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“Ipocrisia antica” e “ipocrisia

moderna”: la maschera e il “daimon”

Nove glosse (e un appendice) sul significato intimo di


“ipocrisia”, sulla maschera come forma di disciplina
sacra, sull’impersonificazione del “daimon” o dell’anti-
self di Yeats; e ancora sul Rito, sulla “Caduta”, e
sull’Amore.

di Daniele Capuano
immagine: maschera tragica proveniente dell’antica Grecia

Ipocrisia deriva dal verbo greco hypokrinein, “entrare nel dialogo


sulla scena”, “interpretare una parte”. Nella sua archè l’ipocrisia è
dunque la simulazione, la risposta agli eventi di chi entra nella dialettica
della cultura, del sentimento [1], è la recita come espressione mediata del
proprio typos: mediata però dal sentimento stesso, dalla sua capacità di
rispondere alle circostanze, di riecheggiarle, di imitarle o di farle risuonare
mimeticamente nel gesto, nella messinscena culturale.

Occorre discernere tra questa ipocrisia – che chiamerei l’ipocrisia


archetipica – e quella maledetta da Gesù, e distinguere ulteriormente
quest’ultima dall’ipocrisia comunemente intesa. Gesù non predicava
in greco, ma i Vangeli sono scritti nella koinè dei primi secoli dell’era
volgare, e la parola hypokritès, usata soprattutto nelle violente tirate
contro i perushim (farisei), al lettore di formazione classica finirà per
suggerire il religioso “commediante”, l’eterna caricatura dell’uomo che
manipola o subisce la scissione inerente ad una pratica spirituale
imperfetta.

Ma tale accezione è meglio veicolata dal corrispettivo termine ebraico: in


un famoso passo del trattato talmudico Sotah (22b) si dice che non
bisogna temere i farisei o i non-farisei, ma «gli ipocriti che scimmiottano i
farisei, perché i loro atti sono quelli di Zimri ma si aspettano una
ricompensa come quella di Pinchas» [2]. La parola tradotta con ipocriti
è tzevuʻin, letteralmente “i dipinti”, “i colorati”: qui l’immagine non è
tratta dalla sfera del teatro e dell’oratoria, ma da quella della tintura e
della cosmesi.
Si tratta come si vede di due “ipocrisie” ben diverse: quella maledetta da
Gesù è l’ipocrisia di un ordine sacro nel suo complesso, un’ipocrisia
collettiva e soprattutto inconscia, mentre l’ipocrisia della fantasia popolare
e del brano talmudico è soprattutto cosciente, anche se il più delle volte si
tratta di una coscienza spezzata, dimidiata, compressa [3]. In un caso
come nell’altro, tuttavia, il monoteismo sembra vincolato a vedere
nel trickster mercuriale, nell’imbroglione delle favole e dei miti, solo
un laido manipolatore e profanatore, e nell’attore, nel travestito, nel
declamatore e interprete dionisiaco solo un “cembalo che tintinna” –
e un ipocrita.

⁂⁂⁂

Epitteto insegna che i nostri doveri sono commisurati alle relazioni (tois
schesesi), colte però nella loro trasparenza archetipica: «“Ma il mio è un
cattivo padre!” Per la natura delle cose sei forse stato messo in rapporto
con un buon padre? No: semplicemente con un padre» (Ench. 30). Devi
dunque trattarlo come un padre – come il Padre.

Uno dei “cavalieri” di Eranos, Henry Corbin, geniale riscopritore dell’Islam


iranico, ha indicato nell’idea di ʻālam al-mithāl la via per riportare gli
archetipi nell’esperienza terrestre, per ricondurre gli dei tra noi: la via
regia della psicologia archetipica. Lo ʻālam al-mithāl, da lui tradotto con
l’espressione latina mundus imaginalis, il piano ontologico che media
fra quello spirituale sovraformale e quello materiale – il piano
dell’anima – è mondo delle immagini proprio in quanto “mondo della
similitudine”, mondo del come se [4].

