Sei sulla pagina 1di 115

LIDIA PIZZO

MONOGRAFI
A

L’ A – Z E R O D E L L’ O P E R A D’ A R T E
D I G I N O B. C I L I O

1
INDICE

Prefazione pag. 7

Profilo biografico ed artistico pag. 9

Breve nota sulle Avanguardie pag. 18

L’opera d’arte tra scetticismo


e Metafisica pag. 26

Eclissi dell’opera d’arte? pag. 42

Eclissi della critica pag. 57

Opera d’arte come “rumore”


Eclissi del mercato pag. 69

Postfazione: l’A-Zero dell’opera d’arte pag. 75


tra Postmoderno e Civiltà dei byte

Curriculum pag. 82

Bibliografia pag. 84

2
3
GINO B. CILIO

OPER-AZIONE “A –
ZERO”
A cura di Lidia Pizzo

A-Zero Superficie A-Zero Forma A-Zero Struttura A-Zero Linguaggio A-


Zero Tecnica A-Zero Concetto
A-Zero Fruizione A-Zero Estetica

A-Zerare la superficie, A-Zerare la forma, A-Zerare la struttura, A-Zerare il


linguaggio, A-Zerare la tecnica, A-Zerare il concetto, A-Zerare la fruizione, A-
Zerare l’estetica.
Di tutto il sistema dell’arte cosa lascia Cilio? Solo un indizio. Egli nel suo
operare non fa altro che ricondurre espressioni artistiche complesse e
complete ad elementi semplici, non ulteriormente riducibili, in una parola
atomici.
L’atomo di questo processo è rappresentato da un indizio intenzionale,
artificiale e convenzionale, il cui scopo è dare un bit di comunicazione agli
altri: e se c’è comunicazione, l’indizio è un segno il cui designatum è la
presenza di un evento-non-evento artistico in un determinato luogo
deputato o meno.
Il segno, poi, presuppone un interprete che, nel nostro caso, si identifica con
il fruitore ma che potrebbe identificarsi con l’artista stesso. Essi vedono nel
segno una traccia psichica, un impulso che potrebbe portarli a mettere in
moto l’immaginazione, ad evocare una fantasia, in una parola ad
interpretare il segno.
E se nell’atto della percezione spettatore ed artista (spettatore potrebbe
essere l’artista, come già ribadito) sono in posizione sincronica in quanto
possibili creatori di ogni forma d’arte, nell’atto della creatività o della
possibilità della creatività sono diacronici, perché ognuno sarà portatore
della sua personale sensibilità, della sua immaginazione, della sua
Weltanschauung, ecc.…
In altri termini, l’indizio lasciato dall’artista si denota come unità
significante, ma contemporaneamente per il luogo o i luoghi in cui è posto si
connota come significativo, in quanto espressione di un pensiero che
l’artista ha intenzionato come tale, essendovi sottesa una struttura
concettuale minima. Intanto, l’indizio divenuto segno di qualcosa che
convenzionalmente e abitualmente è interpretato come portatore di
espressioni estetiche, si trasforma in simbolo di un concetto di arte il cui

4
senso dipende da chi lo interpreta e lo usa. Nel nostro caso comunicherà la
possibilità di arte, l’aspettativa dell’arte.
L’imput dato dal simbolo servirà da autput per arrivare alla
rappresentazione, oppure all’intuizione soggettiva del concetto di arte.
Alle tre funzioni cui le immagini di qualsiasi opera d’arte adempiono: segno,
simbolo e rappresentazione, l’ A-Zero toglie la rappresentazione, di
conseguenza anche il segno e il simbolo vengono fortemente scarnificati e
possono assumere la loro funzione originaria solo se il fruitore vi interverrà.
L’affermazione di Gombrich: “L’arte ha una storia, ha degli stili, a differenza
delle percezioni e dei sogni che non ne hanno” viene interpretata
dall’artista: l’arte non ha più storia né stili, i sogni e le percezioni del fruitore
vi daranno una storia e uno stile.
I canoni estetici, i codici formali, le tendenze del gusto hanno per troppo
tempo imbrigliato la creatività dell’artista, ora lui ha gettato la spugna,
lascia agli altri la responsabilità del “fare”.
Cilio con l’A-Zero ha ridotto il sistema dell’arte, di ogni arte, secondo la
teoria dell’informazione, a “rumore”. Infatti, nel momento in cui in un ri-
quadro vuoto di superficie potrebbero concentrarsi tutte le possibilità
estetiche, avremmo l’equivalente del suono bianco in musica.
Dice U. Eco in “Opera aperta”: “Un’opera è aperta sinchè rimane opera,
oltre questo limite si ha l’apertura come rumore”. Ma, in ultima analisi, il
rumore intenzionato come tale si configura come segnale, ma laddove
esiste un segnale, esiste un emittente e un ricevente in rapporto
comunicativo. Sarà l’interpretazione del ricevente che darà valore a quel bit
di informazione, al segnale, che a tal punto diventerà messaggio significante
a funzione emotiva.
In altri termini, lo “spazio” dell’opera “svuotato” dall’emittente (in questo
caso dall’artista) si configura come “campo” su cui l’artista non ha lasciato
alcuna impronta personale, nessuna parola, nessuna apertura ad una
possibile fruizione, ma solo uno stimolo, un indizio, un segno su cui il
ricevente “lavorerà”, poiché tutto il dicibile e il rappresentabile non
appartiene all’artista ma all’umanità tutta al di là di lingue, razze, religioni,
latitudini, ecc…
Del mito dell’arte cosa resta?
Soltanto un atto rituale, compiuto in luoghi più o meno deputati, in quanto
sequenza di gesti, di azioni di comportamenti di natura significativa o
simbolica rivolti ad una comunità sia artistica che extrartistica.
Gesti, azioni, comportamenti e solo gesti, azioni, comportamenti creano
negli spettatori-attori delle varie arti determinati effetti psicologici molto
vicini ai riti di iniziazione. In ogni caso questa ritualità è un atto
comunicativo poiché fornisce un codice atomico di informazione, il quale
crea un effetto psicologico che induce ad avere dinanzi all’indizio, al segno,
al simbolo, al rito una reazione, a formulare nell’intimo un pensiero, proprio
perché, attraverso il rituale, il reale si concettualizza in riflessione, pausa,
tappa.
RI-COMINCIARE?
5
And if in the act of perception
CILIO’S “A- the spectator and artist ( the
ZERO” spectator can be the artist
himself, as already mentioned )
are in a syncronous position (as
An-nhilate the Surface An- they are potential creators of
nihilate the Form every form of art),in the act of
An-nihilate the Structure An- creativity or in the possibility of
nihilate the language creativity, they are diacritical
An-nhilate the Technique An- because each of them will be a
nihilate the Concept promoter of his own feelings,
An-nihilate the Fruition An- imagination, Weltanschauung,
nihilate the Aesthetics. etc...
In other words, the evidence
pointed out by the artist denotes
a significant unit. At the same
What remains in Cilio’s stylistic time, due to the place or places
art? Just a hint of the complexity in which the evidence is
evidenced in his art work through allocated, it connotes itself as
the use of simplicistic elements meaningful. Infact, it is an
that cannot be reduced any expression of thought that the
further. In one word atomic artist premeditates as such, and
minutiae, the tiniest form of this implies a minimal conceptual
being. form.
This atomic concept of art is Meanwhile the evidence having
presented with an intentional, become a sign of something,
artificial and conventional which usually and conventonally
evidence, whose design is to give is interpreted as a means of
a bit of communication to others, aesthetics expression, it
and, if there is communication, becomes then a symbol of
then the indication is a sign, concept of art. Its meaning
whose designatum is the depends on who interprets it and
presence of an artistic uses it.
phenomenon-or-not in a specific In our case, it will express the
or not specific place. possibility of art and its
The evidence, then, requires expectation. The imput given by
the presence of an interpreter, the symbol will be used as output
who in our case is identified by to achieve the artistc
the attentive observer, but he performance or the subjective
also can identify himself with the intuition of the concept of art.
very artist. They behold in the Of the three functions to which
evidence a psychological trace, the images of every work of art
an impulse that puts in motion fulfil – sign,symbol, performance
their imagination, evochig a – Cilio’s A-Zero eliminates the
fantasy, in a word to interpret performance. Consequentially,
the evidence. even the sign and the symbol are
6
reduced and they assume their In other words, the “space” of
original task only if the attentive the work of art emptied by the
observer will intervene. artist configures as a “field” in
Gombrich’s affirmation. “ Art which the artist has not left any
has its history, its styles in personal marks, any
contrast with perceptions and interpretation of what it is real,
dreams which have not any...” is any surface, any words, any
interpreted by the artist: art has access to a possible fruition, but
no longer history or style, the only an impulse, a hint, an
observer’s dreams and evidence, on which the
perceptions will give us a history respondent “will work”. In fact,
and style. all the things said and shown do
The aesthetics patterns, the not belong to the artist, but to
formal codes, the artistic humanity as a whole without any
tendency, etc... have curbed the difference of language, race,
artist’s creativity for too much religion, latitude, etc...
time. Now, he has surrendered, What remains of the myth of
he has left to others the art?
responsability of “doing”. Just the ritual act fulfilled in
According to the information places more or less specific. It is
theory, Cilio’s A-Zero has a sequence of gestures, actions,
reduced the system of art, of symbolic and significant
every art, to a “noise”. In fact, at behaviours applied to both
the moment in which we artistc and extra-artistic
concentrate all the aesthetics comunities.
performances in a empty Gesture, actions, behaviours
framework, we will have the and only gestures, actions and
equivalent of the white sound in behaviours develop in the
music. spectator---actors of various arts
In “Opera aperta”, Umberto specific psycological effects very
Eco says. “ A work of art is near to initiatory rites.
extended until it stays a work of In any case, this rituality is a
art. Beyond this limit the communicative act. It gives an
extension becomes a noise.” informative, atomic code, which
In conclusion, the noise, creates a psychological effect,
intended so, configures a signal. leading to a reaction in the
But if there is a signal, then there presence of indication, evidence,
will be two interlocutors who symbols, rites, leading to the
correlate in a comunicative formation of an idea in one’s
relationship.The respondent’s intimate being, only because it is
interpretation will give value to through the ritual that the real
that bit of information ( the becomes a concept of
signal ) which now becomes a meditation, pause, halt.
significant message with Shall we -start all over again?...
emotional functions.

7
PREFAZIONE

Un’operazione, apparentemente marginale nel mondo dell’arte, l’ “A-


Zero” di Gino B. Cilio dibattuta tra il 2003 e il 2004 in diverse città
d’Italia, propone tutta una serie di interrogativi e problematiche
connesse con l’estetica, l’etica, la critica d’arte, il mercato, il ruolo delle
Avanguardie e così via.
Quattro non-cataloghi di formato minuscolo ed accattivante, ognuno
dei quali fustellato al centro in forma di quadrato, hanno fatto il giro tra
molti addetti ai lavori.
Il primo dei “non- cataloghi”, sulla copertina, ha un nome, Gino Cilio,
ed un titolo, “Opere”, il secondo ha solo il nome dell’artista, il terzo solo
il titolo, il quarto è assolutamente anonimo.
All’interno trentasei pagine bianche e sempre fustellate al centro in
forma di quadrato.
Non esiste riproduzione di alcuna opera, solo l’assolutezza di un
riquadro vuoto .
Il catalogo ha sempre testimoniato un evento costituito da un
mostra di opere, ma mostra non c’è stata, quindi ci si trova in presenza
di una non-mostra e di quattro non-cataloghi, allegata ai quali c’è una
nota rigorosamente anonima con una dichiarazione di poetica: A-Zero
Forma, A-Zero Struttura, A-Zero Linguaggio, A-Zero Tecnica, A-Zero
Concetto, A-Zero Fruizione, A-Zero Superficie, A-Zero Estetica.
Pertanto, se dovessimo tenere fede a questa poetica, le argomentazioni
che seguono non dovrebbero essere stilate.
Noi sosteniamo, invece, da non addetti ai lavori ma da semplici
amateur, e pertanto fuori da ogni sistema dell’arte, con Michael

8
Dummett che: “La lingua sarà uno specchio deformante ma è l’unico
specchio che abbiamo”.
E di quest’unica possibilità ci serviamo per dare il “nostro” senso al
gesto iconoclasta di Cilio.
Inoltre, nello stilare queste note sono state prese in considerazione più
aspetti dello stesso problema che potrebbero risultare contraddittori.
In effetti, l’istituire delle contraddizioni risponde alla precisa volontà di
dare a questo scritto valenza positiva poiché si crea in tal modo un
deuteragonista, (figura che la contemporaneità ha dimenticato perché
gli individui sono omologati gli uni agli altri attraverso una diffusa
estetizzazione della vita) con cui confrontarsi e quindi superarlo per
trovare risposte più probanti al nostro esserci piuttosto che al nostro
non esserci, proprio perché il linguaggio è l’unica possibilità che
abbiamo per sottolinearlo.
L’operazione “A-Zero”, intanto, nella sua dizione risulta ambigua: se è
una locuzione avverbiale, essa ha la funzione di modificare il significato
della parola cui si accompagna: superficie, forma, struttura……ma, il
trattino è ambiguo non rende assolutamente chiaro che trattasi di una
locuzione.
“A-Zero”, allora, è verbo, quindi sottintende un’azione, un modo di
essere, lo stato di una cosa o di una persona ed indica una situazione
che informa su di un fatto o su un evento.
Ma né fatto, né evento vi sono stati perché l’evento è un non-evento e il
catalogo un non-catalogo di una non-mostra.
Comunque sia locuzione o verbo, di primo acchito, l’operazione può
configurarsi come un “non sense” in quanto va contro il senso comune
che vorrebbe il catalogo come la risultante di un evento. Ma il non
sense presuppone un minimo di linguaggio, ma qui non ve n’è alcuno.
Sarebbe più corretto, allora, parlare di assurdo , ma un’operazione
assurda è priva di logica, tuttavia logica esiste, e ben confezionata,
come recita la nota allegata ai non-cataloghi.
Rimane il paradosso.
Esso contraddice il reale, va contro l’esperienza comune che vuole che
un evento artistico si verifichi in un luogo, qualunque esso sia, deputato
o meno, e in un tempo stabilito in cui l’artista mostra ad un pubblico la
sua opera.
Ma l’opera non c’è. Ecco il paradosso che suggerisce, come sostenuto in
esergo, una serie di interrogativi.
Tra l’altro la scomparsa del nome dell’artista rende nulla ogni
operazione linguistica a funzione poetica, semmai resta solo la funzione
informativa da parte di un individuo determinata da un indizio
intenzionale, artificiale e convenzionale costituito dai non-cataloghi.
Anche il rito della vernissage è messo in parentesi: l’opera d’arte è
insignificante nell’era della “Civiltà dei Byte”, nell’era dell’estetismo
estenuato ed estenuante contemporaneo persa com’è in quel mare di
immagini che la quotidianità ci propone.
9
L’inflazione dell’immagine ha raggiunto il suo apice. In cima è
opportuno, dopo la faticosa salita, fermarsi e riflettere. Riflettere
soprattutto sul titolo che l’uomo Cilio ha dato ad un “Ri-Quadro” vuoto
di superficie formato solo dai quattro listelli che avrebbero dovuto
sottendere il piano pittorico: 1 + Uno, in cui l’1 si riferisce al riquadro
vuoto appunto e quindi si configura come operazione scettica, mentre il
+ Uno, laddove la seconda opera manca e quindi in effetti quel più Uno
è meno Uno quindi zero onde “A-Zero”, rimanda certamente alla
totalità, all’Assoluto, al Nulla ed è quindi operazione positiva..
Essa ci consegna nel non-luogo della dimensione spaziale, nel non-
essere della dimensione temporale e dunque in un assoluto che
contiene il non essere del mondo, che contiene per converso ogni
possibilità.
In tal senso l’arte si è liberata dalla materia e quindi anche dalla morte.
In questo contesto, allora, questa operazione risulta fondamentale e
centrale nel sistema dell’arte contemporanea perché disimpegna
finalmente l’artista dall’ossessione dell’oggetto opera d’arte che ha
nutrito da molti decenni a questa parte molte personalità da Duchamp,
a Piero Manzoni, a Carlo Alfano, ad Ad Reinhard, ecc….
Nessuno di questi, però, si era spinto tanto oltre da giungere
all’insignificanza del gesto artistico.
Svincolati da questa ossessione assume senso, paradossalmente, la
totalità del non-essere dell’opera.
Infatti, molti artisti hanno scarnificato sia il segno che il colore per
introdurre nell’opera il massimo grado di spiritualità da Mallarme in poi,
passando per Malevic, Mondrian, Yves Klein, Mark Rothko, Ettore
Spalletti, Anish Capoor e molti altri.
Tuttavia, ci sembra necessario dire che il vuoto e il nulla dell’arte, se è
vero che la creatività è inscritta nel DNA dell’uomo che lo ha portato a
raggiungere spazi siderali in senso reale e metaforico, è creato dagli
artisti, tanto è vero che per indicarlo Cilio si è servito della dizione Uno,
e quindi non ha potuto prescindere dal linguaggio.
Il viaggio, lì, nella geografia interiore, allora, è solo iniziatico, darà a
Cilio la forza per la risalita che è poi la scoperta che lì lui dimorava da
sempre, come tutti noi.

L.P

10
PROFILO BIOGRAFICO ED
ARTISTICO

Fuga, irrequietezza,
destino, dannazione, la
vocazione di Gino B.
Cilio per l’arte fatta di
continue ricerche e
superamenti che si
concretizza in una
produzione assai vasta
ed articolata di non
facile
schematizzazione.
Nasce in Sicilia a
Grammichele, provincia
di Catania, il 15 aprile
del 1936, ove rimane
solo qualche anno. La
famiglia, infatti, si
trasferisce a Noto,
“giardino di Pietra”,
come ebbe a scrivere
Cesare Brandi,
ricostruita dopo il
terribile terremoto del
1693 in originali
strutture
architettoniche
barocche che ne hanno
fatto un patrimonio
dell’umanità protetta dall’Unesco.
A Siracusa, sfidando ogni decisione paterna che avrebbe voluto per lui
la carriera di Ippocrate, frequenta l’Istituto d’Arte con ottimo profitto.
Ben presto abbandona lo studio sistematico per stabilirsi a Milano,
ove soggiorna qualche anno e ove, pur continuando a produrre opere
pittoriche, lavora nello studio di Arti Applicate Fornasetti.
11
Da lì si trasferisce a Palermo per completare gli studi e conseguire il
diploma presso l’Istituto Statale d’Arte.
Successivamente si sposta a Roma. Qui frequenta l’Accademia
Statale di Belle Arti e contemporaneamente inizia la sua carriera
espositiva nelle principali gallerie: Il Mascherino, I Volsci, L’Agostiniana,
Palazzo delle Esposizioni, ecc….
Il suo costante bisogno di confronto con altri artisti lo porta, ben
presto, ad abbandonare Roma per Salisburgo, ove Oscar Kokoschka
aveva fondato e dirigeva l’ Accademia Internazionale a cui lui stesso
aveva dato il nome di “Scuola del vedere” e dove insegnava ai suoi
allievi, facendosi maestro di arte e di umanità, a prendere coscienza del
fatto che attraverso la pratica dell’arte si può esorcizzare il contenuto
terrifico della morte sempre presente nella vita.
Cilio, qui, assorbe ogni visionarietà del linguaggio kokoschkiano fatto di
segni brulicanti di colore e diviene un allievo fra i prediletti del maestro
che, quando era soddisfatto dei lavori dei suoi discepoli, ordinava: “al
muro!”. Ed “al muro” erano tante le opere del Nostro che “tradisce”,
però, presto il suo maestro.
L’irrequietezza, infatti, lo porta verso altre esperienze, ad esempio
verso la grafica, insegnata allora dal
maestro Slavij Soucek nella stessa
Accademia, che lo vede primo nel
concorso di grafica riservato
appunto agli allievi della medesima.
Lasciata Salisburgo, torna a Roma
ove dirige l’ Accademia di Belle Arti
del Circolo Romano di Cultura
frequentata da artisti italiani e
stranieri e contemporaneamente
lavora presso la Direzione Centrale
dell’ IRI come grafico insieme con il
maestro Corrado Cagli.
Nel frattempo l’attività espositiva si
intensifica ed il giovane Cilio è
interessato alle problematiche
religiose, che in quel momento sono
centrali per la Chiesa di Roma, la
quale aveva indetto il Concilio
Vaticano II°.
L’artista tratta le varie tematiche
con vena ironica e critica servendosi
di una neofigurazione in cui una forte e sicura gestualità, cifra sempre
distintiva dell’artista, sottende un segno deciso che evoca dall’informe
la forma riconoscibile, in grado di strappare il velo alle ambiguità di un
rinnovato “sistema” religioso.

12
Tornato a Noto fonda e gestisce il Centro culturale “La stadera 2” che
diventa coagulo di artisti non solo italiani, ma anche stranieri.

Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, la


Sicilia orientale ha iniziato e consolidato un
processo di industrializzazione di base che si
è concretizzato nella creazione di uno dei più
grossi poli petrolchimici d’Europa,
determinando da una parte un relativo
progresso economico della zona, ma dall’altra
sollevando problemi di forte impatto sociale,
umano, ambientale.
Questi temi sono così profondamente sentiti
dall’artista da spingerlo a trascorrere alcuni
mesi tra gli operai del polo.
Nasce una lunga serie di lavori che inducono
Cilio ad abbandonare l’iniziale neofigurazione
per un neoespressionismo in cui l’uomo è
rappresentato come “una larva d’uomo”
oppresso dal ritmo dell’industria di cui
l’artista mette in evidenza l’aspetto ossessivo
e drammatico.
Man mano che la sua protesta si fa più
pressante il segno si scarnifica e trova singolarità di impaginazione
attraverso la scomposizione delle immagini in graduazioni di sequenze
analitiche che si ricompongono in sintesi lirico-emotiva, dove si
evidenzia una dolente umanità ridotta al ruolo di “servo-macchina”. Qui
i miti idilliaco-pastorali del vecchio mondo siciliano sono abbattuti a
vantaggio di una selvaggia installazione di “cattedrali nel deserto”.
Laddove, nello stesso periodo, Renato Guttuso dipingeva un mondo
isolano fatto di agavi, contadini, fichi d’India, mercati rionali e simili, che
stava per tramontare per sempre, Gino Cilio guardava con occhio critico
al futuro dell’isola che si avviava verso un rapido benessere, senza fare
i conti con l’ambiente circostante.

13
In questo contesto, allora, per il
Nostro, la Sicilia si fa luogo
privilegiato per rendere
universale una protesta tesa al
recupero della dignità
dell’uomo nel sistema di
sfruttamento delle società
capitaliste, mentre l’arte per lui
può e deve essere uno
strumento di trasformazione
sociale in quanto presa di
coscienza di determinate
problematiche umane. In questi
termini “le immagini assumono
il sapore di creature
emblematiche assorte in uno
spazio che le contiene e che
esse stesse cercano di
conquistare riproponendosi in
una azione multipla di
sollecitazioni”, come scrisse
Vito Apuleio.
Questo è un periodo di febbrile
attività espositiva che si
concretizza in varie mostre
tenute in diverse parti
d’Europa: Belgio, Olanda,
Svizzera, Austria, Germania,
ecc…
All’inizio degli anni ’80
Cilio intensifica la sua ricerca
spaziale che lo condurrà
inevitabilmente molti anni dopo
all’ “A-Zero” dei linguaggi espressivi.
In questo periodo, la fase dell’Espressionismo in cui il soggetto è
scarnificato al limite della riconoscibilità, evolve verso strutture
geometriche, di lontana ascendenza cubista-eidetica coniugate ad un
dinamismo di forte impatto futurista. Questo momento espressivo è ben
sottolineato da una lettura critica di Massimo Bignardi, che di seguito si
riporta.
“La città per Gino Cilio è un campo disseminato di segni, dati come
evidenza di una frenetica corsa o di una continua aggregazione di
elementi dinamici.
Osservando queste sue opere in particolare modo “Allucinazione
notturna” la memoria corre rapida al futurismo di Balla, agli schizzi di

14
Sant’Elia e forse, primi fra tutti, i disegni di architettura di Virgilio
Marchi, carichi di una gestualità segnica e cromatica.
Pian piano, entrando con l’occhio nella fitta rete delle relazioni e dei
rimandi semantici, nei salti violenti dei toni, nella porosità del tratto,
nelle sfumature e nel dialogo che esse instaurano con la corposità dei
segni neri, misuriamo le distanze che separano la ricerca di Cilio da
quella futurista spingendo a ritenerla più vicina ad un’area fortemente
sensibilizzata dal segnismo informale di un Franz Kline. Penso a quegli
incisi nel fondo del supporto, intrisi dei rumori, della velocità delle
macchine, del traffico urbano, delle direzioni forzate e convogliate delle
metropolitane: questo ricorrendo ad una composizione ove i larghi
montanti neri esprimono i rapporti fra i pieni e i vuoti, le “assolute
verità” dei bianchi, le tensioni e le
contraddizioni della città moderna”.
Tutto ciò mette in evidenza l’altro
problema che il Nostro ha sempre
affrontato con originalità di soluzioni
formali, come bene ha evidenziato il
critico di cui sopra,
dell’attraversamento dei linguaggi e
delle loro connessioni visive, artistiche,
esistenziali.
La produzione artistica di questo
periodo, dunque, si concretizza in un
ciclo pittorico di grande maturità
stilistica e poetica in cui influisce
certamente la lezione di Kokoschka nel
suo uso costante di segni morbidi e
guizzanti che tanto bene avevano
espresso il dramma del sogno
continuamente infranto del conoscere
proprio della condizione umana, ma
anche la ricerca dell’essenza plastica
propria del cubismo eidetico nonché la
ricerca futurista dell’espressione della
velocità e del dinamismo e in ultimo,
ma non ultimo, il segnismo informale.
Questa fase pittorica è caratterizzata
dall’uso di materiali poveri ed abusati,
come il catrame, il vetroresina, il
sicofoil, il polimaterico, il
“combinatorio”, destinati a prospettive
inedite che “escludono, in un’azione
che è sempre “nata dentro”, ogni forma
di gratuità e di anarchia…….si riscontra
in essa quella sorta di essenzialità
15
orfica – come dire misteriosa, stregata, assumente l’universale sul
flusso minuto delle apparenze - di cui parlava Apollinaire per il
“fraseggio” delauniano…..Cilio, contrario all’estetismo, che è corruzione
ridondante e di maniera della creatività, continua ad assegnare il
primato al fatto estetico in sé: somma di motivazione ideali e di esiti
professionali, unità di fruizione edonistica, nel cumulo dei referti
sensori, di esplorazione gnoseologica e di vibrazioni d’anima”. Così
l’amico e conterraneo Renato Civello si espresse relativamente alle
opere di questo periodo.
Un assemblaggio in particolare è necessario ricordare, esposto già
nell’ Expo di Bari del 1989 dal titolo “Installazione” che compare anche
in un catalogo dell’artista per la mostra “Ad hoc”, curata da F. Gallo per
il Comune di Acireale (Catania), in cui sono uniti due pattern al centro
ove è presente una figuratività e due pattern ai lati assolutamente vuoti
di superficie.
Qui, conformemente alla querelle Alberti-Brunelleschi, che Cilio citava
sempre ai suoi allievi, i riquadri vuoti di superficie servono ad esaltare
quelli pieni, e, pertanto, mettono in evidenza come il problema spaziale,
sin d’allora, urgesse nella ricerca dell’artista.
Nel frattempo, negli anni ’90, la forte accelerazione tecnologica,
l’eccessiva messe di informazione che ben poco comunica, la perdita di
identità del soggetto, nonché un vissuto fatto più di vuoti e di mancanze
che di certezze, per cui il desiderio di futuro si fa sempre più labile,
pongono all’artista, da sempre attento all’impatto della tecnologia sulla
società, altri problemi che trovano singolarità di espressione nelle
innumerevoli opere di questo periodo costituite il più delle volte da
installazioni fatti di pattern spesso di uguale dimensione e dai titoli
significanti, come: Zapping, Happening, Simultaneo, Seriale, Interattivo
ed altri che l’artista stesso definisce “Archi-pitto-sculture”. Esse si
articolano in dittici, trittici, polittici che mettono in evidenza le
problematiche legate alla multimedialità e all’interattività che
sommergono il soggetto con la loro messe di immagini multiple e
caotiche le quali sembrano mantenere nascosti i loro rapporti ma che
Cilio decodifica, sovrapponendo il tempo spazializzato e risolto in
moduli, col tempo della coscienza in cui le memorie si sovrappongono o
stentano a venire in superficie restando labili parvenze, solo un’eco,
quasi volessero lasciare allo spettatore il compito di scoprire e
decodificare il messaggio dell’artista.

16
Egli, per rendere concreto il suo
pensiero, copre con un foglio opaco, in
vetroresina generalmente, un frammento
dell’assemblaggio, oppure ne
sovrappone in parte gli elementi, quasi
che passato e presente si intersechino,
al fine di evocare inquieti percorsi
interiori, tali da lasciare allo spettatore il
compito di scoprirli e decodificarli, nel
momento in cui la troppa messe di
messaggi non potenzia la nostra
sensibilità, anzi con la sua ripetitività da
una parte anestetizza le emozioni,
dall’altra rende anche più inquieti perché
ciascuno perde il proprio ubi consistam.
Dunque, i pattern posti nello spazio,
“provocano” il vuoto dell’ambiente con le
loro strutture modulari e/o
tridimensionali, in cui lo spazio stesso è il
luogo di un accadimento rivolto allo
spettatore che non vive un’esperienza
preordinata o congelata dall’artista, ma,
come attore sulla scena, partecipa
attivamente all’evento estetico
spostando, se vuole, i moduli; di fatto de-costruendoli, così come in un
gioco di zapping, per ri-creare altri giochi della co-scienza in uno spazio
pittorico e architettonico che richiede uno sguardo complice, per ri-
costruire una realtà che si fa “altra”, che muta col mutare del soggetto
che interagisce con essi.
Le opere , in questo modo, consentono una ulteriore “forma” di
“apertura” oltre che nella struttura linguistica anche in quella fisica,
secondo una personale interpretazione che Cilio dà al concetto di
“opera aperta” di Umberto Eco nell’omonimo saggio.
Ed ancora, al fine degli ulteriori sviluppi, emblematici risultano alcuni
assemblaggi di dieci pattern, di struttura triangolare. Essi “contengono”
spazi vuoti, varchi, spazi bianchi o neri che, già da questo momento,
mettono in evidenza come l’artista si avvii verso la “sua” soluzione del
problema spaziale, linguistico, strutturale dell’arte contemporanea, e
non ultimo del suo problema esistenziale di artista.
In realtà i dieci pattern sono disposti in modo tale da formare una
tetraktis, figura sacra per i Pitagorici, per i quali il dieci era il numero
perfetto.
La tetraktis, quindi, ha per lato quattro elementi triangolari per così dire
“lavorati” e il quattro rappresenta sia la giustizia che il quadrato, figura
geometrica assoluta (che l’artista riprenderà per il suo “A-Zero”)
simbolo del limite e della misura.
17
Ordine, misura, unità, armonia, bellezza sono concetti greci, (e Cilio vive
da lunghissimo tempo tra Roma e Siracusa) per i quali la perfezione era
costituita dal limite, dal determinato, dal compiuto.
L’espressione idiomatica “è un’opera d’arte finita” significa appunto che
è un’opera portata alla sua forma armonica, perfetta, e questi dieci
triangoli sembrano dirci che nel limite c’è un principio “attivo”,
determinante delle cose. Esso, per i Greci, non è altro che un processo
in cui trionfa nell’Universo il limite sull’illimitato, la forma sul caos,
l’ordine sul disordine.
Nella contemporaneità regna, invece, l’indeterminatezza, un mondo
privo di leggi e di limiti, di misura e di fini ove qualunque azione trova il
modo di essere legittimata. Allora l’artista con questi assemblaggi di
triangoli in forma di tetraktis esorta a trovare l’ordine ideale del mondo,
il kosmos.
C’è un’apparenza mutevole, ingannevole, attraverso l’arte è possibile
trovare le leggi rigorose che governano la realtà. Gli spazi bianchi
triangolari (l’uomo nella sua accezione di mente, psiche e soma?)
trovano allora la loro ragion d’essere, invitano alla riflessione, alla
pausa, alla scoperta e quindi alla consapevolezza.
Mentre nel vuoto della forma lo spettatore ha la possibilità di riposare
l’occhio, di rilassarlo perché troppo grande è la messe caotica delle
immagini, che, a raffica, vengono scaricate sulla sua psiche.
Oppure, lì nel vuoto lo spettatore può “scaricare e ri-caricare” l’ altra
parte del suo sé, trovando a sua disposizione uno spazio reale in cui
può idealmente ricreare il proprio spazio, la propria illusione di potersi
“inserire” nel bianco, nel vuoto, lasciato dall’artista, in modo da potere
uscire da se stesso per identificarsi in situazioni “altre”.
Oppure, il vuoto può iconicamente configurarsi come lo spazio della
nostra solitudine, delle nostre speranze, delle nostre aspirazioni, o può
consentire una infinità di altre interpretazioni poichè, prima di ogni
inizio, bianca è la pagina e la tela, bianca è la luce. Bianco è il silenzio
quando la luce e l’ombra dialogano, e la luce e l’ombra sono sempre
componenti immateriali ricche di potenzialità estetiche.
Comunque, qualunque sia l’intendimento contenutistico di queste
“pause”, dal punto di vista formale
esse servono ad esaltare il pieno
per evidenziarlo, come era nella
citata querelle tra l’Alberti e il
Brunelleschi che già diversi secoli
fa faceva notare la problematicità
del “vuoto” fra le strutture
architettoniche e quindi per
estensione, nel caso del Nostro,
anche fra le strutture pittoriche.
Frattanto a metà anni ’90 i colori
brillanti e violenti, di cui abbiamo
18
trattato più sopra, cedono il posto ai monocromi su vetroresina o
masonite, dove il catrame, già usato da Cilio in anni precedenti ma con
altre significazioni, viene sfruttato in tutte le sue nuance cromatiche ed
evidenzia una costante del pensiero dell’artista: materiali poveri, umili,
abusati, di scarsissimo valore commerciale possono, per mano
dell’artista, diventare preziosi, grazie ad una operazione alchemica che
fa evolvere la materia bruta verso la perfezione artistica, sicchè un
supporto povero ed inquinante è riscattato dalla quotidianità dell’uso
per essere esaltato come fatto estetico in cui si sedimentano le
emozioni declinate sempre in un linguaggio pittorico “alto” e
consapevole, in cui la gestualità ha ancora un ruolo fondamentale e
serve a far emergere e scaricare sul piano pittorico tracce emozionate
ed emozionanti che richiamano temi cosmici in cui sembra di ascoltare i
suoni della natura o le voci spettrali di angeli o demoni provenienti da
un fondo arcaico e talora violento.
Lo spazio monocromo si dilata, è ferito da un segno forte e deciso
mentre il colore del catrame si estende fino a riempire tutta la
superficie o si contrae sino a lasciare solo qualche traccia. Quel catrame
ora e quegli smalti prima che Cilio versa direttamente sul supporto per
gestirli manualmente facendoli scorrere, sgocciolare, rapprendere, o per
lasciare ampie campiture che fanno vedere la superficie stessa, sia essa
il vetroresina di cui sfrutta la proprietà riflettente la luce o la masonite
di cui sfrutta il fondo bianco in funzione luministica.
A questo punto è evidente come la vexata quaestio del vuoto e del
pieno si connetta tanto più strettamente con quella dello “spazio”,
mentre affiora prepotente l’altro problema: quello del tempo.
Infatti, tra i percorsi esposti sopra, è necessario, ai fini degli sviluppi
che seguono, segnalare un progetto, che l’artista ebbe in mente ma che
realizzò solo in parte per vari motivi, non ultimo perché
improvvisamente il problema dell’A-Zero dei linguaggi si fece più
pressante.
Di esso rimane qualche schizzo e qualche foto scattata in una cava di
pietra, nei pressi della città di Noto o ai monumenti storici sia di Roma
che di Siracusa ove Cilio sarebbe dovuto intervenire con alcune
installazioni inserite in varchi, archi, luoghi architettonici significanti.
Addirittura aveva, per così dire, “incorniciato” con dei riquadri vuoti di
superficie alcuni spazi sia della cava che dei monumenti.
Egli aveva, tempo prima, realizzato delle installazioni, tanto per citarne
qualcuna, nel Museo di Anzio o nella Chiesa degli Artisti in Piazza del
Popolo a Roma, o in altri luoghi deputati o meno.
L’istallazione certamente gli fa urgere il problema del tempo.
Infatti, rispetto al quadro o alla scultura, posto su una parete l’uno, nello
spazio l’altra, le installazioni coinvolgono chi guarda differentemente,
poiché possono essere fruiti a più livelli, dal corporeo al visivo, al tattile.
Inoltre, esse non si danno una volta per tutte, ma poiché si stabilisce
una interazione tra lo spazio e il tempo dell’opera e lo spazio e il tempo
19
dell’osservatore, si danno ogni volta in modo diverso ad ogni individuo,
e allo stesso individuo in tempi diversi.
Allora, in merito al primo progetto, quello della performance e delle
installazioni nella cava di mattoni, l’intendimento del Nostro era quello
di ri-qualificare un sito segnato dalle opere e dai giorni del cavatore di
pietre, dell’operaio, dell’umile, tema spesso presente nei lavori di Cilio,
attraverso l’opera dell’artista, per trasfigurare la realtà del luogo
snaturandola dei significati preesistenti per ri-qualificarla e riscattarla
dalla sofferenza del passato perché solo lui, l’artista, può riuscire a
porre in rapporto dinamico e dialettico una funzione estetica con una
extraestetica.
Come si sarà osservato, permane nella poetica dell’artista l’idea che
l’arte debba avere funzione etica oltre che estetica.
Analogamente nelle installazioni tra i monumenti, che avrebbero dovuto
essere intitolati “In-Classicità”, Cilio si pone il problema della fruizione
dei reperti archeologici e delle opere architettoniche attraverso i mezzi
di comunicazione, non ultimi i CD, le video cassette, ecc…
Tra l’altro, avviene che le opere guardate per anni, dove non anche per
millenni, hanno perso il loro valore fondante, sono diventati stereotipi di
cui si è smarrito il valore culturale, la connessione dinamica col
presente, per cui l’occhio non ne coglie più lo scarto spaziale e
temporale.
Un oggetto troppo fruito determina una specie di sazietà, diventa
schema, non provoca più emozione. Ma basta un arricchimento della
memoria, una nuova esperienza perché esso ri-diventi “campo” di
possibilità interpretative e quindi portatore di un ordine nuovo, perché
l’artista lo ha prima desacralizzato, contaminato con le sue personali
produzioni “forzandolo” a far parte di un ambiente non consono.
Come quando i dipinti del passato vengono posti ben in vista sulle
pareti dei moderni appartamenti, per cui il presente viene come
risucchiato nel passato, allo stesso modo le opere di Cilio inseriti nei
monumenti del passato, se fossero state realizzate, avrebbero fatto sì
che questi potessero cogliersi nella loro flagranza presente, perché
vivere è ri-vivere, come direbbe Dilthey.
Quindi, in questo progetto si evidenzia come già nel Nostro il
problema del tempo fosse molto pressante e per di più connesso con lo
spazio.
Questa operazione non avrebbe potuto, se fosse stata realizzata, non
far pensare a Christo e ai suoi empaquetementes con cui aveva fasciato
i monumenti isolando l’oggetto della vita dalla vita stessa.
In altri termini Christo proponeva un oggetto senza formularlo, perché
storicamente già formulato e nel nasconderlo non faceva altro che
attirare l’attenzione di chi guardava affinché questi lo ri-formulasse, lo
facesse tra-passare nella co-scienza in quanto l’opera per eccesso di
visione aveva perso la sua funzione estetica.

