di Gabassi
Capitolo 1. La nascita della soggettività lavorativa
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La psicologia del lavoro ha avuto origine in un preciso momento storico cioè alla fine del 1800
quando il capitalismo cominciò a trasformarsi e si preannunciava quella che sarebbe stata la
Seconda Rivoluzione Industriale. Fu proprio in questo periodo che nacque un interesse attorno
alla soggettività lavorativa per reazione ai dilaganti miti scientisti e obiettivisti.
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risorse naturali ed umane.
Nel primo periodo l'atteggiamento del padronato nei confronti della manodopera era di
indifferenza (crudeltà verso la popolazione operaia). Ma verso la fine del secolo ci si accorge
che la manodopera non è inesauribile ed è cara. Gli operai si organizzano per difendere il
proprio valore sul mercato del lavoro. Nel 1850 si può affermare che la situazione della classe
lavoratrice fu di gran lunga migliore di quanto non fosse mai stata in qualsiasi periodo
precedente. In questa realtà di cambiamento (fine del XIX secolo e inizi del XX) si inserisce la
nascita del primo grande sistema di organizzazione scientifica del lavoro: il TAYLORISMO.
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disturbo del comportamento volontario che si manifesta con l'incapacità patologica di iniziare
o portare a termine le proprie azioni, anche se l'abulico desidera farlo.
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lavoratori della catena ma solo per coloro che non nutrivano ambizioni, in poche parole i poco
intelligenti e gli ottusi. Vi era quindi qlcs di vero in una cinica frase pronunciata da Ford in cui
“la maggioranza dei lavoratori ricerca le occupazioni che non li costringono a pensare”.
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Ogni capo-officina tendeva scaricare parte dei suoi compiti sui vari assistenti i capi-squadra,
visto che effettivamente i compiti erano molteplici. Taylor avanzò così la richiesta di un Ufficio
di Programmazione , che potesse alleggerire i capi officina. Ai capireparto dovevano restare
affidati compiti strettamente esecutivi, mentre l'attività intellettuale veniva eliminata
globalmente dall'officina. Tutto ciò affinché ogni uomo avesse il minor numero di funzioni da
espletare e possibilmente una sola.
L'anima della nuova organizzazione di tipo funzionale risiedeva quindi nell'ufficio di
programmazione.
I risultati avrebbero portato, secondo le previsioni di Taylor, ad innegabili vantaggi globali,
quali la riduzione dell'orario del lavoro e la conseguente possibilità di sviluppare nuove attività
del tempo libero, con un elevamento delle condizioni sociali per tutti.
Non è facile valutare la portata delle tesi tayloriste, soprattutto per quanto riguarda le
considerazioni sull'uomo applicato al lavoro non certo visto secondo una prospettiva biopsichica
ma esclusivamente economicista.
Taylor rimase sempre lontano dalla prospettiva di un reale approfondimento psicologico di
problemi dell'uomo applicato al lavoro. E’ lecito pertanto chiedersi se Taylor dette davvero un
impulso al miglioramento delle condizioni lavorative nell'industria, o fu soltanto l'inventore di
un nuovo sistema di sfruttamento. Però nulla nella sostanza era mutato (critica al taylorismo)
infatti era stato coniato simbolicamente, per rappresentare il super-operaio taylorista, il
termine uomo-bue. Uomo-bue, dunque animale, che meno di prima pensava, che anzi più che
mai veniva invitato a non pensare, delegando ad altri ogni decisione.
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esperimenti sul lavoro e sui rendimenti produttivi eseguiti nel reparto filatura di una grande
azienda tessile nei dintorni di Philadelphia a partire dal 1923.
Majo e i suoi collaboratori vennero infatti chiamati da un'azienda a risolvere il problema del
dilagante turnover (avvicendamento nella manodopera) che affliggeva il reparto dei filatoi
intermittenti.
Esso arrivava al livello critico del 250% durante i periodi di massimo sforzo produttivo, con
evidenti sprechi per la direzione, che si vedeva costretta ad assumere circa 100 nuovi operai
l'anno per poterne impiegare una quarantina appena. Majo aveva notato però che il tipo di
lavoro da essi svolto implicava una sorveglianza continua sulle macchine, ed una attenzione,
che pur essendo elevata, non li assorbiva completamente, cosa questa che poneva i soggetti
in uno stato di continua tensione.
Interventi proposti dall'autore per diminuire il turnover provocato da tale stress riguardarono
l'introduzione, di una pausa di dieci minuti al mattino e di due pause altrettanto lunghe nel
pomeriggio, da decidersi individualmente.
Il turnover scese e la produzione aumentò.
A questo punto la direzione pretese che le pause fossero meritate, ossia concesse unicamente
dopo il raggiungimento degli obiettivi prefissati, nuovamente si ritornò alla situazione critica
iniziale, con turnover altissimo e produzione decrescente. Le pause vennero allora reintrodotte
senza condizioni.
La produzione risalì e il turnover ricadde.
Nella seconda indagine, la più famosa, si iniziò a separare un piccolo gruppo di sei operaie per
valutare più facilmente su di esse l'effetto dei mutamenti delle condizioni lavorative. Venne
istituita la test room.
Essa venne separata dal resto del reparto per mezzo di un separè. L'esperimento durò più di
cinque anni (1927 1932).
Prima di trasferire il gruppo nella test room, si registrarono le produttività delle singole operaie
all'interno del reparto. Una volta trasferite nella test room, le produttività venne registrata
nuovamente senza che fosse stato introdotta alcune miglioria.
Poi vennero introdotte le prime condizioni sperimentale per la durata di otto settimane; queste
consisteva in un nuovo sistema di pagamento. Generalmente le operaie del reparto ricevevano
un salario calcolato sulla base della produzione complessiva di un gruppo di circa 100 operaie.
Con l'innovazione ogni ragazza avrebbe guadagnato una somma più direttamente
proporzionale al proprio sforzo individuale visto che veniva pagata sulla base di un gruppo di
sei anziché di 100.
Cominciarono una serie di test inserendo intervalli di riposo, prima di cinque poi di dieci minuti
ciascuno. Dopo undici settimane la produzione si era stabilizzata ad un livello che era il più alto
fra tutti i precedenti. Concluso il ciclo delle sperimentazioni il primo dato evidente fu che gli
esperimenti avevano portato le operaie a produrre una quantità di relè ben maggiore di quella
registrata inizialmente. Inoltre le ragazze che erano entrate nella test room avevano calato il
turnover allo 80%. Tra i fattori incentivanti esse additavano “la maggior libertà” di cui avevano
goduto nel periodo sperimentale, che veniva identificata nella sorveglianza meno rigorosa e
nella varietà dei ritmi lavorativi. Il dato rilevante era però che nell'ambiente lavorativo si era
creato un clima di gruppo che aveva reso pressoché inutile la sorveglianza sulle operaie;
parallelamente era caduta la tensione nervosa derivante proprio dalla costante presenza di un
supervisore.
Venne istituito un nuovo esperimento. Venne chiesto agli operai di esprimere liberamente un
giudizio sulle misure adottate in materia di sorveglianza dall'azienda. Vennero scelti cinque
intervistatori maschi che avrebbero intervistati maschi i cinque femmine che avrebbero
intervistato le femmine. Essi dovevano garantire a tutti la certezza dell'anonimato. Gli
argomenti affrontati nell'intervista erano i seguenti: paghe, collocamento, economia,
sorveglianza, orari, sicurezza, salute più un'altra ventina di aspetti aziendali. Malgrado la
frammentarietà degli aspetti da ricercare ciò che emerse furono precise lamentele nei confronti
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dell'ambiente di lavoro.
Di tali lamentele si cercò di tenerne conto, attuando alcune innovazioni. Majo osservò
l’importanza di offrire agli operai un traguardo ragionevolmente raggiungibile, che potesse
servire a stimolare il lavoro di routine. Tale traguardo dava agli operai l'opportunità di liberarsi
da una sorveglianza troppo stretta. Inoltre, si era visto che l'uomo era motivato da esigenze di
natura sociale, più che economiche e che otteneva dal confronto con gli altri il proprio senso di
identità personale.
Altro risultato importante fu la nascita di una consapevolezza dei soggetti che erano divenuti
veri protagonisti del proprio ambiente lavorativo. La coscienza di essere valutate attentamente
aveva creato nelle operaie una curiosità crescente verso il proprio lavoro creando quell'effetto
che da allora venne denominato effetto Hawthorne (autore delle ricerche).
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L'organizzazione è la modalità secondo la quale gli organismi viventi formano un complesso
unitario composto da diversi organi (sottosistemi) tra loro interagenti. Inoltre altra
caratteristica delle organizzazioni, è il fatto che esse sono a loro volta sottosistemi di un
sistema più grande che è il sistema sociale; non sono quindi entità isolate ma sono inserite in
un ambiente dinamico con il quale e nel quale hanno rapporti di scambio tra loro. Già Homans
(1950) aveva individuato in ogni sistema sociale, un sistema esterno fatto di attività,
sentimenti e il sistema interno fatto da atteggiamenti, norme di condotta, che si caratterizzano
per un rapporto di dipendenza reciproca e di dipendenza tra loro e l'ambiente.
Interdipendenza tra i sistemi e l'ambiente e tra i sottosistemi è l'elemento distintivo dei sistemi
aperti rispetto ai sistemi chiusi. Tale rapporto consente all'organizzazione la sopravvivenza.
Ogni organizzazione in cambio della propria sopravvivenza fornisce al suo sovrasistema un
contributo che altro non è che l'obiettivo globale dell'organizzazione stessa.
Rice chiama questo obiettivo primary task o compito primario.
Con l'aiuto di Schein (1965) possiamo evidenziare i punti fondamentali dell'analisi sistemica
che hanno rinnovato il concetto tradizionale di organizzazione. Le organizzazioni sono sistemi
aperti in continua interazione con l'ambiente. L'organizzazione è dotata di una molteplicità di
scopi e funzioni che implicano a loro volta molteplici interazioni con l'ambiente.
L'organizzazione è composta da diversi sottosistemi. I legami tra organizzazione ed ambienti
rendono difficile l’individuazione dei confini delle stesse per cui è preferibile parlare di processi
di input e output piuttosto che di dimensioni, forma, struttura.
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stimolare la crescita di strutture organizzative flessibili, che sappiano adeguarsi alle diverse
circostanze.
Esso tenderà a sviluppare sistemi organici piuttosto che meccanici.
Lo scopo dello sviluppo organizzativo è dunque trovare per ogni specifica organizzazione la
combinazione più efficace di caratteristiche organiche e meccaniche.
Risoluzione del conflitto con repressione arbitraggio Risoluzione del conflitto mediante contrattazione o
e/o guerra risoluzione del problema
L'O.D. propone una strategia di intervento pianificata, basata cioè su una serie di procedure
elaborate anticipatamente e sul rispetto delle fasi e dei passaggi imposti dalle stesse. French e
Bell (1973) individuano le tre componenti fondamentali di un programma di sviluppo
organizzativo: la diagnosi, ovvero la raccolta dei dati, l'azione, ovvero l'intervento per il
miglioramento dell'organizzazione, il mantenimento che consiste nella valutazione dei risultati
e nel processo di continuo feedback per la verifica della validità dei procedimenti e di strumenti
adottati.
L'O.D. ricalca il modello dell'action research .Esso è infatti definito come un <<processo di
raccolta sistematica dei dati per la ricerca su un sistema evolutivo in funzione di qualche
obiettivo, scopo o bisogno di quel sistema>>.
Fondamentalmente il modello di action research consiste in un processo ciclico che comprende
la diagnosi, la raccolta dei dati,feedback al cliente, discussione dei dati, pianificazione
dell'azione e azione.
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Fig Modello di Action Research per lo sviluppo organizzativo
Ecc.
Pianificazione congiunta
dell’azione (obiettivi e Azione (nuovo Azione
programma di OD e mezzi comportamento)
Pianificazione
Feedback al cliente chiave o dell’azione
Pianificazione dell’azione
al gruppo cliente
(determinazione degli obiettivi
Discussione e lavoro sul
e di come perseguirli)
Ulteriore raccolta di dati feedback e sui dati
Discussione e lavoro del emergenti
gruppo cliente sul feedback
Raccolta di dati e diagnosi dei dati e suoi nuovi dati
Feedback
fatta dal consulente (nuovi atteggiamenti nuove
le modalità tecniche di cui fa uso la strategia di O.D. sono molto numerose e variano in
funzione degli obiettivi che l'intervento si propone di raggiungere.
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Capitolo 6. Gruppo, gruppo di lavoro, lavoro di gruppo
6. 1 Definizioni di gruppo
Racchiudere il concetto-fenomeno gruppo in una definizione risulta complesso. Certamente una
delle definizioni più esaurienti ed eleganti è quella ormai classica di Lewin (1948):
“ il gruppo è qualcosa di più, o per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi
membri: ha struttura propria, fini peculiari, e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne
costituisce l'essenza non è la somiglianza o la diversità riscontrabile tra i suoi membri, bensì la
loro interdipendenza”.
Sul versante quantitativo si può genericamente affermare che il gruppo è un insieme
numericamente ridotto di persone: il percepirsi vicendevolmente limita necessariamente la
numerosità. I gruppi in cui vivevano i nostri progenitori (24.000 anni fa) erano composti da
circa trenta unità, dimensione ritenuta ottimale per garantire il controllo e l'efficienza sociale.
Risulta abbastanza difficile stabilire una numerosità ottimale: la dimensione del gruppo di
formazione può aggirarsi sulle 10-12 unità. Le ricerche di laboratorio dimostrano che un
individuo ha difficoltà a mettersi in contatto emozionale contemporaneamente con più di 12
persone.
Ciò che è essenziale per il divenire gruppali è il processo di saturazione dei bisogni di identità
delle persone che ne fanno parte.
Lo studio dei gruppi, sui gruppi e nei gruppi può essere così sintetizzato:
• teoria di campo di Lewin (1951): secondo il quale il comportamento è il prodotto di un
campo di determinati interdipendenti denominato " spazio sociale " e le cui proprietà
strutturali sono rappresentate da concetti derivanti dalla topologia.
• Teoria della interazione di Bales (1950) secondo il quale il gruppo è un sistema di
individui interagenti.
• Teoria dei sistemi di Newcomb, Miller, Stodgill (dal 1950 al 1959) secondo la quale un
gruppo è un sistema aperto, che opera equilibrando i suoi output e input.
• L'orientamento psicologico generale che ha generato la teoria cognitiva dal punto di
vista cognitivo, insiste sull'importanza della comprensione della ricezione, integrazione
ed elaborazione delle informazioni riguardo all'ambiente sociale da parte dell'individuo,
in relazione alle sue risposte comportamentali.
