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RIASSUNTO DI “PIAZZA D’ITALIA”, DI TABUCCHI ANTONIO

Il primo romanzo di Tabucchi risale agli anni Settanta. Secondo certe sue dichiarazioni, l’ha prima
scritto in ordine cronologico e poi ispirandosi al cinema e ai giochi sui piani cronologici permessi
dal montaggio cinematografico, l’ha smontato tagliando il manoscritto, ha steso per terra i vari
foglietti e poi li ha ricombinati. È così che il lettore fa una fatica tremenda a seguire l’intreccio delle
varie generazioni di ribelli toscani. Nel libro traspaiono suggestioni tratte dalla microstoria di allora
(la storia vista dai perdenti e dai poveri e non dai re e dai signori, la storia studiata attraverso
vicende di umili che svelano, più della storia globale o seriale o quantitativa, il contenuto, il vissuto
delle vicende storiche – in questo caso l’Unità, i primi anni del XX secolo, l’immediato
dopoguerra). Romanzo degli umili e dei perdenti, incentrato su tre generazioni di una famiglia di
garibaldini e anarchici, Piazza d’Italia non è così un romanzo storico di stampo realistico
ottocentesco, ma un romanzo già postmoderno, dove il tempo è decostruito, e il racconto è
imbevuto di realismo magico.
La difficile definizione del genere di appartenenza annuncia la complessa costruzione del racconto,
caratterizzata da un totale sovvertimento dei piani temporali e dal gioco continuo dei personaggi,
che si scambiano nomi, aspetto, talora destini, e che portano in sé i doppi che li hanno preceduti o
a cui sono legati per affinità (fratelli gemelli, padri e figli). Ricostruire la sinossi del testo è
necessario, dato che la linearità dei fatti è sconvolta alla radice da una narrazione a spirale e
scomposta in tasselli.

Plinio, garibaldino protagonista della spedizione dei Mille e della Breccia di Porta Pia, ha sposato
Esterina, da cui ha avuto due coppie di gemelli: Quarto e Volturno, Garibaldo e Anita detta Atina.
I ragazzi si assomigliano in modo incrociato: Quarto e Garibaldo condividono la stessa esuberanza,
Volturno e Atina sono introversi e taciturni. Dopo tante spedizioni eroiche, Plinio muore a Borgo
per mano di un guardiacaccia, la caccia di frodo essendo l’unico mezzo a disposizione della povera
gente per sfamarsi. Quarto e Volturno partono per la guerra d’Africa: solo Volturno ne farà
ritorno, morto, in una cassetta che viene spedita alla madre col nome sbagliato – quello del
fratello Quarto –, mentre Garibaldo riesce a non partire con uno stratagemma.
Sarà proprio Garibaldo a sposare Esperia, la solitaria creatura amante del mare che ha amato
Volturno , ma per errore si è fidanzata con Quarto, e che darà a Garibaldo un figlio tale e quale allo
zio Volturno, e che come lui si chiamerà. Morto tuttavia il padre, durante l’eroico assalto al
granaio municipale, Volturno ne assumerà definitivamente il nome, Garibaldo. Il giovane
Garibaldo, cacciatore di frodo come il nonno, costretto a scappare dopo aver ferito un
guardiacaccia, trascorre molti anni fra Parigi, gli Stati Uniti e l’Argentina, e solo dopo un lungo
girovagare e un fidanzamento di quindici anni, sposerà la paziente e indomita Asmara, partigiana
e militante comunista. Dopo aver militato nella Resistenza ed essere scampato ai rastrellamenti
fascisti, Garibaldo – diventato nel frattempo venditore ambulante di capponi e cantastorie – sarà
ucciso da un colpo di arma da fuoco mentre arringa la folla sotto la statua al centro del paese, in
piene manifestazioni operaie, nel secondo dopoguerra. Il libro si apre proprio con la sua morte.
In questo libro d’esordio c’è già tutto Tabucchi, come è stato detto.
Piazza d’Italia è ambientato a Borgo, un ipotetico paese toscano (e italiano) ispirato alla sua
Vecchiano, che funge da teatro e osservatorio (da “piazza”) di una lunga tranche di storia d’Italia:
dai movimenti anarchici di metà Ottocento al secondo dopoguerra (“cent’anni di solitudine” e di
“partecipazione”, di vita e di ribellioni pagate con la morte). Il titolo stesso sembra alludere a una
storia emblematica, paradigmatica. La Storia dunque, o meglio la macrostoria raccontata
attraverso la microstoria di una piccola comunità rurale, irrompe fin da subito sulle pagine.

