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I Viceré e L'Imperio

di Federico De Roberto

Scheda critica

Dopo il romanzo autobiografico Ermanno Raeli, uscito nel 1889 e L'Illusione del 1891,
nel 1894 esce il terzo e ponderoso romanzo di Federico De Roberto, I Viceré, come i due
romanzi precedenti pubblicato presso la casa editrice Galli di Torino e di Milano. I Viceré
è un romanzo sociale (come lo definiva il suo autore) o di costume, che si colloca
all'interno di un vasto progetto narrativo sull'Italia contemporanea, il ciclo degli Uzeda,
così chiamato dal nome della famiglia immaginaria di cui L'Illusione, I Viceré e L'Imperio
seguono le vicende per circa mezzo secolo, dal 1855 al 1900. L'ultimo romanzo del ciclo è
rimasto incompiuto ed è stato pubblicato postumo nel 1929.

Sulla scia del successo internazionale de Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di


Lampedusa, la fortuna di De Roberto è andata a poco a poco crescendo, poiché i critici si
trovarono a riconoscere la profonda influenza dei Viceré su Tomasi di Lampedusa. Sino
alla perentoria affermazione di Leonardo Sciascia che, in un articolo apparso su la
Repubblica del 1977 intitolato «Perché Croce aveva torto», riconobbe ne I Viceré «dopo I
promessi sposi, il più grande romanzo che conti la letteratura italiana». In effetti, prima
degli anni Cinquanta, sulla sfortuna critica di De Roberto ha gravato il posto che
Benedetto Croce gli aveva assegnato prima nella sua Critica del 1939 e poi nella
Letteratura della nuova Italia (vol. VI, 1940); e sulla scorta di Croce anche quello delle
prospettive offerte dalle storie letterarie di quegli anni. Il rimprovero più pesante che
Croce rivolge a De Roberto è quello di essere «incapace di poetici abbandoni» perché
«ingegno prosaico, curioso di psicologia e sociologia». I Viceré, secondo il giudizio
stroncatorio di Croce, «è un'opera pesante, che non illumina l'intelletto, come non fa mai
battere il cuore». Appare evidente come l'analisi crociana dei Viceré risulta fondata sul
noto discrimine tra poesia e non poesia, imposto al campo letterario con la pretesa che
basti a valutarne gli esiti.

Nella forma in cui ci è giunto, il piano complessivo del ciclo degli Uzeda risulta assai
chiaro. Nunzio Zago suggerisce che esso assomiglia a un «retablo»: un'imponente pala
d'altare, con un corpo centrale più ampio (il ritratto di gruppo della famiglia) incorniciato
da due pale di dimensioni più ridotte ai lati. Ciò non tanto perché i due libri siano molto
più brevi, ma perché essi sono dedicati a un solo Uzeda ciascuno: i cugini Teresa Uzeda
Duffredi e Consalvo Uzeda di Francalanza. Il primo romanzo è, secondo le parole dello
stesso De Roberto, «un monologo di 450 pagine»; scritto in una prospettiva rigorosamente
ristretta, il narratore vede attraverso il suo personaggio, facendo ricorso alla
«focalizzazione interna», per recuperare la terminologia suggerita da Gerard Genette. Un
lungo monologo interiore che è la biografia dell'educazione sentimentale di Teresa, a detta
di Carlo Alberto Madrignani. Il terzo romanzo, nelle intenzioni di De Roberto, doveva
invece prospettarsi come « un romanzo parlamentare sull'Italia politica contemporanea»,
sul modello della prima ondata di romanzi ambientati a Montecitorio comparsi a metà
degli anni Ottanta, a seguito della delusione suscitata dall'avvento al potere della Sinistra
storica (1876) e in particolare dalla politica trasformista messa in atto dal suo leader
Agostino Depretis. Per citarne uno fra i tanti, La conquista di Roma di Matilde Serao
(1885).

