitale? Generalmente il management ma dipende dal tipo di società. Ci
sono le public company, tipiche degli Stati Uniti, o le società tipiche del mercato europeo. Nelle public
company, che sono multinazionali, è chiaro che la voce in capitolo la hanno i soci ma se tutti i soci hanno
l’1% tendono a fidarsi del management ovvero del Consiglio di Amministrazione che propone in sede si
riunione degli azionisti un aumento di capitale. Nel caso di una impresa con al vertice un nucleo famigliare
(Barilla, Agnelli, Della Valle) allora è diverso. In questo caso, il mercato sa questa cosa e capisce subito il
valore dell’azione in quel momento come sopravvalutato. Se il management decide che in quel momento è
utile fare un aumento di capitale, vuol dire che l’azione vale di meno quindi la prima cosa che faccio è
vendere (che vuol dire che l’offerta del titolo è maggiore della domanda), il prezzo scende e magari ricompro
quando il prezzo ha assunto un nuovo valore. Ci sono anche altri effetti ma diciamo che questo è uno degli
effetti principali studiati in letteratura, della comunicazione della decisione dell’aumento di capitale di una
società.
In Italia e nei paesi europei è diverso innazitutto
perché è diverso il mercato in generale dato che
gli azionisti non sono così diffusi (cioè non sono
tutte delle public company) lo sono per esempio
molte banche, assicurazioni. Esiste un azionariato
di riferimento che fa si che esiste un diritto di
opzione. Il diritto di opzione significa che
l’aumento di capitale viene prima di tutto
consentito agli azionisti in essere (quindi i vecchi
azionisti) per cui tutti hanno il diritto di
mantenere la proprio a quota percentuale di
partecipazione al capitale. È chiaro che mantenere
un diritto è una cosa ma esercitarlo è un’altra. Se
la Fiat facesse un raddoppio del capitale sociale, siamo sicuri che la famiglia Agnelli avrebbe i soldi per
raddoppiare la propria partecipazione in Fiat? Difficile perché è talmente grande che una operazione di
questo genere sembrerebbe mirata a ridurre la quota di partecipazione della famiglia nella Fiat! Il prezzo di
emissione irrilevante.
Qual è la reazione del mercato qui? Tendenzialmente
può essere diversa. Perché può essere diversa in imprese
di questo genere? Perché se la società Autostrade fa un
aumento di capitale, la reazione potrebbe non essere
negativa ma il mercato potrebbe effettivamente credere
nell’opportunità di nuovi investimenti e di nuovo
profitto per l’azienda? Proprio perché c’è un azionista di
riferimento! Proprio perché dietro c’è la famiglia

147
Benetton che ci mette i soldi propri nell’aumento di capitale per mantere la stessa quota di controllo. Quindi
il ragionamento del mercato può essere un ragionamento del tipo… se li mettono loro i soldi… perché non
dovrei metterli io? Sicuramente sarà una buona opportunità! Quando esistono dei gruppi di controllo ben
definiti e naturalmente non sono noti dei problemi delle aziende, si può ottenere questa reazione diversa. È
chiaro che la presenza di azionisti di riferimento crea tutti i meccanismi di controllo e di reazione sul mercato
di tipo diverso e cioè, mentre nell public company esiste il problema dell’agenzia e quindi il problema del
rapporto tra i proprietari e il management perché il management non sempre è incentivato a fare il bene
dell’azienda ma può essere più incentivato a fare il proprio bene anche a livello di prezzo delle azioni perchè
il management è interessato al valore del prezzo delle azioni per esempio per le stock option. Quindi può
essere motivato a mantenere un prezzo alto delle azioni perché guadagna di più. Nelle public company esiste
questo grosso problema di potere tra i proprietari che però sono tantissimi e chi poi gestisce l’azienda che ha
una serie di benefit ed incentivi che possono essere in contrapposizione rispetto i proprietari. Invece nelle
aziende “famigliari” il problema di agenzia non c’è più perché sono loro stessi i proprietari ma anche i
gestori ma esiste un grosso problema tra l’azionista di maggioranza e quelli di minoranza. Ok, la proprietà
governa facciamo l’esempio del Milan. Ora Berlusconi sta cercando un socio per il Milan ma comunque lui
rimarrebbe socio per il 51% quindi secondo lui un soggetto dovrebbe dargli 500 milioni di € però avrebbe
comandato Berlusconi senza quindi che questo azionista poteva dire nulla! Nelle grandi imprese come
Fininvest l’azionista di maggioranza che poi è l’azionista di controllo ha il 25 % circa perchè gli altri
azionisti hanno l’1%. Quindi esiste un vero problema tra di azionista di maggioranza e minoranza molto più
rispetto il problema dell’agenzia.
LA POLITICA DEI DIVIDENDI
Sempre nell’ottica della gestione dell’equity quindi del
capitale di rischio e cioè del capitale degli azionisti, la
domanda principale non è quella riportata nella slide.
Noi parliamo sempre di teoria del valore allora la
politica dei dividendi influisce sul valore
dell’impresa? Cosa si intende per influire sul valore
sell’impresa? Il valore dell’impresa dipende dal valore
delle azioni moltiplicato il numero di azioni. Per un’altra
serie di motivi (l’azienda non è quotata per esempio)
posso usare altri metodi per cui dato che so che il
mercato è la più grande rappresentazione di domanda ed
offerta, il valore dell’azienda tipicamente è dato dal
valore dell’azione. La domanda è: se una azienda decide di erogare alti dividendi o bassi dividendi,
questo influisce sul valore dell’impresa? La domanda è abbastanza chiara ma la risposta è abbastanza
oscura!
La decisione relativa a quanti dividendi erogare è legata
ovviamente alla vita dell’azienda e quindi a decisioni di
investimento perché i dividendi fanno a togliere delle
risorse finanziarie dall’azienda. Se io distribuisco dei
soldi ai soci ovviamente questo impatta sulle possibilità
di inverstirli in altre attività e questo impatta anche sulle
fonti di finanziamento perché se devo dare dei soldi ai
soci li devo togliere dall’azienda e magari se all’azienda
servono devo andarli a chiedere alle banche o al mercato
sottoforma di prestito con le obbligazioni. Quindi è
chiaro che esiste una relazione causa-effetto fra la
politica dei divendi e finanziamenti ed investimenti e
questa è una delle difficoltà del capire se una certa politica dei dividendi influenza o meno il valo
dell’impresa perché bisognerebbe isolare questa decisione dalle decisioni di investimento o finanziamento.
148
“Qual è l’effetto di un cambiamento della politica dei dividendi sul valore dell’impresa?” è la domanda
che ci diceva il prof. All’inizio della slide! Naturalmente per distribuire soldi agli azionisti abbiamo
principalmente due strade e cioè o l’erogazione dei dividendi o il buyback ovvero il cosiddetto riacquisto
di azioni proprie. In questo caso il manager dell’impresa decide di remunerare gli azionisti non con
l’erogazione di un dividendo ma attraverso una offerta di acquisto delle azioni distribuite sul mercato
possedute dai diversi risparmiatori. Alla fine l’impresa tira fuori sempre soldi ma qual è la differenza?
L’effetto sostanziale delle due politiche è lo stesso e cioè quello che l’impresa si priva di denaro o per
erogarli o per acquistare dei titoli. Qual è la differenza? Acquistando le azioni è come se l’azienda toglie
azioni dal mercato ma se il valore dell’azienda non cambia è come se divido su un numero minore di azioni
il valore complessivo (questo l’ha detto un ragazzo e non si sentiva benissimo! :D) però qualcuno potrebbe
pensare che in un modo io pago i dividendi ed il numero di azioni che sono in commercio non cambia,
nell’altro caso il numero di azioni si riduce. Che succede al valore delle azioni nei due casi? Secondo il prof,
distribuendo i dividendi non cambia il valore dell’impresa ma è meglio che l’azienda investa quei soldi in
investimenti a VAN positivo perché in teoria dovrebbe far guadagnare di più. Se tu sai che il valore attuale
delle opportunità di crescita è superiore al dividendo conviene, ovviamente che quei soldi vengano investiti
in attività remunerative. Ora però stiamo facendo semplicemente un confronto tra dividendi o riacquisto
allora la cosa che capiamo è che se qualcuno distribuisce dividendi il numero di azioni resta uguale se uno
invece utilizza il riacquisto le azioni diminuiscono. Sul valore delle azioni non abbiamo le idee chiare sul che
cosa succede in entrambi i casi. Abbiamo detto che dobbiamo cercare di isolare la politica dei dividendi dagli
investimenti e dei finanziamenti e allora se aumentiamo il dividendo (perché i soci rompono le scatole
perché hanno bisogno di soldi) come lo finanziamo? Se le politiche di finanziamento sono sostanzialmente
costanti (cioè l’impresa non vuole indebitarsi per pagare un aumento dei dividendi) quale sarebbe la bella
scoperta? Bhe vabbe… volete più dividendi ok, ma li finanziamo con l’emissione di nuove azioni. Questo
potrebbe anche essere ragionevole se il dividendo lo dai ai soci di adesso ed emetti nuove azioni che si
compra qualcun altro quindi sposti dei soldi tra i nuovi azionisti ed i vecchi. Il vecchio azionista avrà una
diminuizione della propria quota perché se si prendono soldi da qualcun altro la propria quota d’impresa sarà
minore!
I tipi di dividendo possono essere:

 Normale in contanti. Si prevede di poterlo


mantenere in futuro significa che i dividendi in contanti
non vengono molto modificati quindi si cerca di tenerli
costanti ed abbastanza indipendenti dal valore
dell’utile. È chiaro che nella nostra mente in
un’impresa che funziona il dividendo ordinario è una
quota dell’utile e cioè uno fa un profitto ed una parte
del profitto la distribuisce all’azionista (payout). Ma
dato che non siamo sicuri del profitto che faremo
prudenza vuole che il dividendo generalmente sia basso
in rapporto all’utile e si cerca di matenerlo costante.
 Però è chiaro che se le cose vanno bene esistono i dividendi straoridnari. Una volta ogni tanto si
distribuisce eccezionalmente un esubero di liquidità. Questo avviene spesso in imprese come la
Microsoft che spesso distribuisce divdendi straordinari perché appunto l’andamento buono
dell’azienda consente di fare grandi distribuzioni ed anche perché può succedere che non ci siano
grandissime opportunità di nuovi business per chi ha eccessi di liquidità, a meno che non si cambi
settore ma abbiamo detto che per l’impresa la diversificazione non è una cosa particolarmente buona.
La diversificazione è buona per gli investitori ma non per l’azienda. A volte il dividendo
straordinario è uno strumento di acquisizione di imprese (il cosiddetto leveraged buyout). Il
leveraged buyout significa sostanzialmente acquistare una impresa anche di dimensioni 100 volte
superiori all’impresa di partenza (quindi il topolino che si compre l’elefante) attraverso
l’indebitamento come è successo nel caso di Telecom che è stata cannibalizzata da piccoli

149
imprenditori o da gruppi di imprenditori che hanno acquistato questo colosso delle
telecomunicazioni (fino a 20 anni fa di proprietà dello stato) semplicemente attraverso il debito.
Questo significa che i dividendi sono serviti a pagare il debito con cui le società venivano acquistate.
Significa proprio acquisto attraverso leva del debito.
 Un altro modo per dare i dividendi è il dividendo in azioni. In pratica è seguita da alcune società tipo
le assicurazioni generali che non da dividendi in cash ma ha una politica con cui fornisce soldi ai
propri azionisti attraverso aumento di capitale gratuito e cioè attraverso l’emissione di nuove
azioni che hanno il valore di borsa e che vengono date gratuitamente ai soci in proporzione
ovviamente alle proprie quote.
 Oppure parlavamo di buyback cioè l’impresa decide di acquistare le azioni dei propri soci e
naturalmente questo acquisto non è obbligatorio ma è una offerta di acquisto in cui l’azienda
propone ai soci di acquistare le azioni ad un certo valore e sarà poi l’azionista a decidere se venderle
o meno. Generalmente sono offerte molto convenienti cioè, se per esempio l’azienda è quotata 15 €,
l’offerta di riacquisto può essere 20/30 €.

