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N ARRATIVA
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OVECENTO

—6—

Collana diretta da Anna Dolfi

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LUCIANO CURRERI
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LE FARFALLE DI MADRID
L’ANTIMONIO, I NARRATORI ITALIANI
E LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA

BULZONI EDITORE

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compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171
della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-223-3

© 2007 by Bulzoni Editore


00185 Roma, via dei Liburni, 14
http://www.bulzoni.it
e-mail: bulzoni@bulzoni.it

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INDICE
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«Giravamo intorno a Madrid come di notte le farfalle


intorno al lume». Prodromi e postumi sciasciani
11 1. Storia, filosofia, critica sociale e impegno politi-
co: approssimazioni a un’etica del linguaggio ne
L’antimonio (1960)
42 2. Contro la sindrome dell’ultimo intellettuale e
l’esigenza di totalità
48 3. «Sapete che cosa è stata la guerra di Spagna? che
cosa è stata veramente?»
56 4. «Farfalle intorno al lume». Breve storia di un’im-
magine
61 5. Il fuoco, la paura, la memoria, l’infanzia e «i ra-
gazzi affamati con fame anche di città nuove e
mondo da vedere»
101 6. Conclusioni provvisorie e aperture

Un quarto di secolo di tradizioni perdute (1936-1960) e


un rapido sconfinamento
119 1. «E poi mi piace chiacchierare». Problemi di un
discorso letterario sulla guerra civile spagnola e
concatenazioni dell’immaginario tra passato e
presente
153 2. Prima di Sciascia. Tradizioni perdute o inesi-
stenti?
228 3. Dopo L’antimonio. Un rapido sconfinamento

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Tra Madrid e Guernica. Aggiornamenti sulla narrativa ita-
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liana, la guerra di Spagna e le sue città ferite (1991-2006)


243 1. Oggi: limiti cronologici e ipotesi di rassegne tra
Novecento e Duemila
277 2. Appunti sul ritorno della guerra civile spagnola
in altri narratori italiani e stranieri (traduzioni,
interviste, recensioni)
296 3. Romanzi, racconti e percorsi tematici: Madrid,
Guernica e le altre città ferite nella narrativa ita-
liana

315 Postfazione

323 Indice dei nomi

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Ai miei genitori, Antonio e Luisa,


e ai miei due nonni:
Matteo Curreri (Grotte 1903-Torino 1984),
peregrino antifascista
per via di un suo « preferirei di no»...
e Paolo Scalabrin (Quartiere 1922-Russia 1942 [?]),
scomparso in un’altra guerra,
che forse era la stessa...

Qualcuno insinuò che stesse per scoppiare una bomba,


come si era visto di recente in un film sulla rivoluzione
russa.
– Dura da tanto tempo la guerra, nonna ?
– No, figlia mia, quella di oggi è un’altra guerra. E altre
ne verranno ancora.

Fabrizia Ramondino, Guerra di infanzia e di Spagna

[...] volgendosi ora a Robert Jordan come se parlasse a


una scolaresca, quasi come se tenesse una conferenza.
[...]
«E poi mi piace chiacchierare. È l’unica cosa civile che
ci è rimasta. Come potremmo distrarci, altrimenti ?
Quello che dico non t’interessa forse, Inglés?»

Ernest Hemingway, Per chi suona la campana

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«GIRAVAMO INTORNO A MADRID COME DI
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NOTTE LE FARFALLE INTORNO AL LUME»


PRODROMI E POSTUMI SCIASCIANI

1. Storia, filosofia, critica sociale e impegno politico: approssi-


mazioni a un’etica del linguaggio ne «L’antimonio» (1960)

Titolare e iniziare con una citazione è un vizio. Ma citare


Leonardo Sciascia per la guerra civile spagnola (1936-1939) è
una virtù. Perché Sciascia, con L’antimonio, il lungo racconto che
chiude la seconda edizione de Gli zii di Sicilia (1960), è uno dei
pochi narratori italiani del Novecento ad essersene ricordato e ad
averne sposato il dramma, a partire dalla sua regione e con un « io
narrante» che – dice con garbo e fermezza Claude Ambroise 1 –
« nonostante la raffinatezza della modellizzazione narratologica»,
cui faremo parco ricorso nel paragrafo 4, « rimane il segno, quin-
di la concreta manifestazione, di una ambivalenza nella quale
“io” si identifica, sì e no, con l’autore in carne e ossa» 2.

1
Claude Ambroise, Il libro nel libro, in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Leo-
nardo Sciascia (1992), II ed. a cura di Maria Lucia Ferruzza, Palermo – Racalmu-
to, Fondazione L. Sciascia – Fondazione G. Whitaker, 1998, [pp. 39-45], p. 40.
2
E, oltre a ribadire l’importanza e il ruolo dell’autore, al di là delle sue varie,
inevitabili morti, ci sembra che il forte suggerimento di Ambroise sia da misurare
in relazione a quella « ondata narratologica degli anni settanta» che in modo para-
dossale ha contribuito, secondo Carlo Alberto Madrignani, « a smaterializzare
l’oggetto-romanzo sottraendolo alle dinamiche del contesto», ovvero anche a ren-
dere in parte la narrativa un’entità astratta (astorica, afilosofica, apolitica), senza
una vera collocazione nel passato e nel presente, contesti lunghi di una ricezione
dialettica, di una storia della critica che, quando non è stata più storia (storia del
passato e del presente insieme) ma solo critica (e soprattutto teoria critica), è en-
trata sempre più in crisi. Cfr. l’intervista a Carlo Alberto Madrignani di Mariolina
Bertini e Lidia De Federicis pubblicata su «L’Indice», 9, 2005, p. 13.

11

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Ma se « l’io narrante non va esclusivamente identificato con
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la serie ex-zolfataro siciliano, reduce di guerra, futuro bidello» 3,


la Sicilia non va esclusivamente rintracciata nella regione natale
di Sciascia, più o meno presentificata e legata alla generazione
dello scrittore. Anche se quest’ultima è simbolica delle genera-
zioni che non devono dimenticare – verso le quali sembra dav-
vero muovere l’ex-zolfataro siciliano nel finale dell’Antimonio –
e forse pure di « un presente che si risolve nell’azione [...] in
connessione con un’idea di futuro, anche ravvicinato» 4.
La Sicilia come tale, comunque, contiene i prodromi della
guerra, in senso storico, concreto, collettivo, con l’Italia fascista
che eredita i « poveri disoccupati delle Due Sicilie» e li impiega
nelle guerre d’Etiopia, di Spagna e poi in « un’altra, magari più
grande» 5. La stessa Sicilia, poi, raccoglie provvisoriamente i po-
stumi del conflitto, ma non si presenta come un point d’ancra-
ge. La regione di Sciascia non è un approdo, non può accogliere
i postumi della guerra, ma solo farli transitare. Perché la guerra
c’è stata – c’è ancora (le « tremende cose che io avevo vissuto e
che la Spagna viveva») 6 – e non può risolversi nel siciliano oriz-
zonte di partenza, magari in seno a un’« astrazione – come dire ?
– geografico-climatica» 7.

3
C. Ambroise Il libro nel libro cit.
4
Lionello Sozzi, Vivere nel presente. Un aspetto della visione del tempo nella
cultura occidentale, Bologna, il Mulino, 2004, p. 12.
5
Leonardo Sciascia, L’antimonio, in Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi,
«Coralli»,1960, II ed., ché la prima, senza L’antimonio, appare nei «Gettoni»,
nel 1958; nel 2005 Einaudi l’ha ristampata in una «Edizione fuori commercio
riservata ai clienti dell’organizzazione rateale». Noi citiamo dall’ottava edizione
dei «Nuovi Coralli» del 1980 (la prima è del 1972), pp. 204 e 216. Cfr. Le Edi-
zioni Einaudi negli anni 1933-2003, Torino, Einaudi, «Piccola Biblioteca Ei-
naudi», 2003, p. 730.
6
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 227.
7
L. Sciascia, Il Gattopardo (1959), in Pirandello e la Sicilia, Caltanissetta,
Salvatore Sciascia Editore, 1961 e 1968, ora in Opere 1984.1989, a cura di
Claude Ambroise, Milano, Bompiani, «Classici», 1991; ma si cita dall’edizione
dei «Classici» in brossura, 2002, [pp. 1160-1169], p. 1161: «La Sicilia del Gat-

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E ciò, si badi, non significa sposare il criterio del « romanzo
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[...] senza retroterra e perfino senza terra (in nome del rifiuto
idealistico di parlare di racconto siciliano, sardo, toscano o di
altri contesti)», con cui giustamente polemizza Madrignani di
recente 8. Del resto e non a caso, con parole dello stesso studio-
so, possiamo allontanare la Sicilia sciasciana da « colorito loca-
le» e « scetticismi lungimiranti» 9 e distanziare, nello specifico,
L’antimonio dal cronologicamente vicino Il gattopardo (1958)
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
In tal senso, anzi, L’antimonio, del 1960, sembra quasi di-
ventare la romanzesca risposta di Sciascia al Gattopardo, dopo
quella critica del 1959 10, e prima de Il consiglio d’Egitto (1963),
l’« antigattopardo» per Giancarlo Vigorelli, come è noto 11. Di
più. Forse come esperimento di « romanzo storico» – ovvero,
secondo lo stesso Sciascia, come « opera [...] in cui gli accadi-
menti rappresentati sono parte di una “realtà storicizzata”, cioè
conosciuta e situata, nel suo valore e nelle sue determinazioni,
in rapporto al presente» 12 – L’antimonio sembra pure diventare

topardo ha un vizio di astrazione – come dire ? – geografico-climatica».


Sull’evoluzione del giudizio di Sciascia sul Gattopardo, nell’arco, almeno, di un
ventennio, dal 1959 al 1979, cfr. Manuela Bertone, Tomasi di Lampedusa, Pa-
lermo, Palumbo, 1995, pp. 99-100.
8
Cfr. ancora l’intervista a Carlo Alberto Madrignani di Mariolina Bertini
e Lidia De Federicis pubblicata su «L’Indice», 9, 2005, p. 13.
9
Carlo Alberto Madrignani, Cassola e altri « buoni maestri», in L’ultimo
Cassola. Letteratura e pacifismo, Roma, Editori Riuniti, 1991, [pp. 85-105], p.
97, che conclude: « la linea gattopardesca è la quintessenza di questo siciliani-
smo autoassolvitore».
10
Cfr. ancora L. Sciascia, Il Gattopardo (1959) cit., ma anche Mario Alica-
ta, Il principe di Lampedusa e il Risorgimento italiano (1959), in Scritti letterari,
Introduzione di Natalino Sapegno, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 337-353.
11
Sul «Tempo», 26 febbraio 1963, citato in C. Ambroise, Introduzione a
Sciascia, Milano, Mursia, «Invito alla lettura», 1974 e 1983, p. 219.
12
L. Sciascia, Verga e il Risorgimento (1960), in Pirandello e la Sicilia cit.,
poi in Opere 1984.1989 cit., p. 1147. Nunzio Zago – che pure dà ragione a
Sciascia quando questi riconosce che nel Gattopardo il presente si fa passato, « è
sottoposto – per così dire – a un’operazione di invecchiamento» – dice che « il

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la versione sciasciana di C’è stata la guerra (1945), che apre la
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terza sezione, Politiques, di Sens et non sens (1948) di Maurice


Merleau-Ponty e da cui è utile citare qualche riga per il prosie-
guo del nostro discorso.

Siamo stati portati ad assumere e a considerare come nostre non


solo le intenzioni e il senso che i nostri atti hanno per noi, ma an-
che le conseguenze esterne di tali atti, e il senso che assumono in
un certo contesto storico 13.

In « un certo contesto storico», quale è quello rappresenta-


to dalla guerra civile spagnola, il duplice investimento del nar-
ratore sciasciano – il suo rendersi intimamente partecipe del
conflitto e insieme il suo sposare le « conseguenze esterne» di
tale, intima partecipazione – è all’origine di uno dei racconti
più riusciti e complessi della narrativa italiana del Novecento.
In esso, il contesto storico non è un semplice scenario del passa-
to – « sfondo o atmosfera» 14 – e la sua frequentazione deve in-
verare nel presente quei « valori di libertà, autenticità, traspa-
renza» che resterebbero « puramente nominali, senza un’infra-
struttura sociale ed economica che li traduca in realtà»: «Lo

problema è ben altro: è che lo scrittore [Tomasi di Lampedusa] si trova al di là


della nozione lukácsiana di realismo, e che quindi il modello canonico, ottocen-
tesco, di “romanzo storico” gli va stretto, gli appare ormai inadeguato». Cfr.
Nunzio Zago, I Gattopardi e le Iene. Il messaggio inattuale di Tomasi di Lampe-
dusa, Palermo, Sellerio, 1983, p. 36.
13
Maurice Merleau-Ponty, C’è stata la guerra (1945), in Senso e non senso
(1948). Introduzione di Enzo Paci, Milano, il Saggiatore, 1962, [pp. 169-
183], p. 175. Per la presa di posizione di Merleau-Ponty in relazione alla guerra
civile spagnola cfr. Guy Hermet, La guerre d’Espagne, Paris, Seuil, «Points – Hi-
stoire», 1989, p. 239: «En mai [1937] succède à ce premier manifeste un se-
cond texte s’élevant contre les bombardements de Durango et de Guernica, au-
quel s’associent pour la première fois des hommes comme François Mauriac,
Charles Le Bras, Gabriel Marcel, Merleau-Ponty, Claude Bourdet et Georges
Bidault. Un peu plus tard [...]».
14
L. Sciascia, Verga e il Risorgimento (1960) cit., p. 1147.

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strumento che permetterà l’inveramento dei valori di un uma-
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nesimo che non voglia restare astratto, ma si faccia forza di tra-


sformazione della situazione umana, è la politica». E « la que-
stione politica viene posta a partire dall’orizzonte di un esisten-
zialismo, incentrato intorno all’analisi della radicazione della
soggettività nel mondo, e aperto ai motivi dell’intersoggettività,
della società, della storia» 15.
I « motivi dell’intersoggettività, della società, della storia» e
l’« analisi della radicazione della soggettività nel mondo» mettono
in contatto, nel racconto di Sciascia, i prodromi (fra cui è anche
« la politica [che] ci sembrava impensabile [...] prima della guer-
ra», sempre secondo Merleau-Ponty 16) e i postumi della guerra:
postumi che, nell’anno della prima edizione de Gli zii di Sicilia
(1958), The Human Condition (1958), « le livre de la résistence
et de la reconstruction» di Hannah Arendt, recupera proprio alla
politica, dopo « le paradoxe épistémologique sur lequel se brise
Les origines du totalitarisme (1951)» 17. Prodromi e postumi sono
poi collocati (e dialetticamente dinamizzati) in seno a un « ritor-
no» che non è soltanto l’approdo del reduce di guerra, del milite

15
Ornella Pompeo Faracovi, Filosofia e politica, in Merleau-Ponty. Esisten-
za, Filosofia, Politica, a cura di Giovanni Invitto, Napoli, Guida, 1982, [pp.
173-197], pp. 176-177 e 175.
16
M. Merleau-Ponty, C’è stata la guerra cit., p. 175.
17
Cfr. Paul Ricœur, Préface (1983) all’edizione francese di Hannah
Arendt, Condition de l’homme moderne, Paris, Calmann-Lévy, 1961 e 1983, poi
Paris, Presses Pocket, «Agora», 1988, [pp. 5-32], pp. 14 e 12. Alcune piste di
lettura di Ricœur relative ai fertilissimi anni Cinquanta vengono confermate
dalla pubblicazione di H. Arendt, Denktagebuch (1950-1973), München, Piper
Verlag GmbH, 2002, di cui è recente l’edizione francese, Journal de pensée
(1950-1973), Paris, Seuil, 2005, volume I, pp. 45-512, e volume II, pp. 667-
803; questo diario di lavoro ci aiuta a capire meglio l’articolazione tra Le origini
del totalitarismo – con le bozze corrette nel 1951, alle origini del journal – e La
condizione dell’uomo moderno (1958), tra il lato critico e quello costruttivo
dell’opera arendtiana, specie in relazione al tema della politica, alla sua possibi-
lità, alla sua umanità e alla sua fragilità, alla responsabilità e alla salvaguardia di
un mondo comune, plurale.

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mutilato, ma uno scenario della soggettività che anche come dato
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più intimo, individuale, riceve e amplifica quello storico, colletti-


vo, fino a saldare « quegli esseri singoli ognuno dei quali è di per
sé un mondo» 18 con la human condition.
La mutilazione, allora, è già la « forza di trasformazione del-
la situazione umana»: la mano perduta è il corpo sociale perdu-
to, da cui ci si stacca, come vedremo, anche secondo modalità
note di critica sociale e impegno politico, e al tempo stesso è il
corpo sociale nuovo che si profila nel finale aperto del racconto:
«Voglio vedere cose nuove» 19. Di più. Nella coppia dei prodro-
mi-postumi della guerra civile spagnola – che contempla un
doppio iter del protagonista quale «Sicilia-Spagna-Sicilia-altro-
ve» (altrove italico, certo, ma con la «Spagna nel cuore» 20) –
L’antimonio si sforza complementarmente di esperimentare le
forme d’esercizio del potere e le forme di padronanza di sé, gra-
zie, per l’appunto, a una soggettività esposta che, quasi come in
« una “iniziazione” del soggetto, o ancora meglio una “iniziazio-
ne al soggetto”» 21, non è mai sconnessa da « tutti gli altri uomi-
ni» e da un « esercizio etico» che non è certo « la decisione carte-
siana di un soggetto filosofico che rivolge su se stesso, in circo-
stanze neutre e comunque ottimali per l’esperimento, il raggio
della luce intellettuale» 22:

18
M. Merleau-Ponty, C’è stata la guerra cit., p. 175.
19
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 230.
20
L. Sciascia, Ore di Spagna. Introduzione di Natale Tedesco, Fotografie
di Ferdinando Scianna, Marina di Patti, Pungitopo, 1988, poi Milano, Bom-
piani, 2000, p. 29.
21
Carlo Sini, Etica della scrittura, Milano, Il Saggiatore, 1992, p. 215, ci-
tato in Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio, Mila-
no, Feltrinelli, 1994, pp. 31-33.
22
Ivi, p. 31. Ma cfr. ancora C. A. Madrignani, L’ultimo Cassola. Letteratu-
ra e pacifismo cit., p. XV: «I filosofi non accettano lezioni dai fatti. Le Idee han-
no una loro spontanea superiorità che aspetta di essere « inverata» nelle vicende
del basso mondo. Solo gli uomini comuni, quelli tanto amati da Cassola [e an-
che da Sciascia, per Madrignani, che non casualmente lo colloca, ripetiamolo,
fra i « buoni maestri» che costituiscono l’orizzonte letterario e civile di Cassola;

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Io sono andato in Spagna che sapevo appena leggere e scrivere
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[...] e son tornato che mi pare di poter leggere le cose più ardue
che un uomo può pensare e scrivere. E so perché il fascismo non
muore, e tutte le cose che nella sua morte dovrebbero morire son
sicuro di conoscere, e quel che in me e in tutti gli altri uomini do-
vrebbe morire perché per sempre il fascismo muoia 23.

Si badi. Non si tratta del «“microfascismo” della vita di tut-


ti i giorni» su cui si concentra quel Michel Foucault che, per
Michael Walzer, « ha poco da dire sulla politica autoritaria e to-
talitaria» e « sembra non credere in via di principio all’esistenza
di un dittatore o di un partito o di uno stato [...]» 24. L’antimo-
nio, a questo proposito, è molto chiaro, come vedremo 25.

ivi, pp. 85-105], che non attingono all’altezza del Pensiero Assoluto, credono
che dall’esperienza possa nascere qualche forma di sapere e lumi per la prassi».
23
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 204.
24
Michael Walzer, La politica solitaria di Michel Foucault, in L’intellettuale
militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento (1988). Introduzione
di Saverio Vertone, Bologna, il Mulino, 1991, [pp. 245-267], p. 260.
25
E non si tratta nemmeno del « fascismo eterno» di cui parla a più riprese,
dal 1995 ad oggi, Umberto Eco, talora con (più o meno) esplicita lettura di un
ventennio all’acqua di rosa e soprattutto con « interpretazione a-storica e trans-po-
litica», giustamente rilevata da Alessandro Campi in un intervento del 1996.
L’anno successivo, invece, per Antonio Tabucchi il saggio di Eco è « davvero con-
siderevole», ché « le etichette cambiano, la sostanza resta». Cfr. Umberto Eco,
Totalitarismo « fuzzy» e Ur-Fascismo, «La Rivista dei Libri», 7-8, 1995, e con tito-
lo Il fascismo eterno in Cinque scritti morali, Milano, Bompiani, 1997, pp. 25-48,
breve raccolta i cui temi sono in parte ripresi nel più imponente (e più politico) A
passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico, Milano, Bompiani, 2006.
Per l’« interpretazione a-storica e trans-politica» di Eco cfr. Alessandro Campi,
Che cos’è Alleanza nazionale, «Trasgressioni», 21, 1996, e ora in Il nero e il grigio.
Fascismo, destra e dintorni, Roma, Ideazione Editrice, 2004, pp. 455-499; in par-
ticolare pp. 461 e 491. Su questa raccolta d’articoli, spesso « acuta», che ci per-
mette di seguire la parabola del fascismo, dalla sua fondazione alla Repubblica so-
ciale italiana di Salò e fino ad Alleanza Nazionale, cfr. il giudizio positivo di Bru-
no Bongiovanni, Un’associazione a delinquere. Il fascismo tra parentesi e totalitari-
smo, «L’Indice», 3, 2005, p. 7. Si scorra infine Antonio Tabucchi, La gastrite de
Platon, Paris, Mille et une nuits, 1997 e La gastrite di Platone, Palermo, Sellerio,

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Per Sciascia, far transitare per la Spagna e la guerra civile
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spagnola l’iniziazione sopra citata non significa evadere facil-


mente il punto di vista del povero e anonimo disoccupato delle
«Due Sicilie» ma cercare piuttosto di andare al di là del corto
circuito continuo tra regressione ed emancipazione o, se si vuo-
le, tra mimetismo, certo rilevabile a livello stilistico 26, e solilo-
quio d’impronta autoriale.
Il letterario (e in parte cinematografico) « mixare linguaggi
e codici non solo eterogenei, ma pure divaricati, vale a dire col-
tissimi e plebei» – a livello etico, e non solo, messo bene in luce
da Antonio Di Grado – non deve far necessariamente scompa-
rire Sciascia come intellettuale nella storia della ricezione e ma-
gari confinarlo del tutto – con giudizio prospettico forse in par-
te legittimo ma certo non valido come lettura retroattiva – nel
registro più disimpegnato di quel ‘postmoderno’ e/o di quel
« vasto “ceto medio culturale” in cui cultura alta e cultura di
massa si confondono», secondo, per esempio, le disavventure
dell’impegno tracciate e raccolte, lungo gli anni Ottanta e No-
vanta, ne L’esteta e il politico (1986) e L’eroe che pensa (1997),
da Alfonso Berardinelli 27.
Leonardo Sciascia pare muoversi piuttosto, in talune sue
opere ( le prime, soprattutto), verso l’esigenza di stare discosto
da se stesso, come suggerisce a più riprese Giuseppe Traina nei
suoi ultimi interventi sciasciani. All’altezza de L’antimonio

1998, p. 58, pamphlet dove un altro intervento dello stesso Eco è il punto di par-
tenza polemico dell’autore di Sostiene Pereira (1994), particolare romanzo di for-
mazione di un eroe intellettuale âgé, su cui cfr. il terzo capitolo di questo volume.
26
Enrico Testa, Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Torino, Einaudi,
1997, p. 274.
27
Antonio Di Grado, Sciascia, il cinema e (fra l’altro) l’Europa: (bianco e)
nero su nero, in « Quale in lui stesso alfine l’eternità lo muta». Per Sciascia, dieci
anni dopo, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore e Fondazione L. Scia-
scia, 1999, [pp. 65-74], p. 68. E cfr. Alfonso Berardinelli, L’esteta e il politico.
Sulla nuova piccola borghesia, Torino, Einaudi, 1986, e L’eroe che pensa. Disav-
venture dell’impegno, Torino, Einaudi, 1997.

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dal successo, perché si concretizza, come vedremo in dettaglio


più avanti, in un’istanza plurale che sfuma e allontana il narci-
sismo d’artista. E potremmo quasi dire – ricuperando Sciascia
al presente in questa prospettiva, almeno dagli anni Sessanta ai
Novanta, anni di bilanci intensi per il nostro e per il Novecen-
to – che lo scrittore siciliano pare muoversi verso « l’esigenza di
stare discosti da noi stessi, di prendere tempo e spazio sul no-
stro narcisismo» e finanche verso il riconoscimento di un’illu-
sione: « L’illusione [...] che il soggetto parlante sparisca: spari-
sca non come enunciante della frase ma perché vi ha preso
completamente dimora » 28. Nell’alveo di questa illusione, il
punto di vista del povero e anonimo disoccupato delle « Due
Sicilie » diviene parte integrante e importante di un esercizio
etico, di un’etica del linguaggio. Tale linguaggio, poi, non
smarrisce e non bolla il povero e anonimo disoccupato, il mili-
te mutilato e il futuro bidello, che tendono via via ad abitarlo
come figure della distanza 29.

28
P. A. Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio cit., pp. 23
e 24.
29
Né li consegna « all’intolleranza più tremenda», come vorrebbe in fin dei
conti Eco, a cui piace identificare tale intolleranza in « quella dei poveri, che sono
le prime vittime della differenza», e affidarla a scritti che si vogliono « morali» e
che sembrano invece rispondere – nei generici e non condivisi assiomi – a quel
diffuso « engagement alla rovescia» in virtù del quale – secondo l’Adriano Sofri
raccolto dal Tabucchi della citata Gastrite di Platone – « alcuni intellettuali nostri
coevi impegnano strenuamente la propria firma per prendersela coi poveri, i de-
boli, i malvisti». Dice Eco: «Non c’è razzismo tra i ricchi. I ricchi hanno prodot-
to, se mai, le dottrine del razzismo; ma i poveri ne producono la pratica, ben più
pericolosa». Certo, se sfumiamo l’uso di due categorie così generiche e, più sot-
tilmente, ne facciamo una questione d’istruzione o ancora di disagio sociale
complessivo, come pare fare Eco in altri interventi (A toutes fins utiles, in Jean-
Claude Carrière, Jean Delumeau, Umberto Eco, Stephen Jay Gould, Entretiens
sur la fin des temps, réalisés par Catherine David, Frédéric Lenoir et Jean-Philip-
pe de Tonnac, Paris, Fayard, 1998, pp. 235-295, in particolare pp. 262-264), al-
lora le coordinate di Eco possono in parte tornare utili; non tanto, comunque,

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Stare discosto da se stesso e stare discosti da noi stessi, nel
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duplice e progressivo senso sopra indicato, non significa essere


distaccato/i. E contro l’immagine di uno Sciascia distaccato e
magari anche nutrito di quell’« estraneo, e indicativo, distacco»
rimproverato a Giuseppe Tomasi di Lampedusa 30 (e poi com-
preso, in un giudizio meno categorico 31), e anche contro l’im-
magine di uno Sciascia sdegnato o scettico, tra ironia e buon
senso, simile in questo ad Eco, secondo un bilancio critico di fi-
ne secolo su cui ritorneremo 32, aggiungerei subito – con Paolo
Manganaro e un suo intervento del 1991 dedicato a Sciascia e la
Spagna – che nei testi sciasciani « alla fine, non c’è naufragio
con spettatore. Nessuna isola generazionale [o di classe]»:

per il milite mutilato ma per i vecchi e il segretario del fascio, che quali estremi
della comunità paesana oscillano fra ignoranza e propaganda verso la fine de
L’antimonio. Si scorra Umberto Eco, Le migrazioni, la tolleranza e l’intollerabile,
in Cinque scritti morali cit., pp. 93-113; in particolare p. 106. Poi, per le pagine
di Sofri, due lettere a Antonio Tabucchi pubblicate su «L’Espresso» il 16-10-
1997 e il 29-1-1998, cfr. A. Tabucchi, La gastrite di Platone cit., [pp. 63-72, 72-
76], p. 63 e anche p. 71: « Questa Italia, che non sa immaginare di chiedere per-
dono, ma sa esigerlo all’infinito e ritualmente dai battuti e dai deboli [...]». Ne-
gli stessi anni, l’ultimo Bobbio – così vicino al primo, quello raccolto in Politica
e cultura, Torino, Einaudi, 1955 e 2005, Nuova Edizione, con Introduzione di
Franco Sbarberi, oltre che nei saggi (1953-1992) de Il dubbio e la scelta. Intellet-
tuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci, 1993 – scriveva nelle
pagine iniziali dell’Autobiografia, a cura di Alberto Papuzzi, Roma-Bari, Laterza,
1997 e 1999, p. 9: «Siamo stati educati a considerare tutti gli uomini uguali, e a
pensare che non c’è differenza fra chi è colto e chi non è colto, chi è ricco e chi
non è ricco. Ho ricordato questa educazione a uno stile di vita democratico in
una pagina di Destra e sinistra, in cui confesso di essere sempre stato a disagio di
fronte allo spettacolo delle differenze, tra ricchi e poveri, tra chi sta in alto e chi
sta in basso nella scala sociale, mentre il populismo fascista mirava a irrigimenta-
re gli italiani in una organizzazione sociale che cristallizzasse le disuguaglianze».
Cfr. Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione po-
litica, Roma, Donzelli, 1994 e soprattutto la seconda edizione del 1995, richia-
mata in nota, con rinvio a p. 129.
30
L. Sciascia, Il Gattopardo cit., p. 1169.
31
Cfr. ancora M. Bertone, Tomasi di Lampedusa cit., pp. 99-100.
32
Cfr. il paragrafo 2 di questo capitolo.

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Il grande privilegio di questo scrittore che ci ha condannati a
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comprenderlo è che lui non è mai restato fuori, a tenere i fili, co-
me un burattinaio, dei suoi personaggi. Anche quando palese-
mente si tratta di una finzione, come nel caso dello zolfataro
dell’Antimonio, di una finzione intellettualistica, di un personag-
gio cui Sciascia assegnava gusto, sensibilità e pensieri che non po-
tevano competergli, anche in questo caso il nostro scrittore viene
subito allo scoperto, assume su di sé la responsabilità di ciò che
l’ombra o l’eidolon di uno zolfataro poteva dire 33.

Estendendo le osservazioni mirate di Paolo Manganaro


con quelle che Pier Aldo Rovatti dedica ai nostri tentativi –
« di noi abitatori di questa terra, uomini qualunque dell’oggi»
– di Abitare la distanza (1994), potremmo dire che non resta-
re fuori significa anche avere « il pudore di riconoscere di stare
all’interno del gioco, e dunque di essere giocati» : « il pudore
come distanza » non ci parla « della vita appartata di un saggio
che si allontana dalle cose del mondo», né di « un chiamarsi
fuori, come se il soggetto [...] che non si esaurisce nel soggetto
grammaticale, e perciò neanche in una dispersione di “io”,
avesse la possibilità di spostarsi o di essere già all’esterno, assu-
mendo per sé una delle figure della tradizionale gamma filoso-
fica che oscilla tra lo spettatore disinteressato e il “funzionario
dell’umanità”» 34.
Assumere su di sé la responsabilità di ciò che l’ombra o l’eídolon
di uno zolfataro poteva dire significa anche il rigetto – come sugge-
risce con forza Carlo Alberto Madrignani a proposito del « miglior
Sciascia, quello che ha lasciato un vuoto che non si vede come
possa essere colmato» – « di estasi paesaggistiche, di colorito locale,
di passionalità, di psicologismi “metafisici”, di scetticismi lungi-

33
Paolo Manganaro, Sciascia e la Spagna, in Omaggio a Leonardo Sciascia,
Atti del Convegno Internazionale di Studi, Agrigento 6-8 aprile 1990, a cura di
Zino Pecoraro ed Enzo Scrivano, Agrigento, 1991, [pp.191-197], pp. 192-193.
34
P. A. Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio cit., pp. 22,
12, 18.

21

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miranti» 35. Una prova in tal senso è già l’epigrafe de L’antimonio
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(1960), tratta da Conquistador (1932) di Archibald Mac Leish,


che abbraccia la causa repubblicana durante la guerra civile.

And the Cardinal dying and Sicily over the ears – Trouble enou-
gh without new lands to be conquered... We signed on and we
sailed by the first tide... 36

Non scordando che Sciascia crea un mito della sicilitudine


molto al di là (o al di qua) della realtà in cui realmente viviamo
e che talora si dispone perfino a contraddire tale visione mitiz-
zante, potremmo sempre segnalare con Paolo Manganaro che, a
partire da « una specie di “ontologia regionale”», tale epigrafe
vara, tra Sicilia e Spagna, una serie di « costruzioni culturali im-
pure, che non dovevano reggersi con un solo elemento, ma che,
come in una specie di struttura ad assi trasversali, si equilibras-
sero sull’intreccio e la compresenza di più elementi» 37.
Ancora. Tali costruzioni non poggiano solo su una fre-
quentazione sincronica di più elementi geografici, fisici, all’in-
terno del tempo dato e in qualche modo finito della finzione,
ovvero la seconda metà degli anni Trenta, ma li acquisiscono
diacronicamente e ne estendono in tal senso premesse e conse-
guenze storiche lungo il tempo delle generazioni che non devo-
no dimenticare: i prodromi della guerra della Sicilia-Spagna si
saldano così con i postumi della guerra della Spagna-Sicilia. La
ruse del « ritorno» a casa, al paese, non è più praticabile, e da un
pezzo. Non c’è Eden, non c’è mai stato, e il romanzo, il roman-
zo italiano moderno, quello che si suole far partire da Alessan-
dro Manzoni, è senza idillio 38.

35
C. A. Madrignani, Cassola e altri « buoni maestri» cit., pp. 96 e 97.
36
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 165.
37
P. Manganaro, Sciascia e la Spagna cit., p. 193.
38
Al problema dell’idillio nei Promessi Sposi ha dato « sistemazione decisi-
va» Ezio Raimondi, Il romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi sposi», Torino,

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Forse proprio come lettore di Manzoni, forse come scritto-
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re siciliano e erede di una sfida storica e romanzesca dell’Otto-


cento, Sciascia nega anche il « dettaglio del “lieto fine”». Tale
dettaglio – che, potremmo forse suggerire con Yosef Hayim Ye-
rushalmi, per lo storico (manzoniano) è dimora di Dio e per la
memoria (sciasciana) tende invece a presentarsi come divinità,
autorità, contro la quale bisogna insorgere 39 – è « chiave per in-
tendere I promessi sposi nei suoi limiti e nella sua grandezza» ed
è manifestazione dell’« uomo classico» e del « gran signore», ov-
vero della « superiorità» e della conseguente « ironia» di colui –
dice Sciascia citando Il Gattopardo – « che elimina le manifesta-
zioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione umana e
che esercita una specie di profittevole altruismo» 40.
Insomma, non c’è Eden e non c’è « lieto fine»; un lieto fine
magari introdotto, servito da un marchese manzoniano o da
uno di quei ricchi siciliani che – col coro del popolo tutto,
dell’intera società del paese, povera e ricca – nelle pagine finali
dell’Antimonio dicono al protagonista: « ti sei fatto i soldi, puoi
campare tranquillo ora» 41. E non casualmente, allora, nell’Anti-
monio, il ritorno, come vedremo, implica una partenza, un por-
tarsi « fuori della Sicilia», con finale aperto che circolarmente
recupera e sposa l’epigrafe 42.
Ma bisogna notare subito che in tal modo Sciascia vuole
suggerire al lettore un doppio cammino critico dell’eroe e pro-
prio in seno al tempo delle generazioni che non devono dimen-
ticare. Anche per questo l’eroe non ha nome e più facilmente
inscrive se stesso in una nozione di memoria collettiva –

Einaudi, 1974. Ma cfr. Guido Baldi, «I promessi sposi»: progetto di società e mito,
Milano, Mursia, 1985, pp. 10-12, 121-133, 185-196.
39
Yosef Hayim Yerushalmi, Riflessioni sull’oblio, in Yosef Hayim Yerushal-
mi, Nicole Loraux, Hans Mommsen, Jean-Claude Milner, Gianni Vattimo, Usi
dell’oblio (1988), Parma, Pratiche, 1990, [pp. 9-26], p. 21.
40
L. Sciascia, Il Gattopardo cit., pp. 1163, 1169 e 1162.
41
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 228.
42
Ivi, p. 230.

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halbwachsiana – e in una fenomenologia della memoria – hus-
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serliana e ricœuriana – che supera l’impasse del chi ricorda a fa-


vore, a vantaggio del che cosa si ricorda e anche del che cosa si
cerca di ricordare (che è poi la « quête d’un souvenir») 43.
Certo, Sciascia autore e critico – e eroe intellettuale (cate-
goria brombertiana del 1960) – assume la responsabilità finan-
che nominale di ciò che l’ombra o l’eídolon di uno zolfataro po-
teva dire, ma l’anonimato, l’essere anonimo di costui, deve an-
che e soprattutto pensare, dire, scrivere e servire un’esigenza
collettiva: in guerra come in pace, ovvero in quella pace che è
(ancora) guerra. Il nuovo milite ignoto, che non “dorme con-
tento”, non è battezzato e per questo sopravvive, fuggendo an-
che all’empia retorica del monumento ai caduti che – come
suggerisce sempre il Merleau-Ponty di C’è stata la guerra 44 –
trasforma le vittime in eroi: in falsi eroi.
Inizialmente, in seno a una spinta platonica, il cammino cri-
tico principia con l’eroe che lascia il paese – immaginabile con
una certa facilità, ai fini della partenza, come una buia caverna,
riassunto com’è nella miniera dei fuochi e delle ombre 45, nella
zolfara dell’antimonio – e che sembra trovare in Spagna l’illumi-
nazione della Verità, tanto che al suo ritorno gli « pare di poter
leggere le cose più ardue che un uomo può pensare e scrivere».
Questa nuova facoltà favorisce la critica del paese e dei suoi abi-

43
P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris, Seuil, 2000, pp. 3-4 e
112-163. Sulla « grande proposta» di Ricœur che intorno a questo libro gravita,
in relazione alla problematica storica, cfr. Giuseppe Ricuperati, Apologia di un
mestiere difficile. Problemi, insegnamenti e responsabilità della storia, Roma-Bari,
Laterza, 2005, pp. 143-160.
44
M. Merleau-Ponty, C’è stata la guerra cit., p. 169. E cfr. Victor Brom-
bert, The Intellectual Hero. Studies in the french novel (1880-1955), Chicago,
University of Chicago Press, 1960.
45
Sull’« allégorie platonicienne de la caverne», sulla quale torneremo a più
riprese, e sull’esilio perpetuo che deriva dall’« avoir affaire à des ombres, notre
lot selon Platon» cfr. ora il suggestivo iter letterario, pittorico e cinematografico
di Max Milner, L’envers du visible. Essai sur l’ombre, Paris, Seuil, 2005, pp. 11-
19, 391-411 e 431-437.

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tanti, dagli amici ai familiari, dai vecchi al segretario del fascio.
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Alla critica, in tal senso, è conferita pure, come è noto, una certa
autorità. Ma non è l’autorità a caratterizzare veramente l’eroe, che
non risulta « ingrandito» (anzi appare « ridotto») e non ha « posi-
zione di autorità» (e sembra incarnare, quasi in senso arendtiano,
la scomparsa sofferta dell’autorità, assenza dell’epoca moderna
che i sostenitori del totalitarismo sono stati abili a sfruttare) 46.
A questo stadio, però, il personaggio sciasciano si avvicina
piuttosto al « tipo camusiano di ribelle» 47, che non siede su uno
scranno di giudice come tanti filosofi – magari « nostalgici» (e
non è il caso della Arendt) – e si schiera invece dalla parte dei « va-
lori medi» e della « comune esistenza della storia e dell’uomo, del-
la vita quotidiana illuminata nel miglior modo possibile, dell’osti-
nata lotta contro la degradazione di se stessi e degli altri» 48. Anche

46
Maurizio Bettini, Alle soglie dell’autorità, in Bruce Lincoln, L’autorità.
Costruzione e corrosione (1994), Torino, Einaudi, 2000, [pp. VII-XXXIV], pp.
XXVI-XXIX, XX e XXXI. Del volume di Lincoln si veda poi, ai nostri fini, l’in-
teressante Appendice dedicata a Gli intellettuali e la guerra fredda. Alcune discus-
sioni sull’autorità negli anni Cinquanta e in particolare al famoso intervento
What was Authority? di Hannah Arendt – poi What is Authority? in Between Pa-
st and Future: Six Exercises in Political Thought (1961) – a un convegno del
1956 sull’autorità, « che si tenne dopo la caduta di McCarthy e i primi passi di
Chrus]c]ëv verso la destalinizzazione»; ivi, [pp. 132-148, 185-190], p. 144. Cfr.
H. Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991.
47
M. Walzer, La guerra d’Algeria d’Albert Camus, in L’intellettuale militan-
te. Critica sociale e impegno politico nel Novecento cit., [pp. 177-196], p. 193.
48
Ivi, pp. 185 e 192, che cita Albert Camus, L’artista e il suo tempo, « con-
ferenza tenuta in Italia in varie sedi tra il 26 e il 30 novembre 1955; un estratto
di questa conferenza è stato pubblicato sulla rivista «Il Ponte», XI, 1 (gennaio
1955), pp. 55-59»; ivi, p. 195. Ma cfr. anche l’« anomala» e omonima intervista
che risale al 1953 e che è stata tradotta e raccolta di recente nella prima sezione,
La passione della rivolta, di A. Camus, La rivolta libertaria. Prefazione di Goffre-
do Fofi, a cura di Alessandro Bresolin, Milano, Elèuthera, 1998, pp. 73-76 (pre-
sentazione del curatore a p. 31). In questa direzione e in relazione a Sciascia, si
veda poi C. Ambroise, Sciascia e la rivolta, nel ricco volume, La responsabilità
dell’intellettuale in Europa all’epoca di Leonardo Sciascia – Die Verantwortung des
Intellektuellen in Europa im Zeitalter Leonardo Sciascias, Atti del Convegno,
Pommersfelden 6-10 ottobre 1999, a cura di Titus Heydenreich, Erlangen,

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in Sciascia – come in Albert Camus, cui lo avvicina pure « la pro-
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sa [...] a volte troppo elevata, troppo “nobile” per cogliere dei va-
lori medi» – « prima viene la lotta contro la propria degradazione
e poi, per estensione, contro “quella degli altri” [...] l’onore co-
mincia con la lealtà verso se stessi, non con l’impegno ideologi-
co» 49 (la cui non priorità, che non è una « non scelta», non si tra-
duce comunque e necessariamente in un’assenza).
Un passo, che riporteremo più ampiamente fra poco, se-
gna, a due pagine dalla fine del racconto, questa postura intel-
lettuale del ribelle e dell’eroe:

Univ.-Bibliothek Erlangen-Nürnberg, 2001, pp. 165-186; in particolare, sulla


seconda edizione de Gli zii di Sicilia – che Ambroise fa risalire, anche rispetto al-
le sue indicazioni precedenti relative al 1960 (nella monografia di Mursia e nella
Cronologia delle Opere di Sciascia curate per la Bompiani), al 1961, ribadendo
il dato due volte (pp. 168 e 171), ma senza offrire riscontri – e su L’antimonio si
leggano le pp. 168-173 e 175-176, dove, a partire da L’homme révolté (1951), e
dalle sue prime battute (« Qu’est-ce qu’un homme révolté? Un homme qui dit
non»), si sottolinea che « per l’eroe/anti-eroe del racconto, l’esperienza della Spa-
gna è un apprentissage, l’apprentissage del dire di no, della rivolta, quindi» e, in
relazione al lien tra personaggio e autore di cui si diceva subito all’inizio del capi-
tolo e sempre con Ambroise, che « per una analisi relativa al significato de L’anti-
monio, non presenta grande interesse affermare formalmente che il soggetto
dell’enunciato e il soggetto dell’enunciazione sono un personaggio solo, se non si
sottintende, nello stesso tempo, l’esistenza di una particolare relazione tra autore
e personaggio, e non si sottolinea un rapporto tra il personaggio e la decisione di
scrivere; di scrivere della guerra di Spagna», perché « il testo è l’esperienza della
Spagna, quella registrata dal personaggio, e che va oltre la sua presa di coscienza
immediata» e « la scelta della scrittura consente di affermare sì la solidarietà con i
rivoluzionari, ma soprattutto un non voler abbandonare la coscienza della rivol-
ta» (p. 172). E spostandosi poi all’altezza di Candido ovvero un sogno fatto in Si-
cilia (1977), quando Sciascia « è sociologicamente riconosciuto come un grande
scrittore, è un uomo pubblico», Ambroise ripete che « affermare che tra il perso-
naggio di un racconto e l’autore del racconto esiste un rapporto, per cui il perso-
naggio è anche, per lo scrittore, un modo di situarsi, non significa cadere nel bio-
grafismo» e che « saltare da Gli zii di Sicilia a Candido [e oltre, fino al Cavaliere e
la morte e Una storia semplice] consente di delineare una prospettiva globale sotto
il segno della rivolta» (p. 175). Cfr. infine A. Camus, L’homme révolté, Paris,
Gallimard, 1951 e «Folio – Essais», 1991, p. 27.
49
M. Walzer, La guerra d’Algeria d’Albert Camus cit., pp. 185 e 192.

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[...] ma quando uno torna da una guerra come quella di Spagna,
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con la certezza che la sua casa brucerà dello stesso fuoco, non gli
riesce fare della sua esperienza ricordo e riprendere il sonno delle
abitudini; vuole anzi che gli altri stiano svegli, che anche gli altri
sappiano. 50

In tal senso, è l’intreccio di due istanze diverse ma comple-


mentari, non disgiunte ma dialetticamente connesse, quali mito
e attualità, e fors’anche quali presente estatico e presente che si
risolve nell’azione 51, è l’intreccio contemplabile nella platonica
caverna e nelle parole camusiane relative alla lotta contro la de-
gradazione che sembra costituire un’origine dell’Antimonio,
della sua prima e soprattutto della sua ultima parte, dove affiora
quell’eroe che lotta ostinatamente per sottrarre alla degradazio-
ne gli altri. Da notare e sottolineare poi che l’« ostinata lotta
contro la degradazione di se stessi e degli altri» è al centro di
una conferenza di Camus, L’artista e il suo tempo, tenuta in Ita-
lia in varie sedi e pubblicata parzialmente nel 1955 su «Il Pon-
te» 52, rivista che Sciascia leggeva avidamente.

Lotta, dunque, l’eroe, parlando della Spagna, dei poveri e


dei ricchi, della guerra, del fascismo, di Mussolini, e di fatto
veicolando giudizi sui suoi stessi destinatari, ovvero su quei
compaesani, dagli amici ai familiari, dai vecchi al segretario del
fascio, che non colgono il significato delle sue parole, evolute in
discorsi, in attività critica, finanche, per l’appunto, in giudizi.
Tali giudizi, però, non sono mai verdetti: sono giudizi polemi-
ci, certo, ma in essi non c’è alcuna pretesa di autorità 53: «L’atti-

50
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 228.
51
Cfr. ancora L. Sozzi, Vivere nel presente. Un aspetto della visione del tem-
po nella cultura occidentale cit., p. 12.
52
M. Walzer, La guerra d’Algeria d’Albert Camus cit., p. 195. Ma cfr. qui
la nota 48.
53
Ivi, pp. 195-96.

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vità critica scaturisce da un rapporto più stretto di quanto l’opi-
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nione comune riconosca» 54.

– Ma è bella la Spagna ? – insistevano.


– È come la Sicilia – dicevo – verso il mare bellissima, piena d’al-
beri e di vigne; all’interno arida, « terra di pane» come diciamo
noi, e di pane scarso.
– Sono poveri gli spagnuoli ?
– I poveri sono poveri peggio di noi; e i ricchi son ricchi da fare
spavento, una intera nottata di treno ci vuole per attraversare le
terre di un duca, un feudo che non finisce mai.
– Alla faccia sua ! – dicevano i miei amici. – Qui Mussolini si è
messo contro il feudo, dice che dividerà i feudi ai contadini, in
piazza hanno attaccato manifesti, grosso così c’è scritto « assalto al
latifondo».
– Invece in Spagna noi combattiamo contro quelli che vogliono
spartire i feudi ai contadini.
– Combattiamo per i ricchi in Spagna ?
– Per i ricchi per i preti e per la sbirraglia – dicevo.
– E come può essere ? Per i preti e la sbirraglia si capisce: ma i ric-
chi Mussolini come porci li tratta.
– Per parlare, può dire quello che vuole – spiegavo – ma né io né
voi vedremo mai togliere qualche cosa ai ricchi, mentre Mussolini
campa.
Mia madre mi sentiva fare questi discorsi e con gli occhi e con le
labbra mi faceva segno di tacere [...]. Mio zio Pietro diceva che
non mi riconosceva più, ero partito che a stento riuscivo a dire,
una dietro l’altra, quattro parole: e ora parlavo come un avvocato
delle cause perse; una cosa da pazzi, dopo aver perduto in guerra
una mano, mettermi d’impegno per buscare il confino.
[...] coi vecchi potevo parlare a non finire, mi ascoltavano come
raccontassi le storie dei paladini di Francia, cose lontane [...].
Il segretario del fascio mi guardava come se io fossi andato a far
guerra in Spagna per suo conto, a nome suo: portava fierezza per

54
Ivi, p. 193.

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la mano che io avevo perduto, il paese nostro pesava con la mia
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mano nella bilancia della vittoria 55.

In effetti, quello che Sciascia vuole sottolineare non è l’au-


torità – che resta significativamente appannaggio negativo e
violento del fascismo, del suo potere, della sua retorica vuota,
priva di soggetti e giudizi – ma un passaggio: un passaggio teso
per l’appunto fra soggettività e giudizio, un passaggio che im-
plica un’iniziazione al soggetto più problematica di quella rela-
tiva al romanzo di formazione militare, che comunque ne è par-
te integrante, costitutiva.
Non a caso, tale iniziazione ha le caratteristiche di uno
« strappo violento» rispetto alla comunità – misura necessaria di
quello stesso strappo – e impone conseguentemente l’assunzio-
ne di una certa « distanza» da parte dell’eroe, che come ribelle
non può che buscarsi il confino e deve quindi procedere verso
la seconda tappa, liminarmente ma felicemente rappresentata,
del suo cammino critico: «Voglio vedere cose nuove» 56.
Il « ritorno», insomma, « può essere perfino un’avventura
pericolosa», come tende significativamente a ripetere in « un
singolare racconto» – dal 1949 al 1964 e pur « con importanti
modifiche» – quell’Ignazio Silone che per Luce D’Eramo, e poi
per Giuseppe Papponetti, gioca « l’importante partita di una
“volontà di capire fatta di ritorni”» 57.

55
L. Sciascia, L’antimonio cit., pp. 224-225 e 228.
56
Ivi, p. 230.
57
In nota, almeno, si dovrebbe completare la citazione tagliata per più ra-
gioni nel testo. Si tratta di « una volontà di capire fatta di ritorni in ognuno dei
quali si compie una spoliazione successiva». In prospettiva, in Sciascia, tale spo-
liazione pare oscillare fra il tentativo di uscire dall’esilio e la delusione bruciante
di rientravi, per sempre, un po’ come avviene in George Orwell, per il quale
rinvio a quanto si dirà più avanti nel testo. Ci si riferisce a Ignazio Silone, Ritor-
no a Fontamara, «Comunità», 2, 1949, pp. 50-55; poi La pena del ritorno,
«Tempo presente», maggio 1964, pp. 1-6, e «Il Resto del Carlino», 23 maggio
1964. Ma cfr. a proposito Luce D’Eramo, L’opera d’Ignazio Silone. Saggio critico

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Certo, si potrebbe poi aggiungere, con il più volte citato
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Walzer 58, che « il ritorno è soltanto fisico, la posizione assunta,


invece, è morale e intellettuale». Ma lo zolfataro ha bisogno di
assumere quella posizione interiore, etica, in una distanza e ha
bisogno di esperimentarla altrove, al di là del ritorno che lo ha
posto di fronte allo « strappo violento» rispetto alla comunità;
in seno alla quale l’esperienza della guerra di Spagna è destinata
a non essere perché diventa troppo facilmente ricordo, ovvero
ricordo di « cose lontane», « storie dei paladini di Francia», e
quindi non entra in quanto tale – ovvero anche come intersog-
gettività e come radicazione della soggettività nel mondo – nel-
la memoria collettiva. Ci si trova di fronte al sonno delle abitu-
dini, insomma, e non ad una presa di coscienza. E qui Sciascia
fa un passo avanti rispetto a quella « sorta di sorda e muta rivol-
ta contro il mondo com’è» che Camus abbraccia ne L’étranger
(1942) – non optando comunque per « il registro patetico» gra-
zie a quel Meursault che « non piange, desidera solo eclissarsi,
ritrovare il sonno nello spazio chiuso» – e ne La peste (1947),
dove « si legge che per tutti i prigionieri e per tutti gli esuli la
profonda sofferenza consiste nel “vivre avec une mémoire qui
ne sert de rien”» 59.
Lo zolfataro sciasciano, che non riesce a fare della sua espe-
rienza ricordo e a riprendere il sonno delle abitudini, non pian-
ge e anzi lotta, da esule-eroe, contro la profonda sofferenza che
consiste nel « vivre avec une mémoire qui ne sert de rien». E de-
cide conseguentemente di partire, perché da un lato non può
fare della guerra di Spagna un ricordo di « cose lontane» e

e guida bibliografica, Milano, Mondadori, 1971, pp. 371-377 e Giuseppe Pap-


ponetti, Silone ai piedi di un mandorlo, «L’avvenire dei lavoratori», 3-4, 2003,
pp. 131-142; in particolare pp. 135-136.
58
M. Walzer, Introduzione: la pratica della critica sociale in L’intellettuale
militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento cit., [pp. 13-43], pp.
24-25, ovvero pagine del paragrafo Il critico come eroe, pp. 23-28.
59
L. Sozzi, Vivere nel presente. Un aspetto della visione del tempo nella cultu-
ra occidentale cit., pp. 288-289.

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dall’altro non può farne un vero ricordo per tutti – la « quête
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d’un souvenir» – e insieme un lutto – un lavoro del lutto – al fi-


ne di poter dire, enunciare – e non rimuovere – i conflitti della
memoria individuale e di quella collettiva, che è come filtrata
da una « mémoire manipulée» ovvero da « des abus, au sens fort
du terme, résultant d’une manipulation concertée de la mémoi-
re et de l’oubli par des détenteurs de pouvoir» 60.
Allora, necessariamente, l’impresa critica del nostro deve
continuare altrove, al di là del suo dêmos e finanche della sua ge-
nerazione. E non si tratta di evocare una – magari la vittima – o
più vittime: un familiare, il padre o i compaesani. Anche perché,
come suggerisce Jacques Derrida, « la mort de l’autre [...] n’an-
nonce pas une absence, une disparition, la fin de telle ou telle vie
[...]. La mort déclare chaque fois la fin du monde en totalité, la fin
de tout monde possible, et chaque fois la fin du monde comme to-
talité unique, donc irremplaçable et donc infinie» 61. E non si tratta
soprattutto di proclamarsi vittima tout court e « réclamer sans fin
réparation», giocando magari con un «éloge inconditionnel de la

60
P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli cit., p. 97; ma cfr. almeno pp.
97-104.
61
Jacques Derrida, Chaque fois unique, la fin du monde, Textes présentés
par Pascale-Anne Brault et Michael Naas, Paris, Galilée, 2003, p. 9 (trad. it.
Ogni volta unica, la fine del mondo, Milano, Jaca Book, 2005). Ma l’edizione ori-
ginale, senza, tuttavia, l’Avant-propos da cui si cita (pp. 9-11), è quella america-
na: The Work of Mourning, Chicago, Chicago University Press, 2001. La rifles-
sione di Jacques Derrida muove poi da più lontano, almeno da Politiques de
l’amitié, Paris, Galilée, 1994, e da Spectres de Marx, Paris, Galilée, 1993, dove
suggerisce significativamente che bisogna imparare a vivere «avec des fantômes
ou des spectres» per fare « une politique de la mémoire, de l’héritage et des géné-
rations». Cfr. ancora Chaque fois unique, la fin du monde cit., pp. 15-16, 40-41 e
259-289 (è il saggio dedicato a Lyotard et “nous“, già apparso in Jean-François
Lyotard. L’Exercice du différend, a cura di Dolorès Lyotard, Jean-Claude Milner,
Gérald Sfez, Paris, PUF, 2001, pp. 161-196). Ci sia infine concesso rinviare a
Luciano Curreri, «Dans le leurre du seuil». I «Tombeaux» di Macrí e la ‘soglia’ del-
la poesia, in Per Oreste Macrí, Atti della giornata di studio, Firenze 9 dicembre
1994, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1996, [pp. 189-213], pp. 210-213.

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mémoire» (filtrato piuttosto dall’eredità del « per chi suona la
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campana» e da un debito morale verso « la victime autre») 62.


Anzi, la memoria è presentata da Sciascia come un vero
mare magnum, con tanto di vuoti, di inganni, di abusi e poi for-
se, e infine, di usi – e non solo di manipulations – dell’oblio e
del ricœuriano pardon difficile; al di là, beninteso, del forte so-
strato religioso di Paul Ricœur e verso una laica – una più laica
– disposizione a cercare, e grazie a un perdono che comunque
non cerca facili autoassoluzioni e rimozioni e mira piuttosto a
raccogliere e a dire, enunciare – a un quarto di secolo dalla
guerra di Spagna e dall’apogeo del fascismo italiano – il « senso
tragico di una comunità spaccata e ferita» 63.
Emergono, d’altro canto, reminiscenze che potremmo qua-
si dire anamnestiche e che sono sforzi per richiamare quanto è
stato dimenticato in seno a una certa « atrofia della memoria»;
un’atrofia che vuoti, inganni, abusi hanno contribuito a creare,
a imporre. Tale atrofia si confronta poi, in modo sempre più
problematico, con una certa « ipertrofia della storia», rispetto
alla quale, in fin dei conti, è forse lecito chiedersi se « il contra-
rio di “oblio” non sia “memoria”, ma giustizia» 64; quella « visce-
rale avidità di giustizia [...] e diritto» che per Di Grado va valo-
rizzata per liberare « finalmente» Sciascia « dall’aureola di agio-
grafo dello scacco o del martirio» 65.
Insomma, non si tratta di proclamarsi – con facilità e con
modalità alquanto “tradizionali” – una/la vittima della storia,
del suo invadente, pericoloso e concertato imperialismo della

62
Tzvetan Todorov, Les abus de la mémoire, Paris, Arléa, 1995, pp. 13-14
e cfr. ancora P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli cit., pp. 108 e 104.
63
A. Sofri, Prima lettera. Ottobre 1997, in A. Tabucchi, La gastrite di Pla-
tone cit., [pp. 63-72], pp. 65-66.
64
Cfr. Y. H. Yerushalmi, Riflessioni sull’oblio cit., pp. 9, 12-13, 24, e P.
Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli cit., pp. 105-111, 536-589 e 656.
65
A. Di Grado, Sciascia, il cinema e (fra l’altro) l’Europa: (bianco e) nero su
nero cit., p. 70. Ma ritorneremo ancora su diritto e giustizia, specie nel para-
grafo 5, citando e discutendo anche Porte aperte (1987).

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memoria e dell’oblio (legato, connesso alla religione e/o al so-
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cialismo, al fascismo) e non si tratta nemmeno di moltiplicare


la distanza e isolarsi con sdegno dal mondo. Del resto, tale di-
stanza non è posta sul tappeto fin dall’incipit ed è solo intravista
alla fine del racconto. Inizialmente, infatti, non c’è « una rottu-
ra volontaria con la comunità». La partenza dello zolfataro dal
paese assomiglia più a una « fuga», impossibile, di fatto, e detta-
ta da circostanze che esploreremo più avanti e ruotano intorno
al fuoco e alla paura dell’antimonio.
Tale impossibile « fuga», corrispettivo di un « ritorno» al-
trettanto impossibile, è certo già significativa, ma non è costrui-
ta « a spese dei legami familiari e civici» 66, all’interno dei quali il
personaggio sciasciano – in seno a quel ritorno di cui deve espe-
rimentare l’impossibilità – cerca pure di ricollocarsi, per quanto
lo faccia come ribelle, come eretico, profeta, intellettuale in ri-
volta 67, come « avvocato delle cause perse».
L’eroe, anche il critico come eroe, che certo in quelle figure
quasi sinonimiche (più affini che antagoniste) tende già ad af-
facciarsi e a manifestarsi, deve in qualche modo assicurare la
« rottura volontaria con la comunità», che si rivela per l’appun-
to nel finale aperto de L’antimonio, dove assume le caratteristi-
che di un distacco che, potremmo aggiungere, è « un meno di
prossimità», un « allontanamento, cui dovremmo esercitarci»;
ovvero « un altro modo di avvicinarci, una trasformazione della
prossimità [...] che risale e intacca il modo comune della cono-
scenza» e che « ci invita a far l’orecchio al ritmo della soggetti-
vità e delle cose, e a usare tappi profondi per non ascoltare più il
canto di quelle sirene che ripetono, fino allo stordimento, che
conoscere = potere, sempre» 68.

66
M. Walzer, L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel
Novecento cit., p. 25.
67
Ivi, p. 193.
68
P. A. Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio cit., pp. 36-
37 e 40.

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Queste osservazioni rovattiane, ancora tratte da Abitare la
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distanza (1994), potrebbero essere utilmente accompagnate da


altre di Maurice Blanchot; il Blanchot, in particolare, de Les in-
tellectuels en question (1984 e 1996), il cui limite – che è un po’
il limite generale di ogni discussione più o meno recente sugli
intellettuali e l’impegno, « parola desueta o retorica» ma che è
necessario conservare, magari con virgolette, come suggerisce nel
1991 Berardinelli 69 – è quello di non fare autocritica, a partire
dagli anni 1936-38, e poi di sfumare parecchio, per timore di
definizioni e derive, il possibile e fecondo lien tra « impegno» e
« pensiero dei pericoli e contro i pericoli»; pensiero utile a de-
scrivere in sintesi la postura impegnata dell’eroe-alter ego scia-
sciano de L’antimonio e pensiero abbracciato dal Tabucchi de La
gastrite di Platone (1997 e 1998), dedicata « alla cara memoria di
Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini, con molta nostalgia» 70.
E traduciamo, proprio con Tabucchi, l’ipotesi rovattiana
con il « pensiero dei pericoli e contro i pericoli» di Blanchot:
«[...] l’intellettuale è tanto più vicino all’azione in generale e al
potere quanto più egli non si immischia nell’azione e non eserci-
ta un potere politico. Ma non se ne disinteressa. Ritraendosi dal
politico, non se ne distacca, ma cerca di conservare questo spazio
di ritirata e questo sforzo di ritiro per profittare di questa prossi-
mità che lo allontana al fine di installarvisi (installazione preca-
ria) [...]» – e sulle modalità di questa precaria installazione, non
soffocata da un’esigenza prolungata di totalità, ritorneremo nel
secondo paragrafo – «[...] Ma ciò non vuol dire ch’egli non

69
A. Berardinelli, L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno cit., p. 5: «Ma
la parola impegno è a sua volta desueta o retorica: uno di quei termini di cui fan-
no uso e abuso solo i politici. E le parole di cui abusano i politici sono svuotate
di senso. Parole che neppure un giornalista userebbe più senza virgolette».
70
Tabucchi, tuttavia, pare poi servirsene soprattutto da scudo (più o me-
no ironico) contro il « termine “impegnato” [...] assolutamente inopportuno»
per la « sua associazione con l’idea comunista» che in Italia – più che in Francia
e altrove – lo consegna al « disgusto immediato». Cfr. ancora A. Tabucchi, La
gastrite di Platone cit., pp. 36-39 e 51-52.

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prenda partito; al contrario, avendo deciso secondo il pensiero
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che gli sembra più importante, pensiero dei pericoli e pensiero


contro i pericoli, egli è l’ostinato [...]» 71 – e su questo pensiero,
che nel racconto di Sciascia tende a costruirsi e delinearsi tra
fuoco, paura e memoria, ritorneremo nel quinto paragrafo.

«Voglio vedere cose nuove», dunque, non è un’enunciazio-


ne banale, non è un semplice “trasferimento di chiamata”. Del
resto, solo tre pagine prima, tale volontà di vedere è « furore di
vedere ogni cosa dal di dentro, come se ogni persona ogni cosa
ogni fatto fosse come un libro che uno apre e legge» 72. Certo,
tale paragone risponde a una situazione emblematica e tipica di
Sciascia: « una situazione che potremmo definire del libro nel li-
bro» – suggerisce Claude Ambroise 73 – « una situazione interio-
re che ha come oggetto l’esperienza del conoscere» e « conoscere
non è considerare l’universo e la vita con freddezza analitica, è
un andare verso ogni cosa esperibile e penetrarla, vederla dal di
dentro». Ed è « la scelta della letteratura» – conclude Ambroise
– in virtù della quale «L’antimonio va letto come un mito perso-
nale in cui Leonardo Sciascia ha espresso la propria scelta di
scrivere dei libri e di identificarsi con essi» 74. Potremmo dun-
que precisare quella « situazione interiore» in seno a un percor-
so mauroniano che parte dalla metafora ossessiva dell’antimo-
nio del titolo, e dall’immagine dilatata del fuoco nel racconto,
per approdare a quel mito personale evocato ora con Ambroise.
Ma potremmo ancora e diversamente precisare quella « si-
tuazione interiore», chiosando e suggerendo con Rovatti – let-

71
Cfr. Maurice Blanchot, Les intellectuels en question. Ébauche d’une ré-
flexion, Paris, Farrago (Fourbis), 1996, e A. Tabucchi, La gastrite di Platone cit.,
pp. 38-39. Ma cfr. M. Blanchot, Les intellectuels en question, «Le Débat», 29,
1984, pp. 3-28 e le giuste riserve di T. Todorov, Face à l’extrême, Paris, Seuil,
1991 e Nouvelle édition, «Points-Essais», 1994, pp. 124-125.
72
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 227.
73
C. Ambroise, Il libro nel libro cit., p. 39.
74
Ivi, p. 41.

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tore dell’ultimo Merleau-Ponty e di quel testamento che è
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L’Œil et l’Esprit (1960) – che il furore di vedere ogni cosa dal di


dentro significa anche incontrare lo sguardo delle cose, « collocarsi
come vedente all’interno»: «Dovremmo allora riuscire a pensa-
re, e a trovare le parole per dire, un’esperienza che rivolge, e an-
zi proprio capovolge il narcisismo del nostro occhio», al punto
che « il soggetto viene prelevato dalla sua poltrona di spettatore,
viene, per così dire, tagliato in due e sospinto sulla (sua) scena,
sotto gli occhi di tutti» 75.
Significativo, poi, che la situazione interiore di cui parla
Ambroise apra, nel prosieguo del passo sciasciano, sull’« indiffe-
renza di tutti alle tremende cose che io avevo vissuto e che la
Spagna viveva», ovvero sull’indifferenza di tutti al rendersi inti-
mamente partecipi del conflitto e allo sposare le « conseguenze
esterne» di tale, intima partecipazione, non cogliendo così una
conclusione dell’io narrante: « era Spagna anche la zolfara» 76. E
certo non è senza significato che tale indifferenza sia misurata
simbolicamente grazie a un soggeto tagliato in due che è sospin-
to e diviso sulla (sua) scena fra un funerale e una festa di paese
cui tutti partecipano: la festa di San Calogero, che non proprio
a caso caratterizza già, come preciseremo in seguito, un passo
importante che si chiude sul doppio parallelismo e sull’equazio-
ne personaggio adulto: Madrid bombardata = personaggio
bambino: festa di San Calogero.
In prospettiva, tale strategia – in cui non può non affacciarsi
il Roger Caillois di Guerre et fête (1939) 77 – sembra quasi confi-

75
P. A. Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio cit., pp. 57
e 66.
76
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 228.
77
Roger Caillois, Guerre et fête, in L’homme et le sacré (1939), Édition aug-
mentée de trois appendices sur le sexe, le jeu, la guerre dans leurs rapports avec le
sacré, Paris, Gallimard, 1950, e ivi, «Folio – essais», 1993, [pp. 222-228], pp.
224-225, particolarmente dedicate a Temps de l’excès, de la violence, de l’outrage.
Ma cfr. anche le pagine finali, su Le retour au chaos e Paroxysmes de la société (Con-
vulsions parallèles, Epiphanie du sacré, De la fête à la guerre), di un volume – la cui

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nare i compaesani nel mistero di un’infanzia che non si scioglie
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nella storia, non cade nel linguaggio e nella parola, mentre l’eroe
sembra riaccedere all’« infanzia come patria trascendentale della
storia», « esperire» 78, in forma sempre più originaria e, in un cer-
to senso, collettiva; ovvero non per saldare i conti con un passato
individuale, chiuso, confitto in una guerra o in una zolfara.
Leggiamo dunque il passo per esteso:

Insomma, mi era venuto il furore di vedere ogni cosa dal di den-


tro, come se ogni persona ogni cosa ogni fatto fosse come un libro
che uno apre e legge: anche il libro è una cosa, lo si può mettere
su un tavolo e guardarlo soltanto, magari per tener su un tavolino
zoppo lo si può usare o per sbatterlo in testa a qualcuno: ma se lo
apri e leggi diventa un mondo; e perché ogni cosa non si dovreb-
be aprire e leggere ed essere un mondo ?
Quel che più mi feriva e mi faceva più solo, era l’indifferenza di
tutti alle tremende cose che io avevo vissuto e che la Spagna viveva;
mi sentivo come chi, nei giorni della festa di San Calogero o
dell’Assunta, si trova a seguire un funerale; e la gente è stolida di
gioia, la piazza gronda di colori vivi: e tu passi dietro la carrozza ne-
ra e gialla che chiude un morto, hai il cuore nero di pena e ti tocca
attraversare una galleria di gioia, ti nasce rancore per la festa e per la
gente che si diverte. Forse è di tutti i reduci scottarsi all’indifferen-
za degli altri e chiudersi in sé, fin quando la vita di ogni giorno, il
lavoro la famiglia gli amici, non li riassorbe e li assimila: ma quan-
do uno torna da una guerra come quella di Spagna, con la certezza
che la sua casa brucerà dello stesso fuoco, non gli riesce fare della

seconda e ultima parte risale al 1951 – dello stesso Caillois, Bellone ou la pente de
la guerre, Bruxelles, La Renaissance du Livre, 1963, pp. 195-208, 209-223.
78
Penso, adattandolo, a Giorgio Agamben, Infanzia e storia. Distruzione
dell’esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi, «Nuovo Politecnico»,
1978 e, Nuova edizione accresciuta, «Piccola Biblioteca Einaudi», 2001, p. 51:
«Esperire significa necessariamente, in questo senso, riaccedere all’infanzia co-
me patria trascendentale della storia. Il mistero, che l’infanzia ha istituito per
l’uomo, può infatti essere sciolto solo nella storia, così come l’esperienza, come
infanzia e patria dell’uomo, è qualcosa da cui egli è sempre già in atto di cadere
nel linguaggio e nella parola».

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sua esperienza ricordo e riprendere il sonno delle abitudini; vuole
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anzi che gli altri stiano svegli, che anche gli altri sappiano.
Ma gli altri volevano dormire. Così povero, e nella povertà vile,
era il mio paese, che con invidia tutti mi dicevano – ti sei fatto i
soldi, puoi campare tranquillo ora – anche i ricchi me lo diceva-
no. Se non avessi perduto una mano, sarei tornato alla zolfara; era
Spagna anche la zolfara [...] 79.

Difficile non pensare a un altro “ritorno” a suo modo im-


possibile, ovvero a quello che caratterizza il finale amaro di Ho-
mage to Catalonia (1938) di George Orwell, testo « particolar-
mente caro» 80 a Sciascia in relazione alla guerra di Spagna (e
non solo), testo con « pagine che ricordano la penna del miglior
Ernest Hemingway, del miglior Graham Greene», suggerisce
Mario Maffi 81. E anche di quel Graham Greene amato da Scia-
scia 82, quel Graham Greene, viene da aggiungere, che parte da
un altro, simile ritorno per ribattezzarlo poi in chiave poliziesca,
un po’ come lo Sciascia post-Antimonio. Penso a The confidential
agent (1939), la storia di un ex professore di lingue romanze
passato per gli orrori della guerra civile che torna in Inghilterra e
diventa, per l’appunto, un agente segreto. Non è un caso, allora,
che lo Sciascia che si impone come autore di gialli, di casi poli-
zieschi, fin dagli anni Sessanta e lungo tutti i Settanta (e oltre),
si ricordi del finale di Homage to Catalonia nella Prefazione del
1979 a una ristampa, negli « Oscar Mondadori», di The murder
of Roger Ackroyd (1926) di Agatha Christie, commentando:

79
L. Sciascia, L’antimonio cit., pp. 227-228.
80
L. Sciascia, Ore di Spagna cit., p. 29.
81
Mario Maffi, Vagabondaggio ed esilio: George Orwell e la guerra di Spa-
gna, in George Orwell, Omaggio alla Catalogna (1938), Milano, Mondadori,
« Oscar», 1993, [pp. 253-259], p. 258.
82
Lo ricorda, per esempio, in Nero su nero (1979), per cui cfr. L. Sciascia,
Opere. 1971.1983, Milano, Bompiani, «Classici», 1989 e 2001, p. 831, dove si
sofferma tuttavia, in seno a un turbato apprezzamento, su un romanzo di
Green degli anni Settanta, The Human Factor (1978).

38

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Il libro è del 1938. Orwell lo scrisse di ritorno dalla guerra di Spa-
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gna: e il suo timore, delle bombe da cui l’Inghilterra sarebbe stata


svegliata, era anche una precisa profezia [...] le bombe tedesche
sull’Inghilterra [...] Ma non è per questa profezia che la pagina di
Orwell mi torna alla memoria ogni volta che comincio a leggere
un ‘giallo’ di Agatha Christie [...]: è il « profondo, profondo son-
no dell’Inghilterra» che mi fa come da ouverture e sottofondo 83.

Potremmo davvero tradurre e concludere, in prospettiva,


che è proprio « il profondo, profondo sonno della Sicilia» – che
non a caso campeggia nelle pagine finali (« sonno [...] dormi-
re») dell’ultimo racconto della seconda edizione de Gli zii di Si-
cilia (1960) – a fare « da ouverture e sottofondo» alla narrativa
sciasciana futura: quella che si tinge di giallo e che in tal senso si
nutre di altri, celebri sonni, come The Big Sleep (1939) di Ray-
mond Chandler – nel 1946 sullo schermo per la regia di
Howard W. Hawks – che intona, à peu près, lo stesso, mesto,
lucido canto: «Si dorme il grande sonno, senza badare se si è
morti male, se si è caduti nella sporcizia» 84.
Negli anni Cinquanta da cui L’antimonio proviene si può
poi anche pensare, in Italia, a un avvertito e diffuso reagire, tra
letteratura e filosofia, tra, per esempio, Natalia Ginzburg e
Norberto Bobbio, al vizio del silenzio e al sonno dogmatico
che da quel vizio è tutelato, difeso 85. Mentre negli anni Ses-
santa aperti da L’antimonio, muovendo verso un orizzonte let-
terario e cinematografico a un tempo, potremmo pensare a Il
commissario Pepe (1965) – sullo schermo nel 1969 per la regia
di Ettore Scola – di Ugo Facco de Lagarda, la cui « vocazione

83
L. Sciascia, Prefazione a Agatha Christie, L’assassinio di Roger Ackroyd
(1926), Milano, Mondadori, « Oscar – Gialli», 1992, [pp. V-VIII], pp. V-VI.
84
Citato in A. Di Grado, Sciascia, il cinema e (fra l’altro) l’Europa: (bianco
e) nero su nero cit., p. 72.
85
Natalia Ginzburg, Silenzio, «Cultura e Realtà», 3-4, 1951, pp. 1-6, e N.
Bobbio, Politica culturale e politica della cultura, «Rivista di filosofia», 1, 1952,
pp. 61-74, poi in Politica e cultura cit., pp. 18-30; in particolare p. 26.

39

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inquieta » 86 pare raccogliersi e distendersi nell’« insonnia del
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commissario» e scagliarsi, dall’inizio alla fine del breve roman-


zo, contro il « sonno», il « sonno urbano» di una « cittadina
settentrionale », « comune ad almeno altre ottanta città, da
Bolzano alla Sicilia, da San Remo a Trieste » 87. Nel film di Et-
tore Scola, invece, è il personaggio aggiunto di Nicola Parigi
( l’attore Giuseppe Maffioli ), un altro mutilato di guerra, un
marginale, a denunciare la sporcizia di una piccola città veneta
e a invitare – fino alla tragica morte ( incidente o assassinio ?) –
a non dormire, a non abbandonarsi al sonno.

Ma la gialla, nera e futura narrativa sciasciana non è di-


mentica – pur aprendo su un genere e su un certo divertissement
– di quell’esercizio etico che è L’antimonio, ancorato in tal sen-
so a Orwell più che a Chandler. Diversi, infatti, sono i punti di
contatto fra l’Inghilterra ritrovata alla fine di Homage to Catalo-
nia e la Sicilia de L’antimonio, anche se il finale di quest’ultimo
tenta un superamento, un superamento che è un voler andare
oltre l’universo siciliano, « in una città lontana: fuori della Sici-
lia» 88; ovvero oltre le coordinate più o meno addolcenti di tale
universo, del resto già inserite, nel passo sopra citato, in una
apocalittica visione orwelliana, profetica e storica a un tempo.
L’isola, l’infanzia (associata alla ferrovia anche nell’Antimo-
nio, in un viaggio verso Palermo, forse la Londra di Orwell, for-
se entrambe rappresentazioni di Madrid 89), il sonno e poi, per
l’appunto, le bombe, gli incendi della guerra, dei bombarda-

86
Cfr. AA.VV., Ugo Facco de Lagarda 1896-1982: vocazione inquieta di
uno scrittore veneziano, Atti del Convegno, Venezia 7-8 novembre 1997, a cura
di Alessandro Scarsella, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, 1999.
87
Ugo Facco de Lagarda, Il commissario Pepe, Venezia, Neri Pozza, 1965,
pp. 11, 14, 37, 44, 77, 99 e 101, dove lo stesso commissario, « uomo abituato
all’insonnia», si arrende e dorme « bene».
88
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 230
89
Ivi, p. 202.

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menti (« certezza che la sua casa brucerà dello stesso fuoco»), so-
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no come saldati insieme da Sciascia e Orwell nel « tentativo di


uscire dall’esilio» e nella « delusione bruciante» di rientrarvi 90, e
per sempre. Si pensi, in questa prospettiva, a quell’approdo che
offre senza mezzi termini Il cavaliere e la morte (1986): « sono
già sbarcato su un’isola deserta» 91. Ed è davvero significativo
che ne Il cavaliere e la morte – in quell’« opera testamentaria che
riassume tutti i temi della narrativa sciasciana», come dice giu-
stamente Traina, il cui « pensiero va ad un testo lontano, La se-
sta giornata (1958), in cui s’esprimeva ammirazione per il poeta
spagnolo Antonio Machado che [...] segue con bruciante ansia
le sorti della guerra» 92 – si leggano frasi come queste 93:

E non che non amasse la terra dov’era nato [...] Non tornandovi
da anni, al di là di quel che vi accadeva, la cercava nella memoria,
nel sentimento di qualcosa che non c’era più. Illusione, mistifica-
zione: da emigrante, da esule.

Leggiamo dunque, con tutte queste eco, e stralciando, il


brano che chiude Homage to Catalonia di Orwell.

E poi l’Inghilterra – l’Inghilterra meridionale, probabilmente il


paesaggio più soave del mondo. Quando si passa da quelle parti
[...] è difficile credere che qualcosa stia veramente succedendo da
qualche altra parte del mondo. Terremoti in Giappone, carestie
in Cina e rivoluzioni in Messico ? Non vi preoccupate [...] Le
città industriali erano lontane [...] Qui si era ancora nell’Inghil-

90
M. Maffi, Vagabondaggio ed esilio: George Orwell e la guerra di Spagna
cit., p. 258.
91
L. Sciascia, Il cavaliere e la morte. Sotie, Milano, Adelphi, 1988, p. 67.
92
Giuseppe Traina, La soluzione del cruciverba. Leonardo Sciascia fra espe-
rienza del dolore e resistenza al Potere, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia
Editore, 1994, pp. 130-131. Su La sesta giornata ritorneremo nel paragrafo 6.
93
L. Sciascia, Il cavaliere e la morte. Sotie cit., pp. 50-51; e p. 67: «Non lo
creda: sono già sbarcato su un’isola deserta».

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terra che ho conosciuto nella mia infanzia: le scarpate lungo la
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ferrovia [...] e poi il grande deserto tranquillo della periferia lon-


dinese [...] i signori in bombetta, i piccioni di Trafalgar Square,
gli autobus rossi, i poliziotti in blu – tutti addormentati nel
profondo, profondo sonno dell’Inghilterra, da cui a volte temo
non ci sveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo
dal boato delle bombe 94.

2. Contro la sindrome dell’ultimo intellettuale e l’esigenza di


totalità

Riapriamo la seconda edizione de Gli zii di Sicilia e, se-


guendo l’indice, cerchiamo l’ultimo, lungo racconto, L’antimo-
nio, che poteva finanche diventare il romanzo sulla guerra civile
spagnola del Novecento italiano, nonostante lo si presenti sem-
pre più con letture relativamente efficaci – specie per il primo
Sciascia, collocabile, in genere, fra Le parrocchie di Regalpetra
(1956), point de départ eletto dall’autore, e A ciascuno il suo
(1966) 95 – come un metaracconto, dove « l’Espagne est seule-
ment prétexte, la Sicile est seulement prétexte [...] les prétextes
à une réflexion plus ample sur l’écriture» 96. Che la scrittura in

94
G. Orwell, Omaggio alla Catalogna cit., pp. 185-186.
95
Su questa periodizzazione, che oscilla fra scelte letterarie, giornalistiche
e politiche, offre note preziose un recente intervento di G. Traina, «Con l’emo-
zione dell’azzardo». Appunti su Sciascia polemista, in La parola ‘quotidiana’. Iti-
nerari di confine tra letteratura e giornalismo, Atti del Convegno, Catania 6-8
maggio 2002, a cura di Fernando Gioviale, Firenze, Olschki, 2004, pp. 71-88.
96
Christian Sorrentino, L’Espagne et sa violence au cœur de «L’Antimonio»
de Sciascia, in Violence politique et écriture de l’élucidation dans le bassin méditer-
ranéen. Leonardo Sciascia et Manuel Vázquez Montalbán, «Tigre/Novecento», a
cura di Claude Ambroise e Georges Tyras, Numéro Hors-Série, 2002, [pp. 59-
70], p. 68. Come abbiamo visto nel primo paragrafo, l’origine, certo più pro-
blematica, di queste osservazioni è il lavoro critico di Ambroise, che riconosce il
valore metanarrativo dell’Antimonio senza disconoscere l’importanza del plot e
dei suoi elementi portanti, e a partire proprio dalla Spagna e dalla Sicilia, come

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quanto tale e la riflessione sulla stessa siano un possibile punto
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d’approdo di Sciascia e di quasi tutti i grandi scrittori mi sem-


bra pacifico. Che tale, possibile approdo sconfini nel campo
ambiguo e a tratti banalizzante dei pretesti, dei fregi, delle scu-
se, delle occasioni, e in quello finisca per confinare tutti i segni
di un destino storico complesso che Sciascia, tra filosofia, critica
sociale e impegno politico, si è sforzato di interpretare e a suo
modo di chiarire e di esperimentare, dalla tragedia di Spagna a
quella di Moro, non lo è davvero altrettanto. In generale, direi
che una critica più o meno giovane, più o meno attenta al ‘po-
stmoderno’, che tende a privilegiare il divertissement – certo
presente nell’autore siciliano, in varianti metaletterarie e metafi-
siche – e a sovrapporlo del tutto a un engagement che sembra
non avere più corso ai nostri giorni 97, contribuisce finanche ad
avvicinare Sciascia, specie il secondo Sciascia, a scrittori come
Eco, ovvero a opinion makers che lavorano più sull’informazio-
ne che sulla storia e/o più sulla citazione dell’esperienza che
sull’esperienza stessa.
Indirettamente, un sostegno militante e teorico a tali lettu-
re pare arrivare da un critico ben diverso, che in genere tende a
bollarle. Penso a Romano Luperini che, ragionando su Postmo-
dernità e postmodernismo in un Breve bilancio del secondo Nove-
cento (1993) – poi riproposto nella raccolta Controtempo. Criti-
ca e letteratura fra moderno e postmoderno: proposte, polemiche e
bilanci di fine secolo (1999) – pone Sciascia (1921) e Eco
(1932) sullo stesso piano proprio in quanto opinion makers e,
svalutando di fatto il primo quanto il secondo, in una linea re-
gressiva che conduce allo scrittore showman, li oppone « ad al-
cuni scrittori che si sono formati durante e dopo la guerra» co-

avremo occasione di ribadire più avanti, con lo stesso Ambroise. Ma nella rivi-
sta sopra citata cfr. anche, nello stesso numero, Ricciarda Ricorda, Forme della
violenza nella scrittura del primo Sciascia, alle pp. 71-82.
97
E non solo « per via della sua associazione con l’idea comunista». Cfr.
ancora A. Tabucchi, La gastrite di Platone cit., p. 52.

43

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me Fortini (1917) e Pasolini (1922) e, « in misura già diversa»,
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Calvino (1923), Volponi (1924), Leonetti (1924), e come


Sanguineti (1930), tutti fatti rientrare nella definizione che lo
stesso Romano Luperini dà dello « scrittore-intellettuale»:

Definisco scrittori-intellettuali coloro che sono mossi da un’esi-


genza di totalità, non restano nei limiti dello specialismo, cono-
scono la grande cultura occidentale – storia, politica, filosofia – e
le sue principali letterature e ricercano i nessi fra etica e società,
leggendo in quelle e in questi i segni di un destino storico che si
sforzano di interpretare e di influenzare non solo con un’attività
di tipo giornalistico e saggistico, ma anche con l’opera narrativa e
poetica e anzi proprio attraverso l’intersecazione di questi settori
d’intervento [...]. Mentre Fortini, o Pasolini, o anche Volponi o
Sanguineti pongono un campo di valori e di significati, Sciascia e
ancor più Eco rinnovano e americanizzano una tradizione di ra-
zionalismo e scetticismo laico che può risalire a Moravia e pongo-
no un campo di competenze e di criteri interpretativi, praticano
la distinzione ironica, dividono il senso morale dalla totalità di un
destino o di un progetto storico e lo riducono così a buon senso
separato o a un senso comune: non sono più scrittori-intellettuali,
ma, appunto, scrittori-opinion-makers 98.

