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La letteratura americana:
stralci d’autore
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Capitolo
La vita e le opere Edgar Poe nasce a Boston nel 1809 da genitori entrambi attori itineran-
ti. Due anni più tardi, alla morte della madre, viene adottato dagli Allan, famiglia di agiati com-
mercianti della Virginia. Dal 1815 al 1820 vive in Inghilterra insieme ai genitori adottivi e al
suo ritorno in America si iscrive nel 1828 all’Università della Virginia. Dopo appena sei mesi
viene però espulso per intemperanze legate all’uso dell’alcool e alla sua irrefrenabile passio-
ne per il gioco d’azzardo; di conseguenza anche i suoi rapporti con la famiglia Allan diventa-
no pessimi. Nel 1929, grazie all’intercessione del padre, entra nell’Accademia militare di West
Point. Cacciato anche da questa istituzione, si ritrova senza neanche una casa poiché gli Al-
lan interrompono con l’autore qualsiasi tipo di relazione. Si trasferisce quindi a Baltimora
presso l’abitazione della zia. Qui si innamora della giovanissima cugina, Virginia Clemm, e la
sposa nel 1836. Purtroppo, la perdita dell’amata moglie nel 1847 logora la sua salute già pre-
caria a causa dell’etilismo e dopo appena due anni si spegne a Baltimora.
La carriera letteraria di Poe comincia tra il 1827 e il 1829 quando pubblica rispettivamente
Tamerlano e altre poesie e Al Aaraaf, Tamerlano e altre poesie brevi. Già in questi primi
esperimenti l’autore chiarifica il suo pensiero sulla composizione lirica, ampiamente espres-
so nel saggio Il principio poetico, uscito postumo nel 1850: secondo il parere di Poe, forte-
mente influenzato dall’estetica romantica inglese, la sua poesia, trattando temi quali la deca-
denza, l’inesorabile trascorrere del tempo e la morte, deve essere caratterizzata da abbondan-
te simbolismo, ritmo possente e fulminante brevità. Infatti, lo scopo precipuo è quello di tra-
smettere un’emozione istantanea, più che elaborare un messaggio, avendo come proprio og-
getto il piacere della lettura e non già la ricerca della verità assoluta. Tali sono i principi anche
alla base delle opere in prosa di Poe, date alle stampe dal 1833 in poi. Il romanzo Il mano-
scritto trovato in una bottiglia (1833) viene seguito dal più famoso Le avventure di Gor-
don Pym, pubblicato a New York nel 1838. Pur trattandosi di opere di un certo rilievo, l’auto-
re evidenzia tutta la sua perizia narrativa nei suoi volumi di Racconti del grottesco e dell’ara-
besco (1840) e Racconti (1845), dove riesce a dare piena espressione al suo estro immagi-
nativo e alla sua scrittura dinamica. Ritornato alla poesia con il poemetto Il corvo (1845), ot-
tiene un folgorante successo in tutto il paese. Nel 1846 esce l’importantissimo saggio La filo-
sofia della composizione contenente le sue teorie estetiche sul romanzo e sul racconto.
Il profilo Edgar Allan Poe fornisce uno dei primi esempi di scrittore per il quale vita e car-
riera artistica vengono a coincidere perfettamente: spesso egli si confonde con il disturba-
to e insofferente “io narrante” delle sue storie, nel tentativo di esprimere il suo incessante
sforzo di stabilire una relazione con un’umanità incapace di comprenderlo pienamente. In
realtà, la chiave di lettura di tutta la sua complessa arte risiede proprio nella travagliata esi-
stenza che l’autore ha condotto: abbandonato sin dall’infanzia, Poe sviluppa un atteggia-
mento ribelle e anticonformista al solo fine di occultare il suo desiderio di affetti veri e du-
raturi. La sua insistente frequentazione dei salotti americani più alla moda, dove si reca ab-
bigliato come il sinistro “corvo” protagonista del suo poema maggiormente noto, o la sua
strenua difesa a favore dell’uso di alcool e droghe di ogni tipo, non hanno altro scopo che
quello di colpire l’opinione pubblica, al solo fine di procacciarsi in tal modo stima e ricono-
scimenti, ma si tratta di un’errata valutazione, perché essi tardano ad arrivare a causa del
moralismo imperante in patria. La situazione peggiora ulteriormente quando Poe si unisce
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alla tredicenne Virginia, dalla quale lo separano ben quattordici anni di differenza d’età: ep-
pure, il sentimento che l’autore avverte per questa esile creatura, capace di incarnare con
la sua fragilità e il suo candore l’ideale di bellezza eterea celebrato nelle sue poesie, non pre-
senta alcuna caratteristica di morbosità. In effetti, il loro affiatamento è perfetto e il perio-
do del loro matrimonio diventa il più fecondo nell’attività creativa dello scrittore. Tuttavia,
la solitudine, compagna inossidabile di tutta un’esistenza condotta sempre sui binari della
trasgressione, è ancora in agguato. La morte improvvisa della ragazza chiude questa fase fe-
lice, gettando l’autore nella più profonda disperazione. La sua vita si conclude perciò, con
un atto finale di abbandono, così come era cominciata: viene trovato morente in un angolo
di strada in preda a quel “delirium tremens” di cui spesso avevano sofferto anche i suoi in-
dimenticabili personaggi. Il pubblico americano, in realtà, non ha mai perdonato a Poe la
sua ostinazione a non voler contribuire alla creazione di una tradizione letteraria autocto-
na che in quegli anni si andava formando. All’acceso nazionalismo di scrittori come Fenimo-
re Cooper e Irving, entrambi uomini d’affari convertiti alla scrittura esclusivamente per dare
voce al nuovo orgoglio della razza americana finalmente liberata da modelli culturali di de-
rivazione europea, Poe oppone un insistente ricorso a una tradizione lirica e narrativa mu-
tuata direttamente dalla vecchia Inghilterra. Certamente, la sua predilezione per una scrit-
tura rapida ed essenziale o per figure e temi non letterari e la sua smania di innovare e pro-
vocare lo rendono un perfetto figlio dello spirito pionieristico che anima la giovanissima let-
teratura americana agli inizi dell’Ottocento, ma rimane incomprensibile a lettori cultural-
mente poco preparati come apparivano appunto gli americani a lui contemporanei, l’origi-
nale universo simbolico al quale l’autore fa sovente ricorso. Quest’ultimo diventa polo d’at-
trazione per due poeti francesi decadenti come Charles Baudelaire (1821-1867) e Stépha-
ne Mallarmé (1842-1898), traduttori delle opere di Poe e convinti assertori dell’importan-
za dell’autore quale maestro del movimento simbolista.
RACCONTI (TALES)
I Racconti (1845) rappresentano il punto più alto della produzione in prosa di Edgar Allan
Poe. Infatti, se nel romanzo Le avventure di Gordon Pym egli cerca di adeguarsi alla tradi-
zione imperante in patria, è soltanto nei Racconti che l’autore riesce ad applicare le sue teo-
rie narrative espresse nel già citato La filosofia della composizione. In effetti, la storia bre-
ve, essendo circoscritta in un lasso di tempo piuttosto limitato, ha il solo scopo di mostrare per-
sonaggi ritratti non già nel loro processo di maturazione, bensì in momenti ben precisi che evi-
denziano crisi e successive rivelazioni, sia interiori che esteriori. Allo scrittore non interessa
descrivere dettagliatamente lo spazio, che spesso risulta di difficile identificazione, ma piutto-
sto creare un’atmosfera di suspense capace di coinvolgere emotivamente il lettore.
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In questi ultimi sono presenti molteplici effetti che tendono a spaventare il lettore, propri dei
romanzi inglesi di Mary Shelley, Horace Walpole e Ann Radcliffe o delle trame di terrore di ma-
trice tedesca. Ma tale tradizione gotica è quasi ignorata da Poe: in effetti, la paura non sorge
mai da situazioni esterne al personaggio, bensì dalla sua mente e dalle sue allucinazioni; inol-
tre le sue storie sono normalmente ambientate in un presente non databile con certezza e in
sfondi metropolitani sicuramente molto lontani da quelli isolati e tempestosi di un vecchio ca-
stello o di un’abitazione in cui abbondano fantasmi e segreti cunicoli.
I temi I temi maggiormente ricorrenti nei Racconti sono: la crudeltà, spesso presentata in
forma di perversione (Il gatto nero); la bellezza, osservata nella sua intima connessione con il
desiderio di morte (Il ritratto ovale); il “doppio”, al fine di raffigurare le differenti identità co-
esistenti nel medesimo individuo (Il crollo della casa Usher) e, soprattutto, la follia, conside-
rata da Poe come unico stato di completa coscienza.
I personaggi Molti dei suoi personaggi, infatti, solo attraverso la perdita di ogni contatto
con la realtà e il rifugio in un personale universo, riescono a sviluppare un’acuta sensibilità e
una piena consapevolezza delle infinite possibilità umane. I personaggi stessi sono perciò co-
struiti in maniera tale da essere funzionali esclusivamente alla trama che si sta raccontando.
Di solito, riferendosi a essi, i critici hanno parlato di «figure…tanto poco realistiche che non
sembrano avere neppure una consistenza fisica». In effetti, tali caratteri sembrano mossi da
un movimento fittizio (una sorta di “trance” da terrore) provocato solo dalla grande varietà
di stati d’animo ed emozioni che essi sono in grado di avvertire e restituire al lettore in lunghi
monologhi interiori narrati in prima persona.
Lo stile La brevità delle frasi e la chiarezza del linguaggio contribuiscono a rendere appas-
sionante uno stile apparentemente semplice, ma denso di evocativi, simbolici richiami alla tra-
dizione letteraria, originalmente adattata al variegato universo spirituale dell’autore.
Approfondimento
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UN’INUMAZIONE PREMATURA
Cosa si prova a risvegliarsi sotto terra senza alcuna possibilità di fuga? Ce lo raccon-
ta il protagonista di questo straordinario racconto.
[Racconti, Il seppellimento prematuro]
[…] Venne un giorno – come spesso era accaduto in precedenza1 – in cui mi trovai emergen-
te dall’incoscienza totale del primo debole e indefinito senso dell’esistenza2. Lentamente, con
una lentezza da tartaruga, si avvicinava la pallida grigia alba del giorno psicheo3. Una torpi-
da inquietudine. Un’apatica sopportazione di cupa pena4. Nessuna preoccupazione, nessuna
speranza, nessuno sforzo5. Poi dopo un lungo intervallo, un tintinnìo6 nelle orecchie; indi7,
dopo un tempo ancora più lungo, una sensazione come di punture o di formicolio alle estre-
mità8; poi un periodo in apparenza eterno di quiete piacevole durante il quale i sentimenti
che si risvegliano vorrebbero mutarsi in pensiero; poi un breve risprofondare nell’inesisten-
za; quindi una subitanea ripresa9. Infine il leggero tremolìo di palpebra, e subito dopo una
scossa elettrica di terrore, mortale e indefinito, che manda sangue a torrenti dalle tempie al
cuore10. E ora il primo tentativo di pensare. E ora il primo sforzo di ricordare. E ora un esito
parziale ed evanescente11. E ora la memoria ha riacquistato il proprio dominio in modo tale
che, in una certa misura12, io sono consapevole del mio stato. Sento che non mi sto risveglian-
do da un sonno ordinario. Ricordo d’aver soggiaciuto alla catalessi13. Ed ora, alla fine, come
se avvenisse per effetto d’un precipitar d’oceano14, il mio spirito tremante è sopraffatto dall’uni-
co fosco Pericolo15, dall’unica idea spettrale e sempre predominante.
Per qualche minuto, dopo che quest’idea s’era impadronita di me, rimasi immoto16. E per-
ché? Non riuscivo a far appello al coraggio per muovermi. Non osavo fare lo sforzo che do-
veva dirmi qual era il mio destino, e pure v’era qualcosa nel mio cuore che mi sussurrava
ch’esso era sicuro17. La disperazione, quale nessun’altra specie di sventura riesce a genera-
1. come spesso … precedenza: l’io narrante si riferi- 10. Infine il leggero … cuore: in tutto il brano, ma in que-
sce naturalmente alle altre crisi di catalessi. sto passaggio in particolare, l’autore dimostra di posse-
2. mi trovai … esistenza: emersi da quello stato di son- dere un efficace stile visivo, facendo chiaramente pre-
no talmente profondo da renderlo simile alla morte. figurare al lettore l’attimo preciso nel quale si passa da
3. si avvicinava … psicheo: stava per sorgere il gior- una situazione di calma apparente a quella di puro ter-
no decisivo, quello in cui sarebbe stata affrontata fi- rore, simboleggiato da un’efficacissima scossa elettrica.
nalmente la prova più difficile. L’uso del corsivo per 11. E ora … evanescente: è però difficile in tale fran-
psicheo e per altri termini riportati di seguito tende gente raccogliere le idee e ricordare.
a sottolineare la loro pregnanza nella descrizione, 12. in una certa misura: non completamente.
concentrando anche l’attenzione del lettore su tali 13. d’aver soggiaciuto alla catalessi: d’essere stato
parole chiave. vittima di uno stato di catalessi. La catalessi è una
4. Una torpida … pena: il personaggio è sopraffatto, sindrome caratterizzata dalla perdita della contrat-
nonostante i sensi siano ancora intorpiditi dal son- tilità volontaria dei muscoli durante la quale gli arti
no (torpida … apatica), da inquietudine e pena per la e il tronco conservano la posizione che si dà loro,
situazione che sta per avverarsi. come se fossero di cera molle. Nel linguaggio comu-
5. Nessuna … sforzo: la reiterazione dell’aggettivo ne è anche chiamata “morte apparente”.
nessuno/a tende a suggerire l’idea di uno stato di 14. d’un precipitar d’oceano: un’immagine metafori-
apatica calma e, allo stesso tempo, a creare un ritmo ca che rende compiutamente l’idea di uno spirito
incalzante, prodotto anche dall’estrema brevità del- completamente in balìa delle proprie paure.
le frasi. 15. fosco Pericolo: si riferisce al pericolo incomben-
6. tintinnìo: ronzìo. te di essere sepolto vivo che rappresenta la sua uni-
7. indi: poi. ca preoccupazione. La lettera maiuscola indica la
8. punture … estremità: chiaro segno di un intorpi- personificazione di un’idea che tormenta il protago-
dimento, tipico da risveglio, degli arti inferiori e su- nista da talmente tanto tempo, da esser diventata
periori. quasi una compagna viva e presente.
9. poi un periodo … ripresa: l’io narrante sta puntual- 16. immoto: immobile.
mente descrivendo le diverse fasi che un individuo 17. e pure v’era … sicuro: il narratore in prima per-
attraversa al momento del risveglio, ancora sospeso sona dimostra, in questo caso, onniscienza poiché
tra lo stato di incoscienza e quello di coscienza. già conosce l’esito futuro della vicenda.
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re negli esseri, la disperazione soltanto mi spinse, dopo lunga esitazione, a sollevare le gre-
vi18 palpebre dei miei occhi. Le alzai. Era buio, tutto buio. Sapevo che l’attacco19 era cessato.
Sapevo che la crisi del mio male era passata da un pezzo. Sapevo che ormai avevo riacqui-
stato pienamente l’uso delle mie facoltà visive, eppure era buio, tutto buio, l’intensa e pro-
fonda tenebra della Notte che dura in eterno20.
Tentai di urlare; e le mie labbra e la mia lingua riarsa21 si agitarono insieme convulsamen-
te nello sforzo; ma nessuna voce uscì dai polmoni cavernosi22, che, come oppressi dal peso
di qualche incombente montagna23, ansimavano e palpitavano, insieme con il cuore, ad ogni
travagliata e affannosa inspirazione.
Il movimento delle mascelle, in questo sforzo di gridare ad alta voce, mi fece capire ch’esse
erano legate, come si fa solitamente coi morti24. Sentii anche ch’io giacevo su qualche so-
stanza dura; e miei fianchi erano altresì strettamente compressi da qualcosa di simile25. Fino
a qul momento non m’ero avventurato26 a muovere uno solo dei mie arti, ma ora alzai vio-
lentemente le mie braccia che posavano distese con i polsi incrociati. Esse colpirono una so-
lida sostanza lignea27, che si stendeva sulla mia persona ad una distanza di non più di sei
pollici28 dalla mia faccia. Non potevo dubitare più a lungo, che ormai riposavo dentro una
bara29.
Ed ecco che in mezzo a tutte le mie infinite miserie, giunse dolce la cherubica Speranza30,
poiché pensavo alle precauzioni31 che avevo prese. Mi contorsi, e feci sforzi spasmodici per
sollevare il coperchio32: ma non volle muoversi. Tastai i miei polsi in cerca della fune della
campana33: non la trovai. E ora la Confortatrice34, svanì per sempre, e una Disperazione35 an-
cora più rigida36 regnò trionfante; poiché non potei fare a meno di notare l’assenza delle im-
bottiture37 che avevo con tanta cura preparate, e poi, anche, giunse improvvisamente alle
mie narici il forte caratteristico odore della terra umida38. La conclusione fu ineluttabile. Io
non ero nella cripta. Il sonno ipnotico39 m’aveva còlto mentre ero lontano da casa, mentre
mi trovavo tra estranei, quando, o come, non riuscivo a ricordare, ed erano stati questi estra-
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nei che mi avevano seppellito come un cane, inchiodato in una comune bara, e gettato, giù
giù, e per sempre, in qualche fossa ordinaria e senza nome40. […]
[Trad. di R. Ferrari]
40. mi avevano seppellito … nome: la sua preoccupa- un qualsiasi vagabondo, nonostante gli sforzi profu-
zione riguarda ora il fatto di essere stato sepolto come si nella realizzazione di un sepolcro accogliente.
I contenuti
Il brano è tratto dal racconto Il seppellimento prematuro di Edgar Allan Poe, inserito
nella raccolta Racconti. Esso è ispirato ad alcuni casi di sepolti vivi realmente accadu-
ti ed è pubblicato per la prima volta su «The Dollar Newspaper» di Filadelfia il 31 lu-
glio 1844. Si tratta di una breve storia incentrata su un tema ricorrente nella produ-
zione dell’autore e corrispondente a uno degli arcani incubi dell’intero genere umano
e dello stesso Poe, ovvero quello di essere sepolti quando si è ancora in vita. Il rac-
conto si snoda attraverso le fasi già in precedenza descritte e, dopo un’introduzione
tesa a presentare il personaggio (un ignoto io narrante) ossessionato dal timore di ve-
nire interrato vivo (terrore alimentato da sinistre letture e dalla conoscenza di episo-
di simili verificatisi sia nella vicina città di Baltimora che in Europa), viene inserito
l’elemento chiave. Esso corrisponde alla rivelazione, da parte del protagonista, di sof-
frire di stati catalettici e di alleviare la paura del seppellimento prematuro (compren-
sibilissimo nel suo caso, visto che la catalessi è spesso confusa con la morte) median-
te la meticolosa preparazione di trucchi che gli avrebbero permesso di fuoriuscire au-
tonomamente dalla tomba, liberandolo al contempo dal suo peggiore incubo. Il brano
presentato descrive la terza fase, coincidente con il momento topico della vicenda. In-
fatti, sin dal principio osserviamo il personaggio (emergente dall’incoscienza totale del
primo debole e infinito senso dell’esistenza) affrontare il momento di crisi tanto temu-
to. Successivamente alla presa di coscienza di essersi risvegliato non…da un sonno or-
dinario, bensì d’aver soggiaciuto alla catalessi, si rende conto di essere in uno spazio
angusto e oscuro: il suo spirito tremante è perciò sopraffatto dall’unico fosco Pericolo,
dall’unica idea spettrale sempre predominante. Efficacissima risulta la descrizione dell’im-
possibilità di movimento di ogni singolo arto dello sventurato (tentai di urlare…ma
nessuna voce uscì dai polmoni cavernosi…Il movimento delle mascelle…mi fece capire
ch’esse erano legate…Fino a quel momento non m’ero avventurato a muovere uno solo
dei miei arti). E ancora più puntuale e precisa appare la narrazione del tentativo di li-
berarsi dalla bara: purtroppo nessuno dei congegni in precedenza predisposti (il co-
perchio facilmente rimovibile dall’interno e la fune della campana per chiedere aiuto)
è a sua disposizione. Realizza in un attimo di non trovarsi nella sua cripta, bensì di
aver ricevuto sepoltura nella profondità di una sconosciuta terra umida da parte di
estranei che, non conoscendo la natura del suo male, hanno erroneamente scambiato
il suo stato di incoscienza per una sicura morte. La maniera di trattare un simile ar-
gomento da parte di Poe potrebbe richiamare alla mente del lettore una miriade di
racconti ricchi di effetti gotici. In realtà, ciò che invece colpisce non è tanto l’accumu-
lo di immagini spaventose (pur efficacissime) quanto il percorso mentale del perso-
naggio che sembra presoffrire l’avverarsi della situazione stessa: egli infatti, nonostan-
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te si stia risvegliando dal lungo sonno, già avverte Una torpida inquietudine e Un’apa-
tica sopportazione di cupa pena, segni evidenti della reiterazione di sensazioni speri-
mentate in precedenza nella mente e infine concretizzatesi nella vita reale. L’attuale
condizione è comunque l’effetto non già di una causa esterna (rappresentata semmai
da un evento sovrannaturale come avviene in gran parte dei romanzi gotici), bensì del
suo stato catalettico che, solo nella conclusione, sapremo che è stato provocato dai
suoi stessi timori esistenziali. Infatti, l’opera Il seppellimento prematuro fornisce il ti-
pico esempio di racconto che si conclude in maniera risolutiva: il protagonista si ren-
de conto che tutto è stato il frutto di un brutto sogno, causato dal fatto di aver dor-
mito nella cuccetta di un’imbarcazione, la cui massima larghezza era di diciotto polli-
ci. Costretto in una tale nicchia, sollecitato dall’odore di terra proveniente dal carico
della nave stessa e imbavagliato da un fazzoletto di seta con il quale s’era avvolto il
capo in mancanza della…solita berretta da notte, immagina perciò di essere sepolto.
Questo tremendo incubo lo convince, però, a diventare un uomo nuovo: finalmente si
sente liberato dalle…macabre apprensioni che costituiscono la causa principale dei suoi
disordini catalettici.
La forma
Dal punto di vista formale, il brano evidenzia una scrittura chiara, lineare, coinvolgen-
te, scandita da un ritmo incalzante sorretto essenzialmente dal ricorso a frasi concise
capaci di dare espressione all’esigenza di brevità peculiare allo stile di Poe. Da nota-
re, inoltre, l’efficacia di uno stile, che nella precisione delle descrizioni e delle imma-
gini può definirsi visivo.
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Capitolo
2 WALT WHITMAN
La vita e le opere Walt Whitman nasce nel 1819 a New York in una famiglia di umili con-
dizioni. Durante la sua infanzia si dedica poco agli studi e all’età di undici anni comincia a
lavorare, prima come ragazzo di bottega e poi come apprendista tipografo, presso un quo-
tidiano locale. La sua esperienza qui lo avvia gradualmente verso il giornalismo tanto da di-
ventare, nel 1835, egli stesso editore del «Long Islander», in cui si fa sostenitore del pro-
gramma politico del partito democratico. Gli anni dedicati al giornalismo sono per Whitman
importantissimi perché comincia a leggere autori come Omero, Shakespeare, Defoe e Di-
ckens, che nelle loro opere avevano analizzato ed esplorato a fondo la psiche umana e che
gli insegnano il modo di entrare in contatto con la gente comune, di capirne le esigenze e di
diventarne il portavoce. Egli è, quindi, un autodidatta e ciò gli fa particolarmente onore per-
ché dimostra una grande forza di volontà e, soprattutto, una grande capacità di entrare in
sintonia con gli uomini, cogliendone i sentimenti più profondi. La sua sensibilità lo condu-
ce alla poesia: nel 1833 pubblica una raccolta di dodici componimenti senza titolo e anoni-
ma, in cui include soltanto il suo ritratto in abiti da lavoro. L’opera, che passa inosservata, è
molto apprezzata, invece, da Ralph Waldo Emerson, che scrive a Whitman una lettera di
complimenti e d’incoraggiamento. Nel corso degli anni, la raccolta subisce innumerevoli mo-
difiche fino ad apparire, nel 1855, in una versione più curata dal titolo Foglie d’erba; l’au-
tore, tuttavia, continuerà a rimaneggiare l’opera fino alla morte.
Nel 1861 lo scoppio della guerra civile sconvolge Whitman a tal punto da considerarla una trage-
dia personale perché in contrasto con il suo ideale di patria e di democrazia. Comincia, perciò, a
dare il suo aiuto negli ospedali da campo, dove conosce la crudeltà della guerra e vive sulla sua
pelle le sofferenze dei soldati feriti. Quest’esperienza lo segna profondamente ed egli decide di
farne partecipe il mondo intero, pubblicando, in prosa, Memorie durante la guerra (1875), in
cui, con chiarezza e lucidità, descrive i momenti più intensi e dolorosi vissuti in quegli anni.
Nel corso di tutta la sua vita, privata e artistica, Whitman si distingue per il suo anticonfor-
mismo, affrontando nelle sue opere, con grande libertà espressiva, temi scottanti per l’epo-
ca come quelli legati alla sessualità e all’omosessualità. Tale atteggiamento disinvolto gli
procura non pochi problemi tanto che è addirittura costretto a lasciare il suo impiego pres-
so il Ministero degli Interni in seguito allo scandalo suscitato da alcune sue poesie.
Gli ultimi anni della sua esistenza li trascorre a Camden, nel New Jersey, dove, sebbene col-
pito da una lieve paralisi, continua a scrivere e gli vengono finalmente riconosciuti i suoi
meriti. Muore il 12 marzo 1892.
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so i suoi versi. Ne deriva l’idea stessa che Whitman ha della poesia: un processo costante e
perenne con il compito di seguire e assecondare i moti dell’anima, un flusso ininterrotto che
esplora e fa riemergere le sensazioni e i sentimenti più reconditi. Il poeta, secondo Whit-
man, è dunque un profeta perché, essendo dotato di un animo più sensibile e di una dialet-
tica più sviluppata, deve rivelare la verità e ha, perciò, il dovere di educare gli altri uomini,
di farsi interprete delle loro emozioni e di condurli a un benessere interiore, dando voce ai
loro sogni e ai loro più intimi pensieri con un linguaggio semplice e naturale. Questi aspet-
ti della sua opera avvicinano Whitman al più grande poeta romantico inglese, William Word-
sworth, con cui condivide una spiccata sensibilità e l’amore sincero e profondo per la natu-
ra e le piccole cose. Whitman è, pertanto, anche il poeta del panteismo, subendo in tal sen-
so il fascino dell’opera di Ralph Waldo Emerson, fondatore del trascendentalismo (corren-
te filosofica diffusasi alla metà del XIX secolo che celebra l’esaltazione dell’individuo e pre-
dica la fusione dell’uomo con la natura, considerata come il mezzo migliore per raggiunge-
re la verità e l’unità di tutte le cose).
Da quanto detto, Whitman appare un uomo che ama la vita, un poeta capace di cogliere tut-
te le sfumature dell’anima, celebrando, in tal modo, la divinità della natura umana. La sua
produzione artistica è decisamente originale e i suoi versi sono al tempo stesso delicati e
appassionati proprio perché parlano di sentimenti e coinvolgono l’autore in prima perso-
na. Di conseguenza, poiché Whitman guarda e descrive il mondo con gli occhi del cuore, le
sue opere sono sempre piene di spunti interessanti tanto da ispirare le generazioni succes-
sive di poeti e, in particolare, quelli della beat generation, il che lo ha consacrato come il pa-
dre della poesia moderna americana.
I temi Le poesie di Foglie d’erba affrontano tutti i temi cari all’autore: la natura, i cui movi-
menti e la cui vita il poeta riesce a cogliere e a celebrare nei suoi versi; l’amore per l’America, di
cui Whitman canta gli avvenimenti e incarna il sogno di una nazione in cui il rispetto per l’in-
dividuo regni sovrano; la democrazia, cioè il mito di una patria dove tutti sono uguali, uomini
e donne, bianchi e neri, ricchi e poveri, e il conseguente tema della libertà in opposizione alla
schiavitù; la celebrazione di sé, per cui il poeta esalta se stesso non per puro egocentrismo ben-
sì perché si sente lo strumento attraverso il quale si possono esprimere e cogliere tutte le sfu-
mature dell’animo umano; il corpo, che secondo Whitman è la quintessenza stessa dell’indivi-
duo il quale, unione di anima e corpo, proprio attraverso l’aspetto corporeo e materiale riesce
a recuperare la propria dignità di essere umano e il suo diritto a esprimersi liberamente (tut-
to ciò in netta opposizione all’etica puritana americana dell’epoca che considera invece il cor-
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po come il dominio incontrastato del diavolo e quindi soltanto una “macchina” per produrre,
per procreare e per i piaceri sessuali); e, infine, l’amore in tutte le sue forme sia fra persone di
sesso diverso che dello stesso sesso, amore quest’ultimo inteso come fratellanza tra i popoli, ma
interpretato dai detrattori di Whitman come esaltazione del sentimento omosessuale.
1. capitano: si tratta di Abramo Lincoln, abile politi- 5. il porto: la pace tra gli Stati del Nord e quelli del
co, uomo onesto e generoso, nemico della schiavitù Sud.
e di tutto quello che limitasse la libertà personale. 6. gli occhi … vascello: gli americani guardano con
Leader di grande carisma, durante la guerra civile, orgoglio alla loro patria che, dopo la sanguinosa lot-
condusse egregiamente gli Stati dell’Unione alla vit- ta fratricida, vuole ricominciare a essere per tutti il
toria, pianificando tutta una serie d’interventi che simbolo dell’unione e della coesione.
permettessero, al termine del conflitto, la ricostru- 7. o cuore! Cuore! Cuore!: la ripetizione della parola
zione della nazione, duramente provata sia dal pun- ha un valore oltre che enfatico anche onomatopeico
to di vista materiale che morale. La vittoria del Nord perché riproduce i battiti accelerati del cuore del po-
sul Sud aveva sì determinato l’emancipazione degli eta alla vista del corpo senza vita di Abramo Lincoln.
schiavi neri, ma non garantiva affatto la pace e l’unio- 8. O rosse gocce sanguinanti: la gioia e le acclamazio-
ne: ecco perché Lincoln si era impegnato a fare non ni dei versi precedenti vengono interrotte brusca-
solo grande la nazione, ma anche e soprattutto a mente da quest’immagine di morte.
“fare” gli americani, sebbene fosse consapevole di 9. sul ponte: quando una nave rientra in porto, il ca-
dover intraprendere un cammino lungo e faticoso. pitano si posiziona sul ponte di comando. Qui Whit-
Egli, però, non ebbe il tempo di mettere in atto i suoi man vuole intendere che proprio alla fine della guer-
progetti perché fu assassinato soltanto cinque gior- ra, quando il Nord può finalmente portare in trion-
ni dopo la resa degli Stati della Confederazione. fo il suo presidente, Lincoln viene ucciso, appena cin-
2. il nostro viaggio tremendo: la guerra civile che durò que giorni dopo la resa del generale Lee ad Appo-
quattro anni dal 1861 al 1865. mattox.
