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Il colonialismo italiano nei narratori sardi


Franco Manai,
The University of Auckland

La rappresentazione del colonialismo nella letteratura e nel cinema italiani


dopo la perdita delle colonie, avvenuta durante la seconda guerra mondiale e sancita
nel Trattato di Parigi del 1947, non è stata molto frequente e proprio per questo si è
parlato di rimozione dalla memoria collettiva di un momento imbarazzante della
storia patria. Dopo il romanzo del 1947 Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, seguito
nel 1961 da Settimana Nera di Enrico Emanuelli bisognerà aspettare gli anni 90
perché il tema riappaia cospicuo nella narrativa (tra gli altri ne hanno scritto Angioni,
Lucarelli, Marrocu, Longo, Ghermandi, Scego, Camilleri) e nel cinema (per esempio
Tempo di uccidere del 1989, Il leone del deserto del 1979, Adwa: An African Victory,
del 1998, El Alamein. La linea del fuoco del 2002 e Le rose del deserto del 2006). Ci
sono inoltre delle opere in cui il colonialismo italiano è trattato come tema
marginale, ma comunque significativo, per esempio nel romanzo di Piero Chiara La
stanza del vescovo 1976 e nell’omonimo film o in alcuni testi di Gian Carlo Fusco
(Guerra d’Albania 1961). Lo studio dei modi di rappresentazione del colonialismo
italiano è rivolto a determinare il ruolo svolto consapevolmente o meno dagli artisti
nella costruzione dell’identità nazionale.

Benvenuto Lobina in Po cantu Biddanoa (Lobina 2004 [1 ed. 1987]) e Giulio


Angioni in Millant’anni (Angioni 2002) offrono una rappresentazione molto diversa
del colonialismo italiano che converge però in un elemento chiave: il punto di vista è
quello di personaggi subalterni che hanno difficoltà ad avere un'idea chiara, una
comprensione appena più che residuale di quanto era accaduto, di quanto era loro
accaduto. Luciano Marrocu in Debrà Libanòs (Marrocu 2002) affida il suo racconto
della partecipazione italiana all’impresa coloniale a dei personaggi che, in quanto
impiegati della polizia del regime fascista, hanno una conoscenza ‘dall’interno’ dei
meccanismi e dei significati politici del colonialismo.
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Po cantu Biddanoa, pubblicato in italiano e in sardo campidanese, è un


affresco corale, una rappresentazione con intenzioni epiche di una piccola comunità
sarda storicamente caratterizzata da un isolamento geografico e culturale che
assume, nell'immagine che ne dà Lobina, dimensioni metafisiche. Le vicende
raccontate nel romanzo spaziano all'incirca dal 1918 al 1941, con alcune sortite nei
periodi precedenti o seguenti (la deforestazione della Sardegna nell'Ottocento; la
costruzione di infrastrutture come dighe e rete elettrica negli anni Cinquanta del
Novecento), e hanno al loro centro, a fungere da raccordo tra i numerosi quadri e
lacerti di storie che affollano le pagine del libro come affollano la memoria del
narratore, due protagonisti, un personaggio umano, Luisicu, e un elemento
urbanistico, Sa Prazzitta (Pirodda 2004).
La narrazione si apre con il ritorno di Luisicu, reduce pluridecorato dalla
Grande Guerra, accolto da Sa Prazzitta in festa, e si chiude con le voci che da Sa
Prazzitta trattengono Luisicu dal suicidarsi proprio quando stava per buttarsi in un
precipizio. Tra i due estremi ci sono circa vent'anni di storia di questo paesino
arroccato su una remota collina, e il tentativo da parte del narratore di rendere
giustizia a un mondo ormai scomparso, che è stato il suo mondo.
Romanzo memoriale, scritto con l'esplicita intenzione, da parte dell'autore, di
ritrovare nel passato un insieme di valori della cui esistenza lui stesso non era stato
consapevole mentre in quel passato viveva, Po cantu Biddanoa è attraversato da due
opposte linee di tensione, due diverse letture, per così dire, che si intrecciano e si
contraddicono dall'inizio alla fine. Da un lato c'è la convinzione che la caratteristica
principale di Biddanoa e dei suoi abitanti sia la sonnolenza, l'indolenza, la tendenza a
perpetuare dei modi di vivere sentiti come immutabili; dall'altro c'è l'assioma da cui
proviene il titolo stesso del libro:
Per quanto Biddanoa fosse un paese sonnacchioso, pigro, senza alcuna
voglia di mettersi al passo con gli altri paesi, Biddanoa era in Sardegna, e
la Sardegna, ci piaccia o no, è in Italia. Per questo di tutto ciò che
accadeva in Italia qualche schizzo arrivava anche a Biddanoa. (30)

