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La cattiva notizia è che la cancel

culture esiste eccome


4 ore fa

La “buona” è che, in una società fatta di


disuguaglianze e tensioni, la spinta a pacificare il
linguaggio è inevitabile. Con buona pace dei
debunker, quando si parla di pol. corr. e cancel
culture non si parla di allucinazioni: è il mondo in
cui viviamo
I debunker non hanno dubbi: il politicamente corretto assolutamente non
esiste, è soltanto un mito — ma tu intanto smettila subito di dire questo e
quello. Per cominciare smettila di parlare di politicamente corretto,
che è un mito di destra, anzi di estrema destra, e a furia di parlarne
potremmo iniziare a pensare male di te. Al sapere oggettivo, neutrale,
post-politico dei debunker non ci si può che inchinare, ma se le cose
stanno così allora com’è possibile che per tante altre persone il
politicamente corretto (qualsiasi cosa sia) invece esista, e anzi sia
percepito come un problema rilevante? La risposta breve è che la
questione non riguarda se si possa o non si possa dire più nulla in
assoluto, bensì la manifestazione dello scarto tra quello che viene
tollerato in certi contesti comunicativi e quello che viene sanzionato in
altri. Uno scarto reso visibile dalla circolazione incontrollata dei contenuti,
che crea continue frizioni e al termine del ciclo delle decontestualizzazioni
porta un Enrico Mentana ad affermare che “la cancel culture è come il
nazismo”. Mentre un’intera generazione di giornalisti affermati sta
perdendo il senso della misura, noi possiamo facilmente continuare a
ripetere che non stiamo assistendo a nessun fenomeno sociale rilevante;
oppure possiamo ammettere che qualcosa sta accadendo.

Ogni rapporto di potere impone il suo ordine del discorso, direbbe


Foucault. Nel dibattito importato dagli Stati Uniti d’America si parla di
politicamente corretto per indicare l’insieme dei dispositivi di censura e
autocensura che regolano gli atti comunicativi, mentre con cancel culture
si fa riferimento al sistema di sanzioni formali o informali, dall’alto e più
spesso dal basso, che realizzano questa regolazione. In un paese come
l’Italia rari casi di cancellazione (più spesso riguardanti la blasfemia)
convivono con la generale impunità degli eccessi razzisti e sessisti più
truculenti. Non sfuggirà tuttavia agli osservatori più acuti che gran parte
dei nostri consumi culturali e scambi comunicativi sono mediati da
aziende che non hanno sede in Italia, da Facebook a Netflix, con le loro
politiche aziendali tarate sul fuso orario della Silicon Valley. Vero è che
gran parte di chi tuona contro il politicamente corretto da Trieste in giù
non ne ha mai subito direttamente gli effetti: perlopiù si limita a
commentare notizie venute dall’estero e dal mondo universitario, spesso
deformate. In effetti, poiché le trasformazioni culturali si manifestano
principalmente attraverso segnali deboli, per penetrare nel dibattito
pubblico i singoli fatti isolati devono essere amplificati e collegati entro
delle narrazioni. Il risultato è che si discute spesso di fatti irreali che poco
a poco si accumulano in grandiose cattedrali di paranoia. Cionondimeno,
con buona pace dei debunker, quei segnali deboli ci dicono tre cose
molto importanti.

Primo. Non assistiamo forse, quotidianamente, a ondate di indignazione,


protesta, rabbia, talvolta panico morale sui social media? Il fenomeno,
trasversale a destra e sinistra, laici e credenti, minoranze e maggioranze,
può riguardare l’adattamento di un fumetto di supereroi o la
rappresentazione di una divinità, l’impiego di una certa parola o
l’interpretazione di una battuta, l’esistenza di una statua o un dettaglio
presente in un libro scolastico, la scoperta di un dettaglio scabroso nel
passato di una persona o nella storia di un paese. Non serve produrre un
contenuto razzista o sessista per indignare qualcuno da qualche
parte, basta un malinteso. Con i social media siamo passati dall’esistere in
uno spazio pubblico, nel quale eravamo esposti al giudizio di una sfera
ristretta di persone, a una condizione di iper-pubblicità nella quale ogni
traccia che lasciamo può potenzialmente raggiungere il mondo intero. A
ognuno di noi sono promessi nella vita, rovesciando Warhol, almeno 15
minuti d’infamia. Le aziende lo sanno, e sono portate a curare con
maggiore attenzione la loro comunicazione. Insomma, “non si può più dire
niente”…. senza fare i conti con le conseguenze di quello che diciamo,
sottoposto a ogni forma di deformazione, montaggio, semplificazione,
rovesciamento, decontestualizzazione. Prova ne sia il modo in cui notizie
d’oltreoceano più o meno anedottiche, baci a Biancaneve inclusi, finiscono
nel tritacarne mediatico. Inevitabilmente questo feedback incentiva dei
riflessi di censura e autocensura per evitarne le conseguenze — il
politicamente corretto, appunto. Che però non esiste, non sia mai.