3. La nave: è la metafora, più volte ripetuta nella po- 10. caduto morto, freddato: è un’immagine agghiac-
esia, attraverso cui Whitman indica l’America, una ciante perché rende molto bene il vuoto lasciato da
nazione che, compatta e unita come una solida nave, Lincoln al comando della sua “nave”, l’America. Egli
è stata capace di superare tutte le difficoltà di una giace morto sul ponte, per cui, quando il vascello en-
guerra civile. tra in porto, nessuno può vederlo. Dal punto di vista
4. l’ambito premio: l’abolizione della schiavitù me- stilistico, questo verso è di chiusura a tutte e tre le
diante il tredicesimo emendamento della Costituzio- strofe e la sua ripetitività, come in una litania, sotto-
ne americana. linea il dolore per la perdita del presidente.
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[Trad. di A. Mariani]
11. Alzati: è un invito ripetuto due volte, quasi un 18. immobili: l’aggettivo richiama i volti fissi della
urlo di disperazione di chi, come Whitman, si sente strofa precedente.
smarrito, solo, abbandonato e non vuole accettare 19. mio … mio: la reiterazione dell’aggettivo posses-
la morte del proprio capo carismatico. sivo mette in risalto non solo quanto l’autore sia col-
12. per te … per te: la figura retorica della ripetizio- pito in prima persona dalla perdita di Lincoln, ma
ne viene qui utilizzata per dare enfasi all’immagine, anche quanto tutta l’America sia scioccata dall’even-
a dimostrazione di quanto il popolo americano sia to. La nazione, infatti, si identifica nei versi di Whit-
grato a Lincoln e voglia quindi celebrarne l’operato. man che, quindi, dà voce al dolore e al cordoglio di
13. rive nere di folla: c’è talmente tanta gente ad tutti.
aspettare Lincoln che le rive, viste da lontano, sem- 20. non ha più polso e volere: il presidente un tempo
brano nere perché brulicanti di persone. Il colore rappresentava la forza della nazione. Ora che è mor-
nero ha comunque una connotazione di morte per- to tutta la nazione è indebolita.
ché è segno di lutto. Inoltre, l’aggettivo nere potreb- 21. torna … nave: l’inversione dell’ordine sintattico
be addirittura evidenziare che tra gli acclamatori di normale (soggetto-verbo-complemento) serve per
Lincoln ci siano soprattutto persone di colore per la dare al termine nave una posizione di rilievo, pur
cui libertà il presidente si è battuto strenuamente. sottolineando nuovamente le difficoltà incontrate
14. i volti fissi impazienti: tutti sono ansiosi di vede- nel viaggio.
re il loro capitano per il quale hanno preparato un’ac- 22. rive … campane: nonostante tutto bisogna far fe-
coglienza degna di un eroe, ma nulla potrà risvegliar- sta perché, anche se a costo della vita di Lincoln, la
lo dalla morte. Da qui lo sgomento degli astanti. patria e i suoi ideali sono salvi.
15. Padre amato: Lincoln non solo è il padre della 23. Io: l’«io» che Whitman sempre utilizza nelle sue
democrazia, ma degli americani, i quali, pertanto, poesie non solo è simbolo del suo credo individua-
con la sua morte rimangono orfani. lista, ma assume anche una connotazione collettiva
16. Questo … capo: anche se Lincoln è morto, Whit- perché l’autore rappresenta l’americano medio.
man continua a sostenere la sua figura e i suoi idea- 24. con passo … ponte: con la morte nel cuore, Whit-
li di uguaglianza e libertà. man, così come tutti gli americani che hanno condi-
17. sogno: si allude al sogno americano: anche se viso le scelte di Lincoln, sa di dover proseguire il cam-
Lincoln non c’è più, in suo nome bisogna continua- mino da solo, contribuendo con la sua poesia a cele-
re a lavorare per creare un’America migliore. brare la solidarietà e l’amore tra gli uomini.
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La forma
O capitano! mio capitano! è, come tutte le altre poesie di Whitman, in versi liberi; ciò
perché l’autore celebra la libertà in tutte le sue forme, scrivendo dei componimenti in
cui esprime senza riserve le sue emozioni che, pertanto, non possono certo essere im-
brigliate in strutture e schemi precostituiti. Whitman realizza, perciò, dei piccoli capo-
lavori scritti come se intingesse la penna nel cuore, dando sfogo ai suoi più intimi sen-
timenti attraverso un linguaggio semplice, diretto, colloquiale. Anche in questa poesia
l’autore esprime la sua stima per Lincoln e il dolore per la sua morte in modo irruen-
to e passionale, creando dei versi di grande musicalità, dal forte impatto emotivo.
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Capitolo
3 HERMAN MELVILLE
La vita e le opere Terzo di otto figli, Herman Melville nasce a New York il primo agosto
1819. Suo padre è un ricco mercante ma, a causa della morte improvvisa avvenuta nel 1830,
lascia la sua famiglia in precarie condizioni economiche. Herman all’epoca appena dodicen-
ne è, quindi, costretto a lasciare gli studi per cominciare a lavorare. Nel 1841 s’imbarca sul-
la baleniera americana Acushnet diretta nell’Oceano Pacifico, ma la vita dura e la disciplina
ferrea imposte a bordo lo spingono a disertare durante il primo scalo della nave alle Isole
Marchesi. Qui si nasconde nella foresta ed entra in contatto con i Taipi, da tutti considerati
una tribù di cannibali e che, invece, lo accolgono e lo trattano con tutti gli onori, anche se gli
impediscono di partire. Melville, però, riesce a fuggire, raggiunge Tahiti sulla baleniera Lucy
Ann e, infine, arriva alle Hawaii dove si imbarca su di una nave da guerra americana per far
ritorno in patria nel 1844, dopo tre anni di assenza. L’esperienza nel Pacifico lo ha profon-
damente cambiato e così decide di riviverla scrivendo e pubblicando Taipi, uno sguardo
alla vita polinesiana (1846), in cui racconta le sue avventure presso quel popolo, esaltan-
done il modo di vivere. Il libro ottiene buoni consensi, soprattutto grazie alle meravigliose
descrizioni dei paesaggi di terre così lontane che colpiscono notevolmente la fantasia del
lettore. L’anno successivo, Melville pubblica Omoo, un racconto comico e satirico in cui cri-
tica il lavoro dei missionari a Tahiti, perché, secondo lui, con la loro azione e in nome della
civiltà occidentale, non fanno altro che spersonalizzare gli indigeni, privandoli delle loro tra-
dizioni e abitudini. Seguono Mardi (1849), un’opera allegorica di stampo filosofico, La nave
di vetro (1849) e Giacchetta bianca (1850), due scritti in cui l’autore evidenzia la brutali-
tà della vita di bordo e il rigore gerarchico, cause di tanti contrasti tra gli uomini dell’equi-
paggio. Questi primi cinque romanzi di tema marinaresco consacrano definitivamente come
scrittore Melville, per cui egli comincia anche a frequentare i circoli letterari di New York,
dove incontra e stringe amicizia tra l’altro con Nathaniel Hawthorne, autore del romanzo
La lettera scarlatta, da cui impara l’importanza del simbolismo. Melville, infatti, riesce a
comprendere il valore dei simboli e la loro “utilità” sia per scandagliare l’animo umano sia
per rendere incisivi tutti gli aspetti della vita, quelli positivi e quelli negativi. Ecco perché il
suo capolavoro, Moby Dick, pubblicato nel 1851, è un’opera in cui il simbolismo impera con
lo scopo di far riflettere il lettore sugli avvenimenti narrati e sui personaggi descritti. Ciò,
però, è anche il frutto di un’attenta analisi da parte di Melville, in seguito a un suo viaggio
in Inghilterra (1849), delle opere di Shakespeare (in particolare Macbeth e Re Lear), il gran-
de drammaturgo inglese, lo scrittore del simbolismo per antonomasia, la cui accuratezza e
genialità affascinano particolarmente l’autore americano, che rimane colpito dalla sua tec-
nica narrativa.
Ma dopo il successo di Moby Dick, la reputazione di Melville comincia a declinare. Nel 1852
pubblica il romanzo Pierre o le ambiguità, considerato, però, un’opera oscura e immorale
perché tratta della storia di un uomo diviso tra due donne. Iniziano anche i problemi econo-
mici tanto che, per far fronte ai suoi debiti, è costretto a vendere la sua fattoria nel Massachu-
setts e a stabilirsi nuovamente a New York con sua moglie Elizabeth Shaw (sposata nel 1847)
e i loro quattro figli. Qui ritrova una certa serenità finanziaria perché è nominato ispettore
distrettuale della Dogana, incarico che conserva fino al 1885. Nella sua città natale continua
la sua attività di scrittore, pubblicando una collezione di poesie sulla guerra di secessione
americana e una raccolta di racconti brevi, I racconti della veranda, tra cui si distinguono
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Benito Cereno e Bartley lo scrivano, che affrontano temi di grande attualità quali la solitudi-
ne e il rapporto tra bianchi e neri. Successivamente dà alle stampe il romanzo storico Israel
Potter: i suoi cinquant’anni d’esilio (1856); L’uomo di fiducia (1857), che ripropone il
tema delle apparenze ingannevoli; il poema Clarel, in cui ripercorre il suo viaggio in Terra
Santa; infine, nel 1891, poco prima di morire, completa Billy Budd il marinaio, un raccon-
to allegorico, pubblicato postumo nel 1924, dove ricorre l’eterna lotta tra il bene e il male.
Melville muore il 28 aprile 1891, quasi totalmente dimenticato dai suoi lettori. Tuttavia, nei
primi decenni del Novecento, grazie al movimento modernista che celebra il simbolismo, le
opere di Melville vengono nuovamente apprezzate e ottengono il giusto tributo, per cui oggi
egli è considerato a ragione uno dei più espressivi scrittori americani.
Il profilo «Fino a venticinque anni non ho avuto nessuno sviluppo. Da allora faccio inizia-
re la mia vita». Così Melville si esprime nel 1851, rilevando come i suoi trascorsi da marina-
io siano stati fondamentali per la sua formazione e maturazione. La natura incontaminata,
i paesaggi paradisiaci e l’incontro con le tribù polinesiane e le loro tradizioni contribuisco-
no infatti a fare di lui un uomo dall’animo sensibile e un profondo assertore del trascenden-
talismo di Ralph Waldo Emerson, proprio come il suo collega e compatriota Walt Whitman.
È bene, però, notare che Melville fa cominciare il suo sviluppo dal suo rientro in patria e non
durante la sua permanenza nei mari del Sud. Ciò perché è il ritorno alla civiltà che gli fa pren-
dere coscienza di essere profondamente cambiato: la vita nella foresta a contatto con gli in-
digeni, infatti, gli fa capire quanto l’uomo si rigeneri proprio nella natura, lontano dalla qua-
le finisce, invece, per corrompersi e perdere la bellezza e la felicità delle origini. In altre pa-
role, Melville rinnova il mito del “buon selvaggio” di Rousseau e si inserisce per certi versi
tra gli scrittori del Romanticismo americano della prima metà dell’Ottocento.
La formazione di Melville giunge però al culmine in seguito all’incontro con Nathaniel Haw-
thorne, cui non a caso dedica il suo capolavoro, Moby Dick: grazie a lui, infatti, Melville im-
para non solo a esplorare i sentieri più nascosti dell’animo umano, realizzando così delle
opere di profonda introspezione psicologica, ma anche a fondere insieme elementi fantasti-
ci e realistici, inserendosi nel filone del realismo simbolico, sulla scia di Dante e Shakespe-
are. Nelle opere della maturità e, soprattutto, in Moby Dick lo scrittore realizza, quindi, un
mutamento di prospettiva: non sono più i simboli a sembrare autentici, è la realtà, al con-
trario, a caricarsi di significati allusivi e inquietanti, diventando ambigua e misteriosa. Ciò
per meglio rappresentare l’eterna lotta tra il bene e il male, un tema caro a Melville, soprat-
tutto dopo aver constatato di persona che l’azione dei missionari nelle isole del Pacifico non
è necessaria e fondamentale come vuole apparire, ma insidiosa se non addirittura devastan-
te, perché ha come unico scopo l’assoggettamento delle popolazioni polinesiane e la modi-
fica del loro modo di vivere e della loro cultura ricca, raffinata e avanzata, per nulla inferio-
re a quell’occidentale. Ne deriva il pessimismo melvilliano: le apparenze non solo inganna-
no, ma spesso nascondono pericolose insidie, per cui dappertutto s’insinua il dubbio. Se-
condo l’autore, quindi, l’uomo è come un pendolo perché oscilla di continuo tra alti e bassi
senza avere mai certezze e senza poter mai effettuare delle scelte definitive. In altre parole,
è come se fosse continuamente in balia delle onde: ecco perché la metafora del mare è così
ricorrente nelle opere dello scrittore, in cui sempre si fondono l’esperienza diretta e la ri-
flessione intellettuale. Il senso tragico che Melville ha della realtà si delinea proprio qui:
avendo sperimentato di persona le avversità della vita e avendo preso delle decisioni non
per convinzione ma perché costretto dagli eventi, egli è giunto alla conclusione che, per non
sconvolgere l’ordine naturale delle cose, bisogna sottostare e ubbidire a una forza sovran-
naturale superiore. Di conseguenza, per Melville vivere significa lottare nel tentativo di tro-
vare un giusto equilibrio tra le proprie aspirazioni e il proprio destino. Ed è su questo dua-
lismo che Melville costruisce tutta la sua produzione letteraria.
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Moby Dick
Sulla scia dei suoi primi racconti marinareschi, Melville comincia la stesura di Moby Dick
(1851) con l’intento di realizzare un nuovo romanzo d’avventura ispirato alla sua esperienza
personale. Col tempo, però, e in seguito all’influenza di Hawthorne, l’opera subisce un’inver-
sione di tendenza, diventando un lavoro complesso, in cui i riferimenti alla vita vissuta e le im-
magini allegoriche si sovrappongono continuamente e determinano un’alternanza di realismo
e simbolismo. Il romanzo, dunque, ripropone la lotta tra l’uomo e il destino a cui egli tenta di
ribellarsi, ma invano perché finisce sempre per soccombervi. A confronto con la grandezza
dell’infinito, il singolo individuo non può nulla, anzi, quando cerca di prevalere sulle leggi co-
smiche, non fa altro che scatenare una violenta reazione della natura. Secondo Melville, quin-
di, ognuno ha un ruolo ben preciso nell’assetto armonico del mondo a cui non si può sottrar-
re senza provocare scompensi e caos: di conseguenza, il libero arbitrio è solo un’illusione.
La struttura e la trama Dal punto di vista strutturale, il romanzo si presenta come un’ope-
ra teatrale: ci sono un prologo, un esordio, uno sviluppo e un epilogo in cui viene delineata la
morale. La storia, raccontata da un narratore, il giovane Ishmael, è tutta incentrata sulla bat-
tuta di caccia di una baleniera, la Pequod comandata dal capitano Achab, contro un’enorme
balena bianca chiamata Moby Dick. Fin dall’inizio ci si rende conto che non si tratta della so-
lita caccia, non solo per le dimensioni dell’animale, ma soprattutto per l’odio violento del ca-
pitano per la balena, la quale, in un viaggio precedente, gli ha tranciato di netto una gamba.
È lo stesso capitano che spiega le motivazioni della spedizione all’equipaggio in un famoso mo-
nologo in cui esplicita tutta la sua avversione per il mostro marino, diventato ormai la sua os-
sessione. L’inseguimento di Moby Dick occupa la maggior parte del romanzo in cui si assiste a
una descrizione fedele e accurata dei paesaggi naturali, della dura vita di bordo, dell’equipag-
gio gerarchicamente ordinato, della sete di vendetta di Achab, del terrore per la balena, del ti-
more per il capitano così ostinato nel suo proposito. L’attesa dello scontro finale è snervante e
contribuisce a creare un’atmosfera d’incertezza, a infervorare gli animi, ad accrescere il pa-
thos della vicenda fino a quando, finalmente, la balena viene avvistata. La lotta dura tre gior-
ni, durante i quali si capisce subito che quella tra Achab e Moby Dick è una sfida, un vero e pro-
prio duello. Si tratta, però, di un combattimento ad armi impari e Achab, come un moderno
Don Chisciotte contro i mulini a vento, soccombe, trascinando con sé nel vortice della morte la
nave e tutto l’equipaggio. L’unico a essere risparmiato dalla furia distruttiva della balena è
Ishmael, perché è l’unico che, nel corso della narrazione, rispetta l’animale e lo considera non
un mostro, ma una creatura divina.
I temi La morale è chiara: non ci si può ribellare al proprio destino perché l’ordine cosmico
è regolato da una forza sovrannaturale contro cui l’uomo è impotente e non può competere.
Si delinea qui un riferimento al personaggio biblico di Giona, il quale, rifiutando l’ordine di Dio
di predicare a Ninive, è castigato: mentre viaggia su di una nave, una tempesta lo scaraventa
in mare e viene ingoiato da una balena nel cui ventre trascorre tre giorni e tre notti prima di
essere espulso e perdonato dal Signore. Il richiamo alla Bibbia è anche nei nomi di Achab e di
Ishmael: il primo è un re d’Israele che sfida Dio permettendo il culto di un’altra divinità, Baal;
il secondo è il primogenito di Abramo che viene cacciato nel deserto dove le avversità lo indu-
riscono e gli insegnano a sopravvivere (letteralmente, infatti, Ismaele in ebraico significa «ab-
bandonato», «reietto», «esiliato»).
Per scrivere Moby Dick, Melville attinge anche alla letteratura classica (si pensi al viaggio di
Ulisse) e agli autori europei, ispirandosi alle allegorie di Dante, alle introspezioni psicologiche
di Shakespeare e alle visioni oniriche di Coleridge che, con La Ballata del Vecchio Marinaio, è
per Melville un importante punto di riferimento. Dallo stile del poeta inglese che usa allittera-
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zioni, assonanze, ripetizioni per imprimere musicalità al linguaggio e conferire ai suoi versi
un alone di mistero, Melville mutua infatti la cura per le parole con cui registra e descrive mi-
nuziosamente le emozioni e le sensazioni dei suoi personaggi di fronte all’immensità del mare
e alla potenza della balena. Di Coleridge è anche l’idea della natura vista come una matrigna,
che non consola ma punisce, idea su cui ruota tutta l’opera di Melville e, in particolar modo,
Moby Dick. Senza ombra di dubbio, il nucleo centrale del romanzo è proprio in questa lotta
tra la balena, che rappresenta la furia della natura violata, e il capitano Achab, simbolo della
determinazione dell’uomo che vuole imporre a tutti i costi la sua volontà e controllare l’uni-
verso. Achab, quindi, è un ribelle, forse uno dei più grandi ribelli della letteratura di tutti i tem-
pi e, pur sembrando un eroe tragico tipicamente romantico, ha però una connotazione nega-
tiva perché si lascia sopraffare troppo dall’odio e dal rancore. Dal punto di vista fisico, il capi-
tano è imponente, o almeno così appare agli occhi dei suoi uomini, e sembra assumere le fat-
tezze di un “superuomo” che incanta l’equipaggio con la sua dialettica e incute timore con un
solo sguardo. È proprio questo profondo rispetto che egli suscita negli altri ad aumentare la
sua autostima e la sua arroganza, per cui egli, considerandosi invulnerabile e imbattibile, si
lancia in questa lotta contro la forza violenta e distruttiva della balena.
Moby Dick, dal canto suo, incarna la vastità del cosmo, la legge suprema che disciplina l’uni-
verso, la natura deturpata nella sua bellezza. La mascella deforme della balena, infatti, e le
sue enormi dimensioni simboleggiano sia i continui e irrazionali interventi dell’uomo sull’am-
biente sia la reazione violenta della natura contro chi causa caos e disordine, disobbedendo
alle regole. A ogni modo, è davvero limitativo definire i simboli che la creatura marina rappre-
senta perché essi sono innumerevoli e, d’altra parte, Melville volutamente lascia al lettore la
possibilità di attribuirgliene ancora degli altri. Molto più semplicemente, Moby Dick è l’essen-
za stessa della vita e tutto ciò a cui l’uomo non riesce a dare una spiegazione plausibile e ra-
zionale. Per questo, la balena è bianca, non per rappresentare il bene, l’innocenza o il cando-
re, bensì per apparire e sparire improvvisamente, come un fantasma. Comunque sia, dinanzi
alla grandezza della balena e alla sua infinita crudeltà, l’uomo rimane inerme e comprende di
essere un burattino i cui fili sono controllati e mossi da una forza superiore, sia essa Dio o il
destino.
Sulla prora della nave quasi tutti i marinai restavano ora inerti1: martelli, pezzi di tavola, lan-
ce e ramponi stretti macchinalmente in mano, nell’atto appunto in cui erano accorsi dalle
loro occupazioni; e tutti gli occhi affascinati erano fissi alla balena2 che, vibrando strana-
mente da parte a parte la testa predestinata, si cacciava innanzi, nella corsa, un largo nastro
di schiuma che s’allargava a semicerchio. Retribuzione, pronta vendetta e malvagità eterna
1. tutti i … inerti: i marinai sono immobili, spaven- 2. tutti gli occhi … balena: la balena esercita sui ma-
tati dalla grandezza della balena che li sta trasci- rinai impauriti un certo fascino, per cui essi ne sem-
nando. brano rapiti e ipnotizzati.
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si mostravano in tutto il suo aspetto3 e, ad onta di tutto ciò che i mortali potessero fare4, il
solido contrafforte bianco della sua fronte picchiò sulla destra la prora della nave, tanto che
uomini e bagli5 balenarono. Qualcuno cadde a toccare la faccia per terra. Come pomi d’albe-
ro spostati, le teste dei ramponieri traballarono su quei colli taurini. Attraverso lo squarcio
udirono l’acqua rovesciarsi, come torrenti montani in un burrone6.
«La nave! Il carro funebre!… il secondo carro funebre!» gridò Achab dalla lancia. «Il suo le-
gno non poteva essere che americano7!».
Tuffandosi sotto la nave affondante, la balena percorse la chiglia che rabbrividì, ma, voltan-
dosi sott’acqua, si precipitò di nuovo rapida alla superficie, al largo dell’altro fianco di pro-
ra; e, a poche jarde dalla lancia d’Achab, qui per un momento stette calma8.
«Io volterò la schiena al sole. Oè, Tashtego9! fammi sentire il tuo martello. Oh voi, mie tre gu-
glie indomabili, tu chiglia intatta, oh scafo, maltrattato soltanto da un dio! tu, sicura coper-
ta, tu, barra superba, tu, prora dritta al cielo: nave gloriosa fino alla morte! devi dunque pe-
rire, e senza di me10? Mi è tolto anche l’ultimo caro orgoglio del più meschino capitano nau-
frago11? Oh, una morte solitaria dopo una vita solitaria12! Ora sento che la mia maggiore
grandezza sta nel mio maggior dolore13. Olà, olà! dai più lontani confini, rovesciatevi ora
quaggiù, flutti audaci di tutta la mia vita trascorsa, e ammucchiatevi in questo grande caval-
lone della mia morte! A te vengo, balena che tutto distruggi ma non vinci; fino all’ultimo lot-
to con te14; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te l’ultimo mio re-
spiro. Che ogni bara e ogni carro affondi in un pozzo comune! e poiché queste cose non sono
per me, che io ti trascini in pezzi, dandoti la caccia, benché legato a te, balena dannata! Così!
Lancio il lancione!».
Il rampone venne scagliato; la balena colpita filò innanzi, e con velocità da far faville la len-
za scorse nella scanalatura: s’imbrogliò. Achab si piegò a disimpegnarla, la disimpegnò; ma
la volta volante lo prese intorno al collo e, senza una parola, come i Muti turchi strangolano
la vittima, venne strappato dalla lancia prima che l’equipaggio si accorgesse che non c’era
più. L’istante dopo, la pesante gassa impiombata in cima al cavo volò fuori della tinozza vuo-
ta, abbatté un rematore e, staffilando il mare, scomparve nei gorghi.
Per un momento, l’equipaggio incantato della lancia stette immobile, poi si volse. «La nave?
Gran Dio, dov’è la nave?». Presto, attraverso un mezzo fosco e confuso, ne videro il fantasma
inclinato che svaniva, come nei vapori della Fata Morgana; con soltanto gli alberetti fuori ac-
qua; mentre fissi per infatuazione o fedeltà o destino, ai posatori un tempo tanto alti, i ram-
3. Retribuzione … aspetto: il mostro marino è la perso peso e le sue dimensioni, si muove nell’acqua con
nificazione di una forza superiore, quella del male. leggerezza e disinvoltura.
Dick, tra l’altro, in inglese è il nomignolo adoperato 9. Tashtego: è un ramponiere di origine indiana.
per il diavolo. 10. Oh voi … di me: Achab si rivolge direttamente alla
4. ad onta … fare: l’ordine gerarchico va sempre ri- sua nave, la compagna di tanti viaggi e di tante av-
spettato e i mortali, cioè gli uomini, non possono venture, consapevole di condurla verso la distruzio-
competere con l’oscura e sconosciuta energia che li ne. Di grande efficacia è l’espressione nave gloriosa
governa. fino alla morte, definita così perché fino all’ultimo
5. bagli: travi di legno o in ferro con cui si rinforza- combatte e non si piega al suo destino.
no i fianchi delle navi. 11. Mi è tolto … naufrago: il capitano non abbando-
6. Attraverso … burrone: è un’immagine diretta, tipi- na mai la sua nave che affonda.
ca di Melville che si sofferma molto a descrivere i pa- 12. Oh, una morte … solitaria: per tutta la vita Achab
esaggi naturali. Il paragone è decisamente d’effetto. non ha fatto altro che navigare, dedicando al mare
7. La nave … americano: il riferimento è a una delle tutte le sue energie.
tre profezie del ramponiere clandestino Fedellah, se- 13. Ora sento … dolore: egli è consapevole che la sua
condo la quale Achab sarebbe morto solo dopo aver ribellione lo porterà a una sconfitta perché non riu-
visto sul mare un carro funebre costruito con del le- scirà a veder trionfare la libertà.
gno americano (la Pequod). 14. balena … con te: Achab sa di dover morire, ma
8. Tuffandosi … calma: questa descrizione sorpren- non si arrende e fino alla fine lotta contro Moby Dick
de molto il lettore perché la balena, nonostante il suo perché è convinto che la balena morirà con lui.
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ponieri pagani mantenevano le vedette affondanti nel mare. E allora cerchi concentrici af-
ferrarono anche la lancia solitaria e tutto l’equipaggio e ogni remo fluttuante e ogni palo e,
facendo girare le cose vive e quelle inanimate, tutto intorno in un vortice, trascinarono an-
che il più piccolo avanzo del Pequod fuori vista.
Ma mentre gli ultimi rovesci si mescolavano sul capo sommerso dell’indiano15 alla testa di
maestro, lasciando ancora visibili alcuni pollici del bastone eretto, insieme a lunghe jarde
sventolanti della bandiera che ondeggiava tranquilla con ironico accordo alle onde distrug-
gitrici16 che quasi la toccavano; in quell’istante un braccio rosso e un martello sorsero tesi
all’indietro, nell’aria libera, in atto d’inchiodare ancora la bandiera al bastone affondante.
Un falco del cielo17 che aveva beffardamente seguito il pomo di maestra giù dalla sua natu-
rale dimora tra le stelle, dando beccate alla bandiera e molestando Tashtego, cacciò per caso
ora la sua larga ala palpitante tra il legno e il martello; e contemporaneamente sentendo
quel brivido etereo, il selvaggio sommerso là sotto, tenne, nel suo anelito di morte, il mar-
tello rigidamente piantato; in modo che l’uccello celeste, con strida d’arcangelo, col rostro
imperiale teso in alto e tutto il corpo prigioniero avvolto nella bandiera d’Achab, andò a fon-
do con la nave, che, come Satana, non volle scendere all’inferno finché non ebbe trascinata
con sé, per farsene elmo, una parte vivente del cielo.
Piccoli uccelli volarono ora, strillando, sull’abisso ancora aperto; un tetro frangente bianco
si sbatté contro gli orli in pendio; poi tutto ricadde18, e il gran sudario del mare19 tornò a
stendersi come si stendeva cinquemila anni fa.
[Trad. di C. Pavese]
15. indiano: è significativo come l’ultimo ad annega- qua e affondi con la nave è simbolico ed emblemati-
re sia l’indiano Tashtego. Ciò perché Melville è un de- co perché sta a significare l’impossibilità dell’uomo
mocratico e si schiera dalla parte dei più deboli con di essere indipendente.
cui ha condiviso tanto nei periodi più difficili della 18. tutto ricadde: tutto si è concluso. Gli abissi han-
sua vita. no inghiottito la nave, la lotta concitata e furiosa è
16. bandiera … distruggitrici: la bandiera e le onde terminata, il silenzio torna a regnare.
sembrano personificate. La calma della prima è in 19. il gran sudario del mare: il mare è un grande ci-
contrasto con l’impeto delle seconde. mitero in cui anche i marinai della Pequod hanno
17. Un falco del cielo: è simbolo della libertà. Il fatto trovato sepoltura (il sudario è il telo di lino utilizza-
che il falco venga trascinato giù dal vortice dell’ac- to per avvolgere la salma prima della sepoltura).
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di tenere fino alla fine la bandiera, stringendo la quale sarà l’ultimo ad affogare.
Quest’immagine è fondamentale non solo perché fa capire che ogni uomo ha un de-
stino segnato cui non può sottrarsi, ma anche perché con essa Melville si vuole disso-
ciare dall’esaltazione del sogno americano e dimostrare quanto la democrazia e l’ugua-
glianza siano ancora irrealizzabili.
Nel brano analizzato, il leitmotiv di tutto il romanzo, cioè la lotta tra il bene e il male,
tra l’uomo e la natura, tra Achab e Moby Dick, è ben esplicitato sia nella descrizione
violenta del combattimento sia nelle parole del capitano che sfida nuovamente la sua
nemica e le sferra l’attacco finale, pur consapevole di andare incontro a morte sicura.
Anzi, proprio perché sa di dover morire, vuole farlo da eroe, a testa alta, da coraggio-
so e non da codardo, senza mai piegarsi e senza rinnegare nulla. Fino all’ultimo, Achab
si mostra superbo e impavido, convinto di trascinare con sé all’inferno quel gigante
del mare. Invece, Moby Dick continua a vivere e lo beffa per l’ennesima volta, incar-
nando così l’immortalità tipica delle divinità.
