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“L’anticonformismo del cross-dressing e del travestitismo”

Questa ricerca vuole indagare la pratica del cross-dressing e del travestitismo attraverso l’esperienza artistica di
Marcel Duchamp, Luigi Ontani, Cindy Sherman e, più in generale, l’arte della Drag. L'intento è quello di far
chiarezza su quelle che potrebbero essere le motivazioni che spingono a tali pratiche, prendendo ad esame le
diverse esperienze per trarne delle conclusioni che permettano di ottenere un quadro esaustivo dell’argomento.
Perché si sente l’esigenza di travestirsi, e soprattutto perché si arriva ad estremizzare determinate
caratteristiche e tipologie di personalità? Come ci si presenta in società può suggerire molto su chi si ha davanti
agli occhi, come afferma Marjorie Garber nel 1992, “L’abito fa il monaco1”.

Numerosi sono i pensatori e psicanalisti che videro nel cambio dei ruoli di genere attraverso il travestimento,
una perversione. Caio Cesare, terzo imperatore romano, soprannominato “Caligola”, vanta la fama di essere un
folle, un sadico, un pervertito. I pochi anni del suo regno (dal 37 al 41 d.C.) furono caratterizzati da crudeltà,
esazioni, depravazione, incesto, parricidio, inversioni di sesso, travestitismo e assassinio2. Si dice usasse
indossare vesti, calzari e adornamenti che non erano né romani, né cittadini, non maschili e neppure umani3.
Spesso si faceva vedere in giro vestito di “pènule” ricamate e gemmate, con lunghe maniche e braccialetti;
talvolta in abiti di seta o di gala femminili4. Il più delle volte portava una barba d’oro, e impugnava un fulmine o
un tridente, o, ancora, un cadùceo; fu anche visto in abbigliamento di Venere 5. Era convinto di essere un dio.
Caligola avrebbe la peculiare tendenza, propria del perverso, a volersi sostituire al Padre-creatore6, con lo scopo
di ricreare un nuovo universo, modificare la realtà per trasformarla a suo piacere. Egli sarebbe stato travolto
dalla passione per ciò che è impossibile: “[…] si tratta di rendere possibile ciò che non lo è […]” 7; per questo
motivo, la sua “hybris”8, ovvero la sua volontà di “ibridazione”9, lo indusse al rovesciamento dei ruoli. Il tiranno
vuole livellare tutte le differenze, stabilire fra gli uomini nuove relazioni, amalgamare oggetti che non sono fatti
per stare insieme10. In Creatività e perversione, quest’ultima, viene strettamente correlata al narcisismo dell’Io 11.
L'autrice, ripercorrendo i pensieri di Freud, illustra come uno sbagliato, e, o, incompleto sviluppo del complesso
di Edipo12 possa restituire dei soggetti sessualmente problematici, e dunque perversi. Il perverso, come sostiene

1 Marjorie Garber, “Interessi truccati” Giochi di travestimento e angoscia culturale, Raffaello Cortina
Editore, 1994.
2
Janine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, Raffaello Cortina Editore, traduzione di Marcella
Magnino, Milano 1987
3
Creatività e perversione, p.24
4
Creatività e perversione, p.24
5
Creatività e perversione, p.24
6
Janine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, capitolo “Perversione esemplificata da tre
personaggi luciferini”, p. 19
7
Ibidem, p. 83, cit. In Creatività e perversione, p. 25
8
Termine greco, significa violenza, eccesso, cosa estrema, enormità. Per i greci l’hybris è il peccato
più grande
9
Janine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, p. 22
10
Janine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, p. 23
11
Stadio dello sviluppo in cui l’Io provvede ad essere l’ideale di se stesso. È il mezzo che apre la
strada alla relazione oggettuale. Alla nascita, non potendo sopravvivere con le proprie forze, l’essere
umano deve dipendere necessariamente da un altro essere che se ne prenda cura, dunque si assiste
a una scissione del narcisismo, che si apre al mondo esterno. L'Io, portato a privarsi di una parte del
proprio narcisismo, mirerà sempre a ricucire i lembi di questa “ferita narcisistica”, che d’ora in poi
sarà definita come Ideale dell’Io.
12
Durante il complesso di Edipo, afferma Freud, l’ideale dell’Io viene proiettato all’esterno, più
precisamente al padre, che diventa per il bambino modello di identificazione. Nel futuro individuo
perverso, l’Ideale dell’Io non viene trasferito ad un altro modello, bensì rimane riferito alla propria
persona; in altre parole, il soggetto perverso pensa di essere già un adeguato modello per se stesso.
la Smirgel e lo stesso Freud, è consapevole della sua non totale maturità: il piccolo imbroglio non viene accettato
dall’ideale dell’Io, non a causa della colpa, bensì, perchè simbolizza una maturità che è soltanto una
simulazione13. Questo fattore causa al perverso una certa sofferenza psichica, teme che la sua analità possa
essere scoperta ed essere messa in ridicolo; per tale ragione i soggetti perversi hanno la tendenza ad essere
sadici e compiere crudeltà, come nel caso di Caligola, e non solo, hanno la necessità di idealizzare la realtà. Il
processo di idealizzazione li aiuta a preservare le proprie convinzioni, per questo motivo tendono a circondarsi
di bellezza: tutto che ciò che circonda l’Io deve essere estremamente bello e luccicoso 14, creando così un mondo
fittizio.

Nella Valutazione narcisistica dei processi escretori nel sogno e nella nevrosi, Karl Abraham, psicanalista tedesco,
spiega cosa accade quando il bambino perverso capisce di non essere l’unico e adeguato oggetto sessuale della
madre: il riconoscimento dei poteri del genitale paterno obbliga il bambino a introiettarlo. Il soggetto cerca ora
una nuova realtà in cui il padre e i suoi attributi sono svalutati e il livello genitale è denegato: gioca a trasformarsi
in donna, nascondendo il proprio pene, provvedendo così ai suoi sentimenti di abbandono attraverso la
sottomissione omosessuale nei confronti del padre, con la quale il soggetto fantastica di avere rapporti. Il
travestitismo è qui visto come un feticismo, ossia l’eccitamento sessuale provato da un individuo nei confronti
di un oggetto inanimato, indumento, scarpe, biancheria intima o capelli ecc. Il soggetto, in questo caso, è dunque
un feticista il cui unico desiderio è quello di essere una cosa sola con la madre. Il feticismo sarebbe una
“scorciatoia” per non soffrire dell’angoscia di separazione dalla genitrice 15. Secondo Freud, la perversione
sarebbe una prerogativa maschile, in quanto, ha a che vedere con il possesso di qualcosa, ovvero del fallo 16.
Jacques Lacan, famoso psicanalista francese dei primi Novecento, sulle basi poste da Freud, afferma che nel caso
un uomo pratichi il cross-dressing (dunque si vestisse da donna) sarebbe sicuramente giustificabile come
perversione feticistica poiché capace di erezione 17. Il fallo qui sarebbe dunque visto come contrassegno di
desiderio18. Nelle donne, per lo psicanalista austriaco, la perversione non sarebbe possibile poiché loro
soffrirebbero della mancanza del pene, dunque si verificherebbero in loro, più che altro, delle nevrosi19. I casi
appena esplicati, illustrano come il travestitismo possa essere conseguenza di un disturbo psichico della
personalità, a cui vi è la necessità in qualche maniera di porre rimedio, in quanto potenzialmente pericoloso per

