Nietzsche
(1874)
1
2
(F. N., Ueber Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne, KSA I, par. 1, 875)
3
1. Introduzione
Schopenhauer sottolinea più volte di voler scrivere anzitutto per se stesso, per puro e semplice
amore del sapere, della verità. Egli non mette a punto una strategia per ammaestrare nel modo
migliore gli altri: anzitutto mira a formare se stesso.
«Schopenhauer non vuole mai sembrare: egli infatti scrive per sé e nessuno si lascia ingannare volentieri,
tanto meno il filosofo, che ha fatto una legge del principio: non ingannare nessuno, neppure te stesso!
Neppure con quel garbato inganno sociale, che quasi ogni conversazione porta con sé e che gli scrittori
imitano quasi senza rendersene conto; ancora meno con l’inganno più cosciente, dall’alto della tribuna
dell’oratore e con i mezzi artificiosi della retorica. Ma Schopenhauer parla con se stesso (…) Scrittori del
genere ci mancano»1.
2. Mimetismo
N. apre il suo saggio su Schopenhauer, con una domanda: perché gli uomini, in ogni luogo e
cultura, tendano a mimetizzarsi?
«Un viaggiatore, che aveva visto molti paesi e popoli e diversi continenti, e a cui fu chiesto quale qualità 2 degli
uomini avesse ritrovato ovunque, disse: hanno un’inclinazione alla pigrizia (Faulheit). A molti parrà che più
giustamente e più validamente egli avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi.
Si nascondono dietro costumi e opinioni»3.
Perché questo modo di essere sembra così diffuso, anzi sembra il più diffuso in tutti i tempi nel
mondo. Al punto che se chiediamo «che cosa è il fenomeno veramente globale?», potremmo
rispondere anzitutto: il mimetismo.
Ci nascondiamo dietro costumi e opinioni, scrive N.. Ma: in che modo i “costumi” ci servono a
nasconderci? I “costumi” (Sitten) e le opinioni (Meinungen), sono il “si fa così” il “si dice”, “si
pensa così” punto e basta. E’ la dimensione dell’”impersonale”, del “convenzionale”, che viene
codificata in norme di corretto comportamento sociale. L’impersonale e il convenzionale, in una
società di persone fragili e indecise è altamente contagioso. Quando l’uniformazione diviene
pressante, allora si preferisce un accumulo di tanti piccoli conformismi (si prende un po’ di qua e un
po’ di là).
Si diffonde soprattutto nei “modi” in cui utilizziamo gli oggetti: siano essi informazioni, saperi,
tecniche, comportamenti, anche nel modo di divertirsi, perfino nel modo di insegnare. Il suo effetto
immediato è l’inespressività di un nostro pensiero o un nostro atteggiamento, la non riconoscibilità:
non vi è nulla in quel pensiero e in quel gesto che appartenga a me, che sia riconoscibile. Non c’è
nulla in quella parola o in quel gesto per cui io possa dire: “è opera tua ed è rivolta a me”.
Un gesto o una parola speciale attira subito la nostra attenzione: forse perché siamo da sempre
abituati al mimetismo.
«Ogni uomo in fondo sa benissimo di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessuna
combinazione, per quanto insolita (kein noch so seltsamer Zufall), potrà mescolare insieme per una seconda
volta quella molteplicità così bizzarramente variopinta nell’unità che egli è (zum Einerlei, wie er ist): lo sa, ma
lo nasconde come una cattiva coscienza (böses Gewissen)– perché?»4.
1
F. N., Unzeitgemässe Betrachtungen III: Schopenhauer als Erzieher, in KSA I, 346-347 (Schopenhauer come educatore, tratto
da Considerazioni inattuali, III, a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano 1985, 13).
2
Eigenschaft.
3
Ivi, 337 (3).
4
Ibid.
4
3. Unicità
Questa è una domanda centrale. Perché nascondiamo a noi stessi di essere unici? Perché celiamo la
nostra unicità? N. si dà una risposta:
«Per paura del prossimo5 (Furcht vor dem Nachbar), che esige la convenzione e di essa si vela.