La forma
Per quanto concerne la tecnica narrativa, Moby Dick è un romanzo decisamente inno-
vativo perché per la prima volta nella tradizione letteraria americana appare la figu-
ra del narratore. La voce narrante, che nel romanzo è Ishmael, colloquia direttamen-
te con il lettore, lo informa dei fatti, gli presenta gli avvenimenti, lo spinge a riflette-
re e usa perciò sempre un linguaggio diretto e coinvolgente. Il lessico adoperato da
Melville, però, è anche figurativo per le innumerevoli allegorie e metafore, suggestivo
e descrittivo per le immagini accuratamente rievocate, tecnico per l’uso preciso della
terminologia nautica, scientifico per le descrizioni particolareggiate sia della balena
dal punto di vista anatomico sia dei modi in cui può essere cacciata, uccisa, tagliata e
utilizzata.
A rendere il romanzo ancora più originale è il ricorso frequente alle tecniche teatrali
tanto care a Shakespeare come i soliloqui, i dialoghi, i fuori campo, con cui Melville
interrompe la narrazione per conferire vitalità e pathos alla scena e per scandagliare
profondamente l’animo dei personaggi, soprattutto quello di Achab, la cui ossessione
per la balena ricorda il tormento interiore dello shakespeariano Macbeth. Non biso-
gna dimenticare, poi, la forza poetica di tante pagine del romanzo come quelle in cui
l’autore si sofferma ad ammirare e rappresentare i paesaggi, le albe, i tramonti dei
mari del Sud.
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Capitolo
4 EMILY DICKINSON
La vita e le opere Emily Dickinson nasce ad Amherst, Stato del Massachusetts, nel 1830.
Cresce in una famiglia benestante, a stretto contatto con la sorella minore Lavinia (affettuo-
samente soprannominata Vinnie), e frequenta il liceo locale, ricevendo un’educazione rigi-
damente puritana. Nel 1844 compie un primo viaggio a Boston (che rimane uno dei pochis-
simi della sua vita; ce ne sarà un secondo diretto verso la stessa città per curare una malat-
tia agli occhi nel 1864). Gli anni tra il 1861 e il 1862 sono cruciali nella sua vita poiché la Di-
ckinson decide di rinchiudersi in casa, non desiderando di uscirne quasi mai più. L’improv-
visa scomparsa del padre e del nipotino (a cui era legatissima) ne mina talmente la salute
da condurla alla morte, avvenuta nel 1886 ad Amherst.
L’attività poetica comincia nel 1852 quando la scrittrice pubblica una poesia (Così passa la glo-
ria terrena) su una rivista. A questa seguiranno altre uscite di singole liriche sempre su diffe-
renti riviste letterarie (Assaggio un liquore mai distillato prima, 1861; Sicuri nelle loro camere
d’alabastro, 1862; Alcuni osservano la domenica andando in chiesa e Fiammeggiante in oro e
spento in porpora, 1864; Un essere sottile nell’erba, 1866). In effetti si tratta delle uniche sei
poesie apparse durante la vita di Emily Dickinson, laddove le opere successive Poesie e Let-
tere sono state conosciute dal grande pubblico postume e rispettivamente nel 1890 e nel 1894.
La prima edizione delle Lettere è stata curata dall’amica Mabel Loomis Todd e contiene testi-
monianza del fitto carteggio intercorso tra la Dickinson e gli uomini e le donne con i quali, di
volta in volta, stabiliva profondi legami d’amicizia (e persino d’amore) a dispetto del volonta-
rio isolamento. Alcune di esse sono indirizzate alla famiglia, mentre la maggior parte hanno
quali destinatari Otis P. Lord, Samuel Bowles e il critico Thomas Wentworth Higginson (forse
la più grande passione vissuta dalla poetessa). Ed è proprio grazie a tale prosa coinvolgente,
venata di lirismo (a tratti alternata, infatti, con straordinari versi poetici), che veniamo a co-
noscenza del modo originale dell’autrice di interpretare la vita, e ancor di più della sua estre-
ma vitalità e della sua profondità intellettuale nonostante la reclusione tanto agognata.
Il profilo Artista dal fascino enigmatico, Emily Dickinson viene oggi ricordata sia per l’ec-
cezionale qualità della sua poesia che per la sua scelta, inderogabile, di confinarsi nella casa
paterna, anzi nella sua piccola stanza che dava sul lussureggiante giardino. Tale decisione,
incomprensibile allora per i suoi familiari e amici e ancora oggi avvolta dal mistero, ha ec-
citato la curiosità del pubblico e della critica letteraria. In realtà nessuno può asserire, con
certezza, quali siano state le vere motivazioni che spinsero l’autrice a fare ciò (ella stessa
parla di un imprecisato episodio definito con il termine perentorio di terror, «terrore»), ma
il desiderio di isolamento può leggersi come un atto di ribellione contro la puritana società
del New England, che non concepiva il sacrosanto diritto di una donna a esprimersi com-
piutamente al di là della contrazione di un matrimonio vantaggioso o del duro lavoro di edu-
care i figli. Emily “la folle” (come la chiamavano nella sua città natale) non accetta di segui-
re la strada segnata da tali scelte obbligate, per cui decide di rimanere da sola, anzi di allon-
tanarsi dal mondo circostante, per muoversi con maggiore profondità nell’universo intimo
che è già di per sé sconfinato. La sua camera diviene un luogo simbolico nel quale si agita-
no presenze spirituali, mosse solo dall’alito potente della poesia pura. In effetti è proprio
per donare più purezza alla sua vena lirica, che la Dickinson si mette a osservare gli altri da
una porta socchiusa, immaginando un’esistenza forse non reale, ma sicuramente originale
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e non convenzionale. Metafora del suo voler permanere inviolata dalle ansie mondane è,
perciò, il vestito bianco, candido che ella indossa come una sorta di corazza protettiva onde
impedire che l’altrui tocco (o sguardo solamente) sporchi, corrompa la sua preziosa liber-
tà interiore. I suoi unici compagni (esclusi i tre uomini ai quali le Lettere sono indirizzate,
che rappresentano amori esclusivamente spirituali, idealizzati e successivamente rifiutati)
rimangono, per tutta la vita, la Bibbia, l’innocenza dei suoi nipotini e la sua adorata solitu-
dine: nulla ha mai potuto scalfire la portata di tali relazioni, neanche l’accusa di “immorali-
tà” mossale dalla cognata Sue Gilbert, incapace di comprendere la genialità di una donna
unica, inorgoglita dal suo voler vivere oltre i limiti imposti dal comune vivere sociale.
Poesie (Poems)
Poesie contiene 1175 testi dei quali solo sei sono stati pubblicati durante la vita dell’autrice
(secondo molti critici ciò è dovuto a un’ostinazione della stessa Dickinson di rimanere inedita
per tutelare quello spazio di libertà, non soggetto a costrizioni o regole di alcun tipo, che lo
scrivere versi le assicurava). La prima edizione a stampa, che include centoquindici liriche (di-
vise dall’editore per temi in maniera piuttosto arbitraria), esce nel 1890. Il suo successo è im-
mediato per cui già l’anno seguente l’amica Mabel Loomis Todd (in collaborazione con la so-
rella della poetessa, Vinnie) cura una seconda e più estesa edizione. In realtà le poesie inseri-
te in questi primi due volumi vengono sottoposte ad alcune correzioni, resesi necessarie al fine
di adeguarle al gusto di un pubblico ancora poco avvezzo alle novità. Solo nel 1955 appare
una raccolta completa delle sue poesie, a cura di Thomas Johnson, che finalmente le riporta
alla forma originaria nella quale erano state magistralmente composte.
I temi Già a una prima lettura ci si accorge del perché Emily Dickinson è considerata la più
grande poetessa americana dell’Ottocento. In componimenti brevi, a volte fulminanti, ella è
capace di captare l’attenzione del lettore, chiaramente disorientato dinanzi a geometrie ver-
bali che tuttora conservano il loro straordinario valore rivoluzionario. La poetessa non solo
supera, d’un tratto, la tradizione tardo-romantica imperante in patria, ma inserisce elementi
di assoluta diversità sia nei contenuti che nella forma, anticipando il clima intellettuale del
Novecento. Combinando le tante influenze derivanti dalle sue letture (i rinascimentali inglesi
Shakespeare, Milton e Donne, i suoi contemporanei Emily Brontë e Robert Browning e i roman-
zieri gotici), ella cerca di toccare temi di portata universale, osservati, di volta in volta, da un
“Io” che si trasforma in ape, in ragno, in erba, in qualche altro essere: il tempo, la morte, l’eter-
nità occupano un ruolo privilegiato nella sua poesia, assieme all’immancabile spazio dedica-
to all’amore che tutto in sé racchiude e conclude. Pur non parlando mai direttamente della sua
vita (raramente si trovano nei suoi testi cenni autobiografici), l’autrice carica tali temi di tut-
te le tonalità derivanti dalla sua inimitabile esperienza interiore: la morte (sia commentata
dal punto di vista della persona defunta o del semplice testimone oppure considerata come
presagio della propria dipartita) rimane un gran mistero che, tuttavia, conserva un calami-
tante fascino per la Dickinson, poiché connesso sempre all’idea di eternità e di liberazione da
ogni preoccupazione terrena. L’amore (poco vissuto esternamente ma molto interiorizzato) è
invece esplorato, spesso, sotto il disturbante profilo della separazione momentanea onde poi
ritrovare nella finale unione spirituale la possibilità di infinito, da sempre concessa a chi sa
amare al di fuori dei costringenti limiti spazio-temporali.
Lo stile Ma ancor di più sono stile e linguaggio a fornire una chiara esemplificazione della
sua inesauribile energia creativa: sentimenti così espansi possono essere colti solo in piccoli e
veloci frammenti che la Dickinson ricrea sul foglio attraverso l’uso di parole monosillabiche,
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di un ordine sintattico non tradizionale e di una punteggiatura connotata dai cangianti stati
d’animo dell’autrice. Frequente è il ricorso a figure retoriche quali assonanze, allitterazioni,
metafore, ellissi che non fanno altro che aumentare l’ambiguità di testi nei quali molteplici
toni (dall’arguto al malinconico) si fondono con immagini minimaliste al fine di esplorare (e
forse comprendere) i misteri dell’universo.
1. Fammi … mia: pur se la data ufficiale dell’inizio no, non cesserà mai di palpitare e di avvertire fremi-
dell’isolamento di Emily risale al 1861-62, l’inten- ti. Nota come i ricorrenti segni d’interpunzione au-
zione è già leggibile in questa appassionata esorta- mentino l’atmosfera di sospensione in attesa dell’as-
zione (datata 1860 e quasi sicuramente diretta allo soluto, al quale tutta la poesia tende.
zio Sweetser) a disegnarle un sole (ovvero a regalar- 5. Dimmi … fioriscono: la poetessa si affida all’altrui
le un’illusione), affinché si illumini la solitudine del sensibilità sia per la scoperta delle cose più ovvie
suo ritiro. dell’esistenza (fa caldo a mezzogiorno) sia per gli in-
2. fingere: è naturale che la Dickinson comprenda finiti voli dell’immaginazione (i ranuncoli che «vola-
quanto sia importante il ricorso alla fantasia nel suo no», le farfalle che «fioriscono»). Le virgolette enfatiz-
nuovo stato. zano la straordinarietà che entra nel quotidiano solo
3. Giorno: in questa parola è sintetizzato il suo rifiu- tramite la forza immaginativa. Il ranuncolo è una pian-
to delle convenzioni comunemente accettate: l’au- ta erbacea diffusa nelle zone fredde e temperate.
trice intende dire, qui, che non ha bisogno di vede- 6. E poi … alberi: fervente è anche il tono di quest’in-
re la luce per dar vita a un nuovo giorno poiché è vocazione: insegnami con la tua saggezza a supera-
dentro ognuno di noi, e non fuori, che le nascite e le re i confini del tempo che scorre inesorabilmente
morti avvengono. (metaforicamente rappresentati dal gelo sopra i pra-
4. Disegna … l’illusione: gli elementi della natura, pur ti e dalla ruggine sugli alberi).
se non osservati direttamente, sono sempre presen- 7. Dammi … mai!: e grazie all’energia della tua im-
ti nel ricordo e nell’immaginazione della poetessa; maginazione indirizzami verso l’eternità dove rug-
deponga qui significa «abbandoni». Intendi: fin quan- gine (simbolo di consunzione) e gelo (metafora del-
do il mio cuore sarà impegnato nella ricerca dell’eter- la morte) mai realmente approdano!
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La forma
Anche lo stile è ampiamente esemplificativo delle scelte future dell’autrice: all’interno
di una struttura basata su strofe asimmetriche e su rime irregolari, assume un’impor-
tanza fondamentale l’utilizzo di un lessico quotidiano che diventa metafora di realtà
più complesse (la poetessa sembra suggerirci che bisogna sempre guardare ben al di
là delle ingannevoli apparenze!) e di segni d’interpunzione (i punti esclamativi e in-
terrogativi, presenti questi ultimi solo nella versione originale, i trattini e le virgolet-
te), i quali più che esprimere certezze, affermazioni (tipiche del suo conterraneo e con-
temporaneo Walt Whitman), incrementano il senso di suspense, di attesa, di improv-
visa intuizione che sempre accompagnano la sublime poesia di Emily Dickinson.
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Capitolo
5 EZRA POUND
La vita e le opere Ezra Pound nasce nel 1885 nell’Idaho, negli Stati Uniti, da una famiglia
di antiche tradizioni, discendente dai primi coloni inglesi; motivo per cui, nonostante la sua
educazione e il suo modo di fare siano sostanzialmente americani, egli si sente molto attrat-
to dalla vecchia Europa. Vi si trasferisce nel 1907 con l’intenzione di studiare arte e poesia
e di riappropriarsi così delle sue radici culturali. È convinto, come il suo amico Thomas
Stearns Eliot, che la civiltà europea rappresenti un insieme indivisibile e che un poeta che
scriva in inglese possa trarre beneficio tanto dallo studio dell’antica poesia greca quanto
dallo studio di Wordsworth. Egli comincia allora una campagna per liberare la poesia ingle-
se dalla sua condizione d’insularità, proponendo lo studio dei simbolisti francesi, dei meta-
fisici inglesi, di Dante e dei poeti del dolce stilnovo.
A Londra, dove vive dal 1908 al 1920, Pound solleva forti reazioni criticando apertamente
la contemporanea poesia georgiana, che auspicava un ritorno alla natura e alle emozioni
semplici, in contrasto con la ricercata artificialità del movimento estetico e decadente che
l’aveva preceduta. Pound si schiera contro questo tipo di poesia i cui canoni erano già stati
messi in crisi dallo scoppio della prima guerra mondiale, evento traumatico che cambia il
punto di vista dell’uomo sul mondo e sulla società. Appartengono a questo periodo le rac-
colte Risposte (1912) e Lustra (1916) e il famoso poema Hugh Selwyn Mauberley (1920),
opere che rivelano echi della tradizione classica, soprattutto della poesia provenzale e stil-
novista, ma anche proiettate in avanti, pronte a cogliere gli impulsi di nuovi movimenti let-
terari quali l’Imagismo e il Vorticismo.
Nel 1920 si trasferisce a Parigi, allora meta di artisti provenienti da ogni parte del mondo:
Joyce, Hemingway e Picasso ne sono illustre esempio. Nel 1924 va a vivere in Italia, dove re-
sta per circa vent’anni, attratto dalle arti ma anche dal fascismo, movimento che egli crede-
va avrebbe messo in pratica le proprie teorie economiche. Qui scrive i Canti pisani (1945),
malinconica testimonianza del periodo passato in un campo di concentramento a Pisa, in
seguito all’accusa di tradimento per aver tenuto un discorso pacifista a Radio Roma.
La raccolta cui Pound deve la fama, Cantos, è il lavoro di una vita intera: i primi tre canti esco-
no nel 1917 e dagli anni Venti in poi tutta la poesia che scrive finisce in quella che è stata de-
finita una lunga epica moderna. Ritorna negli Stati Uniti nel 1946 per difendersi nel proces-
so che lo vede imputato per tradimento, ma non essendo riconosciuto in grado di intendere
e di volere è internato in un ospedale di Washington per dodici anni. Quando finalmente vie-
ne dimesso decide di trascorrere il resto della sua vita a Venezia, dove muore nel 1972.
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ai valori borghesi e con la sua aggressiva celebrazione della velocità e del dinamismo, della
violenza verbale e visiva. Il contributo dell’autore allo sviluppo del Modernismo in Inghil-
terra è senz’altro decisivo; con instancabile energia, infatti, scrive articoli e saggi, organiz-
za conferenze e mostre, aiuta schiere di scrittori – compresi Eliot, Joyce e Hemingway – for-
nendo suggerimenti preziosi o addirittura procurando loro un editore.
Nei suoi versi mescola la parlata quotidiana alla lingua della tradizione e dopo la fase ima-
gista, la sua poesia diventa più complessa, abbandonando la regolarità sintattica in favore
di una violenta giustapposizione di immagini e di idee. Egli fa spesso uso di citazioni dalle
grandi opere del passato, mettendo queste ultime a confronto con avvenimenti presenti in
una struttura decisamente moderna.
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Con Usura
La pratica dell’usura coincide con l’assenza di ideali, con il non-valore e viene quindi
definita attraverso una serie di negazioni.
[Cantos, XLV]
Con Usura
con usura nessuno ha casa di buona pietra,
massi ciascuno ben levigato e connesso
che disegno li possa coprire,
5 con Usura
nessuno ha paradiso dipinto sul muro della sua chiesa
Harpes et luthes1
o dove vergine riceva l’annuncio
e l’immagine effonda alone di luce2,
10 con Usura
nessuno vede di Gonzaga3 gli eredi e le sue concubine4,
non nasce dipinto che duri e accompagni la vita
ma è fatto che lo si venda e rapidamente si venda5
con usura, peccato contro natura6,
15 è sempre più fatto il tuo pane di muffe stantìe7
è il tuo pane arido come carta,
senza frumento di monte8, né aroma di buone farine,
usura aggreva9 la linea al disegno,
con usura non è più limite netto
20 nessuno ha luogo per la sua casa.
Artiere10 non può toccare la sua pietra,
tessitore il telaio,
Con Usura
lana non giunge al mercato,
25 gregge non porta guadagno con usura,
usura è una lebbra, usura
ottunde11 la punta dell’ago in giovani mani di donna
e l’arte del filatore n’è ferma. Non Pietro Lombardo12
fu frutto d’usura
1. Harpes et luthes: è la citazione di un verso della 6. peccato contro natura: l’usura diventa dunque un
Ballata per pregare la nostra Signora del poeta fran- peccato contro natura, dal momento che è capace di
cese François Villon (1431-1463). alterare i naturali rapporti affettivi tra gli uomini.
2. o dove … luce: il riferimento è all’Annunciazione 7. muffe stantìe: cibo che ha perso freschezza, odo-
dell’Arcangelo Gabriele alla Vergine Maria; re, sapore, per essere stato conservato troppo a
nell’iconografia cristiana ogni apparizione è circon- lungo.
data da un alone di luce. 8. frumento di monte: il grano che cresce in monta-
3. Gonzaga: i Gonzaga erano una celebre famiglia di gna ha senz’altro un odore e un sapore migliori di
Mantova che aveva dato vita a una delle corti più quello che cresce in zone basse e inquinate.
sfarzose dell’età rinascimentale. 9. aggreva: rende pesante, opprime.
4. concubine: donne che convivono con un uomo sen- 10. Artiere: artigiano.
za il vincolo matrimoniale. 11. ottunde: arrotonda.
5. non nasce … si venda: l’usura è capace di trasfor- 12. Pietro Lombardo: è un architetto veneto del XV
mare persino un dipinto in una merce di scambio, secolo, famoso per la costruzione della Chiesa di San-
non più oggetto di piacere, ma strumento per otte- ta Maria dei Miracoli a Venezia e per il Duomo di Ci-
nere denaro e profitto. vidale nel Friuli.
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[Trad. di C. Izzo]
13. Duccio: Duccio di Buoninsegna, pittore senese 22. cesello: strumento per la forgiatura o l’incisione
del XIII secolo. di metalli.
14. Piero della Francesca: famoso pittore rinascimen- 23. cremisi: sfumatura di rosso molto acceso.
tale, figura centrale del Quattrocento. 24. fiorami: fiori e frutti dipinti, tessuti o disegnati.
15. Zuan Bellini: si tratta di Giovanni Bellini (1432- 25. Memling: Hans Memling, pittore fiammingo del
1516), il più celebre pittore veneziano del periodo; XV secolo.
Pound usa la versione dialettale del suo nome. 26. ceppi: pesanti blocchi di legno per immobilizza-
16. La Calunnia: è il dipinto di Sandro Botticelli re i piedi dei prigionieri; il termine può essere usa-
(1445-1510) che si trova nella Galleria degli Uffizi a to anche in senso figurato, sicché «costringere in cep-
Firenze. pi» vuol dire «ridurre in schiavitù».
17. l’Angelico: si tratta di Beato Angelico, sopranno- 27. talami: camere nuziali.
me di frate Giovanni da Fiesole (1395-1455), rinno- 28. contra naturam: «contro natura», espressione la-
vatore della pittura religiosa. tina che si utilizza per riferirsi a chi adotta pratiche
18. Ambrogio de Predis: pittore e miniatore milane- sessuali contrarie al naturale congiungimento uo-
se della seconda metà del Quattrocento. mo-donna. Nell’Inferno Dante mette gli usurai insie-
19. né chiesa … me fecit: il riferimento è alla Chiesa me con i sodomiti, peccatori contro natura.
di San Zeno a Verona: su una delle sue colonne cam- 29. donne da conio: celebre definizione dantesca del-
peggia appunto la scritta Adamo me fecit. le «prostitute».
20. San Trofimo in Arli: si tratta della Cattedrale di 30. Eleusi: città della Grecia dove si celebravano i
Saint-Trophime ad Arles (cittadina della Francia me- “misteri eleusini”, riti e feste in onore di Demetra e
ridionale), uno dei massimi esiti dell’arte medieva- di Persefone, divinità della mitologia classica.
le francese. 31. cadaveri siedono a mensa: il riferimento è all’epi-
21. Sant’Ilario: è la Chiesa di Saint-Hilaire a Poitiers, sodio che vede coinvolto il re Pedro I di Portogallo
città della Francia meridionale, anch’essa esempio che fece riesumare il corpo della donna amata, col-
dell’arte medievale. locandolo al suo fianco a tavola.
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La forma
L’intreccio di lingue e di stili diversi, l’improvvisa apparizione di immagini altamente
stilizzate in un contesto di assoluta materialità, l’aspetto simbolistico e intellettuale
della concezione poetica costituiscono gli aspetti salienti della rivoluzione nel gusto e
nella pratica poetica effettuata da Pound agli inizi del Novecento.
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Capitolo
La vita e le opere Francis Scott Fitzgerald nasce a St. Paul, nel Minnesota, il 24 settembre
del 1896 da una famiglia della media borghesia d’origine irlandese. Il padre non ha fortuna
in affari, così il già modesto patrimonio di famiglia continua ad assottigliarsi e i Fitzgerald
hanno molte preoccupazioni finanziarie. Solo grazie all’aiuto di una zia rimasta zitella, Scott
riesce a realizzare il suo primo sogno, quello di frequentare una scuola preparatoria per poi
iscriversi all’Università di Princeton. Qui comincia a scrivere commedie musicali e trova le
sue prime ammiratrici. Nell’autunno del 1917 è nominato sottotenente di complemento
nell’esercito e parte per il campo di addestramento dove, durante i fine settimana, scrive la
maggior parte del suo primo romanzo L’egocentrico romantico. A un ballo conosce la figlia
di un giudice, Zelda Sayre, che descrive agli amici come «la più bella fanciulla dell’Alabama e
della Georgia». I due giovani si fidanzano ma, non potendo sposarla prima di aver dimostra-
to al padre della ragazza di essere in grado di mantenerla, Scott, dopo il congedo, si reca a
New York in cerca di un impiego. È questo un periodo molto difficile per il giovane che, no-
nostante gli sforzi, non riesce a veder riconosciuto il proprio talento letterario. Zelda si ren-
de ben presto conto che i suoi tentativi sono disperati e rompe il fidanzamento, richiaman-
dosi al buon senso. Fitzgerald si fa prestare denaro dai compagni di corso, si ubriaca, poi tor-
na a St. Paul e scrive daccapo il romanzo con un nuovo titolo, Di qua dal paradiso (1920).
Questa volta il libro viene pubblicato e si rivela un successo perché in grado di rappresenta-
re con precisione e accuratezza i problemi che sembrano affliggere la nuova generazione.
Ai primi d’aprile del 1920, Zelda arriva a New York e i due giovani finalmente si sposano: in-
comincia una nuova era e Scott e Zelda ne sono i rappresentanti più in vista. Gli anni succes-
sivi al 1920 sono gli anni in cui l’etica della produzione cede il passo all’etica del consumo,
necessaria per fornire mercati ai nuovi beni che affluiscono dalle catene di montaggio. Fitz-
gerald continua a mietere successi, le riviste sono adesso ansiose di pubblicarne i racconti e
disposte a compensarli assai bene. Nel 1922 esce I belli e i dannati dove, ancora una volta,
lo scrittore affronta il tema del crollo degli ideali giovanili. Il grande Gatsby (1925), il ro-
manzo cui Fitzgerald deve la fama presso il grande pubblico, solleva il velo sulle ipocrisie e
sulle meschinità che si nascondono dietro il mondo sfavillante delle classi agiate. Nel 1934
viene pubblicato Tenera è la notte in cui esamina con profonda penetrazione psicologica la
complessità dei rapporti interpersonali. Gli ultimi fuochi, il romanzo incompiuto su Hol-
lywood, pubblicato postumo nel 1941, concilia abilità tecnica e investigazione psicologica.
La depressione economica all’inizio degli anni Trenta vede anche il declino fisico, intellettua-
le ed economico dello scrittore che cade in depressione e comincia a bere. La moglie, emoti-
vamente fragile e instabile, non può essergli di alcun aiuto dovendo, lei per prima, far ricor-
so a cure specialistiche. Tornato in patria dall’Europa dove si era recato dopo la prima guer-
ra mondiale, Fitzgerald comincia a lavorare a Hollywood (per la Metro-Goldwyn-Mayer, la fa-
mosa casa di produzione cinematografica), dimostrandosi un abile scrittore per lo schermo.
Pochi anni dopo, nel 1940, muore.
Il profilo I “ruggenti anni Venti”, come furono battezzati i primi anni del nuovo secolo per
la struggente frenesia del vivere che li caratterizzò, sono magnificamente rappresentati dal-
la vita artistica e personale di Fitzgerald. La critica è sempre stata restia ad attribuire all’ope-
ra dell’autore un serio valore letterario: la sua reputazione di forte bevitore ha ispirato il mito
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dello scrittore irresponsabile, nonostante l’attenzione quasi maniacale con cui soleva revi-
sionare i suoi lavori. A ventitré anni, quando pubblica il suo primo romanzo, lo scrittore ha
quel tipo di origini sociali che la sua generazione considerava rappresentativo e i primi suc-
cessi gli insegnano che, quando scrive con sincerità dei propri sogni, delle proprie disavven-
ture e scoperte, gli altri si riconoscono in quelle pagine. In realtà, nella vittoria e nella scon-
fitta, Fitzgerald conserva una qualità che pochi autori riescono ad acquisire: la sensazione di
vivere nella storia. I costumi e la morale mutano durante la sua esistenza e lo scrittore si ac-
cinge al compito di riferire questi mutamenti. Partecipa alla baldoria e all’esaltazione del suo
tempo, ma mantiene anche una posizione di segreto distacco, considerandosi un povero che
vive tra milionari, un burbero contadino tra la nobiltà, un celta tra i sassoni. Il suo punto di
osservazione è la linea di confine fra due generazioni, quella pre-bellica e quella post-bellica.
Nei romanzi e nei racconti tenta di rappresentare lo splendore della vita dei circoli eleganti
di Princeton, a Hollywood e sulla riviera francese; circonda i suoi personaggi di una nebbia
di ammirazione e al contempo seguita a lacerare e a dissolvere tale nebbia. Riesce, cioè, a
mantenersi distaccato e a esaminare dall’esterno le cause e le conseguenze di un evento. In
ciò consiste la sua capacità di sdoppiarsi o la sua ironia, ed è questo uno dei tratti che lo con-
traddistinguono come scrittore.
La trama Jay Gatsby è un uomo misterioso che vive a West Egg, noto sobborgo di New York,
dove, nella sua sfarzosa villa sempre illuminata, offre ricevimenti lussuosi e affollati di finti
amici. La sua segreta e inconfessabile speranza è quella di ritrovare Daisy, la ragazza che ha
conosciuto e amato quando aveva appena diciotto anni. Lei, irraggiungibile, apparteneva a
una ricca famiglia e rappresentava anche lo stile di vita che Jay aveva sempre sognato. La sto-
ria tra i due era finita quando Gatsby era partito per la guerra, rimanendo lontano per cinque
anni, durante i quali, però, i suoi sentimenti non erano cambiati, mentre lei si era sposata con
un giovane rampollo di buona famiglia. Ora, però, Jay è ricco e potente (grazie anche ai suoi
legami con la malavita) e riesce, con la sua stravagante devozione, a riconquistare Daisy e a
diventarne l’amante. Il suo sogno, purtroppo, si concluderà in tragedia ed egli morirà pur aven-
do messo in gioco tutte le sue ricchezze e il suo potere pur di ottenere ciò che desiderava.
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[…] Poco prima delle tre arrivò da Flushing1 il ministro luterano2; incominciai3 involontaria-
mente a guardare dalla finestra per vedere se arrivavano altre macchine. Così fece il padre
di Gatsby. E mentre il tempo passava e i domestici entravano e si fermavano in attesa nell’atrio,
il vecchio si mise a sbattere ansiosamente gli occhi e a parlare della pioggia con tono preoc-
cupato, incerto. Il ministro guardò più volte l’orologio, così lo trassi in disparte e gli chiesi
di aspettare mezz’ora. Ma fu inutile. Non venne nessuno.
Verso le cinque la nostra processione, composta di tre macchine, giunse al cimitero e si fer-
mò in una pioggerella fitta presso il cancello: prima il furgone funebre, orrendamente nero
e bagnato, poi il signor Gatz4 e il ministro e io nella berlina5 e, poco dopo, quattro o cinque
domestici e il postino di West Egg6 nella macchina da lavoro, tutti bagnati fino alle ossa. Men-
tre varcavamo il cancello per entrare in cimitero udii fermarsi una macchina e poi qualcu-
no che ci seguiva guazzando nel terriccio molle d’acqua7. Mi guardai attorno. Era quel tale8
dagli occhiali di gufo che avevo trovato nella biblioteca di Gatsby tre mesi prima intento a
meravigliarsi dei libri.
Non l’avevo più visto da allora. Non so come avesse saputo del funerale e nemmeno come si
chiamasse. La pioggia colava sugli occhiali spessi e lui se li toglieva e li asciugava per vede-
re la tela di protezione che veniva tolta dalla tomba di Gatsby.
