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Fashion film
Il fashion film come genere è nato negli ultimi tempi, ma all’interno della storia del cinema è sempre stata
riscontrata una reciproca influenza tra moda e cinema, si basti pensare al lavoro svolto dai costumisti dietro
la realizzazione di un film. Grazie a questo stretto legame, gli stilisti spesso si servivano dell’immaginario
cinematografico per diffondere il proprio talento come avvenne durante l’affermazione dello star-system
hollywoodiano. Se lo stile dei divi/e entrò a far parte della memoria collettiva, non avvenne lo stesso per chi
ci lavorava dietro: difatti, si dovette aspettare il 1948 affinché venisse istituito il premio Oscar per i costumi.
Col tempo il cinema divenne un vero e proprio mezzo pubblicitario per grandi firme, tanto che nei grandi
magazzini vennero creati dei “reparti cinema” in cui si potevano acquistare a prezzi accessibili le copie di
abiti apparsi nei film di successo. Nel medesimo contesto è possibile collocare anche la recente ondata di
prodotti cinematografici a contenuto moda: dai film di grande distribuzione come Il diavolo veste Prada o
Sex and the city, ai lungometraggi dedicati i designer che hanno fatto la storia come Coco avant Chanel o al
recentissimo House of Gucci.
Sebbene i cinema abbiano la duplice funzione di raccontare una storia e di pubblicizzarne i prodotti,
quest’azione avviene in maniera passiva basandosi un sistema di marketing inbound, incentrato sulla
misurabilità e sugli effetti a lungo termine dello spettatore, il quale si può sentire spinto ad acquistare un
determinato abito o accessorio perché posseduto da una star del cinema. Contrariamente, l’altro sistema di
marketing, più facilmente conosciuto, è quello degli spot pubblicitari che, in una durata di pochi minuti,
diffondono in maniera più “violenta” il messaggio stimolando l’acquisto più direttamente.
Nell’ultimo decennio alcuni importanti marchi hanno rilevato che le loro immagini in rete dovessero
muoversi rispetto ai contenuti sviluppati offline. È in questo contesto nascono i fashion film: una nuova
forma di plasmare le immagini di moda datandole al movimento, innovativa e pensata per la fruizione sul
web e adattabile alle nuove esigenze dei consumatori in risposta alla saturazione dei messaggi pubblicitari
tradizionali e alla moltiplicazione dei canali comunicativi. Contrariamente a quello che si può comunemente
pensare, i fashion film non rientrano in nessuna delle categorie presentate in precedenza o meglio, essi si
possono considerare un ibrido fra i due: si tratta di prodotti audiovisivi di 24 fotogrammi al secondo di breve
durata (da uno a venti minuti) con particolare attenzione all’estetica visuale e alla narrazione, il cui risultato è
la combinazione di produzioni come il video musicale, il cinema sperimentale, la video arte, il documentario,
lo spot pubblicitario e il cortometraggio.

Prima di giungere alla nascita ufficiale dei fashion film, diverse sono state le radici che hanno dato vita a
questo nuovo genere: vi è chi ritiene che esso nasca sul cortometraggio dei Lumière, la Danse Serpentine
(VIDEO), video che si fonda essenzialmente sul fluttuare armonico e sinuoso di una veste che cambia colore
e forma come un serpente. Un altro esempio riguarda i lavori del pioniere degli effetti, Georges Méliès che,
in un periodo compreso tra il 1898 e il 1900, ha realizzato delle pubblicità ad oggi dispersi. Essi venivano
proiettati esternamente al Teatro Robert-Houdin, realizzando un primo esempio della rappresentazione extra-
cinematografica dei fashion film. Negli anni successivi, altre pubblicità di moda si sono dedicati agli abiti
“pronti all’uso”, come The Warner Corset Advertisment (VIDEO) degli anni ’10: costruito come se fosse
uno sketch comico, il filmato mostra le qualità del corsetto super resistente e si conclude con una sequenza
stop-motion che mostra il corsetto mentre si muove, si chiude e si riapre, soffermandosi sul dettaglio.
Fondamentale per la storia dei fashion film è il contributo di Poiret che, nel 1913, ha usato una pellicola a
colori come sostituta di una passerella live, in modo da ridurne i costi. Questa pratica verrà ripresa durante
gli anni ’90 e 2000 come valida alternativa ai fashion show. A partire dai primi decenni del 1900, i
cinegiornale diventano il formato più popolare per promuovere le ultime mode fornendo anche consigli alle
donne. Le modelle venivano riprese singole o in piccoli gruppi mentre realizzavano dei lenti e limitati
movimenti in modo da catturare lo sguardo dello spettatore che ricerca il dettaglio. Successivamente, i
cinegiornali divennero sempre più complessi e articolati, creando dei maggiori movimenti di camera e
servendosi di tecniche più avanzate di editing dove si univano inquadrature a figura intera con i close up.
Con il tempo i cinegiornali divennero la perfetta combinazione tra moda e cinema con numerosi benefici sul
business.