98
Cfr. Romano Luperini, Postmodernità e postmodernismo. Breve bilancio
del secondo Novecento (1993), in Controtempo. Critica e letteratura fra moderno e
postmoderno: proposte, polemiche e bilanci di fine secolo, Napoli, Liguori, 1999,
[pp. 169-178], pp. 173-174; ma si scorra l’intero paragrafo, La scomparsa dello
scrittore-intellettuale, alle pp. 173-175, e su Eco, semiologo tra deriva e difesa, le
pp. 71-72, contenute in Una prolusione non accademica. Guerra del Golfo e ten-
denze della critica in Italia (1991), ivi, pp. 63-76. Sono anche gli anni di Zyg-
munt Bauman, La decadenza degli intellettuali (1987), Torino, Bollati Borin-
ghieri, 1992, pp. 130-147, per cui cfr. ancora A. Berardinelli, L’eroe che pensa cit.,
pp. XI-XII. Su Eco e l’opinion maker cfr. poi Lidia De Federicis, I letterati come
opinion maker, in Tirature 2003. Autori editori pubblico, a cura di Vittorio Spi-
nazzola, Milano, Il Saggiatore/Fondazione Mondadori, 2003, pp. 62-68. Mi sia
infine consentito rinviare a Luciano Curreri, Pensieri sulla critica della traduzione
e sulla sua ricezione, «Palazzo Sanvitale», 15-16, 2005, pp. 174-189, un saggio

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Ho l’impressione che la vicenda sia un po’ più complessa, sia
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per un secondo e più disteso e problematico Sciascia, recensibile


fra anni Settanta e Ottanta 99, sia per il primo, a cavallo tra Cin-
quanta e Sessanta 100, che qui più ci interessa. A proposito di que-
st’ultimo, in particolare, direi che non è troppo arduo far rientra-
re, fra storia, politica e filosofia, fra etica e società, una buona par-
te del suo percorso – intersecante soprattutto giornalismo, saggi-
stica, narrativa, ma anche poesia (La Sicilia, il suo cuore, del 1952)
– in quello dello scrittore-intellettuale definito da Luperini. Non
è poi così difficile sottrarre Sciascia, che attraversa un campo di
valori e di significati, a una supposta tradizione moraviana e fi-
nanche sospingerlo in un orizzonte pasoliniano-calviniano (più
pasoliniano che calviniano), e magari fin dal 1950 (e verso il
1960 di Passione e ideologia) 101, ovvero da quelle Favole della dit-

che risale al 2002/2003 e che avrebbe dovuto essere pubblicato prima, magari
con qualche svista in meno, e essere seguito subito da un altro, più costruttivo.
99
In tal senso è anche da rivedere e sfumare l’invito che appare nel finale
del peraltro buon lavoro di Alberto Cadioli, L’industria del romanzo. L’editoria
letteraria in Italia dal 1945 agli anni Ottanta, Roma, Editori Riuniti, 1981, p.
171: «Anche la trasformazione del prodotto di Sciascia degli ultimi anni andreb-
be indagata a fondo: lo scrittore è ormai un personaggio, le sue polemiche nei
confronti del Partito comunista, prima, la sua elezione nelle liste del partito radi-
cale, poi, lo hanno sempre più messo al centro dell’interesse di un vasto pubbli-
co. Sciascia rilascia molte interviste, discute di tutto, si pone come intellettuale-
guida dell’opinione pubblica. Come scrittore rispetta il nuovo ruolo, e puntual-
mente, anno per anno, presenta un nuovo testo destinato al successo (La scom-
parsa di Majorana è del 1975, I pugnalatori del 1976, Candido del 1977, L’affai-
re Moro del 1978, Nero su Nero del 1979, Dalla parte degli infedeli del 1980)».
100
Su cui non casualmente si appuntano molti interventi del citato La re-
sponsabilità dell’intellettuale in Europa all’epoca di Leonardo Sciascia; e penso in
particolare ai saggi di Giulio Ferroni su Brancati, di Domenica Perrone su Vit-
torini e Sciascia, di Claude Ambroise su Sciascia e la rivolta, saggio qui già evo-
cato, di Felice Balletta su Sciascia e Böll, e di Gigliola De Donato su La coscien-
za divisa tra “sogno della vita” e “mondo della verità” nell’opera di Sciascia, rispet-
tivamente alle pp. 129-142, 149-163, 165-186, 189-201 e 213-232.
101
Massimo Onofri, Storia di Sciascia, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 34. E
notevole è, nella struttura del libro, l’idea, su cui ritorneremo nel testo,
dell’opera di Leonardo Sciascia come « autobiografia della nazione», secondo

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tatura che Pier Paolo Pasolini registra a caldo in un acuto inter-
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vento e “gira” significativamente in Dittatura in fiaba 102. Infine,


non credo sia giusto associare Sciascia, seppure in chiave minore e
in prospettiva, all’americanizzazione e all’ironia a getto continuo
di Umberto Eco, che da sempre assimila con stile e tempismo
‘americani’ le mode e i canali ermeneutici del momento.
Al di là di Sciascia, poi, è forse il punto di partenza della
definizione di Luperini, cioè l’esigenza di totalità, a dover essere
messo un po’ in discussione, specie se nella pratica critica che
ne deriva, luperiniana e non, si tende ad assolutizzarlo, oggi co-
me ieri, contro i limiti dello specialismo; di uno specialismo in
tal senso percepito integralmente come negativo e spesso trave-
stito da soggettivismo disancorato dalla Storia, e a partire – tri-
ste refrain di questi anni – dalla crisi della critica, magari dovu-
ta a quel « microfilologismo spicciolo» e, suggerisce sempre Lu-
perini, a quell’« esagerata proliferazione dei commenti, denun-
ciati (peraltro con intenti molto diversi dai miei) da Susan Son-
tag o, più efficacemente, da George Steiner» 103.
A parte i seri dubbi che ormai si possono giustamente nu-
trire, con Mario Lavagetto e altri, sull’efficacia dei discorsi stei-
neriani, da Real Presences (1989) in avanti, mi pare che non sia
così proficuo, in fase di bilancio, utilizzare come primo, forte
discrimine un’esigenza di totalità che in ultima analisi è rim-
pianta da sempre, sovente data per morta con Fortini e poi fatta
scomparire un po’ frettolosamente in autori come Sciascia. E
viene ancora da pensare al Blanchot de Les intellectuels en que-

l’equilibrato e importante, nei percorsi e nella sistemazione critica, G. Traina,


Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 244.
102
Cfr. Nunzio Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia (1991), in L’ombra del
moderno. Da Leopardi a Sciascia, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Edito-
re, 1992, [pp. 135-152], pp. 142-144. Ma cfr. L. Sciascia, Nero su nero cit., pp.
773-774.
103
R. Luperini, Lettura, interpretazione e crisi della critica (1993), in Con-
trotempo. Critica e letteratura fra moderno e postmoderno: proposte, polemiche e
bilanci di fine secolo cit., [pp. 13-31], p. 23.

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stion. Ébauche d’une réflexion (1984 e 1996), la cui lettura, al di
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là delle giuste riserve di Todorov, aiuta a reagire contro chi eti-


chetta e sotterra prematuramente intellettuali e offre una via a
chi invece se ne vuole ricordare, a partire, per esempio e ancora,
da quel Tabucchi che dedica La gastrite di Platone (1997 e
1998) a Leonardo Sciascia e Pierpaolo Pasolini 104.
La sindrome dell’ultimo intellettuale, insomma, non aiuta
in un bilancio che talora assomiglia un po’ – e lo si dice nel più
grande rispetto di Fortini e Luperini – a una “resa dei conti”.
Una linea critica, per quanto forte, ideologicamente forte, non
deve e non può rispondere – specie da sola – all’esigenza di tota-
lità. Crediamo piuttosto con Blanchot, ancora, e con Sciascia (e
con l’eroe-alter ego de L’antimonio), che l’intellettuale, l’intellet-
tuale dell’installazione precaria, del pensiero dei pericoli e contro
i pericoli, è al limite « una sentinella che non è lì [nella sua in-
stallazione precaria] che [...] per tenersi sveglio, e attendere con
un’attenzione attiva in cui si esprime meno la preoccupazione di
se stessi che la preoccupazione per gli altri» 105.
La totalità deve restare una tentazione per l’intellettuale
perché cela – certo non nel caso di Luperini – un’ambizione pe-
ricolosa, e se può servire da lievito, non deve essere il pane di
cui cibarsi tutti i giorni. Come riconosce con onestà e ironia –
per fare un esempio che ci aiuta a allargare la carta e insieme a
continuare a pensare « la liberté par la connaissance» 106 – Pierre
Bourdieu, che rifiuta conseguentemente e significativamente di
fare il funerale all’intellettuale, punto d’approdo inevitabile, in-
vece, di chi assolutizza l’intellectuel total, idéal. Si legga il suo
Esquisse pour une auto-analyse, uscito postumo nel 2004, dove –
dice Bernard Lahire a proposito dell’« engagement public de

104
A. Tabucchi, La gastrite di Platone cit., p. 11.
105
Ivi, p. 39; approdo che ricorda il monito di Sartre.
106
Cfr. La liberté par la connaissance. Pierre Bourdieu (1930-2002), a cu-
ra di Jacques Bouveresse e Daniel Roche, Paris, Odile Jacob, « Collège de
France », 2004.

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l’intellectuel» – « malgré le fait qu’il ait eu la volonté de se con-
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struire contre “tout ce que représentait [pour lui] l’entreprise


sartrienne”, Bourdieu reconnaît qu’il a été travaillé par les am-
bitions démeseurées de l’intellectuel total» 107.
Après avoir partagé un moment la vision du monde du « philo-
sophe normalien français des années cinquante» que Sartre por-
tait à son accomplissement – je pourrais dire à son paroxysme –
[...] je puis dire que je me suis construit [...] contre tout ce que re-
présentait pour moi l’entreprise sartrienne. Ce que j’aimais le
moins en Sartre, c’est tout ce qui a fait de lui non seulement l’« in-
tellectuel total», mais l’intellectuel idéal, la figure exemplaire de
l’intellectuel, et en particulier, sa contribution sans équivalent à la
mythologie de l’intellectuel libre, qui lui vaut la reconnaissance
éternelle de tous les intellectuels. [...] Je ne me rangerai jamais,
cependant, dans le camp de ceux qui, aujourd’hui, chantent la
mort de Sartre et la fin des intellectuels [...] 108.

3. «Sapete che cosa è stata la guerra di Spagna ? che cosa è


stata veramente ?»
In questa prospettiva, auspicando un nuovo, corale bilancio
del secondo Novecento per Sciascia, penso che sia utile riaccor-

107
Bernard Lahire, L’Esprit sociologique, Paris, La Découverte, 2005, ma si
cita da un estratto apparso in anticipo su «Sciences Humaines», Numéro Hors-
Série dedicato a Pensées rebelles. Foucault Derrida Deleuze, 3, 2005, [pp. 46-49],
pp. 47-48. Lahire apre poi su Michel Foucault traducendo con « l’“intellectuel
universel” dans la terminologie foucaldienne» cui lo stesso oppone, come è no-
to, l’“intellectuel spécifique”: «[...] alors que Foucault développait et mettait en
pratique l’idée, plus modeste et sans doute aussi plus efficace, d’“intellectuel
spécifique”». Con José G. Merquior, Ritratto di un neo-anarchico, in Foucault
(1985), Roma-Bari, Laterza, 1988, [pp. 148-169, 181-182], pp. 148-157, e
M. Walzer La politica solitaria di Michel Foucault cit., nutro alcuni dubbi
sull’efficacia della démarche foucaldienne, specie sul problema della « distanza
critica», sulla quale mi sono già soffermato, anche in relazione a Sciascia.
108
Pierre Bourdieu, Esquisse pour une auto-analyse, Paris, Raisons d’agir,
2004, pp. 37-38; cfr. Questa non è un’autobiografia, Milano, Feltrinelli, 2005.

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darsi con le poche osservazioni sopra citate circa il valore meta-
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letterario de L’antimonio. Quelle osservazioni, per quanto gene-


riche e estendibili, più propriamente, al di là del lungo racconto
del 1960 e dello stesso Sciascia, rispondono in parte a vere, com-
plesse e ancora misteriose ragioni compositive, già evidenziate da
Claude Ambroise, a partire dal fatto che L’Antimonio « è, in
realtà, l’inizio di un romanzo che avrebbe dovuto avere propor-
zioni ben più vaste, prime pagine di una biografia che non fu
proseguita, apparentemente, per motivi contingenti» 109. In tale
biografica prospettiva, direi comunque che è più facile leggere
L’antimonio come opera aperta, incompiuta, ‘alla Vittorini’ 110, e
promuovere subito un legame contestuale e intergenerazionale
che svilupperemo proprio in relazione alla guerra di Spagna.
Ma tutto ciò non può farci dimenticare la testimonianza
dello stesso Sciascia, che si dice « molto orgoglioso» de L’anti-
monio ancora nel 1981, a vent’anni di distanza dalla sua pubbli-
cazione. Non a caso, poi, il ricordo del racconto chiude un pa-
ragrafo aperto da un elenco dei libri che hanno raccontato la
guerra civile spagnola e la Spagna:

C’è particolarmente caro, quello di George Orwell: Omaggio alla


Catalogna. Poi I grandi cimiteri sotto la luna di Bernanos, La spe-
ranza di André Malraux, L’esperienza della guerra di Spagna di
Matthews, Il diario di Koltsov, le memorie dell’ambasciatore
americano, di Pietro Nenni, di Constancia de la Mora, di Camil-
lo Berneri, di Lister, del Campesino [...] E tra i tanti libri di poe-
sia, uno ce n’è che conservo come una delle cose più preziose che

109
C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia cit., p. 95.
110
Natale Tedesco, «Avevo la Spagna nel cuore»: Sciascia, la Sicilia, la Spa-
gna, in Avevo la Spagna nel cuore, Atti del Convegno internazionale, Napoli 15-16
ottobre 1999, a cura di Natale Tedesco, Milano, La Vita Felice, 2001, [pp. 9-20],
pp. 9, 11, 13; negli stessi Atti cfr. gli interventi di Ricciarda Ricorda, L’andare per
Spagna di un siciliano: immagini di viaggio, pp. 191-207, e di Domenica Perrone,
Sciascia, Vittorini e la Spagna, pp. 243-257, che avremo occasione di richiamare.
E si veda anche Vicente González Martín, España en la obra de Leonardo Sciascia,
«Cuadernos de Filología Italiana», 7, 2000, [pp. 733-756], pp. 738-742.

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abbia: il Maremagnum di Jorge Guillén, con una dedica che si ri-
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ferisce a quel mio racconto sulla guerra di Spagna intitolato L’an-


timonio (e da cui è stato tratto un film che non ho mai visto ma
mi dicono buono), di cui sono molto orgoglioso 111.

In questa testimonianza è facile sposare, fra dedica e raccon-


to, l’orgoglio di Sciascia – non il parere degli amici spettatori sul
film tratto dal racconto, su cui ritorneremo – e apprezzare anche
maggiormente uno dei pochi scrittori italiani del Novecento che
ha creduto in un personaggio e in un narratore che, « come di
notte le farfalle intorno al lume», « bruciano» la loro esistenza
letteraria e civile « intorno a Madrid »: capitale reale e simbolica
del conflitto, assediata dai fascisti, e prima città in Europa sotto-
posta – con « case in cui migliaia e migliaia di persone abitava-
no» 112 – a un duro bombardamento aereo nell’autunno-inverno

111
L. Sciascia, Ore di Spagna cit., p. 29. Fra i libri citati, al di là di presenze
note, come Orwell e Malraux, di cui abbiamo detto e diremo, e di Bernanos (per
cui si veda il terzo capitolo di questo volume), è forse interessante notare che ve ne
sono alcuni che escono o riescono in Italia proprio negli anni de Gli zii di Sicilia e
de L’antimonio. Cfr., per esempio, Pietro Nenni, Spagna, a cura di Gioietta Dallò,
Milano-Roma, Edizioni Avanti !, 1958, con pagine inedite ed edite tutte collocabi-
li fra il 1936 e il 1942 (per cui si veda la Nota della curatrice alle pp. 5-6), e
Mikhail Kol’tsov, Diario della guerra di Spagna, Milano, Schwarz, 1961. Fra i libri
citati e riproposti, invece, in anni più vicini alle Ore di Spagna di Sciascia, cfr. al-
meno il noto e curioso caso di Constancia De La Mora, Gloriosa Spagna, con Pre-
sentazione di Luca Pavolini, «A Constancia de la Mora, hoy» di Rafael Alberti
(agosto 1975) e Introduzione di Vittorio Vidali, Roma, L’Unità-Editori Riuniti,
1975; testo più precisamente finito di stampare nell’ottobre del 1975, poco prima
della morte di Francisco Franco (20 novembre 1975) per un’Edizione fuori com-
mercio riservata agli abbonati de «L’Unità» per l’anno 1976, ovvero, come ricorda
la Presentazione, a p. 7, nel « quarantesimo anniversario di quella eroica e sfortuna-
ta lotta del popolo spagnolo contro il fascismo interno e internazionale, che fu il
prologo tragico della seconda guerra mondiale». Ma la prima edizione italiana di
questo volume – apparso negli Stati Uniti nel 1939 col titolo In Place of Splendor.
The autobiography of a Spanish woman – risale al 1951 (ivi, p. 13).
112
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 191. Ma per il lungo e leggendario asse-
dio alla capitale, tra bombardamenti, resistenza, evacuazioni della popolazione e

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del 1936, che introduce ormai a una « guerra costruita sui bom-
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bardamenti [...] guerra in forma pura e scoperta» 113.


L’Antimonio sceglie insomma il punto di vista delle truppe
inviate da Mussolini in Spagna ma fa parte della mitografia an-

ossessioni, paure e fobie degli assedianti, si scorra almeno il panorama offerto da


Madrid 1936-1939. Un peuple en résistance ou l’épopée ambiguë, a cura di Carlos
Serrano, Paris, Autrement, «Mémoires», 1991, volume che avremo occasione di
richiamare nei prossimi capitoli, segnalandone via via contributi specifici.
113
Winfried Georg Sebald, Storia naturale della distruzione (2001), Milano,
Adelphi, 2004, p. 31; che poi rinvia, nel testo e in nota, alle pp. 140-141, a Elai-
ne Scarry, La sofferenza del corpo (1985), Bologna, il Mulino, 1990. Sebald parte,
in conferenze tenute a Zurigo nel 1997, dai bombardamenti, dal rapporto tra
guerra aerea e letteratura (Luftkrieg und Literatur, München-Wien, Carl Hanser
Verlag, 1997), per disegnare una « cultura dei vinti» che mette letterariamente il
silenziatore agli « inferni metropolitani» e agli « incendi» della seconda guerra
mondiale in Germania. Su questi « buchi della memoria» e sulla « normalizzazio-
ne» della coscienza tedesca ai nostri giorni ha detto, in modo più equilibrato di al-
tri in Italia, Gustavo Corni su «L’Indice», 1, 2005, p. 5. Ma cfr. ora W. G. Se-
bald. Storia della distruzione e memoria letteraria, «Cultura tedesca», 29, 2006 e
Raul Calzoni, Walter Kempowski, W. G. Sebald e i tabù della memoria collettiva te-
desca, Pasian di Prato, Campanotto, 2006. Poi, sulla « cultura dei vinti», in gene-
rale e in relazione alla Germania, ma dopo la Grande Guerra, si veda Wolfgang
Schivelbusch, Essere sconfitti e La Germania in La cultura dei vinti (2001), Bolo-
gna, il Mulino, 2006, pp. 7-38 (note alle pp. 275-290) e 175-265 (pp. 326-
355); sugli « inferni metropolitani» e gli « incendi», in relazione a Berlino e alle al-
tre città tedesche bombardate, si leggano Mike Davis, Lo scheletro di Berlino
nell’armadio dello Utah, in Città morte. Storie di inferno metropolitano (2002), Mi-
lano, Feltrinelli, 2004, pp. 71-89, e Jörg Friedrich, La Germania bombardata. La
popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati 1940-1945 (2002), Milano, Mondado-
ri, 2004. Sul corpo, in relazione alla guerra, dopo Elaine Scarry, cfr. almeno Susan
Sontag, Davanti al dolore degli altri (2002), Milano, Mondadori, 2003, e i più re-
centi e complessi Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte
nella guerra contemporanea, Torino, Einaudi, 2006, pp. 101-117, 125-128, e il
volume collettivo Aspettando il nemico. Percorsi dell’immaginario e del corpo, a cura
di Valerio Giordano e Stefano Mizzella, Roma, Meltemi, 2006. Infine, quasi cir-
colarmente, sulla guerra aerea nella seconda guerra mondiale, in Italia e sul fronte
meridionale, con Napoli città ferita in prima linea, ha scritto pagine introduttive,
e valide in generale, Gabriella Gribaudi, La guerra vista dall’alto, nel suo Guerra
totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-
1944, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 59-88.

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tifascista della guerra civile, perché, osserva Gabriele Ranzato,
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«Sciascia è chiaramente schierato dalla parte della Repubblica,


ne condivide le ragioni di lotta politico-sociali» e in tal senso
« fa anche un elogio della guerra civile» 114, muovendo finanche
al di là del mito della « pace» e verso l’«hora de la verdad» della
« corrida», quasi ‘alla Hemingway’:
Una guerra civile non è stupida come una guerra tra nazioni, gli ita-
liani in guerra contro gli inglesi o i tedeschi contro i russi, e io zolfa-
taro siciliano ammazzo il minatore inglese e il contadino russo spa-
ra sul contadino tedesco; una guerra civile è un fatto più logico, un
uomo si mette a sparare per le persone e le cose che ama, e per le co-
se che vuole, e contro le persone che odia: e nessuno sbaglia a sce-
gliere da quale parte stare, solo quelli che si mettono a gridare – pa-
ce – sbagliano. E credo che Mussolini, tra tutte le sue colpe, quella
di aver portato migliaia di italiani poveri a combattere contro gli
spagnuoli poveri non gli sarà perdonata. Una guerra civile, nono-
stante le sue atrocità, è una specie di hora de la verdad, ora della ve-
rità gli spagnuoli dicono il momento più acuto della corrida 115.

Ma non c’è spettatore in questa corrida. Tutti dovevano


scendere e sono scesi dalle gradinate per combattere nell’arena,
in quell’immenso colosseo che è la Spagna della guerra civile,
come avremo occasione di ribadire. Tutti, compresi il narratore
e l’autore dell’Antimonio. Questa partecipazione, per quanto
mediata da « una finzione intellettualistica», è prova di una re-
sponsabilità individuale (e di una scelta morale e razionale)
manzoniana e più che manzoniana 116: da un lato Manzoni, col
suo richiamo alla responsabilità individuale, serve a Sciascia da
antidoto contro le facili assoluzioni del sociologismo che anne-
ga ogni colpa nella responsabilità collettiva o culturale che dir si

114
Gabriele Ranzato, Sciascia e la guerra civile spagnola: tra verità storica e
verità letteraria, in Avevo la Spagna nel cuore cit., [pp. 209-219], p. 214.
115
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 212.
116
Cfr. l’incipit dell’intervento di G. Traina, L’eredità morale e letteraria di
Leonardo Sciascia, «Siculorum Gymnasium», 1, 2003, pp. 49-56.

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voglia; dall’altro Sciascia dà prova, nell’Antimonio, di un enga-
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gement che va ben al di là del cattolicesimo e della ragione bor-


ghese, dà prova di un impegno che non cerca rimozioni e ideo-
logie, dà prova di un pensiero dei pericoli e contro i pericoli, in
cui ci si brucia, insieme ai poveri, e per sempre.
Non siamo quindi di fronte a un facile divertissement, che
si manifesta, semmai, e in modo non banale, a un altro livello
del discorso (tecnico, citazionistico, retorico). E non siamo
neppure di fronte a un diluito recupero del conflitto spagnolo
fra i tanti, tragici « frammenti» a disposizione nel secolo breve,
specie nel periodo delimitato dalle due guerre mondiali; « fram-
menti» che come tali sembrano imporsi in certa narrativa italia-
na dei primi anni Sessanta – diciamo tra 1961 e 1963 117 – e
coagularsi intorno a temi quali la storia e la guerra da un lato, la
solitudine e la marginalità dall’altro, in un divario crescente che
vuole il romanziere, l’artista, lontano dagli scenari della Storia,
quasi ad anticipare la regressione di un’avanguardia vincolata a
un linguaggio solipsistico, da riscrittura più o meno giocosa e
gioiosa del mondo, con suo conseguente travestimento.
Né L’antimonio può essere solo, come si diceva, un raccon-
to di sé, della propria scrittura, anche se è con la scrittura, con
le sue immagini nutrite di letteratura che si assume e si rappre-
senta un non facile accesso a responsabilità e engagement:
dall’immagine dilatata del fuoco – che si impone fin dal titolo e
dalla prima pagina in modo studiato e insieme ossessivo, quasi
in senso mauroniano 118 – a quella delle farfalle che girano in-

117
Mi sia consentito rinviare a Luciano Curreri, La storia e la guerra nel
«Disertore» e in altri romanzi del 1961, in Una giornata per Giuseppe Dessí, Atti
di seminario, Firenze 11 novembre 2003, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni,
2005, pp. 65-82, e L. Curreri, Fra solitudine ed eccentricità: alcuni percorsi della
« marginalità» ne «La dura spina» di Renzo Rosso, in Letteratura e marginalità, a
cura di Ada Neiger, Trento, New Magazine, 1996, pp. 89-119.
118
Cfr. Charles Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale. Introdu-
zione alla psicocritica (1963), Milano, Il Saggiatore, 1966. Ma si pensi anche a
quanto detto verso la fine del paragrafo primo e a quanto si dirà nel quinto.

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torno al lume, più nascosta e per noi più significativa, come
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cercheremo di suggerire successivamente, accogliendo in tal


senso il giudizio di Enrico Testa: «La tendenza verso una lingua
narrativa in cui riemergono sia la sapienza linguistica del lette-
rato italiano che tutta la ricchezza delle formule retoriche della
tradizione è esemplificabile, al suo massimo grado, con la vicen-
da della narrativa di Sciascia» 119.
Del resto, per accedere ai molti e diversi pensieri, impegni,
celati, in maniera stratificata, nella guerra civile spagnola, non
sono sufficienti studi, nemmeno di livello universitario; e forse
nel senso che più tardi avrebbe indicato un Enzo Paci, a ridosso
del Sessantotto, nella prefazione alla terza edizione italiana – la
prima è del 1961 – de La crisi delle scienze europee e la fenomeno-
logia trascendentale (1935-1937) di Edmund Husserl, dove è
quella « difficilissima problematica fenomenologica [...] com-
presa anche da [...] la base popolare della società [...]», quella
« fenomenologia» che « scienze, lettere, arti e politica ritrovano
in sé come una presa di coscienza»: «Il problema riguarda allora
l’università come industria e il fatto che l’università ha perso il
telos e il significato di verità. In altri termini: le università non
insegnano una cultura per uomini e soggetti viventi [...] i sog-
getti si accorgono di essere diventati solo oggetti che devono es-
sere utili all’apparato industriale, politico e militare» 120:

119
Enrico Testa, Lo stile semplice. Discorso e romanzo cit., [pp. 327-330],
p. 327, che rinvia poi a Vittorio Coletti, Storia dell’italiano letterario, Torino,
Einaudi, 1993, pp. 376-378.
120
Cfr. Enzo Paci, Avvertenza (1960) e Prefazione alla terza edizione ita-
liana (1968), in Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenolo-
gia trascendentale (1959), Milano, Il Saggiatore, 1961, 1969 e ora Milano, Net,
2002, [pp. 1-4 e 7-18], pp. 10, 12 e 15; è l’ultimo grande lavoro di Husserl, ne-
gli anni che vanno dal 1935 al 1937. Tra anni Trenta e Sessanta, in seno al no-
stro discorso e ai problemi sopra evocati, è poi difficile non pensare a Marcuse e
alla Prefazione (1964) a Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, To-
rino, Einaudi, 1969, pp. XVII-XXV, scritta per gli interventi degli anni Trenta
(l’ultimo risale al 1938), dove si individua la frattura tra passato e presente in

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Tante persone studiano, fanno l’università [...] a queste persone io
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vorrei chiedere – sapete che cosa è stata la guerra di Spagna ? che


cosa è stata veramente ? Se non lo sapete, non capirete mai quel
che sotto i vostri occhi oggi accade, non capirete mai niente del fa-
scismo del comunismo della religione dell’uomo, niente di niente
capirete mai: perché tutti gli errori e le speranze del mondo si sono
concentrati in quella guerra; come una lente concentra i raggi del
sole e dà il fuoco, così la Spagna di tutte le speranze e gli errori del
mondo si accese: e di quel fuoco oggi crepita il mondo 121.

E a proposito del fuoco, della luce, dell’accendersi, del cre-


pitare, del bruciare, è ormai impossibile non appuntare – e a
più riprese – quel passo con cui si è titolato e che si trova verso
la fine della prima parte dell’Antimonio.

4. «Farfalle intorno al lume». Breve storia di un’immagine

Ne L’antimonio si individuano un narratore interno prota-


gonista e un’ovvia presenza di enunciati in terza persona per le
azioni compiute da altri, che già l’incipit attesta, contemplando
non a caso «Sparavano dal campanile» 122; presenza ovvia ma si-
gnificativa, perché tesa a bilanciare la profonda analisi di un
personaggio, che è l’analisi della radicazione della soggettività
nel mondo, in un contesto storico preciso, ma non dato una
volta per tutte, come si diceva, e certo dilatato, specie grazie
all’uso di certe immagini (fuoco ma anche farfalle) e ai non in-

«Auschwitz» (p. XX) ma si evoca subito dopo la « guerra civile spagnola», sui
« campi di battaglia e di sterminio» della quale « si lottò per l’ultima volta per la
libertà, la solidarietà e l’umanità in senso rivoluzionario», e si precisa in nota:
«Per l’ultima volta in Europa. L’eredità storica di questa lotta va oggi trovata in
quei paesi che difendono la loro libertà in una lotta senza compromessi contro
le potenze neocoloniali» (p. XXI).
121
L. Sciascia, L’antimonio cit., pp. 203-204.
122
Ivi, p. 167.

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frequenti sbalzi temporali verso l’infanzia del protagonista e poi
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verso momenti situabili già oltre l’esperienza della guerra – sep-


pur ancora confitti nella stessa, nel suo tempo – e fors’anche,
nel finale aperto e in prospettiva, oltre il ventennio.
D’altro canto, come vedremo, se gli enunciati in terza perso-
na riguardano innanzi tutto le azioni compiute da altri, possono
anche, in un certo senso, investire quelle compiute da « un io che
parla a nome di un noi» 123, cioè da un « io» che – oltre a rappre-
sentare « personaggio e scrittore, Spagna e Sicilia», come suggeri-
sce Tedesco – diventa comunità di soldati; da un « io» che prima
si incarna nella pluralità del « noi giravamo» – che è anche la plu-
ralità di « noi abitatori di questa terra, uomini qualunque dell’og-
gi» 124 – e poi finanche in quella della terza persona plurale, delle
« farfalle» che « si avvicinano» pericolosamente « al lume» di Ma-
drid, a Madrid-lume, e con quel lume, simbolo di una sofferta
ed estesa condizione umana, finiscono per identificarsi.

Giravamo intorno a Madrid come di notte le farfalle intorno al lu-


me, si avvicinano fino a sentirsi bruciare ed allargano il volo, di
nuovo si avvicinano e per un guizzo di vento la fiamma le coglie 125.

Un’immagine simile, « girare [...] come un’atropo testa di


morto intorno al lume», anticipata non proprio a caso dall’evoca-
zione di Franco, il Generalissimo vincitore della guerra civile spa-
gnola, ritorna nell’opera di Sciascia, nel cronologicamente vicino
A ciascuno il suo (1966). Si tratta, in questo caso, di un « giallo che
non è un giallo», come scrive Italo Calvino 126, un giallo « smonta-
to» dove di tale preziosa, poetica immagine viene finanche propo-

123
N. Tedesco, «Avevo la Spagna nel cuore»: Sciascia, la Sicilia, la Spagna
cit., p. 12; anche per la citazione seguente.
124
P. A. Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio cit., p. 22.
125
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 189.
126
Citato in C. Ambroise, Cronologia, in L. Sciascia, Opere 1956-1971,
Milano, Bompiani, «Classici» 1989 e 2001, p. LIX.

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sta un’esegesi, « per vizio di mestiere», dopo un dialogo tra Rosel-
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lo e Laurana, tra il sospettato e il protagonista, il professore che


« faceva dei lavoretti di critica» 127 e che si improvvisa detective:

– La destra dell’onorevole sta più a sinistra dei cinesi, se proprio


lo vuoi sapere... [disse Rosello]
[...]
– Ma l’onorevole Abello – domandò [Laurana] – accetta comple-
tamente la linea che per ora segue il vostro partito ?
– E perché no ? Abbiamo rosicchiato per vent’anni a destra, ora è
tempo di cominciare a rosicchiare a sinistra. Tanto, non cambia
niente.
– E i cinesi ?
– I cinesi ?
– Voglio dire: poiché l’onorevole sta più a sinistra dei cinesi...
– Ecco come siete, voi comunisti: di una frase fate una corda, e ci
impiccate un uomo... Io ho detto così per dire, che sta a sinistra dei
cinesi... Se ti fa piacere, posso anche dirti che sta a destra di Franco
[...] – Se ne andò, un po’ intorbidato in faccia, senza salutare.
Tornò una mezz’ora dopo, completamente mutato: allegro, affet-
tuoso, disposto allo scherzo. Ma Laurana avvertì la tensione, l’in-
quietudine, la paura forse, che lo portavano a girare, « come un’atro-
po – pensò – come un’atropo testa di morto intorno al lume»: e
l’immagine, dalla pagina di Delitto e castigo da cui era sorta finì, per
vizio di mestiere, spiaccicata in nota a Gozzano, in nota a Montale.
[...] E così finì col bruciarsi le ali, Rosello, nella fiamma del so-
spetto di Laurana. E quasi faceva pena 128.

Dopo Fëdor Michailovic] Dostoevskij 129, il professore e criti-

127
L. Sciascia, A ciascuno il suo, Torino, Einaudi, 1966 e «Nuovi Coralli»,
1973, p. 29.
128
Ivi, p. 84.
129
Al di là della precisa indicazione di Sciascia, da Delitto e castigo, su Do-
stoevskij – pur consapevoli della nota (ma tarda) preferenza sciasciana per Tol-
stoj – ritorneremo fra poco, a proposito dell’incendio che domina il passo delle
farfalle de L’antimonio, specie nelle sue battute finali, segnalando un’altra, possi-
bile ascendenza dostoevskiana nelle fiamme che pongono fine a La festa nella ter-

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co letterario che è Laurana – e che è anche Sciascia – rinvia a
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Guido Gozzano e a Eugenio Montale. La prosa « gialla» di Delit-


to e castigo (1866) diventa la poesia dell’Acherontia Atropos, Del-
la testa di morto, delle Farfalle (1908-1916) gozzaniane 130. Per
Montale poi – che, come nota Cesare Segre 131, « con qualche ci-
vetteria ha sollevato un tema crepuscolare all’intensità angosciata
da baleni metafisici propria della sua poesia» – la farfalla è occa-
sione abbastanza frequente, simbolo non raro, dai Vecchi versi de
Le occasioni (1928-1939) a Per un « Omaggio a Rimbaud » de La
Bufera e altro (1940-1954): occasione e simbolo dispiegati anche
in una breve prosa – Farfalla di Dinard, che chiude il volumetto
omonimo del 1956 – ma già in chiave critica, persino autoironi-
ca, insomma di rilettura pensosa e divertita di sé.

za ed ultima parte de I demoni (1873). Ma si rilegga per ora Fëdor Michailovic]


Dostoevskij, Delitto e castigo, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1982,
volume I, p. 368, con Raskolnikov che pensa: « faccio bene o no a recarmi da lui
[il giudice Porfirij]? Anche la falena si precipita sulla candela»: volume II, p. 22,
con Porfirij che dice a Raskolnikov: «Le è mai capitato di vedere una farfalla da-
vanti a una candela ? Beh, anche lui [l’assassino della vecchia usuraia e di Lizave-
ta, sorella di quest’ultima, ovvero Raskolnikov] mi girerà intorno, continuamen-
te, intorno a me come intorno a una candela»; e volume II, p. 277, per un pos-
sibile cortocircuito con L’antimonio, dall’origine e dalla parabola diverse, certo,
ma come concepite e tracciate in quella distesa « epoca della guerra civile stri-
sciante» – consapevolezza di pochi rivoltosi, isolati in un contesto di povertà e
miseria – che verso la fine del libro un’esclamazione di Raskolnikov assimila tout
court alla guerra, poco prima di espiare la colpa nel dolore dell’esilio, necessario
per rientrare in quella società (e umanità) per la quale ha commesso il delitto:
«Beh, io proprio non capisco perché ammazzare con le bombe la gente d’una
città assediata dovrebbe sembrare formalmente più conveniente ! » Cfr. infine,
per l’« epoca della guerra civile strisciante», in relazione anche a Delitto e castigo,
Massimo Ilardi, Negli spazi vuoti della metropoli. Distruzione, disordine, tradi-
mento dell’ultimo uomo, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, [pp. 64-66], p. 65.
130
Guido Gozzano, Tutte le poesie, a cura di Giacinto Spagnoletti, Roma,
Newton Compton, 1993, pp. 139-142.
131
Cesare Segre, Invito alla «Farfalla di Dinard », in I segni e la critica, To-
rino, Einaudi, 1970 e in Per conoscere Montale, Antologia corredata di testi cri-
tici, a cura di Marco Forti, Milano, Mondadori, « Oscar», 1986, [pp. 251-
267], pp. 266-267.

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Ci pare adottare doppiamente tale registro il brano citato,
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che, con passione civile e engagement sottesi, traduce l’indagine


di Laurana in un divertissement, in un gioco letterario e poi in
un’esegesi che sembra diventare un’autoesegesi, come spec-
chiantesi, quasi secondo modalità metanarrative, nel titolo stes-
so del romanzo: A ciascuno il suo.
Da un lato abbiamo, nella boutade iterata di Rosello, una de-
mitizzazione della destra franchista, e della politica in genere, an-
che di sinistra, il cui fallimento il libro registra al di là della forma
del « giallo» e del tema della « mafia». A tale boutade segue poi,
oscillante fra il pensiero di Laurana e il commento ironico del
narratore, la rivelazione di un gusto poetico per l’immagine che
per ovvie aderenze regionalistiche potremo sospingere all’indietro
fino a Giacomo da Lentini 132 («Si como ’l parpaglion») e che
sembra ribattezzare il contesto tragico della guerra di Spagna (e
dell’Antimonio) e adattarsi all’amaro clima di sospetto della Sicilia
di Sciascia autore: quella Sicilia dove è radicata un’altra guerra ci-
vile, guerra forse più sotterranea ma non meno pericolosa, tanto
che « i poliziotti tristi di Leonardo Sciascia» diventano dei « legio-
nari [...] capaci di liberare da cumuli di fatica e di pena quel feli-
no inarcarsi di reni che è la poesia». Come suggerisce bene Di
Grado, lettore eticamente attento del mondo dello scrittore sici-
liano anche a partire dalla sua dimensione noir, raccolta tuttavia,
un po’ unilateralmente e secondo coordinate estetiche prima sfu-
mate, « sul fronte d’una metafisica provincia» che consegna i le-
gionari-poliziotti a un « bisogno di bellezza che li strega e li per-
de» 133. Ragionando altrimenti sulla circolarità, nell’opera scia-
sciana, di esordi ed epilogo, Zago ci aiuta invece a puntare su una
Sicilia meno metafisica e più concreta, quella del primo Sciascia,
per capire anche lo Sciascia successivo, soprattutto l’ultimo, e in
tal senso ricorda, dopo i rilievi di Ambroise, il volumetto poetico,

132
O a Chiaro Davanzati, «Il parpaglion che fere a la lumera».
133
A. Di Grado, Sciascia, il cinema e (fra l’altro) l’Europa: (bianco e) nero
su nero cit., pp. 71-72.

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La Sicilia, il suo cuore (1952), qui già citato, e in particolare Ad
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un paese lasciato, dove spiccano, per noi, questi versi:

Tra questi uomini ho appreso grevi leggende


di terra e di zolfo, oscure storie squarciate
dalla tragica luce bianca dell’acetilene 134.

D’altro lato, e in prospettiva, Sciascia prende in giro le ansie


investigative da letterato di Laurana e di se stesso, giocando col
lettore ma non ingannandolo circa la capacità critica del razionali-
smo del suo eroe e alter-ego. Nel finale, infatti, il lettore sarà disil-
luso, ovvero, con strategia assai consueta, non illuso e insieme in-
vitato a una presa di coscienza e a un atteggiamento disincantato,
visto che non sarà Rosello a bruciarsi le ali nel sospetto di Laurana
ma per l’appunto Laurana a bruciarsele nel sospetto di Rosello.

5. Il fuoco, la paura, la memoria, l’infanzia e « i ragazzi


affamati con fame anche di città nuove e mondo da vedere»

Questa rapida incursione in A ciascuno il suo (1966) e negli


esordi poetici sciasciani ci ha permesso di mettere letteraria-
mente a fuoco un’immagine significativa per il nostro percorso
e di stabilire un altro, ulteriore e non così manifesto legame
all’interno di quella costruzione culturale impura che si serve
della « continuità» esplosiva tra la Spagna e la Sicilia di Scia-
scia 135; di quel primo Sciascia che possiamo provare a ricolloca-

134
N. Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia cit., pp. 146-147. Ma cfr. C. Am-
broise, Invito alla lettura di Sciascia cit., p. 16, e le pagine sciasciane su La Zolfa-
ra (1963) incluse ne La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (1970), in Ope-
re 1956-1971 cit., pp. 1096-1101.
135
Cfr. una lettera di Italo Calvino del 26 ottobre 1964 citata in N. Tede-
sco, «Avevo la Spagna nel cuore»: Sciascia, la Sicilia, la Spagna cit., p. 14, e da
noi ancora più avanti nel testo.

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re fra il 1952 – ma tenendo presente l’attenzione pasoliniana
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circa le Favole della dittatura (1950) – e il 1966, e fra poesia e


narrativa, fra tradizione – o fra un’idea di tradizione amplifica-
ta, che risponde piuttosto a un insieme di tradizioni – e retori-
ca, sapienza linguistica; e poi, se si vuole, fra engagement e diver-
tissement, ma nei termini che si sono anticipati.
E bisogna subito precisare che tale divertissement non è mai
fine a se stesso e che la retorica, la sapienza linguistica non sono
solo mestiere, cioè non si traducono solo in quel dato tecnico
che è certo innegabile in Sciascia, invitato in tal senso da uno
scrittore di mestiere come Calvino a « non abbandonarsi al me-
stiere» 136; quel Calvino, sia detto per inciso, che il mestiere lo
ruba pure ai critici 137. In Sciascia, retorica, sapienza linguistica
possono certo servire il mare magnum della memoria e del ricor-
do, compresi i corollari del non ricordare e il non fare della pro-
pria esperienza ricordo. Il tutto, però, mira a sottolineare una
presa di coscienza, un engagement, e anche in tal senso promuo-
ve un’intersecazione consapevole e non così comune di opera
narrativa e poetica, dello stesso Sciascia e di altri. Infatti, al di là
della conclamata ascendenza dostoevskiana e delle Farfalle di
Gozzano, « il pazzo aliare della farfalla» dei Vecchi versi monta-
liani è « oggetto e catalizzatore del ricordo» 138, come lo è il gira-
re delle farfalle-soldati ne L’antimonio (1960).
Leggiamo dunque (quasi) per intero quel passo che, nelle
sue prime e già citate battute, è segnato proprio dall’immagine
di folle danza, ma, per seguire il discorso sul ricordo, sulla me-
moria, prestiamo particolare attenzione all’inizio e alla fine:

136
G. Traina, Leonardo Sciascia cit., p. 229. Cfr. diversi luoghi di Italo Calvi-
no, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di Giovanni Tesio e con una Nota
di Carlo Fruttero, Torino, Einaudi, 1991, pp. 192, 216, 235, 239, 308, 490.
137
Cfr. il recente Giovanni Palumbo, «Le Prince Andréj» e il volo di Cosi-
mo: chiose sul finale del «Barone rampante», «Critica letteraria», 124, 2004,
[pp. 453-482], p. 454.
138
Cfr. Antonio Zollino, Su «Vecchi versi» di Montale. Fra il tempo degli
« Ossi» e i luoghi di «Alcyone», «Rassegna Lucchese», 2, 2000, [pp. 5-25], p. 15.

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Ma mentre sedevo sui gradini della chiesa di santo Isidoro, in
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quel paese di cui non ricordo il nome, la battaglia per Santander


era appena cominciata, era il 15 di agosto del 1937. Giravamo
intorno a Madrid come di notte le farfalle intorno al lume, si av-
vicinano fino a sentirsi bruciare ed allargano il volo, di nuovo si
avvicinano e per un guizzo di vento la fiamma le coglie. Così era
Madrid. [...] Non so perché, dei paesi e delle città della Spagna,
non ho netta memoria: anche di Siviglia, che è la più bella città
che io abbia mai visto. Non ho buona memoria per i luoghi, ma
per i luoghi della Spagna ancora meno: forse perché i paesi somi-
gliavano molto a quelli che fin da bambino conoscevo, il mio e i
paesi vicini, e dicevo – questo paese è come Grotte, qui mi pare
di essere a Milocca, questa piazza è come quella del mio paese –
ed anche a Siviglia mi pareva a momenti di camminare per le
strade di Palermo intorno a piazza Marina. E anche la campagna
era come quella della Sicilia: nella Castiglia desolata e solitaria
com’è tra Caltanissetta ed Enna, ma più vasta desolazione e soli-
tudine; come se il Padreterno, dopo aver buttato giù la Sicilia, si
fosse dilettato a fare un gioco di ingrandimento con uno di que-
gli apparecchi che vendono nelle fiere, anche gli ingegneri li usa-
no, pantografi si chiamano. E che idea andare a piantare una
città capitale nel bel mezzo della Castiglia. Che in mezzo a quel
deserto ci fosse una grande e bella città sembrava incredibile, era
solo un allucinato pensiero, sorgeva come nell’assetato l’immagi-
ne dell’acqua che sgorga. Ma c’era, Madrid: di notte riverberava
rosso nel cielo per gli incendi che i nostri aeroplani andavano ad
attaccare; solo a momenti pensavo che in quella città c’erano
bambini e vecchi, donne che urlavano pena, e case in cui migliaia
e migliaia di persone abitavano. Pensavo – l’antimonio, il fuoco
– ma così lontano era il riverbero, costava a noi tanto sangue e
dolore quella città di allucinazione, che di solito guardavo la ros-
sa aureola di morte come da bambino, in campagna, guardavo le
lontane girandole di fuoco della festa di San Calogero: un lumi-
noso lontano giuoco della notte 139.

139
L. Sciascia, L’antimonio cit., pp. 189-191.

63

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A questo passo, delimitato nel racconto da due spazi bianchi
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e perfettamente compiuto, abbiamo tolto solo una ventina di ri-


ghe, per meglio evidenziare la continuità problematica del discor-
so sciasciano sulla memoria (« non ricordo il nome»; «Non so
perché [...] non ho netta memoria»; «Non ho buona memoria»)
relativa ai luoghi della guerra, ai paesi, alle campagne, alle città e a
quella capitale che li introduce («Così era Madrid ») e che torna
infine a sovrastarli e raccoglierli tutti («Ma c’era, Madrid ») in
un’immagine di fuoco, che si sovrappone a quella dell’acqua, fre-
quentabile solo nell’allucinazione che la fa scaturire.
In questa prospettiva, il fuoco, che certo è morte, che è exer-
cice de l’apocalypse, come suggerisce André Malraux ne L’espoir
(1937) 140, sembra rovesciarsi presto e bachelardianamente nel
contrario, ovvero in vita, in alimento, in piacere. Per sincerarsene
basta leggere poche, semplici righe di quella Psychanalyse du feu
che è finita nel dicembre del 1937 e pubblicata nel 1938:

Il [le feu] est cuisine et apocalypse. Il est plaisir pour l’enfant [...]
il punit cependant de toute désobéissance quand on veut jouer de
trop près avec ses flammes 141.

Il fuoco, con il quale non si deve proverbialmente scherza-


re, offre anche forza vitale, cibo, gioia, gioia infantile, origina-
ria, a quella memoria che si confronta in modo certo più pro-
blematico che ingenuo, divertito, « vacanziero», con la storia e
l’oblio, il perdono, la giustizia 142, e che alterna sentimenti di
partecipazione, di pena (specie a partire dai bambini, dai vec-

140
André Malraux, Exercice de l’Apocalypse, in L’Espoir, Paris, Gallimard,
1937 e «Folio», 1972 e 1989, pp. 141-303.
141
Gaston Bachelard, La psychanalyse du feu, Paris, NRF, 1938 e Galli-
mard, «Folio-Essais» 1985 e 1995, pp. 23-24. Per il positivo rovesciarsi bache-
lardiano in seno alla tetralogia della materia cfr. L. Curreri, «Les images avant les
idées», «Franco-Italica», 13, 1998, pp. 177-218.
142
Cfr. ancora P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli cit., e Y. H. Yeru-
shalmi, Riflessioni sull’oblio cit..

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chi, dalle donne), e sentimenti di separazione, di paura, di peri-
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colo, istinti di sopravvivenza, se non proprio di distruzione, e


giochi un po’ inebrianti:

[...] solo a momenti pensavo che in quella città c’erano bambini e


vecchi, donne che urlavano pena, e case in cui migliaia e migliaia
di persone abitavano. Pensavo – l’antimonio, il fuoco – ma così
lontano era il riverbero, costava a noi tanto sangue e dolore quella
città di allucinazione, che di solito guardavo la rossa aureola di
morte come da bambino, in campagna, guardavo le lontane gi-
randole di fuoco della festa di San Calogero: un luminoso lontano
giuoco della notte.

Insomma, un tale salto spazio-temporale non è gestibile,


ante litteram, da Il teatro della memoria (1981), che è « teatro
della verità», come rileva Di Grado 143, ma anche, secondo lo
stesso Sciascia, « puro divertimento», « vera vacanza»; diverti-
mento, vacanza che, a cavallo dei tristi e già richiamati anni Set-
tanta e Ottanta, diventano la necessaria « controparte di un’atti-
vità per nulla divertente in cui da più di due anni [io, Sciascia]
mi trovo impegnato» 144.
E certo in quel salto, in quello sbalzo, c’è sempre più impe-
gno che vacanza o « scampagnata»; queste ultime sono piutto-
sto le conseguenze di una fuga acritica dalla realtà, che il Mer-
leau-Ponty di C’è stata la guerra stigmatizza, come è noto, in re-
lazione alle vacanze del ’39 dei francesi (e di tanti altri).
E c’è un grande odore di polvere da sparo in quell’oscillare
fra gli estremi storici e intimi, sinistri e eccitanti a un tempo del
personaggio adulto/Madrid bombardata e del personaggio bam-
bino/festa di San Calogero, e poi della Spagna, e della guerra, e

143
A. Di Grado, Il teatro della memoria (e della verità) di Leonardo Scia-
scia, «Siculorum Gymnasium», 1, 2003, pp. 57-62.
144
Così chiude la nota finale di L. Sciascia, Il teatro della memoria, Torino,
Einaudi, 1981, p. 77.

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della Sicilia, e della festa. Il tutto in seno a quella « continuità»
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già presentata che Italo Calvino – in una lettera del 26 ottobre


1964 145, vicina a L’antimonio oltre che a Il consiglio d’Egitto
(1963) – evoca e disegna da par suo in quella sciasciana « serie di
cariche esplosive sotto i pilastri del povero illuminismo in con-
fronto alle quali le mie sono poveri fuochi d’artificio». Quasi a
suggerire, almeno per noi, che in Sciascia finanche i fuochi d’ar-
tificio – magari proprio quelli ispirati, in via più o meno metafo-
rica, a un certo Calvino, fra Il sentiero dei nidi di ragno (1947) e
Il barone rampante (1957), fra guerra civile e lumi – sono cari-
che esplosive o che dai fuochi d’artificio, comunque, si può par-
tire per approdare a una « serie di cariche esplosive», foriere, in
seno ai pouvoirs de l’horreur 146, di incendi notturni e di oscilla-
zioni più o meno ambigue e spettacolari, magari ancora di do-
stoevskiana memoria.
Si legga questa pagina tratta da La festa nella terza ed ulti-
ma parte de I demoni (1873) di Dostoevskij:

Un gran fuoco di notte ha sempre un effetto eccitante ed esilaran-


te: su questo si basano i fuochi d’artificio; ma là il fuoco si dispo-
ne secondo linee regolari, eleganti ed, essendo perfettamente in-
nocuo, crea un’impressione di allegria e leggerezza, come dopo
una coppa di champagne. Ben altra cosa è un vero incendio: qui
l’orrore e, volere o no, un certo qual senso di pericolo personale,
unito a quel tale effetto esilarante che produce il fuoco notturno,
suscitano nello spettatore (s’intende non nelle vittime dell’incen-
dio) un certo scotimento del cervello e quasi uno stimolo dei pro-
pri istinti di distruzione, istinti che, ahimè, si celano in ogni ani-
mo, perfino in quello del più mansueto e casalingo consigliere
onorario... Questa sensazione sinistra è quasi sempre inebriante.
«Io, proprio, non so se si può contemplare un incendio senza un

145
Cfr. ancora la lettera di Italo Calvino citata in N. Tedesco, «Avevo la
Spagna nel cuore»: Sciascia, la Sicilia, la Spagna cit., p. 14.
146
Cfr. Julia Kristeva, Pouvoirs de l’horreur, Paris, Seuil, «Tel Quel», 1980
e «Points», 1983, pp. 25-27.

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certo piacere»: queste testuali parole me le disse un giorno Stepàn
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Trofímovic], rincasando da un incendio notturno dove era capita-


to per caso e ancora sotto la prima impressione dello spettacolo.
S’intende che lo stesso amatore d’incendi notturni si butterebbe
anche lui nel fuoco per salvare un bambino o una vecchia investi-
ti dalle fiamme; ma questa è un’altra questione 147.

E su quest’« altra questione», davvero tale, ritorneremo do-


po. Ora bisogna invece insistere sul fatto che il fuoco, ne L’anti-
monio, pare diventare tout court la memoria individuale del pro-
tagonista, prima d’essere – di fondersi, completarsi con – la me-
moria collettiva della guerra, di Madrid e delle altre città ferite
(e del ritorno e della “Spagna-zolfara”). Non a caso l’« ex zolfa-
taro di Regalpetra» parte volontario per la guerra di Spagna do-
po aver corso il rischio di morire bruciato dal grisou – « gli zolfa-
tari del mio paese chiamano antimonio il grisou» 148 – ed è « iper-
sensibile a tutto quello che assomigli al fuoco» 149.

147
Fëdor Michailovic] Dostoevskij, I demoni, Novara, Istituto Geografico
De Agostini, 1983, volume II, [pp. 471-478], p. 474. Si tratta di un romanzo
la cui parabola – generata dalla cronaca e da una volontà di sottrarsi all’autorita-
ria guida del capo, intollerante terrorista – può metaforicamente riaffiorare nel
racconto di Sciascia. Tra l’altro I demoni, sia detto davvero tra parentesi e in se-
no a una curiosa coincidenza, prendono spunto da un fatto avvenuto a Mosca
nel 1869 di cui Dostoevskij viene a conoscenza a Dresda, futura città ferita, de-
stinata ad essere avvolta dalle fiamme; quella Dresda in tal senso evocata da un
altro scrittore visionario, della generazione di Sciascia, Kurt Vonnegut, che è del
1922, nella sua Slaughterhouse-Five del 1969. Per i terroristi russi dell’epoca di
Dostoevskij, poi, non si può non pensare a quel critico della cultura appena più
giovane che è Hans Magnus Enzensberger, che è del 1929, e al saggio scritto e
raccolto nei primi anni Sessanta in Politik und verbrechen (1964), dove ritorna
anche, e a più riprese, L’homme révolté di Albert Camus. Ho consultato la ver-
sione francese e a questa mi permetto di rinviare: Hans Magnus Enzensberger,
Les rêveurs de l’absolu, in Politique et crime, Paris, Gallimard, 1967, pp. 236-300
(e 328-329); da leggere in prospettiva la seconda parte del saggio, dedicata a Les
belles âmes de la Terreur, alle pp. 271-300.
148
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 166.
149
G. Traina, Leonardo Sciascia cit., p. 230.

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Questa ipersensibilità, come la paura che le è intimamente
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connessa, non è un limite – come vedremo subito, allontanan-


doci un po’ dal passo citato, di cui riprenderemo l’analisi fra
qualche pagina – e sembra essere un’altra essenziale chiave di
lettura del mutamento del personaggio sciasciano, in linea –
nella rêverie, in questo caso, prima che nella storia – con una ce-
lebre affermazione di Gaston Bachelard:

Si tout ce qui change lentement s’explique par la vie, tout ce qui


change vite s’explique par le feu 150.

Certo, nel tragico episodio della zolfara – rapidamente evo-


cato a poche pagine dall’inizio del racconto di cui sembra un
complemento – troviamo ancora una volta l’acqua, che è con-
trocanto del fuoco ma che non entra nella storia e contribuisce
piuttosto a confinare l’episodio nell’allucinazione, nel sogno,
nella rêverie, e finanche nell’illusione cinematografica (forse e in
via generale derivata insieme all’episodio medesimo da Malraux
e da L’espoir, testo del 1937 molto amato da Sciascia, che lo col-
loca fra i migliori romanzi del Novecento 151 e, in relazione alla

150
G. Bachelard, La psychanalyse du feu cit., p. 23.
151
G. Traina, Leonardo Sciascia cit., p. 227. Ma cfr. L. Sciascia, Com’era la
Spagna, «L’Ora», 20 agosto 1966, poi in Quaderno. Introduzione di Vincenzo
Consolo, Nota di Mario Farinella, Palermo, Nuova Editrice Meridionale,
1991, [pp. 168-170], p. 168: «Barcellona. Albergo Colon: nel trentesimo anni-
versario dell’« alzamiento». E appena arrivato, affacciandomi al balcone, mi
rendo conto che il Colon di cui parla André Malraux nelle prime pagine de La
speranza (stupende pagine, grandissimo libro: forse il più grande che sia stato
scritto in questi trent’anni) doveva essere situato in altro luogo di Barcellona.
Questa avenida de la Catedral, che pure è una piazza con alberi e colombi, non
può essere quella in cui il 19 luglio del 1936, giusto trent’anni fa, operai e im-
piegati in Barcellona si lanciarono vanamente, sanguinosamente, all’assalto
dell’albergo in cui militari e fascisti si erano asserragliati. Ho avuto il torto di
non portare con me il libro di Malraux; e non ho un preciso ricordo della de-
scrizione del luogo e dei fatti».

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guerra civile spagnola, lo ricorda dopo quelli di Orwell e Berna-
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nos nell’elenco del 1981 citato qui nel terzo paragrafo):

Mio zio ancora raccomandò – basse le acetilene – e un minuto


dopo dal fondo della galleria venne un ruggito di fuoco, come
avevo visto al cinematografo l’acqua precipitare dalle chiuse aper-
te, così il fuoco venne verso di noi urlando; ma questo sto pensan-
dolo ora, non sono sicuro fosse proprio così, mi vedevo il fuoco
sopra e non capivo niente, mio zio che gridava – l’antimonio – e
mi trascinava, e io già correvo come in un sogno 152.

La paura dell’ex zolfataro ha anche un triste precedente in


famiglia (« portano a casa mio padre, bruciato dall’antimonio»;
« sempre avevo avuto spavento dell’antimonio perché sapevo
che bruciava le viscere, così mio padre era morto» 153); è un pre-
cedente che pesa, è un’eredità d’orrore, di paura, che tendono
subito e soprattutto a identificare e ad assolutizzare la figura del
padre nella zolfara – e nella morte che dà la zolfara attraverso
l’antimonio, il fuoco – fino quasi a cancellarne i tratti soggetti-
vi, intellettuali, ideologici, quasi non fosse esistito come uomo,
come soggetto, anche politico.

Mio padre era morto nel ’26, io avevo sedici anni quando era
morto, il pensiero della sua vita, e di come era morto, non mi la-
sciava mai: ma avevo dimenticato che era stato socialista. Nel suo-
no dell’inno dei lavoratori vedevo mio padre che mi teneva per
mano [...] Era bella musica, ad un certo punto pareva squarciasse
pesanti nuvole, le parole dicevano – sulla libera bandiera brilla il
sol dell’avvenire – davvero aprivano speranza.
Ma il socialismo che cosa era ? Certo una buona bandiera, mio pa-
dre diceva – giustizia uguaglianza – ma [...]
Ma anche il socialismo doveva essere un po’ come la religione, un
calderone in cui bollono tante cose, e ognuno ci mette dentro un

152
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 179.
153
Ivi, pp. 174 e 179.

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osso per farne un brodo che gli piace. Per me era solo il ricordo di
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mio padre la sua fede il modo com’era morto, e io che avevo ri-
schiato di fare la sua stessa morte; e donna Maria Grazia che dice-
va di me – ha le idee storte di suo padre – e io invece non avevo
idee dritte o storte, solo un dolce ricordo di mio padre e la pena
di com’era morto; e una gran paura dell’antimonio; e un po’ di
speranza nella giustizia 154.

La paura dell’antimonio resetta, insomma, l’hard disk del


mondo, il socialismo, la religione, e non ne fa – a partire dal pa-
dre, dalla vittima, e da un elogio incondizionato della memoria –
contraltari più o meno solari e avveniristici di altri ideologici
« ismi» (fascismi italiani, spagnoli...), mirando piuttosto alla
« giustizia». E a questo proposito è forse utile pensare, in prospet-
tiva, a certe pagine di Porte aperte (1987), titolo che richiama,
poi amplifica – porte aperte dei partiti per facili e opportunistici
attraversamenti delle ideologie, porte aperte degli amici, « vere
porte aperte della città» 155 – e ribattezza, dissacrandola, in « porte
chiuse», quella falsa, consolatoria e « suprema metafora dell’ordi-
ne, della sicurezza, della fiducia» che si nasconde in seno al famo-
so ritornello d’antan «“Si dorme con le porte aperte”»:

“Si dorme con le porte aperte”. Ma era, nel sonno, il sogno delle
porte aperte, cui corrispondevano nella realtà quotidiana, da sve-
gli, e specialmente per chi amava star sveglio e scrutare, e capire e
giudicare, tante porte chiuse 156.

Riemerge l’opposizione « dormire/star svegli» de L’antimo-


nio, che è tipica di Sciascia ma che in Porte aperte muove anco-
ra una volta dalla seconda metà degli anni Trenta, dagli anni
della guerra civile spagnola, che non proprio a caso è richiama-

154
Ivi, pp. 184-185.
155
L. Sciascia, Opere 1984.1989 cit., pp. 333 e 355.
156
Ivi, p. 344.

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ta nelle prime e nelle ultime pagine del breve romanzo. All’ini-
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zio del processo, cui il libro è dedicato, la guerra di Spagna è si-


gnificativamente evocata grazie – e posta in relazione – all’ar-
ma del delitto:

C’era poi, a turbarlo [il giudice] visceralmente, di un orrore che


sentiva nella carne oltre che nella mente, il pugnale [...] Posato su
un pezzo di giornale di cui il giudice, dall’alto della sua scranna,
leggeva il più grosso dei titoli – Il Duce a Franco nel primo annua-
le della sua nomina a Capo dello Stato Spagnolo [...] 157.

Nel penultimo capitolo del testo, poi, quasi alla fine del
colloquio del giudice col giurato – « l’amico» che sposa la « li-
nea» processuale del giudice e fa « un gesto contro la pena di
morte» – e con la sua compagna, la francese «Simone», riemer-
ge l’importanza della guerra civile spagnola. Da notare il rapido
crescendo cui partecipano i tre personaggi, così forte e intenso,
nell’imporsi dell’argomento, che l’autore “dirotta” le battute
dell’amico verso il mandato degli inglesi e il terrorismo degli
ebrei in Palestina, quasi a intrecciare provocatoriamente echi
della propaganda nazi-fascista dell’epoca e della scottante attua-
lità dell’intifada; per poi rilevare il distacco del giudice e di Si-
mone circa l’apprensione dell’amico « su delle notizie che la
guerra di Spagna relegava ai margini» e sfumare il dialogo in
una chiacchera più leggera e letteraria che coinvolge anche il
« fascismo». Quel fascismo che non casualmente pare « farsi
lontano» e, senza la concretezza della guerra civile spagnola,
sembra diventare un punto, un segno di « una immaginaria
mappa della stupidità umana»:

“In questo momento” disse Simone “gli spagnoli desiderano solo


ammazzarsi tra di loro.”
“Con il conforto spirituale di Léon Blum” disse il giudice.

157
Ivi, pp. 350-351.

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“Soltanto spirituale, alla parte che dovrebbe essere la sua” precisò
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Simone.
“Il socialista Blum, lo stendhalista Blum: e ne vien fuori la ma-
scherata del non intervento” disse l’amico. “Mussolini manda te-
legrammi di compiacimento ai generali italiani che, con truppe
italiane, conquistano città spagnole: e Blum, impassibile, conti-
nua a parlare del non intervento in Spagna come se ci credesse...”
“A meno che non si voglia ammettere che l’abbia capito Mussoli-
ni, nessuno” disse il giudice “capisce che la guerra di Spagna è la
chiave di volta di quel che minaccia il mondo.”
“E a meno che non si voglia ancora ammettere che l’abbia capito
Mussolini, con quella sua buffonata della spada dell’Islam, e nes-
suno di quelli che vi sono direttamente interessati, quel che succe-
de a Tel Aviv mi inquieta molto” disse l’amico. [...]
Quell’apprensione su delle notizie che la guerra di Spagna relega-
va ai margini, il terrorismo degli ebrei che volevano fondare uno
stato, il modo in cui gli inglesi gestivano il loro mandato in Pale-
stina, sembrava a Simone e al giudice del tutto eccessiva e, facen-
done argomento di discussione, alquanto maniacale. [...] Sicché
ad un certo punto la discussione su quell’argomento si spense.
Continuarono a parlare, con leggerezza, con brio, della Francia,
di certi scrittori, di certi libri. E del fascismo. Ma parlandone in
quel modo, il fascismo pareva farsi lontano, come segnato in una
immaginaria mappa della stupidità umana 158.

Ma, al di là dell’importante presenza della guerra civile spa-


gnola, sorta di tragico e speculare sipario del processo, quel che
più ci interessa sottolineare in Porte aperte non è direttamente
in relazione alla guerra di Spagna ma alla figura del padre
nell’Antimonio. Ed è il fatto che si richiami alla memoria – una
memoria intima ma anche collettiva, la « memoria degli italiani
che avevano memoria» – un’altra tragica morte degli anni Ven-
ti, del 1924 per la precisione: quella del deputato Giacomo
Matteotti, « considerato, tra gli oppositori del fascismo, il più

158
Ivi, p. 394.

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implacabile non perché parlava in nome del socialismo, che in
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quel momento era una porta aperta da cui scioltamente si en-


trava e si usciva, ma perché parlava in nome del diritto. Del di-
ritto penale» 159.
Con Horkheimer, potremmo suggerire che la paura – in
quanto « oggetto di riflessione» – ricupera il ricordo del padre,
di quel soggetto, di quel « vero singolo individuo» che il padre è
stato, nella sua vita di zolfataro, prima del socialismo, prima
delle « idee dritte o storte». Alle quali si sovrappongono non ca-
sualmente la « pena», la « paura», per l’appunto, e « un po’ di
speranza nella giustizia». E l’affiorare di questi elementi è un
dato importante, che ci fa pensare a quanto, negli anni 1961-
1962, annotava proprio Horkheimer nei Taccuini (1974) –
Notizen 1950 bis 1969 – a proposito del « concetto di singolo
individuo» 160:

Nella misura in cui [al singolo individuo] importa esclusivamente


di se stesso, è un elemento della massa – e il conformismo è il suo
comportamento adeguato. La gente si riconosce persino nel capo
brutale che ordina l’assassinio [...] Al contrario il vero singolo in-
dividuo si riconosce unito agli altri non tanto nel perseguimento
degli interessi immediati, quanto piuttosto nella miseria di coloro
che sono esclusi, di quelli che sono malati, perseguitati, condan-
nati, proscritti, ciascuno dei quali è « singolo» in un senso doloro-
so e disperato. Pensando a loro, egli sente e agisce – in ultima
istanza ubbidendo alla propria paura, la quale peraltro può diven-
tare così potente da indurlo a votarsi a loro, condividendone il de-
stino. La paura non è nobile aspirazione alla buona vita e al pote-
re, anch’essa può portare veramente al conformismo; ma se di-
venta oggetto di riflessione, può anche vincere il conformismo e
fondare quella solidarietà senza cui il singolo non è pensabile.

159
Ivi, pp. 331 e 333.
160
Max Horkheimer, Taccuini 1950-1969 (1974), Genova, Marietti,
1988, p. 174. Ma cfr. H. Marcuse, Prefazione (1964) a Cultura e Società cit.,
pp. XVIII-XXI.

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In tal senso L’antimonio è anche un attraversamento della
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paura, la paura dell’« assassinio non solo impunito ma premiato


[...] assassinio che si realizza con gratitudine e gratificazione da
parte dello Stato» 161, come si legge ancora in Porte aperte. In tal
senso L’antimonio è anche un attraversamento della paura a
partire dal rischio del conformismo e non da una solidarietà
acritica, data per scontata e rintracciabile magari nell’orizzonte
radioso del socialismo o della religione: la fuga dalla zolfara può
risultare acritica ma la solidarietà finale del personaggio è pro-
prio frutto della critica, della critica sociale. Anche se non è cer-
to facile – nemmeno all’interno di quella tradizione italiana
rappresentata da L’impero in provincia (1945) e da Michele a
Guadalajara di Jovine 162 – scegliere, come fa Sciascia, il punto
di vista delle truppe inviate da Mussolini in Spagna e poi rien-
trare, a pieno e giusto titolo, nella mitografia antifascista (come
non è facile puntare storicamente prima sul reduce e poi sul
giudice, che, nonostante sieda sullo scranno, sembra proseguire
idealmente la parabola del reduce e della “rivolta”).
Il ricordo del padre, la « pena» (anche la « pena» urlata dal-
le donne di Madrid bombardata), la « paura» e quel « po’ di
speranza nella giustizia» sono infatti recuperati attraverso la
scelta conformista di offrirsi volontario per la guerra di Spagna
(« non ho fatto la guerra d’Africa, ma questa la voglio fare»),
che sa certo di esorcismo («– [...] non è poi detto che si vada in
Spagna... – Anche all’inferno – dissi») e, come si suggeriva so-
pra, di fuga acritica e non ben meditata (« la zolfara mi faceva
paura, al confronto la guerra in Spagna mi pareva una scampa-
gnata»); anche perché trovare il fuoco in guerra è davvero faci-
le. Non a caso, la paura dell’antimonio viene subito ribattezzata
in quella dei lanciafiamme:

161
L. Sciascia, Opere 1984.1989 cit., p. 336.
162
Su cui ritorneremo nel secondo capitolo del presente volume.

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L’indomani [dell’incidente] mi sentivo vecchio di cento anni, de-
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cisi che mai più sarei tornato alla zolfara. Sapevo che c’era una
guerra in Spagna, molti erano andati a quella d’Africa e avevano
fatto i soldi, uno solo era morto in Africa del mio paese. E poi
morire alla luce del sole non mi faceva paura (e in tutta la guerra
di Spagna non ho avuto paura della morte, mi faceva sudare di
paura solo il pensiero dei lanciafiamme) 163.

Di fronte a questo complesso intreccio di dati storici e sim-


bolici, la critica, pur non cedendo alla tentazione del frammen-
to d’autobiografia, ha giustamente ricordato a più riprese, con
Ambroise 164, per esempio, alcuni dati della vita dello scrittore
siciliano: «Sciascia non è stato zolfataro, ma suo nonno ha co-
minciato a lavorare come caruso, suo padre era impiegato alla
zolfatara, suo fratello, perito minerario, si è suicidato nella zol-
fara di Assoro (1948), dove anche il padre si trovava».
A questi dati biografici, non eludibili ma da non sovrap-
porre a colpo sicuro ad una antimoniesca autobiografia, seguo-
no quelli del mestiere, ovvero e almeno i libri letti, dedicati alla
guerra civile spagnola, specie i romanzi, e fra questi i più amati,
come il più volte citato L’espoir (1937) di André Malraux; un
episodio del quale – suggerisce sempre Ambroise, seguendo
probabilmente una nota dello stesso Sciascia – « è stato riscritto
in modo da far apparire la stessa scena come vissuta da combat-
tenti dell’altro campo [ovvero i fascisti]» 165.

163
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 179.
164
C. Ambroise, Il libro nel libro cit., pp. 40-41, e Invito alla lettura di
Sciascia cit., pp. 13-16 e 95.
165
C. Ambroise, Cronologia, in L. Sciascia, Opere 1956-1971 cit., p. LVI.
Penso a L. Sciascia, Postface a Les oncles de Sicile, Paris, Denoël, 1967 e Paris,
Gallimard, 2002, [pp. 285-286], p. 286: «Je dois ajouter une autre brève re-
marque au sujet du récit L’antimoine, qui fut ajouté dans l’edition 1960: je l’ai
écrit en recueillant les témoignages et les souvenirs de paysans et de mineurs de
soufre de mon village (Racalmuto, dans la province d’Agrigente), qui avaient
combattu pendant la guerre d’Espagne du côté des fascistes, mais c’est la lecture
de L’Espoir qui m’a donné l’idée de l’ecrire. Il faut donc comprendre un certain

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Ovviamente, la riscrittura di Sciascia va ben al di là di uno
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scambio di combattenti. E d’altronde il testo di Malraux offre


all’universo dello scrittore siciliano sopra delineato qualcosa in
più di una scena – è quasi il ritorno di un immaginario 166 – alla
quale ispirarsi e con la quale porre un termine (la perdita della
mano) alla guerra di Spagna de L’antimonio. Ma anche l’incipit
sembra già contenere un simile omaggio a L’espoir; quell’incipit
che contempla, come è noto, l’assedio di una chiesa e di un
campanile – da dove sparano i repubblicani – da parte dei fasci-
sti, costretti ad appostarsi nel cimitero:

Sparavano dal campanile: secondo i nostri movimenti, raffiche


brevi di mitragliatrice o precisi colpi di fucile. Il paese era solo
una strada cieca, case basse e bianche, e in fondo una chiesa dalla
grezza facciata di arenaria con due rampe di gradinata e un cam-
panile a vela di tre arcate. Dal campanile sparavano. [...] Alla no-

passage de mon récit comme un hommage à Malraux (au Malraux de L’Espoir);


et il correspond précisément à la page 804 des Romans de Malraux, dans l’édi-
tion de la «Bibliothèque de la Pléiade». Ma cfr. André Malraux, Romans. Les
conquérants, La condition humaine, L’Espoir, Paris, Gallimard, 1947 e 1955, p.
804, e L’Espoir, Paris, Gallimard, «Folio», 1972 e 1989, p. 519: «Les Garibal-
diniens attaquaient le palais d’un côté, les Franco-belges de l’autre […] Siry vit
cinq copains courir, quatre tomber, la tête de son copain de droite disparaïtre,
les balles creuser le terrain partout, un type qui montrait quelque chose rame-
ner une main sanglante. Avant même d’avoir compris que, l’arbre disparu, il
était sous le feu des fenêtres du palais Ibarra, Siry […] visité soudain par le bon
sens, il se jeta à plat ventre»; L. Sciascia, L’antinomio cit., pp. 219-220: «Dopo
il primo scatto in avanti il nostro reparto si era fermato per una mitragliatrice
che ci bersagliava precisa […] Stavo dietro un tronco d’albero […] con la testa
riparata non credevo la mitragliatrice potesse beccarmi: ero disteso bocconi e la
mano sinistra che mi si era intorpidita distesi fuori del riparo […] Quel che si
prova a vedersi improvvisamente una mano sanguinante, una mano che non è
più una mano, è come essere sbalzati fuori di se stessi».
166
Per un esempio, su cui ritorneremo all’inizio del secondo capitolo,
coinvolgendo anche Dos Passos, cfr. A. Malraux, L’Espoir cit., p. 43: «– Et le
Christ? / – C’est un anarchiste qui a réussi. C’est le seul»; L. Sciascia, L’antimo-
nio cit, p. 210: «E gli anarchici [...] ognuno di loro si sentiva un po’ Gesù Cri-
sto, e del proprio sangue vedeva redento il mondo».

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stra compagnia fu ordinato di andare dall’altra parte del paese,
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dietro la chiesa: ma dietro la chiesa c’era uno strapiombo di roccia


che pareva segato tanto era a filo e liscio, il capitano decise di far-
ci appostare nel cimitero, che era su un’altura vicina, a livello del
tetto della chiesa e del campanile. Quando quelli se ne accorsero,
cominciarono a mandare raffiche sulle tombe.
Da un’ora stavo dietro il cippo di una tomba, in ginocchio, e
strusciavo la faccia sul marmo per trovare refrigerio. Mi sentivo
friggere la testa dentro l’elmetto infuocato, della vampa del sole
l’aria vibrava come dalla bocca di un forno 167.

Ritorneremo poi su questo passo e, in particolare, sulle ul-


time frasi citate. Ora apriamo L’espoir al primo capitolo della
seconda sezione, Exercice de l’Apocalypse, della Première partie,
L’illusion lyrique, dove si trova una scena di battaglia molto si-
mile, per l’appunto, ma ribaltata, con i repubblicani che asse-
diano l’«Alcazar» e che provano un attacco passando attraverso
un cimitero. Simili i sentimenti, le emozioni, le posture dei per-
sonaggi e gli elementi di spicco del paesaggio: « la peur [...],
l’immobilité [...] le dur soleil [...] le cimetière» 168.
Ma quello che in questo capitolo non poteva davvero non
colpire lo Sciascia de L’antimonio è la descrizione di quanto suc-
cede subito dopo l’apparizione d’« un lance-flammes», descrizio-
ne nella quale campeggia una frase sciasciana e antimoniesca, e
prima ancora, in un certo senso, bachelardiana (penso, ovvia-
mente, alla già citata Psychanalyse du feu): «La guerre n’avait rien
à voir dans ce combat des hommes contre un élément»:

Une dizaine de miliciens arrivaient en courant, le Négus avec eux.


– Les v’là encore avec un lance-flammes!

De couloirs en escaliers, Hernandez, Garcia, le Négus, Mercery et


les miliciens avaient rejoint une cave à haute voûte, pleine de

167
L. Sciascia, L’antimonio cit, p. 167.
168
A. Malraux, L’Espoir cit., p. 153.

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fumée et de détonations, ouverte en face d’eux par un large cou-
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loir souterrain où la fumée devenait rouge. Des miliciens pas-


saient en courant, des seaux pleins d’eau à la main ou entre les
bras. Le chahut du combat extérieur n’y parvenait plus qu’à peine
[...] Les fascistes étaient dans le couloir.
Le jet du lance-flammes, phosphorescent dans l’obscurité, arri-
vait par là et aspergeait le plafond, le mur de face et le plancher,
d’un mouvement assez lent, comme si le fasciste qui tenait la
lance eût soulevé sans cesse une longue colonne d’essence. [...]
La guerre n’avait rien à voir dans ce combat des hommes contre
un élément. L’arrosage d’essence avançait, tous les miliciens dé-
chaînés dans le claquement de l’eau sur les murs, le grésillement
de vapeur et la toux d’enfer des hommes pris à la gorge par l’âcre
odeur de pétrole et l’atroce chuintement mou de la lance. La
gerbe d’essence crépitante avançait pas à pas, et la frénésie des
miliciens était multipliée par ses flammes bleuâtres et convulsi-
ves qui envoyaient gigoter sur les murs des grappes d’ombres
affolées, tout un déchaînement de fantômes étirés autour de la
folie des hommes vivants. Et les hommes comptaient moins que
ces ombres folles, moins que ce brouillard suffocant qui tran-
sformait tout en silhouettes, moins que ce grésillement sauvage
de flammes et d’eau, moins que les petits gémissements aboyés
d’un brûlé.
[...]
Le fasciste fit un saut oblique pour ramener le jet de flammes sur
le Négus, qui touchait déjà sa poitrine; le Négus tira. La lance en-
flammée tomba en sonnant sur la dalle, lançant toutes les ombres
au plafond: le fasciste chancela au-dessus de la lumière qui venait
de la lance à terre, son visage éclairé en dessous, – un officier assez
âgé – en plein dans la phosphorescente clarté de l’essence. Il glissa
enfin le long du Négus, avec un ralenti de cinéma, la tête dans le
jet de flammes, qui bouillonna et la rejeta comme un coup de
pied. Le Négus retourna la lance: toute la pièce disparut dans une
obscurité complète, tandis qu’apparaissait le souterrain plein de
nuages à travers lesquels des ombres s’enfuyaient 169.

169
Ivi, pp. 155-157.

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contre un élément » e tutto quel che segue, fino al termine del


paragrafo, può fornire davvero, in sintesi, quell’ulteriore chia-
ve di lettura che lega fuoco, paura, memoria e può fors’anche
porsi come un’origine dell’intero racconto di Sciascia e non di
una « scena » soltanto. Perché trovare il fuoco in guerra, si di-
ceva, e, al di là delle personali modalità sciasciane, la Sicilia in
Spagna, non è poi così difficile e la supposta ingenuità del
personaggio – che sembra proverbialmente cadere dalla “pa-
della” della zolfara nella “brace” della guerra – non ha lo sco-
po di far rientrare semplicemente e semplicisticamente tali
coordinate nel testo. Lo impedisce soprattutto l’etica sciascia-
na del linguaggio, che nei paragrafi precedenti abbiamo cerca-
to di porre in evidenza; e il mestiere fa il resto, anche quando
a monte ci sono delle fonti con le quali è certo duro fare i con-
ti, in termini etici ed artistici.
A questo proposito e a titolo puramente esemplificativo, è
bene prestare attenzione almeno a una soluzione retorica attra-
verso la quale il mestiere dello scrittore siciliano si attiva fin dal-
la prima pagina del racconto, agendo non solo sul plot ma an-
che a livello microtestuale, con un gioco insieme allitterativo e
ossimorico, che dissimula e denuncia il non facile tentativo di
fuga del protagonista dal fuoco della zolfara, della Sicilia e della
sua stessa vita, della memoria ch’egli, attraverso il fuoco, ne ha:

Da un’ora stavo dietro il cippo di una tomba, in ginocchio, e


strusciavo la faccia sul marmo per trovare refrigerio. Mi sentivo
friggere la testa dentro l’elmetto infuocato, della vampa del sole
l’aria vibrava come dalla bocca di un forno 170.

In quella sorta di « zona-frontiera», potremmo quasi dire


con Victor Brombert, che è il cippo della tomba, dove l’io si
confronta con la sua solitudine (e i suoi fantasmi infuocati) in

170
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 167 (nostri i corsivi).

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farfalle di Madrid, da « un apprendistato della comunione» 171,


la Spagna della guerra civile non apporta alcun refrigerio e il sol-
dato ed ex-zolfataro si sente friggere. Quel friggere che è scelto in
relazione a refrigerio ma che marca anche una distanza fra la so-
litudine, ovvero, se si vuole, fra la prigione della zolfara ritrova-
ta in guerra, e la comunità della guerra, espressa dal bruciare del
lungo passo sopra citato ed estesa, come ribadiremo, al di là
dell’assedio e anche al di là della duplice prigione dell’assedio,
verso un’unione non banale di assediati e assedianti: un’unione
dove la Sicilia ritrova la Spagna, con l’immagine dell’« ingrandi-
mento» operato dal «Padreterno [...] con uno di quegli appa-
recchi che vendono nelle fiere». Un’immagine che non lascia
certo indifferente il lettore che conosce Sciasca, uno scrittore
che non sposa mai, se non in apparenza, una facilità espositiva,
magari pure tesa a una banale spettacolarizzazione.

A tale facilità si affida invece Aldo Florio, quando, con la


complicità di Bruno Di Geronimo e Fulvio Gicca-Palli, tenta,
con Una vita venduta (1976), un libero adattamento cinemato-
grafico de L’antimonio, dagli esiti appena sufficienti, e sostan-
zialmente e solo nel primo tempo, che, non proprio a caso, è il
più fedele al testo di Leonardo Sciascia; autore corteggiato dal
cinema, che col cinema si diverte ma che nei suoi libri, suggeri-
sce ancora Madrignani, « non si abbandona a descrizioni hol-
lywoodiane» 172.
Certo, non sono, quelle di Sciascia, descrizioni hollywoo-
diane, e non lo sono soprattutto da un punto di vista eminente-
mente letterario (di critico letterario) e non lo sono almeno nel
senso, generale, che non tendono ad assolutizzarsi nelle spetta-

171
Victor Brombert, La zona-frontiera, in La prigione romantica. Saggio
sull’immaginario (1975), Bologna, il Mulino, 1991, pp. 245-255; citazione da
p. 246.
172
C. A. Madrignani, Cassola e altri « buoni maestri» cit., p. 98.

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colarizzazioni forzate e sempre più fini a se stesse di un noto e
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deprimente linguaggio cinematografico americano; linguaggio


che comunque si situa al di là della vecchia e accogliente botte
hollywoodiana, che per Sciascia, invece, fa buon vino, come ri-
conosce senza cipiglio accademico Antonio Di Grado 173.

Amava Hollywood: vale a dire la tradizione, comunicativa e coin-


volgente, del “cinema-cinema”, del solido artigianato incontami-
nato da ubbìe e nevrosi d’autore.

Detto questo, non possiamo comunque condividere del


tutto le idee radicali che si leggono in apertura de Il cinema di
Leonardo Sciasca di Emiliano Morreale, le cui affermazioni sem-
brano votate a coprire tutto Sciascia e orientate, per così dire,
dalla conoscenza di un corpus tradotto, ovvero più filmico che
narrativo, e da un punto di vista eminentemente cinematografi-
co (di critico cinematografico).

Il richiamo, assai frequente, allo stile “cinematografico” dei ro-


manzi di Sciascia, mi sembra piuttosto arbitrario. In realtà, la sua
scrittura, così saggistica e ironica anche nella narrativa, non pare
molto assimilabile alla scrittura “cinematografica” degli americani
o di altri siciliani di nuova generazione diversissimi tra loro (come
Alajmo, Conoscenti ), o al caso esemplare di Camilleri 174.

Salvo poi aggiungere e concedere, una decina di pagine do-


po, che « alcuni icastici passaggi del racconto La zia d’America»
– testo che apre la prima edizione de Gli zii di Sicilia (1958) –
sono « sì, “cinematografici”» e pure, a quanto sembra, fonte di
ispirazione affettuosa (e non solo) per il Giuseppe Tornatore di

173
Cfr. A. Di Grado, Sciascia, il cinema e (fra l’altro) l’Europa: (bianco e)
nero su nero cit., pp. 67-69; da p. 69 la citazione.
174
Emiliano Morreale, Il cinema di Leonardo Sciascia, «Segno», 209,
1999, [pp. 185-200], p. 185.