20
Ma laddove Christo aveva agito per sottrazione di immagine, Cilio
avrebbe agito per addizione ed avrebbe aggiunto valore a valore col
sigillare lo spazio fisico di accesso ai monumenti.
Inoltre, diversi “interventi” avrebbero dovuto riquadrare o “inquadrare”
tramite una cornice, costituita da listelli neri, uno spazio all’interno o
all’esterno del monumento
A questo punto, la “cornice” non sarebbe stata più, come nel passato,
elemento di separazione tra la realtà esterna al “Quadro” e la realtà
interna, ma elemento di raccordo tra lo scorrere del tempo e lo spazio
catturato, che non è, in verità, spazio vuoto ma spazio colto nel suo
fluire flagrante, nel suo essere transeunte.
L’iter di pensiero che ha portato Cilio all’ “A-Zero”, ora, si chiarisce
meglio.
Da una parte il catrame si contrae sulla superficie fino a diventare labile
traccia, o si espande per invaderla tutta fino a giungere alla
monocromia e all’arte, quindi, come tautologia, dall’altra il listello che
“in-quadra” una parte di realtà fenomenologica sia essa rappresentata
da un monumento o da qualunque altra cosa o meglio ancora se dalla
sola luce. Ne consegue che luce, spazio e tempo, su cui l’artista aveva
lavorato per anni, trovano la loro soluzione perché coincidono.
Già Fontana si era posto il problema e lo aveva risolto attraverso i
buchi o i tagli.
Egli bucava il supporto, attraversava lo spazio che diventava materia,
con un gesto ritmico riproposto continuamente a rimarcare il suo
intervento costante. Ma, il taglio, il buco attraversavano lo spazio-
materia in un certo tempo, il tempo dell’esistenza, del disinganno,
dell’antimonumentalità.
Per Fontana l’arte nasceva da una stretta relazione tra pensiero e
azione per cui dichiarava: “Io buco, passa l’infinito di lì, passa la luce,
non c’è bisogno di dipingere…invece tutti hanno pensato che io volessi
distruggere: ma non è vero, io ho costruito, non distrutto…”
In pratica l’artista col suo gesto aveva, è vero, distrutto il concetto
tradizionale di opera, ma aveva avvicinato il quadro agli oggetti della
realtà.
Per Cilio del Ri-Quadro vuoto di superficie, ora, l’arte non è più azione,
gesto, è solo pensiero, è il “grido taciuto” di Pavese, è quella soglia ove
il tempo e lo spazio sono solo interiori, è quella soglia ove il pensiero
non rap-presenta le cose ma le vive: “non c’è bisogno di dipingere.”
Parafrasando Fontana.
Da sottolineare anche che lo stilema di riferimento dell’artista, in
tutte le opere di cui si è trattato dalla metà degli anni ’80 fino a tutti i
’90, è l’Informale.
Modi e risonanze dell’Esistenzialismo confluiscono in questa corrente,
per la quale la funzione dell’arte si risolve in una serie di accadimenti
esistenziali soggettivi, che in ogni caso non consentono di cogliere
l’essenza delle cose.
21
Di conseguenza il gesto artistico è afinalistico, astorico oltre che
frammentario e si articola in un tempo senza più orientamento né
direzione.
Esso è solo un grido, un gesto puro che potrebbe non essere fermato sul
supporto. L’artista informale sceglie l’operatività solo perché ritiene che
la creatività sia un bisogno insopprimibile dell’uomo.
In altre parole, laddove gli artisti informali, impossibilitati a fissare un
punto di riferimento immobile, si affidano all’ancestrale bisogno
dell’uomo di esprimersi, Gino Cilio abbatte ogni illusione e rende il suo
grido inarticolato, il “grido taciuto” di cui si diceva più sopra, quindi il
suo primo gesto non può non essere che quello di lacerare la superficie
prima, e di toglierla del tutto poi.
In questo modo lo stilema informale in Cilio trapassa nel Concettuale, o
meglio in un minimalismo concettuale che con un passo successivo lo
porterà alla nullificazione dell’opera laddove al “Ri-Quadro” vuoto di
superficie darà un titolo: “1 + Uno”.
Il Concettuale elimina l’oggetto-opera a favore del concetto.
Conseguentemente, l’opera, come dice Filiberto Menna, “viene
ricondotta ad una operazione linguistica di tipo analitico” per cui “viene
affermato il carattere monosemico dell’ordine della significazione. Ma,
eliminato l’oggetto-opera, l’arte non è più merce, essa deve solo
ottenere l’appoggio della società in quanto indagine che trova la sua
giustificazione in se stessa”. Si deduce che Cilio dal Concettuale mutua
l’eliminazione dell’oggetto-opera e il fatto che l’arte non può essere
ricondotta a merce, per il resto non propone alcun concetto, ma,
implicitamente pone tra gli altri il problema della riflessione sull’atto
percettivo, del valore che esso può assumere nel contesto dell’arte, e
della natura dell’oggetto artistico.
In sintesi, la personale Sinngenesis che induce Cilio all’A-Zero origina
da diverse istanze: il problema del vuoto, come era nella querelle tra
l’Alberti e il Brunelleschi, risolta in un primo momento dall’artista, in
una alternanza di superfici in cui si estrinseca l’attività conformativa a
spazi assolutamente vuoti della stessa superficie e semplicemente ri-
quadrati ora in forma di triangolo, ora di quadrato, ora di rettangolo.
Nel frattempo l’Informale lo fa riflettere su quel punto misterioso tra
invenzione pittorica e pagina bianca, tra l’energia che promana
dall’immaginario ed espressione artistica, tra formulazione d’immagine
e l’azzeramento della stessa e non ultimo il Concettuale con la
sospensione dell’ “oggetto” in favore del concetto gli dà l’imput per
lacerare la superficie prima e per toglierla dopo.
Rimane, dunque, il modulo vuoto di estensione pittorica in cui si eclissa
la possibilità del concetto di arte o di emotività ad essa connessa,
scompare anche il concetto di autoreferenzialità dell’arte, rimane solo la
possibilità del “Ri-Quadro” che perimetra o il massimo di realtà o il
massimo di spiritualità.

22
Nel primo caso viene superato il concetto di “opera aperta”, la quale, in
quanto tale, presuppone una interpretazione da parte di un possibile
spettatore. Cilio invece potrebbe rivolgersi alle “cose stesse”,
direttamente, poiché il dato reale, come sostiene Hartmann, è un fatto
imprescindibile di ogni esperienza estetica e costituisce il “primo piano”
dell’opera d’arte. E proprio qui, su questa soglia, prima che la coscienza
si oggettualizzi in un segno anche minimo l’artista si ferma. Egli lascia,
in primo tempo, solo un segnale, un indizio appena percettibile di ciò
che sarebbe potuto avvenire ma non è avvenuto e che si concretizza
solo nel gesto di perimetrare uno spazio o una serialità di spazi che al
loro interno includono anche il tempo e la luce e spiegano pertanto la
dichiarazione di poetica: A-Zero Forma, A-Zero Struttura, A-Zero
Linguaggio, A-Zero Tecnica, A-Zero Concetto, A-Zero Fruizione, A-Zero
Superficie, A-Zero Estetica.
Nel secondo caso, quando il Ri-Quadro perimetra un vuoto e porta un
titolo “1 + Uno”, ma la seconda opera manca, è nulla, il concetto di
opera d’arte ormai passa dal piano fisico al metafisico, così mentre l’ 1
è tesi scettica, l’Uno è positività perchè porta nel non essere delle cose
dove tutte le possibilità sono compresenti, si tratta di riflettere e
trascegliere, magari perdersi, per far emergere una nuova verità.
Il vero dramma dell’artista non è raggiungere il nulla come ha fatto Gino
Cilio ma “viverlo”.
Esso è totalità, ma noi, in quanto soggetti limitati, non possiamo
coglierlo. Il minore non può contenere il maggiore. Tuttavia, se il nulla è
totalità esso contiene tutto. Si tratta di scegliere tra le infinite
possibilità.
Ma l’artista può scegliere una sola entità: la luce. Non per nulla si è
citato Fontana quando diceva che dal taglio e dal buco passava la luce,
passava l’infinito, non c’era bisogno di dipingere, appunto perché è lei
che fa la differenza.
Essa permette di cogliere l’alterità che nel vuoto, nel buio dell’assoluto
si era smarrita, quindi per suo mezzo è possibile ri-percepire l’altro che
consente la creatività. Questa non decodificherà il mistero del nulla ma
lo esprimerà, perchè se dovesse decodificarlo avrebbe bisogno di un
linguaggio-nulla, un linguaggio della totalità. Infatti il vero dramma, a
nostro avviso, del nulla è il linguaggio, mentre ne abbiamo uno per il
mondo fenomenologico, per la totalità non ne abbiamo nessuno oppure
dobbiamo applicare questo a quella, cioè dovremmo usare un
procedimento logico proprio del mondo fisico per il metafisico. Ergo, se
del nulla possiamo fare esperienza, in realtà non lo possiamo
estrinsecare mancando appunto il linguaggio-nulla.
Dunque l’operazione di azzeramento e di nullificazione dell’opera
realizzata da Gino Cilio fa capo a due istanze sempre presenti nella
storia dell’arte dell’ultimo secolo tendenti da una parte all’azzeramento
e all’annullamento dell’opera d’arte e conseguentemente dell’artista, e

23
dall’altra ad introdurre nell’opera il massimo grado di spiritualità, come
si evidenzierà nelle note seguenti.
BREVE NOTA SULLE AVANGUARDIE

“L’opera d’arte autentica più che spiegare istituisce o abbatte


orizzonti di senso e crea o distrugge costellazioni semantiche cui
vengono affidate domande non altrimenti emergenti”. Così Hedegger
(M.Heidegger, Introduzione alla Metafisica, Mursia Milano, 1968, p.22).
Compito dell’artista quindi “è quello di sottrarre l’oggetto
all’automatismo della percezione”. Come dice Victor Sklowskij.
Un gestus iconoclasta consistente nell’eliminare da un supporto
qualsivoglia la superficie, per lasciarlo solo in quanto possibilità
simbolica del fare arte, quanti “orizzonti di senso” abbatte? Quante
“costellazioni semantiche” distrugge? Quanti
“automatismi della percezione” dissolve? Quali
straniamenti propone?
Certo, esibire un “Ri-Quadro” vuoto di superficie ed
aggiungere un titolo: 1 + Uno, ove il secondo
elemento manca, determina straniamento,
spaesamento che induce a porsi due problemi: se
esso è un “a priori”, è necessario partire da un grado
Zero dell’arte, cosa molto ardua per una civiltà, onde
“A-Zero”, titolo prescelto da Gino Cilio per questa
operazione. Se esso è un “a posteriori”, bisogna
annullare tutta l’arte , onde “A-Zero”.
Comunque sia, evidente risulta un solo dato: l’èchec
dell’artista è assoluto ed assolutizzante. Il “Ri-Quadro”
assurge a simbolo dell’impossibilità dell’arte.
Esso si articola, pertanto, tra due orizzonti, quello
della negazione e della nullificazione in quanto
introduzione del massimo grado di trascendenza,
come già in un Mondrian o in un Malevic, e quello di
una immanenza senza residuo, per cui ogni aspetto
del reale può essere opera tout court, come Duchamp
aveva dimostrato con i suoi readymade, oppure come potrebbe essere
qualunque trance de vie.
In altri termini, il “Ri-Quadro” vuoto di superficie è simbolo attualizzante
una “epoché”, una sospensione che sta tra una assenza e una
presenza, tra l’essere e il nulla, tra senso e non senso, sta, cioè, in
quello spazio intermedio che, producendo Unheimlichkeit,
spaesamento, pone una molteplicità di domande.
Laddove le Avanguardie proponevano nuovi linguaggi semanticamente
coerenti, per scardinare la realtà, azzerando i precedenti, Gino B. Cilio
“A-Zera” tutto e non propone nessuna interpretazione della realtà,
24
sospende il giudizio, sospende qualunque formulazione di immagine,
lascia un simbolo: il “Ri-Quadro” vuoto di superficie ed un titolo “1 +
Uno”, laddove il secondo termine manca, che il riguardante può
“investire” di una miriade di significati se riuscirà a proiettare in quel
vuoto le proprie intenzionalità, attualizzandolo e comprendendolo
secondo la particolare Erlebnis del suo plesso culturale.
Ma nel momento in cui Cilio sospende qualunque formulazione di
immagine, evidentemente azzera tutti i linguaggi e il suo è un gestus
degno delle migliori Avanguardie.
Il Ventesimo secolo si presenta come un’epoca cataclismatica quanto
altri mai.
Da una parte si ha un enorme progresso nelle conoscenze scientifiche
del mondo, nonché del micro e macro cosmo, nonostante la
permanenza invasiva di un certo dogmatismo teologico e scientifico, in
cui il dato acquista centralità come “esperienza verificabile” nei vari
sistemi di pensiero. Dall’altro la filosofia continua la sua “costruzione” di
mondi affermati solo dall’uomo-coscienza, che non permettono un
altrettanto progresso gnoseologico rispetto alla scienza e alla
tecnologia.
Nell’abisso di queste due culture stanno le rivoluzioni
linguistiche, e quindi dei valori, dell’arte e della poesia,
del teatro e della musica delle Avanguardie del ‘900,
prefigurate dalle rivoluzioni di stile dei Fauves e del
Cubismo.
Le Avanguardie storiche si configurano come
l’espressione della sofferenza e della crisi dell’uomo
“nuovo” che si esprime in un linguaggio “nuovo”,
immaginoso, liberatorio attraverso la
destrutturalizzazione sia della parola che della forma, in
favore di una loro ri-significazione, donde l’aperto
conflitto con la società di cui non accettano alcun
compromesso.
Fare arte è contemporaneamente presa di posizione
economica, politica, sociale.
Lo stesso comportamento dell’artista è consequenziale.
Egli non trova nessuna soluzione che non sia la lotta e
l’opposizione, perché il mondo non si salva, si distrugge.
La sua condizione in seno alla società, tuttavia, non è
contraddittoria perché non ne sta fuori in quanto ne
combatte le strutture, ma dall’altra parte è un soggetto
assolutamente libero non avendo alcun limite ai suoi
esperimenti di ribelle sovversivo contro ogni ordine e
legge.
Per far ciò, allora, deve negare radicalmente la
tradizione, sostenendo una innovazione combattiva
caratterizzata dall’urgenza eversiva dei valori
25
tradizionali e del “senso”, ormai esauriti, fino a giungere al
metaverbale, all’asemanticità, al silenzio, sempre nel nome di un gesto
radicale di rivolta ideologica totale, che consenta di ridefinire, in ultima
analisi, un “nuovo” ordine in cui è, comunque, escluso ogni concetto di
continuità e durata.
Il comportamento degli artisti di Avanguardia è sempre teatrale ed
esibizionistico e sfrutta gli stessi mezzi della società borghese: il teatro,
il cinema, le mostre, il manifesto pubblicitario, ecc…ma con funzione
sovversiva, mai di trasformazione, e proprio per questo non incide sulla
società, anzi con la monotonia delle manifestazioni pubbliche, degli
incontri, dei discorsi, dell’atto gratuito ed anarchico viene sospinto al
margine e la sua azione è considerata dalle masse a mo’ di
divertimento e spettacolo. Solo in questo modo la società borghese lo
rende innocuo, confinandolo nel folklore locale.
Comunque sia, certa, per le Avanguardie, rimane una sola cosa: la
scoperta di nuove dimensioni dell’esistenza che evidenziano il divario
sempre crescente tra il concetto di libertà, di vita interiore, e razionalità
tecnico-scientifica, insomma il divario tra scienze dello spirito e scienze
della natura, che è poi rifiuto di ridurre il mondo umano al metodo
matematico-sperimentale.
Realizzato questo, le Avanguardie, proprio perché tali, si esauriscono
per pratica suicida.
La stessa asserzione per cui la “forma” origina la poesia e il significato
ne è l’effetto, è ricca di importanti sviluppi i cui risultati sono ancora
oggi attualissimi e stanno a testimoniare come l’arte in genere non sia
più rappresentazione del mondo, ma sia rifatta su forme già
sperimentate, per cui la lettura del reale è assolutamente arbitraria o,
se si vuole, ripetitiva in schemi e simboli già consolidati.
Ne risulta un’arte dell’arte ed una poesia della poesia in cui convivono
ed interagiscono poetica ed operazione creatrice, cioè poetica ed opera,
le quali si giustificano con la stessa arbitrarietà soggettiva delle
invenzioni che negano la specificità del fare artistico e dell’arte stessa.
Molta arte cosiddetta astratta scaturisce da queste premesse.
Ma, in tali condizioni, è necessario sottolineare che in ogni caso la forma
non resta pura, viene travolta fino ad essere negata con il solito
“refrain” di “morte dell’arte” che non comunica più nulla, che è solo
autoreferenziale, donde la deshumanisacìon del art, proprio perché,
forzando la ricerca del “nuovo”, dell’ “originale” ad ogni costo, perde di
vista la sostanza, per concentrarsi sulla forma.
Infatti, altra scoperta portante delle Avanguardie è stata quella della
relatività dei linguaggi e quindi della loro infinita invenzione che in ogni
caso devono essere internamente, semanticamente ed autonomamente
coerenti, affinché da soli costituiscano un sistema autosufficiente,
sempre e comunque opposto alle consuetudini linguistiche della
tradizione, poichè il linguaggio porta con sé tutto un sistema di

26
pregiudizi e di comportamenti, che, per essere
sradicati, devono essere distrutti.
A questo scopo tutto è utile dallo stravolgimento
delle regole sintattiche e grammaticali al puro
grido, dal rumore al colore astratto, all’uso di
ogni materiale reperibile, ecc… ma tutto, in ogni
caso, deve essere coerente alla semantica
scelta.
Lo spazio del linguaggio dell’arte, così, viene
enormemente allargato, ma, poiché esso è
senza direzione, non può avere continuità
storica e per ciò stesso, come sostenuto, non
incide sulla società borghese.
Come in realtà, tanto per fare un esempio, non
incise il Futurismo, nel cui manifesto del 1912
Marinetti sosteneva la necessità di far “tabula
rasa” di ogni tradizione troppo venerata e troppo
imitata in favore di una “rivoluzione del
linguaggio poetico diverso ed universale”, che
rispecchiasse la dinamicità dell’era industriale e
le rivoluzioni tecnico-scientifiche e in cui
predominasse “l’immaginazione senza fili”, non
solo in poesia, ma in tutte le arti. Per la qual
cosa “essere compresi, non è necessario” e precisava nel Manifesto del
1913 come poteva essere decisiva l’influenza esercitata sulla psiche
dalle “diverse forme di comunicazione, di trasporto e di informazione”
che avrebbero permesso “l’acceleramento della vita” ed avrebbero
determinato “coscienze molteplici e simultanee
in uno stesso individuo”. Parole premonitrici che
richiamano l’odierna “frantumazione delle sfere
di esistenza”, già intuita da Baudelaire ne “Il
pittore della vita moderna” quando sostenne
che la città è il
luogo
della pluralità delle forme di vita e quindi luogo
del mutamento incessante.
La “poliespressività” futurista fu vera linfa per le
odierne ricerche estetiche. Essa permetteva di
unire in un unico accadimento “dal brano della
vita reale, alla chiarezza del colore, dalla linea
alle parole in libertà, dalla musica cromatico e
plastica alla musica di oggetti. In particolare le
parole in libertà, rompendo i limiti della
letteratura, marciavano verso la pittura, la
musica, l’arte dei rumori”.

27
Non c’è chi non veda in queste premesse lo sviluppo di moltissima
arte contemporanea dall’happening alla body art, dall’arte totale al life
theatre, ecc….
Comunque sia, a tutt’oggi, non si è eclissato dalle contemporanee
sperimentazioni, laddove esse esistano, il problema del linguaggio.
Alla fine degli anni sessanta Isgrò ne poneva ancora una volta la
questione e lo stesso faceva Vincenzo Agnetti quando utilizzava una
calcolatrice con lettere alfabetiche al posto dei numeri e si potrebbe
continuare all’infinito con le citazioni, che, comunque, mettono tutte
sempre in evidenza come il problema del linguaggio sia sentito come
essenziale, negli spiriti più avveduti, anche se, oggi, è stata totalmente
perduta, rispetto alla Avanguardie storiche, quella coerenza semantica
che le aveva caratterizzate, insieme alla capacità di rinnovamento della
visione della realtà.
Infatti se le prime avevano capovolto la
struttura stessa della conoscenza della
realtà, le nuove, perso quello slancio
ideologico che le opponeva al sistema, vi si
sono comodamente adagiate, perché, nel
frattempo, modi e moduli delle Avanguardie
storiche sono entrate, attraverso diversi
canali, non ultimo la pubblicità, a far parte
dell’immaginario collettivo per cui gli artisti
contemporanei hanno avuto buon gioco
nello sfruttare quelle formule che hanno
perso la loro funzione di shock della visione
capovolta che un tempo aveva trasformato
il linguaggio dalle radici ed aveva
determinato anche il capovolgimento
dell’ordine delle cose, per diventare tecnica
svuotata di contenuto. Conseguentemente
tutta l’arte contemporanea ha perso quella
cifra “tragica” che aveva caratterizzato le
vecchie avanguardie in favore invece del
momento ironico, parodico o dissacrante.
Il tutto aggravato dalla diffidenza degli
artisti verso i vari sistemi di pensiero, le
varie ideologie, i vari valori ritenuti assoluti
e storici, donde il disinteresse per la realtà in favore dell’interesse per i
“modi” con cui essa realtà si rappresenta ed emblematici sono in
questo contesto i vari artisti “emergenti” di questi ultimi anni.
Il neocapitalismo ha tranquillamente fagocitato l’artista rendendolo
inoffensivo perché lo ha inserito nel sistema della mercificazione
dell’arte. A sua volta l’artista rimane convinto che basta lo
stupefacente, il gioco, la trouvaille, la boutade, ecc… per rinnovare la
merce arte .
28
Ma in una società massificata dal consumo e basata sull’estetismo
omologante non ci può essere “esemplarità della vita” perché non c’è
dimensione ideale che vede la storia come sviluppo lineare ed unitario.
Ancora oggi, come direbbe Nietzesche “l’uomo rotola dal centro verso la
X” ? Oppure è possibile intravedere un cambiamento di posizione del
soggetto rispetto alla realtà? (come si cercherà di dimostrare in altra
nota.)
Ed inoltre, i vari movimenti di Avanguardia storica, se è pur vero che
avevano creato nuovi linguaggi, in effetti questi rimanevano confinati
nelle élites.
Nella contemporaneità, massificatasi la cultura, omologatasi e messa in
parentesi ogni tradizione, non si riesce a distinguere un’arte che
rispecchi una cultura che non sia quella di massa che si concretizza
nell’omologazione degli stili, per cui, poniamo, un’opera di un
giapponese non si distingue da quella di un europeo o un americano.
Pertanto, pur permanendo quella coinè linguistica, che, attraverso i
mezzi di comunicazione di massa, è linguaggio di massa diffuso a livello
mondiale e come tale portatore di valori e principi, la diversificazione
degli stili, in quanto tradizione culturale identificativa di un popolo, si fa
inesistente.
Così come ciascuno di noi dalle “Alpi alle Piramidi”, da New York a
Pretoria, ecc… beve Coca Cola, mangia McDonald, indossa La Coste,
allo stesso modo gli stili delle opere di autori lontanissimi culturalmente,
pur nella diversità delle correnti, non si distinguono affatto l’uno
dall’altro.
Tutto ciò, anzicchè arricchire il linguaggio della civiltà di un epoca
dell’umanità, lo impoverisce mancando appunto la diversificazione dello
stile, che, omologato in tutto il mondo, non riesce a confrontarsi con
altro da sé ( il refrain della contemporaneità, infatti, è la mancanza di
un deuteragonista) e per questo l’uomo rimane “fissato” nel tempo con
relativa speranza di progresso umanistico, laddove la scienza e la
tecnologia progrediscono ogni giorno aumentando sempre più la
divaricazione dei due linguaggi per cui la deshumasacìon dell’individuo
si fa più pressante.
Pur non essendo un laudator
temporis acti, una realtà risulta
evidente: l’uomo contemporaneo ha
mutato ab imis certezze secolari se
non millenarie per cui è lecito
chiedersi: l’arte è ancora forma di
conoscenza di sé e del mondo? La
seduzione delle trouvalille può
considerasi arte?
Premesso quanto sopra una
domanda ancora si impone: tra
Avanguardie e Neoavanguardie e
29
trouvaille varie il gestus di Gino Cilio di togliere la superficie dal
supporto ha ancora la stessa drammaticità della “pagina bianca” di
Mallarme? O lo slancio ideale dell’introduzione della spiritualità
nell’opera di un Malevic? O il valore dissacratorio di un’arte ridotta a
tautologia di un Rodcenko?
Ed inoltre, “a-zerando” la superficie, non è più possibile ascrivere alla
“non-opera” un valore economico, e ciò rientra nei presupposti delle
avanguardie storiche, così come l’attribuzione di un benché minimo
valore sociale, politico, etico, estetico, ecc... A questo punto il divario fra
scienze dello spirito portatrici di principi etici appunto nella società, e
metodo matematico-sperimentale si assolutizza?
Quel “Ri-Quadro” vuoto di superficie ed il titolo 1+ Uno, che pure
appartiene al solo Ri-Quadro vuoto, ma nello stesso tempo indica un
“oltre” che nullifica, potrebbero essere segno o simbolo di una lettura
della realtà in quanto unità e quindi totalità? Oppure, mancando ogni
attività conformativa, potrebbero indirizzare verso il Nulla, il Vuoto in cui
tutto è contenuto ma niente distinto?
In ogni caso nello stesso istante in cui il riguardante osserva il “Ri-
Quadro” vuoto ed il titolo, l’arte è trapassata dal fisico, in quanto “cosa”
tra le cose, al metafisico.
Su un fatto c’è certezza, però: il
gestus non è gratuito in quanto
l’artista in questione ha speso una
vita per l’arte.
Allora, nell’immediatezza della
visione del “Ri-Quadro” una
riflessione arriva immediata alla
mente: in questo marasma di
immagini estetizzanti, omologanti
ed omologati, in questo marasma di
trouvaille e boutade gabellate per
arte, in questo elefantiaco “sistema
dell’arte” che si enfatizza ogni
giorno di più di prime donne, di
artifices additi artificii, di artifices
dicendi, di galleristi, di pubbliche relazioni per l’arte, di mostre mercato,
di Biennali, Triennali, Quadriennali, ecc…, l’artista ha perso il senso del
proprio fare, il proprio ruolo sociale per assumere una dimensione
cosale, “lui”, ora, non le opere.
Non per nulla nell’operazione “A-Zero” di Gino Cilio l’artista scompare
quasi a protestare contro un ingranaggio che gli gira attorno, facendolo
diventare elemento passivo di un sistema che lo soffoca con le sue spire
non lasciandogli libertà di pensiero e di azione in un mondo
“apparentemente” libero, in realtà indirizzato da poteri più o meno
occulti, di cui si dirà.

30
Oggi, come qualunque operaio alla catena di montaggio, l’artista deve
“fare” bene il suo lavoro, l’agire, onde la parola arte, non importa. Il fine
per cui lo fa non è di sua competenza, altri sono deputati per questo
compito. Nel nostro caso il sistema.
Stante così le cose, bisogna, dice
Gino Cilio, ristabilire lo statuto
ontologico dell’opera d’arte e il ruolo
dell’artista
Per fare ciò è necessaria per tutti una
pausa di riflessione, uno choc, che
non è più visivo, come nelle
Avanguardie storiche, ma
intellettuale che sia successivamente
scelta di metodi e mezzi.
In questo senso la funzione
sovversiva del linguaggio dell’arte
propria delle Avanguardie è messa in
parentesi, a favore di un momento
meditativo, che consenta una
trasformazione. Cioè, un presa di coscienza dello stato attuale dell’arte,
affinché questa riconquisti quello slancio ideale, quell’individualità
territoriale, che è poi accumulazione e diversificazione di stili, i soli
attraverso cui lo zeitgeist, lo spirito del tempo, possa arricchirsi nella
stratificazione dei contenuti.
Nell’era in cui la quantità ha soppiantato la qualità di un prodotto
qualsiasi e quindi anche di quello artistico, l’ A-Zero” di Gino Cilio si
interpreta quale “bi-sogno” del ritorno alla facoltà del “giudicare”, del
dire, cioè, con iudicio, con senno, con prudenza.
Recita qualche dizionario , a proposito del giudicare: “Esercitare la
facoltà intellettuale di
vedere la convenienza
fra soggetto e
predicato”, onde
senno e prudenza
appunto, che sono valori di
tutti i tempi.

31
32
33
L’OPERA D’ARTE TRA SCETTICISMO E
METAFISICA NEL ‘900

Confluiscono nell’operazione di “A-Zeramento” dell’opera prima, e di


nullificazione poi, dell’artista Gino Cilio numerose istanze teoriche che
percorrono tutto il secolo appena trascorso tendenti da una parte
all’azzeramento e all’annullamento dell’opera d’arte e dell’artista,
dall’altra all’introduzione nell’opera del massimo grado di spiritualità, da
Kandinsky, a Malevic, a Mondrian ecc…e, più di recente, da Yves Klein,
a Rothko, a Cliffort Still, ecc…fino ad Anish Capoor e Ettore Spalletti e
sull’altro versante da Duchamp a Piero Manzoni, a Vincenzo Agnetti,
ad Emilio Isgrò, a Lucio Fontana, a Giulio Paolini, ad Alfano, al
Concettuale stesso, ecc…
Tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo un
terremoto linguistico investe sia la scienza che l’arte.
La prima mette in parentesi il determinismo filosofico-scientifico della
meccanica classica, estende la matematica probabilistica alla statistica,
alle scienze naturali e sociali. E, mentre si formula la teoria della
relatività spazio-temporale, prendono corpo le meccaniche
indeterministiche del caso, per cui caso, disordine, evento entrano a far
parte anche dei linguaggi scientifici.
Parallelamente, in arte e in letteratura si verifica un altro terremoto
epistemico che prevede, tra gli altri, l’introduzione dell’inconscio, del
sogno, dell’hasard che, forzando il significato della morte dell’arte di
Hegel, si oppone alla consuetudine dell’ “arte bella”.