Come abbiamo già detto o visto in qualche grafico, le aziende sempre più tendono ad utilizzare questa forma
del buyback cioè del riacquisto delle azioni che si accompagna al fatto che in effetti le aziende tendono ad
erogare sempre meno i dividendi. Allora uno dice… ma questo avviene perché invece che erogare dividendi,
ricomprano semplicemente le proprie azioni! Teniamo presente che una operazione di questo genere può
avere semplicemente dei motivi fiscali perché il riacquisto delle azioni per chi le cede da origine ad un
capital game cioè ho comprato a 10 e rivendo a 15 e vengo tassato sulla plusvalenza (ovvero a 15-10=5),
mentre se ottengo un dividendo quello è un reddito finanziario. Ma i paesi possono avere tassazioni diverse
dalle rendite finanziarie , quindi dai rendimenti degli investimenti piuttosto che dalle plusvalenze. Quindi le
imprese piuttosto che erogare dividendi ricomprano le azioni ma in realtà si vede che non c’è una grande
correlazione perché per esempio il buyback lo fanno le imprese che erogano anche i dividendi. Le
motivazioni addotte: segnalazione al mercato di prezzo delle azioni sottovalutato. Così come abbiamo
detto prima che l’aumento di capitale è un segnale che l’azione è sopravvalutata allora se io voglio far vedere
che l’azione la stanno sottovalutando si può fare che al posto di acquistarla a 15 la si acquista a 20/25, allora
l’impresa sta segnalando al mercato che questa azienda vale molto di più. Il problema è che questo potrebbe
essere connesso ad un discorso di stock option. Se io sono l’amministratore delegato di una società in cui il
mio compenso variabile è legato alle stock options e cioè, se l’azione va bene in borsa allora guadagno di più
che faccio? Bhe faccio un’azione di buyback, alzo il valore delle azioni e mi porto più soldi a casa. Quello
che si nota in generale è che l’annuncio di un buyback è molto positivo… ma va???? Come mai? Se
l’azione è quotata 15 e c’è l’annuncio di un buyback a 20 che succede? Tutti si andranno a comprare le
azioni perché l’impresa la paga 20. Quello che importa è che l’investitore guadagni di più. Ma c’è anche un
retropensiero comunque positivo e cioè che l’azienda per potersi permettere di fare una cosa del genere deve
stare proprio bene! Perché è ovvio che non è che fa un buyback e dopo due mesi ha un crollo finanziario,

150
andrebbero tutti in galera! Quindi se un’azienda eroga alti dividendi, fa buyback ecc ecc è comunque un
segnale importante che l’azienda sta bene.
Questo è un grafico che riporta la suddivisione delle
diverse forme di soldi ai soci. In sostanza la colonnina
complessiva è l’utile medio suddiviso tra dividendi e
riacquisto di azioni. Il riacquisto di azioni che è il secondo
segmento per ogni colonnina con il passare degli anni sta
crescendo come forma di remunerazione degli azionisti
rispetto i dividendi.

Da cosa dipende la decisione di distribuire o meno


i dividendi? Naturalmente ci sono diversi studi. I
principali sono stati stigmatizzati da Lintner (come
stabilire i dividendi).

 Una prima cosa dedotta dai dati è che in


genere le imprese si danno obiettivi di lungo
termine circa il rapporto tra dividendi ed utile.
Mediamente questa azienda deve arrivare a
distribuire il 20% di dividendi sull’utile. Se per
esempio l’utile è 100, devono essere erogati il 20%
di dividendi agli azionisti e sulla base di questa
idea di fondo si determina il valore dei dividendi.
 La maggiore concentrazione dei manager è
sulla variazione dei dividendi più che sul valore e
cioè quello che si analizza è che difficilmente i dividendi vengono cambiati in quota con leggerezza.
Generalmente si cerca di mantenere il livello percentuale dei dividendi abbastanza costante.
 Quando si variano i dividendi, quindi quando la politica dei dividendi cambia, è perché cambia in
generale un quadro economico generale (cambia una tecnologia, il tipo di mercato, le prospettive) e
allora si intravede che nel medio-lungo periodo cambierà la situazione di profittabilità dell’azienda.
 La riluttanza nel modificare i dividendi vale soprattutto perchè non si vuole tornare indietro. Una
cosa che si fa con molta difficoltà per una impresa che opera con i dividendi è non erogare dividendi
e cioè, se un’impresa è abituata a dare un rapporto dividendo-prezzo del 2-3-5% come per esempio
l’Enel di cui il maggiore azionista è lo stato che detiene il 30%. Lo stato all’inizio mantenne una
golden share della Telecom cioè nonostante lo stato non possedesse neanche l’1% delle quote aveva
comunque potere decisionale sulle attività della Telecom.
 Le imprese riacquistano azioni quando si accumula un eccesso di liquidità “indesiderata” non nel
senso che non piace ma intesa come “imbarazzante” da mantenere all’interno di una società. Questa
liquidità potrebbe trasformarsi in fondo di investimento e cioè in una società che amministra la
liquidità per conto dei propri soci che è un oggetto sociale non previsto generalmente dall’attività di
business dell’azienda. Oppure quandosi vuole modificare la struttura finanziaria dell’azienda
aumentando i debiti. Cosa vuol dire? Vuol dire che se io ho un certo grado di liquidità decido che
siccome ho un passivo (debito – equity 50 50) decido che voglio riposizionarmi su un debito - equity
70 30 quindi voglio avere più debiti che equity allora vado in banca, vado sul mercato
obbligazionario ed emetto delle obbligazioni, aumento la quota di debiti e questi soldi li do agli

151
azionisti. Così faccio un bel travaso di soldi tra creditori finanziari (obbligazionisti, banche) e soci. È
una manovra assolutamente lecita e si può fare! La motivazione quale può essere? Esiste un
beneficio fiscale in questa operazione. L’azionista è contento di questa operazione? Dipende! Non è
semplice questa risposta perché l’indebitamento va considerato nei suoi pro e nei suoi contro. Quello
che possiamo dire è che tipicamente una modifca della struttura finanziaria nell’ottica di aumentare i
debiti ha alcuni fattori positivi perché qualcuno può dire che si porta subito i soldi a casa mentre il
rendimento dei soldi investiti in azienda aumenta come vedremo per il fenomeno della leva
finaziaria secondo cui se io mi indebito, guadagno di più! Ma questo vale in certe situazioni. Il
debito però ha anche delle controindicazioni ma un’altra cosa positiva è l’effetto fiscale. Esiste un
beneficio tangibile per gli investitori nel pagare complessivamente meno tasse. Se io remunero i
creditori questo mi fa pagare meno tasse e quindi il costo del capitale costa meno perché pago meno
tasse. È chiaro che l’indebitamento ha una serie di problemi a cui bisogna stare attenti anche se i
premi Nobel alla base di questo argomento dicono che è indifferente anche se questa manovra è
indifferente con certe ipotesi.
Quindi il livello ottimale dei dividendi varia ma
distribuire alti dividenti è generalmente un fatto
positivo perché come ci diceva il prof chi si può
permettere di erogare alti dividendi è solo
un’azienda che sta bene. Il dividendo obiettivo alla
fine può essere espresso come un livello di payout
obiettivo cioè di rapporto dividendo- utile da
mantenere costante che anno per anno dovrebbe
essere declinato dal payout obiettivo moltiplicato
l’utile di quell’anno (Earnings per share).

Abbiamo detto che il buyback è un evento non


ripetuto, straordinario che sono due messaggio
che in realtà non sono troppo positivi alla base.
Perché io faccio il buyback? O perché io dei
soldi non so cosa farmene (perché non ho
investimenti a VAN positivo e quindi la teoria
della finanza ci dice che non dovrei mantenere
dei soldi al mio interno se non so cosa farne)
oppure per volontà di aumentare
l’indebitamento. Nonostante questi due
messaggi non siano molto positivi, gli azionisti
rispondono in maniera significativamente
positiva perché l’azionista capisce che non deve
tenerti troppa liquidità se non ne hai bisogno
oppure mi restituisci dei soldi che non usi per
benefit tuoi oltre al fatto di segnalare azioni o
sottovalutate (problema delle stock option) o fiducia nel futuro. Per esprimere maggiore fiducia nel futuro
vediamo che il management farebbe bene a dichiarare di non cedere le proprie azioni. Spesso però possiamo
leggere, come ha fatto Marchionne, di poter acquistare grosse partite di azioni della propria azienda. Se noi
siamo un azionista e sentiamo che l’amministratore delegato della Fiat ha speso soldi propri per acquistare
delle azioni della Fiat… cosa pensiamo? Ottimo! Per cui il prezzo delle azioni è uno strumento con cui si
segnala che l’azione è sottovalutata.

152
Ora veniamo alla domanda che ci stavamo ponendo:
la decisione sui dividendi che effetto ha sul valore
dell’impresa? La variazione del prezzo di borsa
dell’attività è una variazione di valore, quindi cosa si
può dedurre dall’andamento delle reazioni di borsa a
questi annunci? Come reagiscono? Ovviamente non è
facile perché bisognerebbe isolare questo fenomeno
dagli altri fenomeni di investimento/ finanziamento.
Quando vado a fare uno studio del genere questo
dipende dal mercato che sto selezionando ed in quale
periodo, per quanto tempo lo monitoro, che cosa
succede in quel periodo (se è una congiuntura di
recessione)… per cui è molto difficile fare studi di questo genere e quindi ci sono 3 scuole di pensiero. Le tre
scuole di pensiero che sono destra, sinistra e centro non sono delle fazioni politiche però anche nel campo
dell’economia c’è la parte più liberista e la parte più orientata al bene comune e meno all’individuo (questa è
la sinistra). Gli studi di economia sono studi prettamente anglosassoni e nella cultura anglosassone il
comunismo ed il socialismo proprio non esiste. La differenza può essere quella di proconcettazione e
prodiffusione di capitale. Secondo la destra, diciamo che se sono orientato a vedere nell’accumulo di
capitale, cioè nella ricchezza, un fatto positivo dico che l’aumento dei dividendi è un fatto positivo quindi le
azioni varranno di più e di conseguenza anche l’azienda varrà di più! La sinistra è un po’ più difficile in
questo caso perché, è vero che qui c’è un concetto un po’ stigmatizzato, dice che l’aumento dei dividendi è
un fatto negativo ma vedremo che in realtà si basa su concetti di stato tipo le imposizioni fiscali che
potrebbero giustificare, in alcuni casi, il fatto che l’aumento dei dividendi porti una riduzione del valore
dell’azienda. Qui incontriamo per la prima volta questi due signori che hanno inaugurato in maniera
scientifica tutti questi studi sulla struttura finanziaria che sono Modigliani e Miller. Modigliani e Miller
dicevano che anche sui dividendi, così come sull’indebitamento, che la politica dei dividendi così come la
politica dell’indebitamento in certe condizioni (in assenza di imposte, in assenza di costi di transazione e
altre imperfezioni di mercato) è indifferente e cioè non esercita una modifica del valore dell’impresa e quindi
non modifica il prezzo dell’azione.
Iniziamo proprio da questa considerazione
appena fatta: “in un mercato finanziario
perfetto (anche se perfetto non è il termine
adatto meglio dire con certe ipotesi), la politica
dei dividendi è ininfluente sul valore
dell’impresa”. Se si vuole incrementare il
dividendo senza modificare le politiche di
investimento e finanziamento supponiamo che
l’unica strada sia quella dell’emessione di
nuove azioni. Naturalmente se tutto è invariato
(investimenti, finanziamenti, ecc) succede che
se l’azionista vuole più soldi, quindi vuole
aumentare i dividendi, lo pagheranno i
sottoscrittori delle nuove azioni. Quello che si
ottiene è semplicemente un trasferimento di valore tra vecchi e nouvi azionisti ma le attività dell’impresa
sono cambiate? La redditività dell’impresa è cambiata? Per Modigliano e Miller il valore non può essere
cambiata in queste ipotesi! In sostanza, se prima del dividendo straordinario (dell’extra dividendo), sappiamo
il numero di azioni totali ed il valore di ogni azione e viene pagato anche un extra dividendo, succede che ci
sono nuovi azionisti. Ma se il valore dell’azienda è lo stesso succederà che l’azionista vecchio vedrà il valore
della propria azione essere ridotto. Sostanzialmente il valore dell’azienda non è cambiato.