Cercai in quel momento di pensare a Gatsby, ma era già troppo lontano9; riuscii soltanto a
ricordare senza risentimento che Daisy10 non aveva mandato né una parola né un fiore. Udii
confusamente qualcuno che mormorava: «Benedetti i morti bagnati dalla pioggia», e poi
l’uomo dagli occhiali di gufo disse con voce energica: «Amen».
Ritornammo in fretta alle macchine, sotto la pioggia. Accanto al cancello, Occhi di Gufo mi
parlò:
«Non ho potuto venire a casa» disse.
«Nessuno ha potuto».
«Andiamo!» Si avviò «Ma perdio! Ci andavano a centinaia11».
Si tolse gli occhiali e li asciugò di nuovo, dentro e fuori.
«Povero bastardo» disse. […]
[Trad. di F. Pivano]
1. Flushing: località nei pressi di New York. 7. guazzando … d’acqua: camminando sulla strada
2. ministro luterano: sacerdote della Chiesa luterana. bagnata con i piedi che affondano nel fango.
3. incominciai: il narratore è Nick Canaway, giovane 8. quel tale: si tratta di uno di quei personaggi ano-
agente di cambio, vicino di casa di Gatsby e cugino nimi che popolavano le feste di Gatsby.
della bella Daisy. 9. Cercai … lontano: persino il ricordo dell’uomo sem-
4. il signor Gatz: il padre del protagonista. bra allontanarsi con la sua morte.
5. berlina: automobile chiusa a due o quattro porte 10. Daisy: è la donna amata da Gatsby, quella per la
che prende il nome dalla città di Berlino, dove ap- quale ha sacrificato la vita.
parve per la prima volta. 11. Ci andavano a centinaia: centinaia erano le per-
6. West Egg: località di Long Island (l’isola a est di sone che partecipavano alle sue feste, ma nessuno si
New York) dove si trova la villa di Gatsby. è degnato di presenziare ai suoi funerali.
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La forma
Lo stile di Fitzgerald – chiaro e lirico, arguto e colorito – riesce a evocare toccanti
emozioni. I temi fondamentali dell’intera opera di Fitzgerald sono l’aspirazione e l’ide-
alismo, la trasformazione e la perdita, e Il grande Gatsby, con la sua complessa strut-
tura e il punto di vista narrativo rigidamente sotto il controllo dell’autore, rappresen-
ta il suo massimo conseguimento letterario.
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Capitolo
7 ERNEST HEMINGWAY
La vita e le opere Ernest Miller Hemingway nasce il 21 luglio 1899 a Oak Park, un paesi-
no dell’Illinois a ovest di Chicago, vicino alle praterie e alle foreste. Qui, ma anche nel Michi-
gan dove la famiglia è solita trascorrere le vacanze, il ragazzo esplora i dintorni, fa campeg-
gio, va a caccia e pesca in compagnia del padre, il dottor Clarence Hemingway. A Chicago, in-
vece, il giovane visita gallerie d’arte e musei, si reca all’opera e assiste a concerti insieme
alla madre musicista. Entrambi i genitori sembrano seguire, per l’educazione di Ernest, pa-
rametri vittoriani in tema di famiglia, religione, disciplina e lavoro. Alla River Forest High
School di Oak Park Hemingway comincia a scrivere articoli, poesie e novelle basate princi-
palmente su sue esperienze dirette. L’anno del diploma, il 1917, lo vede lavorare come re-
porter per lo «Star», quotidiano di Kansas City. L’intervento degli Stati Uniti nella prima guer-
ra mondiale lo spinge a offrirsi volontario per andare a combattere in Europa; riformato per
un difetto alla vista, si arruola come autista di ambulanze della Croce Rossa. Nel luglio del
1918 è sul fronte italiano dove viene ferito gravemente e ricoverato in un ospedale milane-
se. Al suo ritorno in patria la stampa gli tributa accoglienze trionfali, elogiando il suo corag-
gio e la sua resistenza al dolore; come molti altri reduci, però, Hemingway stenta a riadat-
tarsi alla vita civile. È in questo periodo che comincia a soffrire d’insonnia e a bere per com-
batterla; non riuscendo a dormire, legge qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Inizia così a scrivere
racconti e a collaborare con diversi giornali, dando libero sfogo alla sua vena satirica.
Nel 1921 sposa Elizabeth Hadley Richardson, una ragazza di St. Louis, orfana di entrambi i
genitori, che a trent’anni stava ormai rassegnandosi a restare zitella. Con i soldi della mo-
glie Hemingway parte per l’Europa, continuando il suo lavoro di corrispondente per diver-
si giornali e viaggiando in Francia, Spagna, Svizzera, Italia e Germania. A Parigi frequenta il
salotto letterario di Gertrude Stein dove conosce artisti d’avanguardia come Pound e Fitz-
gerald la cui compattezza stilistica avrà conseguenze importanti per la sua scrittura. Negli
anni in cui lavora come corrispondente, oltre a occuparsi di politica, scrive articoli coloriti
e arguti sulla pesca, sulle corride, sullo sci e sulla vita mondana in Europa.
Dal 1925 al 1929 Hemingway dà vita ad alcune delle più importanti opere della narrativa
moderna, comprese le raccolte Tre racconti e dieci poesie e Nel nostro tempo dove lo
scrittore racconta il difficile passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Nel 1926 esce il suo
primo vero romanzo Il sole sorge ancora (noto anche come Fiesta) che reca tracce eviden-
ti delle sue estati in Spagna in occasione del festival di San Fermin a Pamplona. Nel 1927 ab-
biamo una nuova serie di racconti, Uomini senza donne, concentrata soprattutto sugli
aspetti brutali e nefasti dell’esistenza, con soltanto quattro su tredici storie che affrontano
il tema dell’amore e del matrimonio, a dispetto del titolo. Nel 1929 pubblica Addio alle armi,
il più bel romanzo uscito dalle macerie della prima guerra mondiale, in cui racconta la sua
esperienza sul fronte italiano e l’amore per la bella infermiera che lo curò.
A parte Verdi colline d’Africa (1935), nato dai suoi numerosi viaggi in quel continente, gli
anni Trenta vedono lo scrittore impegnato in cause civili e sociali: la lotta per la democra-
zia, messa a repentaglio dalla guerra civile in Spagna e dal secondo conflitto mondiale, di-
venta uno scopo di vita. Per chi suona la campana (1940), scritto a Cuba dove si è trasfe-
rito in compagnia della sua terza moglie, nasce proprio dalla sua esperienza durante i tra-
gici avvenimenti spagnoli. La seconda guerra mondiale lo vede prima in Estremo Oriente,
poi al comando del suo panfilo (il Pilar), e infine in Europa, al seguito dell’esercito america-
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no. Finita la guerra torna al suo lavoro di scrittore; nel 1950 esce Di là dal fiume e tra gli
alberi e nel 1952 Il vecchio e il mare. L’anno dopo Hemingway vince il premio Pulitzer e
nel 1954 il Nobel per la letteratura. Premi e successi non si contano più, ma non bastano a
risolvere i sempre più gravi problemi esistenziali del romanziere. Nel dicembre del 1960,
infatti, viene ricoverato in una clinica, i suoi disturbi nervosi sono sempre più evidenti e i
medici non esitano a ricorrere all’elettrochoc. Nell’aprile dell’anno seguente la moglie (la
quarta) sventa un primo tentativo di suicidio; il secondo non fallirà: il 2 luglio 1961 Hemin-
gway si alza di buon’ora, prende uno dei suoi fucili da caccia, lo carica, si avvicina le canne
alla bocca e fa scattare il grilletto.
Il profilo Hemingway è stato a lungo considerato un uomo d’azione “afflitto” da genio lette-
rario, piuttosto che uno scrittore dedito alla sua opera. Critici e riviste letterarie, infatti, lo han-
no sempre descritto come un esperto mondiale di corride, caccia grossa, pesca, sbornie e don-
ne. Avendo passato gran parte della sua vita all’aperto e avendo praticato sport acquatici e ter-
restri, Hemingway trae grande piacere nel confondere le aspettative del pubblico circa l’aspet-
to e il comportamento di uno scrittore. Il mito che si crea intorno a lui gli serve da difesa, per
nascondere la sua complessa personalità dietro una maschera. Tale processo, tuttavia, avrà lo
spiacevole effetto di confondere vita artistica e vita personale, con il risultato che molti letto-
ri cominciano a provare avversione per i suoi lavori prima ancora di averli letti, semplicemen-
te a causa della sua reputazione. Considerare Hemingway un donnaiolo perennemente ubria-
co e la sua prosa ristretta e limitata è un pregiudizio ormai superato: tutta la sua opera è una
critica della società, egli ha risposto a ogni spinta morale del suo tempo con una sensibilità
che quasi non ha eguali e con un istinto che gli consente di penetrare nei segreti degli uomini
e di condividerne emozioni e turbamenti. I suoi scritti e la sua stessa esperienza di vita eser-
citeranno una profonda influenza sugli scrittori americani suoi contemporanei, ma anche su
quelli delle generazioni successive. Molti dei suoi lavori sono considerati classici della lettera-
tura americana e da molti di essi sono state tratte riduzioni cinematografiche. Hemingway at-
tinge avidamente alle proprie conoscenze in materia di caccia, pesca e corride, il che contri-
buisce in maniera significativa alla vitalità e all’esuberanza della sua prosa. Odia le frasi robo-
anti e piene di retorica, ma essenzialmente vuote e futili; ama, invece, la lotta, la caccia grossa
in Africa, la sfida alla morte, gli sport violenti, la corrida. Ecco, forse, un altro motivo che lo
spinge a preferire la morte al declino fisico. Un tale culto della forza non diventa però in lui ci-
nico dannunzianesimo, non si trasforma, cioè, in mera esaltazione di forza e di violenza; egli
segue un codice di lealtà, di onore e di rispetto per l’avversario.
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vane donna violentata da un gruppo di franchisti. Quando i due giovani s’incontrano è amore
a prima vista, ma la tragedia è in agguato: Robert è costretto a portare a termine il suo inca-
rico, ben sapendo, tuttavia, che il suo sacrificio sarà inutile. La sua è una decisione da eroe so-
litario e il suo estremo tentativo è quello di salvare almeno la donna che ama così disperata-
mente. Alla fine Robert, ferito a una gamba mentre sta per ricongiungersi ai compagni, rimar-
rà solo sulla collina ad affrontare il nemico e la morte.
Molti critici sostengono che il romanzo ha una struttura circolare. Il ponte d’acciaio che Ro-
bert è chiamato a far saltare, è al centro dell’azione narrativa dal primo all’ultimo capitolo.
Tutto si svolge in tre giorni scarsi e tre notti; ma episodi, conversazioni, monologhi interiori e
richiami al passato ruotano intorno alla questione del ponte da far saltare: fino a quando
l’americano riuscirà nell’impresa, purtroppo ormai diventata quasi inutile. Ci sono, però, de-
gli ordini necessari e quel ponte può diventare una svolta decisiva per il futuro dell’umani-
tà. Tu hai una sola cosa da fare, e devi farla, diceva Robert a se stesso in uno dei capitoli ini-
ziali. La prima morale che il romanzo dà, la più semplice, è proprio questa.
I famosi versi del poeta inglese John Donne che Hemingway ha scelto come epigrafe, evocan-
doli anche attraverso il titolo stesso del romanzo, si riferiscono alla morte fisica e spirituale
che sembra avvolgere l’umanità di Per chi suona la campana.
1. bigotteria: moralismo, ristrettezza di opinioni. Ro- blo sono un manipolo di disperati che tenta un’im-
bert aveva sempre seguito un suo codice personale presa impossibile contro il folto stuolo dei nemici
di comportamento con le donne che, data la sua “pro- franchisti.
fessione”, non gli consentiva di impegnarsi seriamen- 3. Orazio: il riferimento è a Horatio Nelson, l’ammi-
te. Maria mette in crisi le sue convinzioni e gli fa ve- raglio inglese che riuscì a sventare il tentativo di sbar-
nir voglia di progettare un futuro insieme. co francese in Inghilterra, distruggendo a Trafalgar
2. Termopili: passo montano della Tessaglia, in Gre- (1805) la flotta di Napoleone; ma, ferito alla schie-
cia, noto per la battaglia che vi ebbe luogo nel cor- na, morì sulla sua nave durante la battaglia.
so della seconda guerra persiana (480 a. C.) fra un 4. il ragazzo olandese: Robert pensa a un ragazzo del-
presidio di trecento spartani, che si sacrificarono la brigata Hans che non era mai uscito prima dal suo
fino all’ultimo uomo, e le preponderanti forze per- villaggio e che era stato costretto dalle circostanze
siane. Il parallelo è chiaro: Robert e la banda di Pa- ad arruolarsi.
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«Le ragazze spagnuole son mogli straordinarie. Lo so perché non ne ho ancora avuto una. E
se mi ridaranno il mio posto all’Università, Maria sarà la moglie di un professore e se gli stu-
denti che fanno il quarto semestre di spagnuolo verranno a trovarci la sera per fumare la
pipa e fare quelle utilissime libere discussioni su Quevedo5, Lope de Vega6, Galdós7 e gli al-
tri illustri morti, Maria potrà raccontare come alcuni dei crociati in camicia azzurra della
vera fede le si sedettero sulla testa mentre altri le inchiodavano le braccia, le alzavano le sot-
tane e gliele ficcavano in bocca8».
«Vorrei proprio sapere se Maria piacerebbe alla gente di Missoula, Montana. Se riuscirò ad
avere di nuovo la cattedra a Missoula, si capisce. Probabilmente laggiù mi avranno bollato
una volta per sempre come un rosso9 e messo sulla lista nera generale. Però non si può sa-
pere. Non si può sapere mai. Non hanno nessuna prova contro di me e certo non mi crede-
rebbero, se raccontassi loro quello che ho fatto; e poi il mio passaporto era valido per la Spa-
gna prima che uscissero le restrizioni10».
«Non potrò tornare laggiù prima dell’autunno del trentasette. Sono partito nell’estate del
trentasei e sebbene l’aspettativa duri solo un anno, in fondo basta tornare per l’apertura del
semestre autunnale dell’anno seguente. Fino al semestre autunnale c’è ancora molto tem-
po. Anche fino a dopodomani c’è ancora tempo, se ci tieni ad esprimerti così. No. Non c’è da
preoccuparsi per l’Università, secondo me. Basterà che ti faccia rivedere laggiù in autunno
e tutto andrà bene. Prova a farti rivedere».
«Ma ora già da un pezzo stai facendo una strana vita. Diavolo, se non è strana! La Spagna era
già prima il tuo lavoro e il tuo impegno, ti sembrò dunque naturale e giusto trovarti in Spa-
gna. Avevi lavorato per estati intere a progetti d’ingegneria e nel servizio forestale; avevi co-
struito strade e avevi imparato a maneggiare la polvere, così che anche far saltare i ponti è
ora per te un’occupazione normale e sana. Sempre un po’ frettolosa ma normale».
«Una volta che l’accetti come problema, l’idea della demolizione è solo un problema. Ma
c’erano collegate una quantità di altre cose molto meno piacevoli, sebbene, Dio lo sa, tu le
prenda abbastanza leggermente. C’era il tentativo continuo di avvicinarsi alle condizioni
dell’assassinio ben riuscito, che accompagnava la demolizione. I paroloni rendono forse ac-
cettabile la cosa? Rendono meno disgustoso l’assassinio? Se proprio vuoi saperlo caro» dis-
se a se stesso, «e che cosa diverrai e che razza di lavoro sarai capace di fare, una volta che
avrai lasciato il servizio della Repubblica11, non riesco proprio a capirlo. Ma sospetto che ti
libererai di tutto questo, facendoti un libro12. Una volta scritto, tutto sparisce. Sarà un buon
libro, se riesci a scriverlo.
Ma intanto tutta la vita che hai o avrai mai, è oggi, stanotte, domani; oggi, stanotte, domani,
sempre da capo13 (lo spero): e perciò ti conviene sfruttare il tempo che hai ed esserne mol-
to grato. La faccenda del ponte potrebbe anche andar male. Per adesso non si presenta af-
fatto bene».
5. Quevedo: si tratta di Francisco de Quevedo y Vil- 10. e poi … restrizioni: il riferimento è alle restrizio-
legas, poeta e scrittore spagnolo del XVII secolo. Ro- ni imposte dal governo americano sulla possibilità
bert Jordan, prima di unirsi alle file degli anti-fran- di recarsi in Spagna dopo lo scoppio della cruenta
chisti, insegnava lingua e letteratura spagnola all’Uni- guerra civile.
versità di Missoula, una cittadina del Montana. 11. e che cosa … Repubblica: Robert si è arruolato vo-
6. Lope de Vega: Lope Felix de Vega Carpio, dramma- lontario nell’esercito antifranchista, ma adesso co-
turgo spagnolo, visse fra il 1562 e il 1635. mincia a interrogarsi sulle conseguenze della sua
7. Galdós: Benito Perez Galdós (1843-1920), roman- scelta, se sia giusto, in nome di qualsivoglia causa,
ziere spagnolo, svolse un’intensa attività nella coa- uccidere degli esseri umani.
lizione repubblicano-socialista a cavallo fra il 1907 12. facendoti un libro: sta pensando di scrivere le sue
e il 1910. memorie, una sorta di catarsi per rimettersi in pace
8. Maria … in bocca: il giovane sta ripensando al rac- con la coscienza.
conto di Maria che era stata brutalmente violentata 13. Ma intanto … da capo: spera che la sua vita con-
nella prigione di Valladolid da un gruppo di franchisti. tinui e che sia tutto un susseguirsi ininterrotto di
9. rosso: comunista. oggi, stanotte, domani.
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«Ma Maria è stata perfetta. No? Come no» pensò. «Forse questo è tutto quello che avrò ora,
dalla vita. Forse questa è la mia vita, e invece di durare settant’anni, sarà quantott’ore, op-
pure settanta ore, o anche dodici. Il giorno ha ventiquattr’ore e tre giorni interi sono settan-
tadue ore».
«Suppongo che è possibile vivere una vita piena in settanta ore come in settant’anni, posto
che uno abbia vissuto pienamente fino al momento che le settanta ore cominciano, e abbia
già una certa età».
[Trad. di M. Martone]
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La forma
Il linguaggio del libro è strettamente connesso alla sua intima struttura: estendendo
per più di cinquecento pagine una vicenda che dura soltanto settanta ore, lo scritto-
re gli conferisce un ritmo espressivo fluido e disteso, ricco di particolari. Le vicende
narrate, i dialoghi e i numerosi monologhi interiori (soprattutto di Robert) hanno una
successione lenta e cadenzata con un tono spesso elegiaco, dovuto in parte all’impres-
sione, più o meno comune a tutti i personaggi del libro, che la guerra si stia metten-
do male, e in parte all’esperienza diretta dell’autore che prese parte al conflitto, vi-
vendo in prima persona la cocente delusione della sconfitta popolare.
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Capitolo
8 JACK KEROUAC
La vita e le opere Jack Kerouac nasce il 12 marzo 1922 a Lowell, piccola cittadina del Mas-
sachusetts, da genitori franco-canadesi, per cui non imparerà l’inglese fino all’età di sei anni,
quando comincerà ad andare a scuola. La sua abilità atletica gli consente di vincere una bor-
sa di studio per proseguire gli studi alla Columbia University; qui incontra Allen Ginsberg
(il poeta dell’Urlo), Neal Cassady (uno stravagante anticonformista di Denver) e William
Burroughs (lo scrittore di La scimmia sulla schiena), tre giovani studenti “depravati” —
come ebbe a definirli il padre di Kerouac — che saranno fra i più noti intellettuali della Beat
Generation. Le cose però non vanno bene, Kerouac litiga con l’allenatore che si rifiuta di far-
lo giocare; suo padre perde la tipografia e sprofonda nell’alcolismo e il giovane, disilluso e
sconfitto, lascia l’università. Cerca di arruolarsi nell’esercito (la seconda guerra mondiale è
ormai cominciata), ma, vista respinta la sua richiesta per motivi di salute, s’imbarca con la
Marina Mercantile. Quando non è in navigazione girovaga per gli Stati Uniti, il Messico, il
Nord-Africa e l’Europa, spesso in compagnia dei suoi amici, Ginsberg, Cassady e Burroughs.
Kerouac aveva già cominciato a scrivere il suo primo romanzo, sulle orme di Thomas Wol-
fe (lo scrittore statunitense famoso per la sua lunga serie di romanzi autobiografici caratte-
rizzati da un esuberante lirismo), sui tormenti che stava soffrendo nel tentativo di bilancia-
re il suo “selvaggio” stile di vita con i valori familiari. Agli amici il manoscritto piace molto e
Ginsberg chiede ai suoi professori della Columbia di aiutarli a trovare un editore: nascerà
così il primo e più convenzionale dei romanzi di Kerouac, La città e la metropoli (1950),
che gli vale rispetto e considerazione come scrittore, anche se non lo renderà famoso. Pas-
serà molto tempo prima di una sua successiva pubblicazione; infatti in quegli anni il nostro
autore gira per gli Stati Uniti in compagnia del suo amico Neal Cassady e cerca di racconta-
re proprio di questi viaggi, sperimentando nuove forme di scrittura, in parte ispirate dalla
prosa spontanea e senza pretese delle lettere di Cassady. Il risultato di questi anni di speri-
mentazione darà vita al suo romanzo più famoso, Sulla strada (1957).
Trascorre buona parte degli anni Cinquanta vagabondando per il paese; in uno dei suoi viag-
gi a San Francisco conosce Gary Snyder, giovane poeta zen (la scuola buddhista che valoriz-
za la contemplazione senza oggetto concreto per conseguire l’illuminazione) con cui intra-
prende un’allegra scalata nella valle dello Yosemite, in California, alla ricerca della realizza-
zione spirituale. Da questa esperienza nasce il romanzo I vagabondi del dharma (1958).
Nel tentativo di vivere secondo l’immagine “selvaggia” che aveva dato in Sulla strada, Kerouac
inizia a bere, abbrutendosi sia spiritualmente che fisicamente; anche il buddhismo finisce per
deluderlo e i suoi amici cominciano a considerarlo instabile e bisognoso di cure. Pubblica
molti libri in questo periodo — I sotterranei (1958) e Big Sur (1962) per fare qualche
esempio — ma la maggior parte di essi è stata scritta durante i primi anni Cinquanta, quan-
do lo scrittore non riusciva a trovare un editore. Kerouac continua a tenersi occupato: ap-
pare in programmi televisivi, scrive articoli per riviste letterarie; ma il suo momento di scrit-
tore fecondo e ispirato è chiuso definitivamente. Deluso e sconfitto lascia la California e va
a vivere con la madre a Long Island; continua a scrivere, ma i suoi lavori successivi, come
Vanità di Duluoz (1968), sono la testimonianza di un’anima smarrita, un essere umano tri-
stemente perso nelle sue stravaganti illusioni. Distrutto dall’alcool, muore a St. Petersburg
(Florida) dove si era trasferito con la madre e la sua terza moglie, nel 1969, all’età di qua-
rantasette anni.
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Il profilo Jack Kerouac conia il termine di Beat Generation durante una delle sue tante con-
versazioni con gli amici; così si comincia a definire Ginsberg, Burroughs e Snyder scrittori
della Beat Generation e, dal momento che essi si riferiscono costantemente a Kerouac come
allo scrittore più dotato del gruppo, qualche editore inizia a manifestare interesse per quei
manoscritti, fino a quel momento abbandonati e indesiderati, e finalmente viene pubblica-
to Sulla strada. Quando il libro diventa uno straordinario e popolare successo Kerouac non
sa proprio come reagire; amareggiato da anni di rifiuti e bocciature, non riesce proprio a re-
citare la parte del giovane beat per il suo pubblico: è più vecchio e più triste di quanto ci si
possa immaginare, per quanto ancora intelligente e acuto. I critici, obiettando a quella che
consideravano una moda passeggera, rifiutano di prendere sul serio lo scrittore e comincia-
no a ridicolizzarne il lavoro, provocando pesanti lacerazioni nel suo animo: sicuramente,
come anche Kerouac riconosceva, quella della Beat Generation era una moda passeggera; lo
stesso, però, non poteva dirsi per la produzione letteraria.
In effetti l’improvvisa celebrità di Kerouac fu la cosa peggiore che potesse capitargli, alme-
no a giudicare dall’impressionante declino morale e spirituale degli anni immediatamente
successivi; egli espresse la sua infelicità mettendosi completamente a nudo nella sua ope-
ra, ma non fu preso sul serio e anche il suo tentativo di sottrarsi ai fumi dell’alcool, andan-
do a vivere in un posto isolato fra le montagne per ritrovare il suo talento letterario, si con-
cluse con un fallimento; l’immensa natura che lo circondava scavò, infatti, un grande vuoto
dentro di lui ed egli ritornò a San Francisco per raggiungere l’oblio attraverso l’alcool.
Nonostante lo stereotipo beat che lo accompagnò per tutta la vita, Kerouac in realtà era un
conservatore, anche a causa dell’influenza di sua madre, fervente cattolica. Non appena la
Beat Generation degli anni Cinquanta cominciò a cedere il passo agli hippy degli anni Ses-
santa, lo scrittore, infatti, provò un piacere quasi perverso a opporsi a tutto quello per cui
combattevano gli hippy.
Molte sono le caratteristiche della cosiddetta scrittura beat, segnata da angoscia e rabbia;
per Kerouac essa rappresentò essenzialmente il prodotto di uomini e donne che deside-
ravano disperatamente essere in movimento. Il suo idealismo romantico non era radica-
to in nessuna certezza o consapevolezza, la vita era da viversi sulla strada, viaggiando per
miglia e miglia ascoltando Miles Davis (il famoso trombettista jazz) alla ricerca della bel-
lezza nascosta nelle terre desolate di ogni paese, per dipingere meravigliosi paesaggi del
pensiero.
Approfondimento
Lo spiritualismo di Kerouac
Risulta fondamentale, per le origini culturali della stagione di San Francisco, l’apporto del-
le civiltà orientali, cioè il suo sguardo all’oriente. La costa di New York è infatti influenza-
ta storicamente dal continente europeo e dalla cultura nera diventata afroamericana. È nel
contesto californiano che poteva dunque sedimentare, e poi esplodere, lo spiritualismo di
Kerouac. La sua impostazione parabuddhista, o buddhista-cattolica, portava a un rifiuto ra-
dicale del capitalismo materialistico americano. Al servizio militare Jack venne riformato
in quanto personalità schizoide; l’establishment americano non era pronto ad accoglierlo,
prima ancora che a comprenderlo: richiami simili alla libertà interiore sono mine micidiali
all’assetto economico e sociale dell’occidente. Niente più dello Zen potrebbe essere danno-
so al nostro circuito di produzione e consumo «liberale».
La spiritualità antimaterialistica è inseparabile da Kerouac e Kerouac lo è dalla spiri-
tualità dei “figli dei fiori”, primi e quasi unici seguaci di un sistema di vita alternativo
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gli anni Sessanta. Eppure, nonostante siano passati quasi cinquant’anni dagli eventi narrati,
i sentimenti, le idee e le esperienze presenti nel romanzo sono ancora straordinariamente at-
tuali come espressioni di un’irrequieta, idealistica gioventù che anela a qualcosa di più del
blando conformismo di una società complessivamente prospera.
La trama Nell’inverno del 1947 lo scapestrato e irrequieto Dean Moriarty (dietro le cui sem-
bianze si nasconde proprio Neal Cassady), appena uscito di galera e con una nuova moglie al
seguito, arriva a New York, dove incontra Sal Paradise (Kerouac), un giovane scrittore, e il suo
gruppo di amici intellettuali, tra i quali spicca il poeta Carlo Marx (Allen Ginsberg). Sal si la-
scia prendere dal fascino trasgressivo di Dean e insieme partono per una serie di viaggi che li
porteranno ad attraversare tutto il paese. Grazie a corse in autobus e ad avventurosi autostop,
Sal riesce ad arrivare al tanto agognato West fino a Denver (Colorado), per poi proseguire da
solo, giungendo persino a lavorare nelle campagne della California pur di continuare il viag-
gio. Dopo un anno, Dean raggiunge il suo amico e gli sconvolge la vita ancora una volta, tra-
scinandolo in una serie di avventure sempre più incredibili, fino a raggiungere Bull Lee (Wil-
liam Burroughs), il loro mentore, a New Orleans. L’inverno successivo è Sal a raggiungere Dean
a New York, dove rimangono per un po’ prima di ricominciare a vagabondare per il paese, da
Denver a Città del Messico, passando per San Francisco.
[Sulla strada]
I quindici giorni seguenti restammo1 insieme nella buona e nella cattiva sorte. Quando ci
svegliammo decidemmo di andare insieme con l’autostop fino a New York2; lei sarebbe sta-
1. restammo: il narratore è Sal e si riferisce alla de- 2. decidemmo … New York: i due ragazzi si trovano a
cisione, presa insieme a Terry, di restare insieme. Los Angeles e decidono di andare a New York.
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ta la mia ragazza in città. Previdi inaudite complicazioni con Dean e Marylou3 e tutti: una
stagione, una stagione nuova4. Prima dovevamo guadagnarci i soldi necessari per il viaggio.
Terry s’era messa in testa di cominciare subito con i venti dollari che mi erano rimasti. A me
non andava. E, da perfetto idiota, considerai il problema per due giorni, mentre leggevamo
le offerte di lavoro di certi assurdi giornali di Los Angeles che non avevo mai visti prima in
vita mia, nelle tavole calde e nei bar, finché i miei venti dollari si ridussero a dieci o poco più.
Eravamo molto felici nella nostra cameretta d’albergo. Io mi alzavo nel cuor della notte per-
ché non riuscivo a prender sonno, tiravo le coperte fin sulle nude spalle brune della mia pic-
cola, e scrutavo la notte di Los Angeles. Che notti brutali, ardenti, lamentose di sirene! Pro-
prio dall’altra parte della strada c’erano guai. Una vecchia casa d’affitto cadente e malridot-
ta era la scena di una specie di tragedia. L’auto della polizia era ferma, là sotto, e i poliziotti
stavano interrogando un vecchio coi capelli grigi. Dall’interno giungevano singhiozzi. Pote-
vo sentire tutto, insieme col ronzio dell’insegna al neon del mio albergo. Non mi ero mai sen-
tito così triste in vita mia.
Los Angeles è la più deprimente e brutale città d’America; New York è fredda da morire
nell’inverno, ma in alcune strade c’è in fondo un senso di rude cameratismo. Los Angeles è
una giungla.