Freud specifica che durante questa fase il bambino ha desideri incestuosi nei confronti della madre, e
che debba imparare a trasferire il suo desiderio al di fuori dei familiari: deve introiettare il divieto di
incesto. Il soggetto perverso però non interiorizza questo divieto, pensa di essere un buon compagno
per la madre e un degno sostituto del padre, ergo, non sperimenta i sentimenti di ammirazione nei
confronti dell’altro genitore, non sviluppando così la genitalità, che rimane invece al suo stadio
pregenitale, quello anale.
13
Creatività e perversione, p. 46-47
14
camuffa l’analità di fondo
15
Janine Chasseguet-Smirgel, “Creatività e Perversione”, Raffaello Cortina Editore, 1987.
16
Marjorie Garber, “Interessi truccati”, Giochi di travestimento e angoscia culturale”, Raffaello Cortina
Editore, 1994.
17
Ibidem.
18
Ibidem.
19
Disturbo caratteristico femminile, secondo Freud, si distingue dalla perversione, poichè,
contrariamente ad essa, deriva dalla mancanza di qualcosa
chi vive intorno a questi pazienti, il caso di Caio Cesare ne è la dimostrazione. L‘abolizione delle differenze, la
tendenza a falsificare e idealizzare la realtà circostante, sono necessariamente caratteristiche proprie dei soli
individui problematici? Il quadro fornitoci dagli psicanalisti è davvero applicabile a tutti i casi in cui viene
praticato il cross-dressing e il travestitismo? Cosa differenzia un soggetto perverso che pratica il cross-dressing
da un individuo considerato normale che decide comunque di travestirsi? E soprattutto, viene riconosciuta una
differenza tra i due casi?

“La contrapposizione fra il perverso e il nevrotico, fra il perverso e noi, non è sempre chiara. Siamo tutti, in grado
differente, tentati di vivere in un mondo di bugie”20.

Le questioni qui sopra riportate verranno messe in dubbio e smentite dalle argomentazioni che seguono, di cui
al momento non rivelo nulla. La linea che separa il cross-dressing e il travestitismo dall’essere considerate come
un’unica pratica è poco chiara e un po' confusa, tuttavia, la maggior parte delle fonti da me studiate le
differenziano in due pratiche a sé stanti, che però, in qualche modo, specialmente dagli anni Settanta e
Ottanta21, si intrecciano l’una all’altra in un concetto unico, e così, dunque, farò anche io. In breve, si può dire
che il cross-dressing sia il nome originario di questa pratica che poi si evolve in travestitismo, o travestimento.

“Il cross-dressing mette in discussione le categorie “maschile” e “femminile”, tanto da considerarle ontologiche
o costruite, biologiche o culturali”22.

Letteralmente, cross-dressing significa “vestire in modo opposto”, e, in effetti, vede ai suoi esordi personaggi
assumere le vesti dell’altro sesso. Questa pratica vedrà però espressioni sempre più disparate e quella del
“vestire in modo opposto” risulterà non essere più l’unica metodologia. Infatti, è strettamente collegato e spesso
correlato all’arte del travestitismo, diversi solo nell’interpretazione dei personaggi scelti, uomo o donna per una,
possibilità più libere per l’altra. Negli anni Dieci e Venti, in Francia e negli Stati Uniti, dove era ampiamente
dibattuta la questione femminile, diventano numerose le donne che praticano il travestimento. Citiamo Georgia
O’Keeffe e Florine Stettheimer, ad esempio, artiste note della bohème e dell’avanguardia newyorkese
dell’epoca, che usavano vestirsi in abiti maschili come autorappresentazione della loro identità di artiste, o si
pensi semplicemente a stelle del cinema come Greta Garbo e Marlene Dietrich, che si facevano fotografare in
abiti maschili, la cui androginia diventa addirittura una componente indispensabile della seduzione che
esercitavano sul pubblico 23. Come suggerisce Giovanna Zapperi, date le accese rivendicazioni da parte delle
donne, il travestimento femminile corrispondeva in questo caso sia alle nuove rappresentazioni della femminilità
borghese, sia alle lotte per i pari diritti di genere. Vestirsi in abiti maschili, dunque, poteva tradursi in una
modalità che permettesse di reinventare una femminilità profondamente segnata dal peso della differenza tra
uomo e donna e immaginare una diversa posizione di potere. Tali rivendicazioni però, come dimostra Teresa De
Lauretis, non hanno fatto altro che annullare ancora di più il genere femminile, già davvero poco considerato
come “autonomo”. Imitando il codice d’abbigliamento tipico maschile, le donne, oltre che peggiorare
ulteriormente il loro “status di oggetto”, aumentano l’importanza data alla mascolinità, che diventa il pretesto
di un’omologazione ad un mondo, già, tutto al maschile 24. Se da una parte, il mondo del cinema degli anni Dieci
e Venti proponeva l’immagine di una femminilità eccessiva, “incarnazione della sessualità dell’epoca
dell’industrializzazione” incentrata sulla seduzione e sul fascino usata al servizio della merce e del piacere
dell’uomo, accresce l’identificazione della donna con il desiderio, dall’altra parte, la nuova moda femminile della
“garconne”25, o come dice Marjorie Garber, “Butch”26, dava inizio a un processo dalla duplice facciata: a) di
maschilizzazione delle donne b) di nuovo spunto erotico per il mondo maschile, la femminilità portata