Qualcosa di più, evidentemente, che qualche schizzo, se il paese si trova


prima costretto a offrire la sua parte di carne da cannone al grande macello del '15 -
'18, assiste poi al diffondersi di movimenti politici nuovi come il combattentismo e il
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sardismo promossi, tra gli altri da Emilio Lussu, per poi trovarsi attivamente coinvolto
nelle trasformazioni imposte dall'avvento del fascismo con, al di là delle adunate e
delle carnevalate in divisa di balilla, di giovani italiane e di avanguardisti, novità non
irrilevanti quali l'istruzione elementare obbligatoria per tutti, l'acquedotto, l'arrivo in
paese del sistema bancario, e infine la partecipazione all'avventura coloniale in Africa
Orientale e il nuovo salasso di vite e di risorse che fu la Seconda Guerra Mondiale.
Biddanoa vuole dormire, e punisce severamente chi dal suo sonno tenta di
svegliarla, come Su Maistu.
O forse Biddanoa dormiva da tempi più remoti ancora, da quando i figli e
i figli dei figli di coloro che stavano in quel nuraghe che si era confuso
con le case, non si erano più voluti muovere da quel luogo che a loro era
sembrato bello, e bello era ancora. Un luogo dove si poteva vivere e
dormire, dormire.
No, Su Maistu non avrebbe mai dovuto tentare di svegliare Biddanoa, né,
in ultimo di vestirla a maschera, con quella camicia nera come l’inferno:
cose che aveva pagato con la vita. (405)

Questo concetto viene ribadito di continuo nel romanzo,


Biddanoa era un paese sonnolento. Biddanoa era una “mammesonnu”
appiccicata al monte come una “mammesonnu” alla parete. (125)

E prova a dirmi ancora che Biddanoa era un paese sonnacchioso, una


“mammesonnu” con tutte queste società e associazioni che adesso vi si
potevano contare. (153)

La “mammesonnu” non riusciva a comprendere come avesse potuto


svegliarsi a quel modo, con sangue e con catene. (437)

ma non è solo una constatazione dall'esterno, nei limiti del possibile


"oggettiva" da parte del narratore, quanto piuttosto l'espressione di un desiderio
interno alla narrazione e al narratore, di un sogno di immobilismo e conservazione
che vede nel torpore atavico biddanoese la salvaguardia di un'identità sempre
sfuggente, sempre in pericolo.
Il narratore di Po cantu Biddanoa, infatti, non si limita a organizzare le fila
della trama, ma è parte in causa, non solo come il personaggio, centrale ai fini del
nostro discorso, del figlio di "Su Buttegheri", ma soprattutto come voce narrante che
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avanza sul proscenio usando la prima persona, che si lancia in apostrofi liriche al
paese e ai suoi abitanti, che funge da tu al quale in diverse occasioni i personaggi si
rivolgono, raccontando la loro versione dei fatti. Un tema ricorrente in queste sezioni
narrative direttamente affidate alle effusioni della voce narrante è quello della
bellezza e magia dello spettacolo offerto dalle donne che di ritorno dalla fontana di
Giuanneddu, fuori del paese, attraversano Sa Prazzitta con passo veloce, la testa alta
e dritta a reggere le brocche colme d'acqua poggiate sul cercine, mentre fianchi e
braccia oscillano in incantevole armonia, ammaliando gli uomini che in piazza
trascorrono la sera. Quando, come provvidenza fascista, viene costruito un piccolo
acquedotto che porta in paese l'acqua della Funtanedda, una sorgente vicina, ma
dall'acqua di scarsa qualità, le donne continuano a caracollare con le loro brocche
per portare l'acqua buona della sorgente di Giuanneddu, e così commenta il
narratore:
Grazie a Gandolfo [il prefetto fascista] e all’acqua poco buona
dell’acquedotto, questo spettacolo in Sa Prazzitta era durato ancora per
molti anni. E a me piacerebbe credere che duri ancora. [corsivo nostro]
(p. 187)

Il microcosmo rappresentato da Lobina in Po cantu Biddanoa è un mondo


tremendo, governato da rapporti di forza violenti, segnato da una netta
sperequazione sociale tra il ridottissimo ceto dei piccoli proprietari e dei funzionari, e
tutti gli altri, della cui vita fa parte costante il rischio di morire di fame. È un mondo
in cui la solidarietà umana si esprime con lo scherno e lo sberleffo riversati sul
banditore Domianu, che resta zoppo a causa di un incidente, e da tutti viene
chiamato, non certo per complimento, Debolezza, fino a quando la lotta eroica del
suo cane Lioni contro un toro selvatico fa sì che, in omaggio al coraggio del cane, al
suo padrone venga restituito il suo nome di battesimo. Analfabetismo e ignoranza
regnano sovrani, e con essi l'assoluta impossibilità di una qualsiasi coscienza politica,
e infatti la piccola sommossa del 1932 è chiaramente motivata dall'ostilità verso le
forme nuove di oppressione sopraggiunte in era fascista, ma è assolutamente priva
di sbocchi e prospettive.
E tuttavia questo mondo che vorrebbe restare cristallizzato nel suo torpore
atavico viene trasfigurato nel romanzo in una comunità ideale alla quale guardare
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con nostalgia e rimpianto, in un universo mitico, scomparso ma ancora e sempre