Ma che cosa costringe (zwingt) il singolo a temere il prossimo, a pensare ed agire al modo del gregge e a non
essere lieto di sé (seiner selbst froh)? Il pudore (Schamhaftigkeit)6, forse, in alcuni e rari.
Per la maggior parte è adattabilità, indolenza (Bequemlichkeit 7, Trägheit), insomma quella inclinazione alla
pigrizia (Hang zur Faulheit) di cui parlava il viaggiatore. Egli ha ragione: gli uomini sono pigri più ancora che
pavidi e più di tutto temono proprio i fastidi che una onestà e nudità incondizionata (eine unbedingte Ehrlichkeit
und Nacktheit) imporrebbe loro»8.
Non si tratta quindi solo di pigrizia, nel significato usuale del termine. Somiglia di più al desiderio
di non rischiare, a quello che noi esprimiamo con espressioni quali “non voglio aver noie”, al
desiderio di rimanere in un ambiente protetto, sorvegliato, all’interno del quale godiamo di molti
vantaggi e ricambiamo prendendo sulle spalle un carico di doveri. In effetti è più facile far parte di
un gregge che vivere allo “scoperto”.
Questa pigrizia può avere anche la parvenza dell’operosità. Allora ci si trasforma essenzialmente in
“cammelli” o bestie da soma9. Vale a dire: ci si rende disponibili a prendere sulle spalle il carico di
tutto ciò che è convenzione: educazione, atteggiamenti legati a ruoli riconosciuti, criteri di
valutazione di ciò che facciamo e di ciò che fanno gli altri. Certo, questo carico è pesante da portare
per uno solo. Ci consola il fatto di essere un bel gruppo.
Di tanto in tanto ci si rende conto di camminare in un deserto: celiamo l’impoverirsi non solo della
nostra vita, ma della vita di tutti entro la cornice del convenzionale. Certo, ci siamo abituati a questo
deserto, a questo impoverimento di possibilità umane. Ciò che ci fa male è spesso l’avvertire che
noi siamo qualcosa di più dello spettro di alternative, di possibilità di vita che ci vengono
prospettate.
«Soltanto gli artisti odiano questo indolente incedere secondo maniere tolte a prestito e opinioni appiccicate
(übergehängten), e svelano il segreto, la cattiva coscienza di ognuno, la proposizione secondo cui ogni uomo è
un miracolo irripetibile (einmaliges Wunder); essi osano mostrarci l’uomo quale egli stesso, quale lui solo è
fino in ogni movimento dei suoi muscoli e, ancor più, che in questa rigorosa coerenza della sua unicità egli è
bello e degno di considerazione, nuovo e incredibile10 come ogni opera della natura, e niente affatto noioso»11.
Ebbene proprio questa è anche la funzione essenziale di chi cerca di pensare in grande libertà:
«Il grande pensatore, quando disprezza gli uomini, disprezza la loro pigrizia: poiché per causa sua [di tale
pigrizia] appaiono come merce di fabbrica, come indifferenti, indegni di relazioni e ammaestramenti. L’uomo
che non vuole appartenere alla massa non deve far altro che cessare di essere accomodante verso se stesso;
segua la sua coscienza che gli grida: ‘Sii te stesso! Tu non sei tutto ciò che adesso fai, pensi, desideri» 12.
Ed è soprattutto “l’anima giovane (Junge Seele)” che riesce ad avvertire una tale situazione come
una “prigione”. E sente vivo il bisogno di liberarsi da quelle che gli sembrano delle vere e proprie
“catene”.
5
Direi: paura del “vicino” (Nachbar).
6
Traducibile anche con: “vergogna”.
7
Corrisponde all’uso che facciamo di “comodità/comodo”.
8
Ibid..
9
“Come lo spirito diventa cammello”: così inizierà il primo capitolo di “Così parlo Zarathustra”.
10
unglaubig
11
Ivi, 337-338 (3).
12
Ivi, 338 (3-4).
5
Lo spirito giovane trova “squallido e ripugnante” l’uomo che nasconde la propria genialità e la
propria unicità.
Ma come può prender corpo una tale liberazione della propria unicità. Come può il singolo arrivare
a riappropriarsi di se stesso, della propria vita come di un “miracolo irripetibile”?