South Main Street, dove Terry e io andavamo a passeggio con panini imbottiti di salsiccia,
era una fantastica fiera di luci e di frenesia. Poliziotti in stivaloni perquisivano qualcuno pra-
ticamente in ogni angolo. Sui marciapiedi formicolavano gli individui più malridotti del pa-
ese: tutti sotto quelle dolci stelle della California meridionale che si perdono nell’alone di
quell’enorme accampamento nel deserto che è in realtà Los Angeles. Si poteva sentire odo-
re di tè, di erba, voglio dire di marijuana, aleggiare nell’aria, insieme con quello dei pepero-
ni con fagioli e della birra. Quel grande indiavolato fluttuare di be-bop5 echeggiava dalle bir-
rerie; mescolava insieme fantasie di canzoni di cow-boy e boogie-woogie6 d’ogni genere nel-
la notte d’America. Tutti assomigliavano a Hassel7. Negri sfrenati con berretti da suonatori
di be-bop e pizzetto passavano ridendo; poi avventurieri stracciati coi capelli lunghi venu-
ti dritti da New York per la Statale 66; poi vecchi topi del deserto che portavano cartocci ed
erano diretti verso una panchina del parco al Plaza8; poi pastori metodisti9 con i polsini sfi-
lacciati, e ogni tanto qualche santone tipo «Nature Boy10» con barba e sandali. Avrei voluto
conoscerli tutti, parlare con tutti, ma Terry e io eravamo troppo occupati a cercar di guada-
gnare qualche soldo insieme.
Andammo a Hollywood per cercar lavoro nella drogheria all’angolo fra il Sunset e la Vine11.
Quello sì che era un posto! Famiglie numerose che uscivano da automobili scassate provenien-
ti dall’interno stavano qua e là sui marciapiedi a bocca aperta con la speranza di vedere qual-
che stella del cinema, ma la stella del cinema non spuntava mai. Quando passava una macchi-
na di lusso correvano come pazzi sull’orlo del marciapiede e si chinavano a guardare; un tipo
3. Dean e Marylou: si tratta del suo amico e idolo 7. Hassel: Elmer Hassel è un amico di cui Sal e Dean
Dean Moriarty e della sua prima moglie, un’oca giu- hanno perso le tracce e che cercano ovunque vanno.
liva bionda come la definisce lo stesso Sal. 8. Plaza: l’Hotel Plaza.
4. e tutti … una stagione nuova: si manifesta il desi- 9. pastori metodisti: sacerdoti della chiesa metodi-
derio prepotente di scappar via alla ricerca del nuo- sta, una dottrina protestante.
vo, del diverso, anche a fronte di discussioni con gli 10. Nature Boy: un nuovo movimento spirituale che
altri compagni di viaggio. predicava il ritorno alla natura.
5. be-bop: la prima forma di jazz moderno, nato in 11. Andammo … Vine: Sal e Terry decidono di anda-
America negli anni Quaranta. re a Hollywood, centro cinematografico mondiale; il
6. boogie-woogie: tipo di jazz, originariamente pia- Sunset Boulevard è la strada più nota, quella che col-
nistico, con cui si eseguono temi di blues; con lo stes- lega Hollywood con la spiaggia di Malibù; nella Vine
so nome si indica anche il tipo di ballo che da esso Avenue erano situati alcuni di quei famosi studi ci-
derivò. nematografici.
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in occhiali scuri sedeva dentro con una bionda ingioiellata. «Don Ameche! Don Ameche12!».
«No, George Murphy! George Murphy13!». Si affollavano intorno, guardandosi fra loro. Giova-
ni pederasti14 di bell’aspetto che erano venuti a Hollywood per fare i cow-boy camminavano
qua e là, umettandosi15 le sopracciglia con le dita affusolate. Le più belle ed eccezionali fan-
ciulle del mondo passavano in pantaloni; erano venute per far le stelline16, finivano col lavo-
rare in qualche cinema all’aperto. Terry e io cercammo di ottenere un lavoro nei cinema all’aper-
to. Non riuscimmo a cavare un ragno dal buco. Hollywood Boulevard era un’immensa, striden-
te frenesia di automobili; succedevano piccoli incidenti in ragione di almeno uno il minuto17;
tutti correvano via verso la palma più lontana: e oltre a quella c’erano il deserto e il vuoto. Gli
imbecilli di Hollywood stavano fermi davanti ai ristoranti alla moda, discutendo esattamente
allo stesso modo degli imbecilli di Broadway18 al Jacob’s Beach19, a New York, solo che qui in-
dossavano abiti leggeri e il loro linguaggio era più spregiudicato. Predicatori alti, cadaverici,
passavano scandalizzati. Donne grasse e urlanti correvano attraverso il marciapiede a metter-
si in fila per gli spettacoli di domanda e risposta20. Vidi Jerry Colonna21 che comprava una mac-
china alla Buick Motors; stava dietro la larga vetrina di cristallo malato22, torcendosi i baffi.
Terry e io mangiammo in una tavola calda del centro decorata in modo da sembrare una grot-
ta, con mammelle di metallo che schizzavano acqua dappertutto e grandi impersonali dereta-
ni di pietra appartenenti a qualche deità23 e a un Nettuno24 scivoloso.
La gente consumava lugubri pasti attorno alle cascate d’acqua, i volti verdi di dolore mari-
no. Tutti i poliziotti di Los Angeles parevano prestanti gigolò25, evidentemente erano venu-
ti a Los Angeles per fare del cinema. Tutti erano venuti per fare del cinema, persino io. Ter-
ry e io ci riducemmo alla fine a cercar lavoro in South Main Street26, fra i commessi falliti e
le lavapiatti che non facevano mistero del loro fallimento, e anche lì non ci fu verso. Aveva-
mo ancora dieci dollari.
«Mio caro, mi farò dare i miei vestiti da mia sorella e andremo con l’autostop fino a New
York» disse Terry. «Andiamo, amico. Facciamo così. Se non sai ballare il boogie, ho idea che
sarò io che te l’insegnerò». Quell’ultima parte era una sua canzone che lei cantava sempre.
Andammo in fretta e furia alla casa di sua sorella in mezzo alle cadenti baracche messicane
da qualche parte dietro Alameda Avenue27. Aspettai in un vicolo buio dietro le cucine mes-
sicane perché sua sorella non doveva vedermi. Cani passavano di corsa. C’erano piccole lam-
pade che illuminavano i vicoli angusti28 come topaie. Potevo sentire Terry e sua sorella di-
scutere nella notte dolce, calda. Ero pronto a tutto.
Terry uscì di là e mi portò per mano fino a Central Avenue, ch’è l’arteria principale della gen-
te di colore di Los Angeles. E che luogo fantastico è, con certe specie di pollai29 così piccoli
da contenere appena un giradischi a gettoni, e il giradischi che non fa altro che lanciare blues,
be-bop e swing30. Salimmo su per le scale sudicie di un casone e arrivammo alla camera
12. Don Ameche: celebre attore degli anni Cinquan- 22. cristallo malato: cristallo impuro.
ta, nel 1994, è stato l’interprete di Una moglie per 23. deità: divinità.
papà con Whoopi Goldberg. 24. Nettuno: dio del mare nella mitologia romana.
13. George Murphy: un altro attore molto popolare 25. gigolò: il termine si usa per indicare giovanotti
in quegli anni. mantenuti da donne più anziane.
14. pederasti: omosessuali. 26. South Main Street: strada di un quartiere popo-
15. umettandosi: bagnandosi leggermente. lare, ben lontana dai fasti hollywoodiani.
16. per far le stelline: per diventare famose attrici del 27. Alameda Avenue: zona del quartiere messicano;
cinema. la comunità messicana è molto numerosa nella cit-
17. in ragione … il minuto: c’era almeno un inciden- tà di Los Angeles.
te al minuto. 28. angusti: stretti.
18. Broadway: è la zona dei teatri e dei cinema a New 29. pollai: piccoli bar della zona.
York, assimilabile per certi versi a Hollywood. 30. blues … swing: il blues è un genere vocale e stru-
19. Jacob’s Beach: noto locale di New York. mentale, espressione dei neri d’America; lo swing è
20. gli spettacoli di domanda e risposta: i quiz. un particolare stile di jazz, tipico degli anni Trenta e
21. Jerry Colonna: un’altra star dell’epoca. Quaranta.
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dell’amica di Terry, Margarina, che doveva restituirle una gonna e un paio di scarpe. Marga-
rina era una mulatta adorabile; suo marito era nero come il carbone e gentilissimo. Andò
subito fuori a comprare un mezzo litro di whisky per ricevermi come si doveva. Feci il ten-
tativo di pagar la mia parte, ma lui disse di no. Avevano due bambinetti. I ragazzini saltava-
no sul letto; era il loro angolo dei giochi. Mi misero le braccia al collo e mi guardarono con
stupore. La pazza notte ronzante di Central Avenue – la notte di Central Avenue Breakdown
di Lionel Hampton31 – ululava e rintronava là fuori. Cantavano nei corridoi, cantavano dal-
le finestre, infischiandosi di tutto e prendendo la vita come veniva. Terry si prese i suoi abi-
ti e salutammo. Andammo giù in uno di quei pollai e suonammo qualche disco sul grammo-
fono a gettone32. Una coppia di figuri negri mi sussurrarono qualcosa all’orecchio a propo-
sito di droga. Un dollaro. Io dissi okay, che la portassero. Lo spacciatore venne e mi fece cen-
no di andare nella toilette giù nell’interrato, dove io rimasi a guardarmi stupidamente in
giro mentre quello diceva: «Prendi su, amico, prendi su».
«Prendo su cosa?» chiesi.
Quello aveva già il mio dollaro. Aveva paura di indicare il pavimento. Non era nemmeno un pa-
vimento, erano sole le fondamenta. Là c’era buttato qualcosa che pareva un piccolo rotolo bru-
no. L’uomo si comportava con una prudenza assurda. «Devo stare in guardia, le cose non van-
no mica tanto lisce questa settimana». Raccolsi il rotolino, che era una sigaretta fatta con car-
ta da pacchi, e tornai da Terry, e via ce ne andammo alla camera d’albergo per inebriarci. Non
successe niente. Era tabacco Bull Durham33. Magari fossi stato più accorto con i miei soldi.
Terry e io dovevamo assolutamente decidere una volta per tutte che cosa fare. Decidemmo
di andare con l’autostop fino a New York con quei pochi soldi che ci rimanevano. Quella sera
lei si fece dare cinque dollari da sua sorella. Ne avevamo circa tredici o forse meno. Così, pri-
ma di dover pagare il conto della stanza per il nuovo giorno, facemmo le valigie e partimmo
su una macchina rossa per Arcadia, in California, dove, sotto le montagne incappucciate di
neve, c’è l’ippodromo di Santa Anita. Era sera? Eravamo diretti verso il continente america-
no. Tenendoci per mano, camminammo per parecchi chilometri lungo la strada per uscire
dalla zona abitata. Era un sabato sera. Ci fermammo sotto un lampione, facendo segni col
pollice, quando all’improvviso passarono rombando alcune macchine piene di ragazzi con
stelle filanti svolazzanti. «Evviva! Evviva! Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!» gridavano tutti.
Poi lanciarono urli al nostro indirizzo e trovarono ch’era buffissimo vedere un giovanotto e
una ragazza sulla strada. Ne passarono a dozzine, di automobili del genere, cariche di volti
imberbi34 e di “giovani voci in falsetto”, proprie di quell’età. Io li odiavo tutti, uno per uno.
Chi credevano di essere, che facevano versi alla gente sulla strada solo perché erano degli
studenti mocciosi e i loro genitori potevano permettersi di affettare l’arrosto nel pranzo do-
menicale? Chi credevano di essere, che prendevano in giro una ragazza ridotta in misere
condizioni con un uomo che voleva amarla? Noi pensavamo ai fatti nostri. E non ottenem-
mo neanche un benedetto passaggio. Ci toccò tornare in città, e quel c’è peggio avevamo bi-
sogno d’un caffè e fummo così scalognati da andare nell’unico posto aperto, ch’era un chio-
sco di bibite di una scuola media, e là c’erano tutti i ragazzini, i quali si ricordarono di noi.
Adesso si accorsero che Terry era messicana, un gatto selvatico di Pachuco35, e che il suo ra-
gazzo era ancor peggio.
31. la notte … Lionel Hampton: lo scrittore cita una 34. volti imberbi: volti di giovanotti ancora privi di
famosissima canzone del grande musicista jazz Lio- barba.
nel Hampton. 35. gatto selvatico di Pachuco: epiteto affibbiato ai
32. grammofono a gettone: juke-box. messicani dal nome della cittadina Pachuca, passa-
33. tabacco Bull Durham: al posto della marijuana ta per estensione a indicare tutto il Messico.
che si aspettava, Sal aveva ricevuto del comunissi-
mo tabacco.
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Lei abbandonò il locale tenendo sollevato il suo grazioso nasino e vagammo insieme nel buio
lungo i fossati delle autostrade. Io portavo le valigie. Il nostro fiato fumava nell’aria fredda
della notte. Decisi infine di nascondermi dal mondo insieme con lei ancora per una notte, e
che il mattino andasse pure all’inferno. Entrammo nel cortile di un autostello36 e affittam-
mo un piccolo comodo ambiente per circa quattro dollari: doccia, asciugamani da bagno, ra-
dio incassata nel muro, e tutto. Ci tenemmo stretti stretti. Facemmo lunghi, seri discorsi e
prendemmo il bagno e discutemmo di tante cose con la luce accesa e poi la luce spenta. Si
stava provando qualcosa, io la stavo convincendo di qualcosa, che lei accettò, e concludem-
mo il patto nel buio, affannati, poi soddisfatti, come agnellini.
Al mattino attuammo baldanzosamente il nostro nuovo piano. Avremmo preso un autobus
fino a Bakersfield37 e avremmo lavorato a raccogliere uva. Dopo alcune settimane di questo
ci saremmo diretti a New York come si doveva, con l’autobus. Fu un meraviglioso pomerig-
gio, viaggiare con Terry fino a Bakersfield: sedevamo di dietro, ci riposavamo, chiacchiera-
vamo, vedevamo passare la campagna, e non ci preoccupavamo di niente.
[Trad. di M. De Cristofaro]
36. autostello: albergo con parcheggio, situato su 37. Bakersfield: cittadina vicino a Los Angeles.
grandi vie di comunicazione e frequentato perlopiù
da automobilisti; motel.
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sperato bisogno. Il viaggio prosegue in autostop e i due si scontrano anche col razzi-
smo dei figli di papà che sfrecciano in macchine decappottabili, che non si degnano
di prenderli su e che apostrofano Terry in malo modo. Decidono allora di fermarsi in
un motel e di proseguire il viaggio in autobus l’indomani mattina; l’atmosfera così
cambia ancora, i toni si smorzano, le luci si affievoliscono e i due ragazzi sembrano
trovare un po’ di pace nel reciproco abbandono di anime e corpi.
La forma
I continui passaggi di scena e cambiamenti di paesaggio sono tipici della prosa di Ke-
rouac, caratterizzata da un linguaggio che sembra fluire indisturbato dalla mente
dell’autore. Non ci sono periodi rigidamente separati da virgole o punti, bensì pause
segnate dal respiro, come avviene in un qualsiasi discorso orale; non c’è un argomen-
to selezionato in precedenza e scandagliato nella complessità delle sue sfaccettature,
ma un fluido seguire le libere associazioni della mente, con nessun’altra regola che
quella di andar dietro al ritmo retorico delle frasi.
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Capitolo
9 TENNESSEE WILLIAMS
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Il profilo Uno dei più grandi drammaturghi d’America e certamente il più grande mai
venuto dal Sud, Tennessee Williams fu autore di sceneggiature per il cinema e per la tele-
visione, ma deve la sua fama principalmente alle opere teatrali che egli ambienta quasi
esclusivamente in quel Sud che, oltre ai natali, gli diede la vita artistica. Le opere che in-
fluenzano maggiormente la sua arte furono quelle del poeta e drammaturgo spagnolo Gar-
cía Lorca; di Arthur Rimbaud, il poeta maledetto; del poeta tedesco Rainer Maria Rilke; di
quello statunitense Hart Crane e dello scrittore inglese D. H. Lawrence. Questi autori, pie-
tre miliari nella storia della letteratura mondiale, gli forniscono le direttive per incanala-
re il flusso della sua ispirazione: l’esplorazione profonda dell’animo femminile, il contra-
sto tra sogno e realtà, l’analisi accurata della violenza primitiva che mina le basi della so-
cietà civile.
Anche la famiglia ebbe una notevole influenza sul suo teatro: la vita a casa Williams scorre-
va fra continue tensioni e violenti litigi dei genitori, due persone di indole così diversa, che
spaventavano a morte Rose, la sorella maggiore, al punto tale che un giorno finì per scappa-
re di casa; la predilezione del padre per il bere e il gioco d’azzardo (abitudini che più tardi
affliggeranno lo stesso Tennessee) causò scandali e pettegolezzi in tutte le città in cui visse-
ro costringendoli a trasferirsi ben sedici volte in quindici anni; ma un evento che turbò pro-
fondamente il giovane e lasciò tracce evidenti nella sua opera fu la lobotomia praticata alla
sorella. Nel 1937, dopo una serie di soggiorni in diversi ospedali psichiatrici, Rose fu sotto-
posta a un intervento chirurgico al cervello per molti anni considerato l’unica alternativa in
forme particolarmente gravi di malattie mentali: Rose non manifestò più disordini fisici o
mentali, ma perse anche ogni forma di vitalità, riducendosi a mero vegetale. Vent’anni dopo
l’operazione Tennessee scrisse Improvvisamente, l’estate scorsa, rivelando i terribili detta-
gli di quel periodo della sua vita.
La vita dello scrittore fu una continua battaglia contro la depressione; in giovane età soffrì
di un esaurimento nervoso che lo faceva vivere con la paura costante di diventare malato di
mente come la sorella e per lunghi periodi dovette lottare contro l’assuefazione alle medi-
cine che prendeva per combattere questa malattia dell’anima e contro l’alcol che beveva per
stordirsi. Un altro pensiero lo torturava, quello di aver abbandonato Frank Merlo nel mo-
mento del bisogno. Williams aveva incontrato Merlo nel 1947, quando viveva a New Orleans,
e se n’era innamorato; i due avevano trascorso lunghe vacanze in Italia (Merlo era di origi-
ni siciliane), dove lo scrittore aveva colto quella passione per la vita che cercherà di ripro-
durre nelle sue opere. Merlo ebbe una profonda influenza nella vita caotica di questa leg-
genda vivente del teatro, fu amico fidato e consigliere artistico, oltre che partner devoto.
Dopo quattordici anni passati insieme, la tragedia si abbatte sulla coppia e Merlo muore di
cancro ai polmoni. Inizia così un lunghissimo periodo di depressione per Williams che egli
successivamente descriverà come «l’età della pietra».
Molti biografi attribuiscono i suoi conflitti interiori alla tensione sociale derivante dall’es-
sere un omosessuale riconosciuto in un periodo di aperta ostilità nella storia americana.
L’autore, in realtà, fu il cronista delle tensioni esistenti tra quella che egli considerava la ve-
rità della condizione umana e il mito paranoico creato dal suo paese. Il suo lirismo roman-
tico anela al raggiungimento della perfezione dell’individuo nella società; il suo pregiudizio
neoromantico, messo a confronto con l’assurdo, sottrae alla società i suoi individui che, da-
vanti all’alienazione sociale, si pongono mille interrogativi, arrivando a scuotere le fonda-
menta di verità assolute quali Dio e amore, vita e morte.
Come drammaturgo, scrittore di sceneggiature, poeta e saggista, Tennessee Williams tra-
sformò l’idea stessa di letteratura del Sud, non solo aprendo la strada a nuovi scrittori, ma
anche aiutando il Sud a trovare una voce forte laddove esisteva un esile sospiro.
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I temi Siamo a New Orleans, in quel Sud dove è ambientata gran parte delle commedie di
Williams, e i temi che il dramma presenta sono ancora una volta quelli del sesso e della vio-
lenza. Qui come altrove, al centro della scena, è una figura di donna, alcolizzata e ninfoma-
ne sino alla follia. Il Sud che l’autore rappresenta non è immerso in un concreto tessuto di
circostanze storiche: è un luogo favoloso e mitico in cui l’essere umano celebra la sua deca-
denza e la sua fine. I giovani inquieti e malati che popolano le sue commedie, le sue donne
perdute che cercano disperatamente di ritrovare se stesse attraverso il recupero della ma-
ternità, sono i simboli di una tragedia che non appartiene esclusivamente all’America, ma è
propria della vita stessa. È proprio questo il maggior pregio del teatro di Williams, la capa-
cità di valicare i confini spazio-temporali e mettere in scena l’universalità dell’esperienza
umana.
La trama Siamo ai primi di maggio e sul far della sera compare, in un quartiere povero di
New Orleans, Blanche Dubois, alla ricerca della sorella e del marito che si sono stabiliti lì dopo
il matrimonio. Stanley Kowalski, il marito di Stella — la sorella che Blanche è andata a tro-
vare — è il classico maschilista che considera le donne meri oggetti di piacere; è rude e vol-
gare, esattamente l’opposto dell’affascinante Blanche, classica bellezza aristocratica, raffi-
nata, colta e sensibile, tutta persa nel suo mondo d’illusioni. I problemi cominciano con la for-
zata convivenza dei due, quando i contrasti fra il concreto, seppur brutale, mondo di Stanley
si scontra con il castello di finzioni nel quale sembra vivere Blanche. La ragazza cerca dispe-
ratamente di fuggire dal suo passato, ma Stanley la riconduce bruscamente alla realtà, spo-
gliandola e non solo metaforicamente, di tutti gli orpelli che la poverina aveva utilizzato per
abbellire la sua storia. La sua unica possibilità di ricostruirsi una vita, con un amico del co-
gnato, viene miseramente distrutta da quest’ultimo che rivela al compagno i sordidi dettagli
del passato di Blanche. L’ultima scena del dramma ci mostra la sconfitta della ragazza: vio-
lentata dal marito della sorella (troppo passiva e combattuta fra il mondo aristocratico da
cui proviene e quello violento e materiale del marito per poter esserle d’aiuto), viene porta-
ta in manicomio da un dottore e un’infermiera chiamati a prelevarla, perché nessuno è dispo-
sto a crederle.
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Blanche e Stanley
La stessa notte , poche ore dopo. Mitch se ne è andato2. Blanche non ha fatto che bere. Ha trasci-
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nato il suo baule armadio nel centro della stanza. Sta lì spalancato, con vesti a fiori gettate so-
pra. A furia di fare il baule e bere, le è venuta addosso una isterica allegria; s’è infilata un abito
da sera sporco e sgualcito di satin3 bianco e un paio di sdrucite4 pantofole d’argento con i bril-
lantini ai tacchi. Ora è davanti allo specchio della toilette5 a provarsi la tiara6 di strass e mormo-
ra tutta eccitata, come se stesse in conversazione con un gruppo di invisibili ammiratori.
Blanche Chi viene a nuotare con me, sì alla Grotta del Vecchio, a quest’ora di notte, al
chiaro di luna! Ci vorrebbe un astemio, altrimenti chi guida la macchina? Ah! ah!
Un rimedio divino: ti butti, e il mal di testa è passato. Badate piuttosto, bambi-
ni, a tuffarvi dove l’acqua è profonda, se sbattete contro una roccia tornate su
domani7! (Con mano tremante solleva lo specchio a mano per guardarsi più da
vicino. Tira il fiato e sbatte lo specchio sulla toilette con tale violenza da fracassa-
re il vetro. Si lamenta, poi cerca di rialzarsi. Stanley compare sull’angolo del fab-
bricato. Indossa ancora la giacca sportiva, verde chiara fiammante. Come si af-
faccia sull’angolo, si rifà viva8. L’orchestrina continua piano per tutta la scena.
Stanley entra in cucina sbatacchiando la porta. Come si accorge di Blanche, fischia
piano. Per la strada ha bevuto e a casa s’è portato qualche quartino di birra) Come
sta mia sorella?
Stanley Si comporta bene.
Blanche E com’è il piccolo?
Stanley (con un’abile smorfia) Il piccolo, prima di domattina non esce, perciò m’hanno
detto: «Vai a casa e dormi9».
Blanche Devo arguire10 che restiamo soli?
Stanley E già. Io e te, Blanche. Soli soli. A meno che non nasconda qualcuno sotto al let-
to. Perché ti sei così impennacchiata?
Blanche Ah, già. Lei non c’era, quando mi è arrivato il telegramma.
Stanley Hai avuto un telegramma?
Blanche Ho ricevuto un telegramma da un mio antico ammiratore.
Stanley Roba buona?
1. La stessa notte: tutto era cominciato quello stes- 3. satin: tessuto di cotone morbido e lucente, simile
so pomeriggio, quando Stella stava preparando la alla seta.
cena per festeggiare il compleanno della sorella, 4. sdrucite: logore, consumate.
cena alla quale avrebbe dovuto partecipare anche 5. toilette: mobile con specchio e ripiano su cui si di-
Mitch, migliore amico e collega di Stanley, inna- spone il necessario per pettinarsi e per truccarsi.
morato di Blanche e pronto a sposarla prima che 6. tiara: copricapo ornato di gioielli, di solito diamanti.
questi gli rivelasse gli squallidi trascorsi della 7. Chi viene … su domani: Blanche è ancora sconvol-
ragazza. ta per l’incontro con Mitch e il suo distacco dalla re-
2. Mitch … andato: dopo aver disertato la sua festa altà che la circonda si fa sempre più profondo.
di compleanno, Mitch va a casa di Stanley e vi trova 8. si rifà viva: Blanche sembra tornare in sé.
Blanche che, alla fine di un violento scontro verba- 9. Il piccolo … dormi: Stella aspetta un bambino e si
le, finisce per raccontargli la verità sul suo passato, trova all’ospedale per il parto.
confermando le accuse dell’amico. 10. arguire: dedurre.
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11. Quel tale delle volpi bianche: Stanley si riferisce 13. Paffete: voce onomatopeica che riproduce il suo-
alle pellicce che Blanche ha portato con sé. no di uno schiaffo o di qualcosa che cade a terra.
12. Aga Khan: in turco significa «grande sovrano» 14. l’oro: il petrolio.
ed è un titolo che si attribuisce ai capi spirituali, che 15. se la squagliava: spariva in tutta fretta.
è poi passato a indicare una persona ricchissima e 16. pargolo: bambino.
potentissima proveniente dall’Oriente. 17. tiretto: cassetto.
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Blanche Oh!
Stanley Appena suona il telefono e dicono: «È maschio!», spacco questo, e lo inalbero
come una bandiera! (Tira fuori, scuotendola, una vivace giacca da pigiama) Tut-
ti e due abbiamo il diritto di metterci i pennacchi18! (Torna in cucina con la giac-
ca sul braccio)
Blanche Se penso che cosa divina sarà riavere una vita privata, piangerei dalla gioia!
Stanley E il miliardario di Dallas non ci si intrufola mai in questa vita privata?
Blanche Non è mica come se l’immagina lei! È un gentiluomo, questo, mi rispetta. (Im-
provvisando febbrilmente) Da me non vuole che la mia compagnia! A volte la ric-
chezza rende soli!
Stanley Questa mi giunge nuova.
Blanche Una donna colta, distinta, di intelligenza eletta, può arricchire immensamente,
la vita d’un uomo! Io ho queste cose da donare, e sono cose intangibili, la bel-
lezza dei sensi è effimera19. La possiedi, è finita. (Ha un singhiozzo soffocato) Io
mi ritengo una donna ricca, ricchissima! Ma ho commesso la stupidaggine di
gettare le mie perle ai porci!
Stanley Porci, eh?
Blanche Sì, porci, porci! E non dico tanto per lei quanto per il suo compare, il signor
Mitchell! È venuto stasera da me. Ha osato presentarsi in tuta! A ripetermi fal-
sità, sconce calunnie suggeritegli da lei! L’ho messo alla porta!
Stanley Ah sì, eh?
Blanche Ma poi è tornato. S’è ripresentato con una scatola di rose a implorare il mio per-
dono! Mi ha scongiurato. Ma certe cose sono imperdonabili. La crudeltà preme-
ditata non si perdona. È il solo peccato di cui io non mi sia mai, mai macchiata.
Questo gli ho risposto, gli ho detto: «Tante grazie», ma ero un’ingenua io a cre-
dere alla possibilità di un adattamento delle nostre due vite. Troppo distanti i
due modi di vedere. Educazione, gusti incompatibili. Di conseguenza, addio, gio-
vane amico. E non lasciamo risentimenti tra di noi.
Stanley Questo fu prima o dopo il telegramma del re del petrolio?
Blanche Che telegramma? No, no, dopo! Per essere precisi, il telegramma è arrivato pro-
prio quando…
Stanley Per essere precisi il telegramma non è mai arrivato!
Blanche Oh! Oh!
Stanley Il re del petrolio: non esiste! E Mitch non ha portato nessuna rosa, perché io lo
so dove stava!
Blanche Oh!
Stanley C’è solo la tua fantasia malata!
Blanche Oh!
Stanley Le bugie, le invenzioni, i capricci!
Blanche Oh!
Stanley Specchiati! Guardati un po’ lì in quel costume malandato da carnevale, affittato
da qualche robivecchio, e con la corona in testa come i pazzi! Che regina ti cre-
di di essere?
Blanche Oh, Dio…
Stanley Ti ho subodorato dal primo momento20. Non m’hai incantato neanche per un’ora.
Se ne viene qui a impuzzonirmi la casa di ciprie e profumi, e a mettere i lam-
18. Tutti e due … pennacchi: Stanley sostiene che tut- 19. effimera: passeggera.
ti e due hanno il diritto di mettersi in ghingheri per- 20. Ti ho … momento: ho capito subito chi eri.
ché entrambi hanno qualcosa da festeggiare.
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pioncini alle lampadine: ti giri e ti volti e ti trovi in Egitto, e lei è la regina Cleo-
patra! Spaparanzata sul trono a scolarsi i miei liquori! Io dico: Ah! ah! Mi senti?
Ah! Ah! Ah! (Entra nella camera da letto)
Blanche Non venire qui dentro! (Appaiono sulle mura attorno a lei sinistri riflessi. Ombre
minacciose e grottesche: trattenendo il respiro, corre al telefono e comincia a bat-
tere il gancio. Stanley entra nel bagno e chiude la porta) Signorina, signorina! Mi
dia l’interurbana per piacere… Voglio comunicare col signor Shep Huntleigh di
Dallas. Lo conoscono tutti: non c’è bisogno di indirizzo. Lo può domandare a
chiunque si… Aspetti! No, adesso non sono in grado di trovarlo! Cerchi di capi-
re, la prego, io… Un momento! Forse c’è qualcuno che… no, no! Aspetti! Niente!
Non riattacchi, per favore! (Depone il ricevitore e se ne va stravolta in cucina)
La notte è piena di voci inumane, come grida in una giungla. Le ombre e i riflessi sinistri lam-
biscono le mura; sinuosi come fiamme. Attraverso il muro di fondo delle due camere, che è di-
ventato trasparente, si scorge il marciapiede21. Una prostituta ha derubato un ubriaco. Lui la
insegue lungo il marciapiede; la raggiunge, vengono alle mani. Il fischio di un poliziotto li se-
para. Le figure scompaiono. Qualche minuto dopo compare una negra alla svolta dell’angolo
con una borsa di lustrini che la prostituta ha lasciato cadere sul marciapiede. La fruga con
particolare eccitazione.