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Nuovo cinema paradiso (1989) – ultimo film visto, apprezzato e
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commentato da Sciascia – ma anche de Lo Schermo a Tre Punte


(1996), la cui sezione conclusiva è interamente (e non a caso)
dedicata allo scrittore siciliano 175.
Difficile, dunque, tirare considerazioni generali e dire – spe-
cie, mi sembra, in rapporto al primo Sciascia – quali passaggi nar-
rativi siano più o meno icastici e ritraenti una realtà per mezzo di
immagini e con evidenza rappresentativa, fra tradizione letteraria
e impatto cinematografico. O, in altri termini, quali passaggi nar-
rativi siano più o meno descrittivi e più o meno traducibili in « ci-
nema-cinema», e finanche negli amati modi hollywoodiani.
Quello che è forse meno difficile dire, allora, sempre con
Morreale e prima, e soprattutto, con Ambroise 176, è che il narra-
tore siciliano si muove verso una « problematica del vedere» do-
ve « l’invenzione dei fratelli Lumière consente di attuare il desi-
derio impossibile in modo molto più immediato della letteratu-
ra [...] essere un altro» 177. In tale prospettiva, il compiuto, ben
individuabile e certo icastico passo delle farfalle non sembra sol-
tanto incorniciato in modo cinematografico e sembra persino
enunciare ed esprimere il fantasma di un cinema – «Ma mentre
sedevo [...] un luminoso lontano giuoco della notte» – e il desi-
derio impossibile attuato dal cinema: «Ma mentre sedevo [...]
Giravamo intorno a Madrid come di notte le farfalle [...]».
Di più. Il narratore siciliano si muove verso una « proble-
matica del vedere » e una « costellazione del “visibile”» dove en-
trano anche, e a pieno titolo, fotografia e pittura, e non solo ci-
nema e letteratura. E questo grazie al fatto che Sciascia è « in

175
Ivi, p. 193. Ma cfr. L. Sciascia, C’era una volta il cinema, in Opere
1984.1989 cit., pp. 635-641, e Vincenzo Consolo, Dal buio, la vita (1990) in
Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999, pp. 203-208.
176
C. Ambroise, Un primo sguardo sulla problematica del vedere in Leonar-
do Sciascia, in Leonardo Sciascia, a cura di Sebastiano Gesù, Catania, Giuseppe
Maimone Editore, 1992, pp. 23-30.
177
Ivi, p. 24.

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qualche modo “figlio del muto”» e della “cinematografica” ca-
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verna platonica; di quella caverna che in tal senso, come è no-


to, lo tiene pure a battesimo, offrendogli conseguentemente,
nei confronti del cinema (e di quella letteratura che è anche ci-
nema), un’« attitudine di fondo [...] teorico-filosofica » 178; la
stessa attitutine che abbiamo subito cercato di presentare e av-
vicinare nel primo, lungo paragrafo, in tutta la sua complessità,
e che qui potremmo riassumere nei termini seguenti. L’eroe-al-
ter ego sciasciano de L’antimonio sembra sperimentare, tra ci-
nema e letteratura e tra il vedere e il visibile di un passo come
quello delle farfalle, un altro modo di essere vicino alle cose e a
se stesso 179. Tale modalità narrativa non è figlia soltanto di una
certa « dimensione registica del racconto» 180 e di un cinema
all’aperto, ma anche di una consapevolezza sulla quale investe,
sempre nel 1960, l’ultimo Merleau-Ponty, nel breve ma densis-
simo L’Œil et l’Esprit:

L’espace n’est plus celui [...] tel que le verrait un tiers témoin de
ma vision [...] c’est un espace compté à partir de moi comme
point ou degré zéro de la spatialité. Je ne le vois pas selon son en-
veloppe extérieure, je le vis du dedans, j ’y suis englobé. Après
tout, le monde est autour de moi, non devant moi. La lumière est
retrouvée comme action à distance, et non plus réduite à l’action
de contact, en d’autres termes conçue comme elle peut l’être par
ceux qui n’y voient pas. La vision reprend son pouvoir fondamen-
tal de manifester, de montrer plus qu’elle-même [...] il faut qu’el-
le ait son imaginaire 181.

178
E. Morreale, Il cinema di Leonardo Sciascia cit., pp. 194-195.
179
P. A. Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio cit., p. 37,
parla di « un modo di essere vicini (alle cose, ma anche a noi stessi) che risale e
intacca il modo comune della conoscenza». Ma cfr., ad integrazione, quanto
detto nel primo paragrafo.
180
C. Ambroise, Un primo sguardo sulla problematica del vedere in Leonar-
do Sciascia cit., p. 25.
181
M. Merleau-Ponty, L’Œil et l’Esprit, Paris, Gallimard, 1964 e «Folio –
Essais», 1985 e 1998, pp. 58-59; è scritto nell’estate del 1960 ed esce in «Art de

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Ricordiamoci che l’antimonio rende « ciechi» – dato sul
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quale si deve insistere – e ricordiamoci di quanto si diceva con


Rovatti lettore dell’ultimo Merleau-Ponty – e di quel testamen-
to che è L’Œil et l’Esprit – rispetto al « collocarsi come vedente
all’interno [...] e comunque a partire dalla visibilità» 182.

Il passo delle farfalle di Madrid può poi aiutarci a racco-


gliere, tra attitudine teorico-filosofica e artigianato letterario-ci-
nematografico, i termini più estremi e generali del nostro di-
scorso, ovvero l’engagement e il divertissement, la critica sociale,
l’impegno e quella loro dimensione estetica che sembra ad alcu-
ni così svincolata e/o facilmente relegabile nel pretesto metanar-
rativo; e in parte grazie anche a quel taglio saggistico e ironico
che da un lato fa di Sciascia un opinion maker avvicinabile a Eco
e dall’altro un autore di racconti difficilmente traducibili in
films e quindi lontano dal « caso esemplare di Camilleri».
Quell’Andrea Camilleri che è « campione del divertimento faci-
le, anzi facilissimo» e a cui poi invece, come è noto, tante volte
si pensa come erede di Sciascia; in modo « triste», suggerisce
Giuseppe Traina, ma forse coerente con quelle scelte critiche
che accomunano Sciascia a Eco 183. Ma di tali scelte critiche ab-
biamo già detto. E qui c’è ancora qualcosa da aggiungere
sull’« intersezione» di attitudine teorico-filosofica e di artigiana-
to letterario-cinematografico ne L’antimonio.

France», 1, 1961 e poi in un numero speciale de «Les Temps Modernes», 184-


185, 1961, pp. 193-227, dedicato a Merleau-Ponty.
182
P. A. Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio cit., p. 57.
183
Cfr. ancora l’attacco di G. Traina, L’eredità morale e letteraria di Leo-
nardo Sciascia cit., p. 49: « Per uno scrittore a fortissima vocazione morale co-
me è Sciascia, anche un testo disperato come Il cavaliere e la morte può essere
considerato un testo “felice” perché la “felicità” e la “gioia” di cui parliamo
non coincidono certo con il facile divertimento; ed ecco perché, per inciso, mi
sembra molto triste che tante volte oggi si riproponga come erede di Sciascia
proprio uno scrittore come Andrea Camilleri, un campione del divertimento
facile, anzi facilissimo».

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In fuga dalla caverna-zolfara-galleria-cinema – si pensi al già
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citato « dal fondo della galleria venne un ruggito di fuoco» 184, che
non può non far venire in mente un’immagine notevole di Nuo-
vo cinema paradiso, con Totò che si gira verso la cabina di proie-
zione – ovvero in fuga dal paese e dall’antimonio che rende « cie-
chi» (inconsapevoli, prigionieri), l’eroe del racconto sciasciano
entra in quel « cinema» all’aperto che è il mondo, a contatto di-
retto col Sole, con quel proiettore di verità che, come è noto, bru-
cia ma apre gli occhi e rende liberi; liberi finanche di gareggiare
col «Padreterno» nel descriverci, fra Sicilia e Spagna, la «Castiglia
desolata e solitaria» e poi « una città capitale nel bel mezzo», nel
bel mezzo del « deserto». Il tutto in due pagine e in due pagine
che forse il lettore medio di un testo narrativo tenderebbe a salta-
re 185, ma che lo spettatore medio di un film non può non apprez-
zare. Anche solo nella spettacolarità più evidente ma non evasiva
e semmai lirica, intima, antropologica di quel « luminoso lontano
giuoco della notte», di quelle « lontane girandole di fuoco della
festa di San Calogero», tale spettatore potrebbe magari provare a
tradurre quelle pagine in film, in un film, più o meno recente. Si
pensi, per esempio, a El Alamein – La linea del fuoco (2002) di
Enzo Monteleone, dove troviamo un soldato italiano di nome
Spagna (l’attore Luciano Scarpa) che, rapito dal gioco luminoso
dei traccianti nel cielo africano, esclama: «Ma guarda che roba !
Sembrano i fuochi della festa al mio paese».
E rispetto al film di Enzo Monteleone, che cerca l’attesa
più che la battaglia (la stessa attesa, in un certo senso, del passo
sciasciano) e che vuole sposare la vita intima, finanche lirica,
dei soldati e il loro appuntamento con la Storia tramite la presa
di coscienza di un giovane volontario (universitario, in questo
caso, ma ingenuo e sensibile come lo zolfataro dell’Antimonio),

184
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 179.
185
Secondo « una buona definizione empirica» (e provocatoria) posta in
testa a un discorso teorico, problematico ma agile, da Pierluigi Pellini, La descri-
zione, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 7.

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lo scrittore siciliano può fungere da modello antropologico o al
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limite da più semplice ma non così banale (e certo anche cine-


matografico) serbatoio di immagini, di parole. A partire dai
fuochi della festa del paese che con Caillois, l’abbiamo detto,
diventano i fuochi della guerra. Oppure – e forse anche con il
Dino Buzzati de Il deserto dei tartari (1940), ma non letto se-
condo le solite coordinate fantastiche – a partire da quel deserto
che per Yves Panafieu è « la politique de la terre brûlée et du
deuil que le Fascisme a ménée pendant les années de la montée
des périls sur l’Europe» 186.
E non è difficile concludere che è proprio grazie a queste
immagini e all’uso che se ne fa nell’Antimonio che Leonardo
Sciascia si situa al di là di quel « convenzionalismo linguistico»
che con Winfried Georg Sebald possiamo riconoscere in certe
descrizioni di Dresda ma non in quella sciasciana di Madrid;
salvo voler far diventare lo scrittore siciliano un emulo, un di-
scendente – e sia detto con tutto il rispetto dovuto al « capita-
no» – di Emilio Salgari, e magari della sua Cartagine in fiamme
(1906); o di quello « show» – «By God, that looks like a bloody
good show» – che americanizza e spettacolarizza la guerra aerea,
da Dresda a Berlino, e i suoi fuochi d’artificio: «We are running
straight into the most gigantic display of soundless fireworks in
the world and here we go drop our bombs on Berlin» 187.
Una vita venduta, invece, punta proprio su un adattamen-
to che, pur con mezzi modesti, mira alla spettacolarizzazione
dell’evento bellico e proprio per questo si apre su una città feri-
ta, avvolta ancora dal fuoco, scossa da bombardamenti, attra-
versata da fucilazioni e rappresentata non dall’immaginazione
dell’ex zolfataro ma dal commento asciutto dell’altro formida-

186
Cfr. Yves Panafieu, Le mystère Buzzati, Liancourt-Saint-Pierre, Y.P.,
1995, p. 54. Lo sottolineavo nella mia recensione al volume citato apparsa in
«Studi buzzatiani», 1, 1996, pp. 215-218.
187
Cfr. ancora W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione cit. pp. 33 e
36 (per il convenzionalismo linguistico).

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bile personaggio 188 inventato dallo scrittore: il soldato Ventura
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( interpretato da un gigionesco Enrico Maria Salerno), che nel


film è meno simpatico, ovvero più mafioso che anarchico, più
trasformista che eroe positivo, libertario e probabilmente fug-
gitivo in America, « tra i suoi parenti del Bronx» 189. Dice, dun-
que, Ventura-Salerno quasi all’inizio del film di Aldo Florio:
« la chiamano limpieza tutta ’sta merda che fanno ingoiare alla
gente » 190. E della «limpieza» parla anche il testo sciasciano, alla
fine del paragrafo che precede il passo compiuto e separato del-
le farfalle di Madrid:

L’esercito di Santander volle dunque arrendersi agli italiani, gli


italiani garantirono la vita dei prigionieri, ci diede soddisfazione
che i repubblicani ci conoscessero umani. Fu però soddisfazione
amara, ché Franco si alzò dall’inginocchiatoio e disse che il gene-
rale Bastico cominciava a rompergli i..., certo non disse così, la
sua collera trovò di sicuro pulita espressione; informò Mussolini,
ché era cosa da pazzi che un generale italiano se ne infischiasse de-
gli ordini suoi e gli impedisse di fare limpieza a Santander, pulizia
in quella rossa città, e dunque facesse un fischio a Bastico per ri-
chiamarlo a casa. Mussolini capì, figuriamoci se non capiva la ne-
cessità di far limpieza, anche lui ci teneva alla pulizia: Bastico se
ne andò, e la Falange cominciò a far festa anche a Santander 191.

La « pulita espressione» del testo sciasciano, ironica ma tri-


ste eco della pulizia franchista, della festa delle fucilazioni, apre
poi sul passo delle farfalle di Madrid, che è una sorta di spira-
glio narrativo sul vuoto – sul vuoto di un mondo, di un deserto

188
Cfr. ancora G. Traina, Leonardo Sciascia cit., p. 230, e dello stesso,
«Con l’emozione dell’azzardo». Appunti su Sciascia polemista cit., p. 85.
189
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 219.
190
Per la Scheda del Film, con citazioni e commenti alla sceneggiatura,
cfr. Leonardo Sciascia, a cura di Sebastiano Gesù cit., pp. 247-250.
191
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 189. Sulla limpieza cfr. ora G. De Lu-
na, Il corpo del nemico ucciso cit., pp. 116-117.

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– dove si traducono cumuli di pena e paura in poesia (e fors’an-
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che in cinema, ma senza eccessi di spettacolarizzazioni) e dove


si fa entrare l’interpretazione della guerra e, in fin dei conti, del-
lo stesso racconto. Mentre la non pulita espressione di Ventura-
Salerno introduce – sempre nel primo episodio del film, e sullo
stesso sfondo urbano ferito – un ufficiale che ricorda ai legiona-
ri vittoriosi il « privilegio di liberare Madrid [...] città martire».
E potremmo far nostre, a questo proposito, e senza timore di
esagerare, le parole con cui Dario Del Corno saluta due conve-
gni dedicati al cinema che si misura con l’epica e il mito in due
modi diversi: Hollywood e Pasolini, effetti speciali per stordire
lo spettatore, trama banalizzata, dialoghi inconsistenti e ricorso
ai modelli tragici e « ansia di senso che superi i valori della razio-
nalità e della storia»:

Un film è un racconto totale e compatto, che solo raramente s’in-


crina in uno spiraglio sul vuoto per assestarvi l’interpretazione:
mentre il mito, anche quando assume i modi del racconto, altro
non è che un’allusione aperta ad attendere il gesto che lo collo-
cherà nella scacchiera dei significati 192.

Potremmo finanche dire che L’antimonio – e, microstrut-


turalmente, il passo delle farfalle di Madrid, posto non a caso
alla fine della prima parte del racconto, del mito sciasciano (da
intendersi nel senso più ampio e non solo nei termini di Char-
les Mauron e/o di Claude Ambroise) – è « un’allusione aperta»
che attende il « gesto» – «Voglio vedere cose nuove» – « che lo
collocherà nella scacchiera dei significati».

192
Dario Del Corno, Omero tradito dal cinema, «Domenica», supplemen-
to de «Il Sole-24 Ore», 208, 2005, p. 36, a proposito di AA.VV., I Greci al ci-
nema. Dal peplum « d’autore» alla grafica computerizzata, Bologna, Dupress,
2005, e Il mito greco nell’opera di Pasolini, a cura di Elena Fabbro, Udine, Fo-
rum, 2005 (la citazione che precede nel corpo del testo quella di Del Corno è
di Elena Fabbro).

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Certo, Madrid è anche la meta luminosa del passo sciascia-
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no. E la letteratura ha i suoi effetti speciali, i suoi baleni metafi-


sici, e offre quanto meno una entrée en matière, un’accesso
(non, però, facilità di accesso). Lo abbiamo visto. In tal senso,
Madrid non è solo la capitale reale del conflitto, il polo d’attra-
zione, la meta politica e infuocata degli insorti, dei franchisti e
dei fascisti, che la bombardano a partire dall’autunno del 1936.
Madrid, liberata dal peso immediato della città martire, delle
macerie, del quadro urbano ferito, diventa anche il simbolo di
un viaggio nel tempo: e anche in un tempo intuito, « puro»,
non databile, assente, un tempo di cui non parlano i manuali di
storia, le cronologie del Novecento 193.
Nel passo delle farfalle, insomma, assistiamo a un viaggio
nel tempo che è un attraversamento del fuoco, della paura ma
anche della memoria, il cui enigmatico e spesso inafferrabile
doppio, l’oblio 194, « n’est pas un événement» – come suggerisce
Ricœur 195 – ed è piuttosto « un état», « une force»; état, force
che possono anche condurre alla giustizia e al perdono e in tal
senso alimentare, tanto quanto la memoria, vita individuale e
vita collettiva, ma al di là di una serrata dualità e verso quella
solidarietà senza cui il singolo non è pensabile e in quel linguag-
gio-dimora dove « tout nom propre est collectif, tout agence-
ment est déjà collectif» 196.
E il passo sciasciano mira per l’appunto a fondere (e non a
opporre) oblio e memoria, vita individuale e collettiva, e finan-

193
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo (2003), Torino, Bollati
Boringhieri, 2004; il titolo originale è Le temps en ruines.
194
Cfr. ancora Y. H. Yerushalmi, N. Loraux, H. Mommsen, J.-C. Milner,
G. Vattimo, Usi dell’oblio cit.
195
P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli cit., p. 652.
196
Gilles Deleuze, Claire Parnet, Dialogues, Paris, Flammarion, 1977 e
«Champs», 1996, p. 172: «Les différences ne passent pas entre individuel et
collectif, car nous ne voyons aucune dualité entre les deux types de problèmes:
il n’y a pas de sujet d’énonciation, mais tout nom propre est collectif, tout
agencement est déjà collectif».

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che altre e non meno significative coppie di “opposti” quali sta-
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ticità e dinamismo, vedere e agire. Comincia, tale passo, con « io


sedevo» ma muta in «[noi] giravamo» e trasfigura subito quel
« noi»-soldati con un enunciato metaforico (e metamorfico) in
terza persona plurale che contempla quelle « farfalle» che al lume
di Madrid « si avvicinano fino a sentirsi bruciare ed allargano il
volo», finché « per un guizzo di vento la fiamma le coglie» e fini-
scono per condividere il destino delle « migliaia e migliaia di per-
sone» che abitano la capitale spagnola.
A questo proposito, Paul Ricœur, ancora, potrebbe suggerire,
partendo da Maurice Halbwachs, che noi non ricordiamo mai da
soli e che i nostri ricordi si completano con quelli degli altri, per-
ché hanno bisogno di inquadrarsi in narrazioni collettive. Del re-
sto, quello stesso io dice « non ricordo il nome [del paese spagno-
lo]» e poi lo investe e lo rappresenta con i nomi delle comunità si-
ciliane, dei paesi, «Grotte [...] Milocca», delle città, «Palermo [...]
Caltanissetta», che nel « deserto» fisico e mentale riaprono in mo-
do sotterraneo – ma (già) collettivo – la strada a Madrid, alla lon-
tana capitale spagnola. Ed è, quest’ultima, una strategia suggerita
in parte dallo stesso Sciascia, in un articolo del 1983 raccolto nelle
citate Ore di Spagna, dove alla memoria della Sicilia spagnola si so-
vrappone « quella dei luoghi della guerra civile [...] nomi e luoghi
che ancora mi danno emozione, come ricordassero un primo
amore intenso e disperato» 197. Marc Augé, forse, chioserebbe di-
cendo che « bisogna ritornare per scrivere, quanto meno ritornare
a casa» 198 o, se vogliamo, con James Hillman, tornare a quei « luo-
ghi» che mandano segnali, hanno ricordi, ma senza esserne posse-
duti 199; insomma, senza diventare vittime del genius loci come si è
diventati vittime, in un certo senso, della zolfara e/o della caverna.

197
L. Sciascia, Ore di Spagna cit., p. 60. E cfr. P. Ricœur, La mémoire, l’hi-
stoire, l’oubli cit., p. 147.
198
M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo cit., p. 10.
199
Cfr. James Hillman, L’anima dei luoghi. Conversazioni con Carlo Trup-
pi, Milano, Rizzoli, 2004.

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Ma, per quanto notorio, non si può non ricordare ciò che
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resta al di qua dell’antropologia di Augé e della psicologia di


Hillman, ovvero il fatto che nell’Italia moderna, grazie, soprat-
tutto, all’impegno e alla scrittura di Giovanni Verga e poi di al-
tri autori siciliani, la zolfara, la miniera sono luoghi che hanno
notevoli ricordi letterari e mandano precisi segnali, a partire
magari da quelli che sottolineano i legami storici e simbolici
della miniera, della zolfara con l’infanzia. Al tempo stesso, però,
ci pare davvero che le indicazioni congiunte di Augé e di Hill-
man possano aiutarci – anche in rapporto a quanto sostenuto
fin ora a proposito de L’antimonio – ad avvicinare e capire me-
glio l’apporto di Sciascia: ovvero a coglierlo in seno a una mag-
giore autonomia e libertà e a svincolarlo da un’orizzonte ancora
troppo o addirittura soltanto letterario, ottocentesco e siciliano.

Quasi naturalmente legato a ricordi d’infanzia del prota-


gonista, che « si veste che pare un galantuomo», e al conse-
guente affiorare di una proverbialità popolare anche verghiana
(«“il povero che fa il superbo sempre male finisce”» 200), il ge-
nius loci della zolfara è comunque filtrato dall’esperienza spa-
gnola, da una fuga e da un ritorno impossibili e da un supera-
mento finale ( o quanto meno da un’ipotesi di superamento) di
tutto questo. Potremmo dire insomma e ancora che si ritorna
ma che non si è schiavi del ritorno, della zolfara, del genius loci.
Ed è per questo che si riesce ad attivare il recupero forte e auto-
nomo di un luogo e di un immaginario: un recupero che pare
davvero muoversi al di là di Verga, della Sicilia, dell’Ottocento,
verso una realtà estesa e condivisa da molti italiani, fra indivi-
duo e collettivo, in tempo di pace e di guerra, in patria o
all’estero ( in quel Belgio, per esempio, indagato in tal senso
dai lavori promossi da Josette Gousseau 201); e con percorsi e

200
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 177.
201
AA. VV., Sicilia e Belgio. Specularità e interculturalità, a cura di Josette
Gousseau, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo,

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temi che lasciano intravedere tracce significative de L’antimo-
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nio nella letteratura italiana novecentesca più recente – non si-


ciliana ( seppur isolana) – e anche sul filo di una « memoria » si-
mile a quella problematicamente e a più riprese evocata nello
stesso Antimonio.
Per esemplificare, si potrebbe pensare a un testo narrativo
di Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn (1991), teso fra inchiesta e
intervista, che prova a rintracciare in Sardegna, tra anni Venti e
Cinquanta, un eroe con tanto di nome e cognome, Tullio Saba,
ma che di fatto lo rende anonimo, fondendolo con i personaggi
della comunità che ne serbano un ricordo e che, tra un fram-
mento di vita e l’altro, tengono talora a precisare: « del resto io
non ho mai avuto buona memoria». La memoria dei vari « io»,
la pluralità del « noi», le coordinate paesane, le esperienze, le
guerre fasciste, la miniera, l’infanzia rendono quasi il breve e
pur diverso testo di Atzeni una prova della forza e forse anche
della fortuna del racconto sciasciano, e al di là della collocazio-
ne editoriale de Il figlio di Bakunìn, la collana «La memoria»
dell’editore Sellerio: «Fin da piccolo [Tullio Saba] era convinto
di essere chissà cosa [...] lo vestivano come un principe»; «[la
madre] non voleva vedere il figlio minatore», che invece lo
sarà, per una parte (assai importante) della sua vita, conoscen-
do « minatori ch’erano stati in Belgio e in Francia» e venendo a
sapere « molte cose che non erano scritte sui giornali, e che la
radio non diceva, sulla guerra di Spagna»; guerra che rientra in-
fine – grazie a un altro personaggio, Velio Spano, che quasi si
confonde con l’eroe (cosa che avviene, mi pare, nel film omoni-
mo del 1997 di Gianfranco Cabiddu) – in quelle « esperienze
che per noi facevano parte del mito» 202.

Palermo, 1995, e AA. VV., Dallo zolfo al carbone. Scritture della miniera in Sici-
lia e nel Belgio francofono, a cura di Josette Gousseau, Annali della Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, Palermo, 2005.
202
Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn, Palermo, Sellerio, 1991 e 2002, pp.
26, 18-20, 49, 52, 106.

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In questa prospettiva, anche in Sciascia l’infanzia è un punto
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di partenza (e una fuga: fuga da uno stato sociale e, più in gene-


rale, da una certa situazione dell’uomo, che bisogna trasformare)
ma anche un punto d’arrivo (e dunque un ritorno: ritorno per ri-
cordare e ritrovare) e forse è ancora e soprattutto (nell’impossibi-
lità della fuga e del ritorno) un viaggio fra l’uno e l’altro punto,
fra l’uno e l’altro polo: un viaggio attraverso che permette di non
smettere di viaggiare, di ricordare e di vedere o quanto meno di
avere il desiderio (e la volontà) di vedere cose nuove.
L’enunciazione collettiva del passo delle farfalle – «Girava-
mo intorno a Madrid » – sposa un finale che poggia su quell’in-
fanzia dilatata e che nell’eroe cerca di raccogliere e incarnare
l’allusione aperta del mito in maniera quasi archetipica – po-
tremmo dire con Franco Ferrucci – tra una vita intesa come as-
sedio a mura imprendibili che racchiudono un miraggio di feli-
cità e una vita intesa come ritorno 203. L’infanzia, allora, fa da
ponte tra l’assedio esterno e interno, tra il dolore di chi assedia
col fuoco da lontano (e ritorna bambino) e il dolore di chi vive
ancora sotto quel fuoco (ed è l’assediato bambino) 204:

[...] di notte riverberava rosso nel cielo per gli incendi che i nostri
aeroplani andavano ad attaccare; solo a momenti pensavo che in
quella città c’erano bambini [...] Pensavo – l’antimonio, il fuoco
– ma così lontano era il riverbero, costava a noi tanto sangue e do-
lore quella città di allucinazione, che di solito guardavo la rossa
aureola di morte come da bambino, in campagna, guardavo le
lontane girandole di fuoco della festa di San Calogero: un lumi-
noso lontano giuoco della notte.

Sembra che Leonardo Sciascia cerchi, a suo modo, di « riac-


cedere all’infanzia come patria trascendentale della storia», di

203
Cfr. Franco Ferrucci, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della
narrazione, Milano, Mondadori, « Oscar – Saggi», 1991.
204
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 191.

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« esperire» 205, al di là della «“povertà d’esperienza” dell’epoca mo-
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derna» evidenziata da Walter Benjamin nei primi anni Trenta e


ridiscussa in tal senso, a partire dall’uomo contemporaneo priva-
to della sua biografia e dell’esperienza, da Giorgio Agamben 206.
Sciascia, poi, non sposa la catastrofe (lo spettacolo della catastro-
fe) e non vuole saldare i conti con un passato solo individuale e
chiuso, confitto in una guerra e/o in una zolfara.
E che alla fonte e all’estuario di questo tentativo vi siano la
danza folle delle farfalle-soldati e la festa di San Calogero, non
ci può non far pensare, ancora una volta, a quanto Roger Cail-
lois annota su Guerre et fête:

Dans la conscience commune [...] la guerre et la fête demeurent


images de désordre et de mêlée. [...] Mais vienne l’heure du com-
bat ou de la danse, de nouvelles normes surgissent 207.

In questa duplice prospettiva, attraverso Sicilia e Spagna,


festa e guerra, tra costruzioni culturali impure e filologia non
disgiunta da altra e profonda intuizione, Sciascia sembra racco-
gliere anche alcune coordinate di una vasta riflessione antropo-
logica e sociologica diffusa a partire dalla seconda metà degli
anni Trenta e fino agli anni Quaranta-Cinquanta grazie al Col-
lège de Sociologie 208 e agli apporti diversi ma dialettici di Cail-
lois, di Georges Bataille, di Denis de Rougemont, e sembra tra-
durle e assumerle in letteratura con l’invito di Italo Calvino a
« cercare di esprimere qualcosa “di nuovo, di vero, di sofferto,
di faticoso, di non-del-tutto-chiaro-nemmeno-a-te-stesso”» 209.

205
Ripenso e riadatto G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’espe-
rienza e origine della storia cit., p. 51.
206
Ivi, p. 5.
207
R. Caillois, Guerre et fête cit., pp. 224-225.
208
Cfr. Denis Hollier, Le Collège de Sociologie (1937-1939), Paris, Gallimard,
1979 e Nouvelle édition, «Folio – Essais», 1995, pp. 169-244 (e 199-203).
209
Cfr. ancora G. Traina, Leonardo Sciascia cit., pp. 229-230.

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L’entrée en matière, nutrita di gusto poetico, finanche filo-
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logico, e raccolta nell’immagine delle farfalle-soldati non è dav-


vero fine a se stessa e non intende certo risolvere la carica pro-
blematica dell’eroe, azzerandone e smarrendone l’individualità
nel collettivo totalitario dell’epoca o nel genius loci della regione
siciliana, come si suggeriva poc’anzi. La sfida sciasciana è piut-
tosto quella di mantenersi – come potremmo dire ancora con
Agamben – « in viaggio [...] verso l’infanzia e attraverso l’infan-
zia»(di un uomo, di un mondo) 210. E in questo viaggio c’è an-
che la guerra, la « guerra come viaggio» di cui non a caso parla
Manuel Azaña ne La velada en Benicarló (1939), testo prefato e
tradotto da Sciascia nel 1967 insieme a Salvatore Girgenti 211.
In questo procedere tra infanzia (non infantilismo) e guer-
ra, dove non c’è posto per sindromi di Peter Pan e simili 212,
L’antimonio trova anche la sua apoteosi di racconto di formazio-
ne, lungo un percorso dove sono contemplati e disseminati, co-
me abbiamo visto, fuoco, paura, memoria, infanzia e, potrem-
mo suggerire con Vittorini, « ragazzi affamati con fame anche di
città nuove e mondo da vedere» 213: ovvero i ragazzi formati, nel
bene e nel male, dalla guerra civile spagnola, fra gli orrori vissuti
in Spagna e la presa di coscienza di tali orrori, l’affacciarsi al
mondo come soggetti, anche politici, anche antifascisti.
Tale racconto di formazione nutre ma non esaurisce L’anti-
monio che, un po’ alla Vittorini, cerca il racconto « aperto», qua-
si irrisolto, tra fuga e ritorno impossibili, e fin dall’epigrafe, co-
me si è detto, e anche, in un certo senso, fin dal titolo, con l’ele-

210
G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della
storia cit., p. 52.
211
L. Sciascia, Prefazione a Manuel Azaña, La veglia a Benicarló (1939),
Torino, Einaudi, 1967, [pp. VII-XIII], p. XII.
212
Cfr. Francesco M. Cataluccio, Immaturità, Torino, Einaudi, 2004, e la
recensione di Goffredo Fofi apparsa sul supplemento domenicale de «Il Sole-24
Ore», 197, 2004, p. 29.
213
Elio Vittorini, Diario in pubblico, Milano, Bompiani, 1957 e «Tascabi-
li», 1991, p. 212.

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mento chimico che fonde guerra e scrittura, visto che « entra nel-
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la composizione della polvere da sparo e dei caratteri tipografi-


ci» 214. Perché i « ragazzi affamati» crescono ma non si risolvono
nella guerra, nella polvere da sparo, e potenzialmente sono il fu-
turo, il futuro del ricordo, della parola, della scrittura: «Il ricor-
do umano è inseparabile dalla parola» e «Scrivere significa parla-
re più forte e più a lungo» 215. In questa prospettiva, si potrebbe
anche ipotizzare che il reduce, che inizialmente parla ai familiari
e ai compaesani, avrà la possibilità (e sceglierà) di partire per
parlare più forte e più a lungo. Come attesta il finale de L’Anti-
monio e, in un certo senso, la « genesi» stessa del racconto, che lo
« configura come esempio di contaminazione tra codificazione
scritta (storiografia e letteratura) e testimonianza orale»:

L’avvocato Terenzio di Caltanissetta, che era stato ufficiale delle


truppe mandate da Mussolini in Spagna, e un racalmutese arruola-
tosi con i fascisti allo scopo di passare dall’altra parte per poi fuggire
in America, hanno narrato a Sciascia episodi di quella guerra 216.

Ma per evidenziare la duplicità ontologica dei « legionari


[...] capaci di liberare da cumuli di fatica e di pena quel felino
inarcarsi di reni che è la poesia » 217 – ancora con la riuscita
espressione di Di Grado e al di là dell’accezione fascista del
termine, che già Vittorini tende a superare (« coloro che ven-
nero chiamati “legionari”») – L’antimonio, potremmo dire
con S}klovskij 218, beneficia anche, tecnicamente, di un doppio
statuto narrativo: da un lato lo statuto del racconto, che ten-

214
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 166.
215
F. Ferrucci, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della narrazione
cit., pp. 7 e 8.
216
C. Ambroise, Cronologia, in L. Sciascia, Opere 1956-1971 cit., p. LVI.
217
A. Di Grado, Sciascia, il cinema e (fra l’altro) l’Europa: (bianco e) nero
su nero cit., pp. 71-72.
218
Viktor S}klovskij, La costruzione del racconto e del romanzo in Una teoria
della prosa (1927), Milano, Garzanti, 1964, pp. 81-115.

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de ad accumulare peso, importanza – l’« allusione aperta », il
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« gesto che lo collocherà nella scacchiera dei significati» – in


quel finale che evoca una « città lontana [...] grande » e si
chiude con la frase qui più volte citata, « Voglio vedere cose
nuove » 219; dall’altro quello del romanzo, che tende a fare del-
la chiusa un punto di indebolimento piuttosto che di raffor-
zamento, essendo le costruzioni intermedie più importanti
del risultato finale (e possiamo ovviamente pensare al passo
delle farfalle di Madrid).
Muovendosi fra la duplicità ontologica dei legionari/ra-
gazzi affamati e il doppio statuto narrativo del racconto/ro-
manzo, Sciascia non vuole ridurre L’antimonio a racconto di
guerra e di formazione e vuole servirsi piuttosto di tali coordi-
nate letterarie per aprire il racconto, per renderlo prospettico,
dinamico e, specie nelle ultime pagine, per farne quasi un
« diario in pubblico». Ed Elio Vittorini, in questo senso, è più
di una fonte: è un mondo, quello di Conversazione in Sicilia
(1938-1939), ed è anche e soprattutto il suo superamento,
l’oltre di Diario in pubblico (1957).

In Spagna si può ritornare bambini, si può quasi ritornare


alla « memoria della specie», per dirla ancora con Ferrucci, ov-
vero all’« uomo» che « ricorda finché può ricordare», al « primo
momento che ricordiamo»: « una mescolanza di cose diverse,
sapientemente unite; proprio come le fonti (non ricordate) che
stanno alle spalle dei libri che conosciamo» 220. E come bambini
si può anche ritornare più facilmente a casa, ma non è detto che
si possa o si sia subito in grado di « toccar tana» e « liberare tut-
ti». Capirlo e insieme non restare schiavi della casa, del mito e
del genius loci dell’infanzia e della zolfara, della caverna, è la pri-
ma tappa per riaccedere davvero a « cose nuove» (anche a Ma-

219
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 230.
220
F. Ferrucci, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della narrazione
cit., p. 7.

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drid). Perché le « cose», innanzi tutto, non devono avere solo a
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che fare con la vista-visione della Sicilia, del paese, della campa-
gna, del deserto di luce, della zolfara, del fuoco, che è poi la vi-
sta-visione infiammata della guerra civile spagnola: « era Spagna
anche la zolfara» 221. In tal senso, la Spagna conferma la Sicilia
come grado zero della scrittura sciasciana e al tempo stesso fa
diventare il mondo vergine, dato nuovo e aperto, nel quale po-
ter ricominciare a vivere grazie a costruzioni culturali impure e
senza unificanti e pericolose sovrapposizioni ideologiche.
L’antimonio, allora, anche come biografia (e al limite “auto-
biografia”) non proseguita, è un esorcismo complesso, soltanto in
parte raccolto e siglato dall’approdo antifascista alle « cose nuove»,
rintracciabile in seno a una tradizione letteraria e a un engagement
cari a Sciascia proprio tramite Elio Vittorini. Perché le « cose nuo-
ve» devono poter ribattezzare l’orizzonte esistenziale di quei « ra-
gazzi affamati con fame anche di città nuove e mondo da vedere,
non di pane e sigarette soltanto», come scrive per l’appunto Vitto-
rini nel settembre 1945 sul numero 1 del «Politecnico» 222.
Secondo quanto si suggeriva, più implicitamente, poc’anzi,
queste parole di Vittorini finiscono nelle pagine di Diario in
pubblico (1957), pagine che per Sciascia « restano» davvero 223 –
confessa nel 1981 – mentre non resistono così bene al tempo,
secondo un suo significativo avviso, già intuibile nel finale de
L’antimonio, quelle del capolavoro, Conversazione in Sicilia
(1938-1939); altro viaggio nella memoria e nell’isola, con tanto
di fuga-ritorno-(fuga), di cui parleremo più avanti, sempre in
relazione alla guerra civile spagnola.
Certo, l’immagine vittoriniana di « città nuove e mondo da
vedere» agisce nello Sciascia che scrive L’antimonio (1960) non
solo perché lo scrittore privilegia già o in prospettiva le pagine

221
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 228.
222
E. Vittorini, Diario in pubblico cit., p. 212.
223
Citato in C. Ambroise, Cronologia, in L. Sciascia, Opere 1956-1971
cit., p. LIX. Ma cfr. D. Perrone, Sciascia, Vittorini e la Spagna cit., pp. 252-253.

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di Diario in pubblico (1957) ma anche per la vicinanza cronolo-
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gica del volume vittoriniano al nascente mondo de Gli zii di Si-


cilia (1958 e, per l’appunto, 1960) e poi, se vogliamo, a quello
degli « interventi pubblicati da Sciascia su «L’Ora» fra il 1964 e
il 1968 nella rubrica intitolata « Quaderno», che aveva la forma
del ‘diario in pubblico’ cara a Brancati e a Vittorini, forma che
caratterizza anche Nero su nero» 224, del 1979 (e siamo quasi di
nuovo a quel 1981 da cui abbiamo preso le mosse).
Insomma, quale singolare “autobiografia”, dal piglio narra-
tivo e testimoniale a un tempo, di un militante della cultura
nella cui presa di coscienza e nella cui memoria, individuale e
collettiva, la guerra civile di Spagna ha grande peso, Diario in
pubblico di Elio Vittorini può aver tracciato o quanto meno
suggerito una rotta per lo Sciascia de Gli zii di Sicilia che, tra
prima e seconda edizione, tra 1958 e 1960, cercano una strada
per unire testimonianza e narrazione.
L’esperimento vittoriniano può aver agito, in particolare,
sull’ultimo racconto di quella raccolta, inteso proprio come
« prime pagine di una biografia che non fu proseguita» – si di-
ceva con Ambroise – e come testo quasi “autobiografico” che
mette in scena un’esperienza fondativa – la guerra civile di Spa-
gna, legata anche all’infanzia e all’adolescenza di Sciascia
(1921) al di là dei termini generali sopra evocati – e che la
proietta, per ovvie ragioni cronologiche, su un personaggio, su
un ‘altro’ che però ‘nasconde’ lo scrittore siciliano e la sua non
sempre ovvia e facile intersecazione di saggistica e narrativa.

Riconosciuta la complessa ricezione sciasciana – specie in


rapporto alla guerra civile di Spagna – del Diario in pubblico di

224
G. Traina, «Con l’emozione dell’azzardo». Appunti su Sciascia polemista
cit., p. 72; D. Perrone, Sciascia, Vittorini e la Spagna cit., p. 245; N. Tedesco,
«Avevo la Spagna nel cuore». Sciascia, la Sicilia, la Spagna cit., p. 16, che rinvia
ai racconti L’antimonio e La sesta giornata per esemplificare un « lascito [...] più
vittoriniano che brancatiano».

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Vittorini, è utile spendere ancora qualche parola sull’immagine
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delle « città nuove» e del « mondo da vedere». Di questa imma-


gine, Vittorini si serve inizialmente per dipingere la brusca disil-
lusione di una generazione, evocando la tragedia di Guadalajara,
« dove [i ragazzi affamati] appresero quello che d’altro può es-
servi al mondo, e può esser nuovo da vivere, non solo da vede-
re». L’immagine del « mondo da vedere» si traduce nell’espe-
rienza del mondo « da vivere» e accompagna i ragazzi-legionari
verso una presa di coscienza. E proprio come nel racconto di
Sciascia, Vittorini, dopo la guerra, la battaglia, il fuoco, muove
verso tale presa di coscienza, presentandola – in righe che quasi
riassumono, ante litteram, L’antimonio – come « un’educazione
politica» che evade la « trasmissione di esperienza da padri a figli
e da vecchi a giovani» e avviene « per dure, brutali lezioni avute
direttamente dalle cose e dentro le cose, per lente maturazioni
individuali, per faticose scoperte di verità, tutta auto-educazione
e tutta tra il luglio del ’36 e il maggio del ’39» 225; ovvero, so-
stanzialmente, a ridosso del Patto d’acciaio e durante « la guerra
civile di Spagna», la guerra che « ci aveva insegnato anche a cer-
care» e poi a trovare « il vecchio antifascismo» e alla quale pure
Sciascia, come suggerisce Ambroise, « fa risalire [...] la propria
incipiente e precoce presa di coscienza antifascista» 226. E Traina
aggiunge, più recentemente 227: « la guerra di Spagna è una situa-
zione di contrapposizione netta che ha valore fondativo nella
mentalità sciasciana, poiché originava – almeno sul piano ideale
– nobili scelte di campo di segno antifascista; il risvolto ‘umano
troppo umano’ [ovvero di critica o di « attraversamento»
dell’ideologia, come potremmo suggerire ancora con Madrigna-

225
E. Vittorini, Diario in pubblico cit., pp. 212-213, e cfr. ancora D. Per-
rone, Sciascia, Vittorini e la Spagna cit., pp. 254-255 (anche se l’approdo del di-
scorso è diverso).
226
C. Ambroise, Cronologia, in L. Sciascia, Opere 1956-1971 cit., p. LVI.
227
G. Traina, «Con l’emozione dell’azzardo». Appunti su Sciascia polemista
cit., p. 86.

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ni 228] di tale situazione è poi affidato, in età più matura, a un
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racconto splendido e complesso come L’antimonio».


In effetti, nella volontà di « vedere cose nuove» che chiude
L’antimonio – ma che ne è anche all’origine – c’è già la critica
della cultura, la critica dell’ideologia dello Sciascia maturo, ov-
vero, in un certo senso, il suo mettersi in discussione, ma a par-
tire da una sfida conoscitiva e da una ricerca illuministica com-
plesse, cresciute « all’ombra di pólemos», quali sono quelle di
Sciascia autore, romanziere, storico, antropologo della cultura;
sfida, ricerca che fanno subito pensare al viaggio settecentesco
de Il Consiglio d’Egitto (1963) 229, ovvero a un viaggio ancora
teso verso l’infanzia di un mondo e un’altra « guerra civile» e
immaginato al di là dell’« esperienza» che non si fa docilmente
« ricordo» e dell’« indifferenza» che « scotta» (verbo, ovviamen-
te, più che rivelatore).

6. Conclusioni provvisorie e aperture

Le nostre conclusioni – e non proprio e non solo di vere


conclusioni si tratta – non potranno che essere provvisorie e
suggerire ulteriori aperture, magari a partire da una sorta di

228
Cfr. ancora C. A. Madrignani, Cassola e altri « buoni maestri» cit., p. 96:
«Il miglior Sciascia, quello che ha lasciato un vuoto che non si vede come possa es-
sere colmato, è più che il polemista e lo stimolatore di problemi civili e di inquie-
tudini morali, il narratore-pensatore che attraversa le ideologie anche quando sem-
bra assumerle. Non è la singola causa o controversia che conta ma l’atteggiamento
di ripensamento, di riformulazione e verifica nei confronti dei nodi centrali del
nostro vivere associato: illuminare, proprio come volevano i philosophes, le cause
recondite dei linguaggi e dei comportamenti ufficiali, non in nome di un’ideolo-
gia migliore e superiore, ma di una volontà di conoscenza che si pone come “altra”
nei confronti del sapere conformistico, addomesticato o massificato».
229
Cfr. G. Traina, Leonardo Sciascia cit., p. 230, che, da altro punto di vi-
sta, osserva: «L’antimonio è, prima del Consiglio d’Egitto, il testo in cui Sciascia
si mette più in discussione, scava nel “profondo” del suo protagonista».

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back to the source, di duplice ritorno alle fonti, ovvero alle origi-
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ni della letterarietà e dell’umanità di un racconto: a quelle lette-


rarietà e umanità che sono in parte riassunte e nascoste in una
sintetica presentazione a cui Leonardo Sciascia affida le « sugge-
stive ragioni» del suo « intitolare L’antimonio il racconto»

Gli zolfatari del mio paese chiamano antimonio il grisou. Tra gli
zolfatari, è leggenda che il nome provenga da anti-monaco: ché
anticamente lo lavoravano i monaci e, incautamente maneggian-
dolo, ne morivano. Si aggiunga che l’antimonio entra nella com-
posizione della polvere da sparo e dei caratteri tipografici e, in an-
tico, in quella dei cosmetici. Per me suggestive ragioni, queste, ad
intitolare L’antimonio il racconto 230.

La « concisa presentazione» contiene « una straordinaria ric-


chezza di aspetti e riflessioni» e finanche la possibilità di affidar-
la alla misura del racconto, a quel « ristretto numero di pagine»
che, anche perché tali, sono davvero da annoverare, come sugge-
risce Antonio Llorens, fra le « più complesse e sensibili pagine
letterarie che siano mai state scritte sulla guerra di Spagna, la Si-
cilia e la condizione umana» 231. Perché nell’Antimonio pare dav-
vero confluire una buona parte della letteratura della guerra civi-
le spagnola e della letteratura (anche critica, filosofica) della con-
dition humaine, che alla prima, dagli anni Trenta, almeno, ai
Cinquanta, è spesso connessa e che è situabile, per esemplificare
con coordinate note o qui già evidenziate, fra l’antropologia ro-
manzesca «à la première personne» di Malraux 232 e l’« anthropo-
logie philosophique» di The Human Condition della Arendt 233.

230
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 166.
231
Antonio Llorens, «Una vita venduta», un film rubato, in Leonardo
Sciascia, a cura di Sebastiano Gesù cit., [pp. 113-117], p. 113.
232
Gaëtan Picon, Malraux, Paris, Seuil, «écrivains de toujours», 1953 e
1974, pp. 11 e seguenti.
233
P. Ricœur, Préface (1983) a Hannah Arendt, Condition de l’homme mo-
derne cit., p. 14.

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La forza di queste coordinate e del loro complesso interse-
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carsi, del loro connettersi, del loro irradiarsi in piena guerra


fredda e nel dopo Stalin, è poi rintracciabile in grandi scrittori
europei della generazione di Sciascia, fra anni Cinquanta e Ses-
santa, e secondo modalità anche molto diverse, giocate talora
tra la farsa e il grottesco: in tal senso cercheremo fra poco di
presentare rapidamente il caso dello scrittore svizzero di lingua
tedesca – «Je suis un vrai Suisse» – Friedrich Dürrenmatt. Ma
teniamo presente fin d’ora che anche la Svizzera è un’isola – «Je
vivais sur une île» – e che anche Dürrenmatt proietta se stesso
nei suoi libri: «Moi, je ne tiens pas de journal intime. Mon
journal, ce sont mes Œuvres». Certo, nello scrittore svizzero c’è
anche il distacco, poco sciasciano, dello spettatore: «Les années
d’adolescence ont leur importance. J’ai eu vingt ans pendant la
guerre [...] Je vivais sur une île, ou sur un radeau emporté au fil
de l’eau. J’observais au loin le crépuscule des dieux, comme un
spectateur». Per di più Dürrenmatt non ha una tradizione let-
teraria svizzera di riferimento: «Je ne vois aucune tradition suis-
se qui aurait compté pour moi» 234. Mentre Sciascia ha alle spal-
le una grande tradizione siciliana, sulla quale dobbiamo spende-
re ancora qualche parola.

Prima di Sciascia, in Italia, da quel particolare angolo vi-


suale che è la Sicilia, la forte, estesa connessione tra antropolo-
gia romanzesca e antropologia filosofica, tra condizione umana
e guerra di Spagna e/o fascismo anni Trenta, è reperibile in Vit-
torini ma anche in Vitaliano Brancati, « un altro fra i suoi amati
scrittori di riferimento» 235: il Brancati, certo, dello zio de Il
bell’Antonio (1949), su cui ovviamente ritorneremo, ma anche
l’autore de « il racconto La noia del ’937 [...] sulla vita a Calta-

234
Cito da Entretiens avec «Le Monde». 2. Littératures, Paris, Editions La
Découverte et Journal «Le Monde», 1984, [pp. 61-69], pp. 66-67.
235
G. Traina, «Con l’emozione dell’azzardo». Appunti su Sciascia polemista
cit., p. 85.

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nissetta negli anni appunto intorno al ’37, gli anni dell’Impero
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e della guerra di Spagna» – si legge in Nero su nero (1979) 236. E


fra i racconti brancatiani è impossibile non pensare a Il vecchio
con gli stivali (1944), vero capolavoro, dove Aldo Piscitello, ne-
gli « anni più neri [...] il ’36 e il ’37» (e pure l’« anno dopo») vi-
ve « solo come una mosca in gennaio» e quasi in seno alla stessa
comunità del protagonista de L’antimonio. Alla moglie che ap-
plaude, che batte contenta le mani « a una radio che proclamava
il bombardamento di Valencia», Piscitello reagisce con una se-
rie di domande di cui Sciascia deve essersi ricordato nel finale
del passo delle farfalle:

E tu sei cattolica, e tu sei cristiana ? E tu ti fai la Croce, e baci il


cuore di Gesù? Tu che vai in sollucchero per il bombardamento
di una città dove ci sono bambini, donne meglio di te, e amma-
lati ? 237.

Nell’Antimonio, la rappresentazione è più estrema e tocca


forse una più triste e meno ironica deriva della condition humai-
ne, accolta con una pena di cui abbiamo suggerito l’importanza
ma anche e soprattutto con un mix inedito di critica e umana
comprensione; finanche quando tale condannata condizione
oscilla vergognosamente fra avventure dal piglio epico, cavalle-
resco, luoghi comuni letti magari sui giornali – « la guerra di
Spagna mi ha insegnato a non credere ai giornalisti» 238 – ed
episodi atroci buoni soltanto per la propaganda, per l’esaltazio-
ne retorica di un fascismo che, proprio come frutto della propa-
ganda, della retorica (e della guerra), il protagonista ha ricono-
sciuto e ormai smascherato.

236
L. Sciascia, Nero su nero (1979), in Opere. 1971-1983 cit., p. 666.
237
Vitaliano Brancati, Il vecchio con gli stivali (1944), Roma, L’Acquario,
1945, II ed. accresciuta Milano, Bompiani, 1946 e 1958, poi Milano, Monda-
dori, « Oscar», 1971, [pp. 113-146], pp. 126 e 128-129.
238
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 216.

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Come si è detto, di questa triste deriva della memoria sono
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avidi e significativi fruitori, verso la fine del racconto, « i vecchi»


e « il segretario del fascio», oscillanti tra ignoranza e propaganda
e schiavi di quella noia nella quale Sciascia non vuole far
sprofondare il suo personaggio; quella « noia», per l’appunto,
che proprio per Brancati è « il segno più grave del disagio esi-
stenziale sotto il regime fascista» 239; quella noia che può farci
diventare spettatori, come la moglie di Piscitello, e certo non
spettatori avvertiti alla Dürrenmatt; quella noia che prospetti-
camente, ben al di là della dittatura, del fascismo, potrebbe
consegnare il protagonista de L’antimonio a una trama scontata
e farlo poi « ricadere “nell’opaca realtà del quieto vivere” che at-
tendeva, secondo Sciascia, perfino i “molti meridionali che pu-
re avevano partecipato valorosamente alla Resistenza” ed erano
poi tornati nei loro paesi» 240.

Di più. Sciascia sembra condividere – ribaltandola tuttavia


– la liquidazione che nel 1945 Vittorini fa della « trasmissione
di esperienza da padri a figli e da vecchi a giovani» ; quella tra-
smissione o « trasmissibilità dell’esperienza » che per un Calvi-
no che guarda agli anni difficili del dopoguerra è di « scarsa ef-
ficacia » e « continua a essere una delle realtà più scoraggianti
nel meccanismo storico e sociale » : « la storia continua a essere
mossa da spinte non completamente dominate, da convinzioni
parziali e non chiare » 241. Da notare che queste osservazioni

239
G. Traina, «Con l’emozione dell’azzardo». Appunti su Sciascia polemista
cit., p. 85.
240
Ivi, p. 86, che cita da L. Sciascia, Quaderno, a cura di Vittorio Nisticò e
Mario Farinella, Palermo, Nuova Editrice Meridionale, 1991, p. 77.
241
Italo Calvino, Sono stato stalinista anch’io ?, «La Repubblica», 16 di-
cembre 1979, in un inserto dedicato a Stalin nel centenario della nascita, poi in
Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche. Nota introduttiva di Esther Calvino,
Milano, Mondadori, «I libri di Italo Calvino», 1994 e « Oscar», 1996, [pp.
196-203], p. 199; ma cfr. anche il pezzo seguente della raccolta, L’estate del ’56,
alle pp. 204-210.

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sorgono in « pagine autobiografiche » del 1979 – l’anno del più
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volte citato Nero su nero – in cui Calvino si chiede Sono stato


stalinista anch ’io ? e « Chi era Stalin tra il ’45 e il ’53, qui in
questo Occidente che aveva preso forma dalla vittoria alleata e
dalla guerra fredda ?» 242.
Con La morte di Stalin (1957), Sciascia narratore cerca una
risposta a questa domanda più di vent’anni prima, procedendo,
potremmo dire, a una certa decostruzione del mito dell’uomo
politico, a stretto contatto con le rivelazioni di Chrus]c]ëv circa i
delitti di Stalin e a partire dalla difficile e parziale presa di co-
scienza di un ciabattino. Dall’inizio dell’estate del 1956 si pub-
blicano rapporti, informazioni sconcertanti e riflessioni a caldo
di politici, di scrittori. Il racconto è anche un modo, nutrito di
ironia, per fuggire la cronaca dell’epoca, che lascia molti intel-
lettuali e compagni “a bocca aperta”, e per mutarla quasi, in
certe pagine, in commedia. Si pensi al passo dei « ritratti di Sta-
lin», che non può non far venire in mente una gustosissima sce-
na di Letto a tre piazze (1960) di Steno, con Totò che torna
dalla Russia, reclama la casa e la moglie risposatasi con Peppino
e con quest’ultimo finisce a letto e per dormire solo dopo aver
sostituito un quadro con il ritratto di “baffone”, esclamando:
« io se non me lo sento sulla testa non posso dormire [...] è una
cosa nervosa la mia» 243. E il ciabattino Calogero, con gli ameri-
cani già a Regalpetra, « ritagliò da una rivista americana due ri-
tratti di Stalin, li mise in bella cornice e uno lo attaccò in botte-
ga e l’altro nella stanza da letto, vicino alla Madonna di Pompei
che la moglie teneva sul proprio lato. La moglie commentò acre

242
Ivi, pp. 196 e 197.
243
Con Peppino deuteragonista, « in ruolo socialmente più alto», a pro-
testare inutilmente: « e io devo dormire con quello là». Cfr. Matteo Palumbo,
La trasgressione e la norma: Totò, Peppino e le classi sociali, in Peppino De Filip-
po e la comicità del Novecento, Atti del Convegno interdisciplinare, Napoli, 24-
25 marzo 2003, San Giorgio a Cremano, 26 marzo 2003, a cura di Pasquale
Sabbatino e Giuseppina Scognamiglio, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,
2005, pp. 101-108.

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– e che è tuo padre ? – ma non disse più niente vedendo come si
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fece brutto Calogero» 244.


Anche per questo voler sottrarsi alla cronaca, La morte di
Stalin non è di facile decifrazione, da un punto di vista storico,
storico-ideologico e storico-letterario. Infatti, se è vero che si
tratta di un racconto che ci interessa, a livello tematico, per gli
accenni alla guerra civile spagnola, e, a livello strutturale, perché
confluisce nella prima edizione de Gli zii di Sicilia (1958), è un
testo che innanzi tutto, e più generalmente, ci affascina come
ulteriore esempio di quella storia che « continua a essere mossa
da spinte non completamente dominate, da convinzioni parzia-
li e non chiare» e che si fa per « dure, brutali lezioni avute diret-
tamente dalle cose e dentro le cose, per lente maturazioni indi-
viduali, per faticose scoperte di verità, tutta auto-educazione».
Ma in quegli anni non c’è solo lo Sciascia narratore de La
morte di Stalin. C’è anche lo Sciascia saggista, critico, traduttore,
che si occupa ancora della guerra civile spagnola, fra anni Cin-
quanta e Sessanta, tra, diciamo, La sesta giornata (1958) e la Pre-
fazione (1967) a La veglia a Benicarló. In questi testi, sopra già
citati, Stalin resta, come avremo occasione di ribadire, un punto
di riferimento pressoché intatto. Ed è, questo, un dato impor-
tante. Sembra infatti che nello stesso e stretto giro d’anni Scia-
scia tenga in vita due Stalin. Il fatto è che la guerra civile spagno-
la, come abbiamo visto, è un’esperienza fondativa per lo scritto-
re siciliano, un’esperienza che appartiene al tempo dilatato e di-
latabile dell’infanzia/adolescenza, quando i delitti, i crimini di
Stalin – e le notizie su di essi – erano molto di là da venire.
Così ne La sesta giornata viene denunciato piuttosto l’atteg-
giamento antidemocratico degli Stati Uniti che aiutano Franco
in piena guerra fredda e, agendo in tal modo, mostrano – atten-
zione alla parentesi – che « la diagnosi marxista (vorremo dire

244
L. Sciascia, La morte di Stalin, in Gli zii di Sicilia cit., [pp. 61-94], p.
77; ma cfr. pp. 76-80.

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stalinista) del fenomeno fascista rimane sostanzialmente esat-
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ta» 245. Nella corta ma densa Prefazione a La veglia a Benicarló


Sciascia giunge alla conclusione – attenzione, ancora, alla paren-
tesi – che « il moralismo di Azaña coincise con la visione politica
delle cose spagnole che allora ebbe Stalin (a meno che non si vo-
glia negare il senso politico anche a Stalin)» 246.
Certo, oggi (più di ieri), anche Azaña 247 è ritenuto respon-
sabile di aver allevato nemici in seno alla Repubblica e di aver

245
L. Sciascia, La sesta giornata (1958), in AA. VV., La noia e l’offesa, Pa-
lermo, Sellerio, 1976, [pp. 157-164], p. 158.
246
L. Sciascia, Prefazione a Manuel Azaña, La veglia a Benicarló cit., p. XIII.
247
Mentre l’idea che Leonardo Sciascia ha di Azaña è più simile, tra anni
Cinquanta e Sessanta, a quella di Aldo Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spa-
gna, Torino, Einaudi, 1959, che al presidente dedica un capitolo, alle pp. 89-109,
significativamente intitolato L’angoscia di Manuel Azaña, dove – pur riconoscen-
do subito che « la memoria dell’ultimo presidente della Repubblica spagnola, cer-
to la più forte tra le personalità che la classe repubblicana abbia prodotto, rimane
a tutt’oggi motivo di controversia» – suggerisce che «Azaña fu un illuminista»,
« uomo della nuova repubblica, austeramente moderno nella concezione del suo
compito», « intento all’alto ideale della resistenza repubblicana» ma senza il pote-
re, la forza di « elaborarne uno più complesso nel caos della guerra civile e sotto il
peso dell’immensità del disastro»; e in tal senso Azaña è in parte assolto ma in
parte reso colpevole perché, credendo nella sincerità dei comunisti in virtù della
consegna di Stalin, come dice nella Velada, non si interroga sulla natura di questa
« consegna» (le citazioni sono da pp. 89, 90, 92, 106). Significativo poi che nel
capitolo dedicato a Ramón Sender, alle pp. 160-178, sul quale avremo occasione
di ritornare, Garosci rievochi Azaña – che è comunque presenza quasi strutturan-
te nel volume – in questi termini: «Ma la lenta tenacia e il modo cauto, quasi in-
diretto, con il quale lo scrittore è ritornato sui temi della guerra spagnola, stanno
a indicare un travaglio più intenso, una fedeltà diversa e più fine, anche se non
meno completa, ai motivi del suo esilio. Cosicché pensiamo che non per caso
Sender ci abbia dato, insieme con Azaña, la maggiore creazione nata sulle vicende
della guerra civile». Non emerge quindi propriamente (e positivamente) il paral-
lelo Azaña/Stalin dello Sciascia prefatore della Velada ma affiora comunque un in-
tellettuale e un politico integro, un illuminista e uno scrittore, che è l’immagine
azaniana che in fin dei conti, in quegli anni, può affascinare e catturare Sciascia,
quello de Il Consiglio d’Egitto per intenderci. Ma per una più tarda e « particolare
declinazione dell’illuminismo sciasciano», specie a partire dai « testi degli anni
Settanta», cfr. G. Traina, Leonardo Sciascia cit., [pp. 132-135], p. 133.

108

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indebolito la fragile democrazia spagnola; e Stalin e Azaña, in
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questo senso, possono essere accomunati non come fattori poli-


tici di razionalismo e moralismo ma come elementi negativi di
quell’eclissi della democrazia che porta alla sconfitta dei repub-
blicani fra il 1936 e il 1939, fra « eclissi semitotale: la Spagna re-
pubblicana» e « eclissi totale: la Spagna di Franco» 248.
Eppure, negli anni Cinquanta, e fin dalla loro prima metà,
dove si colloca la morte di Stalin, è facile trovare in altri scritto-
ri il sofferto e « non-del-tutto-chiaro» punto di vista di Leonar-
do Sciascia. Pensiamo al già presentato Friedrich Dürren-
matt 249, un autore amato dallo scrittore siciliano, che ne cita e
ne “riscrive” l’opera nelle ultime prove, ne Il cavaliere e la morte,
in particolare, ma anche in Porte aperte e nel suo congedo nar-
rativo, Una storia semplice. Per certi versi si tratta quasi di un
compagno di strada, perché Dürrenmatt, della stessa generazio-
ne di Sciascia, è un altro narratore-pensatore a tutto campo,
convinto che « non esistono problemi dai quali si può prescin-
dere» 250: «Non c’è niente di più penoso di coloro i quali suddi-
vidono il pensiero dell’uomo in un pensiero da cui non si può
prescindere e in uno da cui si può prescindere. Fra coloro si ce-
lano i nostri futuri carnefici».
Come Sciascia, poi, lo scrittore svizzero smonta il meccani-
smo del giallo per farne un’altra cosa, una creazione letteraria più
complessa, meno chiara e massificata, fatta di tanti punti di vista,

248
Gabriele Ranzato, L’eclissi della democrazia. La guerra civile spagnola e le
sue origini 1931-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 421-501 e 502-569.
249
Si leggano due capitoli di G. Traina, L’«Ars Moriendi» di Sciascia e
L’ultima speranza in La soluzione del cruciverba. Leonardo Sciascia fra esperienza
del dolore e resistenza al Potere cit., pp. 129-156 e 157-172; e cfr. Carmelo Spa-
lanca, Il gioco degli specchi. Modelli italiani e modelli europei nel «Cavaliere e la
morte» di Leonardo Sciascia, in Il Canone e la Biblioteca. Costruzioni e decostru-
zioni della tradizione letteraria italiana, a cura di Amedeo Quondam, Roma,
Bulzoni, 2002, volume II, pp. 613-625.
250
Cfr. la recente riproposta di Friedrich Dürrenmatt, Una partita a scac-
chi con Albert Einstein (1979), Bellinzona, Casagrande, 2005, p. 53.

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tutti aventi diritto, compresi quelli dei mostri. Per esemplificare,
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è sufficiente trarre qualche citazione da Il sospetto – Der Verdacht


– del 1953: «La trascuratezza, la manica larga, ecco cosa rendeva
il mondo insopportabile; per trascuratezza il mondo stava an-
dando in malora. Questo era il pericolo, altro che Stalin e com-
pagni ! »; «Fu nel dicembre del quarantaquattro [...] Poi ancora
nel gennaio dell’anno successivo, quando il sole glaciale della
speranza cominciò a brillare lontano, all’orizzonte, sopra Stalin-
grado [...]»; « Quando fu firmato quel famoso patto, il patto dei
signori Stalin e Hitler, anche allora non dubitai della sua neces-
sità, bisognava pure salvare la gran Patria sovietica. Tuttavia,
quando una bella mattina, dopo un viaggio di settimane in un
vagone bestiame dal fondo della Siberia, fui trascinata dai soldati
russi [...] e quando vidi nella nebbia grigia del mattino spuntare
sulla riva opposta le nere uniformi delle SS, allora capii il tradi-
mento, non soltanto verso di noi, poveri diavoli destinati a
Stutthof, no, il tradimento all’idea stessa del comunismo, che
può avere senso soltanto se coincide con l’idea dell’amore del
prossimo e dell’umanità»; «La conosco questa gente, gente sicu-
ra del suo buon diritto di affermare che uno più uno fanno tre
[...] Per loro la chiarezza è qualcosa di equivoco perché la chia-
rezza esige carattere. Non sospettano nemmeno che un comuni-
sta deciso – per citare un esempio poco appropriato, perché la
maggior parte dei comunisti sono comunisti come la maggior
parte dei cristiani sono cristiani, cioè in base a un malinteso, –
non hanno la minima idea che un uomo del genere, che crede di
tutto cuore alla necessità della rivoluzione, e che soltanto quella
via, anche se passa su milioni di cadaveri, può condurre al bene e
a un mondo migliore – è molto meno nihilista di loro» 251.
E potremmo quasi commentare e prolungare, in via non
così paradossale, con Karl Barth, teologo svizzero, di Basilea,

251
Cfr. F. Dürrenmatt, Il sospetto (1953), Milano, Feltrinelli, 1987 e
2003, pp. 16, 33, 85,110-111.

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che nel gennaio del 1960, pubblicando la terza parte della sua
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breve ma intensa Autobiografia critica (1928-1958), relativa a I


problemi della pace (1948-1958), dichiara e chiede al mondo
dalla sua «Svizzera natia, dove, cosa abbastanza notevole, ci so-
no molti piccoli McCarthy» : « Considero l’anticomunismo per
principio un male peggiore del comunismo stesso [...] Abbia-
mo dimenticato che ciò che è in gioco in questo rapporto “as-
solutamente ostile” al quale ogni bravo cittadino in Occidente
è ora obbligato e al quale darebbe tutto, è una tipica invenzio-
ne (ed una triste eredità) di defunti dittatori e che solo “l’Hi-
tler in noi” può essere anticomunista per principio ? [...] Non
fummo forse contenti, e a buona ragione, del contributo sovie-
tico alla vittoria sul nazionalsocialismo ? [...] Penso che noi
lontani dalla paura del fuoco stiamo irresponsabilmente gio-
cando con il fuoco» 252.

Il racconto La morte di Stalin viene pubblicato nel numero


di gennaio del 1957 di «Tempo presente» ed entra poi, come si è
detto, nella prima edizione de Gli zii di Sicilia, uscita nel 1958.
In una prospettiva internazionale come quella de La zia d’Ameri-
ca – primo racconto di quell’edizione – e de L’antimonio – ulti-
mo della seconda – La morte di Stalin scopre la storia che si fa,
dalla guerra di Spagna al patto russo-tedesco Ribbentrop-Molo-
tov del 1939, dallo sbarco alleato in Sicilia nel 1943 alle elezioni
del 1948 vinte dalla Democrazia Cristiana, e, per l’appunto, dal-
la morte di Stalin del 1953 al XX Congresso del PCUS nel 1956
e alla denuncia dei crimini staliniani fatta da Chrus]cë] v. E non a
caso la guerra di Spagna è ancora una volta all’origine di un per-
corso umano complesso, che va al di là di quella guerra, come si
intuisce nel finale de L’antimonio, che in tal senso, nella raccolta
Gli zii di Sicilia, potrebbe quasi rappresentare un antefatto de La

252
Karl Barth, I problemi della pace (1960), in Autobiografia critica (1928-
1958), a cura di Piergiorgio Grassi, Vicenza, La Locusta, 1978, [pp. 81-106],
pp. 91, 85, 86, 89.

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morte di Stalin; il cui protagonista, però, resta arroccato nell’isola
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e nel paese – nonostante qualche puntata in città – oltre che nel-


le sue convinzioni, in Italia non proprio facili da frequentare tra
il ’45 e il ’53 e a maggior ragione dopo: «Così stavano le cose.
Stalin è morto, ma il comunismo è vivo. E Stalin, fino alla guer-
ra vittoriosa, era stato un grande uomo» 253.
Nel riassunto “storico” del racconto e nelle citazioni che se
ne possono trarre, è facile trovare, à rebours, punti di contatti col
testo di Dürrenmatt. Ed è utile tener presente in prospettiva la
giallistica sciasciana, come si è fatto a proposito di A ciascuno il suo
(1966), a partire da un dato, da un riscontro con L’antimonio,
che non si può far rientrare interamente in un orizzonte filologi-
co, né ridurre a un gioco letterario. A corroborare il tutto, a metà
degli anni Sessanta, per La morte di Stalin possono poi intervenire
le memorie di Robotti, « vittima dell’inquisizione staliniana in
Unione sovietica» che pure resta fedele all’« idea comunista» che,
dice Sciascia, « è uscita dolorosamente vittoriosa» – come, nel rac-
conto, la « guerra» di Stalin, ora «“imbecille” inquisitore». Nota
Traina: «Nel ’65 il giudizio su Robotti si tinge di umana com-
prensione per la coerenza e dirittura morale dell’uomo, e l’attribu-
to di “imbecille” è riservato al suo inquisitore. La fin troppo stre-
nua coerenza di Robotti, incomprensibile sul piano logico e fat-
tuale ma affettuosamente comprensibile sul piano umano, è valu-
tata con lo stesso metro che Sciascia riservava al ciabattino stalini-
sta protagonista del suo racconto La morte di Stalin» 254.
Per tradurre con Calvino – che da un altro angolo visuale
torna indietro nella storia e comunque muove dall’altezza cro-

253
L. Sciascia, La morte di Stalin cit., p. 93.
254
Cfr. G. Traina, «Con l’emozione dell’azzardo». Appunti su Sciascia pole-
mista cit., p. 83: «Invece in Fuoco all’anima – il libro che riporta le conversazio-
ni con Domenico Porzio del biennio 1988-’89 –, Sciascia afferma che Robotti è
“la persona più stupida che ho incontrato nella mia vita”. Infatti, “quando un
uomo che non ha tradito viene preso dalla Polizia di Stato, torturato, gli rom-
pono la spina dorsale e continua a credere nel comunismo, è uno stupido”».

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nologica della fine degli anni Settanta, quando Sciascia, per
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esempio, parla della « parrocchia dello stalinismo innestatosi


con indefettibile continuità sul fascismo e sul nazismo» 255 – po-
tremmo citare questo breve passo del già evocato Sono stato sta-
linista anch’io ?: «Stalin [...] voleva dire Stalingrado, la Russia
che fermava la marcia trionfale di Hitler e calava come una va-
langa di ferro e di fuoco su Berlino [...] era la storia che comin-
ciava dalla riscossa contro il nazi-fascismo padrone dell’Europa,
quella in cui mi volevo identificare, e in tutto ciò che nel passa-
to l’anticipava. Stalin sembrava rappresentare il momento in
cui il comunismo era diventato un grande fiume, ormai lonta-
no dal corso precipitoso e accidentato delle sue origini, un fiu-
me in cui confluivano le correnti della storia» 256.
E in quel fiume confluisce anche, ne La morte di Stalin di
Sciascia, la guerra civile spagnola, cui sono dedicati diversi ac-
cenni e almeno un paio di pagine. Del resto, la guerra di Spa-
gna è all’origine del confino del protagonista, Calogero Schirò,
calzolaio a Regalpetra, il cui cognato si arruola dall’America
nelle brigate internazionali – è quasi il tragitto inverso rispetto a
quello di Ventura – e invia in Italia una pericolosa lettera di mi-
litanza intercettata dalla polizia fascista, lettera di cui fa le spese
il ciabattino comunista.
La stessa guerra, poi, è all’origine di una inascoltata serie di
dubbi circa la condotta di Stalin, il cui patto prolungato coi te-
deschi « gli [a Calogero] pareva facesse beffa a lui, a tutti i suoi
amici del confino, a suo cognato, a tutti i comunisti morti com-
battendo per la Repubblica spagnuola»: «E come era possibile
che il compagno Stalin, l’uomo che aveva fatto della Russia la
patria della speranza umana, continuasse a dichiarare amicizia
ai fascisti: e intanto gemeva sangue l’Europa, la Francia con

255
L. Sciascia, L’arroganza di Coppola (1978), in La palma va a nord, a cu-
ra di Valter Vecellio, Milano, Gammalibri, 1982, p. 18.
256
I. Calvino, Sono stato stalinista anch’io ? cit., pp. 196 e 198.

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quel suo nuovo governo da fogna, la Spagna con quel feroce ge-
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nerale dalla faccia di canonico ?» 257.

È vero, come dice Ambroise, che dopo Le parrocchie di Re-


galpetra (1956), « la dimensione fantastica de Gli zii di Sicilia la
si coglie in pieno nel progetto stesso di scrivere dei « racconti» e

257
L. Sciascia, La morte di Stalin cit., pp. 70-71. Cfr., per la situazione spa-
gnola, Guy Hermet, La guerre d’Espagne cit., pp. 224-228 e 238; e per la situa-
zione italiana, in relazione, soprattutto, al secondo dopoguerra, il recente Mauri-
zio Degl’Innocenti, Il mito di Stalin. Comunisti e socialisti nell’Italia del dopoguer-
ra, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 2005, che principia proprio
con l’avvenimento storico de La morte di Stalin (pp. 9-16) e cita solo un paio di
volte (pp. 57, 134) un Italo Calvino «“ottimo propagandista” [...] sull’“Unità”
agli inizi del 1952». Certo, è un peccato che il taglio rigoroso, raccolto in titolo e
sottotitolo, non faccia reagire, insieme, per esempio, al caso di Robotti (pp. 125-
126) sopra evocato, il caso di Sciascia, la sua evoluzione, quella di Calvino e di
intellettuali diversamente orientati (socialismo liberale, etc.), anche in rapporto
alle loro reazioni negli anni Cinquanta, fra la morte di Stalin e il rapporto
Chrus]cë] v. Cfr. per esempio, e se non erro, l’assenza di Norberto Bobbio e del
suo Ancora dello stalinismo: alcune questioni di teoria, apparso su «Nuovi argo-
menti», IV, 1956, pp. 1-30, ora leggibile nella Nuova edizione citata di Politica e
cultura alle pp. 241-267: «Un comunista al quale fosse stato osservato che Stalin
era un tiranno, rispondeva, doveva rispondere che l’affermazione era falsa perché
non era marxista (e a ben guardare non aveva altro argomento)», perché « in nes-
suno dei testi della dottrina era scritto che durante il periodo della dittatura del
proletariato vi sarebbe stato un periodo più o meno lungo di tirannia, e neppure
che tale evento fosse possibile. Dunque chi affermava che Stalin era un tiranno
pronunciava in base al criterio dell’autorità una proposizione falsa. A nulla vale-
va opporre l’esperienza»; e finanche « dopo aver letto il rapporto Krusciov [che]
era in ultima analisi la più spietata smentita delle illusioni rivoluzionarie» (pp.
246, 245, 241). Suggerisce C. Ambroise, Sciascia e la rivolta, pp. 170-171: «La
morte di Stalin va interpretata come la storia disperata di un diniego: accettare il
rapporto Krusciov, per il militante, sarebbe un negare se stesso, la propria azione
e rivolta. [...] Negli anni del dopoguerra, Leonardo Sciascia, nell’esperire la vita e
le sue contraddizioni, è solidale di coloro che dalla rivolta volevano che scaturis-
se un progetto rivoluzionario. Le parrocchie di Regalpetra sono espressione di tale
solidarietà; la scrittura è come innestata sull’azione degli altri e, in questo senso,
ne è partecipe. La voce narrante de Gli zii di Sicilia non rompe certo il patto».
Ma cfr. il prosieguo del discorso nel testo.

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non più una « cronaca»»; progetto dove non è « più la firma di
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un testimone ma il ricorso ad un dire in prima persona, come a


nascondere la finzione» 258. Ma è anche vero che tale finzione –
e non solo in quella prima persona, del resto vicina allo sbilan-
ciamento verso la collettività, gli altri, delle Parrocchie – fa an-
cora i conti con la testimonianza, con la cronaca e, soprattutto,
con certe derive della memoria ad esse, in un certo senso, ricon-
ducibili, a partire dai luoghi comuni letti sui giornali; i giornali
di cui diffidano i protagonisti de La morte di Stalin e de L’anti-
monio e che tendono sempre più a tradurre rapidamente in cro-
naca una storia che non si fa docilmente e improvvisamente
cronaca (e/o ricordo).
In questa prospettiva, potremmo dire che Sciascia, con
Calvino, non crede « a nessuna liberazione né individuale né
collettiva che si ottenga senza il costo di un’autodisciplina, di
un’autocostruzione, d’uno sforzo» e non crede « a niente che sia
facile, rapido, spontaneo, improvvisato, approssimativo» ma
« alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi
né entusiasmi». E con queste parole Calvino si definiva non a
caso « ancora [...] un po’ stalinista» 259.
In questa prospettiva, dove si rifugge la cronaca più dete-
riore – che non è certo quella de Le parrocchie di Regalpetra e so-
prattutto, per ciò che qui ci interessa, della Breve cronaca del re-
gime 260 – e la sua rapida assimilazione (il segretario del fascio),
trova forse una giustificazione la fine anticipata de L’antimonio,
rispetto ai tempi e agli sviluppi possibili del « romanzo-biogra-
fia» sciasciano, e finanche in seno a quella « autobiografia della
nazione» di cui parla Onofri; e forse anche rispetto ai tempi e
agli sviluppi di testi altrui, con le grandi opere nate a ridosso

258
C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia cit., p. 88.
259
I. Calvino, Sono stato stalinista anch’io ? cit., p. 203.
260
Cfr. ancora N. Tedesco, «Avevo la Spagna nel cuore». Sciascia, la Sicilia, la
Spagna cit., e D. Perrone, Sciascia, Vittorini e la Spagna cit., pp. 243-244, 246-247,
248-249. Ma alla Breve cronaca del regime riaccenneremo nel secondo capitolo.

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della guerra, lette e in buona parte amate e presenti nell’imma-
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ginario de L’antimonio, da L’espoir (1937) 261 di André Malraux


a For Whom the Bell Tolls (1940) di Ernest Hemingway, col suo
ritmo narrativo di “chiacchierata” civile, pure epica. Ma si trat-
ta di una modalità epica che è tesa a superare le ciarle passatem-
po dei vecchi e la loro ricezione delle « cose lontane» e che si-
gnificativamente, come ribadiremo e preciseremo all’inizio del
secondo capitolo, è diffusa nel dialogo con Ventura e in altri
passi del racconto sciasciano proprio in seno a quel ritmo di
“chiacchierata” civile.
Nella fine anticipata de L’antimonio, comunque, Leonardo
Sciascia cerca anche un ulteriore depistaggio, che è poi mossa
tipica di molti finali sciasciani, dove si getta quasi sempre un
ponte verso un’altro racconto, un’altra possibilità narrativa, ver-
so una continuazione non attivata, un seguito intuibile, cui si
lavorerà con calma, con « lentezza», con ostinazione, negli anni,
come dimostra la raccolta de Gli zii di Sicilia e, più in generale,
tutta l’opera sciasciana.

Dopo queste precisazioni e aperture, ritorniamo allora, per


concludere davvero, all’evocazione della « città lontana» con cui
si chiude L’Antimonio. Quella « città lontana» a cui guarda nel
futuro l’ex zolfataro, il reduce mutilato premiato con un posto
statale, non può non ricordare ancora una volta al lettore – in un
testo così pieno di echi, di rinvii interni – Madrid, la lontana ca-
pitale della guerra, della resistenza, della memoria. E c’è forse da

261
Cfr. ancora G. Traina, Leonardo Sciascia cit., pp. 226-227: «L’antimo-
nio, invece, ha origine insieme colta (una pagina della Speranza di André Mal-
raux – libro che nel 1966 Sciascia arrivava a dichiarare « forse il più grande libro
che sia stato scritto in questi trent’anni») e – [come si ricordava già in altro mo-
do nel testo ] – “paesana”, cioè i ricordi di alcuni conoscenti di Sciascia, uno dei
quali era effettivamente partito come volontario fascista per la guerra di Spagna
(e di cui troviamo notizia nel poco noto racconto Il soldato Seis)». Su questo
racconto, edito sulla rivista «Valbona», 1, 1958, pp. 3-5, si veda quanto si dirà
più avanti, nel capitolo successivo.

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chiedersi se per un’eventuale prosecuzione dell’Antimonio Scia-
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scia, ancor prima di quella fine, non avesse pensato ad attivare,


sullo sfondo degli eventi bellici spagnoli e mondiali, una lotta
antifascista, attiva e/o passiva, del suo personaggio, fino alla ca-
duta di Madrid, nel marzo del 1939, o oltre, magari seguendo e
cangiando l’iter di Calogero Schirò de La morte di Stalin.
Rileggiamo, in questa prospettiva, il confronto finale col
segretario del fascio e la scelta di partire:

Il segretario del fascio [...] voleva gli raccontassi episodi della


guerra, del generale Bergonzoli detto « barba elettrica» era tifoso,
proprio come se Bergonzoli fosse un giuocatore di calcio o un to-
rero. Io gli raccontavo cose di Bergonzoli che avevo letto sui gior-
nali, quella barba io non l’avevo mai vista; e poi gli raccontavo gli
episodi più atroci che avevo visto, roba da fare sputare sul fasci-
smo; glieli raccontavo nudi nudi, senza metterci una sola vibra-
zione di sdegno. Ascoltava e il suo entusiasmo cresceva. [...]
Mi fece chiamare un giorno, ché la patria aveva risposto alle solle-
citazioni sue: si era ricordata di me e mi offriva un posto di bidel-
lo in una scuola, ma i bidelli della patria, cioè i posti di bidello di
cui lo Stato disponeva, stavano nelle città [...] bisognava dunque
che io andassi a prendere il mio posto in una città, magari in una
città vicina...
– No – io dissi – è meglio in una città lontana: fuori della Sicilia,
una città che sia grande.
– E perché? – chiese meravigliato il segretario.
– Voglio vedere cose nuove – dissi 262.

Significativo che L’antimonio, letto nella sua interezza e fi-


nanche come summa di un immaginario relativo al fascismo im-
perante, anche al di là degli anni Trenta e, soprattutto, del con-

262
L. Sciascia, L’antimonio cit., pp. 228-229. E non dimentichiamoci, alme-
no in nota, di un dato che avremo occasione di ribadire in seguito, quello del cal-
cio, che negli anni Trenta vede la nazionale italiana conquistare per due volte con-
secutive la coppa del mondo, offrendo vittorie sportive al potere fascista, che del
resto le favorisce e le celebra quasi come quelle militari, dall’Etiopia alla Spagna.

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flitto spagnolo, abbia fatto pensare a uno Sciascia vittima della
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« solita intemperanza polemica che [lo] spinge spesso a uscir fuo-


ri della trama, per la smania di colpire tutto e tutti, con una sor-
ta di moralismo distruttivo, che non propone alternative» 263.
A parte il fatto che si sfondano porte aperte dallo stesso
Sciascia, come attesta la migliore tradizione critica, da Ambroi-
se a Traina 264, niente è più lontano da un testo “aperto” – chiu-
so solo nel film ad esso ispirato, Una vita venduta – che, letto o
riletto per frammenti ma anche nella sua interezza, può aiutarci
a cogliere, in prospettiva, gran parte del difficile e “aperto” rap-
porto dei narratori italiani con la guerra di Spagna; un connu-
bio, un accordo non così armonico di attrazione e repulsione,
di fascinazione e paura, di maturazione e regressione; un matri-
monio in cui la ragione sposa l’incubo e il cui divorzio si celebra
in altre guerre, in altre resistenze, in altre memorie letterarie e
civili di un Novecento « ferito a morte», per sempre, a partire
dai roghi, dagli incendi delle sue città più rappresentative.

263
Michele Coco, Jovine, Sciascia e la guerra di Spagna, « Otto/Novecen-
to», 3-4, 1982, [pp. 223-234], p. 233.
264
Si legga almeno C. Ambroise, Polemos, in Opere 1971-1983 cit., pp.
VII-XXVIII, e si scorrano ancora gli articoli sopra citati di G. Traina.

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UN QUARTO DI SECOLO DI TRADIZIONI
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PERDUTE (1936-1960) E UN RAPIDO


SCONFINAMENTO

1. «E poi mi piace chiacchierare ». Problemi di un discorso


letterario sulla guerra civile spagnola e concatenazioni
dell’immaginario tra passato e presente

In certe pagine de L’antimonio, si diceva nel capitolo pre-


cedente, c’è anche un ritmo narrativo di “chiacchierata” civile,
finanche epica, tesa a superare le ciarle passatempo dei vecchi e
la loro “ricezione” delle cose lontane, leggendarie, che sono co-
me fuse, e non distinte, nel tempo ( i paladini ) e nello spazio
( la guerra civile di Spagna); è un ritmo che impronta alcuni
dialoghi tra Ventura e il protagonista, come quello sulla lonta-
na, leggendaria America, sull’America grande, libera, ricca, ci-
vile ma con « due innocenti [...] mandati alla sedia elettrica
[...] Sacco e Vanzetti» 1. E viene in mente un Dos Passos tra-
dotto di recente e per la prima volta in italiano, Davanti alla
sedia elettrica. Come Sacco e Vanzetti furono americanizzati 2,
con controinchiesta quasi sciasciana – « per un tipo di giustizia
che trattasse con lo stesso criterio poveri e ricchi [...] per i di-
ritti degli oppressi contro gli oppressori» – a collocare l’evento
nel suo contesto, gli Stati Uniti degli anni Venti, fra il timore
del contagio rivoluzionario comunista e il fastidio per i nuovi
arrivati dal Sud d’Europa.

1
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 175.
2
Cfr. John Dos Passos, Davanti alla sedia elettrica. Come Sacco e Vanzetti fu-
rono americanizzati (1927), a cura di Piero Colacicchi, Caserta, Spartaco, 2005,
pp. 9 e 37.