Nel 1978 James Hillman scriveva che «le immagini non significano
niente» (non sono il rivestimento di concetti, non sono sentieri che
guidino ad un significato ulteriore o superiore) e citava Edward S. Casey:
l’immagine non è ciò che si vede, ma il modo in cui si vede [5]. Queste
espressioni, così ben intonate con lo spirito del migliore pensiero
novecentesco, suggeriscono che gli archetipi sono stili di comportamento,
non il “che cosa”, il contenuto dell’immagine, che viene astratto
dall’immagine stessa, ma il “come”, l’immagine nel comportamento e il
comportamento nell’immagine.

⁂⁂⁂

Compito dell’uomo è impersonare l’archetipo, dargli (nel linguaggio di


Ibn ʻArabī) un mazhar, un “ricettacolo epifanico”, un luogo, un dove per
la sua manifestazione. Per questo deve prima fare e poi ascoltare (e
pensare), secondo la grande parola del Sinai: «Tutto ciò che il Signore ha
detto, noi lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24,7).

Ogni disciplina è creazione di abiti, di abitudini: attraverso le azioni si


entra nell’aura, nello stile dell’archetipo che si vuole impersonare e lo
si lascia entrare sempre più in profondità, incarnandolo. L’adesione
interiore piena, intera, avviene quando si scopre che si è già data
un’adesione preliminare, che si è già prestato un assenso, che l’unica via
per superare i conflitti della volontà e del pensiero è quella di lasciarsi
plasmare da un destino segnato, inciso, radicato in un pragma, in un
organismo di azioni significative – ovvero in un mito, una cultura, un nesso
archetipico.

Qui non si dà “libertà di scelta”: faremo, e ascolteremo. Anche il


Corano parla di un “patto” (mithāq) preesistenziale, in cui tutte le creature
hanno dato il loro assenso alla signoria divina (rispondendo «Sì» alla
domanda di Allah: «Non mi manifesto io come vostro signore?» [6]). Nelle
pagine forse più intensamente autobiografiche di Anna Karenina, Tolstoj fa
ritornare il suo Kostja Levin alla fede “materna”, che precede ogni
domanda, ogni rovello, che tutto fonda e sostiene nella sua silenziosa
permanenza [7]. Per dirla con le parole di Chesterton, c’è nell’uomo «una
lealtà che viene ben prima di ogni ammirazione» [8].

Su questo piano la scelta è hairesis, eresia. Uno dei termini-chiave di


Epitteto è invece proairesis, che potremmo tradurre con “decisione
preliminare, impegno, voto”. Voto e scelta sono tutt’altro che sinonimi:
non sono nemmeno due contrari logici, ma il loro rapporto sembra quello
di un’opposizione dialettica. Il voto è una volontà che precede e abbraccia
la volontà, che le porge un contesto. Il voto è contenitore, non contenuto:
è un grande setting terapeutico che (come ogni setting) sembra contrarre
la vita e invece la accoglie e plasma [9]. Implica che ogni cosa – ogni
“scelta” e ogni “fatalità” dell’esistenza – venga riferita alla sua priorità, al
suo concreto a priori: quindi non si dovrà dire solo tu es sacerdos in
aeternum, ma anche tu es pater, magister, maritus etc. in aeternum.

Il matrimonio è un esempio piuttosto impressionante di voto, e ci mostra


come del voto si possano dare due letture contrastanti. Da un lato il voto
come giuramento: Gesù insegna a non giurare (Mt 5,34), perché noi non
possediamo noi stessi, il contenuto della vita, che è contingenza, volontà
di Dio; dall’altro il voto come impegno, come contenitore della vita:
attraverso di esso restiamo fedeli alla contingenza nella necessità,
ritualizziamo la vita, la viviamo al cospetto delle archai, alla luce
delle archai, sub specie aeternitatis.

⁂⁂⁂

I desideri, le aspirazioni, non possono attendere pienezza dal mondo,


dagli altri: ciò è impossibile, è la rettorica nel senso di Michelstaedter, è
la nevrosi, la non-iniziazione dell’eros infantile, che nell’adulto si avvelena
e avvelena: iniziazione, persuasione sarà appunto capovolgere la
prospettiva, morire, rendere embrionalmente presente ciò che si
attendeva dal futuro e dall’ipocrisia maligna dei propositi, della scissione
interiore, del libero arbitrio angosciato; in tal modo si diventa fecondi, si
crea, si è presenti all’archè, al principio.