Blanche (si preme le nocche contro le labbra e ritorna lentamente verso il telefono. Parla
con un roco bisbiglio) Signorina, signorina! Lasci stare l’interurbana. Mi dia l’uf-
ficio telegrafico! Non c’è tempo da perdere! Il telegrafo! Il telegrafo! (Aspetta con
ansia) Telegrafo? Sì, voglio. Scriva questa comunicazione: «Situazione dispera-
ta, tragica! Aiutami! Caduta in trappola! Caduta in…». Oh!
La porta del bagno si spalanca e Stanley esce nel brillante pigiama di seta. La guarda sogghi-
gnando, mentre si annoda attorno alla cintola il cordone col fiocco. Lei ha un sussulto e retro-
cede dal telefono. Lui la guarda; il tempo di contare dieci, poi comincia a farsi sentire nel tele-
fono un ticchettio insistente e aspro.
Stanley Non lo riattacchi il telefono? (Si avvicina lentamente e riattacca. Quindi guarda
di nuovo la donna e la bocca gli si curva in una smorfia, mentre sta incerto tra
Blanche e la porta d’uscita)
Il piano dà appena un impercettibile «sale in crescendo»22. Il suo suono si tramuta nel frastuo-
no di una locomotiva che si avvicina. Blanche si rannicchia premendosi i pugni contro le orec-
chie, finché è passato. Finalmente si solleva.
21. Attraverso il muro … marciapiede: l’appartamen- 22. Il piano … in crescendo: in questo quartiere di
to di Stella e Stanley dà direttamente sulla strada e, New Orleans c’è sempre un pianoforte che suona a
quando porte e finestre sono spalancate, non è pos- qualche porta di distanza o dietro l’angolo.
sibile alcuna intimità.
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Stanley Chi ti sbarra la strada? Io? Ah! Ah! (Il piano continua dolce. Lei si volta confusa e
fa un gesto. Le voci della giungla inumana23 incalzano. Lui fa un passo verso di lei
mordendosi la lingua. Parla adagio) Ma pensandoci bene, non è un’idea da scar-
tare, quella di sbarrarti la strada…
Blanche (indietreggia attraverso la porta nella camera da letto) Indietro! Non si avvicini
di un passo o io…
Stanley Che fai?
Blanche Qualche cosa di terribile!
Stanley Che vai farneticando adesso?
Lui fa un altro passo. Lei fracassa una bottiglia sulla tavola e gli si para davanti, con in mano
il collo rotto.
Lei geme. Il collo della bottiglia cade a terra. Lei scivola in ginocchio. Lui raccoglie il suo cor-
po inerte e la porta sul letto. La tromba e i tamburi suonano forte.
[Trad. di G. Guerrieri]
23. Le voci della giungla inumana: i rumori e i suoni del- lezza evanescente di Blanche e dal suo mondo di fia-
la notte hanno per Blanche una connotazione sinistra. ba; lei, d’altro canto, non aveva potuto fare a meno
24. Dal primo giorno … appuntamento: sin dal loro di recitare la parte della signora del Sud che strega
primo incontro Stanley era stato attratto dalla bel- tutti con il suo fascino.
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né quello brutalmente reale dei Campi Elisi potranno salvare la ragazza, perché solo
la morte sarà in grado di risolvere l’atavica contraddizione.
Il dialogo fra Stanley e Blanche si gioca tutto sui toni dell’acceso contrasto fra i rispet-
tivi mondi: quello materiale e concreto del primo, contro quello evanescente e fanta-
stico della seconda. Il conflitto fra i due può anche essere interpretato come battaglia
fra cultura femminile e libido maschile: Blanche desidera disperatamente essere ama-
ta per quel che lei crede di essere: una donna colta, distinta, di intelligenza eletta sono
le parole che lei stessa usa per descriversi; Stanley, al contrario, è un uomo dalla sen-
sualità violenta, materiale, ma pura nel suo rispondere ai bisogni più fisici e istintua-
li. In questa dura lotta fra artificialità e naturalità, Blanche è destinata a soccombere
quando Stanley le strappa di dosso il velo di finzione che ancora la ricopre e la co-
stringe a guardarsi allo specchio per prendere atto di quello che è in realtà: una po-
vera pazza alcolizzata che si è portata a letto tutti gli uomini di Belle Reve. La ragaz-
za crolla come un burattino cui hanno tagliato i fili e nel momento in cui lo scontro
passa anche sul piano fisico, la forza bruta dell’uomo ha la meglio.
La forma
Anche la prosa si muove su due registri differenti: quello elegante, pomposo e un po’
anacronistico di Blanche, e quello scontroso, fatto di lunghe pause e silenzi, alquanto
volgare di Stanley. Entrambi gli stili consentono all’autore di mettere l’accento sull’ir-
razionalità e sulla disperazione dell’umanità in un universo in cui le leggi non sem-
brano funzionare, in un esame tragi-comico dei conflitti fra la spontaneità e la genti-
lezza dei tradizionali valori del Sud e la forza bruta insita invece nei “nuovi” valori im-
portati dal Nord.
La musica gioca un ruolo importante nel dramma; è stato spesso detto, infatti, che la
musica orchestra un vero e proprio dialogo che fa da sottofondo a quello delle paro-
le: le note del pianoforte, gli squilli di tromba, il suono dei tamburi ingaggiano una
lotta che fa da contraltare a quella che si sta svolgendo in camera da letto.
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Capitolo
10 ARTHUR MILLER
La vita e le opere Arthur Miller nasce a Manhattan, uno dei più ricchi e famosi quartieri
di New York, nel 1915 da genitori ebrei emigrati negli Stati Uniti. Nel 1928 la famiglia si tra-
sferisce a Brooklyn, quartiere decisamente popolare, in seguito alla rovina dell’attività com-
merciale paterna (il padre era proprietario di un’azienda tessile) a causa della depressione
economica che in quegli anni stava investendo il paese.
Dopo essersi diplomato Miller intraprende una serie infinita di lavori per procurarsi i soldi
necessari al prosieguo degli studi. Nel 1934 si iscrive all’Università del Michigan e trascor-
re i successivi quattro anni “imparando” a scrivere e lavorando a un certo numero di com-
medie che ottengono un discreto successo. Dopo la laurea ritorna a New York e comincia a
lavorare come scrittore freelance, scrive cioè per diverse case editrici senza avere contratti
in esclusiva con nessuna di esse.
Nel 1944 la sua prima commedia, L’uomo che aveva tutte le fortune, riceve pessime re-
censioni, pur contenendo in nuce i grandi temi delle opere successive. L’anno dopo Miller
pubblica il suo primo romanzo, Focus, e nel 1947 può assistere alla rappresentazione di
Erano tutti miei figli una sua nuova opera sui palcoscenici di Broadway a New York. L’ar-
gomento, la tragedia di un industriale che vende pezzi di ricambi difettosi per aerei milita-
ri allo scopo di salvare la sua azienda, richiama un pubblico numerosissimo in un paese che
aveva affrontato la guerra e la depressione economica e il dramma segna, dunque, per l’au-
tore la strada della fama e della gloria; solo due anni dopo il grande successo di questa com-
media, Miller scrive il suo lavoro più famoso e apprezzato, Morte di un commesso viag-
giatore. Ancora una volta i temi sono quelli della disperazione e della responsabilità pater-
na di un uomo d’affari che cerca di rimettere insieme i pezzi della sua esistenza.
Sopraffatto dal clima paranoico e intollerante che sembra pervadere l’America post-bellica,
Miller comincia a lavorare al terzo dei suoi drammi maggiori. Benché sia un chiaro atto d’ac-
cusa al Maccartismo dei primi anni Cinquanta (fenomeno politico connesso alla campagna
anticomunista scatenata negli Stati Uniti, alla fine della seconda guerra mondiale, dal sena-
tore repubblicano Joseph McCarthy, che perseguitò soprattutto esponenti del mondo dello
spettacolo), Il crogiolo è ambientato a Salem, una cittadina vicino Boston, durante la “cac-
cia alle streghe” che si scatenò alla fine del XVII secolo e mostra il crescente interesse dell’au-
tore per il benessere psico-fisico della classe operaia. Al culmine di questa fase, che può de-
finirsi sociale del suo teatro, nella quale predominano i modelli ispirati al Naturalismo e
all’Espressionismo si colloca la commedia Uno sguardo dal ponte, il cui protagonista è uno
scaricatore italo-americano che concluderà tragicamente, durante una colluttazione con al-
tri membri della comunità, una vita di “perdente”.
Nel 1956 Miller è convocato davanti al Comitato per le attività anti-americane, fondato dal
senatore McCarthy. Lo scrittore ammette di aver partecipato a una serie di incontri, alcuni
dei quali sponsorizzati dal partito comunista, ma nega di esserne membro. Quando si rifiuta
di fare i nomi di altre persone che, come lui, avevano partecipato a quelle iniziative, viene ci-
tato in giudizio per “vilipendio del Congresso”; fortunatamente l’ordinanza sarà revocata due
anni più tardi. Il 1956 è anche l’anno del suo matrimonio con la diva hollywoodiana Marilyn
Monroe, matrimonio breve e tempestoso che si concluderà con un divorzio nel 1961.
Gli scritti degli anni Sessanta e Settanta non eguagliano la grandezza della sua precedente
produzione e si concentrano quasi esclusivamente sull’olocausto, per poi rivolgersi a un fi-
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lone più leggero, quello della commedia brillante. Soltanto nel 1991, con la stesura della
Passeggiata sul monte Morgan e L’ultimo Yankee, la carriera di Miller torna a risorgere.
L’autore indaga nuovamente sulle ragioni dei successi e dei fallimenti nella vita e, sull’onda
del favore ottenuto da queste ultime rappresentazioni, molti dei suoi scritti precedenti sono
rappresentati sui palcoscenici di mezzo mondo. Nel 2002 ha ricevuto il “Principe de Astu-
rias”, il prestigioso riconoscimento spagnolo per la letteratura, e con i suoi ottantasette anni
rappresenta ancora una parte attiva e importante del teatro americano.
Il profilo Drammaturgo di successo che riesce a combinare nelle sue opere consapevolez-
za sociale e profonda introspezione psicologica, Miller deve la sua fama presso il grande
pubblico soprattutto a Morte di un commesso viaggiatore e al suo matrimonio con Marilyn
Monroe. I suoi drammi, continuano quella tradizione di realismo iniziata negli Stati Uniti
nel periodo tra le due guerre. Profondamente influenzato dalla Depressione e dalla guerra
che ne seguì, l’autore attinge a quel senso d’insoddisfazione e d’irrequietezza che sembra
pervadere la coscienza americana, consentendo al suo pubblico di gettare uno sguardo lim-
pido e sincero sulla direzione che il paese stava prendendo.
L’essere testimone della decadenza della società, in conseguenza della grave crisi economi-
ca degli anni Trenta, e della disperazione di suo padre dopo la perdita della sua attività, con-
sente all’autore di sviluppare un occhio particolarmente attento ai problemi dei poveri e de-
gli emarginati. È questo il motivo per cui molti hanno definito Miller scrittore socialista e,
anche quando lettori e spettatori non hanno condiviso questa opinione, le sue opere sono
state ritenute aspramente critiche nei confronti dei valori contemporanei. È fuor di dubbio
che Miller debba essere considerato uno scrittore che vuol trasmettere un messaggio, sia
esso positivo o negativo, umanitario o socialista. I suoi drammi sono veicoli di discussioni
che affrontano temi quali la conquista della propria dignità, lo sviluppo del talento indivi-
duale e il rifiuto di lasciarsi sopraffare, ma, affinché tutto ciò sia possibile, l’individuo non
ha che una strada: riconoscere i propri limiti e adattarvisi, piuttosto che perseguire osses-
sivamente egoistiche ambizioni.
Il suo teatro è un modo di guardare all’uomo e alla sua natura come le sole fonti di quella
violenza che è sempre più vicina alla distruzione della razza; il suo è uno sguardo che non
considera le idee politiche e sociali come creatrici di violenza, ma va direttamente e profon-
damente a scandagliare la natura stessa dell’essere umano.
Insieme a Tennessee Williams, Miller ha aperto nuovi orizzonti per il teatro, dando vita a
personaggi le cui voci rappresentano una parte importante del panorama americano. Mol-
ti dei suoi lavori sono diventati film di successo diretti da prestigiosi registi, come Erano tut-
ti miei figli, Morte di un commesso viaggiatore, Il crogiolo (con il titolo La seduzione del male)
e Gli spostati, di cui scrisse la sceneggiatura creando un ruolo perfetto per Marilyn Monroe,
sua moglie all’epoca.
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sentata attraverso i continui flashback del personaggio principale che continua a oscillare fra
presente e passato, spiegando così allo spettatore le ragioni che hanno portato alla situazio-
ne attuale, decisamente esplosiva. Il nostro protagonista non è in grado di distinguere tra re-
altà e illusione e crede che lui e i suoi figli siano grandi uomini destinati al successo; in realtà,
nessun membro della famiglia può dirsi tale. Il continuo altalenare fra passato e presente è un
chiaro indizio della sua incapacità di confrontarsi con il mondo reale: Willy Loman ha perso
la sua battaglia nel cercare di tener dietro al “sogno americano”, ha lavorato tutta una vita al
servizio della democrazia e della libera iniziativa per poi ritrovarsi in mezzo a una strada,
sfruttato fino all’estremo e privo di qualsiasi altra prospettiva. In questo senso il dramma può
essere considerato come un commento dell’autore sulla società americana e sui valori sui qua-
li sembra fondarsi: il denaro, il guadagno, il successo.
I temi e la struttura Willy Loman, lo sfortunato commesso viaggiatore del titolo, per supe-
rare i fallimenti che hanno costellato la sua esistenza, si ritira nel mondo del suo passato, per-
dendo sempre di più il contatto con la realtà. La sua famiglia cerca di aiutarlo mentendo su
quelle che sono le reali prospettive per il futuro, ma quando Loman perde il lavoro, dopo una
vita intera passata al servizio della stessa compagnia, ne esce completamente distrutto. La sua
depressione è esacerbata dal senso di colpa per una precedente infedeltà che ha minato il suo
rapporto con il figlio più grande, Biff. Invece di rassegnarsi al fallimento della propria esisten-
za e accettare l’idea che il figlio prediletto non sia affatto interessato a entrare nel mondo
dell’alta finanza, Loman decide di suicidarsi, con la speranza che il denaro dell’assicurazione
aiuti Biff a diventare un uomo di successo. La rappresentazione si chiude sull’intera famiglia
che, insieme al suo unico amico, Carlo, ne piange la scomparsa.
Biff1 Lo sai perché per tre mesi non ho avuto indirizzo? Perché ho rubato un vesti-
to a Kansas City e stavo in galera! (A Linda2 che singhiozza) Che te la pigli a
fare? È finita!
Linda (Volta loro le spalle e con le mani si copre il volto)
Willy Vuoi vedere che è colpa mia!
Biff Dovunque stavo m’hanno cacciato via perché rubavo!
Willy E di chi è la colpa?
Biff E non ho combinato mai niente perché tu mi hai montato talmente tanto la te-
sta che non accettavo ordini da nessuno! Ecco di chi è la colpa!
1. Biff: è il figlio prediletto del protagonista. Il ragazzo 2. Linda: è la madre di Biff, debole figura di donna
scopre casualmente che il padre ha tradito la moglie, che non riesce a contrastare la fuga del marito ver-
allora tutto quello in cui credeva sembra crollare e i so un mondo illusorio.
rapporti tra i due si fanno estremamente difficili.
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Willy Ho capito!
Linda No, Biff!
Biff Ce l’hai fatta, porco demonio, a capirla! In due settimane dovevo diventare il
padrone del mondo, ma adesso basta.
Willy E allora impiccati! Fammi quest’ultimo dispetto, impiccati!
Biff No, Willy, nessuno s’impicca! Oggi mi sono precipitato per dodici piani con una
penna in mano. E tutt’a un tratto mi sono fermato, capisci? In mezzo alle sca-
le mi sono fermato e ho visto – il cielo. Ho visto le cose che mi piace fare a que-
sto mondo. Lavorare e mangiare e sdraiarmi, fumare una sigaretta. E stavo lì
con questa penna in mano e mi sono detto: ma che Cristo l’ho rubata a fare?
Perché sto cercando di fare il leccapiedi, quando quello che voglio è là fuori e
non aspetta altro che io dica: io sono così! Perché non lo posso dire, Willy? (Cer-
ca di mettersi di faccia a Willy, ma…)
Willy (…lo evita e si dirige a sinistra. Con odio, minacciosamente) Hai via libera!
Biff Papà! Io non valgo una cicca3! E neanche tu, papà!
Willy (Voltandosi contro di lui in uno scoppio irrefrenabile) Io valgo più di una cicca4.
Io sono Willy Loman e tu Biff Loman!
Biff (Fa per slanciarsi contro Willy ma Gio5 lo arresta. È talmente infuriato che sem-
bra sul punto di assalire il padre) Io non sono Napoleone, ma neanche tu, Wil-
ly. Tu sei un povero venditore di piazza6 che ha sgobbato tutta la sua vita per
farsi buttare nella spazzatura come tutti gli altri altri7! Non guadagno un dol-
laro all’ora! Ma sai che vuol dire? Che non porterò più trofei a casa8, e che hai
finito di aspettarli!
Willy (Direttamente a Biff) Scorpione velenoso!
Biff (Si stacca da Gio. Willy spaventato corre verso la scala. Biff lo agguanta, al col-
mo della esasperazione) Papà, io non sono nessuno! Io non valgo niente! Lo
vuoi capire? Non sono velenoso, non sono niente! Io sono così e basta! (L’ira
di Biff si è consumata e lui crolla, preso dai singhiozzi e aggrappandosi a Willy
che gli cerca la faccia sbalordito)
Willy (Non credendo ai propri occhi!) Che fai? Che fai? (A Linda) Perché piange?
Biff (In lacrime, vinto) Per amor di Dio, perché non mi lasci andare? Perché non
prendi quei sogni malefici9 e non li bruci prima che succeda qualcosa? (Cerca
di ricomporsi, si stacca da Willy e si dirige verso le scale) Parto domani mattina.
Mettetelo – mettetelo a letto. (Sfinito, sale le scale e va in camera sua)
Willy (Dopo una pausa lunga, sbalordito, confuso) È una cosa – è una cosa – spetta-
colosa! Biff, non mi odia10!
Linda Willy, ti vuol bene!
Gio (Profondamente commosso) Non ti ha mai odiato papà!
3. Io non valgo una cicca: io non valgo niente. 9. sogni malefici: Willy vuole che i suoi figli riescano
4. una cicca: un mozzicone di sigaretta. laddove lui ha fallito e non può assolutamente accet-
5. Gio: è il fratello di Biff. tare l’idea che Gio e soprattutto Biff non siano gran-
6. venditore di piazza: commesso viaggiatore. di uomini destinati al successo.
7. che ha sgobbato … come tutti gli altri: il riferimen- 10. Biff, non mi odia: Willy era convinto che il figlio
to è all’improvviso licenziamento del padre, avvenu- lo odiasse perché il ragazzo, durante un’estate pre-
to dopo più di trent’anni trascorsi al servizio della cedente, lo aveva scoperto con un’altra donna e i rap-
stessa azienda. porti tra i due si erano notevolmente raffreddati.
8. non porterò … a casa: Biff era un campione di fo- Adesso, invece, scopre con sorpresa mista a gioia che
otball nella locale squadra scolastica. non è affatto così.
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Willy Oh, Biff! (Con lo sguardo del folle) Ha pianto! Ha pianto per me! (L’amore che
ha lo soffoca, e adesso pronuncia la sua promessa) Quel ragazzo – quel ragazzo
farà una carriera magnifica11!
Beniamino (Compare in luce proprio fuori della cucina) Eccezionale: con ventimila dollari
in banca!
Linda (Avvertendo il mulinare del suo cervello, pietosa, paurosa) Vieni a letto adesso
Willy. Ormai è tutto a posto.
Willy (Dominando a stento l’istinto di correre fuori di casa) Sì, a dormire. Andiamo.
Va’ a dormire, Gio. […]
Gio Buona notte, papà. (Sale al piano di sopra)
Linda (A Willy) Vieni caro.
Willy (A Linda, mentre cammina lungo la parete della cucina verso la porta) Un mi-
nuto solo. Lascia che mi passi, Linda12. Lasciami solo un minuto.
Linda (Manifestando quasi apertamente la sua paura13) Ti voglio su.
Willy (Prendendola tra le braccia) Un momento, Linda. Adesso non potrei dormire.
Vai, hai la faccia stanca. (La bacia)
Beniamino Non è come vendere. Il diamante lo tocchi: è tuo14.
Willy Vai, vai. Vengo […]
Linda (Entra in sala da pranzo, poi ricompare in camera da letto)
Willy (Fa qualche passo fin fuori la porta della cucina) Mi vuol bene. (Assorto) Mi ha
sempre voluto bene. Non è una cosa spettacolare? Beniamino, allora adesso
mi adorerà15.
Beniamino (Invitante16) È buio laggiù ma pieno di diamanti.
Willy Te lo immagini tu, quel cannone17, con ventimila dollari in tasca? […]
Willy (Elegiaco18, rivolto alla casa) E adesso, palla al centro, ragazzo mio, e poi, via!
parti! Una bella discesa nell’area di rigore avversaria e quando devi sparare,
sparala, la cannonata forte e bassa: raso-terra è il segreto! (Si volta e vede il
pubblico) Le tribune sono piene di pezzi grossi e non puoi mai sapere19… (Im-
provvisamente si accorge di essere rimasto solo) Beniamino, Beniamino, dove
vado adesso? (Si mette improvvisamente e cercarlo) Beniamino, come faccio
adesso20?
Linda (Lo chiama) Willy, vieni su!
Willy (Trasale dal terrore, ruotando su se stesso come per imporle silenzio) Scc! (Si
gira intorno come per trovare la strada. Suoni – facce – voci è come se gli scia-
massero intorno, e lui cerca di scacciarli con gesti agitati) Scc! Scc! (Improvvi-
samente una musica acuta e fioca lo ferma. La musica si fa più intensa come un
11. Quel ragazzo … magnifica!: l’uomo torna nuo- cia a prendere corpo nella sua mente un’idea malsa-
vamente ai suoi assurdi sogni di grandezza ed ecco na che, a parer suo, gli farà guadagnare addirittura
che gli compare il fantasma del fratello Beniami- l’adorazione del figlio.
no, l’unico della famiglia ad aver avuto realmente 16. Invitante: nella mente di Willy, il fantasma del
successo. fratello sembra invitarlo nell’aldilà.
12. Lascia che … Linda: anche Willy sembra adesso 17. cannone: il riferimento è alla potenza agonistica
essere consapevole di girare in un vortice di pensie- del figlio quando giocava a football.
ri confusi che lo conducono lontano dalla realtà. 18. Elegiaco: triste, malinconico.
13. Manifestando … la sua paura: Linda è ben con- 19. E adesso … mai sapere: continua la metafora spor-
scia che il marito, quando si trova in un tale stato tiva: Willy vede Biff scendere in campo contro gli av-
d’animo, diventa pericoloso per se stesso. versari e segnare con il suo colpo segreto, una palla
14. Il diamante … è tuo: Beniamino ha fatto fortuna rasoterra lanciata a fortissima velocità.
proprio con i diamanti delle sue miniere in Africa; 20. Beniamino … come faccio adesso?: il fantasma del
essi diventano così il simbolo stesso del successo. fratello improvvisamente scompare e l’uomo si ri-
15. Mi vuol bene … mi adorerà: Willy si riferisce alla trova solo con se stesso e la sua incapacità di affron-
recente scoperta dell’amore di Biff per lui e comin- tare la realtà.
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urlo straziante. Willy si leva, poi ricasca sulla punta dei piedi. Poi corre dietro
l’angolo della casa21) Scc!
Linda Willy! (Nessuno risponde. Linda aspetta)
Biff (Scende dal letto. È ancora tutto vestito. Gio si alza a sedere. Biff tende l’orecchio)
Linda (Con vera paura) Willy! Rispondimi! Willy! (Si sente il rumore di un’automobi-
le che parte e si allontana a tutta velocità)
Linda No!
Biff (Scendendo di corsa) Papà! (Mentre l’automobile si allontana veloce, la musica22
piomba in un fracasso di suoni, che diventa vibrazione dolce di una corda di vio-
loncello. Biff risale lentamente alla sua camera da letto. Lui e Gio indossano gra-
vemente la giacca. Linda esce adagio dalla camera. La musica si è tramutata in
una marcia funebre. Le foglie del giorno23 compaiono su tutto. Carluccio e Ber-
nardo24 vestiti di scuro entrano e bussano alla porta della cucina. Biff e Gio scen-
dono lentamente in cucina mentre Carluccio e Bernardo entrano. Si fermano tut-
ti un momento quando Linda, vestita a lutto, con un piccolo fascio di rose, entra
in cucina dalla porta della sala da pranzo. Linda si avvicina a Carluccio e gli
prende il braccio. Tutti avanzano verso il proscenio25, attraverso la parete im-
maginaria della cucina. Al limite della ribalta26 Linda depone il fascio di rose.
Tutti stanno con gli occhi fissi per terra, alla tomba)
Carluccio È quasi buio, Linda.
Linda (Non si muove, sta con gli occhi fissi alla tomba)
Biff Che ne dici, mamma? Un po’ di riposo ti farà bene. Tra poco chiuderanno an-
che i cancelli.
Linda (Resta immobile. Pausa)
Gio (Con ira compressa) Che diritto aveva? Che bisogno aveva di farlo? L’avremmo
aiutato noi.
Carluccio (Con un grugnito) Mmm.
Biff Ti alzi, mamma?
Linda Perché non è venuto nessuno?
Carluccio Il funerale a me è piaciuto. […]
Linda Non capisco. Proprio adesso. La prima volta in trentacinque anni che comin-
ciavamo a liberarci dai debiti. Un piccolo stipendio ed era a posto. Aveva fini-
to perfino di pagare il dentista.
Carluccio Lo stipendio. Non basta mica, lo stipendio.
Linda Non capisco.
Biff Quanti bei giorni. Quando rientrava dal giro27; e la domenica, a fabbricare il
portico davanti a casa: o ad imbiancare la cantina, o a sistemare la veranda;
21. Trasale dal terrore … della casa: Willy è talmen- 23. Le foglie del giorno: la luce del giorno.
te immerso nel suo mondo visionario che la voce del- 24. Bernardo: è il figlio di Carlo, compagno di studi
la moglie lo fa trasalire; gli sembra di essere circon- di Biff che, contrariamente a quest’ultimo, diventa
dato da suoni e facce estranee finché non ode, solo un avvocato di successo.
nella sua testa naturalmente, una musica intensa e 25. il proscenio: la parte anteriore del palcoscenico,
straziante che lo spinge a correre fuori. compresa fra l’arco scenico e l’orchestra.
22. la musica: questa è un’indicazione didascalica 26. ribalta: lunga tavola di legno fissata al proscenio.
dell’autore il quale desidera che la sequenza sia sot- 27. Quando rientrava dal giro: quando il padre si ri-
tolineata da un certo tipo di musica che poi si tra- tirava a casa dal solito giro di lavoro.
sformerà in marcia funebre.
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[Trad. G. Guerrieri]
28. è più suo … che ha fatto: Biff apprezza le qualità 29. un cartoccio: foglio di carta ravvolta usato per
concrete del padre, la sua abilità con i lavori manua- mettervi dentro qualcosa.
li piuttosto che i presunti affari che raccontava di 30. sbrodolarti: sporcarti di brodo o di sugo mentre
aver concluso. mangi.
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fantasmi, fantastica su un futuro quanto mai irrealizzabile per il figlio, finendo per
prendere l’unica decisione possibile all’interno del castello di finzioni nel quale si è
rifugiato per riuscire a sopravvivere. Sceglie, così, di suicidarsi affinché i soldi dell’as-
sicurazione sulla vita possano consentire finalmente a Biff di diventare un grande uomo
d’affari.
La famiglia assiste impotente alla sua auto-distruzione, nell’impossibilità assoluta di
comprendere il suo folle gesto. Sarà invece l’amico di una vita, Carluccio, a spiegare
le motivazioni profonde di tutta l’esistenza di Willy Loman: Willy era un commesso
viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra… Tu lavori così, per
aria… E quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo. Carluccio esorta infine la
famiglia e Biff in particolare a non calunniarne la memoria, perché un commesso viag-
giatore deve sognare, i sogni fanno parte del mestiere. Willy non era un uomo di suc-
cesso come aveva disperatamente voluto far credere a parenti e amici e, quando vie-
ne licenziato, si mette in testa di valere più da morto che da vivo. Il suo suicidio è sta-
to visto alternativamente dai critici come l’estremo atto di vigliaccheria di un uomo
incapace di affrontare la vita, oppure come l’estremo sacrificio sull’altare del mito del
successo, arido ed effimero, privo di sentimento.
La forma
Con un forte senso di realismo e un orecchio sensibile al linguaggio familiare e collo-
quiale, Miller ha creato un personaggio che, per spessore tragico, non ha nulla da in-
vidiare ai protagonisti messi in scena da Shakespeare o da Dostoevskij. La sua inve-
stigazione profonda nella psicologia della disperazione e la sua abilità nel creare sto-
rie che esprimono i più oscuri significati dello scontro generazionale o di classe, han-
no fatto di lui uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi.
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Capitolo
11 JOHN STEINBECK
La vita John Ernst Steinbeck nasce a Salinas (California) nel 1902. Compiuti gli studi liceali,
si iscrive alla facoltà di biologia presso l’Università di Stanford, ma pur se attratto enormemen-
te da tale materia non arriverà mai alla laurea. Già durante gli anni universitari comincia a scri-
vere novelle e poemi satirici, alternando questa passione a lavori più umili e disparati: pesca-
tore, operaio, sterratore. Nel 1926 si trasferisce a New York, dove si guadagna da vivere come
giornalista. Subito ritornato in California, trascorre poi un breve periodo in Sierra Nevada, sta-
bilendosi in maniera definitiva a Pacific Grove. Nel 1939 si aggiudica il premio Pulitzer per la
letteratura. Durante il secondo conflitto mondiale viaggia in Europa e in Africa in qualità di
corrispondente del «New Herald Tribune». Nel 1962 gli viene conferito il premio Nobel per la
letteratura e sei anni dopo si spegne improvvisamente a New York.