• Orientamento dei modelli formali che cerca di costruire dei modelli di gruppo con l'aiuto
della matematica.
Uno dei concetti più usati nella letteratura scientifica sui gruppi è quello di " dinamiche di
gruppo ". Secondo Cartwright e Zander (1968) la dinamica di gruppo è il modo in cui gruppi
dovrebbero essere organizzati e gestiti. Dinamica di gruppo è intesa come un set di tecniche
usate largamente negli ultimi decenni nei programmi di addestramento per migliorare le abilità
nelle relazioni umane, quali: role playing, buzz-session, osservazione e feedback dei processi
di gruppo, decisioni di gruppo. Ma è intesa anche come campo di indagine dedicato alla
conoscenza della natura dei gruppi, delle leggi del loro sviluppo, delle loro interrelazioni con gli
individui e cogli altri gruppi.
I gruppi sono inevitabilmente presenti in tutti i contesti. Possono produrre sia conseguenze
positive che negative. I metodi maggiormente utilizzati nelle ricerche sulle dinamiche di gruppo
possono essere così raggruppati:
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Metodi Vantaggi Svantaggi
Attraverso lo studio dei fenomeni di gruppo, si è costruita la base per un intervento attivo nella
società attraverso l'utilizzo dei gruppi quali strumenti di formazione, di cambiamento, di
terapia, di crescita individuale e collettiva.
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parte dei membri del gruppo. Con esso vengono riconosciute, norme valori e viene rifiutato ciò
che non appartiene al proprio gruppo e questo serve ad alimentare la coesione e l'iniziale
strutturazione del gruppo stesso.
Spesso membership e groupship però sono in competizione e richiedono un intervento
equilibratore che eviti la sua dissoluzione. Tale ruolo deve essere ricoperto dal leader.
Quel che costituisce l'essenza del gruppo non è la somiglianza o la diversità dei suoi membri,
bensì la loro interdipendenza. E’ proprio tale interdipendenza che può portare un gruppo a
divenire un gruppo di lavoro.
La volontà dei membri di operare per il bene comune, può però portare alla rinuncia degli
stessi rispetto alla libertà personale di agire. In questo senso si può affermare che l'evoluzione
sia paragonabile, al processo di maturazione o meglio di socializzazione individuale, cioè
all'integrazione con l'ambiente circostante. Un gruppo integrato è un'unità di rapporto di
scambio con l'esterno che media le differenze individuali, ponendo i bisogni del gruppo quale
tramite per la realizzazione dell'individualità. La rinuncia alla soddisfazione egoistica è ripagata
dalle nuove attribuzioni che ogni membro può acquisire attraverso la collaborazione, la fiducia
reciproca, la compartecipazione e lo scambio.
Il percorso che porta una organizzazione alla costituzione di un gruppo di lavoro o meglio alla
trasformazione di un gruppo in gruppo di lavoro, è un processo di costruzione di un soggetto
sociale autonomo, dall'attesa che il suo prodotto sia qualcosa di diverso e migliore rispetto alla
operatività individuale.
Il gruppo viene così costituito:
1 definizione dell'obiettivo
2 assunzione di un metodo o regola di lavoro
3 chiarimento dei ruoli gruppali
4 assunzione di una leadership
5 analisi dei processi comunicativi
6 considerazione della variabile clima
7 valutazione del processo di sviluppo
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impedimento alla libera espressione. La stessa uguaglianza tra i membri, può divenire non
vantaggiosa per l'indennità individuale, acquisendo i ruolo negativo di un egualitarismo
livellatore. Nella rappresentazione interna il gruppo il metodo ha, infatti, opposte valenze: una
positiva come capacità di eguagliare le opportunità e una negativa, come potenzialità
conformanti delle individualità.
3) chiarimento dei ruoli gruppali.
È la descrizione dei ruoli ricoperti dai partecipanti. Ogni ruolo viene ricoperto in base alle
aspettative reciproche dei membri, dando origine a comportamenti distinti. Attraverso la
prescrizione dei ruoli si costituiscono aree di azione individuale entro lo spazio gruppale,
delimitate da una dinamica di diritti e doveri corrispondenti alle attese del gruppo nei confronti
di chi ricopre il ruolo. La consapevolezza del proprio ruolo entro il gruppo, permette una più
ampia sicurezza, motivazioni e fiducia nell'affrontare il compito assegnato. L'assunzione di
specifici ruoli ha inoltre l’importante funzione di partecipare alla costruzione delle identità
personale e della sua consapevolezza.
4) Assunzione di una leadership.
All'interno di questo sistema di scambio continuo tra le parti si pone la leadership. Essa
risponde alla necessità di guida e di organizzazione di ogni gruppo. E’ lo stesso gruppo a
produrre la sua leadership. Il tipo di leader più adeguato è un esperto di relazioni che ottimizza
le risorse umane disponibili e che finalizza il suo intervento al successo del gruppo piuttosto
che all'espressione delle proprie capacità. Intendiamo quindi una leadership di servizio.
All'interno di questa leadership di servizio possiamo individuare tre fondamentali funzioni:
1. la funzione di competenza,
2. quella di appartenenza
3. quella comunicativa.
La competenza o know how è il tipo di leadership che garantisce la sopravvivenza del gruppo e
la sua efficienza, mantenendo saldo il legame con il compito.
La leadership dell'appartenenza è quella che accudisce i bisogni dei membri del gruppo,
tutelandone i valori, la cultura e il clima affettivo.
Il terzo tipo di leadership, quella comunicativa, è quella che fa da ponte tra competenza e
appartenenza e tra il gruppo stesso dell'organizzazione di riferimento.
La complessità della dinamica del fenomeno della leadership richiede un ulteriore distinzione,
quella tra leadership o leader istituzionale e leadership funzionale.
Le molteplici funzioni che devono essere svolte dal leader di un gruppo di lavoro non possono
infatti essere ricoperte da un solo individuo; esse devono essere ripartite tra più soggetti, o
leader funzionali, capaci di adempiere a specifici compiti. Colui che ha il ruolo di individuare i
leaders funzionali, delegando la sua leadership è il leader istituzionale. Il leader istituzionale è
l'interfaccia tra il gruppo, gli altri leaders e l'organizzazione. Il leader istituzionale non deve
mai declinare la sua personale responsabilità e autorità di ruolo, direttamente emanati
dall'organizzazione e di cui è il referente autorizzato.
5) analisi dei processi comunicativi.
Nel gruppo di lavoro è la comunicazione a costituire il gruppo, permettendone il
funzionamento, lo scambio di informazioni o viceversa segnandone il fallimento. Il gruppo
nasce da un'esperienza di accomunamento (coinonia) spazio-temporale (storico) di più
individui tra loro comunicanti. Accomunamento e comunicazione derivano dall'aggettivo
comune, che in greco si dice coinos.Da coinos deriva anche coinonia, che vuol dire
accomunamento. La realtà psichica dei gruppi in accomunamento è il luogo dei processi di
comunicazione e informazione. La comunicazione si attua attraverso segni verbali, il
linguaggio, e non verbali, ma comunque significativi. La comunicazione si manifesta secondo
due diverse modalità di scambio dei segni, verbali e non. L'accomunamento proiettivo ,
attraverso cui un segno emesso da un soggetto viene<<messo dentro>> gli altri membri del
gruppo; l'accomunamento introiettivo, tramite il quale i segni del gruppo vengono posti entro
ogni singolo individuo.
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Bavelas (1969) suggerisce di considerare le reazioni gruppali nei termini di legami di
comunicazione, descrivendo i diversi tipi di reti più spesso osservabili. Secondo queste ipotesi,
la distanza alla comunicazione è definibile come il numero minimo di legami che devono essere
superati da un soggetto per poter comunicare con un altro. Un indice particolarmente
significativo per misurare lo stato dell'attività comunicativa è l'indice di centralità che ci dice
quanto il flusso informativo sia di un unico soggetto o viceversa sia del gruppo intero. Le reti
centralizzate sono più efficaci rispetto al compito, ma almeno adatte a mantenere elevato il
morale e la soddisfazione dei soggetti coinvolti.
Nei compiti complessi, il gruppo decentralizzato è generalmente più capace, poiché tale
struttura evita il sovraccarico cognitivo su un unico soggetto, il leader.
6) la considerazione della variabile clima.
Il clima è<<l'altra faccia della luna>> cioè quella che non si vede mai e di cui parlare è
un'utopia.
Il clima è insieme delle esperienze che le varie circostanze organizzative producono sui
soggetti. Esso riguarda gli atteggiamenti. I primi si formano nei piccoli gruppi. Un originale
modello di misurazione del clima organizzativo è stato proposto da Spaltro (1977) con il nome
di check-up organizzativo. Esso parte dall'ipotesi di una gruppogenesi del clima, alla quale
bisogna fare riferimento per misurare il fenomeno nel qui ed ora. Le dimensioni considerate
sono: la significanza dei vari problemi organizzativi; l'aspettativa di soluzione; la fiducia verso
le parti dell'organizzazione quali, ad esempio, il sindacato, il gruppo di appartenenza, la
direzione, gli stili di leadership; il tipo di aggregazione, ad esempio, la coppia, il gruppo o il
collettivo.
Un clima denota l'efficienza, quando si può percepire la presenza di un sostegno reciproco tra
le parti, per condividere gli sforzi. A questa caratteristica è strettamente collegata un'altra
qualità, il calore, ossia l'attenzione alle relazioni.
Se in un gruppo ci sono sostegno e calore vi sarà una comunicazione franca, di richiesta e di
ascolto.
7) la valutazione del processo di sviluppo.
Il percorso che porta un gruppo a divenire un gruppo di lavoro (team building) è la storia di un
cambiamento che si sostanza nel lavoro del gruppo stesso. Le fasi di costituzione, di verifica di
mantenimento di più diversi tipi di gruppo, terapeutici, formativi o di lavoro, sono dinamiche
che prevedono la disponibilità al cambiamento. Lo sviluppo del gruppo di lavoro passa
certamente attraverso lo sviluppo delle competenze individuali ma giunge a produrre una
competenza di gruppo che è qualcosa di diverso e di superiore rispetto alla somma delle
competenze singole.
6. 3 Gruppo e formazione
L'utilità della formazione è fattore trainante dell'organizzazione. Tuttavia oggi c'è un
atteggiamento ambiguo di una parte del management che vede in essa soprattutto un costo
non immediatamente quantificabile in termini di ricadute.
Nelle società rurali e precapitalistiche il passaggio delle conoscenze avveniva attraverso forme
di apprendistato " a bottega ". Nella società capitalistica caratterizzata prevalentemente
dall'industria meccanica, dove la forza lavoro doveva disporre di abilità manovali di tipo
prevalentemente ripetitivo, l'apprendimento avveniva attraverso forme di addestramento,
limitato all'area di applicazione.
L'interesse per la formazione diviene rilevante con il processo tecnologico, riducendo nel giro di
qualche anno ampie aree di lavoratori ad un inevitabile analfabetismo di ritorno.
La formazione non costituisce più un momento che precede l'immissione in ruoli lavorativi e
che affronta tematiche di carattere esclusivamente tecnico operativo, ma diviene fondamentale
strumento di valorizzazione delle risorse umane.
A tal fine pertanto si perfeziona un approccio alla formazione di tipo psicosociale che si basa
sulla possibilità di poter riconoscere e analizzare la realtà individuale. A coloro che vengono
formati viene richiesta un'adesione totale al progetto.
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Il gruppo diventa la base sulla quale si costruisce l' azione formativa. La formazione diviene
fattore di cambiamento non solo individuale e organizzativo ma anche sociale.
Per quanto riguarda gli aspetti più specifici della formazione vanno ricordati tre obiettivi
largamente condivisi dagli studiosi: il sapere, il saper fare, il saper essere. L'obiettivo del
sapere riguarda la sfera prettamente cognitiva. Il saper fare può essere inteso come
un'implementazione di capacità tecniche. Il saper essere riguarda prevalentemente la sfera di
atteggiamenti ed è finalizzato ad un miglioramento sulle modalità di relazionarsi con il proprio
sé.
6. 4 Tecniche di gruppo
Tra i tanti criteri utilizzati per descrivere i gruppi di formazione, scegliamo quello della
struttura, distinguendo: il gruppo non strutturato (T-Group, gruppo diagnostico, di base o di
evoluzione); il gruppo semi strutturato (o gruppo di sensibilizzazione); infine il gruppo
strutturato ( o gruppo di addestramento).
Il gruppo non strutturato si forma sulle difficoltà di comunicazione e di consapevolezza. Il
trainer ha il ruolo marginale di facilitare l'evoluzione dei partecipanti. L'ipotesi pedagogica del
decondizionamento sociale, si realizza mediante l'assenza di qualsiasi struttura formale tra i
soggetti coinvolti. Il metodo destrutturato, elaborato originariamente all'interno dell'esperienza
T-Group, si è poi voluto in gruppo diagnostico, assumendo connotazioni terapeutiche
analitiche. Il saper essere in gruppo, la capacità comunicativa e di integrazione diviene un
valore fondamentale a cui ognuno deve attenersi. Il gruppo di incontro diviene luogo più adatto
alla liberazione e all'accettazione di sé, condizioni necessarie alla comprensione dell'altro. Il
ruolo del trainer è quasi simile a quello della prospettiva lewiniana. A tale scopo possono
essere usati alcuni espedienti o strutture, tra cui ricordiamo per originalità, le maratone nude
di Rogers e il socio dramma e lo psicodramma di Moreno, o altri metodi come il role-playing e il
brainstorming.
Il gruppo semi strutturato o di sensibilizzazione, contiene un materiale d'apprendimento che
può essere adottato o rifiutato; il gruppo può cioè scegliere di porsi in una condizione di
esercizio, simulando la realtà della vita professionale, entro l'apparente libertà della situazione
gruppale. Le esercitazioni servono a trasferire e rappresentare gli accadimenti abituali e
concreti, in un percorso accompagnato dal trainer.
Il terzo tipo di gruppo, quello strutturato, risponde alla volontà di organizzare completamente
non solo l'evoluzione degli atteggiamenti e dei comportamenti dei partecipanti, ma anche di
apprendimenti specifici e la risoluzione di problemi determinati. Il piano di lavoro viene
dettagliatamente strutturato, dal conduttore del gruppo, che assume, in questo caso, un ruolo
più direttamente attivo. Egli deve, oltre che coordinare e chiarire le dinamiche in atto,
strutturare i metodi assunti, proporre i problemi da analizzare, far rispettare la consegna. Il
suo intervento in un gruppo strutturato dovrebbe comunque essere finalizzato a stimolare la
creatività, e in generale, le potenzialità cognitive ed emotive dei soggetti coinvolti.