«Nessuno può gettare sopra il fiume della vita il ponte sul quale tu devi passare, nessun altro che tu sola [junge
Seele]. Certo, vi sono innumerevoli sentieri e ponti e semidei che vorrebbero farti attraversare il fiume; ma solo
a prezzo di te stessa; ti daresti in pegno e ti perderesti. Al mondo c’è un’unica via che nessuno oltre a te può
fare: dove porta? Non domandare, seguila. Chi fu che disse ‘Un uomo non si eleva mai tanto in alto come
quando non sa dove la sua via può ancora portarlo’?»13
«Ma come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l’uomo conoscersi? Egli è una cosa oscura e velata; e se la
lepre ha sette pelli, l’uomo può trarsene settanta volte sette e non potrà dire: ‘ecco, questo tu sei realmente,
questa non è più corteccia’14. Inoltre è un inizio tormentoso, rischioso scavare se stessi in tal modo e discendere
con violenza per la via più breve nel pozzo del proprio essere. Quanto facilmente, nel far ciò, egli può ferirsi in
modo tale che nessun medico riesca a guarirlo[!]
E non basta: perché ciò [questo impeto di autosmascheramento mediante una violenta azione introspettiva]
sarebbe necessario, quando pure tutto testimonia del nostro essere: le nostre amicizie ed inimicizie, il nostro
modo di guardare e di stringere la mano, la nostra memoria e quello che dimentichiamo, i nostri libri e i tratti
della nostra penna? Ma c’è un mezzo per imbastire l’interrogatorio più importante: guardi, la giovane anima,
indietro nella sua vita, e chieda: che cosa finora hai amato veramente (bis jetzt wahrhaft geliebt), che cosa ti ha
attratto, che cosa ti ha dominato e in pari tempo ti ha reso felice (beherrscht und zugleich beglückt)?» 15.
4. Intermezzo
[sintesi capp. II-III]
- Al capitolo II, Nietzsche si schiede quali siano i principi educativi propri di un vero formatore.
Illustra quindi il suo incontro con Schopenhauer.
- Al capitolo III, N. approfondisce l’affermazione che il vero educatore debba essere anzitutto un
esempio di vita, come testimoniavano i greci.
N. Sottolinea anche i pericoli cui si espone un vero educatore. Questi deve imparare a fare i conti
con tre pericoli.
[I] L’isolamento di cui soffre l’uomo che pensa e vive liberamente, apparendo così “insolito” agli
altri.
«In questo rischio viveva Schopenhauer. Proprio questi solitari hanno bisogno di amore; richiedono dei compagni di
fronte ai quali sia lecito essere aperti e semplici come con se stessi, alla cui presenza finisca la tensione del silenzio
della finzione. Se togliete questi compagni determinate un pericolo crescente; Heinrich von Kleist perì per questa
mancanza di amore, e il rimedio più terribile contro uomini insoliti è lo spingerli così profondamente dentro se stessi,
che il loro uscir fuori sia ogni volta una eruzione vulcanica. Tuttavia vi è sempre qualche semidio che sopporta di vivere
in condizioni così terribili e di vivere vittoriosamente; e se volete sentirne i canti solitari ascoltate la musica di
Beethoven»16.
13
Ivi, 340 (6).
14
Schaale: scorza, guscio esterno, quindi: pelle maschera, modo di apparire all’esterno.
15
Ibid.
16
Ivi, 354-355 (22).
6
[II] Lo scetticismo nei confronti della verità. Vivere dopo Kant, comporta la consapevolezza di una
difficoltà dura da affrontare: ciò che possiamo conoscere in modo preciso e universale è soltanto
l’apparente, non il vero. Schopenhauer ha radicalizzato questa consapevolezza teorica, nel noto
principio: «Il mondo è mia rappresentazione». Con questo S. afferma che tutto ciò che conosco e
dico del mondo è sempre e comunque un modo di rappresentare il mondo. E in quanto “modo di
rappresentare” il mondo, non può essere ne più né meno “vero”, in quanto non ci si può riferire ad
una verità “in sé”, ad una dimensione meta-prospettica, assoluta del reale17.
