Sei sulla pagina 1di 466

1

'

STORTA LETTERARIA

D ITALIA
Scritta da

una Societ

di Professori

Storia Letteraria
D' ITALIA
Scritta da

una

Piano

Societ di Professori

dell'

C. Giussani. - Letteratura romana


F.

Novati. - Origini

della lingua

Opera

V. Rossi. F.

Quattrocento.

Il

Flamini -

Cinquecento.

II

N. Zingarelli.

"Dante

A. Belloni. -

Il

Seicento.

G. Volpi. -

Trecento

T. Concari. -

//

Settecento.

Il

G. Mazzoni. - L'Ottocento

STORIA LETTERARIA
D'
Scritta

ITALIA

da una Societ

di Professori

VITTORIO ROSSI
Prof. nell'Universit di

Pavia

IL

QUATTROCENTO

CASA EDITRICE

DOTTOR FRANCESCO VALL ARDI


- MILANO FIRENZE GENOVA NAPOLI ROMA TORINO BOLOGNA
PADOVA BARI PALERMO PISA SASSARI CAGLIARI CATANIA
TRIESTE

ALESSANDRIA D'EGITTO

BUEN03-AYRES

PROPRIET LETTERARIA

Stabilimento della Gasa Editrice

Dottor Francesco Vallardi.

T? GFfTY CHTR

Milano.

INDICE DEI CAPITOLI

Introduzione
I

ricordi

....

Nuovo avviamento
Umanesimo e Rinascimento,

medio evo,

nel

dell'antichit

1.

P a g

degli studi

in-

I confini
2.
torno all'antichit classica, 2.
Le arti e
Condizioni politiche dell'Italia nel sec. XV, 3.
del Rinascimento,
Il lusso e la vita sociale, 8.
La morale e la religione 8.
le lettere, 7.

Argomento

CAP.

I.

del libro, 11.

GrLI

UMANISTI

15.
Coluccio Salutati, 13.
Il Paradiso degli Alberti
convegni in S. Spirito, 16.
Giovanni Malpaghini, 16.

La morte

del Salutati, 17.

Primo

Luigi Marsili ,16.


Manuele Crisolora, 17.

diffondersi dell'

umanesimo fuor

To-

di

L'umanesimo e la politica
scoperte
Antonio Loschi e Uberto Decembrio 18. Poggio Bracciolini e
Firenze nei primi decenni del secolo, 23. Niccol Nicd'antichi
26.
23. Leonardo Bruni, 24. A. Traversali, 25. Palla Strozzi
Gio. Aurispa,
Lo Studio fiorentino 27. Cosimo de' Medici ,27.
Vespasiano da Bisticci, 28, Francesco Filelfo e
umanesimo presso Filippo
Maria Visconti e
Sforza. 30. P. C. Decembrio. 3?. Gli umanisti dispengloria, 34. Accattonaggio degli umanisti, 35. Teodoro Gaza, 35.
Condizioni degli umanisti 36. L'educazione nel
XV Gasparino Barzizza, 37; Guarino veronese e Leonello d'Este
38; Vittorino da Feltre, 39.
trattati pedagogici, 40. Fanciulli miracolosi
41. Le donne erudite: Ginevra e Isotta Nogarola Costanza Varano Cassandra Fedele 41. Gli umareligione
dispute del Salutati con Giuliano Zonarini con Gio. da
e
San Miniato e con Gio. Dominici. 42. La fede degli umanisti, 44. Gli umapapi: Martino V, 46; Eugenio IV, 46; Niccol V, 47;
e la Chiesa, 45.
scana: P. P. Vergerio e Ognibene della Scola, 18.

le

19.

testi.

coli,

I librai

1'

gli

sieri di

sec.

la

nisti

nisti

Callisto III, 48

Pio

II,

48.

CAP. II.
La letteratura critica
Due scuole di umanisti: la scuola degli impressionisti e la scuola
Lo stile latino, 52.
scientifica, 51.
La vita e le opere di Lorenzo Valla, 53.
Re Alfonso d'Aragona, 55.
Le polemiche del Valla, 60.
Trionfo della scuola scientifica, 62.

Greci in Italia: Giorgio da Trebisonda 64.


Giovanni Argiropulo, Demetrio Calcondila CoIl concilio per l'unione della Chiesa greca colla latina, 66.
stantino Lascaris, 66.
66.
Giorgio Gemisto Pletone 67.
Le polemiche fra i
Il Bessarione
Questioni linGreci, 68.
L'umanesimo e la letteratura del Trecento, 70.
guistiche, 73.
Il certame coronario, 75.
Gli studi del greco, 62.

Le traduzioni

CAP.

III.

dal greco, 64.

La letteratura originale

Le lettere,

in prosa:

ORAZIONI
L'Epistolografia.

trattati e le

Lettere in volgare, famigliari, negozio, politiche, Le


Antonio Beccadelli detto Panormita, 82. Trattati
latini. Loro vari argomenti
loro caratteri
84.
sentimento della fa
miglia
De re uxoria
F. Barbaro ,86.
dialoghi del Poggio,
trattati in volgare popolareschi ed eruditi 88. Giovanni Dominici 88 e
Gio. Gherardi da Prato, 89. Matteo Palmieri, 89,
Leon Battista Alberti,
La prosa dottrinale
95. L'eloquenza in volgare e in latino, 96.
Giannozzo Manetti, Pio oratore, 98. Le invettive degli umani99. La politica degli umanisti, 101. Gli oratori sacri: Bernardino da
il

il

77.

di

epistole latine, 80.

Il

di

87.

italiana,
98.

sti,

Siena, 101,

II

90.

VI

INDICE DEI CAPITOLI.

CAP. IV.
La letteratura originale in prosa La storia e la novella.
La storiografia umanistica, 105. Le storie di Firenze del Bruni e del Poggio, 106
La vita e le opere di Flavio Biondo, 107. Ciriaco Pizzicotti d'Ancona, 111.
:

105

Imitatori del Biondo, 112. Pio come storiografo, 112. Commentarti


del Porcellio e del Bruni. 115. Le cronache e le ricordanze famigliari, 116.
Alamanno Rinuccini Giovanni di Paolo Morelli Buonaccorso
Goro
Dati, Giovanni Sercambi, Marino Sanudo, Bernardino Corio ed
117. Le
Storie
Giovanni Cavalcanti, 120. Le biografie, 121. Giannantonio Campano, Giannozzo ed Antonio Manetti,
Fazio,
Docembrio,
Platina, 121
Vespasiano da
122.
biografi
Dante del Petrarca 6 del Boccac124. La prosa ascetica, 124. Feo Belcari, 125. Le novelle, 125.
Le novelle del Fazio e del Bruni, 126. La Storia di due amanti Enea
126.
Sermini, 127, Masuccio Salernitano, 128, Sabbadino
A132. La Deifira
L. B. Alberti
epistole amorose, 133.
Paradiso degli Alberti di Giovanni da Prato, 133.
Peregrino
Jacopo Caviceo, 135. Novelle spicciolate: del Grasso legnaiuolo, del Bianco Altani,
Buonaccorso
Lapo Giovanni, di Giacoppo. 136. La novella di Luigi Pulci, 137.
Liber Facetiarum del Poggio, 137. Le Buffonerie del Gonnella e
II

Pitti

altri,

di

il

il

Bisticci,

di

il

cio,

d'

Silvio,

Il

delli

rienti,

di

e le

Il

di

11

di

di

Il

le

Facezie del piovano Arlotto, 138.

CAP. V.
La letteratara originale in versi: La poesia profana
Feste e sollazzi a Firenze, 140.
Balli e ballate, 142.
Venezia, 143.
Lionardo
Lirica popolare e semipopolare.
Giustinian, 144.
Canzoni e strambotti
popolari, 144.
Gli strambotti del Giustinian e le Giustiniane, 145.
Lirica
aulica, 149.
La lirica d'amore in volgare: Buonaccorso da Montemagno, Rosello Roselli, i due Accolti, Antonio di Meglio, Domizio Broccardo
Giusto de'
Gli artifici rettorici e la erudizione nella lirica d' amore in volConti, 150.
gare, 152.
La lirica d'amore in latino: Gio. Marrasio e altri, 154.
G. A.
Campano, 154, e T. V. Strozzi, 156.
La lirica politica, 157.
Carattere cortigianesco della lirica quattrocentistica, 159.
Le Odi del
Niccol cieco, 160.
Filelfo, 160.
Il Porcellio, 160.
Sigismondo Malatesta e la sua corte 162.
Epica aulica. 163.
Basifno Basini e i suoi poemi, 163.
L' Isottaeus, 162.
L'epopea mitologica: il Vellus aureum e V Astyanax del Vegio, la Polydo-

Cornazzano

164.

HO

L'epopea storica: poemi dei due Filelfi di Antonio


Le cronache rimate in lingua volgare: Lorenzo
Poemetti
Epica popolare storica, 167.
I cantastorie, 167.
I proverbi
Novelle in rima, 170.
I lamenti storici, 169.

e d'altri,

popolari, 168.

reis del Baratella, 164.


Spirito, 166.

Le novelle popolari e semipopolari in ottave, 171.


Il Pestellino, Jacopo Serminocci,
Imitazioni boccaccesche e dantesche, 172.
Lodovico Bartoli, Domenico da Prato, 173.
I poemi di Giovanni Gherardi, 174,
175.
La fortuna della Divina Commedia nel see di Piero del Giocolo
I poemi del Palmieri, di M. Jonata, di T. Sardi, di G. Falla
colo XV, 176.
monica. 177.
Visioni e trionfi, 178.
Cecchino da Venezia, Francesco Berlinghieri, Bastiano Foresi e altri, 178.
La corte d'Urbino e la cronaca rimaPoesia famigliare, burlesca e satirica 181.
ta di Govanni Santi, 179.
Sonetti, 182.
I poemetti di Stefano Finiguerri e di Gambino d'Arezzo, 181.
I sonetti gnoIl Burchiello, 182.
Francesco d'Altobianco Alberti, 184
mici, 184.
Epigrammisti latini, 185.
L' Hermaphroditus del Panormita, 185.
Poesia
Le satire del Filelfo , 187.
Il De iocis ac ieriis del Filelfo, 186.
del Cornazzano, 170.

morale

in volgare, 187.

Le

satire del Vinciguerra, 188.

VI.
La letteratura originale in versi: La poesia religiosa
Poemi saMiscela di elementi sacri e profani nell'arte e nella letteratura, 189.
Poemi sacri in volcri latini: Maffeo Vegio e Domenico di Giovanni, 191.
gare: di Jacopo Gradenigo, di Candido Buontempi, di Francesco Filelfo, 192.
Le laudi 194.
Il teatro samovimento religioso dei Bianchi 193.
II
Le Devozioni del Gioved e del VeLe laudi drammatiche, 198.
cro, 198.
La
Rappresentazioni sacre nell'Abruzzo e a Roma, 200.
nerd santo, 200.
sacra rappresentazione a Firenze; gli autori, gli argomenti e il modo di loro
Il modo
trattazione, l'assetto scenico, gl'ingegni teatrali e gli intermezzi, 201.
L'intento morale, l'elemento comico e 1' edella recitazione e gli attori, 208.
Osservazioni critiche, 210,
lemento satirico nelle sacre rappresentazioni, 208.

CAP.

L,a sacra

rappresentazione fuor

di

Toscana, 212,

189

INDICE DEI CAPITOLI.

Roma e Firenze ai tempi di Lorenzo il Magnifico


CAP. VII.
214.
L'arte della
Considerazioni sulle condizioni della letteratura intorno al
Pomponio Leto, Bartolommeo
Paolo II. 216.
Roma, 216.
stampa, 215.
Sisto IV, 219.
Gli umanisti sotto quePlatina e l'Accademia Romana, 217.
Ermolao Barbaro e l'aristoDispute umanistiche, 222.
sto pontefice, 221.
MarL'accademia platonica, 224.
Firenze, 224.
telismo padovano, 223.
Giovanni Pico della Mirandola. 230.
silio Ficino e le sue opere principali, 224.
Lorenzo dei Medici detto il Magnifico suoi studi 236,
Cristoforo Landino 234.

V Altercatione 237, il Canzoniere e il commento, 238, le SWue,240 il Corinto


V Ambra 241 1' amor di Lorenzo per le lettere le arti e le pompe 242 la
la JSencia da Barberino , 244, i
Caccia col falcone le canzoni a ballo 243
Canti carnascialeschi, 245, le Laudi, 246, il S. Giovanni e Paolo, i Beoni, 247.
carattere e le poesie minori di Luigi
Il
Luca e Bernardo Pulci, 248.
Le donne
Bernardo Bellincioni , 253.
Matteo Franco 252.
Pulci, 250.
,

Angelo PoliLucrezia Tornabuoni e Clarice Orsini, 254.


ziano, 254: la sua giovent, la versione dell' Iliade, il P. in casa Medici, 255,

di casa Medici:

l'

Orfeo, 256,

le ballate e

rispetti, 259, gli

epigrammi

latini e le elegie, 261, le

P. istitutore in casa Medici, il P. cacciatore di


benefici e di doni, 269, il P. professore nello Studio, le prolusioni letterarie in
prosa e in versi 270, le prolusioni filosofiche , 272, il P. filologo i Miscellanea, 272, lo stile latino del P. e la sua disputa con Paolo Cortese, 274, la polemica con B. Scala (Alessandra Scala) e il Manilio 274, la polemica con GiorEruditi e poeti latini minori, 277.
gio Merula, 276. la vanit del Poliziano, 276.
Giovanni Lascaris, Bartolommeo Fonzio, Naldo Naldi, Giov. Battista CantaPaolo del Pozzo Toscanelli, 279.
La morte di
ndo, Ugolino Verino, 277.
La religione nella briLorenzo il Magnifico, del Poliziano e del Pico, 279.
Platonici e il Savonarola: M. Ficino, 280, Giovanni
I
gata medicea, 279.
Nesi, 280, Girolamo Beni vieni, 281.
11
Savonarola e la cultura intellet-

Stanze per

la giostra, 262,

il

tuale, 282.

CAP.

VIII.

Leggende

La letteratura cavalleresca

poemi su

Attila, 284.
L'epoNarrazioni d'argomento classico. 285.
Cenno sulla letteratura franco- veneta, 286.
pea carolingia in Italia, 285.
Romanzi in prosa e poemi carolingi toscani, 286.
La recitazione dei cantastorie, 287.
Caratteri esterni ed interni delle narrazioni carolinge italiane, 288.
Decadenza della letteratura carolingia toscana, 293
1 Reali di Francia, 289.
Il Morgante di Luigi Pulci, 294.
Le narraIl Ciriffo
GaVoaneo, 309.
Matteo Maria Boiardo e le sue opere minori, 313.
zioni brettoni in Italia, 311.
Il Mambriano del Cieco da Ferrara, 333.
Orlando Innamorato, 319.
e

CAP.
Il

IX. Napoli ai tempi di Ferdinando I d' Aragona


Giovanni Pontano la sua vita, il
Panormita e l'Accademia napoletana, 336.
Le opere del P. in poesia: gli
P. uomo di Stato, il suo carattere, 337.
Amores, 340 la Lepidina, 342 gli Hendecasyllabi seu Baiae, 344 i libri De
Amore coniugali, 344; i Versus jambici, gli Eridani, 346; i Tumuli 346; il

poema Urania

e le altre

opere astrologiche, 348,

libro

il

Meteororum

il

poe-

trattati
349.
De bello
metto De Hortis Hesperidum, 349.
neapolitano e De sermone, 350. Accademici napoletani, 350. Dialoghi del
P. e la Chiesa, 355.
grammatici 356. LetPontano, 351.
P. e
teratura in volgare, 356. Le farse popolaresche, 356. Primi documenti
De Jennaro, 359 F. Galeota, 359; G. Perleoni, 360.
di poesia
358. P.
Giannantonio Petrucci, 360. Cariteo, 361. Prosatori napoletani; F. Del
Tuppo, 363; Giuniano Maio 364. Jacopo Sannazzaro primo periodo della sua
farse
gliommeri e
364.
corte del S., 365. U Arcadia, 366.
La letteratura pastorale in lingua volgare e la fortuna
Arcadia 369.
canzoniere del
370. Bucolici
del sec. XV, 371. Le Piscatoriae
del
372. Le elegie,
epigrammi
371. L'ultimo periodo della sua
filosofici.

I libri
I

Il

Il

J.

lirica,

11

vita,

le

di

dell'

S.,

il

CAP. X.
Il

De par tu

Il

gli

vita,

S.,

latini

Virginis, 372.

Il teatro e la lirica alla pine del secolo


teatro, 375.
Studi critici sul teatro antico, 375.
Imitazioni di Seneca d'argomento storico: le tragedie di Giovanni Manzini e di Laudivio de' Nobili, 376.
Imitazioni di Seneca
La Historia Baetica e il Fernandus servatics, 376.

INDICE DEI CAPITOLI.

VITI

d'argomento classico:

YHiempsal

V Acliilles del Loschi

del Dati, 377.

la
Progne di Gregorio Correr
Commedie umanistiche latine: il Paulus di P. P.
,

Vergerlo, la Poliscena attribuita al Bruni


377, il Philodoocus dell' Alberti
la
Chrisis del Piccolomini, la Fraudiphila, la Philogenia di Ugolino Pisani, 378.
,

Rappresentazioni Commedie antiche a Roma, a Firenze e a Ferrara, 379. Drammi mescidati, 371. Niccol da Correggio e
suo Cefalo, 381. Isabella d'Este e
rappresentazioni mantovane, 382.
La Panfilo, del Pistoia e
drammi mescidati
argomento novellfstico, 383.
La Comedia di Jacob e Josef Pandolfo Collenuccio, 383. Drammi mescidati d'argomento lucianesco, 384. Galeotto del Carretto, 384. La corte
letteraria del Moro: B. Bellincioni, 385, e Gaspare Viscnti, 386. La Danae.
B. Taccone, 387. Rappresentazioni mitologico-allegoriche a Milano
TacDomenico Fusco) e ad Urbino
Gio'
cone e del Bellincioni, 387; a Bologna
vanni Santi), 388. Le egloghe recitative, 388. La. lirica, 389.
Tebalpoeti della
deo, 389, Serafino Aquilano, 391, Panfilo Sasso Francesco Cei e
del Correggio, di Galeotto Del Carretto, del Vistessa scuola, 395. La
Niccol Cosmico 396. Seguaci della pura tradisconti, del Bellincioni e
zione petrarchesca, 397. Pandolfo Collenuccio e la sua Canzone alla Morte, 397.
Pistoia e la
burlesca, 398. La
401.
Ludi studenteschi, 379.

di

le

il

altri

d'

di

di

(del

(di

(di

Il

altri

lirica

di

lirica

Il

Conclusione.

Note Bibliografiche
Indice alfabetico.

critiche

lirica politica,

INTRODUZIONE

I ricordi dell'antichit

classica,

nel medioevo.

Umanesimo

politiche dell'Italia nel sec.

La morale

e la religione.

Nuovo avviamento

Rinascimento
XV.
Le arti
Argomento del

degli studi intorno all'antichit

confini del Rinascimento.

e le lettere.

Il

Condizioni

lusso e la vita sociale.

libro.

I ricordi della civilt romana, raccomandati alla memoria tenace


ed alla coscienza del popolo, non meno .che alla scuola, di sua natura,
sempre conservativa, non. si spensero mai nel medio evo. Travolti,
motori essi stessi, nel fiume della vita che segu alla romana, si al-

terarono via via profondamente; si confusero, colorendosi a' riflessi delle


nuove idee e delle nuove tendenze coi molteplici elementi di quella
,

altre sembianze dalle originarie, costretti che

vita

nuova ed assunsero

essi

furono ad acconciarsi alla temperie

pero,

il

studio delle opere letterarie,


affievol,

storica,

trionfo del cristianesimo e le invasioni


tutto volgendosi

che

la

caduta dell'im-

vennero creando. Lo

non mai intermesso,

si

assottigli

si

ad un fine didattico, grammaticale o morale,

onde incompresa restava l'essenza, frantesa o trascurata l'arte di quelle.


Le istituzioni nuove cercarono un addentellato e un appoggio nelle
antiche; tradizioni religiose e politiche recenti furono collegate a tradizioni

pagane; di titoli e di concetti cristiani brulicarono le storie della


Roma ed intorno ai nomi degli scrittori, intorno ai monumenti
fatti germogliarono leggende fantasiose.

vecchia

ed

ai

Siffatta trasformazione dell'antichit nelle menti dell'et media, avvenne giratamente, per via del progressivo allontanarsi della civilt
cristiana dalla romana, senz'essere avvertita da chi giudicava quella
continuatrice legittima e pura di questa. Alla stessa guisa nell'attrito
dell'uso quotidiano il latino si convertiva con lento ed insensibile moto
negli idiomi romanzi e, nell'uso delle scritture, la lingua di Cicerone
Rossi.

La

lett. ital.

nel sec.

XV-

Ircordi
1 a
ti "
^ h t^
nei

de

INTRODUZIONE.

diventava, per lunga e non interrotta tradizione,

barbaro latino

il

delle scuole.

Ma

xuovo
SegiTatSdi
anuchtt.

dal risveglio degli spiriti, che nel

sani ardori la vita politica italiana,

anche

duodecimo secolo scald

di

lo studio dei classici trasse

conforto di novella gagliardia. Risorse, ricondotta a' suoi fonti, la scienza


fra il secolo XIII e il XIV alcuni letterati si condussero

del giuro

fuori della

morta gora, dove stagnava

la

scuola, ed acquistarono

pi larga e profonda cognizione ed un'intelligenza


l'antichit,

che per

lo passato

non

si

meno

fossero avute. Era perci naturale

che, accanto al persistente concetto della romanit d'Italia,

per

una

inesatta del-

si

venisse,

confronto, grado grado formando nei pi dotti la coscienza del

il

lungo cammino, che la civilt aveva percorso, e dell'abisso che ormai


la separava dall'antica. Questo sent tanto pi nettamente e poderosamente de' suoi predecessori il Petrarca, quanto pi vasta, sicura ed
acuta cognizione egli ebbe della letteratura e della storia di Roma. Da
lui quella coscienza raggi sui contemporanei e pass rinvigorita, esagerata, alle generazioni successive. Negli uomini di studio fu un gran
fervore di ricerche, ima sete ardente di esaminare in ogni sua parte il

mondo

classico,

un

desiderio sospiroso di rifarsi antichi e di continuare,

traviata diremmo
ed eredi di Roma,, la tradizione spezzata
dal medio evo. Il tempio sacro a Pallade si
noi pi correttamente
andava sgombrando dalle erbacce e dai detriti accumulatisi in pi secoli
d' incuria e d'ignoranza, e i nuovi devoti vi facevano ressa per ammiessi italiani

rare e per trarne ispirazioni.


le biblioIn sullo scorcio del secolo XIV e nei primi decenni del
teche delle chiese e dei conventi nostrali e d'Oltralpi furono avidaperch non ripeteremo anche
mente frugate, e da quegli ergastoli,
dove erano giaciuti
quattrocentisti
?
immagine
cara
ai
aoi la bella
morte,
i grandi scritprossimi
a
e
gi
squallidi,
smunti
stagione
lunga

XV

tori di

Roma

dine, alle

tornarono, susurrando ai loro liberatori parole di gratituaure vitali d'Italia. L'antichit parlava il suo proprio e natu-

rale linguaggio dai libri, dalle epigrafi, dai monumenti i dotti la ascoltavano stupefatti, religiosamente, e mano mano prendevano ardire alla
discussione e alla critica. Con una frequenza, che palesa il compiacimento
d'accarezzare, quasi senza darlo a vedere, un'idea prediletta, dicevano
antiquus, dietro all'esempio di Cicerone, tutto che fosse bello, cos nel
rispetto estetico, come nel rispetto morale. Assorti nella contemplazione
delle storie romane, giudicavano meschina ed angusta la vita civile
;

contemporanea, omiciattoli in paragone dei Fabi, dei Catoni, dei Mardi essa, quasi risibili i fatti,
educativo prevaleva su d'ogni altro nello studio dei classici
durante il medio evo. Non lo rinnegarono i seguaci del nuovo avviamento, anzi i pi antichi giudicarono vana ogni occupazione intellettuale, che non rendesse l'uomo moralmente migliore e pi saggio nelcelli,

umnnesirao.

gli attori

l\ fine

l'uso della vita;

ma

vollero che all'intento morale andasse congiunto


studia humanitatis o sapieniiae. gli

indissolubilmente l'estetico, agli

INTRODUZIONE.

studia eloquentiae. Fusi questi e quelli in un tutto, 1 secondi ebbero il


predominio e l'ideale estetico balen pur entro al regno della morale;
tuttavia dagli studia humanitatis venne l'appellativo alla scuola. Umanisti sono detti i devoti dell'antico; umanesimo il movimento, che
essi rappresentano. Locuzioni espressive e pittoresche, come quelle delle
quali il concetto originario si estende a rammentare la pi importante
e comprensiva tendenza dell'et, che gli storici dissero Rinascimento
0 Risorgimento', l'umano affermantesi di fronte al divino, l'uomo volgente lo sguardo dalla contemplazione dei cieli all'osservazione di s
e della natura.

Non

esatti,

n acconci ad appagare ogni variet

di

giudizio

sono

1 nomi Rinascimento e Risorgimento. L'antichit non mor mai nelle


memorie anzi ben lecito domandare, se pi viva non fosse la tradizione classica nel medio evo, allorquando si trasformava adattandosi
alle condizioni dei tempi, che nel Rinascimento, quando gli eruditi la
rievocarono per forza di archeologia. La vecchia matrona lacera e
deforme era certo pi viva della statua, che la rappresentava in sembianze giovanili. E quando si guardi al pensiero in generale, altri pu
obbiettare, checch paia a noi, che segno di una vita energica dello
spirito anche il robusto e tenace perseguimento di un ideale ultraterreno; vita infine, riconosciamolo, anche l'anelare alla morte. Ci
nondimeno, poich la consuetudine ha ormai dato a quei nomi un va-

Rinasci
mento.

lore convenzionale, sarebbe inopportuno

il

ne usano perfino coloro che non accettano

respingerli
il

tanto pi che

grave giudizio che in

essi

racchiuso.

Assai difficile segnare i confini entro ai quali s'abbia ad intendere compreso il Rinascimento. I suoi lembi sfumano al di l del Se
colo XIV; le ultime propaggini si protendono molto addentro nel XVII;
le ragioni molteplici della storia traggono a conchiusioni varie col va-

confini

nascimento,

riare delle attivit umane, alle quali essa

si volga. Nel dominio delle


moti del pensiero, che il secolo
avea suscitato, si disciplinarono in una drittura chiara ed originale solo dopo la
met del XVI, quando nelle arti e nelle lettere il Rinascimento aveva
gi recato a maturanza i suoi frutti pi squisiti ; nelle arti il rivolgimento
ebbe luogo nei primordi del Quattrocento, quando colla morte del Petrarca

scienze e della filosofa

s'era gi chiuso

il

XV

primo periodo del Rinascimento

storica, tutti lo sanno,

non conosce

non

tollera

letterario.

La

storiografia le accetta per necessit pratica. Definito ed inteso

scimento in quel
leggeri

ch

confini

modo che

a noi meglio piacesse, ne

ma, per ventura,

di tal

affatto priva di valore oggettivo,

realt

partizioni nette; la
il

Rina-

segneremmo

di

designazione, vanissima per-

possiamo passarci.

Il

secolo, del

quale abbiamo a narrare la storia letteraria, non pu in nessun caso


restar escluso da quei confini.
All'aprirsi del Quattrocento la fatai decadenza delle istituzioni po-

che partivano le nostre citt, avevano


gi da lunga pezza e in pi luoghi provocata o permessa la formazione

litiche medioevali e le discordie,

condizioni
P
seiofo

xv!

INTRODUZIONE.

4
di signorie

individuali.

La

pi potente fra quelle dell'Italia superiore

appunto allora, per sottomettersi buona parte d' Italia,


come pochi anni dopo un simile intento parve muovere le armi del
Mezzogiorno. In tali congiunture il concetto di nazione, che gi il Petrarca aveva dedotto dal mondo classico ne' suoi ondeggianti ideali politici, scald la mente degli scrittori, auguranti in versi ed in prosa,
in volgare e in latino, unita l'Italia sotto lo scettro d'un solo. Erano
fantasticherie rettoriche, di rado sentite, sempre accarezzate volontieri
per ci che servivano a coonestare adulazioni ed insaziate bramosie di
dominio. I disegni di Gian Galeazzo Visconti e di re Ladislao, che, l'uno
dai campi trionfati di Casalecchio, l'altro da Roma tolta al papa, minacciavano Firenze, interruppe la morte (1402, 1414); n fu grave danno,
perch i medesimi interessi di famiglia, i quali avevano ispirato quei
vantati tentativi di unificazione monarchica, avrebbero poi disfatta l'opera compiuta. In pratica prevaleva la politica delle alleanze e nasceva
l'aspirazione, per breve ora soddisfatta al tempo di Lorenzo il Magnifico, all'equilibrio fra gli stati italiani. Le libert comunali agonizzavano, soffocate qua dal vigoreggiare delle vecchie signorie, l dal sorl da blande
gere di nuove, qua dalla violenza repentina e brutale
arti di governo, che ne lasciavano sussistere le apparenze, annientandone la sostanza, e se tentarono di rialzare il capo la prova fallita
mostr che i tempi non correvano pi a loro propizi. Cos fu a Milano,
dove l'ombra, rievocata con islancio generoso, del vecchio comune infesto al Barbarossa, dilegu rapidamente dinanzi al trionfo, che adduceva
in citt Francesco Sforza (1450). A Roma stessa la signoria civile del
papato, contrastata ad Eugenio IV dalle ribellioni popolari, si stabiliva definitivamente e si consolidava sotto Niccol V, che spense l'ultimo animoso erede dell'ideale di Cola. Ed intanto l'impero faceva mostra
di sua vanit nei pacifici viaggi di Sigismondo e di Federigo III, che
non varcarono le Alpi se non per godere le pompe dell'incoronazione e
per barattare titoli vani con ricchi omaggi.
pareva

stesse,

La rivalit tra Firenze e Visconti, l'opposizione di questi ai papi,


contese fra Angioini ed Aragonesi per il regno di Napoli e tutta
una ftta rete di reciproche gelosie, riempirono di guerre grosse e
le

met del secolo. Le combattevano i ventuarmeggiare non meno colla spada che colla fede,
coraggiosi ed insieme esperti nelle arti, che essi per primi di-

piccine l'Italia nella prima


rieri italiani,

soldati

destri in

sciplinarono, duella strategia e della tattica, padroni talvolta di piccol


dominio, tal' altra uomini venuti su dal nulla. Consci della propria

for^f e della propria importanza fra signori spesso imbelli eppure turbolenti, trattavano da pari e spesso mettevano a mal partito, di servi
divenuti rivali, i principi grandi ed i pontefici e vagheggiavano le pi
ambiziose speranze. A Braccio da Montone tolse di vederle avve-

morte sotto le mura dell'Aquila (1424);


capestro apprestatogli da Ferdinando di Ara-

rate la ferita che lo condusse a

forse a Jacopo Piccinino

gona (1465);

ma

il

il

figlio

d'un villano, che avea

cambiato

la

marra

INTRODUZIONE.

spada del condottiero, Francesco Sforza, riusc ad assidersi sul


Destro venturiero
della politica, a Firenze un mercante ricco ed accorto raccoglieva in
sua mano la somma della cosa pubblica, ed in pi altre citt case principesche perpetuavano il loro dominio per linea illegittima. I fatti davano voga alla massima non venir la nobilt dagli antenati, ma dalla
virt di ciascheduno, e lasciavano credere fosse trionfo di qualit personali d'un uomo quel che in realt era semplice e passeggero affermarsi dell'uomo contro i privilegi e i pregiudizi sanciti dal medio evo.
Meno agitati dei precedenti corsero all'Italia i quattro decenni fra
la pace di Lodi (1454) e la discesa di Carlo Vili. Fin dal 1443 Alfonso d'Aragona s'era stabilito sul trono di Napoli nel 62 la battaglia
colla

trono visconteo ed a fondare una nuova dinastia.

Troia consolid il nuovo assetto politico del reame cui non bast
a scuotere la congiura dei baroni, con feroce energia repressa da re
Ferdinando (1486). A Firenze la preponderanza medicea, uscita incolume
di

dalla cospirazione di Luca Pitti e dalla guerra colleoni ca (1466-67),


ebbe dalla congiura dei Pazzi il battesimo del sangue e dall' audace
prudenza di Lorenzo autorit palesemente principesca. Da Milano dominava buona parte di Lombardia e la non sempre fida Liguria la possa
degli Sforza, amici ai Medici, n i pugnali dei discepoli di Cola Montano la indebolirono, s per via della reggenza condussero lo stato nelle
mani di Lodovico il Moro. Cresceva la potenza di Venezia, vecchia repubblica aristocratica, cui l'esuberanza del sangue a lei confluente dalle
conquistate colonie di Levante spingeva ad espandersi sulla terra ferma
italiana. E la gelosia ed i sospetti di queste grandi signorie guarentivano stabilit alle minori. Le armi non furono in quegli anni mai del
tutto ringuainate, ma la guerra ebbe tanto minore continuit, quanto
pi che in passato, erano potenti, per forza propria o per alleanze,
gli stati e pi minacciose apparivano le conseguenze di un conflitto
grande e decisivo.
Frattanto la nazione s'era docilmente acconciata alla tirannide: le
ambizioni dei grandi erano spente colle morti e cogli esigli o s' ammorzavano spontaneamente; ai dotti arrideva la munificenza degli Augusti e dei Mecenati novelli; il popolo, generoso sempre quando altri
lo guidi, torpido sempre se abbandonato a s stesso, si cullava nel benessere di quella tranquillit, addormentato dal bagliore delle largizioni e delle feste: e guai a chi pensasse ridestarlo! Ma odi, tradimenti,
congiure insanguinavano le citt italiane: nel 1476 cadeva pugnalato
Galeazzo Maria Sforza nel 78 in S. Maria del Fiore Giuliano de' Medici;
nel 1480 Lodovico il Moro faceva uccidere Cicco Simonetta, il fido segretario di Francesco Sforza: ott'anni dopo erano trucidati Girolamo
Riario a Forl e Galeotto Manfredi a Faenza triste litania, che si potrebbe agevolmente continuare. Simili brutture non erano certo novit
;

nella nostra storia, chi, per esempio, ripensi


delitti

che popola

cio del secolo

XV

il

cumolo

di dugentistic

dannati la gelatina dantesca ma in sullo scordanno pi sinistro spettacolo per il contrasto coi

di

grandi progressi intellettuali e colle raffinate esteriorit dei costumi.

INTRODUZIONE.

Quanto

si

fosse perfezionato

il

senso del bello nei secoli XIII e

XIV

monumenti artistici e letterari. Ora la tradizione clasrinvigorita gli addit un nuovo ideale, lo modific e lo acu. E dalle
venne al secolo XV la sua pi fulgida aureola di gloria. Con mi-

attestano famosi
sica
arti

rbile precocit

il

classicismo, consertandosi alle consuetudini paesane

e cristiane e al culto del vero, dava nascimento al nuovo stile nell'architettura e nella plastica. Gi poco dopo il 1430 sorgeva a Firenze il

Lorenzo

primo dei santuari moderni gi nel 1424 era com40 finita la modellatura della
seconda. Gli che gli antichi esemplari avevano potuto esercitare su
quelle due arti un'efficacia immediata, e, soprattutto, che il secolo XV
a veva trovato gi prossimi a maturit gli ingegni di Filippo Brunelleschi
(1377-1446) e di Lorenzo Ghiberti (1378-1455). Dalle costruzioni romane i nuovi architetti non solo tolsero forme d'archi e di colonne,
concetti e motivi, ma desunsero un'idea di purezza, di semplicit ed
armonia nelle linee, d'espressione tranquilla e serena dell'insieme, che
condann per sempre il sesto acuto, i frastagli, le spezzature care ai
maestri del medio evo. Nelle chiese, dove i colonnati d' ordine composito e corinzio sorgono, a reggere gli archi a. sesto tondo correnti
alla cupola e delle quali la facciata qua rinnova
con certe modificaS.

il

piuta la prima porta del Battistero e nel

vecchie basiliche dell'undecime e del dodicesimo secolo,


l si ispira al romano arco trionfale; nei palazzi severamente bugnati
sotto al forte aggetto dei cornicioni o con pi festosa eleganza adorni
zioni, quella di

di pilastri e di fregi; nei cortili,, nei

loggiati, nei mausolei,

battesimali, nei tabernacoli, nelle grandi

pome

nei fonti

nelle piccole opere ap-

pare la ricerca di quell'idea, cos insistente che gli artisti mediocrine


Dalle statue, dai gruppi,
sono condotti all'aridit e alla freddezza.
dai bassorilievi, che la vanga rendeva al sole o che risaltavano sul
dalle pietre incise conservate nei musei,
frontone dei monumenti
scultori
nelle
dedussero
loro composizioni pose di figure, pieghe
gli
ed
di panneggiamenti, una miriade di vaghi motivi ornamentali,
insieme le norme stesse della loro arte, la cura del disegno corretto

'

metodo neh" osservazione del mondo esteriore. Lo studio delmoder e purific l'amor della realt, il quale nelle creazioni
del gran Donatello (1386 ?-1466) rifulge schietto e quasi rude, ma
pur talvolta si piega, specie negli ultimi anni del maestro, all'azione
di Luca
dell' arte classica, mentre sotto gli scalpelli del Ghiberti,
della Robbia e di alcun altro si disposa genialmente anche a ricordi di modi e di concetti medioevali. Sia poi realistica o classica
o rispettosa della pi recente tradizione, la scultura del 400 ha quasi
sempre un' aria di gentile e pura freschezza, che le conferisce una
ed

il

l'antico

particolare attrattiva;

Mino e

lo stesso

si

ripensino le soavi

San Giorgio

di Donatello,

Madonne

di

Desiderio e di

cos vigoroso,

eppure cos

giovenilmente delicato.
Nella pittura il classicismo si fece strada con lentezza forse provvidenziale. In sulle prime essa attinse con baldanza perfino inconsulta

INTRODUZIONE.

le sue ispirazioni dal vero ed insegnamenti a rappresentarlo


l'anatomia e dallo stadio della prospettiva di fresco trovata dal

nelleschi. Ritratti di

dal-

Bru-

contemporanei nelle variopinte loro fogge popo-

larono con amabile anacronismo le

storie

frescate

sulle parati

delle

atteggiamenti strani, anche grotgli sfondi si allargarono in


teschi, d'uomini e d' animali le allietarono
paesaggi spiranti un profumo di primavera fiorita. La tendenza realichiese e le tavole sgargianti di colori

signoreggiava con rude, anzi talora sgarbato despotismo il penda un'alta fantasia e da un gusto
nelle
composizioni quasi epiche di Masplendeva
dignitosa
squisito,
stica

nello di alcuni pittori; nobilitata

saccio (1401-28);, e sorrideva dai freschi di Benozzo Gozzoli

affinata

dalla cura dell'eleganza, dall'amore della natura serena e dalla ricerca


di

impressioni piacevoli. Quegli

della vecchia scuola,

stessi,

mantennero

quali,

come

si

aveva dato molte

beato Angelico

fedeli ai pensieri

secolo l'antico riusc a trasfondere nella pittura


Le

il

ed ai metodi
ne furono tocchi. Solo negli ultimi decenni del

e Gentile da Fabriano, pi

esteriorit, alcune volte

chitettura degli edifici,

ornamento

suo

il

Prima

spirito.

soggetti, pi spesso l'ar-

agli sfondi, e le decorazioni. Il Pi-

sanello (1380 ?-1455), interprete finissimo della natura, non ne risente


osserva il Muntz, a' cui giudizi in generale m'attengo
l'efficacia

che pur copiava con ardore statue e bassorilievi an(1447-1510) la cultura di Firenze medicea
suggeriva soggetti mitologici ed allegorici, ma la realt, modificata dalla
sua fantasia e da una cotal soavit di sentire, le esili ed eleganti figure,
che tra il verde ed i fiori guardano trasognate dai suoi dipinti. Nel
tempo stesso che il Botticelli, operavano a Firenze Domenico Ghirlandaio, Filippino Lippi e Leonardo
questi lasci la citt del Magnifico
nel 1483
i quali
per vari modi, ciascuno con tendenze e caratteri propri, apersero alle intime finezze ed al fare largo del classicismo il regno della pittura fiorentina, sicch in deliziose armonie di
disegno e di colore le nuove conquiste dell' arte del pennello si congiunsero col culto della bella forma, colla forte espressione del sentimento e colla sapiente e fine compattezza della composizione. Intanto
Melozzo da Forl (1438-94) pennelleggiava i suoi mirabili affreschi nelle
Marche ed a Roma, ed Andrea Mantegna (1431-1506) tutti aveva preceduto nella creazione d'un nuovo stile pittorico e tutti forse avanzava,
fecondando col suo ingegno gagliardo ed originale lo studio del vero
nel suo

tichi.

stile,

egli

Sandro

Botticelli

e l'imitazione ardente, paziente, dell'antico, alla quale lo aveva avviato


la scuola dello Squarcione.

Nelle lettere l'erudizione classica irruppe dapprima intollerante e


ma poi piegandosi ad accordi geniali colle tradizioni pi re-

tirannica,

sempre vive e operose rinnov le forme


un fiume rigonfio inonda e
campi sulle sue rive ma, passata, la piena,
le acque, diffondendosi tranquille per una ftta rete di canali
irrigano i colti e li abcellano di pi vivida e fresca verzura, e recano il
centi, ciotte e popolaresche,

modi della poesia e


rende deserti o paludosi
ed

della prosa. Cos

INTRODUZIONE.
della

lusso

vegetazione pur l dove prima olezzava al sole coc3iite

appena qualche
ii

Le

lusso e

socafe

fiorellino selvatico,

arti e le lettere nel loro rigoglio, le ricchezze

accumulate nelle

commerci e nelle guerre fortunate, il gusto finamente


educato davano alla vita apparenze belle e fastose. Non pi intenti di

industrie, nei

difesa o di offesa,

finite nella quiete delle signorie le

discordie,

fog-

giavano l'aspetto delle citt: s la ricerca delle linee eleganti, d'aria,


di luce. Lodovico il Moro disputava co' suoi cortigiani della bellezza relativa di Firenze, di Ferrara e di Milano e faceva demolire a gran
furia poggili e baldresche, che rendevano strette ed oscure le strade.

Le

andavano acquistando

piazze e le vie

ornamenti

ma

di chiese,

di palazzi,

di statue,

di

di

giorno in giorno nuovi


fontane;

di

pi splendidi

fugaci, ridevano nell'esultanza delle feste religiose e civili.

dere

le

quali sfarzose cooperavano

amore per

loro

la

magnificenza,

principi ed

poeti coi versi,

ren-

cittadini cospicui col

maestri del pennello,

della sesta e dello scalpello, dipingendo pennoni e bandiere, disegnando

modellando figure e decorazioni, mentre le allietavano le muvenute di Fiandra. Donne e cavalieri vi facevano
pompa di tutto il loro gran lusso di vesti, d'acconciature, d'armi, di
bardamenti, di gualdrappe, ch nel lavorare siffatti oggetti le cos
dette arti industriali toccavano un grado altissimo di perfezione, come
nell'apprestare l'arredo delle camere, delle sale e delle mense. Con s
splendidi apparati contrastavano spesso le condizioni pratiche della vita
persino nelle corti facevano ancora difetto agi, delicatezze, cure di pulizia
che a noi sembrano ovvie e di cui oggi gode ogni pi umile
popolano. Similmente, quella stessa civile comunanza che voleva gli
uomini educati ad ogni esercizio leggiadro e nel loro contegno gentiedifizi,

siche

artificiose

lezza e grazia signorile senz'aria d'affettazione,


dirsi,
eli

certe grossolanit d'atti e di parole e

scherzi e di burle, secondo

il

si

non

fastidiva, strano a

compiaceva, vedremo,

nostro gusto, di volgarissimo genere.

Siamo cos ricondotti al punto donde movemmo a dire delle arti, poich nel particolare contrasto or ora accennato si riflette quello tra il
progresso intellettivo e il ristagno morale che domina tutta l'et. Progresso
tro,
-a

morale

eiiUjne

e ristagno

ma

non vogliono essere

nessuno pu disconoscere

giudicati l'uno

causa dell'al-

le loro strette attinenze,

L' affrettato rimutarsi del senso estetico venne, gi in sulla fine del

XIV, sottraendo

energie della psiche alla trasformanon a veri


ritorni, sicch questa ne fu inceppata e ritardata. Il senso stesso del
bello toglieva ai pi colti la coscienza della mancanza o della rozzezza
sec l

le rideste

zione del senso morale, sempre lenta e soggetta a soste, se

stornando l'attenzione dall'intimo valor delle azioni


La parola virt perdeva il suo significato cristiano; e virtuoso era chi sapesse comunque fronteggiare gli eventi in pace ed in guerra, chi condelle idee morali,

umane

e volgendola piuttosto a considerarne l'aspetto esterno.

seguisse molti prosperi successi, chi ostentasse liberalit e magnificenza.


D'altro canto

freni,

che

la religione dianzi

opponeva all'impeto

delle

INTRODUZIONE.
passioni,

permanendo nell'apparenza o poco

indebolivano, mentre,

si

pi

impedivano che altri freni acquistassero efficacia attuale. Vediamo come e perch questo avvenisse.
Da pi secoli i fini terreni della vita, in mezzo al fervore di pensieri e di opere, che agitava la nazione, contendevano le menti al fine
soprannaturale. L'uomo era venuto grado grado disviluppando le facolt
e le attitudini sue dalle pastoie, che l'idea dell'infinito aveva loro imin l e tratto tratto rinvigorendosi,

posto; nella coscienza, quest'idea si era via via ritirata nello sfondo,

men-

presentavano ben rilevati sul dinanzi e assiduamente operosi. Codesto affermarsi delle forze
umane, che contraddistingue il Rinascimento e di cui gi vedemmo
conseguenze politiche, gener nei contemporanei l'illusione d'un'imporpreoccupazioni materiali

tre gli interessi e le

si

tanza tutta nuova e straordinaria dell' individuo. N a tale illusione


sottrassero molti storici moderni, dal Burckhardt in poi, i quali pre-

si

tendono che fatto caratteristico dell'epoca sia appunto il vigoroso svolgimento dell'individualit. Nel Rinascimento il genere umano manifesta
con nuova e libera gagliarda le sue facolt e si lascia trascinare dalle
sue inclinazioni il singolo individuo sente e segue quel moto generale,
;

come

Ma

gi le trascendenti esaltazioni del misticismo.

se

non

ti

tra-

viino diversit attinenti al variare delle vicende esteriori e all'alternativa,

Natura varia

colla quale

le indoli

sempre, n

le

apparenze causate dalla

varia copia dei documenti, n le vanterie dei quattrocentisti, non troverai


nel secolo

XV

maggior numero, che

ciascuno nel campo dove

in altri tempi, d'uomini che abbiano,


manifesta la sua attivit una ben definita
,

confondono tra la folla della


quale appartengono. In un periodo, che comincia assai prima

e rilevata fsonomia spirituale;


classe, alla

pi

si

di quel secolo, particolari condizioni sociali e politiche

trassero molti

mutazioni storiche ma quanta


uniformit nel carattere e persino nelle avventure di costoro! Robuste e multiformi figure vide ergersi anche il medio evo, quando lo
concedettero le sue istituzioni; il Rinascimento, che cre lo stato moderno, confer anzi a soffocare od almeno a intimidire ogni mediocre

uomini a divenire

strumenti

vigoria individuale.

La

di fatali

pu forse trarre in
che per favor della sorte
essa registra in gran numero in breve volgere d'anni. Che dire > invece della storia letteraria ? Eccellono s, o come apostoli del classicismo o per originalit di pensiero e di carattere o per grazia di forma
alcuni pochi scrittori, uomini d'alto intelletto
ne conto appena una
decina in tutto il secolo
ma un velo contesto di tendenze e di
teoriche comuni avvolge quanto di letterario producono le menti italiane. Modello l'antico, norma d'arte l'imitazione; fattori di conguagliamento questi, come gi nel medio evo la fede ingenua e la semplice

inganno chi

storia delle arti figurative

vi consideri gli ingegni superiori,

spontaneit. L'alto concetto, che nel 400 s'ha del valore e dell'importanza

personale,

dunque un fatto soggettivo, cui per lo pi la realt concome dicevamo, a crear la quale cooperarono anche

tradice; un'illusione,

lareale efficacia di alcuni pochi nel rinnovare le fonti della coltura ed ilson-

10

INTRODUZIONE.

necchiar della fede, onde meno continuo fu il pensiero della divinit sola
donatrice di grazie. Guardate Francesco Filelfo. Chi pi di lui invasato
dalla coscienza di s

Eppure

il

suoi confratelli, artificiosamente

suo aspetto morale quello di cento


ingrandito da lui stesso: l'opera sua

quanto l'opera di cent'altri presi alla spicciolata, assai


da quell' illusione conseguono fatti e tendenze caratteristici od importanti
il brulicar d'uomini, che si credono e sono detti
singolari, senz'essere; la cura che ciascuno pone in raccomandare il
suo nome alle sue opere e la sete ardente di gloria; gli orgogli smodati, quasi folli, di cui porgono esempio segnatamente gli umanisti.
Mentre l'orgoglio individuale fomentava, ogni d pi, la ribellione ad
ogni autorit, l'autorit della Chiesa, in quanto si impersona nel pontefice, riceveva un fiero colpo dalle discussioni dei concilii di Costanza
e di Basilea. A ravvalorarla non giovava certamente
per ci che
un'istituzione di rado si salva dal discredito, in cui cadano i suoi rapla pertinace franchezza, colla quale gli stessi fautori
presentanti
pi caldi della religione propalavano le male consuetudini della curia.
I pontefici, costretti dalle necessit dei tempi a difendere colle armi il
loro territorio od infatuati a favorire con magnificenza regale le arti
della pace, parevano pi volti alle cure mondane che alle spirituali.
Nel soverchiare degli ideali terreni la fede intiepidiva e si tramutava
in un abito inerte. La moltitudine degli uomini, credente e ligia alle
pratiche devote, non era pi sollevata durevolmente sopra ai quotidiani interessi dall'ideale religioso, con cui si direbbe che avesse preso
una familiare confidenza. Una pubblica sventura o la parola infiammata d'un predicatore di penitenza valeva ancora a riaccendere ardori
di religione, e per le citt, per le campagne tra borgata e borgata,
traevano salmodianti le processioni. Erano crisi passeggere. Negli uomini colti la fede perdurava occulta; pronta s a risorgere, magari in
forma di superstizione volgare, nei momenti pi solenni, ma quasi vergognosa in mezzo a quella ridda di concetti pagani, di memorie classiche e di aspirazioni terrene, che agitava loro l'animo; ma sonnecdi scrittore conta

poco. Tuttavia

chiante sino a dar luogo ad una perfetta indifferenza.


Ora lo straniarsi degli spiriti dalla Chiesa scalzava l'autorit delle

massime morali predicate dal cristianesimo, mentre, s' visto perch,


non si affinava il senso che doveva interpretarle e reggerne la pratica. Nel vacillare o nell'assopirsi della fede scemava o ristava l'azione
intimi ditrice d'un al di l, n vi suppliva la giustizia umana connivente
nei delitti dei grandi e spesso venale. Il puro sentimento del dovere
appare ancora oggi norma di vita cos alta e, sto per dire, cos moralmente aristocratica, che non da far meraviglia se una societ, la
quale scoteva allora la tutela, in cui nel medio evo era stata tenuta,
non se ne lasciava guidare. Come l'antichit aveva offerto agli spiriti
un nuovo ideale estetico, cos dagli scritti di Cicerone e di Seneca rifiorivano le

massime

dello stoicismo, e di savi precetti sul culto della

virt, sul dispregio delle ricchezze, del piacere e degli onori, sull'in-

INTRODUZIONE.
stabilit della

fortuna riboccavano

11

nuovi trattati morali.

l'ideale estetico nulla vietava di divenire attivo

invece non permetteva che le dottrine sane dei

norme

Ma

a quel-

la tradizione cristiana
filosofi

antichi fossero

ben vivere. Similmente i letterati si accaloravano in


dir le lodi della repubblica romana e parevano tutti accesi da brame
di libert, oppure, adulando, proponevano ai principi gli esempi di Augusto e di Cesare invano, ch il classicismo aveva ormai perduta per
sempre qualsiasi efficacia reale sulla vita politica. Pertanto fra l'inerzia
delle idee morali pagane freddamente contemplate e la fiacchezza delle
inalzate a

di

cristiane professate solo in teoria e in apparenza, le passioni, gagliarde

nella generale effervescenza dello spirito,

prorompevano selvaggiamente

e l'egoismo cercava le sue pi alte soddisfazioni nell'appagamento di


quella tra le facolt
colt di sentire

La

il

umane, che era pi sviluppata e

bello

comunque questo

XV

storia letteraria del secolo

si

raffinata, la fa-

manifestasse.

mostra chiaramente come

nisse foggiando l'ideale, a cui codesto senso del bello informava


giudizi.

Ad

ve- Argomento

si
i

suoi

essa dobbiamo in questo volume volgere la nostra atten-

Vedremo

con ardore e pertinacia invincibili la supad essa ispirarsi e su di essa foggiarsi opere
nuove, farfalle di corta vita, oggi famose, domani rimorte perdurare
la tradizione letteraria del Trecento, di rado combattuta, ma solo in
cui giungeva lenta
parte ed a stento fruttifera; venir su dal popolo
un rivolo abbondante
ed affievolita l'eco delle risurrezioni classiche
zione.

studiata

pellettile letteraria antica;

e fresco di lingua e di poesia

nuovi.

e gli antichi elementi

Fu dapprima un connubio

mescolarsi coi

forzato, generatore di ibridi

figli,

ma

vagheggiavano gli spiriti colti. Questo vedremo divenire realt merc un savio temperamento di antico
e di moderno ed il secolo XV trasmetterlo al XVI colle opere del Boiardo
pur segno dell'ideale

e del Poliziano,

letterario, cui

del llbro

'

CAPITOLO PRIMO,

Paradiso degli Alberti. Luigi Marsili. convegni in S. Spi Giovanni Malpaghini. Manuele Crisolora. La morte del Salutati.
umanesimo fuor di Toscana P. P. Vergerlo e Ognibene della
Primo diffondersi
Antonio Loschi ed Uberto Decembrio.
Scola. L' umanesimo e la politica
Firenze nei primi decenni del sescoperte d'antichi
Poggio Bracciolini e
colo XV Niccol Niccoli, Leonardo Bruni, Ambrogio Traversari, Palla Strozzi. Lo
librai
Gio. Aurispa, Vespasiano da BiStudio fiorentino. Cosimo de' Medici.
Francesco Filelfo e l'umanesimo presso Filippo Maria Visconti e Sforza.
Pier Candido Decembrio. Gli umanisti dispensieri di gloria. Accattonaggio degli
umanisti. Teodoro Gaza. Condizioni degli umanisti. L'educazione nel secolo XV
Gasparino Barzizza Guarino Veronese e Leonello d'Este Vittorino da Feltre.
Ginevra ed Isotta
trattati pedagogici. Fanciulli miracolosi. Le donne erudite
Nogarola Costanza Varano. Cassandra Fedele. Gli umanisti e la Religione
sputa del Salutati con Giuliano Zonarini, con Gio. da San Miniato e con ,Gio. Domi La fede negli umanisti. Gli umanisti e la Chiesa. papi: Martino V, Eu-

Coluccio Salutati.

Il

rito.

dell'

testi.

le

gli

sticci.

nici.

genio IV, Niccol V, Callisto III e Pio

La fama

di-

II.

del Petrarca correva in trionfo da

un capo

all'altro e al

quando un giovinetto toscano, forse studente


rettorica ed arte notarile a Bologna, gli diresse con

di l dei confini d'Italia,


di

grammatica

l'ardore e la titubanza del principiante un'epistola

dichiarazioni di ri-

spetto e d'ammirazione, preghiere di consiglio, secondo che verosimile.


II

grande poeta non

la ricevette o

non

la cur;

ma

quel giovinetto,

Coluccio di Piero Salutati, faxto uomo, strinse relazione amichevole con

ed ebbe, pi tardi, affidato da Francesco da Brossano il manoche alla morte del Petrarca era rimasto appiattato
nella villetta d'Arqu, affinch, riveduto, lo desse in luce
onore ambito e gelosamente ricercato da Coluccio, come sanzione alla sua fama
ed alla dittatura letteraria, che egli si sentiva destinato, n s'ingannava, a redar dal maestro.
Il Salutati nacque a Stignano, terra della Valdinievole, nel febbraio
del 1331; da Bologna, dove colla sua famiglia, profuga dalla patria
per le gare di parte, aveva goduto della munifica protezione dei Pepoli,
lui

scritto dell' Africa,

torn, prima del 1353, nella valle natia e vi esercit


tardi (1367) fu per pochi mesi cancelliere del

il

comune

notariato; pi
di Todi;

sper

coiucd
1

^fgi

"^

14

CAPITOLO PRIMO.

invano

di

acconciarsi presso la curia

Urbano V, per pi

la

quale segu

pontificante

due anni, n il cancellierato del comune lucchese (1370-71) diede tregua duratura alle incertezze di quella vita
randagia. Quiete ed una sede, quale s'era augurata fervidamente partecipe della vita italiana, egli trov a Firenze, elettovi, pare sul principio del 1374, notaio delle tratte e l'anno dopo cancelliere dei Signori.
Una cocente bramosia di sapere una tenace forza di volont e
l'ammirazione, ch'era gi nel Petrarca, per la bellezza antica, dominarono tutta la vita del Salutati, da quando, oscuro notaio, si ricreava
dalle occupazioni incresciose e cercava conforti alle avversit della
sorte nel suo studiolo, fra i libri, corrucciandosi contro il volgo de'
suoi coetanei del guadagno curanti, ma nemici d'ogni arte leggiadra,
fino ai tempi in cui, risonando il suo nome venerato e autorevole in
Italia e al di l delle Alpi, gli chiedevano da ogni parte risoluzioni
di dubbi letterari o morali e consigli ed egli a tutti con umanit rispondeva. Pi che mediante le altre opere
trattati, egloghe, poesie
esercit infatti la sua grande efficacia sull'avviamento degli
varie
studi per via delle epistole, anch'esse quasi tutte latine, lunghe talvolta
come dissertazioni, dovunque ricercate e lette con avidit singolare.
di

Dire ser Coluccio era allora come dire l'eloquenza in persona. Anch'egli, al pari del Petrarca, fu raccoglitore amoroso di libri special-

mente

classici,

di trovarne.

Il

che andava braccando colle sue lettere dove sperasse


giorno che da Pasquino Capelli, cancelliere del Vi-

lungamente atteso un codice d'epistole ciceroniane


si avvide
a lui dunque l'onore della scoche erano quelle ad familiares, del tutto ignote, gli parve

sconti, gli arriv

(settembre del 1392) e


perta

toccar il cielo col dito: beatus effectus sum . Critico minuzioso


e sagace, correggeva col raffronto dei codici i testi, proponeva interpretazioni, osservava con acume propriet stilistiche, si industriava a stadi

bilir le

norme

della retta scrittura latina. Egli

il

primo

filologo nel

senso moderno della parola.


Tutto codesto in mezzo alle cure della cancelleria fiorentina, cure
gravose e delicate, specie nel trentennio che il Salutati tenne l'ufficio.
Dal suo banco di palazzo egli infatti fu testimonio di grandi procelle
interne ed esterne: vide il primo levarsi delle classi medie contro lo
spadroneggiar delle arti maggiori e la signoria democratica sopraffatta
dai Ciompi, poi l'effimero trionfo delle arti minori e di nuovo sormontar
gli ottimati; fuori, la guerra degli Otto Santi e l'aspra tenzone col conte
di Virt, lungamente minacciosa alla libert fiorentina. Fra quel tur.

d'animo
ci renmantenegli
giudizio
di
incoerenza
sua
alcuna
verso
indulgenti
dono
nero sempre la fiducia della Signoria. Il cancelliere era ben addentro
nei sottili maneggi e negli scaltri trattati, che la repubblica ordiva
bino d'eventi port nello spaccio degli affari una rettitudine
quasi ingenua ed uno scrupoloso sentimento del dovere, che

senza posa nell'imperversar delle guerre; a lui spettava, fra molt'altri


a principi, a ponuffici, di stendere le lettere che i Signori inviavano

15

GLI UMANISTI.

a comuni, agli assoldati venturieri. Abile nello scegliere argomenti e forme di persuasione, Coluccio vi ragionava robusto e serrato, quasi schivo di troppo vistosi ornamenti, quando si rivolgeva a
personaggi che non si sarebbero volontieri chinati dinanzi a certi
tefici,

laddove collo

ideali,

grandezza romana

scintillo di citazioni classiche e col

studiava di scuotere chi a

si

siffatte

ricordo della

evocazioni pa-

resse pi facilmente sensibile. Tutta intessuta di sillogismi stringenti,


se prescindi da qualche frase assai vivace contro l'antipapa, la
ai cardinali scismatici nel 1378 all'incontro, sodi Muzio Scevola, dei Deci quell'altra,
Lucrezia,
nante dei nomi di
Firenze aveva esortato i Romani a
del
1376
principio
colla quale sul
la prima volta scritture ufficiali
Per
pontefici.
dei
giogo
dal
liberarsi
congiungevano abilmente a pensieri moderni ed asservivano a pratici

lettera

famosa diretta

intenti

concetti classici di libert e di nazione, cari al Petrarca. Iri


il sogno di Cola, auspice il Salutati, che giudicava pro-

esse balenava

d'una federazione, che legasse, come le membra


ma tutta l'Italia a Roma. Ed altre novit erano in quelle epistole. Rozzi notai solevano scrivere le missive
Tei comuni in uno stile irto di forinole stantie ed in una lingua riboccante di neologismi Coluccio, seguitando la guerra gi iniziata dal
fittevole disegno quello

non pur

al capo,

la

Toscana,

Petrarca contro le consuetudini epistolari del medio evo, affidando il


pensiero all'onda sonora e fiorita di periodi studiatamente congegnati,
rinnov lo stile cancelleresco per opera sua l' eloquenza si dispos
:

alla politica.

lui

il

pubblico impiego procur una sufficiente agiatezza; la re-

una tranquillit d'animo, che le amarezze della


non valevano a turbare. In casa lo circondava una bella corona

ligione e la filosofia
vita

di figli, nobilissima schiera,

malgrado dell'aspetto alquanto orrido

o maninconioso , era giocondo ed affabile; anzi cogli amici ciarliero


e sempre pronto alle discussioni. Gradiva le visite in sua casa e volontieri

andava dove

gli offriva facili

secolo

XIV

in

si

passasse

il

tempo

in piacevoli ragionari. Di che

occasioni la citt adagiatasi nell'ultimo ventennio del

una relativa pace interna

sotto

il

quieto governo degli

ottimati.

Di geniali adunanze fuor di porta S. Niccol nella villa del Paradiso n Paracn
narra un romanzo volgare, che documento prezioso della coltura fio- A^fjf

ti

rentina in quello scorcio di secolo, quantunque sia stato scritto molti anni
dopo. Padrone del luogo era Antonio di Niccol degli Alberti (1358-1415).

Quando anche a lui, come gi ai suoi consorti, le lotte delle fazioni


ebbero tolto di godere d'ogni cosa pi caramente diletta, gli dovette
rifiorire, triste, nella mente il ricordo delle sue magnificenze e della
nobile e cortese brigata, che nella primavera del 1389, l sui pratelli
variegati, tra il verde degli alberi, aveva disputato di filosofia e di storia o novellato con gaiezza, ad ora ad ora interrompendo le conversazioni per ascoltare le dolci armonie che Francesco Landini, il cieco
degli organi, modulava sul suo strumento, o per ridere delle facezie e

16

CAPITOLO PRIMO.

delle capriole dei

buffoni.

Biagio Pelacani

lettor

d'astrologia nello Stadio, trattava con copia di

ma

con

di

matematiche e

erudizioni

scolastiche,

scarsa eloquenza da far sogghignare gli uditori, la questione


della felicit umana, ed il piovano dell' Antella esponeva la teoria tomistica sull'usura; ma altri tentavano di ricostruire con critica circos

spezione la storia delle origini

romane

di Firenze, respinte

le

favole

lamentavano lo sperpero delle antiche scritture pi


tosto divine che umane . Aleggiava su quelle riunioni lo spirito della
nuova letteratura volgare di fresco tramontata e se l'Alberti poteva
dei cronisti, e

dame i suoi versi d'amore, tutti Petrarca, il Salutati, che


primeggiava in quei convegni, non sapeva meglio dissertare della generazione, che parafrasando il discorso di Stazio nel XXV 0 del Pur-

recitare alle

gatorio.

Frequentava

Paradiso anche Luigi Marsili, un frate


il grado di maestro in teologia nelle
scuole di Parigi e che dopo aver molto viaggiato in Italia ed in Francia
s'era, intorno al 1379, nuovamente stabilito a Firenze, sua patria. La

Luigi
a

(m.

la villa del

agostiniano, che aveva ottenuto

i394).

signoria gli affid missioni politiche; lo consult quando per timor della
scomunica stava in dubbio se dovesse ricevere gli ambasciatori dell'an-

tipapa (1387) e per ben due volte nel 1385 e nel 90 preg Bonifacio IX.
di inalzarlo alla dignit di vescovo fiorentino. Fu sempre invano, pro-

babilmente perch gliela contesero i suoi nemici. Codesto frate, che


scritto lettere di fuoco contro i corrotti costumi della corte avignonese, che chiamava i cardinali avari, dissoluti, importuni e sfacciati limosini e sosteneva i diritti delle chiese nazionali, adducendo

aveva

con profetica intuizione del futuro l'esempio dei Tedeschi, non poteva
essere troppo caro a Roma; n le anime timorate sapevano ascoltar
senza scrupolo codesto predicatore, che ad aumentare la fede e convertire i cattivi stimava non meno efficaci delle sacre scritture i belli
e buoni, detti dei filosofi e dei poeti pagani.

Come

in Coluccio

dava la mano alla religione;


era dunque caduto a vuoto il consiglio che a questo avea dato il
trarca, convenire al teologo una scienza molteplice e poco meno
universale e dovere andar congiunti cogli studi sacri i profani,
Ma forse pi di questi che di quelli ragionavano coloro che
politica

convegni

in s. spirito
.

cos nel Marsili l'eloquenza

alla

non

Peche
nel

accoglievano intorno al Marsili.


Quivi egli trattava di questioni ardue e peregrine con prontezza mirabile, citando di sovente non solo le sentenze, ma e le parole di Cice-

conV ento agostiniano

di S. Spirito si

rne, di Virgilio, di Seneca e d'altri antichi; il Salutati era assiduo


a quelle conversazioni ed i giovani presenti ne traevano vital nutrimento al loro intelletto. Il cancelliere ed il teologo, congiunti in fida
amicizia e dagli studi comuni e dal comune amor della patria e della
religione, conciliavano in s tendenze discordi, istigatrici, vedremo, di

lunghi
Malpaghini.

dibattiti.

mor il 21 agosto del 1394. Pochi anni dopo l'amore


del classicismo, che animava quelle adunanze, era gi penetrato nello
Il

Marsili

17

GLI UMANISTI.

Studio fiorentino. Giovanni di Jacopo Malpaghini da Ravenna che,


giovane, era stato discepolo e famigliare del Petrarca e nel 1395 aveva
tenuto scuola a Muggia nell'Istria, fu eletto a professarvi rettorica nel
settembre del 1397. Coluccio ne lodava la conoscenza profonda degli
scrittori latini e lo giudicava prossimo nell'eloquenza a Cicerone. Quanto
fosse di esagerato in siffatti elogi, non possiamo appurare, perch il
Malpaghini non lasci opere proprie; ma l'eleganza ed il calore delle
.sue lezioni

infiammarono

alle

bune

lettere tutta

una schiera

di giovani

divenuti famosi.

Pi breve tempo del Ravennate, il quale, tolta un'interruzione di Manuele


ebbe successivamente rinnovata la condotta fino alla sua ?i4%
morte (1417), tenne cattedra a Firenze Manuele Crisolora, che tuttavia lev pi alto grido di s a cagione della novit del suo insegnamento. Indotti dalle persuasioni autorevoli del Salutati, dalle sollecitazioni del Niccoli e dalla liberalit di Palla Strozzi e di Antonio Corbinelli,
invitarono, nel marzo del 1396, con epistole solenni e con
i Signori lo
centocinquanta fiorini d'oro l'anno, che poi furono aclaute promesse,
a
cresciuti d'altri cento, oltre alla facolt di avere alunni privati
letteratura
per
grammatica
e
greca.
Gi
l'anno
prima
averlo
leggere
a maestro, Roberto de' Rossi e Jacopo d'Angelo da Scarperia, erano
.andati a Venezia, dove Manuele era ambasciatore dell'imperatore bizantino; il secondo anzi lo aveva poi seguito a Costantinopoli. A Firenze il Crisolora giunse nel gennaio del 1397. Cos Leonzio Pilato,
il calabrese grosso d'ingegno e digiuno di studi, che, merc le sollecitudini del Boccaccio, avea letto Omero ai Fiorentini, ebbe a successore,
-dopo trentaquattro anni, un greco autentico, gi maestro rinomato in
patria, cui non mancava una discreta perizia del latino e che nel suo
insegnamento portava criteri, secondo i tempi, metodici al Crisolora
latini. Ma
:si deve la prima grammatica greca elementare ad uso dei
,a Firenze egli rimase solo fino al marzo del 1400, quando la venuta dell'Imperatore Manuele Paleologo in Italia, le voci di epidemia, fors'anche maldicenza di emuli, lo indussero, chiesta licenza, a partire. E
dimor, oltre ad un paio d'anni, a Pavia
poi le missioni politiche
troncarono la sua operosit didattica e lo obbligarono a viaggiare pi
volte da Costantinopoli, dove era tornato col suo signore, in Occidente.
Fra il 1408 e il 10 visit le corti di Francia, d'Inghilterra e di Spagna; indi si allog presso la curia, pontificante Giovanni XXIII, e con
quella giunse a Roma nel 1411. Quivi compose in greco il confronto
tra l'antica e la nuova Roma e ale un'altra opericciuola. Nel 1413 segu il
papa a Firenze e l'anno dopo a Costanza, dove lo colse la morte il
quindicesimo giorno d'aprile del 1415. Ma per molti anni non venne
meno la memoria della sua dottrina e bont, ed i semi sparsi dal suo
insegnamento fruttificarono lungi nell'avvenire.
Sei anni dopo la partenza del Crisolora da Firenze, ai 4 di magLa m
gio del 1406, Coluccio Salutati moriva. I giovani che ne erano stati del saiutati,
spronati ed assistiti, piansero mancato il loro padre; la repubblica ch'esette anni,

Rosst.

La

leti.

ital.

nel sec.

XV.

18

CAPITOLO PRIMO.

gli aveva servito con devozione fino agli ultimi istanti, gli decret corona e titolo di poeta e volle che il cadavere laureato fosse deposto a
grande onore in Santa Reparata.

Dal Salutati, continuatore dell'apostolato del Petrarca, ripete in gran


parte le sue origini il fervido amore per le letterature classiche, ohe

animava

le

conversazioni e

la

scuola a Firenze; da lui e da quel

fiorentino raggiarono impulsi fecondi anche


p. p.
1370-

U44).

'

moto

d'Italia,

Pietro Paolo Vergerlo da Capodistria dimor a lungo a Padova nell'ultimo decennio del secolo e vi lesse logica sui primordi del XV; dal

1404 in poi fu per qualche tempo


:

in altre regioni

ai servigi della

cesco Zabarella la segu a Costanza,

curia e col card. Fran-

donde non torn pi in

Italia,

perch, attirato in Ungheria dalla protezione di re Sigismondo, mor


col, pare nel 1444. A Padova si leg in amicizia con Ognibene della
S(Ha, uomo non istraniero alle pubbliche faccende della sua patria ed
insieme buon cultore degli studi. Quivi entrambi devono aver ascoltato
lezioni di Giovanni di Conversano da Ravenna, che, chiusa finalniente (1395) la sua lunga odissea di maestro vagante" teneva, oltre
che l'ufficio di cancelliere dei Carraresi, cattedra di rettorica. Ma non
le

tanto questo grammatico, latinista barocco e spesso barbaro, ancora


ligio ai vecchi precetti stilistici, quanto le scuole e le relazioni fio-

rentine additarono loro le fonti ed

metodi della rinnovata cultura, dacch

l'uno e l'altro furono a Firenze discepoli del Crisolora e del Malpaghini e


il Vergerio, appena sedicenne, vi aveva insegnato dialettica.
Pronto ed intenso eccitamento diede Coluccio affli studi umanistici
anc ^ e P er * a v * a
suo uffici 0 Si diceva ohe alcuno di quelli, che, cadendo il secolo XIV, ebbero guerra con Firenze, confess d'aver ricevuto pi danno dalle epistole di lui che dagli eserciti dei Fiorentini. Vera o falsa, questa voce mostra di per s stessa quanto gran
conto si facesse dell'eloquenza pur nella vita politica. A promuovere
alleanze, a fomentar ribellioni ed a foggiare i giudizi dei contemporanei era ormai, o pareva, strumento pi poderoso la penna, che non
fossero, a vincere le battaglie, le armi malfide dei mercenari. Repub-

gi nel 1388,

politica^

bliche e principi richiedevano nei loro cancellieri perizia dell'arte ora-

Bologna ebbe il suo Pellegrino Zambeccari, gli Este Matteo d'Orgiano e poi Donato Albanzani. Anche Gian Galeazzo Visconti volle
a'suoi ordini uomini, che sapessero fronteggiar degnamente le epistole
del Salutati ed aocompagnare i maneggi della sua politica, i trionfi o
le sconftte de' suoi soldati con bei periodi latini e con classici parar

toria:

goni. Pasquino^ Capelli,

quando

lo

permettevano

un notaio cremonese, amico


i

tempi, del suo collega

eli

della cancelleria viscontea per molti anni, finch

Antono

dano
{dai 1383).

degli

studi e,

Firenze, fu a capo

una bieca vendetta

non l'ebbe fatto cadere in disgrazia (1398). Al suo fianco era un giovane vicentino, che avea destato grandi speranze di s e cui attenun posto segnalato presso i pontefici, Antonio Loschi
(1360?-1441). Tratto dalla brama di imparare, era passato di Verona
a Firenze e vi aveva conosciuto il Salutati; nel 1388 and a Pavia,,

^ eva

(1407)

10

GLI UMANISTI.

non tard a mettere la sua penna al servigio del


Gi la guerra contro Francesco da Carrara (estate
del 1388) lo ebbe araldo e incitatore in una lettera, ch'egli diresse a
Giacomo Dal Verme, capitano dell'impresa, figurando in una matrona
suopiena di maest, ma lacera e piangente, l'Italia ed augurando

studente

d'arti,

conte. di Virt.

nano qui versi

ricordi virgiliani

riunite

in

un

sol corpo

dal

senno del principe e dalle armi del condottiero le disperse membra di


lei. Prose e poesie latine, elaborate appunto nella cancelleria, le pi
dal Loschi, seguirono da allora fin dopo la morte di Gian Galeazzo il
corso del Biscione per le terre d'Italia. Alla presa di Bologna (1402)
plaudirono fragorosamente gli esametri del vicentino e la prosa di un
vigevanasco, Uberto Decembrio (n. circa il 1370; m. 1427), allora segretario dell'arcivescovo Pier Filargo daCandia, poi (almeno dal 1407)
di Giovanni Maria e continuatore nella cancelleria della tradizione iniziata dal Loschi. Il quale probabile che allora desse fuori anche la
sua Invettiva contro Firenze, violenta, impetuosa come una carica di
cavalleria. Con sottile dialettica ritorcendo contro il Visconti le accuse date ai Fiorentini, la confat, a membro a membro, il vecchio Coluccio (1403) e n'ebbe occasione a difendere la politica e a dir le lodi
della sua repubblica, figlia di Roma, d'antichi e di recenti fatti e personaggi gloriosa. E contro il Loschi scrisse latinamente, ad esaltazione
della sua citt, anche un lanaiolo fiorentino, Cino di m. Francesco Rinuc.

cini:

tore,

tanto scottavano le calunnie dei nemici, anche se affidate a scrit-

come direbbero

oggi,

non

ufficiali.

Al Salutati vuol pure esser fatto


di Poggio di Guccio Bracciolini,

il

merito d'aver divinato l'inge-

umanista, che dette agli studi


classici l'impulso forse pi vigoroso, e d'averlo tolto al pericolo d'intristire fra le angustie d'una famiglia ridotta alla miseria dalle vessa-

gno

1'

Bracciolini
1380 " r459)
(

conobbe il Bracciolini giovinetto


era nato
a Terranova nel Valdarno superiore Vi febbraio del 1380
quando
questi venne a Firenze co'suoi; gli fu prodigo di eccitamenti, di consigli e d'aiuti e, prima di morire, lo vide accolto (1403) per le sue
raccomandazioni tra' famigliari di Landolfo Maramaldo, vescovo di Bari,
a Roma e poco dopo (1404) eletto scrittore apostolico da Bonifazio IX.
Colla curia il Poggio and a Costanza nel 1414. Ma che importavano
a lui le dispute teologiche e canonistiche del concilio? Dalle biblioteche dei monasteri circostanti egli sentiva giungere al suo cuore la voce
degli antichi padri imploranti la liberazione dalla loro secolare prigionia (Epst.y I, 5); la vacanza della sede pontifcia, che segu alla deposizione di Giovanni XXIII (marzo del 1415), lo lasciava in ozio e
obbed al dolce invito.
A S. Gallo un abate e dei monaci alieni da ogni
cultura letteraria

zioni degli usurai. Coluccio

lasciavano malamente ammucchiati nel fondo di una torre tra la polvere,


l'umidit e le tignole gran copia di libri; il Poggio ne usci recando
seco

un esemplare completo

prima non se n'erano avuti

se

non

di

T
Le sue
scoperte

20

CAPITOLO RRIMO.

della Institutio oratoria di Quintiliano,


tre primi libri e mezzo
quarto degli Argonaulca di Valerio Fiacco, gli argomenti di Asconio Pediano ad otto orazioni di Cicerone ed altri scritti di minor conto

mutili

il

(estate del 1416). Agli amici d'Italia, dai quali gli

erano venuti conche ne accoglievano con esultanza le


buone notizie, partecipava, raggiante di gioia, le sue scoperte, mentre
rapidamente esemplava i nuovi testi in quella sua elegante lettera antica, la minuscola romana del
e dell'XI secolo, che egli aveva ripristinata fin da quando le strettezze economiche lo obbligavano a trascrivere a prezzo e che' il Salutati ammirava come un segno del valore
dell'uomo. Similmente da san Gallo e da altre librerie dei dintorni il
Poggio ed i suoi colleghi, che solevano accompagnarlo in quelle gite,
accesi anch'essi, nel contatto con lui, da uguale ardore, trassero in
forti

a quell'opera

di civilt e

poema di Lucrezio, le Paniche di Silio Italico, le Selve di StaAstronomicon di Manilio, il de re rustica di Columella e compirono talora veri salvamenti, perch alcune di quelle opere ci pervennero
solo nelle copie ch'essi ne fecero. E forse gi prima il Poggio, viaggiando in Francia e visitando i conventi di Cluny e di Langres, aveva
aggiunto dieci nuove orazioni alla suppellettile letteraria di Cicerone.
Un anno dopo l'elezione di Martino V, non so quali contrariet e
le promesse del vescovo di Winchester, Enrico Beaufort, lo indussero
a recarsi in Inghilterra. Vi pass tristamente circa quattro anni, comluce
zio,

il

l'

battuto dal desiderio della patria lontana e dall'incertezza dell'avve-

invano sforzandosi colla lettura


sue naturali inclinazioni mondane e di

nire, disamorato dagli studi prediletti,


di libri ascetici di soffocare le

destare in s la vocazione allo stato ecclesiastico, cui parevano trarlo


favori del suo protettore.

Ma sul

principio del 1423 fece ritorno a

Roma

e rientr nella curia qual segretario apostolico. Allora ritrov s stesso.


Altro

rStchi
{i&tlv)

Le scoperte che di nuovi cimeli arricchivano il patrimonio della


romana o di nuovi ornamenti abbellivano i gi noti, si succe devano e s i incalzavano senza posa. Pur allora, nel 1422, Gerardo
Landriani vescovo di Lodi, aveva scovato nel duomo della citt un
letteratura

codice delle opere rettoriche di Cicerone, codice che restitu ai dotti

Bruius da pi

secoli obliato e ridon l'assetto originario al

il

De ora-

tore e alYOrator per lo addietro mutili e saldati in un'opera sola. Il


Poggio, ne' suoi rinnovati fervori, riprese le ricerche, ora frugando egli
a Montecassino
stesso nei monasteri, che gli avveniva di visitare
trov l'opera di Frontino sugli acquedotti ed i Matheseos libri di
ora spiando e quasi fiutando per entro
Firmico Materno (1429)
a lontani nascondigli gli agognati tesori. Chiunque di Germania, di
Francia, di Spagna, venisse a Roma a trattare di faccende ecclesiastiche

od a sollecitar favori dalla curia, non isfuggiva all'inquisitoria vigilanza


di lui, che racimolava informazioni e strappava promesse, talvolta rasentando i confini di una cotal letteraria simonia; come accadde con quel
monaco di Hersfeld, cui spiattellatamente disse che nulla avrebbe fatto
per

lui se

non venivano

libri.

Cos l'umanista faceva servir a' suoi

GLI
fini il

segretario pontificio.

patria, era

una

UMANISTI.

21

Quando un'opera tornava dall' esiglio alla


ma come si stizzivano, se poi il

festa per gli eruditi;

fortunato possessore, invida arpia, se ne faceva carceriere geloso! Il


cardinale Giordano Orsini, comprato nel 1429 da Niccol da Treviri

un codice contenente

le venti

erano lette soltanto otto

lo"

commedie

di Plauto
sino allora se ne
tenne per pi d'un anno nascosto con

grave dispetto del Poggio, che dell'acquisto era stato


suasore e che giurava
in alcun

modo

di

il

principal per-

voler piuttosto tutto disimparare che giovarsi

dei libri di quell'avaro porporato.

Anche accadeva che

scarna indicazione d'un inventario mal compilato od una voce messa


in giro ad arte o per ignoranza facesse lampeggiare miraggi di preziosi ritrovamenti e preparasse disillusioni amare ai fiduciosi. Nel 1426
la

credette che in una biblioteca di Colonia stessero appiattati i libri


ciceroniani de republica: era il ben noto Sogno d Scipione. Quante
volte fin dai tempi del Salutati non si commossero i dotti alla speranza

si

che da alcun angolo remoto d'Europa balzassero fuori le deche perdute di Livio! Tante volte, che il Poggio stesso fin col non crederci
pi e sorrideva di chi perseguisse ancora quella chimera.
Sorriso di compatimento e di rimprovero, come quello che gli errava n
sul labbro, quando scherzava, indulgente, sulle debolezze degli amici.
Di questi tollerava anche le bizze e i rabbuffi con altri lo scherzo suo
scorreva per una serie di toni sempre pi acuti fino ad armarsi della
punta di frizzanti ironie, perch l'acrimonia e la malignit, che natura
gli aveva posto nell'animo, sopraffacevano l'inclinazione alla gaiezza
e al motteggio. Guai a chi lo toccasse nella sua grande vanit di letterato Egli sapava bene che la sua fama poggiava su basi incrollabili
e vedeva la lontana posterit rendergli la giustizia, che alcuni contemporanei gli contendevano ma non sempre gli venne fatto di racchiudersi
in tal superbo disdegno verso i botoli che gli davano noia e proruppe, inviperito, in violente aggressioni. Intento a formarsi una biblioteca e non alieno neppur dal pensiero di trar guadagno dalla sua
dottrina e dalla sua abilit, teneva in casa due copisti, che aveva con
grande pazienza ammaestrati, e copiava egli stesso con un fervore che
scherzosamente paragonava al tarantolismo. Alla sua fantasia novellavano dell'antica grandezza e mormoravano rimproveri alla decadenza

carattere

moderne le reliquie antiche di Roma e delle contrade


epper nel desiderio di rianimare il cadavere gigantesco, che
gli giaceva prostato e corrotto dinanzi, il Poggio ricercava e studiava
i templi, i teatri, gli acquedotti, gli archi cadenti e ne raccoglieva con
e alla barbarie
finitime;

fatica le iscrizioni.

Frattanto
lico gli

lucri dei

permettevano

di

due uffici di segretario e di scrittore apostovagheggiare con buona speranza il SUO modesto

ideale di vita tranquilla e libera, nella fida dimestichezza dei classici.

Le soldatesche mercenarie mettevano a soqquadro

l'Italia, le

citt si

papato si affilavano le armi dei


concilii e gi un non lontano avvenire minacciava l'invasione forastiera.
dilaniavano in lotte intestine, contro

il

n ellacuria.

22

CAPITOLO PRIMO.

Il Poggio vedeva e prevedeva tutto questo, ma non se ne accorava e


per s sognava la pace, lungi dai romori del mondo, in una casetta
ben provvista, fra i campi, nel bel paese toscano. In quell'ohm cum
dgnitate non gli riusc mai di veramente adagiarsi; s di assaporarlo

tratto tratto per

breve tempo.

Il

che fu specialmente nel decennio,

quando Eugenio IV, cacciato di Roma, and tramutandosi da Firenze


a Bologna, da Bologna a Ferrara e di qua nuovamente a Firenze, e
poi che il Poggio ebbe assettala, nel 1438, la Valdarnna. Cos egli
chiamava la villa, che aveva comperata, verdeggiante al sole de' suoi
colli natii, dove accanto alla casa
'abitazione ne aveva fabbricata una
per i libri, dove tra il fogliame degli alberi biancheggiavano le teste
ed i torsi antichi, che egli avea potuto adunare, o disseppelliti nella
campagna romana o recatigli di Grecia da frate Francesco da Pistoia
e che Donatello ammirava, dove infine lui non pi giovane ricreavano
le

cure della giovane sposa

balbettamenti dei

figlioletti.

e,

pi giocondi di qualsivoglia eloquenza,

Per lunghi anni aveva

latto vita da liber-

una Lucia Pannelli aveva avuto parecchi figli illegittimi; ma


1435 prese in moglie Vaggia de' Buondelmonti, fandiciottenne, bella e buona e prudente, devota al marito e meglio

tino e da

sullo scorcio del


ciulla

che Pallade esperta d'opre muliebri.


Di pi radi e meno lunghi riposi il Poggio godette dopo che nel 1443
Eugenio IV ebbe ricondotta la curia a Roma. La fama dell'umanista
toscano, uno dei pochi superstiti della prima generazione, ch generazione d'umanisti non ancora quella alla quale appartenne il Salutati, si diffondeva largamente, raccomandata alle scoperte edalle opere
che aveva pubblicato e veniva pubblicando. E le intitolazioni abilmente allogate e, se occorreva, rinfiancate, con isfacciata insolenza, di lodi e di
biasimi gli davano ricchi frutti. Ma invecchiava intanto: aveva visto
con rammarico profondo scendere ad uno ad uno nella tomba gli amici
dei suoi giovani anni; gi vedeva preponderare negli studi metodi e
intenti diversi dai suoi, n aveva, com' dei vecchi, il coraggio e la
forza di appigliatisi. Si rallegr, quando nel 1447 vide inalzato all'o-

nore della tiara Tommaso Parentucelli, che fu Niccol V; ma il desiderio di vivere tra i suoi, nella citt alla quale era sempre rimasto
legato dalle amicizie, dagli interessi e dagli studi, la vinse sulle attrattive degli agi e dei guadagni romani. Nel 1453 abbandon per senili

Po

io

a Firenze,

Cur ^ a cne aveya servito per quasi mezzo secolo ed accett l'ufaveva chiamato. Nella
sua casa di Firenze lo circondavano, dolce compagnia, la moglie ed i
fuori invece lo
nel 1450 aveva avuto l'ultimo, il sesto
figliuoli
avvelenavano polemiche irose ed i biasimi contro il cancelliere, che, esposto al giudizio di un popolo, dov'erano vari i pareri, non poteva accontentar tutti. Si risolse a rinunciare e per prepararsi, come diceva, ad
una vita migliore ed a render, se non buono, almeno tollerabile conto
P re

fcio

^a

'

di cancelliere, cui la repubblica fiorentina lo

delle sue azioni a Dio,

che

lo cogliesse la

si

morte.

un anno prima
1459 fu onorevolmente

ritrasse nella sua villa forse


Il

di

novembre

del

23

GLI UMANISTI.

s3polto in S. Croce e pi tardi la sua effigie pennelleggiata dal Poliamolo fregi, per desiderio dei figli ed annuente la Signoria, la sala
del Proconsolo.

Firenze, s' detto, il Poggio rimase legato da stretti vincoli durante


tutta la lunga sua vita; l'uomo^ che in s impersona pi rilevatamente
d'ogni altro le pecche e le virt, le idee e le tendenze dell'umanista

quale lo vide la prima met del Quattrocento e le impronta di

un

Firenze

d<ji

secolo,

forte

dove l'umanesimo mise prima che in


altre e pi che in altre larghe e profonde radici e trov pi nobile e ricco patrimonio di locali tradizioni e costumanze, colle quali
mescolarsi in fruttuoso e geniale connubio. Ivi gli di favore il decennio di pace e di prosperit, che segu alla morte del re Ladislao (1414)
^ che par quasi combinato a studio col periodo delle pi clamorose ed importanti scoperte. Tornato fin dal 1381 lo stato in potere delle arti
maggiori e ristrettosi poi sempre pi, le parti quetavano e la pi umile,
quasi consunta, pareva rassegnata alle battiture, alle persecuzioni, agli
esigli: risorger pi tardi risanguata e trasformata, esca ad incendi
decisivi nella storia. Intanto la citt, ricca di roba e d'uomini, ridente
nella sua postura sulle rive d'un grande e real fiume, fra colline popolate di ville e di colti verdeggianti alla mitezza del clima, si riposa
in un benessere che le conferisce, pur nell'aspetto delle case e delle
strade, una cert'aria di signoril dignit. Le industrie prosperano -ed i
traffici; per le vie di fresco aperte dalla conquista di Pisa (1406) e
dall'acquisto di Livorno (1421), i drappi di lana e di seta, i velluti, ed i
broccati tessuti sui telai fiorentini e i panni franceschi e catalani con
fine arte fatti preziosi nelle botteghe di Calimala corrono attraverso
i mari a lontani mercati ed i banchi stabiliti nei principali empori dei
carattere individuale, alla citt

commerci

italiani e nelle Fiandre, in Inghilterra, in Francia, in Ispagna, sulle coste d'Africa e d'Asia, li rendono a Firenze in belli e sodanti fiorini. Sono gli anni in cui fioriscono il Niccoli, Leonardo Bruni,
il

Traversari.

Niccol Niccoli, figlio d'un lanaiolo fiorentino (1364-1437), avea frequentate le dotte riunioni in casa il Salutati e nella cella del Marsili
e

tanto ne avea profittato che, lasciata ai fratelli la cura del commercio

si diede tutto agli studi. Giovane ancora, si rec a Padova


per trascrivere di sugli autografi le opere del Petrarca ed ai libri del
Boccaccio provvide degno collocamento a pubblico uso in una stanza,
he fece murare e arredare a sue spese in S. Spirito. Spese, fatiche,
sottili avvedimenti e provvedimenti non risparmi poi in tutta la vita
per adunare una ricca biblioteca d'opere greche e latine, pagane e cristiane, molte nitidamente e correttamente copiate dalla sua mano elegante.
Il Poggio, che fu il pi costante fra gli amici del Niccoli, ricordava
per iscusarne la sterilit letteraria
altri adduce vano l'incontentabile delicatezza del suo ingegno
laddove i nemici parlavano di impotenza e d'ignoranza
gli esempi di Pitagora, di Socrate e perfino di Cristo. Era confronto sproporzionato, non falso; perch il Nic-

paterno,

iccol

Niccoli
(l364 " 1437^

24
coli

CAPITOLO PRIMO.

aveva davvero tempra

di apostolo.

Prestava

o sufficienti alle lettere invitava in sua casa e


amorevolmente. Sul loro animo doveva operare

com'era, di statue, di vasi, di monete, di

un vero museo, testimonio non

libri;

giovani inclini

spronava ed istruiva.
il luogo stesso, ornato-

li

cammei

antichi e di pitture

ma anche
padrone e di quel suo epicureismo estetico, che trapelava, a detta di qualche contemporaneo, dalla lindura della persona,
e dalle abitudini stesse della vita. Nel sentire e nel fare aveva peruna cotal iattanza sprezzante, dalla quale attingevano asprezza e severit i suoi giudizi e che solo di rado si attenuava nella piacevolefestivit della sua conversazione. Facile assai pi al biasimo che alla,

recenti;

solo della scienza,

del gusto fine del

sommesso al morso dell'invidia; certo era.


ombroso quant'altri mai, si inalberava per un nonnulla, n tollerava
contradizioni: il Poggio lo diceva uomo di vetro . Indi litigi, contese e rotture di vecchie amicizie. Ebbe screzi col Crisolora, e si tiraddosso fiere invettive dal mite Guarino (1414), da Lorenzo di MarcoBenvenuti (1420) e da Leonardo Bruni (1424). Il Niccoli
celibe
ostinato, teneva presso di s, come fante,
non volle mai donna n
pubblici uffici, affinch non gliene venisse impedimento agli studi
una.
tal Benvenuta, della quale il Bruni mostr di non fare troppo gran
conto in occasione di certa scandalosa scenata. Ne divamp una discordia aspra e lunga fra i due umanisti, che solo nel 1426 i buoni uffici di Francesco Barbaro poterono comporre.
D'umile luogo
in Arezzo, era nato intorno al 1370 Leonardo di

Francesco Bruni. Narra egli stesso, che nella prigione, dove lo rinchiusero nel 1384 i soldati d'Enghiramo di Coucy, si sent preso d'alode, pareva, e forse era,

er.nardo
rU
?o M44)

more per

gli studi e

per la gloria alla vista d'un ritratto del Petrarca..

si rec a Firenze, divenuta signora della sua patria; v i strinse


dolce domestichezza col Salutati e frequent le lezioni del Malpaghini e=
r

Liberato,

del Crisolora, senza trascurare per

il

diritto civile, cui lo traeva bisogno-

guadagno. Le raccomandazioni di Coluccio e del Poggio e la sua.


stessa educazione ciceroniana gli ottennero da Innocenzo VII, nel 1405,.
una scrittoria nella curia. Avrebbe potuto avviarsi per la carriera ecclesiastica, che offerte pontificie gli schiudevano dinanzi luminosa; indi

vece prefer lo stato coniugale e men donna sul principio del 1412.
qualche incarica
Tuttavia fu addetto alla curia per un decennio
quasi continuatamente
ebbe fra quel tempo dalla Signoria fiorentina
e la segu a Costanza; ma, poich tristi volgevano le sorti di Giovanni XXIII, nel marzo del 1415 era di nuovo a Firenze. D'infra le

care letture dei classici e le traduzioni di Platone, alle quali lo aveva,


spinto Coluccio e gli veniva continuo conforto dal Niccoli, egli segu
di lontano, trepidante ed esultante, le scoperte del Poggio e pose manoalla Storia fiorentina, che fu l'opera di tutta la sua vita. Sul principio del 1416 ne aveva finito il primo libro e la repubblica per compensare d'onore e di lucri l'umanista, che le offriva l'omaggio a quei
d pi gradito,

concesse a lui ed

a'

suoi discendenti

diritti di citta-

25

9LI UMANISTI.

dinanza e l'esenzione dalle gravezze. differenza del Poggio, il Bruni


non fastidiva la politica, n era insensibile alle pubbliche sventure. Deplorava le condizioni del pontificato combattuto dallo scisma e dai connella sua coscienza di cristiano e d* italiano, non ostante i
legami di famigliarit e d'officio e la sua fedelt lungamente incrollata,
riprov la condotta titubante ed ambigua di Gregorio XII, dalla quale
fu provocato il concilio pisano. Quando, nel 1420, l'insulto popolaresco
fu causa che papa Martino si partisse stizzito da Firenze, Leonardo procur d'ammansarne la collera e, presago dei mali futuri, dannava i
cittadini che aveano lasciato trascorrere le cose a siffatto inconveniente.
Seguirono giorni luttuosi: la guerra con Filippo Maria Visconti, la
mendicata e contrastata alleanza con Venezia e le lunghe negoziazioni,
che misero capo all'effimera pace del 1426. A queste partecip anche
il Bruni, che fu mandato, con Francesco Tornabuoni, ambasciatore a
Martino V. L'anno dopo fu eletto cancelliere dei Signori, ufficio che
per breve tempo avea tenuto gi nel 1410. Cos dopo pi che ventanni, succedeva al Salutati l'uomo, che a giudizio dei contemporanei ne
aveva raccolto l'eredit letteraria, anzi oscurata la gloria. Il Bruni non
cini e

'ingegno vigoroso e svelto, n la simpatica originalit del Poguna maggior compostezza e una pi disciplinata pacatezza di mente,
n l'indole gaia e vivace dell'amico, anzi una gravit di carattere, che volontieri ostentava. Ei si sentiva un grand'uomo, sempre. La svariata mol-

aveva

gio, s

titudine delle opere, trascritte infinite volte, spesso fra testi classici, e la
al Bruni i primi onori fra i letche alcuno venisse fin di Spagna
e di Francia per vederlo; re Alfonso di Napoli mand un gentiluomo a
visitarlo e l'avrebbe desiderato in sua corte. Quando mor, agli 8 di
marzo del 1444, la Signoria e i principali uffici di Firenze assistettero
con gran pompa ai funerali Giannozzo Manetti recit l'elogio del defunto e in sul finire gli cinse il capo della corona d'alloro in S. Croce
gli scolp il mausoleo, un capolavoro dell'architettura funeraria del
Rinascimento, Bernardo Rossellino.
Quel che rispetto al Salutati il Marsili, appare rispetto al Bruni,
fatta ragione alla diversit dei tempi e dei caratteri, Ambrogio Traversari, un romagnolo di Portico, che venuto a Firenze nel 1400, vi
si addisse alla religione camaldolese nel convento degli Angeli. La
dottrina umanistica, alla quale lo avvi soprattutto l'amicizia del Niccoli, si associa in lui all'erudizione sacra, la signoreggia, la trasforma
e, nel rispetto letterario, la purifica. Il Marsili era un frate del medio
evo cresciuto all'amore dei classici: il Traversari fu un umanista,
cristiano e frate. Nel convento degli Angeli si rinnovarono i dotti convegni di S. Spirito e molti giovani monaci furono da Ambrogio educati all'amore degli studi. Anch'egli aveva a disdegno gli scrittori sacri
del medio evo, ma d'altra parte diceva non convenire ad un religioso
la lettura dei pagani; epper s'aggrapp a quell'ultimo lembo della
letteratura antica, dove lo splendor della fede illumina ancora le grazie

novit dei loro pregi


terati della sua et

stilistici

anche

fruttarono

di lui si dice

a. tw*.
(1386-1439).

20
della

CAPITOLO PRIMO.

forma e

corgimenti

medesimo ardore e coi medesimi acadoperava intorno a Quintiliano, a Pla-

vi si esercit col

critici,

che

altri

tone, ad Aristotile. Peritissimo della lingua greca, tradusse in latino

da Basilio, da Grisostomo, da Efrem e va dicendo. A Ravenna trov


delle lettere di Cipriano, a Roma trentanove omele di
Origene e quando il cardinale Giordano Orsini gli fece sospirare un

un codice

prezioso manoscritto di Tertulliano,


il

Poggio per

il

non ne ebbe minore

Plauto. In codesto suo

stizza

che

esclusivo occuparsi di opere

si lece bello quando per soddisfare al Niced a Cosimo de' Medici tradusse Diogene Laerzio, nella cura che
poneva in bandire dalle sue lettere ogni citazione d'autori profani,
egli che li conosceva assai bene, v'ha forse alcunch di atteggiato
studiosamente; certo non erano sincere la sua modestia, n l'ostentata

sacre, negli scrupoli, di cui


coli

Eugenio IV, che gradiva

austerit della vita.

simili atteggiamenti e
generale del suo ordine dal 1431, nel
promuovere l'osservanza nei conventi camaldolesi, lo ebbe caro e nel
1435 lo mand ambasciatore a Basilea ed in Ungheria per gli affari
del concilio. Pi profcua che in quelle missioni, fu l'opera di Ambrogio
a Ferrara ed a Firenze nelle trattative fra le chiese greca e latina

lo zelo infaticato del Traversari,

(1438-39); in fine egli stese in ambedue le lingue l'atto eli unione e


fu tra quelli che lo soscr isser ai 5 di luglio del 39. Pochi mesi dopo
moriva, a 53 anni.

La guerra viscontea e la rotta di Zagonara (1424) posero fine a


quel decennio di pace e di prosperit, di cui s' fatto ricordo qui addietro.
Altre guerre, che ne furono conseguenza, discordie intestine e gelosie
germoglianti da quelle, malcontento d'oppressi ed ambizioni di potenti,
il reggimento oligarchico. Rinaldo degli Albizzi,

trascinarono a rovina

ralla

(137S4&).

che ne fu gran parte, specie negli ultimi anni, non ebbe agio di attendere di proposito alle lettere; tuttavia volle che agli studi umanistici fossero educati i suoi figliuoli ed accett gli aiuti della rettorica
e delle calunnie di un umanista, come delle armi viscontee, quando,
bandito, tent invano le porte della patria. Questo non fece messer
Palia di Noferi Strozzi, grande e onorato cittadino, anch'egli cacciato
nel 34 Inori del bell'ovile, dove s'era visto crescere intorno costumata
e adorna di lettere la famiglia numerosa. Quando venne il Crisolora,
lo Strozzi aveva pagato buona parte della spesa e procurati di Costantinopoli e di Grecia i libri necessari a quell'insegnamento. I migliori
copisti che fossero cos in greco come in latino, erano stati al suo
stipendio ed egli aveva vagheggiato l'idea di

una pubblica

biblioteca,

per la quale avrebbe fatto murare in S. Trinit un accomodato edificio. Confinato a Padova, sopport come uno stoico antico la sventura,
n permise mai che in sua presenza si parlasse meno che onorevolmente della sua patria. Leggeva e si faceva leggere da Andronico Callisto e da Giovanni Argiropulo, due greci che tolse in casa con buon
salario, Aristotile e

padri greci e veniva raccogliendo una bella col-

lezione di manoscritti, che lasci al convento di S. Giustina.

La

vita e

27

GLI UMANISTI.

a speranza di rivedere il suo dolce terreno nativo gli vennero meno


nel 1462. Aveva novant'anni.
Dal 1413 al 29 Palla Strozzi fa pi volte degli officiali dello Stu- l 0 S tu.ik
liorentinc
dio fiorentino; sempre, uno dei cittadini pi solleciti del bene di quell'istituto, che per ebbe vita grama ed intermittente. Le condotte del
Malpaghini e del Crisolora gli diedero lustro passeggero di famosi indi studentesca frequenza: le strettezze dell'erario, grave
per la guerra pisana, lo dissanguarono e, probabilmente nel 1406,
lo uccisero. Risorto nel 1413. fu di nuovo sacrificato nel 25, indifesa
della libert minacciata da Filippo Maria. In sul principio del 1430
il venerando Nicle scuole erano state riaperte da un paio d'anni
col da lizzano assegnava del suo una somma e un reddito annuale,
per l'istituzione d'una Casa di sapienza, ove potessero vivere per l'amor di Dio quaranta o cinquanta scolari poveri e bisognosi e dalla
quale avesse a trarre lo Studio incremento e stabilit. Per vero, questo non era mai riuscito a metter salde radici nel cuore dei cittadini
mercanti, che altri avviamenti di guadagno avevano redato dai padri,
e forse gli noceva il prevalere delle tendenze letterarie nei suoi pi
caldi fautori, onde fu impedito il predominio d'una vigorosa facolt giu-

segnanti e

di spese

ridica,

fondamento e nocciolo degli

altri

Studi generali.

erano

rivolgimenti del 34 e

il

Nonbimeno

il

suo intento, se non


s-ormontar della parte medicea e il ra-

nobile disegno dell'Uzzano sortiva probabilmente

il

Quando Cosimo rientr a Firenze,


come a suo luogo,
ed egli ne divenne il moderatore, forse pi presto eh non l'arbitro
della repubblica. Dello Studio non si cur o poco e soltanto per alcune
pido trasformarsi degli ordini politici.

la vita intellettuale della citt conflu alla casa di lui,

-cattedre letterarie, o lo crucciasse

il ricordo
d'opposizioni fiere che
eran levate contro o non avesse a grado di segui1
<re la strada tracciata da'suoi avversari o, che mi par pi probabile,
non corrispondesse lo Studio coi pattuiti legami tra lo stato e i lettori ai
metodi del suo libero mecenatismo. Nel 1471 Lorenzo il Magnifico tra-

anche

di l gli si

sferir l'istituto a Pisa.

Che di codesto mecenatismo Cosimo volesse farsi per vari modi


sgabello ad acquistare e tenere lo Stato, non chi non veda. Deplorare di aver tardato troppo a dar opera a ricche costruzioni, giudicar
doveri certe studiate ed ostentate liberalit, professare di non tendere
altro se non a lasciar durevole memoria di s, erano atteggiamenti
da politico accorto. Ma le sue magnificenze erano ispirate pur anche
da naturali inclinazioni e governate da egrege attitudini intellettuali.

ad

Dagli studi ai quali attese sotto uno dei pi ardenti discepoli del Crisolora e dai viaggi compiuti, coll'occasione del

concilio di Costanza,
Medici (1380-1464) dedusse nello spirito
suo versatile, riflessivo e forte d'una memoria eterna , cognizioni
quasi universali e la pi consumata perizia d'uomini e di cose. Con chiunque parlasse aveva materia di discorso; viveva in geniale dimestichezza

in Francia ed in Germania,

-coi

il

letterati, coi filosofi, cogli artefici,

che volentieri vedeva radunati

Cosimo
Medlc

flQ '

28

CAPITOLO PRIMO

in sua casa; al Niccoli, che

aveva consumato

in libri

gran parte delle

sue sostanze, aperse credito illimitato sul proprio banco; con intuizione
mirabile comprese e protesse l' ingegno giovanile di Marsilio
Ficino
e per via di questa e d'altre bea allogate munificenze prepar il
sostrato ideale alla coltura dell'et del

Magnifico. Affabile,

ma sempre

guardingo, perch fsso il pensiero in quella che s'era proposta meta della
sua vita, rispondeva breve, ora con voluta ambiguit, ora con argu-

La sua principale passione fu in edificare e dicono vi spendesse ogni anno pi di quindici o sedici mila fiorini. Per commissione
di lui Filippo Brunelleschi murava il san Lorenzo e Michelozzo
i
zia frizzante.

Marco; sorgeva la Bada appi del colle ridente di Fiee


mugellane si adornavano delle ville di Careggi e di
Cafaggiuolo, dove il padrone del luogo posava dalle cure cittadinesche
chiostri di san
sole,

le convalli

in letture filosofiche e nello

svago d'opre campestri. Nel palazzo, oggi


Riccardi, che a dimora della potente casata aveva eretto Michelozzo
e di cui Donatello decorava il cortile e Benozzo Gozzoli frescava le

Cosimo venne man mano creando un vero museo di statue, di


medaglie e di cammei antichi ed una biblioteca, alla quale le sue
estese relazioni od i copisti e i miniatori fiorentini fornivano la preziosa
suppellettile. Di biblioteche egli arrich pure i conventi di san Marco
e della bada fesolana. Il Niocoli aveva lasciato, morendo, che la sua
libreria tosse trasportata in luogo pubblico a comune utilit. La misale,

vasi, di

nacciavano

creditori

del defunto, ed

il

Medici,

ch'era tra

cutori del testamento, obbligandosi a soddisfarli, consegu

il

gli

ese-

diritto di

Marco (1441) e poi la accrebbe e compi giusta il;


modello d'inventario steso per lui da Tommaso Parentucelli. Per la
bada fesolana quarantacinque scrittori insieme operanti apprestaronoin ventidue mesi duecento volumi (14G8): sforzo mirabile, di cui si compiacque Vespasiano di Filippo da Bisticci, il libraio che fu sempre il
braccio di Cosimo in quelle opere altamente civili,
Rinnovati i fonti della cultura, il libraio non poteva pi essere,.

collocarla in san

librai.

gli stazionari e ipeziari del medio evo, soltanto un congegno


meccanico dell'organamento universitario, n un semplice interni ediariotra l'amanuense e il compratore nell'acquisto di testi ovvii per lunga
tradizione. Occorrevano esperti bibliografi, che sapessero scovare i buoni
esemplari di opere ancor rare, che di queste avessero conoscenza almeno esteriore e che fossero in grado di valutarle rettamente giusta
le mutevoli condizioni del mercato. In sulle prime gli umanisti si aiutarono da s a vicenda. Il Niccoli era particolarmente sollecito ed abile nel
provveder libri agli amici, scegliendo le pergamene meglio acconce, delle
quali Firenze aveva il vanto ed invigilando le trascrizioni. Anche Giovanni Aurispa (1374-1459), un siciliano di Noto, traduttore di qualche opuscolo greco e ritrovatore (1433) in una biblioteca di Magonza
del commento di Donato a Terenzio, fu assiduamente occupato nel ven-

come

Giovarmi
374-145?)
'

dere, nel far copiare opere classiche o sacre e pi spesso nel pattuirne
scambi; anzi tornato da Costantinopoli con una cospicua raccolta di

29

GLI UMANISTI.
codici greci (1423),

visse per alcuni

anni

di

quel commercio, n lo

intralasci poi che casa d'Este (dal 1428) e la curia sotto Eugenio IV
gli ebbero assicurata men travagliosa esistenza. Una vera
e Niccol

si form presto. Vi priora.


nominato
or
meggia quello che abbiamo
Vespasiano da Bisticci era uomo di scarsa dottrina e di mediocre
levatura, sebbene dotato di alacre spirito d'osservazione e di memoria
pronta, Come il popolo da cui usciva, rimase ligio alle tradizioni del
medio evo; il suo sentire era di cristiano profondamente convinto, la

classe di librai

allora dicevano cartolai

sua coltura essenzialmente di lettere sacre classica solo in piccola parte


e per indiretta via, perch quanto larga, esatta, precisa, era la sua
conoscenza del materiale librario trasmesso dall' antichit altrettanto
superficiale. Epper egli vide senza intenderla e senza saperla seguire
;

la trasformazione

dei costumi, dei sentimenti

della

letteratura; le

sfoggiate cacciar di nido gli ultimi avanzi del buon tempo antico; raffreddarsi e vacillare la fede; fluire nelle vecchie forme letterarie il sangue classico e rinnovarle. Vespasiano fu l'uomo di un fug-

pompe

gevole momento storico. Principi e privati, italiani e forestieri tutti


ricorrevano a lui come al re delli librari del mondo , diligente ed
occhiuto nel ricercar manoscritti, destro in provvederli belli, corretti e
compiuti, onestissimo nell'esercizio del suo commercio. Federico d'Urbino e gli Aragonesi si valsero dell' opera sua ; gli affid commissioni
al marchese Lodovico Gonzaga e lo domand di consiglio; per Mattia
Corvino Vespasiano tenne talvolta occupati fino a trenta fra miniatori
,

calligrafi. Entrato non ancora ventenne in casa i Medici (1440), visse


in grande famigliarit con Cosimo e, come a questo, cos prest eccellenti servigi ai figliuoli di lui Pietro e Giovanni, che in nobile gara
adunavano ciascuno una particolar biblioteca. Intanto la sua bottega
e

accanto al palagio del Podest, era

il

ritrovo dei letterati e di quanti

Leonardo Bruni vecchio e famoso; di passaggio per Firenze la visit pi volte Tommaso
da Sarzana, che, divenuto Niccol V, non isdegn di intrattenersi domesticamente con Vespasiano e lo volle alla sua mensa. 'Giano Pannonio
venuto a Firenze mentre stava per ritornare in Ungheria vescovo di
Cinquechiese (1459J, and a parlare con lui prima che con altri, perpizzicassero di lettere; vi compariva ogni giorno

mezzo a conoscere pi uomini dotti. Ma a poco a poco


si fece deserto. Le copie, moltiplicate, erano divenute
agevoli; si diffondeva dovunque la stampa; quindi cambiarono le condizioni del traffico e le attitudini, che aveano reso prezioso alla generazione tramontata con Cosimo il dabben cartolaio, parvero superflue.
Nel 1480 egli aveva gi trasmesso ad altri le sue ragioni; pochi anni
-dopo, nell'amena solitudine dell' Antella, scrivendo le memorie de' suoi
anni migliori, rimpiangeva il passato e deplorava le tristizie del presente. Buon Vespasiano, che non t'avvedevi di condannare gran parte
dell'opera tua! Mor, vecchio di settantasette anni, a' 27 di luglio

ch

gli fosse

in quella bottega

del 1498.

g?jjjJJ

(1421-1498).

30
F^FjieKo
{l

x)

CAPITOLO PRIMO.

Negli anni in cui matur e si comp la trasformazione di Firenze


si trov a vivere sulle rive dell'Arno un tolentinate, cui l'ingegno arido e un po' grosso, quantunque non privo di
oligarchica in medicea,

come l'inclinazione all'ordine e alla precisione, ed una


cara ripugnanza a scivolare nella vacuit parolaia, non avrebbe procacciato, in un'et assai proclive alia vacuit parolaia, gran fama, se

qualit pregevoli,

non fossero

state in lui impudente pieghevolezza di carattere ed una


prosopopea grande e tutta ciarlatanesca.
Francesco Filelfo nacque ai 25 di luglio del 1398 a Tolentino nella
Marca d'Ancona. A diciott'anni studiava a Padova diritto, filosofia e,
sotto Gasparino Barzizza, eloquenza, della qual disciplina non tard a.
divenir maestro a Padova stessa, a Venezia presso alcune famiglie nobili ed a Vicenza. Nel 1420 part per Costantinopoli, segretario del
balio della repubblica veneta. Fu alla scuola di Giovanni Crisolora a
poi del Crisococca e nella consuetudine colla figlia del primo, Teodora,
che divenne sua moglie, acquist quella perizia del greco, che con si
grande compiacenza ostentava. Di conoscere uomini e paesi gli diedera
occasione le ambascerie, che gli affidarono il balio e l'imperatore Giovanni II Paleologo, al sultano dei Turchi ed ai re d'Ungheria e di Polonia. Adescato da promesse di alcuni patrizii suoi amici, fu di ritorna
il solito ba-,
a Venezia il 10 ottobre del 1427 con molti libri greci
e con seguito numeroso di schiava
gaglio di chi venisse d'Oriente
e di servi, oltre alla giovine sposa e ad un bambino di pochi mesi. Infieriva la peste e la citt era deserta. Il Filelfo pass a Bologna, dova
l'avevano eletto ad insegnar eloquenza e morale col lauto assegno di

quattrocentocinquanta scudi d'oro l'anno. Le discordie interne, l'assedia


posto dal card. Capranica alla citt ribelle, la chiusura delle scuole ed
di l. Giunse a Firenze
n Fiieifo inviti dello Studio fiorentino lo tolsero anche
al Traversari il proaveva
mandato
prima
gi
e
1429
"u-M* nell'aprile del
a mo' di richiamo, su
pubblicato,
fosse
affinch
corso,
suo
del
gramma
fogliolini volanti. Si

proponeva

di

leggere nelle ore mattutine

le

Que-

stioni tuscolane, la prima deca di Livio e la rettorica di Tullio; in


greco l'Iliade', nel pomeriggio, Terenzio, epistole ed orazioni ciceroniane, Tucidide o Senofonte, nonch un testo di filosofia morale. Una.

quali persone autorevoli e mature, traegran calca di discepoli, fra


onore. Ma egli era uomo d'ombre e
facevano
gli
tutti
udirlo;
ad
vano
di corrucci, mentre la sua ambizione e le sue millanterie indisponevanogli animi di quelli che a buon dritto si credevano competenti a giudicarlo. Dio lo protegga aveva scritto Ambrogio Traversari podi
giorni dopo l'arrivo di lui. Carlo Marsuppini (1399-1453), un aretino,,
tutto cosa dei Medici, buon letterato e poeta, poi successore del Bruni
nella cancelleria, andava ogni giorno a quelle lezioni e con lui il Nica sospettare e i
coli, suo amicissimo. Di entrambi il Filelfo cominci
eletto il Marnel
1431
vide
sospetti divennero rancore e odio, quando
i

i.

suppini a tener la stessa sua cattedra, e le proprie lezioni spesso sturbate


da tumulti. Guerra aperta scoppi solo nel 1433 (lettere al Niccoli

GLI UMANISTI.
e al Marsuppini

del 13 aprile)

31

ed essendosi allora divise nettamente

butt agli Albizzeschi. Invero da Cosimo non aveva mai ricevuto offese, anzi onori; ma si doleva della
le parti

politiche,

il

Filelfo

si

concedeva

famigliarit e della protezione ch'egli

a'

suoi nemici.

mattina, in sui primi di giugno, certo Filippo da Casale tent

cidere
l'alto

il

Filelfo e lo fer nel ^ volto. Questi giudic

ed a Cosimo, che per mezzo

di frate

il

Una

di

uc-

colpo venuto dal-

Ambrogio, se ne mostrava

addolorato e prometteva un'esemplar punizione del reo, se fosse stato


scoperto, rispondeva con secca ironia: Dio vede tutto; da lui aspetto

vendetta

Per ottenerla anche dagli uomini, si fece poco dopo fautore


morte piuttosto che il bando di Cosimo, prigio-

del partito che voleva la

niero della fazione avversa. Al ritorno di lui cred quindi prudente andarsene a Siena, dove nell'ottobre del 1434 fu eletto ad insegnare rettorica
e lettere greche e latine; tuttavia

non

ristette dallo scagliare nelle satire

.-

a siena
1434-38 )-

contumelie contro il Medici e i suoi amici. La lotta fu aspra da ambe le


parti, di parole e di pugnali, ed il Filelfo ebbe bando di ribelle sotto
pena di aver mozza la lingua. A difesa del Niccoli lev la voce in un
un'orazione
il Poggio (1434-35), mentre il Filelfo in
che fu divulgata solo nel 1437, eccitava gli esuli albizzeschi alla guerra
contro Firenze. Quell'orazione diede forse motivo agli insistenti tentativi
di conciliazione che Cosimo, non ancora ben sicuro della sua posizione, fece
par mezzo del Traversari (ottobre del 1437). N'ebbe repulse sdegnose,
perch le speranze d'un proficuo collocamento presso il duca di Milano
ravvaloravano l'orgoglio dell'umanista, vago di confondere le sue vendette letterarie con quel ch'ei voleva far credere adempimento d'un
politico a pr d'un partito caduto. A Siena il professore
alto uffici
tolentinate non si sentiva sicuro, onde accett la pingue offerta dei
Bolognesi, quattrocentoeinquanta ducati per il solo primo semestre del 39.
Nel fatto lasci Bologna avanti che il termine pattuito spirasse e si pose
a servire il Visconti, dapprima come insegnante a Pavia, poi (febbraio 1440) come suo famigliare. Speravano allora gli Albizeschi di
ritornare in patria coll'aiuto delle armi viscontee, che l'umanista si
vantava di aver mosse. Millanterie interessate! Scrisse per al Senato
e l al popolo fiorentino una lettera, vero manifesto politico, esortandoli
ad accogliere gli ottimati ed a far pace col duca; contro i Medici disegn
paio d'invettive

una vasta opera, le Commentationes florentnae de exilio, che dovevano comprendere dieci libri in forma di dialogo, intessuti di discussioni metafsiche e morali e rilevati tratto tratto di accuse e di insolenze. La rotta del Piccinino ad Anghiari (28 giugno 1440) lo ferm
al terzo libro e gli ispir

a sagrificare

certa lettera a Cosimo, nella quale lo con-

piccoli rancori al

bene pubblico ed a sollecitare


bandi del 34 fra i consigli striscia la lode. L' umanista faceva il primo passo sulla via delle ritrattazioni e dei pentimenti. La meta ora lontana, ma egli sapr un giorno toccarla! Lucri
ed onori non gli facevano intanto difetto a Milano: Filippo Maria gli
siglia

la cassazione dei

confer

il

diritto di cittadinanza,

gli

don una casa ben arredata

e,

a Bologna
(1439; '

a Milano
(daI

U 9

32

CAPITOLO PRIMO.

nel 1441,
pensione.
L'umanesano presso
visconti.

Anche

accrebbe da cinquecento a

gli

settecento

fiorini

l'annua

Lombardia l'umanesimo aveva fatto il suo cammino. Da


0 a Mji an0 q ue i Giovanni Corvini d'Arezzo, la cui bi|)ii 0 teca destava le invidie dei dotti; vivevano
col Cambio Zambeccari, buon intenditore di poesia, Erasmo Trivulzio, che apriva la sua
casa
vi ci conduce il Filelfo nel secondo libro dei Convvio, mediolanensia
a conversazioni non meno gaie che addottrinate ed altri
ancora, amanti e fautori delle lettere. Al principe stesso, nel quale
stava per ispegnersi una stirpe memoranda per infamie e fortune e su
cui pesa giustamente severo il giudizio della morale e della storia pop 0CQ epa

litica,

in

mor

j-

la storia letteraria

deve essere benevola. Quella particolare

ti-

rannia, che coceva tanto agli umanisti, costretti spesso da lui a scriver
volgare, ridonda anzi a suo onore, sia come un presagio dell'avvenire
e una reazione pensata all'andazzo del tempo, sia perch

ne

non

la

pra-

sapeva tanto da potersene servire nel rispondere alle orazioni che gli erano rivolte
n per rozzezza di gusto, egli che si compiaceva della lettura di Dante e del
ticava per ignoranza del latino,

Petrarca, di Livio e d'altri storici antichi. Largheggi

di munificenze
ne fece compilare l'inventario (1426).
Cos bene comprese l'umore de' suoi contemporanei, che forse da nessun'altra corte in maggior copia che dalla sua uscirono manifesti e
libelli latini a spalleggiare i maneggi della politica ed
a tentar di
reggere gli ondeggiamenti della pubblica voce. Nella cancelleria, lieta
di giovani ingegaosi e piacevoli, si brunivano quelle armi, principal
fabbro il figliuolo di Uberto Decembrio, Pier Candido (1399-1477).
Manuele Crisolora lo aveva palleggiato bambino a Pavia, ma agli
studi lo avvi il padre, e tanto Pier Candido ne profitt, di s molteplice e feconda operosit vi fece prova, che nessuno pu contrastargli
il primo posto fra gli scrittori lombardi suoi coetanei. Mente versatile,
speriment ogni genere di letteratura; molto tradusse dal greco e dal
latino; nelle scritture storiche si dimostr osservatore acuto ed elegante narratore. Forza di avvenimenti, piuttosto che sua libera elezione o zelo d'opere promotrici del nuovo stato, lo condusse all'ufficio
di segretario della repubblica ambrosiana.
Il Decembrio serv il reggimento democratico (1448-50) collo stesso
parole sue
con
animo, colla stessa fede e colla stessa costanza
che avea servito il Visconti, n le lettere che scrisse a Carlo VII,
al duca di Savoia e all'imperatore contro lo Sforza gli furono dettate
da' spirito repubblicano, s da sdegno contro il duce fedifrago e dal
timore di vedere la sua Milano soggiacere all'odiata Venezia. Ma il
Filelfo, che per gelosia di primato fu sempre fieramente avverso a
navig pi circoLeuco lo diceva grecamente,
Pier Candido

colla biblioteca del castello pavese e

p. candido

Decembrio.

spetto fra quel turbinare di passioni e di fazioni,


dello Sforza pot recargli

Decembrio dovette prender

il

sicch

primo omaggio dei Milanesi,

la via dell'esigilo.

Ed

al

trionfar

mentre

il

a questo furono poi

33

GLI UMANISTI.

Roma,

di Napoli e di Ferrara, freddamente accoglienquando la milanese desiderata, laddove al dolcissimo e carissimo domino Francesco Filelfo fece buon viso il venturiero fortunato che, sebbene cresciuto fra le armi, pure non isdegnava
asilo le corti di

dolo a quando a

e gradiva
scelse a segretario il dotto Cicco Simonetta
che sull'ordito delle sue imprese gloriose l'umanista ricamasse ornamenti al suo trono non circonfuso di tradizioni avite.
Fece buon viso e diede buone promesse. Nell'aprile del 1451 una n Filelfo
e gli sforZA
provvisione annua di 600 fiorini fu assegnata al Filelfo come a pubblico lettore di rettorica; ma veniva lenta e saltuaria per le condizioni dell'erario esausto. Egli, avvezzo a far vita da gran signore
splendide vesti, lauta mensa, servi e cavalli , generoso fino alla
prodigalit e quindi bisognoso sempre di denaro, strepitava, insolentiva,
minacciava di andare a prender servizio presso i nemici del duca. Intanto libri ed abiti gli migravano di casa negli stipi di prestatori e
di usurai e dalla sua penna scorrevano lettere ed epigrammi, i messaggeri
per mezzo dei quali mendicava regali da questo e da quello con una
sfacciataggine da far ridere e coll'arroganza d'uomo che non chieda un
favore, ma rivendichi un diritto. Nel 1453 gli va a marito una figliuola
ed il buon padre impone un tributo determinato a principi ed a prelati Carattere
del FUelfo
per' compirle la dote. Un dovizioso amico gli promette in dono un cavallo, ma avendo saputo delle strettezze del Filelfo, gli manda invece
frumento e vino: tante grazie, ma... e il cavallo? S'avvicina la primavera ed ha bisogno d"un vestito da mezzo tempo: oh, glielo mander il marchese Lodovico Gonzaga od in cambio cento ducati. L'umanista pagava di parole, dicendo le lodi dei benefattori nelle sue poesie
spicciole o nella Sforzzade, il poema, anzi il capitale, che gi aveva
sottoscritto al banco sforzesco e di cui qualche parte poteva man mano
avere anche altri investimenti. Riceveva roba e quattrini e dava l'immortalit. Cos diceva e pensava il Filelfo, gonfio di vanit e d'orgoglio. Sparsasi la notizia, falsa, della sua morte, scrisse che in un certo
senso egli non morrebbe mai, perciocch mai nori poteva morire colui
che aveva facolt di richiamar a vita i morti e di uccidere i vivi. E
non si stancava di ripeter di s un altro luogo comune della rettorica
encomiastica (vedi per es. Salutati, Epist. voi. I, pp. 181-2; 337 sgg;
e Bruni, Epist. p. CHI), per il quale veniva a porsi sopra a Cicerone
ed a Virgilio, come colui che si vantava oratore insieme e poeta e
perito del greco quanto del latino. I principi accontentavano volonterosi
l'importuno accattone talvolta gli s'inchinavano dinanzi. Nel viaggio a
Napoli, che fece nel 1453, fu accolto con affabilit e liberalmente donato da Niccol V; creato cavaliere aurato e cinto dell'alloro poetico
da re Alfonso, cui rec in omaggio i dieci libri delle sue satire. Al
quale Alfonso, come gi a Carlo Gonzaga, rendeva altri servigi che
d'incensi, sollecitandogli con un'elegia (Odae, III, 3) le grazie della
bella Lucrezia d' Alagno. Che se poi alcuno non si piegava alle richieste o mancava alle promesse, il volpone scambiava il turribolo collo
le lettere

Rossr.

La

lett. ital.

nel sec.

XV.

34

CAPITOLO PRIMO
Cos fece con Pio

staffile.

grammi

velenosi

e, pi, la

II e gliene incolse

male, perch

lettera diretta a Paolo II contro la

gli

epi-

memoria

del defunto pontefice suscitarono tale sdegno nel collegio


dinali,

che

il

duca dovette far imprigionare

dopo questi cant

la palinodia: era giunto

il

il

dei cardisuo protetto. Pochi anni

momento

di

sfruttare la

liberalit del cardinal Piccolomini, nipote di Pio.

Tale era l'umanista da Tolentino: un miscuglio d'orgoglio e di bassezza, di ipocrisia e di temerit, di astuzia e di violenza. La severit
di questo giudizio si attenua, se

consideriamo in lui

il

padre e

il

ma-

Ebbe tre mogli e di figli, tra legittimi e naturali, un paio di


dozzine. Quando rimase vedovo la prima e la seconda volta, voleva
prendere la veste ecclesiastica, ma accortosi che non ne avrebbe ottenuto lucri e dignit pari alle sue pretensioni, tolse donna di nuovo.
Per la famiglia ebbe sempre cure affettuose, tenerezza vera e profonda. Appunto i suoi sentimenti di padre amoroso
desolato per la
morte recente d'un figlioletto, gli dettarono l'unica cosa bella che egli
scrivesse, quella pagina di prosa, che ricrea l'aridit mezzo storica e
mezzo filosofica della consolatoria a Jacopo Antonio Marcello.
Morto Francesco Sforza, la provvisione gli fu dimezzata, n i tesorito.

divennero pi puntuali ai pagamenti. L'umanista si arrovellava per


trovare un pi comodo e sicuro collocamento. Nel 1471, quantunque per
ordine di Galeazzo Maria avesse preso a leggere pubblicamente la
Politica d'Aristotile, trattava coi riformatori dello studio bolognese,
che gli offrivano la cattedra e lo stipendio annuo di quattrocento lire.
Egli, che ne voleva settecento, rispose con tal petulante insolenza, che
Cicco Simonetta credette opera di piet scusarlo, scrivendo che tra

rieri

per la necessit e tra per la vecchiezza ormai fora del birlo . L'anno
dopo occhie >-giava a Pisa. Finalmente Sisto IV gli confer la cattedra
di eloquenza nello studio romano. Dopo l'uccisione dello Sforza, il
Filelfo torn a Milano e vi dimor finch, cassato il decreto di bando
promulgato a petizione di Carlo Malcolore e di quell'ubbriaco di
ripullulavano nel vigoroso vecchio gli asti della giovine
Poggio
Lorenzo il Magnifico non l'ebbe chiamato a legger greco a
et
Firenze. Era appena arrivato col, quando mor ai 31 di luglio del 1481.

mi

umanisti

dispensieri
di

giona.

il Filelfo, cos gli altri umanisti, con audacia pi o meno bocredevano ed amavano farsi credere dispensatori di gloria o
.d n amia p er p e t ue Frullava loro insistente pel capo l'oraziano:

Come

f io Sa

si

Vixere fortes ante Agamemnona


Multi; sed omnes inlacrimabiles
Urgentur ignotique longa
Nocte, carent quia vate sacro,

loro contemporanei se lo figgessero bene nella memonebbie medioevali,


ria. L'antichit, in quel suo primo disvilupparsi dalle
grande
fulgidissima
luce
di
circonfusa
,
era apparsa a' suoi adoratori

e volevano che

GLI

35

UMANISTI.

ed in guerra, bella, ammirabile in ogni aspetto; per il conerano tenebre fitte. Assuefattosi a quel bagliore
lontano, l'occhio riprese a poco a poco la facolt di percepire anche
le cose pi vicine. Il Poggio in una lettera del 1433 (V, 6) teorizzava;
non esservi mai stata, dopo la caduta dell'impero, scarsezza di grandi
uomini e di grandi fatti, n esservi allora; molti di quelli e di questi
essere caduti in oblio e d'altri non sonare alta la fama, perch erano
mancate e mancavano ancora ai racconti le grazie della forma elegante. Pi ampiamente e minutamente svolgeva queste idee il successore
del Poggio nella cancelleria, Benedetto Accolti (1415-1461), che ne
intess il dialogo sull'eccellenza de' suoi contemporanei. C'erano dunque gli Scipioni, gli Augusti, gli Achilli; essi, gli umanisti, ne sarebbero stati i Livii, i Virgilii, gli Omeri. Fumavano gli incensi ed
i fumi montavano alla testa dei lodatori e dei lodati. In quegli sproporzionati paragoni era molto artifcio e molta consapevole ciarlataneria adulatrice ma vi doveva aver parte anche il concetto inesatto e
incompiuto del valore estetico delle letterature classiche, per ci che gli
perch non lo diremo?
eruditi del primo quattrocento furono
ammiratori e imitatori dell'antico orecchianti. Lenta s'avanz la scienza
in pace

trasto, nel presente

.
,

J;

filologica

tardo e contrastato fu

impressioni. Certo
ai

mercato

si

il

trionfo della critica dichiarativa delle

che quelli esagerati paragoni ben

di lodi e di biasimi, cui volsero la

mente

si

gli

adattavano
umanisti e

Accatto8
8

um anisti

non rifuggirono neppure i men bisognosi.


In un curioso imbarazzi venne a trovarsi per tal mala consuetudine il Poggio stesso, poi ch'ebbe inviato (1447) con una dedicatoria
ampollosa la sua versione della Ciropedia ad Alfonso d'Aragona, come
al principe, in cui meglio si incarnasse l'ideale disegnato da Senofonte. Il compenso tardava ed intanto scoppi la guerra tra il re e
dal quale

Firenze. L'umanista trasmutare in punzecchiature maligne le lodi e

parar destramente

accusava servo e forse aizzatore d'un


pace (1450), le sue bruirne furono soddisfatte ed il rivo delle adulazioni riprese il suo corso. Alcuni anni dopo
Teodoro Gaza formulava queste massime: spettare ai principi le lodi
per diritto; ai buoni, come esortazione a perseverare nel bene, ai cattivi
quale rimprovero, e i dotti esercitare a lor volta un diritto pretendendo
premio alle lodi e inzaccherando di contumelie il nome agli avari.
Ars quaestuaria et haec vestra literarum studia avrebbero potuto
susurrare ghignando avvocati e medici agli umanisti, dai quali erano
disprezzati come rabulae mercenarii e sperimentatori venderecci di
pozioni. L'austerit delle teoriche piegava dinanzi ai bisogni della vita;
si campava di dedicatorie e di elogi, come di cause e di cure.
La fortuna, sebbene audacemente tentata e non sempre docile e
pronta, arrise al Filelfo ed al Poggio. Pi arcigna si dimostr al Gaza,
un greco di Salonicchi, uomo assai meno vano e irascibile di quei due,
carattere, secondo i tempi, integro e dignitoso. Non si sa con certezza
quando venisse in Italia; nel 1440 era a Pavia; poco dono a Mantova per

nemico

della patria.

colpi di chi lo

Tornata

la

Teodoro
Gaza
-

36

CAPITOLO PRIMO.

Fama

di maestro eloquente e geniale si acquisto


che teneva sicuramente nel 1447; pi agiata
posizione a Roma dopo il 50, essendo papa Niccol V. Poi che questi
fu morto, il Gaza vag tra Roma, Napoli e la sua abbazia di S. Giovanni a Piro presso Policastro; a quando a quando la protezione dei
potenti gli venne meno le angustie economiche lo costrinsero a vendere i libri; sicch vecchio e sfiduciato, aspettava con melanconica serenit la fine de' suoi patimenti dalla morte, dalla quale fa colto nel 1475

addestrarsi nel latino.

di sulla cattedra ferrarese,

laggi sui confini della Calabria,

Esempio

condizioni

umiliti.

n s ti

di

un

simile variar di fortuna porge la vita di molti urna-"

di alternative dolorose tra prosperi eventi e sinistri, di illusioni

dileguantisi al tocco

rude della

realt. Il

fascino degli

studi attraeva

quegli uomini nei loro giovani anni, n bastavano a distorli dalla loro
via

persuasioni di parenti e

d'

amici mormoranti

il

distico

detestato

dal Poggio:

Dat Galenus opes, dat sanctio justiniana;


Ex aliis paleas, ex istis collige grana.

Li illudevano gli onori ed

di cui forse

lucri,

si

rallegrava quel-

seduceva l'ideale, predicato a'


quattro venti da chi godeva le grasse prebende ed i lauti uffici o piegava la schiena stendendo la mano, di una professione tutta spirituale
e solo curante del perfezionamento dell'uomo e: non mancano premi
alla virt, rispondevano, purch ci sia la virt . Sono parole di Giovanni da Toscanella (1395-1460 ?), cui per vero non fall la speranza,
chiamato ch'ei fu nel 1431, dopo non lunghi errori, a Ferrara qual
precettore di Borso d'Este e poi (1447) protetto da Niccol V. Ma la

l'uno che s'erano proposti a modello;

biografa di molti altri

si

li

riduce ad uno squallido itinerario, come la


imponderabile Passano

efficacia letteraria al solito granellino di sabbia

d'una in altra citt, da un borgo all'altro, qua lettori in un pubblico


studio, l maestri in case principesche o signorili, ora spositori solenni
ora intenti a far declinare rosa rosae ai ragazzetti ed
dei classici
,

a sedare le loro bizze e

loro pianti

a cos umili

uffici

devono talvolta

piegare l'ingegno avvezzo a conversare con Livio o con Cicerone. Li incalza il bisogno o l'irrequietezza innata o l'assiduo desiderio del meglio
anguli costringono a mutar sede le guerre, le pestilenze, le carestie, le
stie dei comuni e dei principi, che lesinano o non pagano le provvisioni.
La vita di Giovanni Lamola (m. 1449) fu tutta un vagare per
;

in ciascuna delle quali, scocitt dell' alta e della media Italia


laro od istitutore, non fece mai lungo soggiorno e non interrotto.
In men che vent' anni (1421-40) Tommaso Seneca da Camerino lasciava Ancona per Pavia e poi Milano per Bologna e Prato per
,

Rimini, dove finalmente divenne segretario di Sigismondo Malatesta.

Secondo il genovese Bartolomeo Guasco, un maestro di rettorica e


grammatica sbocciato fuori da un mercante, Chieri, Savigliano, Pinemortale ai
rolo erano borghi selvaggi, che avevano giurato guerra
negli anni
trasferirsi
dov
egli
nell'altro
buoni studi; eppure d'uno

37

GLI UMANISTI.

34, condotto ad insegnarvi pubblicamente; poi fu a


Marsiglia e di nuovo a Genova, dove il servizio del doge Tommaso
Fregoso, suo vecchio patrono, gli diede pane, non vita riposata e tran-

fra

il

428 e

il

dire di Giammario Filelfo, il primogenito di Francesco (1426vanit smodata, colla sfrontatezza nel chiedere, colFimColla
1480)?
pudenza nell' adulare, redate dal padre, egli congiungeva una forte
quilla.

Che

dose di scapestrataggine, una grande variabilit di indole, un'intolleranza spensierata d'ogni freno. Lettor pubblico di eloquenza o servo
di principi, non v'ha citt importante del Piemonte, della Lombardia,
della Liguria, dell'Emilia e del Veneto, ove non dimorasse; nel 1471 si
pos ad Ancona e vi rest per cinque anni, magnum aevi spatium per
lui. In ogni luogo soleva dapprima insegnare con diligenza e con plauso
un poema
fu infatti di una fecondit senza pari
scombiccherava

alcune centinaia o migliaia di versi, in lode del principe o della


poi il professore cedeva al libertino e gli davano
citt che lo pagava
presso un principe od un comune nelL'allogarsi
licenza.
o prendeva

latino,

l'ufficio di

sempre

come non era sempre facile agli umanisti, non


maneggi politici, cos non era senza pericolo di subite

segretari,

rotti ai

e forse immeritate sventure. A men d'un secolo d'intervallo Milano


vide la tragica caduta di Pasquino Capelli e di Cicco Simonetta. In quel
frattempo Tommaso Moroni, un venturiero reatino, impetuoso scher-

midore a colpi

penna ed insieme grave

di

scrittoi

di trattati

e d'orazioni, raccolse onori e ricchezze sotto l'ultimo


il

filosofici

dei Visconti e

primo degli Sforza, che se ne servirono in negozi diplomatici im-

portanti,

ma

fin

poi tristamente nella cittadella d'Alessandria, prigio-

niero di Galeazzo Maria (1476). A taluno venne meno il coraggio


nella lotta contro il destino avverso, o la leggerezza colla quale i pi
al futuro. Cosimo Raimondi, decifratore del codice lodigiano dell'Oratorie buono scrittore latino, si tolse la vita in Provenza (1435), lungi dalla patria, alla quale anelava e che aveva abbandonato tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, ed il pratese Sassuolo in un impeto di follia, probabilmente epilogo' di una ricerca di
collocamento vana, si precipitava in un nume (1449).

guardavano

moviamo ancora una volta da lui


Filelfo
scriveva stiz- i/educaad un amico Non sai che io ho sempre biasimato codesto tener sf^e0 5?v
osteria, che mi vai consigliando ? Per me, ospitare a prezzo dei giovanetti per educarli, come fare il locandiere . Non diversamente
avrebbe risposto a, simili consigli il Poggio. Ma fosse bisogno o natura
o coscienza d'esercitare una nobile missione, altri umanisti erano in
quel riguardo meno schifiltosi. Gasparino da Barzizza, su quel di
Bergamo (1359-1431), prima di aver tranquilla agiatezza dal favore di Gasparin
2
Filippo Maria Visconti, che lo volle professore di eloquenza a Pavia,
^g
insegn pubblicamente a Venezia ed a Padova e rei tempo, che dimor in quest'ultima citt, fra. il 1407 e il 1422, tenne anche una
specie di collegio, accogliendovi ragazzetti, ai quali dava i primi ru~
Il

zito

38

CAPITOLO PRIMO.

dimenti del latino. Le strettezze della numerosa famiglia obbligavano


il -ciceroniano, all'ufficio di ludmagister (maestro elementare).
Per vera devozione all'insegnamento faceva altrettanto a Venezia
e d alcuni anni dopo fece a Ferrara, Guarino veronese, un umanista
insigne, alla cui scuola si poteva accomodare il trito paragone del cavallo
lui,

Guarino
(7374-1460).

Nacque nel 1374; efficacia decisiva sull'avviamento de' suoi studi


ebbe Manuele Crisolora, cui segu a Costantinopoli nel 1403; al ritorno
insegn a Firenze, a Venezia e per dieci anni a Verona. Quivi ebbe
nel 1420 la pubblica lettura di rettorica. Nell'aprile del 1429 si trasfer colla famiglia a Ferrara e non se ne allontan pi, se non per
qualche gita in patria o per is fuggire al pericolo di epidemie o per
di Troia.

uomo

ricrearsi,

del

rinascimento,

nel virgiliano ozio

dei

campi.

Ferrara mor nel 1460. Vi era stato chiamato da Niccol III d'Este,
in cui la disciplina di Donato Albanzani
un amico del Petrarca,
aveva instillato non mediocre amor degli studi e che, come all'Aurispa l'educazione di Meliadus e al Toscanella quella di Borso, cosi
volle affidata a Guarino l'educazione intellettuale e morale dell'altro
,

suo

figliuolo,

Leonello

ch'era destinato a succedergli.

governo

amme ^ e

di

Leonello

fu lui

il

discepolo di Guarino

s'in-

cupezza severa e ancora medievale


MiSiimo
* Ferrara, dei tempi di suo padre e le magnificenze sontuose di Borso. Pi tardi
ad altri Estensi cingeranno il capo di gloria le arti e le lettere frondeggianti al fulgido meriggio del rinascimento; emana da lui tranquilla e simpatica la luce, alla quale ne sbocciano i primi fiori modesti. Il principe, che leggeva e gustava Cesare nell'originale e improvvisava versi latini agevol il risorgere degli studi classici a Ferrara,
favorendone i cultori, raccogliendo manoscritti, riformando l'Universit (1442), ed aperse le porte della citt al giovinetto Mantegna e al
Pisanello. Che prima della venuta di Guarino fossero col dense tefr

oas i

>

deliziosa, fra la

nebre d'ignoranza,

iperbole

rettorica di

di erudito cresciuto alla nuova scuola.

Non

panegirista,

anzi illusione

v'ha dubbio per che grande

veronese su Leonello e sulla vita letteraria ferfarsi amare con quel suo temperamento
bonario e gioviale, con quella sua piacevole socievolezza, modesto, senza
atteggiamenti studiati. La corrispondenza d'affetto fra lui e il principesco alunno, tenera ed espansiva, ha qualche cosa di commovente,
Compiuta 1' educazione di Leonello, Guarino divenne (1436) pubblico lettore nello studio. Nella scuola era una calca di discepoli avidi
^. asco ^. are j guo j commen ti agli autori .greci e latini; vi giungevano
sia stata l'efficacia del

rarese.

Era un uomo nato per


t

n metodo
didattico

uanno.

di

lontano dalla Francia, dall'Inghilterra, dall' Ungheria vi andavano


buon mattino per trovar posto. Sui giovinetti, che teneva come convegliava assiduo e li
i poveri gratuitamente
vittori in casa sua
avviava allo studio coll'affetto stesso con cui veniva allevando i suoi
di

di

numerosi

figliuoli.

Si cominciava,

naturale, colla grammatichetta la-

ancora dispettato Dottrinale di Alessandro da

vecchio e non
Villedieu e colle regoluzze che Guarino stesso avea compilato

tina, col

poi ve-

,
'

39

GLI UMANISTI.

nivano

gli esercizi

di

composizione, raccontini, storie, declamazioni, e

che il maestro voleva fatta a voce alta, con pronuncia chiara ed accompagnata da una duplice traduzione, letterale
ed a senso, e da considerazioni sulla scelta, la propriet e la collocazione delle parole. I discepoli notavano via via e procuravano di fggersi in mente le frasi pi adorne, le narrazioni e le sentenze meglio
ammaestrative di un morigerato e nobile tenore di vita: studia humanitaiis et eloquentiae. Ad ingentilire gli animi conferiva anche la
gentilezza serena del maestro, che, vecchio, si compiaceva di assistere
ai giovanili sollazzi e giudicava pi profittevoli della barbara asprezza,
in uso nelle scuole, i dolci rimproveri. Dall'insegnamento ebbe Guarino
la sua fama; non dalle orazioni d'occasione, dalle versioni dal greco
e dalle poesie, nelle quali sperper la sua non felice attivit di scrittore. Uno de' suoi figliuoli, Battista continu a Ferrara con buon suc-

la lettura dei classici,

cesso le tradizioni didattiche paterne.


Poco pi giovane dell'umanista veronese era Vittorino de'Rambal-

Vittorino

fu discepolo nello studio del greco

^Zull,

doni da Feltre (1378-1446), che


e tenero amico.
sul

rovescio

sangue

il

La medaglia

gli

scolpita in suo

pellicano squarciatesi

suoi nati

meriti del feltrese,

il

onore dal Pisanello, reca

petto per nutrir del proprio

simbolo singolarmente espressivo delle qualit e dei

il

quale consacr alla scuola tutta la sua operosit

meravigliosa e non lasci di suo quasi neppure una riga. Gianfrancesco

Gonzaga, principe colto e munifico, lochiamo a Mantova nel 1423,

af-

finch desse opera all'educazione de' suoi numerosi figliuoli, fatta ric-

camente arredare, ad albergo

dei discepoli e del maestro, la

casa zoiosa

presso alla reggia. Col Vittorino, riformando a grado a grado

le

invalse

abitudini principesche, attu quell'idea di convitto perfetto, che aveva

La vita che vi si faceva era


convento: modesta e parca la mensa, le occupazioni ben distribuite e regolate secondo un orario stabilito, guardato
T ingresso da un custode, che non lasciava entrare persona senza il
consenso del maestro. Nell'accogliere i giovani nel sub istituto Vittorino
non guardava se fossero ricchi o poveri, poich desiderava che quelli
si avvezzassero a considerare questi come uguali e fratelli
bens respingeva con inflessibile giudizio quelli che non fossero inclini agli studi
e di buoni costumi. Esperto nel latino e nel greco, dotto in letteratura, in filosofia, in matematica, leggeva in ogni facolt e dirigeva le
lezioni de suoi cooperatori. Nulla di osceno o d'immorale tollerava nei
discorsi o negli atti; fra i classici prediligeva quelli onde minor pericolo di seduzioni venisse agli animi giovanili, Cicerone e Demostene,
Virgilio ed Omero; perseguitava sdegnoso e implacabile ogni ipocrisia e
la menzogna, pronto sempre a perdonare il fallo che fosse con sincerit
confessato. L'ozio non poteva albergare fra quelle mura, perch gli
studi letterari e scientifici si alternavano colla musica e colle esercitazioni ginnastiche: lotta, corsa, nuoto, equitazione, danza. Spesso poi
la zoiosa, divenuta, forse per questo, giocosa, risonava del lieto rumore
gi sperimentata a Venezia ed a Padova.

austera e

pia,

come

di

CAPITOLO PRIMO.
di giochi, ai quali Vittorino assisteva,

compiacendosi in vedere i gioed effondere liberamente il brio della loro et.


Di l avevano ad uscire non pur dotti e buoni, ma anche robusti e
adorni di quella grazia nel portamento, nella voce e nel gesto, che
la civil comunanza esigeva. Sprone a ben fare era l'emulazione sapientemente eccitata; freno ai cattivi erano le punizioni che, varie secondo
il variar dei caratteri, andavano dalla riprensione amorevole all'argovinetti accaloratisi

mentare violento della verga e dei manrovesci. Oh mite e gentil


Vittorino! Perdoniamo ai tempi e alla tradizione. Esempio efficacemente educativo dava ai discepoli la vita semplice, morigerata e sobria del maestro. Il marchese gli aveva assegnato una provvisione
annua di circa trecento fiorini, ai quali ne aggiungeva forse altrettanti sollecitato dalle preghiere di lui, e Vittorino tutto

spendeva per
pagavano anche per i poveri, e nelle sue generose elemosine; per s non faceva masserizia, sicch mor poverissimo.
Quella scuola diede frutti di sapienza e di virt. Ne uscirono maeDiscepoli di
vmormo.
^ri valenti, come Ognibene Bonisoli da Lonigo, che succedette nella
giocosa al feltrense tre anni dopo la morte di lui e che Vicenza contese vittoriosamente a Mantova; ne uscirono principi, come Lodovico
l'istituto,

dove

ricchi

Gonzaga, figlio ed erede di Gianfrancesco, e Federigo di Montefeltro


signore d'Urbino, l'uno e l'altro addottrinati e gentili, protettori splendidi e sapienti delle arti e delle lettere
d'iscrizioni,

trattati

pedagogici.

quello, raccoglitore

una revisione del testo


onori a Leon Battista Alberti e

ordinatore

di

di libri e

virgiliano e largo di

commissioni e di
al grande Mantegna;
questo, con Luciano da Laurana, architettore del suo ducal palazzo, dove,
come in un museo, radun e statue e dipinti e arazzi fiamminghi ed
una biblioteca preziosa la pi degna che fosse mai istata da mille
anni a quel tempo .
Le questioni pedagogiche affaticavano, come ogni altra, che avesse attinenza col perfezionamento dell'uomo, gli spiriti del Rinascimento. Non
v'ha trattato politico o morale dal De republica di Uberto Decembrio
alla Vita civile di Matteo Palmieri, ove non sia parola dell'educa-

consacrano scritti speciali. Non imingenuis moribus, che Pier Paolo


Vergerlo compose tra il 1402 e il 1404 e dedic a Ubertino da Carrara, figlio del signore di Padova; verso la met del secolo il lodigiano Maffeo Vegio (1407-1458) scrisse sei libri De educatione liberorum et eorum claris moribus, saviamente temperando di tendenze
zione da darsi ai giovani; e le

si

meritata fortuna ebbe l'opuscolo

De

cristiane precetti antichi. In codesti trattati,

come

in quegli altri, in cui

per
all'educazione dei principi
di
Savoia
I
Filiberto
di
Sforza
e
esempio, il Filelfo di Gian Galeazzo
sono esposte le teoriche, che Vittorino praticava nel suo ginnasio allo
alcuni

si

proposero

di dettar

norme

costume dei discepoli convenire non meno solcure che alla mente ed al cuore ; dover il maestro procurar di
conoscere le indoli, le attitudini, le complessioni e conformare a queste le correzioni, gli studi, gli esercizi del corpo; le punizioni morali dar
stato fisico ed al civile

lecite

GLI

41

UMANISTI.

frutti migliori che le materiali; le pubbliche scuole, frequenti di giovani


e feconde di nobili emulazioni, piccolo mondo specchio del grande, meritare la preferenza sull'insegnamento domestico, che lascia imbozzacchire

nella solitudine le tenere pianticelle.

Vecchie massime, che educatori

desumevano fedelmente da Quintiliano e da Plutarco e che


alia societ vaga d'antiche fogge.
grado
erano a
Quintiliano aveva consigliato, che qualche informazione di lettere
e trattatisti

si

desse ai fanciulli prima ancora che toccassero

XV,

secolo

a quell'et

si

il

Fanciulli

settimo anno. Nel

solevano avviare alla grammatica, cio allo

studio del latino, ammaestrati gi prima nell'esercizio materiale del leg.

gere e dello scrivere, ed i saggi di dottrina precoce, anche se apparente, parevano un rifiorire di classiche costumanze. Dicono che a tredici anni Gianlucido Gonzaga, uno dei discepoli di Vittorino, componesse un poemetto, descrivendo l'ingresso a Mantova di Sigismondo
imperatore (1433); Cecilia, sua sorella, a dieci anni copiava il greco
con un'eleganza da far trasecolare il camaldolese Ambrogio. Di siffatte ostentazioni di ingegno e di coltura si compiacevano, sopra tutti,
i principi, che nell'educazione dei loro figli ponevano ormai ogni pi attenta cura in modo tutto speciale se ne compiacevano gli Sforza. Ad
otto anni Galeazzo Maria recit a Ferrara un discorsetto latino dinanzi
a Federico III (1452); a undici una lunga arringa nel Gran Consiglio di Venezia; a quindici un'orazione, maestosa di classica pompa, a
Firenze in cospetto di Pio, II; e quando, pochi giorni dopo, il pontefice fu
a Mantova per il Congresso (1459), la sorella di Galeazzo, Ippolita,
fanciulla quattordicenne, lo salut latinamente a nome del padre. Ammiravano presenti Federico III giudic il sermone del principino sforzesco cosa stupenda e meravigliosa Pio II notava che ormai
li gioveni dicono meglio che li vecchi
di Ippolita, uno fra gli uditori scrisse, che parl come una dea. A tutti certo era noto che quei
minuscoli oratori facevano mostra di merce d'accatto il Filelfo aveva
steso il primo discorso di Galeazzo Maria sulla traccia indicata dal duca,
che gli raccomand di non farlo pi lungo di due vangeli di San Giovanni per non affaticare troppo il piccino; l'orazione detta a Firenze
tra quelle di Guiniforte Barzizza (1406-1463), il figlio di Gasparino,
che dal 1456 era precettore di Galeazzo Maria e di Ippolita Sforza.
Piacevano la carezzevole voce infantile, la soavit della pronunzia e la
grazia del porgere. L'apparenza leggiadra teneva volti a s cos fortemente gli spiriti, che non vi aveano luogo n il disgusto di quello
spettacolo tra comico e pietoso, n la compassione per quei poveri automi, che gabellavano per fanciulli miracolosi. E poi v'erano gli esempi
antichi: Roma sotto Traiano avea visto un ragazzino dodicenne ricever
il premio dell'eloquenza latina, ed il minor Plinio si vantava in un'epistola di aver composto a quattordici anni una tragedia greca.
;

Anche

nell'educazione delle fanciulle era fatta gran parte agli studi


ond' che nella vita letteraria italiana la donna acquist un'importanza, che non aveva mai avuto per lo addietro ed, a malgrado dei
classici

erudu

42

CAPITOLO PRIMO.

precetti di riservatezza e di modestia, che

predicare, anche a

moralisti

nomi femminili diedero fama

non cessavano

di

la dottrina e l'elo-

quenza. Ginevra Nogarola, andata sposa (1438) a Brunoro da


bara, signore di Pratalboino, dovette, fra le cure e le tristezze

Gamdome-

stiche, dire addio agli studi, cui l'aveva avviata

con prospero successo


Guarino, nella patria Verona. Ma
la sorella di lei, Isotta (1418-66), rimasta nubile, tanto profitt di quegli insegnamenti, che le sue epistole latine, adorne di ponderosa eleganza e di erudizione, facevano andare in visibilio gli umanisti contemporanei. Saffo, Cornelia madre dei Gracchi, Ortensia, le Sibille,
le Muse parevano bastare appena ai paragoni; Damiano dal Borgo, del
quale ci rimasto un ricco e vivace carteggio con Isotta, nudriva
per l'addottrinata fanciulla ammirazione calda, quasi affettuosa. In lei
s'impersonava un'alta
noi possiamo dire pedantesca
idealit letteraria; ma soffocata moriva la soave idealit femminile. Negli anni
maturi, dopo il 1450, la Nogarola si diede agli studi sacri e disputava con Ludovico Foscarini, pretor di Verona, qual dei due abbia
peccato pi gravemente, Adamo od Eva.
o en e pi affettuosa, pi buona ci appare Costanza Varano
dei signori di Camerino. All' amor desrli studi fu allevata dall' avola
materna Battista di Montefeltro nei Malatesta, donna di nobile cuore,
che gli umanisti lodavano e che lasci alcuni scritti in volgare e in
latino. Dalle sventure famigliari, che amareggiarono a Costanza la
brevissima vita (1426-1447), dalla sollecitudine, con cui volse la sua
eloquenza ad ottenere ai Varano il riacquisto dell'avita signoria, recitando un'orazione latina dinanzi a Bianca Visconti Sforza (1442) e
perorando la loro causa presso re Alfonso, dall'amor che ispir in Alessandro Sforza, ond'ella divenne signora di Pesaro, si diffonde un soffio di mestizia e di tenerezza, che sgombra, in vista, la sua fronte di
giovinetta dalla polvere dell'erudizione, incresciosa. Ad Isotta assai
pi che alla Varano rassembra quella Cassandra Fedele (1465-1558),
cosa mirabile, diceva il Poliziano, n meno in volgare che in latino,
discretissima e meis oculis eiiam bella la cui fama si spandeva, in
grazia delle sue epistole e delle sue orazioni latine, da Venezia per

Martino Rizzoni, un discepolo

Isotta
(1418-66).

di

costanza

varano
(1426-47)

ogni terra d'Italia in sullo scorcio del secolo.


Vittorino da Feltre, osservantissimo della religione cristiana, voascoltassero la messa ed ogni mese
i suoi discepoli

L'uma
nesimo e

la

leva che ogni d

religione.

g con fessassero a j fra ti minori; in sul mettersi a tavola e in sul levarsene, recitava loro le preghiere della Chiesa. Neppure Guarino
trascurava l'insegnamento religioso conduceva ogni mattina i convittori al divino ufficio e, nella scuola, confutava coll'autorit dei Padri
le favole pagane. Ci nondimeno a qualche austero zelatore della fede
.

quegli istituti, dove era fatta s gran parte alla lettura dei classici, non
andavano a sangue. Nella quaresima del 1450 l'umanista veronese ebbe
a sostenere una polemica con Giovanni da Prato, un monaco, che dal

GLI

43

UMANISTI.

pergamo avea fieramente condannato

quelle letture, in ispecial

modo

appunto allora Guarino attendeva nelle sue

lo studio di Terenzio, cui

lezioni. questo un episodio


mutando forme e motivi ed

della disputa intorno agli antichi, la quale,

intenti, si perpetu lungo i secoli, dai primordi del cristianesimo ai giorni nostri e che forse la pratica dell'avenire assopir, rendendola vana. Nei secoli XVI e XVII assunse

L'aspetto e

il

valore d'una questione d'arte; nel

l'ammirazione dei dotti

il

classicismo risorto,

fu

XV,

trionfante tra

questione essenzial-

mente religiosa, e di riflesso, allora come sempre, questione pedagogica.


Le favole degli dei, dicevasi, distraggono dalla vera fede i lettori, e dai
racconti di pagane brutture, adorni di bellezze formali, stilla, come da
coppa dorata, veleno negli animi. Con argomenti di tal fatta, si combattevano
sti

poeti;

men

pericolosi erano riconosciuti filosofi,

e quelli ugualmente dannosi, per ci che rubavano

ma

tempo e

que-

solleci-

tudine allo studio delle sacre carte. Erano spesso rammentati Agostino,
rimorso dalle lagrime, ch'egli aveva versato sulla morte di Didone, e
Girolamo, tratto in sogno dinanzi al tribunale di Dio per i suoi ardori ciceroniani e costretto a promettere di non ricader pi in quello
od in simile peccato. Il Petrarca e il Boccaccio avevano preso a difendere i poeti; poscia quanto pi intenso e generale si fece l'amore
per i classici, tanto pi veementi e metodiche divennero le aggressioni
e pi calde le apologie. Nel 1378 Coluccio Salutati rimbecc con una D 8pute dei
lunga epistola il cancelliere bolognese Giuliano Zonarini, che aveva |a zonar?nf
osato chiamare Virgilio vate menzognero (mentificus), e nuovamente
10 incalz poco dopo eoll'occasione, che nella disputa era entrato a favore dei pagani anche il notaio Domenico Silvestri da Prato. Pi
fiero avversario degli studi classici fu il frate camaldolese Giovanni con go. da
da San Miniato, che s'argomentava di distorne Coluccio stesso (1400) fi^oo-MoS).
e poi (1405) Agnolo Corbinelli, uno dei giovani, che pi avevano caldeggiata la venuta del Crisolora. Poesia, rispondeva il Salutati, ripigliando concetti sanciti dal consenso delle tre corone fiorentine,
un parlare coperto, nel quale il bel velo delle favole nasconde agli
occhi del volgo la verit n altro che poesia sono le sacre scritture,
che nascondono il vero sotto figurato sermone. Queste non meno che
le opere dei poeti pagani contengono racconti di delitti e d'immoralit,
n in qualche parte sono meno lascive. Perch dunque si dovr vietare ai cristiani lo studio dei poeti gentili ? Gli stessi Padri della Chiesa
11 citano spesso e non ne sconsigliano la lettura, se non in quanto interdicono il fermarsi soltanto in essi. Quivi traluce sovente un raggio
della divina verit, rivelantesi per bocca di quegli stessi che ne erano
ignari; quivi poi la fonte, onde scorrono nelle opere nostre le grazie del dire, la propriet dei vocaboli, la maest dello stile, i pregi
insomma, che danno loro durevole vita e diffusione. Tu (conchiude il
Salutati nella prima delle due epistole al camaldolese), com' della
santa salvatichezza, quod sanctae rustictats est, sei utile solo a te
stesso, io mi sforzo di giovare a me ed agli altri .
i

44

CAPITOLO PRIMO.
In quei d nei crocchi fiorentini la disputa sugli antichi era in voga
ne taceva, un gran discorrere nell'un senso e nell'altro. Leonardo

e se
con go.
Dominici.

Bruni traduceva appunto allora (1404-0 1405) l'opuscolo di.Basilio de lelibris ed .a, Giovanni Dominici la seconda polemica del Salutati col camaldolese suggeriva forse la Lucula noctis.
Figlio d'un povero setaiolo fiorentino, il Dominici (1356-1419) fu de-

g en(f s antquorum
.

sto agli .ascetici fervori dalla vista e- dalla parola di santa Caterina e
giovinetto s'ascrisse alla famiglia-domenicana, in Santa Maria Novella

Uomo animoso

promosse con zelo infaticato la riforma


Venezia ^nell'Umbria, ed ebbe poi gran
parte nelle procellose vicende del ponteficato, che seguirono alla morte
di Innocenzo VII ed all'elezione di Gregorio XII. Forse non ingiustificata l'accusa, che i suoi nemici gli movevano, d'avere per ambizione
della porpora, che Gregorio gli confer (1408), fomentato le discordie
e- cooperato a ritardare la cessazione dello scisma. Nei primi anni del
secolo leggeva testi sacri nello studio fiorentino, amato ,ed onorato dai
cittadini e dalla Signoria, e colla sua predicazione calda ed impetuosa
un contemporaneo la diceva anzi furibonda
scoteva e trascinava
(1374).

e risoluto,

dell'ordine specialmente a

La Lucuia

no c

i is
(H05).

Lucula noctis, trattato latino dedicato a Coluccio,


Dominici riprendeva con apostolico vigore l'andazzo del tempo, per

g[[ animi. Nella

il

cui

si

ponevano

renzio prima

'

mano

in

ai giovinetti Ovidio, Virgilio,

Cicerone,

Te-

facevano loro conoscere Giove, Saturno e Venere prima che il Padre, il Figlio e lo Spirito* Santo. Di leggere e studiare scrittori pagani concede soltanto a. chi sia gi ben addentro nei misteri della religione- ed abbia profondamente radicata
nell'anima* la fede e conoscenza piena delle opere e delle dottrine a
questa attinenti. Di leggerli o studiarli, non per trarne, come i pi
facevano allora, onore e guadagno o per puro diletto o con intenti artistici, s bene per rilevarne quel poco di buono che contengono e combatterne gli errori ;a maggior gloria di Dio. E pi utile ad un cristiano, egli dice con frase rude e quasi paradossale, arare la terra,
dei. libri

sacri e

si

che studiare

libri

dei

gentili ,

perch quello

ordinato da

Dio

n come questo si tramuta di leggeri in un deplorevole abuso. Il Dominici non dunque un vero ed intollerante denigratore dei classici,
che ha letto e cita nella stessa Lucula, ma un implacato nemico
dell'avviamento, che venivano prendendo allora gli studi. Eppure Coluccio, nella lettera che gli scrisse poco prima di morire, si rallegrava
d'esser nei principi d'accordo con lui e ne accoglieva, sia pur con
discrezione, i precetti. Pare strano e non .
uomo pio e religioso, che piegava la filosofia pagana
IL Salutati
a ^ servigio delle verit predicate dal Vangelo- e lo stoicismo succhiato
che spontaneamente
da, Seneca temprava di cristiana ^rassegnazione
raccomandava agli eclesiastici .di leggere con cautela gli scrittori genSalutati, non vide i pericoli della via per la
tili (Epist., II, 146), il
;

La

fede

umamsti.

quale spingeva le menti. .L'entusiasmo per

emularne

le splendide

forme conducevano

classici, e la

neofiti proprio

bramosia di
a quella-

45

GLI UMANISTI.

buso che

Dominici detestava

il

il

fine religioso si dileguava ogni

giorno

pi dagli studi. Gli argomenti stessi che Coluccio traeva dalle sue convinzioni di fervido .e sincero credente a difesa dei poeti antichi, ridon-

davano e danno degli studi

a <che

infatti leggere la Bibbia e> i


sane massime si trovavano, chi
le sapesse discernere di sotto al velo delle favole, negli scrittori pagani
in forma tanto pi squisita e attraente ? Cristianissimo uomo e molto
volto al culto della religione fu il Niccoli, ma le brigate, che egli frequentava, gi preponevano Varrone <ai dottori della cattolica fede e
trascuravano per le favole pagane i miracoli dei santi. Nel 1443 Enea
Silvio Piccolo mini affermava , che nel tesoro letterario tramandato
dall'antichit erano le norme migliori per ogni azione e dissuadeva il
duca Sigismondo d'Austria, dalla lettura dei teologi -medioevali, dotti
uomini, ma inetti ad insegnar nulla di utile. A-credenze negative s'arriv solo assai tardi, negli ultimi anni del secolo o nei primi del XVI,
e quelle rimasero sempre isolate. D'uno solo fra gli umanisti del quattrocento, il Marsuppini, fu detto che morisse senza confessione e co-

Vangeli, se

le,

stesse verit

sacri

le stesse

<e

munione e non come buon

cristiano. Della religione i pi rispettavano


apparenze. L'Aurispa, viaggiando la Germania in traccia di manoscritti classici, non dimenticava di visitare ad Aquisgrana le sacre reliquie, la camicia di Nostra Donna, il lenzuolo in cui fu avvolto Cristo ed altre siffatte preziosit e di toccarle con un anello, che mandava,
dono devoto, a un amico. Il Poggio, lo scettico e licenzioso Poggio,

le

proprio negli anni in cui era ingolfato megli amori, andava ogni matuna cappella dedicata alla Vergine

tina in chiesa a pregare e fondava

nella sua Terranova.

Erano

.abitudini redate dai padri.

non* mancarono neppure fra


discepolo
testi e

Vittorino

di

poi ripudi

non

invece

crarsi tutto alla religione, e


rale per

sapeva

gli studi

sostenere

gi lo notai nelY Introduzione

intiepidendosi;

dominava

la

l'indifferenza.

la

lettura-

mistici

dei

favole per

secolari e le

gi ricordato Maffeo

il

Spiriti

quali Gregorio Correr, che,

gli umanisti,

sacri

consa-

Vegio. In gene-

fede venne in loro

Ebbene: l'austero domenicano

vide con intuizione profetica dell'avvenire, assai pi chiaramente che Cola storia imparziale deve rendergli questa giustizia
luccio
la china
per cui l'umanesimo traeva gli spiriti. Per lui essa era il precipizio, in
fondo al quale stavano le tenebre del materialismo e della miscredenza

le torture del regno doloroso. Il merito della sua preveggenza non


scema, perch a noi quella china appaia invece l'erta gloriosa, in vetta
alla quale l'uomo ritrov il suo regno ed il pensiero la piena libert

'

dei suoi moti.

La voce

del Dominici

quanti altri

dopo banditori L uraane .


suo corso trionfale sic hie la
sa
e* dalla Chiesa/ stessa ebbe conforto di vantaggi, d'onori, di premi. Cospicui prelati si segnalarono ben presto come promotori degli studi classici e* come amici delle lettere e dei letterati: Gerardo Landriani,
delle sue idee rest inefficace..

vescovo

di

di

si

fecero

L'umanesimo segu

il

Lodi, quegli che scoperse le opere rettoriche

di,

Cicerone;

46

CAPITOLO PRIMO.

l'arcivescovo di

Milano Bartolomeo Capra e

come governatore in nome


Genova cooperarono a radicare

l'uno
di

cultura.

papi, clic

Pileo

de' Marini

che,

come arcivescovo
quella citt la nuova

del Visconti, l'altro

e diffondere in

ab antiquo avevano imparato ad apprezzare nelle

lotte cogli imperatori la forza della parola e

che alla loro cancelleria


uomini dotti e ingegnosi, non
tardarono ad aprir le porte della curia all'umanesimo. Era un nuovo
e gagliardo strumento di politici maneggi, che gi mettevano
a proftto principi e comuni; i papi non potevano averlo
a dispetto in un
tempo in cui l'arma della parola si affilava tagliente contro il pontificato. La costumanza gi iniziata da Bonifacio IX e da Innocenzo
VII,
ebbe im P ulso dalle necessit del concilio, onde usc eletto papa Martino

avevano sempre procacciato ornamento

^ui9-3i7"

di

Roma, ebbe raccolta intorno a s tutta una schiera


umanisti, secretati o scrittori apostolici. Vi primeggiava il Loschi,
gi famigliare di Gregorio XII, come colui che teneva anche del diplomatico
nel 1426 and ambasciatore a Sigismondo
e che s'era
e questi, di ritorno a

di

acquistato

nome

quasi popolare col formulario della nuova epistolografia pontifcia. Era uomo di carattere gaio e d'abitudini spenderecce
e
ben s'appaiava col Poggio, in cui Roma aveva spento
strana vi-

cenda delle cose


i fervori ascetici germogliati nel suo animo in Inghilterra. Nei giardini e nelle vigne romani o, pi di sovente, nel
!

bugiale,

un luogo

appartato, forse nel palazzo apostolico, che aveano

battezzato cos quasi officina di frottole,

gli addetti alla curia si raccoglievano, cessate le occupazioni d'ufficio, in piacevoli ed allegri ragionari: erano leggiere discussioni di morale, erano racconti di burle,
di scenette gustose, di motti salaci. Il Poggio poteva riandare con Aga-

pito Cenci

de'Rustici e con Bartolomeo


-

cordi delle esplorazioni costanziensi e tutti

da Montepulciano
si

cari ri-

sollazzavano architettando

burle, che s'ha a dire non fossero sempre di buona lega, se ad un povero prete, che parve loro troppo scrupoloso, perch avea restituito
dieci grossoni frodati alla curia al tempo di Giovanni XXIII
diedero
a bere che il Loschi era l'esecutore testamentario di Giobbe e, sotto
specie d elemosina a suffragio dell'anima del testatore, spillarono tanti
quattrini da poterne fare un lauto banchetto annaffiato d'ottimo vino.
,

(Poggio, Epist.,

II, 8).

Eugenio IV (1431-1447)rec dal chiostro sulla cattedra di Pietro,


Eugenio iv
(143M7).
abitudini di vita semplice e pia ed una cultura religiosa, che mal si
affaceva alle tendenze dell'umanesimo. Come uno sciame di formiche,
dice il Poggio, i frati, rozzi ed ignoranti, gli si accalcavano sempre
intorno. L'et correva grossa le guerre contro i Colonnesi e contro i
Visconti aiutati da venturieri audaci, le ribellioni romane, il concilio
di Basilea tennero lungamente agitato il pontificato di Eugenio. Tuttavia, poich i tempi ormai lo imponevano, agli umanisti non manc
l'ospitalit della curia n la protezione del papa. Il lungo esiglio di.
quella da Roma (1434-43) confer a render pi attivo il commercio
e pi rapido l'avanzamento delle idee, avendo condotto i segretari pon~
:

GLI
tifici

47

UMANISTI.

radunanze nel palazzo di via Larga, in casa il Niccoli


del Traversari ed ai crocchi geniali della corte estense.

alle dotte

e nella cella

Tommaso Parentucelli da Saralla casa del cardinale


preposto
era
che
colui
siccome
zana (1397-1455),
Niccol Albergati. Dianzi vi avea passato quattro anni (1415-19),
quando le strettezze della sua famiglia lo aveano costretto ad interromper gli studi di teologia e di filosofia e ad allogarsi qual precettore dei figli di Palla Strozzi e di Rinaldo degli Albizzi. Aveva poi
Si trov a vivere allora in Firenze

il grado di maestro in teologia a Bologna e s'era fatto prete.


Firenze per fu la scuola che educ e matur le inclinazioni e le attitudini pi felici del suo spirito, fonti di purissima gloria al cammino,

ottenuto

anche per

altri rispetti

non

inglorioso, della vita di lui.

Bench

fosse

povero, cominci presto a comprare e far trascrivere libri, che, senza


guardare a prezzo, voleva belli e compiuti e ben assettati; di Ger-

mania e di Francia, dove viaggi compagno all'Albergati o legato egli


e tutti postillava di sua mano ed
stesso, ne port in Italia di nuovi
;

Non ebbe ingegno fecondo,


ma, come il Niccoli, fa un dotto e diligente bibliofilo. Per Cosimo compil il canone librario, cui furono
conformate le pi insigni biblioteche del Rinascimento. Usava dire,
narra Vespasiano da Bisticci, che due cose farebbe, s'egli mai potesse
ispendere, ch'era in libri e in murare . E l'una e l'altra fece quando,
morto papa Eugenio (1447), divenne Niccol V. La biblioteca vaticana
contava allora da trecentoquaranta volumi; otto anni dopo, alla morte
del Parentucelli, toccava, fra latini e greci, i 1160, numero che nessuna libreria italiana poteva contare in quel tempo. Calligrafi e miniatori, largamente rimunerati dal papa, esemplarono i testi e, sguinzagliati da lui, corsero l'Europa i segugi dell'erudizione-, esplorando lontani mercati e polverose librerie claustrali. Un di quelli, Enoch d'Ascoli, partito nel 1451 sulle tracce del fantasma Uviano, torn dopo
la morte di Niccol V, con un gruzzoletto di nuove opere, pregevolissime, se, come pare probabile, vi compariva la Germania di Tacito
Molti uomini dotti vennero in corte di Roma e ne ebbero commissioni
di lavori, specialmente di versioni dal greco. Intanto il pontefice vagheggiava immensi disegni architettonici e metteva mano alla loro attuazione: il restauro delle mura, degli acquedotti, dei ponti e delle basiliche e la riedificazione del borgo Vaticano, del palazzo apostolico e
della chiesa di S. Pietro, secondo un piano che ha del fantastico, tanto
grandioso e magnifico. Roma antica, dominante il mondo colla forza,
si affacciava, maestosa di edifci e di costumanze solenni, alla mente delmente del cristiano l'ideale d'una Roma
l' umanista e foggiava nella
nuova, che fosse pari a quella nell'aspetto esterno come la uguagliava,
per mezzo della fede, naif universalit del dominio. Coli' occasione del
Giubileo del 1450 afflu all'erario grande copia di denari, ond'ebbero
alimento la naturale liberalit del pontefice e le sue magnificenze. Fargliene una colpa gretteria da spigolistri miopi o severit partigiana.
arricchiva di rubriche marginali e di indici.
anzi

non

lasci nulla di suo

Niccol
(

1447* 55 >-

CAI'ITOI.O
Il

pio sar/.anese,

sterit rudi dei

come ritempr

PRIMO.

onde dell'umanesimo l'auessergli a grado


da Timoteo Maffei e dal genovese Raffaello
nello vivide

suoi studi teologici,

laiche

dovette

L'intitolazione a lui fatta


da Pornasio, di sci-itti in difesa dei classici, cosi aperse risolutamente
la Chiesa ai nuovi avviamenti delle lettere e all'amore del lusso e delle
splendide logge, clic pervadeva l'Italia. Anche Niccol forse non vide che
ne dovesse conseguire. Comunque, non avrebbe potuto adoperare altramente, egli, che in pieno secolo XV si proponeva, non pure di acquistar
gloria a s stesso, ma anche di accrescer onore e rispetto al pontificalo e alla Chiesa e di ravvalorare la devozione dei popoli. Spirito
aperto, incapace di fingere o di simulare e di finzioni o simulazioni nemico, non oper per calcolo ne per ragionata deliberazione, si bene

per sentimento,

nella'

libera

espansione delle sue naturali

Egli La pi nobile figura di pontefice,

che tutto

il

tendenze.

Rinascimento ab-

bia creato.

D breve regno

riluto in.

al passato.

del suo successore, Callisto III, segna un ritorno


Ai vecchio catalano, puro canonista e teologo, tutto assorto

nel pensiero della crociata,

non sorridono

gli

allettamenti della bella

letteratura; egli anzi deplora che


glier libri la roba della

ondetrovaadorno.il palazzo apostolico. Per buona ventura


non gli venne fatto. Dopo tre anni, nel 1458, la tiara passava dai suo
capo su quello di Enea Silvio Piccolomini, che fu Pio II.
II Piccolomini era uno di quegli umanisti d'umor lieto e sollazzevole, pieni di vita, d'ingegno e di spirito, un po' scettici e senza
scrupoli, che ormai non sono una novit per il lettore. Alcuni, s'
visto, si acconciarono presso la curia; lui le vicende della sorte condussero invece a servire gli avversari della corte di Roma. Era nato nel
1405 a Corsignano nel Senese; studi a Siena diritto ed a Firenze
umanit sotto il Filelfo; nel 1432 arriv a Basilea qual segretario del
e

pjo

(1458-61).

<

Niccol abbia consumato in raccohiesa di Dio e disegna di vendere la biblioteca

le gioie,

cardinale

Capranica. In servigio d'altri prelati dovette pi volte alItalia, in Francia, in Inghilterra, in Iscozia;

lontanarsene e viaggi in

divenne bbrevatore del Concilio

e,

quando questo depose Eugenio IV

(1439), segretario nella curia dell'antipapa Felice V.

commentari del

Le sue

orazioni e

con vivacit insolente le


acquistarono fama e autorit, ond'eb-,

Concilio, scritti per difenderne

deliberazioni pi arrischiate, gli

bero alimento l'alta coscienza di s e il desiderio ardente di gloria,


che la natura ed i tempi aveano posto nell'anima al Piccolomini.
Nel 1443, coll'occasione d'un'ambasceria a Francoforte, entr, chiesta
licenza a Felice V, nella cancelleria di Federigo III, re dei Romani,
die nella lotta tra Eugenio e i basileesi si teneva, colla sua nazione,,
entrale. La posizione dell'antipapa diveniva ogni giorno pi incerta
ricordiamoci che a Basilea era stato condotto
e l'umanista perspicace
ficcava lo sguardo nel proprio
non da convinzioni, ma dagli eventi
avvenire. Non cambi ancora tenore di vita, n soffoc le sue inclinazioni. Alle poesie leggiere e profane, che nel 1442 gli aveano pr-

GLI

49

UMANISTI,

curato a Francoforte l'alloro, tennero bordone uria commedia poco


pudica, la Chrisis, e la famosa Storia di due amanti (1 444), ultimi guizzi
duna fiamma, che l'et e, pi, un meditato cambiamento di idee andavano estinguendo. In sul principio del 1445 Enea Silvio a Roma,
legato dei principi tedeschi; ma prima di esporre l'intento della sua
missione, si prostra a' piedi del pontefice, confessa i suoi errori, implora ed ottiene il perdono. Egli era ormai risoluto di prender gli ordini sacri; la sua strada gli si stendeva ben chiara dinanzi. In dodici

vescovo di Trieste (1447) e di Siena (1450), cardianni fu prete


nale (1456) e papa (1458). I buoni servigi, che avea reso alla Chiesa,
agevolando la sottomissione della Germania ad Eugenio ed a Niccol V,
ebbero il pi alto premio, che l'ambizioso senese potesse desiderare.
Pio II sconfess il suo passato. In una bolla (1463) all'Universit
di Colonia ritratt le sue opinioni intorno ai concilii, affermando la
piena ed assoluta autorit del pontefice; in un'epistola condann le sue
diceva nel attenetevi
scritture d' argomento frivolo ed amoroso
credete
pi al
professiamo;
massime
ora
che
alle
nell'altra,
l'una e
vecchio che al giovine non fate maggior conto dell'uomo privato che del
pontefice, ripudiate Enea, accogliete Pio. Quel nome pagano imposero
,

genitori al bambino; questo, cristiano, abbiamo assunto sul soglio

Pure con un senso di melanconia sincera ripensava i suoi giovani anni,


i compagni d'infanzia e la sua Corsignano, che abbell di edifzi, inalz
all'onore di sede vescovile e tramut d'umile villaggio nella citt di

Pienza. In mezzo al fasto ed

alle gravi

cure serb vergini nel suo

l'amor della quiete e della solitudine, il gusto del bello artistico e l'ammirazione intensa, quasi voluttuosa, degli spettacoli naturali e trov il tempo di attendere agli studi
e di aggiungere alle molte altre sue opere storiche e morali, delle

cuore

le predilezioni proprie dell'umanista,

quali

avremo anche noi a parlare,

Commentari

della sua vita e la

Cosmografia. Niccol V era stato un pontefice umanista; Pio II fu,


se mi si conceda.il bisticcio, un umanista pontefice; quegli lasci penetrare a larghi fiotti nella Chiesa la nuova cultura \ questi non pi
di quel tanto di essa che i tempi imponessero ai maneggi della politica e che bastasse a soddisfare i gusti personali del papa. Gli eruditi
non trovarono alla sua corte l'accoglienza munifica del Parentucelli,
forse perch, lontano dall'Italia, il Piccolomini non avea seguito gli
avanzamenti degli studi, n poteva quindi gradire i metodi e le tendenze dei nuovi letterati e, scrittore egli stesso, sapeva non abbisognare alla sua gloria i turriboli prezzolati; ma specialmente perch

stavano in cima de' suoi pensieri gli obblighi dell'alto ufficio e, pondesiderava onore d'opere utili alla religione. Pio non aveva

tefice,

ucciso

quale
dal

Enea
si

1453 padroni

un concetto
i

Silvio,

ma

lo

sforz di indurre

teneva sommesso. Nella pertinacia, colla


i

principi alla

di Costantinopoli,

esatto del suo tempo;

ma

crociata

contro

Turchi,

diede forse a vedere di non aver


meglio del suo predecessore intese

danni, che alla religione potevano venire dal trionfo del classicismo.
Rossi.

La

lett.

Hai. nel sec.

XV,

50

CAPITOLO PRIMO.

Niccol V adatt il pontificato all'umanesimo; Pio II volle asservire


l'umanesimo al pontificato. L'idea della guerra santa, che questi accarezz per lunghi anni e patrocin colla sua eloquenza umanistica,
stava pei* divenire realt, quando egli mori in vista alle navi, che
doveano condurlo, vecchio e malazzato, all'impresa.
Mor ai 13 d'Agosto del 1461 in Ancona. Pochi giorni prima era
morto Cosimo de' Medici e gi nel 1458 Alfonso d'Aragona; fra un

anno

e mezzo morr anche Francesco Sforza. Il periodo, in cui vennero preparandosi gli elementi del rinascimento letterario, volge alla
fine; presto sbocceranno i nuovi fiori e
nuovi frutti matureranno.
Della vita intellettuale italiana in quel periodo abbiamo ritratto fin
qui soltanto le pi solenni parvenze esteriori: uomini e congegni che
la rappresentano e le dnno gli impulsi pi efficaci. Nei prossimi cai

pitoli

la.

vedremo operante:

critica e creatrice.

CAPITOLO SECONDO

Xvl

Lo

letteratura, critica.

Due

scuole di umanisti: la scuola degli impressionisti e la scuola scienLe poRe Alfonso d'Aragona.
opere di Lorenzo Valla.
Greci
Gli studi del greco.
lemiche del Valla. Trionfo della scuola scientifica.
Giovanni Argiropulo,
Le traduzioni dal greco.
in Italia: Giorgio da Trebisonda
della Chiesa
Il concilio per l'unione
Demetrio Calcondila, Costantino Lascaris.

stile latino.
tifica.

La

vita e le

Le polemiche fra i
Giorgio Gemisto Pletone.
Bessarione.
Il
Questioni linguistiche.
L'umanesimo e la letteratura del Trecento.
Greci.
certame coronario.

greca colla latina.

i 25

di.

Il

febbraio del 1455 la Signoria fiorentina, considerando es-

serv' nella citt pi e pi giovani avidi di dar opera alle lettere, specie
;

all'oratoria ed alla poesia, deliberava di

Dispute

tostudio.

condurre due uomini eccellenti

in quelle facolt a leggere pubblicamente, in tutto coll'annuo stipendio

dugencinquanta fiorini. Donato Acciaiuoli, un giovane sui venticinque anni (1429-1478) di nobilissima famiglia, prossimo a segnalarsi
in cospicui offici ed importanti in patria e fuori, Alamanno Rinuccini
(1426-94), pi tardi traduttore di Apollonio Tianeo e^di Plutarco, ed
altri che solevano ogni giorno radunarsi insieme con loro per supplire
con private -esercitazioni di eloquenza .alla mancanza delle pubbliche
cattedre disertate dalle guerre e dalle morti, gridarono allo scandalo:
non che di Firenze madre delle
quella provvisione essere indegna
lettere, di un borgo come Prato, fatta a posta per annientare lo Studio,
un atto di spilorceria da bottegai rozzi e ignoranti. Peggio, quando
di

si tratt nei consigli dell'elezione dei maestri. Essi, quei giovani, desideravano venisse alcun forestiero illustre e .provetto nell'insegnamento;
a Firenze invece v'erano dei temerari, che usciti appena dal volgo

pretendevano di salire sulla cattedra, io fiorata da tanti dotti, di fresco


da un Carlo Aretino, e, per maggior vergogna un forte partito- li
sosteneva, incurante per il privato guadagno del pubblico bene. Anche
,

fio-

er

'.

52

CAPITOLO SECONDO.

cancelliere del Comune, il vecchio Poggio Bracciolini, parteggiava,


per quei presuntuosi, come colui che in generale aveva scarsa fiducia
nell'utilit della scuola: il Petrarca, Coluccio, il Bruni e via dicendo
s'erano alla fine fatti da s, senza maestri; egli stesso quel che sail

peva lo aveva imparato leggendo e non ascoltando. La disputa men


lungo le pratiche di palagio e probabilmente non fu risoluta se non
quando (nel 1457) si chiam ad insegnar greco e filosofia aristotelica
Giovanni Argiropulo e la lettura di poesia e d'oratoria fu conferita
(gennaio 1 158) ad un di quei temerari, che poi era Cristoforo Landino.
',i stanziamento fu di molto accresciuto, ch a questo toccarono cento
riorini ranno e alFArgiropulo quattro volte tanto.
La questione era di natura assai pi elevata che di primo acchito
non paia: due scuole, due metodi, due diversi avviamenti degli studi
si stavano di fronte. Nell'uso del latino s' erano fatti di grandi proSTess i- Allo stile di Coluccio, frondoso e gonfio, tutto gorgogliante di
frasi che si allargano per amplificazione intrecciandosi, e di sinonimi che si rincorrono in lunghe file, modellato su Seneca, su Plinio
e specialmente sul Petrarca, s'era venuto sostituendo uno stile pi
naturale, pi semplice pi chiaro e raen lontano da quella castigata
eleganza, onde s'abbellano le opere classiche della miglior et. Gran
banditore dell'imitazione ciceroniana era stato Gasparino Bai^zizza. E
se n'era avvantaggiata anche la lingua, mondandosi dai neologismi e
dalle voci di bassa lega ed acquistando una singolare pieghevolezza.
Il Poggio, quantunque ciceroniano in teoria, signoreggia, la lingua e
10 stile latino in una maniera tutta sua e con s spigliata disinvoltura
che pi non avrebbe potuto sfoggiarne scrivendo- in una lingua viva
le sgrammaticature, le impropriet, i barbarismi 'sono come i ghiribizzi
dell'artista, che sente di potersi baloccare colla materia pronta sempre
a rispondere alle- sue intenzioni. Codesti avanzamenti stilistici erano
pj u ttosto il frutto d'una lettura assidua ed attenta, dei classici, che
d'uno studio analitico; i dotti li avevano attuati piuttosto sforzandosi di
riprodurre immediatamente le impressioni di quella lectura, che indagandone le cause per render queste operose nei loro propri scritti. Le
in

8
iettino.

Due scuoia
i

urnaaibU-

osservazioni di Coluccio sulla varia,,disposizione delle parole e^degli incisi


(il

nello stile classico e sulla uggiosa

cursus),

di

cui

si

monotonia

di

tempi e

di

cadenze

dilettavano le scuole .nel medio* evo, erano ri-

maste nascoste per entro alle sue lettere. Gli studi del Loschi su
Cicerone erano stati pi d'arte oratoria) che di stile, ed il Barzizza,
11 grande ciceroniano, aveva s formulato nel De compositione le leggi
della collocazione delle parole e del ritmo, ma, desumendole spesso da
.Marziano Capela, anzi che dell' esame; diretto delle opere classiche,
e solo come guida a' suoi discepoli. Di. alcun, favore avevano goduto
gli studi ^ortografici per il sussidio, che ne; veniva alla corretta trascrizione dei testi: Coluccio vi si era affaticato intorno tutta la. vita con
una pertinacia, che parve a pi d'uno pedantesca; il Niccoli scrsse
un trattateli d'ortografia latina, ed un altro, seguito da un dizionario,

LA LETTERATURA CRITICA.
il

53

Barzizza; sulla retta scrittura di alcune parole disputarono il Bruni


e stiil Filelfo. Ma in generale le indagini minute, grammaticali

ed

erano tenute a vile si derideva chi disputava qual fosse migrammatica se quella di Terenzio o quella di Virgilio, o chi si
gingillava con inezie; il Guari qo stesso proverbiava gli eruditi, che
consumavano il loro tempo intorno alle figure, ai casi, ai gerundi, e
scherzosamente diceva esser costume dei ragni, non delle aquile, prender le mosche. Gran paladino della scuola, che direi degli orecchianti,
se questa parola non avesse un senso tanto o quanto dispregiativo, o
listiche,

glior

degli impressionisti, se

non offendesse

la sgarbatezza del neologismo,

pi geniale tra gli umanisti del primo Quattrocento, il Poggio,


che anche nella restituzione dei testi gradiva la critica congetturale
pi che i pazienti raffronti e vantava la sua sagacia divinatoria. Il pi
fu

il

geniale tra

gli

ziano, fu invece

umanisti della seconda met del secolo, Angelo Poligrande seguace della scuola scientifica. Della quale

gi nel 1450 poteva dirsi prossimo e sicuro il trionfo: tanta efficacia


ebbe sulle sorti della filologia Lorenzo della Valle detto il Valla, uno
degli ingegni pi acuti e pi spietatamente critici, che l'Italia abbia creato.
Nato a Roma nel 1405 di famiglia piacentina, vi ebbe a maestri
l'Aurispa (1420-21) e, dopo, Rinuccio da Castiglion fiorentino. Ancora giovinetto, bazzicando nella cancelleria pontifcia, rivel nelle dispute con quei segretari il temperamento suo nervoso e violento e
l'indole battagliera, ed appena ventenne di fuori un opuscolo, nel quale
paragonava Cicerone a Quintiliano e, arditamente scostandosi dall'opinione comune, giudicava questo superiore a quello. La sua vita fu
di fatto una grande battaglia, combattuta non solamente sul campo
della filologia, ma anche su quello della filosofia e della storia; perche
la mente del Valla, avida di penetrare nell'intimo delle cose, tentava
di buon grado i voli della speculazione, come diversioni dalla via maestra de' suoi studi. La giurisprudenza del medio evo, la filosofia aristotelica
le leggende chiesastiche
le pi rispettate tradizioni gram-

Loreto
(H05-1457).

culmine
compiacimento le
e con temeraria baldanza

maticali, tutto traball ai colpi di quel ribelle, che, giunto al

enumerava con
aveva seminato il suo cammino

della sua carriera scientifica,

rovine, di cui
si

infinito

beffava dei botoli che gli latravano intorno.

Nel 1429, mortogli lo zio Melchiorre Scribani, il Valla lasci Roma


dopo essersi trattenuto qualche tempo a Piacenza, pose stabile sede
a Pavia. Quivi lesse eloquenza nello Studio e compose la prima delle
sue opere a noi pervenute, il trattato De voluptate (1431). scritto in 11 trattato
forma di dialogo: spettatori alcuni segretari pontifici; interlocutori prin- D
cipali il Bruni, il Panormita ed il Niccoli; scena, nei due primi libri,
un portico presso al monte Giordano, nel terzo l'orto del Panormita a
Roma. Seguace della dottrina stoica, l'umanista aretino deplora che gli
uomini corrano pi volentieri al male che al bene, insidiati e come,

^l^

pi numeroso che non sia quello


Natura a considerare aspra, amara ed acerba

battuti dall'esercito dei vizi, assai


delle virt, e portati dalla

54

CAPITOLO SECONDO.

la pratica dell'onesto e

a dilettarsi della loro stessa abbiezione morale.


Panormita, allegro e sollazzevole uomo, che le lettere
e i versi suoi ci faranno meglio conoscere altrove, a difendere la Natura e a dimostrare, che soltanto il piacere un bene e che ad esso
come a loro line si appuntano tutto le azioni umane. La salute, la
bellezza, i buoni cibi,
suoni e gli odori gradevoli sono da tutti ritenuti beni, perch procurano piacere; le stesse virt sono ancelle di
questo. Chi le pratica, opera non per amor dell'onesto, ma per bramosia
di piacere, per fuggire un male maggiore di quello che affronti o per

Tosto

si

leva

il

ottenere
plativa

per sottrarsi all'infamia. Anche la vita contemnon alla piena tranquillit della mente. Ond'
vocabolo vano e futile, una fantasia degli stoici, per la

la gloria o

non tende,

che l'onest

se

deve fare, come nulla fecero gli uomini, che si sogliono


a modelli. Agiscono onestamente coloro che sanno preferire
comodi maggiori ai minori, i minori disagi ai maggiori. Tanto l'onest quanto- il piacere sono indispensabili alla vita, n vi opposiquale nulla

si

offrire

zione tra

sommo

piaceri del corpo e quelli dello spirito

bene. Nel terzo libro

nella loro armonia

comporre la lite,
che hanno parlato da filosofi pagani,
tuttavia nel suo giudizio si dimostra assai pi favorevole
essi cristiani
agli epicurei che agli stoici, perch anch'egli tiene vana e frivola {inane
quiddam et nugatorum) l'onest predicata da questi, come priva di uno
scopo fuori di s, laddove gli epicurei, ponendo il piacere a fine supremo
della vita e sommettendo ai maggiori godimenti i minori, si accostano
assai pi alla morale cristiana. La fede ha completato le loro teorie,
monche e perci riprovevoli, trasportando il sommo bene da questa nell'altra vita, sostituendo al piacere terreno la beatitudine celeste, che

il

rimprovera ambedue

disputanti

il

Niccoli, invitato a

la

meta suprema

delle

umane

azioni.

L'opera del Valla non ha grandi pregi di esattezza storica, ma rivela un'originalit di pensiero rara in Italia a quel tempo. E un'affermazione solenne del cristianesimo contrapposta alla trascuranza degli
adoratori fanatici dell'antico;

un audace

tentativo

di

conciliar le

teoriche colla pratica poco stoica e poco cristiana. Rilevando l'aspetto


edonistico della morale predicata dalla Chiesa e definendo volutt la beatitudine celeste,

il

Valla, in persona del Niccoli, traeva

uno

dei pi famosi

sistemi filosofici antichi a convenir colla religione nel fine

supremo da

assegnarsi alla vita, Infelicit, e riusciva a giustificare anche i godimenti


terreni come un riflesso e un'anticipazione dei gaudi eterni. L'aspirazione
a questi doveva essere un freno alle turpitudini, di cui nel dialogo si fa
banditore il Panormita. In tal modo, son parole dello Zumbini, l'epicureismo sbandito dalla scienza e dalla vita in nome del cielo, ritornava ad esse come da un viaggio fatto nel cielo, e divenuto quasi
celeste

anche

lui .

Un

soffio di sincerit e di religiosit

spirava nella

filosofia e nella vita dal dialogo del giovine romano.


11 Panormita aveva accettato di sostenervi le parti di epicureo,
ma poi, forse perch i suoi nemici se ne facevano un'arma contro di

55

LA LETTERATURA CRITICA.
lui, disdisse

il

suo assenso ed

il

Valla, guastatosi coli' amico,

si

vide

mite e candido Maffeo Vegio; al Bruni il giureconsulto Catone Sacco; al Niccoli


la scena fu trasferita a Pavia nel portico
il frate Antonio da Ubo;
Gregoriano. Iii questo nuovo assetto il Valla ripubblic il dialogo sotto

costretto a

mutare

gli interlocutori.

questo sottentr

il

De vero dono.
In sul principio del 1433 un altro suo scritto fece grande rumore,
Era una lettera, nella quale egli criticava acerbamente l'opuscolo di
il

titolo

Bartolo da Sassoferrato De insigniis et armis e ne prendeva occasione


a menare staffilate contro i giuristi, oche schiamazzanti e petulanti,
alle quali l'aquila giustinianea, fatta strage dei cigni romani, Scevola,

inietter
giuristi
(1433) *

aveva per' mala ventura dato campo aperto.


tramandato dagli
prezioso rappresentante della romanit, non vedevano di buon
giuristi contemporanei, uomini per lo pi ligi alle tradizioni sco-

Sulpizio, Paolo, Ulpiano,

Gli umanisti,
antichi,

occhio

anche se

rispettosi del tesoro di leggi

lastiche medievali, incuranti nelle loro scritture della bella forma,

un

po' ispidi nel tratto e burbanzosi. Aggiungi qel tantino di gelosia, che
dovevano destare la pi elevata condizione sociale ed i pi lauti gua-

umanisti fecero plauso alla stizzosa lettera del Valla: le


le accuse che egli
ripeteva e tante volte scritte in confidenza agli amici! A Pavia, fra i
lettori dello Studio, fu uno scandalo, e l'incauto dovette ben presto partire. Peregrin qua e l per qualche anno e fu a Milano ed a Genova;

dagni.

gli

avevano rimuginate tante volte nella loro mente

tent di acconciarsi presso la curia, pontificante Eugenio IV; finalmente,


in sul principio del 1437, divenne segretario di re Alfonso d'Aragona.
Gran lume delle lettere detto da Vespasiano quel principe Rg Alfonso

ed appaiato con Niccol V. Non era un dotto, s uno spirito aperto


agli allettamenti della dottrina, che la sorte ed il. valor militare condussero a vivere in mezzo alla prima fioritura del nostro Rinascimento.
A quella temperie egli si accomod con pieghevolezza tanto pi mirabile, quanto meno era preparato a sentirla profondamente e a discernere
di essa le ragioni, le qualit essenziali ed i fenomeni caratteristici.
Nell'indole, nelle consuetudini private, nella lingua che usava, rimase
costantemente spagnuolo, come spagnuola fu la sua corte; ed una cotal
rozza franchezza forastira serb pure nei maneggi dlia politica almeno a giudizio di contemporanei avvezzi alle sottili e raffinate arti
degli statisti nostrali. Era umano ed affabile cogli umili, inflessibile ai
,

consigli, nelle cose pertinenti al culto divino diligentissimo.

piacque di feste e

ma non

di

Si

com-

rappresentazioni magnifiche; us infinita libera-

i sudditi con balzelli e colla venPer raccogliere .monete antiche, gemme, ricche
suppellettili, libri non badava a spesa e premiava i soldati che gliene
recavano dalle citt saccheggiate. Nel 1451 l republica veneta gli
mand un braccio del preteso cadavere di Livio scoperto a Padova
quasi quarant'anni prima; Cosimo de' Medici, pegno di pace, un co-

lit,

si

trattenne dal vessare

dita dei diritti reali.

dice del grande storico romano. Di provvisione ordinaria dava-ailet-

dlNapolu

50

CAPITOLO SECONDO.

che manteneva

terati,

loro conversazione

si

in

sua corte, da ventimila

fiorini l'anno;

della

dilettava ed ogni sera nella sala della biblioteca

e a discussioni. Era f ora del libro: dalle finerumoro e la brezza fragrante del golfo; Capri e il
Vesuvio si disonnavano sullo sfondo del cielo e del mare. Non molto
esperto di Latino, il re non poteva naturalmente gustare quelle fini
bellezze di lingua e di siile, ohe erano la delizia degli umanisti; gustava il racconto delle grandi imprese nelle storie di Livio e di Curzio
ed in luci suo eclettismo, che non tanto larghezza di mente quanto

assisteva a

letture

veniva

sire

il

coltura consentiva, studiava la sposizione delia Bibbia


Niccol da Lira, dagli umanisti disdegnata. Il rinascimento aveva
conquistato il principe, non l'uomo.
superficiale

li

Valla segui Alfonso nelle spedizioni militari prima e dopo della

Il

conquista
per

lui

di

Napoli (1443) e ne godette lungamente la grazia. Corsero


non mai riposata e spesso conturbata da

undici anni di vita

feconda attivit letteraria. Due fra i primi laancora d'argomento filosofico.