Il collegamento alla situazione lavorativa rimane, forse, la caratteristica più evidente di questa
modalità formativa.
Soffermando l'attenzione su quelle tecniche che più sembrano consone all'ambito della
formazione dei gruppi di lavoro descriviamole raggruppandole per aree metodologiche:
1. L'istruzione programmata
2. La lezione, la lettura e la discussione
3. L' incidente (incident) e il caso
4. La simulazione, l'in-basket,il role playing, l'esercitazione
5. Il gruppo esperienziale
6. Il gruppo di studio, il lavoro di progetto, l'autocaso
7. L'outdoor Development e l'Outward Bound
8. Il Learning Community e l'Autonomy Laboratory
9. L'Action Learning e il Joint Development Activities
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Le prime tecniche d'apprendimento, entro la lista qui riportata, rientrano nel punto 3.
Il Case Method è una tecniche di gruppo assai diffusa, introdotta nel campo dell'insegnamento
universitario già gli inizi di questo secolo ad Harvard. Il metodo è finalizzato all'affinamento
delle capacità d'analisi dei problemi concreti mediante il confronto di gruppo con un caso, cioè
con particolare momento di vita dell'organizzazione che deve essere risolto.
La tecnica si compone di tre momenti principali:
1. presentazione del caso da parte dell'animatore;
2. preparazione del caso mediante una discussione di gruppo a cui non partecipano
animatore;
3. discussione-confronto finale sull'attività svolta la presenza dell'animatore.
Il metodo dei casi presuppone che non ci sia ma un'unica soluzione per il problema proposto e
che le alternative siano, spesso, numerose quanto le diversità individuali presenti nel gruppo di
discussione. Ogni caso può essere, inoltre, orientato, quando sono evidenti criteri più adatti
alla soluzione e aperto, quando invece sia gli obiettivi che i mezzi dell'azione sono oggetti di
discussione.
Tale metodo è stato criticato da più parti; esso si presta ad essere manipolato ove il caso
venga presentato omettendo i dettagli che potrebbero ostacolare la proposta di soluzione
voluta.
3. L'incidente (incident) cerca di ovviare ai limiti del metodo precedente, proponendo un caso
incompleto che deve essere riempito con informazioni non immediatamente disponibili.
Entrambi i metodi risultano essere centrati sul docente il cui ruolo è essenziale per la
conduzione della situazione di apprendimento.
4. Il modello sul quale si basa è quello della sperimentazione-analisi-concettualizzazione
attraverso cui si può giungere ad un più diretto coinvolgimento dei soggetti partecipanti. Il
conduttore-docente definisce il suo ruolo di guida mediante una precisa strutturazione dei
contenuti durante le fasi d'apprendimento. Quale esempio di simulazione riportiamo la tecnica
delle simulazioni sequenziali o business games che prevede la rappresentazione fittizia di una
determinata realtà aziendale. Il gruppo deve prendere decisioni via via che il gioco procede,
verificando, confrontando il proprio operato. La simulazione è sequenziale poiché ad ogni
stadio si conoscono le conseguenze delle decisioni precedenti. È necessario un elaboratore dati
per costruire in tempo reale il percorso di una realtà aziendale e le responsabilità di ogni
partecipante. Il business game spinge al coinvolgimento attivo ma è esasperatamente
competitivo.
La tecnica chiamata in-basket (da basket, contenitore della corrispondenza) è sia individuale
che di gruppo; essa richiede la soluzione di specifici problemi attraverso la comunicazione
scritta. L'apprendimento auspicato riguarda, la capacità di operare efficacemente in condizioni
di tempo limitato e di confrontare la propria azione con quella del conduttore e degli altri
soggetti. La fase individuale è, infatti, seguita dalla discussione con il gruppo e con le direttive
del trainer.
La tecnica del role-playing si ispira allo psicodramma e al sociodramma di Moreno. Esso è una
rappresentazione scenica delle diverse relazioni sociali possibili in una determinata situazione
che viene più o meno strutturata a seconda delle direttive dell'animatore. L'assunzione scenica
ha solitamente una durata di tre o quattro ore e procede secondo tre momenti essenziali:
l'individuazione della scena da rappresentare e dei ruoli da assumere; la rappresentazione
della situazione scelta; l'analisi della scena riprodotta e dei ruoli particolari. Il gruppo e il
conduttore sono entrambi parti in causa, sia attraverso la diretta assunzione di ruolo, sia
attraverso l'attività di osservazione e il consiglio. I risultati più importanti riguardano: nella
stimolazione d'apprendimento tramite l'imitazione, l'osservazione e l'azione. La difficoltà di tale
tecnica è nel fare assumere, specie all'interno di alcune culture aziendali, ruoli fittizi o
comunque non propri dinanzi ad un gruppo.
La tecnica dell'esercitazione. Il contenuto è quanto mai vario; vengono simulati i diversi aspetti
della vita relazionale dei gruppi delle organizzazioni. L'obiettivo è duplice: ricreare
artificialmente uno o più fenomeni dell'integrazione sociale e permettere così ai soggetti in
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formazione di osservare e riflettere su tali eventi. I temi affrontati si riferiscono soprattutto alle
mansioni lavorative in generale e ai problemi dell'interazione di gruppo come ad esempio la
comunicazione interpersonale.
5. Il gruppo esperenziale. A questo livello ritroviamo tutte le metodologie che hanno fatto del
gruppo in sé il soggetto-oggetto dell'apprendimento. Gli obiettivi sono il chiarimento della
difficoltà nel gruppo di fronte ad un problema da risolvere e la realizzazione per e in gruppo di
un'esperienza (l'incontro fondamentale di Rogers).
Tra le esperienze maggiormente innovative ricordiamo i " seminari di dinamica di gruppo e
analisi istituzionale ". In tali seminari l'oggetto di analisi è la duplice realtà, psicologica e
sociologica, del piccolo gruppo. Accanto all'analisi del qui ed ora diviene tema di studio anche il
là ed allora ossia la storia personale, le dimensioni professionali, i luoghi e i gruppi di
appartenenza del singolo e del gruppo. Tecnicamente tali seminari si realizzano in 4-5 sessioni
di 3-4 giorni ciascuna, comprendendo un totale di 15-16 giorni. L'articolazione delle sessioni è
intervallata da un periodo di pausa di un mese circa e copre un arco di tempo abbastanza
ampio (4-5 mesi).
6. Gruppo di studio, lavoro di progetto, auto caso. L'apprendimento rimane centrato sul
soggetto e il materiale da acquisire è prodotto dai partecipanti, attraverso: relazioni nel gruppo
di studio, lavoro sul campo, lavoro sul progetto che è la ricostruzione in aula di un caso
realmente vissuto nell'auto caso.
7. La tecnica Outdoor Development vuole attuare lo sviluppo delle capacità manageriali
attraverso un costante collegamento con i problemi concreti in situazioni di emergenza. Il
luogo privilegiato dell'apprendimento è il gruppo in situazioni di emergenza poiché solo questo
tipo di esperienza sembra adatta a stimolare e a potenziare tutte le risorse disponibili (survival
training).
8. Learning Community. Il concetto di comunità rimanda alla rete di comunicazione che si
instaura presso i soggetti coinvolti, piuttosto che dalla loro presenza reale in un unico luogo.
Maggiormente rivolto all'apprendimento individuale, o meglio " all'apprendimento
dell'apprendere " è l'Autonomy Laboratory che cerca di sviluppare nei soggetti la capacità di
riconoscere ed utilizzare la molteplicità delle risorse. Ciò che distingue gli ultimi due metodi
descritti è, essenzialmente, il tentativo di rivedere il tradizionale rapporto pedagogico,
definendolo con un percorso in cui si intrecciano i ruoli e i mezzi dell'apprendimento.
9. Essa è sintetizzabile nei contenuti dell'Action Learning (AL), originariamente elaborata da
Revans (1971-1980) di richiamo obbligatorio all'Action Research di lewiniana memoria, tra
ricerca teorica (conoscenza) e verifica sul campo (azione).
L'AL si fonda su un modello di formazione tra apprendimento-azione, un rimando ai problemi
lavorativi. Il tipo di apprendimento è un processo di interrogazione della realtà stimolato
all'acquisizione di una capacità di ricerca che scopra nuove domande piuttosto che consolidi le
risposte già acquisite.
I suoi traguardi sono lo sviluppo della conoscenza del " campo dei problemi ", cioè del campo
lavorativo; nello sviluppo dell'autoconsapevolezza, attraverso il confronto con i compagni di
lavoro; sviluppo dell'apprendimento di ruolo organizzativo e del management.
Il Joint Development Activities, vuole stimolare lo sviluppo globale dell'individuo, entro i ruoli
ricoperti e mantenendo costante il riferimento alla concretezza dei problemi che emergono
nella situazione lavorativa reale. Il termine Joint è giustificato dalla prospettiva di formare
gruppi composti da soggetti appartenenti ad organizzazioni diverse.
10. I metodi riflessivi. Parliamo di apprendimento di tipo riflessivo. L'area coinvolta è quella del
sé con un percorso che volutamente si discosta dei problemi lavorativi.
La riflessione è autoriflessione , cioè recupero e rielaborazione dell'esperienza personale,
decondizionamento e apprendimento degli schemi mentali posseduti. All'interno di questa area
si possono individuare due principali contributi: quello riconducibile all'opera di Boxer (1981) e
quello, di più difficile definizione, che comprende le diverse tecniche di meditazione e di
rilassamento. Il primo contributo si pone l'obiettivo di favorire la riflessione sulle modalità
cognitive dell'esperienza soggettiva, mappe cognitive, contenuti mentali.
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Nella seconda area si approccia a filosofie occidentali e orientali, che si propongono di
recuperare l'integrità del rapporto mente-corpo, attraverso il potenziamento e l'espansione dei
processi mentali e fisici; tra queste, le tecniche di Training Autogeno, di meditazione e di
sviluppo della creatività. I gruppi di creatività sono centrati sul pensiero laterale (come, ad
esempio, si può osservare nella tecnica del Brainstorming, letteralmente " tempesta di idee").
Il gruppo addestrato al pensiero laterale sembra un tipo di gruppo destrutturato, ma in realtà
si muove dentro una struttura che regola la sua azione. La sua logica consiste,
paradossalmente, nell'obbedienza alla devianza.
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La leadership pertanto viene definita come una qualità posseduta solo da particolari individui,
caratterizzati da tratti diversi da quelli dell'uomo comune, che li pongono in condizione di
efficienza superiore agli altri.
Già nel 1904 Terman conduce una ricerca sulle caratteristiche del leader, egli deve essere:
uomo attivo, rapido, di aspetto gradevole, abile nei rapporti sociali.
Stogdill invece affermava che i tratti di personalità non si potevano considerare indici predittivi
dei futuri leaders; essi infatti vanno spiegare solo una minima percentuale di varianza nelle
differenze fra leaders.
Il desiderio di potere è ritenuto prerequisito di leadership. Alto desiderio di potere, basso
bisogno di affiliazione, alta capacità inibitoria costituirebbero un L.M.P. (Leadership Motive
Pattern), ideale per la maggior parte dei managers. Però queste liste di qualità non hanno
prodotto risultati soddisfacenti.
Così tra gli anni 40-50 la teoria innatista venne abbandonata a favore di una visione
ambientalista, secondo cui le caratteristiche individuali non erano determinate alla nascita,
bensì acquisite e acquisibili dall'ambiente. Gli studi sulla leadership proseguirono analizzando
non più il leader, ma il suo comportamento nel gruppo, individuando i principali stili di
leadership.
Yukl (1981) ha proposto una distinzione tra tratti, valori e abilità. Per tratti, si intendono
attributi individuali che rappresentano predisposizioni a comportarsi in un determinato modo. I
valori, rappresentano opinioni interiorizzate che riguardano la sfera del giusto-sbagliato. Per
abilità (skills) si intendono particolari capacità e competenze nel fare qualcosa in modo
efficiente.
Tali abilità si dividono in:
1) abilità tecniche: riguardano specifiche conoscenze di metodi, processi e tecniche.
2) abilità interpersonali: riguarda la capacità di comprendere i sentimenti, le motivazioni, le
opinioni degli altri da ciò che dicono o fanno.
3) abilità cognitive: è una generale capacità analitica, come abilità nella formazione dei
concetti e nella elaborazione di relazioni complesse; abilità nell'analizzare gli eventi, anticipare
i cambiamenti e riconoscere le opportunità.
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stili di leadership: autoritario, democratico e lassista (o di lassaizFaire).
Lo stile autoritario venne descritto come comportamento del leader freddo e distaccato,
orientato principalmente all'obiettivo, privo di attenzione verso la sfera emotiva dei
partecipanti al gruppo; tale comportamento tende a non favorire la comunicazione intra-
gruppo che risulta, di conseguenza, minimale, fredda e formale.
Diversamente, lo stile democratico vede protagonista un leader che coltiva i rapporti interni al
gruppo, favorisce la comunicazione, coinvolge i partecipanti, ascolta la loro opinione e accetta
la discussione; tale comportamento è volto a creare un clima di gruppo collaborativo in cui la
comunicazione risulta confidenziale e non limitata agli aspetti tecnici.
Infine, lo stile di lassaiz faire indica un comportamento disinteressato, in tale contesto il leader
risulta assente, non partecipe e non attento ai bisogni del gruppo; vengono assolte le funzioni
minimali alla sopravvivenza del gruppo senza enfasi verso l'obiettivo, né verso le emotività dei
partecipanti; la comunicazione risulta minimale e spesso diretta più verso gli aspetti informali.
Basati su una metodologia più accurata, gli studi svolti, parallelamente, dal Personnel Research
Board dell' Ohio State University e dall' lnstitute for Social Research dell' University of
Michigan, condussero all'individuazione dei comportamenti caratterizzanti i diversi stili di
leadership, ricondotti a due principali orientamenti:
1. verso il compito
2. verso le relazioni.
Nel corso delle sperimentazioni svolte nell'Università dell’ Ohio, in particolare, l'attenzione
venne rivolta alla creazione di strumenti atti alla misurazione dello stile di leadership.