esemplare.
Come spesso accade nella narrativa e in generale nella cultura identitaria, il
recupero del passato si risolve in recupero della tradizione, o meglio in invenzione
della tradizione, con conseguente reinvenzione del passato, non senza effetti nella
mistificazione del presente.
Eppure, proprio l'incrocio di queste due linee contrastanti, e cioè da un lato
della constatazione del pervenire, perfino a Biddanoa, degli "schizzi" di quanto
accadeva nel resto del mondo, e dall'altro del riconoscimento del torpore e
dell'immobilismo come caratteristiche metafisiche di questa particolare comunità,
proprio questo incrocio costituisce il punto di forza del romanzo di Lobina, che riesce
a dare forma a una contraddizione che non è solo imputabile a una carenza
ideologica dell'autore, ma è ben riscontrabile nella realtà storica che egli
rappresenta. È vero che Biddanoa, come evidentemente molte altre comunità rurali
della Sardegna, ha attraversato negli ultimi decenni mutamenti epocali, che ne
hanno fatto delle realtà drammaticamente diverse da ciò che erano state per secoli,
ma è probabilmente anche vero che queste trasformazioni sono state subite
passivamente e anzi vissute come un'imposizione dall'esterno, e quindi come un
cataclisma identitario. E il "combinato disposto" di questo intreccio è
sostanzialmente l'incapacità di affrontare politicamente le sfide del presente, per
concentrarsi invece in un velleitario identitarismo.
Il contesto narrativo che abbiamo brevemente riassunto va tenuto presente
nel momento in cui si deve prendere in esame il modo in cui l'avventura coloniale
italiana fa la sua comparsa nel romanzo, e la fa attraverso una figura non secondaria,
e cioè lo stesso narratore. Di leva a Sassari, il giovane tanto fa e tanto manovra che
ottiene di partire volontario in Etiopia e di fare l'intera campagna. Al ritorno lo
accoglie, classicamente, la mitica Prazzitta che, nelle persone dei reduci del '15 - '18,
lo interroga sulle sue esperienze militari. Una volta superati i convenevoli sul calibro
dei fucili, sul peso dei treppiedi, sulle migliaia di chilometri percorsi in salita e in
discesa, il punto chiave dell’incontro-scontro tra il nuovo reduce e Sa Prazzitta si ha
quando il giovane deve ammettere che la strenua resistenza degli abissini sulla
posizione imprendibile dell'Amba Alagi gli italiani la poterono spezzare solo grazie
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all'uso dell'iprite, il gas tossico che i vecchi reduci avevano conosciuto e odiato
quando era stato usato dai tedeschi nelle convulsioni disperate della fase finale della
Grande Guerra.
I vecchi combattenti non avevano fatto altre domande, e il figlio di Su
Buttegheri aveva finito il suo racconto con la parola maledetta. Poi era
tornato a casa, pensieroso: rivedeva gli abissini dell’Amba Alagi sdraiati
per terra dove passava il battaglione, uomini e donne ustionati
atrocemente, bambini seminudi con le carni piagate, a brandelli, che
pendevano dai corpi sfigurati. Muti chiedevano aiuto con gli occhi, e tu
camminavi vergognoso cercando di non vedere, perché ti sentivi anche
tu colpevole delle sofferenze di quei poveretti, ma non potevi far nulla
per aiutarli.
“Infermiere, non puoi fare qualche cosa, un po’ di pomata, una benda...”.
“Ma se non ho un cazzo, ho solo un po’ d’alcool. Ho provato a buttarglielo
sulle piaghe e stavano diventando pazzi. Io non posso farci nulla, e tu
fottitene”.
Quando era entrato in casa, serio, Tia Pissentica l’aveva guardato
socchiudendo appena gli occhi, come se avesse sentito ciò che aveva
raccontato e gli avesse letto dentro:
“Mi sembra che te n’è passata la voglia”.
Non aveva risposto. Dalla porta a vetri si vedeva Sa Prazzitta, deserta nel
buio incombente, muta, atterrita. (471-473)

