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Articoli e commenti

Appunti di diritto dell'impresa


Articolo, 13/09/2016

Di
Gaetano Anzani
Pubblicato il 13/09/2016

Diritto oggettivo, norma giuridica, ordinamento giuridico - Fonti, interpretazione e partizioni del
diritto - Situazioni giuridiche soggettive: diritto soggettivo e obbligo

La funzione del diritto è quella di consentire un ordinato svolgimento della vita sociale, di cui assicura
le condizioni e garantisce l’esistenza e la persistenza: società e diritto sono fenomeni inscindibili,
sicché l’affermazione del giurista romano ubi societas ibi ius può anche essere capovolta in quella
ubi ius ibi societas.
Il «diritto oggettivo» è l’insieme delle «norme» (comandi, divieti o regole permissive) che
compongono la regolamentazione delle relazioni sociali secondo un criterio di regolarità costante.

Oltre che di diritto oggettivo, si parla anche di «ordinamento giuridico» per ricomprendere non solo
il complesso delle regole di condotta (ad es., non uccidere o fermarsi allo stop), ma anche il complesso
delle regole di organizzazione della società (ad es., le regole che presiedono al funzionamento del
Parlamento e del Governo o alla formazione delle leggi), che si caratterizza per le tre funzioni
fondamentali della «legislazione» (creazione di norme), dell’«amministrazione» (cura
dell’esecuzione delle norme per attuarne gli scopi) e della «giurisdizione» (statuizione di quale norma
vada applicata ad un caso concreto e composizione di controversie).

Una norma si risolve (o può comunque essere tradotta) in un periodo ipotetico rappresentato da due
proposizioni, delle quali l’una descrive una «fattispecie» (species facti), ossia contiene la previsione
di un fatto “tipico” (immagine-tipo di un fatto, di una situazione) che potrebbe verificarsi, e l’altra
ricollega ad essa uno o più «effetti giuridici», ossia delle conseguenze di ordine giuridico: ciò serve
a far sì che a tutti i fatti concreti rientranti nella fattispecie di una norma possano o debbano
ricollegarsi gli effetti da essa stabiliti. La norma deve perlopiù avere il requisito della «astrattezza»,
ossia dev’essere suscettibile di applicazione in tutti i casi concreti che si verifichino nel corso del
tempo con le caratteristiche essenziali previste nella fattispecie, ed il requisito della «generalità»,
ossia dev’essere applicabile nei confronti di tutti coloro che si trovino nella situazione descritta nella
fattispecie. Ad es., chiunque uccide un uomo, è punito con la reclusione (se taluno uccide un uomo,
è punito con la reclusione); se taluno ha prestato il proprio consenso alla stipulazione di un contratto
a causa del dolo (dei raggiri) altrui, può domandare l’annullamento del contratto entro cinque anni
dalla scoperta del dolo.

In senso tecnico, per «norma» si intende il risultato dell’attività interpretativa (o ermeneutica) svolta
dagli interpreti, ad es. dalla «dottrina» (cioè dagli studiosi del diritto nei propri scritti scientifici) o
dalla «giurisprudenza» (ossia dai giudici nei propri provvedimenti) su una «disposizione» (cioè su un
enunciato scritto dotato di portata precettiva, come quelli contenuti in articoli di legge o di
regolamento). L’interpretazione, che è a sua volta disciplinata nelle c.d. “Preleggi” – ossia le
disposizioni preliminari al Codice Civile – e deve tener conto (ai sensi dell’art. 12 delle Preleggi) del
criterio letterale, del criterio fondato sull’intenzione del legislatore e (ora) anche della necessità di
tentare sempre l’armonizzazione del diritto vigente con i superiori principi costituzionali, implica
comunque un margine più o meno ampio di discrezionalità, che è massima per le disposizioni
formulate in termini molto elastici ed indeterminati, come le «clausole generali» (ad es. la buona fede,
il buon costume o l’“ingiustizia del danno” ex art. 2043 c.c.): ciò permette all’interprete il continuo
adattamento del diritto scritto, di per sé connotato da forte staticità, alle mutevoli esigenze della realtà,
nonché il coordinamento tra le varie disposizioni vigenti in modo da evitare contraddizioni tra le
norme destinate ad essere applicate nei casi concreti.

L’interpretazione serve anche ad individuare la norma da applicare ad un caso concreto, sebbene


manchi una disciplina specifica già “a colpo d’occhio” (ictu oculi) riferibile ad esso, ad es. con
l’«interpretazione estensiva» (che attribuisce ad una disposizione un significato più ampio di quello
normale o di quello precedentemente attribuitole) o l’«analogia» (che consente di applicare ad un
caso concreto una norma dettata per una categoria di casi diversi, eppure accomunabili sotto la stessa
disciplina per la presenza di un’identità di ratio, cioè di ragion d’essere, di quella norma).

Le norme «cogenti» o «inderogabili non possono essere sostituite dai privati con norme alternative
prodotte nell’esercizio della loro libertà (o appunto “autonomia”), come ad es. con apposite clausole
contrattuali, perché rispondono ad interessi generali o comunque primari. Tra le norme inderogabili,
particolarmente importanti sono le norme di «ordine pubblico», che esprimono i valori fondamentali
e caratterizzanti dell’intero ordinamento giuridico.

Le norme «derogabili» possono invece essere modificate o sostituite dai privati.

Le norme «suppletive» sono poi quelle che si applicano solo se i privati non abbiano stabilito
diversamente nel regolare i propri rapporti.

I «principi generali» sono le “direttive”, le norme generalissime che ispirano l’intero ordinamento o
un suo settore e che si possono desumere da una o più norme specifiche (ad es., dallo specifico divieto
di fumare in luoghi pubblici si può desumere il principio generale della necessaria tutela della salute
umana). Se l’interpretazione estensiva o quella analogica non soccorrono per individuare la norma
con cui risolvere un caso concreto, il giudice applicherà in ultima istanza i principi generali.

Le «fonti di produzione» del diritto sono i modi ed i procedimenti con i quali le norme vengono ad
esistenza (ad es., l’attività legislativa del Parlamento o quella regolamentare del Governo), mentre le
«fonti di cognizione» del diritto sono i documenti, i testi ufficiali che contengono le disposizioni
normative e consentono di prenderne conoscenza (ad es., le leggi o i regolamenti intesi quali
documenti).

Le fonti del diritto possono essere scritte, come le leggi o i regolamenti, o non scritte, come gli usi (o
consuetudini).

Le fonti e la “gerarchia” delle fonti sono disciplinate nella Costituzione e nelle Preleggi: la
Costituzione (entrata in vigore nel 1948) prevale sulle leggi, le leggi sui regolamenti, il diritto scritto
sulle consuetudini.

Per regola generale, suscettibile però di eccezioni, una nuova disposizione non ha efficacia retroattiva,
cioè si applica solo a casi che si verifichino dopo la sua entrata in vigore (che avviene, di solito, il
quindicesimo giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale o, per gli atti
normativi diversi dalle leggi, su analoghi organi ufficiali).

Una disposizione cessa di avere vigore quando viene abrogata o espressamente o implicitamente (per
incompatibilità con una disposizione sopravvenuta) oppure se viene dichiarata incostituzionale dalla
Corte Costituzionale.

I «fatti giuridici in senso lato» sono tutte le situazioni, naturali o umane, alle quali una norma ricollega
effetti giuridici: ricomprendono i «fatti giuridici in senso stretto», che consistono in semplici eventi
naturali, e gli «atti giuridici in senso ampio», che consistono in comportamenti umani o
manifestazioni di volontà umana.

Gli atti giuridici in senso ampio ricomprendono a propria volta gli «atti giuridici in senso stretto», o
«meri atti giuridici», che rilevano per la volontarietà del solo atto in sé e non dei suoi effetti, e «negozi
giuridici», che rilevano per la volontarietà tanto dell’atto quanto dei suoi effetti (dato che si tratta di
manifestazioni di volontà dirette alla produzione di determinati effetti giuridici).

I negozi possono essere unilaterali, cioè compiuti da un’unica parte, bilaterali, cioè compiuti da due
parti, oppure plurilaterali, cioè compiuti da più parti. Tra i negozi bilaterali o plurilaterali, particolare
importanza hanno i «contratti» (artt. 1321 e ss. c.c.).
Il diritto risulta dell’interazione degli assetti sociali e delle forze che detengono il potere politico in
un dato momento storico, perché i precetti giuridici hanno lo scopo di permettere il soddisfacimento
di certi interessi in un certo modo ed è il potere politico che, nell’elaborare i precetti, determina gli
interessi da soddisfare e le modalità del loro soddisfacimento. Pertanto, il diritto non si identifica con
la «giustizia», cioè con l’ideale aspirazione ad un sistema nel quale veramente possa dirsi che la
libertà di ognuno coesiste armonicamente con quella di tutti gli altri “consociati” (ossia dei membri
della stessa comunità sociale).

Il diritto si distingue da altre regole che pure mirano a disciplinare le relazioni sociali, come quelle
della morale, della religione o della buona educazione, sia per l’ampiezza delle sue aree di
applicazione, che coprono quasi tutti gli aspetti della vita sociale ed individuale, sia per la possibilità
di imporsi nei confronti di chi non intendesse osservare spontaneamente le regole giuridiche. Sotto
quest’ultimo aspetto, la violazione di una regola ad es. morale implica solo la riprovazione sociale,
mentre una regola giuridica comporta una sanzione giuridica (ad es. una multa o il carcere) o l’operare
di meccanismi che assicurino il ripristino dell’ordine violato (ad es., la nullità del contratto contrario
ad una norma imperativa): il diritto è dunque caratterizzato da «coattività», ancorché non sempre da
«coercitività» (che consiste nella possibilità di ripristinare l’ordine giuridico violato tramite la forza
pubblica).