20
Janine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, 1987
21
Marjorie Garber, “Interessi truccati” Giochi di travestimento e angoscia culturale, Raffaello Cortina
Editore, 1994.
22
Marjorie Garber, “Interessi truccati” Giochi di travestimento e angoscia culturale, Raffaello Cortina
Editore, 1994.
23
Giovanna Zapperi, “L’artista è una donna”, ombre corte, 2014 .
24
Teresa De Lauretis, “Soggetti eccentrici”, Feltrinelli, 1999 .
25
Caratterizza le donne che usavano vestirsi con abiti maschili come rivendicazione di potere.
26
Brevemente, donna “maschiaccio” e potenzialmente omosessuale.
dall’industria del cinema imponeva, ora, l’immagine di una femminilità sessualmente ambigua e travestita,
sfruttando il potenziale di seduzione della donna emancipata e potenzialmente lesbica 27. Il risultato che ne
consegue è dare ancora più consapevolezza, autorità e potere al genere maschile. “L’umanità è maschile” e
“l’uomo definisce la donna […] in relazione a sé stesso; non è considerata un essere autonomo. […] Egli è il
Soggetto, l’Assoluto; lei è l’Altro”, dice Simone de Beauvoir nel 1949 in, Il secondo sesso28. Se non altro, il
fenomeno del cross-dressing ha sicuramente mostrato come, in realtà, i generi siano qualcosa di costruito, e ha
fatto ragionare su quanto ancora poco si sappia della soggettività cosciente delle persone. Nel 1929, Virginia
Woolf pubblicava il romanzo Orlando, un personaggio che esprime la sua ambivalenza tra maschile e femminile
essenzialmente attraverso gli indumenti che indossa29; in quegli anni la trasgressione dei codici vestimentari era
il segno più evidente dell’emancipazione femminile, e in alcune donne, che per la prima volta accedevano a
professioni fino ad allora riservate agli uomini, sorsero delle angosce derivate dalla loro indipendenza e da
un’immagine più tradizionale della femminilità. A partire dalla sua esperienza clinica, una psicanalista inglese,
Joan Riviere, formula l’ipotesi di una femminilità utilizzata come “maschera”. Analizzando la condizione di alcune
donne di successo nella sfera professionale, era emersa dai loro comportamenti la costante preoccupazione di
apparire mascoline e dunque poco attraenti agli occhi degli uomini; questa angoscia sfociava nell’esibizione di
una femminilità esacerbata ed eccessiva. In questo caso, spiega la Riviere, “La femminilità, poteva così essere
assunta e portata come una maschera da donne preoccupate a nascondere la loro parte maschile per evitare le
rappresaglie cui sarebbero andate incontro una volta smascherate […]”30. Nonostante la raggiunta indipendenza
sul piano materiale e il successo ottenuto, queste donne esibiscono una civetteria eccessiva in presenza di
uomini, come se fossero costrette a riparare i danni causati dal loro successo. Nella mascherata, secondo Joan,
la donna imita una femminilità percepita come normativa e autentica, come se il successo rappresentasse un
tradimento nei confronti della loro natura di donna. Negli anni Venti, dunque, la linea di demarcazione tra
maschio e femmina appariva ormai instabile; molti specialisti, tra cui la già citata, Joan Riviere, avevano rivelato
il modo in cui la soggettività e la sessualità svolgevano un ruolo centrale nella formazione delle identità. Sebbene
le donne avessero ottenuto nuove libertà, la società diventava più maschile che mai, la valorizzazione della
mascolinità andava definendosi in modo sempre più rigoroso. Tuttavia, se le donne, adesso, potevano
sperimentare entrambi i generi “femminile” e “maschile” attraverso gli indumenti, eguale questione non si
poteva di certo dire per gli uomini. Tutto ciò che trasgrediva una netta ripartizione dei ruoli sessuali era percepito
come un pericolo e considerato come un comportamento perverso. Il travestimento maschile era associato
all’omosessualità, non solo, era inoltre percepito come disturbo da curare 31. Il cross-dressing veniva associato
alla transessualità per le donne, e come transessualità o feticismo (più quest’ultimo) per gli uomini 32. Il
transessualismo, spiega Marjorie Garber in Interessi truccati, è una manifestazione del cross-dressing e delle
angosce da binarismo tipica del XX secolo, oggi la chiameremmo “transgenderismo”; si riferisce spesso anche
all’omosessualità. “Secondo le stime dell’International Foundation for Gender Education, sei americani su cento
sono “cross-dresser” mentre (solo) uno su cento è transessuale”33. Garber afferma che la fusione di “travestito”
con “gay e lesbica” è in sé questione di contingenza storica. Ciò non significa che non li si debba considerare
intersecati tra loro, solo, non sempre. Sottolineare questa questione è importante per il mio lavoro, in quanto,
si impegna di proporre il travestitismo e il cross-dressing come fenomeno artistico rivoluzionario ciritico-sociale,
dunque non solo come rivendicazione di diritti omosessuali, bisessuali, pansessuali, transgender, (per quanto
sicuramente molto importanti) ma come manifestazione di protesta contro ogni tipo di oppressione: binarismo
di genere e i ruoli ad esso connessi, razzismo e differenze di classe, stereotipi e “etichettature”, storicamente e

27
Giovanna Zapperi, “L’artista è una donna”, ombre corte, 2014. Le nozioni, fornite dalla Zapperi sono
in linea con quelle di Teresa De Lauretis, e viceversa.
28
Teresa De Lauretis, “Soggetti eccentrici”, Feltrinelli, 1999 .
29
Marjorie Garber, “Interessi truccati” Giochi di travestimento e angoscia culturale, Raffaello Cortina
Editore, 1994. Teresa De Lauretis, “Soggetti eccentrici”, Feltrinelli, 1999.
30
Giovanna Zapperi, “L’artista è una donna”, ombre corte, 2014.
31
Ibidem. Vedere inizio del Saggio breve.
32
Marjorie Garber, “Interessi truccati” Giochi di travestimento e angoscia culturale, Raffaello Cortina
Editore, 1994.
33
Ibidem.
culturalmente formatosi. Come illustra Teresa De Lauretis in Soggetti eccentrici, Karl Marx sostiene che “solo la
prospettiva degli oppressi può rivelare i veri rapporti sociali e portarli a cambiare”34.

Ad oggi, conosciamo solamente due possibilità di identificazione che rispondono al concetto di “norma”
comunemente accettato, e sono il “maschile” e il “femminile”. Tali principi, definirebbero il genere di un
individuo, a cui quest’ultimo, nella fase della pubertà35, dovrebbe in qualche maniera identificarsi e prendere
consapevolezza dei propri compiti. Partendo da fattori biologici, il genere, da che l’umanità ne ha memoria, è il
principale indicatore delle differenze tra i sessi, delle differenze che però, sono andate ben oltre le distinzioni
biologiche anatomiche, di cui tutti, sono a conoscenza, infatti, le categorie, maschio e femmina, hanno assunto
nella società, nel corso della storia, un vero e proprio ruolo, l’uno differente dall’altro. La diversificazione dei
ruoli di genere36si è definita e ampliata nei secoli, e vede numerose difformità di oneri, doveri e comportamenti
per ognuno dei sessi. Ogni epoca presenta le proprie regole, e i propri costumi, ma le difformità presenti tra i
due sessi rimangono sempre le stesse. Tra le principali differenze tra uomo e donna vige il “codice
vestimentario”, che prevede per entrambi delle regole ben precise, non per forza scritte e elevate a legge, come
accadde, ad esempio, con le “leggi suntuarie” medioevali, che determinavano chi dovesse indossare cosa e in
quale occasione37, bensì, anche delle regole dettate, ormai tradizionalmente, da un sistema gerarchico 38 di
diversa natura, come il mondo dello spettacolo, i media, il marketing, la chiesa, la scuola, e così via. Tutto, nella
società dice cosa è opportuno rispettare e a cosa bisogna adeguarsi, lo “strappo” alla regola non passa di certo
inosservato, anzi, diviene sicuramente motivo di critica, giudizio, scherno e molte volte di emarginazione. Da
questi codici deriva, più spesso di quanto ci si possa aspettare, una certa paranoia collettiva e individuale da cui
dipende la vita sociale e psichica delle persone. Molti soggetti non si sentono rappresentati dai modelli di
“maschio” e “femmina” che sono venuti definendosi fino ad oggi, e molti altri si sentono sopraffatti dalle
pressioni e dalle aspettative che provengono da tali concetti. L’affannoso tentativo di soddisfare le aspettative
sociali, fino a che punto può portare quegli individui, che per svariate ragioni, non sentono di essere conformi ai
limitanti canoni prestabiliti? L’unione tra “regole” da rispettare e il giudizio critico che scaturisce da esse, può
far esplodere forme di ribellione che, altro non fanno, se non suggerire l’idea di possibilità alternative.
Immaginiamo, ora, l’arte del travestitismo al pari di una qualsiasi opera concettuale provocatoria. Potrebbe
essere paragonata ad un orinatoio rovesciato alla mostra della “Society of Independent Artists” del 1917 in
America, ad esempio, o a un escremento posto all’interno di una scatoletta, o più, o in nessuna, del 1961. Qui,
radicale è già l’atto di infrangere le regole di differenziazione dei generi indossando abiti del sesso opposto, o
addirittura, di dubbia identificazione, ma ancor più rivoluzionaria è la trasformazione di tale pratica come stile
di vita, e concezione artistica: corpi viventi come opere d’arte prolungate nello spazio e nel tempo, corrente
post-strutturalista39 che si impegna a far ragionare sul reale concetto di identità e soggettività autonoma. Oltre
a far riferimento alla Drag, spesso, come già citato, erroneamente vista come feticismo legato all’eccitazione
sessuale provata nell’immedesimarsi nel sesso opposto, o semplicemente considerato come “sentirsi nel corpo
sbagliato”, il travestitismo raggruppa diverse pratiche che vedono un individuo prendere le parti di personaggi,
esistenti o di fantasia, diversi dalla propria persona o identità, attraverso vestiti, costumi, make-up o maschere.