153
Io posso pagare un terzo del valore con il
dividendo e raccoglierlo con una nuova
emessione. Banalmente, se mi trovo in un
mercato con informazioni perfette, dove non
esistono imposte e costi di transazione, l’unica
cosa che ottengo è questa e cioè in cambio del
dividendo i vecchi azionisti vedono ridursi il
valore delle proprie azioni. Quindi, la società
prende denaro dai nuovi azionisti e li paga ai
vecchi azionisti. Dall’altra parte, come vecchio
azionista, potrei vendere una certa quota di azioni
direttamente ai nuovi azionisti, quindi io come
società non faccio niente ma gli azionisti di fatto
se vendessero una parte delle proprie azioni ai
nuovi azionisti otterrebbero lo stesso identico
risultato.
Nel caso a sinistra, ottengo che il numero di
azioni aumenta ed il valore delle azioni
diminuisce ma il valore dell’azienda è sempre
lo stesso. Nel caso a destra invece, il numero di
azioni resta sempre lo stesso ed il valore delle
azioni resta invariato. Alla fine questa
operazione è una operazione identica alla
semplice cessione in cui l’impresa non fa
niente! E questo è lo stesso discorso che
facevamo prima quando parlavamo della
differenza tra buyback e dividendo. Con il
dividendo io mantengo lo stesso numero di
azioni ma il valore dlle azioni complessive che
fa? Se io pago (che è diverso da annunciare) un
dividendo straordinario agli azionisti, il valore
delle azioni e quindi il valore dell’impresa diminuisce perché si è ridotto il valore dell’impresa. Se
un’impresa paga un dividendo vuol dire che il suo attivo è diminuito perché ha pagato i dividendi così come
il passivo perché si è ridotta una quota di utili precedenti. Nel caso in cui, invece che erogare un dividendo,
compra delle azioni succede che il numero delle azioni non rimane uguale ma diminuisce mentre il valore
delle azioni apparentemente non cambia ma, avendo tirato fuori dei soldi, comunque si riduce. Il valore delle
azioni però nel caso dei dividendi scendeva (perché il valore dell’azienda diminuisce, il numero di azioni è lo
stesso quindi il valore dell’azione scende), mentre nel secondo caso, per lo stesso principio, il valore delle
azioni comunque scendeva perché l’azienda ha tirato fuori dei soldi riducendo il patrimonio netto mentre per
gli azionisti il numero di azioni è diminuito quindi il valore delle azioni rispetto al valore precedente varia
perché diminuisce (per il valore diminuito dell’azienda) ma aumenta perché le azioni in circolazione sono di
meno. Quindi il valore finale dipenderà da quanto sono diminuite le azioni e da quanto è diminuito il valore
dell’azienda. La risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio è un po’ complicata però ci dobbiamo
sempre chiedere cosa succede all’azienda perché il valore dell’azione è la stessa identica cosa del valore
dell’azienda. È dal valore dell’azienda che discendiamo al valore dell’azione dividendo il valore dell’azienda
per il numero di azioni. È chiaro che se varia il numero di azioni ci troviamo in una situazione un pochino
più complicata però partire dal valore dell’azienda ci consente di ragionare in maniera razionale e
ragionevole!

154
Quindi Modigliani e Miller dicono che la politica dei
dividendi è irrilevante e cioè non influenza il valore
dell’impresa. Gli azionisti, non sono disposti a pagare
prezzi più elevati perché l’impresa distribuisce
dividendi maggiori. Oggi non si discute sulla validità
o meno di questa tesi perché in quelle ipotesi in cui è
stata formulata questa tesi è sicuramente vero! Il
problema è che queste ipotesi, sono reali? Siamo in
un mercato in cui non esistono le imposte e costi di
transazione (il costo di transazione è il costo che
sosteniamo nel momento in cui noi paghiamo un
dividendo come per esempio i costi bancari,
simmetria informativa)? NO! È chiaro che ciascuna di
questa imperfezioni fa cadere il postulato di
Modigliani e Miller. Fermo restando che una politica dei dividendi non influenzi il valore dell’impresa, è
chiaro che se c’è una imposizione fiscale questa, mi va a modificare il costo del denaro a seconda che io
prenda dei soldi in prestito o meno e questo mi influenza il valore. Se io per chiedere soldi agli azionisti ho
dei costi elevatissimi mentre per andare in banca ho dei costi bassi, bhe questo influenza il valore
dell’impresa. Quindi si discute sull’effetto di queste ipotesi del modello di Modigliani e Miller sul valore
dell’impresa.
Ora vediamo cosa dice la corrente di pensiero che
invece, asserisce che avere alte politiche di
dividendo influisce sul valore dell’impresa. Come
misuro questa influenza sul valore dell’impresa?
La misuro attraverso l’analisi del prezzo
dell’azione. A parità di condizioni, vedo che due
aziende che fanno lo stesso business in cui una
impresa eroga dividendi e l’altra no, se monitoro il
prezzo nel tempo (supponendo di poter isolare tutti
gli altri fenomeni di investimento, finanziamento
ecc) e vedo che esiste una platea di investitori che
per motivi psicologici, fiscali e altro, se l’azienda
eroga più dividendi sono più inclini ad acquistare
quel titolo rispetto ad un'altra impresa e quindi
questa attività varrà di più perché più gente sarà disposta a comprare quei titoli. Meglio ricevere regolari
dividendi come fonte stabile di reddito come gli investitori anglosassoni che investono il proprio partimonio i
titoli che gli danno delle rendite, per cui sono sensibili alla rendita. Ciò non significa che una qualunque
impresa possa trarre beneficio dall’aumento dei propri dividendi questo perché il mercato è ampio, perché gli
effetti non sono solo quelli dell’aumento del dividendo ma ci sono tante componenti come il tipo di
management,la storia dell’impresa, le prospettive future, ecc.
Comunque un aumento dei dividendi costituisce
sempre una buona notizia perché si fa generalmente
un passo in avanti. Quindi se un’azienda eroga un
aumento dei dividendi tendenzialmente la comunità
finanziaria si aspetta che questa cosa possa essere
mantenuta nel tempo e, siccome la comunità
finanziaria ha memoria se una impresa si gioca la
reputazione la sconta nel futuro (perché questo
segnala il buon andamento dell’impresa)!

155
Cosa posso dire al contrario? Possibile che un aumento dei
dividendi mi porti una riduzione del valore e del prezzo?
Per esempio, se i dividendi sono maggiormente tassati del
capital gain (che fino a qualche anno fa non era proprio
tassato) allora è chiaro che io preferisco non avere una
rendita finanziaria su cui devo pagare il 12,5% rispetto ad
un guadagno sul capital gain in cui acquisto una azione a
10 e la rivendo a 12 senza alcun tipo di tassazione. È chiaro
che è meglio investire in una società che non eroga
dividendi ma che mi consente di capitalizzare attraverso la
vendita delle azioni (che ieri valevano 100 ed oggi valgono
120) senza tasse! Ovviamente deve valere il presupposto e
cioè che i dividendi devono essere maggiormente tassati
del capital gain cosa che in certi mercati come l’Italia esisteva fino ad un po’ di tempo fa.
Il discorso della tassazione apre a considerazioni
anche molto complesse che dipendono dal sistema di
tassazione dei diversi paesi. Non è facile misurare
l’effetto delle imposte anche per questo motivo.
Oggi che cosa sta succedendo? Che si tende ad avere
una tassazione equivalente su tutte le rendite
finanziarie ed anche su quelle del capital gain per cui
alla fine per l’impresa risulta sostanzialemente
indifferente erogare o non erogare dividendi ma risulta
più importante la propensione del risparmiatore ad
avere o non avere un dividendo.

Ci sono, soprattutto negli U.S.A., imprese esenti da


tassazione sui dividendi o sul capital gain. Ci sono
fondi di investimento (in particolare su certi mercati
etici, sostenibili) che hanno diritto di non essere
tassati su alcune forme. E allora è chiaro che se c’è
una propensione su una delle due situazioni, il
mercato si sposterà in quel senso. Questa è l’unica
giustificazione plausibile del discorso in cui
dicevamo che i dividendi potevano diminuire il
valore dell’azione (in sostanza dipende fortemente
dalla tassazione). Se la tassazione privilegia altre
forme di remunerazione ovviamente erogare
dividendi, per il risparmiatore, è negativo perché
pagherebbe tasse che in qualche altro modo protrebbe non pagare. Alcune imprese pagano alti dividendi per
avere (non ho capito la parola che ha detto ma credo di aver capito investitori) sofisticati come azionisti
perché alcuni investitori istituzionali che per esempio sono esenti dalla tassazione sui dividendi, possono
volere dei dividendi e allora in questo caso l’impresa è orientata ad erogare alti dividendi. Negli USA, ma
anche in Italia avviene che la tassazione la abbiamo 2 volte perché noi siamo tassati dopo che l’impresa è già
stata tassata. L’impresa viene tassata al 30-35% e poi c’è un’imposizione sul reddito (12,5% che ora
dovrebbe essere diventato il 20%).

156
Invece ci sono paesi come l’Australia, in cui la
tassazione è unica per cui se noi percepiamo un
reddito da impresa, la nostra tassazione sconta il
valore che ha già pagato l’impresa. Se l’impresa
paga il 30% di tasse, per cui l’utile da 100 diventa
70, e poi decide di erogarlo ai soci a seconda di
quante tasse paga il socio, allora viene tassato. Se
per esempio il socio paga il 30% di irpef alla fine
non pagherà tasse. Se paga il 47% di tasse allora
deve aggiungere solo il 17%. Se lui paga solo il
15% di tasse, gli viene rimborsata una parte delle
tasse che ha pagato l’impresa. Dipende dal tipo di
tassazione in ogni paese.
Nei sistemi orientati ai mercati, la politica dei
dividendi è abbastanza conservatrice e cioè il
dividendo è particolarmente importante come nei
sistemi anglosassoni. Nei sistemi orientati agli
intermediari come in Italia, Giappone ecc un po’
meno. Quello che avviene a seconda dei settori è
abbastanza simile. I settori con maggiori dividendi
(growth incomes) sono quelli da cui sei abituato ad
avere dividendi e solo quello perché non hai
grande movimento di capitale. Dove invece il
settore è in grande evoluzione, in genere, i
dividendi sono bassi perché le risorse sono
utilizzate per gli investimenti.

Si può vedere come spesso gli


ultimi utili possono essere anche
molto negativi… ma i dividendi
ci sono sempre! Possiamo vedere
che negli anni 2000 sono
aumentati ma comunque sono
abbastanza costanti anche
quando gli utili sono negativi.
Varia molto poco!

157
Nella slide riportata si può notare la costanza
dei dividendi. I dividendi non si muovono.
Aumentano o diminuiscono o vengono
eliminati molto molto raramente.
L’incremento è molto frequente ma il
decremento è raro.

In questa slide si può vedere


come per esempio, in Italia il
rendimento da dividendo è
mediamente molto basso
mentre il rendimento da capital
gain è più elevato. Però dagli
ultimi 6-7 anni questo sta
cambiando molto. Da sempre si
dice che l’investimento in borsa
nel mercato italiano è da
cassettisti cioè da investitori
che nel tempo accumulano
denaro attraverso l’aumento del
valore dell’azione. Ormai
l’Italia è in un periodo a
crescita 0!

