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sardismo promossi, tra gli altri da Emilio Lussu, per poi trovarsi attivamente coinvolto
nelle trasformazioni imposte dall'avvento del fascismo con, al di là delle adunate e
delle carnevalate in divisa di balilla, di giovani italiane e di avanguardisti, novità non
irrilevanti quali l'istruzione elementare obbligatoria per tutti, l'acquedotto, l'arrivo in
paese del sistema bancario, e infine la partecipazione all'avventura coloniale in Africa
Orientale e il nuovo salasso di vite e di risorse che fu la Seconda Guerra Mondiale.
Biddanoa vuole dormire, e punisce severamente chi dal suo sonno tenta di
svegliarla, come Su Maistu.
O forse Biddanoa dormiva da tempi più remoti ancora, da quando i figli e
i figli dei figli di coloro che stavano in quel nuraghe che si era confuso
con le case, non si erano più voluti muovere da quel luogo che a loro era
sembrato bello, e bello era ancora. Un luogo dove si poteva vivere e
dormire, dormire.
No, Su Maistu non avrebbe mai dovuto tentare di svegliare Biddanoa, né,
in ultimo di vestirla a maschera, con quella camicia nera come l’inferno:
cose che aveva pagato con la vita. (405)
avanza sul proscenio usando la prima persona, che si lancia in apostrofi liriche al
paese e ai suoi abitanti, che funge da tu al quale in diverse occasioni i personaggi si
rivolgono, raccontando la loro versione dei fatti. Un tema ricorrente in queste sezioni
narrative direttamente affidate alle effusioni della voce narrante è quello della
bellezza e magia dello spettacolo offerto dalle donne che di ritorno dalla fontana di
Giuanneddu, fuori del paese, attraversano Sa Prazzitta con passo veloce, la testa alta
e dritta a reggere le brocche colme d'acqua poggiate sul cercine, mentre fianchi e
braccia oscillano in incantevole armonia, ammaliando gli uomini che in piazza
trascorrono la sera. Quando, come provvidenza fascista, viene costruito un piccolo
acquedotto che porta in paese l'acqua della Funtanedda, una sorgente vicina, ma
dall'acqua di scarsa qualità, le donne continuano a caracollare con le loro brocche
per portare l'acqua buona della sorgente di Giuanneddu, e così commenta il
narratore:
Grazie a Gandolfo [il prefetto fascista] e all’acqua poco buona
dell’acquedotto, questo spettacolo in Sa Prazzitta era durato ancora per
molti anni. E a me piacerebbe credere che duri ancora. [corsivo nostro]
(p. 187)
all'uso dell'iprite, il gas tossico che i vecchi reduci avevano conosciuto e odiato
quando era stato usato dai tedeschi nelle convulsioni disperate della fase finale della
Grande Guerra.
I vecchi combattenti non avevano fatto altre domande, e il figlio di Su
Buttegheri aveva finito il suo racconto con la parola maledetta. Poi era
tornato a casa, pensieroso: rivedeva gli abissini dell’Amba Alagi sdraiati
per terra dove passava il battaglione, uomini e donne ustionati
atrocemente, bambini seminudi con le carni piagate, a brandelli, che
pendevano dai corpi sfigurati. Muti chiedevano aiuto con gli occhi, e tu
camminavi vergognoso cercando di non vedere, perché ti sentivi anche
tu colpevole delle sofferenze di quei poveretti, ma non potevi far nulla
per aiutarli.
“Infermiere, non puoi fare qualche cosa, un po’ di pomata, una benda...”.
“Ma se non ho un cazzo, ho solo un po’ d’alcool. Ho provato a buttarglielo
sulle piaghe e stavano diventando pazzi. Io non posso farci nulla, e tu
fottitene”.
Quando era entrato in casa, serio, Tia Pissentica l’aveva guardato
socchiudendo appena gli occhi, come se avesse sentito ciò che aveva
raccontato e gli avesse letto dentro:
“Mi sembra che te n’è passata la voglia”.
Non aveva risposto. Dalla porta a vetri si vedeva Sa Prazzitta, deserta nel
buio incombente, muta, atterrita. (471-473)
Il contatto del giovane Lobina con gli effetti dell'iprite sulla popolazione
abissina fu evidentemente un'esperienza centrale nella vita dell'autore, se egli dice
che fu quella che gli aprì gli occhi sul fascismo e lo fece diventare antifascista.