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Insieme ai cinegiornali, durante gli anni ’30 hanno iniziato a diffondersi dei film documentari incentrati sugli
aspetti del retroscena dell’industria. Sebbene non fossero delle pubblicità dirette, il loro scopo era di
promozionale e educativo. Nel 1938 Humphrey Jennings realizza Making Fashion (VIDEO), un
documentario in preparazione alla collezione primavera/estate di Norman Hartnell, co-produttore. Il
cortometraggio mostra Hartnell a lavoro nel suo studio e le immagini a cui si ispira. Il risultato è un video
intimo, ma al tempo stesso idealizzato di quella che è la vita dietro le quinte di uno sei più grandi marchi e di
successo; mostra un corpo perfettamente equilibrato di lavori mentre esegue delle lavorazioni e si dedica ai
decori. L’intero video è stato realizzato con la pellicola Dufaycolor, adatta soprattutto per la resa dei toni
pastello in armonia con le tonalità del make-up di Max Factor, e si conclude con due passerelle: una interna,
l’altra all’esterno di fronte ad un piccolo studio. Questo video si colloca tra il documentario e la pubblicità
estesa, rendendo Making Fashion un raro esempio di questo genere nell’Inghilterra pre-guerra.
Sebbene i registi più affermati erano la scelta più ovvia per la realizzazione di documentari e video
promozionali, anche i fotografi di moda hanno iniziato ad interessarsi a questa pratica espandendo i loro
lavori all’immagine in movimento. In particolare ricordiamo il contributo di Erwin Blumenfel (VIDEO
PRIMA PARTE) e di Guy Bourdin, cui cortometraggi sono stati recentemente ri-editati da SHOWstudio.
Nella realizzazione di questi video, i due fotografi si cimentano nelle pratiche più sperimentali del cinema,
servendosi anche di alcuni effetti come la distorsione o la composizione simile ai collage, ma anche effetti
più vicini al video come la reverse motion.
A partire dagli anni 80 si individua dalla televisione un sempre maggior interesse verso i programmi di
moda, tanto che gli stilisti li iniziano ad incorporare nelle passerelle e nei negozi dei video. Nel 1989 si tenne
a Londra la Fashion Week e, per la prima volta, Rifat Ozbek, Jasper Conran e Antony Price proposero una
nuova visione di sfilata che prevede unicamente la presentazione di video per ragioni sia creative che
economiche. (VIDEO) Ozbeck realizza un video musicale, insieme al filmmaker John Maybury: il risultato è
ciò che si avvicina più al fashion film per come viene concepito oggi. Il video mostra le modelle mentre
indossano gli abiti dai colori vivaci su uno sfondo equivalente. Esso si costruisce grazie a numerosi effetti
speciali dalla moltiplicazione di immagini, rotazione e cambio di cromie. Il video veniva trasmesso a
intervalli regolari in un cinema/teatro improvvisato, provvisto di un luogo adiacente per mostrare gli abiti.
Ovviamente la stampa all’epoca non apprezzò la novità e accusò Ozbeck, sottolineando come
l’inadeguatezza dell’immagine in movimento andasse a modificare le informazioni dei vestiti.
Intorno ai primi anni 2000 si diffonde un maggiore interesse da parte dei designer nell’incorporare le video
proiezioni nei loro show con le collaborazioni di diversi fotografi. Questo interesse si diffonde probabilmente
a causa dell’aumento delle possibilità tecnologiche, ma coincide anche con il cambiamento dei fashion show
verso un’esperienza multisensoriale che desidera improntare nel pubblico il concetto e il processo creativo
dietro una collezione.
Fondamentale nella produzione di questo nuovo genere è la piattaforma SHOWStudio, The House of
Fashion film, ideata nel 2000 dal fotografo Nick Knight e dal graphic designer Peter Saville per accogliere la
nuova tendenza digitale, definendo per la prima volta le possibilità estetiche e le convenzioni relative a
questo genere. Un anno più tardi è stato proprio lo stesso Nick Knight ha trasmettere il primo fashion film
contemporaneo con Sleep (VIDEO), composto da 8 brevi clip realizzate via webcam che mostrano nove
modelle dormienti al Metropolitan Hotel di Londra con indosso le collezioni di primavera/estate. Essendo le
potenzialità del mezzo più scandenti rispetto a quelle a cui siamo abituati al giorno d’oggi, il risultato non
prevede un’alta definizione e tanto meno un’elevata fluidità, anzi si concepisce piuttosto come un montato in
sequenza di fotogrammi, simile al time-lapse. La composizione del video si basa su pochi elementi
essenziali: su un fondo molto semplice si adagia la modella che, a causa dell’inquadratura, sembra frontale e
non distesa per terra, inquadratura che genera un senso di instabilità come si si dovesse ribaltare sullo
spettatore. Inoltre, il video prevede l’unione di fotogrammi scattati una volta al minuto perché le tecnologie
non permettevano di più; a volte essi vengono accostati fra di loro in maniera repentina, altre volte invece si
predilige un dissolvenza fra i due frame, donando ancora più poeticità. Una caratterista fondamentale di
Sleep, che si riproporrà in altre sue produzioni, è a suddivisione in capitoli, in questo caso segnalata dal
cambio di modella e rispettivamente di abito. All’interno del video è possibile osservare anche l’estremo
studio che vi è stato dietro riguardo la scelta cromatica: con gli abiti neri si è optato per un fundo bianco
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maniera tale che risaltasse maggiormente; contrariamente, in altre clip si è optato per un lenzuolo più
colorato in modo da esaltarne i vestiti e i capelli. L’effetto è quello di un prodotto voyeristico, estremamente
sensuale per via della bassa definizione che dona alla sequenza delle immagini un effetto quasi pittorico,
enfatizzato anche dalla granulosità dell’immagine. Utilizzando l’espediente del live broadcasting, Knight ha
voluto sfruttare l’elemento dell’imprevedibilità e della spontaneità.