Questi tre pericoli principali toccano da vicino ogni uomo (Mensch) che intraprenda un itinerario di
autentica autoformazione.
Nel capitolo quarto N. sostiene che con l’ausilio di Schopenhauer dovremmo imparare ad educarci
contro il proprio tempo. Per comprendere questo passaggio è necessario tener conto delle condizioni
storiche-culturali che N. denuncia apertamente in queste pagine. Si tratta dell’ascesa di una cultura
caratterizzata da una radicale tendenza “imperialistica” (cfr. “era” Bismarck). E una tale cultura
cercherebbe di demolire una autentica cura per la formazione, che deve fare i conti con il rischio
dell’isolamento, dello scetticismo e la durezza di una vita senza maschere, né servigi accomodanti.
La sola consapevolezza di questi pericoli e la volontà di superarli basta invece a fare apparire un
tale modo di concepire la formazione filosofica come “pessimistico”.
«[…] le cose starebbero così: la fondazione del nuovo impero tedesco sarebbe il colpo decisivo e demolitore contro
ogni filosofare ‘pessimistico’ e questo sarebbe ormai un fatto incontestabile. Ora, chi vuole rispondere appunto alla
domanda che cosa il filosofo come educatore debba significare nel nostro tempo, deve rispondere a quella opinione
assai diffusa, e massimamente coltivata nelle università, in questo modo: è una vergogna e un’onta che una così
nauseante adulazione idolatriva dell’epoca possa essere espressa e ripetuta da persone cosiddette pensanti ed onorabili;
una dimostrazione del fatto che ormai non si ha più un’idea di quanto sia lontana la serietà della filosofia dalla serietà di
un giornale.Uomini del genere hanno perso l’ultimo residuo non solo di un sentire filosofico, ma anche religioso e
l’hanno barattato non con l’ottimismo, ma con il giornalismo, lo spirito e il disordine del giorno e dei giornali. Ogni
17
Ma tale scetticismo va affrontato allo scoperto e solo così può essere superato. Nietzsche in queste pagine utilizza
l’espressione “Verzweifeln an der Wahrheit” (disperare nella verità): cita Hegel, il quale indica la disperazione come un
momento salutare, attraverso il quale l’io sprofonda necessariamente nella sua formazione , in quanto non solo dubita,
ma dispera di poter rinvenire qualcosa che corrisponda con quanto egli crede “vero”. Per Hegel, l’elemento salutare è il
prendere consapevolezza che la verità non si costituisce come una “realtà” da cogliere fuori da noi, ma invece (proprio
come la libertà), come un’attività di maturazione dell’io, oltre i limiti della sua individualità.
Da questo punto Hegel e Schopenhauer procedono in due direzioni diverse. Hegel si propone di elaborare una teoria
della realizzazione di sé nella vita razionale e comunitaria. Schopenhauer invece spinge verso la realizzazione si sé nella
vita creativa, contemplativa e solitaria.
7
filosofia che crede che un avvenimento politico rimandi o risolva il problema dell’esistenza [di per sé enigmatica] è uno
scherzo di filosofia, una pseudofilosofia»18.
N. sottolinea come da lungo tempo si siano annunciati dei mutamenti epocali nel mondo storico, di
cui lo stile di vita dominante, anche nel mondo accademico, è il segno evidente.
«Come considera il filosofo la cultura del nostro tempo? Certo, molto diversamente da quei professori di filosofia
soddisfatti del loro Stato (Staat)19. Quando pensa alla fretta generale e alla crescente velocità di caduta, al cessare
di ogni contemplatività e semplicità, gli pare quasi di percepire i sintomi di una completa distruzione ed
estirpazione della cultura»20.
«Le acque della religione [un tempo considerate come fonte di vita] defluiscono e si lasciano dietro stagni e
paludi; le nazioni si dividono di nuovo nel modo più ostile e aspirano a macellarsi. Le scienza coltivate senza
nessuna misura e nel più cieco laisser faire, frantumano e dissolvono quanto era fermamente creduto; e ceti civili
e Stati civili sono travolti da un’economia del denaro gigantesca e spregevole» 21.
