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di Federico De Roberto
Scheda critica
Dopo il romanzo autobiografico Ermanno Raeli, uscito nel 1889 e L'Illusione del 1891,
nel 1894 esce il terzo e ponderoso romanzo di Federico De Roberto, I Viceré, come i due
romanzi precedenti pubblicato presso la casa editrice Galli di Torino e di Milano. I Viceré
è un romanzo sociale (come lo definiva il suo autore) o di costume, che si colloca
all'interno di un vasto progetto narrativo sull'Italia contemporanea, il ciclo degli Uzeda,
così chiamato dal nome della famiglia immaginaria di cui L'Illusione, I Viceré e L'Imperio
seguono le vicende per circa mezzo secolo, dal 1855 al 1900. L'ultimo romanzo del ciclo è
rimasto incompiuto ed è stato pubblicato postumo nel 1929.
Nella forma in cui ci è giunto, il piano complessivo del ciclo degli Uzeda risulta assai
chiaro. Nunzio Zago suggerisce che esso assomiglia a un «retablo»: un'imponente pala
d'altare, con un corpo centrale più ampio (il ritratto di gruppo della famiglia) incorniciato
da due pale di dimensioni più ridotte ai lati. Ciò non tanto perché i due libri siano molto
più brevi, ma perché essi sono dedicati a un solo Uzeda ciascuno: i cugini Teresa Uzeda
Duffredi e Consalvo Uzeda di Francalanza. Il primo romanzo è, secondo le parole dello
stesso De Roberto, «un monologo di 450 pagine»; scritto in una prospettiva rigorosamente
ristretta, il narratore vede attraverso il suo personaggio, facendo ricorso alla
«focalizzazione interna», per recuperare la terminologia suggerita da Gerard Genette. Un
lungo monologo interiore che è la biografia dell'educazione sentimentale di Teresa, a detta
di Carlo Alberto Madrignani. Il terzo romanzo, nelle intenzioni di De Roberto, doveva
invece prospettarsi come « un romanzo parlamentare sull'Italia politica contemporanea»,
sul modello della prima ondata di romanzi ambientati a Montecitorio comparsi a metà
degli anni Ottanta, a seguito della delusione suscitata dall'avvento al potere della Sinistra
storica (1876) e in particolare dalla politica trasformista messa in atto dal suo leader
Agostino Depretis. Per citarne uno fra i tanti, La conquista di Roma di Matilde Serao
(1885).
La vera differenza che qualsiasi lettore nota ad apertura dei Viceré, rispetto al primo
romanzo del ciclo, risiede nella nuova orchestrazione corale del racconto. Centro del
romanzo è qui la famiglia con i suoi ritmi naturali scanditi dalle nascite e dalle morti. I
Viceré si apre con la notizia dell'improvvisa scomparsa, i funerali e la lettura delle volontà
della tirannica donna Teresa Uzeda e Risà, principessa di Francalanza, e si chiude con la
morte del suo primogenito Giacomo XIV principe di Francalanza e il passaggio delle
redini della famiglia al di lui figlio, Consalvo. In assenza di un fulcro narrativo unitario e
di una vera conclusione, perché la vicenda si disperde in mille rivoli, I Viceré possono
essere sinteticamente descritti come il racconto della reggenza di Giacomo su casa Uzeda;
racconto che parte da un testamento e arriva ad un comizio, come ha scritto Sciascia
evidenziando la passione di De Roberto per il pastiche.
De Roberto comincia il suo romanzo in medias res, sottoponendo il lettore a uno sforzo
considerevole perché mette in scena una piccola folla di personaggi che ci verranno
presentati soltanto nella prima parte del capitolo terzo. Donna Teresa ha avuto sette figli,
quattro maschi e tre femmine, di cui due – Ludovico e Maria Crocifissa – hanno preso i
voti, mentre degli altri cinque, sono sposati il primogenito Giacomo (con Margherita; e più
tardi, alla morte di questa, con la cugina Graziella), il prediletto contino Raimondo (con
Matilde; successivamente con Isabella Fersa) e Chiara (con il marchese di Villardita), che
darà alla luce un feto mostruoso custodito gelosamente nella boccia dello strutto, stemma
ed emblema della «corruzione» biologica, «[...] il prodotto più fresco della razza dei
Viceré» . Nel corso del romanzo prenderà marito anche Lucrezia (con l'avvocato liberale
Benedetto Giulente), mentre il fragile Ferdinando vivrà dapprima da solo in campagna in
una sorta di autoesilio ispirato al modello di Robinson Crusoe, poi morirà nel corso del
capitolo nono della seconda parte del romanzo. A questo primo e già cospicuo nucleo di
personaggi si uniscono inoltre i quattro cognati di donna Teresa – il liberale e futuro
deputato duca di Oragua, padre don Blasco, il ‘letterato’ don Eugenio e la zitellona
Ferdinanda – tutti non coniugati e senza figli. A questi due gruppi viene ad aggiungersi
infine la nuova generazione, composta dai cinque nipoti di donna Teresa (di cui solo
quattro diventeranno adulti: Consalvo e Teresa Uzeda Radalì, figli del principe Giacomo,