Attraverso gli studi condotti vennero messi a punto tre questionari che consentono
l'individuazione dello stile utilizzato dal leader: LBDQ (Leadership Behavior Description
Questionnaire), SBDQ (Supervisor Behavior Description Questionnaire), LOQ (Leader Opinion
Questionnaire). I tre questionari, a risposta multipla, permettono il riconoscimento dello stile
adottato: LBDQ e SBDQ vengono somministrati al gruppo, LOQ viene compilato dal leader; in
questo modo si considera sia la percezione del gruppo sul comportamento del leader, che
quella del leader sul proprio modo di agire.
Tali strumenti permettono di individuare due principali orientamenti alla leadership:
1. di Strutturazione
2. di Considerazione.
Il primo indica un comportamento del leader rivolto al raggiungimento dell'obiettivo,
tecnico, basato sulle competenze e sull'esecuzione del compito; il leader riceve
assenso dal gruppo per la competenza dimostrata, infonde sicurezza ai partecipanti,
poiché "è lui che sa come si fanno le cose".
L'orientamento di considerazione è finalizzato alla partecipazione del gruppo, il
leader stimola la comunicazione e la discussione al fine di creare un clima di gruppo
favorevole in cui i partecipanti siano coinvolti nelle decisioni del gruppo. Tale
orientamento è considerato quello più efficace al conseguimento dell' obiettivo.
All’interno dell'Università del Michigan si ricordano alcuni studi che hanno il merito di
individuare e descrivere i principali stili di leadership.
Likert (1961), approfondì la classificazione di Lewin, individuando come variabili
determinanti un sistema manageriale: la confidenza e la fiducia dei leader verso i subalterni,
il tipo di motivazione utilizzata, l'intensità dell'interazione, lo stile di leadership, la
comunicazione, il processo decisionale e la formulazione degli obiettivi. Attraverso tali
variabili Likert individua quattro sistemi manageriali.
Sistema 1: autoritario. I subordinati vengono raramente coinvolti nei processi decisionali, si
ritiene di conseguenza che non vi sia fiducia né confidenza da parte del management; il vertice
assume le decisioni e queste vengono trasmesse a cascata per livelli di responsabilità
decrescenti. La motivazione al lavoro viene realizzata in larga misura attraverso il timore di
punizioni e, raramente, con gratificazioni; l'interazione tra superiore e subalterno si fonda sulla
paura e la sfiducia, si formano a livello informale linee di pensiero contro l'organizzazione
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centrale.
Sistema 2: paternalistico. E’ un approccio padrone-servitore in cui il management ripone una
fiducia compiacente nei confronti dei sottoposti: le decisioni determinanti vengono prese dal
vertice, mentre i subordinati hanno la facoltà di scelta entro uno schema prefissato. La
motivazione è basata più su premi che su punizioni; questo crea un rapporto di timore
reverenziale e prudenza da parte degli individui nei confronti del capo che, solitamente, si
comporta con atteggiamenti paternalistici. A livello informale si creano solitamente dei gruppi
che, non sempre si rivolgono contro l'organizzazione; ma soddisfano i bisogni dì appartenenza
dei membri.
Sistema 3: consultivo. La fiducia del direttivo verso i subordinati è elevata, ma non completa;
le decisioni a cui essi possono partecipare sono determinanti, ma non fondamentali; la
motivazione viene fornita, oltre che dal sistema premi-punizioni, soprattutto dal
coinvolgimento negli obiettivi organizzativi. La comunicazione tra diversi livelli è fluida con
rapporti spesso contraddistinti da lealtà e confidenza. Vengono fornite occasioni di assunzione
di responsabilità attraverso la delega di funzioni organizzative e di controllo. I gruppi informali
condividono gli interessi dell'organizzazione o, qualora vi si oppongono, lo fanno lealmente e
apertamente, contribuendo allo sviluppo degli obiettivi.
Sistema 4: democratico. I membri dell'organizzazione hanno completa fiducia reciproca; il
processo decisionale è ampiamente distribuito con una buona integrazione degli individui, i
lavoratori sono motivati dalla partecipazione e dal coinvolgimento nell' organizzazione. I
rapporti tra superiore e subalterno sono amichevoli e leali, ciò porta ad una coincidenza tra
rapporti formali e informaIi; la responsabilità è diffusa a tutti i livelli e le forze sociali
sostengono gli obiettivi comunemente definiti.
I primi due stili descritti risultano essere una scomposizione di quello che Lewin aveva definito
stile autoritario. Lo stile sfruttatorio si distingue da quello paternalistico per la durezza con cui i
leader applicano il loro comando.
In entrambi gli stili le decisioni vengono prese dal leader che, nel caso dello stile paternalistico,
o "pacca sulla spalla", si comporta con maggior sensibilità verso i subordinati. Nello stile
consultivo, l'interesse del leader verso le opinioni dei collaboratori non è solo formale e
finalizzato al loro compiacimento, come nello stile paternalistico, ma è determinato dal
coinvolgimento del gruppo; la discussione viene accettata e incentivata, anche se è il leader a
mantenere il potere decisionale. Tale caratteristica distingue lo stile consultivo da quello
democratico (sistema 4) in cui è il gruppo a decidere e il leader ne è il portavoce; dalle indagini
di Likert quest'ultimo risulta essere il sistema manageriale più efficace.
Lo stile di delega, che J. Likert (1986) ha denominato come "sistema 5’;(managing without a
boss), viene attuato dal leader che concede fiducia ai propri collaboratori, li responsabilizza
affidando loro degli incarichi che possono svolgere in autonomia, senza il controllo diretto del
leader che rimane disponibile alla discussione e al confronto, ma non interviene direttamente
nel lavoro del proprio collaboratore. Gran parte di queste ricerche sono volte ad indagare in
quali situazioni lo stile delegativo risulti migliore rispetto allo stile partecipativo.
Oltre alla classificazione di Likert, altri studi si sono posti l'obiettivo di identificare le
caratteristiche degli stili di leadership, solitamente contrapponendo agli estremi di un
continuum, stile autoritario e stile democratico, in cui quest'ultimo viene indicato come più
efficace. Da queste ricerche si distingue la Managerial Grid di Blake e Mouton (1964, 1967).
Essi individuano nel capo due gradi di interesse: uno verso la produzione (compito) e l'altro
verso le persone (relazioni).
Ognuno dei due gradi di interesse è suddiviso in nove intervalli ed è riportato su un asse
cartesiano: sull'asse orizzontale viene indicato l'interesse verso la produzione, sull'asse
verticale l'interesse verso le persone.
La griglia (grid) ottenuta dall'incrocio delle due coordinati è composta da 81 caselle che
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rappresentano i possibili stili di leadership.
Gli autori descrivono per semplicità, cinque fondamentali stili di leadership: lo stile (9,1) tipico
della leadership autocratica che si interessa unicamente di ottenere dai subordinati
l'esecuzione del lavoro assegnato; lo stile (1,9) tipico della leadership permissiva che si
preoccupa di non sollecitare troppo indipendenti per ottenere il lavoro richiesto; l'ostile (1,1)
tipico della leadership rinunciataria, lassista e noncurante; lo stile (5,5) tipico della leadership
che si interessa in maniera sufficiente alle esigenze della produzione e a quelle del personale;
lo stile (9,9) tipico della
leadership che ha a cuore sia la
produzione sia il personale e che
spesso ricorre al lavoro di team
per ottenere i risultati prefissi. Lo
stile ritenuto più valido è
quest'ultimo perché basato sulla
convinzione che il compito del
dirigente sia quello di ottenere il
consenso dei dipendenti sia sugli
obiettivi dell'organizzazione che
sui modi per conseguirli.
7. 4.1 il modello di
contingenza di Fiedler
Più volte abbiamo usato in modo
indistinto l'espressione
comportamento di leadership e
stile di leadership.
Fiedler li distingue intendendo
per comportamenti di leadership
le azioni che un leader deve
compiere nell'attività di
coordinamento del lavoro di
gruppo. I comportamenti di
leadership variano in funzione della situazione, mentre la struttura dei bisogni che motivano
questi comportamenti sono costanti. Per stile di leadership si intende un insieme stabile di
comportamenti, anche al variare della situazione.
Le ricerche su gli stili di leadership hanno evidenziato che le qualità del leader non sono innate
ma sono risultato di un processo di apprendimento che deriva dall'ambiente nel quale un
individuo è inserito. Sono infatti il gruppo, le interazioni tra i membri, le caratteristiche del
compito, la tecnologia, il tipo di organizzazione che formerebbero le qualità del leader (cioè la
contingenza). . La teoria di Fiedler (1967) risulta essere la prima ad aver posto l'attenzione
all'incidenza della variabile situazionale nell'analisi dell'efficacia degli stili di leadership.
La qualità delle relazioni leader-subordinato è misurata da Fiedler tramite due metodi:
il test socio metrico GA (Group Atmosphere) e la rilevazione dell'atmosfera di gruppo SPS
(Sociometric Preference Scale). Il test socio metrico consiste nel chiedere ai membri del
gruppo di indicare su una scala di preferenze quanto appoggino il loro capo, ma anche
l’impressione del leader sul gruppo. Le domande sono formulate in maniera indiretta, così che i
subordinati non si sentano compromessi con i propri superiori nel dare una risposta sincera. Ad
esempio una domanda potrebbe essere: “se lei fosse trasferito in un altro ufficio, quali colleghi
vorrebbe portare con sé?”. L’ intervistato può manifestare la scarsa considerazione verso il
proprio campo indicando persone diverse da quest'ultimo punto.
Per misurare il grado di chiarezza e di precisione con cui le istruzioni sono definite, Fiedler,
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propone quattro fattori:
1 .Goal clarity: è il grado con il quale i doveri che nascono da un lavoro sono
chiaramente conosciuti a chi deve eseguire il compito.
2. Goal - Path Multiciplity: rappresenta il numero di procedure possibili per risolvere i
problemi che si incontrano in un lavoro.
3. Decision Verifiability: è il grado con il quale la correttezza di una decisione presa
nell'ambito di un lavoro, può essere dimostrata basandosi su fonti autorevoli (es.
censimenti), su procedure logiche (es. formule matematiche).
4. Decision Specificity: rappresenta il numero di soluzioni corrette applicabili ad uno
stesso compito.
Il compito può essere strutturato (la strutturazione è più alta quanto maggiori sono le
istruzioni date per impartire gli ordini e per valutare i risultati) o destrutturato (quando gli
scopi sono vaghi, le procedure per giungerà soluzione sono numerose, esiste un alto numero di
possibili soluzioni tutte ugualmente buone); il potere del leader, può essere forte o debole.
Per misurare lo stile di leadership, Fiedler ricorre al punteggio LPC che descrive come un
soggetto vede il suo collaboratore meno preferito, cioè colui con il quale lavorerebbe meno
volentieri.
Secondo F. questo indicatore riflette la struttura motivazionale del leader, cioè il suo
orientamento al compito o al dipendente. Infatti se un leader sente il bisogno di portare a
termine un compito l'opposizione sarà vista come un ostacolo al raggiungimento dello scopo,
questo darà un basso punteggio LPC perché riflette l'elevato grado con il quale una persona
rifiuta il collaboratore meno preferito. Un alto punteggio LPC dimostra che il leader ha come
bisogno primario il desiderio di instaurare e coltivare relazioni: in questo caso il leader
considera anche il peggior collaboratore come una persona che possiede caratteristiche
positive.
La combinazione dei fattori: relazioni leader-membri, struttura del compito, potere della
posizione danno il grado di favorevolezza per il leader.
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Variabilità dello stile di Leadership al variare della situazione
Leaders con alto
LPC (orientati alle relazioni),
gruppo con migliore
performance
L'efficienza della leadership è contingente cioè dipende da quanto la situazione sia favorevole
infatti un leader può essere efficiente in una particolare situazione ma inefficiente in un'altra;
nessuno tratto personale assicura una buona prestazione in ogni situazione di leadership.
Per completare il modello F. confronta il punteggio LPC con la performance di gruppo (parte
superiore del grafico) ottenendo un coefficiente di correlazione che stabilisce in che misura la
prestazione del gruppo sia influenzata positivamente dallo stile di leadership.
La correlazione è positiva quando sono i leaders con alto punteggio LPC a ottenere la migliore
performance di gruppo, è viceversa negativa quando sono i leaders con basso punteggio LPC
ad avere maggiore successo. Sull'asse verticale del grafico è indicata una linea mediana: i
punti al di sopra della linea indicano la correlazione positiva tra alto punteggio LPC e
performance di gruppo, mentre i punti sotto la linea indicano la correlazione negativa tra basso
punteggio LPC e performance di gruppo.
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Analizziamo ora il grafico: i leaders orientati al compito (basso LPC) ottengono una migliore
performance di gruppo in situazioni molto favorevoli (I,II,III) in situazioni molto sfavorevoli
(VIII), mentre i leaders orientati alle relazioni (alto LPC) ottengono maggiori risultati in
situazioni moderatamente favorevoli (IV,V). I leaders giustificati dall'esecuzione del compito
riescono a ottenere il massimo dal gruppo quando la situazione è molto favorevole perché
non hanno bisogno di eccessivi sforzi per portare a termine i loro obiettivi; anche quando la
situazione è molto sfavorevole questi leaders hanno successo in quanto l'incertezza
contingente richiede di concentrare l'attenzione sul compito specifico. Invece i leaders
orientati al dipendente hanno probabilità di successo in un ambiente moderatamente
favorevole: infatti, non poter controllare la situazione non li preoccupa perché reputano più
importante la relazioni umane come strumento per raggiungere l'obiettivo finale.
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Il modello di Vroom e Yago consente di ordinare i cinque stili decisionali dal più efficace a
quello meno conveniente, attraverso un punteggio (Oeff) che si ottiene dalla formula:
dove l'efficacia complessiva (Oeff) è definita come la qualità decisionale (Dqua) più
l'accettazione dei collaboratori (Dcomm) meno l'esigenza temporale (Dtp), meno il costo per
una decisione gruppale (Cost) più il beneficio allo sviluppo del gruppo (Devpt).
L'importanza delle teorie di Vroom e Yetton (1973) e di Vroom e Yago (1988), il cui limite
fondamentale è la considerazione dello stile decisionale e non dello stile di leadership, è la
determinazione di uno strumento di analisi (modello normativo), attraverso cui il leader può
analizzare la situazione. Alla luce dei più recenti studi, si può osservare come nella scelta dei
diversi stili, gli autori non abbiano considerato lo stile di delega, attualmente enfatizzato anche
nella prassi aziendale.