Sebbene SHOWStudio aprì nei primi anni 2000, si deve aspettare ancora un decennio prima che i fashion
film diventino una pratica diffusa, soprattutto dai grandi marchi. Nel 2008 Prada diede inizio al boom di
questo genere con Trembled Blossom (VIDEO), animazione cinematografica, diretta da James Lima e con le
musiche di Coco Rosie. In questi primi anni i fashion film si sviluppano seguendo un’estetica molto precisa,
basata essenzialmente sulle luci e colori soft molto più vicini al cinema piuttosto che alle produzioni
pubblicitarie. Un’altra caratteristica riguarda la vera e propria connessione che si crea con il cinema d’autore;
difatti si inizia a richiedere un contributo sempre maggiore dei grandi registi del cinema e in generale dei
culturi dell’immagine, tra cui fotografi e artisti in generale. Con lo svilupparsi del genere sono nate altre 3
sottocategorie: aspirazionale, in cui si ricorre a registi e attori famosi con una narrazione classica;
emozionale, che coinvolge registi di nicchia spesso provenienti dal cinema indipendente; estetico, in cui si
privilegiano le componenti artistiche e sinestetiche piuttosto che la narrazione.
Il formato breve e la presenza più o meno diretta del marchio non sono i soli elementi fondamentali dei
fashion film, ma il loro scopo è quello di stabilire con lo spettatore una relazione emozionale, generando una
adver credenza attorno al marchio facendo sì che il pubblico possa assimilarlo più attivamente e
consapevolmente. Il loro intento viene definito ad oggi advertainment, ossia un ibrido tra la pubblicità e
l’intrattenimento basato su uno storytelling che, grazie ad un discorso narrativo, rimane molto più impresso
nella memoria e risulta meno intrusivo come può avvenire per il product placement. Attraverso lo
storytelling si integrano i valori del brand, evocati in maniera simbolica all’interno del prodotto finale.
L’advertainment soddisfa quindi alcune esigenze fondamentali per il marketing contemporaneo:
intrattenimento per il pubblico che da consumatore diventa spettatore, pubblicità per i brand, social
engagement attorno alla marca e diffusione dei contenuti da parte degli utenti. I fashion film sono uno
strumento molto efficace nel rapporto con i consumatori nel produrre valore in immagini e suggestioni al
fine di sollecitare e orientare la percezione del pubblico a livello trasversale: a volte i fashion film non
contengono affatto il prodotto, ma il loro intento è di connettere la marca allo spettatore da un punto di vista
emotivo, ricorrendo per esempio a: trame complesse, attori famosi, scenari mozzafiato, esperienze
straordinarie o incursioni nell’inconscio, e lo fanno su base mondiale.