Esiste una pluralità di ordinamenti giuridici (ad es., quelli dello Stato centrale, delle Regioni, delle
associazioni sportive o ricreative, dei partiti o della Mafia), i quali, fin dove è possibile, possono
convivere, intrecciarsi, coordinarsi ed interferire. Se però un ordinamento è in insanabile contrasto
con un altro (ad es. quello mafioso nei confronti di quello statale), uno dei due deve prevalere a scapito
dell’altro sulla base di una qualche regola. L’ordinamento statale, che è quello “maggiore” o
“generale”, tendenzialmente prevale sempre su tutti gli altri ordinamenti “minori” con esso
incompatibili, ed in tal senso è «esclusivo», ma lo stesso ordinamento statale deve talvolta cedere il
passo ad ordinamenti superiori come quello internazionale o quello dell’Unione Europea.

Il diritto può suddividersi in varie branche (civile, penale, pubblico, internazionale, amministrativo e
così via), a seconda delle aree e dei fenomeni che disciplina. La principale distinzione è tra «diritto
pubblico», che disciplina sia l’organizzazione dello Stato sia il soddisfacimento e la tutela di interessi
collettivi, e «diritto privato», che disciplina i rapporti tra individui, cioè tra soggetti dell’ordinamento,
e dunque il soddisfacimento degli interessi dei singoli, ossia appunto dei “privati”.

Il diritto privato regola situazioni e rapporti sia patrimoniali sia non patrimoniali (o personali). Esso
si distingue a sua volta in varie branche (diritto civile, diritto della famiglia, diritto del lavoro, diritto
commerciale e così via).

La fonte principale del diritto privato in generale, ed anche del diritto commerciale, è il Codice Civile,
entrato in vigore nel 1942 (sebbene sia stato successivamente modificato in molti punti): il Codice è
composto da sei libri, ogni libro si divide in capi, ogni capo in titoli, ogni titolo (talvolta) in sezioni,
ogni sezione in articoli ed ogni articolo in commi. Bisogna però tenere conto anche di alcune leggi
speciali.

Il diritto c.d. “oggettivo”, inteso come insieme delle norme vigenti, si rivolge a «soggetti giuridici»,
ovvero a tutti coloro che devono osservare tali norme, e risolve tra loro dei “conflitti di interessi”.

L’«interesse» (in senso giuridico) è la tensione verso un «bene» (in senso giuridico), cioè una risorsa
“scarsa” in grado di fornire un’utilità capace di soddisfare un qualche “bisogno”. Dato che rispetto
ad un bene più soggetti possono nutrire interessi contrapposti, il diritto oggettivo stabilisce quale
soggetto è legittimato a soddisfare un proprio interesse a scapito di quello/i altrui nel caso in cui i
soggetti dell’ordinamento vantino interessi tra loro incompatibili. Il diritto oggettivo attribuisce infatti
ai soggetti «situazioni giuridiche soggettive», ossia determinate “posizioni” all’interno
dell’ordinamento rispetto ad interessi giuridicamente rilevanti e quindi anche rispetto agli altri
soggetti.

Le relazioni giuridicamente rilevanti tra i soggetti giuridici, e quindi anche tra le situazioni giuridiche
soggettive delle quali i soggetti sono titolari, si denominano «rapporti giuridici».

Le situazioni giuridiche soggettive più importanti del diritto privato in generale sono i «diritti
soggettivi», tra i quali particolare rilievo hanno i «diritti reali» e i «diritti di credito», e l’«obbligo»,
che è una situazione soggettiva correlata ad un diritto di credito.

Il diritto soggettivo si compone di facoltà/poteri che possono essere esercitati per soddisfare un
proprio interesse.

I diritti reali si chiamano così in quanto hanno ad oggetto delle res, cioè delle “cose” (porzioni del
mondo fisico, beni materiali), come i beni immobili e i beni mobili. Il più importante tra i diritti reali
è il diritto di proprietà, ma sono diritti reali, ad es., anche il diritto di usufrutto o i diritti di servitù
prediale. I diritti reali comprendono la facoltà di godere direttamente o indirettamente del bene che
ne è oggetto ed hanno la caratteristica di non essere inseriti all’interno di un rapporto giuridico: il loro
titolare può infatti soddisfare da solo l’interesse sotteso al diritto con una propria attività (ad es.,
abitando in una casa, coltivando un fondo o utilizzando una penna), senza bisogno della
collaborazione altrui, ed in particolare senza che un altro soggetto debba tenere una certa condotta
strumentale al soddisfacimento dell’interesse riferibile al titolare del diritto.

Il diritto di credito, invece, comprende la facoltà di pretendere che un altro soggetto esegua una
«prestazione», cioè tenga una condotta, strumentale al soddisfacimento dell’interesse riferibile al
titolare del diritto. I diritti di credito sono quindi sempre inseriti all’interno di un rapporto giuridico,
perché il titolare del diritto può appagare il proprio interesse solo tramite la collaborazione di un altro
soggetto, sul quale grava un obbligo corrispondente al diritto.

L’obbligo comporta infatti la necessità di tenere un comportamento/una condotta strumentale al


soddisfacimento dell’interesse di un altro soggetto, che è correlativamente titolare di un diritto
soggettivo di credito.

La «capacità giuridica» è l’attitudine di un soggetto a divenire titolare di situazioni giuridiche


soggettive.

Si acquista con la nascita e si perde con la morte.

La «capacità legale di agire» è l’idoneità di un soggetto a porre in essere atti giuridicamente rilevanti
che comportino l’acquisto o l’esercizio di un diritto oppure l’assunzione o l’adempimento di un
obbligo.

Si acquista normalmente (salvo casi eccezionali) con la maggiore età (a 18 anni).

Si può perdere in situazioni particolari che determinino un’incapacità “assoluta”, ad es. per
“interdizione giudiziale” dovuta ad una grave malattia mentale che implichi una totale perdita di
«capacità d’intendere e di volere» (cioè di rendersi conto del significato sociale degli atti che si
compiono e di determinarsi in conformità a quest’ultimo) o “relativa”, ad es. per “inabilitazione”
dovuta ad una malattia mentale abbastanza grave da affievolire la capacità d’intendere e di volere
senza però escluderla del tutto. L’incapacità assoluta impedisce il compimento di tutti gli atti sia di
ordinaria sia di straordinaria amministrazione, che vengono compiuti in nome e per conto
dell’incapace da un «rappresentante» “legale” (ad es., il genitore) o “giudiziale” (ad es., il “tutore”).
L’incapacità relativa impedisce solo il compimento di atti di straordinaria amministrazione, per i quali
l’incapace dev’essere assistito, ma non sostituito, da un rappresentante (ad es., il “curatore”).

*** *** ***

Nozioni di Diritto Commerciale e di imprenditore - Registro delle Imprese - Impresa agricola e


commerciale. Piccoli imprenditori - Scritture contabili - Collaboratori interni all’impresa

Il «diritto commerciale» è una branca specialistica del diritto privato e comprende la disciplina di
quei processi di produzione e distribuzione dei beni economici destinati al mercato generale che
ruotano intorno al fenomeno dell’“impresa”, di cui regola le possibili forme di esistenza e di
funzionamento.

I “rapporti commerciali” sono infatti tutti quei rapporti giuridici che realizzano una funzione
intermediaria di produzione o di scambio di “beni” in senso giuridico per soddisfare le esigenze di
coloro che li offrono o li richiedono nel contesto del “mercato”, il quale rappresenta un luogo di
incontro – spesso solo ideale e non fisico – tra una domanda ed un’offerta di beni (da intendere in
un’accezione lata, dato che ad es. anche la forza lavoro è un bene e che tale è anche un servizio)
suscettibili di essere oggetto di atti di disposizione (ad es., gli organi umani non sono commerciabili
in quanto l’ordinamento giuridico non lo consente).

Il diritto commerciale si confronta con una realtà economica molto più dinamica e complessa di quella
normalmente presa in considerazione dal diritto privato generale; il che spiega, da un punto di vista
storico, come mai il primo si caratterizzi per una evoluzione più celere e presenti una spiccata
specialità rispetto al secondo.

Ad ogni modo, il diritto privato generale finisce spesso per “commercializzarsi”, ossia per recepire
“istituti” (cioè figure giuridiche, complessi normativi che disciplinano determinati fenomeni) nati nel
diritto commerciale. In particolare, si noti che, mentre in passato il diritto commerciale era contenuto
in un apposito Codice (il Codice di Commercio), ora la sua normativa è rifluita nel vigente Codice
Civile, che detta una disciplina generale unificata per tutti i rapporti giuridici privati, salve le
disposizioni specifiche dettate in materia di impresa e di società.

La Costituzione stabilisce all’art. 41 che l’iniziativa economica privata è libera, purché il suo
svolgimento non contrasti con l’utilità sociale e non arrechi danno alla sicurezza, alla libertà e alla
dignità umana.

L’iniziativa privata coesiste con quella pubblica, perché il nostro ordinamento ammette una forma di
economia “mista”. Entrambe possono essere indirizzate e coordinate dalla legge a fini sociali.

L’art. 42 Cost. stabilisce che la proprietà privata, anche quella dei beni economici, è riconosciuta, ma
è possibile l’espropriazione nei casi previsti dalla legge, per motivi di interesse generale e salvo
indennizzo.