La vera differenza che qualsiasi lettore nota ad apertura dei Viceré, rispetto al primo
romanzo del ciclo, risiede nella nuova orchestrazione corale del racconto. Centro del
romanzo è qui la famiglia con i suoi ritmi naturali scanditi dalle nascite e dalle morti. I
Viceré si apre con la notizia dell'improvvisa scomparsa, i funerali e la lettura delle volontà
della tirannica donna Teresa Uzeda e Risà, principessa di Francalanza, e si chiude con la
morte del suo primogenito Giacomo XIV principe di Francalanza e il passaggio delle
redini della famiglia al di lui figlio, Consalvo. In assenza di un fulcro narrativo unitario e
di una vera conclusione, perché la vicenda si disperde in mille rivoli, I Viceré possono
essere sinteticamente descritti come il racconto della reggenza di Giacomo su casa Uzeda;
racconto che parte da un testamento e arriva ad un comizio, come ha scritto Sciascia
evidenziando la passione di De Roberto per il pastiche.

De Roberto comincia il suo romanzo in medias res, sottoponendo il lettore a uno sforzo
considerevole perché mette in scena una piccola folla di personaggi che ci verranno
presentati soltanto nella prima parte del capitolo terzo. Donna Teresa ha avuto sette figli,
quattro maschi e tre femmine, di cui due – Ludovico e Maria Crocifissa – hanno preso i
voti, mentre degli altri cinque, sono sposati il primogenito Giacomo (con Margherita; e più
tardi, alla morte di questa, con la cugina Graziella), il prediletto contino Raimondo (con
Matilde; successivamente con Isabella Fersa) e Chiara (con il marchese di Villardita), che
darà alla luce un feto mostruoso custodito gelosamente nella boccia dello strutto, stemma
ed emblema della «corruzione» biologica, «[...] il prodotto più fresco della razza dei
Viceré» . Nel corso del romanzo prenderà marito anche Lucrezia (con l'avvocato liberale
Benedetto Giulente), mentre il fragile Ferdinando vivrà dapprima da solo in campagna in
una sorta di autoesilio ispirato al modello di Robinson Crusoe, poi morirà nel corso del
capitolo nono della seconda parte del romanzo. A questo primo e già cospicuo nucleo di
personaggi si uniscono inoltre i quattro cognati di donna Teresa – il liberale e futuro
deputato duca di Oragua, padre don Blasco, il ‘letterato’ don Eugenio e la zitellona
Ferdinanda – tutti non coniugati e senza figli. A questi due gruppi viene ad aggiungersi
infine la nuova generazione, composta dai cinque nipoti di donna Teresa (di cui solo
quattro diventeranno adulti: Consalvo e Teresa Uzeda Radalì, figli del principe Giacomo,
Teresa Uzeda Duffredi figlia del conte Raimondo, quest'ultima la protagonista de
L'Illusione, e un altro maschio nato dal secondo matrimonio di Raimondo), più due altri
giovani usciti da un ramo cadetto della famiglia, i Radalì Uzeda, e chiamati a intrecciare i
loro destini con gli Uzeda di Francalanza: Giovannino Radalì, che si innamorerà,
ricambiato di Teresina ma morirà suicida, e suo fratello Michele, che, in quanto
primogenito, sarà destinato a sposarla. L'arco della storia del romanzo va dalla metà degli
anni Cinquanta dell'Ottocento fino al 1882. I Francalanza vantano origini principesche e
discendono in linea diretta dai dominatori spagnoli. Da qui il titolo di Viceré attribuito alla
famiglia con un misto di sarcasmo e deferenza. La storia, come già detto inizia con la
morte della principessa Teresa e i suoi fastosi funerali. Il principale filo conduttore del
romanzo è costituito dal tentativo riuscito, del primogenito, principe Giacomo, di
riappropriarsi a spese di fratelli e sorelle dell'eredità che è stata in parte sottratta dalle
disposizioni testamentarie della madre. Intorno alla vicenda centrale di Giacomo si
articola il quadro complesso della storia della famiglia Uzeda. Fratelli e sorelle, zii e
nipoti, tutti attaccati alla «roba», ai soldi. Un ruolo decisivo spetta a Consalvo, cinico e
ambizioso, il rampollo più giovane dei Francalanza, quello che riesce ad adattarsi più
degli altri ai nuovi tempi, che capisce il cambiamento e cerca d'inserirsi nella nuova realtà,
anche se moralmente non è migliore degli altri. A questo personaggio, parzialmente
ispirato a una figura storica, Antonino Paternò Castello marchese di San Giuliano,
deputato catanese dal 1882 al 1904, ministro delle Poste e degli Esteri e lontano parente
dello stesso De Roberto (che non fece mai mistero di detestarlo), l'autore affida il compito
di tirare le fila della lunga vicenda degli Uzeda. Col suo apologo finale Consalvo sosterrà
infatti che «la storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno
sempre gli stessi.[...] No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa». Un quadro
desolante delle miserie umane, gelosie e rivalità dei personaggi.