Fashion Film aspirazionale

Runtime 3 min

Color Color

Aspect Ratio 1.85 : 1 Vista vision

Camera Panavision Panaflex Millennium, Panavision Primo Lenses

Negative Format 35 mm (Kodak Vision2 500T 5218)

Cinematographic Process Super 35

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Come esempio di fashion film aspirazionale prendiamo il video di Chanel No.5, diretto da Baz Luhrmann,
regista di Romeo + Juliet, e con protagonisti Nicole Kidman e Rodrigo Santoro. Questo cortometraggio
racchiude in soli due minuti l’inizio e la fine di una storia d’amore. Una famosa celebrità scappa dalla folla
nel mezzo di Times Square per entrare in un taxi con un uomo che non conosce. Dopo alcuni giorni, il suo
segretario le ordina di tornare alla vita da celebrità e verrà fotografata dai paparazzi mentre sale le scale. Ciò
che distingue questo video da quello visto precedentemente di Nick Knight è proprio l’incentivo economico,
difatti questo breve corto aveva un budget di 33 milioni di dollari e ciò lo dimostra anche il risultato stesso.
Inoltre, è estremamente evidente il marchio pubblicizzato che viene posizionato più volte sui diversi edifici,
tra cui quello cui vive il giovane uomo, tanto che in diverse scene lo vediamo che si siede sulla celebre C di
Chanel: se non vi fosse stato inserito questo elemento, il risultato sarebbe stato un vero e proprio trailer
cinematografico che siamo abituati a vedere. Siccome il video segue una storia, sono presenti le 3 fasi
principali: il prologo, in cui Nicole Kidman vive nel mondo delle celebrità da cui poi scappa; la peripezia, in
cui si colloca la storia d’amore fra i due; l’epilogo, in cui l’attrice viene richiamata alla sua realtà. Sebbene la
storia abbia un’evoluzione ciclica, in realtà è possibile osservare un modello a spirale dove si nota
un’evoluzione provocata dall’incontro fra i due protagonisti, cui ricordo rimarrà sempre nel cuore
dell’attrice.