34
Cadute, dunque, le certezze tradizionali nella immutabilità della realtà,
che creava il linguaggio, prende corpo il concetto di “autonomia dei
linguaggi” in quanto creatori di realtà e quindi svincolati dal senso
comune, in poesia come in arte.
Sacerdote del “verbe disincarnato” è
Mallarme che indirizza la poesia
verso il misticismo, verso il silenzio e
il nulla.
Egli sostiene la spersonalizzazione
del poeta, nel fare poesia, in favore
del “lasciare parlare” le parole, che
devono accendersi di reciproci
riflessi. “L’oevre pure implique la
disparition èlocutoire du poète, qui
cède l’initiative aux mots….ils
s’allument de reflets rèciproques
comme une virtuelle trainèe de feux
sur des pierreries, replaçant la
respiration percepible en l’ancien
suffle lyrique ou la direction
personelle enthousiaste de la
phrase.” ( In F. Flora, Storia della
letteratura italiana, ed. A.
Mondadori, 1966, vol. V°, pag. 623)
Questi reciproci riflessi hanno lo scopo di allontanare il mondo, di far
dimenticare la realtà, perché il verso possa perdere ogni referente reale
per farsi risonanza interiore.
In “Un coup de dès jamais n’abolira le hasard”, del 1897, Mallarme, col
disporre i versi contemporaneamente su due pagine, col lasciare spazi
bianchi, con l’uso di lettere tipografiche di diversa grandezza, ecc…
rompe definitivamente con la tradizione, col sistema sintattico e col
grafico, per testimoniare, in tal modo, il crollo del mondo oggettivo e del
sistema poetico tradizionale.
Nello stesso tempo il foglio non è più identificato come superficie su cui
si possono vergare dei versi, ma come spazio, come luogo mentale,
precorrendo in ciò tanta poesia visiva, e non, contemporanea.

35
In altri termini, la parola in Mallarme è tensione verso un mondo di
ideale purezza e di
incontaminata
bellezza. E dove
questa parola non
riesce ad esprimere
tale mondo arriva al
dramma della “pagina
bianca”,
all’impossibilità
creativa.
Da questo momento
in poi entra nell’arte
in genere il problema
dello spirituale.
L’eterna vexata
quaestio, quindi, non
è tecnica ma di
valutazione dell’immagine, che nell’opera deve essere rappresentata
come contenuto ultimo che è, poi, sempre il soggetto a determinarlo.
Ma il soggetto è l’uomo gettato nel mondo in assoluta solitudine, quindi
il suo esserci è astorico.
Il periodo di tempo dato alla sua vita comincia e finisce con lui e in
questo cominciare e finire non c’è storia interiore. L’unico movimento
possibile è il disvelamento di quello che l’essenza dell’uomo in sé è
stata, non della realtà.
Quindi, la creatività del soggetto esprime sempre l’hic et nunc che
rappresenterà in ultima istanza la poetica dell’Informale non ancora, a
tutt’oggi, del tutto esaurita.
Se questa è la condition humain, essa è immodificabile. Allora dove
trovare l’immagine primigenia di un oggetto? Essa può essere solo
nell’anima dell’artista che deve estrinsecarla in una forma.
Il dramma scaturisce nel momento in cui il soggetto non riesce a
conformarla ed ecco, allora, la Pagina bianca o il Ri-Quadro vuoto di
superficie di Gino Cilio
Ora, tornando allo specifico dell’arte e prendendo le mosse
dall’origine dell’astrattismo, intendendo per astrattismo tutte quelle
declinazioni artistiche che non hanno come referente la natura, si può
asserire che già il Cubismo, soprattutto nella sua fase matura, privilegi
non la rappresentazione ma la visione. Infatti lo stesso Picasso ebbe a
dire: “ Mi domando se bisogna rappresentare i fatti così come si
conoscono, piuttosto che come si vedono.”(P. Picasso, Lettera sull’arte),
dimostrando con ciò che l’arte era rivolta al “fare”, al produrre immagini
non più in presa diretta con la realtà, ma mediata dall’estetismo.

36
Fonte di ispirazione non è il già vissuto, ma il già detto, per cui le forme
vengono ridotte a schemi, su cui ha lavorato e lavora tanta arte
contemporanea.
Ma al di là di questo, è necessario rimarcare, in tutta la sua rilevanza,
come nel cubismo maturo, eidetico, ogni referente naturalistico si sia
affievolito fino a nullificarsi.
D’altro canto, come da più parti si sostiene, non si è mai
completamente eclissata in questo movimento la componente
irrazionalistica ed intuitiva
Juan Gris, infatti, diceva di lavorare con gli elementi dello spirito che da
astratti rendeva concreti, andando dal generale al particolare. L’artista,
cioè, iniziava da un’astrazione per arrivare ad un fatto reale.
Questa stessa affermazione è carica di significativi sviluppi successivi,
che da una parte arrivano a Kandinsky e dall’altra a Mondrian e Malevic.
Ne scaturisce che i due aspetti dell’astrattismo, che al cubismo devono,
dunque, più di un apporto, attribuiscono all’arte valore diverso.
L’astrattismo “espressionista” vede l’arte come destino, il “geometrico”
come progetto. Quest’ultimo sfocia in
ultima analisi nell’utopia, in quanto
rimane senza contatti con la realtà
sociale e quindi “si arrende senza
combattere”, come sostenne Argan.
(Argan C., in L’arte Moderna
1770/1970, Ed. Sansoni, 1970, pag
449 e seg.).
Bisogna anche sottolineare che la
parola astrattismo compare raramente
in “ Dello spirituale nell’arte” di
Kandinschy, mentre Malevic,
Rodcenko, Tatlin scelgono dizioni
come: Costruttivismo, Suprematismo,
Produttivismo e Mondrian sceglie Neoplasticismo, ecc…
Solo nel 1949 un critico del New Yorker usò la fortunata locuzione di
“Espressionismo astratto”, che poi si diffuse largamente anche in Italia
per indicare l’assenza di rappresentazione legata alla realtà tout court.
Certo, alla base di questa definizione ci sono molte e articolate
tendenze che vanno dallo spiritualismo kandinskyano, alla tendenza
mistica maleviciana, allo slancio utopistico di Mondrian, allo scientismo
di un Max Bill, Albers, Lohse, ecc….
Comunque sia, una cosa è certa: alla base di questo variegato
movimento c’è la dissoluzione della figura nel quadro, ma anche la
dissoluzione del quadro stesso.
Kandinsky è l’iniziatore di quella corrente, declinata in molte forme ed
attuale ancora oggi, che va sotto il nome di astrattismo espressionista,
perché si appella esclusivamente all’interiorità dell’artista e
all’espressione della sua vita psichica che è altro dall’espressionismo
37
vero e proprio, perché i pittori espressionisti, inizialmente, si riferiscono
ad un dato reale che, poi, deformano, mentre l’espressionismo astratto
parte dall’interiorità per esprimerla e per rendere tangibile “l’era della
grande spiritualità”.
Infatti, Kandinschy in “Dello spirituale nell’arte” sostiene che se la forma
è astratta essa è più pura e primitiva.
Misuratore di questa astrazione deve essere il sentimento.
Tra l’altro, il riguardante, guidato dall’artista, si familiarizza sempre più
con le forme astratte, fino a quando anche lui, come l’artista, ne diventa
padrone.
In questo contesto
Kandinscky mette in
evidenza anche il
fattore comunicativo
dell’arte poichè pensa
di scoprire dei codici
che affida alle forme e
ai colori, i quali
avrebbero dovuto avere
la stessa funzione di
quelli della lingua.
Solo in questo modo
l’invisibile, per lui, si
sarebbe potuto rendere
visibile.
Da questa
corrente poi ne
scaturiscono altre fino a
giungere all’Informale che prendendo, è vero, le mosse
dall’espressionismo astratto ne capovolge i valori, pur continuando ad
usarne le forme.
Così laddove il primo intendeva
esprimere la spiritualità, il secondo
esprime, invece, sensualità,
privilegiando un’arte brutale e
materica che si rappresenta ora
attraverso il segno, ora attraverso la
materia, ora attraverso l’azione, ma
che in ogni caso vuole rendersi
indipendente dalla morale e
dall’utilitarismo.
In altre parole, l’arte informale è tutta
affidata alla potenza del segno e alla
tensione emotiva che si scarica su un supporto, e per ciò stesso è aliena
dall’individuare codici linguistici, dal fissare valori e gerarchie perché

38
tutto si esaurisce nel qui ed ora, nonché in una pura dimensione
spaziale.
L’opera non rappresenta una trance de vie, ma è essa stessa “vita”,
serve per vivere e fors’anche per curare l’angoscia del soggetto, per cui
si “carica” di individualismo esasperato, dal momento che le ideologie
delle avanguardie sono fallite.
Di conseguenza, l’opera d’arte si allinea agli accadimenti esistenziali e
si articola in un tempo senza direzione né orientamento allo stesso
modo dell’esistenza nella sua disorganicità e frammentarietà. Essa è un
grido puro, un gesto puro che “conforma” una struttura visiva,
un’immagine, le quali testimoniano il gesto dell’artista, che, in realtà,
potrebbe anche non essere testimoniato.
Solo in questo senso l’Informale ricade nella mistica da cui era fuggito e
quindi prospetta ancora una volta la morte dell’arte.
Da un lato il gesto dell’artista è astorico e quindi potrebbe essere
inutile, ma dall’altro
lato l’inutilità del gesto
è riscattata dal bisogno
insopprimibile tutto
umano della creatività,
la quale, a questo
punto, non serve ad
esaltare la centralità
dell’io, semmai a
stabilire un confine
invalicabile tra l’io
stesso e la creatività e
quindi l’arte, non
potendo rappresentare
la proiezione
dell’artista oltre questo
limite, diventa inutile.
Da queste premesse,
già datate di qualche
decennio, è facile giungere ad un gesto estremo, cioè al suicidio, unica
alternativa all’impossibilità dell’arte di valicare un confine, un aldilà in
cui non si crede più.
Quindi ben si spiega, a distanza di circa un cinquantennio dalla nascita
dell’Informale, il gesto iconoclasta di Gino Cilio.
Infatti, l’Informale è stato l’ultimo periodo di riferimento cui l’artista si è
ispirato ma che aveva già perso in lui la valenza dionisiaca di un Pollock
in favore di un gesto più meditato, tendente al recupero dei valori
formali.
Già nel lontano 1995 egli articolava le sue composizioni assemblando
superfici monocrome, “lavorate” col catrame, a riquadri vuoti, in
un’alternanza, nello spazio, di vuoti e di pieni.
39
Successivamente, le superfici monocrome si ispessiscono sempre più di
catrame fino a giungere al nero assoluto. Da lì, per opposizione, è
agevole pensare ad un altro non colore, il bianco, e quindi alla
lacerazione della superficie prima e alla completa eliminazione poi.
Per Cilio, dunque, il passaggio dal vuoto come fatto spaziale, al vuoto
come fatto concettuale è stata tappa quasi obbligata.
Il suo gesto, oggi, è “estremo” perché arriva al suicidio dell’artista e
conseguentemente all’annullamento dell’opera.
Tuttavia, in questo momento resta l’uomo, straniero al mondo dell’arte.
Egli porta su di sé il dramma di essere straniero e quindi la sua
dimensione è quella dell’angoscia e della solitudine, in quanto non
riconosce più le strade dell’arte, da lui percorse in lungo e in largo e che
le erano diventate così familiari da dimenticare le proprie origini, il
senso vero che lui aveva attribuito alla sua vocazione artistica, per la
quale aveva affrontato, ragazzino, un primo dramma di essere straniero
di fatto in una grande città, Milano, cui era approdato dalla Sicilia, ed
ora a distanza di un quarantennio allo stesso modo è straniero all’arte.
Infatti, nel momento in cui ha percorso tutte le sue strade, come
sostenuto sopra, ha perso di vista la propria origine, le proprie radici.
Ora, non riesce a rispondere all’angosciosa domanda del perché
dell’arte.
Il suo échec è doppiamente tragico: da un lato l’artista Gino Cilio si
sente estraneo al mondo dell’arte, dall’altro l’uomo si sente estraneo
anche a se stesso, alle proprie radici artistiche.
Tuttavia, questa estraneità lo pone anche su un gradino di superiorità
che è dato dalla consapevolezza per cui l’arte, in questo preciso
momento, è rifatta sull’arte e non sul mondo.
Fino al secolo scorso c’era un mondo terrificante ed incomprensibile per
quanto si voglia, ma c’era l’artista che cercava di conoscerlo e
rappresentarlo. Oggi non c’è più nemmeno quello.
La scienza, sopprimendo ogni visione antropologica della terra, ha
scavato un abisso tra l’uomo e il mondo, fra la civiltà tecnologica e
scientifica e l’umanistica e in questo abisso Cilio si è calato, decretando,
per l’ennesima volta, la morte dell’arte rifatta sull’arte, di un’arte che
non è più estetica, ma estetismo.
Bisogna tenere presente che mentre l’estetismo del secolo scorso di un
Wilde o di un Pater era dimensione interiore, frutto di studio e disciplina
che si riverberava nell’atteggiamento esteriore, l’odierno è solo
dimensione epidermica, forma svuotata di contenuto, trouvaille
gabellata per arte, kitsch sfacciato.
In queste condizioni, tutta l’arte non ha senso per Cilio, il quale toglie
dapprima la superficie dal supporto e poi annulla anche il supporto
stesso e quindi ogni segno anche minimo che possa indicare attività
conformativa.
A questo punto l’operazione presenta due problemi: il Ri-Quadro vuoto
di superficie prima e la sua nullificazione poi, testimoniati dal titolo “1 +
40
Uno”, si possono interpretare sia come “rappresentazione” del massimo
grado di spiritualità introdotta nella non-opera, sia come annullamento
in toto dell’opera d’arte.
Infatti, se il trascendente e l’eterno sono privi di forma, nullificando la
forma, essi nella loro assolutezza entrano a pieno titolo nel mondo
dell’arte.
Se consideriamo l’opera d’arte come tentativo di imbrigliare l’attimo,
che fa peritura la vita per renderlo eterno, ne deduciamo che
quell’attimo può essere bloccato solo da una forma.
Ora, nella cultura occidentale il concetto di “forma” ingloba in sé più
significati.
Per semplicità ci si riporta alla distinzione che ne facevano i Greci che
indicavano con morphè la forma sensibile, e quindi limitata, e con èidos
la forma intelligibile, la quale conteneva l’illimite, la totalità.
Le varie tendenze aniconiche o addirittura iconoclaste, come sostenuto
più sopra, nascono proprio perché asseriscono che il trascendente,
l’eterno è informe.
Già Kant aveva sostenuto che l’opera d’arte contiene “fattori” di
autotrascendimento perché la sua aspirazione è quella di essere più-
che-forma.
Il suo pensiero, infatti, si articolava tra il concetto di bello e di sublime. Il
primo era l’oggetto di un piacere “senza alcun interesse” e sgorgato
dalla consonanza ed equilibrio dell’immaginazione e dell’intelletto, per
cui procurava calma e tranquillità in quanto adeguato alle facoltà
umane. Mentre il secondo si nutriva del contrasto tra immaginazione e
ragione, per cui procurava fremito e commozione poichè la prima non
riusciva ad abbracciare grandezze incommensurabili che invece la
ragione poteva fino ad elevarsi all’idea di infinito.
A partire da questi due concetti sono state date varie soluzioni dai
diversi pensatori a seconda della Weltanschauung di ognuno.
Anche Gino Cilio, nell’ambito delle sue possibilità espressive e quindi
nello stretto ambito artistico, ha cercato di dare una risposta a questo
dualismo.
Egli lo ha fatto ri-quadrando uno spazio vuoto di superficie e poi
eliminando anche il Ri-Quadro; ne consegue che, mancando questi
elementi sensibili costitutivi di un’opera, essa si riempie di vuoto.
Tolta la superficie, su cui sempre si poteva lasciare una forma, anche
come traccia, o su cui si poteva
esprimere persino in forma
tautologica il concetto di arte,
l’opera d’arte muore nel senso in
cui “tradizionalmente” siamo
abituati a fruirla.
Infatti, l’artista, nel dar “forma”
all’attimo perituro, era
considerato come uno sciamano
41
che intraprendeva il suo viaggio nelle regioni infere, celesti,
ultraterrene, per portare in superficie e manifestare ciò che agli altri
era oscuro.
Ma se in Gino Cilio l’opera d’arte non è “formata” perché non c’è
superficie e quindi morphè, qualunque morphè, dalla parola al suono, al
segno…., conseguentemente non c’è neanche l’artista sciamano che
quella morphè presentifica anche in grado infinitesimale.
Infatti, con questa oper-azione l’artista ha eliminato la forma sensibile
limitata e limitante, per cogliere l’èidos, la forma intelligibile e quindi
l’illimite, l’eterno.
Tutto ciò avviene allo stesso modo di un corpo, quando esalato l’ultimo
respiro, scarcera dalla materia appesantente lo spirito che, ora libero, si
rivela come enèrgheia pura, “urlo” originario prima e dopo la materia
stessa.
In conclusione, nel momento in cui Gino Cilio toglie la superficie,
mostrando il vuoto “pieno” di vuoto, esprime il sublime, l’illimite colto
nella sua forma pura.
Quale la funzione, allora, dell’artista?
Nel nostro caso egli non è più lo sciamano, ma il sacer-dote che è
riuscito con un gesto, con un actus sacrale, a liberare lo spirito, l’eidos,
l’illimite, dalla materia e lo ha presentificato come “Ri-Quadro” vuoto.
Egli ha compiuto il “miracolo” di portare in presenza (da prae-esse)
l’enèrgheia universale che in tal modo risulta appagante in modo
assoluto, come mai potrebbe fare una superficie in cui la morphè
dovrebbe contenere l’èidos e mai potrebbe farlo, perché la forma
limitante è sempre sensibile anche quando la materia ha raggiunto il
grado massimo di rarefazione.
Ma, nel momento in cui la forma sensibile è stata eliminata, la forma
intelligibile, l’illimite, in quanto enèrgheia pura, si ribasce, si è liberata
e la non-opera si è assolutizzata.
Solo in questo modo l’actus dell’artista sacer-dote è potuto diventare
realmente astorico e quindi eterno: la non esistenza è diventata
esistenza perenne, la morte ipotetica si è elevata all’immortalità, morta
l’arte essa non può rimorire, può solo eternizzarsi.
Se prendiamo, poi, in considerazione l’altra ipotesi per cui il gesto di
Cilio è di scetticismo nei confronti dell’opera d’arte, ne risulta che il suo
azzeramento deve nuovamente riferirsi al pensiero sotteso alla corrente
Informale, per la quale il vitalismo del gesto tende a riscattare la
passività dell’idea, il vuoto e la casualità. In tal modo l’artista informale
reagisce all’èchec, scacco, nichilistico in quanto lo previene attraverso il
gesto che cerca di entrare, come sostiene Calvesi “in simbiosi panica
con il naturale, restando ambiguo nell’indeterminazione stessa dei
moventi e del ruolo psicologico che l’azione assume: ora, appunto come
slancio vitale, ora come impulso centrifugo che tende a proiettare la
personalità in un al di là di se stessa, cioè nell’amaro limbo

42
dell’alienazione”. (M.Calvesi in Novecento, vol.X, ed. Marzorati, Milano,
1980, pag. 9531-2)
Emblematica, in questo senso, è l’opera di un Capogrossi o di un
Fontana, per i quali lo spazio è un fenomeno aperto, ramificato, vissuto
in funzione esistenziale, la cui aspirazione
è di natura cosmica.
Ma, laddove Capogrossi distrugge la forma
tradizionale sulla superficie, ma in ogni
caso ve ne sostituisce un’altra, Fontana
invece l’abolisce, bucando la tela infinite
volte, per cui la superficie non è più, come
nel primo, piano che può contenere la
forma, ma è materia, è spazio o meglio
fenomeno spaziale ed è in questo spazio
che interviene l’artista, proponendo e
riproponendo il suo gesto. Allora, esso
spazio si fa materia su cui l’artista opera in
un tempo senza direzione e in un senso
antimonumentale. Il buco rappresenta il
disinganno, l’impossibilità di ogni
metafisica e di ogni idea di eternità.
Fontana, in realtà, è stato il primo artista
che col suo gesto ha “violentato” la superficie.
Gino Cilio, che certo Fontana dovette avere presente nel togliere tale
superficie, deve necessariamente andare oltre e l’unico andare oltre
può essere solo quello di “strappare” la stessa dal supporto, superando
in questo senso il pensiero di Fontana sull’impossibilità di ogni
metafisica, per reintrodurre la realtà tout court.
Il Ri-Quadro vuoto così può “riquadrare” una qualunque trance de vie,
quindi il problema si riporta all’origine, al puro fenomeno riquadrato,
all’esistenza in sé, con tutti i suoi interrogativi non risolvibili.
Se Cilio non ha trovato nell’arte attuale o del recente passato nulla di
valido e costruttivo, ne risulta che deve svuotarla di contenuto, di
valore oggettivo e storico.
Quindi, l’esserci dell’arte diventa esserci per la morte, come si potrebbe
dire parafrasando Heiddeger.
Anche l’altro filone, l’ Astrattismo geometrico, tende ad introdurre
nell’opera il massimo grado di spiritualità. Esso ha in Malevic e in
Mondrian i maggiori rappresentanti
dell’aniconismo artistico di inizio
secolo ventesimo, che decreta,
insieme a quello di Kandinschy, la
fine della rappresentazione del
mondo, in favore di una

43
rappresentazione senza oggetti, perché ad essere raffigurata è la
sensibilità pura.
Infatti, l’arte, pur restando “copia”, è “copia”, però, delle sensazioni.
Al di là dell’origine dell’astrattismo, sia espressionista che geometrico,
che per l’economia del nostro discorso interessa relativamente, ci
rifacciamo, ora, al Neoplasticismo che ha in Mondrian il teorico più
acuto.
Nel suo pensiero confluiscono molte delle istanze della cultura del
secolo appena trascorso, dall’esistenzialismo alla teosofia, all’influsso
cubista, alle coeve correnti astrattiste, alle teorie purovisibiliste, ecc…
Per il Neoplasticismo c’è alla base dell’esistenza un dissidio profondo tra
l’universale e l’individuale, che, secondo le tendenze esistenzialistiche,
costituisce il “tragico”, impossibile da
eliminare nella vita. Addirittura il gruppo De
Stijl sostiene che scomparirà il giorno in cui
nella vita possa realizzarsi la bellezza.
Quindi Mondrian accostandosi alla realtà
tragica che il secolo stava vivendo, la prima
guerra mondiale, si convinse che solo
attraverso la meditazione sui valori universali
sarebbe stato possibile un reale
accostamento alla realtà e inventò, pertanto,
un codice assai vicino a quello linguistico,
come già Kandinsky, con cui si sarebbero
potuti inviare dei messaggi riguardanti i molti
aspetti dell’arte, dalla pittura, alla scultura,
all’arredamento, all’architettura, alla grafica,
ecc…
In questo senso Filiberto Menna così si
esprime: “L’astrazione di De Stjil ha appunto
questo significato sostanziale: di ridurre l’infinita varietà dell’universo
fenomenico ad elementi limitati e costanti, ossia a vere e proprie
invarianti” (F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Einaudi,
Torino, pag. 71).
E’ come se Mondrian fosse riuscito a trovare un tema musicale che poi
variava secondo un ritmo rigoroso, allo stesso modo il contenuto di un
dipinto era punto di partenza e nuovo fine, come in realtà l’armonia
universale.
Ora, visto in questo contesto, se il tragico della vita, cui si è accennato,
è costituito dallo squilibrio tra universale ed individuale, c’è un modo
che contribuisca se non ad eliminare, a ridimensionare la scomparsa del
giorno in cui la bellezza possa realizzarsi nella vita?
Mondrian sostiene che, se si individuano dei principi riconducibili alla
natura, questo non può avvenire. Ma, se si individua un sistema di segni
e colori antinaturalistici, non simmetrici, dinamici, luministici ottenuti, in
quest’ultimo caso, attraverso i fondi bianchi, espressione di massima
44
luce in una composizione, cui si aggiungono zone nere, espressione di
massimo buio, allora è possibile realizzare l’armonia data, oltre che dai
colori, anche dalle forme.
Questi si devono sviluppare in uno spazio che non è quello fisico ma su
una superficie in quanto luogo mentale.
L’uso dei soli colori fondamentali non dà,
poi, luogo ad interpretazioni soggettive,
mentre l’uso della linea verticale ha la
funzione di rappresentare il principio
vitale attivo e quindi maschile e quella
orizzontale il principio passivo e quindi
femminile. Dal loro incrocio germina la
vita e per ciò stesso anche la vita
dell’opera.
In tal senso, essi esprimono, assumendo
valore simbolico, il senso di una
“costante” in quanto massimamente oggettivi. Solo in questo modo il
tragico della vita può essere eliminato.
Ma se Gino Cilio in un sol colpo scioglie il nodo gordiano della superficie,
toglie lo stesso tragico, eliminando anche il dualismo tra individuale ed
universale, per propendere in modo assoluto o per l’uno o per l’altro,
ma in ogni caso togliendo uno dei due termini del contendere toglie la
radice del tragico, per penetrare in una dimensione assolutamente altra
che può risolversi o in scetticismo assoluto o in totalità assoluta nel
tentativo di sfuggire al caos o di penetrarlo.
Mondrian aveva assistito alla tragedia della prima guerra mondiale. Ora
si assiste ad una miriade di guerre: in Kossovo, in Afganistan, in Iraq,
all’assurdo della distruzione delle Torri Gemelle, senza contare le
“guerre dimenticate”.
Ma, a differenza di un secolo fa, quando la violenza si toccava con
mano, oggi ogni tragedia è spettacolo offerto dai media che
anestetizzano le coscienze. Allora, se l’artista ha un ruolo nella società,
il suo è quello di vedere l’altro lato delle cose e per Gino Cilio l’altro lato
delle cose è o piombare nel caos o rinchiudersi nella torre d’avorio della
deresponsabilizzazione, come giustamente osserva Galimberti, quando
a proposito della contemporaneità, sostiene che all’uomo
contemporaneo si chiede non di agire ma solo di “fare”, di far bene la
trance del suo lavoro.
Il fine per cui lo fa non gli deve interessare, è ininfluente, non lo deve
conoscere, in questo senso lui non avrà alcuna responsabilità.
Adesso, allora, l’interrogativo che l’ “oper-azione” di Gino Cilio pone è: è
possibile, nella situazione attuale di “derealizzazione” della realtà, dare
un senso all’opera di un artista?
Sulla stessa via imboccata da Mondrian, ma in altro contesto, si
muove la ricerca del Suprematismo russo che vede in Malevic il
rappresentante più estremo.
45
In Russia, è con questo movimento che il segno si svincola dal soggetto
rappresentato, per assumere valore autonomo.
Le ascendenze, neanche a dirlo, sono da ricercarsi nel simbolismo, nel
cubo-futurismo, nel raggismo, ecc… oltre che nella Scuola formalistica
russa che ufficialmente si forma intorno al 1915.
Essa considera l’opera come oggetto autonomo che esprime un
linguaggio convenzionale ed antiimitativo, sovrapersonale e presenta
leggi intrinseche sue proprie.
Malevic, allora, vuole, raggiungere una razionalità “transrazionale” con
leggi, costruzioni e significati autonomi e questo lo porta a ricercare
forme pure senza alcun referente fisico.
Elabora così nel 1915 “Quadrato nero su fondo bianco”, che vuole
essere una forma pura di semplicità non oggettiva, rappresentando
esso stesso la sensibilità, la percezione dell’inoggettività, ed essendo
anche padre da cui derivano tutte le forme.
Anche il bianco ed il nero obbediscono agli stessi principi: il bianco in
quanto simbolo della pura azione, il nero, somma di tutti i colori, in
quanto simbolo della massima concentrazione di energia.
L’artista stesso dichiara di essere arrivato al punto “zero” della pittura,
cioè all’ “essenza” della pittura.
Da sottolineare, tuttavia, che il bianco non è scetticismo, ma intuizione
positiva del nulla-vuoto, apertura verso la conoscenza di questo stesso
nulla-vuoto opposta al mondo illusorio degli oggetti.
Dopo una successiva fase di Suprematismo dinamico, Malevic torna alle
istanze metafisiche precedenti con “Quadrato bianco su fondo bianco”,
ma esasperandole in quanto a rappresentatività simbolica.
Ora sono solo due i fattori di trascendimento del reale ridotto a forma
simbolica, il quadrato e il bianco: superficie e bianco, a suo dire, gli
permettono di esprimere la sublimazione dell’Assoluto che l’artista
stesso definisce “bianco”.
Nel frattempo, sul versante opposto a Malevic, il Costruttivismo,
invece, di Rodcenko e compagni pur muovendosi sulla linea della non
oggettività, esprime istanze culturali e sociali diverse, in quanto l’arte
ha la funzione di identificarsi col lavoro che deve essere trasformato
dall’attività dell’artista.
In relazione a questo punto di vista l’opera d’arte, allora, deve eliminare
ogni riferimento alla soggettività, sbarazzandosi di ogni contenuto
filosofico, simbolico, ecc… tesa unicamente a costruire una vita
materiale, attraverso una ricerca analitica e sperimentale che porta
l’arte stessa a elementi minimi significanti, utilizzabili in contesti
extrapittorici.
In questo senso le “Tre tele monocrome” con i soli colori primari di
Rodcenko esposte nella mostra moscovita 5x5=25 nel 1921 decretano
la morte dell’arte perché ridotta a tautologia.

46
Ovviamente lo scandalo è enorme perché l’arte non ha più nessuna
possibilità di essere letta nè
in chiave rappresentativa,
né simbolica e quindi i tre
monocromi possono essere
considerati gli “ultimi
quadri”.
Inizia da Rodcenko, dunque,
quel filo sottile che legherà
molti artisti delle
generazioni successive allo
scetticismo e quindi
all’annullamento dell’opera
d’arte e dell’artista.
Alla luce di queste ricerche, molta acqua è passata sotto i ponti, ma
una sola possibilità si aveva di andare “oltre”gli ultimi quadri: quella di
togliere la superficie dal supporto operata da Gino Cilio.
La stessa forma quadrata delle non-opere o meglio dei Ri-Quadri vuoti
di superficie, elimina dall’opera ogni possibilità di percezione per
riportarla, se così di può dire, ad una originaria a-percezione, che
potrebbe, ai fini di uno sviluppo successivo, articolarsi o in una
“riscrittura” dell’opera in chiave sì simbolica, ma con l’utilizzo di simboli
più aderenti alla realtà attuale, non potendo l’uomo prescindere dal
simbolo, essendo questo l’unica possibilità con cui lui può esprimersi
per con-formare la realtà, o verso l’abolizione di qualunque espressione
simbolica, la qual cosa, certo, non sarebbe auspicabile!
Nel contesto storico di tutti i fermenti culturali della prima metà
del secolo diventa, a questo punto,
importante la figura di un altro
“genio” dell’arte che,
sostanzialmente, riassume in sé
molte istanze e dibattiti precedenti,
ma contemporaneamente li supera,
dando il fiato a tanti movimenti
successivi.
Questa singolare personalità, titanica
e vulcanica, è quella di Marcel
Duchamp.
Punto di snodo di tante correnti artistiche contemporanee, dall’Arte
Concettuale alla Minimal art, dal Nouveau rèalisme all’Happening, a
Fluxus, alla Body art, all’Arte povera, alla Land art, ecc…, su cui egli
esercita la sua influenza con l’ avversione per l’arte retinica in favore di
un’arte che reintroduca nell’opera il “concetto”.
“Ero conscio dell’aspetto retinico della pittura che personalmente volli
trovare un altro filone di esplorazione” (K. Kuh, The artist’ voice, ed.

47
Harper e Row, New York, 1962, in A. Schwarz, Marcel Duchamp, ed.
Electa, 1988, p. 9).
Infatti, nel momento in cui la pittura retinica aveva esaurito il suo
compito era necessario volgere altrove lo sguardo, cioè, verso un’arte
“fredda”, che arrivasse alla mente, come era sostanzialmente nella
poetica “Dada”.
Per Duchamp l’arte non è più fatto solo tecnico e linguistico, ma si
avvale dei più svariati materiali, onde l’avversione ai movimenti di
avanguardia precedenti e segnatamente al Cubismo, di cui avversa il
carattere statico e al Futurismo di cui avversa il moto in quanto velocità,
per sostituirvi il movimento come struttura che altera quella originaria e
rende il moto biologico simile a quello delle macchine.
Tuttavia, la sua ricerca artistica non si appaga mai, il suo gesto va
sempre “oltre” il suo stesso estremismo. I readymade, oggetti di uso
quotidiano, che vengono decontestualizzati, non gli servono altro che a
far perdere all’arte l’alone auratico. Basta prelevare un oggetto e
intenzionarlo in modo diverso per farne un’opera d’arte.
L’oggetto d’uso in sé non ha valore artistico, ma lo può assumere solo
se l’artista lo nomina.
Allo stesso modo, poi, farà Piero Manzoni quando metterà l’impronta del
suo pollice sulle uova o sulle
persone.
In pratica, il progetto di Duchamp è
quello di opporsi alla società
borghese, incapace di rappresentare
e interpretare il mondo, attraverso
la tecnica dello spaesamento che è,
poi, esibizione, presentazione del
mondo.
La situazione a tutt’oggi si è acuita. Per esistere, bisogna esibirsi, e Gino
Cilio esibisce, in sintonia con i tempi, il suo “Ri-Quadro” vuoto di
superficie, vi aggiunge accanto un titolo 1+ Uno che in effetti è meno
uno, e decreta col suo “Più Uno”, che in effetti è meno 1, una
simulazione di realtà, che non è un’altra realtà, ma il suo annullamento,
cioè l’annullamento della simulazione propria dell’arte in un mondo che
ha fatto della simulazione la “sua” realtà.
Ma, a sua volta, così come è simulata, oltre che omologata, la realtà del
mondo, allo stesso modo l’esibizione del gesto di Gino Cilio di
annullamento dell’opera d’arte non è
altro che un “cerimoniale
significante” che “si esibisce” in
contesti culturali ed artistici come
fine, ma che in realtà è mezzo
strategico di persuasione per cui
l’arte è morta.