Ai sensi dell’art. 43 Cost., poi, la legge, per fini di utilità generale, può riservare a sé, ad Enti o a certe
comunità un’impresa o una categoria di imprese, considerate “strategiche” per la connessione ad un
preminente interesse generale, laddove si riferiscano a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o
a situazioni di monopolio.
Una forte influenza sul diritto commerciale viene ormai esercitata dal diritto dell’Unione Europea, la
quale mira a realizzare tra i Paesi Membri la libertà di concorrenza, la libertà di movimento di persone
e merci ed una stretta integrazione tra le rispettive economie. L’U.E. limita negli ambiti di sua
competenza la sovranità degli Stati Membri e adotta discipline che sono immediatamente applicabili
negli ordinamenti interni e prevalgono su eventuali norme interne con esse incompatibili.

Il Codice detta uno “statuto generale” dell’imprenditore (cioè un insieme di disposizioni applicabili
a tutti gli imprenditori) ed uno “statuto dell’imprenditore commerciale” (cioè un insieme di
disposizioni applicabili al solo «imprenditore commerciale»), mentre poche sono le disposizioni che
riguardano specificamente l’«imprenditore agricolo» ed il «piccolo imprenditore».

Da un punto di vista economico, l’imprenditore è colui che, attraverso la predisposizione di


un’apposita organizzazione e l’accollo del c.d. “rischio d’impresa” (cioè della possibilità che i ricavi
non solo non generino un profitto, ma siano addirittura inferiori ai costi sopportati), assume
l’iniziativa di porsi come intermediario tra, da una parte, coloro che offrono capitale (cioè risorse
economiche) e lavoro e, dall’altra parte, coloro che domandano beni e servizi.

Ai sensi dell’art. 2082 c.c., che contiene la definizione civilistica di imprenditore, «È imprenditore
chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o di servizi».

Secondo l’opinione prevalente, l’attività è economica se è svolta con metodo economico, ossia con
modalità che (almeno in astratto) consentano la copertura dei costi con i ricavi, così da garantire
l’autosufficienza economica.

La professionalità implica l’esercizio di un’attività (intesa quale sequenza coordinata di atti rivolti ad
un certo fine) sistematica, abituale e non occasionale. Sono però ammissibili il carattere della
stagionalità, alcune interruzioni o il compimento di un unico affare complesso.

L’organizzazione è un insieme coordinato, stabile e complesso (un apparato) di fattori produttivi –


cioè capitale e lavoro – propri e/o altrui. Non basta l’impiego del proprio lavoro personale. Non è
necessario essere proprietari degli strumenti di produzione o dei beni organizzati per la produzione.

La produzione o lo scambio di beni consiste nella creazione di nuova ricchezza (anche nella forma
dell’attribuzione di un plusvalore a beni preesistenti) destinata al mercato (e non all’autoconsumo).

Lo scopo di lucro (o profitto) è un elemento “naturale” (nel senso che di solito è presente), ma non
“essenziale” (cioè non indispensabile) dell’attività d’impresa, che può anche tendere al semplice
pareggio di bilancio (come nelle imprese mutualistiche o con finalità sociali).

L’attività d’impresa va svolta dall’imprenditore “in nome proprio”, cioè con “spendita del nome”
dell’imprenditore, a cui vanno imputati tutti gli atti compiuti: l’imprenditore, infatti, si assume nel
bene o nel male il rischio d’impresa. L’imprenditore deve adempiere alle obbligazioni assunte
nell’esercizio dell’impresa ed i creditori, se l’imprenditore non adempie, possono aggredire i suoi
beni per soddisfarsi su di essi “in via esecutiva” (cioè con una procedura che può portare alla vendita
dei beni del debitore sotto il controllo dell’Autorità giudiziaria per soddisfare con il denaro ricavato
i creditori agenti).

Se poi l’imprenditore diviene “insolvente”, cioè non più in grado di adempiere regolarmente alle
proprie obbligazioni con mezzi di pagamento ordinari, in presenza di certi presupposti (e se è un
imprenditore “fallibile”) può aprirsi una procedura “concorsuale” che, attraverso la gestione di un
“curatore fallimentare” sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, porta allo spossessamento dei beni
dell’imprenditore e alla loro liquidazione (cioè alla loro vendita per ricavarne del denaro), in modo
da poter soddisfare i suoi creditori, se non interamente, quantomeno in misura proporzionale ai
rispettivi crediti (se ad es. l’imprenditore fallito ha debiti che ammontano complessivamente a 100
euro e i soldi ricavati dalla liquidazione dell’attivo fallimentare sono in totale 30 euro, ciascun
creditore verrà soddisfatto nella limitata misura del 30% del suo credito). Non sono fallibili – come
si vedrà – gli imprenditori agricoli e quelli commerciali che non superino determinate soglie
dimensionali e di indebitamento.

Ad ogni modo, si ritiene che anche il c.d. “imprenditore occulto”, cioè colui che esercita l’attività
tramite un prestanome (c.d. “testa di paglia”), possa essere dichiarato fallito e debba rispondere delle
conseguenze negative causate dall’attività svolta nei confronti dei terzi ed in particolare dei creditori.

I liberi professionisti e gli artisti non sono in quanto tali imprenditori (per tradizione giuridica, per
scelta del legislatore e per il carattere assorbente dell’elemento intellettuale o artistico sull’elemento
dell’eventuale organizzazione strumentale allo svolgimento della loro attività), ma il professionista
può assumere la qualità di imprenditore se la professione viene svolta nel contesto di un’attività più
ampia organizzata in forma d’impresa (come nel caso del medico a capo di una clinica).

Si discute se l’attività d’impresa, per essere qualificata tale, debba essere lecita, ma si possono ritenere
applicabili all’impresa illecita almeno quelle norme dettate a proposito d’impresa che sono volte a
tutelare i terzi (e non lo stesso imprenditore).

Per le imprese è stato creato un sistema pubblicitario che si attua tramite l’iscrizione di determinati
atti o fatti nel Registro delle Imprese.

L’obbligo di iscrizione nel Registro delle Imprese – come meglio si vedrà – è previsto per tutti gli
imprenditori, per gli enti pubblici che svolgono attività commerciale, per le società (anche se non
esercitano attività commerciale), per i consorzi e per le società consortili, per i gruppi europei di
interesse economico (g.e.i.e.) e per le società straniere che hanno in Italia la sede
dell’amministrazione o l’oggetto principale della loro attività.

Devono essere iscritti solo i fatti relativi all’impresa per i quali sussista uno specifico obbligo.

Alcuni dati o fatti relativi alle imprese (ad es., la nomina di un amministratore della società o i limiti
ai suoi poteri di rappresentanza) devono essere iscritti nel Registro delle Imprese per essere
“opponibili” (cioè per poter essere fatti valere, invocati) nei confronti dei “terzi” (cioè di altri soggetti
estranei all’impresa): art. 2193 c.c.. Si parla in tal senso di “pubblicità dichiarativa”. Gli artt. 2196 e
ss. c.c. indicano i fatti da iscrivere.

Se l’iscrizione di un fatto non avviene, chi è obbligato a richiederne l’iscrizione non può opporlo ai
terzi, salva la possibilità di dimostrare che costoro ne avevano comunque avuto conoscenza.

Se invece l’iscrizione è avvenuta, l’ignoranza dei fatti iscritti non può essere opposta dai terzi a partire
dal momento dell’iscrizione, senza possibilità di prova contraria.

Normalmente l’iscrizione – come detto – ha una funzione dichiarativa, ma talvolta realizza una forma
di “pubblicità costitutiva”, nel senso che solo l’iscrizione determina la produzione di un determinato
effetto giuridico, cioè ne è condizione, come ad es. l’acquisto della personalità giuridica per le società
di capitali.
Il registro è gestito a livello provinciale da ogni Camera di Commercio, è retto da un Conservatore e
funziona sotto la vigilanza di un Giudice del Registro delegato dal Presidente del Tribunale.

La legge distingue tra varie figure di imprenditore. Gli imprenditori possono essere infatti classificati
secondo un criterio qualitativo (imprenditore agricolo/imprenditore commerciale), un criterio
quantitativo (piccolo imprenditore/grande imprenditore) o un criterio personale (imprenditore
individuale/imprenditore collettivo o società).

Se un imprenditore non è “agricolo”, allora è “commerciale”: si tende infatti a non ritenere


configurabile, nel silenzio della legge, l’impresa meramente “civile”, ossia volta alla produzione di
servizi con un’attività “non industriale” nel senso di non trasformativa di materie prime o di altri beni,
perché l’aggettivo “industriale” va inteso più genericamente come “non agricolo”.

L’imprenditore agricolo è definito all’art. 2135, primo comma, c.c. come «chi esercita una delle
seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse».
Questi concetti sono precisati nei commi successivi.

Ci sono dunque attività agricole “essenziali” (o “principali”) e attività agricole “per connessione” con
le prime.

Le attività agricole essenziali implicano la cura e lo sviluppo di un ciclo biologico o di una sua fase
necessaria in relazione ad una specie vegetale o animale. Non basta la semplice raccolta dei frutti o
del legname. Il collegamento con un fondo, con il bosco o con le acque è solo potenziale, sicché ad
es. è agricolo anche l’allevamento di animali in batteria o l’apicoltura.

Le attività agricole sono connesse a quella principale se sussiste una connessione sia soggettiva, in
quanto l’attività viene svolta da un imprenditore agricolo, sia oggettiva, in quanto l’attività è collegata
a quella agricola principale, purché le attività connesse siano complementari rispetto a quelle
principali e non abbiano rilevanza prevalente. Talune attività agricole espressamente elencate dal
legislatore si presumono connesse.

L’impresa agricola dev’essere iscritta in una sezione speciale del Registro delle Imprese. Gli
imprenditori agricoli sono esclusi dall’obbligo di tenere la contabilità e non sono soggetti a fallimento.

