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di Daniele Capuano
immagine: maschera tragica proveniente dell’antica Grecia
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Epitteto insegna che i nostri doveri sono commisurati alle relazioni (tois
schesesi), colte però nella loro trasparenza archetipica: «“Ma il mio è un
cattivo padre!” Per la natura delle cose sei forse stato messo in rapporto
con un buon padre? No: semplicemente con un padre» (Ench. 30). Devi
dunque trattarlo come un padre – come il Padre.
Nel 1978 James Hillman scriveva che «le immagini non significano
niente» (non sono il rivestimento di concetti, non sono sentieri che
guidino ad un significato ulteriore o superiore) e citava Edward S. Casey:
l’immagine non è ciò che si vede, ma il modo in cui si vede [5]. Queste
espressioni, così ben intonate con lo spirito del migliore pensiero
novecentesco, suggeriscono che gli archetipi sono stili di comportamento,
non il “che cosa”, il contenuto dell’immagine, che viene astratto
dall’immagine stessa, ma il “come”, l’immagine nel comportamento e il
comportamento nell’immagine.
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Il daimon non visita ciò che gli è simile ma va alla ricerca del proprio
opposto perché l’uomo e il daimon nutrono la brama l’uno nel cuore
dell’altro. Il fantasma è semplice, l’uomo eterogeneo è confuso, e perciò
essi si congiungono solo quando l’uomo trova una maschera i cui
lineamenti gli permettono di esprimere tutto ciò che non ha (che è forse
ciò che maggiormente teme) e solo quello.
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Se penso alla vita come a una lotta con il daimon, che vorrebbe sempre
che ci dedicassimo all’opera più difficile fra quelle non impossibili,
comprendo il motivo della inimicizia profonda fra l’uomo e il proprio
destino e perché l’uomo ama solo il proprio destino. E allora la mia
immaginazione va dal daimon all’amata, e intuisco un’analogia che
sfugge all’intelletto. Penso agli antichi greci che invitavano a cercare le
stelle primarie, che governano sia l’inimicizia che l’amore, fra quelle che
stanno per tramontare, nella settima casa, direbbero gli astrologi; e che
forse “l’amore sessuale” che “è fondato sull’odio spirituale”, è un’immagine
del conflitto che esiste fra uomo e daimon; e mi chiedo perfino se non ci
sia una comunione segreta, un mormorio nel buio fra il daimon e l’amata
[13].
Il daimon, che è più noi di noi stessi, si incontra mettendo sul volto le
maschere degli avi: le imagines romane, maschere funebri
dei maiores indossate dai discendenti nelle cerimonie solenni.
Dobbiamo “diventare” l’anima, il daimon che “siamo”, e quindi
diventare la storia, il passato, ma solo e sempre nella sospensione del
“come se”, nel mundus imaginalis, sempre per speculum in aenigmate,
sempre in modo teatrale, ipocrita.
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Note:
[6] Sura 7 – Le altezze (al-Aʻrāf) – v.172: «Quando il tuo Signore trasse dai
lombi dei figli di Adamo tutti i loro discendenti e li fece testimoniare su se
stessi (lett. sulle loro anime): “Non sono io il vostro Signore? (alastu bi-
rabbikum)”, ed essi risposero: “Sì, lo attestiamo (balā shahidnā)”».
[9] Oppure diciamo: la contrae davvero, ma nel senso che la riscatta dalla
sua caotica indeterminatezza, dalla sua presunta e morbosa
“spontaneità”.
[10] Solo per la mente moderna l’Azione di Goethe e la Parola del Vangelo
giovanneo (e del libro della Genesi) sono distinte e anzi incompatibili: per
la mente antica e in special modo per l’uomo biblico, davar è sia la parola-
ordine che l’azione-cosa pronunciata-ordinata.
[11] Anche se nelle culture tradizionali, rituali, si tratta di una morte forse
più dolce, perché il senso della solitudine individuale è meno sviluppato,
ogni individuo è un embrione che nuota nell’utero della comunità e del
cosmo ed è accompagnato alla sua maturità, la percezione tragica del
mondo è da un lato più forte proprio perché l’occhio è allenato al rito, allo
spettacolo, alla recita, ma dall’altro è meno angosciante, meno logorante,
meno disperante, proprio perché quell’occhio, quello sguardo, preserva
l’individuo dall’insensatezza, dalla lacerazione che accompagna la perdita
del rituale.
[13] Ibid.
Nella creatura caduta l’identità si svela infinitamente non solo e non tanto
attraverso gli altri, ma negli altri e come gli altri. Amerai il prossimo
tuo come te stesso: non è una similitudine, che separa, ma l’intuizione
vissuta di un vincolo che unifica senza dissolvere. Siamo tutti colpevoli di
tutto davanti a tutti, diceva il fratello di Zosima nei Karamazov: l’unità del
purgatorio che è già intimamente paradisiaca. La Torah non inizia con la
prima lettera, la alef, ma con la seconda, la beth, che come preposizione
(“in, attraverso”) indica inerenza, località, mediazione – relazione.