Per Piazza d’Italia è più corretto parlare di tragedia o di epica? La risposta, a suo avviso, propende
per l’epica, a causa dell’incipit della storia che, come in ogni poema epico, trae origine da un
momento di crisi (una morte reiterata, che ha in sé qualcosa di rituale e ciclico: la morte di
Garibaldo-padre e di Plinio); per il tono da tradizione orale che caratterizza il testo e che dà voce a
«gesta raccontate dal poeta ad un pubblico»; per la ciclicità della narrazione che propone l’idea di
un tempo della sconfitta e del male a cui non ci si può sottrarre.

Per venire quindi al modo narrativo adottato da Tabucchi per il suo libro d’esordio, la peculiarità
di Piazza d’Italia è il singolare impasto per cui anche le vicende più tragiche e cupe (come la
distruzione di Borgo da parte dei nazi-fascisti) vengono narrate con un tono fantastico che, in
realtà, rende più intense la violenza e la crudeltà dei fatti ricordati. 

Nella storia con la esse maiuscola, ma anche nella microstoria che, attraverso una saga familiare,
investiga la storia ufficiale, la racconta e propone uno stimolante faccia a faccia tra chi la storia la
fa e chi subisce. I nomi dei personaggi sono quantomeno bizzarri (Quato, Garibaldo, Asmara et
cetera) e gli aneddoti saporosi. Per certi versi, si respira l’aria affabulata e realistica di Cent’anni di
Solitudine di Marquez, ma dal gusto tutto italiano. Sullo sfondo c’è un borgo toscano, il mondo
contadino con i suoi valori e una famiglia anarchica raccontata in tre generazioni successive, un
affresco che ahimè sembra scolorirsi sempre più davanti all’avanzare di una civiltà globale che
tende a uniformare ogni tipicità e sfumatura. Si tratta, ce lo dice l’autore stesso nel sottotitolo, di
una favola popolare in tre tempi, tempi che corrispondono alle tre generazioni di una famiglia
toscana ma anche a tre differenti età del nostro ancor giovane Paese.

Il luogo delle vicende è chiamato semplicemente Borgo, a indicare l’universalità ma anche la


ristrettezza dell’ambientazione. La cosa non è casuale, anche perché se la favola è “popolare” e un
piccolo comune era sicuramente il luogo più adatto per raccontare le vicende del popolo, ovvero i
fatti in piccolo. Questo primo gioiello di Tabucchi risente, in definitiva, del gusto romantico del
folklore e della dialettica novecentista della satira politica, più precisamente nella dialettica della
contrapposizione tra potere e istinto di libertà.

Le protagoniste femminili, un po’ come succede in certi libri di Cassola, sono donne emancipate,
coraggiose e fiere. Gli uomini sono, invece, generosi, testardi, idealisti . In breve, sono dei puri.
Il nemico è sempre il potere, il padrone, per inciso lo Stato . Lo Stato nelle sue diverse età e
gerarchizzazioni sociali. Il Re, prima, il regime fascista poi e la neonata Repubblica, infine,
rappresentano i tre stadi di attese e malcontento cui la famiglia di Borgo ha dovuto far fronte.
Il tono della satira, sottile e affabulato, è sempre costruttivo. Benché breve e frastagliata, la
narrazione risulta corale e accorata, scandendo con precisione ogni voce con chiarezza e
precisione. Leggere Piazza d’Italia oggi, a quarant’anni dalla prima pubblicazione, significa ri-
scoprire un’Italia ormai perduta, rintracciabile solo negli annali, immedesimarsi in una storia che è
soprattutto nostra, ma che è anche la metafora universale della manzoniana contrapposizione tra
oppressi ed oppressori. La memoria, oltretutto, è un tema sempre caldo e un fondamento
pedagogico su cui si dovrebbe fondare ogni civiltà. Ai lettori più giovani, mi sento di consigliare di
lasciarsi trasportare dall’atmosfera del romanzo, di provare ad immaginare le sensazioni che
provano i protagonisti indagandone le sensazioni più intime. Così facendo, riusciranno ad
apprezzare il libro in toto uscendone indubbiamente più arricchiti interiormente. D’altra parte,
come sostiene Daniel Pennac, «immaginare non è mentire». Buona lettura.

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