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La variabile di contingenza considerata nel modello è la maturità dei collaboratori che
contraddistingue quattro situazioni. La prima è caratterizzata da un livello di maturità (M1) in
cui i collaboratori non sanno svolgere il loro compito, hanno bisogno di supporto tecnico e il
leader deve, innanzitutto, insegnare loro a "fare", per cui uno stile orientato al compito (S1) è
ritenuto quello più adatto. Dal momento in cui i collaboratori iniziano ad apprendere, aumenta
il loro livello di maturità tecnica (M2) ed a questo punto il leader dovrà supportarli anche
emotivamente passando allo stile di vendita (S2). Attraverso tale comportamento i
collaboratori hanno la possibilità di migliorare le competenze tecniche ed iniziare ad acquisire
maturità psicologica. Quando i collaboratori hanno acquisito una completa maturità tecnica,
hanno imparato a svolgere bene il loro lavoro (M3), non sarà più necessaria l'attenzione del
leader verso il compito, ma il suo comportamento dovrà essere finalizzato al raggiungimento di
una completa maturità psicologica adottando lo stile S3 (partecipativo). Solo quando i
collaboratori saranno messi in grado di prendersi la responsabilità del loro operato,
raggiungeranno il livello massimo di maturità (M4) e il leader dovrà passare dallo stile
partecipativo allo stile di delega (S4), lasciando realizzare ai propri collaboratori il compito
assegnato in modo autonomo.
La teoria di Hersey e Blanchard risulta innovativa per la visione della leadership come
processo dinamico e non come situazione statica; attraverso le modalità illustrate dagli
autori il leader conduce il gruppo in un processo di crescita e di acquisizione della completa
maturità lavorativa, costituita dal saper fare, ma anche dal saper essere responsabili del
proprio lavoro. Il leader, per risultare funzionale a tale sviluppo, deve avere una buona
capacità diagnostica della situazione, ovvero della maturità dei collaboratori, inoltre deve
essere flessibile e capace di adottare stili diversi nei momenti opportuni, dimostrandosi
capace di delegare quando i collaboratori si dimostrano capaci.
Il modello della Leadership Situazionale di Hersey e Blanchard
V S2
e
S3
r
s
o
l
e
r
e
l
a
z
i
o S2 S1
n
i
Verso il compito
M4 M3 M2 M1
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Fonte: Hersey e Blanchard, 1982.
Tale comportamento, come aveva già osservato Gellerman risulta piuttosto difficile perché
corrisponde, per il leader, ad una rinuncia del proprio potere.
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degli obiettivi comuni.
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esempio: leader politico, religioso, sportivo, aziendale, sociale, militare, educativo, etc.
Ad un terzo stadio, all'interno di ognuna di queste categorie i leader vengono categorizzati in
base al livello gerarchico: top e middle manager, cardinale e vescovo, generale e caporale.
Dagli studi che si sono proposti di indagare quali siano le caratteristiche associate al prototipo
di leadership, emerge come condizione sine qua non, l'essere percepiti come in-group:
secondo la teoria dell'autocategorizzazione del leader (Hogg, 1996) il leader è colui che ricopre
la posizione gruppale maggiormente prototipica, ovvero quella che implica quei comportamenti
ai quali la maggior parte dei membri del gruppo si conforma.
Una delle ricerche più vaste svolte sulla percezione del leader è costituita dal progetto GLOBE
(Den Hartog e colleghi, 1999) che ha coinvolto più di 15000 middle-manager in 60 Paesi. Tra i
risultati ottenuti dalla ricerca emergono, come caratteristiche prototipiche universalmente
riconosciute:
onestà, giustizia, incoraggiamento, capacità di motivare, confidenza, dinamicità,
comunicazione, coordinamento, orientamento all'eccellenza, intelligenza.
Gli attributi universalmente non rispondenti al prototipo di leader risultano essere: asociale,
irritabile, solitario, egocentrico, non esplicito, non cooperativo e dittatoriale.
8. 1 La cultura organizzativa
La cultura è strettamente connessa con la presenza umana nell'organizzazione, essendo il
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prodotto di pensieri, valori delle persone che ne hanno fatto parte in passato e che continuano
ad operare nel presente. Essa, intesa come sistema di valori condivisi, è un codice di condotta
che le persone possono utilizzare. Inoltre permette di chiarire le motivazioni che stanno alla
base dei comportamenti. La vera valenza della cultura si misura nei momenti di crisi o di forte
cambiamento, quando è in gioco la sopravvivenza dell'organizzazione; in tal caso la cultura è la
risorsa primaria a cui si può attingere.
Jacques (1951), fondatore della socio analisi, è tra i primi studiosi ad occuparsi di
cultura organizzativa. Da qui emerge l'esigenza di una definizione formale di cultura
ma tra gli studiosi non sembra esserci uniformità interpretativa.
La principale interpretazione:
è un insieme di comportamenti usati regolarmente quando le persone interagiscono.
La cultura è intesa come ideologia di organizzazione che dà impronta al comportamento dei
suoi membri. È il modo in cui la gente si comporta, il modo in cui le persone pensano e
sentono, il modo con cui esse si trattano reciprocamente.
Ma la definizione maggiormente diffusa nell'ambito degli studi organizzativi e quella proposta
da Schein (1985):
" la cultura organizzativa è un insieme di assunti di base, scoperti da un gruppo quando impara
ad affrontare i propri problemi di adattamento con il mondo esterno. Esso si è rilevato così
funzionale d'essere considerato valido e, quindi, d'essere indicato a quanti entrano
nell'organizzazione come il modo corretto di agire in funzione di quei problemi che l' hanno
generata ".
ESPRESSIONI E CREAZIONI
Visibili ma spesso non
Tecnologia
decifrabili
Arte
Modelli di comportamento visibili e udibili
Maggior livello di
VALORI consapevolezza
ASSUNTI DI BASE
Relazioni con l’ambiente Dati per scontati
Natura della realtà, del tempo, dello Invisibili
spazio
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interpretare. Essi ci consentono di descrivere il fenomeno culturale.
I valori rappresentano nella funzione normativa, il modello di comportamento desiderato.
Quando l'organizzazione adotta una soluzione e questa ha successo, da quel momento in poi il
valore sottostante subirà una " trasformazione cognitiva "; tramuterà in una convinzione,
valida nel tempo e per la quale i membri del gruppo troveranno non accettabile qualsiasi
azione basata su presupposti diversi.
Gli assunti di base sintetizzano le risposte che quel gruppo ha ritenuto più efficaci per risolvere
una categoria di problemi. L’ insieme degli assunti di base di un'organizzazione è definito
paradigma culturale. Il paradigma culturale è un insieme di assunti interrelati che formano un
modello coerente.
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a rinnegare alcuni dei suoi assunti culturali e ad apprenderne di nuovi. La funzione unica ed
essenziale della leadership è la manipolazione della cultura.
La cultura d'azienda non nasce dal nulla; non vi è dubbio che la forza che inizialmente dà
forma alla cultura, è costituita dalla personalità e dalle convinzioni del fondatore.
La cultura organizzativa influenza la maggior parte degli aspetti dell'azienda.
La cultura di aziende di successo è di recente costituzione; ha buone possibilità di essere una
cultura forte perché sono ancora presenti in azienda i creatori della cultura primaria.
I nuovi membri che entrano a far parte di un'organizzazione al primo stadio di crescita,
apprendono quei valori culturali che il fondatore o i fondatori gli hanno inizialmente trasmesso.
Se il fondatore o la sua famiglia esercitano ancora un ruolo determinante nell'organizzazione
non ci sarà un grosso cambiamento culturale.
La preparazione alla successione è normalmente difficile quando la presenza dell'imprenditore
fondatore è tesa a mantenere un elevato livello di controllo sull'organizzazione e quindi ad
imporre i propri modelli culturali. Si riscontra infatti quanto spesso la preparazione dei
successori nelle aziende sia di fatto ufficializzata, ma nella realtà, ostacolata con atteggiamenti
volti ad evitare che gli incarichi vengano affidati a persone competenti e forti. L'imprenditore-
proprietario quando si inseriscono nuovi dirigenti, rimane sempre il capo. In questo caso è
fondamentale la figura del leader, cioè di colui che presiede al cambiamento dei valori.
Il legame tra famiglie e organizzazione si manifesta per esempio attraverso la continuità tra gli
spazi abitativi della famiglia e gli spazi produttivi dell'impresa; attraverso la mescolanza degli
aspetti economico-finanziari, a tal punto che talvolta è difficile distinguere il patrimonio
aziendale dal patrimonio familiare.
È indubbio che la paralisi gestionale di molte piccole e medie imprese si manifesta proprio in
coincidenza del ricambio generazionale.
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Climate; Small Business Assessment, Campbell Organizational Survey; Organizational Climate
Exercise.
Il concetto è sempre quello del questionario con risposte di tipo Likert a 5 o 6 punti e
l'obiettivo è di misurare gli atteggiamenti dei dipendenti nei confronti dell'organizzazione e
quindi valutare il clima, la leadership, le relazioni con i colleghi e i risultati.
9.1 La comunicazione
Nel corso degli anni, a partire dal 1950, si sono susseguite varie teorie sul significato
di comunicazione. I primi studi sull'argomento risalgono al 1949 anno nel quale
Shannon e Weaver elaborano una teoria secondo cui la comunicazione è " un
passaggio di informazioni attraverso un canale, sotto forma di messaggio, da un
emittente che codifica ad un ricevente che decodifica " pertanto ovviamente affinché
il messaggio si trasmetta, è necessario che i soggetti interessati adottino un codice
quantomeno simile; la debolezza della teoria shannoniana risiede proprio in questo:
non considera i contesti culturali.
Negli stessi anni Lassewell (1948) conia un'efficace paradigma per definire la comunicazione
evidenziandole gli aspetti dinamici:
" chi dice che cosa, con quale canale, a chi, con quale effetto " distinguendo:
• un'emittente (chi) che instaura il processo
• un messaggio (che cosa) sia verbale che non verbale
• un canale (con quale canale), cioè il mezzo di trasmissione
• uno o più riceventi (a chi), in grado di comprendere il messaggio
• un effetto che la emittente desidera suscitare nei destinatari.
Ma è alla fine degli anni ‘60 con la scuola di Palo Alto, dello psicologo Watzlawick (1967), che si
evidenziano le implicazioni interpersonali indicando cinque assiomi della comunicazione:
1) non si può non comunicare; tutto ha valore di messaggio, anche se non si esercitano
espressi atti comunicativi (es.body language, silenzio)
2) ogni comunicazione presenta un aspetto di contenuto (il significato del messaggio) ed uno
di relazione (come il messaggio viene comunicato). Per esempio un insulto, ha un aspetto di
contenuto, ma cambia l'effetto a seconda della relazione che intercorre tra gli interlocutori (se
amichevole produce un effetto scherzoso, se di contrapposizione susciterà una reazione)
3) la natura e la durata della comunicazione dipende dalla "punteggiatura" delle sequenze
comunicazionali. La comunicazione è circolare e gli scambi comunicazionali non sono sequenze
ininterrotte; esse seguono una logica interrotta da una " punteggiatura "(le sequenze sono
come singoli periodi di un discorso, ognuno con una propria conclusione, inseriti però nella
totalità del discorso). A seconda del punto da cui si parte, la comunicazione assume significati
e logiche differenti.
A
4) gli esseri umani comunicano con il modulo numerico e con il modulo analogico:
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• modulo numerico = comunicazione verbale
• modulo analogico = comunicazione comportamentale
5) tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che si basino
sulla uguaglianza o sulla disuguaglianza. Le relazioni complementari, basate sulla
diseguaglianza, sono più funzionali; le relazioni simmetriche, basate sull'uguaglianza, sono più
conflittuali.
9. 2 Comunicazione ed organizzazione
Tra organizzazione e comunicazione vi è una profonda connessione; è infatti attraverso la
comunicazione che l’organizzazione riesce a realizzare un fine comune a tutti i membri
dell'organizzazione stessa, rendendo questo fine conosciuto agli stessi. La comunicazione
organizzativa è dunque una funzione del management diretta a stabilire e mantenere
conoscenze e reciproche comprensioni sia all'interno che all'esterno dell'azienda.
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partecipazione e coinvolgimento.
Quindi clima e cultura sono due componenti che, attraverso la comunicazione, garantiscono un
assetto delle organizzazioni di alto livello. Non è infatti la quantità di informazioni di cui si
dispone a fare la differenza ma la capacità di interpretarle e valorizzarle.
La comunicazione interna che evolve in comunicazione organizzativa (di tipo formale)
multidirezionale si materializza in azioni di diffusione del consenso, di socializzazione, di
trasparenza. Essa assolve varie funzioni:
• regolatrice delle attività lavorative, attraverso istruzioni e comandi
• innovativa per facilitare favorire il cambiamento
• integrativa per motivare stimolare l'impegno e del consenso dei dipendenti
• formativa per sviluppare la capacità per fronteggiare il cambiamento.
9. 4 Strumenti di comunicazione
La trasmissione dei messaggi avviene attraverso i canali di comunicazione.
Essi possono essere:
• formali: previsti e pianificati dell'organizzazione: hanno la caratteristica della chiarezza
ma per essere efficaci devono godere di credibilità;
• informali: spontanei e non controllati, spesso vincolano sentimenti e norme condivise,
ma un loro uso eccessivo denuncia una carenza del sistema comunicativo formale.
Gli strumenti per la comunicazione utilizzabili sono molteplici ed ognuno gode di una diversa
efficacia. In fase di progettazione del sistema di comunicazione aziendale, occorre considerare
alcuni criteri che consentono una combinazione coerente con il sistema di management per
aumentarne l'efficacia; tali criteri sono:
1) accessibilità: cioè facilità d'uso;
2) attrattività: gratificazione nell'uso dello strumento;
3) presentazione dei messaggi: cioè formato proposto;
4) ritmo e velocità di emissione: la quantità dei messaggi con cui il fruitore è esposto;
5) potenza espressiva: capacità dello strumento di far circolare; comprendono le
informazioni;
6) persistenza: tipo e quantità di effetti che produce nel tempo;
7) flessibilità: capacità di sinergia con altri strumenti;
8) costi.