Il figlio di Su Buttegheri era andato in Africa per entusiasmo fascista, non


spinto dal bisogno e anzi contro la volontà della madre, Tia Pissentica, da sempre
visceralmente antifascista.
L'episodio ha un risvolto immediatamente biografico. Lobina lo racconta nel
corso di una lezione tenuta all'Università di Cagliari il 17 dicembre 1990
Durante l'avanzata dell'Amba Alagi passando con il mio battaglione ai
lati della strada … hanno detto che non sono stati buttati i gas in Africa
Orientale, eccome sono stati buttati: l’Amba Alagi l’hanno presa con i gas
perché quelli sarebbero stati in grado di difendersi rotolando massi dalla
cima delle montagne e allora li hanno snidati con l’iprite) … ai lati della
strada vedere questi poveretti con le carni lacerate dal gas, senza cure,
senza niente. Lì ho chiuso col fascismo. Io ho chiuso col fascismo, visto
che cos’era finalmente ho aperto gli occhi.
Finita la guerra torno in paese. Tutti andavano a Sa Prazzitta a
raccontare le loro cose, c’erano prima i combattenti della guerra 15-18,
poi sono arrivato io e ho dovuto raccontare. Una specie di esame: “Tu
che armi avevi?” “Ah, eri Battaglione mitraglieri: che mitragliatrice
avevi?”Fiat 14 con raffreddamento ad acqua come avevate voi” “Che
fucile?” “Il solito 91”.
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Poi ho detto dell’iprite. I combattenti della guerra avevano un terrore


sacro perché alla fine della guerra i tedeschi avevano buttato l’iprite. Con
l’iprite ne erano crepati un sacco. Sono tornato a casa un po’ avvilito e
mia madre, antifascista per la pelle "T'ind'è passà da sa gana?" Anche
questo episodio è passato nel romanzo. (Marci 1991, 70 )

Il contatto del giovane Lobina con gli effetti dell'iprite sulla popolazione
abissina fu evidentemente un'esperienza centrale nella vita dell'autore, se egli dice
che fu quella che gli aprì gli occhi sul fascismo e lo fece diventare antifascista.
Tuttavia nel racconto che ne fa agli studenti cagliaritani, vicinissimo a quanto già
aveva scritto nel romanzo, c'è una strana contraddizione. Dopo aver raccontato delle
vittime del gas, dice: "lì ho chiuso col fascismo. Io ho chiuso col fascismo; visto che
cos'era, ho finalmente aperto gli occhi". Poco dopo, però, riferisce dell'incontro coi
vecchi reduci in Sa Prazzitta, e della loro reazione quando sentono la parola iprite, e
aggiunge: "Sono tornato a casa un po' avvilito e mia madre, antifascista per la pelle,
[...]". Se la constatazione della bestialità fascista evidente nell'uso dei gas lo aveva già
allontanato dal fascismo, ci saremmo aspettati che il giovane Lobina non avesse
bisogno della riprovazione dei vecchi reduci per sentirsi avvilito di aver partecipato a
quell'orrifica impresa. Anzi, lui stesso avrebbe dovuto raccontarla mettendone in
evidenza il lato negativo, ben più importante dei dettagli tecnici sugli armamenti e i
loro treppiedi su cui invece inizialmente la conversazione sembra bamboleggiare.
Questa contraddizione nel resoconto direttamente biografico, che manca nel
brano del romanzo, dove non si parla dell'allontanamento del figlio di Su Buttegheri
dal fascismo, sembra suggerire che quella presa di coscienza forse non fu così
immediata e netta come l'autore dichiara, e richiese forse molto più tempo e
ulteriori esperienze, per esempio quelle della Seconda Guerra. Non stiamo
sottolineando questa contraddizione nel racconto biografico di Lobina per il gusto di
mettere in evidenza un errore, ma perché pensiamo faccia corpo con una
caratteristica più generale dei personaggi del romanzo, e dello stesso narratore: la
difficoltà da parte dei personaggi di elaborare una coscienza politica delle vicende
delle quali loro stessi erano stati protagonisti. Questo è il caso del figlio di Su
Buttegheri per quanto riguarda i gas tossici in Africa Orientale, ma questo è anche il
caso dell'eroe Luisicu, aiutante di battaglia del capitano Lussu, che nulla capisce della
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guerra che ha combattuto, nulla capisce delle evoluzioni sardiste e fasciste del
dopoguerra in cui si trova suo malgrado coinvolto, poco infine capisce della nuova
catastrofe che si abbatte su di lui e sulla sua famiglia con la Seconda Guerra, che gli
uccide due figli. La sua ultima reazione, defecare cerimonialmente sulla camicia nera
e tentare il suicidio, è una reazione istintiva, cieca, come in genere cieco e istintivo è
stato il suo agire, a iniziare dalla fedeltà canina al capitano Lussu. E poco capisce
l'altro grande protagonista del libro, Sa Prazzitta, ombelico di Biddanoa e del mondo,
usa a sentire le chiacchiere dei reduci e dei perditempo, costretta a sentire la Voce di
Mussolini e di Su Maistu, i bandi di Domianu/ Debolezza con o senza l'autorizzazione
del sindaco o del podestà. Sa Prazzitta è e resta il luogo dell'identità del paese, il
punto d'incontro di tutti coloro che a Biddanoa appartengono o che vi si vogliono in
qualche modo inserire (per esempio due confinati, un mafioso e un "politico", che vi
approdano loro malgrado). Ma Sa Prazzitta anche è e resta politicamente assente,
irresponsabile e irresponsiva, e anche in questo fa il paio con Luisicu e simboleggia il
paese contraddittorio di cui è il centro.