48
Duchamp decontestualizza l’oggetto di uso comune per presentarlo
come opera in forza di un gesto, per cui l’opera d’arte in senso
tradizionale muore; ma, in ogni caso, all’opera è sostituito qualcos’altro
che viene sempre e comunque esibito. Gino Cilio, invece, non
sostituisce all’opera d’arte alcun oggetto, ostenta solo la simulazione di
una realtà che può essere totalizzante o sostanzialmente nulla, per cui
la simulazione della morte dell’opera d’arte e dell’artista trova il suo
fondamento non più all’esterno e cioè nella violazione di un canone, ma
all’interno, nella tensione dell’artista verso l’irreversibilità della morte
“data” all’arte, collocata nel suo orizzonte artistico, poetico ed
operativo.
Dopo Duchamp, singolare personalità di artista ed infaticabile
propositore di formule e modi di interpretare l’arte, si eclissa, tranne
poche eccezioni, il concetto di gruppo che era stata cifra distintiva dei
primi anni del secolo.
Emergono adesso singole personalità che conducono per proprio conto
la loro ricerca nel tentativo di dare all’arte nuovo impulso e nuove
soluzioni.
Negli Stati Uniti, così come in Europa, il problema del linguaggio è
cruciale, insieme al senso del vuoto, dell’abisso e della caduta nonché
del mistero del non detto. Le tele quasi monocromatiche di un Marc
Rothko racchiuse da contorni vaghi ed indeterminati richiamano spazi
indefiniti, insondabili che catturano l’ego dello spettatore.
Lo stesso Clyfford Still sosteneva che l’artista deve fare un viaggio in
solitudine “finchè dopo avere attraversato le valli oscure e desolate,
non si giunge infine in un luogo di aria limpida, su un altopiano
sconfinato. L’immaginazione non è più imprigionata dai ceppi delle leggi
della paura, diviene un tutt’uno con la Visione. E l’Atto intrinseco ed
assoluto è il suo significato, il veicolo della sua passione”. (Cit. in
Sandler, The triunph of american painting, New York, 1970, pag.70).
Ecco questo tutt’uno con la Visione ha messo in evidenza Gino Cilio,
perchè per lui alla Visione era d’impaccio la stessa tela.
Mentre Still aveva una concezione sostanzialmente positiva nei
confronti dell’artista, Ad Reinhard ne aveva una scettica, sosteneva,
infatti, che era assurdo rappresentare “una realtà al di là della realtà”.
Egli lentamente attraverso un processo intellettuale elimina dalla
superficie il colore, il disegno e, dunque, anche l’immagine, fino a
giungere al concetto di assenza della pittura con i suoi quadri neri che
egli definiva gli ultimi quadri della
pittura, appunto perché il nero
era campito appena differenziato
nei toni. Il fruitore, allora, per
scoprirlo era costretto ad
avvicinarsi ed osservare
attentamente per cui si trovava a
vivere una specie di trance.
49
Un altro passo avanti poteva essere solo quello di Gino Cilio di lacerare
la superficie e toglierla del tutto dopo per poter assolutizzare il concetto
di assenza.
Un altro artista su cui bisogna soffermarsi, al fine di chiarire il
gesto iconoclasta del Nostro, è Yves Klein, che, nel Manifesto dell’Hotel
Chelsea del 1961, acutamente si interrogò: “L’artista futuro non sarà
forse colui che, attraverso il silenzio, ma eternamente esprimerà
un’immensa pittura, cui mancherà ogni concetto di dimensione? I
visitatori delle gallerie – sempre le stesse persone – porteranno con sé
questa immensa pittura nella loro memoria ( una memoria che non
deriverà affatto dal passato, ma che in se stessa sarà conoscenza di
una possibilità di accrescere indefinitamente l’incommensurabile
all’interno della sensibilità umana dell’indefinibile). E’ sempre
necessario creare e ricreare in una incessante fluidità fisica in modo da
ricevere questa grazia che permette una reale creatività del vuoto”.
A causa di tali premesse, allora, Klein concludeva molte delle sue
mostre con un silenzio effettivo, ma “a posteriori”, quasi l’artista fosse
un demiurgo in grado di creare un’ “unica zona di sensibilità pittorica
dell’immateriale…..” perché “tutto ciò che è fenomeno si rappresenta
da se stesso”.
Così nel 1959 a Parigi da Iris Clert in Le viole, ou sensibilité pictural a la
état de matière première, dipinse di bianco tutte le sale della galleria in
modo che i muri potessero rimanere “sensibilizzati” dalla sola presenza
di Klein e quando le persone pensarono che avrebbero visto delle opere,
si trovarono davanti al vuoto, uscendone scandalizzati.
Tuttavia, in questa operazione estrema l’artista rimane sempre un
demiurgo, un direttore d’orchestra anche se questa non suona. Cilio,
invece, portando alle estreme conseguenze il gesto di Klein, non opera.
Il suo è un gesto non a posteriori ma “a priori” e ciò stesso porta
all’eclissi dell’artista (che poi sarà la preoccupazione costante di un
Piero Manzoni).
Infatti il Ri-Quadro vuoto di superficie in-quadra un fenomeno che si
rappresenta da se stesso con tutta la sua carica di ambiguità ed
inconoscibilità.
Ed ancora, recentissimamente, due artisti, tra gli altri, è necessario
citare: Ettore Spalletti e Anish Capoor, il primo alla Fondazione
Bevilacqua La Masa a Venezia nel 2004 con le sue forme assolute, o a
Capodimonte a Napoli nel 1999 con le sue Pareti Bianche porta l’arte
verso il silenzio e il nulla, mentre il secondo al Museo Archeologico di
Napoli sempre inizio 2004 presenta una tela, di un nero particolare, di
m. 2X1 che, contrastando col bianco della parete, assolutizza il non
colore per cui introduce nell’opera il massimo di energia e quindi di
spiritualità.
In ogni caso nei due artisti sopra citati permane sempre una superficie
che esprime con un colore o con un bianco o un nero il concetto di arte
come vuoto, come silenzio.
50
Se facciamo un passo indietro e torniamo a riferirci alla corrente
scettica di cui si è detto, intorno agli anni sessanta cominciano ad avere
rilevanza pubblicitaria, la critica li ignora, i gesti più o meno scandalosi
e scandalistici di Piero Manzoni, il cui pensiero sotteso è poco recepibile
per la vulcanicità delle trouvaille, che, tuttavia, hanno un’unica
costante, da una parte l’avversione per il culto riservato all’artista,
infatti, l’unica concessione che gli fa è l’impronta, dall’altra l’avversione
per l’opera d’arte che esprima il mondo psicologico-esistenziale
dell’artista, che lui rifiuta in favore di un’opera che rispecchi il fluire
dell’esistenza.
Infatti negli “Achrome” il suo l’intervento è ridotto al minimo, per
dimostrare come l’opera viva di vita propria, sia vitale in se stessa,
indipendentemente dalla sua mediazione, e ripetibile all’infinito.
Lo stesso libro consistente in 100 fogli bianchi, poi in 100 fogli di
plastica, che lui stesso intitola “The life and the works”, mette in
evidenza il suo pensiero sempre rivolto all’azzeramento
dell’espressività e della spiritualità dell’artista.
La mostra allo Stetelik Museum di Amsterdam, da lui intitolata “Ekpostie
nul”, dimostra la disintegrazione dell’oggetto artistico e la
disintegrazione della personalità dell’artista stesso. Infatti tutte le
creazioni prevedevano l’occultamento dell’opera attraverso basi
magiche.
Gino Cilio giovanissimo a Milano certamente dovette sentire gli echi
delle operazioni di Manzoni che rimasero per molto tempo come suoni
opachi nella sua memoria preso com’era,
invece, dall’interpretazione della sacralità
dell’opera che conteneva l’espressività
dell’artista tesa a farsi operazione etica e
sociale.
Ma, quando, esplorate le strade dell’arte e
riportatene l’impressione dell’impossibilità di
esprimerla, gli echi di Manzoni nel Nostro si
fanno presenza e gli “Achrome” manifestano
tutta la loro potenza eversiva.
Non resta altro per Cilio che aggiungere un
altro gesto: “realizzare” la non-opera in
ripetizione seriale infinita e quindi
sostanzialmente nulla.
La disintegrazione dell’oggetto artistico
auspicata da Manzoni è realizzata da Cilio,
rappresentando il quadro il modo tradizionale
di fare arte, con un semplice gesto: togliere
la superficie, assolutizzare l’opera attraverso
l’annullamento e contemporaneamente
azzerare l’artista.

51
Nel panorama artistico della seconda metà del secolo emerge
anche la figura di Emilio Isgrò, che inizia il suo percorso con riflessioni
sul linguaggio poetico per darvi connotazione politica, nel senso più
ampio del termine.
Dice lo stesso Isgrò: “Io rifiutavo la parola, ma non escludevo di
servirmene tutte le volte che lo avrei ritenuto necessario: anche perché
la mia parola non sarebbe più stata quella dell’estenuato Novecento
letterario” (In: Novecento, vol X, ed. Marzorati, Milano, 1980, p. 10187)
Infatti, l’artista in sintonia con le poetiche ancora oggi attualissime
sosteneva che “la nuova poesia si muove secondo una costante tipica
degli ultimi anni, in direzione del gesto e del comportamento” (o.c.)
“Sfondato il muro della parola, tutte le strade sono aperte alla poesia:
anche quella di negare se stessa. Con la parola e l’icona viene il gesto,
con il gesto il modello d’azione” (o.c. pag. 10188).
Allora, Isgrò propone il suo modello ed inizia a cancellare volumi su
volumi invitando gli astanti a fare altrettanto e a considerare l’arte
come contagio e non come plagio.
Ma plagio di che cosa? Di un linguaggio utilizzato dai meno per
sopraffare e dominare i più.
Infatti, l’artista vede nel linguaggio uno strumento di oppressione sulla
cultura e quindi della politica istituzionalizzata sulle masse che, ora,
cancellando, si liberano dalla schiavitù della poesia.
“In una società fondata sulla violenza, l’esercizio della poesia viene
concesso come privilegio d’oppressione, di raffinata, orientata,
violenza.” (o.c. pag.10.189). Così, con un gesto estremo, cancella
volumi interi dell’Enciclopedia Treccani in quanto modello insuperato di
linguaggio oppressivo e codificato.
Oltre questo gesto, quale poteva essere l’ulteriore? La cancellazione
annullava il linguaggio ma non il testo in sé, che portava sempre la
traccia delle cancellazioni e la firma dell’autore. Era necessario
eliminare l’autore e il testo stesso per annullare definitivamente ogni
linguaggio. Ed è, poi, quello che Gino Cilio ha fatto.
Anche Vincenzo Agnetti si pone il problema del linguaggio.
La sua prima formazione artistica si attua
sull’ Informale, le cui opere, poi,
distrugge per passare al Concettuale.
Di questo primo periodo lui stesso dice:
“Quello che ho fatto, pensato, ascoltato
l’ho dimenticato a memoria: è questo il
primo documento autentico”. (B.Corà,
Vincenzo Agnetti, ed. Peccolo, Livorno,
1997, n° 33, Autoritratto).
Da queste premesse saranno costanti nel
suo pensiero l’idea di silenzio, di oblio, di
vuoto che mettono in evidenza una
poetica lucidamente negativa attraverso
52
intuizioni-proposizioni sintetetico-concettuali fulminanti come: “Quando
mi vidi non c’ero” oppure “Quando ti vidi non c’eri”, oppure ancora
“Libro dimenticato a memoria”:
E’ evidente come in queste proposizioni lo spazio e il tempo diventino
incerti mentre più pressante si fa il gioco tra senso e non senso.
La maggior parte della sua opera consiste in un processo di
azzeramento del linguaggio comune, per accedere a significazioni
inedite espresse in formule fulminanti come, appunto, “Libro
dimenticato a memoria”, in cui, obliterato il testo, si oblitera pure il
piano di scrittura che presentifica un’assenza che è, però, presenza del
tempo della memoria, cioè del tempo dimenticato, che in ogni caso può
essere riportato alla memoria con uno slancio vitale, con un atto della
volontà.
In opposizione, Gino Cilio presenta un catalogo anch’esso obliterato in
forma di quadrato perfetto in cui non resta nulla, neanche la traccia
delle opere che l’artista avrebbe voluto o potuto immaginare.
Si eclissa la stessa dizione “Opere”, si eclissa il nome dell’artista. Il
catalogo, dunque, non testimonia più niente, se non il tempo dell’arte
rimosso dalla coscienza. Infatti, l’arte nella contemporaneità, come dice
G. Chiari: “è piccola cosa”, proprio perché il mondo è di per se stesso
significante.
Però, laddove Chiari sostiene che anche il gesto artistico si aggiunge ai
fenomeni del mondo, che è poi la somma dei gesti, Cilio, invece, reputa
ogni gesto conformativo inutile e quindi opta per la morte dell’artista.
Resta l’uomo, l’operaio, che non è più neanche “operaio di sogni”, come
direbbe Quasimodo, perché oggi ogni possibile sogno a furia di essere
esibito ha perso la propria dimensione onirica.
“Se uno di noi usa un linguaggio una disciplina qualsiasi per fare arte,
presto si troverà costretto ad azzerare, cioè a riportare al punto di
partenza, la disciplina stessa. Sarà quello il momento di
strumentalizzare la disciplina usata fino a cancellarne la struttura
stessa”, sostiene ancora Agnetti nel catalogo citato a proposito della
sua opera “Amleto politico.”
E Cilio di linguaggi dell’arte ne ha sperimentati tanti ed ogni volta su
nessuno si è soffermato, è passato al successivo fino al gesto estremo
di annullarli tutti mediante l’annullamento dell’opera e dell’artista che
all’opera può dare forma.
Ma laddove Agnetti ricomincia tutto daccapo fino alla successiva fase
di azzeramento, Cilio non fa ulteriore ricerca.
L’uomo oggi ha prevaricato l’artista, evidentemente il desiderio di
“fare” arte è scemato, non è più tanto forte come un tempo, l’artista ha
bisogno di fermarsi, perché l’uomo ha bisogno di riflettere e di invitare
gli altri a farlo.
I ritmi tecnologici sono prevalsi sui biologici, il soggetto non può stare
più al passo con le informazioni, con l’esibizione di ogni gesto, con
l’azione omologante dei mezzi di comunicazione che rendono la realtà
53
virtuale. E’ necessaria la pausa, l’elaborazione del lutto, per potere
andare oltre, per riuscire a vedere l’altro lato del mondo, quello non
costantemente esibito.
Ed ancora, fino a ieri l’evento artistico lasciava dietro di sé una
traccia per quanto effimera, ma pur sempre traccia. Probante a tal
proposito è l’operazione di Alfano
quando, nei primi anni ‘70 nella
“Stanza per voci” e nell’ “Archivio
delle nominazioni”, ripresentati a
Napoli nel maggio 2001 in Castel
dell’Ovo, ripensa la forma-quadro
lasciandola vuota, ma attraversata
da un nastro magnetico che ad un
certo punto porta registrata la sua
voce che sussurra: “Ora
pronunziando il mio nome….la mia
voce coincide con il mio tempo
presente. Dopo il mio udito…
coincide con un altro tempo.”
Ciò mette in evidenza l’impossibilità di una lettura oggettiva sia del
mondo, che del senso della stabilità e dell’unità dell’io, nonché
l’impossibilità di considerare la realtà come struttura e stimolo per
l’elaborazione di un pensiero estetico ed etico.
Tutto è volatile ed effimero. Tutto, nella contemporaneità, si consuma
nel volgere di un attimo. La stessa attività creatrice e conformatrice
perde di senso.
Quella di Alfano non vuole essere neanche una provocazione, solo la
presa di coscienza di un dato oggettivo nihilistico, in quanto ricerca
costante di significato, oltre che dilatazione all’infinito dell’attimo che
“coincide con un altro tempo”.
L’oper-azione di Gino Cilio, invece, è sostanzialmente critica, perché del
passaggio di un artista e della sua opera non c’è più traccia, semmai c’è
l’esortazione implicita a ripensare il mondo dell’arte e con essa il mondo
stesso e la sua “ri-lettura”, senza sterili polemiche, senza perdere di
vista l’uomo che, comunque, rimane con i suoi interrogativi sulla libertà
espressiva e ideologica, sull’arte impegnata o disimpegnata, sui
possibili linguaggi artistici, fermo restando il fatto che quello di Gino
Cilio non è disimpegno, ma coscienza dello scacco, evidenziato da quel
Ri-Quadro vuoto di superficie e da un titolo “1+ Uno” che è poi meno
Uno e quindi “zero”, onde il titolo dato dall’artista di “Oper-azione A-
Zero”.
Da un’altra delle molte intuizioni di Duchamp derivano le
operazioni di diversi artisti, compresi i Concettuali, i quali sostengono
che l’opera d’arte non può essere trattata come una merce, è
necessario, invece, che essa ottenga l’appoggio della società in quanto
l’arte è indagine che si giustifica da sé.
54
I readymade di Duchamp costituiscono un esempio, perché spostano
l’accento dall’ “apparenza” al “concetto”.
Pertanto, l’arte, ora, non ha a che fare con i prodotti artistici in sé, ma si
comprova nell’attività artistica stessa.
In altre parole , per i Concettuali ciò che in arte va messo in evidenza è
l’idea generatrice dell’operazione artistica.
In Italia, in particolare si ha una invariante del “concettualismo”
americano consistente nel ridurre, invece, un’opera già storica a
concetto con Giulio Paolini, che in una mostra relativamente recente a
Londra da Lisson nel 1999, nel suo sapiente gioco di specchi dell’arte
sull’arte, allestisce due stanze della galleria, una per l’autore in cui lui si
muove tra simboli e tracce di un’arte sua e di un’arte del passato, ed
una stanza del fruitore in cui non esiste l’artista, ma appesa alle pareti
resta una teoria di cornici vuote e in alcuni punti della sala lui segna con
la matita degli ipotetici spettatori.
Ogni traccia, dunque, che può lasciare l’artista non può arrivare
all’astante, anche se potenzialmente la traccia esiste e potrebbe
bastare a ricostruire l’oggetto artistico in quanto esiste la cornice.
Ma quando anche questa non esiste più, non c’è possibilità di scambio
né di tesaurizzazione, solo in questo modo il sistema si può scardinare e
Cilio lo ha fatto in piena consapevolezza, quando tolta la tela dal
supporto ne ha lasciato solo il Ri-Quadro.
In sintesi: confluiscono nell’operazione di Gino Cilio dal titolo “A-
Zero” , che si concretizza nell’esibizione di un “Ri-Quadro” privo del
piano pittorico e che ha un titolo “1 + Uno”, le due istanze che
serpeggiano nelle opere di molti artisti del ventesimo secolo: la scettica,
rappresentata dall’1 e la metafisica rappresentata dal + Uno.
Le due tendenze spesso non si possono separare con un taglio netto nei
vari artisti.
Un solo esempio fra tutti: Yves Klein, che pur tenta di introdurre
nell’opera il massimo grado di spiritualità, alla fine simula il suicidio
dell’artista che, nonostante tutto, mette in evidenza anche un certo
orientamento scettico.
Comunque, a grandi linee si può sostenere che l’indirizzo metafisico
iniziato da Mallarme con l’introduzione nell’opera del massimo grado di
spiritualità, passa a Kandinsky, a Mondrian, a Malevic, a Yves Klein, a
Marc Rothko, a Cliffort Still, tanto per citare i più importanti, fino al 2004
a Ettore Spalletti e Anish Capoor. Mentre l’indirizzo scettico tendente
all’azzeramento e all’annullamento dell’opera d’arte e dell’artista si può
far risalire ad un Rodcenko, per passare a Duchamp, a Piero Manzoni, a
Ad Reinhard, ad Emilio Isgrò, a Vincenzo Agnetti, a Carlo Alfano, a Giulio
Paolini, ed altri fino ai giorni nostri col concettuale non ancora esaurito.

55
ECLISSI DELL’OPERA
D’ARTE ?

Prima di aprire un qualunque discorso sull’arte che l’ “Operazione A-


Zero” di Gino Cilio presuppone, è necessario precisare il senso che si
attribuisce alla dizione “eclissi”, che nel linguaggio corrente è sinonimo
di fine e di morte, mentre in astronomia è “l’oscuramento parziale o
totale di un astro dovuto all’interposizione di un corpo o fra la sorgente
luminosa e l’astro se questo non è luminoso o fra questo e l’osservatore
qualora questo sia luminoso”.
Quindi l’eclissi, in questo contesto, è un fenomeno transitorio, esaurito il
quale, l’astro tornerà a risplendere.
Allo stesso modo l’arte quando, azzerati in continuazione tutti i
linguaggi, già da un più di un secolo a questa parte, riuscirà a trovare
56
un rinnovato statuto ontologico. Si sarebbe potuto usare interim, break
o altro, si è preferito usare questa dizione perché, eclissi mette, si
potrebbe dire con un ossimoro, in luce l’altro volto dell’astro, quello
momentaneamente oscurato da quel “Ri-Quadro” (verbo o nuovo
quadro?) costituito dall’assemblaggio di quattro listelli uniti in forma di
quadrato e rigorosamente anonimi che molti interrogativi pone:
Trovata? Opera d’arte? Doloroso percorso esistenziale? Enigmatico
itinerario artistico? “Gestus” avanguardistico? Consapevolezza della
temperie culturale contemporanea? Insofferenza verso un “sistema”
dell’arte elefantiaco? Inutilità dell’espressione artistica in una società di
per se stessa estetizzata ed estetizzante e costantemente esibita?
Inefficacia dell’arte tra scienza e tecnologia? Assoluta irriducibilità tra
pensiero umanistico e sistema tecnologico-scientifico? E per converso
nullificazione dell’opera in quanto, raggiunto il vuoto, il nulla, lì in quel
non-luogo, tutti i linguaggi sono compresenti e quindi l’opera si
assolutizza? Realizzazione della bellezza dell’ottavo giorno? Non è
proprio in quell’ottavo giorno che passato e presente, natura e spirito,
sensibile ed intelligibile, corpo e anima sono compresenti e conciliati?
Questi e molti altri interrogativi pone e propone l’operazione
“artistica” (?) di Gino Cilio, consistente, in ultima analisi, nel semplice
gesto di lacerare la superficie sul supporto, prima, e di toglierla del tutto
dopo. E’ rimasto solo un Ri-Quadro “vuoto” dove non c’è un autore ma
solo un titolo: “1 + Uno”. In effetti la seconda opera manca, è nulla.
Il titolo si riferisce solo al Ri-Quadro privo di superficie, per cui quel più
Uno in effetti è meno Uno, cioè Zero,
onde il titolo “A-Zero”.
Dopo un iniziale senso di spaesamento
dinanzi a quel “vuoto”, a quel “nulla”,
a quella “tabula rasa” si impossessa di
noi il bisogno di riflettere e valutare, di
intel-ligere, insomma l’operazione.
Se l’artista ha “tolto” ogni possibilità
di lasciare un segno anche minimo su
un supporto qualunque, è opportuno
per prima cosa riflettere sulla funzione
che ha la superficie in un’attività artistica conformativa.
Euclide definiva la superficie “epiphàneia”, apparizione, delle cose.
Da un qualunque dizionario ricaviamo la definizione per cui “la
superficie è il contorno di un corpo che si pone come limite tra lo spazio
esterno e quello occupato dal corpo stesso, per cui il corpo acquista
evidenza”, onde epiphàneia; mentre lo spazio è “l’insieme dei punti in
cui i corpi si collocano”.
Traslando e componendo le definizioni , risulta che in arte la superficie è
l’insieme dei punti su un piano delimitato da un supporto qualsiasi (tela,
computer, ecc…) per mezzo del quale essa acquista evidenza.

57
Su questa poi si inscrive l’attività dell’artista che determina l’epiphàneia
delle cose attraverso un sistema di segni e codici condivisi.
La superficie, dunque, è il luogo degli accadimenti artistici.
In essa si distinguono due elementi: la figurazione e lo sfondo o meglio
il fondo, quest’ultimo di per se stesso, in base
alla definizione di cui sopra, è immagine iniziale
di ogni operazione visiva, materia concreta in
cui si dispiega il segno dell’artista, sia che esso
si assottigli fino all’insignificanza, sia che esso
invada tutta la superficie, parimenti fino
all’insignificanza, come immagine, ovviamente.
In ogni caso la superficie rimane la condizione
iniziale imprescindibile che di per se stessa è
categoria esistenziale su cui si sono sempre
inscritti i vari linguaggi che hanno in-formato un’epoca.
Allorché una qualunque attività formativa si assottiglia e scompare, o
quando un segno si ispessisce e invade tutta la superficie, ci troviamo
sempre e solo davanti al concetto di arte ridotto a tautologia, come già
in Rodcenko nelle sue tre tele monocrome (giallo, rosso e blu primari)
esposte nel 1921 alla mostra moscovita “5 x 5 = 25”, che tanto
scandalo suscitarono.
Infatti, arrivati a questo limite del monocromo, la pittura perde ogni
consistenza, ogni particolarità inessenziale per attualizzare solo se
stessa colta al di là dell’esistere, al di là di qualsivoglia sistema di segni
complesso.
Molti artisti a partire da Rodcenko si sono cimentati con le superfici
monocrome, attribuendovi significazioni le più svariate, in quanto
sostituti simbolici delle varie e particolari forme di espressività su un
piano, vale a dire della prassi della figurazione pittorica.
Ancora nel maggio del 2004, alla Fondazione Bevilacqua La Masa di
Venezia, Ettore Spalletti presenta le sue superfici monocrome in quanto
proposta di azzeramento e silenzio, di
contro alle “opere straripanti di
vitalità contemporanea” di un Patrick
Tuttofuoco.
Oppure al Museo Archeologico di
Napoli tra Ottobre 2003 e Gennaio
2004 Anish Kapoor esibisce un
rettangolo nero di m. 2 X 1 disposto
verticalmente su una parete
bianchissima, per cui l’energia che
promana da quel nero si assolutizza a
causa della sua qualità particolare.
(Già in Malevic esso era simbolo della
massima energia essendo costituito
dalla somma di tutti i colori).
58
Tuttavia in questo artista esiste sempre una superficie e un artista che
su quella interviene col non-colore. Questi stessi elementi sono limitanti
l’assolutizzarsi dell’energia. Invece se si toglie la superficie essa si può
cogliere nella sua totalità.
Comunque sia, facendo un passo indietro nel tempo, Fontana per primo
ha osato “violentare” la superficie attraverso il gesto ossessivo di
bucarla, facendo vacillare il concetto di pittura, ma lasciando, tuttavia,
lo “spazio” della superficie, il fondo, su cui comunque proponeva e
riproponeva il gesto di bucarlo o tagliarlo.
Un ulteriore passo avanti poteva essere solo quello di lacerare la
superficie come ha fatto Gino Cilio, per vedere con occhi più smaliziati l’
“oltre” di essa, la realtà tout court che dalla luce trae evidenza e
significazione, mentre dal buio riflessione e significato.
In ogni caso, comunque, nel Nostro la materia pittorica comincia a stare
fuori dalla rappresentazione anche in forma tautologica.
Basta un solo gesto ancora, quello di togliere del tutto la superficie, per
portare l’artista alla sua dimensione tragica, in quanto necessitato da
una scelta che sta tra il sì e il no della rappresentazione.
Una figuratività qualsivoglia, un segno pittorico qualsivoglia, per
esistere ha bisogno di una
superficie a due dimensioni:
larghezza e lunghezza, ma
se è tolta la superficie,
rimane un supporto che
contiene sempre larghezza e
lunghezza, a cui si
aggiunge inevitabilmente la
profondità, che era prima
escamotage solo in
presenza di attività
formativa.
Tra l’altro attraverso la larghezza e la lunghezza l’ illimite era
inevitabilmente “limitato”, con la profondità tout court l’illimite può
entrare a pieno diritto nell’opera, l’illimitatezza della totalità del mondo
non è più rappresentazione, ma sensazione pura dissolta nella più pura
immaginazione.
Oltre questa soglia è il “Vuoto” assoluto, il “Nulla” cui si perviene se si
toglie anche il supporto, infatti all’ultimo “supporto dell’arte” l’uomo
Cilio ha dato un titolo, che potrebbe essere l’ultimo titolo della storia
dell’arte: “1 + Uno”. Laddove la seconda opera manca, la non-opera si
assolutizza e l’opera d’arte trapassa dal piano fisico al piano metafisico,
la Pittura si è totalmente emancipata dal fatto “retinico”, come direbbe
Duchamp, ma anche da qualsivoglia fisicità indotta da un altro oggetto
sussunto ad opera d’arte.
Da questo momento in poi o l’opera d’arte è solo realtà tout court o è
aisthesis pura, sensazione pura, cioè. Essa si può eclissare, scomparire
59
momentaneamente per “ri-comparire” nella forma della totalità, in
quell’ Uno che costituisce la seconda parte del titolo dell’ultimo Ri-
Quadro dell’arte:
Altre interpretazioni dell’eclissi dell’arte è possibile stabilire in
relazione all’operazione “A-Zero” di Gino Cilio.
Nella civiltà cibernetica globalizzata, di cui si parlerà in altra nota, è
chiarificatore esaminare il senso che l’opera di un artista assume in
seno ad una società tecnologicamente avanzata.
Fino a buona parte dell’ 800, l’artista aveva rappresentato con le sue
opere l’autocoscienza di un’epoca e di un popolo che in esse si
riconosceva e, pertanto, la loro “lettura” aveva validità gnoseologica
dello spirito del tempo.
In altri termini, l’opera si configurava come rappresentazione del
mondo.
Con le Avanguardie storiche il concetto va in crisi, soprattutto nel
momento in cui si affaccia l’arte astratta.
Il periodo coincide con le grandi migrazioni di masse che dalla
campagna si spostano, a causa della rivoluzione industriale, in città.
Ed è qui che si articolò e si articola, a maggior ragione oggi, una
pluralità di forme di vita che non consentono più di riconoscere un
modello stabile, come era stato un tempo il mondo agricolo-patriarcale
in cui i ritmi di vita erano quelli biologici e le trasformazioni molto lente.
In relazione al passato, quindi, la vita della città si caratterizza per
mobilità e instabilità, il che non permise e non permette più di vedere la
realtà ed interpretarla sub specie aeternitatis, perché i modelli unitari
del mondo si sono eclissati e con essi la ricerca di una verità assoluta,
per cui altamente profetica risulta l’idea di Baudelaire che l’artista è
responsabile, non più davanti alla storia, ma solo davanti a se stesso.
Con le Avanguardie, pertanto, tutta la realtà è posta in discussione e
frantumata in infiniti rivoli che decretano la morte della
rappresentazione unitaria del mondo e il trionfo delle immagini.
Così, alla frammentazione del reale corrisponde la frammentazione
delle sfere di esistenza del soggetto non più uguale a se stesso, poichè
nel momento in cui lui fa esperienza di qualcosa non è più lo stesso che
prima.
Infatti, la specializzazione dei linguaggi scientifici, la parcellizzazione dei
valori, la divaricazione sempre più ampia tra il linguaggio tecnologico e
scientifico e l’ umanistico, già all’inizio del Novecento, delineano quei
caratteri che informano tutto il secolo appena trascorso e questo già
iniziato.
Le Avanguardie storiche, in altre parole, dimostrano la relatività dei
linguaggi col crearne infiniti altri, purchè semanticamente coerenti ed
autonomi, ma sempre in opposizione a quelli tradizionali che sono
sostenuti dalla classe dominante ed oppressiva, cui si oppongono con
tutte le loro forze.

