libellula
written by Felice Sblendorio
by Felice Sblendorio
8 Aprile 202015 Giugno 2020
Tutto si svolge in un paesino umbro degli anni ’60. Maria, una ragazza che
fa la sguattera in un bar, è l’ultima del paese. Va in lavanderia e vede
Andrea, un povero disgraziato ed ex tossico, un mascalzone senza amore.
Lo guarda e dice: “Signore, vi ho riconosciuto, non respingetemi”. Proprio
perché lui è l’ultimo degli ultimi, lei è convinta che sia l’ultima
incarnazione di Cristo. E lui lo diventa. Maria crede che si sia rincarnato
più volte, ma che nessuno l’abbia riconosciuto. Questa volta è venuto in
incognito, e si manifesta attraverso Andrea, un ignoto e non abbiente
grassone.
Sì, oggi si dice così: si divide il mondo fra vincenti e perdenti, una delle
volgarità più nefaste del nostro tempo. Tutti i grandi artisti del mondo,
oggi, lo sarebbero: il gobbo Leopardi, lo zoppo Byron, il monco Cervantes.
Non credo che sia la consapevolezza più piena del nostro tempo.
Lei ne ha avuti?
Sì, ne ho avuti. Mio padre, il primo, e poi il mio ex marito con il quale vivo
in amicizia da più di trent’anni, e al quale devo la mia scrittura. Il maschio-
madre, poi, sa ridere, è spiritoso. Se non c’è il senso dell’umorismo, non si
può essere buoni.
Questo suo libro ritorna al tema del sacro, a lei molto caro. Nel 1978
pubblicava “Vangelo secondo Maria”. La sua era una Madonna che
diceva “no” a un destino già scritto: una Maria femminista o un
trattato sul libero arbitrio?
Lei rifiuta la maternità divina in nome del libero arbitrio: nessuno gliel’ha
chiesto. Viene fatta dono di questo onore, ma lei ha altri progetti. È un
piccolo trattato giocoso sul libero arbitrio, ma è anche un racconto su
Maria di cui, nelle sacre scritture, non si sa niente. Lei è messa lì per
obbedire e per soffrire: per essere madre, ma senza essere donna.
Lo scrisse dieci anni dopo il ‘68, dopo una serie di conquiste molto
importanti per le donne. Nel 2020 qual è il bilancio?
La stupidità.
Lei, stupida?
No, no, scusi: ho avuto paura, chiariamolo. Per me la vecchiaia è stata una
malattia della gioventù. Fra i ventuno e i venticinque anni ti vengono delle
rughine di espressione e il dramma è proprio quando la porcellana si
incrina. Sono i primi segni il problema: quando non ti senti più immortale,
intoccabile. Poi lo capisci e non te ne frega più nulla perché accetti il
mutamento.
Davvero?
Sì, perché l’avventura è quella e va vissuta cosi. Poi c’è poca scelta, mi
creda: o ti butti da quella stessa finestra a otto anni o vivi. Il punto è
accettare che siamo nati per peggiorare. Siamo esseri deperibili.
Alla morte non mi rassegnerò mai, perché è una gran porcata. L’idea di
non essere più è inaccettabile. Mi consola solo l’arte, che è un
prolungamento straordinario e ti permette di creare, creare, creare.
Chiunque abbia una vocazione piena può ritenersi fortunato: è una bella
consolazione rispetto alla morte.
Negli ultimi mesi ha recitato nel film di Ferzan Ozpetek, “La dea
fortuna”. Com’è andata?
Non lo farò mai più, sono negata. L’attore ha una vocazione, crede di
essere quel personaggio, lo gestisce: per me, invece, era come alle recite
dalle suore. Mi sono divertita, ma ho capito che non ne sono capace. Se il
mio personaggio è risultato credibile è per merito di Ferzan, che è un vero
regista: riesce a far recitare anche i sassi e sa sempre quello che vuole.