 Nervous Breakdown
Il film si incentra sulla ricerca personale dell’eroina attraverso un’avventura d’amore che Luhrman
ricollega al brand di Chanel e al profumo. All’inizio si vede l’eroina in una fase di crisi interna;
appare in panicata e sopraffatta dall’ossessione dei media verso di lei. I paparazzi la circondano,
scattando in continuazione delle foto con il flash. La protagonista appare spaventata e intrappolata:
vi è un frame che racchiude questo sguardo. In seguito decide di scappare e fuggire dalla vita
pubblica per un po’.
 La fuga
La fuga dell’eroina è legata all’incontro improvviso con l’attraente scrittore che incontra sul taxi.
Questa scena riprende il classico schema della fiaba, dove la ragazza impaurita viene salvata dal
personaggio maschile. In questo caso però l’incontro è fortuito; lei non viene salvata da nessuno se
non da se stessa. Lo scrittore assume quindi un ruolo passivo all’interno della sua fantasia, mostrato
per la per la prima volta con lo stesso sguardo smarrito di lei. Dopo un primo momento, l’eroina
ordina al taxista di partire: con questa semplice parola, la protagonista riprende il controllo
scegliendo un nuovo cammino.
 Storia d’amore
Nella scena successiva si vede la protagonista seduta sulla c del logo nello stesso modo in cui era
seduto lo scrittore all’inizio. In questo momento, la donna fa esperienza di un nuovo mondo, il suo.
Appare quindi in maniera diversa a prima, più calma e rilassata. Una volta al sicuro dal suo mondo,
l’eroina esperimenta una nuova identità, inventando di essere una ballerina. Lei sembra apprezzare il
fatto che lui non sappia chi sia lei veramente e vuole mantenere i due mondi lontani. Questa è anche
simbolo della trasformazione del suo personaggio: per la prima volta l’eroina scopre la sua vera
identità, senza assecondare a prescindere la sua immagine di personaggio pubblico.
Ricoprendo il ruolo di una ballerina, l’eroina abbandona tutti i suoi doveri e diventa più aperta,
sprigionando la sua sessualità. Questa gesto assume un significato simbolico su diversi livelli.
Innanzitutto, la scena d’amore rappresenta il mito che vi sia una componente carnela in ogni donna:
il regista suggerisce che il profumo permetta alle donne di incorporare la loro sessualità,
sprigionando tutti gli istinti più carnali. Grazie al profumo, scappa dal ruolo di icona femminile
innocente e glamour. La scena dei fuochi d’artificio suggeriscono sia un orgasmo sessuale, ma anche
la celebrazione della ritrovata libertà dell’eroina. In questo caso la scena d’amore assume
metaforicamente l’espressione di libertà personale.
 Ripresa del controllo
Nella scena seguente il manager le chiede di tornare, ma lei protesta che non le interessa il domani.
All’inizio del video viene sopraffatta dai paparazzi, ma ora è lei a scegliere cosa fare delle propria
vita: non le interessa più cosa vogliono gli altri da lei, ma, scegliendo di stare con lo scrittore, è lei a
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decidere quello che desidera. Nonostante ciò, realizza che ha degli obblighi e delle responsabilità per
cui torna alla vita di prima, ma questa volta ai suoi termini.
Durante la fruizione del video, è evidente la presenza di un regista cinematografico dietro la camera,
soprattutto per lo studio dietro la luce. A livello di analisi cromatica è possibile osservare la prevalenza di
toni freddi, in particolar modo si distingue una predominante di azzurro ghiaccio che influenza anche i toni
considerati caldi, come si vede nella scena della scalinata in cui il rosso non appare in una gradazione
brillante. Il regista si serve anche dell’impiego del bianco e nero in alcune clip iniziali in cui, grazie alla luce
intensa, all’inquadratura ravvicinata e ai movimenti di camera, enfatizza il sentimento di affanno della
celebrità. Il bianco e nero si dissolve poi nelle cromie principe dell’intero video, per esser ripreso in seguito
nella clip dedita agli inserti giornalistici, dove si registra anche una componente gialla che dona un effetto
retrò. L’uso dei colori gioca un ruolo fondamentale anche negli abiti scelti. Nella prima scena la protagonista
indossa un lungo abito rosa che simbolicamente rappresenta la fase fanciullesca. Successivamente, a seguito
della fuga, scaccia via l’abito rosa indossando un abito un completo che su di lei sembra un costume di
cabaret. Questo cambio di abito desidera sfidare i ruoli di genere tradizionali, mentre lei assume maggior
controllo sulla sua vita. Infine, nell’ultima scena indossa un vestito nero che, grazie anche all’acconciatura,
accentua la sua sensualità e il suo potere. Esso entra inoltre in pieno contrasto con il vestito rosa iniziale,
sottolineando una trasformazione nell’eroina.