34 Teresa De Lauretis, “Soggetti eccentrici”, Feltrinelli, 1999.


35
Francoise Héritier, “Maschile e femminile”, Il pensiero della differenza, Economica Laterza, 2002.
Secondo alcune società neoguineane o inuit, venuto il momento della pubertà, l’individuo si deve
inscrivere nelle attività e nelle attitudini proprie del suo sesso apparente, e assolvere il suo ruolo di
maschio o femmina nella riproduzione, e aderire ai compiti maschili o femminili all’interno del gruppo
familiare e sociale.
36
Ibidem.
37
Marjorie Garber, “Interessi truccati”, Giochi di travestimento e angoscia culturale” , Raffaello Cortina
Editore, 1994
38
Ibidem.
39
Corrente che si propone di oltrepassare (non contrapporsi), di evolvere, lo strutturalismo,
dichiarando, con Nietzsche, la morte dell’Uomo e del Soggetto. Evidenzia una rinascita della differenza,
della singolarità e dell’Alterità. Lo strutturalismo sostiene che gli elementi non abbiano valore
funzionale autonomo, bensì, lo assumono nelle relazioni oppositive e distintive degli stessi elementi tra
loro.
Elsa von Freitag-Loringhoven, un personaggio fuori dalla norma della New York dei primi anni del 900, sfoggiava
un guardaroba decisamente stravagante: adornata da una serie di oggetti meccanici, la testa rasata, il viso
dipinto, un francobollo incollato sulla guancia e cucchiai da tè usati come orecchini40, si presentava agli eventi
pubblici senza timore alcuno, anzi, mostrando un comportamento disinvolto e disinibito. Fotografata da Man
Ray in diverse occasioni, in particolare per la rivista “New York Dada”, diventa per molti artisti fonte di
ispirazione.

L’interruzione, l’atto sconvolgente della messa in discussione, è […] esattamente il luogo, e il ruolo, del travestito
[…].41

Qui di seguito, verranno riportati i risultati dell’esperienza artistica di Duchamp, Sherman e Ontani, che
potrebbero, a mio avviso, dare una spiegazione più dettagliata di queste due pratiche così complesse ed
enigmatiche.

Marcel Duchamp, esponente del movimento dadaista parigino e newyorkese, decide, già prima degli anni Venti,
di ripensare il suo ruolo d’artista in quanto maschio e ridefinire la sua identità. Nel 1921, fa la sua prima
apparizione come Rrose Selavy attraverso due serie fotografiche scattate da Man Ray, suo stretto collaboratore.
In perfetta conformità con i dettami della seduzione femminile dell’epoca42, molto vicina a quella della “femme
fatale” proposta dalla cultura di fine XIX secolo, Duchamp esibisce una femminilità eccessiva e circondata da
un’aura di mistero. Voleva rappresentare la donna americana moderna, intelligente e provocante, una minaccia
da abbattere agli occhi degli uomini. La donna americana degli anni Venti ricorre alla sessualità per occupare
una posizione che non le spetta, quella del potere dell’uomo, e per questa ragione i suoi sforzi vengono
immancabilmente puniti e la legge della dominazione maschile inevitabilmente ristabilita, il ruolo che le resterà
assegnato sarà quello di essere desiderio. L'artista sceglie consapevolmente di imitare le pose tipiche del ritratto
femminile che si stava affermando all’epoca, si ispira alla pubblicità per farlo, facendo esplicitamente riferimento
al nesso tra la donna, la fotografia e la merce. Voleva abbattere quel topos antico quanto l’arte stessa per cui
l’artista, individuo unico, universale e maschile, è il creatore per eccellenza e la donna è il soggetto
rappresentato, strumento e oggetto di desiderio, e per farlo rivolge la sua attenzione a una concezione dell’arte
completamente diversa portando avanti la lotta contro il capitalismo che aveva già iniziato con l’abbandono
della pittura e l’introduzione dei ready-mades come diretta provocazione al mercato dell’arte. Il suo non è un
gesto femminista, bensì un ragionamento, un’elaborazione, sul significato dello status di artista che si traduce
in un processo di disidentificazione. Questo alter-ego, incarna infatti alla perfezione lo stile di vita delle donne
americane di quegli anni, moderne e indipendenti. Il nome, Rose, veniva spesso utilizzato dall’industria
cosmetica per presentare i suoi prodotti, nome di un fiore, simbolo di bellezza; Dunque, questa figura femminile
potrebbe essere anche legato ai consumi, altro aspetto importante di modernità 43. L’America, affascinata dalla
Francia, paese in cui si coltiva bellezza e seduzione, presentava i prodotti di bellezza come emanazione di quella
stessa cultura, più avanti, infatti, l’immagine di Rrose Sélavy verrà presentata su un profumo allora in voga, di
certo non per elogiare la bellezza. Il tutto parte dall’intenzione di Duchamp di cambiare identità, pensava
inizialmente di prendere un nome ebraico:

“Volevo, in effetti, cambiare identità, e la prima cosa che mi venne in mente è stata quella di adottare un nome
ebreo - io ero cattolico -, e passare da una religione all’altra sarebbe già stato un bel cambiamento! Ma non
trovai un nome ebreo che mi piacesse, così all’improvviso ebbi un’idea: perché non cambiare sesso? Era molto
più semplice! E così è nata Rrose Sélavy. Forse ora può sembrare un bel nome, perché anche i nomi cambiano
con le epoche, ma nel 1920 Rrose era un po' stupido”44.