In principio era l’azione (Goethe), ovvero l’azione rituale (Wittgenstein)


[10]: il rito placa l’angoscia proprio perché ne arresta l’oscillazione
illimitata, è redenzione dell’infanzia dalle sue passioni incontrollate («se
non diventerete come bambini», non «se non ritornerete bambini»), il
recupero di un’infanzia passata attraverso il crogiuolo della morte [11].

⁂⁂⁂

Da anni ormai mi vado convincendo che la nostra cultura, basata


sulla sincerità e sulla realizzazione di sé, ci rende miti e passivi e che
il Medioevo e il Rinascimento avevano ragione a basare la loro cultura
sull’imitazione di Cristo o di un eroe classico. San Francesco e Cesare
Borgia riuscirono a diventare personalità dominanti e creative passando
dallo specchio alla meditazione su una maschera.

Se non riusciamo a immaginarci diversi da quello che siamo e ad


assumere quel secondo sé, non possiamo imporci una disciplina,
anche se possiamo accettarne una da altri. La virtù attiva, che è diversa
dall’accettazione passiva di una regola, è perciò teatrale,
consapevolmente drammatica, è indossare una maschera.
Wordsworth, per quanto grande come poeta, è così spesso piatto e
tedioso anche perché il suo senso morale – disciplina che egli non si è
creato autonomamente, ma è semplice obbedienza – non possiede alcun
elemento teatrale [12].

La rivendicazione moderna dell’“autenticità” è il più delle volte


rivendicazione dell’ego, quindi dell’identità falsificata dalle passioni:
è l’affermazione (angosciata) del diritto alla passione («non posso farci
nulla», «è la mia natura», «quando ci vuole, ci vuole»). Il rito invece è
mediazione, è vidyāmāyā, illusione come sostrato della conoscenza e
quindi della verità: nel rito non c’è l’inquietudine egoica della “scelta”,
si è già in ballo e si balla, è uno status che si suppone fondato da una
parola, da un ordine archetipico e che è dato ripetere-rinnovare
come voto, iniziazione.

Come profetizzava Nietzsche, la separazione-opposizione tra verità e


apparenza, tra autenticità e finzione, ha portato l’Occidente a cadere nel
nichilismo, che è l’esperienza del nulla. Yeats ribadisce quello che è
insieme un paradosso e un truismo (come tutti i buoni paradossi e i buoni
truismi): l’autenticità è un’illusione, l’essenza della vita è artistica.
Non si è se stessi se non indossando una maschera: e per Yeats la
maschera è anzitutto un anti-self, un anti-sé o secondo sé, un sé
posto di fronte al sé.

⁂⁂⁂
Il daimon non visita ciò che gli è simile ma va alla ricerca del proprio
opposto perché l’uomo e il daimon nutrono la brama l’uno nel cuore
dell’altro. Il fantasma è semplice, l’uomo eterogeneo è confuso, e perciò
essi si congiungono solo quando l’uomo trova una maschera i cui
lineamenti gli permettono di esprimere tutto ciò che non ha (che è forse
ciò che maggiormente teme) e solo quello.

⁂⁂⁂

Se penso alla vita come a una lotta con il daimon, che vorrebbe sempre
che ci dedicassimo all’opera più difficile fra quelle non impossibili,
comprendo il motivo della inimicizia profonda fra l’uomo e il proprio
destino e perché l’uomo ama solo il proprio destino. E allora la mia
immaginazione va dal daimon all’amata, e intuisco un’analogia che
sfugge all’intelletto. Penso agli antichi greci che invitavano a cercare le
stelle primarie, che governano sia l’inimicizia che l’amore, fra quelle che
stanno per tramontare, nella settima casa, direbbero gli astrologi; e che
forse “l’amore sessuale” che “è fondato sull’odio spirituale”, è un’immagine
del conflitto che esiste fra uomo e daimon; e mi chiedo perfino se non ci
sia una comunione segreta, un mormorio nel buio fra il daimon e l’amata
[13].