L’“imprenditore agricolo professionale” (IAP) è un soggetto in possesso di conoscenze e competenze


professionali che dedichi alle attività agricole, direttamente o quale socio o amministratore di una
società, almeno il 50% del proprio tempo e che ricavi da tali attività almeno il 50% del suo reddito
globale da lavoro. Sono previsti incentivi.

Viene disciplinato anche l’“imprenditore ittico”.

L’art. 2195 c.c. definisce l’imprenditore commerciale come colui che esercita «1) un’attività
industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; 2) un’attività intermediaria nella circolazione
dei beni; 3) un’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 4) un’attività bancaria o
assicurativa; 5) altre attività ausiliarie delle precedenti».

La n. 1) implica una trasformazione della materia o di altri beni oppure l’estrazione di beni dalla
natura. Per molti, tuttavia, si tratta – come già accennato – di tutte le attività non agricole.

La n. 2) è l’attività commerciale in senso stretto, cioè un’attività di distribuzione di beni sul mercato.
La n. 3) consiste nello spostamento nello spazio di persone o cose (che in parte è disciplinata nel
Codice della Navigazione).

La n. 4) comprende l’attività bancaria di raccolta del risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito
(cioè la stipulazione di mutui, ossia i c.d. “prestiti” di denaro in cambio di un interesse), nonché
l’attività assicurativa consistente, dietro pagamento di un “premio” (un corrispettivo) da parte
dell’assicurato, nel tenere indenne l’assicurato stesso rispetto ad un danno prodotto da un sinistro
(cioè un evento negativo e pregiudizievole) o nel pagare all’assicurato un capitale o una rendita al
verificarsi di un evento attinente alla vita umana (ad es., la malattia o la morte di una persona).

La n. 5) comprende le attività che agevolano o sono complementari alle precedenti (ad es., l’attività
dell’agente di commercio, dell’agente di pubblicità, del depositario).

Lo Stato o un Ente territoriale può intervenire in campo economico con l’impiego degli strumenti
privatistici (cioè come un privato) oppure con modalità peculiari. In questo secondo caso, la P.A. può
in particolare gestire direttamente un’impresa al proprio interno (impresa-organo) o controllare un
ente pubblico economico, dotato di una propria soggettività, che ha per oggetto esclusivo o principale
l’esercizio di un’attività commerciale.

I “piccoli imprenditori”, ai sensi dell’art. 2083 c.c., sono «i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani,
i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente
con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia».

Sono esonerati dalla tenuta delle scritture contabili e sono iscritti nel Registro delle Imprese solo a
fini anagrafici e di “pubblicità-notizia” (cioè per rendere conoscibili determinati fatti a chi lo voglia,
ma senza che l’iscrizione sia necessaria ai fini della loro opponibilità ai terzi).

Il lavoro dell’artigiano e dei suoi familiari, salvo alcune eccezioni previste dalla legge, deve prevalere
rispetto sia al lavoro altrui sia al capitale investito.

La figura dell’artigiano è disciplinata da una legge speciale. L’impresa artigiana richiede la presenza
diretta del lavoro anche manuale dell’artigiano, che deve sempre dirigere personalmente l’impresa.
L’impresa artigiana può essere svolta anche in forma sociale, ma è preclusa l’adozione delle forme
della società per azioni e della società in accomandita per azioni.

Il coltivatore diretto deve dedicarsi alla coltivazione dei fondi o all’allevamento del bestiame, anche
con l’aiuto dei familiari, in modo personale e abituale.

Sono esclusi dall’applicazione della disciplina del fallimento sia gli imprenditori agricoli sia gli
imprenditori commerciali (spesso piccoli imprenditori) che non superino determinati parametri
dimensionali e di indebitamento: requisiti di «non fallibilità».

Gli adempimenti burocratici per la nascita di nuove imprese sono stati molto semplificati. Sono
previste una “comunicazione unica” al Registro delle Imprese e, salve alcune eccezioni, la
presentazione di una “Segnalazione certificata di inizio attività” (Scia) allo sportello unico per le
attività produttive o alle Camere di Commercio.

La qualità di imprenditore commerciale si acquista comunque con l’effettivo esercizio di un’attività


economica non agricola (che inizia quando il numero e la significatività degli atti compiuti
manifestano uno stabile ed inequivoco orientamento verso un fine produttivo) e si perde con
l’effettiva cessazione di tale attività (che però è da considerarsi ancora perdurante nella fase di
liquidazione dell’impresa), a prescindere dalle relative iscrizioni nel Registro delle Imprese.

L’impresa esercitata da un “rappresentante” (cioè di colui che agisce “in nome” di un altro soggetto,
il “rappresentato”) comporta l’acquisto della qualità di imprenditore in capo al rappresentato.

Il soggetto assolutamente incapace (il minore o l’interdetto) non può iniziare l’esercizio di un’impresa
commerciale, ma in suo nome, tramite un rappresentante e previa autorizzazione del Tribunale
rilasciata su parere del Giudice tutelare (cioè del Giudice che si occupa di tutelare gli incapaci), può
essere continuato l’esercizio dell’impresa che l’incapace abbia acquistato per successione o per
donazione.

Il soggetto inabilitato (che è solo relativamente incapace) non può iniziare l’esercizio di un’impresa
commerciale, ma può continuarla previa autorizzazione del Tribunale rilasciata su parere del Giudice
tutelare, anche se il Tribunale può imporre come condizione la nomina di un “institore” (cioè – come
si vedrà – di un rappresentante dell’imprenditore).

Il minore emancipato (cioè il minore almeno sedicenne) può essere autorizzato dal Tribunale, su
parere del Giudice tutelare, sia ad iniziare sia a proseguire l’esercizio di un’impresa commerciale e,
in questi casi, assume la capacità di compiere gli atti di straordinaria amministrazione anche estranei
all’impresa.

Le “scritture contabili” sono documenti che contengono la rappresentazione quantitativa e/o


monetaria degli atti d’impresa, del patrimonio dell’imprenditore e del risultato economico dell’attività
imprenditoriale.

I “libri contabili” sono obbligatori per tutti gli imprenditori, ad eccezione dei piccoli imprenditori e
degli imprenditori agricoli (e vanno distinti dai “libri sociali”, che sono obbligatori solo per le società
di capitali e registrano i fatti determinanti nella vita della società e dei suoi organi).

Il “libro giornale” contiene l’annotazione giorno per giorno di tutte le operazioni compiute secondo
criteri di cronologicità ed immediatezza: svolge una funzione narrativa.

Il “libro degli inventari” contiene annualmente l’indicazione analitica degli elementi patrimoniali
attivi e passivi dell’impresa e la loro valutazione, cioè l’“inventario”, e si chiude con il “bilancio”,
che è un “conto patrimoniale” dal quale emerge l’“utile” o la “perdita” dell’impresa, e con il “conto
dei profitti e delle perdite”, che è un “conto economico” dal quale emergono i “ricavi” e le “spese”,
cioè i flussi correnti, di ogni “esercizio”(ossia di ogni anno di attività): svolge una funzione
descrittiva.

Il “fascicolo della corrispondenza” raccoglie secondo un criterio sistematico sia gli originali delle
lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevuti dall’imprenditore sia le copie dei documenti del
medesimo tipo che l’imprenditore ha spedito ad altri.

Oltre a questi libri obbligatori, è necessario tenere gli altri libri e registri (non precisati dalla legge)
richiesti dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. Ad es., il “libro mastro” raggruppa secondo un
criterio sistematico le annotazioni contenute in ordine cronologico nel libro giornale.

I libri contabili vanno conservati per dieci anni.


I libri contabili richiedono il rispetto di formalità “estrinseche” (numerazione delle pagine ed
indicazione nell’ultima di esse del loro numero complessivo) ed “intrinseche” (tenuta del libro in
modo ordinato, senza abrasioni o cancellature). Fanno sempre prova in giudizio contro
l’imprenditore, salvo che questi dimostri la non veridicità di quanto da essi risulta; non fanno prova
a favore dell’imprenditore nei rapporti con i non imprenditori; fanno prova a favore dell’imprenditore
nei rapporti con altri imprenditori, purché siano regolarmente tenuti e siano bollati e vidimati.

Oltre ad ausiliari esterni all’impresa, l’imprenditore può avvalersi di ausiliari interni, a lui legati da
un rapporto di lavoro subordinato (dirigenti, impiegati o operai), che in virtù della posizione rivestita
nell’impresa assumono ex lege (ossia automaticamente, per legge) un potere di rappresentanza
dell’imprenditore nei rapporti con i terzi. L’ampiezza della rappresentanza varia a seconda del ruolo
rivestito e può essere modificata solo con un espresso atto dell’imprenditore che, per essere
opponibile ai terzi, va portato a loro conoscenza.

L’«institore» è la persona preposta dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale, di una sua
sede secondaria o di un ramo particolare dell’impresa. Dipende direttamente dall’imprenditore ed ha
un potere generale di gestione ed una rappresentanza generale sia sostanziale sia processuale.
Tuttavia, non può alienare o ipotecare beni immobili senza l’espressa autorizzazione
dell’imprenditore, salvo che tali atti rientrino nell’oggetto ordinario dell’impresa (impresa
immobiliare). Se ci sono più institori, essi possono agire disgiuntamente e ciascuno ha rappresentanza
generale, salvo che nella procura sia diversamente disposto. Una procura può aumentare o limitare la
rappresentanza, ma le limitazioni ai poteri di rappresentanza, così come la revoca della nomina o dei
poteri dell’institore, sono opponibili ai terzi solo se iscritte nel Registro delle Imprese, salva la
possibilità di provare che i terzi ne erano comunque a conoscenza al momento della conclusione
dell’affare. La preposizione institoria richiede la forma prevista per gli atti da compiere (ad es., per
l’acquisto o la vendita di beni immobili è necessaria la forma scritta), ma la forma scritta è comunque
necessaria per l’iscrizione nel Registro delle Imprese. Se l’institore non dichiara di agire in nome
dell’imprenditore, la sua responsabilità personale si aggiunge a quella dell’imprenditore nei rapporti
con i terzi (cioè i terzi potranno aggredire anche i beni dell’institore per soddisfare i propri crediti).
Sull’institore gravano gli stessi doveri previsti a carico dell’imprenditore per le iscrizioni nel Registro
delle Imprese e per la tenuta dei libri contabili; ed anche a lui si applicano le disposizioni relative al
fallimento, alla bancarotta e ai reati fallimentari.