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Ma, più di John Dos Passos, origine possibile di un ritmo
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narrativo di “chiacchierata” epica e civile è Ernest Hemingway,


che tale ritmo ha quasi teorizzato in diversi luoghi della sua
produzione e pure nel celebre e sopra citato Per chi suona la
campana, dove – per lo Sciascia delle Ore di Spagna (1989) 3 –
sono « pagine indimenticabili [...] quelle che direi giornalisti-
che»: e giornalistiche non perché sposino facilmente, tali pagi-
ne, l’orizzonte dei giornalisti – che è poi quello dei vecchi – di
cui il protagonista de L’antimonio ha imparato a diffidare pro-
prio durante la guerra di Spagna, ma perché sanno cogliere dav-
vero, in seno a una certa immediatezza, tesa fra l’articolo, il re-
portage, il diario in pubblico, personaggi come «André Marty, il
russo Karkov, il generale ungherese» 4.
In questo senso, lo Sciascia delle Ore di Spagna (1989),
non difende solo se stesso ma anche il rischio e l’impegno della
letteratura che si misura con la storia in fieri. In questo senso,
Sciascia non sposa certo l’interpretazione hemingwayana che

3
L. Sciascia, Ore di Spagne cit., p. 62.
4
Ibidem. Bisogna poi subito rinviare, a questo proposito e, più in genera-
le, per l’idea che sostiene questo paragrafo, alle dense pagine conclusive di Bar-
tolomé Bennassar, Quand l’imaginaire transcende la guerre civile, in La guerre
d’Espagne et ses lendemains, Paris, Perrin, 2004 e «Tempus», 2006, pp. 481-
484: «Comment, s’interroge Claude Pichois, « une guerre, c’est-à-dire la mort,
les mutilations, l’injustice, peut-elle devenir littérature ? Comment le néant
peut-il se faire vie ?» La guerre d’Espagne impose cette question. [...] Le langage
du lyrisme, celui de l’épopée parviennent par un surprenant exploit à effacer
l’horreur sans la taire. Ils ne sont pas l’apanage de la poésie. L’Espoir de Malraux
et Pour qui sonne le glas d’Hemingway sont des œuvres lyriques. Pourtant, ces
deux livres ne trichent ni avec la vérité, ni avec la mort. Hemingway ne réserve
pas les atrocités aux seules troupes franquistes; il raconte aussi bien le massacre
des propriétaires terriers d’un village par une foule déchaînée. Et tout en mar-
quant sa répugnance pour les procédés manipulateurs des communistes, il re-
connaît qu’ils pouvaient seuls donner la victoire à la République grâce à la créa-
tion de l’armée populaire. Il est sans illusion, comme l’est son personnage de
Karkov, qui n’est autre que le double littéraire de son ami Koltsov, le corre-
spondant de la Pravda à Madrid, auteur du Journal espagnol, arrêté à Moscou le
12 décembre 1938 et éliminé.».

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negli stessi anni offre Sergio Perosa, per esempio; interpretazio-
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ne consegnata a un intervento del 1986, La memoria e gli squa-


li, e tutta rapidamente giocata sull’opposizione fra « esperienza»
e « memoria dell’esperienza»:

[...] quanto più egli [Hemingway] scrive di una esperienza imme-


diata, tanto più debole rischia di divenire il risultato artistico.
Nelle opere susseguenti al 1930 Hemingway sembra annullare o
restringere troppo quel divario fra reportage e narrativa che prima
riteneva essenziale alla riuscita di quest’ultima. [...] Ora tende a
dimenticarlo, a lavorare troppo da vicino sulla vita: e in questo
senso io proporrei di spiegare la qualità relativamente inferiore, ri-
spetto alle precedenti prove, di romanzi come Avere e non avere,
Per chi suona la campana e Di là dal fiume e tra gli alberi 5.

Insomma, la palma va, fin dall’inizio, all’«“emozione ricor-


data in tranquillità”»; ovvero, per tradurre provocatoriamente
con L’antimonio, a quell’esperienza che (non) si fa docilmente
ricordo, nella tranquillità di un ritorno (impossibile). E a que-
sto proposito, ricordiamoci di quanto si è detto sulla memoria,
sulla paura, sul fuoco e anche di quanto si è suggerito circa la
contiguità de L’antimonio con una certa dimensione giornalisti-
ca sciasciana. E infine prestiamo attenzione al fatto che qui si
sta parlando di un ritmo narrativo e non delle idee che tale rit-
mo veicola o delle immagini di cui si serve.
Per intenderci: ne L’antimonio, a tratti, si avverte quasi un
dialogo e una “chiacchierata” alla Hemingway, ma le immagini,
le idee possono essere altre e derivare piuttosto, come si è visto,
da un Orwell o da un Malraux, ovvero da un tessuto romanze-
sco e da un orizzonte simbolico nei quali Sciascia sembra pescare
con maggiore continuità. Si pensi ancora, in tal senso, all’evoca-

5
Sergio Perosa, La memoria e gli squali, in Hemingway a Venezia, Atti del
Convegno del 24-25 novembre 1986, Fondazione Cini, Isola di San Giorgio
Maggiore – Venezia, a cura di Sergio Perosa, Firenze, Olschki, 1988, pp. 211-
216; citazione da p. 214.

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zione degli « anarchici»: « ognuno di loro si sentiva un po’ Gesù
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Cristo» 6, suggerisce L’antimonio; «– le Christ? – C’est un anar-


chiste qui a réussi», si legge ne L’espoir 7. Del resto, il Dos Passos
sopra ricordato paragona gli anarchici italiani ai primi cristiani,
facendo di Sacco e Vanzetti – con filtro religioso che colpisce ma
che è in accordo con stampa liberal e militante che parla di « giu-
stizia crocifissa» – due martiri pienamente interni al mito di fon-
dazione dell’America, dell’ex città perfetta oltre Atlantico.
Detto questo, sicuramente più di Dos Passos, Hemingway
è letto, capito e apprezzato da Sciascia, anche per quel che ri-
guarda l’eroismo, l’amore, il loro intersecarsi più o meno enfati-
co e più o meno lontano da un taglio giornalistico, da una resa
immediata o quasi degli eventi e degli esistenti. A questo propo-
sito, ricordiamoci anche di quanto si è detto sul cinema e sulla
vecchia botte hollywoodiana.
Nel romanzo hemingwayano, del resto, possiamo trovare
quel ritmo narrativo di “chiacchierata” epica e civile anche
mentre una donna, Pilar, parla di sé, di amore, di esser bella e
brutta, in una pausa che sembra sospendere il tempo del mon-
do e della guerra. E possiamo cogliere la grande efficacia di ta-
le ritmo in una battuta, di poche frasi, già epigrafe di questo
mio lavoro, che val la pena richiamare sia in inglese che in ita-
liano, perché offre l’intonazione, problematica e provocatoria a
un tempo, di un discorso letterario sulla guerra civile spagnola;
una guerra dove la fretta, l’azione dell’eroe, dell’Inglés, Robert
Jordan, può essere mediata dalla calma, dal chiacchierare di
una donna, Pilar:

‘Furthermore, I like to talk. It is the only civilized thing we have.


How otherwise can we divert ourselves? Does what I say not hold
interest for you, Inglés?’

6
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 210.
7
A. Malraux, L’espoir cit., p. 43.

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sta. Come potremmo distrarci, altrimenti ? Quello che dico non


t’interessa forse, Inglés?» 8.

Nella prima edizione italiana a cura di Maria Napolitano


Martone, del 1948, verosimilmente frequentata da Sciascia,
« chiacchierare », da to talk e nel senso di « parlare, discorre-
re », più che di « far pettegolezzi», può essere verbo nobile, ci-
vile e finanche epico, ma senza eccessive coloriture enfatiche
o didascaliche, filtrate, con ironia, da quel « chiacchierare »
che è anche loquacità, parlantina, sovente fine a se stessa. Del
resto, in modo non proprio casuale, con il « chiacchierare »
composito di cui si sta parlando, quel personaggio straordina-
rio che è Pilar si rivolge a Robert Jordan « as though she were
speaking to a classroom; almost as though she were lectu-
ring », « come se parlasse a una scolaresca, quasi come se te-
nesse una conferenza » 9.
Proprio per questa sua duplicità, tale verbo riesce a tenere
aperta la porta al divertissement e all’engagement del testo, foto-
grafati insieme, rapidamente, quasi come in un articolo:
«Furthermore, I like to talk. It is the only civilized thing we ha-
ve ». E quel « Furthermore » può valere anche « Di più» ; quel Di
più che a tratti è stato – e sarà ancora – una cifra stilistica del
nostro saggiare la complessità problematica di Sciascia, de L’an-
timonio e della letteratura della guerra di Spagna, dagli anni del
conflitto in poi.

Il sostantivo italiano derivato da « chiacchierare», “chiacchie-


rata”, già usato nel capitolo precedente, può dunque valere – ma
al di là del Vittorini più lirico e allusivo – conversazione, discorso,

8
Ernest Hemingway, For whom the Bell Tolls, Stockholm-London, The
Continental Book Company, 1946, p. 103; Ernest Hemingway, Per chi suona
la campana, Milano, Mondadori, 1996, p. 107.
9
Ivi, p. 103 e p. 107.

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e fare al caso nostro. Senza scadere necessariamente nel mélo e nel-
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la retorica, o nella pluralità onomatopeica del verbo che informa


(spesso in modo solo negativo) le « chiacchiere», la “chiacchiera-
ta” può servire a misurare un mondo brutto e bello a un tempo, a
partire da un corpo che esprime già, e significativamente, quella
dualità: «Do you know what it is to be ugly all your life and insi-
de to feel that you are beautiful?»; «Lo sai che cosa significa esser
brutta per tutta la vita e sentire dentro di sé che si è bella ?» 10.
Tale dualità, poi, è anche la dualità di un conflitto, di un
mondo, e finanche il suo potenziale e letterario superamento in
seno alla calma e alla “chiacchierata” di Pilar: «Qué va, go. I am
very well here»: «Qué va, andare. Io qui sto benissimo» 11. Per-
ché un’amichevole conversazione, una conversazione che fa pia-
cere, può dare persino il la, l’intonazione, a un discorso sulla
guerra civile spagnola, come nel caso di Sciascia. Si ricordi
quanto si è detto sull’origine de L’antimonio, che, in tal senso,
non è poi così lontano da Per chi suona la campana e dall’He-
mingway giornalista e intervistatore che lo anima.
Ricordando il citato giudizio degli anni Ottanta su He-
mingway, e Malraux, prodotto (anche) da uno Sciascia che si
preoccupa per la poca tenuta e credibilità della letteratura dedi-
cata alla guerra civile spagnola presso i giovani e che in parte
ammette, con questi, l’aneddotica, ovvero il pittoresco, se non
il falso, di certe pagine dei due grandi scrittori-testimoni 12, Ga-
briele Ranzato finisce per estremizzare la posizione di Sciascia e
per straniarla, orientandola all’indietro con un celebre e duro
commento su Hemingway di Aldo Garosci che risale al 1959,
cioè a un’epoca in cui, come vedremo, la complicità di Leonar-
do Sciascia con Ernest Hemingway era ancora più significativa.
Il risultato e il rischio di questa démarche consistono
nell’eleggere e poi, di fatto, nell’isolare quasi del tutto il testo

10
Ivi, p. 102 e p. 106.
11
Ivi, p. 103 e p. 107.
12
L. Sciascia, Ore di Spagne cit., p. 62.

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letterario de L’antimonio in seno a una graduatoria storiografica
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e finanche a una certa strategia ‘partigiana’ 13:

In realtà credo che il giudizio di quei giovani sia in buona parte


condivisibile, perché soprattutto le opere che maggiormente han-
no raggiunto il grande pubblico, quelle degli Hemingway e dei
Malraux appunto, sono quasi inservibili per capire la dimensione
della guerra civile spagnola che più dovrebbe essere alla portata di
un romanziere, quella dimensione tra pubblico e privato in cui si
muovono le piccole storie individuali, che poi confluiscono, de-
terminandone in parte il corso, nella grande Storia.
Nonostante il loro preteso realismo, i libri di Malraux e He-
mingway restano lontani dalla realtà della guerra civile e della
Spagna. I personaggi de L’Espoir di Malraux sono più il pretesto
per le riflessioni dell’autore su entità astratte come la Rivoluzione
e la Guerra, che la rappresentazione di uomini veri, veri spagnoli
– o almeno veri francesi – immersi in quella vicenda. I personaggi
di Per chi suona la campana – forse il maggior veicolo di cono-
scenza della guerra di Spagna presso l’opinione pubblica mondia-
le – sono quanto di più remoto dalla realtà spagnola. «Non sono»
ha scritto Aldo Garosci – « operai né contadini: sono ladri di ca-
valli, zingari, più o meno toreri mancati [...] E l’eroe, malgrado la
moderna asprezza, ha poi alquanto del Davy Crockett».
[...] Come è noto, Malraux e Hemingway sono stati testimoni at-
tivi della guerra di Spagna. Sciascia, per ovvie ragioni generazio-
nali, no. E tuttavia L’antimonio [...] è denso di straordinarie intui-
zioni e mostra una capacità di cogliere aspetti salienti di quella vi-
cenda assolutamente superiore a quella di quei due più noti auto-
ri, nonché diretti testimoni. E questo malgrado sia stato a sua vol-
ta troppo dipendente dalla letteratura, che egli preferiva, almeno
come fonte di ispirazione, alla storiografia 14.

13
Ranzato, grande specialista della guerra civile spagnola, è invitato a parla-
re di Sciascia, a un convegno dedicato ai rapporti dello scrittore siciliano con la
Spagna e promosso dagli Amici di Sciascia e dalla Fondazione dedicata allo stesso.
14
G. Ranzato, Sciascia e la guerra civile spagnola: Sciascia tra verità storica e
verità letteraria, in Avevo la Spagna nel cuore, a cura di Natale Tedesco, Milano,
La Vita Felice, 2001, pp. 209-219; citazione da pp. 211-212.

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Sciascia, diversamente dallo storico di professione, si situa
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al di là degli «“esotismi” che andavano bene per il pubblico


americano» 15 e tende a salvare, rispetto allo storico e all’angli-
sta, il carattere testimoniale e immediato della letteratura di
Hemingway (e di Malraux 16) sulla guerra di Spagna, pur non
dipendendo direttamente e solo da quella letteratura e da quella
tradizione narrativa e dal suo ritmo epico-civile.
Perché? Perché Leonardo Sciascia intuisce che negli anni a
ridosso della guerra di Spagna cercare di sposare anche solo un
certo ritmo narrativo di “chiacchierata” epica e civile significa
sposare « da vicino» e nell’immediato la complessità problema-
tica di una storia in fieri, che è difficile da contenere, da rappre-
sentare e che non si fa docilmente ricordo, per nessuno, nem-
meno per mostri sacri come André Malraux e Ernest He-
mingway. Insomma, potremmo finanche suggerire che le criti-
che rivolte a quest’ultimo da storici e anglisti sono, per Sciascia,
una prova del rischio assunto dallo scrittore e del suo impegno,
del suo engagement, in relazione a una complessa e irrisolta
realtà, quella della guerra civile spagnola, rappresentabile anche
a partire da « tipi allegri che fanno saltare i ponti» 17 (estremiz-
zando, in prospettiva, si potrebbe pensare a Giù la testa (1971)
di Sergio Leone, come Hemingway portato a narrare, di guerre
e rivoluzioni, vicende individuali più che storie corali, imprese
dei singoli più che movimenti delle masse 18).

Di più. Sciascia sa bene che in guerra si continua a vivere e


che « chiacchierare» in guerra fa parte della guerra, è la guerra, è
la vita nella guerra, nella rivoluzione: e nella vita ci sono donne,

15
Ivi, p. 212.
16
Cfr. in questo senso Paul Nothomb, Malraux en Espagne, Préface de
Jorge Semprún, Paris, Phébus, 1999, pp. 9-41.
17
E. Hemingway, Per chi suona la campana cit., p. 21.
18
Francesco Mininni, Sergio Leone, Milano, Il Castoro/L’Unità, 1995,
pp. 33 e 99.

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belle e brutte, ci sono mogli o donne da soldati (donne che
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hanno « dentro il male di quella guerra», dice Sciascia 19), e poi


treni, cavalli, ladri, liquori, paesi e paesaggi più o meno esotici.
Insomma, ci sono tante parole e cose, in inglese come in spa-
gnolo, come in italiano. E contrariamente a quello che pensano
alcuni bizzarri inventori incontrati dal Gulliver di Jonathan
Swift nell’Accademia di Lagado, ogni parola che pronunciamo
in guerra ci allunga la vita e tende a dilatare la percezione e la
natura delle cose, di ogni cosa 20.
Malraux, da un lato, Hemingway, dall’altro, forse più di al-
tri accettano la sfida e, in un certo senso, la vincono, perché in
fin dei conti creano nello stesso tempo una leggendaria “chiac-
chierata” e una “misura” romanzesca del conflitto e del mondo,
che costituiscono di fatto modelli narrativi insuperabili, ispirati,
come sono, a un’epica e a una vitalità ancora ottocentesche,
classiche, con tanto di concezione classica della morte – nella
quale rientra ancora « la formule de Malraux [...] la mort c’est
ce qui « transforme la vie en destin»» 21 – e con tanto di consola-
zione eroica acquisita in tal senso soprattutto da Robert Jordan,
in For Whom the Bell Tolls (1940) (ché diverso, comunque, è
l’orizzonte plurale, collettivo di Malraux e anche quello

19
L. Sciascia, L’antimonio cit. p. 198.
20
Cfr. Fabrizia Ramondino, Guerra d’infanzia e di Spagna, Torino, Ei-
naudi, 2001, p. 49: «Credevano, i miei genitori, di darmi due nomi per ogni
cosa, e non sapevano di darmi invece due cose per ogni cosa. [...] E poiché, a
causa dei diversi nomi, ogni cosa non era una, ma due, poté ogni cosa in segui-
to diventarne molte insieme».
21
Ne discute G. Deleuze, Sur la mort de l’homme et le surhomme, Annexe a
Foucault, Paris, Les Éditions de Minuit, 1986 e «Reprise», 2004, [pp. 131-
141], p. 138, che ne suggerisce pure la ripresa sartriana. Ma a rileggere anche
soltanto, e per restare entro il nostro orizzonte spagnolo, Le mur, nella raccolta
omonima del 1939 ma scritto e pubblicato prima, proprio nell’anno de
L’espoir, sulla «Nouvelle Revue Française» del luglio 1937, ci sembra che la po-
sizione di Sartre sia già antagonista e critica rispetto a quella di Malraux. Ma cfr.
Jean-Paul Sartre, Le mur in Le mur, Paris, Gallimard, 1939 e 1958, pp. 11-34,
e Il muro, Torino, Einaudi, 1947 e 1963, pp. 9-31.

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dell’eroe di The Adventures of a Young Man (1939) di Dos Pas-
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sos, Glenn Spotswood). E tale consolazione è acquisita a tal


punto, di fronte alla sconfitta della Repubblica e, in senso asso-
luto, del mondo, che « uno dei romanzi più belli del secolo
XX», Per chi suona la campana, è stato spesso liquidato, in Italia
ma anche altrove, come il frutto di un atteggiamento vitalista e
nichilista, retorico e addirittura criptofascista 22.
Non così Sciascia, che, ancora prima di pubblicare L’anti-
monio, si interroga lucidamente, ne La sesta giornata, del 1958,
sull’immediato e significativo lien esistente fra letteratura e
guerra civile spagnola: « la retorica era nel poeta [Sciascia qui
chiama poeta lo scrittore in genere, da Lorca ad Hemingway] o
non piuttosto nelle cose ? O, per dir meglio, questa che ci appa-
re retorica, era retorica nel momento del suo farsi ?». E la rispo-
sta non tarda, puntuale e sicura, ad arrivare: «Viste da una con-
dizione di serenità e di distacco certe forme del dolore umano –
nel corpo, nel pianto, nelle parole dell’uomo – sono enfatiche. È
enfatico anche l’eroismo; e l’amore» 23. Sciascia, del resto, è as-
sai chiaro anche sui nomi dei « poeti» che per primi, a ridosso
della guerra, rivelano, « nelle cose» e « nel momento del suo far-
si», un mondo che può apparire, « oggi», come retorica, con
tanto di enfasi, eroismo e amore. Infatti, dopo aver riconosciu-
to « alla guerra civile spagnola [...] la rivelazione di un mondo,

22
Franco Cordelli, La democrazia magica. Il narratore, il romanziere, lo
scrittore, Torino, Einaudi, 1997, p. 96. Non così Sciascia, come preciseremo nel
testo, e non così Mario Rigoni Stern – altro grande scrittore della generazione
di Sciascia, nato nello stesso anno, il 1921 – che suggerisce onestamente: «In
Per chi suona la campana trovammo persino in qualche personaggio il compor-
tamento di conoscenti che erano stati partigiani: la vita diventava letteratura e
la letteratura diventava vita». Cfr. a proposito Mario Rigoni Stern, Quando sco-
persi Hemingway, in Tra due guerre e altre storie, Torino, Einaudi, 2000, [pp.
208-213], p. 212.
23
L. Sciascia, La sesta giornata, « Officina», 7, 1958, poi in AA. VV., La
noia e l’offesa, Palermo, Sellerio, 1976, pp. 157-164; citazioni da p. 162. Ma cfr.
anche quanto dice in tal senso Lisa Foa, È andata così, Palermo, Sellerio, 2004.

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la rivelazione del mondo», osserva che « la prima rivelazione ci
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venne dal fatto che García Lorca era stato fucilato dai franchi-
sti, che Dos Passos, Hemingway, Chaplin stavano dalla parte
della Repubblica» 24. E non stupisca l’evocazione di Chaplin,
perché leggendo i nomi di quei « poeti» si deve pensare, con Ei-
sens]tein e con la migliore tradizione critica chapliniana, al
Charlie Chaplin che fra il 1937 e il 1940 lavora a The Great
Dictator, che esce nell’ottobre di quell’anno, per l’appunto, e
attiva una transizione mirabile nell’universo di Charlot: « ciò
che gli accade non appartiene più ad una condizione esistenzia-
le assoluta, ma è determinato da una modificazione della storia,
che piomba il mondo nell’orrore » 25.
Ovviamente, capire, come fa Sciascia, la non-retorica di
certo romanzo americano e cogliere il ritmo narrativo di “chiac-
chierata” epica e civile di un Hemingway non significa necessa-
riamente volere e potere sposare, sempre e in assoluto, quella
non-retorica e quel ritmo. Perché a vent’anni di distanza dalla
fine del conflitto spagnolo, sposare il ritmo narrativo di chi pu-
re aveva rivelato, per primo, un mondo, il mondo, è più diffici-
le, e non solo per le mutate coordinate del genere romanzo in
quel Novecento che da Svevo a Moravia, da Musil a Broch, ri-
fiuta ogni consolazione eroica 26.

24
L. Sciascia, La sesta giornata cit., p. 158.
25
Giorgio Cremonini, Charlie Chaplin, Milano, Il Castoro-L’Unità,
1995, p. 79. Ma cfr. le ultime pagine di Sergej Mikhailovic] Eisens]tein, Charlie
the Kid, in Eisens]tein, Bleiman, Kosinzev, Iutkevic], La figura e l’arte di Charlie
Chaplin, Milano, Mondadori, 1959, [pp. 143-164], pp. 161-164.
26
Cfr. ancora quanto suggerisce, in sintesi, Franco Cordelli, all’inizio de
La democrazia magica. Il narratore, il romanziere, lo scrittore cit., p. 9: « mentre
l’Ottocento, da Flaubert a Hemingway (Per chi suona la campana) reputa che vi
sia la possibilità che questa stessa idea [credere in modo paradossale, non cri-
stiano] possa essere fonte di sacrificio e d’eroismo, dunque d’un accrescimento
di vitalità, il Novecento, da Svevo a Moravia, da Musil a Broch, rifiuta ogni
consolazione eroica, anzi la detesta».

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Sposare quel ritmo narrativo è difficile, innanzi tutto, per
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l’« eclissi della democrazia» 27, per il forte stallo storico di una
« democrazia assassinata» 28 dalle grandi potenze, che a fatica,
poi, hanno ritrovato la loro, chiudendo peraltro un occhio (for-
se due) su quello stallo negli anni della guerra fredda.
Nella prima metà degli anni Sessanta, Franco è sempre al
potere ed è una presenza, non più così forte ma chiara, che si usa
ancora opporre, magari tradotta in ridicolo 29, al blocco comuni-
sta dell’Unione Sovietica passato per le rivelazioni di Chrus]c]ëv.
Lo testimonia, per esempio, una boutade de Il compagno don Ca-
millo, del 1965, film di Luigi Comencini dove il celebre perso-
naggio inventato da Giovannino Guareschi contrasta il progetto
politico del gemellaggio di Brescello con un paese russo, com-
mentando tale pratica come « una questione che riguarda solo la
morale e il buon senso» e ribattezzando la proposta del Sindaco
comunista Peppone in questi termini: «Se noi fossimo al suo po-
sto, signor Sindaco, e il Generalissimo Franco ci regalasse un toro
da corrida o una partita di nacchere e noi pretendissimo gemella-
re il nostro paese con Madrid, Lei cosa farebbe ?». La “chiacchie-
rata”, qui, diventa davvero aneddotica, ché si nutre solo di esoti-
smi, si traduce (quasi) tutta in parlantina e si cangia pure un po’

27
Gabriele Ranzato, L’eclissi della democrazia. La guerra civile spagnola e le
sue origini (1931-1939), Torino, Bollati Boringhieri, 2004. Dello stesso cfr. an-
che l’ottima sintesi offerta in La guerra di Spagna, Firenze, Giunti-Casterman,
«Collana XX secolo», 1995.
28
Jean-François Berdah, La démocratie assassinée. La République espagnole
et les grandes puissances 1931-1939, Paris, Berg International Éditeurs, 2000.
29
Tradurre, volgere in ridicolo (anche ridicolizzare) è il primo, elementa-
re movimento della coscienza ironica che comincia a distendersi, a delimitare il
pericolo e a giocarci: «L’ironie, qui ne craint plus les surprises, joue avec le dan-
ger. Le danger, cette fois, est dans une cage; l’ironie va le voir, elle l’imite, le
provoque, le tourne en ridicule, elle l’entretient pour sa recréation». Cfr. Vladi-
mir Jankélévitch, L’ironie, Paris, Flammarion, 1964 e «Champs», 1979 e 1987,
pp. 9-10, che è ben cosciente che « le manège, à vrai dire, peut mal tourner [co-
me nel caso della politica di distensione]. Pourtant l’esprit d’ironie est bien
l’esprit de détente, et il profite de la moindre accalmie pour reprendre ses jeux».

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nell’onomatopeica chiacchiera (e forse nel dato meno nobile di
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chiacchierare); ma resta comunque significativa.


Pochi anni prima, nel 1958 della citata Sesta giornata, Scia-
scia può scrivere:

Oggi, salvando Franco dallo sfacelo cui era destinato, gli Stati
Uniti, oltre che mancare alla grande promessa di Roosevelt, pro-
vocano diffidenza e reazione nell’antifascismo europeo, mostran-
do che la diagnosi marxista (vorremo dire stalinista) del fenome-
no fascista rimane sostanzialmente esatta 30.

Da un lato la guerra fredda, l’(attualissima) diffidenza ver-


so gli Stati Uniti da parte dell’antifascismo europeo; dall’altro il
« fantasma» 31 di Stalin, morto nel 1953 (e particolare revenant
nella prima edizione de Gli zii di Sicilia (1958)); in mezzo il
Generalissimo ormai settantenne. Sono tutti elementi che fan-
no apparire come una sorta di « confino» la democrazia dei pae-
si in cui si può « chiacchierare» della guerra civile spagnola: una
specie di limbo spazio-temporale in cui ai superstiti, ai compa-
gni, ai testimoni, agli scrittori, ai registi, a tutti coloro che non
dimenticano, non resta forse che respirare, insieme agli altri,
« un rêve de touristes ou la légende de la guerre civile», come si
sente dire a Diego-Carlos (Yves Montand) – fuoriuscito spa-
gnolo che vive a Parigi negli anni Sessanta – in una tirata a metà
de La guerre est finie (1966) di Alain Resnais 32:

30
L. Sciascia, La sesta giornata cit., in AA. VV., La noia e l’offesa cit., p. 158.
31
Pierre Broué, Staline et la Révolution – Le cas espagnol, Paris, Fayard,
1993. Ma cfr. soprattutto il recente Daniel Kowalsky, La Unión Soviética y la
Guerra Civil Española, Barcelona, Critica, 2004.
32
Cfr. Marcel Oms, La guerre d’Espagne au cinéma, Préface de Pierre
Broué, Paris, Éditions du Cerf, 1986, p. 235 e p. 197, dove cita un altro pas-
saggio: «L’Espagne n’est plus le rêve de 1936, mais la vérité de 1965, même si
elle semble déconcertante. Trente ans se sont passés et les anciens combattants
m’emmerdent». Ma cfr. Jorge Semprún, La guerre est finie, Scénario du film,
Paris, Gallimard, 1966.

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Ah! la malheureuse Espagne, l’Espagne héroïque [...] l’Espagne
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est devenue la bonne conscience lyrique de toute la gauche, un


mythe pour anciens combattants, l’Espagne n’est plus qu’un rêve
de touristes ou la légende de la guerre civile.

Insomma, alla banalizzazione di una leggenda, di cui ormai


si chiacchiera sempre più invano, con la « sensation de déjà-vu»
che attanaglia Diego-Carlos alle riunioni, e che sembra accop-
piarsi al turismo o all’amore, senza più alcuna misura (verbale,
etica, politica), c’è chi risponde lavorando sulla forma narrativa,
cinematografica e romanzesca, ovvero cercando, sperimentando
una nuova “misura” del racconto e della memoria, e proprio ne-
gli stessi anni Sessanta aperti da L’antimonio del nostro Sciascia.
In quegli anni, in Francia, Alain Resnais, per l’appunto, già
autore di un documentario su Guernica (1951), fra quadro e
realtà e sulla scia della nouvelle vague, di cui è una delle espressio-
ni più autorevoli e più impegnate, cerca, con Jorge Semprún, ne
La guerre est finie (1966), una “misura” per analizzare un perso-
naggio in modo profondo, sofferto, faticoso, non-del-tutto-chia-
ro; un personaggio il cui ruolo di narratore interno protagonista
non si faccia veicolo potente, eroico, di leggende, rimembranze,
nostalgie, ma tenda piuttosto a denunciarle in quanto tali, col-
mando faticosamente – nel suo percorso di formazione, con
dubbi politici e amorosi e significativo finale aperto – il fossato
che i tempi lunghi della memoria, quelli stretti dell’azione (in
fin dei conti impossibile), e le dolorose modificazioni della storia
hanno aperto nella vita di un uomo e di un mondo, o, tout court,
nella vita dell’uomo e del mondo; ovvero anche in quella human
condition che non coincide con una condizione esistenziale asso-
luta e anzi ne costituisce proprio il suo superamento, come si
suggeriva nel capitolo precedente.
Da prospettive storiche diverse, una ancorata al passato del-
la guerra, la seconda metà degli anni Trenta, l’altra al presente
del film, la prima metà degli anni Sessanta, Sciascia, Semprún e
Resnais, intellettuali certo diversi ma della stessa generazione,
consegnano all’Europa e al mondo – al di là di anniversari più o

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meno evidenti (vent’anni dalla fine, trenta dall’inizio del conflit-
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to) – un modo nuovo di pensare, scrivere, filmare la guerra civi-


le spagnola e la sua eredità, la sua eredità nel presente, in quanto
– sempre secondo le parole di Sciascia 33 – « avvenimento nodale
[...] avvenimento chiave nella recente storia del mondo».
Quella sorta di « confino» da cui vivono la centralità e l’at-
tualità dell’evento bellico spagnolo Sciascia, Semprún, Resnais e
tanti altri è, in fin dei conti, un prezioso e non così ovvio ribalta-
mento di prospettiva epistemologica: la memoria recupera il
paese in cui tutti sono andati a combattere – e in cui vanno an-
cora, in un certo senso, ché è il caso di Diego – e lo fa rivivere
negli altri paesi, par ricochet, quasi come in un processo di esor-
cismo democratico, che possa passare per una nuova “misura” e
memoria del mondo attraverso forme narrative sperimentali co-
me il romanzo e il cinema. E L’antimonio ci sembra davvero, in
questa prospettiva, un esperimento da non sottovalutare, a di-
versi livelli, come La guerre est finie, anche se resta ancorato a un
dettato narrativo più tradizionale, lontano dalla rilettura che del-
la guerra civile spagnola offre negli stessi anni, nell’ambito del
nouveau roman, Le Palace (1962) di Claude Simon.
Un simile processo culturale di esorcismo democratico tro-
va fertile terreno negli anni Sessanta, anche a partire, problema-
ticamente, da altre esperienze e da altri conflitti, magari pure in
corso. Dello stesso anno de L’antimonio è Le petit soldat (1960)
di Jean-Luc Godard, che però è bloccato dalla censura francese e
può uscire nelle sale solo nel 1963. Bruno Forestier (Michel Su-
bor), nel maggio del 1958, in quell’isola-« confino» che è la Sviz-
zera, lavora per un gruppo di destra ma per lui, che pure è giova-
ne, « le temps de l’action a passé». Pensa: «J’ai vieilli». È l’epoca
della guerra d’Algeria (1954-1962) e, più precisamente, del
pronunciamento militare di Algeri, che è proprio del maggio
1958. A De Gaulle, che è eletto Presidente della Quinta Re-

33
L. Sciascia, La sesta giornata cit., in AA. VV., La noia e l’offesa cit., p. 158.

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pubblica in quello stesso anno, l’Assemblea Nazionale concede i
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pieni poteri. Tale gravido contesto è come incorniciato, nel


film, nella parte iniziale e verso la fine, da due rapide ma signifi-
cative evocazioni della guerra civile spagnola, con « le salut des
républicains espagnols» (« il est beau, parce que ce n’est pas
méchant ») e « l’impression d’être vaincu » : « Vers 1930, les jeu-
nes gens avaient la Révolution. Par exemple, Malraux [...] Nous
n’avons plus rien. Ils avaient la guerre d’Espagne, nous n’avons
même pas une guerre à nous. A part nous-mêmes [...] nous
n’avons rien». In queste battute, chiuse dalla solitudine del petit
soldat (la stessa solitudine diffusa ne La guerre est finie e in par-
te, ma diversamente, ne L’antimonio), la rivoluzione e la guerra
di Spagna di Malraux (e dei suoi personaggi) non sono entità
astratte, né esotiche, e sono anzi percepite, concretamente, co-
me occasioni vere, piene, cui agganciare e ribattezzare l’approdo
svuotato di una ricerca storica, politica, umana; una ricerca che
fra anni Cinquanta e Sessanta sembra naufragare nel mare degli
interessi superiori di ogni nazione (a partire da quella francese),
ma che tenta comunque un certo esorcismo democratico, ricu-
perando la Spagna come memoria del mondo (o quanto meno
dell’Europa) e proiettandola, quasi circolarmente, su Francia,
Svizzera – Italia – e Algeria 34.

34
Un certo esorcismo democratico necessario perché sono davvero gli anni in
cui « les “intérêts supérieurs de la nation” expliquent aussi l’étouffement des acti-
vités politiques propres aux réfugiés. Là encore le cas espagnol est particulièrement
parlant. [...] Après de multiples tentatives, Franco obtient finalement en août 1954
que le ministre de l’Intérieur (François Mitterand) ordonne la suppression de
l’émetteur clandestin de Radio Euskadi. Par la suite, les réfugiés espagnols devien-
nent une monnaie d’échange dans la question algérienne. [...] Comme le note un
membre du gouvernement franquiste, la France peut mieux comprendre mainte-
nant le problème des réfugiés car elle y est elle-même confrontée avec les Algériens
qui ont fui en Tunisie. En juin 1959, pour la première fois, le Premier ministre
français (Michel Debré) reçoit l’ambassadeur d’Espagne et l’on s’accorde sur la né-
cessité d’une collaboration plus étroite entre les polices et les services spéciaux des
deux pays. Une note du Quay d’Orsay précise: «(...) C’est à craindre en particulier
que les rebelles algériens ne trouvent un asile et de la complicité en Espagne». Cfr.

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Lo stesso processo di esorcismo gioca poi ancora un ruolo
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negli anni Settanta, fino a quando, nel decennio successivo,


sembra scomparire, insieme alla Guerra fredda, con il crollo
lento ma definitivo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche, e con la spinta – sempre più avvertibile – della cul-
tura del narcisismo 35 e delle destabilizzanti scelte apolitiche,
astoriche delle generazioni a venire.

L’internazionalismo, che è la risposta all’imperialismo fra


Ottocento e Novecento, supera i confini del paese (ancora) in
guerra, la Spagna, per vivere altrove la democrazia, non la guer-
ra. Perché l’eredità della Spagna è la democrazia, deve essere la
democrazia, la democrazia quale bene a cui tendere perpetua-
mente nel mondo intero, perché « era Spagna anche la zolfara»,
come si legge nel racconto-romanzo di Sciascia. Significativa,
poi, in questa direzione, la battuta con cui Diego-Carlos, nel
film di Resnais, liquida i giovani rivoluzionari leninisti che vo-
gliono colpire il suo paese col plastico: « l’internationalisme,
c’est d’abord de faire la révolution chez soi». Ed è quello che fa
a suo modo il personaggio sciasciano nell’Italia fascista; ed è
quello che a suo modo fa Diego-Carlos, lasciando la Francia e
rientrando in Spagna, per vivere lo sciopero generale e un even-
tuale arresto o addirittura la morte.
Il fatto di rientrare in Italia e in Spagna, poi, non produce
nessuna vera differenza, al di là di quella che è già insita nei di-
versi tempi storici delle due narrazioni. Mentre il fatto in sé te-

Gérard Noiriel, Réfugiés et sans-papiers. La République face au droit d’asile XIXe-XXe


siècle, Paris, Calmann-Levy, 1991 e Paris, Hachette Littérature, «Pluriel», 1998,
[pp. 209-219], p. 215. Per i dialoghi de Le petit soldat cfr. «Cahiers du Cinéma»,
119, 1961, pp. 23-37 (pp. 23 e 30) e 120, 1961, pp. 12-27 (p. 24).
35
Christopher Lasch, La cultura del narcisismo (1979), Milano, Bompia-
ni, 1981 e 1988; cfr. in particolare il capitolo 4, La banalità della pseudoconsape-
volezza di sé: teatralità della politica e dell’esistenza quotidana, alle pp. 86-114, e i
paragrafi dedicati a Politica come spettacolo, pp. 92-96, e Il culto degli eroi e
l’idealizzazione narcisistica, pp. 99-101.

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stimonia la volontà comune di due « pedine » di sottrarre la
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guerra civile spagnola (e la sua eredità e ricerca democratica)


alla scialba strumentalizzazione degli altri paesi, che è in fin dei
conti meno onesta e coerente della leggendaria “chiacchierata”
e della (quasi ) immediata “misura” romanzesca del conflitto
spagnolo e del mondo di un Hemingway. Tra l’Italia fascista
della seconda metà degli anni Trenta e la Spagna ancora fran-
chista della prima metà degli anni Sessanta – che funzionano
quasi come « cartine di tornasole » rispetto all’Italia e alla Fran-
cia in cui scrivono e filmano Sciascia e Resnais – possiamo for-
se cercare e leggere una risposta, non così facile e tardiva,
all’imperialismo e alla Realpolitik; una sorta di boomerang che
mira a far rispettare la Spagna in quanto tale, fuori e dentro i
suoi confini, al di là delle strumentalizzazioni nate in seno a
quella politica, il cui iter val forse la pena di sintetizzare con le
parole di Hans Magnus Enzensberger, tratte dalle sue Prospetti-
ve sulla guerra civile (1993):

Nell’Età dell’imperialismo qualsiasi conflitto interno assunse fin


dall’inizio una dimensione internazionale. La cosidetta Realpolitik
faceva in modo che ogni guerra civile venisse fomentata e strumen-
talizzata da parte di potenze straniere. Le fazioni in lotta fungevano
così da pedine di un gioco ben più vasto. Quel che interessava alle
grandi potenze era di espandere le loro aree d’influenza e i loro im-
peri coloniali. Basti ricordare i diversi interventi europei e america-
ni in Cina, o quelli che seguirono il putsch d’Ottobre dei bolscevi-
chi, oppure la guerra civile spagnola, che non a torto è stata inter-
pretata come una prova generale della Seconda guerra mondiale 36.

Nella prospettiva di Enzensberger, tutte le guerre civili


dell’Età dell’imperialismo e della « logica espansionistica» – a
cui « le superpotenze si sono attenute [...] ancora negli anni Set-

36
Hans Magnus Enzensberger, Prospettive sulla guerra civile (1993), Tori-
no, Einaudi, 1994, p. 8.

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tanta» 37 – sono guerre mondiali. (E in tal senso, non ha forse
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nemmeno ragione d’essere quel polemico refrain che vorrebbe


presentare il conflitto spagnolo – anche puntando su dati regi-
strati quali « il disegno di Negrín e Del Vayo di congiungere la
guerra di Spagna con la guerra mondiale» – come un conflitto
mondiale a tutti gli effetti 38, quasi perdendone la specificità,
che è invece acquisita, nella sua importanza, dal discorso gene-
rale di Enzensberger).
Del resto, al tempo della guerra civile spagnola, il mondo
sembra rimanere, nonostante tutto, sullo sfondo: la lontana
America, il sogno di Ventura, il beau rêve che è anche e comun-
que un cauchemar («Sacco e Vanzetti»), e poi e soprattutto
l’Europa, « quel giardino così calmo [...] che ci attendeva per le
vacanze del ’39» – possiamo ricordare ancora una volta con il
Merleau-Ponty di C’è stata la guerra (1945) 39.
Insomma, ciò che affiora sovente in primo piano, negli an-
ni del conflitto spagnolo e nei loro immediati dintorni tempo-
rali, e anche al di là della supposta e mal intesa influenza di He-
mingway, è l’immagine mitico-folclorica di un paese solo, isola-
to, fuori dal tempo, in cui tutti vanno a combattere e quasi a ri-
trovare un colosseo, uno stadio pieno di popoli diversi, una spe-
cie di arena europea montata – come una sorta di esposizione –
per una guerra-corrida-spettacolo; quella guerra-corrida-spetta-
colo che Leonardo Sciascia, ne L’antimonio, associa non a caso e
polemicamente all’« entusiasmo» del « segretario del fascio»,

37
Ibidem. E forse ancora ai nostri giorni. Si pensi alla guerra in Iraq, che
non è del tutto comprensibile in una prospettiva da « dopo l’impero», da « après
l’empire».
38
Cfr. in parte e almeno Léo Palacio, 1936: La Maldonne Espagnole. Ou la
guerre d’Espagne comme répétition générale du deuxième conflit mondial, Toulou-
se, Privat, 1986. Ma cfr. G. Ranzato, L’eclissi della democrazia cit., [pp. 631-
662], p. 643 (e anche p. 627).
39
Merleau-Ponty, C’è stata la guerra cit., pp. 169-171.

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« tifoso del generale Bergonzoli» e « proprio come se Bergonzoli
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fosse un giocatore di calcio o un torero» 40.


Tale arena – in cui l’Europa tutta pare davvero mimare la
coreografia tragica di un torero – e altre sue varianti, come
« l’étable», per esempio, sono attestate non solo e non tanto nel
vitalistico e “spagnolo” Ernest Hemingway, che apre comun-
que la via, ma anche e soprattutto in un meno noto John Dos
Passos, riletto di recente, in relazione alla fine del mito europeo
e alla guerra civile spagnola, da Pascal Dethurens nel suo De
l’Europe en littérature (1918-1939) (2002) 41.

[...] Manhattan Transfer (1925) est le roman de la fin du mythe


européen.
Une dizaine d’années plus tard, la bergerie cède la place, chez Dos
Passos, à la boucherie de l’Europe, et le «hortus conclusus» à l’arène
sanglante. Au momént où, désespérant de la tournure qui pren-
nent les événements dans l’ancien monde, il s’indigne de voir
bafoués les idéaux démocratiques pendant la guerre d’Espagne, il
rédige un court pamphlet, en juillet 1937, dans lequel, « re-
nonçant aux liens étroits qui [l’]unissaient à l’Europe, [il] lui
tourne le dos une bonne fois pour toutes» [...] Son dernier roman
avant la Seconde guerre mondiale, Aventures d’un jeune homme
(1939), provient de cette rupture, et son protagoniste, Glenn
Spotswood, substitue la corrida [...] ou la boucherie à l’étable. Par
association d’images, qui est une submersion inconsciente dans le
mythe, Glenn perçoit presque simultanément « des troupeaux de
bœufs» s’avancer sur les routes d’Espagne et, sur ces mêmes rou-
tes, « le grondement et les crissements d’un défilé de tanks».
Hemingway, assurément, avait ouvert la voie (imaginaire) à ce
« transfer». Dos Passos le félicite même, dans une lettre de février
1932, pour son roman Mort dans l’après midi [...] Il écrit encore,
dans le même sens, en revivifiant l’image de la corrida et du car-
nage sanglant, au critique littéraire américain Edmund Wilson,

40
Sciascia, L’antimonio cit., pp. 228-229.
41
Pascal Dethurens, De l’Europe en littérature (1918-1939), Genève,
Droz, 2002, pp. 273-275.

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en mars 1937, que le « spectacle de l’Europe» («the European
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show») se résume tout entier dans « la vaste boucherie de la guerre


civile espagnole». Il établit, enfin, dans ses Journeys Between Wars,
en 1938, un lien indéfectible entre l’Europe et la corrida, les deux
« spectacles» s’équivalant à l’en croire, lorsque l’Europe soudain
prise de panique mime la chorégraphie tragique d’un toréador.
«Au lieu des corridas, les affiches [de Valence] annonçaient la
guerre civile [...] Il y a ici des Français, des Belges, des Allemands,
des Polonais, des Yougoslaves, des Italiens [...]».

E un po’ come show, purtroppo, come spettacolo apocalit-


tico, da fine di un mondo, quello della vecchia Europa, per
l’appunto, e pure come variante o forse quasi come tragica ori-
gine dei tanti conflitti (non) mondiali – e non risolti – del No-
vecento, la guerra civile spagnola torna via via ad occupare gli
scaffali delle librerie e a gridare, come la Madrid di Leonardo
Sciascia, il suo appartenere a un’« allucinazione», collettiva e
sempre attuale 42. E forse anche perché il conflitto spagnolo « fu
la prima guerra documentata – ‘coperta’ – in senso moderno da
un corpo di fotografi professionisti inviati in prima linea e nelle
città bombardate, i cui scatti furono immediatamente pubblica-
ti su quotidiani e periodici sia in Spagna che all’estero». Lo ri-
corda ancora di recente Susan Sontag, nel suo Regarding the
Pain of Others (2002) 43.

Di fronte al più recente ritorno della guerra civile spagnola,


di fronte al dolore di un’attualità gridata e forse manipolata 44, e

42
Attualità finanche, come vedremo, di guerra di mondi, di popoli, di im-
peri, nella quale una sorta di wellsiana war of the worlds raccoglie dal passato e
proietta nel futuro le guerre romantiche ottocentesche per le varie indipendenze
nazionali e tutti i conflitti più antichi in cui uno schiavo ha sognato la libertà.
43
Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri (2002), Milano, Mondadori,
2003, p. 17.
44
Susan Sontag suggerisce che anche la famosa foto di Robert Capa, quella
del miliziano repubblicano caduto durante la guerra civile spagnola, Federico Ba-

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comunque a tratti debordante e non sempre convincente, per lo
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meno a livello letterario, leggere anche soltanto un passo, stral-


ciato, de L’antimonio sciasciano, come quello delle farfalle di
Madrid, può essere davvero l’occasione, di sintonizzarci con un
momento storico non facile da seguire nel suo cangiante, meta-
morfico riaffiorare. Non facile da seguire soprattutto in certe
versioni narrative dell’oggi, come quelle offerte dal polar o da
biografie romanzate più o meno attendibili.
Nell’ultimo decennio, nell’alveo di un binomio assai impor-
tante, quello di letteratura e storia 45, ma concedendo parecchio al
mercato editoriale, a generi e temi che più di altri paiono soste-
nerlo, come il romanzo e la guerra, tali versioni hanno comunque
cercato di riappropriarsi di un problema irrisolto del nostro im-
maginario culturale e hanno provato a rappresentarlo, a metterlo
in scena; secondo diverse evoluzioni, talora anche perniciose, fi-
glie di quelle istanze narratologiche che aprono sui sentieri sedu-
centi della fiction (e della docufiction) e che hanno prodotto una
serie di racconti che hanno l’unico scopo di « farsi leggere» 46.
Ma prima di quei racconti ce ne sono altri, dagli anni della
guerra in poi, che sono originati soprattutto da quel viluppo di
fascinazione, paura, morte, rinascita, in virtù del quale, con
Sciascia e con Madrid, mi è sembrato possibile riunire, presen-
tare e discutere alcuni narratori italiani (e stranieri) che si sono
interessati alla guerra civile spagnola come le farfalle di Madrid;

rell García, possa essere il risultato di qualche manipolazione. Ma cfr. ora Laurent
Gervereau, Montrer la guerre ? Information ou propagande, Paris, Isthme, 2006.
45
Cfr. Lidia De Federicis, Letteratura e storia, Roma-Bari, Laterza, «Alfa-
beto Letterario», 1998.
46
Cfr. ancora G. Ricuperati, Apologia di un mestiere difficile. Problemi, in-
segnamenti e responsabilità della storia, Roma-Bari, Laterza, 2005. E mi sia con-
cesso rinviare anche a L. Curreri, La sfida di non farsi leggere. Appunti intorno a
«Tristano muore» (2004) di Tabucchi e «Alla cieca» (2005) di Magris, in Intel-
lettuali italiani del secondo Novecento, a cura di Angela Barwig e Thomas Stau-
der, Frankfurt/M., Verlag für deutsch-italienische Studien, «Themen der Italia-
nistik» (di prossima pubblicazione).

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e in seno a un panorama che tenterà comunque un’intersezio-
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ne, più o meno rapida e provocatoria, fra il passato e il presente,


fra la storia, la storia letteraria e l’attualità, la cronaca.

Madrid « c’era». Madrid c’è. (E lo si è visto anche di recente,


in giorni di lutto e di angoscia per la strage del 2004, purtroppo
attraversata da « una corsa a sfruttare i cadaveri a fini di parte» 47).
Madrid « c’era». Madrid c’è. Per Leonardo Sciascia e per
noi tutti, la capitale del conflitto e del paese esiste ancora e vale
tutte le città spagnole aggredite, bombardate, ferite durante la
guerra civile, anche quelle che i narratori italiani non hanno
evocato, rappresentato.
L’assedio di Madrid, a cui il « girare» sciasciano allude e a
cui già si riferiva la Breve cronaca del Regime delle Parrocchie di
Regalpetra 48, è già, con la guerra in corso, l’assedio alla Spagna.
Combattere a Madrid, per i repubblicani e per i volontari delle
brigate internazionali 49, è un po’ come combattere in tutte le
città spagnole minacciate, ferite: Madrid diventa così, per am-
plificazione e per disseminazione, Guernica, Bilbao, Santander,
San Sebastian, Barcellona, Teruel, Valencia...
Di più. La resistenza di Madrid diventa il simbolo di tutta
la resistenza urbana (e non) nella guerra antifascista e antinazi-

47
Riccardo Chiaberge, Spender e l’indignazione selettiva, «Domenica»,
supplemento de «Il Sole-24 Ore», 80, 2004, p. 29.
48
L. Sciascia, Breve cronaca del regime, in Le parrocchie di Regalpetra, Bari,
Laterza, «Libri del tempo», 1956 e ora in apertura di Opere. 1956-1971 cit.,
[pp. 34-48], p. 43: «Bilbao Malaga Valencia; e poi Madrid, Madrid assediata».
Ma sulla Breve cronaca del regime ritorneremo verso la fine del secondo para-
grafo di questo capitolo.
49
Cfr. almeno, a proposito, Rémy Skoutelsky, L’espoir guidait leur pas: les
volontaires français dans les Brigades internationales 1936-1939, Paris, Grasset,
1998, e Giulia Canali, L’antifascismo italiano e la guerra civile spagnola, San Ce-
sario di Lecce, Manni, 2004; in particolare il capitolo secondo, L’intervento del
partito comunista, del partito socialista e del partito repubblicano: il Battaglione
Garibaldi e le Brigate internazionali, alle pp. 39-77.

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sta che si protrarrà al di là del 1939 e dei confini spagnoli, per
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cui Madrid ( una nuova Madrid) sarà « Milano per Vittorini» o


«Stalingrado per Neruda » (e finanche, con un certo, ironico
distacco, un « gomito di Tagliamento» per Bartolini ) 50. Men-
tre dall’altra parte, quella dei ribelli franchisti e dei nazi-fasci-
sti, «“Madridgrad” c’est le nom que donnaient à la ville re-
grettée et haïe ceux qui l’assiégeaient » e « c’est aussi le titre
d’un célèbre roman de Francisco Camba » : « on y trouve la
confirmation de son exceptionnelle importance parmi les ob-
sessions des rebelles » 51.

50
La Milano di Vittorini e la Stalingrado di Neruda sono ricordate in tal
senso da Aldo Garosci, Gli intellettuali italiani e la guerra di Spagna, in Gli in-
tellettuali e la guerra di Spagna, Torino, Einaudi, 1959, [pp. 417-456], pp. 454-
455. Certo, pur in seno a diverse metamorfosi, Milano conserva anche una sua
identità, una sua autonoma presenza di città ferita, di cui è testimone, per
esempio, Fortini, in Guerra a Milano, del 1943, poi in apertura di Sere in Val-
dossola nel 1963, per cui cfr. Franco Fortini, Sere in Valdossola, Venezia, Marsi-
lio, 1985 (con Avvertenza 1985 alle pp. 3-5, Prefazione del 1963, alle pp. 7-15),
pp. 19-157; si leggano per esempio pp. 75-78, dove Milano è comunque para-
gonata, all’inizio del bombardamento e con la generazione dell’ARMIR, a Gò-
mel, città della Russia, luogo di scontri durissimi nella seconda guerra mondia-
le: « Questa volta entro nel rifugio. Fitti gli uomini intorno a me. Un sergente
batte i denti e tartaglia: “Come a Gòmel, come a Gòmel...”» (p. 75). Ma, al di
là del quadro urbano, cfr. Elio Bartolini, Il Ghebo (1946), Udine, La nuova ba-
se, 1970 e ora, con Introduzione di Raffaele Crovi, Roma, Avagliano, 2006, pp.
48-49: «[...] ma su al Comando avevano deciso di fare, di quelle montagne e di
quel gomito di Tagliamento, una nuova Madrid; la Pasionaria diceva proprio
così “Una nuova Madrid” [...] E dalla linea su cui erano disposti (la prima, per-
ché ne doveva venire una seconda, e poi una terza, fino alla “nuova Madrid”)
vedevano ardere nella notte quei paesi delle vallate».
51
José Carlos Mainer, Madridgrad ou le regard des autres, in Madrid 1936-
1939. Un peuple en résistance ou l’épopée ambiguë, a cura di Carlos Serrano, Pa-
ris, Autrement, «Mémoires», 1991, [pp. 102-122], pp. 115-116. Nello stesso
volume cfr. Émile Temine, Le mythe et la réalité, alle pp. 20-30; dello stesso cfr.
poi Du réel au légendaire in La guerre d’Espagne commence, Bruxelles, Complexe,
1986, pp. 101-140, e La guerre d’Espagne, un événement traumatique, Bruxelles,
Complexe, 1996, che offre ancora una riflessione sulle interpretazioni e rappre-
sentazioni della guerra civile spagnola.

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Madrid, Milano, Stalingrado. Ma anche Sciascia, Vittorini,
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Neruda. Tre scrittori. Ma anche tre uomini, tre farfalle 52. Ma-
drid-lume, Madrid sogno infuocato, incendiato, non vale solo
per l’urbe in sé, ma anche e soprattutto per gli uomini, per tutti
gli uomini che a quel lume, a quel sogno infuocato e dilatato
hanno sacrificato la loro esistenza, quasi fondendosi con la stessa
città ferita, divenendo parte integrante, fuori o dentro i suoi
confini, della sua storia, del suo essere, del suo divenire. Nel film
di Frédéric Rossif, Mourir à Madrid (1963), e in altri manifesti
di quel cinéma-vérité dedicato alla guerra civile di Spagna e alla
lotta per la libertà, la macchina da presa indugia sugli uomini
che si ammazzano ai bordi e nell’intestino di Madrid.
Una voce fuori campo investe tutta la battaglia, la battezza,
tra audiovisivo e scritto 53, e la consegna a noi; a tal punto che un
giovane narratore italiano pare averla ripresa recentemente, per
seguire gli ultimi « ribelli», i « perdenti ma non vinti» 54, dai
« bordi» della città – da quel « perimetro» su cui « spontanea-
mente» si dispone « la popolazione di Madrid » per « respingere i
primi assalti delle falangi» – ai confini della Spagna, verso l’esilio
(primo fra tutti quello francese, di cui si parlava poc’anzi).

52
Viene ancora in mente Hemingway ma stavolta per un racconto e un tono
che non si confanno troppo con le farfalle sciasciane. Penso a The Butterfly and the
Tank (1938), La farfalla e il carro armato in Storie della guerra di Spagna. La quin-
ta colonna, a cura di Vincenzo Mantovani, Milano, Mondadori, 1972 e « Oscar»,
1975, [pp. 73-82], p. 81: «“Senta” disse il direttore. “Com’è raro. L’allegria di
quest’uomo si scontra con la serietà della guerra come una farfalla...” “Oh, proprio
come una farfalla” dissi io. “Troppo come una farfalla.” “Non scherzo mica” disse
il direttore. “Vede ? Come una farfalla e un carro armato”».
53
Cfr. Frédéric Rossif, Madeleine Chapsal, Mourir à Madrid, Film de
Frédéric Rossif, Texte de Madeleine Chapsal, Paris, Seghers, 1963 e Verviers,
Gérard & C., «Bibliothèque Marabout Université», 1964, pp. 48-62. E cfr. il
recente DVD, Paris, Éditions Montparnasse, 2006.
54
Cfr. Pino Cacucci, Tina, Milano, Interno Giallo, 1991 e Milano, Tea
1995 e 2001, p. 145; P. Cacucci, Ribelli !, Milano, Feltrinelli, «Serie Bianca»,
2001 e «Universale Economica Feltrinelli», 2003, p. 10.

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E dai quei confini e da quei bordi si arriva comunque e
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sempre all’intestino di un’urbe in cui la guerra civile è una sto-


ria “aperta” e “doppia”, complicata da trame interne, tra antifa-
scisti e fascisti, anarchici e comunisti stalinisti e/o tra comunisti
naturali e comunisti convertiti: ovvero e non infine, per tradur-
re in letteratura, tra uno scrittore come Ignazio Silone e lo scrit-
tore comunista « tipo» del 1930, quello che prova per i contadi-
ni e gli operai lo stesso genere di passione che Marcel Proust
prova per le sue duchesse. A suggerirlo, prima delle (più o me-
no) recenti accuse che hanno investito Silone e delle pagelle di
Lord Ralf 55, è un oppositore del fascismo e del comunismo,
delle « polarizzazioni arbitrarie», del « dualismo eterno» 56 come
Arthur Koestler, poco incline al sogno romantico vissuto da al-
cuni scrittori negli anni Trenta, e durante la guerra civile spa-
gnola in particolare, e impegnato a scrivere – da Spanish Testa-
ment (1937) a Arrow in the Blue (1952), passando per le vicen-
de narrate in Scum of the Earth (1941) 57 – un’autobiografia sin-
cera a tal punto da far apparire pura ipocrisia le Confessions di
Rousseau e la Vita del Cellini.
Ma è pur vero che l’autobiografia che in un certo senso
prende le mosse da Spanish Testament, « un libro di attualità
sulla Spagna», come lo definisce lo stesso Koestler, si sovrappo-
ne al romanzesco di The Gladiators, che, iniziato nel 1935, esce
solo nel 1939, l’ultimo anno di guerra, dopo « una sorta di cor-

55
Penso a Dario Biocca, Ignazio Silone. La doppia vita di un italiano, Mi-
lano, Rizzoli, 2005 e a Ralf Dahrendorf, Versuchungen der Unfreiheit, Mün-
chen, C. H. Beck, 2006, che boccia Arthur Koestler; ma cfr. Giuseppe Bede-
schi, Le pagelle di Lord Ralf, «Domenica», supplemento de «Il Sole-24 Ore»,
144, 2006, p. 27.
56
Cfr. Gianni Sofri, Introduzione all’edizione italiana di Arthur Koestler,
Schiuma della terra (1941), con Appendice di Leo Valiani, Bologna, il Mulino,
1989, [pp. IX-XXII], p. XVI.
57
Ivi, p. XXI. Sulla seguente e divertita presentazione che Koestler dà del-
le sue pagine autobiografiche, si veda il terzo capitolo della prima parte di Ar-
row in the Blue (1952).

144

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sa a ostacoli» 58, di cui ci parla l’autore nel 1965. Presa nella sua
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interezza, fra disillusione nei confronti del Partito comunista e


della Russia staliniana e drammatica consapevolezza del potere
nazifascista che investe mezza Europa, la tragedia politica e
ideologica del Novecento si nasconde ma non si perde in un
passato avventuroso, lontano, e in un’altra guerra, servile e civi-
le 59, in « un’altra rivoluzione finita male», specchio di quella
russa, innanzi tutto, e delle altre che ad essa, in parte, si sono
ispirate. Quel passato offre idealmente a Arthur Koestler « una
sensazione di pace e di sollievo» oltre che « un’evidente analogia
fra il [suo] tempo e quell’epoca lontana» 60.

Ai giorni nostri, la scrittura di Pino Cacucci, già rapidamen-


te evocata, sembra cercare la guerra civile spagnola con l’inten-
zione di non cedere, almeno sullo sfondo, a un passato avventu-
roso, lontano e romanzesco, ma, fra Tina (1991) e Ribelli !
(2001), fa più di una concessione a quello che in Italia alcuni
scrittori (e forse molti lettori) considerano ormai un passato dav-
vero lontano, semplicemente avventuroso e romanzesco, dove
trovare pace e sollievo a buon mercato e nessuna evidente, vissu-
ta analogia. Il romanzo di formazione assomiglia a un poster.
Fatte dunque le debite differenze – Cacucci e Koestler sono
comparabili in superficie e in via provocatoria, e non solo per-
ché il secondo nasce mezzo secolo prima e vive e scrive i tragici
anni spagnoli in diretta –, una certa appropriazione narrativa
della guerra civile sembra prodursi quasi attraverso lo stesso
processo psicologico: la si vuole enunciare come autobiografica
o biografica, per intesa morale con se stessi, ma la si ritrova an-
che come passato avventuroso in dintorni e sfondi narrativi al-

58
A. Koestler, Poscritto all’edizione danubiana (1965), in I gladiatori
(1939), Milano, Net, 2002, [pp. 313-316], p. 314.
59
Ivi, pp. 114-119.
60
Ivi, pp. 313-314.

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largati dalla loro simbolicità “a tutto campo”, quello del « mio
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tempo» (e oggi del nostro). Certo, quel passato avventuroso è


decisamente meno problematico per il giovane scrittore italia-
no, talora in cerca di un facile applauso adolescenziale, con i
cattivi e i buoni in bella mostra sulla pagina-lavagna.
Detto questo, il passato-presente di Pino Cacucci ci può
comunque aiutare a storicizzare e a individuare una cronologia
nuova della narrativa italiana in relazione alla guerra civile spa-
gnola 61; e il passato-passato di Arthur Koestler può rendere più
interessante il nostro percorso, anche se il 1936-1939 dopo Cri-
sto scivola fino al 73-71 avanti Cristo. Salvo poi risalire al No-
vecento, ai processi staliniani di Buio a mezzogiorno (1940), che
con I gladiatori (1939) e Arrivo e partenza (1943) forma una
trilogia « il cui filo conduttore è il problema cruciale per l’etica
rivoluzionaria e l’etica politica in generale; capire se e fino a che
punto il fine giustifica i mezzi. È una questione vecchia quanto
il mondo [...]» 62.
In questa prospettiva, il primo secolo avanti Cristo ci appa-
re come un raccoglitore più capace di quanto lo stesso Koestler
suggerisca à rebours; ovvero come un passato dove un apologo
sull’eterogenesi dei fini, un apologo sulla libertà, che non ha
età, e una narrazione storica, che ne ha una, sembrano davvero
sovrapporsi, facendo scivolare ciò che pare inattuale su ciò che è
attuale. Così la tradizione, che la modernità sta sempre per
spazzare via, assurge a simbolo di quella stessa modernità e della
sua già decantata affinità con la morte, con la decostruzione del
mondo e degli uomini. Il sogno di libertà dei gladiatori, di
Spartaco, votato alla sconfitta, come quello dei repubblicani
spagnoli, è un prolungamento della fraternità con la morte – e
conseguente rifiuto dell’incubo divorante il sogno più nobile –
che anima Spanish Testament, da noi noto come Dialogo con la

61
Per cui si legga il capitolo terzo di questo volume.
62
A. Koestler, Poscritto all’edizione danubiana (1965) cit., p. 313.

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morte, titolo della seconda parte del libro del 1937, resa poi au-
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tonoma e apparsa solo nel 1947, da Bompiani 63. E quelle terre

63
A. Koestler, Spanish Testament. With an Introduction by The Duchess
of Atholl, London, Gollancz, 1937, la cui Part I, alle pp. 15-204, conta nove
capitoli che danno conto dell’attività giornalistica di Koestler in Spagna come
corrispondente del «News Chronicle» fino all’arresto e alla condanna a morte
da parte dei Nazionalisti dopo la presa di Malaga del febbraio 1937 (Journey to
Rebel Headquarters, Historic Retrospect, The Outbreak, The Background, The
Church Militant, Propaganda, The Heroes of the Alcázar, Madrid, The Last Days
of Malaga), mentre la Part II, alle pp. 205-384, intitolata Dialogue with Death,
presenta un testo unico, seppur diviso in capitoli, di taglio autobiografico e più
propriamente letterario, narrativo, dedicato all’esperienza del carcere e all’attesa
dell’esecuzione, alla quale Koestler scampa. L’edizione italiana, Dialogo con la
morte, Milano, Bompiani, «Vinti e vincitori», 1947, affidata a Camillo Pellizzi,
che riporta soltanto il titolo della Part II, Dialogue with Death, non seguito da
altre indicazioni, deriva molto probabilmente dall’edizione americana, che pre-
senta solo la seconda parte di Spanish Testament in seno a una traduzione ma
senza precisare l’edizione (o il testo) di riferimento; cfr. A. Koestler, Dialogue
with Death, Translated by Trevor and Phyllis Blewitt, New York, Macmillan,
1942. Lo si deduce anche dal diverso e più breve Epilogue – con riferimento a
« an air battle over Teruel in the spring of 1938» – che l’edizione americana pre-
senta alla p. 215 e che corrisponde a quello presentato dall’edizione italiana alla
p. 271. E forse c’è di più. Nell’epilogo scompare anche il nome di Franco e i so-
pravvissuti « continuano ora i loro dialoghi con la morte in mezzo all’Apocalisse
europea» (p. 271). L’intenzione privata e letteraria – già manifesta nella Pre-
messa («Morire – anche al servizio di una causa impersonale – è sempre una
faccenda personale e intima»; p. 5) – è quella di fare apparire il testo come un
diario e un romanzo sulla morte, allontanandolo un po’ dal reportage e anche,
in un certo senso, dall’esperienza spagnola più cronachistica; ma forse vi è an-
che sottesa un’intenzione pubblica, editoriale e finanche “politica”, dovuta al
nuovo percorso che vuole la Spagna di Franco neutrale nella seconda guerra –
di cui firma solo « il preludio» (p. 271) – e tesa ad evadere, per esempio e im-
plicitamente, fatti come quello della divisione Azul in Russia, per cui cfr. il re-
cente Xavier Moreno Juliá, La division Azul. Sangre española en Rusia 1941-
1945, Barcelona, Critica, 2004. Ho precisato in nota questi dati anche perché
l’edizione italiana che continua a circolare è quella sopra citata, nella riproposta
che ne ha fatto Il Mulino di Bologna nel 1993, con la traduzione di Camillo
Pellizzi rivista da Pietro Petrignani, e perché spesso, nella nostra tradizione edi-
toriale e critica (ma anche in quella francese, per esempio), si confondono o si
identificano Spanish Testament e Dialogue with Death.

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così legate alla storia della Spagna (e dell’Italia), la Campania, il
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Sud (il Sud dell’Europa), altri e antichi colossei pieni di popoli


diversi che combattono, accolgono tale prolungamento lettera-
rio e civile in maniera esemplare, almeno in alcune delle sue
sottintese, implicite finalità.
Bisogna poi rileggere in tal senso le stesse dichiarazioni
koestleriane sopra citate e relative alla delusione per un «Dio
che è fallito» 64; per quell’utopia sovietica che affascina e un po’
acceca, con Koestler, tutta una generazione di intellettuali, da
Auden a Malraux, e che negli anni Trenta staliniani li fa diven-
tare specchi di « un dramma oggettivo più grande di loro»; per
quell’utopia sovietica che risponde, su un « equivoco di fondo»,
« a una esigenza di salvezza e a un bisogno di utopia di tipo esi-
stenziale»: « una esigenza astrattamente intellettuale che trova il
suo crogiolo etico e ideale nella guerra di Spagna» 65 – prima
delle derive religiose e metafisiche di un Auden, per esempio.
Prima di tali derive e di altre più ingenue – finanche since-
re e più o meno attuali – mistificazioni, ci sembra che lo scopo
di The Gladiators sia anche quello di riuscire a mixare un ro-
manzo moderno come L’espoir (1937) di Malraux – scritto che
« filma» i tragici eventi spagnoli prima ancora della versione ci-
nematografica e si apre proprio su Madrid – con la tradizione

64
Noto libro a più voci, The God that Failed (1949 e 1950), da noi Mila-
no, Comunità, 1950; è il testo da cui parte R. Chiaberge, Spender e l’indignazio-
ne selettiva cit..
65
Vito Amoruso, Introduzione a Christopher Caudwell, Soggettivismo e
realismo. Saggio sulla letteratura borghese in Inghilterra (1970), Bari, De Dona-
to, 1971, [pp. 9-43], pp. 9-11. Christopher Caudwell ( pseudonimo di Chri-
stopher St. John Sprigg ), del 1907, della generazione di Auden, uno dei mag-
giori critici marxisti della prima metà del Novecento, morì nel 1937 durante la
difesa di Madrid. Romance and Realism, inedito fino al 1970, è scritto nel cuo-
re degli anni trenta, tra il dilagare del nazi-fascismo in Europa e la guerra civi-
le spagnola, e traccia, da Shakespeare a Hemingway, dagli Elisabettiani a Spen-
der, un quadro della cultura letteraria borghese tesa non a caso fra i due poli di
soggettivismo e realismo.

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del roman-péplum più messianico e apocalittico, catartico e spi-
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rituale, con l’antichità recuperata al presente non solo per servi-


re lo scrupolo del conservatore, dello storico, dell’erudito.
E se la guerra civile spagnola di un aviatore come André
Malraux fa subito pensare al cinema o a chi, in tempi più recenti,
dal cinema passa al romanzo, come Carlos Saura, con il suo ¡Esa
luz! (2000) 66, forse il roman-péplum ottocentesco riecheggiato in
chiave « socialista» da Arthur Koestler nei Gladiatori può indurci
a ricordare illusioni e disillusioni postrisorgimentali dello Sparta-
co di Raffaello Giovagnoli: ovvero del romanzo storico di un nar-
ratore e patriota dimenticato dell’Ottocento ribelle, engagé, testo
ricco d’« avventure» e di slanci libertari destinato a grande fortu-
na nei paesi socialisti, pubblicato nel 1874 e scritto in anni in cui
l’Italia pagava a caro prezzo, con tante “piccole” guerre civili e
servili, la ricerca della sua unità politica e territoriale 67.

66
Cfr. Carlos Saura, Quella luce (2000), Torino, Einaudi, 2002.
67
Cfr. Raffaello Giovagnoli, Spartaco (1874), Prefazione di Luigi Russo,
Firenze, Parenti, «La Giraffa», 1955. Per gli antecedenti nostrani, la fortuna,
da Garibaldi a Gramsci, e i dintorni più immediati, ottocenteschi e italiani, si
legga Fabio Danelon, La narrativa dell’Ottocento. La caduta degli dèi, in Pietro
Gibellini (ed.), Il mito nella letteratura italiana, III, Dal Neoclassicimo al Deca-
dentismo, a cura di Raffaella Bertazzoli, Brescia, Morcelliana, 2003, [pp. 375-
414], pp. 381-383. Utile sarebbe inseguire la fortuna dello Spartaco di Giova-
gnoli e verificarne l’eventuale incidenza novecentesca in altre opere narrative
dedicate alla rivolta degli schiavi del 73-71 a.C., passando in rassegna i differen-
ti contesti storici in cui tale rivolta viene per così dire riattivata e risemantizzata,
dal difficile periodo post-unitario italiano alle esperienze sconvolgenti della
guerra civile spagnola e da Stalin e dalle « purghe» al generale Mac Arthur che
invade la Corea del Sud, fra, ancora e per esempio, Koestler, The Gladiators
(1939) e Howard Fast, Spartacus (1953), da cui è tratto il noto film di Stanley
Kubrick, del 1960, su cui cfr., per i nostri fini, il discorso di Laura Cotta Ramo-
sino, Luisa Cotta Ramosino, Cristiano Dognini, Tutto quello che sappiamo su
Roma l’abbiamo imparato a Hollywood, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pp.
27-35 e 183-184. Ma si vedano anche e almeno Pier Paolo Fornaro, Trapassato
presente. L’appropriazione psicologica dell’antico attraverso la narrativa moderna,
Torino, Tirrenia Stampatori, 1989, pp. 93-94, 182-185, e su Koestler dello
stesso Fornaro, Impiccato da Weimar, «Alias», 30, 2001, p. 11, e su Fast Massi-

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Proprio perché, come dato narrativo (e non solo), la guerra
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civile spagnola è una vicenda “aperta”, una guerra non del tutto
finita – forse perché « lo decide chi vince, quando una guerra è
finita» 68 – ovvero un conflitto che dilata la sua durata oggettiva
in altre lotte, passate o future, è bene continuare a spendere
qualche parola su Leonardo Sciascia e L’antimonio, che forse
come racconto non del tutto finito, trova posto – è bene ripe-
terlo – nella seconda edizione de Gli zii di Sicilia, uscita sempre
da Einaudi, nel 1960, ma nei «Coralli» (la prima, nei «Getto-
ni», è del 1958).
Gli zii di Sicilia sono, suggerisce Ambroise, un’esemplare
raccolta di « componimenti di storia e d’invenzione» 69. Riasso-
lutizziamo per capirci: nell’Antimonio la storia è quella di un
minatore siciliano – uno dei tanti poveri italiani del Sud degli
anni Trenta – che per fame e anche e soprattutto per dispera-
zione parte volontario per la guerra di Spagna fra i legionari fa-
scisti; l’invenzione fa poi di quella storia un « testo chiave di
tutta l’opera sciasciana», finanche « una metafora della “voca-
zione letteraria”» 70.
Se solo per un momento, e tenendo a mente i limiti evi-
denziati nel primo capitolo, accogliamo l’intuizione critica di
Ambroise in senso metaletterario più che psicanalitico, potrem-

mo Raffaelli, Un cult U.S.A. sulla guerra servile, nel medesimo e ricco numero
monografico del supplemento settimanale de « il manifesto» dedicato a Roma
antica, una crisi moderna. La fortuna dello Spartaco di Giovagnoli non è poi tut-
ta racchiusa in contesti storico-letterari ma è rintracciabile anche in contesti sto-
rico-sportivi: è il caso dello Spartak di Mosca che si forma grazie al quartiere
operaio della Presnja ed esordisce nei primi anni Venti con il nome del gladiato-
re ribelle che i giocatori e i tifosi avevano conosciuto grazie al romanzo di Gio-
vagnoli. Cfr. Mario Alessandro Curletto, Spartak Mosca: storie di calcio e potere
nell’URSS di Stalin, Genova, Il Melangolo, 2005.
68
Cfr. Alessandro Baricco, Senza sangue, Milano, Rizzoli, 2002, p. 25.
69
C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia cit., p. 96.
70
Ivi, pp. 95 e 91. Ma si tenga presente quanto osservato, anche polemi-
camente, nel primo capitolo, specie in relazione a certe discendenze critiche di
questo discorso.

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mo tentare un raccordo fra una tradizione narrativa e una voca-
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zione letteraria ancorata in seno al Novecento – e tuttavia iden-


tificabile con una certa difficoltà in relazione alla guerra civile
spagnola – e un insieme ancora abbastanza debole ma significa-
tivo di romanzi, racconti recenti e diversi che, più o meno inte-
gralmente ed esplicitamente, a quella guerra fanno riferimento,
adeguando ad essa spazi e tempi narrativi.
Ripensando, con Borges, la « tradizione» come « opera
dell’oblio e della memoria» 71 e partendo da una tradizione ro-
manzesca quasi “a rischio” – quasi da proteggere, insieme alla
tensione intellettuale e alla vocazione letteraria che la animano
– potremmo approdare a un presente non storicizzato e non fa-
cile da frequentare, anche e proprio in relazione a quegli indici
in ribasso – sottovalutati, se non decisamente allontanati, da
scrittori e critici – di tensione intellettuale e vocazione lettera-
ria; e muovendoci quasi in seno a un doppio e incrociato per-
corso di « autobiografia della nazione» e di «Italia letteraria» 72.
Partendo da una tradizione quasi perduta – o quasi inesi-
stente – potremmo cercare di recensire un oggi folto di presen-
ze autoriali diverse da quelle del passato; un presente con cui bi-
sogna cominciare a fare i conti, fissando limiti cronologici, av-
viando piccole rassegne, ipotesi di rassegne, e cercando fors’an-
che qualche conclusione, pur provvisoria 73, in seno alla storia

71
Jorge Luis Borges, Storia del guerriero e della prigioniera, in L’Aleph (1952),
Milano, Feltrinelli, 1959 e «Universale», 1961 e 1998, [pp. 46-51], p. 47.
72
Cfr. ancora M. Onofri, Storia di Sciascia cit., e Stefano Jossa, L’Italia
letteraria, Bologna, il Mulino, 2006. Cfr. Andrea Cortellessa, Italia, entità lette-
raria a geometria variabile, «Alias», 24, 2006, p. 18.
73
Con tanto di excusatio petita anticipata per quanto di provvisorio si tro-
verà nella nostra “chiacchierata” e si dovrebbe forse trovare in ogni “chiacchie-
rata” che si rispetti, specie nelle sue battute finali, che vogliono concludere e
aprire al dialogo nello stesso tempo. Penso a Soldados de Salamina. Mancano
quaranta pagine alla fine quando, in una parentesi, leggiamo: « non si trova mai
quello che si cerca, ma ciò che la realtà ci fornisce» ( Javier Cercas, Soldati di Sa-
lamina (2001), Parma, Guanda, 2002, p. 165). Alla ricerca della guerra civile

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della letteratura e alla critica letteraria. Magari ricordando preli-
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minarmente che storici e critici letterari non dovrebbero parlare


solo di quello che amano – L’antimonio e i suoi dintorni più o
meno immediati, nel mio caso – o di quello che vogliono far
rientrare nel canone di un secolo; quel Novecento che, al di là
della sua stessa cronologia, è ancora in grado, per fortuna, di
stupirci, « pieno», com’è, « di anacronismi, di tempi che non
tornano» – di controtempi, anche – e « di personaggi attuali che
nella ricezione culturale nascono più tardi di quanto fossero ef-
fettivamente nati» 74.
La letteratura « da biblioteca », fin ora incarnata da Scia-
scia, quella che noi abbiamo promosso e forse troppo presto
rimosso, può sposare una pratica quasi giornalistica, « da li-
breria », « da edicola » o, addirittura, « da rete » : una pratica
dei testi che cerchi di attraversare l’attualità letteraria ma di
discuterla anche in seno ad « urgenze inattuali», disegnando
una « mappa » per i naviganti in cui l’attuale e l’inattuale tro-
vino una loro ragione d’essere al di là di quella del mercato.
Quel mercato che impone e oppone – finanche, e paradossal-
mente soprattutto, entro la celebrazione degli anniversari – la
logica commerciale degli « aggiornamenti» al controtempo in-
tellettuale della tradizione, ormai percepito solo come vizio,
vezzo accademico.

spagnola nella narrativa italiana del Novecento, ci si è imbattuti in una realtà


che non si è sempre e semplicemente tradotta nei testi e nei temi inseguiti (le
città ferite, per esempio). Allora, al di là di un beau rêve bachelardiano, ci siamo
mossi fra il pudore e la grandezza inoffuscata di uno sguardo di fronte agli orro-
ri (da Sciascia alla Ramondino) e verso il superamento più disinvolto, facile e, a
tratti, stereotipato di tali coordinate, provando a tenere a mente, ancora con
Cercas, che « la realtà ci tradisce sempre; la cosa migliore è non dargliene il tem-
po e tradirla in anticipo» (ivi, p. 171).
74
Cfr. Ezio Raimondi, Un’isola nell’oceano della quotidianità. La critica
letteraria del Novecento, in Letteratura e critica. Esperienze e forme del ’900, Atti
del Convegno in onore di Natalino Sapegno (Saint-Vincent-Aosta, 30 settem-
bre-3 ottobre 1991), a cura di Bruno Germano, Mario Ricciardi, Achille Tarta-
ro, Firenze, La Nuova Italia, 1993, [pp. 165-180], p. 174.

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Cercando di approdare all’oggi, noi ripartiremo invece da
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un dato che la logica dell’aggiornamento – e della moda – non


deve e non può farci dimenticare; da un dato che genera almeno
un paio di domande, alle quali si tenterà di rispondere, in ma-
niera magari non esaustiva ma problematica, e sempre coniu-
gando passato e presente, « aggiornamenti» e « urgenze inattua-
li»: «In quali testi narrativi italiani e secondo quali modalità è si-
gnificativamente evocata o raccontata la guerra di Spagna prima
di Sciascia ?»; « Questi testi amplificano soltanto e appena una
tradizione esistente – anglo-americana, francese, spagnola – o
piuttosto danno vita a un insieme di tradizioni perdute o inesi-
stenti in seno a una tradizione ancora da “inventare”?».

2. Prima di Sciascia. Tradizioni perdute o inesistenti ?

Maurizio Serra, in un volume pubblicato dal Mulino nel


1990 e dedicato a L’esteta armato, presenta la guerra civile spa-
gnola come « l’ultimo conflitto romantico sul vecchio continen-
te» ma anche come « una guerra moderna» che « non tollera ca-
riche di Langemarck né imprese di Fiume» 75. Ipotizza poi che
« per coloro che trasferivano in Spagna il travaglio maturato nel-
lo scontro col fascismo o col nazismo, tagliati fuori dal contatto
con il pubblico e con i giovani di Italia o di Germania, la guerra
non potesse diventare soggetto lirico, tributato alle belle lette-
re»: «Si può forse cercare di spiegare in tal modo perché italiani
e tedeschi, pur presenti in prima fila, dall’inizio alla fine del con-
flitto, abbiano « prodotto» meno o un diverso tipo di opere» 76.
Quali ? Testimonianze, diari, saggi, studi, articoli. Tutti
quei testi, insomma, che possono divenire (anche ) opere lette-

75
Maurizio Serra, Verso la Spagna, in L’esteta armato. Il Poeta-Condottiero
nell’Europa degli anni Trenta, Bologna, il Mulino, 1990, [pp. 121-146], pp.
127 e 135.
76
Ivi, p. 130.

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rarie e narrative solo nelle mani di scrittori « a tempo pieno»,
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esordi compresi (e forse potremmo farci rientrare il Koestler di


Spanish Testament, fra prima e seconda parte, fra cronaca e ro-
manzo 77). Ma scrittori italiani e tedeschi del genere sono so-
stanzialmente assenti dalla guerra civile spagnola per varie ra-
gioni. Mentre tanti, invece, sono i politici rintracciabili fra la
scelta inseguita e spesso già abbracciata dell’esilio e il successi-
vo intervento in Spagna, vera occasione, come è noto, per il
fuoriuscitismo.
Del resto, più di tutti gli altri antifascisti e senza bisogno di
filtri letterari, i fuoriusciti sembrano transitare « dalla condizio-
ne di patetica catastrofe alle altezze della tragedia». La percezio-
ne di Stephen Spender – che alla fedeltà del ricordo vissuto,
« romantico» a suo modo e giovane 78, aggiunge poi un certo
« crudele» buon senso – traccia un doppio binario: da un lato
« la zona dei combattimenti [...] limitata» e « le voci dell’indivi-
duo umano non [...] soverchiate, come nel 1939, dalla vasta

77
G. Sofri, Introduzione all’edizione italiana di Arthur Koestler, Schiuma
della terra (1941) cit., p. XII: «Infine, Koestler tornò nella zona tenuta dal go-
verno per fondarvi un’agenzia di stampa internazionale. Ma, questa volta, le co-
se andarono male. La caduta di Malaga lo mise nelle mani dei franchisti. Passò
più di tre mesi in prigione, e venne condannato a morte. Fu salvato da una
campagna internazionale e da un deciso intervento del governo britannico. Alla
fine venne scambiato con un ostaggio, la bella moglie di un aviatore franchista.
Tornato, libero, in Inghilterra, nell’autunno del ’37 scrisse Spanish Testament: il
libro che rappresentò il suo debutto come narratore».
78
Un tratto, quest’ultimo, da non leggere tautologicamente in Spender
che, nato nel 1909, aveva poi solo – o già, considerati i tempi – ventisette anni,
quando principia la guerra civile spagnola. In effetti, il ricordo giovane di Spen-
der, ancorato a un vissuto storico problematico, muove al di là di certo fatali-
smo koestleriano, di certi approdi religiosi e metafisici di Auden, prodotti, en-
trambi, in fin dei conti, da un’accettazione più o meno rassegnata e sostanziale
dello statu quo. Nel « più ingenuamente mistificato» Stephen Spender « la spe-
ranza di una rivoluzione catartica e spirituale si riaccende ad accomunare la
contestazione giovanile a Praga e a Parigi». Cfr. ancora V. Amoruso, Introduzio-
ne a Christopher Caudwell, Soggettivismo e realismo. Saggio sulla letteratura bor-
ghese in Inghilterra cit., p. 11.

155

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macchina militare e dalla propaganda» 79; dall’altro il Congres-
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so degli scrittori, nell’estate 1937, tra Valencia e Madrid, che


« con tutte le sue qualità, aveva un po’ l’aria di una festicciola
tra ragazzi viziati» 80.
Questa dicotomia attraversa il Novecento e giunge fino ai
nostri giorni, dove viene assorbita dal mercato e spacciata da un
romanzesco « furbo» ma che « si legge d’un fiato ! » 81. Pensiamo a
Soldados de Salamina, terzo romanzo di un docente di letteratura
spagnola, Javier Cercas, pubblicato nel 2001, giunto alla venti-
quattresima edizione nell’ottobre del 2002 e proposto al pubbli-
co italiano da Guanda nel gennaio dello stesso anno: da un lato i
destini individuali che fanno il libro, a partire da quello del ro-
manziere, proiettato un po’ come un dio inetto ma buonissimo
nella sua creazione, nella genesi della quale si misura con uno
scrittore del passato, uno dei fondatori della Falange, Rafael
Sánchez Mazas, salvato – non si sa perché – da un soldato re-
pubblicano verso la fine della guerra; dall’altro lo stesso soldato
repubblicano – si è spinti quanto meno a crederlo – che se la
prende, quasi in via « autocritica», con le romanticherie di He-
mingway e la programmata letterarietà dell’operazione.
La littérature ? Plutôt la vie. Ma la « festicciola tra ragazzi vi-
ziati» sembra quasi continuare, fra docenti, giornalisti, sceneg-
giatori e registi di generazioni anche diverse. Forse perché, ai
giorni nostri, in Italia come in Spagna, il doppio binario di ve-
rità ed errore, di realtà e invenzione, di storia e letteratura, vuo-
le non solo aggiornare una, la tradizione, ma anche creare o, se
si vuole, ricreare un insieme di tradizioni, che forse non si per-
cepiscono come perdute ma quasi come inesistenti: o perché

79
A. Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna cit., p. 254.
80
M. Serra, L’esteta armato. Il Poeta-Condottiero nell’Europa degli anni
Trenta cit., p. 135: «Bellissima, crudele espressione: e veramente la Spagna –
precedendo l’altro colpo terribile che fu il patto tedesco-sovietico – rappresentò
la fine dello « spoiled children’s party» protratto per quasi un decennio».
81
Goffredo Fofi, Le maschere dell’eroe, «Film-TV», 8, 2002, p. 114.