Il daimon, che è più noi di noi stessi, si incontra mettendo sul volto le
maschere degli avi: le imagines romane, maschere funebri
dei maiores indossate dai discendenti nelle cerimonie solenni.
Dobbiamo “diventare” l’anima, il daimon che “siamo”, e quindi
diventare la storia, il passato, ma solo e sempre nella sospensione del
“come se”, nel mundus imaginalis, sempre per speculum in aenigmate,
sempre in modo teatrale, ipocrita.

È lo statuto ontologico del daimon – uno statuto mediano e mediatore – a


imporre l’ipocrisia artistica, perché noi, a rigor di termini, non “siamo”
l’anima e il daimon: la tensione e lo scarto sono ineliminabili. Noi
conosciamo noi stessi, secondo il precetto delfico e quindi apollineo,
solo nell’alterità dionisiaca dell’immagine, della maschera che, come
il daimon, è noi-non noi, nostra-non nostra.
Giustamente Yeats parla della lotta tra noi e il daimon, e la paragona a
quella con l’amata: ciò che ci è più prossimo vieta ogni indiscreta intimità,
ogni volgare immediatezza. L’amor fati è come l’amore per una donna,
che ne è spesso il veicolo: il coraggio necessario ad abbracciare
l’ombra e l’alterità non è quello monolitico, unilaterale dell’io solitario,
ma un continuo scambio, un gioco di parti, vero perché ipocrita, una
fuga sui crocicchi e i trivi di Hermes che sono anche gli incroci e le croci
dell’opposizione tragica, di Apollo e Dioniso.

⁂⁂⁂

La maschera è il volto del rito: l’identità come dramatis persona,


come personaggio del dramma. È l’identità dionisiaca: l’eroe tragico
si consuma nel suo daimon, che non è un’identità umana, un io, è anzi
in tensione con l’io, è una potenza mediatrice, una manifestazione del
dio.

Il destino nobile, tragico, si consuma attraverso l’ananke, è


iniziazione al proprio volto eterno; il destino ordinario, comico, si
scioglie nel mero spettacolo della tyche. Al mattino la maschera piange, la
bocca curvata sotto il giogo dell’individuazione: alla sera ride [14], il
travaglio umano nell’impersonare gli archetipi si fa risata liberatrice
(Dioniso Lysios) dalla gravità, gli archetipi sono colti nella buffonesca e
ancor più iniziatica contingenza della loro incarnazione (la lacrimosa
Caduta si fa grottesco capitombolo, culata).

⁂⁂⁂

Anche chi ha scritto queste brevi glosse è un personaggio, un typos,


una dramatis persona richiesta dal dialogo del pensiero, dalla sua
dialettica, uno hypokrites che risponde alle sollecitazioni dell’Antagonista:
e anche la sua maschera è un anti-self, perché solo un moderno
ossessionato dall’autenticità, angosciato dalla festa, sradicato dal rito,
poteva sciogliere un canto di lode alla sacrosanta ipocrisia.
Maschera tragica, Pompei.

Note:

[1] La funzione sentimento è (con la funzione pensiero) una delle


funzioni razionali, in quanto legata alla valutazione. Nel sistema simbolico
classico potrebbe corrispondere al cuore solare come la funzione
pensiero al cervello lunare: sarebbe dunque, per così dire, il sole
dell’anima o della persona. In essa l’opposizione tra autenticità e finzione
(e quindi tra teoretica, etica ed estetica) è conciliata, perché il sentimento
percepisce le aure culturali, la trama significativa delle situazioni, non
nessi di oggetti e tantomeno oggetti isolati: è interiorità e comunità
insieme.