Diverso da quello di Lobina è l'approccio di Giulio Angioni, che tocca


rapidamente il tema del colonialismo italiano in un capitoletto di Millant'anni.
Emblematico è già il titolo, “Meglio non parlarne”, che nella sintesi estrema della
locuzione idiomatica sembra esprimere l'impossibilità di trattare a fondo un tema la
cui elaborazione fuoriesce dalle possibilità dell'uomo comune, di quello stesso uomo
comune che però infine è chiamato a sostenere tutto il peso della guerra coloniale
così come di ogni altra guerra.
Ecco perché Angioni presenta “Meglio non parlarne” in dittico con un altro
brevissimo, fulminante capitoletto, “Questa notte ho sognato lo slavo”, dedicato non
all'esperienza della guerra africana, ma a quella della Grande Guerra. Qui non ci sono
eroiche Brigate Sassari, orgoglio dell'esercito italiano, non ci sono mitici capitani
Lussu e pluridecorati aiutanti di battaglia, le cui gloriose imprese vengono ripetute di
bocca in bocca fino a diventare leggenda e favola C'è invece la ferita immedicabile
dell'anima, la consapevolezza di una colpa senza rimedio e senza riparo, che
nemmeno i conforti religiosi, lo stratagemma della cattolica confessione, possono
sanare. Con un voluto rovesciamento di un episodio famoso di Un anno
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sull'altipiano,1 il protagonista uccide a sangue freddo un soldato nemico. Lo uccide


mentre questi sta fumando un sigaro. Lo uccide senza un perché, o meglio, a causa di
troppi perché, a causa di una carica di odio, paura, diffidenza, vigliaccheria,
alimentata da un'infinità di cause esterne, da un concorso di influenze psicologiche
potenti e ineludibili vissute e respirate nell'atmosfera di una guerra ferocemente
combattuta. Ma aldilà di tutto questo, resta la coscienza dell'atto commesso e con
essa il senso di colpa:l'immagine dello slavo che, colpito dall’inattesa pallottola
sparata appunto dal protagonista, ancora dopo morto continua a fumare il sigaro,
simbolo di un momento di pace, di tregua, di distacco dalla belligeranza.
Quest'immagine ossessiva, sarcasticamente minacciosa, non solo simboleggia ma
propriamente è la condanna perpetua a cui è sottoposto il reduce della prima guerra
protagonista di questo racconto.
In anni più recenti Paesi più moderni e civilizzati e civilizzatori di
quanto non fosse l'Italia che usciva dalla Grande Guerra si sono preoccupati e si
preoccupano di sostenere i reduci che tornano devastati nel fisico e soprattutto nel
morale da azioni militari condotte in ogni parte del mondo, in genere per nobili
motivi, quali la difesa della pace e della democrazia, e offrono loro, oltre che
carrozzelle a motore e protesi di ultima generazione, anche programmi di recupero
psicologico che fanno largo uso di ogni tipo di arte, visiva e musicale, in vista di un
reinserimento nella società, nella cosiddetta vita civile.
Non così fortunato, il reduce raccontato da Angioni resta solo col suo
incubo, con il fumo del sigaro dello slavo che continua a levarsi in bianche nuvolette
anche dopo che la mano omicida ha senza motivo premuto il grilletto.
“Meglio non parlarne”, raccontino di due pagine tese e concentrate,
costituisce quasi un controcanto a questo dello slavo già per la sua struttura
apparentemente lasca. Inizia con un elenco delle guerre combattute dall'Italia nel
Novecento fatto dal punto di vista del narratore protagonista
Quella turca di Libia nell’Undici: vinta
Quella grande del Quindici-Diciotto: vinta.
Quella sporca d’Abissinia: vinta
Quella nera di Spagna: vinta

1
Si veda la nostra interpretazione del volume di Lussu in Franco Manai, « Guerra in trincea
e guerra in televisione nei romanzi di Emilio Lussu e Silvia Ballestra », Cahiers d’études italiennes,
3 | 2005, 29-55.
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La seconda mondiale: lasciamola perdere. Tanto più persa di così…

prosegue con una notazione sul rapporto di sostanziale estraneità tra gli
abitanti del paesino di Fraus -- mitico palcoscenico delle storie raccontate nel
volumetto -- e le varie guerre nelle quali era inopinatamente toccato loro
combattere, passa poi a parlare della sua partecipazione alla guerra d'Etiopia come
volontario e ne spiega la causa. Salta poi alla situazione del secondo dopoguerra,
riassunta in un ironico scambio di battute tra lui e un compaesano, e chiude con una
triviale facezia in versi.