Dissertando sul libero arbitrio, nel trattato De fato et fortuna e
in pi lettere (EpisL, V, 22; VI, 23; VII, 17), Coluccio Salutati aveva
conchiuso col riprovare la presunzione della creatura finita indagante
i misteri dell'infinito e col ripetere le parole dell'Apostolo:
0 profondit delle ricchezze, della sapienza e della scienza di Dio, quanto
aspre

lotte,

eppure

di

vori di quel periodo sono

H dialo 0
Delibero
M lil0
'

sono incomprensibili i suoi giudizi ed imperscrutabili le sue vie! .


In questa medesima pia esclamazione prorompeva il Valla in sul chiudere il suo dialogo De libero arbitrio, disputa viva, spezzata e scintillante qua e l di immagini scherzose, tra lui e lo spagnuolo Antonio

Glarea. Mediante l'arguta storiella di Sesto Tarquinio,


dall'oracolo d'Apollo la

ha destinato

il

quale ascolta

predizione delle sventure e dei delitti,

a cui

Giove egli separa in Dio la prescienza


dalla volont onnipotente e dimostra come le menti umane possano
conciliare il libero arbitrio con quella, laddove la ragione non riesce a

lo

togliere

il

il

volere

di

contrasto logico tra esso e la predestinazione.

I filosofi,

non

volendo confessare la propria ignoranza, vi si provarono sforzi vani


e fallaci, perch dalla filosofia non pu venir sussidio alla teologia, s bene
:

pericolo di eresie.

dar la scalata al

Non seguiamo

cielo, furono,

l'esempio di loro, che, mentre volevano

come

giganti,

precipitati

sulla terra e

ed alla carit,
problemi dell'infinito.

sepolti nell'abisso; affidiamoci invece all'umilt, alla fede

non

che impotente a risolver i


De voluptate il Valla aveva osato assalire
la morale stoica, segnatamente Boezio. A pi fiera e pericolosa tenzone si ciment nei tre libri delle Disputazioni dialettiche (1439). Dal
Petrarca gli umanisti aveano redato l'avversione agli scolastici. Ignari
di lettere, dicevano, costoro la pretendono a filosofi; citano Aristotile
e non lo conoscono se non per via di traduzioni, che sono tradimenti;
alludeusano parole aspre e disadatte; la barbarie oltremarina
vano agli arabi ed agli inglesi
ha invaso la dialettica e di pochisalla scienza,

In questo dialogo e nel

^puta"

LA LETTERATURA CRITICA.

una selva

simi precetti necessari ha fatto

di

57

cavilli

di

distinzioni

propose di spazzare i campo dalle


erbacce e di ridurre la dialettica a quel naturale suo aspetto di fanche altri, per isperanza di trovarle un
ciulla semplice e modesta
ricco partito, le avevano tolto, caricandola di fronzoli. Con ragionamenti sottili e serrati restrinse da sei ad uno (res) i principia o trascendenti di Aristotile e da dieci a tre (substantia, qualitas actio)
le categorie; dimostr che delle diciannove -forme del sillogismo solo
otto sono comode, le altre stolte che le proposizioni modali sono, non
sei,
ma pressoch infinite e va dicendo. La parte critica di questo
trattato assai pi felice della parte creativa. Il Valla vi combatte
una delle prime battaglie contro l'aristotelismo e nell'ardore della demolizione non distingue le opinioni dei discepoli corrotti da quelle del
maestro. Il quale ei non giudica di tanto ingegno, che s'abbia a condi inutili cianfrusaglie. Il

Valla

si

cedergli tra'
alla luna,,

filosofi il

nonch

posto che ad Ercole o ad Achille, fra gli eroi,

al sole, fra

gli astri.

Scrisse assai

pi degli

altri,

ma non

meglio di altri e le fatiche altrui sfrutt senza darlo a vedere.


L'audace umanista lo canzona, perch disse l'anima umana formata
di due parti, la razionale e l'irrazionale (1. 9); ne combatte, a ragione
od a torto, le teorie fisiche; gli rimprovera come stolte e prave le
sue opinioni sulla virt, riaffermando essere la felicit scopo alla vita
e le virt mezzo per arrivarvi (I, 10). Ben sapeva il Valla di sillogizzare invidiosi veri ed era preparato ad ogni rischio piuttosto che
a disertare la sua bandiera. Dall'infamia presente, pensava anch'egli,
come pi tardi il Bruno, germoglier la gloria futura. Lo animava la
coscienza di combattere per il vero, che quanto dire per la dignit
della fede.

di

La causa della verit, della giustizia e di Dio il Valla si argoment


L
difendere anche nell'opuscolo sulla donazione di Costantino. Difen-

opusc<
sulla

causa del suo signore, nel momento in cui ardevano le coSSJu


(1440)
lotte tra Alfonso
contrastante a Renato, il dominio del Napoletano e
fido al concilio d Basilea, ,ed Eugenio IV alleato dell'angioino. In quell'opuscolo, scritto rapidamente nella primavera del 1440, la critica sto-

deva insieme

la

'

rica, incisiva e serena, si associa all'eloquenza incalzante del libello politico.

Ormai

documento, su cui i pontefici fondavano i loro


temporale, era stata scossa dalle argomentazioni di

l'autorit del

diritti al principato

Niccol da Cusa, che fu poi cardinale di santa Chiesa. Il Valla riprese la questione e la tratt con severit di metodo e con ampia

non attendibile la tradizione del battesimo amministrato a Costantino da papa Silvestro e quindi della; guarigione di
quello dalla lebbra, ed esaminando frase per frase Tatto di donazione

dottrina, dimostrando

per metterne in evidenza con ragioni storiche e filologiche la falsit. Di


rado il Valla colse nel segno nel rilevare il vero storico, che e leggende avevano annebbiato o cancellato dalle memorie vide invece e rilev egregiamente la fallacia dei racconti tradizionali. In sul principio
drammatizz in una serie di brevi orazioni il concetto che n Costantino
;

53

CAPITOLO SECONDO.

poteva fare, n Silvestro accettare la donazione ed abilmente indusse


L'accennata trattazione scientifica, dove pure frizzi ed il sarcasmo protendono a quando a quando loro aculei, a metter capo ad una robusta
i

papi moderni e le loro pretensioni insensate. E


augurando prossimo il giorno, in cui la Chiesa di Roma non
confondesse pi in s due reggimenti ed il papa, deposte le armi elio
Cristiani, fosse per davvero padre santo
allora impugnava contro
requisitoria contro

finiva

padre

r,a

storia

JaidJt
(

|445>-

padre della Chiesa .


Un aspetto nuovo ed originale dell'ingegno del Valla ci rivela la
storia di Ferdinando I d'Aragona, padre d'Alfonso, ch'egli scrisse in
tre libri nel 1445. Breve il periodo di tempo, che essa comprende:
non pili di sette anni (1410-16); pochi e d'importanza tutta localo i
di

tutti,

che narra: le guerre dell'infante Ferdinando contro i Mori; la


morte del re d'Aragona Martino; la guerra, di Ferdinando contro il
conte d'Urgcl per la successione e la morte di Ferdinando stesso. Ma
fatti

il

racconto vivace, colorito e spesso ricco di particolari pittoreschi


L dove il Valla parla del. vecchio re inetto a

e di gustosi episodi.

sua successione e lo descrive morente alla presenza


del buffone Borra, che gli vede dal ventre obeso salire al collo e sfuggire l'anima, circola un soffio di ironia faceta; n il consueto disdegno,
che noteremo in altri storici,- esclude da quelle pagine qualche graziosa scenetta famigliare o il ricordo di leggende e d'eroi cari ai volghi del medio evo. In codesto libro sotto alla scorza del latino, non
puro, n elegante, si agitala vita moderna e le peculiari parvenze
dei luoghi e dei tempi appaiono fedelmente riprodotte. L'artista ha per

provvedere

alla

un momento velato il critico.


Come tra le numerose scritture storiche, che ebbe

il

secolo

XV,

opere del Valla, la storia di Ferdinando I resta appartata.


La critica il naturai esercizio della mente di lui; la disputa la sua
vita. E contro il disputatore, impetuoso sempre, non di rado eccessivo,
rampollano da ogni parte le inimicizie: di tra gli umanisti, che offende col suo orgoglio e colle sue censure; nelle vecchie scuole dei
filosofanti, che vedono insultati i loro idoli e scrollati i loro sistemi;
nella curia tenera delle temporali grandigie; nei chiostri, dei quali
il Valla turba la
quiete coli' opuscolo Le professione relgosorum
cos tra le

J^i^
dai vaila,

(1442). Se

non

fosse stata la protezione del re, le inimicizie degli ec-

riducevano a mal partito. Nella quaresima del 1444 sorse


questione fra lui e frate Antonio da Bitonto, per ci che questi asser
dal pergamo che il Credo era stato composto dai dodici apostoli, un
versetto da ciascuno, laddove il Valla, adducendo gagliarde ragioni, lo
diceva opera del primo concilio di Nicea. L'umanista si offriva pronto
a difendere in pubblico dibattito la sua tesi contro chiunque volesse
oppugnarla, ma non lo permise la, prudenza del re. La vecchia ruggine di due vescovi, che 1' uno nell' interpretazione d' un testo giuridico, l'altro, jn una disputa sull'autenticit, dal Valla negata, della
lettera d'Abgaro a Cristo, erano stati da lui soverchiati, e il novis-

clesiastici lo

59

CAPITOLO SECONDO.

simo suo ardimento

lo trassero dinanzi all'Inquisitore nella curia

civescovile. Ritrattarsi

volle n della opinione sul Credi),

non

ardelle

teorie filosofiche propugnate nella Dialettica; pur l'autorevole intromis-

sione d'Alfonso fece

che

si

lo

mandassero

assolto.

Intanto desideroso di rivedere la vecchia madre, egli andava tastando il terreno con lettere a cardinali e ad amici, se senza pericolo
potesse ritornare a Roma, dove non avea pi messo piede da quattorDel salvacondotto, che Eugenio IV gli mand, credette prudente non approfittare temeva forse di un tranello teso da' suoi nemici
dici anni.

per farlo cader nella rete e prefer giustificarsi al papa con una lunga
Apologia. Nobile scritto, nel quale sfoga il suo malanimo contro gli
accusatori ed i giudici del processo napoletano e, senza ripudiare le
proprie dottrine dimostra come esse fossero pienamente ortodosse,
come anzi per lo pi non avessero nessuna attinenza colla fede. Dello
scritto sulla donazione tocca appena con un fuggevole ricordo.
Nell'autunno del 1446 fece un breve soggiorno nella citt eterna; u vana
non vi spirava aria favorevole a lui, pontificando il burbero Eugenio IV. d Si44S).
Poi che gli fu succeduto Niccol V, il Valla abbandon per sempre la corte
(

Roma

del re e pose sede stabile a

(1448).

sto III, segretario apostolico, lesse in

Fu

scrittore

privato

e nel

e,

sotto Calli-

pubblico Studio

eloquenza; per Niccol tradusse Tucidide ed Erodoto, e a Niccol,


padre comune dei dotti, sciolse un inno di lode, dedicando all'amico
Giovanni Tortelli d'Arezzo, bibliotecario del papa (m. 1466), quella che
fu 1' opera di tutta la sua vita i sei libri Eleg'antiarum latinae linguae.
Fin dal 1435 ne avea dato a leggere, come primizia, gli abbozzi
all' Aurispa ed a Leonardo Bruni; nel 1444 l'opera ebbe l'ultima mano e per un'indiscrezione dell'Aurispa fu divulgata contro la volont
,

dell'autore. Colle

Eleganze

il

Valla

si

propose di restaurare

la lingua

armi e col sangue, ma


coi benefici, coll'amore e colla concordia, era da lui considerata la pi
pura e pi insigne gloria dei Romani. Fiorivano gli studi: chi scriveva storie, chi traduceva dal greco, chi componeva orazioni e poemi
erano episodi della guerra contro la barbarie, non ancora la battaglia
latina, che, conquistatrice del

mondo non

colle

decisiva, la sconftta dei barbari e la liberazione della patria. A lui


arrideva l'esempio di Camillo, proclamato secondo fondatore di Roma,
senza il quale non sarebbero stati salvi n i vincitori di Veio e di
Ardea, n i difensori del Campidoglio. Signoreggiavano le scuole

che nel Dottrinale aveva ridotto in versi


Everardo da
Bthune col Grecismo, lessicografi come Uguccione e Giovanni Balbi,
l'autore del Catholicon. l Valla intese muover guerra a costoro ed
ai loro confratelli, opponendo e preferendo all'uso del medio evo l'uso
antico, al latino ecclesiastico il latino dei classici. Assertore teoretico di
principi, che gli umanisti, avevano fino allora praticato ad orecchio
ed un po' a caso, volle formulare le leggi dell'elegante scriver latino
non tanto di sui grammatici romani
l'autorit di Prisciano e di
Alessandro da

Villedieu

leonini le regole di Prisciano aggiungendovi errori suoi,

Vlp

*tiat

60

LA LETTERATURA CRITICA.

Donato non

impauriva
quanto fondandosi sulla pratica degli ec Quod ad elegantiam pertinet, ego pr lege accipio
quicquid magnis auctoribus placuit (III, 17). L'opera quindi per
L massima parte una raccolta di esempi desunti dai classici, specie da
Cicerone e da Quintiliano, acconciamente disposti in gruppi e pervia
di ragionamento collegati ira loro e interpretati. I primi
tre libri
lo

cellenti autori.

trattano delle parti del discorso, delle loro propriet e della loro colLocazione nel periodo e rilevano alcuni eleganti usi grammaticali. Vi
troviamo, ad esempio, chiaramente formulata la differenza, disconosciuta,

da Prisciano, tra
(picllo

del

quod dopo

prezzo
poi

il

il

valore dei pronomi personali

dei corrispondenti aggettivi

(111,1).

il

verbo vdeor

Uno

una specie

di
li

(111,51); esposta la

caso genitivo e
combattuto l'uso

regola dei genitivi di

special trattatello, accodato alle

Eleganze, insegna
quarto libro ed il quinto accolgonodizionario dei sinonimi latini; nel sesto il Valla assurge
natura pi elevata e, confutando le opinioni di an-

petto uso di

a materia

di

possessivi (11,1);

suus e

di eius.

Il

Varrone, di Boezio e di pi altri, si stuben definire il significato di molte parole latine. Quivi il filologo
si rivela ancora una volta filosofo. Per converso nelle onere filosofiche e
storiche deJ Valla si intravede sempre il filologo. Filologo egli essenzialmente ma al suo ingegno fanno difetto cos la forza sintetica
come quel che oggi dicono genialit maestro di stile, non stilista ha

tichi scrittori, di Servio, di

dia di

squisito

il

non artista. Studia il valore e l'uso delle


ma non si eleva, lo not gi Paolo Cortesi, alla

senso del bello,

parole e delle frasi,

considerazione generale della struttura del periodo,


studi
dei vaila,

Nelle Eleqantiae come raccolto

il

succo degli studi lunghi e ra-

aveva atteso assiduo

fin da giovane.. Alla corte di


occup del testo di Livio e propose una serie di acuti
emendamenti; in uno speciale opuscolo si fece a correggere errori
del Dottrinale] col riscontro di pi codici emend la versione latina
il
dei Vangeli e delle epistole di Paolo. Come molti altri umanisti
Petrarca e Pier Candido Decembrio siano ricordati per esempio
egli non isdegn di far oggetto di studio gli scritti sacri dei primi
tempi cristiani; fastidiva invece le opere, che nella sostanza e nella
forma recassero palese la stampa del medio evo. Quegli spogli diligenti, quei confronti minuti
onde veniva rinnovandosi l' arte dello
scriver latino, acuivano poi sempre pi il suo occhio ed egli volon^ er * i n f rcava
occhiali per cogliere in fallo i suoi contemporanei
e rimproverar loro inesattezze ed impropriet. Quelli di rado si rassegnarono alle battiture, anzi risposero violenti, assalendo le Elegantiae
e il loro autore, i metodi e le altre opere di Lorenzo. Rancori stantii,
iiuove offese ed intemperanze di linguaggio rinfocolavano cos quella
che alla fin fine era una lotta di scuola; a sua volta la disputa scientifica copriva, come anche oggi suole accadere, le bizze e le gelosie
zienti,

ai quali egli

Alfonso

si

m
oo iche

personali.
11

Valla

ebbe a

difendere

le

Eleganze

dalle

censure

di

An-

LA LETTERATURA

CRITICA.

01

uno di quegli amici dei crocchi pavesi, dalle cui conversazioni era venuto alimento al suo amore per le questioni grammaticali e lessicali n lo fece senza riveder le bucce all'opera del Raudense De imtatone latinae eloquentiae (1444). Bartolomeo Fazio, da
Spezia, un discepolo di Guarino, che, posta nel 1444 sua sede a Na-

tonio da Rho,

vi ottenne da re Alfonso provvisione e titolo di storiografo, stiz-

poli,

per cert'altre osservazioni del collega, lo maltratt aspramente in


quattro invettive (1446), rilevando un cumulo di errori, che, a suo giudizio, il Valla aveva commesso nella storia di re Ferdinando. Lorenzo
lo rimbecc con pi fiero accanimento nei quattro libri di RecrimL
a
nationes in Factum. Un alleato aveva il Fazio l a Napoli nel Pa- ^vlia
0
alla
disputa,
incoragcompiacimento
guardava
con
lontano
normita di
^/^gj'
giando-' quei due, Poggio Bracciolini che nella tardanza del re a premiare la sua versione della Ciropedia vide lo zampino del Valla. Poi
he questi si fu trasferito a Roma, l' incendio che da parecchi anni
zito

covava, divamp, favilla le glosse poco graziose che il Poggio aveva


trovato sui margini d'un esemplare delle sue epistole e che attribu
all'emulo, mentre par fossero di un discepolo di lui. Nel febbraio del 1451
l'erudito toscano diede fuori la prima invettiva, nella quale rinfaccia
al Valla la sua presunzione e turpi azioni ed opinioni eretiche e nega
alle Eleganze ogni pregio l dove non siano un plagio impudente. Nel
novembre di quell'anno gi correvano l'Italia Y Antidoto del Valla, poderoso contrassalto in tre libri, e una seconda invettiva del Poggio. Di
veder la quale 1' altro non aspett e in due comici dialoghi colp di
nuove censure grammaticali e stilistiche gli scritti dell' avversario
quando l'ebbe veduta, prese a difendersi, insolentendo, nel IV libro
^YY Antidoto. Intanto il Poggio divulgava tre altre invettive. Palleggio inverecondo di vituperi, nel quale l'arguto toscano portava tutta
la vivacit del suo spirito, per l'occasione inventore, o rinnovatore di
fantasie atrocemente satiriche; il Valla tutta la sua soda erudizione e
la gagliarda acutezza della sua critica. Le opere del Poggio gli davano
buon gioco, frequenti, come sono, di sgrammaticature, di solecismi, e
d'impropriet; il Bracciolini da quella pioggia assidua e sottile di osservazioni particolari, grammaticali e stilistiche, traeva nuovo motivo
;

di

avversione alla scuola dei cacciatori

disputanti se s'abbia a dire

d'inezie (res minusculae),


equus mei od equus meus, dove sibi o

UH

ed intorno a simili portenti degni d'essere disimparati, chi


Le Elegantiae qualificava, disputazioncelle
vane e puerili da maestrucolo stolto e da grammaticuccio ignorante.
L'aspra polemica dur un paio d'anni. la pi importante fra le
molte che si combatterono nel secolo
e per- il valore dei contendenti eperch in essa sono, bench ombrate di personali risentimenti,

dove
gi

li

avesse a-memoria.

XV

le

tracce di tutto uni rivolgimento degli studi, del trapasso dalla con-

siderazione, geniale

s,

ma

tura all'esame' analitica;

superficiale e

, toserei

recentissime, dispute. Nei 1453

dire

il

sintetica, dell'antica lettera-

presagio .di molt'altre, anche

due- umanisti si chetarono esortati alla

02

CAPITOLO

SECONDO.

calma anche dal Fielfo. Ma non sbollirono del tutto le ire. L'anno dopo
il Poggio da Firenze, ove s'era ridotto a vivere,
volgeva, stuzzicato,
i
suoi strali contro Niccol Perotto, un giovine marchigiano (14301480), discepolo e fautore del

Valla,

allora

segretario

cardinale

del

Bessarione a Bologna e lettor di rettorica e di poesia nello Studio.


Volarono lettere ed un paio d'invettive insolentissimo, censurando il
Perotto scritti del Poggio e rispondendo questi con ingiurie da trivio

una

e col solito disprezzo per le insulsissime dispute su d

Parve mancar poco non

venisse al sangue.

si

ii

triodo

metodo

scientifico,

al

aizzato,

il

senatore di

per certo scritto

di lui intorno ai Tarquinii e ne


veniva un "a lira, meno sboccata, ma non meno vivace polemica,
Tale fu la crisi, onde usc vittorioso quell'avviamento
scientifico desrli
x

studi
che gi il Salutati presenti, ma che per quasi mezzo secolo
li

del

lia'epistola

puroletta.

forse

bolognese Benedetto Morandi accusava,


Roma, il Valla di mortale offesa alla .me-

certo inanimilo dal Poggio,


in

Intanto,

toria

di

Livio

mezzo

rest trascurato in

alla deliziosa

geniale indipendenza del

Poggio, alla grossolana filologia del Guarino ed agli

sterili

sdilinquimenti

Nel 1453 Giovanni Tortelli, uno dei pi fidi amici del


Valla, compiva la sua Orthographia, grande dizionario, che dissip molti
di

troppi altri.

dubbi sulla retta scrittura delle parole latine, e Niccol

De generibus metrorum,

Perotto of-

primo tentativo
di formulare di sull'esame diretto dei poeti le leggi della metrica latina.
Alcuni anni dopo, il Perotto stesso scriveva (1468) i Rudimento, grammatices, la prima grammatica scolastica ispirata da' nuovi metodi, ben presto emula fortunata del Dottrinale, e poneva mano alla Cornucopia
commento voluminoso e farraginoso di Marziale, che pu considerarsi
un ricchissimo lessico, dove intorno ad ogni parola raccolta una
serie abbondante; di derivati e di sinonimi con citazioni e richiami
continui d'altri scrittori. Nel 1471 le Elegantiae erano messe a stampa;
chiudiamo il cerchio che abbiamo
nel 73 Alamanno Rinuccini
salutava
cominciato a segnare in sul principio di questo capitolo
nel Valla il vero rinnovatore del venusto scriver latino. Pur non cessarono le polemiche. Il Valla era morto il primo d'agosto del 1457, due
friva al pontefice l'opuscolo

il

anni prima del Poggio;

ma

le

continuarono

l'uno, seguitatori della tradizione dell'altro.

pi tardi alcuno

cause e

gli intenti,

tri trapassi e

Giistudi
dei greco.

elei

ad

lottatori.

Ormai

della

loro epigoni, discepoli del-

Impareremo a conoscere
lotta

si

sono

additati

giover pi seguire le particolari vicende

altri contrasti ci

ad

le
al-

richiama l'ordine della trattazione.

1472 un greco di 'Costantinopoli, che la sua vita allora


a j tramonto aveva passato fra i disagi della miseria e le
ansie delle minacce e delle vittorie turchesche, insegnando e copiando,
Michele Apostoli (1422?-1480?), scrisse un. /notevole discorso, che
una critica ed insieme un programma. Egli pensava, che gli italiani,,
ai quali appunto si rivolgeva, non riuscissero, a malgrado dei loro
Circa

il

vo ig ente

sforzi,

ad imparar bene

il

greco per causa dell'insegnamento difettoso.

63

LA LETTERATURA CRITICA.

I loro maestri non fanno se non tradurre, trascurando lo studio della


grammatica; badano al pensiero e lo sformano ocl almeno rassottigliano
lino a riprodurne solo la parte generale, comune a tutti gli scrittori
di tutti i paesi, mentre non procurano di far intendere e gustare le
bellezze della lingua e ci che il pensiero greco ha di peculiare e di
caratteristico. L'Apostoli, che gi prima avea fatto dei viaggi in Italia,
si proponeva di venirvi ancora da Creta e di instaurare un nuovo
metodo didattico: lezioni ex cathedra, punte; in cambio conversazioni

continue in greco coi discepoli bandito dalla scuola il latino, se non


per alcuno schiarimento sulle questioni pi difficili; studi accurati e
minuti di rettori ca, di poetica e di grammatica sugli scrittori greci.
Era in siffatto disegno un soffio dei concetti, che il Valla avea propugnato, immiserito dalla grettezza d'un cervello piccino qual era quello
dell'Apostoli e tuttavia ringagliardito dalla povert maestra di atteggia;

menti ciarlataneschi. Molto di vero era nella parte critica del discorso.
La conoscenza del greco si diffuse in Italia assai pi lentamente che
non si crederebbe, pensando al fervore suscitato dall'arrivo del Crisolora a Firenze. In sulle prime non mancarono neppure gli oppositori.
Lorenzo de' Monaci, che fu segretario del senato veneziano ed amico
giudicava inutile lo studio di
del Bruni e di Francesco Barbaro
quella lingua ed inutili le traduzioni. Nel 1455 era ancora possibile
che in codesta sentenza concorressero, sia pure tratti dall'ardor della
disputa e da necessit di difesa, due umanisti. Intendo quel Tommaso
Seneca da Camerino, che ho rammentato dianzi e Giannantonio Porcellio de' Pandoni, un napoletano, venturiero della penna, che nelle
sue lunghe peregrinazioni si trov a vivere insieme col Seneca alia
corte di Sigismondo Malatesta. Da Firenze plaudiva loro il Poggio (EpisL
,

XIII, 24).
gio natio

Ma Basinio Basini (1425-1457), che, lasciato il suo villagsu quel di Parma, per recarsi alla scuola di Vittorino da

Feltre e di Guarino, godeva pure, poeta fecondo

vore

di

quel principe, prese a difendere

necessit coli' esempio


stesso,

che

non pur

zoppicava

ad

Romani

dei

ogni

istante

quella sua ostentata ignoranza del

malumore

il

e pregiato,

del

fa-

greco e a dimostrarne
antichi,

nella

ma

la

e del Porcellio

metrica appunto

per

sermone d'Omero. Serpeggiava un

patriottico contro la Grecia insolente,

che ardiva credavano


nota di scarso amor patrio, perch anteponesse il greco al latino, laddove in realt egli stesso confessava candidamente:
cotal

dersi superiore od eguale al Lazio nelle lettere, ed

al Basini

Haud equidem invideo nostrae pulcherrima linguae


Verba sonosque graves numerumque aut tersa latinus
Nomina, nec graecam cupio praeponere nostrae:
Sed sine Graecorum auxilio Romana valere
Non multimi semper docui semperque docebo.
Nella prima met del secolo fecero
rosamente i veicoli di quella diffusione
cattedre; costosi

libri,

non operarono vigopoche e non istabili erano le


dei quali era malagevole, per mancanza di
difetto o

CAPITOLO SECONDO.

esperti

trascrittori, moltiplicare le copio. Dalla scuola fiorentina del


Crisolora uscirono piuttosto degli studiosi, che dei veri maestri; non
molti fra gli umanisti passarono a Costantinopoli per apprendervi il

greco,
[[;;_'"

e,

grande

se ne togli Guarino veronese, quelli

efficacia didattica.

a cercar fortuna tra noi.

non ebbero, come

ellenisti,

Molti greci, abbandonata la patria,

vennero

Il

pi gradito agli italiani e

il

pi utile agli

tra
primi venuti, fu il Gaza, uomo, s' detto, di carattere mite
d'ingegno vivo ed elegante, ben diverso dal litigioso ed ispido Giorgio
da Trebisonda, che Lo aveva preceduto di alcuni anni. Nato nel 1395
a Creta, questi ra gi professore a Vicenza nel 1420; mentre insegnava a Venezia, sostenne (1437) una polemica per certe aspre censure
sii lisi iebe, clic nel quinto libro della sua
Rettorica aveva mosso ad
un'orazione di Guarino, gi suo maestro; poi si allog presso la curia
stilili,

pontificia,

dove nel 1452 attacc briga col Poggio. Part da

torn, riprendendo

ancora, creandosi
del

il

suo ufficio

di

segretario,

nemici; tent anche di

altri

Sultano; infine mor a

lezioni di questi e di altri

pi

Roma

volte;

e vi

battagli

entrare nelle

grazie

Roma quasi nonagenario. Ma prima che le


men noti dessero i frutti desiderati, corse

alcun tempo. Maldestri nell'uso del latino, n scaltriti agli accorgimenti


e allo esigenze della nuova coltura italiana, avevano a lottare contro

ripugnanze e l diffidenza, che ispiravano nei nostri: tra gli insulti


il Poggio scagli contro il Valla e il Perotto, torna frequente quello
di semigraecul. Quando poi avevano acquistata buona perizia del latino, accadeva spesso, come fu del Trapezunzio, che il bisogno li astringesse ad insegnare questa lingua piuttosto che la loro, esclusa per
lungo tempo da quelle che oggi direnino scuole secondarie, e riservata
soltanto alle Universit. Onde un' altra causa ritardativa della sua diffusione, per ci che mancavano corsi atti a preparare i discepoli alla
larga interpretazione dei testi. L'Apostoli aveva ragione.
In aiuto ai molti, che, bramosi di conoscere la coltura ellenica, non
ne sapevano leggere speditamente le opere nell'originale, vennero ben
presto le traduzioni latine. I discepoli del Crisolora, il Guarino, Leole

clie

e
.

nardo Giustinian,

fra
il Filelfo ed altri vi esercitarono la loro attivit
segnal per questo rispetto Leonardo Bruni. Nei primi anni
del secolo tradusse, oltre al gi rammentato opuscolo di san Basilio, alcune orazioni di Demostene e di Eschine, pi vite di Plutarco e il
;

tutti si

De

poi per i conforti del Salutati e del Nica Platone, di cui vagheggi forse una versione completa,
e fece latini il Fedone, le epistole, il Gorgia, l'apologia ed il Fedro',
quest'ultimo intorno al 1421. E gi quattr'anni prima aveva dedicato
ty ranno di Senofonte;

coli si rivolse

V Elica nicomachea di Aristotile, del quale traslat pure


Economici. Queste versioni, che presentavano
al mondo latino il filosofo di Stagira in un aspetto pi genuino che
non le vecchie, quali condotte sulle arabe, quali pervase dagli influssi

a Martino

la Politica (1435) e gli

della scolastica, ed in

una veste elegante, diedero occasione a critiche


il Bruni combatt in pi lettere e

acerbe ed a proteste. Per YEtica

LA LETTERATURA CRITICA.
nell'

G5

opuscolo de recta interpretatione una dignitosa battaglia contro

chi deplorava

l'

abbandono

delle viete

formule tradizionali. L' aureo

eloquenza, che allieta il testo greco, dover di l devolversi


nella prosa latina della versione ed esser ottima traduzione quella, in
cui ai sensi non vengano meno le parole, n alle parole il nitore

fiume

di

e la grazia ; che renda l'onda armoniosa del periodo ed insieme l'eleganza elei concetto, la numerositas e V amoenitas. E il principio, cui
si informano in generale i traduttori latini del secolo XV, pi curiosi
degli ornamenti stilistici, che della fedelt, intenti a riprodurre i concetti piuttosto nel loro insieme che nelle particolari determinazioni,
pi desiderosi di offrire al pubblico libri di piacevole lettura, che im-

magini esatte del pensiero greco. Sconvolgendo l'ordine delle parole


e delle cose, ravvivando con interrogazioni ed esclamazioni rettoriche
grail discorso continuato, Coluccio Salutati credette di rendere pi
devole e chiara la rozza versione di un opuscolo plutarchiano fatta da
Simone arcivescovo di Tebe (Epist. Vili, 23). Il Bruni si studiava
di dare alle opere di Platone quella veste, che avrebbero avuto
dall'origine, se l'elegantissimo filosofo greco avesse scritto latino.
fili
Il Valla, accingendosi a tradurre il demostenico Pro corona, pensava
di doverne abbandonare quel eh' ei dice carattere greco e di uno
nuovo dover improntare la sua prosa. Il Poggio si vantava d'aver tra-

non come interprete

dotto la Ciropeiia,

delle parole,

ma come

scrit-

da farla apparire opera originale latina, e tal libert


si credette lecita, che ridusse a sei gli otto libri di Senofonte. Ancora
pi liberamente furono trattati Polibio, Senofonte stesso (le Elleniche)
e Procopio dal Bruni, il quale anzi di fuori i tre libri De bello punico,

tore di storie,

si

Commentarti rerum graecarum e

quattro

libri

Le

dello italico

adversus Gothos senza far menzione delle sue fonti. Ne aveva attinto
soltanto la materia la forma elegante e maestosa alla foggia liviana
era tutta sua; onde in un' et che alla forma dava tanta importanza,
le accuse di plagio, provocate dall'ultimo di quegli scritti, potevano di
;

leggieri essere ribattute. In conclusione

non era

ingiusto

il

giudizio,

che sui traduttori recava l'Apostoli.


Di conquistare alla latinit l'intera Grecia

come per le costruzioni


un ben ordinato e ben

della sua

Roma,

si

propose Niccol V,

e,

cos per le versioni concep

ne persegu assiduamente
metodicamente l'attuazione durante tutto il suo pontificato. Al Trapezunzio ed al Gaza affid Aristotile; gli storici ed i geografi agli umadefinito disegno e

Indurre nel sonante esametro latino la divina poesia d'Omero, che giaceva tramortita nella rozza versione letterale di Leonzio
Pilato e nella prosa disuguale e malfida del Valla, era ufficio, cui il
papa cerc amorosamente un degno eseguitore. La morte gli rap Carlo
Marsuppini, che gi gli aveva offerto, saggio pregiato, il primo libro delV Iliade; la morte colse il pontefice poco dopo che egli aveva commesso la traduzione metrica dei due poemi al Filelfo premio diecimila zecchini. Lauti compensi fioccavano ai traduttori: il Tucidide
nisti italiani.

Rossi.

La

lett.

ital.

nel sec.

XV.

Niccol v.
traduzioni,

03

CAPITOLO SECONDO.

frutt al Valla cinquecento scudi; altrettanti ducati al Perotti


libio

e mille ducali ricevette

Per vero Je pi
Dopo la met del

bone.

di

Guarino per

primi dieci

libri

Po-

il

di Stra-

codeste traslazioni sanno di cottimo.

Y esuberante vita intellettiva signora


ormai delia letteratura romana, si rivolse con pi spontanea intensit
e con miglior successo al mondo ellenico; cos l'esuberante forza vegetativa d'una pianta varia di fiori e di frutta il verdeggiar delle foglie. In singoiar modo profittevoli furono allora g' insegnamenti di
Giovanni Argirpulo, di Demetrio Calcondila e di Costantino Lscaris,
do.
r
h2nie tre greci di Bisanzio. Il primo aveva gi fatto, intorno al 1441, un
(1456-W71).
1P0V0 soggiorno in Italia, nella casa padovana di Palla Strozzi; dalla
patria, o^e teneva una scuola famosa, lo cacci la conquista ottomana (143), ed egli, rivalicato il mare, lesse greco e filosofia a Firenze per ben quindici anni, fino al 1471. Filologo e filosofo, traduttore
elegante di molte opere d' Aristotile, pareva un greco dei tempi antichi: cos lo giudica Vespasiano, mentre, rappresentando con tinte
vivaci il rifiorir degli studi poco dopo il 1460, ne d a lui la maggior parte del merito. Sui banchi della sua scuola sedettero, con altri
giovani che onoreranno l'et del Magnifico
Donato Acciaiuoli ed
Alamanno Rinuccini le cui mormorazioni contro la ricordata provvisione della Signoria aveva mosso anche il desiderio che non soltanto
di ladino si tenesse cattedra a Firenze. Il Calcondila, che era venuto
D caicondita.
i a ii a g no fai 1450 e( j avea
jn
p er 0 tto anni (fino al 1471) insegnato
a Padova, successe all' Argirpulo nel 1475 e ne continu la bella
tradizione, finch da Lodovico il Moro non fu chiamato a Milano (1491)
dove mor, grave d'anni, nel 1511. Autore d'una grammatica greca,
c. Lascaris. Costantino Lascaris insegnava greco a Milano nel 1460; nel 65 segu
a Napoli la sua discepola Ippolita. Sforza, andata sposa ad Alfonso,
duca di Calabria, e vi fu eletto professore nello Studio. Due anni dopo
pass a Messina, dove la sua scuola, nel convento basiliano di S. Salvatore, sal a grande rinomanza e procur alla citt la lode di nuova
Atene per gli studiosi di lettere greche.
secolo,

Il

concilio

radicare profondamente l'ellenismo sul suolo italiano giov senza

delio "dST dubbio

cinese
(1438-39).

la

caduta

dell'impero

Bizantino

ma

pi

il

concilio

Eugenio IV e Giovanni Paleologo convocarono per tr

di

che

mezzo

dogmatici e disciplinari fra la Chiesa greca e la latina, e che


fu tenuto a Ferrara ed a Firenze nel 1438 e nel 39. Quel concilio
gi
nativo di Trebisonda
condusse in Italia un monaco basiliano
rotto ai maneggi della politica come alle sottigliezze delle dispute teodissidi

iiBessarione.

di fresco creato arcivescovo di


Bessarione (1403-1472)
Nicea. Convinto zelatore dell'unione, cooper abilmente colla sua dottrina e colla sua eloquenza a farne trionfare la causa e in particolar
modo a comporre la controversia sulla processione dello Spirito Santo
dal Figlio. Da Eugenio IV fu insignito della sacra porpora (1439);

logiche,

di

il

vescovadi e di benefici arricchito da quel pontefice stesso e da'suoi

07

LA LETTERATURA CRITICA.

in grande riputazione nel sacro collegio, ebbe


ed ambascerie e poco manc non cingesse la tiara.
Dopo il 1440 non torn pi in Levante; ma la patria lontana non gli
cadde mai dal pensiero. In s impersonava il connubio del genio ellelegami della
nico col genio latino, ed a mantenere e ravvalorare
e
costante
multiforme
attivit
con
opera
diede
coll'occidente
Grecia
quando in iscritture d'argomento teologico combatt coloro, che a Costantinopoli si apprestavano a rendere vani i patti segnati a Firenze,
quando, eccitatore ed aiutatore di Callisto III e di Pio li, con lettere

successori, onde

venne

affidate legazioni

e con orazioni, nella dieta di Norimberga e di Worms (1460) e nei


consigli della repubblica veneta (1463-64) propugn il partito della
crociata. Il suo palazzo sul colle Quirinale era un caro asilo, dove gli
esuli greci

trovavano conforto

di

onesta e lieta accoglienza, di buoni

avviamenti e di provvisioni e potevano aver l'illusione di toccare un


lembo della patria perduta. Ivi il ritrovo dei dotti e conversazioni e
dispute erudite; ivi una ricca collezione di manoscritti, che per dono
magnifico del proprietario migrarono, lui vivo, a Venezia (1469) e di-

vennero il primo fondamento della biblioteca Marciana. Il Bessarione


aveva adunati, frugando egli stesso nelle librerie dei conventi ba-

li

di cui era patrono, e valendosi degli esuli protetti come di


amanuensi. Cos il fuoco sacro del pensiero greco era per 1' ultima volta
attizzato dalle mani d'un greco, che ne affidava la conservazione ai latini.
Coll'occasione del concilio venne in Italia anche Giorgio Gemisto (1355t
1450), vecchio venerando ai suoi connazionali e ricco, secondo la loro
estimazione, di sapienza e d'ogni virt. Pieno il capo delle dottrine

siliani,

dei savi antichi, in particolar

modo

di Piatirne,

ili

dei neo-platonici e di

Zoroastro, egli sognava una riforma religiosa, morale e politica, che


avrebbe dovuto risollevare la Grecia degenerata alle pure altezze dell'antica e darle vigore contro l'urto dei

nuovi conquistatori. Nell'opera sua principale, le Leggi (vuot), ed in alcuni opuscoli aveva architettato, con elementi desunti dalla Poltia platonica e dalla costituzione spartana, il disegno d'uno stato ideale, monarchico, coi cittadini
distinti in tre grandi classi e fornito d'armi proprie, al quale, poich
ormai Gemisto non fidava nell'efficacia moralizzatrice del cristianesimo,
avrebbe dato fondamento la nuova religione. Da Zeus, causa prima dell'universo, uno, perfetto ed anteriore ad ogni causa ed al tempo, emanano
secondo le strane, ma non del tutto originali fantasie di Gemisto,
per varie guise i tre gradi dell'essere: le divinit eterne ed ultracelesti (vTzspovpzvtzi) personificanti le idee, la cui serie va da Poseidone,
l'idea delle idee, a Demeter, l'idea del mondo vegetale; le divinit immortali e celesti (* vrg ovpxvov), dal Sole ai Demni; l'uomo, anima
immortale migrante d'uno in altro corpo mortale, e la natura inanimata
e mortale. A Mistra, l'antica Sparta, dove pass almeno una met della
lunga sua vita, Gemisto iniziava i suoi discepoli meglio provati a codesta religione della quale stabil il calendario, le cerimonie, le preghiere, gli inni, fidente nel prssimo trionfo di lei.
,

Giorgio

Gemisto
(1355-1450).

GS

CAPITOLO SECONDO.

Nella colta Firenze egli parve un superstite del mondo antico; lo


chiamavano Socrate o Platone, ond'ei mut il nome Gemisto in quel di
Plotone d'ugual significato (yspftu e ~/-;,^> dicono riempio) e di suono
pi caro. Fin dai tempi del Petrarca Platone per quel suo sereno filosofare, onde parla non pur alla ragione, ma al sentimento e poi
anche por la venust della forma, era andato conquistando gli spiriti,

per nella loro ammirazione un po'superficiale per tutto che foss3


non abbandonavano per lui Aristotile, rinnovato dalle versioni
Umanistiche; talch un dotto senese, Ugo Benzi, poteva offrirsi pronto
a difendere quella delle due dottrine, che i Greci presenti impugnasclic

aulico,

Gemisto fu il primo che si facesse a confrontare 1' essenza dei


due sistemi, ili un Opuscolo (rrc^ wv 'A/HOTorV/JS -xp; nXctrwva Stv.yi pizzi), che
scrisse e pubblic a Firenze a petizione di Cosimo (1439). Egli non
ripudiava tutto Aristotile, del quale anzi aveva accettato nelle Leggi
le teorie fisiche, ma criticava acerbamente la metafisica, la teologia
la psicologia e la morale di lui, tutto ci insomma
che nel sistema
del filosofo antico contrastasse colla sua dottrina mistico-platonica. A
confutar quelle critiche pens subito Giorgio Scolario, ma il suo
scritto non pubblic, se non quando, finito il concilio, fu di ritorno in
sero.

Grecia. Quivi la disputa fra

Gennadio,

il

divenuto, sotto

lui,

il

nome monastico

di

pi ardente fautore dell'ortodossia contro le deliberazioni

un carattere teologico fu lotta in sulla


un difensore del cristianesimo ed il filosofo

del concilio, e Pletone assunse


fine aspra e violenta fra

.....

paganeggiante.
Le
polemiche
lino

af M62.

Ma

in Italia essa

mantenne

l'indole sua filosofica e fu

dibattuta dai Greci rimasti fra noi.

Il

Bessarione,

domand e ne ebbe per


a quattro punti del suo sistema. Il Gaza
di

Gemisto,

gli

di codeste questioni,

riguardante

opuscolo sul libero arbitrio

contesa

si

il

lettera
tolse

devoto

schiarimenti intorno

argomento

concetto del fato

(nspt xvriov

lungamente

discepolo

jmk xou<r/bu)

dall'

ultima

scrivere

e per pi anni

restrinse alla discussione di alcune fra le

un
la

dottrine profes-

sate da Pletone. Questi, nel suo confronto fra i due filosofi antichi,
avea combattuto Aristotile anche per ci ch'egli asseveri, operar sempre
la natura ad un fine ma senza consapevolezza n premeditazione (cap. 17)
ed il particolare generare l'universale (cap. 4); ed avea sostenuto, con Platone, che la natura agisce con coscienza {consulto), e che le seconde sostanze di Aristotile non vogliono essere subordinate alle prime. Il Gaza
prese a difendere lo Stagirita dalla prima di codeste critiche nell'opuscolo
ori n fmspauhvsTxi e provoc un breve scritto del Bessarione diretto a mostrare che i due filosofi non erano cos discordi nei loro concetti come poteva parere. Aristotelico intollerante, il Trapezunzio entr allora nella
disputa in favore del suo idolo colla dissertazioncella, in forma di lettera,
ti yv'nq povlevsTxt, irta di punte e di contumelie contro gli oppositori. La
questione era grave, pi forse che non avvertissero i contendenti; si trattava di risolvere se il mondo sia retto da forze cieche o da una
volont cosciente ed immanente nelle cose; si rasentavano e si var-

LA letteratura critica.

09

cavano i confini del panteismo. Alla seconda censura mossa da Gemisto


ad Aristotile, quella sul concetto di sostanza, fecero obbiezioni il Bessarione e quindi il Gaza ed ammisero entrambi, ma quegli pi risolutamente di questo che vera contradizione non e' in questo punto
tra il Liceo e l'Accademia. Contro il Gaza, che non aveva risparmiato
Platone e i platonici, prendeva poco dopo la penna Michele Apostoli,
snocciolando ingiurie piuttosto che argomenti, ingiurie che spiacquero
al temperato Bessarione e indussero Andronico Callisto, un greco forse
allora ospite di Palla Strozzi e dopo professore a Bologna e a Firenze,
,

ad una nuova difesa di Aristotile.


Nella primavera del 1462 codesto primo periodo delle polemiche
filosofiche era chiuso. Due anni dopo, ecco uscire, preparata da lungo
tempo, una Comparano Platonis et Arislotelis del Trapezunzio, velenosa ed insolente come il suo autore. Platone vi chiamato filosofo
ignaro del metodo, delle cose umane e delle divine, delle scienze naturali e delle matematiche; scrittore rozzo e inetto di materie ridied insensato; uomo lordo d'ogni vizio, scellerato, dissoGemisto un secondo Maometto, bestemmiatore di Dio, corruttore
della societ. Nel 1469 uscirono in istampa, frutto del lavoro di quattro
anni, i quattro libri In calumniatorem Platonis del Bessarione, opera
di critica savia e moderata, nella quale la difesa e l'amore del filosofo
ateniese non impediscono al dotto cardinale eli scernere quel che di
buono in Aristotile e di giudicarlo un gran benefattore del genere
umano (II, 2). Confutando il Trapezunzio, egli mette in evidenza la
grande erudizione rettorica, dialettica e scientifica di Platone, la quale
si pare nelle opere di lui, pur senza ch'egli formuli, come fece Aristotile, delle teorie; lontano dalla esagerazione dell' avversario
che

cole, puerile

luto;

pretende

far di questo

quasi

un profeta

del cristianesimo, dimostra

che pi numerose sono in Platone che in Aristotile le dottrine, che


si accostano alle verit della religione di Cristo, quantunque 1' uno e
l'altro siano pagani; purga infine delle accuse invereconde la morale
e la vita privata del fondatore dell'Accademia. Ai quattro libri della
confutazione il Bessarione ne accod altri due l'uno, per rilevare un
bel gruzzolo eli errori commessi dal Trapezunzio nel traslatar le Leggi
platoniche; l'altro, per tornar sulla quistione, se la natura operi consulto o non, consulto
e chiarire come Aristotile si allontani in ci
da Platone solo nell'apparenza, precisamente, perch, volgendo la sua
:

attenzione al fatto

fisico

motore primo, che

egli

consider le forze come separate dal loro

pure ammette, laddove Platone, secondo il


suo costume, studi insieme il fatto naturale e la sua causa divina.
Seguirono altre schermaglie: del Gaza contro l'Argiropulo, che aveva
fatta alcuna osservazione al proemio dell'opera del Bessarione; del
Trapezunzio, per via di certe sue Adnotalones, contro il Bessarione
(1470); del Perotto contro il Trapezunzio (1471). La morte del cardinale, avvenuta indi a poco, pose fine alle polemiche; oziose chi le
giudichi dal tenue interesse che destano in noi, ma, nel fatto, efficaci

secondo
(1462-71

70

CAPITOLO SECONDO.

a divulgare la conoscenza dei sistemi filosofici antichi, specie del platonico e del neo-platonico, e a provocare quello che fu uno dei principali

Quando un'et

L'amanee1tcr,tur;v

avviamenti del pensiero italiano negli ultimi tre decenni del secolo.

moto "

0,1

'

prossima a chiudersi ed un'altra se n'apre,


del nuovo, nella foga della lotta

fautori

pr-

nell'esultanza

delle prime vittorie, sono difficilmente equi


estimatori del passato

che
A
r
Trec-nto.
cade. 11 giudizio, che ne recano, e d uomini che non possono ancora

essere storici
dell'et

sull'et declinante,

il

giudizio spontaneo

non ancora un

modificato dall'artificiale rinnovamento

come
la

perch sono attori;

nuova

rinnoverebbero in
negazione?
la

Le

classiche

temili discorso,

risurrezioni e

coloro

della vecchia

che

gli studi

additarono alla letteratura

ne sono

dei

e sincero

giudizio temperato

quali

altre

vie

coscienza.

per

1'

abbiamo
ed

appunto
fin

altri

qui

ideali

da quelli che nel secolo XIV essa aveva percorso e vagheggiato. Cominciava un'era novella. Qual meraviglia dunque, se la venerazione,
che affollava i Fiorentini intorno agli espositori, stipendiati dalla Signoria, del pi solenne ed eloquente
si

monumento

di

quella letteratura,

fece tiepida e sterile negli umanisti e per qualche decennio

si

attenu

un ossequio moderato e senza passione? anzi gloria di quelli uomini conquisi dal fascino dell' antico, e prova dell' incanto invincibile
della grand'arte dantesca, che quella freddezza non sia trasmodata in uno
sprezzante disdegno. Pieno di reverenza e di ammirazione per Dante era
in

il Salutati, che ricercava, come dei classici, buoni testi della Commedia;
che citava, perfino nelle epistole pubbliche e nel trattato De fato et
fortuna, versi del suo divinissimo concittadino e, scrivendo a Francesco Bruni rinnovava, non senza alcuna particolare reminiscenza, la dantesca fantasia di S. Pietro imprecante ai pastori rapaci (Epist., IV, 3).
Con Benvenuto da Imola largheggiava di consigli, d'aiuti e di conforti
per il commento, mentre s'accalorava a giustificare ocl a purgare Dante
da inesattezze ed errori, che fin d'allora i dotti andavano rilevando
nel poema.
Censure di tal fatta divennero tanto pi frequenti e pi numerose, quanto pi la coltura classica guadagn d'estensione e di profondit e si lasci indietro quella, necessariamente incompiuta ed imperfetta, dell'Alighieri. Il Bruni, consultati Livio e Plinio, osservava
com'egli avesse falsamente interpretato l'accenno virgiliano alla fondazione di Mantova (Epist. X, 23; 27 maggio 1418); altri lo rimproveravano, perch avesse rappresentato quale un vecchio canuto Catone,
che mor a quarantott'anni, ed inteso a rovescio
vexaia quaestio
pur fra i moderni - il virgiliano Quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames, o si inalberavano, riscalducciati di classica democrazia, perch il grande assertore dei diritti dell'impero avesse collocato
nel profondo inferno, a farsi maciullar da Lucifero, il liberatore del
popolo romano dalla tirannide di Cesare. Erano pigmei, che graffiavaiu

LA LETTERATURA CRITICA.

71

l'epidermide al gigante, colla stessa alterigia dispettosa d'ogni autorit,


con cui un'altra volta impugneranno una dottrina d'Aristotile o rinfac-

ceranno un'impropriet
perfetta

mancanza

bert che

si

di stile

ad un padre della Chiesa, con quella

senso storico che li contraddistingue, e colla licredevano lecita verso tale che, nel confronto cogli andi

sentivano quasi loro contemporaneo.


Di siffatta irriverenza s' adombrarono

tichi,

bigotti

del culto

dan-

per i quali la Commedia era libro sacro, uomini


che vi trovavano radunati in una sincolti alla foggia vecchia
tesi meravigliosa le loro dottrine ed i loro affetti. Contro i calunniatori di Dante e delle due altre corone fiorentine scrisse una
forte invettiva Cino Rinuccini, dipingendoli quali uomini di vita sregolata, rifuggenti dal santo matrimonio, restii a servire la patria col senno
e colla mano, sprezzanti le scienze del trivio e del quadrivio, tutti assorti in discussioni vane di grammatic i e di forma. Gli tenne bordone
ser Domenico da Prato, che, dedicando le sue rime ad un amico, berteggiava coloro che non stimavano buono un libro, se non fosse di
forma antica et bene dittongata e riponevano tutta la loro gloria in
commenti e traduzioni, inetti com'erano a creare opere originali. Di fra
codesto ribollimento di. sdegni giunse a noi una frase, che ha avuto
davvero troppa fortuna esser Dante poeta da calzolai e il suo libro da
dare a li speziali per farne cartocci o vero pi tosto a li pizzicagnoli per
porvi dentro il pesce salato . Deve essere sfuggita nel fervor d'una
disputa al Niccoli, bisbetico uomo, come sappiamo,, ed in tutti i suoi
giudizi grande sciabolatore, contro il quale specialmente liberava i suoi
strali il Rinuccini. A lui la attribuisce anche il Bruni, riferendo o immaginando due dialoghi, che nella primavera del 1401 avrebbero avuto
luogo in casa del Salutati e nel giardino di Roberto de' Rossi; ma il
Niccoli ne fa poi, ivi stesso, ammenda solenne, confutando ad una ad
una le censure, ch'egli avea mosso, il d avanti, al poeta e con calde
parole esaltandone la meravigliosa arte inventiva, la copiosa e soave
eloquenza e la dottrina teologica e filosofica. La confutazione di necessit fiacca, perch le censure hanno, le pi,
non v' ragione d
buon fondamento. Da queste non rampolla n rampollava
tacerlo
per chi le faceva, la conclusione, che si contiene in quella frase paratesco

popolani

come dalla frase stessa, isolata ed invisa anche ai


contemporanei, n dalle esagerate difese degli adoratori non conviene inferire che il gran padre di nostra letteratura sia stato, anche solo per un
dossale e irriverente,

breve periodo, disprezzato dagli umanisti. Chi mai sarebbero codesti precursori del Bettinelli, se appunto il Bruni, poco dopo avere scritta la
lettera sull'origine di Mantova, proclamava Dante ottimo e nobilissimo
poeta e, narrandone la vita nel 1436, lo diceva eccellentissimo nel poetar
volgare; se il Poggio, come gi il Salutati, giudicava non mancar altro al
poema per poter essere pareggiato agli antichi, se non l'ornamento della
lingua latina (De infelicitate principum, in Opera, Basilea, 1538, pagina 409); se il Filelfo lasciava i suoi latini e i suoi greci per interpretare,

72
nei

CAPITOLO SECONDO.
(l

festivi,

il

sacro volume (1432) ed avviare allo studio di esso i suoi


Per alcuni decenni il culto di Dante , fra i dotti, al-

discepoli fiorentini?

quanto superficiale e rettorico e resta infecondo. Se un umanista, Girinisi accinge, intorno al 1 140, a scrivere mettendo a profitto
il Boccaccio e il Da Buti, uri commento in volgare dell'Inferno,
perch
glielo impone il suo mecenate, Filippo Maria Visconti. Ma la grande
arte, che avea descritto fondo a tutto l'universo, tenne fronte lungamente all'arte dei classici, che minacciava di sopraffarla e vinse codesta freddezza. Verso la met del secolo l'ammirazione, prima sterile,
divenne forza operosa e l'autore del poema immortale esercit Ja sua
ellicacia anche fra i dotti. Quasi dimenticato rimase lo scienziato del
Convivio; il latinista nessuno avrebbe tentato di difendere seriamente.
Del Petrarca il Salutati ammirava cos le prose e le poesie latine, come le liriche volgari, che poneva al di sopra delle dantesche
[Episi. Ili, 15). Ma il moto erudito soverchi rapidamente l'autore dell' Africa, che lo avea suscitato. Non le sudate scritture latine, che agli umanisti, di gusto sempre pi. raffinato, odorano di barbarie e che il Niccoli,
nel secondo dei dialoghi poco fa rammentati, non sa difendere dalle
forte Barzizza,

sue accuse se non colle lodi altrui,

italiani soavissimi lo salva dell'oblio.

l'arte squisita del fabbro di

Nugae,

dice

il

Niccoli con

numeri
una lo-

cuzione cara al Petrarca, ma non aggiunge censure, e gli umanisti


stessi si svagano da pi gravi occupazioni componendo rime volgari
foggiate, pi o men goffamente, sull'ammirato modello. Pio II addirittura sentenzia, che il Petrarca non avrebbe pari fra' letterati, se le
opere sue latine potessero uguagliarsi a quel che scrisse in lingua toscana (Commentarli, Roma, 1584, p. 90). Ad istanza del Visconti, il Filelfo chiosava il Canzoniere; a malincuore, vero, perch il testo gli pareva di per s abbastanza facile; ma a Ferrara
volgiamo pure lo.
sguardo alla fortuna d'altri trecentisti
Guglielmo Cappello, revisor
col Guarino del testo di Plinio, di sua volont commentava ampiamente
il Bttamondo di Fazio (1437). Del Boccaccio diceva Benedetto Accolti

(tra

il

tore,

1459 e
chi baci

il

64),

non

ludeva certo agli

eh

ei

pu giudicarsi buon poeta ed ottimo ora-

alla forma, s alla sostanza de' suoi scritti;

scritti d'erudizione,

lazzevoli, destinati a divertire

il

perch

gli italiani,

ed al-

leggieri, sol-

popolo, paiono sottrarsi alle lodi ed ai

come il Petrarca
Antonio Loschi tradusse in latino quella
di ser Ciappelletto (I, 1), Leonardo Bruni la storia pietosa eli Guiscardo
e Ghismonda (IV, 1), il Fazio la novella di re Alfonso e di messer
Ruggeri (X, 1), Filippo Beroaldo, che mise anche in distici la prosa
biasimi degli umanisti, alteri nella loro dottrina. Pure,

la novella di Griselda,

cos

ora citata dal Bruni, quella di Tito e Gisippo (X, 8) ed un'altra (V, 1).
Tocc di preferenza tale onore alle novelle, che contenevano un alto
ammaestramento morale o trattavano materia nobile e grave, perciocch quello e questo paressero degni di pi adorna veste, che non avessero nell'umile volgare.

Similmente,

il

volgare sembrava agli eruditi impari

all'alta

sapienza

LA LETTERATURA CRITICA.

73

era un altro motivo


ripensi il lettore un giudella loro riservata ammirazione. Perci in
poco fa
sullo scorcio del secolo XIV, Matteo Ronto, monaco olivetano, volgeva
e per renderne agevoli le bellezze ed i pereil poema in esametri
della

Commedia ed

dizio addotto

grini concetti ai padri

non

italiani

del Concilio di Costanza, fra Gio-

vanni da Serravalle, vescovo di Fermo, vi sostituiva ciascuna


italiana, nel suo stesso posto, colla corrispondente latina. Il
parlare, che ne vien fuori, mi rassomiglia un guanto irsuto e
tito, che nasconda una leggiadrissima mano; ma senza di esso
l'avrebbero stretta al di

Abbiamo

sfiorato

l delle

parola

grosso

imbotquanti

Alpi?

una grave questione

e additati

principali motivi

ond'essa germoglia. In quel rifiorimento di classiche memorie, il concetto dell' unit universale romana prevalse nella mente degli uma-

e^Sf^S'
volgare,

nisti sul concetto della nazionalit o della patria ristretta fra quattro

mura. Come

letterati, essi non erano cittadini di questa o di quella citt,


volevano esser cittadini del mondo e scrivere per tutte le genti,
non per la propria soltanto, ed al consenso universale affidare la loro
fama. Perci nessun' altra poteva esser la lingua delle opere che nei
loro sogni superbi destinavano all'immortalit, nessun'altra che il latino, l'idioma che avea suggellato la trasformazione dell'ori nell'urbe,
che assorellava, a malgrado di tanti dissidi, le scuole di Oxford, di Parigi, di Bologna, ed era inteso e francamente maneggiato cos alla curia
pontificia come alla corte degl'imperatori tedeschi. Oh era ben povera
e grama cosa, al confronto, il volgare, che sonava sulle labbra del
popolo e si stendeva appena per i confini tutti d'Italia! Dicevano che
gli mancasse l'attitudine ad assumere dignit letteraria ed a rivestirsi
d'ornamenti simili a quelli, che facilmente sfoggiava il latino; lo tenevano disadatto alla trattazione di materie gravi e di argomenti solenni,
acconcio solamente a soggetti frivoli e bassi, ai versi d'amore, alle
scritture, che non meritassero diffusione, n durevole vita. Di ripicco
Giovanni da Prato rispondeva che ormai Fedioma fiorentino s rilimato e copioso, che ogni astratta e profonda matera ^si puote chiarissimamente con esso dire, ragionarne e disputarne e ser Domenico,
conterraneo di Giovanni, vantava il volgare pi autentico e degno
di laude che il latino ed il greco (Wesselofsky, Parad. d. Al. III, 84,
e I, II, 322). Erano voci senza autorit, n potevano vincer la pugna.
Solo dopo il 1440, per un. fortunato concorso di teoriche, di condizioni
attuali e di validi aiuti, l'italiano and via via riguadagnando l'estima-

ma

zione anche dei dotti.


si collegava una questione storica, nata priL
nel 1435, a Firenze, in un crocchio erudito, che si trov un cfe
latino
giorno raccolto nel palazzo pontifcio. Si disputava se i Romani parlas-

Colla questione pratica

JvS

mamente

^ero tutti in grammatica, cio in latino. Chi sosteneva essersi usata in


un'unica lingua, variante, per gradazioni, da quella ornata e
strettamente regolare della poesia e della prosa letteraria, a quella, non

Roma

frenata dall'arte, del volgo; e chi, due lingue nettamente distinte, l'una

fl

71

CAPITOLO SECONDO.

propria delle scritture e famigliare alle persone colte,


tra del volgo e degli

indotti, simile in tutto

il

latino,

all'italiano.

l'al-

Propugna-

tore della prima sentenza

si fece Flavio Biondo, segretario apostolico,


un'epistola a Leonardo Aretino ribatt gli argomenti addotti
in quella disputa a favore dell'altra opinione e ravvalor la sua di
copiose citazioni d'antichi oratori e di osservazioni e di ragionamenti,

che

in

secondo

i
tempi, notevoli. Egli considera la lingua letteraria come un
perfezionamento della parlata, rileva l'origine naturale delle regole di
grammatica e nota come il latino dell' uso variamente si atteggiasse
secondo la varia educazione e le varie abitudini di vita dei parlanti;
in complesso il Biondo intravide la retta soluzione di un delicato problema linguistico. Di che e delle sue osservazioni, a malgrado dei difetti del metodo e della scarsa precisione della forma, s' ha a fargli
un merito tanto pi grande, quanto pi son bislacchi gli argomenti
che il Bruni gli contrapponeva nella risposta. Questi pensava che il
volgo romano non intendesse le orazioni nel foro e le commedie nel teatro
meglio che non intenda oggi il popolo la Messa, e non sapeva persuadersi
che le nutrici e le donnicciuole potessero apprendere quel congegno grammaticale e sintattico latino, che con tanta fatica riuscivano a padroneggiare appena i dotti del suo tempo. Con pari ingenuit, fu osservato,
sarebbe stupito, che i bambini di Parigi parlassero francese. Pres
valse l'opinione del Biondo, che fu difesa anche dal Poggio in un dia-

logo (Ristorici cisceptativa convivalis, III) e dal Filelfo in pi lettere e


fu ventura per il nostro volgare, che pot legittimar la sua assunzione
;

agli onori della letteratura coll'esempio della lingua popolare di

La rigenerazione
del

volgare

(intwno
ai

144-)).

Roma.

del latino, che gli umanisti attuarono secondo gli

antichi modelli, era un'imbalsamazione; spezzava

i vincoli, che gi avevano legato il latino medioevale all'evoluzione del pensiero e trasformava uua lngua imperfettamente viva in una lingua morta. Di che si

avvidero coloro che, contro i puristi, sostennero la necessit di accomodar alle cose ed ai concetti nuovi vocaboli nuovi il Valla, il Filelfo,
pi tardi il Poliziano e praticamente anche il Poggio. D'altro canto la
cerchia di quelli che intendevano l'idioma di Roma si faceva ognora
:

pi ristretta. A Firenze gli ambasciatori dovevano parlar italiano, se


volevano farsi intendere dalla Signoria popolana; l'ultimo dei Visconti
ordinava ai letterati da lui protetti di scriver volgare su quel di Ferun poaccettiamo lo spirito, se non la lettera, della novella
rara
dest ricevendo da Niccol III un ordine cos concepito: mittatis acci0trem bene ligatum in sacculo, scambiava lo sparviero con un
prete. Fra tali condizioni ben si intendono i rimproveri, che circa
il 1443, Leon Battista Alberti faceva agli umanisti, bramosi piuttosto
;

di piacere ai

pochi che

dagli antichi,

di

giovare

quali da tutti

ai molti,

incuranti dell'esempio lasciato

loro volevano esser intesi.

il culto delle tre corone


quel mirabile idioma,
sonava
s'era mantenuto non pur vivo,
accorda in una
suoni
di
pastosit
che asperit e dolcezza e corpulenta

In sulle rive deli' Arno, dove, tra

ma

il

popolo,

efficace,

75

LA LETTERATURA CRITICA.

musica sobriamente melodica e che il Trecento aveva inalzato a dignit letteraria. Il tempo lo aveva forse reso pi maturo e pi robusto, ma non ne aveva soffocata la schietta e fluente semplicit, n irrigidita la tempra pieghevole ad ogni esigenza del pensiero. Non era
tramortito lo spirito, che lo infiorava d'arguzie, n inaridita la vena,

onde sgorgavano i motti e le frasi scultoriamente espressive. Gli umase scriveva


il Filelfo
nisti stessi ne lodavano la soavit e l'eleganza
volgare, presumeva d'usare il toscano (etruscus sermo). Ed a Firenze,
sotto alla cupola pur allora voltata dal Brunelleschi, quell'idioma si prov
in un pubblico esperimento, che, forse ad imitazione dei certami poetici
in uso nella Roma imperiale, l'Alberti promosse ed ordin, Piero de'Medici sovvenne delle sue ricchezze e gli Officiali dello Studio bandirono
,

n cenarne

solennemente.

memorie era il tema proposto , La vera


affinch nella prova meglio rilucessero
disegno
a
scelto
amicizia
come in una giostra la gagliardia
volgare,
del
letterarie
attitudini
le
degli avversari meglio fa risaltare, non pure il valore dei cavalieri,
Grave

di

classiche

ma anche

la

buona tempra

dell'armi. Il giorno

22 d'ottobre

del 1441,

presenti dieci segretari della caria pontifcia quali giudici, l'arcivescovo


fiorentino, l'oratore della repubblica veneta e gran calca di popolo,

nove rimatori recitarono o fecero recitare i loro componimenti in S. Maria del Fiore. Non erano tutti popolani di scarsa coltura come Anselmo
il
di Govacchino Calderoni, eletto 1' anno dopo araldo della Signoria
quale tratt il tema in una canzone, per via di riflessioni agevoli, cor,

roborate da esempi di fonte classica, senza pretese, pianamente. Furon tra loro anche Francesco d' Altobianco Alberti, officiale della curia, Antonio degli Agli, canonico fiorentino e teologo, e Benedetto

che fu pi tardi cancelliere dei Signori. I loro


Davanzati, cittadino di buona ed antica
famiglia, costeggiano le secche della filosofia e, navicelle mal governate,
vi si smarriscono tanto spesso quanto di rado si avventurano a velegAccolti, dottor di leggi,

ternari e quello di Mariotto

giare
di

il

mare

della poesia. Ciriaco de' Pizzicolli d'Ancona, archeologo

gran fama, declam un sonetto

a Francesco

di

Bonanno Malecarni

piacque sgattaiolare di fra le strettoie del tema e descrivere, con buon


corredo di ricordi petrarcheschi e danteschi, un trionfo d'amore, nel
quale inser una parafrasi rimata della novella di Nastagio degli Onesti, ottava della quinta giornata del Decameron; l'Alberti e Leonardo

buon poeta latino, si provarono a rinnovare in italiano i metri classici; con mala fortuna, invero, perch pretesero congegnar i loro versi di lunghe e di brevi, applicando
alla nostra lingua le regole della prosodia latina, senza avvedersi che
edificavano su di una base fittizia. L'Alberti, presentando il quarto libro della Famiglia il quale tratta di amicizia, recit sedici esametri; il
Dati in esametri ed in una saffica svolse certa scena allegorica d'architettura e di sapore schiettamente classici. Il premio
una corona
di lauro lavorata in argento, onde venne al certame l'appellativo di co-

Dati, altro officiale della curia e

JAPITOLO SECONDO.

7G

non fu conferito a nessuno dei concorrenti Ai giudici, datti


uomini e punto amici del volgare, parve forse che ad altre opere e
di pi elegante iattura, che non fossero quelle povere rime, si convenisse l' onor dell'alloro. A Firenze fu detto che operassero cosi
per invidia, non so bene s della gloria, chi da quella corona sarebbe
venula al volgare idioma o dei dicitori stessi. Questi inviarono
ai giudici una gagliarda, sebben temperata protesta; ma la gentil con-

ronano

suetudine, che l'Alberti avea tentato d'introdurre. a Firenze, come isti


fcuzione ottima, utile al nome e dignit della patria, atta ad esercitare
preclarissimi
virt

ingegni, accomodata ad ogni culto di buoni costumi e di


-per l'opposizione incontrata, ed il secondo certame, che

manc

non
avrebbe avuto per tema l'invidia e forse arringo pi vasto
non pot celebrarsi.
doveva esserne esclusa la poesia latina
La gara del 1441 non ha una grande importanza n per s stessa n
per effetti che ne siano immediatamente derivati. E bens un notevole
segno delle condizioni letterarie del tempo. Per la prima volta a trattare un argomento grave si servono del volgare uomini dotti, dei quali
non lecito sospettare, che lo facciano per ignoranza o per grossezza
di gusto. Non mancheranno anche pi tardi oppositori, contro i quali
difenderanno il sermone materno Cristoforo Landino e Lorenzo de' Medici
e le vecchie accuse contro il volgare ripeter verso la fine
del secolo, uomo del passato, il buon Vespasiano, che ben poco sa di
latino (Vite, 1,89). Ci non ostante, il volgare andr di giorno in
giorno sempre meglio assicurandosi il suo posto fra i linguaggi letterari e si acconcer ad accogliere quelle tendenze stesse e quelle stesse
materie, che dal mondo classico derivava la letteratura in lingua latina, mentre questa si mostrer pi aperta, che non fosse nei primi
decenni del secolo, agli influssi della letteratura volgare.

CAPITOLO TERZO

X^a letteratura, originale in prosa.


Le

lettere, i trattati e le orazioni.

Le epistole laLettere in volgare, famigliai'], di negozio, politiche.


L'epistolografia,
Loro vari arI trattati latini.
Antonio Beccadelli, detto il Panormita.
tine.
Il sentimento della famiglia e il De re uxoria di F. Bargomenti e loro caratteri.
I trattati in volgare popolareschi ed eruditi.
baro.
I dialoghi del Poggio.
Matteo Palmieri e Leon Battista
Giovanni Dominici e Giovanni Gherardi da Prato.
L'eloquenza in volgare e in latino.
GianAlberti.
La prosa dottrinale italiana.
Le invettive degli umanisti.
La politica degli
nozzo Manetti.
Pio II oratore.
Bernardino da Siena.
umanisti.
Gli oratori sacri

Qua! fosse

il

bell'idioma, di cui

1'

Alberti mosse a difesa

appare Le

lettore

faiwg ari
inti- odi negozio
1

dalle lettere private, famigliari e di negozio. Scritte nella

fida

mit delle pareti domestiche o sul banco d'una bottega, come il cuore o
la mente, destra ai traffici lucrosi, dettava, senza intenzioni d'arte,
alla buona vengono ora fuori dei nascondigli
ove rimasero occulte
lunga stagione e dove chi sa quante andarono perdute. E noi, moderni,
facciamo loro buon viso, perch l'odor di rinchiuso e di stantio, che
pur troppo aduggia tanta parte della nostra letteratura specie di
quella del Rinascimento, acuisce la nostra sete d'aria aprica e di vergini
fragranze. Accanto all'arte filtrata pei lambicchi delle teoriche e delle
faticate imitazioni , piacciono le libere manifestazioni del pensiero e
del sentimento e l'eleganza e l'efficacia non ricercate studiosamente,
ma rampollanti, inavvertite, da una felice disposizion di natura. Quelle
lettere rappresentano, son per dire, la forma primordiale della prosa
quattrocentista e mostrano qual gran serbatoio di fresche energie
questa avesse in pronto nella parlata popolaresca fiorentina, sol che
avesse^, voluto ritemprarvisi.
A cavaliere tra il secolo XIV e il XV visse e pi a quello che a questo appartiene ser Lapo Mazzei, delle cui lettere la ragione del tempo
non concede si faccia qui pi che un fuggevole ricordo. Ma tutta en,

78
ess * n ra

.h

stronzi
,'

'

CAPITOLO TERZO.

0 a^
scorse la vita di Alessandra Macingbi, sposa, nel 1422, a
Matteo Siro/zi. L donna, quale la vedevano allora Fiorentini, ancora ligi alle buone costumanze antiche di casalinga semplicit, operosa e
procacciante massaia, educatrice della prole nel santo timor di Dio e
non incline a barattare, come spesso usava nell'Italia superiore, il
fuso colla penna, la lana coi libri, si raffigura in lei mirabilmente. I
Lunghi dolori, cui fu consacrata dalla vedovanza precoce e dagli esigli
Iella casata, clic la aveva accolta fra i suoi, e l'amore angustiato pei
figliuoli continuatori, sui mercati di Bruges, di Avignone e di Napoli,
della tradizione ed alimentatori delle ricchezze domestiche, palpitano
nelle lettere che l'Alessandra scrisse appunto a codesti figliuoli dal 1447
al 1170. Parte il minor d'essi, Matteino per Napoli, dove lo chiama
per avviarlo alla pratica del banco il fratello Filippo, ed ella non sa come
far a vivere senza di lui, ch troppo gran duolo sento e troppo amore
gli porto
ch somiglia tutto il padre, ed fatto un bello garzoncello
in questo tempo stato in villa (26 dicembre 1449). Quando riceve
due versi da loro o dal terzo figlio Lorenzo, si sente consolata un
poco nella sua tristezza; anzi desidererebbe andar a vivere con essi
ch osserva con una frase nella quale tremola una lagrima per
ragione naturale, debbo aver grande amore e tenerezza pi inverso
di voi
che voi inverso di me (20 aprile 1465). Matteino muore
laggi, lontano, senza che la madre possa dargli l'ultimo bacio; ella
ha uno schianto al cuore ma trae conforto di rassegnazione dalla
sua fede, eh' suto volere di Dio chiamarlo a s cos giovane
(13 settembre 1459). Rassegnazione, in cui si adagia- anche Filippo,
1,

quando nel 1458, bandito coi fratelli, come figlio di un esule del 34,
madre Queste non sono altro che delle frutte di questo
mondo e chi uso averne spesso come noi, che cominciamo nella nostra
et fanciullesca, non ne fa tanto caso, come quelli a cui giungono sori
s che di tale parte abbiamo molto a ringraziare Iddio (p. XXXIII).
Intorno al 1465 1' Alessandra tutta sopra pensiero per trovare ai
due figliuoli superstiti parentadi convenienti perch chi a tempo

scrive alla

marzo 1465);
quali
ha posto
fanciulle,
sulle
le
descrive
annovera nelle sue lettere e
freddezza
calcolacon
contro,
pr
e
il
il
l'occhio e discute di ciascuna
vole mangiare, ennanzi all'oragli convien pensare (29

trice,

come

se

si

trattasse d'un mercato,

non d'un matrimonio.

noi

ma

era nel costume del tempo. Intanto vigila, se mai


spunti occasione o s'apra via al ritorno dei figli. Le Signorie hanno
dei Medici, s'intende, ed in questi
a fare la volont di chi governa
fa meraviglia;

soltanto s'ha a porre speranza. Nel 1466 infatti Piero, spennacchiato


Luca Pitti, richiam gli Strozzi, talch la buona Alessandra, uscita
di

Purgatorio

pot in quei cinque anni, che ancora le rimasero di

vita, rallegrarsi della

compagnia dei

figli

e del sorriso dei nipotini nati


dei balbet-

dai conchiusi maritaggi e compiacersi, con affetto infinito,

tamenti e delle prime prodezze

che

le

era sempre dietro

come

il

Alfonsino, il primogenito di Filippo,


pulcino alla chioccia (8 maggio 1469.

di

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

79

Schietta e purissima, quale sgorgava, con vivezze ammirevoli colle

sue sguaiataggini grammaticali, dalle labbra dei Fiorentini,

la

lingua

codeste lettere. L'Alessandra ha sempre in pronto, la frase acconcia


ad esprimere il suo pensiero e la lascia scorrere naturale, senza badi

dare se una medesima parola compaia due o tre volte in un periodo.


Le proposjzioni sono brevi e leggiere; in esse, quei complementi soltanto,
che siano necessari alla perfetta determinazione del concetto essenziale o
che questo, via via che matura nella mente, lasci come cadere, dove
vien viene.

le proposizioni,

con semplici forme

di

subordinazione soli-

raggruppano in periodetti quasi tutti


coordinati tra loro liberamente o per via della copula e. Se talvolta un'idea si rifrange in una breve serie di locuzioni sinonime, gli che il pentamente causale o concessiva,

siero persiste

e,

accarezzato,

si

domanda

pi efficace e pi precisa espres-

sione. Se vi imbattete in forinole cosiddette rettoriche, sentite subito che

sono

fiori sbocciati alla

viva temperie cittadina o che all'Alessandra le ha

un impeto di sentimento, cui la frase naturale sarebbe stata


insufficiente. Che ho a fare senza voi? Ch' a me sentire facciate
dettate

vi maceriate la persona vostra con


Sono interrogazioni enfatiche, ma gravi

della roba assai e per essa

tanti

disagi e sollecitudine

delle

? .

lagrime d'una madre piena d'affanni (6 settembre 1459).


Nelle lettere della Macinghi Strozzi suona l'idioma dell'uso, solo
leggermente ripulito e rassettato da quella naturai soggezione, che d
la penna. Cos in pi altre che loro si possono accostare; per esempio, in quelle dei figliuoli e nelle lettere mercantili del genero di lei,
ricco setaiuolo e colto, Marco Parenti. Se non che in quest'ultime
forse una maggior variet di legamenti sintattici e un tantino meno
semplice

il

periodare.

Gran copia di scritture epistolari d'argomento politico ci ha tramandato il secolo XV. Le toscane soltanto vogliono esser qui rammemorate come documenti eh' esse sono di graduali trasformazioni
,

della prosa

assurgente a dignit letteraria.

manda qua

e l ambasciatori o commissari

I
,

cittadini

scrivono

ai

che Firenze
Signori nel

loro bel volgare, cui intorbida appena qualche frase o parola crudamente latina residuo del vecchio formulario ma la gravit della
,

materia e la necessaria ponderazione delle idee danno allo stile una


cotal compostezza ed una pi o meno gagliarda compagine. La pi
cospicua raccolta di cosiffatte scritture s'ha nelle Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, che mise a stampa Cesare Guasti. In esse la
storia delle importanti missioni politiche, che l' Albizzi sostenne nei tre
primi decenni del secolo. Nelle sue lettere egli ragiona acuto e serrato
di che specchio il suo stile. Pur non vien meno a quella semplice
prosa la schietta fiorentinit, la quale svelta guizza ad ogni istante nei
traslati popolareschi e in certe frasi volgari, che altri, pochi decenni
appresso, reputer non addirsi alla maest di scritture pubbliche. Un
piccolo capolavoro di arguzia fine e di velata ironia la lettera del
14 maggio 1423, ove Rinaldo narra della sua cattura per opera di

L et te:
lltlC

gJ

80

CAPITOLO TERZO.

Antonio Bentivoglio a Castelbolognese, della sua pronta liberazione e


dei mille sotterfugi di quel suo carceriere.

La bottega,
Guasti, salvava dai vizi letterari gli oratori mercanti .
Altramente vanno giudicate

le

note e

le istruzioni,

osserva

che uscivano

il

di

palazzo. Quivi la lingua, toscanissima tutta e sempre, impoverisce per


l'uso delle

formule stereotipate e, pi, per quel procedimento di vala


sottopongono i cancellieri eruditi e che in pi
acconcio luogo studieremo fra poco; il periodo diviene sovente complesso ed accado che un pensiero aneli al suo compimento per lungo
gliatura, cui

ordine

per
L

^a

le

uSne

proposizioni subordinate e coordinate e talvolta

di

si

smarrisca

via.
^

le

^ ere

volgari, se

ne

togli

alcune poche, artificiosissime, che

trattano d'amore e delle quali sar parola pi innanzi,

mai

in quel secolo

un vero genere

riserbato tale onore.

ordinato
tutti

le sue,

insomma

in libri,

mento per

gli

cos

ancora
Petrarca aveva accuratamente raccolto ed
Bruni, il Poggio, il Filelfo, il Traversari, quasi

Come
il

non costituirono

letterario. Alle latine era

il

umanisti principali, adunarono e divulgarono, divisi

loro epistolari.

Per vero

essi affettavano

un

altiero compati-

raptim
cursimque, e una modesta meraviglia perch fossero ricercate e lette
avidamente. In realt poi se ne tenevano assai e le pregiavano sopra
quelle scritture, buttate gi, dicevano, alla buona,

ogni altra, non tanto qual vincolo tenace di vecchie relazioni e appiccagnolo di nuove, quanto perch le giudicavano il pi utile, il pi comodo, il pi ammirevole genere d'eloquenza. Si scambiavano lettere
anche se vicini, e, devoti ad una nuova maniera di epicureismo (Bruni,
Epist. IV, 20), le assaporavano voluttuosamente, venissero da amici o
da ammiratori ignorati. N siffatta predilezione pu parere strana, chi
ripensi la larga e varia coltura degli umanisti, i quali, almeno alla
foggia loro, sapevano e volevano discorrer di tutto, e d'altro canto
consideri che la lettera si adatta per sua natura ad accogliere la
trattazione dei pi svariati argomenti. Inoltre
rio ciceroniano, instaurato e

lo studio dell'epistola-

promosso segnatamente da Gasparino Bar-

ben presto favore a quel fare ampolloso e solenne, di cui


il Petrarca e Coluccio e diede alle lettere una grande
sveltezza di movenze ed una scorrevole eleganza di stile.
^ primo posto fra gli epistolografi del Quattrocento spetta senza
dubbio ah Poggio. Com'egli uno dei pochi, in cui si agitino e fremano tendenze e qualit veramente personali e non soltanto la vana

zizza, tolse

s'erano piaciuti

p epistole

i-i

Poggio,

sue lettere, fra le coetanee, sono forse


che rechino una ben determinata e costante impronta carattein cui tratta
e sono le pi
Ve la trovi perfino in quelle

pretensione d possederle, cos


le sole,
ristica.

gli

argomenti pi comuni

le

negli epistolari umanistici:

domande

di libri,

faccende private, biasimi o lodi di


questioni di filologia e di
principi o di letterati. Originalissime sopra tutte per lo stile agile e
pronto ad accogliere qualsiasi locuzione, purch renda esattamente il
filosofia,

pensiero, anche frasi e parole volgari, e per la contenenza sono le let-

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.


che

tere,

il

Poggio

scrisse fin verso

il

81

1440. Eccone una che egli dirige

al cardinale Angelotto, di fresco entrato nel sacro collegio, piena, in

buoni ammaestramenti (IV, 23); eccone un'altra a


che gli ha carpito una moneta,
ma si giura innocente e il Poggio gli narra, sogghignando, la novella
di tal fiorentino, credulo bonariamente alle baie della moglie infedele (III, 8); eccone una terza, tutta punte nascoste fra il velluto,
riveditura di bucce ad un'orazione d'un collega (III, 23). Mentre le leggete, vi si ravviva dinanzi alla memore fantasia la faccia sarcastica
del segretario apostolico, che Donatello scolp. A rallegrare la cara solitudine della villa di Terranova viene la nascita d' un bambino; un
amico si affretta ad inviare coi rallegramenti non so quali classicis-^
di belli e

vista,

Mariano

Sozzini, giureconsulto famoso,


;

simi precetti pedagogici;

il

Poggio ringrazia e

ci

fa

una

risata (Vili, 6).

suo buon senso trionfa della pedanteria. Nei tristi giorni della dimora
in Inghilterra egli rinnova il costume petrarchesco di svelare gli intimi
Il

moti della sua coscienza, onde le lettere scritte di l al Niccoli sono fra le
pochissime del secolo XV, che meritino nome & auto-psicologiche. E poi
qual variet di argomenti e qual graziosa efficacia di rappresentazioni in
quell'epistolario! Alcune delle lettere date da Costanza, inviate che furono
dal Poggio stesso a pi amici nel medesimo tempo, ebbero fama e fortuna,
dissertazioni o bozzetti riuscitissimi: quella, tutta cosparsa di una
carezzevole ironia, che descrive la vita ai bagni diBaden (I, 1); la nar-

come

razione del processo e del supplizio di Gerolamo da Praga, piena di


lo stoicismo e la romana eloquenza del martire (I, 2) ;

ammirazione per

l'annunzio delle scoperte fatte nel monastero di

Roma

il

S.

Gallo

Bracciolini discorreva con molto spirito al Niccoli

(I,

5).

Da

delle sue

il Lazio e gli schizzava dei quadretti vivissimi. In uno (III, 20)


sudar sotto il sole fiammante a decifrare di sur un arco antico di Ferentino un'iscrizione corrosa e coperta dai virgulti, ed intanto ammiccare, il dotto e giovial segretario, a due prosperose foresozze riguardanti a lui dall'usciolo di casa. In un altro (IV, 13) ti si stende
dinanzi l'agro tuscolano, colle sue rovine grandiose di ville, di acquedotti e di terme, nella melanconia delle antiche memorie ed in un
canto vedi, eloquente contrasto, il vile tugurio, Castel Borghetto, ove
11 Poggio va a passare la notte fra il concerto dei ragli e dei latrati.
Descrizioni di luoghi, osservazioni sui costumi e qualche garbato
quadretto allietano la monotonia di altri epistolari umanistici. H Bruni
rassegna minutamente al Niccoli le tappe del suo viaggio da Verona a
Costanza e gli parla del senso d'orrore e di rispetto che gli hanno
ispirato le gigantesche moli dell'Alpi; gli parla del Reno, del lago,
di superstizioni e d'usanze vigenti nella citt del Concilio (IV, 3)
a
Roberto de' Rossi novella, con urbanit di scherzi di una scampagnata nella villa dell'arcivescovo di Pisa (II, 20), ed al Poggio, in una
epistola sguaiatuccia (III, 17), delle proprie nozze e del dispendio, che
n'ebbe. I carrettieri, che si affaticano, bestemmiando, a sviluppar dalla
mota il carro> che conduceva a Montepulciano il mausoleo di Barto-

gite per

10 vedi

Rossi.

La

lett. ital.

nel see.

XV.

dei Brun

82

CAPITOLO TERZO.

lomeo Aragazzi, opera di Donatello, non mancano di vita: il Brunivi


si imbatt un giorno che andava a spasso per il contado d'Arezzo e
dell'incontro diede notizia al Poggio, condita di frizzi e
dei Guarino

contro

defunto scrittore papale (VI,

di

rimbrotti

Guarino, meglio che nelle


5).
descrizioni di spettacoli naturali, riesce nel disegnare figure o scenette
famigliari. Faceto e non senza grazia il ritratto, che si incontra in
una sua lettera, d'un cuoco sudicio e maldestro che chiamavano
boccaccescamente Chichibio. L'umanista veronese or ti fa sorridere col
rappresentare la sua casa scombussolata dai bambini e dal disagio, di
che tutti soffrono per la minaccia della peste, ed ora, berteggiando i grossi
costumi dei borghigiani trentini, ti fa sonar all'orecchio l'eco pi antica del bombb, ancor uggi vivo in quelle vallate. Ma considerati
il

Il

complesso e come opera d'arte, n l'epistolario del Bruni, n


quello del Guarino possono a gran pezza competere coll'epistolario del
Poggio. Nel primo signoreggiano la gravit e la compostezza, che son
dell'autore; nel secondo una fastidiosa pedanteria di sostanza e di forma.
Delle lettere del Filelfo i pregi esteriori non pareggiano certo l'importanza per la storia dell'umanesimo; esse sono in buona parte aride
e brevi, or adulatorie, or insolenti: domandano libri o denari; trat-

nel loro

.,

(ri

tano
fia

di

condotte universitarie o di provvisioni,

men

sovente di filoso-

o di questioni filologiche. Quelle del Traversari, anch' esse fredde

non s per che non


ve n'abbiano molte ricche di preziose notizie letterarie. Frivole per la
contenenza e di stile svelto e leggiero sono le epistole della giovent
d'un leggerissimo uomo, che ci conviene imparar a conoscere qui.
Antonio Beccadelli un goliardo del Quattrocento. Provvisto di
pubblico sussidio e certo bene spesato anche dalla famiglia nobile.
e ricca, venne dalla nativa Palermo, ond'ebbe il nomignolo di Panormita, sul continente per attendere al diritto civile. Nel 1420 era a
Siena, fiorente allora di studi e di studentesche baldorie. Ne fu cacciato dalla peste e ripar a Pistoia, a Firenze ed a Padova, ove fu
ancora in tempo di ascoltar le lezioni di Gasparino Barzizza. A Siena
lo richiamarono non tanto le Pandette, quanto gli amici e le belle, e
ve lo trattennero fino al 1425. Per un paio d'anni lo ospit poi Bologna, culla antica di sua famiglia. Partito di l, il Panormita non si pos
se non verso il principio del 1429, a Pavia. Diceva ancora di voler
studiare giurisprudenza, ma il gran rumore, che avea levato tre anni
prima la pubblicazione d'un libricciuolo di suoi versi, V Rermaphroditus,
gli susurrava che altro aveva ad essere il suo cammino. Egli aspirava

e disadorne, riboccano di pettegolezzi frateschi,

npanormta
(i

j4-4

j).

a divenire

il

poeta della corte viscontea

e,

di fatto,

tanto

si

arrovell

che verso la fine di quell'anno entr nel novero dei famigliari del duca
con un lauto stipendio. Ci nondimeno il Beccadelli non dimor alla corte
milanese se non per poco di quando in quando, perch il Visconti volle
che rimanesse a Pavia a leggervi eloquenza nello Studio. Comunque, egli
fu liberato dalla soggezione dei parenti, i quali, forse vedendo di non poter cavare da quello scapato l'augurato giurista, minacciavano di trgli

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

83

ogni assegno ed instavano perch tornasse a Palermo {Epist I, 44)


ad relegationem, diceva Antonio, avvezzo ormai alla vita allegra e
brillante

(III,

23).

Pavia avea trovato

il

fatto

suo.

Le

di l o dai dintorni e raccolse nei quattro

lettere latine,
libri

che scrisse
gal-

delle Epstolae

le

sue

epistole.

rappresentano appunto in quelle liete radunanze, nelle quali


giovent di Maffeo Vegio e il Valla recava l'acume
ciarliero del suo ingegno e intervenivano spesso i due Cremona,
gentili corteggiatori delle fanciulle belle e cortesi, Cambio Zambeccari
e il giovinetto Ergotele, perito nel cantar sulla lira versi soavissimi.
Una di quelle lettere data da Pavia ex medis poculis; le pi invitano gli amici ai sollazzi sulle rive del Ticino, sui pratelli fioriti
del parco ducale e nelle case provviste di ottimo vino, o descrivono la
letizia dei passati ritrovi, od accompagnano versi, cheilPanormita invia,
pregato, a questo ed a quello, o narrano festosamente piacevoli anedlicae lo

fioriva la mite

Nel loro stile spezzettato e semplice si rispecchia l'indole comoda


che fece di grandi disegni e diede molte promesse, eppure
non raccomand il suo nome se non a cosucce frivole, in verso ed in
prosa. Nell'uso non raro di parole plautine sono le tracce degli studi
sul comico latino, che lo tenevano allora occupato ed offrivano argomento alle sue lezioni. Stile pi posato e maggior gravit di soggetti
hanno le Epstolae campanae, ci sono quelle che il Panormita scrisse,
poi che, lasciata Pavia nel 1435, ebbe preso servizio alla corte aragonese di Napoli. Parlano delle domestiche gioie, che al vecchio buontempone apprestava il suo matrimonio con Laura Ar celli (1448); sono
doti.

dell'uomo

tutte sollecitudine per le fortune degli amici lontani; trattano d'acquisti

scambi

di re Alfonso, che al
un'annua pensione e fece
doni splendidi di palazzi e di ville a Napoli, sul golfo e a Palermo. Il
poeta lo serv anche in maneggi politici ed in ambascerie a Roma a
Milano, a Firenze, a Venezia; ma pare che soltanto sotto Ferdinando

di

di

libri;

esaltano le magnificenze

Beccadelli, suo consigliere e lettore, assegn

ricevesse

il

titolo e l'ufficio di segretario del re.

Nella posizione eie-

Tata per autorit e per ricchezza, che raggiunse, egli esercit colla
presenza e colla parola quell'efficacia letteraria, che dalle opere sue
miserelle non poteva raggiare, onde, morendo, gi prossimo all'ottantina, nel 1471, vide sorta a Napoli la scuola umanistica, che doveva
con caratteri propri fiorir rigogliosa negli ultimi decenni del secolo.
Le lettere che il Panormita, qual segretario del re, scrisse a nome
nell'occasione della guerra contro Giovanni d'Angi e
Ferdinando,
di
della prima rivolta dei baroni, son di quelle nelle quali fa continuata la
tradizione iniziata dal Salutati nella cancelleria fiorentina. Siffatte episi incontrano numerose nei testi a penna e, frammiste alle private, nelle raccolte a stampa, non avevano certo quell'importanza attuale che pareva attribuissero loro i principi e le re-

stole politiche che

pubbliche, quando ricercavano ed assoldavano chi le sapesse

pi elegantemente.

Le

discordie

si

soleano comporre,

stendere

gli odii

sfogare

pitiche,

84

CAPITOLO tf-rzo.

e le gelose rivalit tr di

ma
di

mezzo per via

di lettere volgari,

meno adorne

pi ricche di ragioni pratiche, per via di trattative, di stratagemmi,


veleni, di guerre,

Pur

non a

colpi

di

frasi

ciceroniano

di

classiche

giovavano ad alienar dai nemici la


pubblica opinione ed a prepararla favorevole ai vincitori
poich in
un'et infervorata nel culto del bello, spesso non potevano tanto sugli
animi le buone ragioni, quanto Le eleganze formali. Ma oggi allo storico
tornano pi profittevoli le lettere private di quegli umanisti, che non rifuggirono dal mescolarsi ai pubblici eventi, per esempio alcune savie
epistole del Bruni deploranti le condizioni del papato che prelusero
al concilio pisano del 1409, e la pi gran parte di quelle d'Enea Silvio Piccolomini e di Francesco Barbaro. L'uno, entrato che fu nella
cancelleria imperiale, era naturalmente ben addentro in ogni questione
che s'agitasse nel dominio della politica. L'altro (1398-1454), latinista
provetto, quantunque un po' freddo, perito del greco, amoroso raccoglitore e diligente revisore di testi, il pi grande fra gli eruditi veneziani suoi coetanei, consacr alla sua repubblica le finissime qualit
d'uomo politico, che avea sortito da natura. Sostenne numerose ambascerie, govern a nome della Serenissima pi citt della Terraferma,
difese eroicamente Brescia contro le armi del Piccinino (1438) ed infine fu innalzato all'ufficio di Procuratore di san Marco. Cos il Piccolomini come il Barbaro si piacquero di tener informati i loro corrispondenti delle vicende degli stati, le quali il pi delle volte furono
rievocazioni.

quelle

epistole

le

loro.

Lunghe lettere, che per la loro contenenza vogliono essere paragonate a trattati filosofici, si incontrano di sovente negli epistolari
del Petrarca e di Coluccio; pi di rado in quelli degli umanisti del
Quattrocento. Ch l'esempio di Cicerone, operante per duplice via, metteva in onore la lettera breve e spigliata, e pi comoda forma additava all'esposizione di materie filosofiche nei dialoghi. Di trattati, liberi
da quell'ultima reliquia dell'assetto epistolare, che era la soprascritta
abbonda la
la lettera dedicatoria poteva precedere, indipendente
letteratura umanistica. Essi ne sono anzi le pi caratteristiche scritture, come quelle che mostrano, meglio d'ogni altra, ci che l'umanesimo pretendeva di essere e ci che era di fatto. Gli autori e gli
ammiratori vantavano ivi consertata nell'augurato connubio la morale
coll'eloquenza, congiunto l'ammaestramento col diletto del lettore. Noi
vi^riconosciamo il pi solenne documento della soggezione in cui gli studia eloquentae tenevano gli studia hurnanitatis, e del dissidio profondo
che separava la letteratura dalla vita; sbadigliamo sulle gualcite e trite
eleganze e sorridiamo delle classiche dottrine ammannite, quali norme
bene beateque vivendi ad italiani del Quattrocento.
Raccolta dai classici una ricca messe di precetti e di esempi e dispostala in bell'ordine sulla trama lievissima d'un ragionamento facile
e piano, l'umanista aveva bell'e compiuto il suo trattato, fosse un dia-

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

85

logo o fosse una continuata dissertazione. I dettami di quella morale


non convenivano alle condizioni della vita moderna; erano il pi. delle
volte fantasticherie da sognatori, correnti plaghe remote dalla realt
;

contrastavano fieramente coi costumi dell'autore stesso. Che importava ?


A quei dotti stava specialmente a cuore di scrivere alcune belle pagine di prosa sapientemente tornita, n d'altronde che dalle antiche
sorgive potevano venir gli argomenti acconci a tal esercizio. Perfino
una citazione di Isidoro in un
i nomi moderni degli interlocutori ed
,

dialogo del Poggio, facevano trasalire


Epist., Ili, 35);

il

sensibilissimo Niccoli (Poggio,

Buonaccorso da Montemagno poneva in Roma antica


De nobilitate, e a sostener le due opposte sentenze

la scena della disputa

introduceva due giovani romani. Quivi manca la risoluzione del contrasto, ma i quattrocentisti predicavano di solito venire la nobilt dalle
'

azioni virtuose e dalla sapienza,

non

dalle

ombre

degli

antenati: cos

Poggio in un dialogo, di cui far parola fra poco cos Cristoforo


Landino ed il Platina nei loro dialoghi De vera nobilitate cos il Bruni,
dove occorresse, nei trattati. Eppure
il Filelfo, tutti, nelle lettere e,
il

non v'ha

invettiva, nella quale

non

si

rinfaccino all'avversario

bassi

che moraleggiavano sulla vanit dei


beni terreni e sul disprezzo delle ricchezze, bramavano i godimenti materiali e stendevano con isfacciata improntitudine la mano mendicante.
Fra le pi disputate questioni fu quella del sommo bene. La tratt
sua originalit nella critica
il Valla in un'opera, alla quale, per la
presente,
del
quanto
del
abbiamo concesso un posto
passato
non tanto
segnalato. Il Bruni nel dialogo Isagogicon moralis disciplinae, dedicato a Galeotto Ricasoli, espose con notevole esattezza le opinioni degli stoici, degli epicurei e dei peripatetici sul proposito, mostrando come
l'ultima non si scosti molto dalle altre e conchiudendo esser la virt
fondamento della felicit. Nella qual sentenza concorse poi anche il
Platina nei dialoghi De falso et vero bono, laddove Bartolomeo Fazio, nel De vitae felicitate, contrapponendo alle acute argomentazioni
del Valla, citazioni di testi sacri e molta unzione cristiana, ripose,
con lui, il sommo bene in Dio e la felicit in cielo.
Nei trattati politici ormai non si disputava pi di impero e di pontefcato e si cominciava a concepire lo stato come opera umana ma l'idealit pedantesca soppiantava la realt e gli eruditi si affaticavano a formare il modello dell'ottimo principe, raggranellando, mosaicisti accurati,
ma pensatori inetti, da Aristotile, da Platone e pi dal ciceroniano de officiis la serqua delle qualit che gli si addicono. Lycurgus ille Lacedaemonius cominciava il Platina il suo trattato De principe (circa 1 470)
da Licurgo passava a Solone e poi ad Alessandro, a Cesare, a Ciro,
eccellenti confirmatori dei suoi sanissimi principi e si accorgeva appena
che poc'anzi avevano dominato con altri principi e con mezzi meno
morali, ma pi efficaci di quelli che egli inculcava, Gian Galeazzo Visconti, Filippo Maria, Francesco Sforza, Cosimo de'Medici. Con gli stessi
criteri una decina d'anni prima il Campano avea discorso De regendo
natali.

Similmente quelli

stessi

Lore vnr
ar s mentI

80

CAPITOLO

TERZO.

in sul principio del secolo Uberto Decembrio e Giovanni


umanista fabrianese, aveano formulato le loro teoriche politiche.
Correr ancora quasi mezzo secolo prima che il Machiavelli osi trarre
dalla meditata realt non fantasiose teorie,
Coluccio in una lettera a Bartolomeo della Mella (EpisL, Vili, 3)
aveva difeso il matrimonio contro certi poco benevoli giudizi del Petrarca.
matrimonio e dell'amore si continu a disputar variamente nelsec. XV
Era questione viva e per intimo impulso dei cuori incalzante. Nel restringersi continuo della vita pubblica si ingagliardivano sempre pi
gli affetti famigliari, mentre serpeggiava dappertutto, fosse desiderio
una ripugnanza
di libert individuale o scarso rispetto delle leggi,

magistrato e
Tinti,

senti-

"ftlSrfia*
re wsoria di
f. Barbaro.

grande al vincolo coniugale, mentre la famiglia legittima non si levava ancora in fiero antagonismo contro l'illegittima. La storia del Poggio, che visse lunghi anni in concubinato e poi divenne marito e padre affettuosissimo , se non badi alle diversit cronologiche, la storia
di m^lle suoi coetanei, popolani, letterati, principi. A Firenze l'uomo
conduceva in casa, da allevare, alla novella sposa il figlio avuto prima
del matrimonio da un'amante Ercole d'Este inviava in dono alla pro;

pria fidanzata (1472)

il

ritratto d'una sua figlia naturale dipinto da Co-

sm Tura. E intanto

gli umanisti fantasticavano. Nel 1416 Francesco


Barbaro, per le nozze di Lorenzo di Giovanni de' Medici, pubblic il
trattato De re uxoria, ove, movendo dalla scelta della moglie, con-

duce il lettore fino all'educazione dei figliuoli. All'esperienza, che naturalmente gli mancava, lo scrittore diciottenne suppl coli' erudizione
sua, del vecchio Zaccaria Trevisan e del suo maestro Guarino. Cicerone, Livio, Plutarco gli fornirono gran copia di considerazioni e d'esempi; Virgilio, Teocrito, Omero gli ornamenti poetici; e gran merc
se in mezzo a tanto classicismo pot trovar posto, timidamente, il racconto di due fatti avvenuti nella Venezia del Quattrocento (1,2). Non altramente adoperava pi tardi, fatta ragione alla diversit dell'intento, il
Campano nel trattato De dignitate matrimonii. Ma pi vivo senso del
reale mostr Guiniforte Barzizza, quando in una lunga lettera (1439) si
fece a riprovare l'amor libero, che non fosse puramente intellettuale,
e consigli il matrimonio, dando norme per l'elezione della compagna ed
enumerando con una certa modernit di concetti le qualit, ond'ella
vuol essere adorna.
Curioso guazzabuglio di astronomia, d'archeologia, di storia, di enotati
Altr
l
la e cm pi ne na pi ne metta, i Convivio, mecliolanensia del Fiiatin?
lelfo (1443) serbano ricordo di conversazioni, che avrebbero avuto
luogo tra commensali in casa di Giannantonio Rembaldi e di Erasmo
Trivulzio, e nelle quali all'autore parve veder rinnovata la greca consuetudine dei simposi. Quivi la monotona esposizione di sentenze e
di teoriche antiche ravvivata non pur dalle sferzate che tratto tratto
fischiano intorno ai nomi, a bella posta rammentati, di due emuli del Filelfo, il Poggio e il Decembrio, ma anche dal frequente alternarsi dei
numerosi interlocutori, dalle interruzioni di fanciulli cantanti le lodi

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.


di Filippo

Maria, e dalle musiche di trombettieri e

non

87

di flautisti.

Vivacit

puramente erudita di quei dialoghi. Gagliardo spira invece il soffio della realt moderna in qualche trattato di Enea Silvio e nei dialoghi del Poggio, componimenti tutti, dinanzi
tutta superficiale, che

a'

altera l'indole

quali s'attenua la severit del nostro giudizio.

Enea

che gi in iscritture teoretiche avea difeso via via la


descrisse in una lettera a Giovanni Aich
,
(1444) le miserie dei cortigiani con un realismo eli tratti e di colori,
che rammenta la pittura fattane un secolo dopo da messer Pietro Aretino. E in un dialogo, scritto nel 1453, immagin con dantesca fantasia
d'esser guidato pel regno dei morti da San Bernardino da Siena e finse
una serie di brevi e vive dissertazioni su vari argomenti, sulla caccia,
sui sogni, sulla caduta di Costantinopoli, sui poeti e va dicendo.
I dialoghi del Poggio, con quella loro filosofia alla buona, rifuggente
dalla gravit delle definizioni e poco rispettosa del principio d'autorit,
si tramutano spesso, poco spezzati come sono, in amabili conferenze.
Nel De nobilitate liber (1440) trovi sostenuta dal Niccoli contro Lorenzo de' Medici la teorica pi su ricordata, ma alla disputa si frammette un' arguta digressione sui costumi dei nobili nelle diverse regioni
d'Italia, che suscit le querele d'alcuni eruditi veneziani. Nei quattro
libri De varietate fortunae, che il Poggio si accinse a scrivere poco
dopo la morte di Martino V (1431) e comp e divulg nel 1448, enei
dialogo De infelicitate principttm (1440) suonano i consueti lamenti
sulla caducit delle cose umane e la stoica sentenza, che pone la felicit nella virt, non negli onori e nelle ricchezze. Ma la prima opera
s'apre con una descrizione accurata delle rovine di Roma ed accoglie
poi una serie di racconti atti a ravvalorare la tesi, desunti dalla storia
pi recente, sicch ti mette sottocchio dei ritratti vigorosamente sbozzati, come quelli di Braccio da Montone, di Paolo Guinigi e di Oddantonio da Montefeltro e, nell'ultimo libro, ti diletta colla storia dei viaggi
nell'India di Niccol de' Conti. Nel De infelici tate principimi troneggia, in tutta la sua vivezza sdegnosa e bisbetica, messer Niccol Niccoli e tesse di considerazioni storiche e di contumelie una rovente
requisitoria contro i principi, accusandoli soprattutto di trascurare le
lettere e disprezzar i letterati. Fiorito eli aneddoti scherzosi e non grave
di citazioni e di dottrina il dialogo De avaritia, il primo che il
Poggio pubblicasse (1428), nel quale Antonio Loschi difende l'avarizia
in quanto essa sia semplicemente desiderio di ammassar denaro, non
cura gelosa di custodirlo. Gi vecchio il Bracciolini scriveva Y Eistoria
disceptativa convivalis (1451) e il dialogo De miseria humanaeconditionis (1454): discussione, la prima, di tre questioni d'assai varia
importanza; ripetizione, l'altro, con pi desolato pessimismo, dei concetti svolti nel De varietate fortunae. Lo spirito degli anni giovanili
muore in una cotal prolissit e freddezza, non s per che non mandi
qualche scintilla in un vivace assalto contro i medici allietato da una
Silvio,

politica de' suoi protettori

satirica storiella (Hist. discept. conv. II) e nel ritratto,

sinistrament

dialoghi
Poggl

del

88

CAPITOLO TERZO.

colorito, del cardinal Angelotto (De miseria, in


la

vena

Opera,

p.

scritto del

monaci,

Ma

copiosa e pi libera, che in qualunque altro


nel dialogo Contro, hypocrisim (1447), dove egli

Poggio

sferza a sangue gli ecclesiastici d'ogni ordine, specialmente


cui carnevale era finito colla morte di Eugenio IV.

conoT

114).

satirica scorre pi

Contro

frati,

il

domenicani e minoriti, si appuntava di preferenza


che gli umanisti, avidi, a malgrado dello stoico teorizzare, di godere serenamente la vita senz'essere uggiti da prediche e
da riprensioni nutrivano contro
collitorti, i baciapile e tutta la genia degli ipocriti simulanti virt. Il santo zelo, che dai pulpiti folgorava contro gli studi classici, suscitava e rinfocolava quell'odio; la rozzezza dei costumi e delle vesti dei predicatori offriva di leggieri argomento alla satira ed alla irrisione. Dottrina e virt non hanno e
pretendono di farsi maestri agli altri; sotto specie di desiderare la solitudine si costruiscono conventi sontuosi, che, a conoscerli, appaiono
officine di delitti, non gi congregazioni di religiosi
nelle piazze, pei
trivii, mendicando, celano i vizi dell'animo sotto l'apparenza di modestia e di povert . Ecco le armi delle aggressioni umanistiche. Nel
1430 Alberto da Sarteano, frate minore, che il Guarino chiamava celeste -usignolo e per cui anche il Poggio affettava estimazione, aveva
dovuto sostenere per lettera una polemica coll'umanista da Terranuova
a difesa dell'ordine suo; pi tardi anche Leonardo Aretino men lo
staffile contro i frati in un libello Adversus hypocritas e con maggiore originalit ed acutezza di osservazioni li malmen il Valla,
quando, nel dialogo De professione religosorum (1442; sostenne che
dinanzi a Dio essi non sono in condizione privilegiata e li rimprover
per l'arroganza con cui si chiamavano religiosi, titolo che spetta ad
i

frati,

l'odio tenace,

ogni cristiano.
Trattati
volgari.

Tra

Dominici.

religiosi

che

il

Poggio accusa

Con quale ardore,

di ipocrisia frate

all'aprirsi del secolo, egli

si

Giovanni

studiasse di

porre un argine al dilagare della coltura classica, abbiamo veduto nel


N da quelle teorie si dipart, quando scrisse i
suoi trattati
didattico l'uno, pi propriamente ascetico l'altro. Cos

capitolo precedente.
di

Giovarmi
ommici,

ne |j a gQstanza come nella forma

contrappongono risolutamente ai
combatterli, s bene dai sacri testi e dalla pi austera morale cristiana desume
le norme, colle quali risponde a quattro questioni poste a lui da Bartolomea Obizzi negli Alberti come si debba usar dell'anima
come
del corpo consacrato a Dio; come dei beni temporali, e come si debbano
educar i figliuoli. Questo nel Governo di cura famigliare. Nel Libro
dell'amore di carit, pur dedicato alla Bartolomea, commenta ampiamente un passo di S. Paolo (ad Cor. I, 13), esaltando la carit, ci
l'amor di Dio, come impulso e come condimento d'ogni opera
di mano e d'ingegno. Schiettamente fiorentina la lingua di quelle
scritture; se non che il modello della prosa ascetica latina, sempre
presente alla memoria del buon frate, d allo stile una certa enfasi
trattati degli umanisti.

Non

essi si

dai classici, che ricorda sol per

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

89

e complessit. La forzata omissione del che abbuia talvolta il periodo


ansimanti per copia di complementi e per alcuna, bench ovvia, inversione si strascicano le proposizioni, coordinate in periodi semplici,
ed il linguaggio simbolico, proprio dei libri sacri, ammanta spesso di
solenne gravit i precetti santissimi.
Assai pi spedito scorre l'eloquio toscano nel Trattato d'una angelica cosa mostrata 'per una divotissima visione, che Giovanni Glierardi da Prato scrisse in persona di donna. Spirano mistico ardore le risposte con cui la veneranda matrona, inviata da Dio, risolve le tre questioni
proposte. L'atteggiamento della materia tutto dantesco, cos nell'insieme come nei particolari e di dantesche reminiscenze formicola la
;

Giovanni
da Prau0

prosa non meno che le preghiere in terzine, che le si inframmettono.


naturale: messer Giovanni da Prato, quello stesso che ebbe a disputar col Brunelleschi per la costruzione della cupola del Duomo, era
Imit, vedremo, la Comcon pubblico stipendio, la lesse
ai Fiorentini in santa Maria del Fiore, in una colle canzoni morali del
Poeta, dal 1417 al 1425. Mor pi che ottantenne fra il 1442 e il 46.
I trattati volgari, che gli autori scrivevano pi con intenti morali
che pensando a far opera letteraria, potevano incontrare il favore del
popolo e di coloro che dalle idee e dai sentimenti del popolo men si
scostassero. Gli uomini colti non potevano far buon viso n alla loro
umile veste
n alla materia desunta da' sacri testi. Solo un dotto che

frai pi zelanti fautori del culto dantesco.

media anche

in

un lungo poema

e,

conciliasse in s l'educazione classica coll'amore alla tradizione letteraria

paesana e non avesse a disdegno l'idioma materno, poteva far assorgere


a dignit d'opera d'arte il trattato volgare. Un dei primi a provarvisi
tu Matteo di Marco Palmieri.
Famiglia popolana di statuali, modestamente provvista di beni di fortuna era quella, onde nacque Matteo ai 13 di gennaio del 1406. Fautore dei Medici, egli prese viva parte agli affari pubblici dal 1432 sino
che fu nel 1475. Fu pi volte vicario in terre
a Firenze gonfaloniere di compagnia, priore e,
nel 1453, gonfaloniere di giustizia, ed ebbe incarico di onorevoli ambascerie ad Alfonso di Napoli ed ai pontefici. Dal pistoiese Sozomeno,
compagno al Poggio nelle ricerche costanziensi ed assennato bibliofilo,
impar ad amare le reliquie letterarie del mondo greco e romano nella
scuola del Marsuppini a trattare le eleganze della lingua latina, nella
quale scrisse pulitamente, in foggia umanistica, una vita del gran siniscalco Nicola Acciaiuoli, la storia della guerra pisana del 1406 e l'orazione funebre del Marsuppini. Della cronaca De temporibus e delX Ristoria fiorentina, compilazioni annalistiche in grosso latino, non
accade far menzione, se non per inferirne quella sua larghezza di idee,
alla quale dobbiamo pure la Vita civile.
questa un dialogo, che il Palmieri immagina abbia avuto luogo
in una villa del Mugello nel 1430, mentre a Firenze infieriva la pestilenza. Come nei dialoghi latini pur ora esaminati uno degli interlocutori

palmieri
(140& 147 ^
"

alla fine della sua vita,

del dominio fiorentino,

* a

90

CAPITOLO TERZO.

disserta sulle dottrine che l'autore accetta per vere e gli altri stanno
ad ascoltare, domandando tratto tratto qualche dichiarazione o comple-

mento

Vita civile Agnolo Pandolfini, fioragiona, presenti Matte stesso, Luigi

di quelle dottrine, cos nella

rentino onorevole e antico,

Guicciardini e Franco Sacchetti,


libro
lino

a formare un
proemio il primo

delle parti necessarie

ottimo cittadino di ben regolata repubblica.

ino' di

espone le norme d'una buona educazione, pigliando un fanciulnuovamente nato e conducendolo sino alla soglia della virilit;

secondo tratta della prudenza, della fortezza e della temperanza;


terzo della giustizia e dei modi ond'essa si pratica in guerra ed
in pace; il quarto infine dell'utile privato, cio dei matrimoni, delle
il
il

amicizie, della salute, delle ricchezze, e dell'utile pubblico, cui


gistrati

nando

devono provvedere, saggiamente governando


la citt

da Plutarco,

di belli

edifici

e di

maestosi apparati.

due pedagogisti antichi pi cari

rivano le massime del Palmieri,

il

al

lo

Da

stato ed

maor-

Quintiliano, e

Rinascimento, de-

quale nei tre ultimi libri

attiene

si

generale organamento del trattato De offciis e cos in essi come


nel primo spesso parafrasa o traduce i suoi modelli. Pur in mezzo a
fa d'uopo avvertirlo anche per rilevare il riscontro
tanto classicismo
traluce l'uomo pratico moderno, quando
con alcuni dialoghi latini
leggi suntuarie e le disapprova, sentenziando
il Palmieri allude alle
sia permessa nelle feste, nei pubblici giochi e ancora nelle casalinghe
onoranze ogni veste e portatura che si richieda alla qualit di chi
l'usa (I) o deplora con calde parole il costume delle milizie mercenarie (IV) o si attarda a parlare delle gravezze (III), argomento scottante per un fiorentino del Quattrocento pi che per un italiano di
questo scorcio di secolo. Anche nella Vita civile i dettami dei moralisti pagani hanno preso il posto di quelli predicati dal Vangelo
di Dio,
dell'anima immortale, di una vita futura vi si pispiglia appena; solo, in
sul chiudere, il Palmieri, per dichiarare qual premio s'aspetti all'operata virt, narra di Dante, che dopo la battaglia di Campaldino ebbe
da un amico, caduto nella mischia, contezza del luogo ove risiedono,
fatti immortali, i buoni governanti. Degno coronamento ad un libro tutto
vibrante d'amore per il gran padre Alighieri e nel quale accanto alle
reminiscenze oraziane e sallustiane fioriscono spontanee le remiscenze
al

Iella
e

Commedia.

Il

Palmieri stesso

ricalcher pi tardi in un

poema

tracce di questa.
Golia

Vita civile egli combatte con piena coscienza una battaglia


prima ancora che questo facesse sue prove nel

in favor del volgare

certame coronario. N al giovane animoso si risparmiarono biasimi.


Se non che per lo stesso cammino si avviava allora o s'era gi avviato un altro giovane ricco d'una coltura classica pi larga e pi fine
e d'ingegno pi agile e pi robusto, Leon Battista Alberti, che fu, come
sappiamo, l'ordinatore del certame.
Nel 1407, probabilmente a Genova, vide

^{U^my legittimo

di

Lorenzo

di

la luce l'Alberti, figlio il-

Benedetto. Pesava allora sulla sua casa, glo-

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.


riosa d'averi,

di credito

mercantile, di belle tradizioni

91
intellettuali

bando da Firenze oligarchica, il quale non


fu tolto se non nel 1428, ad istanza di papa Martino. Primo maestro
del giovinetto fu Gasparino Barzizza, il fervente ciceroniano, che l'ebbe
presso di s a Padova. Mortogli il padre (1421), Leon Battista pass
a Bologna per dar opera agli studi del diritto canonico e, seguendo le
di

democratiche memorie,

il

conoscenza del greco. Quivi il


amori e lo trasse a coltivare, oltre
agli studi letterari e giuridici, la musica, che impar senza maestro,
la pittura, la plastica e ad armeggiar coi problemi delle scienze mate-

lezioni del Filelfo, pot perfezionarsi nella

suo ingegno

si

aperse anche ad

altri

matiche. Era di costituzione piuttosto delicata,


gli

esercizi del corpo, dei quali

si

dilett

ma

a ritemprarla valsero

anche nell'et pi matura.

Quando dimorava a Firenze, soleva ogni giorno fare una passeggiata


Ano a S. Miniato e nei d piovosi sgranchirsi le membra al gioco della,
palla

cavalcava per

monti sotto

mentre nei primi suoi anni

l'assetto; saltava a piedi giunti

una

il

sole e al nevischio a capo scoperto-

soffriva persino

un uomo

freccia da forare le pi robuste


Tristi per malattie

e per

il

ad ascoltar messa in quela


con tal forza lanci a v

ritto e

corazze.

mal animo degli

esosi parenti corsero

compose appena
ventenne una commedia latina, che lasci vagare dieci anni anonima e
che fu tenuta opera di un Lepido, comico antico. Ei vi raffigurava s
stesso nel protagonista Philodoxus, anelante alle nozze con Boxa, giovinetta romana, contrastatagli dal rivale Fortunio, e voleva sotto il velo
allegorico dimostrare come l'uomo industre e studioso possa raggiunger
la gloria (*x) non meno del ricco e fortunato. A' casi suoi alluse anche
pi apertamente nel Pupillus, dove in vivissima prosa latina dipinse Filopono, giovane gracile ed amante degli studi, qual vittima della malvagit
dei congiunti. Non fallaci promesse di pi tranquilla e comoda esistenza
diede la fortuna all'Alberti, quando egli ottenne il po^to di abbreviatore
apostolico e divenne segretario di Biagio Molin, patriarca di Grado.
Nel 1432 era presso alla curia, della quale segu il pellegrinare sotto
Eugenio IV e non lasci il servizio, finch Paolo II non ebbe (1464)
con una generale provvisione abolito il collegio degli abbreviatoli. A
Roma stessa mor e fu sepolto ai primi d'aprile del 1472.
L'Alberti uno di quegli uomini universali, nei quali paiono assoni- Capattere e
marsi pi e varie individualit fra essi uno dei pochi in cui ciascuna gjjj^eu
di queste abbia un non comune rilievo, sicch giustamente altri vide
in lui come un presagio della grande e complessa figura di Leonardo.
Nel 1435 Leon Battista dedicava al Brunelleschi un trattato di pittura e gi prima avea scritto il De statua', pi tardi (1452) nei dieci
libri De re aedificatoria ed in alcun altro scritte rello. formul le leggi
della nuova architettura, desumendole dall'osservazione e dalle misurazioni degli edifici romani. Nella trattazione di codeste materie recava
non pure le sue cognizioni tecniche, ma anche la soda coltura matematica, ond'ebbe nascimento anche l'operetta Ludi mathematic, cuall'Alberti gli anni in cui fu a studio a Bologna. Quivi

riosa raccolta di problemi risolti e di osservazioni fisiche e geodetiche,

02

CAPITOLO TERZO.

fu soltanto

un

teorico:

il

tentativo,

pescare un'antica nave affondata nel lago


perizia nella meccanica pratica, ed

pi citt d'Italia gli consacrano

non del tutto fallito, di ridi Nemi, attesta della sua

una bella serie

di edifz sparsi in

battesimo di architetto elegantissimo,


se non sempre corretto. Dalla facciata del palazzo Rucellai a Firenze
sorride ancora il suo genio festoso e sereno; il sant'Andrea di Mantova,
il

immagin, ma non vide compiuto, e l'esterno del S. Francesco


Rimini parlano della romana grandiosit delle sue concezioni; e la
facciata di S. Maria Novella, dove la purezza classica delle linee si disposa al tipo caro all'architettura toscana del medio evo, fa presentire
il connubio tra l'umanista e lo scrittore devoto alla tradizione lettech'egli
di

raria fiorentina.

Umanista
P

iaiinc

ci

si

rivela l'Alberti in

un gruppo

di

scritture

latine

rc

nelle quali per lo pi rinnov fogge e sali lucianeschi.

Nel Rinascimento l'umorista di Samosata ebbe fortuna il Guarino,


il Poggio ed altri ancora ne tradussero alcuni opuscoli; lo
imitarono Maffeo Vegio, il cui Palinurus fu ascritto a Luciano stesso;
pi tardi Pandolfo Collenuccio e il Pontano. Piaceva all'et scettica
piaceva agli scrittori celare la
il sogghigno frizzante di quell'antico;
sferza fustigante debolezze e vizi umani sotto il velo di bizzarre al:

l'Aurispa,

legorie e di fantasie vivaci.

Per l'appunto

satiriche sono tutte quelle scritture albe rtiane; dia-

Virtus e fu pure creduta un dialogo lucianesco tradotto in latino da Carlo Marsuppini, quella in cui la Virt narra
le sue peripezie a Mercurio. Fortuna l'ha cacciata dagli Elisi, n valsero
a difenderla le proteste di Platone, di Socrate e di Cicerone essa ha

logate le pi.

Si intitola

chiesto asilo a Giove,

cevuta. Gli

ma

aspetta da

dice Mercurio, che

un mese senza poter essere

anche

il

Tonante ha paura

ri-

della For-

tuna; non che dalla terra, la Virt esclusa dal cielo. Il Nummus
narra una breve novella come gli antichi sacerdoti chiedessero all'oracolo d'Apollo qual divinit avessero a venerar sopra tutte e come
:

nume rispondesse designando e facendo apparir sul suo altare una


moneta, che i sacerdoti giurarono subito di tener sempre in conto di
sommo Dio. E fino ad oggi conchiude fieramente satirico l' Alberti
nessun sacerdote fu trovato spergiuro. Lungo dialogo fra due morti
il Defunctus. Quivi Neofrono racconta all'amico il turpe contegno
della donna che fu sua moglie e lo strazio, che ha veduto fare agli
eredi, delle sue sostanze, de' suoi libri, del suo museo, delle opere, che
era venuto faticosamente scrivendo. Codesti opuscoli fanno parte, tutti

il

e tre. delle Inter'coenales

che

l'Alberti

scrisse

alla

spicciolata

da

quando era studente a Bologna fin verso il 1440. Alla fine del secolo
se ne conoscevano dieci libri; oggi appena tre e qualche frammento;
in tutto diciassette intercenali. D fattura lucianesca

dove par che

pure

il

Momus,

autore siasi proposto di satireggiare sotto un' allegoria mitologica i mali portamenti del cardinal Vitelleschi adombrato
nel protagonista; laddove secondo le chiare e pi semplici impostature
1'

LA.

predilette dal

LETTERATURA ORIGINALE

Poggio

si

atteggiano

93

IN PROSA.

le riprensioni della

corruzione e

Pontifex composto nel 1437.


impostature cominciarono a venir a grado

dell'ingordigia dei prelati nel dialogo

Da quel tempo siffatte


anche all'Alberti ed egli vi si attenne nelle opere volgari; non in tutto
per, ch la prima, il Teogenio, dedicata a Leonello d'Este circa il 1442,
ma scritta certo molti anni innanzi (1434?), ha colle lntercenali simiglianze non lievi: i nomi degli interlocutori, fittizi e significativi a
chi sappia di greco; la velatura dei racconti; l'intento didattico e insieme satirico. Nel Teogenio, il principal personaggio, dal quale il dia-

logo prende nome, ammaestra Microtiro, con un esempio recente e con


molti antichi, a disprezzare i beni mondani, che un colpo di fortuna
pu disperdere, e conchiude che l'uomo deve esser sempre rassegnato

argomento non

e pronto al dolore e dal pensiero della morte trarre


di cruccio,

ma

di allegrezza.

L'Alberti s'era gi prima addestrato a maneggiar

vendo alcune cosucce

in

il

volgare, scri-

rima e prosette boccaccesche per materia e

per forma. Col Teogenio entr in pi nobile arringo e si tir addosso


i
rimbrotti dei barbassori, che giudicavano offesa la maest letteraria
perch'egli non avesse trattato materia s eloquente in lingua latina .
Non si sgoment Leon Battista e nel 1437 o 38 stese sollecitamente
i

l'

Il quarto venne poi, nel 1441, colIn codesto dialogo, meritamente famoso, gli
presentano coi loro nomi reali e nella loro genuina

tre primi libri della Famiglia.

occasione del certame.

interlocutori vi

si

personalit storica. Sono congiunti dell'Alberti, convenuti con Battista


stesso e col fratello suo Carlo a Padova, nel 1421, presso al letto di

Lorenzo malato a morte.


per

Si parla delle

cure che

dell'educazione morale ed intellettuale,

padri devono avere

vizi che si devono specialmente sradicare dai giovinetti; si ragiona del matrimonio
e dei modi in cui acquistar e conservar le ricchezze e procurare la
prosperit della famiglia. Indi Giannozzo Alberti insegna a' giovani
presenti come debbano far masserizia dell' anima: amando la virt
e fuggendo i viziosi; del corpo: addestrandolo a piacevoli e temperati,
esercizi e guardandolo dalle cose nocive; e del tempo: impiegandolo
sempre in utili pratiche. Il quarto libro, che per l'argomento e per
la forma si rivela, qual , appiccicato ai precedenti, tratta con grave
i

figli,

elei

copia di erudizione delle amicizie, e delle vie, per cui

si

stringono e

si

mantengono. Anche nella Famiglia, come negli altri dialoghi dell'Alberti, come nei dialoghi latini coetanei, gran parte delle dottrine derivano da fonti classiche: Cicerone, Senofonte, Quintiliano, Plutarco. Ma
la

mente larga

dello scrittore se le assimila e le feconda d'osservazioni

suggerite dalla vita fiorentina del tempo. Cos, agli esempi classici
associano, sapientemente sfruttati, aneddoti moderni.

si

Poi che il certame coronario del 1441 fall, Battista quasi a sfogare e lenire il suo dispetto scrisse (1442) un trattato Della tranquillit dell'animo, a dialogo anch'esso, tutto contesto di savie massime
e- di consigli contro le perturbazioni, alle quali l'animo umano sot-

^ag

dell 'Aiber

94

CAPITOLO TERZO.

toposto per

rovesci di fortuna e l'invidia dei malevoli.

generali, che quivi sono esposti,

si

I pensamenti
consertano poi colle dottrine sul reg-

gimento della famiglia e con alcune nuove considerazioni, stemperandosi


alquanto in una loquacit che sa di senile, nell'ultima opera dell'Alberti, i tre libri De icarchia (1470). Il titolo stesso, che viene a dire
governo della casa (oUtxpzx), ne lascia intravedere il concetto principale: la rassomiglianza tra la famiglia e lo stato, l'ima e l'altro bi-

sognosi d'un capo,

ma

quella fondata sull'amore, questo spesso sull'odio,

quella sorretta dalla fede e dalla benignit, questo in bala alle vicende
della fortuna.
.amorale
li'

Alberti,

^a filosofa, che l'Alberti professa, non si raccoglie in un ben organato sistema; anzi una serie di precetti morali, esposti senza un
meditato coordinamento, alla buona, quasi domesticamente. Negli scritti
giovenili, le Inlercenali e il Teogenio, un desolato pessimismo domina
la concezione delle umane sorti. L'uomo fin dalle fasce destinato al
pianto; la natura lo minaccia di continuo e lo annichila per mille vie
il tentar di resisterle, il lavorare per toccar una mata di agiatezza e
;

di gloria,
p.
i

vano quaggi (Opp. inecl.


una fatalit inflessibile regge
onde all'uomo non resta se non abbandonarsi all'ilo scrivere,

lo studiare,

tutto

179). Gli di sono sordi alle preghiere;

nostri destini,

nerzia assoluta nella solitudine della Tebaide. Ma questo pessimismo


si attenua e dilegua via via che le condizioni di vita dell'Alberti si

fanno migliori, ed egli si foggia un ideale di felicit, che non tanto


suo proprio, quanto del suo tempo, e che si riassume nella frase: tranquillit e quiete d'animo lieto, libero e contento di s stesso {Icarchia, p. 87).

viene quindi

turba

Misura del valor morale degli affetti e delle azioni diloro sufficienza al raggiungimento di questo fine. L'ira

la

la quiete,

ma

e perci devi frenarla;

se

non

ti

riesce, lasciala

prorompere in iscatti violenti e in vendette; non covar rancori, che


avvelenan la vita. Fuggi i pericoli di danni morali e materiali; perparente malato di morbo contagioso ceda air utile
aremo vi medici, chiameremo speziali, non mancheranno gli
astanti, ma noi provvederemo alla sanit nostra {Fam., p. 176). A codesta dottrina si informa anche il concetto, che l'Alberti mostra d'avere
della virt: lieta, graziosa ed amena, sempre ti contenta, mai ti
fino la piet del

tuo:

grata e utile . (Fam., p. 37). Egli vede


di vantaggi terreni, ch la rassegnazione ai voleri di Dio genera tranquillit; l'amore e l'osservanza delle
cose divine mirabile freno a molti vizi le azioni che piacciono a Dio
duole,

mai

ti

sazia,

ogni

nella religione stessa

d pi

t'

una fonte

recano all'uomo come uso


{Famiglia, p. 192). Accanto

di perfetta virt,
alle alte vette

cos frutto di felicit

vaneggiano

precipizi: per-

giova accontentarsi del poco ed in


tutte le cose appagarsi del giusto mezzo, della mediocrit, amica
della quiete, vincolo della pace, nutrice della felice tranquillit dell'ai
ci, teorizza

u sonso
iVTiberti.

insistente l'Alberti,

nimo nostro e beato riposo in tutta la vita {Iciarchia, p. 11).


Coli' amore per tutto ci eh' mite, sereno, tranquillo, si collega

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

95

una fortunata abilit naturale a provar godimento d'ogni


manifestazione del bello. Si rallegra dei giorni aerosi e puri, dei colli
fr onditi, dei piani verzosi, delle fonti e dei rivoli chiari, che scorrono saltellando e perdendosi frale chiome dell'erba (Fam. p.287). La vista d'un
vecchio venerando lo riempie di diletto; l'agilit elegante delle linee e la
nell'Alberti

solidit della costruzione,

che ammira in

S.

Maria del Fiore,

il

tepore e la

onde
Lodava

tranquillit dell'aria, la soavit degli odori e la dolcezza de' suoni,

in quella chiesa gioisce, gli strappano accenti quasi commossi.

vaghezza dei bellissimi nomi, ch i brutti sono odiosi e atti a disonestare la dignit di qualunque virtuoso. Il cavalcare, il danzare, l'andar per via voleva fatti con molta modestia giunta con leggiadria e
aria signorile , ma senza affettazione, con arte molto castigata al tutto,
che nulla ivi paia fatto con escogitato artificio, ma creda chi vede, che
questa laude in te sia dono innato dalla natura (Iciarchia, pp. 73-74.
la definizione, che della grazia dar quasi un secolo dopo il pi compito cavaliere del Rinascimento (Cortegiano, I, 26).
Il Palmieri colla Vita civile e l'Alberti coi dialoghi volgari crearono La prosa
a prosa dottrinale italiana del Quattrocento. Scarsi modelli ne avea
p^^fe
redato quel secolo dal precedente. Il solo grande, il Convivio, era assa dell'Alberti,
poco noto; e poi ostica dovea riuscirne la materia, ostico il procedimento
a

tutto scolastico della trattazione. All'idioma volgare, aspirante a dignit


letteraria, era d'uopo, tutti lo riconoscevano, porgesse aiuto

il

latino

buono toscano , disse


Cristoforo Landino, prendendo a spiegare il Canzoniere del Petrarca
nello Studio a Firenze. Ecco quindi i men colti rimpinzar con pedan

necessario esser latino

chi

vuol essere

tesca goffaggine, le loro scritture di parole, di

costrutti e perfino

di

forme grammaticali latine; esempio insigne la prosetta, che ser Domenico da Prato prepose a' suoi versi. Ma guardiamoci dal giudicare da
siffatte

aberrazioni isolate di tutta la prosa letteraria del 400. Se osser-

vate la fonologia ed

il

lessico,

il

Palmieri quasi del tutto

immune da

ne ha l'Alberti, massime nel quarto della Famiglia


e nella Tranquillit dell'animo, le due opere scritte nel fervor delle
dispute pr e contro il volgare, quando questo per ammansar gli avversari doveva essere pi docile a tollerare la tirannia del latino. In
compenso l'Alberti usa con maggior franchezza modi e locuzioni di
lingua parlata ed pi corrivo nella scelta dei vocaboli che il Palmieri
latinismi; pi assai

non

sia.

La lingua

antica

derna loquela prima

come

passa la mogenerale non ne passa

lo staccio, attraverso cu4

di adagiarsi nei libri, e in

se non quella parte che abbia o sembri avere un immediato corrispondente etimologico nella lingua dei classici, mentre lo staccio non lascia
cadere se

non pochi o punti

dei suoi filamenti.

Per

l'Alberti esso

ha

larghe maglie.

Lo

stile del

Palmieri rivela l'influsso del latino in una certa sua


ma il complesso organamento d'alcuni periodi

freddezza e regolarit,

gravi

eli

proposizioni incidenti e complementari e la tendenza alla tra-

sposizione delle parole

non valgono ad allontanarlo eccessivamente nel

90

CAPITOLO TIvRZO.

suo insieme dalla semplice andatura italiana. Le rimane pi fedele


l'Alberti, nella maggior parto delle suo opere, tant' vero che il terzo
libro della

tempo

Famiglia pot

salvarsi dall'ingiusta condanna, che per lungo

seppell nell'oblio la prosa quattrocentista, e

quantunque alterato
ebbe lodi di trecentistico candore, mentre correva le scuole
ascritto ad Agnolo Pandolfini. Soltanto la Tranquillit dell" animo ed
il
quarto della Famiglia vogliono essere eccettuati anche qui, poich
10 scrittore, con ispensierati ardimenti, vi congiunge non di rado in
e guasto,

istrani garbugli la complessit del

periodare latino colle scapestrerie

dell'idioma parlato. In conclusione lo stile dell'Alberti tanto pi vivo

ed efficace
11

quello del Palmieri quanto pi popolaresco e

di

piace di

men

grande architetto
ricorrere talora ad immagini e paragoni desunti dalle

materiale linguistico,

gurative
parole di

(p.

es.

un

di cui egli si serve. Il

Tranquillit

effetto mirabile e

com-

arti fi-

p. 93); sa trovar locuzioni e


rappresenta scene della vita con di-

dell''an.
ti

lindo
si

sinvoltura ed evidenza da scrittore provetto. I bambini

(Fam.

p.

50),

V ozioso [Iciarchia, p. 29-30), l'incontro di Ricciardo col fratello Lorenzo


morente, sono quadretti indimenticabili.
Alla dotta prosa del secolo XVI pi adulta, pi matura, pi solenne che quella dell'Alberti e del Palmieri, osiamo appena rimproverare il continuo latineggiar delle sue costruzioni; tanto ne ammiriamo
la squisita, anzi talvolta artificiosa architettura. Ora perch non perrari nantes in gurgite vasto
doneremo pochi latinismi di parola
alla prosa quattrocentista, almeno in grazia della sua andatura assai
pi semplice e della sua pi schietta italianit?

i/eiolu

vedemmo, e
sorgere del trattato filosofico in lingua volgare. Diverse furono di necessit le vicende dell'oratoria per pi assidui conI

pregiudizi degli umanisti classicizzanti ritardarono,

contrastarono

il

che essa ha colla vita,


Era costume a Firenze che alcuni pubblici officiali tenessero dilianzi alla Signoria in determinate occasioni un discorso: il capitano
del popolo quando assumeva o deponeva l'ufficio o quando vi era raf-

tatti,

i/eioquenza
in volcare.

fermo; uno dei gonfalonieri di compagnia od uno dei buonuomini o il


podest ad ogni entrata di nuovi signori, e in questa stessa congiuncos
tura ancora il capitano del popolo, che rispondeva al protesto
del
buonuomo
o
del
gonfaloniere,
del
chiamavano quell'orazione
podest. Aggiungi le occasioni straordinarie: venute di ambasciatori,
presentazione del bastone del comando a -condottieri stipendiati, e non
alle prove dell'eloti parr ristretto l'arringo, che Firenze apriva

quenza. Dell'eloquenza volgare, che

signori, di fresco usciti dai fon-

dachi e dalle officine, non avrebbero inteso il ladino, n il pi delle


volte gli oratori stessi avrebbero saputo admpiere al loro obbligo altrimenti che nel materno sermone. Non sempre i gonfalonieri di comi buonuomini si addimandavano Matteo Palmieri, Donato AeGiannozzo Manetti, n sempre era capitano del popolo uno
Stefano Porcari

pagnia o
riamoli,

LA.

97

LETTERATURA. ORIGINALE IN PROSA.

Quest'uomo cui

il

culto delle

memorie

classiche e

il

classico ideale

redato da Cola avrebbero condotto al capestro, tenne quell'ufficio a Firenze nel 1427 e nel 28 e pronunci allora le sadici concioni, che col
suo nome occorrono s spesso nei testi a penna. Se egli le abbia anche scritte o se piuttosto non se le sia fatte comporre da Buonaccorso da Montemagno, mi pare questione non risoluta. Forse, dovendo parlare a' Fiorentini, stim prudente non correre il rischio di
farsi proverbiare per il suo triste linguaggio e di tr pregio alle sudate erudizioni de' suoi discorsi. I quali sono elogi sperticati di Firenze e dei Fiorentini ed oziose esercitazioni sull'amor patrio, sulle
virt che giovano alle repubbliche e sui mercenari, dei quali sostiene
l'utilit.

Aristotile, Livio, Virgilio, le sacre

carte, pi

rone, forniscono la materia e gli ornati, n da quelle

di tutti Ciceguide fidate il

Porcari osa scostarsi un momento.


Meno variati che le orazioni del capitano erano i protesti, perch
immutabile li stringeva in un modello a tutti comune definitema
il
zione della giustizia, considerazioni teoretiche sulla giustizia, esempi
classici, che mostrassero i vantaggi sociali dell'osservanza e i danni
della trascuranza della giustizia, esortazioni ai rettori a praticar la
giustizia. I pi dotti si studiavano invano di rompere quelle strettoie
e di rianimare quello scheletro colla novit delle citazioni; i popo:

lani di scarsa coltura si acconciavano placidamente allo schema e


con soporifera monotonia ripetevano le solite citazioni e i soliti esempi.
Bono di Giovanni Boni, che, quando fu de' Buonuomini nel 1445, seppe
dire un'orazione semplice e libera da tanto peso erudito, costituisce una
cara eccezione; ma si rifece nel 1461, quando fu eletto gonfaloniere di
compagnia. Che se guardiamo allo stile di codeste prose oratorie ed
alla lingua, possiamo ripetere immutate le osservazioni fatte, non ha
guari, per la prosa dottrinale. Se Leonardo Bruni, quando consegnava

bastone di capitano al Piccinino (1433) o rispondeva a nome della


Signoria agli ambasciatori del re di Aragona, se il Porcari, il Manetti,
il Palmieri, latineggiavano poco
e, ricercando il numerus, trattavano

il

saviamente le costruzioni men piane, invece i popolani inesperti vo-*


lendo montare in trampoli largheggiavano, come vedemmo aver fatto
ser

Domenico da Prato,

di latinismi e spesso si

smarrivano per

mean-

dri di tentati periodi artificiosi.

Tale l'eloquenza volgare di parata. Ma con semplice andatura,


senza presuntuosi ornamenti scorreva invece la prosa dalle labbra degli oratori, quando ordiva trattati fra le potenze o persuadeva nei condelle repubbliche. Non aveva certo intenzioni letvecchio doge di Venezia Tommaso Mocenigo, quando nel 1421
ton contro il partito capitanato da Francesco Foscari, che voleva la
lega con Firenze e la guerra col Visconti; eppure in quel suo discorso,

sigli dei principi e

terarie

il

tutto fondato su considerazioni pratiche, assurgente a

ad una
\

terribile, quasi biblica,

quando a quando

solennit e martellante, alla conchiusione

d'ogni paragone, colla semplice. frase: Cos interverr a noi, se faRossi. La lett. ital. nel sec. XV.
7

L'eloquenza
00

gar*."

93

CAPITOLO TERZO.

remo

quenza
r/eioguenza
?itlna?

modo

Procurato? giovane
che non ha pari nel secolo

del

politica,

Campo

lasci

un esempio

di

elo-

XV.

dunque la politica all'oratoria latina.


Roma, dovunque innanzi ai pontefici, e l dove fossero
convenuti personaggi di varie nazioni non tutti periti dell'italiano, un
bello e sonante discorso nella lingua di Cicerone iniziava degnamente
I ]l

assai ristretto lasciava

copte di

trattative imminenti o suggellava quelle compiute, salutava l'elezione


d'un pontefice o l'arrivo d'un principe, esponeva maestosamente generiche proteste di devozione. Ma altrove codesta stessa eloquenza esornativa doveva servirsi, come a Firenze, del volgare. Gran fama di
oratore acquist Giannozzo Manetti (1396-1459), dottissimo uomo e fe-

condo scrittore

in filosofia e in teologia,

anni dei ritrovi, dove in santo Spirito

frequentatore ne' suoi giovani


continuavano la istruttive

si

conversazioni cominciate dal Marsili, e discepolo del Traversari in greco


e in latino. Prima che le eccessive gravezze, da cui era stato colpito,
costringessero ad esular da Firenze (1453), tenne in patria impor-

Lo

e fu

tanti uffici pubblici

Venezia, a
i

Ho

jj

mandato ambasciatore a Siena, a Rimini, a

Napoli. Dicono che quando egli rec ad Alfonso

rallegramenti dei Fiorentini per le nozze del principe Ferdinando,

re

oratore.

Roma, a

non movesse

la

mano a

cacciar le mosche, che gli

si

il

erano posate

sul viso, prima che il Manetti avesse finito di parlare. Ora certo
che codesto insigne oratore pronunci in volgare la maggior parte de'
suoi discorsi, che venivano tradotti per essere divulgati.
II solo che largamente trattasse l'eloquenza politica latina fu Pio II.
Al concilio di Basilea e nella cancelleria del re dei Romani, come ambasciatore di straniere nazioni in Italia, cme vescovo, come papa, egli
ebbe infinite occasioni di tener discorsi latini di considerevole importanza pratica. N a lui facevano difetto le qualit dell'oratore. Maestro nell'arte di accordare parole
frasi e periodi in armonie varie e
carezzevoli, e perito nel moderare la vacua amplificazione rettorica
con acconce citazioni d' autori classici e sacri e con lunghi tratti sto:

rici,

ei

sapeva

niva fatto

ci

che

larva d'un ragionamento, cui la confutazione

dava

l'aria di inoppugnabile.

cessi oratori, ai quali

non vecon almeno la

ai pi fra gli oratori suoi coetanei

rafforzare la solita partitura dei discorsi

Quindi

di

presupposte obbiezioni
fuggevoli suc-

suoi grandi e

dovevano anche conferire

la bella presenza, la

voce chiara e sonante e l'umanistica grazia del porgere. Quando poi


egli perorava la causa della crociata contro i Turchi, la sua parola acquistava calore dalla convinzione che amor eli gloria, forse pi che
sentimento religioso, gli alimentava nel cuore. La grande orazione teanche l rison
nuta da lui nel congresso di Mantova del 1459
parve per un
l'idioma volgare sulle labbra di Francesco Sforza

momento scuotere
L'eloquenza

"m

"

il torpore e chetar le discordie dei principi.


Cacciata dal genere deliberativo, l'eloquenza latina si ritir, come
nella sua cittadella, nel genere dimostrativo. Abbondano le orazioni

funebri, le orazioni per

il

cominciamento delle let<u"e nelle Uni ver-

LA LETTERATURA ORIGINALE
-sit,

le orazioni

Quivi

per lauree, per l'elezione


parolaia; suona

trionfa" la retto rica

delle idee,

e le digressioni,

99

IN PROSA.
di
iJ

vescovi e

va

p3riodo tra

immaginate a sfoggio

di

il

dicendo.
silenzio

erudizione,

tol-

gono d'imbarazzo V umanista battagliante coll'aridit del soggetto. raro


il caso che di mezzo agli elogi sorga, abilmente tratteggiata, la figura
accade nei discorsi funebri del Poggio; in
di un trapassato. Questo
quelli del Manetti, certo no. Il Filelfo all'incontro, commemorando Francesco Sforza e Bianca Visconti, narra minutamente la storia di quello
e della giovinezza di Galeazzo Maria. Buona occasione a mostrarsi aveva
l'eloquenza latina anche nelle nozze. L'oratore leggeva le lodi e disputava sull'origine del matrimonio; indi esaltava gli sposi e le loro
il
suo dire, di solito breve, compiendo la cerimonia giuridicamente essenziale, cio rivolgendo ai fidanzati le sacramentali domande, che pi tardi il Concilio di Trento volle pronunciate dal parroco.
L'oratoria giudiziale era in bala degli avvocati e nei tribunali si L eloquenza
.soleva disputare, piuttosto che per via di discorsi, a botta e risposta, giudiziale.
Or come potevano gli umanisti rinunciare ad emular Cicerone in codesto genere, nel quale egli avea colto gli allori pi gloriosi? Nelle cinque
ultime verrine si presentava loro un esempio d'orazioni giudiziarie non
pronunciate e lo imitarono. Il metodo e l'ardore delle fiere requisitorie lanciate contro l'avido propretore rivissero nelle invettive, colle L e invettive,
quali gli umanisti del Quattrocento traevano gli avversari dinanzi al
.giudizio del pubblico. Erano le armi di quei gladiatori nelle contese letterarie. Sconfinatamente ambiziosi e vani, non sapevano tollerare opposizioni: una tenue osservazione, un dispettuccio qualunque
bastava a suscitare un grande litigio, a cui prendevano parte gli amici
da ambe le parti e davano esca gelosie di mestiere e chiacchiere di
maligni. Ci sono gi note le invettive contro il Niccoli, le due che il
Poggio lanci dietro al Filelfo, il quale aggrediva e rispondeva nelle satire e nei dialoghi, e la lunga polemica del Poggio col Valla. Una terza
invettiva il Poggio scrisse contro il Filelfo, quando questi era gi a
Milano. Ma quante altre contese di tal fatta in quel secolo turbolento!
Con pi o men d'acrimonia e di fiele combatterono, di nuovo il Poggio
con Tommaso Moroni da Rieti, di nuovo il Filelfo con Pier Candido
Decembrio, con Lodrisio Crivelli, con Galeotto Marzio da Narni; Pier
Candido col Panormita e col Guarino; il Fazio col Valla, Antonio da
Rho col Panormita
Dopo un lungo palleggio di contumelie, di solito
facevano pace nell'apparenza od almeno si chetavano continuando a
punzecchiarsi a vicenda nelle lettere agli amici.
Cicerone avea rivangato la vita di Verre. Cos gli umanisti solevano, nelle invettive, prendere a narrare fin dall'infanzia le vicende
dell'avversario, mescolando al vero menzogne, fngendo casi ed azioni
infamanti, accumulando le pi atroci calunnie, n si peritavano di inzaccherare persino i pi sacri affetti famigliari. 11 Panormita, sappiamo,
apparteneva a nobile e ricco casato; ma il Decembrio lo diceva figlio
famiglie e chiudeva

>

100

CAPITOLO TERZO.

un macellaio e di una fornaio, e destinato a fare il mercante di


Che cosa non sapeva del Filelf il Poggio? che aveva dovuto
fuggir da Padova per le sue turpitudini; che aveva compensato il

di

buoi.

Crisolora dell'ospitalit seducendogli la figlia; che faceva mercato della


moglie; che aveva rubato libri e denari a Leonardo Giustiniani e cinque tazze d'argento ad un frate. Il Filelfo dava in cambio ugual mo-

neta: accusava Poggio bambalone di parricidio (Sat.

tava di lui e
li

di

monna Vaggia

del volgo (Conv. medio!.,

gli

oscenit orribili,

II).

Cos, a sentire

V,

6),

raccon-

e ne diceva
il

Poggio,

figli,

Tommaso

Moroni era giunto all'ufficio di segretario pontifcio (1436 o 37) attraverso ad una carriera di scelleratezze e di brutture, che mi guarder dal narrare. Era una gara a chi le dicesse pi grosse. Che le
fossero vere, nessuno credeva, neppure chi le sballava. Tanto, erano
di vendetta ed una bella occasione a scrivere qualche parobusto latino.

uno sfogo
gina

moc e ^ 0 ciceroniano si allontanano in alcuna parte le invettive


contro il Valla. L'erudito toscano, maligno
Poggio
ed ine<moso
00
o
o o
uomo, non si accontenta dei consueti racconti e degli improperi vol-

Le invettive
dei Poggio del
contro

di

il

'

vaila,

gari,

ma

vuole spargere a piene mani

la fine della

-,

prima invettiva

gli

il

ridicolo sull'avversario.

decreta un

trionfo e

lo

Verso

rappresenta

coronato d'alloro e di salsiccia, superbo su di un carro fatto d'ossa di


gigante e tirato da elefanti, in mezzo ad un corteo simbolico satireggiante la burbanza dell' eroe. Pi truce invenzione si distende
per la seconda e la terza invettiva: il Valla, come colpevole d'eresia,
per sentenza di Eaco e di Radamanto tratto vivo all'Inferno
ma i
demoni, brava gente in fondo e eli giudizio, pensano di rimandarlo nel
mondo a trattare i loro affari e a guadagnar anime; il Valla, giurata
fedelt a Satana, torna sulla terra e adempie al dover suo con santo
zelo, mentre i demoni gli innalzano laggi un monumento come a
loro benemerito commilitone. Quivi l'eco lontana di popolaresche leggende; per lo contrario la quarta invettiva segue assai dappresso la
;

prima parte dell' Apolwlo^yntosis di Seneca. Il Valla, altero di certi


suoi versi, vorrebbe esser ammesso in Parnaso, ma gli tocca quel che
a Claudio, voglioso d'esser annoverato fra i celesti. Dopo aver sostenuto un esame, nella cui narrazione il Poggio si sbizzarrisce in parodie ed in aspre aggressioni, l'umanista romano, coronato di budella di
pecora, posto sull'asinelio d'un Sileno, colla faccia rivolta alla coda,

nemico l'arma di
una pungente invenzione. Nei due dialoghi introdusse, con lucianesca
trovata, lo stalliere ecl il cuoco del Guarino a rilevar gli errori elio
Poggio aveva commesso nelle sue lettere al Niccoli.
Le invettive erano arma anche di lotte politiche. Il lettore rammenta quelle del Loschi e del Salutati nella guerra tra il Marzocco e
contro
il Biscione; qui gliene cito un'altra rovente, scritta dal Poggio
L'antipapa Felice V (1447). Pi curioso si che quelle forme e quei
modi, che noi non possiamo leggere senza provare un senso di pre ricondotto in terra.

6
po'iitichr

Anche

il

Valla us contro

il

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

101

umanisti volgessero talvolta contro personaggi antiTrapezunzio con Platone; cos, nel 1435, aveva fatto
il Poggio con Cesare. Egli ne tess la vita, rappresentandolo ambizioso,
libidinoso, ladro, protettor di malvagi traditore della repubblica, parricida della lingua latina e delle buone arti; degno di lode solo per le
imprese militari, magnifiche, bench dannose alla patria. Tutto questo
in un'epistola al ferrarese Scipione Mainenti, grande ammiratore del
suo omonimo romano, nella quale Scipione era invece giudicato uomo,
cittadino, capitano eccellente. Il Guarino, per soddisfazione di Leonello
caldo amatore di Cesare, si fece a confutarlo con un ardore e un'acrimonia, che poco manc non tramutassero in polemica personale una
controversia da storici sfaccendati. Il Poggio, per ventura, non ci si lasci prendere; difese ancora la sua tesi nella Defensiuncula, ma deplor che il suo contradittore portasse tanto fiele in un'esercitazione
d'ingegno. Men d'un anno dopo, il Barbaro componeva interamente
f melo disgusto, gli

chi. Cos fece

il

Polemica

doppione!

il

dissidio.

Esercizio d'ingegno disse il Poggio la disputa. Ed ma vi ebbero La po iitit cs


de
8]\.
di libert che o
gli umanisti fiorentini afa fare pur anche quell'amor
1
umanisti.
fetta vano sempre, e il guelfismo, che, ricevuto in eredit dai padri, essi
avevano trasformato secondo suggerivano le condizioni d'un tempo, in
cui veramente nome vano era divenuto per l'Italia l'impero, nonch la
loro nuova concezione della storia romana. La maest dell'impero, che
:

guelfi italiani

mente

avevano sempre

rispettata,

si

impiccolisce dinanzi alla

che riprovano come barbaro l' uso moderno


del nome imperator e guardano in aria tra di scherno e di compatimento alla cerimonia dell'incoronazione, costumanza, dicevano, barbarica
cominciata con Carlo Magno (Poggio, Epist., V, 6; Bruni, Epist., YI, 9).
Al medio evo aveva sorriso l'ideale di Roma imperiale; al rinascimento
di

quegli

eruditi

sorride, l'ideale di

di

lettere,

Roma

repubblica, dell'urbe fiorente di libert, d'armi

non ancora sconvolta

dai delitti di Cesare, n fatta de-

Neronh II cominciamento dell'impero segnava il principio della decadenza. Ma come a Ferrara il Guarino difendeva Cesare, cos a Milano Pier Candido, ossequente alla
tradizione ghibellina dei Visconti, gli dava la palma fra i condottieri
antichi. Per tal via l'antagonismo politico si rifletteva nella letteratura;
per tal via e, pi, per ci che gli umanisti fiorentini esaltavano la loro
patria come nido e rocca della libert e da Milano sonavano ancora le
vecchie maldicenze contro i nepoti dei coloni di Siila. Veda il lettore,
serta dagli Antonini, dai Tiberii, dai

se gli piacciono siffatti mascheramenti d'interessi e di gelosie tutt'altro che classici, la Lauclatio urbis florentinae che il Bruni scriveva
allo spuntar del secolo, e il Le laudibus urbis mediolanensium che
,

contrapponeva il Decembrio (1437), l'uno e l'altro coll'intento


rinnovare l'eloquenza panegirica di Aristide e di Isocrate.

le

Le

di

solenni orazioni dei dotti, tutte fronzoli e ricercate eleganze,

fossero volgari o latine, riuscivano forse a conquidere


gli uditori

ed a provocare espansioni subitanee

di

gli intelletti

ammirazione:

de-

efftti

i/cioquenza
sacra
*

102

CAPITOLO TERZO.

pratici

non ottennero mai. Ad altri pi modesti oratori era riserbato d


cuori con la semplice efficacia e la calda convinzione della

scuotere

parola e con

la

virt della vita sacra alia carit.

predicatori di penitenza

frati

Quando uno

minori solitamente

di

quei

gingeva

in

una citt, si accalcavano per ascoltarlo sulla piazza dinanzi alla chiesa
uomini e donne, fanciulli e vecchi, ricchi e poveri, a migliaia; e spesso
quella

folla, soggiogata dallo ammonizioni, prorompeva in singhiozzi di


pentimento e in grida di Ges, misericordia ; peccatori indurati
si ravvedevano; le discordie si acquetavano
si restituiva il mal tolto;
molti si rendevano a Dio nei conventi; ardevan su grandi roghi tavole
da giuoco, libri d'incanti e sfoggiati ornamenti muliebri. Finita la pre;

il popolo, come affascinato, seguiva il frate nella citt vicina,


ancora ascoltarlo. Ci pareva essere tutti santi, avendo buona
devozione , scrive un cronista, riassumendo in questa frase pittoresca
l'impressione d'un quaresimale di Bernardino da Siena.
Il sentimento religioso, gi lo abbiamo notato, non s'era peranco cosi
affievolito nelle moltitudini, che non potesse a quando a quando risorgere;
anzi quanto meno attivo esso era divenuto nella pratica ordinaria della,
vita, quanto pi umano e meno resto a conciliarsi cogli interessi terreni,
tanto pi vigoroso prorompeva in iscatti incomposti, se alcuno sapeva far
rigermogliare nelle memorie il ricordo ancor fresco di tempi, in cui la
religione dominava con pi assiduo potere la civil comunanza. Gli

dicazione,

avido

di

umanisti,

quali

prendevano norma

al giudizio delle

risultamenti attuali, lodavano quei poveri fraticelli,

l'impressione delle prediche


fatto

commovevano

sostanza.

Il

si

Guarino andava in
il

visibilio
eia

analizzar

esteriorit

che nel

per l'eleganza

Sarteano;

il

azioni dai

nell'

cuori solo perch connaturate in un

del suo discepolo frate Alberto

trina teologica e

fermavano a quelle

umane

ma

tutto colia

e l'erudizione

Filelfo esaltava la dot-

dire ornato di fra Roberto da Lecce,

ma

deplorava

non sapesse accomodare al soggetto il gesto e la voce; in Bernardino da Siena il Fazio ammirava la copia e la veemenza della, pach'ei

rola, la pronuncia varia e piacevole, la forza e la resistenza della vocePi addentro penetra il giudizio del Poggio, ma parzialissimo, specchio dell'uomo portato da natura alla maldicenza e fieramente avverso
ai Minori. Egli nega perfino gli effetti morali della loro predicazione
e li accusa di trattare materie recondite e oscure in tal forma che il
volgo non riesce ad intenderle [De avaritia, in Opera, p. 3 sg.). Strana
Che anzi lor merito fu il parlare alla dimestica, di coso
asserzione
intimamente legate colla realt o piuttosto della realt stessa, conformandosi all'intelligenza e all'istruzione dello turbe, che volevano am!

nostro dire sia inteso. Sai come? Dirlo


chiarozo, chiarozo, acci che chi ode ne vada contento e illuminato o
non imbarbagliato , sentenziava san Bernardino (Preci. III).

maestrare. Elli bisogna che

san
Dernar

ino

(io-Hii).

il

Di questo grande oratore sacro, che nato nel 1380, a Massa Marittima in quel di Siena, dalla famiglia Albizzeschi, esercit con zelojnfaticato, dal 1405 fino alla sua morte (1444), V apostolato religioso o

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

103

Toscana, nell'Umbria, a Roma, in Lombardia, nella Venezia,


sono a stampa, fra altro, le prediche ch'egli tenne a Siena sulla Piazza
del Campo nel 1427, e che furono raccolte con una specie di stenografa
dalla sua viva voce. Come il gallo che va per lo fango, il qual va
coll'ale assettate e in alto, in su, per non imbrattarsi (pred. XX),
cos egli si aggira intrepidamente, solo ammorzando con leggiera velatura la crudezza di certe frasi, nel brago dei peccati, onde pi erano
brutte le popolazioni al suo tempo. Tuona contro l'avarizia, la maldicenza,
il mal costume, lo spergiuro, i giochi di sorte, e mentre si studia di
suscitare negli ascoltatori l'orrore del vizio, d le norme del vivere,
esorta all'onest i mercadanti, alla clemenza ed alla giustizia i reggitori, alle elemosine i ricchi, alla pace, al culto della religione e alla
sana educazione dei figliuoli le famiglie. Il pensiero della dannazione
aleggia nello sfondo; ma pi insistente e pi chiaro
lo not a buon
martella il ricordo dei mali che persedritto Jacopo Burckhardt
guitano il peccatore pur sulla terra. L' Albizzeschi come i suoi confratelli, comincia sempre il suo dire con una sentenza d'un testo sacro,
della quale la predica come un'ampia dichiarazione ed un'illustrazione.
Talvolta pi prediche sono collegaie ua'idextit della sentenza e quindi
dall'affinit del soggetto, com' delle sei (XV1-XXI) sull'amore del prossimo. Il discorso si stende poi per una ftta rete di distinzioni e suddistinzioni alla foggia scolastica, che l'oratore rimpolpa colla sua eloquenza abbondante e piana e colle lunghe digressioni, dopo le quali
torna al tema con quel suo prediletto A casa !. La prolissit, con cui
Bernardino gira e rigira intorno ad un concetto e lo ripete pi e pi
volte magari colle stesse parole, quel continuo procedere a domande
e risposte e quel troppo dinoccolato argomentare uggiscono il lettore
moderno: ma lo ricreano ben di frequente le immagini e i paragoni
tratti dalla realt, le novelluzze e gli apologhi narrati colla pi graziosa semplicit, che immaginar si possa, e con sapida arguzia e alcuni
tratti, nei quali par fiammeggi ancora il fuoco della parola parlata. Qua
vi imbatiete nella favola del lupo e della volpe (pred. XIII), che Luigi
Pulci ridir pi tardi nel suo poema; pi oltre vi si presenta succinta
la novella boccaccesca di Ghino di Tacco (pred. XXII); altrove vi fanno
ridere le melensaggini d'uomini di grossa pasta (pred. XXIII) o vi
richiama a gravi pensieri sulle umane contradizioni la novella con cui
il mite francescano, tutto carit, predica l'esterminio degli incantatori
e delle streghe (pred. XXXX). In alcuni luoghi, per esempio nella
fantastica rappresentazione del castigo del fuoco con cui Dio punirebbe
anche una volta in terra i peccatori contro natura, sono tocchi si vigorosamente efficaci, pur nella loro ingenuit, che non meraviglia,
se ne rimanevano profondamente commossi uditori nei quali la fede
sonnecchiante era ancor pronta a ridestarsi ad ogni pi lieve scossa.
E il predicatore dice tutto nel suo bel volgare senese limpido e vivace, in proposizioni brevi e semplici, raccozzate, qualche volta, in semplicissimi periodi; senz'ombra di pretensioni erudite, se togli le citacivile in

104

CAPITOLO TKRZO.

zioni,

media

non troppo

copiose, di testi sacri. Testo sacro era

XXIII, XXXIV).
predicatori popolari rappresenta

anche

la

Com-

dell'Alighieri (Prediche

L'eloquenza dei
tivo dell'arte, anzi

mirando ad

altro,

il

lo

stadio

naturai manifestarsi di facolt oratorie,

raggiungono

gli effetti e

danno

le

primiquali,

talvolta alla parola

atteggiamenti dell'arte. Da essa per dritta linea e continua e per via


da simiglianze sostanziali o formali si ascende
grado grado all'arte fin troppo matura, di che fanno pompa gli umanisti nelle loro orazioni latine. Del pari nella storiografia come una
scala di specie varie, che dalle togate narrazioni nella lingua di Livio
dichina fino agli umili ricordi personali e famigliari, profondamente

gli

di rappicchi, risultanti

dissimili

per ogni rispetto da quelle,

.,

ma

pure a loro congiunte dalle

specie intermedie. Cos pure dalla novella di forma popolareggiante


sale attraverso alle narrazioni foggiate

alla boccaccesca fino alia

si

no-

vella latina. Della prosa narrativa, storica e novellistica, sar parola nel
capitolo seguente.

CAPITOLO QUARTO

I*a lettera trurai originale in prosa.


La

storia e la novella.

Le storie Firenze del Bruni e del Poggio. La vita


Ciriaco Pizzicolli d'Ancona.. Imitatori del Biondo.
Commentarli del Porcellio e del Bruni. Le cronache
come storiografo.
Pio
Paolo Morelli, Buoe le ricordanze pamigliari. Alamanno Rinuccini, Giovanni
Goro Dati, Giovanni Sercambi, Marino Sanudo, Bernardino Corio ed
naccorso
Le Storie di Giovanni Cavalcanti. Le biografie. Giannantonio CamFazio,
Platina e Vespasiano da
Decembrio,
pano, Giannozzo ed Antonio Manetti,
biografi di Dante, del Petrarca e del Boccaccio. La prosa ascetica.
Feo Belcari. Le novelle. Le novelle del Fazio e del Bruni. La Storia di
Sermini Masuccio Salernitano, Sabbadino
Adue amanti d'Enea
La Deifira di L. B. Alberti e epistole amorose. Paradiso degli AlJacopo Caviceo. Novelle spicciolate
Peregrino
berti di Giovanni da Prato.
Buonaccorso di Lapo Giovanni, di Giadel Grasso legnaiuolo, del Bianco Alfani;
Liber Facetiarum del Poggio. Le Bufcoppo. La novella di Luigi Pulci.

La storiografia umanistica.

e le opere di Flavio Biondo.

II

di

Pitti,

altri.

il

il

il

Bisticci.

Silvio.

Il

delli

le

rienti.

Il

di

Il

di

11

fonerie del Gonnella e

Via via che

gii

le

Facezie del piovano Arlotto.

umanisti rimettevano di quella sdegnosa noncuprimo fervore


i propri tempi nel

ranza, con che avevano riguardato

della restaurazione classica, spuntava, gi lo abbiamo accennato, e

radicava nella loro mente la persuasione, che

fatti stessi dei

si

Romani

e dei Greci ritraessero buona parte della maest, onde apparivano gloriosi, dall'arte degli

scrittori.

Come dovesse per

ci

grandeggiare

il

con-

cetto della storiografa e della sua missione e aver rincalzo l'idea dianzi

negletta della storica dignit,

e spezzati,

ma

non

chi

non veda. Ai racconti

quasi sempre, fossero latini o volgari,

pieni di

semplici
vita e

sentimento del tempo, dei nostri vecchi cronisti, sottentrarono


narrazioni pompose e continuate, alle quali il modello Liviano, gi caro nel
secolo XIV al Mussato e al Ferreto, offriva corredo di frasi, di fogge
e di atteggiamenti oratori. Pi di rado, da Sallustio veniva agli scrittori vaghezza di considerazioni morali. Sparvero dalie storie o si occultarono vergognosi nello svolazzo d'una frase quei particolari pittoreschi,
che tingono i fatti del colorito dei tempi e dei luoghi, e la precisione minuta delle determinazioni cronologiche e topografiche and smarrita nelle
ampie ondate dello stile sollevantisi con grave lentezza, ritmicamente la
storia. Anche come la morale, volle essere palestra di eloquenza ed assurse a maturit d'arte in grazia di fregi esteriori, piuttosto che per via
spiranti

il

Caratteri

^J^*

t(

maoistica,

^UO

CAPITOLO QUARTO.

dogli accorgimenti, pei quali, disposta bellamente la materia


e rappresentata con fedele efficacia la realt dei passato, una narrazione
storica entra veramente nel dominio dell'arte. Gli umanisti pensavano
di

render cosi alla storia la sua importanza morale e di rifarla, quale la


aveva vantata Cicerone, maestra della vita, esortatrice di egrege azioni
ed ammonitrice ai fortunati della caducit delle umane cose. N s'avvedevano, vittime anche una volta della loro letteraria illusione, di scemarlo invece il valore educativo, affievolendo i vincoli spirituali di

relazione tra

il racconto e la vita narrata.


scriver le storie di fatti
recenti o contemporanei veniva loro conforto dalla bramosia di gloria
terrena, che allora ferveva non soltanto nei letterati, ma anche nei

condottieri, nei principi e nelle repubbliche. L'aveva

desta quel riaffermarsi poderoso della coscienza umana, che contraddistingue il Rinascimento e che, vedemmo, provocava il sorgere di una coscienza

mal rispondente alla realt obbiettiva la foRomani; n valeva a raffreddarla la religione

personale, troppo spesso

mentava l'esempio

dei

un

cristiano di vivere nella mesperanza della vita celeste.


v * s ^ ^ l uan onori fosse prodiga a Leonardo Bruni la SigTioria di Firenze, quando egli ebbe compiuto nel 1416 il primo libro
della sua Historia fiorentina. Nel 1439 ne aveva scritti nove libri e
quella provvisione fu confermata ed estesa in perpetuo a tutti i suoi discendenti. L'opera, per la quale la citt fondata dai coloni di Siila ebbe

predicante dover poco importare ad

moria dei

posteri, se a lui arrideva la


'

La mstoria
tiorcntina di
1

Bruni

idnie

aufefi).

il

ultimi
come un sacro

suo Livio, fu conservata,

cedenti solo nel 1449

gli

libri si

accompagnarono

deposito, nel palazzo del

ai

pre-

Comune

Donato Acciaiuoli di tradurla in volgare.


Bruni comincia dalle romane origini di Firenze, reiette le fole

e la Signoria stessa incaric


Il

dei cronisti medievali; indi, mediante,

il racconto, calcato su
Livio,
vecchia Etruria, s'apre facilmente la
strada a discorrere mettendosi a' panni d'Orosio e di Paolo Diacono,
delle invasioni barbariche fino agli Unni. Da Orosio viene a lui ed ha

delle relazioni di

Roma

colla

corso fra gli umanisti la concezione democratica del cesarismo. Con rapido riassunto toccando del dominio dei Goti, dei Longobardi e dei Franchi

morte

Federigo IL
che si stende
fino alla morte di Gian Galeazzo Viil Bruni segue dappresso il Villani, solo
di
di rado arricchendo il racconto col sussidio di alcun documento
composti
in
pi
ordinandolo
abbrevi,
lo
ove
non
solito abbreviandolo e,
atteggiamenti. Tuttavia 1' assetto annalistico non va scomparendo se
non negli ultimi libri, dove quella fonte vien meno e la narrazione
e delle calate degli imperatori tedeschi, giunge alla

ha principio veramente,
per oltre un secolo e mezzo
sconti (1402). Per buon tratto
Di l

di

col secondo libro, la storia,

si

ampia ed originale. L'ultimo libro comprende un periodo di


il decimo uno di due: sono i tempi delle guerre viscontee,
quali soccorrevano allo scrittore ricordi personali e pur anche

fa pi

soli

tre anni;

per

le

ic

carte della cancelleria, cui presiedeva.

vole e

non molto frondoso, ma

fatti

Dovunque

lo stile

scorre-

narrati dal Bruni, perdono gran

107

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

parto di ci che hanno di pi caratteristico. I Fiorentini non bandiscono Toste per andare in terra di nemici , ma classicamente bellum indicunt , che cosa ben diversa, e par abbiano dimenticato le
loro costumanze guerresche, quella, per esempio, di correr palli e guar-

dane sotto

alle

mura

assediate, ch

non s'ode parlar

se

non

trincee, di fosse e dell'altre operazioni militari in uso presso

di torri, di
i

Romani.

naturale; a dir certe coso la storia perdeva della sua dignit


il
Poggio ed il Fazio non si stancarono di ripeterlo in sul proposito delsicch era meglio tacerle o velarle
Y Ristorici Ferdnand del Valla

vaga significazione d'una parola latina. D'altro canto il Bruni


non si lascia sfuggire mai l'occasione d'inserire nel racconto lunghi discorsi, principal ornamento di quelle storie umanistiche. Essi mirano per
10 pi a render ragione degli avvenimenti ed a mostrarne le cause e lo
sotto la

connessioni,

ma

quegli sproloqui, architettati coll'archipenzolo della ret-

toria, sulle labbra di un Farinata, di Gian della Bella, degli ambasciatori


mercanti, rassomigliano a superbi fiori di serra posati su cespugli silvestri.

compatto organamento che non abbia, specie ne' primi libri, La mstora
presenta 1'. Eistoria fiorentina del Poggio, che narra ^{'^i"?
in otto libri le guerre combattute dai fiorentini dal 1350 alla pace di (1350-1455).
Lodi (1454-55). Degli interni rivolgimenti, ai quali l'Aretino avea pur con^
sacrato in pi luoghi molte pagine, il Poggio non dice verbo anzi salta a
pi pari i dieci- anni di pace, che- corsero dalla morte di Ladislao alla
prima guerra con Filippo Maria non isfoggia ornamenti rettorie!, e se gli
si offre occasione di interrompere con una solenne orazione il racconto,
non sempre ne approfitta. Par quasi che gli tardi di arrivare alla fine.
La storia fu Y ultima opera del Poggio. La scrisse negli anni
doveri di questa lo obbligavano
in cui tenne la cancelleria, quando
a vincere la sua ripugnanza ad occuparsi d'affari politici. Anche GeTacop o
nova ebbe in un umanista, cancelliere della repubblica dal 1411 al 1466, Bracellu
dico di Jacopo Bracelli che narr in cinque libri
11 suo storiografo
con ispirito di patria carit e con buona perizia nel raggruppamento
dei fatti, la guerra tra Alfonso d'Aragona e i Genovesi. Invece il successore del Poggio nell'ufficio di palagio, Benedetto Accolti, si propose Benedetto
Accoltl
di provvedere alla gloria di guerrieri medievali, ch'ei giudicava non
Pi.

la storia del Bruni,

inferiori agli antichi, ritessendo in quattro libri la storia della

prima

crociata sull'ordito offertogli dai vecchi cronisti, specie da Guglielmo arcivescovo di Tiro. Anche sotto la penna dell'Accolti il racconto pati-

avvertimmo nella storia del Bruni, menqua e l s'adorna delle orazioni


Boemondo, di Goffredo e di Solimano.

sce quella decolorazione, che


tre

assume eleganza

perfettamente tornite

spigliata di stile e
di

Opera pi vasta di tutte codeste concep e con tutt/ altri criteri


condusse a compimento Flavio Biondo della famiglia Ravaldini da
Forl. Nato nel 1388, a trentaquattro anni era a Milano ambasciatore della
sua citt e trascriveva il Brutus di Cicerone di sull'arduo testo pur allora scoperto. Nel 1423, esule per le lotte di parte, ripar, dopo qualche peregrinazione, a Venezia e si concili il favore di queli'aristrocrazia,

FJ*
U38s-i4G3).

108

CAPITOLO QUARTO.

massime

Francesco Barbaro, che, pretore a Vicenza, lo volle suo seIl medesimo ufficio tenne poi a Padova presso Francesco
Barbarigo (1420) ed a B rescia (1427). Anche lui accolse pochi anni
dopo (1432) la curia, e fu notaio della camera apostolica, segretario e
scrittore. Eugenio, cui garbavano il mite carattere e la dottrina delumanista forlivese, non gli lesin le sue grazie. E questi ebbe agio
di

gretario (1425).

'

e, nei soggiorni fiorentini

della corte papale, incitamenti ed aiuti a


scrivere le sue Iiistoriarum ab nclinatione Romcinorum decades.
Il Biondo pone il cominciamento della decadenza dell'impero ai tempi
Onorio e di Arcadio, precisamente all'anno 412, in cui, dice erroneamente, i Goti di Alarico occuparono Roma, e poich l'oscurit avvolge
da quel momento le vicende d'Italia, gli par prezzo dell'opera narrarle
ordinatamente. La prima deca arriva fino alla guerra di Pipino contro
Astolfo re dei Longobardi (752) la seconda sino alla morte di Gian Galeazzo Visconti (1402), e la terza, lasciata una lacuna di dieci anni, muove
dall'uccisione di Giovanni Maria e conduce la narrazione sino alla chiusura del concilio fiorentino (1439). I fatti successivi fino all'ingresso
di Alfonso d'Aragona a Napoli, occupavano altri due libri; ma il secondo pare perduto, sicch il racconto della battaglia d'Anghiari (1440)
e delle guerre napoletane, che precedettero a quel conquisto, pone fine
alla grande opera del Biondo. La quale non fu composta secondo
l'ordine de' tempi studiati, ma scritta e pubblicata a frammenti spicciolati ed in parte a ritroso. Dapprima abbracciava pochi anni a partire dalla
morte di Martino V, quattro libri nel maggio del 1 442 i libri erano
diventati undici, la terza deca e il primo della quarta; segu, a Dreve
intervallo, l'ultimo, ora smarrito, mentre il Biondo gi poneva mano
a colorire l'ampio disegno lungamente vagheggiato e in pochi mesi
scriveva i primi otto libri della prima deca (giugno 1442 - maggio 1443).
Questa e la seconda erano anch'esse compiute nel 1453.
Nel titolo e nella partizione evidente 1' efficacia del modello Liviano, ma nel racconto non nulla della liviana maest, che gli altri
umanisti si studiarono d'emulare. Il Biondo non rifugge dal riferire
particolari di scarsa importanza e dall'indicare con precisione scrupolosa luoghi e tempi ed inoltre assai trasandato nello stile. Se anch'egli introduce le consuete orazioni, non le aggrava per di rettorica
inopportuna: si vedano, ad esempio, le poche parole, che fa pronunciare al Piccinino prima della battaglia d'Anghiari (p. 573). Nel complesso l'arte storica del Biondo ha un non so che di rozzo e di inconspecialmente per quella mancanza
medievale
dito, diciamo pure di

di

di

proporzione fra

le parti, nella

quale

si

rispecchia,

come confessa

egli

stesso, la diversit delle sorgive cui attingeva.

Alla terza deca

ricordi dell'autore e de' suoi amici ed

Biondo descrisse con

insolita vivezza la

fuga

di

racconti

Quando per es. il


Eugenio IV da Roma,

di testimoni offersero notizie abbondanti e sicure.

stava dinanzi alla mente uno spettacolo, che aveva osservato Coi
suoi occhi (p. 481 sgg.). Diverso fu di necessit il suo procedere nelle
gli

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

109

deche precedenti, nelle quali meglio appare il carattere della sua stoCon grande fatica egli ricerc e lesse molti libri per prepararsi al lavoro e se ne serv spesso con quella servile fedelt, che
suole avvincere i cronisti del medio evo ai loro predecessori. Il rimaneggiamento di Procopio fatto dal Bruni in gran parte trascritto alla lettera; cos Paolo Diacono per la storia dei Longobardi. In generale
Forl oculato nella scelta delle fonti e sa acutamente
x umanista di
distinguere le pi dalle meno autorevoli, tenendo conto della loro
maggiore o minore antichit, dei motivi, che potevano indur lo scrittore a torcere il vero e delle ragioni per le quali i narratori avevano ad essere pi o meno bene informati. Fa grande stima delle
storie contemporanee agli avvenimenti e. soprattutto delle lettere dei
personaggi pi cospicui, che riferisce spesso testualmente cita le sue
fonti e ne paragona le attestazioni, risolvendosi pensatamente per l'una
o per l'altra; a compiere e correggere gli scrittori ricorre a monumenti artistici, come l dove invoca, per cogliere in fallo Procopio, un
mosaico della chiesa ravennate di S. Martino in Ciel d'oro (p. 44)..
Ma nelle sue ricostruzioni non sempre felice tutt'altro Confonde
nomi e fatti sconvolge la cronologia ha concelti falsi siili' et e
sugli autori delle cronache, onde si giova. E per giunta le sue citazioni sono spesso oscure e mal definite, talvolta, per una millanteria,
cui bisogna usar indulgenza, di seconda mano. Ci non di meno innegabile che il Biondo ebbe per primo coscienza del metodo, con cui
le fonti storiche vogliono essere ponderate e sfruttate, coscienza, che
le circostanze e, pi, la frettolosa composizione del libro gli tolsero di
rendere pienamente profittevole. Similmente egli per primo, intese
l'importanza del mdio evo e elei rivolgimento operato dalle invasioni
barbariche e sent i caratteri di quell'et come contrapposti a' caratteri del mondo classico. In sul principio delle deche combatte coloro
che ponevano il prinallude evidentemente a Leonardo Bruni
cipio della decadenza romana al tempo di Cesare e sostiene che anche
la traslazione della sede imperiale a Bisanzio confer a provocarla
solo come causa remota. Ma la scarsa riflessione gli impedisce di render feconda l'intuizione geniale, e come non affronta il problema delle
cause di quella decadenza, se non l dove fuggevolmente ne addita
riografia.

una

delle pi efficaci nella discordia tra l'imperatore orientale e l'oc-

non

cura

poderosa sua racmedio evo e di studiare il modificarsi delle istituzioni e delle idee. Non assorge ad una
concezione larga dello spirito dei fatti, che quanto dire non scende all'analisi della fortunata impressione, che questi hanno prociotto su lui.
Nel Biondo costante la cura della precisione e della chiarezza,
cidentale

(p.

166), cos

si

di trarre dalla

colta di fatti la rappresentazione dei caratteri del

enei' ch'egli si

trova a litigare colla latini tas, cio coll'eleganza e la pu-

rezza della lingua. Il significato di alcune parole cos mutato, che


teme, se user i vocaboli antichi corrispondenti ai nuovi, di riuscire

oscuro perfino a s

stesso,-

e d'altro canto, se chiamer le cose coi loro

110

CAPITOLO QUARTO.

nomi volgari, addio venust di composizione e di dettato Perci


ad una via di mezzo: non rinuncia a circoscrivere o tradurre
!

classica
le

concetti moderni,

bnmhardae

fusioni,

non

si

e per

ma

si

attiene

in foggia

lascia clic sotto ai castelli assediati tuonino

fiumi corrano

perita di chiamare

galeones

e,

se v'ha luogo a con-

capitami generale s

suoi condottieri.

Pi insistente e pi pericoloso alla chiarezza il contrasto, quando si


tratti di nomi locali tanto, che il Biondo, preludendo alla terza deca, p;nc
sottocchio al lettore una specie di ragguaglio dei moderni agli antichi,
Quivi come l'indice di un'opera che egli compose tra il 1448 e il 51
;

opere
linorl -

e pubblic sotto

il

nome

d'Italia illustrata.

ciotto regioni; di ciascuna sono indicati


le

La

penisola vi divisa in di-

confini, esposte

sommariamente

vicende, annoverate le principali citt e ricordati gli uomini pi famosi

nelle lettere, nelle arti e nella politica.


storica,

che

di inesattezze e di abbagli, a

opera mezzo geografica e mezzo

giudicarne oggi, fra tanti avanpreziosa ai coetanei del forlivese

studi, non ha penuria, ma


ampia dottrina e d'osservazioni dirette. Di Roma, che vi trascurata, l'autore avea gi largamente trattato nella Roma instaurala,
che, scritta fra il 1445 e il 46, dedic ad Eugenio IV. Quivi si studi,

zamenti degli

e frutto di

col sussidio dei classici e delle iscrizioni, di ricostruire l'antica topografia

man mano che dei ruderi e degli


scomparsi riandava le alterne fortune. L'intento del libro non
dissimile da quello dell'Italia illustrata: fornire un aiuto alla lettura e
dell'urbe e la ragguagli alla moderna,
edifici

mezzo le barbare e false appellazioni,


ed ignoranti bruttavano ed infamavano gli antichi edifici
superstiti. Cos egli avvinceva pi saldamente la Roma dei Cesari alla
all'intelligenza delle storie e tr di

colle quali dotti

Roma dei papi, la Roma temuta da tutto il mondo per la forza delle sue
armi alla Roma venerabile a tutto il mondo pei benefci della religione.
Poich ad Eugenio successe Niccol V, la buona stella del Biondo
s'annebbi. Forse al pontefice, che, tutto intento a dar cristiana attuazione al suo gran sogno umanistico, permetteva si facesse calce delle
antiche rovine, sonavano incresciose le lodi, che l'erudito forlivese avea
promossi restauri o non piaceva un
tributato al predecessore di lui per
uomo animato da tanto zelo archeologico, quanto attestava la Roma instaurata, e d'altro canto non sufficiente alle traduzioni predilette, perch
ignaro del greco; oppure, ch' pi probabile, nocque al Biondo la malignit di colleghi furbi e prepotenti. Fatto sta che cadde in disgrazia
e, lasciata la curia, and pellegrinando pi anni in traccia d'un collocamento, che liberasse lui e la famiglia sua numerosa dalle strettezze e
dai disagi. Nel 1452 era a Napoli, dove pronunci un discorso in onore
di Federico III venuto col per accoglier la sposa Leonora di Portogallo.
L'anno dopo, riconciliatosi con Niccol V, torn a Roma. L'assunzione
alla tiara del Piccolomini rinnov per lui i bei tempi di Eugenio IV.
i

Roma iriiimphans, l'ultima opera del Biondo.


con linguaggio caldo d'ammirazione, degli antichi Romani, che fecero
cos chiarisce e stempera forse inconsciamente
una frase famosa di Rutilio Namaziano
cittadini di una sola citt

Pio II dedicata la

Nel prologo

egli parla,

LA LETTERATURA ORIGINALE

Ili

IN. PROSA.

popoli lontani e diversi per lingua, per letteratura e per costumi,

enuncia

proposito suo, che di presentar ai lettori l'urbe

il

quale

vederla, in

desider

trionfo,

Agostino.

S.

ed

fiorente

Indi tratta,

in

dieci lunghi libri, delle antichit pubbliche e private, rinfrancandola, sua

esposizione di citazioni classiche accuratamente raccolte

non senza alcun richiamo


i Ludi apollinares alle

alle

e raffrontate,

consuetudini moderne, come l dove collega

feste

che

si

facevano nel secolo XV, ultimo


Il decimo libro descrive i

baldorie carnevalesche, nel circo agonale.


trionfi

romani

e,

manifestamente alludendo

guerra contro

alla sperata

chiude coll'augurio, che la nuova Roma ne veda presto


tra le sue mura altri maggiori e pi degni. Acconcia conchiusione ad
un trattato, dal quale l'autore levava la mano, mentre il suo signore
perorava, nel congresso di Mantova, la causa della Crociata. Quattro
i

Turchi,

si

anni dopo, nel 1463, il Biondo morivav.a Roma.


Le sue scritture archeologiche vennero a raccogliere, ad ampliare
ed a compiere studi, a cui gi altri s'erano accinti con disegni men larghi ed intenti pi modesti. Precorrendo alla Roma instaurata, il Poggio
aveva descritto alcuni monumenti della citt eterna in sul principio del
De varetate fortunae, e l'Alberti, forse poco dopo il 1432, aveva compilato una Descriptio urbis Romae pi con occhio di matematico che

St udi

ne[7ec

ap_
e

xv

di scienziato. Un altro segretario pontificio, il fiorentino Andrea Fiocchi,


aveva composto, almeno quindici anni prima che il Biondo mettesse
mano alla Roma trumphans, un libro De romanis magistratibus, che
fu spesso ascritto a torto a Fenestella, anch'egli ponendo talvolta a riscontro le antiche istituzioni religiose colle moderne. Dei trionfi e delle
antichit militari aveva pur discorso in una speciale operetta Giovanni
Marcanova, medico veneziano. Cos alla conoscenza del mondo romano re-

cava" valido sussidio l'archeologia, forte dei nuovi procedimenti scientifici.

Mentre
...

il

Biondo attendeva

tilui,

piu giovane di

ai suoi lavori,

un anconitano,

trascriveva bellamente

zioni latine greche egizie, schizzava sul suo taccuino

"tenone e delle

mura

di

Micene, misurava

anni
......

tre

caratteri antichi iscriil

profilo del

Par-

massi delle costruzioni ciclo-

piche, raccoglieva cammei, sculture, libri e di siffatta sua attivit

menava

vanto con aria tra ingenua e ciarlatanesca. Curioso tipo codesto Ciriaco
Comincia a navigar giovanissimo coll'avo mercante, ma
de' Pizzicolli
il fascino dei monumenti antichi, che gli vengono sott'occhio nel reame
di Napoli, in Grecia e nell'Istria, gli fa presto dimenticare i conti e
i registri; impara quasi senza maestro il latino (1421-22) ed a Costantinopoli s'impratichisce nel greco; viaggia pi volte per le isole dell'arcipelago, in Macedonia, in Tracia; nel 1435 visita le piramidi d'Egitto,
!

sempre e dovunque intento, com'ei diceva, a risuscitare

morti; offre

IV (1441) ed
alcuni anni dopo spiega gli storici greci e latini a Maometto II, signore
di Costantinopoli;- n da quel suo febbrile vagabondaggio rista, se non
servigi di ambasciatore nelle parti orientali ad Eugenio

per posare il capo nel sepolcro, a Cremona, intorno al 1455. I suoi


amici lo esaltano in versi ed in prosa e lo proclamano superiore a

Ciriaco Pizzicoin dAn(1391-1455).

112

CAPITOLO QUARTO.

Demostene e a Cicerone nell'eloquenza, a Omero ed a Virgilio corno


poeta, ad Apollo e a Fidia come pittore e scultore'. Sono razzi, che si
risolvono in una grossa canzonatura, ma che forse non ispiacciono a
lui, vago, com', di grosso ostentazioni di dotti-ina. Pure quest'uomo,
che aveva della lingua latina e della greca solo una superficiale pra-

ticacela e scriveva quella senza garbo,

con esuberanza di grecismi e


barocche finzioni mitologiche, fu veramente benemerito degli studi
archeologici. A Roma, ove dimor qualche tempo nel 1424 e di nuovo
dicci anni dopo, raccolse epigrafi antiche, colle quali arricch copiosamente la silloge compilata nel 1429 dal Poggio; de' suoi viaggi teneva
esatti diari e' vi notava e descriveva quanto potesse importare all'archeologo i doni pi preziosi, onde ei sapesse accompagnare le lettere
agli amici, erano copie di iscrizioni e schizzi di monumenti. E come
dall'esempio di Ciriaco alcuni suoi coetanei ebbero stimolo a consacrarsi a' medesimi studi, Felice Feliciano veronese e il Marcanova, che
nel 1465 intitol a Malatesta Novello, signor di Cesena, la sua grande
opera De antiqatatibus cos la scienza epigrafica moderna ebbe nell'Anconitano un grande ed utile precursore.
^ er a v * a se & na ^ a ^al Biondo alla storiografia procedettero Marcantonio Sabellico da Vico varo (1436-1506) e Giorgio Menila di Alessandria (1431-1494) quegli non tanto nelle deche Rerum venetarum
ab urbe condita ad Marcum Barbadicum, delle quali i pregi letterari soverchiano il valore storico, quanto nelle Enneades seu Rhapsodae hstorarum, che, movendo dal principio del mondo, giungono, in
92 libri, fino al 1504; questi nella Historia Vicecomitum, che prese
a scrivere nel 1482 per incarico di Lodovico il Moro e condusse fino
alla battaglia di Parabiago e alla morte di Azzo Visconti. L'uno e l'altro non solo ricercano e citano vecchie cronache ed altri monumenti
il Merula con maggior
e no discutono e vagliano le testimonianze
ma anche attinaccuratezza e pi buon discernimento del Sabellico,
di

J
a sibei

lieo'

e Giorgio

(143M494).

gono a piene mani dall'opera massima dell'umanista forlivese.


E da lui anche Enea Silvio Piccolomini trasse eccitamento a vatartYei' ri are d' introduzioni e digressini erudite le sue storie, che essenzialC
Basiila a? mente tesseva di ricordi personali. I commentari De gestis Basiliensis
E
co
Concila, scritti poco dopo l'elezione di Felice V, qua gravi delle ar'iom
gomentazioni canonistiche, onde i prelati aveano sorretto le tre principali conclusioni determinative della deposizione d'Eugenio, lavivi
1

"

iDi.

nella descrizione delle tempestose sedute, riflettono l'animazione del


testimone, segretario dell'assemblea ribelle alla podest pontificia. L^
mene, i discorsi, i tumulti dei Catalani, desiderosi di ritardare ogni

risoluzione e gridanti all'offesa libert del concilio, dopo la grande orazione del cardinale d'Arles e le aspre frasi del patriarca di Gerusala solennit grave della seduta del 16 maggio 1439, nella quale
poste sugli scanni dei dissidenti, lontani dall'aula, le reliquie dei santi,

lemme,

furono votate con pacatezza quelle conchiusioni, tutto ritratto. maestrevolmente nel primo libro. Il secondo, che narrava la deposizione

113

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

il terzo si apre con una sobria descrizione della


minutamente le vicende del conclave che
espone
ed
Basilea
peste di

del papa, perduto;

elesse l'antipapa.

Di paesi ove il Piccolomini dimor lungamente, di personaggi con La His torta


bohemien
cui visse in dimestichezza, di fatti dei qual' vide lo svolgimento, parlano la His toriae

anche VHistoria bohemica e 1' Historia Federici imperatoris, compiute


poco prima eh/ egli cingesse il triregno (1458). Ed entrambe mettono
capo a quella sconftta dell'autorit imperiale, che fu la proclamazione
di Giorgio Podjebrad a re di Boemia (1458); l'una discorrendo le lotte
di religione fin dai tempi del concilio di Costanza e le guerre dei Boemi
contro i Turchi, l'altra le azioni miserelle del debole Federigo III dal
d della sua elezione all'impero (1452). Ma l'una e l'altra cominciano

Federici imperatoris.

con un racconto succinto della pi antica istoria rispettivamente della


Boemia e dell'Austria, pel quale il Piccolomini mette a profitto una
ricca suppellettile storica e fonti nuove, come gli scritti di Ottone di
Frisinga da lui scoperti, respingendo col suo retto ed acuto senso critico quelli che dice anilia deliramenta.
Di far opera pi risolutamente erudita e forse di stendere su pi La cw<>graphia.

Biondo avea colorito nell'Italia illustrata,


si propose il Piccolomini, divenuto Pio II, nella Eistoria rerum ubique
gestarum locorumque descriptio, nota anche sotto il nome di Cosmoegli prende a
graphia. Date alcune nozioni di geografa generale
parlare dell'Asia e, prima ancora di averne esaurita la trattazione, passa
vasta tela

disegno, che

il

il

all'Europa.

Come non

finita,

vi

manca

fra altro la descrizione del-

pur nella parte che ne abbiamo, un agglomeramento di appunti e di dissertazioni isolate. Non v' ha proporzione di ampiezza, n uniformit di carattere fra queste; occorrono
ripetizioni il libro, archeologico ed erudito, quando percorre paesi lontani o sconosciuti all'autore, diviene tutto di storia recentissima, quando
arriva all'Ungheria, alla Germania, alla Francia e all'Italia. Reminiscenze personali e racconti di testimoni la vincono ancora una volta
sulle morte attestazioni dei libri.
l'Africa,

cos l'opera appare,

Le occupazioni
mano

dar l'ultima

del pontificato suo laborioso tolsero agio a Pio II


alla

ordinasse secondo

altri

Cosmographia. Similmente
la

egli desiderava

ragione dei tempi e fiorisse

Commentami rerum memorabilum nei


biografia sotto brevit fino al momento in
,

con larghezza e con abbondanza

di

quali

cui

particolari

di

eleganze

scrisse la sua

eli
I

che
i

auto-

divenne papa (lib. I),


per gli anni del suo

del 1463 (libb. II-XII). Per buona ventura,


Giannantonio Campano, cui quella revisione era stata affidata , non mise
le mani, se non forse per qualche lieve ritocco, nell'opera del suo
protettore, talch questa serba tutta la fresca spontaneit delle fugpontificato sino alla fine

gevoli impressioni ond' specchio, e reca l'impronta di quel carattere

che mi studiai di far conoscere nel primo cache arieggia felicemente la maniera
racconto procede senz'ordine prestabilito, anzi in un

geniale e complesso
pitolo.

In

un

del Poggio,
Rossi.

il

La

latino

scorrevole,

lett. ital.

nel sec.

XV.

Commen-

tar ii

rerum

mernorabi""'um.

114

CAPITOLO QUARTO.

amabile disordine, conducetido con rapidi strappi il lettore d un luogo


in un altro, da Roma oltr'Alpi e oltre mare, ed ora digredisce per
riandare
e il fido Biondo viene in aiuto
la storia d'una citt o
d'una casa principesca, ora rista per dar luogo ad un ritratto scolpito
a forte rilievo o ad una descrizione dai colori caldi ed originali. Su
tutto e su tutti domina superba la figura del protagonista. Egli mette
volontieri in evidenza le difficolt che attraversarono la strada al suo
trionfo, affinch ne abbia risalto la forza invitta de' suoi meriti esempio insigne, il quadro ammirevole del conclave, da cui usc vittorioso il
suo nome (Cugnoni, p. 500 e seg.). Egli si compiace dei prosperi successi della sua politica e ne racconta con diligente minutezza gli accorgimenti; egli riferisce pavoneggiandosi le sue solenni orazioni. Nell'alta coscienza d'una robusta individualit, l'umanista pontefice avverte
ci che di pi stridente hanno i contrasti di questa coll'altrui, onde
concepisce e giudica i caratteri degli uomini da alcuni lineamenti pi
copiscui, mentre altri ne sfumano dinanzi al suo occhio
Sigismondo
Malatesta non tutto nel ritratto ch'egli ne ha disegnato (lib. Ili, p. 91
e Cagnoni p. 509), n tutto il ritratto appare scevro di linee convenzionali. Del pari ben possono aver nociuto alla perfetta imparzialit

dei racconti (accadr lo stesso,

mezzo secolo dopo,

tore di storie) le idee sue e

suoi giudizi intorno ai fatti ed alle isti-

tuzioni,

che

gli

il

al Machiavelli scrit-

disdegno, in cui teneva le milizie mercenarie, la diffidenza,

ispiravano

Francesi, restii a concedergli aiuti per la Crociata

e minacciosi, secondo la sua profetica intuizione, alla libert d'Italia.

Ci nondimeno le Memorie di Pio II sono, chi sp ne sappia valere con


alcuna cautela, fonte storica importante.
Pio,

ho detto qui addietro

49),

(p.

non

Enea

uccise

Silvio

il

tasto

pensiero della gloria, che se ne prometteva, non soffocarono le intime tendenze del suo cuore. E nelle Memorie tace ad
del papato e

il

ora ad ora il racconto delle guerre e delle trattative diplomatiche, e


che il pontefice
piacevolissime delle gite
si inframettono relazioni
faceva di frequente nei dintorni di Roma o su quel di Siena. Nella
verde solitudine dei campi lo inebriava un godimento ingenuo sotto
a una quercia , presso al gorgogliar d* una fonte spacciava gli affari
riceveva gli ambasciatori e i supplicanti e con frugalit
d' ufficio
campagnola desinava all'aria aperta fra pochi amici. Dei luoghi vi,

sitati lasci

nel suo libro descrizioni, le quali,

monotonia
particolari, che

cotal

frasi,

di
i

pi

ti

rivelano,

se

specie per

non
il

ti

uggisca una

rilievo

di alcuni

non vedono o non notano, un'anima che sente

gusta tutte le bellezze varie del paesaggio italiano. Se da Tivoli, dove


le pittoresche rovine antiche commuovono il suo cuore di amatore del

mondo

classico,

si

reca a Subiaco,

placido or rotto fra le rupi e

conventi,
p.

250 e

non trascurando neppure


lib.

IV,

mana per andare

p.

ai

ti

salti
il

descrive

il

corso

dell' Aniene,

or

profondi, la valle ombrosa ed

ricordo di qualche leggenda

(lib.

