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La dea Alberti, che visse come una

libellula
written by Felice Sblendorio
by Felice Sblendorio
8 Aprile 202015 Giugno 2020

Barbara Alberti è una profonda e continua malìa: si vorrebbe che non


finisse mai una sua frase, un suo racconto, una delle sue tante
illuminazioni taglienti, argute, sprezzanti. La vita, si sa, è tutta ritmo e
musica: se la sua fosse una suite francese sarebbe una “courente”,
una danza vivace e brillante. La sua voce, che dona ulteriore fascino a
un volto oramai iconico, è un magma agitato da piccoli guizzi e
termini aulici: un flusso continuo in cui la parola fine è un presagio da
scongiurare.

Anche la scrittura, che esercita da quasi quarantacinque anni, è un


temporale giocoso di immagini e caratteri irresistibili. Dopo aver recitato
nelle vesti di una madre arcigna e aristocratica nell’ultimo film di Ferzan
Ozpetek, “La dea fortuna”, ritorna ai libri con “Mio signore” (Marsilio, 176
pagine, 12 euro), una lettura del romanzo “La madre santa” di Leopold
von Sacher Masoch per la collana“Passaparola”, ideata da Chiara
Valerio per far rileggere alcuni scrittori del passato da autori
contemporanei. bonculture ha intervistato Barbara Alberti.

“Mio signore” rilegge “La madre santa” di Masoch. Cosa la affascina


di questo romanzo?

Intanto l’assurdità dell’amore, che è sempre straordinario. Poi mi


incuriosiva la perversione del masochismo, quindi del dolore raccontato
da Masoch, e questa storia che unisce la fede e il bisogno d’amore,
l’anarchia del divino come quotidiano e la comicità. Masoch racconta la
storia di Sabadil, un contadino, che incontra Mardona, la capa di una setta
di cui è il profeta: è un Dio in terra. Come tutte le persone che hanno
potere è una cretina assoluta. Lui è semplicemente innamorato e accetta
questo gioco. Mardona, come gli dei, è gelosa di tutti ma non ama
nessuno. Quando Sabadil verrà affascinato dalla dolcissima Ninfodora, lei
si vendicherà punendolo in maniera esemplare alla crocifissione. Lui, a
quel punto, si abbandona al pegno d’amore e muore chiedendole un
bacio.

Mardona e Sabadil, nella sua trasposizione, diventano Maria e


Andrea.

Tutto si svolge in un paesino umbro degli anni ’60. Maria, una ragazza che
fa la sguattera in un bar, è l’ultima del paese. Va in lavanderia e vede
Andrea, un povero disgraziato ed ex tossico, un mascalzone senza amore.
Lo guarda e dice: “Signore, vi ho riconosciuto, non respingetemi”. Proprio
perché lui è l’ultimo degli ultimi, lei è convinta che sia l’ultima
incarnazione di Cristo. E lui lo diventa. Maria crede che si sia rincarnato
più volte, ma che nessuno l’abbia riconosciuto. Questa volta è venuto in
incognito, e si manifesta attraverso Andrea, un ignoto e non abbiente
grassone.

Andrea è un Dio perdente?

Sì, oggi si dice così: si divide il mondo fra vincenti e perdenti, una delle
volgarità più nefaste del nostro tempo. Tutti i grandi artisti del mondo,
oggi, lo sarebbero: il gobbo Leopardi, lo zoppo Byron, il monco Cervantes.

Che cosa nasconde l’urgenza di fede di questi personaggi?

Non nasconde nulla, è ciò che è: è un grande desiderio di trascendenza,


che oggi manca. Io non sono credente, sono stata cattolica da piccola con
un’educazione devastante: Dio è lì per punirci, mi dicevano. Nel mio
paesino umbro era un peccato anche ridere. Una volta che mi sono
liberata da questa impostazione, ho avuto la libertà di essere religiosa a
modo mio. Non credo in Dio, ma ho un grande senso della trascendenza.
Questi due poveretti fanno questo: trascendono insieme, anche nel
ridicolo. È una fiaba mistica e un romanzo comico, nulla di più.