Secondo. Non è forse vero che negli ultimi decenni le sensibilità sono
cambiate su temi come il razzismo e il sessismo? Inclusione e diversità
non sono effettivamente priorità rivendicate dalle grandi aziende
multinazionali? Non si discute, tra intellettuali e attivisti, della rimozione
di statue e simboli a causa del messaggio che portano, o della
ridefinizione del canone letterario su basi più inclusive? È il risultato di una
maggiore rappresentazione delle minoranze in seno alla classe media e al
settore terziario, che ha finalmente prodotto delle rivendicazioni di ordine
simbolico: dopo il pane le rose, e quindi riconoscimento. Si parla di abolire
dei privilegi linguistici che rispecchiano dei privilegi effettivi. Se si prende
questo programma sul serio, non c’è da stupirsi che susciti una viva
reazione, mista di timore, incomprensione, risentimento e rabbia, da parte
della classe media occidentale già posta di fronte alla certezza del suo
declassamento e ora intimata di liberare spazi professionali e memoriali.
Le battaglie culturali — e quella che stiamo vivendo è indubbiamente tale
— riguardano da sempre la scelta di quello che deve essere trasmesso e
quello che non deve esserlo, talvolta persino finendo distrutto. Insomma
queste guerre si combattono a colpi di cancel culture. Che però non
esiste, figuriamoci.

Terzo. È solo un mito che negli Stati Uniti o nel Regno Unito diverse
persone abbiano subito conseguenze lavorative, talvolta perso il posto,
per dei tweet? Questo sicuramente non sarebbe successo trent’anni fa e
la principale ragione è semplice quanto banale: beh, non esisteva Twitter.
Ma in un contesto in cui ormai Twitter esiste, assieme a decine di altri
strumenti per riprodurre e diffondere contenuti, ne risente la reputazione
di ognuno, e in particolare di chi ha ruoli pubblici e istituzionali. La
complessa padronanza dei codici linguistici della società multiculturale –
con le sue parole da dire e da non dire, i suoi neologismi, le sue
accortezze – è già oggi un criterio di selezione delle élite internazionali.
Quale azienda o istituzione vorrebbe un manager che le tira addosso uno
shitstorm perché non hai mai sentito parlare di deadnaming o di
blackfishing? Il “politicamente scorretto” rivendicato dai commentatori
italiani verrebbe immediatamente sanzionato (assieme a molte gaffe
dettate da sincero provincialismo) in altri contesti intellettuali e
professionali. Che le élite italiane siano estranee a questi trend è
precisamente il segnale che si sono sganciate, assieme all’intero paese,
dal treno della modernizzazione. In questo senso la correttezza politica
non è un merito innato bensì niente di meno che una competenza
acquista. Sostenere che non esista risponde a un tipico rovesciamento
ideologico, ovvero presentare come naturali e autoevidenti quelle che
sono convenzioni sociali, e neutrali i processi di selezione meritocratica.

Ora proviamo a riassumere quello che ci dicono i segnali deboli e


deformati che arrivano in Italia dai centri del potere mondiale: quando
parliamo di politicamente corretto non stiamo evocando
un’allucinazione o un mito di destra, ma una condizione storica del tutto
inedita – anche se per certi aspetti simile a quella della Riforma
protestante – determinata contemporaneamente da una mutazione
radicale della sfera comunicativa per effetto di una trasformazione
tecnologica, da un conflitto sul canone culturale determinato dall’accesso
di nuove minoranze nelle file della classe media, nonché da un
aggiornamento dei codici di comportamento e selezione delle élite
manageriali. Mito, allucinazione, o vera e propria rivoluzione?

Il politicamente corretto non solo esiste, ma è inevitabile. Una realtà


multiculturale, ovvero composta da comunità di parlanti che
padroneggiano codici linguistici differenti, seguono regole morali diverse,
portano memorie di oppressione divergenti, non può sopportare senza
traumi la circolazione incontrollata dei segni. Una società solcata da
diseguaglianze e tensioni non può esporsi alla permanente eccitazione
delle ostilità. Di fronte alla prospettiva di una pandemia di segni fuori
controllo, il politicamente corretto appare come la sola igiene linguistica
adatta a limitare i conflitti. A pieno regime, nei contesti in cui opera, la sua
logica governamentale non consiste nel disciplinare la parola pubblica
vietandola, ma circoscrivendola in spazi specifici e sottoponendola a
incentivi reputazionali: il massimo grado di libertà linguistica si paga con
l’esclusione da certe carriere e posizioni internazionali.