Le opere Il primo romanzo che pubblica è La Santa Rossa (1929) e, nonostante sia un
completo insuccesso, già traspare uno stile brioso e accattivante nel raccontare la movimen-
tata esistenza del pirata Henry Morgan. Nel 1932 esce la raccolta di racconti I pascoli del
cielo, che dà inizio a una fase in cui l’interesse dell’autore si dirige verso vicende incentra-
te sulla vita delle comunità agricole e ambientate nelle valli della California. Uno dei libri
più importanti di questo primo periodo è certamente Pian della Tortilla (1935), opera di
enorme forza polemica che, sfruttando gli effetti del genere comico-picaresco, mira a met-
tere in luce i problemi economico-sociali delle classi proletarie. Il successo ottenuto da tale
romanzo viene rafforzato dal successivo Uomini e topi (1937), drammatica storia (trasfor-
mata anche in dramma teatrale) di un’esemplare amicizia tra il pacato George Milton e il
rozzo Lennie. Furore, dato alle stampe due anni dopo, rivela appieno il grande talento nar-
rativo di Steinbeck, imponendolo come uno dei più grandi romanzieri americani del Nove-
cento. La vicenda della famiglia Joad, originaria dell’Oklahoma, viene seguita fino all’appro-
do nella Terra Promessa della California, e il successivo fallimento di tutti i sogni affidati a
questo lungo viaggio produce tanta commozione e indignazione nei lettori che a gran voce
ne reclamano la riduzione cinematografica, puntualmente realizzata l’anno successivo con
la regia di John Ford. Al 1942 risale La luna è tramontata, ispirata alla resistenza norvege-
se e diventata opera teatrale di grande successo. Tre anni dopo Steinbeck pubblica Vicolo
Cannery, romanzo lirico che, rievocando gli anni trascorsi con il carissimo amico biologo
Edward Ricketts, segna la conclusione della fase agricolo-californiana, seguita da un’altra in
cui dominano gli sfondi metropolitano-borghesi. La corriera stravagante e La perla (1947)
si caratterizzano come sentiti atti d’accusa nei confronti della società americana, corrotta e
moralmente ignobile, rea di porre enfasi solo sull’importanza dei traguardi materiali. Con
La valle dell’Eden, pubblicato nel 1952, si assiste a un momentaneo ritorno alle tematiche
californiane, ma grazie ai successivi Il breve regno di Pipino IV (1957) e L’inverno del no-
stro scontento (1961) la satira e l’introspezione psicologica diventano gli strumenti più ef-
ficaci per narrare il conflitto tra i saldi princìpi morali e l’irrefrenabile sete di successo.
Il profilo Pur essendo uno scrittore di notevole talento, John Steinbeck ha suscitato interesse, nei
lettori e critici, soprattutto per il suo modo non convenzionale di avvicinarsi alla vita letteraria. Cre-
sciuto in un ambiente piccolo borghese, egli avverte sin da piccolo la forte influenza delle sue radi-
ci europee (il padre è di origine tedesca, mentre la madre è irlandese) che lo portano, a differenza
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dei suoi coetanei californiani, a prediligere aspetti più spirituali dell’esistenza e a divorare con avi-
dità i libri presenti nella biblioteca materna (alcuni di essi come quelli di Jack London avranno enor-
me influenza sulla sua scrittura). Ma sorprendentemente, divenuto più grande, si getta anima e
corpo in mestieri pratici che nulla hanno a che vedere, almeno apparentemente, con la sua attivi-
tà artistica. In effetti, vivere sulla propria pelle la sconfortante realtà della vita dei pescatori, sem-
pre alle prese con il problema giornaliero di come guadagnarsi il pane, lo pone in una condizione
privilegiata nel momento in cui deve mettere sulla carta un ampio quadro sociale che tenga conto
anche di esigenze, aspirazioni e turbamenti delle classi operaie. Inoltre il dover cambiare continua-
mente lavoro e residenza (segno evidente di un’inquietudine interna) gli consente indubbiamen-
te di comprendere il senso di precarietà esistenziale che molti suoi contemporanei avvertono in
anni dominati dalle guerre mondiali e dalla crisi economica del 1929. Egli si trova perciò a condi-
videre pienamente le idee della cosiddetta “generazione perduta” (Lost Generation) che, nata tra
gli anni Venti e Trenta, si propone come fine una letteratura socialmente impegnata, capace di vei-
colare messaggi di protesta e di denuncia. Non si può certamente negare che nei suoi romanzi sia-
no presenti energici attacchi contro le consumistiche abitudini della civiltà americana, come è d’ob-
bligo evidenziare che, proprio nel contatto diretto, quasi simbiotico, con la natura circostante, l’au-
tore trova una via di fuga all’alienante situazione vissuta dall’individuo nel mondo contempora-
neo. Spesso Steinbeck si propone al pubblico nelle sue vesti di artista proletario, poco abituato ai
toni trionfalistici che lo accompagnano, in special modo dopo i trionfi letterari, geloso della pro-
pria privacy e sempre pronto a rimettere in discussione la posizione sociale raggiunta; insomma
un vero intellettuale che, come pochi altri, ha saputo coniugare alla perfezione vita attiva e contem-
plativa, regalando alla letteratura capolavori genuinamente rivoluzionari.
Approfondimento
La Lost Generation
La “generazione perduta” (o Lost Generation, nome coniato dalla scrittrice e giornalista ame-
ricana Gertrude Stein) prende forma tra gli anni Venti e Trenta a Parigi. Si tratta di un grup-
po di intellettuali, principalmente scrittori, espatriati dall’America, che nella capitale fran-
cese trova nuova ispirazione e un comune modo di vivere. Gli esponenti di maggior spicco
sono stati senza dubbio Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, che con le loro ope-
re hanno definito temi e stili della generazione stessa. Delusi dalla violenta esperienza bel-
lica, così come dai sentimenti umani, troppo superficiali, gli appartenenti a questa corrente
non trovano altra strada che il randagismo e il vagabondaggio per esprimere la loro insod-
disfazione e la loro rivolta nei confronti di una società statunitense rigidamente repressiva,
proibizionista e ancora pregna di inutili ideali nazionalistici. La fuga verso Parigi significa
l’approdo a una terra ricca di stimoli culturali, ma soprattutto libera, nella quale è possibi-
le vivere ai margini della società, conducendo un’esistenza da bohémien, e trascorrere intere
giornate nei caffè a bere, a discorrere di sesso e a inseguire illusioni giovanili ormai infran-
te dall’età adulta. La perdita dell’innocenza diventa perciò un tema comune nelle loro opere,
insieme al profondo senso di vuoto che pervade i figli di una generazione allo sbando, pri-
va di una speranzosa attitudine verso il futuro e tuttavia capace, più di ogni altro movimen-
to contemporaneo, di rappresentare un genuino tentativo di contestazione contro un mondo
occidentale che andava imponendo modelli di comportamento utilitaristici e disumanizzanti.
A contenuti che traggono perciò spunto dalla cruda realtà circostante, popolata di ubria-
coni, prostitute, aspiranti suicidi, artisti falliti e tutti gli altri rappresentanti di un uni-
verso marginale, corrisponde l’essenzialità di uno stile colloquiale e apparentemente non
letterario, caratterizzato da una voluta semplicità lessicale, grammaticale e strutturale.
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La trama In realtà il lasso di tempo nel quale la storia si snoda (dal 1860 al 1920) è piutto-
sto lungo, ma spesso le relazioni tra i due gruppi familiari non sono così strette e durature e
comunque a prevalere sono sicuramente gli episodi che vedono protagonisti i componenti del-
la famiglia Trask. Cyrus Trask ha due figli Adam e Charles (avuti da differenti matrimoni), i
quali vivono un rapporto conflittuale. Il primo si innamora di Cathy, ragazza dal passato tor-
mentato, e la sposa, ma quest’ultima lo tradisce con Charles. Rimasta incinta e dopo un inuti-
le tentativo di aborto, Cathy partorisce due gemelli che però abbandona, scegliendo la via del-
la prostituzione, diventando proprietaria di un bordello e assumendo una nuova identità con
il nome di Kate. I due ragazzi, battezzati con il nome di Aron e Caleb, crescono senza conosce-
re l’identità della madre e sono allevati dal padre Adam nel più completo rispetto di valori ri-
gidamente puritani. Le differenze caratteriali li conducono spesso alla lite, ma a cedere è sem-
pre il più mite Aron. Quest’ultimo inizia una relazione con la giovane Abra che, essendo in re-
altà attratta da Caleb, lo lascia. Intanto Caleb, venuto a sapere la verità sulla madre, costrin-
ge il fratello a incontrarla. La delusione per la sordida esistenza che conduce la donna è tal-
mente cocente che Aron, convinto pacifista, decide di arruolarsi nell’esercito americano impe-
gnato in Europa durante la prima guerra mondiale, mentre Caleb si getta disperatamente tra
le braccia di Abra. Sfortunatamente il giovane soldato viene ucciso in combattimento e, per il
dolore, l’anziano Adam, travolto anche dal tracollo finanziario della sua prosperosa azienda,
rimane vittima di un ictus. Caleb viene inoltre a sapere che la madre è morta suicida e, in pre-
da al rimorso per aver spinto con la sua rivelazione il fratello a partire per la guerra, cerca il
perdono dal genitore morente.
I temi e i personaggi Questo grande affresco storico e umano ambientato tra le assolate
valli della California è stato accusato dai critici di rappresentare un passo indietro rispetto
alla produzione steinbeckiana coeva, principalmente volta a rappresentare spazi metropoli-
tani in cui si muovono creature borghesi aspramente criticate per l’irrefrenabile smania di ar-
ricchimento. In realtà La valle dell’Eden è forse l’opera di Steinbeck più ambiziosa, poiché, ol-
tre a racchiudere tematiche presenti in altri testi (durezza della vita dei campi, sfrenato utili-
tarismo, violenza bellica), tenta di parafrasare nientemeno che la Genesi biblica, al fine di rap-
presentare l’eterno contrasto tra le forze del bene e del male, che secondo l’autore dominano
la vita degli uomini in ogni tempo e in ogni luogo. Nel corso dei cinquantacinque capitoli che
compongono l’opera assistiamo a un nuovo tentativo di Eva (l’immorale Cathy/Kate) di cor-
rompere un indifeso Adamo (il moralissimo Adam appunto), ed è proprio tale perpetuazione
del peccato originale a scatenare il caos nella “valle dell’Eden” (identificata con una Califor-
nia vista come il Paradiso terrestre per migliaia di emigranti provenienti da più parti dell’Ame-
rica in cerca di fortuna). L’autoemarginazione alla quale la donna stessa si condanna corri-
sponde perciò a una cacciata dall’Eden che produce effetti devastanti per tutti gli abitanti del-
la valle, ma soprattutto genera l’infelicità eterna per i suoi figli, Caleb e Aron, considerati come
i novelli Caino e Abele. Sicuramente il personaggio che maggiormente risalta è Cathy Trask:
avida di potere, conturbante, arrivista, ma anche tormentata e votata all’autodistruzione. Gra-
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Lo stile Da un punto di vista formale l’opera conferma tutte le caratteristiche dello stile di
Steinbeck, che alla narrazione distaccata e scientifica di alcuni contemporanei oppone pathos
e appassionata partecipazione alle vicende dei suoi protagonisti, non affidando mai la sua so-
lida scrittura ad ardite sperimentazioni linguistiche. Il tono, prevalentemente drammatico,
presenta anche effetti ironici, marcati da un lessico diretto, chiaro, a tratti aggressivo, ma sem-
pre genuinamente esplicativo.
[…] Cyrus1 portò con sé Adam2 a passeggio un tardo pomeriggio, e le nere conclusioni di tut-
to il suo studiare e pensare eruppero da lui e sgorgarono sul figlio come una specie di den-
so terrore3. Disse: «Voglio che tu sappia che un soldato è il più sacro tra gli esseri umani per-
ché è il più provato, il più provato di tutti4. Cercherò di spiegarti. Guarda un po’, in tutta la
storia si è insegnato agli uomini che uccidere5 è una cosa cattiva e da disapprovare. Chiun-
que uccide deve essere annientato perché uccidere è un grande peccato, forse il peggiore di
tutti. E poi si prende un soldato, gli si dà in mano la morte6 e gli si dice: “Fanne buon uso,
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fanne un uso saggio”. Non gli si impongono restrizioni7. Vai e ammazza il più possibile di una
certa specie o categoria8 di tuoi fratelli9. E noi ti ricompenseremo perché questa è una vio-
lazione della tua prima educazione10».
Adam si inumidì le labbra secche e cercò di parlare, non poté e provò ancora. «Chi glielo fa
fare?» disse. «E perché11?».
Cyrus fu profondamente commosso12 e parlò come non aveva mai parlato prima. «Non lo
so» disse. «Ho studiato e forse ho imparato come stanno le cose, ma non mi sono neppure
avvicinato al perché13. E non ti aspettar di trovare che la gente capisca quello che fa14. Tan-
te cose si fanno istintivamente, come un’ape fa il miele o una volpe bagna la zampa in un fiu-
me per sviare i cani. La volpe non sa perché lo fa, e l’ape non si ricorda mica dell’inverno né
lo aspetta15. Quando ho capito che dovevi andare ho pensato di lasciarti aperto il futuro in
modo che tu potessi fare da te le tue scoperte, ma poi mi è parso meglio di proteggerti con
quel poco che so. Andrai via tra poco. Hai quasi l’età giusta16».
«Non voglio17» disse Adam, d’un fiato.
«Andrai, e presto» continuò il padre, senza udirlo18. «E ti dirò subito tutto in modo che tu
non abbia sorprese. Prima ti leveranno i vestiti, ma non si fermeranno a questo. Ti leveran-
no di dosso fin l’ultima ombra di dignità, perderai quello che credi essere il tuo minimo di-
ritto di vivere e di essere lasciato vivere in pace. Ti faran vivere e mangiare e dormire e ca-
care vicino agli altri19. E quando ti rivestiranno non sarai capace di distinguerti dagli altri.
Non potrai aver nulla addosso, né attaccarti un bigliettino al petto per dire: “Questo sono io,
separato dagli altri”».
«Non lo voglio fare» disse Adam.
«Dopo un po’» disse Cyrus «non penserai nulla che non pensino anche gli altri20. Non cono-
scerai parola che gli altri non dicano. E farai le cose perché le fanno gli altri. In qualsiasi mi-
7. Non … restrizioni: non è imposto alcun tipo di li- 15. Tante cose si fanno … aspetta: un’esplicativa si-
mite alla possibilità di uccidere. militudine che sottolinea quanto l’universo umano
8. Vai … categoria: è necessario uccidere, però, uni- abbia da imparare dall’attenta osservazione della
camente gli attuali nemici contro cui si sta, appun- vita del mondo naturale.
to, combattendo. 16. Quando ho capito … giusta: chiaramente tale
9. fratelli: termine molto amaro perché sottolinea che convinzione di Cyrus non è esente da profonda ama-
comunque si priva della vita un altro essere umano. rezza: egli capisce che il figlio ha quasi l’età giusta
10. E noi … educazione: la ricompensa avviene attra- per andare via, ma certamente è dura anche per lui
verso il riconoscimento di medaglie e onori che ten- privarsi di un affetto tanto caro. Nel dargli questi
dono a cancellare la violazione di un fondamentale consigli, Cyrus cerca di rendere meno drammatico
principio dell’educazione cristiana. il distacco.
11. Adam … perché?: Adam appare profondamente 17. Non voglio: in questa frase e nelle successive (Non
colpito dalle parole del padre ed è quasi immobiliz- lo voglio fare; E se non lo farò?) pronunciate dal ra-
zato dalla previsione di ciò che lo aspetta. Cerca per- gazzo viene messa in luce la distanza generazionale
ciò di opporre agli argomenti del genitore domande tra un padre, che ha compreso quanto sia importan-
che ognuno di noi si porrebbe. In effetti il narratore te seguire le convenzioni, e un figlio che ancora av-
fa sì che il lettore partecipi pienamente allo sconcer- verte la possibilità di ribellarsi a esse per rivendica-
to di Adam. re la libertà di scelta personale.
12. Cyrus … commosso: Cyrus, nonostante la sua sag- 18. senza udirlo: Cyrus tenta di non dare ascolto alla
gezza messa a dura prova dalla vita, è commosso dai disperazione del figlio al fine di non commuoversi.
timori del figlio. 19. Prima ti leveranno … altri: nota la crudezza, an-
13. Non lo so … al perché: Cyrus fa capire al figlio che che lessicale, con la quale il genitore descrive ad
ciò che è importante nel seguire determinati atteg- Adam la difficoltà della vita militare, collegata prin-
giamenti sociali non è tanto comprenderli, bensì ade- cipalmente al fatto che, una volta entrati a far parte
guarsi a essi, in modo da sentirsi parte di una comu- di un esercito, si perde ogni connotazione individua-
nità ben consolidata. le per essere fagocitati da un branco che si veste,
14. E non … fa: in effetti egli qui evidenzia che, seb- pensa e agisce alla stessa maniera.
bene si assumano certi comportamenti, non neces- 20. non penserai … altri: Cyrus, nonostante l’oppo-
sariamente li si condivide appieno: si sacrificano an- sizione del ragazzo, sembra un fiume in piena nel-
che princìpi individuali in nome di un corretto vive- lo snocciolare tutte le tremende realtà della vita
re sociale. militare.
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nima differenza avvertirai il pericolo, un pericolo per tutta la massa degli uomini che pen-
sano e agiscono allo stesso modo»21.
«E se non lo farò?» chiede Adam.
«Sì» disse Cyrus «qualche volta succede. Una volta ogni tanto c’è qualcuno che non fa quel-
lo che si vuole da lui, e sai cosa succede allora? Tutta la macchina22 si dedica freddamente
alla distruzione della sua differenza23. Batteranno il tuo spirito e i tuoi nervi, il tuo corpo e
la tua mente, con verghe di ferro, finché la pericolosa differenza non esce da te24. E se tu non
puoi cedere, ti rivomiteranno e ti lasceranno fuori a puzzare; non più parte di loro, ma nep-
pure libero25. È meglio star con loro. Lo fanno solo per proteggersi26. Una cosa così trionfal-
mente illogica, così magnificamente insensata come un esercito non può permettere che una
domanda la indebolisca27. All’interno di essa28, se tu non la confronti con altre per schernir-
la29, troverai pian piano, ma con sicurezza, una ragione, e una logica e una specie di terribi-
le bellezza30. Un uomo che accetta tutto questo non è peggiore degli altri, e qualche volta
anzi è molto migliore31. Dammi retta, perché ci ho pensato a lungo. Ci son di quelli che si but-
tano a capofitto a fare il soldato, si arrendono, e perdono perfino la fisionomia. Ma son quel-
li, che non avevano fisionomia neppure al principio. Forse sei così anche tu. Ma ci sono altri
che vanno, si affondano nel pantano comune e poi si alzano e sono se stessi più di prima
perché… perché han perso un tantino di vanità e hanno guadagnato tutto l’oro della com-
pagnia e del reggimento32. Se puoi scendere così in basso, potrai rialzarti più in alto di quan-
to tu non pensi, e conoscerai una gioia santa, un senso come di appartenenza alla celeste
compagnia degli angeli. Allora conoscerai la qualità degli uomini anche se sono inarticola-
ti33. Ma finché non sarai disceso non imparerai mai34». […]
[Trad. di G. De Angelis]
21. In qualsiasi … modo: Cyrus avverte il figlio anche perfezione (bellezza), anche se temibile (terribile)
del fatto che l’omologazione sarà talmente assoluta per la tua concezione di libertà individuale.
che egli arriverà ad avvertire come irriconoscibili at- 31. Un uomo … migliore: poiché è pronto al sacrifi-
teggiamenti che non si adeguino alla massa. cio in nome di un bene comune.
22. Tutta la macchina: naturalmente la macchina del 32. Ci son di quelli … reggimento: Cyrus gli suggeri-
potere. sce di non temere di sacrificare la sua personalità
23. si dedica … differenza: nota la cattiveria di que- alla condivisione di ideali comuni; se egli ne possie-
ste parole: la società, in generale, non tollera le dif- de una talmente spiccata, essa si rivelerà anche nel
ferenze poiché avvertite come pericolose per la pa- bel mezzo di un’azione bellica quando è completa-
cifica convivenza e quindi tende a eliminarle con mente coperto di fango (pantano comune), anzi met-
estrema indifferenza. tere a disposizione la propria vita per la salvezza del-
24. Batteranno … da te: naturalmente si tratta di bot- la nazione lo farà certamente maturare (perso un tan-
te sia fisiche che spirituali, al fine di espellere dalla tino di vanità), rendendolo degno di tutti gli onori ri-
vita individuale qualsiasi traccia di originalità. servati agli eroi (tutto l’oro).
25. E se tu … libero: e se tu persisterai in tale atteg- 33. Se puoi … inarticolati: intendi: soltanto nell’ac-
giamento di sfida ti elimineranno dal sistema, ren- cettazione del sacrificio della propria individualità
dendoti però schiavo di una solitudine ancora peg- al comune ideale tu risulterai arricchito di una sag-
giore dell’omologazione. gezza che non avevi prima, poiché imparerai a di-
26. Lo fanno solo per proteggersi: perseguire un ide- stinguere bene un individuo dall’altro e, soprattut-
ale comune è l’unica maniera che porta a vincere le to, accetterai di condividere le tue esperienze con
guerre. esseri, pur se diversi da te (inarticolati), a te uniti
27. Una cosa così … la indebolisca: nota l’uso di av- dalla volontà di perseguire un medesimo, sacrosan-
verbi (trionfalmente, magnificamente) antitetici ri- to scopo: la salvezza della patria. Celeste compagnia
spetto a termini come illogica, insensata, che hanno degli angeli: definizione dell’esercito non esente da
lo scopo di sottolineare in maniera più decisa la fol- una connotazione ironica.
lia di atteggiamenti comunemente accettati. 34. Ma finché … mai: ma finché non sarai disceso dall’or-
28. essa: la vita in un esercito. goglio dei tuoi ideali, per soddisfare anche le altrui esi-
29. se tu … schernirla: se non la paragoni ad altre re- genze, non apprenderai mai quest’insegnamento.
altà sicuramente più logiche e razionali.
30. troverai … bellezza: solo se accetti questa vita
senza porti domande riuscirai a scovare un’idea di
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La forma
L’estratto, sotto un tono sinceramente solenne, ma al contempo assolutamente confi-
denziale, cela una critica eloquente a un mondo tanto violento quanto volgare, sotto-
lineata da un linguaggio impregnato di espressioni gergali, in grado di rispecchiare fe-
delmente la crudezza di un argomento così problematico.
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Capitolo
12 ANNE SEXTON
La vita Anne Sexton, il cui cognome originario è Gray Harvey, nasce nel 1928 a Newton,
nei dintorni di Boston, in un contesto familiare alto-borghese (il padre, Ralph, è proprieta-
rio di un avviato cotonificio). A soli diciannove anni sposa Kayo (soprannome di Alfred Mul-
ler Sexton II), un agiato commerciante, e nel 1953 mette al mondo la prima figlia. Dopo ap-
pena due anni, la nascita della secondogenita le provoca una depressione post-partum tale
da portarla, il giorno prima del suo ventottesimo compleanno, a tentare il suicidio con i bar-
biturici. Viene internata nel sanatorio di Westwood Lodge, dove conosce lo psicoanalista
Martin Orne, incontro che segna una svolta dal punto di vista umano e professionale: il me-
dico, infatti, sceglie come terapia d’urto la scrittura, dando l’avvio all’attività poetica della
Sexton. Nel 1957 l’autrice riprende gli studi (seguendo però solo programmi culturali alla
televisione), frequenta il laboratorio poetico diretto da John Holmes e stringe amicizia con
Maxine Kumin, altra dotata aspirante poetessa. L’anno successivo segue un corso di scrittu-
ra creativa all’Università di Boston e nel 1959 si iscrive a un seminario frequentato anche
dalla scrittrice americana Sylvia Plath, che diventerà una delle sue più grandi confidenti-
rivali. Nel 1967 è al culmine della fama: vince il premio Pulitzer per la letteratura e tiene
pubbliche letture delle sue liriche seguite da un pubblico vastissimo. Continua però anche
la sua vita sregolata, fatta di alcool, tranquillanti e solitudine estrema (viene anche abban-
donata dal marito e dalle figlie), che nel 1974 la condurrà al suicidio.
Le opere Il primo poema lungo che la Sexton compone, La doppia immagine del 1960
(influenzato da Studi di vita del poeta Lowell, anche se ora si cerca di sfatare tale luogo co-
mune, visto che le due opere vengono composte contemporaneamente), inaugura lo stile
“confessionale”. Si tratta di una poesia che, esprimendo totalmente la voce dell’io poetante,
è capace, al pari di una confessione, di «essere l’ascia che spacca il mare ghiacciato dentro
di noi», come spesso affermava la Sexton riprendendo una frase di Kafka. La sua scrittura
poetica si perfeziona con la raccolta successiva, In manicomio e parziale ritorno, che ap-
pare nello stesso anno, molto ben accolta dalla critica, tanto che i folgoranti successi lette-
rari la faranno eleggere addirittura membro della Società Reale di Letteratura Inglese nel
1965; tre anni più tardi sarà la prima donna a entrare a far parte della rinomata Phi Beta
Kappa dell’Università di Harvard. Nel 1962 è dato alle stampe il libro Tutti i miei cari, de-
dicato all’amante, l’affermato poeta James Wright e, dopo una breve collaborazione con la
Kumin (Uova di cose, 1963, e Altre uova di cose, 1964), scrive una delle sue opere più ri-
conosciute, Vivi o muori (1967), in cui le liriche si muovono continuamente tra i due desi-
deri opposti di vita e morte fino alla soluzione finale di continuare a sfidare il «dono ecci-
tante» dell’esistenza (quasi come la figura di Cristo che diventa, con il sacrificio e la resur-
rezione, il simbolo di un’identità rinnovata). Due anni dopo, mentre è in tournee con il grup-
po rock da lei fondato nel 1968 e seguito fino al 1971, pubblica il volume Poesie d’amore
e porta definitivamente a termine il dramma, intrapreso nel 1961, La strada della pietà,
rappresentato con grande successo all’American Place Theatre di New York. Le poesie dell’ul-
timo periodo rivelano un evidente afflato mistico, delineando la confusa e drammatica ri-
cerca di un punto di riferimento extra-umano, di un Dio, padre e madre allo stesso tempo,
che sia capace di saziare l’irrefrenabile desiderio d’amore e di accoglierla nel suo potente e
sereno abbraccio. Ci riferiamo ai poemi Carte di Gesù, O voi lingue, e alle opere Il tremen-
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do remare verso Dio, Taccuino della morte, Finendo di remare (postume, 1975), dove
sorge con prepotenza il tema delle nozze finali con la morte, da lei inseguite e finalmente
celebrate in un giorno di autunno nel malinconico New England.
Il profilo Daisy cerca di sedurre il padre Ace (traduzione di Asso, chiaro simbolo fallico,
ricorrente in gran parte della produzione della Sexton) alla presenza di una pericolosa e im-
barazzante testimone, la zia Amy, la quale, in seguito a questo fatto, impazzisce. La ragazza
tenta l’espiazione percorrendo diverse strade (la psichiatria, la religione), ma finisce suici-
da nella convinzione di liberarsi dal peccato: è questa la trama della sola opera teatrale (La
strada della pietà) composta da Anne Sexton che racchiude, in poche ore, tutta la durata di
una tormentata vicenda umana conclusa nella tragedia, ma prodiga di versi inconfondibili
e incancellabili. Daisy è l’inquieta Anne (rifiutata dalla puritana famiglia per il suo atteggia-
mento moralmente disturbante), Ace rappresenta il padre Ralph (uomo integerrimo e gla-
ciale, vero maschio prevaricatore e dittatore) e in Amy si può riconoscere la vecchia zia Nana
(considerata dalla Sexton sua madre legittima, isolata in un sanatorio per l’improvvisa fol-
lia, causatale dalla scoperta dell’amata giovanissima nipote in atteggiamenti sconci con il fi-
danzato di allora). In realtà l’autrice non ha lasciato alcuna testimonianza scritta (il dram-
ma può essere la proiezione di un sogno/incubo ricorrente) di un’avvenuta violenza da par-
te del genitore, ma ciò che importa è riscoprire il complesso edipico alla base di un’esisten-
za condotta sempre al limite dello scandalo e all’insegna di molti ruoli: la donna appassio-
nata, che ama fisicamente innumerevoli uomini (nonostante sia legata, a doppio filo, al ma-
rito Kayo) traendo da ogni esperienza sessuale nuovo materiale poetico pronto a ispirare
un ennesimo capolavoro, si mescola innegabilmente alla casalinga insoddisfatta (il primo
seme della follia è prodotto dalla coscienza di sentirsi inadeguata a tale ruolo), alla fascino-
sa strega ammaliatrice di folle esaltate (la recita delle sue liriche produceva nel pubblico un
entusiasmo tale da farle guadagnare settecento dollari a performance), alla poetessa pop
capace di rivoluzionare il tradizionale ruolo della donna in letteratura (il suo verso libero o
i suoi sonetti centrati su confessioni a sfondo erotico e sussurrati a tempo di rock la faran-
no diventare, suo malgrado, poetessa simbolo della liberazione sessuale in atto e icona sa-
cra dei nascenti gruppi femministi), alla «mistica suicida», come la definisce la traduttrice
e critico Rosaria Lo Russo, in cerca di una figura paterna (e anche materna) superiore, as-
solutamente non umana (Dio), con la quale fondersi in un’unione che appaia fatalmente in-
tegra e liberatoria. Al fine di rendere efficace questa ricerca, Anne, la figlia, “approda all’iso-
la detta Dio” (una sorta di Eden fanciullesco), dove il padre divino la spinge a giocare una
partita a poker che ella crede, in un primo momento, di vincere (onde ottenere il perdono e
risolvere tutti i dualismi della sua vita: madre-prostituta, figlia-incesto, santa-peccatrice),
ma viene battuta dal poker d’assi (ritorna l’emblema fallico) che Dio cala in questo gioco al
massacro che ha la morte come posta ambitissima. È tale appunto il tema degli ultimi ma-
gici versi composti dall’autrice e apparsi postumi (Il tremendo remare verso Dio e Finendo
di remare suonano, infatti, quasi come un terribile testamento), dove la sconfitta Anne sem-
bra non soccombere al suo senso di infinita frustrazione che, anzi, la stimola a lanciare un’ul-
tima sfida oltraggiosa ovvero apparire dinanzi al Padre (biologico e trascendente) bellissi-
ma e seducente come nei giorni migliori: indossa infatti una vecchia pelliccia di sua madre,
si chiude in garage, in macchina accende radio e motore e aspetta sul sedile che il gas si pro-
paghi e giunga, lentamente e in maniera indolore, a ucciderla, lasciandola però intatta nel
suo corpo di eterna adolescente pronta a decollare per un viaggio definitivo, questa volta,
senza alcuna volontà di ritorno.