Gli strumenti di comunicazione si distinguono in
1) strumenti di comunicazione interpersonale:
• colloqui di selezione: valutazione;
• riunioni: (es. brain-storming);
• team briefing: (nelle gestioni partecipative) incontri di gruppo;
• circoli di qualità: rappresenta una modalità di gestione organizzativa;
• convention: cioè incontri di gruppi omogenei che si incontrano raramente tra loro;
• family day: portano le famiglie dei dipendenti a conoscenza dell'azienda;
• cene e gite aziendali: incontri sportivi, premiazioni;
• seminari
2) strumenti scritti
• house organ: periodico distribuito a tutti i dipendenti contenente notizie sulle attività e
sull'andamento dell'azienda
• newsletter: fogli informativi su temi specifici, indirizzati a personale specializzato; è
versatile economico e non ha vincoli di periodicità;
• bacheche;
• ordini di servizio
• rassegna stampa: raccolta di informazioni esterne alla organizzazione riguardanti temi
di interesse economico-politico;
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• year book: un documento che racconta la storia dell'azienda;
• relazione e bilancio;
3) strumenti a audio / video
• conversazioni telefoniche;
• annunci microfonici;
• web-cam
• telegiornale aziendale;
• video istituzionale: in cui si presenta l'azienda favorendo il senso di appartenenza
4) strumenti iconici
• cartellonistica: manifesti nei luoghi di lavoro;
• oggettistica: gadget vari dati in omaggio (col logo aziendale);
5) strumenti informatici
• posta elettronica e reti telematiche: che riducono simbolicamente le distanze;
6) altri strumenti, utilizzati per comunicare dal basso verso l'alto, sono:
• la cassetta delle idee;
• open door: dei dirigenti verso i sottoposti.
Uno strumento di forte impatto comunicativo è la formazione, la quale se è effettuata con
discontinuità può ledere l'immagine aziendale.
La formazione può essere:
• diffusa: finalizzata alla condivisione della cultura aziendale e dal miglioramento del
clima;
• mirata: per specifiche esigenze individuali
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capacità di leadership che gli consenta di andare oltre il semplice aspetto iconico del suo ruolo,
ma trovi un riscontro efficace in termini di efficacia, di efficienza e benessere organizzativo.
Non deve quindi essere una mansione di figure collocate in funzioni già esistenti, ma deve
rappresentare una funzione a sé.
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la fatica non fisica: lo stress da lavoro.
Lo stress non è però solo l'effetto di una mansione o di un compito gravoso, ma anche la
percezione da parte dell'individuo di essere inserito in un contesto organizzativo non
confacente (come risultante di rapporti sociali e formali). La fatica diviene segnale di consumo
di risorse in risposta a fattori che gravano sull'individuo quali i tempi di lavoro mentale, definiti
dall'ambiente e dalla non trasparenza del modello organizzativo del reparto o dell'ufficio (come
l'ambiguità del ruolo, la mancata definizione di obiettivi, la mancata formazione specifica, le
aspettative disattese). È il contesto organizzativo che assume grande importanza e dà effetti
diversi sui soggetti.
Infatti ciò che viene percepito da un soggetto in misura positiva, determinandone alti livelli di
motivazione, può essere percepito negativamente da un altro diminuendone il livello di
soddisfazione.
10.3 Le cause
La risposta adattiva dell'organismo alle sollecitazioni esterne descritte da Seyle si compone di
tre elementi:
1) stressor
2) individuo
3) ambiente in cui stressor ed individuo interagiscono.
Gli stressors possono essere di varia natura e determineranno stress di diversa natura, es.:
• esposizione al freddo = stress fisico
• bassa glicemia = stress metabolico
• prova d'esame = stress e psicologico
• un lutto = stress psico-sociale
l'intensità e la durata dello stimolo comporteranno effetti diversi; inoltre non sono solo gli
stressors vicini all'individuo a provocare una reazione.
Sugli organismi umani si è osservato che anche stimoli distanti dall'organismo interessato
possono provocare una reazione. Ciò è dovuto alla risonanza psicologica che essi possono
avere sull'individuo. Tale risonanza varia da soggetto a soggetto e dipenderà dalla personale
storia del soggetto che si è costruita attraverso l'esposizione a stressor di varia natura in
periodi critici dello sviluppo.
È Lazarus (1966) che mette in evidenza l'importanza della condizione psicologica e cognitiva
del fenomeno stress; e infatti rileva come sia importante la condizione soggettiva di cognizione
dello stressor, la quale determina risultati diversi. In base a questo egli afferma che lo stress
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psichico è un particolare tipo di rapporto tra persone e l'ambiente, un rapporto valutato da
persona come gravoso o superiore alle proprie risorse. Per L. quindi i punti essenziali della
situazione potenzialmente stressante sono:
1) la valutazione dell'individuo della situazione;
2) la frustrazione;
3) il conflitto.
Il conflitto si percepisce quando c'è presenza simultanea di due o più azioni o traguardi
tendenzialmente incompatibili.
Si avrà la frustrazione quando si dovrà rinunciare agli altri obiettivi per raggiungerne uno.
Antecedente alla frustrazione c'è la minaccia, la possibilità cioè del verificarsi della frustrazione,
ed è anch'essa determina stress.
La minaccia può nascere dal conflitto, ma la sua intensità dipende da quanto la persona sente
di poter fronteggiare il pericolo o dall'entità del danno (frustrazione che può verificarsi (il
danno può essere: fisico, psichico, sociale). Quindi se la persona sente di poterlo affrontare, la
minaccia è minima; se la persona si sentirà impotente la minaccia sarà forte.
Antonowsky e Kobasa individuano dei fattori di personalità che consentono di circoscrivere la
sensibilità allo stress. La personalità che possiede questi fattori viene definita vigoria
psicologica.
I fattori sono:
• commitment (impegno): credere in se stessi e nelle proprie possibilità;
• control (controllo): assunzione della piena responsabilità e gli eventi della propria vita,
senza scaricarla su altri; chi lo possiede sa di poter influenzare tali eventi a proprio
vantaggio.
• challenge (sfida): tendenza al cambiamento piuttosto che alla stabilità, vedendo
l'evento stressante come un'opportunità di cambiamento e quindi positivo piuttosto che
una minaccia alla tranquillità.
I soggetti che mostrano un alto livello di vigoria psicologica rispondono meglio allo stress
rispetto a chi l'ha basso. In sintesi una determinata circostanza ad un determinato stimolo può
diventare causa di stress solo in alcune condizioni particolari e può essere diversa da soggetto
a soggetto e per lo stesso soggetto con intensità diverse in epoche diverse.
Il significato attribuito allo stimolo da una persona è legato al suo carattere, alla sua
sensibilità, alle sue esperienze passate, al suo modo di valutare la vita. Ognuno di noi di fronte
ad una situazione stressante fa delle valutazioni personali che determinano un'emozione da cui
scaturirà una reazione o di fuga dalla situazione o di avvicinamento.
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10. 5 Modelli di stress
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farle mie, vivrò una situazione di distress; se i rapporti di collaborazione sono invece
solidi, si avrà gratificazione e motivazione lavorativa)
5) strutture organizzative e sul clima
come l'individuo percepisce il " clima " aziendale; se ha una percezione positiva è più probabile
che accetti di fare quanto richiestogli.
Ovviamente le fonti di stress, per loro natura oggettive, ingenerano nei diversi individui
reazioni diverse a seconda della loro caratteristica peculiare.
Cooper prende in considerazione elementi comportamentali quali l'estroversione,
l'introversione, l'ansietà. Egli inoltre considera un'altra caratteristica logica quale il locus of
control, distinto in:
• internal control: la capacità cioè di attribuire alle proprie iniziative le conseguenze
positive di un'azione
• esternal control: credere al fato, alla casualità, subendo così le situazioni
anche le interazioni casa/ lavoro determinano pressioni che influiscono sulla reazione
individuale allo stress lavorativo; queste pressioni determinano effetti sia positivi che negativi
in entrambe le dimensioni.
Cooper infine elenca gli effetti dello stress lavorativo suddivisibili in:
• effetti individuali (fisiologici = pressione arteriosa)
• effetti individuali comportamentali o psicologici (tabagismo, alcolismo, insoddisfazione,
riduzione dei livelli di aspirazione)
• effetti organizzativi (assenteismo, elevato turnover, scarsa attenzione al controllo della
qualità).
Questi effetti determinano vere e proprie "malattie organizzative ".
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10. 5. 3 Modello di Karasek (1979)
E’ focalizzato sull'interazione tra richieste oggettive dell'ambiente e la libertà di decisione del
lavoratore nella adempiere le richieste lavorative. Egli individua due elementi:
• la domanda (carico di lavoro, le richieste per eseguire una mansione)
• il controllo, cioè la capacità e la discrezionalità del soggetto nello svolgere il compito.
La risposta allo stress è determinata dal livello ed dalla combinazione dei due fattori.
H Lavori a b Lavori ad
Attivi alto strain
Domanda
L H
Controllo
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10. 5. 4 Modello di Cox e Mackay (1976,1978)
E’ un modello su base esplicitamente psicologica e dà centralità ai processi cognitivi e
percettivi individuali.
Infatti Cox non cataloga le situazioni semplicemente come stressogene o non stressogene solo
per parte della popolazione. Entra quindi in gioco la persona e la sua relazione con l'ambiente
circostante.
Per C & M lo stress insorge quando una situazione è percepita come minacciosa, essendo la
richiesta eccessiva rispetto alle capacità percepite della persona e dalle sue risorse per
fronteggiarlo.
Anche qui lo stress è risultato di un disequilibrio ma non come nel modello di Karasek tra
richiesta e discrezionalità, ma tra richiesta di capacità della stessa ad adattarvisi.
La risposta allo stress è un coping psicologico (con strategie cognitive e comportamentali) e
fisiologico. Se il coping è inefficace, allora lo stress prolungato provoca danni strutturali e
funzionali, ma le risposte sono soggettive.
Nel modello di Cox lo stress è parte di un sistema di transazioni (scambi) tra l'individuo e
l'ambiente.
Nel sistema vi sono diversi elementi:
• domande del sistema verso l'individuo
• reali capacità ed abilità dell'individuo;
• percezione delle proprie capacità da parte dell'individuo.
Quindi le capacità e le domande reali sono in realtà percepite dall'individuo. Quando sentirà
uno squilibrio tra richieste percepite ed abilità personali percepite, sperimenterà dello stress
(imbalance).
Il coping tenderà a modificare la percezione affinché la situazione stressogena si riduca.
Strategie inadeguate prolungheranno o pure aumenteranno l'esperienza di stress, provocando
il verificarsi di un coping anormale ed accelerando lo sviluppo di danni funzionali e strutturali.
10. 6 Il coping
Il coping è l’insieme di meccanismi di difesa attivati dall'individuo per gestire le situazioni
percepite come avverse o pericolose.
E’ quindi anticipatore del pericolo.
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Sono importanti anche le fonti (es. passate esperienze) a cui l'individuo può attingere per
affrontare la situazione.
Per L. sono importanti anche le risorse materiali (es. denaro) come fonte cui attingere per
ridurre la vulnerabilità alle minacce.
Stesso discorso per il benessere fisico.
Vi sono poi risorse attitudinali importanti per approntare un coping in modo efficace:
• attitudine a risolvere i problemi
• attitudine sociale, che permette di assicurarsi sostegno sociale
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nell'inconscio pensieri ed esperienze fonti di ansia.
• regressione: si cerca di tornare ad un tipo di vita passato che dà sicurezza.
• razionalizzazione: meccanismo involontario ed automatico con il quale si trova una
ragione falsa per render accettabile un fatto inaccettabile.
• compensazione: si intende supplire a proprie deficienze reali o immaginarie
• proiezione: si attribuiscono ad una fonte esterna aspetti di sé che si rifiutano
• negazione: si rifiuta di accettare, a livello conscio, un aspetto non piacevole della realtà.
Essa ha un fine protettivo ed è usata solitamente all'inizio del verificarsi della situazione
stressante.
Capitolo 11 - Il burnout
Il burnout è una forma di stress che colpisce in particolare le professioni che richiedono un
coinvolgimento emotivo forte rispetto alle richieste ambientali. Sono le helping professions,
quali medici, infermieri, assistenti sociosanitari.
Fu Freudenberger (1974) ad introdurre per primo il concetto di burnout. Egli lo definì " lo stato
di esaurimento determinato dall' aver che fare con altri in situazioni impegnative sotto il profilo
emotivo ".
Egli notò che il disagio non era provocato dall’avere che fare con malati, ma dal semplice
contatto con la gente.
La sindrome del burnout determina un sovraccarico di energie interne e le richieste esterne
eccessive conducono l'individuo ad accumulare una serie di situazioni negative (causate dallo
squilibrio) incontrollabili. La voglia di scappare si fa sempre più forte. È una sorta di corto
circuito emotivo che determina un distacco dell'operatore. Il burnout è una sindrome "
processuale " ed è pertanto suddivisibile in fasi.
Secondo Cherniss (1980) le fasi sono tre:
1) fase dello stress lavorativo provocato dallo squilibrio tra risorse e richieste;
2) fase dell'esaurimento causato dalla tensione, dalla fatica e dell'irritabilità;
3) fasi di difesa che si manifesta con distacco emotivo, con il ritiro, con il cinismo e con la
rigidità verso di utenti.
Per Edelwich & Brodsky (1980) le fasi sono cinque:
1) entusiasmo idealistico: spinge il soggetto ad intraprendere la professione;
2) stagnazione: in cui il soggetto percepisce che la professione non è sufficientemente
gratificante;
3) frustrazione: che rappresenta il core del corto circuito, per cui il soggetto si rende conto
dell'impotenza a modificare la situazione; può essere scatenata da molteplici fattori
(scarso apprezzamento, lavoro routinario, ecc.)
4) apatia: caratterizzata da rassegnazione, infelicità; le aspettative si abbassano e
l'impegno diminuisce.
5) intervento: si cerca di rendere reversibile il corto circuito o quanto meno di attenuare il
disturbo.
Per Maslach (1982) le fasi sono tre tra loro conseguenti:
1) sovraccarico: conduce il soggetto ad un esaurimento emotivo. Il continuo contatto con
la gente determina una situazione di squilibrio senza soluzione di continuità (distress)
2) spersonalizzazione: entro cui il soggetto reagisce con atteggiamenti distaccati e sempre
più burocratici nel tentativo di non farsi coinvolgere ulteriormente.
3) ridotta realizzazione professionale: fasi in cui emerge questa sensazione con
conseguente abbassamento del livello di autostima.
I sintomi sono vari e tale varietà dimostra la molteplicità degli aspetti problematici del
burnout: a disagi di tipo fisico si affiancano disturbi di tipo psicologico.
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Fig. Sintomi del burnout
1. Alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno
2. Sensazione di fallimento
3. Rabbia e risentimento
4. Senso di colpa a distanza
5. Scoraggiamento e indifferenza
6. Negativismo
7. Isolamento e ritiro
8. Senso di stanchezza
9. Guardare frequentemente l’orologio
10. Notevole affaticamento dopo il lavoro
11. Perdita di sentimenti positivi verso gli utenti
12. Incapacità di concentrarsi su quello che dice l’utente
13. Problemi di insonnia
14. Frequenti raffreddori e influenze
15. Eccessivo uso di farmaci
16 Alto assenteismo
Tuttavia non è la presenza del sintomo ad indicare lo stadio patologico: sarà pertanto utile
individuare quei segnali atti a valutare intensità, frequenza con la quale essi si manifestano ed
eventualmente avviare delle procedure per antagonizzarli.