156

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troppo irrigidite in un « gioco» delle parti, fra tempo delle osti-
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lità e immediato dopoguerra, o perché bloccate dalla censura,


fra anni Cinquanta e Sessanta, con Sciascia 82 che ancora vi fa
cenno in una lettera a Erich Linder del 14 dicembre 1967, o
perché fluttuanti, ambigue, come nell’epoca successiva alla
nuova legge sulla stampa del 1966 e come, per esempio, in San
Camilo 1936 (1969) di Camilo José Cela 83.
Certo, rispetto alla narrativa spagnola novecentesca presa
nel suo insieme, la realtà della guerra civile va ben al di là degli
ultimissimi frutti del Novecento e dei primi del Duemila; al di
là, per esempio, del romanzesco più sincero di El nombre que
ahora digo (1999) 84, scritto dal comunque abile giornalista e
sceneggiatore Antonio Soler, o di quello dei già citati Cercas e
Saura; ma anche al di là, in un certo senso, di quella letteratura
dell’esilio che matura nei decenni sopra ricordati, tra seconda
metà degli anni Trenta e seconda metà dei Sessanta.
E questo nonostante la « cosiddetta “transizione”» principi
solo con la morte di Franco, nel 1975, aprendo l’ultimo quarto
del Novecento e dando vita, nei primi anni della democrazia, a
« opere in generale meno valide dal punto di vista propriamente
estetico»; ché soltanto dopo il 1982, e verso il 1986, ovvero ver-

82
Lettera che trovo citata in Giovanna Lombardo, Alla ricerca della legge-
rezza: il carteggio Sciascia-Linder (1963-1983), «Rivista di studi italiani» (Uni-
versity of Toronto), 1, 2003, [pp. 96-111], p. 101: «Caro Linder, La ringrazio
per le notizie che mi dà riguardo alle traduzioni olandese e spagnola. Per quel
che riguarda quest’ultima, ritengo che Gli zii siano da scartare per quel quarto
racconto (a meno che l’editore non abbia già pensato a eliminarlo, come del re-
sto hanno fatto con La morte di Stalin nei paesi comunisti: e in questo caso, i
tre racconti possono unirsi al Giorno della civetta)». Da cui si deduce che Leo-
nardo Sciascia prevedesse ancora una censura per L’antimonio in Spagna.
83
Camilo José Cela, Vísperas, festividad y octava de San Camilo del año
1936 en Madrid, Madrid-Barcelone, Ediciones Alfaguara, 1969. Ma cfr. José-
Carlos Mainer, «Por un pensamiento que a lo mejor es mentira»: la guerra civil en
la obra de Camilo José Cela, «Bulletin Hispanique», 1, 1992, [pp. 245-261],
pp. 250-255.
84
Antonio Soler, Il nome che ora dico (1999), Milano, Marco Tropea, 2003.

157

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so il cinquantesimo anniversario della guerra, si può parlare di
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« un’epoca [...] più interessante e molto più ricca di produzioni


di ogni tipo» (a livello narrativo, teatrale e cinematografico) 85.
Ma ancora diverso, per quanto intrecciato, come sopra si è
cercato di suggerire, è il discorso relativo all’Italia e alla narrati-
va italiana, al suo passato, aperto a possibili « transizioni» a par-
tire, almeno, dal 1945, se vogliamo pensare, con gli stessi para-
metri, alla morte di Mussolini prima ancora che alla fine della
seconda guerra mondiale. Si può capire, infatti, che in Italia,
durante e dopo la guerra di Spagna, il fascismo imperante non
favorisse esperimenti narrativi interessanti e censurasse quelli
concepiti al bivio fortunato di storia e invenzione, sostenendo
invece, per esempio, il teatro di propaganda, che fagocitava il
conflitto e lo serviva al popolo con il « tema dominante» delle
« violenze e sopraffazioni dei “rossi”» 86. Ma, a quanto mi risul-
ta, anche nella seconda metà degli anni Quaranta e, soprattut-
to, negli anni Cinquanta, quel passato non decolla, e forse per-
ché è segnato, ancora, dalla preponderanza dell’uomo e della

85
Sul post-franchismo immediato e successivo, fra la transizione e il perio-
do che segue il 1982 cfr. Maryse Bertrand de Muñoz, La guerra civile spagnola
nel romanzo, nel teatro e nel cinema dopo la morte di Franco, in AA.VV., Immagi-
ni nemiche. La guerra civile spagnola e le sue rappresentazioni (1936-1939), Bo-
logna, Editrice Compositori, 1999, [pp. 150-167], p. 150. Ma della stessa è
giusto ricordare uno studio precursore, in un certo senso, delle indagini a tutto
campo poi attuate dall’autrice, compresa quella dedicata alla Spagna e sopra ci-
tata. Penso ovviamente a M. Bertrand de Muñoz, La guerre civile espagnole et la
littérature française, Paris-Montréal-Bruxelles, Didier, 1972 e poi La guerra civil
española y la literatura francesa, Edición española puesta al día, Sevilla, Alfar,
1995. Si vedano infine gli studi della stessa e di André Bénit raccolti nel ricco
Histoire de l’Espagne dans la littérature française, a cura di Mercè Boixareu et Ro-
bin Lefere, Paris, Champion, 2003, pp. 697-726 e 727-741.
86
Pietro Cavallo, La guerra di Spagna nel teatro del ventennio fascista, in La
Spagna degli anni ’30 di fronte all’Europa. Politica Storia Filosofia Letteratura
Radio Cinema Teatro, Atti del Convegno di Salerno, maggio 1998, a cura di
Francesco Saverio Festa e Rosa Maria Grillo, Roma, Antonio Pellicani Editore,
2001, [pp. 419-460], p. 424.

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politica sul paesaggio di guerra e sulla sua sublimazione lettera-
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ria, più o meno urbana e ferita.


L’ex combattente Aldo Garosci, non a caso, proprio alla fi-
ne degli anni Cinquanta, restringendo il campo agli intellettua-
li italiani e quasi tirando delle conclusioni, osserva: «La politica
copre in modo così esauriente la partecipazione dell’antifasci-
smo alla guerra di Spagna che quasi nulla è la sublimazione let-
teraria di quest’esperienza e limitata anche la riflessione criti-
ca». E in quel « quasi nulla» non fa rientrare nemmeno, per
esempio, Il maggiore è un rosso (1953), di Francesco Fausto
Nitti – l’autore di Le nostre prigioni e la nostra evasione (pubbli-
cato nel 1930 in francese, nel 1946 in italiano) – che « per
quanto scritto con evidenza letteraria, è chiaramente opera di
propaganda e di nostalgica evocazione» 87.

Testimonianze, diari, saggi, studi, articoli sembrano oppor-


si direttamente – senza il filtro della fiction, senza un plot che
distragga il lettore – alla persuasiva e diffusa propaganda fasci-
sta, specie a quella letteraria. Anche se la propaganda letteraria
(più letteraria) affidata alla narrativa non è davvero un granché
ed è essenzialmente nelle mani di dilettanti, al limite di giorna-
listi o di anonimi professori e compilatori. E giusto per fare un
esempio, citerei un testo del 1936, non molto conosciuto, co-
me La Spagna in fiamme, sottotitolo Todo o nada. Dovrebbe
trattarsi di « una narrazione», se crediamo a quanto dice l’auto-
re stesso, Paolo Sighinolfi, in una succinta nota bibliografica
posta a fine volume, dove figurano insieme, quali fonti della ri-
cerca e dell’ispirazione, la Spagna di Edmondo De Amicis e
«Gerarchia», la «Nuova Antologia» e «Tempo di Mussolini».
Certo, regge il titolo romanzesco, grazie a quelle fiamme
che hanno un legame più con la narrativa otto-novecentesca, fi-
nesecolare, apocalittica, che con il reportage tutto novecentesco

87
A. Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna cit., p. 453.

159

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di un Hemingway. Tanto che per riprendere una chiave di let-
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tura della nostra discussione, sospesa fra antico e moderno, po-


tremmo pensare più a un roman-péplum del 1906, a un testo
come Cartagine in fiamme di Emilio Salgari 88, che alle cronache
hemingwayane dedicate alla guerra civile spagnola fra il ’37 e il
’39 e incluse in By-line 89. Tenendo presente, tuttavia, che Si-
ghinolfi non vale né Salgari, né De Amicis. Di quest’ultimo fa
fatica persino a conservare il mimetismo « esotico» relativo ai
luoghi percorsi e alle città visitate 90 e sembra quasi di essere in
Italia, tante sono le evocazioni della «Mamma», della «Patria»
e di « uomini in camicia nera». Le fiamme e il fuoco, poi, non
sono, come in Emilio Salgari, parte integrante, costitutiva, del
modo di concepire la letteratura e la storia, e non vanno tanto

88
Cfr. Luciano Curreri, Il Fuoco, i Libri, la Storia. Saggio su Cartagine in
fiamme (1906) di Emilio Salgari, in Emilio Salgari, Cartagine in fiamme, nell’edi-
zione in rivista del 1906, a cura di Luciano Curreri, Roma, Quiritta, 2001, pp.
315-403. Ma cfr. anche, per altri più o meno sotterranei legami col récit antiqui-
sant, L. Curreri, Il mito culturale di Cartagine nel primo Novecento tra letteratura e
cinema, in Cabiria & Cabiria, a cura di Silvio Alovisio e Alberto Barbera, Milano
– Torino, Il Castoro – Museo Nazionale del Cinema, 2006, [pp. 299-307], pp.
303-304 (e 306 per le relative note). Negli anni del consenso che sfuma col pro-
trarsi della guerra di Spagna e la sconfitta di Guadalajara del marzo 1937, che get-
ta un’ombra anche sull’impero, Scipione l’Africano di Gallone, nell’estate di
quell’anno, tra Roma e Venezia, vuole pure rincuorare gli animi.
89
E. Hemingway, By-line (1967), Milano, Mondadori, « Oscar-Scrittori
del Novecento», 1999, pp. 263-308.
90
Mimetismo che, al di là dei plagi, è una questione ancora aperta, con
una bibliografia ben diversa alle spalle, da Mérimée e Chateaubriand a Custine,
Dumas, Didier, alla Sand e soprattutto al Gautier del Voyage en Espagne (1843),
il capolavoro a cui attingere ma anche con cui misurarsi, trent’anni dopo, in un
contesto letterario davvero diverso. Cfr. Edmondo De Amicis, Spagna, Firenze,
Barbèra, 1873 e oggi Padova, Franco Muzzio Editore, 1993. Ma si veda almeno
Bianca Danna, Dal taccuino alla lanterna magica. De Amicis reporter e scrittore di
viaggi, Firenze, Olschki, 2000, [pp. 29-62], p. 32, e C. A. Madrignani, Una
« favola» spagnola in Edmondo De Amicis, Manuel Menendez, Palermo, Selle-
rio, 1991, pp. 9-33; si tratta di una novella tratta dalla II edizione accresciuta
delle Pagine sparse (1874), Milano, Tipografia Editrice Lombarda, 1876.

160

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al di là della copertina bianca della Casa per Edizioni popolari
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di Sesto San Giovanni, in cui spiccano significativamente alcu-


ni neri campanili e edifici semidistrutti di una città avvolta da
rossi incendi; e qui il « rosso» sembra anche un colore politico,
che addossa la responsabilità dell’incendio e della distruzione a
comunisti e dintorni, un po’ come nel caso della mensonge ex-
trême relativa a Guernica 91.
Ma non si tratta, ovviamente, di Guernica, il cui triste de-
stino non si è ancora prodotto nella storia. E si tratta, invece,
quasi sicuramente, di Madrid. Del resto, la struttura del volume
di Paolo Sighinolfi supporta l’epilogo di Madrid liberata !, che è
un epilogo fantascientifico per il 1936 ma dato per scontato da
quasi tutti gli osservatori, che credono all’imminente caduta
della capitale. Di più. Alcuni corrispondenti portoghesi e ingle-
si – quasi ad amplificare un dato di un falso reportage su cui ri-
torneremo, scritto nell’estate 1936 da El Gringo-Vittorini, con
l’Inghilterra che via Portogallo paga la marcia su Madrid – pre-
parano in anticipo il racconto dell’entrata vittoriosa dell’eserci-
to nazionalista nella capitale, proprio come Sighinolfi:

Madrid, stretta in un cerchio di fuoco, è caduta ! La tragica ora,


che ha straziato la Spagna ed ha riempito di orrore il mondo, è sul
finire.
I nazionali sono entrati a Madrid dopo l’esodo del governo rivo-
luzionario e dei suoi seguaci.
Finalmente, la grande battaglia per Madrid è stata vinta dalle
truppe nazionali 92.

91
B. Bennassar, Mensonges extrêmes: «L’incendie» de Guernica et le « fascisme»
du POUM, in La guerre d’Espagne et ses lendemains cit., [pp. 331-334], pp. 331-332.
92
Paolo Sighinolfi, Madrid liberata ! in La Spagna in fiamme (Todo o na-
da), Sesto San Giovanni (Milano), Casa per Edizioni Popolari (Barion), 1936,
[pp. 245-250], p. 247. Ma cfr. B. Bennassar, La bataille de Madrid, in La guerre
d’Espagne et ses lendemains cit., [pp. 158-164], p. 158: «Lorsque s’engage, à la fin
du mois d’octobre 1936, la bataille de Madrid, l’initiative appartient aux troupes
nationalistes. Les milices et les fragments de l’armée régulière qui se battent pour

161

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Al di là di quest’epilogo, in anticipo di tre anni, Paolo Si-
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ghinolfi riesce comunque a raccontare, certo ambiguamente e


unilateralmente, l’inizio della fine, fotografando la non duratu-
ra intesa fra i comunisti sovietici e gli anarchici. Anche se i due
gruppi, un po’ come i « rossi» del teatro di propaganda, sono
uniti – o riuniti – nel distruggere, dare alle fiamme e lasciare
terra bruciata alle « pacifiche» forze di liberazione nazifasciste.

Su Madrid si sferra ancora l’odio diabolico dei caporioni sovietici,


che, d’accordo con i dirigenti del movimento anarchico spagnolo,
oggi al governo, vogliono ridurre la capitale madrilena a un muc-
chio di rovine e a un carnaio, prima di fuggire 93.

Ma la struttura della Spagna in fiamme è interessante non


soltanto per questo epilogo profetico a lungo termine – i fran-
chisti entreranno a Madrid il 28 marzo del 1939 – ma anche
perché è tutta tesa a registrare, fra i sette capitoli e l’epilogo, le
paure, i miti e i sogni della Destra – e della Chiesa – nel 1936,
con itinerari che diventeranno luoghi comuni dell’immaginario
fascista e che vanno dalla Bufera sacrilega all’Alcazar e dall’Alca-
zar a Madrid liberata ! 94
Del resto, questo percorso quasi esemplare, centrato
sull’« Alcazar » 95, non può non far venire in mente il plot del

la République sont sur la défensive, et l’issue de la lutte paraît à la fois évidente et


prochaine. [...] Le 19 octobre, Franco relance la marche sur la capitale. Presque
tous les observateurs croient à l’imminence de sa chute, et certains correspon-
dants de guerre portugais et anglo-saxons rédigent à l’avance les récits de « l’en-
trée victorieuse» des troupes franquistes». E lo stesso Bennassar rinvia poi a Paul
Preston, Franco. A Biography, London, Harpers Collins Publishers, 1993.
93
P. Sighinolfi, La Spagna in fiamme (Todo o nada) cit., p. 249.
94
Ivi, pp. 151-183, 211-234, 245-250.
95
Cfr. a proposito Pietro Caporilli, L’assedio dell’Alcazar, Prefazione del
Protagonista Generale José Moscardó, 21 illustrazioni fuori testo, Roma, Unio-
ne Editoriale d’Italia, 1940; in particolare i capitoli che vanno da Il battesimo
del fuoco, pp. 57-65, a L’inferno nel cerchio di ferro e di fuoco, pp. 89-102. Nella
bibliografia di Pietro Caporilli precede il volume citato una Spagna rossa, Ro-

162

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lungometraggio premiato nel 1940 alla Mostra cinematogra-
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fica di Venezia, L’assedio dell’Alcazar di Augusto Genina 96. Si


tratta di un film che alla vicenda collettiva sovrappone una
storia d’amore simbolica fra il capitano della fortezza-città di
Toledo e una ragazza di Madrid. Certo, è un processo di
drammatizzazione scontato. E poi il film di Genina doveva
competere in quell’occasione con Oltre l’amore di Carmine
Gallone, l’altra grande produzione drammatica della Mostra
con il binomio portante di amore e patria e con due attori del
calibro di Alida Valli e Amedeo Nazzari, rispettivamente nelle
parti della figlia di un nobiluomo romano e di un carbonaro
all’inizio dell’Ottocento. Tutto vero. Ma ricordiamoci di Ma-
dridgrad, delle ossessioni dei ribelli e degli esorcismi che le
curano in quegli anni.

Dall’« Alcazar » a Madrid, dunque, con passione, ma sim-


bolica, casta, entro una cornice di Credo e Ave Maria. Come
attesta, in accordo con la « narrazione » di Paolo Signinolfi, un
lavoro teatrale del 1937, Per la Croce. I cadetti dell’Alcazar, di
Romeo Rivalta, attore professionista e fascista della prim’ora
che, grazie a qualche mese in più, può già mettere in scena un
fronte nemico non compatto. Certo, non si rappresentano i
disaccordi profondi e importanti tra comunisti e anarchici –
estremisti percepiti ancora in blocco e contrapposti ai modera-
ti, già in sintonia coi nazionalisti – ma si enunciano paure, mi-
ti e sogni della Destra e della Chiesa in relazione alla guerra ci-
vile spagnola.

ma, Ardita, 1938. Sulla vicenda dell’«Alcazar», poi, tra la fine anni Trenta e
inizio anni Quaranta, ritornano molti testi di parte, come, per esempio, quelli
di Valerio Pignatelli, I cadetti dell’Alcazar. Romanzo, Milano, Sonzogno 1937, e
di Alberto Bargelesi, L’epopea dell’Alcazar, Milano, Istituto di Propaganda Li-
braria, 1941. Ma si veda il prosieguo del discorso nel testo.
96
Cfr. Corrado Di Vanna, L’assedio dell’Alcazar. Un film de A. Genina,
«Revue belge du cinéma», 17, 1986, pp. 49-52.

163

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Vai al diavolo tu, l’anarchia, la coscienza individuale, i diritti
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dell’uomo e il sol dell’avvenire. Basta ! Basta ! Ritorno al Credo e


all’Ave Maria, mi ci trovo meglio ! 97.

Insomma, gli itinerari di Sighinolfi, soprattutto quelli con-


tenuti fra la Bufera sacrilega e l’Alcazar, fanno pensare a un oriz-
zonte ideologico impregnato di Croce e di cristianità ‘a buon
mercato’, attribuibile più al comunicato stampa o alla propa-
ganda teatrale – magari non sempre e non del tutto piatta – che
a un vero romanzo popolare. Lontana dall’esotismo ottocente-
sco, pagano più che cristiano, e dalla tensione apocalittica di un
Salgari, La Spagna in fiamme (1936) si avvicina allora a certe
dubbie, sospette operazioni narrative della seconda metà degli
anni Trenta – diffuse sempre in ambito cattolico – come Il Me-
diterraneo in fiamme (1939) di Emilio Garro 98.
Le fiamme restano ma la Spagna pagana – quella, anche, di
Richard Wright 99, di Pagan Spain (1957), e dello stesso
Hemingway – si allontana e sfuma in un’apoteosi di Roma: di
una Roma anche pagana ma soprattutto cristiana. A guerra civi-

97
Cfr. P. Cavallo, La guerra di Spagna nel teatro del ventennio fascista cit.,
p. 419.
98
«Per tal modo, col trionfo di Lepanto, sommersa la Mezzaluna, tornò a
risplendere sulle acque del Mediterraneo la Croce, e, con la Croce, la Civiltà
cristiana e latina dell’Italia e di Roma». Cfr. Emilio Garro, Il Mediterraneo in
fiamme, Torino, S.E.I., 1939 ma si cita dalla seconda edizione del 1941, p. 370.
99
Richard Wright, Spagna pagana (1957), Milano, Mondadori, 1962 e «I
Record », 1966, [pp. 306-369], p. 307: «Poiché ormai avevo la sensazione
profonda, la sicurezza addirittura, che la Spagna non era una nazione occidenta-
le, che cosa voleva dire, allora, essere occidentale ? (E la Repubblica ? La guerra
civile ? Gli anarchici ? Anche questi fatti, visti alla luce del carattere non occi-
dentale del paese che avevo visto, risultavano profondamente diversi e meno
importanti) [...] In Spagna non esisteva una vita laica, profana. La Spagna era
una nazione religiosa, uno stato sacro, sacro e irrazionale come lo Stato sacro
degli Akan nella giungla africana. Anche la prostituzione, la corruzione, l’eco-
nomia e la politica avevano qualcosa di sacro. In Spagna, tutto era religione»
(corsivi del testo).

164

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le conclusa, all’altro capo della cronologia che la delimita, ecco
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Il Mediterraneo in fiamme, un romanzo storico ambientato nel


XVI secolo con tanto di trionfo cristiano finale 100 – la vittoria
della Lega Santa a Lepanto contro i Turchi al tempo di Pio V
(1571) – ma proiettato all’incirca sullo stesso orizzonte ideolo-
gico de «Il Mediterraneo»: il periodico illustrato che svolge
« una grossolana sfacciata propaganda fascista» e che offre, tra
l’altro, « didascalie bilingui, in italiano e in spagnolo, molte del-
le quali celebrano le vittorie fasciste in Spagna» 101.
Paolo Sighinolfi, allora, sembra poter rientrare, con la sua
« narrazione» spagnola, in quell’intenso e decisivo contesto sto-
rico-politico analizzato da Renzo De Felice in relazione all’at-
teggiamento « nettamente a favore di Franco» della cultura cle-
ricale italiana, « dalle più alte gerarchie ai livelli più bassi»: a
partire dalle indicazioni fulminee date già nel luglio del 1936
dall’« Osservatore romano», sulla cui « scia» si muove « la stra-
grande maggioranza della stampa cattolica» 102 e che compare
nella succinta nota bibliografica della Spagna in fiamme del
1936 103. Del resto, la coeva produzione di Sighinolfi pare con-
fermare il dato del celebre storico: precedono infatti La Spagna
in fiamme titoli come Il cardinale Lambertini (Benedetto XIV) e
Don Bosco: il salvatore di anime, entrambi del 1935 104.
Gli anni Trenta e, più in generale, i due decenni tra le due
guerre mondiali, in Italia, come in Spagna (e in Francia), sono

100
Emilio Garro, Il Mediterraneo in fiamme cit., pp. 359-370.
101
Cfr., a questo proposito, Giuditta Isotti Rosowsky, Introduzione a
Un’amicizia senza corpo. La corrispondenza Parisot-Savinio 1938-1952, Paler-
mo, Sellerio, 1999, [pp. 9-43], p. 19.
102
Renzo De Felice, La politica fascista nelle sabbie mobili spagnole, in Mus-
solini il duce. Lo stato totalitario 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981 e «Tascabi-
li»,1996, [pp. 331-466], p. 376.
103
P. Sighinolfi, La Spagna in fiamme (Todo o nada) cit., p. 251.
104
E pubblicati dalle edizioni Aurora. Cfr. anche, significativamente, E.
Garro, Cento anni fa: azioni sceniche sulla vita di Don Bosco e sul Natale, Torino,
S.E.I., 1941.

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quelli in cui prende forma un intricato e complesso processo di
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rivalità e di osmosi tra – potremmo dire con la mappa tracciata


da un recente volume – la politicizzazione del religioso voluta
dalla chiesa e la sacralizzazione della politica voluta dai totalita-
rismi 105. Il 1935, poi, è l’anno delle sanzioni, l’anno in cui altri
mari, oltre al nostrum, sono al centro degli interessi italiani e fa-
scisti. Ed è l’anno romanzesco de L’aquila lontana di Olga Vi-
sentini; dell’« abilissima Olga Visentini che, con L’aquila lonta-
na, definì il perfetto libro fascista per l’infanzia, raccontando,
peraltro in una lingua affascinante e linda, le colte e raffinate
peripezie di un giovanissimo patrizio che va a riprendersi il pa-
dre prigioniero nelle Gallie» 106.
Ma il 1935 è anche l’anno in cui un narratore come Igna-
zio Silone inizia a scrivere le pagine sul vecchio Don Benedetto
– comprese quelle, invariate, sul comportamento politico della

105
Cfr. il ricco Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra le
due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia), a cura di Daniele Menozzi e Re-
nato Moro, Brescia, Morcelliana, 2004, diviso in tre parti, dedicate rispettiva-
mente a Autorità, Nazione e Unità, tutte importanti (la prima, in specie, va vi-
sta per intero). In particolare si vedano per la prima Alfonso Botti, La Chiesa di
fronte a un regime autoritario. La dittatura di Primo de Rivera come « occasione
perduta», pp. 75-123, per la seconda Carmelo Adagio, Una liturgia per una na-
zione cattolica. La Chiesa spagnola e le letture provvidenzialiste della dittatura
(1923-1930), pp. 171-196, e per la terza Renato Moro, Il mito dell’impero in
Italia fra universalismo cristiano e totalitarismo, pp. 311-371.
106
Cfr. Olga Visentini, L’aquila lontana, Milano, Mondadori, 1935, per
cui si scorrano, al solito, le trionfalistiche pagine finali dell’ultimo capitolo, «Io
vedo il sole ! », pp. 187-194. La citazione è tratta da Antonio Faeti, Un tenebroso
affare. Scuola e romanzo in Italia, in Il romanzo, a cura di Franco Moretti, Volu-
me primo, La cultura del romanzo, Torino, Einaudi, 2001, [pp. 107-128], p.
123. Cfr. poi, sul libro fascista per l’infanzia, Adolfo Scotto Di Luzio, L’appro-
priazione imperfetta. Editori, biblioteche e libri per ragazzi durante il fascismo, Bo-
logna, Il Mulino, 1996, che attira l’attenzione sulla Visentini autrice di Libri e ra-
gazzi, Milano, Mondadori, 1936, e Scrittori per l’infanzia, ivi, 1943, e per l’aqui-
la (imperiale e dantesca), Simona Urso, L’aquila imperiale e il veltro dantesco. Il
fascismo come orizzonte messianico, in Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture
religiose tra le due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia) cit., pp. 247-274.

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Chiesa, sulle sue gerarchie – di Pane e vino, raccolte, vent’anni
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dopo, sotto il titolo, più noto, di Vino e pane 107.

Mentre la propaganda di destra si muta avveniristicamente


– con poco intuito letterario e molta inconsapevolezza politica
– in profezia, dando per scontati eventi solo annunciabili nel
1936 e destinati ad avverarsi anni dopo (come in ogni profezia
che si rispetti, del resto), la storia non trova, dall’altro lato del
fronte, un vero accordo con l’invenzione, specie, come si è det-
to, in quei diari e in quegli studi che sono figli del travaglio ma-
turato da italiani e tedeschi nello scontro col fascismo e nazi-
smo in Spagna.
Eppure l’orizzonte degli anni Trenta e Quaranta vede sor-
gere tante opere narrative, percepite come tali dai lettori e forse
dagli stessi autori, nonostante una più o meno evidente compo-
nente romanzesca paia soccombere sotto gli input autobiografi-
ci legati al conflitto spagnolo (si pensi, ancora, a Koestler). Ma
il « c’è la guerra» muta anche in « c’era una volta la guerra civile
di Spagna» perché scrittori « a tempo pieno», anche molto di-
versi fra loro, come Malraux, Orwell e Hemingway, tentano di
accordare subito la storia con l’invenzione, con l’immaginario,
e non certo per far scomparire la storia nella letteratura: perché
la loro letteratura nasce dalla memoria ma non vuole giacere in
essa come testimonianza, diario, saggio, studio, articolo, più o
meno di parte. Così si può recuperare il passato, anche quello
più recente, e al tempo stesso si può credere nell’operazione
narrativa: Madrid c’era, Madrid c’è.
Una certa, autobiografica retorica, magari tradotta in ba-
rocco o romanticherie, può anche negarvi il piacere di leggere
d’un fiato e senza pregiudizi For Whom the Bell Tolls (1940) di
Ernest Hemingway e farvi puntare sulla più evidente passione

107
Cfr. Ignazio Silone, Vino e pane, Milano, Mondadori, 1955 e « Oscar»,
1981, pp. 23-52.

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letteraria e civile di Homage to Catalonia (1938) di Orwell – o
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di Les grands cimetières sous la lune (1938) di Bernanos 108. Tut-


tavia, è bene suggerire che dietro la vicenda collettiva emerge,
in Hemingway come in Orwell, « un atto estremo di individua-
lismo» 109, che è comunque un po’ retorico, specie a ridosso
della guerra, e sia che riguardi l’ideologia sia la letteratura, la
letteratura in sé. Ragion per cui non è fuorviante partire dalle
cinquecento pagine di Per chi suona la campana, specie se si
vuole leggere un romanzo che ha segnato l’immaginario di un
secolo; passando poi, magari, a L’espoir, l’altro colosso, già cita-
to, di Malraux.
E non si tratta certo di seguire, assecondando esteriormente
mode o percorsi ermeneutici più o meno recenti, il tracciato
narrativo di un Novecento tradotto in film – che, fra parte na-
zionalista e repubblicana, è insito tuttavia nella guerra civile 110 –
ma di rinverginare rapidamente l’origine di alcune vie privilegia-
te della narrativa – poi anche italiana – in relazione alla guerra di
Spagna; compresa la « compagnia naturale» ma poco nota di ro-
manzieri spagnoli – Ramón Sender, per esempio, con il suo Mo-
sén Millán (1953), riproposto nel 1960 col titolo di Requiem por
un campesino español –, il valore e il destino letterari dei quali de-
vono essere misurati anche sulla più larga ed emblematica inci-
denza dei poeti negli anni del conflitto, dell’immediato dopo-

108
Su cui torneremo nel terzo capitolo, in relazione a Tabucchi e a Sostie-
ne Pereira.
109
Cfr. M. Maffi, Postfazione a G. Orwell, Omaggio alla Catalogna cit., p.
255. Ma cfr. il prosieguo del discorso nel testo.
110
Per la parte nazionalista e italiana si pensi a quanto detto prima circa
L’assedio dell’Alcazar di Augusto Genina; per la parte repubblicana e francese, per
esempio, si consulti André Malraux, Espoir. Sierra de Teruel (1938-1939), Scéna-
rio du film, Texte bilingue, Introduction de François Trécourt, Note technique
de Noël Burch, Paris, Gallimard, «Folio», 1996. Si veda poi, per un quadro d’in-
sieme, Marcel Oms, La guerre d’Espagne au cinéma cit.. Ma cfr. almeno La guerre
d’Espagne vue par le cinéma, «Les Cahiers de la Cinématheque», 21, 1977 e La
guerre civile d’Espagne et le cinéma, «Revue belge du cinéma», 17, 1986.

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guerra e oltre. E basta pensare, a questo proposito, alla costruzio-
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ne e alla struttura di un saggio – ancora oggi molto importante –


come quello del citato Aldo Garosci, ovvero Gli intellettuali e la
guerra di Spagna, pubblicato nel 1959 111, da Einaudi, un anno
prima della seconda edizione de Gli zii di Sicilia.
Il pensiero – l’istinto – di Garosci colloca il discorso su Gli
intellettuali italiani e la guerra di Spagna in Appendice, quasi
come i « desideri» di Orwell ci guidano a leggere « le parti più
politiche e meno narrative » del suo romanzo spagnolo come
« appendici» 112. I limiti di questa ricezione storico-letteraria –

111
Cfr. ancora A. Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna cit., che
tuttavia dedica un capitolo a Ramón Sender, alle pp. 160-178, anche se non ci-
ta nel testo e nella bibliografia (per cui cfr. p. 469) né la prima edizione messi-
cana del 1953 né la seconda americana del 1960 di quel Mosén Millán che sfu-
ma in un anonimato quasi sciasciano, almeno a livello del titolo, e diventa il Re-
quiem por un campesino español. Notevole l’attacco di Garosci, poi impegnato a
separare in Sender il reportage realistico dall’opera narrativa vera e propria, un
po’ a vantaggio, come si suggeriva sopra, della struttura del volume, con i poeti
a far la parte del leone, almeno inizialmente. Ma, ripeto, l’incipit è notevole e fa
pensare a Sciascia, specie per un paio di dati (il ritorno di Sender sulla guerra di
Spagna e l’evocazione di Azaña, cui Garosci dedica un capitolo, alle pp. 89-
109): «Ma la lenta tenacia e il modo cauto, quasi indiretto, con il quale lo scrit-
tore è ritornato sui temi della guerra spagnola, stanno a indicare un travaglio
più intenso, una fedeltà diversa e più fine, anche se non meno completa, ai mo-
tivi del suo esilio. Cosicché pensiamo che non per caso Sender ci abbia dato, in-
sieme con Azaña, la maggiore creazione nata sulle vicende della guerra civile».
Inoltre, il Requiem por un campesino español – che è il requiem per Paco, omag-
gio alla memoria eseguito dal prete Millán – nella sua forma di racconto, rac-
conto lungo, più che di romanzo, in contrasto con l’ampiezza – e talora con la
prolissità – di altre opere di Sender, risponde davvero bene a quelle righe di Ga-
rosci e a una sintesi, direi ancora, sciasciana, vicina, almeno in tal senso, alla te-
stualità “finita” de L’antimonio (1960), che non sarebbe male riproporre insie-
me al Requiem (1960) al pubblico italiano, in un volumetto che provasse a illu-
strarne i rispettivi approdi. E cfr. la breve ma intensa Préface di Hubert Nyssen,
Pour qui sonnait le glas, in Ramón Sender, Requiem pour un paysan espagnol,
Lecture de Bernard Lesfargues, Arles, Actes Sud, 1990, pp. 7-10.
112
Cfr. George Orwell, Omaggio alla Catalogna (1938), a cura di Riccar-
do Duranti, Milano, Mondadori, 2002, p. 2.

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peraltro consapevoli, come si è visto – sono i limiti che L’anti-
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monio di Sciascia tenta, a suo modo, di superare, accordando


storia e invenzione e, nel far questo, procedendo anche e so-
prattutto al di là del punto di vista intellettuale « meridionali-
sta » che uno scrittore importante come Francesco Jovine aveva
fissato quindici anni prima in un racconto più breve, Michele a
Guadalajara.
Rispetto a L’antimonio, il terzo testo narrativo de L’impero
in provincia. Cronache italiane dei tempi moderni (1945) ha un
titolo e uno sviluppo meno suggestivi, che si inscrivono diretta-
mente nella storia delle relazioni tra l’impero, lo spirito fascista
e un’arcaica, pigra, quasi « bozzettistica» Italia del Sud. E questa
storia oscilla tra due poli, tra due registri, il dramma e il ridico-
lo. Quest’ultimo, tuttavia, non è la « traduzione» 113 del dram-
ma ed è rintracciabile piuttosto in seno a quella tradizione che
fa seguire ambiguamente la beffa al danno; danno all’interno
del quale la guerra civile spagnola scompare.
Di Guadalajara, infatti, il racconto non dice praticamente
nulla 114, perché contano solo il prologo e l’epilogo, ovvero, per
schematizzare, il dramma, con la disoccupazione, il partire vo-
lontario per la guerra, e il ridicolo finale, che non amplifica quei
dati, anzi li sfuma e in qualche modo li annulla: con il protago-
nista che in guerra perde un braccio – in quello di Sciascia una
mano – ma è anche beffato da «Angelo calzolaio» che « durante

113
Cfr. ancora V. Jankélévitch, L’ironie cit., pp. 9-19 e 129-143.
114
Fatte le debite differenze, maturate in seno ai tempi diversi che vedono
nascere i due testi, a mezzo secolo di distanza, fra il 1945 e il 1996, della Gua-
dalajara di Jovine non sappiamo nulla come non sappiamo nulla della Guernica
di Lucarelli, per cui cfr. Carlo Lucarelli, Guernica, Milano, Il Minotauro, 1996
e quanto ne dirà il terzo capitolo del presente volume. Ma in Jovine è l’urgenza
di altri dati, il Sud, la provincia, mentre in Lucarelli non emerge nessuna urgen-
za storica, storico-culturale, e il divertissement del polar, del noir, dispone in mo-
do disinvolto di un’atmosfera apocalittica rapidamente evocata con citazioni di
noti scrittori, personaggi dell’epoca, films e tant’altro.

170

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la sua assenza [...] ha fatto tante cose per lui», occupandosi del-
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la moglie e della famiglia in tutti i sensi 115.


Certo, c’è il bisogno di « raccontare [...] raccontare sem-
pre» 116, come in Sciascia, ma non si sa bene che cosa sia succes-
so in Spagna e la consapevolezza appare solo intima, privata, e
non è – né vuole divenire a partire dalla guerra – storica e col-
lettiva. L’approdo è ancora una volta il paese, la provincia, il
Sud, che sono i dati a cui rimangono ancorati il racconto e il
personaggio di Francesco Jovine.
Il protagonista de L’antimonio, dopo essere rientrato dal-
la Spagna, parla veramente della guerra, mette in campo una
sua consapevolezza, la rende storica e collettiva, e poi decide
di partire, di lasciare il paese, la famiglia, per vedere cose nuo-
ve; Michele invece resta in paese e ne diventa prigioniero, cir-
condato dalle mosche, come i vecchi ( un po’ come quelli di
Brancati ):

Lui non sapeva bene che cosa era successo pochi giorni dopo a
Guadalajara; erano arrivati tanti carri armati che dovevano maci-
nare le ossa di tutti nemici.
Invece i soldati dell’altra parte erano saltati addosso come diavoli
sui primi carri con bottiglie di benzina e bombe a mano: i primi
carri s’erano fermati, poi erano scoppiate tante bombe intorno a
lui; uno aveva gridato: – Italiani, fratelli –; e Michele era morto.
Quando si svegliò era in una casa di campagna; gli parve di resu-
scitare; aveva la febbre altissima, era carico di bende e sentiva il
braccio morso da una muta di cani arrabbiati.
[...]

115
Francesco Jovine, Michele a Guadalajara in L’impero in provincia. Cro-
nache italiane dei tempi moderni, Roma, Einaudi, 1945 e Torino, Einaudi,
«Nuovi Coralli», 1981, [pp. 53-77], p. 75. Per una contestualizzazione genera-
le del racconto cfr. Giovanni Arpino, Lidia De Federicis, Il novecento. Antologia
della critica letteraria e dei narratori e poeti italiani, Torino, Petrini, 1971, pp.
258-275.
116
F. Jovine, Michele a Guadalajara cit., p. 74.

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Il primo a venirgli incontro è Angelo calzolaio che gli batte sulla
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spalla come volesse impadronirsi ancora di lui. Angelo parla, gli


racconta di Rosalba e dei bambini, specie di quello che è nato du-
rante la sua assenza; lui gli è amico, ha fatto tante cose per lui.
Tutto ha fatto per lui, – dice un contadino che li accompagna e
strizza l’occhio furbescamente.
– Un braccio, – dice Angelo, – che cos’è un braccio ? perdi un
braccio; pare una disgrazia e invece può essere una fortuna. È il
governo che ti ha mandato in guerra ? Il governo ti darà da cam-
pare. Campi e non lavori più.
[...]
Angelo gli voltò le spalle e se ne andò: Michele pensò che sarebbe
stato inutile inseguirlo [...] Michele mise il coltello sulla tavola e
scese sullo spiazzaletto davanti alla casa; rimase immobile, seduto
su un muricciolo diruto. Solo ogni tanto si scacciava le mosche
che gli si posavano sul viso e pensava che i vecchi hanno tante
mosche addosso e tanta poca forza per scacciarle 117.

Certo, il dramma non è svuotato – c’è più Verga che


d’Annunzio novelliere ( presente, comunque, nel dettato sen-
suale della prima parte ) – ma neanche reso assoluto, mitico,
come in Leonardo Sciascia, dove la mutilazione è morte e ri-
nascita al tempo stesso, fine e principio dell’eroe e del narrato-
re, al di là del ritorno, del paese, delle sue immote coordinate.
L’invenzione, così, non si arrende alla storia ma si accorda con
essa e la muta e la muterà per sempre in scrittura, in una lette-
ratura che evade la cronaca e vuole vedere cose nuove. Viene in
mente Robert Jordan che – dopo aver pensato agli apparecchi
come agli squali della Corrente del Golfo, ma meno naturali
nei movimenti, irrigiditi da « un destino meccanizzato» – dice
a se stesso: «“Dovresti scrivere [...] Forse un giorno scriverai
di nuovo”» 118.

117
Ivi, pp. 75-77.
118
E. Hemingway, Per chi suona la campana cit., p. 95.

172

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In Jovine, invece, l’oscillazione un po’ ambigua che è nella
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storia di Michele e nelle altre dell’Impero in provincia, più che


all’Antimonio può far pensare a un film di Luigi Zampa, Gli an-
ni ruggenti, del 1962, che, della commedia all’italiana, è « il mi-
glior film sull’argomento [il fascismo fracassone di provincia,
camicie nere e adunate spontanee], liberamente tratto dal-
l’Ispettore di Gogol [con soggetto di Amidei, Talarico e Zampa,
sceneggiatura di Maccari, Scola e dello stesso Zampa] dove un
timido assicuratore (Nino Manfredi) viene creduto da tutti gli
abitanti di una cittadina pugliese un ispettore in incognito del
partito e trattato come un semidio, almeno fino a quando non
salta fuori la verità» 119.
Gli anni ruggenti si muovono dunque nel solco della com-
media all’italiana ma entro i limiti di un finale amaro e rivelato-
re, anticipato, qua e là, in modo scherzoso, divertente ma signi-
ficativo, anche in relazione alla guerra civile spagnola.
Ai poveri disoccupati di Jovine – e poi di Sciascia 120 – che
reclamano per uno sfratto ingiusto e per la cronica mancanza di
lavoro, il podestà Salvatore Acquamano, interpretato da uno
straordinario Gino Cervi, consiglia di partire volontari per la
Spagna. La replica di uno degli offesi non sposa prospetticamen-
te la rabbia « meridionalista» – al limite tardoneorealista – del fi-
nale del film e anzi la sfuma in una battuta comica ma interessan-
te: «Andateci voi in Spagna. Io sono tornato adesso dall’Africa».
A suo modo, il film offre una battuta felice e significativa,
che non così casualmente introduce quell’Africa che, pure con
altri e qui già richiamati intenti, aveva evocato e denunciato, in
letteratura, il citato Silone di Vino e pane:

119
Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana, Roma, Gremese, 1990, [pp.
43-46], p. 45. Da ricordare subito, almeno in nota, che Zampa fu forse il solo –
in sodalizio con Brancati – a dipingere, fin dagli anni Quaranta, la continuità tra
regime fascista e regime democristiano. Pensiamo ovviamente al dittico di Anni
difficili (1948) e Anni facili (1953), che richiameremo nel testo fra breve.
120
M. Coco, Jovine, Sciascia e la guerra di Spagna cit.

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Nella carrozza stipata di giovani richiamati alle armi, due signori
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col distintivo del partito parlavano della guerra. Gli altri viaggia-
tori tacevano e ascoltavano.
«Con l’invenzione di cui dispone il nostro esercito, vedrai che la
nuova guerra d’Africa finirà in pochi giorni» diceva uno. «Il “rag-
gio della morte” carbonizzerà il nemico.»
Egli si soffiò a piene gote sulla palma di una mano come per di-
sperdere della polvere, intendendo: sarà dispersò così.
«Hai letto che i richiamati di Avezzano saranno oggi benedetti dal
vescovo ?» disse l’altro. «Capirai, il “raggio della morte” aprirà la
via anche ai missionari» [...]
Anche il paesaggio aveva messo l’uniforme. [...] Il borgo pareva
irriconoscibile sotto una decorazione multicolore di ordini di
adunata, di festoni, di bandiere, di iscrizioni sui muri [...] Un
gruppo di uomini col distintivo, già rauchi per il troppo parlare,
discutevano attorno a un tavolo sui particolari della dimostrazio-
ne spontanea che doveva aver luogo nel pomeriggio. Vi si doveva
assicurare, con precauzioni rigide e severe, la partecipazione entu-
siastica di tutta la popolazione di Fossa e dei dintorni.
[...] L’impiegato dell’ufficio del registro, don Genesio, dopo aver
scorso le liste delle domande di arruolamento volontario, aveva
esclamato:
« Questa sarà la guerra dei protestati» 121.

La guerra d’Africa degli Anni ruggenti non è poi così lon-


tana, anche se non è la protagonista, come in Silone, e fa qua-
si “da spalla” alla guerra di Spagna, nella battuta sopra citata:
battuta che in tal senso si carica quanto meno di un certo rea-
lismo. La guerra coloniale in Etiopia finisce il 5 maggio del
1936 e quella civile in Spagna inizia il 17 luglio, con la rivolta
militare in Marocco. El fascismo se hunde en Africa. E l’Italia
torna ad interessarsi del Mediterraneo occidentale, dallo stret-
to di Gibilterra alle Baleari, come avremo occasione di ripete-

121
I. Silone, Vino e pane cit., pp. 272, 273-274, 275; ma si legga tutto il
capitolo XX, alle pp. 272-292.

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re 122, vanificando certe previsioni spagnole di un anno prima,
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relative all’estate-autunno del 1935 e all’invasione italiana


dell’Etiopia. Suggerisce Jean-François Berdah: « N’était-il pas
plus sage pour l’Espagne de lier son destin à celui des grandes
puissances, en attendant une décision collective ? De plus, en
obtenant gain de cause en Éthiopie, l’Italie se détournerait de
l’ouest méditerranéen, où une révision pacifique du statu quo
semblait encore possible » (con « la politique de revendication
espagnole à propos de Tanger ») 123.

In Italia, già nel 1936, le vie del fascismo finiscono per ap-
parire “infinite”. La “fede” degli italiani è messa a dura prova.
Politica e geografia si intrecciano dall’Africa meridionale all’Ita-
lia del Sud, dall’impero alla provincia, e poi da Melilla, dalla fa-
scia magrebina, alla Spagna. Unità italiane vi giungono soltanto
verso la fine del 1936, ma ad esse fanno seguito i contingenti
dei disoccupati volontari e dopo, ancora, quelli nati dal recluta-
mento occulto; in virtù del quale ai poveri disoccupati è fatto
credere di partire per l’Etiopia, dalla quale molte famiglie, tra
l’altro, ormai sazie di eroismi e di battaglie, aspettano, nella
lunga estate del 1936, il ritorno del reduce.

122
Ma si rinvia fin d’ora a un documento dell’epoca, di grande interesse, e
riproposto di recente, ovvero a Camillo Berneri, Mussolini alla conquista delle
Baleari (1937-1938), Prefazione di Claudio Venza, Postfazione editoriale di
Giuseppe Galzerano, Casalvelino Scalo (Salerno), Galzerano, 2002. Sull’autore
cfr. Carlo De Maria, Camillo Berneri. Tra anarchismo e liberalismo, Milano, An-
geli, 2004; in particolare cfr. le rapide annotazioni sull’Esilio, pp. 153-157. Sul
Mediterraneo conteso cfr. anche il già evocato L. Palacio, 1936: La Maldonne
Espagnole. Ou la guerre d’Espagne comme répétition générale du deuxième conflit
mondial cit., pp. 223-303.
123
Cfr. ancora Jean-François Berdah, L’Espagne au cœur des tensions eu-
ropéennes, in La démocratie assassinée. La République espagnole et les grandes puis-
sances 1931-1939 cit., pp. 105-204; in particolare pp. 155-169, dedicate a Du
réarmement allemand au conflit italo-éthiopien (1935-1936), con citazione da p.
164 e p. 200.

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C’è di che ridere se non ci fosse da piangere; e ridere non
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in virtù di un processo ironico, sorvegliato, di ridicolizzazione,


ma di un più semplice e immediato ridere per non piangere 124.
Il dramma degli Anni ruggenti, insomma, gira le spalle al ridico-
lo, di cui pure si è servito per dire il fascismo, perché è quasi ob-
bligato, un po’ come Jovine, fra provincia e Impero, fra Etiopia
e Spagna, a chiudere sull’immobilità del paese, con la lettera di
un vecchio che vive ancora in una « grotta» e chiede al Duce
una « finestra», prima di una casa, ricordando il figlio caduto in
Africa. Del resto, Gli anni ruggenti di Zampa provengono dagli
anni Quaranta e dai Cinquanta, dal connubio di letteratura e
cinema, dramma e commedia di Anni difficili e Anni facili, da
Brancati, dai suoi vecchi, dalle sue grotte, dalle sue mosche, e fi-
niranno per trasformarsi – dopo un lustro di (relativo) boom
(comico) – ne Gli anni inquieti di Salvatore Nocita, film docu-
mentario trasmesso dalla RAI il 13 luglio del 1967.
La Storia con la S maiuscola pare amplificare la battuta più
della commedia, forzando quest’ultima – nel finale e pur all’in-
terno di un codice noto e condiviso – e quasi straniandola a se
stessa. In questo senso, molte commedie all’italiana nate fra an-
ni Cinquanta e Sessanta intorno alla Storia, al periodo tra pri-
ma e seconda guerra mondiale, non lo sono propriamente e in-
teramente. L’attenzione concreta nei confronti della realtà so-
ciale e politica di quel periodo, e di quello immediatamente
successivo, genera, nel cinema di Luigi Zampa, un’oscillazione
ambigua simile a quella di Jovine, con una tradizione che pren-
de quasi la mano all’autore e finisce per far seguire al danno (il
figlio caduto in Africa) una sorta di beffa amplificata, per quan-
to nata in seno a nobili intenti (la lettera ingenua che non arri-
verà mai al Duce e che Manfredi si trova in tasca per caso).
Non resta, dunque, che aspettare; il vecchio, senza figlio, nella
sua grotta, Michele, senza braccio, nel suo paese.

124
Cfr. ancora V. Jankélévitch, L’ironie cit., p. 9: « le rieur bien souvent ne
se dépêche de rire que pour n’avoir pas à pleurer».

176

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La realtà del paese sporco e diroccato, poi, matura piutto-
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sto all’interno di quel dettato anche comico ma sostanzialmente


tragico che è proprio di Silone e che aderisce ancora e con forza
a quella realtà. Del resto, fra un paesino degli Abruzzi e i din-
torni di una cittadina pugliese, non c’è differenza: sono entram-
bi simboli, paesino e dintorni, di quel Paese ferito di cui il gio-
vane Impero e i suoi più o meno provinciali rappresentanti non
si curano affatto.
Quasi un quarto di secolo dopo, passando dagli anni della
guerra di Spagna a quelli del cosiddetto boom, grazie a
quell’« esprit d’ironie» che è « l’esprit de détente» e che « tourne
en ridicule [...] le danger» 125, possiamo trovare il fascismo chiu-
so in una « cage». Ma resta il fatto che la gabbia è funzionale e
pericolosa a un tempo, perché non libera e rende un po’ « boz-
zettistico» il paese ferito, che è anche un più sofferto mondo
piccolo (e piccolo mondo); quel microcosmo dal quale in Italia
giovani e meno giovani – da Calvino a Visconti – ripartono nel
secondo dopoguerra 126.
Certo, nella più tarda finzione cinematografica di Luigi
Zampa, resta almeno la possibilità di intonare un coro consola-
torio – quasi un inno, sciolto ormai da giovinezza e bellezza in-
verosimili – e di cantare ad alta voce: «Che schifezza, che schi-
fezza, tutto pieno di monnezza».

Leonardo Sciascia, dunque, ci appare come uno spartiacque,


quasi un limite letterario « puro», anche a livello stilistico, contro
l’urgenza della storia, e della cronaca, e la trasfigurazione, a tratti

125
V. Jankélévitch, L’ironie cit., pp. 10 e 9.
126
Mi riferisco a Giovannino Guareschi, Mondo piccolo. Don Camillo, Mi-
lano, Rizzoli, 1948 (e, più indietro, a Piccolo mondo antico e Piccolo mondo mo-
derno di Fogazzaro), e poi a Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino,
Einaudi, 1947 e, con importante prefazione dell’autore, 1964, e al film La terra
trema (1948) di Luchino Visconti, che è della stessa generazione del padre di
Don Camillo.

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deviante (per quanto nobile), della commedia all’italiana. Il suo
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scopo è far nascere la letteratura dalla memoria e non farla mori-


re, sparire in essa, positiva o negativa che sia, magari solo a secon-
da dei punti di vista. Per questo, l’insegnamento del narratore si-
ciliano può sostenere e sospingere il nostro discorso negli intrichi
della memoria letteraria italiana relativa alla guerra di Spagna; in-
trichi, viluppi di un episodio storico e letterario che non è inesi-
stente ma disseminato in rivoli di tradizioni, più o meno diversi e
significativi.
Anche se, in un certo senso, di una guerra (e di una tradi-
zione) « inesistente» potremmo davvero parlare, magari ripen-
sando al Calvino de Il cavaliere inesistente (1959), a quello stes-
so Calvino che propone a Sciascia di pubblicare L’antimonio
« così com’era» 127. Potremmo pensare alla guerra di Spagna co-
me a un’armatura che ognuno riempie con ciò che gli è più
congeniale, come sembrano fare, in fin dei conti, Orwell, Mal-
raux ed Hemingway e come fa, cangiando di verso, lo stesso
Sciascia, che, forse lasciandosi convincere da Calvino, non tra-
duce L’antimonio nel grande romanzo sulla guerra civile spa-
gnola del Novecento italiano.
Ma, proprio in relazione alla guerra « inesistente », ovvero
al rischio di una guerra intesa come armatura vuota, come in-
volucro, è più facile pensare che Leonardo Sciascia, avendone
consapevolezza, fin a partire dagli amati Malraux, Orwell, He-
mingway, non volesse sposare fino in fondo quell’atto estremo
d’individualismo che esperienze autoriali forti come quelle ci-
tate avevano incarnato in opere redatte nel tempo della guerra,
traducendo finanche in retorica e forse in parte tradendo l’ap-
puntamento etico – e l’appuntamento etico del linguaggio –
offerto dalla Spagna e dalla guerra civile. Sciascia, che scusava
Hemingway e gli altri autori con serenità di giudizio, in virtù
della loro partecipazione agli eventi, come abbiamo visto, non

127
C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia cit., p. 95.

178

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avrebbe forse perdonato a se stesso di correre inavvertitamente
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lo stesso rischio.

La Spagna offrì [...] un grande « appuntamento etico» [...] e in


questo appuntamento ciascuno finì per cercare, portare, ritrovare
ciò che gli era più congeniale: i fantasmi di morte di personaggi
agonizzanti, la rigenerazione della cultura, la visione quasi religio-
sa del futuro dell’umanità... Non fu tanto l’adesione incondizio-
nata a una causa, quanto piuttosto un atto estremo d’individuali-
smo, una ricerca di conferme, nell’azione, alle proprie concezioni
sociali e artistiche 128.

Una ricerca di conferme che per Sciascia, a vent’anni dalla


guerra, non può essere quella dell’azione, né tradursi tutta e so-
lo in un dato metaletterario e, al limite, in un gioco, perché « c’è
stata la guerra». La distanza temporale, allora, pone dei limiti,
nei termini sopra suggeriti, all’antimoniesca biografia di Leo-
nardo Sciascia e a quello che in tal senso avrebbe anche potuto
essere « il» grande romanzo sulla guerra di Spagna del Novecen-
to italiano.
E del resto, l’intero Novecento italiano fatica a fare i conti
con un conflitto che deve apparire già lontano nel 1945 e, a
maggior ragione, negli anni seguenti; perché la seconda guerra
mondiale e la Resistenza investono molte opere narrative e con-
tribuiscono a far perdere le tracce della lotta spagnola. Ma i par-
tigiani di Elio Bartolini, per esempio, la ricordano ancora, sep-
pur con un certo, ironico distacco, come in parte si è già avuto
occasione di suggerire: «Era la sua stessa osservazione a riportar-
lo indietro [...] alla sera in cui lo avevano mandato a chiamare
al comando, con il suo commissario, c’era una donna a capota-
vola, la donna più brutta che lui avesse mai visto. “Questa chi

128
Cfr. M. Maffi, Postfazione a G. Orwell, Omaggio alla Catalogna cit., p.
255, che rinvia, per l’« appuntamento etico» a Romolo Runcini, Illusione e pau-
ra nel mondo borghese da Dickens a Orwell, Bari, Laterza, 1968, p. 332.

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è? La nostra Pasionaria? ” [...] ma su al Comando avevano deci-
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so di fare, di quelle montagne e di quel gomito di Tagliamento,


una nuova Madrid; la Pasionaria diceva proprio così “Una nuo-
va Madrid”» 129.
Insomma, man mano che ci allontaniamo dal 1945, anno
troppo simbolico, per troppe persone e troppi eventi, la guerra
civile spagnola appare come una sorta di fantasma, evocato di
rado in narrazioni che si muovono già al di là delle specificità di
ogni singolo conflitto o che hanno addirittura una contiguità
relativa e generale con il tema della guerra.
Possiamo verificarlo dando un’occhiata alla seconda metà
degli anni Quaranta e salendo – ma senza dimenticare quanto
si diceva nel primo capitolo a proposito di Vittorini e Brancati,
sui quali comunque anche qui torneremo – dal 1945 de L’im-
pero in provincia al 1947 e al 1949. Possiamo pensare a Cesare
Pavese e al povero Scarpa, « un umile eroe della guerra di Spa-
gna», che troviamo ne Il compagno, scritto nel 1946, « parallela-
mente ai Dialoghi con Leucò», ma con la pubblicazione del qua-
le, per Pavese, « si apre il 1947» 130, l’anno in cui incomincia la
campagna repressiva di McCarthy, la dottrina Truman, con
l’impegno americano per i paesi minacciati dal comunismo, e
in cui si costituisce il Kominform, l’ufficio di informazione dei
partiti comunisti. (Ed è pure l’anno de La peste di Camus e del-
le Lettere dal carcere di Gramsci).
Nel romanzo di Pavese emergono, al di là di Scarpa e nel
pur « noioso ed inefficiente parlato» 131, frammenti significativi
proprio in relazione alla guerra civile spagnola, a « un’educazio-
ne politica» che avviene non per trasmissione generazionale, da
padri a figli, da vecchi a giovani, ma « per dure, brutali lezioni
avute direttamente dalle cose e dentro le cose, per lente matura-

129
Cfr. ancora E. Bartolini, Il Ghebo cit., pp. 26-27 e 48.
130
Gianni Venturi, Cesare Pavese, Firenze, La Nuova Italia, «Il Castoro»,
1975, [pp. 91-96], pp. 93 e 91.
131
Ivi, p. 93.

180

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zioni individuali, per faticose scoperte di verità, tutta auto-edu-
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cazione» 132 e pure in rapporto a quella « storia [che] continua a


essere mossa da spinte non completamente dominate, da con-
vinzioni parziali e non chiare» 133. Leggiamo, per esempio, alcu-
ni passaggi del capitolo XVI, coi dialoghi di Pablo, Luciano,
Carletto e Solino:

Anche in Russia, diceva, andava come in Italia. «Guarda in Spagna»


mi disse « sono i rossi che fanno di tutto per perdere la guerra.»
« Quando si perde tutti han colpa» saltai su.
«Ci sei stato tu in Spagna ? Ma in Russia hanno vinto, sì o no ?»
Lui diceva che in Russia si stava come in prigione. «In prigione
qualcuno ci vuole» gli dissi. «Ma che comandi chi lavora è una
gran cosa.»
«Non ci comanda chi lavora» disse lui.
[...] Io stavo attento agli avventori del negozio, e cercavo di farli
parlare. Quando entrava qualcuno in gamba, davo mano al gior-
nale. «Come va questa guerra di Spagna ?» dicevo. Ma Solino era
il solo che mi desse risposta. Lui andava e veniva dall’osteria alla
strada, masticava la sua cicca, si fermava a sputare. «Ci sarà del la-
voro, una volta finita la guerra» diceva. «Buttan giù tante case.»
Ma i più giovani, la gente del ponte, ascoltavano appena. Non ce
n’era uno solo che guardasse il giornale. Accidenti, pensavo, o che
invecchio o sono scemo. Una volta ero anch’io come loro e legge-
vo soltanto lo sport 134.

132
E. Vittorini, Diario in pubblico cit., pp. 212-213.
133
Italo Calvino, Sono stato stalinista anch’io ? cit., p. 199.
134
Cesare Pavese, Il compagno, Torino, Einaudi, 1947 e, con Nota intro-
duttiva di Marco Forti, Milano, Mondadori, « Oscar», 1981, [pp. 151-157],
pp. 152-153. La battuta finale, sullo sport, trova poi, al di là del luogo comune,
un dato storico che val forse la pena di richiamare in nota, ovvero il fatto che
l’Italia vince i due mondiali di calcio – quasi lo sport per antonomasia nel no-
stro paese, all’epoca insieme al ciclismo, oggi in assoluto – dell’avant-guerre, nel
1934 e nel 1938; con Mussolini che non perde certo l’occasione per favorire,
anche illecitamente, tali vittorie e per fare propaganda, cogliendo nel segno, al-
meno per « i più giovani», e forse pure con lo scopo di far dimenticare le sabbie

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Frammenti, si diceva. Frammenti significativi di quelli che
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Pavese stesso chiama « fatti laterali: guerra ’15-18, guerra di


Spagna, guerra di Libia». Li nomina come tali il 17 novembre
1949, ne Il mestiere di vivere, dopo aver constatato, con la fine
de La Luna e i Falò, la conclusione del « ciclo storico del [suo]
tempo» e di una « saga completa», con gli episodi forti dell’« an-
tifascismo confinario», dell’« antifascismo clandestino», della
« resistenza» e « post-resistenza», e con « due giovani (Carcere e
Compagno) due quarantenni (Casa in coll. e Luna e falò). Due
popolani (Compagno e Luna e falò) due intellettuali (Carcere e
Casa in collina)» 135.
Ma, sempre risalendo la china tortuosa della seconda metà
degli anni Quaranta e tornando al Sud, si pensi a Vitaliano Bran-
cati, altro siciliano amatissimo da Sciascia, già evocato nel primo
capitolo per due racconti del 1944, Il vecchio con gli stivali e La
noia nel ’937. Si pensi ora allo zio Ermenegildo de Il bell’Antonio,
del 1949, che torna dall’« inferno» spagnolo e vive come in preda
a un « esaurimento nervoso», tra un incipit di presa di coscienza,
che al nostro orecchio suona un po’ koestleriana, e tanti sogni di
morte, simili in parte a quelli del volontario sciasciano (nel signi-
ficativo contrasto festa-funerale, per esempio):

Zio e nipote rimasero soli [...]. «Il mondo è brutto ! » disse Erme-
negildo [...] «Il mondo è proprio brutto !...» Ma s’interruppe per-
ché l’altro seguitava a stare con gli occhi chiusi.
«Io non dormo» disse Antonio, senz’aprire gli occhi. «Ti ascolto
anzi con piacere. Raccontami dove sei stato ! »
«Dove sono stato ? Eh! Sono stato dove non avrei mai dovuto an-
dare ! Sono stato in Ispagna, malanuova di me, e ho conosciuto
chi sono i miei contemporanei e gli uomini in generale... Sono

mobili spagnole, che nel 1938, nell’estate del 1938, con l’offensiva repubblica-
na sull’Ebro, appaiono ancora tali.
135
C. Pavese, Il mestiere di vivere 1935-1950, Torino, Einaudi, 1952 e
Nuova edizione condotta sull’autografo, a cura di Marziano Guglielminetti e
Laura Nay, 1990, p. 375.

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bruttissimi, Antonio mio, e per quanto vuoi bene a tua madre,
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credimi, mi fanno paura ! »


Aspettò che il nipote aprisse gli occhi, ma poiché questo non av-
venne, riaccese la pipa che s’era spenta e continuò: «Non mi do-
mandare chi ha ragione e chi a torto, o quale dei due princìpi
trionferà in avvenire ! Le idee se le tengono dentro la testa e io
non le ho vedute. Quello che ho veduto è che sono disposti a
scannare, squartare, bruciare anche Gesù Cristo in persona,
dall’una parte e dall’altra, e se caschi sotto il loro odio preparati a
cacciare un urlo di dolore quale non pensavi mai che potesse usci-
re dalle tue viscere di creatura battezzata ! »
Andò al balcone, aprì le imposte, sputò fuori, richiuse le imposte
e tornò a sedersi.
«Tu non puoi supporre che genere di sofferenze sono capaci di
scovare dentro la tua carne ! Gli basta un centimetro della tua pel-
le per metterci dentro tutto l’inferno !... Non c’è coraggio che ba-
sti, figlio mio ! Io non sono un vigliacco, ma ti assicuro che non
c’è coraggio che basti ! La civiltà cristiana e la giustizia sociale: che
belle parole ! L’una e l’altra sono un bene prezioso degli uomini.
Ma guarda poi le smorfie dei cadaveri che lasciano marcire per
giornate intere nelle pozzanghere o che ci fanno passare sulla fac-
cia gli autocarri per cancellarne qualunque fisionomia, e dimmi se
è così che si prepara il bene degli uomini ! Erano uomini anche
questi cadaveri, perdio, e il bene gli è stato regalato in quel modo !
Mi dirai che tutto si fa per gli uomini di domani... Ma anche gli
uomini di domani penseranno all’avvenire, anch’essi vorranno fa-
re qualcosa per gli uomini del loro domani, e si scanneranno a vi-
cenda come i nostri contemporanei ! A questo tipo di bene non
c’è mai fine !... No, Antonio, credi a me, gli uomini fanno spaven-
to e io me li sogno di notte ! »
«Ti sei guadagnato un esaurimento nervoso ! » disse Antonio con
dolcezza. «Dovresti prendere dei sonniferi per non fare sogni la
notte ! »
«Chiamalo come vuoi !... Chiamalo pure esaurimento nervoso...
Ma quanto a dormire senza sogni, non ne sono più capace, nem-
meno se col veronal rasento il suicidio. Il mio cervello non riesce
più a chiudere bene, come una vecchia imposta sgangherata, e la-
scia passare mille filature di luce... E fosse solo la luce !... Ma an-
che rumori, diavolii, discorsi... Perché ho voluto vederli in faccia,

183

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quegli esseri infami ? Perdio, chi me l’ha fatto fare ? Volevo capire
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chi di loro avesse ragione e chi torto, e ho capito solo che sono
tutti terrificanti ! Bel guadagno ne ho ricavato, da questo viaggio
all’estero ! Bel guadagno davvero ! Prosit! Complimenti !... Per for-
tuna il mio cuore si è ingrossato, i miei polmoni sono compressi,
e tutto fa presagire che l’anno prossimo i mortaretti della festa di
sant’Agata ve li sentirete senza di me.»
«Ma zio, che dici ? Sono sicuro che sarai tu ad accompagnare al ci-
mitero tutti noi ! » mormorò Antonio, sempre con gli occhi chiusi.
« No, non mi levare quest’unico conforto ! Per addormentarmi, la
sera, ho bisogno di pensare che la morte è seduta al mio capezzale.
È l’unico pensiero che mi dia un po’ di calma. Fuori di lui, trovo
agitazione, spavento, insonnia e sudori freddi. No, Antonio, è
proprio così. Per mia fortuna fra pochi mesi le rivoluzioni non mi
potranno fare più nulla, e le reazioni nemmeno. Fascismo, comu-
nismo... mi lasciano ormai tranquillo. Vinca l’uno o l’altro, nes-
suno di questi prepotenti potrà farmi più nulla, levandomi il pane
o l’aria; nessuno riuscirà più a strapparmi dalle viscere quell’urlo
che tante volte, a casa mia, provando solo solo davanti allo spec-
chio ho cercato d’imitare, quasi per confortarmi col pensiero
ch ’esso sia nelle capacità umane, cercato, sì, ma sempre inutil-
mente, e da ciò ho misurato quanto debba essere bestiale la soffe-
renza che lo insegna così di botto a un essere umano ! ».
Antonio riaprì gli occhi, innamorato teneramente di quell’uomo
così addolcito dal desiderio di morire 136.

Nel discorso « nervoso» dello zio Ermenegildo, tutto scatti,


riprese e punti esclamativi – ricordiamoci di Aldo Piscitello con
la moglie – è la mimesi, stilisticamente esemplare, della follia del
Novecento – a partire dal dato della guerra di Spagna – messa in
scena e denunciata in un monologo cui il nipote Antonio assi-
ste, con gli occhi chiusi, di tozziana memoria, incarnando, per
tutta la durata dello stesso, l’altro polo del modus vivendi bran-

136
Si cita dal capitolo VIII di V. Brancati, Il bell’Antonio, Milano, Bom-
piani, 1949 e, con un nota di Leonardo Sciascia, Milano, Mondadori, « Oscar
Classici Moderni», 2001, [pp. 130-151], pp. 135-138.

184

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catiano, ovvero, come suggerisce Giulio Ferroni, la « sensuale
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utopia della passività, del rien faire, della gratuita vita che in se
stessa scorre» 137. Alla fine del lungo, splendido passo, il nipote
apre gli occhi e i due poli si toccano e si identificano nel « desi-
derio di morire» che addolcisce la rappresentazione e la denun-
cia della follia del secolo e fa « innamorare» il giovane del vec-
chio, evadendo in fin dei conti, ancora una volta, la trasmissione
generazionale – ché è la brutale, bestiale e diretta lezione della
sofferenza a insegnare l’urlo « così di botto a un essere umano» –
e il dato della guerra civile; poi assimilato e riassunto, insieme al
resto, nella parabola dell’impotenza di Antonio, che è anche,
volendo, una passiva e illuminata alternativa alle « fantasie viri-
li» 138 della guerra, del guerriero fascista e del guerriero tout
court, di una parte e dell’altra.

Se dalla seconda metà degli anni Quaranta di Francesco Jo-


vine, Cesare Pavese e Vitaliano Brancati, scendiamo poi alla se-
conda metà degli anni Trenta 139, col conflitto in corso, è poi

137
G. Ferroni, Vitaliano Brancati e le illusioni di un secolo «superbo e scioc-
co» cit., [pp. 129-142], p. 141.
138
Cfr. Klaus Theweleit, Fantasie virili (1977 e 1985), Milano, Il Saggia-
tore, 1997. E cfr. anche, per problematiche contiguità da discutere, Lorenzo
Benadussi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario
fascista, Milano, Feltrinelli, 2005 e Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio,
La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista, Roma, Donzelli, 2006.
139
Prima sono le « pagine di vagabondaggio» di Carlo Linati, ancora rap-
presentativo di altra generazione (1878-1949) e in genere di altra ricezione o,
potremmo dire meglio, di una ricezione (non solo italiana) che sta mutando tra
la seconda metà degli anni Venti – l’apogeo della moda di una Spagna genuina,
profonda, romantica e pittoresca, con, per esempio, l’« interpretazione lirica di
Waldo Frank», Virgin Spain (1926) – e la prima metà degli anni Trenta, dove
la Storia più recente si insinua anche nei volumi più ingenui e libreschi, per cui
si scorra almeno l’Avant-propos (e i testi che lo seguono) di Élise Champagne,
Randonnée Espagnole, Bruxelles, Les Éditions de Belgique, 1937, p. 5: «Ce
voyage date de 1934, quelques jours avant les premiers troubles, signes avant-
coureurs de la tragédie actuelle. Déjà, Barcelone était en état de siège. Mais

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l’intérieur du pays était calme sinon heureux. [...] Nous eûmes souvent l’âme
déchirée en relisant les notations lyriques de notre livre de bord, pendant que
les communiqués de la guerre civile nous apportaient des nouvelles à pleurer».
Ma si confronti con Carlo Linati, Un po’ di vecchia Spagna (1934), in A vento e
sole. Pagine di vagabondaggio, Torino, Società Subalpina Editrice, 1939 e ora
Roma, Biblioteca del Vascello, 1992, pp. 11-27; cfr. in particolare, alle pp. 12-
15, quella Serata madrilena che si apre narrativamente « ai primi di settembre
del ’34» con « lo sciopero generale a Madrid » e prosegue con notazioni come
queste: «La Spagna attraversava in quei giorni ore di quiete paurosa: comincia-
vano a delinearsi per tutta la sua vita quei prodromi febbrili che sarebbero scop-
piati poi nelle sanguinose sommosse dell’ottobre. Passeggiando per le sue città
si aveva già fin d’allora la sensazione dell’avanzarsi del disordine. [...] Barcellona
[...] Madrid [...] L’aria era piena di elettricità e come di un tragico senso d’ag-
guati»; «Il male si è che non v’è terra come la Spagna dove parole e gesti sien
più capaci di produrre sangue ! » (citazioni da pp. 12-13). Qui i titoli leggeri e
ancorati al passato cominciano a fare a pugni con la materia che agita la peniso-
la pentagonale, potremmo dire con Praz, autore di un libro che rivede già in se-
no alla seconda metà degli anni Venti la vecchia, romantica Spagna. Penso, per
l’appunto, a Mario Praz, Penisola pentagonale, Milano, Alpes, 1928 – ma la ver-
sione inglese titola Unromantic Spain, London – New York, Knopf, 1929 – e
oggi, con Prefazione di Goffredo Fofi e Avvertenza (1954) dell’autore, Torino,
E.D.T., 1992; autore che paga comunque e ancora – e forse proprio perché cer-
ti episodi, molto influenti per l’immagine del paese, sono di là da venire, nono-
stante l’esotismo prima, la retorica dei vinti e il conservatorismo dittatoriale
poi, assicurino significative sopravvivenze, come si è cercato di mettere in luce
nella prima parte di questo capitolo – un suo tributo al pittoresco, secondo
quanto suggerisce onestamente la stessa Avvertenza, [pp. XIII-XVI], p. XV:
«Partito col proposito di sgonfiare la leggenda del pittoresco spagnolo, il mio li-
bro mi appare oggi un libro pittoresco [...] Penisola pentagonale pare oggi riesu-
mabile a molti, sebbene tanto debba essere cambiato in Spagna dopo il 1926
[ovvero l’anno del peregrinare praziano]». Nella seconda metà degli anni Tren-
ta, « les premiers troubles» di Elise Champagne e i « prodromi febbrili» di Carlo
Linati, ormai tragicamente evolutisi, dovrebbero essere l’oggetto della quête, ma
si cerca invece, nella calma apparente che precede il conflitto, di ignorarli, ritor-
nando a contattare il passato, la cultura, il folclore spagnoli; anche se poi si fan-
no scivolare nei testi alcuni episodi che finiscono per evidenziare prese di posi-
zione facilmente decifrabili, “di parte”. In questa prospettiva, fra gli scritti di
viaggio in Spagna ancor più tesi – e faziosamente tesi – a registrare il disordine,
in un reportage che ha ormai sotto gli occhi la guerra civile ma che, almeno in
apparenza, non ne vuole parlare, salvo poi evocarla come « un’epopea straziante
e gloriosa» che sembra trarre origine soltanto dall’assassinio di Calvo Sotelo,

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leader della destra monarchica, e della quale, nel prosieguo del testo, paiono so-
lo responsabili personaggi come Azaña e Caballero (responsabili, semmai, come
primi governanti della Repubblica, di un biennio « alla giacobina», fra aprile
1931 e aprile 1933, oltre che, in modo diverso, della « rivoluzione d’ottobre»
del 1934 e di certe conseguenze della stessa fino in seno alla guerra civile), si ve-
da quello di un altro autore dimenticato della stessa generazione di Linati,
all’incirca (1887-1957), ovvero Mario Puccini, Amore di Spagna. Taccuino di
viaggio, Milano, Ceschina, 1938, ma explicit giugno 1936, con uscita, pare, a fi-
ne 1937, e stesura a partire da un viaggio fatto in tre momenti, l’ultimo dei
quali, all’altezza del maggio-giugno 1936, è a ridosso dei tragici eventi spagnoli,
di cui danno già conto le rapide e più tarde pagine introduttive: «Ancora un li-
bro sulla Spagna ? Ma non vorrei essere frainteso; la Spagna della guerra civile,
la Spagna che tutte le mattine, più o meno brevemente, più o meno intensa-
mente, ci racconta i momenti e i passaggi del suo tragico travaglio, non è in
questo libro. Vicino da più che vent’anni alla storia, allo spirito, all’arte, agli uo-
mini di questo paese, io ho voluto piuttosto rimontare il corso dei miei incon-
tri, delle mie esperienze, dei miei contatti: che cosa è stata ieri la Spagna e per-
ché oggi essa soffre la sua epopea straziante e gloriosa ? [...] Tre volte sono stato
in Ispagna; e l’ultima proprio alla vigilia della guerra civile: ero a Madrid nel
maggio del ’36, ero a Barcellona, a Bilbao e a San Sebastiano, nelle prime setti-
mane del giugno. E non ho visto unicamente città, paesi e villaggi nel ’36, poco
prima che l’assassinio di Calvo Sotelo fosse consumato; ho visto ed avvicinato
anche uomini politici e scrittori, uomini del popolo e della borghesia. [...] Ma
io ho sempre cercato di leggere oltre gli atti ed oltre le parole; me lo permetteva
la conoscenza della letteratura di ieri, me lo permetteva la conoscenza e la con-
suetudine con quella di oggi. Perché, pare impossibile, ma la storia d’un popolo
è quasi sempre lievitata e modellata dalla sua letteratura» (pp. 7-9). Per Azaña e
Largo Caballero si leggano poi le pp. 150-155 e 156-160. Per l’affiorare della
guerra e dei suoi immediati dintorni politici, ideologici, culturali (più che lette-
rari tout court), in un testo che, ripetiamolo, non vorrebbe parlarne, cfr. poi le
pp. 19-20, 27-29, 40-49, 76-79, quasi tutto il capitolo su Madrid, pp. 101-
189, e ancora pp. 196-200, 220-228, 242-247, 289-295, 304-308, 317-322,
330-335, 343-347, 357-367, 368-373. Per Puccini cfr. poi Roberto Pirani, Bi-
bliografia di Mario Puccini, con la collaborazione di Monica Mare e Maria Gra-
zia De Antoni, Senigallia e Ostra Vetere (AN), Fondazione Rosellini per la let-
teratura popolare, 2002. Per Azaña, Largo Caballero, il loro governo « alla gia-
cobina», il 1934, la sua scia e per l’assassinio di Calvo Sotelo – quasi un ‘Mat-
teotti’ della destra spagnola – che è « comunque solo l’acceleratore di una rispo-
sta reazionaria che era in gestazione da tempo», cfr. ancora G. Ranzato, L’eclissi
della democrazia. La guerra civile spagnola e le sue origini 1931-1939 cit., pp.
XII-XV, XVII-XVIII, 115-150, 209-249 e 264-268 (citazione da p. 265).

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difficile rintracciare potenziali origini e corrispettivi eventuali
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delle oscillazioni di Jovine, dei frammenti di Pavese, del mono-


logo di Brancati. Queste testualità, del resto, possono nutrire
già una tradizione narrativa italiana sulla guerra civile spagnola,
senza tuttavia identificarla compiutamente e riducendo pure
l’episodio a « fatto laterale», al di là di Pavese e in base ad altri
dati storici – e anche storico-geografici, storico-culturali – che
assumono in Italia maggior peso nel passaggio fra un decennio
e l’altro: il Sud, la provincia, per Jovine, l’antifascismo confina-
rio e clandestino, la resistenza e la post-resistenza per Pavese,
l’illuminismo (e certa sensuale utopia della passività) per Bran-
cati, con traiettoria da Beccaria e Manzoni a Vittorini e Sciascia
(con più rivolta e meno rien faire 140).
Ma nella seconda metà degli anni Trenta le potenziali ori-
gini e gli eventuali corrispettivi dei testi sopra rapidamente evo-
cati devono fare i conti con la censura, visto che ci troviamo
sbalzati in piena dittatura e in pieno consenso. Maggior signifi-
cato assume allora il fatto che certi dati storico-geografici e cer-
te costanti culturali, come il Sud (con quella provincia che è
pure al Nord) e l’illuminismo (con quell’utopia della passività
che l’accompagna sensualmente fin nelle terre settentrionali),
ritornano a improntare oscillazioni, frammenti, monologhi
(più o meno interrotti e cambiati di segno), di un’altra triade
narrativa alquanto esemplare e rintracciabile in Elio Vittorini,
Antonio Delfini, Alba De Céspedes.

Per oscillazioni non facili da interpretare, ma sempre dram-


matiche, sulla guerra di Spagna, in relazione alla quale, al limite,
si introduce un dato ridicolo solo in seno a un falso reportage
dell’agosto 1936 firmato da El Gringo, possiamo pensare a Elio
Vittorini, già richiamato nel primo capitolo. In effetti, prima de-

140
Cfr. ancora i saggi di G. Ferroni, Vitaliano Brancati e le illusioni di un
secolo «superbo e sciocco» cit., e di C. Ambroise, Sciascia e la rivolta cit.

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gli « astratti furori» che aprono Conversazione in Sicilia, princi-
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piata nel 1937 e poi comparsa su «Letteratura» nel 1938 e 1939,


El Gringo-Elio Vittorini invia a «Il Bargello», nell’estate del
1936, un pezzo che non verrà pubblicato e uscirà soltanto nel
1985, grazie a Giovanni Falaschi 141.
A Malaga ce l’hanno con l’Inghilterra è un articolo con più
concreti e meno « astratti furori», chiuso da una “chiacchierata”
al caffè quasi alla Hemingway e aperto da un attacco narrativo
appena tradito, se si vuole, dalle coordinate del falso reportage:
«Spagna, agosto. Era pomeriggio tardi, quasi tramonto, quando
arrivammo a Malaga [...] Passammo a sottovento di una lingua
di città. Erano torri di opifici, alte fronti di case popolari e ad
ogni finestra sbatteva una bandiera rossa, qualche tricolore della
Repubblica qua e là» 142.
Certo, è un pezzo di non facile decifrazione, che fin dalle
sue prime battute simpatizza con il popolo, con la folla, con i re-
pubblicani, nonostante miri anche a far presa sui lettori fascisti
italiani citando Azaña e altri politici borghesi: «E i nomi che dal-
la folla salivano urlati in entusiasmo non erano di capi comunisti
o anarchici, ma quelli borghesi, di Azaña, di Giral[...]» 143.

141
Cfr. l’Appendice, La rivoluzione spagnola. A Malaga ce l’hanno con l’In-
ghilterra, in E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, illustrazioni di Renato Guttu-
so, introduzione e note di Giovanni Falaschi, nota di Sergio Pautasso, Milano,
Rizzoli, 1986 e «B.U.R.», 1988, pp. 345-353, comprendenti una Nota al testo
dove G. Falaschi, alle pp. 345-348, offre le notizie concernenti la pubblicazione
in Elio Vittorini: lettere al «Bargello» (con un inedito sulla guerra di Spagna),
«Inventario», 13, 1985 (inedito poi riprodotto da S. Pautasso nel «Corriere
della Sera» del 12 febbraio 1986). Ma cfr. anche Giorgio Luti, Le parole e il
tempo. Paragrafi di storia letteraria del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1987, pp.
104-110, che rinvia alle lettere e all’inedito raccolti da Falaschi e ai lavori di An-
na Panicali, Il primo Vittorini, Milano, Celuc, 1974 e Il romanzo del lavoro,
Lecce, Milella, 1982. Ma cfr. anche Alba Andreini, La ragione letteraria. Saggio
sul giovane Vittorini, Pisa, Nistri-Lischi, 1979.
142
Cfr. El Gringo, La rivoluzione spagnola cit., p. 349.
143
Ivi, p. 350.

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Ma dei « difensori rossi», subito dopo, Vittorini finisce per
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comprendere e per apprezzare pure la « retorica», nell’immedia-


to della rivoluzione e della guerra e finanche prospetticamente,
in un senso quasi sciasciano:
Morire nella libertà. Sarà retorica, ma è retorica che passa per
l’eroismo, o, almeno, per la disperazione, per l’accanimento. A
Bajadoz i difensori rossi della città preferirono la fucilazione in
massa piuttosto che riparare in territorio portoghese. La fucilazio-
ne in massa era « morire per la libertà», e riparare in territorio
portoghese era umiliarsi dinanzi ai « figli del prete ». Così dove si
cede non è mai per debolezza delle milizie operaie, ma per colpa
dei carabineros, delle guardie d’assalto e insomma dei militari di
mestiere cui non importa niente « morire nella libertà» 144.

Siamo quasi, per l’appunto, nei paraggi di Sciascia,


vent’anni dopo, all’altezza de La sesta giornata (1958), oppure
del vittoriniano Diario in pubblico (1957). Non di meno l’arti-
colo di Elio-El Gringo si avvia a chiudere, in due tempi, pagan-
do un significativo tributo alla cronaca – mediato dal dialogo,
certo, dalla “chiacchierata” – e ridicolizzando uno dei generali
ribelli, Gonzalo Queipo de Llano, famoso per le « sparate» not-
turne alla radio, che ne mostrano sia la volgarità, sia l’arroganza
politica; quando si scaglia per esempio contro le famiglie dei
marinai rossi, destinate a provare la virilità dei legionari, e con-
tro l’Inghilterra, che, dice un milite della Repubblica sorriden-
do, pagò « la marcia su Lisbona... e ora paga per la marcia su
Madrid », perché « vuole le Baleari»: «Ci insegnano che è l’Ita-
lia, che è la Germania [...] ma noi sappiamo che è l’Inghilterra
ad aver fomentato la ribellione e pagato Franco» 145.

144
Ivi, p. 351. E cfr. una lettera di Vittorini a Silvio Guarnieri del 25 lu-
glio 1936 in E. Vittorini, I libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943, a cura di
Carlo Minoia, Torino, Einaudi, 1985, [pp. 58-59], p. 58: «Come non si sente
entusiasmo per questi operai che vengono fuori dalle officine a difendere la loro
speranza ?» (corsivo del testo).
145
El Gringo, La rivoluzione spagnola cit., p. 352.