40
Monografia di Irene Gammel, Baroness Elsa. Gender, Dada, and Everyday Modernity. A cultural
Biography, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2002, nota ripresa in L’artista è una donna.
41
Marjorie Garber, “Interessi truccati” Giochi di travestimento e angoscia culturale, Raffaello Cortina
Editore, 1994
42
L’artista è una donna, pag.65.
43
Ibidem.
44
Ibidem, p. 53.
Andrè Gervais, dice la Zapperi, spiega che “Rose” era un nome molto diffuso tra le famiglie ebree emigrate negli
Stati Uniti, indicava in modo specifico un’identità franco-ebraica. L’alter-ego di Duchamp è dunque
simultaneamente ebrea, americana e francese. Oltre che assomigliare alla situazione in cui si trovava lo stesso
artista, in quanto cittadino francese fuggito dalla Grande Guerra e, ora, residente negli Stati Uniti, Rrose
sembrava ricordare l’esilio di numerosi ebrei alla ricerca di nuove opportunità nel continente americano. Perché
Duchamp sceglie proprio un nome ebreo e non un nome femminile qualsiasi? Con l’intensificarsi
dell’antisemitismo, si afferma con prepotenza lo stereotipo dell’ebreo come uomo sprovvisto di virilità e per
questo motivo assimilabile alla donna 45. Gli ebrei assunsero, così, la funzione di controtipo, affiancati dagli
omosessuali e dalle donne. “donne ed ebrei si distinguono per via della loro mancanza di individualità e per la
loro incapacità di percepirsi come individui al di là della comunità”, dice Otto Weininger46 in uno dei suoi tanti
luoghi comuni razzisti e discriminatori. Quest’ultimo in Sesso e carattere descrive ebrei, donne e omosessuali
come delle creature lussuriose e ambivalenti, incapaci di controllarsi e per questa ragione egli pensa che
debbano essere sottomessi, in quanto tutte e tre le categorie rappresenterebbero la negazione di tutte le virtù
positive maschili. Nel teatro e nella letteratura a cavallo tra XIX e XX secolo, i personaggi ebrei erano spesso
rappresentati come dei travestiti che soffrivano di una patologia psichica, a metà tra maschile e femminile 47.
Duchamp, aveva “maniere distaccate e affascinanti”, un “atteggiamento da intellettuale”, “il fascino emanato
dalla sua persona era associato all’indifferenza” 48, queste qualità avvicinano Duchamp alla figura del dandy cui
si ispira il culto di sé. Il dandy è una figura potenzialmente trasgressiva della differenza tra i sessi. È infatti un
uomo, quasi sempre celibe, che fa della propria singolarità una forma di spettacolo, e nel diventare oggetto dello
sguardo finisce con lo scivolare pericolosamente verso la femminilità. Sappiamo inoltre, secondo quanto illustra
Giovanna Zapperi, che Marcel si rifiutò di partecipare alla guerra, il quale era un chiaro invito alla virilità; gli
uomini che rifiutavano di combattere correvano il rischio di venire percepiti come decadenti e omosessuali.
Sappiamo, inoltre, che l’indifferenza nei confronti degli altri emerge come uno dei tratti distintivi, in generale,
del dandy, e nello specifico dello stesso Duchamp. La figura del dandy ha con l’arte un determinato rapporto che
si fonda sul disprezzo nei confronti delle convenzioni. È a partire da tutte queste premesse che deve essere
considerata la decisione dell’artista di prendere le vesti di Rrose Selavy. Duchamp sceglie di incarnare l’Altro49,
la donna in quanto oggetto di desiderio e in quanto immagine.

45
Questione confermata anche da Marjorie Garber in “Interessi truccati”.
46
Autore di “Sesso e carattere”, scritto nel 1903. Parla di un nesso esistente tra l’ebreo e l’essere
femminile. Giovanna Zapperi, “L’artista è una donna”, La modernità di Marcel Duchamp, ombre corte,
2014.
46
Ibidem.

47
Questione trattata anche da Marjorie Garber in “Interessi truccati”
48
Giovanna Zapperi, “L’artista è una donna”, La modernità di Marcel Duchamp, ombre corte, 2014, p.
17
49
Teresa De Lauretis, “Soggetti eccentrici”, Feltrinelli, 1999.
Con la messa in scena di Rrose Selavy vuole deridere il modo in cui la personalità mediatica viene usata al servizio
della merce50, in quanto l’immagine della seduzione femminile convergeva con quella della star del cinema 51
imposta dall’industria dello spettacolo, le cui immagini sono riprodotte in serie per un consumo di massa. Questo
alter-ego risulta comunque molto importante sotto parecchi punti di vista, e potrebbero aiutarci a capire i
meccanismi che si innescano dietro il ricorso al travestimento. Per sostenere questa tesi è bene concentrarsi sul
radicale atto di Duchamp nell’indossare abiti da donna e di averne evidenziato di proposito determinate
caratteristiche. Per la prima volta, un individuo maschile, autonomo, è diventato donna, una merce, e una
fotografia stampata sulla copertina di una rivista illustrata, e ciò suggerisce importanti riflessioni. Gli anni Venti,
grazie alla psicanalisi, come già illustrato con le teorie di Joan Riviere, avevano messo in discussione la linea di
demarcazione tra maschio e femmina che appariva ormai instabile. Molti specialisti avevano rivelato il modo in
cui la soggettività e la sessualità svolgevano un ruolo centrale nella formazione delle identità. Il concetto di
“femminilità come mascherata” 52, potrebbe effettivamente trasformare il personaggio di Rrose Selavy come una
prova a sostegno di questa tesi: come abbiamo visto non è un caso che rappresenti proprio la donna americana,
ritenuta dallo stesso Duchamp la più intelligente al mondo di quegli anni, è tanto in gamba e autorevole da
firmare le stesse opere dell’artista con la sigla “RS”; allo stesso tempo mostra una civetteria eccessiva, facendola
rimanere in bilico tra emancipazione e oggettivazione mercantile. Il suo personaggio, dunque, rappresenta
intenzionalmente lo stereotipo della donna dell’epoca del consumo di massa. In quegli anni il travestitismo
maschile era percepito come un disturbo da curare, era accettato e praticato esclusivamente in una versione
carnevalesca e ludica. Il fatto che la femminilità di Rrose Selavy sia messa in scena da un uomo, accresce l’idea
che le identità di genere siano qualcosa di artificiale53, soltanto delle maschere percepite come normative. Ad
accompagnare la tesi di Riviere, dando degli spunti ancora più specifici, è Judith Butler, una filosofa statunitense
degli anni Cinquanta, la quale sostiene che nel momento in cui un individuo inverte il suo ruolo attraverso il
travestimento mette automaticamente in discussione l’autenticità di genere54, l’essere maschile e l’essere
femminile, con l’effetto di svelare la loro artificiosità. Dice a proposito: “Imitando il genere, il drag rivela
implicitamente la struttura imitativa del genere stesso nonché la sua contingenza”55. Secondo la Butler il genere
non è pensabile al di fuori dei gesti e delle azioni che lo costituiscono in quanto non ha un originale, è esso stesso
travestito. Argomenta la sua teoria asserendo che al centro di ogni processo di identificazione vi è l’imitazione
di convenzioni sociali per la quale non vi è un reale fondamento, si tratta esclusivamente di un ideale. Dunque,