Si instaura un circolo vizioso in cui soggetto abbasserà il livello della propria prestazione verso
l'utente il quale a sua volta gli restituirà un segnale di insoddisfazione che verrà percepito dal
soggetto come ulteriore fattore aggravante dello stress.
All'origine della sindrome del burnout contribuiscano tre elementi fondamentali:
1) La struttura organizzativa:
essa influisce sulla motivazione e, di conseguenza, sulla prestazione e gli operatori. Si può
suddividere ulteriormente in:
• struttura di ruolo: rappresentata dalla distribuzione dei compiti e dalle funzioni
dell'organizzazione. La tensione è generata dai conflitti (interni al portatore del ruolo;
es.: ci si aspetta troppo da me; tra diversi ruoli: due ruoli incompatibili per lo stesso
lavoratore; tra individuo e ruolo: il soggetto è frustrato perché non è più gratificato
oppure perché percepisce la propria incompetenza), dal sovraccarico (eccessivo carico
di lavoro o eccessiva responsabilità), dall'ambiguità di ruolo (insufficienti informazioni
relative a chi si occupa di una certa posizione oppure deve affrontare situazioni di
emergenza), mancanza di stimolazione (monotonia dell'attività lavorativa, mancanza di
formazione per accedere a mansioni più gratificanti).
• Struttura di potere: in relazione all'organizzazione verticistica della struttura. Se è
verticale formale, l'individuo percepisce la sua estraneità al processo decisionale e ciò
determina tensione emotiva ed alienazione.
• Struttura normativa: cioè la chiarezza degli obiettivi, l'imposizione di regole di
comportamento, le norme. È vero che la chiarezza degli obiettivi previene il burnout,
ma è altrettanto vero che ciò comporta una limitazione decisionale che può frustrare il
soggetto. Sentirsi partecipe alle attività dell'organizzazione è uno dei metodi migliori
per essere più efficienti produttivi.
2) i fattori individuali:
suddivisibili in tratti di personalità che condizionano la risposta alla situazione stressante:
• Ansia nevrotica: reazione che si manifesta con motivazione eccessiva oppure
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emotività ed instabilità;
• Sindrome di tipo A: si manifesta con eccessiva competizione, aggressività,
impazienza. I soggetti hanno la fastidiosa sensazione di mancanza di tempo; sono
maggiormente predisposti al burnout
• Luogo di controllo: locus of control, cioè la percezione più o meno accentuata di avere
il controllo della propria vita e delle proprie azioni.
• Flessibilità: adattabilità dell'operatore, che può generare conflitto sui ruoli da
assumere, a volte contraddittori e sovrapposti.
• Introversione: per cui se c'è conflitto le persone più estroverse trovano più facilmente
la risoluzione.
I cinque tratti influiscono sull'emotività dei soggetti e li rendono più vulnerabili allo stress.
Tra i fattori individuali assume importanza anche l'esperienza precedente: chi ha già affrontato
una situazione stressante affronta meglio il nuovo disagio.
3) gli aspetti culturali:
Dapprima i valori comunitari, quali la famiglia, aiutavano gli individui ad evitare frustrazioni
perseguendo obiettivi diversi dal lavoro. Ora non avendo più altre fonti di soddisfazione, essi si
concentrano sulle soddisfazioni professionali per cui pretendono non solo gratificazioni
economiche, ma anche psicologiche.
Per poter intervenire efficacemente affinché si prevenga al burnout, Cherniss suggerisce cinque
possibilità di intervento:
1) sviluppo professionale:
• adottare obiettivi più realistici
• far adottare ai soggetti obiettivi alternativi come fonte di gratificazione
• aiutare i soggetti ad attuare meccanismi di feedback che vi evidenzino vantaggi di
breve periodo
• fornire frequenti training
• insegnare allo staff a difendersi attraverso strategie di strutturazione del tempo
• orientare lo staff alla conoscenza del burnout
• fornire periodici " controlli del burnout " a tutto lo staff
2) struttura di lavoro e di ruolo testo: i ruoli e le strutture dell'organizzazione devono essere
flessibili essendo i soggetti diversi tra loro.Gli interventi possono essere:
• limitare il numero di utenti di cui lo staff è responsabile
• distribuire tra lo staff i compiti di difficili e meno gratificanti utilizzando anche più ruoli
per persona
• pianificare quotidianamente la distribuzione delle attività gratificanti e meno gratificanti
• permettere agli operatori di prendersi periodi di riposo strutturando i ruoli in modo da
avere comunque la copertura
• utilizzare eventualmente personale ausiliario per garantire la copertura
• limitare il numero di ore di lavoro
• non scoraggiare il part-time
• lasciare ad ogni membro dello staff la possibilità di creare nuovi programmi
3) sviluppo della gestione;
le scelte organizzative dei manager i quali è loro volta sono potenziali soggetti a rischio di
burnout. Le soluzioni proposte per permettere ai manager la gestione in modo proficuo sono:
• controllare la tensione di ruolo nei supervisori e di intervenire se diventa eccessiva
• creare sistemi di controllo per i supervisori
• creare programmi di training per i supervisori
4) il momento decisionale:
che passa attraverso la risoluzione dei conflitti, prima di tutte interni per poi risolvere quegli
esterni. I passi da compiere sono tre:
• creare meccanismi formali di gruppo per la risoluzione del conflitto e del problema
organizzativo
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• organizzare un training per la risoluzione del conflitto e la soluzione dei problemi di
gruppo per tutto lo staff
• accentuare l'autonomia della staff e la partecipazione alle decisioni
5) obiettivi e modelli di gestione:
• rendere gli obiettivi chiari e compatibili per quanto possibile
• sviluppare un forte ed originale modello di gestione che si discosti dai metodi
tradizionali superati
• rendere la formazione e la ricerca i maggiori obiettivi del programma.
Lo schema è:
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La sottoscala della realizzazione personale, infine, è composta da 8 item:
1) Posso capire facilmente come la pensano i miei utenti.
2) Affronto efficacemente i problemi dei miei utenti.
3) Credo di influenzare positivamente la vita di altre persone attraverso il mio lavoro.
4) Mi sento pieno di energie.
5) Riesco facilmente a rendere i miei utenti rilassati e a proprio agio.
6) Mi sento rallegrato dopo aver lavorato con i miei utenti.
7) Ho realizzato molte cose di valore nel mio lavoro.
8) Nel mio lavoro affronto i problemi emotivi con calma.
Essendo un processo che si sviluppa attraverso fasi successive, il burnout può essere
considerato una variabile continua che presenta un basso, moderato, o alto grado di sentimenti
provati (Maslach e Jackson, 1986):
in base allo schema è possibile costruire una matrice che evidenzia il livello di burnout in
relazione ai punteggi ottenuti per ognuna delle sottoscale:
Sottoscale
A B C
L L L H
Livello di Burnout M M M M
H H H L
si nota come un punteggio basso nelle sottoscale A e B ed alto nella sottoscala C determini un
livello basso di burnout e così via.
Maslach traccia un profilo di quello che può essere definito un lavoratore a rischio burnout: è
un individuo debole e remissivo con serie difficoltà a definire i confini tra sé e l'utente. Egli è
spesso incapace di esercitare un controllo della situazione e si rassegna passivamente alle
richieste che l'ambiente gli pone, anziché limitarle alla propria capacità di dare.
E' inoltre importante il contesto, o meglio la percezione della situazione contestuale da parte
del soggetto, legata agli aspetti organizzativi.Fischer (1983) individua un sintomo preliminare
al processo di burnout e forse anticipatore del processo stesso.
E' il worn out, che si caratterizza per un diffuso senso di diminuzione di autostima. Questo è
meno evidente del burnout dal punto di vista sintomatologico ma sicuramente più diffuso.
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Capitolo 12. Il mobbing
12.1 Premessa
Le vessazioni morali in ambito lavorativo hanno certamente una storia più remota del concetto
sotteso dall'espressione anglofona mobbing.
A nostro avviso è opportuno precisare che se da un lato si assiste ad una dilatazione del
fenomeno, indotta dalla pregressa ignoranza di specifici comportamenti vessatori
(mobbizzanti), è altrettanto vero che il fenomeno non sembra, essere emerso nella sua
effettiva e reale proporzione (Ege, 1996).
In altri termini, ampi strati di lavoratori sono investiti da questo problema senza peraltro
disporre di strumenti di difesa, sia per una genericità sintomatologica, sia per una diffusa
ignoranza della specificità del fenomeno.
Si potrebbe dire che nonostante la recente diffusione anche mediatica del concetto, il mobbing
rimane un affare per esperti (psicologi, medici ed altri a diverso titolo).
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comportamenti punta sulla reputazione della persona, utilizzando strategie per distruggerla
(pettegolezzi, offese, ridicolizzazioni, per esempio su handicap fisici, derisioni pubbliche per
esempio sulle sue opinioni o idee, umiliazioni).
Infine le azioni del terzo gruppo tendono a manipolare la prestazione della persona per
esempio per punirla (non gli/le viene dato alcun lavoro o gli/le vengono affidati compiti senza
senso, o umilianti, o molto pericolosi, ecc.)
Alcuni di questi comportamenti si possono trovare nella comunicazione umana quotidiana
(come essere ignorato dagli altri) o durante casuali litigi.
Sole se queste azioni vengono compiute di proposito, frequentemente e per molto tempo, si
possono chiamare mobbing» (Leymann ,1993, p. 273-274).
12.2.1 La vittima
Lo schema del mobbing prevede sempre una triade di attori:
1. la vittima cioè il soggetto sottoposto a mobbing;
2. il mobber cioè colui che svolge un ruolo attivo nel processo persecutorio;
3. gli spettatori che pur svolgendo un'azione diretta, spalleggiano indirettamente il mobber
esercitando un ruolo rilevante.
Walter (1993) così classifica la vittima del mobbing: è una persona che mostra dei sintomi di
malattia, si ammala, si assenta dal lavoro, si licenzia; è colpita da stress o da fenomeni
psicosomatici; ha un ruolo passivo all'interno del gruppo; si colpevolizza; appare insicura,
ritiene di sbagliare sempre tutto; manca di fiducia in se stessa ed è indecisa; rifiuta ogni
responsabilità.
Secondo Huber (1994) è possibile individuare quattro tipologie di soggetti predisposte a
divenire soggetti mobbizzanti:
1. una persona sola, per esempio l'unica donna in un ufficio di maschi;
2. una persona "strana": qualcuno che non si confonde tra gli altri ma che spicca per
qualche caratteristica personale che la rende diversa, per esempio per il modo di
vestirsi, un handicap fisico o per l'appartenenza ad una minoranza;
3. una persona che ha successo nel lavoro o nella vita privata, perché provoca invidie e
gelosie tra i colleghi;
4. una persona nuova, un nuovo collega che ricopre una posizione che prima apparteneva
ad una persona molto popolare.
Non disponiamo di sufficienti dati empirici per affermare che esistono potenziali vittime di
mobbing anche se una classificazione di tipi mobbizzanti può essere desunta dagli studi di
Nield (1995), Brinkmann (1995), Ausfelder (1995).
Ege (1996), pur riconoscendo che chiunque potrebbe essere vittima della persecuzione
psicologica costruisce un elenco, che evidenza alcune categorie di soggetti potenzialmente a
rischio mobbing.
• Il distratto: colui che non si accorge che qualcosa attorno a lui è cambiato e non si
trova in grado di valutare in modo oggettivo e corretto la situazione.
• Il prigioniero: colui che non trova in sé la capacità di sfuggire, cercare un'alternativa al
suo posto di lavoro, resta attaccato alla situazione e si lascia trascinare dagli eventi
senza reagire.
• Il paranoico: colui che sente l'ambiente come un posto pericoloso e pensa che in ufficio
sia colleghi che organizzazione siano contro di lui. Si tratta di persone che sono
maggiormente insicure ed estremamente suscettibili e ciò li porta a credere di essere
mobbizzate, anche se nella maggior parte dei casi all'inizio è solo una paranoica
autoconvinzione.
• Il severo: è colui che mantiene le sue regole in ogni situazione e pretende lo stesso
dagli altri.
• Il presuntuoso: il classico tipo che crede di essere molto più di ciò che è. Costui crea le
premesse perché i colleghi tramino contro di lui: in questo senso è generatore di
mobbing.
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12.2.2 Il mobber
Il mobber è l'aggressore.
Walter (1993) ne traccia un profilo:
• «Tra due alternative di comportamento sceglie quella più aggressiva;
• quando si trova in una situazione di mobbing si impegna attivamente affinché il conflitto
prosegua e si intensifichi;
• conosce ed accetta in modo attivo le conseguenze negative che il mobbing ha per la
vittima ("È colpa sua se lo trattiamo così");
• conosce ed accetta in modo passivo le conseguenze negative che il mobbing ha per la
vittima ("Cosa devo fare io? Non l'ho fatto per cattiveria, qualcuno deve pur perdere");
• non è consapevole delle conseguenze negative che il mobbing ha per la vittima ("Ma
cosa c'è che non va con te? Non fare la vittima!");
• non mostra alcun senso di colpa; non solo è convinto di essere senza colpa ma è
addirittura convinto di fare qualcosa di buono; dà la colpa ad altri ed è convinto d'aver
soltanto reagito a delle provocazioni» (Walter, 1993).
Ege (1997) ritiene di poter individuare due tipologie:
1. il mobber intenzionale
2. il mobber casuale.
Il mobber intenzionale ha la piena consapevolezza dell'azione persecutoria condotta e dei danni
che essa può provocare: lo scopo è ben delineato e volto a distruggere professionalmente la
vittima.
Il mobber casuale invece non ha la consapevolezza di esserlo in quanto il suo
comportamento deriva da un agire non pianificato, casuale, derivato da situazioni
contingenti.
Alcuni autori (Ege, 1996b; Ascenzi e Bergagio, 2000) hanno tentato di ricondurre il profilo
psicologico del mobber ad alcuni tipologie di soggetti.
• L 'istigatore: colui che cerca sempre nuove strategie per mobbizzare nella convinzione
di poter trarre vantaggio dalla distruzione della vittima.
• Il casuale: colui che diventa mobber per caso e inconsapevolmente.