190

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E qui Elio Vittorini, sfumando, nei due brevi paragrafi fi-
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nali, le “rivelazioni” del milite, fa anche affiorare, in controcan-


to, un point d’ancrage della politica di Benito Mussolini in Spa-
gna, le Baleari per l’appunto, e soprattutto la propaganda anti-
britannica del fascismo italiano della metà degli anni Trenta,
quale emerge per esempio – nello stesso anno del reportage del
Gringo – da Come l’Inghilterra s’impadronì del mondo (1936) di
Antonio G. Quattrini e Nino Verestin 146.
Leggiamo dunque la fine del pezzo di Vittorini:

«Sarebbe curioso che fosse davvero così,» esclamammo. «Allora


come mai alla radio di Siviglia il generale Queipo de Llano si sca-
glia ogni tanto contro l’Inghilterra ?»
« Oh, Queipo de Llano ! Sono le bibite che gli danno alla testa.
Del resto ogni volta che lui si scaglia contro l’Inghilterra, Franco
parte da Tetuan in aeroplano per Siviglia, e l’indomani Queipo si
rimangia quello che ha scagliato»
EL GRINGO 147

A meno che non ci si affidi a questa corrispondenza imma-


ginaria dal fronte spagnolo dell’agosto 1936 di un Vittorini-El
Gringo o a una più tarda illustrazione di Renato Guttuso, raffi-
gurante un giornale fascista stracciato, buttato per terra, con ti-
toli plaudenti il « giusto» massacro di Guernica, e risalente al
1943 ma inserita solo anni dopo, con altre, in Conversazione in

146
Si scorra almeno l’Indice, a p. 207, di Antonio G. Quattrini, Nino
Verestin, Come l’Inghilterra s’impadronì del mondo, Roma, AEQUA (Anonima
Edizioni Quattrini ), 1936, con i sei capitoli dedicati a Sfumature della storia
d’Inghilterra, Il primo pasto: l’America, Il secondo pasto: le Indie, il terzo pasto:
l’Australia deserto inglese, Il quarto pasto: l’Africa e Un pasto... mancato: l’Etio-
pia, alle pp. 189-205, con epigrafe tratta da All’Inghilterra di Vincenzo Monti,
« fucina di delitti», e una riga di conclusione seguita da un Nota bene: « Un
mondo sta per crollare sotto la spinta delle legioni romane.... N. B. – Gli au-
tori si impegnano formalmente di completare quest’ultimo periodo fra tre
mesi» ( p. 205).
147
Cfr. ancora El Gringo, La rivoluzione spagnola cit., pp. 352-353.

191

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Sicilia (articolo e immagine corredano entrambi, non a caso, le
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più recenti edizioni del romanzo), gli « astratti furori» paiono


non andare al di là del « tipico affermare per epigrammi» vitto-
riniano che Garosci, sempre a proposito della guerra di Spagna,
coglie addirittura vent’anni dopo – con eccessivo rigore 148 – nel
Diario in pubblico del 1957. Diario già evocato che qui non ser-
virà soltanto un discorso vittoriniano e/o sciasciano ma verrà
fatto giocare in coppia con i tempi e le modalità di reazione di

148
A. Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna cit., pp. 454-455. Ma
forse quel « tipico affermare per epigrammi» è figlio dell’epoca ed evade l’opera
di Elio Vittorini, che, con Conversazione, pur fra « esibizioni di inutile ferocia
nelle ellissi» e « l’oscurità di certi simboli», sembra davvero sposare in anticipo
la realtà del suo tempo. Penso ancora a F. Fortini, Guerra a Milano (1943), in
Sere in Valdossola cit., pp. 35-36 e 80-83: «Giovedi 29 [luglio 1943] Milano ha
vissuto grandi giornate di esaltazione. Lo vedo sui visi della gente, lo ascolto
nelle conversazioni [...] Senti dappertutto una intelligenza coraggiosa, come se
l’aria della grande città avesse preservata questa popolazione dal torpore del re-
sto d’Italia. Le piccole operaie in grembiule nero, i negozianti seduti sulle porte
delle bettole, le ostesse al banco delle bibite, tutti parlano in questi giorni con
una libertà epigrammatica che avevo creduto fosse esistita solo nella Parigi dei
ricordi letterari»; «Giovedi 12 [agosto 1943] Sono riuscito a trovare Elio Vitto-
rini. So che è uscito di prigione pochi giorni fa [...] Mi hanno detto che è co-
munista. E per quanto sappia che lavora nel partito e che nulla ha da fare con
certi comunisti dilettanti e sentimentali, pure penso che anche per lui comuni-
smo sia la formula nella quale chiudere l’esigenza di resurrezione e riscatto che
fa la forza del poeta e dello scrittore. [...] non potrò mai credere alla verità una
volta per tutte, non so rinunciare alla mia verità e ai miei errori. Ma so che an-
che Vittorini è così. Parliamo del suo libro, che tanto meritato successo ha avu-
to in Italia e all’estero: Conversazione in Sicilia. Un libro del quale mi riesce dif-
ficile, con lui, parlare in termini di critica. Gli accenno qualche obiezione: esi-
bizioni di inutile ferocia nelle ellissi; una volontà qua e là troppo esplicita, che
forza la scrittura; l’eccessiva e caduca facilità di certi effetti, l’oscurità di certi
simboli. Secondo me, è un libro molto importante, seppure non compiuto e
non armonizzato. [...] Questo so, e non mi riesce esprimerlo: che in alcune pa-
gine di quel libro è detta con fatica e pena qualcosa che per me è vera. Credo sia
tutta questa, la ricompensa di un autore. Non riesco a comprendere che cosa vi
abbia a che fare il comunismo. E probabilmente non c’entra.» Forse, per certi
versi, il migliore intervento ‘non critico’ su Conversazione in Sicilia.

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Antonio Delfini in rapporto al conflitto spagnolo: fra Conversa-
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zione in Sicilia (1938-1939) e Diario in pubblico (1957), da un


lato, e Il ricordo della Basca, racconto apparso nella raccolta
omonima del 1938, e Una storia, un insieme di istruzioni per la
lettura e di testimonianze « in pubblico» scritte da Delfini per la
seconda edizione della stessa, del 1956, dall’altro.
Ma procediamo con ordine, rileggendo il primo, potente
capitolo di Conversazione in Sicilia, due secche pagine, oggi con
l’illustrazione citata di Guttuso intercalata:

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali,


non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’era-
no astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il
genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo
chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo;
vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una
parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi
aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei
chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io
avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi
era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei gior-
nali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me co-
me un sordo sogno, e non speranza, quiete.
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il ge-
nere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contra-
rio, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astrat-
ti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla.
Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla
o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso; e uscire a ve-
dere gli amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero
quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né
mai saputo che cosa significa esser felici, come se non avessi nulla
da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e
nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e co-
me se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane,
bevuto vino, o bevuto caffé, mai stato a letto con una ragazza, mai
avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto
questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia

193

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tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro
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di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chi-


navo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’ac-
qua mi entrava nelle scarpe 149.

A salutare l’uscita in volume del 1941 – sotto il titolo di


Nome e lagrime, breve racconto che precede il romanzo e un po’
lo « nasconde» – di « quel libro profondamente imperfetto e
pieno di terribili astrattezze che è Conversazione in Sicilia» e ad
appuntarsi più di altri sull’attacco sopra citato è Giaime Pintor,
in una recensione apparsa in «Prospettive» e raccolta nel volu-
me postumo Il sangue d’Europa (1939-1943) sotto il titolo L’al-
legoria del sentimento: «In nessun libro recente il dolore o l’an-
goscia, il dato umano insomma, che è all’origine della creazio-
ne, sono apparsi così evidenti, meno oscurati dalla trama lette-
raria. E per questo Conversazione in Sicilia ha un valore assoluto
di allegoria, unica allegoria possibile del sentimento, discorso in
cui gli uomini e le cose portano segni a noi familiari e tuttavia
sono sempre molto remoti, oltre i limiti della cronaca» 150.

149
E. Vittorini, Conversazione in Sicilia cit., pp. 131 e 133 (a p. 132 è l’il-
lustrazione citata di Renato Guttuso); ma cfr. anche pp. 249-250 e pp. 309-
336, relative alla Parte quinta, in cui il protagonista ‘parla’ col fratello morto in
guerra e poi ne discute con la madre.
150
E. Vittorini, Nome e lagrime, Firenze, Parenti, 1941. Il volume esce il 1
marzo del 1941 e la recensione di Pintor è nel numero del 15 aprile – 15 maggio
di «Prospettive», 16-17, 1941 e poi, come L’allegoria del sentimento, in Giaime
Pintor, Il sangue d’Europa (1939-1943), a cura di Valentino Gerratana, Torino,
Einaudi, «Saggi», 1950, pp. 155-158 e «NUE», 1965; ma si cita da «NUE
Nuova Serie», 1975 e 1977, [pp. 95-98], p. 97. Fra le primissime recensioni a
Nome e lagrime attente al dato degli « astratti furori» è quella di O. Macrí, Lettu-
re II, «Vedetta Mediterranea», 2, 1941 (31-3-1941), e poi come L’« astratto fu-
rore» di Elio Vittorini, in O. Macrí, Caratteri e figure della poesia italiana contem-
poranea, Firenze, Vallecchi, 1956, pp. 343-348. Ma oggi, per una cronologia de-
gli astratti furori e una loro collocazione in rapporto alla guerra di Spagna e
all’opera di Vittorini, da Il garofano rosso a Conversazione in Sicilia e fino all’ap-
prodo del Diario in pubblico, cfr. almeno il secondo e terzo capitolo di Raffaella

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Credo sia ancora il modo migliore per leggere Conversazio-
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ne in Sicilia, per andare al di là del « tipico affermare per epi-


grammi» vittoriniano di cui dice Garosci e per apprezzarne la
qualità di libro imperfetto, teso ad evadere « i limiti della crona-
ca», a partire da quella di El Gringo, che sfuma in un incipit in
cui, come ribadisce di recente Vittorio Spinazzola, « sta a noi
dedurre che si tratta della guerra di Spagna» 151.
L’allegoria del sentimento si sovrappone al ridicolo con cui si
chiude la cronaca degli anni ruggenti del Gringo operaista e stabi-
lisce un patto narrativo e etico di un io che « reimpara a conversa-
re» 152. Il pezzo brillante, il falso reportage cedono il posto a un rac-
conto in prima persona che – fra l’« infanzia in Sicilia tra i fichi-
dindia e lo zolfo», la lettera del padre, la madre e il fratello, Libo-
rio, il soldato morto – salva l’impegno e chiede la collaborazione
attiva del lettore per il « non detto» e per il suo futuro, interno ed
esterno a Vittorini stesso: ovvero fino almeno a quel « lettore mo-
dello» che nelle generazioni seguenti diventerà Leonardo Sciascia,
che non a caso, come si è avuto modo di segnalare, finisce per pre-
ferire Diario in pubblico a Conversazione in Sicilia, grado zero della
scrittura vittoriniana, quasi come nello stesso senso lo è L’antimo-
nio per quella sciasciana. Entrambi i testi, del resto, sono una sorta
di viatico per un ritorno alle origini destinato a risolversi in un
congedo più o meno definitivo dal passato. Perché l’«Itaca addio»

Rodondi, Il presente vince sempre. Tre studi su Vittorini, Palermo, Sellerio, 1985,
pp. 164-222 (specie l’ultimo paragrafo dedicato a I barlumi degli « astratti furo-
ri», alle pp. 211-222) e 223-336. A livello biografico, intorno al progetto vittori-
niano di recarsi in Spagna – via Parigi – con Pratolini, per combattere contro i
franchisti, cfr. Raffaele Crovi, Il lungo viaggio di Vittorini. Una biografia critica,
Venezia, Marsilio, 1998, [pp. 137-171], pp. 147-151, 156-159, 161, 167-169,
che rinvia soprattutto a Romano Bilenchi, Vittorini a Firenze, in Elio Vittorini,
numero speciale de «Il Ponte», 7-8, 1973, pp. 1085-1131 e ora in R. Bilenchi,
Opere, Prefazione di Mario Luzi, a cura di Benedetta Centovalli, Massimo De-
paoli, Cristina Nesi, Milano, Rizzoli, 1997, pp. 788-831.
151
Vittorio Spinazzola, Un aquilone sulla Sicilia, in Itaca, addio, Milano, il
Saggiatore, 2001, [pp. 39-88], p. 46.
152
Ivi, pp. 46-50.

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di Vittorini è già quella dei « ragazzi affamati con fame anche di
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città nuove e mondo da vedere» 153 ed è già lo sciasciano « voglio


vedere cose nuove» 154. È dunque l’«Itaca addio» di Diario in pub-
blico, del 1957, ma che parte già da Conversazione in Sicilia
(1938-1939); quella « conversazione» che, tra il 1941 e il 1956,
Oreste Macrí intuiva nata duraturamente nella « ricerca della ve-
rità delle famiglie, dei costumi, delle città (è Vittorini [in assoluto
« tra i migliori, i più eletti, i più generosi»] tra i pochissimi diretta-
mente impegnato in tal senso)» 155.

A partire da una simile allegoria del sentimento e da un impe-


gno non così lontano, sempre e ancora traghettato dalla seconda
metà degli anni Trenta alla seconda dei Cinquanta, si potrebbero
poi cercare di avvicinare davvero Il ricordo della Basca – racconto
apparso nella raccolta omonima del 1938 156 e « prima vera presa
di coscienza letteraria e morale di Delfini» 157 – e Una storia, con la
quale l’autore accompagna, fra istruzioni e testimonianze, la se-
conda edizione della stessa raccolta e che presenta significativa-
mente, nel 1956, come « il Ricordo del Ricordo della Basca» 158.

153
E. Vittorini, Diario in pubblico cit., p. 212. E cfr. la recente riproposi-
zione di una partecipe recensione di Raffaele Crovi apparsa in «Stato Democra-
tico», il 5 novembre 1957, come cuore di un volume dello stesso, Vittorini ca-
valcava la tigre. Ricordi, saggi e polemiche sullo scrittore siciliano, Roma, Avaglia-
no, 2006, pp. 73-77.
154
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 230.
155
O. Macrí, L’« astratto furore» di Elio Vittorini (1941), in O. Macrí, Ca-
ratteri e figure della poesia italiana contemporanea cit., pp. 347 (e 345).
156
Antonio Delfini, Il ricordo della Basca, Firenze, Parenti, 1938.
157
Giuseppe Marchetti, Delfini, Firenze, La Nuova Italia, «Il Castoro»,
1975, [pp. 25-28], p. 26.
158
Cfr. A. Delfini, Una storia in Il ricordo della Basca. Dieci racconti e una
storia, Pisa, Nistri Lischi, 1956, pp. 9-109, poi in I racconti, Milano, Garzanti,
1963, pp. 7-96, e infine, come Introduzione a Il ricordo della Basca, Torino, Ei-
naudi, « Opere di Antonio Delfini», 1982, pp. 3-62, che adotta il testo della se-
conda edizione (1956) – « rigorosamente curato da Delfini stesso, e riveduto ri-
spetto alla prima edizione (1938)» – e segue la terza edizione, con titolo generi-

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Certo, ci troviamo di fronte a una narrativa diversa da
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quella di Conversazione e a uno scrittore diverso da Elio Vittori-


ni, nonostante appartenga alla stessa generazione, che è dato
non trascurabile, specie a inizio secolo, ché il fascismo parados-
salmente riesce a unire nel suo controcanto, tra consenso e sfu-
mare dello stesso nella seconda metà degli anni Trenta, intellet-
tuali antifascisti diversissimi. (Delfini sarà anche l’autore di un
Manifesto per un partito conservatore e comunista 159 « in cui nel
1951 sintetizza la sua personale visione politica, definibile con
approssimazione “monarchico-marxista”» 160).
Ma è proprio per l’evidente differenza tra Vittorini e Delfi-
ni che le puntate sulla guerra di Spagna – cercate negli stessi an-
ni e con modalità « epigrammatiche», suggerirebbe forse e an-
cora Garosci – sono molto significative e possono aiutarci, an-
che nel loro essere ribadite, a capire meglio un atteggiamento
dei narratori italiani verso la guerra civile spagnola nella secon-
da metà degli anni Trenta.
L’attacco de Il ricordo della Basca, con « un agosto caldissi-
mo», ci riporta quasi alle pagine di El Gringo, alla lunghissima
estate del 1936 di cui si diceva sopra. Ma non è un viaggio nel-
lo spazio, per quanto affidato a un falso reportage, a strutturare
il racconto. Si tratta invece di un viaggio nella memoria, simile

co, I racconti (1963), solo per la proposta del « frammento» Il 10 giugno 1918,
pubblicato sull’«Illustrazione italiana», agosto 1961, pp. 75-85: per queste e al-
tre informazioni si veda la Nota dell’editore Einaudi, a p. 173, e per l’importan-
za de Il 10 giugno 1918, che « avrebbe dovuto essere il romanzo della vita di
Delfini», si legga, anche in relazione a Il ricordo della Basca, G. Marchetti, Il
racconto come confessione, in Delfini cit., [pp. 28-39], p. 28. Infine, per il ricor-
do alla seconda, alla potenza, come pratica del mondo narrativo (e critico) di
Delfini, cfr. Giulio Ungarelli, Ricordare un ricordo, sognare un sogno, in Antonio
Delfini tra memoria e sogno, Roma, Bulzoni, 1973, pp. 51-67.
159
Antonio Delfini, Manifesto per un partito conservatore e comunista in
Italia, Parma, Guanda, 1951.
160
Cfr. Piero Luxardo Franchi, Contro-passato remoto di Antonio Delfini,
in L’altra faccia degli anni trenta, Presentazione di Silvio Ramat, Padova,
CLEUP, 1991, [pp. 79-109], p. 83.

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in parte a quello di Conversazione ma con un apparato lirico e
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simbolico più conciso e anche, in tal senso, meno iterato e so-


vraccarico. Emerge, insomma, quel « delicato poeta della Basca»
di cui ha parlato Cesare Garboli, presentando Delfini ai lettori
nel risvolto di copertina dell’edizione Einaudi de Il ricordo della
Basca (1982), cui faremo riferimento 161.
Ma in relazione alla fanciulla basca di cui il protagonista
del racconto si innamora da giovane, negli « anni tra il 1912 e
il 1914, tra la guerra libica e la guerra europea » 162 e a cui ri-
pensa, in preda a crisi esistenziale e civile, allo scoppio della
guerra spagnola, il « delicato poeta » lavora già in seno a
quell’« anticanzoniere » che sono le Poesie della fine del mondo
(1961) 163, cronologicamente (e non solo) vicine al Ricordo del
Ricordo della Basca del 1956. Suggerisce bene Giorgio Agam-
ben: «Si capisce allora perché Delfini definisca nella premessa
le Poesie della fine del mondo come un “anticanzoniere”. [...]
Definitivamente divaricato il dettato trobadorico, la vita sta
ora da una parte e la poesia, dall’altra, è soltanto letteratura,
lutto per l’irremissibile morte di Laura. Le Poesie della fine del
mondo sono un anticanzoniere, perché è precisamente questa
divaricazione che Delfini non riesce a nessun prezzo ad accet-
tare. Di qui la furiosa guerra che il poeta, con le sue ultime for-
ze, scatena contro la “realtà”, che è nella stessa misura una lot-

161
A. Delfini, Il ricordo della Basca cit, pensato come secondo volume del-
le « Opere di Antonio Delfini» dopo i Diari, dove si trova un disteso e ricco in-
tervento di Cesare Garboli, Prefazione a A. Delfini, Diari 1927-1961, a cura di
Giovanna Delfini e Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 1982, pp. V-XLVI. Ma
si veda poi C. Garboli, Scritti servili, Torino, Einaudi, 1989, pp. 29-91 e Storie
di seduzione, Torino, Einaudi, 2005, pp. 9-49 (287-288). Si veda infine l’otti-
mo saggio di Raffaele Manica, «Rose rosse, per corrispondenza». Una storia di
Delfini, in «Frammenti di un discorso amoroso» nella scrittura epistolare moderna,
Atti di seminario, Trento, maggio 1991, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni,
1992, pp. 445-472.
162
A. Delfini, Il ricordo della Basca cit., p. 133.
163
A. Delfini, Poesie della fine del mondo, Milano, Feltrinelli, 1961.

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ta per la poesia, per impedire che le Poesie della fine del mondo
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possano mai diventare un canzoniere » 164.


Delfini muore poco dopo, nel 1963, ma la furiosa guerra
contro la « realtà» e per la poesia è iniziata molto prima: «Forse
lei [la Basca] non verrà più – forse l’uccideranno – ma il mio
cuore è ucciso – prima che lei sia rapita» 165.

Ma procediamo con ordine. Il breve racconto di Delfini


apre su un clima vacanziero, che permette tuttavia alla guerra ci-
vile di affacciarsi, di essere enunciata subito, seppur in seno ai
pensieri di un uomo « trasognato»: «Giacomo Disvetri aveva
passato da poco i quarant’anni. Aveva il tipo del trasognato, ma
si portava praticamente bene nel suo lavoro di modesto impiega-
to di banca [...] trovato, quando lui, rimasto improvvisamente
senza il patrimonio, non avrebbe saputo come tirare avanti per
vivere. Da tre giorni era in libertà per le vacanze estive. A Corti-
na, al Lido, all’estero, da tanti anni pensava di andare in Ispagna,
ma adesso c’era la guerra civile, meglio andare al vicino Abetone,
o alla Porretta o chissà dove, forse in nessun posto» 166.
Poi la guerra di Spagna scompare per quasi tutto il raccon-
to ma si sente che gli « astratti furori» di Delfini sono in aggua-
to, tra memoria e sogno. Spie ne sono il costante riferirsi alla
Spagna e agli spagnoli, anche al di là della Basca 167, e facili rilie-
vi, per quanto impliciti, quali: «[...] il padre della ragazza [...]
era il professor De Aranzadi di Guernica, un famoso geologo
basco venuto al golfo della Spezia per farvi degli importanti stu-
di» 168. Più avanti, verso la fine del racconto, ecco emergere il

164
Giorgio Agamben, Introduzione a A. Delfini, Poesie della fine del mondo
e Poesie escluse, a cura di Daniele Garbuglia, Macerata, Quodlibet, 1995, [pp.
IX-XX], pp. XVIII-XIX.
165
A. Delfini, Il ricordo della Basca cit., p. 143.
166
Ivi, p. 129.
167
Ivi, pp. 129, 133, 136, 140, 142.
168
Ivi, p. 134.

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celato, trasognato furore delfiniano, teso nelle forme di un
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« rancore che non si spegnerebbe mai» per chiunque non capi-


sca « l’eterna scomparsa della Basca» 169:

Quante giornate avevano trascorso insieme, lui e la Basca ? [...]


Come avrebbe mai potuto darsi quel giorno in cui la Basca sareb-
be scomparsa ? Era mai possibile pensarci ? E quale sarebbe stato
quel giorno ? [...] Certamente un giorno d’ottobre, quel giorno in
cui avrebbe dovuto sentirsi dire da una cameriera: «Il signor Pro-
fessore e la signorina sono partiti». [...] Si può pensare, sì, a una
brutta giornata, a un cataclisma, a un terremoto, a una guerra,
che tutti ci faccia scomparire o almeno gran parte di noi. [...]
Noi non conosciamo le rappresentazioni della Basca il giorno in
cui Giacomo (trasformato e identificato dalla voce di lei, diventa-
to uomo d’amore) si costruiva le sue davanti a quelli di casa,
mentre si svolgevano un pranzo e un temporale. [...] Chiunque
vedessimo col sorriso, o con la gioia di vivere, incontrerebbe la
nostra disapprovazione e sarebbe perseguitato dal nostro rancore
che non si spegnerebbe mai. Quel mai che dura tanto, quanto
può durare l’eterna scomparsa della Basca 170.

Nella Storia del 1956, in una sorta di piccolo « diario in


pubblico» (« dicembre 1935 [...] Natale del 1936 [...] principio
di primavera del 1937») 171 il modenese ‘confessa’ vent’anni do-
po – i vent’anni dopo vittoriniani, anche e per l’appunto – di
esser fuggito al « minculpop», alla censura, perché, in fin dei
conti, si era « troppo nascosto», rendendo incomprensibile il
suo « grande messaggio all’umanità» 172; un messaggio che non è
così lontano dai « furori [...] per il genere umano perduto» di
Vittorini e la cui trasfigurazione, nel racconto, segue anch’essa,

169
Ivi, p. 140.
170
Ivi, pp. 139-140.
171
Ivi, pp. 55-60.
172
Ivi, pp. 61-62.

200

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come si è suggerito, una sorta di « allegoria del sentimento», do-
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ve la «Basca» è il « genere umano perduto».


Leggiamo una parte della ‘confessione’ delfiniana:

Scoppiò la guerra civile spagnola. Ero a Viareggio. Conobbi al Forte


dei Marmi dei fuggiaschi da Barcellona. Erano fascisti spagnoli in
casa di fascisti. Tutto mi faceva uno schifo colossale. Mi pareva di vi-
vere dentro una gabbia di paglia e di sterco. Veniva a trovarmi un
certo scrittore antifascista, che aveva rapporti con il Ministero
dell’Interno e diceva di essere stato comunista. Era un infelice, ama-
va gli oggetti, e aveva paura di spendere. Nel mondo ero considerato
suo grande amico. Ero un debole, ero sempre stato un debole. Mi
veniva a prendere a casa e, con la mia automobile, mi portava in tut-
te le sfumature della buona Società. Nonostante le diversità che ri-
scontravo tra un gruppo e l’altro, non mi è mai riuscito di portare a
casa un’immagine che distinguesse un gruppo dall’altro. [...] Solo
quando sarò persuaso che in quei gruppi mondani e artistici non
c’era altro che il falso, e perciò il brutto, allora potrò rappacificarmi
col grazioso, con l’artistico. Col buon gusto: mai. C’è una ragione per
cui non farò mai pace col buon gusto. Perché anche il disumano può
avere del buon gusto. E io intendo, con tutte le forze morali che an-
cora mi rimangono, di rompere ogni rapporto col disumano.
Tentativi di rompere i rapporti col disumano, ne avevo sempre
fatti. La Società correva verso l’assoluta inumanità. Si inaugurava
l’inumanesimo italiano, che nei giorni in cui scrivo è arrivato,
sembra, a una sua concreta stabilizzazione [...]
Scoppiò la guerra civile spagnola. Il popolo al quale diedi tutta la
mia simpatia fu il popolo Basco. Era il più antico di tutti i popoli
d’Europa... e a quel tempo ero regionalista. (Oggi non lo sono
più perché il partito dominante in Italia tende a scambiare la re-
gione come una super-prefettura). [...]
Fu in un giorno del principio di primavera del 1937, alla stazione
di Firenze mentre aspettavo il solito treno per Bologna. Avevo di-
menticato la guerra civile, la storia antica e moderna, non leggevo
i giornali che tenevo in mano. [...] Il bambino avrà avuto dieci
anni; lei quindici. [...] Lui pareva uscire da un quadro di
Velasquez. Lei, che ricordava, pur non somigliandole, quella Ma-
donna del Greco [...] poteva essere, vivente all’improvviso e

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nell’infanzia, la più adorata signora della mia vita: quella che sta
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in poltrona in un quadro di Cézanne. Però era anche (e forse, so-


prattutto) una Madonna del Greco [...] piena di una felicità sere-
na che il mondo non voleva più tollerare [...]
Sono passati diciannove anni da quel giorno del principio di pri-
mavera del 1937, e quell’incontro torna ad essere, come è sempre
stato, pieno di rimproveri di prospettive e di speranze. Lei venne
da me chiamata la Basca. La guerra civile spagnola stava diventan-
do la prima vera grande tragedia dell’umanità. La immaginai tor-
nata al suo paese. La immaginai fuggiasca. La pensai figlia del ca-
po della rivolta. Il destino dei Baschi fu allora terribile, diventò
tragico, e finì con lo svanire in altre e più grandi tragedie. La mia
ambizione trasmodò. Volli scrivere un libro, un grande messaggio
all’umanità. Far capire agli italiani, e senza incorrere nella censura
o nei castighi del regime, che io ero coi Baschi e contro di loro.
Far leggere a lei il mio libro e farmela incontrare di nuovo. Dove-
vo fare in fretta, prima che finisse la guerra, prima che fosse tutto
perduto. Ne venne fuori un pasticcio che nessuno ha capito, un
racconto: Il ricordo della Basca.
Dopo averlo scritto non trovai rivista che me lo pubblicasse. Sta-
vo quasi per distruggerlo. Ad amici di particolare elevatezza, con-
fidai il mio segreto: risero tutti sotto i baffi. L’anno dopo, conse-
gnai il dattiloscritto a Bonsanti, per i fratelli Parenti editori.
Il libro venne fermato dal minculpop. Poi liberato, per intercessio-
ne di Arrigo Benedetti, pur che si togliessero parole volgari da
qualche racconto. Anche il minculpop non aveva capito niente
del mio messaggio, della mia invocazione alla rivolta. Forse mi ero
troppo nascosto. Anche i lettori più attenti non vi capirono nulla.
Effettivamente avevo fatto forse in modo che non si capisse nien-
te. Ad ogni modo, quando il libro poté uscire, non venne diffuso.
Anzi fu il meno diffuso, della collezione meno diffusa, dell’edito-
re meno diffuso d’Italia. [...] Chiedo scusa al lettore per la lunga
prefazione, o come la si vuol chiamare, per il Ricordo del Ricordo
della Basca e, intanto, gli faccio appello di non domandarmi (se
leggerà il libro): «Perché la Basca ? chi è? cosa vuol dire ?» 173.

173
Ivi, pp. 57-62 (con tagli).

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18 aprile 1956: « anche il disumano può avere del buon gu-
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sto». Viene in mente George Steiner, quando, introducendo,


dieci anni dopo, nel settembre 1966, saggi scritti tra il 1958 e il
1967 e raccolti in Language and Silence (1967), dice: «Adesso
sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può
suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al
proprio lavoro ad Auschwitz» 174. Per sterminare gli ebrei. Pri-
ma, per uccidere il popolo basco, e spagnolo, ma sempre proce-
dendo verso « l’assoluta inumanità» e originando, anche, « l’inu-
manesimo italiano».
Quasi nella stessa matrice, i furori delfiniani rivelano que-
sta triste eredità, dagli anni Trenta ai Cinquanta e ai Sessanta.
29 aprile 1960: «Le poesie [...] sono in qualche modo ispirate
dal presagio di dover essere spettatore di una fine del mondo
che non si sa quando avverrà o quando avvenne. La fine del
mondo può essere già avvenuta. Il poeta prova a ricordare [...]
Il poeta vuol bene al passato: vede una Bambina con una rosa
in mano, la quale porterà la salvezza al mondo che sta per finire
o recherà l’oblio al mondo che è già finito» 175.

Vittorini e Delfini si misurano, alla potenza, con il silenzio,


con il silenzio dell’« assoluta inumanità» e con « l’inumanesimo
italiano» di cui non possono “dire” per via del contesto storico-
politico che ospita quel loro linguaggio che tenta comunque il
silenzio dell’« assoluta inumanità». In tal senso, le loro frequen-
tazioni del silenzio non equivalgono al tacere, né vanno confuse
con un “non dire” semplicemente muto. Certo, Vittorini e Del-
fini aspirano a tradurre l’« inumanesimo italiano» con un « eser-
cizio del silenzio» un po’ particolare, che apre finanche su una

174
George Steiner, Prefazione a Linguaggio e silenzio, Milano, Garzanti,
2001, [pp. 7-11], p. 9.
175
A. Delfini, Premessa a Poesie della fine del mondo cit., e ora a Poesie del-
la fine del mondo e Poesie escluse cit., pp. 5-6. Ma cfr. Noi minacciamo di fare la
guerra, del 9 maggio 1959, alle pp. 29-31.

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non evidente « indecidibilità tra interno ed esterno» 176, facile da
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criticare nei suoi immediati risvolti politici. I due scrittori lo


sanno e vent’anni dopo cercano l’occasione per tornare sulla lo-
ro sfida e per spiegarla e dispiegarla.
Del resto, cercando di evadere un discorso filosofico stret-
to, puro, qui volutamente appena accennato, e provando a ri-
baltare il discorso politico di Garosci, possiamo suggerire che
ciò che rimane volutamente fuori della sfida di Vittorini e di
Delfini è il mondo come spettacolo, la Spagna come spettacolo;
quel mondo che si impone nei testi della propaganda, soprat-
tutto, ma che affiora anche, parzialmente, in altri e più avvertiti
orizzonti (letterari, leggendari, folclorici); quel mondo di cui si
è apprezzato il controcanto in quei racconti che, verso la metà
degli anni Quaranta, prendono le distanze dai primi e dai se-
condi, come Il vecchio con gli stivali (1944) di Brancati, già ri-
chiamato nel primo capitolo, con Piscitello che alla moglie rim-
provera proprio la Spagna come spettacolo.
Anzi, chi, nella seconda metà degli anni Trenta, non sfuma
il pieno di voci di quel periodo con una frequentazione del silen-
zio vittoriniana e/o delfiniana, rischia in fin dei conti un com-
promesso più difficile da dispiegare sia dell’« epigramma» vitto-
riniano, sia del “silenziatore” delfiniano. È in fondo quello che
capita, a mio avviso, a una quasi riscoperta della Letteratura ei-
naudiana di Asor Rosa, complice Laura Fortini, ovvero a Nessu-
no torna indietro (1938) di Alba De Céspedes, che, dopo il breve
romanzo Io, suo padre (1935), una raccolta di liriche, Prigionie
(1936), e due di racconti, L’anima degli altri (1935) e Concerto

176
Penso, adattandolo, a P. A. Rovatti, L’esercizio del silenzio. Postilla a Der-
rida, nel ricco La retorica del silenzio, a cura di Carlo A. Augieri, Lecce, Milella,
1994, [pp. 63-68], p. 64: « indecidibilità tra interno ed esterno, tra prossimità e
lontananza, e infine, poco più tardi, tra amico e nemico. Non sappiamo dire, in-
fatti, se la voce sia dentro o fuori di noi, e neppure veniamo a capo dell’afferma-
zione, che ci sembra di poter fare, che essa sia dentro e fuori, perché è proprio
questa distinzione tra dentro e fuori che non riusciamo più a leggere e a reggere».

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(1937), approda al suo primo testo di un certo impegno, finan-
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che a livello quantitativo (con quattro lunghi capitoli, o « parti»,


per un totale di quattrocentocinquantotto pagine) 177.
Si tratta di un interessante romanzo di formazione, dalla
trama simbolica, che va spesso al di là di un plot costruito intor-
no a un collegio di suore, a Roma, con ragazze in cerca di una
laurea e di un marito. Quello che colpisce, dal nostro punto di
vista, è che in un romanzo in cui non ci sono forti e molteplici
richiami alla realtà politica dell’epoca e al fascismo – « – È
iscritta al Partito ? – Al Guf»; «[...] a stento si fecero largo tra la
folla che s’accalcava sulla piazza, attenta alla tombola che si
estraeva dal balcone della Casa del fascio» 178 – la guerra di Spa-
gna s’imponga con una continuità davvero notevole, in maniera
estesa, in almeno una dozzina di luoghi del testo 179. Certo, la
guerra di Spagna diventa quasi strutturante perché Vinca, la
prima collegiale ad apparire nel romanzo, è spagnola e, allo
scoppiare del conflitto, abbandona il collegio per attendere, in
un appartamento di connazionali benestanti, il ritorno del fi-
danzato, partito per arruolarsi nella « falange» 180; quel Luis che
« animato discuteva, parlava di Spagna rossa, di Spagna marto-
riata, chiese sventrate dalle bombe, donne gettate a mare nei
sacchi, bimbi con le mani tagliate» 181.

177
Alba De Céspedes, Nessuno torna indietro, Milano, Mondadori, 1938.
Si leggano le pagine dedicate al romanzo da Laura Fortini in Letteratura italia-
na. Le Opere, IV/2, diretta da Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2000, pp.
137-166. Cfr. anche Letteratura italiana. Dizionario delle Opere, II, Torino, Ei-
naudi, 2000, pp. 101-102.
178
A. De Céspedes, Nessuno torna indietro cit., pp. 70 e 243.
179
Ivi, pp. 117-120, 153, 170-178, 186-191, 236, 267-276, 316-317,
321-325, 359, 387-392, 395-397.
180
Ivi, p. 176.
181
Ivi, p. 172. Difficile condividere le conclusioni di L. Fortini circa
«Luis, coinvolto nella guerra di Spagna in nome di un ideale politico e in difesa
di una patria lontana di cui egli stesso non ha chiari i contorni» (Letteratura ita-
liana. Le Opere cit., p. 153; ma cfr. p. 148).

205

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Vinca attende Luis insieme a Pilar, un’altra ragazza, e alla
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madre di quest’ultima, donna Inez, che la accoglie con il consen-


so del padre, che « s’era rifugiato con la moglie in Portogallo»:
«“Sì, vieni, cara”, le aveva detto: “Così non mi rimane sola la mia
Pilar. Tutti insieme, tutti insieme. Non si può restare tra estranei,
che non capiscono quello che noi stiamo passando”» 182.
La « ricca donna Inez», del resto, detesta i « rossi», che del-
la sua « casa di campagna, a Ozuna, avevano fatto una specie di
quartier generale» 183, e poco prima si produce in una chiacchie-
ra a ruota libera, che è quasi un monologo, melodrammatico,
grand-guignolesque, aneddotico, finanche divertente, per l’uso
dello spagnolo e per le interruzioni di Pilar, ma orientato da
« aristocratico» odio verso i rossi – « quelle belve» – e ben diver-
so da quello brancatiano de Il bell’Antonio sopra citato:

– Esta mattina entra in camera mia la criada, como dite ? la came-


riera e mi fa: « C’è una signorina che viene dalla Spagna». Figure-
se ! Stavo così, spettinata, in vestaglia, ma « dalla Spagna», aveva
detto, vengo subito, rispondo, che aspetti, che aspetti. Vado e tro-
vo una creatura preciosa, bellissima, bionda, snella, bionda plati-
no, proprio come un’artista del cine. La mandava da me un’amica
mia, una vecchia amica, alla quale quelle belve hanno ammazzato
il figlio così, ni os ni Dios, una pallottola nella schiena, pum lì, a
ventidue anni. Dunque, la ragazza era pallida, di cera, la pobreci-
ta: è salva per miracolo, che volevano fucilarla perché è fidanzata
con un falangista. È stata carcerata un mese, con altre donne, gen-
te dell’aristocrazia, due monache e una donna incinta. L’hanno
arrestata in mezzo alla strada, venga con noi, e lei subito aveva
pensato: me matano. Dunque l’arrestano...
Pilar l’interruppe: – Sì, ma dì prima che lei non è spagnola, che al
consolato...
– Ah, vero, vero, lei dunque è nord americana, ma le piace la Spa-
gna, ya lo creo, la madre è spagnola, lei vive in Spagna. Al conso-

182
A. De Céspedes, Nessuno torna indietro cit., pp. 189 e 188.
183
Ivi, p. 188.

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lato americano le dicono stia tranquilla, lei è suddita americana
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non possono farle nulla, non la toccano, ma quelli sì, mica ti do-
mandano le carte. Carcerata dunque in un sotano, como si dice ?
una cantina, con quelle altre, due ne uscirono per essere fucilate.
Le chiamano dicendo così: «Vamos de paseo» una passeggiata e
non ritornano più. È arrivata qui esausta, morta di fame, mi rac-
contava tutto ciò mentre le davo la minestra; notte e giorno le
monache pregavano e la donna incinta piangeva, finché un gior-
no comincia a lamentarsi, poi si mette a urlare, son le doglie del
parto. Ventiquattr’ore di doglie, e strilli, e strilli, quelle belve nep-
pure s’accostavano, e loro bussavano alla porta, niente, sole lì, co-
me cani, al buio, le monache aiutavano quella poveretta, che, il
giorno dopo, finalmente si libera.
Morto, il bambino – interruppe Pilar. Donna Inez la guardò male
perché le aveva tolto le parole e l’effetto. Poi continuò più piano:
– Già, morto. E la madre mezzo dissanguata, lì, nel sudiciume, a
piangere, a disperarsi, a scaldare col fiato il niño perché tornasse a
vivere. Dopo due giorni si portano via il cadavere, la madre aveva
la febbre forte, l’infezione smaniava. Le monache avevano ripreso
a pregare, quel borbottìo, dice la muchacha, faceva diventar pazzi.
Il domani una di quelle belve apre la porta, dice: «Es domingo, si
mangia arrosto oggi, lepre arrosto». Lo divorarono tutte, affama-
te, anche le monache, anche la puerpera. E quelli dopo, in due tre
sulla porta a ridere, a smascellarsi. «Bueno, no ?» chiedevano, e ri-
devano come ubriachi. Sapete cos’era la lepre ? Già, la lepre, era il
bambino !
[...]
– S’è salvata così. Il giorno dopo, tornano le belve e si portano via
le monache. Las pobrecitas se van como al martirio. Ma tornano
poi, e non pregano più, stanno buttate in un angolo, senza più le
cuffie, i capelli corti disordinati. E dopo poco chiamano lei, la
muchacha: «Vamos» dicono « a pasear». M’ha detto che non ave-
va paura, si capisce che è di sangue freddo, meglio morire che
quest’incubo, pensava, le altre piangevano e lei se ne va con loro.
Dice che aveva deciso; prima che sparino strillo: «Viva la falan-
ge ! », almeno il fidanzato l’avrebbe saputo. E poi, sai ? come nei
film, all’ultimo momento arriva il console e se la porta via svenu-
ta. È stata dieci giorni in casa di lui, delirando; sempre gridava:

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«Viva la falange ! Viva la falange ! » e sputava perché sentiva in
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bocca il sapore di quel bambino morto 184.

Certo, non siamo di fronte alla meccanica registrazione dei


luoghi comuni della propaganda e l’enfasi dell’oralità di Donna
Inez sembra produrre un effetto straniante, tanto che si potreb-
be finanche pensare a un travestimento e ribaltamento degli stes-
si, se non fosse per il seguito del testo, dove tra l’altro troviamo
subito gli italiani «Emanuela e Andrea [...] spaventati come se
quella tragedia dovesse travolgere anche loro», con il giovane
partecipe che domanda alla ragazza: « – Sì, poveracci. Che fa-
remmo noi esiliati dalla patria ? [...] Potresti vivere fuori d’Italia,
tu ?». Certo, nella vicenda di Emanuela (e della stessa Vinca), il
privato femminile si sovrappone al pubblico, poco frequentato,
come si diceva, ma l’orizzonte collettivo, a partire dal contesto
allargato della comunità spagnola nazionalista, quella dei rifugia-
ti d’Italia o di Portogallo, non è archiviabile facilmente.
Edito nel 1938 da Mondadori, uno degli editori più dif-
fusi, con grande successo di critica e pubblico, Nessuno torna
indietro – esibendo passi come quello sopra citato e altri, in tal
senso, più o meno significativi – non avrebbe comunque do-
vuto essere «fermato dal minculpop». Ma le vie del fascismo
sono davvero “infinite” e la diciassettesima ristampa del ro-
manzo è bloccata dalla censura fascista. E Laura Fortini – che
peraltro glissa sulla guerra civile, pur riconoscendone la prepo-
tente presenza nel testo – spiega: « Nella capacità di rappresen-
tare questo sentimento di transitorietà e di incertezza [di una
generazione alle soglie di un evento epocale, la guerra e i suoi
orrori] risiede probabilmente il motivo dell’inaspettato succes-
so editoriale del romanzo, le cui possibilità eversive vennero
intuite dal regime fascista che cercò di ostacolarne la diffusio-
ne ». Diffusione che invece continua « semiclandestinamente

184
Ivi, pp. 173-175 (e p. 177 per la citazione che segue nel testo).

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fino a guerra avanzata » e poi con altre edizioni e ristampe, fra
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1952 e 1990. Eppure sembra quasi che, almeno per quanto ri-
guarda il suo primo romanzo di grande respiro, e forse proprio
per una certa, ambigua presenza della guerra civile spagnola,
De Céspedes abbia subito un po’ il destino che travolge una
parte non ignorabile degli scrittori spagnoli, gli scrittori falan-
gisti, di cui Javier Cercas, « con la frase coniata da Andrés Tra-
piello», dice: « avevano vinto la guerra, ma avevano perso la
storia della letteratura » 185.
«Habían ganado la guerra, pero habían perdido la historia
de la literatura» 186. È un’affermazione già forte – ma sostanzial-
mente vera – nel contesto d’origine. Ed è un’affermazione che
perde il suo mordente se proiettata nel futuro della De Céspe-
des (anche cinematografico, con il romanzo del 1938 che di-
venta film nel 1943 con la regia di Blasetti e la collaborazione
dell’autrice alla sceneggiatura e ai dialoghi) e in tutto il contesto
narrativo italiano, che stranamente, però, nei decenni successi-
vi, non riesce davvero a liberarsi di quello che potremmo anche
indicare – al di là della forza del linguaggio che si misura col si-
lenzio – come una sorta di “blocco” vittoriniano-delfiniano.
Difficile non scorgerne certi effetti, anche dopo i ‘ritorni’ di
Delfini e Vittorini nel 1956-57 e anche in seno al prolungato in-
teresse sciasciano tra anni Cinquanta e Sessanta. Ripenso all’ite-
rato e composito processo narrativo che Leonardo Sciascia lancia
per frammenti anticipatori e interessanti, come La sesta giornata
e Il soldato Seis, entrambi del 1958 187, e alla traduzione de La ve-
lada en Benicarló (1939) – insieme a Salvatore Girgenti – e so-
prattutto alla Prefazione a quell’amaro dialogo sulle cause e le
conseguenze della guerra civile che è il testo di Manuel Azaña,

185
Javier Cercas, Soldati di Salamina, Parma, Guanda, 2002, p. 18. E cfr.
ancora il saggio di Laura Fortini in Letteratura italiana. Le Opere cit., p. 142.
186
J. Cercas, Soldados de Salamina, Barcelona, Tusquets, 2001, p. 22.
187
L. Sciascia, La sesta giornata, « Officina», 7, 1958, poi in AA. VV., La
noia e l’offesa cit., e L. Sciascia, Il soldato Seis, «Valbona», 1, 1958, pp. 3-5.

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uscito da Einaudi nel 1967 188. Ma più di questa Prefazione e de
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La sesta giornata, che hanno un valore critico più che narrativo,


come si può facilmente dedurre dalle citazioni che ne abbiamo
tratto via via, è Il soldato Seis (1958) a giocare narrativamente
con L’antimonio (1960), ponendosi quasi come un’origine com-
positiva, rintracciabile tra Hemingway e Vittorini, in seno a una
“chiacchierata” e a una « serena conversazione» in Sicilia.

Ieri sera, in una casa di campagna alta su Palermo – Palermo vela-


ta dalla caligine di scirocco – per qualche ora ho parlato della
guerra di Spagna con un giovane prete spagnolo e un ex ufficiale
italiano del «Tercio». È stata una serena conversazione [...]
L’ufficiale del «Tercio» raccontava di Lister, lo spaccapietre della
Galizia che era diventato generale dell’esercito popolare; un uo-
mo che sapeva vivere, Lister; e sapeva combattere – magnifico –
diceva l’uomo del «Tercio». Il corpo d’esercito di Lister sempre si
trovava indomabile di fronte al «Tercio» [...] 189.

Líster, ricordato per le sue memorie, nel primo capitolo,


con le Ore di Spagna 190, del 1988, è anche ne L’antimonio, an-
che nel passo delle farfalle, da me tagliato per evidenziare so-
prattutto il percorso del fuoco, della paura, della memoria e
dell’infanzia in relazione al protagonista. Già due anni prima,
nel 1958, Líster è una leggenda che affiora da lontano e lonta-
no, in un certo senso, resta, nell’ascolto pacato della testimo-
nianza di una guerra distante nel tempo, il cui ricordo giunge
attraverso la serenità di una conversazione e lo spirito dell’ex uf-
ficiale italiano del «Tercio», che accetta pure, « nell’ultima bat-
taglia», l’« ultimo scherno del generale spaccapietre [...] la scim-
mia di Lister»:

188
L. Sciascia, Prefazione a Manuel Azaña, La veglia a Benicarló cit., pp.
VII-XIII.
189
L. Sciascia, Il soldato Seis cit, p. 3.
190
L. Sciascia, Ore di Spagna cit., p. 29.

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E l’ufficiale italiano, che sapeva stare allo scherzo, scelse tra i le-
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gionari uno che alla scimmia somigliava e gliela diede in conse-


gna; e aveva fotografato – pausa eroicomica nella grande tragedia
– la consegna della scimmia al legionario 191.

L’esorcizzante « pausa eroicomica nella grande tragedia»,


creata in fin dei conti da un Líster spaccapietre, eroe del popolo,
quasi in seno a un grottesco bachtiniano 192, lascia il posto, ne
L’antimonio, a una visione più realistica e più ravvicinata di Líster,
meno abile combattente, anche meno sicuro di sé – almeno in
una circostanza, rievocata nel passo delle farfalle – e più vicino al
« bracciante», nel modo di pensare la guerra, di farla, di subirla:

Venne la ventata di Brunete, i repubblicani ci vennero addosso a


sorpresa, la mia ammirazione per i generali scese di colpo: ché po-
tevano prenderci, come si suol dire, nel sonno; e non fecero tra-
volgente avanzata forse perché ebbero sorpresa di quel vuoto, te-
mettero predisposta insidia, e invece non c’era niente; superarono
il quadrivio di Brunete e spensero la corsa. Lister, che era il loro
generale, fece in quell’occasione gran credito ai generali nostri, da
bracciante che era stato pensava, come me, che i generali vedesse-
ro tutto: e che a lasciare un vuoto come quello sul fronte di Ma-
drid ci fosse segreto calcolo. Quando si accorse che avrebbe potu-
to spingersi oltre, era già tardi [...] costringemmo le forze di Lister
alla difesa; l’iniziale successo che non seppe a fondo sfruttare fu,
nel giro di dieci giorni, annullato 193.

Tuttavia, il generale della Repubblica resta ancora ben sal-


do, nel corso della guerra, e L’antimonio lo ricorda: «Il 28 di-
cembre attaccammo Lister con grandi forze, l’offensiva si in-

191
L. Sciascia, Il soldato Seis cit, p. 3.
192
Cfr. Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, car-
nevale e festa nella cultura medievale e rinascimentale (1965), Torino, Einaudi,
1979, pp. 332-404.
193
L. Sciascia, L’antimonio cit, p. 190.

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franse contro le posizioni di Lister come una quartara contro un
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muro» 194. E lo ricorda anche al di là dell’intuizione eroicomica


de Il soldato Seis, affidata a una fotografia che ne fa sorgere altre,
in modo familiare ma significativo, da « una grande scatola pie-
na di fotografie e carte della guerra spagnola». Perché nella vi-
sione delle stesse si riesce a concentrare la densità senza fine del-
la guerra civile e ad accordarla alla « forme brève» 195, con una
struttura tesa tra l’articolo e la short story in cui emergono co-
munque le immagini e le idee poi sviluppate ne L’antimonio:

E finì che passammo una dopo l’altra fotografie e carte. La neve a


Teruel. Il fango delle giornate di Guadalajara. L’assalto dei mori e
dei soldati di Navarra. Le file dei nostri poveri legionari lungo le
trazzere di Castiglia e di Catalogna ( il prete spagnolo credeva fos-
sero volontari, i nostri legionari, per la fede di Cristo; gli spiegai
che andavano a combattere in Spagna per la disoccupazione e la
fame che in Italia subivano). I campanili delle chiese da cui i mili-
ziani sparavano fino all’estremo [...] 196.

Difficile non pensare all’incipit de L’antimonio, a quel «Spara-


vano dal campanile» e ai paragrafi che seguono, presentati e com-
mentati nel primo capitolo; difficile non pensare a una sorta di
pre-riassunto fotografico che ci riporta non solo al vicino Antimo-
nio ma alle più volte citate Ore di Spagna (1988), con foto di Fer-
dinando Scianna e articoli, corrispondenze giornalistiche della pri-
ma metà degli anni Ottanta. E non bisogna dimenticare l’interse-
zione narrativa futura di quelle Porte aperte (1987) già richiamate
nel precedente capitolo per il riaffiorare della guerra civile nell’ul-
timo Sciascia; quell’ultimo Sciascia che ancora una volta possiamo
ritrovare fortemente connesso al primo e ancora una volta in virtù

194
Ivi, p. 216.
195
Cfr. La forme brève, Actes du colloque franco-polonais, Lyon, 19-21
septembre 1994, a cura di Simone Messina, Paris-Fiesole (Firenze), Cham-
pion-Cadmo, 1996.
196
L. Sciascia, Il soldato Seis cit., p. 3.

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della sua attenzione al dato spagnolo, già comparato alla Sicilia ed
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esteso, allargato, anche al di qua e al di là della guerra, che pure ne


è la rivelazione, e la dannazione, in seno al presente.
Leggiamo, in tal senso, quella che potrebbe essere la secon-
da parte – con meno racconto e più reportage – de Il soldato Seis:

L’anno scorso mi sono fermato a Motilla del Palancar per un paio


d’ore, in uno di quei « paradores» che offrono casalinga ospitalità.
I « paradores», posti di ristoro lungo le autostrade, sono forse
l’istituzione più efficiente che ci sia in Spagna: nacquero durante
la dittatura di Primo de Rivera e sono gestiti dallo Stato. Quello
di Motilla è il più simpatico che io abbia visto [...] Le cameriere,
forti ragazze di campagna di nitido bianco e nero, tutte giovani,
tengono il ruolo che le nosre donne, in Sicilia, assumono quando
per il pranzo portiamo a casa un amico: lo soffocano di premure e
di cibo [...] E c’era un pane straordinario [...] di forno di campa-
gna; uno di quei forni, come in Sicilia, fatti a cupola araba [...]
Ritrovavo, nell’odore del pane, la campagna del mio paese: la mia
casa di campagna, le estive vacanze degli anni di scuola.
Di tanto in tanto, silenzioso e ingrugnato, il direttore del « para-
dor» girava per la sala tra i tavoli: vestiva di scuro, all’occhiello
portava il distintivo della croce; la stessa croce che aveva visto sul
berretto delle guardie di frontiera. A parte il distintivo, dopo
qualche giorno sapevo riconoscere i fascisti di Spagna: non come
per vent’anni in Italia, spavaldi e felici, si sentono in Spagna i fa-
scisti; qualcosa dentro li rode, paura o dannazione – nel senso più
proprio della parola, dannazione. Sono usciti vittoriosi dalla guer-
ra, grazie alle armate straniere; ma ora camminano, come il torero
di Lorca, « con toda su muerte a cuestas» 197.

E il ritorno al presente – al presente, anche e soprattutto,


della « conversazione», che si rivela un « inganno» e che certo
bisognerà cangiare in altro ritmo narrativo, in più disteso rac-
conto, oltre Vittorini – si configura in « una specie di sintesi»
raccolta intorno alla « vicenda», emersa da una cartolina, di un

197
Ivi, pp. 3-4.

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soldato della Repubblica, lien certo più ‘anonimo’ e fecondo di
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Líster fra passato e presente:


A Motilla del Palancar la mia breve esperienza della Spagna si con-
figurava in una specie di sintesi. Ed una piccola fatalità mi ha porta-
to ieri sotto gli occhi la cartolina del soldato Miguel Seis, nella fan-
tasia mi si è accesa la sua vicenda di « campesino» e di soldato della
Repubblica, il suo destino. Ho domandato all’ufficiale del «Tercio»
se tutti i prigionieri venivano fucilati, ha avuto una breve esitazione
e mi ha detto che li fucilavano, anche dall’altra parte lo facevano.
Lo sapeva già: ma nell’inganno di quella conversazione, nella dol-
cezza dell’ora, nella universale pietà in cui ci sentivamo alti, ho avu-
to per un momento il senso – smarrimento ed ansia – che il destino
del soldato Seis potesse dipendere da noi, dall’incontro di tre uomi-
ni così diversi e nemici come noi, così spietatamente nemici eppure
in quel momento vicini ed attenti a non ferirci con le parole – come
fuori della storia, come fuori del tempo. Un inganno 198.

L’« inganno», la coscienza dell’« inganno» cui approda Il


soldato Seis è anche il punto di partenza sciasciano per muovere,
con L’antimonio, oltre Conversazione in Sicilia, oltre quello che
abbiamo chiamato il “blocco” vittoriniano-delfiniano, e verso il
Diario in pubblico che Sciascia riscrive in seno al suo percorso,
fra gli articoli consegnati a «L’Ora» e al «Corriere della Sera»,
fra anni Sessanta e Ottanta, fino, per l’appunto, alle Ore di Spa-
gna. In questo senso, Il soldato Seis (1958), aprendo proprio su
quel capolavoro che è L’antimonio, sembra quasi sintetizzare e
racchiudere un quarto di secolo di tradizioni e sperimentazioni
narrative, inventate e comprese fra il 1936 e il 1960. Ma certo è
aiutato, in questa delicata e non facile operazione, da un più ce-
lebre passo della Breve cronaca del regime 199, contenuta ne Le
parrocchie di Regalpetra (1956):

198
Ivi, p. 5.
199
L. Sciascia, Breve cronaca del regime, in Le parrocchie di Regalpetra, Ba-
ri, Laterza, «Libri del tempo», 1956 e ora in apertura di Opere. 1956-1971 cit.,
pp. 34-48.

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Avevo la Spagna nel cuore. Quei nomi – Bilbao Malaga Valencia;
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e poi Madrid, Madrid assediata – erano amore, ancor oggi li pro-


nuncio come fiorissero in un ricordo di amore. E Lorca fucilato.
E Hemingway che si trovava a Madrid. E gli italiani che nel nome
di Garibaldi combattevano dalla parte di quelli che chiamavano
rossi. E a pensare che c’erano contadini e artigiani del mio paese,
d’ogni parte d’Italia, che andavano a morire per il fascismo, mi
sentivo pieno d’odio. Ci andavano per fame. Li conoscevo. Non
c’era lavoro, e il duce offriva loro il lavoro della guerra. Erano ca-
richi di figli, disperati; se andava bene, la moglie avrebbe fatto
trovar loro, al ritorno, tre o quattromila lire messe da parte; e il
duce li avrebbe certo compensati con un posticino di bidello o di
usciere. Ma per due o tre del mio paese la cosa andò male, in Spa-
gna ci restarono, morirono in Spagna di piombo per non morire
di fame in Italia. Sentivo affocato pianto al pensiero di questi po-
veri che andavano a morire in Spagna; e il podestà si vestiva di ne-
ro, entrava in quelle povere case oscure, i bambini lo guardavano
meravigliati; alla notizia, data in termini di romana fierezza, il
pianto della donna scoppiava di rossa ira, accusava – per la fame
c’è andato, per la fame.

A pensare oggi a quegli anni mi pare che mai più avrò nella mia
vita sentimenti così intensi, così puri. Mai più ritroverò così tersa
misura di amore e di odio; né l’amicizia la sincerità la fiducia
avranno così viva luce nel mio cuore 200.

Ma forse, negli anni Cinquanta, a ben vedere, c’è qualche


altro frammento narrativo più o meno autonomo da ricuperare,
prima di procedere oltre L’antimonio, in una sorta di stagione
‘postantimoniesca’, potremmo dire. Se muoviamo dagli anni
Trenta di Vittorini, Delfini e De Céspedes, dai Quaranta di Jo-
vine, Pavese e Brancati, da triadi che, con la sola eccezione di
Jovine, del 1902, e oscillando fra 1907 e 1911, sono interamen-
te ascrivibili alla terza generazione (1906-1914) 201, possiamo

200
Ivi, pp. 43-44.
201
Cfr. O. Macrí, La teoria letteraria delle generazioni, a cura di Anna Dol-

215

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scovare altri testi nella prima metà degli anni Cinquanta e met-
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tere insieme altri autori in una triade più composita, fra secon-
da e quarta generazione, ricordandoci de Il maggiore è un rosso
(1953) di Francesco Fausto Nitti, del 1899, de Il prete bello
(1954) di Goffredo Parise, del 1929, e de I passeri (1955) di
Giuseppe Dessí, del 1909.
Al di là della tentazione critica di costruire delle triadi, più
o meno esemplari, è giusto ricuperare qualche capitolo de Il
maggiore è un rosso (1953) di Francesco Fausto Nitti, gettato in
toto alle ortiche da Garosci e confinato nel limbo della rievoca-
zione nostalgica e della testimonianza di parte: « Quanto al rac-
conto Il maggiore è un rosso di F. F. Nitti, per quanto scritto con
evidenza letteraria, è chiaramente opera di propaganda e di no-
stalgica evocazione» 202.
Certo, leggendo l’Introduzione, è difficile sottrarsi al giudi-
zio di Aldo Garosci. Tuttavia, il ricordo che la incornicia – «Ri-
cordo quella mattina di novembre del 1936 [...] Quella mattina
del novembre 1936 presi la mia decisione: dovevo partire» 203 –
non apre sul passato solo secondo una nota modalità storico-po-
litica – Oggi in Spagna, domani in Italia – ma anche secondo
quei diffusi percorsi storico-letterari sopra evocati che la comple-
tano con uno ieri esteso a tutti i paesi e i popoli insorti contro la
tirannia: «Era venuto il tempo di combattere il fascismo non più
nelle organizzazioni clandestine e con la propaganda, ma affron-
tandolo con le armi. Come gli esuli italiani del 1821, del 1830 e
del 1848 erano accorsi in terra di Spagna e dovunque i popoli
fossero insorti contro la tirannia straniera e domestica, così noi
dovevamo partire, dalla Francia, dal Belgio, dalla Svizzera, dalle

fi, Firenze, Cesati, 1995; e cfr. in particolare la Modellizzazione della teoria gene-
razionale che segue la Premessa, alle pp. 23-26.
202
A. Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna cit., p. 453.
203
Francesco Fausto Nitti, Il maggiore è un rosso, Milano, Edizioni Avan-
ti !, 1953 e poi Torino, Einaudi, «Nuovi Coralli», 1974, [pp. 3-7], pp. 3 e 7.

216

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Americhe, per partecipare alla lotta ingaggiatasi nel luglio 1936
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tra il popolo spagnolo ed il movimento di Franco» 204.


Al di là dell’Introduzione, poi, o di capitoli quali Salute, Nen-
ni ! 205, il testo di Nitti, in seno all’« evidenza letteraria» di cui par-
la Garosci, può ancora essere apprezzato, da un punto di vista
narrativo, leggendo qualche passo di Seicento anarchici fanno un
battaglione o di Otto cornette per Pepito Dìaz 206, rispettivamente
terzo e tredicesimo capitolo del libro – che ne conta diciotto –
ma anche gustosi racconti autonomi dove spiccano alcune descri-
zioni di personaggi particolarmente riuscite. In Seicento anarchici
fanno un battaglione, per esempio, ci sono due ritratti mirabili e
opposti, ‘il cattivo’, Duval, e ‘il simpatico’, Pedro Fuertes. Leg-
giamo la presentazione che Nitti fa di quest’ultimo:

Aveva parlato un uomo basso e tarchiato; nella faccia rossastra gli


brillavano gli occhi e la chiostra dei denti bianchissimi. Era in pie-
di in un angolo della sala e teneva nelle mani un bastoncino di
frassino da lui stesso scolpito. Una cicatrice, che sembrava sangui-
nante, gli attraversava una gota. Lo riconobbi: era Pedro Fuertes
che tutti chiamavamo Iría bien.
Operaio metallurgico, Fuertes era coraggioso e spavaldo, celebre
fra i compagni per i suoi motti di spirito e più ancora per quella
sua mania di esprimere in ogni circostanza, per curiosa e critica
che fosse, i desideri più bizzarri. Se la colonna marciava sotto il pe-
sante sole estivo, era Fuertes che gridava: «Ahora iría bien un vaso
de cerveza !» Se gli aereoplani tedeschi o italiani apparivano all’oriz-
zonte e gli uomini si sbandavano nei campi per nascondersi in at-
tesa dello sganciamento o della scarica, Fuertes era pronto a recla-
mare: « Ora ci vorrebbe un buon caffé nero e un bicchierino di co-
gnac! » La notte, comandato di pattuglia, precedeva i suoi uomini
nelle tenebre fitte, impenetrabili, e, avanzando guardingo e silen-
zioso, spezzettava in parole roche il desiderio del momento: «Ahora

204
Ivi, p. 3.
205
Ivi, pp. 67-76.
206
Ivi, pp. 23-34 e 141-152.

217

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iría bien un panino ripieno e una bottiglia ! » Questa freddezza
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d’animo si comunicava ai compagni e Iría bien era amato da tutti.


Tutti lo conoscevano a Barcellona, nel 1936, quando si era trovato
sotto il fuoco incrociato dei fascisti che gli tiravano da due case
della stessa strada. Pedro Fuertes si era buttato per terra nel punto
in cui si trovava, all’angolo di una viuzza, e non aveva potuto più
muoversi. Prima aveva risposto al fuoco, freddamente, ponderata-
mente, con tutte le munizioni del suo Mauser, poi si era appiattito
contro il muro scrostato di una grande casa. Attendeva filosofica-
mente la pallottola che mettesse fine allo scherzo. Era un bersaglio
ben visibile per quanto si fosse fatto piccolo piccolo; le pallottole si
schiacciavano in terra attorno al suo corpo, sgretolavano il muro a
qualche centimetro dalla sua testa e la polvere rossastra dei mattoni
gli cadeva sul collo e sui capelli. Alcuni compagni, che da un vici-
no portone tiravano contro le case occupate dai fascisti, gli grida-
vano a più riprese: «Vieni, prendi la rincorsa ! Non restare, Pe-
dro ! » Ma egli non si era mosso. Il fuoco era cessato, alla fine, per-
ché i falangisti abbandonavano le posizioni e, attraverso le case re-
trostanti, si sottraevano all’accerchiamento. Allora Pedro Fuertes si
era alzato, aveva con le tozze mani sommariamente spolverato il
suo abito da lavoro di tela azzurra e aveva raggiunto i compagni
sorridendo. «Pedro, oggi sei nato di nuovo ! », rise uno. E lui: «Sa-
pete che vi dico ? Ahora iría bien una bella orzata in ghiaccio. Ho
un po’ caldo». E se ne era andato col suo passo fermo e tranquillo
a raggiungere il Comitato rivoluzionario del suo quartiere 207.

Un anno dopo Il maggiore è un rosso, esce Il prete bello, di


Goffredo Parise, dove si assiste all’irruzione, nella provincia ve-
neta della seconda metà degli anni Trenta, di don Gastone
Caoduro, un ‘nemico’ di Nitti, un ex cappellano militare della
guerra civile spagnola, che ha scritto un libro simile a La Spagna
in fiamme di Paolo Sighinolfi: «Don Gastone era stato cappel-
lano militare nella guerra di Spagna e aveva scritto dei libri:
atrocità e delitti dei rossi erano descritti in modo molto com-

207
Ivi, pp. 27-29.

218

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movente. Io ne ero stato impressionato, e, una volta, dietro in-
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citamento di una signorina di nome Camilla, andai a baciargli


la mano» 208. Certo, tale impressione del fanciullo Sergio, sui
dieci, undici anni, protagonista narrante in prima persona, è
mitigata inizialmente dal ricordo del « padre» del suo più gran-
de amico, il papà di Cena, che « ha fatto la guerra di Abissinia
ed è morto» 209; quasi ancora a testimoniare il legame, sopra a
più riprese suggerito, tra un conflitto e l’altro, nell’Italia intera,
dal Nord al Sud, dal Veneto agli Abruzzi, dal Molise alla Sicilia.
Ma quando poi giunge la famosa « sera della recita», don
Gastone è di nuovo « più un’arma che un prete» e mentre « il
nonno e lo zio Gigi accostando i bicchierini [dicono] distinta-
mente: “Al nostro martire, a Matteotti ! ”», altri brindisi accom-
pagnati dal « saluto romano» s’impongono: «“Viva il Duce ! [...]
Viva don Gastone nostro ! ”» 210:

Tornò il silenzio ed io cominciai la tirata della terza poesia, senza in-


toppi. [...] notai che dietro di me, sul muro, c’era stesa una bandiera
col simbolo della falange spagnola. Don Gastone mi accolse con pic-
coli applausi, mi carezzò ancora e mi diede venti lire di nascosto. [...]
Seguirono le recite degli altri due e poi, subito dopo queste, venne
la sorpresa che Don Gastone serbava per chiudere la serata.
[...] dinanzi agli sguardi avidi dei presenti scrollò e rovesciò qua e là
la cassetta dalla quale uscirono dei pacchi e dai pacchi una quantità
di libri. [...] quando serpeggiò la notizia che i libri erano opera sua,
che li aveva scritti lui, le signorine non si trattennero più. [...]
Il titolo del libro era: Spagna, fucina di Fede e di Ardimento. E Don
Gastone lo disse, dispensandolo, con la stessa voce con cui avrebbe
pronunciato dietro il banco dei comunicandi: «Corpus Domini
nostri Jesus Christi...». «Il romanzo della mia vita in guerra di Spa-
gna... i miei appuntamenti di cappellano combattente...»

208
Goffredo Parise, Il prete bello, Milano, Garzanti, 1954 e «I Garzanti»,
1965 e 1973, p. 9.
209
Ivi, p. 28.
210
Ivi, pp. 55-58.

219

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Ma pochi o nessuno lo ascoltava [...] le patronesse [...] Tutte vo-
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levano il libro con l’autografo, chi scritto in margine a una delle


fotografie che corredavano il testo e dove appariva sempre lui, al-
tre addirittura sulla copertina, dove, nello sfondo della bandiera
spagnola, una grande croce irradiava luce 211.

Si ritorna a più riprese sui libri di don Gastone e sul loro


destino, in un contesto dove emergono « donne cattoliche» e
« vaglia di don Bosco» e infine anche il Vate, d’Annunzio, cui il
prete bello scrive travolto da « ambizione » e « febbre di gloria
paragonabile, in intensità, ai sentimenti più intimi, e peccami-
nosi, delle signorine»:
La signorina Immacolata, per mezzo di conoscenze, aveva riempi-
to molte librerie della città, ma il giornale non ne parlò, i librai
cominciarono a portarli indietro e la signorina Immacolata trovò
rimedio anche a questo. Ammucchiò i libri in uno sgabuzzino
adibito a magazzino e di là li smistava alle donne cattoliche che
facevano i giri delle famiglie con i vaglia di don Bosco e poi con
Spagna, fucina di Fede e di Ardimento. Il libro in quel modo andò
venduto, e non poco, secondo le previsioni della signorina Imma-
colata che era una gran donna quanto a speculazioni.
[...] fu venduto tutto, altre copie furono stampate e diffuse nelle
campagne insieme ai giornalini delle missioni e ai vaglia di benefi-
cenza: ormai i vaglia di don Bosco venivano infilati nelle pagine
del libro senza tanti sotterfugi. Lo acquistavano donne di mezza
età [...] le signorine di buona famiglia, e poi le ragazze, le sartine,
che andavano a sentire le sue prediche come leggevano i romanzi
d’appendice e le donne della filanda a cui don Gastone faceva del-
le conferenze. « Bell’uomo ! » lo dicevano tutte, donne cattoliche o
no, chi a parole, chi a pensieri. [...]
Non stava più quieto. [...] Lettere sopra lettere, da un capo all’altro
dell’Italia, a tutti i giornali, a tutti i critici. Spedì una lettera anche a
D’Annunzio: il Poeta non scrisse l’articolo ma in compenso gli
mandò un bell’anello e una grande pergamena-diploma 212.

211
Ivi, pp. 63-66.
212
Ivi, pp. 82 e 88-89; ma cfr. anche pp. 90-91 e 117-118.

220

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Gabriele d’Annunzio, che muore nel 1938, nella finzione si
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ritrae, come vero e grande scrittore, ma Goffredo Parise lo evo-


ca, ai confini della morte, per suggerire in modo divertito e la
smisurata ambizione di don Gastone e l’orizzonte nel quale il
« prete bello» finisce per stagliarsi quale « gallo» e « amatore»,
sorta di alter ego del « bell’Antonio» di Brancati in quanto uomo
e fascista riuscito nella percezione dei concittadini e dei com-
paesani più rappresentativi:

Il cav. Esposito questi elogi non li faceva così, per niente, c’era tut-
to un giro di ragioni che alimentava l’ammirazione. Giacchè que-
st’ammirazione per don Gastone era in sostanza quella di un aspi-
rante fascista per un fascista riuscito. Per lui don Gastone era un
uomo noto, una figura d’Italia, sacerdote, anche, ma eroe della
guerra di Spagna, soprattutto e, di conseguenza, nei rapporti con
donne un instancabile, un gallo, un amatore tale che senza dubbio
doveva tener testa a dieci amanti. L’apologia di don Gastone non
era altro che l’apologia del partito o meglio di quelle capacità che il
fascista doveva saper dimostrare nell’avventura di mondo dopo la
Patria, Dio e la Famiglia. [...] Mussolini aveva due c... così, d’oro
[...] Intendeva perfino dimostrare, con testardaggine e insistenza,
le sue descrizioni sugli attributi di Mussolini dicendo che lui l’ave-
va guardato attentamente, il Duce, in più di un’occasione, per sin-
cerarsene, e che si vedeva benissimo, anche a occhio nudo 213.

Insomma, finiscono per comparire « le prime divise del


gruppo femminile “Fede e Ardimento”» con tanto di « capo-
manipolo» e « capo-centuria» 214, e finisce per far la sua compar-
sa anche « il Duce [che] sarebbe arrivato domenica»: « la citta
sembrava una famiglia di orfani in attesa del tutore con le cara-
melle» 215. Ma la visita volge in farsa proprio grazie al cav. Espo-
sito, « nudo dalla cintola in giù», alle prese col « crollo del gabi-

213
Ivi, pp. 119-120.
214
Ivi, pp. 158-159.
215
Ivi, p. 220.

221

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netto», con « i frantumi [del water]» che « volavano attorno si-
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bilando» 216: « Il cav. Esposito dopo il crollo del gabinetto era


diventato un altro uomo: col gabinetto erano spariti ideali,
onori, dignità» 217. E ideali, onori, dignità spariscono anche, e
definitivamente, per il prete bello, quando si ammala di tuber-
colosi: «Tutto il rione aveva dimenticato don Gastone e la noti-
zia di una malattia così disonorevole gli aveva strappato di dos-
so ogni fascino» 218.
Il tono e le immagini ricordano ancora, talvolta, certa
commedia all’italiana, con il suo mondo grottesco, con i suoi
finali amari ( il film di Carlo Mazzacurati, del 1989, è lontano
da quei registri e confeziona un dramma intimo e puro); per
non parlare di espressioni regionali risalenti finanche al mondo
di Fogazzaro, corretto con Comisso, e tese a sfumare – più che
ad accentuare – il dramma, anche nel suo apice, giocato intor-
no al destino e alla morte di Cena, prima in riformatorio poi
in ospedale, ché durante la fuga dal primo finisce sotto il ca-
mion che lo ha aiutato ad allontanarsi, con gamba amputata
ma cancrena inarrestabile: « Ostia, ostia, che male, Sergio ! [...]
Hai visto che sono scappato ? [...] Con una gamba sola si va
meglio a chiedere la carità! » 219.

216
Ivi, p. 228.
217
Ivi, p. 233.
218
Ivi, p. 247, ma cfr. prima p. 242: «Don Gastone nella notte stessa ven-
ne portato d’urgenza all’ospedale e di lì a qualche giorno al sanatorio di Arco,
presso il lago di Garda. Non so come potesse essere scoppiata tanto improvvisa-
mente una malattia così brutta, e disonorevole per la gente ignorante del rione,
in un fisico all’apparenza così robusto. Fatto sta che il medico gli riscontrò una
lesione, dove prima c’era soltanto qualche ombra, così grave che sarebbe stato
necessario operare e con ogni probabilità asportargli un polmone». Sulla tisi,
prima affascinante morbo romantico e poi dato patologico più controverso,
ambiguo, nel passaggio dall’Ottocento al Novecento, mi sia concesso rinviare a
L. Curreri, Seduzione e malattia nella narrativa italiana postunitaria, « Otto/No-
vecento», 3/4, 1992, pp. 53-78.
219
G. Parise, Il prete bello cit., p. 250, ma cfr. l’intero capitolo finale, il
quindicesimo, alle pp. 247-251.

222

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Difficile, tuttavia, non pensare, in prospettiva, al Parise
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delle Guerre politiche (1976), quello che nella seconda metà de-
gli anni Sessanta, fra 1967 e 1968, alle soglie dei quarant’anni,
viaggiando, « in mezzo a guerre e rivoluzioni», come inviato
speciale in Vietnam e in Biafra, Laos, Cile, per «L’Espresso» e il
«Corriere della Sera», riflette sulla sorte dei fanciulli, sulla guer-
ra dei ragazzi, quindici, sedici anni. E l’attenzione al dato trava-
lica il tema letterario percorso fin dalle prime prove e ne Il prete
bello sopra evocato, fino a tradursi in una frattura insanabile,
come si legge nell’Avvertenza, datata dicembre 1975, al volume
citato: «Allora mi sentivo un ragazzo, anche se non ero più un
ragazzo, ora non lo sono definitivamente. I viaggi e soprattutto
le guerre invecchiano». Anche quelli e quelle più distanti, a cui
si ritorna, col ricordo, nella maturità:

Scrivendo e pensando e guardando con enorme attenzione quel-


lo che lo circonda e talvolta, quasi sempre, soffrendo per l’impos-
sibilità di mutarlo ( le sole cose che sa veramente fare uno scritto-
re ) lo scrittore che viaggia finisce per avere una sua idea di luoghi
e persone diversi [...] La gioventù lo aiuta a guardare, perché
l’occhio, la mente e il cuore sono forti e resistenti anche ai grandi
dolori dell’umanità. Più avanti, nella maturità, lo scrittore tende
a riflettere e a ricordare e a vedere come si dice « in prospettiva » i
viaggi della sua gioventù. Se è uno scrittore italiano, che scrive in
lingua italiana, sa quanto poca cosa sia tutto ciò che egli ha visto
e raccontato: in parte perché le sue informazioni, anche se pre-
ziosissime ( non è il mio caso) rimangono in famiglia [...] Infine
perché egli, lo voglia o no, è sempre e comunque e ogni giorno
di più scrittore coloniale. Saputo e detto questo, gli rimane pur
sempre da viaggiare, da vivere e scrivere dentro la sua colonia
che, nonostante tutto, è ancora una delle più belle e vive e tragi-
che colonie del mondo 220.

220
G. Parise, Avvertenza a Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile,
Torino, Einaudi, «Struzzi», 1976, [pp. V-IX], pp. VI, VIII e IX.

223

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Da un’isola di quella tragica colonia, colonia della colonia,
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uno dei passaporti per quell’imperialismo romano che Mussolini


avrebbe voluto rilanciare nel Mediterraneo e non solo, tende a ri-
flettere e a ricordare e a vedere « in prospettiva» i viaggi della gio-
ventù anche Giuseppe Dessí, della generazione di Delfini e Vitto-
rini, quindi più giovane, di vent’anni per la precisione, di Parise.
Penso, in particolare, a I passeri, del 1955 221, a un’assenza,
il figlio del conte Scarbo che muore combattendo contro i fa-
langisti di Franco, e a una cassetta-cassaforte e al suo contenuto
che viaggia per il mondo in guerra:

[...] e lei era sempre sul punto di dire che, sì, un bacio lo aveva avu-
to dal nipote del conte Scarbo, quel ragazzo che il conte si era preso
in casa come un figlio dopo che il figlio vero era morto in Spagna.

Si trattava di una di quelle cassette d’ordinanza che usavano gli


ufficiali durante la guerra di Libia. [Il conte Scarbo] L’aveva com-
prata appunto nel 1911, a Napoli, prima di imbarcarsi – ne aveva
comprate anzi due eguali, e tutte e due l’avevano seguito durante
quella prima campagna e poi nei suoi viaggi in Europa, fino al
Belgio, dove aveva conosciuto la sua prima moglie, Giuseppina de
La Haye, e poi di nuovo in Africa, dove era tornato con lei, fino al
Congo; e poi ancora in Europa, al tempo della Grande Guerra,
dove una delle due si era disintegrata sotto la azione di un obice
da 149. La superstite, come cassaforte aveva una funzione più che
altro simbolica [...] Nella sua vita da nomade, il conte aveva preso
l’abitudine di chiuderci dentro tutto ciò che aveva di più prezioso,
documenti o denaro [...].
Era stato quando Giacomo, ferito, una prima volta, dalla Spagna,
dove combatteva nelle brigate internazionali, era stato trasportato
sul confine francese. Allora, per mezzo del dottor Cabruno, che lo
teneva informato dei movimenti del figlio, al quale non poteva
scrivere direttamente e dal quale non riceveva direttamente noti-
zie, [il conte Scarbo] aveva mandato tutto il contenuto della cas-

221
Giuseppe Dessí, I passeri, Pisa, Nistri Lischi, 1955.

224

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setta. Era una discreta somma [...] Giacomo, che non aveva segui-
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to un corso regolare di studi, presentandosi da privatista agli esa-


mi finali, aveva viaggiato e aveva sempre goduto della massima li-
bertà. Così suo padre spendeva per lui ogni anno quasi intera-
mente la rendita del patrimonio, anzi di anno in anno le spese
erano andate aumentando, fino a che, il giovane, con un colpo di
testa, lasciata l’università, non si era arruolato per andare a com-
battere contro i falangisti di Franco. Da allora, mensilmente, il
conte metteva da parte i denari che non poteva più mandargli, e,
vuotata la cassetta quando Cabruno gli aveva detto che era stato
portato ferito sui Pirenei (o in Francia, non si sapeva bene) aveva
ricominciato da capo. Il suo solo pensiero era di accumulare per il
figlio tutto ciò che poteva. Avevano detto ch’era morto, ma lui
non ci credeva. Che cosa non avevano detto mai di Giacomo !
Non gli avevano risparmiato nemmeno la taccia di traditore. Anzi
per alcuni era stato soltanto un traditore, perché era andato a
combattere contro i suoi stessi fratelli, dicevano. Altri insinuava-
no che fosse passato ai fascisti e che poi, dopo molte peripezie,
cambiato nome, fosse andato a finire in Argentina, e che là avesse
fatto fortuna. Tutto ciò ch’era stato possibile immaginare e dire
era stato detto di lui, e anche la cosa più semplice, ch’era morto
combattendo a fianco dei propri compagni. Ma il conte non ac-
cettava neanche questa semplice versione. Si diceva ch’era morto
sì, ma nessuno lo aveva visto cadere. Per questo metteva da parte i
denari, e ogni tanto li contava. [...].
Tutto ciò che accadeva intorno a lui [il conte Scarbo], nel mondo
circostante, ormai interessava gli altri sopratutto, e lui indirettamen-
te, e soltanto per il fatto che quello era pur il mondo nel quale Gia-
como era vissuto e nel quale sarebbe dovuto tornare un giorno. Si
trovava perciò spesso a considerare le cose sotto questo punto di vi-
sta che nessuno sospettava, cioè in rapporto al ritorno del figlio –
all’ipotetico ritorno. Guerre, rivoluzioni, congiure di palazzo e crolli
di regimi, rivalutazioni di uomini ritenuti reprobi dai potenti di ieri,
catastrofi e ricostruzioni, e tutto ciò ch’era successo e stava succe-
dendo aveva, per lui, solo un’importanza condizionata e ipotetica 222.

222
Ivi, pp. 35, 73-74 e 76-79.

225

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Nel « frammentarsi del testo narrativo» che è caratteristica
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de I passeri – come suggerisce significativamente Anna Dolfi nel


1977 223 – e « nella solitudine del paese, nella sottile, penetrante
distanza della guerra», coordinate non così lontane da quelle
utilizzate da Il prete bello di Parise, « le gambe spezzate di Giaco-
mo adolescente si saldano, oltre il tempo, con le gambe frattu-
rate del giovane tenente caduto in Spagna a fianco delle brigate
internazionali; la libertà e il destino, la contingenza e il condi-
zionamento, la vita e la morte, si riprospettano in luoghi diver-
si, ma quasi fuori della cronologia». Perché « il tempo non è pa-
rametro di verità ma strumento di ricerca» 224, dice ancora la
Dolfi a proposito di Dessí; e Parise, nella citata Avvertenza del
1975, dà conto soprattutto di quei « luoghi diversi» e di questo
strumento in chiave intima, nel passaggio, tutto « autoeducazio-
ne» 225, da giovane – da ragazzo, solidale di Sergio, Cena, e poi
dei ragazzi del mondo – a uomo maturo e vecchio 226.
In seno a tale concezione del tempo, a uno sdoppiamento
ambiguo fra padre, vecchio, e figlio, giovane, fra una presenza e
un’assenza, e quasi in seno allo scacco, annunciato da Vittorini
in Diario in pubblico (1957), della trasmissione di esperienza da
padri a figli e da vecchi a giovani, è significativo che I passeri
(1955), che ritornano sulla guerra di Spagna per trovare queste
strategie narrative, anticipino anche – alla metà degli anni Cin-

223
Anna Dolfi, Il frammentarsi del testo narrativo: «I passeri», in La parola
e il tempo. Saggio su Giuseppe Dessí, Firenze, Nuovedizioni Enrico Vallecchi,
1977, [pp. 379-389], pp. 380 e 384. Ma cfr. ora la nuova edizione: La parola e
il tempo. Giuseppe Dessí e l’ontogenesi di un « roman philosophique», Roma, Bul-
zoni, 2004.
224
A. Dolfi, La parola e il tempo. Saggio su Giuseppe Dessí cit., p. 20.
225
E. Vittorini, Diario in pubblico cit., p. 213.
226
In chiave intima e meno pubblica, a partire, se vogliamo, dall’estrema e
onesta considerazione che gli scritti di viaggio raccolti, per quanto lodati da cri-
tici e certo non rinnegabili dall’autore, « hanno il valore della data che porta-
no». Cfr. ancora G. Parise, Avvertenza a Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos,
Cile cit, p. VI.

226

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quanta e a partire dalla « dolente Sardegna», dalla tragica colo-
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nia – un « luogo diverso» e un contesto storico-geografico « di


sottosviluppo, di miseria, dolore e soggezione», quale è quello
espresso da Carlos Fuentes ne La muerte de Artemio Cruz
(1962); con « la morte del figlio e quella sofferta, vissuta, narra-
ta del padre, che anziano ripensa al giovane in guerra, lontano
da casa, e rivede, ricostruisce la fine» 227.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta, poi, ritorna,


‘rielaborato’, il ciclo dei Fratelli rupe, tre volumi di Leonida Rè-
paci, del 1898, della generazione di Francesco Fausto Nitti e
del suo orizzonte politico: I fratelli Rupe (1932), Potenza dei
fratelli Rupe (1934), Passione dei fratelli Rupe (1937), tutti pub-
blicati da Ceschina, di Milano, diventano la Storia dei fratelli
Rupe (1957) edita negli « Omnibus» della Mondadori. Ma è
nel quarto e ultimo volume della storia dei Rupe, in lettura,
sempre da Mondadori, nel 1968, che troviamo Cino, in Spa-
gna, a far conferenze, a dirigere, a Madrid, la radio durante la
guerra civile e a morire sotto un terribile bombardamento fasci-
sta. Il tessuto romanzesco è gonfiato da stralci di documenti re-
lativi alla partecipazione dell’Italia mussoliniana alla guerra spa-
gnola, a sostegno di Franco, e da diari, da resoconti di viaggi,
dall’Italia alla Francia e alla Spagna, e a quell’Argentina sopra
ricordata con I passeri di Dessí.
Letto, insieme agli altri volumi, da Arrigo Bongiorno, che
ne dà un giudizio negativo, e da Giuseppe Pederiali, che ne of-
fre uno positivo, il quarto e ultimo volume dei Rupe di Rèpaci
uscirà da Mondadori nel 1973 con il titolo La terra può finire,
dopo Principio di secolo (1969), Tra guerra e rivoluzione (1969)
e Sotto la dittatura (1973). I volumi, riproposti anche e soprat-
tutto per la chiara fama dell’autore, non apportano un contri-

227
A. Dolfi, La parola e il tempo. Saggio su Giuseppe Dessí cit., pp. 20-21.

227

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buto nuovo alla stagione ‘postantimoniesca’ che ci apprestiamo
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a percorrere, con un rapido sconfinamento.