Fashion Film emozionale


Runtime 8 min

Color Color

Aspect Ratio 2.35 : 1

Realizzato nel 2013, “Castello Cavalcanti” è un cortometraggio di 8 minuti diretto da Wes Anderson, in
collaborazione con Darius Khondji, in per Prada. Castello Cavalcanti rientra perfettamente nell’universo
autoriale di Anderson, a cui appartengono ‘classici moderni’ I Tenenbaum, Il treno per il Darjeeling e
Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore. Solo che questa volta ci troviamo in Italia, è il settembre del 1955 e
Jason Schwartzman è appena andato a sbattere con la sua auto da corsa contro una statua di Gesù. Il risultato
è un racconto popolare sui casi del destino in tipico stile ‘andersoniano’. Girato in un set di Cinecittà
dall’ambientazione storica perfetta e curata fin nei minimi dettagli, Castello Cavalcanti incontra uno
Schwartzman urbano e disinvolto, rimasto appiedato in un paesino ignorato dal progresso. “Dove mi trovo?”,
si domanda. Gli abitanti del luogo interrompono la loro partita a carte per indicargli un edificio in mattoni su
cui si legge: “Castello Cavalcanti.” Il contesto è quello di una tipica piazza italiana, dove sono tutti, in
qualche modo, parenti, l’autobus passa di tanto in tanto e i segreti di famiglia vengono condivisi davanti a un
piatto di spaghetti. Lo smarrito outsider impersonato da Jason Schwartzman si rende improvvisamente conto
che Castello Cavalcanti non è affatto un luogo senza significato. È anzi un posto ben definito. Speciale.
Ancestrale. Nulla accade senza un motivo, e lo sterzo che il cognato ha montato al contrario forse rientra in
un progetto superiore. “In un certo senso sono contento di aver avuto questo incidente”, confessa. “Deve
essere un avvertimento”. È possibile riscontrare il viaggio dell’eroe all’interno del video
1. Primo stadio  momento di scontro dello scontro con l’automobile e l’ira scatenata in seguito
2. Secondo stadio  momento in cui scopre di trovarsi a castello Cavalcanti e ricorda che i suoi
antenati venivano da lì
3. Terzo stadio  decide di rimanere a Castello Cavalcanti
Il timbro andersoniano è evidente, quello che lo spettatore si trova davanti è un mondo vintage griffato
Prada, un luogo immaginario, sperduto, dove tutto è finto ma allo stesso tempo terribilmente familiare. La
mescolanza dell’inglese americano e dell’italiano riporta immediatamente ai tempi del dopoguerra,
impregnando di nostalgia (vissuta o desiderata) l’intera pellicola e consentendo anche ai meno anglofili di
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comprendere interamente i dialoghi che, come suo solito, Anderson riduce ai minimi termini, lasciando il
tempo di godere appieno delle inquadrature e delle scene. Come tipico del regista, si vede l’impiego della
cambi di scena continui provocato con il movimento di macchia, talvolta in ritardo rispetto al suono. Un’altra
caratteristica riguarda la lente impiegata, difatti Anderson impiega una lente grandangolare che dona un
senso di rotondità nelle quadrature estremamente bilanciate e armoniche. La cinepresa guizza come un
telescopio curioso all’interno del set, in cui brillano i colori accesi e acidi della formica anni ’50 e l’insegna
al neon. Nonostante il neon, si prediligono tonalità calde che sottolineano il calore e il senso di appartenenza.
Estremamente significativa poi è l’inquadratura interna, dove si accentuano i toni di giallo e rosso, presenti
sia sullo sfondo sia nella tuta dell’automobilista, dove vi è il logo. Oltre alla parte iniziale del video, in cui si
apre con la scritta Prada, quella sulla tuta è l’unico altro inserto che vediamo del marchio. Questo
cortometraggio è un chiaro esempio di come i fashion film non mostrino un prodotto da vendere, ma un’idea
e un’estetica. Il fimo è un tributo al cinema italiano di Fellini, il quale ha influenzato i lavori di Anderson,
soprattutto nella creazione del background dei personaggi. In questo video sono presenti diversi riferimenti:
la “Molte Miglia” a cui partecipa il protagonista richiama la gara automobilistica svoltasi in “Amarcord”
VIDEO; invece, la statua che colpisce rimanda al cristo che vola all’inizio della “Dolce Vita” VIDEO.
Il cortometraggio è presentato in anteprima mondiale il 13 novembre 2013 al Festival del Cinema di Roma,
all’interno della sezione “Special Events Out of Competition”.
VIDEO H&M WES ANDERSON  estetica vicina a Grand Budapest Hotel