50
Giovanna Zapperi, L’artista è una donna.
51
Roth, Marcel Duchamp in America, Giovanna Zapperi, L’artista è una donna.
52
Joan Riviere, Womanliness as maquerade, in ”International Journal of Psychoanalysis”, 10, 1929, pp.
303-313. Nota che riprende Giovanna Zapperi in L’artista è una donna.
53
Giovanna Zapperi, L’artista è una donna.
54
Judith Butler, Scambi di genere, cit., p.193.
55
Judith Butler, Scambi di genere, cit., p.193. Nota ripresa da Giovanna Zapperi in L’artista è una
donna.
in questo caso Rrose Selavy mette in scena l’imitazione dell’imitazione di una femminilità idealizzata. Sotto
queste osservazioni, pertanto, il travestitismo diventa una maniera per esprimere una certa artificialità del
soggetto56.

Settant’anni dopo, Cindy Sherman, artista statunitense, attua con gli “Untitled Film Stills” un processo analogo
a quello appena analizzato. Critica gli artisti, i critici e i collezionisti contemporanei, non solo, confessa di essere
disgustata dal mondo dell’arte in generale57. Sviluppa un interesse per l’oscuro, il brutto, l’orrido, quasi a voler
rappresentare i lati repulsivi e violenti di una America, ormai, tutt’altro che intatta. Anche lei, come Duchamp,
va contro il mercato dell’arte e le sue opere sono state pensate all’inizio per sembrare a basso costo e volgari,
non voleva assolutamente che sembrassero “arte”. Si serve della fotografia per immortalarsi nelle vesti di vari
personaggi del cinema americano e europeo, riuscendo con abilità a restituire una versione allo stesso tempo
parodica, e intrigante. Sostiene che il mondo dei media, con i loro target, e con i loro schemi, costringono gli
individui a costruire la loro identità in una determinata maniera, dunque tramite l’esagerazione, la parodia e un
tocco di cinismo espone gli aspetti artificiali e implausibili di questi modelli58. Ancora una volta ci si può
ricollegare alle teorie di Joan Riviere e Judith Butler di cui la Sherman ha sicuramente sentito parlare: la sua non
è più un auto-interrogazione, il suo interesse si riferisce al mondo esterno, alla società, è già consapevole che
l’identità non sia basata su fattori insiti al soggetto, e vuole comunicarlo. Per lei è importante evidenziare
l’artificialità delle identità che mette in scena59, e per farlo, regala figure orribili, che si possono benissimo
interpretare come una chiara istigazione, minaccia, al mondo mediatico. Le sue maschere sembrano voler
svelare quel demone che risiede alle radici della cultura contemporanea, offrendo al mondo la possibilità di
salvarsi. La sua intera produzione artistica lotta contro le proiezioni e gli stereotipi storicamente e culturalmente
formatosi.

Sempre negli anni Settanta, in Italia, Luigi Ontani produce i “tableaux vivants”, fotografie di varie dimensioni in
cui egli stesso è il protagonista. In questa serie la sua identità viene plasmata di volta in volta nelle vesti di un
altro soggetto della storia, della religione, della tradizione popolare o del panorama culturale. Il sé rimane stabile
ma nella corazza di un altro sempre differente, trans-migra60. La sua è una ricerca dettagliata sul tema dell’Io, in

56
L’artista è una donna, pag.83.
57
Ingried Brugger, Bettina M. Busse, Paul Clinton, Maren Lubbke-Tidow,The Cindy Sherman effect,
Identity and transformation in contemporary art, cit. Pag. 19,”I’m pretty disgusted, I guess, with the art
world in general. The boy artists, the boy painters, the collectors, they crawl, and climb, and stabbing
each other to the top sort of competition. I don’t know why that work would come out from those
feelings, but I think I wanted to make something that I could’t imagine anybody buying. I dare you to
like this.”
58
The Cindy Sherman Effect, Identity and transformation in contemporary art.
59
The Cindy Sherman effect, Identity and transformation in contemporary art.
60
Giulia Giambrone, Luigi Ontani in teoria, Filosofia, estetica, psicanalisi, nell’opera e nell’artista, cit.
pag. 5: “[...]L’identità rimane la stessa ma compie un viaggio attraverso una molteplicità di forme. […]”
cui l’essere-altrove61 trova esplicazione nell’identità migratoria e nel viaggio come ampliamento del sé
attraverso una molteplicità di forme. In questo percorso l’identità si trova fuori di sé, estraniata rispetto a sé
stessa, e, nonostante ciò, rimane altrettanto straordinariamente presso di sé grazie all’esercizio brusco e
ripetuto dell’alterità che avvolge. Nell'opera i personaggi storici inscenati dall’artista si definiscono
posizionandosi su un’ipotetica storia umana e culturale. L'artista è strettamente legato al principio del
mutamento. L'idea di identità percepibile nell’operato di Ontani è la conseguenza di un processo di creazione
dell’Io che viene denominato nella psicoanalisi “soggettivazione”62, infatti, si ricollega alle teorie di uno
psicanalista, psichiatra e filosofo francese chiamato Jacques Lacan63, padre della teoria che smentisce il soggetto
come monade per identificarlo al contrario con una molteplicità tendenzialmente inadatta a qualificarlo. Lacan
partendo dalle basi poste da Hegel, Husserl e Heidegger, sostiene che l’Io non corrisponda mai a un’interiorità
totalizzante del soggetto ravvisabile nella singolarità di un’identità unica e inamovibile. Già con i tre filosofi, si
individua l’apertura verso l’Altro, con la conseguente demolizione del primato dell’Io unico. In quest’ottica l’Io
trova la sua vera dimensione solo nella molteplicità. Lacan spiega che il soggetto, quando per la prima volta vede
il suo riflesso allo specchio non si riconosce: “il soggetto si vede come un altro, come una fuga, come scisso da
sé stesso”64, si trova dunque sdoppiato tra l’esteriorità dell’immagine di un qualcuno diverso da sé e l’immagine
ideale costituita dall’azione morfogena che ha di sé. Lo psicanalista associa alla presenza dell’Altro la possibilità
del soggetto di costituirsi come una differenza singolare. Nel rapporto tra Uno e Altro non è presente una
confusione, bensì un rapporto ontologico fondato sulla differenza significante 65. La soggettivazione secondo la
teoria lacaniana è un processo continuo che rende il soggetto in fieri nella sua formazione, e si differenzia dalle
altre teorie riguardanti il soggetto per il suo carattere di “continua possibilità”, che scardina ogni concezione
deterministica della soggettività in favore di una possibilità contingente del soggetto. Detto ciò, questa teoria
implica la personificazione da parte di Ontani di numerose identità. Tutta l’opera di Ontani è paragonabile a un
continuo guardarsi allo specchio, ma in uno specchio che da un lato, riconosce il riflesso di chi si guarda,
dall’altro, restituisce un’immagine diversa e non corrispondente 66. Nel definire l’identità, l’Io è solo metà della
matrice che lo costituisce. Il rapporto tra Io e Totalità si pone sottoforma di molteplici identificazioni, e l’artista
stesso diventa tramite vivente della dimostrazione della duplicità della natura di ogni soggetto 67. Nel rapporto
con l’Altro il corpo funge da intermediario simbolico che Ontani esalta con l’atto della performance creando
quasi un rituale. Nell'artista la performance è ricerca dell’equilibrio tra Io e Altro: il corpo fisico diventa simbolo
che assolve la funzione di tramite del significato: “Il corpo è il centro di quell’irradiazione simbolica, per cui il
mondo naturale e sociale si modella”68, si tratta di un corpo comunitario. Il corpo può fare esperienza del proprio
sé attraverso il contatto con la collettività, in questo senso esso si rivela essere il mediatore fra intimità dell’Io e
l’esteriorità del mondo. “Ogni esperienza è il riflettersi del mondo nell’Io e il modificarsi dell’Io per effetto del suo
rapporto col mondo”69. L'alterità è dunque per Ontani la condizione necessaria per il mantenimento della
soggettività nell’identità.