L’effetto di queste rivoluzioni epocali sulla vita dei singoli sono evidenti:
«Non ci induce in errore il fatto che i singoli si atteggino come se non sapessero niente di tutte queste
inquietudini: la loro agitazione indica quanto ne sono coscienti. Essi pensano a sé con una furia ed
un’esclusività con cui mai degli uomini hanno pensato a sé, essi edificano e piantano per il loro giorno, e la
caccia alla felicità non sarà mai più grande di quando essa deve essere còlta dall’oggi al domani: perché
dopodomani forse non ci sarà mai più tempo di cacciare. Noi viviamo l’epoca degli atomi, del caos
atomistico»22.
E non si torna indietro: «La rivoluzione, quella atomistica, non si può più evitare». Si tratta di un processo
storico inarrestabile. Non si tratta di un processo circoscritto, che ha una causa determinata. Ciò
che sappiamo è che quei collanti sociali che un tempo dominavano la scena pubblica
(principalmente l’alleanza tra religione e potere temporale) si sono allentati di molto. Ma quando
un contesto dispotico viene liberato senza mediazioni (come scoperchiando un contenitore con
elementi tenuti sotto pressione) si può generare un’energia violenta, tale da alimentare l’esigenza
del ritorno di nuove pressioni auoritarie. E il rischio è che una nuova alleanza tra potere militare
e potere economico, afferma N., si affermi in modo incontrastato, per incanalare gli sfrenati
interessi particolari sprigionatisi dal cessare dell’”inibizione” politico-religiosa del passato, con il
rischio della distruzione delle condizioni per la cura per la autentica formazione e cultura.
«Non c’è dubbio che all’avvicinarsi di questi periodi, ciò che è umano è in pericolo quasi più che durante il crollo e
il turbine caotico, e che la pavida aspettativa e l’avido sfruttamento del minuto eccitano tutte le viltà e gli istinti
egoistici dell’anima; invece la calamità reale, e specialmente l’universalità di una grande calamità, di solito migliora
e riscalda gli uomini.
Chi allora, in questi pericoli della nostra epoca, dedicherà i suoi servigi di sentinella e di cavaliere all’umanità, al
sacro e inviolabile tesoro del tempio, raccolto a poco a poco dalla più diverse generazioni?» 23.
18
Ivi, 364-365 (33).
19
Non “condizione (Zustand)”, ma nel significato di istituzione politica (Staat).
20
Ivi, 366 (34).
21
Ivi, 366 (34-35).
22
Ivi, 367 (36).
23
Ivi, 368 (37).
8
6. L’umanità di Schopenhauer
Chi è in grado di generare una nuova immagine dell’umanità? Si tratta di un problema capitale, in
un periodo storico in cui l’uomo sembra ridotto a funzioni di auto-affermazione biologica o a mero
contenitore di processi fisico-chimici.
Ebbene, si chiede N. nelle pagine seguenti, quale immagine di “uomo” Schopenhauer ci presenta?
Certo, non l’uomo ribelle di Rousseau (legg. pag. 38); nemmeno l’uomo contemplativo di Goethe
(leg. Pag. 39-40).
Qual è allora il tratto tipico dell’uomo nel pensiero di Schopenhauer? Secondo N. è il “coraggio per
la verità”.
«L’uomo di Schopenhauer assume su di sé la passione volontaria della veridicità (das freiwillige Leiden der
Wahrhaftigkeit), e questa passione gli serve per uccidere l’amor proprio (Eigenwille) e per preparare quel
completo rovesciamento e quella completa conversione del suo essere, condurre alla quale sta il senso
autentico della vita (Umwälzung und Umkehrung seines Wesens vorzubereiten, zu der24 zu führen der
eigentliche Sinn des Lebens ist)»25.
L’amor proprio è quindi un’autostrada che mostra la vita come uno spettacolo, come una
grande distrazione dal suo senso autentico, ma anche come distrazione dal pensare/distruzione
del pensiero.