Sullo sfondo delle vicende dei Francalanza ci sono gli eventi della storia nazionale,
dalla spedizione dei Mille alla rivolta di Palermo del 1866, che scandiscono il romanzo e
sono registrati attraverso le ripercussioni nel contesto locale e familiare. Dalla complessità
della trama emerge una violenta denuncia sociale contro la mentalità, le pratiche e le
istituzioni della società di antico regime (Ancien Régime) ancora vive nel Mezzogiorno
d'Italia. Come il maggiorascato, pratica abolita solo sulla carta che attribuisce il diritto di
eredità soltanto al primogenito maschio. Una denuncia lucida, che non suscita nessuna
pietà, né indulgenza nell'autore. De Roberto crea un'opera innovativa, ma il romanzo non
ottiene il successo sperato. Gli apprezzamenti sono scarsi e anche in seguito i giudizi
rimangono avari. Gli unici che ne riconoscono il valore sono Verga e Capuana, amici ed
esponenti della poetica verista che, come De Roberto, sostengono la necessità di
un'adesione a un naturalismo rigoroso. Per il resto, come già osservato, bisognerà
attendere più di mezzo secolo prima che l'originalità e il valore dei Viceré siano
riconosciuti.

Se proprio si volesse individuare un preciso centro gravitazionale nei Viceré, fatta


eccezione per Consalvo, l'ispiratore del Tancredi de Il Gattopardo, che nei capitoli finali
sembra imporsi su tutti, come giustamente ha scritto Sciascia, lo si potrebbe senza sforzo
riconoscere nella figura di donna Teresa Uzeda di Francalanza. Costei, paradossalmente, è
un personaggio «presente per assenza, un personaggio dal cui funerale prende avvio il
racconto e il cui testamento […] contiene in nuce il romanzo, la storia». In effetti, il
personaggio di Teresa è quello che, arrivati alla fine del secondo capitolo della prima
parte, ha parlato per qualche decina di pagine. De Roberto fa di lei la straordinaria
incarnazione di quell'archetipo della madre tiranna che aveva già delineato nel racconto Il
rosario, contenuto nei Processi verbali del 1890.

La disposizione del materiale è organizzata in grossi blocchi, ampiamente scanditi