Tuttavia nel racconto che ne fa agli studenti cagliaritani, vicinissimo a quanto già
aveva scritto nel romanzo, c'è una strana contraddizione. Dopo aver raccontato delle
vittime del gas, dice: "lì ho chiuso col fascismo. Io ho chiuso col fascismo; visto che
cos'era, ho finalmente aperto gli occhi". Poco dopo, però, riferisce dell'incontro coi
vecchi reduci in Sa Prazzitta, e della loro reazione quando sentono la parola iprite, e
aggiunge: "Sono tornato a casa un po' avvilito e mia madre, antifascista per la pelle,
[...]". Se la constatazione della bestialità fascista evidente nell'uso dei gas lo aveva già
allontanato dal fascismo, ci saremmo aspettati che il giovane Lobina non avesse
bisogno della riprovazione dei vecchi reduci per sentirsi avvilito di aver partecipato a
quell'orrifica impresa. Anzi, lui stesso avrebbe dovuto raccontarla mettendone in
evidenza il lato negativo, ben più importante dei dettagli tecnici sugli armamenti e i
loro treppiedi su cui invece inizialmente la conversazione sembra bamboleggiare.
Questa contraddizione nel resoconto direttamente biografico, che manca nel
brano del romanzo, dove non si parla dell'allontanamento del figlio di Su Buttegheri
dal fascismo, sembra suggerire che quella presa di coscienza forse non fu così
immediata e netta come l'autore dichiara, e richiese forse molto più tempo e
ulteriori esperienze, per esempio quelle della Seconda Guerra. Non stiamo
sottolineando questa contraddizione nel racconto biografico di Lobina per il gusto di
mettere in evidenza un errore, ma perché pensiamo faccia corpo con una
caratteristica più generale dei personaggi del romanzo, e dello stesso narratore: la
difficoltà da parte dei personaggi di elaborare una coscienza politica delle vicende
delle quali loro stessi erano stati protagonisti. Questo è il caso del figlio di Su
Buttegheri per quanto riguarda i gas tossici in Africa Orientale, ma questo è anche il
caso dell'eroe Luisicu, aiutante di battaglia del capitano Lussu, che nulla capisce della
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guerra che ha combattuto, nulla capisce delle evoluzioni sardiste e fasciste del
dopoguerra in cui si trova suo malgrado coinvolto, poco infine capisce della nuova
catastrofe che si abbatte su di lui e sulla sua famiglia con la Seconda Guerra, che gli
uccide due figli. La sua ultima reazione, defecare cerimonialmente sulla camicia nera
e tentare il suicidio, è una reazione istintiva, cieca, come in genere cieco e istintivo è
stato il suo agire, a iniziare dalla fedeltà canina al capitano Lussu. E poco capisce
l'altro grande protagonista del libro, Sa Prazzitta, ombelico di Biddanoa e del mondo,
usa a sentire le chiacchiere dei reduci e dei perditempo, costretta a sentire la Voce di
Mussolini e di Su Maistu, i bandi di Domianu/ Debolezza con o senza l'autorizzazione
del sindaco o del podestà. Sa Prazzitta è e resta il luogo dell'identità del paese, il
punto d'incontro di tutti coloro che a Biddanoa appartengono o che vi si vogliono in
qualche modo inserire (per esempio due confinati, un mafioso e un "politico", che vi
approdano loro malgrado). Ma Sa Prazzitta anche è e resta politicamente assente,
irresponsabile e irresponsiva, e anche in questo fa il paio con Luisicu e simboleggia il
paese contraddittorio di cui è il centro.
1
Si veda la nostra interpretazione del volume di Lussu in Franco Manai, « Guerra in trincea
e guerra in televisione nei romanzi di Emilio Lussu e Silvia Ballestra », Cahiers d’études italiennes,
3 | 2005, 29-55.
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prosegue con una notazione sul rapporto di sostanziale estraneità tra gli
abitanti del paesino di Fraus -- mitico palcoscenico delle storie raccontate nel
volumetto -- e le varie guerre nelle quali era inopinatamente toccato loro
combattere, passa poi a parlare della sua partecipazione alla guerra d'Etiopia come
volontario e ne spiega la causa. Salta poi alla situazione del secondo dopoguerra,
riassunta in un ironico scambio di battute tra lui e un compaesano, e chiude con una
triviale facezia in versi.
Che cos'è stata dunque la guerra africana per questo bovaro sardo, che in
queste pagine si racconta a un invisibile intervistatore, forse a un curioso
antropologo?
Nella ritmata concisione della prosa di Angioni in cui viene in poche righe
riassunta l'epopea abissina, nessuno spazio, nemmeno un interstizio viene lasciato a
una visione anche solo parzialmente celebrativa di una guerra che rappresenta in
realtà tutte le guerre, o almeno tutte le guerre apertamente o larvatamente
coloniali.
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Un mese dopo ero in Africa Orientale nel genio zappatori, non di fave. Il
mio tenente diceva: -- Siamo qui per vivere davvero – E lui è morto
subito, di un morso di scorpione. Meglio non parlarne.
La battuta sardonica “nel genio zappatori, non di fave” prepara l’amarezza del
paradosso del tenentino che convinto di essere in Africa per iniziare davvero,
futuristicamente, a vivere, non ha nemmeno la soddisfazione di una bella morte in
battaglia: muore del morso di uno scorpione, come sarebbe potuto morire di lebbra
o di malaria.