60
Ora, la possibilità di creare all’infinito nuovi linguaggi ne dimostra il
carattere relativo ed effimero. Esso mette in evidenza un concetto
fondamentale per gli sviluppi successivi: non è la visione e quindi la
realtà che determina il linguaggio, ma è il linguaggio a determinare la
visione della realtà.
Quella realtà che l’artista ha sempre rifiutato e che con la sua opera ha
teso a mutare. Quell’opera in cui tempo e durata non coincidono perché
per essa ha valore e senso solo la perennità, in quanto incarna la
possibilità di vincere la morte.
Tenute presenti queste premesse molti e
articolati risultano fino ad oggi i tentativi di
definire l’arte: dal rispecchiamento della realtà,
alla naturalità dell’arte, all’arte come
tautologia, secondo la nota frase di Tristan
Tzara per cui “è arte tutto quello che gli uomini
chiamano arte”, ripresa poi in altro contesto da
Dickie e Danto per i quali è arte ciò che il
sistema dell’arte ritiene tale.
Non concordando appieno con nessuna di tali
tesi, sarebbe opportuno tornare alla centralità
dell’opera, senza la quale nessuna tesi sarebbe sostenibile.
Se è vero che è lei che col suo linguaggio ri-crea la realtà, il sistema
attorno a cui ruota l’arte le è sostanzialmente estraneo. Tuttalpiù
l’opera dovrebbe essere inserita in quel contesto di derealizzazione del
reale che è cifra distintiva della contemporaneità e che sembra aver
perso di vista il mondo e ciò che si aggiunge al mondo, come direbbe
Eco, cioè la centralità dell’opera nella interpretazione dello spirito del
tempo o come direbbero i tedeschi, dello zeitgeist.
Quindi, rifacendoci all’idea dell’importanza del linguaggio nel
determinare la visione, diciamo che “l’arte è Retorica”
Il post-modern che inutilmente ci affanniamo a dire superato, ci ha
liberato dall’ossessione di essere moderni con l’auspicare la proiezione
dell’oggi su ciò che ci ha preceduto e non si vede come potrebbe essere
altrimenti, visto che il confronto, il mixage può avvenire solo ed
esclusivamente col passato, essendo impossibile col futuro.
Quindi da post-moderni si può sostenere che “l’arte è Retorica”.
“Retorica”, tuttavia, non secondo il senso che ha assunto nella
contemporaneità di tecnica più o meno vuota di contenuto, ma la
retorica nell’accezione con cui era definita dai Sofisti, indifferente al
vero o al falso, e quindi “retorica” come parola tragica.
I Greci, quando apparve la Sofistica, erano appena usciti dal Medioevo
ellenico e non erano stati ancora tracciati i confini tra retorica, poetica e
filosofia, pertanto, allora, gli uomini si riconoscevano in un mondo che
apparteneva loro, esattamente come oggi, e la stessa vita soggiaceva
alla retorica in quanto pèitho, persuasione tragica, in quanto forza
eversiva ed antimetafisica.
61
“Si dice che il pensiero tragico, anzi il pensiero della tragedia trovi voce
nei sofisti.
Ad opera della sofistica – questa una tesi oggi ampiamente condivisa – il
tragico troverebbe il proprio orizzonte in una ontologia radicalmente
dualistica. (….) Non è il dissidio che sulla scena separa agonista e
deuteragonista il riflesso di un più profondo dissidio radicato nel
linguaggio?” Recita Sergio Givone (Givone S., Storia del Nulla, ed.
Laterza, 2003, pag. 27 e seg.)
Quel linguaggio che, oggi come allora, crea il mondo, quel linguaggio
anche dell’arte che dell’indifferenza al vero o al falso si nutre, ma che
comunque paradossalmente produce verità, anche se questa non è nei
suoi presupposti come potrebbe essere per la filosofia.
“L’arte, più che conoscere il mondo, produce dei complementi di
mondo, delle forme autonome che si aggiungono a quelle già esistenti
esibendo leggi proprie e vita personale”, sostiene Eco. (Eco U. Opera
aperta, ed. Bompiani, 1976, pag. 50).
E la vita oggettiva dell’opera sta lì sotto i nostri occhi.
Diceva Wilde che il vero mistero del mondo non è l’ invisibile ma il
visibile, ed in quanto cosa visibile l’opera sta davanti a noi in tutta la
sua fisicità che è poi la greca morphè, la forma sensibile, che contiene
quel quid che serpeggia e strizza l’occhio, che non si dispiega
apertamente e richiede uno sguardo che indaga al di là della forma
esteriore, affinché questa ponga domande inattese che svelino anche la
contraddizione del reale, essendo appunto l’arte retorica in grado di
produrre unheimlichkeit, spaesamento.
In questo contesto, pertanto, sarebbe meglio definire l’opera d’arte
come skèma, come forma, appunto, che è sì forma esteriore (spazio,
materia, mani, ecc…) ma cava, come sostiene Focillon (Focillon H., Vie
des formes, Paris,1934, trad.it. Vita delle forme, S. Bettini, Torino,1972),
e in questa cavità il contenuto non è importante, è importante, invece,
come esso si trasformi e in questo trasformarsi diventa transito
continuo, metamorfosi incessante o se si vuole trasgressione perenne.
Nella contemporaneità i cambiamenti avvengono ad un ritmo
vertiginoso. E si può aggiungere che anche ciò che
sembra falso, se la realtà è multiforme ed in
continuo mutamento, può essere vero.
Stante così le cose, oggi è ancora possibile
considerare l’opera come forma cava?
Le scienze umanistiche possono tenere il passo
con l’universo tecnico-scientifico e le codificazioni
cibernetiche?
Anche queste sono alcune tra le tante domande
che affiorano guardando quel Ri-Quadro senza
alcuna superficie dell’uomo Gino Cilio.
Intanto ciò che si evidenzia lampante in
quest’ultimo mezzo secolo è la profonda
62
divaricazione tra sapere umanistico e sapere tecnologico e scientifico,
come sopra sostenuto.
Il primo, frantumando i linguaggi, da molto tempo non riesce più a dare
risposte alle eterne domande che l’uomo si è sempre posto, e sempre si
porrà, per attribuire senso ontologico al suo essere nel mondo : Chi
siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
Il secondo, invece, si compatta sempre più lasciando che la tecnologia,
la computerizzazione, la velocità delle comunicazioni, procedano per
loro conto.
Eppure, fino a qualche decennio fa, in quel clima di generale
rinnovamento succeduto all’evento bellico, ci fu una sorta di
convinzione fideistica nella possibilità della tecnologia e della scienza di
convivere con l’Umanesimo e che si incarnò in quella singolarissima
figura di scienziato e poeta che fu Sinisgalli con la rivista: “Civiltà delle
macchine”, per mezzo della quale era miracolosamente riuscito ad
aggregare personaggi come Ungaretti, Solmi, Turcato, Perilli, Fortini,
Caproni, Burri, Mafai, ecc… e scienziati come Vaccarino, Wiener,
Ceccato, Panaria, Somenzi ed altri, fiduciosi tutti che il progresso
tecnologico fosse solo benefico.
Lo stesso titolo “Civiltà delle macchine”, e non era o epoca o altro, fu
una geniale intuizione che stette a significare come fosse la civiltà a
creare le macchine e non viceversa.
Ma di lì a poco si vide anche il potere distruttivo della tecnologia:
inquinamento, piogge acide, buco nell’ozono, Cernobil e molto altro
ancora minarono la fiducia nel progresso tout court che avrebbe reso
confortevole la vita dell’uomo.
Dinanzi ai vari disastri il poeta, l’artista, il critico, insomma l’uomo di
cultura umanistica si defilò, lasciando che fosse la tecnologia a creare la
civiltà e a sommergerci con la sua messe di immagini estetizzanti ed
accattivanti che mutano con la loro realtà virtuale la nostra percezione
del mondo.
Nel frattempo le neo-avanguardie più o meno a noi contemporanee
perdono lo slancio ideologico delle storiche. Le opere degli artisti, oggi,
non esprimono più un linguaggio che è visione di un mondo da
trasformare, non è condizione di un ordine futuro delle cose, non suscita
giudizi e non condanna, semplicemente si ingloba dentro il sistema neo-
capitalistico.
In sostanza il sistema ha fagocitato l’artista con vantaggio per
entrambi. Ma il prezzo da pagare è che lui e la sua coscienza etica, in
nome del dio mercato, si prostituiscono.
Il prodotto artistico è merce che deve essere smerciata e si deve servire
di stilemi linguistici facilmente riconoscibili dalle masse che
costituiscono il mercato. L’opera non ha più neanche potere di
denuncia, di opposizione tragica, come era stata quella delle
avanguardie storiche, al massimo può sfiorare l’ironia, la parodia, il
sarcasmo.
63
Ogni trouvaille è gabellata per opera geniale, dal gallerista attaccato al
muro con l’adesivo da imballaggio, allo sterco di elefante, all’artista
legato al guinzaglio e così all’infinito.
Se queste sono operazione artistiche
di lettura complessa del reale, allora
l’arte è davvero fuori “misura”, è,
eticamente, totalmente inadeguata a
confrontarsi con l’odierna civiltà
cibernetica, che, con la sua
esorbitante messe di immagini,
derealizza il reale, lo estetizza, lo
omologa, lo anestetizza e
contemporaneamente anestetizza
anche le coscienze.
Allora, se la condizione dell’arte è
questa, è necessario per un attimo
sospendere ogni giudizio, annullare
l’opera, come ci fa vedere appunto
Gino Cilio con la sua “Operazione A-Zero”, per avere la possibilità di
guardarsi intorno e nel buio e nel silenzio della propria riflessione,
trovare una risposta chiarificatrice a quest’oggi cibernetico in cui
l’umanesimo si attesta su posizioni di assenza, di distacco, di rimpianto.
In un momento in cui non esistono barriere spazio temporali, in un
momento in cui i rapporti tra individui anche in guerra tra di loro
possono agevolmente stabilirsi, salta evidente quel problema, di
kantiana memoria: “Cosa posso conoscere” di questo mondo che colgo
attraverso immagini che possono riprodursi all’infinito e che, pertanto,
percepisco per mezzo di una infinità di linguaggi che dissolvono il reale
in una pluralità di “mondi di vita”?
In altri termini, se all’oggettività della rappresentazione si sostituisce la
soggettività della interpretazione, che parcellizza il reale in mille rivoli
già da circa un secolo, quale la funzione dell’opera d’arte in questo
contesto?
Essa, tradizionalmente, ha avuto il compito di farci vedere la realtà con
altri occhi, di intensificare la nostra esperienza di vita. E questo
dovrebbe essere incontrovertibile anche oggi.
L’artista non deve distaccarsi da ciò che è esterno all’io, deve giungere
all’interno di ciò che si considera esterno, per accedere e farci accedere
ad una dimensione più articolata e ricca del vivere.
L’io, pertanto, non deve restare esterno al fenomeno, ma scendere
verso l’interno.
Ora, questi principi possono considerarsi ancora validi se si tiene ferma
l’idea che la frammentazione dei linguaggi, delle sfere di esistenza,
ecc…non sono esterne all’io ma avvengono nell’unità dell’io.
Se è vero che l’uomo è formato da mente, psiche e soma, l’equilibrio di
questi tre elementi ci dà l’io, il sé, ed in quest’io i vari linguaggi possono
64
convivere ed essere espressi, ma per essere espressi devono essere e-
laborati e poi estrinsecati con un mezzo, non importa quale, video,
straccio, installazione, ecc… poiché tutto può servire per dare una
lettura complessa del reale.
Se ciò non accade l’arte ha abdicato alla sua funzione.
Certo, si ha perfetta consapevolezza che questo è difficile da realizzare,
per cui ci sono momenti di “azzeramento”, di vuoto, vuoi perchè non
sempre lo spirito del tempo è facilmente decodificabile, vuoi perché la
visione del reale, come nella nostra contemporaneità, si ferma all’
“apparenza” delle cose, all’immagine del mondo, vuoi perché premono
altre civiltà che mettono in dubbio le nostre certezze, vuoi perché altre
branche del sapere, e quindi altri linguaggi, vedi la scienza e la
tecnologia, prendono il sopravvento sui linguaggi umanistici, vuoi per
altri infiniti motivi.
Quindi la stasi, la riflessione sono necessarie per ri-definire il reale e
cioè ri-leggerlo per re-intelligerlo (etimologicamente da intus o inter:
dentro e tra, e legere: raccogliere, scegliere e cioè leggere il reale
interiorizzandolo e trascegliendo quelle idee e quei principi che
informano un’epoca).
Il divenire storico, sostiene Steiner in “Vere presenze”, ha perso la sua
linearità in favore di un percorso spiraliforme. Una spirale che inghiotte
e fagocita con il kitsch e il trash esibiti, assimilati, goduti attraverso i
mezzi di comunicazione di massa, per cui più manifesta che mai sembra
oggi la divaricazione fra linguaggio ed umanità, dialogo e speranza,
proprio perché la gerarchia dei valori non è più quella dell’uomo col suo
desiderio di “durare”, ma quella delle scienze e della tecnologia col loro
frenetico desiderio di evolversi.
Tenuto presente quanto sopra, al fine di attribuire all’arte quel senso di
perennità per cui l’artista ha sempre vissuto, è possibile una speranza?
A questo proposito, il concetto diltheiano di
erlebnis diventa fondante.
Dilthey, infatti sosteneva, con lettura
profetica, la crisi del mondo occidentale.
Ora, tutte le crisi si possono superare
rileggendo il passato in modo dinamico, alla
luce cioè del presente ed il post-modern,
crediamo, gli debba più di un tributo, anche
se questo, non essendo stato recepito con la
dovuta approfondita riflessione,
sostanzialmente è fallito, anche perchè una nuova visione del mondo si
è delineata: la globalizzazione.
Il concetto non è nuovo, le varie guerre da sempre hanno cercato di
raccogliere sotto la bandiera del più forte più popoli, ma non se ne era
mai avuta lucida coscienza, oggi invece la nostra epoca viene indicata
come quella della globalizzazione che comporta, come si dirà,
omologazione di tutto e di tutti.
65
A parer nostro, proprio perché la nostra è un’epoca essenzialmente
diversa dalle precedenti in quanto il linguaggio tecnologico e scientifico
ha finito per prevaricare l’umanistico, e questo nel passato non era
accaduto con la stessa divaricazione, il post modern è più attuale che
mai al fine di recuperare i valori più universali propri della cultura
umanistica e che vedono, come sostiene ancora Steiner nell’opera
citata, nella poiesis, e quindi nell’opera, la possibilità della speranza e
nella dignitas la possibilità che il percorso esistenziale dell’individuo
trovi una giustificazione, appunto perché quella odierna è una fase di
altissima estenuata ed estenuante estetitizzazione della vita.
In altre parole, solo se si recupera la poiesis in uno con la dignitas e la
capacità tecnica, che permette alla poiesis di essere espressa, si avrà la
possibilità di resistere alla “civiltà dell’effimero”, appunto perché, come
si diceva, l’opera anela alla perennità.
Solo così l’opera d’arte può rimanere sempre un modo di fare
esperienza del reale per metterlo in forma, quella forma cava, di cui
sopra, che permette una lettura complessa e dinamica dello zeitgeist.
E un Ri-Quadro può essere forma cava? In esso è ancora possibile la
fusione tra poesis e dignitas?
Comunque sia, una cosa è certa: ogni opera, che si possa classificare
nel novero di opera d’arte scardina i codici linguistici esistenti, gli
stilemi esistenti, per riorganizzarli in una nuova visione e tensione.
Ma quali sono i codici linguistici a noi contemporanei, o almeno qual è il
presente su cui si dovrebbe innestare il passato?
L’evoluzione del pensiero va a piccoli passi e non per rivolgimenti, che
taglino i ponti con ciò che ci ha preceduto, nel qual caso saremmo
davvero degli sradicati impossibilitati a vivere in un ordine di cose di cui
non ri-conosciamo i nessi.
Sta sotto gli occhi quale visione fortemente estetizzata ed estetizzante
della vita ci danno i mass media: corpo scolpito, forme accattivanti,
luoghi lindi e perfetti, ecc….
Per comprendere la portata di questo rinnovato estetismo dobbiamo
recuperarne la nozione come fu concepita da un Pater o da un Wilde e
fare le dovute differenze e considerazioni dato che quel Ri-Quadro privo
di superficie non può non farci porre il problema.
Per questi artisti la forma esteriore era dimensione di quella interiore e
si manifestava in ogni aspetto della vita quotidiana: “L’estetismo non è
una forma di basso edonismo, un godere della vita in tutte le sue
occasioni, ma una forma raffinata di piacere, che esige cultura,
distinzione, applicazione” (D’Angelo P., Estetismo, ed., Il Mulino, 2003,
pag. 203). Gli stessi comportamenti dell’esteta si distinguevano da
quelli della massa per una ricercatezza ed originalità del vestire e
dell’eloquio, insomma l’esteta faceva della propria vita un’opera d’arte
e qualcuno di questi atteggiamenti è ancora rispecchiato oggi in artisti
come Gilbert & Gorge.

66
Ora se confrontiamo questo modo di concepire l’esistenza con l’odierno,
risulta evidente che quest’ultimo non è più dimensione interiore ma
solo apparizione, superficie, omologazione a determinati standard
estetici favoriti dalla percezione spazio-temporale virtualizzata: gli
stessi edifici, gli stessi McDonald’s, le stesse griffe in tutto il mondo,
ecc…. per cui risulta difficile distinguere la dislocazione materiale delle
cose che è poi dislocazione spaziale.
Non si percepisce più neanche la natura se non attraverso quella offerta
dal “Mulino Bianco”, dal vino “Tavernello”, dalla pasta “Barilla” e così
via.
In questo contesto, si cerca di omologare la realtà che si ha sotto gli
occhi a quella estetizzante offerta dai
mezzi di comunicazione: casa
impeccabile, linea perfetta, palestre,
automobili, griffe ecc….insomma ognuno
ha perso la propria individualità.
Basta un banalissimo esempio per
rendersene conto.
Tutti andiamo in vacanza scegliendo
“liberamente” il residence del nostro
relax in modo da fare ciò che più ci
aggrada. Goduto il meritato riposo,
informiamo l’amico, che ha fatto la sua vacanza all’altro capo del
mondo, su ciò che abbiamo fatto, inaspettatamente coincide tutto, dagli
orari per il desinare, alla palestra, alle visite guidate, ecc…tutto
fotocopia.
Ma non è solo il relax omologato, ogni altro aspetto della vita gode dello
stesso “privilegio”, per cui lo spazio del “privato” si assottiglia sempre
più, così come lo spazio della comunicazione, perché non c’è più nulla
da dire facendo tutti le stesse azioni. Pertanto il soggetto non è
individuo, ma massa su cui “agire” per fini che il soggetto non deve
conoscere.
Conseguentemente, se l’estetismo del secolo scorso era distinzione,
quello di oggi è omologazione, massificazione.
Tutti obbediscono allo stesso imput, quello del “Potentato del
Superfluo”, intendendo per “Potentato” tutto un sistema di poteri occulti
che fanno capo al neocapitalismo post industriale e per “Superfluo”
tutto ciò che esula dai bisogni primari dell’individuo. Esso fa sembrare
necessario ciò che non lo è, proprio perché è la merce, il superfluo, che
“ci” desidera, e di cui si parlerà più ampiamente in altra nota, che ha il
suo deus ex machina nella pubblicità.
Non era mai accaduto in nessun’epoca che il superfluo fosse così
necessario, e questo perché omologa dando la sensazione di
appartenenza e l’appartenenza è quella ad un mondo che si ritiene il
migliore tra i possibili.

67
Ma, attenzione, apparentemente nessuno impone nulla a nessuno ed è
per questo che il “Potentato del superfluo” è più subdolo di ogni
totalitarismo, perché lascia intatta la sensazione di compiere libere
scelte laddove i mezzi di comunicazione martellano le stesse scelte e
quindi gli stessi comportamenti, come evidenziato sopra.
Conseguentemente, in piena libertà, in apparenza, la coscienza del
soggetto si omologa, si omogeneizza.
Le catastrofi umane, i problemi sociali, ecc… esibiti e sovraesposti nei
mass media tra una pubblicità di automobili, una fiction, uno spettacolo
di intrattenimento, assumono tutti caratteri virtuali, anestetizzano la
sensibilità, in quanto il vero ha la stessa apparenza del falso, la realtà
della metarealtà, perchè tutto può esistere e coesistere in un mondo
globalizzato e virtualizzato.
Il tempo e lo spazio sono entità astratte appiattite nel qui ed ora. La
campagna e la città non sono reali, sono
spettacolo standardizzato che un
viaggiatore può consumare allo stesso
modo di un pacchetto di patatine fritte.
Così decostruito o meglio virtualizzato il
mondo perde la sua realtà.
Già Platone, millenni prima di Matrix, col
mito della caverna, se il mito non racconta
ma disvela in forma simbolica ed intuitiva
l’esistenza e l’esperienza dell’uomo in
rapporto con l’universo, aveva dimostrato
come dei prigionieri chiusi in una caverna, vedendo passare le ombre
degli uomini, le consideravano realtà.
Analoga è la situazione contemporanea.
Allora, in tale contesto, è ancora possibile uno statuto ontologico per
l’opera d’arte?
Matrix, al di là di ogni giudizio di valore, ha dimostrato che la vita sta in
bilico tra il reale e il virtuale.
Per poter salvare il mondo bisogna distruggerlo, per poter salvare l’arte,
allora, bisogna azzerarla e se nel film, alla fine, il trillo di un telefono
riporta alla realtà lo spettatore, allo stesso modo il “Ri-Quadro” vuoto di
superficie di Gino Cilio chiama in causa il mondo dell’arte, affinché una
volta per tutte si ponga delle domande.
Oggi nessuno se ne pone, nessuno ha niente da raccontare, nessuna
esperienza da esprimere, essendo tutte le esperienze omologate e per
quel poco che si ha da dire ci si serve di un linguaggio povero
lessicalmente, proprio perché povero è il pensiero sotteso.
Tutti avranno fatto l’esperienza di dire un concetto complesso con
termini appropriati, e quante volte ci si è sentiti redarguire!!! Il parlare
“semplice”, leggi omologato, è la cosa più bella per comunicare
qualcosa!

68
Ma si ha poi il desiderio di comunicare e di ascoltare la comunicazione?
Se qualcuno prima si pone delle domande, poi riflette e poi comunica
qualcosa che non rispecchia lo standard comune di pensiero viene
escluso dal gregge perché anticonformista, perché incapace di
adattamento e come tale affetto da patologia.
Se il conformismo oggi è feticcio esso automaticamente si trasforma in
tabù, è necessario violarlo perché ci sia un progresso o almeno una
alternativa.
Probabilmente anche Gino Cilio è affetto da patologia perché la sua
operazione è fuori dagli standard correnti che semantizzano un’opera
come opera d’arte. Infatti, gli stili, che un tempo con la loro
diversificazione da regione a regione arricchivano il linguaggio di
un’epoca, oggi, omologati come sono, non si distinguono più uno
dall’altro. Allora il conformismo anche in arte sta per diventare o è già
diventato un tabù.
Così come taluni popoli che non riescono a violare i tabù religiosi,
sociali, culturali ecc… restano bloccati in un certo ordine di cose, allo
stesso modo l’opera d’arte inserita a mo’ di feticcio nel sistema del
consumo se non è violata non può produrre “visione altra” della realtà.
Il Ri-Quadro senza una superficie, la quale un tempo era simbolica
dell’opera d’arte, ha violato il tabù consapevolmente.
In altre parole, la domanda che si pone è: può l’artista, un tempo
anticonformista per eccellenza, sentirsi dèracinè in un mondo
globalizzato in cui il processo di omologazione spaziale, culturale,
comportamentale, ecc…ha il sopravvento sulla territorialità in cui
l’individuo è radicato?
In un mondo inflazionato dalle immagini è possibile trovare un
orientamento che indichi un passaggio, un cammino…”in cui le cose /
s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, /
talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di natura / il punto morto del
mondo / l’anello che non tiene / il filo da sbrogliare che finalmente ci
metta / nel bel mezzo di una verità…”, come direbbe Montale de “I
limoni”?
In questo momento Gino Cilio, violando il tabù opera d’arte, ha
individuato un varco e lo mostra. Non lo oltrepassa. Lo indica a questo
mondo confuso e soffocato da una marea di immagini che si
frappongono tra il sé e una realtà derealizzata.
Se come dicevamo il mito non racconta ma disvela, una interpretazione
soggettiva del mito di Narciso potrebbe consentire una semplice
decodificazione relativamente alla riduzione del mondo ad immagini e
farci trarre le dovute conclusioni.

69
Dunque, il mito racconta di Narciso, giovinetto bellissimo, che si
specchia nell’acqua di una fonte, non su una superficie rigida, e vede la
sua immagine riflessa, ma essa a causa della liquidità rimanda una
immagine del giovinetto sempre diversa, cangiante, sfumante,
accattivante, comunque irreale. E Narciso si perde tra la moltitudine
delle immagini, sordo ai richiami della realtà rappresentata dall’amore
della ninfa Eco, fino a perdere anche se stesso.
Quindi il perdersi tra le immagini di questa nostra realtà omogeneizzata,
derealizzata, globalizzata, anestetizzata,
ci fa dimenticare anche la stessa nostra
soggettività, lasciando al “Potentato del
Superfluo” di agire indisturbato, col suo
imporre regole e comportamenti e quindi
anche pensieri e concetti.
In questa temperie culturale, il post-
modern può essere messo in parentesi?
La tecnologia in sé è vuota di contenuto
spirituale, bisogna “riempirla”. E come, se
non attraverso ciò che ci ha preceduto
innestato nello spirito del tempo?
Solo così un linguaggio tecnologicamente
giovane di tre, quattrocento anni può,
impiantandosi sulle vecchie culture di migliaia di anni, essere vivificato
e rispondere alle vecchie domande di senso di cui si è parlato, (Chi
siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?) che sono poi eterne, perché
i bisogni essenziali dell’uomo sono sempre gli stessi.
Ma, poiché in questo momento ne abbiamo perso il senso profondo, e
Gino Cilio col suo Ri-Quadro vuoto di superficie ce lo testimonia, è
possibile avanzare un’altra ipotesi di “eclissi dell’arte”, proprio perché
essa da sempre è stata una interpretazione del mondo ed oggi non lo è
più, ridotto tutto il reale a immagine, a linguaggio.
Già Hegel, nei primi decenni dell’Ottocento aveva preconizzato la
morte dell’arte, che tanti sviluppi ed interpretazioni ha avuto
successivamente. Ma l’arte non può morire finchè ci sarà un solo uomo
sulla terra, perchè la creatività e la sua consapevolezza è prerogativa
solo dell’uomo e quindi da essa non si può prescindere.
Però, a volte, bisogna fermarsi un attimo a riflettere, così come
denuncia quel Ri-Quadro vuoto di superficie di Gino Cilio, che vivendo la
contemporaneità ne vive le contraddizioni e non riesce a trovare una
soluzione valida alla derealizzazione del reale, e in ciò consiste la
modernità dell’operazione.
Dicevamo della morte dell’arte di Hegel in merito alla quale si vuole
avanzare un’altra ipotesi da quella scaturita.
Per il filosofo, com’è noto, nell’arte lo spirito fonde in modo immediato
ed intuitivo il soggetto e l’oggetto, lo spirito e la natura, proprio perché
la natura è la manifestazione dello spirito.
70
Il filosofo dialettizza la storia dell’arte in tre momenti: l’arte simbolica
propria dei popoli orientali in cui persiste uno squilibrio tra forma e
contenuto perché il messaggio spirituale è povero e si nutre di simboli e
di una certa sfarzosità e bizzarria nello stile; l’arte classica in cui lo
spirito e la natura trovano la loro armonia espressiva nella figura umana
in quanto equilibrio fra contenuto spirituale e forma sensibile, per cui
l’arte classica è il culmine della perfezione artistica; ed infine l’arte
romantica in cui si ridefinisce in forme diverse lo squilibrio rilevato
nell’arte simbolica, ma qui invece il messaggio spirituale è così ricco da
non trovare adeguata espressione in una forma sensibile. “ Si può
sempre sperare che l’arte si innalzi e si perfezioni sempre più, ma la sua
forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito. E per
quanto possiamo trovare eccellenti le immagini degli dei greci, e vedere
degnamente e perfettamente raffigurati il Padreterno, Cristo e Maria,
tuttavia questo non basta più a farci inginocchiare” (Hegel F., Estetica,
trad. N. Merker e N. Vaccaio, Einaudi, Torino, 1976)
Al contrario, a nostro avviso, oggi l’eccessiva messe di possibilità
espressive è esorbitante rispetto ad un messaggio spirituale povero,
essendo il reale ridotto ad accadimento esistenziale soggettivo e per
giunta derealizzato, estetizzato o vuotamente estetizzante in quanto
neanche più dimensione interiore.
Per cui unico escamotage per l’artista contemporaneo potrebbe essere
quello di sentirsi un deracinè, uno sradicato, anche dal mondo dell’arte,
posizione che gli permetterebbe di mettersi in funzione critica nei
confronti della contemporaneità, per riuscire a guardare l’altro lato della
realtà.
In pratica, Gino Cilio, nella temperie culturale attuale, si sente
momentaneamente sradicato, per cui il suo operare di artista tace, ma
l’uomo rimane vigile ai moti della psiche, il suo sguardo cerca di vedere,
ma per “vedere” ha necessità di calarsi in una dimensione abissale, in
un nulla che azzerando prima e nullificando poi l’opera gli permetta di
ri-flettere sul reale derealizzato per reinterpretarlo e se foss’anche per
perdersi, questo perdersi avrebbe il vantaggio della “coscienzialità”.
Personaggi mitologici come Enea o Ulisse fecero il viaggio
nell’oltretomba, nel buio, per trovare
quella saggezza che permettesse loro di
decodificare con nuovi occhi il reale ed
averne consapevolezza, allo stesso modo
l’uomo Gino Cilio. Ma, la sua non-opera
pone anche un altro quesito.
Una superficiale ricognizione della realtà
attuale permette di metterne in evidenza
alcuni fattori caratterizzanti: la
dissociazione dell’individuale dall’universale e il prevalere del
linguaggio scientifico e tecnologico su quello umanistico nonché la

71
diffusa estetizzazione che accompagna ogni aspetto della “civiltà
cibernetica”.
Già da un secolo caduta la fiducia del positivismo nel progresso, si è
manifestata l’impossibilità di ricondurre ad unità uomo e natura, verità
individuale e verità universale.
Neanche il rapporto uomo-Dio si è salvato dalla dissoluzione, perché
davanti all’Assoluto di cui non si sa niente l’uomo è vuoto, la sua
ragione registra il suo fallimento.
Il singolo sente profonda la sua solitudine in seno alla collettività e il
tempo non ha valore ontologico perché il nascere e il morire sono
incogniti e senza perché, onde il senso di angoscia di fronte al nulla che
si spalanca nella coscienza dell’essere umano.
Ogni autorità si è vanificata, ogni valore, principio, istituzione è entrato
in crisi, l’uomo è gettato nel mondo senza possibilità di salvezza, il suo
èchec è inesorabile.
L’ esistenzialismo con le sue varie forme dal cristiano al non cristiano,
dall’irrazionalistico al razionalistico, dal negativo al positivo, ecc…, ci ha
insegnato, in ultima analisi, che è difficile distinguere il vero dal falso, il
male dal bene, il bello dal brutto e nonostante qualche tentativo di
esautoramento dell’esistenzialismo, ancora oggi non riusciamo ad
uscirne, anche perché, rispetto al passato, si è imposto un linguaggio
nuovo di tre quattrocento anni, come si è più volte ribadito: il linguaggio
tecnologico e scientifico che segna le economie più avanzate e le loro
connessioni strutturali, politiche, socioeconomiche, ecc…
Tra l’altro, in linea con lo spirito del tempo, anche molte certezze
scientifiche sono state scardinate da Eistein, Planck, Enriquez e molti
altri, per cui all’oggettività si è sostituita la soggettività delle
osservazioni, onde l’assunto che la scienza può procedere solo secondo
“la legge degli errori”.
Già Eistein relativizzò i rapporti spazio-temporali per cui lo spazio non fu
più “contenitore di forme” e il tempo “contenitore di storie”. Gli atomi,
fu dimostrato, non essere indivisibili, di conseguenza le stesse immagini
della natura non furono immutabili.
Anche la conoscenza del funzionamento del nostro cervello ha cambiato
molte certezze in relazione ai nostri sensori biologici.
Già Heisemberg notava come il mondo potesse essere trasformato dalla
tecnologia e di conseguenza anche la nostra vita quotidiana in rapporto
con la natura, nel momento il cui la tecnologia avrebbe preso nelle sue
maglie l’uomo.
Infatti questa nel momento in cui trasforma le condizioni materiali del
soggetto ne modifica anche il modo di percepire la realtà.
Oggi, la civiltà tecnologica non rappresenta una continuità con le
epoche precedenti ma una frattura in quanto il suo linguaggio ha
prevaricato l’umanistico vecchio di migliaia di anni.
Dunque, all’homo tecnologicus, all’homo novus, non si chiede di agire
ma di fare, di fare bene il proprio lavoro, il motivo per il quale lo fa esula
72
dalle sue competenze per cui egli non è responsabile dello scopo
ultimo, perché imperativo categorico della tecnica è funzionalità ed
efficienza, come sostiene Galimberti.
In questo contesto di “strapotere dell’esistente”, l’artista, l’uomo di
cultura, il poeta, il filosofo, ecc… hanno perso la loro funzione, la loro
centralità, centralità che fino a quasi tutto il XIX° secolo era quella di
essere l’autocoscienza di un’epoca in quanto capaci di elaborarla e, nel
caso dell’artista, autorappresentarla per darla al mondo.
Ancora oggi, forse, l’uomo continua a “rotolare dal centro verso la X”
come direbbe Nietzsche, e non riesce a fermare la sua corsa per potere
ri-flettere sul reale e problematizzarlo, e Cilio con quel Ri-Quadro vuoto
di superficie vuol fare entrare in quel vuoto l’artista affinché abbia agio
di riflettere e tra-scegliere.
L’operazione “A-Zero”, inoltre, impone anche quest’altra domanda:
l’homo tecnologicus, visto che il sapere scientifico e tecnico slitta in
avanti, può sopravvivere senza l’homo sapiens?
La risposta a questa domanda è quella che Edgar Morin chiama “la
tragedia della riflessione”.
Il pragmatismo americano di questi ultimi anni addirittura espunge il
problema dell’umanesimo, per cui centrali, invece, diventano non le
eterne domande: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Ma:
“Sono utile ad una comunità?”
Infatti essendo così avanzati i sistemi di comunicazione ciò che deve
prevalere è il senso di solidarietà rispetto al senso di oggettività, mentre
il progresso umano deve identificarsi nel fare cose più interessanti, per
diventare persone più interessanti.
Ora, questo potrebbe essere accettato per una nazione giovane e senza
retroterra culturale profondo come gli Stati Uniti, non altrettanto può
esserlo per la civiltà europea che ha alle spalle culture millenarie.
Piuttosto le nostre domande potrebbero essere quelle di kantiana
memoria, che sono poi le domande perenni dell’uomo, perché le
esigenze dello spirito sono sempre le stesse in tutte le epoche: Che
cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa posso sperare?
In merito al primo punto alcuni problemi saltano evidenti agli occhi e
che accomunano vecchie e nuove culture.
Le migrazioni di popoli del terzo e quarto mondo, pur sempre portatori
di saperi altri, fa emergere il problema del rapporto con queste civiltà.
La globalizzazione con le sue reti di comunicazione, che collegano tra
loro un numero enorme, e potenzialmente illimitato, di persone di tutte
le culture, razze, religioni, ecc… fa cadere barriere sociali e culturali.
Tuttavia la positività dell’osmosi tra i popoli rimane limitata perché non
mediata da rapporti reali, ma da legami virtuali per cui anche il nostro
sistema percettivo-sensoriale e cognitivo si modifica, esso da reale si fa
virtuale.
Ed ancora, nel momento in cui i mezzi di comunicazione si diffondono
estendono anche il modello culturale di chi detiene i mezzi di
73
informazione e delle banche dati delle immagini ed ad averli è il mondo
occidentale con la sua potente macchina tecnologica ed in particolare
gli Stati Uniti.
Nel mondo occidentalizzato un fenomeno è evidente a prima vista,
l’estetizzazione formale di ogni aspetto della vita.
Tutto deve essere bello, gradevole alla vista, dalla mela al corpo
“scolpito”, dalla carta igienica alla forma della bottiglia del vino, alla
griffe e così via all’infinito. Ci si deve muovere quasi in un contesto di
allure in cui il vestito, l’aspetto esterno, conta più dell’interno, in cui la
dimensione estetica nasconde il reale proprio perché la dimensione
interiore è ininfluente ed in questo contesto l’estetizzante e
l’estetizzazione è aspetto totalizzante della vita.
A differenza dell’esteta del secolo scorso per
il quale l’esteticità era dimensione di
ricercatezza interiore che si manifestava
all’esterno attraverso atteggiamenti distinti
da quelli della massa, come più volte
ribadito, al contrario oggi la dimensione
estetica è solo fatto formale e di massa
perchè le immagini, mediate dai media,
aggregano ed omologano, perché tutti vivono
le stesse realtà derealizzate in cui il kitsch, il piacere superficiale,
l’effetto, ci vengono ammanniti come l’optimum tra tutti i possibili
modelli di vita e nemmeno l’arte si salva dall’effetto speciale.
Si ha sempre più spesso la sensazione che le opere d’arte
contemporanee siano la parodia kitsch dell’arte “alta” proprio perchè
incapaci di esprimere valori formali e contenutistici acconci.
A ciò si aggiunga la ibridazione dei linguaggi contemporanei per cui tra
testo ed interpretazione non sussiste differenza, onde l’allargamento a
dismisura della interpretazione appunto perché l’opera è del fruitore. E
questo permette di dissolvere i valori contenutistici e formali a puro
accidente, cioè a nulla, a semplice effetto più o meno volgare.
Questi alcuni aspetti che saltano evidenti agli occhi nella nostra
contemporaneità e danno alcune risposte alla prima domanda kantiana:
Cosa posso conoscere?
In merito all’altra domanda: Che cosa debbo fare? Si può certo dire che
non si può fare tabula rasa della cultura umanistica né si può fermare il
progresso tecnologico e scientifico e guai se lo si facesse. Allora bisogna
prendere co-scienza di alcuni fattori già delineati e che in sintesi
riprendiamo.
a) L’allargamento del campo visivo dovuto alla globalizzazione non ha
comportato forse una espansione della conoscenza ma una sua
estetizzazione, che della cifra del kitsch ha fatto la sua distinzione. b) La
libertà e l’individualità del soggetto e quindi anche dell’artista sono
fortemente influenzati dal “Potentato del superfluo” che, per acquisire
una forza sempre maggiore, deve incidere sui processi mentali del
74
pubblico attraverso il martellamento delle immagini che rendono nullo il
“valore” del contenuto, mentre il consumo deve coinvolgere tutto e
tutti: la vita, il costume, l’etica, la politica senza che si possa esercitare
alcuna facoltà critica al sistema, essendo questo mondo il migliore tra i
possibili. c) Il mondo è sostanzialmente estraneo al soggetto che non
può modificarlo. Dall’altra parte il mondo attuale ci offre una realtà
derealizzata che tutto sommato offrendo dei modelli di vita e di
comportamento lo rende sicuro e protetto e l’arte ne risente gli effetti.
d) Il “Potentato del superfluo” si mostra tollerante nei confronti dell’arte,
che benché superflua al concetto di produttività, se inglobata nel
sistema può dare i suoi frutti allorché l’opera assurge a feticcio. Allora, e
solo allora, il valore pecuniario vanifica ogni affermazione estetica. Ma
questo per il “Potentato del superfluo” è ininfluente.
Tenuti grosso modo presenti questi principi, cosa si può fare? L’unica
risposta possibile è: innestare il presente sul passato. Ma prima bisogna
azzerare l’opera, nullificarla. Anche questo è un assunto già sostenuto
da Nietzsche quando diceva che per liberarsi di Dio, bisognava prima
liberarsi della grammatica. Ma per liberarsi della grammatica bisogna
azzerarla prima e nullificarla poi. Solo allora si può introdurre l’ultimo
interrogativo kantiano: Che cosa posso sperare?
Sperare che dopo l’annullamento del linguaggio dell’arte, il nostro
“vissuto”, in quanto dimora abituale, diventi tensione verso la
distruzione di abitudini, schemi e metafore, e nel buio illuminante della
co-scienza ri-senta la necessità di recuperare l’ordine artistico
dell’opera d’arte, che, contrariamente all’ordine estetico, si fonda
sull’oggettivazione dell’opera stessa che resiste all’usura del tempo
edax, e mai così edax come quello contemporaneo, e insieme essa ri-
conquisti la sua dimensione di perennità, aspirazione costante
dell’uomo di vivere dopo la morte.
Infatti, se l’opera d’arte è un puro accidente estetico, essa è svuotata di
contenuto, è teatralità vuota, poiché non implica esperienza valutativa,
e se non c’è valutazione non se ne spiega l’utilità.
Quindi, sarebbe necessario, oggi come non mai, ristabilire, ove ancora
possibile, i suoi compiti, per ridisegnare la possibilità di confine tra arte
ed esteticità diffusa.
In questo contesto il Ri-Quadro privo del piano pittorico può assurgere
ad icona che pone infiniti interrogativi non ultimo quello di ri-definire lo
statuto ontologico dell’arte.
Le sfilate di moda, si sente dire da molti artisti, sono più belle delle
opere d’arte contemporanea. Questa stessa frase mette in evidenza
come lo spettacolo dell’effimero elimini ogni distinzione, ogni differenza
tra i concetti e le cose.