secondo precise leggi simmetriche. Intanto è significativo che sia L'Illusione che I Viceré
hanno le stesse proporzioni, tre parti, ciascuna costituita da nove capitoli; ed anche
L'Imperio, sebbene organizzato in una sola parte, è composto di nove capitoli. Nei Viceré
sia i capitoli che le parti hanno la stessa lunghezza materiale, con corrispondenze perfino
speculari: per esempio, i capitoli noni, cioè gli ultimi, è stato notato, sono il luogo
predisposto a rivelare delle svolte politiche. L'azione fluisce ininterrotta di capitolo in
capitolo. Gli unici stacchi canonici nella narrazione si hanno agli inizi delle tre parti, con
riprese e rilanci tematici piuttosto che salti nel tempo, deputati a conferire varietà
all'azione senza interromperne o dirottarne il corso. Rispetto al romanzo precedente,
l'impoverimento psichico dei personaggi nasce qui, nei Viceré, da una precisa coscienza
artistica. De Roberto s'impone un diverso metodo narrativo, un metodo storico-empirico:
anziché scavare dall'interno, i profili psicologici sono tracciati con linee schizzate e
nervose che mettono il lettore di fronte ad un ritratto psico-fisiognomico del personaggio,
dunque fortemente caratterizzato anche esteriormente. Poiché tutto l'interesse porta al di
fuori dei personaggi, il narratore ne sacrifica ogni approfondimento psichico e riduce il
dinamismo psichico dei personaggi all'elementare, irrigidendoli e stilizzandoli in alcune
pose e poche «fissazioni». Come per esempio il ribrezzo di Consalvo, descritto ne
L'Imperio, che gli impediva di stringere la mano a chiunque oppure «lo schifo che quasi
gli vietava di portarsi del pane alla bocca, perché era stato maneggiato dal panettiere». E i
lettori dei Viceré sanno che Consalvo aveva contratto questa fobia direttamente dalla
madre (uno dei pochi casi di vera e propria ereditarietà di una «tara» nella trilogia).

Negli anni 1893-95 De Roberto è immerso nella scrittura de L'Imperio. In una lettera a
Ugo Ojetti confessa di aver «passato parecchi mesi a Roma a bellapposta », ma nel
dicembre del 1895 all'amico Ferdinando Di Giorgi scriverà che dopo averne scritto cinque
capitoli, spaventato dalle difficoltà, il romanzo «sta per ora a dormire». De Roberto
lavorerà a questo romanzo fino al suo nono ed ultimo capitolo, lasciandolo allo stato di
un'opera non portata a termine: come osserva Madrignani: «bisognosa di molti ritocchi e
riprese ed anzi priva di elementari collegamenti fra certi capitoli, ed infine incompiuta,
almeno per quello che riguarda la vicenda di uno dei due protagonisti che è poi il
Consalvo Uzeda dei Viceré [...]».

L'Imperio è un romanzo parlamentare, o meglio politico, anzi il più esplicito ed


impegnato sul tema della Roma politica fino a I vecchi e i giovani di Pirandello, condotto
con i criteri della veridicità e della documentazione voluti dal naturalismo. Dopo il
monologo di Teresa ne L'Illusione e il coro degli Uzeda ne I Viceré, ne L'Imperio
incontriamo un duetto dissonante, costituito da un protagonista, Consalvo, arrivato a
Roma dopo essere stato eletto deputato a larga maggioranza nel collegio di Catania, e da
un deuteragonista, il giornalista Federico Ranaldi, quest'ultimo un non-Uzeda, collocato al
centro della storia in una posizione narrativamente non subordinata. Questa scelta
costituisce senza dubbio uno dei tratti più evidenti di discontinuità non solo rispetto ai
romanzi parlamentari di questi anni, ma anche rispetto ai volumi del ciclo. Il libro si apre
proprio con Ranaldi, con la sua prima visita da cronista a Montecitorio, e la descrizione
dell'emiciclo. Egli fa esperienza di una seduta parlamentare ispirata alla discussione
realmente tenutasi a Montecitorio tra il 12 e il 19 maggio 1883, in uno dei più intensi
confronti parlamentari dell'Italia liberale. Metà delle scene sono osservate dalla sua
prospettiva, e, nella forma in cui L'Imperio ci è giunto, è con lui, e non con Consalvo, che
la vicenda trova conclusione. Infatti, dopo aver consumato tutti i propri ideali negli
intrallazzi del mondo parlamentare, Ranaldi farà un amaro ritorno in provincia, a Salerno,
da dove era partito.