Le guerre, non bisogna parlarne, se no ritornano. Io ci giro intorno.


Tripoli bel suol d’amore… Il Piave mormorava… Faccetta nera… Lili
Marlene… Le cantavamo partendo sulle navi anche noi che Fraus
sapevamo bene solo le direzioni del vento […]

E ho ucciso anch’io. Meglio non parlarne.


Ogni volta io mi sentivo imboscato perché vivo. Poi tradito. Poi beffato.
Ogni volta. Succedeva a tutti. Il dopoguerra non è meglio della guerra.
Sono anche andato volontario in Africa Orientale. All’inizio, ranghi
serrati, ordine chiuso, quadrate legioni, alla fine tutti e tutto fuori posto,
ranghi bucati, pidocchi e pulci, febbre spagnola e vedove con orfani.
Meglio non parlarne.
Tanto finite le guerre, invecchiano le storie. (141-142)

Che cos'è stata dunque la guerra africana per questo bovaro sardo, che in
queste pagine si racconta a un invisibile intervistatore, forse a un curioso
antropologo?
Nella ritmata concisione della prosa di Angioni in cui viene in poche righe
riassunta l'epopea abissina, nessuno spazio, nemmeno un interstizio viene lasciato a
una visione anche solo parzialmente celebrativa di una guerra che rappresenta in
realtà tutte le guerre, o almeno tutte le guerre apertamente o larvatamente
coloniali.
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Un mese dopo ero in Africa Orientale nel genio zappatori, non di fave. Il
mio tenente diceva: -- Siamo qui per vivere davvero – E lui è morto
subito, di un morso di scorpione. Meglio non parlarne.

La battuta sardonica “nel genio zappatori, non di fave” prepara l’amarezza del
paradosso del tenentino che convinto di essere in Africa per iniziare davvero,
futuristicamente, a vivere, non ha nemmeno la soddisfazione di una bella morte in
battaglia: muore del morso di uno scorpione, come sarebbe potuto morire di lebbra
o di malaria.
Le poche righe che abbiamo letto, in cui viene distillata l'esperienza
della guerra, incorniciano il racconto del motivo che ha spinto il bovaro a arruolarsi
volontario, e cioè il desiderio di sottrarsi alle angherie e alle prepotenze del padrone,
arrivato a punirlo, insultarlo e mortificarlo per aver osato alzare gli occhi su un'altra
serva: Qui in casa mia, proclama il padrone dall'alto del suo cavallo, a fottere siamo
solo io e il gallo, che sia chiaro.
Ebbene, se la motivazione per imbracciare il fucile africano era stata
data dal desiderio di affrancamento da un rapporto di pesante oppressione sociale, il
risultato era stato evidentemente ben diverso dalle attese, se ancora nel dopoguerra
e dopo il Piano Marshall, il protagonista si trova ancora e sempre "disoccupato
cronico", costretto a consolarsi con battute e freddure, insieme al compaesano,
probabilmente altrettanto sfortunato, Antoniccheddu Vargiu. E, apparentemente
all'insegna del palo in frasca, il capitoletto si chiude, come abbiamo detto, con una
facezia attribuita appunto a Antoniccheddu:

La notte in cui fu concepito il duce


Rosa sorpresa da una dubbia luce
Se avesse offerto al fabbro predappiano
Invece del davanti il deretano
L’avrebbe presa dietro quella sera
Ma lei soltanto e non l’Italia intera. (144)

L'incoerenza rispetto al resto del racconto e il brusco abbassamento di tono,


evidente soprattutto se si pensa all'estrema rarefazione della prosa del capitoletto
precedente, di cui si è detto, vogliono sottolineare un problema centrale nel mondo
narrativo di Angioni, che è quello dell'impossibilità, per le classi subalterne, di
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arrivare a una comprensione articolata della realtà tale da sostenere l'elaborazione