75
Se il concetto deve essere
recuperato ed è altro rispetto alle
cose pur contenendole, una cosa è
certa in ogni caso, l’opera d’arte,
che sia tale, ha la funzione di
interpretare il presente
assimilandone i codici linguistici
condivisi ma nello stesso tempo
scardinandoli dall’interno, come
sempre è stato fatto, per dare una
nuova visione della realtà.
In una società dominata dalla
velocità dei mezzi di comunicazione cui l’uomo deve adeguarsi, in una
società dominata dall’apparire per essere, dominata dallo spettacolo
che ribalta il senso della realtà delle cose, l’elaborazione dello zeitgeist,
spirito del tempo, abbisogna di tempi lunghi, perché la mente, la psiche,
il corpo hanno ritmi biologici più lenti rispetto alla macchina. Il cervello
umano, nonostante si parli di homo tecnologicus, quanto a sviluppo
intracranico, è quello dell’homo sapiens ed il numero di informazioni
che può contenere è limitato, non per nulla opera la selezione delle
informazioni dimenticando.
Ri-flettere su queste problematiche implica il viaggio all’interno della
coscienza affinché l’artista si interroghi e trovi le risposte. Ma ciò può
avvenire nella sosta, nel non luogo che tutti i luoghi comprende, nel
nulla, nel regno dei morti di Gino Cilio come già di Enea o Ulisse.
Se ciò non è possibile, o peggio se questa “operazione” si considera
superficiale ed esornativa ai fini di un ripensamento della funzione
dell’arte in un momento in cui essa sta in bilico tra conservazione ed
annichilimento, lasciamo che il kitsch, la quantità, sommerga tutti in un
edonismo fine a se stesso, ma almeno che se ne abbia consapevolezza,
dice Cilio.
In questa situazione, sembra avverarsi ed inverarsi il pensiero di
Duchamp a proposito dei suoi readymade, quando sosteneva che era
assolutamente necessario liberarsi del gusto dell’artista. Per far ciò
prelevava un oggetto quotidiano con un atto di scelta soggettiva e vi
attribuiva valore estetico. In tal modo, eclissando il valore d’uso,
attribuiva al readymade valore di opera d’arte. Il suo era un gesto
degno del miglior Dada.
Onde la tautologia di Tristan Tzara per cui è arte tutto quello che gli
uomini chiamano arte.
Essa esprime molto bene il pensiero duchampiano ed è profetica se
riferita ai giorni nostri. Infatti oggi basta esibire qualunque oggetto,
opportunamente pubblicizzato, per farlo diventare opera, le stesse
trouvaille più o meno originali fanno gridare più di un critico, direttore di
riviste, curatore creativo ecc… al miracolo dell’apparizione dell’opera
d’arte.
76
Dunque anche per Cilio diventa arte l’esibizione del vuoto, del “Ri-
Quadro” privo di superficie.
Il nichilismo ha la sua espressione artistica alternativa al concetto di
readymade.
Cilio con questa operazione non ha fatto altro che riflettere sulle
condizioni per cui l’artista produce un’opera, sull’appiattimento che
comporta omologazione, infatti spessissimo un’opera non si differenzia
poi tanto da quella prodotta da un altro artista, sul sistema
monoculturale imposto dal “Potentato del Superfluo”, sul diffuso
concetto di edonismo che livella tutto e tutti, sull’indifferenza che si
prova davanti al differente, come avviene per le guerre “fruite” in
televisione, ecc… Allora, alla luce di quanto sopra, l’ azzeramento
dell’opera diventa un fatto choc, come lo fu a suo tempo “Fontaine de
vie” di Duchamp, per la quale però rimaneva sempre l’artista che col
suo gesto significava l’oggetto di uso comune come opera d’arte,
mentre in questa operazione di Cilio l’artista scompare come era già
nelle intenzioni di un Piero Manzoni o di Klein quando si lanciava nel
vuoto a simboleggiare il suicidio dell’artista.
Tutto questo comporta evidentemente un’ennesima eclissi dell’arte, se
per opera d’arte intendiamo quel prodotto della creatività umana che è
fenomeno atemporale e senza confini territoriali generata dall’uomo
“per” l’uomo. Essa ha un unico dovere: produrre spaesamento,
unheimlichkeit, (heim: casa), produrre, cioè, quella coloritura affettiva
che fa sentire il riguardante, il lettore, l’ascoltatore come fuori casa,
fuori dal paesaggio conosciuto.
Vale a dire, l’opera deve mostrare l’altro lato delle cose, quello non
usuale, quello che sta sotto gli occhi ma non si vede, cioè il non-essere
della realtà, il nulla, come fece Duchamp con i readymade o Gino Cilio
col “Ri-Quadro” vuoto di superficie
“….ogni opera d’arte (non necessariamente “cosale”: rientrerebbero qui
anche il poema, la performance, l’ installazione) consiste in una viva
contraddizione, appositamente prodotta: si tratta di prendere e
apportare saggiamente una serie di misure affinché, per suo tramite,
compaia l’incommensurabile, cioè di fare in modo che venga alla
superficie (e pertanto in forma limitata e ben composta) il fondo
illimitato ed indisponibile, di permettere che appaia fra gli uomini quello
che, senza questa prudente disposizione e fattura, si “mostrerebbe”
soltanto come il negro orrore del caso, quello che gli antichi chiamavano
moira e heimarmène: cieco destino.” (Felix Duque, L’arte pubblica nello
spazio politico, in Estetica, 1/2004, ed. Il Melangolo, pag. 6, trad. A.
Bertinetto).
Dunque, il “Ri-Quadro” vuoto di superficie non è frutto del caso in Gino
B. Cilio, né di cieco destino, ma di un percorso artistico ed esistenziale
molto complesso, come in precedenza delineato, cosicchè quando
osserviamo quel “Ri-Quadro” insieme al titolo 1+ Uno, subiamo un
senso di spaesamento, appunto perché simbolicamente il “quadro” ha
77
rappresentato un supporto su cui si è sempre inscritta una superficie
che anche in forma minimale o tautologica ha indicato un modo di
“fare” arte.
In cosa consista l’ Unheimlichkeit del Ri-Quadro, ciascuno lo può
interpretare a suo modo.
A noi piace chiudere queste nostre proposte di eclissi dell’opera d’arte
con i seguenti versi tratti dalla lirica “Pane e vino” di Holderlin “…Ma
spesso penso/ che è meglio dormire che essere senza compagni/ e
attendere. Ma tu dici che sono sacri i sacerdoti del Dio del vino / che
migrano di terra in terra in una sacra notte.”
La momentanea notte dell’arte? La sacralità del “Ri-Quadro”?

ECLISSI DELLA CRITICA

Nel momento in cui un artista, con una operazione aperta all’azzardo,


riduce “A-Zero” la sua opera prima e la “nullifica” poi, nel momento in
cui Gino Cilio stesso esce dal palcoscenico assai affollato dell’arte,
perché il suo gesto “conformativo” di un’opera qualsivoglia ha perso di
senso, quale la funzione della critica?
Osservando il “Ri-Quadro” vuoto di superficie ed il titolo “1 + Uno” ma il
secondo elemento manca, per cui, in realtà è meno Uno e quindi Zero,
nulla, molte domande si pongono riguardanti la critica d’arte, se un
siffatto gesto eclissa l’ opera e l’artista che di quella è artefice.
A questo punto l’operazione rende necessario un momento di
riflessione, come già per l’eclissi dell’arte, sulla validità della critica
nell’attuale momento di crisi.
L’opera d’arte in un non lontano passato aveva rappresentato una
lettura complessa dello zeitgeist, spirito del tempo. Ora, da quasi un
secolo a questa parte, essa è diventata “forma” rifatta non sul mondo,
ma sulle “forme” divenute oggi formule più o meno trite, per cui ogni
trouvaille spesso è elevata a rango di opera d’arte grazie alla “lettura”
di un critico che agisce, come sostiene Bonito Oliva, “come un
“cacciatore”, un elaboratore di idee che si affianca all’artista con
funzione creativa, senza con questo identificarsi in un unico movimento
artistico”.
Sulla funzione del critico “cacciatore” e poi elaboratore di idee che “si
affianca all’artista con funzione creativa” si può avanzare qualche
riserva, essendo questo un concetto ormai trito da Pater in poi.
78
Semmai il critico non deve “affiancarsi” all’artista ma all’opera d’arte
che se, tra l’altro, è tale non ha nessuna necessità di elaborazione (da
labor, lavoro, ed ex, fuori) aggiunta, pertanto la funzione del critico
dovrebbe essere quella di “intelligere” (da “legere”, raccogliere,
scegliere, intendere e “intus”, dentro o “inter”, tra) l’opera per
trasmettere questa sua intel-ligenza di quella, tramite una con-
versazione, ad un possibile astante che, a corto di codici linguistici
selettivi di questa o quella corrente o stile, possa arricchire le sue
cognizioni.
Solo in questo caso l’opera del critico può avere una sua validità in
quanto capacità teorica in grado di decrittare con cognizione di causa
qualsivoglia opera.
Mentre, si può essere d’accordo, nelle linee generali, sull’ identificarsi
del critico in quella butter fly che vola di movimento in movimento, di
artista in artista, per constatare la validità delle proposte, per farsi
mediatore tra colui che mette in forma un’opera qualsivoglia e il
pubblico.
Inoltre il vero elaboratore di idee non è il critico ma l’artista, se come
sostiene Musil ne “Il giovane Torless”: “Ogni grande scoperta si compie
solo nella metà del cerchio illuminato della mente cosciente, per l’altra
metà nell’oscuro recesso del nostro essere più interiore”.
Da quanto sopra si comprende che la funzione o meglio l’azione
dell’artista è “circolare”, dal sé alla realtà e viceversa, perché le
scoperte dell’arte sono sotto il duplice aspetto della razionalià e
dell’irrazionalità e il compito dell’artista è, come sostiene Franco Loi, “di
chiamare a presenza lo spirito che aleggia sul mondo”, cioè lo spirito del
tempo.
In altre parole, il gesto formativo dell’artista compendia in sé il suo
pensiero, i costumi, i sentimenti, le aspirazioni, la moralità, l’artisticità
di un soggetto che realizza delle forme, delle figure che, a loro volta,
diventano stile, che arricchisce il linguaggio di una determinata epoca.
Pertanto qualunque opera d’arte è il momento terminale di un processo
di figurazione e simbolizzazione tipica dello zeitgeist.
Per comprendere ed interpretare la forma è necessario da parte di un
teorico ripercorrere il processo formativo, ripercorrere cioè la concreta
personalità dell’artista che ha espresso quella forma secondo un
determinato stile.
Infatti, se anche il critico elabora idee non è più l’opera che “parla”, ma
il critico: artifex additus artificii, concetto vecchio di oltre un secolo, di
dannunziana memoria, a sua volta mutuato da Pater e Wilde.
Sarebbe opportuno, a questo punto, prendere coscienza che, nel
rivolgimento totale di idee e principi, canoni e precetti, propri della
nostra epoca, il critico fosse un po’ più “moderno”, più a la page con i
tempi.

79
Al di là di ogni intenzione polemica, le parole di Achille
Bonito Oliva, presi ad esempio di una generazione di
critici “militanti”, mettono in evidenza come oggi
l’artista abbia più che altro funzione inventiva che
attraverso le parole del critico può trasformarsi in
funzione creativa. Allora, stante così le cose è
necessario sgomberare il campo da qualche malinteso
ed avanzare alla critica qualche “critica” che poggi su
alcuni punti che qui di seguito si delineeranno, perché
scaturiti da una riflessione che l’uomo Cilio ha messo in
campo col suo “A-Zero” dell’opera d’arte e
conseguentemente dell’artista.
La figura del critico d’arte, che a nostro avviso sarebbe meglio
indicare come teorico o meglio ancora tecnico dell’opera d’arte, distinto
dallo storico dell’arte, è relativamente recente.
Risale alla seconda metà dell’ Ottocento ed indicava, allora, colui che
era esperto nella “lettura” dell’opera d’arte ed era figura
profondamente diversa dall’intenditore.
Se è lecito un paragone, l’intenditore era come il nostro medico di
famiglia, appunto perché aveva familiarità con l’espressione artistica,
mentre il critico si potrebbe apparentare ai nostri specialisti, in quanto
aveva un occhio particolarmente esperto nella valutazione ed
attribuzione di un’opera a causa di un’esperienza ed una osservazione
avvenuta a contatto diretto con le opere e per questo si distingueva
dallo storico, la cui esperienza era maturata prima sui testi e poi sulle
opere, quindi era, come dire, più astratta.
In verità, oggi, una distinzione netta non è più possibile operare, e ben
lo sapeva Lionello Venturi quando sosteneva che: “Una vera critica
d’arte, per essere una vera storia dell’arte, sottintende una sensibilità
individuale, ma deve andare oltre, raggiungere un’oggettività che le
permetta di sollevarsi al grado della storia.” ( Venturi L., Teoria e storia
della critica, in Saggi di critica, ed. Bocca, Roma 1956, pag. 206.).
Comunque sia, la rilevanza del critico d’arte, nella seconda metà
dell’Ottocento, aumenta sempre di più a causa dell’acutezza delle sue
osservazioni, rispetto allo storico.
(Zeri fu, forse, in questo contesto, l’ultimo dei grandi esperti.)
Infatti, col passare del tempo, la sua immagine, rilevanza e funzioni si
modificano, già Wilde, sul finire del secolo, sosteneva che la facoltà
critica è parte integrante di quella creativa, e D’Annunzio parlava di
artifex additus artificii.
Ma, se fino ai primi decenni del Novecento, quanto sopra era suffragato
nei critici da innegabili competenze tanto da rendere trascurabili le
differenze sta storico e critico d’arte, a partire già dagli anni cinquanta
del nostro secolo la situazione si modifica.
Lo storico dell’arte si rivolge ad un pubblico selezionato per
competenza, mentre il critico, che si preferisce sempre indicare come
80
teorico dell’opera d’arte, si rivolge ad un pubblico più vasto che
comprende, insieme agli intenditori, una moltitudine di spettatori
socialmente in vista ed economicamente benestante e potenzialmente
acquirente, ma sostanzialmente impreparata nel valutare la validità di
un’opera, proprio perché il riguardante è portatore di competenze altre.
Il suo occhio, però, è scaltrito poiché i mezzi di comunicazione e la
pubblicità in particolare offrono dei modelli estetici altamente
accattivanti.
In questo contesto l’opera del critico, la sua competenza, il suo
“occhio”, le sue conoscenze, l’obiettività ed imparzialità diventano
criteri di valutazione e quindi mezzi per mettere in condizione lo
spettatore di recepire i messaggi che l’opera gli invia.
Ma il problema nasce in merito all’oggettività ed imparzialità del critico
che deve avere a monte un sistema di principi dichiarati sin dall’inizio,
vale a dire delle metodologie di indagine coerenti e rigorose.
Per cui, si è contrari al concetto di critica a posteriori e favorevoli al
concetto di critica a priori, per cui l’intenditore o semplicemente quella
che viene chiamata, con vocabolo assai abusato, massa che è poi il
possibile acquirente in un sistema di mercato, possa conoscere sin
dall’inizio le dinamiche, i principi, i criteri che il teorico dell’opera
metterà in campo nell’esprimere dei giudizi su di essa, in modo da
ridurre al minimo l’arbitrarietà della valutazione.
Se la nostra civiltà tecnologica esige precisione ed obiettività nel
linguaggio, perché la critica va contro corrente? Evidentemente perché
non è al passo con i tempi, è obsoleta e quindi pleonastica.
Al fine di renderla più puntuale sono sorte, è vero, delle scuole come la
gestaltica, la formalistica, l’iconologica, la sociologica, ed altre.
Ma, essendo queste tutte parziali, non obbediscono fino in fondo a quei
criteri di oggettività che si pretende debba avere la critica, onde una
prima ipotesi di eclissi della stessa, intendendo la dizione eclissi nel
senso specificato per l’opera d’arte.
La situazione si complica nella temperie culturale contemporanea,
perché, oggi, nessun critico segue una scuola, per quanto parziale,
perché non ci sono più maestri, vale a dire sono tutti maestri, onde la
confusione babelica delle interpretazioni, con disappunto degli
spettatori che, smarriti e confusi davanti a tante elucubrazioni mentali
del teorico, disertano le mostre e non acquistano più opere.
Questa situazione prende l’abbrivio tra gli anni settanta e ottanta
quando emerge la figura dell’onnipotente “critico militante” che porta
alle estreme conseguenze l’intuizione, condivisibile o meno, di
dannunziana memoria di artifex additus artificii, di cui s’è detto, per cui
il teorico dell’opera si sostituisce all’artista inventando nuove o
rivestendo di nuovo vecchie formule adeguatamente pubblicizzate.
Oggi, la figura del teorico onnipresente, onnisciente, onnivoro, comincia
a manifestare più di un segno di saturazione nelle co-scienze più
avvedute.
81
Già nel 1958, Fortunato Bellonzi in “L’arte nel secolo della tecnica” così
recitava: “Si vedano le ambiziose “poetiche” contemporanee, gli
abbondanti ragionamenti sull’arte da parte degli artisti medesimi, la
fiorentissima letteratura critica che spesso supera di gran lunga in
virtuosismo verbale il valore intrinseco delle opere prese a soggetto di
studio”.
( Bellonzi F., L’arte nel secolo della tecnica, Ed. De Luca, Roma, 1958,
pag. 32.)
Da allora è passato quasi mezzo secolo, ma le parole di Bellonzi sono
più che mai attuali perché la figura del teorico si è enfatizzata, enfiata
al punto che la nostra epoca è definita: “Civiltà della critica”.
Nel momento in cui questa cresce a dismisura e non si collega più con
l’opera, non si può neanche parlare di artefice aggiunto dell’opera, ma
solo di artificio avulso dall’opera, divenuta trascurabile escamotage per
frasi e concetti fine a se stessi.
In questo contesto, l’operato del teorico quale possibilità di fruizione di
un’opera d’arte può fornire ad un pubblico?
L’interrogazione è retorica e mette in evidenza come, oggi, la sua
parola sia esornativa rispetto all’opera, come lo fu già per Malevic di
“Quadrato bianco su foglio bianco”, per cui l’arte trapassò nella
metafisica, o per Rodcenko delle “Tre tele monocrome”, per cui l’arte fu
ridotta a tautologia o per Duchamp quando, decontestualizzando un
oggetto, di fatto azzerò l’operato dell’artista e conseguentemente della
critica, o come, in un contesto diverso, lo è per Cilio che, tolta la
superficie dal supporto prima e nullificata l’opera poi, rende, di
conseguenza, superflua la critica.
Questa una prima ipotesi di eclissi della stessa.
Un’altra ipotesi potrebbe sembrare paradossale, ma in realtà non lo
è.
Essa si riferisce all’assunto per cui l’opera d’arte non è forma di
conoscenza razionale, ma forma di conoscenza esperienziale
esclusivamente interiore.
Se consideriamo un’opera d’arte come parte del mondo, come “cosa”
tra le cose, evidenziamo come il mondo stia dentro di lei, come sta
dentro di noi.
Solo che noi prigionieri come siamo di ciò che conosciamo, “non”
vediamo ciò che non “sappiamo”.
L’opera d’arte, pertanto, presentifica l’attimo totalizzante della
creatività che si manifesta attraverso mezzi contingenti, colore, massa,
superficie, suono, parola ecc… e manifesta un sentire fuori dallo spazio
e dal tempo, ma che tuttavia nello spazio e nel tempo si attualizza
attraverso una morphè, forma sensibile. Essa custodisce il suo segreto:
l’èidos, forma intelligibile.

82
Penetrare nell’èidos è difficile, richiede sforzo, per alleggerire il quale ci
si serve di decodificazioni affidati alla critica, alla storia, all’estetica,
alla filosofia, all’antropologia, alla semiotica, ecc...
La loro funzione "reale" è quella di creare gli strumenti per “capire”
l’opera, non per “vederla”, cioè “sentirla”.
Tutti questi mezzi di decodificazione sono estranei all’ “esserci”
dell’opera, che è quella di essere un eterno presente che riveli l’attimo
della creatività, ribadiamo.
Fino ad oggi, l’opera d’arte è diventata tale solo ed esclusivamente
dopo una valutazione post factum e ciò ha sempre implicato
l’applicazione, come detto sopra, di determinati canoni di giudizio
estetico e di gusto espressi da un soggetto, vuoi critico dell’arte,
storico, intenditore, ecc….
Ma, nel momento in cui il soggetto compie una valutazione, attraverso
un suo processo logico, il ragionamento è soggettivo e vale solo per lui.
Il ragionamento, infatti, per essere oggettivo e quindi assoluto deve
andare fuori dalla logica soggettiva e perdere il suo carattere
sillogizzante, deve essere a-logico, deve guardare all’attimo che ferma
qualunque accadere e lo mostra.
E’ questa "essenza" del mostrare che si deve cogliere, ogni parola è
d’impaccio.
In altri termini, nell’opera d’arte bisogna cogliere ciò che sta al di là del
pensiero senza usare il pensiero e l’intelligenza classificante. Bisogna
scendere nel "silenzio" e nell’ "abisso" dell’opera, toccare il suo "centro"
senza intermediazione alcuna.
Se consideriamo l’opera d’arte come uno specchio, il soggetto che
guarda si trova davanti allo specchio ad una distanza tale che gli
permette la visione perché decodifica l’opera secondo una sua
personale ermeneutica. E’ necessario annullare la distanza, i codici,
perché ogni distanza ci distoglie dall’opera.
Il nostro compito è quello di penetrare, di entrare nello specchio,
eliminare la "distanza", per "sentire" l’opera come totalità e, pertanto,
non totalità fuori di noi ma dentro di noi, non totalità fuori da lei ma
dentro di lei, in lei.
Ciò può avvenire solo abdicando, come dicevamo, ad ogni
sillogizzazione che possa "spiegare" l’opera che invece deve essere
recepita come con-templa-azione sim-patetica.
Se l’opera è come un tempio che contiene l’essenza della forma
intelligibile, la nostra azione è quella di stabilire con “lei” un rapporto
sim-patetico, che ci permetta di “sentire” le stesse affezioni che l’opera
contiene.
Una volta che noi siamo entrati in con-templ-azione sim-patetica
avverrà che il nostro “sentire” coinciderà col “sentire” dell’opera.
Le due spiritualità, quella dell’opera e quella dello spettatore, sono
entrate in comunione.

83
E’ in questo preciso momento che ogni pensiero sillogizzante deve
essere abolito.
Se usassimo la razionalità, non faremmo altro che storicizzare l’opera e
quindi la coglieremmo solo al passato.
In altri termini, l’opera d’arte deve essere recepita nell’attimo in cui il
segno precede il significato.
Solo in questo modo l’astante potrà fare un’esperienza totale e
totalizzante dell’opera.
Per chiarire meglio il concetto, si può portare un esempio.
Mi trovo sulla strada che mi conduce a Palermo. Il Monte Pellegrino
esiste là da sempre, ma, svoltata la curva, mi si presenta in tutta la sua
imponenza e nudità, in modo diretto ed immediato, si insinua
nell’anima, negli occhi, nei sensi, nella psiche. Respiro il respiro del
Monte, siamo per un attimo in simbiosi, viviamo dell’unica vita che
scorre nel mondo, viviamo di un’unica essenza.
A questo punto qual è la mia co-scienza del Monte Pellegrino? Nulla.
Tuttavia la mia co-noscenza è stata
totalizzante.
Solo in un secondo momento posso indagare
il fenomeno Monte Pellegrino dal punto di
vista morfologico, geologico, antropologico o
altro.
In questa seconda accezione il fenomeno
Monte Pellegrino diventa conoscenza
razionale, nel primo è esperienza fonda e
profonda e quindi conoscenza totalizzante.
Al vedere “come” sarà subentrato il vedere
“così”, come sostenuto da Wittgenstein.
Dunque la tecnica nel fruire un’opera è
quella del “levare” nozioni su nozioni, solo in questo modo l’opera può
rimanere eterna, perché eternamente rinnovata nel “sentire” del
riguardante in quanto costui è riuscito a spogliarsi di ogni
condizionamento, allora in questo contesto si può dire che l’opera “è”
del fruitore.
Ecco, a nostro parere, in che cosa consiste l’ “eternità” dell’opera
d’arte.
Questa attrazione, naturalmente, non avverrà tout court, ma per gradi
che comporteranno il costante affinamento del sentire soggettivo,
finchè la collimazione avverrà spontaneamente e senza sforzo.
In questo contesto, è chiaro che la critica non ha senso, semmai ha
senso solo quando considera l’opera d’arte come fenomeno da
storicizzare, nel qual caso diventa fatto sistematico, sostanzialmente
estraneo alla sua essenza.
Il critico passionè o il razionale non hanno senso, come non lo hanno le
tante ipotesi di morte della critica, per cui può ben sostenere Achille
Bonito Oliva, in contrasto con quanto detto in precedenza,: “Il critico
84
d’arte deve partire da un nuovo assunto, quello della realtà che lo
deresponsabilizza e lo dimette del suo ruolo di spegnitore di incendi. Gli
restano il ruolo del notaio che testimonia a memoria futura, che
moralisticamente pensa di svolgere un lavoro edificante, oppure quello
di chi accetta la leggerezza del proprio compito, l’inutilità del proprio
sguardo”.
(Bonito Oliva A., Il sogno dell’arte, Spirali Edizioni, Milano, 1981,
pag.20.)
E se lo sguardo del teorico dell’opera d’arte è inutile perché affannarsi?
Se non partecipa con l’artista al progetto di progresso culturale la sua
presenza è davvero superflua.
Nel momento in cui Malevic presenta “Quadrato bianco su fondo
bianco” la critica si limita a dire che l’artista introduce nell’arte la
metafisica, di conseguenza il suo compito già da allora era esaurito.
A maggior ragione lo è, oggi, nel momento in cui anche la tela bianca
viene tolta da Gino Cilio o addirittura quando anche il supporto è
eliminato e l’opera vanificata insieme all’artista.
Il compito di interpretarla è esaurito, non è più del critico, che non ha
neanche la funzione di notaio, perché non c’è alcuna transazione da
compiere tra opera ed astante. Semmai, potrebbe entrare in gioco forse
il filosofo, poiché sul Nulla la metafisica si è sempre cimentata dai
presocratici ai tragici greci, ai sofisti, passando per l’Apocalisse, Plotino,
Eckart, Montaigne fino ad Heiddeger e Nietzsche, come ha
argomentato, con grande originalità di contenuti, Sergio Givone nella
sua “Storia del Nulla” per le edizioni Laterza e a cui rimandiamo i teorici
dell’opera d’arte per un aspetto della lettura dell’operazione “A-Zero”.
Una terza ipotesi di eclissi della critica riguarda i codici linguistici.
In questa nostra società “retorizzata” in cui le parole dilagano, si
enfatizzano, rimbalzano dai mass media alle nostre orecchie ove si
cristallizzano, fossilizzano e si svuotano di senso, l’espressione artistica
visiva significante ed altamente poetica può essere tradotta e “messa
in prosa” dal teorico dell’opera d’arte? O semplicemente “messa in
prosa”?
Al di là di che cosa si intenda per opera d’arte, intanto bisogna dire che
essa si serve di un sistema di segni linguistici condivisi.
A loro volta i segni linguistici hanno due funzioni: la poetica e la
comunicativa. La prima è propria delle opere d’arte in genere, la
seconda è afferente ogni altro genere di comunicazione, dalla scientifica
alla tecnologica, ai segnali stradali, ecc… ed è a sua volta regolata da
sottofunzioni.
Ciò che distingue il linguaggio poetico dal comunicativo è la funzione
emotiva del primo, anche se è pur vero che un linguaggio a funzione
semplicemente comunicativa può stimolare delle emozioni nel ricevente
a seconda dello stato d’animo di questi, ma in questo caso lo standard
linguistico rimane immutato.

85
Ciò non avviene nelle opere che esprimono un linguaggio a funzione
poetica.
Ora, la “funzione comunicativa” è caratterizzata dall’automaticità del
discorso, in quanto diretta verso gli oggetti o verso i significati, come
quando qualcuno comunica qualcosa a qualcun altro oppure comunica
concetti scientifici o tecnici.
Invece la “funzione poetica” opera sui “segni” e ne modifica, quando
non ne scardina, il nesso significante-
significato.
Lo schema testè indicato non è
simmetrico perché la funzione
comunicativa presenta delle distinzioni o
delle sottofunzioni come quella emotiva,
conativa, referenziale, ecc… che tendono
tutte a diventare automatiche, soprattutto
nella “postmodernità”, allorché i mezzi di
comunicazione di massa tendono a far sì
che i discorsi si automatizzino e pertanto
l’uso di un vocabolario articolato di lemmi
tende ad essere frenato.
Dall’altra , invece, il linguaggio a funzione poetica si basa su un uso
arbitrario di segni linguistici il cui “rimando semantico non si consuma
nel riferimento al denotatum, ma si arricchisce continuamente ogni
qualvolta sia fruito godendo il suo insostituibile incorporarsi nel
materiale in cui si struttura; il significato rimbalza continuamente sul
significante e si arricchisce di nuovi echi.” Come sostiene Umberto Eco
in “Opera aperta” ( Eco U.,Opera aperta, tascabili Bompiani, 2^
edizione, 1976, pag. 84)
La distinzione di cui sopra è riferita al linguaggio poetico, ma è
necessario trasporla anche sul piano visivo, perché il funzionamento dei
codici sia visivi che linguistici è uguale.
Esiste una messe infinita di opere che ripetono eternamente gli stessi
stilemi che non riescono a scardinare i nessi linguistici. In questo caso
essi hanno funzione comunicativa e restano nell’ambito di un
“artigianato” più o meno raffinato.
Non è detto, però, che questo tipo di artigiano non possa, aiutato dalla
thècne, trapassare nel regno dell’arte, allorchè riesca ad utilizzare i
segni in modo tale da scardinarne il sistema e a suscitare profonde
emozioni.
Lo stesso Federico Zeri sosteneva che, allorché c’è un possesso
pressocchè totale dei mezzi di espressione, è più facile essere un
grande artista e portava l’esempio di Rubens che dipingeva con la
stessa facilità con cui le donne facevano, allora, la calza.
Infatti l’opera visiva, come la poetica o la musicale sono un “campo di
stimoli” che permettono allo spettatore di cogliere il denotatum nel suo
insieme.
86
Questo sarà, poi, connotato in base alle esperienze, ricordi, studi del
riguardante in un complesso di rimandi che si arricchisce sempre più,
ma si blocca solo quando non si ricevono più stimoli, vuoi perché il
gusto del riguardante col passare del tempo è
mutato, vuoi perché l’epoca in cui si vive non
rispecchia più determinati valori estetici, vuoi
perché, a volte, non si riesce più a decodificare
determinati segni iconografici, vuoi per altro.
Quanto sopra per dire, ancora una volta, che
un’opera d’arte visiva, come poetica o musicale si
serve di un linguaggio, di un sistema di segni, cioè, a
funzione altamente emotiva e quindi come tradizionalmente si indica “a
funzione poetica”.
Ora, nel momento in cui il teorico dell’opera d’arte si propone di
decrittarla, giocoforza deve “tradurre” da un linguaggio a funzione
poetica in un linguaggio a funzione comunicativa che mai potrà dare la
dimensione del primo, se non nella sua totalità almeno nella sua
complessità, quindi inutile risulta la critica.
Le cose si complicano ancora se da un tipo di linguaggio espressivo a
funzione poetica, come quello delle arti visive, che usa un certo sistema
di codici, si passa ad un altro tipo di linguaggio espressivo a funzione
comunicativa che usa un altro sistema di codici, disomogeneo rispetto
al primo. Ne consegue che per il secondo sarà difficile se non
impossibile dare una lettura anche superficiale di un’opera.
Magritte ha più volte messo in evidenza (vedi, ad esempio, l’opera Ceci
n’ est pas una pipe) come l’arte abbia un codice linguistico diverso da
quello della poesia e della scrittura.
Queste ultime, per qualificarsi come tali, hanno bisogno di “nominare”
le cose, l’arte non ce l’ha, rappresenta semplicemente le cose, che,
attraverso le loro relazioni, hanno la capacità e la possibilità di caricarsi
di ulteriori significati. “Quanto più spinta è la decontestualizzazione
dell’oggetto, tanto maggiore è l’ampiezza disorientante dell’area
semantica cui rimanda la sua apparizione” ….. “La poesia ha uno
statuto diverso da quello della pittura. La scrittura è costretta a dire, a
nominare. Per essa la rappresentazione implica sempre, in qualche
modo, una verbalizzazione anche quando voglia esprimere
l’inesprimibile”. (Cagliano S., Uomini e mostri sulla rivista Terzo Occhio,
marzo 2004, pag. 6).
Ed ancora “Se l’arte e in particolare la pittura hanno, come il sogno, la
possibilità di ricorrere ad un alfabeto iconografico/simbolico…la scrittura
sembra avere solo la possibilità di girarvi attorno, di circoscrivere
l’indicibile, facendolo affiorare come un vuoto, come un’assenza.” (o.c.
pag. 7 e seg.).
Le cose, ovviamente si complicano se l’ “alfabeto” iconografico riguarda
l’arte informale.