Consalvo è un arrivista, Ranaldi un idealista, ed entrambi incarnano due modi opposti


di concepire la politica. Anche dal punto di vista ideologico i due uomini non potrebbero
essere più diversi, dato che Ranaldi proviene dalla Destra storica, mentre Consalvo, pur
essendo stato eletto su posizioni radicali, ha poi prudentemente preso posto sui banchi
della Sinistra governativa. I due sembrerebbero essere destinati a combattersi, ma con una
grande intuizione narrativa De Roberto li colloca dalla stessa parte, in un'alleanza per la
nascita di un partito della Nazione, che operi nell'interesse superiore della Patria; una
singolare alleanza contro natura che viene a essere una perfetta trasposizione romanzesca
del trasformismo di Depretis. Spostandosi dalla Sicilia a Roma, la critica di De Roberto
nei confronti delle istituzioni si fa ancora più esplicita. Infatti, ne L'Imperio, egli condanna
l'apparente democrazia parlamentare e si scopre attratto in maniera confusa per certi temi
tipici dell'estrema sinistra, o meglio per certi suoi «ideali», schierandosi da quella che sarà
poi l'evoluzione ideologica di Ranaldi. Si ricordino, a tal proposito, le pagine dedicate alla
conferenza «antisocialista» tenuta da Consalvo in difesa dei partiti conservatori contro le
teorie socialiste, contenuta nel capitolo VII del romanzo. Al suo arrivo nella capitale,
Consalvo, il principe Uzeda di Francalanza, si trova nella situazione imbarazzante del
parvenu. Si muove a fatica e i suoi tentativi di mettersi in luce falliscono. È snervato dalla
lunga attesa di emergere e talvolta, scoraggiato, tentato alla rinuncia. Fino a quando la
Destra non gli propone una conferenza improntata all'antisocialismo. Dopo molte
incertezze Consalvo accetta e tiene il suo discorso che è una delle pagine di bravura di De
Roberto, giocata su due piani opposti della scena: l'arringa di Consalvo, tutta carica di
luoghi comuni, citazioni alte, sostenuta da un'ironia volgare e superficiale, e lo sdegno e le
obiezioni del riflessivo Ranaldi, contro le parole di Consalvo e del suo pubblico. Consalvo
raggiungerà finalmente il potere sfruttando, con un cinismo lucido, le circostanze di un
attentato nei suoi confronti, dal quale uscirà lievemente ferito. Nell'ultimo capitolo del
romanzo, Ranaldi tornerà nella sua Salerno, e mettendo da parte il suo «socialismo» si
abbandona a un lungo «monologo» che trova i suoi ispiratori in Leopardi e Schopenauer.
Nella sua visionaria prospettiva cupa e apocalittica sono due le alternative che
permetteranno agli uomini di stringere tra loro un patto d'alleanza: da una parte il suicidio,
con la categoria dei «biofobi», e se si esclude questo, dall'altra si collocano i «geoclasti»,
un'anarchia di uomini che faranno saltare il mondo a pezzi. Dunque, non esiste via
d'uscita, perché ogni legge, ogni contratto, ogni soluzione che gli uomini escogitano per
regolare la loro esistenza è contaminata dalla corruzione e dal disfacimento che sono alle
origini della vita.

Tra il 1900 e il 1910 De Roberto, che sta diventando uno scrittore addomesticato e
commerciale, è coinvolto a difendere e a propagandare la politica imperialista e più tardi,
al tempo della prima guerra mondiale, a esaltare il nazionalismo. Nel 1909, in una lettera
tra le più citate di tutto il carteggio derobertiano, De Roberto scriveva a sua madre, donna
Marianna degli Asmundo: «Il romanzo che voglio scrivere è tale da fare colpo. Sarà se
riuscirò a finirlo, un libro terribile; dovrà fare l'effetto di una bomba». Secondo Mario
Lavagetto non fu il bisogno di «vita romana» e di esplorarne e approfondirne gli ambienti
a bloccare la stesura de L'Imperio, ma piuttosto il timore da parte di De Roberto di
«preparare e lanciare quella bomba».

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