di una risposta politica a una situazione di oppressione.
Sia il protagonista di “Questa notte ho sognato lo slavo” sia quello di “Meglio
non parlarne” sono, con tutta evidenza, esponenti appunto di quelle classi
subalterne, prive di cultura e prive quindi della possibilità di lottare in maniera
efficace contro un'ingiustizia percepita, ma non davvero capita nelle sue dinamiche.
Il rapporto con la guerra e con la guerra coloniale in particolare, non poteva che
essere un rapporto di incomprensione, sofferta e dolorosa, ma pur sempre
incomprensione. A distanza di anni, e nonostante l'alfabetizzazione, anche digitale,
universalmente diffusa, si potrebbe pensare che il subalterno raccontato da Angioni
sia ancora tra noi.
In Debrà Libanòs Luciano Marrocu mette al centro della narrazione il tema
del colonialismo italiano e lo ritrae dal punto di vista dei colonizzatori. È il secondo
romanzo di una serie poliziesca i cui protagonisti sono una coppia di investigatori,
Luciano Serra e Eupremio Carruezzo, che lavorano per l’OVRA, la polizia segreta
fascista. La serie è stata inaugurata da Fáulas (Marrocu 2000), ambientato tra la
Sardegna e Roma, e dopo Debrà Libanòs c’è stato Scarpe rosse, tacchi a spillo
(Marrocu 2004) ambientato nella Roma del dopoguerra dove i due investigatori
hanno ovviamente lasciato l’OVRA e Serra, avvocato da cause per sfratti e litigi
banali, ha assunto l’ormai settantenne Carruezzo come giovane di studio. La serie
continua con Il caso del croato morto ucciso (Marrocu 2010), Farouk (Marrocu 2011),
Affari riservati (Marrocu 2013) e Omicidio a Palazzo Valdés (Marrocu 2017),
ambientato nella Cagliari degli anni 30. Ufficialmente fascisti, addirittura
appartenenti al corpo più temuto e repressivo del regime, la polizia segreta, il
commissario Carruezzo e l’ispettore Serra conservano un loro distacco, specialmente
quest’ultimo che in Omicidio a Palazzo Valdés si autodescrive così “Quanto a Serra,
soffriva di una perpetua nausea. Un malessere su cui aveva interpellato i medici per
poi scoprire che l’unica vera causa era il pensiero di se stesso. Da qualche mese, la
mattina, appena alzato Serra vomitava. Vomitando si liberava del pensiero che il
fascismo fosse solo una chiamata a raccolta per prepotenti e sadici e che lui avrebbe
voluto non essere coinvolto, come invece era, in quella squallida faccenda” (Marrocu
2017, 154-155).
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In Debrà Libanòs Serra e Carruezzo sono incaricati di scoprire l’assassino