158
C’è anche una slide che ci dà qualche
riferimento sulla politica fiscale dopo
le riforme Visco e Tremonti in cui
c’è la differenza tra la tassazione per
chi ha una partecipazione qualificata
o non qualificata e cioè sopra o sotto
il 20% delle azioni non quotate e il
2% delle azioni quotate. Comunque
la sostanza è che si va verso una
neutralità fiscale fra il dividendo e
l’aumento del valore dell’azienda
cioè la plusvalenza da capital gain.

159
21 Maggio 2015
In questa lezione cominceremo l’ultimo argomento di finanza in cui parleremo di struttura finanziaria, cioè
della parte destra dello stato patrimoniale e cioè le fonti finanziarie.
Nelle scorse due lezioni abbiamo parlato
fondamentalmente di equity, cioè di patrimonio netto,
la parte di finanziamento propria dell’impresa, invece
in queste ultime due lezioni parleremo della fonte di
finanziamento che chiamiamo deficit cioè quelle
risorse finanziarie che provengono da creditori, da
banche, da istituzioni finanziarie, ma anche
risparmiatori oltre che fornitori, che finanziano
l’impresa con la prospettiva di ottenere un
rendimento da questo prestito che viene restituito nel
tempo.
Come abbiamo visto la volta scorsa, quando abbiamo
parlato di dividendi, il principale riferimento di questo tipo di studi sono ancora una volta Modigliani e
Miller, che negli anni ’60 hanno aperto una strada di studi che ancora oggi rappresenta un caposaldo dei
ragionamenti che la comunità finanziaria fa’ sull’aspetto della struttura finanziaria.
Ci siamo posti la domanda sul valore dell’impresa, cioè se l’impresa distribuisce più o meno dividendi, il
valore dell’impresa cambia?
La domanda di oggi è molto simile e riguarda la struttura finanziaria, cioè se l’impresa si indebita cambia il
valore dell’impresa? Cioè, data una certa impresa con certi beni e immobilizzazioni, se questa impresa si
finanzia attraverso equity quindi solo apporto di risorse finanziarie dei soci, oppure si finanzia al 99,9%
(almeno uno 0, 1% ci deve essere di equity altrimenti l’impresa non esisterebbe) solo attraverso debiti,
influisce sul valore dell’impresa?
Da questa domanda nasceranno poi tutta una serie di considerazioni cioè degli aspetti che influenzano in
qualche modo il valore delle imprese.
Ripetiamo ancora una volta che nella valutazione
degli investimenti nessuno si occupa in prima
analisi di considerare le fonti di finanziamento,
quello che è importante è considerare le
caratteristiche dell’attività economica quindi gli
investimenti, i beni, le attività di vendita, i costi
che bisogna sostenere per produrre e vendere quel
prodotto/bene/servizio e vedere se quei costi
tornano e cioè se i guadagni che vengono realizzati
attraverso l’attività economica vanno a coprire gli
investimenti iniziali. In genere c’è l’investimento
iniziale ma nessuno si preoccupa di chiedere come
questo investimento iniziale è stato fatto, chi ha
messo i soldi; questo non è influente, non interessa
a nessuno questa cosa.
In finanza si dice: se c’è un’attività redditizia, i soldi si trovano sicuramente perché di risparmiatori in giro
per il mondo ce ne sono milioni se non miliardi. Quindi non ci si preoccupa in prima battuta dei
finanziamenti dell’investimento, ma è anche vero che in seconda battuta ci si preoccupa perché poi alla fine
per realizzare questa attività economica, i soldi bisogna trovarli.

160
A questo punto ci sono due considerazioni:
1) A seconda del tipo di risorse finanziarie che troviamo, cambia il valore dell’impresa? Cambia il
valore dell’attività economica?
2) Ci poniamo il problema di trovare i soldi, perché è chiaro che esistono le banche, gli operatori
finanziari che prestano denaro, ma esistono anche delle possibilità di ottenere denaro per esempio a
tassi agevolati in certe regioni; esistono dei finanziatori tipo venture capital o business angels ecc.
insomma esistono una serie di finanziatori che possono procurare denaro ad un costo particolare.

Già possiamo intuire che il finanziamento avrà un suo effetto su questo business plan, ma perché?
Supponiamo che finora ci siamo preoccupati soltanto di costruire un business plan in cui alla fine avremo
forse un investimento inziale, dei ricavi e dei costi, per vari anni.
Quindi ci preoccupiamo di fare un’attività economica che abbia un VAN positivo, giusto? E quindi perché il
finanziamento potrebbe sicuramente impattare su questa valutazione?

Quando facciamo il flusso di cassa di un business plan, mettiamo gli oneri finanziari?
No, non li mettiamo perché chi ha detto che dobbiamo indebitarci? Non abbiamo ancora deciso quali sono le
risorse finanziarie che dobbiamo utilizzare nel nostro business plan, quindi non dobbiamo farlo.
E allora dov’è che impatta la decisione di prendere un finanziamento o meno sulla valutazione degli
investimenti o sul VAN?
Abbiamo detto che il VAN è una sommatoria di flussi di cassa o più semplicemente di conti economici
(ricavi e costi) negli anni, attualizzati, con un tasso di attualizzazione che è un costo opportunità del capitale
e che serve a rendere omogenee somme di denaro riferite a periodi diversi.
Dato che il capitale ha un suo rendimento, 1000€ adesso non sono uguali a 1000€ fra 3 anni, perché se noi
investiamo 1000€ oggi, tra 3 anni saranno 1100€ , quindi 1100€ fra 3 anni sono uguali a 1000€ adesso
1100
perché = 1000€.
1.053

Ma questo costo opportunità del capitale che cos’è? È un rendimento del denaro nel tempo che ci consente
appunto di fare questa equivalenza.
Ma se a noi il capitale ci costasse l’1%, intuiamo che la cosa possa cambiare perché se noi il capitale non ce
l’abbiamo al costo del 5% ma al costo dell’1% o addirittura gratis e non ha un suo costo opportunità del
capitale neanche se ce lo danno gli azionisti, la valutazione dell’investimento cambia perché quando andiamo
ad attualizzare i flussi estremizzando i 1100€ rimangono 1100€ quindi guadagniamo di più perché non
diventano 1000€.

Quindi intuiamo che in qualche modo il finanziamento può avere un effetto sulla valutazione
dell’investimento perché va se non altro a modificare il costo opportunità del capitale.
Se in prima battuta non consideriamo gli oneri finanziari perché non ci preoccupiamo di chi mette i soldi, se
è la banca che costringe a mettere degli oneri finanziari o i soci che non costringono a mettere degli oneri
finanziari ma magari vogliono che diamo loro dei dividendi, ovviamente stiamo mettendo delle informazioni
aggiuntive che vanno a modificare poi l’attualizzazione dei flussi di cassa.
In questo senso quindi intuiamo che una qualche influenza ci sia.

161
Struttura finanziaria: cos’è?
La struttura finanziaria è l’insieme di
titoli di debito e di capitale proprio
con cui l’azienda finanzia i propri
investimenti.
Esiste un problema di marketing per
il direttore finanziario che cerca di
far sì che l’azienda emetta un
insieme di titoli che possono essere
appetibili per l’investitore e che
quindi massimizzi il valore di
mercato delle imprese. C’è un altro
problema: il management fa gli
interessi degli azionisti? Problema
che per il momento trascuriamo.
Se l’impresa può finanziarsi
attraverso titoli azionari/titoli
obbligazionari/mutui e quant’altro, il dubbio viene e cioè come siene modificato il valore dell’impresa in
base alle modalità con cui l’impresa si finanzia?
Modigliani e Miller hanno quindi costruito questo primo postulato o proposizione: il valore di un’azienda
non dipende dalla struttura finanziaria. Questa frase sembra apparantemente tranquilla, ma perché ci
dovremmo aspettare che il valore di un’impresa non dipenda dal fatto che i soldi del finanziamento li prenda
dai soci o per esempio da una banca?
Il ragionamento che sta alla base è che se un’azienda fa’ una certa attività quindi ha degli impianti, un
capannone, materie prime, fa’ delle lavorazioni, produce dei prodotti, li vende ai clienti ecc. tutto questo cosa
c’entra con dove ha preso i soldi?
Quindi il valore dell’azienda dipende dal valore dell’attivo, che poi è anche il valore del passivo, ma il valore
dell’attivo non dipende da come il passivo è formato fra risorse proprie e debiti.
Dunque il punto di partenza è proprio questo: l’impresa vale per quello che ha in termini di assets (beni) e
per l’attività economica che svolge.
Il valore dell’impresa non dipende dalla struttura finanziaria ma naturalmente in certe ipotesi e cioè in ipotesi
di un mercato dove non si considerano le imposte, dove ci sia una simmetria informativa quindi una
trasparenza e una diffusione delle informazioni complessiva e in particolare in un mercato di capitali
totalmente semplice dove chiunque può andare a chiedere dei soldi e questi soldi gli vengono dati allo stesso
tasso di interesse.
ATTENZIONE che Modigliari e Miller parlano di valore dell’impresa in maniera un po’ diversa da come
finora l’abbiamo inteso.
Quando noi parliamo di valore di un’impresa in genere noi intendiamo il valore dei soci, cioè ci poniamo la
domanda: se dovessimo comprare quest’impresa quanto varrebbe?
In questo caso per valore dell’impresa si intende invece il valore totale dell’attivo e quindi non solo il valore
degli azionisti ma anche il valore degli azionisti+ il valore degli obbligazionisti cioè il totale del valore dei
titoli di equity e debito.
Si parla quindi di valore dell’impresa intendendo equity+debito o se vogliamo valore dell’intero attivo.
Bisogna perciò fare attenzione a questo cambio di prospettiva quando si parla di indipendenza del valore di
un’azienda dalla struttura finanziaria.

162
Nella slide si vuol dire che massimizzare il
vaore del mercato V dell’impresa inteso
come somma di equity e debito, massimizza
anche la ricchezza degli azionisti E.
Cioè se vogliamo massimizzare il valore dei
beni dell’impresa, comunque
massimizziamo anche il valore per gli
azionisti, perché non è che massimizzando il
valore degli asset di un’impresa
massimizziamo il valore degli
obbligazionisti e non quello degli azionisti.
Si massimizzano le ricchezze in generale.
Facciamo un esempio:
abbiamo 1000 azioni a prezzo di mercato
50€, quindi l’equity vale 50000; il debito
vale 25000 quindi il mercato stima il valore dell’impresa, degli asset, pari a 50000 (prezzo delle azioni) +
25000 (obbligazioni) = 75000€.
Che succede se l’azienda pensa per esempio di indebitarsi per 10000 e distribuire un dividendo straordinario
di 10?
Il debito passa da 25 a 35; che succede al valore dell’impresa? Il valore dell’impresa è sempre dato dalla
somma di equity e debiti, allora il prezzo di mercato delle azioni era 50 ma con l’aumentare del debito sarà
cambiato il valore dell’impresa?
Se sono mosse finanziarie volte a modificare la struttura finanziaria dell’azienda ma alla fine l’azienda
rimane sempre quella, cioè se l’attivo rimane quello, ovviamente il valore dell’impresa non cambia.
Cosa può essere successo? Le attività delle imprese sono rimaste le stesse e V sarà sempre 75000, quindi
quello che ci aspettiamo è che l’equity sarà diminuito perché gli azionisti avranno già ottenuto il rimborso di
15000, per cui i soldi che hanno incassato alla fine vengono meno in termini di valutazione delle loro azioni.

Ma se V per caso fosse aumentato, gli


azionisti avrebbero guadagnato. Se di
quei 10000 per esempio non fossero
stati versati tutti dividendi ma una
certa quota fosse rimasta in capo
all’azienda, allora sì che l’attivo
sarebbe cambiato perché la cassa fa
parte dell’attivo. Quindi il valore
dell’azienda cambia e quindi sarebbe
aumentato anche l’equity.
Ovviamente ci sono ipotesi alla base
(legge slide).