Non sia così modesta.


Io svilisco i miei libri. Fra me e i miei libri c’è un abisso: io sono molto più
intelligente di loro.

I suoi personaggi sono votati alla pochezza. Siamo tutti destinati al


ridicolo: nani e giganti, santi e diavoli?

Sì, basta che lo sappiamo. Io sono affezionatissima a San Francesco


perché lui, che non è figlio di Dio ma figlio dell’uomo, capisce che l’unica
salvezza per tutti noi è comprendere il proprio ridicolo. San Francesco
non ha fatto altro che ridere di sé. Ci renderà liberi ridere di noi stessi
perché alla fine comporta anche tanta tenerezza. Ridendo, ci perdoniamo.

Non credo che sia la consapevolezza più piena del nostro tempo.

Tutti si prendono orribilmente sul serio. C’è questa autoidolatria che è


veramente stupida, triste, porta male. Se io non avessi riso di me, mi sarei
buttata dalla finestra a otto anni.
Andrea è l’insieme di tante storture del maschio. Chi è assente in
amore vince o perde?

Ma che ne so! Io non mi pongo questa domanda. Per me esiste il vivere le


cose. Una volta che tu vivi le cose fino in fondo hai già vinto, anche se ti
va malissimo. Il punto è non tirarsi indietro. Il punto è se ne esci
spiritualmente vivo.

Lei parla di trascendenza, ma anche degli abissi degli uomini e delle


donne. Le sue risposte alle tante lettere d’amore non si dimenticano
facilmente. Del maschio, ad esempio, che cosa ha capito: quale
animale si porta dentro?

Tutte le malattie di cui abbiamo parlato. L’insicurezza e la terribile,


angosciosa e umiliante volontà di affermazione di sé a tutti i costi.
L’erezione è davvero un’ingiustizia divina: il fatto che noi donne siamo
libere dal problema dell’erezione, che sicuramente darà anche delle
soddisfazioni, è una grande fortuna. Ora c’è questa favola per cui le
donne invecchiano peggio, ma è una balla. Le donne invecchiano
infinitamente meglio dei maschi perché non hanno questo problema. Gli
uomini invecchiano male perché diventa la clessidra della loro vitalità:
quando invecchi, cioè quando tutto decade, il maschio diventa pazzo. Le
nonne alla peggio fanno le torte con i nipoti, ballano fra di loro, ma gli
uomini no. Grazie a questa condizione di non essere legate alla sessualità,
noi accettiamo le stagioni molto meglio di loro. Ho molta compassione e
simpatia per i maschi.

Lei ha sempre dichiarato che l’uomo migliore è il maschio madre. In


che senso?

È l’uomo che supera il complesso dell’erezione, è dolce con la donna e la


sente parte di sé. Il maschio madre si compiace veramente della tua
esistenza e non si misura con te. È il compagno di giochi, di vita, di dolore.
Per fortuna, esistono.

Lei ne ha avuti?
Sì, ne ho avuti. Mio padre, il primo, e poi il mio ex marito con il quale vivo
in amicizia da più di trent’anni, e al quale devo la mia scrittura. Il maschio-
madre, poi, sa ridere, è spiritoso. Se non c’è il senso dell’umorismo, non si
può essere buoni.

L’amore, invece, che cos’è? Per restare in tema: un mistero, una


perversione?

L’amore è una gran fortuna perché è il terzo occhio che ti permette di


trascendere: una volta che ami sei pronto a tutto. Quando ami tutto
cambia. È una chiave di interpretazione del mondo. Poi, chiariamo, è una
gran fortuna perché in giro c’è moltissimo amore truccato, tagliato come
la droga. L’amore, nonostante questa mentalità psicologistica che vuole
spiegare tutto, è inspiegabile. È una tegola meravigliosa e non possiede
un perché. Straordinario.