La consapevolezza che il codice serva a legittimare delle ineguaglianze di


status è la causa più evidente del risentimento che suscita da parte di
quei segmenti della popolazione, come classi popolari e minoranze
etnico-religiose, condannati alla subalternità culturale dalla propria
incontinenza linguistica. Per arginare ogni contestazione del dispositivo, è
dunque funzionale l’operazione ideologica di neutralizzazione e
depoliticizzazione della questione operata dai debunker: meno si discute
del politicamente corretto, preservando la finzione tecnocratica su cui si
fonda, meno conflitti rischiano di sorgere. Tutto bene allora?
Sfortunatamente no, perché le tensioni politiche soggiacenti non possono
mai essere del tutto cancellate.

Siamo cresciuti in un mondo in cui la libertà d’espressione era considerata


come un diritto fondamentale. Gli eroi che veneriamo sono filosofi e
scienziati che hanno avuto il coraggio di gridare ciò che gli si imponeva di
tacere: Socrate, Ipazia, Giordano Bruno, Galileo, Voltaire fino ai numerosi
scrittori, registi, musicisti che nel Dopoguerra si sono scontrati con la
censura. Forse per essere stati troppo zitti prima, noi figli dell’Illuminismo
consideriamo che solo dicendo, scrivendo, disegnando, cantando quello
che ci passa per la testa, insomma mettendo alla prova il grado di libertà
di cui godiamo, possiamo dare un senso alla nostra vita ed essere
pienamente quello che siamo.

Dopo gli anni Sessanta la provocazione fine a sé stessa era diventata un


genere artistico a sé stante, partendo da Charlie Hebdo e Sid Vicious per
arrivare ai monologhi degli umoristi nazionalpopolari. Ma questi valori,
tipici della vecchia società borghese e culturalmente uniforme, non sono
compatibili con l’infrastruttura comunicativa che abbiamo costruito:
un immenso acceleratore di particelle che fa collidere tra loro fasci di
parlanti sotto forma di urti violenti. Questa nuova condizione
potenzialmente catastrofica deve essere amministrata all’interno di un
nuovo ordine del discorso. Anche in passato, nella polis greca come ai
tempi delle guerre di religione europee, gli editti di pacificazione
prevedevano come prima cosa la cancellazione della memoria e dei segni
che rischiassero di rinfocolare le tensioni. Se saremo progressivamente
costretti a rimuovere statue per sostituirle con astratti monumenti alla
vittime di tutte le guerre, è perché abbiamo scoperto che non esistono
segni davvero universali; essi stanno lì come testimonianze efficaci di
rapporti di potere, immuni da ritorsioni materiali solo fintanto che lo spazio
è pacificato per mezzo del monopolio della violenza.

La promessa universale di sicurezza su cui si fonda l’ordine politico


moderno – “bisogna difendere la società”, scriveva sarcasticamente
Foucault – ha finito per estendersi alla protezione dai rischi
comunicativi. La società del rischio, ce lo ha insegnato la pandemia, è
anche una società della precauzione: essa crea le condizioni oggettive
che ci vincolano a soluzioni drastiche, gestite nel quadro di un paradigma
tecnocratico. Via via che le contraddizioni della modernizzazione si fanno
più acute, la soluzione obbligata per ogni problema finisce per essere
indistinguibile da una reductio ad absurdum dell’intera storia del
progresso. I mandarini del Celeste Impero dovevano memorizzare migliaia
di ideogrammi per svolgere correttamente le loro mansioni; i nuovissimi
mandarini di cui la nostra società frammentata ha bisogno potranno ben
fare le sforzo di assimilare, e aggiornare in permanenza, il pur complesso
manuale delle differenze, delle identità, delle memorie, dei traumi, delle
parole da dire e da non dire. Ci eravamo convinti che la nostra libertà
fosse inoffensiva, come se esprimersi potesse talvolta produrre sul mondo
dei risultati positivi ma assolutamente mai degli effetti negativi.

Questo vecchio mondo — in fondo durato pochissimo, semplice parentesi


di spensieratezza propria di una società opulenta e pacificata — è ormai
finito. Sopravviverà solo chi saprà adattarsi. Per molti di noi è già tardi. Per
questo mi preme chiedere ai debunker, prima di essere cancellato: che
cosa diavolo è il blackfishing?

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