163
Quali sono le ipotesi che abbiamo
detto in cui i modelli di Modigliani e
Miller stabiliscono i loro assunti di
base? Le ipotesi principali sono
queste:

 Assenze di imposte
 Assenza di costi del dissesto,
cioè si fa un ipotesi in cui man mano
che il debito aumenta non ci sia un
incremento di costi legato alla
possibilità di fallimento
 Assenza di asimmetrie
informative
 Assenza di effetti sugli
incentivi del management

È chiaro che su queste ipotesi che molto spesso non sono realistiche, si lavora per capire come la presenza di
imposte, la presenza di costi di fallimento, la presenza di incentivi al management (come le stock option) o la
presenza di asimmetrie informative ecc. influenzano il valore delle imprese.
Un esempio: L’azienda Macbeth
La prima ipotesi è 100% capitale
netto, l’azienda è interamente
finanziata dai soci, quindi niente
debiti.
Il numero delle azioni è 1000 e il
prezzo di mercato è di 10€; quanto è
capitalizzata questa azienda? Quanto
vale? 10€ x 1000 = 10000€, dunque il
valore di capitalizzazione o valore di
mercato del capitale netto è di
10000€.
Il risultato atteso dell’azienda è
quello di avere un reddito operativo
pari a 1500, questo significa che
1500
l’utile per azione è 1000
= 1,5 quindi
1,5
il rendimento delle azioni è pari a (il rendimento è sempre uguale ad un guadagno diviso un acquisto)
10
= 15%.

È chiaro che se l’azienda guadagna di meno o di più il rendimento ovviamente cambia, ma noi supponiamo
che quello sia il rendimento atteso.

Che cosa ci aspettiamo se la stessa azienda invece che essere finanziata interamente da capitale netto fosse
finanziata da 50% di capitale netto e 50% di debiti? Cosa succede?

164
Il numero di azioni è 500, il prezzo delle
azioni rimane di 10€ quindi il valore di
mercato del capitale netto risulta 5000€ e
il valore di mercato del debito 5000€.
Quindi il valore dell’impresa alla
Modigliani Miller è sempre lo stesso,
dove per valore dell’impresa intendiamo
la somma dell’equity e del debito, cioè il
valore degli asset, è sempre 10000 ma
formato da 5000 + 5000.
Andiamo a vedere il risultato.

Il risultato dipende da come l’impresa


viene finanziata?

Il reddito operativo no, perché non è altro


che (Ricavi- Costi) prima delle imposte della gestione finanziaria, perciò 1500 rimane sempre 1500€. Però in
questo caso abbiamo degli oneri finanziari quindi prima di calcolare il reddito che va nelle tasche degli
azionisti, dobbiamo togliere il reddito che va agli obbligazionisti, quindi 1500- 500 (che è la remunerazione
del capitale di debito che prima non c’era perché non avevamo debiti) = 1000€.
Il reddito delle azioni quindi è 1000, mentre prima era 1500€; però ora le azioni sono 500 e non più 1000
1000
come nel caso precedente quindi l’utile per azione è = 2€.
500
2
Il rendimento dell’azione è cioè utile/prezzo = 20%.
10

Alla luce di quanto detto, l’azienda indebitata guadagna di più o di meno? (ATTENZIONE ALL’ESAME: ci
sta chiedendo dell’impresa e non dell’azionista).
Se ci riferiamo quindi in generale all’impresa, una risposta che potremmo dare a questa domanda è che il
reddito operativo è lo stesso perché il reddito operativo è indipendente dalle fonti di finanziamento.
Oppure per capire se l’impresa guadagna di più o di meno andiamo a guardare l’utile netto e in questo caso
vediamo che guadagna di meno perché ha dovuto rimborsare il debito, mentre l’azionista guadagna di più.
Quindi vediamo che se l’azienda si indebita, l’azionista guadagna di più e questo avremmo potuto già saperlo
perché abbiamo studiato che esiste la leva finanziaria che è appunto questa.

La leva finanziaria dice che il rendimento dell’azionista (dell’equity) aumenta all’aumentare


dell’indebitamento, infatti abbiamo visto che il rendimento delle azioni è diventato il 20%.

Riassumendo: due aziende che fanno la stessa identica cosa, una indebitata e l’altra non indebitata,
ovviamente a livello operativo guadagnano alla stessa maniera, però, per quanto riguarda le remunerazioni
delle fonti di finanziamento nel caso dell’indebitamento, pur rimanendo meno nelle tasche dell’azienda alla
fine perché deve pagare i debiti, fa’ guadagnare di più gli azionisti in termini di tassi di interesse.
Cioè per chi fortunatamente ha comprato quelle azioni a 10€, si ritrova il 20% di rendimento.

165
La cosa fondamentale però di Modigliani e Miller è che di fronte a questo quadro, come facciamo a dire che
il valore dell’impresa è lo stesso nei due casi se per esempio per l’azionista indebitarsi vuol dire guadagnare
di più?
Cioè Modigliani e Miller si
chiedono: se l’azionista
guadagna di più quando
l’azienda si indebita, perché non
dovrebbe correre a comprare le
azioni di quell’azienda e quindi
far valere di più l’azienda?
Se chi compra quell’azione
guadagna di più se l’azienda è
indebitata, vuol dire che se ho
tutte e due le opzioni a 10€,
andremo a comprare l’azione
che rende di più (tra una che
rende il 15% e una il 20%,
scegliamo la seconda).
Però se non vogliamo che la nostra azienda si indebiti, anziché chiedere soldi alla banca glieli diamo noi e se
non dovessimo averli li andiamo a chiedere noi alla banca. Quindi l’azianda anziché indebitarsi chiede ai
soci i soldi.
I soci prendono i soldi dalla banca e supponendo che la banca glieli dia, succede che le altre 500 azioni le
fnanziano i soci attraverso il proprio indebitamento.
Alla fine succederà che l’azionista avrà in mano due azioni, cioè secondo l’opzione C (vedi slide) quell’1,50
di earnings per share sarebbe quindi 3, perché sono due le azioni in possesso.
Invece che togliere gli oneri finanziari dell’azienda, il socio deve togliere gli oneri finanziari personali cioè
gli interessi che deve pagare l’azionista alla banca per il prestito che gli ha fatto. L’utile netto
dell’investimento è sempre 20 e quindi il rendimento è sempre il 20%.

Attraverso questo esempio, si dimostra che contrariamente a quello che poteva sembrare e cioè al fatto che
l’azienda indebitandosi facesse guadagnare di più gli azionisti, perché effettivamente esiste questo effetto
leva per il quale l’indebitamento fa’ guadagnare di più l’azionista e lo porta a un rendimento del 20%, questo
è indifferente per l’azionista perché quest’ultimo può benissimo trovare i soldi da solo e conferire lui i soldi
all’azienda, pagarsi lui gli oneri finanziari e quindi non ha motivo di correre ad acquistare l’azione di
quell’azienda che si indebita perché l’indebitamento lo può fare pure lui.

Assomiglia un po’ al discorso della diversificazione che abbiamo visto, cioè non è l’azienda che si deve
diversificare per mitigare i rischi per i propri azionisti, ma è l’azionista che deve diversificare i propri
investimenti su diverse aziende ciascuna delle quali deve fare il proprio lavoro.
Lo stesso discorso va fatto sul fronte del finanziamento: l’azionista non è che corre a comprare azioni di
un’impresa che si indebita per fare effetto leva e per far guadagnare di più l’azionista; se l’impresa vuole
crescere può benissimo chiedere soldi agli azionisti, gli azionisti se non li hanno si indebitano e guadagnano
di più attraverso la crescita dell’impresa.

Questo è il motivo principale per cui l’indebitamento delle aziende, secondo Modigliani e Miller, non è un
fattore che modifica il valore dell’impresa anche per gli azionisti, nonostante guadagnino di più per l’effetto
leva.

166
In sostanza, la prima proposizione di Modigliani e Miller dice: se i mercati dei capitali svolgono una corretta
funzione, quindi in particolare in questo
caso concedono finanziamenti,
le imprese non possono accescere il
proprio valore modificando il rapporto di
indebitamento. Non è accrescendo
l’indebitamento o riducendolo che gli
azionisti o gli obbligazionisti correranno
ad acquistare i titoli di quell’impresa a
parità di altre situazioni, come al solito in
assenza di imposte, in assenza di costi del
fallimento, in assenza di asimmetrie
informative, in assenza di incentivi al
management ecc. Quindi il valore
dell’impresa, inteso come valore degli
asset dell’impresa, è indipendente dalla
struttura finanziaria, dall’indebitamento.
Ricapitoliamo: prima proposizione di
Modigliani e Miller serve a riflettere che l’indebitamento in teoria, cioè sotto certe ipotesi che poi
influenzeranno invece la tesi, non influenza il valore complessivo dei beni dell’impresa.

Vediamo ora le implicazioni di questa tesi sui rendimenti:


abbiamo che la struttura che utilizza solo
capitale netto abbiamo detto ha un utile
per azione di 1,50 e un rendimento del
15%, invece la struttura proposta con
debito= capitale ha un utile di 2 e un
rendimento del 20%.
Abbiamo detto che la leva finanziaria cioè
l’indebitamento aumenta l’utile per azione
ma non il prezzo, perché il socio può
benissimo andarsi a finanziare da solo,
non soltanto, la variazione degli utili
attesi è compensata dall’attualizzazione di
questi utili.
Quest’ultima cosa vuol dire che
all’aumentare del rendimento aumenta
anche il rischio (ricordiamoci la teoria del
portafoglio). Quindi sì è vero che sta aumentando il rendimento, ma questo significa che sta aumentando
anche il rischio e infatti sta aumentando l’indebitamento, cioè il rischio di insolvenza dell’azienda.

Ricordiamoci quali sono i rendimenti chiave:

Reddito operativo
 ROI = tot.attivo (cioè il totale degli asset)
Utile netto Earnings per share
 ROE = rendimento dell’equity, degli azionisti = =
equity prezzo dell′azione
Costo dell′ indebitamento
 ROD = rendimento dell’indebitamento =
ammontare del debito D

167
Questi tre indici ROI (oppure rA ), ROE
(o rE ) e ROD (o rD ) sono importanti e
sono legati tra di loro.
Il primo è il rendimento delle attività,
quindi è come se fosse il rendimento del
totale dell’attivo, ma dato che l’attivo è
uguale al passivo, il rendimento dell’attivo
dev’essere ovviamente uguale al
rendimento del passivo, ma il passivo da
equity e debiti, quindi è chiaro che il
rendimento dell’attivo è una somma
ponderata del rendimento del passivo.
Ponderata per le quantità di equity e di
debiti.

Il costo medio ponderato del capitale,


WACC (ROI o rA ), sarà uguale alla media pesata dei rendimenti del debito e dell’equity, pesata attraverso
la quantità di debito e la quantità di equity.

Quindi da un lato il ROI è un rendimento


tipico che dipende dai valori dgli asset,
dall’altro lato però lo possiamo ottenere sul
fronte del passivo come media pesata dei
rendimenti delle fonti di finanziamento.
Da questa media ponderata possiamo
calcolare il rendimento dell’equity, cioè il
rendimento degli azionisti quindi questo rA
è il rendimento per l’impresa per il fatto
che l’impresa ha certi beni e li utilizza nella
sua attività economica ma può essere
utilizzato per calcolare il rendimento
dell’equity.

(Vedere formula nella slide) Facendo le dovute operazioni viene fuori la formuletta della leva finanziaria e
quindi che il rendimento dell’equity (rE ) è dato dal rendimento dell’attività economica dell’azienda, quindi
fondamentalmente dal ROI (rA ), più una certa quantità che dipende proprio dalla struttura finanziaria.
Cioè ci rendiamo conto che l’azionista guadagna di più quando l’azienda è più indebitata e cioè
all’aumentare del debito.
Più l’azienda si indebita, più il rapporto debito/equity aumenta e più l’azionista guadagna; questa è la leva
finanziaria; l’azionista guadagna di più, a parità di altre condizioni, se l’azienda va a chiedere più soldi alle
banche rispetto se li chiedesse agli azionisti.