Fashion film estetico


Esistono diverse tipologie di fashion film estetici, alcuni affrontano delle tematiche preciso come può esser
la solidarietà, altri sono può concettuali, mentre altri acnora esplorano le nuove tecnologie e sperimentano le
nuove pratiche 3D. Il cortometraggio realizzato da Nick Knight in collaborazione con Younji Ju per la
collezione autunno/inverno 2017 di Gareth Pugh racchiude tutte le pratiche citate prima. Più volte Nick
Knight e Gareth Pugh hanno collaborato insieme grazie alla loro estetica molto vicina: entrambi condividono
un interesse per la distorsione dell’immagine e per la cultura punk. Gareth Pugh è considerato un visionario
all’interno del mondo della moda, perché realizza degli abiti che non si rifanno a ciò che va di moda in quel
momento, ma che esprimano un concetto: propone un guardaroba che non va mai fuori moda. L’intera
collezione autunno/inverno è stata studiata dallo stilista nel minimo dei dettagli, andando a restituire il senso
di alienazione post-elezioni americane sia negli abiti, ma soprattutto nello show e nel video realizzato poi da
Knight. Pugh concepì l’intero show in maniera quasi performativa, tanto che decise di realizzarlo all’interno
di uno spazio anticonvenzionale, una location sperduta a Islingston, Inghilterra. Quando si tenne lo show
suscitò grande scalpore, molte furono le polemiche dovute al fatto che facesse troppo freddo, fosse troppo
buio e si trovasse in mezzo al nulla. Sebbene vi fosse la possibilità di migliorare queste condizione, Pugh
decise deliberatamente di non accendere il riscaldamento e di mantenere questa situazione come i vecchi
tempi in cui gli show erano veramente degli show e portavano qualcosa di nuovo. L’intera atmosfera di
alienazione e disturbo venne accentuata anche dalla musica, prodotta in collaborazione con l’artista Matthew
Stone: la stessa viene poi ripresa nel video. Si sentono le urla della famosa campagna trumpiana dove viene
ripetuto “Build that wall!”, intervallato anche dalle note di Madonna, di Dylan Thomas e della chitarra di
Jimi Hendrix. Per la realizzazione della musica, Pugh si ispira alle tecniche di deprivazione del sonno usate
dalla CIA.
L’intera atmosfera suggerita durante lo show viene poi ripresa perfettamente da Nick Knight nella
realizzazione del fashion film, girato nell’agosto del 2017. Il video viene realizzato nella stessa location dello
show: un luogo spoglio, sprovvisto di qualsiasi cosa. Inizialmente si apre con la scena di un ballerino sulle
note di una melodia classica, interrotta poi da un suono meccanico che comporta anche l’interruzione e la
riproduzione del movimento. Si passa poi al suono delle campane, sempre accompagnato dalla visione del
ballerino. La scena si chiude con un movimento di camera che scorre verso l’alto, scurendosi poi in maniera
progressiva. Improvvisamente si ha un primo estraniamento dovuto alla fonte di luce, la quale apre ad una
nuova sequenza del video accompagnato dalle parole “Build that wall”. Si passa poi alla confusione
completa le porta al completo spaesamento dello spettatore dove l’unica cosa che si chiede è “What the
fuck”. Queste clip si accostano fra di loro in maniera repentina: si passa da scene chiare ad altre più scure, il
tutto accompagnato in sottofondo da un suono disturbante. Per accentuare ancora di più la condizone, Knight
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si serve anche di inserti che vanno a distorcere alcuni elementi e anche si sequenze accelerate che
sottolineano un senso di angoscia. Si alternano anche visioni con una visione dal basso ad alcune con una
visione dall’alto. Estremamente d’impatto è anche la scelta cromatica, difatti l’intero video si costruisce su di
un bianco e nero estremamente contrastato. Un altro elemento fondamentale è la luce, la quale con il suo
movimento va ad accentuare alcune porzioni piuttosto che altre, sottolineando ancora di più le zone di pura
ombra con quelle di luce: è possibile osservare un impiego quasi espressionista della luce.
Questo cortometraggio racchiude l’insieme delle pratiche a cui si interessa oggi l’industria dei fashion film.
Al giorno d’oggi diversi sono video che si servono della moda con uno scopo politico/sociale, legato
soprattutto al tema della sostenibilità. Inoltre, con l’avanzare delle tecnologie sono cambiate anche le
pratiche, diversi video oggi mostrano un’interazione con l’animazione 3d, considerata il futuro della moda
come si osserva in diversi profili Instagram. (WATERDROP, BALLY PEAK OUTLOOK)

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