Le poche righe che abbiamo letto, in cui viene distillata l'esperienza
della guerra, incorniciano il racconto del motivo che ha spinto il bovaro a arruolarsi
volontario, e cioè il desiderio di sottrarsi alle angherie e alle prepotenze del padrone,
arrivato a punirlo, insultarlo e mortificarlo per aver osato alzare gli occhi su un'altra
serva: Qui in casa mia, proclama il padrone dall'alto del suo cavallo, a fottere siamo
solo io e il gallo, che sia chiaro.
Ebbene, se la motivazione per imbracciare il fucile africano era stata
data dal desiderio di affrancamento da un rapporto di pesante oppressione sociale, il
risultato era stato evidentemente ben diverso dalle attese, se ancora nel dopoguerra
e dopo il Piano Marshall, il protagonista si trova ancora e sempre "disoccupato
cronico", costretto a consolarsi con battute e freddure, insieme al compaesano,
probabilmente altrettanto sfortunato, Antoniccheddu Vargiu. E, apparentemente
all'insegna del palo in frasca, il capitoletto si chiude, come abbiamo detto, con una
facezia attribuita appunto a Antoniccheddu:
finire quelli scampati alle prime raffiche. Dai resoconti storici sappiamo che
l’attentato a Graziani offrì il destro a un numero impressionante di “normali” italiani
(commercianti, impiegati, artigiani) di portare alla luce una ferocia che forse loro
stessi non sospettavano di possedere, quando per tre giorni furono incoraggiati a
abbandonarsi a pestaggi e massacri assolutamente impuniti.
Tutto questo ci rimanda al grande archetipo della letteratura coloniale, Cuore
di tenebra di Joseph Conrad (1899), mediato, nella letteratura italiana, quasi soltanto
da Tempo di uccidere, il romanzo di Ennio Flaiano apparso nel 1947.
Il cuore di tenebra del libro di Conrad non è il centro dell’Africa Nera, in cui si
svolge la maggior parte della vicenda, bensì il centro del continente bianco, le mai
nominate Londra e Bruxelles, nelle quali il romanzo inizia e finisce. È qui, sulle
sponde del Tamigi e nella quieta “città imbiancata” che la civile e raffinata Europa
organizza con freddo raziocinio lo sfruttamento senza scrupoli di un continente privo
di difese, e produce lo squallore e l’abietta miseria che Marlow incontra in Africa e in
cui è sprofondato Kurtz.
Tuttavia in Kurtz sussiste una forma di sia pur perverso eroismo, e
precisamente l’eroismo dello sguardo impavido, l’eroismo di chi ha il coraggio di
guardare la verità senza infingimenti e senza orpelli. Si tratta di un tratto tipico della
mitizzazione della cultura occidentale, di una sorta di un imperialismo della
conoscenza, dove l’atteggiamento imperialistico comincia innanzi tutto proprio con
questo sguardo temerario, rapace, che si affisa su un oggetto per appropriarsene,
farlo proprio intellettualmente e poi concretamente (Domenichelli 1998). Pur nella
sua abiezione morale, dunque, Kurtz, mantiene un’aura di eroismo della conoscenza:
è con lui che lo spettatore e il lettore si identificano.
I protagonisti del romanzo di Marrocu, in particolare Serra, col quale il
pubblico è invitato a identificarsi, non offrono il minimo spunto di eroismo di nessun
tipo, neanche quello morboso e sulfureo dei protagonisti di Conrad. L’avventura
coloniale dell’Italia si mostra in tutto e per tutto quello che è: l’esportazione in terra
straniera della malattia di fondo dell’Occidente, la predisposizione alla sopraffazione
appropriatrice.
In Debrà Libanos Serra e Carruezzo, e il loro aiutante Cicalò, sono dei
personaggi positivi, ma non possiedono neanche lontanamente la statura dell’eroe,
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molto meno quella dell’eroe dall’impavido sguardo che si fissa intensamente e senza
paura sulla verità.
In definitiva, anche questi personaggi borghesi e acculturati condividono con i
rustici protagonisti delle narrazioni di Lobina e di Angioni una sorta di pesante
miopia, che ne condiziona il rapporto col mondo. Tutti riescono a vedere con
chiarezza ciò che è impossibile non vedere, la brutalità e l'inumanità dell'oppressione
coloniale, ma questo non comporta nessuna ulteriore riflessione, soprattutto non
porta a nessuna coerente presa di posizione politica. Il disgusto per la guerra si
risolve in tutti e tre i casi in una confusa percezione, mentre la mancata elaborazione
ideologica resta a segnare amaramente il limite d'azione e di reazione di una società
ripiegata nella sconfitta.