Di fatto, I fratelli Rupe arrivano da lontano, dagli anni
Trenta prima ancora che dai Cinquanta, e soprattutto sforzano
e quasi alienano il romanzo meridionalista in seno alla superio-
rità intellettuale e morale (ma anche sessuale) dei Rupe – ovve-
ro all’agiografia di un clan calabrese di media borghesia terriera
– e all’eccessiva ricostruzione documentaria, al saggio storico,
talora anche improvvisato, e al pamphlet, che perdono spesso di
vista il discorso narrativo, ingenuo o presunto, con – dice Bon-
giorno – un « autore [che] si dilunga, erroneamente convinto di
scrivere un grande romanzo storico» 228.

3. Dopo «L’antimonio». Un rapido sconfinamento

E dopo L’antimonio? Dopo L’antimonio, la guerra civile


spagnola sembra scomparire, in seno al boom più appariscente
degli anni Sessanta, che assolutizza la « dolcezza dell’ora», sug-
gerirebbe forse lo Sciascia del Soldato Seis; in seno a illusioni che
danno vita a un periodo di transizione che apre prima sugli “an-
ni di piombo” del decennio successivo e poi si solidifica, attra-
verso il drammatico point d’ancrage dell’estate delle stragi, nella
depoliticizzazione degli anni Ottanta. (E soltanto gli anni No-
vanta, con gli effetti della caduta del muro di Berlino (1961-
1989) e con il fortunato riemergere del fascismo al governo, co-
minceranno a ridefinire quel contesto).
Seguendo le tracce, comunque, di una sorta di transizione
italiana lungo gli anni Sessanta e Settanta e di una stagione ‘po-
stantimoniesca’, alcuni sentieri narrativi sono reperibili nel ro-

228
Cfr. Il mestiere di leggere. La narrativa italiana nei pareri di lettura della
Mondadori (1950-1971), a cura di Annalisa Gimmi, Milano, Il Saggiatore-
Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2002, pp. 226-227.

228

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manzo, anche di consumo, popolare, e nel diario e in più raffi-
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nata prosa, e oscillano tra successo immediato, valore testimo-


niale e riscoperte più o meno tardive e marginali. Penso a Davi-
de Lajolo e a Alberto Bevilacqua, da un lato, a Joyce Lussu e a
Vittorio Bodini, dall’altro.

Per un certo romanzo popolare, possiamo pensare a Una


città in amore, di Alberto Bevilacqua, uscito nel 1962, vero
esordio romanzesco dopo la raccolta di racconti, La polvere
sull’erba (1955) 229, e prima de La Califfa (1964) 230. Il testo di
Bevilacqua mette in scena i primi cinquant’anni del Novecento
in meno di duecento pagine, con scelta diametralmente oppo-
sta rispetto ai Rupe di Rèpaci, anche per la volontà di aderire a
un microcosmo; alla Parma Vecchia, a certi suoi quartieri e a
certi personaggi, veri, come il Guido Picelli di cui informa la
breve Nota posta alla fine del romanzo, ma resi simbolici « nella
proiezione mitica, fantastica di coloro che vissero e lottarono»
per la libertà: « È Picelli così com’è ricordato ancora oggi in cer-
ti quartieri di Parma Vecchia» 231.
All’inizio dell’ottavo ed ultimo capitolo, Josè 232, il più den-
so e certo il più interessante del romanzo, emerge, prima del ra-
pido Epilogo, nella girandola di figure più o meno bizzarre del
libro, un personaggio diviso, tra pubblico e privato, tra appa-
rente spocchia e intime lacerazioni, che fa della Spagna non un
ingrandimento della Sicilia, alla Sciascia, ma un altrove emilia-
no e romagnolo; un altrove che ci fa tornare in mente la bouta-
de de Il compagno Don Camillo (1965) sopra commentata, spe-

229
Alberto Bevilacqua, La polvere sull’erba, Caltanissetta, Sciascia, 1955.
230
A. Bevilacqua, La Califfa, Milano, Rizzoli, 1964.
231
Ne riparlerà Cacucci nel lavoro dedicato alla Modotti (1988 e 1991) e
in Oltretorrente (2003). Ma cfr. A. Bevilacqua, Una città in amore, Milano, Su-
gar, 1962, poi Milano, Rizzoli, 1970 e Milano, Mondadori, « Oscar», 1990 e
2001, p. 176.
232
Ivi, pp. 149-173.

229

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cie in relazione alla presenza di Franco, dittatore « che non si
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vede» ma che è ancora forte e che « puzza di prete»:

Josè spediva una cartolina da Madrid, ogni anno, quando comin-


ciava la bella stagione. Bordino si trovava tra le mani quelle vedu-
te traslucide delle «Bodegas» o di «Plaza Mayor» [...]
Sul retro delle cartoline stava scritto: «Arriverò fra tre giorni. Ve-
nitemi a prendere alla stazione. Saluti. Josè». Poche righe che ave-
vano il potere di mettere in agitazione tutta la casa, perché Bordi-
no, contagiando anche gli altri, suscitava reazioni e impazienze
che crescevano con il passare dei giorni.
Ogni anno, di conseguenza, si rimetteva in discussione la perso-
nalità dello strano amico di Bordino. Mia madre non voleva sen-
tire ragioni e diceva: « È un pazzo ! » aggiungendo che Josè s’era
fatto ricco non tanto – come sosteneva lui – vendendo il chorriso
quanto taglieggiando opportunamente la povera gente. «Non è
vero, sono chiacchiere infami ! » reagiva Ailè, secondo il quale Josè
era al contrario un puro idealista, il quale scontava anche con
quelle maldicenze il fatto d’esser andato sempre contro corrente,
quando ce n’era bisogno.
Ma la verità, forse, stava tra le due tesi. Avventuriero, in effetti, il
falso spagnolo lo era o meglio lo era stato. Bastava fissarlo in quegli
occhi sotto le palpebre sfatte, dove la luce stava in agguato, sempre
sospettosa, per afferrarne la diffidenza e il turbolento passato.
Romagnolo accanito, anarchico ma egoista, antifascista ma ditta-
tore in ogni decisione della sua vita, José era partito a trent’anni
per la guerra di Spagna, contro Franco, e in Spagna era rimasto,
cambiandosi persino il nome, a dispetto delle minacce e delle rap-
presaglie. «Alla fine, che differenza fa ?» diceva. «La Spagna è co-
me l’Emilia, come la Romagna... Lo stesso sangue, la stessa gente,
la stessa poesia».
Insomma, l’imminente arrivo di Josè risvegliava Bordino [...]
Bordino si alzava all’alba, svegliava la casa con le sue lamentose
bestemmie [...]. Arrivato alla stazione [...] si stringeva con tutte le
forze al corpo gigantesco dell’amico.
Reggendolo, Josè veniva avanti [...] Ailè rompeva il ghiaccio: «E
Franco ? E la Spagna ?» chiedeva, mentre Bordino approvava le
domande. Josè trascinava i due amici verso l’uscita, scuotendo la

230

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testa. «Merda ! » rispondeva. «Sempre la solita merda !... Franco è
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un brutto tiranno proprio perché non si vede. Se facesse togliere i


segni della falange, nessuno direbbe che c’è. E invece c’è, e come,
e quel che è peggio puzza di prete.» Bordino lo rincorreva. «E
quanto a donne...» proseguiva Josè, e si voltava a cercare le spalle
del suo vecchio compagno, per batterle con la mano. «Eh, Bordi-
no... eccoci qua, pronti come una volta» 233.

Ma Josè non « scendeva a Parma ad ogni inizio di buona


stagione» per le donne o, come recita il titolo del sesto capitolo,
per le « puttane del mio cuor». Dietro la baldanza, la spocchia
di Josè e di altri uomini, tipica del romanzesco di Bevilacqua,
c’è un dolore, intimo, legato alla guerra civile spagnola, che il
testo non tarda a rivelare.

Lasciate le valigie al bagagliaio, si incamminavano verso il cuore del-


la città e, mentre Josè apriva la fila [...] Ailè pensava alla storia che
conduceva ogni anno quel « bandito nostalgico» – come lo chiamava
mia madre – a tornare a Parma, a rivedere la città, rione per rione, a
riabbracciare Bordino e, soprattutto, a visitare come un luogo consa-
crato la casa di Amelia Sampieri, ormai prossima alla morte.

La collina che domina Barcellona, a picco su di un mare scialbo, è


una collina cimiteriale; nell’intrico di piante gialle e verdi [...] lapidi
piccole come pietre miliari, piantate sulle sepolture dei poveri. Su
una di queste lapidi sta scritto: «Deputato italiano antifascista mor-
to per la libertà della Spagna». Ma l’iscrizione è quasi totalmente
cancellata e c’è chi passa, molto spesso, a lordarla e ad offenderla.
Guido è sepolto lassù, tra le tombe degli scaricatori della Puerta
de Sol. Dal ’38, soltanto Josè sale a strappar via le erbacce e a ri-
pulire il marmo dalle brutture sparse nottetempo, con metodica
ostinazione, ancora oggi. Josè si siede sul bordo di marmo e pian-
ge ogni volta. Ha la pistola carica infilata nella giubba, ma non gli
è mai capitato di cogliere sul fatto gli oltraggiatori.

233
Ivi, pp. 149-151.

231

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Quando si è sfogato [...] ricorda i suoi anni giovani e la morte del
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suo compagno. Guido è morto attaccando El Matoral, spingendo i


volontari del Battaglione Garibaldi verso Aragosa e il Cerro de
L’Aguila: la pallottola di un franchista, precisa sopra la sua bocca, lo
ha fatto rotolare giù dalla discesa, ai piedi di Josè e tra le divise dei
polacchi della Dombrowsky, a posizione quasi conquistata [...].
Guido era giunto ad Albacete qualche tempo prima, come un fug-
giasco, dopo essere stato costretto a lasciare per sempre l’Italia e la
sua città, con quel poco di vita che era riuscito a rimettere in piedi
(l’Amelia l’aveva visto partire con lo sguardo dei giorni migliori, a
dispetto di tutto [...] Tra gli amici silenziosi, raggruppati in un an-
golo con la gola chiusa, intorno a Bordino, Guido era salito nel va-
gone gridando « a presto» e quando s’era alzato il fischio e il treno
aveva dato il primo strappo lei, per non vederlo andar via, nono-
stante che gli altri la chiamassero, s’era incamminata giù per il sot-
topassaggio, rasente il muro come se la colpa fosse stata sua).
[...] Poi, nelle prime luci di un’alba, la corsa su per la salita di El
Matoral...
«Vai a Parma» aveva mormorato Guido, con la testa insanguinata
tra le ginocchia di Josè « e dille, all’Amelia, che aveva ragione lei...
che la politica... che dovevo starle più vicino, e mi dispiace. Alla
fine di tutto, non mi sento che solo».

Per questo Josè scendeva a Parma ad ogni inizio di buona stagio-


ne. Ogni primavera, dal ’38, il solito rito, senza varianti [...] i ga-
rofani per l’Amelia e poi [...] 234.

E l’Amelia che sta morendo, a cui vogliono pure togliere la


casa, è il personaggio che intona il finale canto nostalgico e po-
litico del romanzo di Parma Vecchia e di «“Parma la rossa”» 235:
«Un tempo c’era amore in questa città, ma ora...»: «La rivolu-
zione, il fascismo, la guerra di Spagna [...] Voi adesso dite ab-
basso i fascisti, Mussolini era un matto, ma è facile dirlo adesso.

234
Ivi, pp. 152-156.
235
Ivi, p. 172.

232

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Noi lo abbiamo detto quando lui era duce, e a faccia franca lo
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abbiamo detto...» 236.

Guido Picelli, nome e cognome, per quanto intuito « nella


proiezione mitica, fantastica di coloro che vissero e lottarono al
suo fianco» 237, tende ad allontanarsi dall’eroe sciasciano de
L’antimonio (1960), che non ha nome. Il nuovo milite ignoto
di Sciascia, si diceva nel primo capitolo, non è battezzato e per
questo sopravvive, fuggendo alla retorica dei caduti e dei so-
pravvissuti. Il soldato Seis aiuta Sciascia anche in questo senso.
Il personaggio vero, invece, è una trappola, per quanto filtrata
da un romanzesco “corale”, a suo modo efficace.
In fondo è quello che capita anche a Davide Lajolo, al suo
romanzo popolare, a partire da Il « voltagabbana» (1963) 238, da
quel testo in cui «“massicciamente” [...] emerge la figura di
Francesco Scotti»: «Romanzo di formazione, “romanzo-vero”,
romanzo e reportage, vi si svolgono le vite parallele del protago-
nista “ragazzo del popolo, figlio di contadini, cresciuto in anni
di carestia, privo di strumenti critici e di punti di riferimento”
(con un forte autobiografismo) – dalla iniziale adesione al fasci-
smo, e alla conseguente partecipazione alle colonne di Mussoli-
ni nella guerra civile spagnola, fino alla scelta di libertà e di libe-
razione con l’adesione alla Resistenza – e di Francesco Scotti,
che aveva veduto subito la “strada giusta”» 239.

236
Ivi, pp. 163-164, ma cfr. anche p. 165: «E poi l’epilogo: Lampedusa,
Lipari, il carcere di Messina, l’espatrio in Francia e in Russia, e infine la Spagna,
con quelle lettere di Guido [...] Ma quando arrivava a questi momenti della sua
vita, l’Amelia scrollava la testa e diceva: “No, basta, non voglio pensare più! ”».
237
Ivi, p. 176. Ma cfr. A. Bevilacqua, Lui che ti tradiva, Milano, Monda-
dori, 2006.
238
Davide Lajolo, Il voltagabbana, Milano, Mondadori, 1963 e, con In-
troduzione di Giorgio Bocca, Milano, Rizzoli, «BUR», 1981.
239
Amedeo Anelli, Dal romanzo alla vita. «Il Voltagabbana» e Francesco
Scotti, « il Lodigiano», 14 febbraio 2003, p. 23, nel numero 20 della rubrica Le
tradizioni invisibili.

233

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In tal senso, ci si allontana sempre più dall’orizzonte scia-
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sciano. L’urgenza di battezzare la « strada giusta» – e poi di


compierla fino a dirsi, con ironia ma anche con una certa faci-
lità, come « voltagabbana» e al limite, e meglio, come « italiani
abituati a indossare sempre la gabbana di chi paga di perso-
na» 240 – è un po’ la fine del cammino, il paradossale esaurimen-
to, in seno al « forte autobiografismo», dell’autobiografia della
nazione, oscillante fra coraggio e disillusioni, con la storia fatta
sempre dagli altri e subita, e mai resa veramente “a misura d’uo-
mo”, magari con un semplice: «Voglio vedere cose nuove» 241.
E a proposito della storia subita, su cui non a caso Lajolo
ritorna, fra Il « voltagabbana» e Veder l’erba dalla parte delle ra-
dici (1977) 242, quasi per assolutizzarla, in modo un po’ più cu-
po, meno ironico, è comunque utile appuntare qualche passo
dal romanzo del 1963, specie in rapporto alla « destinazione
ignota», e poi accostarlo a frammenti narrativi di quello del
1977 giocati intorno al reclutamento occulto:

Passai la notte a pensare. Tutte le parole che avevo detto a mia


madre per consolarla e per fugare le sue paure quando avevo fatto
domanda per la guerra d’Africa, tutti i ragionamenti con mio pa-
dre [...] ora mi sembravano retorici e falsi.
Mi vidi in divisa, tra volti nuovi, in una città nuova. «Destinazio-
ne ignota» era scritto sul telegramma [...] Lo intuivo: «Destina-
zione ignota» voleva dire andare in guerra.

Un altro telegramma: la partenza era rinviata di venticinque gior-


ni. Chi doveva partire invece in giornata era lui, il segretario co-
munale [Bovio] [...] in Spagna a combattere contro il bolscevi-
smo [...].
Lo guardai e gli presi una mano. Lui mi abbracciò.

240
Giorgio Bocca, Introduzione a D. Lajolo, Il voltagabbana cit., [pp. 5-9],
p. 9.
241
L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 230.
242
D. Lajolo, Veder l’erba dalla parte delle radici, Milano, Rizzoli, 1977.

234

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«Ti chiedo un favore», mi disse staccandosi subito come si fosse
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vergognato « quello di accompagnarmi a casa per dirlo ai miei. Sai,


sono figlio unico e mia madre soffre di cuore, potrebbe essere per
lei un colpo troppo forte. Tu mi aiuterai a prepararla. E sapendo
che dopo verrai anche tu dove vado io, si capaciterà un po’».
«Dove ?»
«In Spagna. Ho chiesto al maggiore del comando quando mi ha
telefonato l’ordine: “destinazione ignota” vuol dire Spagna».
«Ma io sono dell’esercito e tu della Milizia. Quella è una guerra
fascista».
«Il maggiore mi ha assicurato che “destinazione ignota” significa
Spagna».
[...]
«Domanda ? Io ho fatto una sola domanda, quella per andare a
combattere in Abissinia, nessun’altra».
« È sempre quella che vale» sentenziò con ironia l’aiutante di bat-
taglia [...].
L’aiutante dovette capirmi perché mutò tono.
«[...] Questi sono tempi duri per tutti. Con lo stipendio non si vi-
ve più, soprattutto se, come me, si ha una famiglia da mantenere.
E allora si mette la firma sotto un modulo di volontario anche
con i capelli grigi. Sa cosa ritengo personalmente ? Che alla fine ci
dirotteranno proprio in Africa, come battaglioni lavoratori. I sol-
dati che compongono i nostri due reggimenti sono infatti tutti
volontari per i battaglioni lavoratori. I più giovani sono della clas-
se 1910, si figuri ! Dove vuole che li mandino ? La maggior parte
sono disoccupati della Sicilia e della Calabria».
«Disoccupati ?» interruppi.
«Certo, questa è la divisione dei disoccupati; portano il fucile ma
sperano di andare ad usare la vanga e fare strade. Comunque avrà
modo di informarsi meglio. Ritengo che staremo ancora parec-
chio tempo in questo fango di Littoria perché la divisione, da do-
mani, sarà impegnata a girare un film. Sì, faremo le comparse, le
masse, come ha detto l’altro ieri il regista, in Scipione l’Africano».
Mi pareva di trasecolare. Per questo mi avevano richiamato ? 243

243
D. Lajolo, Il voltagabbana cit., pp. 41-44.

235

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E siamo a Scipione l’Africano (1937), di cui si è ricordato
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di recente, in seno alla guerra civile spagnola, anche Carlo Lu-


carelli, che forse lo ha tratto per Guernica (1996) 244 proprio
da Il « voltagabbana » di Lajolo, una lettura ancora possibile
per il giovane autore, del 1960. E siamo, per l’appunto, a
quella miscela di ironia e trasecolamento che la Storia, prima
della letteratura e del cinema, ha fornito a piene mani, come
si diceva sopra, cercando di seguire, nel testo e in nota, le con-
catenazioni dell’immaginario fra il peplum e Sighinolfi, fra Jo-
vine e la commedia all’italiana, fra anni Trenta e Sessanta. E il
rischio di questa abbordabile miscela, esorcizzante e amara,
consiste nell’esaurire l’autobiografia della nazione, nell’iterar-
la, nel fissarla a luoghi comuni e anche nello svuotarla di sen-
so, di significato, consegnandola sempre più facilmente a un
gioco compiaciuto, appagante, con le proprie disillusioni e
poi a un divertissement fine a se stesso in seno alle nuove gene-
razioni; per le quali è sempre più difficile creare una nuova
autobiografia della nazione e una nuova idea di letteratura ad
essa connessa, anche a partire da un dato così forte e pregnan-
te come la guerra civile spagnola 245.
In questa prospettiva, in Veder l’erba dalla parte delle radici
(1977) – titolo riuscito per un romanzo che forse non lo è pro-
prio altrettanto, anche se premiato a Viareggio – Lajolo finisce
per ritornare ai volontari disoccupati del Sud, i calabri, i siculi,
parlando delle vittime del reclutamento occulto, che non vo-
gliono fare la guerra ma coltivare la terra e hanno un buon rap-
porto con i contadini spagnoli.

I vecchi contadini spagnoli [...] sapevano ormai che quegli italiani


erano tutta gente di terra, braccianti. Gli incontri si facevano
sempre più spontanei, discutevano delle comuni miserie. La mag-

244
C. Lucarelli, Guernica cit., p. 39.
245
Oltre ai saggi sopra citati di M. Onofri e S. Jossa, cfr. Stefano Calabre-
se, L’idea di letteratura in Italia, Milano, Bruno Mondadori, 1999.

236

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gior parte dei soldati confidavano che non erano stati mobilitati
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per combattere. Avevano fatto domanda per lavorare la terra in


Africa nella speranza di potersi fare un podere. Non volevano fare
del male a nessuno. Portavano le stellette, non sapevano di politi-
ca, non volevano uccidere né essere uccisi 246.

Nel 1967, nella collana «Libri del tempo» dell’Editore La-


terza, quella che accoglie undici anni prima Le parrocchie di Re-
galpetra di Sciascia, esce Fronti e frontiere di Joyce Lussu, un
diario ‘romanzato’, con dialoghi, che ci riporta agli anni della
guerra di Spagna e anche e soprattutto a quelli immediatamen-
te successivi, con veri esuli, l’autrice e Mister Mill, ossia Emilio
Lussu, alle prese con le difficoltà della fuga. E di frontiere parla
anche, seppur in modo diverso, più implicito ma in seno a una
costante attenzione nei confronti della Spagna 247, Vittorio Bo-
dini. Lo fa in una raffinata prosa narrativa, La lobbia di Masoli-
ver, edita nel 1980 con altre degli anni Quaranta e Cinquanta
ma risalente al 1968-1969 circa e quindi vicina alla pubblica-
zione del diario di Joyce Lussu.
Nel terzo capitolo di Fronti e frontiere sono le pagine più inte-
ressanti e nuove da appuntare per il nostro rapido sconfinamento
in una stagione ‘postantimoniesca’, specie in relazione a quanto si
avrà occasione di notare nel prossimo capitolo sulle fughe di altri –
seppur diversi – esuli d’eccezione, come il Walter Benjamin che è
ne L’angelo della storia (2001) di Bruno Arpaia 248:

Partimmo da Tolosa nel primo pomeriggio. Verso sera arrivammo


a Banyuls ai piedi dei Pirenei. Indossavamo abiti da città e porta-
vamo solo una borsa con scarpe di ricambio e viveri per due giorni.

246
D. Lajolo, Veder l’erba dalla parte delle radici cit., p. 43. Per questo tito-
lo cfr. ancora L. Sciascia, L’antimonio cit., p. 168: « meglio sarebbe stato scende-
re nella terra, dove umida si attacca alle barbe delle radici».
247
Vittorio Bodini, Corriere spagnolo (1947-54) a cura di Antonio Lucio
Giannone, Lecce, Manni, 1987.
248
Bruno Arpaia, L’angelo della storia, Parma, Guanda, 2001.

237

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Avevamo appuntamento con la guida alle dieci di sera, fuori del
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paese. Ci aspettava immobile, vicino a un ciuffo di alte canne, e


non appena ci vide, si mise a camminare. Noi seguimmo in si-
lenzio l’ombra snella dall’impermeabile grigio, che marciava svel-
ta e sicura davanti a noi, per sentieri deserti e poi lungo il bina-
rio; infine abbandonammo la ferrovia e piegammo a sinistra, su
per il monte. L’ascensione, nell’oscurità quasi totale, su per i ter-
razzi piantati a vigne, era faticosa. Aveva incominciato a piovere.
La guida s’arrampicava su rapidamente, senza voltarsi e senza
parlare [...].
La guida si chiamava Francisco ed era aragonese; era alto e magro
e il suo viso, dal naso sottile e dalle labbra strette, esprimeva una
fierezza scontrosa. Era stato ufficiale nell’esercito repubblicano.
Prima della guerra civile faceva il contrabbandiere. [...]
– La Spagna, – disse Francisco, gravemente. – Ora la salita è finita,
si scende sempre. [...] guardavamo, nella luce calante, quella fertile
pianura spagnola, con pensieri vari e sentimenti profondi 249.

Dopo aver sostato pericolosamente a Barcellona, con tanto di


lungo interrogatorio in commissariato, Emilio e Joyce, con una
nuova e meno affidabile guida, Carmelo, giungono a Badajoz,
« pittoresca cittadina dai muraglioni medievali» dove emerge per
contrasto, tramite le parole di Joaquina, « amabile creatura», il ri-
cordo della guerra – che « non» è stata « guerra civile» – e dei mas-
sacri dei marocchini in quella città; complice anche la polizia por-
toghese, che rispedisce indietro i repubblicani in fuga verso il Por-
togallo (polizia e paese che ritroveremo evocati come fiancheggia-
tori di Franco nel Sostiene Pereira (1994) 250 di Tabucchi):

Joaquina ci raccontò [...] della guerra civile che a Badajoz era stata
sanguinosissima. Era stata la prima città assalita dai marocchini di
Franco, quando la resistenza dei repubblicani non era ancora orga-

249
Joyce Lussu, Fronti e frontiere, Roma-Bari, Laterza, «Libri del tempo»,
1967, [pp. 35-49], pp. 35-37.
250
Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira, Milano, Feltrinelli, 1994.

238

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nizzata; i marocchini erano entrati nella città scannando i difenso-
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ri quasi disarmati con quei loro coltellacci enormi e avevano com-


piuto atrocità inaudite, ottomila operai e popolani chiusi nella
piazza, lì, nella piazza dove siete passati, e massacrati tutti con le
mitragliatrici, e solo all’indomani la popolazione inorridita aveva
potuto raccogliere e comporre un po’ i cadaveri e seppellirli. Ah
che orrore la guerra – guerra, non guerra civile, perché Franco ave-
va vinto solo con la forza dei mercenari stranieri. I repubblicani su-
perstiti si erano dati alla macchia (alcuni avevano tentato di passa-
re in Portogallo, ma la polizia portoghese li rimandava indietro) e
Joaquina era fra le molte animose donne e ragazze che andavano a
rifornirli di viveri e di vestiario. A poco a poco, molti erano torna-
ti chetamente in città, attendendo, con la vendetta nel cuore.
– Verrà, il giorno, verrà diceva Joaquina; e un lampo d’ira le pas-
sava negli occhi.
– Ne ammazza più la lingua che la spada, – disse Lussu. – Alme-
no, così è nel mio paese.
– Ma non nel mio, – rispose ardita Joaquina. Aprì un tiretto e tirò
fuori due pistole 251.

Nel 1980, si diceva, esce una raccolta di prose narrative di


Vittorio Bodini. Nel testo finale, inedito, che risale agli anni
1968-1969 e offre il titolo al volume di Scheiwiller, La lobbia di
Masoliver, sembra muoversi ancora, come un fantasma, il ricor-
do della guerra civile, evocato certo in tempi più facili (« su una
montagna con un tassì») ma in una triste località di frontiera,
Port Bou, che riavremo occasione di citare, ancora in rapporto
a L’angelo della storia (2001) di Bruno Arpaia:

Così una notte uscii, come del resto ormai facevo sovente [...] se
erano passate le quattro di notte, si sentiva il canto iroso dei galli
come un drappello di soldati ribelli... Io uscii col corpo profonda-
mente graffiato, soprattutto la milza, stanco del suo annaspare,
dei suoi salti, dei suoi scatti.

251
J. Lussu, Fronti e frontiere cit., pp. 40-41.

239

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Così mi ricordai di Port Bou, che ora avrei rivisto di nuovo: una
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grande stazione dalle tegole rosse, dietro la quale uno crede che ci
sia un paese, invece poi sale su una montagna con un tassì, e di là
vede di nuovo Port Bou e che Port Bou è soltanto quella stazione
con le tegole rosse che fanno diventare azzurrini i monti grigi, e
dietro non c’è nulla, eccettuato forse qualcuno che vende banane
a tutti i viaggiatori che passano in Francia; ma così non ci si può
lasciare, con una stazione vuota, come se non fosse successo nulla,
allora appaiono i tricorni di due guardie civili sulla cima della
montagna, ma non aggiungono nulla a quel vuoto, come dopo un
addio che si dice ancora un’altra frase e non serve a nulla, poiché
ci si lascia lo stesso, ma in più ci si è perso di fermezza 252.

Dopo gli anni Settanta, con, per esempio, gli accenni alla
guerra spagnola in Piazza d’Italia (1975) di Tabucchi, del quale
diremo nel prossimo capitolo, il già citato Veder l’erba dalla parte
delle radici (1977) di Lajolo, Il miliziano spagnolo (1979) di Fili-
berto Amoroso, gli anni Ottanta sembrano restare ancorati alla
frontiera di Bodini, a un microcosmo che quasi nasconde la
guerra e la predispone già a rivisitazioni narrative diverse, più ti-
piche degli anni Novanta, come quelle del noir, del giallo. È il
caso, mi pare, de La derrota (1982) di Italo Alighiero Chiusano,
che accoglie una sorta di scontro etico, ma anche fisico, tra sei
uomini della Repubblica e sei uomini di Dio in seno a una « ve-
nerabile abbazia» dei Pirenei che non può non far pensare a Il
nome della rosa (1980) di Eco e che dista solo « sei chilometri
dalla frontiera francese»: «“Che silenzio” pensò Don Lucien,
tornando con gli occhi alle colline. Chi avrebbe detto che laggiù,
a qualche decina di chilometri, cominciava quella Spagna insan-
guinata di cui parlava tutto il mondo. Sembrava il paese del son-
no. E invece, là, Barcellona, Madrid, Teruel, sbarramenti di arti-
glieria, sbarchi, incendi, sangue per le strade, chiese profanate».

252
V. Bodini, La lobbia di Masoliver, a cura di Paolo Chiarini, Milano,
Scheiwiller, 1980, [pp. 89-96], p. 94.

240

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Più si procede nella narrazione più i clangori della guerra sfuma-
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no, nonostante nell’abbazia si celebri un processo repubblicano


contro preti ingiustamente accusati di spionaggio. Ad uno di
questi, un italiano, un giovane ambizioso sospettato di essere
amico di Mussolini, il compito di chiarire la sconfitta collettiva,
la disfatta del titolo, nella lettera che lascia prima di suicidarsi e
che poi prega venga distrutta: «A chi si combatte in Spagna,
sull’uno o sull’altro fronte, non faccio auguri. Chiunque vinca, avrà
perso l’uomo, la tolleranza, la decenza, quel poco di libertà che aiu-
ta a rendere sopportabile la vita» (in corsivo nel testo) 253.

253
Italo Alighiero Chiusano, La derrota, Milano, Rusconi, 1982, pp. 124,
62, 43-44, 154. Ma cfr. Filiberto Amoroso, Il miliziano spagnolo, Firenze, Pan
Arte, 1979, che, come viene spiegato nella Premessa, alle pp. 7-9, « riscrive» un
suo romanzo, La rinuncia, Roma, Trevi, 1966, perché « negli anni del cosiddet-
to « miracolo economico» la gente, tutta protesa verso un illusorio benessere
materiale, non poteva più comprendere quel personaggio [il miliziano spagno-
lo]» e « solo negli anni più vicini [il decennio dei Settanta]» si assiste « al brusco
risveglio» di « certe passioni, certi umori, certi ideali».

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TRA MADRID E GUERNICA
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AGGIORNAMENTI SULLA NARRATIVA ITALIANA,


1
LA GUERRA DI SPAGNA E LE SUE CITTÀ FERITE (1991-2006)

1. Oggi: limiti cronologici e ipotesi di rassegne tra Novecento


e Duemila

Oggi – l’oggi che è lo ieri più vicino, quello degli ultimi anni,
a cavallo tra Novecento e Duemila – la narrativa italiana comincia
ad appropriarsi, talora con una disinvoltura che può sembrare ec-
cessiva, della storia e della memoria relative alla guerra civile spa-
gnola; il cui cinquantenario è comunque già foriero, nella secon-
da metà degli anni Ottanta, di varie iniziative editoriali, di taglio
biografico e narrativo, come I fuochi le ombre il silenzio. La fragil
vida di Tina Modotti negli anni delle certezze assolute (1988) di Pi-
no Cacucci, o di taglio storico e politico, attestate, per esempio,
da un volume di Angeli del 1987 curato da Claudio Natoli e Leo-
nardo Rapone 2. Ed Ettore Scola, in quello stesso anno, nell’am-

1
In questo capitolo, e particolarmente nel suo secondo paragrafo, abbia-
mo segnalato anche i traduttori – dallo spagnolo, soprattutto, ma anche da altre
lingue – di opere ed edizioni recenti pubblicate in Italia e relative, in termini
più o meno romanzeschi, alla guerra di Spagna. Rispetto alla versione apparsa
in rivista, per cui cfr. la Postfazione di questo volume, ho tolto le date di nascita
e di morte degli scrittori italiani e stranieri citati nel capitolo, per uniformarlo ai
due precedenti. L’idea, inizialmente, era di fare il contrario e di estendere le in-
dicazioni agli altri due capitoli e finanche all’indice dei nomi, in modo da per-
mettere al lettore d’orientarsi in seno alle intersezioni tra passato e presente.
Optando per la prima procedura, abbiamo voluto snellire il discorso, specie nel
testo, ed evitare il rischio di appensantire in modo considerevole il volume.
2
Cfr. Pino Cacucci, I fuochi le ombre il silenzio. La fragil vida di Tina Mo-
dotti negli anni delle certezze assolute, Bologna, Agalev, 1988, pp. 64-93, e A cin-
quant’anni dalla guerra di Spagna, a cura di Claudio Natoli e Leonardo Rapone,

243

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pio sfondo storico de La famiglia, fa partecipare alla guerra civile
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spagnola il cugino Enrico (Giuseppe Cederna), già fuoriuscito a


Parigi, che in quel conflitto trova pure la morte – in Spagna, nel
frattempo, ci si è un po’ avvicinati ai registri della commedia
all’italiana d’antan (Tutti a casa (1960) di Comencini), con La
vaquilla (1985) di Luis García Berlanga, su soggetto e sceneggia-
tura, risalenti agli anni Cinquanta, dello stesso e di Rafael Azcona.
L’atteggiamento di certi narratori sembra nascere in seno a
una nuova attenzione che, dopo il 1989, è anche prodotta,
nell’Italia di Alleanza Nazionale (etichetta definitiva nel gennaio
1995), da un ritorno più generale di riflessione sul fascismo (su
un’altra « guerra civile»), che si riaffaccia persino e con successo
nella narrativa di consumo, nel noir e nel giallo con tinte horror
soprattutto 3, da Carlo Lucarelli a Eraldo Baldini, per esempio,

Milano, Angeli, 1987. Ma cfr. anche, in prospettiva, l’attenzione – nata in seno


ad altri anniversari, la Rivoluzione, la Repubblica, la deriva verso la stessa guer-
ra civile – di Spagna anni trenta. Società, cultura, istituzioni, a cura di Giuliana
Di Febo e Claudio Natoli, Milano, Angeli, 1993, di cui invito a leggere l’intro-
duttiva Parte prima, dedicata a Il dibattito storiografico, con inteventi di Claudio
Natoli, Gabriele Ranzato e Enric Ucelay Da Cal, alle pp. 15-70, e la nutrita
Parte quarta, su Cultura e intellettuali, di cui segnalo J. C. Mainer, Gli intellet-
tuali e la Repubblica, alle pp. 330-346.
3
Oggi, a due, tre lustri di distanza, col faticoso riproporsi delle trame pre-
vedibili del giallo, dell’horror e dei loro dintorni di genere, gli anni Venti, Tren-
ta, Quaranta del fascismo – e specie il decennio centrale – entrano anche in al-
tre strategie narrative, che ne sfumano la presenza e la irretiscono in un micro-
cosmo più o meno vivace, ma senza dubbio meno gotico e noir, in seno a un
piccolo mondo che la nostra letteratura frequenta spesso, fra Ottocento e Nove-
cento, fra dramma e commedia. Penso, per esempio, a quelle messe in atto da
Andrea Vitali ne La figlia del podestà, Milano, Garzanti, 2005 e in Olive compre-
se, Milano, Garzanti, 2006, con atmosfere alla Piero Chiara e con echi possibili,
per quanto quasi tutti volti in positivo, da Il piatto piange (1962), da certe pro-
se che lo precedono, quelle di Dolore del tempo (1959), e soprattutto dal « no-
vellismo» teso fra La spartizione (1964) e Il pretore di Cuvio (1973). Cfr. a pro-
posito, G. Tesio, Piero Chiara, Firenze, La Nuova Italia, «Il Castoro», 1982,
[pp. 31-54], pp. 42-48, [pp. 54-83], pp. 62-68, che mette bene in luce la scelta
del « piccolo mondo chiuso in un tempo senza storia» (p. 68), dove « il fascismo
stesso, come già nel Piatto piange è dato intendere, non incide a fondo e non

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da Carta bianca (1990) e Indagine non autorizzata (1993) a
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Mal’aria (1998); e anche se per il primo la storia diventa, nel


corso degli anni Novanta, un ingrediente di cui si può sempre
più fare a meno e se il secondo le preferisce il folclore, si tratta
comunque di narrazioni che flirtano con quello scrupolo stori-
co-politico che emerge, certo con più forza, proprio a metà degli
anni Novanta, in Land and freedom (1995).
Ma il primo film storico di Ken Loach, almeno in via for-
male (per veste e finanziamenti più robusti del solito), sembra
funzionare meglio sul piano dell’attualità, al quale è legato per
struttura narrativa (con la nipote che riattiva nel presente, con-
tro quarant’anni di Franco, il significato della lotta antifascista
del nonno). Mentre, su quello della storia, è apparso, in parte,
retrodatato, specie per la tesi della causa rivoluzionaria tradita e
persa in toto dai comunisti ortodossi 4.
In Italia questo film ha avuto comunque una buona acco-
glienza e può essere stato, nel suo farsi tra passato e presente, sto-
ria e creazione, uno degli input del ritorno della guerra civile di
Spagna. La scrittura di Ken Loach e di Jim Allen, lo sceneggiato-

agita le acque più che tanto; il tempo, nonostante le scosse apparenti e le parate
di superficie, va « come una volta» o cambia così lentamente che a molti riesce
di morire « nel ’38 o nel ’39 senza neppure accorgersi che tutto è ormai in movi-
mento verso un’epoca nuova, priva della pietà del passato e incattivita contro
gli stessi segni del tempo»» (p. 63). Ma per la riflessione sul fascismo, specie su
Salò e dintorni, cfr. il libro ‘rompighiaccio’ di Claudio Pavone, Una guerra civi-
le. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri,
1991 e 1994, pp. 221-312 e 678-705.
4
Penso, soprattutto, a quanto sostenuto da un navigato storico e speciali-
sta della guerra civile di Spagna come Gabriele Ranzato, Loach è « un compagno
che sbaglia», in ken loach, a cura di Dino Audino e Stefanella Ughi, prefazione
di Alberto Crespi, Roma, Dino Audino Editore, «Script/Lento», 1995, p. 61.
Ma si veda quanto suggerisce invece un giovane romanziere come Pino Cacuc-
ci, Ribelli !, Milano, Feltrinelli, «Serie Bianca», 2001, e poi «Universale Econo-
mica», 2003, p. 11: «(grazie, carissimo Ken Loach, che con Terra e libertà hai
ridato voce internazionale ai ribelli schiacciati tra due immani dispensatori di
falsità storiche: i franchisti e gli stalinisti)».

246

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re di Land and freedom, può aver spinto lo scaltro Lucarelli, e in
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prospettiva anche certo Cacucci, a proseguire rapidamente para-


bole storico-orrifiche e biografie romanzate più o meno riuscite
e vincenti: Guernica di Lucarelli è del 1996, a metà strada fra la
riscrittura più propriamente romanzesca e la riproposta, con
nuovo titolo e intreccio, del lavoro dedicato alla Modotti, Tina
(1991), e Ribelli (2001) dello stesso Cacucci, che tra l’altro pas-
sa in quegli anni – come Lucarelli, del resto – da piccole espe-
rienze editoriali a grandi case editrici. E significativo, mi sembra,
in relazione a certe dinamiche del mercato editoriale più che a
implicazioni teoriche e culturali della cara e complessa ‘postmo-
dernità’, è l’approdo di Cacucci a quella Feltrinelli che nel 1994
pubblica Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi.
Certo, nel romanzo di Antonio Tabucchi, sono in primo
piano la Lisbona del 1938 e la dittatura portoghese di Antonio
De Oliveira Salazar, ma la guerra civile di Spagna, il fascismo
italiano e tant’altro costituiscono più di uno sfondo 5. In parti-

5
Di diverso parere è Nives Trentini che, in una peraltro ricca contestua-
lizzazione di Sostiene Pereira, nota che « la Storia, pur documentata in tutta la
sua drammaticità con l’assassinio di Monteiro Rossi, rimane uno sfondo». Cfr.
il recente Una scrittura in partita doppia. Tabucchi fra romanzo e racconto, Ro-
ma, Bulzoni, 2003, [pp. 221-240], p. 234; ma già a p. 69 si legge: « la storia è
solo uno sfondo e l’elemento strutturante del romanzo è piuttosto la formazio-
ne esistenziale del personaggio» (il discorso su Sostiene Pereira prosegue in tal
senso, nonostante la studiosa riconosca « la presenza crescente della Storia», fi-
no a p. 72). Nel saggio cercheremo brevemente di dimostrare, in rapporto ov-
viamente alla guerra civile spagnola, che Storia e formazione del personaggio
sono strettamente legati. Qui in nota, invece, si vorrebbe aggiungere che forse,
più che a leggere il romanzo, l’osservazione della Trentini, tesa ad evadere so-
stanzialmente una lettura politica « forzata» di Sostiene Pereira, può servire a in-
terpretare l’omonimo film, che il regista Roberto Faenza ha tratto nel 1995 dal
libro di Antonio Tabucchi, con la significativa collaborazione ai dialoghi
dell’autore. In effetti, il lungometraggio non riesce sempre a riempire i « bu-
chi», i « vuoti» delle « storie zoppicanti» che il romanziere, secondo una sua
stessa, suggestiva indicazione, fornisce « al cinema» e a « registi che sono dispo-
nibili ai vuoti». In Sostiene Pereira, mi sembra che certa « disponibilità ai vuoti»
di Roberto Faenza si manifesti soprattutto nei confronti del contesto storico

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colare, diversi riferimenti al conflitto spagnolo sembrano davve-
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ro accompagnare la frammentaria e progressiva presa di co-


scienza del dottor Pereira, che, nel 1938, può quasi trovare un
modello in quella di Georges Bernanos; la cui « prise de con-
science très progressive» si concretizza ne Les Grands cimetières
sous la lune, nel maggio 1938, un po’ come quella di Pereira si
concretizza, nell’estate di quell’anno, nel necrologio del giovane
Monteiro Rossi, Assassinato un giornalista. Il necrologio, firma-
to, è lo strumento di tale presa di coscienza ed è « una testimo-
nianza», già sottotitolo di Sostiene Pereira, che in parte sembra
ammiccare a quel «journal d’un témoin» che è il primo proget-
to de Les Grands cimetières sous la lune. Di più. Pereira scrive in
Portogallo il suo articolo e pensa al Portogallo («Invitiamo le

che, come quadro e senso di un’epoca ma anche come somma di eventi e esi-
stenti di un plot, è rappresentato secondo gli stereotipi inflazionati di molto ci-
nema engagé, diventando uno sfondo, per l’appunto, e spesso niente di più.
Mentre il film riesce significativamente a catturare nei dialoghi tabucchiani –
che nel romanzo vengono assorbiti dall’universo del dottor Pereira e assimilano
i continui e sempre più consistenti rilievi storici – la frammentaria presa di co-
scienza, l’apprendistato del « sostenere» del dottor Pereira (incarnato, con scelta
felicissima, dal grande Marcello Mastroianni), e finanche la parabola esistenzia-
le di altri due personaggi (nonostante l’interpretazione non esaltante di Stefano
Dionisi, che è Monteiro Rossi, e di Nicoletta Braschi, che non fa rivivere quella
creatura di sogno, quella giovane femme fatale, quella silhouette inafferrabile,
metamorfica che nel romanzo è Marta, « bellissima, chiara di carnagione, con
gli occhi verdi [...] capelli castani che avevano riflessi rossi»; « capelli rossi [...]
bella silhouette che si stagliava nel sole»; «Marta sembrava trasformata, quei ca-
pelli biondi e corti, con la frangetta e le virgole sulle orecchie, le davano un’aria
sbarazzina e straniera, magari francese»). Per le citazioni in parentesi cfr. Anto-
nio Tabucchi, Sostiene Pereira, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 27-28, 96 e 99,
138; per quelle che precedono, invece, si veda, dello stesso Tabucchi, Come na-
sce una storia, in AA.VV., Scrittori a confronto. Incontri con Aldo Busi, Maria
Corti, Claudio Magris, Giuliana Morandini, Roberto Pazzi, Edoardo Sanguineti,
Francesca Sanvitale, Antonio Tabucchi, a cura di Anna Dolfi e Maria Carla Papi-
ni, Roma, Bulzoni, 1998, [pp. 181-201], p. 196 (ma cfr. anche p. 186). Mi sia
infine concesso rinviare a L. Curreri, Letteratura e cinema: il caso Tabucchi,
Conferenza tenuta all’Università di Varsavia, il 16 novembre 2005, e in via di
pubblicazione ne «Il lettore di provincia».

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autorità competenti a vigilare attentamente [...] oggi in Porto-
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gallo») 6, proprio come Bernanos « c’est en France qu’il écrit son


livre, c’est en pensant à la France, à ses problèmes nationaux et
internationaux qu’il met en forme ses réflexions» 7.

Inizialmente, in Sostiene Pereira, non sono che accenni,


frammenti, per l’appunto, dettagli incastonati, come la Lisbona
e il Portogallo del 1938, in una monolitica e funerea deriva
dell’Europa e del mondo negli anni Trenta, tra feste salazariste,
canzoni franchiste, echi della guerra civile, del fascismo italiano
e fanatici, teppisti, xenofobi, antisemiti 8.

E pensò: questa città puzza di morte, tutta l’Europa puzza di morte.

Poi vide uno striscione [...] Onore a Francisco Franco. E sotto, in let-
tere più piccole: onore ai militari portoghesi in Spagna [...] era una fe-
sta salazarista [...] dalle loro corde malinconiche traevano una canzo-
ne franchista [...] non voglio andare in Italia, mi pare che la situazio-
ne sia ancora peggio della nostra [qui è Monteiro Rossi a parlare]

Oh, fece Pereira, la mia gioventù se n’è andata da un pezzo, quanto


alla politica, a parte che non me ne interesso molto, non mi piaccio-
no le persone fanatiche, mi pare che il mondo sia pieno di fanatici.

[...] viviamo in un mondo di teppisti, sono stati i teppisti [a par-


lare è David, il proprietario ebreo di una macelleria]. Ha chiama-
to la polizia ? chiese Pereira. Figuriamoci, fece David, figuriamoci.

Ma poi tali riferimenti si fanno autonomi e si impongono


via via, in modo costante e progressivo, in una quindicina di

6
Cfr. Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira cit., pp. 202-203.
7
Max Milner, La guerre d’Espagne, in Georges Bernanos, Paris, Desclée de
Brouwer, 1967, [pp. 231-263], pp. 231, 232 e 248.
8
Cfr. A. Tabucchi, Sostiene Pereira cit., pp. 14, 20-23, 28, 57.

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luoghi del romanzo 9. Stralciando, mi limito a esemplificare, in
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sequenza, dai primi tre, quattro passi individuati nel testo:

Pericoloso, sostiene, l’articolo era pericoloso. Parlava della pro-


fonda Spagna, della cattolicissima Spagna che García Lorca aveva
preso come obiettivo per i suoi strali nella Casa di Bernarda Alba
[...] non so se lei si rende conto, caro Monteiro Rossi, che in que-
sto momento in Spagna c’è una guerra civile, che le autorità por-
toghesi la pensano come il generale Francisco Franco e che García
Lorca era un sovversivo, questa è la parola: sovversivo.

Pereira chiese a Silva cosa ne pensava di [...] quello che sta succe-
dendo in Europa. Oh, non ti preoccupare, replicò Silva, qui non
siamo in Europa, siamo in Portogallo [...] ma lo sai cosa sta succe-
dendo in Germania e in Italia, sono fanatici, vogliono mettere il
mondo a ferro e fuoco. Non ti preoccupare, rispose Silva, sono
lontani. D’accordo, rispose Pereira, ma la Spagna non è lontana, è
a due passi, e tu sai cosa succede in Spagna, è una carneficina, ep-
pure c’era un governo costituzionale, tutto per colpa di un gene-
rale bigotto. Anche la Spagna è lontana, disse Silva, noi siamo in
Portogallo. Sarà, disse Pereira, ma anche qui le cose non vanno
bene, la polizia fa da padrona, ammazza la gente, ci sono perquisi-
zioni, censure, questo è uno stato autoritario [...] senti, ti dico
una cosa, io insegno letteratura e di letteratura me ne intendo, sto
facendo un’edizione critica dei nostri trovatori [...] Però io faccio
il giornalista, replicò Pereira. E allora ?, disse Silva. Allora devo es-
sere libero, disse Pereira, e informare la gente in maniera corretta.
Non vedo il nesso, disse Silva, tu non scrivi articoli di politica, ti
occupi della pagina culturale.

E allora ?, chiese Pereira. Allora è che è arrivato mio cugino, rispo-


se Monteiro Rossi. Non mi sembra molto grave, rispose Pereira,
tutti abbiamo dei cugini. Sì, disse Monteiro Rossi quasi sussurran-
do, ma mio cugino viene dalla Spagna, è in una brigata, combatte

9
Ivi, pp. 37-38, 63-64, 80-81, 85-86, 97-98, 122, 128-129, 139-140,
145-147, 154-156, 166-169, 177, 204.

250

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dalla parte dei repubblicani, è in Portogallo per reclutare volontari
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portoghesi che vogliono far parte di una brigata internazionale, in


casa mia non posso tenerlo, lui ha un passaporto argentino e si ve-
de a un miglio di distanza che è falso, non so dove metterlo, non
so dove nasconderlo. Pereira cominciò a sentire un filo di sudore
che gli colava lungo la schiena, ma si mantenne calmo. [...] E allo-
ra ?, chiese ancora Pereira. Allora lei non la sospetta nessuno, disse
Monteiro Rossi, lui resta qui qualche giorno, il tempo di prendere
contatto con la resistenza, e poi se ne ritorna in Spagna, lei deve
aiutarmi dottor Pereira, deve cercargli un alloggio.
[...] Pereira entrò nella pensione ma consigliò Monteiro Rossi di
aspettare fuori, si portò dietro il signor Bruno Rossi e lo presentò
all’impiegato. Era un vecchietto con gli occhiali spessi che dor-
micchiava dietro il banco. Ho qui un amico argentino, disse Pe-
reira, è il signor Bruno Lugones, questo è il suo passaporto, però
vorrebbe mantenere l’anonimato, è qui per ragioni sentimentali.
Il vecchietto si tolse gli occhiali e sfogliò il registro. Stamani ha te-
lefonato una persona per fare una prenotazione, disse, è lei ? Sono
io, confermò Pereira. [...] prese il portafoglio e tirò fuori due ban-
conote. Le lascio tre giorni anticipati [...] 10.

Più si procede nella lettura, insomma, più i riferimenti alla


guerra civile spagnola diventano consistenti, passando significa-
tivamente da un articolo letterario a una discussione politica, in
cui Pereira prende le distanze da Silva, rivendica il suo ruolo di
« giornalista» (« essere libero [...] e informare la gente in maniera
corretta») 11 anche a partire dalla pagina culturale e, sulla scorta
di un necrologio scritto da Monteiro Rossi, cita Marinetti, su
cui ritorneremo, come triste esempio di intersezione tra lettera-
tura e politica; poco dopo Pereira passa dalla discussione a un
impegno concreto, occupandosi del cugino di Monteiro, Bruno
Rossi, che « viene dalla Spagna» ed « è in Portogallo per reclutare
volontari portoghesi che vogliono far parte di una brigata inter-

10
Ivi, pp. 37-38, 63-64, 80-81 e 88-89.
11
Ivi, pp. 64-65.

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nazionale» 12. E anche se Pereira dichiara « io non sono compa-
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gno di nessuno» 13, di fatto agisce come un « compagno».


Anche quantitativamente, poi, si passa da un rapido ac-
cenno, da un non comunque insignificante dettaglio narrativo,
a qualche pagina, fino a capitoli quasi interamente dedicati ( o
quanto meno ruotanti intorno) alla guerra, a quello che se ne
sa, che se ne dice, che se ne scrive. Basta pensare, verso la fine
del libro, al capitolo 19, centrato sul colloquio tra Pereira e pa-
dre Antonio, e al capitolo 20, dove assistiamo a quello col dot-
tor Cardoso: capitoli e colloqui che non a caso sono essenziali
per la presa di coscienza politica di Pereira (e non solo per
quella letteraria, che comunque può essere un valido supporto
della prima e non slegata da essa) e per lo scioglimento del
plot, con un uomo, un intellettuale, un traduttore, un giornali-
sta che fa fronte a tutta la drammaticità, a tutta la violenza del-
la Storia, reagendo con efficacia – nel solco dello sfuggente
rapporto tra padri e figli, vecchi e giovani – all’assassinio del
giovane Monteiro Rossi, l’altro, l’amico, il figlio, il collabora-
tore letterario, il sovversivo, e colmando infine, da eroe intel-
lettuale, la distanza tra arte e vita, letteratura e engagement.
Ché il dottor Pereira è engagé, in un certo senso, soprattutto se
si presta giusta attenzione a quanto, risalendo a Sartre, suggeri-
sce lo stesso Tabucchi: « uno scrittore engagé è uno scrittore
che si occupa dei fatti altrui» 14.

12
Ivi, p. 80. Il cugino di Monteiro appare e scompare nell’intreccio, alle
pp. 80-81, 85-86, 97-98 etc., è presente anche in absentia, e dalla sua attività
dipenderà, in un certo senso, la tragica soluzione della vicenda e la dolorosa pre-
sa di coscienza del vecchio gionalista, il dottor Pereira.
13
Ivi, p. 86.
14
A. Tabucchi, Come nasce una storia, in AA.VV., Scrittori a confronto cit., p.
181. Per Sartre e una sua contestualizzazione in un panorama culturale francese il
cui point de départ è Pascal cfr. Benoît Denis, Littérature et engagement. De Pascal à
Sartre, Paris, Seuil, «Points Essais Série “Lettres”», 2000, volume da scorrere per
intero, perché in esso Jean-Paul Sartre è presenza strutturante; cfr. comunque, in
particolare, nella prima parte, introduttiva, chiara ed efficace, il cap. III, L’écrivain

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Il punto di vista di Pereira e il suo accesso alla responsabi-
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lità di fronte al mondo degli anni Trenta procede anche – e, si


sarebbe tentati di dire, soprattutto – in base a quello che Pereira
riesce a « sostenere» a proposito della guerra civile spagnola e
dell’engagement che parte da Marta e dal cugino di Monteiro,
Bruno Rossi, e che investe lo stesso Monteiro e Pereira.
Del resto, è Tabucchi che ci invita a rinsaldare il personag-
gio, il protagonista con la Storia quando dice che «Pereira è in-
felice non solo per ragioni personali, per ragioni esistenziali [...]
ma anche per la situazione storica che vive» 15. Fare rientrare ta-
le situazione storica, con i nazi-fascismi e un certo blocco totali-
tario europeo all’altezza del 1938, tra Portogallo e Spagna, Italia
e Germania, nell’universo di un « vedovo, cardiopatico, grasso»
personaggio, non significa necessariamente né farla restare uno
sfondo, né proiettarla per intero nell’Italia elettorale del 1994,
come suggerisce Luca Doninelli, che in un articolo del 9 marzo
di quell’anno, apparso su «Il Giornale» 16, accusa Tabucchi di

engagé: une présence totale, alle pp. 43-51, e nella terza ed ultima, il cap. XIII,
L’apogée sartrien, alle pp. 259-279. Ma cfr. il paragrafo 2 del primo capitolo.
15
A. Tabucchi, Come nasce una storia, in AA.VV., Scrittori a confronto cit.,
p. 192.
16
Luca Doninelli, Macché letteratura, è propaganda, «Il Giornale», 9 marzo
1994, per cui cfr. A. Tabucchi, Sostiene Pereira, Introduzione e analisi del testo di
Bruno Ferraro, Torino, Loescher, «Il passo del cavallo», 1995, pp. 41-43 e 47.
Dell’articolo di Doninelli ridà notizia di recente «L’Indice», 2004, 4, p. 10, qua-
si a ‘bilanciare’ la recensione, Lui amò Rosamunda, che Luciana Stegagno Picchio
fa dell’ultimo romanzo di A. Tabucchi, Tristano muore. Una vita, Milano, Feltri-
nelli, 2004, dove è ancora questione di Spagna, del Generalissimo (pp. 62-65, per
esempio), della fuga di Benjamin (« da Franco, da Hitler e da tutti e forse anche
da se stesso», p. 108) e di tant’altro Novecento: «Un Novecento che ha appena
sceso il sipario sui nostri dubbi e certezze, ideologie e disillusioni. E che ora ci pas-
sa il testimone per il nuovo secolo. Ma chi testimonia per il testimone ?». Recen-
sione appassionata della « maestra» di Antonio Tabucchi, piena di intuizioni, an-
che se un po’ ‘apocalittica’, giocata sul refrain « di uno di quei vecchi e inutili, di
quei Tristani quasi cadaveri che hanno capito come la storia sia un’illusione, un
fantasma, anche se ormai non possono più farla, perché è già stata fatta». E si ci-
tano questi passaggi della recensione di Stegagno Picchio al Tristano muore anche

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aver scritto un libro di propaganda elettorale, ispirandosi a una
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visione ancora sovietica della Storia.

Se assolutizzato, il rilievo di Luca Doninelli potrebbe portar-


ci fuori strada, magari facendoci sovrapporre integralmente quel
tipo di visione storica all’interpretazione tutta letteraria di chi in
Sostiene Pereira vede la Storia come sfondo e il Sogno in primo
piano. Insomma, ci troveremo a dover scegliere o, al limite, a si-
tuarci fra un anacronistico e viziato engagement e la costante oni-
rica della prosa narrativa tabucchiana. Quando forse la verità si
trova in mezzo, con un Tabucchi che confessa di non riconoscer-
si completamente nel Sostiene Pereira inteso solo come romanzo
impegnato e che crede piuttosto a un romanzo esistenziale « che
parla di una crisi di coscienza molta vasta che riguarda il passato,
il futuro, l’elaborazione del lutto, le scelte della vita» e che culmi-
na in « un senso di rimorso»: « Quando viene invaso da questo
grande rimorso, di cui il medico filosofo dottor Cardoso gli fa
prendere coscienza, Pereira comincia a mettere in discussione an-
che il suo essere politico in un momento come quello del Porto-
gallo nel ’38 e nell’Europa che sta sul baratro della catastrofe» 17.

come esempio di una ricezione potenzialmente ‘astorica’ del romanzesco tabuc-


chiano – favorita in un certo modo dall’autore stesso, dai suoi montaggi narrativi,
dall’impianto favolistico, fin da Piazza d’Italia (1975) – e opposta alla lettura cri-
tica iperattualizzante, diffusa soprattutto a partire dalla pubblicazione di Sostiene
Pereira. Resta comunque, quella di Stegagno Picchio, una recensione interessante,
dalla quale, insieme ad altre, sono partito per un saggio intorno a Tabucchi e a
Magris. Cfr. L. Curreri, La sfida di non farsi leggere. Appunti intorno a «Tristano
muore» (2004) di Tabucchi e «Alla cieca» (2005) di Magris, in Intellettuali italiani
del secondo Novecento, a cura di Angela Barwig e Thomas Stauder, Frankfurt/M.,
Verlag für deutsch-italienische Studien, «Themen der Italianistik» (in via di pub-
blicazione). E si scorra poi, anche per Spagna e guerra civile, A. Tabucchi, Piazza
d’Italia. Favola popolare in tre tempi, un epilogo e un’appendice (1975), Milano,
Feltrinelli,1993 e «Universale Economica», 1996 e 2003, pp. 70, 91, 132.
17
Cfr. Conversazione con Antonio Tabucchi. Dove va il romanzo ?, a cura di
Paola Gaglianone e Marco Cassini, Saggio critico di Riccardo Scrivano, Nota di
Roberto Faenza, Roma, Omicron, «Il libro che non c’è», 1995, pp. 18-19.

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Ma proviamo a problematizzare l’alternativa sopra evocata,
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tra la « propaganda» di Luca Doninelli e l’« istanza onirica» di


Nives Trentini, inseguendo rapidamente le emergenze – e le
« quotazioni» – di alcuni celebri scrittori nel testo.
Da un lato, è pur vero che, anche solo a un livello letterario,
appaiono manichee e facili le evocazioni – e la sequenza delle stes-
se e delle coppie oppositive che si intuiscono lungo il romanzo –
relative a scrittori italiani e stranieri e tese a presentare, nei poten-
ziali necrologi o nelle ricorrenze, il « cattivo» Filippo Tommaso
Marinetti – nel capitolo 7 – e il « buono» Vladimir Vladimirovic]
Majakovskij – nel capitolo 19, verso la fine del testo, significativa-
mente. D’altro lato, non si può ridurre questa coppia o un’altra,
magari meno evidente (Paul Claudel versus Georges Bernanos),
in una visione tutta propagandistica e sovietica della Storia.
Ma pensiamo a un caso più interessante e complicato a un
tempo, come quello di Luigi Pirandello e di Gabriele d’Annun-
zio. Del siciliano si cita, alla fine del primo capitolo, Sogno (ma
forse no), « quasi a siglare la natura del romanzo», coincidente,
per Nives Trentini, con « l’istanza onirica» 18.
Ma Pirandello pare anche diventare il polo positivo di una
coppia il cui polo negativo è d’Annunzio, citato quasi subito do-
po, nel capitolo 4, e poi – con insistenza significativa (anche in
rapporto allo stesso Pirandello) – in altri luoghi del romanzo. In
questo modo, a mio avviso, si vuole quanto meno siglare un’al-
tra e non meno importante istanza di Sostiene Pereira, quella
storica, storico-politica, ideologica, e di d’Annunzio conseguen-
temente ma facilmente si denuncia il ruolo di vate e di « supe-
ruomo ridotto», di amante della magniloquenza e dell’azione,
dell’erotismo e dell’interventismo; il tutto quasi riassunto nel
soprannome, «‘assolo di trombone’» 19, trovato da Fernando

18
Cfr. N. Trentini, Una scrittura in partita doppia. Tabucchi fra romanzo e
racconto cit., pp. 224-225.
19
Cfr. A. Tabucchi, Sostiene Pereira cit., pp. 29 e 95-96; ma cfr. anche pp.
87-88.

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Pessoa, amatissimo da Tabucchi, come è noto, e dalla tradizione
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critica tabucchiana e dalla Trentini accostato a Pirandello.


Ed è poi significativo che sia Pereira, il primo Pereira, a
pensare a Luigi Pirandello, all’inizio del romanzo, mentre è il
giovane Monteiro Rossi a tirare in ballo e a far ballare – secondo
i passi di un Carlo Salinari e di un Arcangelo Leone de Castris 20
ancor più che secondo quelli di un Pessoa – Gabriele d’Annun-
zio. Perché? Perché se crediamo, in prospettiva, alla formazione
del dottor Pereira, alla sua presa di coscienza, Luigi Pirandello,
all’inizio, non è solo una coordinata esemplare – che comunque
non individua soltanto il sogno – ma anche, più semplicemente,
un dato letterario, una misura della fede pereiriana nella lettera-
tura a cui necessita un complemento storico – storico-letterario
– davvero ‘altro’, che spinga il colto giornalista a rivedere e rein-
nestare tale fede. E d’Annunzio, morto il 1 marzo 1938, diventa
facilmente un simbolo di quell’«Europa [che nel luglio del
1938] puzza di morte», come si legge nel capitolo 2; ed è soprat-
tutto l’Europa dei fascismi italiani e spagnoli e della guerra civile
quella che emerge nel capitolo 3 e che pare quasi visualizzarsi
nella morte di d’Annunzio in 4 (prima di approdare a quella,
ancora lontana, di Marinetti e Mussolini, citati subito dopo) 21.
Certo, presentare Luigi Pirandello in tal senso significa av-
volgerlo nel dato letterario e in quello preservarlo, quasi al di
sopra delle parti, come pare avvenire del resto nella realtà e nel-
la storia della ricezione pirandelliana, ottima, al tempo di Sogno
(ma forse no), a sinistra e a destra, in Russia come in Portogallo.
In effetti, l’atto unico pubblicato ne «La Lettura» dell’ottobre
1929, già annunciato come « tragicommedia» da «La Gazzetta
del Popolo» nel giugno di quell’anno, appare, come si legge nel

20
Cfr. rispettivamente Carlo Salinari, Il superuomo, in Miti e coscienza del
decadentismo italiano, Milano, Feltrinelli 1960 e 1982, pp. 29-105, e Arcangelo
Leone de Castris, Il « guardaroba dell’eloquenza», in Il decadentismo italiano.
Svevo Pirandello d’Annunzio, Bari, De Donato, 1974, pp. 209-262.
21
Cfr. A. Tabucchi, Sostiene Pereira cit., pp. 14, 19-24, 29.

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quotidiano torinese, in un momento in cui Luigi Pirandello « si
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appresta a fare un ingresso addirittura trionfale in Russia» – do-


ve « il Ministro Lunac]arskij [...] ha fatto abolire il decreto di
censura che tre o quattro anni addietro fu promulgato dalle au-
torità sovietiche contro il teatro pirandelliano» 22 – e viene poi
rappresentato, in quel Portogallo che sta diventando una ditta-
tura, sotto Salazar, il 22 settembre 1931, al Teatro Nacional di
Lisbona (approdando in patria al Teatro Giardino d’Italia di
Genova, il 10 dicembre del 1937, grazie alla Compagnia filo-
drammatica dell’Università).
La strategia, insomma, è scaltra ma anche ingannevole,
almeno a quel livello storico che si vuole raggiungere col sa-
crificabile d’Annunzio. Pirandello, infatti, che non è estraneo
al « gusto della morte inutile e bella » e al « gusto della bruta-
lità» ai tempi della prima guerra mondiale e negli anni
dell’ascesa al potere di Mussolini, si iscrive al partito fascista
« all’indomani dell’uccisione » del deputato socialista Giaco-
mo Matteotti – ne ridiscute di recente Marco Maugeri ne Le
ceneri di Matteotti (2004) in una ricostruzione saggistica e
narrativa a un tempo, vicina a testualità come quelle proposte
da Fulvio Abbate o, meglio, da certo Affinati, certa Rasy 23 –
ovvero, se vogliamo, circa quattro, cinque anni addietro il So-
gno ( ma forse no).
Ricorda questi momenti Furio Jesi, in Cultura di destra
(1979), libro che forse ci ha aiutato a capire, più di Salinari, de

22
Interviste a Pirandello, a cura di Ivan Pupo, prefazione di Nino Borselli-
no, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, p. 439
23
Marco Maugeri, Le ceneri di Matteotti, Napoli, l’ancora del mediterra-
neo, 2004; in particolare pp. 44-49 e 51-55. Cfr. poi Fulvio Abbate, Teledur-
ruti, Milano, Baldini & Castoldi, 2002 e Il ministro anarchico, Milano, Baldi-
ni Castoldi Dalai, 2004; Eraldo Affinati, Un teologo contro Hitler. Sulle tracce
di Dietrich Bonhoeffer, Milano, Mondadori, 2002 e Elisabetta Rasy, La scienza
degli addii, Milano, Rizzoli, 2005. Sul versante critico Lidia De Federicis, Il fi-
lo della voce, in Del raccontare. Saggi affettivi, San Cesario di Lecce, Manni,
2004, pp. 41-52.

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Castris e tant’altri, il rapporto tra letteratura e vita in quegli an-
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ni difficili e in altri che lo sono stati altrettanto 24.

Sostiene Pereira ha « un taglio politico indubbio, evidente»


– lo dice lo stesso Tabucchi 25 – ma questo taglio non riduce il
romanzo storico, né lo fa diventare necessariamente neostorico,
ovvero « più consono, per il “miscuglio di più fabule”, ai mo-
delli contemporanei in cui si fondono elementi storici “e allo
stesso tempo gialli, rosa, d’azione, d’avventura, allegorici, poli-
tici, filosofici”» 26.
L’escamotage del romanzo neostorico permette più che al-
tro di apparentare Tabucchi o di provare ad avvicinarlo, con
meno timore e più disinvoltura, tanto agli amati classici, Mau-
passant, Balzac, Tolstoj, citati in e per Sostiene Pereira insieme a
Mauriac e Bernanos 27, quanto, in rapporto alla guerra civile
spagnola, a due ‘giovani’ come Pino Cacucci e Carlo Lucarelli e
alla generazionalmente più vicina Fabrizia Ramondino; autrice
di un romanzo maiorchino che fa pensare a George Bernanos,
citato nel testo e in un’appendice, e che si chiude con una nota
di omaggi al romanzo ottocentesco in cui sono subito evocati
Dumas e Dostojevskij, Balzac e Tolstoj 28.

24
Furio Jesi, Cultura di destra, Milano, Garzanti, 1979 e 1993, pp. 148-
152. Cfr. anche Luciano Curreri, Il corpus dell’incompiuto, «L’indice», 7/8,
2005, p. 16.
25
A. Tabucchi, Come nasce una storia, in AA.VV., Scrittori a confronto cit.,
p. 193.
26
Cfr. N. Trentini, Una scrittura in partita doppia. Tabucchi fra romanzo e
racconto cit., p. 235, che utilizza « la ri-definizione del genere data da Margheri-
ta Ganeri (anche sulle tracce degli scritti di Ceserani)»; il rinvio è a Margherita
Ganeri, Il ritorno postmoderno del romanzo storico: implicazioni teoriche e cultu-
rali, «Allegoria», 26, 1997, pp. 112-120.
27
A. Tabucchi, Come nasce una storia, in AA.VV., Scrittori a confronto cit.,
p. 195.
28
Fabrizia Ramondino, Guerra d’infanzia e di Spagna, Torino, Einaudi,
2001, pp. 85, 416 e 425.

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Del resto, ancor prima della pubblicazione di certi testi di
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Lucarelli, Cacucci e Ramondino, Carla Sodini e alcuni suoi al-


lievi – nel chiudere una miscellanea, La guerra civile spagnola tra
politica e letteratura, edita nel 1995 dalla Shakespeare and
Company – pensano proprio a Sostiene Pereira e titolano pure,
con mossa mimetica, Sostiene Tabucchi 29 – voce, ormai, della
bibliografia tabucchiana 30 – per una minima, sollecitata e at-
tualizzante partecipazione d’autore raccolta, in modo un po’
forzato, nelle righe finali e tesa a enunciare tristi e certo avverti-
bili (e avvertite) analogie fra gli anni Trenta e il presente, con il
ritorno dei nazionalismi, della xenofobia e del razzismo.
Tale intervento fonde così un richiamo storico-politico pre-
ciso con una sospetta o quanto meno dubbia e forzata attualizza-
zione, a scapito di una tenuta del testo letterario, del romanzo
storico di Tabucchi, che è attualizzato e al tempo stesso fatto qua-
si scivolare all’indietro, perché chiamato, in un certo senso, a far
le veci di una tradizione romanzesca italiana inesistente e/o per-
duta. Alla fine, le poche pagine dedicate a Sostiene Pereira quasi
stonano in un volume corposo dove non c’è praticamente traccia
della narrativa italiana ancorata in modo più o meno significativo
al conflitto spagnolo 31; mentre campeggiano al solito la letteratu-
ra francese e l’angloamericana, la spagnola e finanche la tedesca,
con Il grande esempio di Gustav Regler, scritto in tedesco nel
1937-38 ma uscito in inglese nel settembre 1940, poche settima-
ne prima del romanzo di Hemingway, da cui è subito oscurato 32.

29
Carla Sodini, A proposito della guerra civile spagnola: sostiene Tabucchi,
in AA.VV., La guerra civile spagnola tra politica e letteratura, a cura di Gigliola
Sacerdoti Mariani, Arturo Colombo, Antonio Pasinato, Firenze, Shakespeare
and Company, 1995, pp. 305-313.
30
Cfr. A. Tabucchi, Sostiene Tabucchi, intervista di Alberto Scarponi,
«Lettera internazionale», 62, 1999, pp. 2-5.
31
Cfr. il secondo capitolo di questo volume.
32
Antonio Pasinato, Tragedia e speranza nella guerra civile spagnola. Il ro-
manzo di Gustav Regler «Das große Beispiel» (1937-1938), in AA.VV., La guerra
civile spagnola tra politica e letteratura cit., pp. 231-249. Dico « finanche la tede-

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Ma a dimostrazione che la guerra civile spagnola è per Ta-
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bucchi – come forse prima solo per Sciascia – un momento for-


te del Novecento, da non dimenticare e a cui ritornare nei diffi-
cili anni Novanta, tesi soprattutto fra revisionismi e nuovi salu-
ti romani, dai giornali allo stadio, basta leggere l’inizio e la fine
di un breve articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 30
giugno 1998, Franchismo, lettera agli amici spagnoli, poi in Due
fronti. La grande polemica sulla guerra di Spagna (1998) 33.
In questo articolo, Tabucchi torna subito sul lien pereiriano
di Portogallo e Spagna, evoca una memorabile mostra di foto
sulla Spagna di Franco – citando alcuni pezzi, fra cui « il tripudio
di bracci stesi dai finestrini del treno, alla stazione di Madrid del
1941, dell’eroica “Divisione Azzurra” che per conto di Franco
andava a restituire a Hitler i favori ricevuti per i bombardamenti
sulle città basche fedeli alla Repubblica» 34 – e chiude su quella
censura che tanta parte ha nel Sostiene Pereira (1994).

sca» perché penso ancora, con Maurizio Serra, che gli italiani e i tedeschi che si
scontrano, in patria e in Spagna, col fascismo e il nazismo, non riescano a offri-
re facilmente e nell’immediato un tributo alle belle lettere che traduca la realtà
della guerra civile spagnola e quindi producano meno o un diverso tipo di ope-
re. Cfr. Maurizio Serra, L’esteta armato. Il Poeta-Condottiero nell’Europa degli
anni Trenta, Bologna, il Mulino, 1990, p. 130; ma lo stesso, a p. 131, ricorda,
tra i tedeschi, Hermann Kesten e il suo Die Kinder von Guernica (1939), con
prefazione, non proprio compiacente, di Thomas Mann, che giudica non vero-
simile e eccessivo far parlare per 167 pagine un ragazzino di appena quindici
anni, testimone della barbara distruzione di città e degli ultimi giorni della li-
bertà e della giustizia. Altro, ovviamente, è il discorso relativo alla propaganda
fascista e nazista. Per quella fascista, tra narrazione, teatro e cinema, rinvio an-
cora al secondo capitolo di questo volume.
33
A. Tabucchi, Franchismo, lettera agli amici spagnoli, in Nino Isaia, Edgar-
do Sogno, Due fronti. La grande polemica sulla guerra di Spagna, con gli interven-
ti di Mario Pirani, Renzo Foa, Barbara Spinelli, Enrico Deaglio, Sandro Viola,
Indro Montanelli, Antonio Tabucchi, Piero Ostellino, Ferdinando Adornato e
la replica di Sergio Romano, Firenze, Liberal Libri, 1998, pp. 166-170.
34
Ivi, p. 168. Ma cfr. X. Moreno Juliá, La division Azul. Sangre española
en Rusia 1941-1945 cit.

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Credevamo che i compassati storici anglosassoni come Gabriel
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Jackson o Paul Preston ci avessero ragguagliato a sufficienza sulla


Guerra Civile Spagnola e sulla natura del franchismo. E invece
una scoperta rivoluzionaria sta percorrendo in queste ultime setti-
mane in Italia la storiografia da quotidiano. Franco fu uno statista
lungimirante, il franchismo non era affatto un regime fascista e
soprattutto ebbe un grande merito: fermò la diffusione del comu-
nismo in Occidente. Questa tesi nuovissima, che chi conosce la
penisola iberica leggeva negli storici di regime in Spagna e in Por-
togallo negli anni ’50 e ’60 (le tesi salazariste erano identiche a
quelle franchiste), viene seriamente affermata oggi in Italia da
Sergio Romano, ambasciatore in pensione della Repubblica italia-
na, passato a occuparsi di Storia su alcuni mezzi di informazione.
[...] Questo è un invito al Cervantes e a Publio López Mondéjar a
pubblicare anche in Italia le loro fotografie. Altrimenti di questo
passo gli italiani sentiranno dire presto che il saluto romano era
un gesto sublime di suonatori di arpa, la garrota un idillico gioco
di salotto, le fucilazioni un balletto in costume e la censura un pa-
terno consiglio. Si udrà una musica celestiale e proveremo tanta
nostalgia per la perduta Arcadia della Spagna franchista. 35

Sembra quasi di risentire Leonardo Sciascia quando reagi-


sce, fra anni Cinquanta e Sessanta, a quel « grande merito» del
franchismo, sostenuto in tal senso dagli Stati Uniti d’America, a
livello politico, e non solo dagli storici di regime spagnoli e por-
toghesi. E non soltanto per ovvie competenze professionali il
Portogallo è la pietra di paragone e il point d’ancrage di Antonio

35
A. Tabucchi, Franchismo, lettera agli amici spagnoli, in N. Isaia-E. So-
gno, Due fronti. La grande polemica sulla guerra di Spagna cit., pp. 166 e 170;
di altro tono l’intervento di Indro Montanelli, alle pp. 163-165, che della
guerra civile spagnola aveva parlato anche in seno a una lontana prova narrati-
va riproposta di recente e in pagine interessanti e assai obiettive, diverse da
certe sue conclusioni giornalistiche del novembre 1936 ( per cui cfr. R. Ro-
dondi, Il presente vince sempre cit., p. 207): Indro Montanelli, Qui non riposa-
no, Milano, Tarantola, 1945, pp. 55-56, 62, 114-120 e Milano, Rizzoli,
« BUR», 2001 e 2005, pp. 55, 61 e 113-120.

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nio Tabucchi 36, assiduo frequentatore di quel paese quanto
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Sciascia lo era della Spagna.

Ma lasciamo Tabucchi e proviamo a riapprodare a Pino Ca-


cucci, per ribadire almeno che Tina è una biografia romanzata
della Modotti, di un personaggio storico la cui vita è ‘naturalmen-
te’ tesa al romanzo, come quella di Koestler, per esempio, che at-
traversa, pur in modo differente, quasi gli stessi luoghi della Storia
nella seconda metà degli anni Trenta. Ma ha ‘fiuto’ Cacucci quan-
do, per attraversare il primo Novecento, le sue « certezze assolute»,
le sue ideologie, i suoi nazionalismi e anche la guerra civile spa-
gnola, punta sulla Modotti, su una donna – certo meravigliosa e
rivoluzionaria in tutti i sensi, come attrice del muto, modella, fo-
tografa 37 – piuttosto che su un uomo, su un Koestler; per quanto
altrettanto eclettico, misterioso, sfuggente, ‘doppio’ e in fin dei
conti lontano dai soliti percorsi eroici e virili ‘a senso unico’, figli
di una coerenza che la Storia del secolo breve 38 ha affidato a pro-
grammi e miti prima che alla realtà, alla composita, fragile realtà.
Insomma, i perdenti, i ricercati, gli imprigionati iniziano a
essere anche le perdenti, le ricercate, le imprigionate, a partire,

36
Ricordiamo almeno, fra gioventù e maturità, La parola interdetta. Poeti
surrealisti portoghesi, a cura di Antonio Tabucchi, Torino, Einaudi, 1971, con am-
pia Introduzione alle pp. 7-81, la cui prima parte chiude sulla Spagna e sull’« osmo-
si culturale rilevante [...] fra i due paesi» (pp. 45-46), e A. Tabucchi, La Nostalgie,
l’Automobile et l’Infini. Lecture de Pessoa, Paris, Seuil, «La Librairie du XXe siècle»,
1998, che riprende le lezioni dell’autore all’École des hautes études en sciences so-
ciales di Parigi del novembre 1994 (ma cfr. il Prologue alle pp. 7-14).
37
Ma cfr. anche Irme Schaber, Gerda Taro. Une photographe révolutionnai-
re dans la guerre d’Espagne (1994), Monaco, Anatolia/Le Rocher, 2006 e
François Maspero, L’ombre d’une photographe, Gerda Taro, Paris, Seuil, 2006,
pp. 16-27, 53-76, 79-83, 89-98, 100-101. Cacucci la evoca in Tina cit., p. 164.
38
Cfr. Eric J. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century
1914-1991 (1994), London, Abacus, 1995 e 2003, pp. 156-169. Ma cfr. an-
che dello stesso Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma, mito, realtà
(1990), Torino, Einaudi, 1991 e 2002, [pp. 155-192], pp. 164-166.

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certo, da una figura femminile non così ignorata e anonima, tesa
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per di più in una rapida parabola esistenziale, chiusa prima dei


cinquant’anni; con Tina, per l’appunto, che muore a quarantasei.
Tale parabola non può non far venire in mente, nell’altra
metà del secolo e su toni meno leggendari, quella di Dulce
Chacón, che pochi mesi prima di morire, nel 2003, a quaranta-
nove anni, si reca a Baghdad, manifesta contro la guerra in Irak e
il sostegno spagnolo agli USA, e che con La Voz dormida
(2002) 39 ha dato voce a quelli e soprattutto a quelle che hanno
pagato durante gli anni di dittatura franchista, che pesa ancora,
nei nomi delle vie che non sono cambiati, per esempio, come
quello della «Division Azul», a Madrid. Certo, con Dulce
Chacón ci si sposta verso sofferenze anonime, non sfumate
dall’eccezionalità degli incontri che caratterizza invece la vita del-
la Modotti, che in questo senso finisce per assomigliare all’epopea
di Nahui Olin in Nahui (2005) dello stesso Pino Cacucci 40.

39
Cfr. Dulce Chacón, Le ragazze di Ventas (2002), trad. it. di Silvia Si-
chel, Vicenza, Neri Pozza, 2005. Cfr. la bella recensione di Danilo Manera,
Donne dagli occhi asciutti, «L’Indice», 12, 2005, p. 14, che giustamente ne par-
la in termini alti, come di « un libro sonoro e commovente». Ma si veda anche
il recente Patrick Pépin, Histoires intimes de la guerre d’Espagne, 1936-2006. La
mémoire des vaincus, Paris, France Culture/Nouveau Monde, 2006.
40
Pino Cacucci, Nahui, Milano, Feltrinelli, 2005. Cfr. la recensione, nel
supplemento settimanale de «La Stampa», di Sergio Pent, L’epopea di Carmen,
la femmina più desiderata in Messico, « ttL tuttoLibri», 1486, 2005, p. 3: «Tra
sesso e violenza, arte e salotti intellettuali, la femmina più desiderata di città del
Messico cresce come donna e come artista, condannata a diventare una leggen-
da vivente senza mai trovare la vera felicità. Nahui attraversa un’epoca di fuoco,
nel ricordo suggellato dagli interventi educati e attenti di Cacucci, che ricostrui-
sce al contempo i fatti veloci e le rivoluzioni susseguitesi in un paese dove tran-
sitarono nomi come Pancho Villa e Emiliano Zapata, ma anche Tina Modotti e
Diego Rivera, uno dei numerosi amanti occasionali di Nahui». Non condivi-
diamo il giudizio lusinghiero di Pent ma è vero che Cacucci, anche quando si
avvia per sentieri battuti, recuperando per esempio, in Tina cit., pp. 182-185,
la figura di Trotskij e del suo assassino, Ramón Mercader, riesce, con pochi in-
terventi, mirati, a ricostruire un quadro. Cela dit, non fa un’operazione alla Jor-
ge Semprún, La deuxième mort de Ramón Mercader, Paris, Gallimard, 1969, e

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Anche se in fondo sembra davvero essere la Storia, con le
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sue guerre e dunque anche con la guerra di Spagna, a fare di


ogni donna con o « senza armi» 41, come di ogni uomo, un da-
to eccezionale, da un lato e dall’altro della barricata, con la ri-
cerca storica a mediare l’input di una retorica accettabile, che
è negli eventi e negli esistenti. Pensiamo, al di là delle « diffe-
renze di nazionalità e di ideologia », alle Colombe di guerra
(2002) di Paul Preston 42: Priscilla Scott-Ellis, Nan Green,
Mercedes Sanz-Bachiller, Margarita Nelken. E pensiamo alle
donne spagnole – a tutte le donne spagnole e alle donne tutte
– nell’esilio 43.

Tina, del resto, potrebbe rappresentare, per i nostri fini,


un’‘alba finesecolare’, essendo pubblicata nel 1988 e 1991, da
Agalev e Interno Giallo, e poi da Tea (nel 1995 e con ristampe
fino al maggio del 2001, se non erro) e da Feltrinelli, nel 2005:
i capitoli sulla guerra civile spagnola sono sostanzialmente quat-
tro, dal 23 al 26, con conclusione, se vogliamo, sul capitolo 27,
e danno l’impressione di essere quattro racconti estrapolabili,
tessere di un puzzle quasi a se stante, che però partecipa all’ope-
razione biografica, fra continuità e mistero 44.

«Folio», 1984 e 1999, né alla Julián Gorkin, L’assassinat de Trotsky, Paris, Jul-
liard, 1970. Ma cfr. infine Luis Mercader e Germán Sánchez, Mio fratello l’as-
sassino di Trotskij (1990), Torino, UTET, 2006, [pp. 307-310], p. 307.
41
Si veda per intero l’esemplare percorso di Anna Bravo, Anna Maria
Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Roma-Bari, Later-
za, 1995; ma cfr. in particolare il primo capitolo, Donne, guerra, memoria, alle
pp. 3-30.
42
Paul Preston, Colombe di guerra: storie di donne nella guerra civile spa-
gnola (2002), Milano, Mondadori, 2006, [pp. 307-310], p. 307.
43
Cfr. Sophie Vallès, Les femmes républicaines espagnoles, de la seconde Ré-
publique à l’exil: la question de leur identité sociale à travers l’espoir, la guerre civi-
le et l’exode, in Les espagnols et la guerre civile, a cura di Michel Papy, Biarritz,
Atlantica, 1999, pp. 351-360.
44
P. Cacucci, Tina, Milano, Interno Giallo, 1991 e Milano, Tea 1995 e
2001, pp. 140-169 e 170-174; cfr. poi, dello stesso, Ribelli cit., pp. 43-57 e 59-63.