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I temi Il tema centrale rimane quello della speranza di risurrezione carnale di una quaran-
tenne benestante, tramite esperienze sessuali adulterine, che ritrova nel tocco virile (quello
dell’Amante-Padre-Dio) e nella fusione dei corpi l’avvento del regno di beatitudine spiritua-
le e sensuale. Ma vengono anche sottolineate l’impossibilità di sopravvivere alla mancanza
del contatto erotico (naturalmente la negazione dell’unione carnale porta inevitabilmente alla
morte tragica) e, soprattutto, la coscienza del rifiuto, rappresentato da uno stato di perenne
adolescenza, di uniformarsi al ruolo sociale di moglie e madre. Tutta l’opera vive così sul con-
trasto (sintetizzato in All’amante che torna da sua moglie) tra la donna clandestina e quella
ufficiale: la prima (Sexton) è precaria, mutevole, si dissolve come un acquerello, canta inni
alla liberazione sessuale (In celebrazione del mio utero, La ballata della masturbatrice soli-
taria) e allo stesso tempo si autoinfligge punizioni corporali per convincere il suo uomo a tor-
nare da lei (in La rottura dove richiama alla memoria una volontaria caduta dalle scale che
la renderà leggermente claudicante per il resto della vita). La seconda (la signora Zweizung),
che bada ai bambini, attende con pazienza, ispira la solidità di colei che mette i fiori sul da-
vanzale a colazione e si siede a tornire stoviglie a mezzogiorno. Ma non sono solo le due ri-
vali a essere degnamente rappresentate: come in ogni poema “confessionale”, l’io narrante,
alla scoperta delle sue molteplici contraddizioni, si frammenta in innumerevoli identità (allo
stesso modo dei pezzetti di ghiaccio frantumati dall’ascia) che saranno, continuamente, ricon-
giunte e smarrite negli incontri amorosi e nelle lunghe e dolorose separazioni.
Lo stile Grazie a quest’opera poetica, la Sexton (ormai sublime e celebre “attrice” dello spet-
tacolo della sua esistenza, versificata e declamata al pubblico avido in evidente stato di alte-
razione fisica e, soprattutto, psichica causato da un uso smodato di alcool e pillole) impone de-
finitivamente uno stile legato all’oralità (diventando quasi un antico menestrello), dove la rima
regolare (che pure ha amato profondamente, sonetto e ballata in special modo) viene gradual-
mente rimpiazzata dal verso libero, il cui ritmo è contrassegnato da ripetizioni, assonanze,
consonanze e dominato da frequenti similitudini, spesso surreali, e da virtuosistici giochi di
parole.
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Il bacio
Basta un solo bacio e la donna, a lungo abbandonata, ritrova nuove e insospettabili
energie.
[Poesie d’amore, II]
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18. era una barca … assi: metafora che disegna il 24. Ascolto … percossi: il riacutizzarsi della sensibi-
corpo, senza l’amante, come una barca fradicia e ri- lità è paragonato a un risvegliarsi della melodia
gida (piuttosto legnosa), immobile (senza commer- dell’anima, profondamente radicata in noi e udibile
ci), incapace di solcare il mare aperto (né acqua sa- solo in un tale stato di grazia (Là dov’era silenzio ri-
lata di sotto), bisognosa di esser rimessa in sesto suonano…).
(una mano di vernice) per non sentirsi più inutile 25. incurabilmente: quasi senza cura apparente, ma
(un insieme d’assi) e intraprendere il viaggio nel efficacemente. Per la Sexton è fondamentale il rap-
profondo oceano della sessualità. L’elemento acqua porto vittima-carnefice: lei adora l’uomo indifferen-
è sempre associato alla capacità procreativa fem- te che però regala piacere (come il padre Ralph alla
minile: la sua mancanza significa assenza di attivi- madre Mary).
tà sessuale. 26. Merito … all’opera: la confessione si trasforma in
19. tu: l’amante, il dottore-padre, il confessore-psi- una sorta di orazione all’uomo, meritevole di aver
chiatra Ollie Zweizung. prodotto tale rinascita, condotta con la mano e il “toc-
20. ghindata: abbellita. co” di esperto maestro.
21. attrezzata: resa capace di ripartire. 27. il compositore: in questo caso colui che ricrea una
22. prescelta: riprende coraggio, perché è volonta- persona nuova, facendole ritrovare l’armonia ani-
riamente scelta. ma-corpo, da tempo sepolta e inascoltata a causa
23. I nervi sono accesi: ancora una volta il riaccender- della lontananza dell’amante.
si del godimento è rappresentato da un elemento elet- 28. ha fatto … fuoco: ha finalmente riacceso il fuoco
trico (i nervi si trasformano in fili di corrente). della passione sopita.
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Capitolo
13 SYLVIA PLATH
La vita Sylvia Plath nasce a Jamaica Plain, Stato del Massachusetts, nel 1932. Il padre,
di origini tedesche, muore quando ella ha appena compiuto otto anni. Frequenta con pro-
fitto le scuole locali, mostrando sin dall’adolescenza una debolezza psicologica che la ren-
de incline alla depressione. Nel 1955 si laurea con lode allo Smith College, discutendo
una tesi sull’uso del “doppio in Dostoevskij” e, avendo vinto una borsa di studio, si reca
in Inghilterra per seguire un corso di specializzazione in letteratura inglese presso il
Newnham College di Cambridge. Qui, incontra il poeta Ted Hughes che sposa l’anno suc-
cessivo. I due coniugi, dopo aver trascorso due anni a Boston, si trasferiscono a Londra
nel 1959. I loro figli Frieda e Nicholas nascono rispettivamente nel 1960 e nel 1961 e
quest’ultimo parto, unito all’abbandono da parte di Hughes per un’altra donna, causano
alla Plath un’irreversibile crisi nervosa che la conduce al suicidio, avvenuto nel suo ap-
partamento di Londra nel 1963.
Le opere Sylvia Plath pubblica le sue prime poesie sulla rivista scolastica «Mademoisel-
le» nel 1953. Si tratta ovviamente di versi adolescenziali che, però, già evidenziano una ca-
pacità lirica di enorme intensità. Le uniche importanti “uscite”, avvenute in Inghilterra du-
rante la vita dell’autrice, sono la raccolta di poesie Il colosso (1960) e il romanzo autobio-
grafico La campana di vetro (1962). La prima è talmente bene accolta che immediatamen-
te l’editore Alfred Knopf dà alle stampe un’edizione americana della collezione. L’opera La
campana di vetro viene pubblicata sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas e racconta la vita
di una donna che, attraverso i tormenti adolescenziali e i dolori dell’età adulta, arriva a una
speranzosa possibilità di rinascita sia fisica che spirituale. Evidentemente, questa era la meta
alla quale la Plath aspirava, se i suoi nervi non l’avessero tradita solo poche settimane dopo
l’uscita del volume. Postume appaiono le raccolte poetiche Ariele (1965), Attraversando
le acque e Alberi invernali (1971). Ted Hughes si occupa di un’edizione dei suoi Poemi
scelti, data alle stampe nel 1981 e contenente la sua migliore produzione. Nello stesso anno
alla poetessa è assegnato un premio Pulitzer alla memoria.
Il profilo Sylvia Plath è senza dubbio una delle più importanti poetesse americane del XX
secolo, oltre che figura femminile dotata di un notevole fascino intellettuale. La sua arte non
può essere compresa se la si scinde dalla vita che ha condotto: vittima di lunghi periodi di
depressione, tendenza sicuramente ereditata dalla famiglia paterna, l’autrice, grazie alle sue
composizioni, riesce a creare il ritratto di una donna a tutto tondo che fa tesoro delle pochis-
sime gioie e degli innumerevoli dolori, al fine di restituirli a un pubblico capace di compren-
dere il suo immenso talento solo dopo la morte. In realtà, la sua drammatica esistenza è sta-
ta dominata da due uomini di enorme spessore culturale, rispetto ai quali ella avvertiva un
senso di rispetto e, al contempo, un atteggiamento di sfida: il padre e il marito. Il primo, se-
vero professore di entomologia all’Università di Boston, viene spesso ricordato nelle sue po-
esie come esempio estremo di autorità, mentre l’amore per il secondo la spinge addirittura
a lasciare definitivamente la sua patria per andare a vivere in Inghilterra. In effetti, è proprio
questo distacco dalla terra americana a peggiorare la sua salute mentale già instabile: tra-
sportata in una realtà non avvertita come propria, la Plath si trova quindi a combattere senza
tregua contro una mentalità estremamente ristretta e ipocrita. Sin dagli anni di Cambridge,
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la poetessa non riesce ad accettare il moralismo tardo-vittoriano che ancora impera nella so-
cietà britannica. Più volte Sylvia Plath discute pubblicamente della sua volontà di affermar-
si come individuo libero da qualsiasi tabù e di vivere la propria sessualità con disinvoltura
non diversamente da come si comportano gli uomini. Certamente questa convinzione la ren-
de impopolare nel mondo accademico che ne osteggia la realizzazione artistica e professio-
nale. Ciononostante, l’autrice reputa l’incontro con Ted Hughes quasi miracoloso, poiché in
grado di dare corpo alla sua massima aspirazione, ossia fondere l’esperienza erotica con quel-
la intellettuale. Sappiamo che ciò è accaduto solo in parte: dopo pochissimi anni di perfetta
intesa, il poeta si rivela inaffidabile da un punto di vista sentimentale, contribuendo non poco
alla “discesa verso gli inferi”, dovuta a una grave forma di depressione, della moglie. La soli-
tudine insopportabile che ella avverte nell’ultimo anno di vita, se da un lato la rende una don-
na più debole, dall’altro permette la crescita di un’artista sempre più consapevole dei suoi
mezzi espressivi, capace di urlare al mondo la sua rabbia contro figure maschili che l’hanno
così limitata. Tradita, delusa, quasi spezzata in due dalla sofferenza, si trasforma in un’eroi-
na tragica che, attraverso il costante dolore e l’inesauribile voglia di riscatto, diventa un’ico-
na incancellabile nell’immaginario femminista contemporaneo.
Ariele (Ariel)
Ariele (il titolo cita l’omonimo “folletto dell’aria” protagonista della Tempesta di William
Shakespeare, alla cui natura eterea di spirito libero sembra ispirarsi la poetessa in questa fase
della propria esistenza) è una raccolta di liriche pubblicata postuma nel 1965. Essa contiene
parte dei lavori scritti tra il 1960 e il 1963.
Lo stile Dal punto di vista stilistico, la raccolta evidenzia una prevalenza del verso libero, in-
serito in poesie che continuamente ricorrono sia alla tecnica “confessionale” (appresa dal po-
eta Robert Lowell e sperimentata insieme all’amica-rivale Anne Sexton), che le consente di ri-
velare le emozioni e i sentimenti più intimi come se si assistesse a una confessione, sia a quel-
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la del monologo drammatico (derivata dal poeta ottocentesco inglese Robert Browning), ca-
pace di dar voce a un personaggio principale (il poeta stesso), immerso in un universo ricco di
simboli e immagini brutali.
Lady Lazarus
Il canto straziante e ironico di un corpo trascinato alla deriva dal suicidio.
[Ariele]
L’ho rifatto1.
Un anno ogni dieci
3 Ci riesco –2
Piede destro,
La mia faccia un anonimo, perfetto
9 Lino ebraico4.
Via il drappo5,
O mio nemico6!
12 Faccio forse paura7? –
1. L’ho rifatto: la Plath comincia la sua “confessione” paura della morte (perfetto) e assolutamente iden-
utilizzando un’espressione tipica di una conversazio- tico a quello degli altri defunti (perciò anonimo). La
ne intima, ma soprattutto sottolinea fin dall’inizio la Plath desidera, in questo caso, ammonire i suoi in-
sua dipendenza dalla morte, per lei come una droga. terlocutori a non trattare i suicidi come fenomeni da
2. Un anno … riesco –: un chiaro riferimento alla sua baraccone, poiché la morte (comunque essa arrivi)
esperienza autobiografica: è giunta al terzo tentati- rende tutti uguali. È necessario soffermarsi ulterior-
vo di suicidio. Il trattino indica l’attimo di silenzio, mente sui termini paralume, fermacarte, Lino che of-
di sospensione verbale che separa questa terzina frono il tipico esempio dell’utilizzo da parte della
dalla successiva. Plath della tecnica del “correlativo oggettivo”: ogget-
3. Una specie … ambulante: viene introdotto il tema ti quotidiani e fondamentalmente non poetici rie-
centrale del miracolo, già richiamato dal titolo (La- scono a descrivere in maniera precisa l’idea di mor-
zarus ovvero il “Lazzaro” risvegliato da Cristo), trat- te che l’autrice tende a rappresentare in questi ver-
tato però con insolente e amara ironia. si, assumendo una qualità lirica solitamente non as-
4. la mia pelle … ebraico: inizia la prima delle quat- sociata a essi.
tro fondamentali sequenze di immagini che defini- 5. drappo: lenzuolo. Evidentemente la poetessa si
scono la frammentata identità della “signora”: ella è trova in un letto d’ospedale, appena salvata da una
ora un assemblaggio di oggetti materiali inanimati morte certa.
che evocano naturalmente le peculiari caratteristi- 6. O mio nemico!: il primo osservatore è un ignoto
che fisiche di una persona quasi morta, come il chia- nemico che molti hanno identificato con il marito
rore cadaverico della pelle (uguale a quella di un pa- (probabilmente accorso al suo capezzale) o con l’in-
ralume nazi), la rigidità e la pesantezza del Piede de- tero genere maschile. Ovviamente, gli occhi maschi-
stro (identiche a quelle di un fermacarte) e il pallo- li che insistentemente la scrutano rafforzano la sua
re spettrale della faccia (simile al biancore del Lino). convinzione di essere ridotta alla svilente condizio-
Ovviamente, si può notare l’introduzione del tema ne di mero oggetto.
dell’olocausto echeggiato dai termini nazi (abbre- 7. Faccio forse paura?: si tratta di una domanda di
viazione di «nazista») ed ebraico. Anonimo e perfet- sfida rivolta a uomini che spesso, temendo la sua
to sono due aggettivi che rendono alla perfezione esuberanza fisica e intellettuale, hanno cercato di li-
l’idea del volto di una suicida, non scomposto dalla mitarla.
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Le mie mani,
I miei ginocchi.
33 Sarò anche pelle e ossa,
8. Il naso … puzzolente: si noti l’estremo realismo nel dola da tutte le vuote sovrastrutture che la morale
descrivere la sensazione di sgradevolezza che il suo comune impone agli individui.
corpo maltrattato provoca negli altri; la chiostra dei 13. Che … filamenti: continua ancora l’immagine del-
denti: l’arco che la bocca forma nell’atto di sorride- la poetessa, aspirante suicida, che gradualmente non
re rendendo possibile la visione di tutti i denti. è più schiava dei legami (filamenti) sociali, potendo
9. In un … sorride: in questi versi la Plath si dimostra arbitrariamente scegliere la direzione del proprio
convinta della sua rinascita fisica e spirituale, imma- destino e l’identità da assumere.
ginandosi infatti come una donna che sorride. Il se- 14. La folla … vedere: comincia la seconda fase del-
polcro è metafora della depressione che ha prodot- la trasformazione che coinvolge un nuovo osserva-
to tanta devastazione fisica. tore, ovvero la folla, il pubblico che segue il rito del-
10. Non ho … morire: l’autrice ritiene che alla sua età la sua graduale rinascita quasi stesse assistendo a
sia ancora possibile “morire e risorgere” innumere- uno spettacolo teatrale o cinematografico (come sug-
voli volte. Si noti l’originale e ironico utilizzo di un gerisce l’azione dello “sgranocchiare noccioline”).
detto popolare (“avere nove vite come i gatti”), che 15. Che mi sbendano … qui: la poetessa appare come
ella impiega al fine di sottolineare l’indissolubile con- una mummia liberata dalle sue bende (sbendano),
nessione tra vita e morte e le nove possibilità di ri- mentre propone il suo corpo nudo (Il grande spoglia-
nascita a sua disposizione, quasi come se intendesse rello) alla pubblica curiosità (ecco qui). Terminato il
ripetere l’esperienza del tentato suicidio fin che può. tono soffuso di confessione intima, ora inizia quello
11. Numero Tre: di nuovo evidenzia, quasi con orgo- più enfatico di monologo drammatico.
glio, che questo è il terzo tentativo non riuscito. 16. Le mie mani … donna: il suo corpo è ormai ridot-
12. ciarpame … decennio: quantità di cose inutili to all’essenziale (mani, ginocchi, pelle e ossa): è sem-
(ciarpame) da buttare via ogni dieci anni: è come se pre la stessa, identica donna, alleggerita però dal peso
di volta in volta il “suicidio” la rigenerasse, liberan- degli insostenibili tabù.
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36 Fu un incidente17.
Come conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
42 E staccarmi via i vermi come perle appiccicose19.
Morire
È un’arte, come ogni altra cosa.
45 Io lo faccio in un modo eccezionale20.
«Miracolo!»
È questo che mi ammazza24.
57 C’è un prezzo da pagare25
17. La prima volta … incidente: ritorna brevemente 20. Morire … eccezionale: questa affermazione dona
sul suo primo approccio con la morte, provocato da un calamitante effetto teatrale allo spettacolo della
una mera casualità: era troppo piccola allora (solo sua morte.
decenne) per decidere arbitrariamente di privarsi 21. Io lo faccio … vocazione: colpisce l’energia di que-
della sua “prima” vita. sta ironica constatazione; inferno e reale sono due
18. Ma la seconda … assolutamente: verso i vent’an- termini che enfatizzano l’estrema crudezza di un ge-
ni si verifica, invece, il primo vero tentativo di suici- sto del genere.
dio: la Plath è consapevole che tale desiderio di mor- 22. È facile … teatrale: la Plath non si dimostra cer-
te l’ha accompagnata fin dalla tenera età; non rece- tamente una donna che ama i mezzi termini: il suo
dere: a non ritornare sulla mia decisione. suicidio deve risolversi in uno spettacolo di morte e
19. Mi dondolavo … appiccicose: riuscitissima simi- rigenerazione, del quale ella stessa è l’assoluta, in-
litudine per descrivere la situazione che, in quel caso, contrastata, protagonista.
si è presentata agli occhi dei soccorritori: la poetes- 23. Ritorno … animale: la poetessa ora si risveglia;
sa è ripiegata su se stessa e “racchiusa” come una anche questa volta è come la precedente. È salva e
conchiglia, quasi sull’orlo della morte (si vede infat- può avvertire solamente il grido (Urlo) gioioso (di-
ti già cadavere preda dei vermi), ma strappata con vertito) della persona (animale) che l’ha riportata
forza dal fondo del baratro (Dovettero chiamare e alla vita.
chiamare). Si noti la metaforica trasformazione, pro- 24. «Miracolo!» … ammazza: splendida e amarissi-
dotta dalla morte, in una poetica creatura marina ma appare l’ironia di questa affermazione: il Mira-
(conchiglia, perle), che richiama un famoso verso del- colo della resurrezione non giunge gradito alla “si-
la Tempesta di Shakespeare («sono perle quelle che gnora Lazarus”. Ricominciare a vivere rappresenta
furono i suoi occhi», per sottolineare che dopo la per lei la vera morte (È questo che mi ammazza).
morte si acquisisce una purezza e una lucentezza 25. C’è un prezzo da pagare: la poetessa, completa-
mai possedute prima). mente risvegliatasi dal letargo del coma e dopo aver
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Per spiare
Le mie cicatrici, per auscultare
60 Il mio cuore – eh sì, batte.
Cenere, cenere –
Voi attizzate e frugate.
75 Carne, ossa, non ne trovate –
Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
78 Una protesi dentale29.
proposto lo spettacolo del suo corpo alla pubblica verte in oggetto fisico (gioiello… oro puro… cenere…
osservazione, recupera la sua femminilità ricorren- pezzo di sapone), sorto dal dissolvimento (si liquefà)
do a un tipico ammiccamento sessuale che la rende della sua corporeità (Carne, ossa, non ne trovate),
simile a una prostituta (in effetti il corpo stesso di- resa riconoscibile solo da dettagli ormai insignifi-
venta merce di scambio). canti (fede nuziale… protesi dentale). È chiaro il rife-
26. Per spiare … vestiti: in questo momento la fisici- rimento storico ai forni crematori presenti nei cam-
tà (rappresentata dai capelli e dai vestiti) della Plath pi di concentramento di Auschwitz e Mathausen, ri-
riacquista tutto il suo splendore. Pur se profonda- chiamati alla mente dallo strillo dei numerosi ebrei
mente segnato (Le mie cicatrici), il corpo freme di cremati senza alcuna pietà. Al di là della connessio-
nuovo (Il mio cuore – eh sì, batte) di passione (del ne con un evento reale di inaudita crudeltà, la Plath
mio sangue), proponendosi rinnovato alla virile mor- desidera qui rappresentarsi come vittima esempla-
bosità (Per spiare… toccatina… parola). re di un mondo maschile in crisi (Non crediate che
27. Eh sì … Nemico: ci avviamo al terzo momento di io sottovaluti le vostre ansietà), che ritrova la perdu-
trasformazione quando a osservare la donna c’è un ta superiorità nell’annullamento totale dell’identità
“nemico” ancora più potente: si tratta del Doktor che femminile (Io mi rigiro e brucio).
evoca la figura paterna, incarnazione di un autorita- 30. Herr: ritorna questo termine tedesco: il miscu-
rismo tipicamente maschile che rimanda anche alle glio linguistico è un’altra caratteristica che rende la
stragi naziste compiute nei campi di concentramen- poesia della Plath estremamente moderna (e presa
to. Herr: termine tedesco che significa «signore». in prestito dai poeti suoi connazionali Thomas Ste-
28. opus magnum: termine latino («opera massima») arns Eliot ed Ezra Pound), aumentandone anche l’ef-
che, oltre ad avere una connotazione ironica, ha lo fetto realistico.
scopo di innalzare il tono del monologo, enfatizzando 31. Dio … Lucifero: inferno e paradiso corrispondo-
la drammaticità del momento. no perfettamente per la poetessa, che incolpa Dio di
29. Sono … dentale: la poetessa comincia il cammi- essere una creatura demoniaca poiché incapace di
no della sua progressiva spiritualizzazione: si con- impedire la tragedia dell’olocausto.
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Attento,
81 Attento.
[Trad. di G. Giudici]
32. Attento … vento: si ritorna a una forma espressi- re io rinvengo) con una rinnovata passione (mie ros-
va tipicamente colloquiale che segna l’ultima trasfor- se chiome) per la vita, pronta a vendicarsi di un ge
mazione, ovvero quella in una mitologica Araba Fe- nere maschile che l’ha profondamente umiliata (man-
nice che risorge dalle sue stesse ceneri (Dalla cene- gio uomini come aria di vento).
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La forma
Per quanto riguarda lo stile, il poemetto riassume indubbiamente tutti i princìpi
dell’estetica plathiana. In primo luogo, si nota il ricorso a un linguaggio colloquiale,
ravvisabile in alcuni passaggi tipici della normale conversione (L’ho rifatto, v. 1; Atten-
to, Attento, vv. 80-81), che non disdegna, però, l’uso di aulici latinismi (opus magnum,
v. 67) o di termini evocativi di derivazione straniera (Herr, «signore» in tedesco). Lo
scopo precipuo di tali improvvisi inserimenti è quello di porre enfasi a determinate
parole, funzionali alla spiegazione di concetti che stanno particolarmente a cuore alla
poetessa. Si è molto discusso infatti sul riferimento a tragici eventi quali le persecu-
zioni naziste e sulla critica che la Plath muove ai compatrioti di suo padre. In realtà
l’autrice, attraverso l’allusione ai campi di sterminio, desidera esclusivamente traccia-
re il ritratto di una vittima eterna, una figura resa leggendaria (o quasi mitologica
come abbiamo detto all’inizio) dalla sua capacità di sopportare le più insostenibili tor-
ture sia fisiche che psicologiche. I continui richiami a contesti biblici, storici, politici,
sociali, personali non fanno altro che sottolineare la frammentazione di un Io combat-
tuto tra la conservazione della propria identità e la continua perdita di essa a contat-
to con una realtà (sia presente che passata) che la tormenta e la limita. In secondo
luogo, da notare il costante alternarsi tra un tono soffuso, “confessionale” e un altro
più eloquente, da “monologo drammatico”, il che rende la poesia recitabile davanti a
un pubblico, secondo diverse modulazioni della voce. Infine, la “presenza” di oggetti
quotidiani ai quali si assegna un significato simbolico nuovo e insolito: questi diven-
gono, infatti, capaci di evocare stati profondamente emotivi dell’autrice più di qualsia-
si altra immagine poetica tradizionale (in una sorta di personale adattamento della
tecnica del “correlativo oggettivo” mutuata da Eliot e Montale). In tal senso è da leg-
gersi anche la scelta di riprodurre una variante originale della terzina dantesca che,
secondo la Plath, risulta la maniera più adatta a enfatizzare la discesa nell’inferno del
suicidio e la resurrezione in un paradiso, abitato però questa volta da demoni dalle
rosse chiome.
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Capitolo
14 STEPHEN KING
La vita e le opere Stephen Edwin King nasce a Portland, nello Stato americano del Maine,
nel 1947. Dopo la separazione dei genitori, va a vivere con la madre (alla quale è molto le-
gato) e si sposta dall’Indiana al Connecticut e al Massachusetts dove si stabilisce definitiva-
mente a Durham per frequentare il liceo. Ai tempi dell’università risalgono i suoi articoli sul
giornale «The Maine Campus», mentre il primo romanzo, Carrie (la cui composizione e suc-
cessiva pubblicazione sono fortemente supportate dalla moglie Tabitha), viene dato alle
stampe nel 1974. Le vendite superano ogni aspettativa, così Stephen da ex operaio in una
lavanderia ed ex professore di inglese si trasforma in uno degli scrittori americani di mag-
giore successo dell’ultimo scorcio del XX secolo. Tutte le sue opere più importanti (Shining,
1977; It, 1986; Misery, 1987; Dolores Clairborne, 1993; Il miglio verde, 1996; Cuori in
Atlantide, 2000) diventano anche film di enorme richiamo commerciale.
Artista poliedrico e dal genuino talento (famose sono anche le sceneggiature di alcuni lun-
gometraggi, tra i quali ricordiamo Creepshow, 1982, e Pet Semetary. Cimitero vivente,
1989, in cui recita persino in piccoli ruoli), Stephen King si è dimostrato nel corso della sua
vita uomo di notevole coraggio e determinazione. Né i guai finanziari (sofferti soprattutto
da piccolo) né un brutto incidente che lo ha costretto per mesi sulla sedia a rotelle hanno
scalfito la sua tempra di combattente puro, in grado, come pochi altri scrittori recenti, di
sondare le pieghe più intime dell’animo umano e di dare corpo alle lacerazioni e alle soffe-
renze che profondamente segnano la travagliata esistenza dell’uomo contemporaneo.
Mise il vestito per la prima volta la mattina del ventisette maggio, nella sua camera. Aveva
comprato un reggiseno che le dava il giusto sostegno (non che ne avesse realmente bisogno)
ma lasciava scoperta la parte superiore dei suoi seni. Indossarlo le dava una sensazione stra-
na, irreale, per metà di vergogna e per metà di eccitazione e sfida.
Il vestito era lungo fin quasi a terra. La gonna era larga ma si stringeva in vita, la stoffa era
ricca e così strana sulla sua pelle abituata solo al cotone e alla lana.
Sembrava che cadesse bene; o almeno sarebbe caduto bene con le scarpe nuove. Se le infi-
lò, si aggiustò la scollatura, e andò alla finestra. L’immagine riflessa sul vetro era sbiadita e
spettrale, comunque sembrava che tutto funzionasse. Forse più tardi avrebbe…
Dietro a lei la porta si spalancò con un leggero scatto della maniglia, e Carrie si voltò a guar-
dare sua madre.
Era in abito da lavoro, con la giacca di lana bianca, il taccuino nero in una mano e la Bibbia
di papà Ralph nell’altra.
Si fissarono.
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Quasi senza accorgersene, Carrie drizzò la schiena e restò immobile nel fascio di luce pri-
maverile che entrava dalla finestra.
«Rosso», disse la mamma. «Avrei dovuto immaginarlo che sarebbe stato rosso».
Carrie non disse niente.
«Posso vedere le tue sporche tette. Le vedranno tutti. Tutti guarderanno il tuo corpo. Il Li-
bro dice…».
«Sono i miei seni, mamma. Tutte le donne li hanno».
«Togliti quel vestito».
«No».
«Toglilo, Carrie. Andremo di sotto e lo bruceremo insieme nell’inceneritore, e poi preghere-
mo e chiederemo perdono. Faremo penitenza». I suoi occhi cominciarono a brillare di quel-
lo zelo strano e insensato che la prendeva in quelle occasioni che lei considerava come pro-
ve di fede. «Resteremo in casa, io non andrò al lavoro e tu non andrai a scuola. Pregheremo.
Chiederemo di ricevere un Segno. Sì, ci metteremo in ginocchio e invocheremo il Fuoco di
Pentecoste».
«No, mamma».
La mamma alzò una mano e si pizzicò la faccia, lasciandoci un segno rosso. Guardò Carrie
per vedere le sue reazioni. Non vedendone alcuna, piegò la mano destra ad artiglio e si la-
cerò la pelle della guancia, facendone uscire il sangue. Prese a lamentarsi e a dondolarsi sui
tacchi. Gli occhi le brillavano per l’esaltazione.
«Smettila di farti male, mamma. Non riuscirai a fermarmi così».
La mamma emise un grido. Chiuse la mano destra a pugno e si colpì sulla bocca, facendola
sanguinare. Si bagnò le dita col sangue, le fissò con aria trasognata e fece una macchia sul-
la copertina della Bibbia.
«Lavata nel sangue dell’Agnello», sussurrò. «Molte volte. Molte volte lui e io…».
«Va’ via, mamma».
Alzò lo sguardo su Carrie, con gli occhi scintillanti. Sulla faccia aveva impressa una espres-
sione spaventevole di virtuosa collera.
«Il Signore non si lascia ingannare», bisbigliò. «Sta’ certa che pagherai il tuo peccato. Brucia-
lo, Carrie! Strappati di dosso il rosso del diavolo e brucialo! Brucialo! Brucialo! Brucialo!».
La porta si spalancò da sola.
«Va’ via, mamma».
La mamma sorrise. Il sangue che aveva sulla bocca rese grottesco e contorto quel sorriso.
«Come Jezebel cadde dalla torre, così sia per te», disse. «E vennero i cani e leccarono il san-
gue. È nella Bibbia! È…».
I suoi piedi cominciarono a scivolare sul pavimento e lei se li guardò stranita. Sembrava che
il pavimento fosse diventato una lastra di ghiaccio.
«Fallo smettere!» gridò.
Adesso era in corridoio. Si afferrò allo stipite della porta e si tenne aggrappata per un istan-
te, poi le sue dita vennero allentate e aperte, apparentemente da niente.
«Ti voglio bene, mamma», disse Carrie con voce ferma. «Mi dispiace».
Creò nella mente l’immagine della porta che si chiudeva, e la porta si chiuse, come fosse sta-
ta spinta dal vento. Con precauzione, per non farle male, ritrasse le mani mentali con cui
aveva spinto fuori sua madre.
Un momento dopo Margaret si mise a picchiare sulla porta. Con le labbra che le tremavano,
Carrie la tenne chiusa.
«Dio ti punirà!» gridò Margaret White in delirio. «Io ci ho provato! Adesso me ne lavo le
mani!».
[Trad. di B. Gasperini]
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