• Il conformista: persona che con il suo atteggiamento si adegua alle azioni vessatorie e
le avvalla implicitamente.
• Il collerico: colui che non riesce a controllare l'ira e la violenza.
• Il megalomane: persona con una visone distorta di se stesso e che vuole essere sempre
al centro delle attenzioni altrui.
• Il frustrato: colui che scarica i suoi problemi personali sugli altri.
• Il criticone: persona non propositiva e scarsamente costruttiva.
• Il sadico: persona che prova piacere dalla sofferenza altrui.
• Il leccapiedi: che si atteggia nei confronti dei superiori ma è despota con i suoi
sottoposti.
• L'invidioso: persona che allontana coloro che vede come migliori di lui.
• Il carrierista: colui che deve vincere a tutti i costi.
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concorrono al processo di mobbing, le tipologie del sidemobber (mobber fiancheggiatore)
possono essere così riassunte (Ege, 1996):
• I side-mobber che aiutano concretamente il mobber con il loro sostegno e la loro
alleanza.
• Gli indifferenti che favoriscono il mobbing con il loro non-intervento contro le azioni
distruttive del mobber.
• Gli oppositori che cercano di aiutare la vittima o che non accettano in genere il clima di
tensione e conflitto e quindi cercano una soluzione.
Tra i profili psicologici dei co-mobber, Ege (1996b) riconosce:
il ruffiano, il servile, il leccapiedi; il diplomatico che si propone come intermediario; il
rinunciatario, che non vuole essere coinvolto; il falso-innocente, che si adegua alla
maggioranza; il premuroso, che spesso diventa invadente.
12.3 I sintomi
Riportiamo nella tabella 1 i sintomi più diffusi: le relative percentuali si riferiscono
alle risposte delle vittime che accusano il disturbo sempre o spesso.
Sintomi
Depressione, insonnia, apatia
84%
Insicurezza, paura del fallimento 73%
Agitazione 70%
Sonno interrotto, risveglio anticipato, insonnia 67%
Problemi di concentrazione e di memoria
66%
Come sostengono Papalia Mattei e Vinci (2002), il quadro sintomatico del mobbing può essere
assimilato a quello del burnout.
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sono le tre direzioni di provenienza e di esercizio dell'azione distruttiva.
1) Il mobbing dal basso si calcola possa essere esercitato solo nel 10% dei casi: infatti è
abbastanza difficile che gli atti mobbizzanti possano essere condotti da un membro
dell'organizzazione che ha una posizione gerarchica inferiore.
Una strategia può essere il sabotaggio (far andar male una lavorazione in una stessa area
aziendale).
Evidentemente, le ragioni che possono spingere un gruppo a simili comportamenti nei confronti
del capo sono individuabili: incompetenza, motivi etici, approccio non gradito nelle relazioni
interpersonali.
2) Il mobbing fra pari è quello che si sviluppa fra soggetti appartenenti allo stesso livello
gerarchico all'interno dell'organizzazione.
3) Il mobbing dall'alto è il più diffuso e consiste nell'azione svolta da un capo nei confronti di
un soggetto a lui sottoposto in linea gerarchica.
12.6 Le fasi
Si è già insistito nell'andamento processuale del mobbing, che secondo Leymann
(1993) si articola in quattro fasi. Tuttavia non sempre il fenomeno segue un
andamento rigorosamente fasico si può passare ad esempio dalla prima alla terza
fase senza necessariamente attraversare la seconda.
• La prima fase è definita conflitto quotidiano: il fenomeno può prendere origine da una
conflittualità anche banale fatta di episodi, di contrasti che non possono essere
ascrivibili al mobbing se non per l'intenzionalità di chi conduce l'azione. I limiti
temporali indicati da Leymann: il periodo di esposizione della vittima al processo di
mobbing deve essere superiore ai sei mesi ed avere una frequenza di fenomeni
aggressivi pari ad almeno uno alla settimana.
• La seconda fase costituisce l'inizio del mobbing vero e proprio e quindi del terrore
psicologico: è la fase in cui il conflitto matura e si stabilizza. La vittima può non avere
ancora la piena coscienza di essere nel mirino del mobber, che invece agisce con
chiaro intendimento di nuocere alla vittima prescelta. Se nella prima fase esistevano
margini di casualità, nella seconda l'intenzionalità del mobber domina la scena.
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personale è investita del problema: la vittima manifesta un evidente stato di disagio
con cali di rendimento qualitativo e quantitativo della prestazione lavorativa. Questo
stato di cose induce l'amministrazione del personale a favorire l'uscita dall'azienda del
dipendente che è divenuto ormai troppo scomodo per rimanere nella sua posizione. In
genere si agisce in modo da isolare il soggetto in mansioni meno qualificanti che
contribuiscono ad aggravare il suo stato già critico e ad acuire la sua percezione di
inadeguatezza alla situazione lavorativa.
• La quarta fase è quella dell'esclusione dal mondo del lavoro. È la fase di definitiva
capitolazione della vittima che può realizzarsi attraverso il trasferimento, le dimissioni,
il prepensionamento, il licenziamento (Qs condizione è più frequente in contesti
anglosassoni e scandinavi: la rete di protezione sindacale attiva in Italia offre garanzie
maggiori). La condizione estrema è quella di colui che di fronte all'insuccesso
oggettivo perviene all'autoconvincimento che evidentemente avevano ragione gli altri
(cioè che in lui c'era qualcosa di sbagliato). Il mobber può essere appagato dalla sua
vittoria o continuare il suo disegno persecutorio rivolgendo ad altri, le sue azioni
mobbizzanti.
12.9 La prevenzione
Sicuramente adottare strumenti informativi che ne spieghino le dinamiche. Tutti
possono essere vittime è quindi necessaria una formazione per preparare le persone
a riconoscerlo ed a denunciare il fenomeno. Si può sostenere il mobbizzato con
l’intervento di un consulente.
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meccanizzazione dei processi produttivi è l'aumento dei ritmi di lavoro dovuta alla
subordinazione dei tempi di produzione alle esigenze del processo. Non vi sono più i
presupposti per la "regolazione naturale " nei tempi di erogazione della prestazione, aspetto
questo che contraddistingue tutte le attività professionali in cui esista la possibilità da parte del
soggetto di organizzarsi in modo autonomo nei tempi, ritmi e pause di lavoro. Tale aspetto è
solo in parte mitigato da una riduzione dei carichi di lavoro ottenuti attraverso un
trasferimento alla macchina della componente fisica.
Grazie ai progressi compiuti dalle scienze umane si poté disporre di strumenti di indagine che
consentivano di studiare con maggiore attenzione l'uomo, giungendo all'individuazione delle
variabili da cui dipendono le inefficienze e delle condizioni patologiche come la fatica e lo
stress. In tale contesto storico si sviluppa l'ergonomia (dal greco: ergon = lavoro e nomos =
legge naturale), approccio disciplinare concepito da Murrell che nel 1949 propose il termine
Ergonomics per definire il gruppo di lavoro che operava secondo il motto:"to fit the job to
worker ", cioè " adattare il lavoro al lavoratore ".
Fig. L'ergonomia fonda le sue basi su numerose discipline, tanto che non è facile stabilire se
esiste una parte completamente indipendente dalle altre.
Discipline Ambientali
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condividono le loro esperienze creando una corpus di conoscenze applicative orientate al
benessere umano.
L'intervento economico può essere classificato in base ad un modello teorico di riferimento che
si fonda sul concetto di sistema di relazioni, al centro del quale è posto l'uomo: il sistema
uomo-macchina-ambiente (U-M-A).
Il sistema U-M-A e insieme di relazioni che si instaurano tra l'uomo e la macchina (U-M), tra
l'uomo e l'ambiente in cui opera (U-A) e tra l'individuo e gli altri membri della struttura
organizzativa (U-U).
MACCHINA (U-M)
UOMO (U-U)
Il sistema uomo macchina (U-M) concerne tutti gli aspetti che interessano i processi di
interazione del lavoratore con gli strumenti e le tecnologie che esso impiega per eseguire la
sua prestazione d'opera. La prospettiva economica prevede che tali artefatti debbano essere
adatti all'uso, ossia rispondere alle esigenze dell'operatore garantendogli di raggiungere in
sicurezza gli obiettivi del compito, con un impegno il più possibile contenuto sul piano fisico e
mentale. Così un utensile dovrà avere impugnature che consentano prese sicure e anatomiche
o una macchina disporre di leve di comando facilmente raggiungibili.
Con il sistema uomo-ambiente (U-A) si intende il complesso delle influenze che l'ambiente,
esercita sull'attività umana. Il contesto in cui opera lavoratore racchiude " l'ambiente che lo
circonda e nel quale egli deve lavorare, ma anche gli utensili e i materiali, i suoi metodi di
lavoro e l'organizzazione del suo lavoro”. In ergonomia il concetto di ambiente assume quindi
un significato ampio:
• le variabili proprie dell'ambiente quali: il microclima, l'illuminazione, il rumore, le
vibrazioni
• i fattori di rischio derivanti dalla tipologia di attività svolta quali: gas, fumi, polveri,
radiazioni
• le condizioni derivanti dall'organizzazione del lavoro e dalla strutturazione dei compiti
quali: fatica fisica, fatica mentale, monotonia, noia
Nell' approccio ergonomico, il sistema uomo-uomo (U-U) si propone di superare l'immagine
dell'uomo bue, ovvero di una forza lavoro che può essere impiegata liberamente come un
componente di un sistema meccanico. L'intento è invece quello di giungere ad una
valorizzazione della dimensione soggettiva del lavoro, basata sui rapporti interpersonali e sui
processi comunicativi che il lavoratore instaura con gli altri membri della sua organizzazione e
della società.
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azioni e dall'uso di strumenti
• rilevare quali effetti ha sulla mente umana l'uso di sistemi artificiali di elaborazione
dell'informazione
• fornire indicazioni per la progettazione delle interfacce uomo-computer
La macchina informatica moderna corrisponde allo stereotipo del piccolo mostro tecnologico
antisociale: lavora in silenzio, autonoma ed efficiente, preferisce evitare qualunque contatto
con la gente che le sta attorno.
Una delle conseguenze principali dell'avvento della tecnologia e dell'informatizzazione, sotto il
profilo umano, è stato il progressivo allontanamento del lavoratore dall'oggetto lavorato.
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esterni ed interni: coinvolgimento dei soggetti, valorizzazione delle risorse devono diventare
l'ispirazione per il top management.
Le definizioni di qualità sono molteplici:
" modo di gestire un'organizzazione che intende guidare il sistema aziendale verso la
soddisfazione del cliente e la massima razionalizzazione delle risorse attraverso il continuo
miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza dell'organizzazione e dei suoi processi. La sua
applicazione richiede da un lato, un cambiamento culturale interno che porti ad una modifica
dei rapporti con i dipendenti, i fornitori ed i clienti; dall'altro, l'adozione della diffusione di
nuove tecniche di comunicazione, di problem solving, e altro.
I principi fondamentali del Total Quality Management sono: attenzione cliente, impegno della
Direzione, coinvolgimento del personale, gestione dei processi, capacità di instaurare
collaborazioni a lungo termine con i propri partners.
Va posto in evidenza che non si fa qualità senza una cultura della qualità: "prima di fare "
bisogna " essere " qualità.
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• La motivazione del dipendente
Nuove forme di lavoro si sono affacciati al mercato a partire dagli anni '80. Il telelavoro e il
lavoro interinale.
15.1 Il telelavoro
E' un lavoro decentrato che avviene sulla base di scambi di informazione. Dal punto di vista
tecnologico è figlio della rivoluzione elettroniche di informatica e sfrutta l'informazione. La
persona diviene imprenditore di se stesso, responsabile del tempo dello spazio in cui opera e
liberato dalla coercizione di un rapporto di dipendenza soprattutto psicologica. Il telelavoratore
può lavorare da casa propria, in campagna, in barca mescolando il lavoro con altre attività.
Sparisce il concetto di dentro e fuori dai luoghi del lavoro, il lavoro non ha più quel posto
specifico determinato. Tutto ciò però non avverrà con rapida diffusione, oggi si può stimare
intorno al 2% la quantità di soggetti impiegati nel telelavoro.
Questa modalità lavorativa rappresenta senz'altro una conquista in termini di flessibilità con
evidenti ricadute economiche mediante la riduzione degli spazi utilizzati e le conseguenti spese
di gestione.
Dal punto di vista dei sindacati l'opposizione è prudente. Oltre che per gli aspetti legali anche
per gli aspetti politico-sociali legati alla mancata coesione che deriva da una condizione
lavorativa para-artigianale del tutto distante dall'aggregazione che si trova in contesti
socializzati.
Dal punto di vista aziendale la precaria socializzazione può portare ad una minore
fidelizzazione nei confronti dell'azienda.
Dal punto di vista relazionale può portare a un progressivo isolamento che può divenire
emarginazione portando a frustrazione se all'interno del contesto gruppale prossimo (famiglia,
amici) non trovo un minimo di gratificazione.
Il rapporto con i colleghi non è più lo stesso c'è il rischio che non ci si sente più componenti di
una stessa squadra.
La soluzione a questo problema sarebbero alcuni rientri settimanali omissivi programmati
all'interno dell'azienda.
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validi vengono stabilizzati nella posizione che sono andati a ricoprire.
Da un punto di vista amministrativo dell'azienda che ricorre lavoro interinale può disporre di
una prestazione quasi immediata evitando la gestione di aspetti burocratici pesanti sul piano
amministrativo. Ciò è molto vantaggioso nei contesti di piccole dimensioni.
La funzione formativa è implicitamente assolta dall'impresa di lavoro interinale in quanto si
rende garante del livello di competenza richiesta dall'azienda.
Al di là degli indubbi vantaggi di un lavoro fluido, ci sono gli svantaggi di rapporti volatili. Il
lavoro sarà brain consuming non più time consuming come era stato nell'epoca fordista e
taylorista; infatti si prevede che per i giovani diventerà una situazione intimamente instabile.
I lavoratori assumono all'interno dell'impresa utilizzatrice una posizione periferica rispetto ai
dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato.
Bisogna considerare anche che però non tutti i lavoratori temporanei siano in cerca di un
impiego permanente ma molti potrebbero anche non essere interessati alla stabilità, per
esempio per avere flessibilità di orari, per esaminare nuove opportunità e relazioni, per poter
variare gli incarichi, per migliorare una situazione difficile. Comunque il lavoratore interinale in
genere considera il lavoro come una soluzione di lungo periodo. Pertanto la maggior parte di
essi inizia ogni nuovo incarico con la motivazione principale di trovare un lavoro stabile.
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