«[…] egli sa bene, come ogni piccolo uomo, che la vita si può prendere alla leggera e anche quanto morbido è il
letto sul quale potrebbe distendersi, se trattasse gentilmente e secondo le abitudini se stesso e il suo prossimo:
proprio a questo tendono tutti gli ordinamenti (doch darauf eingerichtet alle Ordnungen) dell’uomo, a fare cioè in
modo che la vita, in una continua distrazione dei pensieri (Zerstreung 26 der Gedanken), non venga sentita
(gespürt)27. Ma perché egli vuole così energicamente l’opposto, sentire cioè proprio la vita, vale a dire soffrire per
la vita? Perché vede che lo si vuol frodare di lui stesso e che vi è una specie di accordo per rapirlo via dalla sua
caverna. Allora si ribella, tende gli orecchi e decide: ‘io voglio rimanere mio!’. E’ una decisione spaventosa; solo
a poco a poco se ne rende conto. Ora infatti deve affondare nella profondità dell’esistenza con una serie di
domande insolite sulle labbra: perché vivo? quale lezione debbo trarre dalla vita? come sono diventato qual sono
e perché soffro di questo esser-così? Si tormenta: e vede che nessuno si tormenta così, che, anzi, le mani del suo
prossimo sono appassionatamente tese verso i fantasmagorici avvenimenti che il teatro politico offre, oppure che
gli uomini vanno facendo mostra orgogliosa di sé in cento maschere come giovani, uomini, vecchi, padri,
cittadini, preti, funzionari, mercanti, assiduamente preoccupati della loro commedia comune e niente affatto di sé.
Alla domanda: a che vivi? essi risponderebbero rapidamente e con orgoglio: ‘per diventare un buon cittadino,
scienziato, uomo politico’; eppure essi sono qualche cosa che non può diventare mai nient’altro, e perché sono per
l’appunto ciò? ahimè, e niente di meglio? Chi intende la sua vita soltanto come un punto nello sviluppo di una
stirpe, di uno Stato o di una scienza, e dunque vuole appartenere completamente al racconto del divenire, alla
storia (Historie), non ha compreso la lezione che l’esistenza (Dasein) gli impartisce e deve studiarla un’altra volta.
Questo eterno divenire è un menzognero giuoco di burattini (dieses eiges Werden ist ein lügnerisches
Puppenspiel) per il quale l’uomo dimentica se stesso, la vera e propria distrazione che disperde l’individuo a tutti i
venti, il giuoco insipido e senza fine che il grande fanciullo ‘tempo’ giuoca davanti a noi e con noi. Quell’eroismo
della veridicità (Wahrhaftigkeit) è di cessare un giorno di essere il suo giocattolo (Spielzeug). Nel divenire tutto è
vuoto, ingannevole, piatto e degno del nostro disprezzo; l’enigma che deve risolvere, l’uomo può risolverlo
soltanto partendo dall’essere, nell’essere così e non altrimenti, in ciò che non trapassa (im So- und nicht
Anderssein, im Vergänglichen)»28.
L’uomo tende a celarsi il problema della sua finitezza. Ma come cerca di proteggersi contro il
potere del tempo sugli individui? L’individuo tenta di dare senso alla sua attività, intendendola solo
come momento della realizzazione di una missione storico-istituzionale più ampia: in questo modo,
il suo mediocre contributo può assumere un grande valore nella cornice di un grandioso progetto
storico politico-nazionale, militare, economico, di affermazione di un marchio, quotato nel mercato
24
Nel
25
Ivi, 371 (40).
26
Traducibile con distrazione, ma anche, letteralmente con dispersione o distruzione.
27
Da Spur, traccia, quindi spüren significa letteralmente seguire le tracce.
28
Ivi, 373-374 (43-44).
9
o nei ranking accademici. Cerca dunque di potenziare se stesso inscrivendo il senso della sua
esistenza all’interno di una catena di altre esistenze: cerca di potenziarsi concependosi come
momento di una totalità più grande, come “ingranaggio” di una macchina più potente, in grado di
sublimare la propria caducità. Pensa di eternarsi entrando a far parte della “storia” ufficiale degli
avvenimenti umani.
Ma se il fine ultimo diventa quello di “far parte della storia”, allora tutto questo rischia di essere una
grande illusione. Infatti il modo in cui viene pubblicamente rivisitata la storia (Historie) è solo il
teatro esteriore, dominato dal corso accidentale del tempo, di una competizione tra poteri, che in
fondo mirano alla propria auto-affermazione.