Teresa Uzeda Duffredi figlia del conte Raimondo, quest'ultima la protagonista de
L'Illusione, e un altro maschio nato dal secondo matrimonio di Raimondo), più due altri
giovani usciti da un ramo cadetto della famiglia, i Radalì Uzeda, e chiamati a intrecciare i
loro destini con gli Uzeda di Francalanza: Giovannino Radalì, che si innamorerà,
ricambiato di Teresina ma morirà suicida, e suo fratello Michele, che, in quanto
primogenito, sarà destinato a sposarla. L'arco della storia del romanzo va dalla metà degli
anni Cinquanta dell'Ottocento fino al 1882. I Francalanza vantano origini principesche e
discendono in linea diretta dai dominatori spagnoli. Da qui il titolo di Viceré attribuito alla
famiglia con un misto di sarcasmo e deferenza. La storia, come già detto inizia con la
morte della principessa Teresa e i suoi fastosi funerali. Il principale filo conduttore del
romanzo è costituito dal tentativo riuscito, del primogenito, principe Giacomo, di
riappropriarsi a spese di fratelli e sorelle dell'eredità che è stata in parte sottratta dalle
disposizioni testamentarie della madre. Intorno alla vicenda centrale di Giacomo si
articola il quadro complesso della storia della famiglia Uzeda. Fratelli e sorelle, zii e
nipoti, tutti attaccati alla «roba», ai soldi. Un ruolo decisivo spetta a Consalvo, cinico e
ambizioso, il rampollo più giovane dei Francalanza, quello che riesce ad adattarsi più
degli altri ai nuovi tempi, che capisce il cambiamento e cerca d'inserirsi nella nuova realtà,
anche se moralmente non è migliore degli altri. A questo personaggio, parzialmente
ispirato a una figura storica, Antonino Paternò Castello marchese di San Giuliano,
deputato catanese dal 1882 al 1904, ministro delle Poste e degli Esteri e lontano parente
dello stesso De Roberto (che non fece mai mistero di detestarlo), l'autore affida il compito
di tirare le fila della lunga vicenda degli Uzeda. Col suo apologo finale Consalvo sosterrà
infatti che «la storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno
sempre gli stessi.[...] No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa». Un quadro
desolante delle miserie umane, gelosie e rivalità dei personaggi.
Sullo sfondo delle vicende dei Francalanza ci sono gli eventi della storia nazionale,
dalla spedizione dei Mille alla rivolta di Palermo del 1866, che scandiscono il romanzo e
sono registrati attraverso le ripercussioni nel contesto locale e familiare. Dalla complessità
della trama emerge una violenta denuncia sociale contro la mentalità, le pratiche e le
istituzioni della società di antico regime (Ancien Régime) ancora vive nel Mezzogiorno
d'Italia. Come il maggiorascato, pratica abolita solo sulla carta che attribuisce il diritto di
eredità soltanto al primogenito maschio. Una denuncia lucida, che non suscita nessuna
pietà, né indulgenza nell'autore. De Roberto crea un'opera innovativa, ma il romanzo non
ottiene il successo sperato. Gli apprezzamenti sono scarsi e anche in seguito i giudizi
rimangono avari. Gli unici che ne riconoscono il valore sono Verga e Capuana, amici ed
esponenti della poetica verista che, come De Roberto, sostengono la necessità di
un'adesione a un naturalismo rigoroso. Per il resto, come già osservato, bisognerà
attendere più di mezzo secolo prima che l'originalità e il valore dei Viceré siano
riconosciuti.
Negli anni 1893-95 De Roberto è immerso nella scrittura de L'Imperio. In una lettera a
Ugo Ojetti confessa di aver «passato parecchi mesi a Roma a bellapposta », ma nel
dicembre del 1895 all'amico Ferdinando Di Giorgi scriverà che dopo averne scritto cinque
capitoli, spaventato dalle difficoltà, il romanzo «sta per ora a dormire». De Roberto
lavorerà a questo romanzo fino al suo nono ed ultimo capitolo, lasciandolo allo stato di
un'opera non portata a termine: come osserva Madrignani: «bisognosa di molti ritocchi e
riprese ed anzi priva di elementari collegamenti fra certi capitoli, ed infine incompiuta,
almeno per quello che riguarda la vicenda di uno dei due protagonisti che è poi il
Consalvo Uzeda dei Viceré [...]».
Tra il 1900 e il 1910 De Roberto, che sta diventando uno scrittore addomesticato e
commerciale, è coinvolto a difendere e a propagandare la politica imperialista e più tardi,
al tempo della prima guerra mondiale, a esaltare il nazionalismo. Nel 1909, in una lettera
tra le più citate di tutto il carteggio derobertiano, De Roberto scriveva a sua madre, donna
Marianna degli Asmundo: «Il romanzo che voglio scrivere è tale da fare colpo. Sarà se
riuscirò a finirlo, un libro terribile; dovrà fare l'effetto di una bomba». Secondo Mario
Lavagetto non fu il bisogno di «vita romana» e di esplorarne e approfondirne gli ambienti
a bloccare la stesura de L'Imperio, ma piuttosto il timore da parte di De Roberto di
«preparare e lanciare quella bomba».