V,

305) se percorre, di primavera, la campagna robagni di Viterbo, ti mette sott'occhio le floride gi;

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.


oestre, che chiazzano di giallo

115

verdeggiar delle
sfondo
sui monti (lib. Vili p. 378). Lo spettacolo che ha goduto di sulle
<3m dell' Amiata, e la pace che il suo animo ha trovato lass fra i
vecchi castagni, in vista al mare, che bagna le rive della sua regione
natia, gli ispirarono una descrizione di quel monte, tale ch'ei ne fu detto
il padre dei paesisti moderni (lib. IX, p. 396). La natura solitaria,
orrida o ridente, egli non ama ed ammira come un asceta, ma come
un viaggiatore moderno pronto a gustare con simile ardore le attrattive dell'arte, n rifuggente dagli svaghi della vita sociale. Le feste
sontuose del Corpus domini a Viterbo (p. 384), il brulicar della folla
in S. Pietro, quando vi fu portato il capo di S, Andrea (p. 366), la
regata sul lago di Bolsena (p. 391) e le corse di cavalli a Pienza
{p. 433), una rivista delle truppe di Federigo d'Urbino, luccicanti
al sole le armature e agitantisi fra 1' ondeggiare dei cimieri le lance
perch sempre
(pag. 248), tutto descrive con vivezza meravigliosa
desto ed alacre il suo spirito di osservazione, perch d'ogni cosa
sa cogliere 1' aspetto estetico e di questo si appaga con sereno ab1

prati all'intorno e

selve rallegrate dal cinguettio degli uccelli e

il

borghi

vigili nello

bandono.
Il

Piccolomini, designando col

concilio di Basilea e le

memorie

nome

di

Commentarti

della sua vita, segu

il

la

sua storia del

costume del tempo.

cominci a dare nel secolo XV, di sull'esempio


che narrassero gli avvenimenti d'un breve periodo, in singoiar modo avvenimenti, ai quali lo scrittore fosse stato
presente, spettatore od attore, o di cui avesse avuto notizia da testiInfatti quel titolo si

di Cesare

moni

ad opere

oculari. I

commentari erano

meno

la specie pi

che

modesta

della

storio-

narrazioni foggiate su Livio


in accogliere particolari anche frivoli; pi di quelle dimessi nello stile,
per ci che prendevano a modello la semplicit cesariana. Certo non Commen.
* arii
riusc ad emularla Giannantonio Porcellio de' Pandoni, amante com'egli
<f?
grafia erudita;

schizzinosi

le

era di rettoriche pompe, quando, mandato da re Alfonso nel 1452 al


-campo di Jacopo Piccinino, che era in armi per i Veneziani contro lo
Sforza, tenne informato il suo signore delle vicende di quella guerra
per via di relazioni, forse giornaliere, che costituirono i primi nove
Commentarti. Gli altri nove, che aggiunse a quelli l'anno
dopo, dedic invece al doge Francesco Foscari, indottovi dalla speranza
d'ottenere dalla repubblica una lauta ricompensa. L'impostatura solenne, tutta classica: il Piccinino e lo Sforza sono costantemente chiamati Scipione ed Annibale, ai quali non la cedono per valore, per
grandezza d'animo, per senno paiono due eroi dell'antichit rinati alle
libri de' suoi

guerriglie dei venturieri quattrocentisti. Eppure

il

carattere di storia

modesta proprio del commentario non vien meno air ampollosa opericciuola dell'umanista napoletano; ch vi restano evidenti le commettiture della sbocconcellata composizione vi abbondano le notiziole anche risibili, e l'esposizione dei fatti vi qua e l interrotta dall'inserzione di versi, che le si" attaccano per debil filo, di documenti e di
,

(1452-53).

116

CAPITOLO QUARTO.

commm- ttere. Quel carattere per appare assai pi rilevato nei Commentarli
1
rerum suo tempore gestarum di Leonardo Bruni. Quivi il liviano
t'rnipn
r
2 Tu 7*' au ^ ore e\V Hi storia fiorentina raccozz sparsi ricordi de' suoi giovani
(1370-M40). anni, frammenti di lettere storiche scritte ad amici e narrazioni di fatti
accaduti durante il suo cancellierato, fino alla battaglia di Anghiari(1440).
Opere siffatte, dove il latino corretto ed elegante degli umanisti si distende su di un'ossatura rudimentale, anzi sur una semplice serie di
racconti ordinati cronologicamente, rannodano la storiografia erudita
all'umile letteratura delle cronache, delle quali il secolo XV ebbe dai
precedenti il costume, il metodo ed i modelli.
In un tempo in cui il subito ed incalzante variar del presente pareva
Le
che.
sospinger lontano con rapidit insolita il pi prossimo passato, molti
i

wo"'

'

presero a scrivere

le

fortunose vicende delle loro

citt.

Mercanti, come

Niccol della Tuccia, cronista d'Orvieto sin verso al 1476; notai,

Stefano Infessura, che scrisse un diario di

come

Roma

variamente ricco di
come Leone Cobelli, autore d'una

notizie dal 1303 al 1494; artisti,


cronaca forlivese dalle origini della citt al 1498, artigiani, famigliari
di principi, soldati, uomini per lo pi scarsamente istruiti, spigolavano
in iscritture pi antiche le notizie delle vecchie et e le ordinavano,
raffazzonate o copiate, in foggia d'annali fino a toccare il lor proprio
tempo, del quale poi registravano i fatti via via che accadevano. Chi
poneva in tal bisogna cura scrupolosa d'abbondanza, di compiutezza e
di precisione e chi faceva i suoi notam?-iti a caso, saltuariamente; chi
si prefiggeva determinati criteri di scelta e chi reputava tutto ugualmente degno di ricordo, una battaglia risolutiva d'una situazione politica ed un temporale, un rivolgimento cittadino ed il preteso miracolo d'un frate. Alcuni erano brevi, succinti, spediti; altri si compiacevano del lussureggiare dei particolari ed accoglievano di buon grado
nei loro scartafacci documenti pubblici, versi in cui il popolo avesse
lasciato sprizzare i suoi liberi giudizi, moralit che loro fornissero i
libri sacri od i poeti, sovra tutti Dante. In codeste compilazioni, nelle
quali non v'ha filo ordinativo, che non sia la successione cronologica,
palpitano spesso i rancori e le simpatie del popolano parteggiante fieramente, rivivono nell'efficacia della rozza rappresentazione le costumanze, s'insinuano le credenze e le superstizioni del tempo.
La lingua quel barbaro latino dei cronisti medievali, che mal cela,
eife^crona-,

ehe

sotto ai suoni e alle flessioni sue, parole e costrutti volgari,

quente, addirittura

il

o,

pi di fre-

volgare, e questo varia secondo la varia patria e la

varia coltura dei cronisti. Perch l'idea d'una lingua delle scritture, differente

dal proprio

dialetto balenava,

con pi o meno

di chiarezza,

come sempre, alla mente di chiunque prendesse in mano la penna,


anche di chi non avesse coscienza
dei diritti
e molti l'avevano
allora

che

il

fiorentino poteva vantare, naturali ed acquisiti, a prender di-

gnit di lingua letteraria. Dei quali diritti poi i capolavori del Trecento
avevano come imposto, di riflesso pur ai meno colti, un certo rispetto.
Ma ai non toscani difettavano sussidi, che agevolassero l'attuazione di

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

117

quell'ideale, spesso piuttosto sentito che conosciuto definitamente; talch non meraviglia che quei rozzi cronisti riuscissero appena a

-smussare

le pi

angolose asperit e a disciplinar

anche

le

pi appariscenti

opere detcon intenti letterari manifesti, continuavano, come vedremo, a


chiazzare la lingua di elementi dialettali.
In altro modo andavano, e s'intende di leggieri perch, le cose a
Firenze, le cui cronache ci si presentano, quanto alla lingua, in assetto
pi leggiadro e possono pretendere men fuggevole menzione in una
re-storia letteraria italiana. Ivi Bartolomeo del Corazza, vinattiere
gistrava, compiacendosi nel descrivere minutamente giostre, solennit
irregolarit dei loro vernacoli;

scrittori pi colti, in

tate

1406 al 1430, mentre


con pi di aridit e men di vivezza, Domenico di Leonardo Buonnsegni, savio ed onorato cittadino, veniva scrivendo una cronaca dal 1334
al 1460, l'uno e l'altro freddamente, senza scaldarsi mai d'amore n
.d'odio. Il graduale restringersi della vita pubblica generava nei cittadini una certa indifferenza per le vicende di essa e li spingeva, come
a cercar soddisfazioni al sentimento nelF intigi abbiamo notato
ecclesiastiche e feste borghesi,

cronisti

fio-

rentim

Bart. del

Corazza,

fatti della citt dal

Domenico
e"

g"nv

mit delle pareti domestiche. Ma Alamanno Rinuccini, continuatore Alamanno


in lingua pulitamente italiana ed in istile maturo, specchio della coltura ond' ebbe da noi onore d'altra menzione, dei Ricordi storici del
padre Filippo, dal 1461 al 1499, confidava alle carte discrete i ribollimenti della sua ira democratica contro la tirannia di Lorenzo giudicava degna, virile e laudabile impresa e da esser imitata da
chiunque vivesse sotto tiranno o simile a tiranno l'uccisione di Galeazzo Maria Sforza e giusta ed onesta la congiura de' Pazzi, e
si stizziva perch in questo mutamento nessuno avesse pensato a gri. Fiorita di preziose
dare Marzocco anzi che Palle Palle
BeI e d etio
-notizie, importanti alla storia delle lettere, dei costumi e del commer^e
ci in quasi tutto il secolo XV, la cronaca di Benedetto Dei (14171492), persona diligente e sensata molto, al dire del Varchi, gran viaggiatore per motivo de' suoi traffici in ogni parte del mondo ed abile
informatore politico ai tempi del Magnifico.
Nei Ricordi del Rinuccini si vede, come grado grado si elevassero Le ricordai
3ad ampiezza di cronache cittadinesche quei memoriali domestici, in cui ze
i Fiorentini solevano, per inveterata e largamente diffusa consuetudine,
tener nota dei loro privati negozi, entrate, spese, contratti, viaggi, e
delle pi notevoli vicende delle loro famiglie, parentadi, nascite, morti. Di
tali ricordanze, alcune sono scarne e concise poco meno che i registri
d'una ragione mercantile; altre, come quelle di Luca di Matteo da
Panzano e quelle di Giovanni Rucellai, si abbellano di descrizioni pittoresche, accolgono osservazioni rampollanti, quasi inavvertite, dai fatti,
fermano in una frase viva e spontanea lagrime e sorrisi che passano.
Altre ancora, e tra queste non sono soltanto quelle del Rinuccini,
frammettono in gran copia ai racconti delle private faccende
racconti pertinenti alla pubblica storia Ne accod od intrecci un bel
:

^s

'

118
go. di paolo

Morelli
(1371-H44).

CAPITOLO QUARTO.

gruzzolo alla storia della propria famiglia Giovanni di Paolo Morelli*


lanaiolo e cittadino costumato ed autorevole
vissuto a ca.

agiato

valiere tra

il

XIV

secolo

il

successivo (1371-1444).

Le memorie do-

mestiche cominci a raggranellare nel 1393 di sulle vecchie carte


consunte e quasi spente e le continu fino al 1411, prendendone occasione
ch il suo intento essenzialmente didattico
a dare
sparsamente precetti morali ed a scrivere un vero trattato di cura
famigliare, nonch a manifestare in un'ingenua fantasia il suo dolore
di padre sventurato. Ne risult un libro prezioso, per la sua contenenza, allo storico della vita intima fiorentina e leggiadro per la naturale e spesso elegante semplicit della forma. La descrizione del Mugello (pp. 219 sgg.) fragrante ed aerosa, come le piaggette e i colli

boschi che

delinea;

ritratto della

il

come

delicato e piacevole,

l'originale

Giovanna Morelli

dovette essere.

do

(p. 246)
L'aura erudita

appena sfiorato l'epidermide allo scrittore perfinoquando fu eletto gonfaloniere di compagnia (1409),
il protesto, che
insolitamente spigliato ed arguto, par cosa del Trecento.
dei nuovi tempi ha

disse

Buonaccorso Pitti

1354-1431

Gli interni rivolgimenti di Firenze negli ultimi decenni del secolo XIV,*
guerra degli Otto santi, le trattative dei Fiorentini col re di Franeia e con Roberto di Baviera nelle guerre contro il conte di Virt e
queste guerre stesse, compaiono, di necessit, in iscorcio o di prospetto
di Buonaccorso
nella Cronaca
cos fu detta impropriamente
di Neri Pitti (1354-1431 ?). Vago, iin da giovane, di andar per lo
mondo a cercar la ventura , giocatore largo e cortese, ma insieme
savio magistrato in patria e nelle terre del dominio ed abile negoziatore politico alle corti di Francia e di Baviera, codesto discendente
d'un'antica famiglia fiorentina fu uno strano miscuglio di scapataggine
e spavalderia quasi celliniane e di prudenza civile. Alle memorie
domestiche, le quali principi a scrivere nel 1412, ricercandole anch'egli per entro a libri molto stracciati e male scritti e male tenuti , e seguit fino al 1430, il Pitti aggiunse una specie di autobiografia, narrazione semplice e disadorna dell'avventurosa sua vita.
Il Pitti, il Morelli e gli altri autori di ricordanze domestiche scrivevano per s e per i propri consorti, n pensavano forse che un
giorno gli eruditi avrebbero frugato quei loro libri modesti per ricercarvi documenti di storia e per sentirsi spirare in faccia un soffio della
vita vissuta in quel tempo, non colato di fra i panneggiamenti della re ttorica, n impregnato di strani odori, e che la schietta semplicit del
loro dettato avrebbe un giorno assunto sembianza d'arte sapiente. Con
ischiettezza di lingua non minore, ma con intenti letterari manifesti Gregorio di Stagio Dati (1363-1435), che fu pi volte console dell'arte della
seta e priore e, nel 1428, gonraloniere di giustizia, narr nella sua
Istoria di Firenze, foggiata a dialogo e divisa in nove libri, le guerre
col Visconti e con Pisa dal 1380 al 1406; sommariamente per lo pi
la

^istoria
dl

Dati

e quasi

come pretesto a considerazioni

quali lo sguardo dello scrittore

si

politiche, a digressioni varie, nelle


volge a tempi anche remoti, ed in-

119

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.


fine a

una minuziosa descrizione dell'aspetto,


Anche pel Dati,

ordini politici della sua citt.

delle

costumanze e degli

uomo

religioso

quel Leonardo, che fu generale dei Predicatori,

di

il

e fratello

corso degli av-

venimenti retto dalla Provvidenza divina, ma egli si industria pure


a cercarne le cause umane ed a rilevare la connessione dei fatti, e
fantastica, quali probabilmente sarebbero stati, se nell'una o nell'altra
congiuntura le cose fossero state condotte altramente. Tal relativa maturit di pensiero si riflette nello stile, pi sostenuto che non sia nei
ricordi e nelle lettere famigliari, adorno di reminiscenze dantesche,
fiorito di leggiadre similitudini, e ci nondimeno spontaneo ed agile.
Le goffaggini come questa Gi la blanda fortuna mostrandosi
amica a costui (Gian Galeazzo Visconti), soffiava prosperi venti alle
navi de' suoi desideri e Y animo suo tirava in alto l' antenne quanto
Conmienpotea (p. 15), vi sono rarissime. Intenti d'arte rivela anche ]J
Commentario dell''acquisto d Pisa, scritto, secondo verosimile, da 'TappoSl"
Neri di Gino Capponi. Vi sono introdotte alcune ben tornite orazioni;
il titolo di stampo classico, ed il periodare vi assume una certa complessit, per la quale l'operetta si differenzia dal racconto del Tu,

multo dei Ciompi di Gino.


Accanto alle scritture storiche
.

XV,

fin

qui enumerate altre ne eboe

il

se- Le cronache

organicamente concepite,
nelle quali par continuarsi la tradizione gloriosa del Villani. Nel 1400
il lucchese Giovanni Sercambi poneva fine alla cronaca della sua citt,
che avea condotto dal 1164 fino all'assassinio di Lazzaro Guinigi; ma
poi i gravi avvenimenti, dei quali fu magna pars e che diedero la
signoria al fratello dell'ucciso, Paolo, lo indussero a riprendere la penna
e a seguitare il racconto fino al 1424, che fa l'ultimo anno della sua
vita. Verso la fine del secolo Marino Sanudo (1466-1535) scriveva,
sottonl titolo di Vite dei dogi, una cronaca di Venezia fino ad Agostino Barbarigo e la continuava narrando la spedizione di Carlo Vili;
ed a Milano Bernardino Corio (1459-1519?) per volere di Lodovico
a muovere dalle origini sino
il Moro, compilava la storia della citt
alla fuga dello Sforza ad Innsbruck (1499). Opere codeste, a ciacolo

stese su

pi vasto disegno e pi

scuna delle

quali

le

particolari

che

attitudini intellettuali

e la partico-

si trov
a vivere, danno atteggiamenti peculiari, ma che tutte si stringono
insieme nella comunanza di alcuni generali caratteri: la lingua brula forma stilistica per lo pi piana
licante di elementi dialettali
ma talvolta rettorica e pretensionosa per la vaghezza che ha lo scrittore di montare sui trampoli, l'abbondanza di documenti di varia naversi, lettere politiche, elenchi di persone
intercalati nel
tura
testo, la tendenza ad uscire dal campo angusto della storia locale ed

lar coltura dell'autore, oltre

le

condizioni in cui questo

a porgere notizie non pur di guerre,

di trattati e di rivolgimenti,

dei costumi, dei commerci e della pubblica economia, infine


annalistico, lasciata da parte ogni ricerca del
Il

Sercambi poi in particolare suol volgere

il

il

ma

procedere

legame logico dei

fatti.

racconto a quei savi, se non

sercambi,

Marino
Sanudo

di

no cono

120

CAPITOLO QUARTO.

sempre morali, ammaestramenti

di politica pratica,

che condens anche

nel Monito ai Guinig, ed a scopo didattico inserisce nella cronaca, egli


novelliere, alcune novelle. Di necessit parla spesso di s, e di continuo

lamenta perch i compensi avuti dai Gu&igi non fossero stati adeguati al merito dell'opera sua. Il Sanudo ed il Corio sono diligenti raccoglitori ed ordinatori della materia storica; quegli pi assennato e,
si

sto
l
le

per dire, pi critico; questi pi credulo e pi superstizioso, specie


dove parla di tempi lontani dai suoi. N l'uno n l'altro possiedono
qualit d'ingegno necessarie ad uno storico. Il Sanudo si prov a

scrivere una storia compatta, rapida, chiara, quando

si accinse a narrare la venuta del re francese, ma non gli venne fatto e torn ivi
stesso a quel sistema dei notamenti spicciolati, che ci diede i suoi meravigliosi Diarii dal 1496 al 1533.

Lo storie

di

Cavalcanti
(U23-1440),

Non

meglio all'intento di sollevar la cronaca volgare all'altogata ma lo vagheggi e si studi d' attuarlo con
cos ail e pertinacia il fiorentino Giovanni Cavalcanti, che, prigioniero nelle S tinche per non aver pagato le prestanze al Comune, si
propose di scrivere della cacciata di Cosimo e del suo ritorno ma per
chiarire l'origine dei fatti si rifece dal tempo della guerra con Filippo
Maria Visconti (1423) e seguit poi il racconto fino al 1440. Uscito
di carcere, aggiunse a quei quattordici libri, la storia d'altri sette
anni. Pi che i fatti esterni stanno a cuore al Cavalcanti i mutamenti
dello stato, elei quali vuole additare le cause e i riposti motivi; proposito raro ne' suoi coetanei, ond'ebbe l'onore d'essere sfruttato copiosamente dal Machiavelli, che deplorava il silenzio del Bruni e deiPoggio intorno alle civili discordie e alle intrinseche inimicizie. Facile
a provare antipatie e simpatie e caldo fautore dei Medici, egli effonde
la gagliardia de' suoi sentimenti in apostrofi, riprensioni, esclamazioni
contro i cittadini malvagi, lupi famelici, causa di infortuni alla patria (II, 21) o contro Firenze, che viola le leggi e i suoi sottili provvedimenti (VII, 28), e per formulare giudizi sugli uomini e sugli
eventi si serve cos di digressioni eli tal fatta, come del gualcito artifcio della visione. continua in lui la cura d' esaltare la possente
casata sua amica, e lo fa talvolta a scapito dell'esattezza storica; tuttavia ahbastanza equanime l dove parla degli avversari. Nella nartozza

riusc

di storia

j-

come

razione,

nelle descrizioni di battaglie e di interni

v'ha un certo fare largo, che solleva

anche

se

non ne

faccia

uno

il

sommovimenti

Cavalcanti al disopra dei cronisti,

storico vero.

Ma

una

fastidiosa e studiata

suo libro da capo a fondo: vi trovi un nugolo


di orazioni, gravi, le pi, di tortuosi ragionamenti e di erudizione; poche assai, come la breve risposta di Niccol Piccinino agli ambasciatori
fiorentini (III, 27), vive e caratteristiche e verosimili. La lingua
solennit opprime

il

sempre ricercata e latneggiante, s da sdegnare perfino certi appelmoderni


per es. i richiesti son detti in istrano modo
queriti
il periodare involuto e faticoso; frequenti rampollano immagini
che un secentista avrebbe gradito. Qua Gabrino Fondu lo

lativi di uffici

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

non esser messo per ancudine

121

punture delle
Fesche
accese dell'ira di due cittadini, con un fonte di umilt e di eloquenza
a spegnere si metteva gli ardenti crucci (IV, 2); se aggiorna, gli che
gli alpestri cacumi pi non possono la celestiale lumiera alla nostra

teme

di

coltella bolognesi

(I,

delle mortali

daUzzano

3); pi oltre Niccol

vista nascondere (VI, 33). Di

veduto

mezzo a tanta ampollosit

la

gramma-

tica esce malconcia, perch il Cavalcanti uomo di coltura schiettamente popolaresca e l'arduo cammino, per cui s' voluto mettere, non
" fatto per lui. Per buona ventura questo sgarbato scrittore non rispecil carattere generale
il lettore deve esserne ora mi convinto
chia

della prosa volgare quattrocentistica.

Ci resta a dire di

un

genere

parti colar

di storia

che

il

quattro-

cento vide rifiorire di nuova vita e trasmise gi prossimo a maturanza al secolo successivo le biografie.
L'alta coscienza ch'ebbe il Rinascimento delle energie e delle facolt umane, la tendenza a ricercare le cause dei fatti e a trovarle,
spesso per quell'illusione "che abbiamo altrove rilevata, nell'opera de:

gl'individui, pi volontieri
ciali e politiche

infine

1'

che in un fatale concorso


efficacia

rinnovarono

vite svetoniane,

di circostanze

modi

e le

si

so-

"composizioni. Nelle quali all'arida enumerazione dei fatti


si sostitu

e ra "

massime delle
forme di quelle

dei modelli classici

gli intenti,

pi cospicui

associ lo studio del carattere dell'uomo, e lo scrittore

sibbene a formare e fermare il giucontemporanei e dei posteri.


Nella vita di Braccio da Montone scritta dal Campano con cura d
esattezza ed in istile sobrio e misurato, la figura dell'eroe si perde o

non pens pi a moraleggiare

dizio dei

diffondendosi

si

scolorisce nell'ampiezza del racconto e nella copia

delle

Giannozzo Manetti raccolse nella sua vita di Niccol V


notizie^ preziose di quel pontefice, segnatamente delle sue imprese architettoniche, e tratti vivamente rappresentativi della fsonomia morale
di lui; ma non riusc a creare un ritratto pieno ed organico, variato
con giusta proporzione di luci e d'ombre. N vi riusc un aliro Manetti, Antonio di Tuccio di Marabottino (1423-1497), dotto uomo in
scienze matematiche e fsiche e buon cultore di studi danteschi, la cui
Vita di Filippo Brunelleschi, scritta nel pi bello e disinvolto volgare
di Firenze, si insinua qui fra il latino delle altre biografie, perch le
affinit essenziali tralucono di leggieri agli occhi nostri
ormai asdigressioni.

suefatti a tale studiata promiscuit di trattazione

versit della buccia.

Un

ritratto

attraverso alla di-

vivo e vero seppe invece

delineare Le

Pier Candido Decembrio. Nella sua vita di Filippo Maria Visconti, narrate succintamente le guerre che il duca sostenne per rassettare ed
estender lo stato, discorse in brevi captoli le qualit buone e cattive
di lui, l'indole,

sentimenti, le abitudini pubbliche e domestiche, tal-

ch, l'immagine, tratteggiata


ticolari,

in

un

con savia e ben equilibrata copia di parpur elegante, ci si presenta com-

latino semplicissimo e

pita in ogni sua parte e le parti di essa

si

connettono artisticamente

pf

di

Decembrio.

CAPITOLO QUARTO.

122
in

un

tutto compiuto. In

diversa guisa adoper

nella vita di Francesco Sforza, perch


la
le
C

dl

Accanto

alle biografie spicciolate

le collezioni di biografie o di ritratti

mana porgeva esempi

Ed

d^B^Fazio

in

delie

quali

vicende politiche e

voga nel secolo

XV

letteratura ro-

la

il

ivi

vh-is

le

vennero
,

Decembrio stesso

Petrarca aveva rinnovato il costume


comparvero
dopo che i' adorazione
nel De
cieca dell'antichit ebbe ceduto o si fu acconciata ad un pi equo apprezzamento delle cose moderne, personaggi vissuti nelle et pi recenti ed i contemporanei stessi degli autori. Gi sullo scorcio del secolo XIV Filippo Villani narr la vita degli uomini, che avevano dato
pur dianzi o davano allora a Firenze gloria d'arti, di lettere e di scienze.
Un umanista oriundo trentino, ma padovano per lungo soggiorno se non
anche per nascita Secco Polentone registr insieme cogli antichi i
moderni fino al Petrarca ne'suoi diciotto libri De scriptoribus latinae
cne furono compiuti dopo il 1433. Anzi a quel Bartolomeo
tin uae
9
Fazio, che abbiamo rammemorato qual fiero avversario del Valla, painsigni ed

viris llustribus.

De

il

parlare d'un vivo impacciava

sua libert di scrittore, e si restrinse a narrarne


imprese militari fino alla pace di Lodi.

^o -rlfle

11

il

>

reva un dovere lo scrivere dei moderni, non ancora raccomandati alla


storia, e i loro esempi parevano pi efficacemente educativi, che quelli
degli antichi, cinti d'un'aureola

onde prendono aspetto

di

non

imitabili.

perci tutto di suoi contemporanei, poeti, oratori, giureconsulti, prin-

cipi, uomini privati, egli popol l'opuscolo De viris llustribus,


che
compose nel 1456, posto che ebbe fine ai dieci libri De rebus gestis
ab Alfonso rege. Ormai privilegi di natali o di uffici illustri non
guidavano pi i biografi nella scelta dei loro personaggi, s vigore e

valore d'opere individuali.

Le

usiamo per brevit di questa designazione non proquantunque pregevoli per alcuna peregrina notizia,
sono tuttavia aride e monche, talvolta nudi cataloghi di fatti o di opere

pria

biografie

del Fazio,

letterarie.

Ben

denza, che
pntificum
diB.piatwa.

di

rado vi trovi

tocc spesso

Enea

scolpiti caratteri

con

Silvio Piccolomini

la

sua

claris.

il

De

Bartolomeo Platina nelle Vitae pontificum ,


c ie
r j ncar j c0 avuto da Sisto IV comp nel 1474, dovette per le
pi antiche et restringersi ed abbellire delle grazie del suo latino
elegante gli smunti racconti dei cronisti medioevali, esercitando talora,
sebbene senza proposito costante, su di essi la critica; ma dei papi recenti,
di cui pot avere notizie copiose o che conobbe egli stesso, deline,
dopo averne narrate le vicende salienti, l'aspetto fisico e morale, s
che dietro al capo supremo della Chiesa apparisse l'uomo. Ed ebbe in
generale mano felice Niccol V e Pio II, ad esempio, non sono rappresentati altramente da quel che siano stati in realt il che non si
pu dire per di Paolo II, per ci che quivi personali rancori turbarono nello storico la serenit del giudizio.
Latine, queste raccolte biografiche; italiana quella che Vespasiano
da Bisticci mise insieme negli ultimi suoi anni, par bene dopo il 1482.
viris aetcte
|

Vespasiano.

plastica evi-

scrivendo

123

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

Vissuto nella consuetudine degli eruditi, nella citt dove con pi fervido gorgoglo ribolliva la vita intellettiva ed a cui affluivano larghe ondate della vita politica della nazione, egli volle far* memoria di tutti gli uomini dotti, che aveva conosciuto, e di ci che avea visto co' suoi occhi od

appreso da testimoni fidati. Le sue Vite d'uomini illustri del secolo XV


fanno sfilare dinanzi una bella schiera di papi, di prelati, di principi, di letterati, d'uomini di stato italiani e stranieri, nella quale mirabilmente si aduna l'immagine di quella ci vii comunanza. Compie
codesta immagine Vespasiano stesso e, fiorentino, vi fa lampeggiare
per entro il sorriso, che dalla pedanteria erudita non era ancora stato
ci

soffocato a Firenze, di

da

un gentile

quando

ideale,

ritrae, in

Alessandra

una -bio-

de' Bardi, e nel

grafia che
Libro delle lodi e commendazioni delle donne illustri rassegna, dopo
le antiche, alquante moderne di mirabile vita e costumi, savie, temperate ed attissime al governo e alla cura della casa.
A Vespasiano non stanno a cuore le cose grandi, quelle che suol
registrare la storia togata. I suoi personaggi egli ama coglierli neldove pi libere si manifestano l'indole e
l' intimit della vita privata,
nella conversazione famigliare
dove
le tendenze loro individuali
guizza il motto arguto o pungente, in mezzo ai fatterelli piccini che accadono alla giornata, piuttosto che nell'atteggiamento di politici, che
ordiscano gravi trattati, o sui campi, ove facciano prova di loro virt
sta

s,

la bella e virtuosa

militari.

Perci

libro

il

nei quali lo scrittore

gremito

di

aneddoti saporosi e pittoreschi,


egli lo nota cos per

ha spesso gran parte, ed

accrescere fede al racconto, come per mettere in rilievo, pavoneggiangiandosi ingenuamente, relazioni e amicizie onorevoli. N quivi sol-

mostra

persona del dabben cartolaio anche nella bonariet


nel deplorare ch'ei fa di continuo la
corruzione presente, nelle rampogne ai chierici curanti pi delle pompe,
che della virt. Il bibliofilo non sa nascondere il suo mal animo contro
Callisto III ignorante e cocciuto (I, 236-7); il cliente mediceo non risparmia a Sisto IV aspre ed irose parole (I, 139, 143). Quando parla
dei suoi lavori, dei manoscritti che ha rintracciato, delle biblioteche
che ha allestito, il suo cuore si commuove, la narrazione si fa pi
minuta, lo stile si libera dall'impaccio consueto delle preoccupazioni erudite e diviene franco e disinvolto.
tanto

si

antica di alcune

la

osservazioni,

S' notata l'attitudine

di Vespasiano a rilevare particolarit pitTuttavia egli non quel che dicono un ritrattista.
Dalle linee e dai colori che accumula, altri potr ricavare il ritratto
bello e parlante; a lui manca l'arte da ci: la sobriet, la perizia or-

trici dei caratteri.

dinatrice, l'occhio destro

ad apprezzare

la varia

importanza delle cose

Son rare le vite che, come quella di Federigo d'Urbino,


rivelino un disegno chiaro e prestabilito
la maggior parte raccozzano
senz'ordine aneddoti vari, abbondano di lungaggini e di ripetizioni,
osservate.

destano,

hanno

in chi le legga,

di superfluo, di

il desiderio di vederle
sfrondate eli quanto
trovarvi meglio collegate quelle linee, e quei co-

124
lori

CAPITOLO QUARTO.

Ma,

pi saviamente distribuiti.

giusto

soggiungere subito, Ve-

spasiano non ebbe pretensioni d'artista; anzi ripete le mille volte che
scrive per via di ricordo , ad utilit di quelli che non sanno di lettere e per preparare i materiali a chi vorr poi con adeguata cultura
tessere in latino le vite di quegli uomini.
se fu in

vite dei
Trecent.su.

tempo

di

vedere

le

nde certo non

si

dolse,

sue fatiche sfruttate abilmente da Naldo

Naldi nella vita latina di Giannozzo Manetti.


Perfezione d'opera letteraria tocc anche la biografia in lingua
vo ]g are ne u e v Rc di Dante o del Petrarca scritte da Leonardo Bruni,
nelle quali la materia disposta ed esposta con criteri d'arte e la
prosa, schiettamente italiana, prende andamento corretto, uniforme e

Dante il Bruni porge notizie nuove ed importanti


novissima critica inclina a fare buon viso. Certo egli rest
per pi secoli un dei due meglio reputati biografi del Poeta
l'altro
il Boccaccio
e gi nel decimoquinto lo misero a profitto Giannozzo
Manetti autore di vite latine di tutte e tre i grandi trecentisti e
dignitoso. Intorno a

alle quali la

Giammario Filelfo, che, spositore della Commedia a Verona nel 1467,


rinarr con molta retorica e gran copia di fantasiose invenzioni le vicende dell'Alighieri. Dal Bruni imit, anzi quasi tradusse, il Manetti
anche
s'

il

plutarchiano parallelo tra Dante e

era argomentato di accostare

il

Petra rea, con cui quegli

vieppi la biografia

italiana

a'

suoi

classici modelli.

a prosa

veiisSca

Al nostro

lettore, forse stanco della prolissa

Ubiamo dovuto ammannirgli

rassegna d'opere che

e che sa pur troppo di litania,

non

ispiacer

aprir la mente, ad un'osservazione riassuntiva d'una parte del nostro


studio, prima di proseguire con nuovo orientamento il non lieto ma per
ventura ormai non lungo cammino, che ci separa dalla fine del capitolo.
L'epistola, il trattato filosofico, l'orazione, i generi di prosa insomma,
che abbiamo esaminato nel capitolo precedente, mentre trovavano
nelle letterature classiche esemplari eccellenti, non avevano redato
dal secolo XIV una tradizione solida e ricca, che ne reggesse i passi
ove si proponessero di far uso della lingua volgare. Perci il Quattrocento, quando non lasci germogliare spontanei i frutti che produceva
nelle varie regioni, comp
il terreno pi o meno attamente disposto
per quei generi opera creatrice, molto della sostanza deducendo dai
classici, e dell'assetto stilistico alcunch di l stesso, assai pi da altri
.generi di prosa gi ben rassodati e dalla lingua viva. Alla storiografa
fu scarsamente profittevole l'esempio del Villani e degli altri trecentisti, perch l'arte storica non degn abbandonare le altezze superbe
del latino o le abbandon recando seco troppo pesante bagaglio di pregiudizi pedanteschi. In tutt'altra condizione venne a trovarsi, quanto
,

Le iet?eende.

a tradizioni, la prosa ascetica e novellistica.


Il Trecento aveva lasciato un copioso, retaggio

di sacre leggende
anche se non si prenomi famosi e venerati, non po-

e di narrazioni fra religiose e morali, le quali,

sentavano corrette

dall'autorit di

LA LETTERATURA ORIGINALE, IN PROSA.

125

tevano non operare efficacemente sull'avviamento di quella letteratura'


per la forza del numero e della loro stessa conformit di caratteri.
Quei racconti di eroismi cristiani invitti, di macerazioni crudeli, di portenti inauditi s'erano siffattamente compenetrati con quella prosa semplice, calma, perspicua, specchio d'una fede ingenua, che difficilmente
si sarebbero potuti concepire vestiti d' altra forma. D'altro canto l'argomento stesso pareva sottrarre e sottrasse di fatto per alcun tempo
la letteratura delle leggende alle velleit, che gli scrittori avessero
avuto di imitarvi il latino dei classici, Ond' che le vite dei santi,
stabile riscontro, nota il Burckhardt, alle vite profane, mantennero
per entro al secolo XV i loro atteggiamenti trecentistici. Esempio, che
pare isolato forse perch di molte non possibile determinare con precisione la data, quelle di

Feo

Feo

Belcari.

Belcari nacque a Firenze nel 1410. ^nio^i"


traeva l'indole sua, e il culto della
una sua figliuola si rese monaca nel
religione, cui educ la famiglia
non gli impedirono di attendere anche alle
convento del Paradiso
cose del mondo: di seder fra i Priori nel 1454 e fra i Buonuomini
nel 1451 e nel 58, di occupare altri uffici nello stato e nella sua arte
della lana e di ricercare e accettare di buon grado i favori dei Medici.
Mor nel 1484. Le sue scritture in prosa traducono o seguono assai
dappresso, come sogliono appunto le leggende del Trecento, originali
latini. Nel gennaio del 1445 il Belcari fin di traslatare il Prato spirituale, raccolta di vite di Santi, che il Traversari avea fatta latina di
sul greco dell'abate Giovanni Everato. Nella Vita di frate Egidio, un
de' primi seguaci di san Francesco, contamin la Historia b. Aegidii
cogli Aurea verba dello stesso; laddove per la Vita del beato Giovanni
Colombini, fondatore nel secolo XIV dell'ordine deiGesuati, trasse
principalmente profitto della vita, che ne avea steso nel 1425 Giovanni Tavelli da Tossignano. In codesta, che l'opera sua pi famosa,
pio fiorentino non si restrinse a tradurre or con pi o con meno di
fedelt; ma con procedimento nuovo in tal genere di letteratura arricch il racconto di nomi, di date e di notizie ch'ei dice desunte da
carte di pubblici notai , e gli ammaestramenti del Colombini rifer trascrivendo frammenti delle lettere di lui, talvolta intrecciati insieme con
bell'arte. Ne venne una vita, nella quale il meraviglioso ha naturalmente la sua parte, ma dove traluce pure lo spirito critico de' nuovi
tempi. E la materia, trascelta e ordinata con retti criteri, si adagi
in una prosa limpidissima e viva e in pari tempo dignitosa e compatta
per maturit di costrutti e aggiustatezza di legamenti. Nella qual
prosa, come a colorir le temperie in cui si svolgono i fatti, tramezzano
immagini e le similitudini, talora barocche, di che il Colombini nella
sua mistica esaltazione avea fiorito le proprie lettere di sacro argoFigliuolo di

Le opere

di piet,

di Jacopo,

alle

quali

il

lo

mento, come

le loro santa

Caterina

e,

pi tardi, Giovanni Dominici.

Gloriosa d'una tradizione paesana ben salda

si

presentava al limi- Le

novene

126

CAPITOLO QUARTO.

tare del secolo

XV

la novella. Il Boccaccio ne aveva accarezzato le


fantastiche invenzioni e le rappresentazioni della realt con magistero
squisito e drappeggiata la forma di classiche fogge. E gi il favore,
onde fu accolto il Decameron, aveva avuto conferma effettuale nelle

imitazioni di ser Giovanni Fiorentino e di Giovanni

Sercambi. Gli eruriconoscevano convenirsi alla novella l'idioma volgare, come


a componimento frivolo, leggiero e destinato a spasso delle menti, talch non pareva loro mettesse conto di cercare per lei nel Lazio od
in Grecia un blasone pi augusto che quello di cui andava superba.
Ad alcune novelle boccaccesche, nobili nella loro contenenza, essi
diedero bens, come abbiamo veduto, anche le insegne della nobilt,
volgendole in latino; ed il Fazio fece il medesimo d'una ignota storia,
non sappiamo se scritta in italiano od in altra lingua romanza, che
arieggiava la diciannovesima novella del Pecorone, e che narrava le
psrsecuzioni sofferte da una fanciulla innocente e il suo trionfo, e cos
l'origine delle guerre tra Francia e Inghilterra. Per di pi
a sua
confessione, la rabberci con propositi critici per accrescerne la credibilit. Ma Leonardo Bruni
stesso non isdegn di valersi dell'italiano, quando, rimaneggiando ed ampliando un aneddoto riferito da
Plutarco nella vita di Demetrio, novell della gran bont di Seleuco,
re di Siria, il quale cedette al figlio Antioco, perdutamente invaghito
della matrigna, la sua seconda moglie Stratonica: esempio che l'umanista aretino contrapponeva alla singoiar crudelt di Tancredi, padre
a Ghismonda, per dimostrare come gli antichi Greci d'umanit e
gentilezza di cuore abbiano avanzato di gran lunga i nostri italiani .

Originariamente latina la Storia di due amanti di Enea Silvio


Piccolomini (1444); latina e fiorita di reminiscenze ovidiane e d'altri
classici adornamenti. Il fatto avvenne a Siena nel tempo che vi stette
diti

NoV

la ~
tinl.

stessi

La

Storia di

due amanti
d

'

E S

Pie-"
coiomini.

>

l'Imperator Sigismondo (1432-33); protagonisti Eurialo, cavaliere francone, nel quale adombrato il cancelliere imperiale Gaspare Schlick,
e Lucrezia, la bella moglie

anche questi nomi sono supposti

nelao de'Camilli. Ci aggiriamo in

dove

il

sentimento del dovere

non

si

un mondo profondamente

di

Me-

corrotto

tace o pispiglia appena inascoltato, e

timor dell'infamia ed un
o vela la cruda
sensualit di quegli amori tutta fisiologica, se mi si conceda la frase,
la psicologia di Enea Silvio. Il quale non si cura di preparare alla

soli impacci,

freni,

basso egoismo. Nulla

di

alla

colpa sono

il

spirituale solleva o purifica


;

catastrofe un'intima motivazione adeguata, sicch


la

leggerissima Lucrezia muoia

d'

amore dopo

la

non

ci s'aspetta

partenza

di

che

Eurialo

e si resta meravigliati in veder questo acchetarsi e consolarsi, tosto


che l'imperatore gii d in isposa un'altra donna, mentre poc'anzi una
passeggera lontananza dalla Lucrezia l'aveva condotto in fin di vita.
Tutti esteriori sono i pregi della novella. Il futuro pontefice espone con
colori accesi e con minutezza voluttuosa di descrizioni la storia dell'adulterio; riferisce lettere, che gli amanti si sarebbero scambiate,
e i loro discorsi, le une e gli altri ampollosi e rettorici, come gli spro-

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

127

Fiammetta nel romanzo boccaccesco; e narra per filo e per


inganni orditi dal servo Sosia e da compiacenti amici per
eludere la vigilanza del geloso marito. Pandalo, un d'essi, rammenta
il confidente deli' amore di Gripel nome e pel triste ufficio Pandaro
selda nel Filostrato. Anche la novella di Enea Silvio costeggia la via

loqui di

segno

gli

XV

la novella volgare. Costeggia,


per la quale procede nel secolo
opera
del Certaldese seguono le orme
maggior
perch
della
calca,
non
quali
dobbiamo ora parlare.
delle
novellistiche,
tre
raccolte
le
Apriamo, poich la ragione del tempo ce ia reca innanzi per prima,
quella del senese Gentile Sermini, la men boccaccesca delle tre per
istile

e per materia. Ecco, subito in capo al

volume ponderoso,

la storia

Montanina, che, fngendosi morta e facendosi seppellire ai


si liber dall' uggioso marito e pot
frati di S. Domenico a Perugia
vivere felice col suo Vannino. Vi si consertano insieme motivi vari
e gi da lunga pezza penetrati nella novellistica letteraria, quale l'artificio del narcotico
vi si distende per entro tutta una rete di circostanze accessorie, che accompagnano o provocano il fatto principale.
Pi oltre nella novella XVI il ben noto aneddoto del servo che
frantende gli ordini del padrone, giova a colorire l'astuzia di Masetto
da Colle, il quale gabba ser Pace ed a sua volta gabbato dal Pela

"della bella

da Sciano. Son due

novelle, alle quali puoi dar lode rispettivamente


svolgimento largo e d'invenzione o composizione ingegnosa, ma
esse non valgono davvero a rappresentare il carattere essenziale della
raccolta serminiana. Poche altre ve ne trovi, che meritino d'esser loro
accompagnate. Vi abbondano invece i racconti di fatti semplici e scipiti, racconti che spesso si trascinano per una sequela di pagine, carichi di particolari frivoli e di inverosimiglianze; la rende grave la monotonia dei temi, dei caratteri e degli spedienti; la ammorba una deprava-

di

zione morale che mette schifo. Che turba di donne senza pudore e senza
amore, di ecclesiastici perversi, di borghesi sozzi E qual nauseante
!

volgarit nella massima parte di quei racconti!

Sermini descrive le
riesce ad essere
comico, grossamente; i suoi personaggi non operano se non per impulso degli istinti pi bassi, alieni come sono da qualsiasi delicatezza
di sentimento. Un conterraneo del Sermini, Bernardo micino, novellando verso la fine del secolo di Angelica Montanini, che il fratello
mise nell' arbitrio di Anselmo Salimbeni per soddisfare ad un grande
obbligo di gratitudine, disegn una gentile e casta figura. L'Angelica
-cede all'ingiunzione brutale di Carlo, ma riluttante, ma rimproverandolo e giurando di non sopravvivere al disonore. Presso il Sermini,
che nella nov. XIV aveva pur narrato quella commovente tradizione
cittadinesca, ella si tramuta d'un tratto in una ganza cortese e maestra
' di modi ordinati e graziosi . A lui non passa neppure pel capo che
un sentimento di dignitosa ribellione possa sorgere in quel cuore di
- fanciulla nobile e onesta . Similmente, quale diviene nel rifacimento
serminiano (XVIII) la gentile storia boccaccesca di Tito e Gisippo !
pi laide scene con

un gergo da

bordello, che

Il

non

en

mini.

CAPITOLO QUARTO.

.123

In mezzo alla folla dei' personaggi senza contorni e senza colori,


che popolano il libro, alcuni pochi appaiono fortemente rilevati. Sono
uomini di natura malvagia e triviale: un piovano, ser Meoccio, che

una ricetta di cucina e sfrutta


dabbenaggine do' fedeli, che in certe feste solenni l'altare
della sua pieve par diventato una pizzigaria di poliamoli o di soffrit-

inserisce nel panegirico di S. Vincenzo

per

modo

la

XXIX); un parassita, Bindaccio, parlante


pronto e tramettente , cui certi giovani senesi giocano il tiro medesimo, che gi Benci Sachetti a quei suoi amici a Venezia (nov, XXXV)
tameli o di beccari (nov.

un contadino, Scopone,

sconoscente

avaro delle cose


sue e dell'altrui cortesissimo (nov. III). Caricature, piuttosto che caratteri: tanta la copia di particolari grotteschi, che il Sermini raccozza ne' suoi disegni. Perch a lui manca interamente il frenoe-la
discrezione dell'arte e l dove l'osservazione gli offre * abbondanza di
materiale rappresentativo, non sa scegliere fra questo e tutto lo pone
in mostra caoticamente. Ognun sa quali mirabili effetti abbia ottenuto
il Boccaccio, mettendo sulle labbra a qualche personaggio parole e frasi
del suo dialetto; inve-ce il Sermini, ignaro della fine parsimonia dell'autore del Decameron, riduce codesto mezzo artistico ad una goffaggine grossolana. Queste osservazioni s'attagliano anche al suo modo
di rappresentare i villani, contro i quali nutre viva antipatia, anzi odio
rabbioso. Basterebbe la novella XII a rivelarlo, quando tal odio non
e baccalare,

serpeggiasse pi o meno palese in tutta la raccolta, perfino in qualche


narrazione suggerita dalla storia civile (XXXII).
Dalle novelle del Sermini chiaro quali fossero i gusti, gli umori
tendenze delle brigate, che convenivano per i bagni a Petrilo,
luogo" su quel di Siena pi di sollazzo che di cura, segno per tutto il
secolo XV agli scherzi maliziosi de' poeti burleschi. Furono raccontate
in quelle raunanze e spesso diedero argomento a dispute sull' amore,
molte infatti terminano ponendo prosulla cortesia, sulla gentilezza
nelle quali fra giovani allegri e dame piacevoli
blemi di tal fatta
esultava la tradizionale giocondit della gente senese. L'autore , non
molto dopo il 1424, le raccolse a soddisfazione d'un amico in numero
di quaranta e ne fece, non un libro, egli dice, ma uno paneretto
d'insalatella . Con che volle scusarsi d' averle adunate alla rinfusa
senza un disegno e d'avervi mescolato componimenti d'altra natura,
le

quali la vivissima descrizione

del gioco

Venere e versi moraleggianti, fra

il

delle

pugna

una visione

di

dilagare dell'oscenit, sulla vita

pubblica e sulla vita domestica.


Masuccio
a ernitano.

Non

ma un

da essere riposto nella gloriosa


duca di Calabria, intese di mettere insieme Masuccio Salernitano colle novelle che era venuto scrivendo forse fin dal 1460 e dedicando alla spicciolata a principi, a baroni, a letterati del Regno. Le raggrupp a dieci a dieci in cinque
un'insalatella,

1^]^^^

libro

Ippolita Sforza, moglie al

parti, secondo l'affinit degli argomenti e rappicc ciascuna di esse alla


successiva mediante una chiusa, che serve anche a mettere in evidenza

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

Tammaes tramento morale. Di Masuccio restano

129

scarse notizie sappiamo


che apparteneva alla nobile famiglia salernitana dei Guardati, che fu
segretario di Roberto Sanse ver ino ed ebbe relazioni d'amicizia o di devozione con personaggi insigni della corte aragonese poco o null'altro.
Il suo Novellino fu messo a stampa nel 1476 con una dedica alla bella
e dotta figliuola di Francesco Sforza intitolazione singolarmente atta
i costumi
notarono gi il Landau ed il Gaspary
a lumeggiare
del tempo, chi ripensi l'oscenit di molti racconti e le lodi, che i contemporanei tributano alla principessa, donna di oneste parole, di egregi
:

costumi o di inaudita pudicizia .


Masuccio senza dubbio il pi ragguardevole fra i novellieri italiani
di secolo XV. Tratta dei pi vari argomenti, narra ordinato e chiaro,
n sazia il lettore, come fa spesso il Sermini, colla prolissit dell'esposizione; anzi talvolta troppo rapido o troppo generico.

sentir lui,

avvenute, le pi, nei


moderni tempi e quelle che de antiqua veste e de canuta barba sono
ornate, da persone de grandissima autorit per istorie approvate
(p. 536). Vanto consueto negli scrittori della medesima risma, al quale
nessuno obbligato a dar fede. Tanto meno lo prenderemo sul serio
noi, che leggendo il Novellino dobbiamo tratto tratto stupirci di trovare degli sconosciuti l dove l'identit o la simiglianza dei casi ci
farebbe aspettare delle vecchie conoscenze. Messer Bertramo d'Aquino,
il pi savio e gagliardo cavaliere che fosse nell' esercito di re Carlo
d'Angi, avrebbe usata, secondo Masuccio, una grande liberalit a
messer Corrado, marito di Fiola Torella (nov. XXI) ma se diamo retta
ad un prelato inglese del duodecimo secolo, l'onore della nobile azione
di un tal Reso, e, se a Giovanni Fiorentino (I, 1), di Galgano da
Siena, ch sarebbe stato in ugual modo e in simili circostanze cortese
allo Stricca di dantesca memoria. Il mugnaio Agostino ed il calzolaio
Petruccio colle loro degnisime spose non furono certo i primi ad architettare le trame e a cader vittime degli equivoci, che metton capo
alla comunanza delle mogli (XXXVI); prima del Salernitano avevano
novellato di simili garbugli il Sacchetti, il Poggio, il Sermini, per non
dir di scrittori stranieri. Cos la gherminella del fuoco, colla quale un
frate si fa rendere dal proprietario legittimo una pezza di tela che
gli aveva frodato, era stata felicemente sperimentata dal prete Amis,
protagonista d'un poemetto tedesco del XIII secolo e, con qualche modificazione, da quella buona, lana di frate Bonseca, di cui parla il Serjcambi. Riscontri codesti, i quali provano non gi che Masuccio attingesse agli scrittori, di cui s' fatto ricordo, ma che la materia d'alcune sue novelle spetta al gran patrimonio della tradizione popolaresca. Egli rimaneggi quella materia, volgendone il significato morale
a' suoi fini e collocando la scena dei racconti per lo pi in terre del
Mezzogiorno, che designa precisamente, spesso con copia di indicazioni
le

sue novelle son tutte verissime istorie

topografiche.

Ma

rosst.

fatti

che in molt' altre novelle

La

leti. ital.

nel sec.

XV.

si

narrano, ben possono essere


^

130

CAPITOLO QUARTO.

avvenuti a quei d, sia pure con altri particolari e in meno comiche


circostanze, che la malignit dei relatori e l'arte del novelliere non
abbiano immaginato. Non dureremmo fatica, per esempio, a credere che
poggi sul vero la novella XV, che gaiamente narra di un novo contratto anzi compera, fatto tra un mantovano da dovero babbione e
un cardinale durante il congresso del 1459, se codesto nuovo fariseo fosse propriamente, come sospetta a buon dritto il Settembrini,
il card. Rodrigo Borgia, le cui dissolutezze furono l'anno dopo riprovate da Pio II in un monito severo.
Che quivi Masuccio intessesse al vero fregi fantastici, anche molto
probabile, attesa la sua fiera avversione agli ecclesiastici corrotti. Tutte
e dieci le novelle della prima parte tendono appunto a svelare alcune
dotestande opere di certi religiosi , la cui lorda vita lo scrittore fruga
con analisi insistente e spietata per mettere in evidenza i vizi ond'essi
son lerci: l'ipocrisia delle parole e degli atti, le astuzie che usano in
trarre a lor voglie le donne, l'ingordigia di lucri insaziata, il mercato
delle indulgenze e delle assoluzioni, le raffinate giunterie con cui gabgonzi. Egli non d loro tregua li segue dovunque, sulle piazze,
bano
ove mettono in mostra false reliquie o fngono miracoli d'accordo con
prezzolati compari; nelle chiese, dove per coprire le loro magagne
i

non ristanno dinanzi

al pi sconcio sacrilegio; nei conventi, spelonpi presto che abitacoli de servi di Dio , dove germogliano gelosie, maturano discordie, scoppiano zuffe e senza veli si ma-

che

di ladri

nifesta

il

gione.

Lo

cinico disprezzo di quei novi santi per le cose della relistaffile del

novelliere salernitano prende di mira specialmente

frati d'ogni ordine,

colari, preti,

ma pur

anche

vescovi e cardinali.

La

le

monache e

gli ecclesiastici

descrizione della vita che

si

se-

me-

nava nei conventi femminili, si colora, nella chiusa della sesta novella,
di tinte veramente tragiche. Perch nel Novellino la dipintura di tante
gagliofferie non , come nel Decameron, fonte di riso; anzi ha un
mettere in guardia i secolari contro le arti dei
Masuccio vorrebbe che la terra inghiottisse vivi
o che fossero almeno bollati, affinch non potessero andar confusi coi
pochi buoni. Per lui pi riprensibile mancamento conversare e tener
trame con monaci che con eretici.
Men rilevata impronta individuale e maggiore affinit colla letteratura tradizionale, hanno le novelle, che satireggiano il defettivo
muliebre sesso . Ne piena tutta la terza parte. Le altre parti raccolgono piacevoli accidenti senza offensione d' altrui materia lacrimevole e mesta, esemp di gran magnificenza e di straordinaria virt.
Qua ti imbatti nella comica storiella, ove suona 1' eco di gelosie e di
mormorazioni municipali, di quell'amalfitano, che, venendo a Napoli,
pi oltre ti si presensi credette inseguito da un appiccato (XVIII)
tano le avventure di Mariotto Mignanelii e di Giannozza, simili, ecfine serio,

quello

di

cattivi religiosi. I quali

cetto che nella fine, a quelle di Romeo e Giulietta (XXXIII) altrove senti
novellare della grande liberalit del re di Portogallo (XLVI) e dell'au;

stera giustizia di quel di Sicilia.

131

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

Ammiratore del Boccaccio, Masuccio

ingegn sempre

si

lo

con-

imitarne l'ornatissimo idioma e lo stile. Infatti


fessa egli stesso
la sua lingua nel fondo il volgare aulico, quale lo aveva foggiato,
con tanto pi di
il grande novellatore
affinando la parlata toscana
latinismo quanto men adatti a sentire nell'armonia d'una lingua le
stonature sono l'orecchio ed il gusto , se educati a ci dallo studio e
di

che non se temprati da privilegio di natura, e con


elementi dialettali nella fonetica, nella morfologia e
nel lessico. Di stampo boccaccesco anche lo stile, il quale nella narrazione
procede, se ne togli una cotal sua vaghezza di trasposizioni, abbastanza

dalla riflessione

buon numero

di

franco e leggiero, laddove nelle dedicatorie conservate in capo a ciascuna novella e nei discorsi che in alcune sono intromessi (p. es.
nov. XXXV, XLII, XLVI), sfoggia ornamenti rettorici e classiche pompe
e

periodi solenni, complessi di proposizioni subordinate e incidenti.


Il

novelliere salernitano

e vivono nei

secoli

non ha

l'arte squisita

d'una vita tutta lor propria

inganno

per cui

si

animano

le creazioni della

fan-

Alberto e la sciocchezza credenzna, onde madonna Lisetta da ca' Quirino cade nelle
reti di lui, si disegnano con istupendo rilievo su di uno sfondo di caratteri bene individuati, nella novlla del Decameron seconda della quarta
tasia del Certaldese.

Il

sacrilego

di frate

giornata. Colla qual novella ha simiglianza od almeno parallelismo di

ma quivi i contorni del quadro dove


trama del frate domenicano, sfumano nella figurazione della vita di tutta una classe, anzi che nel passato, visto in
iscorcio, di un uomo, e l'ingenuit di Barbara si confonde coli' ingecasi

seconda

la

campeggia

di

Masuccio;

la sconcia

nuit innocente di ogni altra fanciulla. Chi non ricorda la novella

di

fra Cipolla (De<;. VI, 10), tutta impregnata di spirito fine, tutta sor-

ridente, non sai bene se per compassione o per dileggio, della buaggine dei Certaldesi ? Frate Girolamo da Spoleto nella nov. XLI di Masuccio un nuovo fra Cipolla, che ha appreso a giovarsi per i suoi
intenti

ha

anche degli infingimenti di Martellino (Decam. II, 1), ma non


n la prontezza di ripieghi del suo antenato anche di lui

lo spirito,

la persona

uomini
tri

si

dilegua nel tipo. Cos

suoi ascoltatori,

Sorrentini, sono

Girolamo ne trover di simili in cent'almedesime arti e parole; laddove il carattere

di grossa pasta, e fra

luoghi e

li

gabber

colle

peculiare dei Certaldesi traspare da tutto


ispecial

modo da

il

racconto boccaccesco e in

quella sapiente allusione del frate alla buona guardia,

Antonio del loro bestiame in premio delle elemosine;


altrove fra Cipolla dovr atteggiare altramente la sua furberia. Pure

che far S.

a Masuccio non manca

in qualche luogo

una notevole

efficacia di

rapo

presentazione, l specialmente dove egli tratteggia delle scene piuttostche delle figure. Il dialogo fra il calzolaio Petruccio e la Caterina nella

novella XXXVI ha movimento vivo e spigliato la tragica novella


due amanti Martina e Loisi (XXVI), con quella sua descrizione
;

con quell'annuncio brutale dell'uccisione del giovane


veramente cupa tristezza.

lebbrosi,

dei

dei

spira

132
Saladino
li'Ui

(m.

\riontl
lioj.

CAPITOLO QUARTO.

Lode di novellatore vivo ed efficace non saprei dare ai bolognese


Giovanni Sabbadino degli Arienti. Nato verso la met del secolo XV,
egli fu per vent'anni segretario di Andrea Bentivoglio; poi, tra il 1491
e il 92, dimor alla corte ferrarese di Ercole I, col quale aveva stretto
relazione gi da molti anni; e tornato a Bologna, visse fino ai 1510
in condizioni non floride, accattando i favori degli Este e dei Gonzaga,
cui rendeva servigi di corrispondente politico, artistico e letterario.
Esperto raccoglitore d'aneddoti e di notizie Sabbadino appare anche nelle
due pi importanti fra le molte sue opere, la Gynevera, de le clave
donne e le novelle. La prima, dedicata intorno al 1490 a Ginevra

nome

di lei intitolata, una silloge di trenta


donne moderne, condotta in alcun luogo
sulle tracce del De plurimi s clars scelestisque mulieribus di Jacopo
Filippo Foresti da Bergamo
seppure non il Foresti che segue le
orme di Sabbadino,
e scritta in istile grave e maestoso con grande

Sforza Bentivoglio e dal

biografie od elogi di illustri

copia ai latinismi.

Le novelle, dedicate ad Ercole d'Este ed impresse


sommano a sessantuna e si denominano Porr etane,

a Bologna nel 1483,

perch l'autore le immagin narrate al bagno della Porretta nella stale


1475 da una brigata di nobili cavalieri di letterati e di donne
gentili, che si raduna per quattro giorni consecutivi qua e l nei bodel

schetti fragranti dell'Appennino.

La

1478, mentre fuggiva in


nella sua impostatura il
Decameron, e del Decameron rivela l'imitazione pur nella lingua e
nello stile. Questo in generale men pesante e pi spigliato che nella
Gynevera, quantunque talvolta specie nelle considerazioni morali
aggiunte ad ogni novella e nella dedica e nella chiusa dell'opera, assuma atteggiamenti oratori e pedanteschi. La lingua pi che di latineggianti reminiscenze di scuola, brulica di parole e di forme dialettali
rampollanti all'insaputa e contro la volont dello scrittore. Un rivolo
dedotto dal gran fiume della novellistica popolare scorre anche nelle
Porretane, ma povero d'acque e visibile nettamente solo di rado. Forse
nessun'altra novella, oltre a quella di Filoconio, figlio del re di Portogallo, e di Eugenia d'Inghilterra, la quale rif la storia famosa della
bella Maghelona, svolge per intero e con fedelt di riproduzione perfino nei particolari un tema che abbia profonde radici nella tradizione.
Sabbadino preferisce narrare e stemperare in una greve e scolorita
prolissit aneddoti, facezie, motti scherzosi, spesso di personaggi storici,
come di Felice Feliciano, il gentiluomo veronese liberale e piacevole,
che fu un ardente collettore d'antichit (nov. Ili e XIV), e imbranca
tra le novelle due di quelle dispute, che il civile consorzio del tempo
villa

il

raccolta,

che

l'

Arienti compil nel

pericolo della peste, arieggia

dovunque

gradiva

se pi

eccellente

dignit

abbia

il

cavaliere

il

dottor di

legge o il conte (nov. LX), e qual sia stata maggiore magnanimit,


quella di Filippo Maria Visconti, che lasci libero Alfonso d'Aragona
dopo la battaglia di Ponza, o quella di Ottaviano, che perdon ad Erode
(nov. LXI). Ma alcune novelle palesano pur nell'argomento l'imitazione

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

133

od almeno l'ispirazione boccaccesca. La XLV, ove si narra d'una moglie


che, chiusa fuor di casa dal marito, per via d'un'astuzia lo ricambi
di ugual moneta, rassomiglia alla quarta della settima giornata del Decameron; la XIII, che vuoisi raccontata da fra Roberto Caracciolo
mordendo il mal costume dei Fiorentini
in san Petronio
deve
far riscontro a quella, in cui il Boccaccio (Vili, 7) inquin l'onesta
fama del nostro son parole di Sabbadino, muliebre sesso, dicendo che
la dolcezza del bolognese sangue non fu mai de pianti n de suspiri
vaga . Del pari quei teschi d' oca, che don Agostino d a baciare
come venerande reliquie a certe donne (nov. XL VII), si sarebbero po,

tuti riporre,

come

in lor proprio luogo, nella cassettina di frate Cipolla

accanto alla penna dell'agnolo Gabriello od ai carboni di san Lorenzo.


Il Decameron dunque viveva ancora, nel secolo XV, una vita gio- La
vanile e diffondeva intorno a s energie

sempre operose. Imitatori

non mancarono neppure ad altre opere del novellatore certaldese. La


Deiftra di Leon Battista Alberti un dialogo, nel quale Filomeno,
pazzamente innamorato di Deifira e da lei abbandonato, palesa lo strazio dell'anima sua a Polidoro, che gli prodiga conforti e lo consiglia
a rinunciare a quell'amore. Quivi

rammentano

gli

Dei/tra

'

berti

e le

^"'ros**"

sfoghi appassionati del giovane

amante
messer Giovanni, che nell'opuscolo dello scrittore quattrocentista
poterono di leggieri essere introdotti da qualche rimaneggiatore lunghi frammenti della Fiammetta. La quale e il Filocopo furono senza
dubbio, in una colle versioni in prosa delle Eroidi, le sorgenti oninfelice

siffattamente le querimonie della derelitta

di

d'ebbe alimento di succhi ovidiani una numerosa sequela di epistole in


volgare d'argomento amoroso, fredde e monotone, ch di null'altro
son conteste se non delle solite preghiere e dei soliti lamenti, ma ampollose ed enfatiche nello stile. Ne scrisse alcune l'Alberti stesso altre
un napoletano, che conosceremo meglio pi oltre, Pier Jacopo de Jennaro; ma la maggior parte di esse opera di pi oscuri letterati, dei
quali perfino il nome ci sfugge. Del Filocopo poi ha tutta la faticosa
gravezza stilistica ed accoglie tutto il vano fogliame d'ornamenti mitologici, un romanzo, che la. critica ingegnosa di Alessandro Wesselofsky ha restituito a Giovanni Gherardi da Prato, Y espositore a noi
noto (p. 89) della Commedia dantesca.
Invocata la divina Talia la delfica deitade e la clipeata Minerva,
l'autore vi prende a narrare un suo fantastico viaggio per il Tirreno,
J
lungo la costa meridionale della Sicilia e nell'arcipelago fino a Cipro. Creta, di
ove si sofferma per breve tempo e che trova desolata e deserta, gli
suggerisce una lunga dissertazione sulla edace forza del tempo, che
tutto consuma e che il Gherardi
ligio alle teorie professate dal Boc;

caccio nel

De

vede raffigurata nella poetica finzione

genealogiis,

di

In simil guisa, giunto a Cipro interpreta le favole di Venere, la leggenda virgiliana di Enea e il mito
di Ercole. Indi visita l'isola sacra alla dea d' amore e descrive i di-

Saturno divoratore de' suoi

lettevoli orti

variamente

nati.

fioriti

soavemente olezzanti

ed un tea-

go.

Ghe-

134

CAPITOLO QUARTO.

tro adorno di

marmi

e di preziosi lapilli , dove nel

una fontana sormontata

glia

dalle figure di

intorno corrono logge istoriate dei

Mentre

lo scrittore

Venere e

fatti degli

mezzo gorgo-

intorno
amanti e degli amici famosi.
di Cupido, e

ammira, ritratto sulle pareti dell'interno, il trionfo


una voce gli parla delle varie specie del-

degli eroi devoti alla patria,

l'amore, intrecciando a larghe reminiscenze dantesche teoriche


losofi antichi.

Ed

egli si parte, risoluto a seguire

di fi-

sanTale la contenenza del primo libro.


Negli altri quattro la rappresentazione di gentili costumanze fiorentine ravviva dinanzi alla nostra mente scene che ricordano l' episodio
delle questioni amorose nel Filocopo, meglio che la cornice del De-

tissimo

amore divino

cameron.

Il

il

glorioso e

pratese narra

come

nella sua tenera etade

visitati

accompagnasse un giorno ad
una nobile brigata, che in Campaldino godeva della liberale ospitalit

luoghi sacri dell'Appennino toscano,

si

canto di dolcissimi versi e gli scherzi dei


il pranzo
poi vi ebbero anche
pi serii trattenimenti. Si disput sul nome di Pratovecchio, onde Guido
del Palagio tolse occasione a raccontare la novella dell'origine di Prato
in vai di Bisenzio e, germogliando question da questione, frate Luigi
Marsili, pur allora sopraggiunto, a spiegare come illusioni diaboliche
le trasformazioni degli uomini in animali e ad esporre, per conferma
della sua sentenza
la novella di Michele Scoto. Poscia il Marsili
stesso ragion dell'ottima forma di reggimento, allegando le dottrine
del conte Carlo da Poppi.

Il

buffoni rallegrarono la passeggiata ed

dei filosofi e le teorie politiche care agli umanisti, e conchiuse aversi

a riporre migliore speranza in signoria di buona legge, la quale assai


leggiermente si truova, che di giustissimo re impossibile a trovallo .
(voi.

II, p.

229).

Tornata a Firenze,

la brigata si riun

di

bel nuovo,

accresciuta,

nell'amenissima villa di Antonio di Niccol degli Alberti. Le raunanze,


allegre ed erudite, che ivi

si

succedettero per tre

giorni, rette

via

maestro Marsilio da santa Sofa,


lettore di medicina nello Studio, e di Coluccio, son quelle di che abbiamo gi tenuto discorso appunto sulla fede del Gherardi. Nella villa
via

dall'autorit

fiorentina,

come

di

frate

Luigi,

di

poc'anzi sulle pendici

dispute storiche e filosofiche

si

dell'Appennino casentinese,

alternarono col racconto

di

le

novelle:

graziosa fra tutte per vaghezza di situazioni e di eventi quella di Bonifazio Liberti

(lib.

IV), popolata di personaggi boccacceschi

vive per ispigliatezza di

stile

(Decam. X,

7);

e per la svelta agilit dei dialoghi, quelle

di Dolcibene (lib. III), di Nofri speziale, di Berto e More (lib. IV),


che vengono raccontate dai piacevoli uomini della compagnia.
E dal nome della villa il Wesselofsky, mettendo a stampa il romanzo,
lo intitol 11 Paradiso degli Alberti. Messer Giovanni lo compose in

et provetta

come un caro ricordo

de' suoi giovani anni e forse lo lasci

egli stesso incompiuto.

Come

nel Paradiso

si

raccozzano in mal digesta miscela elementi vari,


ammantare solennemente il racconto

boccacceschi, classici e danteschi, ad

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

135

scene per la massima parte' reali, cos, o poco diversamente, nel Peredi Jacopo Caviceo, un romanzo che fu scritto a Ferrara nell'ultimo
decennio del secolo e dato in luce dall'autore nel 1508. Vi palese l'indi

grino

tento di rappresentare sotto

il velo di un' allegoria la volubilit, pauFortuna, cio l'ansietade e procella dell'umana


vita , ma vi hanno posto anche personaggi reali ed episodi allusivi
alla travagliosa esistenza del Caviceo. Strano uomo costui! Prete ed
oratore sacro famoso, fa costretto a far vela per il Levante per isfug-

rosa

ai mortali, della

gire alla pena di


il

vescovo

di

un

sacrilego peccato; graziato, avvers fieramente

Parma, sua

patria,

il

quale vessava con gravi imposizioni

dovette alla fine lasciar quella sede (1473); fido


alla fazione dei Rossi, serv Pier Maria quale rappresentante di lui a
gli

ecclesiastici

Venezia e con Guido partecip

al fatto

d'arme

di

Rovereto contro

l'ar-

ciduca Sigismondo (1487); fu vicario generale del vescovo di Rimini


(1492-94), poi di quelli di Ferrara, di Firenze e di Siena, e ritiratosi
finalmente a Montecchio in quel di Parma, vi mor nel 1511 a ses-

santotto anni.
Egli immagina che Peregrino stesso gli appaia in sogno e gli narri
vicende del suo amore, i pericoli corsi, le astuzie e gli stratagemmi
architettati da lui per trovarsi con Ginevra, la bella fanciulla ferrarese di cui era preso, e gli riferisca le prediche morali che ella gli teneva per calmarne l'ardenza sensuale e ridurlo a virt. Lunghi viaggi e
avventurosi Peregrino comp, prima per soddisfare ad un voto fatto da lei
a santa Caterina in finibus terrae , poi, quando Ginevra non gli dava
pi sue notizie, per rintracciarla. La trov finalmente a Ravenna in un
monastero, ed ottenuto per via di sotterfugi l'assenso del padre della
fanciulla, la ebbe infine in isposa. Ma fu breve la loro felicit, ch
Ginevra mor dando alla luce un bambino, e lo sposo, chiamato in sogno
da lei, Ja segu poco appresso. Cos ha fine il romanzo, nel quale l'imitazione del Filocopo appare non solamente nella forma stilistica, ma
anche nella materia. Non dissimile ossatura hanno i due libri; n dissimili sono l'intento ed alcune vicende del viaggio di Florio dall'intento
e dalle vicende del secondo viaggio di Peregrino. Ginevra, sedente come
le

compagne convenute a pescare sulle rive d'un fuad una questione d'amore, mentre
ascolta inosservato (lib. I, cap. 37-42), rassembra Fiam-

imperatrice fra

le

micello, e disputante con esse intorno

Peregrino

la

metta, regina della nobil brigata in cui Florio


di

Napoli. Ma

non dubbie reminiscenze

si

avviene nei pressi

virgiliane e dantesche rifioriscono

invece sotto la penna del Caviceo, quand'egli prende a descrivere l'In-

dove Peregrino guidato da Anselmo, romito damasceno di


(lib. Ili, cap. 3. segg.); e personificazioni di stampo medievale francese guardano l'entrata degli Elisi, luogo, secondo la fantasia
del Caviceo di espiazione , dove le anime pentite stanse a maggiore
gloria attendendo (III, 12). Quivi Peregrino vede raccolte in vari
gruppi dinanzi al trono deserto di Amore le ombre di coloro che,
servendo a quel nume, acquistarono in vario grado onore e fama:
ferno,

santa vita

n Pere _
9 rino

136

CAPITOLO QUARTO.

Leonello, Niccol e BorsocTEstc, Federigo d'Urbino, Pier Maria de' Rossi,


Cosimo de' Medici, Sante Bentivoglio e pi altri signori italiani e forestieri; ed apprende da Astanna, la fonte compiacente piombata allora
laggi, le sospirate notizie della fanciulla adorata.
Novelle
spiccioiate.

^ar

P era letteraria, calcando deliberatamente le orme del Bocproposero, qual pi qaal meno, i novellatori e i romanzieri,
di cui s' tenuto discorso fin qui. Altri scrissero alcune novelle spic-D*

caccio,

si

che in loro era dono di natura, alla buona, in


prosa semplice e schietta, e se talvolta tennero alcun poco della maniera

ciolate colla festivit

del Boccaccio, lo fecero, nota egregiamente il Del Lungo, senza avvedersene, in grazia della grande popolarit, di cui godeva il Decameron e perch quella maniera s' era connaturata nel genere. L'amor
del reale, che gi nel secolo XIV tramutava in Italia le leggende
miracolose in narrazioni di fatti umani straordinari e che esult con
pi liberi moti nel Rinascimento, testimoni insigni le arti figurative,
.

trovava pascolo gradito in codeste novelle


allegri
vit0 fior;n _
tiaa popola-

che

ci

serbano ricordo

di

episodi della vita fiorentina di allora.

Mentre ai cartolai, nelle stanze di Cosimo, in casa il Niccoli, nella


di Ambrogio si disputava di letteratura, di filosofia e d'arte.
compagnie popolaresche convenivano la sera nelle logge, nei fondachi,
alle panchette di sollazzo in piazza dei signori o in Mercato Nuovo per
ce ]l a

Artigiani modesti, a cui spesso s'accompagnava senza


atteggiamenti
l'artefice grande e geniale, come pari a loro
studiati
ch'egli era d'origine e di educazione, mercanti, lanaioli, notai, cavalieri e trombetti di palagio, gente dabbene e d' intelletto, pronta al
motteggio, ciarlavano ciascuno dell'arte o professione sua, si accaloradarsi svago.

vano intorno

alle questioni della giornata, si

pungenti. Scattava

lanciavano a vicenda

sonetto faceto o irto di allusioni

frizzi

che
bocca in bocca per la citt e che gli araldi ripetevano fra un ternario morale e l'altro alla mensa dei Priori, e i sottili
uomini tendevano le reti con che si dilettavano di dar. noia ai semplici.
Grande architetto non pur di chiese e di palazzi, ma di burle, Filippo
Brunelleschi, nel 1409, ne fece una solenne a Manetto Ammannatini,
e Donatello ebbe parte con
il Grasso legnaiolo, dandogli a credere
ch'egli, Manetto, fosse diventato un altro, e manaltri in gabbarlo
tenendolo con mille bizzarri avvedimenti in tale credenza. Fu una
compassione il tiro che Lioncino di messer Guccio de' Nobili con Anil

domani correva

il

satiriche,

di

tonio di Meglio cavaliere di palagio e Niccol Tinucci,

giocarono a Lottieri Alfani detto

il

un notaro

Bianco, quando, nel

1428,

poeta,
gli fe-

cero pervenire una fnta elezione a podest di Norcia ed egli rinunci


all'ufficio suo delle Stinche e sacrific parte degli averi per prepararsi
alla nuova dignit ed al viaggio, onde avea a tornare scornato.
nacquero due guDa queste giarde
cosi le dicevano allora,

Le

diletto ad altre brigate. Quella del Grasso


novelle,' che diedero poi
r
del Grasso
e dei Bian- legnatolo fu raccolta da parecchi e messa in iscritto; ma non sappiamo
novelle

s tose

con certezza a chi voglia ssere attribuita ciascuna delle tre dettature

137

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA.

forma; come ignoriamo chi


abbia raccolta dalle labbra di Lioncino stesso la novella del Bianco
Alfani. Certo egli fu tutt'uno con quel fiorentino, che ci tramand la
storia di Madonna Lisetta Levaldini, sudicia storia, che Piero di Filippo
che se ne hanno

varie di sostanza e

del Nero, detto Piero Veneziano,

di

uomo

lieto,

Altre novelle

"

piacevole, universale

ingegno meraviglioso massime in compor novelle e far ballate e


sonetti , il meglio accetto compagno nelle feste fiorentine prima del 1430,
soleva narrare, colorendo il racconto con atti e gesti accomodati.
Spetta forse ancora alla fine del secolo XIV una novella, che narra
con gran copia di particolari la sottile astuzia, onde Buonaccorso di Lapo
Giovanni rimase uccellato da un messer Giovanni, gran furbacchione,
ed anch'essa fiorentina, come le due test ricordate e come due altre
cui certo dava gradevol sapore l'arguta canzonatura della vanit senese proverbiale fin dal tempo di Dante. Una reca in fronte il nome famoso di Luigi Pulci che la dedic ad Ippolita Sforza duchessa di
Calabria l'altra anonima. Quella berteggia un ignoto senese per la

d'

zotica guisa, in cui fece gli onori di casa a ser Goro, familiare di Pio

II,

e per la dabbenaggine, di che diede prova comperando ed inviando in


dono al pontefice un picchio per un pappagallo; questa espone la trama

un giovane fiorentino condusse Giacoppo


nuovi pesci di cui era abbondevole Siena, a
divenire galeotto della propria moglie. Quivi con vivacit elegantissima
sono ritratte le varie scene, e i personaggi rappresentati con garbata

furfantesca, mediante la quale


Belanti,

un

di quei

mezzo a tutti frate Antonio della Marca, il confessor


che degnamente precorre al fra Timoteo della Mandragola.
Di piacevoli aneddoti e motti salaci, che sono o si pretendono anch'essi desunti dalla realt della vita, sono conteste alcune raccolte
ove si rinnova e, sto per dire si scheletrisce la maniera
di facezie
di per. s arida e dimessa del Sacchetti.
Come in pi opere che abbiamo altrove esaminato, il volgare si Le Facezie
0
studia di assumere gli atteggiamenti gravi e composti del latino, cosi
^g^Jg')
il latino scende alla modesta andatura del volgare nel Liber facetarum del Poggio. L' Alberti e il Palmieri avevano inteso a mostrare
la lingua italiana atta alla trattazione di argomenti elevati; il Poggio
volle sperimentare l'attitudine del latino a dir cose frivole senza cadere

efficacia; risalta in

di Giacoppo,

nel vile, e

non cerc n eleganza naltezza

di

forma

stilistica,

come

sconvenienti alla materia, pago ad una cotal efficacia e disinvoltura di


narrazione. Il libro fu da lui composto a poco a poco dal 1438 fin

verso

il

1452, e pubblicato dapprima a frammenti via via che l'avida


parte di mano. Vi sono
che allietavano le conversazioni
tempo di papa Martino fatte-

curiosit degli amici gliene toglieva qualche

narrate, accanto ad altre


dei segretari pontifici nel
relli

le storielle

Bugiale

al

spesso osceni e indecenti, motti spiritosi,

burle anche spietate,

prodigi, favolette di animali con significato allegorico. Nella

racconti evidente

parte di

tali

nisce

suo avversario Francesco

il

il

maggior
Poggio qua schermette alla berlina la

fine satirico. Il

Filelfo

l,

138

CAPITOLO QUARTO.

sciocchezza, la pazzia e la malvagit del cardinale Angelotto; in pi


facezie proverbia, come uomini stolti, i Veneziani, di che gli fu mosso

aspro rimprovero; in altre mena la frusta contro gli ipocriti; ma soprattutto volge gli aculei della sua satira contro le magagne della
curia e l'avarizia sordida degli ecclesiastici. Protagonisti degli aneddoti,
alcuni dei quali spettano al repertorio della tradizione, sono spesso
uomini illustri, come Pier delle Vigne, Dante il Marsili o personaggi
,

ben noti

alla letteratura novellistica

come Ridolfo da Camerino, savisGonnella e madonna Bambacaia

simo signore, al dir del Sacchetti, il


de conti di Montescudaio (G2), donna, assicura il Sercambi, d'una
profonda virt ed onest del suo corpo, alla quale uomini e donne
andavano per risposta d'alcune questioni e d'altre cose . Ma vi si incontrano anche piacevoli uomini coetanei del Poggio Pasquino da Siena,
destro nel dire in rima (177) e Zuccaro, gran mangiatore e giocon1

dissimo

compagnone

Non sono

(8,

140).

novellette, bens favole alla foggia esopiana, gli

Apologi
che in latino scrisse Leon Battista Alberti; invece col libro del Poggio
fa il paio una raccolta di facezie in lingua italiana, che fu raccozzata
in sullo scorcio del secolo e pi tardi largamente sfruttata dal Domenichi. Anche in essa varia quasi ad ogni storiella il protagonista
ma
qualche altro dilettante del genere si piacque di radunare gli scherzi,
le burle, che si solevano attribuire ad un sol personaggio, ed
i motti,
cos
nascimento le Buffonerie del Gonnella, delle quali dubbio
ebbero
Le Buffoner
l a dettatura in ottave o quella in prosa e le
se P^ u an ^ ca
Faceneiia e Ve'
Facezie dei. zie del piovano Arlotto. Il Gonnella era stato un vero buffone, che
esercit la sua professione alla corte estense ai tempi di Obizzo II e
di cui novell il Sachetti; forse ve n'ebbe pi tardi un altro dello
stesso nome, seppure meritano fede testimonianze d'altri scrittori. Ad
Arlotto di Giovanni Mainar di (1396-1483), piovano per quasi sessantanni di san Cresci a Maciuoli nella diocesi di Fiesole, l'umor gaio
e lo spirito pronto ed arguto diedero fama popolare e fecero di lui
come a dire il prototipo dell'uomo faceto. Il Gonnella sguazzava volentieri nel fango e non rifuggiva da sudicerie e da sconcezze le sue
facezie e le sue burle non hanno per lo pi altro scopo se non di
provocare al riso gli spettatori anche alle spalle di qualche povero
diavolo o di. munger loro il borsellino. Senza confronto pi pulite, le
piacevolezze del sere da Maciuoli sono il pi delle volte arguzie od
artifizi, che egli escogita rapidamente per levar s ed altri d'impaccio
o per rimbeccare un rimprovero o per pungere qualche importuno o
;

per mordere

difetti altrui.

La gran voga che

gi in

sullo scorcio del

secolo

XV

ebbero

lo

Facezie del Poggio e dell'Arlotto e le Buffonerie del Gonnella, mostra quanto la civil comunanza fosse vaga di simili spassi. I quali,
pur nella loro frivolezza, giovano allo storico per intendere i caratteri intimi e le tendenze di quella societ. Come gli scherzi triviali
e le burle crudeli, meglio adatte a suscitare compassione per i po-

LA LETTERATURA ORIGINALE IN PROSA


veri perseguitati
sto

fra

la

che

ilarit

grossolanit dei

139

sono un indizio eloquente del contramorali e la raffinatezza delle

concetti

costumanze esteriori, cos la scipitaggine della maggior parte di quelle


facezie, che pur destavano grasse risate, suppone una puerile ingenuit
di sentire, assai strana in un'epoca di grande avanzamento intellettuale.
Nelle raccolte che si sono enumerate, quasi sempre designato precisamente s l'inventore della burla o l'autore del motto e s la vittima;
eppure difficile rilevar, nelle burle e nei motti caratteri individuali
ben definiti; tant' vero che di una stessa facezia sono spesso additati pi artefici ed a qualche moderno se ne ascrivono alcune di vita
ormai secolare. Anche qui traluce l'alta coscienza del valore dell'individuo, che propria degli uomini del Risorgimento; ma anche qui
codesto valore si assottiglia e dilegua quando si prenda a riscontrarlo
come un fatto oggettivo, nella realt.

CAPITOLO QUINTO.

La

lettersTtuira.

originale in versi.

La poesia profana.

Feste e sollazzi a Firenze.


Balli e ballate.
Venezia.
Lionardo Giustinian.
Lirica
popolare e semipopolare.
Canzoni e strambotti popolari.
Gli strambotti del Giustinian e le Giustiniane.
Lirica aulica.
La lirica d'amore in volgare Buonaccorso da Montemagno, Rosello Roselli, i due Accolti, Antonio di Meglio, Domizio Broccardo, Giusto de' Conti.
Gli artifci rettorici e 1' erudizione nella lirica d' amore in
volgare.
La lirica d' amore in latino : Gio Marrasio e altri.
G. A. Campano e
La lirica politica.
T. V. Strozzi.
Carattere cortigianesco della lirica quattrocenNiccol cieco.
tistica.
Le Odi del Filelfo.
Il Porcellio.
Sigismondo Malatesta e
la sua corte.
Ulsottaeus.
Epica aulica.
Basinio Basini e i suoi poemi.
L'epopea mitologica il Vellus aureum e 'Astyanax del Vegio, la Polydoreis del Baratella.
L'epopea storica: poemi dei due Filelfi, di Antonio Cornazzano e d'altri.
Le cronache rimate in lingua volgare: Lorenzo Spirito.
Epica popolare storica.
Poemetti popolari.
I cantastorie.
I lamenti storici.
Novelle in rima.
I
proverbi del Cornazzano.
Le novelle popolari e semipopolari in ottave.
Imitazioni
boccaccesche e dantesche.
Il Pescellino, Jacopo Serminocci, Lodovico Bartoli, Domenico da Prato.
I poemi di Giovanni Gherardi e di Piero del Giocolo,
La fortuna della Divina Commedia nel secolo XV.
I poemi del Palmieri, di M. Jonata
Visioni e trionfi.
di T. Sardi, di G. Fallamonica.
Cecchino da Venezia, Francesco Berlinghieri, Bastiano Foresi e altri.
La corte d'Urbino e la cronaca rimata
Poesia familiare, burlesca e "satirica.
di Giovanni Santi.
I poemetti di SteSonetti.
fano Finiguerri e di Gambino d'Arezzo.
Il Burchiello.
Francesco
I sonetti gnomici.
d'Altobianco Alberti.
Epigrammisti latini.
L' Hermaphroditus
Il De iocis ac seriis del Filelfo.
Le satire del Filelfo.
del Panormita.
Poesia
Le satire del Vinciguerra.
morale in volgare.

dM

i486.

1^6

il

Feste

fiorentine

giorno dell'Annunciazione, Firenze era infesta. Dopo

quasi vent'anni di lavoro, di dispute appassionate e di trepidazioni, la


Maria del Fiore era compiuta, ed un papa che, profugo
CU p 0 | a ^-

da Roma, avea trovato buona ospitalit in riva air Arno, consacrava


tempio che i fiorentini del 1300 aveano augurato, qual fu, il pi
bello ed onorevole di Toscana . Parato in pontificale e seguito dai
cardinali e dai vescovi nelle ricche lor fogge, Eugenio IV vi giunse
da S. Maria Novella per mezzo al Battistero su per un ponte di legno
costrutto apposta, cui ornavano tappeti ed arazzi, fiancheggiavano colonne fasciate di mirto e d'alloro e proteggevano panni azzurri e bianil

141

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.


chi

colori del pontefice

spioventi

in drappelloni lungh'esso tutto

il

cammino. La cerimonia fa celebrata in duomo con gran pompa con


iscambio di cortesie tra il papa e la Signoria, con giubilo del popolo.
,

Festa religiosa e tutta cittadina codesta; quasi interamente profana


e tutta medicea, quella che ventitr anni dopo salut il passaggio d un
altro pontefice partito di Roma in servigio del pi alto interesse della

e de)

mezzo alle sfarzose baldorie dei giorni a cavaliere tra


l'aprile e il maggio del 1459, Pio II che a malgrado della cagionevole salute si affrettava al congresso di Mantova, rimane nella penombiondo e
bra, e primeggia in suo luogo un giovinetto quindicenne
bello, venuto col a porgere al papa l'omaggio del proprio padre. CoCristianit. In

simo infermo, o dice di essere, a Cafaggilo, ma in quel giovinetto,


Galeazzo Maria Sforza, danzante il salterello, la chirintana, V angiolo, bella

colle

fanciulle fiorentine

tra

padiglioni, gli arazzi e

onde hanno addobbato Mercato nuovo, si riassume la politica


per lunga stagione praticata dal vecchio mercante, mentre nel nipote
di questo, Lorenzino di Piero, appena undicenne, eppure vispo ordinapancali,

tore di significativi sollazzi, gi balena

il

presagio dell'avvenire. Nulla

ne togli la rappresentazione dell'Ascensione, forse parlata nelle poche ottave di Feo Belcari, alla quale
assistette lo Sforza la vigilia dalla sua partenza (2 maggio). Nei d precedenti, una giostra in piazza S. Croce, il ballo in Mercato, lo spetdi sacro in quei festeggiamenti, se

palazzo dei Signori d'una zuffa sanguinosa tra animali selvaggi e domestici, ed una ricca armeggeria in via Larga alla
luce delle lumiere appiccate agli arpioni e delle accese fascine di stipa.
tacolo dinanzi al

Con Lorenzino, che

l'avea disegnata e che fra pochi anni sar detto


Magnifico, caracollarono da S. Marco a S. Giovanni su cavallucci
tutti frange e sonagliere dodici garzonetti suoi coetanei in giubberelli
il

ad imprese bizzarre e fiaccarono loro lance


scudo imbracciato da un giovinetto sotto le finestre gremite del
palazzo mediceo. In mezzo al qual giovenile rifiorimento di costumanze
cavalleresche del medio evo pass, rievocazione di fantasie pagane e
di ricordi petrarcheschi, su di un carro onde sprizzavano fuochi artificiati, il trionfo d'Amore.
di

broccato" trapunti

allo

Arrivi

di principi, di capitani e d'ambasciatori,

esultanze di vitto-

vita

nozze cittadinesche, le quali per l'uso di celebrarne al- ^uec.^


pompe fastose e per il largo distendersi delle famiglie nelle

rie e di paci,

l'aperto le

consorterie prendevano quasi l'aspetto di pubblici avvenimenti, davano


spesso occasione a feste affini alle due che mi piacque rammemorare,

come

atte ch'esse sono a rappresentar efficacemente la trasformazione

dei costumi e delle idee

che mturava a Firenze nel volger degli anni e


La vaghezza degli

nel graduale consolidarsi del predominio mediceo.

allegri trattenimenti e degli spassi geniali era nell'indole degli abitanti

e nelle tradizioni della citt, fiore d'Italia, e si espandeva, senz'aspettare


straordinarie occorrenze, nelle gaie consuetudini che a tempi deter-

minati

si

rinnovavano per abito inveterato.

142

CAPITOLO QUINTO.

XV

Certo a' fiorentini del secolo


non mancarono triboli. Quanti
quanta tristezza dalle epidemie, che cacciavano fuor delle mura
a fuggire il contagio nelle ville solitarie o nei paesi immuni i cittalutti,

men

Anche,

furon cagione i
malcontento serpeggiante all'interno per le prestanze ognor pi gravose nonch la
crescente autori l di Cosimo, che rintuzzava in sul nascere orgogli e
grandigie e lasciava lo donne nelle case deserte a pianger esuli i mariti ed i figli. Eppure consideratela nel suo insieme, quella vita; ripensatene le apparenze quali si riflettono nelle lettere, nelle novelle,
nelle poesie, nei documenti pubblici, e l'impressione generale sar di
benessere e di giocondit spensierata. Cos al forastiero, che capitava
ne ^ a citt del Battista nei d dell'annual festa del patrono, quando,
adorne le vie di serici drappi di vai di tavole dipinte di gioie e
d'intagli mirabili, tutte le arti facevano la mostra di loro mercerie e
lietamente rumoroso e dalle finestre addobbate
il popolo s' accalcava
sogguardavano le fanciulle fresche e gioiose pi che fior di spina ,
pareva tramutato di cielo in terra il paradiso. Ammirato egli vedeva
nell'ordine e nei giorni prescritti dal cerimoniale
sfilare la procesdini

pericoli e

bisognosi!
i

disastri

delle

di agitazioni e di dolori

guerre

esterne e, pi,

il

Giovanni

sione solenne' degli ecclesiastici,

delle

compagnie

di

dottrina e degli

macchine con suvvi sacre rappresentanze forse primamente


immaginate dal Brunelleschi i gonfaloni e gli ufci dello stato coi siediftzi,

gnori del contado e i rettori delle citt e delle castella del dominio
recar all'altare di S. Giovanni l'offerta dei ceri fioriti, e pel corso
verso porta alla Croce contendersi il palio di velluto cremisi a rapporti e frange d'oro i barberi pi vantaggiati d'Italia. Sfolgorava da
tutte parti il lusso, che a dispetto delle leggi suntuarie e dei moralisti, d'anno in anno cresceva, adornava le portature muliebri di ricami,
eli frastagli e di perle e tramutava col variar delle
fogge la vecchia
semplicit degli abiti maschili.

La
e

baUat e

solennit di S. Giovanni (24 giugno) era

come

l'epilogo

d'una

un g a sequela di feste, la qual, movendo dal primo tempo di primavera che, dice un antico, tutto il mondo rallegra e dal Calendimaggio olezzante, si stendeva fin verso la fine di giugno, n quivi ristava. Traevano le brigate sollazzevoli nei giardini della citt, nelle
ville sui colli e, quando vi avesse occasione di fiere o d'altre baldorie,

nei paesi circostanti.


Venite in danza,
Gente amorosa,
Non tenete ascosa
La dolce fiammetta,

Che s ben s'assetta


In alma gentile,

cantava l'Alberti in una frottola che nella variet e nel disordine,


propri di siffatti componimenti, dei metri, delle rime e dei pensieri ben
rappresenta il lieto rimescolo di quelle raunanze, ed esortava ai suoni f
,

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.


ai canti, agli

amori

143

giovani adorni e le fanciulle leggiadre.

gli

uni

e le altre prendevano assai diletto in ascoltare i versi dei loro poeti


messi in musica, intonati dicevano e cantati sulla viola dai maestri
,

tempo e spesso su quei ritmi intrecciavano

del

rigoletti e carole nei

verzieri deliziosi e nelle sale magnificamente arredate. In casa

Me-

secondogenito di Cosimo, Giovanni, era l'anima e il reggitore


di tali riunioni e Antonio Squarcialupi detto degli Organi (1425-90),
suo quasi coetaneo ed amico, il musicista pi festeggiato.
dici,

il

Continuavano a piacere
scorcio del Trecento,

ma

madrigali

composti e intonati

in sullo

ne scrissero di nuovi, come


governo dell'arti maggiori e pa-

assai di rado se

se la generazione che vide ruinare il


ves di democratiche insegne la via al

principato, preferisse a quel

genere poetico, che almeno nel nome serbava ancora l'impronta dell'origine sua rusticale, la ballata cara al popolo della citt. Frequenti
se non ricchi di ballate sono alcuni canzonieri toscani della prima
met del secolo, materiate, le pi, d'amore e spesso scritte a petizione
altrui. Codesta forma metrica, che gi avea accolto le alte idealit dei
poeti dello stil

nuovo

e le tenui fantasie del Sacchetti e

de' suoi coe-

che avea dunque una lunga tradizione letteraria, non meraviglia che talvolta s'acconciasse ad esprimere pensieri ricercati e sottili
gradisse immagini e modi, che rivelano l'imitazione petrarchesca. Ma
tal altra spiccava agile il volo, adorna di grazie ingenue e di gaia
freschezza, com' d'alcune fra le ballate di Francesco d' Altobianco
Alberti, uno dei dicitori del certame coronario, e di quelle di Giammatteo di Meglio, fra le quali ve n'ha una freschissima; 0 dolente
cuor mio chi f ha ferito gentilmente supplichevole alla fanciulla
fior delle belle, Rosa tra' fiori e qui sol tra le stelle , che il poeta
vide e se ne innamor, mentr'ella toccava le corde del liuto:
tanei,

ballatina

mia dolce

e soave,

Vattene a questa perla orientale,


Che ha di mia morte e vita in man la chiave,
E similmente del mio bene ermale:
Raccomandami a lei con dirle: il tale
Merc domanda a te, viso polito.
Trucchi

II,

249.

In pi gran numero che non .ne scrivessero i concittadini poeti, giungevano sulV ali del canto alle brigate fiorentine le canzoni vispe e
leggiere da Venezia, dove fra il prosperar dei commerci e il rapido
montar in potenza della vecchia repubblica, nella piazza di S. Marco
che gi veniva componendo in una festosa armonia di linee la rozza
austerit del* suo aspetto medievale, nei palazzi pur allora intagliati
nel marmo a specchio dei canali verdastri e frescati dal Pisanello, da
Gentile fabrianese *e da Jacopo Bellini, nelle barchette scivolanti sulla
laguna, esultava gioconda la vita. L'umanesimo vi era penetrato fin
dai primordi del secolo per opera di Gasparino Barzizza, di Vittorino
da Feltre e soprattutto del Guarino e vi si era saldamente radicato,

144

CAPITOLO QUINTO.

non

s per che divenisse mai unica occupazione di tutta un'esistenza


od avviamento di guadagno a chi avesse a procurarsi aiuti per vivere.

In tutto

il

secolo

nerie

XV

di professione,

Venezia non d all'Italia neppur un umanista


agita con tutte le sue bizze e le sue picci-

ivi si

un vero consorzio

di letterati; anzi un consorzio civile e poligrazie dell'umanesimo. Ivi lo stato, realmem*'


di ricchezze e di sapienza
non abbisogna delle

cui abbellano le

tico,

forte di

tradizioni

che ricercano, qual per arte di astuta politica e qua]


per ingenita disposizione, i principi nuovi e gli ambiziosi del principato e se assolda eruditi lo fa per addestrare i suoi cancellieri al
maneggio del nuovo stile. Cos per dar lustro agli uffici che loro affida la patria e a s svago di piacevoli trattenimenti negli ozi sudati,
i cittadini si addicono
agli studi della bella letteratura. Spiccan fra
essi la grande e nobil figura di Francesco Barbaro, che gi abbiamo
disegnata in iscorcio e quella pi dolcemente atteggiata e per noi, storici delle lettere, pi importante, di Lionardo Giustinian.
Nato circa il 1388 di famiglia patrizia egli tenne a Venezia e nelle
terre del dominio le dignit pi cospicue, sino a quella altissima di
procurator di San Marco (1443), talch le pubbliche faccende gli tolsero fin quasi all'anno della sua morte, che fu il 1446, di godere di
quella pace che l' indole sua e i suoi studi lo portavano a vagheggiare. Dotto in greco e in latino, fu in relazioue d'amicizia col Traversari, col Poggio, col Filelfo, compose e disse in solenni occasioni
eleganti discorsi in quelle due lingue e tradusse in latino alcune vite
di Plutarco. Una sua lettera a Guarino veronese, che gli era stato
maestro, descrive con tranquilla mitezza di colori e con infinito compiacimento la vita semplice e idillica che il Giustinian cessate per
breve intervallo le pubbliche cure, conduceva a Murano, risoletta ridente
d'aria pulita e bella , che fronteggia Venezia da settentrione. Passava alcun tempo in variate 'letture; poi diveltosi a forza dai libri,
conversava, or serio, ora faceto, di politica, di morale, di poesia con
nobili amici, di religione e di sacri testi coi frati, filosofi cristiani, che
visitava nei lor monasteri. Errava solitario lungo la spiaggia o nei
giardini giulivi e quand'era stanco montava in barca, pescava o cacciava, e sempre un classico greco o latino gli teneva compagnia, mentre gli spiravano in faccia le aure fragranti della laguna e un omlodi prezzolate,

Giustinian
11388

M466)

brellone lo proteggeva dai raggi cocenti del sole. Talvolta poi

geva

a' diletti

della musica a' quali

mi

si

vol-

trae, son sue parole, la

na-

tura stessa, che mi guid per facile via al pieno possesso di ogni genere di musica, non il volere . Ed eccolo ne' suoi giovani anni liberare
che
dalla vivida fantasia le svelte canzonette e i delicati strambotti
,

egli stesso rivestiva di note,

come

nell'et pi

matura

le laudi di sa-

cro argomento.

Tramandata oralmente dagli avi o zampillante via via dalle labbra


qualche
umile verseggiatore, che nessuno domandava chi fosse e che
popoiare
del sec. xx.
non pensava a mostrarsi, viveva anche allora, varia di forme e di conteL

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

145

nenza una lirica nella quale palpitava lo spirito universo del popolo,
il sentimento trovava la sua espressione immediata senza smarrirsi nei
,

meandri dell'analisi, n raffreddarsi rintracciando dizioni eleganti.


L'eleganza vi fioriva spesso spontanea. In quella che dicono lirica oggettiva prevalevano le forme della canzonetta settenaria od ottonaria contesta
di semplici strofe, libere o incatenate da una rima, e della ballata, e
sonavano, spesso con plebei ardimenti di frase, sempre con disinvolta
e saltellante andatura, i lamenti delle malmaritate, le impudiche confessioni delle fanciulle impazienti o monacate per forza, le invettive
contro le vecchie e le esultanze delle monachelle fuggite di convento
sottili

qualunque ne sia stata


vennero certo in Toscana e nel Veneto dal Mezzo-

col giovine amato. Molte di siffatte canzonette,

l'origine prima,

come attestano

giorno,

nomi

le

tracce copiose eh' esse serbano di quei dia-

napolitana o calavrese, con cui si incontrano nei testi a penna; e nella patria di adozione si diffusero largamente adattandosi alla nuova temperie generando altre canzoni
non diverse da esse per intonazione e per' assetto esterno. Del pari,

letti e

di ciciliana,

al sorriso del

luminoso paesaggio

siciliano

sarebbe nato

lo

strambotto,

forma

tipica della lirica soggettiva, risultante dall'ampliamento di

coppia

di distici endecasillabi

di

quattro

distici

una

a rime alterne in una serie generalmente

(AB, AB, AB,, AB). Di

gli

strambotti sarebbero

sciamati in altre regioni, e nella media Italia avrebbero dato origine,

per via

qual processo non possibile dire con sicurezza, al rispetto

di

toscano, in cui uno o due

prendono

distici,

ciascuno su d'una rima unica e nuova,

posto del secondo tetrastico e suggellano

il

il

componimento

pensiero del primo. in codeste semplici forme venivano


espressi desideri, speranze, gioie, corrucci, sdegni, d'amore solitamente
un pensiero od un sentimento, che >si fermava in un'immagine, in un

ribadendo

il

paragone,- in

un aneddotino

fantastico.

Sta notte lo sognai quello che fosse,


Sta notte lo sognai quello che* sia;
Ch'i' ero fra le rose bianche e rosse,
Ch'i' ero in braccio dell'amanza mia.

0 sogno vano
Strinsi le

che inganni la gente,

braccia e non trovai niente!

0 sogno vano che

la gente inganni,

Strinsi le braccia e le trovai .fra' panni

XV

cantava il contadinello nelle convalli toscane a mezzo il secolo


e
a noi ricanta un vecchio formulario cancelleresco, dove ser Piero da
Santa Croce nel Valdarno inferiore, sorridendo forse, scrisse quei versi
soavemente voluttuosi, insieme con altri, dopo il barbaro latino delle
lettere informative e degli atti giudiziali. Sono una delle pochissime
rime del secolo XV, nelle quali il tinnire di eulta cetra non sembri
turbare il vergine suono della rustica zampogna.
All'orecchio musicale del Giustinian
non ci siamo dipartiti da lui
se non per raccr notizie che valessero a farcene meglio, conoscere

Rossi

La

lett. itl.

nel sec.

XV.

10

l
gu

146

CAPITOLO QUINTO.

opere
sonava gradevole -la poesia del popolo, sia che si distendesse
con dolce melodia nell'ampia voluta dell'endecasillabo sia che -saltellasse robustamente sulle forti arsi delle canzoni
che il dialetto veneziano arricchiva di versetti tronchi. E come l'Alberti col quale il
patrizio della Serenissima ha molte intime simiglianze, si compiacque
di ravvivar la sua prosa
con modi e locuzioni della lingua parlata,

le

am

cos egli, poeta,

sottrarsi all'influenza della scuola e prese a imi-

tar quella lirica.

Da lui lo strambotto ebbe forma di ottava perfetta, pi composte


movenze e maggior correttezza di stile. Ventisette componimenti di
quel genere possono sicuramente essergli attribuiti, che tutti si collegano in una specie di poemetto lirico, graziosa storia d'amore.
Amore vuol che novamente io canti,
Tant' la pena che sente

il

cor mio,

poeta, ed alla fanciulla adorata^rivolge canti di lode


dichiarazioni e preghiere, esortazioni cortesi a non perdere il tempo di
principia

il

sua giovinezza.

Ma

poi la trepidazione diviene in lui angustia

affan-

mostra sconoscente e dispettosa, finch lo abbandona,


ed egli prorompe in rimproveri, in in p vacazioni, in amari rimpianti della
nata; la bella

felicit

si

perduta.

Non

ti ricordi quai do mi dicevi


Che tu m'amavi ti perfettamente?
Se stavi un giorno che non mi vedevi
Con li occhi mi cercavi fra la gente.
E risguardando s' tu non mi vedevi,

Dentro de lo tuo cor stavi dolente.


E mo mi vedi e par non mi conossi,

Come

tuo servo stato

mai non

fossi.

Gli strambotti del Giustinian accennano o svolgono tutti


pali

motivi del

canto popolare italiano

col

quale

freschezza e la vivacit, la spontanea e succinta efficacia


tativa del sentimento, le

immagini ingenue,

l'uso della

versi e di frasi. Sotto la

mano

giardiniere la

non

dell'esperto

Ancor oggi

princi-

hanno comuni

la

rappresen-

ripetizione di
pianticella

con poche diversit alcuni di quegli strambotti, sia che se li appropriasse, sia che
erudito si restringesse a ritoccar lievemente canti, che gi
il poeta
prima esistessero. Dubbiezza , che comunque risoluta non modifica
punto il giudizio complessivo su quelle rime del Giustinian (aver egli
preso ad imitare la. maniera del popolo) poich nessuno vorr credere che da s tenue sorgente derivi tutto* il gran fiume della lirica
soggettiva, che scorre tra i volghi d'Italia, da Udine a Palermo.
Se il Giustinian fu il pi abile rimaneggiatore dello strambotto
nella prima met del secolo. XV, non fu certo il solo, come forse neppure il primo. Altri pi o men culti poeti, con pi o men di finezza
si piacquero di dare le carezze dell'arte all'umile figlio della Musa
popolaresca la Toscana ci offre i -suoi leggiadri Rispetti per Tise,
composti prima del 1453, e la Venezia un paio di raccolte assai pi
silvestre

avvizzisce.

il

popolo

ricanta

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

147

ricche che non sia quella del Giustinian. Al quaje daremo invece merito di geniale innovatore per altri componimenti, le canzoni vispe

e leggiere, mi ripeto a bello studio, che da Venezia giungevano sull'ali del canto alle brigate fiorentine . Innovatore non della metrica,
che prese quasi tal quale dal ppolo, s della contenenza, egli trapiant
nelle forme, che dicemmo proprie della lirica oggettiva, la soave delicatezza dello strambotto o con questa attenu la plebea impudenza di
quella. E trov pure una nuova maniera di canto, s che ebbero nome
di Giustiniane e di Veneziane tutte le poesie, fossero sue o d'altri,
che a quell'aria potessero accomodarsi. Il garrulo stormo migrava per
le terre d'Italia a rallegrare nozze, conviti ed altre liete riunioni, e
pos sulle carte apprestate da chi gustava poesia di tal fatta. Ora da
quelle carte sale a noi come un coro, in cui difficile scernere con
sicurezza la voce del Giustinian dalla voce de' suoi imitatori ond'
miglior partito non ispezzare V unit dell' impressione e rinunciando
qui ai risultamenti, monchi e non bene appurati della novissima critica, raccrre in un unico quadro i caratteri letterari di quelle canzonette, senza indagare quali di esse siano dell'erudito patrizio e quali
non gli appartengano.
,

Son

ballate, le pi, agili nella loro veste intessuta di settenari e di

rompe a' suoi luoghi


mezzo. Hanno la ripresa

foga l'endecasillabo, schietto

ottonari, dei quali

la

o con rima

di quattro, di tre, di

due versi
e stanze brevi, al pi ottonarie perfino ternarie. La ripresa manca
ad alcune ad altre il collegamento tra le stanze per mezzo dell' ulma questo nome
tima rima. Ancora un passo ed abbiamo le canzonette
dalle strofe slacciate di semplicissimo
davasi allora anche alle ballate,
congegno ritmico (per es. abba oppure adbdb). Pi sostenuta andatura hanno i componimenti in terzine e quegli altri che il Cinquecento
battezz serventesi tetrastici e noi pi propriamente diciamo captoli
quaternari (ABbC, GDdE, E, ecc.).
Di tutte codeste poesiole argomento l'amore. Molte traggono ispirazione dallo strazio di subite separazioni, da desideri insoddisfatti, da
disinganni, da gelosie sentimenti, che erompono ne' versi accorati in
frasi semplici e trasparenti, ben di rado tramutandosi in immagini, che
non passino rapide come lampo. In generale il poeta rifugge dalla riflessione e predilige le esclamazioni enfatiche e certe formule convenzionali, che per essere di origine popolaresca e men trite che quelle
dei dotti, non sarebbero meno sazievoli, se non ce le rendesse meglio
accette una cotal loro ingenua freschezza. Quante volte la bella invocata coi nomi di fiore zentile, spechio di lizadria dolce rosa e
quante, se non voglia dar retta all'amante, imprecata come eretica e
zudia! Quegli vorrebbe esser morto il d che primamente la vide e
-che fu a lui cominciamento di dogliosi affanni; pur non si stanca di
esaltare in enumerazioni minuziose e uniformi la gentil persona, le
trecce bionde, gli occhi ladri, le labbra rosate, la candida gola, le bellezze tutte della sua donna. Ci sta dinanzi tutto un repertorio
lieto
al

148
s

CAPITOLO QUINTO

della sua tenue eleganza,

ma

pur

maniera, sul quale per passa

di

tratto tratto la rappresentazione della calda realt della vita.


Il

motivo, che ben conosciamo, del sogno deluso ritorna insistente;


si svolga in versi pieni

ma la ripetizione non rincresce, quando il pensiero


di passione,

che paiono

dettati nel

rapimento d'un'ebbrezza dolcissima.

Valgano questi ad esempio:

Ogni notte pur convegno

De

ti

Fra

sola,

le

Tu

o zentil fiore

ch'io
;

bracce io te tegno,

me

insoni

e tu rasoni,

mio dolore.
Poi tremante e pien d'amore
conforti el

Talor baso

adorno.

el viso

un anno a venir zorno


Quando son su tal dormir!
in
Stesse un anno adormenzato
Quando in sogno tu me ven
Stesse'

tal solazzo

Tu

rasoni e sta'

De dolceza

e'

me

a lato

io

t'abrazzo

vegno men.

El tuo bel volto seren


Tuto onesto tu mei dai;
Quel che in sogno tu me fai
(Wiese, 25).
Fussel vero e poi morir
!

E situazione gualcita quella onde prende occasione la ballata Rediciamo pure il Giustinian
Zina del cor mio, ma il poeta
la
ravviva di una graziosa trovata, interpretando ogni atto della fiera donna

come un

artifizio civettuolo di cui ella si giovi

per manifestare a

lui

il

suo amore.
Tanto

zentii

me

mostri tua figura

benigna ciera,
Che vedo ben che l' contra natura,
s

Che tu

sei tanto fiera.

In atti ed in mainer

Tu

mostri aver dileto


sia suzeto
a la tua lizadria.
Talor tieni la man sotto la golta
Tanto pietosamente ;
Poi prendi un puto in brazo qualche

Che

volta

E basii dolzemente,
E poi vezosamente
Tu me riguardi e ridi,
Che tu

Con

le

m'alzidi

e struzi di dolcezza.

vesine mostri de parlare

Solo perch'io t'ascolti,


Ed io sentendo el tuo bel motezare,

Ridome spesse volte.


Che le vesine stolte
T'ascolta a pura fede

E non
I

novellieri

loro intorno

s'avede

quel che tu voi dire.

narrano e descrivono

la vita corrotta

che

si

agitava

in queste canzonette puoi coglierla nella sua manifesta-

zione immediata.

Un

capitolo quadernario diretto dal poeta alla co-

LA LETTERATURA ORIGINALE IN

149

VERSI..

una ballata
donna avr a gio-

gnata, compiacente segretaria dell'amor suo (Wiese, 63);


(40) tutta di consigli e avvertimenti dei quali la

varsi per infenochiare

il

marito geloso:

Mie parolette nota,

dolce viso belo

Fingendo sta devota


E con la mente in cielo

El venere ogni volta


Fa che vadi a Castelo,

perdonarla, s'intende, di S. Pietro di Castello nell'estremo lembo


Venezia, dove l'amante l'attender. Vivacissimi sono specialmente
nei quali
genere frequente nella letteratura popolare
contrasti

alla
di
i

certe figurine sono disegnate con efficacia mirabile e i sentimenti rappresentati con sottile analisi della loro esteriore espressione. In imo
la

madre persuade

luttanze ingenue e

a prendere marito, vincendone

la figliuola
il

proposito di farsi

monaca

(41)

le ri-

in pi e pi altri

disputa il giovane, or supplichevole ora sdegnato, coll'amata a volta


a volta resta per timore d'infamia o dolente per gli sdegni e l'abbanaltrieri in gran secreto, nardono di lui. La ballata che comincia

rativa in piccola parte,

Marta,

la fante

una novella posta

pollastriera,

savia

in azione,

dove campeggia

e prudente, che vediamo recare

i messaggi della sua signora, come pure fa Zorzi (nella


Zorzi stando iersera) uno schiavo, in cui la promessa del
riscatto soffoca il sentimento de' suoi doveri verso il padrone. Il pi
si svolge in due
sono da seicento versi
esteso di tali contrasti
sere (7). In sul principio la fanciulla parla dalla finestra e 1' amante
in istrada; la chiusa del componimento va oltre all'ultimo verso del
contrasto di Cielo. Le prime e recise repulse, i dinieghi per timore
della pubblica voce e dei rabbuffi materni, le prime e condizionate
concessioni, la dedizione piena, si succedono con gradazione fine ma
rapida, ed un realismo audace, che pur non diviene quasi mai grossolano, colora tutta la lirica rappresentazione della lenta caduta. Ecco
un piccolo dramma vivissimo, cospicuo esemplare d'un genere onde
potevano venire al teatro profano succhi vitali, se, come vedremo, la
pedanteria erudita non l'avesse sospinto per altro cammino.

all'innamorato
ballata

Poesia tutta desideri sensuali e sempre


stretta alle alterne vicende
1
che s' tenuto discorso. Le fiorisce
accanto una lirica di ben altra natura, nella quale V amore appar
circonfuso da un nimbo di spiritualit ed il poeta lo rappresenta o

della realit esteriore, questa di

vuol rappresentarlo nella sua essenza complessa, non pi come una


rude aspirazione al semplice godimento materiale. Essa ama metri
ampi e gravi, eleganze studiate e, all'apparenza almeno, lo psicologismo
d' un'arte matura. Matura segnatamente per opera di Francesco Petrarca, che aveva con magistero insuperato ritratto tutte le sfumature,
tutti gli atteggiamenti, tutti gli effetti d'amore e trovato le fogge meglio

accomodate ad esprimerlo.

T
Lirica
aulici
.

d'amore,

150
n petrar-

CAPITOLO QUINTO.
Il

chismo.

iti

misticismo, del quale

soffusa

la

lirica

del dolce
ii-

slil

novo,

mal poteva essere compreso e gustato dal mondo elegante del secolo
XV, pervaso dalla vaghezza del reale che contraddistingue il Rinascimento, n ancora addestrato agli artificiali regressi della coscienza
,

estetica, che modificano o soffocano nello storico i gusti rinnovati dal


tempo. Dopo Cino Rinuccini e Giovanni Gherardi da Prato, due devoti al culto delle tre corone, poetanti d amore forse ancora entro
ai confini del Trecento, quella poesia dovr attendere lo spirar delle
aure neo-platoniche e l'opera d' un critico ed artista geniale per
vedersi nuovamente e largamente imitata. Pi umano e quindi meglio
accetto al civile consorzio, l'idealismo del Petrarca si acconciava invece egregiamente ad informare quella vita letteraria dell' amore,
che non poteva mancare' allora che andavano a mano a mano dis1

solvendosi

la sua veste
di cos fine

tava

vincoli di relazione tra la letteratura e la realt. Inoltre

squisitamente
senso del bello.

vedemmo come

versi italiani, e

elegante

La

e perch

un erudito,

seduceva., quegli

critica stessa degli

uomini

umanisti

si

dotati

spun-

dinanzi al fabbro eccellente


Barzizza, non isdegnava

Guiniforfce

di
di

inframettere al latino della sua prosa un

sonetto del Canzoniere e


due passi dei Trionfi per confermare la sua teoria dell'amore intellettuale (lettera del 4 marzo 1439).
L'autorit e V efficacia della tradizione petrarchesca operarono quindi
assiduamente nella lirica d' amore del secolo XV. Le frasi onde si
spandeva larga la fama della bella Avignonese, sgorgavano dalla penna
ai poeti come una conseguenza inavvertita della loro educazione petrarchesca; ne trovi persino nelle canzonette del Giustinian. Pi di
sovente il modello imbrigliava anche il sentimento, ne determinava le
movenze e lo aclduceva ad imitazioni formali pi fedeli e continuate.
E il rimar d' amore divenne a grado a grado opera puramente letteraria, sia perch restasse straniero alle condizioni d'animo che gli
porgevano occasione, sia perch
e gli esemp di poesie composte
per mandato sono copiosissimi
lo scrittore si costringesse ad espri-

ispirazione affettiva scarseggia


mere sentimenti non suoi. N solo
o manca nei lirici del primo Quattrocento; pi ancora la fantasia.
1-

Ripetono freddamente

le leggiadrissime

immagini del Canzoniere,

non sanno crearne

nuove, n variar

di quelle gli effetti.

rime

per

lo pi

di

uno squallore grande

lindura d'idioma e dolce musicalit

eli

di stile,

anche se

ma

Nelle loro

le abbellino

verso, pregi meglio rilevati nei

ma di cui non vanno privi neppure alcuni d'altre regioni, per


che l'autorit del Petrarca e la cerchia ristretta degli argomenti
abbiano agevolato nella lirica amorosa il prevalere della lingua lette-

toscani,
ci

raria nazionale.
Buonac-

Moderna
gno
(m. H29).

Verseggiatori garbati sono


e -^ ose -^ 0 di Giovanni Roselli

pistoiese Buonaccorso da Montemagno


oriundo se non nativo d'Arezzo. Buo-

il

naccorso fu giureconsulto di gran nome, lettore nello Studio nel 1422,


ambasciatore d e u a repubblica fiorentina al duca di Milano nel 28 e

151

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

mor F anno dopo non vecchio. Il suo piccolo canzoniere quasi tutto
di sonetti e quasi tutto amoroso, ricco di frasi petrarchesche, e pur
serba qualche originalit nella scelta della contenenza e nelle forme,
,

prevalendovi la nota intima, cio la rappresentazione dello stato d'animo del poeta, ed atteggiandovisi con libert commendevole motivi e
toni cari al grande lirico trecentista. Il bel sonetto Forma gentil, i
cui dolci anni serba, ha una discreta novit d' argomento: Buonaccorso consola la fanciulla nelle avverse fortune e intona quell'inno alla
giovinezza che si lunga eco avr nella pi tarda lirica della Rinascenza:
Dunque non dinegar, giovine
Danzar ne' tempi
Ne'

di tener

bella,

dilettosi e gai,

tua gentil vita

lieta.

Tu se' nel fior dell'et tua novella,


N si racquista tempo perso mai,
N

per volger di

n di pianeta.

ciel,

Di messer Rosello (1399-1451), canonico


pontefici in ambascerie e

grande amico

di

fiorentino, adoperato da

Giovanni

di

Cosimo,

n OS eiio

cui (Aitisi)

rassomiglia nella naturale inclinazione alla vita gaia, abbiamo, da lui

per madonna Oretta: una cini versi che compose


quantina di sonetti, alcune ballate, canzoni e sestine. Sono lamenti
per la crudelt di lei, esaltazioni della felicit onde lo allieta, anche
non corrisposto, l'amore, propositi di abbandono e di fuga. Imitatore
del Petrarca nelle frasi e negli atteggiamenti del pensiero, castigato
stesso raccolti,

nella

ma

forma e non privo

di

un

giusto senso della convenienza artistica,

arido e scolorito. Gli fa difetto V estro e la fantasia, quasi quanto


l

suo concittadino e congiunto Benedetto Accolti, l'umanista dotto di


leggi e successore del Poggio nella cancelleria, il quale a manifestare
amorosi sensi us le forme ampie del capitolo e della canzone.
D'una vivacit e d'una freschezza insolite d'immagini son lieti inal

Accolti,

Francesco
vece alcuni dei sonetti amorosi del fratello di Benedetto
(1418-1484?), festeggiato lettore di diritto a Ferrara, a Siena, a Pisa,
e buon cultore delle lettere classiche e pi, le canzoni di Antonio di
,

un popolano addottrinato e ricco d'ingegno, che il lettore ricorda come un dei gabbatori del Bianco Alfani.. Egli tenne l'ufMatteo

di Meglio,

Antonio
(fs^ifls).

araldo dei Signori per quasi cinque lustri (1418-1442) e mor


1448 a sessantaquattr'anni. Nelle rime d'amore, piccola parte della

fcio di

nel

sua copiosa suppellettile poetica, l'imitazione del Petrarca pi di suoni


e di metri, che di motivi e di frasi. Vi hanno, s, lungherie incresciose e
sottigliezze prosaiche di ragionamento, ma insieme stanze tornite con

molto buon gusto e vaghe descrizioni

di

La quale
meno schietta

paesaggi ridenti.

aggiustata leggiadra di forma tanto pi notevole, quanto

doveva essere l'accensione del sentimento nel Megli, che scriveva non
come amore gli dettava dentro, ma come volevano i committenti.
In condizioni d'animo ben diverse poet messer Domizio Broccardo
Non parlo delle sue ballatine aggraziate, ma fredde bens
Padova.
da
ch'ei compose a deplorare la morte della figliuola
sonetti
alcuni
di
;

comizio

152

CAPITOLO QUINTO.

teneramente diletta (1427). Quivi il contenuto affettivo si svincola dalle


formule petrarchesche, che pur tendono ad infrenarlo e a guidarlo, e
il dolore del padre sconsolato si manifesta in frasi d'ingenua semplicit:
Era il mio ben la mia figliuola cara,
Che assai chiamar la posso che non riede,
N mai di rivederla ho pi speranza
!

si

pasce

fanciulla e

memorie, incarnando

di

rimembrando
Con

gli

col

pensiero

ultimi istanti di

devoti pensier tutti al ciel

lei,

il

bel

viso della

quando:

fissi,

Padre, vien meco, disse, in Paradiso.

Gentil mosaicista con pietruzze raccolte nella miniera del Petrarca

Giusto de'

C
(n)

i449).

romano Giusto

de' Conti da Valmontone, cui un'ambasceria afda Niccol V condusse a Rimini presso Sigismondo Malatesta.
Ivi ebbe qualche pubblico officio e mor il 19 novembre del 1449. Dalla
bella mano, con che Amor l'aveva morto , della sua Fenice, si
intitola il suo canzoniere, composto a Bologna, dicono, nel 1409; notevole assai fra' canzonieri sincroni per eleganza squisita di forma, non
per originalit n di forma n di sentimento. Dovunque il poeta volga
lo sguardo, vede scolpita la cara immagine, che, nuova Medusa, gli fa
cambiar natura e lo condanna a- seguirla. Talora la donna gli appare
qua! fiera aspra e superba, che insegua e conduca a morte un candido
ermellino. Egli sta beato nel fuoco d'amore, come la salamandra lista
si gode tra le fiamme, e quando il tramonto invita al sonno ogni animal terreno e il villanel fiaccato e stanco Rimena

fu

il

fidatagli

Le schiere sue donde il mattin partille


E vede di lontan fumar le ville
E il giorno a poco a poco venir manco,

E
egli solo

poi

non trova

si

posa,

pace, ch d e notte

un pensiero assiduo

Situazioni e paragoni e motivi

lica la ferita del cuore.

gli

vecchi,

vel-

come

ognun vede, che il Conti per abilmente modifica e conserta insieme


in un tutto, che avrebbe consistenza ed unit artistica, se non lo sgretolasse e rompesse

familiarit

la

del lettore

colle

rime del grande

lirico trecentista.
artifici

deSa

lirica

amoroso.

convengono davvero a quel canzoniere, che


Piacentini, scrisse in sui primordi del
Marco
un veneto, probabilmente
1
.....
,,

Neppur queste parche

lodi

'

'

onore mmeritatissimo d essere creduto


ne calc le orme nei versi, nelle frasi,
colui
Certo
Petrarca.
opera del
sgarbatamente. Quivi palese quel
goffamente
e
ma
immagini;
nelle
restringersi dell'imitazione alle pure esteriorit del modello, onde venne
alla lirica del Quattrocento una tediosa abbondanza di brutti artifizi
di concetto e di forme le serie prolisse di antitesi, le profezie impossecolo e che ebbe a d nostri

sibili

o mostruose

mutabile

di

le

condizionali. Erano gii espedienti rettorici


argomentavano di dimostrare il loro stato
perennit del loro amore o l'innocenza da colpe, che

con che quei rimatori


angoscioso o

imprecazioni svolgentisi su di uno schema im-

proposizioni

la

si

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

153

nome della donna amata solevano nasconper via dell'acrostico od usandolo, se esso
in doppia significazione o ricorrendo a studiati
vi si acconciasse
raccostamenti di parole. Fortuna per la 'grama lor vena
che non
troppo di spesso siansi compiaciuti d'altri pi ardui artifici! Ad esempio,
d'architettare bisticci con voci di suono affine o di piantare sul prinvenissero apposte.

loro

dere ed insieme

Il

svelare
,

cipio di tutti

versi d'un sonetto

siepe al Ubero corso del senso

una medesima frase o parola, vera


della sintassi.

Componimenti ai quali il colorito mitologico conferisca Un Sapore


gradevole di classicismo, non mancano; ne ha pi d'uno Antonio di
Meglio, per non far nomi nuovi. Ma pi di frequente una gretta erudizione classica invadeva le rime d'amore, derivasse essa dalle sue
fonti prime o dalle opere del Boccaccio, dai Trionfi e da alcun luogo
della Commedia. Il vezzo, che gi nel Petrarca e pi nel minor
Parnaso del Trecento, divenne un flagello. S'aveva a descrivere una
fanciulla od un giovane adorno? Una lunga tradizione letteraria e
ma per dare loro efficace ripopolaresca offriva le linee e le tinte
lievo era necessario metter mano ai paragoni e che sotto agli occhi
del lettore sfilassero in bello e solenne ordine Elena, Elisa, Isifle, Giu-

L'erudizio-

a
u r"ca

amoros *-

none, le Grazie, Narciso, Ganimede ed altri ancora. Tenerissimo di


uggiosi ornamenti fu ser Domenico del maestro Andrea, un pratese, che esercit l'arte notarile a Firenze dal 1415 al 32. Alla prosetta
tali

ispida di latinismi, che gi

abbiamo

di lui

Domenico
da Prat0 *

rammentato, fanno degno

riscontro le sue lunghe canzoni d'amore, asfittiche in un'afa grave di


pedanteria. Quand'egli, cito un esempio fra molti, per giustificarsi della

era lasciato prendere alle insidie d'Amore, snocciola


personaggi illustri, vittime del fareuna
da Salomone a Giove
trato fanciullo, da Sansone ad Ercole
la
Bibbia figura spesso accanto ai libri classici, il Paradiso accanto all'O-

con cui

facilit

si

filastrocca interminabile di

limpo

noi ci affrettiamo ad assolverlo

prima d'esser giunti

Buona occasione a mostrarsi aveva Y erudizione

di tal

alla fine.

fatta nei

lamenti di fanciulle trascurate o tradite dal giovine amato, genere


che godette di grande popolarit e che, come le epistole in prosa pi
su menzionate, mette capo a fonti ovidiane e boccaccesche. Sono rari
i canzonieri, che non ne ricettino qualche esemplare, in cui si trovano
solitamente preghiere al freddo amatore, rafforzate dal ricordo delle
gioie passate, oppure pietose ammonizioni alle donne gentili e imprecazioni. In quest'ultimo caso il lamento assume spesso il carattere
delle disperate, bizzarri componimenti
canzoni o capitoli nel rispetto
nei quali il poeta sfoga il suo malumore e l'angoscia delmetrico
Y animo suo, bestemmiando i pi puri affetti ed augurando a s, a' suoi
cari, a tutto l'universo le pi tremende sciagure. Ne compose di bel-

Simone Serdini da Siena detto il Sabarbari nomi di demoni e di mostri


l'archeologo veronese Feliciano, per non dir di men fecondi cultori
lissime sul principio del secolo
viozzo; pi tardi alcune

di quel

irte

di

pauroso genere poetico.

daZSe

e le

Disperate

CAPITOLO QUINTO.

154
La
<r

lirica

amore,

L'abuso della suppellettile classica, e storica e mitologica, che ablirica d'amore in volgare, non punto frequente
nella sua sorella latina. Forse ne la salv la lingua stessa, che le dava
agli occhi dei verseggiatori quel tanto di nobilt che l'altra ricercava
negli strani ornati, oppure la educarono ad appagarsi di un uso discreto del colorito mitologico, anzi che ad accumulare materialmente

biamo deplorato nella

le

reminiscenze

calda sensualit

di scuola,
;

suoi precipui modelli

Ovidio, facile nella sua

Tibullo, colla sua fine eleganza scevra di fronzoli vani

Properzio, sempre aggraziato a malgrado della sua erudizione. Ma n


l'eleganza di Tibullo, n la grazia di Properzio rifiorirono nella lirica

primo Quattrocento, povera e grama cos rispetto alla


componimenti. Non era ancora venuto
meno, n in generale, per ventura della poesia e della vita italiana,
venne mai meno il motivo, onde, secondo Dante, aveva avuto impulso
il primo che cominci a dire s come poeta volgare; che fu per fare
intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d'intendere
vers * latini Della facilit ovi diana tengono alquanto le elegie di Giogo Marrasio e altri,
vanni Marrasio, un siciliano di Noto, ch'era studente a Siena nel 1420
ed ivi cantava la sua bionda Angelina Piccolomini e fonte Gaia e gli
amori degli amici, quasi sempre senza ardor di passione n vivezza di
immagini, forse con qualche reminiscenza petrarchesca. A Siena poetavano allora in latino anche Enea Silvio per una Cinthia ed il Padel quale converr tenere altrove discorso in questo capitolo.
li ormi la,
Qui domandano pi attenta considerazione due poeti, che per le ragioni
del tempo e per quelle dell'arte stanno a cavaliere tra il periodo della
preparazione e il periodo del primo rigoglioso fiorire del Rinascimento
letterario Giannantonio Campano e Tito Vespasiano Strozzi.
A Ca velli, umile borgo della Terra di Lavoro, nacque nel 1429
am " il Campano- di famiglia povera e villereccia. Compiuti i primi
G
studi
p an o
(M29-1477). nella regione nativa, pose stanza a Perugia
(1452), dove gli arrise
benigna la protezione dei Baglioni e gli fu conferita nel 1455 la lettura di eloquenza. Ivi compose la vita di Braccio da Montone. Col
cardinale Filippo Calandrini fu al congresso di Mantova ed in quella
congiuntura entr nelle grazie di Pio II, che lo cre nel 1460 vescovo di Cotrone e poi di Teramo* e- lo trattenne, compagno gradito,
lungamente in sua corte. Del suo mecenate egli scrisse con intenti

amorosa
qualit

latina del

come

alla quantit dei

apologetici la vita.

L' affinit dei caratteri leg

di,

mutuo

affetto

il

geniale Senese, che

sue tendenze monNapoletano dall'ingegno pronto e vivace, cui la tonsura obblig a rinunciare.- alla gaia vita di gentil donneatore. Curioso tipo di
buontempone, vago delle brigate allegre ed incline ai piaceri della
gola, il Campano sent sempre il contrasto che era fra l'indole sua
e l'ufficio ecclesiastico che teneva. Se vi pensa, gli spunta sulle labbra
il sorriso, ch in fine egli ha l'animo buono ed
ingenuo e suol manifestare i suoi sentimenti con molta schiettezza. Con troppa anzi per
alle alte

dane

'* il

ambizioni ava. sinceramente sagrifcato

le

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

155

quei tempi; e gliene incolse male, quando, governatore di Citt di Ca-

nome

IV

difendere

in

prima aveva retto Todi, Foligno


una lettera franca e robusta i
cittadini contro le minacciose pretensioni di Giuliano della Rovere
accampato colle milizie papali presso alle mura. Fu tosto rimosso da
quell'ufficio e non avendo potuto acconciarsi, come sperava, col re di
stello

(1474) a

ed Assisi

Napoli,

si

di Sisto

prese a

ritrasse a vivere nella quiete del suo vescovado teramano,

una

non
Campano, da

morte,

15 luglio del 1477.


in nove libri, sono
specchio bellissimo del carattere giocondo e faceto del loro autore ;
degne per la loro semplice vivezza d'essere paragonate a quelle del
Poggio. Ve n'hanno, che allegramente narrano di lauti simposi od accompagnano doni agli amici; alcune ragionano degli eventi politici, nei

finch in

Le

gita a Siena

epistole del

lo colp la

il

lui stesso raccolte

il Campano
in altre egli descrive i luoghi della sua residenza con sentimento del paesaggio men fine che non
soglia Enea Silvio, ma forse con pi minuziosa esattezza. Quelle che
scrisse dalla Germania, quando and, compagno al cardinale Francesco

quali ebbe a trovarsi involto

Piccolomini ed oratore, alla dieta di Ratisbona (1471), sono un continuo sospiro all'Italia tanto diversa da quella barbara terra e vi trapela l'orgoglio dell'umanista erede del pensiero di Roma insieme col di;

meno raffinate costumanze. E in tutte una grande libert


molte un'abbondanza di forme diminutive, nelle quali paiono riflettersi quelle che in gran copia poneva sulle labbra allo scrittore il suo nativo dialetto. Spesso vi si inframettono versi, anzi talvolta

sgusto per le
di lessico; in

la

prosa insensibilmente dichina nei viucoli del metro (per es. V, 13).
Faciles in carmina nervos diceva di possedere il Campano

che de' suoi improvvisi alliet le riunioni della corte


Pio II e fors' anche le mense, poich un'abbondante
sequela di brevi epigrammi destinata a celebrare frutta, erbaggi,
selvaggina. Essi spettano certo all'et pi matura del poeta, come la
maggior parte de' suoi carmi apologetici a protettori potenti. A Napoli e a Perugia compose i pi de* versi d'amore; negli anni giove[Carni.

I,

1)

pontifcia sotto

quando le bellezze di Silvia o gli occhi lucenti e la voce canora


Suriana lo tenevano conquiso, e Braccio Baglioni vagheggiava una
Margherita, moglie, com' probabile, di Francesco della Bottarda. La
cant per lui l'umanista sotto il nome di Diana e descrisse le giostre
e le feste che ad onorarla apprestava il Baglioni. Verseggiatore facile
e spontaneo, il Campano non aveva la pazienza n l'abito della lima,
s che egli stesso si augurava (Epist. IV, 5), che le cose sue fossero
tanto eleganti quant' erano di numero spesse. Ma non gli manca una
certa caldezza di sentimento, quando, per esempio, saluta, partendo,
Capua e i luoghi circostanti e si riduce a mente i tempi della sua
adolescenza amorosa (Carm. II, 6), n spirito inventivo di situazioni
originali e di immagini leggiadre. L* elegia per la partenza dell'amata
diviene grado grado un'invettiva contro il villico, che guider il cocchio pronto dinanzi alla porta (II, 10) se Silvia cade malata, il poeta

nili,

di

<

156

CAPITOLO QUINTO.

rappresenta in bel modo le ninfe di Baia, imploranti da Giove la sua


guarigione (II, 16); se Diana lascia la citt per andare in villa, ei

t v

strozzi

(1423-1505).

vagamente la raffigura danzante a prova con altre ninfe e, vincitrice,


coronata da Flora (I, 23).
l ar u$0 di
tinte mitologiche fece Tito Vespasiano Strozzi.
N fa meraviglia. Nato a Ferrara nel 1425, egli crebbe e fu educato
fra* quella primavera degli studi classici, che, auspice

Leonello e per
l'opera di Guarino, arrise alla citt degli Estensi, e quivi pass la
sua vita frequentando la corte de' principi. Duranti i reggimenti
di Borso e di Ercole fu eletto pi volte a far parte di solenni ambascerie e a governare terre del dominio, finch nel 1497 divenne giudice dei dodici savi a Ferrara. Il quale ufficio fu a lui fecondo di

ma

amarezze, ch

sua trascuranza nel trattare


come rappresentante
il figlio Ercole ed i balzelli che imponeva, gli aguzzarono
contro gli
aculei della satira popolaresca. Mor il 30 agosto del 1505.

guadagni,

insieme

di

la

gli affari dell'amministrazione, l'essersi associato

Giovinetto di mirabile precocit, lo Strozzi, nel 1443, pubblic racdue libri le sue prime elegie, dedicandole a Leonello. N sino

colte in

agli ultimi anni della

lunga sua vita intralasci mai

poesia o ristette dal correggere e ripulire

suoi

l'esercizio

versi

e dal

della

riordi-

silloge, che ne di fuori Aldo


appare veramente, quale lo giudic il Carducci, il pi bel verseggiatore del rinnovato latino prima del
Pontano e del Poliziano; ben diverso, nella sua semplicit e naturalezza tibulliane, dagli altri verseggiatori onde brulicava Ferrara, come
di rane, motteggiava un modenese, gli stagni dei dintorni.
Cant i
suoi amori e le gioie familiari, i lieti fatti ed i tristi della sua citt
e degli Estensi, i piacevoli convegni cogli amici. Indulse, vero, specie
nei primordi della sua carriera, ai gusti dell' epoca, snocciolando paragoni ed esemp tratti dalla storia antica e dalla mitologia e lasciando
scorrere ne' suoi versi una non tenue vena di poesia petrarchesca.
Nell'elegia Ad Amorem (Erotica, II, 5) risuona ben chiara l'eco della
canzone Di pensier in pensier e l'allegorica cymba, cui sono venti
i sospiri, vela V errore, la speranza timone, albero la stabilit nell'amore (II, 7) esce, chi noi vede? dai cantieri del poetav aretino. Ma la
soavit petrarchesca e la grazia squisita dei fantasmi classici si consertano bellamente insieme l dove lo Strozzi raffigura Anzia nel coro
delle ninfe, sparsi al vento i capelli d' oro, occupata ad intrecciare
ghirlande (I, 2); Anzia, la fanciulla di cui s'invagh sedicenne e che
pi di sovente cant ne' suoi versi. Ella lo abbandon per altri ed il
poeta seppe trovare accenti appassionati, che si direbbero sgorgare
dal cuore, se non ci mettesse in sospetto la stracca onda di rettoricume, sulla quale galleggiano. Quello e gli altri amori erano per lo
Strozzi un ricordo lontano, quando vegliava a studio della culla del
suo Ercole, natogli nel 1471 da Domitilla Rangone, e serenamente abbandonandosi alla paterna dolcezza descriveva il piccolo corpo tre-

narli variamente, sicch nella ricca

Manuzio nel 1514,

egli ci

LA LETTERATURA ORIGINALE

IN

157

VERSI.

mante d'inquietudine e i sorrisi e le voci inarticolate del bambino,


che doveva un giorno vincere il padre nelT eleganza dello stile latino

Jamque mihi

ut noto arridens pulcherrimus infans

mea verba caput.


Et linguam huc illuc veluti responsa daturus
Herculis ad nomen parvaque labra movet.
Exiguasque manus poscenti murmure blando
Erigit in cunis ad

Porrigit inque

sia

meos

nititur ire sinus.


(Aeolost.

I,

3).

Delle bellezze naturali Tito "Vespasiano pittore vivo ed efficace,


che parli degli ozi, che gli appresta la villa sia che sbozzi lo
,

sfondo a qualche gentile scena d' amore. Nell'elegia a Giovanni Pico


(Aeolost., Ili, 1), dove rappresenta le devastazioni soldatesche e le
schiere dolorose dei fuggiaschi cercanti un riparo a Ferrara nella
guerra veneta del 1482 mostra di saper anche ritrarre la realt
,

tragica, e nei sermoni

di

stampo oraziano, episodi modesti della vita

quotidiana.

Come

l'amore, cos le passioni e le energie provocatrici degli eventi

politici solevano assumere nella letteratura atteggiamenti ed ornati


petrarcheschi e classici e vivere in essa d'una vita del tutto fittizia.
Il

Rinascimento, mentre rinnovella artificiosamente la tradizione clas-

sica nell'arte, chiude per sempre l'et in cui quella operava con efficacia nella storia dei popoli. Eppure non mai pi di frequente che

allora le imprese ch'erano mosse dagli interessi d'una famiglia o d'un


piccolo

comune o da ambizioni personali

gabellarono

si

per

figlie

di

alcun alto ideale antico o parvero degne d'esser paragonate alle antiche; n mai con maggior lusso di classiche pompe si celebrarono
trattati o paci o vittorie. Il lettore gi corso col pensiero alle osj

avvenne

tenne parola della storiografia e fors'anche ai fantasmi rettorici con cui il


Loschi, i suoi colleghi della cancelleria e i rimatori stipendiati rappresentarono, dissimulandola, la bramosia di dominio di Gian Galeazzo
dicono, della corona d'Italia al suo
Visconti ordinatore egli stesso
servazioni che ci

di fare pi volte,

specie l doA^e

si

gioielliere.

Quei fantasmi riapparvero quando Filippo Maria, ridotte all'obbedienza le citt lombarde, volgeva nella mente disegni d'ampie conquiste
e portava le sue armi nella media Italia. Allora Tommaso Moroni,
quell'umanista reatino che

fin

tristamente la vita prigioniero di

leazzo Maria Sforza , additava nel Visconti

Provvidenza a rinnovare un
e di

Roma,

alta-

il

monarchia, a sanar

le

piaghe

d'Italia

e correte, gli diceva,


Correte alla corona
Che vi promette chi corrusca e tona

Ben

Ga-

redentore destinato dalla

altrimenti

si

giudicava del

ch'essa, la florida repubblica,

aveva

tiranno lombardo a Firenze.


i

An-

suoi poeti stipendiati negli araldi

La

tirica

politica,

15S

CAPITOLO QUINTO.

0 buffoni della Signoria

alle masserizie di palagio

mensa

ai quali
,

non

ma anche

accompagnare

spettava di soprintendere

solo
di

rallegrare

coi

loro versi la

ambascerie solenni e di farsi


divulgatori, direbbero oggi, officiosi delle opinioni e degli intendimenti
del governo. Un d'essi, quell'Antonio di Matteo di Meglio che ben conosciamo, si rivolgeva, dopo la rotta di Zagonara (1424), con mestizia
gentile a Firenze come a madre diletta, e mentre sollecitava il popolo
alle largizioni in pr della guerra, sclamava:
dei priori

II

di

le

tirannico sangue dei Visconti


Dal primo, mezzo e sezzo
T' per antico vezzo
Sempre stato coral nimico fero
pare a lui, che a tua cagion l'impero
;

Gli sia di

man

uscito.

Or pensa a qual partito


Saresti sottomessa a cotal sangue

Voltinsi

car

visi fieri al

buon

malvagio angue,

cittadini.

Noi siam pur

fiorentini,

Liber Toscani, in Talia specchio e lume


Spieghisi ornai

il

trionfante giglio

Contro l'orgoglio altero


D'esto tiranno fero

de' seguaci a te fatti or

versi pieni di viva concitazione, nei quali

ribelli

si

ripercuotono

le idee e le

tendenze stesse, che dettarono al Poggio la sua difesa dell'Africano.


Pi altri componimenti ha la lirica politica fiorentina, che in forma
semplice e schietta espongono i giudizi e le aspirazioni della cittadinanza o d'un partito. Il ternario che Niccol da Uzzano f' trovare
affisso una mattina del 1426 al palazzo della Signoria, documento
prezioso per la storia delle interne divisioni i sonetti satirici, che Medicei ed Albizzeschi si scambiarono nel 1433 e nel 34 e le rudi quartine di Antonio di Meglio, che, secondo un antico costume, furono
;

scritte nel

1440 appi dei

ritratti

impiccati degli Albizzi e

consorti nel palazzo del Podest, rispecchiano fedelmente

dei loro
fiero ri-

il

bollire delle passioni di parte. N mancano d'una solida e*chiara contenenza storica alcune poesie' che precorsero o seguirono alla cospirazione che prende nome da Luca Pitti. Ma non sempre n dovunque
la realt aveva s schietti interpreti.
Non del nostro assunto un'illustrazione delle liriche nelle quali
1 sentimenti suscitati dai fatti politici trovarono via via la loro espressione. In sul principio del secolo il grande scisma e; le guerre di cui
fu teatro l'Italia, parvero rinfocolare le speranze in un salutevole intervento imperiale e, ultime scintille degli spiriti ghibellini, vagarono
signore
i sonetti con cui Malatesta di Pandolfo Malatesti (m. 1429)
di Pesaro e rimator vario e fecondo
esortava Sigismondo ad estirpare dall'Italia la mala, pianta della discordia e a ridurre sotto un
pastor l'errante torma, e fieramente censurava i costumi degli ec,

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

159

con troppo gran pompa di forme e modi petrarcheschi e


danteschi rispetto al basso loco in cui erano venute le due supreme
autorit. Caduta Costantinopoli (1453), la rappresentazione del pericolo
clesiastici,

sovrastante all'Occidente e gli incitamenti alla Crociata divennero temi L p epr7a ia


obbligati della poesia latina e volgare. Inneggiava a Niccol V, augu- Crociata
-

rato vincitore

dei

Turchi,

nuovo Pietro Eremita,

il

Filelfo

(Odae

V,

a Pio

5);

II

come a

novarese Pietro
Apollonio Collazio, poco prima del 1461, rivolgeva a' maggiori principi
della cristianit sette epistole in metro elegiaco, animandoli alla santa
impresa. In volgare ripeteva a Paolo II le medesime esortazioni il
fiorentino Bernardo Cambini.
fatto di credere che
A sentir codesto unisono concento vien quasi
A
divampassero ancora al sole del classicismo gli ardori religiosi che
aveano mosso l'Europa pi che tre secoli innanzi. Ma la Crociata non si
lo

Strozzi

(Eroi. V, 1) e

il

Car

fece.

del resto palese in quelle poesie

carattere puramente cortigia

il

nesco che hanno comune con la maggior parte della lirica quattrocentiAvidi o bisognosi di onorevoli collocamenti, i poeti si studiavano di
compiacere ai signori non pur cantandone gli amori, ma esaltandone la
magnificenza, la prudenza, la mitezza, piaggiandoli con versi suggestica.

riti

dai casi grandi e piccini della loro vita, facendosi banditori, anzi

decoratori delle loro ideo. Ond' che la lirica politica diveniva

encoogni occasione era buonala fastidiosa filastrocca che qui segue, contesta di picco-

miastica ed agli encomi sottilmente

Firenze

numero

di citazioni,

nere di poesia

stillati

vuol riprodurre l'uggia che d codesto vuoto ge-

l'araldo dei Signori, divenuto nei ternari e ne' ser-

ventesi gravi di erudizione quasi l'araldo della politica medicea, s'incontrava nel palazzo di Via Larga col computista Michele di Nofri del
Giogante (1337-1463), fido e amorevole cliente della cospicua casata,
il quale in sonetti assettatuzzi e lambiccati diceva le lodi di Lucrezia
Tornabuoni, sposa giovinetta di Piero si incontrava con Feo Belcari,
;

che di forti rime e latineggianti accompagnava a' protettori magnifici


le sue linde composizioni sacre in prosa e in verso. Delle gioie di casa
Medici esultavano, dei lutti doloravano a gara le Muse latine e voldi Giovanni di Cosimo e d
gari. Sulla tomba del vecchio Lorenzo
Cosimo stesso sparsero lagrime in parte certo sincere. Cos a Fermoglie per porara per consolare la vedovanza di Isotta d'Este
chi mesi di Oddantonio di Montefeltro (1444), il giureconsulto Francesco Accolti le dirigeva complimenti aggraziati in rima e Tito Vespasiano Strozzi scriveva in persona di lei un lamento nella lingua
d'Ovidio {Eroi. II, 11), curioso riscontro a quello volgare, con cui Girolamo Nigrisoli le aveva fatto dire addio a' cari luoghi ferraresi sul
punto ch'ella partiva sposa del Mont efeltrano. Intanto altri poeti facevano omaggio dei loro versi alla sorella d'Isotta, Beatrice, e ad istanza
del marchese Leonello, un padovano pi ricco di dottrina che d' estro, Jacopo Sanguinacci, dissertava in una canzone dei piaceri e dei
dolori d'amore.
,

ttert

cortigia-

nes
1j

eUa

r ic

quattrocen18 ca
'

1UU

CAPITOLO QUINTO.

Niccol

Gran fabbro di rime panegiriche fu maestro Niccol cieco d'Arezzo,


verseggiatore estemporaneo di bella fama a' suoi d. Lunghi
capitoli e
canzoni dove infilza generici encomi ed apostrofi enfatiche
e reminiscenze petrarchesche e dantesche, compose in pi occasioni
e forse recit alla presenza dei personaggi lodati, con quella
grazia nel porgere,
con quella aggiustata dolcezza di voce che gli erano proprie ed acquistavano lume di omerica solennit dalla sventura di lui. Esalt

cicco.

la

signoria di Venezia, Martino V, Eugenio IV; nel 1433, canterino


stipendiato del comune di Perugia, rese omaggio all'imperatore Sigismondo
nella sua passata di

e due anni dopo a Francesco Sforza appena riil cieco d'Arezzo, trovandosi a
Firenze,
un la sua voce a quella dell'araldo Antonio di Meglio, festeggiale lo
l;

conciliato col pontefice. Allora

0diAiF
PJiifo.

'

strenuo guerriero, cui gi arrideva l'avvenire con lieti presagi.


Quando lo Sforza raccolse l' eredit viscontea, l'improvvisatore e
l'araldo eran morti; ma non mancarono altri
forse fu tra questi Cosimo stesso
che dalla citt dei Medici levassero inni d' esultanza.

Milano poi il Filelfo intitolava al recente duca i cinque libri delle


sue Odi, dei quali non scarna il carattere prettamente cortigianesco
per ci che vi siano inserite anche composizioni satiriche o riguardanti le vicende personali dell'autore. Dovevano essere dieci, quante
son le Muse con Apollo insieme, e ciascuno racchiudere dieci liriche.
Abbiamo invece in tutto solo cinquanta carmi di metro vario, dove

sono celebrati, accantonilo Sforza, Carlo e Lodovico Gonzaga, Alfonso


d'Aragona, Niccol V e il re di Francia Carlo VII, cui il Filelfo ave a
primamente in animo di dedicare questa sua opera, e detestati i tiranni
plebei spadroneggianti al tempo della repubblica ambrosiana. Dovun-

que

squallido lo stile *e

l'andatura

dei

versi

dinoccolata e

mono-

tona e quando il poeta, compiacente mezzano, parla degli amori di


Alfonso d'Aragona per Lucrezia d' Alagno e di quelli di Carlo Gonzaga per la Lida piacentina, disgustosa la volgarit della frase e del
;

sentimento.

Per glorificare in Malatesta Novello, signore di Cesena, l'amore della


pace e degli studi, messer Francesco favoleggi (V, 10) che quel principe, solo fra tutti, non cedesse alle). sollecitazioni eli Marte e segui:

tasse a dar asilo alle Muse,

mentre ferveva

guerra (1452) tra lo


una simile invenzione Giammario, inducendo nel suo Carmen Minervae Venere, Diana
Bellona e Minerva a disputarsi con dotte orazioni i favori del marchese Guglielmo di Monferrato, che, s'intende, concede la palma a MiSforza e Venezia.

Ad un

la

simile intento addirizzava

nerva. Artifici codesti cari particolarmente alla poesia encomiastica la-

come

tina,

le filatesse infinite

stucchevoli esemp
orceiiio.

di

il

minor

Filelfo stesso

personaggi famosi per

vizi o

volgare.
Assai vago di quelle goffe invenzioni mitologiche fu

ne ricorda
talia

come

il

il

ne porge i pi
per virt alla
il

Porcellio:

Se

lettore? Egli ci appare peregrinante di continuo per l'I-

suo

nome per

queste pagine. Nato a Napoli poco dopo

LA LETTERATURA ORIGINALE IN TERSI.


il

principio del secolo,

si

trasfer a

Roma mentre

161

vi pontificava

Mar-

tino V, del quale e del cardinal Prospero

tenne

la

Colonna accatt e forse otgrazia. Immischiatosi ne' tumulti che cacciarono nel 1 434

Eugenio IV dalla citt eterna, elove partire lasciandovi la moglie diletta e la numerosa figliolanza, e si acconci presso lo Sforza. Lo celebr gonfaloniere di Santa Chiesa, speranza di Firenze e difensore
di Renato d'Angi contro l'Aragonese; ma quando questi entr in Napoli nel 1443, il Porcellio era con lui e ne descrisse il trionfo. A Napoli s'ebbe da Federico III imperatore corona di poeta il 9 aprile 1452,
pochi d prima ch'ei partisse per la Lombardia qual corrispondenti
militare del re e quindi divenisse,

come

storiografo del Pic-

s' visto,

cinino. Nel 1454 arriv a Rimini, alla corte di Sigismondo Malatesta,


dove sostenne quella polemica contro il greco, di cui s' fatto parola
nel secondo capitolo. Due anni dopo (9 maggio 1456) era a Milano e
dallo Sforza, diventato duca, otteneva un assegnamento mensile. Probabilmente colFoccasione del congresso di Mantova si guadagn la pro-

tezione di

Pio

II;

lo

Roma

segu a

bruci

incensi in suo

onore

mentre mettendo mano alla Feltria e componendo elegie panegiriche,


che poi raccolse in tre libri, si studiava, provvido dell'avvenire, di rendersi benevoli i Montefeltro. 1 benefici ei li pagava coll'immortalit
Morto Pio II, and a Napoli e lesse per un anno (1465-66) eloquenza
nello studio. Poco appresso eccolo di nuovo a Roma. Sisto IV lo cre
notaro di dogana e professore alla Sapienza. Nel 1473 era ancor vivo
!

e descriveva in esametri il banchetto offerto dal cardinal Pietro Riario


a Leonora d'Aragona fidanzata ad Ercole d'Este.
Qual cornice a codesta descrizione! Giove convoca i numi a consiglio; ma essi sono a Roma occupati a servire il pranzo cardinalizio
n vogliono partire; tanto vi si divertono. Il Tonante, stanco d'aspettare, scende in persona dall'Olimpo e per via s'imbatte *iegli di, che
finita la festa rincasano. Lo salutano demssa voce e gli chiedono
scusa del ritardo per bocca di Mercurio. Il gran padre
sorridendo
bonariamente, perdona . S'ha qui una vera caricatura del genere mitologico, tale che lecito il dubbio non avesse il Porcellio intenzioni
scherzose Ma certo da buon senno egli foggiava una finzione della
stessa natura per celebrare Sigismondo Malatesta e Isotta degli Atti,
dapprima concubina, poi moglie legittima di lui. Di costei pazzamente
invaghito Giove, che vorrebbe trla a Sigismondo. Marte e Febo prendono le parti del signore di Rimini e si studiano di calmare gli aril quale crede lo facciano per levarsi
dori del regnator dell' Olimpo
d'attorno un rivale e nell'impeto dell'ira minaccia di mandare a catafascio il mondo se il suo amore non sia soddisfatto Saturno, pieno
di spavento, prega Diana di rapire Isotta sul suo carro. L'Olimpo sta
per essere messo a soqquadro dalla guerra civile la dignit dei numi
a grave repentaglio.
,

Si

Rossi.

La

ii os vincit
amor, si turpis vita deorum est,
Quis tam mentis inops nomina nostra colei

Lett. itai.

nel sec.

XV.

II

.1(1-3

CAPITOLO QUINTO.

osserva Mercurio con utilitarismo modernamente savio nel parlamento


di lass. E questo delibera che Isotta sia di Sigismondo finch'ella viva;
poi divenga l'amante di Giove e sii
tenta,

onde

rifiorisce la Terra, e

nova stella poli. Giove se ne conGiunone si rallegra per il momento

della forzata fedelt del marito .

Questo curioso romanzo apologetico, che si svolge in una serie di


dodici epistole in distici scambiate dai numi fra loro e coi mortali, non
dovette spiacere al principe, che rec seco di Grecia le ceneri di Gemisto Pletone per onorarle di condegna sepoltura e che, al dire del Pic-

emblemi gentileschi arricch la chiesa di


Francesco da darle aspetto di tempio pagano. Sigismondo (14171468) non fu certo uno stinco di. santo. Ebbe comuni coi condottieri suoi
pari non solo la perizia nelle arti della guerra, ma anche la rude prepocolomini, di tanti simboli ed
S.

tenza e la mancanza di lealt; di suo proprio un'indole vigorosa e insofferente d'ogni freno, una coltura non comune letteraria e filosofica, che lo
portava a teorizzare, fatto strano in quel secolo di indifferenza inconscia,

ultramondani dell'uomo, una facile vena poetica


s'hanno di
ed un culto geniale per l'arte. Pio II, ch'ebbe
alquante rime amorose
guerra con lui, lo scomunic, lo fece bruciare in effigie e ne deline
sui destini

lui

a foschi colori il ritratto, ma pur riconobbe la versatilit del suo inge-^


gno, asserendo che a qualunque cosa si .rivolgesse, pareva nato per essa.
Addotti dalla munificenza del principe e pronti a rendersene degni lodando e adulando, convenivano in quella corte eruditi, artefici, poeti.
Il Mecenate del novello Augusto era Roberto Valturio, autore d' un
trattato De re militari piuttosto archeologico che didattico; Roberto
degli Orsi, Aurelio Trebanio, Tobia del Borgo, Basinio Basini erano gli
Virgili. Piero della Francesca pennelleggiava il ritratto del
Ovid e
Malatesta genuflesso dinanzi a S. Sigismondo Matteo de' Pasti eternava
i lineamenti della bella Isotta nelle medaglie finamente scolpite e Leon
Battista Alberti rinnovava e decorava la chiesa pur ora rammentata,
dove nell'interno un ricco mausoleo Divae Isottae sacrum attendeva
le spoglie di lei e i sarcofagi delle nicchie all'esterno erano destinati
ad accogliere le ceneri d'uomini illustri nelle lettere e nelle scienze.
Venuto a Rimini, il Porcellio gett le sue finzioni mitologiche in
uno stampo, che in quella corte aveva dianzi avuto fortuna. Infatti fin
dal 1449 dovea essere compiuta una raccolta di epistole latine, le quali
per ci che procedono dalle Eroidi ovidiane e in parte per la contenenza si rannodano a lor volta ai lamenti in volgare di fanciulle trai

scurate dall'amante. L'Isottaeus

anch' esso

un romanzo;

le lettere si

cos intitolata la raccolta,

fingono scritte da Sigismondo ad

da questa a lui, dal poeta ad entrambi, da Francesco degli Atti


da lei al padre, e racchiudono la storia del principesco amore
dal suo nascere sino alla morte d'Isotta, che il poeta anticipa di molti
anni per suggellare l'operetta con un pietoso episodio fiorito di remini-

Isotta,

alla figlia- e

scenze petrarchesche. Piacciono ne\Y Isottaeus lo stile facile e non soverchiamente grave di ciarpame mitologico e un cotal senso di me-

163

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.


lanconia che domina alcune epistole; piace

il

garbato intrecciarsi del

fantastico col reale. Sigismondo lontano, e perci all'espressione dei

sentimenti amorosi ed al ricordo di

fatti privati,

quale la morte d'un

naturale (22 maggio 1447), si alternano accenni copiosi alle


sue imprese guerresche dal 1445 fino all'assedio di Crema (1449).
Nella composizione di codeste elegie par certo abbia avuto mano,
figlioletto

re

quantunque non
Basinio Basini,

solenne
italiani,

il

si

possa anermare che ne sia stato

difensore degli studi greci contro

il

i)

unico autore,
condottieri
col

poema

Pi

Porcellio.

monumento egli innalz a Sigismondo, gloria dei


Hesperidum gloria prima ducum (Isoli. II, 3),

Hcs-prridos
dei Basini.

poema

Hesperidos. Vi sono cantate in tredici libri le guerre che il Malatesta


combatt nel 1448 e nel 1453 al soldo dei Fiorentini contro Alfonso
e Ferdinando d'Aragona guerre stracche e inefficaci, di assedi brevi
e di scaramucce, come la maggior parte di quelle che sommovevano
allora l'Italia; guerre grandi e decisive, a sentire il poeta, alle quali
Giove stesso per mezzo di Mercurio avrebbe esortato il Malatesta come
ad imprese nazionali contro la barbarie celtica o iberica. I numi vi prendono parte; ordiscono trame in favore degli uni o degli altri combattono
sotto alle mura di Piombino e di Vada, come gi sotto a quelle di
Troia; soccorrono nei momenti difficili gli eroi loro protetti, ed Apollo
in persona narra ad Alfonso fuggente sulle navi le armi nemiche e
la malaria della maremma, le passate gesta di Sigismondo. Nella descrizione dei fatti guerreschi Y Iliade suggerisce al Basini episodi, spedienti,
similitudini, perfino frasi ch'ei volge fedelmente dal greco nell'intermezzo che occupa il settimo libro e i due successivi egli attinge precipuamente all'Odissea e favoleggia d'un viaggio del suo eroe in Catalogna, al palazzo della Fama e all'rebo. Nella terra che fu culla
di Alfonso, Sigismondo testimone dello spavento suscitato dalle proprie
vittorie, e nelle regioni fantastiche, ove lo guida la ninfa Psicheia, vede
il
suo nome e i suoi fatti gi consacrati all'immortalit sulle pareti
e sulle porte istoriate, e si incontra nel padre, che gli addita le ombre
dei poeti, dei guerrieri, dei filosofi e degli amanti famosi. L'apoteosi di
Sigismondo piena nei versi scorrevoli ed eleganti di Basinio
n
meno quella d'Isotta, perch Psicheia, la bella figlia di Zefiro
;

Isotheam Superi dixerunt nomine divani (Vili, 36).

La

via che

movendo

ha condotto per mezzo


a parlar di un poema,
non senza alcuna efficacia istruttiva, dacch ci presenta l'epopea erudita del secolo XV come la forma pi solenne della poesia encomiastica. E tale essa veramente.
Poich air Africa del Petrarca gli umanisti non aveano fatto buon
viso, nessun altro, forse, rinnov il tentativo di prender ad argomento
di un poema avvenimenti della storia antica. Miglior fortuna ebbero
le leggende spicciolate mitologiche od eroiche, come pi acconce che
erano a supplire col loro stesso carattere fantastico alla scarsezza di
dalla lirica politica ci

alle foreste sconsolate della lirica cortigianesca

aulica,

10 4

CAPITOLO

QUINTO.

fantasia degli scrittori,

e ne vennero alcuni poemetti affini a quelli


romana. Il Basini stesso, mentre era ancora a Ferrara
ove tenne per poco tempo la cattedra d'eloquenza (1448), compose e
dedic a Leonello una Meleagris in tre libri, ovidiana nella contea enza, omerica negli ornati; e posto ch'ebbe fine all''Esperide (1455),
della decadenza

mitologici
atmi.

si

accinse a rifare

che

cio

soltanto le

gli

gli

Argoiautica

di

Apollonio.

venne meno due anni dopo. Una parte

vita,

gesta

Ma non
del

bast

la

Argonauti sul lido della


Vegio nei quattro brevi libri Velleris aurei,

degli

trattato (1439-43) Maffeo

gli

medesimo tema,
Colchide, aveva

pregevoli per l'efficace rapidit della rappresentazione, specie verso la


dove son riferite le parole di Medea dubitosa dinanzi al delitto

fine,

e le imprecazioni che Eeta scaglia contro la

figlia,

mentre

la vela di

Giasone scompare nel lontano orizzonte. In un altro poemetto il Vegio


novell garbatamente della fine pietosa di Astianatte, onde venne l'idea
di cantare la sventura d'un altro troiano ad Antonio Baratella eia Loreggia in quel di Padova, verseggiatore fecondissimo e vago di innovazioni e diificolt met piche. E sua una Polidoreide dove son consertati e stemperati in una grande prolissit elementi virgiliani e ovidiani.
a l' e P' ca l atma del secolo XV essenzialmente storica. Men soggetti
clie i marmi e le tavole dipinte alle ingiurie del tempo,
versi dovevano assicurare gloria perenne ai fatti contemporanei e cingerne gli
,

Poemi
storici

m
'

onde i nomi di Achille e di Enea risplendevano


Omero e di Virgilio. Che importava se quei fatti nella realt
tenevano poco del romano e del greco ? Spettava appunto agli umanisti,
attori di quell'aureola

nei poemi di

richiamar qui alla mente del lettore quanto gi s' detto


colorirli in guisa da dar loro la
maest di che erano privi. E a tale intento nulla sembrava convenir
meglio dell'apparato mitologico, il bel velame, che nascondeva, adornandolo, il vero o, meglio, ci che la vanit dei signori e la piaggeria dei
letterati mendicanti il pane volevano far apparire per vero. Mitologia
e poesia si confondevano in un'unica idea. Ma i risultamenti non si
accordarono per vero alle intenzioni. I fatti, di solito piccini per s
stessi e mancanti di un contenuto ideale, si immiserivano ancor pi nel
confronto cogli ornamenti sproporzionati desunti da un mondo s profondamente diverso dall'attuale, mentre sotto il plumbeo peso delle erudite finzioni si inaridiva anche quella magra vena di poesia, che talvolta
necessario

in sul proposito della storiografa,

pur era nella loro essenza.


I poemi epici di tal fatta sono legione nel secolo

XV; una

legione,

seguitiamo nell'immagine militaresca, lanciata all'assalto delle borse dei


principi. Abbiamo gi ricordata la Feltrici del Porcellio; intorno al 1460
lo Strozzi cominci una Borsede, che rimase incompiuta; prima del
1466 Leonardo Grifo, un milanese che fu poi segretario pontificio e
vescovo, descrisse la battaglia dell'Aquila in un poemetto, cui l'eleganza
dello stile e l'insolita vivacit dei colori

fanno perdonare l'uso dei

triti

artifici, eccessivo rispetto alla brevit del componimento; il fiorentino


NaJdo Naldi verseggi una Volaterrais, stendendo su di un'ossatura

165

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

di Volterra (1472). Per


principale e forse pi
l'occupazione
fu
Sphortias
Francesco
cui stette ai servigi del nuovo duca di Milano.
lucrosa degli anni
Essa doveva comprendere ventiquattro libri, quanti l' Iliade di otLa
Sphortias
tocento versi ciascuno, ch l'umanista tolentinate disegnava sempre le di r'. Filelfo.
sue opere con una simmetria scrupolosa nei caratteri esterni; ma non
tocco se non l'undecimo (1461) e oggi se ne conservano soltanto otto,
seimila e quattrocento esametri in tutto; quel che basta per giudicare del
poema Narrano la storia delle imprese dello Sforza dopo la morte di
Filippo Maria, storia che scorre in forma arida e prosaica, tramezzata
di invenzioni rettoriche e barocche. Gli amori di Carlo Gonzaga per la
Lida e di Apollo per Bianca Maria, la moglie del protagonista, offrono
argomento ai due principali episodi. Le divinit prendono parte di continuo all'azione, anzi spesso ne determinano il movimento; Pallade ispira
e regge i divisamenti del savio condottiero; Marte soccorre al valoroso
sul campo; l'una e l'altro gli stanno ai fianchi nella battaglia di Ca-

mitologica

il

racconto dell'assedio e del sacco

Filelfo la

ravaggio, l'ultimo fatto importante, di cui parli la porzione del poema


rimasta mentre per i Veneziani pugnano Nettuno e Plutone. Simbolismo mitologico codesto di ben chiara significazione e tale, che atteggia
;

ad automi gli eroi principali, personificando fuor d'essi le loro qualit


morali. Similmente fantocci incoscienti e coscienze ridotte a fantocci
popolano i poemi del figliuolo di messer Francesco, Giammario Filelfo. Poemi di
Filelfo.
Chi potrebbe dire di conoscerli tutti ? Ecco la Fclsines che canta le G. M.
guerre bolognesi anteriori al 1 462 ecco la Martias in onore di Federigo da Montefeltro celebrato come figliuolo di Marte e di Minerva
ecco YAmyris, che rappresenta la presa di Costantinopoli come una vendetta dell'eccidio di Troia; ecco la Cosmiade eia Laurenzade medicee.
Le tendenze che abbiamo rilevato in alcuni cospicui esemplari del Poemetti
storici
genere signoreggiano tutta l'epica latina del quattrocento. E ben raro,
latini.
ed avviene solo in componimenti di non grande estensione, che un
poeta stia pago ad abbellire il suo racconto di una diffusa tinta classica senza ricorrere alla macchina mitologica, come fecero Antonio
Canobio, rozzamente narrando l'impresa aragonese di Gerba del 14^2,
e Leonardo di Piero Dati, uno dei dicitori del certame coronario, creato
nel 1467 vescovo di Massa, nel Trophaeum anglaricum, dove per
gradire al cardinale Scarampi descrisse con virgiliana eleganza di stile
e di immagini la battaglia di Anghiari. Anzi quelle tendenze si propagarono al di l dei confini dell'epica latina e trapelarono anche nella
;

poesia storica erudita in lingua volgare,

Messer Antonio Cornazzano


conviene presentare al lettore quenuovo personaggio, nel quale ci imbatteremo pi volte qui apfu di Piacenza, ma ne rimase per lo pi lontano, addetto
presso,
prima alla corte sforzesca, poi ai servigi del Colleoni, in fine alla corte
di Ferrara, dove mori verso la settantina nel 1500 o gi di l. Conobbe le arti tutte del cortigiano perfetto ed ebbe le attitudini varie;
del poeta forse null'altro che una fortunata disposizione di natura, per
sto

Poemi
storici in

volgare.

166
la

La
srorznde
cornazrano.

CAPITOLO

quale checch

provasse a dire versus erat. A vent'anni scrisse il


d diritto d'essere qui rammentato, una Sfor-

si

poema volgare che

QUINTO.

gli

zele in trentasei capitoli ternari raggruppati in dodici libri


argomento, le gesta del duca suo sign >re dalla battaglia dell'Aquila al 1450.
L'invenzione tutta virgiliana: come nell'Eneide Giunone suscita tempeste e guerre contro il pio figliuolo di Venere, cos nel poema del
Cornazzano muove le armi delle diverse leghe contro lo Sforza, perch
ella vuol impedire che abbia effetto il vaticinio di Proteo: essere serbati a lui, figlio di Giove e d'una ninfa marina, principeschi destini; come
Enea, lo Sforza discende all'Inferno; come Enea, trionfa degli ostacoli,
talch finalmente cinge la corona di duca.
Se- il fortunato capitano che all'Aquila si afferm degno figlio del
veccn i Attendolo, sent l'epica tromba celebrar in vario tono le sue
,

L'Altro

L^pfmo

imprese, neppure

manc

ai rivali di lui,

eredi della tradizione militare brac-

loro poeta. Lorenzo Gualtieri detto Lorenzo Spirito da


Perugia, morto vecchissimo nel 1496, autore d'un canzoniere amo-

cesca
roso

La

il

Fenice, d'uila versione in terza rima delle Metamorfosi, d'un

curioso Libro di Sorti e di pi altri versi, narr in

Altro Marte e composto

un poema

intitolato

centun capitolo ternario, prima fatti di Niccol Piccinino, poi quelli di Francesco (capp. 74
82) e di Jacopo fino alla
battaglia di Troia (1460). Mentre il Cornazzano costruisce d'elementi
mitologici il palco dell'azione, lo Spirito innesta solo qua e l nel racdi

conto

guerrieri romani, invoca al


numi, fa che talvolta Marte appaia in sogno a'
in generale procede piano, disadorno, arido come un cro-

ricordi classici; snocciola filze di

principio dei

suoi eroi;

ma

canti

nista, nei suoi endecasillabi scorrevoli e slombati, ricchi di suoni e di

Alcuna accensione

forme

sentimento rivela per dove parla di


gioie e dolori dei Piccinini, che egli segu fedelmente nella vita errabonda segnatamente nel capitolo premesso al poema, fervida requisitoria contro Francesco Sforza e Ferdinando d' Aragona per la frododialettali.

di

lenta uccisione di Jacopo (1465).

rimate,

Dicendo olY Altro Marte ci siamo allontanati dall'epica volgare di


stampo classico ed accostati ad un genere letterario non nuovo, ma pi prolifico e meglio accetto nel secolo XV che per lo addietro; genere di poesia
non ardisco chiamarlo, dacch si tratta di vera prosa versificata. La materia ne solitamente storica, ma talvolta didascalica; forma metrica la
terzina, pi di rado l'ottava. Anche qui, s'intende, l'ingegno, la coltura e la patria dei vari rimatori danno ai singoli componimenti una
peculiare fsonomia. Se leggi V Istoria dell'assedio di Piombino del 1448,
opera di Antonio da San Miniato in Toscana, vi noti una certa gala
di ornamenti classici; se quella cronaca eli Firenze dal 1422 al 28,
che ci fu serbata da un testo a penna magliabechiano, uno studio di

meno

appariscente e pi gradevole; se le verseggiate riduveronese Giorgio Sommariva,


uno squallore di stile desolante. Sono composizioni ben rozze cos gli
undici canti in ottava rima sulla guerra dell'Aquila di Niccol Ciminello

eleganza

zioni di storie e di manifesti politici del

LA LETTERATURA ORIGINALE

come

IN VERSI.

167

lungo capitolo ternario, in cui Andreolo Giustiniano, ardente


ed archeologo, descrisse l'assalto dato dai Veneziani a Scio
nel 1431; ma questo rende con pi viva efficacia di quelli l'impressione d'un testimone oculare ed meno impacciato e men ligneo. Pure
non c' da esitare tutta questa roba e molt'altra ancora vuol essere
registrata sotto un'unica rubrica, perch tutta ha comuni certi caratteri generali. Gli scrittori prendono la materia tal quale la trovano
nelle loro fonti, siano queste racconti orali o cronache in prosa o l
loro stessa memoria; non si provano neppure a darle atteggiamento
fantastico o a mettere in rilievo le parti ove spiri un pi caldo soffio
di poesia, e qua smozzicando una parola o una frase, l aggiungendo
un ripieno la mettono in versi con pazienza invitta, con monotonia
accasciante, sto per dire colla rassegnazione inconsapevole d'un operaio
che lavori a cottimo. Con metodo non dissimile Piero da Montalcino rim
tre libri De institutione vrtutum et de regimine sanitatis, trattato
di morale e d'igiene in parte calcato sul De officiis e dedicato a Filippo
Maria Visconti, e il Cornazzano, gran maestro del genere, un opera
'bellissima, in terzine anche questa, sull'arte della guerra; laddove Goro
di Stagio Dati, l'istorico, aveva molto prima messo in ottave un manuale
il

bibliofilo

di geografia, la

Sfera

poeti senza poesia, vien fatto di esclamare, leggendo tali tiritere

conoscenza degli eventi politici e dei costumi, ma stucnon potevate lasciar in pace le Muse e scrivere
in prosa? Gli che ai leggitori del Quattrocento, buona gente davvero e di gusti molto differenti dai nostri, l'arida materia sembrava
meglio digeribile, se ammannita in versi, e piaceva quel, fosse pure
monotono od~ aspro, solletico dell' orecchio che in certi casi rendeva
pi agevole il ritenere. Agli scrittori stessi doveva parer meno ardua
impresa il congegnare un capitolo ternario, pur che fosse, al quale il
preziose

alla

chevoli quanto mai,

metro e una tradizione gloriosa davano senz'altro dignit d'opera letuna pagina di
prosa volgare. Inoltre, e ci pi monta, l'abito di rimare intorno ad
argomenti storici veniva su dal popolo, da cui la societ colta distava
per gusti e per sentire, meno che non lascino credere il fasto elegante
delle apparenze e la perfezione di alcune opere. Ond* che quantunque
Dante, meraviglioso trasformatore della storia in materia poetica, suggerisse ai rimatori cronisti, come gi al Pucci nel Centloquio, pa-

teraria, che tornire faticosamente sui moduli ciceroniani

role, frasi,

sentenze sue proprie e per lo pi l'uso della terzina, tuttavia

tenevano dei modi, delle forme stilistiche e qualche rada volta


anche del metro dell'epopea storica popolaresca; umile epopea, costituita da non lunghi poemi in ottave, che alla guisa delle odierne
gazzette diffondevano la notizia dei fatti ed erano primamente destinati
non alla lettura, come quelli di che si finora parlato, s alla reciessi

tazione.
1

cantastorie,

villaggio,

quali peregrinanti di

dove a feste religiose o

civili

citt in citt, di villaggio in

traesse in pi gran calca la gente,

eia

poesia

poppare.

168

CAPITOLO

QUINTO.

medesimo luogo, piantavano


un suggesto, onde prendevano il nome di cantori in

e quali per lunga stagione operosi in un


loro cattedra

panca o

di

canta in panca,

da, cui di solito uscivano,

volgo soltanto.

Firenze,

levano fermarsi, non


minuta,

il

si

di

sulle

piazze nei crocicchi,

ed

il

\olgo,

affollava loro intorno per ascoltarli.

il

Martino, dove essi sofarsetti modesti della gente

sulla piazzetta di S.

rado spiccava tra

lucco paonazzo dei popolano grasso, e d'altra parte quei can-

andavano volontieri, per la speranza di lauti guadagni, a rallegrare


convegni di famiglie doviziose. Ricco e vario era il loro repertorio:
accanto ai racconti cavallereschi, dei quali diremo in luogo meglio acci) uodato, vi figuravano le leggende sacre, le narrazioni desunte dai
classici, le novelle e, via via che gii .avvenimenti le ispiravano, rime
politiche e storiche. Delle liriche encomiastiche gi rammentate pi
addietro, alcune; furono certo declamate in pubblico, quelle di Niccol
cieco, per esempio. Cosi quando Galeazzo Maria Sforza fu a Firenze
nel 1 159, Antonio di Guido, il principe degli improvvisatori fiorentini,
nella villa Medicea ii Careggi cant sulla cetra le lodi del duca
Francesco, mescolando al racconto le consuete comparazioni classiche
con tal arte, assicura un contemporaneo, da digradarne ogni maggior
poeta od oratore. In poemetti popolari, dei quali appunto l'ordine della
trattazione ci conduce ora a parlare, giunta a noi la descrizione di
molti avvenimenti del secolo XV della battaglia d'Anghiri, della caduta di Costantinopoli e di quella di Negroponte, della guerra volterrana del 1472, della carcerazione di Cicco Simonetta, per non citar che
pochi esempi scelti fra molti.
Quand'erano composte da quei verseggiatori ignorati che, intertori
i

preti del pensiero dei pi, liberavano dalla fantasia la strofetta

biri-

china o plasticamente efficace e tosto disparivano tra la folla, anche le


rime storiche popolari avevano la vivacit e la schiettezza che s' notata nella lirica d'amore.
Morto

lo pulpo - e sta sotto la pietra;

?4orto ser Janni

figlio

di poeta,

cantavano i monelli napoletani, allorch fu ucciso il gran siniscalco sei'


Gianni Caracciolo (1432); e Pio II verso la fine di sua vita sentiva
ancora ripetere dal volgo una cantilena narrativa del tradimento consumato dal vecchio Sforza contro Ottobuono dei Terzi (1409), bellissima per rapidit, di tocchi e per movimento drammatico ed arieggiante
per il metro e^ per- la forma dialogica certe antichissime canzoni epicoquella di Donna Lombarda ad esempio. Inliriche vive ancor oggi
vece nei poemetti che i cantori di mestiere componevano stretti dal
bisogno piuttosto che per ispirazione del sentimento, in generale non
nulla di quella, vivacit, ne di quella schiettezza; s, una grande aridit e monotonia nel racconto e grande stento nella iattura dell' endecasillabo e dell'ottava. Essi cominciano con un' invocazione a Dio o
alla Vergine o ad un santo patrono; finiscono con un complimento agli
uditori ed un invito a metter mano al borsellino; accolgono spesso le
:

LA LETTERATURA

169

ORIGINALE IN VERSI.

pi ovvie reminiscenze erudite, sempre un arsenale di frasi fatte e di


formule grammaticali e rettoriche. Vi hanno gran parte le descrizioni
di battaglie, alle quali quei rimatori s'erano ausati trattando la materia
cavalleresca e che il popolo gradiva assai ed ascoltava trepidante.
Perch, non s'ha a dimenticare, all'effetto di quelle recitazioni conil quale
commosso
feriva notevolmente lo stato d'animo dell'uditorio
di fresco dagli avvenimenti e pieno d'affetto, ora sincero ed ora arper la sua citt o pel suo principe partecipi di quelli per
tificiale
diretta o per indiretta via, metteva di suo il calore che mancava a*
versi dei cantambanchi. L'abilit di questi consisteva appunto nel saper
scegliere argomenti che avessero un'eco nel cuore degli ascoltatori si
,

che l'interessamento suscitasse codesta specie di collaborazione ideale.


A che nulla si acconciava meglio eli una particolar forma della poesia
intermedia tra 1' epica e la lirica e perci amante pi che
stoi ica
dell'ottava e della terzina, dei metri lirici, specie del capitolo quadernario: il lamento.
Esso trae origine da un artifcio logico agevole alle menti popvinti delle battalari, la prosopopea. Vi parlano in prima persona
i principi morti
le citt
glie, i caduti nella tenzone colla Fortuna
prese e saccheggiate. Narrano i loro guai danno sfogo al dolore
imprecano ai loro nemici, talvolta si abbandonano ad uno sconforto
desolato, tal' altra invocano aiuti per compiere le loro vendette. Ond'
che nei lamenti ai lunghi tratti d' indole epica si alternano le apostrofi, le maledizioni, le disperate e talvolta si accodano i testamenti
e gli epitaffi, altre forme della personificazione, che ebbero anche vita
indipendente. Espressamente dichiarati o adombrati in tutto il procedimento del discorso vi suonano i concetti cari al popolo per lunga
tradizione e per il conforto che ne viene alle avversit della vita
tutti ragguagliare la morte e la Fortuna permutar senza tregua d'una
in altra persona i beni mondani.
conta oltre ad una trentina di lamenti storici da
Il secolo XV
quello del Castello eli Torre incendiato dagli uomini di Pordenone (1402)
a quelli numerosi di Ludovico il Moro. Si incontra spesso nei manoscritti del tempo ed ebbe 1' onore di pi impressioni il Lamento di
Pisa di Pucino d'Antonio, or s or no seguito dalla Risposta che fa
Vmperatore e dal Testamento. Scevro di rettoricume, lindo nella sua
schietta veste toscana, che sa ancora di Trecento, con qualche frase
,

dantesca o petrarchesca, esso

moderno

di tutti

il

pi vago.

Pu

spiacere al

lunga sequela di apostrofi alle terre d' Italia e ai


principi d'Europa
ma ne lo compensa la gentilezza accorata dei tetrastici in cui la ^itt vinta (1406) ricorda il dolce tempo della sua

lettore

la
,

libert e le feste e

trionfi e le

spedizioni gloriose.

Talvolta per piacere ero a cavallo

Accompagnata come gran

Non come
D'uomini

reina,

cittadina,
o

donne

di

gran dignitade.

L
st

170

CAPITOLO

QUINTO.

E cavalcando

per la mia oitlade,


Vagheggiandola tutta per diletto

Su

nel divin cospetto

vedendo

Sala,

Come

di

Andava

pi voler
al

ci

si

muta Tomo,

bel

Domo

mio

bel

mio

Poi a veder

in lei tanta bellezza.

altre volte per pi piacevolezza

Camposanto.

poi ch'io avevo rimirato alquanto

Le

belle storie e l'arche dei defonti,


visitar le fonti

Del mio bel san Giovanni ero in cammino.


Poi per piacere in questo e in quel giardino
Cogliendo violette, rose e fiori
Di diversi colori
Gli svernanti uccelletti stavo a udire. .
.

Non

senza pregi di vivezza e di forza drammatica pure il lamento


che un ignoto fiorentino pocanzone, nel rispetto metrico
neva sulle labbra a Francesco da Battifolle, conte di Poppi, quando

questi nel 1440 fu spodestato dai Fiorentini in punizione della sua inMa via via che si scende verso la fine del secolo cosiffatte

fedelt.

vanno irrigidendo in uno schema immutabile ed accostando, per la contenenza, al poemetto puramente narrativo. L'efficace,
semplicit di che si abbellano i lamenti del Trecento scompare; i cantori popolari non sanno; i rimatori colti, che anch'essi si impossessarono del genere, non sanno n vogliono imitarla.
composizioni

si

Larga voga ebbe,


Le novelle
in

rima,

per

s' detto,
r

storica la terzina; e lu

perche

->

il

la trattazione

in

rimata della materia

modello

dantesco

la

vinse sugli

esempi offerti dai cantori popolari. Non cos accadde per la novella,
altro genere letterario schiettamente narrativo. Francesco di Bonanno
Malecarni e Francesco Accolti, parafrasando, l'uno, la novella di Nastagio degli Onesti per innestarla in quel Trionfo d'amore che recit
al certame coronario e, l'altro, la seconda parte della storia di Ghismonda, si valsero, vero, della terza rima. Rimangono sedici Proverbi del Cornazzano, ci sono aneddoti, lubrici i pi, che ad esplidei**cornaz- cazione d' altrettanti proverbi si immaginano narrati da un Nastagio
zano.
fiorentino in un crocchio di amici sollazzevoli governato al solito da
una regina, e loro si atterga una novella che espone certo episodio
propalato in forma aldeli' infedelt coniugale di Francesco Sforza
quanto diversa pure da Sabbadino delli Arienti {Porr etane, 26). Or
ben da credere che se avesse dato compimento a questa opericciuola,
Cornazzano l'avrebbe, giusta il suo costume, adattata alla meglio al
il
metro dantesco; ma non and oltre a quella dettatura in prosa nuch'egli
vai quanto dire ricca di versi e di consonanze
merosa
fece precedere anche alla versificazione del trattato De re militari
L'altre novelle rimate del secolo XV, siano esse popolari o le abbiano
accarezzate Muse men rozze, sono tutte, n l'additare alcun' altra eccezione turberebbe il processo del nostro ragionamento, in ottave.
,

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

171

Di codesta diversa sorte dei metri ne' due generi narrativi non Le
in
difficile veder la ragione. I lunghi poemi storici erano destinati ad
esser

letti; le

novelle no, anche se composte da qualcuno che pizziun pubblico non incolto. Tra le figure pi ri-

casse di letterato per

levatamente scolpite da Gentile Sermini s' additato Scopone villano


sconoscente e baccalare, avaro delle cose sue e dell' altrui cortesissimo . Di lui narra il novelliere senese che capitato un d a Petrilo, s'ebbe da una gioconda brigata condegno castigo alla sua malvagit e alla menzogna con che non si peritava d'infamare il suo
nobil padrone Bartolomeo de' Buonsignori. Poco appresso questi accolse colla consueta magnificenza nel luogo suo di Monteantico la gio,

conda brigata e

poi

che furono levate

le

mense, un

quei giovani,

di

quaranta stanze improvviso cant con quello liuto, che era una dolcezza maravigliosa a
udirlo; nel qual cantare tutta la novella di Scopone per ordine cant .
giardini dei
Cos nelle raunanze ond' eran liete sovente le case e
si alterville
sui
colli
fiesolani,
e
le
a
Firenze
cittadini pi facoltosi
nava a' racconti in prosa la recitazione di novelle versificate. Autori
e spositori ne erano uomini piacevoli, che a quelle nobili riunioni si
mescolavano coll'intento di divertirsi divertendo, come quel Pier del
Nero, in cui gi ci siamo imbattuti, come Bernardo Giambullari, padre allo storico cinquecentista, come ne' suoi giovani anni Girolamo Benivieni, ri facitore in ottave della novella di Ghismonda. Erano i dilettanti dell'arte che i cantastorie esercitavano per sopperire alle dure
necessit dell'esistenza; erano, se pur talvolta anch'essi miravano al
lucro, 1' aristocrazia della classe dei cantambanchi. Ora le pause e i
ritorni del ritmo, su cui recitavano coll'accompagnamento della cetra

Ugo

Malescotti, preso

il

liuto e salito in banca,

il loro uditorio pi scettico in


o del liuto o della viola quelle novelle
che non fose il popolo, non avrebbe sofferto i poemetti storici
richiedevano una forma metrica che risultasse costituita di unit
minori fra loro uguali e indipendenti; alla quale necessit corrispondeva assai bene l'ottava rima, non il capitolo ternario con quel suo devolversi ininterrotto merc la vigorosa incatenatura delle unit ritmiche.
Fra i cantori di mestiere e i lor pi addottrinati confratelli, come
erano frequenti gli incontri nella vita quotidiana, cos assidui gli scambi
delie forme stilistiche e della materia. Pure alcuni caratteri
che il
lettore esperto sente, meglio che non li possa il critico nettamente
definire
distinguono le composizioni degli uni da quelle degli altri.
Era un giullare plebeo colui che forse per allietare una festa nuziale
in casa di Giannantonio Orsini, potente principe di Taranto (m. 1463),
rim T Istoria di Ottinello e Giulia; era persona impacciata da un
pi elevato ideale artistico un altro ignoto che al cadere del secolo
novell Di Maria per Ravenna. Sessanta stanze bastarono al primo:
poche invero al vivo accendimento di insoliti affetti e alla molteplice
variet di casi avventurosi, di che va adorna la bella leggenda, migrata a noi dall'Oriente per chi sa qual lunga sequela di tappe inter-

politica

novelle
ottave.

172

CAPITOLO

QUINTO.

medie; ottanta ne abbisognarono

al secondo: troppe
invero al raccontino miserello e stanto esposto col filologico intento di dichiarare
una locuzione proverbiale. Gli clic per quella unit e immediatezza

che dei tempi come degli uomini meno colti, il ponon percepisce e non sente le poetiche attrattive d'una singola
scena se non come confuse nell'interessamento suo generale per tutto
l'insieme del racconto, e il cantastorie, il cui spirito non diversamente temprato, tratta ogni scena colla medesima superficiale brevit,
di impressioni,

polo

senza minute analisi

sentimenti e senza lunghe descrizioni. In tre


racchiusa la confessione, che Ottinello fa del
suo amore; l'innamoramento e la dedizione di Giulia non ne occupano
sole ottave

(17-19)

di

neppure una intera:


La

giovinetta lo guardava in viso,

Vedealo

Impallidito

onesto e grazioso
il

fior del

paradiso

Lo prese per la man, levollo so-o.


Con uno sguardo e con un dolce riso
Disse: Vo'

che tu

sie il

mio amoroso;

per ima cotal loro ingenua freschezza ma che


quasi con uno scatto improvviso il
dramma d' un'anima. Invece i cantatori pi colti, se si avvengono in
situazioni ritenute poetiche, si indugiano a cincischiarle e a drappeggiarle di ornamenti convenzionali. A quali sonanti e vane cicalate non
si abbandona il protagonista nella riduzione in istanze della novella
di Gerbino (Dee. IV, 4)! Ancora: i cantambanchi popolari fanno larga
parte s negli esordi e s nel processo dell'esposizione all'elemento criversi che piacciono

stiano;

numi

loro aristocratici colleghi

rit coi

troppo rapidamente

risolvono

mostrano assai maggiore familia-

dell'Olimpo.

Delle versioni rimate di novelle boccaccesche che il Quattrocento


ha tramandato, forse nessuna, dacch la Lusignacca spetta al Trec uito e non sicuro che dipenda dalla novella di messer Lizio da
Valbona, di origine popolaresca. Piuttosto che aneddoti, i quali avesil popolo amava
sero gi ricevuto comunque una forma letteraria
ci

sentir ripetere da' suoi

legravano
cui

poeti

le veglie nelle

davano vaghezza

quelle

storielle tradizionali

lunghe sere d'inverno

le fantasiose invenzioni;

la

la fola di

che gli ralLiombruno,

novella di Campriano

contadino, gioconda per la molteplice astuzia del protagonista; quella


del Calonaco da Siena facetamente satirica e va dicendo. Si affacevano

anche

a'

suoi gusti racconti di avvenimenti reali o per lo

meno non

disformi dall'indole generale della fervida vita contemporanea: la Sto-

ria di Ginevra degli Almieri sepolta viva, rimata da Agostino Velletti, e quella di Lionora de' Bardi, riduzione in ottave d'un originale
prosastico; storie d'amore entrambe, l'una pervasa da un lieve soffio
d'ironia, l'altra

vivamente lumeggiata, merc del contrasto, dal ricordo

delle passioni civili.


poemi rimi0

cacccWa

"

A far prevalere anche nelle novelle d'arte l'ottava rima giov dunque principalmente il fatto che anch'esse solevano venir recitate; ma

173

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

pure una tradizione letteraria autorevole, come quella che


metteva capo al Boccaccio. Egli aveva tratto quel metro dalle libere
aure delle piazze e dei giardini alla quiete meditativa degli studi e lo
aveva addestrato ad accogliere le raffinatezze d'un' arte cresciuta alla
scuola dei classici, servendosene per narrare variate storie d'amore,
vi confer

o l'idillica delicatezza non toglie solitamente del tutto il carattere novellistico; laddove il metro dantesco
aveva usato ad esprimere pi profondi od almeno pi generali concetti nelle allegorie deVAmeto e dell' Amorosa Visione. Assidua e
alle quali la solennit epica

vigorosa fu l'efficacia di lui nella poesia narrativa fantastica del.


anzi pi viva e pi intima, come meglio rispondente alle
secolo

XV

condizioni de'tempi, che

non

Del quale ripeteva s e


zioni e scene boccaccesche,

sia

stata quella dell'Alighieri.

frasi e

ma

modi,

per rappresentar situa-

11

Pestellino,

del Filostrato in special guisa Michele

in un
di Francesco Corbizzeschi vocato Pestellino, orafo da Firenze
poemetto espressamente autobiografico, come velatamente erano quelli
divise in tre
del Certaldese. Sono quattrocensessantacinque ottave
parti, dove egli espone la storia del suo fortunato amore per una nobile fanciulla dal 16 febbraio 1428 sin verso la fine del 1431. N dell'amore soltanto: anche de' suoi viaggi in Sicilia ed in Corsica, della
sua partecipazione alla guerra di Lucca e alla battaglia navale di Portofino e d'una sua avventura cavalleresca, quando sfidato a duello un
pisano, che sparlava di Firenze
lo abbatt sul campo loro concesso
,

mezzo agli spineti squallidi della prosa vien fatto


di coglier qua e l nel poema del Pestellino alcun fiore fragrante di
poesia. Ecco con quale semplice eleganza rinfresca una vecchia sidal Fortebracci. In

militudine per
suoi sguardi

rappresentare

la timidezza

della sua

bella

dinanzi

a'

E come

in vista altera e disdegnosa

Cerbietta sta ne' campeggiati colli

isparisce poi che

non ha posa,

S'egli advien pur eh' un albucel

Tal

f' la

si

mova,

chiara stella luminosa ....

picciol legno remiga il poeta su ir Arno presso al Pian di Legnaia ed ha seco la donna del suo cuore con due compagne. Ella me-

In

un

il suo amore, menverzura rigogliosa delle sponde passa la navicella cullata


mollemente dall' ondeggiare della corrente. Scena idillica leggiadrissima Peccato che la solita prolissit del rimatore ne ammorzi 1' effetto e che maldestro, com'egli , alle descrizioni larghe e piene, non

diante

dei soliti giochi gli confessa, cantando,

tre fra la

la

ravvivi di colori gai e fiammanti; peccato che il Pestellino non avne descriva mai se non gli aspetti pi grossolani del sentimento.

verta,

Il lungo studio che Jacopo Serminocci e ser Domenico da Prato


avevano posto nella Divina Commedia manifesto alle superficiali senScci,
parvenze dell'opere loro, non li trattenne dall'appi gliarsi piuttosto alio
,

174

CAPITOLO

QUINTO.

fantasie care al grande novellatore. Ed il primo, uomo valente e reputato nella sua Siena (1417-1480?), narr in un poema di sessanta-

due

capitoli ternari intitolato Difinizioni

gio boschivo con sette ninfe

il

suo incontro su

di

un pog-

cacciatrici e sei garzoni, le loro dispu-

tazioni intorno a tredici quesiti d'amore


son quelli ben noti di Andrea Cappellano
e le tempeste del suo cuore saettato da Cupido. Qui
in sulla line
torna alla mente del lettore il Corbaccio che gi ne'
primi anni del secolo sor Lodovico Bartoli per alleviare i lunghi ozi
del suo ufficio in Caprese, terra del contado aretino, avea ridotto in
u Pomo de/Otta VG Ma il poema del Serminocci, per l'impostatura sua, tien deloei Fioretto, ['
A me fo C orcie [\ Pomo del bel Fioretto. Col pratese ser Domenico,
che lo compose in tre canti d'ottave, forse ancora entro a' contini del secolo XIV, il nostro lettore ha gi alcuna dimestichezza, onde non si me-

un tono solenne e spalancasse gli scrigni


una scena assai frivola alcune
belle donne, tra le quali la sua Melchionna di Poggio Imperiale, sollazzautisi col gioco campestre del pomo in un piano, sorriso dal sole
presso al gorgogliare d' una fontana. Quivi per vero die dai fiori
spaiono
reconditi sensi, che sono il nocciolo del romanzo boccacceraviglier ch'egli assumesse

della sua erudizione per rappresentare

sco, e fine del

personaggi

poeta solo un' adorna rappresentazione e la lode di


Ci accostiamo ad un genere che forse il Boccaccio

reali.

aveva trattato, se sua la Caccia di Diana, ed al quale porgeranno argomento fra poco schermaglie, giostre, giochi di piazza, la
cavalleria borghese insomma del secolo XV.
Ma le sette donne, che apparvero un bel mattino a Giovanni Gherardi da Prato, secondo ch'ei narra nel suo poema in terzine Philomma gono come quelle apparse ad Ameto le virt cardinali e
stesso

Gjovaoni
ciherardi.

teologiche.

Donne le chiamo, ma son pi che stelle


Ed a noi somme idee, sanza cui. scorta
Beato non pu esser sanza quelle.

Tutte sdottoreggiano e tutte accompagnano il Gherardi (quantundi lui abbia particolar cura Costanza, cio la Fortezza) dalla selva
dell'errore su su per lo dolce monte fino al prato fiorito dove hanno
loro consueta sede. Ivi, colle ninfe del quadrivio e del trivio, esse

que

fanno corona a colei che Dante chiam Beatrice:


Questa la santa diva Poesia
Ch' s leggiadra, dolce, vaga, altera;

Beatrice, o vuoi dir teologia;

Nomi

le

sono sinonami ed uno

Subietto e solo a vera fantasia.


Il

poeta

come Dante ed Ameto

l intorno,

e che

si

tuffa

ammorta ogni malvagio

nel ruscello
stato,

onde

al

che scorre
suo occhio

diviene visibile la bellezza di quel luogo e della sua guida, nella qual
pare ravvisi la fanciulla che gli avea tratto il cuore,
Pria che finito avesse

il

decim'anno.