Dalla semplice equazione nella slide deduciamo una condizione matematica che rA (ROI) sia > di rD
(costo del denaro), che in termini semplici significa che abbiamo un’attività che rende il 10% e
andiamo a prendere per farla funzionare del capitale al 5%.
Se l’attività ci rendesse il 10% e la banca ci chiedesse il 15%, andremmo a chiedere dei soldi? Non
converrebbe, perché distruggiamo sicuramente valore.
Questo per dire che l’effetto leva vale a condizione che il rendimento dell’attività renda più di
quanto costa il capitale preso in prestito.
168
È come se l’azionista guadagnasse il rendimento dell’attività più quella quota di debito che influisce
sul fatto che prendiamo un capitale ad un costo inferiore rispetto al rendimento dell’attività
economica dell’azienda.
Qual è il rischio? Il rischio è che quando ci indebitiamo i rendimenti sono questi, ma dopo un anno
o questo sale o questo scende e ci troviamo nei guai. Il rischio è che poi alla fine non facciamo più
quel reddito operativo che pensavamo e quindi l’azienda non renda più quello che credevamo che
aveva fatto fino a quel momento e non crea neanche le risorse finanziarie necessarie a pagare il
debito.
Comunque, l’rE aumenta al crescere della leva.

II proposizione di Modigliari e Miller:

il tasso di rendimento atteso delle


azioni di un’impresa indebitata
aumenta in proporzione al rapporto
debito/equity espresso a valori di
mercato.
Quindi la prima proposizione ci
dice che il valore dell’impresa è
indipendente dalla struttura
finanziaria, mentre la seconda
proposizione ci dice che gli
azionisti guadagnano di più se
l’azienda si indebita.

DOMANDA POSSIBILE ALL’ESAME: Le due proposizioni sembrerebbero in contrapposizione, perché


la prima proposizione ci dice che il valore dell’impresa non cambia se ci indebitiamo o no, mentre la seconda
dice che l’azionista guadagna di più se l’azienda si indebita. Mi fai capire bene questa apparente enorme
contrapposizione?

La contraddizione in realtà non esiste: la prima proposizione afferma che la leva finanziaria o la struttura
finanziaria o l’indebitamento non ha effetto sul valore dell’impresa intesa come valore degli asset (equity+
debiti), la seconda proposizione dice che il tasso di rendimento degli AZIONISTI aumenta con la leva
finanziaria, cioè stiamo andando dentro le fonti di finanziamento, non parliamo più di valore dell’impresa.
Quindi nella seconda proposizione ci stiamo preoccupando di una parte di risorse finanziarie e non del valore
complessivo dell’impresa.

ALTRA POSSIBILE SUCCESSIVA DOMANDA: quindi agli azionisti conviene che l’impresa si
indebiti?
A questa domanda la prima proposizione non sa dare nessuna risposta, anche se in realtà si è visto che
all’aumento del valore dell’impresa corrisponde un aumento del valore dell’equity, ma non c’entra niente
con i rendimenti perché il fatto che l’azionista guadagni di più se l’impresa si indebiti (che è un fatto vero e
l’abbiamo dimostrato con la seconda proposizione) è controbilanciato da una serie di cose e cioè l’azionista
si può indebitare da solo, aumentano i rischi e quindi non è vero che l’azionista è contento a prescindere che
l’azienda si indebiti per farlo guadagnare.
Anche in tutto questo costrutto di ipotesi che ci sono, pur trascurando gli effetti benefici sulle imposte ecc.
ecc. comunque l’azionista non è di per sé contento (quindi non pagherebbe di più per comprare azioni di

169
quell’impresa) se l’azienda si indebita. Non c’è bisogno che l’azienda si indebiti, se vuole crescere i soldi
glieli possiamo dare noi azionisti e comunque se l’azienda si indebita aumentano anche i rischi.

Abbiamo visto nel nostro caso che


quando l’impresa non è indebitata,
D = 0, quindi rE = rA cioè rE =
ROI = 15%; nell’azienda
indebitata invece l’rE vien fuori
proprio dalla formuletta nella
slide, cioè se prendiamo denaro
che costa il 10% e lo investiamo
in attività che rendono il 15%
otteniamo un premio sull’rA da
15% al 20%, quindi gli azionisti
guadagnano di più se l’azienda
si indebita

Ma abbiamo detto un po’ qualitativamente che questo significa maggior rischio, perché?
Guardiamo cosa succede se il reddito atteso anziché essere 1500 diventa 500 nelle due situazioni:

per l’azienda non indebitata, solo


equity, gli utili per azione da 1,50
scenderebbero a 0,50 con la
differenza di -1 e il rendimento
delle azioni scenderebbe da 15 a
5; nel caso dell’azienda
indebitata, gli utili per azione
passerebbero da 2 a 0 e il
rendimento passerebbe da 20 a 0.
Ecco che ci rendiamo subito
conto di che cosa significa effetto
leva.
Abbiamo sì maggiori rendimenti
ma anche maggior rischi, cioè
che succede se poi il risultato
operativo è poco più basso? Ci sarebbero problemi.
Qui siamo andati a 0 ma possiamo andare anche in negativo, quando il reddito operativo scende tanto da far
diminuire il ROI sotto il ROD.

170
In un grafico (non nitido)
sulle ascisse abbiamo il reddito
operativo, mentre sulle ordinate
l’utile per azione.
La retta dell’equity è quella con
pendenza meno accentuata, se ci
indebitiamo siamo sulla retta con
pendenza maggiore e se ci
troviamo in una situazione positiva
con il ROI > ROD, guadagniamo
di più e possiamo guadagnare
ancora di più se il reddito
ovviamente cresce, ma via via che
guadagniamo di meno la
situazione precipita molto di più
che se non ci indebitassimo.
Maggior rendimento ma anche
maggior rischio e l’investitore non
ha bisogno che l’azienda si
indebiti per guadagnare di più e
rischiare di più, sul mercato ci
sono 100000 titoli che hanno
maggiori rendimenti e maggiori
rischi; non c’è bisogno che
l’azienda usi la leva finanziaria per offrire un maggiore rendimento all’azionista e quindi maggiori rischi
all’azionista, lo fa un’altra attività.
Quindi la leva finanziaria secondo Modigliani e Miller non va utilizzata a questo fine, cioè per massimizzare
il rendimento degli azionisti.

Un altro esempio:
il Valore dell’attività ha valore di
mercato 100 costituito da un debito di
40 e un capitale di 60, quindi
indebitamento del 40%.
Il costo del denaro rD è l’ 8%, invece il
rendimento dell’azionista è del 15%
cioè (utile per azione)/(prezzo
dell’azione).
Possiamo quindi calcolarci il ROI a
valore di mercato dell’azienda come
media ponderata del debito e del
rendimento medio dell’acquisto degli
azionisti.
Vien fuori un rendimento delle attività
rA pari al 12,2%, che ovviamente è una
media pesata di 8 e 15, pesata attraverso
40 e 60%.
Che succede se il debito si riduce, cioè se la struttura finanziaria cambia da 40 e 60 a 30 e 70?
Il ROI cambia?
NO, perché non stiamo cambiando l’attività dell’impresa, stiamo soltando sostituendo fonti di
finanziamento; potrebbe cambiare qualche rendimento.

171
L’azionista guadagnerà di più o di meno? Di meno, per la leva finanziaria perché se riduciamo
l’indebitamento in una situazione normale in cui il ROI è > ROD, stiamo riducendo la leva finanziaria e
quindi l’azionista guadagnerà di meno rischiando ovviamente di meno.

L’rA è sempre 12,2 non può cambiare, l’rD in teoria finora abbiamo detto che non cambia e il fatto che non
cambi in realtà è vero fino a un certo punto e cioè se l’indebitamento cala, il creditore è più tranquillo, quindi
chiederà anche tassi minori e ovviamente il capitale più sicuro costerà di meno.
In questo caso è fatta l’ipotesi in cui anche il costo del denaro, l’indebitamento, cali un po’ cioè da 8 a 7,3,
quanto varrà quindi l’rE ? L’rE ovviamente cala perché è calata la leva finanziaria quindi nonostante una
riduzione del costo del denaro che comunque aumenta l’rE perché dipende dalla differenza (rA - rD ), il calo
dell’indebitamento è comunque più forte e produce comunque una riduzione del costo.

Quindi costo medio ponderato del capitale,


WACC, rappresenta la visione tradizionale
della struttura finanziaria rischio e
rendimento.

Quindi massimizzare il valore di mercato


equivale a minimizzare il costo medio
ponderato del capitale, cioè l’rA è uguale al
rapporto tra il reddito operativo e il valore dei
beni dell’impresa (V), ma è anche uguale al
WACC, cioè al costo medio ponderato della
parte destra dello stato patrimoniale e quindi
costo medio ponderato delle fonti di
finanziamento.

In sostanza dunque c’è questo legame tra V e costo medio ponderato delle fonti di finanziamento; se il valore
dell’impresa aumenta, il costo delle fonti di finanziamento diminuisce. Quindi massimizzare il valore di
mercato equivale a minimizzare il rendimento delle fonti di finanziamento ovviamente se il reddito operativo
(ROI) è indipendente dalla struttura finanziaria.
In questo grafico, possiamo vedere
l’andamento dei nostri rendimenti in
funzione dell’indebitamento, in
particolare del rapporto D/E dove
vediamo che ipotizzando sempre l’rA
costante, perché il reddito operativo è
indipendente dalle risorse finanziarie,
abbiamo che all’aumentare
dell’indebitamento dalla formula
possiamo vedere il valore di rE .
L’rE = rA quando D=0, dopo di che se rA
è maggiore di rD , rE aumenta e aumenta
linearmente finchè rD rimane anch’esso
costante il che è presumibile per effetti
di indebitamento molto piccoli.
È chiaro che se l’indebitamento aumenta
considerevolmente, chiediamo più soldi alle banche, quindi le banche chiederanno tassi sempre più alti, cioè
sempre più proporzionati al rischio di insolvenza, quindi anche l’rD comincia a salire.
Se l’ rD sale, l’ rE comincia come minimo ad aumentare di meno, infatti vediamo che la curva dell’ rE
incomincia a stazionare.

172
Dove va a finire questo grafico sulla destra? rD arriva a livello di rA e anche rE coinciderà in quel punto, cioè
le due funzioni rE e rD sostanzialmente convergono su rA .
Se rD supera rA ( rD continua a salire), che fa rE ? rE continua a scendere.
Quindi la parte destra di questo grafico, che non è la parte più “salutare”, è quella in cui rD sale e rE scende e
si intersecano ovviamente nello stesso punto.

173
27 Maggio 2015
EFFETTI CONNESSI ALL’INDEBITAMENTO DELL’IMPRESA

Ci occuperemo del finanziamento attraverso l’indebitamento. Quest’ultimo non è altro che una fonte di
finanziamento esterno, caratterizzato dal rischio perché tecnicamente qualcuno sta utilizzando mezzi
acquistati con i soldi di altri che in qualche modo andranno restituiti altrimenti perdiamo la proprietà.
Se non siamo indebitati potremmo non cogliere opportunità, sprecare risorse finanziarie; troppi soldi sul
conto in banca comportano una “perdita” costante perché avremmo più commissioni che rendimenti.

L’indebitamento aumenta il rendimento degli azionisti (proprietari); questo perché la leva finanziaria lega il
ROE al ROD: se ROE > ROD, se l’attività economica dell’impresa è più remunerativa del costo del denaro,
il rendimento degli azionisti aumenta all’aumentare del debito. L’impresa quindi crescerà acquisendo risorse
finanziarie dai creditori e remunerando di più gli azionisti. In altre parole, conviene prendere capitale in
prestito che costa ad esempio 5 se l’attività economica rende 10, così facendo l’azionista non metterà nulla di
tasca propria ma si prenderà il margine di rendimento tra il rendimento dell’azienda e il costo del denaro.
Quindi l’indebitamento non è poi una cosa così tanto brutta: se l’impresa funziona con ricavi maggiori dai
costi in maniera sufficiente da poter remunerare anche il debito, il proprietario ha tutti i vantaggi di poter
crescere con un indebitamento “sano” (le attività economiche dell’azienda rendono più del costo del denaro),
guadagnandoci tutti.