A questo punto N. solleva lo sguardo e lancia un’accusa al mondo istituzionale, in nome della
libertà dell’autoformazione. Ha qui in mente ordinamenti e istituzioni che vanno accrescendo via
via il loro potere: certamente, esse svolgono la grande funzione di garantire stabilità alla vita degli
individui, ma possono anche degenerare in macchine burocratiche, in gabbie per la
regolamentazione della vita. Se da un lato preservano gli individui dal potere devastante del tempo,
dall’altro tendono a diventare (invecchiando) un surrogato del pensiero, presentando ai singoli i
prodotti “preconfezionati” delle possibilità di vita, pensiero, comportamento, tra le quali l’individuo
poi sceglie “a proprio piacimento”.
«Noi tutti sappiamo, in singoli momenti, che soltanto per rifuggire dal nostro vero compito sono state create le
istituzioni più complicate (weitläuftigsten Anstalten) della nostra vita, che volentieri nasconderemmo da qualche
parte la testa, come se, così, la nostra coscienza (Gewissen) dai cento occhi non potesse coglierci, che ci affrettiamo
a dar via il nostro cuore allo Stato, al guadagno, alla vita sociale o alla scienza, soltanto per non possederlo più, che
ci presentiamo al pesante lavoro quotidiano con un impeto e una mancanza di riflessione maggiori di quanto è
necessario per vivere: perché ci sembra più necessario non giungere alla riflessione (Besinnung). La furia (Hast)è
generale, perché ognuno fugge da se stesso (Flucht vor sich selbst); generale anche il pavido nascondere questa furia,
perché si vuole sembrare soddisfatti (zufrieden) e si vorrebbe celare a spettatori più acuti (sharfsichtigeren
Zuschauer) la propria miseria (Elend)»31.
L’inerzia mentale, quell’adagiarsi accomodante, che Nietzsche all’inizio del saggio indicava come
la caratteristica più diffusa al mondo, costituisce quindi l’ostacolo principale perché la natura si
sublimi nell’umano.
29
In realtà qui il significato lett. è fisico-meccanico (zurückbeben).
30
Ivi, 378-379 (48).
31
Ivi, 379 (49).
10
«Abbiamo paura, se rimaniamo soli e silenziosi, che ci venga sussurrata qualche cosa all’orecchio, e così odiamo
il silenzio e ci stordiamo con la vita sociale […] Ma al tempo stesso sentiamo di essere troppo deboli per
sopportare a lungo quei momenti di profondissimo raccoglimento (tiefsten Einkehr) e di non essere gli uomini
verso cui l’intera natura si apre un varco per la sua redenzione (Erlösung)»32.
Di fronte a questi modi d’essere dell’uomo la stessa “natura” si trasfigura. Avviene un vero e
proprio salto rispetto all’intera evoluzione del mondo naturale. Anzi non ha più senso di parlare di
evoluzione. Ora non c’è da andare da nessuna parte. Si è arrivati alla fine. E tutto ciò che non
esprime una tale umanità appare ora come un gioco insensato e folle, come un prendersi gioco
dell’esistenza33.
E’ un salto di gioia e un salto nella gioia di una dimensione di esistenza che vince lo spazio e il
tempo. E’ quel sole che ci manca: e la sua mancanza non può essere mascherata da alcun surrogato,
né a lungo celata da un ostentato sentimento di soddisfazione34.
Se fosse possibile incarnare l’ideale schopenhaueriano, questo non potrebbe essere realizzato da un
individuo ma in una «possente comunità» in cui domina un pensiero fondamentale.