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

175

'

Rachele gli sfilano dinanzi due schiere di


donne rispettivamente insigni per virt attive e contemplative; ed a
ormai agevole inlui entrato nel sacro recinto, che si identifica
Condotte da Lia e da

tender perch, col Parnaso, si fanno incontro Dante, il Petrarca e il


Boccaccio in una con Zanobi da Strada, cui i secoli sfrondarono l'alloro
troppo facilmente concesso dai contemporanei. Ancora una rassegna
di artefici e di poeti famosi, Fidia, Apelle, Giotto, Pier dalle Vigne,
Coluccio, Fazio degli liberti e altri a iosa, e il poema finisce o almen
quella parte che ne trascrisse l'autore nel testo pervenuto a noi. Il
Gherardi vi si rivela verseggiatore inetto ad esprimere gli astrusi
suoi pensamenti, impacciato e quindi oscuro nelle strettoie del simtoscano, ha per talvolta una certa viva freschezza di lingua.
bolo
Dante gli porge moltissime frasi e idee spicciolate; qualche pensiero
il Petrarca; la foggia delle allegorie, la voluttuosa minutezza di certe
fondail concetto
la rassegna di strane e patrie genti
descrizioni
;

mentale infine provengono direttamente dal Boccaccio


dall'

dall'

Ameto

Amorosa

Un

Visione.
viaggio ne' regni dell'Amore e della Fortuna, compiuto

parte

u poema

nel sonno e parte sognando ad occhi aperti, finse pi tardi messer Piero del Giocolo, che nel 1456 era de' mazor de la fradaya de

p_iero

siamo alle^
Batudi di Pordenone. L'alato fanciullo
vaga disperato per selve e per prati, dove
contempla le schiere de' suoi compagni di sventura. Glieli addita Ovidio e gli suggerisce quei rimedi contro all'Amore che insegn in una
sua upera divulga tissima. Fortuna la calva matrona tradizionale
che volge senza posa la sua rota, mentre a questa si aggrappano gli
uomini per venire in istato e , indarno
per non precipitare nella
quando la
discesa. Il poeta sta mirando smarrito quello spettacolo
scende coronata d' oliva come
sua donna morta sette anni prima
Beatrice, Dall'alto loco ove tornar desia, Per fargli al mondo volgere le spalle , e in un fresco e verde pratello lo esorta ad ascoltare la predica d' un vecchio canuto. E Boezio
il
quale disserta
della potenza
sulla vanit della ricchezza
del piacere e della gloria ed intanto alcuni personaggi biblici passando di l fanno al suo
S.

Maria de

solite

lo

li

ha

ferito ed egli

discorso
ternari,

come un figurato commento. Il poema, in diciannove canti


ha di dantesco il fondamento allegorico se come pare il
,

Del Giocolo volle rappresentarvi il suo trapasso dalla vita mondana a


quella del sacerdozio, molte frasi ed alcune particolarit dell' azione
non per l'ossatura, che ci richiama piuttosto all' Amorosa Visione.
;

La Divina Commedia era libro quasi popolare se ne moltiplica- L ilnitazi


vano incessantemente le copie; si leggeva e commentava in pubblico dant<,sc
non pure a Firenze dalla cattedra illustrata dal Boccaccio, ma in altre
;

letterati lo studiavano e tentavano di appropriarsene le


ed i modi con grande amore. Ma quanta e qual parte del
poema viveva ancora nel loro animo? Le condizioni di civilt che lo

citt; molti

forme

ITO

CAPITOLO QUINTO.

avevano generato, s'erano a grado grado mutate, e quel cumulo


compatto di sentimenti e di idee in cui profondava le sue radici il
capolavoro divino, s'era via via sgrtolato. Venuta meno la sublime
tensione degli spiriti , che in sullo scorcio del dugento avea dato vio-or
nuovo ad ogni manifestazione della vita, era tramontata l'idealit del-

meno

l'impero universale e s'era fatto

insistente e pauroso

il

pensiero

letteratura stessa, a malgrado della iattanza degli


umanisti, aveva assumo nel fatto un aspetto pi modesto. Alle nuove

dell'oltretomba;

meglio che

condizioni,

meto

V Amorosa

vasta concezione dantesca

la

Visione, dove

si

adattavano l'A-

Boccaccio, vissuto appunto mentrasformazione si compiva, aveva accolto ci che della


poteva esser ancora accetto agli uomini del Quattrocento:

tre quella

Commedia
le

la

linee generali,

il

procedimento allegorico,

il

men

parte decorativa pi

la

poemi del Gherardi e di Pietro


del Giocolo ed alcun altro men ampio componimento, quantunque procedano pei' dritta linea da quelle operette boccaccesche, pure vogliono
essere considerati come poemi di stirpe dantesca. Il capo-stipite della
artificiale e forse

famiglia la

bella.

Commedia, ma

Meno

di leggi biologiche.

Perci

la

discendenza

eruditi e

men

s'

trasformata per effetto

Littamondo, meno
Quadriregio affini per molti rispetti alla Fimerodia,
essi sono il frutto di una particolare educazione poetica largamente
diffusa, dalla quale germogliarono colla spontaneit che in opera meditata consentita. Sebbene alterata profondamente nel suo valore
simbolico, l'idea fondamentale della Divina Commedia, cio il viaggio
con un intento ed un significato allegorici suoi propri non ad esso
stranieri, vive ancora in quei poemi, come nell'Amorosa Visione.
Nati da pensamenti del tutto individuali, la Citt di Vita del Palmieri, il Giardeno di Marino Jonata, V Anima peregrina di Tommaso
Sardi il lungo poema del genovese Bartolomeo Gentile Fallamonica
ed alcun altro che qui non accade nominare lasciata eia parte ogni
complessi del

del

aridi

tradizione intermedia,

vina e costituiscono

si

una

riattaccano invece direttamente all'opera dispecie di rinascimento dantesco nel mondo

degli eruditi, rinascimento artificiale

e-

caduco

come

quello

rinnova, n poteva essere.* altramente, se non le materiali

che non

esteriorit

della tradizione dantesca i poemi che absono ci che le parole schiettamente popolari
nella storia di una lingua romanza; quest'altri sono i latinismi crudi.
Nei primi d gli ultimi guizzi una fiamma che muore per manco
d' alimento
nei secondi la fiamma arde artificialmente di nuovo
ma

del modello. Nella storia

biamo esaminato

dianzi,

l'alimento tutt'altro.

Nel secolo XV, quando non ostanti


il

gli

avanzamenti della

critica,

senso storico non sapeva ancor adattarsi al variar dei prospetti,

solenne

monumento

di

nostra letteratura viveva gi, almeno presso

il

pi

dotti,

quasi esclusivamente in grazia dell' arte onde avevano ricevuto l'im-

pronta del genio e carattere d'universali e


di

una nazione e

di

di

eterne

le idee e

sentimenti

un'et; dell'arte che aveva rappresentato mira-

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

177

con magia incredibile abardue ed astruse teorie. L'arte dantesca teneva siffattamente soggiogati gli spiriti che non v' ha quasi
genere letterario volgare, non esclusa la lirica, il quale non ne serbi
tracce almeno in qualche particolarit di lingua e di stile. Eppure
strano a dirsi, gli uomini del Quattrocento paiono quasi non avvertire
bilmente

le

il

vero

motivo

gli affetti pi vari e

scene e

bellite di splendide

forme

di

un

le pi

predominio. Degli

tal

cenno appena

alti

si

parla o

rilevano mai;

scarsa ne la coscienza, che ogni

si

fa

pregi estetici del

commentatori non

poema o non

li

poetucolo com-

parato all'Alighieri. Del quale si esaltano invece F erudizione vasta,


profonda e giovevole alla vita pratica ed alla vita contemplativa, le
gravi sentenze e le sane moralit; egli il poeta teologo per eccellenza; il poema Yopus doctrnale, di cui Dante stesso aveva svelato
a Cangrande i sensi riposti. Perci le imitazioni della nuova maniera
sono, come gi il Blia-mondo, opere puramente didascaliche.
Il

Palmieri, volendo esporre teorie attinte da Origene e dai neo- La

platonici sulla provenienza e le sorti delle


di

anime

umane

aver compiuto, nel tempo che era ambasciatore presso re Alfonso


un fantastico viaggio. Guidato dalla Sibilla cumana, egli sale

(1455),
fino ai

Campi

elisi, situati

immediatamente

sotto alla sfera delle stelle

che nel d della lotta non furon ribelli ne fur fedeli a Bio e che vengono via via mandati sulla terra
ad animare i corpi umani, come ad una novella prova della natura
loro infingarda. Codeste anime scendono gi per le sette sfere dei
pianeti, ricevendone gli influssi, e per le tre degli elementi, dove assumono il corpo e cominciano a soffrire. Sulla terra si trovano dinanzi
a due vie: se nella libert del loro arbitrio seguono il consiglio
dell' angelo perverso e scendono da mano sinistra, vanno in perdizione attraverso alle diciotto mansioni dei vizi se invece si avviano
a destra salgono su per il colle della virt alla beatitudine celeste.
le
Per le dieci sfere e per le mansioni dei vizi e delle virt
quali virt sono distribuite secondo F ordinamento determinato nel
peregrina il poeta nei tre libri della
primo libro della Vita Civile
sua opera, mentre la guida lo ammaestra, con teologiche e filosofiche
dissertazioni, sulla natura del luogo ov' egli via via si trova. Tale la contenenza della Citt di Vita, che, disegnata forse fin dal 1451, fu principiata nel 55 e compiuta nove anni pi tardi. Il Palmieri non la di
a leggere a persona; s la fece trascrivere ornatamente su bei fogli
membranacei e suggellata consegn all'Arte de' Notai, con questo che
il libro non si aprisse se non dopo la sua morte. Allora soltanto, Ietto
da teologi, fu condannato per F eretica opinione sulla provenienza
delle anime; onde sino alla fine del secolo passato parve sacro dovere
ove il codice originale si
ai timorati bibliotecari della Laurenziana
conserva, guardar gli altri libri dall'immondo contatto.
non un poema allegorico il fantastico
Il poema del Palmieri
viaggio vi ha perduto ogni significato; un semplice artificio rettofisse.

Ivi risiedono gli angeli

Rossi.

La

lelt.

itl.

nel sec.

XV.

citt

di"

immagin jJjt

13

'

178

CAPITOLO QUINTO.

come un

Pico;
i

poemi

di

ata

%465,

(U

fraS] >

h'

telaio su cui

suoni, di

si

distende l'arida materia, fiorita appena


di paragoni danteschi. Similmente il

immagini e

pellegrinaggio per l'Inferno e per il Paradiso, che Marino Jonata di


Agnone, in provincia di Campobasso, narra in quel suo Giardeno o,
se vuoi, pruneto, cui dava l'ultima mano nel 1465, non se non un
pretesto ad una sequela di dialoghi teologico-morali tra la Morte e
l'autore. Ne attenua la tetra monotonia il ricordo di alcuni fatti contemporanei, come dell'entrata trionfale di re Alfonso a Napoli e della
presa di Costantinopoli. Svago codesto che sorride anche al lettore

t. s.irdi,

dell'Amma peregrina, dacch

fra

Tommaso

Sardi,

mentre immagina

salire di cielo in cielo fino al cospetto della

Chiesa trionfante, non


dimentica del tutto la realt e talvolta d tregua al sillogizzare delle
sue guide per mettere in iscena personaggi moderni quali il Savonarola, Piero de' Medici, il Valentino. Siamo, lo dicono questi nomi,
alla fine del secolo, ed infatti il Sardi cominci il suo poema nel 1493
e fu in tempo a dedicarlo a papa Leone. Meglio ancora che in queg ^ esemplari del genere il viaggio per regni ultraterreni si rivela ardi

g. Faiamoiiiea.

di

tutto esteriore nel poema senza titolo del Fallamonica. Del viaggio
par dimenticarsi talora egli stesso ed a noi ben difficile scernerne
con chiara precisione le tappe. Gli sproloqui di astrologia di storia
naturale, di teologia che il poeta fa per suo conto o mette in bocca

tifcio

Raimondo Lullo, si inseguono e si accaed insistenza accascianti, senza vita n poesia.


Fra tanta nebbia dottrinale giunge come un raggio di luce scialba
l'invettiva del Sole contro la Chiesa corrotta (canto 16). Ormai del
alle

sue guide, cio al Sole e a

vallano con monotonia

visioni

modello dantesco non rimane se non lo scheletro sformato,


^ nz ^
P* u a ^ r * componimenti dispare ogni traccia del fantastico
viaggio e, modificata specialmente per l'efficacia dei Trionfi petrar-

comodo avviamento o sottil cornice


materie disparatissime. Per un Cecchino da Venezia, che rimava nel primo decennio del secolo, essa pretesto a tesser
la storia e a dir le lodi della sua citt e delle maggiori casate vene-

cheschi, resta soltanto la visione,


alla trattazione

ziane

di

per Francesco

di

Niccol

Berlinghieri

cittadino

di

Firenze

dotto e onorato (1440-1501), artificio per disvelare la fonte del suo

poema Geographia, poich come a Dante Virgilio, cos a lui si offre


guida Tolomeo del quale mette in terzine il trattato cosmografico,
per via di giunte
arricchendone i cataloghi
oh deliziosa poesia
tolte da geografi antichi, in ispecie da Pomponio Mela, e, quando parla
della Toscana, colle sue cognizioni dirette. Ad un altro fiorentino, di
cui ignoriamo il nome, appare in sogno Firenze come donna gen,

tile,

ornata e bella e

gli

narra

le glorie politiche

e civili di

Cosimo

e gli descrive con arida minutezza le feste del 1459. Qui la cronaca
poemetti di
b. Foresi.

rimata
j? ores i

nel Libro chiamato Ambizione di ser Bastiano d' Antonio


a visione accoglie un poemetto di stampo virgiliano, favoleg-

giante della

fondazione di Firenze e di Pisa la nuova Roma e la


simile per pi rispetti alla Sforzede del Cornaz-

nuova Cartagine, e

LA LETTERATURA ORIGINALE
zano.

bastasse!

179

IN VERSI.

Dopo che l'Ambizione ha compiuto questo suo racuna slavata e scabra

conto, appare Virgilio e la visione mette capo ad


versione in terzine delle Georgiche.

Fra un rogito e l'altro il Foresi, che, nato nel 1424, fu notaio a


Firenze dal 1456 all' 88, amava come molti suoi colleghi sacrificare
alle Muse; anzi, come i pi de' suoi concittadini e coetanei, al genio
della quale cercava i favori. Poco dopo la morte
di casa Medici
di Cosimo (1464) compose ad esaltazione dell'estinto il Trionfo delle
virt, poemetto di ventitr capitoli in terzine, ricco di allegorie e di
1' Intelletto
lo sta ammaestrando
adulazioni. Mentre la sua guida
sulla caducit dei beni mondani e gli snocciola in lunga sequela esempi
antichi e moderni di rovesci di fortuna, sopraggiunge il carro trionfigure simboliche
fale di Cosimo. Gli vanno innanzi i vizi debellati
mischiate a dannati dell'Inferno dantesco e a personaggi, che si con,

sideravano come la sensibile rappresentazione di certi gravi peccati


gli tengono dietro in varie schiere i virtuosi del vecchio testamento,
;

grandi romani, i moderni uomini d'arme, i filosofi antichi, i poeti e


gli oratori da Omero a Dante, da Cicerone a Benedetto Accolti. Quivi

non va

poemetto del
Foresi si annoda ad ud genere poetico fortunatissimo nel Quattrospecie da Ovidio
attinge
cento, che dalla Commedia e dai classici
immagini, concetti, figure ma per la struttura sua procede direttamente dai Trionfi del gran lirico aretino. Ora tratta materia amorosa,
come nel trionfo, non ispregevole dal lato dell'arte, di Antonio di Cola
Bonciani, ed ora, fattosi cortigiano, magnifica le virt dei principi, come
nei capitoli che Cleofe de' Gabrielli rim a festeggiare il passaggio
per Gubbio di Borso d'Este, quando questi and a Roma a ricevervi
corona di duca (1471). E sempre grave ed uggioso, anche se lo illumini alcuna grazia di forme, per ci che sia genere gualcito e logoro
per lungo uso tutto forinole e spedienti vieti. Fra i Trionfi del secolo XV il pi ragguardevole forse quello che va innanzi, a mo' di
preambolo, ad una cronaca rimata delle gesta di Federigo di Montefeltro: ragguardevole per il suo autore, Giovanni Santi da Urbino, e
per il carattere suo dove si riflette la temperie letteraria e sociale
in cui l'opera matur.
Sereno e confortevole spettacolo offre di s la corte d'Urbino poco
dopo la met del secolo, e a noi giova volgere ad esso la nostra at-

l'imitazione dantesca

oltre la superficie

ch

Trionfi,

il

'

tenzione

faticata dalla

ressa di

nomi e

di

titoli

ripensi

il

lettore

onde sono affollate quest'ultime pagine.


Cos il gentil discepolo di Vittorino da Feltro, condottiero sovra ogni
altro pregiato per senno e per valore, amava, dopo i disagi e i trambusti delle imprese guerresche, ritrarsi l sulle pandici solitarie dell'Appennino marchigiano, nel suo bel palazzo, ove sbocci uno dei fiori
pi delicati del rinascimento architettonico, lo stile bramantesco. Nel
cortile, nei loggiati, nelle scale, dovunque, era una deliziosa armonia
di linee; sugli stipiti degli usci e delle finestre, sulle cappe dei caml'ubbia dell'individualismo

Corte
1
Turbino,

CAPITOLO QUINTO.

svolgevano con sobria eleganza fregi di fogliami


una gran sala gli arazzi tessuti da maestri
chiamati a bella posta di Fiandra presentavano al visitatore stupito
le scene principali della guerra di Troia; nello studio del duca vigilavano dall'alto delle pareti i llosofi, i poeti, i dottori della Chiesa, i
mini, sulle volte

di rabeschi, di

si

frutta; in

nume

gran Vittorino,

dipinti da Giusto di Gand


aveva raffigurato le scienze
del trivio e del quadrivio (1474-75), e l'opera industre di Vespasiano e
de' suoi copisti adunata un'eletta collezione di manoscritti, riccamente
alluminati sulle membrane candide e rilegati in cremisi con borchie
d' argento. Ne compil l' inventario Federigo Veterano
che alia bi-

legisti e,

indigete,

il

e da Melozzo; nella biblioteca quest'ultimo

blioteca era preposto.

Dotto

in teologia

in filosofa

in istoria

ed esperto

di

latino,

il

duca Federico accolse benevolamente l'intitolazione al suo nome di libri


in gran numero. Sono stati , assicura Vespasiano, pochi letterati
in questa et, che il duca d'Urbino non abbia premiati, e di grandissimi
premi . In quella corte fecero pi o men lunga dimora il Campano,
il Porcellio, Giammario Filelfo, cui nel 1476 fu
affidata l'educazione
del principe Guidobaldo, Agostino Staccoli e Agnolo Galli, rimatori in
volgare, i due ultimi, non privi di garbata eleganza. Di Giovanni Santi
meriti artistici ricevono luce ed ombra dalla gloria del suo figliuolo,
i
Raffaello. Pur ebbe anch'egli ingegno assai sopra il comune e nobile
altezza di sentire.
ia

di

mti.

In lui l'arte dei colori e l'arte della penna si stringono insieme e


ne ji a g a ra quella soverchia questa, come xiel palazzo del ducal protettore

miracoli dell'architettura e della plastica

oscurano, dinanzi
opere letterarie. Nella sua
correggere, limare ed of-

al giudizio dello storico, l'importanza delle

cronaca, cui la morte (1494) gli imped di


com'era suo intento, a Guidobaldo, il Santi innest una preziosa
disputa della pittura e con essa un' enumerazione di artefici rile-

frire,

vando

di

ciascuno con senno e perizia

proemiale trae

che

chiaro

il

bens

il

suo

impulso

poeta ha piuttosto

lor volta ispirati dal

niatori quattrocentisti

caratteri essenziali.

letterario

trionfo

Il

dal Petrarca

ma

presenti al pensiero quei trionfi, a

gran lirico, di cui i pittori, gli arazzieri, i miornavano pareti di palazzi principeschi cofani
,

nuziali, frontespizi di manoscritti. Il

tempio

di

Marte, in cui

il

Santi

ha nelle colonne e nelle decorazioni 1' aria di


pittore ammirato sovra
uno sfondo architettonico del Mantegna
tutti dal padre di Raffaello e fors' anche imitato. Ivi si affollano gli
che il poeta si
eroi dell' antichit e i pi famosi guerrieri moderni
fa additare da Plutarco, il suo Virgilio. giunto appena anche Roberto Malatesta, morto a Roma il d stesso che a Ferrara il Montefeltro (10 settembre 1482), quando appare il corteo delle Muse e delle
trasferito in

sogno

Virt, precedente al carro su cui siede fra Apollo e Pallade il duca.


Tutti fanno ala rispettosi; Marte lampeggia di sull'altare e narra

come

il

trionfatore scendesse gi sulla terra per volere di Giove,

sif-

LA LETTERATURA ORIGINALE

181

IN VERSI.

fattamente disposto per ovra delle rote magne , che ripristin il


culto di Dio abbandonato, spazz le basse passioni e rimise in onore
le grandi virt romane. Con questa classica fantasia, che in prosa latina aveva poc' anzi esposta il Ficino, ha termine la visione, ed il poeta

un amico,

ridesto apprende da
simile,

ha

egli

Pierantonio Paltroni,

cos voluto indicar la sua fonte,

come

del poema,

ma

del

non

se,

com' vero-

la storia gloriosa

verseggiatura cos del preame d' alcun luogo della narefficacia lo stile. La scena della morte

duca. Stentata in generale

del

bolo

la

preambolo

senza
moglie a Federigo, e gli estremi saluti sono descritti
con calda vivezza (cap. 58, vv. 67-81) non descritte, ma dipinte son
le figure allegoriche e le divinit che accompagnano il trionfo del duca.
Onde torna in mente al lettore l'oraziano ut pictura poesis , anzi

razione storica

di Battista Sforza,

l'aforisma del Santi:

s el

Che

Dunque

l'Alighieri e

XV

mistiche e ideali cui erano assorte, auspici

Poemetti

Petrarca, le forme della visione e del trionfo scesero

un semplice spediente della poesia died encomiastica. N basta le usurp anche quella poesia borghese

nel secolo
dattica

dalle altezze
il

pennel dalla penna diforme,

in ci bisogni variata cura.

satirici

sino a divenire

che si manifest dice il Carducci a Firenze circa l'et dell' ultima


democrazia e del tumulto dei Ciompi e seguit pi rigogliosa a mano
a mano che declinavano i tempi . Bizzarre visioni sono infatti raccontate da due poemetti in terzine di Stefano di Tommaso Finiguerri
soprannominato il Za, un fiorentino che nel 1422 era nelle Stinche
per debiti. Forse appunto codeste sue strettezze economiche gli avevano, gi alcuni anni prima ciato ispirazione a novellare di certa
buca del Monteferrato nella valle dell'Ombrone pistoiese, ove accorre
col poeta lunga tratta di spiantati vogliosi di riparare i lor danni col
tesoro l dentro nascosto; e poi d'una fusta o galeotta, che conduce
all'isola del Gagno, ove non si paga scotto, una torma d'uomini ridotti al verde. Epa forse conforto alla sua miseria l'annoverare tanti
,

Fni

gurn.

compagni

di

Buca

sventura, fiorentini quelli della

pisani quelli del

Gagno.

Glieli

di Monteferrato,

additano rispettivamente Tieri de' Tor-

naquinci banchiere fallito e un tal Buiano


e i due poemetti si
riducono ad aride enumerazioni di nomi aride soprattutto per noi
che pi non intendiamo lo spirito delle trafitture e delle maliziose allusioni sparsevi largamente per entro. S' ha a dire lo stesso dello
Studio d'Atene, un altro poemetto del Finiguerri, nel quale sfila la
molta mbasceria che Firenze manda con gran soma di libri ad Atene
per rifarvi lo Studio medici, avvocati, notai nobil gente ma vuota
di senno, sulla quale il poeta agita piacevolmente lo staffile. Pi tardi
fra il 1450 e il 70, uno Stefano chiamato Gambino d' Arezzo immaginava di imbattersi per le vie della sua patria in una lunga schiera
di idioti, che vien nominando nella prima parte del suo poemetto,
.

Gambno
Al(iZ0

182

CAPITOLO QUINTO.

mentre nella seconda L'ombra


famosi non pur d'Arezzo ma
e moraleggia prolissamente.
Di

frasi,

di

suoni e

di

Lionardo Bruni

di

d'Italia,

senza

soffio d'ironia.

ben

Ma

che

rimatore

il

pi che alla

indica gli uomini

spicciolati in codesti

artifci

l'imitazione dantesca, dalla quale per


spira, forse

gli

dice le lodi di alcuni venturieri

componimenti

contrasto colla bassa materia


abbia posto mente, un leggier

il

vi

Commedia

essi

ci

richiamano

come

assumono, parodie non intenzionali, s effettive, l'ossatura, senza curarne gli esterni ornamenti. Ch
i poemetti del Finiguerri e pur quello di Gambino, specie nella prima
fu osservato, a' Trionfi, di cui

parte, procedono squallidi, senz'alcun pregio d'arte, rozzi, nell' umile

lingua del popolo.


sonetti
familiari,
satirici,

^ a 11011 * an * 0 ^ e l un & ne composizioni quanto i sonetti, per lo pi


brevemente caudati, erano a grado alla poesia che aveva il suo fondamento nella realt e nei fatti della vita quotidiana. Fluivano essi in gran
copia dalla penna ai popolani fiorentini, dei quali non infrenava i volgari concepimenti, ricerca di voci e di frasi men grossolane, n inaridiva la vena lutulenta, studio di eleganza; fluivano, talvolta semplici e
chiari, pi di sovente annebbiati da allusioni difficili e da ispidi gerghi.
Le movenze iniziali, le giunture sintattiche e logiche per cui si snodano, le clausole finali, le materie erano suggerite e sancite da una
tradizione gi secolare, bella dei
raccio Tedaldi, di Antonio Pucci.

lingua incanagliva pi che

nomi

Ma

non avesse

di

Rustico

di

Filippo, di Pie-

nei sonetti dei quattrocentisti

la

fatto nell'estremo Trecento; era

di Mercato e delle ciane di Camaldoli. Pare fosse


che per lunga pezza la nostra letteratura, specialmente poetica,
avesse a dibattersi fra le ricercatezze pedantesche e le trivialit plebee.
Aneddoti lievi, scherzi scipiti, lepidezze di tenue significato, punture a fior di pelle, sarcasmi roventi, ingiurie da piazza, ecco gli argomenti di quella poesia. Lieti buontemponi, che i commerci tenevano
lontani dalla patria, rievocavano ne' loro sonetti il ricordo delle amichevoli baldorie, inviavano saluti alle belle lungamente aspettanti e
descrivevano il conquasso del mare, le noie, le privazioni, i disagi
delle traversate. Giovanni da Prato canzonava in un oscuro sonetto
il Brunelleschi per l'ardito disegno della cupola e il grande architetto
lo rimbeccava per le rime; in sonetti Antonio di Meglio e Giovanni
di Maffeo da Barberino si davano la berta a vicenda per i loro acciacchi e si suggerivano i pi bizzarri e strampalati rimedi del mondo,
e Antonio di Cola Bonciani, gi ricordato come autore d'un trionfo
d'amore infilzava vituperi contro il canterino Antonio di Guido. I

quella dei beceri

fatale

fiorentini piacevoli

nei

trascrivevano, curiosi e frettolosi, codeste poesiole

loro zibaldoni e ne

aveva fama

di facile

facevano

le

grasse risate nelle veglie

sonettiere era di continuo flagellato dalle

chi

domande

degli amici avidi delle primizie.


Burc

^ ra
ieii

(H04-1449J.

menico

^ uei sone ^ieri il pi rinomato e forse il pi fecondo fu DoGiovanni detto il Burchiello, un pover uomo, che nel 1432

di

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.


faceva

il

iuolo, e

barbiere a Firenze in Calimala francesca. Suo padre, legna-

monna Antonia sua madre,

potuto dare a

vata

183

lui,

maggiore

il

n una fortuna.

Il

non avevano
n un'educazione ele-

tessitrice di pannolino,

di otto fratelli,

suo temperamento bisbetico

la

leggerezza

compagna della non


lunga vita del Burchiello fu costantemente la miseria. Animoso fautore degli Albizzi, certo pi per amor di guadagno che per convinaveva allora trentanni
lasciar la patria,
zione, dovette nel 34
innata, la cattiva stella fecero

il

resto, e dolorosa

e scrisse contro

Cosimo e

Medici alcuni

belli

robusti

sonetti in

tenzone con Leon Battista Alberti. Ripar, forse non subito, con
altri fuorusciti a Siena, dove rivalit di mestiere e d'amore, piuttosto
gli tirarono addosso nel 1439 tre condanne
che gravezza di colpe
pecuniarie, l'ultima e pi grossa per furto. Non potendo pagare fu costretto per pi mesi a guardar il sole attraverso la ferrea gratcola d'una
prigione. Nel 1445 cambi citt, non tenore di vita; e camp Roma
ancora quattro anni sempre malazzato sempre oppresso dal bisogno.
In mezzo a tanti malanni il Burchiello non si lascia mai vincere
dalla melanconia. Certo egli non gioisce, quando costretto ingollare
vivande sgradevoli e stante, o quando le lenzuola gli pungono come
brocchi, e gli fanno gran guerra Cimici e pulci con molti pidocchi,
o quando vive tra pareti ammuffite e sgretolate ma per via di inattesi raccostamenti e d'immagini strane sa far germogliare il riso dalla
rappresentazione di tanti disagi. Marcisce in prigione ed implora dai
Signori di essere liberato eppure non gli manca la voglia di scherzare sui piccoli casi della sua monotona esistenza. Chiede al fratello
Paolo un farsetto nuovo di boccaccino, ch il suo tutto sdruscito,
ma fra un lamento e una preghiera non tralascia di celiare impudicamente sulla cognata giovinetta. Le cattive cene, le male notti, gli
abiti sbrandellati erano gi divenuti altrettanti motivi della poesia burlesca e il povero barbiere ne approfittava volentieri per isfogare l'ingenita gaiezza. Dal contrasto fra questa e la realt uno spirito pi
fine e pi colto avrebbe fatto zampillare una vena di umorismo;
,

il'

Burchiello di solito sghignazza.

Per

darsi tutto al diporto di far sonetti, trascurava perfino

il

ra-

che gli dava da vivere. E insieme coi faceti spiccavano il volo


dalla sua sbrigliata fantasia quelli satirici, dai quali eran presi di mira
non solo uomini oscuri, che Firenze tutta ravvisava sotto al velo delle allusioni e dei soprannomi popolari, ma anche persone di alcuna nominanza ed autorit quali Y Alberti 1' araldo Anselmo Calderoni e il
canonico Rosello, rimatori tutti e tre, che pagarono di ugual moneta
l'audace barbiere. A noi i sonetti maledici riescono in gran parte incomprensibili ma non erano a' contemporanei, che senza aguzzar molto
gli occhi vedevano chiaro, per esempio, in questi versi:
soio,

Mari Bastari, tu e

la tua Betta
E' topi che tu hai a Montereggi,
I' mandere' per te, ma tu pazzeggi
Nel pimaccio la lam^ana rassetta.

'

181

CAPITOLO QUINTO.
Copertoio o colombi o la berretta
Vo che la gatta e monna Cilecca chieggi
E che '1 giardin si sotto, ti motteggi
1

Le

viti in

'erra che

non hanno

retta

poich di Mari di Niccol Bastali, della Betta sua fante e del suo poderuzzo a Montereggi nel popolo di santo Lari, i quattrocentisti fiorentini sapevano quello che noi non sappiamo e che alla fin fine
poco c'importa di sapere. Ma altri sonetti del Burchiello sono un'accozzaglia di riboboli senza nesso, di ghiribizzi senza senso, di slatinature
fuor di proposito. Ne desidera il lettore un piccol saggio? Eccolo:
Zenzaverata di peducci

fritti

in brodetto senza agresto

"belletti

Disputavan con ira nel Digesto,

Dove

tratta de' zoccoli sconfitti.

levaron ritti,
Allegando Boezio in alcun
gli aliossi si

Come non

testo,

a' fegatelli onesto

star nello stidion

insieme

fitti:

come era per i coetanei del poeta.


Rimare cos a caso, in tal bizzarra maniera, era detto a Firenze
r mare a ^ a burchia, venisse tal designazione dal soprannome del bar^ ere di Calimala o il nomignolo da quella designazione. Per vero Domenico di Giovanni non fu il ritrovatore del genere, che gi avevano
trattato il Sacchetti e un Orgagna pittore, diverso, com' verosimile,
dall'artista famoso e forse tutt'uno con quel Mariotto di Nardo di Cione
Orgagna che mor nel 1424. Tuttavia dal Burchiello il genere fu detto
qui buio pesto per noi,

J*

imitatori

d
hino~

burchiellesco e sotto

il

nome

di lui

andarono

in giro e poi in istampa

sonetti di quei precursori e dei molti imitatori, dello Scambrilla, di Antonio Alamanni, di Luigi Pulci e va dicendo; tutta roba, il cui pregio

principale sta nella facile ricchezza della

Fra
d-AUobfanco
(1401-1479)

lingua.

molti che piansero in versi la morte del barbiere poeta, fu

Francesco d'Altobianco Alberti (1401-1479), che

gli

era stato compare

e & amico e nell'occasione di certa bizzarra corrispondenza rimata l'a-

veva chiamato con apostrofe affettuosa Burchio dolze e piacevole.


fa quindi meraviglia di trovare fra le molte rime del ricco banchiere fiorentino
ricco almeno finch gli affari sventurati e i balzelli

Non

non l'ebbero

sonetti ghiribizzosi del


ridotto al basso
anch' egli ne compose altri pi pianamente
faceti, come quelli su di un naso mostruoso e bitorzoluto, degni d'essere accompagnati ai tre del trecentista Bartolommeo da Lucca e ad

soverchianti

tutto burchielleschi.

Ma

uno del veronese Giannicola Salerno; ne compose di


quello Maestro Marian s fatto frate ; ne compose
detestazione

dei

tempi corrotti, ed

esortativi alla

satirici

di

virt e

come

gnomici a
all'

amore

di Dio.

gnomici!'

Naturale siffatto miscuglio di materie varie; ch dal burlesco e dal


breve il passo allo gnomico, n si raccozzava nel secolo

satirico

XV

185

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.


raccolta di rime facete, nella quale

non entrassero

sonetti didascalici.

pratica; danno
buona condotta, ai genitori ed ai maestri di buona
educazione; inculcano ai rettori dei comuni il rispetto della giustizia,
la clemenza, l'oculatezza. V'hanno anche corone di sonetti, nelle quali
sono introdotti a parlare la Fortuna e gli uomini che si arrampicano,
culminano precipitano lunghesso la ruota della cieca dea. Tali componimenti, che in forma succinta e facile a ritenersi espongono dettami
non disutili alla vita, ebbero straordinaria diffusione, anzi vera popolarit, onde vagarono anonimi od ascritti cui non spettavano. Quanti,
fra i molti che sapevano a mente il sonetto Pronto all'ufficio, all'udienza umano, rammentavano che quei savi precetti di governo avesse
cos assettati maestro Niccol cieco? Similmente merito della nuova
critica l'aver ritolto a Leonardo da Vinci e restituito all'araldo Antonio
di Meglio il sonetto Chi non pu quel che vuol, quel che pu voglia,
che fu gi fondamento a non so quante belle fantasticherie sul ca-

Questi racchiudono di solito

norme

ai giovani

ammaestramenti

di etica

di

rattere e sulle lotte interiori del grandissimo artista.

Quel che il sonetto nella poesia volgare, l'epigramma nella la- i/e P ramina latino.
Rapido e breve, sdegnoso anch' esso degli ornamenti mitologici
e dei fronzoli della rettori ca, viene per molti rispetti, vedremo, a ras*
somigliargli. Non ne ha per il brio derivante dall' uso d' una lingua
vivissima, e se non gli accada d'esser trattato da artisti geniali ed eleganti, riesce freddo e arido, prosaica manifestazione di prosaici concetti. Pure il genere piaceva a' contemporanei per la sua disinvolta
facilit in argomenti frivoli e leggieri; piaceva perch, strettamente
legato a' fatterelli della giornata, sembrava attestare la persistente latinit della vita moderna.
Verso la fine del 1425 o sul principio del 26 il Panormita diede h'Hermafuori a Bologna il suo Hermaphroditus. E appunto una raccolta di J^Tanorl
nata.
epigrammi scritti alla spicciolata durante il soggiorno del poeta in (1425-26).
Toscana alcuni forse improvvisati dinanzi alle tazze ricolme nelle
amichevoli radunanze (II, 1). Rivolgendo i suoi versi alle liberali belt
della suburra senese e fiorentina, o di esse intrattenendo qualche amico
con isboccata oscenit di descrizioni; rappresentando sudice scene o
raccontando pi sudice fabellae, satireggiando i vizi di persone a lui
note, in ispecie del grammatico senese Mattia Lupi, o celiando faceto,
il Panormita si argoment di imitare gli epigrammisti latini, Marziale
e gli autori de' Priapei. N rifugg da un argomento caro alla poesia
giocosa volgare, inducendo a parlare un cavallo tutto guidaleschi, che
si lamenta per i mali trattamenti del padrone. La raccolta dedic a
Cosimo de' Medici, con questo, che ne leggesse il primo libro dopo il
pranzo, il secondo dopo cena, quando tra i vapori del vino la mente

tina.

pi incline a

lieti

pensieri.

Hermaphroditus lev grande romore al suo primo apparire e


per pi anni di poi. Quantunque il Panormita si riveli assai miglior
poeta nelle elegie d'amore, alcune composte per mandato altrui, graL'

186

CAPITOLO QUINTO.

ziose

tutte e

specialmente
zione per

non

di

rado calde

non v'ha dubbio che

d'affetto, pur

lubrico libello gli procurasse l'onore

il

dell'incorona-

mano

dell'imperatore Sigismondo (1432), onore di eh' ei si


teneva moltissimo tanto da deplorare che il Piccolomitii non avesse
,

menzione nell Bistorta bohemien di quell'antica costumanza rinnovata con troppo indulgente larghezza dai Cesari del secolo XV. Nel
1433 un giuntatore calabrese scroccava ai Veronesi banchetti e festeggiameli li, spacciandosi per il Panormita, finch una lettera del Guarino non li ebbe tratti d' inganno. Pure fa miglior fede della gran
voga conseguita dal libro il diluvio di censure e di biasimi che si rivers
su di esso e sul suo autore. Quella pubblicazione parve uno scandalo
non solo ad uomini di chiesa, ma ad umanisti, come Gasparino Barzizza, Leonardo Bruni, Cilicio de' Rustici; il libro infame fu detestato
dai pulpiti e bruciato; il Guarino, che in sulle prime (1426) vi avea
lodato la soavissima armonia del verso, la copia del dire, la naturale
scorrevolezza della frase e ne avea difeso la lascivia ;e la scurrilit
ripetendo col suo vecchio conterraneo Catullo, che l'onest e la decenza s'hanno a cercar nel poeta, non nei versi, dovette cedere alle
esortazioni di frate Alberto da Sarteano (1435) e sminuire la portata
delle lodi, ritrattar la difesa. Anche il Poggio consigli il Beccadelli
a volgersi a materie pi gravi (Episi. II 42) il Panormita stesso
dopo aver tentato di cessare quella tempesta svolgendo e rincalzando
d'antichi esempi e moderni il concetto gi accennato nel]' Hermaphroditus :
tatto

Crede, velim, nostra vita distare papyro


Si
fin

mea

charta procax,

mens

sine labe

mea

est,

col confessarsi pentito e nauseato dell'opera sua. Gli che

non erano ancora maturi

tempi

agli scollacciati ardimenti dalla poesia della

Rinascenza; e quel divorzio della letteratura della vita, che il Guail Panormita bandivano
solennemente,
s'andava bens accentuando sempre pi, ma nei lettori e negli scrittori in generale non ne era peranco sorta una piena consapevolezza. Nel 1426 le laidezze dell' Ermafrodito pareva non potessero
sgorgare se non dalla penna di un uomo profondamente corrotto,
quale il Panormita non era; pi tardi nessuno giudicher dei costumi
d'un poeta dall'oscenit de' suoi versi. Nella letteratura modernissima
termini sono talora invertiti, ma chi oserebbe dire che del contrarino nel suo primo giudizio e

manchino esempi?
Qual ricca fioritura di epigrammi nel secolo XV! Quasi non v'ha
umanista che non ne abbia all'occasione composti; perfino il Valla, in
cui le attitudini poetiche erano cos scarse come poderose le critiche.
Encomiastici e satirici sono quelli di Maffeo Vegio faceti quelli del Campano; encomiastici, satirici, faceti, gnomici quelli di che il Filelfo
rimpinz tra il 1458 e il 65 il magno volume del De jocis ac seriis.
Sono diecimila versi, divisi, s'intende in parti uguali fra dieci libri,
cinque intitolati a Malatesta Novello e cinque ad Alessandro Sforza.

sto

oc seriifdei
(IibSSS).

187

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

perfettamente simmetrico ma la
corretto
disegno grandioso
contradittoria.
In quegli epigrammi trocontenenza misera sciatta ,
studiati
di rappresentarlo nel nosiamo
quale
ci
tal
viamo il Filelfo,
stro primo capitolo. Ora celebra le baldorie della vita spensierata
ond' vago ed ora stende la mano mendicante ora esalta con ismacIl

cate piaggerie
tro

protettori generosi ed ora avventa

suoi nemici, segnatamente contro

sistente dai tesorieri ducali

il

il

pagamento

suoi strali con-

Decembrio; ora

sollecita in-

ed ora predei tempi infesti

della pensione

disprezzo delle ricchezze e deplora la tristizia


E fra le invettive e le adulazioni , fra le moralit e gli

dica

il

alla

virt.

scherzi discreti, esalano

il

loro tanfo disgustoso

oscenit e

sconcezze

da disgradarne quelle dell''Ermafrodito.


Siffatta meschianza pur nelle Satire del Filelfo, che, cominciate
a Firenze, furono compiute a Milano nel 1448 e offerte nel 53 a re
Alfonso di Napoli. Sono raggruppate in dieci decadi dunque son cento
anche qui
di cento versi ciascuna (Satyrae Hecatostichae)
fra tutte
diecimila versi. Alcune, come quelle contro il Poggio, il Niccoli, il
Cosimo de' Medici (II, 3, 5; III, 3; IV, 1, 9, ecc.), sono
Traversari
vere invettive in esametri, da essere accostate a quella che Giammario fulmin contro il Trebanio, un umanista della corte malatestiana'
e alle sarcastiche elegie, che si scambiarono il PorceJlio e il Panormita. Altre sono, meglio che satire, epistole encomiastiche, ch il Filelfo si propone non pur di muover guerra ai tristi, ma di esaltare i
buoni. L'ultima della quarta decade, diretta a Francesco Foscari, descrive brevemente la patria del doge sventurato; la terza della sesta
una garbata lettera tra seria e faceta a Catone Sacchi. Con quel
suo fare da gran moralista il Filelfo si compiace di assurgere non di
rado dalle aggressioni personali alla riprovazione dei vizi in generale,

Le

satire

(i448).

dell'avarizia dei giureconsulti

(II,

2),

della corruzione e dell'ipocrisia

5;
4), del lusso e delle delicatezze della
vita (IV, 2); riprende con sale e franchezza giovenaleschi il mal costume delle donne (I, 9; IV, 3), e di continuo ammonisce esser mu-

degli

ecclesiastici

III,

(II,

tevole la fortuna ed incerto

il

possesso de' beni terreni.

Riprensioni ed ammaestramenti consimili formano l'essenzial contenenza anche di una numerosa famiglia di poesie in lingua italiana.
Niccol cieco annovera e descrive, spigliato e talora pungente, le dodici abbonirne voli cose di cui si lamenta il mondo
Rosello discorre
;

Benedetto Accolti volge contro un calunniatore le imprecazioni dell'Ibis ovidiano; e il fratel suo Francesco con
versi di robusta tempra morde la corruzione della Chiesa. Costoro usarono le forme del capitolo e della canzone, seguendo una tradizione gi
rigogliosa nel secolo XIV. Ma fin da allora anche la frottola o motto
confetto, lasciandosi dominar da quel fare sentenzioso, che le era proprio anche quando scapigliata ed eslege descriveva al popolo scene di
gioco, zuffe, battaglie, aveva imparato a filosofare e ad ammaestrare.
I letterati la disciplinarono, riducendone il metro a una serie di versi
i

malanni

della vecchiaia

poesia

moralis iante -

188

CAPITOLO QUINTO.

eptasillabi procedenti a coppie


incatenate merc del contrasto fra la
rima ed il senso, oppure a strofette d'un settenario e d'un endecasillabo con rima al mezzo secondo lo schema aa-B, bb-C, c ecc., e nel
Quattrocento la intesserono di sentenze e proverbi spicciolati, quando
non preferirono, e fu pi di rado, volgerla a materia politica, come
gi qualche trecentista, o armarla di un sottil pungolo satirico. Frottole morali scrissero Antonio di Meglio, Francesco Alberti, Bernardo
Cambini, tutte, quale pi quale meno, forti ad intendersi, gremite come
sono di oscure allusioni e di modi bizzarri.
Fra codeste tre forme metriche ebbe la prevalenza nella poesia satirico-morale quella che poteva vantare pi augusta origine, la terzina
dantesca. In terzine appunto Antonio Vinciguerra, segretario della Signoria veneziana in sullo scorcio del secolo (m. 1502), scrisse le sue sei satire,
,

capo i
Vinciguerra non

alle quali sogliono far

critici

elegante

il

gamente raccoglie i vecchi motivi;


energia

di

rappresentazione

nel tessere la storia del genere. Poeta

bens, copioso

qui

non ha

originalit,

talvolta per fa prova di


,

ma lar-

una cotalrude

per esempio, dove detesta l'umana

grandigia:
Rugghi erassi

vostro argento e l'oro,


di tarmi,
Quando sarete nel tartareo coro.
Sentomi della propria imago trarmi,
Quanto pi penso in la miseria nostra,
Che cerca putrefar nei sculti marmi.
Tal se ne va con la cresta alta in giostra
Solo invocando qui fortuna dea
Nel campo ove le forze sue dimostra,
Che non se accorge in che trista moschea
Sia per fumar il suo fetido incenso
Che il nocchier placa della Stige rea.

le

il

purpure fan pasto

Nella satira seconda egli ritrae personificati

sette vizi capitali,

chio tema di prosopopee in versi latini e italiani.

nate come Rosello in una cantilena morale


ruzione del suo tempo la vita innocente dell' et

Come

il

vec-

satirico aqui-

contrappone alla corSaturno (sat. I) come


Giovenale e come cento poeti italiani e d'Oltralpe, biasima fieramente la
donna e annovera le noie del matrimonio (sat. V); come Benedetto Acdisserta sulla fragilit della vita terrena
colti in un lungo capitolo
e sul concetto che il cristiano deve aver della morte (sat. III).
A siffatte generiche esercitazioni l'et volgeva propizia e le pregiava anche se destituite d' ogni valore pratico, purch si acconciassero
ad accogliere le predilette erudizioni classiche. Ripensi il lettore quel che
s' detto a proposito dei trattati morali. N fa meraviglia che tanto in
questi, quanto nella poesia didascalica si consertassero alle massime dei
,

di

gentili e alla suppellettile mitologica le sentenze dell'ascetismo cristiano.

paganesimo risorto per via degli studi e il cristianesimo imposto da una


sempre rispettata si associavano nell'indifferenza del sentimento. Ora dobbiamo appunto vedere come il nuovo indirizzo del pensiero modificasse nella Rinascenza le manifestazioni letterarie dell'ispiIl

tradizione

razione religiosa.

CAPITOLO SESTO

Iva letteratura, originale in Yersi.

La

poesia religiosa.

Miscela di elementi sacri e profani nell'arte e nella letteratura.


Poemi sacri latini MafPoemi sacri in volgare di Jacopo G-radenigo,
feo Vegio e Domenico di Giovanni.

di

Le

di Francesco Filelfo.
Il movimento religioso dei Bianchi.
teatro sacro.
Le laudi drammatiche.
Le Devozioni del GioLa
del Venerd santo. Rappresentazioni sacre nell'Abruzzo e a Roma.

Candido Buontempi,
laudi.

Il

ved e
sacra rappresentazione a Firenze gli autori , gli argomenti e il modo di loro trattazione, l'assetto scenico, g' ingegni teatrali e gli intermezzi.
Il modo della recitaL'intento morale, l'elemento
nico e l'elemento satirico nelle
zione e gli attori.
Osservazioni critiche.
La sacra rappresentazione fuor di
sacre rappresentazioni.
:

>

Toscana.

nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia si


primo a mano destra il mausoleo del doge Piero Mocenigo (m. 1476), opera squisitamente scolpita dai Lombardi. In alto vi
campeggia la figura del Redentore sovrastante all' attico su cui un
bassorilievo rappresenta le Marie al Sepolcro. Entro all'arco fiancheggiato da sei statue di guerrieri in altrettante nicchie disposte in tre
ordini, l'urna ricca di fregi e sorretta da tre cariatidi; sovr'essa la
statua del doge fra due geni. Sulla base Y iscrizione e quattro bassorilievi: due trofei militari e due episodi del mito di Ercole.
Il domenicano Felice Faber da Ulma, passando da Venezia nel 1488
in viaggio per la Terrasanta, vide il monumento, che non era ancora
compiuto, e quell'accostamento dei simboli del gentilesimo ai simboli della nostra redenzione dest in lui un senso di meraviglia
ombrata di sdegno. Povero frate! Qual non sarebbe stato il suo stupore, se avesse volto il piede ad altre terre italiane se avesse visitato a Rimini il tempio di cui si scandolezzava un umanista pontefice,
se nelle confraternite fiorentine avesse udito invocare la Vergine coi
chi entri

affaccia per

...

Miscela
elementi
,

di

e profani
neiia
letteratura -

190

CAPITOLO SESTO.

versi d'Ovidio! Lass nei silenzi della sua cella, ira il dubbio
giorno
della sua Germania non era ancor giunta la voce
che qui fra noi un nuovo mondo si venisse scoprendo che Y Italia
delle cattedrali

venisse preparando, n del tutto a suo utile, impulsi ideali alla rige1

nerazione d Europa. Passer appena un quarto di secolo, e un altro


frate tedesco osserver ben altri e pi gravi contrasti e i suoi sdegni rinfocoleranno vecchi e profondi dissidi fra la Germania e la
Chiesa di Roma e divamper l'incendio, di che nel Faber non pi

che una smorta favilla.


Per vero l'innesto di elementi pagani nel simbolismo e nella liturgia dei Cristiani non era una novit, anzi risaliva a' primi tempi del
Cristianesimo e tutto il medio evo ne offriva esemp abbondanti cosi
nella letteratura come nell'arte. Ma la lunga consuetudine aveva compiuto opera di adattamento e ci che di stridente era nel contrasto
attenuavano le modificazioni sofferte da quelle figure e da quei riti
gentileschi e l'abito dei fedeli di ravvisarvi allegorie ormai ovvie. Il
Rinascimento rec nelle chiese le fogge dell'arte e le creazioni della
fantasia pagana nella loro primitiva purezza, con grande libert, senza
nessun ritegno; e similmente nella letteratura modi e immagini e favole
classiche non pi quali ornamenti agevoli a chi si credeva di continuare una tradizione non mai interrotta, ma come spedienti di poesia
necessari a chi immaginava di riallacciare una tradizione spezzata da
secoli di barbarie. Il paganesimo e il cristianesimo si trovarono spesso
giustapposti in un medesimo componimento
n parve profanazione
rivestire questo delle forme di quello. Cos, per esempio, tutta la macchina mitologica su cui poggia la Sforziade del Filelfo, non esclude
dal poema l'intervento d'un santo cristiano, divus Ambrosius.
,

Naturale. Per quali ragioni generiche

il

sentimento religioso

si

fosse

uomini; per quali specifiche negli


umanisti, abbiamo detto a suo luogo; e gi fatto intendere come la
critica, pur cos audace da non risparmiare neppure i testi sacri, non
intiepidito nella moltitudine

ardisse

Come

degli

affrontare e sottoporre a disamina

dogmi del cristianesimo.

negli individui, cos nei popoli le mutazioni psicologiche profonde

non avvengono d'un

subito,

ma

vogliono lunga preparazione e

fettuano lentamente, per gradi. Nel secolo

un postulato indiscusso

XV

la fede, confinata

e indiscutibile nel fondo della

perdette gran parte della sua vigoria attiva e reattiva;


quell'aspirazione insistente!, invadente

all' infinito

si

ef-

come

coscienza, solo

venuta meno

e al soprannaturale

aveva nutrita e fomentata essa divenne pi conciliativa pi


umana. N l'Europa medievale era stata, come a taluno piacque raffigurarla, un immenso convento, ove tutti, fsso lo
sguardo ai cielo, attendessero a preghiere, a digiuni, a discipline; n
l'Italia del Rinascimento fu un tempio pagano ove tutti sagrificassero
a Giove, a Venere, a Bacco; ma il medio evo fece del dotto pap
Gerberto un mago e favoleggi di patti da lui stretti col Diavolo nel
Rinascimento a Niccol V e a Pio II non mancarono la venerazione
che

la

tollerante, pi

191

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

e l'omaggio anche degli uomini pii. Il cielo s' era allora accostato alla
terra e consentiva accanto al suo, il culto di altri ideali dell'ideale
di ogni idealit terrena in essi stessi e
artistico pagano negli eruditi
:

nel popolo.
Il

grande amore dei

classici studi

non

distolse, l'abbiamo

dall' osservanza degli esercizi devoti uomini

come Vittorino da

notato,

Poggio stesso; ma il pi calzante esempio di


il Guarino, l'Aurispa,
da un umanista lodi giano, che assai volte
porto

conciliazione
quella
Vegio; il pi calzante, per ci che in
Maffeo
nominare,
di
ci avvenne
il

lui

il

Maffeo

Feltre,
e

iatino.

sentimento religioso appaia come un ritorno agli ascetici fervori,

di vita per lungo tempo seguito. A Pavia, dove era stato mandato non
ancor sedicenne dal padre, intorno al 1423, affinch vi si dedicasse alla
giurisprudenza, in quei convegni eruditi e lieti, nell'amicizia col Panormita e col Valla, ebbe eccitamenti ed aiuti allo studio della bella let-

De verborum

significato

di locuzioni giuridiche

signi ficatione, dizionarietto

per via delle antiche

in cui si industri a determinare,

poesie in lode

fonti,

il

retto

del Visconti e dei

condottieri ducali, ricche al solito di mitologiche finzioni, ed aggiunse

con molta presunzione e poco buon gusto un tredicesimo libro alinfarcito di prolisse orazioni, conducendo il racconto fino all' Eneide,
l'assunzione dell' eroe principale all' Olimpo (1427). Nel 1436 si acconci presso la curia pontificia e ne segu abbreviatore e datario,
le peregrinazioni, sicch a Firenze ebbe occasione di stringere amia ciascuno dei quali dedic due
cizia col Marsuppini e col Bruni
libri de' suoi epigrammi. I suoi tre dialoghi lucianeschi , affini per
molti rispetti a quelli dell'Alberti, rivelano gi la trasformazione che
intessuti come sono
compiendo nello spirito del Vegio
si veniva
delle massime di un austero stoicismo e pieni di lamentele sulla tristizia dei tempi. Dalle Confessioni del santo vescovo d' Ippona egli
sent stillare nel proprio cuore un'ineffabile soavit e vide raggiare la
luce del vero; di l cadde la scintilla, che accese in lui quel fuoco
d'amore e di piet che tutto pervade il Jibro De perseverantia religonis, dedicato nel 1448 alle sorelle monache. un elogio caldo, appassionato della vita claustrale dolcissima vita e perfetta, che fin
d'allora arrideva a Maffeo, quantunque solo pi tardi (1453) vi si consacrasse, entrando nell' ordine dei canonici regolari di S. Agostino.
,

Prima era

stato prete secolare e canonico di S. Pietro.

alla religione e

ad onorare

quale fece edificare

poneva un

officio in

il

mor nel 1458


egli fu tutto volto
suo santo patrono e santa Monica, della

Nell'ultimo periodo di sua vita

tomba e dett piamente la vita, mentre comlei. Nenie da vecchio aveva dianzi giu-

lode di

divennero la sua pi
bugiarde favole dei
Gentili, come nell''Astianaite e nel Vello d'oro
s bene un episodio

dicato

la divina

gradita lettura.

poesia di David; ora

pi

salmi

attese a verseggiare

le

poemi

cui lo aveva desto ne' suoi giovani anni a Milano la predicazione di


Bernardino da Siena (1418), e come una reazione vigorosa al tenore

teratura. Ivi scrisse, oltre al

qJ^p

(14

192

CAPITOLO SESTO.
del santo

della vita

abate

poemetto in quattro brevi

Antonio. Del

quale narr nelf Antoni as,

intitolato ad Eugenio IV,


recasse per esortazione coleste all'eremo di S. Paolo e vi trovasse l'anacoreta prossimo a morte, e come lo vedesse assunto trionfalmente in Paradiso, gli rendesse gli estremi onori e ne eseguisse
le ultime volont. Ma nel Vegio l'asceta non soffoc l'umanista; anzi

come

si

l'uno

si

ria,

Muse

d'esametri

accompagn fraternamente

ond'ebbe
via di

libri

Petrarca

il

addolorata

senza

all'altro

la vita

in

le lotte

un accordo

strazianti

pacifico

per

mutue concessioni. Ch V Anlonaie, se cristiana nella matepur sempre schiettamente classica nella forma; se in luogo delle
e di Apollo, vi sono invocati ispiratori Cristo ed Antonio, Vir-

ne

pur sempre

modello nell'intonazione, nei paragoni, nelle


come Giove Lucifero, rector Averni,
come Plutone. Nell'opuscolo De rebus memorbilibus Basilicae S. Petri il Vegio us per primo nell'archeologia cristiana i metodi con che
il Poggio ed il Biondo avevano
studiato la Roma dei tempi classici.
Similmente nei gi rammentati libri De educatione Uberorum, postesi tenne lontano
riori anch' essi alla conversione
dalle intolleranze,
che abbiamo notato nel Dominici; anzi consigli ai giovinetti la lettura non pure dei sacri testi, ma di alcuni autori pagani, dei tragici,
di Sallustio, segnatamente di Virgilio, convinto che non minore che in
gilio

frasi

il

e Dio, nell'Olimpo, parla

quelli fosse in questi l'efficacia educativa.

VAntoniade ed alcun

altro poema, come i quattro libri in metro


Theotocon seu de vita et obitu sacratissmae V. Mariae,
che maestro Domenico di Giovanni, lettor di teologia e della Commedia nello Studio fiorentino (dal 1469), dedic a Piero di Cosimo, rappresentano l'epica sacra di stampo classico. Cos alle cronache versificate, delle quali s' tenuto discorso nel precedente capitolo, non manperfetti
cano, per ci che concerne lo stile e la generale andatura
riscontri nella poesia religiosa. Solo alcuni meritano d'esser qui ram-

elegiaco

mentati.
roemi sacri
ar
ai

ja<fo o

Gradenigo.

Fin dal 1399 Jacopo Gradenigo detto Belletto, patrizio veneziano


metro dantesc0 e concordava fra loro i Quattro Evangeli, opera poderosa, le cui
undici migliaia di versi sciatti, pedestri, in lingua tra veneta e to0110ra ^ 0 di cospicui offici in patria e fuori, riduceva in

scana, vincono la pazienza dei lettori pi eroici. Del

pari

io

non

so

davvero se il Libro del Salvatore dell'inclito cavalier perugino Canchi ne legga


candido dido de' Buontempi abbia mai trovato o sia mai per trovare
ternari.
lunghi
capitoli
novantotto
a
fondo
i
diligentemente da capo

^temT"

Si tratta,

non occorrerebbe neppure

avvertirlo, ancora d'una prolissa

parafrasi del testo evangelico, con questo per che


di

narrar cose

alla disputa

coi Dottori e alla

Disquisizioni teologico-morali,

lungo

quando

rimatore finge

predicazione

una

delle quali

di S.

Giovanni

Battista.

svolge in un lento e
tramezzano a quando a
si

tra S. Giuseppe e V autore


racconto; n esse soltanto, ch verso la fine (capp. 15 sgg.

dialogo
il

il

alle quali sia stato presente, dalla nascita di Cristo sino

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

193

del II libro) appare in visione al Buontempi


viato da Dio a comandargli di serbar

il

il frate! suo Ascanio insuo canto per un futuro eroe,

Borso d'Este, cui il poema fu dedicato fra il 1465 e il 69, e con un


che veniva allora in voga, tesse la genealogia degli Estensi
e dice le lodi di personaggi moderni, pontefici, principi, condottieri.
Pi vecchio d'una ventina d'anni (1446), non pi commendevole nel
a contemplarispetto dell' arte il poema dove il maggior Filelfo
zione di Filippo Maria Visconti, narr la Vita del sanctissimo Johanni
Battista; ma almeno la parafrasi evangelica si contiene entro a liartificio

miti pi discreti,

ecco

il

solito

quarantotto

amore

La VUa

5"
e ipaejS

capitoletti di quattordici terzine ciascuno;

della simmetria!

ne variano

la

monotonia

la

novit di qualche paragone, alcuna reminiscenza dantesca e petrarchesca,


lorito

rancori del poeta neppur qui del tutto repressi, infine

moderno con

cui sono

spesso

il

co-

rappresentati fatti e persone.

costumi della figliuola di Erodiade il Filelfo tratteggia con questi


versi, che valgono anche a porgere un'idea del suo stile slombato &
della sua ispida lingua:
In

lei

ogni lascivia

si

discola;

Non dicea orazion, n fuso o rocca


In man prendea, ma dat'era alla gola.
N 'n cosa onesta apria gi mai la bocca,
Ma sol con buffonie, com fa or Poggio,
In fatti osceni

L dove

parola

il

suo parlar discrocca.

privazioni del Battista nel deserto, il Toesperto frugatore non men di cantine che di biblioteche
snocciola un inventari etto delle bevande pi pregiate al suo tempo;
lentinate

delle

Erodiade, mentre aspetta la testa del Santo, danza il salterello, come


una gentildonna del Rinascimento. Il quale innesto di particolarit
.

descrittive desunte dalia realt

contemporanea nella materia religiosa,


ben altra espressione che certi ingenui
anacronismi delle vecchie leggende medievali anzi ci ricondurrebbe
proprio l donde abbiamo preso le mosse a dire di codesta sacra letteratura, se a riallacciare il filo del discorso e a conchiudere non ci
convenisse aspettar d'avere studiata la poesia religiosa d'indole popoha ben

altro atteggiamento e

laresca, le laudi e le rappresentazioni.

Era

primavera del 1399 quando un vivo ardore di piet e di


diffuse d'un subito per gran parte d'Italia. Giungeva d'oltr'Alpe voce di miracolose apparizioni e di minaccevoli avvertimenti cegiungevano di Provenza schiere pellegrinanti ai borghi e alle
lesti
citt della riviera di Ponente. Gli animi, commossi dal romor delle
guerre recenti, trepidanti pei* quelle che s'annunziavano prossime, e
amareggiati dallo spettacolo della chiesa rsa dal lungo scisma, si lasciarono facilmente trasportar da quel moto. E le campagne della Liguria, della Toscana, della Lombardia, dell'Umbria, del Veneto, videro
in quella state e nell'autunno successivo compagnie di devoti scalzi e
tutti vestiti di bianco, onde furono detti i Bianchi, andar processionando
la

religione

si

Rossr.

La

lett.

Hai. nel sec.

XV.

13

reugfoso
de
b

\m

191

CAPITOLO SESTO.

di terra in terra, battendosi con una sferza e rendendosi in colpa dei


loro peccati. Quelli di Firenze traevano ad Arezzo o a Cortona, quei

Lucca a Prato, quelli di Prato a Firenze, a centinaia, a migliaia,


preceduti dal Crocifsso, salmodiarti. A quella vista e per le persuadi

sioni di quei devoti

si piegavano, come alla voce


componevano discordie private; signorie

cuori pi induriti

dei predicatori popolari;

si

nemiche

si rappaciavano. Intanto correvano notizie di prodigi, coi quali


Dio avrebbe mostrato di proteggere e gradire quella divozione; si diceva che a Genova raggiassero fulgori dalle immagini della Vergine;
che a Sarzana un olmo fosse rinverdito al passaggio dei Bianchi che
a Vezzano in Liguria un reprobo che voleva percuotere uno di loro
;

fosse rimasto col braccio

Pure a malgrado

alzato.

di tanto religioso
disordinato e incomposto
di quello che dalle pendici dell'Umbria s'era propagato a quasi tutte

fervore

il

movimento

dei Bianchi fu

meno

italiane nel 1258: segno dei tempi ormai volti a pi


costumanze e ad una pi umana concezione della vita terrena.
Le processioni duravano nove giorni, nei quali i pellegrini non si nutrivano se non di pane e di frutta, non deponevano mai la candida veste
e dormivano sulle panche, tra la paglia ed il fieno. I poverelli si abbandonavano fiduciosi alla Provvidenza divina, ma i nobili e i ricchi
si apparecchiavano pur fra le penitenze
un cotal aristocratico agio,
come fece quel mercante fiorentino che per s e per i suoi consorti
men seco due cavalle cariche di vettovaglie e di panni e una muletta acci che a piede o a cavallo quel tale cui venisse alcuno disastro nella persona, non mancasse che, coll'aiuto di Dio, eseguisse il
santo viaggio, con buono e divoto cuore .
Or come nelle ascetiche esaltazioni del Dugento aveva avuto, se
n on l'origine, la sua maggior diffusione la lauda in lingua volgare, cos
le

popolazioni

gentili

dei*

Bianchi.

una novella

fioritura di sacri canti si

dei Bianchi

accompagn

quali alternavano allo Stbat

alla pia accensione

Mater

laudi nell'idioma

materno; prediletta fra tutte, dappoich molte cronache ne fanno menzione, quella che comincia:
Misericordia, eterno Dio,

Pace pace, Signor

Non guardare

il

pio,

nostro errore.

Misericordia andiam gridando,


Misericordia

non

sia in

bando,

Misericordia Iddio chiamando,


Misericordia al peccatore.

Nessun pregio hanno siffatti componimenti n di contenenza n di


forma, e di null'altro fanno testimonianza se non dell'inettitudine e
come gli sgorbi che calunniano l'efdell'imperizia dei loro autori
figie di Cristo o dei Santi sui crocicchi di campagna. Eppure ripensando la storia narrata or ora, possiamo anche giudicarli ingenua maperch
nifestazione dei sentimenti tumultuanti nel cuor dei devoti
non
assolutamente
laudi
le
che
contenuto,
quella storia ci parla d'un
,

195

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

esprimono, chi non interpreti con arbitraria benevolenza la loro rozza


e vuota semplicit. Vero che nell'occasione medesima altre ne furono
forse composte, nelle quali balena in mezzo a' luoghi comuni della rettorica cristiana una cotale ardita originalit di pensiero; accanto a

naturalmente e vivacemente
che cominmorta
incensi
l'onda
nube
degli
l'inerte
e
divino,
cia Laudiam Vamor
adoradiviene
poesia
la
fine,
l
dove
la
verso
animano
si
ritmo
del
zione della Vergine, rosa fiorita e bella, genitrice di Dio. Ivi sono
accennati con tocchi leggieri i concetti che tutta ispirano la lauda
viete

immagini barocche fioriscono

atteggiate, e la dizione

bellissima

si

frasi

fa persino elegante. In quella

Di',

Maria

Miravi

dolce, con quanto disio

il

tuo fgliuol, Cristo, mio Dio.

Chi non l'ha letta in una delle cento antologie o storie letterarie,
che la recano erroneamente attribuendola a Jacopone da Todi? Di lui
non certo e se davvero essa opera di Giovanni Dominici o di
prete Leonardo Pisani, vorr essere riferita al tempo dei Bianchi, della
qual devozione furono l'uno e l'altro con Antonio Soranzo introduttori
a Venezia, e ne ebbero bando per cinque anni. In quella lauda la Re,

gina del Cielo adorata nel suo aspetto pi soavemente umano, come
madre che veglia a studio della culla, che palleggia e allatta il suo
bambino, che ne spia i primi passi teneramente affettuosa.
Quando tu ti
Come non

sentivi

chiamar

Mamma,

morivi di dolcezza,
Come d'amor non t'ardeva una fiamma,
Che t'avessi scoppiata d'allegrezza ?

La

ti

un affetto che rampolla dalla sua


congiunge al finito; il soprannaturale alle cose
terrene. E dinanzi a questo connubio il poeta trova gli accenti gagliardi ed efficaci che il puro misticismo non pu mai suggerire ai
divinit del Figliuolo rinfocola

umanit;

l'infinito

si

mediocri.

Quantunque presto
colo

XV

la

sbollisse

il

nostra letteratura

si

fervore dei Bianchi pure nel sevenre arricchendo d'un numero


,

stragrande di laudi. Solevano cantarle le pie confraternite, delle quali


vigeva il costume in ogni parte d'Italia, nei loro oratori, o le devote
processioni per le vie cittadine, come accadeva a Firenze quando per
cessare pericoli di pesti, di guerre, di carestie la Signoria vi faceva
portare in trionfo la miracolosa immagine della Madonna dell'Impruneta.

Ne composero, a Venezia

il

Giustinian, a Ferrara

un Giovanni

Pellegrini, a Firenze popolani, canterini di professione, medici, notai,


cittadini cospicui, in maggior copia d'ogni altro Feo Belcari e un Francesco d'Albizzo. Molte vagavano anonime, com' delle composizioni destinate a vivere pi sulle labbra di recitatori, che sulle carte. Gli ar-

gomenti erano, s'intende, invocazioni a Dio e alla celeste Avvocata, inni


d'amore a Ges esaltazioni dei sacri misteri del cristianesimo, ma
,

Altre laudi

sec.xv.

190

CAPITOLO SESTO.

anche predicozzi ascetico-morali, parafrasi

dei precelti di Dio e della


Chiesa, ragionamenti teologici senza valore poetico, aride leggende di
santi, le quali pur serbando il consueto metro della ballata preferivano
al

Mo(]o di
cantarie.

breve settenario

la

pi larga voluta dell'endecasillabo.

Le laudi si cantavano sposso su melodie profane; molte, per esempi 0 come


rispetti e gli strambotti, e molte altre come certe canzonette
francesi divulgatissime in Italia. Quella del Belcari Chi non cerca Ges
con mente pia usurpava la musica di Chi guasta V altrui cose fa villania, che la canzone di Lisabetta da Messina rammentata dal Boccaccio; la laude di Francesco d'Albizzo Pace non trovo e vivo sempre
i

in guerra,

la musica del sonetto petrarchesco che le rassomiglia nel


primo verso. La ballata- del Sacchetti Vaghe le montanine e pastorelle non solo diede il tono a parecchie laudi, ma ebbe la sua spirituale tramutazione in quella 0 vaghe di Ges o verginelle, in cui Fa-

ni

ma

contrita manifesta la sua fervida aspirazione

a Dio. Sulle orme

0 canzonetta mia Misera e lacrimosa rim


il Belcari Dolce preghiera mia Con sospir lagrimosa. Questo stesso
scrittore e ser Michele Chelli, rispettivamente nelle laudi Oramai sono
in et e Mondo me non arai tu, introdussero a parlare una fanciulla
della poesia del Giustinian

desiderosa di fuggire
stro

il

mondo

e presero la mossa iniziale

pien d'inganni nella pace del chioqualche rima e l'aria della musica

Oramai che fora sono, nella quale esulta l'allegrezza


impudica d'una fanciulla scappata dalle melanconie del convento. Al
tempo di Lorenzo il Magnifico poi si soleva adattare alla lirica sacra
dalla canzone

la

melodia dei canti carnascialeschi anche dei pi osceni e indecenti.


Giustamente fu notato che nei Quattrocentisti non era n l'inten-

zione n la coscienza della profanazione che a noi par di vedere in tal


consuetudine. Si trattava di uno spediente acconcio ad agevolare ia

vecchio spediente che gi la poesia


diffusione delle liriche spirituali
medievale italiana e forastiera aveva usato e che non ispiacque neppure al Savonarola, quando intese ad istillar negli animi sotto il manto
delle forme meglio accette, idee di piet e di religione. Verissimo; pure
di quell'usanza si scandolezzavano i Greci venuti al concilio d'unione,
come pi ligi ch'essi erano ad una tradizione formatasi in tempi di
fede vigorosa e la condannavano insieme col costume invalso nella
pittura d'effigiare i santi secondo modelli reali, lasciati da parte i tipi
ieratici. Per noi v'ha nell'una e nell'altra consuetudine un indizio della
rilassatezza del sentimento religioso e del graduale mischiarsi di questo
a pi mondane tendenze. Anche l'esame interno delle laudi conduce
,

non

dissimile conclusione.

Chi dopo

le laudi, tutte

ingenuit e freschezza, di frate

Ugo Pan-

per
z i era o del Bianco da Siena o d'alcun altro trecentista legga
xv. esempio, quella del Belcari Ges, Ges, Ges, Ognun chiami Ges o
quella di Francesco d'Albizzo Chi salute vuol trovare, non meno ingenue delle prime, prover lo stesso senso di melanconia di chi dopo
aver respirato a pieni polmoni su di un pratello aprico l'aria imbal-

cjratten

tei

sec

197

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.


samata dal profumo
fiorellini della
di
tisi

fine
i

di fiorellini

campestri, entri in una stanza dove


i
loro profumi di sur un vaso

spandano

stessa specie

Venuto meno

porcellana.

procedimenti dell'arte,

il

il calore del
sentimento e affinacandore della vecchia lirica sacra di-

venne negli imitatori languidezza, la semplicit aridit. La lauda del


Belcari Laudate Dio laudate Dio Col cor lieto e giulo , chi lo
nega?, piena di garbo. Facili le idee di fede e di piet che vi sono
pi che svolte accennate; breve e a scatti
eppur non rifuggente da qualche ardito
tutti

caratteri

determinata

poesia

della

precisa la

cenda delle idee;

le doti

religiosa

dizione

insomma

il

fraseggiare; umile lo

traslato;

vi trovi

ma

popolaresca;

ordinata la

anche ben

successione

della poesia colta.

Or

stile,

insomma
o la

vi-

vin-

queste,

colando la fantasia del lettore, tolgono alla poesiola del Belcari quella
lirico, la
eli colorito e quell'efficacia suggestiva che l'impeto
frase ondeggiante, il disordine stesso conferiscono alla lauda del Bianco

vaghezza

da Siena Laudiam Vallo Signore Ne' suoi diletti Santi. Il fiorellino


campestre non pi nel suo ambiente; dal vaso di fine porcellana, dove
i
sta ad appassire
suoi semi voleranno pi tardi nel recinto del bo,

sco Parrasio.
1

Quattrocentisti

ingannarono quando credettero

si

di potere, essi

uomini del Rinascimento, far poesia religiosa non solo nelle forme, ma
e colla contenenza della vecchia lirica sacra popolare. Erano gi adulti
e si sforzarono di apparir piccini. Talvolta invece
e fu nelle laudi

d'argomento didattico
parve pi squallida tra

montarono

e la

tropp'alto

gli infantili balbettamenti.

diffcile

materia

Pure seppero anche

mezzo e adattare la semplice e candida compostezza


forma stilistica a una decente maturit di pensiero e di sentimento, massime quando sciolsero inni alla Vergine o consertarono
tenere

il

giusto

della loro

reminiscenze della poesia petrarchesca.


offre la lauda del canterino
Antonio di Guido Donila in cui venne il sole, vaghissima. Il Giustinian ne ha parecchie che svolgono un concetto con qualche larghezza dietro un filo logico, sottile ma saldo. Il Belcari e Francesco
d'Albizzo sdottoreggiano o bamboleggiano per vero un po' troppo pure

all'imitazione dell'arte plebea

Un

bell'esempio di tal contemperamento

hanno buon numero

commendevoli. Il primo, ad esempio, trova accenti semplici e delicati nelle due Orazioni della monaca e
scrive una laude di S. Villana, nella quale son versi non indegni d'un
grande poeta. Parla la santa stessa:

di cantici assai

cos ebra di Ges, mio sposo,


Sempre l'amavo ardentissimamente,
Per la qual cosa non mi f nascoso
1

volto suo tanto bello e lucente


Anzi spesso m'apparve e dolcemente
Meco parlava in modo, che narrare
Il

Non

lo saprei, se non che giubilare


Sentivo la mia mente a lui spontana.

lW5

CAPITOLO SESTO.

secondo tenta

Il

l'analisi

psicologica e, per esempio,

nella laude 0
ed efficacia lo stato del
suo animo, il suo acquetarsi nell'ardenza
del divino amore e nell'aspirazione ai gaudi celesti:

dolce

mio Ges descrive con

felice brevit

Nel mio cor sento angeliche faville


E godo ardendo in s dolci sospiri
T sento si le lacrime tranquille,
Che par che quel ferver nel ciel mi
Ogni cosa martiri
Mi par, per gran diletto,

Che

noi

Deh

tramrrii del

mio petto

ognora

mandi

tu.

tormenio

mondo: abbi merz


Che senza te
viver non posso
Del

tiri.

pi.

Qui per

vero la laude appare alterata nell'indole sua e tramutata,


canto collettivo che era, in preghiera individuale. Ma solo a questo
patto essa pot toccare nel secolo
una relativa perfezione, prima
di

XV

che il moto suscitato dal Savonarola le infondesse nuovo, bench passeggero vigore. Del pari le nuove tendenze degli spiriti, l'amor del
reale e la vaghezza dello spettacoloso provocarono, cooperanti condizioni letterarie propizie, gli ultimi svolgimenti italiani d'una particola
intendo del teatro sacro.

foggia di laudi

Le

Laudi
'che."

poesie liriche popolari, qualunque ne sia l'argomento,

facilmente carattere narrativo

che

assumono

estendano oltre a quei ristretti confini che bastano alla semplice manifestazione del sentimento
non meditato. Questo fatto doveva naturalmente avverarsi, meglio che
in ogni altra specie affine, nella primitiva lirica sacra in volgare, perch il sentimento ispiratore le veniva eli consueto dalla contemplazione
per la cui memoria i seguaci del romito
dei misteri della Passione
umbro Raniero Fasani si abbandonavano ai devoti flagellamenti. E come
nelle canzonette d'amore la forma dialogica divenne frequente accanto
al monologo, cosi nelle laudi; le quali erano tratte ad accoglierla dall'indole stessa del racconto evangelico e forse dall'imperizia degli autori insol

si

clini

a fuggire le difficolt e la monotonia degli incisi narrativi frammisti

nel verso al dialogo.

due schiere
laude in

Or poich era costume

di flagellanti, si

un vero

dialogo,

si

a distribuire tra vari fratelli

nuta nei

Una

testi si riflettesse

di alternare il canto fra


intende agevolmente come, tramutatasi la
pensasse, anche per istudio di chiarezza,
le parti, s che la trasformazione avve-

nel

modo

della recitazione.

Monaci ha rivelato, or fanno pi di


vent'anni (1874), l'esistenza e lumeggiato le forme e i modi di codesti
drammi rudimentali, che sorsero
non pare s'abbia a mettere in dubbio
primamente nell'Umbria tra i fervori di quel commovimento
religioso cui diede l'impulso, nel 1258, appunto frate Raniero. I fla-

bella scoperta di Ernesto

,,

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.


gellanti

199

non tardarono a

riunirsi in confraternite regolarmente costiconvenivano nei loro oratori o nelle chiese per attendevote consolazioni, alle discipline, al canto delle laudi, e con

tuite, le quali

dere alle
queste commemoravano via via

le

sacre ricorrenze per tutto

il

ciclo

deiranno ecclesiastico. Erano drammatiche le laudi destinate ai giorni


della Quaresima, della Passione e della Pasqua, al Natale, all'Epifania
all'Ascensione e pi altre ancora, che tutte i pii confratelli solevano
dappoich tra le masserizie
recitare con un certo apparato scenico
della confraternita di San Domenico in Perugia gli inventari del se,

colo

XIV

registrano

una colonda, a

la quale se lega Cristo al

tempo
uno
una

de la sua passione, e doie fruste, tre chiuove torte dal Crocefixo,


cerchiello da lanpana e la polonba acta per lo Spirito Sancto,

vesta encarnata de cuoio da Cristo e colle calze de cuoio encarnate

una vesta nera eia Madonna doie sopreponte per Centurione e per
Longino e barbe e capellature e guanti e simili attrezzi ed acconciature. Alle quali sceniche recitazioni ben verosimile che i disciplinati fossero incoraggiti dai drammi liturgici da pi tempo in uso nelle
,

Chiese, rappresentazioni figurate e latinamente parlate dei fatti prinvita di Cristo; ma della diretta dipendenza di quelle da'

cipali della

addotti esempi che escludano il dubbio non


conseguenza dell'identit della fonte. Anzi tutto induce a credere che i laudesi umbri attingessero via via alle sequenze
evangeliche, che il sacerdote legge nella Messa dei rispettivi giorni
ed alcune traducessero con pedissequa fedelt, altre amplificassero la-

non furono peranco

questi

siano

riscontri

sciandosi trasportare dall'ardente fantasia e dall'ispirazione del sentidalla rievocazione di spettacoli ora dolci, ora pietosi,

mento commosso

ora terrifici. In quei canti plebei palpita la sana, la forte poesia d'una
gente cresciuta ai liberi colloqui colla vergine Natura tra la solitudine
di una gente educata
de' suoi verdi poggi e delle sue valli rocciose
pur allora alla religione dell'amore dalla voce del Ser-afico d'Assisi e
temperante di immagini soavi l'austera tetraggine dell'ascetismo cripiccoli drammi che ricordano
s ciano. Quanta familiare tenerezza nei
la nascita di Cristo e la fuga in Egitto! Quanta, nella lauda per In
prima domenica d'Avvento, ingenuit di sentire nelle pietose insistenze
di Maria implorarle misericordia per i dannati fra le spaventose visioni del novissimo giorno! Il metro di codeste laudi drammatiche
la ballata maggiore, oppure, pi di frequente, la strofetta di sei ottonari a tre rime, alterne le prime due, baciata l'ultima la lingua, l'idioma paesano appena ravviato dalla naturai soggezione della scrittura
,

l'intento degli ignoti autori

Dall'Umbria

la

non

d'arte, s di piet.

consuetudine delle laudi drammatiche

si

diffuse nelle

regioni contermini, e le Compagnie dei Disciplinati sorte all'Aquila, a


Siena, ad Orvieto ne ebbero parecchie nei loro laudari del quattordicesimo secolo. D'altro canto quelle laudi erano per i loro stessi temi
virtualmente tali, che tutta una serie di composizioni drammatiche a
grado a grado pi complesse ne poteva germogliare, non appena pa-

200

CAPITOLO SESTO.

a scuotere vivamente gli animi una men succinta


esposizione dei fatti evangelici e gli sbolliti ardori religiosi lasciassero
rinvigorirsi nei devoti il desiderio di un, sia pure infantile, godimento
resse necessaria

Ad un* ampiezza di sviluppo drammatico, quale non aveva mai


avut
nelle
o
laudi, assurse gi a mezzo il secolo XIV la rappresenta-*
giovedt^
dei venerd zione della
Passione in due componimenti
noti sotto il nome di De1
santo,
nozioni del gioved e del venerd santo. Legate strettamente alla liturgia, esso erano come un complemento necessario alle parole del
predicatore, che in certi punti interrompeva il suo dire e, nuovo coLe Devo,

estetico.

rano

cenno

della cristiana tragedia, faceva

riprendere

di sul pale*-

in acconcio

modo

agli attori di cominciare

disposto la loro recitazione.

Cos, pi vigorosa che non sarebbe apparsa in un racconto


si affacciava alla mente dei fedeli nella viva figurazione e nel dialogo diretto,
,

l'immagine degli ultimi fatti del Redentore


dal convito in casa di
Lazzaro alla morte. Dovunque in quella rozza poesia serpeggia robusto il sentimento, ma pi ricche di personaggi e di azione sono le scene
della seconda giornata. Questa si apre colla flagellazione, e per mezzo
al grandioso spettacolo della crocifissione, al quale partecipano insieme
la Terra, il Cielo, l'Inferno, ci conduce al pianto delle Marie sul corpo
disconfitto del Messia e al seppellimento. La forma idiomatica di codeste Devozioni, che, umbra originariamente o abruzzese, si mostra
,

rivestita della conguagliatrice e poco vistosa patina toscana


su cui
galleggiano scorie ortografiche venete, fa riscontro colle sue variopinte
parvenze alla forma metrica, che di solito l'ottava, ma non di rado
,

anche la sesta rima e che, spogliata di certe ovvie interpolazioni, lascia vedere di sotto all'endecasillabo il primiero ottonario delle laudi
ambre. Le vicende della lingua non possono essere considerate separatamente dalle vicende del metro e queste e quelle, collegate certo a
graduali ma profondi alter-amenti della contenenza, devono, o m'inganno,
indurci ad assegnare alle due Devozioni un posto appartato nella sto-

come un anello spettante insieme a pi


d'una catena, come specchio delle virtuali energie degli uffici drammamatici, le quali trovarono nelle varie regioni temperie variamente propizia alla loro manifestazione. L'importanza storica di codesti componimenti non sar forse minore, ma i loro rapporti con testi di genere
affine saranno assai meno semplici e, oggimai, assai meno istruttivi
ria del teatro e a riguardarle

di

comunemente

quello che

La

taziomsacre disuso^ fatte le


nell'Abruzzo
e a Roma,

si

crede.

metro drammatico, cadde ben presto in


sue ultime prove forse in sullo scorcio del Trecento

ballata maggiore, qual

-A

in alcune

poche rappresentazioni orvietane

e senesi;

ma

l'

la sestina,

gi di ottonari come nelle laudi, s di endecasillabi, come in alcun


luogo delle ricordate Devozioni, fu il metro cui si acconci il dramma nell'Abruzzo, dal Lamntu della nostra donpna lu venardy sancto, che

non

Tommaso aveva nel repertorio de' suoi


prima met del Quattrocento, alla grande rappresentazione
della Vita e Passione di Cristo, che in una malcerta terra abruzzese
la

confraternita aquilana di S.

canti nella

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.


si

recitava verso la fine del secolo. Quello,

gamente sviluppato

della corrispondente

201

men complesso e men


ma non pi

Devozione

tico, rappresenta l'amplificarsi della laude per intimi impulsi

l'Abruzzo par

si

an-

che nel-

arres + assero prontamente; questa essenzialmente

frutto della fusione e della risaldatura di episodi molteplici che


sciplinati

lar-

umbri trattavano

nelle laudi della

Quaresima e

il

Di-

dei giorni

Procedimenti codesti, per via dei quali anche la romana confraternita del Gonfalone, sorta poco dopo il 1260 in seguito al movimento religioso dell'Umbria, giunse da embrionali tentativi quali dovettero esser i drammi con cui commemorava il sacrificio del Redentore nel secolo XIV, ai grandi spettacoli che essa soleva apprestare
verso la fine del successivo. Vero dramma ciclico che movendo dai primi
miracoli di Cristo si stendeva sino alle varie apparizioni di Lui e ad alcuni miracoli degli Apostoli, esso comprendeva forse, nel momento della
sua maggiore ampiezza, tre rappresentazioni, la Vita, la Passione e la
Risurrezione, ridotte poi mediatiti le solite racconciature e mutilazioni
a due, quella Passione e quella Risurrezione in sesta rima, che sono
pervenute, avanzi di un grande naufragio, fino a noi. Il palco scenico
era nell'arena del Colosseo gli spettatori sedevano sulle gradinate alsanti.

memorie

l'intorno; le

elei

ludi

romani e dei sanguinosi martiri aleg-

giavano sulla rinnovata figurazione dei misteri cristiani grandioso contrasto, che pareva testimoniare la vittoria della nuova sull'antica Roma.
In forza delle medesime leggi e attraverso analoghe vicende, deve La sacra
esser giunto a maturit il teatro sacro a Firenze. Ma l'ingegno eie- rap ZIO IInta
gante di quel popolo, quel suo amore per tutto che fosse bello, sfar- a Fir enze.
zoso, fantastico; l'idioma ch'esso parlava, gi snodato all'uso letterario,
gli stessi ordinamenti politici, che pur mentre tramontavano, anzi allora pi palesemente che mai, avvicinavano le classi elevate del civile
consorzio alle umili, fecero s che l, sulle rive dell'Arno, il dramma
assumesse particolari forme e caratteri. L'ottava, che gi avevano usato
largamente quelle due antiche composizioni commemorative della Passione, divenne il suo metro consueto
come quello che meglio della
sestina appagava l'orecchio col ritmo pi pieno e meglio si accomodava per la maggior ^ampiezza a secondare ci che direi i respiri del
dialogo. Disparvero i vecchi nomi di lauda e di devozione e prevalse
quello di sacra rappresentazione ben appropriato agli spettacoli drammatici fiorentini, volti non pure all'edificazione, ma al sollazzo del po;

i~J

<~J

^!

t^J

polo, e ricchi di quella

pompa

scenica, della quale, secondo che opina

il

loro illustre storiografo, Alessandro D'Ancona, porgevano ad essi esempio le mute figurazioni dei fatti dell'antico e del nuovo testamento solite

farsi,

vedemmo, per la festa di S. Giovanni.


dire quando primamente nascesse in Firenze

difficile

la

sacra

segnare un'interruzione od un salto


nella linea continua lungo la quale essa e le forme drammatiche che la
precedettero e prepararono, si vennero svolgendo. Par bene che nessuna
delle rappresentazioni che abbiamo ora sottocchio risalga, cosi com',

rappresentazione, perch

difficile

Cronologiae
autori,

CAPITOLO SESTO.
al secolo XIV; di poche possiamo rilevare l'et con sicurezza.
La pi
antica fra queste la Rappresentazione dei d del giudizio,
anteriore certo al 141S, Fanno in cui inori l'araldo Antonio di Meglio,
che

ne fu autore,

ma non alla morte

Bernardino da Siena (1444); nel 1441)


Maddalena in Cestelli l'Abramo ed Isac di Feo Belcari e questi dovette comporre prima del 1470
il S. Giovanni nel deserio, se Tommaso Benci pot
arricchirlo di sedici stanze. Alla stessa guisa egli, il Belcari, ampli mediante una
lunga
interpolazione alla quale si acconciava docile l'argomento, il dramma
dell'araldo rammentato pur ora e rimaneggi, secondo che probabile
una vecchia Rappresentazione dell' Annunziazione innestandovi, vecchia fantasia ancor questa
una disputa fra la Misericordia la Giustizia
la Pace e la Verit in sul proposito della futura redenzione.
Questi rimaneggiamenti ed ampliamenti e il naturale agglomerarsi di
episodi prima trattati separatamente, non condussero per, se non forse
di

fu rappresentato nella chiesa di S. Maria

'

tardi, lo spettacolo fiorentino alle vaste

bri e romani;

il

ciclo

dimensioni degli spettacoli

drammatico del Redentore

vi

um-

ebbe

ma

in rappresentazioni spicciolate, ciascuna delle quali


sua propria individualit. Si direbbe che il popolo fiorentino

piena trattazione,

serba una

grande

sentisse meglio di ogni altro

del

dramma ad una

non volesse
che

lo

il freno dell'arte, se il profittevole ristare


tappa intermedia sulla via del suo svolgimento

piuttosto essere attribuito

presero

a coltivare giunto

all'efficacia

a quella tappa

degli uomini

e gli diedero

colti

una

certa superficiale perfezione artistica. Sacre rappresentazioni scrissero


infatti, oltre a coloro che gi abbiamo menzionato, Bernardo Pulci e

sua moglie iVntonia

Francesco Giannotti, Pierozzo Castellano de' Cacanonico per pi di trentanni dal 1489 nello
Studio pisano, Lorenzo di Pier Francesco de' Medici e lo stesso Lorenzo
il Magnifico; n improbabile che ad alcuno di questi o ad altri lete sono le pi
terati spetti alcuna di quelle
che anonime andarono a stampa fin dagli ultimi anni del secolo XV. Gli argomenti e
il modo della trattazione erano pur sempre quelli consacrati dalla tradizione, onde gli autori non curavano di legare il loro nome all'opera
propria n lo indagavano i lettori o gli spettatori.
Gi i Disciplinati**umbri s'erano provati a drammatizzare i fatti
della vita di alcuni santi e l'Abruzzo aveva avuto una Devoiione et
festa de sancta Susanna e una Legenna de sancto Tornaselo in tre
giornate. Ma a Firenze rappresentazioni di tal fatta contesero con
buona fortuna la sacra scena a quelle che commemoravano i tempi
evangelici, e l'eroismo invitto con che, per esempio, S. Ignazio, S. Margherita, Grisante e Daria affrontavano il martino, i miracoli onde io
confortava la grazia divina, le fantasiose leggende di soccorsi prodigiosi prestati da S. Jacopo ai devoti pellegrinanti al santuario di Compostela, parvero temi pi adatti che non fossero le solenni e severe
vicende del Dio-uomo, a colpire e dilettare le corpulente immaginazioni
popolari, nudrite s di fede
ma ormai non pi pronte a lasciarsene
di

stellani, lettore, di diritto

, ,

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

203

trascinare e infiammare. Anche piacevano le rappresentazioni tratte


dal Vecchio Testamento o da volgatissime leggende , come quelle di
cui

il

carattere religioso era temperato e vinto da

stramento morale. Ecco

un

pratico

ammae-

rappresentazioni di Giuseppe figliuolo di


Giacobbe, della Regina Ester, di Tobia, di Saul; ecco quelle di Barle

laam e Giosafat, del Re Superbo, di S, Uliva, di Stella. Nel Barlaam


Bernardo Pulci sceneggi, mutilandolo il vecchio racconto nel quale
viveva in Occidente la leggenda indiana del Buddha fuggente per
darsi ad opere di piet gli agi della corte paterna. Nel Re superbo
,

ricomparve, stimolo e conforto agli umili, la tradizione diffusa in molte


plaghe d' Oriente e d' Europa di quel principe cui Dio fece ravvedere del suo peccato mandando un Angelo a prenderne il posto
mentitegli era assente, s che al suo ritorno i sudditi non vollero ri,

conoscerlo e

gli inflissero umiliazioni e

maltrattamenti d'ogni maniera.

Dal vasto ciclo delle leggende che favoleggiano di fanciulle ingiustamente accusate, vilipese e in vario modo perseguitate, attingono la loro
materia l'Uliva e la Stella.
Uliva una fanciulla non meno vaga e leggiadra che piena ci" u - La napprea
miltade e di fervore, figlia dell'imperatore Giuliano. Questi, non avendo dTls. uiiva.
trovato in tutto il mondo altra donna che pareggiasse in bellezza ed
onest la morta sua moglie vorrebbe impalmare la figlia ma Uliva,
spaventata da questa proposta, si taglia ambe le mani, principal causa
dell'incestuoso innamoramento. Il padre nell'impeto dell'ira comanda
a due suoi fieli di condurla nel regno di Brettagna e di ucciderla, ordine che non in tutto eseguito, perocch Uliva solamente abbandonata alla merc delle fiere in un bosco. Il re di Brettagna, andando
a caccia, si imbatte in lei, ne ha compassione, la accoglie in sua corte
e le affida la custodia del suo figlioletto. Un barone la corteggia arditamente ed ella nello schermirsene, si lascia sfuggire dai moncherini il bambino, che cade e muore. Novelli guai si preparano all'onesta fanciulla, che abbandonata in un deserto
- quivi le appare la Vergine e le rende le mani
e ricoveratasi in un monastero, viene con
arte malvagia accusata del furto d'un calice da ser Mariotto, il cappellano, timoroso delle tentazioni della bellezza di lei. Egli ottiene il suo
intento ed Uliva gittata in mare chiusa iu una cassa, che alcuni
mercanti casti gliani vedono galleggiare e raccolgono. Essi offrono Uliva
in dono al re di Castiglia, e questi invaghitosene la fa sua sposa contro
il voler della propria madre. La quale sdegnata si ritira in un convento,
e quando, essendo lontano il re per la guerra, Uliva mette al mondo
un bel bambino, trattiene nell'andata e nel ritorno il corriere che recava al campo la lieta novella, e sottraendo e cambiando le lettere
fa pervenire al luogotenente reale l'ordine di abbruciare la sposa e
,

Ma

abbandona nuovamente al mare


rogo in loro vece una donna con un bambino in collo travestita, che pareva Uliva , mentre la cassa gettata dalle onde sulla spiaggia italiana presso alla foce del Tevere ed
il

figliuolo.

Sinibaldo

L'una e l'altro e

pone

sul

impietosito

CAPITOLO SESTO.
Uliva ottiene buona ospitalit da due vecchie. Il re di Castiglia intanto
torna vittorioso e, scoperto l'inganno appicca il fuoco al convento
abbruciando con esso la madre. Passano dodici anni e il re tormen,

tato dal rimorso,


di

si

accinge, consigliato dal vescovo, al pellegrinaggio

Roma. Uliva vede passare

figliuolo,

sotto le sue finestre

gi grandicello, suo padre; indi lo

il

manda

corteo e addita

al

alla corte

dove
accarezzato, ma non riconosciuto. Ma quando Uliva vi si reca con lui
e narra la sua. dolorosa odissea, l'imperatore e il re ravvisano in lei
la figlia e la sposa; si rinnovano le nozze di Uliva; si fanno grandi
festeggiamenti, finch il re, ottenuta dal papa l'assoluzione, ritorna co'
suoi lieto in Castiglia.

^m

suiia

muove

se!n P uce

>

ma

affine

il

soggetto della Stella.

La persecuzione

tutta dalla matrigna, che gelosa della bebezza delta figliastra,

lo sia data la morte, mentre l'imperatore, padre della fanguerreggia lungi dalla Francia contro gli Inglesi. Anche Stella
invece abbandonata in un bosco senza le mani, che i servi portano
alla loro signora come prova dell'omicidio; anche Stella raccolta da
un principe cacciatore, il figlio del duca di Borgogna, che la fa sua
sposa. Mentre egli a Parigi e prende parte alla giostra che la matrigna ha bandito per isvagare l'imperatore addolorato dalla scomparsa
di Stella, questa d alla luce due bambini formosi e belli; ma la malvagia
donna, che per certe indicazioni ha riconosciuto nella lontana puerpera
la figliastra, compie il perfido scambio delle lettere nella tasca del corriere, come la suocera della Santa Uliva. E Stella di nuovo esposta in un bosco, dove si ricovera coi due figlioletti in una spelonca
presso ad un eremita, poi che la Vergine le ha rese, come ad Uliva,
le mani. Ivi la trova il marito, che, tornato in Borgogna, corso sulle
tracce di lei; Stella gli rivela finalmente l'esser suo ed entrambi muovQno coi vecchio duca alla volta di Parigi. L'imperatore accoglie esultante la figliuola che credeva perduta, e fa ardere la matrigna causa

ordina che
ciulla,

di

tante sventure.

Un medesimo
6

noveiiistico

concetto morale, la virt trionfare delle avversit e

ed ottenere sovente il suo premio anche sulla terra,


due drammi e la Rappresentazione di Santa Guglielma,
che Antonia Pulci cbmpose rimaneggiando una versione della leggenda
di Crescenza. Se non che nella Guglielma la lieta catastrofe provocata da un miracolo, per ci che la moglie, calunniata dal cognato
delle persecuzioni

tazionf

ispira codesti

tentatore e costretta a fuggire nel deserto la morte, riceve dalla Vergine la facolt di sanare con un segno di Croce gli infermi confessi
e pentiti dei loro peccati, e la sua onest riluce quando ella sconosciuta
guarisce dalla lebbra il suo calunniatore. Laddove nella Uliva e nella

restringe all'episodica restituzione delle mani


tagliate e alla generica protezione celeste di cui godono le due eroine
onde il carattere religioso assottigliandosi rimane abbarbicato appena a
Stellali soprannaturale

si

qualche particolarit esteriore e l'interesse germoglia dall'indole romanzesca e straordinaria, delle avventure. Rasentiamo la novella. Nel do-

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

205

minio di questa entriamo veramente colla Rosana, la cui favola, tutta


profana e sol soffusa di un colorito religioso per causa dei tempi a'
quali si riferisce, un racconto d'amore e di cavalleria , quello di
Florio e Biancifiore trattato dal Boccaccio nel Filocolo; vi entriamo
colla rappresentazione di Griselda, ov' riciotta a forma dialogica l'ultima novella del Decameron.
Semplice, monotono, drammaticamente rudimentale il metodo con
cui la materia viene trattata nelle rappresentazioni. Come il cantam-

banco nelle novelle e nei poemetti, cos il sacro drammaturgo pare non
avverta la varia attrattiva e la varia contenenza poetica delle diverse
scene, e tutte quelle che nell' esposizione narrativa della leggenda
trova preste ad assumere forma di dialogo, schiera in lunga fila dinanzi allo spettatore, come le figure d'un quadro un pittore che ignori
la prospettiva e l'arte degli scorci. Indi lungherie e ripetizioni da un
canto, e dall'altro scene eccessivamente rapide e precipitose catastrofi.
Neil' Adivamo ed Isac di Feo Belcari, Isacco racconta in cinque ottave
alla madre tutto ci che poc' anzi stato rappresentato sulla scena.
Nella Regina Ester, dopo che Assuero ha decretato la distruzione di tutti

Mardocheo si presenta vestito di ciliccio alla porta del palazzo


dove un famiglio lo vede recitar piangendo una preghiera.
Il famiglio riferisce la cosa alla regina in una breve scena che d
la stura ad altre due consimili ed alternatamente con esse a tre altri
dialoghetti fra Mardocheo ed il servo recante le ambasciate: cos il
i

Giudei,

di Ester,

rimatore riproduceva goffamente


il

re

lo

scambio

di

messaggi,

di cui parla

Rosana, la regina confida al


Ulimento, pur allora partito, sia innamo-

testo biblico [Ester, IV, 4-16). Nella

sospetto che

il

il

loro

fg Lio

proprio divisamente di metterla a morte; ma il


re, non volendo macchiarsi le mani del sangue della fanciulla, pensa
di venderla schiava a certi mercadanti del Soldano e ordina al siniscalco

rato

di

eli

Rosana e

chiamarli.

Il

il

siniscalco reca l'invito ai mercanti e questi

si

presen-

tano al re, che propone loro la compra, li conduce a veder Rosana


e, stretto il contratto, riceve il prezzo pattuito. Indi informa del malvagio trattato la regina e le dice di menar la dimane Rosana nel
i mercanti saranno pronti a rapirla. La regina
invita

giardino, dove

ad anelare con lei a cor dei bianchi fior, gialli e vermila prega di aspettare un poco, va a prendere il librccno.
l'ufflciolo della Madonna, e non senza aver prima recitata una preghiera,
torna alla regina. Entrata nel giardino, un mercante le addosso e
mentr'ella strilla implorando aiuto, la porta con s. Lo spettatore ascoltava e vedeva tutto codesto: nulla, osserva il Gaspary, era lasciato
alla sua fantasia o al racconto dell'attore . Per contro qual grossolana
speditezza, qual sommaria trattazione nelle scene di importanza essenIl pagano Grisante mandato dal padre a studio a Roma; un
ziale
d gli viene alle mani il libro dei Vangeli e fra s dice
0 stolto
fuor del vero sentimento Che cerchi per voler fama immortale Navicar sempre col contrario vento ... . La conversione bell'e conila fanciulla

gli

Rosana

n modo

di

ne

ra

dSi
ar oimri

206

CAPITOLO

pinta, e

SESTO.

giovanetto, volte le spalle a' suoi maestri, non desidera altro


che di esser battezzato e avviato alla conoscenza dei misteri e dei
precetti cristiani. Nella Santa Guglielma il fratello del re si fa inil

contro a questo, reduce di Terrasanta, por dirgli che Guglielma durante l'assenza di lui s' data a vita di baldorie e dissolutezze, e il
re,

senza por tempo in mezzo, sentenzia


Io

non vo ritornar se a sua malizia


non fanne giustizia.

Sodisfatto

Una vaga
mente
Molteplicit
e

diuo-hi

calunnia tramuta

di

un marito tenera-

botto in carnefice

affettuoso.

Naturai conseguenza di codesto semplice metodo di sceneggiamento


sono * D1 uscm passaggi dell'azione da un luogo in un altro e il restringersi di lunghi periodi di tempo ad un batter d'occhio. Apriamo
la Rappresentazione di Giuseppe. Siamo dapprima a Canaan in casa
di Giacobbe, ma subito dopo ben lontani di l, nel piano dove i fratelli
vendono Giuseppe agli Ismaeliti. appena compiuto il mercato, ed
eccoci nel palazzo del duca Put far e subito dopo di nuovo in
quel piano e poi ancora a Canaan. Per poco: cli dobbiamo tosto tornare in Egito nella zambra della moglie del duca di l andare a
visitar Giuseppe in prigione e indi assistere al suo trionfo nella reggia
dei Faraoni. E dopo, qual continuo oscillare dell'azione dall'Egitto alla
Cananea e da questa a quello Nella Rappresentazione di Costantino
imperatore la scena trasferita di Francia a Roma, da Roma al
Soratte e di nuovo a Roma e poi a Gerusalemme nella Santa Uliva
siamo da principio a Roma e successivamente in Brettagna, in Castiglia
e ancora a Roma, per non dir dei molti trapassi da luogo a luogo
entro ai confini di quelle terre. N maggior rispetto hanno i drammaturghi del secolo
alle ragioni del tempo. Nella Regina Ester
vediamo il real cancelliere spacciar messi in India, in Armenia, in
Persia, in Siria, in Egitto per invitar quei signori ad una gran festa
e, subito dopo, mentre il re si muta uno bel
vestire, comincia a
comparire gente: il re d'India e il re di Etiopia e il re d'Erminia ,
che arrivano coi loro baroni, corrispondendo all'invito. Neil' Abramo
'

XV

scenico,

ed Isac l'azione comprende un periodo di sei giorni; nella Rappresentazione di un miracolo di S. Maria Maddalena passano quasi anni
trenta , mentre si recitano poche stanze. Decisamente i precetti di
Aristotile non davano impaccio a quei popolareschi compositori.
Come a ravvivare l'arida e smorta poesia dei cantambanchi conferiva
quella che dicemmo collaborazione ideale dell'uditorio, cos l'immaginazione e la buona volont degli spettatori a creare le linee prospets nello spazio e s nel tempo, dei sacri drammi. Immaginazione
e volont aiutava per e quasi aizzava l'assetto scenico. I vari luoghi
dove il dramma aveva a svolgersi, stavano schierati l'uno accanto .al-

tiche,

sul palco come tanti scompartimenti raffiguranti in ispaccato


quale un palazzo, quale un tempio, quale una citt, quale un deserto,

l'altro

LA LETTERATURA ORIGINALE

207

IN VERSI.

sicch gli attori potevano senza sottrarsi alla vista del pubblico passare di un luogo nell'altro, come accade nel Miracolo di S. Maria

Maddalena, dove si vedono


mettersi in mare e navigare
in molti altri casi

stessi

come

tal uopo,

Quando

affissi agli edifci.

dalla Palestina fino a Marsiglia. Quivi e

personaggi

giovavano a

talvolta

Maddalena e Marta

santi Massimino,

annunciano dove

si

trovino;

in certe antiche pitture,

lo spettacolo lo richiedesse, in

ma

cartellini

sul dinanzi

cos
apriva la bocca dell'Inferno, donde uscivano i diavoli,
e nello sfondo una tribuna elevata e opportuper esempio, nel Teofilo
namente addobbata rappresentava il Paradiso. Dio Padre appariva nello

del palco

si

splendore della sua gloria e manifestava dal trono celeste i suoi voleri
e i suoi comandi. questo per non era caso molto frequente. Dal trono
celeste il Re dei re dai loro troni terreni, stando in sedia, parlavano
tutti i personaggi investiti di qualche dignit, salvo in certi momenti
espressamente indicati. Gli altri personaggi invece recitavano in piedi
;

nello scompartimento che loro assegnava lo svilupparsi

dell'

azione o

comune che gli stava dinanzi. Quivi stesso compariva l'Angelo che sul principio annunciava sempre, in poche stanze, il soggetto

sullo spazzo

della

rappresentazione

invitando

attenzione, e alla fine dava

loro

gli spettatori

a prestare benevola

licenza, ringraziando

venia delle imperfezioni. In disparte sedeva

il

e chiedendo

festaiolo, cio

il

diret-

tore dello spettacolo.

Ad

abbellire le scene e a dar l'evidenza della realt alle fantasti-

che invenzioni

delle leggende,

del Rinascimento.

Il

pennello

cooperavano
ritraeva,

le arti

come

rifiorenti all'aura

negli sfondi

Gli ingefe1
teatrali >

dei nuovi

quadri, paesaggi pieni d'aria e di luce e fabbriche di eleganza e cor-

vitruviane, e la

rettezza
statue,

ornamenti

magistero

il

ai

plastica

modellava colonne, bassorilievi e

templi e ai palazzi

finti

sul palco.

Con

sottile

Brunelleschi invent, secondo che afferma Giorgio Vasari,

come dicevano allora, gli ingegni coi quali nell' Anrappresentava il Paradiso lieto di luce, di incensi, di
cherubini roteanti, e si faceva scender a Maria l'Angelo messaggiero.
Le apparizioni e le trasformazioni improvvise, gli incendi e le ruine
di edifizi, di cui il sacro testo parlasse, erano poste sotto agli sguardi del
pubblico n meno ardui artifici che per codesti spettacoli, occorrevano
per conciliare la decenza e l'umanit coll'illusione nelle scene di martiri; quando, per esempio, si strappava il cuore a S. Ignazio e si
attanagliavano con piastre di ferro infuocate S. Rossore e i suoi
compagni; quando S. Apollonia era spogliata, battuta, torturata e da
ultimo decapitata, o S. Cristina gettava sul volto al padre uno brano
della sua carne di petto* ch'era stata cogli uncini dai carnefici strappata e il manigoldo co' rasoi le spiccava le poppe e le cavava
la lingua . Se gli avvenimenti offrivano occasione, si solevano cantare
sulla scena laudi, salmi latini, canzoni profane e si dava luogo a suoni e
danze, onde avevano svago gli spettatori e si infr amette vano nell' azione intermezzi simboleggiatiti talvolta lunghi periodi di tempo. Nelle
meccanismi
nunciazione

o,

si

e gli
intermezzi

CAPITOLO SESTO.
indicazioni sceniche trovi sovente fatto
battaglie, di giostra, di banchetti
scritto
siffatte

r ordine
la

di

un trionfo

cenno

di

noW Eustachio

alla foggia

rassegne militari,

romana. Ricchissima

Santa Uliva, che appunto per questo

di

minutamente pree per

il

di

pompe

suo ampio

svolgimento vuol giudicarsi opera del sedicesimo secolo. In essa sono


anche intermezzi d'altra natura, scene allegoriche le quali, al modo del
coro greco, paiono mettere in rilievo il significato morale dei vari momenti del dramma o personificare le idee e i sentimenti che via via
n modo

delia

/^fattori!

reggono l'azione.
Ultima propaggine

delle laudi, le rappresentazioni

si

mantennero

di quelle: la recitazione cantata,


S^ e a(* alcune consuetudini

che solo
o nei primordi del successivo and reverso la fino del secolo
stringendosi ad alcune parti espressamente notate, l'allestimento e la
recitazione per opera degli affigliati a pie confraternite. A Firenze gli
-l

XV

appartenevano

attori

alle

compagnie

di dottrina, associazioni di gio-

vinetti tra religiose e accademiche,

che i sacri spettacoli apprestavano


nei loro oratori o in chiesa, non di rado anche all' aria aperta negli
orti urbani o sui poggi di Fiesole. La pi operosa dovette essere quella
di S. Giovanni, detta del Vangelista o, dalla sua impresa, degli Aquilini, che esisteva gi nel 1427 ed accoglieva giovinetti dai tredici ai
ventiquattro anni. Talvolta avevano luogo rappresentazioni anche nei
conventi femminili, dove recitavano le monachelle pi giovani e le
educande. Occasione agli spettacoli drammatici davano le sacre ricorrenze e le festivit della Chiesa; non sempre per, ch il teatro svincolatosi dalla liturgia procedeva spesso libero da ogni soggezione o
ispirazione chiesastica. I

drammi

pi lunghi,

come

la

Rosana,

il

Co-

stantino e la Santa Uliva, si dividevano in due giornate, affinch


non ne fosse eccessivamente affaticata l'attenzione dell'uditorio.

Ai garzoncelli recitanti e a quelli che componevano

L'intento

la

maggior

pubblico, la rappresentazione era scuola non pure di reci^ap^esen- p ap te del


tazioni.
gi one ma di pratica moralit. In Ismaele, che nell' Abramo ed Agar
,

parafrasava l'oraziano carpe diem:


(Che s'ha egli a far, se no far buona cera
In ogai modo s'ha presto a morire;
Or questo po' di tempo che s'ha a stare
Non egli me', potendo, trionfare ?)

e,

personaggio biblico rinato

alle liete

costumanze del Rinascimento,

sua vita, pi d'uno di quei


attuava quella massima
stesso,
e dalla punizione che
s
riconoscere
certo
giovinetti poteva
un salutevole avricevere
casa,
di
cacciandolo
infliggeva
Abramo gli
dal
drammatizzate
prodigo
del
figliuol
vicende
dalle
come
vertimento,
Castellani. Del quale intento educativo delle sacre rappresentazioni
nel tenore della

fanno fede anche i prologhi che ad alcune sono premessi, piacevoli


scene a dialogo nel metro della frottola, ove di solito si scorge un
padre condurre al religioso trattenimento il figliuolo cattivo nella spe-

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.


ranza ch'ei

209

ravveda. Si ravvede infatti l'Antonio del gustoso pro-

si

bramo ed Agar

e, finita la rappresentazione, si getta ai


padre chiedendogli perdono delle sue scapestrerie. Il teatro,
fu giustamente osservato, non si restringeva pi a indicare la via del

logo

dell'

piedi del

cielo,

ma

norme del
mondo contemporaneo

negli spettatori le

istillava

retto

viver terreno.

pure
scene satiriche e comiche l'ormai grave monotonia della sua andatura e de' suoi atteggiamenti.
I sacri drammaturghi, s' detto, nell'adattare la leggenda al teatro L'elemento
la seguitavano a passo a passo anzi nelle indicazioni sceniche talvolta fermento
satirico
citavano la storia . e mantenevano l'uso dei tempi storici, narrando
fatti necessari alla piena intelligenza del dramma. Nel Sanf Alesso,
per esempio, l'azione procede ragionevolmente sol quando insieme
dal

questo soltanto:

elementi per variare

esso attingeva

di

si

compongano

in

un

tutto

versi e la prosa delle

didascalie

Ma

una scena appena fuggevolmente accennata nel testo si presentava


acconcia ad accogliere mordaci o buffonesche figurazioni di certi tipi,
allora la vena del rimatore scorreva libera ed abbondante, allora lampeggiava anche nel sacro dramma almeno il barlume di un'invenzione
originale. L'autore del S. Giovanni Gualberto si indugia con evidente
compiacenza a tratteggiare la figura del vescovo simoniaco: non solo
lo rappresenta patteggiante con gaia sfrontatezza la vendita della bada
di S. Miniato a frate Ruberto, ma per colorire, come oggi diremmo,
se

l'ambiente, premette a quella un'altra scena straniera al racconto leg-

poco reverendo prelato risolve in favore di chi


lite sorta per il conferimento d'una pieve di
Mugello. Quivi gli ecclesiastici; altrove i giudici, imercadanti, i soldati
e via dicendo erano fatti segno a dileggi e a trafitture. Quando compae l'occasione veniva assai di sovente
gli astrorivano sulla scena
logi truccati chi sa in quali fogge bizzarre e mettevan fuori i loro
oracoli con grande prosopopea e con mille avvolpacchiamenti e citazioni,
che spasso per quei gioiosi fiorentini del secolo XV Dei medici pur
fatta una saporita canzonatura: al letto del malato si strizzano l'ocgendario, nella quale

ha

la miglior

il

borsa una

l'altro, come gli auguri antichi, ch, dice maestro Balzagar


compare nella Rappresentazione d'un pellegrino,

chio l'un
al suo

questa arte vuol pratica :


Esser ardito e ben ciaramellare,
E qualche volta parlare in grammatica,
In is, in us, in as e disputare.
Ecl infatti biasciano fantastiche diagnosi
le pi

amene

come nel

S.

intramesse

nel loro latinorum e fanno

mondo, salvo poi a sentirsi ronzar


Tommaso del Castellani,
gran fabbro costui di
complimenti di questo genere
prescrizioni del

dietro,
siffatte

Guarda brutta canaglia, anzi poltroni


Tanto hanno fatto che ce l'hanno morto
!

Andatevi con Dio, capi d'arpioni,


Ch'i' vi risciacquer
Rossi.

La

lelt.

ital.

nel sec.

XV

il

brochetto scorto.
14

210

CAPITOLO SESTO.
Tutto

el di

Vanno

con

Uccidono uno

A
Scene
realistiche.

mule a processioni
1 beccamorto
non ne valor pena:
le

costor, col prete e*


e

lor basta portar la borsa piena.

In codeste scene, s'intende, poeta e spettatori avevano il pensiero


non tanto al lontano passato quanto al presente, alla vita reale
contemporanea, della quale siffatte scene sono come la caricatura. Ma
volto

ne ritraevano invece con vivezza e fedelt di colori gli aspetti


dovevano essere delle pi gradite al popolaresco uditorio.
Sono dialoghi pieni di brio fra contadini che lamentano la miseria del
loro stato e tramano furberie per gabbare il padrone sono battibecchi
di comari, che, per esempio, nella Conversione di S. Maria Maddalena

altre

pi volgari e

altercano per

predica; sono scene di gioco fra allegri


per efficace spigliatezza quella del Figlimi Prodigo
del Castellani, dove un barattiere d'accordo coll'oste lascia spennacchiato
l'improvvido giovinetto. Nella Santa Uliva i servi che conducono nel
bosco la fanciulla, si fermano con lei ad una taverna e attaccano
briga coll'oste per lo scotto; nel S. Onofrio compare una banda di
malandrini, che menano vanto della loro prodezza e ne danno un
saggio aggredendo due mercadanti e dando l'assalto ad un monastero.
Suggeriti naturalmente dal corso dell azione o trattivi dentro a
forza, episodi di tal fatta sono da capo a fondo un anacronismo; ma
nessuno se ne scandalizzava, ch l'accurata riproduzione dei costumi
antichi non era ancora la crce degli artisti, n, osserva acutamente
il D'Ancona, la dottrina e la critica avevano peranco infrenata l'inclinazione della mente umana e specialmente della fantasia volgare a
rappresentarsi le cose aliene ed antiche con quello stesso aspetto che
hanno le proprie e presenti . Faraone nel Giuseppe parlava di Mercurio di Marte e di Giove; gli astrologi della Santa Barbara citavano le tavole di re Alfonso e Guido Bonatti; l'oste del S. Antonio
offriva ai suoi avventori vino di Chianti e di S. Lorino, trebbiati dolci
vernaccia e malvagia; nei Sette dormienti si nominavano gli stradiotti e gli scoppiettieri e in pi altre rappresentazioni gli archibugi,
le spingarde, le artiglierie. Che pi ? Nel Nabucodnosor Donatello
intralasciava il lavoro del pergamo di Prato per conferire col re e
ritrarlo in prezioso metallo! Rideremmo noi; ma non ridevano i Quat-

compagnoni;

il

posto alla

bella

Anacronismi.

trocentisti assuefatti a vedere nei freschi e nelle tavole dipinte

Osservazioni
critiche,

i personaggi della Bibbia e del Vangelo vestiti secondo le fogge moderne


e frammisti ad essi i ritratti dei loro stessi contemporanei.
A malgrado del complesso suo organamento, la sacra rappresenta-i

zione rimase
ben lontana
il lettore deve esserne ormai convinto
.

Firenze il teatro sacro acquist pregi


decenza, che altrove non ebbe; soprattutto

dagli alti fastigi dell'arte.

vivezza, di sobriet, di

di
il

pregio della lingua, fresca, snella, efficace, qua e l fiorita di varie

reminiscenze letterarie. Altri veri perfezionamenti non ebbe, ch non


oserei dare tale appellativo all'incondita miscela di elementi vari di cui

LA LETTERATURA ORIGINALE IN VERSI.

211

personaggi vi mancano interamente di vita


il filo Dio o il diavolo; sono caratteri
unilaterali senza valore drammatico. Che la fede trionfi sempre della
miscredenza che la volont e il sentimento umani debbano sommettersi
ai comandi dell'Essere supremo; che sia fatale la persecuzione dei buoni:
erano principi assoluti che drammaturghi e spettatori ritenevano sufficienti a giustificare il procedere dell'azione. Nessuno pensava a penetrare nel cuore che si convertiva, che si sommetteva, che ordinava
fiere persecuzioni e truci delitti, ed a spiarvi sentimenti diversi da
quelli che pi palesemente si manifestavano. Bastava mostrare come
si

venne arricchendo.

intima, sono fantocci cui regge

quei principi venissero

acl

attuarsi nei singoli casi.

alcuna figura meno scialba, devi cercarla fra i


tristi o fra coloro che comunque contrastano i propositi dei buoni.
Anna, la moglie di Tobia, in quelle sue canzonature del marito rasil padre
di S. Giovanni
segnato alle disgrazie che Dio gli manda
Gualberto in quel suo rude, ma energico discorso con che vuol distorre
il
figliuolo dalla vita monastica, rivelano qualche tratto della loro

Se vuoi trovare

personalit.

Con cura pi

felice tratteggiato

il

carattere

dell'amo-

rosa Maddalena nella bella rappresentazione che si intitola dalla sua


Conversione. Sorda dapprima alle persuasioni di Marta, ella cede a poco

a poco alla descrizione della bellezza di Ges; va alla predica di mala


voglia, tutta agghindata e solo per la speranza d'acquistarsi amici
assai\ le parole del Galileo, anzi l'occhio di

mente

lui,

conquidono pronta-

confessa poi alla sorella, la


riadduce alla virt. L'ignoto e certamente tardo rimatore ha qui tentato
la peccatrice; e l'amore, com'ella

il sentimento con una larghezza della quale non serbano


esempio i testi che stiamo esaminando. Di solito sono gli
affetti famigliari, s vivi, abbiam visto, nel Quattrocento, quelli che
hanno meno imperfetta espressione: il dolore paterno nel Giuseppe,
quando Giacobbe piange morto il figliuolo; la sollecitudine materna
neV Abramo ed Isac del Belcari, l'angoscia di Maria nella Passione
del Castellani. Ma qualche monologo men freddo e meno smunto non
vale a colorire pienamente tutto un carattere.
Profondamente difettosa era dunque la sacra rappresentazione; pure
non v'ha dubbio ch'essa fosse dotata d* una vitalit e pieghevolezza
non comune e che il suo rapido cristallizzarsi in una forma convenzionale sia stato piuttosto effetto di mala fortuna che causa della sua
morte. Nessun impaccio poteva venirle dal metro; ch il dialogo aveva
infranto, spezzando in mille modi la stanza, ogni vincolo che questo
gli imponesse, n l'ottava imperava cos dispoticamente da non tollerare accanto a s gi nel secolo XV la terzina (specie nelle prediche)
e da non ceder pi tardi a metri diversi. D'altro canto la cerchia
degli argomenti s'era venuta, come abbiamo visto e vedremo meglio fra
paco, a grado a grado allargando oltre alla materia propriamente sacra,
talch alla rappresentazione si apriva dinanzi un territorio, dove la
fantasia poteva vagare libera dalle pastoie del dogma e della tradi-

d'analizzare

forse altro

212

CAPITOLO

SESTO.

Le manc l'aiuto d'un forte ingegno, che la ravvivasse


contenuto veramente drammatico, e che, come lo Shakespeare le
analoghe forme inglesi, la rimpolpasse collo studio dei caratteri e l'azione religiosa.

d'un

dei sentimenti;

studio ed analisi,

che avrebbero di necessit


ed ampiezza alle scene principali e
costretto ad avvizzire e dileguarsi il vano frondeggiar delle altre. Non
s'ha a dimenticare che se le leggi biologiche universali governano la
vita e lo svolgimento delle forme letterarie, queste non toccano un
alto grado di perfezione, se non per impulsi ed esemp individuali.
Fuor di Toscana l'elaborazione letteraria dello spettacolo sacro fu
assai meno intensa e pi grossolana e si ridusse a prove isolate senza
propositi n modi costanti. Oh ben povera cosa quella breve Festa
chi legge ne rammenta
de ir Assunzione, che Pietro del Giocolo
certo il poema tra boccaccesco e dantesco
rim in vari metri, distici,
quartine, ottave, sonetti, per la sua confraternita di Pordenone, senalisi

rotta la monotonia, dato vigore

La sacra
rappresentazione
fuori di

Toscana.

guendo le orme di un meno lindo, ma neppur questo popolaresco


componimento. Nel Napoletano, particolarmente ad A versa, si rappre-

XVI

sentavano nel secolo


sul sacrifcio di

opera

di

Abramo

persone

ciotte,

certi

drammi

sulla Passione, sulla Nativit,

e su pi altri argomenti evangelici e biblici,


le

quali

preferirono alla sestina, non

ignota

certo per gli esemplari abruzzesi neppure in quelle regioni, la terzina

qua e l, l'ottava e il rimalmezzo e vi introdussero con metafsica


pedanteria accanto ai personaggi storici o leggendari esseri allegorici,
come la Morte, la Creazione, la Natura, il Tempo. Di veramente
o,

drammatico

dice

tutto l'ordito

il

ritrovatore di quei drammi, c' poco o niente;

una successione

di dialoghi e

di effusioni

liriche

forma vi prolissa, impacciata, fredda . Come la festa di Pordenone codeste rappresentazioni aversane e quell'altre di che abhiamo
solo imperfetta notizia dagli appunti d'un vecchio erudito, saranno proprio quel che le reputa il D' Ancona, letterarie trasmutazioni d'u-

la

sanze liturgiche locali .


I modelli ..fiorentini probabile non fossero senza alcuna azione
sul teatro sacro d'altre citt e regioni italiane, quando non vi sussistesse, come a Ferrara, pi gradito il costume di scene mimiche, o non
continuasse a devolversi, come forse a Siena

terina in tre giornate nel

metro

documento una
maggiore

della ballata

in

S.

un

Caal-

fiume della letteratura drammatica nato nell'Umbria.


del
secolo, il fiorentino Giuliano Dati rimaneggiava e
scorcio
sullo
In
riduceva quasi interamente alla forma fiorentina dell'ottava la Passione del Colosseo, la quale cos raffazzonata migr lontano a pi

veo suo proprio

il

parti ed ancor oggi si rappresenta nel Biellese con alterazioni nella


veste metrica e nella contenenza. Ma verso il confine occidentale le
forme nostrali del dramma sacro languirono sopraffatte dall'efficacia
tenevano
di quei giganteschi misteri ciclici, che appunto nel secolo
spesso in festa per pi giorni consecutivi le citt e le borgate di Francia.

XV

Prima

del

1490 fu

infatti

composto e rappresentato a Revello, terra

LA LETTERATURA. ORIGINALE IN VERSI.

213

marchesato di Saluzzo, un dramma della Passione, che in tre giornate espone tutta la storia dell'umano riscatto, dai vaticini delle Sibille
e dei profeti tino alla Risurrezione. Sono oltre a tredicimila endecadel

un italiano infarcito di elementi diae forestieri; vasta composizione di complessa struttura e ricchissima di personaggi, nella quale l'autore, forse un frate, ha dram-

sillabi

rimati a coppia e scritti in

lettati

Vangeli e delle apocrife tradizioni popolari,


oltr'Alpe, lepide scene di diavoli, di sgherri,
dalla Passione eli Revello e dagli spetCerto
pastori.
di
marinai,
di
tacoli in lingua francese ancor vigenti nella valle di Susa, possiamo
arguire che altri drammi di tal fatta abbiano avuto nascimento nella
regione pedemontana; ma essi non costituirebbero se non un episodio
isolato e inefficace nella storia della rappresentazione sacra italiana.
La quale, affacciatasi appena sulla soglia del tempio dell'arte, poich nessuno ve la accolse e la mise sull'altare, rapidamente decadde.
Altre fogge di componimenti teatrali furono assunte, nel generale
trionfo della risorta antichit, a quell'onore, e la rappresentazione dopo
essere stata dal Cecchi accostata alla commedia profana, spar nel languore delle ricreazioni, degli spassi, delle contemplazioni spirituali,
dei presepi e degli oratori. La sua pi rigogliosa fioritura spetta agli
ultimi decenni del secolo XV; nel 1547 il Vasari, forse un po' esagerando, la diceva quasi del tutto dismessa . Il popolo le si mantenne
fedele e per lungo ordine di generazioni ne serb viva la consuetudine.
Oggi ancora in molte province italiane, nel Trentino, in Piemonte, in
Toscana, nelle Puglie, in Calabria, in Sicilia sopravanzano variamente
atteggiate reliquie non iscarse del dramma sacro, perch la piet e la
vaghezza di spassi degli abitanti del contacio contendono all'incalzare

matizzato

racconti dei

innestandovi, come usava

nuove idee quei rottami d'antichit .


piet e la vaghezza di spassi. Sono i due affetti che in una
coll'intento educativo ispiravano, abbiamo visto, la rappresentazione

Decadenza e
s

?enle!"

delle

La

fiorentina del quattrocento. Essa attenu l'austera grandiosit e rasseren

severe e tetre parvenze che la sacra materia aveva assunto nel


medio evo; essa accolse scene e personaggi profani; documento anche
essa di quell'affievolirsi e quasi umanarsi del sentimento religioso di
che fa testimonianza l' innesto di elementi profani nei poemi e nelle
le

opere della pittura e della plastica.

conclusione

CAPITOLO SETTIMO

Roma

tempi

ad

e Firenze
Lorenzo il Magnifico.

di

Considerazioni sulle condizioni della letteratura intorno al 1460.


L'arte della stampa.
Roma.
Pomponio Leto, Bartolommeo Platina e l' Accademia romana.
Paolo II.
Sisto IV.
Gli umanisti sotto questo pontefice.
Dispute umanistiche.
Ermolao

Barbaro

padovano.

FirenzeL'accademia platonica.
Marsilio
Ficino e le sue opere principali.
Giovanni Pico della Mirandola.
Cristoforo LanLorenzo dei Medici detto il Magnifico: suoi studi, V Alter catione, il Canzoniere
dino.
e il commento, le Selve, il Corinto, V Ambra, l'amor di Loivnzo per le lettere, le arti e
ie pompe, la Caccia col falcone, le Canzoni a ballo, la Nencia da Barberino, i Canti
carnascialeschi, le Laudi, il S. Giovanni e Paolo, i Beoni.
Luca e Bernardo Pulci.
Matteo Franco.
Il carattere e le poesie minori di Luigi Pulci.
Bernardo BelLe donne di casa Medici: Lucrezia Tornabuoni e Clarice Orsini.
lincioni.
Angelo
Poliziano: la sua giovent, la versione dell'Iliade, il P. in casa Medici, V Orfeo, le ballate e i rispetti, gli epigrammi latini e le elegie, le Stanze per la giostra, il P. istitutore in casa Medici, il P. cacciatore di benefici e di doni, il P. professore nello Studio,
le prolusioni letterarie in prosa e in versi, le prolusioni filosofiche, ilP. filologo, i Miscellanea, lo stile latino del P. e la sua disputa con Paolo Cortese, la polemica con B.
Scala (Alessandra Scala) e il Marullo, la polemica con Giorgio Menila, la vanit del
Eruditi e poeti latini minori.
Giovanni Lascaris, Bartolommeo Fonzio,
Poliziano.
Paolo del Pozzo Toscanelli.
Naldo Naldi, Giov. Battista Cantalicio, Ugolino Verino.
La religione nella
La mojrte di Lorenzo il Magnifico, del Poliziano e del Pico.
I Platonici e il Savonarola: M. Ficino, Giovanni Nesi, Girolamo
brigata medicea.
Benvieni.
11 Savonarola e la cultura intellettuale.
e l'aristotelismo

Si figura
ra
ir)torno
&1 1460,

le

rioni sulla

il

lettore,

giunto a questo punto,

le condizioni letterarie

L'umanesimo aveva gi compiuto le sue pi


insigni scoperte, sicch la maggiore e miglior parte della letteratura
antica superstite si offriva a' suoi studi; aveva educato, sorelle e ausiliatrici, l'epigrafa, la numismatica e le altre scienze archeologiche;
aveva trovato i metodi meglio appropriati alla critica e all'interpretazione dei testi e formulato regole grammaticali e stilistiche. La
d'Italia

intorno al 1460

prosa latina, abbandonati


sulle

orme

di

Cicerone e

gerghi e

di Livio,

i
i

costrutti medievali,

poeti studiavano

il

procedeva

passo dietro

ROMA E FIRENZE

215

TEMPI DEL MAGNIFICO.

AI

a Virgilio, ad Ovidio, a Tibullo, a Catullo. Fogge e modi e ornamenti


di origine classica avevano arricchito anche la letteratura in lingua
italiana e qua mascherato, l deviato il perenne devolversi della tradizione nazionale,

mentre

prosa e la poesia popolari

la

si

acquistavano

Morirono tra il 1458 e il 66 Alfonso


d'Aragona, Cosimo dei Medici, Pio II, Francesco Sforza, nobile schiera
di mecenati in vario modo profittevole alla rinnovata cultura; morirono tra il 1457 e il 63 Lorenzo Valla, il Poggio, il Guarino, Flavio
Biondo. Nel 1465 due tedeschi, Corrado Schweinheim e Arnoldo Pannartz, piantavano nella dotta solitudine del monastero di Subiaco la
prima officina tipografica che abbia operato in Italia, e dopo aver dato
fuori la grammatica di Donato e il Dd oratore, compivano verso la fine
d'ottobre la stampa delle Divine istituzioni di Lattanzio. Notevole riscontro di date, che par segnare il tramonto di quel periodo della
Rinascenza che fu di preparazione e di fermento della materia let-

sempre pi

il

favore dei

dotti.

teraria.

Percorrendo il territorio che ci si affacciava in sulla fine del primo


abbiamo osservato il valore obbiettivo di codesta partizione,
dappoich nel giro d'anni compreso fra quelle date ci apparve trioncapitolo,

fante la scuola scientifica del Valla e pieno

il

gorgoglo dei vari ele-

menti letterari. D'altra parte i molti lembi dei capitoli precedenti che
ne
si protendono al di qua elei largo confine segnato, ci avvertono
fa meraviglia, ove si pensi che il complesso svolgimento dei fatti e
delle idee non si pu n si deve mai costringere entro al rigido
che i caratteri del periodo pi
schema d'una elivisione cronologica
antico persistettero anche nel successivo quando i nuovi si venivano

affermando.

Ben

presto la stampa

Nel 1467

gora.

si

propag e

la tipografia di

fior

in Italia

con mirabile vi- La

Subiaco fu trasferita a

Roma

e,

ospi-

tata dai fratelli Massimi nel loro palazzo, pubblic le epistole di Cice-

Ad

Cui tennero dietro a brevi intervalli opere di


Girolamo, di Cesare, di Livio, di Virgilio e via
dicendo. L'anno stesso un altro tedesco, Ulrico Hahn, iniziava la serie
delle sue edizioni romane colle Meditationes Joannis de Tiirrecremata,
il primo libro adorno d'incisioni in legno. Al Hahn prest, fino al 1471,
servigi di revisore e correttore elei testi classici Giannantonio Campano,
il facile poeta caro a Pio II, laddove nell'officina dello
Schweinheim
e del Pannar tz vigilava la mente esperta degli accorgimenti critici
di Giannandrea Bussi da Vigevano, un discepolo di Vittorino. Nel 1469
la nuova invenzione fu introdotta a Venezia da Giovanni da Spira;
nel 1470 la accolsero Milano, Verona, Foligno, e poco appresso Firenze,
Napoli ed altre citt, le piccole in nobile gara colle maggiori. Certo

rone

familiares

sant'Agostino, di S.

non

le

mancarono avversari

concorrenza

elei

copisti

non

torchi rapidamente operosi;

sufficienti
i

librai

a sostenere la

che vedevano mu-

tare le condizioni del loro mercato: qualche dovizioso bibliofilo animato,

come Federico

di Montefeltro, eia

un

cotale aristocratico disdegno per

216

CAPITOLO SETTIMO.

un'arte meccanica. Ma gli umanisti non potevano non fare buon viso
ad un trovato che giovava a diffondere le loro dotte fatiche e ne
guarentiva l'esatta riproduzione.
Alla critica spettava allora Y ufficio di trarre dalle conquiste dei
grandi eruditi trapassati tutto il frutto possibile, di affinare col savio
uso i loro metodi, di attuarli rivedendo, correggendo, commentando la
suppellettile classica. Pi diffcile cammino restava a percorrere all'arte.
I latinisti avevano appreso a maneggiare con notevole scioltezza l'antica lingua di Roma ed a rendere a volta a volta il fare largo e solenne o la facile semplicit dei classici, ma di questi non possedevano
ancora tutta la fine e castigata e luminosa eleganza. Specie nella poesia o riuscivano aridi e scoloriti o

ornamenti.

facevano sfoggio grossolano

Nella letteratura in lingua volgare

gli

di vieti

elementi diversi

popolareschi, o rimanevano isolati o,


provocavano stridenti contrasti. Mancava alla
poesia e alla prosa un avviamento elaborato con intelletto d'arte che
fosse guida a' mediocri nella scelta e nella combinazione del materiale
esornativo; non era ancor nato per esse il nuovo stile. Creatrici eli un
nuovo stile poetico italiano non possono infatti dirsi le canzonette del
Giustinian troppo frivole nella contenenza troppo semplici ne' loro
atteggiamenti, troppo rozze nella lingua. Solo la prosa aveva trovato
presso alcuni toscani una forma nuova in un equo temperamento di
latina gravit e di libert popolare felice innovazione, che allontanandosi dalla tradizione boccaccesca, mise capo per non lunga sequela di
gradi intermedi alle pi mirabili prose che il secolo XVI abbia proe discordi, classici nazionali e

goffamente

raccostati,

dotto,

quelle del Machiavelli; felice,

ma

poco avvertita e poco frutti-

fera fuor di Firenze allora e dipoi. Ancora: era necessario che l'idioma
fiorentino riprendesse vigorosamente
*

il

suo moto di espansione, ritar-

dato o arrestato dal prevaler del latino nei domini della letteratura,
e affrettasse

il

compimento

che

della sua vittoria sui dialetti locali, s

dalla lingua tersa e scorrevole potesse la

forma derivare

le

sue

ul-

time finezze.
Queste le condizioni e le deficienze della letteratura poco dopo il
1460, quando critica ed arte si avviavano verso quella fresca maturit, di cui saranno belle trentanni pi tardi, al chiudersi della prima
et della Rinascenza. Schiettamente umanistica rimase ancora per lungo
tempo la letteratura a Roma, dove il ricordo recente delle lezioni e
delle polemiche del Valla acuiva l'amor per la critica, e l'universalit
del papato e della corte pontifcia rendeva gli scrittori pi tenacemente
umanistica del Salutati
ligi al latino. A Firenze, dove la tradizione
del Niccoli e del Bruni si consertava alla tradizione letteraria paesana
gi assurta nelle opere del Palmieri e dell'Alberti a nobile consorzio
colla

nuova

coltura, la critica e

volgare, e le nuove forme


paolo

(H64-71).

il

latino

non soffocarono

artistiche latine

l'arte

il

e italiane germogliarono

con maggiore precocit e pi esuberante rigoglio che altrove.


a Pio II, che aveva saputo prudentemente signoreggiare e s'era

ROMA E FIRENZE

AI

217

TEMPI DEL MAGNIFICO.

studiato di volgere a profitto della Chiesa gli spiriti e le tendenze


dell'umanesimo ond'era egli stesso pervaso, succedette sul soglio pontificio il veneziano Marco Barbo, Paolo IL Amante della pace, che non
turb se non per necessit per domare vassalli ribelli ecl alieno dal
nepotismo, egli si acquist senza dubbio meriti di buon reggitore. Ma
la sua scarsa cultura e il suo carattere lo posero in una singoiar condizione rispetto al nuovo atteggiarsi dei costumi e delle idee. Gradiva il
lusso nel vestire, le feste sfarzose, ogni splendido apparato e non risparmiava spese per dare a s e al popolo letizia di cosiffatti spettacoli.
Cardinale, aveva posto mano, nel 1455, alla costruzione del palazzo
di S. Marco, oggi di Venezia, gigantesca ed austera mole, che apre
,

seno all'eleganza festosa della nuova architettura; papa, riprese il


di Niccol V per la riedificazione del San Pietro e cur
il restauro di antichi monumenti. Raccolse con signorile magnificenza
pietre incise, cammei, bronzi, monete, un vero museo, che non temeva
il confronto delle collezioni medicee; n trascur la biblioteca e l'universit. Lo sedussero tutte le materiali esteriorit del Rinascimento
come adatte che erano a soddisfare la sua grande ambizione e la bramosia di affermare sensibilmente il primato della sua autorit ma non
intese lo spirito del proprio tempo. Dicono che poco sapesse di latino
degli studi classici aveva s gretta idea, che quando se ne rammentava non vedeva in essi se non un pericolo per la religione, e non
avvertiva i vantaggi che la Chiesa stessa poteva allora ritrarne infrenandoli e reggendoli. A lui cardinale, Ermolao P>arbaro
vescovo
di Verona, dedicava nel 1455 un'orazione Contra poetas; pontefice,
in uno di quei subiti scatti della sua forte volont eli che avea dato
saggio nel sostenere la potest monarchica del papato e nel togliere
il

grande disegno

abusi e male consuetudini, proib nelle scuole la lettura de' poeti pagani.
la

Fu

sua

nel marzo del 1468, quando scopertasi una congiura contro


alcuni fervidi amatori dell'antichit ne furono trovati parrepressione politica trasse con s un tentativo di rigida re-

vita,

tecipi e la

staurazione religiosa.

Per seguire
le lezioni del Valla era venuto a Roma molt'anni in- r

iomponio
nanzi un giovane calabrese rampollo illegittimo della famiglia Sanra ^de mia
Severino. Si faceva chiamare Pomponio Leto e con tale ardore am- 'romana,
,

mirava e studiava le storie e gli scrittori dell'antica Roma che tutto


pareva trasferito in quella vita. Nella sua casetta sul colle Quirinale
passava i giorni lontano dai romori e quasi corrucciato col mondo
moderno, copiando colla sua calma e nitida scrittura opere letterarie
latine o ricamandone i margini di postille e di schizzi ritraenti i luoghi e gli oggetti di cui parlasse l'autore. Lass raccoglieva epigrafi e
sculture e monete e frammenti architettonici, e il giardino a lui cortese d'ombre e di pace coltivava secondo i precetti di Varrone e di
Columella. Di l scendeva talvolta per aggirarsi
ombra risorta degli
,

antichi padri, fra

ruderi o per giovare del suo sapere archeologico

qualche forastiero; scendeva ogni giorno

di

buon mattino per andare

218

CAPITOLO SETTIMO.

allo Studio,

ove Paolo

II

aveva conferito

gli

la lettura di

eloquenza

e gli scolari accorrevano in folla ad ascoltarlo. Intorno a lui in quelia


casetta si adunava sovente una brigata di amici, ferventi anch'essi nel

culto dell'antico, ond'ebbe nascimento quel sodalizio, che fu detto Accademia romana. Disputavano di poesia, d'arte, di filosofia, di filologia, rinnovavano gli antichi riti religiosi celebrando ogni anno, il 20 api-ile, il
Natale di Roma, datavano le loro scritture db urbe condita; sdegnavano perfino di serbare i lor propri no ni, e, com3 Pomponio, li mu-

r. Platina
(1421-1481).

tavano o foggiavano classicamente. Filippo Buonaccorsi si faceva chiamare Callimaco Esperente; Marcantonio Cocci da Vicovaro, Sabellico;
un Pietro, Petreio; un Marino Condulmr, Glauco.
Accanto al padrone del luogo primeggiava tra essi
o almeno
p r i me ggj a a gii occhi nostri

Bartolommeo Sacchi

Platina dalla
borgata di Piadena, presso Cremona, elove era nato nel 1421. Soldato
dapprima, studi poi sotto la disciplina di Ognibene Bonisoli a Mantova e gli successe qual precettore dei figli del marchese Ludovico.
Sul principio del 1457, per udir greco dall' Argiropulo pass a Firenze,
dove strinse dimestichezza con Cosimo e Piero de' Medici. A Roma
eletto

venne nel 1462, probabilmente con Francesco Gonzaga

uomo

il

di fresco creato

costumi e del Platina suo segretario protettore benefico, specie nelle diffcili congiunture in che questi ebbe a
trovarsi sotto il pontificato di Paolo II. Poco dopo la sua elezione papa
Barbo sciolse il collegio degli abbreviatoli istituito dal suo predecessore, ed il Platina, che vi era stato ascritto a prezzo da Pio II. crecardinale,

di

liberi

dette di poter riacquistare l'uffcio perduto, facendo balenare

al

pon-

spauracchio del concilio, in un libello scritto con soldatesca


violenza ed umanistica burbanza. Ebbe invece quattro mesi di dura
prigionia. Quando poi per le imprudenti rivelazioni d'un congiurato
tefice lo

venne in luce la trama del 1468, il Platina fu arrestato fra i primi;


mentre Pomponio Leto, che da circa un anno s'era tramutato a Venezia, veniva ricondotto a Roma, assenziente quella Signoria, e rinchiuso
con molti
La congiura
dei 1468.

altri

in Castel S. Angelo.

Oltre all'accusa politica, gravi accuse di irreligione

e di

immora-

mossero allora agli accademici avevano trascurato le pratiche


devote, disprezzato Cristo e i Santi, negato l'esistenza di Dio e l'immortalit dell'anima ed erano vissuti schiavi eli disordinati appetiti.
Paolo II, pieno di santo sdegno, si proponeva di estirpare quella eresia ed imprecava agli studi classici causa di tanti mali. Li putti ,
egli diceva, non hanno ad pena dece anni che senza che vadano ad
scola sanno mille ribaldane; pensate come se degono poi impire de
Plauto Ovidio e
mille altri vicii quando legeno Juvenale, Terenzio
questi altri libri . Nella mente del pontefice vago di feste sontuose,
lit

si

collettore di cimelii archeologici e ordinatore di

che

rampollavano

pensieri

esposto, profeta inascoltato

dopo Niccol

e Pio II

corso fatale delle idee.

che

era

folla

costruzioni magnifi-

aveva
Giovanni Dominici. Ma ormai
di poter arrestare il
il credere

fin dal

l'austero

principio del secolo

ROMA E FIRENZE

AI

319

TEMPI DEL MAGNIFICO.

Molto di vero doveva essere in quelle accuse se si consideri la


grande libert di linguaggio e l'indifferenza degli umanisti in materia
ch l'episodio romano
di religione. Ma questa indifferenza appunto
non vuol essere giudicato separatamente dalla storia di tutto il Rinascimento
rende assai poco verosimile quel che si disse allora, e fu
ripetuto dipoi, che mirassero gli accademici ad abbattere la religione di
Cristo e a ripristinare il paganesimo. Erano retori che si piacevano
di camuffare con paludamento classico costumanze e nomi cristiani e
rinnovavano cerimonie pagane per procurarsi un diletto tutto intellettuale. Anche in pieno Rinascimento un'accademia di cui faceva parte,
certo fin dal tempo di Paolo II, il vescovo Campano, e cui non negava la sua protezione il cardinal Bessarione, non poteva essere un'associazione pagana. Una cert'ombra di tetro mistero parve scendere su
di essa quando dal buio dei cemeterii romani di Callisto e di Priscilla
Giambattista De Rossi trasse fuori alcune iscrizioni che attestano aver
gli accademici visitato quei luoghi, e queste parvero rivelare una segreta gerarchia che fra loro vigesse. Eppure tutto induce a reputare
titoli innocenti senza intento di satira o di parodia quelli di pontifew
maximus e di sacerdos achademiae romanae, che si trovano dati Timo
a Pomponio e l'altro a un Pantagato. I sodali romani forse imprendevano
quelle visite per rivivere in un tempo in cui nel cristianesimo, illuminato dagli ultimi bagliori dell'arte classica, essi credevano di scorgere
i presagi delle loro cerimonie classicizzanti, in un tempo in cui il vescovo di Roma non ancora confondeva in s i due reggimenti. Nel
secolo XV invece la potest civile dei pontefici aveva posto salde ra,

dici

accanto alla spirituale e contro

di essa

cozzava la tradizione co-

munale romana rinfocolata dall'ammirazione per l'antica repubblica.


Conseguenza di tale conflitto inciprignito dal malanimo degli abbreviatoli licenziati fu la congiura del 1468, come quindici anni prima il fallito

tentativo di Stefano Porcari.

processo fu lungo e laborioso, tanto pi che

si buccinava di acnemici della Santa Sede. Pomponio


Leto e il Platina si difesero riversando la colpa su Callimaco, il principal cospiratore, che si era sottratto colla fuga alle insistenti indagini
del papa; entrambi cercarono salvezza baciando la mano che li percoteva; deboli entrambi, ma assai pi vile del Leto il Platina. Quegli
serb nella Difesa una cotal dignit; questi si avvili sino a promettere per l'avvenire servigi di delatore. Tanto poteva la paura in quegli uomini, che pur solevano affettare uno stoico disprezzo della vita!
Il papa, incline per natura alla clemenza, non volle incrudelire contro
quelli che certo non erano i maggiori colpevoli, e lasci liberi
dopo
una prigiona variamente lunga Pomponio Leto, il Platina e i loro
compagni, prima del maggio del 1469. Ma l'accademia, dispersa da quella
bufera, non si ricostitu se non quando, morto Paolo II, gli successe
(9 agosto 1471) Francesco della Rovere, che fu Sisto IV.
Fu questo pontefice il primo che cominciasse a mostrare quanto

Il

cordi dei congiurati con principi

220
Sisto
i

CAPITOLO SETTIMO.

un pontefice poteva e come molte cose chiamate per l'addietro errori,


potevano sotto la pontificale autorit nascondere . Cosi di Sisto IV
il
Machiavelli. Severamente, ma non ingiustamente, che molte e gravi
colpe egli ebbe e come padre dei fedeli e come signore italiano, principale fra tutte e prima radice dell'altre quella di aver fatto grandi
con male allogata liberalit e deplorevole condiscendenza due indegni
nepoti, Pietro e Girolamo Riario.

iv ^

suoi nipoti, si

Dei quali il primo, giovinastro ambizioso e dissoluto, fu dallo zio


assunto all'onor della porpora e ricolmo eli benefici e prebende, ricchi

eppure

cespiti d'entrate,

insufficienti alla

sua sfrenata propensione per

La storia ricorda le feste e gli apparati con


che Pietro, cardinal di San Sisto, onor, consenziente per ragioni politiche il pontefice, Leonora d'Aragona quand'ella pass per Roma

il

lusso e la vita allegra.

nel giugno del 1473

dove

palazzo

uno sfoggio fantastico di velluti, di tappeti, di arazzi,


ivi, in una loggia a bella posta costruita prospicente

la ospit, fu

di vasi preziosi;

la

andando" sposa ad Ercole d Este. Nel

piazza

dei SS. Apostoli,

ebbe luogo

un banchetto sontuosissimo,

rallegrato da intramesse mitologiche, quel banchetto appunto,

che

il

Porcellio disse servito dai numi; e sulla piazza stessa, protetta da un


gran padiglione e rinfrescata da fontane, i fiorentini recitarono in
.

quei giorni alcune sacre rappresentazioni.

Con magnificenze

di tal fatta

uno dei nipoti del pontefice faceva pompa non sempre di buon gusto
non s'ha a confondere il lusso coll'arte
si delle sue ricchezze,
che erano ricchezze della S. Sede. Oh guarda , esclamava scandolezzato un cronista contemporaneo, in quale cosa bisogna che si adoperi

lo

tesauro della Chiesa

di

Dio

L'altro nipote, Girolamo, salito dall'oscurit di un'umile professione

foment le inimicizie dello zio coi


con Ferdinando d'Aragona, con
Ercole d'Este, coi Veneziani, e fu, se non unica, principal causa di
guerre grosse e lunghe e di sanguinose efferatezze: crudele uomo e
dappoco, la cui volgare figura fa singoiar contrasto a quella michelangiolesca di sua moglie, Caterina Sforza, fiera, avveduta e coraggiosa
virago, difenditrice eroica, poi che Girolamo cadde assassinato (1488),
alla signora di Forl e di Imola,

Colonnesi, con

Lorenzo

de' Medici,

del proprio dominio.


sisto

1V e

ie arti,

Se non che

la

protezione onde Sisto

terati, nobilita e purifica la

IV

fu largo ad artefici e a let-

sua memoria innanzi agli occhi

di chi

non

pretenda dagli uomini virt non consentanee ai loro tempi. Sul soglio pontificio egli parve dimenticare le semplici abitudini della vita
monastica, cui s'era addetto in giovine et entrando nell'ordine di
S. Francesco, e si abbandon voluttuosamente alle tendenze fastose
del Rinascimento. Riordin e abbel i palazzi Vaticani e il S. Pietro
fece edificare la cappella che da lui fu detta Sistina e chiam a trescarne le pareti i pi grandi pittori del tempo, il Ghirlandaio, Luca
Signorelli, il Perugino, Sandro Botticelli. Trascur la scultura, ma
non ie arti minori, e ad appagare la sua vaghezza di pompe opera;

ROMA E FIRENZE
rono

incisori,

AI

orefici, medaglisti,

TEMPI DEL MAGNIFICO.


arazzieri.

Rinnov

221
medievale

la citt

lastricando le strade, aprendo piazze, demolendo o restaurando edifz


diroccati, costruendo nuove chiese. Santa Maria del Popolo, Santa Maria
di S. Spirito sorsero per ordine suo. Onde a
un autorevole storico dell'arte nessun altro papa del primo
Rinascimento, non escluso Niccol V, impresse in Roma un'orma pi

della

Pace e l'ospsdale

giudizio di

profonda.

Quantunque dedito

agli

studi teologici

che avea professato con

grande plauso a Padova, a Bologna, a Perugia ed in altre

citt,

favor

iv

Sisto

e la

vaticana?

nuovo avviamento letterario, fosse ambizione di dar lustro anche


per questa via al suo pontificato o giusta coscienza dell' importanza
che T umanesimo aveva acquistato pur nella vita politica e del suo
fatale e ormai pieno trionfo. Cure assidue e sapienti consacr alla
biblioteca Vaticana; la arricch di opere molte e preziose; la provvide
di splendide sale, cui pennelleggiava Melozzo da Forl, e, quel che
pi monta, la aperse al pubblico, concedendo a prestito i manoscritti.
Nel 1475 ne affid la custodia e la sopraintendenza al Platina; prov- n
visione in singoiar modo significativa, di cui il grande maestro forlivese etern il ricordo in un affresco mirabile, pieno di vita nelle po-

il

che e severe

figure, pieno del carattere del

Quella elezione fu premio

platina,

tempo nelle decorazioni.

dedica delle Vite dei papi, a cui il


Platina gi addestratosi nell'arte narrativa colla Storia di Mantova
alla

(1466-69) e colla vita di Enea Silvio Piccolomini (1466), aveva avuto


da Sisto conforto; fu suggello di un'alleanza, anzi di una sommissione
accortamente preparata e accortamente sfruttata dal papa roveresco.
si pieg dinanzi alla munificenza del
Il fiero avversario di Paolo II
successore e gli dedic, oltre alle Vite dei papi, uno de' suoi numerosi trattati filosofici, il De falso et vero bono; l'umanista cospirante
contro la civile podest del papato le apprest anzi le armi difensive
raccogliendo e ordinando per incarico di Sisto IV i documenti concernenti i diritti della S. Sede. Cos il Platina ebbe allietati d'ag e d'onori gli ultimi anni della sua avventurosa esistenza, che si chiuse
nel 1481. Deplorevole, ma per quei tempi non istrana vicenda di casi
e di voleri
!

S' detto nel

primo capitolo che

il

Filelfo,

disgustato dalla tacca-

gneria di Galeazzo Maria Sforza e dei tesorieri ducali, accett da papa


Sisto una pubblica lettura alla Sapienza (1474). Durante quella specie
di luna di miele che all' irrequieto tolentinate sorrideva sempre nei

primordi del suo soggiorno in alcun luogo e che anche a

Roma

tra-

mont prestamente, egli magnificava le delizie materiali e intellettuali


del viver romano, massime la incredibile libert , che godevano
gli

era succeduta al regime sospettoso di Paolo II.


i giardini del colle Quirinale poterono
adunarsi liberamente i classicheggianti sodali e celebrare

umanisti e che

Nella casetta biancheggiante fra


di

nuovo

col e nella vicina chiesa di S. Vittore


stiani.

Nel 1483 Federigo

III

loro

riti

fra gentileschi e cri-

imperatore concedeva

all'

Accademia,

Sisto

iv

Let
'

222

CAPITOLO SETTIMO.

pubblicamente riconosciuta, facolt


poeti.
i

suoi

di

crear dottori e

incoronare

di

Pomponio riprese tranquillamente le sue ricerche, le sue letture,


lavori eruditi con una feconda alacrit che solo la morte tronc,

nel 1197; riprese le sue

Altri

uma-

lezioni nello Studio, dove aveva colleghi e


cooperatori altri maestri, amici suoi e gi suoi discepoli, animati dagli

medesimi metodi Niccol Perotto, Martino Fichiamato a leggere rettorica nel 1473, Antonio Costanzo detto

stessi spiriti e fedeli ai

Roma*

letico,

Volsco (1482). Quella scuola diede

frutti utili e copiosi, nell'archeolo-

gia, nell'epigrafia, nella critica e nell'interpretazione dei testi classici.

fermare

quali e a purgarli dalle glosse e dagli errori dei copisti

quei dotti traevano partito da un'oculata valutazione dell'autorevolezza


e dell'antichit dei manoscritti e da pazienti raffronti, mentre le tipografie

li

diffondevano emendati in ogni parte

non pure dilucidavano

il

senso delle opere;

ma

Europa.

d'

analisi l'eleganza, la propriet, le differenze delle parole,

periodi e

il

le allusioni
Domizio
1

0448-7S?,

polemiche.

metro dei versi ed illustravano

commenti

rilevavano con faticosa

coli'

il

ritmo dei

monumenti
Roma.

aiuto dei

alle istituzioni e alla topografia dell'antica

Questioncelle minute e baie da menti anguste, ghignava dispettoso

Domizio Calderini un giovine umanista da Torri in quel di Verona,


h e l a sua vasta dottrina e l'ingegno agile e pronto preferiva lanciare
a brillanti e audacemente larghe sposizioui degli antichi scrittori. Scarso
di osservazioni
di illustrazioni storiche e mitologiche non men che
filologiche infatti il suo commento a Marziale, anzi parafrasi, che
nella scuola doveva acquistare movimento e calore dalla parola facile
ed elegante del maestro. Fu pubblicato nel 1474, mentre il Calderini
di sulla cattedra romana, conferitagli gi da Paolo II, affascinava
talmente i discepoli, che ne rimanevano deserte le lezioni tanto pi
succose quanto meno vivaci di Pomponio. Gelosie e rivalit professionali attizzavano dunque le discordie necessariamente rampollanti
dalla diversit dei metodi e dei procedimenti critici; e per Marziale
appunto scoppi una polemica che non ebbe fine, se non quando il
Calderini mor poco pi che trentenne nel 1 478. Fra lui e il Perotto,
fra lui e Giorgio Merula, lo storico dei Visconti, commentatore come
l'avversario dell'epigrammista latino, fu un palleggio di censure lette,

rarie condite di qualche malignit.

Finita l'et eroica delle battaglie

umanistiche, l'essenza ideale delle dispute fra

il

Poggio ed

il

Valla

si

affermava pi chiaramente, liberatasi delle sarcastiche invenzioni e


dalla satira personale. Il Perotto, che come cacciatore di inezie era
stato vituperato dal Poggio, il Merula, che preludendo alla sua edizione di Plauto, aveva chiamato corruttore di quel testo l'umanista da
Terranuova superbo, sappiamo, delle sue critiche divinazioni, combattevano nel Calderini non tanto l'uomo quanto il metodo. La scuola
scientifica moveva guerra agli ultimi rappresentanti della scuola degli
impressionisti. Ma ormai la vecchia forma dell'invettiva personale di
stampo ciceroniano aveva fatto il suo tempo e se Gabriele Paveri
Fontana tenter rinnovarla nella Merlanica (1481), assalendo il Me-

ROMA E FIRENZE

223

TEMPI DEL MAGNIFICO.

Al

non priva di spirito, ma senza


senza
importanza, come tardo esem noi
per
eco fra i contemporanei e
soverchiato
dalle sue propaggini.
gi
letterario
genere
piare d'un
rula a difesa del Filelfo, far opera

Nella scuola di Pomponio e nella consuetudine amichevole del


Menila professore di eloquenza a Venezia dal 1468 all'82, si form
all'umanesimo la mente d'Ermolao Barbaro (1454-1493), cugino di quel
suo omonimo che ci avvenne di rammentar poco fa. Ascritto nel 1484
all'ordine senatorio, oratore della Serenissima all'imperatore Sigismondo

Ermolao
(1454-9^.

a Lodovico Sforza (1488-90) e ad Innocenzo Vili (1491), il


Barbaro rinnova in s e rinvigorisce quel connubio delle tradizioni
politiche coli 'amor degli studi che l'avolo suo Francesco aveva con(1486),

secrato nella famiglia e in generale la

nuova et nella

florida

ari-

stocrazia veneziana. Gravi dolori e l'esiglio gli frutt la legazione ro-

che

mana, per

ci

Signora,

patriarcato di Aquileia;

il

il

pontefice

gli conferisse,

ma grande

contro

il

volere della

estimazione nella vasta

cerchia de' suoi amici eruditi la pi celebre delle opere sue, composta

appunto a

Roma

tra

il

1491 e

il

93, poco

prima che

lo cogliesse

la

morte. Dico le Caslgationes plinianae, dove con molta dottrina, con


buon metodo e con audace acume emend parecchie migliaia di errori,

Ma

avanzamenti del penil Barbaro, maestro privato a Padova e a Venezia, procur di diffondere
nel Veneto la conoscenza dell' Aristotile greco, e le sue versioni e i
compendi eli alcune opere del grande filosofo. Ei disegnava di tutte
tradurle e, giovinetto, aveva fatto conoscere ai latini la parafrasi aristotelica del greco Temistio.
L'importanza di codesto apostolato appare manifesta, ove si consideri che negli ultimi anni del secolo XV l'averroismo non iscosso dai
vigorosi assalti del Petrarca, spadroueggiava nel Settentrione orientale
d'Italia e dalla scuola di Padova, come da una sua cittadella, si stendeva a Venezia, a Ferrara, a Bologna. Risoluto seguace del commentatore arabo, Nicole tto Vernia da Chieti sosteneva allora in quello
Studio, dove insegn quasi senza interruzione, dal 1465 al 99, la dottrina dell'unit ecl immortalit dell'intelletto universale, in cui si confonda dopo la marte l'anima individuale; dottrina che la scomunica
del vescovo (1489) e desiderio di quiete e di ricchezze lo indussero
poi a ritrattare. Ermolao Barbaro non vide trionfare il rinnovamento
ch'egli tentava, n in ogni caso avrebbe saputo
ch in lui l'erudito soverchiava a gran pezza il pensatore
trarre dalla risurrezione
dell'autico la vita novella. Ma tre anni dopo la sua morte, nel 1497,
Niccol Leonico Tomeo (1456-1531) era eletto a spiegare nello Studio
padovano Aristotile secondo il testo greco, quando gi dal 1495 vi
insegnava Pietro Pomponazzi, che, reietta la dottrina avverroistica, attingeva dal greco commentatore Alessandro d'Afrodisia suffragio d'au-

reali 0 presunti, della

Hstoria naturalis.

agli

siero italiano giovarono forse assai pi l'assidua cura con che

torit alle sue ardite e robuste speculazioni sulla mortalit dell'anima

i/aristote-

padovano,

22

CAPITOLO SETTIMO.

umana. So tu confronterai gli scritti di Averro coi greci, troverai


che ogni parola di quello un l'urto da Alessandro, da Temisi io, da
Simplicio , aveva scritto molti anni innanzi il dotto patrizio veneziano.
quale, se fu al Vernia benevolo, detestava per la scuola degli
incuriosa della purezza e dell'eleganza del dire,

Il

averroismi padovani,

un barbarico gergo di dotti-ine di assai dubbio valore. E


compiaceva sapendo che molestissima fosse loro riuscita la difesa,
che in tono apertamente ironico ne aveva fatto Giovanni Pico, cui
doleva di avere speso i migliori suoi anni dietro a S. Tommaso, a
Giovanni Scoto, ad Alberto Magno, ad Averro (lettera del 3 giug. 1485).
Rispondevano quei filosofi attendere essi alla sostanza non alla forma,
al quid non al quomodo, e non s'avvedevano che rinnovare il linguaggio
era uno spezzare le catene del pensiero, che Y offrire a questo uno
strumento pieghevole ed agile era come ridonargli le ali ai suoi voli.
In un certo senso, osserva acuto il Renan, gli eruditi del Rinascimento in apparenza curanti solo delle eleganze formali, erano filosofi
pi veri degli averroisti eli Padova.
assertrice in
si

n platonismo
toscano,

In Toscana dove pi viva e pi duratura era stata T efficacia riformatrice del Petrarca, la reazione contro la scolastica e la barbarie
araba ed anglica s' era manifestata fin dai primordi del secolo, e mentre Ermolao, fanciullo, faceva ancora
il

campo

le traduzioni di Aristotile del

dell' Argiropulo,

Ma

primi suoi studi, gi tenevano


Bruni e venivano in luce quelle

interprete del filosofo di Stagi ra dalla cattedra fioren-

comp col nel nome e per le


che era venuto a grado a grado
contrastando ad Aristotile il dominio degli spiriti temprati da natura
e dalla nuora educazione ad uno squisito senso del bello classico, e in
cui favore si volse, per l'esempio e la parola di Giorgio Gemisto, l'ammirazione degli umanisti dianzi ondeggianti fra il Liceo e l'Accademia.
Infiammato dai discorsi di quel venerando sognatore che a Firenze
era dimorato, come sappiamo, nell'occasione del concilio (1439), Cosimo
de' Medici aveva concepito il disegno di rinnovare e rinvigorire il culto
della filosofa platonica, ed alcuni anni dopo scorse con geniale intuizione in un giovinetto forse non ancora ventenne colui che avrebbe
tina.

il

risorgimento

dottrine di Platone,

il

filosofico si

filosofo -artista

potuto degnamente attuarlo.


0

Rcino
(H33-1499).

nato nel 1433 a Figline nel Valdarno supemaestro Diotifeci


un medico di qualche fama solitamente
chiamato con forma diminutiva abbreviata Ficino, onde venne al figliuolo
eloquenza e filosofa a Pisa e a
il cognome. Marsilio aveva studiato
Firenze e medicina a Bologna, perch il padre voleva avviarlo alla sua
stessa professione. Cosimo ne lo dissuase e con liberal protezione forn
Marsilio dei mezzi per continuare gli studi filosofici, consecrandolo
al divino Platone . Egli mosse i primi passi nell'arringo che gli si
schiudeva dinanzi, guidato dagli scrittori latini che tramandarono le
dottrine del grande ateniese, e ne trasse argomento e materia alle InMarsilio Ficino era

r j ore

ROMA E FIRENZE

AI

225

TEMPI DEL MAGNIFICO.

stitutiones platonicae, che compose nel 1456, ma non pubblic. L'anno


dopo nel De voluptate raccolse e paragon le opinioni di filosofi antichi, di Platone, di Aristotile, degli Stoici

blema morale che aveva

e degli Epicurei sul

pro-

affaticato pi altri scrittori della Rinascenza,

senza risolversi per nessuna di esse, come esercizio di memoria .


Veniva intanto addestrandosi nella conoscenza del greco e, mentre
commentava per suo diletto Lucrezio, traduceva la Teogonia di Esiodo
e gli inni di Orfeo, di Omero, di Proclo. Nel 1463 Cosimo gli affid

ma

volgere in latino tutte le opere di Platone; nella qual


congiuntura, forse, gli don, luogo d'ozi fecondi, un podere presso a
Careggi nel popolo di S. Piero e una casa a Firenze in via S. Egidio.
La traduzione fu compiuta, pare, verso il 1477, ma gi a Cosimo che
la vita operosa am chiudere tra le speculazioni della filosofa morale,
il Ficino aveva potuto leggere la versione del Filebo, quasi a prepararlo al godimento di quella felicit di cui la morte gli avrebbe pro-

l'incarico di

curato il possesso. Dianzi il vecchio mercante ed uomo di stato s'era


compiaciuto d'ascoltar la lettura dQY Etica di Aristotile e dei commenti
che le apponeva l'Argiropulo. Eclettismo notevole, come quello che rispecchia

il

passato ondeggiar degli spiriti e fa presagire le tendenze

larghe e conciliative che assumer la filosofa fiorentina.


In quei primi anni di studi il Ficino tutto nei filosofi e nei teologi pagani e ne fruga le opere coll'indifferente serenit caratteristica
del suo tempo. Ma a lui educato dalla famiglia pia nel santo timor di
come
Dio e incline per natura al misticismo si affaccia ben tosto
gi allo spirito acuto e meditativo del Valla, il problema del contrasto
fra quelle dottrine e la fede cristiana. E il contrasto genera in lui una
dolorosa lotta interna, che dopo dubbi e scoramenti si accheta in un
vasto sincretismo filosofico e nella sommissione al dogma considerato
come misura della verit dei sistemi. L'avviamento del suo pensiero
s'era gi determinato nel 1473, quando per consiglio di Lorenzo de'
Medici prese gli ordini sacri.
Nella sua assidua aspirazione all'infinito, nel suo caldo bisogno d'i- La
del
dealit egli abbraccia in uno sguardo di tenera simpatia tutte le reli&"
reli
gioni; ci che lo addolora e lo irrita la mancanza d'ogni religione.
Dio usa indulgenza alle aberrazioni dal retto suo culto ma fulmina
chi per superbia sdegna qualsiasi modo di adorazione. Questo spirito
di tolleranza solleva teoreticamente il Ficino al di sopra d'ogni religione
positiva, ma nei fatto egli essenzialmente e profondamente cristiano.
Quando con ardore di apostolo esorta gli uomini vivi cittadini della
patria celeste e terrestri pellegrini , a liberare la filosofia dell'empiet per via della religione e la religione dall'ignoranza per via della
filosofia; quando afferma che per mezzo del platonismo egli vuole ricondurre alla fede coloro che dalla filosofa ne furono allontanati e
che non possono essere tratti d'errore dalle prediche degli ecclesiastici,
della religione cristiana che egli parla. Questa sola stima vera e
santa come fondata da Cristo per autorit conferitagli da Dio, e per
,

Rossi.

La

leti. ital.

nel sec.

XV.

15

226

CAPITOLO SETTIMO

propugnarla e difenderla scrive, circa il 1 171, un libro che da essa


appunto si intitola. Nel De Christiana religione il Ficino si studia di
provare che nell'incarnazione di Cristo si compi quel congiungimento
dell'uomo con Dio, che lo scopo, vedremo, della sua filosofia, e per il
quale agli uomini redenti dal peccato fu concessa la vera beatitudine
nella fede, nella speranza e nella carit . Certo non tutte le dottrine
del cristianesimo possono essere comprese dalla mente umana, ma
questo anzi un segno della loro divinit per ci che si riveli in esse una
parte che eccede le forze intellettive dell'uomo. A suffragare i ragionamenti teologici il Ficino accumula nel suo libro lunga serie di testimonianze bibliche e si compiace di combattere i Giudei neganti la

Quando parla

divinit di Cristo colle loro stesse armi.


.

ch'egli dimentichi

violento in
l

coi

L'accordo tra

nf-.o-oia-

lofiiamo
Gel fucino.

una

suoi sublimi concetti di tolleranza e

li

loro pare
aggredisce

Maomettani.

la filosofia

averroisti e alessandnsti,

il Ficino, non pu essere


senso e l'intelletto che
gli SCOla-

e la fede, pensa

dimostrato, n l'equilibrio tra


meglio

stici,

di

il

..

avevano turbato, pi agevolmente

ristabi-

che per mezzo delle dottrine di Platone, dappoich egli, vigile nocchiero, tenne lo sguardo volto alle cose divine, mentre quasi tutti gli
altri filosofi attesero esclusivamente alle cose naturali, che delle prime
sono pallida immagine (Opera, pag. 628). Si ingannano per coloro che
in lui pretendono di trovare affermati i misteri della religione crilito

stiana.

Buon

veri che solo

conoscitore delle antiche teologie, Platone vaticin molti


il lume del cristianesimo pot spiegare ai neo-platonici

Con

alessandrini ed ateniesi.

ed Agostino il Ficino crede che


Giovanni evangelista e che da
Giovanni, da Paolo, da Dionigi Areopagita provengano i pensamenti
di Numenio, di Plotino, di Jamblico, di Proclo sulla mente divina, sugli angeli ed in genere su materie teologiche (Le christ. relg., cap. 22
essi si

appropriassero le

e Opera, p. 956).

Non

Basilio

dottrine

ispetta

di

n giova a noi rilevare quanto

inesatto e di decisamente erroneo in tale opinione;

sia di

importa osser-

il Ficino, uomo del Rinascimento, non osasse abbandonare


mondo pagano; ma, cristiano, si rifugiasse in quell'estremo lembo

vare come
il

consapevolezza di una rapida decadenza del pensiero


presentimento di una civilt nuova infondevano negli spiriti le stesse tendenze e li sommettevano a' medesimi influssi, che davano
allora nascimento alla gnosi cristiana. E a base del suo rinnovamento
religioso della filosofa umanistica il Ficino pose le dottrine neo-platoniche, dalle quali alcune dottrine del cristianesimo ricevevano, comunque ci accadesse, rincalzo di sottili ragionamenti e di autorit venerabili ai Quattrocentisti. Con inverso cammino il Traversati aveva condotto l'uomo religioso a respirare le aure dell'umanesimo, aggrappandosi
a quell'ultimo lembo dell'antica letteratura, dove lo splendor della fede
illumina ancora le grazie della forma.
^a Theologia platonica seu de immortalitate animorum, la principale delle opere fciniane, fu cominciata e condotta ben innanzi gi
di esso in cui la

classico e

La Theoioplatonica.

il

ROMA E FIRENZE
prima del 1473,

ma non

diciotto libri, dei quali

sistema

gli

altri

alla

227

TEMPI DEL MAGNIFICO.

AI

ebbe certo compimento prima del 1478. Sono


primi cinque

confutazione

consacrati

alla esposizione del

con prolissit spaventosa

delle

dottrine degli avversari, epicurei ed averroisti. Come i neo-platonici


come Gemisto Pletone, il Ficino pone a fondamento della sua filosofia l'esi,

stenza di una scala degli esseri e la risale a mano a mano per via di
graduali astrazioni. Sul culmine Dio, unit immobile, bont e verit assoluta, Yuno e il vovs di Plotino insieme congiunti. In Dio si raccol-

gono
i

le idee di tutte le

contrari.

specie

Da Dio emanano

unifica

si

ch

il

molteplice

la teorica

conciliano

si

plotiniana dell'emana-

zione rifiorisce con certe modificazioni e restrizioni nel filosofo tomoltitudine immobile , puri intelletti le unit
gli Angeli

scano

Proclo con le determinazioni della triade


Dagli Angeli si scende alY anima razionale, forma
mortale, mobile moltitudine; da questa alla qualit
e finalmente ai
principio attivo divisibile fra essi
(soi)

intellettiva

di

di lui.

pura, perfetta, im-

forma

corpi

dei corpi,

stessi o

alla

materia, principio puramente passivo infinitamente divisibile. In codesta scala l'anima razionale occupa il posto mediano, il terzo, si cominci
dall'alto o dal basso, ed perci detta tertia essentia. Partecipe della
natura dell'angelo, come sempre una partecipe della natura della forma
per la sua mobilit, essa pu ascendere ai gradi superiori dell'essere
senza abbandonare gli inferiori e discendere agli inferiori senza perdere la natura sua superiore, simile al lume solare che discende nel
fuoco e lo riempie, eppur non si stacca dal sole. L'anima quindi collega
il mondo terreno al sopraterreno.
Il Ficino distingue tre gradi d'anime razionali: l'anima del mondo,
le dodici anime degli elementi e delle sfere, le molte anime degli esseri racchiusi nelle sfere. Ne viene una specie di panteismo, che egli
accetta solo in quanto possa piacere ai teologi cristiani (Theol. Plat. IV, 1).
Coi quali cerca evidentemente d' accordarsi anche quando nega l'anima alle piante e alle pietre, viventi per l'anima della terra (IV, 1),
e dice irrazionale, corruttibile, mortale l'anima delle bestie (XV, 4),
egli che pur attribuisce un'anima razionale, incorruttibile, immortale
alla terra, all'acqua, all'aria e al fuoco, paragonandola con intento
dimostrativo ad un legnaiuolo che sia chiuso nel legno (IV, 1). Nell'anima dell'uomo sono, in parte distinte e in parte insieme confuse,
,

le condizioni di quella

dei

creata direttamente da Dio

bruti

risollevarla al Creatore; le altre

mezzo degli Angeli. Cos

il

di ^quella

e dotata del

lume

degli

elementi. Essa

intellettuale,

che deve

anime invece emanano da Dio per

pregiudizio religioso spezzava la coerenza e


non si conciliava colla filosofia, male

l'unit del sistema; la religione

E se ne ingeneravano gravi contradizioni; l, per


Ficino insegna che l'anima, liberata dal corpo per la
morte e salita alle regioni eteree, rivestir un giorno
il novissimo
si

sovrapponeva.

esempio, dove

il

giorno dei cristiani


la carne per ricevere con questa i premi o le
pene che avr meritato, mentre in tutto il sistema il corpo consi-

228

CAPITOLO

SETTIM-.i.

derato come un

impaccio al conseguimento della felicit


cio dello
tendono, la congiunzione con Dio.
Secondo il Ficino il filosofo deve proporsi di raggiungere anche
durante la vita questa liberazione dai lacci della materia e perci rafforzare il corpo contro le malattie mediante gli esercizi ginnastici, allontanare da s ogni causa di perturbazioni morali e ricondurre la calma
scopo cui tutti

gli esseri
,

nello spirito colla musica

aleggia qui quel desiderio di pace che


proprio del Rinascimento e che gi abbiamo notato nell'Alberti,
per
poi assurgere dalla contemplazione delle cose naturali alle idee generali e

da queste

alle idee divine. Cos la

mente dell'uomo congiunge

E ad essa viene in aiuto


raggio diretto, la visione dell'unit divina, perch
Dio luce insieme ed occhio dell'umana contemplazione (Epist. lib. I,
p. 669). Egli si fa incontro all' anima che verso lui tende , la abla alimenta
braccia, ne pervade la midolla
la rigenera
la riforma
il

mondo a

Dio e ristabilisce l'unit dell'essere.

nell'ascesa faticosa

il

in angelo, la converte in Dio (Epist.

che scrive

il

lib.

I,

pag. 611). Son parole

Ficino stesso in uno slancio di misticismo, sotto l'impulso

che tutta riempie la sua vita e la sua filosofa.


soprannaturale aveva su di lui un fascino invincibile , strano in
uomo di larga e soda coltura, in un'et senza dubbio proclive al materialismo e all'indifferenza. Egli scorgeva in ogni fortuito riscontro
di date, in ogni pi tenue accidente la mano della Provvidenza; credeva
di quell'anelito all'infinito
Il

non pure nell'astrologia, ma nella maga e nelle arti profetiche, quantunque talvolta avvertisse la contradizione che era tra codeste credenze e la sua fede inconcussa nel libero arbitrio. Nel 1489 il suo
libro De vita, opera piuttosto medica che filosofica, gli tir addosso
l'accusa di maga, ed egli si difese dicendo che accanto ai rimedi sicuri
aveva stimato di doverne suggerire altri probabili, che Dio nella sua
infinita bont ben poteva aver preparato agli uomini.
4
La dottrina
,

Jeiramore.

Colla dottrina ontologica

si

connette

siderio di bellezza e questa a sua volta

Ficino la

nella filosofa del

dottrina dell amore. Considerato nella sua universalit

amore

un quid incorporeo

de-

risultante
'

dalla corrispondenza di pi cose negli animi

nella materia

ne

delle parti sue


suoni esso nodo perpetuo e legame del mondo
immobile sostegno e della universa macchina fermo fondamento per
esso Dio, amore infinito di infinita bellezza, spande l'immagine di que;

sta nell'universo intelligibile e nell'universo sensibile.

Anche

il

Ficino

distingue con Platone l'amore celeste e l'amore volgare, ma parla quasi


solamente del primo, ch l'altro pestilenza sovra tutte gravissima
corruzione del sangue che la persona amante provoca saettando dagli occhi negli occhi della amata lo spirito corrotto, che vapore di
sangue corrotto. Materialissima e grossolana fantasia , dalla quale
brusco il trapasso alla trascendenza dell'amore celeste, l'unico vero, per
corporale
il quale l'uomo ascende dalla contemplazione della bellezza
alla contemplazione della bellezza dell'anima, che virt e sapienza;
da questa alla bellezza dell'Angelo, eterna ed immobile, risplendente

ROMA E FIRENZE

229

TEMPI DEL MAGNIFICO.

AI

nell'ordine di pi idee, ed infine alla bellezza infinita,

una e semplicis-

concetto che Diotima espone nel Convito, ma travestito


in foggia neo-platonica e cristiana. Il geniale e profondo filosofo antico
aveva scrutato la natura dell'amore in ogni sua manifestazione; il

sima, Dio.

il

tardo e traviato seguace d a tutta la sua trattazione un carattere


mistico
s da tramutare a significato spirituale perfino il mito degli
Androgini con tanta finezza di pensiero escogitato e con tanta vivacit
,

elegante di forma esposto da Platone a rappresentazione della


gia dell'amor sessuale.
Quello che il Ficino soleva chiamare

il

Libro dell'amore

fisiolo-

un

coni- n commento

Platone; un commento che anch'esso si incornieia nella descrizione d'un banchetto. Narra il nostro filosofo che Lorenzo il Magnifico, volendo rinnovare la costumanza dei conviti con

mento

cui

Convito

al

di

&i simposio.

platonici antichi sino a Porfirio solevano celebrare l'anniversario

della nascita e della

commise

morte del maestro

il

settimo giorno di novembre,

bisogna a Francesco Bandini e questi invit a Careggi in


l'anno non ci noto, ma dovette essere tra il 1464
quel giorno
e il 1470
una brigata di nove platonici, tanti quanti l Muse. Fra
la

essi tocc in sorte

a Giovanni Cavalcanti d'esporre le orazioni

di

Fe-

a Cristoforo Landino quella di Aria Tomstofane a Carlo Marsuppini


figliuolo del cancelliere poeta
maso Benci e a Cristoforo Marsuppini, fratello di Carlo, successivamente quelle di Agatone, di Socrate e di Alcibiade. Riunioni di simil
genere non erano allora infrequenti a Firenze, in quel consorzio d'eruditi geniali, che veniva rimettendo in onore non pur le idee, ma il nome
e i riti dell'antica Accademia. Con quale schietto entusiasmo non tesse
il Ficino le lodi delle convivali raunanze! (Epst. lib. Ili, pp. 739-40).
I doni di Bacco e di Cerere, imbanditi con frugale abbondanza, rifanno
le membra; la grazia e la dottrina dei convitati scaldano ed eccitano la
ragione; si intrecciano alle ardue disquisizioni le facezie gioconde, alle
sapide storielle i suoni della cetra, sicch alimenti a tutti comuni ristorano insieme il corpo e la mente. La gentil consuetudine pareva
tradurre pienamente in atto quella dolce comunione di vita, che era
nei voti dei platonici di Firenze e raffermar le amicizie strette nei
mutui insegnamenti, nei dotti colloqui, nelle amene passeggiate, l nel
dro, di Pausania e di Erissimaco
;

palazzo di Via larga, nelle logge, nei giardini odorosi, all'aria aprica
dei colli toscani. Diversit di naturali inclinazioni, di opinioni, di studi,

non separava quegli uomini


sato, dell'ideale. Il filosofo,

il

affratellati nel culto,

poeta, l'artefice,

il

variamente

profes-

giureconsulto, l'uomo

porgevano a vicenda la mano e gli elementi vari della colmischiavano, si intrecciavano, si confondevano in un accordo,
onde per diversa guisa attingono una cotale aria di famiglia tutte le
opere intellettuali dell'ultimo Quattrocento fiorentino.
di stato si

tura

si

Marsilio era

il

maestro della nuova dottrina dalla cattedra dello


conversazione, ed attendeva assiduamente a
di quella commentando
e compendiando Platone e

St dio e n^lla familiare

divulgare

le fonti

L'Accadeplatonica.

230

CAPITOLO SETTIMO.

traducondo Plotino (14S-8G), Porfirio, Dionigi Areopagita ed altri neoplatonici. L'ingenua mitezza della sua indole, l'arguta festivit del
suo ingegno, la sua perizia nel suono della lira gli conciliavano la
benevolenza universale, e non era n veniva a Firenze uomo segnalato che non fosse o non entrasse in dimestichezza con lui; talch il
suo nome correva amato e venerato non pure in Italia ma al di l
delle Alpi, specialmente in Germania. In una lettera a Martino Preninger, cancelliere del vescovo di Costanza e poi lettore di diritto canonico a Tubinga, il Fieino annovera i suoi amici e discepoli. Qual
lunga schiera! Non tutta invero di confilosofi e complatonici suoi,
bens tutta di uomini legati a lui da vincoli di tenero affetto e spesso
di dolce intimit. Vi trovi Pellegrino degli Agli (1440-68), cui la vita
raminga e la morte immatura tolsero di dare alla poesia latina meglio
che buone promesse; vi trovi Giovanni Cavalcanti, che fu al Ficino
confidente e confortatore nelle avversit e che dicevano il suo Acate;
vi trovi Leon Battista Alberti, Bartolommeo Platina, Pier Leoni da SpoFrancesco Berjinghieri l'autore
leto medico rinomato, Pier Soderini
della Geographa, Amerigo Corsini con molti e molti altri, con tutti
quelli, o poco manca, dei quali il processo del nostro discorso ci con,

durr a dire nel seguito

non punto strano

ico delia

(i463 -94;.

di

questo capitolo. Pure, fatto notevole

ma

se consideri le tendenze largamente ospitali dell'ac-

cademia e il carattere di piacevoli esercizi intellettuali che vi avevano le discussioni, non trovi in quella lunga serie nessuno che abbia
lasciato di s durevoli tracce nella storia della filosofa; nessuno, quando
tu ne tolga Francesco Diacceto, continuatore nel secolo XVI della tradizione ficiniana, e Giovanni Pico, conte di Mirandola e Concordia.
Lo spirito di Dio e lo spirito del secolo non possono ogni cenfauni produrre che un sol uomo del suo valore . Cos del Pico
scriveva Giovanni Alemanno , un dotto ebreo suo amico e forse suo
maestro iperbolicamente certo, ma senza scostarsi dall'opinione generale de' suoi contemporanei. Infatti quel figlio di antica famiglia principesca che, dominato da un'invitta bramosia di sapere e di gloria, si
consacr interamente agli studi ed, errante cavaliere nei territori della
scienza, ne percorse vasta distesa discoprendone agli Occidentali recessi dianzi ignorati, parve mirabile agli uomini del Quattrocento. La
ricchezza, la giovent, la bionda e gentil prestanza dell'aspetto, le avventure amorose dei primi suoi anni e le persecuzioni onde fu fatto
segno, davano alla sua figura un non so che di fantastico e quasi di
romanzesco. E la morte che lo colp poco pi che trentenne, pot parere soddisfacimento delle sue mistiche aspirazioni e del melanconico
desiderio che gli aveva dettato questi versi:
;

Cosa ferma non sotto la luna!


E poi che fra si pochi beni e frali
Camion un viver longo a tanti mali,
Felice chi de vita spento in cuna
0 almanco, mentre el cielo amico a noi
Compire allora la giornata nostra,
!

meglio che aspettare in sin a sera.

ROMA E FIRENZE

231

TEMPI DEL MAGNIFICO.

AI

Gianfrancesco Pico e di Giulia Boiardo, ultimo tra i


atfratelli, nel 1463. A quattordici anni fa mandato a Bologna, dove
probabildi
l,
Ferrara
a
e
tese al diritto canonico; nel 1479 pass
mente nel 1482, a Padova. La filosofia aristotelica fiorente in quegli
Studi lo ebbe fra i suoi seguaci, di che, vedemmo, si dolse quando,
trasferitosi a Firenze nel 1484, vi strinse amicizia con Marsilio Ficino.

Nacque

di

si volse allora all'Accademia, non qual disertore, egli dice,


e convintosi che fra la sostanza delle due dottrine
esploratore,
s quale
che le forme parevano rivelare, avvi il suo pendissidio
quel
era
non

Dal Peripato

siero a tentarne la conciliazione

con pi

sottile

ampiezza d'argomenti

che il Bsssarione non avesse fatto. N si arrest a codesto. Le tend3Lze sincretistiche che il Ficino avea redato dai neo-platonici antichi,
si impossessarono della sua mente pronta a seguirle e a fecondarle,
come versatile che era e ricca di straordinaria erudizione. Perito nel
preso ad
latino e nel greco, aveva, gi a Ferrara com' verosimile
fioriva
un'importante
comunit
dove
Firenze
imparare l'ebraico; a
israelitica e fino dalla prima met de] secolo Giannozzo Manetti aveva
con profitto dato opera allo studio di quella lingua, vi si perfezion
per via delle sue relazioni con dotti ebrei, quali l'Alemanno e Elia dal
Medico, onde pot addentrarsi e smarrirsi nei misteri della Cabala di
Esdra, a lui venduta a gran prezzo da un ebreo siciliano. Per desiderio
di legger Maometto nell'originale cominci ad imparare anche l'arabo,
ma in questa lingua, come nella caldaica, non pare facesse di grandi
progressi. Fortemente agguerrito, il Pico pot dunque sprofondarsi con
meno imperfetta cognizione delle fonti che il Ficino non avesse, nei
ricercando
filosofi e nei teologi di popoli e di tempi disparatissimi
dovunque Y affermazione del dogma cristiano e traendo con artifci
.

talvolta puerili, alla desiderata significazione cos


cos Zoroastro come Pitagora.

Non

allontani dalla verit dei misteri.


lo trova, la religione lo possiede

La

v'ha

Mos come Platone,

filosofia,

filosofia

(Opere,

359).

I,

egli pensava,

cerca

il

che

ci

vero, la teologia

Fondamento e meta
vano fan-

delle sue elucubrazioni l'accordo della scienza colla fede:

tasma, che non meraviglia perseguissero

platonici del secolo

se ancor oggi esso provoca sterili esercitazioni d'ingegno

XV,

Tornato a Firenze nella primavera del 1486 dopo aver visitate le


il Pico concep con giovenile baldanza il disegno di
far prova e pompa della sua portentosa dottrina in un grande certame
intellettuale. Verso la fine dell'anno fece divulgare novecento tesi o
conclusioni dialettiche, morali, fsiche, matematiche, metafisiche, teologiche, magiche, cabalistiche, in parte desunte da filosofi caldei, arabi
ebrei, greci, egizi e latini, in parte sue proprie, ed annunci ch'ei le
avrebbe pubblicamente sostenute contro i dotti che si fossero presentati a oppugnarle. Ai lontani avrebbe pagato le spese del viaggio.

Le con-

scuole di Parigi,

Luogo

della disputa,

Roma,

la capitale del

mondo

cristiano.

genere dell'esperimento non era nuovo nell'Italia del secolo XV


una quarantina d'anni innanzi, uno spagnuolo non solamente erudito,
Il

costume

di

dispute.

6d6

CAPITOLO SETTIMO.

n solamente ciarlatano, che forse fu poi insegnante nell'universit


di Parigi, Fernando di Cordova, aveva fatto strabiliare
o stizzire gli
umanisti italiani colla sua dottrino, colla sua memoria, e colla sua prontezza nel sostenere le contradizioni degli avversari; nel 1460
Giammario Filelfo aveva risposto all'improvviso a trentadue quesiti propo-

stigli, presenti il doge e la Signora di Venezia.


Venezia nei conventi
e nelle chiese, a Firenze in S. Maria del Fiore era costume di tenero
delle riunioni nelle quali un filosofo od un teologo rispondeva alle

obbiezioni degli astanti su di una conclusione assegnata.

Nuovo era
certame; nuove
a moltitudine e la variet dei temi. Ma la disputa non ebbe luogo,
perch tredici fra le tesi furono accusate di eresia. Formatosi il processo, Innocenzo Vili le condann colla bolla del 5 agosto 1487, dichiarando per l'autore libero da ogni censura. Il giovine mirandolano
tent difenderle nell'Apologia, ma provoc, comunque ci accadesse,
tale impeto d'ira nel pontefice, che dovette fuggire. In Francia, dove
s'era ricoverato, fu fatto prigione al principio del 1488 e rinchiuso
nel castello di Vincennes. Non dov per rimanervi a lungo, perch
gi nell'ottobre dai colli di Fiesole, dove lo allietava la compagnia del
Ficino, il suo sguardo poteva di nuovo posarsi sul verde piano rigato
dall'Arno e sulle cupole e sulle torri dell'amica Firenze (Ficini, Epistola?, lib. IX, p. 893).
il

modo solenne con che

il

Pico aveva fatto bandire

il

Nella tranquillit della villa, mentre Lorenzo indarno tentava con


preghiere e consigli di placare la collera di papa Innocenzo, il Pico
ritorn a' suoi studi e nella state del 1489 comp YEeptaplus, de septformi sex dierum Geneseos enarratione, curiosa opera nella quale
privando, come osserva arguto il Gaspary, le parole d'ogni significato
ed attribuendone loro vari a capriccio, d una settemplice interpretazione della cosmogonia mosaica. Egli credeva che tutti i misteri della
religione cristiana, tutte le dottrine dei filosofi antichi fossero racchiuse
nella Cabala e di questa

Mos

valse nelYEptaplo per dimostrare coll'au-

si

che egli distingue: Ynove risiedono Dio, primo principio, e gli Angeli il celeste,
ove sono l'empireo e le sfere; il fisico o terrestre e il mondo deleccellenza, che assomma in s alcune parti
l' uomo, la creatura per
torit di

l'esistenza dei quattro mondi,

tellettuale,

degli altri

mondi

dagli elementi terrestri all'immagine di Dio.

Il

Ficino

aveva collocato l'uomo a mezzo la scala degli esseri secondo il Pico,


Dio non lo fece n celeste, n terreno, n mortale, n immortale,
:

affinch potesse nella piena libert del suo arbitrio plasmarsi in quella

forma che pi

gli

piacesse

ond' in facolt dell'uomo scendere sino


bruto o sublimarsi all'altezza dell'an-

alla bassezza della pianta e del

Questo concetto che germoglia dalla teoria professata nelYEeptail Pico aveva enunciato con grande pompa di eloquenza nell'orazione De hominis dgnitate, preparata comep rologo alla discussione
delle tesi. In essa il Pico con pi calda accensione di sentimento e di
fantasia che non sia nel Ficino, vagheggia la congiunzione del finito
gelo.

plus,

ROMA E FIRENZE

AI

TEMPI DEL MAGNIFICO.

233

Gerusalemme ove
ancor vivo, commensale
degli dei e nudrito del nettare dell'eternit si senta, egli animale soggetto a morte, assunto all'onore dell'immortalit.
Con tale inclinazione al misticismo non meraviglia che il Pico
negli ultimi suoi anni si desse a vita pia e religiosa e bramasse che
il perdono del pontefice ridonasse la quiete alla sua anima. Ma Innocenzo Vili, esacerbato anche dalla pubblicazione deVEptaplo, non si
pieg, e solo Alessandro VI con breve del 18 giugno 1493 riaccett
in grazia ed assolse da ogni nota d'eresia il filosofo caro alla famiglia
medicea. Il quale frattanto veniva commentando per esortazione di
Lorenzo il Magnifico i Salmi e volgeva in mente vasti disegni d'opere
filosofiche e teologiche. Attese allora alacremente a quella dimostrazione della concordia tra Platone ed Aristotile, cui aveva pensato fin
dal suo arrivo a Firenze, ma non diede fuori in sul proposito che il
libro De ente et uno relativo ad un sol punto della questione. La
morte gli imped di proseguire quel lavoro, come di dar compimento
alla grande opera contro i nemici della Chiesa, ch'egli divideva in
sotte categorie. Fra le sue carte furono trovati soltanto i dodici libri
De astrologia, robusta requisitoria contro i gabbamondo, che preten-

coli' infinito e,

meta suprema

libero dai lacci della carne

1'

della vita, la celeste

uomo

si

assida,

devano

di presagire dal corso degli astri il futuro. Neil' autorit dei


nell'esperienza additatrice di errori solenni, nella religione offesa e danneggiata da quei falsi profeti, nelle contradizioni stesse di

filosofi,

il Pico ricerca e trova le armi con cui combattere la sua


destramente congegnata di assalti e di difese contro la supposta reazione degli avversari. in alcuna parte di quest' opera un
senso del reale che non ci aspetteremmo nel mirandolano, di solito,
come i filosofanti suoi coetanei, incurioso di dare alle teoriche un fondamento attuale ed per lui merito che non vuole essergli conteso
n per contradizioni o per altro motivo sminuito l'averla scritta in
un'et schiava quant'altra mai delle superstizioni astrologiche, in una
et in cui le repubbliche e i principi non conferivano il bastone del

quella scienza
battaglia,

ai condottieri, n i condottieri impegnavano la zuffa, se non


dopo aver consultato gli astri, ed uomini pii, come il Ficino, non negavano fede a quella rinvigorita sopravvivenza del paganesimo.
La critica e il tempo hanno sfrondato l'alloro di che i coetanei
avevano cinto la fronte al Ficino ed al Pico eruditi in filosofia, non
pensatori originali. Tuttavia l'uno e l'altro grandeggiano ancora agli
occhi nostri, come uomini innamorati d'un'altissima idealit e da questa
governati anche nella pratica della vita; il che non piccola lode, chi
pensi come troppo spesso le opere discordassero allora dalle austere

comando

teorie.

castigate rispetto alla forma, n eleganti sono le scritture del

La materia trattata, l'indole del suo ingegno e lo speciale avviamento della sua educazione conducevano necessariamente a tal conseguenza, quantunque l'ideale d'un'arte meno imperfetta balenasse alla
Ficino.

234

CAPITOLO SETTIMO.

sua mente ed egli si sforzasse di non apparir barbaro, mentre voleva


esser piuttosto latino che fiorentino (Epist. VI, p. 835). Con pi di assiduit e con proposito pi apertamente deliberato fu devoto all'arte il
Pico. In alcuni suoi scritti mostr di gradire e di saper usare gli ornuova rettorica ed anche negli anni men giovenili venne

nati della

limando e raccolse in cinque libri le sue elegie latine tenui muse


colle quali aveva scherzato su suoi amori, finche glielo aveva permesso l'et . Se davvero, come suona la fama, le dann al fuoco
in una coi sonetti volgari, ci fu solo verso il fine di sua vita, quando
gli signoreggiavano l'anima fervori di religione. Ma tra i platonici
fiorentini colui che giustamente tempr di studi letterari gli studi
filosofici, fu Cristoforo Landino detto da Prato vecchio, o v'era stata la
culla di sua famiglia,
Serbato dalla lunga vita (1424-1504) ad un'agiata e fiorente vecghiaia, il Landino sta a cavaliere fra l'et di Cosimo e l'et di Lorenzo
e dell'una conserva nella sua fsonomia di letterato una cotal arcaica
durezza, mentre tiene dell'altra per la versatilit del suo ingegno e per
la sua svariata cultura. Quando circa il 1439, compiuti a Volterra i
primi studi, torn alla patria Firenze, vi teneva il campo nella poesia
latina Carlo Marsuppini, l'avversario del Poggio, colle sue facili e, secondo i tempi, corrette elegie; e poetici furono i primi frutti dell'ingegno del Landino. Dal nome della fanciulla amata intitol Xandra
la raccolta dei suoi versi latini, che, divisa dapprima in due libri (1443),
fu poi ampliata a tre. Dall'amore, dalla storia, dai casi e dalle necessit della vita spicciola prese gli argomenti; da Virgilio e da Orazio
la vivacit e il gradevole colorito della frase, meno prosaica che nel
Marsuppini e men lontana dagli splendori polizianeschi. Ma calore di
1

cnstoforo
1424-1504)

sentimento non c' se non nell'elegia in morte del fratello caduto in


battaglia contro gli Aragonesi (1448 o 1452); e la fantasia del poeta

sonnecchia schiava delle pi gualcite immagini mitologiche. Nel 1 467


Landino era cancelliere di Parte Guelfa e poi divenne scrittore di
lettere pubbliche nella segreteria del governo; ma gi prima, nel
gennaio del 1458, era stato scelto a professare poesia ed oratoria nello
Studio, dopo quali discussioni e qual viva opposizione ben rammenta
il lettore, cui spero non isfuggano nel dilagare degli episodi le linee
organiche del mio edificio. E per vero come insegnante di eloquenza
ai novelli metodi che quei giovani opposiei dov apparire arretrato
tori propugnavano, l'erudito casentinate non si acconci mai, anzi lasci
prevalere nel commento dei classici le sue tendenze filosofiche e quelle
interpretazioni allegoriche, che i filologi ormai trascuravano o dispregiavano, per ci che volgessero i loro studi ad un intento schiettamente
estetico. Il Petrarca, il Salutati, il Filelfo avevano ravvisato nell'Eneide
il

un'allegoria della vita umana; ma essi erano stati soverchiati dagli


avanzamenti della scienza illustratrice degli antichi esemplari, non pi
bisognosa n desiderosa di giustificarsi dinanzi al tribunale della Chiesa.
Il

Landino, assuefatto dalla

filosofa

neo-platonica al simbolismo dei

ROMA E FIRENZE

AI

235

TEMPI DEL MAGNIFICO.

mezzo filosofo e mezzo filologo, persistette in considerare la poesia


come un bel velo avvolgente arcani e divini sensi e a
questo concetto inform il suo commento del poema virgiliano (1487).
I primi sei libri ne aveva gi per lo innanzi tratti a significazione momiti,

anzi tutto

rale nell'opera sua pi famosa, le Dsputaiiones camaldulenses.