[2] In Num 25 gli israeliti si accampano a Shittim, dove trasgrediscono le


loro norme sulla purezza sessuale e matrimoniale congiungendosi con
donne straniere e praticando insieme a loro il culto di Baʻal-Peʻor (il
Beelphegor della traduzione greca). Tale Zimri introduce nella sua tenda
un’amante madianita: Pinchas, il Sommo Sacerdote, li segue e li trafigge
entrambi con un solo colpo di lancia, squarciando il “basso ventre” della
donna (probabile significato di qavatah): così fu arrestata la “piaga” che
decimava Israele. Il passo talmudico significa perciò che l’ipocrita, pur
agendo come Zimri, l’idolatra dissoluto, si aspetta la ricompensa destinata
agli zelanti (noi diremmo fanatici) come il sacerdote Pinchas.

[3] Chiamerei la prima “ipocrisia tragica” o “apocalittica” e la seconda


“ipocrisia morale”.

[4] L’intuizione metodologica del “come-se” andrebbe studiata nella sua


complessa genealogia, che dalla raffinata revisione di Hillman risale,
attraverso Adler, all’originale esegesi kantiana di Hans Vaihinger, autore
appunto del testo fondamentale Philosophie des Als Ob (1911). Al di là
degli spunti pragmatico-costruttivistici, ampiamente sviluppati dalla
filosofia del Novecento, ci sembra che la matrice kantiana del concetto
resti insuperabile (con tutto il suo portato di dualismo tra cosa in sé e
fenomeno, tra verità irraggiungibile e apparenza inconsistente) finché non
si recuperi uno sguardo realistico e platonico insieme: come quello di
Niccolò Cusano, che definisce congetture le conoscenze umane positive
in quanto partecipano della verità nell’alterità, ovvero nell’immagine, e
quello dei commentatori neoplatonici di Aristotele come Simplicio, che
riconciliano lo Stagirita e gli Eleati assegnando alle proposizioni della fisica
(ovvero concernenti il mondo del divenire) uno statuto di verosimiglianza,
oggi diremmo di modello o ipotesi.

[5] Entrambe le citazioni in J. Hillman, Enciclopedia del Novecento, voce


“Psicologia archetipica”, Treccani, Milano, 1981.

[6] Sura 7 – Le altezze (al-Aʻrāf) – v.172: «Quando il tuo Signore trasse dai
lombi dei figli di Adamo tutti i loro discendenti e li fece testimoniare su se
stessi (lett. sulle loro anime): “Non sono io il vostro Signore? (alastu bi-
rabbikum)”, ed essi risposero: “Sì, lo attestiamo (balā shahidnā)”».

[7] Cfr L. N. Tolstoj, Anna Karenina, p. 8, capp. 12-13. È una sorta di


“lingua materna” dell’anima: dunque niente di letteralmente innato o
istintivo, ma una sorta di strato primario dell’acculturazione – anteriore
all’iniziazione paterna, ma già caratterizzato, in quanto tale, da una
differenziazione che è l’operazione stessa del radicamento, dell’accesso
alla comunità. Tale linguaggio materno, tale fede materna, non può essere
propriamente perduto e forse nemmeno rinnegato: tuttavia lo si può
distorcere, camuffare, frantumare e così via. Non è ovviamente una
garanzia di salvezza e nemmeno di stabilità: anzi, proprio per questo è
essenziale l’intervento paterno, che contrae e ritualizza il rito primario
(ponendosi quindi in una posizione inizialmente secondaria, derivata) – le
minacce della ninna-ninna vengono portate su un proscenio al tempo
stesso più ampio e più ristretto, più illusorio e più trasformante, più
rigidamente fissato e più aperto al commento. Non è un caso che Gesù
muoia invocando il Padre assente con un testo dei suoi padri morti (un
salmo di Davide) cantato nella lingua materna, l’aramaico. Come dire che
la fede materna non è che lo sfondo sul quale accade l’iniziazione
crocifiggente: non una rete di protezione, ma proprio8 la tomba – che non
si sente e non si può sentire come utero (così come nell’utero non si è
sentita la nascita come nascita), ma proprio come vuoto e negazione e
proprio nel momento stesso in cui affiora alle labbra, alla memoria, al
corpo nella forma del canto.