L’amore nella sua vita ritorna sempre, come la scrittura. Perché


scrive?

A cinque anni ho capito che sarebbe stata la mia grande svolta. È un


modo per vivere molte vite, per uscire da me, dalla mia pochezza.
Quando scrivi ti accorgi che sotto la penna le cose accadono. Mi ricordo
che cominciavo a scrivere e mi dicevo: allora si può fare, si può uscire da
qui.

Questo suo libro ritorna al tema del sacro, a lei molto caro. Nel 1978
pubblicava “Vangelo secondo Maria”. La sua era una Madonna che
diceva “no” a un destino già scritto: una Maria femminista o un
trattato sul libero arbitrio?

Lei rifiuta la maternità divina in nome del libero arbitrio: nessuno gliel’ha
chiesto. Viene fatta dono di questo onore, ma lei ha altri progetti. È un
piccolo trattato giocoso sul libero arbitrio, ma è anche un racconto su
Maria di cui, nelle sacre scritture, non si sa niente. Lei è messa lì per
obbedire e per soffrire: per essere madre, ma senza essere donna.

Lo scrisse dieci anni dopo il ‘68, dopo una serie di conquiste molto
importanti per le donne. Nel 2020 qual è il bilancio?

Abbiamo ottenuto moltissimo. Prima dipendevamo dall’uomo anche per


comprare un paio di calze o per andare al cinema. Dovevi chiedere tutto
inizialmente come figlia e poi come moglie. Ora siamo più libere, ed è per
questo che ci ammazzano. Queste rivoluzioni non sono passaggi che si
fanno in una generazione, e neanche in due. La libertà conquistata è un
passaggio durissimo per i maschi.

In questo libro ci sono tanti vizi. Il suo peggiore?

La stupidità.

Lei, stupida?

In senso lato, cioè la distrazione. È un gran peccato. La distrazione porta


alla mancanza di memoria, di attenzione, di rispetto per sé. La detesto.
Alla base di questo c’è un edonismo fottuto: sono vissuta proprio come
una libellula.

Ha detto spesso che ha paura di invecchiare.

No, no, scusi: ho avuto paura, chiariamolo. Per me la vecchiaia è stata una
malattia della gioventù. Fra i ventuno e i venticinque anni ti vengono delle
rughine di espressione e il dramma è proprio quando la porcellana si
incrina. Sono i primi segni il problema: quando non ti senti più immortale,
intoccabile. Poi lo capisci e non te ne frega più nulla perché accetti il
mutamento.

Davvero?

Sì, perché l’avventura è quella e va vissuta cosi. Poi c’è poca scelta, mi
creda: o ti butti da quella stessa finestra a otto anni o vivi. Il punto è
accettare che siamo nati per peggiorare. Siamo esseri deperibili.

La morte, il tema rimosso, che effetto le fa ora?

Alla morte non mi rassegnerò mai, perché è una gran porcata. L’idea di
non essere più è inaccettabile. Mi consola solo l’arte, che è un
prolungamento straordinario e ti permette di creare, creare, creare.
Chiunque abbia una vocazione piena può ritenersi fortunato: è una bella
consolazione rispetto alla morte.

Negli ultimi mesi ha recitato nel film di Ferzan Ozpetek, “La dea
fortuna”. Com’è andata?

Non lo farò mai più, sono negata. L’attore ha una vocazione, crede di
essere quel personaggio, lo gestisce: per me, invece, era come alle recite
dalle suore. Mi sono divertita, ma ho capito che non ne sono capace. Se il
mio personaggio è risultato credibile è per merito di Ferzan, che è un vero
regista: riesce a far recitare anche i sassi e sa sempre quello che vuole.

Non si è fatta mancare neanche la partecipazione al Grande Fratello


Vip. Una definizione dell’estro di Barbara Alberti è impossibile.

Spero di essere un clown, tutto qua!


Barbara Alberti

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