del tenente Bellassai, ucciso a Addis Abeba poco tempo dopo l’attentato contro il
viceré Graziani (19 febbraio 1937) e la feroce repressione che ne era seguita. Nel
corso delle indagini Serra e Carruezzo fanno una piena immersione nella comunità
italiana locale, con ciò dando il destro all’autore di offrire una dettagliata panoramica
storica della vita della capitale africana dell’impero italiano. È un piccolo mondo
chiuso e come inselvatichito, abitato da corruzione, frivolezze e privilegio. Di
incontro in incontro, di colloquio in colloquio, sempre meglio si delinea la figura
dell’assassinato Bellassai. E tra lettere anonime e pronunciamenti di veggenti, i due
investigatori finiscono per scoprirne il coinvolgimento di primo piano in una delle
pagine più nere della storia coloniale italiana, la strage di circa 1000 monaci copti
effettuata nella città monastero di Debrà Libanòs sulla base del vago sospetto che gli
attentatori a Graziani avessero qualche rapporto con uno o due monaci. Alla fine il
colpevole dell’assassino del tenente Bellassai viene trovato, ma riesce a sfuggire
all’arresto senza d’altra parte che questo dispiaccia davvero a nessuno, dato il
giudizio decisamente negativo che ormai con chiarezza si delinea sulla vittima. Il
movimento del romanzo di Marrocu è circolare e gravita tutto intorno all’infame
episodio di Debrà Libanòs, che risulta quindi essere, simbolicamente, quasi il grumo
centrale di un’infezione che si irradia su tutte le membra del corpo sociale
circostante e che alla fine contagerà gli stessi eroi investigatori. Serra e Carruezzo,
dopo la fuga dell’assassino, tornano in Italia e il loro viaggio di ritorno è all’impronta
di una malinconica tristezza. Essi hanno ormai visto qual è il significato della tanto
sbandierata avventura coloniale italiana. Hanno quasi potuto toccare con mano la
ferocia senza limiti con la quale era sempre pronta la repressione. Hanno constatato
la stupidità e la pochezza dei massimi vertici di comando: sanno ormai di che lacrime
grondi e di che sangue la costruzione dell’impero.
Da tutto quel che Serra e Carruezzo scoprono su di lui, il tenente Bellassai è
un bel giovane, certo molto vanesio, scioperato, donnaiolo e giocatore d’azzardo,
comunque non quello al quale si penserebbe come il prototipo dell’assassino
sanguinario. Eppure tale si rivela non appena ne ha l’occasione, e non lascia dubbi la
descrizione della strega-medium, che lo presenta come il diavolo bianco che si aggira
con la pistola in pugno tra i corpi dei monaci di Debrà Libanòs morti e feriti, pronto a
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finire quelli scampati alle prime raffiche. Dai resoconti storici sappiamo che
l’attentato a Graziani offrì il destro a un numero impressionante di “normali” italiani
(commercianti, impiegati, artigiani) di portare alla luce una ferocia che forse loro
stessi non sospettavano di possedere, quando per tre giorni furono incoraggiati a
abbandonarsi a pestaggi e massacri assolutamente impuniti.
Tutto questo ci rimanda al grande archetipo della letteratura coloniale, Cuore
di tenebra di Joseph Conrad (1899), mediato, nella letteratura italiana, quasi soltanto
da Tempo di uccidere, il romanzo di Ennio Flaiano apparso nel 1947.
Il cuore di tenebra del libro di Conrad non è il centro dell’Africa Nera, in cui si
svolge la maggior parte della vicenda, bensì il centro del continente bianco, le mai
nominate Londra e Bruxelles, nelle quali il romanzo inizia e finisce. È qui, sulle
sponde del Tamigi e nella quieta “città imbiancata” che la civile e raffinata Europa
organizza con freddo raziocinio lo sfruttamento senza scrupoli di un continente privo
di difese, e produce lo squallore e l’abietta miseria che Marlow incontra in Africa e in
cui è sprofondato Kurtz.
Tuttavia in Kurtz sussiste una forma di sia pur perverso eroismo, e
precisamente l’eroismo dello sguardo impavido, l’eroismo di chi ha il coraggio di
guardare la verità senza infingimenti e senza orpelli. Si tratta di un tratto tipico della
mitizzazione della cultura occidentale, di una sorta di un imperialismo della
conoscenza, dove l’atteggiamento imperialistico comincia innanzi tutto proprio con
questo sguardo temerario, rapace, che si affisa su un oggetto per appropriarsene,
farlo proprio intellettualmente e poi concretamente (Domenichelli 1998). Pur nella
sua abiezione morale, dunque, Kurtz, mantiene un’aura di eroismo della conoscenza:
è con lui che lo spettatore e il lettore si identificano.
I protagonisti del romanzo di Marrocu, in particolare Serra, col quale il
pubblico è invitato a identificarsi, non offrono il minimo spunto di eroismo di nessun
tipo, neanche quello morboso e sulfureo dei protagonisti di Conrad. L’avventura
coloniale dell’Italia si mostra in tutto e per tutto quello che è: l’esportazione in terra
straniera della malattia di fondo dell’Occidente, la predisposizione alla sopraffazione
appropriatrice.
In Debrà Libanos Serra e Carruezzo, e il loro aiutante Cicalò, sono dei
personaggi positivi, ma non possiedono neanche lontanamente la statura dell’eroe,
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molto meno quella dell’eroe dall’impavido sguardo che si fissa intensamente e senza
paura sulla verità.
In definitiva, anche questi personaggi borghesi e acculturati condividono con i
rustici protagonisti delle narrazioni di Lobina e di Angioni una sorta di pesante
miopia, che ne condiziona il rapporto col mondo. Tutti riescono a vedere con
chiarezza ciò che è impossibile non vedere, la brutalità e l'inumanità dell'oppressione
coloniale, ma questo non comporta nessuna ulteriore riflessione, soprattutto non
porta a nessuna coerente presa di posizione politica. Il disgusto per la guerra si
risolve in tutti e tre i casi in una confusa percezione, mentre la mancata elaborazione
ideologica resta a segnare amaramente il limite d'azione e di reazione di una società
ripiegata nella sconfitta.

Angioni, Giulio. 2002. Millant'anni. Nuoro: Il Maestrale.


Domenichelli, Mario. 1998. "Il contagio della terra straniera (Kipling, Conrad, Gide,
Céline, Malraux, Flaiano)." In Lo Straniero, edited by Mario Domenichelli and
Pino Fasano, 645-660. Roma: Bulzoni.
Lobina, Benvenuto. 2004 [1 ed. 1987]. Po cantu Biddanoa, Bibliotheca sarda. Nuoro:
Ilisso.
Marci, Giuseppe. 1991. Romanzieri sardi contemporanei. Cagliari: Cuec.
Marrocu, Luciano. 2000. Fáulas. Nuoro: Il maestrale.
Marrocu, Luciano. 2002. Debrà Libanòs Nuoro: Il Maestrale.
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Marrocu, Luciano. 2010. Il caso del croato morto ucciso. MIlano: Baldini Castoldi
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Marrocu, Luciano. 2011. Farouk. Milano: Baldini Castoldi Dalai.
Marrocu, Luciano. 2013. Affari riservati. Milano: Baldini Castoldi Dalai.
Marrocu, Luciano. 2017. Omicidio a Palazzo Valdés. Tresbaseleghe (PD):
DBInformazione S.p.A.
Pirodda, Giovanni. 2004. ""Paese della storia" e "Paese dell'anima"." In Po cantu
Biddanoa di Benvenuto Lobina edited by Giovanni Pirodda, 7-21. Nuoro:
Ilisso.

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