Il «procuratore» è colui che, in base ad un rapporto continuativo, può compiere in nome


dell’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa senza essere ad essa preposto (cioè
senza essere un institore). La rappresentanza non è automatica, ma dipende da una specifica
«procura» per la cui pubblicità, modifica e revoca valgono le stesse regole dettate per l’institore. Ha
funzioni soprattutto esecutive.

Il «commesso» è colui che svolge un’attività di concetto o di ordine sotto la direzione


dell’imprenditore o dell’institore senza poter esercitare funzioni direttive, ma solo esecutive. Può
compiere con poteri di rappresentanza solo gli atti che ordinariamente comporta la specie delle
operazioni per le quali è incaricato, può ricevere per conto dell’imprenditore le dichiarazioni ed i
reclami che attengono all’esecuzione dei contratti e può richiedere all’autorità giudiziaria
provvedimenti cautelari nell’interesse dell’imprenditore. La sua rappresentanza può essere ampliata
o limitata, ma la legge non precisa quale regime di pubblicità debba osservarsi, sicché occorre attuare
una qualunque pubblicità “di fatto” idonea al raggiungimento dello scopo di rendere conoscibili ai
terzi l’effettiva portata dei poteri di rappresentanza del commesso.

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Azienda, segni distintivi e diritti di privativa - Forme di collaborazione con l’imprenditore: impresa
familiare e associazione in partecipazione

Ai sensi dell’art. 2555 c.c., l’«azienda» è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per
l’esercizio dell’impresa. Si tratta dell’apparato strumentale di cui l’imprenditore si avvale, ossia di un
aggregato di beni materiali ed immateriali ai quali viene impressa una destinazione economica e
giuridica unitaria, a prescindere dal titolo che legittima l’imprenditore all’utilizzo di ogni singolo
bene (ad es., proprietà, usufrutto, locazione).

La legge considera l’azienda, per alcuni aspetti, come un oggetto giuridico unitario e, per altri aspetti,
come un mero complesso di beni distinti.

L’organizzazione data ai beni aziendali dall’imprenditore fa sì che l’azienda assuma un valore


maggiore della somma del valore dei singoli beni che la compongono: si tratta di un plusvalore
denominato «avviamento», che può essere quantificato ed iscritto in bilancio. L’avviamento, che non
è un bene in sé, bensì una qualità dell’azienda, rappresenta l’attitudine dell’azienda a consentire la
realizzazione di un profitto e può essere scisso in «avviamento soggettivo», che inerisce alle capacità
dell’imprenditore ed è insuscettibile di trasferimento, ed «avviamento oggettivo», che inerisce agli
elementi dell’azienda e al luogo in cui viene svolta l’attività e permane anche se muta la titolarità del
complesso aziendale.

La «clientela» è l’insieme dei destinatari dei beni o dei servizi prodotti dall’imprenditore, il flusso
costante della domanda rivolta dal mercato all’azienda, ed è dunque un indice del suo avviamento
inteso come potenzialità economica.

L’azienda o un suo “ramo”, ossia una parte dei beni aziendali dotata di organicità operativa e quindi
capace di consentire l’esercizio di un’attività economica, è suscettibile di trasferimento inter vivos
(cioè tra viventi) o mortis causa (cioè per successione ereditaria). L’acquisto della qualità di
imprenditore da parte di chi subentra nella titolarità dell’azienda, tuttavia, avviene non per ciò solo,
ma sempre in virtù dell’inizio effettivo di un’attività d’impresa (con l’impiego dei beni aziendali).

Il trasferimento dell’azienda per atto tra vivi è disciplinato con regole parzialmente peculiari rispetto
a quelle che si applicherebbero se venissero trasferiti i singoli beni che compongono l’azienda.

L’atto di cessione dell’azienda nel suo complesso comprende tutti i beni che ne fanno parte, senza
bisogno di doverli specificamente elencare, mentre occorre necessariamente indicare in modo
analitico i beni che si intende escludere dalla cessione. La validità della cessione, però, è subordinata
al rispetto delle forme previste dalla legge a pena di nullità (ad substantiam) per il trasferimento dei
singoli beni che compongono l’azienda (in particolare, per i beni immobili è richiesta la forma scritta)
o per la particolare natura del contratto (ad es., la donazione richiede la forma solenne di un atto
pubblico, cioè di un atto notarile, alla presenza di due testimoni).

Rispetto alle imprese soggette a registrazione, poi, l’atto di trasferimento dell’azienda deve rivestire
la forma scritta quantomeno ai fini della prova (ad probationem), nel senso che la cessione
dell’azienda può essere dimostrata in giudizio solo mediante la produzione di un documento (con
esclusione della prova per testimoni o per presunzioni). Inoltre, rispetto alle suddette imprese è
imposta l’iscrizione dell’atto di cessione dell’azienda nel Registro delle Imprese, sicché la forma
scritta (per atto pubblico o per scrittura privata con sottoscrizione autenticata) è comunque necessaria
per poter adempiere a tale formalità.
Per i trasferimenti a causa di morte non sono previste regole specifiche. Se l’erede continua l’esercizio
dell’impresa, acquista tutti i rapporti giuridici attivi e passivi (cioè favorevoli e sfavorevoli) che
facevano capo all’originario imprenditore defunto. E se più coeredi acquistano un’azienda in
comunione tra loro e continuano l’attività d’impresa, tra i coeredi si instaura un vincolo sociale (si
costituisce cioè una società).

Se invece l’erede cede l’azienda pervenutagli in successione, si applicheranno a questo trasferimento


le norme previste per gli atti tra vivi.

La «ditta», segno distintivo che contrassegna l’impresa (il “nome” dell’impresa), è cedibile solo
insieme all’azienda: in caso di atti tra vivi, non passa all’acquirente senza il consenso dell’alienante;
in caso di successione per causa di morte, si trasmette al successore salvo diversa disposizione
testamentaria.

A tutela sia del cedente sia del cessionario, l’alienante un’azienda commerciale, per cinque anni dal
trasferimento, non può iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze
sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. Le parti possono però escludere, limitare o
ampliare tale divieto di concorrenza, purché, in quest’ultimo caso, non ne resti impedita ogni attività
professionale per l’alienante. Ad ogni modo, la durata del divieto non può eccedere i cinque anni,
altrimenti si riduce ex lege a questo limite massimo.

In caso di usufrutto o di affitto di azienda, il divieto di concorrenza per il proprietario o per il locatore
vale per tutta la durata dell’usufrutto o dell’affitto. Il divieto non comprende le attività già iniziate
dall’alienante al momento della cessione, purché il cessionario ne fosse a conoscenza.

Con riguardo alle aziende agricole, il divieto di concorrenza vale solo per le attività connesse rispetto
alle quali possa configurarsi uno sviamento di clientela.

La violazione del divieto di concorrenza comporta l’obbligo del risarcimento del danno per
inadempimento contrattuale ed eventualmente la risoluzione del contratto.

Se non è stabilito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra all’alienante in tutti i contratti


ancora in corso di esecuzione che siano stati stipulati per l’esercizio dell’azienda e che non abbiano
carattere personale (cioè che non siano strettamente fiduciari e fondati sulla considerazione della
persona delle parti). La cessione di tali contratti – in deroga alla regola generale – prescinde dal
consenso del contraente ceduto (cioè dell’altra parte del contratto ceduto), che però può recedere per
«giusta causa» (ossia quando non avrebbe stipulato il contratto o lo avrebbe stipulato a condizioni
diverse se avesse saputo in precedenza della cessione) entro tre mesi dalla notizia del trasferimento
dell’azienda (e quindi del contratto ad essa inerente).

L’usufruttuario e l’affittuario subentrano nei contratti aziendali per la durata dell’usufrutto o


dell’affitto.

I rapporti di lavoro in essere con il cedente continuano con il cessionario ed i lavoratori conservano
tutti i diritti che ne derivano, senza che le parti che stipulano la cessione d’azienda possano escludere
tali effetti. La cessione dell’azienda non è di per sé causa di licenziamento dei lavoratori. Cedente e
cessionario sono inderogabilmente obbligati in solido per tutti i crediti di lavoro vantati dal lavoratore
al tempo della cessione.

Salvo patto contrario, tutti i crediti inerenti all’azienda si trasferiscono al cessionario della stessa,
anche se non è stato espressamente stabilito, e l’iscrizione del trasferimento dell’azienda nel Registro
delle Imprese vale come notifica collettiva della cessione dei crediti ai fini della opponibilità ai terzi.
Il debitore ceduto è liberato dall’obbligo se adempie la propria prestazione in buona fede soggettiva
all’alienante anziché al cessionario dell’azienda, a meno che non si dimostri che era a conoscenza
dell’avvenuta cessione.

Questa disciplina si applica anche in caso di usufrutto di azienda che si estenda ai crediti ad essa
relativi, ma non in caso di affitto.