87
La poesia visiva e prima ancora le famose “parole in libertà” di
Martinetti mettono in evidenza la “possibilità” di liberare la parola dalle
“pastoie logiche”, e non è detto che vi siano riuscite, cosa che in arte è
assolutamente possibile, anzi auspicabile!
A maggior chiarimento, ci sia permesso un esempio banale, ma non
banalizzante.
Se si deve pesare una mela, ci si serve di una bilancia o di un’altra mela
o di qualunque oggetto possa essere preso ad unità di misura, si
potrebbero anche tenere tra le mani i due oggetti in modo da affidare
all’ esperienza la differenza o l’uguaglianza di peso della mela rispetto
agli altri oggetti presi ad unità di misura.
In ogni caso e con qualsiasi modalità, in questa evenienza, si può
esprimere un giudizio.
Ma, se se si vuole pesare la mela con un metro, per quanti sforzi si
facciano, non si riuscirà mai, perché le due unità di misura sono
disomogenee.
Allo stesso modo, usando la parola, per spiegare fatti poetici, la nostra
fatica potrebbe avere senso perchè i due linguaggi si servono degli
stessi codici linguistici condivisi, anche se la funzione in ogni caso varia
e trapassa da poetica a comunicativa.
Ma, nel caso in cui si usa la parola per decrittare l’opera d’arte visiva,
non si riuscirà mai a rendere neanche parzialmente l’idea di un
linguaggio che pur avendo la stessa funzione, usa codici comunicativi
condivisi ma diversi: codice artistico-iconografico a funzione poetica
l’una, codice linguistico a funzione comunicativa l’altra. Essi sono,
dunque, irriducibili, anche perché, in ogni caso, la decodificazione non
aggiungerà mai nulla al valore di un’opera, proprio per la differenza
sostanziale tra linguaggio iconico e verbale.
Quest’ultimo, infatti, può arricchire i contenuti concettuali di un’opera
poetica attraverso l’analisi dei contenuti stessi, mentre per un’opera
iconica, o peggio ancora aniconica, l’analisi verbale non aggiunge o
toglie nulla al valore intrinseco dell’opera quando questa viene fruita da
uno spettatore, come più volte sostento anche da Gillo Dorfles.
Ne consegue l’inutilità, anzi l’impossibilità della critica, come
dimostra il Ri-Quadro di Gino Cilio cui è stata tolta la superficie sulla
quale non si può, dunque, inscrivere nessun codice visivo, sia iconico
che aniconico, o che è lo stesso vi sono inscritti tutti. Quindi se da una
parte la critica d’arte ha esaurito la sua funzione, dall’altra, per
opposizione, essa può avere valore totalizzante, perché ha tutte le
funzioni.
Infatti, in quest’ultimo caso, se dobbiamo dar credito al critico Achille
Bonito Oliva, ma non solo a lui perché sulla stessa scia sono tantissimi,
che il critico è “un elaboratore di idee che si affianca all’artista con
funzione creativa”, allora il “Ri-Quadro” vuoto di attività conformativa
gli lascia aperte tutte le possibili elaborazioni, perché sul nulla, sul
vuoto si può dire all’infinito, rappresentando essi il non-essere delle
88
cose che il critico elaboratore potrà portare all’essere spinto solo da un
accidentale segnale costituito da quattro listelli assemblati in forma di
Ri-Quadro, su cui tradizionalmente si stendeva una superficie.
Di conseguenza, paradossalmente, Cilio lavora per il teorico dell’opera
d’arte, che non è più artifex additus artificii, qualifica in ogni caso
limitante, ma assurge, per il gesto di un artista, come fece Duchamp
con il reademade, ad artifex tout court, non essendoci per lui neanche
la limitazione del riferirsi ad una attività conformativa.
Un’altra ipotesi di eclissi della critica prende l’abbrivio dal
presupposto che l’arte è esistita, esiste ed esisterà anche senza la
critica.
In “Il critico come artista” di Oscar Wilde, due personaggi Gilbert ed
Ernest discutono di critica d’arte, ad un certo punto Ernest dice: “Perché
l’artista dovrebbe essere disturbato dallo stridulo clamore della critica?
Perché coloro che non possono creare
dovrebbero arrogarsi la valutazione
dell’opera creativa? Che possono saperne?”
(Wilde O, Opere, a cura di M. D’Amico,
Milano, Mondadori, 1992, pag. 254)
In opposizione a questa tesi, Wilde, alla
fine, per bocca di Gilbert, sostiene che l’arte
e la critica sono due attività autonome e
quindi l’opera è una cosa, la critica un’altra.
Quest’ultima è impressione soggettiva per
la quale “Il significato di qualsiasi cosa bella
creata è nell’animo di colui che la guarda”.
(Wilde, op.cit. pag 314)
Questa visione della critica in parte mediata da Steiner, e da cui, per
motivi di coerenza, ci dissociamo, è in auge ancora oggi.
Anzi, con la figura del “critico militante” è stata portata alle estreme
conseguenze.
Infatti con il solito refrain che l’opera non è dell’artista ma del fruitore,
del regista, dell’esecutore….ci si può permettere di tutto.
Ma, una domanda si impone: perché il regista, il fruitore, l’esecutore
non producono in proprio opere?
Che senso ha una contaminazione che non restituisce nella sua
interezza il testo originale?
A nostro parere nessuna opera può essere stravolta, mistificandone il
senso che vi diede chi la compose.
Se gridiamo allo scandalo quando Papa Sisto fece mettere “le braghe”
agli Ignudi di Michelangelo, perché le stesse regole non dovrebbero
valere per tutti gli autori?
Se gridiamo allo scandalo quando tocchiamo i reperti archeologici per
rimetterli al loro posto essendo già in situ, perché lo possiamo fare con
le opere d’arte e di letteratura o di musica quando, con l’escamotage di
cui sopra, ne distorciamo il senso?
89
Quale senso ha un’opera se diventa pochade?
Nel respingere l’assunto di Wilde, sosteniamo che qualora volessimo
attribuire un senso alla figura del teorico dell’opera d’arte, questi, nel
conversare con lo spettatore per farsi mediatore tra lui e l’opera, deve
attenersi a dati quanto più oggettivi possibili.
Deve, cioè, osservare almeno alcuni
presupposti di fondo che mettano in
evidenza la struttura dell’opera per coglierne
gli aspetti semantici (eliminando ogni
elemento di disturbo, compresa la sua
fantasia e creatività) e correlarli tra loro.
Deve cogliere gli aspetti formali e stilistici, il
contesto storico in cui l’opera si produce,
nonché gli elementi extracontestuali e di
novità rispetto ai codici linguistici in uso. In
questo caso, allora, l’ opera del teorico dell’arte potrebbe giustificarsi.
In un sistema di controllo generalizzato (la privacy di nessun individuo
è rispettata, dalla fabbrica, alle banche, ad internet, ecc….) e di
comunicazione sempre più spettacolarizzata, la funzione del teorico
consapevole del proprio ruolo è fondamentale per rimettere al giusto
posto i tasselli del puzzle dell’apparato attorno a cui ruota l’arte.
Nel sistema produttivo contemporaneo non esiste più il concetto di
lavoro fisso, perché il teorico dell’opera d’arte ne deve avere uno a vita?
Al di là di qualunque intenzione polemica, si torni al concetto di
conversazione del critico o meglio del teorico dell’opera d’arte con lo
spettatore.
Il termine conversare deriva da latino “cum, insieme, con, e “vertere”,
girare, e quindi rivolgersi insieme, cioè intrattenersi con qualcuno su
qualcosa.
Pertanto, la conversazione del critico di per se stessa è ponte tra il
riguardante e l’opera d’arte in un sistema dinamico di comunicazione
che vede al vertice di un triangolo ipotetico: a) l’opera e ai lati opposti
b) l’astante ed c) il teorico dell’arte.
Da quanto sopra, risulta che il senso della conversazione non è statico,
come spesso avviene in presenza di un critico, performer di soliloqui
che nulla hanno a che spartire con l’opera, ma dinamico, perché c’è
crescita nel riguardante in quanto aggiunge alle sue conoscenze ciò che
ha appreso chiaramente in presenza dell’opera, vertice di congiunzione
tra insegnamento (teorico dell’opera d’arte) ed apprendimento
(fruitore). Quest’ ultimo, al di là del settore in cui si apprende, è stato ed
è il fine di ogni attività umana.
L’opera del teorico diventa, secondo la visuale testè indicata,
connessione tra i suoi saperi e quelli del riguardante, in questo modo la
“con-versazione” si sarà tramutata in comprensione, per cui lo
spettatore riuscirà a “vedere” l’opera.

90
Non per nulla Kokoschka, di cui Cilio era stato tra gli allievi prediletti,
aveva definito la sua Accademia di Salisburgo “Scuola del Vedere”.
Infatti, si vede solo ciò che si conosce, il non conosciuto è difficile da
percepire, solo una guida come Kokoschka o il famoso sciamano Yaqui,
don Juan, nella trilogia di Carlos Castaneda, può essere d’aiuto.
Essi posseggono la facoltà del “vedere”, ma questa può essere
insegnata, o meglio venire in luce attraverso un processo educativo, nel
senso socratiano del termine, in quanto in potenza tutti la posseggono,
ed è questo quello che il teorico deve fare, far “vedere” l’opera, non
aggiungersi all’opera, artifex additus artificii, come da molti si sostiene
ancora, con grande fastidio del riguardante medio che spesso non
conosce il codice specifico dell’opera e per “vederla” chiede lumi ad
altri, non ricevendoli, diserta le mostre e le vernissage, come
constatiamo giorno per giorno proprio perché alla con-versazione si è
sostituito, oggi, il discorso.
Lavoro incessante del teorico è di rendere visibile l’invisibile, ciò che
l’opera nasconde in quanto a forma, contenuto, messaggio.
Il mondo sta dentro di noi e noi siamo dentro il mondo, e questo è
incontrovertibile.
Poiché anche l’opera d’arte è “mondo”, è necessario “vederla” per
comprenderla e per far ciò, se non se ne hanno gli strumenti, è d’aiuto
lo sciamano-critico che conversando “disvela” la verità o quanto meno il
vero dell’opera.
Se il teorico dell’arte abiura alla sua funzione di con-versatore, in favore
di un discorrere solipsistico, la sua presenza e la sua opera è inutile
all’interno del sistema dell’arte, infatti la critica perde senso, meglio non
farla e decretarne l’eclissi, come correttamente ha intuito Gino Cilio nel
presentare il suo “Ri-Quadro” con cui evidenzia come il “discorso” dello
sciamano-critico non si collega più con l’opera, proprio perché costui ha
abdicato alla sua funzione di con-versatore.
Ancora una quinta ipotesi riguardante l’eclissi della critica.
Nell’era della “Civiltà delle macchine”, l’esigenza di esattezza coinvolge
tutte le discipline, perché la critica d’arte va in senso opposto? Come
già ribadito.
Se vogliamo dar credito all’esigenza di
precisione nella contemporaneità
dobbiamo sostenere che anche il
teorico dell’opera d’arte, essendo un
tecnico altamente specializzato e
operando una intermediazione tra
l’opera e l’astante, deve attenersi a
criteri quanto più oggettivi possibili di
decrittazione (da “de”, da, e
“cèrnere”, separare, sceverare e
figurativamente anche riconoscere, decidere e simili) e cioè deve
osservare la struttura dell’opera per coglierne gli aspetti semantici,
91
eliminando ogni elemento di disturbo compresa la sua fantasia e
creatività, e correlarli tra di loro, deve cogliere gli aspetti formali e
stilistici, il contesto storico in cui l’opera si produce, nonchè gli elementi
extracontestuali.
In questa precisa temperie culturale, in cui quasi tutti i valori artistici, e
non, sono stati azzerati, fondamentale risulta l’equilibrio della critica
nell’esame dell’opera di un artista contemporaneo.
Se prescindiamo da ogni estremismo idealistico, per cui l’opera d’arte è
una immagine animata da un sentimento trasfuso in essa da un artista
che cerca di uscire dai propri limiti, e da ogni estremismo
psicologizzante, per cui ogni opera d’arte non porta in sé la personalità
dell’artista perché nello spazio altro dell’opera essa si dissolve, è
necessario sostenere, tra i due estremi, che ogni artista vive in un
tempo e in una collettività di cui introietta lo spirito che, filtrato
attraverso la sua sensibilità, esprime ed estrinseca in un’opera.
Ne consegue che l’opera, pur presentando i caratteri dello zeitgeist
contemporaneo all’artista, nello stesso tempo li trascende perché la sua
sensibilità vi ha agito, mutandoli.
Quindi l’arte muta perché l’artista interviene a mutarla in qualcosa di
diverso da quella che era stata fino ad allora.
Se così non fosse quella non avrebbe bisogno di questi.
Infatti un’opera d’arte si configura come un sistema di segni significante
su cui il teorico deve “lavorare” considerandoli in prima istanza nella
loro totalità, e, dopo, nella loro singolarità.
A ciò si aggiunga che l’opera è stata “formata” per mezzo di un sistema
di norme e competenze.
Sul teorico si addiziona una ulteriore responsabilità: stabilire se l’opera
sia la risultanza di una tecnica più o meno raffinata oppure stabilire se
ci si trovi dinanzi ad un’opera che riesca a mutare il linguaggio dell’arte
stessa in qualcosa di diverso.
Nel primo caso, infatti, il linguaggio dell’opera può essere paragonato a
quello a funzione comunicativa perché non ne altera i nessi, nel
secondo caso l’opera, direbbe Barthes, si pone in situazione “profetica”,
avendo la capacità di diventare modello attraverso cui il reale “parla”.
Ovviamente, ogni opera non può essere decrittata al di fuori dello
spazio e del tempo in cui è stata realizzata, quindi deve essere messa in
relazione con altre coeve o passate sia per contrasto che per
comparazione.
Infatti, il critico o meglio sempre il teorico dell’ opera d’ arte deve
riconoscere in che modo un artista riesca a corrodere i codici linguistici
dall’interno fino a sovvertirli e talora a distruggerli, nel qual caso si
parla di opera d’arte e di artista, oppure in che modo l’opera visiva
renda stabili i codici connettivi di un certo linguaggio, nel qual caso si
deve parlare di artigianato più o meno raffinato.

92
Così, mentre quest’ ultimo non realizza attese in quanto comunica il già
esistente, la prima precorre future
Ghiaccio su pannello esperienze ed anticipa delle attese,
come già chiarito in precedenza.
Altra funzione della critica è quella di stabilire i
fondamenti dell’opera e cioè se ci sia relazione
tra l’impulso alla creatività artistica e l’inconscio
personale: infanzia perduta, impulsi elementari,
desideri, nonchè l’inconscio collettivo: mondi
archetipali.
Lo stesso Freud aveva sostenuto che anche l’astante vede nell’opera
rispecchiati e comunicati i suoi desideri inconsci e quindi aveva messo
in evidenza per l’arte la capacità di stabilire una comunicazione tra lo
spettatore e l’opera di un artista.
Quest’ultimo, sostiene, poi, Starobinski è “il soggetto della mediazione
tra l’oscurità della pulsione e la luce del sapere sistematico e razionale.”
(Starobinski J., L’occhio vivente, Einaudi, Torino, 1975, pag. 305).
Ma non è solo il rimosso personale che preme sull’artista, ad esso va
aggiunto anche un sistema di archetipi, in quanto esperienze tipiche
stratificate, figure, demoni, uomini o processo, che costantemente si
ripetono nella storia e che incidono nel momento in cui la fantasia
creatrice entra in scena, mettendo in forma un’immagine in cui un
lontanissimo passato emerge con la sua eco attraverso il medium di un
linguaggio.
Da quanto sopra, emerge la figura di un teorico dell’opera d’arte
provvisto di un ampio bagaglio culturale che gli deve permettere di
decrittarla correttamente.
Infatti, un artista conforma un’opera non per murarla nel suo studio, nel
qual caso avrebbe senso solo per lui, ma per farla fruire, nel qual caso
deve stabilirsi una dialettica con lo spettatore.
Sartre con una frase ormai famosa sosteneva che “l’arte esiste per gli
altri e per mezzo degli altri” e poiché questi altri non sono tutti in grado
di recepire il messaggio artistico in modo corretto, il teorico deve
mediarne la fruizione, come più volte ribadito.
La sua figura, se correttamente intesa, è tanto più necessaria oggi,
allorchè l’opera d’arte attraverso la sua “riproducibilità tecnica” ha
raggiunto un vasto pubblico, che spesso si chiama con vocabolo assai
abusato massa, ed ha perso, quindi, la sua “aura” riducendosi a merce
portatrice, è vero, di valori culturali ma che non suscita più emozione,
persa com’è nel gran mare dell’indifferenza del costantemente esibito.
Altro problema è poi dato dal fatto che sempre più gli artisti, pur di
entrare nel mercato, ma questo è un discorso che affronteremo
successivamente, producono lavori di routine, mentre quelli significativi,
non rientrando nei codici condivisi, vengono scartati.
E’ in questo contesto che l’opera della critica è fondamentale, perché
contribuisce a distinguere le trouvaille, le boutade dalle opere
93
significative, che scardinano il sistema linguistico codificato, e per ciò
stesso acquista senso, perché il ricettore non fornito di adeguate
cognizioni trova in essa una guida che partecipa alla sua crescita
culturale.
Ovviamente nel caso di uno spettatore avveduto il contributo del
teorico è quello di permettere un confronto costruttivo di idee.
In sintesi, una critica oggettiva e consapevole del proprio ruolo, a
nostro avviso, deve tenere presente quale sia il soggetto vero della
decrittazione, quale l’ oggetto e a quale patrimonio di immagini l’opera
attinga.
Se la tanta critica che oggi leggiamo (il famoso pezzo di “bravura” fine
a se stesso e magari fatto di frasi stereotipate già pronte per l’uso in
computer, tanto cambiando l’ordine dei fattori la somma non cambia) è
avulsa dalla “lettura” compente, ingenera solo noia e confusione, ed è
assolutamente inutile, se ne può decretare l’ eclissi nessuno piangerà
sul suo feretro.
Ora, quale contributo può dare il teorico dell’opera d’arte
nell’interpretazione di un’operazione come quella proposta da Gino B.
Cilio?
Se il teorico si considera artifex additus artificii, (ma l’artificio “opera
d’arte” manca!) può scrivere ad libidum, come qualunque fruitore
perché sul nulla tutto si può dire, come accennato in precedenza.
Se invece manifesta a priori il suo sistema di interpretazione non può
far altro che scendere nella temperie culturale contemporanea e
percorrere tutti i processi di azzeramento e di nullificazione dei
linguaggi perpetrati in quest’ultimo secolo e darcene la sua
decrittazione. In questo senso la sua opera si affiancherà a quella dello
storico dell’arte e avrà senso perché accrescerà le cognizioni di ogni
riguardante, anche di quello che osserva un Ri-Quadro senza superficie
e, scandalizzato, se ne allontana perché non ne percepisce il senso e la
portata a corto di nozioni riguardanti l’azzeramento o la nullificazione
dell’opera e dell’artista nella contemporaneità.

94
OPERA D’ARTE COME RUMORE – ECLISSI DEL
MERCATO

Umberto Eco in “Opera aperta”, più volte citata, accorda all’arte il


privilegio di essere considerata “co-realtà” a
cui applicare gli stessi principi che per via
semiologica inverano la realtà
fenomenologica.
Ora, il “Ri-Quadro” mancante di superficie di
Gino Cilio quale co-realtà invera? Tutte o
nessuna.
Se questa co-realtà, in base all’atto percettivo, viene interpretata da un
soggetto in continuo cambiamento, quale interpretazione, quale
possibile lettura la visione di un “Ri-Quadro” senza superficie porta con
sé?
E’ applicabile ad esso il concetto di “opera aperta”?
Se il linguaggio fonda ogni comunicazione, il Ri-Quadro in cui è assente
ogni segno linguistico può ancora comunicare qualcosa? Può essere
“campo di suggestività”? (Eco U., Opera aperta, Tascabili Bompiani,
1974, pag. 77)
In un’opera d’arte il linguaggio estetico e quindi poetico implica un
rapporto dialettico tra il significante e il significato che si arricchisce

95
continuamente di “nuovi echi”, di stimoli che il riguardante
decodificherà secondo la sua personale ermeneutica.
In questo senso ogni opera d’arte è aperta, perché il suo significato
risulta “multiforme” e ogni volta arricchito da un atto transattivo in cui
si compongono il bagaglio di ricordi del fruitore e il sistema di significati
dell’opera. (Eco, o.c. pag, 85 e seg.).
In conclusione, per Eco “L’apertura è….la condizione di ogni fruizione
estetica e ogni forma fruibile in quanto dotata di valore estetico è
“aperta”.
Ne “Le due vie”, rispetto ad Eco, Cesare Brandi restringe notevolmente
l’apertura di un’opera, considerando “aperta” solo quella in cui il
fruitore può intervenire in una delle due fasi del processo creativo e cioè
o nella costituzione d’oggetto o nella formulazione d’immagine.
Nel primo caso il percepito viene sospeso, ad opera della coscienza,
dalla realtà per trapassare direttamente nell’oggettualizzazione, vedi la
pop art, nel secondo caso, eliminato l’oggetto, lo stato d’animo si
proietta direttamente sul supporto e crea non un’immagine reale ma un
segno di quello stato, vedi Informale, (Brandi C., Le due vie, ed. Laterza,
Bari, 1966, pag. 101 e segg.) che, guarda caso, è l’ultimo periodo di
riferimento di Gino Cilio.
Ad ogni modo, sia Brandi, anche se in via secondaria, sia Eco
sostengono la funzione comunicativa dell’arte,
cui si possono applicare le stesse regole della
comunicazione.
Ma un Ri-Quadro senza piano pittorico può
ancora comunicare la presenza dell’opera?
Un messaggio contiene informazione quando si
presenta secondo un “certo gioco di libere
reazioni”, dice Eco, che il ricettore può
decodificare in modo più profondo se esse
presentano un certo grado di ambiguità, di
incertezza desiderabile, in una parola
contengono violazioni espressive della norma. Tali violazioni hanno la
proprietà di attirare l’attenzione del fruitore.
Infatti, se in un sistema di regole codificate l’autore ne viola alcune
inventa nuove possibilità espressive, formali, fruitive.
Ma quando la violazione delle regole è troppo ampia, l’opera assume la
stessa connotazione del “suono bianco” in musica.
Il semiologo porta come esempio un sistema musicale elettronico, al cui
insieme di suoni che forma un gruppo viene imposta una forte
accelerazione. A causa di questa accade che l’orecchio non ne
percepisce il rapporto di frequenza, onde il “suono bianco”, costituito
dalla somma di tutte le frequenze che si configura pertanto come
rumore. Questo non comunica più nulla, anche se può dare un minimo
di informazione. (Eco U. o.c., pag. 72).

96
Ora, un Ri-Quadro privo di superficie su cui non si può estrinsecare
alcuna forma non presenta nessuna possibilità fruitiva, oppure le
presenta tutte.
Ma, c’è di più, il Ri-Quadro non ha neanche
l’intenzionalità dell’attività formante
dell’artista o che è lo stesso le ha tutte. Di
conseguenza, se il peri-metrare uno spazio
qualsiasi è un campo di possibilità infinite, di
nessuna di esse si fa carico l’artista, oppure si
fa carico di tutte.
In questa situazione il Ri-Quadro si connota
come “rumore”, come somma indifferenziata
di tutte le frequenze, così come in un sistema
di suoni fortemente accelerato, i quali contengono il massimo di
entropia, disordine auspicabile del codice linguistico, e quindi
dovrebbero contenere il massimo di informazione, invece non ne
contengono nessuna, proprio perché il nostro orecchio (nel Ri-Quadro il
nostro occhio) non è più capace di scegliere. “Un’opera è aperta sinchè
rimane opera, oltre questo limite si ha l’apertura come rumore” (Eco U.
o.c. pag. 177).
Tuttavia una sola possibilità rimane: il rumore è sempre un segnale che
se non comunica contiene sempre un minimo di informazione.
Il Ri-Quadro informa di una mostra, una performance, un’istallazione, un
evento insomma mai avvenuto? Oppure informa che la creatività non ha
più bisogno dell’opera, allora essa è autopoietica? Oppure che, se
l’immaginazione è senza immagini, l’arte si riduce a filosofia? Oppure
che, se l’immaginazione è senza immagini, abbiamo forse bisogno di
riappropriarci della vita nella sua
plasticità e mobilità? Oppure può
informare che, se ci fosse
rappresentazione estetica, la vita
“precipiterebbe” sul supporto restando
bloccata nella forma? Oppure che è
eterno il mutamento e temporale
l’esistenza e imperfetti i nostri sensi
perché incapaci di comprendere
l’indistinto, il non ordinato e allora è
ancora possibile l’esperienza del bello
e della verità? Oppure che, se l’opera d’arte, qualunque opera d’arte,
non riesce a cogliere l’èidos, la forma intelligibile nella sua essenza,
data la “resistenza” della materia a lasciarsi plasmare, c’è
un’espressione artistica, un linguaggio che consenta di trascendere la
forma, la morphè, per arrivare all’èidos?
Si potrebbe continuare all’infinito nella decodificazione di questo
“segnale”, che non comunica attività conformativa su una superficie,
come più volte ribadito, ma informa comunque che nel sistema dell’arte
97
sussiste più di un problema, qualcuno dei quali si è cercato di delineare
nelle note precedenti, ma molti altri rimangono aperti, di cui ogni lettore
si può fare carico, compreso quello di un “Ri-Quadro” quale prodotto da
inserire in un circuito di mercato.
La realtà è segno inesauribile cui l’opera d’arte dà senso
attraverso l’ “apparenza” che è poi rappresentazione. Ma, questa, una
volta che ha preso forma in un’opera, ha perso l’essenza materiale di
cui conserva però la figura.
In altri termini, l’opera d’arte trasforma l’oggetto in un apparire che pur
essendo indifferente al vero o al falso, onde la definizione iniziale di arte
come retorica, paradossalmente produce verità che sono pur sempre
apparenze. Tuttavia, verità ed apparenze sono unificate a priori
nell’opera la quale è indifferente alla verità perseguita dai filosofi,
semmai ha il suo credo nella “riuscita” che consiste nel fermare un
gesto, una parola, un colore, un moto dell’animo, un suono, la
sfumatura di un sentire, ecc…
Questo nelle linee generali.
In particolare, poi, la contemporaneità ha liberato l’arte dai clichè
tradizionali, dagli stereotipi dei tempi passati per approdare ad un
continuo azzeramento dei linguaggi, come già nelle Avanguardie, che
dal Futurismo in poi fecero piazza pulita di ogni tradizione.
Ma, nel momento in cui tali linguaggi si stabilizzano, diventano, a loro
volta clichè. Di conseguenza, qualunque
rivoluzione linguistica ricompone ciò che
voleva evitare: “Non c’è scrittura capace
di mantenersi rivoluzionaria e che ogni
silenzio della forma sfugge all’impostura
col mutismo completo”. (Barthes R., Il
grado zero della scrittura, Einaudi, Torino,
1982, pag. 55)
Quindi, in questo contesto l’ “A-Zero” di
Gino Cilio realizza finalmente l’omicidio del
linguaggio dell’arte che è anche “suicidio”
dell’artista, disillusione di un uomo mai
soddisfatto e gratificato fino in fondo, nonostante i successi ottenuti.
Gino B. Cilio non è giovane, non ha l’entusiasmo di quando, come
sottolineato nella biografia, al ri-flettere si preferisce il fare, anche se
quest’ultimo non esclude il pensare.
Adesso, per lui, è giunto il momento della ri-flessione. Ma, “ri-flettere”
su cosa?
Ovviamente sull’oggi. Su quest’oggi velocizzato, estetizzato,
estetizzante ora kitsch ora trash, in cui tutto è prodotto da consumare
velocemente secondo le leggi del mercato, quindi anche le opere d’arte.
Stante così le cose Gino Cilio compie un gesto “puro”, degno delle
migliori Avanguardie. “Ogni opera pittorica e plastica è inutile”, aveva

98
asserito Tristan Tzara, e altrove: “Abbiamo bisogno di opere forti, decise
e incomprese una volta per tutte”.
E l’ “A-Zero” del Nostro è compreso? E’ comprensibile? E’ un nonsense?
Quel famoso nonsense che tante opere ha nutrito, e che, se così fosse,
avrebbe bisogno di un minimo di linguaggio per potere entrare nel
circuito del mercato in una società che in nome di un efficientismo
esasperato rifiuta l’angoscia e lo scacco di cui, invece, si nutre ancora in
profondità la cultura umanistica?
Nel mezzo se non l’artista, l’uomo che con Pascal “connait qu’il est
miserable: il est donc miserable. Puisqu’il est, mas il est bien grand
puisqu’il le connait.”
E Gino Cilio conosce la piccolezza dell’uomo che si misura con l’Infinito
e dell’artista che si misura col desiderio di perennità della sua opera,
perché, in realtà, questa è l’aspirazione ab origine quando affronta la
difficoltà e la durezza, onde durare, della materia che non si lascia
“penetrare”, che resiste a mostrare il suo non-essere, che lascia magari
intravedere il suo potere-essere, ma sempre con difficoltà assurge
all’essere.
E’ questa la tragedia che vive Gino Cilio, consumato tra il desiderio di
“vedere” l’oltre del mondo e la resistenza di questo a “lasciarsi” vedere.
“Ho provato anch’io. / E’ stata tutta una guerra / d’unghie. Ma ora so.
Nessuno / potrà mai perforare / il muro della terra”, diremmo con Giogo
Caproni.
E il Nostro ne ha consapevolezza, forse perché guardandosi intorno, si è
reso perfettamente conto che si è perduto nel mare di immagini che la
contemporaneità ci pone, impone e propone.
Se ognuno di noi facesse un calcolo approssimativo di quante immagini
ha visto, diciamo, nell’ultimo lustro tra film, mostre, giornali, riviste,
vernissage, biennali, triennali, quadriennali, TV, computer, internet, CD,
DVD, ecc… non credo potrebbe tenere il computo. Quindi il soggetto è
come “perso” tra le immagini, non ultime quelle date dai cellulari e
dalle camere digitali, che obbligandoci a rappresentare agli altri la
realtà, ci impediscono di viverla.
Stante così le cose, è possibile “vedere” il mondo? E’ possibile ancora la
“scuola del vedere” di Kokoshka, di cui Cilio, allievo prediletto, ha
assorbito la lezione?
La “scuola del vedere” implica affinamento nella percezione della
realtà, riflessione nella propria co-scienza, perché solo nell’oscurità
“illuminante” si può dare ordine al caos per trarne una visione cosmica
(da cosmos, ordine.) corretta, “finita” come
direbbero i Greci.
Ma riflessione e velocizzazione dei tempi
tecnologici odierni non possono andare di pari
passo, anche per fatti strettamente biologici