[8] G. K. Chesterton, Orthodoxy, c. V, traduzione mia. In un altro capitolo


(IV) Chesterton porge un koan che è una chiave per l’ipocrisia della fede:
commentando la fiaba della Bella e la Bestia, osserva: «Una cosa
dev’essere amata prima che sia amabile».

[9] Oppure diciamo: la contrae davvero, ma nel senso che la riscatta dalla
sua caotica indeterminatezza, dalla sua presunta e morbosa
“spontaneità”.
[10] Solo per la mente moderna l’Azione di Goethe e la Parola del Vangelo
giovanneo (e del libro della Genesi) sono distinte e anzi incompatibili: per
la mente antica e in special modo per l’uomo biblico, davar è sia la parola-
ordine che l’azione-cosa pronunciata-ordinata.

[11] Anche se nelle culture tradizionali, rituali, si tratta di una morte forse
più dolce, perché il senso della solitudine individuale è meno sviluppato,
ogni individuo è un embrione che nuota nell’utero della comunità e del
cosmo ed è accompagnato alla sua maturità, la percezione tragica del
mondo è da un lato più forte proprio perché l’occhio è allenato al rito, allo
spettacolo, alla recita, ma dall’altro è meno angosciante, meno logorante,
meno disperante, proprio perché quell’occhio, quello sguardo, preserva
l’individuo dall’insensatezza, dalla lacerazione che accompagna la perdita
del rituale.

[12] W. B. Yeats, Per amica silentia lunae, a cura di G. Scatasta, SE,


Milano, 2009.

[13] Ibid.

[14] Nel contesto delle Grandi Dionisie, le tragedie venivano


rappresentate al mattino, le commedie di sera.
Richard Baxter, “Narcisus and Echo”.

Appendice: Ancora sulla “ipocrisia”,


sulla Caduta e sull’Amore

« L’amore non è un sentimento. L’amore viene


messo alla prova, il dolore no. Nessuno dice:
“Quello non era un vero dolore, altrimenti non
sarebbe finito così presto”. » (Wittgenstein)

Una sorta di glossa al “debito amore” di Dante, che per i moderni è


una contradictio in adiecto. Dunque l’amore è libero, mentre il
“sentimento” (non nel senso di Jung), lo “stato” mentale ed emotivo, non
lo è. La Caduta rende impossibile l’autenticità, o per dir meglio la
trasferisce oltre l’ultimo orizzonte, nel Giorno che rivela a ciascuno il
suo vero nome.

Rilke ha intuito che il mito di Narciso merita una lettura diversa da


quella solitamente negativa – moralistica, neoplatonica,
psicoanalitica. Amando l’immagine riflessa Narciso ama davvero un
altro, e al contempo se stesso: ma nell’estasi erotica, nel salto della
nascita-morte l’identità è dimenticata, perduta, offerta, e risorge come il
torpido aroma di un fiore. Per diventare frutto, Narciso oltre
all’eros dovrebbe sperimentare l’obbedienza, la hypakoè. L’obbedienza è
l’ipocrisia suprema: supera l’incantesimo erotico dell’occhio – al livello del
quale l’ipocrisia è “pittura”, trucco superficiale – con la profondità
dell’ascolto (hyp-akoè) tutto proteso al Verbo.

All’inizio l’uomo la sperimenta come doppiezza: il Verbo è una spada


a doppio taglio che separa l’anima dallo spirito, ma come nella Genesi,
per imprimere al caos della falsa immediatezza (l’immediatezza caduta) la
direzione del kosmos, in cui interno ed esterno corrispondono
armoniosamente (come profetizza la preghiera di Socrate nel Fedro,
culmine della rivelazione erotica). In tal modo si è semplici come colombe
– volti a un telos che tutto unifica, spiritualmente monogami – e astuti
come serpenti – capaci di aggirare omeopaticamente la doppiezza del
Serpente con il taglio operato in noi dall’obbedienza.