61
Giulia Giambrone, Luigi Ontani in teoria, Filosofia, estetica, psicoanalisi, nell’opera e nell’artista, cit.
Pag.5, “[...]Identità migratoria dell‘artista dovuta a una ricerca spaziale dell’Io […]”. “[...]Dialettica Io-Altro
[…].
62
Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina, Milano
2012, tenuto costantemente presente da Giulia Giambrone in Ontani in teoria, capitolo Identità e
identificazione.
63
Giulia Giambrone, Ontani in teoria.
64
Giulia Giambrone, Ontani in teoria pag. 28, cit. Op. Pag.23.
65
Giulia Giambrone, Ontani in Teoria.
66
Giulia Giambrone, Ontani in teoria.
67
Giulia Giambrone, Ontani in teoria.
68
U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2013, p. 33.
69
P. Ricoeur, Sé come un altro, cit., p.437
È interessante come in tutti tre i casi emerga il tema dell’identità. Questi artisti capiscono che attraverso il
travestitismo possono senz’altro giungere ad un ampliamento del sé, nonché ad una conoscenza maggiore della
propria persona, come nel caso di Ontani che rappresenta la svalutazione dell’Io come essere unico e riconosce
l’identificazione del singolo nel molteplice. Non solo, per loro il travestitismo ha significato una perdita di valore
nei ruoli di genere, che risultano essere frutto di stereotipi culturalmente definiti. L'intera cultura è falsa, poiché
gli individui tendono a seguire un solo modello e rispettare le norme che la società richiede, senza davvero
interrogarsi su chi essi siano. Per fare emergere questa “falsità”, o, per citare la Butler, “artificialità”, procedono
estremizzando alcune caratteristiche che solitamente determinano un comportamento tipico che le persone
imitano. Ad esempio, Duchamp evidenzia le movenze, le pose, l’abbigliamento e la civetteria di Rrose Selavy per
criticare sottilmente le donne degli anni Venti e ricordare loro quanto vani siano quei tentativi di emancipazione
se ci si accontenta di rispecchiare i canoni richiesti dai media per ricevere affermazione e notorietà, e allo stesso
tempo, critica l’affannoso tentativo degli uomini di rispecchiare il paradigma di mascolinità richiesto per
garantirsi l’onorabilità tanto bramata. Rispettare le etichette che la società e la cultura ci impongono è faticoso
e reprimente, diventa quasi normale voler ridicolizzarle attraverso il sentimento del grottesco, dell’esagerazione
e della parodia. Cindy Sherman sfida direttamente la società mettendo a nudo l’artificialità di cui siamo
intrinsecamente formati, esprimendo la sua poca tolleranza verso le regole che portano all’omologazione e ai
clichès sociali, non solo di genere ma anche di classe, razza e contesto storico. È significativo come la filosofia e
la psicoanalisi riescano ad intrecciarsi con questa pratica artistica così complessa, tanto da riuscirne a suggerire
i principi esecutivi. Si può, a questo punto, affermare che il cross-dressing, o il travestitismo, siano frutto di
profonde riflessioni sull’essere un individuo appartenente ad un certo tipo di società, e non solo frutto di un
sentirsi nel corpo sbagliato? È possibile sostenere che il travestitismo sia il risultato di una ribellione radicale
contro i sistemi sociali? Il travestitismo introduce quello che la Garber chiama, il “Terzo sesso”70. “Tre mette in
discussione l’idea di uno: di identità, di autosufficienza, conoscenza di sé”.71

Il terzo, decostruisce il binarismo, il sé e l’Altro. Il terzo, appartiene ad un sesso a parte, che non ha ancora nome.
Il terzo, è qualcosa che sfida la possibilità di una simmetria binaria armoniosa e stabile.

Il travestitismo è, pertanto, uno spazio di possibilità che struttura e disorganizza la cultura, e mette in crisi la
categoria in sé. Si ha la tendenza a condannare tutto ciò che stravolge il senso comune delle cose, se è fuori dal
nostro immaginario, allora è considerato sbagliato. Per molti uomini il peso della virilità è fonte di disperazione,
indipendentemente se ci si identifichi come omosessuale, transessuale o eterosessuale. Alfred Adler, come viene
mostrato in Interessi truccati, afferma che l’angoscia dell’uomo rispetto alla sua soggettività di genere lo induce
a produrre la mascherata femminile, egli identifica questa forma d’ansia nella transessualità. Ma come vengono
giustificati i casi in cui a produrre queste maschere sono uomini eterosessuali, ad esempio? La statistica
presentata dalla Garber proveniente dalla ricerca dell’International Foundation for Gender Education, accennata
verso l’inizio del saggio, mostra come la maggior parte dei candidati si identifichino come cross-dresser anziché
come transessuali; anche se non viene specificato in quale altra categoria essi sentano di appartenere, è chiaro

70 Marjorie Garber, “Interessi truccati”, Giochi di travestimento e angoscia culturale”, Raffaello Cortina Editore,
1994. Il terzo sesso non è androgino, non è ermafrodito, semplicemente, non ha termine, è uno spazio del
possibile.
71 Ibidem, p.13.
che la decisione di rendere parodica la femminiltà, o la mascolinità, nel caso di donne, non debba
necessariamente dipendere dall’orientamento sessuale, e se, anche così fosse, la questione della messa in scena
dell’artificialità del soggetto rimarrebbe ugualmente valida e addirittura predominante.