«Che è il pensiero fondamentale della cultura, in quanto ad ognuno di noi essa sa porre soltanto un compito:
promuovere in noi e fuori di noi la generazione del filosofo, dell’artista e del santo e lavorare così al perfezionamento
della natura. Infatti, come ha bisogno del filosofo, così la natura ha bisogno dell’artista per uno scopo metafisico e cioè
per quella sua illuminazione su se stessa, affinché una buona volta le sia posto davanti, come un’immagine pura e
compiuta, ciò che essa non riesce mai a vedere chiaramente nell’inquietudine del suo divenire, quindi per la sua
autocoscienza. […] Così, infine, la natura ha bisogno del santo, nel quale l’io è interamente fuso e la sua vita sofferente
non è più, o quasi più, sentita individualmente, bensì come un sentimento di uguaglianza, di comunanza e di unità di
tutti gli esseri viventi: del santo nel quale ha luogo quel miracolo della metamorfosi che non è mai còlto dal gioco del
divenire, quel finale, supremo divenir uomo verso cui aspira e urge tutta la natura, per la sua redenzione da se stessa.
Non vi è dubbio, noi tutti siamo affini e legati con il santo, come lo siamo con il filosofo e l’artista; vi sono momenti,
quasi scintille del più limpido fuoco amoroso, alla cui luce non comprendiamo più la parola ‘io’; al di là del nostro
essere vi è qualcosa che in quei momenti diventa un al di qua e perciò noi desideriamo dal più profondo del cuore il
ponte tra qui e là»35.
7. Minacce al pensare
Schema capitoli 6-segg.
N. presenta i tratti fondamentali delle 4 potenze storiche che ostacolano la promozione dell’umano,
anzi che minacciano “una completa distruzione ed estirpazione della cultura”.
1. Affarismo.
32
Ivi, 379-380 (50).
33
Scriveva Schopenhauer: «Togliamo alla vita i pochi momenti di religione, d’arte, di puro amore; che altro ci resta
se non una serie di pensieri banali?». A. Schopenhauer, Der Handschriftliche Nachlaß, hrsg. von Arthur Hübscher, 5
Bände, Frankfurt am Main 1966-1975, Bd. I: Die frühen Manuskripte 1804-1818, p. 10.
34
Cfr. l’immagine della notte fonda anche nella luce del giorno del mercato, nella nota scena dell’annuncio “Dio è
morto”, nella Gaia scienza.
35
Ivi, 382-383 (52-53).
11
Risponde alla “formula seducente”: più conoscenza e istruzione → aumento dei bisogni → più
produzione → più guadagno e felicità (per tutti).
2. Statalismo: la cultura viene utilizzata come strumento di controllo istituzionale sull’educazione e
sul comportamento degli individui.
3. Consumismo culturale. Lo sfruttamento commerciale del bisogno di cultura, arte e bellezza: la
ricerca di prodotti artistici che riescano a stuzzicare a incuriosire; prodotti che si prestino ad essere
travestiti da opera d’arte; prodotti che siano riproducibili su un ampia scala, con allegate le
istruzioni delle modalità di “consumo”.
4. Scientismo: la scienza come ricerca intellettuale fredda e arida. Pratica scientifica che
“ammuffisce” l’umanità dei suoi servitori.
Maestra nella visione acuta del particolare; miope nelle questioni più grandi e generali, la scienza è
arroccata sul potere dei finanziamenti, e in vista di questo si struttura in modo piramidale: ciò che
conta è la fedeltà verso i propri maestri e padroni; il servitore è sempre grato verso di loro perché gli
hanno permesso di entrare nei “dignitosi recinti della scienza, dentro i quali non sarebbero mai
potuti penetrare seguendo una loro strada”.
«Mentre, infatti, con gli sforzi degli attuali educatori accademici si produce o lo scienziato, o il funzionario statale, o
l’affarista, o il filisteo colto o, infine e più spesso, una mescolanza di tutto ciò, quegli istituti, ancora da scoprire,
avrebbero certamente un compito più difficile; non certo più difficile in sé, perché sarebbe in ogni caso il compito
naturale e in quanto tale anche il più facile; e, del resto, si può essere qualche cosa di più difficile che ammaestrare,
come oggi accade, un giovane contro la natura per farlo diventare uno scienziato? Ma la difficoltà per gli uomini sta
nell’imparare di nuovo e nel porsi un nuovo fine; e costerà una fatica indicibile cambiare con una nuova idea
fondamentale le idee fondamentali del nostro sistema educativo attuale, che ha le sue radici nel Medioevo e che si pone
come fine della perfetta cultura proprio lo scienziato medievale» 36.
36
Ivi, 401-402 (74).
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