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Secondo. Non è forse vero che negli ultimi decenni le sensibilità sono
cambiate su temi come il razzismo e il sessismo? Inclusione e diversità
non sono effettivamente priorità rivendicate dalle grandi aziende
multinazionali? Non si discute, tra intellettuali e attivisti, della rimozione
di statue e simboli a causa del messaggio che portano, o della
ridefinizione del canone letterario su basi più inclusive? È il risultato di una
maggiore rappresentazione delle minoranze in seno alla classe media e al
settore terziario, che ha finalmente prodotto delle rivendicazioni di ordine
simbolico: dopo il pane le rose, e quindi riconoscimento. Si parla di abolire
dei privilegi linguistici che rispecchiano dei privilegi effettivi. Se si prende
questo programma sul serio, non c’è da stupirsi che susciti una viva
reazione, mista di timore, incomprensione, risentimento e rabbia, da parte
della classe media occidentale già posta di fronte alla certezza del suo
declassamento e ora intimata di liberare spazi professionali e memoriali.
Le battaglie culturali — e quella che stiamo vivendo è indubbiamente tale
— riguardano da sempre la scelta di quello che deve essere trasmesso e
quello che non deve esserlo, talvolta persino finendo distrutto. Insomma
queste guerre si combattono a colpi di cancel culture. Che però non
esiste, figuriamoci.
Terzo. È solo un mito che negli Stati Uniti o nel Regno Unito diverse
persone abbiano subito conseguenze lavorative, talvolta perso il posto,
per dei tweet? Questo sicuramente non sarebbe successo trent’anni fa e
la principale ragione è semplice quanto banale: beh, non esisteva Twitter.
Ma in un contesto in cui ormai Twitter esiste, assieme a decine di altri
strumenti per riprodurre e diffondere contenuti, ne risente la reputazione
di ognuno, e in particolare di chi ha ruoli pubblici e istituzionali. La
complessa padronanza dei codici linguistici della società multiculturale –
con le sue parole da dire e da non dire, i suoi neologismi, le sue
accortezze – è già oggi un criterio di selezione delle élite internazionali.
Quale azienda o istituzione vorrebbe un manager che le tira addosso uno
shitstorm perché non hai mai sentito parlare di deadnaming o di
blackfishing? Il “politicamente scorretto” rivendicato dai commentatori
italiani verrebbe immediatamente sanzionato (assieme a molte gaffe
dettate da sincero provincialismo) in altri contesti intellettuali e
professionali. Che le élite italiane siano estranee a questi trend è
precisamente il segnale che si sono sganciate, assieme all’intero paese,
dal treno della modernizzazione. In questo senso la correttezza politica
non è un merito innato bensì niente di meno che una competenza
acquista. Sostenere che non esista risponde a un tipico rovesciamento
ideologico, ovvero presentare come naturali e autoevidenti quelle che
sono convenzioni sociali, e neutrali i processi di selezione meritocratica.
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