Le

Quivi egli narra come nell'estate del 1468 si trovassero insieme


nell'amena frescura di Camaldoli Lorenzo e Giuliano dei Medici, Leon
Battista Alberti,
cino,

egli stesso

Alamanno
il

Landino ed

luogo. Vi

stero del

Rinuccini, Piero e Donato Acciaiuoli

si

altri ancora, ospite

trattennero quattro

giorni

l'abate del

il

Dtsp>(-

tationes

carnaldulenses.

Fi-

mona-

(corrispondenti

ai

alternando alle deliziose passeggiate esercizi


Lorenzo, discepolo ed amico del Landino,
ragionari.
devoti e piacevoli
l'Alberti
la
superiorit
della vita attiva sulia contemcontro
sostenne
plativa, e se ne conchiuse dover T una alternarsi con l'altra e questa
dar norma al governo di quella. Il giorno seguente l'Alberti e poscia

quattro

il

libri dell'opera),

cui 1* uomo pu raggiundel sommo bene


morte nella visione e nel godimento di Dio. Infine nei

dissertarono

Ficino

gere dopo

la

due ultimi giorni lo stesso Leon Battista volle dimostrare come la favola dell 'Eneide adombri la teoria dei platonici intorno al fine della
vita e che Virgilio, asservendo ogni particolare episodio a tale intento
allegorico, signific in Enea, navigante da Troia alle rive d'Italia,
l'uomo che conosciuti i vizi e purgatosi da questi arriva finalmente
alla contemplazione delle cose divine. Nelle Dsputaiiones camaldulenses
scritte con latina eleganza di lingua e non senz'arte nella rappresentazione dei personaggi, il Landino fece opera di garbato espositore e
1

divulgatore di dottrine filosofiche. Similmente nel dialogo De anima


si era studiato di dar forma sciolta e facile alle argomentazioni del
Ficino sulla spiritualit e 1 immortalit dell'anima umana ed alla confutazione che questi faceva dei pensamenti averroistici sull' intelletto
universale.
l

Landino lesse non soltanto Orazio e H^"todi'


Dante
Virgilio, ma anche il Petrarca e Dante. Amico, anzi pi tardi congiunto
di Leon Battista, egli aveva recitato nel certame coronario le terzine
di Francesco Alberti e fin da giovine aveva nudrito nell' animo un
grande amore per il suo bel volgare e per la tradizione letteraria nazionale. Onde Tulio e l'altra difese contro i denigratori ed egli fu senza
dubbio principal causa di un caldo ravvivamento del culto dell'Alighieri
nella Firenze di Lorenzo il Magnifico. Nel 1481 egli di in luce in
un'edizione stupendamente istoriata da Sandro Botticelli e present
Dalla cattedra dello Studio

il

suo commento alla Commedia, il quale fu


studi, danteschi e largamente profittevole agli interpreti del secolo XVI. Il Landino trova nel Poema
manoscritto alla Signora

iniziatore d'una

divino la
rali si

medesima allegoria che noN Eneide, talch nelle

linee

accosta assai pi al pensiero dantesco che al virgiliano.

particolari interpretazioni

ghieri,

il

nuova ra negli

non

gene-

Ma

nelle

tiene conto n delle vicende dell' Ali-

n delle sue opinioni politiche e

religiose, tutto inteso a riscon-

23G

CAPITOLO SETTIMO.

trare nel testo

dendo

il

suo preconcetto e a dimostrare

col vaso di Virgilio alle

cosi

il

Ficino prelu-

De Monarchia
aver Dante bevuto
platoniche fonti. Non che il Landino ignori

al suo volgarizzamento del

che Dante fu peripatetico

anzi egli stesso

ha

la pi

grande vene-

razione per Aristotile e talvolta ne accoglie, senza discutere, opinioni


contrarie a quelle dell'Accademia, ma tra i filosofi quello che and pi

presso al segno Al qual aggiunge a chi dal cielo dato pur sempre
per lui Platone. Le quali parole del Petrarca (Tv. d. Fama, III, 5-6) e
il giudizio di antichi scrittori si compiace di contrapporre al primato
che tra i savi del nobl castello Dante concede al maestro di color
che sanno. L'esposizione del Landino ha non iscarsa importanza come
documento letterario dell'et in cui fu composta; ma dominata da idee
fallaci e in larga parte condotta sulle orme di Pietro di Dante, del Boccaccio, di Benvenuto, del Buti, non giov a far avanzare l'intelligenza
dell'opera immortale e, a malgrado della sua grande fortuna, occupa
appena un posto secondario nella storia degli studi danteschi.
Pi volte in queste ultime pagine ci ricorso alla penna il nome
famoso di Lorenzo de' Medici detto il Magnifico. Qual parte egli abbia
avuto nelle vicende politiche di Firenze, anzi d'Italia, non chi non
sappia, quantunque se ne giudichi variamente. Non aveva ancora compiuto ventun anno quando per la morte del padre Pietro di Cosimo,
si trov a capo della famiglia, nel dicembre del 1469; mor nel 1492
signore di Firenze, se

non

di

nome,

di fatto.

concittadini segu la via tracciata dall'avolo,

Nelle relazioni

ma

la percorse,

co' suoi

dacch i
tempi lo consentivano e lo richiedevano, con passo affrettato, senza
scrupoli nella scelta dei mezzi che dovevano condurlo alla meta, senza
rifuggire da atti crudeli e disonesti, quali le vendette che seguirono
alla congiura dei Pazzi e l'abuso del pubblico denaro, n da strappi
violenti al gi scosso regime democratico, qual fu la costituzione dell'ordine dei Settanta. Fuori di patria si govern con senno e con prudenza, con virile energia e con audacia, sicch la sua autorit nel
consorzio dei maggiori stati della Penisola and a mano a mano rafforzandosi ed estendendosi e lo rese per alcun tempo arbitro e propugnatore della pace d'Italia. Fra le strette non sempre carezzevoli di Lorenzo il Magnifico moriva la libert fiorentina: moriva rimpianta solo
da pochi solitari, senza sussulti che non fossero segno di personali o
familiari ambizioni. I tempi erano maturi e la trasformazione degli
ordini politici, da lungo tempo operatasi altrove, si compiva anche
nella citt di Giano della Bella, auspice un uomo, che fu nel fatto, bench forse non per merito suo, il migliore e pi piacevol tiranno
che si potesse desiderare in sul declinar del secolo XV. Chi giudica di
lui secondo i dettami d'una morale d'altre et, fraintende la storia.
Ma non del politico spetta a noi di parlare; s dell'uomo in cui
mirabilmente si riassume la vita intellettuale fiorentina nel periodo che
corse dalla morte di Cosimo alla sua morte.

ROMA E FIRENZE

AI

Al giovinetto Lorenzo dov ben presto

it

237

TEMPI DEL MAGNIFICO.

ii

affacciarsi radiosa la visione

l 'i

'

ini

della risorta antichit dagli scanali delle librerie adornanti le sale dei
palazzo di Via larga e nelle conversazioni dove sonava ancora il sorriso del vecchio
silio

Poggio e apriva

le ali

suoi voli l'ingegno di

Ficino. Gentile Becchi urbinate, pio e dotto

uomo, devoto

L'educzione

di

Lorenzo,

Mar-

alla

po-

suo primo maestro; ma a dimesticarlo coi classici


cooper forse assai pi la consuetudine ch'egli ebbe assidua ed affettuosa col Ficino appunto e con Cristoforo Landino. Questi dovette per
tente casata, fu

il

tempo ammaestrarlo a gustare anche

poeti nostri volgari ed essergli

guida a ricercarne e studiarne i versi amorosamente. Del quale lungo


studio rende bella testimonianza la raccolta di antiche rime che Lorenzo adun e nel 1466 mand a Federigo d'Aragona, figlio di re

Ferdinando, premettendole una lettera calda di giovenile ardore per


la poesia e per la gloria e di ammirazione per la lingua toscana, ma
soprattutto notevole per i giudizi sui pi antichi nostri poeti. Come
nella principesca silloge fra non molte rime dell'estremo Trecento e
del primo Quattrocento e alcune poche della scuola siciliana, prevalgono a gran pezza le rime del dolce stil nuovo, cos nella lettera le
maggiori lodi sono tributate al dilicato Guido Cavalcanti, legislator dell' amore nella canzone Donna mi prega. N per vero tal simpatia per l'addottrinata eleganza del primo amico di Dante fa meraviglia in Lorenzo, poich se i lirici dugentisti, privi dei libri del divino
Platone, non giunsero all'altissima concezione dell'amore celeste, tutte
platoniche, osserva giustamente il Bonghi, son le loro considerazioni
intorno all'amore, e gli effetti morali che gli attribuiscono sull'animo
umano son gi tutti quanti accennati nel filosofo ateniese.
Al culto di questo il Medici fu educato dal Ficino e tanto se ne
innamor che vuoisi solesse dire che senza la platonica disciplina
niuno poteva essere n buon cittadino, n buon cristiano . Un giorno,
forse verso il 1474, nella villa di Careggi maestro e discepolo disputarono insieme intorno alla felicit e conchiusero che questa non si
trova nei beni che Fortuna e Natura largiscono all'uomo, ma nel godimento del Sommo Bene, al quale si arriva piuttosto per atto di volont che d' intelletto, per via dell'amore. Il Ficino riassunse questa
dottrina in una lettera

(lib. I, pp. 662 e segg.) e gi prima ne aveva


parlato in altre sue opere; e Lorenzo ne fece argomento d'un poe-

metto, V Alter catione.

Ad

esporla vi introdotto Marsilio stesso,

Nel quale il cielo ogni sua grazia infuse


Perch fosse ai mortai sempre uno specchio,

Amator sempre delle sante Muse


N manco della vera sapienzia,
Talch l'una giammai dall'altre

La scena
il

Medici

feribile

posta in
s'

una

escluse.

valletta deliziosa, nei pressi di Firenze,

dova

era soffermato a discutere col pastore Alfeo qual sia pre-

la vita

capitoli ternari,

dei campi o quella della citt. Il poemetto


in sei
va collegato a quella squallida poesia storica e scien,

u Altercatione '

238

CAPITOLO SETTIMO.

di
cui fu tenuto discorso qui addietro
(pp. 166-7), quantunque
superi per lindura e scioltezza di forma. Alla materia non
mancava
per vero una contenenza poetica, ma il rimatore, tutto intento
a filare
il suo ragionamento, non seppe disviluppar
questa dalle astrazioni e
dalle sottigliezze e si restrinse a cariare la trattazione di
qualche fiore
colto nei giardini dell'Alighieri e del Petrarca.
tifica

la

Tracce manifeste della filosofia neo-platonica non mancano neppure


canzotSJ? nel Canzoniere del Magnifico. A comporre sonetti e canzoni egli comll ^ assai per tempo, ch un discreto numero ne aggiunse
nello
Sommenlo.
estremo del libro mandato all'Aragonese; pi tardi prese ad ordiji

nare le sue liriche e ad esporne


che rimase incompiuto. Quivi

sensi e le occasioni in

la storia del

fantastica, nella quale la realt si trasfigura e,

suo

come

un commento

amore; una storia


nella Vita

Nuova,

perde la concreta determinatezza de' suoi contorni. Alla vista delle


morte sembianze d'una donna bellissima, che alla sepoltura fu portata
scoperta in una giornata luminosa d'aprile
lo invase desiderio infinito d'amore
e poi ch'ebbe per alcun tempo nudrito il suo cuore
della memoria e del rimpianto dell'estinta bellezza, cominci seco stesso
a cercare se alcun'altra ne fosse nella nostra citt degna di tanto
,

onore, amoro e lode

. In una pubblica festa gli apparve una donna


peregrino aspetto, gentile ed accorta in parole ed in fatti
pi che la defunta, e il suo desiderio ebbe pace.
La dottrina platonica insegnava a Lorenzo che l'amore nasce dalla
concordanza tra l'ideai figura umana insita nell'anima e l'immagine
della persona reale (Ficino, Libro dell'amore, V, 1); e a questa dottrina ei si attenne. Ma per render sensibile quell'idea di bellezza senza

di dolce e

fermarla nel regno del reale, escogit il funebre prologo, dove essa balena per un istante dal viso d'una morta. Geniale invenzione, che trasformava in materia d'arte un'astrazione filosofica; ma invenzione del
tutto fantastica, poich Lorenzo alluse, par. bene, alla morte di Simonetta Cattaneo ne' Vespucci avvenuta ai 26 d'aprile del 1476, mentre
l'altra donna fu certo Lucrezia Donati, ch'egli corteggiava fin d'avanti
il 1467. Ce lo dicono indiscrezioni di lodatori e di amici; non il commento, ne i versi, dai quali non rileveremmo, non che il nome, nep
pure i pi appariscenti contrassegni della donna cara al Magnifico.
Assorto nell' adorazione della bellezza umana, il poeta perde quasi
di vista la bellezza personale, e l'amore, pur senza toccare gli altissimi gradi ultraterreni, si fa pi astratto e pi spirituale che non sia
nel Petrarca. Dall'imitazione petrarchesca per muove Lorenzo nel far
materia di poesia la sua tutta platonica concezione dell'amore e se
,

nell'analisi psicologica

e nella descrizione degli

effetti

di

quel senti-

mento segue talvolta i poeti del dolce stile, non si pu dire per questo ch'ei non sia, quanto all'arte, un petrarchista. Al pari del grande
Aretino Lorenzo si compiace di contemplare la bella immagine che
,

porta scolpita nel cuore

con essa teme, piange,

si

ma

in essa

si

esalta con pi vivo entusiasmo,

conforta, spera (ediz. Molini, son. 35),

che

ROMA E FIRENZE

AI

239

TEMPI DEL MAGNIFICO.

nasce in lui un deso novo Di veder quella ch'ode parla e spira ,


cio la persona amata nella sua realt, e torna a' rai dolci e lucenti
(son. 95),
Al dolce lume, alla belt infinita,
Ond'ogni cor gentile al mondo ha vita,

Come d

'1

sole

il

lume

all'altre stelle (son.

Quel che parrebbe un moto discendente del suo


ascensivo, e la ballezza

gine d'essa,

umana

reale, cui ritorna

sublima fino a diventare bellezza

si

104).

sprito

fa

si

moto

movendo dall'immainfinita. Platone, anzi

Simposio gli impenna l'ali a questi voli. Il


il commento
concetto che Amore e cor gentil sono una cosa ritorna sovente, espresso
in varia guisa, nelle poesie del Magnifico di spiriti e spiritelli egli ne
come molte delle loro Dante e il Cavalcanti la sua
popola alcune
donna, come le donne dei poeti fiorentini di parte bianca e come Laura,
rasserena ogni anima (son. 7) e caccia dai petti ogni pensier volgare e vile (son. 77). Lo sguardo di lei allieta la natura e suscita
sulla terra un gaio spettacolo di primavera (son. 88); magica potenza
che ella ha redato non da altri che da Laura, come il suo cantore
dal Petrarca gli atteggiamenti del pensiero le situazioni poetiche e
pur troppo alcuni artifici rettorici. Anche Lorenzo vive in vana e
fallace speranza; anch'egli con passi sparti e con la mente vaga
va cercando luoghi solitari e silvestri (son. 36) e dai colli pi elevati
volge lo sguardo stanco ai luoghi ove lasci il suo bene (canz. 2); anch'egli rimpiange il dolce tempo che fu principio alla sua aspra vita
(sest. 2) e rammenta il fresco ruscello ove un d vide tra verdi
fronde e liete donne l'amor suo, Gli piace accostare in lunghe file
idee tra loro discordanti a due a due e, pi che al suo modello, ordire
ficiniano al

bisticci e sottigliezze di sapore epigrammatico. Si incontrano s nel


canzoniere del Medici reminiscenze palesi dei lirici dugentisti e poesie
che tengono della loro fresca semplicit, ma non gli vien certo di l
la sua impronta stilistica.

Frutto d'imitazione letteraria, codesta raccolta di rime non riflette


temperamento artistico del poeta se non qua e l, dove la situazione
stessa lo ponga dinanzi alla realt e in alcuni accessori esornativi. Le
similitudini delle api e delle formiche ti mettono sott'occhio due quadretti disegnati con finissima eleganza. Sono famosi i sonetti sulle rose
e sulle viole, quello Cerchi chi vuol le pompe e gli altri onori spiil

rante un desiderio intenso d'aria aprica e di selve romite, e quell'altro cui gi

ci

avvenne

di alludere,

Ove madonna volge


Senz'altro sol la

Fa germinar

la

gli occhi belli,

mia novella Flora


terra e mandar fuora

Mille vari color di fior novelli.

A me piace riferire per intero questo, un invito a Venere, in


magine mitologica, viva e spontanea, non sciupa la freschezza
pressione campestre:

cui l'imdell'im-

210

CAPITOLO SETTIMO.
Lascia l'isola tua tanto diletta,
Lascia il tuo regno delicato e bello,
Ciprigna dea; e vien sopra il ruscello
Che bagna la minuta e verde erbetta.
Vieni a quest'ombra ed alla dolce auretta
Clic fa mormoreggiar ogni arbuscello,

A' canti dolci d'amoroso augello;


Questa da te per patria sia eletta.

se tu vien tra queste chiare linfe

Sia teco il tuo amato e caro figlio;


Che qui non si conosce il suo valore.
Togli a Diana

sue caste ninfe;

le

Che sciolte or vanno e senz'alcun


Poco prezzando la virt d'Amore.

periglio,

Pi largamente si diffondono i ricordi mitologici nelle Selve d'amore.


Quale fantasmagoria in quelle ottave che sgorgano facili, se non sempre terse, dalla penna del Magnifico, simili a onde che si rincorrano
in ritmo tranquillo! Nella prima Selva il poeta rammemora il benedetto
giorno in cui, arridenti l'aria, la terra, il cielo la donna sua lo avvinse
,

d'una catena fatta


di

fiori

pioventi dal cielo e

il

d'amore,

clemenza. Di tra un nembo


carolar di leggiadre fanciulle ella chiam a

di bellezza,

di

cuore del Medici, lo volse a gentilezza e vi impresse la propria


immagine. E il soggiogato poeta in lei riconosce platonicamente l'alta
bellezza sospiro d'ogni cuore e affisa immoti gli occhi, come gli spiriti
beati il loro sguardo nella santa faccia di Dio. Nella seconda Selva, pi
lunga e complessa, dapprima il pianto per la scomparsa della bella
donna rfna la speranza ch'ella abbia un d a ritornare, conforta l'addos

il

che nell'accesa fantasia vede rinverdire per essa

la terra, sbocogni creatura rallegrarsi e accorrere a


farle festa le divinit montanine e fluviali. Ella ritorna a Firenze apportatrice di dolcezza, di gentilezza e di pace. In un canto della sua casa

lorato,

ciare fiammanti di colore

fiori,

modesta e adorna, siede per accoccolata la Gelosia, di cui si narra con


mitologica finzione la storia e si disegna la turpe figura. Ma tutto ci
illusiona provocata dalla Speranza, alla quale si contrappone la Memoria

Ed il confronto fra le torture


Medici a parlare della Speranza, dell'origine sua dal vaso di Pandora e quindi del mito di Prometeo e dell'et
dell' oro, quando tacevano i desideri ed era ignoto il dolore. Riponga
Amore il poeta in quei tempi beati insieme colla bella donna sua o almeno
gli renda costei. Ed ecco, sorride come a novella aurora il creato
coi ricordi strazianti della felicit perduta.

dell'una e dell'altra riconduce

il

un venticello soave, gorgheggiano gli uccelli, fioriscono le piante,


Madonna riappare in compagnia di Bellezza e di Amore che cantando in tono gentile un inno, celebrano accolta in lei la bellezza

spira

eterna e vera, modello d'ogni altra bellezza

Qui la belt vera


Tutta accolta in un volto :
Quinci l'esempio han tolto
L'altre di' in varie cose son disperse
Chi questa belt mira
Di eterno e dolca amor sempre sospira.
:

ROMA E FIRENZE

AI

241

TEMPI DEL MAGNIFICO.

non ha guari che un concetto fondamentale domina


platonico dell'Amore che si eleva a grado a grado
concetto
le Selve, il
liberandosi dalla gelosia e dalla speranza e si appaga nella visione
della donna che riapparisce trasfigurata (1). Quel filo logico rimane

Fu

osservato

per avvolto e quasi nascosto tra il frondeggiar degli episodi e l'incalzare incomposto delle descrizioni, onde il nome di Selve. Il poeta
si inebria nella contemplazione della quieta, della serena natura e si
abbandona voluttuosamente all'onda dei versi, i quali, disegnando e vivamente colorendo ogni particolare, rinnovano in lui la dolce impressione delle scene campestri. Di qui quella minutezza nelle sue descrizioni della primavera e dell'et dell'oro, che gli fu a buon dritto
rimproverata, ma che non ci deve indurre a negargli, col De Sanctis,
sentimento della natura. E difetto dell'arte che rimane troppo vincolata alla realt e non riesce a rappresentare il fatto spirituale. Pur
non s'ha a credere che nelle Selve manchi del tutto l'espressione del
sentimento. Ecco, per esempio, un'ottava, dove il poeta si culla nel

il

sogno d'una

felicit ineffbile:
In questi dolci luoghi in questi tempi

Pommi, Amor, con

la bella

donna mia,

Nell'et verde, nei primi anni scempi,

Senza speranza e senza gelosia;


N 1 tempo mai l'et matura adempi,
'

Ma

il

nostro dolce amore eterno sia:


bellezza in lei, non altro foco

Non pi
In noi;

ma

sol quel dolce

tempo

e loco.

In qualche luogo delle Selve chiara l'ispirazione ovidiana;

il

posto n Cor fW<0

due altri componimenti del Magnifico, il Co- &VAm ^ a


primo un'egloga in terzine, ricca di versi sdruc-

principale essa tiene in

rimo

e V Ambra.

Il

i lamenti e le preghiere del Ciclope teocriteo ed oviallargano a pi ampia forma sulle labbra del pastore Corinto
innamorato di Galatea. La chiude la storia leggiadra delle rose e della

nella quale

cioli,

diano

si

loro caduca esistenza,


(Cos le vidi nascere e morire
passar lor vaghezza in men d'un* ora),

sciolto lo stile e

men

carezzevole Tonda del verso

j).eV

Meno
Ambra, poe-

esortazione alle fanciulle a godere, finch n' tempo, la vita.

metto narrativo in ottave, anzi descrittivo, ch la sola descrizione del


verno e delle innondazioni ne occupa una met. Ambra era una ninfa;
il nume dell'Ombrone se ne invagh e la insegu fuggente per campi
e per balze, finch Ambra, impedita dall'Arno di sottrarsi a lui, chiese
ed ottenne da Diana d'essere trasformata in un sasso. Cos ella teneva fede al suo Lauro, pastore alpino, che di casto affetto la amava.
Si tratta dunque d'una favola affine a quelle che avevano avuto in
(1)

Scarano. Il platonismo nelle poesie di L. De* Medici,

nella.

Nuova Antol.

S. IH,

voi. 47, p. 60.

Rossi.

La

lett.

Hai. nel sec.

XV.

16

242
Ovidio

CAPITOLO SETTIMO.
loro classico poeta e -delle quali l'autor del

il

lano era stato maestro

Ambra

Nella ninfa

Lauro

Lorenzo

alle

Muse

personificata la villa

stesso,

Ninfale fieso-

italiane.

che quel luogo

con cura

'li Poggioa Caiano;


rese bello ed opimo

medicea

di delizie

affettuosa. Ivi nella casa solitaria


a mezza strada tra Firenze e Pistoia, che Giuliano da San Gallo aveva costrutta con ampiezza signorile e con semplice eleganza; nei quoti recessi della collina verdeggiante, egli si ritraeva a rinfrancare lo spirito in serene
opere di poesia. Mirabil tempra d'ingegno, che le mire alte e faticose
non esaurivano; natura per robusta agilit felicissima che in mezzo
ai tortuosi

maneggi e

ai piccoli ripieghi della politica

bava intatto l'ardore per tutto

che fosse bello

quotidiana sergrandioso
geniale

fantastico.

In Lorenzo

ravvalor la sapiente sollecitudine di Cosimo per gli


La biblioteca privata medicea, che poi
venne
sequela
non liete a far parte della Lauper
lunga
di
vicende
iSxLce
ie arti.
renz i ana> eD )e p er 0 p e.ra sua un cospicuo incremento. Il Poliziano si
rec a Ferrara, a Padova e a Venezia; Giovanni Lascaris viaggi la
Grecia per fare incetta di manoscritti, mentre l'Atta vanti spiegava il
delicato magistero della sua arte nell' alluminare le nuove copie. Le
di bronzi si arricchivano ogni d
collezioni di gemme, di cammei
pi e Andrea del Verrocchio , come gi Donatello
racconciava an-

'Lorenzo

si

studi umanistici e per le arti.

ad abbellire giardini e ville della possente


famiglia./' Cogli eruditi e cogli artisti Lorenzo viveva in domestica comunione di pensieri, come disposto ch'egli era per gli studi fatti ad ascoltare ed intendere sottili disquisizioni filologiche, come destro a gustare
le opere dell'architettura, della plastica, e della pittura. Vero che nella
magnificenza delle commissioni artistiche si lasci superare da parecchi suoi concittadini; pure allog al Verrocchio il sepolcro di Piero e
Giovanni di Cosimo; fece erigere da Giuliano da San Gallo, oltre alla
villa, la sagrestia di S. Spirito e il convento di S. Gallo; per lui operarono Antonio Pollai uolo, Filippino Lippi e pi d'ogni altro Sandro Botticelli. Questi fu spesso sovvenuto dal Medici nelle sue necessit
e dei Medici comp le vendette dipingendo sul palazzo del Bargello
alle quali Lorenzo
le effigie impiccate dei Pazzi e dei loro consorti
tiche sculture destinate

stesso fece poi gli epitaffi schernitori.

Amante per natura di pompe e di spassi egli ne colse di buon


grado e cerc le occasioni: nozze in famiglia, sontuose ospitalit a principi che venivano a Firenze, feste d'ogni maniera. Sfolgorava allora
la ricchezza degli apparati, sempre governata da un senso finissimo
del bello, quale neppure nel pieno fiore del Rinascimento, era cos ge,

nerale fuori di

l,

come

gli storici del

costume, forse abbagliati dal lusso,

se
mostrano di credere. Il giovinetto che nel 1459 aveva ordinato
da
anche
una bella armeggeria serb
ne rammenta il lettore?
uomo una grande passione per i cavalli, per le giostre, per le cacce.
Amici e clienti suoi cantarono, come vedremo, le giostre medicee; di

ROMA E FIRENZE
una Caccia

AI

243

TEMPI DEL MAGNIFICO.

col falcone volle essere poeta egli stesso e

ne venne un

La gcct

poemetto in ottave, vivido nella schiettezza della lingua candidissima. I


cani, i diverbi fra i cudialoghi, le grida, i fischi dei cacciatori aizzaati
i

stodi degli sparvieri,

il

ritorno,

quando

tutti

attendono a

menar

la

ma-

scella e la voglia fa buone le vivande, infine le ciarle sulle avventure della


giornata, tutto rappresentato in forma diretta, con efficace rapidit.
L'argomento, come si vede, tenuissimo; ne era nuovo alla poesia italiana,
chi rammenti le Cacci del Sacchetti e quella Caccia di Belfiore pare
in ottave, che non so chi aveva scritto qualche decennio avanti, ^uasi
tutti i nomi dei cacciatori, che insieme con quelli dei cani ci sfilano
dinanzi, a noi sono muti ma quali allegri ricordi e quali care conoscenze
non avranno essi richiamato alla mente degli ascoltatori, se il Magnifico avr letto le sue ottave alla brigata cortese nelle sale del suo palazzo o fra le ombre amene di una villa!
Continuava allora nelle famiglie fiorentine e si rinvigoriva di nOvelia gaiezza la vecchia consuetudine delle gioconde riunioni, e Lorenzo
apprestava ad esse
cui queste erano a grado quanto ad altri mai
il pi caro sollazzo colle sue canzoni a ballo. Faceva la musica il vecchio Squarcialupi, che morto (1430) ebbe dal Medici onor di rime, di
monumento e d'epitaffio. Nel rispetto metrico esse sono ballate, quali
della forma prediletta da' rimatori borghesi dell'ultimo Trecento e del
primo Quattrocento, tutte d'endecasillabi colla ripresa di due versi, e
quali tutte di ottonari (raramente di settenari) aggruppati e legati in
semplici fogge, ch'ebbero altrove nome di barzelletta e di cui pi opportunamente diremo nell'ultimo capitolo; d'altra forma ve n'ha ben
poche. In alcune il poeta parla alle fanciulle e ai garzoni e tutti esorta
;

all'amore, alle danze, alla gioia:


Chi tempo aspetta

assai tempo si strugge


tempo non aspetta, ma via fugge.
La bella giovent gi mai non torna,
N '1 tempo perso gi mai riede in drieto ....
Per, donne gentil, giovani adorni,
Che vi state a cantare in questo loco,

'1

Spendete lietamente

vostri giorni;

Ch giovinezza passa a poco a poco;


Io ve

ne priego per quel dolce foco

Che ciascun cor

gentile incende e strugge.

In pi altre egli esulta d'amore si accora per da crudelt dell'amata, si stizzisce per la sua infedelt: leggermente sempre, ch l'amore appare in quei componimenti un capriccio, il dolore non mai
,

strazio dell'anima, l'invettiva

si

tempera

di scherzo.

versi la chiusa;

Con tue promesse e tue false parole,


Con falsi risi e con vago sembiante,
Donna, menato hai il tuo fedele amante,
Sanza altro fare onde m'incresce e duole.
;

Notate in questi

Le canzoni
d

di

LS?enzo

244

CAPITOLO SETTIMO
Io

ho perduto drieto a tua bellezza


Gi tanti passi por quella speranza,
La quale mi die tua gran gentilezza
E la belt ohe qualunque altra avanza
Fidomi in lei e nella mia eostanza,
Ma insino a qui non ho se non parole.
:

il mio signore
Che non mi tenga pi in dubbio sospeso
Di' che mi mostri una volta il suo core,
E se perduto il tempo ch'io ho speso:

Va', canzonetta; e priega

Come

io

Prendo

Una
renza

ar

il

suo pensicr inteso,

partito, e

volta egli parla di morte;

non vo' pi parole.

ma

con che

tono,

Meglio, meglio confortarsi dell'abbandono

con che indiffepensando che la

disgrazia assai frequente:


E'

vede in ogni lato

si

Che'l proverbio dice il vero,


Che ciascun muta pensiero

Come

l'occhio separato.

Sotto alla penna d'un artista che aveva letto

il Petrarca e i poeti
pi terso idioma d'Italia, la poesia popolare cittadinesca acquista in quelle ballate eleganza e precisione di

del dolce stile e che parlava

l.i

il

frase,

pur senza molto perdere della sua semplicit e freschezza. Con

mano

altrettanto felice

il

Medici tratt

la

poesia rusticale nella

da Barberino, dove l'ottava perfetta assume i modi


immagini e l'intonazione del rispetto campagnuolo.

Nenda eia

Barberino,

t'ho agguagliata alla fata

Nen-

stilistici,

le

Morgana,

Che mena seco tanta baronia:


Io t'assomiglio alla stella Diana,

Quando apparisce

alla

capanna mia;

che acqua di fontana


E se' pi dolce che la malvagia
Quando ti sguardo da sera o mattina
Pi bianca se' che il fior della farina.

Pi chiara

se'

In tal

modo

il

Vallra, contadino mugellano, da cui

si

immaginano can-

tate tutte le cinquanta stanze, descrive le bellezze della Nencia; e poi se-

gue facendo a

lei

proteste d'amore, profferendole doni e servigi,

moven-

Talvolta per le tinte

son troppo caricate, le


immagini divengono grossolane e volgari; v'ha pi malizia di doppi
sensi che l'autentica poesia popolare non usi. Ecco, ad esempio
una
dole dolci rimproveri.

stanza, che,

come pi

altre, ricorda la ballata

Fatevi alV uscio

madonna

dolciata, ricomposizione trecentistica di scherzevoli cantilene, divulga-

tissima nel Quattrocento:

Tu se' pi bella che non un papa


E se' pi bianca ch'una madia vecchia;
Piacimi pi ch'alle mosche la sapa,
E pi ch'e fichi fiori alla forfecchia:

ROMA E FIRENZE

AI

245

TEMPI DEL MAGNIFICO.

Tu se' pi bella che 1 fior della rapa,


E se' pi dolce che '1 mei della pecchia:
*

Yorre' ti dare in una gota un bacio,


Ch' saporita pi che non il cacio.

dei quali scherzi parmi esagerata l'opinione di chi pensa


Magnifico voluto metter in burla la poesia rusticale e quasi
farne una dilicata parodia. La tendenza alla burla, che era nella natura di lui e che si manifesta perfino nelle Selve nel Corinto e nell'Ambra, favorita dall'indole del componimento, diede nella Nenca

malgrado

abbia

il

guizzi pi appariscenti e pi durevoli

un

po' vezzo degli

storici

nient'altro.

ricercare

in

ogni opera

di

Lorenzo

de' Medici intenzioni riposte, come scorgere in ogni suo atto null'altro che calcolo di raffinata politica. Firenze non fu mai pi lumino-

samente sorrisa dal sole dell'arte, n mai pi lieta di feste e di pompe


che al suo tempo; quando Domenico Ghirlandaio e Filippino Lippi dipingevano in S. Maria Novella le loro storie meravigliose quando i
cittadini ordinavano a loro spese pubblici balli e armeggerie, quando
,

pel succedersi quasi continuo di solennit usuali e straordinarie la vita

pareva tramutata in un carnevale perpetuo. A ridur le cose a quel


punto certo furono stimolo e strumento l'esempio e l'oro medicei, ma
darne interamente il merito o la colpa a Lorenzo cancellare due
secoli di storia fiorentina; pensare che solamente le mire politiche ab,

biano ispirato e retto il suo operare, rimpicciolire la figura di quell'uomo che mostr d'avere cos alacre sentimento del bello e di saper
trattare l'arte del verso con geniale scioltezza. Con che non intendo
negare, si badi, che volentieri egli non approfittasse delle inclinazioni
sue e del popolo per addormentar questo nei piaceri e fargli dimenticare
la libert di cui lo privava.
di
carnevale traveEra antico costume dei Fiorentini nei tempi
1
stirsi ad uso di donne e di fanciulle e andar cantando canzoni a ballo.

Magnifico pens di variare non solamente il canto, ma le invenzioni e il modo di comporre le parole , ond'ebbe nascimento una nuova
Il

foggia di festeggiare e con essa

Andarono

allora per le

una particolar variet

vie di Firenze le processioni

trionfo di divinit pagane, di antichi eroi

andarono
sociali.

le

mascherate delle professioni

della

ballata.

raffiguranti

il

e di personaggi simbolici;
delle et

delle

condizioni

dire del Lasca, di cui sono le parole test riferite, la prima

mascherata fu quella dei venditori di berricuocoli e confortini, per la


quale Lorenzo stesso fece il canto e Arrigo tedesco, maestro di cappella in S. Giovanni, la musica:
Berricuocoli, donne, e confortini

Se ne volete i nostri son de' fini.


Non bisogna insegnar come si fanno;
Che '1 tempo perso, ed pure un gran danno;
Ma chi lo perde, come molte fanno ;
Convien che faccia poi de' pentolini.

T
I

canti

ca n

[e s

ia

'

246

CAPITOLO SETTIMO.

di ammaestrar le don ne ad
impastare e cuocere i
canto Segue a dar loro ben altri insegnamenti. Non sono
molti i Canti carnascialeschi, che [tossano con certzza, essere ascritti
al Magnifico: quello delle fanciulle e delle cicale (a dialogo), quello

specie

sotto

berricuocoli

il

de' cialdonai, quello dei romiti e alcun altro.

Ma

a questi tennero bor-

done ben presto le canzoni de' pellicciai, dei cavadenti, dei ferravecchi,
delle monache, delle balie e va dicendo
opera d'altri rimatori, forse
in gran parte di Bernardo Giambullari. Lo scherzo che ispira codesti
alati componimenti ha quasi sempre significato immorale od osceno;
un'agevole allegoria colla quale si esortano le donne a peccare, a trascurare
loro doveri coniugali, a godere la vita finch loro sorride la
,

giovinezza.
Le Laud.

Che

buona prova anche nella


non ch'ei la tentasse. Figlio
della pia Lucrezia Tornabuoni, anche Lorenzo aveva frequentato, giovinetto, col fratello Giuliano le compagnie di dottrina, ove convenivano
l'inventore di quei liberi canti facesse

poesia religiosa, pu recare meraviglia;

suoi coetanei a esercitare su temi devoti la loro eloquenza imbottita

di

classicismo.

Uomo, tenne fede


ed

detto, abitudine generale,


*

il

alla religione degli avi, com'era, s'

culto cristiano desider abbellito dalle

grazie dell'arte. In fra Mariano da Gennazzano l'erudizione

associava ad una rara eleganza di

sacra

si

ad una grazia squisita nel


porgere, ad una voce dolcissima, e Lorenzo ammir e colm di beneinfici e d'onori quel predicatore, che fece per alcun tempo deserto
torno al Savonarola. Nella religione poi egli trov una palestra accomodata all'arte sua di poeta popolareggiante e ai sentimenti tradizionali
nella famiglia. In alcune delle sue Laudi seppe leggiadramente adattarcalla manitestazione di idee cristiane concetti platonici e corroborare la
semplicit della forma d'una sottil vena petrarchesca. Se prese ispirazione
dai fatti dell'umano riscatto, pieg la materia gualcita ad atteggiamenti
nuovi e scrisse versi, a malgrado di qualche asprezza, efficaci, come
stile

questi della laude Peccator, su, tutti quanti'.


Cieca, notte,

Che

il

ben

se' santa,

vedesti suscitare

Nelle tenebre tue quanta

Luce al mondo non appare!


L'ombre tue furon pi chiare
Che del sole i razzi tanti
Mostra il cammin dritto e certo

La colonna nell'oscura
Notte al popol nel deserto,
Agli Egizi fa paura:
L'interno a tal luce pura
Trema e in ciel cantano i santi.
In genere

nelle

sue

pensiero che difende

appare una decente e savia maturit d


Magnifico dall'affettata ingenuit puerile del

laudi
il

Belcari senza lasciarlo cadere nell'aridit e nella pedanteria.

Per una compagnia

di dottrina

Lorenzo compose ancue una sacra

ROMA E FIRENZE

247

TEMPI DEL MAGNIFICO.

AI

rappresentazione e forse coll'autorit del suo esempio confer a promuovere la ricca fioritura di cui, come s' visto, quel genere si al-

San Giovanni

Paolo fu recitato
nel 1489 dalla compagnia del Vangelista, attore con altri il terzogenito di Lorenzo, quei Giuliano, allora sui dieci anni, cui fu primamente
dedicato il Principe del Machiavelli. Nel dramma sceneggiata, fra
molti episodi, dapprima la storia della conversione di Gallicano, condotliet in sullo scorcio del secolo. Il

compiutasi per un miracolo e per le


Paolo; poi quella dell'avvenimento al trono
di Giuliano l'Apostata, del martirio di quei due giovani e della morte
del persecutore. Delle sacre rappresentazioni popolaresche ritornano
ma gli anacronismi , le inverisimiqui non pure le forme e i modi
a' servigi

tiero

persuasioni

di

Costantino

di

Giovanni e

di

bruschi passaggi da luogo a luogo e da tempo a tempo; solo


di tratto in tratto lo stile si fa pi sostenuto e la verseggiatura pi
franca, che non sogliano essere in quelle. La sapienza politica del poeta
glianze,

traspare forse nel discorso sui doveri del buon reggitore che Costantino rivolge a' figliuoli sul punto di rinunciare al trono ed in quello
sullo stesso argomento di Giuliano succeduto a Costantino II. Giuliano,

che

si

compiace

combattere

di

Ad

Cristiani colle loro stesse armi:

ogni Cristian sia tolta tosto

La roba, acci che libero contempli;


Ch Cristo disse a chi vuol la sua fede:
Renunzi a ogni cosa

muore

un

chV

possiede;

da un san Mercurio, pronunciando le parole famoso

trafitto

Cristo Galileo, tu hai pur vinto! , personaggio abbozzato con

non molto

certo rilievo e

clisforme dalla storica verit.

Nelle opere di Lorenzo che abbiamo esaminato, spira un'aura di


schietta fiorentinit, dalla lingua freschissima e radamente ingombra
di latinismi e dagli scherzi che in alcune si inframettono ed altre
pervadono da capo a fondo. L'abitudine di trattare coi grandi l'amla ricchezza , gli studi non avevano soffocato in
bizione di dominio
Lorenzo le qualit caratteristiche di sua nazione. Il vero dominatore di
Firenze, l'uomo che per alcun tempo resse quasi a sua posta i destini
,

d'Italia

serbava nelle relazioni cogli amici e nella vita domestica

il

del borghese fiorentino socievole, gioviale, alla buona, pronto al


teggio, al frizzo

al

fare

mot-

sarcasmo. L'arguzia fiorentinesca che nelle con-

versazioni sonanti sulla piazza, nelle logge, nei fondachi metteva in canzo-

un po' grossamente, or questo, or quello, scintilla nel suo


poemetto I Beoni, anzi, ad essere franchi, sazia. Un giorno d'autunno,
narra Lorenzo, egli faceva ritorno in citt da porta Faenza e si imbatt in un folla di gente che andava lesta verso il ponte a Rifredi
per gustare di certo claretto spillato pur dianzi dall'oste Giannesse.
Dapprima Bartolino e poi ser Nastagio gli si fecero guide e gli vennero a mano a mano dicendo i nomi dei passanti. Ecco il piovano di
Fiesole dal naso appuntato lungo e strano , che porta la fida tazza
perfino in processione ed ha fatto del ber suo paradiso ecco Adonatura, talora

248

CAPITOLO

vardo che

si

SETTIMO.

ferma a imbastire ragionamenti, gravi

e nella pigrizia intellettuale

faceti,

in apparenza,

eppur

del

bevitore sfatto ripete melenso


idee e parole; ecco Stefano Sensale che se ne viene
onde balenando a spinapesce . Uliviere e Apollon Baldovino sono s grandi che

come a Dante

i giganti laggi
sull'orlo del pozzo infernale, paiono torri
a Lorenzo, quando gli appariscono di lontano. E la sfilata seguita, lunga,

insistente lino al piovano di Stia,

che lascia il suo Casentino per ire


bagno Per ritrovarvi la perduta sete ; fino al piovano Arlotto,
che all'elevazione del Sacramento non s'inginocchia se non v' buon
vino, Perch non crede Dio vi venga drento . Il poemetto non
compiuto; se n'hanno otto capitoli e un breve frammento del nono.
Scritto in metro dantesco, racchiude frequentissime reminiscenze della
al

Commedia

negli atteggiamenti delle scene, nei versi, nelle frasi; ma


Trionfi, come i poemetti del Finiguerri e

in fondo esso tien pi dei

di Gambino. Procede certo direttamente da questi, ma li supera di


gran tratto per la vivezza delle rappresentazioni e per la vena di spirito comico che vi scorre per entro. Nei Beoni non abbiamo soltanto
una nuda enumerazione di nomi, ma spesso figure disegnate robustamente con gradevole esagerazione di contorni, senza un vero intento

satirico, piuttosto coli 'intento di ridere e di far ridere.

gnifico motteggiatore tutto

buono a codesto, perfino

per

il

ma-

l'imitazione dan-

tesca, perfino l'adattamento ai frivoli discorsi dei filosofici sillogismi e


il

ben fu osservato
poema, Il Simposio. Noi

ricordo*

titolo del

ma

disgusto;

essa

non

il

dei banchetti platonici nel secondo


vi

sentiamo

la

fine dell'operetta e

parodia e ne proviamo
germoglia non gi da

irriverenza verso Dante e la

filosofa, bens da una cotal leggerezza,


poeta quasi non avverte che lo strumento di cui si serve,
oltrepassa le sue intenzioni.

per cui

Lo
gnifico

il

schietto carattere fiorentinesco che


,

abbiamo ora notato nel Ma-

esultava liberamente nei ritrovi della brigata medicea

e pi

puro da ogni mescolanza, pi rilevato che in altri si impersonava in


un uomo, per lunga dimestichezza caro a Lorenzo, in Luigi Pulci.
In casa i Pulci le Muse italiane avevano posto loro stanza. Fra i
molti figliuoli che Jacopo di Francesco ebbe da Brigida di Bernardo
de' Bardi , tre coltivarono con attitudini varie e con vario successo
Lisa and
la poesia, Luca, Luigi e Bernardo; delle figliuole, la
sposa a Mariotto d'Arrigo Davanzati, uno dei dicitori del certame
coronario; Antonia Giannotti, moglie a Bernardo, tratt in poesia sogapprestando devoti trattenimenti alle pie confraternite
col
colla Santa Dominila
Guglielma, col S. Francesco
Figliuol prodigo. Ma le ricchezze che in altri tempi avevano fatto lieta
la famiglia, ne erano esulate; ne' suoi ultimi anni il padre era stato
per non
escluso dagli uffici pubblici
posto a specchio, dicevano
aver pagato le prestanze al comune, e dopo la morte di lui avvenuta
a mezzo il secoio, i figliuoli si trovarono senz'arte n mestie.ro nes getti religiosi

colla S.

suno, con poche sostanze e con debito assai .

ROMA E FIRENZE
Luca,

maggior

il

AI TEMPI

249

DEL MAGNIFICO.

dei fratelli, cerc per

primo un avviamento met-

tendosi al banco degli Arrighi a Roma, ma la fortuna non gli arrise


e fallito mor tristamente in prigione ai 29 d'aprile del 1470, che
anni. Nel 1465 egli dedic a Lorenzo un
poemetto mitologico in ottave II Dradeo d' Amore, di cui la scena
posta sui monti Calvanei nel Mugello, e l'argomento rassomiglia a quello
del Ninfale fiesolano. Vi si narra come il satiro Severe amasse la
ninfa Lora e ne fosse neramente respinto; come poi per le male arti
d'uno spirito infernale stesse per conseguire il suo intento quando
Diana crucciata trasform lui in liocorno e questo, ferito da Lora stessa,
nel fiume Sieve; come infine la ninfa fosse tramutata nel fiume Lora,
che si confonde colla Sieve non lungi dalla Cavallina, dove i Pulci avevano loro tenimenti. Qual differenza per tra il soave idillio boccaccesco, caldo di psicologica verit e fragrante di profumi campestri, e
Scarna se ne consideri la contenenza
la scarna leggenda pulciana

non aveva ancora trentanove

essenziale; ch di declamazioni, di particolarit oziose o del tutto este-

ornamenti vani e digressioni ha anzi dovizia. Infatti pi che


una met del poemetto occupata da altri racconti la leggenda plau-

riori,

di

tina

di Anfitrione

le favole

ovidiane di Ceice

e di Atalanta e

una

narrare
moderna
da Locio
signore

giovine
di
virt
senile
d'anni
e
gentil
un
,
da
renzo de' Medici, venuto a eaccia in quei dintorni. Come in gran parte
cos sono classiche le immagini che essa preferisce. Nel
la materia
Dradeo senti troppo l'erudito che pensatamente ricorda; troppo poco
il poeta che si assimili ed avvivi i ricordi; onde manca al poemetto freschezza d'ispirazione, e la forma dello stile e del verso in generale
storia d'amore,

che

il

pastor Tavaiano aveva udito

fredda e monotona. Un'intonazione molto differente dal resto hanno


per le ottave in cui descritto il carattere di Sosia servo d'Anfitrione (II, 6 sgg.) e quell'altre in cui si allarga e si ammoderna la
descrizione ovidiana d'una burrasca (II, 91 sgg.). La vivacit e lo studio del reale che contraddistinguono questi due luoghi fanno ben
dubitare non mettesse mano anche nel Dradeo Luigi Pulci, come poi
nel poema cavalleresco di Luca, Il Giriffo Galvaneo. A simili dubbi non
danno luogo certamente Le Pistole faticosi componimenti in terza
rima spettanti ad un genere gradito ai Quattrocentisti, che riconosce
nelle Eroidi i suoi modelli. Anche esse furono da Luca dedicate a
Lorenzo anzi la prima si immagina diretta da Lucrezia a Lauro, vale
a dire dalla Donati al suo amatore."* Le altre sono in nome di personaggi classici, di Giarba che scrive a Didone, di Egisto a Clitennestra,
di Polifemo a Galatea, ecc. Intessute di frasi e di pensieri stantii, gremite di zeppe e di latinismi ben meritano. l'oblo, in cui sono cadute.
La verseggiatura vi aspra e stentata anche per le difficolt che l'autore si imposto, come l'uso frequente della rima sdrucciola e i bisticci
di parole che tutta abbuiano l'epistola di Circe ad Ulisse. Non del tutto
spregevole per una certa novit nella situazione per un lieve soffio
di sentimento e per qualche verso discreto forse soltanto quella di
Argia a Polinice combattente sotto le mura di Tebe.
,

luc^fuIc

27)0
Bernardo
(143S-8S).

CAPITOLO SETTIMO.

Bernardo (1 138-88), tradusse in terzine


qua smozzicando, l ampliando 9
altrove ricalcando troppo fedelmente, non di rado fran tendendo il testo
latino. Meglio riusc nelle opere originali. I suoi sonetti amorosi, che
j\

le

l0v dei fratelli

Pulci,

BiLColic.he di Virgilio: .issai male,

radunati inviava a Cafaggiiilo, paese bel che siede nel Mugello ,


dove era Lorenzo suo, sono qualche volta adorni d'una gentile, se non
nuova, eleganza; il poemetto in ottave sulla Passione di Cristo, quantunque non abbia l'ingenuo calore di sentimento della Passione del
Cicerchia, arieggia non infelicemente la maniera popolare. Alla quale

Luigi Pulci
(1132-si,.

Bernardo

si

Barlaam

attenne anche nello scrivere la rappresentazione sacra di


se sua
la Santa Teodora. Invece nella Vita della
,

gloriosa Vergine Maria in terzine si accost piuttosto a quegli aridi


poemi sacri, che altrove abbiamo ragguagliato alle cronache in versi.
Omaggio di intitolazioni e di lodi resero, come s' visto, a Lorenzo,
Luca e Bernardo; ma intimit vera e affettuosa ebbe con lui solo il
mezzano dei fratelli, Luigi, quello pel quale suona glorioso nella storia
o ^ a i e tt e.ratura nazionale il nome dei Pulci. Pi vecchio di Lorenzo
era nato nel 1432
di quasi diciassette anni
forse lo palleggi
(

bambino; certo vide sbocciare alla vita l'ingegno del fatai giovinetto.
E lo am d'un amore che fu bens ravvalorato dalla gratitudine, ma
che aveva radici pi profonde e pi schiette. Se il Magnifico era lontano, Luigi diceva di essere tutto soletto, smarrito e afflitto e lo

pregava di fargli un verso di sua mano ch'io sia certo che mi vuoi
bene o no , perch, seguitava in un'altra lettera solo ch'io senta
che tu mi ami, sono pi che contento in boschi o dove io sia; non
m'ha lasciato il Cielo altro che te . Una certa affinit di carattere
spingeva l'uno verso l'altro i due uomini, cos diversi per condizione,
una certa conformit, diceva il Pulci, che vien dalle stelle e fa ch'iot'ami tanto e ch'io mi confidi ancora tu ami me molto . N per vero
s'ingannava. Lorenzo ricambi cordialmente quell'affetto, sovvenne Luigi
nelle sue necessit, lo giov di valida protezione e gli ottenne

il

ritorno

Luca anch'egli fu sbandeggiato (1466).


Gigi era per Lorenzo il quinto elemento senza Gigi non si poteva respirare in casa Medici, Ond' che gli furono affidate anche commissioni politiche
ed il Pulci and a Camerino presso Giulio Cesare
da Varano (1470) e poi a Napoli dove soggiorn parecchi mesi (1471),
informando Lorenzo degli umori dominanti in quella corte e studiandosi
di mantenerlo in buona riputazione presso il re. Con tutto ci non gli
venne mai fatto di liberarsi dalle strettezze economiche e dalle cure
dei traffichi non prosperosi; di adagiarsi insomma in una vita riposata
e tranquilla. Anzi ne' suoi ultimi anni lo vediamo vagare spesso per
quando per

debiti del fratello

a Milano, a Bologna, a Venezia, in seril quale s'era acconciato almeno


fino dal 1472. Ed appunto mentre seguiva quel valoroso condottiero
in un viaggio da Verona a Venezia, lo colse la morte in sui primi di
novembre dal 1484: a Padova, lungi dalla sua Firenze che aveva semle

citt dell'Italia superiore,

vigio di Roberto Sanseverino, presso

ROMA E FIRENZE

251

TEMPI DEL MAGNIFICO.

AI

pre avuto nel cuore, dove tornava a lunghi e frequenti soggiorni ogni
volta cheil suo signore glielo permetteva, e dove lo attendevano le cacce
gioconde., le partite alle mlnchiate, a passadieci, a sbaraglino col suo
Lorenzo,

Le

le

conversa/ioni e

le

baldorie co' suoi amici migliori.

lettere del Pulci, delle quali

un

bel manipolo giunto a noi,

piene di brio, di espressioni efficaci e scultorie, di motti furbeschi, di


oscure allusioni, hanno l'aria di chiacchierate vivissime, somigliano i
discorsi

un

po' disordinati di

un amico che riveda dopo lunga assenza

ma

l'amico e vuoti impetuosamente,

argutamente,

sacco delle notizie.

il

Gettate gi alla buona e senza studio, rispecchiano con pi aperta vivacit che non possa un'opera d'arte, tutto l'uomo, fantastico, spiritoso, gioviale, pronto a cogliere delle cose l'aspetto ridicolo e a colorirne piacevolmente gli aspetti pi seri, facile verseggiatore. Nel 1472

accompagna a Roma

moglie di Lorenzo; va con lei a viMorea, Zoe Paleologa, e ti schizza una


caricatura saporitissima di quella strana Befania , di quella cupola di Norcia , anzi montagna di sugna . A Foligno rovina la
volta d'una chiesa ed egli si salva per miracolo; pure la tragica scena
acquista sotto alla sua penna una tinta comica. La polvere accec
ognuno; le madri correvano come pazze gridando e cercando i figliuoli,
e chi il padre, chi il fratello, ed alcuno, pazzo!, la moglie; la chiesa
era chiusa, e uno piccolo sportello occupato di gente caduta e incalcata a traverso. Gridossi per una ora tanta misericordia, che se n'emla Clarice,

sitare la figlia del despoto di

pirono

a pi giunti come un gatto salt del pergamo ;


Trassonsi questi infarinati tr'sassi.
caso.

le tina. Il frate

non vedesti mai pi strano

andorno a predellina
per la terra; pure n' morti pochi; ma molti bollono, e fu per Dio a
ora che tutti quelli eravamo in chiesa non potendo fuggire (e tuttavia
pareva rovinarsi ogni cosa) ci saremo soscritti di nostra mano a una
gamba rotta; tanto che fu strano caso e merita scriverlo bench poi in
gran parte si abbi fatta cilecca all'occhio, pure meglio che non nulla.
Se altro di buono seguir ti aviser ma non mi credo pi trovare
presente a vedere simile cose, ch a la prima predica scocc la trapchi morto, chi tramortito, chi guasto, e tutto d

pola .

Lorenzo mandava poi

suoi versi

una

frottola,

una can-

zone, sonetti tra faceti e satirici, nei quali canzonava, egli fiorentino,
la parlata e

costumi

motivo vecchio quanto

Burchiello,
o riprendeva
vecchi soggetti

di

nostra e non discaro al

altre citt,

la lirica

altri

cene e i mali alloggi.


malgrado del suo fare ridanciano il Pulci non per uno spensierato. Come ogni ingegno incline all'osservazione
si ferma sulle
idee che gli si affacciano e ne trae considerazioni non sempre liete.
Tutte le cose nostre son cosi, fatte; uno zibaldone mescolato di
dolce e di amaro e mille sapori vari . La melanconia che spira
dal suo viso pallido e scarno, anche in fondo all'anima sua. Le sventure provocano in lui impeti di collera lo accasciano profondamente
della poesia burlesca, quali le cattive

gli

strappano sentenze dolorose:

CAPITOLO SETTIMO.
L\iomo

sol

d'uom

Come di terra
Non sempre la

Ma

sempre son

Quel

A
e

m?no ri

di

Luigi ruici.

pasce,

si

talpa

rosa,
le

spine

di ch'io venni al

mondo

morir cominciai.

Ai 7 di febbraio del 1469 nella pia/za di S. Croce fulgida di ricchi addobbi e di cavalieri sontuosamente vestiti
Lorenzo correva in
,

giostra.

La dama

del suo stendardo era Lucrezia Donati,

non Clarice

Orsini, la sua fidanzata; tanto quegli amori mentali e letterari parevano

stranieri all'amor coniugale.

E bench

in

armi e

di colpi

non

fossi

molto strenuo , nota arguto Lorenzo stesso ne' suoi Ricordi, mi fu


giudicato il primo onore
cio un elmetto tutto fornito d'ariento con
un Marte per cimiero . Quella giostra ebbe cantore, in un poemetto
in ottave, Luigi Pulci, che l'arida materia e le stucchevoli enumerazioni di cavalieri, di cavalli, di imprese avviv (ahi troppo raramente!)
del suo brio e di qualche scherzo. Di Lorenzo egli volle pur farsi imitatore, scrivendo La Beca da Dicomano\ ma la sottil vena comica che
vedemmo scorrere nella Nencia, lasci prorompere copiosa e di nel
grottesco. Anche nelle ottave che Nuto canta alla Beca suona ben chiaro
l'eco della poesia rusticale, ma alterata profondamente dall'intento di
parodia manifesto. Rispetti d'amore in tono pi serio probabile ch'egli improvvisasse nelle riunioni della brigata medicea, alla quale la recitazione di versi estemporanei era gradito passatempo. Vi fece le sue
prime prove Piero de' Medici, il maggiore dei medicei rampolli, che
di quell'esercizio prendeva assai diletto; e spesso dov comparirvi Baccio Ugolini, un de' pi begli spiriti del suo tempo , adoperato da
Lorenzo in ambascerie importanti, famoso per la facilit nel verseggiare stans pede in uno e finito vescovo di Gaeta (1494). In quelle
riunioni il Pulci lesse, almeno a tratti, il poema di cui diremo lungamente a suo luogo, e recit, com' verosimile, sonetti improvvisi a stra,

zio de' suoi nemici.

Bartolomeo
scaia.

come

quefermerebbono,
come Josu per udirle. Tuttavia ci tra denti qualcuno per uscir
^ osi ne ^ a primavera del 1465 Gigi scriveva a Lorenzo; ed
infatti, o prima o poi, i sonetti uscirono fuori a dileggiare messer
Bartolomeo de' begli inchini , cio Bartolomeo Scala (1428-96), che
Val d'Elsa era salito, grazie ai favori
dal paterno mulino di Colle
di Cosimo e di Lorenzo, al banco di cancellier di palagio. La contesa,
qual che ne sia stata la causa, antipatia nel bizzarro rimatore per l'avido e uggioso umanista colligiano o reciproca gelosia, pare non durasse a lungo. Probabilmente lo Scala si tacque e l'altro, accortosi che
correva pericolo d andarne colla testa rotta ( egli pi l che sere

suoi sonetti s to

Se tu

ci

fossi, io farei

mazzi

caleiidinaggio. Io direi cose che

di sonetti
il

di ciriegie in

sole e la luna

si

son nulla ), ringuain la spada.


Pi accanita e al Pulci pi dolorosa fu la lotta ch'egli sostenne
con ser Matteo Franco. Era questi un altro fiorentino, tutto cosa dei

ed
Franco,

io

ROMA E FIRENZE

Al

253

TEMPI DEL MAGNIFICO.

Medici, carissimo a Lorenzo, che ne gradiva l'umore giocondo. Usciva

da una famiglia d'umile condizione, i Della Badessa, ma lo chiamavano


Franco dal nome del padre. Grazie all'amicizia dei Medici, a lui prete
piovvero i benefici e le grasse pievanie; nel 1492 ottenne un canonicato nel duomo di Firenze e poco dopo fu fatto spedalingo nell'Ospedale di Pisa, dove mor a quarantasette anni ai 6 di settembre del 1494.

>

A scalpellar sonetti nel plastico marmo della sua loquela natia aveva
appreso fin da' suoi giovani anni , descrivendo coi moduli tradizionali
le sue miserie di prete costretto a vivere in una pieve strana e maledetta , o domandando limosine di vesti e denari sicch quando ebbe
e fu tra il 1474 e il 75, poco dopo il suo ingresso
briga col Pulci
era gi destro a maneggiare quella punnel palazzo di Via larga
gente arma di polemica. E i sonetti volarono dall'una parte e dall'altra, pieni di contumelie, di allusioni maligne, di sarcasmi, avventando
accuse di turpi vizi, non risparmiando neppure i parenti dei litiganti.
non si cura tanto di parare i colpi quanto di
Il Franco, pi calmo
assestarne di micidiali. Il Pulci risponde inviperito, ma si accora di quel
trameno; le coltellate dell'avversario gli danno la febbre e ne
scrive con profondo rammarico ai suo amico potente. Forse colla sua
improntitudine egli avea dato occasione alla contesa tuttavia pare che
il provocatore fosse ir Franco, cui forse pungeva desiderio di non avere
rivali nel cuore del Magnifico. Ser Matteo si abbaruff di fatti anche con
;

Bernardo Bellincioni, uomo dello stesso stampo di lui, figlio come lui
di povera famiglia, e pi di lui esperto nell'arte del dire in rima ed
;

in ricambio d'un velenoso sonetto s'ebbe complimenti

come

questi:

Pretaceio da campane sciagurato,


Volgiarrosti in cucina e pien di vino,

ed accuse
Il

di incredulo e bestiale.

Bellincioni (1452-92) teneva col Magnifico assidua corrispondenza

in versi ed in prosa; gli descriveva in tono faceto le sue miserie, gli

chiedeva soccorsi e protezione in difficili congiunture, gli inviava piccoli doni, gli narrava le sue avventure, si studiava di tenerlo allegro
colle sue burchiellerie. E il patrono gli rispondeva con affabile semplicit, talvolta

lui

grande

non gli lesinava i suoi favori; riponeva in


come pare, lo incaric di alcuna gelosa com-

in versi;

fiducia, se

Ma le faccende di casa andavano di male in peggio per il povero Bernardo, onde anch'egli, come Luigi Pulci cerc altrove uno
stabile collocamento, quale il libero mecenatismo mediceo, alieno da certe
principesche costumanze, non gli poteva assicurare. Nel 1480 le sue
speranze erano in Roberto Malatesta, condottiero al servigio dei Fiorentini
al quale diresse una canzone laudativa. Ma non se ne fece
nulla; e, poco, dopo il Bellincioni si allog alla corte mantovana di Federico Gonzaga e poi a quella milanese del Moro
dove lo incontremissione.

remo

in altro

momento.

Ai tre fiorentini

spiriti bizzarri

, dei

quali

abbiamo ora parlato,

Bernardo
Bellincion !-

CAPITOLO SETTIMO.
Lucrezia

Tornahuom

a Luigi Pulci, al Frane;) e al Befiincioni, facevano buon viso anche


.

di

le

donne

casa, Lucrezia

La Tornabuoni (1425-82) madre


Lorenzo, era donna d'ingegno sopra il comune e d'animo nobile e
di

e Clarice.

cortese; assecondava colle sue liberalit e talvolta forse giovava di accorti consigli la politica del figliuolo ed alle cure della massaia affettuosa e operosa alternava la composizione di rime, cornmendevoli, se

non per arte

squisita,

per ingenuit popolaresca. Sono laudi sacre, sono

storie bibliche ed evangeliche in ottava e in terza rima, che

vano nei

si

legge-

tranquilli convegni della famiglia, pio riscontro alle novelle

come ad
manoscritto delle
fu pianta e lodata

recitate in pi baldanzose riunioni. Col Bellincioni, al quale,

affidava volentieri per codeste letture

altri amici,

sue poesie

scambi qualche sonetto e da lui


occhi per sempre. Il Pulci le era devoto; ebbe da
lei commissione di scrivere il Morgante e senza dubbio
tanta riconoscenza le attesta
soccorsi nelle sue miserie.
T u tt 'altra donna era Clarice Orsini. Usa all'assettata alterezza della
nobilt romana, si trov forse a disagio tra quella confidenziale e libera consuetudine di signori e di popolani e visse ritirata consacrandosi tutta al bene dei figliuoli, certo non apprezzata quanto si meritava
dal marito cos diverso da lei. Il Pulci la ricorda sovente nelle sue
lettere ed ella non l'ebbe discaro; del Franco diffid in sulle prime,
ma poi gli pigli affetto, si piacque d'averlo compagno ne' suoi viaggi
e lo fece suo maestro di casa. N ser Matteo venne meno a questa
fiducia, e ricambi di cure e carezze ai figlioletti la predilezione della
madre. Oh come si compiaceva il buon uomo in veder Piero fatto
il pi bello garzone, la pi graziosa cosa che, per Dio, voi
vedessi
con certo profilo di viso che pare un agnolo E con qual
mai,
tenerezza non vezzeggiava fanciulletto di appena sei anni Giuliano
vivolino e freschellino corn'una rosa; gentile, pulito ciottolino come
uno specchio, lieto e tutto contemplativo con quegli occhi ! Morta
Clarice (1488), il Franco segu a Roma la Maddalena, seconda figliuola
di lei e sposa a Franceschetto Cibo; la segu come cappellano, ma in
quei quattro anni che ella ancora visse, tormentata dai morbi, dalle
gravidanze e dalla nostalgia, le fu segretario, maestro di casa, poeta,
,

ella

quando chiuse

gli

Clarice
orsini,

il

perfino cuoco e infermiere. Dalle quali affettuose prestazioni la figura


del rissoso sere attinge un'aria inaspettata di bont e di dolcezza.

Angelo
Poliziano
(H54-94).

alcuni personaggi
* n mezzo a ^ civile consorzio, di cui per via di
abbiamo qui rinnovato l'immagine, passa cinto dei pi puri fulgori delp ar e^ ^ n un co ^ a } e aristocratico atteggiamento, Angelo Poliziano.
Dalla patria Montepulciano, terra posta tra la Valdichiana e la Valdorcia e detta latinamente Mons Politianus, egli ebbe il nomignolo,
che tolse fama al casato Ambrogini. Ivi nacque ai 14 di luglio del 1454.
Dieci anni, dopo, una sera del maggio, suo padre Benedetto, uomo di
leggi e cittadino ragguardevole, cadeva vittima di vecchi odi familiari,
che quel sangue non ispense ancora. Cos intorno alla culla dell'uomo
|.

ROMA E FIRENZE

AI

255

TEMPI DEL MAGNIFICO.

cui primamente doveva sorridere in tutta la sua purezza l'ideale letterario della Rinascenza, fremevano i fieri corrucci e il furor di ven-

dette dell'et media.


la madre per alleggerire gli incarichi dello scarso pemand Angelo, il maggior de' figliuoli, a Firenze presso il cu-

Poco dopo,
culio

gino Cino. In quella rinnovellata Atene egli pot dar opera agli studi
e cos sollecito profitto ne trasse che a quindici anni scriveva epigrammi
latini, a diciassette greci. Tra il 1469 e il 70 ud nello Studio le lezioni
del Ficino e dell'Argiropulo, che lo avviarono quegli alla filosofia piatonica, questi alla conoscenza del greco e alla filosofia aristotelica. Ma

La sua
d ^/ftX.

pi che le speculazioni indagatrici di reconditi veri sedussero il giovinetto le forme dell'arte classica, e fu tutto in Omero, cui si accinse
a volgere in esametri latini con entusiasmo ammirevole e con ardi-

temerario. Il Marsuppini aveva


ed egli cominci dal secondo n
procedette oltre al quinto, seppure alcuna parte della traduzione polizianesca non andata perduta. Quel che ne rimane basta a mostrare
come i criteri ed i metodi del giovine traduttore non fossero diversi
da quelli dei suoi coetanei, quantunque illuminati da un pi squisito senso
del bello. Le semplici e robuste bellezze dell'originale dispaiono nella
venust virgiliana della frase latina, nella varia eleganza degli epiteti
e dei costrutti, nell'onda sonora del verso, e l'antica epopea offre la
trama ad una nuova e lussureggiante opera d'arte. Cos volevano i
tempi. Se il cardinal di Pavia, Jacopo Ammannati, abbia proprio avuto
sentore di tal grave difetto e lo abbia rilevato in una frase speciosa
d'un suo giudizio tratto con soverchia correntezza dai critici a significazione di moderni concetti, non so davvero; so che pi largo consenso
dovette trovar a' suoi giorni il Ficino, quando disse che Angelo con
tale perizia ritraeva in latini colori la greca persona d'Omero da ingenerar dubbio in chi non sapesse Omero essere stato greco, qual fosse
l'originale e quale la copia. E Segui , scriveva a Lorenzo che l'omerico giovinetto aveva accolto in sua casa, segui a prender piacere
di tali pittori, ch gli altri abbelliscono le case di caduchi ornamenti,
codesti invece dan lustro eterno ai padroni .
Tristi erano corsi al Poliziano i primi anni del suo soggiorno a Firenze, e combattuti dalla miseria. Girava s male in arnese che i monelli gli ghignavano dietro, e gi lo torturava il dubbio di dover abbandonare le dolcezze degli studi per darsi a professione pi lucrosa.
Gli 'Ambrogini non erano ignoti ai Medici; anzi Benedetto aveva chiesto
protezione a Pietro per s e per i suoi figliuoli nelle difficili vicende
de' suoi ultimi anni. Ed Angelo buss alla porta del palazzo di Via Larga;
buss, porgendo le sue preghiere in distici latini eleganti ed offrendo
come titolo che lo mostrasse degno di benevola accoglienza la sua
versione del secondo libro d'Omero; fu circa il 1470. Al giovane che
s bene prometteva di s, la porta si aperse e per essa la via all'agiatezza e agli onori. Nei primi anni fu uno dei cancellieri di Lorenzo,

mento da

tradotto

il

lui pi tardi giudicato quasi

primo libro

dell' Iliade

PolVa
casa
Medlcl

in

250

CAPITOLO SETTIMO.

un savio estimatore del suo merito, un amico e, che


un benefico incitatore delle attitudini forse meno apprezzate
ma a noi pi care, del suo ingegno. Ben vero che le lezioni

nel quale ebbe


pi monta,
allora,

del Landino potevano aver desto in lui l'amore per il bel volgare toscano e la venerazione pei grandi padri di nostra letteratura, ma senza
gli esempi del Magnifico quei germi sarebbero forse rimasti infecondi,
e il Poliziano, dittatore fra gli umanisti dell'estremo Quattrocento, non
avrebbe ottenuto la larga e quasi popolar fama, ond' bello ancor oggi
il suo nome.

v Orfeo
(1471)

Nel 1471
duttor

dell'

il

giovinetto, artefice di graziosi

Iliade

compose

perch dagli spettatori meglio fosse intesa

tempo

visata in

di dui giorni

epigrammi

Fabula d'Orfeo

la

in

latini e trastilo

vulgare

Fu opera

quasi improvin tra continui tumulti a requisi.

zione del card. Francesco Gonzaga, che passando nel luglio di quell'anno per Firenze ottenne, secondo una plausibile congettura di Isi-

doro Del Lungo, che

il

Poliziano fosse mandato a

Mantova ad

allietar

colle grazie della sua poesia le feste apprestate in quei giorni dal

chese Federigo a Galeazzo Maria Sforza.

Coli' Orfeo egli si

prino a trattare in un componimento scenico

scritto in

marprov per

italiano

ma-

teria profana. I classici prediletti gli suggerirono l'argomento: Euridice

che muore punta da un serpe mentre fugge l'amante Aristeo; Orfeo


che scende all'Inferno per liberamela e, avutala in grazia da Plutone,
la perde nuovamente per non aver osservato l'imposta legge
le Baccanti che fanno strazio di lui dispregiatore dell'amor delle donne.
Che da codesta favola il Poliziano facesse scaturire il dramma, non
consentivano n il costume del tempo, n l'ingegno di lui ne trasse invece
alcuni pezzi di lirica che inquadr nel modulo delle Sacre Rappresentazioni. L'amor di Aristeo per Euridice confessato in eleganti terzetti al
pastore Mopso in sul principio dello spettacolo, ha la sua lirica manifestazione in una soave ballata, che l'innamorato canta e Mopso accompagna
colla zampogna. Lirici sono i lamenti e le preghiere di Orfeo, come le sue
imprecazioni contro il femminile consorzio. lirica, e della pi mossa che
vanti la nostra letteratura, il coro delle Baccanti ebbre di sangue e di
vino che chiude la festa. Questi tre punti culminanti sono rannodati fra
loro da alcune brevi scene a dialogo, nelle quali l'azione pi spesso nare sarebbe un prerata che rappresentata. Ond' che all' Orfeo manca
;

gio, se

non

fosse naturai conseguenza dell'esilit della favola

quello

svolgersi dell' azione sotto agli occhi degli spettatori, meccanico e senza
prospettiva, che osservammo nelle Rappresentazioni sacre. Delle quali per
esso ha tutte le esteriori parvenze

ma

l'annunciazione, fatta

non

dal solito

Gabriele di Giove; l'assetto scenico, dacch


accanto al monte irriguo doveva apparire sul palco l'Averno ed in gran
parte il metro, l'ottava. Di sfuggita vi penetra anche lo scherzo , non
tanto con quel pastore schiavone che compie in due versi di linguaggio

Angelo,

da Mercurio,

il

prologo di Mercurio, quanto col pastor Tirsi e con le spavalde


vantere e il far grossolano onde egli risponde a Mopso chiedente se abbia trovato un vitello sbandato:
ibrido

il

ROMA E FIRENZE

TEMPI DEL MAGNIFICO.

AI

S ho; cosi gli avesse el collo

257

mozzo!

Che poco men che non m'ha sbudellato;


S corse per volermi dar di cozzo.

Pur

Ma

l'ho poi nella

ben so

dirti

Io ti so dir che gli

In

Moderatamente
vece

il

un campo

idillico,

di

mandria ravviato
gli ha pieno il gozzo
ha stivata l'epa
;

che

gran, tanto che crepa.

quasi a prenunziare la prossima tragedia, in-

tono delL'ottava successiva detta pure da Tirsi:

Ma

io ho vista una gentil donzella


Che va cogliendo fiori intorno al monte.
I' non credo che Vener sia pi bella,

Pi dolce in atto o pi superba in fronte;

parla e canta in s dolce favella,


Che' fiumi svolgerebbe inverso el fonte
Di neve e rose ha il volto , e d'or la testa,
Tutta soletta, e sotto bianca vesta.
;

Qui reminiscenze indistinte e schiette frasi petrarchesche si culun ondeggiar lene di poesia popolare. Altrove anche l'elaborazione artistica della materia prettamente classica. La favola d'Orfeo
aveva avuto nell'antichit poeti quali Ovidio e Virgilio, n l'Ambrogini
era uomo da ignorarli o da trascurarli. Se non che mentre di solito nel
Quattrocento l'imitazione dei modelli antichi inceppa il libero fluire del
verso italiano, ed palese il tremolar della mano che li vien ricalcando,
il Poliziano nelle preghiere del trace cantore a Plutone e
a Proserpina imita, anzi traduce Ovidio cos:
lano in

Ogni cosa nel fine a voi ritorna,


Ogni vita mortale a voi ricade:
Quanto cerchia la luna con suo corna
Convien ch'arrivi alle vostre contrade:
Chi pi chi men tra superi soggiorna

Ognun convien che

cerchi queste strade:

Questo de' nostri passi estremo segno


Poi tenete di noi pi lungo regno.
Cos la ninfa mia per voi

Quando sua morte

si

serba,

dar Natura.
Or la tenera vite e l'uva acerba
Tagliata avete con la falce dura.
Chi che mieta la sementa in erba
gli

E non aspetti ch'ella sia matura ?


Dunque rendete a me la mia speranza:
Io non vel chieggio in don; questa prestanza,
io

ve ne priego per le torbide acque


Della palude stigia e d'Acheronte,

Pel Caos onde tutto el mondo nacque,


E pel sonante ardor di Flegetonte;
Pel pome che a te gi, regina, piacque
Quando lasciasti pria nostro orizzonte.
E se pur me la nieghi iniqua sorte,
Io non vo' su tornar; ma chieggio morte;
Rossi.

La

ltt. ital.

nel sec.

XV.

17

258

CAPITOLO SETTIMO.

versi, questi ultimi,

che ad un giudice

di finissimo

gusto parvero ori-

ginali.

La

figurazione di un

monia carezzevole

mondo

idillico cosi

differente dal reale e l'ar-

che risonarono tea lo splendore di sontuosi apparati,


quelli in persona d'Orfeo di sulle labbra di un Baccio
Ugolini
dovettero conquidere gli spettatori, e la favola quasi improvvisata dal giovane diciassettenne ebbe fortuna. Egli per vero la giudicava, pi tardi, un aborto degno del Taigeto, ma non pot resistere
alle preghiere degli amici, ola diede fuori accompagnata da una epistola,
testimonio di quel suo giudizio, diretta a messer Carlo Canale. Forse
allora soltanto vi inser l'elegante saffica latina che ad onore del cardinale Gonzaga s'inframette nell'azione nel punto in cui sta per giunger
notizia della morte di Euridice. Pi altre volte prima della fine del secolo
V Orfeo fu recitato nelle corti dell'Italia superiore ed in servigio della
ferrarese fu, probabilmente da Antonio Tebaldeo, rimaneggiato, diviso
m cinque atti e cos ridotto ad una foggia pi ligia a' drammi classici.
In una delle sue prolusioni il Poliziano osservava che noi siamo
proclivi a giudicare delle opere nostre non tanto da quei che valgono,
quanto dalla fatica che ci costano. Questo pensiero gli si dovette affacciare anche considerando la fortuna del suo Orfeo e la scarsa stima
ch'ei ne faceva: ma pi insistente e forse ombrato di mestizia gli rampollerebbe nella mente oggi, se, redivivo, potesse vedere in qual conto
la critica tenga l'operetta sua giovenile. Perocch, nota giustamente
il Carducci, pi sincero che non fosse
nel Petrarca infaticato perfezionatore delle sue rime, dovette essere nel Poliziano il dispregio per
le sue cose volgari. Da ben altri lavori, dalle prose e dai versi latini
e dagli studi filologici egli attendeva la gloria, non dall' Orfeo, n dalle
poesiole che
componeva nella lingua del popolo pei*
quasi a svago

dei versi

proprio conto o a soddisfazione degli amici.


Se ad uno occorre un motto da incidere sull'elsa d'una spada o

un altro desidera un verso per il letto o per


da dormire oppure un'impresa, non dico per l'argenteria, ma
per una qualunque stoviglia, non c' che il Poliziano, e gi non c'
muro ch'io non abbia allumacato colle mie iscrizioni e co' miei epigrammi.
Ed ecco altri chiedermi arguzie fescennine per le baldorie del carnevale, altri prediche devote per le compagnie, altri nenie pietose da
sul fregio d'un anello, se

la stanza

cantar sulla cetra,

altri licenziose cantilene

narra i suoi amori, stolto; ma


un emblema, che sia chiaro solo
gii altri

(Epist.

II, 13).

le serenate.

Questi mi

alla sua bella e faccia

vuole
invano scervellare

Cos scriveva messer Angelo nel 1490, nel pi

Ma

persecuzione doveva aver avuto


garzone da Montepulciano comins; era consuetudine inveterata, n occorreva essere

rigoglioso fiorire della sua fama.


principio assai prima, fin da

ciava a far parlare di

per

pi stolto io a dargli retta; quegli

quando

la

il

per averne a soffrire. Cos insieme colle iscrizioncelle misteriose,


sciamarono dall'agile fantasia del Poliziano le ballatette e i rispetti d'amore. Dall'uso di metri pi lunghi e pi laboriosi, quali il serventese,
la canzone, il sonetto, o rifugg del tutto o vi si prov appena.
illustri

ROMA E FIRENZE

AI

Dalla ballata e del rispetto


i

gli

grande era

poeti d'arte riflessa, e

259

TEMPI DEL MAGNIFICO.


offrivano esempi,
la

voga

ben

sappiamo,

lo

nelle nobili brigate di Fi-

Ma egli ascolt con avido


orecchio anche i canti del popolo sonanti nelle feste fiorentine del calendimaggio o nelle convalli della dolce Toscana, e con la mano esperta
renze, anzi della casa stessa in Cui dimorava.

a trattare senza gualcirle ben altre eleganze, ne trapiant tutta l'elegante freschezza nelle sue bellissime canzoni a ballo. Nelle quali seppe
riprodurre cos felicemente come forse nessun altro, tutti i toni della
ballata popolaresca, e qua velare, pur acuendola, la malizia dello scherzo
di reminiscenze letterarie l'accorato laesprimere l'esultanza della gioia. Chi non rammenta

osceno, l delicatamente fiorire

mento

altrove

le risa delle donne in


quando Dioneo snocciola

zoni ch'egli sapeva

Non

del Quattrocento, se
lata del Poliziano

si

sulla
i

fine

della

giornata del Decameron,

capoversi di non so quante fra

le mille

altramente, io penso, venivano accolti

facevano innanzi a cantar

can-

Dionei

sulla viola la bal-

I'

son, dama, el porcellino


Che dimena pur la coda
Tutto '1 giorno e mai l'annoda:

Ma
Ch

tu sarai l'asinino.

la

coda par conosca

L'asinin,

quando non

l'ha:

Se lo morde qualche mosca,


Gran lamento allor ne fa.
Questo uccello impanier,
Ch'or dileggia la ciyetta.
Spesse volte el fico in vetta
Gi si tira con l'uncino;

o quell'altra
quel prete

Donne mie voi non sapete Ch'i' ho el mal ch'avea,


Ve n'ha una che descrive con tocchi d'un crudo reali-

smo una vecchiaccia vizza e secca in sino all'osso ; ve n'hanno


che ammaestrano le donne a procurarsi e mantenersi gli amanti. Di
un soave idealismo invece soffusa quella Chi non sa come fatto
paradiso Guardi Ipolita mia negli occhi

fiso con quel suo sapore


nuovo. La baldanza dei garzoni agitanti
al sole i rami fioriti si rispecchia nel lieto canto maggiaiolo Ben
venga maggio ET gonfalon selvaggio ; ed un profumo di giovinezza
*e di rose spira dalla ballata:
il

tra di Petrarca e di dolce

I'

mi

stil

trovai, fanciulle,

un

bel mattino

Di mezzo maggio in un verde giardino,

bellissima fra le belle. Ecco di questa la chiusa:

Quando la rosa ogni sua foglia spande,


Quando pi bella, quando pi gradita;
Allora buona a mettere in ghirlande,
Prima che sua bellezza sia fuggita
;

Sicch, fanciulle, mentre pi fiorita,

Coglin la bella rosa del giardino.

V mi

trovai,

fajiciulle.

260
.

CAPITOLO SETTIMO.

Meno bene ilPoliziano riusc nei rispetti. Nella ricca efflorescenza che
ce n'offre la letteratura fiorentina dell'ultimo Quattrocento anzi tutto
appurare quali veramente siano suoi. Non certo agli argomenti
possiamo chieder luce: quelli della poesia amorosa di tutti i tempi e di
difficile

tutti

luoghi, sospiri, preghiere, dispetti, disperazioni, lodi, imprecazioni


ed al tono, vari assai anche nei rispetti d'un medesimo au-

allo stile

tore.

Freschissimo nella sua dolce mestizia ,


Quando
E

'1

questi occhi chiusi

mi

pei*

esempio, questo:

vedrai

spirito salito all'altra vita,

Allora spero ben che piangerai


El duro fin dell'anima transita

E poi

se l'error tuo conoscerai.

D'avermi ucciso ne sarai pentita;

Ma

'1

tuo pentir

fia

tardo all'ultim'ora.

Per non aspettar, donna, ch'i'mora.

troppo artificioso e troppo dappresso segue Tibullo quest'altro:


Il

buon nocchier sempre parla de'


D'arme il soldato, il villan degli

venti,
aratri,

L'astrologo di stelle e d'elementi,


L'architetto di mole e di teatri,

Di spirti il mago, il musico d'accenti,


D'oro gli avar, d'eresia gl'idolatri,
Di bene il buon, di fede l'alme fide
E io d'amore, perch amor m'uccide.
;

Eppure sono, a quanto pare, entrambi del Poliziano. I testi a penna


ed a stampa sono poi s discordi e s incerti nell'ascrivere all'uno o
all'altro verseggiatore cosiffatte poesiole da mettere in sospetto anche

non sono, a conceder loro alcuna autorit. Come il Poliziano, ne scrissero e Luigi Pulci
e il Magnifico e Baccio Ugolini e Bernardo Giambullari e chi sa quanti
chi sia disposto, com'io in questo caso assolutamente

mai fiorentini di quel tempo; ma nessuno pensava a guarentire


sua propriet letteraria o a rivendicarla usurpata; tanto quelle compo-

altri
la

sizioncelle

parevano tenui e da non farne gran conto. Aggiungi che molte

popolo pu far valere sulle contrastate ottave sacrosanti diritti.


V'ha per un bel gruzzolo di rispetti, che si debbono tenere usciti

volte

il

sicuramente dalla penna dell' Ambrogini. Alcuni {continuati) si incatein serie s da formare quasi delle epistole amorose; altri stanno
ciascuno da s; dei quali ultimi un gruppetto porta come il segno dell'autore nel nome dell'amata, madonna Ippolita Lioncina da Prato. In generale una soverchia levigatezza e lindura fa perdere ad essi la candida

nano

spontaneit della poesia popolare, mentre le movenze e


vi lasciano trasparire la

mano

uso di quei grossolani artifci


strambotti messi a stampa col

dell'erudito.
stilistici,

nome

di

Non che

cui

ricordi letterari

il

Poliziano faccia

hanno esempi anche

nonch

gli

accumuli
immagini e similitudini di fonte classica o snaturi il rispetto con sottili ricercatezze
egli ha troppo buon gusto. Ma chi negher, per esempio,
che troppo fulgore di gemme petrarchesche e dantesche, troppo si in;

tende per un rispetto,

sia in

questo

del Pulci;

egli

ROMA E FIRENZE

AI

261

TEMPI DEL MAGNIFICO.

Chi vuol veder lo sforzo di natura


Venga a veder questo leggiadro viso
D'Ipolita che '1 cor cogli occhi fura,
Contempli el suo parlar, contempli el riso.
Quand'Ipolita ride onesta e pura,
E' par che si spalanchi el paradiso.
Gli angioli, al canto suo, senza dimoro,

Scendon

tutti del cielo

a coro a coro.

In codesto leggiero poetar volgare era per il Poliziano lo svago.


Gli
a Lorenzo il
la versione dell'Iliade, di cui present
Intanto seguitava
1
o
epigrammi
latini,
terzo libro nel 1472 e che non intralasci del tutto se non dopo il 1476;
.

meditava di cantare in un poema, triste iliade di efferatezze, la guerra


volterrana; scoccava epigrammi latini e greci, eleganti concisi spiritosi,
e componeva elegie e odi, con libera genialit ispirandosi a Ovidio, ad
Orazio, a Catullo, a Tibullo.
Un cane spagnuolo regalato a Lorenzo strozza le fiere,

ma

all'uomo

accosta timido e manso: qual meraviglia? esso simile al suo padrone, che punisce i rei e premia i buoni ecco nell'epigramma il com-

si

plimento

adulatorio. Marsilio

(il

Ficino)

ascolta la messa; Domizio

(il

Audit Marsilius missam missam facis illam


Tu, Domiti . Chi pi religioso dei due? Oh, Domizio; tanto pi religioso, Quanto audire minus est bona quam facere ecco un gioco
di parole che punge. Il poeta vede una fanciulla trastullarsi colla neve
Neve sei
e- in un epigramma lancia la sua preghiera amorosa
o
fanciulla, e giochi colla neve. Gioca pure, ma prima che la candidezza
Calderini) se

ne scorda:

svanisca, fa' che. svanisca


tutti

il

gelo

il

solito precetto

ricantato

su

toni dalle ballate e dai rispetti fiorentini:


Usa, madonna, tua bella et verde;
Chi ha tempo, e tempo aspetta, tempo perde.

Leggiadrissima l'elegia del Poliziano alle viole donategli dalla sua


donna, elegia in cui amplia ed affina un sonetto del Magnifico piena, L rieif Set?"
(I473
numerosa, candida, arguta, efficace , a giudizio del difficile Scaligero,
quella che piange la morte di Albiera degli Albizzi:
;

Candor erat dulci suffusus sanguine, qualem


Alba ferunt rubris lilia mixta rosis.

Ut nitidum
Saepe

laeti

Amor

radiabant sidus

ocelli,

accensas rettulit inde faces.

Solverat effusos quoties sine lege capillos,


Infesta est trepidis visa

Diana

feris

Sive iterum adductos fulvum collegit in aurum,

Compta cytheriaco est pectine visaA Venus.


Usque illam parvi furtim componere Amores
Sunt soliti, et facili Gratia blanda manu,
Atque honor et teneri iam cana modestia vultus,
Et decor,
Casta

et probitas,

purpureusque pudor,

risusque hilaris, moresque pudici,


Incessusque decens, nudaque simplicitas (1).

(1)

Il

fides,

candore (del volto) dolcemente soffuso di color sanguigno era qual


purpuree rose. Come lucida stella folgoravano gli occhi pieni

gigli intrecciati a

di

bianchi

di

letizia,

2(32

Cosi

CAPITOLO SETTIMO.
Poliziano in

versi di squisita fattura pennelleggia l'immagine


san Giovanni del 1473 ella aveva preso parte alle feste
e, bellissima fra le altre ninfe, aveva danzato nel palagio dei
Lenzi in
via Pantagia
cos, in loggia greca, il poeta travesto Borgognissanti
il

dell' Albiera.

Il

arridente Leonora d'Aragona che s'affrettava al talamo estense. Ma


a s fulgida bellezza Nemesi volse il bieco sguardo e la sacr alla Morte,
La Febbre, seguita dal tristo stuolo de' suoi seguaci, si accosta al letto
della fanciulla e le

annuncia

il

suo destino:

Stat vacua tua Parca colo,

Ne gemo, cum

montura puclla;
dulce est vivere, dulce mori est

decimo

(1).

giorno ella, sfigurata e consunta


fissa gli
occhi morenti sul suo fidanzato, Gismondo della Stufa, e gli rivolge l'estremo
addio, che suona pietoso e riboccante d'affetto nella semplicit dei diIl

stici

polizianeschi. Indi fra

il

compianto della cittadinanza e

il

salmo-

diare dei preti passa la bella morta composta sulla bara, cinta d'umil
ghirlanda, coi capelli recisi. Ahim, elove son ora i carezzevoli sor-

dove le dolci parole che avrian potuto spezzare il duro ferro; dove
occhi saettanti fiamme sideree; dove, ahim, le labbra emule alle
puniche rose? .
risi,

gli

Non tamen
Aut

aut niveos pallor mutaverat artus,

gelido macies sederat ore gravis

Sed formosa levem mors est imitata soporem,


Is nitidos vultus oraque languor habet
Virginea sic lecta manu candentia languent
Liliaque et niveis texta corona rosis (2).
!

Cos nel connubio di ridenti immagini petrarchesche con ridenti con-

rasserena anche lo spettacolo della morte.


il Del Lungo
le realt della
concezioni dell'arte il vero col fantastico

cetti ellenici, la bellezza

Nell'elegia per
vita s'intrecciano
il

il

Albiera, osserva

con

le

con la classica pagani t; circola l'aria che


Firenze del magnifico Lorenzo . In simil
racconto d'una festa cittadina, finita anch'essa a breve distanza

fiorentino,

respiravano
guisa

l'

il

cristiano

letterati nella

un mortorio, si ammanta di fantasie mitologiche


poema italiano che l'Ambrogini cominci per la
in

si

nel

idealizza

giostra

de'

28

di

gennaio del 1475.

Nel nome e

coli'

impresa

di

Simonetta Cattaneo moglie

di

Marco

Vespucci, quella stessa sulla cui tomba precoce sarebbe sbocciato, sedonde spesso Amore torn con accese le sue fiaccole. Se distesi e sciolti senz'ordine teneva
i
capelli, pareva Diana terribile alle fiere; se invece raccolti li stringeva in trecce, bionde
com'oro, pareva all'acconciatura Venere Citerea. Sempre, di soppiatto, la facevano bella gli
Amorini e la carezzevole Leggiadria dal tocco delicato e onest e in giovinetto volto modestia canuta e dignit e bont e pudico rossore e immacolata lealt c aspetto giocondo e
costumatezza e decorosa andatura e schietta ingenuit.
non piangere,
(1) Vuota la conocchia della tua Parca, o fanciulla sacrata a Morte
ch dolce il morire quando dolce la vita.
(2) Pure il pallore non aveva alterato le nivee forme n una triste macilenza aveva
occupato il volto gelido. Ma bella vi appariva la Morte e simile ad un placido sonno tale
aria di languidezza si diffondeva su tutto quel viso delicato. Cosi, colti da mano verginale,
;

languiscono

candidi gigli e le bianche rose conteste in ghirlanda.

ROMA E FIRENZE

AI

263

TEMPI DEL MAGNIFICO.

concio la poetica finzione da noi gi riferita,

fior delicato della lirica

il

Lorenzo, prese parte a quella giostra Giuliano, il minor fratello del


Magnifico, e vi riport il primo onore. Questo l'argomento che il Poliziano propose alla sua poesia. Forse un giorno, egli dice, se non
di

pi alte note risonare da un


mio ben nato Lauro, alla cui
ombra Fiorenza lieta in pace si riposa . Ora, poich non si sente
canter il secondo trionfo
ardito a tentar l'alta impresa
il primo
della gente medicea.
aveva riportato Lorenzo nella giostra del 1469
Amore, bello e gentile Iddio, gli regga la lingua e la mano, mentre,

contrasti fortuna al mio volere, far con

estremo

all'altro del

mondo

nome

il

del

interrotta la versione lQY Iliade, canter l'amor di Julio e l'armi .

Tutto dedito agli esercizi della caccia, il bel Julio passava il vago A
di sua verde etate nella pace delle selve e dei prati, libero
dalle cure d'Amore, anzi sprezzando il terribile Dio e rampognando i

tempo

ne erano schiavi. Le parole di Julio, riferite dal poeta,


quetamente pungenti in sulle prime l dove disprezzano la femminile fallacia, si elevano ad un fremito di passione nella mirabile pittura della vita campestre e nella rievocazione dell'et dell' oro onde
miserelli che

quella vita

immagine

fedele.

Quanto

pi dolce, quanto pi sicuro


Seguir le fere fuggitive in caccia
Fra boschi antichi fuor di fossa o muro,
E spiar lor covil per lunga traccia
Veder la valle e '1 colle e l'aer puro
L'erbe e' fior, l'acqua viva chiara e ghiaccia
Udir gli augei svernar, rimbombar l'onde
E dolce al vento mormorar le fronde (I, 17)
!

Ma

Cupido, sdegnato di tanta alterigia,

propone

di metter a dura
prova il ribelle per vedere s'ei sappia resistere alla sua potenza cui
non furono pari neppure gli dei. primavera. Corre per la terra rinascente al sole un palpito di vita e l'ardito Julio esce di buon mattino a cacciare. La selva presto a remore: i cacciatori si spargono
qua e l ai loro vari intenti; abbaiano i cani; tremano e si rinselvano
le fiere. A Julio, inoltratosi solo dove pi folta la macchia, si offre
una cerva candida tutta, leggiadretta e snella . E un inganno di
Cupido che di leve aere la compose per condurlo nelle sue reti. Infatti poi che il giovane l'ha per lungo tratto inseguita, la cerva scompare ed in un prato verde e fiorito gli si affaccia una bellissima ninfa,
la Simonetta, che, interrogata, rivela a Julio il suo nome e 1' esser
suo e si allontana, mentre il sole tramonta. Ma da quegli occhi Cupido ha
scoccato il dardo fatale e l'indomito cacciatore ha perduto la sua libert.
si

U' son or, Julio, le sentenzie gravi,


Le parole magnifiche e' precetti.
Con che i miseri amanti molestavi ?
Perch pur di cacciar non ti diletti ?
Or ecco ch'una donna in man le chiavi
D'ogni tua voglia e tutti in s ristretti
Tien, miserello,

Vedi chi or tu

tuoi dolci pensieri:

se', chi

pur dianzi

eri (l, 58),

261

CAPITOLO SETTIMO.

Mentitegli se ne torna pensoso a casa e i compagni suoi indarno


cercano per la selva, Cupido, lieto del trionfo, si affretta al regno
e il poeta si sofferma a descrivere quel delidi sua madre Venere
zioso soggiorno in una copiosa serio di ottave, che occupa quasi una
met del primo libro. Col scherzano lungo le rive di due freschi e
lucidi ruscelli gli Amorini e li circondano esseri allegorici, nei quali
si raffigurano le passioni seguaci d'Amore. Ivi ride eterna primavera
nei fiori variopinti e nel verde frondeggiar degli alberi; ivi gli animali vaneggiano per amore dimentichi degli odi antichi e dei vicendevoli timori; nuotano in dilettoso ballo i pesci entro alle fontane, e
gli uccelli in tra le foglie Fanno l'aere addolcir con nove rime .
Opera dei Ciclopi, sorge sulla schiena del monte il palazzo della dea,
tutto gemme e fino oro. Sulle porte sono maestrevolmente scolpite la
nascita di Venere e mitologiche storie d'amore, intorno alle quali serpeglo

giano,

come intorno

alle sacre storie sulle porte del Ghiberti,

ghirlande

Nel fulgente palazzo pervenne rapido Cupido e


gittossi al collo della madre pur mo di Marte sciolta dalle braccia .
Principia il secondo libro col racconto che il faretrato fanciullo
fa. della sua vittoria, innestandovi le lodi della famiglia medicea
e in
particolare di Lorenzo, cui si propone di render pia la inflessibile Lucrezia.
Esulta Venere e vuole che Julio prenda le armi per Amore s che
pregata a
di nostra fama il mondo adempi . Mandato da Pasitea
sua volta da Venere un sogno ridesta nel giovinetto l'ardore guerriero triste sogno, in cui pure il presagio della morte di Simonetta.
Frattanto un simile ardore hanno infuso in ogni cor gentile i fratelli
di Cupido volati sulle rive dell'Arno. Julio si leva impaziente di far
prova della sua valenta e volge una preghiera a Pallacle, alla Gloria
e acl Amore, affinch lo aiutino ad ammansare colei che ora lo disdegna.
Qui, alla stanza quadragesimasesta del secondo libro, il poema, qual
che ne sia stata la cagione, rimase interrotto. Fu danno o fu fortuna
per il poeta e per l'arte? Se guardiamo a quel che sono altre rimate
s'ha a rispondere che fu
descrizioni di giostre t) di simili spettacoli
fortuna. Il gi ricordato poemetto di Luigi Pulci, quello assai pi prolisso e noioso di Francesco fiorentino, cieco poverello, sul Torneamento
fatto a Bologna per ordine di Giovanni Bentivoglio nel 1470, la Palla
al calcio di Giovanni Frescobaldi affaticano il lettore, per non dir d'alcolle sequele monotone dei cavalieri, degli emblemi e dei
tre pecche
colpi. Se non che ben diversa era l'impostatura del poema del Poliziano.
L fin -da principio la narrazione procede piana e disadorna come in
una cronaca rimata; qui la storia dei fatti precedenti al torneo appare

d'acanto, di

fiori, d'uccelli.

gTifeSG

poeticamente trasformata. Nelle altre descrizioni di giostre la mitologia


un pesante fardello addossato di tratto in tratto ad una poesia che
accoglie la realt tal quale la trova; in quella di messer Angelo, dalla
classica paganit spira il soffio che tutta avvolge la materia sollevandola ad una sfera ideale. Sta qui appunto uno dei principali meriti del
Poliziano, neli'aver con armonica eleganza adattato alla realt fantasie

ROMA E FIRENZE
affini

egli

si

265

TEMPI DEL MAGNIFICO.

solevano goffamente mascherarla gli epici del


i Filelfi, il Porcellio, il Cornazzano. Ed epico

a quelle di che

suo secolo

AI

latini e volgari,

annuncia nella solenne proposizione del poema,


Le

gloriose

pompe

Della citt che

e'

'1

fieri

ludi

freno allenta e stringe

A' magnanimi Toschi,

regni crudi

Di quella dea che '1 terzo ciel dipinge,


E i premi degni alli onorati studi,
La mente audace a celebrar mi spinge
S che i gran nomi e' fatti egregi e soli
Fortuna o morte o tempo non involi (I,
;

1),

l'indole del suo ingegno e il suo fine senso della convenienza artistica lo traggano invece all'idillio. Il maggior pericolo per
il seguito sarebbe forse stato questo: che il tono e le fogge dell'epopea soverchiassero l'idillio e ne venisse una inestetica sproporzione tra
la forma e l'argomento impari a tanta solennit. Il grande artista

quantunque poi

avrebbe certo saputo causare

il

principal difetto de' suoi predecessori,

infonder la vita nelle squallide enumerazioni, fiorir, di fulgide bellezze


gli episodi, precorrere alle magnifiche descrizioni di combattimenti ario-

Ma

versi il torneamento avrebbe preso un aspetto


menpur ora trascritta ben lo lascia sospettare
tre il lettore non avrebbe potuto dimenticare che sotto alla scorza
miti borghesi fiorentini
di Orlando o di Sacripante si nascondevano
giostranti per sollazzo sulla piazza di S. Croce. Il contrasto avrebbe
turbato anche il godimento delle particolari bellezze; avremmo ammirato e pur dovuto sorridere. Ma smettiamo di specular sul probabile.
La poesia che avviva le Stanze per la giostra non certo, ben fu
osservato, la poesia della vita che si viveva a Firenze verso la fine
del Quattrocento, n l'impostatura del poema nasce spontanea dall'episodio che il Poliziano aveva preso a cantare. Accattate l'una e l'altra;
ma non di lontano, perch scaturiscono dalla temperie spirituale che
un secolo di studi aveva creato agli ingegni. L'invenzione prescelta e
a tr di mezzo il
il modo stesso onde fu presentata conferirono poi
dissidio tra la contenenza reale e la forma, per ci che una lunga trastesche.

eroico

ne' suoi

la stanza

dizione, specialmente lirica, avesse reso ovvia


di quell'aggirarsi fra

nella letteratura l'idea

mortali del dk) d'Amore.

Della tradizione paesana il Poliziano mostr sempre di fare gran conto

e ne trasse sapientemente partito. Vediamo quale appaia nelle Stanze


la bella Simonetta Vespucci. Ella vi si trasforma in una di quelle ninfe

pagane che gi

il

Boccaccio nella sua immaginazione aveva visto intrecHa candida la veste, biondi i capelli,

ciar carole su pei colli suburbani.


lucenti gli occhi, angelico

il

viso,

come per esempio

Ninfale Hesolano:
Candida ella, e candida la vesta,
Ma pur di rose e fior dipinta e d'erba

Lo

inanellato crin dell'aurea testa

Scende in la fronte umilmente superba.

la

Mensola del

deg"

arSci!

266

CAPITOLO SETTIMO.
Ridegli attorno tutta la foresta,
cure disacerba.

E quanto pu sue

Nell'atto regalmente

E pur
Folgoron

mansueta;

col ciglio le tempeste acqueta.


gli

occhi d'un dolce sereno,

Ove sue face

tien

L'aer d'intorno

si

Cupido ascose:
fa tutto ameno,

Ovunque

gira le luci amorose.


Di celeste letizia il volto ha pieno.
Dolce dipinto di ligustri e ro.se,
Ogni aura tace al suo parlar divino
E canta ogni augelletto in suo latino

(I,

43-4;.

umana si anima in una conatura circostante! Cos al passaggio di Laura


fio riva la terra, si acchetavano i tuoni
e le tempeste
e le sue luci
sante facevano intorno a s l'aere sereno. Invece delle due stanze
Delicatissimo quadro, dove la bellezza

munione

di vita colla

successive
stile,

e concetti e suoni e frasi provengono dai poeti del dolce


da Dante, dal Cavalcanti, dal Guinizzelli.
Ira dal volto suo trista s'arretra

E poco

avanti a

lei

Superbia basta:

Ogni dolce virt l' in compagnia;


Belt la mostra a dito e Leggiadria.
Con lei se' n va Onestate umile e piana

Che d'ogni chiuso cor volge la chiave:


Con lei va Gentilezza in vista umana,
E da lei impara il dolce andar soave.
Non pu mirarle il viso alma villana,
Se pria di suo fallir doglia non ave.
Tanti cuori

Amor

piglia, fere e ancide,

Quant'ella o dolce parla o dolce ride.


Il naturalismo del Boccaccio, mitigato dalla soavit petrarchesca,
eleva sino a rasentare l'alta idealit dantesca senza per eccedere
,

confini dell'umano.

La qual

citazione

geniale fusione di elementi vari contras-

segna la piena maturanza dell'arte polizianesca, assorta dalla semplice


il lettore se ne rammenta certo
per mezzo
all'Aibiera sino alla complessa rappresentazione della Simonetta.
Eclettica infatti, non esclusiva sempre nell'Ambrogini l'imitazione,
Nel descrivere con inesausta abbondanza di particolari il regno di Venere e
P resen ^ e un luogo di Claudiano nel De nuptis Honori
et Mariae, ma i ricordi di Virgilio, di Orazio, di Ovidio, del Petrarca,
di Dante gli fioriscono di continuo sotto alla penna e uno smagliante
lavoro di trapunto si distende sulla breve trama offerta dal carme encomiastico latino. Similmente quale intrecciarsi di idee, di immagini, di
frasi classiche nelle descrizioni dell'et dell'oro, della caccia, in ogni
figurazione di Euridice

Sante

si

^^

luogo

insomma dell'incompiuto poema! Eppure

l'erudito

scompare

fra

tanta erudizione

resta l'artefice grande, che del classicismo ha fatto

suo principal nutrimento, che pensa e sente come i suoi modelli, che
non sa n vuole rinunciare alle forme da essi create, le pi belle, lo

ROMA E FIRENZE

2G7

TEMPI DEL MAGNIFICO.

AI

pi acconce ad esprimere le sue idee e i suoi sentimenti. Quelle immagini e quelle frasi spigolate con lavoro divenuto incosciente nei

e di Grecia egli unisce e armonizza in modo che non


perdano il loro natio sapore, le riveste delle parole fiammanti educate
dai nostri antichi poeti e le lancia colla sicurezza d'uno scrittore originale nell'onda melodiosa del suo verso. Perch, se qua e l ti pu
offendere qualche cacofonia o qualche insolito troncamento, certo si
verzieri di

Roma

che nessun altro poema in s breve giro di ottave dispiega tanta variet di suoni e di toni quanta la Giostra: corroborata di gravit epica
o rilassata
dell'idillio;

popolare

rispetto
di

la'

squisita delicatezza

parole aspre e forti lo

stile di

luminoso e sereno; scosso, ove convenga, dall'urto dello sdruc-

solito

ciolo

nella facilit del

turbato opportunamente

tranquillo fluire del verso piano.

il

Fu

detto che dell'antico

e del moderno
,

ma

il

Poliziano
,

compose un

...

sua veste a fiorami, ella intesseva una ghirlanda


all'improvvisa apparizione, alza paurosa la testa:

sisa sull'erba, nella

di fiori;

Poi con la bianca man ripreso il lembo,


Levossi in pi con di fior pieno un grembo

Cos

in

atto

grazioso tra una

agli occhi e vi richiama alla


celli,

anche

se

non

(I,

47).

vi rimane dinanzi
Primavera del Botti-

festa di fiori ella

mente

l'allegorica

vogliate accettare la seducente congettura di

chi

Venere Anadiomne
scolpita sulle porte del palazzo della dea pare una poetica riduzione
di un quadro famoso del medesimo artista. Col quale il Poliziano ha
comuni l'amore dei verdi paesaggi, l'aerea chiarezza dei colori e la
ravvisa in questa

il

ritratto di quella. Del pari la

facolt di idealizzare bellamente

il

Lorenzo il Magnifico, pittore


mi rassomiglia invece Paolo Uc-

reale.

fedele e spesso rude d'uomini e di cose,

o Andrea del Castagno.


Tutto assorto nel piacere di descrivere minutamente e ampiamente
ogni scena che gli si presenti, il Poliziano par quasi dimenticare il disegno generale dell'opera, alla quale si muovono giuste censure per la
mancanza di unit. Ma, conveniamone, fra tanto splendore di forma se
ne dimentica anche il lettore e non avverte la sconvenienza dei lunghi
cello

sminuzzamento delle descrizioni mi par


danneggi il maggiore di questi. La rappresentazione del regno di Venere infatti una serie deliziosa di quadretti, che vivono e si muovono, perch viva nella fantasia del poeta la mitologia animatrice
episodi. Piuttosto, l'eccessivo

delle fonti, dei fiori, dell'erbe.

Oh come

n poeta

Il

a patto che si pensi ad uno di quei magnifici mosaici della Rinascenza che dissimulano la granulosit della
loro composizione e sembrano lavorati a pennello. Di fatto la poesia
polizianesca tiene non di rado della pittura. Guardate come ritratta
la Simonetta al momento in cui si avvede della presenza di Julio asmirabile mosaico. Vero;

siano lontani dalla prolissa e

troppo scientifica enumerazione di animali ammannita da Lorenzo nella


seconda Selva! Eppure, perch noi diremo?, l'effetto dell'insieme

pittore,

2G8

CAPTOLO settimo.

scarso. Vedi ogni pi riposta bellezza del

regno della dea

ma non

senti l'impressione complessiva di quello spettacolo, l'effetto spirituale.


Quanta pi efficacia di rappresentazione in quest'unica ottava!
Zefiro gi di -be' fioretti adorno

Avea de' monti tolta ogni pruina:


Avea fatto al suo nido gi ritorno
La stanca rondinella peregrina:
Risonava la selva intorno intorno
Soavemente all'ora mattutina
E la ingegnosa pecchia al primo albore
Giva predando or uno or altro fiore (1,
:

25).

Qui molto lasciato immaginare al lettore, ma nelle poche scene


con sobriet tratteggiate, nell'alternar delle pause e degli accenti, nella

scelta delle rime, nella scelta e nella collocazione delle parole, tutta

l'armonia della primavera


il

nportnnza
la

Bt

Gio/ra

tutta la fragranza dei colli aprichi

tutto

sorriso della natura.

personaggi
del Poliziano mancano
1
,

alle

sue

esteriore,

inclinazioni. Egli gusta

umana

Frugare
nei se

di vita intima.

dalle ansie
8Te ^ ^el cuore e dalle lotte
trarre tesori di poesia, non opera che

che

dai dolori

affaccia

si

al

lo agitano

ingegno

suo

soltanto la poesia della bellezza

o della Natura, e la bellezza adora con caldo entu-

siasmo, inebriandosi nella contemplazione di essa. Questo culto del bello

era forse
all'arte.

il

pi serio contenuto che allora la

Giulio

avvenente garzone

eppur non discaro

alle

Muse

(I,

11),

soggiace alla tirannide del bello e

coscienza potesse dare

esperto negli

esercizi del corpo


l'uomo del Rinascimento, che

all'idea

estetica

sommette l'idea

morale.
Colla Giostra il Poliziano diede alla poesia volgare del Rinascimento
fusione di elementi classici e moderni in croformula dell'arte
lo stile e in parte anche la lingua. Insieme con Lorenzo
giolo classico
confer infatti a rafforzare il primato del fiorentino tra i dialetti d'I-

la

talia

ed a sancire nuovamente

quasi in dimenticanza fra


svelta, limpida, fresca,

desinenze verbali
fico

La cronoio8
stanze.

suoi diritti di lingua nazionale caduti

n alcuni

idiotismi

ne contano nelle poesie del Magnisuo general carattere di letteraria di-

assai pi se

valgono ad alterare

il

gnit e correttezza.
Non si sa precisamente quando

La lingua ch'egli usa,


specialmente di forme e

trionfi del latino.

TAmbrogini componesse

le

probabile che poco dopo la giostra dei gennaio 1475 desse

Stanze.

mano

compimento al primo libro; ma certo il frammento del secondo per


quel presagio della morte di Simonetta non fu scritto prima dell'aprile
dell'anno seguente, quando la giovane donna mor, pianta dai Medici e
dai loro poeti. Due anni dopo in S. Maria del Fiore il pugnale di Bernardo Bandini troncava la vita al bei Jutio e il suo poeta non pens
pi

a seguitare

l'opera incominciata,

a vendicare

vendo con nerbo sallustiano e animo mediceo


dei Pazzi.

la storia

l'eroe,
della

scri-

congiura

ROMA E FIRENZE

269

DEL MAGNIFICO.

AI TEMPI

Quanta tristezza in casa i Medici in quel fatale anno della conDoloravano i cuori per il lutto recente; a Firenze infieriva la
dura!
o
,.
"..in
,

mora; da Roma e da Napoli veniva terribile la minaccia delia prossima, guerra. Io mi sto , scriveva da Cafaggiolo il Poliziano a madonna Lucrezia in una grigia giornata del dicembre, io mi sto in
casa al fuoco in zoccoli ed in palandrano, che vi parrei la malinconia
se Voi mi vedessi, ma forse mi paio io in ogni modo; e non fo n
veggo n sento cosa che mi diletti, in modo mi sono accorato questi
nostri casi e dormendo e vegghiando, sempre ho nel capo questa al-

casa,
Medici.

bagia. ... Vi prometto che io affogo nella accidia, in tanta solitudine


mi truovo! Dico solitudine; perch Monsignore (Gentile Becchi) si rin-

chiude in camera accompagnato solo da pensieri e sempre lo truovo


addolorato ed impensierito, per modo che mi rinfresca pi la malinconia a essere con lui; ser Alberto del Malerba (un prete) tutto d
biascia ufficio con questi fanciulli: rimangomi solo, e quando sono re,

stucco dello studio, mi do a razzolare tra more e guerre e dolore


del passato e paura dell'avvenire n ho con chi crivellare queste mie
fantasie . Messer Angelo era lass, nella villa de' suoi signori, quale
,

primogenito di Lorenzo. Del ragazzo, ch'era allora sui sette anni, egli aveva grandissima cura; si compiaceva infinitamente di segnalarne al padre i progressi e faceva gli scrivesse
sar pi tardi
delle letterine che sono un amore. A Giovanni
del 1479
fatto
nell'aprile
compitare;

che
insegnasse
a
pare
Leone
il bravo pedagogo ebbe a stizzirsi perch madonna Clarice aveva allontanato da lui e mandato quel bambino a recitar salmi. Simili dispareri circa l'educazione di Piero recarono ben presto i dissapori a

istitutore di Piero,

il

tal punto che il Poliziano fin coll'essere cacciato di casa dalla padrona.
Lorenzo si interpose, procur di conciliare la sua crucciosa consorte
col maestro e la preg di riaccoglierlo in casa se non per amore
suo, almeno per mio e per il frutto che Pierino traeva da quell'insegnamento. Ma il Poliziano non deve poi esservi dimorato a lungo, perch
l'anno dopo (1 480) ottenuta la cattedra di eloquenza greca e latina nello
Studio, sar andato ad abitar la sua casa in via de' Fossi, presso alla

chiesa di S. Paolo, di cui era fin dal

Non

4477

prior secolare.

ostanti quei dissapori, le relazioni tra

non perdettero

FAmbrogini

della loro cordiale intimit, raffermate

e Lorenzo n Poliziano
com' erano dal dTTeneficl

reciproco affetto e dalla vicendevole stima. Quello e questa attenuavano nell'uno la colpa dell'adulazione e facevano pi pronta a donare
la mano dell' altro. Anche il Poliziano
da buon umanista , par non
sentisse l'onta del chiedere e non restava dal sollecitare e benefici
,

e pievanie,

cui

la

Ne ebbe

sua

condizione di ecclesiastico

gli

permetteva

di

buon numero, oltre alla ricordata prioria


e ad un canonicato in S. Maria del Fiore. E come se non gli bastassero i favori dei Medici, occhieggiava anche alle grazie di principi
aspirare.

forastieri

infatti in

e italiani.

Mattia

Corvino

si

offriva

pronto

(1486-87) a

trasdurre per lui scritture greche, a cantarne le gesta e ad illustrare

e di doni

270
coi

CAPITOLO SETTIMO.

carmi

le costruzioni

le

pitture, la biblioteca,

le

opere tutte colle

emulava nella loutana Ungheria le magnificenze dei nostri


Nel 1 191 prendeva occasione dallo recenti scoperte dei Por-

quali quel re
signori.

toghesi sulle coste occidentali dell'Africa per iscrivere a Giovanni II


e predicare con sonante eloquenza vinto per lui l'Oceano e la terra
allargata . Or chi meglio del Poliziano non ultimo fra i letterati
avrebbe potuto sottrarre al dente edace del tempo la gloria di quelle
imprese? Prima, nel 1 184, andato a Roma col l'ambasceria mandata a
dar l'obbedienza ad Innocenzo Vili, aveva avuto da questo l'incarico
di

tradurre in latino Erodiano, e

il

lavoro, compiuto tre anni

dedicato al pontefice, gli aveva fruttato

dugento

un breve

di

dopo e
amplissime lodi e

fiorini d'oro.

vatum proetosa ques arridevano al poeta nella


sua casa fiorentina e nella villetta sul colle di Fiesole, nido di pace,
dove invitava l'amico Ficino a godere la frescura e a bere un bicchiere di quel buono, e donde lo strappava talvolta il suo Pico per
condurlo a desinare nella propria villa di Querceto. 0 come doveano
Cos gli agi e la

parergli lontani

tempi, in cui

vinetto cencioso e

diti

alla vista del cielo


ii

Poliziano

lettore nello

Studio
(1480-94)

prolusioni,

monelli facevan chiasso dietro al giosi affacciavano dalla rotta prigione

dei piedi gli

Accumulata nelle lunghe veglie un'erudizione prodigiosa,

affinato

ne l culto e nell'esercizio dell'arte il senso del bello, il Poliziano si


trov armato eli tutto punto quando a ventisei anni sal la cattedra
nello Studio. Letterari furono i corsi ch'egli tenne nei primi anni del
suo insegnamento filosofici quelli degli ultimi. Cominci secondo
probabile, colle Selve di Stazio e YInstitutio di Quintiliano, premettendo
'

all'interpretazione di quei testi

una prolusione

latina, s'intende,

importante non cos per la critica dei due autori, come per le dottrine
ch'ei vi professa: convenire ai giovani lo studio delle opere di et
decadenti, perch ne riesce loro meno ardua l'imitazione; errar gravemente chi si proponga un unico modello e non raccolga il buono e
l'opportuno dovunque, in ogni periodo letterario. In tal guisa l'erudito
suggeriva norme all'artista e formulava i principi che egli stesso, artista, attuava. Di solito in codeste prolusioni il Poliziano tesse dapprima
l'elogio e a larghi tratti la storia del genere cui l'opera da interpretarsi appartiene: indi rapidamente discorrela vita e gli scritti dell'autore di essa. Cos nella prelezione test rammentata; cos in quella su
Persio; cos in quella su Svetonio. Per la

meri

Or atto

in expositionem

Ho-

attinse largamente osservazioni sui pregi rettori ci e sull'universal

sapienza del poeta da

un ben noto opuscolo pseudo-plutarcheo.

Allora,

forse per la prima volta, stava per risonare nella sua scuola la voce

veneranda d'un greco ed

il

maestro

si

esaltava in considerare quale

Omero e il suo interprete


egli pensava forse al su)
prime famiglie
Piero, che a sei anni sapeva a mente la grammatiche tta del Gaza
parlavano speditamente il pi bel sermone attico, s che paresse col
trasmigrata col suo stesso suolo e con ogni suppellettile Atene .
uditorio di spiriti colti avessero

nella citt dove

figli

il

vecchio

delle

ROMA E FIRENZE
Nel 1485

la

AI

TEMPI DEL MAGNIFICO.

271

prolusione alla lettura dei poemi omerici fu in versi;

Le

contenenza essenziale e quanto alle fonti


poco differente quanto
di ammirazione e di entusiasmo nella
calda
pi
prosa,
ma
quella
in
da
fantasiosa veste poetica. La vita d'Omero (la quale narrata dietro alle
orme dello pseudo-Erodoto), il compendio dell'Iliade e dell'Odissea e
il concetto con ampiezza sviluppato essere in Omero i germi d'ogni
arte e scienza coltivate dopo di lui , si adagiano come in vaghissima
cornice tra il racconto del pianto di Tetide per la morte di Achille e
dei conforti di Giove profetante la nascita del vate divino, e la descridove pare
zione della villa medicea di Poggio a Caiano, dell'Ambra
che il poemetto sia stato composto. Esso si intitola appunto Ambra ed
occupa secondo la ragione del tempo il terzo posto fra le quattro
prolusioni in versi, che il Poliziano chiam Sylvae a imitazione di Stazio, quasi componimenti improvvisati senza un disegno in un momento
d'ispirazione poetica. Nel 1482 prendendo a spiegare la Bucolica di
Virgilio aveva pronunciato la Manto; nell'83 preludendo alle Georgiche di Virgilio e di Esiodo il Rusticits; nell'86 lesse i Nutrcia.
La Manto ha il nome dall'indovina tebana figlia di Tiresia, la quale
introdotta a cantare presso la culla di Virgilio e a presagire la gloria del
poeta, annoverandone le opere ed esponendo di queste gli argomenti e i
caratteri. la pi breve di tutte le Sylvae e la pi ricca di movimento lirico. Nel Rusticus ritrovi l'idillico poeta delle Stanze, che si diffonde a
descrivere con minutezza talvolta eccessiva i costumi e le superstizioni
dei contadini, le vicende delle opere campestri, gli spettacoli della natura, le piante, i fiori, gli animali. Virgilio, Plinio, Lucrezio, Columella gli
offrono materia e colori, ma al solito egli tutto riplasma in una forma
sua, piena, levigata, efficacissima. Ecco, per esempio, come si anima ne'
versi del Poliziano la descrizione del gallo fatta da Varrone nel De re
rustica Il superbo re del pollaio esce pur ora vittorioso da un combattimento e intorno gli si affolla la plebe delle sue suddite
alla

....
Formoso

comes

it

merito plebs cetera regi

regi, cui vertice

purpurat alto

Fastigatus apex; dulcique errore coruscae

Splendescunt cervice iubae, jferque aurea colla


it pulcher honos; palea ampia decenter
Albicat ex rutilo, atque torosa in pectora pendet
Barbarum in morem stat adunca cuspide rostrum,
Exiguum spatii rostrum; flagrantque tremendum
Ravi oculi; niveasque caput late explicat aureis;
Crura pilis hirsuta rigent, iuncturaque nodo
Vix distante sedet ; durus vestigia mucro
Armat; in immensum pinnaeque hirtique lacerti
Protenti excurrunt, duplicique horrentia vallo

Perque humeros

Falcatae ad caelum tolluntur acumina caudae.


(Rust. 399-412)

(I).

Meritamente la plebe fa corteggio al re; al bellissimo re, cui rosseggia a sommo


il capo la cresta aguzza; luccica sulla nuca il ciuffo cangiante nel lene tremolo, e questo
splendore di piume si diffonde bellamente per il collo dorato e per le spalle pendono sul
petto muscoloso a foggia di barbe gli ampi solenni bargigli digradanti dal rosso al bianco
(1)

in versi,

272

CAPITOLO SETTIMO.

Nel Rusticus

appena parola

di

Virgilio e di Esiodo,

fessore che doveva spiegarli entra in gara con essi

spary, solleva d'un tratto

gli

ad

ascoltatori

ma

osserva

il

pro-

Gauna disposizione d'animo


e,

il

che li mette in grado dimieglio gustare l'opera antica. Colla solva


Nutricia (salari della nutrice, baliatico) l'Ambrogini volle pagare il suo
tributo di gratitudine alla Poesia che lo avea nuclrito del suo nttare.

come i cuori umani si commuovano pel fuoco divino e


quali frutti svariati sia questo fecondo; poi snocciola la serie di tutti

Ivi egli spiega


di

movendo dai mitici vati di Grecia sino ai tardi versegdecadenza romana. L'Alighieri, il Petrarca il Boccaccio
ricorda solo di passata,, quantunque non senza affetto, e finisce tessendo
le lodi del suo Lorenzo ed enumerandone con grande finezza e precisione di tocchi le poetiche scritture. Qui verso la chiusa il componimento si riscalda, si avviva, si illumina; nel resto i Nutricia sono
piuttosto opera di elegante erudizione che di poesia.
Nel 1488, sappiamo, torn a Firenze Giovanni Pico reduce dalla
prigiona di Vincennes, ed il Poliziano, entrato allora in intima dimestichezza con lui, ne ebbe conforti a riprendere con pi alacrit gli
studi filosofici, che da giovine aveva coltivati distrattamente. Cos nell'anno scolastico 1490-91 fece argomento del suo corso i Morali di
i

poeti antichi,

giatori delia

Aristotile e nella prolusione intitolata

Panepistemon espose una clasanche delle pi umili e vol-

sificazione di tutte le scienze e discipline,

gari. Fra i tre anni successivi, che furono gli ultimi del suo insegnamento e della sua vita, ripart l'interpretazione delle opere che costituiscono l'Organon dello Stagi rita, non che degli scritti di Porfirio e
di Gilberto de la Porre sulle Categorie. La Dialectica, con cui preluse nel 1493 al corso sugli Analytica posteriora e sui Topica, un

lungo discorso riassuntivo del contenuto

di quelle opere.

Assai pi vi-

Lamia, che l'anno


prima aveva iniziato il corso sugli Analytica priora. Le si addice quel
titolo, perch essa comincia in tono fra scherzoso e satirico colla novace, anzi la pi bella delle prelezioni in prosa la

velletta delle streghe (lamiae),


il

che avevano berteggiato per

Poliziano per le sue tarde velleit

di

filosofo.

Ed

istrada

egli risponde tes-

sendo l'elogio della filosofa con una scioltezza o con un garbo indicibili e
cio
professando di essere non filosofo, ma interprete di un filosofo
come a grammaticus o
ufficio che ben gli conveniva
di Aristotile
literatus ch'egli era. Noi lo diciamo filologo, e per questo titolo gli as,

segniamo nella storia della scienza un posto non meno cospicuo di quello
ch'egli ha nella storia dell'arte.
Qual fosse il metodo e quale il valor del filologo appare nei Miscellanea, che il Poliziano mise a stampa nel 1489 per esortazione di
Lorenzo. Sono osservazioni o dissertazioncelle spicciolate di varia naadunca il rostro, il breve rostro; schizzano gli occhi fiamme rossastre,
capo dispiega i larghi candidi orecchi;, le gambe sporgono rigidamente irte
articolate appena pi in su della zampa; il duro sprone stampa dell' artiglio la
ali irto di penne battono protese lo spazio e la coda falcata innalza al cielo la

sta colla sua punta

fieramente;
di peli e

il

rena; le
doppia arricciatura dell'apice aguzzo.

ROMA E FIRENZE
tura e di vario argomento,
fra tutte. Se la

avrebbe

morte non

il

AI

273

TEMPI DEL MAGNIFICO.


sue lezioni accademiche

fiore delle

glielo avesse

cento

impedito, altre centurie egli

fatto seguire alla prima. Nella quale

corregge errori incorsi

nelle edizioni dei classici e inveterati per lunga tradizione o per auto-

propone interpretazioni di passi oscuri, tratta quead es. sull'uso dei dittonghi (43);
dichiara costumanze e istituzioni romane, come quella dei giochi secorit d'altri filologi,

stioni di ortografia latina, quella,

lari

In questi studi minuziosi, in questi robusti e vittoriosi assalti

(58).

a singole

difficolt delle discipline

archeologiche procede con acutezza

e precisione esemplari, ricorrendo agli

antichi manoscritti

dei quali

valuta saviamente l'autorevolezza e spesso narra in forma sommaria la

con quelle dei monumenti incisi


e dalle monete che i Medici
avevano adunato nel loro museo. E tutto espone con chiarezza con
semplicit, con aridit gradevoli, perch sa bene che arte e scienza non
vanno insieme confuse e che a questa non si addicono i lenocin di
storia,

confrontando

le loro attestazioni

e traendo largo partito dalle iscrizioni

quella. L'artista fa bens


vole,

come

capolino nel

racconto

di

certe

antiche fa-

rose tinte dal sangue di Venere (11)


Zeusi ed Elena (74), ma cede tosto dinanzi al critico

di quella bellissima delle

o di quell'altra di

che paragona le redazioni note di quei racconti o ne addita di nuove.


Per il Poliziano l'indagine e la critica filologiche sono strumenti che
non devono usurpare il posto spettante alle discipline cui servono. Perch poeta, egli ne avr a suo tempo valido sussidio ad intendere

pienamente

ad imitarle con pi fine


correggere ed interpretare testi
di Aristotile e di Plinio, egli non n un filosofo, n un naturalista anche se vada preparando col riscontro del venerato codice fiorentino
un'edizione delle Pandette e si appresti a farne un commento (1490-91),
perizia;

le bellezze della poesia antica e

ma anche

se

si

affatichi a

non un giureconsulto.
Appena pubblicati,
Miscellanea levarono grande romore e furono
letti avidamente da ogni studioso. La schiera gi numerosa degli amici
egli

e degli ammiratori del Poliziano si accrebbe; il Ficino gli appose il


nomignolo di Ercole
come a distruggitore dei barbari mostri gi
devastanti il Lazio , ci erano gli errori che macchiavano i testi classici: i seguaci della scuola valliana, quali il Leto ed il Barbaro, fecero
plauso. Ma gli amatori delle rettoriche divagazioni nei commenti
gli
avversari del metodo scientifico nella filologia mossero anche a lui i
soliti rimproveri che da cinquantanni si venivano indarno ripetendo
e prima ancora che i Miscellanea uscissero
scemar
si provarono a
loro autorit buccinando che non fossero se non un plagio della Co rnucopia del Perotto. A Firenze, nella cancelleria di palazzo, Bartolommeo
,

il colligiano maltrattato dal Pulci, mormorava


e a noi non
meraviglia che avesse consenziente il Landino
contro codesto
professore, che perdeva il tempo a discutere se s'abbia a scrivere lo-

Scala,

fa

lies
io

o totiens, intellego o intelligo, come se, rispondeva il Poliziano,


sapessi far altro! . Del resto nei Miscellanea egli aveva preso

non

Rossi.

La

leti.

ital.

nel sec.

XV.

18

D;spute
filologiche,

274

CAPITOLO SETTIMO.

impugnando ad ogni pi sospinto


maggior continuatore della tradizione brac-

partito risolutamente ed apertamente,


le

opinioni del Calderini,

il

ci oli ni a u a.

Lo

stile del

$ e non

questione del metodo nello studio degli antichi pobuona causa gi prpugnata dal Valla. Un'altra questione pi direttamente pratica era intanto sorta: la questione dello stile latino. Nel foggiare il suo il Poliziano

fpma^coa teva
i\ cortese,

tlipsi

clie la

altora ormai risoluta in favore della

non

si attiene a nessuno scrittore esclusivamente, ma da tutti, a qualunque secolo appartengano, trae ci che gli riesce acconcio e che gli
piace. Ha poi una speciale predilezione per le voci arcaiche o rare, per

certe strane composizioni di parole cne inventa egli stesso, per quelli
i suoi censori (giusti censori, stavolta) chiamavano portento,

insomma che

oerbomm,
tificioso e

seconda
il

il

Onde il suo stile ha qualche cosa di arinsieme una mirabile pieghevolezza con cui
variare dei soggetti, serbando dovunque il candore e quasi
mostri di parole.

di affettato,

pudore della

Per

latinit

ma
.

i Miscellanea davano esempi,


secondo alcuni, scandalosi, il Poliziano sostenne una polemica con Paolo
Cortese, polemica importante come la prima che siasi impegnata pr e
contro il ciceronianismo. Il Cortese (1465-1510), giovane romano erudito
e ingegnoso, autore d'un dialogo De hominibus doctis, dove con molto
senno giudica dei latinisti moderni da Dante ai pi recenti
aveva

tale libert stilistica, della quale

compilato e mandato al Poliziano una raccolta di epistole. Questi nel


rimandargliela assal vivacemente coloro che nei loro scritti scimmiotta-

vano Cicerone e sostenne che lo stile deve scaturire spontaneo dalla


lunga fermentazione di un'erudizione profonda, di una lettura svariata
e d'un continuato esercizio , s da rendere l'immagine di chi scrive,
non di un modello determinato. Il Cortese rispose, non senza una punta
di ironia, che l'imitazione di un unico autore necessaria e che Cicerone per la sua variet vuol essere preferito ad ogni altro. Egli per
desidera essere figlio, non scimmia di lui e si propone di riprodurne
lineamenti, ma insieme di trasfondere nello stile qualche cosa di di:
verso, di suo proprio, di naturale. La teoria del Poliziano era ardita e
pericolosa, tale che solo pochi ingegni eletti e di buon gusto poterono
garbatamente praticarla. Il Cortese additava invece una norma con
cui anche i mediocri riuscirono nel secolo XVI e riescono ancora a
scriver latino con

np.

il

a a
'

b.

una certa

superficiale eleganza,

metodo e sullo stile ebbe, almeno neluna polemica tra il Poliziano e Bartolommeo
Scala. Cominciata verso la fine del 1493, essa si mantenne per alcun
tempo affettatamente cortese, quantunque il pi giovane dei litiganti la

Da

dispareri letterari sul

l'apparenza, origine anche

condisse di canzonatura e di ironia, e l'altro di biliosa malignit. Pi


tardi di pretesto a rinnovar la contesa uno scappuccio grammaticale
dello Scala, che in certi suoi versi fece femminile il nome mascolino
culex (zanzara). Il Poliziano berteggiarlo in lettere ed epigrammi, riveder le bucce alla metrica e alla grammatica degli epigrammi respon-

ROMA E FIRENZE
sivi,

AI

275

TEMPI DEL MAGNIFICO.

e ad una maliziosa protesta di amicizia dell'avversario rispondere


n disprezzava quell'amicizia n paventava le sue ire.

altezzoso ch'egli

Lo Scala finalmente perde

la pazienza

esce in aggressioni

aperte e

violente* e volgendo a dileggio il nomignolo dato dal Ficino al Poliziano, lo chiama Hercules facicius per ci che si crei dei mostri da
debellare. Il Poliziano di rimando gli rinfaccia la sua superba maldicenza contro tutti e contro tutto, gli nega qualunque merito e lo deride perch nato fra la polvere d'un mulino, dicendolo monstrum furfuraceum. Gli che vecchi rancori personali covavano nel cuore di
entrambi: lo Scala non poteva perdonare all'mbrogini i giambi roventi Hunc quem videtis ire fastoso gradu , n che egli avesse in
addietro rivedute e rifatte per incarico del Magnifico le sue lettere
al Poliziano coeeva sempre il matrimonio di Alessandra, figlia
d'ufficio
di messer Bartolommeo, con Michele Marullo Tarcaniota.
Fanciulla d'immacolata belt, adorna di gentilezze non artificiate ma naturali, dotta di greco e di latino, eccellente nella danza
e nel toccar la lira , l'Alessandra aveva fatto spasimare il non pi
giovine Poliziano, del quale son queste lodi, tradotte da un suo greco
epigramma. Nell'idioma d'Atene, cui l'avevano ammaestrata Gio vanni Lascaris ed il Caicondila, ella era s esperta, che recitava con grazia squisita le tragedie di Sofocle nell'originale, e in greco rispose alle insistenze del suo amatore. Rispose respingendolo e spos invece il Marullo, un greco nativo forse di Costantinopoli, soldato e insieme poeta
;

latino

Alessandra
Scala
"

non ispregevole.

Nei suoi versi d'amore il Marullo canta una Neera, la Scala prbabilmente, ed in alcuni tra essi disposa il tono soavemente voluttuoso
degli endecasillabi catulliani al caldo epicureismo della lirica fiorentina dell'ultimo Quattrocento. Melanconia profonda e sincera spirano le
poesie in cui piange perduta la patria e
bellamente associando alla
,

pubblica la privata sventura, morto

il

fratello;

n mancano in

altre li-

riche di lui spiccate reminiscenze dei nostri poeti volgari, perfino dei
burleschi. Negli Inni naturali personific nelle divinit mitologiche le

forze della natura e ne cant gli

effetti con sentimento schiettamente


pagano, che fa pensar a Pletone. Il Poliziano, che lo chiamava Mabilio, avvent contro di lui epigrammi velenosissimi, facendone un ritratto ributtante ed accusandolo d'ogni pi turpe peccato. Il greco rispondeva freddo e senza spirito negli epigrammi suoi diretti In Ecnomum. Il quale inverecondo palleggio di contumelie rassomiglia non
tanto alle polemiche umanistiche quanto alle baruffe, che si solevano
combattere
e i motivi non erano quasi mai letterari
coll'arma

pungente del sonetto, cio dell'epigramma volgare. Se al Poliziano fosse


bastata la vita, avrebbe forse pensato che la Nemesi compisse la vendetta del rifiuto da lui sofferto: poich

il

suo fortunato rivale e l'A-

morirono tristamente, l'uno nei gorghi del fiume Cecina


nel 1500, l'altra sei anni dopo nel convento fiorentino di S. Pier
Maggiore.
lessandra

e ii*Maruuo

276
La polemica
ci

Manlio.

CAPITOLO SETTIMO.

Fra l e inimicizie che dalla pubblicazione dei Miscellanea derivarono al p lizia,10 ftl quella di Giorgio Menila, l'umanista alessandrino
che fin dal 1483 s'era acconciato presso Lodovico il Moro. Parve al
Menila che il letterato mediceo lo avesse combattuto senza nominarlo
e si fosse fatto bello delle sue interpretazioni, onde fino dal 1490
cominci a sparlare del Poliziano nei crocchi milanesi e a minacciar la
pubblicazione di un'invettiva. Se non che l'autorevole intromissione
del Moro, di cui l'Ambrogini procurava di accaparrarsi lo grazie e che
poco dopo (1492) ebbe a sollecitargli da Alessandro VI l'ufficio di bi>

bliotecario apostolico, assop

per

risorse al principio del 1494 e

il

si

momento

gli sdegni.

La questione

and a mano a mano inciprignendo

due umanisti fra loro e collo Sforza. Il fioMerula mettesse fuori le sue censure l'altro
rispondeva con qualche trafittura nascosta tra i complimenti e con molta,
iattanza minacciava Usciranno in pubblico ed a battaglia, meditate,,
le nostre centurie e chi ne sosterr la forza e l'impeto? Tutti volteranno le spalle e se la daranno a gambe . Ma scrivendo al Moro
era ancor pi aggressivo; censurava la superbia del suo avversario e

nelle lettere scambiate dai

rentino instava perch

il

il

mutuo

piaggiarsi dei letterati fiorentini e parlava

di

certo triumvi-

si arrogava
il
primato nelle discipline letterarie. Ebbe contezza di codeste censuro
scrisse al Merula una lettera rimbeccandolo e riil poeta toscano e
prendendolo di una lunga serie d'errori racimolati nel suo commento alle
perchesatire di Giovenale. Il Merula non vide per questa lettera
prima che essa fosse divulgata. La
mori ai 19 di marzo del 1494
sua invettiva contro i Miscellanea fu soppressa per ordine del Moro,,
sebbene il Poliziano insistesse, con dubbia sincerit, affinch fosse posta in luce, come timoroso ch'egli era non gli invidi attribuissero a lui

rato

forse

Poliziano

il

il

Pico e

il

Ficino

che

l'annullamento

Fu questa

di

quella scrittura.

forse la prima volta che due umanisti della

medesima scuola

oppugnatori insieme poc'anzi della scuola calderiniana, venissero a disputa tra loro: segno dei tempi, in cui, tolti quasi di mezzo'
la discordia entrava nel campo di Agramante.
dissidi sul metodo
i
vivace, si mantenne sempre entro ai confini,
quantunque
polemica,
La
n usc dal campo strettamente letdella
moderazione,
dignit
e
della

critica,

terario: segno ancor questo dei tempi assai diversi,

n carattere
roifzfano.

gi

l'ho notato

da quelli del Poggio, del Filelfo, del Velila,


La disputa col Menila giova a lumeggiare il carattere del Poliziano, custode, se altri mai, gelosissimo della sua fama, avido di gloria
puee, nella piena coscienza del suo valore, ambizioso e vano quasi
rilmente. Ostentava s una certa artificiosa modestia con quelli che lo
esaltavano;

ma come

si

compiaceva e

si

pavoneggiava

delle

lodi

Se riceveva una lettera di encomi correva a leggerla


agli amici
gradiva che i suoi corrispondenti gli mandassero quelle
della stessa fatta scritte ad altri, e questo, sto per dire, codice diplomatico della sua fama inser tra le Epistole sue. Le raccolse egli stesso

delle adulazioni
;

ROMA E FIRENZE
in

AI TEMPI

277

DEL MAGNIFICO.

un corpo nel 1494, pochi mesi prima che


Piero

le dedic a

neppur

le

de' Medici. Si intende

lettere dei detrattori,

fendersi e di annientare

perch

lo cogliesse la morte, e
che dalla raccolta non escluse

gli

porgevano

il

destro di di-

colpi recati alla sua fama. Chi per ripensi

la vana boria di tanti altri umanisti, non potr giudicare troppo severamente di tali debolezze. Nel sentire altamente di s il Poliziano

in fine non si illudeva, egli creatore del nuovo stile nella poesia italiana del Rinascimento, egli maestro efficace e operoso negli studi filologici sugli scrittori di Grecia e di Roma, egli rinnovatore della scioltezza e della

luminosa eleganza dei classici nella poesia e nella prosa


modestia sarebbe stata ipocrisia.

latine. In lui l'orgoglio piace; la

Quel che fa

sua fama

il

il

delle minori stelle fece collo splendore della

Poliziano degli

altri

eruditi e dei pi

ch'ebbero stanza nella citt del Magnifico.

tra

Singolarmente

poeti

latini

Erudlli e

Jf"^

profittevoli

n senza qualche efficacia sull'Ambrogini stesso


furono allora gl'insegnamenti di Andronico Callisto, immediato successore
dell' Argiropulo, e quelli di Demetrio Calcondila, primo editore appunto
<\ Firenze del testo greco d'Omero (1488). Giovanni Lascaris (1445-1535), G L asC aris.
un altro greco serbato dalla lunga vita a rappresentare una parte
cospicua nella storia letteraria e politica ai tempi di Leone X e di
Clemente VII, lesse pure nello Studio dopo il Calcondila (dal 1491) e
col Poliziano ebbe briga per la versione latina di certo epigramma.
Del fiorentino Bartolommeo Della Fonte, detto Fonzio (1445-1513), oggi b. Ponzio,
si pispiglia appena, forse solo per i suoi aridi eppure preziosi Annali;
ma a' suoi d le orazioni, le lettere, i commenti scolastici gli avevano
data buona e larga nominanza, ond'ebbe onorevoli inviti dai Ragusei
e da Mattia Corvino. A Firenze egli visse lungamente e per un paio
d'anni dopo la morte del Filelfo (1481) tenne la cattedra di eloquenza.
Forse l'emulazione e la gelosia turbarono le sue amichevoli relazioni
col Poliziano, cui era stato in altri tempi confortatore e maestro.
I grandi e i piccoli avvenimenti che in vario modo commossero al NaldoNaldi
tempo di Lorenzo la cittadinanza fiorentina e che fecero, alcuni, vibrare anche le corde della lira polizianesca, furono celebrati assiduamente da Naldo Naldi, amico del Ficino e verseggiatore latino di vena
non s elegante come facile ed abbondevole. Disse le lodi di Cosimo
in un'egloga di temperato sapore classico, la migliore delle sue poesie,
e quando questi mor schiccher una lunga e faticosa sequela d'esametri encomiastici
gravi di storia. Pianse nelle sue elegie la morte
di Giovanni di Cosimo e della Albiera degli Albizzi e descrisse il
trionfo del 'pianeti ordinato, spasso carnevalesco, dal Magnifico. Cant
gli amori suoi e degli amici, coi quali tenne poetiche corrispondenze.
Era nato circa il 1435 e tuttavia fu a tempo per salutare pontefice
il figliuolo di Lorenzo, egli che nella
Volaterrais aveva celebrato le
glorie sanguinose del padre.
L'impresa di Volterra, che aveva pur tentato il giovinetto da Mon%ntlt&o
alla cultura ellenica,

278

CAPITOLO SETTIMO.

tepulciano, ebbe narratori, in solenne

prosa liviana e in lamentevoli


versi volgari messer Antonio Ivani, umanista sarzanese caro al Ma-

prima della guerra, della sventurata citt; e in


Giambattista Cautalicio
cio da Cantalice nell'Abruzzo.
La sua elegia, al solito gonfia e solenne, si snoda ad una certa sciolgnifico e cancelliere,

distici

latini

tezza e vivacit nella descrizione del sacco, di cui


monio. Il Cantalicio per, meglio che nella poesia

il

poeta fu

storica,

in

v?r!ao

si

prov anche altre volte, riesce negli epigrammi, semplici e graziosi. Ne


dedic al Medici una raccoltimi
dove trovi novellette scherzose inviti a caccia, motteggi e complimenti garbati. A Firenze egli non rimase molto a lungo; nel 1488 era a Perugia; poi frequent la corte
d'Urbino e di Napoli e sotto .Alessandro VI quella di Roma. Mor nel
1514 vescovo d'Atri e di Penne.
Il pi fecondo e il pi degno di menzione tra quei minori seguaci
delle Muse del Lazio fu Ugolino Vieri, detto latinamente Verino. Ebbe
i un
g a vita (1438-1516) e molto scrisse, quasi tutto in versi; da giovine
due libri di elegie amorose intitolati Flamelta', poi epigrammi, odi,
altre elegie, poemi; da vecchio una parafrasi delle sacre carte (1507)
ed elogi di Santi. E famoso il suo carme in tre libri De llus trattone
urbis Florentiae, in cui tesse la storia della sua patria, ne ricorda gli
uomini illustri, gli edifzi e le pi cospicue famiglie. Bello e rapido vi
il quadro delle vicende fiorentine nel secolo XIII; efficaci e calzanti
nella loro concisione sono i ritratti di alcuni personaggi; ma il componimento nel suo insieme poco meglio di un arido catalogo e i
suoi pregi artistici non pareggiano a gran pezza la sua importanza
come documento di storia. Appare del resto anche dal De illustratane
come il Verino si studiasse di dare un colorito moderno alla poesia
latina. Egli non raggiunse felicemente il suo intento, perch ben pi
robusta tempra d'ingegno che la sua non fosse, si sarebbe richiesta a
sostituire le formule e i modi dei classici con altre formule ed altri
,

^1538-1516)

testi-

cui

modi che nella lingua stessa dei classici sonassero non meno poetici
tuttavia gli si deve riconoscere il merito di aver audacemente tentato
non solo di dar bando alla mitologia, ma di accogliere ne' suoi versi
latini argomenti e forme della poesia volgare. Gi il Landino avea fiorito i suoi carmi di qualche reminiscenza della Commedia e s'era per;

provato a rifare nella lingua di Virgilio la sestina petrarchesca.


Petrarca e dei burleschi manifesta, come gi ci avvenne di osservare qua e l, anche in altri verseggiatori latini. Ma
il Paradisus del Verino, poemetto composto tra il 1468 e il 69 in lode
di Cosimo
un vero trionfo sullo stampo di quelli che abbondano
nella letteratura volgare. Al poeta salito in cielo, si offre allo sguardo,
fino

L'efficacia del

come

gi a Dante, l'aiuola che ci fa tanto feroci :

Vix instar puncti visa


Indi

nella

reggia

divina

ove

est telluris

imago.

introdotto

dinanzi schiere d'eroi, di poeti, di oratori, di


di

Laura

nella

sua

allegorica visione.

Il

da Cosimo
filosofi,

come

gli

al

sfilano

cantore

Paradisus rielabora forme

ROMA E FIRENZE
care

a'

AI

TEMPI DEL MAGNIFICO.

nostri grandi trecentisti; nella Carliade invece

il

279
Verino gett

materia dell'epopea cavalleresca popolare e


cant, imitando nel disegno V Eneide, le spedizioni di Carlo Magno a
Gerusalemme e in Italia. Il poema fu mandato in Francia a Carlo Vili
nel 1493; ma era gi compiuto nel 1480, quando il Verini lo mand
da rivedere al Poliziano. Diciannove anni prima Donato Acciaiuoli aveva
offerto a Luigi XI la sua Vita di Carlo Magno in elegante prosa latina!
In mezzo al fervido rigoglio della vita letteraria fiorentina, anche

stampo classico

nello

le scienze

la

avevano cultori valorosi e

si

preparavano

agli

Paolo Dai

avanzamenti tomIXh.

Non ispetta a noi ragionare di esse distesamente; tuttavia non


vuol esser qui taciuto il nome di Paolo Dal Pozzo Toscanelli (13971482), il grande matematico e astronomo, che, al dir del Poliziano,

futuri.

mentre calcava

stellato .

penetrava colla mente il cielo


giugno del 1474 egli scriveva al por-

co' piedi la terra

Da Firenze

ai

25

di

toghese Fernando Martinez la celebre lettera sulla via occidentale alle


che doveva pi tardi determinare nella gran mente del navigator
genovese l'idea della meravigliosa sua impresa.

Indie,

Agli 8 d'aprile del 1492 mor Lorenzo il Magnifico con grande La morte di
Lo e Z0
ed acerbo dolore di tutta la citt nostra , scrive un contemporaneo,
a3
p
zi
e
non sanza cagione, ch senza dubbio abbiamo perduto lo splendore
|e po
di tutta Italia non che Toscana
e alla giornata pi si conoscer il
danno che ora in tutto non si pu stimare; ma '1 tempo il far noto .
Fu uno sbigottimento; si parl di miracolose apparizioni che avessero
accompagnato quella morte; si ravvalorarono i tristi presentimenti di
straordinarie mutazioni, che gi da un pezzo germogliavano in tutti i
cuori e li spingevano verso il soprannaturale. Pareva che l'umano consorzio si rifugiasse nel momento del pericolo in Dio, da cui s'era per
lo addietro troppo allontanato. Dal pergamo di S. Maria de] Fiore
Girolamo Savonarola commoveva il popolo colla minaccia di prossimi
flagelli ed eccitava ardori di fede e di penitenza colla sua parola convinta persuasiva, fantastica. Nel 1494 morivano Angelo Poliziano e
Giovanni Pico; quegli il 24 settembre,- questi il d stesso (17 novembre) che Carlo Vili entrava a Firenze: piamente entrambi, chiedendo
di essere sepolti in S. Marco in veste di frati domenicani. Singolare,
osserva il Villari, che al pari di Lorenzo tutti costoro si rivolgessero
ora a quel convento onde era partito il primo grido di libert, il primo
segno di guerra contro la tirannide dei Medici .
Vero che neppure durante i giorni gaudiosi era mai venuto meno La religione
n
a
nelle brigate che si accoglievano intorno a Lorenzo, l'abitudine degli Medic?a.
'

esercizi devoti, anzi l'abitudine della fede cristiana. Di

gi detto.

Il

Lorenzo abbiamo

Poliziano, che tra' seguaci del frate ebbe poi voce di ateo,

latini, spiegava al popolo i Vangeli nella sua chiesa


doleva che le infinite occupazioni non gli lasciassero
neppure il tempo per dire l'uffizio. Luigi Pulci stesso, cui l'intolleranza
sacerdotale neg la sepoltura in terra consacrata, non fu mai un vero

scriveva inni sacri


di S.

Paolo e

si

280

CAPITOLO SETTIMO.

miscredente. Se per lunghi anni rest avvolto nelle pratiche e nelle


superstizioni della maga, non s'ha a dimenticare che il Ficino e molti
altri non sospetti di incredulit zoppicavano dalla stessa parte. Se in alcuni
sonetti famosi mise in canzonatura i pellegrini che andavano al giubileo
del 1475, e si prese giuoco delle dispute sull'essenza e sull'immortalit
dell'anima e dei miracoli raccontati dalla Bibbia, lo fece pi per deridere
i pinzocheroni ipocriti e chi si affaticava intorno a questioni, a suo giu-

che per convinzioni ch'egli avesse diverse dalle ortodosse.


vero che di quando in quando la religione gli si imponeva e che
fin col pentirsi anche di quelle leggerezze e col ritrattarle in un lungo
capitolo ternario che intitol Confessione. Anche fra i compagni medicei
dominava quell'indifferenza religiosa, quella noncuranza delle cose di
fede, che contrassegna la vita italiana del Rinascimento e che di leggieri permetteva poi, come naturale, che la pi grande corruzione
dizio, oziose,

Tanto

inquinasse
i

In

neo-piato-

Savonarola.

a^a
i

tali

costumi,

neo-platonismo segnava un ritorno


onde non da stupirsi che
quella dottrina si trovassero d'accordo col Savona-

condizioni degli spiriti

il

e cosciente nell'idealit ultraterrena,

seguaci pi caldi

di

rola. L'aspirazione incessante al

dersi con Dio

Sommo Bene

che in loro erano conseguenza

il

desiderio di confon-

di

dotte

meditazioni

erano nel frate sentimenti spontanei. Il concetto dell'amore che vedemmo aver tanta parte nella filosofa dei neo-platonici, era un punto
fondamentale della sua dottrina. Il Ficino fu grande ammiratore del
Savonarola e lo diceva mandato da Dio a profetare le imminenti rovine ma vilmente ne abbandon la causa al momento supremo difendendosi, in una vergognosa invettiva contro Ypoerzta d Ferrara, dalla
colpa di averlo seguito. Pi avventurato, se la morte lo avesse salvato in tempo da tanta infamia ed egli non fosse sopra vissuto ancora
un anno (mori nel 1499) alla fine eroica del frate.
Frequentava il convento di S. Marco anche Giovanni di Francesco Nesi, che, nato nel 1456, fu del Ficino amico e discepolo devoto.
Documento dell'erudizione platonica del Nesi ci rimane un lungo poema
;

Nesi

di imitazione dantesca, nel

quale egli immagina di

salire di cielo

in

contemplazione di Dio. Opera di


molti anni e di laboriosa gestazione, compiuto probabilmente nel secondo
decennio del secolo XVI questo poema riesce assai faticoso ad un
lettore moderno, poich n la facile verseggiatura, n la colorita vivezza di molte descrizioni, n il calore che anima, specie verso la fine,
possono compensare l' uggia delle
alcuni tratti di intonazione lirica
una vera esposizione del
lunghe e difficili disquisizioni scientifiche
cielo sino alla sfera delle idee e alla

sistema fciniano

costrette entro ai vincoli della terzina. Della dot-

palese l'efficacia anche nel canzoniere amoroso che


Nesi compose in parte per un'Andreola da Filicaia (1497) e in parte
per altra donna, forse quella Camilla che esaltata pur nel poema.
Ma la sua arte di lirico procede direttamente dal Petrarca e ne riproduce massime nelle canzoni, le situazioni, le immagini, le forme

trina platonica
il

ROMA E FIRENZE

281

TEMPI DEL MAGNIFICO.

AI

metriche, non senza lasciar travedere una certa familiarit dello scritun
stile. Nel 1496 il Nesi scrisse in latino

tore coi poeti del dolce

Oraculwn de novo

opuscolo,

che

seculo, albeggiante

il

poema

nella forma,

di visione, e nel platonismo. Ivi introdotta l'ombra di Giovanni

Pico ad esaltare le virt, la sapienza, la fede del Savonarola, di questo


Socrate ferrarese, emulo egregio di Cristo.
Girolamo Benivieni (1453-1512) era stato della brigata medicea. La
in
n
i
/-<i
alliet forse, recitandole la sua riduzione metrica della novella di Ghi.

smonda; fece risonare

delle lodi della poesia di

Lorenzo

le selve

d'Ar-

cadia in alcune delle sue otto egloghe dedicate a Giulio Cesare da Varano signor di Camerino e stampate nel 1481; tenzon con Lorenzo
in sonetti e pianse in altri sonetti la morte della Simonetta amata da
Giuliano. Educato dal Ficino ad un culto ardente dell'ideale neo-pla-

condens in una canzone la teoria dell'Amor divino, che il


maestro aveva svolto nel commento al Convito. Fece dunque quello
che il Cavalcanti per le teoriche d'Amore della lirica fiorentina del
Dugento e, come il Cavalcanti, riusc spesso oscuro e stentato, onde non
inutile l'ampia sposizione della canzone fatta dal Pico. Verseggiatore
tonico,

aggraziato e buon fabbro di stanze descrittive il Benivieni si rivel


quando, ad imitazione delle Selve del Magnifico, narr in un poemetto
allegorico

come l'amore

ispiratogli dalla bellezza terrena lo trasfor-

masse in una lonza leggiera e presta molto , e la bellezza divina,


raffigurata in una donna leggiadra cantante tra l'erba e i fiori
lo restituisse poi a forma umana.
torna a mente la Simonetta
Or questo conflosofo del Ficino si accost assai presto al Savonarola; anzi ne rimase siffattamente affascinato che divenne uno dei

pi

non

fidi

seguaci del

frate. Detest

proprio passato

il

poco manc

facesse sacrificio a Vulcano di tutte le poesie d'amore che aveva

rimato in buon numero. Pens invece

un

volgerle a significato

di

reli-

commento. Nella qual tramutazione non


dovette durare grande fatica, perch quei sonetti e quelle canzoni

gioso mediante

prolisso

petrarcheschi, s'intende, quanto all'ispirazione letteraria e ondeggianti

nell'indeterminatezza del

sentimento

tutti di concetti neo-platonici

delle

esaltazione della belt infinita in s stessa

Nulla

di

pi facile

forinole

dunque che

il

e ne' suoi

dar a credere

che

brulicavano

una continua

ed erano gi in origine

riflessi
il

poeta

inteso parlare di Dio; e secondo la dottrina platonica, ci era

Dopo

la cacciata dei Medici

il

Benivieni fu

il

terreni.

avesse

anche vero.

poeta, per cos dire,

Marco si studiava
riformare i costumi senza scontentare del tutto la vaghezza di spassi
che ancora ferveva negli animi. Fu scritta dal Benivieni la canzone
che i giovinetti, processionanti in bianca veste, coronati di uliva
e con crocette rosse in mano , cantarono sulla piazza dei Signori la
domenica delle Palme del 1496; era del Benivieni la lauda che accompagn il barbaro crepitar della fiamma il d di Carnevale del 97, quando
si bruciarono le vanit. Queste e le altre liriche sacre di lui spirano
ufficiale delle pie solennit colle quali
di

il

prior di S.

Girolamo
Benivieni
(1453-1542;.

282

CAPITOLO SETTIMO.

un vivo fervore

di piet,

il

quale talora

si

Per esempio,
dell'impazzire per amore di Ges e a chi

del sacro giullare di Todi.

manifesta in fantasie degne


Benivieni esalta la gioia

il

la voglia

gustare

consiglia

questa ricetta:
To'

once almen

speme,
d'amore,
Due di pianto e poni insieme
Tutto al foco del timore ;
tre

Tre

di

di lede e sei

Fa' di noi bollir tre ore;

Premi in fine e aggiungi tanto


D'umiltade e dolor, quanto
Basta a far questa pazzia.
,

temperate e

Savona-

rola e ia

nuova
coltura,

pi- semplici

sono

netto egli aveva descritto ne' suoi

j-

angosciosi del suo spirito;

Savonarola.

le laudi del

versi le intime lotte e

Gio vi-

travagli

uomo maturo,

consacratosi tutto al suo alto


rimproveri ed esortazioni al popolo fiorentino, studiandosi di adattare alla materia sacra le fogge dei
canti profani. Egli obbediva ad un sentimento indomito di religione e
mirava ad allettare gli animi coll'attrattiva delle forme meglio accette
non pensava certo a far opera d'arte. E quale importanza poteva aver

mise in rima pensieri

ideale,

di piet,

l'arte

per uomini come

il

Savonarola e

il

Benivieni, tutti infiammati di

non fosse per riuscire mai


ornamento (Savonarola, ap. Vii-

divino ardore e convinti che la poesia


di utile

vero

alla religione,

ma

solo di

I,
526) e che poco essa giovasse all' uomo ancorch di
gravi ed oneste (Benivieni, Commento, P. I, proemio)?

lari,

Vivente nel pi bel

fiorire della

non poteva per essere un nemico

Rinascenza,

Ed

il

frate di S.

cose

Marco

cooper a salvare dalla dispersione la biblioteca medicea, facendola acquistare dal suo
convento; ebbe cari artisti, come Bartolommeo della Porta, i Della Robdella cultura.

infatti

e, pentito, il Botticelli, e non si stanco di esortare i padri a non risparmiare spese e fatiche per istruire i loro figliuoli. Non pens mai di
dover condannare la poesia, s l'abuso che alcuni ne facevano, l'immoralit e il paganesimo in essa trionfanti, infine l'adorazione esclusiva della
forma. Ammetteva perfino che alcuni scrittori dell'antichit pagana che
non lodarono gli idoli e si mantennero immuni da turpitudini, potessero
essere studiati, ma, aggiungeva come il Dominici, solo in et matura
dopo una sana e forte educazione religiosa . Se non che il fiammeggiare dell'ideale religioso occulta dinanzi all'occhio della sua mente

bia

bagliori dell'arte e della poesia; per quell'ideale che domina e governa ogni sua azione, non rinnega, ma trascura queste manifestazioni
dell'umana attivit. La sua posizione di fronte ad esse perfettamente
identica a quella di Lorenzo il Magnifico, del Poliziano, di Pomponio
Leto e di cent'altri dinanzi alla religione. Dire il Savonarola nemico
della cultura intellettuale tanto inesatto quanto dir atei costoro. Essi
scrissero e talvolta operarono come se il cristianesimo non fosse la
religione loro e dei loro avi; il Savonarola scrisse ed oper come
se da pi secoli gli ideali mondani non fossero venuti grado grado
i

ROMA E FIRENZE
contendendo

non

il

AI

TEMPI DEL MAGNIFICO.

dominio delle coscienze

all'ideale ultraterreno e di

283
nuova

credendo

che alla
fine del secolo XV la fede potesse riacquistar quella forza che aveva
avuto nel medio evo, e della sua generosa illusione pag il fio colla
vita, non appena la causa della fede fu separata da quella della libert.
nell'avvenire faville provocatrici di interne
Il rogo del 98 lanci
discordie e di esterni pericoli inevitati; ma non richiam in citt la
geniale gaiezza che aveva pur dianzi allietata Firenze. Dileguatasi d'un
subito alla morte di Lorenzo de' Medici e col trionfare della democraluce

brillasse la

classica

antichit. Si

illuse

zia monastica, quella giocondit florida di intellettual robustezza non


torn pi; ch a rinnovarla non valse neppure il bolso mecenatismo
del granducato. Cos la strofetta epicurea del Magnifico:

Quant' bella giovinezza


Che si fugge tuttavia
Chi vuol esser lieto sia
Di doman non c' certezza
!

pare (come dice

il

Burckhardt) l'espressione spensierata d'un melan-

conico presentimento.

CAPITOLO OTTAVO

Xva letteratura cavalleresca.

L'epopea carolingia in
Romanzi in prosa e poemi carolingi
toscani. La recitazione dei cantastorie. Caratteri esterni ed interni delle narrazioni carolingie
Reali di Francia. Decadenza della letteratura carolingia toscana.
Morgante
Luigi Pulci.
Ciriffo Calvaneo. Le narrazioni
brettoni
Matteo Maria Boiardo eie sue opere minori. V Orlando Innamorato.
Mambriano del Cieco da Ferrara.

Leggende

Italia.

poemi su

Cenno

Attila.

Narrazioni d'argomento classico.

sulla letteratura franco-veneta.

italiane.

11

di

Il

in Italia.
Il

Lo
n

ni

?piJhe

Racconta Poggio Bracciolini in una delle sue Facezie (81) di un


cne avendo un giorno sentito narrare da un cantambanco
la morte di Orlando, proruppe in calde lagrime
se ne torn a casa
mesto e piangente e a fatica pot essere indotto dalla moglie a cenare.
Vera o falsa, questa storiella rappresenta con plastica efficacia l'interesse, la tensione di spirito, la passione con che il popolaresco uditorio seguiva sulle labbra de' suoi poeti il succedersi delle imprese e
delle avventure degli eroi carolingi.
Neppure all'Italia era del tutto mancata nel medio evo quella che

il

anese

>

fu detta fermentazione epica della materia storica

bens le

manc

quella spontanea e
n a noi importa ora indagar le ragioni
concorde attivit degli spiriti per cui tutto un popolo moltiplica e svolge"
con lavoro incessante le leggende spicciolate e ne crea un tutto omogeneo, specchio del suo carattere, una vera epopea nazionale ispiratrice d'una ricca produzione poetica. Delle fantasiose narrazioni di al-

longobarda giunge a noi appena l'eco tramortita nel


e, forse, in qualche breve canzone cara pur
Oggi al nostro popolo. La storia di Attila nel lungo andare dei secoli,
fra il terrore di successive incursioni si trasform in un cumulo- di
leggende, che in parte furono accolte in una prosa francese probabilmente del secolo XIII. Erano i tempi in cui l'Alighieri bollava di incuni

fatti

dell'et

latino di alcune cronache


Leggende
p

Attua!"

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

285

famia perpetuale li malvagi uomini d'Italia che commendano lo volgare altrui e lo proprio dispregiano . Quella prosa diede (1355-58)
la materia di un lungo poema su Attila in lingua d'oli non troppo
schietta al bolognese Niccol di Giovanni da Casola, cortigiano degli
Este, epperci di tradizioni e adulazioni estensi innestatore nella leggenda
e tradotta nel Quattrocento in un italiano venezianeggiante, fu messa
a proftto nel secolo seguente da un rozzo verseggiatore , tal Rocco
degli Ariminesi padovano, che in ottave narr la nascita portentosa
del crudelissimo re unno, gli assedi delle citt venete, gli eroismi
di Giano re di Padova, ed infine la favolosa uccisione del flagello di
Dio entro alle mura di Ri mini. Ma codeste leggende rimasero vive per
lo pi solo nei luoghi ov'erano sorte o nelle famiglie che se ne vantavano gloriose, e si spensero o si vanno spegnendo in vaghe tradizioni,
senza aver dato nascimento ad un'epopea.
In Italia dove il sentimento della romanit perdur sempre e si ravvalor al sorgere dei Comuni anche le leggende classiche avevano
5

carattere di nazionali e furono infatti ampiamente popolari.

Materi
classica,

Trecento

Il

produsse, oltre alle traduzioni, parecchi rifacimenti prosaici dell'Eneide,

un

dei quali

quello di Guido di Pisa

pot diffondersi sulle

ali

della

un anonimo l'ebbe messo in istanzeNumerose sono in quel secolo anche le narrazioni in prosa e in rima
della guerra di Troia e dei fatti di Cesare, e provengono non tanto

recitazione popolaresca, poi che

da fonti classiche quanto dal Roman de Troie di Benedetto di Saintee dai Fati des Romains. Cosi Enea, Ettore, Cesare e con essi
Alessandro, di cui prima un anonimo, in prosa, e poi, a mezzo il Trecento, Domenico Scolari, in orribili ottave, esposero la storia leggendaria, divennero familiari agli italiani anche indtti, e in quel trasfguramento medievale cui l'ingenua arte dei nuovi poeti li aveva as-

More

soggettati

avvolti nella fantastica luce

novamente

sulle loro

diffusa

imprese, raccolsero tributo di ammirazione e di amore. Ci nondimeno


la

materia classica non ebbe mai una vita poetica propriamente italiana;
fra noi avviamenti e svolgimenti diversi da quelli con cui
era giunta dall'antichit o d'Oltralpe. Essa era in fine l'epopea d'un

non ebbe
ci

lontano passato molto diverso dal presente, ed era scaturita da sorgive


erudite, delle quali in Italia

meno

Forse anzi

facilmente che altrove poteva smar-

diffondersi fuor della scuola o

il sopravvenire di opere nelle quali quella materia aveva gi ricevuto una poe-

rirsi

la coscienza.

tica elaborazione

il

arrest lo svolgersi per intimo impulso e spontaneo


formarsi in epopea delle leggende locali sulle origini romane e troiane delle nostre citt.
La materia di Francia invece ci si offerse, certo in un'et assai remota, libera da ogni impaccio erudito e, quantunque straniera, in con-

ed imped

il

dizioni tali da potersi

dissimile dall'attuale

versale

il

agevolmente acclimatare

mondo

alla

nuova

ch'essa rappresentava;

sentimenti che la ispiravano; in Carlo

sacro romano impero, gloria d'Italia; egli e

accetti

Magno

suoi

sede.

Non

all'uni-

era risorto

il

paladini erano gli

carolingia

Italia '

286

CAPITOLO OTTAVO.

eroi della fede nella lotta contro gli infedeli; la loro nazionalit francese dispariva nella loro cristianit. E l'Italia, che non aveva ancora

un'epopea sua e forse si stava travagliando a crearla accolse quella


materia insieme colle forme che i giullari francesi le aveano dato,
fece sue l'ima e le altre, le tratt con criteri suoi propri, le alter e
trasform secondo
suoi gusti e certe sue tendenze, le fece rivivere insomma d'una vita, altra da quella di che erano vissute e vivevano
,

nella laro terra natale.

cupare

il

racconti del ciclo carolingio vennero ad oc-

principal posto nel repertorio dei cantambanchi italiani; gli

eroi acquistarono nelle fantasie popolari un'entit reale e suscitarono


impeti di simpatia, fremiti di sdegno, commozioni, quali nel buon milanese ricordato dal Poggio. Suscitarono, e suscitano; perocch ancor

oggi sulla marina


dal

nome

torno

di

Napoli

Rinaldi

chiamano

cosi

del guerriero prediletto dal nostro popolo

a s gran

calca di gente

colla lettura o

cantastorie

raccolgono in-

colla

recitazione

di

quelle vecchie fole; ancor oggi a Palermo, a Catania e in altre citt


dell'isola come non raro vedere consimili crocchi, cos Yopera de li
puppi, il teatro dei burattini, spesso rappresenta drammi cavaliereschi
ancor oggi di sulle sponde dei carretti siciliani fiammeggiano al sole,
dipinti in vivaci colori, episodi della leggenda di Carlo Magno, di Or;

lando, di Rinaldo.

Non

del nostro assunto dire paratamente, come l'epopea carolinpropagasse in Italia e mettesse salde radici nella Marca trivigiana, anzi in tutto il paese ch'Adige e Po riga. Col i racconti ebbero
alimento di nuove invenzioni e si piegarono a nuovi atteggiamenti e

gia

si

mentre la lingua sulla bocca dei giullari nostrali andava a


grado a grado dichinando nelle forme e nei suoni del dialetto dei luoghi.
Fior cos una letteratura che dal suo ibrido idioma fu detta francoveneta o franco-italiana e che mantenne la sua vitalit operosa fin
dopo la met del secolo XIV, finch non la soffoc il toscanesimo affermante con vigoria ognora crescente il suo predominio nella vita
intellettuale della nazione, e non prevalsero anche nella valle padana
le forme che quei racconti avevano assunto oltre Appennino.
La storia della drammatica sacra ci ha insegnato come la Toscana
^arXgla
in Toscana.
fosse m i ra bil mente disposta ad appropriarsi, a trasformare, ad abbelcaratteri,

materia letteraria che le giungesse di fuori. Il romanzo cavalleresco, portatovi dai giullari veneti e francesi, vi attecch, e gi nei
lire la

primi decenni del secolo XIV, forse anzi negli ultimi del XIII, cominci a produrre col nuovi frutti. Non per via di graduali alterazioni,
ma per opera cosciente di scrittori popolareschi e degli stessi cantastorie esso baratt la sua veste linguistica col bell'idioma della

patria di adozione. Alle

monotone

serie diversi ad

una

sola

nuova

rima sot-

tentr una forma metrica pi regolare, pi consona all'indole della lingua


italiana e meglio rispondente alle varie necessit dell'arte, l'ottava, oppure la prosa, fresca ancora di giovinezza, sebbene ormai destra a trattare

materia narrativa. La letteratura cavalleresca in prosa, e quella in versi

287

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.
prosperarono l'ima accanto

all'altra,

legate entrambe ai modelli franco-

veneti o, pi di rado, francesi, ora procedendo ciascuna per la sua via


il paragone
ed ora intrecciandosi ed aiutandosi a vicenda; simili
ha
obblighi
simili a due
infiniti
capitolo
questo
tutto
del Rajna, cui

numi che derivino

le loro

acque da un bacino comune e scorrano pa-

ma

congiunti da numerosi canali che portino ora a questo ora


a quello un contributo notevole.
Tra le pi antiche prose cavalleresche toscane era una storia di
Buovo d'Antona, della quale ci rimangono solo alcuni ampi frammenti.
ralleli,

romXln
prosa

Risaliva direttamente ad una canzone franco-italiana, n influ per nulla

'

poema toscano che da quel medesimo eroe prende nome ed argomento e che, composto pur nel secolo XIV, ma alcuni decenni dopo la
prosa, in gran parte rifacimento fedele d'un'altra canzone nata in
territorio veneto. Cos il Rinaldo da Montalbano in ottave, quantunque
probabilmente posteriore alle Storie di Rinaldo in prosa, non se ne
giova e, come esse, attinge a fonti transpadane. La Spagna in rima
che narra la spedizione intrapresa da Carlo Magno per
(sec. XIV)
conquistare il regno di Spagna e la rotta di Roncisvalle, si attiene
alla franco-veneta Entre de Spagne e poi ad una rielaborazione italiana, ma in lingua d'oil della Chanson de Roland. La Spagna in
prosa, di cui una redazione poco variata il cosiddetto Viaggio di
Carlo Magno per conquistare il cammino di S. Giacomo, sfrutta la
sul

stessa Entre,
porti molto
il

ma

trae profitto anche dalla rima.

dissimili tra

intercedono rap-

primi nove canti del poema

su

Uggeri e

terzo libro delle Storie di Rinaldo, che appunto espone le avventure

dell'eroe danese.

Per contro, un Gherardo che mise nuovamente in otmet del secolo XV, la leggenda di Buovo d'Antona,

tave, poco dopo la


si

valse oltre che del

Reali
secolo

poema francese corrispondente,

d Francia In Toscana poemi

XIV

XV con

e prose

si

della prosa dei

moltiplicarono nel

incredibile fervore, quali intessuti di materia tra-

ch molto inventarono i romanzatoli stessi di lor proprio capo, modificando, componendo insieme,
svolgendo vecchi motivi. La guerra italiana di Carlo contro Agolante
ed Almonte, re mori, fu narrata nella duplice redazione dell' Aspramonte; le gesta di Guidon Selvaggio e di Ancroia in un poema che
si intitola dalla forte regina saracena; un rimatore novell di Fierabraccia e d'Ulivieri; un altro della spedizione di Altobello e di re
Troiano contro Carlo Magno s'ebbero, in prosa, la Seconda Spagna,
che tratta delle guerre di Ansuigi e di Carlo contro re Marsilio dopo
Roncisvalle, Y'Acquisto di Ponente, la Storia di Rinaldino da Montalbano figlio di Rinaldo e va dicendo.
La recitazione d'un intero poema occupava parecchie ore in pi Lk
giorni consecutivi, nei quali lo stesso pubblico tornava paziente a far
c
corona al canterino, non di rado autore lui stesso della narrazione. I
poemi sono divisi in cantari di lunghezza varia nei vari componimenti,
ma di solito uniforme in ciascheduno. Ogni cantre comincia con una
dizionale e quali di materia fantastica

reoita
d
0 ^j

288

CAPITOLO OTTAVO.

breve invocazione a Dio o


invito alla

non sempre
richiama

Santi, alla quale seguono, nel primo, un


grandi e piccoli ni, che si affollano intorno
negli altri, ima stanza o una mezza stanza che

buona gente,
silenziosi;

ai

ai

esposti dianzi. Religiose sono pure le chiuse dei can-

liuti

nelle quali

verseggiatore suole raccomandare il suo pubblico e


non senza aver fatto nella stessa ultima ottava un
accenno al seguito del racconto. Questo era di solito interrotto l dove
l'azione presentasse una pausa, o perch giunta ad un punto culmitari,

medesimo a

il

Dio,

nante del suo svolgimento (al punto,


pegnarsi una battaglia o un duello), o
e l'interruzione giovava a dare agli
agio di fare la questua.- Non sempre

per esempio, in cui stava per imperch un episodio si chiudesse;

cantambanco
memoria; talvolta
leggeva, il che deve esser avvenuto specialmente quando narrava in
prosa. Fatta con una certa monotona cadenza, la recitazione era accompagnata, come gi in Francia, dal suono della viola, e l'archetto
dice un trecentista
serviva spesso ai cantambanchi a fare i gran
colpi . Perocch nei passi pi ricchi di movimento e di passione
il
gesto del dicitore doveva farsi animato e violento e la sua voce prenascoltatori riposo, al

costui diceva a

dere modulazioai varie e inflessioni conformi all'indole del racconto


che i disadorni e aridi testi acquistassero vita ed efficacia commotiva. Michele V erino, figlio di quell'Ugolino che s' imparato a cono,

in una lettera: Sentii un giorno


Antonio di Guido (il cantambanco famoso che dal Poliziano fu paragonato ad Orfeo) cantare nella piazzetta di S. Martino le guerre d'Orlando con tanta eloquenza, che mi pareva d'udire il Petrarca. Avresti
creduto di aver proprio dinanzi le battaglie, non una semplice descri-

scere nell'ultimo capitolo, scrive

di esse. Lessi poi que' suoi versi. Dio! Che rozzezza! Non li
riconoscevo pi .
^ sen ti m ento nazionale che in Francia aveva ispirato l'epopea non
poteva darle vital nutrimento in Italia. Qui acquist speciale rilievo
l'aspetto religioso delle narrazioni: le guerre di Spagna sono le pre-

zione

caratteri

_estern^ed
narrazioni

caro mgie.

jj| e

^e

nome

sarac eni fieramente avversi al

esterni contro cui

si

cristiano sono

nemici

combatte. Tuttavia anche l'orgoglio nazionale non

rest inoperoso; cre, fra altre, la leggenda della nascita italiana d'Orlando e consertandosi al sentimento religioso fece di lui, nei racconti
di Roncisvalle
un paladino inviato dal papa a difendere insieme co*
suoi compagni la fede. Ma a dar favore alla letteratura cavalleresca
del merainsita nel popolo
confer forse pi che tutto la vaghezza
,

viglioso, del fantastico, del

romanzesco

onde

cantastorie andarono

moltiplicando le avventure dei loro eroi, descrissero

nuzia
di

le

strepitose battaglie e

terribili colpi e

non

con grande misi

fecero scrupolo

variar la materia con episodi amorosi di stampo brettone.

Francia

le

chansons de geste

avevano

Anche

in

nell'et pi tarda mitigato

loro primitiva austerit accogliendo le favole del ciclo arturiano. Inoltre era ben naturale che chi tanto gustava nei sacri
satiriche

drammi

le

scene

e Comiche, desiderasse pure di avere tratto tratto temperato

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.
da un sorriso

il

terrore delle battaglie.

cantastorie colla mimica e colla voce,

solevano provvedere

ci

ma

269
i

talora anche colle parole,

innestando scherzi e trafitture nei loro versi. In un paio di luoghi


del Buovq d'Anfana in ottave, si ride
da Montalbano s'hanno scene ricche

cui Malagigi, liberatosi dai ceppi,

alle spalle dei frati


di spirito comico,

ferma, prima

si

nel

come

di fuggire,

Rinaldo
quella in

a darla

baia a Carlo Magno, che egli ha per forza di magia sepolto nel sonno.
Povero imperatore! In Italia egli divenne un personaggio disag-

gradevole e ridicolo, un principe senza volont n autorit, un balocco


anche vile. Non tutti
fra le mani di Gano, corto di ingegno, sleale
per i nostri testi lo rappresentano con siffatta fisionomia morale. Tale
egli dov apparir primamente nelle composizioni che narrano le lotte
combattute contro di lui da' suoi stessi vassalli, composizioni che godettero fra noi del pi grande favore ed alterarono la figurazione delio
,

imperatore in tutto il ciclo cavalleresco. Infatti nei pi antichi fra i


poemi italiani che cantano invece le guerre contro gli infedeli Carlo
Magno serba ancora buona parte dell'originaria maest. Ma il popolo
italiano nella sua immutabile avversione al principio di autorit si com,

piaceva di vedere umiliato il potente e ascoltava pi volentieri i racconti di guerre interne parteggiando per i ribelli. Tutte le sue simpatie

sono per Rinaldo,

il

prototipo di quei turbolenti baroni, prode, generoso,

ardito, intollerante d'ogni violenza,

un

po'

manesco.

Il

posto cospicuo

anzi principale, assegnato a Rinaldo delle notevoli innovazioni introdotte dall' Italia nella leggenda carolingia.

Muove

di l,

secondo l'autorevole opinione del Rajna, e dalla grande

diffusione delle Storie di quell'eroe la

cui appartengono

mala fama

Ghinamo e Gano, causa per

pericolose avventure di Rinaldo e de' suoi.

della casa di

Maganza,

malvagit delle
Italiani, svolgendo e

la loro

Gli

determinando un'idea nata gi in Francia, raggrupparono nella gesta


dei Maganzesi tutti i traditori, contrapponendo ad essi la gesta di Chiaramente. Questa ripartizione dei personaggi in due grandi categorie
domina la nostra letteratura cavalleresca e di per s stessa rivela la
tendenza dei romanzatori a radunare e ordinare con definiti criteri la
molteplice materia dei loro racconti. Gi la letteratura franco-veneta offre
l'esempio d'una vasta compilazione ciclica in Toscana il concetto ebbe
allargato
diede poi origine
fin dai primi tempi modesti seguaci ed
tra la fine del secolo XIV e il principio del XV, ai Reali di FranciaNe fu autore Andrea di Jacopo da Barberino in Valdelsa, il pi famoso
e forse il pi fecondo dei cantatori in banca fiorentini. Nato circa il
1370, era ancor vivo nel 1431.
Dal romanzo in prosa di Fioravante, scritto nel terzo o nel quarto
decennio del secolo XIV, attinse Andrea la pi gran parte delle favole
racchiuse ne' primi tre libri della sua prosa. Nei quali si narra anzi
tutto la conversione di Gostantino e di suo figlio Gostanzo, battezzato
Fiovo, e come Fiovo fosse bandito per un omicidio e costretto a fuggire da Roma. Cammin facendo, egli riceve da Dio per mezzo del ro;

Rossi.

La

leti.

ital.

nel sec.

XV

19

Fral

290

CAPITOLO OTTAVO.

mito Sansone la sacra bandiera deH'Orifiammi e, compiute parecchie


imprese guerresche, sposata Brandoria figliuola dei duca di Sansogna,
diviene per forza d'armi re di tutta la Francia. A Parigi Soriana, figlia
dell'ucciso re Fiorenzo, sposa Sanguino, cugino di iovo, e ordisce un
tradimento contro quest'ultimo. Da quel matrimonio trasse origine la
detestata casa di Maganza. Roma intanto assediata da un grande
esercito di Saraceni: Fiovo, ribandito da Gostantino, la soccorre colle
si combattono grandi battaglie nelle quali brilla il valore

sue milizie;
di

Riccieri, figliuolo del precettore di Fiovo; infine la vittoria arride

Fiovo succede a Gostantino nell'impero e sul trono di Franil suo figliuolo Fiorello. Fra tanto rumor d'armi
spunta
e tragicamente finisce l'amore di Fegra Albana per Riccieri. Fioravante,
figliuolo di Fiorello
avendo offeso il suo maestro Salardo ha bando
da tutta la Cristianit e mentre combatte contro Balante, re di Balda,
e fatto prigione insieme col suo fido Riccieri. Ma Dusolina, figlia di
Balante, invaghitasi di Fioravante, li libera ed essi tornano a Parigi
coH'esercito di re Fiorello, che per l'appunto aveva stretto Balda d'assedio. Dopo fieri contrasti ed altre avventure Fioravante, divenuto re
di Francia per la morte elei padre, sposa la sua liberatrice, Dusolina.
Poco dopo, questa, accusata di adulterio, abbandonata in un deserto
co' suoi due bambini, un dei quali le rapito da un ladrone, l'altro da un
leone. Il leone S. Marco, che si prende cura della madre e del bambino e li conduce a Scandia terra di re Balante. Molti anni dopo
Fioravante per rivelazione del leone riconosce i suoi figliuoli in Gisberto
fier visaggio, un giovine che viveva ignaro de' suoi natali a Parigi, e
in Ottaviano del Leone, venuto con Balante ad assediare quella citt.
Gisberto ereder ben presto la corona di Francia, Ottaviano il reame
di Balda. Morto Ottaviano, Bovetto, suo figlio, fa mostra del suo valore nelle guerre d'Italia e d'Inghilterra, si innamora di Feliciana figlia
del re di Frigia Adramans e fugge con lei , onde muore per mano
del re stesso. Intanto sul trono di Francia a Gisberto era succeduto
Michele e a questo il re Agnolo Gostantino, padre di Pipino. Dal qual
Agnolo, Guidone, figliuolo di Bovetto, fu bandito per un omicidio, sicch dovette ritrarsi a vivere colla giovane moglie Brandoria nel suo
ai Cristiani;

cia si asside

Antona.
Nel quarto libro maestro Andrea narra, sulle orme di quel pi antico testo in prosa "che gi abbiamo rammentato, le vicende di Buovo
d' Antona, figliuolo di Guidone. Minacciato di morte dalla madre, che
gi aveva ucciso Guidone, Buovo fugge di casa giunge in Levante
dove ama riamato Drusiana figlia di re Erminione, e pervenuto dopo
molte romanzesche avventure nella citt di Polonia al momento
la rain cui si celebrano le nozze di Drusiana col re Macabruno
pisce. Macabruno manda Pulicane, strano mostro mezzo uomo e mezzo
castello di

invano, poich questo anzich ricondurli


i fuggiaschi
suo signore, si accompagna con loro. Essi seguitano il loro pellegrinaggio, durante il quale Drusiana d alla luce due bambini e Puh-

cane, ad inseguire
al

291

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

tenero balio, rimane ucciso da un leone. B uovo, smarriti moglie


torna in Ponente, ricupera la signoria di Antona> vendica
padre facendo giustiziare la madre e uccidendo in battaglia il drudo
lei, Duodo di Maganza. Perduta la speranza di ritrovare Drusiana,

cane,

e
il

di

figliuoli,

delibera di sposare Margherita d'Ungheria, che lo aveva dianzi


campato da morte; ma Drusiana, avvertita, sopraggiunge coi figliuoli
ed accolta festosamente. Regnarono cos felici in Antona fino a tarda
et fino a che Galione, degno rampollo della stirpe di Maganza e avo
del Giuda di Roncisvalle, non trafsse Buovo a tradimento per vendetta
-egli

Duodo. Drusiana mor di dolore.


Pi breve degli altri e forse invenzione personale del romanzatore,
il quinto libro narra come i figli di Buovo mettessero a cruda morte
Galione per vendicare il padre. Il sesto ed ultimo ritorna a Pipino e
seguendo in generale fonti franco-venete, tesse la storia del suo matrimonio con Berta di Ungaria e delle malvagit elei figliuoli di Galione di Maganza, i quali dopo celebrate le nozze sostituiscono a Berta
la sua segretaria Elisetta, mentre quella abbandonata in un bone genera Carlo
sco. Ma Pipino, andando a caccia, si imbatte in lei
Magno e scoperta la frode, punisce i colpevoli. Pi tardi i figli nati da
Elisetta uccidono Pipino, onde il piccolo Carlo deve fuggire. Sotto nome
di Mainetto (Charle maine, Mainet) egli vive per lunghi anni a Saragozza
presso re Galafro, ne sposa segretamente la figlia Galeana e, compiuti
grandi atti di valore guerresco fugge con lei. Dopo lunghi errori
eccitato dal duca Namo di Baviera, sconfgge gli usurpatori e rioccupa
il trono avito. Un anno dopo rincoronazione, Berta, sua sorella, nella
quale si rinnovava il nome della madre morta di veleno, fu bandita
<a Carlo come rea di aver ceduto all'amore di Milone d'Anglante, figlio
di Bernardo di Chiaramente. I due amanti nel doloroso pellegrinaggio
arrivarono a Sutri a otto leghe da Roma, ed ivi in una grotta Berta
diede alla luce Orlando. Fu alquanto , dice lo scrittore, di guardatura guercio, ed aveva fiera guardatura, ma fu dotato di molta virt,
cortese, caritatevole, fortissimo del suo corpo, onesto, mor vergine e
fu uomo senza paura, la qual cosa niun altro francese non ebbe .
Il bambino veniva su robusto ed agile e primeggiava fra' coetanei nei
giochi infantili e negli esercizi del corpo, quando giunse a Sutri Carlo
Magno, che andava a Roma per prendervi corona di imperatore. Le
leste bricconate del povero valletto lo mettono in vista alla corte, onde
alla fine Carlo apprende chi egli sia, lo adotta qual figlio, perdona a
Berta e a Milone, e tutti ritornano lieti a Parigi.
Andrea da Barberino scrisse anche altri romanzi in prosa che
continuano i Reali: YAspramonte, i Nerbonesi, YAwlfo,l\Ugoned\ivernia, o che loro si rannodano come il fantastico e popolarissimo
Guerino Meschino. Ma nessuno ebbe tanta fortuna quanta i Reali
che si continuano a ristampare ad uso del popolo rabberciati, mutilati
e quanto alla lingua rammodernati. Essi sono come una generale introduzione a tutto il ciclo di Carlo e soddisfanno colie loro genealogie e
di

Importanza
e

^[?dd ei
.

Francia.

292

CAPITOLO OTTAVO.

con quel loro prendere


polo

come

le cose ab ovo alla curiosit, naturale nel ponei bambini, di conoscere almeno all'ingrosso l'origine e le

prime vicende dei personaggi che menano la spada negli altri romanzi e ne' poemi. Questo appunto si propose il bravo cantambanco :
raccogliere ordinatamente,

di

stendono

cavalleresche e

presentato
tutte

le

classico

nalit

il

di assicurarli tutti

da Costantino

famiglie

degli

In

tutto"

dire,

fila

che

vasta tela delle

carolingi

eroi

il

dell' ordine,

di-

lo

risalivano

riacquistava

romanzo

ma

si

finzioni:

ad un solido e glorioso piuolo rapcasa di Francia


anzi

ad

antichi

scrittore

un

capostipite

diritti

palesa

di

nazio-

una grande,

dei logici collegamenti e deli' esattezza

desiderio di dare aria di storia alle

Perci

capi delle

entro alla

imperatore. Cosi la

e la materia francese
italiana.

cura non pur

come a

aggrovigliano per

si

fole

che

viene

indica spesso la data precisa dei fatti e quali

esponendo.

imperatori

re-

gnassero a Roma mentre avvenivano; non dimentica di dire quantodurassero gli assedi e le battaglie e quanti e quali guerrieri vi prendessero parte e vi perissero; si studia, secondo la sua grossa cultura,,
di conciliar la leggenda colla storia e di non recare gravi offese alla
geografia, e acidita i motivi delle azioni, magari per congettura se il
suo autore non glieli dice (p. es. Ili, 26). Degli autori
quanto attendibili tutti, ben sappiamo
fa poi seriamente la critica quando non li trova concordi e si attiene alla versione pi
verisimile. Anche si compiace di far sapere che le sue fonti sono cronache, cronachette, libri, la venerata e inoppugnabile carta scrittainsomma. I Saraceni ricordano di sovente le favole pagane per es.
Fegra Albana nella lettera a Riccieri (I, 44) e Galerana nella preghiera ad Aplline (II, 15); i cristiani no; il che non senza un intento ben cosciente di colorire i personaggi secondo quella pretesa storica verit che la fantasia popolare immaginava.
Uomo del vecchio stampo, Andrea innesta volentieri nel racconto
brevi osservazioni e suggerimenti di morale e di religione o qualche

dettato della sapienza popolare. Pur non gli manca ardire, e quando
narra di Gostantino che dot la Chiesa di Dio per la buona fede e
per la sua conversione , soggiunge ch'egli certo non pensava dovessino e pastori della Chiesa per lo bene propio tutto il mondo guastare e farsi di spirituali tiranni (I, 3). Qui ben chiaro che
un passo famoso della Commedia era presente allo scrittore. Dante
sappiamo, faceva parte della cultura popolaresca, di quella cultura mista di classicismo alterato e stanto e di grossa erudizione moderna,

non annient ma ricacci nelle meno elevate


appare nei Reali la cultura di maestro Andrea..
cos neppure i
Ivi come non sono rade le reminiscenze dantesche
ricordi di favole e storie classiche. Vi trovi usati con una curiosa uniformit di ritorni, quasi a scadenza fssa, i vieti artifici rettorici del-

che

il

Rinascimento

classi sociali.

tale

l'interrogazione e dell'esclamazione; nei luoghi pi solenni,


orazioni e nelle epistole senti lo studio di

come

nelle

dare al periodo un'andatura.

293

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

complessa latineggiante. Queste son per eccezioni, ch di solito lo stile


piano e scorrevole, sebbene riveli nella disposizione e nelle giunture
proposizioni una notevole maturit, chi lo confronti collo stile
Foravante e del Buovo in prosa. In generale il Barberino nar-

delle

del

ma

ratore troppo lento e troppo uguale,


come l dove descrive le birichinate

talvolta sa riuscir pittoresco,

del piccolo Orlando;

sa essere

rapido ed efficace. Legga chi vuol qualche esempio, l'incontro di Buovo


con Duodo nella rocca d'Antona (IV, 46) o questa scena tratteggiata
con veramente plastica semplicit: E Riccieri misse uno strido, quando

vidde

il

padre (oppresso da nemici)

furore. Incontro a lui

si

e strinse la spada

con grande

feciono pi di cento cavalieri saraini;

ma

egli

alcuno n'uccisse e alcuno gitt per terra, e per lo mezzo di loro s'avvent a dosso a Barellino lo bruno, e per lato gli giunse a dosso e
diegli della spada in sul collo e amendue le spalle gli part insino alle
sene (forse, ascelle) sotto ambe le braccia; e '1 petto cadde col capo
in sul collo del cavallo, e urt certi che tenevano il padre. La spada
vedendosi libero,
sua parea eli fuoco a' paurosi nimici. Giambarone
riprese la spada ch'aveva in mano Barellino , e prese il cavallo, e
e in su questo cavallo mont, e Riccieri gli
gitt Barellino a terra
fece tanto compagnia, che lo rimisse nelle cristiane schiere (I, 40).
Quale d'un corpo umano che per manco di alimento e soverchio
di fatica mostri di sotto alla pelle raggrinzita le ossa spolpate, tale era
he
poco dopo la met del secolo XV la condizione della poesia cavalleresca
Teu
italiana. Un tipo di racconti era venuto a poco a poco prendendo il ^IT^l
sopravvento, sicch dei romanzi e dei poemi s'era come determinato tosca
uno schema, o diciamo anzi scheletro, immutabile. Un cavaliere, di
olito un Chiaramontese, calunniato da' suoi nemici della casa di Maganza, costretto a lasciare la corte di Carlo e passa in Oriente. Fa
prove influite di forza e di valore, corre le pi svariate avventure
-aiuta sconosciuto qualche re pagano in una guerra, e spesso si guadagna il cuore d' una bella saracena parente del re. Ma i Maganzesi
non gli danno tregua e svelano ai Pagani chi sia l'incognito cavaliere,
il quale come cristiano correrebbe rischio d'esser messo a morte
se
non giungessero in buon punto altri cavalieri, partiti di Francia per
rintracciarlo. Con essi egli ritorna a Parigi, che di solito trova assediata da grande esercito eli Saraceni e che appunto al valor suo e
dei suoi compagni deve la sua salvezza.
Per alcuni decenni questo scheletro mantenne una cotal giovenile
elasticit, mentre a rimpolparlo veniva in acconcio la materia tradizionale ancor nuova alle menti toscane. Ma gradatamele and tanto
pi irrigidendosi, quanto pi i cantastorie si industriavano a trovare
,

e congegnare nuove

perch quello scheletro era un buon punto


stracca fantasia. Aggiungi che se fra i
pi antichi poemi
de' romanzi qui non accade discorrere
lecito trovarne alcuno non ispregevole nel rispetto letterario, nei pi recenti trovi appena qualche stanza passabile. Nella Spagna in rima,
di

appoggio

finzioni,

ai voli della loro

294

CAPITOLO OTTAVO.

nell'Uggeri il Danese, nel Rinaldo da Monlalbano


versi corrono
abbastanza spediti e le rime vengon fuori abbastanza spontanee; lo stile
semplice, com' della poesia popolare, ha una certa scioltezza. Chi sa
i

far versi

come

Spagna:

questi della
Vedevansi
Gir per

lo

destrieri a selle vote

campo, perduto

Tua

Colle teste alte

Pareva pianto

l'altro

lor sire;

il

percuote;

grande anitrire

lor

(e.

XXXIII),

non

certo un poeta da strapazzo, e se spesso fa male


perch
oppresso dal bisogno, non ha il tempo di maneggiare la lima. NelT Uggeri la proditoria uccisione di Baldovino, il dissimulato dolore
della madre, il ritorno dell'eroe che trova morto il suo figliuolo, co,

un episodio pieno di tcchi commoventi ed efficaci, veramente tragico nella semplicit della narrazione. V Uggeri e il Rinaldo

stituiscono

XIV;

spettano probabilmente al secolo

la

Spagna

Ma

i certo.

quanto-

scende nel quindicesimo tanto pi largamente si diffondono


difetti, di cui per vero non sono scevri neppure quei tre poemi e formicolano altri ad essi coetanei: lo stento dei versi che vanno innanzi
a furia di iati, di elisioni e di contrazioni, l'abbondanza anzi il diluvia
delle frasi e degli epiteti convenzionali chiamati ogni momento a far
pi

si

la rima, lo squallore dello

l'anarchia sintattica, l'uniformit delle

stile,

cui

non

si

attagli

il

cos mali passi

era

il

poema

cavalle-

descrizioni, la scarnezza d'ogni narrazione

repertorio di luoghi comuni.


resco,

quando Luigi Pulci

Noi gi
h.v$\c\

lo

conosciamo,

scrisse

il

il

solito

Morgante.

bizzarro amico di Lorenzo

il

Magnifico

e sappiamo le sue attitudini di narratore vivo, spiritoso, efficace. Quale

acconcia palestra a metterle in mostra un poema cavalleresco! Tantoil Pulci pot fare come quando riferiva nelle lettere
fattei

pi che

relli che accadevano alla giornata narrare senza inventare. Allora la


materia gli era data dalla realt; per il Morgante la trov in un
poema composto da un ignoto verseggiatore intorno al 1380, e chiamato dal Rajna, che ne fu scopritore, L'Orlando. E lo segu passo
:

passo, senza alterare

pliando lievemente

il

n l'essenza, n l'ordine dei

fatti,

dapprima

am

racconto, poi, fosse desiderio di arrivare alla fine

o maggior confidenza colla sua fonte o altro, abbreviandolo.


,

mento,

Come

i
poemi di simil fatta, cos nel Movgante l'asvolgono parte in Francia e parte in Pagania
e ne Gano colla sua perfdia il principal promotore: per colpa sua
le invasioni saracene; per colpa sua le fortunose avventure dei paladini in Levante. La prima volta che Orlando parte da Parigi, sdegnato'
per le calunnie del Maganzese, capita ad una bada, uccide due dei

in quasi tutti

zione, anzi le azioni

si

tre giganti che ne infestavano

dintorni

si

accompagna

col terzo'

Morgante, che gli diviene fido e servizievole


scudiero. Dopo aver preso' parte ad una guerra fra i due re pagani

fattosi cristiano. Questi

295

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

e Caradoro e in quell'occasione combattuto contro RiOrlando torna a Parigi


partito
di Francia sulle tracce di lui
naldo
insieme col cugino che ha ben presto riconosciuto, in tempo per soc-

Manf redoni o

correre la
di

re Saracino Erminione. Ma quella peste


mali conforti Astolfo e un fra-

citt assediata dal

Gano non

per

rista;

l'effetto de' suoi

corrono pericolo

tello di Rinaldo, Ricciardetto,

di lasciar la vita sulle

buon Carlo perde il trono, su cui si asside Rinaldo. Glielo


v'ha
restituisce solo quando egli apprende che Orlando prigione
dell'Amostante di Persia, e parte
anche qui lo zampino maganzese
con Ulivieri e con Ricciardetto per liberarlo. Lo libera infatti, ma l'adoperar suo e dei figli dell'Amostante provoca una guerra da parte del
non che dell'amore
conseguenze di questa
Soldano di Babilonia e

forche e

il

concepito da Rinaldo per la figlia del Soldano Antea, la prigionia di


Ulivieri e di Ricciardetto, l'impresa di Rinaldo contro il Veglio della

Montagna

e la

spedizione di

spedizione di Antea

nuovo Gano

contro Montalbano. Della quale

sollecitatore. Alla fine Babilonia presa

il

dai guerrieri

francesi e diroccata. Essi partono di l per

Gano che

acquistato alcun

soccorrere
merito presso Rinaldo ed ora prigione della maga Creonta. La gratitudine per la liberazione non mette
freno alla sua malvagit, anzi egli assottiglia pi che mai il suo ingegno per perdere i Chiaramontesi, coi quali s' accompagnato. Giunge
frattanto la notizia che re Calavrione minaccia Parigi, sicch da Villafranca, ove s'erano soffermati alquanto alla corte di re Diliante, Orlando torna direttamente in Francia e Rinaldo si avvia verso Bellamarina per chieder soccorso d'armati a Uliva figlia di re Costanzo, la
quale ha verso i Francesi grand'obbligo di riconoscenza. Mentre il signore di Montalbano co' suoi fratelli Alardo, Guicciardo e Ricciardetto
incontra svariati pericoli ed avventure a Parigi si fa la pace con
Calavrione, persuasori involontari i Maganzesi stessi colla loro perfidia.
Tale, sfrondata di mille episodi ed intrecci, la contenenza dei primi
s'

ventitr canti del

Morgante.

compose tra

1460 e il 70
e li pubblic per la stampa nel febbraio del 1482. Un anno dopo, il
poema tornava in luce accresciuto di cinque canti, i quali narrano la
rotta di Roncisvalle
la morte di Orlando
il tradimento
e la punizione di Gano, ed infine con un salto cronologico la morte di Carlo
Magno in Aquisgrana. Per questi nuovi canti il poeta, venutagli meno
la guida de\F Orlando, attinse ad altre fonti, segnatamente alla Spagna
in rima, e le tratt con assai pi indipendenza, lasciando che dai do,

Il

Pulci

li

il

le

Le due parti del Morgante non formano un tutto organico


e si

\.
possono dire semplicemente raccostate. Gli errori di Rinaldo e de' suoi
fratelli in Oriente, narrati verso la fine della prima, offrivano al seguito un buon addentellato; ma il poeta non ne trasse se non magro
partito; dimentic qual fosse il vero scopo del viaggio di quei cavalieri, n fece sapere come Rinaldo si ricongiungesse ai fratelli la,.