Nella Drag, le Queen 72, mettono in scena uno spettacolo dove l’artificialità del genere regna sovrana. Vuole
essere un’espressione anticonformista e radicale, in cui l’esagerazione dei personaggi mette a nudo una realtà,
a cui molte volte non si vuole far caso per via di un ideale di normalità a cui si sente il dovere di aderire. La
diversità fa paura, ma le Draq Queen, e i Drag King73, hanno decisamente trovato una maniera sovversiva per
abbattere tale timore. La Garber in Interessi truccati, sostiene che i critici hanno alla tendenza ad appropriarsi
del cross-dresser come se fosse uno dei due sessi, e questo secondo lei distoglie lo sguardo dal travestito in
quanto tale, l’autrice invita a non vedere il cross-dressing come mascolinità o femminilità mancate, per ragioni
sociali e culturali che siano, perché ciò potrebbe “sottostimare” l’oggetto74.

Drag Lip Show al Ride Milano, 09.10.2020, (foto scattata con smartphone)

Drag Lip Show al Ride Milano, 09.10.2020, (foto scattata con smartphone)

72
Cosiddette per il loro look da Regina, interpretate da uomini.
73
Nel caso siano donne.
74
Marjorie Garber, “Interessi truccati” Giochi di Travestimento e angoscia culturale, Raffaello Cortina
Editore, 1999, p.12.
Drag Lip Show al Ride Milano, 09.10.2020, (foto scattata con smartphone)

Non si curano più di far parte della maggioranza, vogliono rompere gli schemi. L'obiettivo della teatralità del
Drag Show è, appunto, ridicolizzare la rigidità del binarismo dei ruoli75. La norma non produce necessariamente
delle identità stabili, e l’esempio del travestitismo, come ci insegna la Butler, mostra come la realtà dei corpi
“non [sia] fissa come crediamo di solito” 76. Esporre l’artificialità del genere può aprire così uno spazio
indeterminato nel quale forme di identificazione alternative diventano possibili.

Ad una mostra fotografica a cui ho preso parte, veniva messa in luce la questione dell’identità. L’esibizione,
intitolata “Gender Project”77, presentava i ritratti di Cento candidati appartenenti alla comunità LGBTQ+, che
l’artista, ha voluto associare all’accompagnamento audio di alcuni dialoghi, della durata di un‘ora, avuti con
ognuno di loro prima dello scatto della fotografia. Soggetti e fotografa hanno assunto volontariamente una
posizione aperta e vulnerabile l’uno di fronte all’altro per discutere della fluidità di genere e del concetto di
identità. Il progetto parte dalla riflessione sull’etimologia della parola “Genere”, solo vagamente legata al sesso
e più ampiamente associata dal latino alla parola,“Gentilezza”. La mostra spinge a non classificare o etichettare,
e richiede un concetto di fluidità più ampio. Lo spettatore è stato infatti invitato, osservando e ascoltando 78, a
rivivere il confronto tra Veronique e i candidati, e, accumulare così informazioni su come si sono costruite le
identità e il significato della parola “genere”. In ogni società ci sono diverse norme e credenze per quanto
riguarda il genere, dunque i ruoli sociali, di uomini e donne, si basano sulle norme culturali di quella società, e
portano alla creazione di sistemi di genere. La categorizzazione di maschi e femmine crea un disagio di base, in
quanto, gli individui sentono di dover essere all’estremità di uno spettro lineare e devono identificarsi come
uomo o donna, piuttosto che essere autorizzati a scegliere dove posizionarsi. A livello globale, le comunità

75 Donatella Lanzarotta, Corpi ad arte La Drag Queen e l’illusoria consistenza del genere.
76
Citazione di Judith Butler ripresa da L’artista è una donna di Giovanna Zapperi.
77
Progetto artistico della fotografa Veronique Charlotte tenutosi tra il 6 e l’11 ottobre 2020 al Ride
Milano, un nuovo hub culturale.
78
Le fotografie erano esposte lungo tutto il perimetro della sala per file parallele; tramite l’ascolto dei
dialoghi in lingua originale (inglese), si aveva l’opportunità di rivivere i discorsi passeggiando tra i vari
scatti fotografici, che raffiguravano i volti di ognuno dei soggetti presi ad esame. L’artista voleva ci si
approcciasse a questa esposizione con gentilezza e apertura mentale, messaggio alla base dell’intero
progetto.
interpretano le differenze biologiche di base tra uomini e donne per creare un insieme di aspettative sociali che
definiscono comportamenti appropriati per entrambi.79

Questa mostra è stata per me, un’ulteriore conferma del labile significato dei ruoli di genere e di come in realtà
si conosce ancora ben poco dell’identità che caratterizza gli individui. Dietro la pratica del cross-dressing e del
travestitismo, si celano delle verità, e quelle verità vogliono emergere a gran voce attraverso l’atto provocatorio
di chi sa di non essere ascoltato.

“GENDER PROJECT” (IMMAGINI)

I Cento ritratti “Gender Project” di Veronique Charlotte, (foto scattata con smartphone)

79
Resoconto dell’illustrazione delle immagini e l’ascolto dei dialoghi proposti dalla fotografa. Veronique
si concentra poi anche sui ruoli di genere, e di come essi determinino diverse posizioni di potere nella
società; queste posizioni di potere portano alla separazione dei sessi e al primato delle norme
maschili.
Ritratto fotografico, Veronique Charlotte, 2020 (foto scattata da smartphone)

Ritratto fotografico, Veronique Charlotte, 2020, (foto scattata con smartphone)


i

Ritratto fotografico, Veronique Charlotte, 2020, (foto scattata con smartphone)


Bibliografia

Giovanna Zapperi, L’artista è una donna, La modernità di Marcel Duchamp, ombre corte/culture,
2014.

Giulia Giambrone, Luigi Ontani in teoria, Filosofia, estetica, psicoanalisi nell’opera e nell’artista, I
edizione (Territori della Psiche), Roma, 2019.

Ingried Brugger, Bettina M. Busse, Paul Clinton, Maren Lubbke-Tidow, The Cindy Sherman Effect,
Identity and tranformation in contemporary art, Schirmer/Mosel, Kunstforum Wien, 2020.

Simon Doonan, Drag, The complete Story, Laurence King Publishing, 2019.

Janine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1987.

Donatella Lanzarotta, Corpi ad arte La Drag Queen e l’illusoria consistenza del genere, ombre
corte/culture, Verona, 2014.

Marjorie Garber, Interessi truccati, Giochi di travestimento e angoscia culturale, Raffaello Cortina
Editore, Milano, 1994.

Francoise Héritier, Maschile e femminile, il pensiero della differenza, Editori Laterza, Bari-Roma,
2002.

Daniele Arasse, Non si vede niente, Descrizioni con nota introduttiva e un testo in appendice di
Claudia Cieri Via, Artemide Edizioni, Roma, 2005.

Sabine Melchior-Bonnet, Storia dello specchio, prefazione di Jean Delumeau, Edizioni Dedalo, Bari,
2002.

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