In un mercato efficiente, la politica del debito dovrebbe essere irrilevante (teoria di Modigliani – Miller), ma
in realtà questo non accade perché ci sono le imposte, i costi del dissesto, i conflitti di interesse tra azionisti e
obbligazionisti. Esiste un beneficio fiscale derivante dall’utilizzo delle imposte: infatti se noi siamo
indebitati, la considerazione ha un effetto pro-debito.

Beneficio fiscale del debito o Scudo fiscale


La deducibilità fiscale degli interessi passivi aumenta il reddito totale che può essere distribuito ad azionisti e
obbligazionisti. Vedremo due imprese identiche finanziate in modo differente (impresa E sta per Equity,
mentre impresa L sta Leverage, cioè che usa la leva finanziaria).

EBIT (Earnings Before Interests and Taxes) sarebbe l’Utile Operativo, il quale non dipende dalla struttura
finanziaria dell’azienda e lo troviamo al numeratore del ROI. Nell’impresa che fa uso di debiti (L) avremo la
presenza di interessi passivi (80) con il risultato che il reddito degli azionisti è minore: questo discorso è
dovuto al fatto che quando l’impresa si indebita chiede soldi alle banche e li divide tra gli azionisti, i quali
guadagnano di meno perché hanno meno azioni e quindi il rendimento sale. Stiamo considerando che
l’impresa abbia meno equity (meno capitale da investire) ma più debiti e di conseguenza meno azioni.

174
Il beneficio fiscale degli interessi è legato al fatto che paghiamo meno tasse: nel primo caso paghiamo 350,
nel secondo 322 con un risparmio di 28. Quest’ultimo valore, che si dividono tutti i finanziatori dell’impresa
(pago meno lo Stato), posso calcolarlo come il 35% degli oneri finanziari o interessi passivi.

Ipotizzando di indicare il tasso di imposizione fiscale sull’utile come Tc, le imposte saranno uguali all’utile
lordo per questo tasso (Imp = U.L x Tc). Di conseguenza:
Utile Netto = Utile Lordo – Imposte = Utile Lordo – (Utile Lordo x Imposte) = Utile Lordo (1 – Tc).
La detrazione tra i due utili, che possiamo chiamare beneficio fiscale, vale se Utile lordo >0, ossia si abbia un
profitto e non una perdita dalla gestione; in caso contrario, il valore così calcolato (negativo) dell’imposta
costituisce una somma detraibile dalle imposte sugli utili degli esercizi successivi.
Infatti, un’azienda in perdita non paga tasse; io potrei indebitarmi in maniera tale da avere oneri finanziari
pari o superiori all’utile lordo così da non pagare mai tasse (tutti i guadagni dell’impresa andrebbero agli
obbligazionisti o creditori).

In presenza di debito D e Oneri Finanziari = rD x D:


Utile Netto = (Utile lordo – Oneri finanziari) - Imposte =
= (Utile lordo - rD x D) - (Utile lordo - rD x D) x Tc =
= (Utile lordo - rD x D) x (1 – Tc) =
= Utile lordo x (1 – Tc) – (rD x D) x (1 – Tc) =
= UNEquity – (rD x D) x (1 – Tc) =
= UNEquity – On.Fin. x (1 – Tc) =
= UNEquity – [On.Fin. – (On.Fin. x Tc)]

Sviluppando un po’ di calcoli otteniamo che l’utile netto è uguale all’utile netto di un’azienda non indebitata
(equity) meno gli oneri finanziari per una quota. In altre parole, se non ci fossero le imposte noi avremmo
che l’utile netto sarebbe uguale all’utile netto in presenza di equity meno il costo dell’indebitamento (Tc=0);
se ci sono le imposte, gli oneri finanziari vengono sempre sottratti ma ridotti di una quota proporzionale
all’aliquota delle imposte che si paga. Sostanzialmente, le imposte non fanno altro che ridurre il costo
dell’indebitamento: il risparmio fiscale è rappresentato dal termine (On.Fin. x Tc).
A causa dell’effetto fiscale, per l’azienda il costo effettivo del debito rD(tax) è minore del reale costo del
denaro rD:
rD(tax) = [On.Fin. x (1 – Tc)] / D = rD x (1 – Tc)
Paradossalmente, più è elevata l’aliquota fiscale più conviene indebitarsi! Se l’aliquota fosse 100%, cioè se
tutti gli utili dell’azienda devo darli allo Stato, il costo dell’indebitamento sarebbe 0.

175
Qualche lezione fa avevamo visto che il costo medio ponderato del capitale era uguale alla media ponderata
del costo dell’equity e del costo del debito, dove la ponderazione avviene per la quantità di equity o di
debito, quindi D + E = V (valore complessivo delle fonti di finanziamento o valore dell’attivo).
Se consideriamo le tasse ciò che si va a modificare è rD; quest’ultimo influisce sul costo medio ponderato del
capitale. Infatti, se rD diminuisce il WACC diminuisce a sua volta perché vado a moltiplicare per (1 – Tc).
L’azienda ha a disposizione un costo medio ponderato inferiore a causa della deducibilità fiscale degli oneri
finanziari, ma lo Stato perde soldi se le azienda si indebitano.
Cosa dovrebbe fare lo Stato per evitare questo? La strada più ragionevole seguita dallo Stato Italiano per
riuscire a prendere soldi nella stessa maniera anche dalle aziende (tutte) indebitate è stata mettere una tassa
prima degli oneri finanziari così che quest’ultimi non fossero più deducibili fiscalmente. Le tasse quindi
andranno pagate sul valore dell’Utile Operativo aziendale. Ad esempio, l’IRAP è una tassa che tiene fuori
addirittura le spese per il personale, andando a calcolare l’utile semplicemente sottraendo ai ricavi gli
acquisti e gli ammortamenti, perché l’imprenditore di turno, o ad esempio, le “no-profit” potrebbero
incassarsi lo stipendio dal costo del personale.

Il WACC è il costo medio ponderato del capitale, il quale risulta essere molto comodo come tasso di
attualizzazione per calcolare il VAN. Se devo attualizzare i flussi di cassa di un investimento tipico
dell’azienda (che non stravolge le strategia di finanziamento della stessa), posso utilizzare benissimo il
suddetto WACC, a patto che il livello di indebitamento rimanga costante; se, invece, l’investimento riguarda
tutt’altra faccenda (un’azienda che produce biscotti decide di produrre anche cucine) non posso utilizzare lo
stesso fattore.

Questo è un grafico che esprime il tasso di


rendimento (WACC) in funzione
dell’indebitamento.
Abbiamo visto che rA è costante ed è il costo
del capitale legato al rischio intrinseco
dell’investimento (ROI, reddito operativo sul
valore dell’investimento), ed è indipendente
dall’indebitamento perché è il rendimento
tipico dell’attività economica dell’azienda
(indipendente dalle modalità di
finanziamento). Abbiamo anche visto che rE
cresce all’aumentare dell’indebitamento così
come rD poiché cresce il rischio per gli
obbligazionisti e quindi il costo.
Il WACC si riduce (aumenta rendimento
equity) per il beneficio fiscale del debito
(limitato poi dai rischi di dissesto).

Il beneficio fiscale sarà uguale all’aliquota fiscale per gli oneri finanziari. Nella formula gli oneri finanziari
sono espressi come rendimento per debito (rD x D).

176
Tc x oneri finanziari è una rendita, un flusso di cassa costante per infiniti anni; se lo attualizzo con la formula
della rendita perpetua (rapporto tra flusso di cassa e rendimento) ottengo che il valore attuale di un beneficio
fiscale è uguale a Tc per il debito

Esempio: un indebitamento di 1000 € al costo dell’8% mi consente di risparmiare ogni anno 28.
Beneficio fiscale = (1.000 x 0,08) x 0,35 = 28,00
VA della rendita perpetua di 28,00 = 28 / 0,08 = 350,00
VA del beneficio fiscale del debito = D x Tc = 1.000 x 0,35 = 350,00

Ciò significa che avere 28 ogni anno di risparmio, per un numero di anni pari ad infinito, equivale ad avere
350 subito. Se ci comprassimo un’azienda con questo beneficio fiscale, dobbiamo aggiungere i 350, perché il
valore dell’impresa è uguale al valore dell’impresa finanziata da equity più il beneficio fiscale.
Quanto detto non è valido al 100% perché si tratta di un valore sovrastimato in quanto stiamo facendo
ragionamenti all’infinito: a causa del debito che non è costante e varia nel tempo, il problema del rischio,
ecc. Dovremmo esser certi che il reddito sia costante per avere la sicurezza di uno scudo fiscale, ma ciò non
accade mai.

In definitiva, abbiamo detto che l’applicazione delle imposte al modello di M-M fa aumentare il valore
dell’impresa di una quota proporzionale al debito: più un’impresa è indebitata e più vale.
Allora perché molte imprese non si danno alla pazza gioia indebitandosi fino al collo?
Perché oltre ai vantaggi ci sono anche svantaggi che capitano a chi si indebita (ci sono principalmente i costi
del rischio molto elevati).

Imposte personali e societarie


Se consideriamo le imposte personali, l’obiettivo è minimizzare il valore attuale di tutte le imposte,
incluse quelle di azionisti e obbligazionisti.
 TC: aliquota di imposta societaria;
 TP: aliquota d’imposta personale sugli interessi del debito (obbligazioni);
 TPE: aliquota d’imposta personale sul reddito da azioni (dividendi e capital gain).
(In Italia, TC  35%*, TP=TPE=20% ma capital gain e dividendi non hanno stesso valore: tempi differiti per il
capital gain).

Che fine fa 1€ di reddito operativo dell’azienda?

177
Supponiamo che ci siano due possibilità: distribuire tutto agli obbligazionisti sotto forma di interessi sul
debito (oneri finanziari), oppure distribuire tutto gli azionisti sotto forma di reddito finanziario (dividendi).
Nel primo caso, mi indebito così tanto da far coincidere gli oneri finanziari con l’utile, perciò avrò 1€ di
reddito disponibile perché le imposte societarie vanno a gravare sull’utile imponibile (1 -1 di oneri finanziari
e lo Stato non incassa niente). Gli obbligazionisti, che si beccano questo euro, pagheranno il 20%, cioè
l’aliquota di tasse sulle rendite dei titoli finanziari (Tp) e gli rimarrà nelle tasca 0,80€.
Nel secondo caso, non ci sono debiti e quindi oneri finanziari, e lo Stato si prende Tc (35%) del nostro euro
di reddito; agli azionisti rimane 0,65€. Su questo risultato, gli azionisti pagheranno le tasse da dividendi
(Tpe). Alla fine il reddito al netto di tutte le imposte sarà: (1 – Tpe)(1 – Tc).

Per capire cosa conviene fare all’impresa, in un modello piuttosto che nell’altro, e valutare la propensione
finanziaria verso il debito o l’equity, bisogna analizzare un rapporto:
1− 𝑇𝑝
 > 1, conviene indebitarsi; se < 1 conviene non indebitarsi.
(1−𝑇𝑝𝑒)(1−𝑇𝑐)

Si potrebbe avere una irrilevanza della politica di indebitamento quando numeratore e denominatore sono
praticamente simili. Possiamo vedere due casi speciali:
A) Tp = Tpe (caso italiano)
1−𝑇𝑝 1
Vantaggio relativo = = >1
(1−𝑇𝑝𝑒)(1−𝑇𝑐) 1−𝑇𝑐
Le imposte personali diventano influenti e il vantaggio fiscale del debito è quello calcolato da M-M.