Morganu

mini della tradizione la sua fantasia si levasse a liberi voli e che


sue naturali inclinazioni si sbizzarrissero a loro posta.
'

cronoiog

organa
mento,

296

CAPITOLO OTTAVO.

(XXII,

sciati

quistata.

216)

Saliscaglia

Lo ritroviamo

in Egitto,

terra

donde

dell'

Arpalista da loro con-

trasportato per forza d'arte

magica a Roncisvalie insieme con Ricciardetto. Il canto XXIV, dove


ritorna in campo Antea ancora guer poggiante per istigazione di Gano
contro Francesi, dovrebbe servire a collegar le due parti, ma legame forzato e che non penetra addentro nella materia. Aggiungi che
un intervallo di parecchi anni s'ha ari immaginar trascorso tra i fatti
narrati nella prima e quelli della seconda, e intenderai di leggieri che
i

se

pregi del

poema non istanno

nell'invenzione, tanto meno nel diprobabile che senz'altro disegno che quello di
poema il Pulci si accingesse al lavoro e giunto

segno generale. Anzi


rifare

il

vecchio

Rama, a soddisfacimento
perfidie di Gano
la storia della

come pensa

alla fine, gli accodasse, forse,

del senso morale offeso dalle infinite

il

che non era stato al principio suo concetto


(XXIV, 3). Ben vero che un verso della prima parte (XXI, 49) sembra alludere a fatti della seconda e- che il canto vigesimo terzo si
chiude coll'annuncio della seconda spedizione di Antea; ma queste saranno
l'estrema rarit della prima edizione non permette d'appurarlo
aggiunte fatte quando il poema usc in ventotto canti od aldolorosa;

rotta

il

meno

posteriori alla primiera composizione.

sostanza e all'assetto esterno il Morgante non punto


poemi destinati a svago del popolo. Il Pulci uno di quei
dilettanti dell'arte del cantambanco che abbiamo imparato a conoscere
nel quinto capitolo salvo che egli non ama gli studiati atteggiamenti
e le fronde pedantesche, onde si compiacevano quei dicitori di novelle
in rima alle nobili brigate; anzi serba il fare modesto e alla buona del
cantor popolare: comincia i canti coll'in vocazione religiosa e li chiude

Quanto

alla

dissimile dai

s il verso e l'otserba loro l'andatura piana e un po' sconnessa dei versi e


delle ottave che sonavano in San Martino. Ci che rese accetto il poema
agli ascoltatori e ai lettori nella Firenze di Lorenzo il Magnifico e

coll'annuncio del seguito-e^ col pio augurio; ravvia

ma

tava,

ancor oggi un libro di lettura piacevolissima, il brio che lo


pervade da capo a fondo.
A chi legga un cantare dell' Orlando e subito dopo il luogo corrispondente del poema pulcesco, parr di vedere snodarsi e colorirsi in
un quadro non leccato n finito, ma di buona scuola, un rozzo disegno
a carbone. Il Pulci signore della lingua e si balocca con essa a suo

ne
i

fa

agio senza troppo rispetto della sintassi e delle regole stilistiche;


quindi signore del verso e della rima e solitamente non ha bisogno di
ricorrere ai grami ripieghi di cui si servono ad ogni momento i cantori
popolari. Calchi fedelmente le

ottave la materia che quivi

orme

del suo modello o distenda in pi

condensata in

una

sola

o raccolga

in

materia gi distesa in pi stanze, il suo dire sempre


scorrevole e spedito, anche se non di rado, per mancanza di lima, inelegante. Ai contemporanei poi pronti ad intendere tutte le arguzie, i
motti, gli idiotismi fiorentineschi, di cui il poema miniera inesausta..

una

il

fiore della

297

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

e le allusioni a persone e fatti moderni, che sbucan fuori leste e sottili, quei racconti dovevano riuscire in singoiar modo gustosi.

Com'

dei poeti popolari,

il

Pulci

non isminuzza con

sottile analisi

le sue descrizioni; ma riesce tanto pi efficace di loro quanto pi egli


ricco d'ingegno e di spedienti. Sotto alla sua penna le scene si animano e i personaggi acquistano disinvoltura e rapidit di movenze.
La figurazione della maga Creonta, vittima degli esorcismi di Malagigi,

ben povera cosa nell' Or land (XLVIII, 31); sentite invece l'amico
di Lorenzo il Magnifico:
Ella

storce, rannicchia e raggruppa,

si

Poi
Poi

o bisce,

distende

si

raccoglie, e tutta s'avviluppa;

Ella

come serpe

si

si graffia,

e percuote e stridisce;

tutta l'aria in

un

tratto s'inzuppa

Di piogge e venti, e co' tuoni squittisce,


E grandine e tempeste e' ncendi e furie
Cominciono apparir, con triste agurie.
(XXI,

76).

Per causa dell' Amostante Rinaldo e Orlando, sconosciuti l'uno all'altro, vengono a zuffa: due versi e una similitudine bastano a descrivere

il

primo assalto furioso:


Le lame

si

spezzorno parimenti

Sopra

gli scudi, e' destrier via

Come

folgore va molto fervente

Poi colla spada a

ferirsi

passorno,
:

tornorno
(XV.

Morgante trabocca

25).

sull'erba Dodone, rapidamente lo porta alla

di Manfredonio e rivola ad Orlando

tenda

Al padiglion ne

lo porta il gigante;
Manfredonio, Dodon presentava
Manfredon rise, veggendo Morgante,

A
E

per

Macon

d'impiccarlo giurava.

Morgante in drieto volgeva le piante,


Torna ad Orlando ch'ai campo aspettava.
(XV,

39).

Qui anche

la sequela, altrove stucchevole, degli endecasillabi accentati


sulla settima, rapidi nel loro proceder dattilico, risponde bene all'in-

Or appunto per codesta sua noncuranza dei partiPulci descrittore assai abile e mirabilmente vario di battaglie; la sua penna scorre sollecita qua e l, intreccia con disordine,
forse non voluto, personaggi ed episodi e ottiene quegli effetti d'in-

tenzione dell'arte.
colari

il

sieme, che l'analisi minuta e ordinata di solito ammorza.


Analitico egli invece nelle parti discorsive. Mentre gli altri poeti
cavallereschi solevano narrare i dialoghi dei loro eroi, il Pulci li riferisce in forma diretta, con quale proftto per la vivezza della rappresentazione non chi non veda. Trovi nel Morgante ad ogni pi
sospinto nervosi battibecchi fra avversari che stanno per incrociare le
lance e che non ismettono d'insultarsi neppure nel fervor della mi-

298

CAPITOLO OTTAVO.

schia; amichevoli conversazioni condite

di scherzi e di frizzi, domanda


ironiche e risposte pungenti, dibattiti pr e contro una sentenza o una
risoluzione. Altri vide giustamente in tale abitdine l'efficacia del teatro

sacro; cos della lirica popolare risuona Foco in certi epiteti usati a
descriver la bellezza muliebre (p. es. IV, 17; XII 40, 73) e ricompare
un brutto artificio nelle ottave in tessute di versi tutti comincianti da
una medesima frase. Talvolta, innegabile, questo artificio che il
Pulci trovava gi nel suo modello
viene acconcio a rincalzare un' i,

dea o un'immagine; ma se Orlandolo usa a saziet per rimproverare


a Rinaldo l'amore per Antea (XVI, 47, 49-51), e Carlo Magno dinanzi
al cadavere d'Orlando intona la litania:
Io benedico

il d che tu nascesti,
benedico la tua gkmnezza,
Io benedico i tuoi concetti onesti
Io benedico

Io

(XXVII.

203),

mi indispettiscono come un tenore che nel momento pi patetico


dell'azione si affacci al proscenio per Cantare una cabaletta. Accanto a
essi

questi artifci di provenienza popolare si incontrano nel Morgante reminiscenze e imitazioni del Petrarca e soprattutto dell'Alighieri, di cui il
Pulci era studiosissimo ammiratore. Tracce non molto profonde vi ha

impresso l'erudizione classica, quell'erudizione, s'intende, di seconda


mano, che era divenuta ormai patrimonio di tutti i rimatori semidotti.
Ci accaduto di notare che in alcuni poemi cavallereschi si inframettono
episodi scherzosi. Nel Morgante il riso zampilla da mille
n riso nei
Morgante fonti: dall'atteggiamento di critico che il poeta assume di fronte alla
sua materia, dallo stile e da alcune particolarit del racconto
dagli
episodi comici divenuti legione. Sta qui appunto il principal fra' caratteri che contrassegnano l'opera dell'ingegnoso Fiorentino.
I cantori popolari solevano citare la storia da cui attingevano
o
dicevano di attingere le loro narrazioni; candida confessione o ingenuo
citazioni
scherzose, artificio, che poteva trovar fede presso il loro uditorio. Ben altra era
la malizia del Pulci, quando esposte le cose pi inverosimili, soggiungeva il suo cauto se Turpin non mente , o sfidava chi dubitasse
a farsi avanti con sue ragioni,
,

Ch'io lo far poi al fin contento e zitto


E dir: Ci che l'autor qui scrisse

Par che

sia tratto dall'Apocalisse

(XXIV,

Ancor pi ameno

egli diviene, se fnge

105).

che

suoi autori

non

accordino sulle circostanze d'un fatto. Allora riferisce con prosopopea


di storico scrupoloso le varie versioni, le discute e mette innanzi una
sua ragionata congettura, oppure lascia in dubbio quali fossero realmente gli effetti di certo formidabil fendente, o come quel tal Saracino
stramazzasse di sella, giacch in verit le non son questioni da risolversi cos su due piedi. Qui par di vedere l'allegro poeta increspar le

si

293

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

labbra a un sorriso ed ammiccare a' suoi uditori della brigata medicea,


quali certo non si lasciavano cogliere all'amo, neppur quando per
i
giustificarsi d'aver condotto a Roncisvalle anche il signore di Montaibano e per autenticare alcune particolarit del racconto, il Pulci in-

ventava

il

famoso Arnaldo

Che molto' diligentemente ha

scritto,

investig dell'opre di Rinaldo


Delle gran cose che fece in Egitto,

non direbbe una bugia per nulla

scrittore esattissimo, che

(XXVII,

80).

moderni; tanta appaA questa invenzione


che di Arnaldo gli
affermando
il
Pulci,
darle
renza di verit seppe
gloria di Monteonore
e
Angiolino

caro
il
suo
avea dato notizia
abboccarono per alcuni

(XXV,

pulciano

169).

Pi perenne fonte di riso scaturisce dal contrasto fra la materia


epica e la frase o l'immagine scherzosa o eli basso stile. Anche i rimatori del popolo usano spesso locuzioni disadatte all' argomento, ma

metro e

trascinati dalle necessit del

S3mpre spontaneamente e
scena tocca

pi

eli

sua

fastigi

alti

della rima;

libera

dell'

prima luce del mattino ha svelato

anche

l dove
Siamo a Roncisvalle

epopea.

ai

Pulci invece quasi

il

elezione

la
;

la

baroni franchi l'appressarsi mi-

naccioso dell'esercito di Marsilio; Orlando ha rivolto

a' suoi un' oraardore guerresco e dolcemente soffusa di melanconia


e di fede religiosa; una tristezza infinita va per il campo cristiano, e
il poeta con un tcco da grande artista ne riassume e ferma l'impressione nel muto pianto con cui l'eroe chiude il suo dire:

zione piena

di

disse

pianse in sul cavallo amaramente

Andianne

Quando

e'

Se non che poco dopo

al

popol Saracino.

rivide tutta la sua gente


(XXVI,
e' ti

40).

vien fuori con un'ottava

di lazzi

grosso-

lani e volgari:
Quivi gi i campi l'uno all'altro accosto,
Da ogni parte si gridava forte;
Chi vuol lesso Macon, chi l'altro arrosto;
Ognun volea del nimico far torte
:

Dunque vegnamo
S ch'io

Che

non tenga

colla falce

Ch'io

alla battaglia tosto

muova

in disagio la morte,
minaccia ed accenna

presto le lance e la

penna
(XXVI,

49).

Son le note con che si accenna nella sinfonia il motivo che serpegger- pi o meno palese in un melodramma. Terribile il cozzo
della piccola schiera degli eroi carolingi contro le soverchianti miturbinano i colpi, il sangue scorre a rivi dovunque aplizie saracene
;

pare la morte;

Pure

il

momento

solenne,

la

rima

impari

ad esso.

in quel tragico viluppo di feritori e di feriti, di uccisi e

cisori, in

mezzo

all'incalzare di episodi

veramente

pietosi,

d'uc-

come quello

Lo sch
nell 8

300

CAPITOLO OTTAVO.

del giovinetto figlio di Gano, che

si

divisa di Marsilio e cade gridando

(XXVJI,

4,

47),

chi superstiti,
le

si

fra

il

strappa

di

dosso la proteggitrice

Or non son

lutto doile morti e

il

io

pi traditore !

disperato dolore dei po-

insinua importuno lo scherzo.

Ognuno

rape, di questa canaglia ; Ricciardetto spicca

Come

afftta,

come una
Turpino affronta un
i

capi

pannocchia Di panico o di miglio o di saggina ;


saraceno e gli schiaccia l'elmo e' 1 capo come al tordo . Poco dopo
ecco il venerando arcivescovo spiccar salti come un gatto e come,
aggiungiamo noi, quel frate che il buon Gigi avea visto
se ne ricorda il lettore ?
balzar dal pergamo, mentre gli rovinava sul capo
la vlta della chiesa. Terigi
il gentile scudiero di
Orlando
rimasto
avviluppato per un piede in certa stretta e tutto intriso di sangue,
somigliato ad un toGchetto di lamprede e i poveri morti foracchiati
dalle ferite, a grattugie o a padelle da far le bruciate. Roncisvalle
e qui torna un paragone al Pulci carissimo (VII, 56; XXIII, 38)

Dove

fiisse

Di capi, di

pareva un tegame
sangue un gran mortito
peducci e d'altro ossame.

di

(XXVII,

basta: anche nello

sfondo del quadro

56).

sorridono le

tinte

miche. Appollaiati come sparvieri sul campanile d'una chiesetta,

codia-

voli stanno pronti ad acciuffare le anime dei pagani e si abbaruffano


per T onore di recarle a Lucifero che le trangugia a ciocche. Che
gran menar di coda fecero quel giorno Minosse e Radamanto! I Cristiani sono invece portati dagli angeli in Paradiso, e S. Pietro si affanna, povero vecchio!, ad aprire le porte a' nuovi venuti, sicch la
barba gli sudava e 1 pelo . Di cosiffatti scherzi brulica tutto il poema,
,

ma in nessun altro luogo il contrasto colla materia pi stridente


che qui nella descrizione della grande battaglia perch in nessun
altro luogo la poesia del Pulci ha tratti cos veramente e altamente
epici. L'artista fu tradito dalla sua stessa natura.
Il contrasto
che nello stile si manifesta pure
nella rappresen1
1 r
tazione dei caratteri. Rinaldo sempre il simpatico sbarazzino della
tradizione popolare
e le sue violenze,
il quale fra le sue ribellioni
pur serba nell'animo un sentimento di devozione e d'affetto per il suo
imperatore. Il Pulci lo ama e nel separarsene prova il dolore stesso che
la corte di Carlo, quando il paladino part per cercar tutto il mondo,
come Ulisse . Ma Rinaldo divenuto un po' troppo ciarliero onde
Orlando gli dice un giorno: Tu sai ch'io so far fatti e tu parole
(X, 88); corre dietro alle sottane pi che a guerriero cristiano non
si addica, e soprattutto ha acquistato un appetito insaziabile, che troppo
spesso regge le sue azioni in cambio dello spirito cavalleresco. Che
dire di Carlo Magno? Al principio del poema il Pulci lamenta che sia
mancato a Carlo un degno narratore delle sue gesta (cfr. anche XXIV, 129)
e alla fine ne tesse, sulle orme di Eginardo, uno splendido elogio. In
fondo, io penso, l'imperatore gli appariva quale a Meridiana, degno
,

scherzo
uei

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.
di gloria e di pregio e d'onore (X, 11);

ma la

301

tradizione italiana e

il

suo speciale argomento che glielo presentavano ben altramente, erano


per il suo spirito una troppo seducente tentazione perch egli sapesse
resistervi; e disegn la pi comica figura di principe che immaginar
un fantoccio cui regge il filo Gano, un testardo, un ingenuo,
si possa
:

un

vile.

Orlando resta
anche a

paladini; pure

Quando

il

pi austero,

il

lui s' attaccato

pi serio,

un

pi valoroso dei

il

po' del contagio generale.

Chiariella corre ad abbracciarlo,


.

a dire

E non

il

ver

non

gli

spiacque niente

sara dispiaciuto a Rinaldo


(XII, 78-9).

Quando giunge macilento per fame

nella

piazza

di

Corniglia

sul

suo Vegliantino barcollante e sparuto, lo accolgono motteggi e scherni


e risa (XXI, 131 seg.); se gli si presenta occasione, anch'egli pappa
allegramente, come del resto gi nella Spagna in rima senza rispetto alla sua dignit di paladino (p. es. II, 23-4). Il Pulci, osserva
arguto il Rajna, mentre sveste a quegli eroi gli abiti plebei per
adornarli di vesti di broccato non pu rattenersi dall'imbrattar loro
alquanto il volto , affinch muovano a riso gli spettatori. E cos i caratteri non hanno contorni ben determinati; ondeggiano tra il loro
aspetto tradizionale e certi atteggiamenti comici, che contrastano con
quello e che non hanno altro motivo se non la matta fantasia del poeta.
L' unica figura che ci appaia da capo a fondo uguale a s stessa e
quella di Gano, sempre malvagio, sempre pronto a seminare scandali
,

e discordie, inesauribile nell'ordir tradimenti, ambizioso, invido, astuto,


simulatore, vendicativo. Egli cos tristo che lo scherzo

non pu

toc-

carlo senza divenire dileggio e quindi perdere la sua comica efficacia.

Dicendo che Gano l'unico personaggio che ci appaia da capo a


fondo uguale a s stesso, ho inteso parlare solo dei personaggi di razza
umana, perch quella lode ben si addice al poeta anche per i giganti. Immani, brutti, designati per lo pi con nomi strani o paurosi, essi hanno
nel loro aspetto e negli atti qualche cosa di grottesco che muove al
riso; il vederne due alle prese uno spasso per gli stessi paladini
(X, 142). Onde facilmente s'intende che nella figurazione di tali mostri
non si ingenerassero per causa dello spirito comico del Pulci i constasti e, sto per dire, la duplicit che abbiamo notato nei caratteri
dei soliti eroi. Gi l'epopea francese non avea schivato il burlesco
nel rappresentarli. Quantunque sempre pagani per nascita, ch tra'
Cristian non suol esser giganti (VII, 28), essi sono per lo pi d'indole bonaria e non raro il caso che si convertano al cristianesimo.
Cos Marcovaldo; cosi Fuligatto, che se non fosse ucciso dalla fantasima, diventerebbe per Rinaldo quel che Morgante per Orlando; cos,
lo

gigant^

abbiamo notato, Morgante.

Il Pulci trov questo personaggio nelY Orlando e vi prese uno speciale


amore: lo lumeggi pi vivamente, aument il numero e la grandezz
delle imprese di lui e lo segu sino alla morte, mentre l'anonimo ri-

Morgante.

302

CAPITOLO OTTAVO.

matore ad un certo punto lo abbandonava senza curarsene pi. Morgante grande come una montagna e sotto al suo cappellaccio d'acciaio rugginoso pare un fungo con lunghissimo gambo; la sua arma
va sempre a piedi, perch
un battaglio
cavalli gli si accosciano
sotto e scoppiano. Grandi vizi non ha, tranne una voracit spaventosa, che all' occasione lo rende anche ladro. Se tiene un po' dello
smargiasso, non ha poi tutti i torti, perch i bei tratti li fa davvero:
acciuffa un padiglione, vi affardella dentro due guerrieri e via poll'involto in ispalla (VII, 16); abbatte con uno spintone una torre poderosa (XIX, 170); fa da antenna in una nave (XX, 42). Personaggio comico
Morgante muore perch un granchiolino gli morde un
tallone, comicamente. Il mondo cavalleresco in cui si aggira, frena e
limita la sua immensa gagliardia e il suo volgare istinto, ma non appena ne tratto fuori, l'una e l'altro si manifestano in tutta la loro
pienezza, e cresce l'amenit. Questo avviene nell'episodio di Margutte, che
occupa poco meno di dugentocinquanta ottave dei canti XVIII e XIX
e che rimane come staccato dal resto del poema.
Margutte un mezzo gigante, che un d sur un crocicchio si imEsodio di
Murgutte. batte nel colossale scudiero d'Orlando e gli si fa compagno. La sua
i

fede nel cappone, nel burro, nella cervogia e sopra tutto nel buon
vino; schernisce ogni religione; ha sulla coscienza, fosca come il suo
volto

ben settantasette peccati mortali

per non dir

dei veniali.

giocatore; baro; ghiottone; libertino. Dapprima fu malandrino


alle strade poi per istarsi in pace e in pi riposo , cominci a rubar
;

nascosto e divenne

espertissimo nelle pi raffinate

arti del ladro;

ruba sempre,
Ch'io non ist a guardar pi tuo che mio,
Perch'ogni cosa al principio di Dio
(XVIII, 135).

Sa falsar

le scritture;

lan di bocca,

come

i
i

falsi

fichi

sacramenti e gli spergiuri gli sdrucciosampier que' ben maturi ; bestemmia

uomini e santi; ogni sua parola una menzogna;


lasciarvi il segno soglio,
lumaca, e noi nascondo ;
E muto fede e legge, amici e scoglio,
Di terra in terra, com'io veggo e truovo,
Per ch'io fu' cattivo insin nell'uovo.

Dovunque

Come

io vo,

fa la

(XVIII. MI).

Codesta litania continua a scorrere per pi d' un'ora tutta scoppiettante d'arguzie e piena di compiacenza, dalle labbra di Margutte,
che per abbreviare lascia anche in dietro un gran capitolo di mille
,

altri peccati in

guazzabuglio

Morgante

lo giudica

il

pi tristo

uomo

suo, e dopo averlo amche mai fosse,


monito a credere almeno nel suo battaglio, si mette con lui in cammino. La forza immensa trova il suo compimento nell'astuzia matricolata.
Giunti ad un'osteria, la fanno da padroni; si divorano un bufalo arrosto e non so quante staia di pane e bigonce di vino; e in sul par-

ma pur accomodato

al voler

303

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

Margutte con sua arte vecchia svaligia la casa e le appicca il


fuoco. Per via, Morgante prende diletto dei motteggi di Margutte e
questi si stizzisce perch l'appetito gigantesco dell'altro sacrifica il suo.
Un giorno, 'mentitegli si reca ad attinger acqua, Morgante divora intero un elefante, ossa e tutto; e quando torna, lo trova che sta stuzzicandosi il dente con un pino, con un'aria di canzonatura da non si
dire: povero Margutte! La grossolana onest di Morgante contrasta
vivamente colla malvagit del gaglioffo. Liberano dalle mani di due giganti una fanciulla e la riconducono al padre, re Filomeno di Belfiore;
Morgante gioisce della sua buona azione,
tire

disse: Io

Che

son

contento stasera,
fia molesto.

non mi

s'io morissi,

Disse Margutte che malcontento era


Se tanta coscienza pur ti tocca
Ricuciti una spanna della bocca.
(XIX,

105-6).

Filomeno, Morgante fa un rabbuffo

Partiti dalla corte di

al

compagno

per il suo malo contegno; rabbuffo, che Margutte accoglie con una
sfacciataggine degna di lui:

Tu m'hai pur
10

fatto tutte le

mi credevo ben tu

vergogne:

lussi tristo,

E ladro, e ghiotto, e padre


Ma non tanto per, quanto

di

menzogne

n'ho visto:
Tu nascesti tra mitere e tra gogne,
Come tra' 1 bue e l'asin nacque Cristo.
Margutte gli rispose: E tra' eapresti,

tra le scope

Io credevo,

tu

non t'apponesti.

Morgante,

tu'

sapessi,

Ch'io ebbi tutti i peccati mortali:


11 primo d, perch mi conoscessi,
dissi pure a lettre di^ speziali:
Pu' mi tu altro appor, ch'io ti dicessi ?
Questi son peccatuzzi veniali;
Lascia ch'io vegga da fare un bel tratto
In qualche modo, e chiarirotti affatto.

Tel

(XIX, 142-3).

Alla fine Margutte scoppia dalle risa in vedere una bertuccia che s'era
calzata

suoi usatti

parve che

gli uscissi

Tanto fu grande

una bombarda,

dello scoppio

il

tuono.
(XIX,

142).

Tal morte si conveniva ad un uomo che in vita sua di tutto avea


riso, del bene e del male, del vizio e della virt, perfino dei succolenti manicareti in cui era la sua fede. Il comico di Margutte ha radice nella stessa natura di lui turpemente gioviale; il comico di Morgante nella immensit de' suoi atti, inverosimili secondo la stregua umana;
il comico dell'uno interiore, il comico dell'altro esterno
e Timo muore
;

304

CAPITOLO OTTAVO.

mi

si

permetta

l'altro vittima di

la contradizione in termini

una

piccola forza, onde

ha

suicida involontario

rilievo

il

grottesco di

tutta la sua vita.

L'episodio di Margutte

non

nelT Orlando, e

averlo tratto da certo libro che

l'autor

Che

si

si

il

Pulci assevera di

trov in Egitto,

chiama Alfamenonne,

fece gli statuti delle donne.

fu trovato in lingua persiana,


Tradotto po' in arabica e 'n caldea;
Poi fu recato in lingua soriana,
E dipoi in lingua, greca e poi in ebrea,
Poi nell'antica famosa romana,
Finalmente in volgar si riducea.
(XIX, 153-4).

Forse qualche reminiscenza letteraria pot aiutarne il concepimento;


ma il vero si che l'episodio balz fuori creazione originale dalla
fantasia del poeta. Il quale doveva compiacersene assai, se non pure
ne fece far ricordo dall'arcangelo Gabriele l fra il terrore e il dolore della rotta di Roncisvalle (XIX, 139-40), ma volle che anche la
seconda parte del poema avesse il suo Marguttmo , un diavoletto
e zoppo e guercio e travolto e scrignuto , che evocato da Malagigi, va saltellando intorno ai due giganti Fallalbacchio e Cattabriga
venuti in Francia con Antea, e li trae nella pania (XXIV, 90-102).
Nel furbo e malvagio compagno di Morgante i contemporanei ravvisavano forse qualche tratto di persona viva come si saranno sma,

immaginando raffigurato in uno dei giganti di Antea


quel Fallalbacchio, non so se birro o esattore, certo terribile ai bur-

scellati dalle risa,

leschi indebitati del secolo


dei

poema,

^a

di codesti
tipificato

XV.

Margutte ebbe grande popolarit e fu messa a stampa


separatamente fin dal 148.0, due anni prima dell' edizione del poema
in ventitr canti. Onde il titolo di Morgante, che gi in questa appare, ma a mo' di zimbello dietro all' altro pi generale e meno inesatto I fatti di Carlo Magno e de suoi 'paladini, e che poi prevalse,
non sar probabilmente se non un artifcio dell' autore o dello stampatore per isfruttare a vantaggio del tutto la buona accoglienza fatta
ad una parte. Imperocch Morgante non certo il protagonista del
poema: dopo il decimo canto esso scompare e non ritorna in iscena
se non nel diciottesimo (st. 110) per incontrarsi con Margutte, per
partecipare alla distruzione di Babilonia e all' avventura marittima
d'Orlando e per morire nel canto vigesimo (st. 51). Pare che solamente dopo aver toccato il canto XVIII, il Pulci si avvedesse del partito che poteva trarre da quel personaggio abbandonato per sempre
dal suo modello, e pensasse di dare al poema il bizzarro ornamento
s ^ or ^ a

II

riso

episodi.

che dall'atteggiamento del poeta, dallo

stile, eia

alcuna par-

spande in larga vena per


i^glnit ticolarit narrativa, dalle scene burlesche si
stringiamo le maglie del nostro discorso
tutto il Morgante

305

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.
fine a s stesso. Il Pulci
la

parodia

non pensa menomamente a

delle istituzioni cavalleresche.

aggiusta fede;

ma non

alla politica francese

omaggio

la satira o

narra non

disprezza lo spirito che le anima, anzi al pari

de' suoi amici della brigata medicea, gli


plice

far

Alle storie che

rende onore

de' suoi signori

n sono un semanche questo

le sue lodi della corte di Carlo Magno


per c'entra per qualche cosa
dove ogni gentilezza si raccozza (XIII, 44 anche I, 7; XII, 50, ecc.).
Puoi forse vedere spuntar l'ironia l dove Morgante e Margutte dicono:
;

Noi andiam pel mondo cavalieri erranti,


amor combattendo in ogni loco (XIX,
e,

pi,

dove

il

poeta

si

37).

attarda a giustificare certo tratto poco caval-

ma, se mai, cosa passeggiera e


);
materia conquide l'artista e quasi vince

leresco di Berlinghieri (Vili, 90-1


tutto superficiale.
la

sua natura,

Quando

la

Pulci scrive sequele d'ottave d'intonazione perfetta-

il

mente seria. Leggiamo, per esempio, la descrizione della morte d'Orlando


(XXVII, 110-159). Stanno intorno al paladino affranto dalla stanchezza
e dalle ferite, Rinaldo, Turpino e Ricciardetto; egli confessa

suoi pec-

a Dio una preghiera calda di fede e


speranza 1' arcangelo Gabriele scende dal cielo a recargli parole
conforto e di perdono indi Orlando abbraccia gli amici piangenti e
sua Durlindana e muore come un santo:
cati all' arcivescovo, rivolge
;

di
di
la

Cos tutto serafico al ciel fsso,


Una cosa parea trasfigurata,

E
0
0
E

che parlassi col suo Crocifisso


dolce fine, o anima ben nata,
santo vecchio, o ben nel mondo visso.
finalmente la testa inclinata,
Prese la terra, come gli fu detto,
E l'anima spir del casto petto.
Ma prima il corpo compose alla spada,
:

Le braccia

Ma

in croce, e

poi si sent

'

petto al

pome

fitto;

un tuon che par che cada

che certo allor s'aperse al gitto;


nuvoletta che in su vada,
In exitu Israel, cantar, de Egitto ,

Il

ciel,

E come

Sentito fu dagli angeli solenne,

Ch si conobbe al tremolar le penne.


Poi appar molt'altre cose belle,
Perch quel santo nimbo a poco a poco
Tanti lumi scopr, tante fiammelle,
Ch tutto l'aer pareva di foco,
E sempre raggi cadean dalle stelle:
Poi si sent con un suon dolce e roco
Certa armonia con s soavi accenti.
Che ben parea d'angelici strumenti (XXVII, 153-5).

Smorzatasi appena
facezia:
Rossi

l'

accensione del sentimento


ecco di nuovo una
che fu proprio la porta in sul serralla ,
,

rimbomba un tuono,
.

La

leti.

ital.

nel sec.

XV.

20

300

CAPITOLO OTTAVO.

rmore della porta di Paradiso (XXVII, 158). Si direbbe che qui


poeta rida non d'altri che di s stesso e della sua seriet. Il fatto che
10 scherzo gli viene sulle labbra qui e sempre spontaneo, per naturale disposizione, senza intenti reconditi di nessuna specie. Gli stessi

il

il

sarebbero a torto doluti di lui, perch, se talvolta par


la loro arte, la parodia involontaria ed inconscia.
Alla stessa guisa che i fatti del mondo cavalleresco, ai quali non
credeva, egli avrebbe trattato una materia che avesse la pi seria
realt dinanzi alla sua coscienza. 0 che non era stato reale e serio
11 pericolo che egli avea corso in
quella chiesa di Foligno? Eppure
quanto spirito comico nella descrizione che fece a Lorenzo della
tragica scena
II Pulci non raffrena il suo umor gaio neppur quando parla delle
ii Pulci e b
religione.
CQSe della religione. Rinaldo ed Astolfo, banditi da Carlo
si gettano alla strada, e fanno il sacrilego giuramento di non rispettare,
cantastorie

si

ch'ei satireggi

se

li

trovassero in cammino, neppure san Pietro o sant'Orsola coll'a-

gnol Gabriello (XI, 20-1); tutto comico

il lago di teologia che


Rinaldo per catechizzare Fuligatto (XXIII, 27) l'atto di fede di Margutte una solenne canzonatura di tutte le fedi. Per quello che abbiamo detto ora e dianzi verso la fine del precedente capitolo
noi
sappiamo qual valore s'abbia a dare a codesti motteggi. Che se qualcuno li giudicasse altro che innocenti facezie e vi riconoscesse l'intenzione di combattere collo scherno il cristianesimo cattolico, dovrebbe
ricredersi, trovandone di poco dissimili
e gi abbiamo citato esempi
negli ultimi canti, l dove lo scrittore par quasi sforzarsi a mettere
in mostra la sua dottrina in materia di fede e la sua ortodossia. Nella seconda parte ove con pi insistenza e on pi larghezza che nella prima
il
poeta si inframette nei racconti e parla di s, egli infatti si chiama
in colpa per le sue superstizioni magiche, le riduce entro a' confini

fa

dalla religione

consentiti

protestando che a fatture

ha dato termine, ordine e misura (XXIV, 107)


dore della sua fede contro
rati

le

sortilegi

afferma

il

Dio
can-

calunnie di certi scioperon pinzoche-

(XXVIII, 42). Inoltre pone sulle labbra di Astarotte ardue di-

squisizioni di teologia.

Astarotte un diavolo molto savio, che Malagigi evoca


L^iaodio di
Astante, I10 tizie di Rinaldo, non appena s' accorto che le trame di

per

aver

Gano mi-

nacciano di rovina l'impero di Carlo (XXV, 118 sgg.). Egli viene


si trattiene a discorrere col negromante della universal sapienza,
della giustizia e della prescienza di Dio con devozione di teologo ortodosso. Quando Malagigi gli pone la questione come possa conciliarsi
la prescienza divina col libero arbitrio, dice di non sapere rispondere
e

e che presunzione vana voler


Indi
vallo

giudicare del cielo essendo in terra.

obbedendo all'ordine ricevuto, vola


di

Rinaldo,

come

il

in

Egitto ed entra

suo collega Farfarello in quello

di

nel

ca-

Ricciar-

che i due guerrieri, valicando a gran salti acque e terre,


giungono in tempo sul campo di Roncisvalle. Durante il viaggio presso

detto; cos

307

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.
allo stretto di Gibilterra, Astarotte interrogato

castella

citt,

e imperi

posti

al

delle

di

da Rinaldo, gli parla


colonne d'Ercole:

Antipodi appellata quella gente,


Adora il sole e Juppiter e Marte;
E piante e animai come voi hanno,
E spesso insieme gran battaglie fanno

(XXV,

di

231).

Affermazioni, cui bastano a spiegare le reminiscenze letterarie mescolate


e confuse nella mente fantastica del poeta con certe vaghe nozioni

La menzione degli Antipodi invoglia Rinaldo a sapere se


possono salvaci onde Astarotte attenendosi al libro del Ficino
De Christiana religione, risponde che ogni religione piace a Dio purch
professata sinceramente
scientifiche.

essi

non debbe disperar merzede


Chi rettamente la sua legge tiene;
S che

ma

che per vera

Saraceni,
Il

stiane

come

diavolo credente
;

la fede sola de' cristiani e

che

Giudei e

saranno dannati.

ribelli

non era

Astarotte poi per

del tutto sconosciuto alle leggende cri-

cultori della

maga era un diavolo

affabile

cogli uomini e pieno di dottrina, specie intorno alla storia della crea-

zione e della ribellione degli Angeli. Di questa parla in sul proposito

anche il demonio pulcesco, nel quale dunque


appare svolta e compiuta da un artista immaginoso una vecchia figura
tradizionale. Il Pulci le ha dato in pi la perizia delle scienze umane
e ne ha fatto un diavolo cortese, servizievole, onesto, gioviale. Infatti
Astarotte tiene a Rinaldo una lezione di zoologia per dimostrargli quanto

della prescienza divina

sia

manchevole

la serie degli animali terrestri e degli uccelli istoriata

sul Padiglione che Luciana, figlia di Marsilio, aveva in altri tempi donato

secondo un vecchio costume dei poeti cavallereschi, minutamente descritto nel canto decimoquarto del Morgante (stt. 44-86). Durante il viaggio poi tutto sollecitudine per i due cavalieri, imbandisce loro
una succolenta colazione, sventa la trama ordita a loro danno da un
altro diavolo e li conduce a banchettare nel palazzo stesso di re Mar.silio, dove Rinaldo, non visto, pu appiccare due baci alla franciosa
sulle guance rosate di Luciana (XXV, 304). Astarotte si fa tanto ben
volere, che alla fine il paladino si duole del suo partire quanto se
gli fosse fratello, e rimane convinto che anche all'Inferno sono genall'eroe, e che,

Astarotte non creazione del tutto ori-

tilezza, amicizia e cortesia .

ginale; pure l'ingegno del Pulci


gello

e ha fatto

di quel diavolo

ha impresso il suo proprio suguno dei personaggi pi vivi e nel

vi

rispetto artistico pi perfetti del suo libro.

Un

poeta come

Pulci, che tira gi

i suoi versi alla buona, senza La ra


intende facilmente come non possa J^K
essere molto felice nella rappresentazione dei sentimenti, in particolare
Mo ^
dei sentimenti amorosi. Anche qui, come nelle descrizioni del inondo

affaticarsi

il

troppo a levigarli

esterno, le analisi delicate

si

non fanno per

lui,

e se talvolta

vi si

ac-

308

CAPITOLO OTTAVO.

cinge con una certa passione, sul pi hello tronca l'episodio con
uno
strappo violento o lo lascia morire quasi per dimenticanza. La vaga
e gentil figlia di re Corcante, Forisena, commuove profondamente
il
cuor di Ulivieri e il reciproco innamoramento rappresentato con
copia di particolarit psicologiche, non senza finezza (IV, 79 sgg.).
Poi
che il paladino, sagrificato l'amore al dovere, ha abbandonato la corte
di Corcante, l'autore dell' Orlando non parla pi della fanciulla;
il Pulci
invece compie il racconto facendola saltare da una finestra ma con quel
suicidio frettolosamente descritto (V, 17) ei mi ha l'aria di chi voglia
sbarazzarsi per sempre di una persona incomoda
di cui non sappia
,

pi che

si

fare.

Ulivieri passa all'amore di Meridiana,

una fanciulla
guerriera, bella quanto dice il suo nome, per la quale Manfredonio
in guerra con Caradoro padre di lei. Vinto, Manfredonio si parte licenziandosi dall'amata con parole dolcemente accorate:
Io torner, per non t'esser molesto
;
Ricordati di me, ch'altro non. chieggio :
Col popol mio, con quel che c' di resto,

Ch molti morti

pel campo ne veggio,


Ritorner senza speranza alcuna,
Nel regno mio, se cos vuol fortuna (VII, 80).

Cos Meridiana resta ad Ulivieri

che la battezza e la fa sua. Ella


segue in Francia ma quivi l'amore sbollisce, tanto che il cavaliere
lascia Parigi per correre lontane avventure senza curarsi punto di lei
(XIII, 28). Per molti canti non s ode pi parlare di Meridiana, finch Carlo
non la rimanda a suo padre (XVIII, 110). un altro precipitato collocamento a riposo , cui l'autore dell' Orlando non aveva pensato.
Del resto tutto ci non fa meraviglia, quando si pensi che nei poemi
lo

carolingi popolari

dai quali,

come abbiamo

visto,

il

Morgante non

sostanzialmente dissimile, la salsa erotica alcunch di accidentale e di superficiale. Cos l'amor di Orlando per Chiariella, quantunque
confessato con frasi bollenti (XV, 69), ha sua principal radice nel desiderio della libert e passa lesto lesto. Rinaldo pu sempre berteggiare il cugino come un ingenuo in materia d'amore (XVI, 56), Rinaldo che s vanta di saperla ben lunga in fatto di donne e di dilettarsene un poco (IV, 48). Forisena, Meridiana, Chiariella, pi vi-

vamente Luciana danno martello


donna che desti in
N invero egli ha tutti i torti.
paglia. L'unica

suo cuore

al
lui

ma

questi son fuochi di

un sentimento profondo,

Antea..

Bella nel volto e della persona prestante, la figlia del Soldano di

Babilonia

si

dilettava di giostre

di

torneamenti, di battaglie. Chi l'a-

vesse veduta volteggiare sul suo arabo focoso, chiusa nella sua

tura incantata, avrebbe giurato


vaghitasi per

fama

del sire

di

che fosse Marte (XV, 98


Montalbano a sua volta lo

siffattamente, che egli trascura

venutole a fronte gitta via l'asta

suoi doveri
e,

di

cavaliere

quando Orlando prende

arma-

Inconquide

sgg.).

cristiano
il

suo posta

309

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.
nella tenzone da cui dipende

la sorte dei

paladini e

dei

loro amici,

prega Dio per lei. In Antea poi l'amore educa ed affina il suo naturai costume leggiadro e soave . Se obbedendo al padre va con un esercito
contro Montalbano mentre Rinaldo combatte col Veglio della Montagna, perch spera di raggiungere per tal via la meta de' suoi desideri; perch l'amore onde arde, si diffonde sino ad abbracciare tutta
la Cristianit; perch la spinge un'invitta brama di gloria:
,

pur Cristianitade,

dice: Io vedr

Castella e ville e l'altre sue contrade;


i monti e' 1 piano,
guarda Malagigi
Del mio Rinaldo, detto Montalbano ;
Vedr la bella chiesa san Dionigi ;
Vedr il Danese, Astolfo e Carlo Mano,
Quand'io sar a combatter poi a Parigi;
E s'io torr a Rinaldo il suo castello,
Potr ci eh' io vorr poi aver da quello.
Combatter coi paladini ancora ;
Rinaldo torner, cos Orlando,
E proverommi con lor forse allora:
La fama insino al ciel n'andr volando (XVIT, 27-9).

Le

.ae marine,
'1

boschi,

bel castel che

Animata

ella stringe amicidai sentimenti della pi pura cavalleria


con Guicciardo ed Alardo dopo averli abbattuti in duello fa bastonare ben bene quel traditor di Gano che le suggerisce vili proponiti e si trattiene in Montalbano ad aspettare il ritorno di Rinaldo.
Del rozzo profilo sbozzato dall'autor dell' Orlando il Pulci ha fatto una
figura compiuta attraentissima una donna guerriera nella quale la
forza e il valore spiccano sullo sfondo di un'anima femminilmente soave.
Ma anche di lei Rinaldo si dimentica presto e passa ad altri amori.
Quando la rivede dopo alcun tempo nel castello di Creonta (XXI, 65 e
seg.), pare non serbi neppur le ceneri della fiamma primiera.
Dice messer Luigi stesso che Lucrezia Tornabuoni gli commise di l. Torna
scrivere il Morgante (XXVIII, 2) ed a lei, morta prima che il poema MorgauL
fosse in tutto compiuto
scioglie, in sul punto di toccare la riva, un
inno di lode e una preghiera:
,

zia

Quanti beni ha commessi, a quanti mali


Ovviato costei, mentre era in vita
Per con le sue veste nuziali
L'anima in cielo a Dio si rimarita
!

Si che ancor prego che lass m'accetti


Fra' servi suoi nel numer degli eletti (XXVIII, 135).

Nel 1470, finita la prima parte del Morgante, egli disegnava di rimare, a soddisfazione della sua signora, altre storie d'argomento romanzesco, un Uggeri e un Rinaldo, ma, che si sappia, non ne fece
nulla. Bens attese a continuare, quantunque poi la morte gli impedisse di venirne a capo, il Ciriffo Calvaneo, poema cavalleresco che
suo fratello Luca aveva cominciato. La parte che ne abbiamo
cinque

caivaneo.

310

CAPITOLO OTTAVO.

canti in tutto, ch della continuazione fattane per ordine del

Magni-

da Bernardo GiambuIIari e stampata nel 1514 non accade parlat o


principia narrando le vicende consimili di Paliprenda e di Massima,
madre quella del Povero Avveduto e questa di Ciriffo, e come li allevassero sui monti Calvanei nel paese, caro ai Pulci, di Mugello. Di
Ciriffo, che si reca a Costantinopoli e, ferito gravemente il padre per
vendicar Massima, si fa romito sul Carmelo, finisce presto il discorso
fico

Seguiamo

poi le avventure del Povero Avveduto in Ascalona,


combatte per il re pagano Tebaldo contro re Luigi figlio di
Carlo Magno. Il poema, nel quale episodi vari si intrecciano ad una trama
offerta dalle Storie Narbones, rimane interrotto quando il Povero, divulgatasi ormai la notizia ch'egli figlio d'uno degli assediatoli, Guido
di Narbona, parte da Ascalona per rintracciare Ciriffo.
Si sogliono ascrivere a Luigi le ultime ventinove stanze del frammento quanto a me, penso che assai pi ampia debba essere stata la
sua cooperazione, poich molto estese e marcate sono le orme della
sua maniera, specialmente dopo il primo canto, ben farcito di classicismo. Il pirata Falcone tiene molto di Margutte (IV, 11-2; V, 74);
arguzie, facezie, contrasti fra lo stile e la materia abbondano nel Ciriffo, in qualche luogo quanto nell'opera maggiore di Luigi,
La quale in ogni modo basta alla gloria di lui. Essa non n un
n mot gante
semplicemente un poema.
dSrepopea poema burlesco, n un poema eroicomico
c
scritto da un bell'umore. In questo appunto sta il merito del Pulci,
?Isca"
nell'aver impresso in una narrazione cavalleresca del vecchio stampo
l'impronta del suo ingegno brioso e della sua indole buona e modesta,,
nell'aver insomma, contro al costume dei cantastorie
espositori oggettivi, messa anche la sua persona di borghese fiorentino sul palco
dove agiscono gli eroi, naturalmente senza alterarla. E quella impronta
s chiara e rilevata, che non possibile ammettere che altri vi avesse
mano, se non forse, per qualche vago suggerimento, il Poliziano.
Per codesto suo carattere personale il Morgante resta un monumento isolato nella storia della poesia cavalleresca. Chi si fosse provato ad imitarlo senza aver le particolari attitudini di quel tomo di
Gigi, sarebbe ricaduto nelle grame tantafere dei cantori popolari. Un
tentativo di avviare il genere per un cammino a tutti accessibile fece
a Firenze Ugolino Verino, studiandosi di accostare il poema romanzesco all'epopea classica. L'uso del latino e la scarsa diffusione della
Carliade poterono forse impedire che 1' umanista mediceo avesse seguaci; non soffocarono certamente un tentativo felice. Quanto questo
fosse sterile, fecero manifesto un mezzo secolo dopo i poemi in lingua italiana di Luigi Alamanni. La vera e feconda riforma dell' epopea
(II,

86).

dove

egli

cavalleresca italiana doveva sorgere fra altre condizioni di

vita e di

pedantesca
cultura che non
seriamente
ingegno
forte
e
di
bello
opera
un
per
classica,
imitazione
nudrito di studi; a Ferrara, mediante la fusione della materia carolingia colla materia brettone, per opera del conte Matteo Maria Boiardo.
fossero le fiorentine,

per altra via che

la

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

311

racconti brettoni, valicate le Alpi certo in un' et di poco posteriore


alla loro diffusione per le terre di Francia (sec. XII), avevano avuto fra
noi vicende non molto dissimili da quelle dei racconti carolingi. Nella
I

Po furono

letti e trascritti nella loro lingua originaria e nei


dovettero anche esser tradotti con pi o meno di fedelt
nei vernacoli locali. Un Tristano veneto e un frammento d'altro romanzo sono forse tutto ci che ci resta di tali versioni. In pi gran

Valle del
secolo

XIV

quelle che si fecero in Toscana quando la mateBrettagna migr anch'essa sulle rive dell'Arno. La pi antica
il Tristano di cui ?\ conserva nella biblioteca Riccardiana di Firenze una
copia scritta fra il declinare del secolo XIII e gli esordi del XIV;
fresca prosa, alla quale non manca qua e l una certa rude efficacia,
ma conferisce monotonia l'ingenua semplicit dello stile e talvolta
asprezza la servile fedelt all'originale francese. Possiamo assegnarle un
posto analogo a quello che il Fioravanti e il Buovo in prosa tengono
fra le narrazioni carolinge. Di essa si valsero rimaneggiandola , rimpinzandola di interpolazioni, innestandola in pi ampie storie pure at-

numero sopravvivono
ria di

tinte

a fonti transalpine,

gli

autori toscani di parecchie

compilazioni,

un ricordo la cosiddetta Tavola ritonda della Biblioteca Laurenziana, non anteriore, per quanto mi sembra, alla met
del secolo XIV. Quivi lo stile si presenta gi abbastanza maturo; le

tra le quali merita

giunture dei periodi sono agili e varie, il fraseggiare spigliato e vivace.


L'autore tratta con molta libert la sua materia e sa disegnare alcune scene con evidenza; ama citare sentenze e proverbi; si trattiene a fare riflessioni morali o d' altra natura e sdrucciola qualche
specialmente se riferisce delle epistole nella rettorica. Siamo
volta
allo stadio che nella letteratura carolingia rappresentato dai Reali.
Oltre che nei romanzi in prosa le leggende dei cavalieri della Tavola Rotonda furono dai Toscani trattate in alcuni poemetti in ottave,
simili in tutto, fuorch nell'estensione
a' poemi di cui abbiamo parlato. Nel Trecento un rimatore popolare esponeva in sei cantri non
ispregevoli le portentose imprese di Fbusso il Forte e la morte pietosa cui fu condotto da Amore quel novello Sansone, sia che egli attingesse direttamente ad un testo francese del Guiron, sia che si servisse di quella versione del medesimo episodio che risale suppergi
alla medesima et che la rima. In sette canti altri novell di Lancilotto, e le avventure di Tristano furono l'argomento su cui fece le
sue deboli prove un cantastorie dell'estremo Trecento, poich il cantare di Tristano e Lancilotto quando combattettero al petrone di
Merlino, La morte e la vendetta di Tri stano vogliono essere considerati siccome frammenti di pi lunga serie.
Composte di episodi 1' un dall' altro indipendenti e 1' uno all' altro
accostati piuttosto che legati con saldi intrecci
tutte piene fin dall'origine di invenzioni fantasiose, le narrazioni brettoni generarono in
Toscana una bella fioritura di poemetti, nei quali le tradizioni venute
di Francia sono rimaneggiate liberamente, adattate a personaggi di,

^PP e *
b

'

Italia.

312

CAPITOLO OTTAVO.

versi dai loro primitivi protagonisti, ineschiate a tradizioni d'altra pro-

venienza o danno impulso alla creazione personale di nuove leggende.


Spettano a tal categoria alcuni fra i poemetti di Antonio Pucci, come

Gismiranle e V Bistorta della reina d'Oriente, ed altri che possono


penna del fecondo banditore fiorentino: i due
Gantri di Carduino, nei quali compare la leggenda del Bel Inconnu,
la Pulzella Gaia strettamente affine a due lais francesi, il Bel Ghe-

Il

forse ascriversi pure alla

rardino,
II

Fortuna
materia

tetene,

il Gibello ed altri ancora.


popolo gradiva certamente e gustava quelle storie di incredibili

casi, di miracoli, di incantesimi, di fate, come le fole che gli allegravano le veglie. Ma la brevit stessa dei componimenti dimostra come
non tanto lo spirito che tutto pervade il ciclo di Art, quanto il meraviglioso episodico glieli rendesse cari. Oh come apparivano meschini
quei cavalieri che per due begli occhi si facevano frappare le carni e

lasciavano la corte per

il solo gusto di cercar avventure, nel confronto


che brandivano la spada a difesa del loro paese
0 della religione
e che erano quasi sempre spinti da gravi motivi
ai loro viaggi in Levante
La popolarit della materia di Brettagna
non si pu paragonare con quella assai pi larga e durevole della
materia di Francia. Era altro il pubblico cui per la stessa loro indole
sentimentale quei racconti potevano piacere; il pubblico pi raffinato
e forse pi corrotto delle corti. Ond' facile intendere quanto maggior voga dovessero avere le Arturi regis ambages pulcerrime
nell'Italia superiore, dove fiorivano i principati, che nella democratica
Firenze, dove erano assai meno dissimili, quanto ai sollazzi, i gusti del

cogli eroi carolingi


,

popolo e dei signori.

Le

biblioteche dei

carolingi

ma

in pi

Gonzaga e degli Este non mancavano di poemi


gran numero accoglievano i romanzi brettoni

specialmente la biblioteca di Ferrara. Nell'inventario dei

libri di

Nic-

1436 abbondano i Tristani, i Lancilotti,


Sangradali, i Merlini, italiani e francesi, pi che gli Aspr amonti
od i Buovi. Quel marchese, che poneva nome Meliadus ad uno de' suoi
figliuoli, era s copioso e docto di storie arturiane, che Guglielmo
ove
Cappello lasciava perci senza chiosa i luoghi del Dittamondo
e Tristano
acl esse fatta allusione. E chi sa che il buon re Marco
e Isotta la bionda non gli vagolassero nella mente fra le impressioni
di una dolorosa realt, quando scoperse la tresca di Ugo con Parisina
che le avventure dei cavalieri di Brettagna avea familiari! Ma il buon
col III d'Este compilato nel
1

re

Marco non voleva morta

glie, uccisi

Isotta,

e pianse perduti

quello da lui stesso, questa dal dolore

ci

il

che

nipote e la modi Niccol III

per

vero non sappiamo. Neppure sotto i successori di lui venne meno a quelle
leggende il favore della gente colta. Guarino, festeggiando in un epitalamio latino le nozze di Beatrice, sorella del marchese Borso, con Tristano Sforza (1455) trovava un appiglio agli encomi nel nome cavalleresco dello sposo, e un altro solenne umanista, Francesco Accolti,
prendeva a prestito
lettor di diritto nello Studio dal 1448 al 1461
,

313

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

un Saint Graal, le profezie di Merlino, un


Meliadus e un Lanciiotto. Siamo vicini al tempo in cui tra i gentiluomini della reggia ferrarese avr un posto segnalato il Boiardo.
dalla biblioteca principesca

Scandiano in quel

Reggio, feudo che la famiglia aveva avuto

di

dal marchese Niccol III in cambio della signoria di Rubiera, nacque


Matteo Maria nel 1434, quasi certamente. Nel 1446 dimorava a Ferrara
colla

madre Lucia,

sicch probabile

che

il

primo incitamento

agli

studi gli venisse dalla dimestichezza dello zio Tito Vespasiano Strozzi,

giovinetto allora poco pi che ventenne, eppure esperto di latine elealle quasi infantili impressioni non pot
ganze. Checch sia di ci
,

non intrecciarsi nella sua mente il ricordo della fioritura di studi classici
onde fu lieta Ferrara sotto Leonello. A diciottenni perdette il padre,
Giovanni, enei 1456 Favolo Feltrino, uomo non privo di lettere, ch'ebbe
corrispondenza ed amicizia con alcuni fra' pi insigni umanisti; nel 1460
Matteo Maria ci appare per la prima volta quale conte di Scandiano.

l,

nel suo territorio, nella casa magnifica trascorsero a lui gli anni

pi belli della vita dal 1459 al 69.

Fu

addolorato, vero, da discor-

die familiari senza fine; spesso ebbe briga coi finitimi e dovette lidi cui si
tigare con loro per i diritti suoi e del comune di Reggio
,

gloriava cittadino devoto, 0 difender s e


usurpazioni

e di mancate prestazioni;

ma

suoi soggetti da accuse di


dalle

faccende increscevoli

ricreava nella compagnia degli amici, ospitati con signorile liberacacce per le con valli fragranti e nelle
lit, nelle cavalcate e nelle
meditazioni solitarie. Anche dopo, Scandiano fu sempre il dolce luogo
si

cui volentieri tornava quando frequenti e lunghe dovevano essere le


sue assenze. Nel 1469 fu tra' gentiluomini addetti al seguito dell' im-

perator Federigo III durante il soggiorno di questo a Ferrara; nella


primavera del 1471 quando Borso and a Roma per ricevervi da
Paolo II il titolo di duca, fu tra quelli scelti ad accompagnarlo, e que,

sto viaggio pose fine

a quanto pare

all'amore del Boiardo per

An-

tonia Caprara, cominciato due anni prima, forse a Reggio nella corte
del governatore Sigismondo d'Este. Nel 1472 spos Taddea dei conti
Oonzaga da Novellara.

Della famiglia, che gli crebbe intorno numerosa, fu padre tenera-

mente affettuoso; e felice, seppure non lo angustiava talvolta, presago


pur troppo del vero il timore di doverla un giorno lasciare senza
,

valida difesa, esposta alle soperchierie dei propri parenti, i quali avevano fatto prova della loro malvagit nelle controversie sorte per la
divisione dei beni lasciati da Feltrino. V'hanno persino buone ragioni

per credere che


del conte, e

il

al principio del

fratello di lei

1474 Cornelia Taddea da Carpi, zia


di far avvelenare il

Marco Pio tentassero

poeta. Finalmente in quell'anno stesso le divisioni si fecero


per ordine diretto del duca Ercole I.
Il Boiardo n'ebbe forse nuovo conforto all'affetto gentile e sincero
che da molti anni nutriva per il principe pressoch suo coetaneo, af-

nostro

^Jjj^'
(1434-94

311
fetto cui

rattere di

carattere
Boiardo,

ei

CAPITOLO OTTAVO.

non danno macchia di adulazione volgare, n tolgono il cacommovente corrispondenza di scusi amorosi le frasi, volute

dal cerimoniale piacentiere del tempo, di alcune dedicatorie.


Nel 147.3
Matteo fece parte della solenne ambasceria inviata a Napoli per prender Eleonora d'Aragona, e piace pensare che allora egli pot avere
occasione di incontrarsi a Firenze con Angelo Poliziano; nel 147G teneva non sappiamo quale alto ufficio di corte; nel 1481 e nell'82 fu
capitano ducale di Modena, e dal febbraio del 1487 lino alla morto,
di Reggio.
Quivi appunto egli si spense il 19 dicembre del 1491, pianto ed
onorato dai cittadini non pur come poeta ed erudito, ma come uomo
virtuoso e modello di reggitore. Nelle lettere d'ufficio scritte durame
il

capitanato reggiano, egli infatti

rivela ben destro nel

ci si

maneggio

degli affari amministrativi, esperto conoscitore delle condizioni economiche del paese, scrupoloso nel render giustizia, fermo nel difendere

sue prerogative contro gli abusi di altri magistrati, che gli intralciavano l'esercizio del potere. Triste occasione di mostrar la bont del
le

suo animo e il suo senno politico gli offerse la venuta di Carlo VIIL
Eccolo tutto affaccendato a preparare alloggiamenti e vettovaglie per
le milizie francesi ed a provveder sottilmente affinch i suoi ammini-

da quel passaggio il minor danno possibile; si duole


angherie dei soldati rincresce voli, disonesti et mal regulati ,
che volino alogiare a suo modo, levarse quando li pare, pagare quanto
li
piace {Lettere p. 453), e, vendetta nell'apparenza allegra, ma tale
che cela una profonda mestizia, si fa ad exponere seriosamente ogni
condicione di un don Giuliano capo dei balestrieri del re e ne vien
fuori la pi saporita e pungente canzonatura del mondo (p. 444-5).
Ad una gran rettitudine, ad un sentimento inflessibile del dovere,
a un desiderio vivo di pace e d'amore, ad un grande rispetto della
legge si informa davvero tutta la vita del Boiardo. Vorrebbe che i
il se voria vecinare bene et
vicini non si disturbassero l'un l'altro
vivere et lassare vivere et non dare impazo a chi non glie ne d a
loro (p. 396); e in tempi dominati dall'arbitrio afferma che una lettera non pu annullare concessioni solenni, quando bene in detta
lettera se contenesse mille conscientie del Signore (p. 369). Fu detto
strati risentano

delle

ch'egli riprovasse la pena di morte; fatto ch'ebbe animo incline a


indulgenza e a mitezza, due qualit che forse tolsero ne' suoi domini
vigore alla persecuzione dei malviventi e permisero che all'ombra del

Scandiano esercitassero la loro industria alcuni falsi monetari e riparassero i banditi. I rimproveri che per ci si muovono al
conte da Ferrara, da Reggio e da Venezia, si rinnovano con tanta insistenza e sono cos autorevoli che, sebbene a malincuore, pur vi si deve
castello di

riconoscere
carmi e
6

Tatife

le

un fondamento di verit,
come portava l'andazzo del tempo, furono

le prime opere
Boiardo: alcuni carmi di vario metro e di varia estensione in lode
degli Estensi e dieci egloghe pastorali; povera cosa quelli, stipati come

Latine,

(lel

315

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.
sono

di classiche

comparazioni

e gravi di storia spicciola;

1463 e

assai

mi-

poco
dopo il ritorno di Ercole d'Este dalle guerre napoletane, e a lui dedicate. Sotto il velo della facile allegoria cinque di esse dicono le lodi
del principe, del suo valore guerresco, della liberalit e del senno, e
cinque racchiudono lodi di tal genere solo come divagazioni dalla loro
materia propriamente amorosa. L'imitazione virgiliana si manifesta
chiarissima non solo nel numero delle egloghe, nel genere degli ar-

Le egloghe furono composte

gliori queste.

gomenti e nella disposizione

tra

il

il

65

ma ben anche

di questi nella serie,

negli

atteggiamenti del pensiero, nelle movenze, nelle situazioni , nei modi,


nei suoni, nelle parole. Si sente l'esordiente che non ardisce abban-

suo modello. Pur non si pu negare che il Boiardo ne calchi


e che non di rado lasci travedere di sotto alla
scorza virgiliana i sentimenti che commuovono lui. Delle bellezze naturali descrittore parco, ma efficace; dell'amore interprete caldo e

donare

le

il

orme con grazia

fortunatissima puri
ha in sul principio un soave sapor petrarchesco, che poi si attenua e scompare nelle nudit d'una minuta descrizione della bellezza muliebre. Il canto alterno eli Meride e di Bargo
nell'VIII ha tratti di bella e viva poesia.
Non molto dopo aver composto le egloghe latine, il Boiardo venne
voluttuoso.

Il

Unda lacus

canto

di

nell'egloga

Licanore Felices ripete

traducendo in italiano le Storie eli Erodoto, la Ciropeclia eli Senofonte,


V Asino di Luciano, V Asino d'oro di Apuleio e le Vite che or vanno
sotto il nome di Cornelio Nipote e allora si dicevano di Emilio Probo.
Questi volgarizzamenti presentano delle strane disuguaglianze, ch
mentre in alcun luogo l'originale reso con pedissequa fedelt, in altri
anche frainteso. Il
abbreviato od ampliato o largamente imitato
bravo conte poi, che col greco non doveva avere troppa dimestichezza,
e per l' Asino lucianeo delle versioni del
si valse per la Ciropedia
Poggio, le quali, ben lo sappiamo non hanno certo il pregio del rispetto al testo. Per traduzione d iL Boiardo, nella dedica a Ercole
duca di Ferrara, anche Y Istoria imperiale; per traduzione d'un'opera
di Riccobaldo ferrarese. E certo il Pomarium di questo cronista vi
messo a proftto, ma con assai libert con giunte o attinte ad altre
fonti o adulatorie o fantastiche, cos che la critica non ha ancora appurato se il conte Matteo volgarizzasse un'unica cronaca compilata di

Le
traduzionh

varie o se di parecchie non facesse egli stesso un mosaico.


Dalle pedantesche comparazioni mitologiche dei carmi, dalle ele-

ganze d'accatto delle egloghe latine mentre ancora attendeva non


di buona voglia, pare, alle traduzioni, il Boiardo spicc alto il
volo ad un'opera di possente originalit. Il suo Canzoniere una meraviglia. Ricco di pensiero e di sentimento, esso racchiude in s tanta
copia di poesia vera quanta non in nessuno dei canzonieri del Quattrocento ed in non molti del secolo XVI. ben vero che il nitore
della lingua vi spesso offuscato da forme e suoni vernacoli e da
latinismi e che non sempre la frase seconda fluente il pensiero; ma
,

troppo

mere

det

Bolardo

316

CAPITOLO OTTAVO.

una carezzevole armonia di suoni vari e sapientemente accordati si


leva da quelle pagine, una soave freschezza di immagini le allieta e
una rara efficacia di espressioni le corrobora. Ottener tutto questo con

uno stromento ancora imperfetto qual era la lingua di cui si serviva


Boiardo, assai maggior merito che scrivere, come fecero i pi dei

il

lirici

del Cinquecento, versi elegantissimi grazie alla ricetta

dell'ele-

ganza novamente ritrovata da messer Pietro Bembo. Ed merito che,


a mio gusto, rende anche nel rispetto dell'arte tanto pi attraenti e
dilettose le rime del conte, quanto pi gradevole vista quella di
un bel visino illuminato dal lampeggiar di due occhi vivi, se anche non scevro di nei
che quella di una statua dai lineamenti
,

irreprensibili.

forma, anche

Boiardo imita con parsuo modello, ne ricalca


versi spicciolati e ne usurpa congegni rettorici
come nella canzone
Petrarchista

simonia qualche

quanto

alla

il

artificio stilistico e ritmico del

Novo

a ragionar

me

invita nella quale paragona s


al liocorno, alla fenice, all' ermellino, al cigno per mostrare come

10

diletto

tragga a morte volontaria.

superficie e spesso

ginarie; l'ispirazione

ama

davvero, che

nunciare

all'ideale

si

Ma

il

petrarchismo non

rinnovella di fronde

si

stesso

concetti

va oltre

non meno vivide

vengono

dai moti

Amorum

alla

delle ori-

d'un cuore

dibatte nello strazio della gelosia, che

lungamente vagheggiato.

Amore

che

non sa

libri tres

si

ri-

in-

titola il canzoniere del Boiardo, tre libri che anche nell'esteriore orciascuno conta cinquanta sonetti e dieci componimenti
ganamento
rivelano
di vario metro alternati a quelli con una certa simmetria
11 ben delineato assetto della contenenza e la garbata compostezza della
mente del poeta. probabile che fra le rime scritte per Antonia Capibara, di gran lunga le pi, se ne frammischino alcune ispirate da al-

tre donne,

ma

tutte

poema amoroso

si

fondono nell'unit estetica e psicologica di quel

Gioconda l'intonazione di tutto il primo libro. L'amore in sul suo


primo sbocciare, quando esso quasi vagheggia s medesimo nel segreto
di una dolcissima intimit soggettiva (ed. Solerti, XXVII), e timoroso degli umani si manifesta agli uccelli innamorati e ai lucidi rivi
riempie il poeta di gioia ed egli la effonde in questi versi soavissimi
Cantati meco, innamorati augelli,
Poi che vosco a cantar Amor me invita;

voi, bei rivi e snelli,

Per

la piagia fiorita

Teneti a le mie rime el tuon suave.


La belt di che io canto, s infinita,
Che il cor ardir non ave
Pigliar lo incarco solo :
Ch egli debole e stanco, e il peso grave.
Vaghi augeleti, voi ne gite a volo,

Perch forse credeti

Che

la.

il

mio cor senta duolo,


non

zoglia ch'io provo

sapeti.

317

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.
Vaghi

augeleti, odeti;

gira in tonda
mare, e quanto spira zascun vento,

Che quanto
Il

Non

piacer al

Che aguagliar

mondo

se potesse a quel che io sento (Vili).

quando la Caprara accoglie benigna e ricambia il suo amore, ecco


com' egli esprime l'esultanza che inebria il suo cuore

Datme a piena mano

e rose e zigli,

Spargeti intorno a me viole e fiori;


Ciascun che meco pianse e mei dolori,

Di mia leticia meco il frutto pigli.


Datime fiori e candidi e vermigli
Confanno a questo giorno e bei colori

Spargeti intorno d'amorosi odori,


Ch il loco a la mia voglia se assumigli.

Perdn m'ha dato ed hami dato pace


La dolce mia nemica e vuol ch'io campi
Lei, che sol di piet se pregia e vanta

Nel secondo libro


Caprara ha donato ad

il

(XXXVI).

poeta triste
perch ha scoperto che la
il suo amore; e come gi agli uccelli e ai
,

altri

sua contentezza, confida alla luna


l'aura, alla notte il dolor suo
rivi la

alle stelle

alle selve

al-

Diceti, stelle, e tu, splendida

Luna,

Se mai ne' nostri tempi o ne* primi anni


Simile a questa mia fu doglia alcuna.
Diceti, se pi mai cotanti affanni
Sofferse uom nato per amar con fede,
Guiderdonato poi di tanti inganni.
Voi ben sapeti cha la mia mercede
M' rinegata e ritenuta a torto;
Ssselo il Ciel con voi r che il tutto vede (CIV).
.

All'infedele
simi, quali

non risparmia rimproveri e imprecazioni e sarcasmi


sono in questo rude componimento:

feris-

Deh! non monstrar in vista


Ch '1 mio languir ti doglia, disleale;
Che il cor tradito pi se ne contrista,

E pi cresce el suo male.


Questo tuo divo, a cui nullo altro equale
Rida la pena mia,
E

stiasi in signoria

Di

te,

Ma
Non
De
N

Nel terzo

libro

poi che de onor nulla

se vendetta
fia

lo

il

longa la

ti

danno a levar

cale.

vale,

lista

amor vostro; ch il pensier ti vola,


mai contento de una sola (XCV11I).

lui fu

furori sono sbolliti, ed egli spera ancora, ancora

318
si

CAPITOLO OTTAVO.

illude

perch

al

suo amore non

sa rinunciare. Durante

il

viaggio

Roma

(1471) tutto colla mente in lei; ama raffigurarsela anelante al suo ritorno; la vista dei monumenti, le feste, lo sguardo
di

benigno del suo signore non possono allontanare dal suo pensiero
quella testa bionda e <\uelY angelico viso. Poco dopo, il canzoniere si
chiude con alcune poesie sentenziose e pessimistiche e colla preghiera
del peccatore contrito; si chiude forse perch nell'assenza del poeta
la Caprara era divenuta sposa di un altro. Ma quell'amore profondamente sentito e accarezzato con insistenza lasci tracce nell'animo del
Boiardo che lo ricord nel poema e ne ebbe argomento a' suoi poco
favorevoli giudizi sulle donne.
Con quanta efficacia egli esprima i moti del suo cuore, mostrano
le citazioni gi fatte. Nel rappresentare con immagini varie il suo
stato egli ha una grazia squisita; nella pittura degli spettacoli naturali una freschezza che ricorda il Poliziano. Leggete il sonetto Fior
scoloriti e palide viole, ove
i

immaginato un dialogo tra

nella canzone

mattino che sono

il

poeta

questa fra le tre descrizioni del

fiori educati dalla Caprara; sentite

Chi trover parole e voce eguale:

Chi mai vide al matin nascer l'aurora


Di rose coronata e de jacinto,

Che fuor

del suo

del

mar

el d

lampegiar

non nasce ancora,


il

ciel

depinto,

pi se incolora
De una luce vermiglia,
Da la qual fora vinto
Qual ostro pi tra noi

rozo pasto rei se meravglia


Del vago rossegiar de l'oriente,

lei

gli

rassomiglia;

il

Che a poco a poco su nel ciel se apiglia,


E, con pi mira, pi se fa lucente:
Vedr cos ne lo angelico viso,
Se alcun fia, che possente
Se trovi a riguardarla in vista fiso.
studio e l'amore con che il Boiardo veniva cesellando codeste
sue poesie, si pare anche nella variet dei congegni ritmici da lui inventati ed usati accanto ai sonetti, alle canzoni, alle ballate, alle se-

Lo

saputo il poeta
s ardui e complessi che meraviglia abbia
ed angusti
sinuosi
quei
a
entro
per
apparente
sforzo
senza
condurre
meandri l'eleganza e l'armonia della sua rima.
'Dell'amore per la Caprara, dell'abbandono e del matrimonio con
Taddea Gonzaga il conte parla allegoricamente, secondo che verosimile, anche in cinque delle dieci egloghe volgari, che scrisse in termetrica
zine per lo pi piane, non senza tentare qualche innovazione
stine; alcuni

voifaS

composte tra il 1471 e


rallegrate qua e l da pitture vaghisil 72 e sono certo le migliori
sime di scene campestri e talvolta corse da un vero soffio di poesia.
(egl.

V). Quelle cinque sarebbero


:

dunque

state

319

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

contro, aride e monotone, ispide di asprezze stilistiche e di latinismi sono le altre cinque composte tra la fine del 1482 e l'estate dell'83,

Per

le quali

della guerra ferrarese contro Venezia e


duca Ercole quelle di Alfonso d'Aragona pur

allegorizzano fatti
alle lodi del

uniscono

allora vincitore dei Turchi.

Nella reggia ferrarese di Borso e di Ercole era spesso letizia di n Boiardo


Ua corte
esultavano le arti del pennello; sorridevano amore e estense.
cortesia; talch l'ideale di vita che lo spirito gentile del Boiardo deve
splendide feste;

aver vagheggiato ne' suoi sogni di poeta, trovava riscontro nella realt.
ovvio ammettere che per un mazzo di tarocchi, forse alluminato mirabilmente a sollazzo della corte egli componesse certe terzine che
illustrano ciascuna la figura di una carta. Per le rappresentazioni che
vedremo essere state carissime al duca Ercole, ridusse a foggia di
,

dramma

in terzine

il

Timone

di

Luciano, accodandovi, quinto, un atto

pi narrativo che drammatico per moraleggiare e compiere l'azione.


E nel castello di Ferrara o nelle sale del palazzo di Schifanoia adorne inviando
In ~
dei grandi affreschi pur allora pennelleggiati da Cosm Tura e da Frant

cesco del Cossa, egli dovette venir recitando tra il 1470 e l'81 il suopoema ai cavalieri e alle dame, cui si rivolge spesso in sul principio

alla fine dei canti.


Signori e eavalier, che v'adunati
Per udir cose dilettose e nuove,
State attenti, quieti ed ascoltati

La

bella istoria che

il

mio canto move

osi comincia V Orlando

Innamorato, del quale non sappiamo quando


Boiardo l'idea, ma solo chele due prime parti
sessanta canti
erano finite nel 1482 al tempo della guerra.
Queste due parti furono messe a stampa a Venezia nei primi mesi
del 1487, mentre il poeta veniva continuando la sua narrazione. Ma
le gravi occupazioni del capitanato reggiano contendevano il tempo al
sicch quando dall'Alpi si spandettero gi gi per i
geniale lavoro
fertili piani del Po e per i gioghi aspri dell'Appennino modenese e lunigianese il romore e la baldanza dell'armi francesi, la terza parte del
poema era appena alla vigesima quinta stanza del nono canto. Il poeta
aggiunse allora un'altra ottava piena di mestizia per la ruina d'Italia:
precisamente venisse

al

Mentre ch'io canto, o Dio redentore,


Vedo l'Italia tutta a fiamma e foco,
Per questi Galli che con gran valore
Vengon per disertar non so che loco,

si

la

arrest, differendo

morte.

Anche

il

seguito a tempi migliori. Poco dopo lo colse

nei poemi dei giullari toscani


gi lo abbiamo avvertito
erano penetrati in copia non iscarsa elementi brettoni. Nel Motgante i guerrieri carolingi paiono assumere talvolta i costumi dei loro

bretoni
1

"tJaa!?

320

CAPITOLO OTTAVO.

Tavola rotonda: non sono pi ribelli ad Amore; Orlando


Francia per trovar ventura (II, 11-2) e Rinaldo dice

fratelli della
si

muove

di

chiaramente

Noi siam l de' paesi del Soldano


Pur cavalieri erranti e di ventura

(III,

38;

cfr.

Qui per vero l'astuto paladino dice a studio una bugia,

non avrebbe senso per

lettori

se gi

VI, 6).

ma

la bugia,

non paresse verosimile che

negli stessi luoghi e sulla stessa scena operassero


cesi.

Anche

di fanciulle

i brettoni ed i franminacciate o rapite da mostri e da giganti e

difese dagli eroi, d'un castello incantato, di

romanzi

finzioni proprie dei

passi

Brettagna novell

di

perigliosi
il

e d'altre

Pulci e prima di

aveva novellato l'autor dell' Or land. Particolar menzione merita


per la sua rapida ed elegante fattura l'episodio in cui Rinaldo prende

lui

armi a preghiera d'una fanciulla, Brunetta, ed abbatte un Saracino


che tiene il campo per amore di un'altra, Bianca schernitrice della
prima (Morg., XXII, 224). Quivi rinfrescata una vecchia tradizione
gi accolta da Chrestien de Troye nel Perceval.
Ma tutto ci non altera punto la sostanza della materia dacch
questi amori degli eroi carolingi e codest'altre finzioni sono fuggevoli
intermezzi innestati in racconti di tutt'altra natura. Del pari la guerra
che Manfredonio muove a Caradoro per amore di Meridiana e quella
del Soldano contro l'Amostante di Persia per Chiariella hanno solamente importanza episodica e i cristiani si trovano a prendervi parte
per caso. Quale altro rilievo non ha invece nel! 'Innamorato la guerra
che ferve intorno alla rocca di Albracc per Angelica!
Coll'occasione di una giostra bandita da Carlo Magno di maggio
L argo .
mento dei- a i a Pasqua rosata , costei viene a Parigi e sfida tutti i guerrieri
x

1 Innamorato.
pagani e battezzati che ivi si trovano raccolti, con questa condizione
che i vinti nel duello col fratel suo Argala siano prigionieri, il vincitore abbia in premio lei, Angelica. Anche qui la disfida suggerita
perch Galafrone re del
dall'odio degli infedeli contro i Cristiani
Cataio e padre d'Angelica, reputando invincibile il proprio figliuolo munito d'armi fatate, spera di' far deserta di difensori la Francia. Ma del
tutto nuovo in corte di Carlo l'allettamento che trae i cavalieri a
battersi coll'Argalia nuovo e tale che avvia l'azione per un cammino
sconosciuto a' romanzatori carolingi. Alla vista della bellissima fanciulla
volgendo avversa la sorte dell'armi
tutti ardono d'amore e quando
ella fugge verso
all'Argalia nel suo duello col saraceno Ferraguto
le

danno a inseguirla. Non pi le trame


e i dispetti dei perfidi Maganzesi allontanano dal loro signore i paladini, s il fascino della bellezza muliebre. Ma nella selva d'Ardenna
Ranaldo beve ad una fonte che spegne le fiamme d'amore laddove
queste si accendono in Angelica per effetto di un'altr'acqua con cui
ella si disseta, ed il suo cuore si d tutto a Ranaldo , cui vede dormire l presso. Forza d'amore conduce Orlando, forza d'incanti Ranaldo
Levante, Orlando e Ranaldo

si

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

321

ad Albracc, dove il cieco Dio ha pur condotto assalitore Agricane, re


di Tartaria, col suo esercito, e difensore della fanciulla diletta, il re
circasso Sacripante. A questa lotta, cui partecipano anche Galafrone
e Marfisa, dapprima soccorritrice, poi con Ranaldo nemica di Angelica,
mettono capo mille episodi nella prima parte del poema: incontri di
cavalieri fra loro e con donzelle erranti bisognose di aiuto, zuffe con
giganti e con istrani mostri, descrizioni di giardini incantati e di meravigliose fatagioni, tutta una sequela di romanzesche avventure che
si susseguono, si toccano, si intrecciano, si separano e tra le quali la
guerra di re Gradasso contro Marsilio e poi contro Carlo Magno (VII)
attrae appena di sfuggita l'attenzione elei poeta e del lettore.
Nella seconda parte l'importanza della lotta intorno ad Albracc
va digradando via via che matura la grande spedizione del re africano
Agramante contro la Francia. Orlando ha ucciso Agricane ed stato
mandato da Angelica, pronta a sottrarre Ranaldo ai colpi formidabili
del cugino, al castello di Falerina. Ella spera che non ritorni; ma il
paladino vince gli incanti della fata e pur quelli di Morgana e si ripresenta dopo mille vicende alla figlia di Galafrone. Intanto le grandi
battaglie, che sogliono mettere a soqquadro la Francia nei poemi del
ciclo carolingio, vanno diffondendo il loro fragore anche iiqY Innamorato tra le singolari avventure di stampo brettone, e sul lido di Provenza l'avanguardia dei Saraceni condotta dal re di Sarza Rodamonte
mena strage negli eserciti cristiani. Col Ranaldo. Per seguire il
quale Angelica, accompagnata da Orlando, lascia Albracc ed arriva,
corse avventure molteplici, in Francia. Se non che dissetandosi nuovamente, ma con mutata vece alle fonti dell'amore e dell'odio, ella e
Ranaldo scambiano i loro reciproci sentimenti, onde per lei, fredda verso
entrambi, pugnano fra loro i due cugini. Li separa Carlo Magno, che
affida Angelica alla custodia del vecchio Namo, promettendola in premio a quello dei due, che far maggiori prove nella battaglia contro
Agramante. Non va molto per che ambedue sono in varia guisa allontanati dal campo: Orlando prima, Ranaldo poi (II, xxxi, 36; III, iv, 40).
Di questo il poeta non fa pi motto quegli liberato dall' incanto che
10 tratteneva lungi dalla mischia, vi ritorna in tempo per soccorrere
Parigi assalita dai Saraceni (III, vili). Siamo a questo punto, e il Boiardo
viene preparando la via a nuove avventure elei vecchi personaggi e
d'altri di fresco introdotti sulla scena, quando il poema rimane interrotto.
La tela dell 'Innamorato, che abbiamo qui esposta succintamente , La fusione
dei due cicli
,
mostra ben chiaro come due cicli epici si trovino nel poema racco- neirinnamorato*
stati. N dopo quanto ci avvenne di notare poc'anzi, occorre dire qual
dei due dovesse maggiormente gradire ad un gentiluomo italiano del
secolo XV. Gli ideali religiosi e nazionali che avevano stimolato e retto
storia carolingia in materia di
11 lavoro degli spiriti trasformanti la
epopea, erano venuti a grado a grado perdendo della loro forza ope;

......

rosa, specie nelle classi pi

La

leti.

ital.

nel sec.

aristocratiche del civile consorzio;

sentimenti onde attingeva fervore di


Rossi.

XV

vita

il

mondo

della

e dei

cavalleria
21

322

CAPITOLO OTTAVO.

quello soltanto che, universale ed eterno, non teme assalti di et scettiche n intristisce per ingiurie di et rettoriche, serbava tutta la sua

Come

efficacia,

l'Amore.

conte

Scandiano,

istante

di
il

lo sentisse vivacemente e profondamente il


ha detto il suo Canzoniere e ripete ad ogni
poema, che dell'Amore una vera glorificazione si nella fa-

vola generale e

ci

in frasi ed osservazioni spicciolate.

Amor primo

trov le rimo e versi,


I suoni, i canti ed ogni melodia,
E genti istrane e popoli dispersi

Congiunse Amore in dolce compagnia


II diletto e il piacer sarian sommersi,

Dove Amor non avesse signoria:


Odio -crudele e dispietata guerra,
Se Amor non fusse, avrian tutta

la terra (II, iv, 2).

Per che Amore quel che d la gloria,


E che fa l'uomo degno ed onorato;
Amore quel che dona la vittoria,
E dona ardire al cavaliere armato (II,

xviii,

'3).

Or quale meraviglia che un uomo portato dalla natura, dall'educazione e dalla temperie sociale a pensare e sentire siffattamente, preferisse alle fiere tenzoni di popoli dipinte nei poemi carolingi, le strane
venture, le giostre, i duelli del ciclo brettone, ed agli epici guerrieri
pugnanti per Dio e per la patria gli innamorati cavalieri, che affrontavano pericoli, di ogni sorta per la dama del loro cuore? Il Boiardo
infatti se si abbandona a vagheggiare le memorie delle sue letture,
ripensa non Orlando e Rinaldo, bens Tristano e Lancilotto (II, xxvi, 2-3)
e se paragona la corte di Carlo alla corte di Art, non esita ad asserire che quella non pareggia questa per valore e per gloria,
Perch tenne ad

Amor

chiuse le porte,

sol si dette alle battaglie sante

(II,

xviii, 2).

Se non che le stesse vicende italiane della materia brettone insegnavano che se da questa era lecito trarre episodi motivi leggendari,
,

atteggiamenti particolari di caratteri e

di

racconti, fors 'anche tutta la

contenenza d'un grande poema, non ne poteva venire a questo una


salda e robusta ossatura, che ne inquadrasse e reggesse le membra
disgregate. 0 che altro erano se non accozzaglie di belli e geniali
episodi i romanzi della Tavola rotonda ? Quell'ossatura era dunque necessario inventarla o derivarla d'altronde, e
dite

non avevano guasto

il

il

Boiardo, cui fsime eru-

senso della presente realt letteraria

trasse dalle narrazioni, che per

il

loro spirito erano

meno

la

discoste dalle

Con lo scheletro ne tolse anche i principali personaggi del


poema, ch non era possibile fare altramente, s stretti vincoli legavano
nella fantasia dei contemporanei i nomi di quegli eroi alJe guerre tra
cristiani ed infedeli; che venivano a costituire lo sfondo delle narrazioni.
Onde rami colti nelle selve di Brettagna frondeggiarono vigorosamente,
innestati sul vecchio e isterilito ceppo carolingio e questo abbellirono

arturiane.

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.
nuovi ornamenti, mentre ne sfruttavano

323

Del
concetto dell'innamoramento vi sia aggiunto a modificare il concetto che
si
racchiude nel nome di Orlando, non questo nome a determinar
quel concetto Orlando innamorato, non Innamoramento di Orlando.
il Boiardo la materia de' suoi
Non soltanto dal ciclo brettone attinge

di

quale innesto fa bella testimonianza anche

gli scarsi

il

succhi

vitali.

per ci che

titolo,

il

ma anche dalla letteratura classica e dalla tradizione volgare,


molto pure inventando colla sua inesausta fantasia. E tutto egli trasforma, riplasma, ricolorisce, tutto adatta a quel suo mondo cavalleresco ed intreccia e fonde in una mirabile unit, cos i miti di Polifemo, di Medusa, di Narciso, come la popolare credenza dell'uomo selracconti,

vatico

cos la favola di

una commedia

latina

come una novella

Materia
pro-

a' altra

venienza.

del

Bjccaccio.

Leggiadra storia quella di re Manodante e de' suoi figliuoli! Uno


che ben di nome e di bellezza un giglio , ha
s profondamente colpito il cuore della fata Morgana, che ella lo tiene
prigioniero nella propria dimora ed ha promesso di lasciarlo libero sol
quando le sia dato in cambio Orlando. Per le male arti della perfida
Origille, questi capita insieme con Brandimarte alle Isole lontane, dove
regna Manodante e vi catturato. Ma Brandimarte, spacciandosi per
Orlando, ottiene che il suo compagno sia liberato e mandato solo a
di questi, Ziliante,

Morgana

L'episodio

Manodante.

questi conosce gli incanti della fata e ricondurr Ziliante senza

darle in cambio

il

paladino cristiano. Cos Orlando

creduto Brandi-

"

marte, se ne va, promettendo di tornare prima che si compia un mese.


Per mala ventura Manodante tiene prigioni altri guerrieri cristiani, i

a malgrado dell'astuzia

Brandimarte, fanno chiara la sostitetro carcere e dannato a morte.


Intanto Orlando libera il giovinetto e ritorna non pure con lui
ma
con Bardino, il servo infedele, che aveva venduto al conte di Rocca
Silvana un altro figliuolo di Manodante,. Questo figliuolo Brandimarte
(II, xi 46 sgg., xu, xiii). La favola
non v'ha dubbio
quella
dei Captivi di Plauto, ma come ne sono destramente allacciate le fila
alle fila del poema! Il lettore dell''Innamorato
giunto all'episodio di
Manodante, ha gi dimestichezza con Brandimarte, valoroso e cortese
cavaliero, bello di una soave delicatezza di sentimento:
quali,

di

tuzione, onde, questi gittate in

un

Era sua fama nobile

soprana

Di torniamenti e giostre sapea l'arte:


Ma sopra tatto la persona umana
Era e cortese, e '1 suo leggiadro core
Fu sempre acceso di gentile amore (1,

Fin dal canto

vigesimo primo della prima parte

sentore della sua storia avventurosa

ix, 50).

s'

avuto qualche

45 sgg.); talch, narrata distesamente, questa viene ad appagare una nostra vecchia curiosit, n
ci. desta meraviglia la tenerezza accorata con cui il cavaliere pronto
a sacrificarsi per la liberazione di Orlando. Qui il Boiardo ha felice(st.

324

CAPITOLO OTTAVO.

mente rinnovata

la traina della

commedia

latina, nella

quale lo scam-

bio delle parti architettato da colui stesso cui giova, anzi

comandato

da Filocrate al servo Tindaro. Astolfo vecchio personaggio delle leggende carolinge, ma il Boiardo ha messo in pi spiccato rilievo alcuni
tratti del suo carattere e ne ha fatto un uomo bizzarro
ciarliero
motteggevole, non tanto forte quanto vantatore della sua vigoria, un
po' comico; proprio quello che ci voleva perch Brandimarte potesse
ragionevolmente tarlo passare per matto, quando Astolfo svela per primo
,

la sostituzione

a Manodante. Quelli

che nella

commedia

latina sono
ad un passo
periglioso, dove sta, per ordine del re, il gigante Balisardo, pronto ad
impegnar battaglia ed a trarre i malcapitati in un agguato; ond' che
per via di questa invenzione suggerita dai romanzi di Art viene ad
insinuarsi nel poema l'episodio di fonte classica. Ed a questo metton capo
a loro volta le avventure di Leodilla, figliuola anch'essa di Manodante,.
che il vecchio Folderico aveva a proprio scorno menata in isposa e
tenuta in gelosa custodia, finch non gliela tolse il giovine Ordauro.
(I, xx, 8-37; xxi, 37 sgg,
xxn, 9 sgg. xxv, 18-22). Per ogni parte
dunque l'episodio profonda le sue radici nella materia e nello spirito
del poema. Il Boiardo ripens la storia che il comico latino gli offriva,
la colleg ad altre storie da lui immaginate o attinte d'altronde
la
trama di quella di Leodilla viene dal Libro dei sette savi ma non
altro se non la trama
ch lo spirito ed il colore ne sono in tutto
originali
e nella gran tela ordita con sicuro slancio di ingegno essa
venne a prendere il suo posto naturalmente senza lasciar vedere faticose giunture, n serbare negli atteggiamenti tracce del suo luogo
natio. I personaggi non sono greci o romani antichi in veste di cavalieri, ma appaiono veri figli del mondo cavalleresco.
Furono pi volte osservate le simiglianze che intercedono fra la.
novella di madonna Dianora e di messer Ansaldo, quinta della decima,
giornata del Decameron, e la novella di Tisbina, che Fiordelisa narra
a Ranaldo per abbreviare la noia del cammino, mentre entrambi galoppano in groppa allo stesso cavallo (I, xn). E difatti la situazione fondamentale la stessa una dama spera sottrarsi alle preghiere insistenti
d'un amante, promettendo di essergli benigna, quand'egli le appresenti
certa cosa che pare impossibile o difficile ad ottenersi e si inganna, cos
che alla fine si trova nel bivio o di tradire quello cui gi da gran
tempo ha concesso il suo cuore o di mancare alla fede data al novello amante. Ma le circostanze, i caratteri, gli svolgimenti, la chiusa,,
tutto diverso nei due scrittori. La realt, dipinta dal pi antico con
finezza di osservazioni psicologiche, prende nel pi moderno una tinta
romanzesca; alla narrazione sottentra spesso la lirica; tutta la novella

prigionieri di guerra, divengono nell'Innamorato

vinti

La novella
di Tisbina.

si

piega e

si

adatta alle necessit dell'ambiente fantastico, al

sentire dell'amoroso Matteo Maria ed

a'

modo

suoi intenti particolari.

di

Poco

appresso eccola divenir l'antefatto d'un pietoso episodio; ed ecco Prasildo, l'intrepido amante di Tisbina
al quale Iroldo aveva ceduto la
,

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

325

sposa, mettere a repentaglio la propria vita per salvare l'amico dalle

umana

carne

fauci d'un mostro alimentato di

dalla fata Falerina

Iroldo a sua volta chiedere aiuto a Ranaldo per liberare Prasildo, che,
custode, gli

era sostituito nel carcere fatale.

corrotto

il

entrano

dunque nell'azione

si

del

poema

si

due amici

accompagnano ad

altri eroi

nelle avventure e nei rischi.

In codesto agile e spesso inatteso intrecciarsi dei racconti e nella


...
,
seguirli tutti con adeguata ampiezza di
il Boiardo pone
svolgimento sino alla fine, sta uno dei caratteri per cui principalmente

cura che

l'opera del gentiluomo estense

si

diversifica da quella dei cantori po-

rimavano un po' a caso, sulla materia


che via via capitava loro fra mano, seguendo nella narrazione alcune
grandi linee generali, e se riuscivano, come il bizzarro amico del
Magnifico, garbati, briosi, efficaci, era per ingenita virt e quasi per
impensato germogliare di scene, di frasi, di immagini vivaci, non per
via! Il
i sforzo d'arte meditata: anzi guai se si mettevano per questa
un diinvece
dietro
a
piena
coscienza
di
Boiardo
con
artista lavora
segno prestabilito e lo vien colorendo, pi o meno bene certamente
ma pur sempre con istudiata continuit e con geniale euritmia. A stringere insieme i racconti conferisce il suo modo di interromperli e di
riprenderli, poich con finissimo discernimento egli trae diverso partito
polari e del Pulci stesso. Costoro

dall'interesse vivo e presente e dalla curiosit dei lettori o degli uditori.

Sa bene quanto giovi

cipazione ai sentimenti ed

mossa, onde se crede

prima

di

all'effetto
ai

d'un'opera d'arte la loro parte-

pensieri che l'azione suscita o da cui

averla provocata,

non

la lascia

meno

venir

aver condotto sino alla fine il racconto. Rare dunque le interruzioni a mezzo, e quelle poche alla fine dei canti
dove sono di
efficace aiuto alla memoria. Per contro numerose
anzi consuete le
interruzioni in sul bel principio di una nuova avventura
quando il
diletto estetico procurato da un'altra di fresco compiuta acuisce nel
lettore il desiderio di sentir rinnovata in s quella commozione e ne
stuzzica la curiosit, che non interesse attuale, ma presagio di questo. Ucciso Agricane
e la descrizione del duello
del battesimo e
della morte va annoverata tra' pi bei luoghi del poema
Orlando
,
s'avvia verso Albracc ed entrato in una selva ode un gran romore
sono tre giganti che si azzuffano con un cavaliere e tengono prigione
una fantina. Chi sono costoro ? Che far Orlando ? ci domandiamo, e il
Boiardo risponde:
di

Poi vi dir la cosa intiera e piena,

Ma

di saperlo adesso non vi caglia


Presto ritorner dov'io vi lasso:
Or vo' contar del campo il gran fracasso

e noi

si

rimane

(I,

xix, 22)

colla nostra curiosit fino al canto successivo

(st. 8,

17),

dove l'avventura dei giganti ha il suo seguito e il suo compimento. Abbattuti quelli, Orlando solleva e fa rinvenire Brandimarte, il cavaliere
che aveva briga con loro; indi il tono della scena volge all'idillio; ma

i/organa-

mento
d ivinna-

moral -

CAPITOLO OTTAVO.
il

poeta

stro

si

si

fa

a parlar d'altro, proprio nel

momento

no-

in cui l'animo

prepara a gustarlo:
Poi vi dir come quella donzella
Medic Brandimarte e con qual guisa
Come lui di dolor la morte appella,
Credendo aver perduta Fiordelisa
Ma nel presente io torno a la novella,
Che davanti lasciai, quando Marfsa
Col pr Ranaldo insieme con sua schiera
Mena fracasso per quella riviera. (I, xx, 37).
;

esorS

dei
canti.

erano una novit nei poemi cavallereschi, una


forma che accresce la coesione e quasi rispecchia l'intima unit
sostanza, come la lunghezza uniforme dei singoli canti ne riflette

Artifci di tal fatta

Lunghezza,

noy it
della

di

l'euritmica disposizione. Essi contano solitamente da sessanta stanze e tal-

un accenno a codesta misura che il poeta


impone all'arte sua. Ivi non manca poi quasi mai l'annuncio degli argomenti del canto successivo e ben di rado un saluto o un ringraziamento o un invito ai cari signori e alla bella baronia, che ascoltavano davvero, o che il Boiardo si piaceva di immaginare ascoltanti
volta contengono nella chiusa

il

suo dire; raro invece l'augurio

di benedizioni celesti.

l'invocazione religiosa scomparsa del tutto e

il

Negli esordi
poeta riprende il rac-

conto ex abrupto come se non ci fosse stata interruzione, o con un


breve richiamo agli ultimi fatti narrati nel canto precedente. Versola
fine della prima parte codesto rappicco d luogo un paio di volte (xxvi,
xxvn) ad alcuna breve considerazione rettorica sulle difficolt della
materia di cui il poeta s'accinge a discorrere, ed appare (xxviii) un
vero esordio, che esalta la invincibile potenza d'Amore. Nella seconda
e nella terza parte, sia che l'esempio di un poema popolaresco anteriore, il Rinaldo, paresse al Boiardo degno d'imitazione, sia che egli
sentisse da s la convenienza di far precedere , come dice argutamente il Rajna alla melodia qualche battuta di preludio gli
esord entrano nelle sue consuetudini, senza per divenire per lui un
obbligo cui non sappia di quando in quando sottrarsi. E comincia ora
descrivendo la primavera che lo rallegra e lo invita a seguitare il
suo acanto, ora augurando agli uditori gioiosa la vita; altrove moraleggiando sulla diversit delle umane inclinazioni o sulle incerte condizioni dei cortigiani. Una volta invoca dalle stelle del terzo e del
quinto cielo grazia e virt al suo canto d'amore e d'armi e si indugia
per qualche ottava ad encomiare quello e queste (II, xi); un'altra lo
ispira il ricordo della donna luce degli occhi suoi, spirto del cuore ,
,

Per cui cantar solea

Rime

dolcemente

leggiadre e bei versi d'amore

(li,

iv)

con alcun paragone, che vagamente rappresenta la posizione sua o degli uditori nel cospetto della materia.
Trovi insomma negli esordi dell'Innamorato una grande variet di
temi, di atteggiamenti, di toni; vi avverti tutta la fresca mobilit della
altri canti infine principia

327

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

che ha creati o rifoggiati i molteplici racconti, che ha disegnato e colorito i mille quadri del poema.

fantasia,

Colti

ho diversi

fiori

a la verdura

Azzurri e gialli e candidi e vermigli:


Fatta ho di vaghe erbette una mistura
Garofani e viole e rose e gigli:
Traggasi avanti chi d'odore ha cura,
E ci che pi gli piace, quel si pigli;

cui diletta

Ed a

il

giglio,

a cui

la rosa,

cui questa, a cui quell'altra cosa.

Per diversamente il mio verziero


D'amore e di battaglie ho gi piantato

Piace la guerra a l'animo pi fiero,


L'amore al cor gentile e delicato.

In tal guisa

con non meno

di

vaghezza che

di

convenienza

il

Bo-

L'arte dei
Boiai do '

iardo rileva

il

carattere dell'opera

sua,

un

giardino veramente,

col-

con arte semplice e nativa, i quale appunto dalla mancanza di


gran parte delle sue attrattive. Poich, senza
dir della lingua, non tanto per colpa dell'autore quanto per effetto

tivato

certe raffinatezze deriva

delle condizioni letterarie del tempo, intrisa nella fonetica di elementi

Scandiano non un artefice, che vada accarezsue creazioni e i suoi versi con lima delicata e
sottile
artista pi nella concezione che nell'esecuzione
, come ben
fu detto, pi che artista, poeta nel primitivo senso della parola. Eppure
quanta efficacia, quanta vivezza nelle sue varie rappresentazioni Non
dico delle battaglie, dove il ripetersi di situazioni uniformi e il monotono martellare dei grandi colpi ingenerano nei lettori moderni un
senso di noia, non s per che non s'abbia ad ammirare qualche robusta pittura d'insieme; dico di infinite altre scene, fra le quali a volere addur degli esempi difficile scegliere. Nel parlamento dei re
adunati intorno ad Agramante per deliberare sulla spedizione di Francia, appare egregiamente ritratto il dibattito delle opinioni e fortedialettali,

il

conte

di

zando e castigando

le

mente

rilevato

il

conflitto dei caratteri (II,

i)

l'arguto dialogo tra Ra-

naldo e re Balugante sul principio del poema richiama al pensiero


particolarit acconcia a ben lumeggiare la corte carolingia, le rivalit
tra il sire di Montalbano e i Maganzesi con pi incisiva energia che
non farebbe una serie di accenni narrativi (I, i, 16-8); con bella rapidit sono descritte la zuffa di Ranaldo col gigante Balisardo e le incessanti trasformazioni di questo (II, x, 44-8); vedi il graduai disser

dove Orlando al sonar d'un corno


una donzella compie imprese non dissimili da quelle di Giasone (I, xxiv, 53-4); ed una vecchia invenzione dei romanzi brettoni,
accolta anche in Italia nei Cantari di Carduno, ti si ravviva dinanzi
quando Brandimarte bacia la serpe che diverr Febosilla (II, xxvi, 7-16).
Tutto pieno di tragico orrore il racconto che la vedova di Marchino
rarsi dei guerrieri dalla terra l

datogli da

d'Aronda, rinnovatrice del delitto di Atreo per vendetta d'un' infedelt


coniugale, fa a Ranaldo per ispiegargli l'origine della crudele usanza

328

CAPITOLO OTTAVO.
(I, vm, 28-52); ina un tocco da grande maequando Ranaldo, bramoso di affrontarsi egli pure
mostro, interpella la spietata donna col nome di madre:

mantenuta

alla .sua rocca

stro trova

il

col

poeta,

Rivolto

a:

Disse:

quella vecchia dispietata

Deh madre, non mi

far contesa;

Concedimi per Dio che dentro vada,


Armato com'io son e con la spada

Nella rappresentazione di scene idilliche

una grande soavit


addormito presso

mano

bianca

di colori e di

vm,

(I,

53).

e di spettacoli

ritmo. Angelica che

alla riviera dell'amore disfogliandogli sul

bianchi gigli e rose di spina

(I,

ni,

sereni

desta Ranaldo
viso

colla

41); Morgana
risuscitato (II,

che

accarezza e vezzeggia Ziliante pur allora da lei


xm,
20-2); Fiordispina presa d'amore al lampeggiare degli occhi di Brandiamante da lei creduta uomo (III, ix, 5), sono quadretti vaghissimi
disegnati senza lusso di particolari, finamente. Delle bellezze naturali

abbondano nel poema le descrizioni: sentite, per esempio, questa cui


anima la figura di una leggiadra stornellatrice
:

Gi mi trovai, di maggio una mattina,


Entro un bel prato adorno di bei fiore,
Sopra ad un colle a lato a la marina,
Che tutta tremolava di splendore,
E tra le rose d'una verde spina
Una donzella cantava d'amore,
Movendo si soave la sua bocca,
Che tal dolcezza ancor nel cor mi tocca.
il core e fammi sovvenire
Del gran piacer ch'io presi ad ascoltare

Toccami

Di

siffatte

ma

(II,

xix,

1-2).

descrizioni forse nessuna artisticamente piena e per-

una frase o in una parola o, son per dire,


poeta che sente il fascino della bella natura, e ci ricordano che autore dell''Innamorato il mite e gentil cavaliero cui il
tenor di sua vita e le liriche ci hanno fatto conoscere e amare. La sua
fetta,

nel tono,

tutte rivelano, in

il

personalit

suoi

ne

si

si

manifesta pur l dove descrive con evidente compiacenza


di riferire a' tempi di
Carlo costumanze de' tempi

perita

scene della vita cortigiana, e danze e concerti e cacce (per


19; III, i, 63); si manifesta in alcuni giu-

xiv, 42; II, xxvnr,

es.,

I,

dizi

che compaiono inaspettati per entro

al racconto,

come son

quelli

sull'ingratitudine delle corti (IL xxr, 37-8) e sulla corruzione dei giudici e degli avvocati (II, xxvni, 51)
e in qualche rapida trafittura
com' quella contro l'uso del belletto (II, xx, 13); si manifesta infine
nell'atteggiamento generale che il poeta assume dinanzi alla sua materia.
Guerrieri di forza sovrumana, armature di tempra portentosa, spade
e lance contro cui non vale difesa, colpi smisurati abbondano in ogni
,

nSvinnamorato.

p 0e ma cavalleresco la fantasia accesa degli autori e dei leggitori non


avverte le inverosimiglianze, e la ragione si studia di nasconderle o
di attenuarle. Il Boiardo per contro le mette sfacciatamente in mostra,
:

329

LA LETTERATURA. CAVALLERESCA.
esagerando

sia

le inaudite

avventure

sia

invocando

sballate pi grosse, la testimonianza di Turpino.

allorch le ha

Che gran colpo deve

con che Orlando non pur fracassa ma fa disparire il


(I, xv, 35)! Fra i mostri marini che la fata Alcina trae al lido con arte e con incanti, v'ha una balena s enorme,
che il poeta esita a dirne la grandezza: insulsa peritanza, dacch il
suo autore gli mallevadore:
esser quello

capo

di

re Lurcone

Tra le balene v'era una maggiore


Che appena ardisco a dir la sua grandezza;

Ma
Che

Qui

il

Turpin m'assecura ch' l'autore,


la pone due miglia di lunghezza

colto gentiluomo dissimula

sotto

(II,

xm,

58).

ad un'affettata seriet

l'iro-

nia del sorriso, che spunta tosto sulle labbra sue e dei colti uditori.
Ma altre volte il sorriso scoppia in una risata sonora; quando per
,

esempio, tramutatasi in una vera zuffa la giostra del terzo canto, il


buon re Carlone vi si caccia in mezzo dando gran bastonate a questo
come un maestrucolo che piglia a scappellotti gli scoe a quello
,

il poeta rimette alquanto della sua


fiducia
afferma
apertamente
di
non
gli
credere:
arcivescovo
e
nel buon

laretti indisciplinati, o se

Or ben fece alle dame alta paura,


Uscendo fuor del bosco, un elefante;
L'autor lo dice, ed io creder noi posso,

Che trenta palmi

er'alto e venti grosso.

Dice Turpin che ciascuna (gamba) era grossa


Com'ne un busto d'uomo a la cintura;

non ho prova che chiarir vi possa,


Perch'io non presi allora la misura (II, xxvni, 31, 36).
Io

Nel Morgante

il riso
pi contiuuo , pi spontaneo
anche pi
ne\Y Innamorato pi meditato, pi cosciente pi signorile.
Quella sproporzione tra la forma volgare e la materia epica, che abbiamo notato nel poema del Pulci, si incontra ben di rado presso il
Boiardo, il quale assai pi di frequente che non soglia il rimatore tosca-

sguaiato

lascia trasparire i suoi intenti scherzosi da osservazioni personali


studiatamente inserite nel racconto. Chi ami la concisione e non tema
l'assolutezza spesso erronea e paradossale delle formule, potrebbe dire

no

oggettivo

il

riso del Pulci, soggettivo quello del Boiardo;

manifestazione, s'intende. Quanto all'origine

essere invertiti, perch


stessa natura, l'altro

ducazione.

Il

il

quanto

alla

termini anzi vorrebbero

fiorentino portato

non tanto da questa quanto

a scherzare dalla

sua

dalla materia e dall'e-

conte di Scandiano, che deplora giunta tra' villani l'arte


(II, xn, 3) e canzona la gente vana che stima

degna ed onorata dell'armi

generosa far sua schiatta,


casale sue nobili e degne,
Con far di gigli e di leoni insegne

le

(l,

xxix, 6),

330

CAPITOLO OTTAVO.

non pu non amare profondamente

costumi cavallereschi, ma si fa
romanzatoci avevano infiorato
il racconto delle gesta degli eroi,
e non sa intendere n apprezzare il
valore se non gli vadano congiunti amore e cortesia. Il riso germoglia in lui dal contrasto fra l'ideale cavalleresco del mondo carolingio e il concetto della cavalleria che la sua mente vagheggia; ha
i

gioco delle ridicole esagerazioni, onde

dunque radice

in quel raccostamento stesso dei

due

cicli,

che base

del poema.
orlando.

Orlando

ancora

prode e generoso guerriero dei vecchi racconti


lineamenti del suo carattere. Ma una fanciulla
10 ha vinto e le quadrella del dio gli stanno fitte ben profondamente
nel cuore. L'amore non pi in lui un capriccio passeggero o una
finzione sommessa a secondi fini come nel Morgante; un sentimento
che domina e fa tacere tutti gli altri, che lo arma contro il cugino
Ranald e muove lui, il paladino della fede, a pregare Iddio devotamente, che le sante bandiere a gigli d'oro Siano abbattute e Carlo
e la sua gente (II, xxx, 61). Egli spera che il suo valore sfolgori
di pi vivida luce nel momento supremo e che gli sia cos aggiudicata
Angelica. Ecco dunque l'uomo nuovo sopraffare il vecchio e dal ravvicinamento dell'uno all'altro venir fuori il comico.

il

carolingi e serba intatti

Oh quanto

a battaglia meglio assetta

Che d'amar donne quel baron soprano

(I,

in, 71).

Il casto conte il Brava infatti il pi goffo e il pi mal accorto


mante che immaginar si possa; ed il poeta si compiace di far risaltare questo nuovo aspetto dell'eroe e di versare a piene mani il ridicolo su di lui. Quella civettuola di Angelica sfrutta in ogni maniera la
sua ingenuit, lo inganna con moine e con fallaci promesse (I, xxvn, 48-51)
i

ed asservisce l'amore di Orlando per lei al suo intento di appagare il


proprio amor per Ranaldo. Orlando si lascia bonariamente abbindolare
e se si trova a tu per tu con Angelica fa la figura di un giovinetto
timido ed impacciato. Non mi lecito ripetere quale il Boiardo ce lo
descriva, quando ella lo accoglie e lo accarezza e lo bacia reduce dalla
prigionia di Dragontina (I, xxv, 39); sentite in cambio cosa si dica di
lui, compagno ad Angelica nel viaggio da Albracc in Francia:
Via camminando, assai con lei favella,
Ma di toccarla mai non s'assicura:

>

Cotanto amava lui quella donzella,


Che di farla turbare avea paura.
Turpin che mai non mente, di ragione
In cotale atto il chiama un babbione (II, xix, 50).
Brandimarte.

di Orlando acquista rilievo dal contrasto colla gentiamorosa di Brandimarte, che soccorso dal paladino in una perigliosa ventura (I, xx, 17), gli poi quasi sempre al fianco. Legittimo
rammenti il lettore
figlio del connubio dei due cicli epici, Brandimarte
incarna in s l'ideale
11 bel ritratto che ne abbiamo riferito dianzi

La rozzezza

lezza

LETTERATURA CAVALLERESCA.

LA.

cavalleresco del conte di Scandiano

neata con maggiore

331

nessun'altra figura da lai deli-

n altro personaggio trattato con pi assidua benevolenza che il delicato sposo di Fiordelisa. Eppure Brandimarte per nascita un saraceno, cui Orlando converte al cristianesimo
durante la comune prigionia. (II, xn, 12 sgg.). Gli che nel poema
del Boiardo la diversit della fede importa poco meno che niente e,
seriet,

come

dice il pi autorevole giudice di siffatta materia, cristiani e


saraceni vivono sotto una medesima legge: la Cavalleria . Se nell'assemblea dei re, Agramante chiude il suo discorso esortandoli a seguirlo

in Francia per aggrandir la legge di

un

politicastro

moderno, che ammanti

Macone

ei

mi ha

di rettorica patriottica

1*

aria di

ambizioni

vuole acquistare gloria a s stesso ed emulare


Alessandro Magno, principio di sue gesta. Anche fra i pagani son cavalieri valorosi ed onesti; anzi talvolta ne trovi alcuno frammisto ai
personali; in realt

cristiani nella corte di Carlo.

Ferraguto, giovinetto ardito e d'ani uio s fiero che a praticarlo


una paura (I, i, 72); Agricane, l'innamorato re di Tartaria,

egli era

di nulla scienza esperto , che

non

sia di

cacce odi battaglie

(I,xviii, 42),

ma

pur cortese e leale; Mandricardo, suo figliuolo, generoso e superbo,


che senz'armi e solo abbandona il suo regno per correre alla vendetta
del padre e conquista per sua prodezza le armi, che gi furono di Ettore; Sacripante grande e ben membruto E forte a maraviglia di
persona, Molto avvisato in guerra e provveduto , sono dei principali
guerrieri saraceni e creazioni originali del conte, che la sua attitudine a
concepire e sbozzare caratteri nuovi spiega pi liberamente tra i pagani
Che non nel rappresentare il mondo cristiano, ove la lunga e costante
tradizione epica non gli permetteva se non di modificare e di rinnovare figure preesistenti. Pagano anche Rodamonte, re di Sarza, anima
di fuoco che sfida orgogliosamente gli uomini e gli dei e cui possono
resistere appena Orlando e Ranaldo; pagano Brunello, comico personaggio, che ha tutte le parti d'un lestissimo ladro e per queste come
per la sua ghiottornia ricorda talvolta Margutte
:

Egli ben piccioletto di perso na,

Ma

di malizia a maraviglia pieno,

E sempre

calmo e per gergo ragiona,


meno,
sua voce par corno che suona;

Lungo

la

in

da cinque palmi o poco

Nel dire e nel robare senza freno ;


Va sol di notte e il d non veduto,
Coni ha i capelli, ed negro e ricciuto

(II, in,

40).

Brunello ruba il cavallo di sotto a Sacripante; attamente trae di mano


a Marfisa la spada (II, v, 38-41) e con. destrezza portentosa rapisce ad
Angelica l'anello fatato (II, v, 27-35). questo appunto il fine per
cui Agramante lo ha mandato ad Albracc; poich quell'anello deve
servire a dissipare gli incanti onde il vecchio Atlante tien nascosto nel
monte di Carena un prode giovinetto, augurata salvezza dei Saraceni
nella guerra contro Carlo.

caratteri

perS onag K

332

CAPITOLO OTTAVO.

In Ruggero

Ruggero.

tale

Alessandro Magno, a

il

nome

di quel giovinetto
il
sangue di
por via della madre Galaciella, si unisce

lui sceso

sangue di Ettore, cui per lungo ordine di generazioni, gloriose nelle


favole carolinge, risaliva la cristiana stirpe di suo padre Ruggero di

al

Risa

v,

(III,

18-34). Del giovine guerriero

il Boiardo narra le prime


Francia e, in vaghissimi versi, come egli si inBrandiamante, sorella di Ranaldo:

gesta sulla terra

namorasse

di

di

Nel trar de Telmo si sciolse la trezza,


Ch'era di color d'oro a lo splendore.
Avea il suo viso una delicatezza
Mescolata di ardire e di vigore.
I labbri, il naso, i cigli e ogni fattezza

Parean

man d'Amore,
avevano un dolce tanto vivo

dipinti per le

Gli occhi

Che

Ne

dir

non puossi, ed

io

non

descrivo.

lo

l'apparir de l'angelico aspetto

Rugger rimase

Parendo

Non
Non

e vinto e sbigottito,

tremare

sentissi

il

core in petto,

lui di foco esser ferito;

sa pi che

fare

il

giovinetto,

era a pena di parlare ardito

Con l'elmo

in testa

Smarrito

mo

non

l'avea temuta,

che in faccia l'ha veduta

(III,

v.,

41-2).

Il poeta aveva in animo di seguirlo fino alla morte, datagli a tradimento


da Gano (II, xxi, 54; III, i, 6); ma col poema rimase interrotta la
storia del terzo paladino , di cui per Atlante profeta il battesimo

e la gloriosa discendenza, destinata a serbare nel


gentilezza,

Loggia

e leggiadra

(II,

mondo

tempo del Boiardo ormai secolare, atun eroe dell'et


A celebrare e adulare i suoi signori intende il poeta pur
che Brandimarte e Fiordelisa vedano effigiate sulla loggia

le cui origini troiane,

favola al

novella nobilt dal valore di

quando

fa

valore, bont,

xxi, 55). Si tratta della casa d'Este;

tingono ornamento
carolingia.
e
P
^toflat?

amore

di

istorila del palazzo di Febosilla le future imprese di quattro principi


estensi

(II,

segnate
tra'

un vecchio costume dei


immagina

xxv, 42-56) e quando, seguendo

rimatori cavallereschi, che gi


sul padiglione di

quali sono

il

s'

visto accolto dal Pulci,

Brandimarte

le

imprese

di dodici Alfonsi

fondatore della dinastia aragonese

di

Napoli,

il

duca

Calabria vincitore dei Turchi (1481), e il piccolo figliuolo di Ercole I, colui che avr onore dalla protezione concessa al gran Lododi

(l, xxvn, 52).


Brandiamante, la forte e valorosa figliuola di Amone, che, sposa a
Ruggero, generer la prosapia estense, e rinno velia mento della Brai-

vico

Le donne.

damonte

di altri

Marfsa,
(I,

romanzi. Genialissima creazione boiardesca invece


di robusta bellezza

vero tipo della donna guerriera, bella

59), piena d'orgoglio, di gagliarda, di valore. Insensibile ad


affetto muliebre, ella combatte coirimpeto e la fierezza dei pi forti

xxvn,

ogni

eroi ed
Angelica,

il

ha giurato

di

non deporre l'armatura

prigionieri in battaglia Gradasso

versa da

lei

Angelica:

Agricane

finch

e Carlo

non abbia fatti


Magno. Ben di-

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

333

Angelica a costei gi non simiglia,


Ch'era assai pi gentile e delicata
Candido ha il viso e la bocca vermiglia,
Soave guardatura ed affatata,
Tal che ciascun mirando il cor gl'impiglia.
La chioma bionda al capo rivoltata,
Un parlar tanto dolce e mansueto,
Ch'ogni triste pensier tornava lieto (I, xxvn, 60).
;

Ella

il

segnato

personaggio che muove l'azione e


il

carattere con maggior cura

di cai

il

Boiardo ha di-

che di ogni altro. Leggera

suo cuore non s'apre all'amore per moto spontaneo; ama


Ranaldo perch ha bevuto alla riviera incantata; a lei piace solo di
farsi corteggiare da mille adoratori; sempre una lusinghiera. Questo, osserva il Rajna, il tratto in cui s'assomma l'indole sua . Anzi
l'indole di tutte le donne, se dovessimo credere al giudizio severo del
poeta e se nella realt tutte fossero quali appaiono nel suo poema.
In Origille maliziosa e di lusinghe piena , la slealt ed il cinismo
sono a studio esagerati e toccano un grado assai sopra il comune; ma
capricciosa,

il

gi tutte siatn fatte


(I,

xiii,

89);

come

come

facilmente e per marito

morato compie

la

fu

Tisbina

Tisbina, che, perduto


il

,
il

Sever0
U
sulfg

JJjj a

Ranaldo
ne consol

dice Fiordelisa a

suo Iroldo

se

bel Prasildo prese . L'autore dell'Inna-

vendetta dell'amante

di

Antonia Caprara

che nel

dolore, indimenticabile, dell'abbandono aveva detto:


Io non credo apena
Che un giorno intiero amore

Fu

detto che

il

in

donna dura

(169).

Boiardo, tutto intento alla rappresentazione dei

fatti

Vero; ma chi ripensi la figurazione degli eroi nei precedenti poemi, non potr disconoscere che l'Innamorato segna anche per questo rispetto un notevole progresso e
ci che pi monta, schiude la via ad avanzamenti

La psico-

esterni, trascura la vita intima de' suoi personaggi.

logia

xtAVlnnamoralo.

ad un sentimento tutto personale


Angelica lagrimante sull'erba ove pur
dianzi s'era posato Ranaldo (I. in, 49-50), e quelli soavemente accorati
di Prasildo (I, xn, 19-21) sono frammenti lirici, che ricordano le fine
pitture autopsicologiche del canzoniere boiardesco. E in qualche luogo
si sente pure un certo studio di particolare motivazione interna: l,
per esempio, dove ad Orlando, stordito da un terribile colpo di Agricane, si affaccia in sul primo tornare della coscienza l'immagine adorata di Angelica e gli rid coraggio e rinfocola la sua ira, fatale al
saraceno (I, xix, 6-10). Sono accenni od avviamenti, da cui trarr
partito fra qualche decennio un artista pi fine e pi paziente.
Frattanto l'efficacia dell'Innamorato si rendeva manifesta in un
poema che fu composto tra il 1490 e il 96, almeno in gran parte nella
corte dei Gonzaga, di Bozzolo, da un rimatore di tutt'altra condizione
che non fosse il conte Matteo Maria; vo' dire da quel Francesco da
Ferrara, cui l'esser cieco e il mendicar le spese non concessero di
prevalenza data

successivi per la

quale l'amore.

lamenti

di

Il

Mam-

briano
di

Francesco
Cieco.

334

CAPITOLO OTTAVO.

attendere tranquillamente agli studi n


il suo ingegno
non volgare. Il

dell'arte

applicare

di

alle meditazioni

Mambriano prende nome da

un re di Bitinia, e narra la guerra da lui mossa a Rinaldo per vendicare la morte di suo zio Mambrino, ucciso, ei credeva a tradimento,
dal sire di Montalbano. Si combatte con alterna fortuna in Francia ed
in Asia, finch

Mambriano,

vinto,

sottomette a Carlo

si

Magno

fessa erronea la sua credenza oltraggiosa al paladino (xxiv,

La guerra

e con-

72

sgg.).

lungo dalle arti della maga Carandina, che tiene


in dolce prigiona i due avversari nella sua isola di Montefaggio. Uno
ne fugge, cacciato dalle armi e dal valore di Rinaldo e questi ne
liberato da Malagigi, affinch venga in soccorso del castello di Mon tirata in

talbano, stretto d'assedio dal re barbaro,

il quale alla fine sposa Carandina, non pi maga. Orlando ed Astolfo, partiti di Francia in trac-

cia di Rinaldo, corrono intanto

avventure molteplici; liberano l'Africa

dal crudel re Meonte, uccidendolo

sua

e impossessandosi della

Utica, che poi difendono contro l'assalto dei Garamanti; di l

citt,

muovono

che dianzi Orlando aveva convermentre si celebrano le nozze


di lei col valoroso Sinodoro, si ricongiungono con Rinaldo, che vi arriva dopo sconftto Mambriano e superate difficili prove (xxxiii
15).
Trionfi e torneamenti accolgono il loro ritorno in Francia, al quale
tengono dietro episodi collegati solo per deboli fila ai precedenti racconti; la liberazione d'un cavahero dagli incanti della maliarda Uriella per
opera d'Ivonetto, figliuolo di Rinaldo; l'avventuroso pellegrinaggio di
Orlando a S. Jacopo di Compostella gli inganni che Malagigi ordisce
colle sue diaboliche arti per arricchire Rinaldo a danno di Carlo Magno.
A questo punto il Cieco da Ferrara, sgomento per l'appressarsi della
nel 1496 Carlo Vili minacciava una seconda
gallica tempesla
pone fine al suo dire e chiude il poema,
spedizione
quale, recitato in diversi tempi dal rimatore, cui premeva il biSO gno, alle corti de' suoi signori, non ci si presenta come un tutto ben
organato e stretto in un disegno definito s come un aggregato di
due azioni principali, che procedono parallele e di episodi che a quelle
si accodano. Il Cieco non sa gli accorgimenti con cui il Boiardo annoda ed intreccia i racconti, n possiede la mobile e ricca fantasia del
suo confratello in Parnaso; appigliatosi ad un filo, par quasi dimenticare gli altri che ha sul telaio; per s lunghi tratti segue quello e
in aiuto di Fulvia, un'ineantatrice,

tito,

ed in Piraga, dove essa

signora,

carattere

Mambriano.

con tanta

prolissit lo

dell'insieme,

svolgendo. Gli fa difetto la percezione

onde meglio che in ogni altra parte del poema

novelle, che vi inser in


sufficienti le

viene

numero

sue non comuni

di

sette

e per

riusc nelle

le quali gli

furono

attitudini di narratore spigliato e vivace.

classica che nell 'Innamoralo vedemmo cos ben fusa


appare nel Mambriano maldigesta ed usata
cavalleresca,
materia
colla
a sfoggio inopportuno di dottrina. In capo ai singoli canti trovi spesso
invocazioni goffe e solenni degli antichi numi, e sulle labbra dei personaggi reminiscenze classiche; perfino scendono dair Olimpo Vul-

La materia

LA LETTERATURA CAVALLERESCA.

335

79) e Venere (xxix 29) per prender parte air azione. Ma


Boiardo, anzi pi dei Boiardo, il Cieco predilige le favole di
tipo brettone e ne intesse quasi tutto il poema. Del Boiardo tiene anche per il modo con cui talora tratta la sua materia. Anch'egli cita

cano

(xi

come

il

Turpino a guarentire

la verit delle

invenzioni

meno

credibili; anzi

accontenta di questo ed una volta (viii, 34) tira in ballo certa


aggiungendo
cronaca scritta da Bradamante stessa in Montalbano
che la pu ancor veder chi di l passa . Spirito incline alla facom'
cezia, il Cieco innesta nel poema episodi schiettamente comici
quello lunghissimo del vecchio Pinamonte, innamorato di Bradamante
e da lei fieramente berteggiato (xv, xvn, 1-33), e si compiace di caricar le tinte del carattere di Astolfo, rendendolo pi ameno e pi

non

si

stravagante che nell'Innamorato non sia.


Delle favole brettoni entrano nel Mambriano

le

parvenze

esteriori,

sentimento animatore; l'imitazione tutta superficiale. Del pari


il riso, germogliante dall'indole stessa del poeta, ha importanza puramente episodica e non va oltre la scorza. Orlando personaggio inanzi riprende
teramente serio , che non sente le punture d'amore

non

il

si d un gran
da fare per convertir saraceni e combinare onesti matrimoni
e sa
predicare la fede con la dottrina d'un teologo (xx, 2-50). Il poeta
poi per suo conto sparge qua e l osservazioni morali e sotto il velo
dell'allegoria pretende di dare co' suoi racconti ammaestramenti al

Astolfo per le sue debolezze di tal genere

(v,

26); egli

lettore.

Stampato per ben undici volte dal 1509


godette

al 1554
una notevole fortuna ma non pot avere la
,

il

Mambriano

feconda
Boiardo aveva creata quell'unica foggia di romanzo
cavalleresco, che ai tempi mutati si convenisse, operando la trasformazione delle gravi ed epiche narrazioni, ormai per difetto di nutrimento ideale ischeletritesi sulle labbra dei giullari plebei, in un vago
balocco della fantasia privo per i nuovi lettori di realt storica ma
appunto per questo mirabilmente acconcio a secondare le tendenze della
nuova arte, non ancora oppressa dall'uggia delle teorie e tutta intesa
di

dell'Innamorato.

vitalit

Il

alla ricerca di

squisitezze formali.

Le imperfezioni idiomatiche

e le

diminuirono nel raffinato Cinquecento la voga


dell'Innamorato ; eppure la geniale concezione del conte visse nelle
continuazioni del poema rimate da Niccol degli Agostini, da un Raffaello da Verona e da un anonimo visse, alterata, nel toscanissimo Rifacimento del Berni e in quello di Lodovico Domenichi. E venne l'artista fine e paziente, che continu con accorta indipendenza le invenzioni del Boiardo, ne riprese e modific a suo senno le figure, e rec
nel mondo epico da lui creato l'eleganza, la vivezza, lo splendore della
poesia del Rinascimento maturo: Lodovico Ariosto.
scabrosit

stilistiche

CAPITOLO NONO

Hapoli
di
Il

il

Panormita

dmk

a"

napoletana,

d'Aragona.

Giovanni Pontano la sua vita il P. uomo di


suo carattere.
Le opere del P. in poesia gli Amor e s ]a Lepidina gli
Hendecasyllabi seu Baiae, i libri De amore coniugali, i Versus j ambici, gli Eridani,
i
Tumuli, il poema Urania e le altre opere astrologiche, il libro Meteororum e il poeI trattati filosofici.
metto De hortis Hesperidum.
I libri De bello neapclitano e
Accademici napoletani.
De sermone.
I Dialoghi del Pontano.
Il P. e la Chiesa.
Il P. e i grammatici.
Letteratura in volgare.
Le farse popolaresche.
Primi documenti di poesia lirica.
P. J. De Jennaro, F. Galeota, G-. Perleoni.
Gannantonio Petvucci.
Il Cariteo.
Prosatori napoletani: P. Del Tuppo, Giuniano Maio.
Jacopo Sannazzaro: primo periodo della sua vita.
I gliommeri eie farse di corte
del S.
L 'Arcadia.
La letteratura pastorale in lingua volgare e la fortuna dell' ArBucolici latini del secolo XV.
cadia.
Il canzoniere del S.
Le Piscatoriae del S.
L'ultimo periodo della sua vita.
Le elegie, gli epigrammi e il De partu Vrginis.
stato

il

Ferdinando

Panormita e l'Accademia napoletana.

tempi

ed.

^ lungo soggiorno del Panormita a Napoli fu, abbiamo detto (p. 83),
singolarmente profittevole alla vita intellettuale di quella citt. Dotato
da natura di un umore giocondo, che ne rendeva gradita la compagnia, e posto dalla munifica protezione dei principi aragonesi in conegli attirava intorno
dizione segnalata per autorit e per ricchezza
a s non pure i dotti, ma quanti erano giovani inclini e sufficienti alle
lettere, e trasfondeva in questi quell'amore agli studi classici, che in lui
era stato fecondo pi che di opere insigni di vane promesse. Ebbe cos
nascimento una vera accademia, di cui re Alfonso accolse con faccia
benigna il disegno ed aiut con largizioni il sorgere e il prosperare.
Si radunava in via dei Tribunali nella casa del Panormita o nel portico
che da lui ebbe nome di Porticus Antonimia; talvolta anche nel suo
Pliniano, la villa che il segretario reale possedeva sulla marina di Resina.
Vi si disputava solitamente di questioni filologiche, ch alla grammatica
disciplinarum omnium principi , era fatto il primo posto; ma anche
di storia, di filosofa e di scienze naturali. Gli accademici napoletani
,

non

si

trasferivano interamente,

come

sodali di

Pomponio Leto, nel

NAPOLI AI TEMPI DI FERDINANDO


inondo antico; anzi, quando

le riunioni

337

d' ARAGONA.

erano lungo

la

strada, inter-

passanti sui fatti della giornata ed osservavano con benetoIo sorriso il devolversi della vita popolaresca. Il Panormita rallegrava col suo brio la conversazione, solito com'egli era, pi che ad

rogavano

ammaestrare solennemente, a rivolgere domande suggestive, pi che a


confermare le dottrine a condire le dispute delle sue amabili ironie.
Quando mor, nel 1471, fu un lutto per i suoi amici ed ammiratori,
e quale capo dell'Accademia gli successe un uomo che egli aveva giovato di consigli e d'aiuto e di cui aveva visto maturare l'ingegno
nobile speranza della politica e della poesia: Giovanni Pontano. Giusta il costume accademico, questi aveva classicizzato il suo nome in
avendo
Gioviano e fra i colleghi occupava gi un luogo onorevole
,

dettate le leggi e gli statuti del sodalizio.


Il Pontano nacque, ai 7 di maggio del 1426, a Cerreto, terra dell'Umbria non molto discosta da Spoleto, forse precisamente nel viilaggio di Ponte, onde traeva il nome la sua famiglia. Giovinetto, perdette il padre, vittima di una sommossa popolare, e ripar a Perugia
colla madre Cristina, le cui cure amorose rammentava teneramente

GiovanQ
t

^J

(1

3)

negli ultimi anni di sua vita. Costretto dagli odi aviti, dalle civili di-

scordie e dalla rovina del domestico patrimonio a lasciare la provincia


nativa,

si

era recato verso la fine del 1447 al campo

di

re Alfonso

allora in guerra coi Fiorentini, e poco dopo con lui a Napoli. Al


della
gli

morte del Panormita

Aragonesi: re Alfonso

egli
gli

tempo

era gi ben addentro nelle grazie de-

aveva

conferito

un

ufficio

nella regia

cancelleria e affidata (1456) l'educazione di suo nipote, il riottoso Carlo


di Navarra; con Ferdinando aveva preso parte alla guerra contro gli

Angioini in qualit di promagistro camerario (proministro delle finanze) e combattuto a Troia (1464). D'altro canto aveva levato fama
di s per il suo merito di letterato o,nde al preclaro poeta messer

Giovan Pontano de scientia et virt famosissimo , Perugini avevano


1466 il cancellierato del comune e la lettura d'arte orai

offerto nel

toria nel loro Studio,

Fu

poi segretario d'Ippolita Sforza, la bella e colta principessa cui

Masuccio dedic
labria,

il

il

Novellino, e del marito

di lei

Alfonso, duca di Ca-

quale, gi suo discepolo, segu nella guerra Otrantina del 1481

e in quella ferrarese degli anni successivi. Principalmente per

opera
conchiusa nel 1484 la pace di Bagnolo; e due anni dopo, ai 12 d'agosto del 1486, fu da lui, che lo aveva negoziato, soscritto a Roma
trattato fra re Ferdinando ed Innocenzo Vili: fatale trattato, che
il
spinse i baroni alla congiura tristamente celebre e spian al Pontano

sua fu

ad onori pi cospicui.
Ferdinando I d'Aragona ha nelle istorie del secolo XV nome di
Ferdu
nd
principe malvagio e crudele: non immeritamente, ch durante il suo d^r a 0 na
g
1458 - 1494
il
popolo
fu
dai
balzelli
reggimento
aggravato e dissanguato
onerosi
e dalle regali incette di derrate e la reggia napoletana fu bruttata
la via

<

Rossi.

La

lett. tal.

nel sec.

XV.

22

338

CAPITOLO NONO.

da tradimenti, torture e sanguinose rappresaglie. Nella lotta diuturna


che egli ebbe a sostenere contro i baroni cospiranti coi nemici esterni
e fra loro, le male qualit della sua natura cupa, taciturna
doppia,
vendicativa poterono manifestarsi largamente in servigio di quella politica non d'altro curante se non del buon successo, che era ormai
nelle abitudini dei signori italiani della Rinascenza e di cui poco appresso il Machiavelli formul la teoria. Ma Ferdinando, se non aveva
redato dal padre Alfonso, morto nel 1458, lo spirito aperto a tutti gli
allettamenti della cultura e il nobile amor degli studi, che traevano il
primo degli Aragonesi d'Italia a farsi leggere le storie di Roma e ad
ascoltare le discussioni degli umanisti, non gli fu certo inferiore quanto a
splendore di regali magnificenze. Amante del. lusso, come di un segno
della sua autorit, orn il suo palazzo di mobili artistici, di stoffe preziose,
di tavole dipinte e diede efficace impulso all'architettura, affidando
grandi commissioni a maestri insigni, quali i due fratelli da Maiano,
Luca Fancelli, fra Giocondo. Una schiera di amanuensi da lui stipen,

diati trascriveva in bella lettera antica testi latini e

e sacri;

miniatori

li

segnate; e le candide
perte

fregiavano

volgari,

di iniziali e di figurine

membrane erano

classici

finamente di-

poi strette fra assicelle

rico-

cuoio o di velluto con borchie e fermagli d'oro e d'argento

di

da abilissimi rilegatori. La biblioteca aragonese, affidata fin dai tempi


di Alfonso alle cure di ufficiali apposta creati, divenne una delle pi
ricche d'Italia, onde parve bottino prezioso alla cuta avidit dei conquistatori francesi.

Quantunque Ferdinando non

si

dilettasse degli studi geniali, affac-

cendato com'egli era in tutt'altre faccende, pure teneva i dotti in gran


conto, ben sapendo che ottima preparazione agli ardui maneggi della
politica era in quel tempo la coltura umanistica. Antonello Petrucci,

che fu suo segretario


il

Porzio,

uomo
a

di stato dal

1458 all'agosto del 1486,

era, dice

scienziato, di alto intendimento e studioso tanto dei

tutti come mecenate era osservato . Aveva avuto a


Valla e in mezzo alle gravi occupazioni del suo altissimo

letterati

che da

maestro

il

ufficio,

Pontano

uomo

soleva ricrearsi colla lettura di Cicerone e di Livio.

Or quando

sul Petrucci, reo di complicit nella congiura, piomb fulminea la vendetta di Ferdinando, il Pontano fu chiamato a succedergli.
Gravi di timori e di sinistri presagi corsero per la casa d'Aragona

anni in cui l'umanista umbro tenne la suprema dignit della


Rinasceva ognora l'ostilit di papa Innocenzo, causa o pretesto
la strage dei baroni; a Milano l'ambizione d'uno scaltro usurpatore
ordiva trame minaccevoli al Regno; oltr'Alpe si addensava il nembo
che doveva travolgere quella dinastia. Il Pontano condurre accorte
trattative, studiarsi di assicurare con calcolate condiscendenze gli amici
malcerti o di trar dalla sua gli esitanti; procurar di attraversare i
disegni dei nemici e d'altro canto combattere gagliardamente le dubbiezze e i timori di Ferdinando. Verso la fine del 1491 fu mandato a
Roma per negoziare una nuova pace col pontefice, e poich le cau^
i

dieci

corte.

,,

NAPOLI AI TEMPI DI FERDINANDO


tele dei procuratorelli e

339

D'ARAGONA.

cavilli de' legulei napoletani,

mettendo

il

re in sospetto, intralciavano l'opera sua, In nome del vostro Diabolo , egli scriveva al eluca di Calabria, abbiate l'animo grande;

un pover uomo ch' Joanne Pontano, non ha paura di Europa e voi


avete paura di non retraere dall'accordo del papa pi assai di quello
che mo non vedete n pensate. ... Se vi rincresce lo mio scrivere
tal si sia di voi: cos specta fare ad Joanne Pontano . E al re stesso:
Parme di vedere che sia stimato per uno che mai abbia visto acto
alcuno; sia con Dio; pur son vecchio ed ho perduto li denti ad stimar
Questi vostri savi, se mai cacciassero li piedi del Reame, se
advederiano chi (essi) sono. Mastro Colantonio di Capua e mastro Antonio
carte et

libri.

d'Alexandro, eccellenti dottori, non anco hanno facto quello che ho


facto io senza legge; manco lo fara nullo dell'altri che sono a Nanon
poli . Orgogliose e franche parole, quali i principi del secolo
erano soliti udire dai loro soggetti Finalmente il ventottesimo giorno

XV

del 1492 la pace fu conchiusa; ed il Pontano ebbe


come di una vittoria della sua politica, per ci che,

rallegrarsene

a
a

malgrado

della

ripugnanza del re, giudicasse allora necessaria l'amicizia del papa, ncora di salvezza nelle gravi contingenze che apparivano prossime. Anch'egli per vero era fieramente avverso alla potest civile e all'intromissione dei pontefici negli affari mondani, n si stancava di ripetere che governar li stati temporali, spettava alli re ma in lui la
verit effettuale la vinceva sulle teorie e sulla tradizione antipapale
che le lunghe lotte avevano creato nella corte dove avea trovato asilo
il forte oppugnatore della donazione costantiniana.
Successo ad Innocenzo Alessandro VI, il Pontano intese che non
era da fidare se non nelle proprie forze ed esort il re a preparar la
difesa, in un memoriale spietatamente acuto nell'analisi della fosca
',

realt e spirante

animo

tutta Italia, Francia e

tar anno; e lo

Turco

Sete

virile nei robusti consigli.

Spagna

vi correr addosso,

come fanno

le

vecchio

non
mosche

vi sono, congiurate contra, e

v'aiuall'in-

fermo. Sicch al ben dire aggiungete lo fare, che voi dire ben pro-

Non

pecora perch li porci diventeranno lupi. Non


perch non te aiuta senza te, in li casi dove l'uomini se ponno aiutare. Non vogliate all'ultimo darve tutto a fortuna,
perch sole ingannare e pure li uomini hanno in bona parte lo libero
arbitrio . Forse
mentre il Pontano s'adoprava con tanto ardore e
con assidua attivit a puntellare il trono barcollante de' suoi signori,
gli balenava alla mente la speranza che da quella famiglia avesse a
nascere colui che dopo non molti secoli , cos egli augurava con nobile preveggenza del futuro, avrebbe spento le intestine discordie e
ridato all'Italia unit e maest di nazione (Charon, p. 1167).
Accaduta la catastrofe il segretario
di stato
che Alfonso II -v-v,

li Pontano e
Ferrandmo avevano mantenuto nel suo ufficio, chin il capo alle ne- ^aro viii.
cessit dei tempi. Chi consegn al bastardo di Borbone le chiavi di

vedere.

vi fate

fidate tanto in Dio,

,
?

Castel

Capuano (20 febbraio 1495);

,
'

chi

in

un'orazione

signific

340

CAPITOLO NONO.

Cari Vili L'omaggio del popolo napoletano; chi per La lunga pratica
avea del Regno giov al conquistatore aell'inquBrir alcuneco.se ;
chi intae in

nome

del popolo prest il consueto giuramento al nuovo


insegue nella catt tirale (maggio 1495), fu appunto il
Fontano. Le cose degli Aragonesi erano disperate e poich non gli
era bastato l'animo di seguire Ferrandino nell'esiglio sarebbe stato
inutile e pericoloso fare altramente. Non per nulla ei si vantava
di saper conoscere el tempo ! Ma sent egli stesso la vilt del suo
adoperare e, come accade agli uomini che non hanno ancora perduto
re,

cingente

le

il
senso dell'onesto, procurava scusarsene dinanzi alla sua coscienza,
ripensando, quasi per sottrarsi all'obbligo della gratitudine
servigi
i
,

da s prestati agii Aragonesi e gli scarsi proftti che ne aveva ritratti


lamentela non nuova in bocca di chi con rara tracotanza l'aveva fatta
sonare all'orecchio stesso di re Ferdinando. Il vecchio segretario, che
ment i suoi sentimenti di acerrimo odiator dei Francesi per compia:

suoi concittadini e non disgustare il vincitore, pu ben merinostro compatimento, non le nostre difese.
Tornati a Napoli gli Aragonesi ai 7 di luglio del 1495, il Pontano,

cere

a'

tare

il

come era ben

naturale,

non riebbe

l'ufficio

e visse lungi dai pubblici

pur troppo ancor tanto da poter dedicare una delle sue ultime
opere a Consalvo di Cordova
il traditore
del giovine re Federigo.
Mor nell'autunno del 1503.
Qual nella vita pubblica, tale egli fu nella vita familiare. Am teneramente Adriana Sassone, che aveva menato in isposa nel 1462; la
ador e vezzeggi madre de' suoi figliuoli e nume indigete della sua
casa; morta, la pianse con lagrime sincere e ne vener la memoria
finch ebbe vita. Eppure non seppe sagrificare a quell'amore gli appetiti del senso che lo trassero a violare la fede coniugale
non si vergogn di scherzare in un dialogo pubblicato l'anno stesso in cui gli
mor la diletta compagna, sui dolori che egli le aveva recato; n quel
sincero e durevole rimpianto lo trattenne dal gettarsi nelle braccia
d'una concubina, certa Stella da Argenta, dalla quale ebbe frutto di
nauseante lascivia senile, un bambino che mor in fasce. Gli che in
lui un egoismo volgare era impulso e limite ad ogni affetto ed il senso
sopraffaceva quasi sempre il sentimento, talch come per interesse e
per paura ruppe fede a' suoi re, cos per insaziata bramosa di piaceri
all'umanista
al
alla moglie. All'artefice di versi di classica tempra

affari,

zattere
Pontano

filosofo

contemporanei, troppo

facili,

sappiamo, a confondere

ma

col buono,

perdonarono

remmo ad

occultarle o attenuarle noi tardi posteri?

non turber

l'uomo

il

le

colpe dell'uomo;

nostro giudizio

perch

sul poeta,

ci

il

bello

industrie-

La condanna
siili'

umanista

del,

sul

filosofo.

ubn.

11

m
il

Pontano cominci

assai giovine a far versi latini, sicch a

secolo Flavio Biondo nell'Italia illustrata

onore

il

nome

di

lui

come

di

un

mezzo

(p. 330) gi registrava ad


felice e promettente imitatore degli

NAPOLI Al TEMPI

FERDINANDO

DI

341

D'ARAGONA.

elegiaci e eli Catullo. Le primizie del suo ingegno s'hanno a cercare,


frammiste a componimenti d'et pi matura nei due libri Amorum
dove a pi indizi senti il principiante ancora ligio ai modi e alle consuetudini in voga. Vi abbondano le comparazioni desunte dalla mito,

logia e dalla storia antica;


altrui; gli

non

vi

mancauo

argomenti sono in gran parte

le poesie scritte in

nome

quelli tradizionali nella lirica amo-

Il giovane scrittore vi esprime


scoramenti delle prime lotte colle difficolt dell'arte, le sue
alte aspirazioni di poeta, che accrescono la melanconia del presente, e
il rimpianto della patria perduta. Fra le disavventure che lo colpirono
ne' primi tempi del suo soggiorno a Napoli, ripensa i verdi paesaggi

rosa: preghiere, lamenti, disperazioni.

anche

gli

Nera

della sua

quale

ei

vedeva

le

il

fiumicello Cassi di dantesca

rupe muscosa. Era forse


elegia

De quercu

dare, in versi di

come

memoria

Naiadi intrecciar carole all'ombra

ancora

in patria

elei

presso

quando compose

diis sacra, nella quale introduce

ipore tra ovidiano e popolesco, la

al

pioppi e della
la

bella

Pane a loninfa della Nera

il

dio

dormiente sul molle terreno sotto alla


polle sue fantasie mitologiche spiranti
un dolce affetto per la bella natura. Altrove negli Amores canta con
voluttuoso abbandono i piaceri del senso o cesella con bulino catulliano immaginette scherzose che accrescono l'efficacia della rappresentazione di quelli. Chi non rammenta gli endecasillabi Amabo, mea cara
Fannella, Ocelhts Veneris decusque amoris? Meno noti, non meno
graziosi quelli alla colomba da lui mandata in dono alla fanciulla sua
e narra

ei la cogliesse

quercia. Ecco gi

il

Pontano

Sed cui nam cupis, o columba, munns


nam meam puellam

Deferri? Scio;

Amas

plus oculis tuis, nec ulla

Vivit

mundior elegantiorve.

Haec te in deliciis habebit, haec


Praeponet nitidis suis opellis,
Nec tanti faciet suam sororem.
Huius tu in gremio beata ludes.

te

(1)

Or qual ricca materia all'arte d'un poeta siffattamente disposto da


natura non offrivano gli incanti del golfo partenopeo e la vita lasciva
della grande citt maestra d'amore a Giovanni Boccacci Quegli spet!

Pontano sent infatti e ritrasse come nessun


altro aveva saputo prima di lui e pochi seppero dopo, onde l'arte meridionale, calda di colore e di sensualit, non ha nella prima et della
Rinascenza chi pi marcatamente e solennemente ne rifletta il carattere.
Il Pontano non tanto un osservatore e descrittore minuto degli
spettacoli naturali, quanto un efficacissimo interprete eli un'intima simtacoli e quella vita

patia

umana per

il

il

mondo

esterno.

Non

gli

manca

Ma

la facolt di

riprodurre

a chi vuoi mai, o colomba, essere data in dono ? Ah, lo so ; perch la fanciulla
n v'ha al mondo creatura pi linda e pi elegante. Tu
sarai la sua delizia ed ella ti amer pi de' suoi lucidi occhietti, n le star tanto a cuore
(1)

mia

ti

pi cara dei tuoi occhi,

sua sorella.

Tu

le

scherzerai, beata, nel grembo, ecc.

^
t

delia

Natura

pontino.

CAPITOLO NONO.

immediatamente
(lelL'acque;

antri,

ma

la bella natura,

riso delle

il

arene fra

concenti delle selve,


il

mare

silenzio del

pi volentieri assai pi spesso

ama dar

susurri blandi

gli

echi

degli

vita personale alla

scena meravigliosa su cui si gira il suo sguardo. I colli che in verde


chiostra cingono la curva maestosa del golfo, i monti,
promontori,
lieti recessi, le spiaggie, le ville, le isole sedenti a specchio dell'azzurro
Tirreno sotto il sereno fiammante del pi bel cielo d'Italia, gli si animano intorno ed escono dalla sua fantasia nudrita di classicismo in
i

forma

che nell'aspetto e negli

di ninfe leggiadre,

atti

particolare impronta dei luoghi. Egli rinnova in s

rammentano

la

poetici procedi-

menti del pensiero antico e crea simbolici miti che appunto perch
e fuggevoli
non perdono il carattere di figurazioni
concrete, n la loro efficacia rappresentativa di vive e dolci impressioni.
Codesto modo di concepire e ritrarre il mondo esterno diede nascimento alla Lepidina, poemetto in esametri di squisita fattura, nel
quale il Pontano celebr le nozze del dio fluviale Sebeto colla ninfa
Partenope. Adempiva cos una promessa fatta in sulla fine degli Amocandido giovinetto fosse da
res, l dove avea narrato come Sebeto
Nereo trasformato nel fumicello omonimo in punizione de' suoi furtivi
amori con una Nereide.
Il poemetto s'apre con un idillio di ineffabile vaghezza. E scena il
boschetto verde e fresco, ove, gi tempo, Lepidina e Macrone, due
si scambiarono i primi baci d'amore.
villici del contado napoletano
Vi si ritrovano ora, mentre recano agli sposi i cloni nuziali, e ripensano con infinita compiacenza quei dolci momenti e riandano il corso
,

tutto personali

della loro felicit coniugale, che presto sar


tili

blandizie

anche

allietata di infan-

Lp.

Has

inter frondeis, virgultaque nota latebas,

Quum
Mac.
Lep.

tibi prima rosam, primus mihi fraga fallisti.


Hic Macron, Lepidina, meus, me prima vocasti,
Et primus mea, te, alternans, Lepidina vocavi.
Viximus ex ilio gemini sine lite columbi,
Nox socios vidit, socios lux; oscula junge
Mutua, sic gemini servant in amore columbi (1)

il
Partenope e rassicura Macrone
teme di essere ammaliato da questa
e divelto dalle braccia della moglie diletta.. Ed ecco avanzarsi un coro
di uomini e di donne che esalta i gaudi dell'amore e le giovenili bellezze di Sebeto e della sua ninfa; e poscia dispiegarsi sul mare, per
le rive, pei seni la pompa delle Nereidi: la cerula Posilipo,. Mergellina

Lepidina tesse poi

le lodi di

quale, con superstizioso pensiero,

succinta nella veste che lascia nudo

il

candido piede, Sarni cacciatrice,

noti virgulti eri nascosto, quando per la prima volta io


o Lepidina,
me. Mac: Qui primamente mi chiamasti
allora siamo vissuti
Macrone mio , e primamente io di ricambio Lepidina mia . Lep. Da
giorno;
il
senza discordia come una coppia di colombi; insieme ci vide la notte, insieme
scambiamoci baci cosi fa una coppia di colombi Innamorati.
(1)

Lep. Tra questa fronde

diedi a te

una rosa

e tu fragole a

NAPOLI AI TEMPI Di FERDINANDO


Resina piangente
di

343

D'ARAGONA.

padre Vesevo, Ercli ricca di coralli e


Equense ed Amalfi. Lepidina le addita a Ma-

le stragi del

miele, e Capri e Vico

ciascuna descrive i costumi ma l'arrivo del Tritone che


canto ad Imene, la spaventa perch un giorno quegli la insegu e tent sedurla presso alla fonte di Ercole. Onde i due coniugi
lasciano la spiaggia e avvicinandosi alla citt, si incontrano in Butina

crone e
intona

di

il

ed in Ulmia, raffiguranti quella il mercato delle carni e questa la piazza


torall. E Lepidina ne prende
dell'Olmo, famosa per le ciambelle e
occasione a discorrere delle ninfe urbane e suburbane, ci sono le
i

piazze, le strade, le fontane,

crone arrivano

sobborghi

alla casa di Meliseo,

vuol dir del Pontano

triste

di Napoli,

per

la

finch ella e

morte recente

di

MaFo-

che avea di fresco perduta la figliuola


giovinetta Lucia Marzia. Ivi la ninfa Pianuri rassegna e descrive gli
eroi accorrenti alle nozze Gauro colla moglie Campi, Ursulone recante
agli sposi doni di frutta e di latte, Miseno con Procida, lo zoppo Capodimonte cui fanno corona garzoni e donzelle, ed infine il Vesuvio,
che, a quanto ne raccontava la ninfa di Portici a Pianuri allorch si
trovavano insieme a lavar le rape alla fontana del Carmine, la pi
goffa e la pi comica figura del mondo. Immaginarsi che gustosa scenetta
popolare ha luogo al macello d'rt quand'egli vi arriva sul suo asino
e distribuisce doni di frutta, di ditali, di arcolai alla plebe!
Un coro alterno di Driadi e di Oreadi interrompe il racconto di
Pianuri. Tra quelle ninfe silvane e montanine Patulci
che piange
il
suo Nivano trattenuto da Nisa (Nisida) tra le alghe della marina
deserta. E come presso a Patulci sulla collina di S. Elmo sta Antignano,
cos a quella ninfa tien dietro Antiniana, nella quale il Pontano suole
personificare la sua villa di Antignano:
sfori

Ecce venit formosa, venit decus heroinon,


Et myrto dives, serpillisque inclita virgo,
Clara thymo longeque etiam clarissima melle
Antiniana ruunt huius fama undique amantes,
Et bona pars sine dote petunt connubia Nymphae.
Ipsa seni blandita, senem cupit, huius ab ore
Et choreas agit et Carmen meditata per hortos
Laeta caqit; stupet ad sepem mirata iuventus.
Hinc sola incedit, passuque elata superbo,
:

Invitatque senem et suspiria ridet

Che amore aveva

il

amantum

(1).

vecchio poeta per quel dolce asilo di pace! Alla

sua ninfa parla colla tenerezza con cui si parlerebbe ad una persona
cara e nei Versus lyric, piccola raccolta di saffiche veramente piene
di impeto lirico, la invita a celebrare con lui il ritorno della stagione
Ecco venir la bella Antiniana, onore delle ninfe, vergine ricca di mirti, e pe v suoi
bn nota, famosa pel timo e soprattutto famosissima per il miele. D'ogni dove accorrono amanti tratti dalla fama di lei e molti la desiderano sposa senza dote. Ma ella accarezzando il vecchio, desidera il vecchio; sul tono ch'ei le d, guida le danze, e lieta canta il
carme che ha studiato negli orti la giovent sta a guardare oltre la siepe ammirando. Indi
ella s'avanza sola e pomposa nel passo superbo ed invita il vecchio, ridendosi dei sospiri
degli amanti.
(1)

serpilli

344

CAPITOLO NONO.
la esorta a dir sulla cetra le lodi di Napoli,

fiorita,

la

chiama gi dai
Mergel-

giardini e dai roseti di Posilipo alle danze con Patulci e con

lungo la spiaggia del mare. Ed Antiniana diviene il principal personaggio della Lepiclina, poich tutto il poemetto si appunta nell'epitalamio ch'ella intona
e il coro delle fanciulle e dei garzoni risponde
lina

annunzio da lei dato, che le selve e gli antri di


q nelle rive ripeteranno un di i canti di Virgilio e dopo lunghi anni
quelli d'un altro pastor forastiero, del Pontano.
Nella Lepdina la rappresentazione degli spettacoli divinamente
belli del golfo si collega e si intreccia con quella di scene pittoresche
della vita popolare napoletana e ne vien fuori un insieme mirabilmente
armonico, perch tutto si idealizza nella immaginazione idillica dello
scrittore. L'arte di lui, in quanto si ispirava alla poetica contemplazione
del mondo esterno
ebbe in codesto poemetto la sua pi compiuta e
e nel profetico

pi felice manifestazione. D'altro canto,

gi

si

Hende-

Amores

quest'altra fonte di

della volutt

ispirazione dell'arte

non iscrisse nulla che superi per viva e spigliata eleganza i


due libri Hendecasyllaborum seti Baiarum.
Luogo di delizie erano ancora i bagni di Baia. Ivi tripudi e conY -\H e musiche e amorosi ragionari; ivi era legge suprema l'appagamento dei desideri sensuali e Venere aveva s piena licenza (ben si
sua

yiiab

osserv negli

come cantore

parliamo la frase boccaccesca) che spesso


che ne tornava Cleopatra. Il
Pontano ritrasse quella vita con un brio ammirevole, ora invitando
a goderla i giovani e le donzelle i suoi amici e le amanti, ora trasfondendone tutta la libera festivit nelle scherzose risposte ad amici
conf anche

accadeva che

a'

tempi

tal

di cui

andasse Lucrezia

vi

che

gli

mandavano

doni, ed ora esaltando in versi procaci le facili belt,,

quel corrotto consorzio. Dal molle ondeggiare degli endecadal lene martellare di
dalla carezza dei frequenti diminutivi

letizia di
sillabi,

ripetizioni e di ritornelli spira

un

soffio di

calda sensualit.

E come

il

poeta vedeva le Cariti, classiche dee della grazia, guidar le carole delle
fanciulle danzanti all' ombra dei mirti sulla marina di Baia, cos di
classiche grazie fioriva i suoi versi, mentre trovava immagini delicatis-

nore
gali
'

sime per esprimere l'ebbrezza dei sensi. Nello sfondo guizza e fa plauso
il sorriso voluttuoso della natura circostante.
Leggiadri senza dubbio questi due libri di endecasillabi ma se alcuno li legga continuatamente da capo a fondo, anche sazievoli per l'u;

niformit dei motivi e per la conseguente monotonia del fraseggiare.


Per contro sono in ogni caso lettura quanto mai dilettosa i tre libri
di

elegie intitolati

liare,

De amore

originalissimo.

Il

primo

coniugali, vero

poema della vita fami come il prologo; i

componimento ne

due ultimi ne formano l'epilogo; in quello il poeta invoca l'Elegia,


umbra fanciulla innamorata del fiume Clitumno, ed ella viene sorridente
cos sempre ribattezzata
nella casa di lui e porge ad Ariadna
consigli di tenerezza e d'amore; in questi egli
Adriana nei versi

canta l'epitalamio per

le

nozze delle figliuole Aurelia (sposa nel 1483)

NAPOLI

AI

TEMPI DI FERDINANDO

D'

315

ARAGONA.

ed Eugenia; nell'uno la gentile invenzione, su cui aleggiano il ricordo


della patria e la riconoscenza del discepolo per il grande elegiaco umbro, bellamente si associa alle appassionate effusioni di sentimento del
fidanzato; gli altri segnano il momento in cui la felicit della famiglia
paterna si compie e si rinno velia in novelle allegrezze. Costretto a
il duca di Calabria nelle spedizioni militari, il Pontano scrive
sua Ariadna elegie piene d'affetto lamentando che la guerra lo
tenga lontano da lei. Si compiace di immaginarla intenta alle opre di
le d suggerimenti per la loro educasa, le raccomanda i figliuoli
virt di lei ne abbisognino, ma per
la
perch
l'amore
e
cazione, non

seguire
alla

non parer dimentico della famiglia; augura prossima la pace -e dolcemente si abbandona a pensare la letizia delle domestiche accoglienze.
Nei giorni di Natale, di capo d'anno e della Befana, quando pi punge
il desiderio della famiglia, egli si raffigura la sua Ariadna sconsolata
nella casa ove tutto le parla di lui, e la esorta a star allegra, almeno
per non rattristare i figliuoli, e ad adempiere ilare i suoi uffici di madre.
Preghi colle bambine il cielo per lui, faccia che la casa splenda di feprepari la mensa copiosa ma non ricercata
bruci il
stiva lindezza
lauro, compia gli altri riti familiari e beva al suo prossimo ritorno.
,

Altre elegie ce lo rappresentano reduce

al

tetto domestico e tutto

con-

tento di poter vivere nella quiete idillica della sua Antignano, atten-

dendo
lo

campagna in una anzi egli invita Bacco ai tripudi


vendemmia. La nascita del figliuolo Lucio Francesco

ai lavori della

chiassosi della

riempie di O mbilo e ne' suoi

rincora la madre languida per

versi cinge di lieti auguri la


il

parto recente

e vezzeggia

culla,

con

af-

bambino, notando negli occhietti, nella bocca, nel viso


le somiglianze coi genitori. Per esso compone poi dodici naenlae, che
sono un amore. Sentite:
fetto infinito

il

Somne, veni;

tibi

Sorane, veni

somne, optime somne,


tibi dulce canit
Somne, veni; venias, blandule somne, veni.
Luciolus vocat in thalamos te, blandule somne,
Somnule dulcicule, blandule somnicule (1).
Luciolus

Luciolus blanditur ocellis

venias, Grandule somne, veni.


;

segue in questa e nell'altre a baloccarsi col latino colla stessa disi baloccano coi loro volgari nelle ninnenanne, e, come in queste suol farsi, ad accumulare e strascicare ingenue persuasioni per indurre il bambino alla calma le carezze delle
sorelle, l'esempio della cagnolina che dorme
l'appressarsi della balia
dai seni ricolmi, le minacce dell'Orco ai bambini cattivi.
Ispirati da affetti che raramente erano prima stati espressi dalla
poesia, i libri dell'amor coniugale sono il capolavoro della musa del

sinvoltura con che le nutrici

Traduco letteralmente

meglio: Sonno, vieni;

vezzeggia Lucietto cogli ocdolcemente sonno,


ottimo sonno, vieni; sonno, vieni; vezzosetto sonno, vieni. Lucietto ti chiama alla culla, vezzosdUo sonno, sonnetto dolcettino, vezzosetto sonnettino.
(1)

alla

ti

chiolini; vieni, sonno, vieni; vezzosetto sonno, vieni. Lucietto canta a te

346

CAPITOLO

Pontano.

NONO.

noi pu bens spiacere e parere indelicata la libert con

ma, come osserva


giustamente il Gaspary, il Rinascimento non conosceva siffatto riserbo
e si compiaceva di rappresentare la bella natura ed esaltarla nella sua
casta purezza. Riconsacrato dal risorto paganesimo
l'amor naturale
rientrava nel dominio dell'arte anche se la persona amata fosse la
cui egli parla di sentimenti schivi della pubblicit,

moglie.
Altre poesie
familiari

Lucio mor che non aveva ancora trentanni nel 1498 e lo strazio
p acj re p er q ue lla sventura ebbe la sua espressione lirica in una
breve serie di poesiole, i Versus jambici, che l'affinit dell'argomento
strettamente collega ai libri dell'amor coniugale. Il Pontano, nella sua

immensa simpatia per

la Natura, piange colle rose, colla maggiorana,


cura del povero Lucio, come se fossero persone,
palleggia e bacia la nipotina Tranquilla orbata del padre e si commuove in vederla scherzare e sorridere bambina incosciente. Da
allora l'immagine del figlio perduto and nel suo pensiero sempre
congiunta coll'immagine di Ariadna, che era morta sett'anni prima.
E come neh egloga Qunquennius aveva raffigurata costei educatrice paziente e amorosa del figlioletto che la tempestava di infantili domande, cos nell'elegia che chiude gli Eridani immagina ch'ella
vaghi con Lucio pei roridi prati dell'Eliso, intrecciando per lui corone e aspergendogli la chioma di ambrosia
ed augura a s di
essere presto terzo in quella compagnia. S'ha qui una dolce scena
domestica trasferita in un mondo ideale: strana chiusa ad un'operetta che pare, perch noi diremo?, un'offesa alla memoria della pevera Ariadna.

coi cipressi, diletto e

'

gi Eridani.

Eridani sono due libri di poesie in metro elegiaco nei quali


vecchio Pontano canta il suo sensualissimo amore per Stella. Dal golfo
napoletano passiamo sulle rive del Po; al Sebeto sottentra il padre
Eridano, da cui la raccolta si intitola. Narra il poeta come un d Amore,
andato a cercar l'ambra stillante dai pioppi fetontei lungo il gran
,

il

fiume lombardo, gradisse


pioppi

e abbandonasse

baci di

sotto

gli

una

delle Eiiadi racchiuse

alberi l'arco

gli

strali.

in quei

Dei quali

valse
era di Argenta, sappiamo
per piagare arditamente
Pontano. Con siffatte finzioni mitologiche egli. colorisce la storia
del suo amore, ma pi spesso lo effonde direttamente nella voluttuosa
contemplazione delle nude bellezze di Stella od in inviti ardenti di
desiderio. Adriana ei non l'ha dimenticata; ma la prega di concedere
quello svago alla sua vecchiaia. La morte ha spezzato i vincoli coniugali; l'amore, che vive oltre la tomba, li riannoder quand'egli l'avr
raggiunta nell'Eliso. Contradizioni, che non fan meraviglia a chi giudichi rettamente del suo carattere.
che a malgrado delle sue scappatelle il
L'affetto per la famiglia
r umu n
Pontano sent con una vivezza in lui naturale, vibra di frequente anche nei Tumuli. Quivi abbondano gli epitaffi per Ariadna e per Lucio
ve n'hanno per una sorella del poeta, per il padre, per la madre, per
Stella

si

lui, il

NAPOLI AI TEMPI DI FERDINANDO

347

D'ARAGONA.

la figliuola mortagli tredicenne. Uno di questi ultimi soavissimo nella


sua commovente semplicit; parla Adriana:

Nata, cape hos calathos


depexae et munera lanae
Cum lana et calathis accipe et has lacrimas.
Nata, et acus et fila cape et cape linea texta,
dunque his atque illis accipe et has lacrimas (1);
,

e seguita, consacrando a

lei

il

fuso, la conocchia,

ventaglio, le forbici, gli arcolai, tutto, sino

neri

il

lino,

suoi capelli

i
,

monili,

le

il

sue ce-

componimenti lamentano la
Amores e negli endecasono satirici ocl epigrammatici, ed altri infine egli scrisse
tomba di colleghi d'accademia o d'amici. Mentre visse, il

suoi funerali. Altri di quei brevi

delle fanciulle cantate dal poeta negli

morte
sillabi;

altri

ad onorar la
Panormita ,

guid i cori delle


da esse ceduta cant numeri soavi ora al tuo
sepolcro convengono le Muse e intrecciano danze e rammemorano i tuoi
scherzi, o poeta. Suona di leni concenti l'aria all'intorno, suona la terra
all'urto dei piedi . Per Pomponio Leto il Pontano scrive: Ti sia
tomba una selva di lauro; rosmarini e mirti proteggano le tue ossa; te
e le tue membra proteggano e viole e rose; dal tuo cenere stesso spi-

Muse

cos l'epitaffio dell'umanista siciliano,

e sulla lira a

lui

Sulla tomba di Gabriele Altilio invita le ninfe


Partenope a spargere i doni di primavera;
Patulci a spargere fiori e le sue rose Antiniana. Ivi preghino pace
le Grazie e Clio, e mandi le sue rugiade il monte Pierio . Cos non
da doglianze ma da fantasie luminose e ridenti scaturisce la lode del
defunto e l'immagine stessa della morte si abbella. Poeta schiettamente
classico, il Pontano concep tutto serenamente e tutto color d'una

rino

zeffiri

primaverili

del Sebeto e la vergine

soave tinta

perfino

idillica,

dei Cristiani;

il

onde chiudendo

dolore, perfino

il

la raccolta delle

pauroso mondo

di l

sue pi lascive poesie,

libri Baiarum, pot volgere il pensiero alla morte senza produrre


una stonatura, e detto addio a' suoi endecasillabi allettamento e

guida de' suoi amori

cantare:

Ergo qui iuvenes meas legetis


Nugas, qui tenerae iocos Thaliae,
3ptetis cineri meo quietem :
Sit tellus levis et perenni in urna

Non unquam

violae rosaeque desint,

Tecumque Elysiis beata campis


Uxor perpetuas agat choreas
Et sparsim ambrosii irrigent liquores

Ma non

soltanto

morte; anche

il

il

(2).

sorriso dell'oltretomba gli abbelliva l'idea della

presagio della gloria mondana.

E mirando

dopo

le

prendi questi panieri e questa lana pettinata che ti dono ; colla lana
anche queste lagrime. Figliuola, prendi e l'ago e il filo e prendi i lini
tessuti; con questi e con quelli gradisci anche queste lagrime.
(2) Voi dunque, o giovani, che leggerete le mie inezie e gli scherzi della delicata Talia,
pregate quiete alle mie ceneri
Sia lieve la terra n manchino giammai e rose e viole
sull'urna, e la moglie tua, beata, intrecci teco eternamente carole *ei campi Elisi e intorno
ti scorra l'ambrosia .
(1)

Figliuola,

coi panieri gradisci

348

CAPITOLO NONO.

vedeva Ja Fama scorrere in ampi voli fra le genti divulgando con voce sonante il suo nome e la dea della Pace recar fronde
d'oliva .sulle sue ossa per far onore a colui che aveva incatenato la
guerra e ridonato ozi tranquilli alle terre d'Italia. Con queste immagini simboleggianti un pensiero caro agli scrittori romani, egli chiude
acconciamente un poema didascalico, nel quale concetti scientifici sono
esequie,

esposti per via d'antiche favole mitologiche o di

nuove invenzioni fog-

giate su quelle.
L'Urania.

H Basinio nell' Astronomicon aveva preso ad imitare Manilio, aridamente, senza alcuna vivezza di rappresentazioni. Il Pontano nei cinque libri dell' Urania tratt gli stessi argomenti dei pianeti, delle
:

stelle, delle costellazioni,

del loro corso pel cielo, della loro azione sulla

terra, sulle piante, sugli animali e sull'uomo,


teria,

che, fiorita di innumerevoli episodi,

ma anim

ebbe

nell'

la

fredda

ma-

esametro armo-

La Luna, Mercurio, Venere, il Sole e tutti i corpi


una personalit concreta; leggiadre favole di meta-

nioso vita e colore.


celesti acquistano

morfosi spiegano

la genesi delle costellazioni ed efficaci descrizioni della


natura terrena e delle umane costumanze fanno palesi gli influssi del
firmamento. Nel pianeta Venere trovi ad esempio, il regno della dea
splendido di bellezza, di luce, di grazia, d'amore; il segno dello Scorpione fu gi un orribile mostro impastato -dalla furia gelosa di Marte
con quanto hanno di pi velenoso le oscure piagge dei Ciconi, ed il
Sagittario il centauro Chirone assunto in cielo da Giove per inseguire e saettare quel mostro. L'Ariete offre al poeta occasione di narrare il mito di Elle e di Frisso, e il Cancro la favola di Proteo, che
sotto forma di gambero insegu le ninfe lungo la spiaggia.
In un luogo che fu giudicato per vigore e per bellezza non indegno di Lucrezio, il Pontano afferma chiaramente che quegli esseri
mitici altro non sono che personificazioni delle forze naturali o delle
propriet degli astri, anzi creazioni della paura. Questa invent Giove,
annebbi di superstizioni le menti e diede origine ai sacrifici, ai riti,
consuetudini vane, perocch leggi eterne reggono
alle supplicazioni
la Natura, scorgono per le orbite assegnate gli astri e governano
,

l'azione di questi sugli elementi

Sic omnis ab alto


Natura est, sequitur leges quas scripserit aether.
Ipse Deus laeto spectat mortalia vultu (1).

libri

De rebus

di re FerdiLa materia dell' Urania era familiare al segretario

nando, che coltiv sempre con amore gli studi astrologici ed astronomici. Infatti tradusse e comment con largo corredo di dottrina le cento
.

dividendo versione e sposizioni in due libri, di


di Tolomeo
primo dedicato a Federigo di Montefeltro (m. 1482), e dissert ampiamente di astrologia nei quattordici libri De rebus coelestibus.

sentenze

cui

(I)

con

il

Cosi tutta la natura muove dall'alto e segue leggi scritte dal Cielo. Dio stesso guarda
cose mortali.

lieto volto alle

NAPOLI AI TEMPI DI FERDINANDO


Egli

D'

ARAGONA.

aveva fede in quella scienza, onde nel duodecimo

discorso diretto a Paolo Cortese

la giustific dalle

349
libro,

breve

accuse del Pico

ammettendo per che essa non debba scendere a particolari predizioni,


perciocch non i soli influssi celesti, ma insieme le naturali inclinazioni,
le circostanze, le istituzioni,

il

libero volere cooperano a determinare

dell'uomo.

le azioni

La grande opera astrologica in prosa fa scritta quasi per intero


dopo il 1494. Qualche anno innanzi, tra il 1487 e il 91, il Pontano
aveva compiuto V Urania, che era sul telaio fino dal 1456, e la dedic al proprio figlio Lucio

Francesco. Le tien dietro a

modo

di

n Kb
eeo oru
'

ap-

pendice un libro Meteororum, cui danno argomento i fenomeni atmosferici. Quivi la trattazione assume un aspetto pi scientifico che non
abbia nell'Urania e le favole pagane sono in generale semplice accessorio esornativo. Alle mitiche finzioni torniamo nel poemetto in due
libri

De

hortis

Hesperidum

ulve de cultu citrorum, che

non fu

e il De horlis
HpsP ertdum
-

ter-

minato prima del 1501. Ivi il poeta narra come nei giardini dell'Eil morto Adone fosse, per volere di Venere, trasformato in una
pianta di cedro e come Atlante la trasportasse sui lidi del Mezzogiorno
d'Italia. Poi intreccia ai precetti sulla coltivazione e alle notizie sulle
speria

come quella delle


Parche traenti senza posa dalla conocchia il filo della vita di quell'alberetto e accompagnanti con dolci canti i vari momenti di questa. Cos
simboleggia l'eterna giovinezza cui Venere aveva sacrato le verdi spoglie dell'amante. Benigne ispiratrici, tratto tratto si affacciano le ninfe
varie specie e sugli usi del cedro, graziose favole,

Patulci e Antiniana

Un

desiderio di pace idillica e di quiete sicura da ogni perturba-

zione traspare dalle poesie del Pontano.

si

studi

pure di subordinare, come i pi de' suoi coetanei la risoluzione dei


problemi morali nei trattati filosofici* che scrisse in gran numero in
,

prosa latina. Egli odia i moralisti accigliati e intolleranti e, come l'Alberti, vuole che la virt sia dolce, mansueta, pronta ad acconciarsi ai
tempi e alle circostanze, paziente di qualche torto (De bedienlia, IV, 17).
Anche per lui la miglior regola di una vita morigerata il giusto
medocritas, onde insiste fino alla saziet sul concetto ariche la virt un quid medium fra due estremi e lo applica
e svolge largamente nei due libri De fortitudine, nei cinque sulle- virt
che hanno per materia il denaro (liberalit, beneficenza, magnificenza,
splendidezza
ospitalit) e nei due intorno alla magnanimit. Libero
dai pregiudizi dei moralisti medioevali, egli pone nei sensi il primo impulso delle azioni e quindi considera le passioni e gli affetti come i
primi elementi della virt ( prima quaedam virtutis rudimenta ),
per ci che l'uomo primamente manifesti i suoi buoni abiti nel sedare
e. nel reggere le passioni e gli affetti (De fortitud., I, 2). Codesta efficacia moderativa deve essere esercitata dalla ragione direttamente o
mediatamente per via della prudenza, la quale, alunna dell'intelletto e

mezzo,

la

stotelico

trattati

fllosoflci *

quell'idealit egli

CAPITOLO NONO.
regolatrice dell'operare, tramezza fra le virt intellettive e le morali
p. 503). Chi vive secondo ragione, in un savio con(T azione e di contemplazione
vive bene e pu dirsi

(De prud., II,


temperamento

non

n della virt, ma
che reca all'uomo il trionfo della ragione sul senso
{De prud., I, 17-9). Questi concetti informano la filosofia del Pontano,
ma precipuamente il trattato De prudentia, che, composto fra il 1495
e il 1500, raccoglie e svolge pi largamente d'ogni altro le teoriche
l'elice,

poich la

felicit

figlia del piacere,

della soddisfazione

dell'autore.

Pensatore fiacco e sconnesso, il Pontano non un filosofo, s un


ammiratore dei filosofi antichi (De prud., p. 434 ). Da Aristotile, cui
tiene in assai maggior conto che Platone, attinge le sue dottrine, di
solito con fedelt di discepolo ossequente, qualche volta dando rilievo
a quelle parti di esse che meglio si confanno alle sue naturali tendenze e alle condizioni dei tempi. Filosofia e religione vogliono essere
tenute distinte, epperci egli non si cura della morale cristiana e in

non aver voluto


perch nessuno stima felice un
morto e la morte termine dell'umana felicit: finita la vita,
l'uomo cessa di essere tale (De prud., I, p. 497). Solo ne' suoi ultimi
quando si lev a trattare un problema metafisico nei tre libri
anni
sulla Fortuna, il Pontano tent la conciliazione del cristianesimo colle
dottrine pagane e mentre con Aristotile definiva la cieca dea irrazionale impeto di natura (II, 22), la considerava qual ministra, per mezzo
degli Angeli, degli eterni voleri divini, cio del Fato cristiano (III, 8).
Gli scritti filosofici del Pontano brulicano tutti di esemp derivati
sul proposito della felicit esplicitamente dichiara di

spingere lo sguardo oltre la tomba

beilo
\i

apohtano

non

solo dalle storie classiche,

Q contemporanea. L' umanista

ma

anche, e pi, dalla vita moderna

umbro ama

aneddoto e ne narratore
suo pieghevole e punto schifiltoso latino. Tale
egli si rivela pure ne' sei libri De bello neapolitano, storia della guerra
di re Ferdinando con Giovanni d'Angi, composti dopo il 1494, e nel
trattato De sermone. In quelli gli episodi particolari e curiosi tengono
1'

facile e colorito in quel

.j

sermone,

volta a s l'attenzione dello scrittore pi che


dei fatti principali

questo,

il

De sermone,

il

logico concatenamento

addirittura pi

che un'o-

Ben vero che vi


sono esposte le norme che devono regolare il sermo civilis, cio la
conversazione, e vi si teorizza sulle virt necessarie ad un uomo per
pera dottrinale, una raccolta

tas, ecc.,

napoletani.

suir urbanitas

veracitas la facetudo o facetison tanti che a' sei libri pontaniani bene si addice un posto accanto alle Facetiae del Poggio.
In fronte ad alcuni dei trattati filosofici test esaminati stan nomi
cap a ^ a s t 0 ria delle lettere nostre ad Azio Sincero, il Sannazzaro,
riuscire gradito

Accademici

di piacevoli racconti.

ma

gli

esemp

la

illustrativi

intitolato quello

De

lber alitate

l'opuscolo

De Magni ficentia

Ga-

Francesco Poderico ebbero dedicati


i libri De prudentia, Andrea Matteo Acquaviva quelli De Magnanimitate. Erano amici che presso il Pontano continuavano la geniale co-

briele Altilio; Tristano Caracciolo e

NAPOLI

AI

TEMPI

DI

FERDINANDO

351

D'ARAGONA.

stumanza delle riunioni iniziatesi sotto gli auspici del Panormita. Elegante poeta latino, l'Altilio godette i favori degli Aragonesi e in un
epitalamio famoso indusse fanciulle e ninfe di stirpe pontaniana a lamentare la partenza dell'infelice Isabella, sposa di Giangaleazzo Sforza.
A Tristano Caracciolo, gagliarda tempra d'uomo e eli scrittore, danno
buona nominanza i suoi opuscoli di storia napoletana e, pi assai, il
libro De varietale fortunae, dove con vigore taciteo ritrae quella
che il Burckhardt disse la tragedia della vita italiana del Rinascimento. Nulla scrisse il Poderico, ma era uomo di buoni studi e di finissimo gusto; e l'Acquaviva (1458-1529), guerriero insieme e letterato,
era duca d'Atri
rappresentava fra quei dotti la nobilt feudale
piegata dai nuovi tempi al culto degli studi. Con questi e con altri molti
convenivano nella casa di via del Purgatorio ad Arco il Marullo, inneggiante, sappiamo, alle mitiche personificazioni epicamente descritte dal
Pontano neh" Urania, Giovanni Eliseo, in accademia Elisio Calenzio, garbato dipintore ne' suoi copiosi versi latini, di scene villerecce e di alpestri

paesaggi, Pietro

Summonte,

affettuoso custode, pi tardi, della gloria

medico di Ferdinando I, Antonio de Ferrariis (1444-1516)


nativa
Galatona
detto Galateo, piacevole uomo e ingegnoso, osdalla
servatore acuto di persone e di cose e dotto scrittore di materie disparatissime. Amabile dittatore, il Pontano efficacemente operava, come
per un'occulta forza di simpatia e coll'esempio, sulle inclinazioni letterarie e sugli avviamenti intellettuali di tutti, e tutti lo riverivano e lo amavano qual maestro. La sua dimestichezza con quegli eruditi e quella
del Pontano, e

il

come

di nuova luce le stesse sue


non s' ancora parlato, rendono l'imaccademiche radunanze o fedelmente rispecchiano le idee

dittatura illuminano

fu osservato

opere. I suoi dialoghi, dei quali

magine

delle

dell'eletto drappello.

NeV Aegidius siamo in casa del Pontano ed il vecchio poeta tesse


l'elogio di frate Egidio da Viterbo, cejebre agostiniano, nel quale, come
nel suo maestro fra Mariano da Gennazzano, l'erudizione sacra e la piet
religiosa, andavano congiunte ad un'eloquenza nudrita di classici studi.
Quando poi arriva Francesco Pucci discepolo del Poliziano e narra
come ad un monaco eli Montecassino fosse apparso in visione Gabriele
Altilio, morto di fresco vescovo di Policastro, e gli avesse ordinato di
richiamare in suo nome gli accademici partenopei dagli scherzi e dagli
studi profani alla religione e alle lodi del Signore, il Pontano prende
,

a dissertare sui sogni e sulla veracit delle visioni, alla quale credeva.
Se non che legge dell'Accademia (porticus ipsins lex est), che a tutti
sia

dato agio di parlare; onde Girolamo Carbone, patrizio napoletano, pro-

pone

certi dubbi sui primi versi del quarto libro delle Georgiche, Tristano

Caracciolo ed altri parlano dei campi


cristiano,

il

Cariteo

Elisi

raffrontandoli al Paradiso

sar parola di lui pi innanzi

espone

le dot-

Ermete Trimegisto sui dogmi fondamentali del cristianesimo,


e Giovanni Pardo, uno spagnuolo addetto alla cancelleria di stato, cortesie" valente da una questione eli sinonimi scivola a disputare di

trine di

Dialoghi

Ae v ldtus

CAPITOLO NONO.

352

Aeijidius non fu certo composto pi-ima del 1501, Fanno


mori l'Attilio. Anteriore VAclius, perch questi vi introdotto
a ragionare con copia di eletta dottrina e d'osservazioni per lo pi acute
sull'arte storica, laddove al Sannazzaro
dal cui nome accademico il
astrologia.

YAciius,

in cui

dialogo

si

intitola,

spetta disputare dell'arte del verso; ed ei lo fa con

mirabile finezza, esaminando minutamente molti versi, specie virgiliani,


e rilevando gli

effetti di armonia e di rappresentazione risultanti da


certe acconce disposizioni o combinazioni di parole o di piedi. Alle quali

due principali dissertazioni, altre se ne intrecciano neWAclius, di filosofa


di grammatica, di etimologia
pronunciate dai Pardo, dal Sum,

monte

e da alcuni altri.

hanno contenenza essenzialmente dottrinale,


qua e l da aneddoti da celie e da battibecchi
pieni di brio, e VAclius si apre con una lepida scena nella quale un
notaio stipula il contratto di vendita di una casetta e il compratore,
Codesti due

ma

sono

dialoghi

rallegrati

pretende a furbo, fa prova della pi amena goffaggine che dar


nondimeno essi non possono a gran pezza competere,
quanto a vivezza, coV Asinus e coli''Antonius, altri due dialoghi, che

che
si

il

VA.unus,

la

possa. Ci

Pontano scrisse, come pare, circa il 1488.


secondo che afferma
Col primo egli volle
,

vendetta, sotto

duca

il

di Calabria,

il

Porzio

prender

velo d'una bizzarra allegoria, dell'ingratitudine del

suo discepolo

benefici ricevuti sconoscente,

doveva e avrebbe, potuto

non

che delle lettere poco amico e dei


lo aveva favorito appo il padre come

Napoli e nei dintorni tutto festa per

la pace di fresco conchiusa dal segretario poeta tra re Ferdinando e

papa Innocenzo (I486). Un


va in solluchero pensando
dini della guerra,

oste,

che tiene bottega sulla strada di Roma,


guadagni che, cessate le inquietu-

ai grossi

egli potr fare; la citt risuona d'inni di ringrazia-

colui che la principal cagione di tanta


Ma, ahim
gioia, il Pontano, comincia a dar segni di pazzia. Vecchio di circa sessantanni, s' comprato a gran prezzo un asino, gli ha fatto una gualdrappa di seta e una bardatura dorata, e montatovi su, non si vergogna d'andare per le strade cantando canzoni amorose. I suoi amici,
Sannazzaro ne sono addolorati o
il
il
Cariteo
il Pardo
l' Altilio
salgono alla villa d' Antignano per vedere dappresso come stia la
ascoltano il Pontano
faccenda. Ivi appostati dietro ad una siepe
parlare d' agricoltura col suo contadino, e poi lo vedono profondersi
in carezze e in moine verso il suo Cillaro, l'asino, che s' fatto condur dinanzi, finch l'animale, dopo avere sferrato un potente calcio
un
o asino ingrato
appioppa al padrone
al garzone di stalla

mento a

Dio.

morso da strappargli quasi ambe le mani, e per poco non lo rovescia


tra il fango con un colpo di testa. Allora il Pontano rinsavisce e dona
per acquistare certi diaccoglienze oneste e liete che il vecchio
ritti sulla moglie di lui. Le
poeta fa agli amici usciti dal loro nascondiglio, chiudono il dialogo.
Il quale per la corretta semplicit del disegno, per l'equilibrio delle

l'asino al contadino Faselio, l'asino e molt'altro

NAPOLI AI TEMPI
parti,

per

la

bella

Di

FERDINANDO

353

D'ARAGONA.

convenienza dell'episodio introduttivo

contenuto

al

essenziale ed infine per la spigliatezza dell'esecuzione senza dubbio,

nel rispetto dell'arte, la pi perfetta fra

le

prose del Pontano, forse

XV.

Quivi

rapido alternarsi di brevi discorsi

come

anzi la pi bella opera di prosa latina che abbia

non lunghi

sproloqui,

nella conversazione

ma un

il

secolo

parlata con tanta vivezza di esclamazioni e di fra-

non si crederebbe possibile in una lingua morta. L'osua ciarliera allegria, il corriere che passa recando la notizia
della pace e dell'imprigionamento dei baroni, quegli inglesi che l'oste
riconosce al vestito e all'andatura e s'appresta a spennacchiare, sono
seggiare, quanta
ste colla

figure disegnate dal vero, piene di spirito comico.

La

lettera colla quale

Pontano prega il Cari te di comperare un pettine d'avorio dorato


e una coperta di lievissima seta per il suo Arione, per il suo Cillaro,
per la sua delizia, i discorsi del vecchio rimbambito al suo asino, tutti
'j

il

vezzeggiativi, diminutivi e dondolamenti, sono piccoli capolavori d'arte


di satira fine e pungente.
Pi vario, ma nel suo insieme assai meno perfetto YAntonius, che
fu messo a stampa nel 1491, mentre YAsinus rimase inedito fino al 1507.
Siamo nel portico Antoniano e Pietro Compatre, un dei pi fidi amici
del Pontano, affettuosamente commemora il Panormita, da cui il dialogo prende nome, raccontando ad un forestiero siciliano le abitudini
e qualche arguzia del morto umanista. Frattanto alcuni passanti danno
luogo a vivaci e sollazzevoli episodi, gustosa canzonatura dei saputelli

studiatamente affettata e

grecizzanti, degli ecclesiastici corrotti, dei vecchi imbertoniti e via di-

cendo. Quand'ecco arrivare

Andrea Contrario, uomo erudito

greco
conversazione volgersi a materie letterarie. Il primo ragiona intorno a due
questioni rettoriche e contro l'opinione dei grammatici che anteponevano Quintiliano a Cicerone, si studia di mostrare come questi le risolva pi sennatamente di quello; il Calenzio poi difende Virgilio dalle
censure di Favorino. di Gellio e di Macrobio e con minuta e finissima disamina estetica paragona la descrizione dell' Etna contenuta nel primo
dell'Eneide con quella di Pindaro e mette in evidenza le pi riposte bellezze della pittura virgiliana. Che mala gena codesti grammatici vecchi e nuovi
Il Panormita li paragonava a botoli
che si abbaruffino
per gli ossi o le briciole che cadono sotto la mensa; ora i discepoli di
lui non sanno trovare parole che bastino a detestare la loro presunzione e la tracotante ignoranza. Al Contrario e al Calenzio tengono
bordone, rincarando la dose delle contumelie, il Compatre e gli altri
della brigata. Finiti quei loro discorsi, arriva Suppazio reduce da un
viaggio, nel quale era andato per tutta Italia in traccia di uomini dotti.
E il suo racconto tutto un guizzare di strali satirici: a Siena trov
lo stato in mano eli giovinetti; da Prato, dove si celebrava la festa elei
sacro cingolo, scapp via spaventato, perch non v'ha scabbia pi scabbiosa della superstizione a Firenze vide donne non d'altro studiose che
di acconciarsi bellamente, e i magistrati intenti a pesare con diversa
e in latino e

non discaro

alle

Muse, ed

in

Elisio Calenzio, e la

Rossi.

La

tett.

ital.

nei

sec.

XV.

23

VAniomus,

354

CAPITOLO NONO.

Roma trov ogni sorta


corruzione e poco manc non avesse rotte le costole da due preti
grammatici, che si inalberarono perch egli, Suppazio, aveva peccato
parlando, contro non so quali regole; a Gaeta si imbatt in una fattucchiera, che faceva di buoni affari sfruttando l'altrui credulit e avrebbe
avuto vita comoda, se certi fratacchioni boccacceschi non le avessero
bilancia le cose cittadine e le cose d'Italia; a

di

conteso

il

guadagno. Ora

il

vecchio Suppazio se ne va a visitare il Ponma deve uscirne subito se nou vuole

tano, la cui casa l presso

buona

Adriana gli graffi


proprio durante una scenaccia di

che

la

gli

occhi.

capitato in mal

punto,

che il piccolo Lucio, venuto


saltellante sulla strada, si fa a raccontare per filo e per segno. Passa
intanto un sonatore di liuto ed invitato canta alcune poesie latine, fra
le quali bellissima la saffica di Galatea colta da Polifemo mentre nuotava mollemente sul mare. Partito questo cantore, ecco una compagnia di saltimbanchi. Piantano un suggesto; il trombetta chiama gente;
il popolo
si affolla intorno e un istrione mascherato invita
l'uditorio
al silenzio con mille lazzi e scherzi sguaiati e- dice l'argomento della
recitazione: un episodio della guerra di Sertorio e Pompeo in Ispagna.
Sono pi che sei centinaia d'esametri, che il poeta della compagnia,
mascherato anch' esso canta interrompendosi ad un certo punto per
lasciar che il buffone si sbizzarrisca, in nuovi lazzi ed in nuovi scherzi.
Al poema popolare il Pontano ha sostituito una narrazione classica di argomento e di forma ma il recitatore pur sempre un di quei cantastorie che, se badiamo ad uno degli interlocutori, erano di fresco migelosia,

grati laggi dalla regione lombarda.


Neil' Antonius le discussioni erudite
dretti realistici
ispiratrice,

della

assume

vita

si

alternano bellamente a qua-

che ne fu principale
faceta rappresen-

di strada e la satira,

pi diversi atteggiamenti.

Ora

zione delle marachelle dell'autore stesso e delle discordie di sua lmiglia


le

che

ed ora frizzo

magagne

delie corti

passa rapido
;

mordendo

cavilli dei legulei

ora caricatura della vita dissipata dei prelati

ed ora invettiva fiera contro i grammatici. Uomini di chiesa e grammatici sono fustigati pi duramente che ogni altra classe di persone
anche nel Charon un dialogo di stampo lucianeo che scritto forse
prima dell' Antonius, fu pubblicato pur esso nel 1491. La scena sulle
,

rive dell' Acheronte.

Mentre Eaco e Radamanto meriggiano

e Caronte corre sulla sua barchetta

dei cipressi

il

all'

ombra

cieco fiume, arriva

laggi Mercurio, conducendovi una schiera di anime. Fra questi ministri


del Cielo si impegnano vivaci conversazioni, nelle quali senti deplorare piuttosto

che condannare aspramente

difetti

umani,

il

vizio dell'ingratitu-

dine, le sottigliezze dei filosofanti, le pratiche superstiziose, la corruzione


della Chiesa. Caronte e Mercurio attaccano discorso anche colle ombre

vengono fuori scene piene di pungente festivit. Il grammatico Teano


prega Mercurio di recare nell'altro mondo a' suoi discepoli certe preziose notizie da lui attinte alle fonti pi genuine: per es. che non
ma anfore i vasi pieni di vino donati da Aceste
erano barili cadi
ad Enea e che Virgilio in persona s?li aveva confessato il proprio ere ne

NAPOLI AI TEMPI DI FERDINANDO

D'ARAGONA.

355

I,
195) allegando la testimonianza di Enosio, il cantiniere
che Orazio gli aveva dichiarato di essere stato astemio e
d'aver tanto lodato il vino in onor di suo padre, il quale non potendo
vincere colla voce i suoi colleghi banditori, li superava nell'alzare il
gomito; che Lucrezio aveva una grande tenerezza per i grammatici,
perch erano matti come lui; che una sola cosa non gli era venuto
fatto di sapere neppure da Cesare, se in treis o in tres partes s'abbia a dire divisa la Gallia Poi Caronte interroga ad una ad una le anime
stipate nel suo legno, e se ne sentono di belle. Una meretrice di Cipro viene al giudizio col suo amante, un vecchio cardinale; c' un
frate che pass da un ordine all'altro non so quante volte per poter
meglio gabbare le donne; un vescovo, gran mangiatore e usuraio, porta
gi all'Inferno il pondo del suo gran ventre; una povera fanciulla,
che sar salva, narra con quali arti un prete l'abbia sedotta; c' infine un toscano, filosofo solitario, che pass la vita ridendo di tutto e
di tutti e procurando di non lasciarsi mai soggiogare dalle vicende
umane, s da tenersele sottomesse. Questi addita a Caronte altre ombre di sua conoscenza e parla della virt con istoica saggezza. La
barca del bruno nocchiero tocca intanto riva e il dialogo finisce col duplice canto delle ombre cattive e delle innocenti.
Nel Charon la satira non pur colpisce fieramente gli ecclesiastici,
ma si inalza sino a sfiorare e a toccare la fede religiosa. Al Pontano
non basta mettere in canzonatura i cristiani Saturnali di S. Martino,
che del resto egli stesso non rifuggiva dal celebrare (Hendecass. I, 17;
Erid. I, 35), e la festa del porcello che si faceva ogni anno in tutte
le chiese di Napoli, ma biasima l'usanza degli ex voto e l'abitudine di
tutxo riferire a Dio, anche i minori eventi. La superstizione, che il Pontano dice, come neY Urania, figlia d'una vana e fredda paura di
comprende per lui quache cosa ,di pi che le volgari credenze
Dio
delle donnicciuole e dei bambini. A Minosse fa dire che non colle de-

rore (Aen.,
di

Enea

Il

Pontano

e Ia chiesa '

vozioni e colle offerte


k

si

acquista la grazia di Dio,

colla schiettezza, colla lealt e colla continenza e

Caronte una frase che suona scherno

al

dogma

ma

coll'innocenza,

pone

sulle labbra di

cattolico della

remis-

Le quali audaci critiche del cattolicismo


(p.
sono degne di essere rilevate non tanto come manifestazione del pensiero individuale dell'umanista umbro, quanto come segno di tutta una
sione dei peccati

1187).

corrente di idee che nel Napoletano scatur pi precoce che altrove,


perch le diedero favore l'opposizione politica alla corte di Roma e la

Masuccio ?
con cui si mettevano ahV berlina
perch col pi che- altrove la religione
era divenuta e si mantenne superstizione. Poco dopo la> morte del
Pontano, il Galateo combatteva nell' Heremita fantasioso dialogo, le
tradizioni religiose cattoliche, affermava che tutti gli uomini e i santi
stessi sono del pari peccatori e negava alla Chiesa il diritto di condannare. Si direbbe, osserva Eberardo Gothein, acuto indagatore delle
opinioni religiose dei Pontaniani, che l'autor del dialogo fosse un fervente luterano, se la chiusa non fosse un inno di lode alla Vergine.
libert

le

brutture

ricordate

della Chiesa, e

CAPITOLO NONo.
Il

La guerra

Pontano

cllO il Fontano Combatte COll implacabile pertinacia COngrammatici, non forse se non una postuma eco dei dissidi tra
Panormita ed il Valla, rinvigorita dalla ripugnanza che nel geniale

grammatici. tro
il

poeta
i

di

Lepidina destava

cialmente contro

Valla

il

rude e pedantesca con cui


gli antichi testi. Speappuntano infatti i suoi strali neYAnlo-

la critica

talvolta

romano tormentavano

seguitatoti del filologo

si

nius si studia di confutarne i giudizi, nel Charon fa la caricatura dei


procedimenti critici e delle minute ricerche di lui, e nel De sermone
(I,
18) lo presenta siccome il tipo dell' uomo litigioso. Eppure tratta
egli stesso neTAetiu e \\q\V Aegidus questioni non dissimili da alcune di quelle per cui deride i grammatici e nei due libri De aspratione indaga e determina con paziente minutezza e con buon corredo
di documenti, sopratutto
epigrafici, il valore e l'uso dell'/?. Gli dan
noia coloro che fanno della grammatica la loro unica occupazione o
che tutti intenti all'esame grammaticale e storico delle opere classiche
non si curano di spiegarne e metterne in evidenza i pregi artistici. Ed
egli per primo rivolge a questo fine il metodo analitico creato dal
Valla, scrivendo pagine di critica estetica degne ancor oggi di essere
proposte a modello.
Giudizio
u
g n r
p on tanot

Ci nondimeno la maggiore gloria viene al Pontano dall' arte e


specialmente dall'elegante disinvoltura con cui seppe padroneggiare la
lingua latina e trarla a fermare nel verso le impressioni degli spettacoli naturali e j sentimenti del suo animo facile ad ogni commozione,
e a colorire nella prosa scene e figure d'una vivezza mirabile. Egli f'
propri, come nessun altro seppe, il pensiero, i modi e le forme della
letteratura classica e fondendo insieme l'imitazione dell'antico con

una

sua individuale elaborazione fantastica della realt, avvi l'arte per un


cammino inusitato. Il suo stile non ha le ricercatezze arcaiche di quello
del Poliziano, n la lindura cara ai ciceroniani; tollera parole e modi di

nuovo conio senza perdere

di

sapore classico; seconda colla sua pie-

variare degli argomenti; diletta il lettore colla sua onda


armoniosa sempre elegante, brioso, scorrevole. I versi del Pontano
poi, qualuque ne sia il metro, sono una musica soave, nella quale le

ghevolezza

il

leggi della prosodia classica

sembrano piegarsi

alle necessit

ritmiche

dell'orecchio moderno. Vi risuonano frequenti le rime, non volute forse,


ma appunto per questo pi significative. Cos per altra via si manifesta
quel felice connubio dell'antico col nuovo, ch' carattere essenziale dell'arte pontaniana.

Letteratura
a"

Ki

Gli accademici

non

fastidivano,

abbiamo detto,

lo

spettacolo della

osservavano con occhio benevolo ed il Pontano si dilettava di riprodurne le scene nel latino de' suoi dialoghi. Non
la dunque meraviglia che l'immediata rappresentazione di quella vita,
non paresse sollazzo al tutto indegno di elette radunanze e che mentre il Panormita e i discepoli suoi ripetevano sorridendo giaculaper es., i versicoli onde i Pugliesi si aitorie e scongiuri plebei
vita popolaresca, anzi la

NAPOLI

gomentavano
nius

p.

di

1198)

TEMPI

Al

Di

FERDINANDO

357

D'ARAGONA.

guarire chi fosse morso da un cane rabbioso (Antoaltri porgesse ascolto alla lirica del popolo e ne

attingesse forme e modi a rinfrescare e rinnovare l'arte tradizionale.