Nella creatura caduta l’identità si svela infinitamente non solo e non tanto
attraverso gli altri, ma negli altri e come gli altri. Amerai il prossimo
tuo come te stesso: non è una similitudine, che separa, ma l’intuizione
vissuta di un vincolo che unifica senza dissolvere. Siamo tutti colpevoli di
tutto davanti a tutti, diceva il fratello di Zosima nei Karamazov: l’unità del
purgatorio che è già intimamente paradisiaca. La Torah non inizia con la
prima lettera, la alef, ma con la seconda, la beth, che come preposizione
(“in, attraverso”) indica inerenza, località, mediazione – relazione.

L’ipocrisia è l’imitatio Dei nel tempo intermedio dell’attesa: la Legge


non può essere osservata perché la volontà dell’uomo è incatenata e il suo
occhio interiore offuscato, ma vivendo alla luce del comandamento, votati
al comandamento, si riceve la grazia di incarnarlo, di non essere più
all’esterno del comandamento, ma la sua manifestazione nel
mondo. L’espressione perfetta dell’ipocrisia messianica in dialettico e
potente contrasto con l’ipocrisia dell’ordine sacro costituito (Mt 6, 16-18):

« Quando digiunate, non diventate scuri in volto


come gli ipocriti, poiché essi annientano i loro
volti affinché sia manifesto agli uomini che
stanno digiunando: amen, io vi dico, hanno già
ricevuto il loro salario. Ma tu, quando digiuni,
ungiti il capo e lavati il volto, affinché non sia
manifesto agli uomini che digiuni, ma al Padre
tuo che è nel segreto. E il Padre tuo che vede
nel segreto ti ricompenserà. »

L’ipocrita “religioso” è in tristitia tristis: manifesta sul volto la


tristezza del digiuno, del lutto, dell’esilio, fa del volto una maschera
dell’interiorità esule, della lacerante attesa. L’ipocrita che annienta il
proprio volto sta biblicamente annientando il proprio cuore, e in tal modo
si intona debitamente allo spirito di nostalgia dell’esilio; ma l’esilio portato
sul volto ha concluso la sua parabola, arrestato il suo dinamismo, gli
uomini lo vedono, lo imitano e hanno già il loro salario, la consolazione
rituale di sperimentare la vicinanza alla Shekhinah divina esiliata.

Proprio perché lacerante, l’attesa chiede all’uomo di essere in


tristitia hilaris: il volto sia festoso, quindi anche il cuore, per quanto
possibile; si anticipi ipocritamente il banchetto del Regno, e il dolore stia
lì, come una terra scura, un humus calpestato – dove solo Dio, il vero
attore dell’esilio, possa vederlo, cioè assumerlo in sé. In tal modo il
Padre apodosei soi, ti darà la ricompensa che hai già iniziato
ad impersonare, a manifestare: ovvero, secondo il primo significato del
vero apodidomi, “restituire”, ti restituirà te stesso, la tua identità prima e
ultima, oltre doppiezza e autenticità.

Accusando di ipocrisia la legge religiosa antica per il suo atteggiamento


nei confronti della sessualità, ad esempio quella che oggi si chiama
sbrigativamente omosessualità ed è l’espressione sessuale
dell’omoerotismo, si dice la parola opportuna senza comprenderne
l’opportuno significato, come Caifa nel sinedrio. Il concetto di
omosessualità non poteva nascere nell’“ipocrita” mondo antico: infatti è
nato nel sentimentale e brutale mondo moderno, nel XIX secolo positivista
e sottilmente sadiano (la “natura insopprimibile” alternativamente
colpevolizzata o giustificata).

La legge religiosa proibiva certi atti: perché l’esistenza umana è un


rito, e il rito è un temenos, uno spazio circoscritto che opera un
taglio, una scelta fra tutti gli atti possibili. Si obietterà che condannare
alcuni atti equivale a condannare l’individualità che li compie, la struttura
interiore che in essi si manifesta: ma anche in questo caso è un giudizio
che si attaglia molto di più alla nostra epoca e al suo culto dell’autenticità
e dell’individuo.