B) 1 – Tp = (1 – Tpe)(1 – Tc)
Questo avviene quando l’aliquota sull’equity, cioè la tassazione sui dividendi è nulla (alcuni fondi
USA) e aliquota societarie e obbligazionarie hanno lo stesso valore (pagano il 35% sia le aziende che
gli individui); oppure nel caso di sistemi a imputazioni australiani (che scala le tasse da quello che ha
già pagato l’impresa), dove Tc=0 e le tasse sulle rendite azionarie e obbligazionarie sono uguali.

Perché le imprese non sono finanziate totalmente tramite debito? Per via di due motivi:
 Dissesto, è la difficoltà a tener fede alle promesse fatte ai creditori che comporta una situazione di
rischio.
 Costi del dissesto, costi derivanti dal fallimento o dall’assunzione di decisioni distorte prima che
intervenga il fallimento; ad esempio quando i creditori ci danno denaro a tassi molti più alti, quando
il management capisce che la barca sta affondando e prende decisioni a vantaggio personale. Si
creano quindi situazioni che vanno a creare impoverimenti dell’azienda ancora ulteriori. Questi costi
vengono conteggiati nel valore di mercato.

178
Teoria del trade-off sulla struttura finanziaria

 I costi associati al dissesto dipendono dalla probabilità che questo si verifichi e dai costi che si
affronteranno in tal caso.
 Il VA del beneficio fiscale aumenta con il debito, ma aumenta anche la probabilità di dissesto e
l’incidenza dei relativi costi, tanto più se l’impresa non gode più dei benefici fiscali (utile netto↓).

All’aumentare del debito abbiamo un valore aumentato per effetto del beneficio fiscale perché sto dando
meno soldi allo Stato. Parallelamente aumentano anche i rischi del dissesto cioè la capacità dell’impresa di
restituire queste fonti viene meno in presenza di situazioni più complicate di quelle di partenza dal punto di
vista economico. Graficamente, otteniamo un valore massimo dell’impresa derivante dal trade-off con il
rapporto di indebitamento ottimale e dal delta tra il VA del beneficio fiscale e costi del dissesto.

È da precisare che il livello di indebitamento al quale un’azienda si sottopone dipende anche dal settore nel
quale opera. I costi del fallimento non coincidono con i costi del dissesto perché si hanno molto prima come
le spese legali. Anche la sola prospettiva di dissesto genera costi: se mi trovo in difficoltà a pagare un mutuo
con una banca potrei anche riuscire a farmi finanziare da altri istituti di credito ma sicuramente a costi molto
più alti perciò fornitori e clienti diventano più riluttanti a operare con l’impresa, eventuali nuovi debiti sono
più costosi.

ESEMPIO: La Cestino SpA ha un debito a 1 anno di 50€ a fronte di 50€ di equity, perciò attivo e passivo
valgono 100. Quanto è indebitata l’azienda? 50% a valore contabile.

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In relatà, la capitalizzazione dell’azienda in borsa vale 5 (le azioni valgono 1/10 del loro valore nominale),
così come le obbligazioni valgono la metà rispetto al valore nominale. Perciò, il valore delle fonti di
finanziameno è 30 che ovviamente è anche il valore di mercato dei beni dell’impresa.

Perché il capitale netto ha ancora il suo valore se questo debito pare inesigibile?
Gli azionisti hanno ancora una possibilità: possono ancora operare e investire per risollevarsi, puntando a
ripianare il debito e con un colpo di fortuna salvare qualche bene per loro. Le azioni in borsa difficilmente
vanno a 0.

1° GIOCO – aumento del rischio. L’azienda può investire 10€ come segue.

Supponiamo che il VAN di questo progetto sia -2€, cioè che i flussi di cassa attesi statisticamente siano
negativi. Quale sarà l’effetto sul mercato?

Il valore totale è passato a 28 per via del VAN negativo. Gli azionisti, o chi vuole scommettere
sull’investimento, fanno sì che il prezzo dell’azione salga un po’, mentre chi ha le obbligazioni in mano, dei
titoli sicuri, vede una perdita di valore. Quando incominci a scommettere chi ci perde per primo sono i
creditori (banche, fornitori, dipendenti); ma per l’azienda nel complesso questo è un costo del dissesto perché
nel complesso dei suoi beni perde valore.

2° GIOCO – rifiuto di investire in progetti sicuri. Progetto sicuro con investimento di 10€ tramite
aumento di capitale e VAN = 5€.

Il valore dell’impresa aumenta di 15: 10 per aumento di capitale, più i 5 per via del VAN positivo. Ma anche
in questo caso l’aumento non è proporzionale perché i benefici degli obbligazionisti riducono i benefici degli
azionisti, e questo succede tanto più quanto più grande è la probabilità di insolvenza. Per l’azionista è
difficile reclutare capitale di rischio anche se ci troviamo in un contesto positivo, il beneficio verrà spalmato
anche su chi non fa nulla per migliorare la situazione (obbligazionisti); questo perché il debito diventa più
sicuro. Gli azionisti fanno fatica ad accettare progetti a VAN positivo dove devono mettere mano al

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portafogli perché chi ha maggiori benefici sono i creditori, mentre gli azionisti saranno gli ultimi ad essere
soddisfatti.

Altri giochi di dissesto


 Prendi i soldi e scappa, erogazione di dividendi e riduzione di valore di mercato dell’equity minore
del valore dei dividendi (perdita condivisa con creditori). Se il management non crede più
nell’azienda, la cassa è la prima cosa che si esaurisce (bancarotta fraudolenta);
 Guadagna tempo, manipolazioni contabili (falsi in bilancio), riduzione di spese di manutenzione,
formazione, R&S: rinviare consapevolezza degli operatori;
 Bait and Switch (adescamento), politica di indebitamento prima conservatrice, poi audace: tutto il
debito diviene rischioso. Chi possiede le obbligazioni dei primi indebitamenti vede peggiorare
fortemente la situazione (vecchi obbligazionisti a vantaggio degli azionisti).

Questa teoria del trade-off, a differenza della teoria modificata di M-M, spiega rapporti moderati di
indebitamento. La struttura finanziaria si fonda sull’equilibrio tra benefici fiscali del debito e i costi del
dissesto.
C’è un qualcosa però che la teoria non spiega: le imprese più redditizie sono spesso le meno indebitate;
perché non utilizzano lo scudo fiscale? Si è visto che il valore di alcune attività, come quelle immobiliari,
può passare indenne da fallimento o ristrutturazione, inoltre attività intangibili, basate su R&S, brand o
capitale umano, sono più soggette a perdite ingenti. Ecco perché aziende di successo ad es. farmaceutiche
(R&S) o tecnologiche o di servizi fanno basso ricorso a indebitamento e si finanziano tramite equity.

Teoria dell’ordine di scelta (pecking order theory)


Per gli investimenti, l’azienda preferisce utilizzare prima le risorse interne, quindi il debito, infine
l’aumento di capitale. Esiste nella pratica un ordine di scelta che trae origine dalle asimmetrie tra l’interno
dell’azienda (management) e l’esterno della comunità finanziaria (mercati). Questa asimmetria è alla base
delle variazioni di valore di mercato dell’impresa (prezzo delle azioni) ogni volta che l’impresa annuncia
operazioni di mercato. L’informazione asimmetrica influenza quindi il management nella scelta tra
finanziamento interno ed esterno e tra indebitamento ed emissione di azioni. Ad es., l’annuncio di
un’emissione di nuove azioni ne riduce il prezzo: gli investitori credono che i manager siano più inclini a
emettere azioni quando le stesse sono sovraprezzate.
Le aziende preferiscono ricorrere al finanziamento interno: permette di reperire i fondi senza inviare segnali
negativi ed annulla i costi di emissione titoli. Qualora sia necessario un finanziamento esterno (insufficienza
di riserve), le imprese, cominciano con il ricorrere al debito, utilizzando l’emissione di nuove azioni come
ultima risorsa.
L’informazione asimmetrica non è l’unico fattore: se l’impresa è già indebitata, o in settore in crescita o
rischioso, l’aumento di capitale viene ben visto. L’informazione asimmetrica spiega la prevalenza pratica del
ricorso al debito rispetto all’aumento di equity, e che è meglio utilizzare l’equity con gli utili pregressi più
che con nuove azioni.
Quello che si nota quindi è che l’attrattività
dei benefici fiscali non è la molla
principale che dovrebbe far andare dritti
verso il debito, ma è una decisione
secondaria. Tant’è che le imprese più
redditizie (Microsoft, Apple, Facebook,
Google, ecc.) utilizzano una bassa leva
finanziaria privilegiando fondi interni.
Viceversa, imprese meno redditizie ma più
stabili hanno livelli di indebitamento più
elevati.

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Confronto trade-off – pecking order
Sono tanti i fattori che vanno ad influire sulle decisioni di indebitamento (alcuni parametri variano a secondo
del settore di appartenenzia):
 Dimensione: proporzionale a alto indebitamento;
 Tangibilità delle attività (materialismo delle immobilizzazioni): proporzionale a alto debito;
 Redditività: inv. proporzionale a indebitamento, perché posso utilizzare fondi interni;
 Rapporto valore di mercato/valore contabile (proxy di opportunità di crescita): inv. proporzionale a
debito.

Pecking order: funziona meglio per giustificare l’indebitamento di grandi imprese e mature, peggio per
piccole imprese (si indebitano molto di più e non ricorrono ai fondi interni).
Trade-off: risulta molto utile per settori in cui le immobilizzazioni sono molto importanti (tangibilità) e
settori in crescita.
Ciò che si deduce è che non c’è una vera strategia di indebitamento; molto spesso le aziende colgono delle
opportunità senza fare scelte consapevoli.

Effetti del finanziamento sulla valutazione dell’investimento


Due modi per considerare il valore delle decisioni di finanziamento nella valutazione di un investimento:
 Modificare il tasso di attualizzazione. Approccio più diffuso cioè considerare il beneficio fiscale
degli interessi passivi con il WACC modificato (quello in cui rD si presenta con un costo ridotto per
l’imposizione fiscale);
 Modificare il valore attuale. Lasciar stare la valutazione come se l’investimento fosse in equity
(finanziato al rischio tipico dell’attività) e considerare l’effetto di una specifica fonte di
finanziamento sul valore dell’azienda (tipico caso delle start-up, dove non abbiamo un costo medio
delle fonti di finanziamento perché l’impresa ancora non esiste). Quindi, partire dalla valutazione
“standard”, al 100% capitale proprio, e aggiungere il finanziamento del progetto: VAM o “VAN
modificato”.

VAM = VANbase + VA finanziamento


 VANbase = valore del progetto o dell’impresa nell’ipotesi base, come operazione rischiosa a sé
stante, totalmente finanziata tramite equity (r=rA);
 VA finanziamento = somma dei VA degli effetti derivanti dalle specifiche fonti di finanziamento del
progetto, dovuti ad es. ad effetto fiscale, costi di emissione, incentivi governativi, ecc.

Differenze tra WACC e VAM


Il VAM ci da maggiori opzioni perché il WACC è fisso, uguale per tutti gli anni (più rigido); mentre con il
VAM abbiamo la possibilità di inserire un piano finanziario qualunque che differisce negli anni con tassi
diversi.
 Indebitamento costante vs. Indebitamento variabile (piano di rientro definito): il risultato finale può
differire!
 Attenzione all’attualizzazione degli effetti del finanziamento: tassi diversi con rischi diversi.

Vantaggi del VAM:


 Flessibilità: possibilità di esplorare diverse possibilità e combinazioni di finanziamento, senza
fissare un indebitamento o ricalcolare il WACC per ogni scenario (flussi di cassa senza oneri
finanziari).
 Utile quando il debito deve seguire schemi prefissati, come nel caso del Leveraged Buyout (LBO)
(acquisizione dellimpresa attarverso debito che non abbiamo studiato); in questi casi l’indebitamento
non rimane certo costante!
 Utile quando gli effetti del finanziamento sono numerosi e importanti, come nel project financing,
o in contratti speciali con fornitori, clienti, governi.

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