Il cedente è liberato dai debiti relativi all’azienda solo se i creditori lo consentono.

Inoltre, il cessionario è obbligato in solido (cioè insieme e per l’intero) con il cedente per i debiti
aziendali che risultino dai libri contabili obbligatori: il cessionario, insomma, risponde di tali debiti
con il cedente.

Questa disciplina non vale in caso di usufrutto o di affitto di azienda, sicché il nudo proprietario ed il
locatore risponderanno in via esclusiva per i debiti sorti anteriormente all’usufrutto ed all’affitto.

L’usufruttuario e l’affittuario dell’azienda devono esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue,


non possono modificarne la destinazione e devono conservarne sia l’efficienza dell’organizzazione e
degli impianti sia le normali dotazioni di scorte.

I «segni distintivi» servono a riconoscere ed identificare sul mercato l’impresa, il luogo in cui viene
esercitata e i beni o servizi che produce. Sono la «ditta», l’«insegna» ed il «marchio», ai quali si può
ormai accostare il «nome di dominio» (o «domain name»), ossia il contrassegno del sito internet
dell’impresa.

I segni distintivi devono caratterizzarsi per un apporto almeno in parte “originale” (creativo,
personale), che attribuisca loro un’effettiva capacità di distinguere la dimensione di un’impresa da
quella delle altre operanti sul mercato, a tutela sia della concorrenza tra imprenditori (che hanno
interesse a formarsi e mantenere una clientela) sia dei clienti (che hanno interesse a confrontare e
ponderare i beni e servizi disponibili sul mercato per scegliere quelli migliori e, dunque, debbono
essere in grado di riconoscerne la provenienza). In tal caso, l’imprenditore ha un diritto all’utilizzo
esclusivo del segno, che viene tutelato contro segni uguali o simili impiegati da altri imprenditori ed
idonei a sviare la clientela.

La ditta è il nome sotto il quale l’imprenditore individuale esercita la propria attività (il nome
commerciale dell’imprenditore, anche se può esserci in tutto o in parte corrispondenza con il suo
nome personale) ed è l’unico segno distintivo necessario (a differenza degli altri, che sono facoltativi),
perché è il mezzo di individuazione dell’impresa. La ditta deve contenere almeno il cognome o la
sigla (ad es., le iniziali) dell’imprenditore (principio della verità), perché l’imprenditore deve agire in
nome proprio.

Non possono esistere ditte uguali o simili relative a differenti imprese che creino confusione per
l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui viene esercitata (o anche per il luogo in cui l’impresa è
potenzialmente in grado di essere esercitata, se è prevedibile un’estensione del suo raggio di azione),
ovvero quando sussista un rapporto di concorrenzialità reale o potenziale, sicché la ditta adottata per
seconda, o per le imprese commerciali la ditta iscritta nel Registro delle Imprese posteriormente,
dev’essere integrata o modificata. L’imprenditore può respingere la contestazione altrui all’uso della
propria ditta e può impedire che altri usi una ditta uguale o simile (azione di usurpazione e
contraffazione), oltre a domandare il risarcimento dei danni in caso di dolo o colpa del concorrente.
La ditta – come già accennato – non si può trasferire senza l’azienda. Se il trasferimento avviene con
un atto tra vivi, la ditta passa all’acquirente solo con il consenso dell’alienante. Se il trasferimento
avviene mortis causa, la ditta passa automaticamente al successore, salvo che il testatore non
disponga diversamente. La clientela, anche in caso di «ditta derivata» (cioè ceduta insieme
all’azienda), è comunque in grado di verificare il trasferimento dell’azienda attraverso la
consultazione del Registro delle Imprese, dove dev’essere pubblicata una copia dell’atto di
trasferimento.

In caso di usufrutto o di affitto di azienda, la ditta va necessariamente trasferita.

Il nome commerciale delle società di persone si chiama «ragione sociale» e quello delle società di
capitali «denominazione sociale», ma anche in questi casi vale la regola che esclude la confondibilità
tra tali segni distintivi.

L’insegna può o meno coincidere con la ditta, può consistere tanto in una denominazione quanto in
figure o simboli, e contrassegna il luogo in cui viene esercitata l’impresa.

Se l’insegna non è generica (generica è ad es. la scritta “caffè” o “ristorante”), viene tutelata con gli
stessi strumenti previsti per la ditta.

Il conflitto tra insegne confondibili è risolto sulla base del criterio della priorità dell’uso (e non opera
il sistema pubblicitario della registrazione).

Una tutela analoga è prevista anche per i nomi di dominio.

Il marchio contrassegna i beni prodotti dall’impresa, o eventualmente le attività produttive di servizi


(ad es., banche o assicurazioni), e può consistere nell’apposizione tanto di una denominazione quanto
di figure o simboli che siano elementi estrinseci all’oggetto contrassegnato (cioè non essenziali).

Può ormai circolare anche separatamente dall’azienda (in considerazione della sua capacità di
collettore di clientela, specialmente se celebre, e quindi del suo autonomo valore economico) ed
essere impiegato da più imprenditori contemporaneamente (purché assicuri l’omogeneità dei caratteri
essenziali e della qualità dei prodotti contrassegnati) tramite la concessione di apposite “licenze”.

Rientra nel concetto di “proprietà industriale” ed è disciplinato sia a livello nazionale sia a livello
internazionale sia a livello comunitario.

Il marchio implica un diritto di esclusiva. A pena di nullità, deve rispondere ai requisiti di “originalità”
(i marchi “forti” sono il risultato di una notevole dose di fantasia, sicché sono molto originali e più
protetti contro una contraffazione, mentre i marchi “deboli” adottano come base una terminologia
tecnica o di uso comune a cui aggiungono solo un elemento differenziante, sicché basta modificare
quest’ultimo per ottenere una capacità distintiva senza incorrere nella violazione del marchio altrui),
“verità” (ossia non dev’essere ingannevole), “novità” (ossia non dev’essere uguale o simile a segni
distintivi adottati da altri imprenditori), “liceità” (ossia non dev’essere contrario alla legge, all’ordine
pubblico o al buon costume) e non deve violare un altrui diritto d’autore o di proprietà industriale o
un altro diritto esclusivo di terzi.

Il marchio “di fabbrica” è apposto dal produttore e quello “di commercio” è apposto dal rivenditore
(che può aggiungere il proprio marchio a quello di fabbrica senza sopprimere quest’ultimo).
Il marchio “generale” contrassegna tutti i prodotti di uno stesso imprenditore e quello “speciale” un
particolare bene tra tutti quelli prodotti da un imprenditore (ad es., Fiat Punto).

Il marchio “individuale” è utilizzato da un solo imprenditore. Il marchio “collettivo” (o di categoria),


invece, può essere utilizzato da più imprenditori che producano beni omogenei per qualità e
caratteristiche e che si assoggettino all’osservanza di standards qualitativi fissati dal titolare del
marchio e ai relativi controlli: solo un marchio collettivo può consistere in una denominazione
geografica, così da designare la provenienza di un prodotto o di un servizio (ad es., il marchio con
“denominazione di origine controllata”, d.o.c.).

L’utilizzo come marchio dei nomi di persone note e dei ritratti di persone (note o non note)
presuppone il loro consenso o quello dei loro eredi. Si possono impiegare come marchio i nomi di
persone non note, purché il loro uso non sia tale da lederne la fama, la reputazione o il decoro.

Chiunque (anche un non imprenditore) può registrare un marchio (magari per poi cederlo ad altri)
presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM) o presso le Camere di Commercio, così da
ottenere un “marchio nazionale”. La registrazione opera su tutto il territorio nazionale.

La cessione del marchio può essere definitiva o temporanea (in tal caso, si ha una “licenza”) e può
essere totale (per tutti i beni contraddistinti) o parziale (solo per una parte dei beni contraddistinti).

La tutela del marchio consiste nel poter vietare ad altri l’uso di un marchio uguale o simile per prodotti
identici o affini, ma un marchio “celebre” gode di una protezione allargata anche a prodotti non affini.

L’esclusiva dura dieci anni, ma è rinnovabile più volte senza limiti.

L’uso di fatto di un “marchio non registrato”, anche se in seguito taluno lo registri, permette
all’utilizzatore di continuarne l’impiego nei limiti della diffusione locale già conseguita. Il marchio
non registrato è poi tutelabile con la disciplina sulla concorrenza sleale.

Oltre ad un marchio nazionale, è possibile ottenere un “marchio internazionale”, disciplinato da


Convenzioni internazionali, ed un “marchio comunitario”, disciplinato dal diritto dell’U.E..

Il marchio internazionale viene registrato presso l’Organizzazione Mondiale della Proprietà


Intellettuale di Ginevra (OMPI). Esso permette a chi abbia registrato un marchio in uno dei Paesi
aderenti alla Convenzione e al Protocollo di Madrid sulla registrazione internazionale dei marchi di
registrare lo stesso marchio anche negli altri Paesi aderenti, con prevalenza su altri eventuali
registranti, entro sei mesi. Si viene così ad avere un “fascio” di marchi nazionali uguali, disciplinati
dalle rispettive normative statali.

Il marchio comunitario è invece un marchio unico, totalmente disciplinato dal diritto comunitario,
che si ottiene con una registrazione presso l’Ufficio per l’Armonizzazione del Mercato Interno
(UAMI) avente sede in Alicante (Spagna) e che vale per tutto il territorio dell’U.E..