Appartengono

agli ultimi

sono introdotti uomini e

tempi

donne

re Aragonesi certe farse, ove

elei

oppure alcuni di
che abbiamo visto rallegrare
sola che ci si conservi nella

condizione

bassa

di

quei personaggi tra buffoneschi e satirici


il teatro sacro toscano. In una, la

anche

sua integrit, messer baglivo, il giudice, risolve -col'aiuto di un medico una lite poco pudica sorta fra due giovani sposi; un'altra, che fu
recitata, non si sa bene quando, alla corte, metteva sulla scena un malato,
tre medici, un garzone e una fattucchiera; una terza quattro villani, quali

acconciano loro mogliere con

altri .

Quella de un mercante

quale vende due schiavi uno masculo-et una femina era un semplice
monologo; in un'altra altercavano fra loro due pezzenti. Sebbene di
tutte quest'ultime

non sappiamo

se

non

titoli

e che furono composte

e alcune recitate da Pietro Antonio Caracciolo, pure lecito tener per

fermo che fossero per contenenza e per foggia affini a quella che fu
rammentata per prima vivaci e spesso sboccate rappresentazioni di aned:

doti della vita popolare in

forme

un idioma

tutto

dialettali e in endecasillabi colla

rima

brulicante di parole e di
al

mezzo. Tali sono

ca-

anche d'una farsa del Caracciolo scritta non prima del 1514, della
quale conosciamo ampi frammenti e tali i caratteri delle farse cavatole, continuatrici, pi tardi, delle commediole fiorite sullo scorcio del
Quattrocento. La lesta combinazione di un parentado per opera d'una
comare l'argomento, la stipulazione del contratto nuziale e la celebrazione del matrimonio sono lepidi episodi di quella; queste, le cavatole, ebbero nome dagli abitanti della Cava, terra in quel di Salerno,
che vi erano rappresentati come uomini di grossa pasta e fatti segno
a scherni, a trafitture, a motteggi. Due cavaiuoli sono gi in una
farsa del Caracciolo, ma la maggior voga di quei componimenti fu nel
secolo XVI, quantunque i saggi che a noi ne pervennero, siano rifaratteri

cimenti p imitazioni non anteriori ai primordi del successivo.


Il Caracciolo, uomo non privo d'una certa coltura, pare si provasse
il genere drammatico popolare da lui
Magico, che recit dinanzi a Ferdinando I,
la favola schiettamente classica, ma l'aneddoto che la incornicia
tutto disegnato di sulla realt. V' un negromante, che vanta con ri-

a rinnovare con intenti letterari

prediletto. Nella

Farsa de

lo

devole alterezza la sua sapienza e le sue arti e colorisce fra altro un


vivo quadretto delle pratiche tenebrose delle streghe
per venir poi
ad evocare gli spiriti di Diogene, di Aristippo e eli Catone censore, i
,

quali arrivano accompagnati da Caronte e dopo aver prolissamente

raleggiato chiudono, ciascuno,

il

loro dire bruciando incensi alla

momae-

st del re. Ma il tentativo rimase isolato, ch la farsa popolaresca non


poteva essere feconda di svolgimenti, n l'et correva a questi propizia.
Tutt'altr'a sorte ebbero nel Mezzogiorno, per un felice concorso di circostanze, altri generi letterari in lingua volgare: la lirica e la prosa

narrativa.

Le

farse,

358

Quando
'

CAPITOLO NONO.
la

durante
Panormita,

gletti
il

munificenza di re Alfonso faceva rifiorir gli studi netempestosa dominazione degli ultimi Angioini, e il Valla,
il Fazio con altri minori
venivano preparando la tempe-

la

doveva lussureggiare l'arte del Pontano, anche


lingua italiana, che aveva fatto le sue ultime prove

rie intellettuale in cui

per la letteratura

in

rime petrarchesche di alcuni cortigiani di Giovanna I e


re Ladislao, cominciarono a spirare aure pi favorevoli. Ben poco
giunto sino a noi che possa con sicurezza riferirsi ai tempi di Al-

nelle povere
di

fonso (1443-58), ma non v'ha dubbio che sin d'allora acquistassero


vigore operoso quegli elementi popolari e letterari, ond'ebbe origine la
nuova lirica napoletana sotto il successore di lui. Guerriero insieme
e poeta, Cola di Monforte, conte di

Campobasso (1425 ?-1495

?)

compose

pochi suoi versi certo prima che nel 1462 egli dovesse fuggire dal
reame col vinto Giovanni d'Angi, di cui aveva seguito le parti contro
il suo re. E gi in quel tempo rimavano un Coletta, forse calabrese,
i

Francesco Galeota e Pietro Jacopo de Jennaro, i nomi dei quali si incontrano insieme con quelli di Francesco Spinello, di Michele Rica,
di Giovanni de Trocculi e d'altri ancora nella silloge poetica raccozzata circa il 1468 dal conte di Popoli, Giovanni Cantelmo. Erano, i
pi, gentiluomini che tenevano gi o tennero poco appresso uffici nella
corte o nell'amministrazione del Regno e si piacevano di rimare su
materia amorosa o faceta o satirica e di corrispondere fra loro in versi
in nome proprio o di donna, rimbeccandosi a vicenda talora con modi
aspri e inurbani. Nella raccolta del conte di Popoli sono strambotti, plebei per contenenza e per forma, e sonetti petrarcheggianti; ma pi vi
abbondano le ballate ottonarie con la ripresa tetrastica e le strofe svolgentisi per due mutazioni distiche ed una volta rimata come la ripresa
{xyyx, ababbxxij), ballate alle quali quei rimatori sogliono accodare
mio strambotto che ne riassume il pensiero e riprende le due rime
(o almeno una) del ritornello. Il metro agile e semplice, la lingua ricca
di forme dialettali e l'ingenua grossolanit delle immagini suggerite
dalla realt danno a codesti componimenti una vivezza non isgradevole
e serbano loro la svelta andatura della poesia popolare. Un incerto
verseggiatore, forse il conte di Campobasso, compose la ballata piena
ove sotto alle frasi
di rude gagliardia Io' nde tegno quanto a te
aspre ed ai paragoni volgari ben si celano e insieme traspaiono il dolore e il dispetto della non conseguita corrispondenza d' amore. Non
senza efficacia la ballata De dolore io me' nde aneto, lamento d'un
,

condannato al remo sulle galee catalane. Finamente maliziosa quella


.con cui il De Jennaro esorta una fanciulla a godere l'amore finch ella
giovine ed a smettere la sua durezza ora che la stagione fa maturare
che s formosa
Fatte molla e non pi dura, Poj
i fichi primaticci:
e bella, Ch ogni fico volombrella In chesto tempo se ammattir . E
<un altro, probabilmente il conte di Campobasso, rispondeva in nome
della fanciulla, graziosamente canzonando l'amante e dicendo che sino
dalla nascita le stelle avevano a lei segnato il destino, E giamai per
forza d'acque Poria nante amaturare .
r

NAPOLI AI TEMPI

DI

FERDINANDO

359

D'ARAGONA.

Dei rimatori che abbiamo nominato par che due soli tenessero a
lungo fede alle Muse ed affinassero coli' esercizio la loro arte che
appare ancor rozza nella raccolta del Cantelmo Pietro Jacopo de Jennaro e Francesco Galeota, ambedue della pi alta nobilt napoletana,
ambedue spesso chiamati dalla fiducia del re ad onorevoli ambascerie
:

e commissioni.
Il

De Jennaro

1436-1508

),

signore

della

Rocca

delle

Fratte

presso a Gaeta e presidente della Regia Camera della Sommaria, oltre


ad un poema Delle sei etate della vita umana, scarna e prolissa imi-

p. j.

De

(nXfsos').

ed a molt' altre opere in verso ed in prosa and


1464 e T85, sonetti, canzoni e sestine in lode della
sua innamorata, una catalana ch'ei chiama Bianca, dei principi, di cavalieri, di dame, della Madonna, dei Santi, e quelle rime insieme raccolte dedic a Giantommaso di Moncada, conte di Adern, gentiluomo
non digiuno di lettere. Come nelle forme metriche, cos nella conce-

tazione

dantesca

componendo

tra

il

zione dell'amore, negli atteggiamenti del pensiero, nelle situazioni, nelle

immagini e negli artifici rettorie! e stilistici, calca con fedelt scrupolosa


le orme di messer Francesco senza averne, si intende, la squisitezza
il gemmeo splendore dello stile, il guIndulge anch'egli all'andazzo del tempo, descrivendo visioni
che immagina gli appariscano nei verdi prati e sui poggi fioriti, e sfoggiando, specie nelle rime panegiriche, erudizieni, classiche. Poeta di

e la profondit del sentimento,


sto delicato.

un
Ammiratore

sempre freddo e scolorito.


a
.- G ?l^'
anche Francesco Ga- F(m.
I4y/).
leota (m. 1497), uomo d'arme e consigliere del re, familiare ed amico
di Alfonso duca di Calabria, cui segu nelle imprese di Toscana (1479)
e d'Otranto (1483), e del principe di Capua Ferrandino. Nel viaggio
che fece in Francia, accompagnando a Luigi XI
un de' suoi molti
visit
devoto pellegrino, i luoghi di
S. Francesco di Paola (1433)
Provenza resi famosi dal Canzoniere e li rammemor pi volte ne' suoi
versi. Ma non ebbe care le solenni forme del sonetto e della canzone;
anzi la materia poeticamente elaborata da colui ch'ei diceva il suo maestro, il suo Petrarca, prefer plasmare nello stampo popolaresco dello
strambotto a due rime e della ballata. Come il Poliziano, scrisse strambotti spicciolati e continuati in gran numero, tessendo con questi dialoghi d'amore ed epistole di foggia ovidiana e usando spesso negli uni e
negli altri gli argomenti e gli artifci della lirica cortigianesca del Quattrocento, imprecazioni contro la Fortuna, contro le donne e contro i malscuola, senza

briciolo di ispirazione, riesce

imitatore del Petrarca

fu

dicenti, contrari, filatesse di cose impossibili e via dicendo. Talvolta


ebbe pur presente e si sforz di imitare la contenenza della poesia
del popolo, ma di rado seppe emularne la schietta freschezza e rimaneggiarne a sollazzo dei gentiluomini e delle dame aragonesi le eleganze semplici senza gualcirle. Dello strambotto il Galeota si valse anche, come altri suoi conterranei, a trattare in disputa con alcun suo
amico questioni di metafisica amorosa una volta, ad esempio discusse
col barone della Favarotta intorno alla necessit delle venture e dei
:

3(30

CAPITOL NONO.

sentimenti umani, ed un'altra gB propose il quesito se prima sia nato


Amore o Gelosia. E riusci cos a snaturare il popolaresco componimento,
disadatto agli ardui cimenti cui wdga tradizione avea piegato il sonetto.
Assai pi di grazia e di scioltezza nelle sue ballate o
coni' egli le
diceva, canzoni di canto, suggellate, si intende, da uno strambotto,
,

agili

e snelle nella scorrevolezza dell'ottonario. Non hanno l'eleganza


n la leggiadra malizia del contenuto di quelle me-

squisita della forma,

dicee e polizianesche, ma una semplicit cos di forma come di contenuto


che quantunque rasenti e tocchi spesso la volgarit pur ne
rende a noi gradevole la lettura e doveva esser fonte di facile diletto
,

agli adi tori,


Giuliano
ivrieoni.

quando

^ e Jennaro

musici della corte le intonavano sulla

lira.

e col Galeota ebbe relazioni di amicizia e

scam-

qualche sonetto Giuliano Perleoni detto Rustico Romano umile


discipulo et imitatore devotissimo de vulgati poeti, del Petrarca segnatamente. Quando nel 1461 sal al pontificato Paolo II, egli doveva
bi

essere ancora in patria; pi tardi visse lungamente a Napoli, protetto


dall' infante Don Federigo e servendo gli Aragonesi quale scrivano
della Regia Cancelleria; ma caduta quella casa principesca fu di nuovo
a Roma, ove ebbe, a quanto pare, a soffrire i colpi dell'avversa fortuna.
Il

suo voluminoso canzoniere, intitolato Lo Perleone, fu messo a stampa


1492, quando gi almeno da un anno girava manoscritto quello

nel

del Galeota.

qua canta

E composto
gli

trice Cassia, l

per la massima parte di sonetti e di canzoni


amori del poeta per una Diana Lazia e per una Beadice le lodi di personaggi cospicui nella storia ita-

liana del tempo.

Grave

di erudizioni e

polare, esso arieggia piuttosto

il

lontano da ogni ispirazione podi Pier Jacopo che l'altro

canzoniere

pur ora. Anche il Perleoni ha redato gli artifici estefreddamente le idee del Petrarca, ed raro che gli venga
fatto di racchiudere in versi di fattura delicata concetti non del tutto
volgari, come, per esempio, nei sonetti ch'egli immagina da s scammentre veleggiava il mare lungi dal porto
biati con una rondinella
suo napolitano.
L'imitazione d'un grande esemplare e l'efficacia che specialmente
sugli strambotti e sulle ballate ebbe la coeva fioritura di queste forme
in Toscana, agevolarono al De Jennaro, al Galeota ed al Perleoni l'uso
della lingua letteraria, che in essi raggiunse, bench non sia scevra di
elementi dialettali, una cotal relativa purezza. Di forme e suoni napoletani non meno che di latinismi, brulica invece il breve canzoniere,
quasi tutto di sonetti, di Giannantonio de' Petrucci, conte di Pollama lo stato
stro. Vi si scorgono bens tracce palesi di studi classici
d'animo che lo ispir, gli diede una spiccata impronta personale e non
consent che operasse s nella veste esteriore e s nella sostanza di esso
un qualsiasi determinato modello. Travolto nella catastrofe che cost
la vita al gran segretario Antonello, anche Giannantonio suo figlio ebbe
mozzo il capo sulla Piazza del Mercato l'il dicembre del 1486, ed i
suoi versi, composti nei quattro mesi che stette rinchiuso nella Torre
di cui s' parlato

riori e ripete

g. a.
tr
(in.

i486j!

NAPOLI AI TEMPI DI FERDINANDO

d' ARAGONA.

361

Vincenzo, sono come l' estrem addio che il condannato manda


Come gli appare triste la sorte dell'uomo sulla terra Una
fatalit cieca impera su ogni cosa creata; il sole, la luna, gli astri, gli
di S.

alla vita.

elementi

tutto le sottoposto

gli animali,

Da

mondo

questo

li

piaeiri et stenti,

Tucto dal fato sta predestinato.

L'uomo

sua natura crudele, in volto ride e ih co?* te lo veaino;


e il Petrucci ben lo sa, che si vide abbandonato
nella sventura; l'ingratitudine appesta tutto- l'universo; chi

di

l'amicizia

da

tutti

nome vano

nemico d'ogni
voglia far fortuna deve essere malvagio, presuntuoso
virt. Qualche rara volta scende al prigioniero un raggio di speranza
,

ed

egli

implora

la liberazione

pi di frequente rimpiange con profondo

tempi passati; ripensa le feste, i giochi, i canti, gli studi


addolorata la moglie Sveva
si compiace di raffigurarsi
Sanseverino, colla quale era vissuto appena ventidue giorni; affida ad
un passero che canta sulla finestra del carcere, una lettera per la sua
innamorata. Qua e l sent qualche grido d'imprecazione e di disperazione, ma solitamente il prigioniero rassegnato e nella sua sciagura

accoramento
e gli amori;

riconosce una conferma della sua concezione pessimistica della vita.

Accademico pontaniano,
netto, in cui

addita s

il

stesso

Petrucci diresse dal suo carcere un soquale esempio

d'

un

subito rovescio di

fortuna, al principe della letteraria brigata, forse confidando di averlo


il re, e un altro, anche pieno di profonda
un collega d'accademia, che tra i lirici volgari

benevolo intercessore presso


tristezza, al Cariteo,

dell'et

aragonese occupa

il

primo posto

pei

la

fecondit della sua

vena, se non proprio per le doti intrinseche dell'arte sua.

Da

Barcellona, ove nacque verso

a Napoli tra

il

1467 e

il

il

68. Catalano

1450, Benedetto Gareth venne


la famiglia regnante, spi-

come

ed arguto, temprato da natura e dagli studi a gustare ogni


eccellente, non ebbe a durar fatica
per entrare nelle grazie dei principi e dei letterati della corte; e Napoli fu per lui, ribattezzato Cariteo dai Pontaniani, una seconda patria. Col Pontano, con Antonio Galateo, col Sannazzaro strinse affettuosa dimestichezza; nel duca di Calabria, in Ferrandino e in Federigo
e la reggia gli aperse la via ai pubblici
trov protettori illuminati
offici. Nel 1486 fu creato percettore dei diritti del regio
sigillo e
nel 1495 chiamato da Ferrandino a succedere al Pontano nel posto
di segretario di Stato. Fedele a' suoi re anche nei giorni della sventura, ond' ebbe da Carlo Vili confiscati i suoi beni, segu 1' Aragonese nell'esilio e con lui rientr in Napoli nel luglio di quello stesso
anno. Re Federigo gli accrebbe 1' annua provvisione quantunque lo
dispensasse dai due uffici, che aveva tenuto sotto il governo de' suoi
predecessori. Occupata la citt dalle milizie di Luigi XII (1501), il
rito faceto

manifestazione del bello, musico

Cariteo se ne allontan e pass a

non venne

in potere di

Ferdinando

Roma un
il

paio d'anni, finch

il

reame

Cattolico. Allora, tornato a vivere

{ Cariteo
(U50?-i5i4).

362

CAPITOLO NONO.
da Consalvo di Cordova nominato
Nola (1504) e in parte ripristinato ne' suoi diritti. Mori

sulle rive del golfo partenopeo, fu

governatore

di

nel 1514.

L'opera principale del Canteo V Endmone, un canzoniere petrarchesco, che fu da lui messo a stampa nel 1506 e di nuovo tre
anni dopo, ampliato e ritoccato. Quasi una met ne occupata da composizioni di argomento storico e politico: sono canzoni e sonetti, dove
con molta rettorica e scarsa determinatezza di allusioni il poeta tesse
le lodi de' suoi Aragonesi; sono sonetti, che ci fanno sfilare innanzi
lunga sequela di .gentildonne, d'uomini di Stato, di giuristi, di letterati, di capitani, quasi tutti evanescenti nel nimbo uniforme dell'apoteosi. Nelle rimanenti liriche il Cariteo, Endimione, canta il suo amore
per una dama ch'egli nomina Luna e che par fosse una Chiaramonte
od una Montalto.
L'originalit di codesto canzoniere ben poca, eh lo scrittore
difetta d' ispirazione ed tutto intento a consertare ingegnosamente
e reminiscenze delle sue copiose e svariate letture. L'efficacia del massimo lirico italiano appare di continuo nello stile, nelle immagini, nella
lingua, nella metrica, bench sia raro il caso di imitazioni che riconducano ad un unico modello petrarchesco tutto intero un componimento. N difficile spiare le tracce dell' amore con cui il Cariteo
leggeva la Divina Commedia e della buona conoscenza ch'egli aveva
dei poeti provenzali. Possedeva infatti un codice ancor oggi apprezzato,
forse tradusse quelle di Folchetto di Marsiglia
di rime trovadoriche
e ricalc fedelmente una cbla di lui in una sua ballata. Ma la contenenza della poesia del Cariteo essenzialmente classica: in molti
sonetti e in moltissime canzoni imita e spesso traduce i latini, spe;

cialmente Properzio, Virgilio, Ovidio, Catullo, Orazio, dei quali

mescolando
giosi.

il

sacro al profano, anche

Originali

quella intitolata

non sono neppure


Aragonia tutta

le

si

giova,

dove tratta argomenti relicanzoni politiche: per esempio,


l

imitazioni virgiliane intessute su di

un

ordito platonico, ed un'altra, che probabilmente fu scritta per eccitamento di Alfonso II, quando Carlo Vili stava per valicare le Alpi,
un mosaico le cui pietruzze provengono da Lucano e da Tibullo,
inquadrato in una cornice petrarchesca.
Superiore di buon tratto ai rimatori poc'anzi annoverati per la
scioltezza dello stile e del verso, per la variet degli elementi costi-

sua arte e per la lindura della lingua, il Cariteo sa qualacconciamente le ansie e i dolori che gli d Amore,
esprimere
che volta
con sufficiente vivezza gli spettacoli sereni della
ritrarre
spesso
e pi
natura. Ci nondimeno i pregi delle sue rime non pareggiano a gran
pezza la fortuna di cui esse godettero nei primi decenni del secolo XVI.
La materia poetica, attinta da molteplici fonti, non vi appare riplasmata in un tutto novamente omogeneo, anzi la forma scabra e prolissa dell'esposizione ben lascia vedere le commettiture degli elementi
tutivi della

svariati.

L'eleganza squisita degli esemplari

classici

sfiorisce

nell'ab-

NAPOLI AI TEMPI DI FERDINANDO

bondanza e nella volgarit degli

epiteti;

363

D'ARAGONA.

dovunque, nei versi del Ca-

nteo, formicolano le zeppe, che ingenerano monotonia; alcuni concetti,

alcune immagini, alcune frasi divengono per lui veri luoghi comuni e
si ripetono con un'insistenza che rivela povert di vocabolario e scarsezza
di immaginazione. Egli imita con particolare predilezione gli artifci rettorici e stilistici del Petrarca e par voglia occultare la freddezza del senti-

mento, acuendo le sottili leziosaggini, esagerando e traendo ad inattese


conseguenze materiali le metafore del suo modello. Gli occhi della sua
donna sono s fulgidi che un cavallo fuggendo si ferm di botto innanzi ad essi (son. 21); se ella morr, e sole e luna perderanno nel
cielo il loro onore (son. 33); a buon dritto la dicono Luna, sia perch
nel mondo sola ed una e sia perch ella basta ad agghiacciare
perfino il furor di Vulcano (son. 23). E sul nome di lei il poeta architetta bisticci e giochetti assai pi ricercati e melensi che non sian
quelli del Petrarca sul nome di Laura.
Ligio al costume del tempo, il Cariteo compose anche degli stramquasi tutti in forma di ottave perfette
botti
pieni di raffinatezze e
di arguzie; ma li escluse dalla seconda edizione delle sue rime, perciocch l'arte sua, agghindata e eulta, fastidiva ormai perfino le fogge
esteriori della poesia popolare ed amava invece farsi bella allo specchio del classicismo. Appunto in quella edizione appaiono per la prima
dei
volta due poemetti in terza rima la Pasca e la Metamorfosi
quali il primo narra, giusta la tradizione evangelica, i fatti che seguirono alla morte del Redentore fino all'Ascensione per trarne occasione a glorificare alcune illustri famiglie napoletane, segnatamente
Del Balzo, che una vecchia leggenda faceva discendere da Baldassarre,
uno dei tre Magi; l'altro congiunge ai ricordi deli 'amor del poeta le memorie della caduta dinastia e il rimpianto per la morte di Alfonso D'Avalos
(1495), descrivendo una visione di cui sono scena le rive del golfo
e personaggi le sirene, le ninfe, le divinit fluviali che ivi hanno posto
dimora. Cos il Cariteo- introduceva nel poemetto in lingua volgare i
classici fantasmi cari al Pontano e precorreva alla scuola che si annid
,

poco appresso alla corte dei vicer spagnuoli.


Mentre, nella Napoli degli Aragonesi lo studio del Petrarca e la
coltura umanistica sollevavano la poesia dall'imitazione popolare ad Un
ideale d'arte pi aristocratico

nache,

si

la prosa,

napoletani,

semplice e rozza nelle cro-

faceva complessa e solenne in alcune opere fantastiche 'e


generale la concreta determinatezza dei fatti e il loro

dottrinali. In

rapido succedersi serbano allo

voltura che- gi

s'

stile

novellistico

notata nel Guardati

,e

che

una
si

cotal franca disin-

riscontra pure nel-

Francesco Del Tuppo pubblicato a Napoli nel 1485. Dottore


scrivano nella> regia cancelleria, correttore nell'officina tipo-

l'Issopo di
di legge,

1478 tipografo egli stesso, il Del Tuppo


amico Masuccio. Nel volgarizzare di
sulla versione in distici latini diffusissima nel medio evo il favolista greco,
egli accod a ciascuna favola, giusta lo schema delle vecchie opere

grafica di Sisto Riessinger e dal

era

uomo

assai

men

colto del suo

Francesco
Dei ruppc"

CAPITOLO

NONO.

moralizzate, oltre all'ammaestramento etico [tropologia), alcune rifles-

una cnftrynaUoeiemplaris, cio un racconto attinto alla storia o alle tradizioni sacre o novellistiche, che giova
a comprovare il principio morale svolto nell'apologo ed us una
sioni sue proprie (allegrici)

lingua pi abbondevolmente cosparsa

di idiotismi che non sia quella


uno stile, non che semplice, squallido e trasandato.
Come Masuccio, prendevano a modello el limato dire del liorentino
Boccaccio il Galeota, Pier Jacopo de Jennaro ed altri nelle epistole
d'amore
un genere assai in voga tra quei letterati
ma pi che
al Decaraeron avevano l'occhio al Filocolo e alla Fiammetta e, imi-

del Salernitano, ed

Epistole

congegnati con goffo artificio e sfoggiavano immagini barocche e latinismi, i quali fanno strano contrasto

tatori maldestri, scrivevano periodi

coi consueti scappucci napoletaneschi.

Di latinismi lessicali e sintattici brulica e di forme vernacole

ciuciano

va privo anche
di

il

trattato

De

non

maiestate, che- Giuniano Maio, lettore

rettorica e poesia nello Studio dal 1465

all'

88 e precettore d'Isabella

d'Aragona, dedic nel 1492 a re Ferdinando. Egli vi parla delle virt


che si convengono ad un principe, insegna come questi debba governarsi nel consorzio civile e

intrattiene a discorrere brevemente dei

si

segni esteriori della sua autorit.

Grame

rielaborazioni

della dottrina

gremite di esempi classici e d'adulatorie digressioni, siffatti


trattati possono ancora destare qualche interesse per la menzione che
racchiudono di costumanze e eli avvenimenti contemporanei, ma nell'et aragonese parevano attingere valore attuale dalla condizione politica del reame. Onde anche il Pontano dettava norme di condotta
per il duca di Calabria nell'opuscolo latino De principe e Pier Jacopo
aristotelica,

De Jennaro scriveva in volgare a


bretto De Regimine principimi.

Come
i

riflettessero ed atteggiassero in Napoli quelli

si

principali avviamenti della letteratura italiana nel secolo

Jacopo

ro

un

li-

che furono

XV,

ormai,

riassume in s e li feconda coll'ingegno


fine e la coltura soda ed elegante Jacopo Sannazzaro.
La famiglia dei Sannazzaro s'era trasferita nel regno di Napoli da
un villaggio della Lomellina, donde prendeva il nome, nel 1380 con
un Niccol che avea seguito capo* di gente d' arme, le bandiere di
Carlo di Durazzo e per sua virt meritato d'essere aggregato alla nopenso, chiaro al lettore. Ivi

i45?-

gloria d'Alfonso stesso

li

bilt del Seggio di Portanova e di possedere beni e castelli nella Terra di


Lavoro e nella Lucania. Figlio d'un altro Niccol, detto Cola, pronipote
del primo, e di Masella Santo Mango d'antico casato salernitano nacque
Jacopo ai 28 di luglio del 1458. Il padre gli mor nel 1463 e Masella
si ritir alcuni anni dopo a vivere co' suoi due figliuoli nel paesello di
S. Cipriano Picentino: soggiorno, come vedremo, singolarmente efficace

nello svolgimento delle attitudini e delle inclinazioni intellettuali di Jacopo.


Tornato a Napoli , egli strinse intima dimestichezza col Pontano
,

frequent le lezini di Giuniano Maio e

fu,

come sappiamo,

tra

prin-

NAPOLI Al TEMPI DI FERDINANDO

D'ARAGONA.

365

cipali dell'Accademia. Cosi si allargava e rinvigoriva in lui la dottrina

gi per lo innanzi acquistata,

mentre

il

luogo che occupava nella corte

rendevano sempre
duca di Calabria che nel 1482
10 aveva ascritto fra' suoi officiali de Casa e prendeva gran dilo ebbe seco nella seconda
letto dalle recitazioni di messer Jacopo
guerra contro Innocenzo Vili (1485-86), nella quale il giovine poeta
fece le sue prime armi. Vaghissimo di giocosi spettacoli era l'infante
don Federigo, fratello di Alfonso, onde probabilmente a soddisfazione
di lui il Sannazzaro compose i suoi gliommeri, bizzarri componimenti
la serie di endecasillabi con rima
che della frottola hanno il metro
e la contenenza. Sono infatti monologhi recitativi, nei quali
al mezzo
concetti disparatissimi, allusioni a fatterelli della giornata, canzonature
di persone viventi, ricordi di vecchie storie e d'antiche leggende, rie la sua perizia nell'apprestare sollazzi e feste lo

pi accetto

ai

principi aragonesi.

Il

cette fantastiche, proverbi, sentenze, superstizioni volgari,

formano

g u omme

il

strambo guazzabuglio che immaginar si possa, un vero gomitolo


o agglomeramento di materie diverse, come dice la parola gliommero.
Ad istanza di don Federigo ne compose uno anche il Galeota.
Nei Jqliommeri il Sannazzaro imit senza dubbio le tiritere dei
altre composizioni destinate alla recitazione mise a
giullari plebei;
profitto la sua erudizione classica per architettare pompose allegorie
in lode de' suoi signori. Le dicevano farse, ma nel fatto codeste rappresentazioni non serbano della farsa se non il metro, e lontane dalla
semplicit scenica di questa, sono pretesto allo sfoggio di sontuosi apdella quale non c' pervenuto
parati. Il Sannazzaro ne scrisse una
prima del 1483 per le nozze di Costanza D' Avalos con Fe11 testo
derigo Del Balzo, e due altre nel 1492, quando si seppe, lieta novella,
che Granata era caduta per le armi di Ferdinando il Cattolico. Nella
prima, rappresentata ai 4 di marzo in .Castel Capuano per ordine del
duca Alfonso, gli spettatori videro Maometto fuggire, lamentandosi, da
un tempio bellissimo ricco di colonne e d'altri ornamenti, alzarsi sulla
sommit di questo la croce con le armi di Casti glia e di l stesso
uscire la Fede a ricordare le antiche sue glorie e i danni patiti ed a
celebrare la recente vittoria cristiana, augurio d'altre vittorie. Indi il
tempio fu ritratto in testa alla sala e accompagnata da giocondi suoni,
venne la Letizia, che rivolse complimenti al principesco uditorio e scopertasi il viso, che teneva celato, invit tutti alla gioia, ai canti, alle
danze, spargendo in sul partire fiori e ramoscelli odorosi. Allora -gli
astanti riccamente vestiti alla castigliana, cominciarono a ballare al
suono delle trombe, e col ballo ebbe fine la festa. Alla quale tenne
dietro due giorni dopo nell'appartamento di don Federigo, principe d'Altamura, la seconda farsa intitolata il Trionfo della Fama. Da un grande
arco trionfale fregiato di sculture, di trofei e di un'iscrizione glorificante
il re e la regina di Castiglia, uscirono successivamente Pallade, vestita
in pomposa foggia secondo il costume effigiato nelle antiche statue
della dea la Fama dalle ali dorate ed occhiute su di un carro tirato
pi

m
.

Is farse

corte,

366

CAPITOLO NONO.

da due elefanti, ed Apollo; e l'ima

si vant trionfatrice di Maometto,


grande vittoria, il terzo perpetuatore nei canti
poeti del grido della Fama. Mute apparizioni e danze e fuochi ar-

l'altra divulgatrice della

de'

tificiati

chiusero codesta farsa, diletto anch' essa pi assai degli occhi

che della mente


anch' essa ben misera cosa chi la consideri quale
opera letteraria.
Il Sannazzaro inoltre compose la Farsa della Ambasciarla del
Soldano esplicata per lo interprete, che fu definita un bel saggio
di raffinata galanteria, tutta concetti e complimenti in lode di una
gran dama; un monologo di Venere, imitazione dell'Amor fuggitivo
di Mosco e un dialogo tra La Giovane e la Vecchia, anzi due dialoghi
insieme collegati, nei quali descritto con vivacit di colori il rapido
e irreparabile fuggire della giovent e della bellezza e si esortano le
giovani a goder dell'amore e dei piaceri finch loro sorride l'et fiorita.
Quando il SannazzarO' rallegrava con siffatte rappresentazioni gli
ozi della corte, egli era gi salito in fama di poeta grazie al romanzo
pastorale, cui specialmente: raccomandato il suo nome
Arcadia.
La scena posta sulla cima e sulle pendici del monte Partenio, nella
selvaggia regione di Grecia, o^e, al dire di Polibio, le miti e deliziose
usanze degli abitanti temperavano la durezza della natura, il canto
degli inni e delle canzoni e i giochi e i balli erano svago alla vita
faticata nell' aspro lavoro dei campi e l'inclemenza del clima pareva
,

L'Arcadia.

mantenere l'innocente e pia severit dei costumi. Di quella felice regione, avevano talvolta rammentato il nome e le consuetudini gli scrittori bucolici, e Virgilio aveva riconosciuto solo negli Arcadi la virt
del canto (soli cantare periti Arcades, Egl. X, 32-3). Il Sannazzaro,
1

sotto-

nome

di Sincero, capita egli stesso in

fuggire amore>-e>

dolorosi

Napoli e la casa paterna.

pensieri

Appena

Arcadia, allorch, sperando

prende partito

di

abbandonare

forniti gli otto anni, s'era invaghito

d'una leggiadra fanciulla, e pervenuto poi in pi perfetta et ed ai


pi inclinata , aveva sentito codesta passione, che colei

caldi desi

pareva non intendere ed egli non osava confessare, farglisi tormento


onde viveva combattuto da una fiera melanconia e meditava
anche in Arcadia lo
il suicidio. Ma vana era stata quella speranza:
persegue la tristezza, anzi col gliela aggrava il rammarico di non
potere forse mai pi rivedere la giovinetta adorata, e Sincero volge
l'occhio ad ogni monte e ad ogni selva, tende l'orecchio ad ogni ruineffabile,

more, allo stormire delle fronde, al fr uscio degli uccelli e delle fiere
nelle-macchie, al risonare delle concave grotte e delie valli, se mai
ella venga a contemplare la sua misera- vita, e tutto assorto in quel
pensiero raffronta mestamente il suo statola quello degli insensati alberi i quali da le care vite amati, dimorano continuamente con quelle
in graziosi abrazzari e allo stato degli animali ardenti d'amore (Prosa VII).
>

pastore Carino, che ha ascoltato da Sincero questa storia pietosa,


lo conforta a nutrire buona speranza, narrandogli i propri casi. Innamorato d'una pastorella di divina bellezza, colla quale aveva avuti
Il

NAPOLI AI TEMPI DI FERDINANDO

comuni

367

D'ARAGONA.

tificio il

se F era vista fuggire


aveva confessato con un gentile arsuoi giorni
suo amore. Disperato stava per metter fine a

quando

colei gli riapparve tenera consolatrice e lo riaddusse in porto,

fin dalla

puerizia

d'innanzi spaventata

il

diletti della caccia,

che

le

'

tranquillo (Prosa Vili).

Episodi vari precedono e seguono a questo,

come a

dire, principal

nocciolo del romanzo. Sincero, pastore egli stesso, prende parte alla
vita degli Arcadi pastori; ascolta gli amorosi lamenti di Ergasto e il
canto alterno di Montano e di Uranio assiste ai sacrifci ai giochi,
alla gara poetica con che si celebra la lieta festa di Pales e alle
pagane esequie del pastore Androgeo e sente Opico e il venerando Ena,

reto, sacerdote di

Pan, parlare lungamente

lerecce superstizioni. Al tempio di

Pan

grinaggio devoto per condurvi Clonico,

il

di

magiche

arti e di

vil-

pastori erano andati in pelle-

quale chiede al sapiente vecchio

d'essere liberato dalla sua passione amorosa. Indi radunati intorno al

sepolcro di Massilia, adorno di storie mitologiche e circondato dal sorriso dei fiori,

racciolo cant

odono ripetere da Selvaggio

un

il

canto che

il

pastore Ca-

all'ombra di un frassino nel lieto piano rigato dal

Sebeto fra Baia e il Vesuvio, a Napoli propriamente.


Tutto codesto e altro ancora narrava Y Arcadia, quando nei due
ultimi decenni del secolo
andava manoscritta per le mani dei letterati d'Italia. Constava di dieci prose e di dieci egloghe che il Sannazzaro aveva composto certamente prima del 1481, forse gi nella
campestre solitudine della valle Picentina, dove S. Cipriano. Cos

XV

messa a stampa invito auctore e miserevolmente straziata nelle


due edizioni veneziane del 1502. Tra il quale anno e il 1504 il Sannazzaro le aggiunse altre due prose e due altre egloghe, narrando
com'egli, Sincero, assistesse ai giochi celebrati da Ergasto in onore della
madre Massilia e ascoltasse il lamentoso canto di lui, e come scosso
da un sogno presago di sventura si ponesse quindi in cammino. Guidato da una ninfa per grotte e per. antri sotterranei, dove vede le scaturigini 'dei fiumi e i bollenti penetrali dell'Etna, giunge sulle sponde
fu

fiorite del patrio

Sebeto e poco lungi di l ascolta

monzio e Barcinio, che leggono

il

canto

sulle cortecce degli alberi

di

Sum-

o per via

di ricordo ripetono le querele di Meliseo per la morte di Filli. Era


morta intanto anche la fanciulla amata da Sincero e questi chiude il
suo libro con un melanconico addio alla Sampogna.
Arcadia opera di mosaico. Al giovane che prese a comporla
in sul primo aprirsi dell'intelletto e del cuore
pullularono sotto la
penna con rigoglio indiscreto le reminiscenze delle recenti letture, che
gli tumultuavano nel capo, talch Virgilio, Ovidio, Nemesiano, Calpurnio,
Teocrito, Omero ed altri antichi gli appresero nomi e costumanze pa-

storali e

menti

porsero linee e colori

alle scene.

a'

suoi paesaggi,

movenze

e atteggia-

Spesso egli attinse forme metriche e situazioni e frasi

dal Petrarca, da cui pur deriv l'elegante lindura di alcune rime,


tre

YAmeto

gli

suggeriva

di

alternare alla prosa narrativa

menversi

Elementi
1

JJjr-^rc
a.

^u

CAPITOLO NONO.

:C8

o in una

coli' altre opere del Cer-1alde.se gli ins ellava particometodi descrittivi non che la grave e solenne andatura del
periodo prosastico. Il Sannazzaro modifica, combina, intreccia tutto questo materiale con piena liberta e con una consapevolezza del proprio
intento
che lo stato del suo animo non lascia mai venir meno. Gli

lirici

larit e

mancano

quella fine e, sto per dire, alala eleganza di tocco, con che
Poliziano coglie e fa suoi i fiori educati nei giardini di Roma e di
Grecia, e la spigliata scioltezza di movimenti che lo studio della poesia
il

popolare e l'ingenito possesso della lingua danno all'arte del poeta tola mano pesante e non riesce a nasconder lo sforzo

scano. Jacopo ha

Pure innegabile che nell'Arcadia gli elementi


fondono insieme abbastanza bene nell'unit del tono e del
colorito, quantunque in fine non ne risulti qualche cosa di nuovo, d'originale e d'organico, ma soltanto una serie di scene idilliche, legate
da vincoli del tutto esterni, quali sono la comunanza degli spettatori
dell'artista erudito.

disparati

si

e talora degli attori.


In quei sentimentali lamenti
tacoli naturali

si

effondono

di pastori e

quelle pitture di spet-

in

languori malaticci del

giovinetto ven-

tenne spasimante per Carmosina Bonifacio, la fanciulla di cui fu preso


non ancora forniti gli otto anni, e le impressioni che egli ha ritratto
dalla vista dei campi, dei monti, dei prati, dei ruscelli

falso,

romanzo

mormoranti

Sincero non tutto


come la rappresentazione della vita pastorale, come la conce-

dei boschi frondosi. Imperciocch nel

zione dei personaggi e

tonazione mestamente
ispiratore che

come

la

forma

idillica rivela

di

stilistica.

un costante

non poteva essere mentito da

L'uniformit dell'ine sincero sentimento

chi primo in quel secolo

risvegliava le adormentate selve et mostrava ad pastori di cantare


le gi

dimenticate canzoni

e che d al libro

una ben

definita

impronta

personale. Tant' vero che nella parte aggiunta quando la disposizione

d'animo dell'autore era altra dalla primiera e in lui prevaleva sull'affetto l'erudizione, quella tinta sentimentale si attenua e non rifiorisce
-se non nel commiato col rifiorire delle memorie.
Fra le tante opere noiose che attristano la nostra letteratura, l'Arcala per un lettore moderno una delle pi noiose; ma tale appunto per quelle doti per cui parve miracolo a' contemporanei del poeta,
per l'abbondanza e la variet delle imitazioni, per quel suo star sempre
sui trampoli dell'ammanierato e per quel lusso di ornamenti quanto mai
disadatti alla figurazione d'una vita rozza e primitiva. Pure talvolta
sentimento sa farsi strada tra le fronde della rettorica. Il canto alterno di Montano e di Uranio (egloga II), a malgrado delle reminiscenze
classiche, ha in alcune parti vivacit e freschezza come di canto popolare; la descrizione d'una campagna in sul meriggio, bench imitata
da Teocrite (prosa X), mostra in qualche frase e in qualche parola le
tracce d'un'impressione immediata; nei lamenti e nell'addio di Carino
(Prosa Vili) scorre una tenera vena d'affetto e perfino si attenuano
il

l'uggia dell'esuberante epitetare e la tensione

boccaccesca del periodo.

NAPOLI

Al

TEMPI

DI

FERDINANDO

369

D'ARAGONA.

Avvolto in un nimbo di idealit, il reale si annebbia nel romanzo


Jacopo siffattamente che spesso si sottrae alla nostra vista. Che nel
viaggio in Arcadia egli abbia voluto simboleggiare il suo ritiro nella
Valle Picentina par certo siccome certo che la vita campagnuola
contemporanea gli sugger qualche tratto de' suoi quadri; per esempio,
le consuetudini venatorie descritte da Carino e alcuna parte dei discorsi d' Opico e di Enareto. Nella morta Massilia s'avr a ravvisare
senza dubbio la madre del poeta, Masella; Barcinio e Summonzio sono
il Cariteo e il Summonte; col suo proprio nome chiamato Gianfrancesco Caracciolo, autore d'un canzoniere intitolato Amor fedelmente
calcato sulla falsariga del Petrarca; ed il Pontano appare nell'Arcadia
sotto il nome di Meliseo, che egli stesso aveva assunto quando pianse
in un'egloga la morte di Adriana, la sua Filli. Di quest'egloga appunto
e di alcuni epitaffi dei Tumuli si valse il Sannazzaro nel funebre canto
che pose sulle labbra di Barcinio e di Summonzio nell'ultima egloga
del suo libro. Ma come si disabbellisce e scolora nel generico lamento
italiano il pietoso carme latino in cui vibra la poesia accorata di ben
di

definiti ricordi

La

domestici

lode che, abbiamo visto,

il

Sannazzaro

per* via dell'Arcadia di pastorali accenti alle

si

attribuisce di maestro

Muse

Quat-

per certo. Le cinque egloghe in volgare


che il Boiardo compose, secondo che verosimile, tra il 1471 e il 72,
ben facile gli restassero ignote; ma non pare s'abbia a dire altrettanto di quelle quattro che il senese Jacopo Fiorino de' Boninsegni,
trocento, intera

esule nel

Anche

non

gli spetta

Reame, addirizzava nel 1468 ad Alfonso duca

nella metrica s'ei confer pi d'ogni altro a dar

di

Calabria.

voga a certe

forme, non fa per innovatore. Il verso sdrucciolo era gi dianzi giudicato, per quel rude martellare del dattilo finale, acconcio al rozzo
linguaggio dei pastori, e Luca Pulci (m. 1471) ne aveva fatto largo

uso nelle ottave del Driadeo. Della trzina sdrucciola che il Sannazzaro adopera insieme colla piana nella IX egloga dell'Arcadia e sola
in tre altre (VI, Vili, XII), s'erano di gi serviti il Pulci stesso in
tutta l'epistola del Ciclope a Galatea, ove tent, come nota il Mazzoni,
di unire in un solo effetto d'arte le egloghe virgiliane e le Eroidi di
Ovidio, e il Boiardo in tutta la sua egloga settima. Ne il Sannazzaro
fu il primo che introducesse nella poesia pastorale la polimetria e con
questa la rima al mezzo della frottola (egloghe I, II, X); ch fino dalla
prima met del secolo Giusto de' Conti aveva composto, e messer Jacopo
non poteva ignorarlo, una vera egloga di siffatta forma ed il Boiardo
nella quinta sua aveva inserito un canto che frottola insieme e terzine.
Ma il Sannazzaro fu il primo, dopo il Boccaccio, che consertasse
insieme e prosa e versi in un vero romanzo pastorale, il quale racchiude s tutta un'allegoria autobiografica e qua e l allusioni oscure
a personaggi e fatti reali, ma non, come l' Ameto, lo svolgimento di
un arduo concetto filosofico e morale mascherato sotto il velame di
rusticane fantasie. Fosse bisogno di quiete veramente sentito dopo il
,

Rossi.

La

lelt.

Hai. nel sec.

XV.

Letteratura
"
p
tolgale.
1

italiane del

24

,,
,

370

CAPITOLO NONO.

lungo rumore delle guerre e delle discordie, o desiderio di fuggire le


ormai sterili lotte della politica o, che mi pare pi probabile, nuli' altro
che artifiziato atteggiamento di una societ rotta ad ogni raffinatezza
del vivere, certo si che gli uomini del Rinascimento vagheggiavano
con ardente bramosia l'amenit, la pace, la semplicit della vita campestre, onde alla buona stagione volontieri si tramutavano di citt nelle
ville opportunamente ordinate.
Arcadia col suo ingenuo sentimentalismo idillico accarezzava codesta tendenza, mentre, raccolti come in
un florilegio ed intrecciati con abile mano, offriva ai lettori tanti in-

signi
la

frammenti
meta

pi alta

di

quelle letterature classiche

alla perfezione dell'arte.

Pietro Jacopo de Jennaro,

che allora segnavano

fu grande la sua fortuna.

1481 e l'86 scriveva la sua


una narrazione in prosa
per dare sfogo alia sua collera contro i malvagi consiglieri di re
Ferdinando che gli avevano fatto togliere la sua rocca delle Fratte
e per manifestare la sua esultanza perch quei lupi rapaci , il conte di
Sarno e Antonello Petrucci, fossero stati imprigionati e decapitati, calcava
le orme del Sannazzaro nella foggia dello stile, neLT atteggiamento della
materia e perfino nella favola principale. In quel giro d'anni imitavano il
Sannazzaro anche Filippo Galli, detto Filenio Gallo, da Monticiano in quel
di Siena, vissuto lungamente nel Regno, il Galeota ed altri gentiluomini napoletani, autori tutti di egloghe o di prose pastorali. Se per
un'egloga polimetra del senese Francesco De Arsochis, messa a stampa
a Firenze nel 1482 insieme con tre altre di lui, ed affine per la, forma ed
in qualche parte anche per la contenenza ad una del Sannazzaro, non
lecito asserire con sicurezza qual sia 1' originale e quale la copia
non cade per dubbio che dal romanzo di Jacopo prendessero il tono
le pastorali zampogne che diffondevano per tutta Italia le loro note
lamentose in sul cadere del Quattrocento. Quando esso fu impresso
gi se ne erano moltiplicate le copie a penna; dal 1504 alla fine del
Pastorale,

secolo

XVI ne

il

quale tra

il

quindici egloghe precedute da

uscirono non

meno

di

trentasette edizioni, ricche, alcune,

ponderosi commenti, e la voce dell'adolescente napoletano rison a


lungo, ripercossa da innumerevoli opere letterarie, non pure in Italia,
ma in Ispagna, nel Portogallo, in Francia, in Inghilterra,

di

liriche

ri

dff

anazzaro

La lingua

recava certo nella prima stampa una abma nell'edizione definitiva del 1504
appare chiazzata solo di rare e lievi macchie, tanto che il Varchi citava ad onore il Sannazzaro come uno di quelli che senza aver mai
visto Firenze scrivevano fiorentinamente. ben probabile che anche
le liriche italiane di lui uscissero primamente dalla sua penna meno
linde che non ci si presentino nell' edizione che il poeta stesso ne
diede fuori nel 1530, quando l'amicizia del Bembo e il lungo esercizio
avevano affinato il suo gusto e s'era gi cominciato a formular le leggi
del volgare. Di codeste liriche, composte le pi in giovinezza, alcune
poche hanno contenenza politica le altre parlano d'amore dell'amor
giovanile per Carmosina e di quello degli anni maturi per Cassandra
dell' Arcadia

bastanza marcata impronta dialettale,

NAPOLI AI TEMPI DI FERDINANDO

Marchese, gentildonna napoletana che la bellezza,


mestici dolori

371

D'ARAGONA.
la coltura e

do-

Alfonso Castriota, marchese di Atripalda, la ripudi

rendevano cara
vilmente per isposare Camilla Gonzaga di Gazzuolo
canzoniere,

fatidedic
il
vane
giovanili
Cassandra
e
al poeta. A
tornite
petrarchescamente,
mano
con
elegante
dice
e
com'egli
che ,
,

leggiera sui modelli del grande lirico e di Giusto De' Conti. Pure una
nota personale risuona tratto tratto fra le reminiscenze della vecchia
musica: dalla canzone Or son pur solo e non chi m'ascolti, spira

una soave quasi romantica mestizia;

nelle frequenti

invocazioni alle

piagge, alle selve, alle valli, agli antri che ripetono i lamenti del poeta,
si palesa la sua intima simpatia per la Natura. Riconosci nel lirico
10 scrittor

dell'Arcadia.

denotare la sua vaghezza della schietta vita campestre e forse


si chiam
11 preteso candore ingenuo del suo racconto, il Sannazzaro
Sincero; in accademia lo dissero Actius per onorare in lui, siccome
a me pare pi verosimile, il poeta che primo trasse le Muse dalle
selve e dai monti alla riva fragrante del mare (acta). Fra gli antichi

pu disputargli questa lode Teocrito; fra

poeti del rinnovato latino

nessuno.
Di bucoliche nell'idioma del Lazio la seconda met del secolo

non ha penuria. Trovi in esse i soliti


gi nel Trecento avevano avuto onore

XV

pastori di stirpe virgiliana, che


di illustri rievocazioni, e

discorrere in loro coperto linguaggio di storia, di

politica,

li

di

sent
reli-

scrissero allora
di morale. Oltre al Boiardo e al Pontano
egloghe latine Leonardo di Piero Dati che in una smaschera l' ipone ha due solamente
crisia d' uu invidioso maledico e nell'altra
descrive le feste fiorentine del san Giovanni Codro Urceo da Rubiera
in quel di Reggio (1426-1500), il carmelitano Battista Spagnoli detto

ligione

Battista

mantovano (1448-1516), vago anch'egli

talvolta (egl.

I, II,

III)

rude ed

di allegorie morali,

efficace dipintore, nel

ma

suo torbido latino,

di

costumi e d'amori villerecci,ed altri ancora di cui non accade far qui ricordo. Il Sannazzaro sostitu ai custodi delle agnelle i pescatori e compose alcune Eclogce piscatoriae, belle di virgiliana eleganza, spiranti
un sentimento vivo degli incanti del golfo. Arridevano (tale in breve
la loro

contenenza) arridevano a Licida il mondo e la vita, finch lo


Filli; or ch'essa morta, gli giova cercare

confort l'amore della sua


gli sconfinati piani

del

mare e vogar

tra le procelle coi Tritoni e colle

foche e scolpire le sue lamentose parole sulle rupi di Procida e del

Miseno in vista
gellina,

alle veleggianti

nel silenzio infinito del

navi

mare

(ecl.

I).

Di sullo scoglio di

e del cielo stellato,

il

Mer-

pescatore

Licone narra alle mute aure il dolore ond' amareggiato il suo cuore
per la crudelt di Galatea e sta per precipitarsi nei gorghi quando
spunta con lieto augurio dall'estremo oriente la stella di Venere e tutto
illumina il mare d'un rosso chiarore (ecl. II). Cromide e Jola in canto
alterno descrivono le pesche lungo la spiaggia partenopea (III), Proteo
annovera le bellezze di questa e narra il tramutarsi in isola di Nisida)

372

CAPITOLO NONO.

inseguita da Posilipo (IV) e Telgone in versi di squisita soavit richiama


agli usati ritrovi sotto alla

rupe prospiciente Capri

l'infida

Galatea (V).

Delle Piscatoriae a noi pervenute nessuna forse tra quelle per


cui Meliseo, il Pontano, offriva premi al Sannazzaro giovinetto:
Puer, ista tuae sint praemia Musae,

Quandoquidem nostra
Federigo!

^ nz

cecinisti

primus in acta

(1).

ll ^ mie furono certo composte,


come dicono le non dubbie
quando siili' uomo maturo incombeva il peso delle sventure
sue e della patria. Al tempo della prima invasione francese il Sannazzaro era rimasto a Napoli; ma segui nell'esiglio l'infelice re Federigo, cui l'armi alleate di Francia e di Spagna tolsero lo stato nel
*

^ re

allusioni,

settembre del 1501. Obblighi di gratitudine ed un affetto quasi palo legavano a quel re mite e intelligente, che gli aveva donato,
luogo d'ozi soavi, la villa di Mergellina. Per venirgli in aiuto nel momento del pericolo il Sannazzaro vendette parte de' suoi beni e con
lui fece vela per i lidi di Francia, mentre in un epigramma latino
pieno di accoramento volgeva un mesto addio a Napoli, alla sua Mer-

terno

ere

d efs

gellina, alle ceneri de' suoi cari, alle rive ombrose del Sebeto. N
torn in Italia prima d'aver chiuso gli occhi al suo regale amico,
ne ^ 15(M; nobile esempio di saldo carattere e di inconcussa fedelt,

che bellamente contrasta colla fiacca coscienza e colle vacillanti fedi


de' suoi coetanei. Oh era ben legittima la compiacenza con cui il
Sannazzaro affidava la propria fama non tanto alle sue opere letterarie quanto alla rettitudine della vita!
Prosit amicitiae sanctum per saecula

nomen

Servasse et firmam regibus us^ue fdem

(2).

sua dimora a Napoli, egli visse ancor lunganuovo


mente, triste di quella melanconia eh' era per natura nel suo animo
e che le condizioni attuali aggravavano. Lo affliggeva la salute malferma; gli stava ftta nel cuore l'immagine di quelli che diceva li
re nostri e gli accresceva il disgusto del malgoverno e della preStabilita di

la

potenza degli Spagnuoli; rimpiangeva

compagni

della giovinezza e

confidenti colloqui col suo Pontano, e nella quiete della villa fuggiva

rumori della citt festosa. Lo confortavano gli studi, la poesia e il


tenero affetto di Cassandra Marchese. Le liriche latine scritte dal Sannazzaro in quegli anni rispecchiano codesta varia alternativa di sentimenti e fanno spesso commovente contrasto colle gaie poesie giovanili
i

raccolte insieme con esse nei

tre libri delle Elegie e

nei

tre

degli

Epigrammi.
i,o

Elegie.

In un'elegia (II, 2) piena d'esultanza Jacopo invita gli amici dell'Accademia a festeggiare con lui la ricorrenza del suo natalizio, il
la fangiorno di S. Nazzaro; in un'altra (I, 9) parla de' suoi amori

(1)

(Ed.

Ecco, o fanciullo, premi alla tua Musa, dacch primo cantasti sulla nostra spiaggia

II.

(2)

vv. 44-5).

giovi nei secoli l'aver serbato immacolato


miei re (El. IH, 2, vv. 105-6).

Mi

la fede a'

il

nome

dell'amicizia

sempre salda

NAPOLI AI TExMPI DI FERDINANDO


suo cuore, la poesia,

ciulla del

Fontano,

una terza
dca

(II,

1),

e saluta padre dei vati

il

perifrasi le molteplici opere; in

d'intonazione eroica, canta le imprese militari del


i popoli a
celebrare con lieti inni il trionfo
Roberto Sanseverino. Quanta mestizia invece nei

di lui

vincitore di

a Cassandra

il

373

D'ARAGONA.

Calabria ed esorta

di

distici

la gloria

annovera con eleganti

di cui

(El.

Ili,

2)

Egli vi ripensa la sua vita di letterato

corsa delle sue vicende, dice di sentire affrante le forze del suo

uigegno prima

di aver raggiunto gli alti fastigi dell'arte, si compiace


almeno un nome intemerato e prega Cassandra di rendergli

di lasciar

Similmente qual desiderio

gli ultimi uffici.

nell'elegia ai

numi

delle selve (III, 3)

di
Il

pace e qual piet di ricordi


li prega clementi alla

poeta

Musa avr asilo quieto e


saranno dipinte le imprese dei principi aragonesi.
Degli epigrammi sono vari gli argomenti, il tono ed i metri. Ve
n'hanno di argutamente pungenti, come quello su Poggio Bracciolini,
casa che egli sta costruendosi, dove la sua
sulle pareti

scrittore di storie

(I,

20), e di velenosissimi,

come

quelli contro

il

gii

epigrammi

'

Po-

57 sgg., 62; II, 4,


27 sgg. 70) e contro Leone X (II, 57 III, 8). Accanto ai distici che
dicono le lodi di amici o di principi o brevemente ripetono mitiche

liziano

66-7), contro

(I,

Borgia

(I,

14 sg., 22, 51

sg.

leggende, fluiscono voluttuosi

gli endecasillabi

Ad Nnam

(I,

6).

Altri

epigrammi esaltano gli Aragonesi, specialmente re Federigo, cui il


Sannazzaro porge ringraziamenti (I, 1) od invia auguri pel capo d'anno
e piccoli doni d'uva invernale (I, 8, 32). Due belle saffiche descrivono
con vivezza di colori e di sentimento le delizie della villa di Mergeliina (I, 2; II, 36), alla quale pur vola il pensiero del poeta, mentre
egli sulle rive della Loira scrive un inno a S. Nazzaro (II, 51) e rievocando l'immagine delle liete feste marinaresche l ai piedi del colle
profumato di Posilipo
prega il santo che gli affretti il ritorno e gli
conceda di rivedere
quanta delicata poesia in questa frase
il
fumo che si innalza dal tetto paterno.
,

Codeste liriche spicciolate scritte in tempi diversi via via che l'oc- n De pan
YiT Q inis
si presentava rivelano una sincerit di ispirazione ben rara
-

casione

negli umanisti.

Il

lungo studio e

in cercare le opere dei classici


squisita, nella

il

grande amore

vi

si

posti dal

manifestano cos

Sannazzaro
eleganza

nell'

decente sobriet e nella plastica efficacia della dizione,

come nell'armonia dolce del verso. I quali pregi si riscontrano in sommo


grado nel poema De partii Virgnis, che fu l'opera principale degli
anni maturi del poeta. Dei tre

narrano

fatti

dell'

umano

libri,

nei quali

diviso,

riscatto dall'Annunciazione

due primi
Vergine

della

Redentore, l'ultimo descrive l'esultanza del Cielo e


si chiude con un lungo discorso del fiume
Giordano rammemorante una profezia di Proteo sul rinnovamento
del mondo per opera di Cristo.
Non nuova, sappiamo, era l'idea di trattare un soggetto cristiano
in un poema di forma e di lingua schiettamente classiche. La riprese
libri riusc ad attuarla forse meglio
il Sannazzaro e nei primi due

alla nascita del

l'adorazione dei pastori e

374

CAPITOLO NONO.

d'ogni altro

scrittore

pagane

materia

colla

italiano;
si

fa

nel

terzo

contrasto

il

delle

fantasie

Se non che V idea era

troppo stridente.

per s stessa infelice, per ci che l'efficace semplicit del racconto


evangelico mal si acconci alla magnificenza delle descrizioni
delle

di

orazioni e delle similitudini e

personaggi si scoloriscano e rimpiccioliscano, trasportati in un'atmosfera artistica non rispondente alla loro
natura- reale. Ma altramente giudicavano gli uomini della Rinascenza.
Essi non avrebbero saputo quale pi alto omaggio rendere al Bambino
celeste, che celebrandolo in versi cesellati col bulino insuperabile dei
i

e pel Sannazzaro in particolare quel genere di poesia scaturiva spontaneo e tutto d'un pezzo dalla fusione di due sentimenti in

classici,

egualmente vivi: l'ammirazione della bellezza antica e la tenera


devozione per la Madre di Dio.
Egli tenne fra mano il breve poema
neppure un migliaio e mezzo
di esametri
per circa vent'anni, riformandolo, limandolo e chiedendo
il consiglio degli amici in questioni d'arte e di dogma, e lo diede
in
luce, dedicato a Clemente VII, solo nel 1526. Gi alcuni anni prima
aveva cominciato a murare nella sua villa di Mergellina una chiesetta
intitolata a S. Maria del Parto e a S. Nazzaro, della quale fece donazione, il Natale del 1529, ai Servi di Maria; ed ivi fu, secondo la
sua volont, sepolto in un magnifico mausoleo, quando ai 24 d'aprile
del 1530 lo colse la morte,
importanza
Al giovine autore dell'Arcadia il pastore Carino aveva profetato:
sannaTzaA. S come- insino qui la tua puerizia tra' semplici et boscarezzi canti
di pastori hai quasi tucta dispesa, cos per lo inanzi la felice adolelui

sonore trombe de' poeti chiarissimi del tuo seculo non


senza speranza de eterna fama trapasserai . E non a vuoto; ch il
scenzia tra

Sannazzaro venne degnamente ad assidersi tra i pi cospicui scrittori


XVI. Per la ragione del tempo si suole ascriverlo al precedente, ma le ragioni dell'arte, la sciolta e pura eleganza del suo
verseggiare latino la tersa solennit della sua prosa volgare e; la
lo vorrebbero piuttosto
petrarchesca levigatezza del suo Canzoniere
annoverato tra i Cinquecentisti. Pi compiutamente del Cariteo, egli rappresenta i caratteri della nuova letteratura: il coronamento della rinascenza 'classica^ nella raggiunta perfezione dello stile latino e il disparire; delle letterature regionali nel gran fiume d' una letteratura
largamente e veramente italiana. Nella quale fluirono, per opera appunto del Sannazzaro, e non rimasero senza efficacia gli elementi, pitdel secolo

<

torici soprattutto, elaborati dagli umanisti e dai poeti napoletani dell'et

aragonese.

CAPITOLO DECIMO

teatro e la lirica alla fine del secolo.

Il

Il

teatro.

Studi

critici sul teatro antico.

Imitazioni di Seneca d'argomento storico:

La Historia Baetica e il
Imitazioni di Seneca d'argomento classico
l' Achilles
Fernandus servatus.
del
Commedie umaniLoschi, la Progne di Gregorio Correr, YHiempsal del Dati.
stiche latine: il Panhis di P. P. Vergerio, la Poliscena attribuita al Bruni, il Philodoxus dell'Alberti, la Chrsis del Piccolomini, la Fraudiphila, la Philogenia di UgoLudi studenteschi.
Rappresentazioni di Commedie antiche a Roma
lino Pisani.

le tragedie di

Giovanni Manzini e

di

Laudivio de' Nobili.

Drammi mescidati.
Niccol da Correggio e il suo Cefalo.
a Firenze e a Ferrara.
Isabella d'Este e le rappresentazioni mantovane.
La Pan/ila del Pistoia e altri

drammi mescidati d'argomento

novellistico.

La Comedia di Jacob e Josef

di

Pan-

Drammi mescidati argomento lucianesco. Galeotto del Car La corte letteraria del Moro: B. Bellincioni e Gaspare Visconti. La Danae
del Taccone
B. Taccone. Rappresentazioni mitologico-allegoriche a Milano
Giovanni Santi).
Domenico Fusco) e ad Urbino
e del Bellincioni), a Bologna
Le egloghe recitative. La. lirica
Tebaldeo, Serafino Aquilano, Panfilo Sasso,
Francesco Cei e
Galeotto
poeti della stessa scuola. La
del Correggio,
Del Carretto, del Visconti del Bellincioni e
Niccol Cosmico. Seguaci della pura
tradizione petrarchesca. Pandolfo Collenuccio e la sua Canzone alla Morte.
Pistoia e la
burlesca. La
dolfo Collenuccio.

d'

retto.
di

(di

(di

Il

lirica

altri

di

di

Il

lirica politica.

lirica

Nel risveglio degli studi e delle ricerche

sulle

letterature clas-

era ben naturale


che non restassero dimenticati neppure gli scrittori drammatici. Gi
quei pi antichi apostoli dell'umanesimo che Padova accolse tra le
sue mura al cadere del dugento ed agli esordi del secolo successivo,
avevano tributato a Seneca onore di erudite disquisizioni sul metro,
sulla contenenza e sullo spirito delle sue tragedie. Altri studi seguirono poi ed ebbero ragguardevole incremento dal Salutati, primo a
discutere con qualche ampiezza e non senza acume intorno alla gi
dianzi controversa identit del filosofo e del tragico e all'autenticit
deYOctavia {Epist, lib. Ili, 8). Di Terenzio fu grande ammiratore il
siche che contraddistingue l'et della Rinascenza,

Petrarca, che lo cit di frequente, ne trascrisse le opere e ne compil

una breve

biografa.

primo

moderni, anche

fra'

Pure questa predilezione non gli tolse di gustare,


le graziosissime commedie di Plauto e

Studi
cr

sul

t g^t ro
antico,

376

CAPITOLO DECIMO.

apprezzare degnamente l'arte del Sarsinate. i quale diede voga


il rinvenimento
delle sue dodici commedie ignote al
medio evo (1429). Sappiamo gi come si stizzisse il Poggio, perch
di

nel secolo

XV

cardinale Giordano Orsini, fortunato possessore del codice portato


da Niccol di Treviri, si ostinava a non lo comunicare agli studiosi.

il

Riusc a strapparglielo nel 1431 Lorenzo de' Medici

il

vecchio; l'anno

dopo l'ebbe in prestito

Leonello d'Este, e ben tosto le copie che ne


trassero il Niccoli e il Guarino, moltiplicate, diffusero la conoscenza
del risorto teatro plautino. Gli umanisti a rivederne e fermarne il
testo, a proporre correzioni e interpretazioni, a supplire con versi
loro propri le parti mancanti. Probabilmente il Panormita, che fu
tra' primi a legger Plauto dalla cattedra, scrisse il prologo e la
prima scena delle Bacchica Codro Urceo diede compimento all' Aulularia ed Ermolao Barbaro colm una lacuna dell' Anfitrione.
latina diedero tra gli
umanisti
Gli studi critici sulla tragedia
0

frutti d'imitazione scarsi e meschini, specialmente se li paragoni al


rigoglioso rifiorire d'altri generi letterari. NelYEcerinis Albertino
Mussato aveva tentato di plasmare nelle forme sancite dall'autorit e
dall'esempio di Seneca materia attinta alla storia recente ed era riuscito a far opera pregevole, se non per fedelt alle norme dell'arte
classica e per movimento d'azione, almeno per una certa efficacia
drammatica e per ardenza di sentimento patrio. Pi tardi Giovanni
Manzini dalla Motta in Lunigiana pose mano, forse per gradire al
suo signore Giangaleazzo Visconti, ad una tragedia sulla caduta di
Antonio della Scala (1387), proponendosi di imitare, secondo il grosso
ingegno e la grossa cultura, Seneca ed il Mussato. Che egli non la
ce ne rimane appena un coro
finisse o che finita andasse perduta
, non fu certo grave iattura per l'arte. Cominciata fra rumor d'armi
e d'armati, l sotto alle mura stesse di Verona, essa sarebbe stata
per notevole documento di storia e forse avrebbe avuto maggior
vivezza che non sia in quella magra sequela di scene in versi giam;

imitazioni di

Seneca

fl

Manzni
(13?/]

LaucLvio
de' Nobili.

^ Q Laudivio de' Nobili da Vezzano in Lunigiana raccozz sotto il


De captivitate ducis jacob, facendo quasi sempre narrare da u-

kj c j C

titolo

guri e da nunci la catastrofe del Piccinino (1464). Questo l'ultimo esemdramma storico in cui si manifesti l'influsso di Seneca, poich
X Histova baetica di Carlo Verardi, prelato della curia, e il Fernan-

pio di
Le rappre-

servatus, composto dal nipote di lui Marcellino su di un abbozzo


dello zio, per l'assetto scenico, per l'atteggiamento della materia e
per gli episodi si ricollegano piuttosto, a malgrado della lingua, la-

/e! veraci, clus

tina, al teatro sacro volgare.

Sono narrazioni storiche ridotte a dia-

logo, l'ima in prosa, l'altra in esametri, le quali furono rappresentate

nel 1492 nel palazzo del cardinale Raffaele Riario per celebrare la presa di Granata e Ferdinando il Cattolico scampato al pu-

Roma

gnale di un assassino.
Tragedie
dei Loschi,

Classiche non pur nella forma, ma anche nell'argomento sono altre


tragedie scritte in quello stesso periodo di tempo: YAchilles di Anto-

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

IL

377

di Gregorio Correr. YHiempsal di Lionardo di


Loschi sceneggi prima del 1390, forse a soddisfazione del consorzio umanistico fiorentino e del Salatati, il racconto
della proditoria uccisione dell'eroe greco
ed il Correr (1411-64) nel
tempo ch'era discepolo di Vittorino, probabilmente nel 1428, la
truce leggenda ovidiana di Tereo e di Progne. Negli artifici scenici,
ilio

Loschi, la

Piero

Dati.

Progne

Il

nei metri, nell'uso dei cori,

nell'ampollosit

ambedue

orme

delle

di

g. corrr

declamazioni, nel

il primo per
con una maggiore libert nella scelta delle situazioni, il secondo con
arte meno grossolana nell'elaborazione drammatica della materia. In e di l. Dati,
tutto e per tutto ligio all'antico esemplare si tenne pure il Dati, che
nulla prova scrivesse primamente in volgare il suo Hiempsal. Questo
doveva esser letto al secondo certame coronario (1442) ed era senza
dubbio componimento ben acconcio a quella gara, per ci che la tram
formata dal racconto sallustiano vi sia come inquadrata in una favola
allegorica destinata a mostrare l'origine e i perniciosi effetti dell'invidia.
Pi libero dai vincoli dell'imitazione e pi copioso ci appare nella H Pau ls
prima met del secolo XV il teatro comico latino. Come il Petrarca Y ' ^'io
s
in quella sua commedia di cui conosciamo appena il titolo Philologia,
cos Pietro Paolo Vergerio si studi di seguire Terenzio, quando, in
et giovanile, compose il Paidas comeda ad juventini mores corrigendos. Tuttavia le principali figure vi sono disegnate efficacemente
dal vero; non mancano allusioni alla vita studentesca contemporanea
e con vivezza commendevole sono rappresentate le arti che un servo
mette in opera per levar di testa al suo giovine padrone il proponimento di mutar vita e per fomentare in lui e soddisfare la bramosia
d'amori e di bagordi curiosa favola davvero in una commedia che pretende di dare ammaestramenti morali! Proviene certo da Plauto il
La
nome d'uno dei personaggi e da Terenzio derivano alcune frasi spie- Poi:sce:ia
ciolate della. Poliscena ascritta a Lionardo Bruni; ma il colorito del
tempo e del luogo tutto moderno e l'argomento par quello d'una
novella boccaccesca. Il giovine Gracco* ha adocchiato Poliscena nella
chiesa dei frati minori, mentre il predicatore parlava delle pene in-

fare sentenzioso ricalcarono

le

di

Seneca,

i,

cli

fernali, dell'Orco, dell'Acheronte, di Cocito; la bellezza

vista di sotto
fanciulla.

al velo

Perci

lo

confida,

ha,
il,

preso ed egli

(suo

amore

allo

desidera

schiavo

di lei intra-

posseder la
Gurgulione, il
di

quale a sua volta crede opportuno- metterne a parte la vecchia fante


Taratantara. Respinta in malo modo da Calfurnia, madre di Poliscena, ella delibera

invano.

La

mezzana e

di

tentare

direttamente la

figliuola

non

lo fa

descrizione dei patimenti di Gracco, le moine della vecchia


l'aria

Poliscena, che

si

materna che

costei

assume, vincono la peritanza

di

confessa innamorata perdutamente del suo spasimante

ed acconsente ad essere con lui durante un'assenza della madre. La


prima scena del quinto atto, dove Taratantara reca a Gracco la lieta
novella, delle pi spigliate e vivaci. La seconda si finge avvenuta il
giorno dopo, quando i due amanti sono gi stati insieme a loro agio,

378

CAPITOLO DECIMO.
presenta

e ci

furibonda per l'oltraggio recato all'onore


padre di Gracco, un bel tipo di fiorentino che
brontola continuamente per le soverchiaci gravezze, accomoda tutto
dando il suo consenso alle nozze.
L a pi u schiettamente classica fra le commedie latine del secolo XV
della famiglia.

La

chrisis

piccoiomini.

quella di

Calfurnia

Ma

Leon

il

Battista Alberti,

rola, discorrendo la vita e le

Enea

di

il

opere

Philodoxus,
di

non ostante

Silvio Piccoiomini,

il

di cui s' fatto pa-

La Chrisis
sapore idiomatico plautino,

quello

scrittore.

moderna: moderna per l'argomento


un episodio di quella liil Poggio ha cos spiritosamente descritta
in una sua epistola
moderna per le allusioni ai fatti politici della
giornata, moderna per il carattere doi personaggi. Sono tra questi
due chierici attempateci e vaghi del lieto vivere, due donnette allegre, Criside e Gassina, che si fanno gioco di loro, una mezzana ed
un cuoco sollazzevole e scaltro come il Chichibio boccaccesco. Dal
D ecamero n (VII,7) attinse addirittura la favola della commedia l'autore della Frudiphila, un Antonio da Parma, che vogliono sia
Antonio Tridentone, lettor di rettorica e poesia nello Studio bolognese dal 1454 al 56 e poi familiare del cardinale Rodrigo Borgia.
tutta

cenziosa vita dei bagni, che

&udi
vhiia.

marito

bastonare dalla moglie infedele


con brio, in una lingua agile e senza
impacci eruditi. Lode codesta che ancor meglio conviene alla PhiloLa
P
enia d Ugolino Pisani, nella quale si vede come Epifbo seducesse
e u^uo" 9
autore.
Filogenia, giovinetta di povera famigha e poi la appioppasse in moglie
al suo contadino Gobio. Le arti del seduttore, l'astuzia con cui egli
trae nella pania il povero campagnuolo
gli infingimenti delle due
mezzane Servia ed Irzia, la confessione di Filogenia ai piedi di fra
Prodigio dnnO luogo a scene che rappresentano con rara efficacia
Ivi

la

novella

del

con

sceneggiata

fatto

scioltezza e

caratteri e scintillano di spirito comico.

Ugolino Pisani era figlio di una cospicua famiglia parmense e fu


mandato a studiar leggi a Pavia negli anni che era col il Panormita.
Allegro e compagnevole uomo, esperto nel sonare il flauto e la cetra
e nel narrare storie facete, verseggiatore facile, egli aveva tutte le
parti per riuscire gradito al consorzio di buontemponi che si accoglieva
allora sulle rive del Ticino. Dall'imperatore

Sigismondo ebbe

l'alloro

a buscare anche quello di dottore;


ma non mise mai il cervello a partito; anzi pare che finisse col fare
la vita dell'uomo di corte, accattando le grazie dei signori cui dava
sollazzo colla sua giovialit. A Pavia gli studenti solevano in tempo di
carnevale rappresentare su d'un carro per le vie aneddoti scandalosi,
di poeta; pi tardi (1437?) riusc

come

si pretendeva, o inventati, a dileggio dei frati e


questa consuetudine, della quale ci sono pervenuti
alcuni saggi, dovette invogliare nel 1435 il Pisani a comporre la sua
Confabulano coquinaria, comica parodia delle orazioni panegiriche e

veri,

dei

talvolta

collitorti.

delle cerimonie di laurea, nella quale

Zanino e solennemente
della cucina.

si

celebra

il

si fanno ironiche lodi del cuoco


suo dottoramento nell'arte

IL

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

Rappresentazioni di

media se non

la lingua,

sca piuttosto che

a-,

379

tal fatta, che altro non hanno dell'antica comappartengono alla storia della vita studente-

quella della risorta cultura e rispecchiano la spen-

sierata giocondezza e

il

sorriso canzonatorio dei giovani, ai quali l'a-

ver imparato il latino sulle grammatiche del Guarino e del Perotto anzi
che sul Dottrinale e l'ascoltare con assiduo compiacimento ed inestimabil profitto lezioni informate ai nuovi metodi e tutte pervase dallo
spirito de'nuovi tempi, non vietavano di conservare gelosamente la cara
e lieta eredit di buon umore loro tramandata dai predecessori medievali. A Padova negli ultimi decenni del secolo uscirono dall'Universit,
frutto di quella giocondezza beffarda, i primi esemp di poesia macche-

come dianzi le rappresentazioni


lingua una gustosa parodia del latino, la
ronica,

latine. In quei poemetti, la cui

satira degli uomini di grossa pa-

magari dei professori assunse forma narrativa. Se ebbero vaghezza


drammatici, anche gli studenti accorsero allora a sentir rele dicevano
citare dai cantambanchi le farse popolaresche in dialetto
alle quali
maraz maritaggi, dal loro pi consueto argomento
assai pi che alla commedia classica rassomigliano i ludi stessi degli
sta e

di sollazzi

scolari pavesi.

Le pi ampie commedie umanistiche esaminate poco fa, non sappiamo che fossero mai poste sulla scena. Erano soltanto destinate alla
lettura e dai loro stessi autori tenute in piccolo conto siccome scherzi

o peccati

di giovent. Scritte in

prosa oppure, come

il

Paulus

del

Risurrezione
del teatro
classico

Ver-

gerio e la Chrisis del Piccolomini, in una forma ibrida ed eslege, che


pretendeva arieggiare, senza riuscirvi, il senario giambico, e lontane
dall'assettata compostezza del teatro classico come poco rispettose che
erano delle due sacre unit, non potevano appagare le necessit estetiche
delle nuove generazioni affinanti ognor pi il loro gusto nello studio dei
modelli antichi; e in Italia furono ben presto dimenticate senza lasciar
traccia nelle vicende successive del nostro teatro. L'avviamento letterario che cacci di seggio la rappresentazione sacra e le precluse il
tempio dell'arte, prese le mosse d'altronde intendo dalla diretta risurrezione degli esemplari drammatici antichi.
Roma, dove l'universalit del papato e della corte pontificia rendeva,
abbiamo detto, gli scrittori pi tenacemente ligi al latino vide forse
prima d'ogni altra citt restituite alle scene le originali commedie di
Plauto e di Terenzio. Maestro ai giovani recitanti fu Pomponio Leto;
che alla rinnovata conprincipal mecenate il card. Raffaele Riario
suetudine apriva le sale del suo palazzo. Quivi stesso un amico del Leto,
Gian Sulpizio da Veroli, risuscitava la tragedia di Seneca. Intanto anle fosse venuta da Roma o vi nascesse spontanea
che a Firenze
solevano recitarsi commedie classiche e, ci che a noi pare
l'usanza
strano, recitarsi da giovani chierici, talvolta in chiesa. Ai 12 di maggio del 1488 furono col rappresentati i Menaechmi preceduti da un
prologo in elegantissimi senar giambici. Il Poliziano, che lo scrisse a
petizione di ser Paolo Comparini da Prato, maestro dei chierici di S. Lo;

a Roma.

CAPITOLO DECIMO.
renzo, vi

te!

si

sbizzarrisce a

commedie senza

di

menar

la frusta sugli infelici

scombicchera-

versi e senza intreccio, senza azione e senza

cartteri e su certi ipocriti pinzocheroni in cocolla, in zoccoli e colla


corda al fianco che vedevano di mal occhio quegli spettacoli ed aizzavano loro contro il popolino. Gli uditori avranno riso di quella amena
,

e violenta tirata, e pi di tutti ne avr gioito ser Paolo, l'azzimato e


secolaresco prete, che aveva addestrato i suoi discepoli alla rappresentazione.

Ma

a Ferrara
1
(

8gg*'"

la citt cui si

ramento
di

addicono

primi onori nella storia dell'nstauil duca Ercole non era uomo

del teatro italiano, Ferrara,

profonda cultura; dicono anzi che non sapesse

di latino;

ma

la fa-

miliarit degli umanisti bazzicanti in sua corte e l'innata bramosia di

sapere lo invogliarono allo studio delle letterature classiche. Sotto il


suo ducato la biblioteca degli Este ebbe considerevole aumento di libri a penna ed a stampa; per ordine suo furono fatte volgari molte
opere greche e latine; dalla sua magnifica liberalit e dalla sua vaghezza di spettacoli scenici fu rievocata a vita rigogliosa la commedia

romana.
Battista Guarini

figlio

dell'umanista

famoso,

tradusse

per

lui

1479 l' Aululara e il Gur culto ; pi tardi Battista stesso i Menaechm, un Girolamo Berardi la Casina e la Mostellaria, ilCornazzano
ancora il Cur culto, Paride Ceresari ancora Y Aululara ed altri altre
commedie. Se destinati semplicemente alla lettura, codesti volgarizzamenti potevano essere in prosa; se alla recitazione, erano in versi,
nel

in ottave o in terzine o misti di terzine e d'ottave. Il Guarini diceva

d'industriarsi a seguire fedelmente le parole del testo,

ma

in certi luo-

pareva meglio pigliar lo tenore e formargli un buono soprano ,


cio ammodernarlo, ampliarlo, diluirlo in un mar di parole. Infatti quei
volgarizzamenti sono, pi che versioni, raffazzonature che attestano non
so bene se del gusto grossolano degli scrittori e degli spettatori o del
loro deliberato proposito di giudicar bello con supina acquiescenza tutto
che fosse di provenienza classica. Chi, per esempio, riconoscerebbe nelV Anfitrione del pesarese Pandolfo Collenuccio una delle pi garbate
ghi

gli

e spiritose

commedie plautine

La

sveltezza del dialogo originale ri-

stagna nella prolissit delle terzine arrembate, e verso la fine Giove


non si accontenta, come nel testo latino, d'un accenno alla gloria onde
sar illustre

il

figliuolo concepito da

Almena,

ma

si

diffonde a presa-

gire le fatiche di Ercole con palese intento di adulazione.


si rappresent a Ferrara una commedia clasgennaio del 1486. Nel cortile del palazzo ducale era
stata eretta la scena raffigurante cinque case merlate e vi si recitarono
i
Menqechmi, traciotti s'intende. Grande fu il concorso della gente la
spesa non inferiore a mille ducati. Un anno dopo si rappresent l'Anfitrione nel febbraio del 1491 le nozze del principe Alfonso con Anna

La prima

sica, fu ai

25

volta che
di

Sforza furono festeggiate con la recita, splendida di apparati e di iritramesse mitologiche, dei Menaechmt, dell'Anca di Terenzio e an-

IL

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

dell' Anfitrione', i Menaechmi tornarono sulla scena nel maggio


1493 nell'occasione d'una visita di Lodovico il Moro; nel carnevale
del 1499 furono rappresentati YEunuchus di Terenzio il Trinumus e
il Poenulus di Plauto e nel 1501 i Captivi, il Mercator, YAsinaria e
ancora YEunuchus. Furono di bel nuovo recitazioni di commedie classiche la principal parte delle feste magnificile onde fu accolta a Ferrara

cora
del

Lucrezia Borgia, terza sposa di Alfonso, nel 1502. Che sfolgoro d'oro,
di colori, di stemmi nella vasta sala capace di ben cinquemila spettatori
E che lusso di zendadi e di zambellotti negli abiti dei recitanti
!

Ne'

che durarono
Plauto YEpidicus,

sei giorni

medie

di

ria e la Casina.
Fra il succedersi

di

rappresentarono cinque comBacchides, il Miles gloriosus, Asina-

le feste, si
le

quelle

drammatiche risurrezioni veniva ma-

turandosi all'arte l'ingegno di Lodovico Ariosto, che non tarder ad


offrire alla corte ferrarese sollazzo di composizioni sceniche nuove modellate fedelmente sulle antiche.

Ma

nel secolo

XV

Dramm

mescidati

nessuno ebbe ar-

dire od ingegno da trattare le schiette forme terenziane e plautine in

un'opera

originale; bens alcuni tentarono di piegare, per quanto era

fogge del teatro sacro popopropose chi rimaneggiando per una rappresentazione

possibile, alla regolarit classica le libere

lare.

Questo

si

ferrarese la polizianesca

Orphei tragoedia

Fabula

di Orfeo, le diede

il

pomposo nome

cinque atti ciascuno con ispeciale


affin in qualche luogo la locuzione
altrove ampli il
intitolazione
dialogo ed aggiunse perfino un nuovo personaggio per rendere meno
precipitoso il corso dell'azione. Chi fosse codesto restauratore non si
sa con certezza; forse il Tebaldeo, del quale diremo in luogo meglio
di

la divise in

accomodato. Qui ci. conviene piuttosto dar passo ad un gentiluomo eleautore della Fabula di
gante e cortese a Niccol da Correggio
Caephalo.
Nipote del duca per parte di madre, il signor di Correggio (1450-1508) n cco i da
primeggi lungamente nella ^corte di Ferrara e fu sempre ben adden- fi^l^s)
tro ne' pi riposti segreti di quella e dell'altre maggiori corti dell'alta
Italia. Non ebbe parte in ambascerie di grande importanza politica,
ma spesso in quelle fastose missioni di che il Rinascimento si compiaceva, e fu a Roma con Borso d'Este, quando questi venne proclamato
duca da Paolo II (1471); due volte a Napoli per prendervi e riaccompagnarvi Eleonora d'Aragona (1473 e 1477); ancora a Roma nel 1492
per prestar omaggio a nome del Moro al nuovo pontefice Alessandro VI
nel 1494 ad Asti inviato a ricevere il duca d'Orlans. Soldato, combatt nell'82 contro i Veneziani e fu fatto prigione; ma a lui pi che
le battaglie cruente
piacquero
cui lo aveva tratto ardore di gloria
forse
ludi cavallereschi, le giostre e le armeggerie, ove poteva sfog,

giare la grazia della sua persona gentile,

lusso delle vesti di broc-

il

cato e la sontuosit d'un seguito principesco.

come maestro d'ogni eleganza


di sonetti

Le dame

lo

ebbero caro

e abile fabbro di canzoni, di strambotti,

e di quei motti misteriosi onde

si

solevano fregiare imprese,

382

CAPITOLO DECIMO.

medaglie. Di sue liriche ci rimane un bel manipolo e ad esse


vuol essere avvicinata anche la Psiche, poemetto in ottava rima dedicato
nel 1491 a Isabella d'Este, perci che il poeta vi narri la leggiadra
gioielli,

apuleiana solo a mo' d'episodio inserto nel racconto idillicamente


allegorico delle sue vicende amorose.

l'avola

cefalo.

i\

Correggio, vaghissimo di spassi carnevaleschi e

di spettacoli

e certamente cooperatore del duca Ercole nell'apprestarli,

trali

tea-

vide

il

suo Cefalo rappresentato splendidamente nel cortile del palazzo ai 22 di


gennaio del 1487. Classico ne l'argomento, la favola ovidiana di Cefalo

forma metrica l'ottava qua e l


tramezzata da terze rime e da canzonette liriche. L' azione si svolge
ora nella casa di Cefalo, or sulla strada ed ora nel bosco; in essasi
intromettono personaggi comici quali una schiava circassa ed un rozzo
e Procri con alcune lievi modificazioni

fauno, sostituito al pastore d'Ovidio; infantile la sceneggiatura, senza

chiaroscuri n linee prospettiche

quali caratteri tutti e specialmente

mostrano come il Correggio non sapesse sollevarsi al di sopra


ingenue fogge drammatiche popolari. Ma d' altra parte per la

l'ultimo
delle

per un certo studio di rispettare entro a cialuogo e di evitare l'inverosimiglianza dei bruschi passaggi da tempo a tempo, per il prologo espositivo dell'argomento e
insieme critico, infine per la licenza, che parafrasa il plaudite dei commediografi latini, si fa manifesto che un altro ideale d'arte drammadivisione in cinque

scuno

atti,

di questi l'unit di

tica gli si

era affacciato alla mente.

Grande e larga fama levarono

tosto gli spettacoli ferraresi e


d'ogni parte d'Italia accorrevano curiosi a goderne, mentre la genial

costumanza delle rappresentazioni classiche e classicheggiante si spandeva nelle terre finitime, specie in quelle corti che pi strettamente
erano legate all'estense dalle parentele, dagli interessi politici e dall'affinit dei gusti e delle

Nel 1490

isabella

dEste
"

la citt

condizioni letterarie,

dove

sto e dato a rappresentare

chese Francesco Gonzaga


D'opere

giovinetto da Montepulciano aveva

compo-

suo Orfeo (1471), accolse sposa del marfigliuola primogenita di Ercole d'Este, quella
il

illustri e di be'studi

magnanima

Liberale e

delle cui sapienti

la

il

amioa
(Ori. fur.,

Isabella

magnificenze tutta

delle arti nei primi decenni del secolo

XI 11,

59),

suona; la storia

delle lettere e

XVI. Eleganza

fine d'ingegno,

soave delicatezza di sentimento , civile prudenza di pensiero e soda


vastit di ^cultura si consertavano e si equilibravano mirabilmente nel
suo carattere, tutto individuale davvero. Appunto nel primo anno del
soggiorno mantovano ella venne compiendo quella sua educazione di
perfetta gentildonna, onde

meno

nei giudicare

d'

contemporanei

la

ammirarono esperta non


moderna

un'antica opera di scultura o d' una

che nell'intendere i classici di Roma abile nel toccare


corde del liuto.* e modulatrice nel canto di dolci armonie. Eppure
in lei non era nessuna pedanteria, nessuno sfoggio inconsulto di dottavola dipinta
le

IL

383

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

trina; solo la coscienza discreta del proprio valore felicemente infrenata da una modesta ritrosia e dal gusto squisito; eppure in lei era
sempre vigile il senso delia vita pratica n punto era irrigidita la
soave tenerezza dell'anima femminile. Gi nel 1494 in una brigata di
cortesi cavalieri, tra i quali si trovava Niccol da Correggio, fu detto
,

che Isabella era

Mantova

la

prima donna del mondo .


marchesana come fu ravvivatrice del culto

la giovine

d'ogni arte leggiadra, cos probabilmente introduttrice delle sceniche


ferraresi. La secondava il marito , che avido anch' egli

consuetudini

di siffatti divertimenti, si
litari gloria di

zioni

compiaceva d'aggiungere

alle

sue glorie mi-

protettore delle lettere e delle arti. Alle rappresenta-

mantovane servivano

le versioni e le

racconciature

di

comme-

Gonzaga via
via commettevano ai letterati della corte ferrarese. Cos fu primamente
dedicata all'Estense nella quaresima del 1499 una tragedia nominata
die antiche gi ordinate da Ercole d'Este od altre che

Panfila

La
del

pnwa
lst0, ' i

che poco dopo l'autore Antonio Cammelli detto il Pistoia


invi ad Isabella e che attesta d* un
altro particolare avviamento dell'arte drammatica. Perciocch l'argomento quello della novella boccaccesca di Guiscardo e Ghismonda
sceneggiato senza modificazioni sostanziali, ma con abbondanza pesante
di fronde rettoriche, di lamenti sulle condizioni dei principi e dei cortigiani e di querimonie amorose di tipo ovidiano. In tanta prolissit
la tragica efficacia della nobile prosa antica va interamente perduta,
anzi la goffaggine dell'espressione diffonde un soffio di scherzo sulle
situazioni pi patetiche. Contro l'intendimento dello scrittore, non dubito
perch, quantunque egli non si dipartisse dal metodo di sceneggiatura
proprio dei sacri drammaturghi, pure il suo proposito di far opera seriamente classicheggiante palese a pi- d'un segno. Personaggi classici
e di nome e di patria sostituiscono i boccacceschi; un Demetrio, re di
Tebe, sta al posto di Tancredi, Panfla di Ghismonda, Filostrato di Guiscardo; il prologo fatto da Seneca; cori moraleggianti chiudono gli atti
come presso il tragico latino; l'unit di luogo pare rispettata e il tempo
ristretto entro angusti confini. I cori sono scritti in foggia di ballate, ma
,

sar di lui parola tra breve

il

metro

di tutto

il

non

resto l'aristocratica terzina,

La Pan fila non

l'ottava popolaresca.

fu la prima

composizione in cui si desse assetto Altri d -arami


me
drammatico ad una novella. Nel 1491 s'erano visti raffigurati sulla novelhstici.
^p. J?
scena ferrarese i casi di Leonora de' Bardi e d'Ippolito Buondelmon ti
e nel 1494 a Siena s'era recitata nelle nozze di Antonio Spannocchi
la Virginia di Bernardo Accolti, riduzione della novella di Giletxa di
Narbona (Dee, III, 9). Pi tardi fu messa in commedia, non sappiamo
come n da chi (1506), la grande liberalit di messer Federigo degli
Alberigo! narrata dal Boccaccio (Dee. V 9) e la novella di Tito e
Gisippo porse la tela alla commedia di Jacopo Nardi
amicizia.
Attinenza coi drammi che ritraggono insieme della rappresentaLa Comed
zione sacra e del teatro classico, non ha la Comedia de Jacob et de de Jacob a\
Josef i Pandolfo Collenuccio, rappresentata in Ferrara in due gior- buccio."

...

i<

334

CAPITOLO DECIMO.

nate

28 marzo e

4 aprile del 1504. Scritta in terzine con grande


e di filosofiche digressioni e un semplice
tentativo di dar carattere letterario al genere popolare del dramma
religioso senza punto alterarne Y ossatura
un tentativo che vuol
essere piuttosto imbrancato colla Festa dell'Assunzione di Pietro del
Giocolo e colle rappresentazioni aversane. Fra quei drammi mescidati s' hanno invece a rassegnare i rifacimenti scenici dei dialoghi
il

pompa

d'

il

ornati rettorici

Drammi
inescidati
ucianei

lucianeschi

drammi

d'

,.

ora, verso la fine del

marchese

di

il

ai

novellistici. Fin da 1441 era


duodecimo dei dialoghi dei Morti

quelli

Filippo Lapaccini

cantore al servigio
ridusse in terza rima , probabilmente per

secolo

Mantova

formano un terzo gruppo accanto

argomento mitico e a

posto in iscena a Napoli

stato

del

,>

quali rifacimenti

suo signore, quella stessa disputa di preminenza tra


Annibale, Alessandro e Scipione al cospetto di Minosse. Le doveva
dar voga non pure la simpatia che il Rinascimento dimostr s nelle
lettere e s nelle arti coli' umorista di Samosata , ma il suo particoil

teatro

del

argomento, oggetto, sappiamo, di discussione tra il Guarino ed


A compiacenza del duca Ercole il Boiardo volgarizz e
secondo che verosimile,
adatt alla scena il Timone, giovandosi
lare
il

Poggio.

della

versione latina

della

commedia

dell'

Aurispa. Originale

nel quale interviene

soltanto

il

un personaggio

quinto atto
allegorico

breve azione che vi si svolge ed a narrare


qual fine avr il gioco dopo che gli spettatori se ne saranno andati.
Che insigne esempio di inesperienza drammatica
Un' altra Comedia de Timon greco fu composta e mandata nel
1497 a isabella Gonzaga da Galeotto del Carretto dei marchesi di
Savona, cavaliere molto intendente di versi, d'armi e di cortesie, che
fa per molti anni in relazioni cordiali colla genial principessa e le
inviava, specialmente nell' ultimo decennio del secolo, le sue composizioni poetiche, sonetti, capitoli, frottole, cui davano il tono Bartolommeo
Tromboncino e Marchetto Cara. Il suo limone una fedele riduzione del dialogo di Luciano, quasi tutta in ottava rima, senza nessuna aggiunta, solo con qualche ritocco, onde viene o dovrebbe venire
alla figura del protagonista una cert'aria di modernit. Scrittore pi
fecondo che elegante, Galeotto compose anche il Tempio d'Amore e
fantastiche rappresentazioni allegole Nozze d Psiche e Cupidne
riche, e una tragedia la Sofonisba, che dedic nel 1502 all' Isabella.
Questa in ottave framezzate da poesie in metri lirici e si attiene
alla forma di sceneggiatura usata nel teatro sacro, talch scandoT Auxilio a spiegare la

Galeotto del
carretto.

lezz

vecchi

critici

devoti ai rigidi precetti dell'arte classica.

Beatrice d'Este, minor sorella della marchesa di Mantova, se ceG

d eva a questa per finezza

d' Este e

Moro?

di

gusto, per bont d'animo e per cultura,

a pareggiava nel desiderio di tutto che fosse bello, lussuoso, fanta-

stico.

Sposa nel 1491 a Lodovico

il

Moro, confer efficacemente

colle

sue

inclinazioni e colla sfoggiata liberalit alla smagliante fioritura delle let-

IL

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

385

arti, onde Milano pareva emulare in quel tempo la gloria


Firenze medicea. Lo Sforza, educato nella corte paterna all'amor degli
studi e stimolato dagli esemp dei signori contemporanei offertisi a lui
nei viaggi dell'adolescenza e nell' esiglio di Pisa, volle che all'edifcio della propria potenza, da lui architettato per lunga sequela di simulazioni d' accorgimenti e di violenze con arte nefasta eppure mi-

tere e delle
di

decoro gli artisti del colore, dello scalpello,


penna. Elesse suo segretario Bartolommeo Calco,
dotto uomo e dei dotti amico e protettore; chiam a s nel 1482
Giorgio Menila, affinch ponesse mano all' Hstora Vicecomitum e
leggesse arte oratoria a Pavia ed a Milano, e nel 91 Demetrio Calcondila, che da Firenze trasfer la sua fiorente scuola di lettere greche
nella capitale lombarda. Quivi intanto Leonardo da Vinci profondeva i tesori del suo genio multiforme e inesausto in opere portentose e via via raggranellava le osservazioni, i pensieri, i quadri efficacissimi di cui si compone il Trattato della pittura; Bramante abbelliva la citt delle sue costruzioni d'una purezza classica e tra lo schizzo
d'un portale e il progetto d'un palazzo scriveva rime. d'amore e sorabile, dessero lustro e

delle seste e della

netti tra faceti e lamentosi, e Giancristoforo

romano

intralasciava tratto

tratto le sue finissime opere di medaglista e di scultore per accompagnare


sul liuto un mottetto od una frottola e seguire Beatrice or qua or l

insieme cogli

altri

dide pergamene

con stemmi

musici della corte.

dei codici

con paesaggi

miniatori adornavano le can-

con piccole storie allegoriche, con


verdi e aprichi

ritratti,

tra gli svolazzi dei fregi

nei vani delle iniziali scintillanti d'oro e di colori,

rabescati o

men-

Franchino Gafurio formulava teorie musicali e se ne faceva


maestro dalla cattedra e nei libri. Uscivano dalle officine operose
di Antonio Zaroto e d'Ulderico Schinzenzeller nitide e corrette edizioni d'autori latini e greci e gli umanisti che le giovavano dei loro
critici avvedimenti, solevano fregiarle di dediche al Moro, al Calco,
a Jacopo Antiquario, un perugino addetto alla cancelleria dello Stato
(circa dal' 1473) e liberale di doni, di commendatizie e di buoni contre

sigli agli eruditi

Intorno allo
principale ufficio

poveri e

litigiosi.

stavano verseggiatori che avevano per loro


bruciare incensi a lui e a Beatrice, far omaggio d'agSforza

graziati complimenti alle

dame

quel raffinato consorzio. Tra

ed ai cavalieri e sollazzare in varia guisa

facitori d'epigrammi latini, fecondissimo


amorosi e d'encomiastici ne raccozz non meno
di venti libri ed a lui tenevano bordone Giovanni Biffi e Piattino Piatti,
lodatore il primo delle pubbliche magnificenze del Moro, natura d'uomo
meno inchinevole all'adulazione il secondo, che fu costretto appunto
pel suo carattere libero ed irrequieto a menar vita randagia e strinse
a Firenze amicizia col Poliziano. Schiccherava sonetti a gran furia

Lancino Corti, che tra

p oe ti
sforzeschi -

di

mentre sfoggiava le sue attitudini di poeta


burlesco, veniva accordando colle affettate armonie cortigiane la sua
lira usa ad armonie popolaresche e sguaiatuccie. Lasciata Firenze dopo
Bernardo

Rosst.

Bellincioni,

La

leti.

il

quale,

Hai. nel. sec.

XP.

25

b. Beiiin-

Sitano
(1484 ~ 92 )-

386
il

CAPITOLO DECIMO.

1480, egli aveva fatto un breve soggiorno a Mantova presso FedeGonzaga e nel 1484, intercessore forse Niccol da Correggio, s'era

rico

allogato presso

il Moro. Verso
la fine del 1*488 fu mandato a Napoli
a prendere Isabella d'Aragona sposa a Giangaleazzo Sforza, e poi distraendo con le rimate sue lodi, co' suoi lazzi e colle sue improvvisazioni
l'infelice principessa dalle faccende politiche, second probabilmente i
disegni del Moro, che si studiava di tener lontano dallo Stato il

nipote.

Per
-

il

la vile

sua vita

assentatore e

di

per

la

mancanza di dignit
non di rado
corte. Ma non erano

Bellincioni tiene molto del buffone, e di fatto ei dovette

ingaglioffarsi
tutti del

coi buffoni

suo stampo

allietanti

gli

ozi della

rimatori del cenacolo sforzesco; anzi

tiluomini nobili e cortesi, alcuni assiduamente devoti alle

pi,

gen-

Muse,

altri

congegnare alla meglio un sonetto miserello tra un'impresa militare e una trattativa politica. Fra il 1490 e il 97 abit
p ep j Q
a Mii an0 n cco 15 da Correggio e, come abbiamo visto, ebbe
dal Moro commissione di onorevoli ambascerie. A Milano fece stabile dimora fin dalla fanciullezza Antonio Fregoso eli nobile famiglia
genovese ed ivi nella familiarit coi poeti pi fecondi componendo
sonetti burleschi e filosofici prepar il suo ingegno austero alla trattazione dei gravi soggetti morali e metafisici, cui si di tutto quando
caduto il Moro, si ritrasse nella solitudine della sua villa di Culturano
e vi rim numerosi poemetti intessuti di allegorie e d'astratte personificazioni. Cavaliere saggio e valoroso fu infine Gaspare Visconti (1461il
pi ragguardevole dei rimatori sforzeschi cos per copia
1499)
come
piccola lode davvero
per bont di versi.
soltanto atti a

correggicA
Milano.

Gaspare
1

(I46i-y9) ;

Il

Visconti era consigliere ducale,

un

ma

al pari del Correggio, piut-

un uomo ben adatto

alle missioni di parata. Nel


1488 fu col Bellincioni a Napoli e nel '93 fece parte del corteo che
accompagn oltr' Alpe Bianca Maria Sforza sposa dell'imperatore Massimiliano. Ammiratore elei Petrarca quant'altri mai, studi il Canzoniere
con grande amore, venne raffrontando con altri esemplari e minutamente correggendo un suo codice di esso, che serv all'edizione milanese
del 1494, e ricalc fedelmente le orme del grande maestro nelle sue
rime quasi tutte d' amore. Furono messe a stampa nel 1493 sotto il
titolo di Rithimi con una dedica a Niccol da Correggio e piacquero
tanto ai contemporanei, che taluno os porre il Visconti al disopra del
suo modello. Naturale chi sappia quelle liriche abbondare dei difetti
- allora dicevano pregi
che pi davano nel genio del tempo, la
il sottile dei
il ricercato delle immagini
frivolezza degli argomenti

tostoch

politico,

concetti.

Per noi

la

vigoria di alcuni

satirici e narrativi, e la

vivezza

sonetti del Visconti, burleschi,

di certi suoi canti

carnescialeschi valgono

Due anni dopo i Ritmi,


Paolo e Daria, ove narra una storia d'amore, verosimilmente da lui inventata e riferita ai tempi di Luchino
Visconti. La sua commedia Pasitea in cinque atti e in ottava rima
tutta la decantata eleganza de'suoi sonetti amorosi.

egli pubblic

un poemetto

in ottava rima,

rispecchia, se

387

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

IL

mal non giudico

dalle scarse notizie

che se ne hanno a

stampa, la vaghezza delle rappresentazioni spettacolose propria della


corte milanese, per ci che la semplicissima favola di stampo plautino
vi metta capo ad una scena mitologica e si' intervento di Apollo
nell'azione.

A Milano le rappresentazioni di commedie classiche non attecchi- R p ^f e ~


rono mai, tant' vero che a soddisfazione di Lodovico il Moro, Ercole Milano.
d'Este condusse a Pavia nelT agosto del 1493 venti giovani ferraresi
affinch vi recitassero, come fecero, i Captivi, il Mercator e il Poenulus.
Dei drammi che amo dire meseidati, uno fa rappresentato a Milano in
casa del conte di Caiazzo l'ultimo di gennaio del 1496 e fu la Danae dell'a- La Danae
dl
c~
^'
lessandrino Baldassare Taccone, cancelliere della corte. Composta parte
0
1496
d'ottave e parte di terzine, essa espone la favola dell'amor di Giove per
Danae con gran movimento d'ambasciate tra il cielo e la terra con
isplendore d'inaspettate apparizioni, con suoni e canti, con tutto il lusso
insomma di sfarzosi apparati che contraddistingue le rappresentazioni mitologico-allegoriche. Questo il genere cui si facevano a Milano le migliori accoglienze e per il quale Isabella Gonzaga poteva scrivere di
l in sul proposito delle feste e dei piaceri che le si offrivano: Qui
la scola del maestro di coloro che sanno .
odiare con ispettacoli
mitologici
o
Era vecchia costumanza di solenne
0
L
Kappresenta ^
storici l'offerta annuale che i quartieri della citt recavano alla faball
o 5 h
brica del Duomo, ed essa porse al Taccone il destro di comporre a Milano!
il suo Atteone, che fu rappresentato sulla maggior piazza di Milano per
un'offerta del quartiere di Porta Orientale. Sono in tutto cinque ottave e
poche terzine, quelle pronunciate da Diana e da Atteone che vien tramutato in cervo e queste da Mercurio minacciante ugual pena a
chiunque sia ribelle all'autorit del' Moro. L'allettamento era tutto
negli apparati nella fontana ad emulatione d' antiquit ingeniosamente fabricata , sulla quale si svolgeva la scena nel corteo delle
ninfe seguaci di Diana e nella subita comparsa di Mercurio che s'affacciava fuor d'un fiore posato in sulla cima d'un albero. Sontuosa oltre ogni dire fu la Festa onde furono nel 1489 celebrate le nozze
del giovine duca Giangaleazzo con Isabella d' Aragona. Lodovico il
Moro aveva dato il soggetto; le fabbriche e i meccanismi erano opera di
Leonardo; i versi del Bellincioni. La scena rappresentava il Paradiso
con tutti e sette i pianeti e questi erano figurati da uomini in forme
e abito che se descriveno dalli poeti . Per ordine di Giove, Mercurio
scese dal cielo a render onore alla duchessa; successivamente Apollo,
le deit dei pianeti, le Grazie e le Virt dissero le lodi di lei con ampollose immagini e paragoni sesquipedali. Del pari in una rappresentazione che si fece a Pavia nell'agosto del 1493, presenti il duca Ercole e le sue figliuole Isabella e Beatrice, apparvero Mercurio, Giunone,
le sette Arti, Saturno e i quattro Elementi ed
ottave
in terzine,
son questi i metri anche della Festa del Paradiso
in ballate
rimate dal Bellincioni, bruciarono incensi ai principeschi uditori.
s

)-

.'

li

388
e in altre
citt

CAPITOLO DECIMO.
Spettacoli di tal fatta, dai quali assai pi diletto ritraeva l'occhio

che la mente se si allestivano a Milano forse con pi ricco sfarzo


di addobbi che altrove
erano per bene accetti dovunque. Per le
nozze di Annibale Denti voglio con Lucrezia d' Este celebrate a Bologna nel 1487, Domenico Fusco, un poetastro riminese, architett una
,

semplice azione scenica tra una ninfa, Giunone, Diana e Venere, simboleggiandovi il contrasto fra la vita coniugale e il celibato. La palma
si intende
resta a Giunone
che esortava la ninfa al matrimonio.
,

Giovanni Santi una nostra vecchia conoscenza tratt il medesimo


soggetto mediante una consimile allegoria nella rappresentazione
ch'ebbe luogo nel palazzo ducale d'Urbino, quando vi giunse Elisabetta
Gonzaga sposa a Guidobaldo di Montefeltro (1488). Le stesse farse
del Sannazzaro, delle quali abbiamo parlato nel precedente capitolo,
vogliono essere rassegnate fra gli spettacoli di codesto genere.
Commedie classiche drammi di forma tra classica e popolaresca
e ^ soggetto or mitico, ora novellistico, ora lucianeo, e rappresentazioni allegoriche, ecco i tre ordini di composizioni teatrali, che in sullo
scorcio del secolo pi erano a grado agli uomini colti, vaghi d' un'arte
meno ingenua che non fosse quella dei sacri drammi, e d'argomenti pi
peregrini. Accanto agli spettacoli di quei tre ordini, anche le egloghe
avevano preso posto modestamente. Erano recitate anzi cantate
nelle feste e nei banchetti, da attori in veste pastorale senza apparato
scenico e con semplicissimi apparecchi. Quali trattano materia amorosa con chiare allusioni alle persone presenti e quali copertamente
accennano a fatti storici adulano i potenti o satireggiano la corruzione dei costumi altre per il metro e per la foggia stilistica tengono
fece fare il conte di
dell' Orfeo, come quella del Bellincioni che
sono di gran lunga
Caiazza a uno certo suo proposito , ed altre
le pi
seguono per i metri e per l'intonazione sentimentale gli esempi
del Sannazzaro. L'egloga di Baldassare Taccone rappresentata nei
convivio dell' illustre signor Giovanni Adorno un dialogo in terzetti sdruccioli tra il pastore Fileno, perdutamente innamorato d' una
ninfa crudele, ed Aminta, dove si celebra l'amore di Francesco Sanseverino conte di Caiazzo e di madonna Chiara di Marino nuncupata
fecondo culla Castagnina. In un' altra di Gualtiero di S. Vitale
,

Le egloghe
relative.

tore del genere, che deve esser vissuto alla corte ferrarese, il pastor
Melibeo consiglia Eugenio a prender in moglie una silvana chiara

Vie pi che l'oro terso con la lunula Eugenio esita e vuol


sentir l'avviso del Moro perch d'ogni pastor lui porta il baculo .
Questi gli ha serbato un'altra sposa, Tirinzia, che, satura di star
sola in questo viver labile , acconsente di buon grado al maritaggio
e le nozze si celebrano a suono di zampegne e di nacchere. Un'egloga pastorale intitolata Semidea, dove Mopso e Dafni pastori parlano insieme; Mopso si duole della fortuna e Dafni se ne gloria ,
mandava nel 1493 Niccol da Correggio a Isabella Gonzaga, affinch
ella la facesse intonare e la cantasse sulla lira; Galeotto del Carretto
e lucida

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

IL

ne ha una

ad onore e laude

di

389

Alessandro VI pontefice notamente

creato in terzine sdrucciole Serafino aquilano un'altra dello stesso


metro recitata a Roma nel 1490 col favore del cardinale Giovanni
;

Colonna

Menandro

e Tirinto sferzano sotto il velo tracorruzione e l' avarizia della curia; insomma quasi non v'ha canzoniere di quel tempo in cui non s'incontri
almeno una di codeste composizioni. In un avvenire non lontano
mover da esse l'impulso alla creazione del dramma pastorale.
,

sparente

Come

nella quale

di frasi pastorali la

nuove o rinnovate forme

le

trassero origine dal desiderio che


ci del secolo

XV

il

inusati sollazzi

d'

della

letteratura

mondo elegante aveva


rispondenti alla

drammatica
sullo scor-

risorta

La poesia
lirica "

coltura

classica, cos alla temperie sociale e intellettuale delle residenze prin-

cipesche

si

determin

mero

dotta a

allora nella lirica

esercizio

letterario

la

un nuovo avviamento. Rid' amore languiva nella

poesia

morta gora d'una sbiadita imitazione petrarchesca, dappoich gli epigoni


del grande maestro erano venuti di generazione in generazione assottigliando il retaggio di spirituale soavit e di carezzevole armonia da lui
ricevuto e di quello non rimaneva ormai altro che un arsenale di<
triti artifici stilistici e rettorici e di frasi convenute spoglie per il
lungo uso d'ogni significato ideale. I poeti di mestiere anelanti per
bisogno al favore delle corti, e i gentiluomini, cui garbava foggiare a
mo' di sonetto un complimento svenevole o confessare in versi i loro,
amoretti, se vollero gradire ai mecenati e alle dame dovettero studiarsi di rinvigorire quel loro petrarchismo, e poich non potevano
pensare a tornare al modello essi che avevano l'illusione di non se ne
essere mai discostati (cos il medio evo si credeva fedele e legittimo
continuatore della tradizione letteraria romana)
si argomentarono
d'operare tal trasfusione di novello vig'ore mediante lambiccature del pen,

siero, arguzie, esagerazioni e diedero nell'ammanierato, nel falso, nello

strano. Cos soddisfacevano i gusti grossolani e ottenevano il plauso di


quel loro' pubblico assuefatto alle affettazioni, agli infingimenti e alle
dehcature del vivere cortigianesco ed avido nei suoi sollazzi del nuovo
e dell'inaspettato pi che della bellezza semplice e schietta. Una volta

Roma

a mezzo un convito fu portato nella sala un gran monte


intende
e intorno a questo si misero pavoni, fagiani,
caprioli
una mezza arca di No dove non mancava neppure uno
urso vivo . Or non meraviglia che in una societ non ischiva di
a

di cartone, si
,

simili colpi di

scena, nei quali ogni studio d'arte era sopraffatto dalla

mania del grandioso e

dell'insolito, potessero far fortuna i ghiribizzi,


ampolle del Tebaldeo e di Serafino Aquilano. Sono questi i corifei della scuola di lirici che un illustre maestro, il D'Ancona,
design quale precorritrice dei deliri del Seicento.
gli arzigogoli, le

Nato a Ferrara ai 4 di novembre del 1463, Antonio Tebaldi, detto la- Antonio
finamente Tebaldeo giusta il vezzo del tempo, bazzic alla corte degli Este
^f}^-"
fino al 1496, e fu precettore di poesia volgare alla principessa Isabella.

390

CAPITOLO DECIMO.

Riprese codesto ufficio a Mantova, dove dimor quattro anni stipendiato


e accarezzato dal marchese Francesco, che nella sua velleit di poeta
spacciava per propri i versi del Tebaldeo. Alla fine del 1499 torn
in patria e fu poi segretario di Lucrezia Borgia, finch speranza non

buona fortuna lo trasse a Roma alla corte di papa Leone


morte del magnifico protettore lasci quella citt
e tra il 1525 e il 27 visse a Brentonico, terra della diocesi di Verona,
quale arciprete della chiesa di S. Pietro
perch da pi anni aveva
vestito l'abito ecclesiastico. Ma lo colse a Roma il sacco del 27 e vi
perdette libri e sostanze
sicch pass miseramente i dieci anni che
ancor gli rimasero di vita, imprecando all'imperatore e ai Tedeschi.
Nell'et matura il Tebaldeo abbandon quasi del tutto l'arte del dire
in rima, compose epigrammi latini e, amico del Bembo, prese interesse
alle dispute sulla lingua. Le poesie volgari gliele aveva pubblicate a
sua insaputa un cugino indiscreto nel 1499; ei ne ebbe dolore perch le riconosceva difettose, ma il pubblico fece loro buon viso,
tanto che se ne contano undici edizioni fino a mezzo il secolo XVI.
Le rime del Tebaldeo sono: egloghe pastorali destinate alla recitazione, epistole in terza rima di contenenza amorosa o storica e di
stampo ovidiano scritte in nome altrui, fredde e scolorite, alcune otvana

di

(1513). Forse dopo la

tave e poco meno che tre centinaia di sonetti. In questi specialmente


appare la trista maniera del poeta. Egli in fondo un petrarchista e
di solito striscia terra terra colpito

suoi confratelli;

ma

di

dalla stessa

quando in quando

si

melensaggine

che

scuote da quel suo letargo

Il suo artificio consempre nella materializzazione dell'immagine, cio nel dedurre tutte le pi sbalorditive e recondite conseguenze da un traslato
che altri abbia desunto dal mondo fisico ad esprimere un fatto spirituale.
Qual rimatore non aveva parlato degli strali d'Amore? Il Tebaldeo ne
ha tanti ftti nel petto che il cieco dio porta lui per sua faretra (son. 55).
Gocciolano di lagrime e fremono di sospiri tutti i canzonieri da quello
del Petrarca in poi, ma del Tebaldeo si copioso il pianto che ne rimane bagnato il terreno dovunque egli passi (son. 60) e sono s violenti i sospiri che le navi e i nocchier ne hanno spavento (son. 133).
E che lampeggiar di fiamme, che scottar di fuochi per entro ai sonetti
del ferrarese! Egli, manco a dirlo, arde d'amore per la sua Flavia:

e spinge a forza l'ingegno fiacco a voli stupendi.

siste quasi

ora, quell'ardore costantemente minaccia di abbruciargli le

membra

panni (son. 37), scioglie in breve tempo la neve (son. 59) e rende anche qualche buon servigio perch riscalda la palla metallica su cui
la bella poser le mani intirizzite (son. 117). I fatti pi naturali e
pi frivoli accidenti si consertano nella mente del Tebaldeo colle immagini cos materializzate e ne risultano le pi strampalate bizzarrie. Un
giorno nevica, e Flavia, andando a messa, scivola e si sloga un braccio
gli che la neve vedendosi vincere di bianchezza, presa da gelosia,
le si agghiacciata sotto i piedi; ma se madonna ardesse come il suo
,

poeta

avrebbe

strutto quel

ghiaccio (son. 101). Un' altra

volta tira

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

IL

391

vento Giove, il quale ha preso la forma di Borea per fruire quel


grazioso e bel colore (son. 56). Se madonna ha mal di gola, il poeta
:

pensa che i celesti invidiosi del nostro bene, cerchino serrare la via
onde escou quelle parolette accorte (son. 42) se colta da emorragia nasale il colpevole Amore che voleva piagarla in mezzo al
cuore, ma cieco com', la colse invece al naso (son. 47). Nella sua cincischiata poesia lo scrittore non mira tanto all'esagerazione, quanto all'arzigogolo, da cui l'esagerazione scaturisce poi naturale.
Ingegno pi vivido e fantasia assai pi agile e ricca che il Tebaldeo, ebbe Serafino dei Ciminelli dall' Aquila negli Abruzzi. Nacque
nel 1466 e giovinetto fu da uno zio materno collocato come paggio
alla corte del conte di Potenza a Napoli. Quivi apprese da un fiam,

mingo

1'

arte dei suoni e tornato in patria

del Petrarca.

Mosso dal desiderio

di

si

diede tutto allo

tentar sua ventura, circa

studio
il

1484

Roma, dovesi acconci col cardinale Ascanio Sforza e cominci a levar fama di s per la sua perizia nel canto e nel suono
della lira. Spirito irrequieto e geloso della sua libert, non si mantenne
lungamente in buon accordo col suo signore; pure rimase con lui, ecsi

trasfer a

parecchi anni, seguendolo anche


a Milano nel 1490. Pare non lo abbandonasse definitivamente se non
nella seconda met del 1493, quando pass ai servigi di Ferrandino
d'Aragona governator dell'Abruzzo, che forse lo aveva conosciuto l'anno
prima nelle feste e rappresentazioni celebrate in suo onore a Roma dal

cettuata alcuna breve interruzione

cardinale.

Le turbolenze

del

reame

all'appressarsi dei Francesi, indussero

Serafino a passare nell'Italia superiore e fu alle corti d'Urbino, di Mi-

lano

e,

pi lungamente, di Mantova,

come un nuovo
lieri

Orfeo.

Quando

dovunque festeggiato ed ammirato

nelle sale gremite di gentildonne e di cava-

codesto ometto tarchiato eppure agile e disinvolto, dagli occhi neri e

cominciava a toccare ilsuo

vivaci, dai capelli neri, lunghi e spioventi,

liuto,

faceva silenzio profondo. Tutti pendevano dalle sue labbra ed egli con
aria di ispirato, come acceso di fuoco divino, recitava, talvolta fingendo di
si

improvvisare,

monie

le

suoi sonetti e

parole alla musica.

suoi strambotti e disposava in dolci ar-

E che

condia, l'aggiustatezza del gesto,


trillar dell'arguta e

pronta

lira,

applausi alla fine

il

L'artifziosa fa-

proferire chiaro e aggraziato,

il

un gran fascino sugli


d'Este prendeva un singo-

tutto esercitava

uditori e in particolare sulle donne. Isabella

si compiaceva di possedere componimenti non divulgati del fortunato poeta se lo disputavano le corti e chi
poteva procurarsi qualche cosa zentile eh' egli avesse novamente
composto, si reputava bene avventurato.
Serafino partecipava anche a spettacoli scenici e all' occasione
apprestare molto acceleratamele le parole. Fra le
sapeva
ne
sue rime sono tre egloghe recitative due in terzine sdrucciole la
terza polimetra, a imitazione di quelle dell'Arcala, e un Atto scenico
del Tempo, ch' un monologo in quindici strambotti. Probabilmente il

lare diletto a quelle recitazioni e

poeta stesso vi sostenne la parte del

Tempo

prodigante ammaestra-

Serafino
(if-1500).

392
menti

CAPTOLO decimo.
morali;

come

una sua

in

rappresentazione, di cui desunse

pensiero dalla canzone petrarchesca

Una donna pi

bella assai

il

chl

Mantova nel gennaio 1495, apparve molto lascivamente vestito, con il leuto in brazzo a sostenere la parte della
Volutt. Questo personaggio allegorico esort gli spettatori, in terzine
non del tutto spregevoli, a godere i piaceri mondani; venne poi la
Virt che in una serie di versi con rimalmezzo si lament del dispregio in che era tenuta; ed ultima la Fama su di un carro trionfale,
qui ritornano le terzine
del duca di Calabria e del
a dir le lodi
marchese Francesco Gonzaga, i soli che ardessero d'amoroso zelo per
la Virt e per la Fama e loro dessero onorato ricetto.
N la perizia del recitatore e del musico, n altre sue giullaresche
abilit, come far giochi di memoria locale con carte e nomi e giocar alla
palla, n i tre benefici aquilani ottenuti nel 1493, procurarono a Serafino
un'esistenza agiata e tranquilla. Forse avrebbe potuto goderne se avesse
messo giudizio, quando tornato a Roma al principio del 1500 entr
al servigio del Valentino. Ma ai 10 d'agosto una terzana doppia quasi
pestifera lo spense. Ai contemporanei parve mancasse all'Italia un de'
suoi belli ornamenti, e la fama che, agognata, aveva sorriso a lui vivo,
accompagn per lungo tempo la sua memoria. Nel 1504 il bolognese
Giovanni Filoteo Achillini, un rimatore assai pi fecondo che culto,
diede a luce una raccolta di poesie greche, latine e volgari in lode dell'e stinto. Erano queste le ghirlande che non so quante decine di verseggiatori deponevano sulla tomba dell' ardente Serafino aquilano ,
ghirlande conteste di quegli spampanati fiori di serra, di cui egli era
sole e che fu fatta a

stato

esperto educatore Alle lodi sperticate dei colleghi e dei disce-

lettori, e le edizioni delle rime del Ciminelli andai


rono a ruba. Tra il 1502 e il 1503 non ne uscirono meno di sei;
nel 1516 gi toccavano la ventina.
Dicono che Serafino fosse incorato a comporre i suoi strambotti
esem pi 0 \q[ Cariteo e che nei sonetti si proponesse di emulare
l'ingegnoso Tebaldeo certo super l'uno e l'altro nelle arguzie, nelle
leziosaggini e nelle ampolle. Scorre anche nelle sue rime una vena
copiosa di umori petrarcheschi; anch'egli volge a significazione materiale le immagini figurate; ma, quasi a rendere pi viva l'impressione
delle inattese deduzioni, preferisce cominciare il sonetto coll'enunciare
il bizzarro risultamento di queste, piuttosto che riserbarlo, come il Te
baldeo suole, alla chiusa, e per rappresentare il suo stato e gli allettamenti della donna magnificata ricorre ai pi bislacchi paragoni che poeta
abbia mai usato. Alla corte d'Urbino vede una statuetta di Cupido:
Amore stesso converso in marmo un d che volle ferire la duchessa Elisabetta e non si guard da' suoi occhi medusei (son. 41). Ma ben altro effetto
producono in lui gli occhi della sua bella; gli suscitano nel cuore tale
un incendio, ch'ei non sa intendere come invece quelle scintille non appicchino il fuoco ad un libretto che sta innanzi a lei (son. 36) come non
s'infranga lo specchio in cui ella si mira (str. Aver d'acciaio); anzi
come i raggi riflessi da questo non infiammino lei stessa.

poli assentirono

La maniera
di

serafino,

IL

393

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.


Ch ho
Quando

render foco,
qualche parte.
Gran cosa pur).

visto ogni qual vetro


dal sol percosso in
(str.

ormai sono rotte lo leggi di Natura. Un di Serafino gust


neve per rinfrescarsi, E .foco torn in lui la neve e'1 giaccio
(son. 53); acqua e fuoco stanno in lui uniti senza consumarsi a vicenda,
ch egli porta in seno una fornace ardente, mentre dagli occhi sparge
un largo fiume (str. Se clrento porto) e, maggior meraviglia, la bella,
ch' di ghiaccio vive sicura tra le fiamme del suo cuore (str. Se salamandra in fiamma vive). Il Tebaldeo, abbiamo visto, temeva che queste,
divampando, gli bruciassero le membra e le vesti; Serafino si vede i
panni belli e combusti, onde se ne spoglia e gi in mare. Che vale ?
Le acque s'infiammano al suo calore e battendo contro gli scogli accendono perfino questi d'amore (str. Spesso questi arsi panni). I suoi
sospiri sono s cocenti che bruciano per l'aria gli uccelli (str. Quanti
egli gira per piazze e campi invisibile, avvolto nel fumo del
ocelletli)
suo ardore ma se talvolta le vampe gli escono dal petto pare una
lucciola d'agosto (str. lnvsibil ne v) il soldato stretto d'assedio in un
castello privo d'acqua, il marinaio alla cui vela manca il vento, il meschino che negli inverni gelidi non ha legna per riscaldarsi, ricorrono a lui:

Ma

della

Ricco m'ha fatto

Vento in bocca,

di tre cose

amore

in gli occhi
(str.

Nel leggere queste e


se per avventura

sentimento,

simili esagerazioni
poeta non ischerzasse.

il

serio, tutto intento

acqua e foco in core.


Castello da crude l).

non

gi ad esprimere

ci

vien fatto di chiedere

No, no;

egli

diceva sul

e neppure a simulare un

a suscitare meraviglia colla novit delle trovate. L'amore

di cui parla Serafino

solitamente

non

razione pr qualche gran dama, talch

se
il

non devozione ed ammi-

raziocinio pu sulle ali della

fantasia slanciarsi con fredda serenit a corse vertiginose. Nel cuore

dell'Aquilano sono fitti tanti strali, che egli potrebbe, come il Tebaldeo,
fornirne Cupido, se ne restasse privo (son. 125). Ora, guardate: egli
ha nel cuore l'oro degli strali, l'immagine viva della marchesana di
Mantova ed il fuoco, tutto l'occorrente insomma per metter su zecca
e coniar tante medaglie coll'effigie di lei da farne beato mezzo mondo

La duchessa d'Urbino ha per impresa una ventosa d'oro,


ed ecco Serafino schiccherare due sonetti per dimostrare la somiglianza
tra questa e madonna
in quanto che
come la ventosa suol partire il bon dal tristo umore e bench abbruci, dar la salute ,
cos Elisabetta col suo focoso sguardo ogni basso pensier parte dal
core E subito el sublima e fa gagliardo (son. 23). Egli paragona
s stesso al legno verde che cigola e getta umore dai capi mentre
arde nel mezzo, alla bombarda che scoppia se non pu scariscarsi, all'aquila, al castoro, e la donna de' suoi pensieri all'idra delle sette te(son. 81).

394
ste.

CAPITOLO DECIMO.

Queste sono

sguardo,

lo

il

viso, la fronte,

ne tronchi una, ne spuntano

seno, e se

il

piedi, le

mani, la bocca

altre sette, sdegno, di-

sperazione e via dicendo (son. 67).


Sottigliezze e sminuzzamenti di tal fatta s'incontrano ad ogni pi

sospinto nelle rime dell' Aquilano. Neil' arte di lambiccare

tramutar
di ricamare

le

stille

sui pi

il

pensiero

in rigagnoli egli maestro, s che gli vien fatto

argomenti. Se nota che alla sua


mano una camicia di lei, se una
gentildonna gli fa dono d'un anello, ecco scorrere dalla sua penna il
sonetto arguto e lezioso. Un guanto, una cintura, un monile, un uccellino prigioniero, un falcone e simili inezie sono i soggetti che meglio
si acconciano al proposito suo di sfoggiare spirito, acume, galanteria.
La materia argilla molle e labile, eppure l'ingegnoso verseggiatore
riesce a trarne scintille: e che scintille!
Negli strambotti l'artificiosa contenenza si accompagna spesso ad

bella

manca un

tenui e frivoli

dente, se gli viene fra

artifici di forma e a giochetti puerili. Trovi strambotti in cui ciascun


verso principia colla stessa parola e la stessa parola ritorna in ciascun
verso in una sede fissa, ed altri tutti contesti di ripetizioni, come quello
che comincia:

Peregrinando vo

di

sasso in sasso,

Disperso notte e d di monte in monte,


Sol solo, afflitto afflitto, lasso lasso,
Smarrito con la morte a fronte a fronte;
si incatenano riprendendo ognuno
Ond' che il breve componimento popolaeli Serafino perde la sua ingenua freschezza e sponfiorellino disseccato senza profumo e ritinto. Solo di
per lo pi quando assume un'intonazione malinconica,
sciuparlo del tutto e a serbargli alcunch della grazia

strambotti a dialogo e strambotti che


l'ultimo verso del precedente.

resco fra le mani


taneit e pare

un

rado, ed avviene
egli riesce a

non

primitiva. Del pari tra' sonetti, alcuni pochi, schiettamente petrarcheschi,

vanno scevri

dei difetti

pur ora

notati. Ricercatezze, ampollosit

stranezze abbondano nei capitoli e nelle epistole amorose,

luite nell'onda facile dei prolissi ternari restano

Le barzel
,ett9,

come attenuate

ma

di-

e pro-

ducono impressione meno sgradevole.


Semplicit di contenuto ed agile scioltezza di forma, pregi insoliti
nelle rime dell'Aquilano, si riscontrano nelle sue barzellette. Chiamavano cos nellltalia superiore, e il nome si diffuse poi dovunque, quei
componimenti che in Toscana si dicevano canzoni a ballo, nel Mezzogiorno canzoni per canto e in ogni parte si comprendevano anche
sotto la pi generica appellazione di frottole. Salite dalle piazze e dai
trivi nelle

aule dei signori

codeste

rentita dalla briosa leggerezza del

qual fosse

almeno una

composizioni ebbero come gua-

metro

il

lettore

rammenta bene

cotal disinvoltura di tono e di

movenze, e

cantate sulla lira nelle feste e nei ritrovi, furono assai accette alla societ elegante dell'estremo Quattrocento e del primo Cinquecento. Fra
le barzellette di Serafino ve n'ha un paio d'argomento satirico; alcune

IL

altre moraleggiano,
le

395

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

come

quelle in lode della pazienza e della speranza;

pi parlano d'amore, dei tormenti del poeta e della ritrosia delia bella.

Graziosa nella sua vivacit popolesca quella che comincia:

Non mi

negar, signora,

Di sporgermi la man,
Ch'io vo da te lontan,
Non mi negar signora.

Una

pietosa vista

Pu

far ch'ai duol resista


Quest'alma afflitta e trista,
E che per te non mora.
Non mi negar signora

stramche dal frontispizio istoriato suole annunciare che si racchiuda nel volume o volumetto o volumone onusto del poetico patrimonio d'ogni rimatore di proposito fiorito in sul cadere del secolo XV. Sono le forme e i generi cari ai
due solenni archimandriti della scuola, che tutta, com'essi si comSonetti, canzoni, sestine, capitoli, epistole, egloghe, disperate,

botti,

barzellette: tale o poco diversa la litania

piace delle gonfiezze, delle frivolit, delle lambiccature e d'ogni

ma-

modenese Panfilo Sasso (14471527) e poeta fecondissimo di elegie e di epigrammi latini. La sua
avversione alla vita cortigianesca, onde fu tratto a dimorare lungamente nella solitudine della villa di Erbeto, e lo studio che pose in
modellare sul Petrarca il suo canzoniere, non valsero a salvarlo da
quei difetti. Pi largamente forse d'ogni altro egli f' uso di domande
rettoriche e di paragoni, disposti questi e quelle in lunghe e monotone file, e negli strambotti anche delle ripetizioni di parole in fin di
verso; sfrutt insomma tutti gli espedienti rettorici in aiuto della
sua scarsa vena di poeta estemporaneo. Dicitore improvviso e sonatore
di lira nelle piacevoli radunanze e nelle serenate notturne sotto alle
finestre delle belle
fu anche lo eccellentissimo Francesco Cei
niera

d'artifici.

Gran

sonettiere fu

il

(1471-1505), cittadino di Firenze. Amante del lieto vivere, fu tra i pi


fieri nemici del Savonarola e scrisse contro i Piagnoni versi che gli
valsero il bando. Ma pi che dalla politica, attinse ispirazione o pretesto a rimare dall'amore per madonna Cassandra Bartolini nei Ginori,
crudel Clizia per cui l'Arno correva al mare gonfio e torbido delle
lagrime del poata (son. 80) e che avrebbe ridotto in cenere il suo
spasimante, se i sospiri non avessero a lui mitigato l'ardore del fuoco (5).
Meraviglie consimili il Cei ne racconta a bizzeffe nel suo canzoniere
lascivetto, dove pur s'incontrano sonetti leziosi a un pappagallo ammaestrato, a un cagnolino accarezzato da Clizia, a una colonna cui ella
s'appoggia, a quel beato animale che mor per coprire della sua pelle
la

quelle preziose mani.

La maniera

Tebaldeo trionfava alla fine del sequei due s'erano messi Cristoforo fiorentino detto l'Altissimo, Bernardo Accolti da Arezzo, improvvisatori

colo,

di Serafino e del

quando gi

sulle

orme

di

seguaci
Seratno

di
-

396

CAPITOLO DECIMO.

festeggi atissimi l'uno nelle piazze dinanzi al popolo, l'altro negli aristocratici convegni, Benedetto da Cingoli, Timoteo Bendidio da Ferrara,
Vincenzo Calmeta, Jacopo Corsi fiorentino e cent'altri. Nelle corti di
Milano, di Mantova di Ferrara di Urbino lo strambotto svenevole
messo in voga da Serafino era il genere preferito. Breve ed ormai
ischeletritosi in certi moduli fssi, esso riusciva di ben facile composizione e tentava spesso la vena di gentiluomini tutt'altro che cari ad
Apollo. La musica ond'era accompagnato ed il canto parevano ridonar
vita allo scheletro. N il secolo nuovo fastid subito la maniera e le
forme liriche instaurate dal precedente ch ne' suoi primi decenni
si misero a stampa ed ebbero fortuna Y Opera nova amorosa del Notturno Napoletano, le Selce di Marcello Filosseno, i Libri d'Amore variamente intitolati di Baldassare Olimpo da Sassoferrato il Tyrocinio
delle cose vulgari del bolognese Diomede Guidalotti, il Fior de Delia
di Antonio Ricco napoletano e via discorrendo, opere tutte che per
dritta linea discendono, anche se accolgano in maggiore o minor copia
elementi d'altra origine, dai canzonieri di messer Antonio Tebaldeo e
,

del fecondissimo poeta Serafino Aquilano.


"dSiia tne*
dei secoir.

^ ua^

11011

S1

possono, a voler essere giusti, dire seguaci quei

tre gentiluomini poeti con cui gi abbiano alcuna familiarit, Niccol

da Correggio, Galeotto del Carretto e Gaspare Visconti, perciocch se


si compiacquero di far soggetto di poesia ogni inezia
ci non fu tanto per ispirito di
e di stillare sottilmente il concetto
imitazione, quanto perch a quel modo di poetare li trasse direttamente
l'aria viziata della corte. E tuttavia essi serbarono a' loro versi una
certa decente compostezza di pensiero, n abusarono, come Serafino,
degli artifici formali. Il Correggio ha qualche sonetto graziosamente
petrarchesco e Galeotto barzellette davvero commendevoli, come per
che comincia lo mi sento in mezzo al core
es. quella, vaghissima
anch'essi molto

Una

Ammanierate,

leziose ed a volte gonfie sono le

Moro
n meriterebbero un

Bellincioni piaggi
zesca,

bella margarita.

all'imitazione del

il

maggior

particolare ricordo, se

lirico

rime

colle quali

il

principali personaggi della corte sfor-

nostro

si

non

fosse che in esse

conserta larga copia di re-

miniscenze dantesche, della Commedia le pi ma anche


d'amore. A che dovettero conferire non tanto le letture
divino che faceva nella residenza del Signore lombardo
giatore miserello, Antonio Grifo, quanto lo studio che il
,

delle poesie

del poema
un verseg-

Bellincioni,

Lorenzo il Magnifico, aveva posto in giovent


nelle opere dell'Alighieri. Similmente nelle epistole amorose in terza
rima di Niccol Lelio Cosmico, un padovano morto forse ottantenne
nel 1500 dopo una vita errabonda e avventurosa, sono ben palesi le
tracce de' suoi studi danteschi. Ci nondimeno e in quelle epistole
stesse e nelle canzoni e nei sonetti il Cosmico un petrarchista scabro
e disadorno, n in tutto immune dalle pecche della lirica cortigiana,
che gli son lungamente all'orecchio a Mantova e a Ferrara.
fiorentino e familiare di

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

IL

petrarchesca e quindi mondi quasi del

Ligi alla pura tradizione


tutto di secentismo precoce,

397

mantennero

si

oltre ai fiorentini plato-

neggianti, alcuni pochi rimatori di quello scorcio di secolo:


cui la realt d'un

amore profondamente

sentito e

il Boiardo,
suo alto ingegno

il

salvarono dalle lambiccature e dalle falsit il giureconsulto bolognese


Sclaricino, che il suo rozzo canzoniere amoroso modell fe;

Tommaso
delmente

quello del Petrarca

su

infine

guerri, imitatore giudizioso e garbato.

pistoiese

il

Non andr

Antonio Forte-

molto, e questo av-

viamento della lirica d'amore schiettamente petrarchesco prevarr per


opera del Bembo. Allo strepito per varia g Lsa assordante delle rime
di Serafino e de' suoi seguaci succeder una musica pi dolce e melodiosa; alla degenerata imitazione popolaresca un'ideale d'arte aristocratico le forme metriche sancite dall'autorit del grande trecentista
riacquisteranno interi i loro domini e il madrigale caccer di seggio
nelle musiche cortigiane lo strambotto e la barzelletta.
j

La fastose e festose costumanze e le svenevoli raffinatezze del vivere cortigiano si specchiano bellamente, abbiamo visto, nella drammatica e nella lirica dell'ultimo Quattrocento. Ma ispiratrici di poesia,
anzi d'una poesia pi vivamente sentita, furono anche le tristi realt
che si covavano sotto a quelle apparenze di giocondit e di gentilezza
dico le nequizie e le perfdie cui era di leggieri esposto chi salisse in
:

alto e le miserie dei salariati trascinanti la vita negli uffici pi umili.

Come
...

a Giannantonio Petrucci tra


.

lirici

napoletani
1

cos tra

coevi linci dell Italia superiore

si

addice

rese Pandoifo Collenuccio (1444-1504),

ed autore della sacra

un
il

Commedia de Jacob

Pandoifo
Collenuccic

posto appartato al pesa-

(1444-1504)

traduttore
et

dell' Anfitrione
de Josef. Dotto uomo
,

egli scrisse alcuni dialoghi di foggia lucianesca in latino e in volgare,

un Compendio della storia del regno di Napoli in cinque libri ed alIn un lungo trattato (1493) difese vivacemente Plinio con-

tri opuscoli.

matematica e filosofia nello Studio


con acre burbanza
alle Castigationes del Barbaro. Pandoifo sostenne spesso uffici pubblici a Bologna, a Pesaro, a Firenze e a Ferrara ed ebbe commissione di ambascerie onorevoli in Italia e fuori da Giovanni Sforza da Giulio
Cesare da Varano da Lorenzo il Magnifico e da Ercole d'Este. Ma
nessuno pi di lui prov quanto fosse mutevole e inficia l'aura delle
corti. Nel 1488 in causa di certa lite lo Sforza, signore di Pesaro,
lo tenne in carcere quindici mesi e liberatolo gli di bando. Nel 1504
poi, violando la fede che gli aveva promessa nel concedergli licenza
di tornare in patria, lo fece nuovamente imprigionare e per vendetta
tro Niccol Leoniceno, che, lettore
di

Ferrara

aveva

fatto

eco

di

ma

del favore dato poc'anzi dal Collenuccio al Valentino, usurpatore della

signoria sforzesca, lo fece uccidere agli 11 di luglio.

Non molte

n in genere molto pregevoli sono

dello sventurato umanista

ma

le

liriche

volgari

onorato ricordo egli merita per queir Una

che compose verosimilmente durante

la

prima prigionia,

la

Canzone

a sua

alla morte.

398

CAPITOLO DECIMO.

alla Morte. Egli paragona s stesso al pellegrino che, stanco dei viaggi
lunghi e faticosi, sospira la patria, e al navigante cui si affaccia l'immagine elei corsi pericoli e sorride il pensiero di vita pi tranquilla;
ed invoca la Morte come rifugio e porto di salute. Al povero prigioniero la vita appare come una sequela di mali, dove l'anima umana,

scesa candida, pura e divina dal cielo,


nella

pugna angosciosa

si

spoglia del

lume

di

sua gloria

della natura cogli elementi, cio degli interni

impulsi cogli influssi esteriori.

non da corruzione o da

La qual

triste condizione fatta all'uomo

tristizia di tempi,

morale e gli asceti,


bene larsiitrice che della morte:
dicatori della

ma

dalla

come dicevano
Natura

stessa,

soliti

non

pre-

d'altro

Questa acerba matrigna


Natura, in tanti mal questo sol bene
Pose per pace, libertade e porto
A' pi savi diporto,
Che'l fine attendon delle mortai pene.
:

Nella penultima
d'antichi giudizi

stanza
il

suo,

il

ma

Collenuccio

da buon umanista corrobora

tosto ritorna con vivezza di sentimento alla

sua invocazione:

Tu

breve, tu

Tu

facil, naturai,

Il

comune

e giusta e grata,

pronta, che sepre {separi)

bel fior dalle vepre,

Nostre calamit prego che ammorte,


Benigna e valorosa, optata Morte.

Ed implorando

la misericordia divina, pon fine, cristianamente alla


Vigorosa ed originale poesia, cui la sincerit dell'ispirazione fa perdonare l'asprezza della forma e l'impurit della lingua.
Tragica l'espressione del dolore di codesto cospicuo gentiluomo;
la rappresentazione delle miserie quotidiane d'un povero diavolo costretto a mendicar il pane per le corti, si atteggia invece a facezia.
Di famiglia oriunda da Vinci presso ad Empoli nacque circa
il 1440 Antonio Cammelli,
detto dalla sua patria il Pistoia. Non sappiamo quando n con quale ufficio prendesse servigio alla corte del duca
di Ferrara; ma solo che nel 1487 questi gli affid il capitanato della
porta di S. Croce a Reggio e dieci anni dopo ne lo rimosse. Senza
guadagno, senza robe, in una citt forestiera, il Cammelli implorava
dal duca, di cui aveva demeritato la grazia, soccorso di vettovaglie
per^s e per la sua figliolanza numerosa, e gli diceva aspettarlo come
li zovini rondinini el desiato cibo dalla madre . Riebbe l'ufficio
dopo qualche tempo per intercessione di Isabella d'Este, ma lo per-

sua poesia.

La

lirica

burlesca.

dette

per la seconda volta,

sicch nel

novembre

del

1500

instava

presso la marchesana affinch rinnovasse le raccomandazioni al duca


(CF. p. xlviii). Queste par non sortissero l'esito desiderato e il Pistoia

and

vagando

di

Novellala, a Ferrara,
lo tolse di

corte

in

corte,

a Correggio > a Mantova,

sempre misero e lamentoso,

mezzo una malattia vergognosa.

finch nel 1502

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

IL
Il

Pistoia parla sovente ne' suoi sonetti delle miserie che lo

tano. Si trova ridotto in estrema

nulla

399

ha

ed

dere
credenza
entrano

rotte , n ha un denaro per farsi raha dato all'ebreo pi d'un farsetto e vive a

scarpe

le

(CF., 78); gi
(R.,
il

36).

sole

tormen-

povert; alla fine del mese avanza

La sua

casa tutta

e la pioggia;

in

terra

sconnessa; d'ogni

nascon fonghi

parte vi
e

mur

al

combattono nel corpo sbudellato e ragni e topi


e barbastelli a squadre (R., 27). Il poeta si duole che il suo signore sia pi largo di benefici a chi non gli d se non inchiostro,
sonetti e parole, che a lui il quale gli era stato schiavo e mulattiere
e gli donava fede, tempo e sudori (CF., 75). Se era alla corte, doveva qualche volta cenare in compagnia dei buffoni dei servi, degli
staffieri, in una di quella umide e buie e orribili stamberghe che dicevano tinelli, su di una tovaglia bisunta che mostrava la mensa
per le porte , e trangugiare insalata mal condita, pane peloso e
duro, vino andato a male, e affaticare le mandibole intorno a brani
Quando fu a Reggio altri
di vacca che parevano cuoio (CF., 80).
il
duca
non
voleva
racconciare
la diroccata torre,
peggiori:
guai e
residenza del capitano (R., 181, 194) e gli lasciava mancare il neonde il poveraccio s'era fatto un Argo per vedere se alcessario
cuno gli portasse o vino o pane e chiamavasi servo del duca all'altrui spese (CF.
97). Per soprassello i fattori, tenendolo a bada,
non gli pagavano il salario n i donativi promessi dal duca.
Le stoie, le case mal arredate e cadenti, le cattive cene erano,
sappiamo, argomenti tradizionali della" poesia burlesca, la quale continuava allora a devolversi, torbido fiume, dalle vecchie scaturigini
fatte pi abbondevoli dal faceto barbiere di Calimala. Accanto a
Luigi Pulci e a ser Matteo Franco, tirava gi sonetti, facendo la
bertuccia del Burchiello , Alessandro Braccesi (1445-1501), che fu
pi volte al tempo del Magnifico commissario della repubblica fiorentina a Roma e che pur sapeva rimar d'amore e tornire eleganti
elegie ed epigrammi nella lingua d'Ovidio; e il pistoiese Tommaso
salina (R., 22); le

'

'

u
Altri
.

burleschi,

(1429-1501), autore d'un canzoniere petrarchesco in lode


d'una Panfla schiccherava a squadre e a belle torme i sonetti
alla burchia e pi altri d'argomento familiare. Il Bellincioni tra un
complimento cortigiano e una fantasia scenica seguitava a scoccare le
sue rimate invettive e a rallegrar di rimate facezie le brigate.
Toscano come codesti suoi confratelli in Parnaso, il Pistoia li L,a poesia
elei Pistoia.
supera tutti cos per fecondit, come per gaiezza e per novit di
trovate comiche. Se vuole descrivere certo abito giovene d'oro e
d'anni ricamato , ne racconta la storia movendo dai tempi di Pigi gi
lato, quand'esso era una turca lunga insino al piede
fino al tempo di papa Sisto, che lo don, ridotto a unvestitello ,
al soldato che lo indossa ora (R., 212). Vede un crocifisso scolpito da un rozzo artista, e scrive quel sonetto pieno di spirito, che
comincia

Baldino tti

CAPITOLO DECIMO.
Colui che questo Cristo ha fabbricato,
Ha dato un gran favore all'eresia ;

Se presto, o frati, noi levate via,


Ciascun che '1 vede cascher in peccato.
Costui par sulla cro^e un disperato
Che bestemmi e minacci tuttavia:
N par che per salvarci morto sia,
Ma per avere il mondo saccheggiato.

Nel descrivere

mento

fsso

cavalli sfiancati, zoppi e tutti guidaleschi, altro argo-

vena
mantel di

della poesia faceta, la sua

Avea

ronzino, che ricamato


vista

(CF., 147).

che

vigoroso

il

il

Ecco qui un

inesauribile.

gemme

cavaliero dubitava

sopra

non

gli

l'ossi

fusse

e in

bisogno

lui (R., 192); eccone un altro che se salta un fosso, nel


mezzo si trova e rimane imbrodolato come un porcellino (R., 157);
un terzo moribondo e lascia in testamento al suo padrone la pelle
tutta piaghe e pertugi (R., 204); un quarto va ballando in saltarelli

portar

per la strada

e,

Sia pur

Se

Immagine questa che


prender

un

sasso quanto vi sotterra,

d dentro,

gli

il

Berni,

el

cava del sabbione.

non

tiepido

(R., 31).

lodatore del Pistoia, ri-

Del pi profondo

e render perfetta nel mirabile sonetto

tenebroso centro. Il Cammelli infatti il pi ragguardevole tra'


precursori del faceto lamporecchiese; quello che con pi ricca vena
e con pi fine gusto rielabor, traendo dall'amara realt pennellate
efficaci e variazioni accomodate a' nuovi tempi, gli argomenti tradizioe

prepar allo squisito artefice cinquecentista la materia e


damentali svolgimenti di essa.
nali e

fon-

propriamente alla burchia non sono molti;


pi sono limpidi
gergo furbesco; ma
e chiari, nella schietta lingua che la patria aveva posto sulle labbra
al poeta. Gli servono ad accompagnare agli amici doni di frutta, di
dolci, di libri; a berteggiare
costumi delle donne di varie citt; a
disegnare saporite caricature di persone; a sfogare la sua stizza e
I sonetti del

Pistoia

in alcuni altri egli fa uso del

i suoi rancori.
Con quale lepidezza non vi descrive un beone, cui il
naso diventato gioielieri Di tante perle ch'io mi meraviglio (R., 2);
un gran mangiatore che fa tremare i capponi nella stia (R., 125); una
donna superba che par proprio a vederla il treutamilla mentre i suoi
congiunti sono contadini (R., 179)! Abbondano i sonetti contro i giudici
corrotti e contro gli amministratori malfidi ve n'ha un gruzzoletto contro
un famigerato capitano di giustizia a Ferrara (R. 84-7, 108); alcuni
;

briosamente parlano dei buffoni della corte mantovana

Anche

alle bizze

e alle

suoi versi, nei quali

antipatie

talvolta

(R.,

161, 162,228).
eco i

letterarie del Pistoia fanno

annovera e giudica

poeti

contempo-

contro Panfilo Sasso, contro


il
Bellincioni, contro Giambattista Refrigerio, un meschino rimatoruccio bolognese
e contro pi altri. Per rappresentare pi viva-

ranei,

tal

libera

altra

frecce roventi

IL

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

401

mente figure o scene egli ricorre spesso alla forma del dialogo diretto, e ne vengono fuori quadretti gustosissimi. Sentite, per esempio,
questo sonetto in cui sono collocutori un sensale di matrimoni e la
madre d'una vaga donzella:
,

M.

Io vorrei maritar la

mia

figliola.

Cercagli, Pietro, qualche bon partito .


P. Madonna, io gli ho trovato un bel marito,

Che non ha patre e matre, e fia lei sola


La roba per casa gli vola,
Due magne possessioni ed un bel sito,

M.

Ricco? P.

Virtuoso, gentile e ben vestito


E mai non disse una torta parola .

M.

cambio una vaga donzella

Gli ara per

Lei sa far quel che vuol e in

mansueta

onesta, seria,

gli atti

suoi

e bella .

P. Ditemi un po', che dota avete voi?

M,

Mille ducati, tutti di coppella

met ne darem
Adunque adattar pi

inanti la

Che

giovene

'1

lo

intenda e

Stringi la cosa e traggasi

Per esser

Piacevolezza
religiosi.

S'ei

di fatto;

fa'

contratto .

satisfatto

sensal tosto la cosa accapezza;

tutti dui in

un punto

il

raccostamene e
l dove

di inattesi

fa la

il

Il

non manca neppure

gergo,

del

noi.

sua

col scavezza

(R., 53).

di

circumlocuzioni proprie

il

poeta

tratta

argomenti

professione di, fede (R., 10-11) o se in una

sonetti annovera ed illustra le feste della Chiesa (40-51),


rimane in dubbio se egli scherzi o parli da senno. Serio per certo,
sebbene alcuna volta la satira pieghi al motteggio, nei sonetti poserie di

si

litici.

Ne

frasi

concise lo stato

scrisse meglio d'un centinaio, ora ritraendo coli' efficacia di

penisola

della

mento ed ora

significando

parte di essi,

mano mano che

nostra in un determinato

sentimenti

procelloso decennio che chiuse

si
il

degli Italiani o

succedevano

secolo

gli

mo-

almeno d'una

avvenimenti

XV. Non gabelleremo

nel

codesti

n ascriveremo tutta ad ispirazione


profonda e viva l'incisiva e talvolta solenne vigoria delia formaCercando il cuore, non dobbiamo dimenticare l'ingegno del poeta.
Tuttavia nel Pistoia, che fra il gregge servile dei piaggiatori seppe
tenersi in un cotal dignitoso riserbo, il sentimento della patria italiana
senza dubbio meno sospetto di secondi fini adulatori, che non sia
sonetti per alta lirica patriottica,

in altri fra

poeti politici di quegli anni.

furono molti. I fatti interni che precedettero o seguirono alla


le chiacchiere che correvano intorno alla
elezione di Alessandro VI
prossima venuta del re di Francia, la cavalcata trionfale di quetutto
sto per l'Italia e il suo precipitoso ritorno al di l delle Alpi
si riflette nella poesia contemporanea, quando asciutta e fredda come
una cronaca e quando animata da allegrezze, da pianti, da sde,

gni.

Rimano
Rossi.

La

cittadini oscuri
lett. ital.

nel sec.

XV.

non

usi a

bazzicar colle

Muse

e poeti
26

j^uri
politlc;

402

CAPITOLO DECIMO.

un sonetto ne trae dietro un altro, due, tre, dieci altri sulle


medesime rime, nei quali vengono a contrasto le varie correnti della
pubblica opinione o, meglio, gli interessi dei mecenati che pagano.
famosi;

Anche nel dominio della letteratura si avverte la trepida agitazione


che aveva pervaso gli spiriti in cospetto di avvenimenti che si presentivano decisivi nella storia

Quando

d'Italia.

nella primavera del

1494 Alfonso

striava a stornare dal suo capo

il

nembo

11

d'Aragona

minaccioso,

il

si

indu-

Cariteo, forse

per commissione di lui, lev la sua voce per esortare i principi itaa riunirsi contro l'invasione forestiera, in una canzone certo
piena di impeto lirico, se sincero o simulato o accattato non importa
ora indagare. Pochi mesi dopo, l'esercito di Carlo Vili valicava le Alpi

liani

e la casa d'Aragona doveva cedere alle armi conquistatrici e alla riCedeva e la accompagnavano di Lombardia i sibili

bellione del popolo.

dei poeti, del Pistoia che additava quella

governi colla

rovina come esempio a chi


scriveva

violenza e colla crudelt, e del Tebaldeo che


allora questo sonetto, brutto ma notevole:
Se gran tesor, se inespugnabil mura,
Se squadre e un capitan de astuto ingegno
Av esser forza a mantenere un regno,
Di Napoli avria Alfonso ancor la cura.
Qualunque regnar vuol senza paura,
Cerchi l'amor dei popoli e no il sdegno;
Che chi se fonda sopra altro sostegno,
Per qualche tempo, ma non molto dura.
Scorno eterno all'italico paese,
Quando fia letto che un regno s forte
Contra' Francesi non si tenne un mese.
Sagunto, che Annibalici avea alle porte,
Per Roma fin che pot si difese,
Che' per principe buon dolce par morte (Son. 219).

Erano

concetti prevalenti alla corte sforzesca, donde Isabella d'Este

scriveva al marito: Questo caso debbe essere exemplo a tutti


et potentie del

mondo de

far pi extima di cuori de

li

li

signori

subditi che de

perch la mala contentezza de li subguerra che lo inimico che si trova a la campagna .


Frattanto era sorta qualche voce in altro tono, come quella di Panfilo Sasso, che in elegie latine, in sonetti, in capitoli, rampognava gli Italiani che avevano provocata o permessa la venuta dello straniero, piangeva la rovina della patria ed esortava la repubblica veneta a muovere la
gloriosa insegna contro re Carlo e i suoi alleati. E lunga eco ripet quella
voce non appena le potenze italiane, auspice il Moro, si strinsero in
armi a' danni dell'invasore. Ai 6 di luglio del 1495 avveniva la battaglia di Fornovo. Di chi fu la vittoria? Del re Francese o di Francesco Gonzaga, che comandava l'esercito dei collegati ? I contemporanei
amarono credere di quest'ultimo e per le terre d'Italia and un'esultanza
di canzoni popolaresche, di sonetti, di poemetti latini e volgari innegfortezze, tesoro et gente d'arme,
diti

fa pegior

gianti al liberatore della patria

al

nuovo Temistocle,

al

nuovo Sci-

IL

TEATRO E LA LIRICA ALLA FINE DEL SECOLO.

403

nuovo Camillo. Il Sasso, Battista Mantovano, il Tebaldeo, Giorgio


Sommariva e cento oscuri versicciolai formarono quel coro di patriottiche
gli
il Pistoia aspramente rimproverava
adulazioni. Solo tra i nostri
Italiani perch non avevano saputo con un esercito poderoso tagliar
pione, al

la ritirata a'

Francesi e scriveva questo sdegnoso e nobile sonetto:


Pass

il

re franco, Italia, al tuo dispetto,

f' mai '1 popul romano,


Col legno in resta e con la spada in mano,
Con nemici alle spalle e innanti al petto.

Cosa che non

Cesare e Scipion, di cui ho letto,


I nemici domr di mano in mano
E costui, come un can che va lontano,
Mordendo questo e quel, pass via netto.
Matre vituperata da' taliani,
Se Cesare acquist, pi non si dica,
Insubri, Galli, Cimbri, Indi e Germani.
Concubina di Mida al ciel nemica,
Ch'hai dato a Vener Marte nelle mani,
Discordia con un vel gli occhi te intrica
Che con poca fatica,
;

In sul transirti

Tutti

tuoi

il

figli

Sia

gallo le confine,

diventar galline.

come vole

il

fine,

Se ben del mondo acquistasti l'imperio,

Ma

non

si

estinguer

il

tuo vituperio.

(R., 324).

Pass Carlo Vili e congiuntosi ad Asti coi suoi se ne torn in Francia.


quattro anni dopo Luigi XII ripassava il malvietato confine e Francia
e Spagna cominciavano a contendersi il dominio d'Italia. L'et dell'indipendenza era finita; si apriva quella, lunga e dolorosa, delle signorie forastiere.
Nei primi mesi del 1493 erano giunte in Italia notizie come cierti La scoperta
dArneriCd
giovani, iti chon charovele a ciercare di paesi nuovi pi l che no
v' er' ito prima re di Portoghalo
chaminorono ventitr d e arivorono a "ciert'isole grandissime che mai pi vi si navich per nazione
humana, popolate di huomini, done assai, engnudi tutti . I carteggi e
le cronache del tempo mostrano l'interesse destato in Italia dalla scoperta. La stampa ne divulg ben presto le narrazioni in prosa, e Giuliano
Dati pose in ottave, nel giugno del 1493, la famosa lettera di Colombo.
Pomponio Leto a quell'annuncio seppe appena trattenere lagrime di
gioia e il lombardo Pietro Martire cT Anghiera, uomo di stato, guerriero, erudito di gran fama, venne esprimendo in frasi piene di entusiasmo la sua ragionata ammirazione per il grande avvenimento. Del
quale i dotti italiani furono tra' primi ad intendere la solenne importanza. Una nuova ra cominciava anche per la storia del mondo.
Nel 1494 morivano il Poliziano e il Boiardo, e gi da pi anni
era stata scritta Y Arcadia. La letteratura era pronta ad essere largamente e schiettamente italiana e ad attuare in forme fulgide di bellezza l'ideale estetico vagheggiato in pi d' un secolo di lenta e fati cosa preparazione. La prima et del Rinascimento era finita.

Ma

CONCLUSIONE

Le Stanze per la Giostra, V Orlando Innamorato, Y Arcadia, ecco


opere alle quali mette capo e nelle quali fa l'ultime e pi compiute
sue prove l'operosit letteraria degli Italiani nel secolo XV. Ivi i senle

timenti,

pensieri e le forme della letteratura trecentistica,

racconti,

forme della letteratura popolare, elaborati e trasformati


nella pi che secolare gestazione
si consertarono in
vario modo e

toni e

le

si

fusero insieme, adorni degli allettamenti della bellezza antica.


Il

senso della bellezza formale appunto, insieme colla perizia di farla


ci che la risurrezione del classicismo diede di pi dure-

rifiorire,

Da

vole e profcuo al Rinascimento nella vita e nell'arte.

da un ravvivamento

di caratteri etnici incancellabili,

sviluppo delle attivit intellettive e morali, da


sociali e politiche,

vennero

altre fonti,

dallo spontaneo

particolari

condizioni

agli Italiani la libera coscienza delle forze

umane contrapposta

alla sommissione, tenuta ineluttabile, a volont ulsentimento vivo del reale terreno contrapposto alla
cieca credulit e all'omaggio reso all'inverosimile, l'invitta energia delle
passioni e del volere, tutte insomma le tendenze morali che contraddistinguono quell'et. La dimestichezza col mondo antico agevol ed
affrett il trionfo di esse, ma direttamente non ebbe efficacia essen-

tramondane

il

molta parte della vita italiana.


nuovi storici, i nuovi poeti, i nuovi artefici del colore e del marmo,
ben potevano atteggiare ad eroi romani i guerrieri moderni e immaginare risuscitati negli Sforza, nei Malatesta, negli Este, nei pontefici
stessi, i Cesari e gli Augusti; ben potevano i principi compiacersi in
vedere velate, meglio che espresse, le loro idee nella pura eleganza
dei sonanti periodi latini e festeggiare le loro vittorie con trionfi fogziale su
I

giati alla

romana; ben potr, fra non molto,

il

Segretario

fiorentino

cercare nella storia di Roma suffragio alle dottrine che il suo genio
avr fatto rampollare dall'osservazione degli uomini e degli avvenimenti contemporanei. Nel fatto le battaglie erano combattute, orditi i
trattati,
si

le

paci conchiuse, le vicende

svolgevano

fuori

insomma

da ogni influsso attuale

di

della

politica

antiche

italiana

memorie.

Il

405

CONCLUSIONE.

Rinascimento, facendo disparire l'illusione che la civilt medioevale


avea avuto, eli essere pura continuatile della romana, spezz
una tradizione, traviata s, ma naturale e spontanea, e tornato allo

italiana

studio largo, schietto e obbiettivo del

ma

mondo

classico, le sostitu

una tra-

senso della realt lo salv dalle


fantasie onde il medio evo s'era lasciato guidare, e imped che l'illusione, accarezzata con piacere infinito nella teoria, della ristabilita continuit fra la civilt antica e la moderna, producessa nella pratica
dizione purissima,

artificiale.

il

effetti reali.

Predicavano i moralisti, ripetendo Aristotile e Cicerone e Seneca, le


savie massime della filosofa antica; pure cos nelle occasioni pi cospicue
come nel quotidiano commercio, la vita degli individui e della societ
trascorreva retta quasi unicamente dalle forze rinno veliate della codei vecchi freni e ligia ancora
s' visto perch
scienza, incurante
a consuetudini redate dal medio evo. Certo a ridonare al pensiero la
libert de' suoi moti e a modificare i concetti etici confer per via
indiretta il risorto' classicismo, se non altro perch assuefece gli spiriti a prescindere interamente dalle moderne credenze religiose pur

senza respingerle n confutarle; ma solo pi tardi quel libero avviagli


mento del pensiero rec a maturanza i suoi frutti. Nel secolo
Italiani, fra l'entusiasmo suscitato dal subito e quasi violento riapparire
della civilt romana, non ebbero il tempo n la calma di scernere ci
che in essa fosse assimilabile alla moderna e credettero di rifarsi antichi solo assumendo le forme esteriori di quella civilt. Onde nel viver

XV

sociale la diretta e fedele riproduzione di antiche costumanze, e nella

un dilagare increscioso di forme che mal rispondevano alla


contenenza delle scritture o davano parvenze solenni alla vacuit e alla
frivolezza della contenenza, un rifiorire e un fiorire di artifici rettorici,
di immagini e di paragoni di stampo clasdi atteggiamenti stilistici
sico, un accavallarsi di ornamenti desunti da favole pagane o paganeggianti, una invincibile inclinazione ad ogni genere di imitazione, in-

letteratura

somma

l'abitudine del falso, del fittizio, del rettorico; triste abitudine

della quale

Dannoso

non pare che

non mi

ci

siamo ancora

liberati.

perito di affermarlo risolutamente

e sincero svolgimento delle lettere fu

il

al libero

cosciente e assiduo proposito di

modelli classici; dannosa soprattutto la forma, sto per dire, mache assunse codesta imitazione; ma ben proficua invece l'impronta che quel proposito lasciava, inavvertita, negli spiriti, facendo maturare il pensiero, educando il gusto, affinando i procedimenti dell'arte.
Nelle manti meglio temprate da natura gli effetti benefici furono palesi ben tosto, gi nella seconda met del secolo XV, quando fiorivano
le eleganze del Poliziano, del Pontano, del Sannazzaro, e il forte ingegno
del conte di Scandiano creava la poesia romanzesca della Rinascenza
generali divennero poco appresso, n pu disconoscerli chi confronti le
opere dei minori e degli anonimi trecentisti con quelle dei minori cinquecentisti, le une
per le poche eccezioni che mi si possono opporre non
imitare

teriale

406

CONCLUSIONE.

dissimulo

un

giudizio che

sadorne ed ora

pu parere paradossale

infantili nella

forma,

le

eleganti e sfoggianti una maturit di forma,

almeno

il

meccanismo

ora scabre e

del pensiero.

Tutti presi dal fascino dell'antica bellezza, gli scrittori del secolo
si

sforzarono

di

parve soffocare
il

riprodurla nelle opere loro, e lo studio* della


il

di-

sempre linde ed
onde si rivela maturo

altre quasi

pensiero. Parve; perch

quando e

XVI

forma

allora e pi tardi

pensiero o politico o scientifico, risorto per impulso di quelle energie

che

Rinascimento aveva rinvigorito, eruppe robustamente maturo


menti degli statisti e degli scienziati, ebbe anzi dalla raggiunta per-

il

dalle

fezione dell'elocuzione e dello stile, spianata la via alla propria

ma-

nifestazione; e quando- alla poesia, uscita dal delirio del secentismo e


dalla sonnolenza d'Arcadia, la vita rinnovellantesi offerse
di civili ideali,

ma anche
l'ultimo

la classica

eleganza

flu

non pure

nutrimento

dalle sue fonti prime,

dalle squisite rielaborazioni dei cinquecentisti nelle opere del-

rinnovamento

letterario.

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE

(*)

all'introduzione.
Indico qui alcune opere generali attinenti al Rinascimento. Per tutto l'avviamento della
morale in quel periodo J Burckhardt. La civilisation en Italie aux temps
de la Renaissance traduzione di M. Schmitt sulla seconda edizione tedesca annotata da
L. Geiger, Parigi, 1885, 2 voli. Veramente questa traduzione francese condotta sulla terza edivita intellettuale e

zione tedesca del Burckhardt, edizione che, se ne togli le note del Geiger, poco differisce
dalla seconda. La versione italiana di D. Valbusa, Firenze 1876, condotta sulla seconda edizine tedesca. E. Gebhardt, Les origines de la Renaissance en Italie, Parigi 1879. Lo stesso,
La Renaissance italienne et la philosophie de V histoire, nella Revue des deuoo mondes*
15 novembre 1885, p. 342 segg. e negli tudes meridionales, Parigi, 1887. H. Janitschek,
Die Gesellschaft der Renaissance in Italien und die Kunst, Stoccarda, 1879. La Vita italiana nel Rinascimento Milano 1893. Per la letteratura in particolare G. Voigt Die
:

da M. Lehnerdt, Berlino, 1893,


2 voi.; la versione italiana (Firenze, 1888, 1890) "condotta sulla seconda edizione tedesca.
L. Giger Renaissance und Humanismus in Italien und Deutschland, Berlino 1882
versione italiana di D. Valbusa, Milano, 1891. G. Invernizzi, Il Risorgimento {ne\Y Italia
del Vallardi, Iediz.), Milano 1878. J. A. Symonds, Renaissance in Itali/: The revival of
learning, Londra, 1877; Italian Literatur. Londra, 1881 in due parti. P. Villari, Niccol Machiavelli e i suoi tempi, II ediz. voi. I, Milano, 1895, pp. 87 sgg. Gasparv Geschichte der ita-,
lienischen Literatur, II Berlino, 1888 pp. 94-341 nella versione italiana, cui si riferiscono le nostre citazioni, voi. II, P. I (Torino, 1891) p. 91 segg.
Molti obblighi ha questo libro verso tutti gli scrittori qui citati; infiniti poi verso il
Voigt e il Gaspary, alle cui opere rinvio il lettore per indicazioni bibliografiche pi copiose
di quelle date in questa Appendice e per i luoghi dove qui esse mancano del tutto.
p. 2. P. De Nolhac, Petrarque et Vlucmanisme, Parigi, 1892.
p. 2. Frasi come queste ferens prae se nihil antiquius sibi futurum quam militare
huiusmodi opus absolutum videre (Panormita Epistolae, Napoli, 1746, p. 355); nihil
sibi antiquius existmabat quam oppressorum causam suscipere ac tueri (Poggio, Opera,
Argentinae 1513, c. 97 v) dominari haereticis, quam servire fdelibus antiquius esse videtur (Pio II, Commentarii, p. 30) si incontrano assai spesso (Poggio. Epistolae, III, 1, 7;
XI, 35 R. Sabbadini, Centotrenta lettere di F. Barbaro, p. 102; ec). Ora, non l'uso che
schiettamente classico, mala frequenza dell'uso d loro il significato che ad esse attribuisco.
p. 2-3. Coluccio Salutati contrappone nettamente alle disquisisiont scolastiche medioevali
que, postquam scita fuerint, nec meliorem hominem moribus faciant nec ad usum humane
vite prudentiorem , gli studi storici (Epist. ed. Novati, voi. II, p. 295), nei quali sono compresi anche gli studi delle lettere classiche (voi. II, p. 430). In queste egli trova documenta
virtutum, mores, omnia que scire non est satis nisi et operibus impleantur (ibidem). Cos altrove, bench distingua gli studia sapientiae dagli studia eloquentiae, definendo la sapientia
rerum divinarum humanarumque scientia eVeloquentia dicendi ratio , tuttavia chiaramente afferma che gli studia literarum sapientie et eloquentie munera preseferunt e che

Wiederhelebung des classischen Alterthums, IH,

ediz. curata

(*) Sono chiusi tra parentesi quadre i titoli e la paginatura di quei libri che per qualunque motivo mi vennero a mano troppo tardi perch potessi trarne alcun partito nel testo.

408

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.

i
precetti morali (la sapentia) cum in ethicam, politicarli et economicam dividantur, et
vitam instituunt et maximam dicendi tum gravitateli] tum copiam subministrant (Epist.
voi. Ili, p. 602,' 604). Qui dunque gli studia literarum e gli studia humanitatis gi
si
confondono in una cosa sola. Ma il Bruni distingue ancora la literarum peritia dagli
studi quae pertinent ad vitam et mores quae propterea humanitatis studia nuncupantur,
quod hominem perficiant atque exornent {Epist. VI, 6) ma vuole che quella vada congiunta con questi (studium vero tibi sit duplex). Il Poggio l sempre la distinzione, ma delYeloquentia e degli humanitatis studia parla come di cose indissolubili (Epist. IX, 2 X, 23).
Quando poi si dice che
omnis bene vivendi norma literarum studio continetur (Pio II,
Opera, Basilea, 1551. p. 601 C) ben chiaro che le literae e gli humanitatis studia sono
considerati come un sol tutto. Cfr. Symonds, The revival of learning, p. 71 sg., e Gaspary,
,

<<

Storia,

II,

342.

i,

Sul significato della parola Rinascimento vedi C. Cipolla, Storia delle signorie
italiane dal 1313 al 1530, Milano 1831, p. 285 in nota.
p. 3-5. Cipolla, o. c. pp. 221-693. Per la poesia politica ispirata da Giangaleazzo Visconti, ivi pp. 234 sgg. e Medin, I Visconti nella poesia contemporanea, neVArch. Stor.
Lomb., XVIII, 1891, p. 758 segg.
p. 6-7. E. Muntz Histoire de l'art pendant la Renaissance-, voi. I, Les primitifs,
Parigi, 1889; voi. II. Uge d'or, Parigi, 1891.
p. 8. Burckhardt, o. e, voi. II, Parte V. Per l'aneddoto di Lodovico il Moro, A. Venturi
nell' Ardi. stor. lomb., XII, 1885, p. 256-7.
p. 8-11. Burckhardt, o. e, voi. I, Parte II e voi. II, Parte IV. Sulla questione dell' mdividualismo nel Rinascimento spero di poter ritornare altrove con miglior agio e di poter
cosi chiarire meglio le mie idee.
p. 3.

Note al Capitolo primo.


p. 13-15. F. Novati, La giovinezza di Coluccio Salutati (1331-53), Torino, 1888. Lini
Colucii Pierii Salutati Epistolae. Pars prima, Firenze, 1741 per cura di L. Mehus. Lini
Coluccii P. S. Epistolae, Firenze, 1741 e 1742, due parti, per cura di G-. Rigacci; cattive
e imperfette edizioni tutte e due, delle quali per ho dovuto in parte servirmi. Epistolario
di. r.nhi.rni.n Salutati a cura di F. Novati, voi. I, Roma, 1891 ; voi. II, 1893
[voi. Ili, 1896].
;
.

La

bibliografa delle lettere fu data

dal Novati

stesso nel Bullettino dell' Istituto

italiano, n. 4 (1888).
p. 15. La lettera ai cardinali in Rigacci, P.

neWArch.

stor. ital. S. Ili, voi. VII, P.

lett.

IX

quella ai

Romani riassunta

1868, p. 223.
degli Alberti, Bologna, 1867 {Scelta, 86
I,

A. Wesselofsky, Il Paradiso
Su L. Marsili, Novati, Epistolario

p. 15-16.

storico

1
,

862 87,88).
,

di C. Salutati, I, 243 n. Nel 1368 il Marsili


era a Firenze cfr. C. Guasti, S. Maria del Fiore, Firenze, 1887, p. xcvin e doc. 201. Le
frasi citate, da due lettere in Selmi, Documenti cavati dai trecentisti circa al poter temporale della Chiesa, nella Riv. contemp. XXX, 1862, p. 120, 122.
p. 16-7. Th. Klette, Beitrge zur Geschichte und Litteratur der italienischen Gelehrtenrenaissance. I. Johannes Conversanus und Johannes Malpaghini von Ravenna, Greifswald, 1888. Ora per il Novati mette in dubbio il soggiorno del Malpaghini a Muggia e con
buone ragioni sostiene che gi prima del 1397 il M. doveva leggere nello studio fiorentino
{Epistolario di C. Salutati, [III, 501-4 nota, e 534-37 note]).
p. 16.

p.

17.

Per

il

Crisolora e la sua venuta a Firenze, Klette, o. c. 47 sgg. e Novati, Epi[III, 119-21 nota]. R. Sabbadini, L'ultimo ventennio della vita di M. C.

stolario del Salutati

XVII, 1891, p. 321 sgg.


P. Vergerio, Novati, Epistolario del Salutati, II, 277 sg. nota. Epistole
di P. P. V. seniore da Capodistria, Venezia, 1887, fra i Monumenti storici pubbl. dalla
Deputazione Veneta di st. patr., Misceli, voi. V. Per la data della sua morte, queste sue Epinel Giorn. ligust.
p. 18.

Su P.

188 e Voigt, Wiederbel., II, 274 nota 1; dell'ediz. ital. II, 266. G. Cogo, Di Ognibene
Scola umanista padovano, nel Nuovo Archivio Veneto, voi. Vili, 1894, p. 115 sgg. cfr. Rass.
Zur Biographie des
bibliografica, II, 313. Sul Conversano, Klette, o. c. e M. Lehnerdt
Giovanni di Conversino von Ravenna. Knigsberg i. Pr. 1893. Non tutte le conclusioni
del Lehnerdt sono accettabili: cfr. Giorn. stor., XXIV, 251.
p. 18-9. Per il giudizio che si recava sul valore politico delle lettere del Salutati -Novati, in Bullett. dell'Ist. stor. ital. n. 4, p. 72. Di Pellegrino Zambeccari, Fantuzzi, Scrittori bolognesi. Vili, 230 sgg,; alcuni sonetti suoi pubblic L. Frati, Bologna, 1887 (per nozze
Renier-Campostrini). Su Matteo d'Orgiano, B. Morsolin, negli Atti del R. Istituto Veneto S. VI,
stole, p.

409

NOTE AL CAPITOLO PRIMO.


voi,

VI, P.

1,

1888, p. 453 sgg. Novati,

Donato

degli

Albanzani alla corte estense, relYArch.

stor. ital., S. V, voi. VI, 1890. pp. 365 sgg. Su Pasquino Capelli, Novati, La giovinezza di C. S.
pp. 88 sgg. e G. Romano. neWArch. stor. lomb., S. Ili, voi. II, 1894, p. 295 sgg. Gio. Da Schio,

Sulla vita e sugli scritti di Antonio Loschi vicentino, Padova, 1858; cfr. Novati, Epist.
di C. Saint., II, 354-5 nota. Antonio Loschi, Carmina quae supersunt fere omnia, Padova, 1858, a cura di G. Da Schio. La lettera del Loschi, cui alludo a p. 19, stampata
dal Da Schio nella sua monograna, doc. XIV. M. Borsa, Un umanista vigeoanasco del
Genova, 1893 (estr. dal Giornale ligust.). Invettiva
(Ubertino Decembrio)
sec.
Lini Colucii Salutati in Antonium Luschum, Firenze, 1826, per cura di D. Moreni. Quivi,
p. 199 sgg. anche l'invettiva di C. Rinuccini secondo un'antica versione toscana.
p. 19-23. Shepherd, Vita di Poggio Bracciolini, trad. da T. Tonelli, con note ed aggiunte, Firenze, 1825. A. Medin, Documenti per la biografa di P. B., nel Giorn. storico, XII, 1883, p. 351 sgg. Per le condizioni di famiglia del Poggio, anche Novati, Epistolario di C. S., [Ili, 553-5]. Poggii Epistolae, per cura di T. Tonelli, voi. I, Firenze, 1832;

XIV

II,

1859;

III,

1861.

R. Sabbadini, Due questioni storico-critiche su Quintiliano. I. Codici scoperti dal Poggio, nella Riv. di filol. classica, XX, 1891, p. 307 sgg. Lo stesso. I codd. delle
opere rettoriche di Cicerone, ivi, XVI, 1888, p. 97 sgg. Per la scoperta del Plauto, Sabbadini. Guarino Veronese e gli archetipi di Celso e Plauto, Livorno, 1886.
p. 23-4. G. ZippeL Nicolo Niccoli, Firenze, 1890. Quivi a p. 75 sgg. l'orazione del
Bruni contro il Niccoli. L'invettiva del Guarino, in forma di lettera a Biagio Guasconi,
inedita nel cod. Riccard. 779, c. 159 sgg. Zippel, L'invettiva di Lorenzo di Marco Benvenuti contro N. Niccoli, nel Giorn. stor., XXIV, 1894, p. 166 sgg.
r
p. 24-25. C. Monzani, Di Leonardo Bruni Aretino, neVA ch. stor. ital., N. S. voi. V,
P. I, 1857, p. 29 sgg., P. Il, p. 3 sgg. A. Gherardi, Alcune notizie intorno a Leonardo
Aretino e alle sue Storie fiorentine, ivi, S. IV, voi. XV, 1885, p. 416 sgg. Leonardi Brun
Ar retini Epistolarum libri octo, Firenze, 1741, per cura di L. Mehus 2 voli.
p. 25-6. Ambrosii Travsrsarii epistolae a Petro Canneto in libros XXV tributae, Firenze, 1759. La prefazione opera del Mehus e racchiude, oltre alla vita del Traversari,
una storia dell'umanesimo fiorentino dal 1392 al 1440 ancor oggi preziosa. B. Ambrosii camaldolensis Hodoeporicon, Firenze e Lucca, (1680). A. Masius, Ueber die Stellung des Kamaldulensers A. T. zum Papst Eugen IV und zum Baseler Ronzii, programma del
Ginnasio di Dbeln, 1888.
L. A. Ferrai La biblioteca di S. Giustina di
p. 26. Sulla biblioteca dello Strozzi
Padova, nel voi. II, p. 566 dei Manoscritti italiani delle Biblioteche di Francia del Mazp. 20-1.

za tinti.
p. 27. Statuti della Universit e Studio fiorentino dell'anno 1387 seguiti da un appendice di documenti dal 1320 al 1472 pubbl. da A. Gherardi, con un discorso di C. Morelli, Firenze, 1881. Vedi anche G. Rondoni, nel'Arch. stor. ital., S. IV, voi. XIV, 1884,

p. 41 sgg., 194 sgg.


p. 28. Sabbadini, Biografia documentata di G. Aurispa, Noto 1891 lo stesso, nel Giornale storico, XIX, 1892, p. 357 sgg. e [XXVIII, p. 341]; G. Salvo Cozzo, nel'Arch. stor.
f
XVII, 1892, p. 326 sgg. Che fosse l' Aurispa quel Johannes de Noto , che
sicil., N. S.
astrologia
a Bologna dal 1393 al 96, nel 1399 e nel 1117 (N. Rodolico, neh" Ardi,
insegn
spr. sicil., N, S., XX, 1895, pp. 104 sg., 152 sgg., 160) mi par pi che dubbio.
p. 29. E. Frizzi, Di Vespasiano da Bisticci e delle sue biografie, Pisa, 1878. V. Rossi,
Tre lettere di V. da B., Venezia, 1890 (per nozze Cipolla-Vittone). Luzio-Renier, nel Giorn.
storico, XVI, 1890, p. 152-3. Vite di uomini illustri del secolo
scritte d a V. ~~
da B ri==
"
vedute sui mss. da L. Frati, Bologna. 1892-93, 3 voli.
30-35. C. de' Rosmini, Vita di Francesco Filelfo, Milano, 1808, 3 voi. Luzio-Renier,
I Filelfo e l'umanesimo alla corte dei Gonzaga, nel Giorn. storico. XVI, 1890, p. 119 sgg.
C. Errer, Le Commentationes fior entinae de exilio di F. F., nell' Arch. stor. ital., S. V,
voi. V, 1890, p. 193 sgg. [G. Castellani, Documenti veneziani inediti relativi a Francesco e Mario Filelfo, ivi, S. V, voi. XVII, 1896, p. 364] Francisci Philephi Epistolarum
familiarium libri XXVII Venezia , 1502. Cent dix lettres grecques de F. F. Parigi,
1892, pubbl. da E. Legrand.
p. 30. A. Moschetti, Una lettera inedita di Carlo Marsuppini, nel Giorn. stor., XXVI,
;

XV

1895, p. 377.
p. 32. M.

Borsa, P. G. Decembrio e V umanesimo in Lombardia, nlV Arch. slor.


1893, pp. 5 sgg. 358 sgg. F. Gabotto, L'attivit politica di P. C. D., Genova, 1893
(estr. dal Giornale ligustico)', cfr. Rass. bibliogr.,1, 1893, p. 229 sgg. Il Decembrio chiama
Filippo Maria latinae linguae haud apprime doctus , ci che non poco per un giudice
lomb.,

XX,

severo quale egli

soggiunge: Sic orationes ertentibus in conspectu suo respondit, nihil

410

NOTE BIBLIOGRAFICHE

E CRITICHE.

a proposito distans, nisi latino sermone (Muratori, Renan, XX, 1014); in cattivo latino
dunque rispondeva, ma in latino, che, se in volgare, il biografo avrebbe detto nisi sermone
La mia interpretazione anche del Cipolla, Signorie, p. 319.
p. 34. La consolatoria al Marcello nel volumetto F. Phileplii orationes et nonnulla alia
opera, stampato a Milano circa il 1481. La parte storica ne fu ristampata da G. Benadducci, Tolentino, 1894 (per nozze Marcello-Giustinian), p. 35.
F. Gabotto, La terza condotta di F. Filelfo, neWArch. star, ital., S. V, voi. IV, 1889, p. 53 sgg. : ctr. Arch. st.
lombardo, XVI, 1030-31.

p. 35. Benedicti Accolti Aretini Dialogus de praestantia virorum sui aevi, ristampato
da G. G. Galletti insieme con F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus,
Firenze, 1847, p. 101 sgg. Per la data di composizione Gaspary, Storia, II, i, 168.
p. 35. La storia avventurosa della versione poggiana della Ciropedia vedi in Poggio
Epistolae, IX, 6, 8, 21, 23, 25, 23, 30-32 e X, 10 e Barth. Facii de viris illustribus liber,
,

Firenze, 1745, epist. 13.


p. 35-3(5. Le citate massima del Gaza nella lettera al Panormita pubbl. dal Legrand, Cent
dix Wires de F. Filelfe, p. 334 sgg. Sul Gaza, Th Klette, Beitrage, III. Die griechischen
Briefe des F. Philelphus mit ergdnzenden Sotizen zur Biographie Philelphs und der
Grdcisten seiner Ze/'t, Greifswald, 1890. Della miseria del Gaza parla una sua lettera pubbl.
dal Sabbadini, Aurispa, p. 138.
p. 36. Il distico riferito dal Poggio nelle Epistolae, II, 16. Vedi su di esso G. Lumbroso, Memorie italiane del buon tempo antico, Torino, 1889, p. 60.
p. 36-7. Sabbadini, Giovanni Toscanella, nel Gciom. ligust., XVII, 1891, p. 119 sgg. Sabbadini, Cronologia documentata della vita di Gio. Lamola, nel Propugnatore, N. S. voi. Ili,
P. Il, 1890, p. 417 sgg. Sabbadini, Tommaso Pontano e Tommaso Seneca, nel Giorn.
stor., XVIII, 1891, p. 224 sgg. Per B. Guasco, F. Gabotto, Lo stato sabaudo da Amedeo VITI
ad Emanuele Filiberto, voi. III, Torino, 1895, p. 321 sgg. Per G. Mario Filelfo, F. Gabotto,
Un nuovo contributo alla storia dell'umanesimo ligure, negli Atti della societ ligure
di st. patria, XXIV, 1892, p. 68 sgg. e Luzio-Renier, nel Giorn. stor. XVI, 193 sgg. Per
anthologie d'un humaniste italien au
sieTommaso Moroni, F. Novati e G. Lafaye,
de, Roma, 1892 (estr. dai Melanges d'Archol. et dnistoire) p. 23 sgg.; Gabotto, Altri documenti su T. M. da Rieti, nella Bibliot. d. scuole ital:, V, 1892, n. 2-3; cfr: Rass. bibliogr. I. 232. Su Cosimo Raimondi, Novati-Lafaye, o. e, p. 39 sgg. e G. Mercati, negli Studi
e docum. di storia e diritto, XV, 1894. pp. 303-9, 312-19. Su Sassuolo, C. de' Rosmini, Idea
dell'ottimo precettore, Bassano
1801, p. 388' sgg. Una lettera di lui pubbl. da M. Morici,
[Per gli epistolari di due discepoli e di un amico di Gua'ino Guarini, per nozze Tom-

XV

masini-Guarini, Pistoia, 1897, p. 17].


p. 37-8. R. Sabbadini, Lettere e orazioni edite e inedite di Gasparino Bar zizza, nell' Arch.
stor. lomb. XIII, 1886, pp. 363 sgg., 563 sgg., 825 sgg. Per la data della nascita, che non
pare certa, v. ^4rc/i. st. lomb. S. Ili, voi. II, 1894, p. 498. Gasparini Barzizii Bergomatis,
et Guiniforti filii opera, Roma, 1723, per cura di G. A. Furietti, 2 voli.
p. 38-41. Sui metodi e sui trattati didattici del secolo XV, A. Roesler, [Kardinal Johannes Bominicis Er ziehungslehre und die iibrigen pddagogischen Leistungen Italiens
im 15 Jahrh., Freiburg i. Br. 1894, nel voi. VII della Bibliothek der Katholischen Pddagogik],
p. 38-9. C. de Rosmini, Vita e disciplina di Guarino veronese e de' suoi discepoli.
Brescia, 1805-6, 3 voi. R. Sabbadini, Vita di G. V., Genova, 1891 (estr. dal Giorn. ligust.)
Per !a coltura fere [La scuola e gli studi di Guarino Guarini Veronese, Catania, 1896].
rarese a' tempi di Leonello, Carducci, La giovent di Lod. Ariosto, Bologna, 1881, p. 21 sgg.
p. 39-40. Per Vittorino e suoi discepoli, Carlo de' Rosmini, Idea dell'ottimo precettore
nella vita e disciplina di Vittorino da Feltre e de' suoi discepoli, Bassano, 1801 ; LuzioRenier, nel Giorn. stor. XVI. 122-42.
nella quale esso va imito
p. 40. Del Be ingenuis moribus adopero un'edizione del sec.
ad altri opuscoli pedagogici. Colle ultime carte dell'esemplare pavese che ho sott'ocohio se
ne sono andate, se pur c'erano, .le note tipografiche. La data di composizione dell'opuscolo

'

XV

controversa
vedi Rass. bibliogr. II, 314. Ma fu certo scritto poco dopo la battaglia del
24 ottobre 1401, nella quale l'esercito di Francesco da Carrara unito a quello di Roberto di
Baviera fu sconfitto dalle milizie viscontee, perch allude alle prodezze or ora (nuper) compiute in quella battaglia da Ubertino, il giovine figlio di Francesco, cui il trattato dedicato;
v. Rass. bibliogr af.
V, fase. 6. D'altra parte ben certo che quando il Vergerio scriveva, non era ancora cominciata la guerra 'dei Carraresi con Venezia (giugno, 1404). Per
l'imitazione di Quintiliano nel Be ingenuis moribus, vedi D. Bassi, in Riv. di filol. class.,
di M. Vegio in Maxima Bibliotheca veterum
XXII, p. 429-31.
Il trattato j^'agogico
patrum XXVI, Lione, 1677, p. 633 sgg. Tradotto in tedesco da K. A. Kopp con introduzione ed illustrazioni nel [II volume della Bibtiothek der Katholischen Padagogik).
:

NOTE AL CAPITOLO SECONDO.

411

Per GianM. Minoia, La vita di M. Vegio umanista lodigiano, Lodi. 1896, p. 110 sgg.
galeazzo Sforza il Filelfo scrisse due trattatelli pedagogici uno in latino diretto a Matteo Traviano (1 ottobre 1475) ed uno assai pi breve in volgare alla duchessa Bona (20 febbraio 1477) entrambi in Rosmini, o. e, II, 463, 457 sgg. Il trattatello volgare per Filiberto
,

Savoia stampato in fine alle citate F. Philelphi orationes, ecc.


p. 41. I miracoli dei principini Gonzaga sono narrati dal Traversari, Epist. Vili, 3.
Per quelli dei principini sforzeschi, A. Cappelli, Guiniforte Bar zizza maestro di G. M.
Sforza, neWArch. stor. lomb. S. Ili, voi. 1, 1894, p. 399 sgg. Pastor, Geschichte der Papste, II,
Freiburg i. Br. 1889, p. 42-3; e Perret, nella Bibiothque de l'cole des chartes, LII, 1891,
p. 427. La breve orazione latina tenuta da Galeazzo Maria a Venezia , in Muratori, Rerum, XXII, 1160 sg. Per Guiniforte Barzizza anche Ardi. stor. lomb. S. Ili, voi. II, p. 498
p. 42. Isotae Nogarolae opera. Accedunt Angelae et Zeneverae Nogarolae epistolae
et carmina, Vienna, 1886, per cura di E. Abel, che premise ai testi la vita delle scrittrici.
Feliciangeli Notizie sulla vita e sugli scritti di Gostanza Varano- Sforza nel Giorn.
stor., XXIII, 1893, p. 1 sgg. H. Simonsfeld, Zur Geschichte der Cassandra Fedele, Amburgo
e Lipsia, 1894 (estr. dagli Studien zur Litteraturgeschichte dedicati a MI Bernays da' suoi
scolari ed aoiici). A. Cappelli, Cass. Fedele in relazione con Lodovico il Moro, nell'Arch.
di

stor. lomb., S. Ili, voi. IV, 1895 p. 387 sgg.


p. 43-4. Sulla diatriba di Giovanni da Prato e la risposta del Guarino, Sabbadini,

[La

scuola, ecc: p. 142-4]. Le epistole del Salutati al Zonarini ne\V Epistolario ed. Novati, lib. IV,
14 e 18. La prima lettera di Coluccio a Gio. da San Miniato nell' epistolario [lib. XII, 20] della
-econda solo alcuni frammenti furono pubblicati dal Mehus, Vita A. Traversarti, p. ccxcn sg.
e una versione italiana antica da C. Stoln" nella disp. 80 della Scelta.
ccciv, ccclii, ecc.
;

ma come dimostra ora il Novati, del 21 settembre 1401 ; la seconda del 25 gennaio 1406. Per il Dominici, le sue teorie pedagogiche e le sue polemiche
col Salutati, A. Roesler. Giovanni Dominici, ein Reformatorenbild aus der Zeit des grossen Schisma, Freiburg i. Br. 1893, non che il libro dello stesso autore citato nella nota
La prima non

del 1400,

a pp. 38-41.
p. 45.

Per Gregorio Correr, Clostta, Beitrage zur Litteraturgeschichte des Mittelalters


II, Die Anfnge der Renaissancetragdie, Halle a. S. 1892, pa-

und der Renaissance

gine 147-58 e Roesler, [Kardinal, p. 125 sgg.].


p. 46. Per Pileo de Marini e Bartolomeo Capra apostoli dell'umanesimo a Genova, F. Gabotto, negli Atti societ ligure, XXIV, 11-3.
a
p. 46-50. Pastor, Geschichte der Papste seit dem Ausgang des Mittelalters, voi. I, ed. 2. ,
Freiburg i: Br. 1891 voi. II, 1889.
p. 47-8. G. Sforza, La patina, la famiglia e la giovinezza di papa Niccolo V, negli
Atti dell' Accad. lucchese, XXIII, 1884, p. 1 sgg. E. Muntz e P. Fabre, La bibiothque du
Vatican au
siede, Parigi, 1887. Su Enoch d'Ascoli, V. Rossi, in Rendiconti dell' Accad.
dei Lincei, S. V. voi. II, 1893, p. 138-43;
nea Silvio Piccolomini als Papst Pius II und sein Zeitalter,
p. 48-50. G. Voigt
Berlino, 1856-63, 3 voli.
;

XV

Note al Capitolo Secondo.

p. 51-2. Il decreto della Signoria in

Gherardi, Statuti, p. 264 sg.

La

storia della disputa

Donato Acciaioli pubbl. da F. Fossi, Monumenta ad Alamanni Rinuccini


oitam contexendam, Firenze, 1791, p. 77-82 cfr. anche Poggio, Epist. XIII, 3.
p. 52. Per lo stile di Coluccio, del Barzizza e del Poggio
R. Sabbadini, Storia del
nelle lettere di

ciceronianismo, Torino, 1886, pp. 11 sg., 13 sg., 19 sgg.


p. 52. La I parte del trattato De compositione del Barzizza, in Fun'etti, o. c. I, 1 sgg.
Intorno ad esso R. Sabbadini, [La scuola, pp. 85 sgg.].
p. 53-62. L. Barozzi e R. Sabbad ini. S tudi sul Panormita ess ici Valla, Firenze, 1891.
G. Mancini, Vita di L^vaua, Firenze, i89rrLT stesso, Alcune lettere di L. V., nel Giorn.
stor., XXI, 1893, p. 1 sgg. Cfr. anche Arch. stor. ital. S: V, voi. XI, 1893, pp. 433 sgg.
Laurentii Vallae Opera. Basilea, 1543,
p. 54. Le parole dello Zumbini, negli Studi di letterature straniere , Firenze 1893,
dove a p. 236-41 sono alcune buone osservazioni sul De voluptate.
p. 55. Per l'opposizione degli umanisti ai giureconsulti, Voigt, o. c. II, 477 sgg.; dell'ediz. ital., II, 467 sgg.
p. 55-6. Su Alfonso d'Aragona quale mecenate WE. Gothein,,J)ze Culturenturicklung SidItaliens, Breslavia, 1886, p. 478-91, di cui per non tutti i giudizi mi paiono accettabili,
B. Croce, La corte spagnuola di Alfonso d'Aragona a Napoli, Napoli, 1894.

412

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.


p.

rigi,

58.

Laureata Vallensis historiarum Ferdinandi

Furono certo scritti dopo V


[Scmus' nuper diem suum

1521.

regi* Aragoniae libri tres, Pa/, si ricorda come morto

aprile 1445, perch a. c. 46

obiisse) Domenico Ram


vescovo di Tarragona, che
25 aprile di quell'anno. La Storia di Ferdinando fu scritta in due mesi e ne stette
dieci nella biblioteca del re (Mancini, Vita, p. 207,212). Tutti questi dati ci permettono di
asserire con sicurezza che la gita del Valla a Roma e quindi le Invettive del Fazio sono
del settembre-ottobre 1440 e le Ree rimi natio ne s del Valla della fine del 1446 o del principio
deiranno seguente.
p. 59. Per la versione d'Erodoto del Valla, anche l^^^m~ [Saggio d'una storia
dei volgarizzamenti d'opere greche nel sec. XV, Napoli 1896, p. 57 sgg.].
p. 60. Per lo stile del Valla, R. Sabbadini, Ciceronianismo, p. 26 sgg.
p. 61. Sul Fazio, F. Gabotto, in Atti Societ ligure, XXIV, 129 sgg.
p. 61-2. Per il Perotto e le polemiche tra Poggiani e Valliani, Gabotto e Badini Confalonieri, Vita di Giorgio Menda, Alessandria 1894, p. 78 sgg. (estr. della Riv. di storia,
arte, archeologia della prov. d'Alessandria). Sugli studi grammaticali umanistici come reazione ai medievali, Ch. Thurot, in Noticts et extraits des mss. de la Bibl. imperiale et
autres biblioth. voi. XXII, P. l, 1868, p. 491 seg.
p. 62-3. Lettres indite* de Michel Apostolis publies d' aprs les mss. du Vatican
avec des opuscules indits du mme auteur, une introduction et des notes par H. Nohvt,
Parigi 1889. Le notizie biografiche nell'Introduzione, il discorso nell'Appendice.
p. 63. Il giudizio di Lorenzo de' Monaci sullo studio del greco in Agostini. Scrittori
veneziani, voi. II, Venezia, 1754, p. 364 sgg. La storia della polemica riminese in una lettera
di Basinio a Roberto Orsi pubblicata negli Anecdota literaria ex mss. codd. eruta, voi. II,
Roma 1773, p. 300 sgg. La lettera data Rimini, 27 ottobre senz'anno il Porcellio arriv
a Rimini nel 1454, e al principio di maggio del 1456 ne era gi partito (vedi il presente
volume p. 161). I versi di Basinio nella sua epistola Le linguae graecae laudibus et necessitate edita negli Anecdota citati, II, 401 sgg. Per la biografia di Basinio, Aff, Notizie intorno la vita e le opere di B. B. , nei B. parmensis opera praestantiora Rimini 1794
di

fresco

mori

il

IL

1.

sgg.

Su G. Trapezunzio, R. Sabbadini, nel Giorn. storico, XVIII, 1891, p. 230 sgg.