99
perché il cervello umano attuale non è diverso da quello dell’ homo
sapiens di qualche tempo fa.
L’uomo sottomette la natura ai propri fini, ma non può andare oltre un
certo limite. E questo vale anche per il cervello.
L’intel-ligenza umana abbisogna di tempi lunghi nella percezione del
mondo, che è poi percezione dello spirito del tempo, su cui si deve
intuire, riflettere, elaborare, collegare, esprimere, estrinsecare per
“vedere”, appunto, il non-essere delle cose, del mondo, per dare, cioè,
una nuova “lettura” della realtà, una nuova visione onde, si ribadisce,
“scuola del vedere”.
A tutto ciò, relativamente al linguaggio artistico, si deve aggiungere
quel “quid” inqualificabile che semantizza l’opera come opera d’arte.
In questo contesto, Gino Cilio rivendica il suo diritto-dovere, che è poi
diritto-dovere di tutti, alla ri-flessione.
Egli prende congedo momentaneo dal mondo velocizzato
contemporaneo, si ritaglia il “suo” spazio di libertà dall’ossessione di
essere onnipresente con la propria opera nel mondo dell’arte, dal
perseguire la notorietà ad ogni costo con trouvaille e boutade
dissacranti sì, ma che non producono quello spaesamento proprio
dell’opera d’arte, che è poi visione alternativa del reale che oggi non ha
un punto esterno cui appoggiarsi per farne un antagonista ed entrare in
rapporto dinamico e dialettico con esso.
Tutto è morto, dalla Storia alla Geografia, a Dio, all’Arte, ecc…tranne
l’adesione ipnotica alla mercificazione di ogni cosa.
Ma un “Ri-Quadro” senza superficie può essere merce? Se non lo è,
quale il suo statuto? Boutade?
No! Non è possibile, perché esso nella solitudine della parete bianca, o
dello spazio tout court, insieme al titolo 1 + Uno, produce spaesamento,
shock visivo, disorientamento. E’ paradossale e, a parer nostro, sta a
testimoniare con la “profondità” del suo “vuoto” che si è eclissato (nel
senso che a questo lemma abbiamo dato precedentemente) il concetto
per cui arte è viaggio dentro se stessi, nel profondo, e vive del silenzio,
anche se non in silenzio. Ma, oggi, quel silenzio, si direbbe con un
ossimoro, è assordante, vive di batage pubblicitari “ad arte” studiati,
che rimbalzano da giornale a giornale, da addetti ai lavori a non addetti,
che fanno salire ingaggi e quotazioni, perché soprattutto la pubblicità è
funzionale alla “merce” arte.
Infatti l’opera deve dare spettacolo e, come un qualunque oggetto da
comprare, deve farsi fantasmatica, deve avere potere di seduzione,
deve essere adorata come un feticcio, così, poniamo, i Girasoli di Van
Gogh, come il cellulare Vodafone, le vacanze esotiche, le griffe,
l’elettrodomestico talismano della felicità, ecc…
La pubblicità deve confezionare una realtà appetibile perché l’oggetto
venga a noi, “ci” desideri e sottolineiamo “ci” perché è proprio quel “ci”
che fa sentire un uomo uguale all’altro. Ed è in questi termini che si

100
arriva all’uomo-massa, a quel “collettivo sognante” che non ha storia,
felice solo di essere a-ideologico, e pertanto rassicurante.
Ciò premesso, è necessario precisare che nel momento in cui il prodotto
entra nel mercato e segue le sue leggi perde, ovviamente, la sua
incidenza, in quanto questo può sopportare l’ironia, al massimo il
sarcasmo, mai l’eversione o il disordine o peggio il dissenso.
Conseguentemente, l’opera immessa nel circuito del consumo e del
consenso perde la carica destabilizzante ed emotiva.
La società capitalistico-borghese prima e la post-industriale poi hanno
inglobato al loro interno l’artista, rendendolo inoffensivo. Cosa che
all’inizio non era riuscita con le Avanguardie storiche perché gli artisti
per libera scelta si erano esclusi, mentre con le neo si sono ben inseriti
ed hanno fatto perdere all’opera la sua valenza rivoluzionaria. Anzi,
blandendo, accarezzando, solleticando e sollecitando il sistema, gli
artisti si sono ben sistemati al suo interno e molti di loro sono diventati,
al pari delle merci, miti o, come sostiene J. Starobinski, attori. “L’artista
deve diventare attore che si proclama attore” e cioè deve arrivare alla
funzione di intrattenitore.
Ma al fine di non divagare, torniamo al mercato e cerchiamo di darne
una definizione elementare.
Questo, per dare valore economico ad un prodotto, deve verificarne il
suo valore d’uso, anche se esso è superfluo deve, attraverso la
pubblicità, sembrare necessario, e, in
questa accezione, sottostà alla regola
della domanda e dell’offerta. Più alto è il
valore d’uso reale o che può e deve
sembrare tale, più alta sarà la domanda
e quindi più alto sarà il valore
economico.
Questo per semplici linee generali il
concetto di mercato.
Può accadere che il valore d’uso sia
soppiantato dal valore di scambio, come
avviene per le opere d’arte, allora è il
denaro e non l’uso che ne determina la
presa in considerazione e quindi l’opera
assurge a feticcio non per il valore in sé, ma per il valore economico che
essa esprime, per cui acquista prestigio, è simbolica di un sogno
dell’uomo, è immagine-simbolo: il valore pecuniario vanifica ogni
affermazione estetica.
Rispetto al passato, però, l’innovazione sta nel fatto che il contenuto
non è nell’oggetto opera ma nella “novità” che esprime, sia essa una
boutade o una trovata, o altro, dato che il mercato può sopportare solo
queste, per cui la forma rimane scissa dal contenuto, perché se l’opera
scardinasse i codici linguistici per darne una nuova visione non sarebbe
recepita dal mercato.
101
Ora all’interno del “nuovo” così inteso dove sta il confine tra realtà ed
apparenza dell’opera?
Naturalmente il nuovo è sempre esistito, ma contrariamente a quanto
avveniva nel passato, per esempio con le Avanguardie, che con
l’invenzione di linguaggi “altri” volevano sovvertire il volto del mondo,
oggi questo non può essere auspicabile, altrimenti l’impalcatura del
sistema arte crolla, ma per farlo crollare non è necessaria tanta fatica,
basta l’esibizione di un Ri-Quadro senza superficie che avrebbe certo
mandato in visibilio Trista Tzara.
In altre parole, attualmente le novità in arte stanno come su un
palcoscenico di movimenti solo apparenti
in quanto “puri esercizi di stile”, che non
riescono, purtroppo, a disarticolare
schemi e regole che facciano della “prosa
del mondo” poesia.
In quest’ ambito, allora, l’ “O-Per-Azione”
di Gino Cilio, come lui la indica, di
azzeramento di ogni linguaggio è
opportuna e forse necessaria per
rompere il cerchio di omologazione che
attanaglia gli artisti propinato ed imposto
con i mezzi più subdoli e stringenti dai
media e dal mercato.
Tra artista ed omologazione alla società del “collettivo sognante” non
dovrebbe esserci ratifica. E Cilio non ratifica.
Con fare utopico azzera il mercato perché nessuno in tempi di griffe, si
sognerebbe di comprare un supporto anonimo a suon di Euro.
Quella di Cilio è una visione lucida del presente, la sua è una spinta
ideologica forte con cui guardare ad un futuro sia esso lento ad arrivare,
ad una attesa, ad una speranza.
E se ciò è solo un’illusione, anche questa deve avere il suo statuto
ontologico, se soccorre l’individuo nella ricerca della propria
individualità per essere “individuo”, appunto, e non massa o peggio
“collettivo sognante”.

102
POSTFAZIONE: L’ “A-Zero” dell’opera d’arte tra
Postmoderno e “Civiltà dei Byte”

A conclusione di queste note riguardanti le problematiche messe in


campo dall’ “A-Zero” dell’opera d’arte di Gino Cilio un’ ultima invariante
interpretativa dell’operazione si impone. Essa si articolerà in due
direzioni: 1) da una parte si focalizzeranno brevemente i mutamenti di
prospettiva riguardanti le arti con l’affacciarsi all’orizzonte di quel
periodo particolare del nostro tempo che indichiamo come
“Postmoderno”, 2) dall’altra si evidenzierà come i nuovi mezzi di
comunicazione dati da una tecnologia nuova e sofisticata: internet,
103
computer, compact disc, ecc… stiano rivoluzionando dalle fondamenta
la nostra percezione della realtà. Naturalmente saranno solo ipotesi
suffragate dall’esperienza personale e pertanto suscettibili di
ripensamenti e virate proprio perché ci troviamo agli albori una nuova
epoca ed oseremmo dire di una nuova “Civiltà”.
In merito al primo punto diciamo che la dizione “Postmodernità”,
riferita all’epoca in cui viviamo, compare nel 1977 , anche se talvolta il
termine viene usato qua e là, e si collega all’Architettura che, allora,
mostrava più di un segno di stanchezza nel ripetere gli stessi rigidi
stilemi dell’ “International style”, per il quale ogni ornamento “era un
delitto”, secondo la formula messa in campo da A. Loos.
Dopo decenni di moduli costruttivi simili ad enormi scatoloni privi di
ogni piacevolezza estetica, si sente l’esigenza di guardare
all’abbellimento delle strutture, al piacere visivo dell’ impianto
architettonico. Allora si torna a recuperare l’uso di stilemi di un passato
più o meno recente.
Ben presto, però, il progetto e l’innovazione concernente il punto di
vista dell’Architettura passa velocemente alle altre arti visive e a quelle
connesse con la parola, il teatro, la poesia, il romanzo, ecc….con la
ripresa sempre di riferimenti a forme e formule appartenenti al passato
i cui temi, ora, sono, però, trattati in modo autoironico e disincantato
proprio perché si ha consapevolezza di tale “citazionismo”. Da quanto
sopra deriva al Postmoderno quel carattere di appiattimento di
prospettive, di ricerca di effetto che sta tutto in superficie, di
tecnicismo, di silenzio, di assenza nonché di decostruzione progressiva.
Il tutto si motiva su un aspetto rilevante della postmodernità fondato:
“sullo schiacciamento, sulla riduzione degli spessori psichici, dall’altro
incentrato su un gioco combinatorio e sulla ripresa sistematica di
materiali stereotipati. Se ci si riflette sopra con cura, questa seconda
ipotesi è di natura qualitativa, [gli stilemi di riferimento n.d.a] mentre
l’altra è invece di natura quantitativa, ed ecco proprio il punto che, fino
ad oggi, sembra essere sfuggito alla maggior parte di coloro che si sono
affaticati attorno al nodo moderno-postmoderno. La differenza tra l’uno
e l’altro potrebbe non essere di qualità, di categorie, di forme, bensì di
quantità ”. (Barilli R., in Novecento Sperimentalismo e tradizione, ed.
Motta, pag.718 e seg.). In questo senso, allora, la ripresa di stilemi del
passato subisce un rovesciamento, una compressione, una riduzione e
di conseguenza una maggiore estensione quantitativa.
Infatti, non c’è chi non veda come in questi ultimi anni la produzione
artistica si basi sulla quantità e non sulla qualità, proprio perché la
ripetizione delle stesse tendenze, forme e formule entra
nell’immaginario collettivo in vari modi non ultimo la pubblicità che le
rende facilmente riconoscibili non solo agli addetti ai lavori ma anche ai
non addetti e quindi esse sono in grado di entrare con facilità nel
“sistema arte”. Questo vive sulla creatività dell’artista imbrigliato in un
elefantiaco ingranaggio che vede l’opera inserita in un apparato di
104
consumo di massa voluto, al pari di altri prodotti, dal mercato globale in
cui domina l’assoluta uniformità delle esperienze estetiche.
Da quanto sopra si evince chiaramente che a fronte di un principio di
“normalizzazione” delle neoavanguardie a noi contemporanee, si
accompagna la perdita della soggettività nonché lo schiacciamento e
l’abbassamento qualitativo che si appiattisce, si democraticizza, si
massifica espungendo la qualità in favore, invece, della quantità pronta
ad infiltrarsi ovunque e a soddisfare i nostri post-bisogni più o meno
indispensabili.
A questa prospettiva di schiacciamento qualitativo l’ A-Zero di Gino
Cilio, visto che lui ha lavorato una vita in favore invece
dell’innalzamento qualitativo, dice di no!
Contemporaneamente al “Postmoderno” qualcosa di nuovo è
accaduto in questo nostro secolo caotico e straordinario: il balzo in
avanti della tecnologia elettromagnetica ed elettronica che ha
consentito che il mondo, secondo la fortunata espressione di McLuan,
fosse un unico “Villaggio Globale”.
Qui il modo di percepire la realtà sia quello legato alle percezioni
sensoriali date da ciò ci circonda, sia quello legato alle conoscenze
culturali afferenti la sfera del privato subisce un cortocircuito..
In questo senso l’ “A-Zero” di Gino Cilio rappresenta il punto di non
ritorno ad un mondo materiale che si riduce ogni giorno di più e la cui
comprensione non riguarda ormai i nostri sensori biologici in genere ma
riguarda soprattutto quello che si potrebbe definire il nostro “Occhio
ciclopico”, circolare, autoreferenziale e policentrico ma immateriale che
prelude a quella che denominiamo “Civiltà dei Byte” la quale determina
una diversa “percezione” della realtà e quindi della sua
rappresentazione anche in chiave artistica, che è poi quella che ci
interessa in questa sede.
Da quanto sopra si evince, allora, che Gino Cilio non ha sostenuto con
questa operazione che l’opera d’arte sparirà dal mondo, ma certamente
che subirà profonde trasformazioni nell’era della rivoluzione dei bit.
Si è insinuato, infatti, nella contemporaneità un modo alternativo di
vedere il mondo attraverso i media che lo fa slittare in avanti in un
“altrove” che pure esiste ma che non si percepisce attraverso la
conoscenza sensoriale. Davanti a questa dimensione alternativa l’
operazione di azzeramento dell’opera d’arte di Cilio segna il collasso del
modo tradizionale dell’operare artistico, per aprirsi su prospettive
inedite che preludono ad una diversa civiltà.
Infatti, se per civiltà intendiamo tutto un sistema di valori afferenti
l’arte, la scienza, la religione, ecc… indicativi del grado di formazione
umana e spirituale di una larga parte degli abitanti della terra, non c’è
chi non veda come altri valori stiano soppiantando i vecchi per dare
luogo ad una diversa cultura: alla cultura del “Villaggio globale” per cui
in tempo reale ci si mette in contatto con qualunque parte del pianeta,
si seleziona qualunque notizia interessi, si veda qualunque immagine
105
rientri nelle nostre ricerche e così via. Pertanto dopo la “Civiltà delle
macchine”, di cui si è detto in altra nota, la nostra si potrebbe definire
“Civiltà dei Byte” o “Civiltà dell’immateriale” appunto perché si tratta di
una Civiltà diversa rispetto alla prima in quanto, oggi, si privilegiano
certe forme particolari di attività legate all’informatizzazione, ad
Internet, ai mezzi di comunicazione di massa, ecc… che influenzano
fortemente le esperienze umane, soprattutto quelle legate alla
percezione della realtà.
In altre parole, tutti questi velocizzati cambiamenti fanno sì che la
cultura, in quanto progetto implicito ed esplicito di vita, si evolva
rapidamente per mezzo di altri stili percettivi che danno luogo a forme
diverse di simbolizzazione e rappresentazione, rispetto a quelli di un
non lontano passato.
In questo contesto l’uomo, l’artista, il poeta, quale posizione occupano?
In che modo la realtà è vista?
Il digitale è “tecnica unificante” in quanto è diventata il fondamento
di una cultura, così come un tempo lo era stato l’alfabeto, almeno in
occidente. Al suo posto oggi è subentrato on/off o che è lo stesso il bit:
O/1 che permette soluzioni migliori e più economiche sia relativamente
all’uso dell’alfabeto che ai processi umani legati ai sensi, a strutture, a
materiali, a transazioni differenti ed eterogenee, elementi tutti che
confluiscono in un singolo ambiente di informazione al centro del quale
sta il soggetto col suo linguaggio nella sua doppia accezione di
linguaggio esterno attraverso cui il soggetto è controllato e linguaggio
interno sul quale è il soggetto ad esercitare un controllo.
Nel primo caso rientrano ad esempio la religione, la politica, la radio, la
televisione, i giornali in genere, ecc…che con un’unica espressione
indichiamo come “sfera del pubblico”, nel secondo i libri, internet, la
cultura in genere, i CD, i DVD, ecc….cioè tutto quello che dipende dalle
nostre libere scelte soggettive e che indichiamo come “sfera del
privato”.
Basta un semplice sguardo solo su Internet per convincersi che nella
contemporaneità si realizza un contemperamento tra ciò che è pubblico
e ciò che è privato perchè tutto ciò che è pubblico in rete può diventare
privato e viceversa. In questo modo il soggetto ha la possibilità di
controllare un linguaggio anche se questo controllo è condiviso con un
mezzo: il computer o qualsivoglia strumento abbia le stesse funzioni,
per cui fondamentale oggi diventa il problema della “conoscenza”.
Generazioni di filosofi ne hanno indagato la natura e vi hanno dato le
più svariate risposte. Fino a poco tempo fa si dava conoscenza sia
attraverso ciò che il soggetto coglieva attraverso i sensi sia attraverso
la mente. Nel primo caso si aveva a che fare con le percezioni legate
alla corporeità: un odore, un suono, un colore ecc…nel secondo con i
processi mentali che per comodità indichiamo con la parola
immateriale. Quindi l’io mutava anche attraverso un processo cognitivo
percettivo. Oggi, invece, con i nuovi e velocissimi mezzi di
106
comunicazione, dalla TV al computer, al videocellulare, al palmare,
ecc…. il processo cognitivo è prevalentemente mentale e non
comporta se non in misura limitata e sempre per via indiretta il
coinvolgimento del sistema sensoriale.
In queste condizioni nasce quello che Nicholas Negroponte chiama:
“Essere digitali” che vede il passaggio dall’atomo al bit, intendendo per
atomo tutto ciò che si riferisce alle cose materiali che hanno quindi
peso e durata nel tempo, e per bit tutto ciò che ha a che fare con la
computerizzazione e quindi col “leggero”, con l’oggetto ridotto a
semplice funzione perché “il più” nuoce all’economicità della
comunicazione microelettronica.
“Il passaggio dagli atomi ai bit, come io chiamo questa evoluzione, è
irreversibile e inarrestabile”…….. “la comunicazione di massa sarà
rivoluzionata da sistemi che consentono di trasmettere informazioni e
passatempi personalizzati. La scuola diventerà più simile a un museo o
a un campo giochi, dove i bambini potranno scambiare idee e
socializzare con altri bambini di tutto il pianeta. Il mondo digitale
diventera piccolo come la capocchia di uno spillo” ( (Nicholas
Negroponte, Essere Digitali, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1997,
trad. F. e G Filippazzi, pag. X e seg.).
A questo punto una rosa di problemi inerenti l’informazione, l’arte,
l’estetica, gli strumenti di costruzione dei significati e soprattutto la
proprietà del sapere si apre.
In merito, infatti, all’ultimo argomento è necessario mettere in evidenza
come il sapere si sia incorporato nelle macchine, nei management,
nell’intelligenza operaia inestricabilmente legata alla scienza e alla
tecnica mentre gli eccessi dei copyright non conoscono limiti. Un
esempio per tutti: i familiari di John Cage, in nome del diritto di autore,
hanno intentato causa ad un musicista che in una sua composizione
aveva introdotto 60 secondi di silenzio. E’ naturale chiedersi come
potrebbero evolversi le arti, la letteratura, la musica senza la possibilità
delle citazioni, delle contaminazioni, delle combinazioni! In gioco,
dunque, oggi è lo statuto della proprietà della conoscenza data
dall’intelligenza collettiva incorporata nel software e in tutta “l’industria
dell’immateriale”.
Si è consapevoli delle immense problematiche legate a quella che si è
testè definita “Civiltà dei byte”, così come si è consapevoli che da
diversi anni tanti artisti hanno cercato di attivarsi nel campo delle arti
visive connotandosi come nomadi protagonisti della sensibilità
dell’immateriale.
In Italia Studio Azzurro nella XVIII triennale del 1992 investigava già
sulla natura stessa della visibilità muovendosi in un ambiente a raggi
infrarossi, o un Peter Callas con i suoi “Paesaggi pluristratificati”
mostrava visioni caleidoscopiche e disorientanti superando le
tradizionali categorizzazioni relative alla rappresentazione e percezione
del paesaggio appunto, e di nomi se ne potrebbero citare molti altri ma
107
qui ciò che preme sottolineare è che già da parte di molti artisti si pone
il problema della “strutturazione” del lavoro secondo una più libera
evoluzione operativa determinata dai nuovi mezzi tecnologici che
preludono alla strutturazione di una nuova sensibilità proprio perché
questa non è più legata esclusivamente alle percezioni dei sensori
biologici ma a quell’ “ Occhio Ciclopico” di cui si parlava più sopra.
Comunque sia in tutti gli artisti di queste ultime generazioni, ed è il
caso di un Peter Callas citato, emerge chiaro il concetto espresso da De
Cherckove della scomparsa del “punto di vista” della prospettiva
classica, sostituito dal “punto di essere” centrale in qualunque posto ci
si trovi perché la realtà tecnologica porta il mondo nelle nostre case.
Fino a qualche decennio fa, o per dirla meglio con Sinisgalli, fino alla
“Civiltà delle macchine”, il soggetto, nel nostro caso l’artista percepiva
il mondo e quindi anche la macchina con i sensi, vedendola ora come
elemento positivo, ora negativo, ora costruttivo, ora distruttivo, ecc…Lo
stesso Gino Cilio, in quel periodo, sentiva l’esigenza di vivere con gli
operai del Polo petrolchimico di Siracusa proprio per “sentire” come
l’operaio avvertiva l’impatto con la macchina in relazione anche alla
percezione dell’attorno, quell’attorno che veniva introiettato attraverso i
sensi in modo lineare e causale, per cui il Nostro poteva rappresentare
l’uomo come “servo-macchina”, poteva mettere in evidenza il sistema
di sfruttamento dell’operaio, l’impatto dell’industria sull’ambiente, ecc…
Trascorsi alcuni decenni, avanzate ed evolutesi rapidamente le
tecnologie, si modifica il modo di percepire il mondo, mentre un passato
recente si fa sempre più remoto, l’ “altrove” incalza pressante. Così alla
linearità e causalità dell’ intuizione si sostituisce la circolarità e
l’interdipendenza delle informazioni attraverso l’ingerenza pervasiva nel
quotidiano dei mezzi di comunicazione di massa che consentono una
percezione immateriale della realtà.
Di conseguenza, tutto ciò che sta “altrove” permea i nostri gusti e le
nostre scelte, nonché le nostre sensazioni, le quali non fanno più capo a
ciò che “sentiamo” con il corpo ma a ciò che vediamo filtrato da uno
“schermo” onde l’esplosione dell’immateriale insieme ad una grande
espansione cognitiva, come non s’era mai registrata prima.
C’è un Villaggio Globale e una messe infinita di notizie, è possibile
essere qui ed agire in un altro luogo, e già molti artisti hanno
cominciato a fare delle sperimentazioni in questo senso, come a Berlino
o a Kassel a Documenta IX, in cui l’interattività rese possibile fare
interagire in tempo reale un pubblico transnazionale immesso in una
dimensione teletopica, come direbbe Virilio.
Tutto questo ed altro ancora aprono spazi di azione inediti ed
impensabili fino a poco tempo fa quando l’artista nel chiuso del suo
atelier interpretava la realtà e la esibiva agli astanti.
Oggi, davanti ad uno schermo, l’occhio registra il contatto con un
mondo esterno incommensurabile e lo relaziona con l’ interno, col “sé”
il quale realizza continue attese che una dopo l’altra permettono al
108
soggetto di operare selezioni e chiuderle in uno spazio dove è possibile
collegarle con le altre già immagazzinate.
L’occhio e solo l’occhio può, quindi, isolare una immagine, un pensiero,
un’idea da un fondo caotico, multidirezionale o circolare, se si vuole, e
interdipendente, che permette la messa a fuoco di una posizione di
controllo di quanto si voleva conoscere.
Un esempio chiarisce meglio gli assunti. Un individuo, data l’enorme
messe di informazioni reperibili via Internet o altri mezzi di
comunicazione, si trova al centro di un cerchio instabile che gli ruota
attorno per trecentosessanta gradi e che è fatto di un numero infinito di
informazioni che il soggetto stesso può selezionare scegliendone la
direzione e ritagliandosi quel settore che gli interessa. In queste
condizioni passato e futuro si intersecano senza soluzione di continuità,
in un attimo è possibile colmare uno scarto temporale di secoli se non di
millenni, per cui gli scenari percettivi cambiano in continuazione, ma
che comunque è sempre il soggetto a gestirli . Ora, non sembri
azzardato questo assunto: l’ uomo, secondo la formula nietzeschiana
rotolava dal centro verso l’ incognita, avendo la realtà perduto la sua
centralità. Oggi, mutato il modo di percepire le cose, quello stesso
uomo si ritrova, invece, al “centro” di una realtà che, è vero, non è più
colta in presa diretta, ma è smaterializzata, teletopica di cui lui, però, è
signore e dominatore.
Da quanto premesso risulta che lo spazio del privato si allarghi a
dismisura attraverso le possibilità offerte da questo mondo
interconnesso ove tutto è permesso, dove è possibile costruire e
ricostruire tutto artificialmente, sensazioni ed emozioni comprese.
L’uomo fino a qualche hanno fa aveva una dimensione fisica ed una
spirituale, l’homo novus contemporaneo ha sì una dimensione fisica ma
la spirituale slitta perpetuamente in un “altrove” precipuamente
mentale che non fa altro che produrre immagini a cui non corrisponde,
almeno fino ad ora, una vera e propria ricerca di metodo
epistemologico, poiché ognuno metterà in campo il suo per allargare a
dismisura il suo “Occhio Ciclopico” sulle cose la cui sostanza è in
continua evoluzione e mobilità, proprio perché i nuovi modelli di
pensiero non sono sorretti dal principio di causalità ma di
interdipendenza e circolarità. A questo punto l’assunto di De Cherckove
per cui al punto di vista della prospettiva rinascimentale si sostituisce il
“punto di essere” trova la sua giustificazione.
Da quanto sopra, stabiliti a grandi linee i caratteri più salienti che
emergono chiaramente anche ad un occhio poco incline ad osservare i
mutamenti vertiginosi che avvengono nella contemporaneità, è lecito
chiedersi: che senso ha l’ A-Zero dell’opera d’arte di Gino B. Cilio?
Essa a parer nostro chiude un’epoca, o meglio chiude l’epoca della
“Civiltà delle Macchine”.
Chiude l’epoca dell’atomo e del peso.
Chiude l’epoca dell’estensione corporea limitata all’attorno.
109
Chiude l’epoca in cui la sfera del privato e del pubblico erano
rigidamente separati.
Chiude l’epoca in cui la memoria non è più nella nostra mente, ma è
condivisa con altri attraverso quel gigantesco disco solare CD rom che è
la rete.
Chiude l’epoca di Gutemberg che ha fatto di ogni uomo un lettore.
Chiude l’epoca della prospettiva rinascimentale che bandiva il soggetto
dall’oggetto della visione.
Chiude l’epoca dello sguardo lineare e causale sul mondo delle cose.
Chiude l’epoca della lotta tra le idee e le cose, queste ultime dall’inizio
della civilizzazione dell’uomo hanno rappresentato la sua identità ma
oggi sono il “grande sconfitto”.
Chiude l’epoca della rappresentazione, del segno come rimando di
senso, dell’equivalenza segno-reale.
Apre l’epoca della “videocrazia”.
Apre l’epoca dell’immateriale e dell’ “Occhio ciclopico”.
Apre l’epoca del CD, dell’avveniristico computer quantistico.
Apre l’epoca della realtà virtuale, del 3D, che, contrariamente alla
prospettiva rinascimentale, ospita lo spettatore all’interno della scena.
Apre l’epoca dell’uso di nuovi strumenti di lettura che riescano a
cogliere ciò che sta accadendo attraverso uno sguardo che presta
attenzione al multidirezionale, interdipendente e circolare su un mondo
dematerializzato, virtualizzato che sposta lo sguardo del soggetto e il
senso del reale in un “altrove” in continua dislocazione.
Apre l’epoca della simulazione e del segno che non si scambia più col
referente reale, ma vive e si riproduce da sé.
Apre l’epoca del medium che trasforma dall’interno i sistemi simbolici
poiché il reale è costituito da cellule miniaturizzate di matrici, da
memorie che possono essere riprodotte all’infinito.
Apre l’epoca in cui non è possibile essere razionali poiché ancora non si
evidenzia una misura ideale collettiva.
Quanto sopra e molto altro ancora spezzano la continuità storica per
costruire un nuovo mondo, quello dell’immateriale/virtuale, iperreale,
fatto di flussi di immateriale che è poi il prodotto delle tecnologie
digitali, post-alfabetiche, autoreferenziali e policentriche. Di
conseguenza la dimensione del vivere diviene assolutamente altra e in
questa diversa dimensione del vivere non è possibile non essere “il
punto di essere”, non essere “essere digitali”.

110
UNA INTERPRETAZIONE: Il valore e/o l’insignificanza dello
spazio nella parola poetica.

Il demone bianco di luce impregnato


dona dominio su forme e colori.
Ma basta una X nell’oceanico sogno
perché l’orma si oscuri e il linguaggio
sia “A-Zero”.

L’uomo si interroga e tace.

Tace……tace perché voce non suona e


il pensiero abbandona la mano veloce.

Buio.
Mancanza.
Non forma.
Solo un riquadro nell’abisso calato
del nero assoluto
________________________________________________________________________
_____________________________

Il demone bianco di luce impregnato


dona dominio su forme e colori.
Ma basta una X nell’oceanico sogno
Perché l’orma si oscuri e il linguaggio
sia “A-Zero”.
L’uomo si interroga e tace.
Tace……tace perché voce non suona
e il pensiero abbandona la mano veloce.
Buio. Mancanza. Non forma. Solo un
riquadro nell’abisso calato del nero
assoluto.
________________________________________________________________________
_____________________________

111
Ildemonebiancodiluceimpregnatodonadomini
osuformeecolorimabastaunaXnelloceanicos
ognoperchèlormasioscurieillinguaggiosiaAZ
eroluomosiinterrogaetacetacetaceperchév
ocenonsuonaeilpensieroabbandonalamanov
elocebuiomancanzanonformasolounriquadro
nellabissocalatodelneroassoluto
__________________________________________________________
_______________________

I ld emone bia ncodil uc ei mpre gn


atodo nado mi nios ufor meecol or
imab ast aun aXne l locea nicos og
nop erchél or masio sc uriei llin gu
aggio siaA Z E R0lu o mosii nterr
o ga etaceta ceta ceper chév ocen on
suo naeilp ensie roabba donala man ovel
ocebui omanc anzano nf ormas olounriq
uadr 0 o ne llabis soca lato rel eroass oluto

A-Zero

112
CURRICULUM
2005 Casa italiana Zerilli-Marimò – New York
2005 Bazart - Milano
2004 Palazzo del Senato di Siracusa Seminario: “Intorno al Nulla”
Artista Gino Cilio, Prof. Sergio Givone e Dr. Ferdinando Schiavo
2004 Le Segrete di Bocca- Milano
“Spazio Vitale in” - Catania
Libro d’Artista alla Galleria “La Tana” - Roma
Libro d’Artista – Collezione Archivio Gino Gini - Milano
Formella – Libreria Bocca - Milano
Mail Art – Sharja Art Museum – United Arab Emirates
2003 “ L’altro” - Galleria Arte Contemporanea - Palermo
Ciminiere - Catania
Mostra-Progetto per scultura nella Basilica di San Francesco ad
Assisi
Protomoteca del Comune di Roma- Conferenza-dibattito sul
Progetto “A-Zero”
2002 Progetto A-Zero – Galleria “Spazio Vitale”- Catania
Progetto A-Zero – Galleria “Il Labirinto”-Roma
2001 Progetto A-Zero: produzione di “non-cataloghi”.
Overseas – Percezioni dinamiche – Miami- (USA)
Roma-New York- “Galleria Monogramma” – Roma
Installazione – Galleria “Il labirinto” Roma
Performance Plaça de Catalunya – Barcellona (Spagna)
Mostra-Performance-Installazione – Falerna (RC)
Biennale d’Arte – Monterosso Calabro
Galleria Qal’at - Caltanissetta
2000 “Oro-Argento e…..” – Galleria “Monogramma”- Roma
Galleria dell’Accademia” - Agrigento
1999 Performance – “Piper” – Roma
Mostra Galleria “Dei Serpenti” – Roma
1998 Galleria d’arte contemporanea “Monogramma” – Roma
1997 “Villaggio Globale” - Roma
1996 Spazio Espositivo Comune di Acireale- Catania
Museo Comunale di Anzio – Roma
1995 Mostra itinerante Amsterdam-Parigi-Bruxelles
1994 Spazio Espositivo “Notegen” – Roma
1993 Spazio Espositivo “Picasso”- Roma
1992 Art Mail – Museo Civico – Taverna (RC)
Galleria “Cafè Bagarre” Lamazia Terme
1991 Arte Contemporanea – “Galleria Ezio Pagano” – Bagheria (PA)
1990 Performance – Palazzo Cenci – Roma
1989 Galleria “Il quadrifoglio” – Siracusa
1987 Biennale Nazionale d’arte Sacra – Siracusa
113
1986 Expo Internazionale – Bari
1985 Nuovi aspetti dell’Arte nel siracusano – Studio “Arti Visive” –
Siracusa
1983 Circolo di Cultura “Ras” – Milano
1980 Galleria “Leonardo da Vinci”- Seraing (Belgio)
1979 Galleria “Galileo Galilei” – Bruxelles (Belgio)
1977 Galleria “Rey” – Biel-Bienne (Svizzera)
1972 Accademia Internazionale di Salisburgo (Austria)
Galleria “Horst Behrent” – Berlino – Germania
1971 Galleria d’arte contemporanea – Brunssum – Olanda

BIBLIOGRAFIA

Argan C., L’arte moderna 1770/1970, ed. Sansoni, 1970


Barlli R., in Novecento, Sperimentalismo e tradizione, Ed. Motta,
Barthes R., Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino, 1982
Bellonzi F., L’arte nel secolo della tecnica, ed. De Luca, Roma, 1958
Bonito Oliva A., Il sogno dell’arte, Spirali Edizioni, Milano, 1981
Brandi C., Le due vie, ed. Laterza, Bari, 1966
Cagliano S., Uomini e mostri in Terzo occhio, Marzo 2004
Calvesi M., in Novecento, vol. X, ed. Marzorati, Milano, 1980
Corà B., Vincenzo Agnetti, ed. Peccolo, Livorno, 1997, N° 33
D’Angelo P., Estetismo, ed. Il Mulino, Bologna, 2003
Duque F., L’arte pubblica nello spazio politico, in Estetica 1/2004, ed. Il
Melangolo
Eco U., Opera Aperta, Tascabili Bompiani, 2^ ed. 1976
Flora F. Storia della letteratura italiana, ed. Mondatori, 1966, vol. V°
Focillon H., Vie des formes, Paris, 1934, trad. it. S. Bettini, Torino, 1972
Givone S., Storia del nulla, ed. Laterza, 2003
Hegel F., Estetica, trad. N. Merker e N. Vaccarino, Einaudi, Torino, 1976
Heiddeger M., Introduzione alla metafisica, Mursia, 1968
Menna F., La linea analitica dell’arte moderna, Einaudi, Torino
Negroponte N. Essere digitali, Sperling & Kupfer editori, Milano, 1997
Schwarz A., Marcel Duchamp, ed. Electa, 1988
Starobinsky J., L’occhio vivente, ed. Einaudi, Torino, 1975
Venturi L. Teoria e storia della critica, in Saggi di critica, ed. Bocca
Roma, 1956
Wilde O., Opere, a cura di D’Amico, ed. Mondatori, Milano, 1992

114
115

Potrebbero piacerti anche