La comunità antica non escludeva alcun sentimento, perché sapeva


che il sentimento non è in nostro potere, e nella sua radice è creazione
di Dio: vietava l’atto, non perché questo sia davvero in nostro potere in
senso astratto, pelagiano, ma perché il divieto dell’atto è un limite, un
orizzonte, una forma per l’itinerario dell’anima. Il sentimento,
l’esigenza profonda non solo non era negata, ma si trovava indirizzata ad
una sfera di espressioni molto ricca e articolata: veniva benedetta come
ogni creatura. Osserva J. M. Langer che la vita spirituale ebraica si è
mantenuta per secoli sull’equilibrio tra l’eros paideutico che lega maestri e
allievi e gli allievi fra di loro e la grande mistica dell’unione nuziale:
l’affettività profonda tra persone dello stesso sesso era chiamata ad un
comune cammino di santificazione, purché l’atto sessuale restasse
riservato al sacerdozio domestico, nuziale.

Questa è ipocrisia: ma ipocrisia che invece di mutilare plasma. Oggi


l’amore tra persone dello stesso sesso, assediato dall’onnipresente
retorica dell’autenticità, dei diritti, dello status naturale, è invece mutilato
come tutti gli amori, condannato ad essere una variante emarginata
(quindi alternativamente vergognosa e orgogliosa, come i poveri e tutte le
altre “minoranze”) del gran mercato capitalistico dei sentimenti,
un’opzione inessenziale nell’esistenza da schiavo dell’homo oeconomicus.

L’atteggiamento del religioso dei nostri tempi nei confronti


dell’omosessuale è caratterizzato da quell’ipocrisia inconscia e tragica
che accompagna da sempre e per sempre la permanenza dell’ordine
sacro. Il religioso non sembra accorgersi quasi mai che
l’“omosessualismo” moderno è l’altra faccia di un “eterosessualismo” per
lo più sconosciuto ai nostri maiores: l’idea che l’amore sessuale tra l’uomo
e la donna sia “normale”. Su questo punto la distanza tra credenti e non
credenti non è essenziale: il più delle volte entrambi ignorano che si tratta
di un vino orribilmente nuovo, lo spirito dell’epoca, negli otri tragicamente
vecchi del matrimonio o della passione sottratta al rito, alla piazza, alla
comunità. Quando sentiamo che qualcosa è giustificato, invece che
sospeso alla misericordia benedicente di Dio, abbiamo già ricevuto il
nostro salario, il vino che consola per un po’ nella marcia dell’esilio. Ma
l’ipocrisia della fede è stupida di stupore nei confronti del rito cui si
sottomette; non giudica: mette in scena, celebra, e attende.

Il “secondo me” dei moderni è una di quelle ridondanze che


tradiscono il carattere di un’epoca. Nella discussione, nella dialettica,
come insegna Florenskij, si foggia una dramatis persona, un tipo, un
personaggio, non si esprime “se stessi”. La complessità multidimensionale
della persona non può esprimersi ed essere conosciuta direttamente e
conclusivamente, come Dio non può essere conosciuto in sé, nella sua
essenza.

L’ipocrita è un essere appeso al filo: il suo ego, l’aggregato degli stati


corporei e mentali, è un burattino di legno mosso dal Burattinaio che
è nei cieli. Per diventare un figlio di carne deve sapere che, in questo
preciso momento, non è altro che un Pinocchio, una marionetta, thauma,
secondo la pregnante parola platonica.

Al termine del viaggio l’eroe arriva davanti ad una porta, infera e


celeste, che deve varcare. I suoi battenti sono le coppie dei contrari: per
entrare l’eroe dev’essere in tristitia hilaris e in hilaritate tristis,
sperare nella disperazione e disperare di ogni cosa nella speranza. L’eroe
supera la soglia “senza chiedere il permesso”, come dice il Talmud, sa
che è un suo diritto di nascita, ma non può esserne sicuro: il suo è
anche un bluff, oltre alla semplicità del coraggio gli occorrerà mostrare la
doppiezza dell’ipocrisia, aggirare il guardiano «con molli discorsi»,
secondo l’espressione di Parmenide.

“Isle of the Dead”, izzi3bootz, via DeviantArt.

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