G. Castellani, Giorgio da Trebisonda maestro di eloquenza a Vicenza e a Venezia, nel
Nuovo Arch. Veneto, voi. XI, 1896, p. 123 sgg.
p. 64.

p. 64-5. Per la data della versione eY Etica nicomachea del Bruni, Sabbadini, Cento
trenta lettere inedite di F. Barbaro, Salerno 1881, p. IL Estratti dal De recta interpretatione furono dati da C. Wotke, Beitrge zu Leon. Bruni, nei Wiener Studien, XI, 188t>,
pi particolari osservazioni, in Gravino,
p. 291 sgg. Sui criteri dei traduttori del secolo
[o. c. p. 35 sgg.].
p. 66. [Zippel, Per la biografa dell' Argiropulo] nel Giorn. storico, XXVIII, 1896,
p. 92 sgg. A. Badini Confalonieri e F. Gabotto, Notizie biografiche di Demetrio Calcondila,
Genova 1892 (est. dal Giorn. ligust.). Per C. Lascaris, E. Legrand, Bibliographie hellenique, Parigi 1885, I, p. LXXI sgg.
p. 66-7. H. Vast, Le cardinal Bessarion, Parigi 1878.
p. 67-70. F. Schultze, Geschichte der Philosophie der Renaissance. I. Georgios Gernistos Plethon una seme reformatorischen Bestrebungen , Jena 1874. Per il platonismo
prima di Pletone, F. Fiorentino, Il risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli 1885,
p. 179 sgg. Della difesa di Aristotile assunta dallo Scolarlo gi parola .in una lettera del
FileL'o diretta a lui il 29 marzo 1439: Legrand, Cent dix lettres grecques, ecc. p. 31. Per
la bibliografia e la cronologia della disputa L. Stein, Der humanist Th. Gaza als philosoph, neVArchiv. fur Gesch. der Philos., II, 1889, p. 426 sgg., Gaspary, Zur Chronologie
des Streites der GHechen uber Plato und Aristoteles im 15 Jahrh. , nello stesso Archiv., III, 1890, p. 50 sgg. e Storia, II, i, 149-51, 343 sg. Bessarionis In calumniatorem
Platonis libri quatuor, Venezia, Aldo, 1516. In capo al VI libro Li calumn. il Bessarione
riferisce^ il suo breve scritto sulla questione se la natura agisca consulto (lo ricordo a p. 68)
e poi la dissertazioncella del Trapezunzio sullo stesso tema ; indi continua Haec tum ad
Theodorum breviter perscripsimus ; perci ho giudicato , diversamente dal Gaspary , che
insieme coi primi quattro, non prima. La critica
il VI libro In calumn. sia stato scritto
dell'Argiropulo al proemio dell'opera del Bessarione sconosciuta ne abbiamo notizia da
una lettera del cardinale a lui diretta e pubblicata dal Bandini, Cat. codd. graec. II, 275 sg.
Per la data delle Adnotaliones del Trapezunzio C. Legrand Cent dix lettres grecques de
F. Filelfo, p. 229. La Refutatio del Perotto neJ cod. Marc. Lat. VI, 210 (v. Valentinelli,
Bibl. ms. ad S. Marci Venetiarum, IV, Venezia 1871, p. 8 seg.) ; per la data di essa uria
lettera del Bessarione a Guglielmo Fichet del 22 marzo 1471, nell'appendice alle Cent dix

XV

lettres, p.

230;

i.

249.

osservazioni sul dissidio tra la letteratura dotta e la volgare nella preO. Bacci, [Della prosa volgare del Quattrocento, Firenze 1897, p. 16 sgg.].

p. 70-76.

lezione

cfr. p.

Buone

413

NOTE AL CAPITOLO TERZO.

p. 70. Per la ricerca che il Salutati faceva di buoni testi della Commedia, Epistolario,
consigli e gli aiuti a Benvenuto da Imola, Epistolario, lib. Ili, 13 e V, 15,
XI, 10] ; per
In quest'ultima lettera Goluccio anche difende la frase dantesca Nacqui sub Julio da
molti stoltamente dannata, e nelY Epistola V, 18 ribatte la calunnia di chi diceva aver Dante
alluso alla Babilonia d'Egitto nel verso Tenne la terra che il Soldan corregge .
p. 70. Le censure riguardanti Catone, ecc. nei Bialogi ad P. Histrum, che citiamo
[lib.

qui appresso.
p. 71. L'invettiva di Cino Rinuccini, in un'antica traduzione italiana (ch il testo originario latino perduto), in Wesselofsky, Paradiso, I, ti, 303 sgg. ; la dedica di Domenico
da Prato, ivi, 330 sgg. I Dialogi ad Petrum Histrum di Leon. Bruni per cura di G. Kirner, Livorno 1889. La bibliografa di questi dialoghi e giuste osservazioni in Gaspary. StoII, i, 346. L'interpretazione' che io do ai dialoghi stessi rispetto all'estimazione delle tre
corone, ora largamente svolta da D. Gravino, [o. e, pp. 10-23].
p. 71-2 Le letture dantesche del Filelfo e de' suoi discepoli, in Sepulcrum JDantis,
Firenze, Libreria Dante, 1883, p. 25 sgg. : cfr. anche Rosmini, I, 55 sg. e 119 sgg.
p. 72. Il commento all' Inferno di G-uiniforte Barzizza, pubbl. da Q. Zaccheroni, Marsiglia e Firenze, 1838.
p. 72. Intorno a versi volgari di umanisti vedi un cenno di F. Flamini, Versi inediti di Giovati Mario Filelfo, Livorno 1892, per nozze Zuretti-Cognetti, p. 13. Del commento del
Filelfo al Canzoniere, G. Patroni, Antonio da Tempo commentatore del Petrarca e la
critica di G. Grion, nel Propugn. N. S. voi. I. P. II, 1888, p. 57 sgg. Sul commento del
Bittamondo di Guglielmo Cappello, R. Renier, Liriche di Fazio degli liberti, Firenze, 1883,
p. CLI sgg. in nota. Perle versioni di novelle boccaccesche, Gaspary, Storia, II, I, 274, 363.
La versione del Loschi della novella di ser Ciappelletto in un cod. Ambrosiano, G. Da Schio,
Sulla vita e sugli scritti di A. Loschi, Padova, 1858, p. 145.
II, 611 sgg.; una notizia nel
p. 73. Di Matteo Ronto, Agostini, Scrittori veneziani
Gorn. storico, XXII, 1893, p. 438. F. Novati, Nuovi documenti su frate Giovanni da Servatane, nel Bullettino della societ dantesca italiana, V. S. n. 7, 1891, p. 11 sgg. La
versione e il commento di fra Giovanni furono pubblicati dai pp. Marcellino da Civezza e
Teofilo Domenichelli, Prato, 1891; cfr. Gorn, stor. XVIII, 452.
p. 73-4. Sulla disputa intorno -alla lingua Sabbadini, Vita di Guarino Veronese, Genova 1891, p. 117 sgg. e [La scuola e gli studi di G. V., Catania 1896, p. 147 sgg.]. G. Mignini, La epistola di Flavio Biondo Be locutione romana , nel Propugn. N. S. voi. Ili,
P. I, 1890, p. 135 sgg. Per la data Voigt, o. c. II, 448 nota; deh'ediz. ital. II, 439. La risposta
del Bruni nel suo Epistolario, VI, 10. Il Filelfo distingue il cermo latinus dal sermo literarius, la lingua dell'uso dalla lingua scritta, e ad entrambe contrappone il sermo maternus,
il volgare modexmo
lettere a Sforza Secondo 15 febbraio 1451, a Bianca Maria d'Este 27 maggio 1463, a Lorenzo il Magnifico 29 maggio 1473.
p. 74. Prove della non larga diffusione della conoscenza del latino anche nel Quattrocento, in Gravino, [o. e, pp. 30-34]. L'aneddoto del podest di Nicol III d'Este, in una lettera d'Agostino Mosti del 1584 pubbl. da A. Solerti, negli Atti e Mm. della R. Bepir
taz. di stor. patria per le prov. di Romagna, S. Ili, voi. X, 1892, p. 191.
p. 75. Nella citata lettera a Lorenzo il Magnifico, il Filelfo scrive: Nam ex universa
Italia ethruscus sermo et maxime forentinus elegantissimus est et optimus . Cfr. anche un'altra sua lettera in Rosmini, II, 448.
p. 75-6. Sul certame coronario e le poesie relative, F. Flamini. La lirica toscana del
Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico Pisa, 1891, p. 3 sgg. G. Mancini, Un nuovo
documento sul certame coronario di Firenze, nell' J.re/i. stor. ital. S. V, voi. IX, 1892,
p. 326 sgg.

ria,

Note al Capitolo Terzo.


p. 77 sgg. [O. Bacci, Bella prosa volgare del Quattrocento, Prelezione, Firenze, 1897,
specialmente le pagg. 21 segg.].
p. 78-9. Alessandra Macinghi negli Strozzi. Lettere di una gentildonna fiorentina
del secolo
ai figliuoli esuli, pubbl. da C. Guasti, Firenze 1877. Una lettera della
A. M. negli S., Firenze 1890, pubbi. da I, Del Lungo per nozze Strozzi-Corsini.
ivi pure
p. 79. Lettere dei figliuoli della Macinghi a stampa con quelle della madre
una ventina di lettere di Marco Parenti; altre dello stesso furono pubblicate da O. Bacci
per nozze Cassin-D'Ancona, Firenze 1893.
p. 79-80. Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze dal 1399
ci 1433, a cura di C. Guasti, Firenze 1867-73; 3 voli.

XV

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.

Ili

p. 80-82. Sugli epistolari umanistici, Voigt, o c. II, 417 sgg.; dell'odia, [fai. li, 408.
edizioni delle epistole del Poggio, del Bruni, del Fillfo e dal Tl'averaari, di cui ini servo,
sono citate qui dietro nelle note alle pagg. 19-23, 24-25. 25-20, 30-35. R. Sabbadini, Giuliano Veronese e il suo epistolario, Salerno 1885, e [La scuola, ecc., pp 83 fgg.] Lettore

Le

Guarino furono pubblicate dal Sabbadini nella Vierteljalirschrift fiir Kultur und Literatur d. Renaiss. L 1880, pp. 1U3 sgg. e 504 sgg. nella Miscellanea per nozze Bia~
dego-Bemardinelli, Verona 1890, pp. 21 sgg. ed altrove. Io ho alluso a frammenti di lettere tradotte dallo stesso nella Vita di Guarino, pp. 69-70, 91, 52.
p. 82-3. L. Barozzi e R. Sabbadini, Studi sul Panormita e sul Valla, Firenze, 1891
(tra lo Pubblicazioni del R. Istituto di studi superiori) _M. v. vVol <L_ Leben und Werhe des
Ant. Beccadelli genannt Paaormita, Lipsia 1891. Per~il tempo dei soggiorno del Panormita a Siena. Ardi. stor. ital. S. V, voi. XV
1895, p. 387 nota. Mercati , Alcune note
sulla vita e sugli scritti di A. Panormita, negli Studi e docum. di storiti e diritto, XV,
1894, p. 319 sgg. [cfr. Sabbadini, in Giom. stor. XXVIII, 1890, p. 342 sgg.]. Antonii Beccadelli Epistola/' um gallicarum libri quatuor. Epistolarum campanarum liber. Napoli 1740. Gaspary, Einige ungedruchte Briefe und Verse von A. Panormita, nella citata
l'ierleljahrschrift del Geiger, I, 1880, p. 474 sgg. F. Ramorino, Notizia di alcune epistole e
carmi ined. di Antonio il P., naW Ardi, stor. ital. S. V, voi. III, 1889, p. 447 seg.: cfr.
Mercati, L' Epistolario di A. B. P. I. c. p. 332 sgg. Le lettere pubbliche del P. ho letto
nel codice Laurenz. XC, Sup. 40 (v. Bandini, Catal., Ili, 000 sgg.), non avendo potuto" vedere il volumetto Regis Ferdinandi et aliorum epistolae ac orationes, Vici Equensis 1580.
p. 84. G. Voigt, Die Briefe des Aeneas Sylvius vor seiner Erhebung auf dea ppsilichen Stuhl chronologisch geordnet, ecc. neh" Ardi, fiir Kunde sterreichischer Geschichts-Quellea, voi. XVI, 1850, p. 321 sgg. Francisci Barbari et aliorum ad ipsum epistolae
Brescia 1743 notizie biografiche del Barbaro nella Diatriba praeliminaris del
card. Quirini Brescia, 1741. Sabbadini, Centotrenta lettere inedite di F. Barbaro, Salerno 1884;
ctr. Wilmanns, in Gttingische Gelehrte Anzeigen, 1884, numero 21.
p. 85. Il De nobilitate tractatus di Buonaccorso, nelle Prose e rime dei due Buonaccorsi da Montemagno, a cura di G. B. Casotti, Firenze 1718, p. 2 sgg. Sul De vera nobilitate del Landino, Bandini, Specimen Li ter alurae florentinae sec. XV, voi. II, Firenze 1751,
p. 100 sgg; sul dialogo dello stesso titolo e sul De falso et vero bono del Platina, S. Bissolati,
Le vite di due illustri cremonesi, Milano 1850, p. 02 sgg. Dell Isagogicon del Bruni la bibliografia in Pastor, Geschichte, I 2 , 13 seg. in nota. F. Tocco,
Isagogicon moralis disciplinae
di

'

di L. B. Aretino, neh' Archiv. fiir Gesch. d. Philos, VI 1893, p. 157 sgg. Sul De vito.e
Braggio, negli Atti della societ ligure di stor. patr. XXII, 1890,
p. 208 sgg. Per la data, 1445, Sabbadini, in Giornale stor., XX, 250 seg.
p. 85-0. B. Platinae De principe libri III, Genova 1037. Il De magistrati^ e il De
dignitate matrimonii del Campano in Campani Opera Venezia 1495. Sul De republica
di Uberto Decembrio, M. Borsa, Un umanista vigevanasco, p. 21 sgg. ; sul De institutione
regiminis dignitatum di Giovanni Tinti, F. Novati, in Archivio stor. per le Marche e V Umbria, II, 1885, p. 119 sgg.
p. 80. G. Volpi, Affetti di famiglia nel Quattrocento, estr. dal periodico Vita Nuova
II, 1891, n. 50. L'aneddoto di Ercole d'Este, riferito da A. Venturi, in Atti e Mem. della
Dep. di st. patr. per le prov. di Romagna, S. Ili, voi. VI, 1888, p. 355. Francisci Barbari de re uxoria libri duo, Argentorati, 1012. La lettera di Guiniforte Barzizza, tra lo
,

felicitate del Fazio,

sue opere, p. 122 sgg.


p. 86-7.
p. 87.
Il

dialogo fu

Memorie,

S.

p. 87.

Conviviorum Francisci Philelphi libri duo, Parigi s. a. ma sec. XV.


lettera di Pio II a Gio. Aich De miseriis curialium, in Opera, p. 720 sgg.
stampato come inedito da G. Cugnoni, negli Atti della R. Accad. dei Lincei.
ma era gi a stampa, v. Voigt, Pius II, II, 292.
Ili, voi. VIII, 1883, p. 550 sgg.

La

Quasi

tutti

dialoghi del Poggio, in Poggii fiorentini Opera, Argentinae, 1513.

De

nobilitate vedi Epist. IX, 14, Zeno, Vossiane, 1, 194 seg. e


219. Poggii Bracciolini Historiae de varietate fortunae
libri IV editi a D. Georgio. Parigi, 1723: per la cronologia, Gaspary. Storia, II, i, 337.
p. 88. Il dialogo del Poggio Contra hypocrism nel Fasciculus rerum expetendarum
Londra 1690, II, 570 sgg.;
et fugiendarum ab Orth. Gratio editum Coloniae

Per

le dispute suscitate dal

Agostini, Scrittori Venez.,

I,

MDXXXV,

per la data Epist. IX, 20. Il libello di Leonardo Aretino Adversum hypocritas, ibid. I,
307 sgg. Per la lotta degli umanisti contro i monaci Voigt, o. c. II, 212 sgg. dell'ediz.ital.,11, 201.
Per \ De professione del Valla, Mancini, Valla, p. 120 seg.
p. 88. Regola del governo di cura familiare compilata dal B. Giovanni Dominici
data in luce da D. Salvi, Firenze 1800. 17 libro d'amore di carit del fiorentino B. Gio.
;

Dominici,
p.

89.

ed.
Il

A. Ceruti, Bologna 1889.


da Prato

trattato di Gio.

notizie suir autore,

ivi.

I,

in

385 sgg. Per le


I, n
Giovanni Gherardi da Prato, nella Miscel-

Wesselofsky, Paradiso,

n, 07 sgg. e Novati,

415

NOTE AL CAPITOLO TERZO.

lanea fiorentina di erudiz. e storia, I, 1885, n. II. Il Novati conclude, dopo aver esaminato le portate al Catasto, che Giovanni nascesse nel 1367; ma il suo ragionamento mi
pare pecchi di troppa severit logica, non essendo le pre.nesse ben sicure n concordi.
p. 89-90. A. Messeri, Matteo Palmieri cittadino di Firenze del secolo XV, nell' Ardi,
stor. ital. S. V, voi. XIII, 1894, p. 257 sgg. M. Palmieri, Della vita civile trattato, Milano,
Silvestri, 1825. Per le fonti del primo libro, D. Bassi, in Giorn. storico, XXIII, 1894,
p. 182 sgg.; per quelle degli altri E. Bottari, negli Atti delVAccad. lucchese, XXIV, 1886,
p. 408 sgg. cfr. Sabbadini, in Ardi. ital. stor., S. IV, voi. XVII, 1886, p. 149 sgg. La composizione dell'opera deve essere di poco posteriore al 1430, perch l'autore dice che alcuni
lo accusarono di presunzione perch avesse voluto dare precetti della vita civile, nella
quale giovane ancora poco sono vivuto ed esercitato meno (205) sar probabilmente
del 1431 o del 32.
p. 90-96. Or. Mancini, Vita di Leon Battista Alberti, Firenze 1882. Lo stesso, Nuovi
documenti e notizie sulla vita e sugli scritti di L. B. A. neir^4rc/i. stor. ital. S. IV,
voi. XIX
1887, p. 190 sgg. 313 sgg. G. S. Scipioni L'anno della nascita di L. B. A.,
nel Giorn. stor. XVIII, 1891, p. 313 sgg. Opere volgari di L. B. A., pubbl. da A. Bonucci,
Firenze, 1843-49, 5 voli. L. B. Alberti Opera inedita et pauca separatim impressa, a cura
di G. Mancini, Firenze 1890. Su questo lib.ro cfr. F. C. Pellegrini, nel Giorn. stor., XVIII,
:

1891, p. 355 sgg.


p. 91-2. Sull'Alberti architetto, Muntz, Hist. de V art pendant la Renaissance,
Parigi 1891, p. 463 sgg. Quivi stesso a p. 242 sgg. notizie sull'efficacia esercitata da Luciano sulle arti nel Rinascimento,
p. 95. Orazione di Cristoforo Landino quando comincio a leggere in Studio i sonetti di F. Petrarca, in Corazzini, Miscellanea di cose inedite o rare, Firenze 1853, p. 131.
p. 95. Della prosetta di Domenico da Prato cui alludo vedi le note bibliografiche qui
dietro nella nota a p. 71.
p. 96. F. C. Pellegrini, Agnolo Pandolfni e il Governo della famiglia , nel Giorn.
I,

Ti II, 1886, p. 1 sgg.


p. 97. Le concioni del Porcari, in Prose del giovane Buonaccorso da Montemagno a
cura di G. B. Giuliari, Bologna 1874 (Scelta, 141). I manoscritti (un saggio di bibliografia,
stor.

ne d

il

Pastor

Geschichte, I, 713-4) recano codeste concioni o adespote o, pi spesso,


La tradizione che le ascrive a Buonaccorso antica e forse riposa

attribuite al Porcari.

sull'autorevole attestazione di C. Laudino,


p. 129.

Orazione,

ecc. nella

Miscellanea del Coraz-

zini,

La Diceria

di Bono di Gio. Boni fatta nel 1445, nel cod. Riccard. 2330 (membr.
85 r sgg. ; il suo Protesto del 1461, ibid. ce. 87 v sgg. L'orazione di L. Bruni
per la consegna del bastone al Piccinino , in Traversari, Epistolae, col. 17-9 nota la sua
risposta agli ambasciatori del re di Aragona, nel cod. riccard. 2544, c. 94 v sgg. Il Protesto
del Palmieri, quando fu gonfaloniere di compagnia nel 1437, fu stampato da C. Guasti, per
nozze Peruzzi-Toscanella, Prato 1850. Protesti di Giannozzo Manetti, per es. nel cod. Riccard. 2204 c. 1 v
20 v. Molti codici del sec. XV racchiudono raccolte di prologhi di- cerie, orazioni di tal fatta: vedi per es. Morpurgo
I mss. della Biblioteca Riccardiana,
Roma, 1893 sgg. codd., 1074, 1080, 1105, ecc.
p. 97-8. L'orazione di Tommaso Mocenigo riferita dal Sanudo, Vite dei Dogi, nel
Muratori, Rerum, XXII, 949 sgg.
p. 98. Vespasiano da Bisticci, Commentario della vita di Giannozzo Manetti, nelle
Vite di uomini illustri del sec. XV, ed. Frati, II, Bologna, 1893, p. 84 sgg. In sul proposito del tenersi le orazioni in volgare, vedi le osservazioni del Gaspary, Storia, II, i, 337.
Delle orazioni del Manetti, alcune in volgare nel cod. Riccard. 2544, c. 139 v, sgg. Messer Nello
di Giuliano da Sangimignano, mandato nel 1425 ambasciatore a Martino V (v. Guasti, Commissioni di R. degli Albizzi, II, 320 sgg.) disse: Ancora sarebbe di bisogno innanzi a
tanta Santit di parlare per gramatica con quello ornamento che si richiederebe e di
quella materia la quale a noi dalla nostra magnifica Signoria stata imposta. Ma perch
e' non di consuetudine degli altri oratori e ambasciadori fiorentini, e etiandio per pi propiamente e pi congruo al proposito di quegli che ce l'anno commesso, per vulgare si poter meglio soddisfare a ciascuna parte con quella facult e brevit, ecc. (cod. Riccard. 2544, c. 123 r).
p. 98. Su Pio II oratore, Voigt, Pius II, voi. II, p. 271 sgg. Pii II P. M. Orationes
politicae et ecclesiasticae, ed. Mansi, Lucca 1755-59, 3 voi. L'orazione cui alludo e che fu
tenuta il 26 settembre nel voi. II, p. 9-29; su di essa Voigt, 111,71 seg, Che lo Sforza parlasse italiano (verbis patriis) dice il Piccolomini stesso nei Commentari, p. 150 B.
p. 99. Le orazioni del Poggio, nella citata edizione delle opere. Si confronti l'orazione
funebre di lui per Leonardo Aretino con quella composta nella stessa occasione dal Manetti:
entrambe in L. Bruni Epistola?, ed. Mehus, p. LXXXIX sgg. Francisci Philelphi Orationes et nonnulla alia opera, Milano circa il 1481.
p. 97.

sec.

XV),

c.

410

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE

nella Riv. Italiana per le


p. 93. Per le orazioni nuziali umanistiche, F. Brancicone
scienze giuridiche, XVIII, 1894, p. 54 sgg. e nella Riv. storica itaL, XII, 1895, p. 619 sgg.
e [F, Paletta, Contributo alla storia delle orazioni nuziali e della celebrazione del matrimonio^ Torino, 189G, estr. datili Studi senesi XIII. p. 7 .sgg.]. A complemento di quanto
detto nel testo si avverta che non sempre codeste orazioni '< erano pronunciate all' atto
del matrimonio da colui che rivolgeva agli sposi le solenni interrogazioni , ma talvolta in
chiesa o al banchetto nuziale o altrove, dopo che il matrimonio si era gi celebrato c 'la
persone che certo non avevano avuto nessuna parte nella celebrazione .
p. 99. Per la storia dell'eloquenza notevole questo passo del De ingenuis moribus del
Yergerio A iudiciis est pcnilus eiecta, ubi non perpetua oratione, seri invicem dialectico more
adductis in causam legibus contendimi- ... In deliberativo vero genere iam apud principes
et rerum dominos nullus est ei locus, quoniam paucis expediri verbis sententiam volunt et
nudas ch'erri in consilium rationcs; in populis, qui vel sine arte copiose dicere possunt clari
habentur. Demontrativum restat genus quod ut nusquam est usu s djlatum, ita vix usquam
ratione invenitur. Nani in fuciendis orationibus bis artibus utuntnr fere omnes quae contra
artem bene dicendi sunt .
p. 99-101, Sulle invettive degli umanisti, Voigt, o. e, II, 443 sgg. ; dell'ediz. ital., II, 435.
Dell'invettiva del Decembrio contro il Panormita, Barozzi-Sabbadini, o. c. p. 16; quella
del Poggio contro Tommaso Moroni , pubblicata da F. Gabotto
in Arch. stor. per le
Marche e V Umbria, IV, 1888, p. 643 sgg. Per la disputa tra il Poggio e Guarino, R.Sabbadini, Storia del ciceronianismo, p. 113 sgg.
p. 101. G. Kirner, Bella Laudatio urbis Florentinae di L. Bruni, Livorno 1889.
Nel tempo stesso diedero analisi ed estratti di questa scrittura del Bruni, C. Wotke nei
Beitriige zu Leonardo Bruni, in Wiener Studien, XI, 1889, p. 298 sgg. e Th. Klette,
Beitrge zur Gesch. und Litteratur d. ital. Gelehrtenrenaissance, II, Greifswald, 188?,
p. 28 sgg. e appendice I. Quivi nell'Appendice II anche estratti dal panegirico De laudibus
mediolanensium tirbis del Decembrio, secondo la forma che esso assunse tra il 1466 e
il 70. Per la data della redazione primitiva Rass. bibliografica I, 1893, p. 232.
La civilisation II 234 dell' ep. 101-4. Sui predicatori di penitenza Burckhardt
Gesch. d. Ppste, I, 30 sgg. La frase riferita del crodiz. ital., II, 263 sgg. e Pastor
nista viterbese Niccola della Tuccia, in Ciampi, Cronache e Statuti della citt di Viterbo,
Firenze 1872, p. 53. Per fra Roberto da Lecce, F. Torraca negli Studi di storia letteraria
napolitana, Livorno 1884, p. 165 sgg. e Percopo, nel!' Arch. stor. napoletano, XVIII, 1893,
p. 536 seg. [Thureau-Dangin, Un prdicateur populaire clans l'Italie de la Renaissance.
Parigi 1896]. Le prediche volgari di S. Bernardino da Siena
S. Bernardin de Sienne
dette nella piazza del Campo V anno 1427, ed. da L. Banchi, Siena 1880-88, 3 voli. E
su queste O. Bacci, nelle Conferenze senesi. Serie, I. Siena 1895, p. 77 sgg.
,

Note al Capitolo Quarto.


p.

105-16. Sulla storiografa umanistica, Voigt, o.

c. II,

488 sgg.

dell'ediz. ital. II, 478.

G. Romano, Begli studi sul medio evo nella storiografa del Rinascimento in Italia, Pavia,

1892.
p. 106-7. Istoria fiorentina di

Leonardo Aretino tradotta in volgare da Donato Ac-

ciaiuoli, col testo a fronte, Firenze 1855-60, 3 voi. Per la cronologia dell' opera l'articolo
di A. Gherardi citato nella nota a p. 24-25. Sui giudizi del Bruni e d'altri umanisti intorno
all'impero romano vedi Gaspary, II, i, 337-8.

Poggii Bracciolini Historiarun Fiorentini popullibri Vili, in Muratori,


193 sgg. Della relativa sobriet del Poggio pu formarsi un'idea chi raffronti
l'orazione che egli pone sulle labbra di Gino Capponi dopo la presa di Pisa (coli. 304 seg.)
con quella che allo stesso attribuisce nella stessa occasione il Palmieri, De captivitate Pisarum in Muratori, Rerum, XIX, 189 sgg. Questi accumula fronde rettoriche: il Poggio
traduce o parafrasa l'orazione volgare inserita nel Commentario della guerra di Pisa (Muratori, XVIII, 1142-4). [P. Chistoni, Del tempo in cui P. B. scrisse le Storie fiorentine,
negli Studi storici, VI, 1897, p. 117 sgg].
p. 107. Sulla storia del Bracelli, C. Braggio, negli Atti di societ ligure d>' storia
patria, XXIII, 1890, p. 179 sgg. Bsnedicti Accolti de bello a Christianis contra barbaros gep. 107.

Rerum, XX,

sto,

Firenze 1623.

A. Masius, Flavio Biondo, sebi Leben und seine Werke Lipsia, 1879:
cfr. la recens. del Wilmanns in Gottingische Gelehrte Anzeigen, 1879, n. 47. Per il periodo dal 1420 al 30, R.Sabbadini, Unedirte Briefevon Guarinus Veronensis. Korresponp.

107-11.

417

NOTE AL CAPITOLO QUARTO.

denz mit Flavio Biondo, nella Vierteljahrschrift del Geiger, I, 1886, p. 504 sgg. Biondi
Flavii Historiarum ab inclinatione Romanorum Libri XXXI, Basilea, 1559. De Roma
triumphante libri X, cui seguono le altre opere, Basilea 1559. P. Bucbholz, Die Quellen der
Historiarwndecades des FI. Bl. Naumburg, 1881. Per la cronologia della composizione delle
Deche, oltre che il Masius (p. 32-6), R. Sabbadini, in Giorn, ligustico, XVIII, 1891, p. 300.
In una lettera del 5 febbraio 1443 a Leonello d'Este, il Biondo diceva che iquattro libri primitivi della sua storia erano divenuti dodici ma otto mesi prima ne aveva mandato da leggere ad alcuni amici soltanto undici (Masius, p. 32-3 nota) dunque il duodecimo fu scritto
tra il giugno del 1442 e il principio del 43. L'esistenza di questo libro, che sarebbe il secondo
della IV" deca, e la sua contenenza ci sono attestate da una lettera del Biondo ad Alfonso
d'Aragona del 13 giugno 1443 (Masius, p. 31, nota 4). Cosi chiaro come il Biondo potesse
dire e ripetere di avere scritto trentadue libri di storia (De Roma triumph. ecc. p. 2 G, 273 D)
di che il Masius, p. 37, nota 1. si meravigliava. Nel 1459 il Biondo pensava a continuare
e compiere la quarta deca: F. Gabotto, in Bibliot. d. scuole ital. Ili, 1891, n. 7. Perla
,

cronologia dell'Italia illustrata e della Roma instaurata, oltre al Masius, R. Sabbadini,


in Ligustico, XVIII, 299 seg. L'orazione pronunciata dal B. a Napoli nel 1452 fu pubbl. da
0. Lobeck, Des FI. Bl. Abhandlung De militia et iurisprudentia , Dresda 1892.
p. Ili seg. Per Andrea Fiocchi, Voigt, o. c. II, 38; dell'ediz. ital., II, 39. Per il Marcanova, Gr. Cogo, nel Propugn. N. S. voi. V, P. I. 1892, p. 448 sgg. Per Ciriaco d' Ancona, G-. B. da Rossi, Inscriptiones christianae urbis Romae, voli. II, P. I. Roma 1880,
Lettere indite di Ciriaco d'Ancona, Pistoia 18t6
G-. Castellali],
p. 356-87. [M. Morici
Un trait inedit de Gyriaque d'Ancne, Parigi 1896, est. dalla Revue des tudes grecques IX.
E per Ciriaco anche M. Morici, Per gli epistolari di due discepoli e di un amico di Guarino, Pistoia, 1897, p. 10 sgg.]. Ampollose poesie in lode di Ciriaco nel cod. Laurenz. XXXIV,
De Rossi, o. c. p. 338 sgg. Sul Feli53, c. 29 v sgg. Sulla silloge epigrafica del Poggio
ciano ibid. p. 391 seg.
p 112. Le Istorie veneziane del Sabellico nel voi. I, DegV istorici delle cose veneziane,
i quali hanno scritto per pubblico decreto, Venezia 1718; quivi la Vita del S. scritta dallo
Zeno. Le Enneadi, in Gabellici Opera, Basilea 1538, 2 voli. Per la Historia del Menila,
Gabotto-Badini Confalonieri , Vita di G. M. Alessandria 1894, p. 214-318, e G-abotto, in
Nuovo Ardi. Veneto, voi. VII, 1894, p. 423 seg. Il Merula mise mano all' Historia forse
un po' dopo il 1482 ; vi attendeva certo nel 1484.
p. 112-5. Su Pio II come storiografo, Voigt, JPius II, II, 309 sgg. Aeneae Sylvii Piccolominei Opera, Basilea 1551.
,

p.

Secundi P. M. Commentari rerum memorabilum quae temporibus

113-5. Pii

suis contigerunt, Roma 1584; supplementi, pubblicati da Gr. Cugnoni, in Atti della R.
Accad. dei Lincei, Memorie S. Ili, voi. VIII, 1S83, p. 495 sgg. Gr. Lesca, I commentarli
E. S. de' Piccolomini, Pisa 1894: cfr. Rass. bibliog. II, 1894, p. 181 sgg.
p. 115-6. / Gommentarii del Porce!lio,'in Muratori, Rerum, XX, 69 sgsr. XXV, 1 sgg.
Quelli del Bruni, ibid. XIX, 913: cfr. col. 923-24 con Epist. I, 5 ; col. 925 con Epist. II, 3,7.
p. 116. La cronaca di Niccola della Tuccia, in I. Ciampi, Cronache e statuti di
Viterbo, Firenze 1872. Diario della citta di Roma di Stefano Infessura scribasenato
a cura di 0. Tommasini, Roma 1890. Leone Cobelli, Cronache forlivesi, a cura di G. Carducci e L. Frati, Bologna 1874.
p. 166-7. Sulla lingua letteraria intrisa di elementi dialettali, P. Rajna nel Giorn.
,

storico, XIII, 1890, p. 24,


p. 117. Per la storiografia fiorentina del secolo

Vienna 1871,

XV,

Gervinus, Historische Schriften

Diario fiorentino di Bartolommeo. di Michele del Corazza, ristampato da G. O. Corazzini, nelYArch. stor. ital. S. V., voi. XIV, 1894, p. 233 sgg. Le Storie
del Buoninsegni fino al 1410, Firenze 1581 il resto, Firenze 1637. Ricordi storici di Filippo
di Cino Rinuccini dal 1282 al 1460 colla continuazione di Alamanno e Neri suoi
figli fino al 1506, pubbl. da G. Aiazzi, Firenze 1840. L. Frati, Cantari e sonetti ricordati nella cronaca di Benedetto Dei, nel Giorn. stor. IV, 1884, p. 162 sgg. Lo stesso, Un
cronista fiorentino del Quattrocento alla corte milanese, nelYArch. stor. lomb., S. Ili,
p. 49-80. Il

98 sgg.
ricordanze
S. V. voi. IV, 1889,

voi. Ili, 1895, p.

Per

Luca

di Matteo da Panzano, C. Carnesecchi, nelYArch.


145 sgg. Per Gio. Rucellai e il suo Zibaldone, G. Marcotti, Un mercante fiorentino e la sua famiglia, Firenze 1881, per nozze Nardi-Arnaldi,
cfr. D'Ancona, Variet storiche e letterarie, Serie II, Milano 1885, p. 208 sgg.
p. 118. La cronaca di Gio. Morelli, dopo Y Istoria fiorentina di Ricord. Malispini.
Firenze 1718. P. Giorgi, Sulla cronaca di Gio. di Paolo Morelli, nella Cronaca del Liceo
di Teramo per l'anno 1880-81.
p. 118. Cronica di Buonaccorso Pitti, Firenze 1720.

p. 117.

stor. ital.

Rossi.

La

le

lett.

ital.

di

p.

nel sec.

XV.

27

418

NOTE I3IBMOGRAF1CHE E
l^'-O. .(rcjro

CRITICHI:.

Dati, Istoria di Firenze, Firenze 1735.

Per la biografia dell'autore


D. pubbl. da C. Gargiolli, Bologna, 1869 (Scelta, 102).
p. Ili. Il Commentario dell'acquisto di Pisa, in Muratori, XVIII, 1157 sgg. Che autore
ne sia Neri Capponi crede anche [G. Brizzolara, Osservazioni e ricerche intorno all'autore
dei Commentari, ecc. Pontedera 18951.
p. 119-20. Le Croniche di Gio. Set-cambi lucchese pubbl. da S. B ragi, Roma (Lucca) 1?92,
3 voli. Per il Sercambi novelliere vedasi il volume sul Trecento. Le Vite dei Dogi del Sanudo, in Muratori, XXII, 405 sgg. La spedizione di Carlo Vili in Italia raccontata da
M. Sanuto, Venezia 1883. Bernardino Corio, Storia di Milano riveduta e annotata da
E. De Magri, Milano 1855-57, 3 voli. Un documento riguardante la storia del Corio, in
Bollettino stor. della Svizzera ital. VII, 1S85, p. 51-2.
p. 120. Istorie fiorentine scritte da Giovanni Cavalcanti, a cura di F. Polidori, Firenze 1838-39, 2 voli. [A. Venturi, Le orazioni nelle Istorie fiorentine di G. Cavalcanti,
Pisa 1890], Qualcuno confuse lo storico con quel Gio. Cavalcanti, che fu amico del Ficino
p.

anche II libro segreto di

Gr.

(p. es.

Villari, Machiavelli, 2. a ediz. voi. Ili, Milano, 1897. p.

nismo

p.

256 e l'indice; Geiger, Umaquest'ultimo era ancora vivo nel 1494 e veniva mandato ambasciatore
a Carlo Vili (Villari, Savonarola'1
I
230), mentre il cronista non era pi un bambinello
tra il 1403 e il 1405 [Istorie, voi. I, p. 409).
p. 121-24. Sulla biografia nel Rinascimento, Burckhardt, o. eli, 57; dell'e liz. ital. 73 sgg.
p. 121-2. G. A. Campano, Vita Brachii, in Muratori, XIX, 439 sgg. G. Manetti, Vita Nicolai V, in Muratori, III, II, 907 sgg. F. Pagnotti, La vita di Niccolo
scritta da G. M.,
neWArch. della societ romana di storia patria, XIV, 1891, p. 411 sgg. La Vita d FU. Brunelleschi nelle Operette istoriche edite ed inedite di Antonio Manetti, raccolte da G. Milanesi, Firenze 1887, p. 69 sgg. Nella prefazione le notizie sul Manetti, al quale per A. Chiappelli contesta ora con gravi argomenti la paternit della Vita [xieW Arch. stor. ital. S. V.
voi. XVII, 1896, p. 241 seg.], P. C. Decembrio, Philippi M. Vicecomitis Vita, in Muratori, XX, 985 sgg. Lo stesso, Vita Francisco Sfortiae, ibid, XX, 1023 sgg.
p. 122. Per notizie su Sicco Polentone e le sue biografie, R. Sabbadini, in Museo ital.
III, 1890, p. 319 sgg. Bartholomaei Facii de viris illustribus liber,
d'antichit class.
pubbl. con una prefazione, la vita dell'autore e alcune epistole da L. Mehus, Firenze 1745.
Il De Viris del Piccolomini nell'Appendice ad Orationes Pii II P. M. Operis Pars III,
Lucca 1759, p. 144 sgg. Delle Vitae pontificum del Platina uso l'edizione di maestro Gio.
Vercellese 1485. Su quella collezione di biografie, vedi Pastor , Geschichte, II, 574 sgg. e
140-1)

ma

una

notizia nel Giorn. stor., XVII,1891. p. 467.


p. 122-4. Vite di uomini illustri del sec.

XV

scritte da. Vespasiano da Bisticci,


rivedute sui mss. da L. Frati, Bologna, 1892-93, 3 voli. Per la cronologia della composizione, Giorn. stor. XX, 261 sgg. XXIV
276. Naldo Naldi
Vita Jannoctii Manetti, in
,

XX, 529 sgg.


124. La Vita di Dante

Muratori,

di Leonardo Bruni stampata da G. C. Galletti con Philippi


p.
Villani Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, Firenze 1847, p. ,45 sgg.; quella
del Petrarca dello stesso, ibid. p. 52 sgg. Le Dantis Petrarchae ac Boccacci Vitae di Giannozzo Manetti, ibid. p. 59 sgg. La Vita Dantis Aligherii di G. Mario Filelfo, Firenze 1828.
p. 125. Feo Belcari, Prose edite ed inedite, raccolte e pubbl. da O. Gigli, Roma, 1843-4,
5 voli. Quivi, nel volume I, le notizie biografiche cfr. per Flamini, Lirica, p. 369 sgg. Pelle fonti della Vita del B. Colombini, L. Albertazzi, in Propugn. XVIII, P. II, 1835,
p. 225 sgg. e G. Pardi, nel Bullettino senese di storia patria, II, 1895, p. 4-13.
p. 126. Sulla novella del Fazio De origine inter Gallos et Britannos belli historia,
A. Neri, in Propugn. VII, P. 1, 1874. p. 129 sgg. e C. Braggio, in Atti societ ligure di
stor. patria, XXIII, 1890, p. 231 sgg. La novella Volgare di L. Bruni fu pubblicata dal
Borghini in appendice al Novellino (1572) e riprodotta in altre edizioni di questo , per es.
in quella curata dal Manni, Firenze, 1778-82, II, 280 sgg.
p. 126-7. La novella di Enea Silvio, nei suoi Opera, ed. cit. p. 623 sgg. V. Cortesi, La
storia di due amanti di E. S. P., nel Preludio di Ancona, VI, 1882, n. 23-4. G. Zannoni,
Per la storia di due amanti di E. S. P., nei Rendiconti dei Lincei, S. IV, voi. VI, 1890,
p. 116 sgg. si studia di provare che in Eurialo adombrato il giureconsulto Mariano Sozzini.
Ivi pure notizie sulle versioni italiane antiche della novella ; per altre notizie su questo proposito, Zannoni, Per la storia d'una storia d'amore, nella Cultura, XI, 1890, p. 85 sgg.
:

p. 127-39 G. B. Passano, I novellieri italiani in prosa, II ediz. Torino 1878,. M. Landau, Beitrge zur Geschichte der ital. Novelle, Vienna, 1875.
p. 127-8. Le novelle di Gentile Sermini da Siena, Livorno, 1874. La novella, di Bernardo Illicino, tra le Novelle di autori senesi, Milano 1815, II, 3 sgg.
p. 128-31. Il Novellino di Masuccio Salernitano per cura di L. Settembrini, Napoli 1874. Per i riscontri alla novella di Bertramo d'Aquino, E. Gorra, Studi di critica
letteraria, Bologna, 1892, p. 201 sgg.; per riscontri alla novella (XVIII) della gherminella

del fuoco, Koehler, in Giorn. storico,

XVI,

1890, p. 114 sgg.

NOTE AL CAPTOLO QUINTO.

419

U. Dallari, Della vita e degli scritti di Gio. Sabadino degli Arienti, negli Atti
Deput. di stor. pat', per le prov. di Romagna, S. Ili, voi. VI, 1888, p. 178 sgg.
R. Renier, in Giorn. stor. XI, 18S8, p. 205 sgg., XII, 1888, p. 301 seg. Gynevera. De le dare
donne di Joanne Sabadino de li Arienti a cura di C. Ricci e A. Bacchi della Lega, Bologna 1888 {Scelta, 223); che Sabbadino attingesse al Foresti disse F. Gabotto, Lettere ined.
di Jov. Fontano, Bologna 1893, p. 20 sgg. (Scelta, 245). Porretane di M. Sabadino bolognese
dove si narra novelle settanta una (sic.) con moralissimi documenti, Venezia, Sesss, 1531.
Ad illustrazione della novella di Filoconio, G. Rua, Novelle del Mambriano , Torino 188S,
p. 132-3.

e Meni, della

p.

134 sgg.

133. La Deifira dell'Alberti nelle Opere volgari di lui, ed. Bonucci, III, 363.
411 sgg., V, 323 sgg. anche le Epistole amorose dell'Alberti. Sulle epistole amorose
in prosa nel sec. XV, V. Cian, Le Rime di B. Cavassico, voi. I, Bologna 1893 (Scelta, 246),
p. LXII segg. cfr. Giorn. stor. XXVI, 218. L. Frati, Lettere amorose di Galeazzo Marescotti e di Sante Bentivoglio, nel Giorn. stor. XXVI, 2895, p. 305 sgg. Sia qui avvertito che la p di Filocopo non mia, ma di un troppo zelante correttore che sostitu il titolo
erroneo al vero, Filocolo, poi che io ebbi licenziato le ultime bozze unicuiqu suum.
p. 133-4. Il Paradiso degli Alberti. Ritrovi e ragionamenti del 1389 romanzo di
Giovanni da Prato, a cura di A. Wesselofsky, Bologna 1867 (Scelta, 86 1 862 87, 88).
p. 134-36. A. Ronchini, Jacopo Caviceo, negli Atti Mem. d. Dep. di storia patria
per le Provincie Modenesi e- Parmensi, IV, 1868, p. 209 sgg. Il Peregrino di Jacopo Caviceo, Venezia, Elisabetta Rusconi, 1526; su di esso, A. Albertazzi, Romanzieri e Romanzi
del Cinquecento e del Seicento, Bologna 1891, p. 7 sgg.
p. 136-7. La novella del Grasso legnaiuolo, in Antonio Manetti, Operette istoriche
edite ed inedite a cura di Gr. Milanesi, Firenze 1887. p. 1 sgg. Le ragioni che ci inducono
a non attribuirla al Manetti furono rilevate e le varie redazioni di essa studiate da M. Barbi,
Antonio Manetti e la Novella del Grasso legnaiuolo, Firenze 1893, per nozze Cassin-D'Ancona. La novella del Bianco Alfani (di questa mi occuper altrove) tra le aggiunte dal
Borghini al Novellino', nella citata ediz. di questo II, 211 sgg. La novella di madonna Lisetta fa stampata a Lucca, 1857 ma non avendo potuto vederne ressun esemplare impresso,
mi servo del cod. mglb. II, II, 56, c. 157 r.
p. 137. La novella di Buonaccorso di Lapo tra le aggiunte al Novellino-, nella ediz.
citata, p. 175 sgg. La novella di L. Pulci in Raccolta di novellieri italiani, Torino 1853,
pubbl. da I. I^el Lungo, Bologna 1865 (Scelta, 56).
p. 21 sgg. Giacoppo Novella
p. 137-8. Le Facetiae del Poggio nella citata ediz. delle opere. Per la bibliografa
Pitr, Bibliogr. delle tradizioni popolari, Torino-Palermo 1884, p. 54 sgg. La Facezia 138
gi nella Epist. Ili, 8 del 5 novembre 1426. Alla storia della composizione e della graduale divulgazione delle facezie giovano le Epist. Vili, 4, 35 IX, I, 14 X, 17, 22. La data pi
tarda ricordata nelle Facezie il sesto anno del pontificato di Niccol V. (marzo 1452-marzo 53)
nella fac. 248. Per madouna Bambacaia o Bombacaia, F. Novati [nel Giorn. stor. XXVIII,
113 sgg.]; per Pasquino da Siena rimatore, G. Volpi, ivi, XV, 50 e Flamini, Lirica,
p. 743 nota; per Zuccaro le Epistolae del Bruni, III, 17; IV, 1.
e XVI, Bologna, 1874 (Scelta, 138).
p/^%38. Facezie e motti dei secoli
p. 138. Sul Gonnella e sulle sue facezie, F. Gabotto, L'epopea del buffone, Bra 1893
per nozze Manzone-Ricca. Quivi sono ristampate le facezie in ottave: cfr. anche Giornale
storico, XXII, 250.
Le facezie del Pievano Arlotto precedute dalla sua vita e annotate
da G. Baccini, Firenze 1884.
p.

Ivi, III,

XV

Nute al Capitolo Quinto.


p. 140-2. Vivaci pitture della vita fiorentina nel Quattrocento sono nelle conferenze di
G. Biagi e Isidoro Del Lungo, La vita privata dei fiorentini e La donna fiorentina nel
Rinascimento e negli ultimi tempi della libert, stampate nel voi. La Vita italiana nel
Rinascimento, Milano 1893, p. 73 sgg. Le feste per la consacrazione di S. Maria del Fiore,
I,
14 seg. e Giovanni di Cino Calzaiuolo in un
descrissero fra altri Vespasiano, Vite
capitolo ternario edito dal Lami, Catal. mss. Riccard. p. 216 seg. La mia descrizione delle
teste per la venuta di Pio li condotta su quella rimata di anonimo contenuta nel cod.
mglb. VII, 1121 un saggio ne diedi nell'opuscolo Un ballo a Firenze nel 1459, Bergamo, 1895,
per nozze Fraccaroli-Rezzonico. Descrizioni in prosa ed in versi delle feste di S. Giovanni
raccolse C. Guasti nel voi. Le feste di S. Gio. Battista a Firenze, Firenze 1884. Sull'uso,
non fiorentino soltanto, di celebrare il calendimaggio, D'Ancona, Origini del teatro'1
II, 245 sgg.
,

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.

120
Le bollato

Fraucesoo

Altobianco Alberti e di Gianimatteo di Meglio, in


II, Prato 1816. p. 347 sgg. 244 sgg. [Ballate e strambotti di poeti aulici toscani del Quattro'-entu pubbl. da F. Flamini, Pa,
dova 18 .>7, per nozze D'Ancona-Orvieto.
p. 144. Sul Giustinian. Agostini, Scrittori viniziaai
I, 1752, p. 135 sgg.
La lettera
al Guarino, fu pubbl. da R. Sabbadini nel Giorn. stor. X, LS87,
p. 3G2 sgg. e pi correttamente da F. Novati e G. Lalaye, Angiologie, p. 35 sgg.
p. 144-5. D'Ancona, La poesia popolare italiana, Livorno 1878. Rubieri, Storia della
poesia popolare italiana, Firenze 1*77. Una bella raccolta di testi, nella Biblioteca di letteratura popolare italiana pubbl. da S. Ferrari, voi. I, Firenze 1882, voi. II (solo il primo
143.

p.

li

Traccili, Poesie italiane inedite di

l>'

dugento autori,

fascicolo) 1883. Quivi, I, 86, il rispetto toscano riferito. Di un antico repertorio di poesie
popolari d conto T. Casini, nel Propugnatore, N. S. volume II, P. I, 1889, p. 197 so<r
P. II, p. 356 sgg.
p. 145-6. A. D'Ancona, Strambotti di Lionardo Giustiniani, nel Giorn. filol. rom.
1879, p. 179 seg. Altri ventiquattro strambotti ascritti al Giustinian ripubblic non ha
guari [T. Ortolani, Appunti su L. Giustiniani, Feltre 1896] ma l'attribuzione falsa (X. nIT,

16 aprile 97, p. 757).


p. 146. I Rispetti pei- Tisbe nella Bibliot. d. letter. pop.
91 sgg. Venete sono
1
la raccolta di strambotti di un codice Perugino pubblicata dal D'Ancona, Poes. pupol.,
p. 442 sgg. e quella data in luce da S. Morpurgo, nella Bibliot. di letter. pop. II, 95-118.
Della prima di queste e di altre simili raccolte parla il D'Ancona, Poesia popolare, p. 135 sgg.
tol. del

p. 147-9. Poesie edite ed inedite di Lionardo Giustiniani, pubbl. da B.


\Viese. Bologna, 1883 (Scelta, 193), dove riprodotto un codice Palatino di Firenze; ma non tutte
le poesie sono del Giustinian. Canzonette e strambotti in un codice veneto del sec.
V,

pubbl. da S. Morpurgo nella Bibl. di letter. popol. II, 1 sgg.


delle vecchie stampe delle canzonette del Giustinian. Di un altro

p.

13 sgg. la bibliografia

ms. veneziano d notizie


ed estratti G. Mazzoni, Le rime profane d'un ms. del sec. XV, Padova 1891 (estr. dagli
Atti e Memorie dell' Accad. di Padova, voi. VII). Un quarto manoscritto affine a questi,
il Parigino ital. 1032, su cui vedi B. Wiese, nella Zeitschrift fur ramavi. Phil.
XVII,
1893, 256 sgg. Di un quinto meno importante, B. Wiese, HandschHftliches, Halle a. S. 1894
(append. al Programma pasquale della Scuola reale superiore civica di Halle), p. 5 sgg. Di
altre pubblicazioni giustinianee danno notizia le citate.
Per la metrica delle canzonette
T. Casini, in Riv. critica I, :884, p. 85 sgg. e Gaspary, Storia, II, i, 347.
p. 149-53. F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi di
Lorenzo il Magnifico, Pisa, 1891 cfr. Giorn. stor. XVIII, 1891, p. 377 sgg. Per le imitazioni dello stil nuovo F. Flamini, negli Studi di storia letteraria italiana e straniera,
Livorno 1895, p. 32 sgg.
p. 150-53. Prose e rime de due Buonaccorsi da Montemagno ed alcune rime di
Niccol Tinucci, a cura di G. B. Casotti, Firenze 1718; nella prefazione le notizie biografiche. Due sonetti di Buonaccorso in Sonetti e ballate di antichi petrarchisti toscani pubblicati da F. Flamini, Firenze, 1889 per nozze, Palmarini-Matteucci. Sulla questione dei due
Buonaccorsi, un cenno in Flamini, Lirica, p. 393 nota.
Dieci ballate amorose di M.
Rosella Roselli pubbl. da G. Donati, Perugia, 1891, per nozze Sanguinetti-Gigliarelli un'altra
Le date estreme della vita di Francesco Accolti vanno
in Rass. bibliog. I, 1893, p. 157.
1416-1488 Flamini, Lirica, p. 757. Sonetti inediti di m. Francesco Accolti
corrette cos
Le poesie familiari di Domizio
pubbl. da I. Sanesi, Pisa 1893 per nozze Cassin-D'Ancona.
Broccardo pubbl. da G. S. Scipioni nel Preludio di Ancona, V. 1881, n. IL Ballate inedite
di Domizio Brocardi, pubbl. da A. Saviotti, Fano 1892, per nozze Antaldi-Procacci, cfr. Flamini in Propugn. N. S. voi. V, P. I, 1892, p. 301 nota. Per le notizie biografiche, Giorn.
La bella mano di. Giusto de* Conti, Firenze 1715.
stor. XIII, 1889, p. 441 seg., XIV, 310.
Per le notizie biografiche A. Battaglini in Basinii Parmensis Opera praestantiora Rimini 1794, voi. II, P. I. p. 87 sgg. [E. Rostagno, Il cod. Angelucci ora .Laur. Ashburnham. del
Cannoniere di Giusto de' Conti, nella Riv. delle bibliot. e degli Arch., VII, 1896, p. 11 sgg.;
cfr. M. Manchisi, in Rassegna critica della letteratura ital., I, 171 sgg. dove anche corretta
Le rime del Piacentini attribuite al Petrarca
la data di composizione della Bella Mano}.
nel voi. Le rime di Francesco Petrarca con l'aggiunta di cento quattordici sonetti inediti a cura di G. Strafforello, Torino 1859, p. 331 sgg. Per la bibliografia della questione sulPer le disperate di Felice
l'autenticit, B'iamini, in Giorn. storico, XIX, 1892, p. 199.
Feliciano, Flamini, in Rais, bibliog. II, 303 e anche Giorn. stor. XXVI,. 1895, p. 219.
p. 154. Sulla lirica latina, Voigt, o. e, II, 394 sgg.; dell'ediz. ital., II, 386.
Angelinetum di Gio. Marrasio, nella Bibliot. delle scuole ital.
p. 154. R. Sabbadini,
IV, 1892, n. 12. Per la data (1428) de\V Angelinetum confronta M. Lehnerdt, in Zeitschrift
fur vergleich. Literaturgeschichte, N. S. voi. V, 1892, p. 461. La Cinthia del Piccolomini
pubbl. dal Cugnoni, in Atti dell' Accademia dei IJncei, Memorie, S. IH, voi. Vili, p. 658 sgg.
,

NOTE AL CAPITOLO QUINTO.

421

Giovannantonio Campano detto V Episcopus aprutinus, Poti teVenezia 1495.


I, 1893, p. Ili seg. J. A. Campani, Opera,
p. 156-7. Reinhard Albrecht, Tito Vespasiano Strozzi, Lipsia 1891, nel Programma
pasquale del R. Ginnasio di Dresda. Lo stesso, Die Dresdener Handschrift der Erotica
des T. V. S., nelle Romanesche Forschungen, VII, 1892, p. 231 sgg. Per altri manoscritti
e per la data di composizione dei due primi libri, V. R.ossi, nella miscellanea Nozze CianSappa Flandinet, Bergamo 1894, p. 198 nota. Ti ti Vespasiani Strozae Eroticon liber
primus, ecc. Venezia, Aldo, 1513.
p. 157-8. Per le poesie viscontee di Tommaso Moroni, A. Bertoldi nell'Arch. star,
per le Marche e per l'Umbria. IV, 18S8, p. 49 sgg. Per la poesia politica toscana, Flamini,
p. 154-6. G. Lesca,

der 1892:

cfr.

Rass. bibliogr.

Lirica p. 55 sgg. Sugli araldi dalla Signoria, poeti stipendiati, ibid. p. 192 sgg. cfr. Giom.
stor. XVIII, 381 e XIX, 63 sgg.
p. 158. Per la bibliografia delle rime di Malatesta, Indice delle carte di P. Bilancini, P. I, Bologna 1893, p. 397 sgg. XII sonetti di Malatesta de' Mala testi il Senatore,
pubbl. da G. S. Scipioni, Ancona, 1887, per nozze Renier-Campostrini. [E. Lamma, Rime
inedite di M. de" M., nell'Ateneo Veneto, S. XVIII, voi. I, 1894, p. 3 sgg.].
p. 159. Di Pietro Apollonio Collazio antico poeta novarese il libro sin qui inedito
delle epistole a Pio li per la crociata contro i Turchi, Novara 1877.
p. 159. Sul carattere cortigianesco della lirica quattrocentistica, Flamini. Lirica
p. 355 sgg.
p. 159. Di Jacopo Sanguinacci e delle sue rime, L. Biadene, nel Giom. stor. IX, 1887,
G. Mazzoni, nella Rassegna padovana I, 1891, p. 19 sgg.
p. 190 sgg. 211 sgg.
p. 160. Su Niccol cieco, Flamini, Lirica, alle pagine additate dall'Indice.
p. 160. Odae Francisco Philelphi, (Brescia), Angelo Britannico, 1497. Del Minervae
Carmen di G. M. Filelfo Flanini, Versi ined. di G. M. F. p. 9 sgg.
p. 160-62. G. Zannoni, Porcellio Pandoni ed i Monte feltro, nei Rendiconti dei Lincei
S. V, voi. IV, 1895, p. 104 sge;. e 489 sgg. E. Percopo, P. Pandone, nell' Arch. storico per
le prov. napol. XX, 1895, p. 317 sgg. Ma in pi punti mi diparto dalla cronologia stabilita
da questi studiosi. Il documento della pensione annua milanese fu pubbl. da F. Gabotto, nella
Bibliot. delle scuole ital., III
1893, n. 3. Il primo febbraio del 1459 il Porcellio era ancora a Milano, come rilevo da una sua lettera a Cicco Simonetta stampata nell' Opusculum
aureum de talento a Porcello poeta aetatis suae praestantiss. elucubratum, (s. n. tipogr.
ma del sec. XV), di cui un esemplare nella Magliabechiana. I versi latini del Porcellio
nei Carmina illustriun poetarum, Firenze 1719-"26, VII, 497 sgg. La descrizione del banchetto offerto ad Eleonora d'Aragona, pubbl. da C. Corvisieri, neir Arch. della societ
rom. di stor. patria, X, 1887, p. 675 sgg. Il De amore Jovis in Isoltam liber, nei Trium
poetarum elegantissimorum Porcellii Basinii et Trebanii opuscula, Parigi 1539, c. 7 sgg.
siede. Rimini, tudes sur les lettres et
p. 162. Ch. Y riarte, Un condottiere au
les arts a la cour des Malatesta, Parigi 1882.
p. 162-3. h'Isottaeus nei Trium poetarum elegantissimorum opuscula, c. 37 sgg. Quanto
ai presunti autori vedi Aff e Battaglini, in Basinii parmensis opera praestantiora, Rimini 17&4, IJ, I, 26 sgg. e 108 sgg. La data che gli assegno mi risulta dall'esame della contenenza storica. Che il 22 maggio 1447 mori in fasce un tiglio naturale di Sigismondo, afferma
il Mazzuchelii, Notizie intorno ad Isotta da Rimino, II ediz. Brescia 1759, p. 9 nota.
p. 163-4. Il poema di Basinio, nei citati Basinii parmensis opera, I, 1 sgg.
p. 163. K. Borinski, Das Epos der Renaissance, nella Vie rteljahr sdir, del Geiger,
:

XV

I,

1886, p. 187 sgg.


p. 163-64. I Meleagridos

libri III e gli Argonauticon libri III di Basinio, negli


345 sgg.
I due poemetti del Vegio, in Maxima biblioth. veterum
patrum, XXXVI, Lione, 1677, p. 764 sgg. Per la data del Vello d'oro, M. Minoia, La Vita
M. V. p. 69.
A. Marchesan, Dell' umanista Antonio Baratella da Loreggia, Treviso 1891
cfr. U. Cosmo, nella Rassegna padovana, I, 1891, p. 186 sgg., 237 sgg.
p. 164-5 Conflictus Aquilani quo Braccius Perusinus profiigatus est Leonardi
Griphi libellus, in Muratori, XXV, 465 sgg. G. Zannoni, Il sacco di Volterra: un poema
di Naldo Naldi e l'orazione di B. Scala, nei Rendiconti dei Lincei, S. V. voi. Ili, 1894,
p. 224 sgg. Sulla Sforziade di F. Filelfo, Rosmini, II, 158 sgg. Sulla Felsineis di Giammario, Flamini, nel Giom. stor. XVIII, 1891, p. 328 sgg.; sulla Marziade , G. Zannoni,
nei Rendiconti dei Lincei, S. V, voi. III, 1894, p. 557 sgg., 650 sgg. Dell' Amyris, C. Monzani
in Arch. stor. ital. N. S. voi. IX, P. I, 1859, p. 116 sgg.
G. Romano, Guiniforte Barzizza all'impresa di Gerba nel 1432 e un poemetto ined. di Antonio Canobio sullo stesso
avvenimento, nell'Arch. s:or. siciliano, N. S. XVII, 1892, p. 1 sgg. Del Canobio, Novati
e Lafaye, L' Angiologie p. 62 sgg. Sul Trophaeum anglaricum del Dati, F. Flamini, in
Giom. stor. XVI, 1890, p. 49 seg.
p. 165-6. Per il Cornazzano, C. Poggiali, Memorie per la storia letteraria di Piacenza,
Piacenza, 1789, I, 61 sgg. I v i, p. 118 sgg., l'analisi della Sforzeide.
stessi suoi

Opera,

I,

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE

122
106. Di

Lorenzo

Biografia degli scrittori perugini e notizie


296 sgg. Sul suo Libro di Sorti, V. Rossi, Lettere
di M. A. Calmo, Torino 18S8, p. 450 sgg. La tavola del suo Canzoniere, intitolato La
Fenice (1461-62) in G. Mazzatinti, Inventari dei ms. delle Biblioteche d'Italia, voi. V,
lue sonetti pubbl. da F. Rivagli, Cortona 1893, per nozze SuffoFri! 1895, p. 153 sgg.
l'alehetti.
Il libro chiamato Altro Marte, stampato in Vicenza addi Vili rie aprile
del MGCCCLXXXVIIII. Il capitolo proemialo fu ristampato da A. Medin, neir^4>*c/i. stor.
hmb., XIV, 1887, p. 755 sgg. Quivi, a p. 731, che il poema fu finito nel 1460.
p. 100-7. La Istoria dell'assedio di Piombino, in Muratori, XXV, 319 sgg. Per le
liriche politiche di Antonio da san Miniato, P. Flamini, Lirica, p. 00, 131 seg. 159 seg. 338.
La cronaca di Firenze cui alludo, nel cod. mglb. XXV, 207, cart. del sec. XV. Un'enumerazione delle operette in terzine di Giorgio Sommariva in Giuliari. La letteratura veronese
al cadere del secolo XV, Bologna 1S7G, p. 90 sgg. 215 sgg. 350 sgg. Egli ha una cronaca
del regno di Napoli, una descrizione della morte del beato Simone, riduzioni in terzine di
brevi, di decreti, di bandi, ecc. A. Neri, Un opuscolo ignoto di Giorgio Sommariva, negli
Studi bibliografici e letterari, Genova, 1890, p. 31 sgg.
Il Poema delia guerra dell Aquila con Braccio da Montone di Niccol Ciminello da Bazzano in Muratori, Antiquilates, VI, 905 sgg.
Relazione dell'attacco e difesa di Scio nel 1431 di Andreolo Giustinian edita da G. Porro* Lambertenghi, in Miscellanea di storia italiana, voi. VI, Torino 1805, p. 541 sgg. Di Andreolo, L. T. Belgrano
Anticaglie, nel Giornale ligustico,
XIII, 1886
11 Lber de institutione virtutum et de regimine sanitatis di
p. 207 sgg.
Pietro da Mntalcino nel cod. mglb. XXX, 234 (cart. sec. XV); dei tre libri, in cui diviso
manca nel cod. il primo.
Opera bellissima de V arte militar del excellentissimo poeta miser
Antonio Cornazano in terza rima, Venezia, Pietro Benalio, 1493. Altri consimili poemi
storici o didattici del Cornazzano sono annoverati dal Poggiali, 1. c.
La Sfera. Libri
quattro in ottava rima scritti nel secolo XIV da f. Leonardo Dati siccome si ha da vari
antichi mss, ovvero da Gregorio Dati siccome indicherebbe V edizione fiorentina del 1513,
Roma 1803. Che di Goro, sostenne il Palermo , Mss. palatini, I, 593 sgg. e attestano
molti manoscritti.
Su codeste e altre opere storiche o didattiche in rima vedi V. Rossi,
nel Nuovo Archiv. Veneto, voi. V, 1893, p. 443 segg.
p. 167-8. Sui cantori in panca, Flamini, Lirica p. 152 sgg. Su Antonio di Guido,
ibid. p. 162 sgg. e ai luoghi additati dall'Indice; della sua recitazione a Careggi nel 1459,
Buser, Die Beziehungen der Mediceer zu Franhreich, Lipsia 1879, p. 347 sgg.
p. 108. Sui poemetti popolari storici, D'Ancona, Poesia popolare, p. 68 sgg. Narrazioni poetiche della battaglia d'Anghiari, sono indicate da F. Flamini, Lirica, p. 119 nota;
di un poemetto La guerra di Negroponte, Medin-Frati, Lamenti, II, 254 seg. Vero poemetto
narrativo anche il Lamento di Costantinopoli in ottave pubblicato ivi, II, 151 seg. L. Frati
Il sacco di Volterra nel 1472. Poesie storiche contemporanee, ecc. Bologna, 1880
{Scelta, 214), p. 1 sgg. Il poemetto sulla carcerazione di Cicco Simonetta in 90 ottave in
una stampa della Marciana, mise. 1945,48. Siano qui ricordati anche [V. Finzi, Di un
inedito poema sincrono sull'assedio d Lucca dell'anno 1430, nella Zeitschrift f. rom.
Phil. XX, 1896, p. 219 sgg.] A. Medin, Frammenti di un cantare in morte di Gal. Maria
Sforza, neWArch. stor. lomb. XII, 1885, p. 797 seg. P. L. Rambaldi, La guerra di Venezia col duca d'Austria nel 1487 : stanze cV un contemporaneo, nel Nuovo Ardi.
p.

delle opere loro,

II,

Spirito, Vermiglioli,

Perugia, 1829,

p.

Veneto voi. VII, 1894, p. 9 sgg. H. Ungemach , La guerra di Parma. Ein italienisches
Gedicht auf die Schlacht bei Fornuovo 1495, Schweinfurt, 1892.
nel primo
p. 108. I due versi per la morte di^ser Giovanni, in Muratori, XXI, 1095 D
si dovr leggere preta . La cantilena narrativa dell'uccisione di Ottobuono pubbl. da T. Cacfr. Piccolomini, Commentar ii, p. 127 A.
sini, in Riv. critica, II, 1885, p. 175
raccolti e ordinati a cura di
e
p. 109-70. Lamenti storici dei secoli XIV,
A. Medin e L. Frati, voi. I, Bologna 1887 voi. II, 1888 voi. III. 1890 {Scelta, 219, 220, 230)
voi. IV, Padova, 1894. In quest'ultimo volume V Introduzione di A. Medin discorre la storia
;

XV XVI

caratteri del genere.


p. 170.

Per

le

novelle di Francesco Malecarni e di Francesco

Accolti,

Flamini, Li-

messer Antonio Cornazano in facetie, Bologna 1805


Un poeta
{Scelta, 62). Che questa prosa si riduce facilmente a versi, mostr E. Teza
travestito, negli Atti e Mem. dell' Accad. di Padova, N. S. voi. VII, 1891, p. 97 sgg. ma

rica, p. 27 sgg. e 329 sgg. Proverbii di

l'intenzione dell'autore era certo soltanto di

De

preparare

la

materia alla versificazione: per

re militari, v. Poggiali, I, 96 sgg.


Tancredi
I novellieri italiani in verso, Bologna 1868.
principe di Salerno, novella in rima di G. Benivieni, Bologna 1865 {Scelta, 28). L'Istoria
'li Oltinello e Giulia, fu ristampata, con una introduzione, dal D'Ancona, Poemetti popolari italiani, Bologna 1889, p. 391 sgg. La istoria di Maria per Ravenna scritta ne!
sen.
da ignoto autore, Bologna 1864 {Scelta, 45). Novella del Gerbino, Bologna 1862
l'analoga condizione del
p.

171-2. G. B. Passano,

XV

NOTE AL CAPITOLO QUINTO.

423

Cambriano contadino

a cura di A. Zenatti, Bologna 1884, (Scelta, 200),


cfr. Novati, in Giorn. stor. V, 258 sgg. Sulla Storia del Calonacho da Siena, Varnhagen,
Italienische Kleinigheiten, Halle 1895, p. 1-6. I,a storia di Ginevra degli Ahnieri di
Agostino Vellett, ripubbl. da A. D'Ancona, Pisa 1863. L'Istorietta amorosa d Leonora
(Scelta, 25). Storia di

de'

Bardi

in prosa e in verso, colle Opere volgari di L. B. Alberti, III, 275 sgg.


poemetto del Pestellino nel cod. Panciatich. 30: cfr. 1 codd. Panciatichiani

p. 173. Il

della Bibl. Nazion. di Firenze, Roma 1887, I, 60 sgg. Qui voleva essere ricordata, come
imitazione del Filostrato, anche V Istoria di Patrocolo e d'Insidoria, pubbl. da F. Novati,

Torino 1888.
p. 173-4. P. Papa, Un capitolo delle Definizioni di Jacomo Serminocci, Firenze 1887,
per nozze Renief Campostrini. G. Mazzoni, Il Corbaccino di ser Lodovico Bartoli, nel
Propugn. N. S. voi. I, P. II, 188S, p. 240 sgg. Il pome del bel fioretto di ser Domenico
da Prato, a cura di P. Fanfani, Firenze 1863.
in C. Del Balzo, Poesie di mille autori
p. 174-5. Il poema di Giovanni da Prato
intorno a Dante, voi. Ili, Roma 1891, p. 311 sgg. Il poema di Pietro del Giocolo nel cod.
Marciano, Ital. IX, 96 (cart. sec. XV): per qualche notizia sull'autore V. De Bartholomaeis,
negli Studi di filol. rom. VI, 1893, p. 23.1.
p. 175. Sai lettori di Dante a Firenze, Th. Klette, Beitrge, I, Greifswald, 1888, p.54 sgg.
e anche Giorn. storico, XXIV, 1894, p. 253 e, U. Marchesini, nell' Ardi. stor. ital. S. V,
voi. XVI, 1895, p. 273 sgg. Per Siena, Bullettino della societ dantesca ital. N. S. voi. II,
1894-95, p. 79. A Verona spiegava Dante Giammario Filelfo nel 1467.
p. 177-8. E. Frizzi, La citt di Vita poema inedito di M. Palmieri, nel Propugn. XI,
P. I, 1878, p. 140 sgg. E. Bottari, M. Palmieri, negli .-Affi delV Accad. di Lucca, XXIV, 1886,
Top. 446 sgg. Per la condanna del libro, Renier, Strambotti e sonetti dell' Altissimo
rino 1886, p. XXIX, e [D. Angeli, Per un quadro eretico, nell' Archivio storico dell'arte,
F. Ettari, El Giardeno di M. Jonata Agnonese, poema del
N. S. II, 1896, p. 58 sgg.].
sec. XV., nel Giorn. napoletano di filosofa e lettere, IX, 1885, p. 772 sgg. V. Imbriani.
Notizie di M. Jonata, Napoli 1885 (estr. dal Rendiconto della R. Accademia di scienze
G. Romagnoli, Fra Tommaso Sardi e il suo poema inedito dell'amorali e politiche).
Il poema di Bartol. Gennima peregrina, nel Propugn. XVIII, P. II, 1885, p. 289. sgg.
a cura di G. Gazzino Genova, 1877; per l'autore v. Storia letteraria
tile Fallamonica
della Liguria, II, Genova 1824, p. 189 sgg.
Veniezia. Della glorioxa cittade de Veniezia si chomenza il
p. 1/8-9. Cechin de
primo Trionfo, pubbl. in Tacoli, Parte seconda dralcune memorie storielle della citt di
Geographia di Francesco Berlinghieri.
Reggio di Lombardia, Parma 1748, p. 310 sgg.
Impresso in Firenze per Nicol Todescho, circa 1430 ; per l'autore, A. Mori, Un geografo
del Rinascimento, nelYArch. storico italiano, S. V, voi. XIII, 1894, p. 341 sgg.
La descrizione delle feste del 1459 quella citata nella nota alle p. 140-2.
Libro chiamato Ambitione composto per ser Bastiano Foresi, s. note tip ogr. ma Firenze, sec. XV. Il Trionfo
delle virt dello stesso Foresi nei codd. palatini di Firenze 345, 346 e nel mglb. VII, 816;
un saggio ne pubblic F. Novati, Il trionfo di Cosimo de' Medici, Ancona 1883, per nozze.
Il Trionfo d'amore di
Le not&ie biografiche da documenti dell' Aixmivio di Firenze.
Antonio Bonciani pubbl. dal Flamini, in Propugn. N. S.vol. II, P. II, 1889, p. 139 sgg. Quivi
Capitoli tre di Cleofe
anche notizie sul genere poetico dei trionfi e delle visioni-trionfi.
Gabrielli di Gubbio, negli Anecdota literaria ex ms. codd. eruta, IV, 1783, p. 449 sgg.
p. 179-80. Per Federigo di Montefeltro, come protettore di letterati, la biografia che ne
scrisse Vespasiano da Bisticci, e i saggi di G. Zannoni che si sono citati nelle note alle pagg. 160-2
e 164-5. Per l'arte ad Urbino specialmente, A. Schmarsow
Melozzo da Forl, Berlino e
Stoccarda, 1886 descrizioni del palazzo ducale a p. 76 sgg. 350 sgg. C. Guasti, Inventario
della librera Urbinate compilato nel sec.
da Fed. Veterano, nel Giornale storico
degli archivi toscani, VI, 1862, p. 127 sgg., VII, 1863, p. 46 sgg. 130 sgg. Rime di Agostino
Staccoli di Urbino, Bologna 1709. Su Agnolo Galli, B. Feliciangeli nel Giornale storico,
XXIII, 1894, p. 46 seg. in nota.
p. 180-81. Federigo di Montefeltro duca di Urbino. Cronaca di Gio. Santi, pubbl.
da H. Holtzinger, Stoccarda, 1893. A. Schmarsow, Gio. Santi, der Vater Raphaels, nella
Vierteljahrschrift del Geiger, II, 1887, p. 157 sgg. 320 sgg.
p. 181-2. La Buca di Monteferrato, lo Studio d'Atene e il Gagno poemetti satrici
di Stefano di Tommaso Finiguerri, pubbl. da L. Frati, Bologna, 1884 (Scelta, 203); cfr.
Morpurgo, in Riv. critica, I, 1884. 170 sgg. Versi di Gambino d' Arezzo, pubbl. da O. Gamurrini, Bologna 1878 (Scelta, 164). Per la dipendenza di tali componimenti dai Trionfi,
F. Flamini in Studi di storia letteraria italiana e straniera, Livorno 1895, p. 69.
p. 182. Della poesia familiare in lingua italiana, Flamini, Lirica, p. 540 sgg.
p. 182-4. C. Mazzi, Il Burchiello, nel Propugn. IX, P. II, 1876, p. 211 sgg!, 321 sgg.
X, P. I, 1877, pp. 204 sgg., 376 sgg. Alcune notizie da documenti dell'Archivio fiorentino
,

XV

42

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.

e da manoscritti. Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d'a tri poeti fiorentini alla burLondra (Livorno), 1757. Sonetti dell'Orcagna in Tracchi, Poesie ined. II, 25
Sgg. Su Francesco Alberti, Flamini', Lirica p. 259 sgg! 54'J sgg. I tre sonetti di Bartoom-

chiellesca,

meo da Lucca, erruneamente

attribuiti al Burchiello, tra i Sonetti di questo,


p. 122 seg.
sonetto di G. N. Salerno, in Biadego, Da libri e manoscritti, Verona 1883,
p. 28.
181-5.
Sulla
poesia
gnomica volgare, Flamini, Lirica, p. 484 *gg.
p.

Il

p. 185-0. Antonii Panonnitae Hermaphroditus, edidit Frid. Carpi. Forbergius, Coburgo 1824. Quivi anche altre liriche latine del P. Sulla data di composizione e sulle po-

lemiche suscitate dall'Ermafrodito, R. Sabbadini nel Giorn. stor. V, 1885.


p. 169 sgg. e
Barozzi-Sabbadini, Studi sul Panormita, ecc. p. 2 sgg. La ritrattazione di Guarino nella
Vierteljahrschrift del Geiger, I. 188, p. 109. Sul/a imitazione dei Priapea nlV Ermafrodito, C. Gali, Studi su i Priapea e le loro imitazioni, Catania, 1894,
p. 58. Per le altre
liriche del

Panormita,

due

articoli

di

A. Gaspiry

F.

Ramorino

p.

p.

321 sgg.

Per

p. 8(J-7.

p.

il

De

iocis ac seriis del Filelfo, F. Flamini, nel

187. Francisci Philelphi

nella nota alle


N. S. IH, 1889-90,

citati

82-3 e R. Albrecht, nella Zeitschrift' fiir vergleich. Literaturgesch.


301 sgg.

p.

Giorn. stor. XVIII, 1891,

Satyrarum Hecatostichon prima decas

ecc.

Milano,

Valdarfer, 1476.
p.

187-8.

Per

la storia della trottola, Flamini, Lirica,

p. 49-1-7 e 558-9, e

Studi

citati

pag. 183 sgg.


188. Notizie sul Vinciguerra, in Cicogna, Iscrizioni, II, 66 sgg.;
satire nei Sette libri di satire raccolti da F. Sansovino, Venezia, 15'<^
p.

Note \l Capitolo

V, 515 seg. Le sue

Sesto.

p. 189. Venezia nel 1488. Descrizione di Felice Fabri da Ulma


Venezia 1881,
72 segg. Sulla religione nel Rinascimento, Burckhardt, o. c. voi. II, Parte VI.
p. 191-2. M. Minoia, La Vita di Maffeo Vegio, Lodi, 1896. Il supplemento dell'Eneide,
,

p.

De

perseverantia religionis, YAntonias e l'opuscolo archeologico, anch'essi


Veterum patrum, XXVI, Lione, 1677, p. 688 sgg., 745 sgg., 773 sgg.
Theotocon seu de vita et ob/'tu sacratiss. Virg. Mariae auctore Dominico Johannis theologo fiorentino, pubbl. da G. B. Contarini, nei voli. XVII e XIX della Nuova Raccolta di
opuscoli del Caloger. Ivi anche le notizie biografiche cfr. Gherardi, Statuti dello Studio
fiorentino, p. 475 seg.
i

dialoghi,

nella

il

Maxima

Bibliot.

p. 192-3.

G. Mazzoni,

I quattro Evangeli concordati

in

uno da Jacopo Gradenigo,

Atti e Mem. dell' Accad. di Padova, VIII). Su Candido de' Buontempi,


G. B. Vermiglioli, Memorie di Jacopo Antiquario, Perugia 1814, p. 10 sgg. Un saggio del poema
a p. 256 sgg. Io mi sono valso del cod. Estense Vili, C. 11, splendido manoscritto in mem-

Padova 1892

(estr. dagli

brane del sec. XV. La vita del sanctissimo Johanni Battista fatta per Francesco Philelpho,
Milano, Mantegazzi, 1494.
p. 193-94. Sul movimento dei Bianchi, Sercambi, Croniche, ediz. Bongi, II, 290-371;
Ser Lapo Mazzei. Lettere di un notaro a un mercante del sec. XIV, per cura di C. Guasti,
Firenze 1880, 1, p. XCVIII sgg.. II, p.358 sgg. Filippo Rinuccini, Bicordi storici, Firenze 1840
;

p.

XLIV.

Laude

spirituali di Feo Belcari


di Lorenzo de' Medici, di Francesco
d'Attizzo, di Castellano Castellani e d'altri comprese nelle quattro pi antiche raccolte,
Firenze 1863. Un indice di capoversi di laudi diede A. Feist, Mitheilungen aics lteren
Sammlungen italienischer geistlicher Lieder, nella Zeitschrift f. rom. Phil. XIII, 1889,
p. 195-8.

115 sgg. Per la laude Di' Maria dolce, vedi D'Ancona, negli Studi sulla letteratura
italiana dei primi secoli, Ancona 1884, p. 90 seg. Al Dominici per nessuno dei codici esaminati dal Feist la attribuisce; uno a m. Lonardo, che potrebbe per essere anche il Giustinian. Sul costume di cantar le laudi sull'aria di canzoni profane, notizie ed osservazioni
del Gaspary, Storia, II, i, 348 seg. Che i Greci venuti per il Concilio condannavano tale costume, afferma H. Vast, Le cardinal Bessarion, Parigi 1878, p. 134.
a
ediz. Torino 1891, 2 voli.
p. 198-213. A. D'Ancona, Origini del teatro italiano, 2.
W. Creizenach, Geschichte des neueren Dramas, voi. I. Mitlelalier und Frihrenaissance,
a cura di
e
Halle a S. 1893, p. 298-339. Il teatro italiano dei secoli XIII,
F. Torraca, Firenze 1885. Perlo svolgimento storico della rappresentazione, Vine. De Bartholomaeis, Di un codice senese di sacre rappresentazioni, nei Rendiconti dei Lincei, S. IV,
p.

XIV

voi. VI, 1890, p.

XV

304 sgg.; Lo stesso, Di alcune antiche rappresentazioni italiane, negli

NOTE AL CAPITOLO SETTIMO.

425

Studi di filol. romanza, voi. VI, fase. 16, 1893 (ma pubbl. nel 92), p. 161 sgg. Lo stesso,
Una rappresentazione ined. dell' apparizione ad Emmaus, nei Rendiconti dei Lincei, S. V,
voi. I. 1892, p. 769 sgg.
p. 198-9. E. Monaci, Appunti per la storia del teatro italiano. Uffizj drammatici
dei Disciplinati delf Umbria, nella Riv. di filol. romanza, I, 1874, p. 235 sgg. e II, 1875.
p. 29 sgg. [Lo stesso, Crestomazia italiana dei primi secoli, fase. II, 1897, p. 462 sgg.].
p. 199. Laudi drammatiche aquilane pubbl. da E. Percopo, nel Giorn. storico, Vili, 1886,
IX, 1887 p. 386 sgg. XII, 1888, p. 370 sgg. XVIII, 1891, p. 199 sgg.
p. 195 sgg. 209 sgg.
senesi da G. Rondoni, ibid. II, 1883, p. 272 sgg. Composizioni drammatiche orvietane identiche per la forma alle umbre in un codice di propriet privata
v. Torraca, Teatro, p. VI.
p. 200. A. D'Ancona, Due antiche devozioni italiane, nella Riv. di filol. rom.',
II, 1875, p. 5 sgg. e intorno ad esse Origini, I, 184 sgg. Rappresantazioni simili, quanto
all'assetto, a codeste divozioni saranno anche quelle di cui danno notizia C. De Lollis nel
Bullett. dell'Istituto storico italiano, n. 3, 1887, p. 80 sgg. e Vino. De Bartholomaeis, ibid.
n. 8, 1889, p. 137 sgg. poich non mi persuade l'ipotesi del De Lollis, trattarsi di rappresentazioni mute
di cui le parole fossero recitate dal predicatore. Questi probabilmente
recitava solo la parte narrativa volgare intercalata nei sermoni e dava il tono alla parte
drammatica, della quale aveva nei suoi appunti dei frammenti per sapere, dove >aveva ad
interrompere il suo dire.
p. 200. Le rappresentazioni in forma di ballata sono enumerate dal De Bartholomaeis
negli Studi di filol. rom. VI, 165. Aggiungi la citata Rappresentazione dell' apparizione
;

ad Emmaus.

Lamintu

della nostra donna, in D'Ancona, Origini, I, 173 sgg.


grande rappresentazione abruzzese, De Bartholomaeis, in Studi, VI,
162 sgg. per la Passione del Colosseo, ibid. p. 183 sgg.
e XVI, pubbl. ed illustrate da
p. 201-12. Sacre rappresentazioni dei secoli XIV,
A. D'Ancona, Firenze 1872, 3 voli. Colomb De Batines, Bibliografia delle antiche rappree XVI, Firenze 1852.
sentazioni italiane sacre e profane stampate nei secoli
p. 202. Le rappresentazioni di Feo Belcari ed altre di lui poesie, Firenze 1833
p. 202. La Legenna de Sancto Tomascio pubbl. da E. Monaci, nei Rendiconti dei
Lincei, S. V, voi. II, 1893, p. 946 sgg., sul cod. Morbio ora della Biblioteca V. E. di
Roma, nel quale pure la Devozione di S. Susanna. Descrizione del cod. nel Giorn. stor.
p. 200. Il

p. 200-1.

Per

la

XV

XV

XX,

1892, p. 386 sgg.


p. 205. Della rappresentazione di Griselda, D'A*ncona, Origini, I, 438.
p. 208. Sulle compagnie di dottrina, [Del Lungo. Florentia, Firenze 1897, p. 191 sgg.].
p. 212-3. Sulla sacra rappresentazione fuori di Firenze, D'Ancona, Origini, I, 277 sgg.
Sulla Festa dell' Assunzione di Pietro del Giocolo, De Bartholomaeis, negli Studi, VI, 231 sgg.
Sulle rappresentazioni aversane, F. Torraca
Studi di storia letteraria napoletana, Livorno 1884, p. 24 sgg. ; una di tali rappresentazioni, l' Opus ebdomadae sanctae, nel Teatro
italiano, ecc. del Torraca stesso, p. 2o9 sgg.
p. 212. G. Rondoni, Il mistero di S. Caterina in un cod. della biblioteca comunale
senese, nel Budlett. senese di storia patria, II, 1895, fase. 3-4.
p. 212-3. Per le reliquie del dramma sacro, in Piemonte, Renier, Il Gelindo, Torino, 1896
p. 219 seg. ; nelle altre regioni italiane, D'Ancona, Origini, II, 197 sgg.
,

Note al Capitolo Settimo.


Geschichte der Papste, voi. II, Freiburg i. Br. 1889, p. 288-317.
Nozze Cian-Sappa FlanI. Carini, nella miscellanea
dinet, Bergamo 1894, p. 153 sgg. Quivi anche la bibliografia delle opere del Leto e di quanto
si scrisse intorno a lui.
p. 218, 221. Per il Platina, Bissolati, Le vite di due illustri cremonesi, Milano 1856,
p. 15 sgg. Luzio-Renier, Il Platina e i Gonzaga, nel Giorn. storico. XIII, 1889, p. 430 sgg.
Lettere del Platina, in Vairani, Cremonensium monumenta Romae extantia
P. I, Cremona 1778, p. 30 sgg.
p. 218-9. Per la storia della congiura e della sua scoperta i documenti assai importanti
pubblicati da E. Motta, nil'Arch. della societ rom. di storia patria, VII, 1884, p. 555 sgg.
e del Pastor, Geschichte, II,' 638-47. Per il divieto posto da Paolo II alla lettura dei poeti
pagani, ibid. p. 305 nota 3.
p. 219. Per le iscrizioni delle catacombe G. B. De Rossi, La Roma sotterranea cristiana, voi. I, Roma 1864, p. 3 sgg. G. Lumbroso, Gli Accademici nelle Catacombe, nelp. 216-19. Pastor,
p. 217-18.

Di Pomponio Leto,

426

NOTE BIBLIOGRAFICHE E

CRITICHI!;.

VArch.
la

in

d. societ rom. di' storia patria, XII, 1880, p. 215 sgg. La Difesa del Leto pubb.
Carini, nella citata miscellanea nuzifile, p. 184 sgg. Ledettero del Platina a Paolo li,
Vairani, I, 30 seg.
I.

p. 219-22. Per i fatti generali o politici, Pastor, li, 401 sgg.


per Sisto come protettore di letterati e d'artisti, ivi stesso a p. 564 sgg. Muntz, Un Mene italiea au
sirle,
nella Revue des deucc mondes del 1. novembre 1881, p. 154 sgg.
p. 220. C. Corvisieri. Il trionfo romano di Eleonora d'Aragona nel giugno del 1473,
;

XV

rom, di storia patria, I, 1878, p. 475 sgg. ; X, 1887, p. 629 sgg.


221-2. Dell' accademia ai tempi di Sisto IV e Innocenzo Vili, De Rossi, nel Ballettino d'archeologia cristiana, S. V, voi. I, 1890, p. 81 sgg. La data della morte di Pomponio Leto, in Carini, o. c. p. 165.
B. Pecci, Contributo per la storia degli umanisti
ncir.4rc/i. d. societ
p.

nel Lazio, neWArch. d. societ romana di storia patria, XIII, 1890, p. 451 sgg.
p. 222-3. Per il Calderini e per le polemiche di lui col Perotto e col Menila, GabottoBadini Confalonieri, Vita di G. Menda, p. 88-104. Della- Merlanica>.\ G. Pavesi, ibid.
p. 122 seg.
Vossiane, II 348 sgg. Che il Merula fu eletto
p. 223. Su Ermolao Barbaro, Zeno,
maestro di eloquenza a Venezia nel 1468, G. Castellani, nel Nuovo Ardi. Veneto, voi. XI,
,

1896. p. 134.
p. 223-4. P. Ragnisco, Nicoletto Vemia. Studi storici sulla filosofia padovana netta
seconda met del secolo XV, negli Atti dell'Istituto Veneto, S. VII, voi. II, 1890-91, p. 241 sgg.
618 sgg. Lo stesso, Documenti ined. e rari intorno alla vita ed agli scritti di N. V. e di

Elia del Medigo, negli Atti e Memorie dell'Accademia di Padova, N. S. voi. VII, 1891
275 sgg. E. Renan, Averros et V averrosme Parigi, 1852, p. 279 sgg.
p. 224-30. L. Galeotti, Saggio intorno alla vita e agli scritti di Marsilio Ficino,
neWArch. storico italiano, N. S., voi. IX, P. II, 1859, p. 25 sgg. e voi. X, P. I, p. 1 sgg.
Ritter, Geschichte der Philosophie, voi. IX. Gesch. der neueren Philo Sophie, Amburgo 1850,
p. 267 sgg. L. Ferri, Di M. F. e delle cause della rinascenza del Platonismo nel Quatp.

trocento, in

nismo di M.

La

XXVIII, 1883, p. 180 sgg. Lo stesso, Il plato1884, p. 237 sgg. Gaspary, Storia, II, i, 152 sgg. Marsilii Fi-

filosofia delle scuole italiane..

F., ibid.,

XXIX,

cini Opera, Basilea, 1576.


p. 225. Sul De voluptate, F. Gabotto, L'epicureismo di AI. F.

nella Riv.

di filo-

sofia scientifica, X, 1891, p. 428 sgg.


p. 226. Per la data del De Christiana religione, A. Conti, nell' Ardi, storico italiano,
S. Ili, voi. II, P. II, 1865, p. 177-8. In principio di settembre del 1474 non era ancora

Opera, p. 644); fu stampata nel 1476.


Theologiae lber gi citato da Lorenzo de' Medici in una lettera del gennaio 1473 (Fichii Opera, p. 621). Nel De Christiana religione (cap. IX, pag. 12), dunque
circa il 1474, il Ficino cita la sua Theologia, alludendo senza dubbio al libro XIV cap. 9-10
di questa. Nel lib. XVIII della Theologia (p. 416) si ricorda un miracolo avvenuto tra il
dicembre 1477 e il gennaio 78. Il Ficino afferma di avere scritto la Theologia in cinque
anni (Epist. lib. I, in Opera, p. 660).
p. 228-9. L. Ferri, Platonismo di Ficino. Dottrina dell'amore, in Filos. delle scuole
italiane, XXIX, 1884, p. 269 sgg.
Gotp. 229-30. K. Sieveking, Geschichte der platonischen Akademie zu Florenz
tinga, 1812. L. Ferri, L'accademia platonica di Firenze e le sue vicende , nella Nuova
Antologia, S. III, voi. XXXIV, 1891, p. 226 seg.
p. 230. F. Flamini, Peregrino Allio umanista poeta e confilosofo del Ficino, Pisa 1893,
per nozze Cassin-D'Ancona.
p. 230-34. D. Berti, Intorno a Gio. Pico della Mirandola cenni e documenti inediti,
nella Rivista contemporanea, XVI, 1859, p. 7 sgg. F. Calori Cesis, Gio. Pico della M.
detto la Fenice degli ingegni, 2. a edizione, Bologna 1872. Vinc. Di Giovanni, Gio. Pico della
Mirandola nella storia del Rinascimento e della filosofia in Italia, Palermo 1894. L. Dorez, Lettres indites de J. Piede la Mirandole, nel Giornale storico, XXV, 1895, p. 352 sgg.
Per l'et giovanile del Pico, F. Ceretti, negli Atti e Memorie della Dep. di storia patria
per le provincie mod. e parmensi, N. S. voi. Ili, P. II, 1878, p. 268 e voi. VI, P. I, 1884,
p. 224 seg. Ioannis Pici Opera omnia, Basilea, 1572, 2 voli.
p. 231. Su Giovanni Alemanno, J. Perles, Les savants juifs Florence Vpoqiie
de Laurent de Mdici s nella Revue des tudes juives, XII, 18S6 , p. 244 sgg. Su Elia
dal Medico, M. Schwab, negli Annales de philosophie chrtienne, S. VI, voi. XVI, 1878,
p. 356 sgg. e Ragnisco, negli Atti e Memorie dell'Accad. di Padova, N. S. voi. VII, 1891,
p. 293 sgg.
siede,
p. 231-2. J. Havet, Maitre Fernand de Cordoue et l'universit de Paris au
Parigi 1883 (estr. dai Memoires de la Socit de l'histoire de Paris et de V Ile-de-France);
sicle, nel ReA. Morel-Fatio, Maitre F. d, Cordoue et les humanistes italins du
finita (Epist. lib. I, in
p. 226-7. Il

XV

XV

427

NOTE AL CAPITOLO SETTIMO.

cueil de travaux d'rudition ddis la mmoire de J. Havet, Paris 1895, p. 521 sgg. Per
la disputa sostenuta da G. M. Filelfo, F. Gabotto, in Atti della societ ligure d sto-ia
patria, XXIV, p. 80. Di dispute fiorentine, Berti, in Rivista contemporanea, XVI, 8 sgg.
,

tenute nel 1482 a Venezia ai Frari


Marc. Lat. XIV, 267, c. 18 r sgg.

di dispute

nel cod.
p.

232.

di

Rialto, notizie

XXII, 1893, p. 376, e


Rassegna bibliografica, III, 1895, p. 273 sgg.: cfr. anche Revue critique,
420. [L. Dorez e L. Thuasne, Pie de la Mirandole en France (1485-88);

XXV,

1896, p.
Parigi, 1897].
p. 233. Un saggio del

commento

salmi, fu pubbl. da F. Ceretti, nel quaderno di


scuola cattolica e la scienza italiana.
p. 234. Sonetti inediti di Gio. Pico, a cura di F. Ceretti, Mirandola 1894. L. Dorez
Roma 1894 (estr; dalla Nuova Rassegna,
sonetti di Gio. Pico della Mirandola

gennaio 1895 del periodico milanese

II,

Giovanni

Sulla cattura del Pico, Ceretti, nel Giornale storico,

L. Dorez, in

e in chiesa di S.

dei

La

fase. 25).

Sul Landino, Bandini, Specimen literaturae florentinae sec. XV, Firenze 1747Xandra, Mancini, in Ardi. star,
ital. S. IV, voi. XIX, 1887, p. 318 seg.
p. 235. Christophori Landini Fiorentini ad III. Federicum principem urbinatem
Disputationum Camaldulensium liber primus, ecc. s. note tipografiche, ma Firenze verso
il 1480. Per il tempo in cui sono posti i dialoghi e per la data di composizione
Gaspary,
Storia, II , i, 345.
Orazione di C. Landino quando cominci a leggere in Studio i
sonetti di F. Petrarca
in Corazzini, Miscellanea di cose inedite o rare, Firenze, 1853,
p. 125 sgg. Comedia di Danthe Alighieri con l'espositione di Christophoro Landino, Venezia 1529. Sul commento, M. Barbi, Della fortuna di Dante nel secolo XVI, Pisa, 1890,
p. 150 sgg.
p. 236-48. A. Reumont, Lorenzo de' Medici il Magnifico,. Lipsia 1874, 2 voli. Opere di
Lorenzo de" Medici detto il Magnifico, Firenze 1825, 4 voli. Le cose pi importanti anche
nel volumetto diamante Poesie di Lorenzo de? Medici, a cura di G. Carducc i. Firenze # 1859.
p. 237. Della raccolta mandata all'Aragonese s'hanno pi copie; vedi R. Renier, Liriche di Fazio degli liberti, p. CCGXLVIII ; la lettera di dedica anche in Carducci, Poesie
di Lorenzo, p. 23 sgg.
p. 237-41. N. Scarano, Il platonismo nelle poesie di Lorenzo de' Medici, nella Nuova
Antol. S. Ili, voi. XLVI, 1893, p. 605 sgg. e voi. XLVII, p. 49 sgg.
p. 238. Sulla Simonetta Cattaneo, A. Neri, nel Giornale storico, V, 1885, p. 131 sgg.
Dell' amore per- Lucrezia Donati, Del Lungo, in Carducci, Stanze del Poliziano,
p. 234-6.

51, 2 voli. Quivi copiosi saggi delle sue poesie latine. Sulla

p.

XXXII.
p. 238-40.

Sul Canzoniere del Magnifico, Flamini, in Studi di storia letteraria, p. 59 sgg.


la poesie italienne du

^j^Thomas, tude sur l'expression de V amour platonique dans


moyen ge\ et de la Renaissance, Parigi, 1892, p. 51 sgg.

p. 242. E. Piccolomini, Intorno alle condizioni ed alle vicende della libreria medicea privata, ue\Y Arch. storico italiano, S. Ili, voi. XIX, 1874, p. 101 sgg., 254 sgg.;
voi. XX, p. 51 $gg.; voi. XXI, 1875, p. 102 sgg., 282 sgg. K. K. Muller, Neue Mittheilungen uber Janos Lascaris und die Mediceische Bibliothek, nel Centralblatt fur Bibliothekivesen, I, 1884, p. 333 sgg.
G. Milanesi, Di Attavante degli Attavanti miniatore, nella
Miscellanea storica della Valdelsa, I, 1893, p. 60 sgg. Sugli artisti fiorenti a Firenze ai tempi
del Magnifico, oltre al Reumont, Muntz, Hist. de V art pendant la Renaissance, IL 617 sgg
Di due
p. 243. Sulla Caccia di Belfiore e pur sulla Caccia di Lorenzo, R. Truffi
poemetti di cacce del secolo XV, Perugia 1894 (estr. dalla Favilla). [Cacce in rima dei
secoli
e XV, raccolte da G. Carducci, Bologna, 1896, per nozze Morpurgo-B'ranchetti].
p. 244. La ballata Fatevi all'uscio, in Cantilene e ballate, a cura di G. Carducci,
Pisa 1871, p. 76-7 cfr. anche le due poesie che quivi le precedono.
p. 245-6. Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialesqhi andati per Firenze
dal tempo di Lorenzo il Magnifico fino alV anno 1559, Cosmopoli (Lucca), 1750. Una ristampa a cura di O. Guerrini, Milano 1883. Canzone per andare in maschera per carnesciale
facte da pi persone, rara stampa del secolo XV, riprodotta da S. Ferrari, Biblioteca di
letteratura popolare, I, 13 sgg. Sul musicista Arrigo Isach, G. Milanesi, in Rivista cri-

XIV

tica, III, 1886, p. 187.

p.
I,

246.

Su

fra-

Mariano da Gennazzano

P.

Villari

Savonarola, Firenze 1887,

80 sg.

247. Sul S. Gio. e Paolo di Lorenzo il Magnifico, D'Ancona, Origini, I, 261 sgg.
p. 248-52. F. Flamini, La vita e le liriche di Bernardo Pulci, nel Propugn. N. S.
voi. I, P. I, 1888, p. 217 sgg. G. Volpi, Luigi Pulci. Studio biografico, nel Giornale storico,
XXII, 1893, p. 1 sgg. [C. Carnesecchi, Per la biografia di Luigi Pulci, neir^4rc/i. storico
italiano, S. V, voi.

XVII, 1896,

p.

371 sgg.]. Lettere di Luigi Pulci a Lorenzo

il

Ma-

428

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.


altri a cura di S. Bongi, 2. a edizione, Lucca, 1886.

grfico e

ad

samen te,

anclie le notizie di Luca.

in questi scritti,

spai*

XV

Il Driadeo d'amore, nei Poemetti mitologici dei secoli XIV,


e XVI, a
Torraca, I, Livorno 1888, p. 161 sgg. Che e di Luca, F. Flamini, nelle Spigolature d'erudizione e critica, Pisa 1895, p. 46 Sgg. Le affinit tra il Driadeo II, 6 sgg. e
il Morgante, XVIII, furono rilevale da R. Truffi, nel Giornale storico, XXII, 1893, o. 206 sgp.
ma per trarne conchiusione djl tutto opposta alla mia congettura. Che del resto la conchiusione del Truffi non punto sicura, (>. Volpi, Note critiche sul Morgante, Modena 1894,
p. 10. Notinsi poi le grandi simiglianze tra Driadeo, II, 91-97 e Morgante, XX, 30-36.
p. 249. Pistole di Luca Pulci al Magnifico Lorenzo de' Medici, Firenze, Misco]>.

cura

249.

di F.

mini, 1481

(stile fiorentino).

La traduzione delle egloghe virgiliane di Bernardo Pulci, nelle Bucoliche elegantissimamente composte da Bernardo Pulci fiorentino e da Francesco de Arsochi senese et da llieronymo Benivieni et da Jacopo Fiorino de Boniasegni senese, Firenze,
Miseomini 1481 (stile fiorentino). La Rappresentazione di Barlaam tra le Sacre rappresentazioni raccolte dal D'Ancona, II, 141 sgg. La Santa Teodora (ibid. p. 323 sgg.)
anonima nelle antiche stampe ma il Benivieni nel prologo alla sua rappresentazione omonima scriveva di aver ordinata questa nella trama di uno de' nostri fiorentini poeti Pulci,
quello che ebbe veramente spirito e concetto poetico (D'Ancona, Origini, I, 268, nota 3).
11 D'Ancona vede in queste parole una chiara allusione a Luigi Pulci e si domanda se sia
di lui la Santa Teodora dal D'Ancona stesso ristampata
il Creizenach, o.
c. I, 322, concorre nella stessa sentenza; il Flamini, in Propugn, N. S., I, P. I, 243 nota 2, crede che il
Benivieni abbia alluso a Bernardo ed inclina ad attribuirgli il sacro dramma. Ma a ben guardare, il Benivieni dice solo che uno dei Pulci (Luigi, io credo) gli diede la trama per la
sua Teodora; onde nessun argomento consiglia di attribuire a Luigi o a Bernardo quella
ristampata dal D'Ancona. Ora dunque sopprimerei nel testo l'inciso: e, se sua, la Santa
Teodora .
p. 252. La Giostra fatta hi Firenze dal Magnifico Lorenzo de' Medici il vecchio
l'anno 1468 col Ciriffo Calvaneo di Luca Pulci, Firenze Giunti, 1572. Che la giostra
deve essere di Luigi, mostr G. Volpi, in Giornale storico, XVI, 1890, p. 361 sgg. Gli
argomenti addotti poi da R. Truffi per sostenere ch' opera di Luca, Giorn. stor. XXIV,
1894, p. 187 sgg. non mi persuadono.
Un'edizione della Beca cito qui appresso nella ni ta
a p. 252-3.
Strambotti di Luigi Pulci fiorentino, Firenze, Libreria Dante, I Serie, 1887
II serie, 1894; a cura di A. Zenatti. Ma si hanno dubbi sulla autenticit dei singoli componimenti;
vedi le note dello Zenatti in fine alle due serie e Volpi, in Rassegna bibliografica, II, 89 seg.
p. 252. Che Piero di Lorenzo de' Medici si dilettava d'improvvisar versi, prova una
lettera del Poliziano, in Del Lungo, Prose volgari, ecc. p. 78. Alcune sue rime ci sono
p.

250.

rimaste nei codici v. Rassegna critica I, 1896, p. 73-4 un suo sonetto petrarchesco fu
pubblicato ora" con una accompagnatoria del Poliziano, da I. Del Lungo, [Florentia, p. 254].
Su Baccio Ugolini, Del Lungo, [ivi, p. 307 sgg.].
p. 252. D. M. Manni, Bartholomaei Scalae Collensis Vita, Firenze 1768. Per l'anno
della nascita, L. Dini, Bartolommeo Scala, nella Miscellanea storica della Valdelsa, IV, 1896,
p. 60 sgg. I sonetti del Pulci contro lo Scala sono a stampa fra quelli del Burchiello, Vitt.
Rossi, nel Giornale storico, XVIII, 1891, p. 382 sgg. Se ne trovano ricordati due (li e IV).
:

nella

prima

delle citate lettere del Pulci.

G, Volpi, Un cortigiano di Lorenzo il Magnifico {Matteo Franco) ed alGiorn. storico, XVII, 1891, p. 229 seg. Del Lungo, [Un cappellano
mediceo, nel Florentia, p. 422 sgg.] Sonetti di M. Franco e di Luigi Pulci assieme con
la Confessione. Stanze in lode della Beca ed altre rime del medesimo Pulci, Lucca 1759.
Saggio di studi su Bernardo Bellincioni Milano 1892 per il
p. 253. E. Verga
periodo fiorentino della vita di lui, p. 34-48. Le rime di Bernardo Bellincioni ristampate
da P. Fanfani, Bologna 1876-78 {Scelta, 151, 160).
p. 254. G. Levantini Pieroni, Lucrezia Tornabuoni donna di Piero di Cosimo de' Menella Rivista contemporanea, 1888. Sulla Clarice,
dici^, Firenze 1888
cfr. G. Cecioni
G. Volpi, Affetti di famiglia nel Quattrocento, nel periodico Vita Nuova, II. n. 50. La
parole del Franco, da Un viaggio di CI. Orsini nel 1485 descritto da ser M. Franco a
cura di I. Del Lungo, Bologna 1868 {Scelta, 98), p. 18 sg.
p. 254-77. F. O. Mencken, Historia vitae et in literas meritorum Angeli Politiani,
Lipsia 1736. Le sparse monografie di Isidoro Del Lun go, delle quali largamente ho profittato
aumentate , e racnel narrare le vicande di A. Poliziano, posso ora citare rinnovate
colte in un volume sotto il titolo Florentia. Uomini e cose del Quattrocento, Firenze 1897].
E la citazione di questo recentissimo libro quasi mi dispensa da ogni citazione della letteratura polizianesca.
Angeli Politiani Opera, Basilea 1553: quivi tutte le opere btine.
Prose volgari inedite, poesie latine e greche edite e inedite di A. Ambrogini Poliziano^
p. 252-3.

cune sue

lettere, nel

429

NOTE AL CAPITOLO SETTIMO.

illustrate da I. Del Lungo, Firenze 1867; quivi le lettere volgari, alle quali
ne aggiungono ora quattro, in [Florentia. p. 60 sgg. e 250 sgg.]. Le stanze, V Orfeo e
pubblicate con ampia introduzione ed
le Rime di inesser Angelo Ambrogini Poliziano
illustrazioni da G. Carducci. Firenze 1863. Opere volgari di Angelo Ambrogini Poliziano
a cura di T. ,C_asini Firenze 1885.
p. 256 sgg. Al retto apprezzamento dell'arte del Poliziano come poeta volgare giovano
assai l'introduzione e le illustrazioni del Carducci alla sua edizione delle Stanze, ecc. Vedi
anche De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Napoli, 1879, I, 375 sgg. e Gr. Mazzoni,
Il P. e l'umanesimo, nella Vita italiana del Rinascimento, Milano 1893, p. 234 sgg.
p. 258. Che la saffica latina non fosse recitata dall'Ugolini a Mantova durante la Rappresentazione, ma in que' ritrovi non meno solenni e fastosi che furono tra il luglio e
afferma il Del Lungo Flol'agosto del 71 tenuti nelle campestri delizie di Gonzaga

raccolte e
se

rentia, p. 340.
p. 258. Alludo alla prelezione Sopra Quintiliano e le Selve di Stazio, ad un passo
che a p. 494 dell'edizione basileese.
p. 258. L'unico sonetto, che possa essere attribuito con sicurezza al Poliziano fa parte
d'una tenzone poetica con Lorenzo; Del Lungo, Florentia, p. 446 sgg. Su altri sonetti
erroneamente ascrittigli, Flamini, nelle Spigolature , p. 99 sgg.
p. 259. In una lettera famosa, che il Poliziano scrisse a Lorenzo di Acquapendente
add 2 di maggio 1488, mentre con Piero era in viaggio per Roma (Del Lungo, Prose, p. 75)
egli dice: Siamo tutti allegri, e facciamo buona cera, e becchiamo per tutta la via di qualche
rappresaglia, e Canzone di Calen di maggio, che mi sono parate pi fantastiche qui in Acquapendente, alla Romanesca, vel nota ipsa vel argumento . Nelle quali parole c' la
prova dell'attenzione con che il Poliziano ascoltava i canti popolari, quantunque a me non
paia che rappresaglia voglia esser congiunto a Canzone, quasi rappresaglia di canzoni
(D'Ancona, Poesia popolare, p. 126). Si osservi che far buona o gran cera significa
propriamente banchettare lautamente, scialare , e che beccare usa anche il Poliziano
per dire con lieve tinta di scherzo ingoiare cibo o bevanda (Lettera II , in Del Lungo.
Prose, p. 47), e poi si veda se rappresaglia non possa voler dire latte rappreso, panna o
alcunch di simile. Con tal significato registrano la parola il Fanfani, Vocabolario dell'uso
toscano e il Petrocchi. Canzone di Calen di maggio , ecc. sarebbe poi aggiunto senza
una dipendenza diretta con quella libert che nella lingua usa il Poliziano in queste sue lettere,

o potrebbe anche dipendere con faceto accostamento da becchiamo .


p. 260. Su Ippolita Lioncina, Del Lungo, Florentia, p. 362 in nota.
p. 261-2. L'elegia In Albieram Albitiam in Del Lungo, Prose, p. 238 sgg epigrammi
del Poliziano per la stessa occasione, ivi, p. 145. cfr. anche Del Lungo, nella Vita italiana
del RinascAnento, p. 149-52 e G. Zannoni, nei Rendiconti dei Lincei, S. V, voi. II, 1893,
;

F- 151 sgg.
p.

262-68.

p. 391 sgg.

Le

Che

Lungo, Florentia
rilevate dal Car-

la Giost^Jk'cantata dal Poliziano quella del 1475, Del

imitazioni del Poliziano nella Giostra sono

minutamente

ducci nelle note ;e nell'Introduzione;- p. XLVIII sgg. Sulla Simonetta vedi qui dietro la nota
a p. 238. B. Zumbini, Le Stanze del Poliziano, nella Rassegna critica, I, 1896, p. 23 sgg.
p. 264. Sugli altri componimenti per giostre, Carducci, Stanze, p. XL seg. e Volpi, nel
Giorn. stor. XVI, 1890, p. 364 sgg.
p. 269. Letterine d'un bambino fiorentino alunno di M. Angelo Ambrogini Poliziano
Firenze 1887, a cura di I. Del Lungo , per nozze Bemporad-Vita. Per i dissapori colla
Clarice, le lettere pubblicate dal Fabbroni, Laurentii Medicis Magnifici Vita, Pisa 1784,
II, 186-7 e 288 e dal Del Lungo, Prose, Lett. XXIII-XXV. La frase di Lorenzo in una
letterina di lui alla moglie, che si conserva nell' Arch. di Firenze, Med. av. Princip.
a
f.
doc. 770.
,
Per la data del conseguimento del priorato di S. Paolo Lettere VII-IX in Del Lungo, p. 53 sgg.
p. 269-70. La lettera a Mattia Corvino, Epistolarum, IX, 1; il carteggio col re del
Portogallo, delle stesse, X, 1-3; per l'Erodiano, Del Lungo, Prose, ecc.
p. 262-5.
p. 270. Per il soggiorno nella villa di Fiesole, Epistolarum, IX, 13.
in Opera, p. 451-530 ; le Sylvae in Del Lungo,
p. 270-72. Le prolusioni in prosa
Prose, ecc. p. 285-427. Per la serie annuale dei corsi del Poliziano, Del Lungo, Florentia
p. 176 sgg.; la qual citazione mi dispensa dal trascrivere la nota che aveva preparato a
giustificazione della cronologia da me assegnata a' corsi filosofici.
p. 272. Una- bella versione, italiana della Lamia ha dato il Del Lungo, Florentia,
p. 133 sgg.

LXXX

Miscellanea, in Opera, p. 213 sgg. Per le censure dello Scala, Epistol. V, 1-6.
lo stile del Poliziano e la polemica col Cortese, R. Sabbadini, Storia del
ciceronianismo, p. 32 sgg.
in Epistolar. , XII, 8-19. I giambi del Poliziano
p. 274-5. La polemica collo Scala
p. 272-3.
p. 274.

Per

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.

430

contro di lui in Del Lungo, Prose, ecc. p. 273 seg. Un abbozzo di biglietto con cui Piero
d' Medici assumeva contro lo Scala la difesa del Poliziano morto da poco, fu pubblicato dal
Del Lungo [nella Miscellanea storica della Valdelsa, IV, 18%, p. 179 sgg.].
p. 275. L' epigramma greco del Poliziano in lode di Alessandra Scala,
Del Lungo,
Prose, p. 201. Ivi nelle duo pagine precedenti notizie di lei cfr. anche Del Lungo, nella
Vita italiana del Rinascimento, p. 164 sgg.
Hymni et epigi' animata Marnili, Firenze 1497
ristampati da C. N. Sathas, Documents indits relati fs a Vhistoire de la Grce au moyen
dge, VII, Parigi 1888, p. 173 sgg. Sul Marullo, qualche utile osservazione in Gaspary,
;

Storia, II, i, 354. Per la polemica col Poliziano, Mencken, p. 378 sgg. e Del Lungo, Florentia, p. 67 seg. dove pubblicato un sonetto del Marullo contro il P. Gli epigrammi del
P. contro il Marullo, in Del Lungo, Prose, p. 131 sgg.
p. 276. Per la polemica col Merula, Gabotto-Badini, Vita di G. Merula, p. 318 sgg.
Delle pratiche fatte dal Poliziano por essere nominato bibliotecario apostolico, Del Lungo,

Florentia, p. 240 sgg.

Le Kpistolae, in Opera, p. 1 sgg.


Per Andronico Callisto Klette, Beitrge, III. Per il Calcondila vedi la nota
alla pag. 66. Per Giovanni Lascaris, Legrand, Bibliographie hellnique, I, p. CXXXI sgg.
p. 277-8. Di B. Ponzio, Tiraboschi, Storia, voi. VI, P. III, lib. Ili, cap. V, ~52.
Di Naldo Naldi, G. Zannoni, nei Rendiconti dei Lincei, S. V, voi. II, 1893, p. 162 e voi. Ili,
p. 221 sg. Un buon ritratto di lui disegna il Del Lungo, Florentia, p. 227 sg. Versi
del Naldi, nei Carmina illustrium poetarum, VI, 412 sgg.
Per le scritture relative
al sacco di Volterra, il volume di L. Frati citato nella nota a pag. 168. La raccolta di epigrammi del Cantalicio, in Carmina illustrium poetarum, III, 123 sgg. Del Cantalicio d notizie biografiche il Frati; v. anche G. Zannoni, Il C. alla corte di Urbino, nei Rendiconti
dei Lincei, S. V, voi. III, 1894, p. 485 sgg.
p. 278. A. Lazzari, Ugolino e Michele Verino. Studi biografici e critici, Imola 1895
solo V Introduzione, un riassunto e l'Indice di un ampio lavoro. Poesie del Verino, in Carmina illustr. poetarum, X, 325 sgg. il Paradisus nel cod. Laurenz. XXVI, 12 (cfr. Bandini,
Catal. I, 773 sgg); della Carliade una notizia di A. Thomas, negli Annales de la Facult
des lettres de Bordeaux, IV, 18S2, p. 27 sgg.
p. 279. L. Frati, La morte di Lorenzo de' Medici e il suicidio di Pier Leoni, nelVArch. storico italiano, S, V, voi. IV, 1889, p. 255 sgg. G. Volpi, Una deploratoria hi
morte di Lorenzo il Magnifico, nel periodico Vita Nuova, I, n. 39 un poemetto in
quattro capitoli, di cui i due ultimi furono falsamente ascritti al Poliziano e dal Carducci
ristampati tra le rime apocrife, p. 382 sgg. Il Poliziano mori, non il 24, ma il 2S settembre 1494, Del Lungo, Florentia, p. 182, nota 3.
p. 279-80. Sulla fede religiosa del Pulci, Volpi, nel Giorn. storico, XXII, 30 sgg.
p.

276-7.

p. 277.

p. 280-81. Il

poema

di Gio.

Nesi nei codd. Riccard. 2722 e 2750.

Il

canzoniere,

che

anonimo si conserva nel cod. Riccard. 2962, fu rivendicato al Nesi dal Flamini un cenno
ne ho dato nel Giorn. stor. XXVIII, 1896, p. 425. Johannis Nesii Fiorentini Oraculum
de novo seculo; in fine: Impressit ex archetypo ser Laurentius De Morgianis anno salutis MCCCCLXXXXVII octavo idus Maias. Florentiae . Per quest'opuscolo, Villari, Sa;

vonarola,
p.

a ediz. I, 443.
II,

n.

La sua riduzione

in ottave della

Ghismonda, Bologna 1865 (Scelta, 28). Le sue egloghe nelle Bucoliche


nota alla pag. 250. La Canzone dell'Amor divino, in Pici Opera, p. 746 sgg.

novella
nella

2.

281. Del Benivieni, Mazzuchelli, Scrittori,


di

citate

colla

Del poemetto allegorico adopero l'edizione Amore cf Hieronymo


Benivieni, Venezia, 1535; del Canzoniere, l'edizione col commento fatta a Firenze nel 1500.
Per il canzoniere e le modificazioni fattevi dall'autore, E. Percopo, nella Rassegna critica
I, 1896, p. 9 sgg. 42 sgg.
La storia di Girolamo Savonarola nuova edizione Fip. 282. P. Villari
renze 1887, 2 voli.
relativa sposizione del Pico.

Note al Capitolo Ottavo.


284 sgg. Per la bibliografia generale della letteratura cavalleresca rinvio a Gaspary
si riferiscano
i, 358; qui non saranno citati che gli scritti i quali direttamente
alle materie pi largamente trattate.
p. 284-5. D'Ancona, Attila flagellum dei, nei Poemetti popolari italiani, Bologna, 1889
p. 167 sgg. Quivi ad un ampio studio sulla leggenda d'Attila in Italia segue la ristampa
per il qual rimatore vedi E. Lovarini, in
del poemetto attribuito a Rocco degli Ariminesi
p.

Storia,

II,

Ric. crit. V, 1888-89,

190 sgg.
p. 285. E. G. Parodi, 1 rifacimenti e
col.

le

traduzioni italiane dell'Eneide di Virgilio

NOTE AL CAPITOLO OTTAVO.

431

prima

del Rinascimento, negli Studj di filol. romanza, II, 1887, p. 97 sgg. Lo stesso, Le
Cesare nella letteratura italiana dei primi secoli, ivi. IV, 1889, p, 237 sgg.
E. Gorra, Testi inediti di storia troiana, preceduti da uno studio sulla leggenda troiana
in Italia, Torino 1887. I nobili fatti di Alessandro Magno, per cura di G. Grion, Bologna 1872. D. Garraroli, La leggenda di Alessandro Magno, Torino 1892.
p. 286-94. Per lo svolgimento storico dell'epopea cavalleresca in Italia, P. Rajna, nelFirenze, 1876.
l' Introduzione alle Fonti dell'Orlando furioso,
p. 286. Sui cantastorie e le narrazioni cavalleresche dei nostri giorni, P. Rajna, I
Rinaldi o cantastorie di Napoli, nella Nuova Antologia, S. II, voi. XII, 1878, p. 557 sgg.;
A. Mazzoleni,
Pitr, Usi costumi del popolo siciliano, voi. I, Palermo 1889, p. 121 sgg

storie di

Gli ultimi echi della leggenda cavalleresca in Sicilia, Acireale 1892 (estr. dal Boll, dell'Accademia dei Zelanti) G. Fusinato, Un cantastorie chioggiotto, nel Giornale di filol.
romanza, IV, 1883 p. 170 seg. e giunte in Renier, La discesa di Ugo d'Alvernia all'In;

ferno, Bologna, 1883, p. CLXXTi sgg. {Scelta, 194).


p. 286. Per l'epopea franco-veneta basti citare Gaspary, Storia, voi. I, Torino, 1887.
p. 96 sgg. Per il tempo in cui essa fiori, Vinc. Crescini, Di una data importante nella storia
dell'epopea franco-veneta, negli Atti del R. Istit. Ven. S. VII, voi. VII, p. 1150 sgg. dove
per mi pare troppo attenuata l'efficacia della letteratura cavalleresca franco-veneta sulla
toscana: il Bovo riccardiano non traduce una canzone di gesta francese , ma un originale franco-italiano, come ha mostrato il Rajna nella Zeitschrift fiir rom. Phil. XII, 487.
p. 287. I frammenti della storia di Buovo furono pubbl. da P. Rajna, nella Zeitschrift
XV, 1891, p. 47 sgg. Per la fonte di essi, v. Rajna, ibid. XII, 466 seg. Per
f. rom. Phil.
i! poema d Buovo, Rajna, Ricerche intorno ai Reali di Francia, p. 155 sgg.
Rajna, Rinaldo
Per
da Montalbano, nel Propugnatore, voi. Ili, P. I, 1870, 213 sgg. e P. II, p. 58 sgg.
la Spagna in rima e le narrazioni imparentate con essa, Rajna, La rotta di Roncisvalle
nella letteratura cavalleresca italiana, nel Propugnatore, IV, P. 1, 1871, p. 333 sgg. ;G. Osterhage, Ueber die Spagna istoriata, Berlino 1885(progr. del Ginnasio Humboldt).
Rajna, Uggeri
il Danese nella letteratura romanzesca degli italiani, nella Romania, II, 1872, p. 155 sgg.
Per il Buovo di Gherardo, Rajna, Ricerche.
Ili, 1873, p. 31 sgg. IV, 1874 p. 398 sgg.
Si intende che della maggior parte di codesti poemi e romanzi parlo di sulle
p. 209 sgg.
analisi e sui saggi recati segnatamente dal Rajna. Dei poemi citati nel testo ho potuto aver
fra mano Libro chiamato la Spagna, cio la Spagna in rima, Venezia, Imberti 1625 ; El
cantare di Fierabraccia et Ulivieri, Marburgo, 1881 a cura di E. Stengel, nelle Ausgaben
und Abhandl. aus dem Gebiete der rom. Philol. II (per un frammento di questo recentemente trovato in un codice, Giornale storico, XVII, 477). Dei romanzi in prosa: Il viaggio
di Carlo Magno in Ispagna per conquistare il cammino di S. Giacomo per cura di
A. Ceruti, Bologna 1871 (Scelta, 123-4); La Seconda Spagna e V Acquisto di Ponente ai
tempi di Carlo Magno, per cura di A. Ceruti, Bologna 1871 (Scelta, 118). Storia di RiMelzi e Tosi, Bibliografia
naldino di Montalbano, pubbl. da C. Minutoli, Bologna 1865.
dei romanzi di cavalleria in versi e in prosa italiani, Milano, 1838 riformata ed ampliata, ma in lcuna parte diminuita, Milano 1865.
p. 283. Il trecentista Jac. Passavanti, Trattato della scienza, collo Specchio della
vera Penitenza, Firenze 1863, p. 281. Le parole di Michele Verino, dal cod. Laurenz. XC,
,

Sup. 28,

c.

p. 289.

26 v.

Per

luoghi del

Buovo

Rinaldo, Rajna, nel Propugn.


p. 289.

Per

burleschi, Rajna, Ricerche, p. 167 sgg.


120 sgg.

per quelli del

voi. Ili, P. II p.

la distinzione delle

due case

di

Chiaramonte

e di

Maganza

nell'epica italiana

Rajna, Ricerche, p. 265 sgg. e Propugn., voi. Ili, P. I, p. 225 sg


p. 289-93. I Reali di Francia con la bellissima storia di Buovo d'Antona, per cura,
di B. Gamba 1821. Per il primo libro l'edizione critica di G. Vandelli, Bologna 1892. Quivi
nella Prefazione, p. CU sgg. le date della vita di maestro Andrea. Rajna, Ricerche intorno ai Reali di Francia, Bologna 1872. Quivi stampato, p. 331 sgg. il romanzo in prosa
di Fioravante. Per la fonte del IV libro
Rajna Framjnenti di redazioni italiane del
Buovo d'Antona, nella Zeitschrift, XI I, 1883, p. 467 sgg.
p. 294-309. Il Morgante Maggiore di Luigi Pulci, Firenze 1855. La ragione dell'aggiunta maggiore al vero titolo del poema sar quella addotta dal Rajna, in Propugn.
IV, P. I, p. 333 n, dacch un'edizione dell'episodio di Margutte era certo uscita prima del
poema intero; P. Bologna, in Giorn. stor. XXI, 56. Per le fonti popolari del Morgante,
Rajna, La materia del Morgante in un ignoto poema del sec. XV, nel Propitgn. II,
P. I, 1869, p. 7 sgg., 220 sgg., 353 sgg. e La rotta di Roncisvalle nella letteratura cavalleresca italiana, ivi, voi. IV, P. II, 1871, p. 91 sgg. Orlando. Die Vorlage zu Pulci' s Mor
gante, pubbl. da G. Hiibscher, Marburgo, 1886, nelle Ausgaben u. Abhandl. dello StengeL
F. Fonano, Il Morgante di L. Pulci, Torino 1891.
p. 295. Per la cronologia del Morgante, G. Volpi, Note critiche sul Morgante
Modena, 1S94, p. 3-8 (estr. della Biblioteca delle scuole italiajie^jiTino VI).
,

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.

432
p. 30-42.

306-7.

Per
Per

l'episodio di Margotte, Volpi, o. c. p. 8-12.

l'episodio di Astarotte, anche Volpi, o. c. 13 sgg.


p. 307. Dei Padiglioni descritti nei poemi cavallereschi, Rajna,
furioso, p. 330 seg.
]>.

p. 309.

Che

il

Fonti del V Orlando

Pulci avesse intenzione di comporre poemi su Uggeri e Rinaldo, Lettere

Morg. XX Vili, 32.


Luca Pulci, Ciriffo Calvaneo, per cura

p. 79; su Rinaldo,
p. 309-10.

di E. Audin, Firenze 1834. II Tosi


ultime ventinove stanze, perch esse appaiono per la prima
volta nell'edizione del poema uscita nel 1494; fiacca ragione! Che Luigi attendeva ad un
poema su Cirino, egli dice nel Morg. XXVIII, 129. Luoghi burleschi nel Ciriffo sono per es.
in II, 28 (cfr. Morg. XI, 20-1), III, 1(50 (cfr. Morg. XXVI, 91), IV, 2 (cfr. Morg. I,
3)\
IV, 31, G6, 87, ecc. Le storie Nerbonesi pubbl. da I. Or. Isola, Bologna 1877-87, 2 voi.

pensa che siano

di

Luigi

le

Le pi antiche tracce della trasmigrazione fra noi della materia di Brettagna


Rajna, Gli eroi brettoni nell'onomastica italiana del sec. XII, nella Romania,
XVII, 1888, p. 161 sgg. e 355 sgg. A. Graf, Appunti per la storia del ciclo brettone in
Italia, nel Giorn. storico V, 1885, p. 30 sgg.
p. 311. Il Tristano Riccardiano edito e illustrato da E. G. Parodi, Bologna 1896.
Quivi mYC Introduzione un ampio studio sulle varie redazioni italiane del romanzo di Tristano. Del Tristano veneto a p. CXVII sgg. L'altro testo veneto, a cui alludo, segnalato
da R. Wendriner, nel Literaturblatt fur germanische u. romanische Phil. XVI, 1895,
col. 57 nota.
La Tavola ritonda o l'Istoria di Tristano per cura di F. L. Polidori, Bologna 1864-5, 2 voli.
Il Febusso e il Breusso, Firenze 1847. Per le relazioni dei testi in
prosa con esso e fra loro, Rajna, Fonti, p. 55 seg. e 105 seg. Che il vero titolo del poemetto
Febusso il Forte, Movati, in Romania, XIX, 187.
Lancilotto, poema cavalleresco, per
cura di Ci*. Giannini, Fermo 1871. Della Morie di Tristano e della Vendetta di Tristano (due
poemetti distinti, non uno, come un malaugurato e venuto in corsivo pu far credere) d
saggi il Polidori, Tavola ritonda, II, 275 sgg. Il poemetto Tristano e Lancilotto quando
combattettero, ecc. pubbl. dal Rajna coi Cantari di Cardxdno.
p. 311-2. A. Pucci, Il Gismirante, in Corazzini, Miscellanea di cose inedite o rare,
Firenze 1853, p. 275 sgg. Historia della reina d' Oriente di A. Pucci, Bologna 1862
Rajna, I cantari di Carduino, Bologna 1873 (Scelta, 135): vedi Giornale
(Scelta, 41).
pubblicato da P. Rajna, Fistorico, XVIII, 396. Pulzella Gaia. Cantare cavalleresco
renze 1893, per nozze Cassin-D' Ancona. Cantare del bel Gherardino , Bologna 1867
(Scelta, 79). Gibello novella inedita in ottava rima, Bologna 1863 (Scelta 35).
p. 312. P. Rajna, Ricordi di codici posseduti dagli Estensi nel sec. XV, nella Romal'inventario del 1436 pubbl. per intero da A. Cappelli nel Giornale
nia, II, 1873, 49 sgg.
storico, XIV, 1889, p. 12 sgg. Un inventario della biblioteca dei Gonzaga del 1407 fu pubblicato da W. Braghirolli e illustrato da P. Meyer e G. Paris, nella Romania, IX, 1880,
p. 497 sgg. Novati, I codici francesi dei Gonzaga secondo nuovi documenti, ibidem,
XIX, 1890, p. 161 sgg. Il passo del commento di G. Cappello al Dittamondo, presso Graf,
Miti e leggende, voi. II, Torino 1893, p. 346 seg. in nota. Della poesia di Guarino per le
nozze di Beatrice d'Este con Tristano Sforza, R. Sabbadini, Vita di Guarino, p. 151. Per
romanzi brettoni all'Accolti, A. Venturi, in Rivista storica italiana, II,
il prestito di
p. 311.

osserv

il

1885, pag. 692.


p. 313-14. G. Ferrari

Studi su

gio, ibid. 67 sgg. Ivi

XXV,

nel volume
Notizie della vita di Matteo Maria Boiardo
1894 p. 1 sgg. N. Campanini, M. M. B. al governo di Regstesso, p. 357 sgg. le Lettere edite ed inedite. Cfr. Giornale stori o
,

M. M. B. Bologna

395-8.

Le poesie volgari e latine di M. M. Boiardo riscontrate sui codd. e su


prime stampe da A. Solerti, Bologna 1894. A. Campani, Le ecloghe latine di M. M. B.
negli Studi citati, p. 185 sgg. C. Tineam, M. M. Boiardo traduttore, ibid. p. 261 sgg. e
per le versioni d'Erodoto e della Ciropedia anche Gravino, [Volgarizzamenti, p. 67-95]
C. Antolini, M. M. B. storico, negli Studi p. 309 sgg. dove si tratta dell' Istoria imperiale. P. Giorgi, Sonetti e canzoni di M. M. B. ibid. p. 155 sgg. G. Mazzoni, Le ecloghe
volgari e il Timone di M. M. B. ibid. p. 321 sgg. R. Renier, Tarocchi di M. M. B. ibid.
p. 229 sgg. Cfr. per alcuni di questi saggi le mie osservazioni nel Giornale storico,
p. 314-19.

le

XXV,

399 sgg.

Per la data della prima edizione dell' Innamorato, Giornale storico, XXV, 397,
nota 2. Nel canto XXVII della Parte II, st. 57 un accenno alla presa d'Otranto per Alfonso d'Aragona; quel canto non dunque anteriore al 1481. Per la composizione della III Parte
v. A. Luzio, Isabella d'Este e l'Ori. Innamorato, negli Studi, p. 147 sgg.
IV,
p. 320. Per l'episodio di Brunetta e di Bianca nel Morgante, Rajna in Rouiania,
426 sgg e S. Ferrari, nel Giorn. stor. VI, 382 sgg.
p. 319.

433

NOTE AL CAPITOLO NONO.

Orlando Innamorato di M. M. Boiardo, pubbl. da A. Panizzi, Londra 1830.


p. 320-33.
Riproduzioni di questa edizione sono quella di Milano, Sonzogno, 1876, e quella con commento di G. Stiavelli e illustrazioni artistiche di L. Edel, Roma, Perino, 1894. P. Rajna,
L'Orlando Innamorato di M. M. B. negli Studi, p. 117 sgg. Vedasi anche V Introduzione
del Rajna alle Fonti del Furioso, p. 19-28.
p. 323. Che la storia di Manodante proviene da Plauto, not forse per primo A. Virgili, Ori. Innam. stanze scelte ordinate e annotate, Firenze 1892, p. 182.
A. Albertazzi, in Parvenze e sembianze Bolop. 324. Per la novella di Fiordiligi
,

gna, 1892,

204 sgg.

p.

Il Mambriano di Francesco Bello detto il Cieco da Ferrara, Venezia 1840.


Rajna, Fonti, p. 29 sgg. C. Cimegotto, Studi e ricerche sul Mambriano,
Padova, 1892. Cr. Rua, Novelle del Mambriano, Torino 1888.
p. 333-35.

Su

di esso,

Note al Capitolo Nono.


p. 336. Che il Panormita concepisse l'idea dell'Accademia e che questa idea riuscisse
accetta a re Alfonso, prova una lettera pubblicata da E. Gothein, Die Culturentwicklung
Sud-Italiens in Einzel-Darstellungen, Breslavia 1886, p. 543 in nota. Di questo libro ho

profittato

qua

e l per

alcuna osservazione.

M. Tallarigo, Giovanni Fontano e i suoi tempi, Napoli, 1874, in due


parti. A. Rossi, I Fontani e la loro casa in Perugia, nel Giornale d'erudizione artistica,
IV, 1875, p. 301 sgg. Lettere inedite di Joviano Pontano in nome de" Reali di Napoli,
pubbl. da F. Gabotto, Bologna 1893 (Scelta, 245). Altre lettere d'ufficio del P. aveva prima
pubblicato E. Nunziante, nell' Ardi, storico per le prov. napoletane, XI, 1886, p. 518 sgg.
La biblioteca dei re d' Aragona in Napoli, Rocca S. fap. 338. [G. Mazzatinti
p. 337-40. C.

sciano, 1897].

Un

cenno sulla coltura classica di Antonello Petrucci, Gothein, p. 529.


tenuta dal Pontano nella cattedrale quando Carlo Vili, prima
di partire, cinse le insegne di re, ci informa il Guicciardini, e contro i dubbi del Tallarigo
sostenne validamente la veracit dello storico, F. Torraca, Studi di storia letteraria napoletana, Lr/orno 1881, p. 301 sgg. Che ne tenesse un'altra all'arrivo di Carlo ci prova un
sonetto del Pistoia, su cui vedi Archivio Veneto, voi. XXXV, 1888, p. 261 sgg. I ragionamenti del Percopo per fare delle due orazioni una sola, nel Propugnatore, N. S. voi. I,
P. I, 1888, p. 270 nota, non mi persuadono.
p. 340-56. Joannis Joviani Pontani Opera in quatuor tomos digesta, Basilea, 1556;
ma per le liriche tengo presente anche la bella edizione di Napoli, per Sigismundum
p. 338.

p. 339-40. Dell'orazione

Mayr,

1505.

Fazio nel De viris illustribus, p. 6, parlando del Pontano allude chia Astrologiam, opus multi laboris atque ingenii, hexametris versibus
exorsus est ; e il De viris del 1456. Pongo la fine del poema tra il 1486 e il 91, perch
vi si accenna (negli ultimi versi) alla pace conchiusa con papa Innocenzo, ma non alla morte
Per la data del De hortis Hesperidum, Gaspary, Storia, II, i, 289.
della moglie del poeta.
p. 349-50. Sulla filosofa del Pontano, Fiorentino, Il risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli 1885, p. 217 sgg. Gothein, p. 567 sgg.; Gaspary, Storia, II, i, 285 seg.
p. 350. Perla data del De prudentia, L. Numa Costantini, Di un'apparente contradizione tra alcune date nella vita di G. Pontano, nel Propugnatore, N. S. voi. VI, P.
II, 1893, p. 456 sgg.
p. 350-51. M. Tafuri, Notizie intorno alla vita di Gabriele Altilio, innanzi alla ristampa dell' Epitalamio, Napoli 1803. Altre notizie sono comunicate da E. Percopo, neiVArchiv. storico per le province napoletane, XIX, 1894, p. 561 sgg. Su Tristano Caracciolo,
oltre al Tafuri, Scrittori napoletani, III,. i, 90 sgg., E. Gothein, p. 333 sgg. Di Francesco Poderico, Tallarigo, 1 , 140 sgg. Su Matteo Acquaviva, Gothein
p. 309 sgg. Su Giovanni Elisio, Gothein, p. 308 e 385 seg. Del Summonte, Tallarigo, I, 170 sgg. N. Barone,
Nuovi studi sulla vita e sulle apere di Antonio Galateo Napoli 1892. B. Croce TI
trattato de educatione di Antonio Galateo, nel Giorn. stor. XXIII, 1894, p. 394 sgg.
Le opere del Galateo nella Collana di scrittori di Terra eT Otranto Lecce 1867 sgg.
voi. II, III, IV, XVIII, XXII. C. Minieri Riccio, Cenno storico dell'Accademia pontaniana,

Gi

p. 349.

ramente

all'

il

Urania:

Napoli 1876.

Per VAegidius, YActius e YAsinus, tengo presente anche l'edizione


Mayr, 1507.

p. 351-53.
poli,

Rossi.

La

lelt. ital.

nel sec.

XV,

di

28

Na-

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.

434
p. 351.

tane,

XIX,

Di Francesco Pucci, E. Percopo, nell'Archivio storico per le prov. napole1894, p. 390 sgg.

La scena

dell' Asinus

posta nell'agosto del 1489; quella dell' Antonina, pare'


12G2) si sento (lire che l'anno prima il Pontano era
stato a Taranto (sappiamo che negli ultimi mesi del 1486 fu in Puglia, Percopo, diari tea. I,
seg. in nota) e che due anni avanti era stato in Toscana, (qui si alluder al passagp.
gio di l dopo la pace di Bagnolo del 1484).
p. 354. Nel Charon la scena posta circa il 1467 o poco dopo. Infatti tra
personaggi
di fresco giunti laggi e cha si stanno bollando, sono Ludovicus aquileiensis patriarcha
e Samorensis cardinalis (p. 1140), ci sono Luigi Scarampo, morto il 22 marzo del 1465
e Gio. De Mella, morto il 13 d'ottobre del 1467. Si noti ancora che nel gennaio del 1466
s'ebbero nel Reame terremoti che spaventarono molto gli abitanti (Archivio storico per le
province napoletane, XII, 1887, p. 154) e anche di terremoti si parla appunto nel dialogo.
p. 355. Sulla opposizione agli ecclesiastici e alla Chiesa nel Napoletano, Gothein, p. 422sgg per V Heremita del Galateo, specialmente le pag. 462 sgg. Si noti per, che questo
dialogo era gi a stampa nel voi. XXII della Collana di scrittori di Terra d'Otranto.
p. 357. La farsa citata per prima fu pubblicata da B. Croce, I teatri di Napoli, Napoli, 1891, p. 667 sgg. Per le farse di P. A. Caracciolo, F. Torraca, Studi di storia napoletana, Livorno 1884, p. 63 sgg.; per quella del Magico, ibid.. p. 279 sgg.; essa poi
stampata in appendice al volume. Sulle farse cavatole, Torraca, ivi, p. 83 sgg. e 445 sgg.
La farsa cavaiola della Scola, in Torraca, Teatro italiano dei secoli XIII-XV, p. 431 sgg.
p. 358. F. Pellegrini, Cola di Manforte conte di Campobasso, Cerignola, 1892. La
raccolta del conte di Popoli ci rimasta in un codice parigino messo a stampa sotto il
titolo Rimatori napoletani del Quattrocento con prefazione e note di M. Mandalari, Caserta 1885. Su codesti rimatori e su alcuni altri loro coetanei, F. Torraca, Discussioni e
ricerche letterarie, Livorno 1888, p. 119 sgg. Su Giovanni de Trocculi, anche Percopo, nell' Ardivo, stor. per le prov. napol. XIX, 383 sgg.
p. 359. Su Pietro Jacopo de Jennaro, E. Percopo , La prima imitazione dell' Arcadia, Napoli 1894; nell'Introduzione, a p. 6-11 l'elenco e la bibliografia delle opere e sparsamente le notizie biografiche. Per queste vedi anche un Cenno di N. Barone premesso
all'edizione da lui curata del Canzoniere di Pietro Jacopo de Jennaro, Napoli 1883,
P- 20 sgg.
p, 359-60. F. Flamini, Francesco Galeota gentiluomo napoletano del Quattrocento
e il suo inedito canzoniere, nel Giorn. storico, XX, 1892. p. 1 sgg. Le ballate del Galeota
furono pubblicate dal Percopo, Barzellette napoletane del Quattrocento, Napoli, 1893, per
nozze Sogliano-Maii.
p. 360. Compendio di sonecti et altre rime de varie nature intitulato Lo Per leone
recolte tra le opere antiche et moderne dal humile discipolo 2t imitatore devotissimo de
vulgari poeti Giuliano Perleonio dicto Rustico romano, Napoli, per Aiolfo de Cantono da
Milano, 1492. Sul Perleoni, E. Percopo. nelT'Archivio storico per le province napoletane,
XIX, 757 sgg.
p. 360-61. Sonecti composti per M. Johanne Antonio de Petruciis conte di Policastro,
pubblicati da J. Le Coultre e V. Schultze, Bologna 1879 (Scelta, 167). F. Torraca, Il conte
di Policastro, negli Studi di storia letteraria napoletana, p. 131 sgg.
p. 361-63. Le rime di Benedetto Gareth detto il Chariteo a cura di E. Percopo.
Parte I, Introduzione. Parte II, Testo, Napoli 1892. Cfr. Giornale storico, XXlI, 229 sgg.
p. 363-4. L'Esopo di Francesco Bel Tuppo, per cura di C. De Lollis, Firenze 1886
appena un piccolo saggio dell'opera. Sul Del Tuppo , E. Percopo, nell'Arch. stor. napol. ,
XVIII, 1893, p. 533 sgg. G. Rua, Di alcune novelle inserite neW Esopo di F. Del Tuppo,
Torino 1889, per nozze Merkel-Francia. [E. Mele, Due novellette di Francesco del Tuppo,
nella Rass. bibliografe V, 1897, pp. 97 sgg.]. Per le lettere d'amore del Galeota, Flamini,
nel Giorn. stor., XX, 46 sg. Quelle del De Jennaro e d'altri, nei Rimatori napol. del Quatp. 352.

circa

il

1487, perch in

un luogo

(p.

XX

trocento, pp. 155 sgg.


p. 364. E Percopo.

Giuntano Maio, nell'Arch. stor.p. le prov. napol. XIX, 740 sgg.


Precettore di Ippolita Sforza il Maio detto in una lettera del Pontano, fra le edite dal
Gabotto, p. 343. G. Loiacono,
opera inedita de Maiestate di Giuniano Maio e il concetto del principe negli scrittori della corte Aragonese, negli Atti dell' Accad. di scienze
morali e politiche di Napoli, XXIV, 1891, p. 329 sgg.
a
p. 364-74. F. Colangelo, Vita di Giacomo Sannazaro. 2. ediz. Napoli, 1819. Le opere
volgari di M. Jacopo Sannazaro Padova 1723. Adii Sinceri Sannazarii opera latine
scripta Amsterdam 1728. Scrivo Sannazzaro con la doppia zeta per seguire il mio costume di attenermi all'ortografia italiana: cos Cornazzano, Filelfo, Cariteo, ecc. Per qualche
particolare della biografa mi giovarono anche la Relazione pel concorso al premio Tenore di B. Croce, Napoli 1894 (estr. dagli Atti dell' Accad. pontaniana, XXV) e la recen-

435

NOTE AL CAPITOLO DECIMO.

sione del Percopo al libro di E. Bellori, Be Sannazarii vita et operibus, Parigi 1895, nella
Rassegna evitica, I, 1896, p. 113 sgg. Il vincitore del concorso al premio Tenore per una
biografia documentata del Sannazzaro fu appunto

il Percopo.
Sannazzaro era tra gli officiali del duca

di Calabria, Perimitazione dell'Arcadia, p. 26.


p. 365. F. Torraca, Li Gliommeri di J. Sannazaro, nel Oiorn. stor. IV, 1884,
p. 209 sgg. e Nuove Rassegne, Livorno 1895, p. 22 seg. Per la parentela dei gliommeri
colla frottola, Bramini, Studi di storia letteraria, p. 169 sgg.; per il significato della parola,
Mussata, Beitrag, s. giemo .
p. 365-6. Per le farse allegoriche del Sannazzaro, Torraca, Studi di storia letteraria
napoletana, p. 266 sgg. La farsa, perduta per le nozze di Costanza d'Avalos sar stata
composta prima del 1483, essendo Federigo del Balzo morto giovane quell'anno (Percopo,
Chariteo, II, 420-1 nota). La farsa dei 4 di marzo 1492 in Opere volgari, p. 422 sgg. e anche nel Teatro italiano del Torraca, p. 311 sgg. Il Trionfo della Fama, stampato dal Torp. 365.

copo,

Che gi nel 1482

il

La prima

raca, Studi, p. 415 sgg.


p. 366-9. Arcadia di Jacbo

Sannazaro con note ed introduzione di M. Schedilo,


Torino 1888. F. Torraca, La materia dell' Arcadia del Sannazaro, Citt di Castello 1888.
Nelle note e nell' Introduzione dello Schedilo e nel volume del Torraca, l'analisi delle imitazioni sannazzariane.
della composizione e divulgazione della prima parte dell' Arcadia,
imitazione, p. 26 sgg.
p. 368. Per lo Schedilo J 'amore di che il S. parla nell'Arcadia, sarebbe una finzione
letteraria e assai dubbio sarebbe eh' egli amasse Carmosina. Ma i suoi argomenti non mi
pare bastino a si gravi conclusioni n riescano a tor fede al vecchio biografo del poeta, il
p. 367.

Percopo,

Per

il

tempo

La prima

Cdspo.
p. 369. Le egloghe di Jacopo Boninsegni nelle Bucoliche elegantissime citate nella
nota alla p. 250. Sulla metrica delle egloghe dell'Arcadia, Schedilo, p. CCIX sgg. e anche
Percopo, La prima imitazione, p. 39 in nota.
p. 370. Sull'amore per la vita villereccia nel Rinascimento, Burckhardt, voi. II. P. V,
cap. VII. La Pastorale di P. J. De Jennaro, fu pubblicata ed illustrata dal Percopo La
prima imitazione, ecc. Ivi, pag. 173 sgg. l'egloga di Filenio G-allo e a pag. 161 sgg. notizie di costui. Bielle egloghe dell' Arsochi, Schedilo, p. CCXIX sgg. ; e che non possano dirsi
con sicurezza modello del Sannazzaro, Percopo, Prima imitazione, p. 39 nota. Per la poesia pastorale in volgare antedore o contemporanea aXV Arcadia, Carducci, Su V Aminta
di T. Tasso, Sggi tre, Firenze 1896, p. 17 sgg. Per le imitazioni italiane e straniere delper la lingua del romanzo, Schedilo, p. CCLXV sgg.
l' Arcadia, Schedilo, p. CCXXXV sgg.
p. 371. Per le vicende di Cassandra Marchese e l'amore del Sannazzaro per lei, E.
Nunziante, Un divorzio ai tempi di Leone
Lettere inedite di J. S., Roma 1887, e
M. Schedilo, Un vero amore del Sannazaro, nel Giorn. stor. XI, 131 sgg.
p. 371. Sul nome accademico del Sannazzaro, vedi le note di C. Mancini e E. Cocchia
nei Rendiconti delle tornate e dei lavori dell' Accademia di Archeol. lettere e belle arti
di Napoli, N. S., VIII, 1894, p. 12 sgg. e 29 sgg., e C. Mancini, I nomi accademici di J. S. liberati dalle falsit e la simbolica dei medesimi stabilita e coordinata con quella del suo mausoleo, Napoli 1894 (estr. dagli Atti dell' Accad. Pontaniana, XXIV). Il Mancini sostiene che
il S. si chiamasse Actius da Apollo Actius, Apollo Musagete
quindi Actius Sincerus significherebbe Apollo cristiano in contrapposto al pagano. Ma il dotto ragionamento non riesce
a persuadermi per motivi che qui sarebbe troppo lungo esporre.
p. 371. Per la poesia pastorale latina sino allo scorcio del secolo XV, A. Campani,
nel voi. Studi sul Boiardo p. 189 sgg. Delle egloghe di L. Dati la prima fu pubblicata da
L. Cisorio, Pontedera 1893; l'altra da F. Flamini nel Giornale storico, XVI, 79 seg.
p. 372. G. Rosalba. La cronologia delle ecloqae piscatoriae di 3 S., nel Propugn,
N. S. Voi. Vr, P. I, 1893, p. 5 sgg.
La fede di Jacobo Sannazaro nel Propugn. N. S. voi. III,
p. 374. F. Gabotto
P. II, 1890, p. 437 sgg.
p. 374. B. Croce, La tomba di J. S. e la chiesa di S. Maria del Parto; C. Mancini,
I nomi accademici, ecc. p. 17 seg. (estr. dagli Atti dell' Acc. pontaniana).
,

XdaXL

Note al Capitolo Decimo.


p. 375-79. W. Creizenach, Geschichte des neueren Bramas, voi. I, Halle a. S. 1893.,
485 sgg. P. Bahlmann, Bie lateinischen Bramen der Italiener im 14 u. 1 5 Jahrhundert, nel Centralblatt fur Bibliothehwesen, XI (1894), 172 sgg.

p.

430

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.


p.

375. Sugli studi

De Nolhac

del Petrarca intorno ai comici latini,

V Immani sme, Parigi 1892,

Petrarque

et

155 sgg.
Per la diffusione dei Plauto, Sabbadini,
p.

Guarino Veronese e gli arclietipi di


p. 37(3.
Celso e Plauto, Livorno, 188G.
p. 376. Per la tragedia del Manzini, \V. Cloetta, Beitrage zur Literaturgeschichtc
des Mitteilters u. der Renaissance, II, Halle a. S. 1892, p. 7G sgg.
per l'autore anche
Novati, Epistolario di C. Salutati, [III, p. 327 seg.].
p. 370. Il De captivitate ducis Jacobi, fu pubbl. da C. Br aggio, Una tragedia ined.
del Risorgimento, Genova, 1884 (estr. dal Giorn. ligustico); cfr. D'Ancona, Origini, li, 19 seg.
in nota.
Sui Verardi o le loro opere drammatiche Zeno, Vossiane, II, 271 sgg.; D'Ancona, Origini, II, 18-9, 68.
p. 377. Per V Jliempsal del Dati anche Flamini, Spigolature di erudizione e di
;

70 sgg.
Per il Tridentone, Novati, nel Bullettaio senese di storia patria,!!, 1892, p. 92 sgg.
p. 379. Per i primi saggi della poesia maccheronica Zannoni, / precursori di Merlin
Cocai, Citt di Castello 1888; cfr. Giornale storico, XII, 1888, p. 418 sgg. Della poesia maccheronica sar discorso nel volume dedicato al secolo XVI.
Per i mariazi padovani, L. Stoppato. La commedia popolare in Italia, Padova 1887, p. 94 sgg. cfr. Giorn. stor. IX, 1887,
p. 290 seg. I testi sono ristampati da E, Lovarini, Antichi testi di Ut ter attera pavana, Bocritica, Pisa 1895, p.
p. 378.

logna 1894 (Scelta, 248), p. 89 sgg.

D'Ancona, Origini, II,


Per le recitazioni tragiche

p. 379-89.
p.

379.

1-19, 61-144, 347-98.

dirette

da Sulpizio da Veroli, B. Pecci,

nell'

Archi-

vio della societ romana di storia patria, XIII, 1890, p. 462.


p. 379-80. Perle rappresentazioni fiorentine, Del Lungo,

[Florentid], p. 357 sgg.; il


prologo del Poliziano tra le sue Prose volgari e poesie latine gi citate, p. 281 sgg.
arte ferrarese nel periodo eT Erp. 380. Di Ercole d'Este come mecenate, A. Venturi,
cole I d'Este, negli Atti e Memorie della Deputazione di storia patria per le province
di Romagna. S. III, voi. VI, 1888, p. 103 sgg. Le notizie sulle traduzioni, sugli autori, sui
metodi sono attinte dal Giornale storico XI, 177 sgg.; XIII, 310,311, e da D'Ancona, Origini, II, 136, 369, 378. P. Collenuccio, Anfitrione, Milano 1864 (Bibliot. rara, 55).
p. 381. La Orphei tragoedia, messa in luce primamente dall' Aff, fu ristampata con
Le stanze, l'Orfeo e le rime del Poliziano dal Carducci insieme colle illustrazioni dell'Aff.
Niccol da Correggio nel Giorn. storico, XXI 205 sgg.
p. 381-2. Luzio-Renier
XXII, 1893, p. 65 sgg.
p. 382-3. R. Renier. Isabella d'Este Gonzaga, Roma 1888 (articolo estr. dalla rivista Italia
a monthly Magazine). La figura della insigne marchesana viene colorendosi sempre pi vivamente, mano mano che A. Luzio e R. Renier vengono pubblicando i risultamenti delle
loro ricerche e dei loro studi sull'argomento. Vedi annunciati i lavori pubblicati finora nella
Luzio-Renier, Mantova e Urbino Torino-Roma 1893. La frase in
prefazione al volume
lode d'Isabella in una lettera da Vigevano del 26 novembre 94 (Giorn. stor., XXI, 239).
p. 383. Sul teatro mantovano ha una speciale monografa il D'Ancona, inserita
nel II voi. delle Origini e gi additata poco fa. La Panfila del Pistoia nel voi. Rime edite
ed inedite di Ant. Cammelli detto il Pistoia per cura di A. Cappelli e S. Ferrari, Livorno, 1884,
la lettera con cui egli la accompagn a Isabella, ibid. p. XLVI; osservazioni del
p. 279 sgg.
Renier sulla tragedia nella Rivista storica mantovana, I, 1885, p. 83 sgg. di G. S. Scipioni
nel Giornale storico, V, 1885, p. 257.
]>. 383. Della rappresentazione della novella di Ippolito e Dianora si ha solo notizia
indiretta, D'Ancona, Origini, II, 131; cosi della rappresentazione d'una novella boccaccesca
fatta nel 1506 (v. Giorn. stor. XX, 469). L'amicizia nel voi. Jacopo Nardi, Vita di
A. Giacomini e altri scritti minori, Firenze 1867, p. 433 seg. Osservazioni sull' Amicizia,
in Gaspary, Storia, II, i, 353.
p. 383-4, Sul Josef del Collenuccio, A. Saviotti, Pandolfo Collenuccio umanista pesarese
del sec. XV, Pisa 1888, p. 140 sgg., e Gaspary, nel Giorn. stor. XIV, 1889, p. 309 sg.
p. 384. Il Timone del Boiardo tra le sue Poesie volgari e latine a cura di A. Solerti
Bologna 1894, p. 339 sgg. su di esso Mazzoni, negli Studi su M. M. B. Bologna 1S94,
pag. 350 sgg.
p. 384. Per Galeotto del Carretto, Spinelli, negli Atti e Memorie della societ storica
savonese, I, 1888, p. 457 sgg. e [C. Gaidano, Una commedia poca nota di G. del Carretto,
nel Giorn. stor., XXIX, 1897, p. 368 sgg.]. Del suo Timone, che fu pubblicato a Torino,

nel 1878, D'Ancona, Origini, II, 8-9 in nota.


p. 384-6. Di Beatrice d'Este Sforza, del Moro

come mecenate, della loro corte letteraria,


Gabotto-Badini Confalonieri, Vita di Giorgio Merula, Alessandria 1894 (estr. dalla Rivista
di storia, arte, archeologia della Prov. di Alessandria), p. 145-67 e 181-188. Per Leonardo da
Vinci come letterato basti rinviare a D'Ancona-Bacci, Manuale II, 184 seg. Per Lancino Corti

437

NOTE AL CAPITOLO DECIMO.

Giovanni Biffi e Piattino Piatti, E. Verga, Saggio di studi su B. Bellincioni, Milano, 1892,
16 sgg. per il Piatti, anche Del Lungo, [Florenti] p. 221. Del Bellincioni, vedi la
bibliografia, qui dietro nella nota a pag. 253. In generale per i poeti volgari della corte sforzesca, R. Renier, nell'Archivio storico lombardo, XIII, 1886, p, 793 sgg; lo stesso, Poeti sforzeschi in un codice di Roma, nella Rassegna emiliana, I, 1888, p. 15 sgg.
p. 386-7. R. Renier, Gasp. Visconti, nelV Arch. stor. lomb. XIII, 1886, p. 509 sgg. 777 sgg.;
esemplare di dedica del poemetto Di Paulo e Daria amanti , nel Giorn. stolo stesso,
Un codicetto di dedica ignoto del rimatore G. V., Bergamo 1895
rico, IX, 1887, p. 336 sg.
(per nozze Flamini-Fanelli).
p. 387. Delle rappresentazioni pavesi del 1493, Luzio-Renier, nelV Archiv. stor. lombardoXVII, 1890, p. 379 sg. La Danae commedia di B. Taccone, pubbl. da A. Spinelli, Bologna 1888 (per nozze Mazzacorati-G-aetani D'Aragona). La frase di Isabella, riferita da LuzioRenier, ne\Y Arch. stor. lomb. XVII, 622.
p. 387. VAtteonee le rime di B. Taccone, pubbl. da F. Bariola, Firenze 1884 (per
nozze Bellotti-Bariola). La Festa del Paradiso tra le Rime del Bellincioni, Bologna, 187678, II, 208 sgg. Certo fu fatta per le nozze di Giangaleazzo Mercurio dice: Dolce concento in gran silenzio ascolto E con Palla Imeneo fare temperia 'p. 213) e Marte Ringrazio or te (Giove) che un chiar sol d' Aragona E di Sforza mi mostri in questa parte
(p. 215). L'altra rappresentazione del Bellincioni pur tra le Rime, II, 238 sgg. Che avesse
luogo a Pavia nel famosissimo dottorato del reverendo monsignore della Torre risulta
dalla rubrica nel 1493, dal raffronto di questi versi; Queste due care sorelle (Beatrice
e Isabella)
Sono albergo di due stelle, che del mondo saran poli Perch portan duoi
figlioli Che d'Italia fien salute (p. 251) con Luzio-Renier, Arch. stor. lomb. XVII. 379 e 381,
p. 388. G. Zannoni, Una rappresentazione allegorica a Bologna nel 1487 nei Rendiconti dell' Accad. dei Lincei, S. IV, voi. VII, 1891, p. 414 sgg. Della rappresentazione del
Santi abbiamo solo una descrizione, non il testo : Luzio-Renier, Mantova e Urbino, p. 21.
p. 388. Per le egloghe recitative, Carducci, Su V Aminta di T. Tasso tre saggi, Firenze 1896, p. 23-31. L'autorit del Carducci non ha scosso la mia vecchia persuasione che
da codeste egloghe sia derivato il dramma pastorale. Per l'egloga di Gualtiero da San Vitale,
inedita nel cod. mglb. II, n, 75, v. Renier, nel Giorn. stor. V, 236 n. 1 ; per Gualtiero stesso,
Rossi, nella* miscellanea Nozze Cian-Sappa Flandinet, Bergamo 1894, p. 199 seg. La Semidea del Correggio inedita nel cod. Estense X.*. 34; la lettera, con cui il poeta la accompagna a Isabella nel Giorn. stor. XXI, 247 sgg.
p. 389-96. D'Ancona, Del secentismo nella poesia cortigiana del secolo XV, negli Studi
sulla letteratura italiana de" primi secoli, Ancona 1884 (o Milano 1891), p. 151 sgg. Flamini,
Per la storia della lirica italiana dal Poliziano al Bembo, nelle Spigolature citate,
pag. 127 sgg. Il convito cui si allude quello dato nel 1473 dal card. Pietro Riario a Leonora d'Aragona Gorvisieri, nell' Arch. della societ romana di storia patria, X, 1887, p. 649
p. 389-96. Per il Tebaldeo, D'Ancona, p. 191 sgg. Cian, Un decennio della vita di
P. Bembo, Torino, 1885, p. 234 seg. e Una baruffa letteraria alla corte di Mantova, nel
Giornale storico, 1886, p. 387 sgg. ; Luzio, I precettori d'Isabella d'Este, Ancona 1887 (per
nozze Renier-Campostrini), p. 51 sgg. Rossi, Pasquinate di P. Aretino ed anonime, Palermo, 1891. p. Ili seg. Percopo, nel Giom. storico XXVIII, 1896, p. 74, sg. nota. La data
della nascita dal cod. mglb. II, IV, 382, c. 166 v. Di M. Antonio Tebaldeo ferrarese, l'opere
d'amore, Venezia, Zoppino, 1534.
p. 391-5. Per Serafino, D'Ancona, p. 161 sgg. 203 sgg. Luzio Renier, Mantova e Urbino, p. 89-96. [F. Flamini, Un virtuoso del Quattrocento, nella Nuova Antol., S. IV,
voi. LXIX, 1897, p. 293 sgg.]. Del Seraphino Aquilano poeta elegantissimo V opere d'amore,
Venezia, Zoppino, 1530. Le rime di Serafino de' Ciminelli dall'Aquila a cura di M. Menghini, con ampia prefazione bibliografica, Bologna 1894: finora solo il primo volume contenente i sonetti, le egloghe, la rappresentazione allegorica mantovana e le epistole. I numeri dei sonetti citati si riferiscono a quest' ultima edizione dove pure ristampata
(p. 1 sgg.) la vita di Serafino scritta dal suo amico Vincenzo Calmeta.
p. 391. Delle feste offerte al principe di Capua nel maggio del 1492 dal cardinal
Ascanio Sforza d notizia un documento pubblicato dal Pastor, Geschichte der Ppste, III,
Freiburg i. Br. 1895, p. 207. Che nel giugno del 1493 Serafino era ancora a Roma, LuzioRenier, o. c. p. 91 n.
Percopo, Chap. 392. Per le imitazioni di poesie del Cariteo in quelle di Serafino
p.

riteo,

I,

p.

CCLII
394-5. Per
p.

XXIV, 243

sgg.
la storia della barzelletta vedi

Flamini

in Giorn. stor.

XX

49 sgg.

sgg.

p. 395. Di Panfilo Sasso, D'Ancona, p. 218 sgg. Opera del precarissimo poeta missere Pamphilo Sasso, Venezia, Bernardino Vercellese, 1511; gli strambotti ristampati sulle
antiche edizioni da S. Ferrari, nella Biblioteca di letteratura popolare italiana, I, Fi-

renze 1832, p. 275 sgg.

NOTE BIBLIOGRAFICHE E CRITICHE.

438

G. Volpi, Notizie di Francesco Cei poeta fiorentino dell'ultimo Quattrocento.


(estr. dalla Biblioteca delle scuole italiane). Sonecti, capituli, canzone, Sexet Strambocti composti per lo eccellentissimo Francesco Cei, Firenze, Filippo Giunta, 1514. Gli strambotti anche in Biblioteca di letteratura popolare I, 301 sgg.
p. 395-6. Strambotti e sonetti dell' Altissimo per cura di R. Renier, Torino, 1886.
Su
Bernardo Accolti detto l'Unico Aretino, Luzio-Renier, Mantova e Urbino, p. 259-70.
Due
barzellette diBenedettoda Cingoli ristampate da F. Flamini, Pisa 1892 (nozze Bacci-Del Lungo).
Su Vincenzo Calmeta, Luzio-Renier, Mantova e Urbino, p. 96-103. G. Rossi, Alcune
rime inedite di Jacopo Corsi nel Giorn. stor. XXVI 1890, p. 390 sgg.
Per le raccolte di poesie cortigiane, G. Zannoni, Strambotti inediti del sec. XV, nei Rendiconti
dell' Accad. dei Lincei, S. V, voi. I, 1892, 371 sgg.
A. Saviotti, Rime inedite del sec. XV,
nel Propugnatore, N. S. voi. V, P. II, 1892, p. 303 sg. M. Menghini, Poesie inedite del
p. 395.

Verona 1893
tine, Stanze

secolo

XV,

nella

Rassegna

bibliografica,

III,

1895, p. 17 sgg.

Dei continuatori nel secolo XVI della maniera di Serafino sar discorso nel
volume dedicato a quel secolo. Per le liriche del Correggio, di Galeotto del Carretto e del
Visconti vedi le pubblicazioni cui direttamente o indirettamente si rinvia nelle note a
p. 381-2, 384, 384-6. La barzelletta citata di Galeotto fu stampata dal Renier, nel Giorn. stor.
VI (1885), 249. Imitazioni o ricordi danteschi nelle liriche del Bellincioni vedansi alle pag. I,
V. Rossi, Niccol
104; II, 1, 9, 101, 127, 157, 168, 186-7, 193, ecc. della citata ediz.
Lelio Cosmico poeta padovano del sec. XV, nel Giornale storico XIII 1889, p. 101 sgg., e
per la biografia del poeta anche Morsolin, Una elegia di B. Pagello, nella Rassegna padovana,
I, 1891, p. 195 sgg, ;Patetta, Una lettera inedita di N. L.C. nel Giorn. stor. XXIII. 1894,
p. , 461. sgg. diretta anche a lui la Lettera di Giovanni Lorenzi a Demetrio Calcondila
pubblicata da G. Dalla Santa, Venezia, 1895 (estr. dal periodico La Scintilla).
p. 397. Dei rimatori ligi alla pura tradizione petrarchesca sar discorso nel volume
dedicato al secolo XVI.
p. 397-8. A. Saviotti, Pandolfo Collenuccio umanista pesarese del secolo XV, Pisa 1888;
cfr. la recensione dello Scipioni nel Giorn. stor. XI, 1888 p. 414 sgg. e Luzio-Renier, ibidem,
XXI, 233 sgg. M. Morici, La famiglia di P, C. Pistoia 1896. La Canzone alla Morte colV Anfitrione, Milano, 1864, p. 19 sgg.
p. 398-401. Rime edite ed inedite di Antonio Cammelli detto il Pistoia, per cura di
A. Cappelli e S. Ferrari, Livorno 1884. Quivi anche la biografia, per la quale cfr. Renier
nella Rivista storica mantovana I, 1885, p. 72 sgg. e nel Giorn. stor. V, 1885, p. 319. I so-,
netti del Pistoia giusta V apografo trivulziano, a cura di R. Renier, Torino 1888. Con CF.
citata la prima, con R. la seconda di queste due edizioni.
p. 399. Pel Braccesi, Zannoni, nella Cultura, XI, 1890. p. 88 e nel Propugn., N. S.,
voi. Ili, P. I, 1890, p. 164. Di una sua raccolta di rime , lo stesso, Relazione a S. E. il
\ nel Bollettino ufficiale del Ministero della
Ministro su di un cod. di rime del secolo
P.
14 marzo 1895. P. Bacci, Notizia della vita e delle rime inedite di Tommaso Baldinotti poeta pistoiese del secolo XV, Pistoia 1894 (nozze Morici-Merlini).
p. 400. Di Giov. Battista Refrigerio, vedi L. Frati, nel Giorn. stor. XII, 1889, p. 325 sgg.
p. 401. I sonetti politici del Pistoia nell'edizione Renier, p. 273 sgg. Illustrazioni storiche di F. Gabotto nel Giornale ligustico, XV, 1888, p. 81 sgg. e di V. Rossi neVArch. Vep. 396.

XV

neto,

XXXV,

p.

207 sgg.

la poesia politica alla fine del secolo D'Ancona, o. c. p. 221 sgg. Sulle
P. Sasso in particolare, F. Gabotto, Francesismo e Antifrancesismo in due
poeti del Quattrocento, nella Rassegna Emiliana I, 1888, p. 283 sgg. D'Ancona-Medin, Poesie storiche del secolo XV, nel Bullettino dell'Istituto storico italiano n. 6. 1888, p. 17 sgg.
Delle poesie ispirate dalla battaglia di Fornovo, Luzio-Renier, neWArchiv. storico italiano S. V,
p. 401-2.

Per

poesie politiche

di

voi. VI, 1890, p.

236 sgg.

sulla scoperta d'America sono di Tribaldo de' Rossi nel suo Libro
Berchet, nella Raccolta colombiana, Parte III, voi. II, Roma 1893, p. 1.
Ivi a pag. 8 sgg. ristampato anche il poemetto del Dati. Attestazioni che provano l'impressione fatta dalla notizia nella societ colta italiana, vedi raccolte da C. Merkel nella Rivip. 403.

Le parole

de' Conti; vedi

sta storica italiana, XII, 1895, p. 257 sg.

INDICE ALFABETICO

A
Accademia napoletana 336

Arezzo Gambino d', 181 sg., 248.


Argiropulo Giovanni 26, 52, 66, 69.
Arienti, Sabbadino delli, 132 sg. 170.
Ariminesi, Rocco degli, 285.
Ariosto Lodovico 335.

sg. 350 sg.

platonica 229
romana 218,
221
.Acciainoli Donato 51, 66, 96, 106, 235, 279.
Piero 235.
Accolti Benedetto 35, 75, 107, 151, 187, 188.
Bernardo 383, 395.
Francesco 151, 159, 170, 187, 312. 420.
sg.

sg.

Achillini Gio.

sg.

Aristotelismo e antiaristotelismo 57, 64


68-70, 223 sg., 272.

Ascoli, Enoch, d' 47.

Asconio Pediano, scoperto 20.


Aspramonte in prosa 287; in rima 287, 291
Attila, leggende di, 284 sg.
Aurispa Giovanni 28 sg., 3?, 92, 384.

sg.

Pellegrino degli, 230.


Agostini, Niccol degli, 335,
Aiolfo 291.
Alamanni Antonio 184.

Baldinotti

Albanzani Donato 18, 38.


Alberti Antonio 15 sg.
Francesco 75, 143, 184, 188.
Leon Battista 74 ss>. 90-96,

111.

133, 138, 142, 162, 183^ 230, 235.


Albizzeschi Bernardino 102 sgg.
Albizzi Rinaldo 26, .79.
Albizzo, Francesco d\ 195 sgg.
Alemanno Giovanni 231.
Altilio Gabriele 351 sg.
Altissimo Cristoforo 395.
Ancona, Ciriaco d', 75, 111 sg.
Ancroia 287.
'Antiquario Jacopo 385.
Antonio di Guido 168, 182, 197, 288.
Apostoli Michele 62 sg. , 69.
Apuleio, tradotto 315.
Aquilano Serafino 389, 391-95.
,

Aragona, Alfonso

I d',

55

Alfonso d\ 352.
Ferdinando 337
,

399.

Barberino, Andrea da, 289.

Giovanni da, 182.


Bartoli Lodovico 174.
Barzelletta 242, 394, vedi Ballata.
Barzizza Gasparino 37 sg.

52, 80, 186.

Guiniforte 41, 72, 86, 150.


Basilio, tradotto 44.
Basini Basinio 63, 162 sg. , 164, 348.
Battista Mantovano 371, 403.
Beccadelli Antonio, vedi Panormita.
Becchi Gentile 237, 269.

Bel Grherardino 312.


Feo 125, 141, 159, 195 sgg.,
Bellincioni Bernardo 253 sg.
385 sg.
,

202.
,

387

sg., 396, 399.

sg.

Araldi della Signoria a Firenze 157.


Archeologia 111 sg.
Aretino vedi Accolti Bruni Marsuppini,
Tortelli.

Tommaso

Ballata 143, 145, 147 sgg., 243, 259, 358.


360, 394 sg.
Baratella Antonio 164.
Barbaro Ermolao 217.
Ermolao 223 sg. , 376.
.
Francesco 24, 84, 86, 101.

Belcari

sg.

II

I,

sa;

Arlotto piovano, 138.


Arsochis, Francesco de, 370.

loteo, 392.

Acquaviva Andrea Matteo 350


Acquisto di Ponente 287.
Agli, Antonio degli, 75.

(*)

Benci Tommaso 202.


Bendidio Timoteo 396.
Benivieni Girolamo 171, 281
Benvenuti Lorenzo 24.

sg.

(*) In questo indice sono registrati i luoghi ove di persone o di cose attinenti alla storia letteraria si parla ampiamente o si danno notizie particolari di qualche entit. I numeri in carattere
grassetto rinviano ai luoghi ove dell'argomento indicato si tratta di proposito e con maggior larghezza che negli altri.

440

INDICE ALFABETICO.

Benzi Ugo C8.


Berardi Girolamo 380.

Canzoni a ballo 243, 259; vedi Ballata.


Capelli Pasquino 14, 18.
Capitani antichi, dispute su, 101, 384
Capitoli quaternari 147.

Berlinghieri Francesco 178, 230.


Berni Francesco 335, 400.
Beroaldo Filippo 72.
Bessarione 66 sg. , 68 sgg. 219.

Cappello Guglielmo 72.

Capponi Gino 119.


Neri 119.
Capra Bartolommeo 46.

Bianchi 193

sg.

Biblioteche 23, 26, 67 ; aragonese 338 ; estense


312, 380; medicee 28, 29, 242; urbinate 40,
180 ; vaticana 47 sg., 217. 221 viscontea 32.
Biffi Giovanni 385.
Biografie 121 Bgg.

Bonciani Antonio 179, 182.

Caracciolo Gianfrancesco 369.


Pietro Antonio 357.
Tristano 351.
Cariteo 351, 352 sg., 361-63, 369, 392.
Carretto, Galeotto del, 384, 388, 396
Casola, Niccol da, 285.
Castellani Pierozzo 202.
Cavalcanti Giovanni, storico 120 sg.
Giovanni, ficiniano 229, 2307
Caviceo Jacopo 135 sg.
Cei Francesco 395.
Ceresari Paride 380.
Certame coronario 75-7.

Boni Bono

Chelli Michele 196.

Biondo Flavio 74, 107-111.


Bisticci, Vespasiano da, 29, 122-24.
Bitonto, Antonio da, 58.
Boccaccio, drammatizzato 205, 383; giudicato

72: imitato 127-35, 153, 173-75, 242, 249,


324, 367 sg. , 378; messo in versi, 75, 170,
172, 174; tradotto in latino 72.
Boiardo Matteo Maria 313-33, 335, 384, 397.
97.

Boninsegni Jacopo Fiorino 369.

Cicerone; scoperte di opere 14, 20, 21, 107;

Bonisoli Ognibene 40.

stadi su, 52, 53.

Borgo, Damiano dal, 42.


Tobia dal. 162.
Braccesi Alessandro 399.
Bracciolini Poggio 63, 71, 74, 92, 111, 186;
dialoghi 87 sg. epistole 80 sg. Facetiae,
137 sg. Hist. florent., 107; orazioni 99;
polemiche 31, 61, 99, 100, 101; stile e metodo 52 sg. versione della Ciropedia 35,
65; vita, 19-23, 45, 46, 86.
Bracelli Jacopo 107.

Cieco Francesco 333-35.


Ciminelli Serafino 389, 391-95.
Niccol 166 sg.

Bramante 385.
Broccardo Domizio 151
Brunelleschi Filippo, 6,

7, 136, 142, 182,

207.

Bruni Leonardo 53, 70, 71, 186; commedia


377 sg. dialo gi ad Petrum histrum 71;
epistole 81, 84; novella 126; opere filosofiche 85; oratorie 97; polemiche 24, 88,
;

Conversano, Giovanni di, 18.


Corazza, Bartolomeo del, 117.
Corbizzeschi Michele 173.
Cordova, Fernando di, 231.
Corio Bernardino 119 sg.
Co rnazzano Antonio 165 sg. 167, 170,380.
Cornelio Nepote, tradotto 315.
Correggio, Niccol da, 381 sg. , 386, 388, 396.
Correr Gregorio 45, 377.
Corsi Jacopo 396.
Cortese Paolo 274.

101; storiche 106 sg. 116, 124; teorie sul


volgare 74; traduzioni 44, 64 sg., 72,
109; vita 24 sg.
Buonaccorsi Filippo 218.
,

Cingoli, Benedetto da. 396.


Cipriano, sue lettere scoperte 26.
Cobelli Leone 116.
Cocci Marcantonio 112, 218.
Coletta 358.
Collazio Pietro Apollonio 159.
Collenuccio Pandolfo 380, 383, 397 sg.
Colombo Cristoforo 279, 403.
Columella, scoperto 20.
Commedie studentesche 389.
Compagnie di dottrina 208.
Conti, Giusto de', 152, 369.

Buoninsegni Domenico 117.


Buontempi Candido 192.
Buovo in prosa 287.
Burchiello 182 84.
Bussi Giannandrea 215.

Corti Lancino 385.


Corvini Giovanni 32.
Cosmico Niccol 396.

Costanzo Antonio 222.

Cacce 243.
Calco Bartolommeo 385.
Calcondila Demetrio 66, 277, 385.

Crisolora Manuele 17.


Cristoforo fiorentino 395.
Crivelli Lodrisio 99.
Crociata, poesie per la, 159.
Cronache 116 sg.; rimate 166 sg.

Calderini Domizio 222, 274.


Calderoni Anselmo 75, 183.
Calenzio Elisio 351.
/Callimaco Esperiente 218.

Callisto III, 48.


Callisto Andronico 26, 69, 277.

Calmeta Vincenzo 396.


Cambini Bernardo 159, 188.
Cammelli Antonio, vedi Pistoia.
Campano Giannantonio 85, 86,
154-56, 180, 215, 219.
Canobio Antonio 165.

Dante, giudicato 70-72; imitato 16, 90, 173


sg. 175-78, 180, 238, 239, 248, 278 sg., 396;
spiegato 72, 89, 235, 396.
Dati Giuliano 212, 403.
Gregorio 118 sg. 167.
Leonardo di Piero 75, 165, 371, 377.
Davanzati Mariotto 75, 248.
Decembrio Pier Candido 32 sg., 99, 101, 121,
,

113,

121,

Cantalicio Battista 278.


Cantari di Carduino 312, 327.
Cantastorie 167 sg., 287 sg., moderni 286.
Canti carnascialeschi 245 sg. , 386.
Canzonette 147-49.

187.

Ubertino 19, 40, 86.


Dei Benedetto 117.

441

INDICE ALFABETICO.
Demostene, tradotto 64.
Devozioni 201.
Diacceto, Francesco da, 230.
Diogene Laerzio, tradotto 26.
Disperate 153.
Dispute pubbliche 231 sg.
Domenichi Lodovico 335.
Burchiello
il
Domenico di Giovanni

Filelfo

124, 160,

37,

180,

165,

187, 232.

Fi letico Martino 222.


Filologia, v. Studi filologici.
Filosseno Marcello 396.
Finiguerri Stefano 181, 248.
Fiocchi Andrea 111.
182-

84.

di Giovanni, poeta latino, 192.


Dominici Giovanni 44 sg. 88 sg. 195.
,

Giammario

Donatello 22, 81, 82, 136.


Donato, scoperto 28.
Donna nel Rinascimento, la, 4l sg. , 78.
Drammi, v. Rappresentazioni e Teatro.

Fioravante 289.
Fiorentino Francesco 264.
Firenze 23, 26, 136, 140-43, 224 sgg.
Firmico Materno, scoperto 20.
Fonte, Bartolommeo della, 277.

Fonzio Bartolommeo 277.


Foresi Bastiano 178 sg.
Forteguerri Antonio 397.
Francesco Fiorentino 264.
Franco Matteo 252-54.
Frati, giudicati 58, 88.
Fregoso Antonio 386.
Frescobaldi Giovanni 264.

Egloghe recitative 388, 391.


Eliseo Giovanni 351.
Ellenismo 62-66.
Eloquenza, dimostrativa 98

sg. ; giudiziale,
politica 96-98; sacra 101-4.
Epigramma latino 155, 185 sg. , 261, 278.
Epistole d'amore in prosa 133, 364 ; in rima

99-101;

Frontino, scoperto 20.


Frottola 187 sg. 394 vedi Ballata.
,

Fusco Domenico

388.

153, 390, 394.

77-84.
Epopea romanzesca: materia

Gabrielli Cleofe 179.

Epistolografia 15,

classica 285;
materia di Francia 279, 285-310; di Brettagna 311-13, 319 sg.
Epopea sacra 191-93, 250, 373.

storica 163-68.

Gambino d'Arezzo 181

248.

sg.

182.

Giambullari Bernardo 171, 246, 260.

"

Feliciano Felice 112, 132, 153.


Feltre, Vittorino da, 39 sg. , 42.
Ferrara 38, 319.
Cieco da, 333-35.
Ferrariis, Antonio de, 351, 355.
Feste 8, 140-43, 161, 220, 262.
Ficino Marsilio 28, 224-30, 233, 235, 237,
276, 280, 307.
Fierbr accia e "Olivieri 287.
Filenio Gallo 370.
Filelfo Francesco 10, 53, 65, 74 ; biografia

30-34, 221 Convivia mediol. 86


grammi 186 sg. epistole 82 giudizi
:

episulla
sg. , 74,
;

lingua e la letterat. volgare 71


75; odi 159, 160; orazioni 41, 99; polemiche 99 sg., 137, 223; Sforziade, 165, 190;
trattati pedagogici 40;
Vita di S. Gio193.

Facezie 137-39.
Fallamonica Bartol. Gentile 176, 178.
Famiglia 86, 151 sg., 156 sg. 344-46.
Farse napoletane 357, 365 sg.
Favarotta, barone della, 359.
Fazio Bartolommeo, 61, 72, 85, 122, 126.
Febusso il forte 311.
Fedele Cassandra 42.

vanni

sg.

Gareth Benedetto, v. Cariteo.


Gaza Teodoro 35 sg. 65, 68 sg.
Gemisto Giorgio 67 sg. 162.
Gennadio 68.
Gennazzano, Mariano da, 246.
Gherardi Giovanni 89, 133 sg. , 150, 174

361, 370.

180.
Filippo 370.

Agnolo

Galli

Erodiano, tradotto 270.


Erodoto, tradotto 59, 315.
Eschine, tradtto 64.
Esiodo, commentato 271 sg.
^Esperi ente Callimaco 218.
Este, Beatrice d\ 384 sg.
Ercole d\ 380.
Isabella d', 382 sg.
Leonello d', 38.
Niccol III d\ 312.
Eugenio IV, 46 sg.
,j

Gafurio Franchino 385.


'Galateo Antonio 351, 355.
* Galeota Fi-ancesco 358, 359 sg
Gallo Filenio 370.

Gibello 312.
Giocolo, Piero del, 175, 212.
Giogante, Michele del, 159.
Giostre in rima 174, 252, 264.
Giovanni, Domenico di, il Burchiello 18284.

Domenico

di,

poeta latino 192

Grismirante 311.
Giuristi 35, 55.

Giustinian Leonardo 144-49, 150, 195, 197.

Giustiniane 147.
Giustiniano Andreolo 167.

Gliommeri

365.

Gonnella 138.
Gonzaga Francesco 383, 390.
Isabella 382 sg.
Gradenigo Jacopo 192.
Greco, vedi Studi.
Grifo Antonio 396.
'

Leonardo 164.
Gualtieri Lorenzo 166.
Guardati Masuccio 128-31.
Guarini Battista 39, 380.
Guarino veronese

epistole
53, 72, 186, 376
polemiche 24, 42 sg. 64. 99, 101 traduzioni 66, 92; vita, 38-9, 42.

82

Guasco Bartolommeo 36.


Guerino meschino 291.
Guidalotti Diomede 396.
Guido, Antonio di, 168, 182,

197, 288.

442

INDICE ALFABETICO.
Maria zi
I

379.

Marini, Pileo de', 46.

Marrano Giovanni
Illicino

Bernardo

154.

Marcili Luigi 16.

127.
Improvvisazione 252.
Intessura Stefano 116.

Marsuppini Carlo 30 sg., 45, 51, 65, 234.


Marsuppini Carlo juniore 229.

Invettive 99-101.
Isottaeus 162 sg.

Martino V, 46.

Istoria, del Calonaco da Siena 172; di Campidano 172; di Ginevra Almieri 172; di

Liombruno, 172:
di Ottinello e

di

Maria per Ravennani

Giulia 171

d'Insidoria, 423
vedi Novella.

della

Mazzei Lapo 77.


Medici, giudicati 35.
Medici Cosimo 27 sg. 160.
Giovanni di Cosimo 29, 143.
Giovanni di Lorenzo 269.
Giuliano di Lorenzo 247.
Giuliano di Piero 235, 263 sg.
Lorenzo il Magnifico 141, 236-48, 2G0,

di Patrocolo e
Reina d'Oriente 312;
;

Ivani Antonio 278.

J
Jennaro,

Pietro

Jacopo de, 133,

358

sg.

364, 370.

Jonata Marino 176, 178.


Li

Macinghi Alessandra 77 sg.


Maffei Timoteo 48.
Mainardi Arlotto 138.
Maio Giuniano 364.
Malatesta Sigismondo 162.
Malatesti Malatesta 158.
Malecarni Francesco 75, 170.
Malpaghini Giovanni 17.
Manetti Antonio 121.
Giannozzo, notizie 98, 231

185, 188, 202.

Giammatteo di 143.
Menila Giorgio 112, 222 sg., 276,
Milano 32, 384-87.
Mocenigo Tommaso 97.
Monaci, Lorenzo de\ 63.

385.

Monforte, Cola di, 358.


Montalcino, Piero di, J67.
Montefeltro, Battista di, 42.
Federico di, 40, 179 sg.

Montemagno, Buonaccorso
Morandi Benedetto 62.

da, 85, 9J, 150 sg.

Morelli Giovanni 118.

Moroni Tommaso 37, 99 sg.


Motto confetto, v. Frottola.
Musei 24, 28, 40, 217, 242.

157.

N
Naldi Naldo 124, 164 sg. 277.
Napoli 55 sg. 336 sgg.
Nardi Jacopo 383.
Nero, Piero del, 137, 171.
Nesi Giovanni 280 sg.
Niccoli Niccol 17, 23 sg., 28, 52, 71 sg.
Niccol cieco 160, 185, 187.
Niccol V, 47 sg. 65 sg.
,

Nigrisoli Girolamo 159.


Nobili, Lioncino de', 136.
Laudivio de', 376.
Nobilt, giudicata 85.
Nogarola Ginevra e Isotta 42.
Notturno napoletano 396.

Novella, del Bianco Alfani 136 sg. di Buonaccorso di Lapo Giovanni 137; di Giacoppo 137; del Grasso legnaiolo 136 sg.
d'Ippolito e Dianora 172,^383; di Lisetta
Levidini 137. Vedi Istoria.
Novelle in prosa 125 sgg. in rima 170-72.
;

O
;

opere sto-

riche 121, 124; orazioni 15, 96, 98, 99.


Manilio, scoperto 20; imitato 348.
Mantovano Battista 371, 403.

Manzini Giovanni 376.


Marcanova Giovanni 111, 112.

279.

Lorenzo

di Pierfrancesco 202.
Piero ai Cosimo 29, 75.
Piero di Lorenzo 252, 269, 270
Medico, Elia dal, 231.
Meglio, Antonio di, 136, 151, 153, 158, 182

Lamenti, amorosi

153, 162 ; storici 169 sg.


Lamola Giovanni 36.
Landino Cristoforo 52, 76, 85, 234-36, 273.
Landriani Gerardo 20, 45.
Lapaccini Filippo 384.
Costantino 66.
Lascaris
Giovanni 242, 277.
Laudi 194-98, 246 ; drammatiche 198-200.
Lecce, fra Roberto da, 102.
Leoni Pietro 230.
Leoniceno Niccol 397.
Leonico Tomeo Niccol 223.
Leto Pomponio 217-19, 222, 379, 403.
Letteratura politica 4, 15, 18 sg. , 31, 46,
79 sg. , 83 sg. 100 sg. 157-59, 338 sg.
Librai 28 sg.
Lingua volgare 73 sg. 90, 116 sg. , 360.
Lirica amorosa 143-57, 358-63, 370 sg. ; burlesca e familiare 182-84. 251, 253 sg. , 398401 ; encomiastica 159-66 ; gnomica 184 sg. ;
politica 4, 19, 157-59, 168-70, 362, 401-3 ;
religiosa 194-98, 246.
Livio, ricercato 21, 47.
Lonigo, Ognibene da 40.
Loschi Antonio 18 sg., 46, 52, 72, 377.
Lucca, Bartolommeo da 184.
Luciano, imitato 92, 191, 354, 384, 397 ; tradotto 92, 315, 319.
Lucrezio, scoperto 20.
Lupi Mattia 185.

Cristoforo 229.

Martire Pietro 403.


Manilio Michele 275, 351.
Marzio Galeotto 99.

Olimpo Baldassare 396.


Omero, tradotto 65, 255; spiegato 270
Orgagna 184.
Organi, Antonio degli, 143, 242.
Orgiano, Matteo d\ 18.

sg.

443

INDICE ALFABETICO.

Origene scoperto 26.


Orlando, poema 294.
Orsi, Roberto degli, 162.
Orsini Clarice 251, 254, 269.
Ortografa 52 sg. , 62.
Ovidio, imitato 153, 162 sg.

P
Palmieri Matteo, 89 95 sg. , 96, 176 sg.
Paltroni Pierantonio 181.
Pandolfini Agnolo 90, 96,
Pandoni Giannantonio, v. Porcellio.
Panno'nio Giano 29.
Panormita Antonio, 61, 82-84, 99, 185 sg.,
187, 336 sg. , 376.
,

Panzano, Luca da, 117.


Paolo II, 216-19.
Paradiso degli Alberti 15
Parenti Marco 79.
Parentucelli

Tommaso,

v.

sg.

133 sg.

imitato 40, 90, 93

R
di Gri;
di S. Guglielma 204 ; del Re
Superbo 203 ; di Rosana 205 ; di Stella 204
di S. Uliva 203 sg. ; romana della Pas-

selda 205;

Niccol V.

sione 201.

Rappresentazioni, allegoriche 365, 378 sg.


391 sg. aversane 212 mescidate lucianee 284, mitiche 382, 387 ; novellistiche 383
sacre 141, 201-13, 247.
Ravaldini Flavio 74, 107-11.
Ravenna, Giovanni da, v. Conversano, Mal;

paghini.

16, 72, 149-53, 179, 180,

181,
238, 248, 265, 272, 278, 280, 316, 359, 360,
362, 367, 37], 386, 390, 392,395, 397.
Petrucci Antonello 338.
Giannantonio 360 sg.
Piacentini Marco 152.
Piatti Piattino 385.
Piccolomini Enea Silvio, commedia 378 ; epistole 84; liriche latine 154; orazioni 98;
opere storiche e geografiche 112-15, 122 ;
storia di due amanti i26 sg. ; trattati 87 ;
vita 48-50, 141.
Pico Giovanni 224, 230-34, 276, 279.
Pilato Leonzio 17, 65.
Pio II, v. Piccolomini E. S.
Pisani Leonardo 195.
Pisani Ugolino 378.
Pistoia Antonio 383, 398-401, 403.
Pitti Buonaccorso 118.
Pizzicotti Ciriaco 75, 111 sg.
Platina Bartolommeo 85, 122, 218 sg. , 221,

Q
Quintiliano, scoperto 20
interpretato 270.

Perleoni Giuliano 360.


Perotto Niccol 62, 66, 69, 222.
Persio, interpretato 270.
Pestellino 1.73.
Petrarca, giudicato 72.

260,

Raimondi Cosimo 37.


Rambaldoni Vittorino 39 sg. 42.
Rappresentazione, di Barlaam 203

Passione di Revello 213,


Pavesi Fontana Gabriele 222.
Pavia 83, 378.
Pedagogia 37-44.
Pellegrini Giovanni 195.

Petrarchismo

Giovanni da, v. Gherardi.


fra Giovanni da, 42.
Sassuolo da, 37.
Procopio, tradotto 65.
Pucci Antonio 312.
Pulci Antonia 202, 204, 248.
Bernardo 202 sg., 248, 250.
Luca 248 sg. , 309 sg.
Luigi 137, 248 sg., 250-54,
279 sg., 294-310, 320.
Pulzella gaia 312,

Reali di Francia, 287. 289-93.


Religione 10

sg,

42-5, 102, 189 sgg.

282

306, 355 sg.

Rho, Antonio da, 61,


Riario Girolamo 220.

99.

Pietro 220.

Rica Michele 358.


Ricco Antonio 396.
Riccobaldo ferrarese 315.
Ricordanze familiari 117 sg.
Rieti, Tommaso da, 37, 99 sg.
Rimini 162.

157.

Rinaldo da Montalbano, poema 287, 294,326.


Rinascimento 3.
Rinuccini Alamanno 51, 66, 117, 235.
Cino 19, 71, 150.

Risorgimento

3.

Rispetti 260: vedi Strambotti.


Rizzoni Martino 42.
Roma 46-50, 216-23.
Romano Rustico 360.

Ronto Matteo

230.

Platonismo 64, 68-70, 224-30, 237-41, 280.


Plauto, scoperto 21 studiato 376
tradotto
;

380; imitato 323.


Pletone Giorgio Gemisto 67 sg., 162.
Plutarco, tradotto 64, 144.
;

sentazione, Teatro.
Polentone Sicco 122.
Polipio, tradotto 65 sg.
Poliziano Angelo 53, 242,
299, 310, 314, 379, 381,

254-77, 279,

fontano Giovanni 337-56,

364, 369.

Porcari Stefano 96 sg.


Porcellio 63, 115,

160-62,

187.

Pornasio, Raffaello da 48.


Prato, Domenico da, 95, 153, 173 sg.

183, 187 sg.

Poesia didascalica, 167, 178, 348 sg. maccheronica 378 morale e satirica 187 sg.
pastorale 369, 371, 388, 391 popolare, 16770, 144-46. Vedi Epopea, Lirica, Rappre;

73.
Roselli Rosello 150 sg.
Rucellai Giovanni 117.
Rustico Romano 360.

430,

Sabellico Marcantonio 112, 218.


Sacchi Bartolommeo, v. Platina.
Salernitano Masuccio 128-31.
Salerno Giannicola 184.
Salutati Coluccio 13-19, 43 sg. , 52, 56, 65,
70, 71, 84, 86, 375.
Sanguinacci Jacopo 159.
San Miniato, Antonio da, 166.
fra Giovanni da, 43.
Sannazzaro Jacopo 350, 352, 364-74.
Santi Giovanni 180 sg., 388.

Sanudo Marino 119

sg.

Sanvitale, Gualtiero da 388.


Sardi Tommaso 176, 178.

4ll

INDICE

ALFABETICO.

Sarteano, Alberto da, 88, 102, 186.


Sarzana, Tommaso da, v. Niccol V.
Sasso Panfilo 395, 400, 402 sg.
Sassuolo da Prato 37.

moderno 376-79

V Orfeo del Poliziano


254-58; vedi Rappresentazioni, Egioche.
Antonio
Tebaldeo
258, 381, 389-91,' 4j2 sg.

Satira 187 sg.


Savonarola 279-83.
Scala Alessandra 27").
Bartolommeo 252, 273, 274 sg.

Scambrilla 184.
Sclaricino Tommaso 397.
Scola, Ogni bene della, 18.
Scolari ) >menico 285.
68.
Scoperte di antichi scrittori 14,
28, 47, 107, 113.
Seneca Tommaso 36, 63.
Senofonte, tradotto 65, 315.
Sercambi Giovanni 119 sg.
Sermini Gentile 127 sg.
Serminocci Jacopo 173 sg.
Serravalle, fra Giovanni da, 73.
Serventcse 147.
Sforza Beatrice 384 sg.
Francesco 33.
Galeazzo Maria 41.
Ippolita 41, 66, 128, 337.

Lodovico,

il

Moro 384

19-21,

26,

Trionfi 179, 180.


Tristano, romanzi e poemi
Trocculi, Giovanni de, 358.

Tuppo, Francesco

Uggeri

Danese, poema 287, 294.

Urceo Codro 371. 376.


Uzzano, Niccol da, 158.

scoperto 20.

V
Valerio Fiacco, scoperto 20.
Valla Lorenzo 53-62, 65 sg.

89.

Spagna in prosa, 287.


in rima 287, 294,

88,

99

s<r.

186, 356.

Valturio Roberto 162.


Varano Costanza 42.
Vegio Maffeo 40, 45, 164, 186, 191 sg.
Venezia 143 sg.
Venezia, Cecchino da, 178.

295.

seconda 287.

Spagnoli Battista 371, 403.


Spinello Francesco 358.
Spirito Lorenzo 166.
Squarcialupi Antonio 143. 242.
Staccoli Agostino 180.
Stazio, scoperto 20; interpretato 270.
Stilistica latina 52, 274.
Stil nuovo, imitato 150, 237, 239, 266.
Storia di Rinaldino da Montalbano
vedi Istoria.
Storie Nerbonesi 291, 310.
di Rinaldo 287, 289.
S trabone, tradotto 66.
Strambotti 145 sg., 260, 394, 396.

Veneziane

287.

Macinghi negli, 77 sg.


Palla 26 sg.
156 sg. 164.
Vespasiano
Tito
Studi, classici combattuti 42-4, 218; ellenifilologici 52 sg. , 60, 62, 222,
stici 62-6
234, 273 sg., 356.
Studio fiorentino 27, 51.
Summonte Pietro 351, 369.
Svetonio, interpretato 270.
Strozzi, Alessandra

'

il

.Ugolini Baccio 252, 258, 260.


Tigone d'Avernia, romanzo 291.
Umanesimo 2 sg.
Urbino 179 sg.

sir.

Sisto IV, 219-21.


Soderini Piero 230.

del, 363.

82, 154.

Sozomeno

311.

Uberti Fazio, commentato 72.

Simonetta Cicco 33, 37.


Sommariva Giorgio 166, 403.
,

di,

Tuccia, Niccol della, 116.


Tucidide, tradotto 59, 65.

Bernardino da, 102 sgg.


Pasquino da, 138.

Silio Italico,

Tinti Giovanni 86.


Tinucci Niccol 136.
Tipografia 215, 385.
Tornabuoni Lucrezia 254, 309.
Tortelli Giovanni 59, 62.
Toscanella, Giovanni da 36.
Toscanelli, Paolo del Pozzo, 279.
Traduzioni 64-6 vedi sotto i singoli autori.
Trapezunzio Giorgio 64, 65, 68 sg.
Traversar! Ambrogio 25 se-.
82, 125.
Trebanio Aurelio 162, 187T
Trebisonda, Giorgio da, 64, 65, 68 sg.
Tridentone Antonio 378.
;

Scolano Giorgio

Siena

T
Taccone Baipassare 387, 388.
Tacito, scoperto 47.
Tavola ritonda 311.
Teatro', classico risorto 379-381, 387; latino

147.

Veneziano Piero, 137, 171.


Verardi Carlo e Marcellino 376.
Vergerlo Pietro Paolo 18, 40, 377.
Verino Michele 288.
Ugolino 278 sg. 300.
Vemia Nicol etto 223 sg.
Veroli, Gian Sulpizio da, 379.
Verona, Raffaello da, 335.
Veronese Guarino, v. Guarino.
Veterano Federigo 180.
Viaggio di Carlo Magno 287.
Vieri Ugolino 278 sg., 300.

Villani Filippo 122.


Vinci, Leonardo da, 285, 385, 387.
Vinciguerra Antonio 188.
Virgilio, allegorizzato 234 sg. , imitato
tradotto
178; interpretato 271 seg
250, 315.
Visconti Filippo Maria 32.
Gaspare 386 sg. 396.
Visioni 178 sg. , 359,
Volsco Antonio 222.
;

Z
Za, vedi Finiguerri.
^ambeccari Pellegrino 18.

166,
179,

CORRIGE

tkilATA
7 linea 44
14

27
29
45
55
105

25
39
4
35
36 7

passato, lx pieni,

augurata fervidamente
che
del traffico e le attitudini
e
di

danno
contemporanei

ritmicamente

la

Anche com3
1?4
165

176

267
331

45
7
3
43
13

Altr. errori di

la

passata la piena.
augurata, fervidamente
che
del traffico, e le attitudini
a danno

contemporanei

dei

storia

ritmicamente. Anche

inorale

rale

corrotte

sorrette

tocco

tocc

Veduta

Venuta

siano

siamo
sua

sue

minor conto od evidenti corregger

il

lettore da s

la

storia

Potrebbero piacerti anche