Il titolare di un marchio registrato può proporre un’“opposizione alla registrazione” di un marchio


uguale o simile da parti di altri, così da far dichiarare invalida tale ultima registrazione; può esercitare
l’“azione di rivendicazione” volta a far accertare la titolarità del proprio marchio contro chi ne abbia
registrato uno uguale o simile; può esercitare l’“azione di usurpazione e di contraffazione” per far
accertare l’abusiva riproduzione di un marchio identico al proprio (usurpazione) o l’impiego di un
marchio simile al proprio (contraffazione) da parte di terzi, così da farne inibire l’uso e far ritirare dal
commercio i beni immessi illecitamente sul mercato da altri; può esercitare l’“azione di concorrenza
sleale”; può esercitare l’“azione di risarcimento del danno”; può domandare la “restituzione dei
profitti” conseguiti dall’autore della violazione. È prevista anche una tutela penale.

Il merchandising consiste nella concessione in uso a terzi di un marchio celebre per


contraddistinguere prodotti di tutt’altro genere (ad es., l’utilizzo del marchio “Ferrari” per magliette
o scarpe).

Il «diritto (patrimoniale e morale) d’autore» (artt. 2575 e ss. c.c.) spetta a chi abbia creato un’opera
dell’ingegno che appartenga alla scienza, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative,
all’architettura, al teatro, alla cinematografia ed alla multimedialità, qualunque ne sia il modo o la
forma di espressione. Si acquista per il fatto stesso della creazione.

Il diritto patrimoniale d’autore, che permette di sfruttare economicamente l’opera, è disponibile e può
essere ceduto a terzi. Dura per tutta la vita dell’autore e per settanta anni dopo la sua morte. È tutelato
con l’azione di accertamento del diritto, che serve a prevenire le violazioni, e con l’azione di
interdizione delle violazioni, che serve ad impedirne la continuazione. È prevista anche una tutela
penale.

Il diritto morale d’autore consente di vedersi riconosciuta la paternità dell’opera, di mantenerla


anonima o inedita, di opporsi a qualsiasi sua deformazione che possa risultare pregiudizievole
all’onore o alla reputazione dell’autore e finanche di ritirarla dal commercio (salvo indennizzo per
quanti abbiano acquistato diritti patrimoniali sulla stessa). Tale diritto è indisponibile. Dopo la morte
dell’autore, può però essere fatto valere dal coniuge, dai suoi ascendenti e dai suoi discendenti.

Il «diritto di brevetto» può essere ottenuto tramite registrazione “costitutiva” presso l’UIBM per le
«invenzioni industriali», i «modelli di utilità» e i «modelli e disegni industriali».

L’invenzione è un nuovo ritrovato o una nuova soluzione ad un problema tecnico che siano dotati di
attitudine all’applicazione industriale e a dare un immediato risultato industriale: implica un’attività
inventiva, cioè deve accrescere lo stato delle conoscenze, e la brevettabilità presuppone che non sia
già stata divulgata. Il diritto patrimoniale di sfruttamento dura venti anni ed è disponibile.

Il modello di utilità è qualitativamente inferiore all’invenzione, perché si limita a migliorare le


funzioni di un prodotto o di un procedimento, nel senso che conferisce a questi una particolare
efficacia o comodità di applicazione o di impiego. Dura dieci anni.

Il modello o disegno industriale attribuisce ad un prodotto solo un carattere nuovo ed individuale sul
piano estetico ed ornamentale. Dura cinque anni.

Le invenzioni “di servizio” del lavoratore, per le quali è previsto un apposito compenso, spettano al
datore di lavoro. Le invenzioni “di azienda”, per le quali non è previsto un apposito compenso,
spettano al datore, ma il lavoratore ha diritto ad un equo premio. Le invenzioni “occasionali” spettano
al lavoratore, ma il datore ha un diritto di opzione per l’acquisto dell’invenzione.

Il diritto “morale” dell’inventore, volto a far riconoscere la paternità dell’invenzione, è sempre


salvaguardato.

Le «invenzioni non brevettate» sono tutelate nei limiti del “preuso” (cioè nei limiti nei quali
l’inventore se ne avvaleva prima del brevetto conseguito da altri).
Il contratto di know-how è quello con cui un imprenditore (concedente), dietro compenso, mette in
condizione un altro imprenditore (concessionario) di conoscere ed utilizzare nel suo processo
produttivo o distributivo tecniche o ritrovati non brevettati o non brevettabili, con l’obbligo per il
concessionario di conservare il segreto sugli stessi a pena di responsabilità.

L’«impresa familiare» è disciplinata dall’art. 230 bis c.c., alla cui lettura si rinvia.

L’imprenditore che accetti nella propria impresa uno o alcuni dei suoi familiari rimane comunque
l’unico titolare dell’impresa e l’unico responsabile delle scelte gestorie, anche se è previsto che talune
decisioni vengano assunte a maggioranza dei partecipanti.

L’«associazione in partecipazione» è disciplinata agli artt. 2549 e ss., ai quali si rinvia. È il contratto
con cui una parte (associante) attribuisce ad un’altra (associato) una partecipazione agli utili della sua
impresa, o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto.

È un contratto tra associante ed associato, ma l’impresa resta del solo associante, che esercita
l’iniziativa economica e risponde verso i terzi.

L’apporto dell’associato può consistere in denaro, beni o servizi (prestazioni lavorative).

Salvo patto contrario, l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili,
ma le perdite non possono comunque gravare su di lui in misura superiore all’apporto fornito.

L’associato ha diritto al rendiconto.

*** *** ***

Limiti alla concorrenza, tutela della concorrenza, concorrenza sleale - Consorzi e società
consortili, contratto di rete, associazioni temporanee di imprese, G.E.I.E.

Il principio della libertà di concorrenza, che va a beneficio sia delle imprese più capaci sia della
clientela con riguardo al rapporto qualità/prezzo dei beni e dei servizi immessi sul mercato, può essere
derogato solo in casi eccezionali per previsione legale o negoziale (cioè contrattuale) a tutela di
interessi pubblici o privati. La concorrenza non deve però ledere gli interessi dell’economia nazionale
e deve attuarsi nei limiti stabiliti dalla legge (art. 2595 c.c.).

Una situazione di monopolio esclude del tutto la concorrenza. Un monopolio può essere creato dalla
legge per ragioni fiscali o economiche a tutela di un preminente interesse generale (art. 43 Cost.), ma
in tal caso, ai sensi dell’art. 2597 c.c., il monopolista ha l’obbligo di contrattare con chiunque richieda
le prestazioni erogate dall’impresa osservando la parità di trattamento.

Un patto limitativo della concorrenza è valido solo se viene circoscritto ad una determinata zona e ad
una determinata attività e non può eccedere la durata di cinque anni (art. 2596 c.c.).

La legge prevede, sempre entro limiti ristretti, divieti di concorrenza per il cedente in caso di cessione
d’azienda, nonché (per evitare conflitti di interessi) per il lavoratore verso il datore e per il socio o
l’amministratore di una società verso la società.

La disciplina della «concorrenza sleale» (artt. 2598 e ss. c.c.) tutela l’interesse della categoria
imprenditoriale a veder assicurata sul mercato la prevalenza dell’impresa più efficiente ed apprezzata.
I soggetti attivi e passivi di atti di concorrenza sleale, ossia di atti non conformi alla “correttezza
professionale” (consistente nelle norme di costume che i buoni imprenditori sogliono osservare nei
rapporti tra loro) ed idonei a sviare la clientela, sono gli imprenditori che si trovano in un “rapporto
di concorrenza” effettivo o potenziale, orizzontale (partecipazione allo stesso livello di mercato) o
verticale (partecipazione a livelli diversi del medesimo mercato: produttori, grossisti e dettaglianti),
cioè quegli imprenditori che hanno la stessa clientela di riferimento.

Gli atti di concorrenza sleale rilevano in quanto siano oggettivamente (intrinsecamente) contrari alla
correttezza professionale, a prescindere dalla produzione di un effettivo pregiudizio e dall’essere stati
o meno compiuti con dolo o colpa (il dolo e la colpa rappresentano l’elemento soggettivo della
“colpevolezza”).

Tuttavia, se ricorrono anche un danno per un imprenditore concorrente e la colpevolezza dell’agente


(che si presume, salvo che venga dimostrato il contrario), viene integrato un illecito civile e ciò
comporta a carico dell’imprenditore sleale una responsabilità civile da fatto illecito verso il
danneggiato, ossia l’obbligo di risarcire il danno.

Commette atti di concorrenza sleale “per confusione” chi usa nomi o segni distintivi idonei a produrre
confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i
prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i
prodotti e con l’attività di un concorrente. In altri termini, in tal caso l’imprenditore sleale fa sembrare
che i propri prodotti e la propria attività siano riferibili all’impresa di un concorrente, così da carpirne
la clientela.

Commette atti di concorrenza sleale “per denigrazione o per vanteria” chi diffonde notizie o
apprezzamenti sui prodotti o sull’attività di un concorrente idonei a determinarne il discredito (cioè a
menomarne la reputazione commerciale), o si appropria falsamente di pregi dei prodotti o
dell’impresa di un concorrente: la pubblicità comparativa è ammessa, purché non sia ingannevole o
denigratoria e si fondi su dati verificabili. In altri termini, in tal caso l’imprenditore sleale divulga
informazioni o apprezzamenti non veritieri volti a sottrarre la clientela del concorrente.

Commette comunque atti di concorrenza sleale “per difformità dai principi della correttezza
professionale” anche chi si avvalga direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo scorretto
(diverso dai precedenti) per danneggiare l’altrui azienda, ad es. in caso di boicottaggio (che è il rifiuto
sistematico di contrattare), appropriazione di segreti di fabbrica, storno di dipendenti (cioè la
sistematica e significativa integrazione nella propria impresa dei collaboratori di un concorrente),
ribasso ingiustificato dei prezzi (vendite “sottocosto” o dumping), imitazione “parassitaria” (cioè
pedissequa e sistematica).

Il concorrente leso da atti di concorrenza sleale può domandare l’accertamento della scorrettezza,
l’inibizione della sua continuazione, la rimozione delle sue conseguenze e, se vi è dolo o colpa del
loro autore, il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza.

Se gli atti sleali ledono gli interessi (non solo di un singolo, ma) di una categoria professionale, la
loro repressione può essere chiesta anche dalle associazioni professionali e dagli enti che
rappresentano la categoria.

Mentre la disciplina sulla concorrenza sleale tutela gli interessi dei singoli imprenditori o di una
categoria imprenditoriale, la disciplina c.d. antitrust tutela la stessa funzionalità del mercato, cioè
preserva la concorrenzialità del mercato attraverso la salvaguardia del normale operare delle regole
della domanda e dell’offerta, a beneficio dei consumatori e della collettività. Una disciplina antitrust
è stata elaborata dapprima a livello comunitario e poi anche a livello nazionale. La legge nazionale si
applica solo nei casi nei quali non sia applicabile la normativa comunitaria.

Sono vietate le «intese» restrittive della concorrenza, cioè tutti gli accordi tra imprese, le decisioni di
associazioni di imprese e le pratiche concordate che abbiano per oggetto o per effetto di falsare il
gioco della concorrenza (ad es., fissando i prezzi di vendita o di acquisto di un prodotto o ripartendo
i mercati o le fonti di approvvigionamento). Tali intese sono nulle. Sono però possibili deroghe per
favorire la produzione o la distribuzione oppure per agevolare il progresso tecnico o economico.

È vietato lo «sfruttamento abusivo di una posizione dominante» da parte di un’impresa, cioè l’abuso
della propria situazione di preminenza su un mercato dovuta al controllo di una cospicua quota di
esso, sufficiente a poter tenere condotte commerciali non influenzate dai comportamenti dei
concorrenti e dei clienti (ad es., è indice di una posizione dominante la possibilità di fissare prezzi
elevati per i propri prodotti, giacché probabilmente i clienti non possono rivolgersi ad altre imprese
per l’acquisto di prodotti dello stesso genere in quanto sul mercato non sono presenti, o lo sono in
misura trascurabile, imprese concorrenti).

Le norme antitrust si applicano anche alle imprese pubbliche o a quelle alle quali vengono
riconosciuti diritti speciali o esclusivi, ma non a quelle che svolgono servizi di interesse economico
generale o che operano in regime di monopolio.

Sono vietati gli «aiuti di stato» alle imprese, cioè ogni vantaggio economico (tanto erogazioni quanto
risparmi di spesa) che favoriscano talune imprese o talune produzioni a scapito di altre così da alterare
la concorrenza, salvi gli aiuti a carattere sociale o finalizzati a far fronte a calamità naturali.

Sono vietate le «concentrazioni di imprese» (fusioni, acquisizioni dirette o indirette di controllo,


costituzione di un’impresa comune tra più imprese) che creino o rafforzino una posizione dominante.

L’attuazione della normativa antitrust spetta alla Commissione Europea a livello comunitario ed
all’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato a livello nazionale. Questi organismi hanno
anche poteri ispettivi e sanzionatori.

Il consorzio di imprese è costituito da un gruppo di imprese che istituisce un’organizzazione comune


per soddisfare determinate esigenze di coordinamento della produzione e dello scambio (artt. 2602 e
ss.). Il consorzio ha infatti ad oggetto la «disciplina o lo svolgimento di determinate fasi delle
rispettive imprese» e può servire sia a regolamentare la concorrenza sia a permettere una
cooperazione interaziendale per ridurre i costi di gestione. I membri del consorzio possono essere
solo imprenditori, ma costoro possono esercitare sia attività economiche dello stesso tipo sia attività
diverse.

Il consorzio sorge di solito da un contratto tra più imprenditori (contratto consortile), ma può anche
essere imposto da un atto amministrativo (consorzio obbligatorio) o dalla legge (consorzio coattivo).

I consorzi possono essere «con attività meramente interna», e allora operano solo tra consorziati senza
alcun rapporto con i terzi (come nelle ipotesi di regolamentazione della concorrenza, controllo
qualitativo, creazione di marchi), o «con attività esterna», e allora l’organizzazione consortile entra
in rapporti anche con soggetti diversi dai membri del consorzio e necessita di un fondo comune dotato
di autonomia patrimoniale (come nelle ipotesi di distribuzione dei prodotti, campagne pubblicitarie,
procacciamento di nuovi incarichi).
Il contratto di consorzio va stipulato per iscritto e deve contenere l’oggetto, la durata (che in mancanza
di previsione è pari a dieci anni), l’indicazione dell’eventuale sede dell’ufficio comune, gli obblighi
assunti e i contributi dovuti dai consorziati, le condizioni di ammissione, i casi di recesso e di
esclusione e le sanzioni per gli inadempimenti agli obblighi dei consorziati. I membri perseguono
sempre un fine economico (risparmio di spesa o aumento del prezzo dei prodotti).

I consorziati sono tenuti a consentire i controlli e le ispezioni degli organi del consorzio.

Se il contratto non prevede diversamente, le sue modifiche vanno decise all’unanimità, mentre le
delibere vanno assunte a maggioranza.

In caso di recesso o di esclusione di un socio, la sua quota si accresce proporzionalmente a quelle


degli altri.

Se viene trasferita un’azienda a qualunque titolo, l’acquirente subentra nel contratto di consorzio, ma
gli altri consorziati possono escluderlo per giusta causa.

Il consorzio si scioglie per scadenza del termine di durata, conseguimento o impossibilità di


conseguimento dell’oggetto, decisione dei consorziati assunta all’unanimità o in caso di giusta causa
anche a maggioranza, provvedimento dell’autorità, ricorrere di una delle altre cause previste dal
contratto.

- Il consorzio con attività esterna deve avere un ufficio destinato a svolgere attività con i terzi,
dev’essere iscritto nel Registro delle Imprese, ha un patrimonio autonomo (che non può essere
aggredito dai creditori particolari dei consorziati) e può essere convenuto in giudizio anche in persona
del presidente o del direttore (sebbene la rappresentanza sostanziale spetti ad altri). La sua direzione
ha l’obbligo di redigere e depositare una «situazione consortile patrimoniale» (bilancio).

Per le obbligazioni assunte in nome del consorzio dai suoi rappresentanti, risponde solo il consorzio.

Per le obbligazioni assunte dai rappresentanti del consorzio per conto di un singolo consorziato,
rispondono in solido sia il consorzio sia il consorziato interessato e, in caso di sua insolvenza, gli altri
consorziati in proporzione alle rispettive quote.

Il consorzio con attività esterna può anche assumere la veste di una società commerciale (una
qualunque società, ad esclusione della società semplice): si ha allora una «società consortile», che
persegue uno scopo mutualistico (dato che una utilità patrimoniale viene conseguita direttamente
dalle imprese consorziate e non dalla società consortile).

Molto simile al consorzio è il «contratto di rete» tra imprese (L. n. 33/2009), con il quale due o più
imprese si obbligano, sulla base di un programma di rete, a collaborare in forme ed in ambiti
predeterminati, ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni, ovvero anche ad esercitare in comune
una o più attività, con lo scopo di accrescere individualmente e collettivamente la propria capacità
innovativa e la propria competitività sul mercato.

Le «associazioni temporanee di imprese» (A.T.I.) costituiscono forme di cooperazione temporanea


ed occasionale tra più imprese per realizzare congiuntamente opere di rilevanti dimensioni o affari
complessi.

La normativa più importante in materia è quella dettata per le procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici.
Più imprese, con la medesima specializzazione o con specializzazioni diverse, conferiscono un
mandato collettivo, gratuito, speciale ed irrevocabile, con rappresentanza (anche processuale), ad una
di esse, la c.d. «impresa capo-gruppo», per presentare offerte relative ad appalti da aggiudicare in
nome e per conto anche delle mandatarie. L’appalto viene quindi assunto congiuntamente per l’intera
opera, salva la possibilità di scorporare la realizzazione delle singole parti tra le imprese associate.

Nella riunione “orizzontale”, tra imprese della stessa specializzazione, la responsabilità delle
associate per l’intera opera è solidale.

Nella riunione “verticale”, tra imprese di diversa specializzazione, ciascuna impresa risponde per la
parte dell’opera ad essa affidata, ma la capo-gruppo risponde per l’intero.

Il «Gruppo Europeo di Interesse Economico» (G.E.I.E.), soggetto privo di personalità giuridica, nasce
da un contratto di collaborazione tra soggetti che svolgano attività economiche anche non
imprenditoriali e che appartengano a diversi Stati membri dell’U.E.. È disciplinato dal diritto
comunitario per favorire la cooperazione tra soggetti di diversa nazionalità.

Il contratto dev’essere stipulato in forma scritta ed è soggetto a registrazione.

Non deve necessariamente essere dotato di un fondo ed è prevista la responsabilità personale, solidale
ed illimitata di ciascuno dei suoi membri per le obbligazioni del Gruppo.

Sono previsti un “Collegio dei membri” ed un “Organo amministrativo”.

È assoggettato agli stessi obblighi contabili prescritti per gli imprenditori commerciali.

Sono disciplinate tra l’altro le cause di recesso per giusta causa e di esclusione per inadempimento
grave ai propri obblighi, ma altre possono essere previste nel contratto.

Sono disciplinate le cause di scioglimento, tra le quali il fallimento, e la liquidazione.

(Altalex, 13 settembre 2016. Articolo di Gaetano Anzani)

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