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Il volume del 2001, invece, Ribelli !, non opta per il monoli-
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te, per il personaggio unico, d’eccezione, ma punta su tredici per-


corsi esistenziali non sempre noti, che la ricordata Feltrinelli ha
proposto nella «Serie Bianca»: una collana che sfuma l’approdo
narrativo cercato da Pino Cacucci e che vuole salvaguardare,
quanto meno editorialmente, quella sensibilità e quella memoria
un po’ ‘patinate’ che permettono comunque di ripescare e ap-
plaudire – con una certa facilità – i ribelli, ovvero gli splendidi e
solitari perdenti che hanno ‘vinto’ in seno ai vari e tragici contesti
storici che li hanno ospitati. E fra questi contesti riappare ancora
la guerra di Spagna, con le vicende di Eulalio Ferrer – che dal
Messico aspetta le scuse per i giovani antifascisti scampati al mas-
sacro in patria e lasciati marcire nei campi francesi – e di Quico,
Francisco Sabaté, anarchico irriducibile e ironico, inventore di
uno strano mortaio per sparare volantini antiregime sui cortei
franchisti a Barcellona, la cui guerra continuerà fino al cinque
gennaio del 1960; quel giorno, durante una delle sue operazioni
antifranchiste, viene ucciso in un paesino spagnolo, che ricorda
tanti altri piccoli e miseri villaggi della Spagna in guerra ed è qua-
si una sorta di Boadilla del Monte vent’anni dopo 45.
Contestualizzare Cacucci fra ‘monumenti’ letterari del pas-
sato, fra le testimonianze di un Koestler o di un Romilly, non
significa evadere l’aspetto meno convincente della sua produ-
zione: la ricerca del mito a buon mercato, con i cattivi e i buoni
in bella mostra sulla pagina-lavagna per un applauso adolescen-
ziale che noi, certo, non possiamo regalargli.

45
Il rinvio è a Esmond Romilly, Boadilla, London, Macdonald & Co.
(Publishers) Ltd, 1937. Cfr. la trad. it. in Boadilla. La mia guerra di Spagna. In-
troduzione di Hugh Thomas, Torino, Einaudi, 1974. «Boadilla del Monte è
un piccolo e misero villaggio castigliano a circa venticinque chilometri da Ma-
drid », avverte subito Hugh Thomas nelle prime righe della sua Introduzione
(pp. VII-XIII); quel Hugh Thomas che è l’autore di The Spanish Civil War
(1961 e 1977), che resta un libro importante ( pubblicato in italiano a Torino,
da Einaudi, nel 1963, e in francese a Paris, da Laffont, nel 1961 e nel 1985).

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Qui, ci si è relativamente attardati su Pino Cacucci soprat-
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tutto per ragioni cronologiche e si è passati da Antonio Tabuc-


chi a Pino Cacucci soltanto per provare a disegnare un orizzon-
te che fra romanzo e storia mira comunque al personaggio. La
guerra, cioè, passa per una presa di coscienza di uomini e don-
ne, di personaggi più o meno inventati e d’eccezione, e finan-
che consegnati a un certo riscatto eroico, abbracciato subito o
inseguito come lo scopo ultimo di una formazione, di una me-
tamorfosi. La spettacolarizzazione dell’evento bellico, il richia-
mo altisonante e fortemente simbolico delle città ferite cede il
primo piano a donne e uomini, al loro stare e agire nella storia,
al loro sacrificio più o meno immediato. Come anche in Leo-
nardo Sciascia, nell’Antimonio, dove però si identificano o si al-
ternano le due realtà, la città e l’uomo. Ricordiamo almeno, di
sfuggita: «La città era intatta [...] ma fucilavano a non finire».
Frasi che sembrano essere la traduzione romanzesca di un ap-
punto redatto da un funzionario di palazzo Chigi – forse Anfu-
so, per Renzo De Felice – che riferisce: «Si aggiunga che la Fa-
lange è quella che ha maggiormente “limpiado”, ripulito, cioè,
le città occupate fucilando il fucilabile» 46.
Insomma, i testi evocati di Pino Cacucci, se presi nel loro in-
sieme, possono aiutarci a delimitare e a dinamizzare un decennio,
compreso fra il 1991 e il 2001. È un decennio appena trascorso,
non facile da cogliere, da capire, ancora in movimento, in Italia
come all’estero, con le traduzioni, sulla pagina o sullo schermo, a
far da intermediarie e ad allungare i tempi. Cacucci è traduttore,
tra l’altro, del fortunato romanzo di Javier Cercas, Soldados de Sa-
lamina, del 2001, che nel 2003 è anche diventato un film 47. La

46
Leonardo Sciascia, L’antimonio cit., p. 181. Cfr. poi Renzo De Felice,
Mussolini il duce. Lo stato totalitario. 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981 e poi
«Tascabili», 1996, pp. 378-379.
47
Per il film cfr. Javier Cercas, David Trueba, Dialogos de Salamina. Un
paseo por el cine y la literatura, Barcelona, Tusquets, 2003, e quanto ne diceva,
in toni profetici e relativamente disposti, una volta tanto, a un certo ‘compro-

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traduzione di Cacucci, edita nel 2002 48, partecipa al ritorno della
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guerra civile spagnola in Italia e allarga il quadro, come lo allarga,


oggi, la prima parte del nuovo libro di Cercas, La velocidad de la
luz (2005), da noi sempre nella traduzione di Cacucci, la riedi-
zione di Tina (2005) e Nero di Spagna (2006) di Roberto Bara-
valle – generazionalmente a metà strada fra Tabucchi e Cacucci –
che non offre una rappresentazione diretta della guerra di Spagna
ma dei suoi effetti attraverso il franchismo (con tristi dati risalen-
ti agli anni Sessanta) e nell’ottica particolare dei baschi 49.
Ma anche il cinema, oggi, in modo più o meno autonomo,
sente e esprime tale ritorno, e anche e forse più significativa-
mente in films non dedicati in particolare a quel conflitto; pen-
so, per esempio, al recente Triple agent (2003) di Eric Rohmer,
col quale siamo di nuovo alla generazione di Sciascia, agli in-
contri storici, culturali, letterari che formano quella generazio-
ne, pur in seno alle evidenti specificità dei singoli autori.
Rispetto a questi incontri, Cacucci incarna – è giusto ripe-
terlo – una sorta di doppio e mobile limite cronologico più che
un limite letterario puro, alla Sciascia. Ci può aiutare a circo-
scrivere e ad ampliare, fra 1988 e 2005-2006, il decennio 1991-
2001, in cui confluiscono testi narrativi diversissimi.
E sembra davvero che lo spettro della guerra civile spa-
gnola possa occupare tutte le caselle, anche quelle più insolite
e lontane dal suo orizzonte, riaffiorando rapidamente e in ma-
niera inattesa. Un esempio, in tal senso, è fornito dal primo

messo’, Goffredo Fofi, Le maschere dell’eroe, «Film-TV», 8, 2002, p. 114:


«“Soldati di salamina” è pronto per farci un film astuto quanto il romanzo. Ma
intanto, godetevi il romanzo ! Sarà anche furbo, ma si legge d’un fiato».
48
Javier Cercas, Soldados de Salamina, Barcelona, Tusquets Editores,
2001 e Soldati di Salamina, trad. it. di Pino Cacucci, Parma, Guanda, 2002.
49
Cfr. J. Cercas, La velocità della luce (2005), trad. it. di Pino Cacucci,
Parma, Guanda, 2006 e P. Cacucci, Tina, Milano, Feltrinelli, «Universale Eco-
nomica», 2005; Roberto Baravalle, Nero di Spagna. Prefazione di Giancarlo De
Cataldo, Cuneo, Nerosubianco, 2006, pp. 13-14, 23-26, 61, 87, 91.

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romanzo di Valerio Evangelisti, Nicolas Eymerich, inquisitore,
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del 1994.

Cynthia lo guardò con gli occhi spalancati, come se avesse avuto a


che fare con un idiota. – Stai scherzando ? Non ti accorgi di cosa
sta avvenendo ? Non hai saputo che hanno licenziato tutti i nostri
colleghi omosessuali ?
– Be’, da un certo punto di vista, lasciarli a contatto con dei ra-
gazzi...
Le guance della ragazza si fecero purpuree per l’indignazione. –
Marcus, non ti riconoco più! – gridò. A sorpresa gli occhi le si
inumidirono. Per Frullifer fu un colpo basso. Ma Cynthia conti-
nuò, cercando chiaramente di dominare l’emozione: – Qui ad
Astrofisica non è cambiato molto, ma al Dipartimento di Storia
sì. [...] A Storia contemporanea hanno licenziato due terzi dei
professori. Uno per avere affermato che durante la guerra di Spa-
gna avevano ragione i repubblicani e non Franco, un altro per
avere detto che i campi di concentramento nazisti erano orridi
mattatoi. Ma ti rendi conto ? 50

Passiamo ora in rassegna alcuni campioni esemplificativi,


prima di offrire, degli stessi, una lettura centrata su Madrid 51,
Guernica 52 e altre città ferite. E partiamo da Guernica, romanzo

50
Valerio Evangelisti, Nicolas Eymerich, inquisitore, Milano, Mondadori,
«Urania», 1994 e «Piccola Biblioteca Oscar Mondadori», 2004, p. 206.
51
Per Madrid si scorra almeno Madrid, 1936-1939. Un peuple en résistan-
ce ou l’épopée ambiguë, dirigé par Carlos Serrano, Paris, Autrement, «Série Mé-
moires», 1991; si vedano in particolare gli interventi dello stesso Serrano, Ma-
drid 1936-1939: un des repères de la conscience européenne, pp. 12-18, e di Émi-
le Temime, Le mythe et la réalité, pp. 20-30, nella prima parte, che funge da
Prologue, di José Carlos Mainer, Madridgrad ou le regard des autres, pp. 102-
122, nella seconda, Un souffle épique, e di Julio Arostegui, L’agonie, pp. 256-
265, nella quarta parte, Du mythe à l’histoire; da leggere per intero la terza parte,
La projection symbolique.
52
Per Guernica cfr. Herbert R. Soutworth, La destruction de Guernica.
Journalisme diplomatie propagande et histoire. Présentation de Pierre Vilar, Paris,
Ruedo Ibérico, 1975, che ancora oggi contiene le versioni più attendibili; cfr. a

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breve o racconto lungo di Lucarelli, pubblicato da Il Minotauro
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nel 1996 e riproposto da Einaudi nel 2000, annunciato subito


come un capolavoro ma in realtà molto fragile e senza vero re-
spiro storico; respiro anche assente, del resto, ma con ben altri
esiti, ne L’isola dell’angelo caduto, del 1999, dove la rarefazione
della storia e dei suoi personaggi sostiene l’idea di un mondo a
parte e la sua finalità romanzesca. In Guernica, invece, avviene
esattamente il contrario. Siccome non c’è un’idea forte per rileg-
gere la Spagna della seconda metà degli anni Trenta, si ricorre
alla storia ma la si usa solo come uno sfondo, più o meno spetta-
colare, fra città ferite e noti personaggi dell’epoca, incollati nel
testo quasi come figurine: la Modotti, già di Pino Cacucci, il so-
lito Hemingway, e poi Robert Capa, finanche García Lorca.
Quel Federico García Lorca che ritorna, con altra forza e
quasi con « atmosfere e personaggi hemingwayani» 53, in The
Horseman’s Song di Ben Pastor 54, romanzo del 2003 con im-
magini interessanti per il nostro percorso – « il piccolo aeropla-
no riapparve alto nel cielo della Sierra, puntuale [...] si trattava

proposito il giudizio di un esperto come Gabriele Ranzato, L’eclissi della demo-


crazia. La guerra civile spagnola e le sue origini 1931-1939 cit., p. 492, nota 181.
Ma sulla portata simbolica di Guernica in seno al presente cfr. André Gluck-
smann, Dostoïevski à Manhattan, Paris, Laffont, 2002, pp. 18-24, che parla di
un « cortcircuit» fra New-York e Guernica in virtù del quale invita a ripensare –
pur all’alba del nuovo millennio e in un contesto post 11 settembre – la guerra e
le sue distruzioni in una prospettiva ancorata alla modernità di un discorso
ininterrotto, che lo stesso Glucksmann aveva cercato di rintracciare in un suo
primo, lontano e fortunato lavoro: Le discours de la guerre, Paris, Éditions de
L’Herne, 1967 e Paris, Union Générale d’Éditions, «10-18», 1974, con Préface
di Jeannette Colombel, alle pp. 9-19, che rilegge l’opera di Glucksmann in un
contesto post maggio 1968. Cfr. infine AA.VV., Metropolis. Storie di città ferite,
« diario», supplemento al n. 46, 2001, pp. 20-31 e 110-111.
53
Sergio Pent, Suona la campana per García Lorca, « ttL tuttoLibri»,
1427, 2004, p. 7; ma cfr. anche la recensione di Daniele Rocca, «L’Indice», 1,
2005, p. 30.
54
Ben Pastor, La canzone del cavaliere (2003), trad. it. di Paola Bonini, Mi-
lano, Hobby & Work, «Giallo & Nero», 2004; la citazione che segue è da p. 157.

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di un apparecchio leggero, che volava in tondo come una fale-
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na attorno alla fiamma » – e animato da un’ipotesi gialla non


banale che pospone la morte del poeta nel 1937, come amplifi-
cando il silenzio e la mistificazione della stampa dell’epoca sul-
la morte di García Lorca nell’estate del 1936 55 e quasi sposan-
do « la misteriosa doppia fine di Eusebio» 56, il poeta che cerca
di sottrarsi alla fucilazione e trova rifugio in un centro psichia-
trico in Las semanas del jardín. Un círculo de lectores (1997) di
Juan Goytisolo 57. Ma su altri testi di altri narratori stranieri,
più o meno noti e accolti in Italia di recente, in relazione al re-
vival della guerra di Spagna, torneremo in 2, con parche cita-
zioni e cercando sempre di presentarli rapidamente fra tradu-
zioni, recensioni, interviste.
Quello che bisogna precisare subito è il tentativo di Ben
Pastor – significativo anche se non sempre riuscito – di non ri-
durre la storia di Spagna e la morte di Lorca a uno sfondo e di
farne piuttosto un luogo di finzione dove salvaguardare l’una e
l’altra, quasi in seno al lutto di una metanarrazione sporca, affi-
data spesso ai dialoghi dei personaggi, che discutono, parlano,
chiacchierano della storia: « È appena l’alba, cazzo, troppo pre-
sto per discutere. Senti, sto solo dicendo che Lorca aveva paura
del NKVD. Vuoi dare una dimensione storica a tutta questa
faccenda ? Be’, la sezione Affari Esteri del Narodnyi Komissariat
Vnutrennic Del ne fa parte, eccome. [...] E cosa accidenti è la
Storia ? Questa non è forse Storia ? L’hai detto tu stesso che fra
cent’anni non importerà più niente a nessuno ! Io ho solo co-

55
Cfr. l’ottimo lavoro di Laura Dolfi, Agosto 1936: silenzio e mistificazione
(La stampa sulla morte di García Lorca), in Federico García Lorca e il suo tempo,
a cura di Laura Dolfi, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 305-412. Ma cfr. ora L. Dolfi,
Il caso García Lorca. Dalla Spagna all’Italia, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 9-172.
56
Cfr. Bruno Arpaia, La misteriosa doppia fine di Eusebio, «Domenica»,
supplemento de «Il Sole-24 ore», 336, 2004, p. 32; Natalia Cancellieri, Un uo-
mo di carta, «L’Indice», 4, 2005, p. 10.
57
Cfr. Juan Goytisolo, Le settimane del giardino (1997), trad. it. e note di
Glauco Felici, Torino, Einaudi, 2004.

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municato a Soler che Federico è morto, e gli ho vietato di
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diffondere la notizia presso chicchessia» 58.


Di più. Mentre The Horseman’s Song flirta davvero con
Hemingway, con il suo I like to talk – It is the only civilized
thing we have – e con un’ipotesi gialla, legata tra l’altro a un
personaggio, Martin Bora, che è alle base di un ciclo storico
(per quanto “nero”, apocalittico), Guernica di Carlo Lucarelli
non valorizza nemmeno gli input più recenti – magari non con-
nessi direttamente alla guerra di Spagna ma certo alla propria
tradizione e scuola – del polar più visionario. Penso soprattutto
a un lungo racconto o romanzo breve di Pierre Magnan, an-
ch’esso intitolato Guernica, del 1991, che è una storia simboli-
ca e orrifica di sepolte vive confluita nella raccolta Les secrets de
Laviolette, del 1992, ma pubblicata in Italia separatamente dalla
Biblioteca del Vascello nel 1994 e riproposta dalle Edizioni Ro-
bin nel 2001 59.
Facendo un breve passo indietro e ritornando al 2000, al 9
luglio del 2000 per la precisione, ecco poi comparire su
«L’Unione Sarda» un racconto inedito di Massimo Carlotto,
Amore e odio di un gitano a Guernica; e il 23 agosto dello stesso
anno, su «La Stampa», una delle Storie di Vigàta e dintorni di

58
B. Pastor, La canzone del cavaliere cit., pp. 159-160; ma cfr. anche i dia-
loghi, dall’altra parte della barricata, di Bora e Serrano, alle pp. 167-169.
59
Cfr. Carlo Lucarelli, Guernica, Milano, Il Minotauro, 1996 e poi Tori-
no, Einaudi, «Tascabili-Stile Libero», 2000; Pierre Magnan, Guernica (1991),
in Les secrets de Laviolette, Paris, Denoël, 1992 e poi Paris, Gallimard, «Folio
Policier»,1999, pp. 77-152, e trad. it. di Mariella Aleggiani in Guernica, Roma,
Biblioteca del Vascello, 1994 e Roma, Robin, 2001. E d’altro canto, e al di là
dei giochi delle date per individuare possibili fonti di genere, anche il testo
dell’autore italiano ha avuto una traduzione in francese, nata, mi sembra, da un
interesse per il genere, il noir, e per i romanzieri italiani che lo frequentano, più
che per il tema in sé, per la guerra civile spagnola e la città ferita del titolo. An-
che se, è giusto ricordarlo, Guernica non viene pubblicata in quella «Série Noi-
re» di Gallimard che aveva già ospitato, all’epoca, due titoli lucarelliani (Pha-
lange armée, Le jour du loup): cfr. C. Lucarelli, Guernica, traduit de l’italien par
Arlette Lauterbach, Paris, Gallimard, 1998.

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Andrea Camilleri, intitolata Uno strano scambio di persona, ci ri-
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porta ancora « al tempo della guerra di Spagna» 60.


Nel 2001 L’angelo della storia di Bruno Arpaia 61 è dato alle
stampe da Guanda, che nel 2002 ripropone, dello stesso autore,
Tempo perso, il romanzo precedente, pubblicato nel 1997 da
Tropea. Tempo perso è più riuscito de L’angelo della storia ma è
centrato sulla rivolta-antefatto delle Asturie, sul 1934, dunque
non propriamente sulla guerra civile. Certo, Tempo perso è co-
munque collegato, per personaggi e sviluppo narrativo, all’An-
gelo della storia, che approda alla guerra di Spagna, e contiene
ovviamente degli annunci in tal senso, fin dalle prime pagine;
in quelle pagine in cui fa capolino il testimone d’eccezione,
Laureano Mahojo, classe 1916, rintracciato in Messico e solle-
citato dal giovane romanziere, che « a occhio e croce sta dalla
parte giusta» 62, a parlare del co-protagonista del libro successi-
vo, Walter Benjamin, classe 1892.

Cos’è che mi chiedeva ? No, no. Io l’ho incontrato dopo, il suo te-
desco, sarà stato il settembre del ’40, in cima ai Pirenei, alla fron-
tiera tra Catalogna e Francia. Ora ci arrivo... Mica la sto annoian-
do, no ? È che erano anni intensi: la fine della monarchia, e dopo
le elezioni del ’31... Le vincemmo alla grande [...]

60
Questi ultimi due testi si possono leggere nei quotidiani sopra citati ma
sono anche disponibili in rete: http://www.massimocarlotto.it/racconto1.html
e http://www.massimocarlotto.it/racconto1b.html; http://www.vigata.org/ras-
segna_stampa/2000/Archivio/Cunto02_Cam_ago2000_Sta.htm. E cfr. infine
il fumetto tratto dal racconto di Carlotto – con la collaborazione dello stesso –
da Giuseppe Palumbo, L’ultimo treno, Scandiano (Reggio Emilia), Edizioni
BD, 2003, che firma anche, a p. 3, un testo che sostanzia «Sceneggiatura e dise-
gni» – Passarono – dedicato a José Ortega – e la traduzione in immagini della
«Storia» del coautore, il cui racconto è alle pp. 47-48.
61
Bruno Arpaia, L’angelo della storia, Parma, Guanda, 2001; cfr. poi dello
stesso Tempo perso, Milano, Tropea, 1997 e poi Parma, Guanda, 2002.
62
B. Arpaia, Tempo perso, Milano, Tropea, 1997, p. 7 (e p. 13 per la clas-
se di Laureano).

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Lo so, che sono storie inutili. Lei viene dall’Italia, ha fatto non so
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quanti chilometri per incontrarmi e chiedermi notizie di quel suo


filosofo e io le racconto la mia vita, le faccio perder tempo... Deve
scusarmi... [...] La verità è che il 26 ottobre io compio settantotto
anni [...] Lo sa che ho ? Ho il mal del tempo [...]
È che non c’era tempo di badare a nulla, pareva che le rogne di
tutto l’universo si fossero date appuntamento in Spagna, così,
giusto per fottere repubblica e governo. Se ti guardavi intorno,
non c’era niente di cui essere allegri. La destra si riorganizzava,
cresceva in fretta sotto i nostri occhi. Però non è che fossi preoc-
cupato più di tanto... Avevo sedici anni, cosa vuole ? 63

Le esperienze narrative di Tempo perso e L’angelo della sto-


ria sono entrambe giocate su due tempi romanzeschi, il pre-
sente della ricerca, delle fonti e dell’azzeccato, simpatico testi-
mone, e il passato della “messa in scena”. Ma in Tempo perso la
vicenda di Walter Benjamin non decolla e in un certo senso è
un bene, come vedremo più avanti. Mentre le pagine de L’an-
gelo della storia giungono ad avvicendare e incrociare, fra cro-
naca e invenzione, due uomini diversi, il filosofo Benjamin e il
testimone Mahojo, un intellettuale e un combattente repubbli-
cano, un uomo d’azione; quell’« uomo d’azione » che forse « è
uno scrittore mancato» 64 per Cercas (e per Hemingway) e che
invece Arpaia tende ad opporre, con risultati alterni, al critico
tedesco, giocando sul tandem a tratti un po’ banalizzante di
“corpo e cervello”, “azione e studio”.
Quasi a chiudere il decennio sopra individuato, Einaudi
pubblica nell’ottobre del 2001 Guerra di infanzia e di Spagna
della Ramondino, poderoso, importante romanzo, e anche al di
là del dato storico e tematico che qui più ci interessa, la guerra ci-
vile spagnola e le sue città ferite 65. È un romanzo d’ambientazio-

63
Ivi, pp. 10, 12, 14.
64
J. Cercas, Soldati di Salamina cit., p. 151.
65
Sempre per il 2001, e sempre al di là di quel dato, ma in seno al ritorno
dell’epoca fascista nella narrativa italiana, col significativo ‘pendant’ dell’Etio-

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ne maiorchina che fa pensare a Bernanos, come si diceva, ma che
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fa anche venire in mente – per l’isola, il filtro dell’infanzia, il


quadro storico, la seconda metà degli anni Trenta, gli accenni al-
la guerra di Spagna, la costruzione per brevi capitoli raccolti in
diverse parti – La tigre in vetrina, primo libro di Alki Zei, che ri-
sale al 1963, esce in Francia nel periodo in cui la Grecia è sotto la
dittatura dei colonnelli ed è proposto da Einaudi solo nel 1978,
se non erro. In tal senso, La tigre in vetrina potrebbe essere una
reminiscenza forte, magari in seno a una lettura della Ramodino
che pubblica nel 1983 Storie di patio, point de départ per Guerra
di infanzia e di Spagna sul quale si avrà occasione di tornare
Ne La tigre in vetrina siamo su un’isola greca, nell’agosto
1936, e dietro i giochi e le fantasie di due bambine, Melia e
Myrto, affascinate da una tigre impagliata, si profila il dramma
storico del fascismo: è il dramma di un’epoca, un dramma diffu-
so, esteso, ma è anche il dramma che la Grecia in sé vive a più ri-
prese, tra anni Trenta e Sessanta, prima con il ritorno di re Gior-
gio II, che affida il governo al generale Metaxas che dal 1936 al
1941 instaura una dittatura di tipo fascista e fa di tutto per avvi-
cinarsi alle potenze dell’asse, e poi con i colonnelli sopra evocati.
Davvero significativo, allora, è il fatto che la guerra di Spagna
faccia capolino nel testo e nel finale suggelli la volontà del cugi-
no Nikos, studente ad Atene, di battersi in quel lontano paese,
come si legge nel capitolo Il canarino e la Spagna. Stelle e granchi.
Se fossi nata scrittrice 66, che chiude l’ultima parte del libro.

Tastò nelle sue tasche e tirò fuori una lettera [...] di Nikos. [cugi-
no delle bimbe, ogni estate sull’isola]
«Mie care cuginette, sono salito sulla tigre per andare in Spagna. Vi
ricorderete che vi ho detto che laggiù c’è la guerra. Vado per com-

pia, seppure post-guerra, possiamo pensare a Davide Longo, Un mattino a Irga-


lem, Milano, Marcos y Marcos, 2001. Ma cfr. anche Andrea Camilleri, La presa
di Macallè, Palermo, Sellerio, 2003.
66
Alki Zei, La tigre in vetrina (1963), Torino, Einaudi, «Nuovi Coralli»,
1978, pp. 167-174.

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battere al fianco di quelli che cantano. Un giorno tornerò, andremo
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insieme a Lamagari, il più bel posto del mondo, e vi racconterò tutte


le avventure che ci saranno successe, alla tigre e a me. Vogliate sem-
pre bene ai bambini di Lamagari. Arriverderci, bambine mie ! »
– E se chiamassimo il canarino Spagna ?
– Che sciocchezza, – disse Myrto. – Non è un nome da uccello 67.

Notevole, insomma, l’accordo con Guerra di infanzia e di


Spagna e con certi reinnesti ‘autobiografici’ giocati sui « temi ri-
correnti» della narrativa di Fabrizia Ramondino, « l’infanzia,
l’emarginazione, l’esilio», sui fini e significativi recuperi delle
prime Storie di patio (1983) e sulle oscillazioni curiose, quasi
sfrontate, dei punti di vista infantili.
Si tratta, per la Ramondino, di bambini e bambine a con-
tatto con realtà geografiche lontane ma avvicinate dalla storia
personale e collettiva, dispersa finanche, à rebours, tra Ottocen-
to e Novecento, tra sfondi spagnoli e napoletani, con « vecchie
case offese dalla guerra, dove s’ammassano famiglie venute da
luoghi diversi» 68; si tratta di bambine e bambini in rapporto fa-
voloso con presenze quasi archetipiche, come quella della non-
na, che resta comunque creatura terrena, concreta, più della
madre, e le cui caratteristiche possono ricordare quelle che assu-
me la figura, il personaggio della nonna nella prima parte di
Ballata levantina (1961) di Fausta Cialente 69.
Ma Guerra di infanzia e di Spagna della Ramondino è qui
richiamata soprattutto per un capitolo, Storia del bambino di
Guernica 70, sul quale chiuderemo non casualmente il nostro di-

67
Ivi, p. 170.
68
Cito dalla Nota di quarta di copertina di Natalia Ginzburg a F. Ramon-
dino, Storie di patio, Torino, Einaudi, 1983.
69
Fausta Cialente, Ballata levantina, Milano, Feltrinelli, 1961 ed ora, con
Prefazione di Franco Cordelli, Il suo meraviglioso comunismo, e Postfazione di
Paolo Terni, Milano, Baldini & Castoldi, 2003; la Parte prima, titolata, per
l’appunto, La nonna, è alle pp. 17-105.
70
F. Ramondino, Guerra d’infanzia e di Spagna cit., pp. 199-208.

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scorso, approdando ancora a una città ferita il cui triste destino
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scuote l’immaginario infantile e maiorchino del romanzo e si


sintonizza con il suo sviluppo in maniera simbolica e funziona-
le, fra alta resa letteraria e universale dell’offesa e costruzione
della struttura narrativa.

2. Appunti sul ritorno della guerra civile spagnola in altri


narratori italiani e stranieri (traduzioni, interviste,
recensioni)

Se invece vogliamo andare decisamente al di là del 2001 e av-


venturarci negli ultimi anni, fra 2002 e 2006, cercando dunque di
estendere ancora di un lustro l’arco cronologico di cui ci siamo
serviti, in particolare, per la nostra prima ipotesi di rassegna, è faci-
le accorgersi che la guerra civile spagnola continua a circolare nella
nostra narrativa e in quella straniera, che traduzioni, interviste, re-
censioni propongono sovente al pubblico italiano, proprio pun-
tando sul ritorno di quell’evento storico, anche in virtù del nuovo
anniversario, il settantesimo (1936-2006), sempre più vicino.
Ma è certo difficile distinguere e cogliere, in un quadro
d’insieme, la novità e la forza dei nuovi testi, italiani e stranieri,
valutandone magari, in fretta e furia, un possibile impatto sui
lettori, anche impegnati (la guerra civile spagnola sinonimo di
engagement, stimolo per battersi ancora oggi), e sul mercato
editoriale, anche non impegnato (la guerra civile spagnola è un
argomento che vende – per anniversari, per affinità con altre
guerre civili, o perché la guerra vende tout court – e come tale va
sfruttato). Ovviamente la bipartizione non tiene: molti altri ele-
menti intervengono, sempre più numerosi, imprevedibili, e
sempre più rapidi, a modificarne l’assetto.
Per cercare di fare comunque un po’ d’ordine in questi ap-
punti – che vorrebbero far emergere gli autori stranieri già citati
insieme ad altri, ma senza pretese di esaustività – inizieremo col
tenere distinti gli ultimi apporti dei narratori italiani e le novità

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provenienti dall’estero e concluderemo con una rapida appendi-
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ce dedicata al rifiorire di testimonianze, diari, studi storici.

Per quanto riguarda le patrie lettere, la guerra civile spa-


gnola è presenza esplicita nel capitolo VII, in particolare, de La
domenica di questa vita, primo romanzo dell’italianista Alberto
Casadei, pubblicato da Manni, di Lecce, nel giugno del 2002,
dove – a partire da una Romagna storica 71 e inventata a un
tempo e da una struttura simile a quella di Ken Loach ma senza
‘doppio’ salto generazionale (non, insomma, nonno-nipote ma
padre-figlio) – si accenna a « un paesaggio imprecisato, cosparso
di case distrutte dai bombardamenti dell’aviazione italiana o di
quella tedesca»: «Aldo si fermò a pensare a suo padre in marcia
in quelle terre martoriate, terrorizzate, semidistrutte, in cui si
vedevano ammazzati tutti i viventi, e in cui pure alcuni credeva-
no di vivere una realtà più bella della leggenda [...] Ma la vio-
lenza si moltiplicò indefinitamente, e i bombardamenti aerei, la
distruzione apportata dalle squadriglie della meravigliosa avia-
zione legionaria, che loro guardavano da lontano, e poi ecco, il
fuoco che avanza [...]» 72.
Implicitamente, invece, pare poi che la guerra civile spagno-
la si insinui in Senza sangue di Alessandro Baricco, edito da Riz-
zoli nell’agosto 2002, dove i due tempi narrativi – separati da un
cinquanta, sessant’anni, come ha suggerito Angelo Morino su
«L’indice» – mettono insieme anche, rispettivamente, « un pae-
saggio travolto da anni e anni di guerra feroce» e Santander,

71
Per quella storica cfr. per esempio quanto dice Giorgio Giovagnoli su La
guerra di Spagna nella sua Storia del partito comunista nel riminese 1921/1940.
Prefazione di Giancarlo Pajetta, Rimini, Maggioli, 1981, pp. 326-338.
72
Alberto Casadei, La domenica di questa vita, Lecce, Manni, 2002, [pp.
69-78], pp. 71 e 75. Come critico, Casadei si è occupato del tema della guerra,
a cui ha dedicato due contributi: La guerra, Roma-Bari, Laterza, «Alfabeto let-
terario», 1999, e Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del
realismo, Roma, Carocci, 2000.

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« città del presente», forse: « città spagnola della zona cantabrica,
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affacciata sul golfo di Biscaglia» che raccoglie, a guerra finita, a


più di mezzo secolo di distanza, i segni non ancora scomparsi
dell’orrore, con una casa di cura che sembra prendere il relais di
un ospedale adibito a luogo di tortura durante gli anni di guer-
ra 73 (e ricordiamoci del centro psichiatrico militare de Le setti-
mane del giardino (1997) di Goytisolo).
Va detto subito che il doppio e bipartito spazio-tempo nar-
rativo (e lirico) di Baricco non conduce al romanzesco di Arpaia,
in Italia, e soprattutto di Cercas, in Spagna, e non solo per la vo-
luta, preziosa opacità; un’opacità che certo lo allontana dal « rac-
conto reale» verso il quale Cercas e il suo alter ego nel romanzo
spingono con insistenza l’avventura umana di uno scrittore e di
un falangista della prim’ora. Tenta poi di evadere le ambigue
trappole dello schematismo ideologico, ovviamente presenti, una
battuta iterata con varianti nel testo e affidata a un felice, concre-
to personaggio femminile, la donna dell’alter ego. Una donna che
non crede alle potenzialità romanzesche di una storia basata su
un franchista e che esclama: «Se non fosse perché so che sei un
intellettuale, direi che sei scemo. Non te l’ho detto fin dall’inizio
che l’unica cosa da fare era scrivere di un comunista ?» 74.
Ma, al di là della boutade, è il titolo che, in gran parte, indi-
ca la strada giusta da percorrere per provare a capire e a raccon-
tare, oggi, un evento come la guerra civile spagnola: Soldados de
Salamina pensa infatti a un episodio di quell’avventura umana
e storica « come se il fatto non fosse accaduto soltanto
sessant’anni prima, ma si trattasse di un evento remoto quanto
la battaglia di Salamina» 75.
I cinquanta, sessant’anni di Alessandro Baricco, dunque,
seppur trasfigurati, perdono di significato di fronte a questa

73
Angelo Morino, Una geografia fallace, «L’Indice», 2002, 12, p. 15, su,
per l’appunto, Alessandro Baricco, Senza sangue, Milano, Rizzoli, 2002.
74
J. Cercas, Soldati di Salamina cit., p. 168.
75
Ivi, p. 40.

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vastità, che la memoria di Cercas (e forse la sua morale, per
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quanto ‘furba’) esige, puntando non a una « geografia fallace » e


nemmeno a un’esibizione stilistica più o meno apprezzabile; in
virtù della quale, in Baricco, « quanto è rappresentato è da ri-
cercare al di là delle parole e delle immagini più immediata-
mente percebili, lì dove, malgrado le apparenze, tutto rimane
per l’appunto immobile » 76.
Dalla rarefazione, dalla pagina bianca, dal silenzio,
dall’immobilità di Alessandro Baricco, si può passare, tra 2002
e 2004, a un registro stilistico del tutto diverso ma dominato
da una altrettanto evidente forma di narcisismo autoriale,
quella del palermitano Fulvio Abbate. Il “fantasmagorico”, ec-
cessivo romanzesco di Teledurruti (2002) anticipa in un certo
senso – ma non con la ripresa forte di personaggi e sviluppo
narrativo cercata da Bruno Arpaia – quel « documentario» de-
dicato alla memoria della guerra civile spagnola che è Il mini-
stro anarchico (2004), secondo la bandella di copertina: un te-
sto che non è né un saggio né una biografia ma, come suggeri-
sce Arpaia in veste di recensore, « una serie di “scatti”, di im-
magini collegate dal personalissimo viaggio dello scrittore at-
traverso cimeli, foto, vecchie tombe, ritagli di giornale, docu-
menti e testimonianze dell’epoca ». Le fotografie, poi, che ri-
traggono anche Abbate 77, fanno di nuovo pensare al viaggio di
Affinati in Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich
Bonhoeffer (2002) ma ribattezzato, al di là delle foto, con una
presenza un po’ estrema dell’autore, tanto che giustamente Ar-
paia può suggerire, alla fine della recensione: « Forse, in queste
pagine, c’è un po’ troppo Fulvio Abbate e meno García Oliver
di quanto si vorrebbe ». E l’idea che si fa strada è che certa, no-
strana docu-fiction sia sempre più alla ricerca dell’ultimo di-

76
Cfr. ancora Angelo Morino, Una geografia fallace cit..
77
Fulvio Abbate, Il minitro anarchico, Milano, Baldini Castoldi Dalai,
2004, pp. 11, 101, 112.

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menticato, perdente della storia e della guerra di Spagna, tro-
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vato a fatica « inciampando in Ascaso, Durruti [già nel testo


del 2002 78], Abel Paz, Fernando Arrabal o Carlo Rosselli» 79.
E anche a proporre dei “distinguo” si rischia l’ambiguità.
Certo, il percorso di Affinati, da Campo del sangue (1997) a
Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe, scrittori (2006) 80, pas-
sando per Un teologo contro Hitler (2002), sembra più solido,
convincente, e retto soprattutto da un discorso « segreto» sulla

78
Teledurruti parla di un giovane che fonda un’emittente privata, alternati-
va, e decide di intitolarla a Buenaventura Durruti. In un paio di pagine, le ragio-
ni della scelta di Aldo Bologna, disoccupato, emergono in modo “fantasmagori-
co”: «[...] era il bianco e nero delle zebre risparmiate dal lavoro umano, poi ven-
ne il colore sfavillante d’arcobaleno come le copertine dei Santana. Finché, un
giorno, senza neppure preavviso, i monoscopi furono aboliti. Ma nel medioevo
televisivo, quando esistevano ancora, è certo che assomigliavano al sonno del di-
soccupato Aldo Bologna che, stufo della propria morte civile, si è messo a dormi-
re sull’erba della fine delle trasmissioni, di tutte le trasmissioni. Già, i monoscopi
erano come le foto su ceramica dei morti al cimitero: addio e ancora addio, anzi,
per il momento addio, ma domani sicuramente – sì, domani, questo è certo – ri-
sorgeremo, saremo di nuovo a casa vostra, a casa nostra, davanti al cancello, da-
vanti al citofono; siamo morti, è vero, ci avete messo l’abito scuro, il migliore, e,
infatti, con questo stesso abito risorgeremo, faremo ritorno in città per farvi un
culo così: in nome di Durruti e della sua rivoluzione». Cfr. F. Abbate, Teledurru-
ti, Milano, Baldini & Castoldi, 2002, pp. 30-31; ma si leggano anche le pagine
seguenti, col dialogo fra Aldo e Stefania « in golf e mutandine».
79
B. Arpaia, Giustizia accidentale di un ministro anarchico, «Domenica»,
supplemento de «Il Sole-24 Ore», 308, 2004, p. 39. Di diverso parere è Rober-
to Giulianelli («L’Indice», 9, 2005, p. 42), che pensa al « documentario trave-
stito da indagine» come a un lavoro sostenuto da « una seria ricerca storica» vol-
ta a raccogliere e ordinare le « tracce» di García Oliver « con efficace disordine».
Cfr. F. Abbate, Il minitro anarchico cit., che alle p. 165-167 fa seguire al testo
una Bibliografia e, dopo i Ringraziamenti, un In memoriam Juan García Oliver
– y ¡viva Fulvio Abbate ! di Fernando Arrabal, alle pp. 171-179.
80
Eraldo Affinati, Campo del sangue, Milano, Mondadori, 1997 e Compa-
gni segreti. Storie di viaggi, bombe, scrittori, Roma, Fandango, 2006. Per
quest’ultimo libro si veda l’intelligente recensione di Giorgio Ficara, Affinati,
tutte le strade del mondo conducono al « campo del sangue», « ttL tuttoLibri»,
1517, 2006, p. 4.

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perdita della funzione dell’intelligentsia nella società 81. Mentre
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l’iter di Abbate appare scopertamente teso a sfruttare, a livello


editoriale, la curiosità di un certo pubblico nei confronti di fi-
gure più o meno marginali, nelle quali far specchiare prima
l’autore e poi il lettore; e senza passare per quelle approssima-
zioni a un’etica del linguaggio che per noi sono il fondamento
di un certo tipo di ricezione della guerra civile spagnola nella
narrativa italiana. Così, anche quando sembra dichiarare l’esat-
to contrario, come in Teledurruti, e quasi in seno a una strategia
metanarrativa e prospettica, Abbate scopre le sue carte: «[...]
ma quelli gli avrebbero certamente proposto una porcata alla
moda. Tanto valeva il volto di Buenaventura Durruti tratto da
un documentario: Durruti, la bustina nera e rossa sul capo, che
discute con i suoi miliziani sulla strada per Saragozza» 82.

Insomma, l’inizio del ventunesimo secolo sembra in parte


confermare alcune tendenze degli anni Novanta. Come ho già
fatto notare a più riprese 83, la guerra di Spagna è uno sfondo,
una tela, spesso ridotta a brandelli, di cui ci si serve in maniera
stereotipata, come si fa, in genere, con tutta la storia, specie
quella moderna e del secolo breve, attraversata sempre più, an-
che in seno ai suoi percorsi istituzionali, da quelle che, col Ricu-
perati dell’Apologia di un mestiere difficile. Problemi, insegna-

81
Cfr. Christian Delporte, Intellectuels et politique, Firenze, Casterman –
Giunti, 1995, pp. 104-121. E mi sia concesso rinviare a L. Curreri, Il ritorno di
due «uomini contro»: Campanella e Bonhoeffer in Maffia e Affinati, intervento al
Convegno Lo spazio della religione e il senso del religioso nella letteratura narrati-
va italiana contemporanea (1970-2006), Grenoble, 23-24 novembre 2006, che
apparirà negli Atti dello stesso.
82
F. Abbate, Teledurruti cit., p. 32.
83
L. Curreri, Tra Madrid e Guernica. Guerra civile spagnola e città ferite
nella narrativa italiana (1996-2002), «Cahiers d’études italiennes. Novecen-
to... e dintorni», 1, 2004, pp. 175-202, e Que peut la guerre d’Espagne dans le
roman italien?, in La guerre d’Espagne en héritage: entre mémoire et oubli, Atti del
Convegno di Clermont-Ferrand, 10-12 marzo 2005, a cura di Viviane Alary e
Danielle Corrado (in corso di stampa).

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menti e responsabilità della storia (2005) 84, potremmo pensare
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come istanze narratologiche.


Queste istanze, ovviamente, sono anche e soprattutto tipi-
che, e da sempre, di un universo romanzesco e cinematografico,
ma non hanno niente – o davvero poco – a che fare con la ri-
flessione intellettuale sui rapporti tra cultura e potere espressa
ne L’antimonio.
Perché parlarne, allora, specie all’interno di uno scarto tem-
porale che sembra quasi giustificare da sé le avvenute mutazioni
pur in seno alla molta nostalgia dispiegata per Sciascia e Pasolini
da Tabucchi nella dedica de La gastrite di Platone (1997 e
1998) ? Perché tali istanze possono servirci per introdurre e capi-
re meglio quella letteratura che oggi – reagendo stilisticamente al
risultato estremo di quelle stesse istanze in ambito romanzesco,
ovvero alla fine della storia e all’uso pubblico che della storia gu-
sti e mode fanno – cerca di sottolineare la trasformazione dei
rapporti tra cultura e potere, che non è più o non è solo potere
politico ma, innanzi tutto, potere economico e massmediatico e
che si può anche chiamare la pressione del mercato e della so-
cietà, in alcuni casi addirittura sublimata e teorizzata 85.
In effetti, le istanze narratologiche aprono sui seducenti
sentieri della fiction (e della docu-fiction) e nel caso della guerra
civile spagnola oscillano fra, per esempio, biografie romanzate
(Tina di Pino Cacucci), intrighi gialli e orrifici (Guernica di
Carlo Lucarelli), esercizi di scrittura (Senza sangue di Alessan-
dro Baricco), « documentari» travestiti da indagine (Il ministro
anarchico di Fulvio Abbate). La sfida, allora, o almeno una par-
te (importante) della sfida, consiste nel non far naufragare la
scrittura della storia – e poi anche la prosa saggistica, narrativa,

84
G. Ricuperati, Apologia di un mestiere difficile. Problemi, insegnamenti e
responsabilità della storia cit.
85
Si scorra V. Evangelisti, Distruggere Alphaville, Napoli, l’ancora del me-
diterraneo, 2006; ma cfr. la micidiale stroncatura di A. Cortellessa, Solo padre
Dante più in alto del noir, « ttL tuttoLibri», 1519, 2006, p. 3.

283

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diaristica che può accompagnarla e pure tradursi in cinema –
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in, come suggerisce Giovanni De Luna recensendo il Ricupera-


ti sopra citato, « una serie di racconti (scritti ma soprattutto au-
diovisivi) che hanno l’unico scopo di “farsi leggere”» 86.
Rinunciare a questo « farsi leggere» è già una prova di impe-
gno, e lo è forse più per il romanziere che per lo storico, che al li-
mite può salvarsi dalla tentazione scindendo, secondo modalità
più o meno appropriate, il suo ruolo istituzionale dall’eventuale
seconda pelle di narratore e/o di autore di romanzi storici. Ma
« farsi leggere», per un romanziere, può anche suonare, e ben al
di là di mode e virgolette, come un imperativo, quasi un impera-
tivo etico: io devo farmi leggere, devo mettere in grado gli altri
di leggermi. Ciò non vuol dire, ovviamente, azzerare la riconqui-
sta critica della problematicità anche etica del passato e magari
farla coincidere con un semplice divertissement.
Di fronte alla Storia con la esse maiuscola, che incute timo-
re, forse tanto quanto la Natura leopardiana meno generosa, la
storia anche degli ultimi settanta o sessant’anni, o del secolo bre-
ve, o dei secoli della modernità, la storia che non si ferma mai, la
storia che non è finita, la storia che ci sopravvivrà bellamente, la
storia che aveva già davanti agli occhi Manzoni e con cui doveva
fare i conti Nievo (e tanti altri dopo di lui), di fronte a questa
Storia che non è una cartolina, un panorama, uno sfondo, due
avvertiti e più anziani narratori italiani, ovvero Claudio Magris e
Antonio Tabucchi, paiono aver deciso di « non farsi leggere»; e
di « non far leggere» due loro recenti romanzi – il magrisiano Al-
la cieca (2005), il tabucchiano Tristano muore. Una vita (2004)
– che mi sembrano anche essere – pur in seno a una non celata
soggettività e a un’intimità quasi fisica, corporea, specie nel caso
di Tabucchi – l’emanazione collettiva e sperimentale di « una
nuova politica della letteratura» nata nel parlamento internazio-

86
G. De Luna, Davvero scrivere la storia è una «mission impossible» ?, « ttL
tuttoLibri», 1497, 2006, p. 7.

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nale degli scrittori di Strasburgo, di cui Magris e Tabucchi han-
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no fatto parte, e tesa a disegnare una testimonianza come quella


di Diventare minoritari (2003) 87.
La conversazione-intervista di Joseph Hanimann, corri-
spondente della Frankfurter Allgemeine Zeitung, con Christian
Salmon, fondatore del citato parlamento, dà vita a un volumet-
to che riflette sulla postistoria dell’impegno, ovvero sull’engage-
ment intellettuale dell’ultimo decennio del XX secolo, fatto co-
minciare simbolicamente qualche mese prima, nel novembre
’89 della caduta del muro di Berlino, e concluso qualche anno
dopo, nell’alba tragicamente estesa del ventunesimo secolo, con
l’assalto alle Torri gemelle nel settembre 2001; l’assalto che è il
drammatico battesimo degli anni che stiamo vivendo e cercan-
do di commentare attraverso la ricezione della guerra civile spa-
gnola nella narrativa italiana (e non). – Ed è forse il caso di ri-
cordare ancora il corto circuito tra Guernica e New York di cui
ha parlato nel 2002 André Glucksmann 88.

La strategia narrativa che ha in mente il parlamento inter-


nazionale degli scrittori di Strasburgo risponde a un principio
di disseminazione e a un’acustica che tende a negare l’enuncia-
zione, anche come verità, giungendo a frantumare, quasi al
quadrato, la credibilità già frantumata che si trova a gestire co-
me eredità; in fondo, ne è quasi un’emanazione e potrebbe pure
apparire come un atto rinunciatario e aristocratico, come un
esilio dorato, troppo facile, per chi sa scrivere, ma non è così,
anche se alcuni dubbi possono permanere.
Direi che puntare comunque sul racconto, sulla persistenza
del racconto, affiancando alla militanza di diventare minoritari

87
Christian Salmon e Joseph Hanimann, Diventare minoritari. Per una
nuova politica della letteratura, seguito da Un parlamento immaginario ? Conver-
sazione con Salman Rushdie, Wole Soyinka e Russell Banks (2003), Torino, Bolla-
ti Boringhieri, 2004, pp. 31-49 e 90-107.
88
Cfr. ancora A. Glucksmann, Dostoïevski à Manhattan cit., pp. 18-24.

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il « non farsi leggere», significa, nel caso dei citati Magris e Ta-
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bucchi, unire l’interesse per il margine, per il microcosmo,


all’invadenza frantumata, e come tale restituita, della Storia, co-
me incontro-scontro di micro e macro nell’epoca di Utopia e di-
sincanto (1999) 89.
Rispetto a tutto questo, esattamente dieci anni dopo Sostiene
Pereira (1994), come situare Tristano muore (2004), « mosaico
di minuti rubati alla memoria senza ordine e cronologia» di cui,
suggerisce Luciana Stegagno Picchio, « non possiamo pretendere
di ricostruire la “storia”» 90? E come situare, rispetto a Microcosmi
(1997), e a uno scarto temporale simile, il Magris di Alla cieca
(2005), nel quale, dice Vittorio Coletti, « i referti della cultura e
della storia sono centrifugati» in un « vortice [...] di malinconia e
tristezza» e in un « delta stilistico labirintico e tentacolare» 91? Di-
rei che una sorta di traduzione al contrario, che muove dal « farsi
leggere» al « non farsi leggere», come sopra li abbiamo intesi e ra-
pidamente delineati, in seno a un’impresa mutante, a uno spazio
di disseminazione, a un’acustica, è una delle possibili vie da se-
guire, anche in rapporto alla guerra di Spagna e alla sua eredità,
che è una traccia estesa (senza sviluppo costante e lineare) in en-
trambi i testi – e ben diversamente da come lo è ne La misteriosa
fiamma della regina Loana (2004) di Eco 92.

89
Claudio Magris, Utopia e disincanto. Saggi 1974-1998, Milano, Garzan-
ti, 1999. Ma dello stesso cfr. ora La storia non è finita. Etica, politica, laicità,
Milano, Garzanti, 2006.
90
L. Stegagno Picchio, Lui amò Rosamunda cit..
91
V. Coletti, Nel sangue della storia il narratore folle e il re d’Islanda, «L’In-
dice », 9, 2005, p. 15.
92
A. Tabucchi, Tristano muore cit., pp. 40-41, 57, 60-65, 67, 70-73,
108, 111-114, 132-133, 139; C. Magris, Alla cieca, Milano, Garzanti, 2005,
pp. 13-14, 25-26, 34, 44-45, 68, 70, 120-122, 123, 129-130, 132-134, 144,
171, 215, 304-305. Ma cfr. U. Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana.
Romanzo illustrato, Milano, Bompiani, 2004 e « Libri d’oro», 2005, pp. 44,
145-147, 151, 185, 191, 206-207, 210, 260, 334. E mi sia concesso rinviare a
L. Curreri, La sfida di non farsi leggere. Appunti intorno a «Tristano muore »

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Certo, Magris ripensa di recente alla Spagna e alla sua guer-
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ra civile anche in altri modi, più magrisiani, in un certo senso.


Penso al libro che segue, a sei mesi di distanza, Alla cieca, ovve-
ro L’infinito viaggiare, uscito nell’ottobre del 2005. Dopo la
Prefazione, che in parte potrebbe fungere da analisi del testo o
tout court da introduzione al romanzo precedente 93, ci troviamo
subito – con prose che risalgono agli anni Ottanta e Novanta
ma anche ai Duemila – Sulla strada di don Chisciotte (2001);
ma al Don Chisciotte si sovrappone subito il Beatus Ille (1986) 94
di Antonio Muñoz Molina, con il ricordo della guerra civile che
via via si dispiega, in seno a salti spazio-temporali non scatenati
dai « rocchetti Frullifer» 95 ma dalla forte tensione esistenziale
del viaggio, frutto anche, ma non solo, di letture, di pagine:
Marionette a Madrid, Il bibliofago, Al mentitoio, Un padre, un
figlio, Spoon River in Cantabria, Il primo volo di don Serafin 96.

E proprio per il recente aprirsi (e arricchirsi) del discorso e


del mercato italiano alla produzione romanzesca spagnola che
attinge agli anni della guerra civile e ai suoi più o meno imme-

(2004) di Tabucchi e «Alla cieca » (2005) di Magris, in Intellettuali italiani del


secondo Novecento cit.
93
C. Magris, Prefazione a L’infinito viaggiare, Milano, Mondadori, 2005,
[pp. VII-XXVIII], p. XV: «Il reale si rivela probabilistico, indeterministico,
soggetto a improvvisi collassi quantici che fanno sparire alcuni suoi elementi,
inghiottiti, risucchiati in vortici dello spazio-tempo, mulinelli della mortalità di
tutte le cose, ma anche dell’imprevedibile emergere di nuova vita [...] Viaggiare
significa fare i conti con la realtà ma anche con le sue alternative, con i suoi
vuoti; con la Storia e con un’altra storia o con altre storie da essa impedite e ri-
mosse, ma non del tutto cancellate»; ma cfr. prima pp. VIII-IX, XII-XIII,
XVIII-XX, XXVI-XXVII.
94
Antonio Muñoz Molina, Beatus ille, Barcelona, Seix Barral, 1986.
Sull’importanza di questo romanzo, « meno commentato rispetto ai romanzi
successivi del suo autore», cfr. M. Bertrand de Muñoz, La guerra civile spagnola
nel romanzo, nel teatro e nel cinema dopo la morte di Franco cit., pp. 155-156.
95
V. Evangelisti, Nicolas Eymerich, inquisitore cit.
96
C. Magris, L’infinito viaggiare cit., pp. 1-30.

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diati dintorni, è bene anche porsi – rischiando ancora un giudi-
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zio e qualche ripetizione – in una prospettiva comparatistica


che provi ad attivare rapide letture incrociate di testi finanche
molto diversi, e non solo per esiti artistici e commerciali.
Dal Juan Goytisolo de Le settimane del giardino (1997 e
trad. 2004) si può passare al José Ovejero di Nostalgia dell’eroe
(1997 e trad. 2003, poi riproposta nel 2005), testo d’ambien-
tazione cubana, ma con la guerra civile spagnola in primo pia-
no, definito dalla scrittrice Rosa Montero « un romanzo antro-
pofago, nel quale il lettore viene divorato dalle pagine e preci-
pita nella storia [...] insieme al protagonista, Neftalí Larraga,
personaggio misero e grandioso». Definizione che viene girata
all’autore in un’intervista di María Pilar Soria Millán 97 apparsa
su « il manifesto» nel 2005 e a cui Ovejero replica investendo
sul caso e sui viaggi che sono all’origine del suo lavoro, frutto
di conversazioni, vere interviste, che a tratti fa venire in mente
– al di qua dell’ampiezza del quadro – Il figlio di Bakunin
(1991) di Atzeni, specie in certe pagine iniziali 98: « Fatto salvo
il dato autobiografico per cui la mia famiglia abita a Cuba, per
il resto è stato un caso. Andavo e venivo dall’isola al Belgio, nel
tempo ho voluto conoscere le persone che hanno partecipato
alla rivoluzione, e i cubani che hanno preso parte alla guerra ci-
vile spagnola [...] Parte di questo materiale compare nella sto-

97
María Pilar Soria Millán, Ideali perduti nei viaggi di José Ovejero, « il ma-
nifesto», sabato 30 aprile 2005, p. 13.
98
José Ovejero, Nostalgia dell’eroe (1997), trad. it. di Barbara Bertoni,
Roma, Voland, 2005, p. 9: « Forse Neftalí Larraga non era un uomo coraggio-
so. Che in certi momenti della sua vita si fosse comportato da eroe poteva
persino dipendere da una certa debolezza di carattere [...] Molto probabil-
mente la storia di Neftalí sarebbe finita nel dimenticatoio se Ramón, uno dei
nipoti, non si fosse ostinato a seguire le tracce di quell’individuo di cui in ca-
sa non si parlava mai. All’inizio fu solo la curiosità a spingerlo a indagare sul
nonno, tema tabù in famiglia, di cui sapeva appena che era stato un rivoluzio-
nario cubano e che aveva combattuto nella Guerra civile spagnola ». Ma cfr.
pp. 10-15, pp. 47-52.

288

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ria di Ramón che va alla ricerca di suo nonno, Neftalí. Le in-
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terviste che ho inserito nel libro le ho fatte davvero, non sono


opera di finzione, e anche il contenuto del romanzo è nato dal-
le conversazioni con le persone del luogo, e con la mia fami-
glia. Con Nostalgia dell’eroe volevo raccontare la storia di un
uomo che è considerato, ingiustamente, un antieroe: credevo
di aver scritto un libro sul crollo degli ideali, ma è stata piutto-
sto la realtà a crollare ».
Sembra quasi di sentire il Magris di Alla cieca o della Prefa-
zione a L’infinito viaggiare. Ma è chiaro che, al di là del dato, or-
mai diffuso, accolto in eredità, del crollo degli ideali – e della fi-
ne delle ideologie, spesso confuse con i primi – che diventa il
crollo della realtà, la guerra civile spagnola ritorna in molti rac-
conti grazie soprattutto al successo straordinario di Soldados di
Salamina (2001) di Cercas.
E dal più volte citato Soldados de Salamina, è bene ritorna-
re, in tal senso, a ¡Esa luz! (2000 e trad. 2002) di Carlos Saura,
per ricordare almeno che il noto regista – già implicato in altre
evocazioni cinematografiche (e non) della guerra civile 99 – sce-

99
Si vedano almeno le due presentazioni che ne fa, all’interno di un nu-
trito contesto, Marcel Oms, La guerre d’Espagne au cinéma cit., pp. 219-220,
288-291, che ha anche curato l’edizione dei Recuerdos de la guerra civil di
Saura in M. Oms, Carlos Saura, Paris, Édilig, 1981. Faccio seguire solo alcu-
ne citazioni dalle pp. 219-220 e 289 de La guerre d’Espagne au cinéma cit.:
« Ce n’est qu’en 1973, avec La Cousine Angélique, que Carlos Saura montre-
ra, du point de vue d’un vaincu, sa mémoire de la guerre, reconstituant les
bombardements sur Barcelone de 1939 [...] et décrivant des comportements
identifiables comme « franquistes » [...] Avant La Cousine Angélique, Carlos
Saura avait décrit métaphoriquement dans La Caza (La Chasse, 1965), les
comportaments des vainqueurs. Une séquence d’extermination de lapins en
rase campagne renvoyait très explicitement à d’autres fusillades [...] Enfin,
dans Le Jardin des délices (1970) un écran sur lequel étaient projetées des ac-
tualités de la guerre cédait la place à un groupe de gens en armes qui sem-
blaient surgir du passé pour réveiller la mémoire assoupie du personnage cen-
tral» ; « Après la mort de Franco (1975), l’optique du cinéaste a changé et son
projet aboutit finalement à cette espèce de revirement créateur extraordinaire

289

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glie significativamente di esordire come romanziere con una
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storia d’amore che principia, ancora, nel 1936, in Spagna, con


la guerra che sconvolge l’esistenza di Diego, giornalista e scrit-
tore già famoso a trent’anni, e quella di Teresa; due vite rac-
contate tra Madrid, bombardamenti, provincia e fronte, tra
corsivi atti a salvaguardare un’eredità, un certo punto di vista
sul mondo, un’interiorità che può vacillare, « crollare », e una
narrazione più distesa, distaccata, sostanzialmente onnisciente,
in caratteri normali 100.
Un treno che sembra prendere anche Antonio Soler fin
dall’inizio del suo El nombre que ahora digo (1999 e trad.
2003), storia dell’amore appassionato di Gustavo e Serena sul-
lo sfondo vero, umano, perduto della guerra civile, di una Ma-
drid morente, di una guerra lontana come quella di Cercas (e
forse del Koestler dei Gladiators) ma meno letteraria (e antica);
di una guerra che non bisogna allontanare troppo e in modo
artificiale e che bisogna tentare di riavvicinare al presente,
all’oggi, a partire non da giornalisti e scrittori ma da personag-
gi decisamente marginali, da saltimbanchi, da innamorati della
vita nella morte della guerra: « Ora so chi furono veramente
quegli uomini che combatterono una guerra lontana [...] Ora
so quali furono i desideri e i timori di quella gente, ma soprat-
tutto conosco cosa si nascondeva dietro lo sguardo di Gustavo
Sintora [...] Serena Vergara [...] Nessuno parlava e a nessuno
importava di Gustavo Sintora né di come fosse giunto a Ma-
drid. Non era altro che un filo di paglia che galleggiava nella
marea impazzita della guerra [...] in fuga da Málaga. Mobili,
catini, un pianoforte, animali, materassi, bambini e soldati che

qu’est Dulces horas (1982) où se mêlent [...] le vécu et sa représentation, le


réel et sa mise en scène, où la chronologie elle-même paraît déréglée ». In
questa prospettiva, si inseriscono altre opere di Carlos Saura (Ay, Carmela,
del 1990) e, per quel che ci riguarda, anche il romanzo a cui alludiamo rapi-
damente nel nostro discorso.
100
Cfr. Carlos Saura, Quella luce (2000), trad. it. di Paola Tomasinelli,
Torino, Einaudi, 2002.

290

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viaggiavano a passo d’uomo sui cassoni stracolmi dei camion.
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Bauli sventrati, sedie e morti per la strada ». Così principia


l’odissea di Sintora, che « aveva perso la famiglia sotto un bom-
bardamento» e che trova una nuova famiglia di « toreri e artisti
[...] nani equilibristi» 101.
E dal mondo appassionato e funambolesco di Antonio
Soler si può forse muovere verso Tu rostro mañana. 1 Fiebre y
lanza (2002 e trad. 2003) di Javier Marías, docente universi-
tario che nel suo decimo romanzo dà vita – un po’ come Cer-
cas, altro professore d’università – a un « narratore, che è poi
Marías stesso, sia pure sotto altri nomi e mansioni» ma che
con sofferta consapevolezza e partecipazione drammatica « ri-
vive qualcosa che gli appartiene, vale a dire il clima della guer-
ra civile spagnola » 102. E al di là dello stesso romanzo, che è
stato accolto in modo entusiastico e compatto in Spagna e che
ha invece diviso critici e recensori italiani 103, è bene registrare
quanto scrive Marías al momento della pubblicazione de Il tuo
volto domani: « Quando sento dire spesso che è ormai ora di
superare la faccenda della guerra, penso che la cosa non può
succedere facilmente. Io, da bambino, ho sentito raccontare
atrocità orribili, e mi rivolta che su questo si possa essere frivo-
li. E quando dico frivoli mi riferisco al modo sentimentale,
blando, adulatore di cui è stata oggetto e continua a esserlo
questa guerra oppure episodi accaduti. Ci sono cose che han-

101
Cfr. Antonio Soler, Il nome che ora dico (1999), trad. it. di Paola To-
masinelli, Milano, Marco Tropea, 2003, pp. 7, 12-13 e 15-16. Cfr. la bella, en-
tusiastica recensione di Paolo Collo, Amore e guerra nella Madrid morente, in
« ttL tuttoLibri», 1397, 2004, p. 3.
102
Si cita da Angela Bianchini, Marías a Oxford. Echi di guerra civile, in
« ttL tuttoLibri», 1382, 2003, p. 3, recensione a Javier Marías, Il tuo volto doma-
ni 1. Febbre e lancia (2002), trad. it. di Glauco Felici, Torino, Einaudi, 2003.
103
Per esemplificare rapidamente la reazione della stampa mi servo
dell’appena citata e favorevole Angela Bianchini, da un lato, e dall’altro della
recensione assai dura di Danilo Manera, Un’orgia di parole, « L’Indice », 3,
2003, p. 17.

291

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no bisogno di tempo per diventare materiale romanzesco più o
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meno palese. La guerra civile la stiamo ancora vivendo. La vita


di mio padre, tanto per dire, è stata ridotta e limitata, perché
aveva appartenuto alla parte repubblicana. E così è accaduto a
tanti che hanno sofferto direttamente la guerra, prima, e poi il
franchismo» 104.
E in relativo accordo è certo il dettato, più accessibile, di
Veinte años y un día (2003 e trad. 2005) di Jorge Semprún 105,
con vent’anni e un giorno a segnare la pena degli sconfitti, l’esi-
lio e un rituale di morte di estate in estate, dal 1936 al 1956,
quasi a ricordare la pena e la sconfitta di tutti, in controcanto; e
con il ritorno e il racconto ripetitivo di un Hemingway sornio-
ne che borbotta « tra i denti il suo monologo» con « accento
yankee inconfondibile».

«‘La nostra guerra’» aveva detto Hemingway. «Dite tutti così. Co-
me se fosse l’unica, la più importante, almeno, delle cose che po-
tete condividere. Il vostro pane quotidiano...». [...]
«‘La nostra guerra’» borbottava. «Dite tutti così. Come se fosse
l’unica, la più importante, almeno, delle cose che potete condivi-
dere. Il vostro pane quotidiano. La morte, ecco cosa vi unisce, la
morte antica della guerra civile».

Ma gli yankees sono ormai intoccabili e Hemingway, for-


se, lo è più degli altri, con un « doganiere » che sobbalza « im-
potente » : « Uno yankee è sempre uno yankee, e dunque in-
toccabile, sia che fosse stato con i rossi, con i bianchi o addi-
rittura con il demonio». E Hemingway si rimette a parlare, a
chiacchierare della guerra civile, uscendo dal suo monologo.

104
Cfr. ancora A. Bianchini Marías a Oxford. Echi di guerra civile cit. Ma
cfr. quanto dice invece, in positivo, sulla decisione di lasciare da parte il passato
(guerra civile e franchismo) Víctor Pérez-Díaz, La lezione spagnola. Società civile,
politica e legalità (1999), a cura di Michele Salvati, Bologna, il Mulino, 2003.
105
Jorge Semprún, Vent’anni e un giorno (2003), trad. it. e note di Rober-
ta Bovaia, Firenze, Passigli, 2005; le citazioni che seguono sono da pp. 9-11.

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Se non lo fa lui direttamente, del resto, c’è chi lo fa per lui:
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Jorge Semprún o – in una ricostruzione romanzesca in diversi


volumi che assomiglia più a una curiosa galleria di ritratti che
all’ironia ‘impegnata’ di Vent’anni e un giorno – Dan Franck.
Penso a Libertad! (2004 e trad. 2005), secondo volume de Les
aventuriers de l’art moderne – dopo Bohèmes (1900-1930) e
prima di Résistances (1940-1944) e Jazz (1945-1950) – che è
dedicato agli anni della rivoluzione e della guerra civile spa-
gnola (1931-1939) 106.
Vediamo insomma profilarsi un quadro composito ma in
crescita, in cui immaginario romanzesco e mercato editoriale
cercano e trovano – con una certa facilità (che non si traduce
sempre e immediatamente in felicità) – la memoria e la storia
della guerra civile di Spagna. Anche nel 2006 in cui scrivo
continuano a uscire traduzioni di titoli più o meno importan-
ti, specie dallo spagnolo. Mi limito a segnalare i notevoli I gi-
rasoli ciechi (2004 e trad. 2006) di Alberto Méndez, che tor-
na a ragionare sul « terribile senso di scambio delle parti tra
vincitori e vinti», e Morte di un traduttore (2005 e trad.
2006) di Ignacio Martinéz de Pisón, che recupera la figura di
José Robles Pazos, amico e traduttore di John Dos Passos che
teneva una rubrica, « Libros yankis », sulla « Gaceta Literaria »
di Madrid, assassinato dai comunisti della NKVD e trasforma-
to in traditore; testi entrambi volti in italiano per Guanda da
Bruno Arpaia 107.

106
Dan Franck, Les Aventuriers de l’art moderne (1931-1939), 2. Libertad!,
Paris, Grasset & Fasquelle, 2004 e LGF, « Le livre de Poche», 2006, pp. 175-
290, per Paris-Madrid, e pp. 291-337, per Guernica. Ma cfr. Libertad!, trad. it.
di Antonia Tadini Perazzoli, Milano, Garzanti, 2005, pp. 145-236 e 237-273.
107
Ignacio Martinéz de Pisón, Morte di un traduttore (2005), trad. it. di
Bruno Arpaia, Parma, Guanda, 2006, [pp. 7-24], p. 11, e pp. 61-83; Alberto
Méndez, I girasoli ciechi (2004), trad. it. di Bruno Arpaia, Parma, Guanda,
2006, per cui cfr. A. Bianchini, Dentro l’armadio della guerra civile, « ttL tutto-
Libri», 1518, 2006, p. 5.

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Insieme, ancora, a diari, a testimonianze, a studi storici 108,
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che tra note e testo possiamo evocare rapidamente – e sempre


con intenti esemplificativi – in relazione agli aggiornamenti ro-
manzeschi, per valorizzare in tal senso il ritorno o la comparsa
di alcuni di questi volumi sul mercato: ritorno o comparsa an-
che funzionali al panorama narrativo di fine e inizio secolo che
ci interessa e situabili – restringendo e avvicinando a un tempo
il campo d’indagine – fra il 1996 e il 2006.
Fra coloro che trasferiscono in Spagna 109 il travaglio matu-
rato nello scontro col fascismo in Italia citerei almeno Aldo
Morandi – che è a Mosca allo scoppio del conflitto – e il suo In
nome della libertà. Diario della guerra di Spagna 1936-1939,
edito nel 2002, da Mursia, a cura di Pietro Ramella, e soprat-
tutto Camillo Berneri e il suo Mussolini alla conquista delle Ba-
leari, uscito ben tre volte, fra il 1937 e il 1938, in spagnolo e in
francese, ed oggi – a partire dal febbraio del 2002 – disponibile
in italiano grazie all’iniziativa dell’editore Giuseppe Galzerano
di Casalvelino Scalo (Salerno), che presenta questo studio in-
sieme a Claudio Venza, professore di Storia della Spagna con-
temporanea, già curatore di un volume importante come Le

108
Giusto rinviare, almeno in nota, a qualche titolo che tra Novecento e
Duemila, tra Francia e Italia, tra inediti e riproposte, ha richiamato significati-
vamente l’attenzione dei lettori e degli specialisti sulla guerra civile spagnola e
sulla tragica scomparsa della democrazia in Europa e nel mondo. Cfr. per esem-
pio Les espagnols et la guerre civile, a cura di Michel Papy, Biarritz, Atlantica,
1999; Jean-François Berdah, La démocratie assassinée. La République espagnole et
les grandes puissances. 1931-1939, Paris, Berg, 2000; Gabriel Jackson, La Repub-
blica spagnola e la guerra civile. 1931-1939, Milano, Net, 2003 (ma già Milano,
Il Saggiatore, 1967, trad. it. di The Spanish Republic and the Civil War. 1931-
1939, Princeton, Princeton University Press, 1965); Gabriele Ranzato, L’eclissi
della democrazia. La guerra civile spagnola e le sue origini, Torino, Bollati Borin-
ghieri, 2004; B. Bennassar, La guerra di Spagna. Una tragedia nazionale (2004),
Torino, Einaudi, 2006.
109
Cfr. ancora M. Serra, L’esteta armato. Il Poeta-Condottiero nell’Europa
degli anni Trenta cit., [pp. 121-146], p. 130.

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passioni dell’ideologia. Cultura e società nella Spagna degli anni
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Trenta (1989) 110.


Lo studio di Camillo Berneri può essere di una certa utilità
per leggere Guerra di infanzia e di Spagna di Fabrizia Ramondi-
no, anche al di là delle Brevi notizie sulla guerra civile spagnola a
Maiorca riportate in Appendice al romanzo e tratte dal libro di
Josep Massot i Muntaner, La guerra civil a Mallorca (1976) 111,
e soprattutto al di là dell’antecedente di culto sulle Baleari, Les
grands cimetières sous la lune (1938) di Georges Bernanos, che
comunque è citato dalla Ramondino nel settimo capitolo della
prima parte del suo romanzo 112.

3. Romanzi, racconti e percorsi tematici: Madrid, Guernica


e le altre città ferite nella narrativa italiana
Iniziamo dunque a leggere uno per uno i romanzi e i rac-
conti citati, seguendo l’ordine cronologico ma cercando ormai

110
Si vedano rispettivamente Aldo Morandi, In nome della libertà. Diario
della guerra di Spagna 1936-1939, a cura di Pietro Ramella, Milano, Mursia,
2002, pp. 25-30 e seg.; Camillo Berneri, Mussolini alla conquista delle Baleari,
Casalvelino Scalo – Salerno, Galzerano, 2002, pp. 65-161; Le passioni dell’ideo-
logia. Cultura e società nella Spagna degli anni Trenta, a cura di Claudio Venza e
altri, Trieste, Editre, 1989. E di Giuseppe Galzerano è giusto segnalare anche,
come autore oltre che editore, il volume dedicato a Vincenzo Perrone. Vita e lot-
te, esilio e morte dell’anarchico salernitano volontario della libertà in Spagna, Ca-
salvelino Scalo – Salerno, Galzerano, 1999.
111
Ma cfr. anche, dello stesso Muntaner, El primer franquisme a Mallorca.
Guerra civil, repressió, exili i represa cultural, Barcelona, Publications de l’Abadia
de Montserrat, 1996, su cui si legga l’attenta recensione di Emanuela Sarti in
La ruta de les illes: de Mallorca a Sardenya, a cura di Joan Armangué i Herrero,
Càller, Arxiu de Tradicions, 2002, pp. 40-42.
112
Cfr. ancora Fabrizia Ramondino, Guerra d’infanzia e di Spagna cit.,
pp. 415-417 e 85. Il lungo pamphlet di Bernanos, in Francia, è costantemente
ristampato e si può leggere in edizione economica, con testo integrale, nei
«Points» Seuil; in Italia, l’ultima edizione, se non mi sbaglio, è Milano, Net,
2005 (che ha preso il posto di quella de Il Saggiatore, « L’Arco», 1996).

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di reperire i percorsi tematici centrati, per l’appunto, su Madrid,
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Guernica e le altre città ferite; percorsi in virtù dei quali l’insie-


me individuato nelle ipotesi di rassegne sembra potere – pur nel-
la diversità evidente dei suoi componenti – ‘coagularsi’ e resiste-
re al di là del singolo testo e al di là dello stesso giudizio critico.
In questa prospettiva d’indagine, anche se è un racconto che
non ci convince, Guernica di Lucarelli – con note e poetiche epi-
grafi brechtiane e spenderiane e il serrato confronto tra un uffi-
ciale tedesco e Picasso («– Siete voi che avete fatto Guernica ? –
No, siete voi») 113 – può comunque essere un utile punto di par-
tenza per seguire la parabola della città bombardata – il 26 aprile
1937 – nella narrativa italiana degli ultimi anni. Di più. Nel le-
gare l’iter romanzesco a un percorso urbano che in quella città
ferita trova il suo approdo – da Teruel a Madrid, passando per
Sigüenza, e da Madrid a quel « contenitore» che è Guernica 114 –
Lucarelli offre una mappa, dove è anche, in posizione centrale,
quella capitale che è simbolo di tutte le città spagnole ferite dalla
guerra, come si è detto. Il Prologo stesso, del resto, la pone subito
in evidenza, associandole una data, il 10 aprile 1937, che rende
significativamente vicino il triste futuro della città basca, già rap-
presentabile a partire da Madrid. La notte offre infatti alla capi-
tale un « cielo buio» perché « forse anche le stelle erano venute
giù con le bombe degli stukas, il giorno prima». Nella stessa pa-
gina segue non a caso l’evocazione della Legione Condor. E su-

113
Così Picasso a un ufficiale tedesco in visita al suo studio e di fronte a
Guernica: «– L’avete fatto voi, maestro ? – No, l’avete fatto voi, con la Luftwaf-
fe». Ma sulla genealogia del quadro e sul suo valore di icona novecentesca cfr.
almeno i lavori di Jean-Louis Ferrier, De Picasso à Guernica. Généalogie d’un ta-
bleau, Paris, Denoël, 1985 e Paris, Hachette Littératures, «Pluriel», 1998, per
l’edizione aggiornata e Postface del 1998, seguita da un’appendice di documenti
della fine aprile e dell’inizio maggio 1937, alle pp. 207-221, e Gijs van Hen-
sbergen, Guernica. Biografia di un’icona del Novecento (2004), Milano, Il Sag-
giatore, 2006.
114
Cfr. ancora H. R. Soutworth, La destruction de Guernica. Journalisme
diplomatie propagande et histoire cit.

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bito dopo, a Teruel, il protagonista, il doppiogiochista Filippo
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Stella, « ubriaco», si trova a vivere una notte quasi uguale, « tra


tuoni di contraerea e fulmini di traccianti» 115.
Arruolato di forza nel CTV – «Corpo Truppe Volonta-
rie» – Stella deve aiutare, in qualità d’attendente, il capitano De-
gl’Innocenti a ritrovare « la salma di un suo amico compagno di
corso, colpito al petto dalla mitraglia durante l’assalto di Guada-
lajara» 116, il tenente e nobile Vittorio Emanuelli. Costui, si sco-
prirà via via, non è affatto morto e si è trasformato in una specie
di mostro, di lupo mannaro che a grandi passi muove verso l’or-
rore di Guernica. Qualche luna piena, qualche teschio, qualche
urlo o ululato e il gioco è fatto. La guerra civile serve un genere,
che passa in rassegna se stesso in un altro orizzonte epocale, nel
quale il destino della città ferita, di Guernica, funge da catalizza-
tore di tutto il male della guerra – « tra i fascisti si dice che rade-
ranno al suolo il paese con uno dei bombardamenti più duri che
si siano mai visti. Sarà come se la guerra scendesse dal cielo su
Guernica» – ma anche di tutto il male dell’umanità trasfigurata,
mostruosa che vi prende parte: «Adesso [Emanuelli] vaga per la
Spagna e che sia un disertore, un assassino impazzito o l’anima
stessa della guerra, sembra stia puntando su Guernica» 117.
Alla fine, prima ancora di arrivare a Guernica, o forse pro-
prio a Guernica, in un punto ormai imprecisato della Spagna,
del mondo ferito, e in un’attesa diluita e apocalittica, i due sol-
dati, il capitano e l’attendente, assomigliano non a caso agli eroi
di Cervantes, Don Chisciotte e Sancho Panza: « uno alto, magro
e sul cavallo, a delirare con le braccia aperte e una bacinella da
barbiere sulla testa e l’altro basso, piccolino e grasso, che lo se-
guiva sopra un mulo» 118. Ma, prima di questo approdo tragico-
mico, ci sono altre pagine da appuntare, abbastanza interessanti,

115
C. Lucarelli, Guernica cit., pp. 5 e 13.
116
Ivi, pp. 12 e 17.
117
Ivi, pp. 86 e 93.
118
Ivi, p. 104.

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anche se non tutte in relazione al tema delle città ferite, dalle
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quali comunque conviene cominciare, magari a partire da quei


« gironi infernali» che « indicano la strada per Madrid »: «Da
uno strappo del telone io guardavo fuori nella terra di nessuno
[...] C’erano case sventrate e senza tetto, dalle travi irte sulle mu-
ra come capelli dritti di paura e buchi alle porte e alle finestre,
come bocche e occhi spalancati»; «Ero in una chiesa, una picco-
la cappella di campagna, distrutta dal fuoco che l’aveva ripiegata
su se stessa» 119. E poi Madrid, tra periferia e centro, con i suoi
abitanti e le sue ronde: «Era quasi sera quando arrivammo alle
porte di Madrid, buia per l’oscuramento, nera e frastagliata di
macerie contro la penombra arrossata del tramonto. In periferia
le case non c’erano più e la gente stava tutta fuori nonostante il
coprifuoco, in mezzo alla strada, lontano dai muri pericolanti
delle facciate vuote [...] gli feci vedere che lì tutti camminavano
un po’ curvi e più lenti, come se ce le avessero sempre sulle spal-
le un po’ di quelle macerie di case [...] In città le case erano me-
glio e la gente stava dentro, dietro le pezze, i sacchi e i fogli di
giornale che fasciavano le finestre [...] trattenevamo il respiro,
schiacciati contro il muro umido di un androne e a Puerta del
Sol, dove una bomba aveva scavato un cratere, evitammo per un
soffio una ronda comunista» 120.
In altre pagine, più facili ma riuscite, si passa invece dalla
presenza di Pinocchio – il « giocattolo italiano» che compare
anche nel romanzo della Ramondino – al disoccupato che pri-
ma di fare il legionario in Spagna fa la comparsa del legionario
in Scipione l’Africano (1937) di Carmine Gallone – si ripensi a
Lajolo – e che preferisce, ovviamente, la finzione alla realtà: «Lì
per lì la paga è buona [...] e mi arruolo [...] Ma quando sbarco a
Malaga e mi trovo gli ufficiali di Franco che ci salutano urlando
Viva la muerte... in te cul viva la muerte ! Io non ci sto... così mi

119
Ivi, pp. 65 e 71.
120
Ivi, pp. 73-74.

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sbattono in guardina» 121. E così Viva la muerte non diventa la
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« versione iberica del nostro “Me ne frego ! ”», come un editoria-


le di «Prospettive», la rivista diretta da Curzio Malaparte, vole-
va farci credere a guerra finita, in « una sorta di romanticismo
strapaesano», secondo Aldo Garosci 122.

Per passare al racconto di Massimo Carlotto – che per pre-


senze gitane e altri spunti è possibile avvicinare al romanzesco,
certo più corposo, di Soler – si appunterà subito che la sua « for-
me brève» – ancora più raccolta di quella di Lucarelli – non lascia
strutturalmente spazio a descrizioni particolareggiate, che possa-
no magari procedere, in un iter urbano come quello appena evo-
cato, oltre la città del titolo, Amore e odio di un gitano a Guernica.
Guernica, per di più, entra nel racconto come antefatto;
un antefatto importante ma che resta comunque tale, risol-
vendo il destino della città ferita in poche battute e avviando
una storia d’amore minata dal razzismo, in un contesto che fi-
nisce per evadere la stessa guerra di Spagna. Un gitano si trova
per caso in quella città, il 26 aprile 1937. Ovvero si trova nel
posto sbagliato al momento sbagliato, anche se « Guernica,
quel giorno, non lo sembrava davvero un posto sbagliato»,
con « giovani stesi sui prati a prendere il sole e a chiaccherare »
e « soldati tranquilli» : « Chi avrebbe mai immaginato che, di lì
a poco, la terra si sarebbe sollevata così in alto da raggiungere
il cielo. Il gitano sentì il rumore degli aerei, alzò gli occhi e vi-
de il cielo oscurato di apparecchi [...] Quel giorno a Guernica
si sperimentava, per la prima volta nella storia, il bombarda-
mento aereo di una città». Il risultato, tristemente noto, viene
poi riassunto, in una chiosa, discutibile, che lascia intravedere
il destino analogo di altre città spagnole ed europee negli anni
bui a venire: « Della città rimase in piedi ben poco. Cittadini e

121
Ivi, p. 40.
122
Aldo Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna cit., p. 421.

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soldati si aggiravano tra le macerie travolti dallo stupore della
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novità. In guerra è sempre così, l’orrore colpisce e indigna la


prima volta, poi diventa routine». Il punto di vista del gitano,
che tende a farsi gli affari suoi anche a bombardamento co-
minciato, si perde dunque, insieme ai suoi cari, tutti caduti
quel giorno, nel prosieguo della guerra civile, durante la qua-
le, combattendo per i repubblicani, conosce una bellissima
basca. Scoppia l’amore, finisce la guerra e il gitano progetta
una fuga a due quando siamo già, per lo meno, al giugno del
1940, visto che nel racconto si legge: « italiani e tedeschi ave-
vano appena invaso la Francia ». Impaziente, il gitano attende
la sua bella a una stazione spagnola ma la vede scendere dal
treno in compagnia di un franchista. Credendosi tradito, la
uccide e fugge nell’America del Sud. Raggiunto dai fratelli di
lei, dai quali apprende la sua innocenza, chiede: « Per cosa
morirò, oggi. Per averla uccisa o perché lei voleva fuggire con
me ?». Gli si risponde con una domanda che secca qualsiasi
speranza – « Che differenza fa ?» – e il gitano muore, diventan-
do racconto, nell’osteria: « la storia di un gitano che un giorno
era salito su un treno che andava dalla parte sbagliata, come
tutta la sua vita ».

Scorrerei ancor più velocemente Camilleri, il cui brevissi-


mo racconto, tutto italiano, si incentra su uno scambio di per-
sona in cui la guerra civile spagnola ha una parte relativa. Ma è
vero che Andrea Camilleri è del 1925 e si può finanche permet-
tere, nel suo lavoro, un incipit ‘testimoniale’ nel quale far poi
scivolare un attacco narrativo classico: «Al tempo della guerra
di Spagna, che io avevo una decina d’anni, al largo del mio pae-
se, Porto Empedocle, passavano spesso navi mercantili sovieti-
che cariche di viveri e di medicinali [...] Ogni tanto incappava-
no in posti di blocco della Marina militare italiana ed erano sot-
toposte a perquisizioni lungariose per vedere se c’erano armi
ammucciate nelle stive. Una notte scatasciò un temporale di
mala intenzione [...]».

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Passiamo dunque a Bruno Arpaia e al suo L’angelo della sto-
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ria, dicendo subito che la parte del romanzo che più ci interessa
coincide, pressappoco, con la sua prima metà, con quelle prime
centoquaranta pagine alla fine delle quali si assiste a un leggero,
tenue ma significativo passaggio di consegne, sul quale vale la
pena di intrattenersi per la particolare struttura del romanzo di
cui si è detto. Da un lato, infatti, abbiamo le città spagnole feri-
te fino alle soglie della primavera del 1939 e dall’altro la capita-
le francese colpita, l’alba del 3 giugno 1940, dalla Luftwaffe,
che bombarda Parigi, sintesi urbana altissima di « mille autres
fins du monde, au cours des millénaires» 123, secondo un libro
strano, da usarsi « con molta cautela», ma a tratti « suggestivo e
stimolante» 124, come Le matin des magiciens (1960) di Louis
Pauwels e Jacques Bergier; saggio romanzato, fantastorico, che
apocalitticamente mette insieme molte città ferite, diversi in-
cendi, e tanti dati senza indicare fonti, e nel caso specifico di
Parigi prosegue evocando il rogo di Berlino 125.

123
Louis Pauwels e Jacques Bergier Le matin des magiciens. Introduction au
réalisme fantastique, Paris, Gallimard, 1960 e «Folio», 1972, pp. 241-242.
124
È il giudizio di Furio Jesi, Cultura di destra cit., p. 53.
125
Che è poi solo il punto terminale, potremmo dire, di tutte le città te-
desche devastate da assedi terrestri e celesti di cui si incomincia a parlare con
più fervore in Germania e nel mondo per denunciare, a vari livelli d’indagine,
saggistico, storico e letterario, una realtà spesso taciuta dai vincitori – e dai
vinti – del secondo conflitto mondiale: penso, per le tante città tedesche feri-
te dai bombardamenti, al recente libro di Jörg Friedrich, Der Brand, del 2003
(La Germania bombardata. La popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati
1940-1945 cit.), e, per i rapporti tra bombardamenti, guerra aerea e letteratu-
ra, alle conferenze tenute a Zurigo nel 1997 da W. G. Sebald e raccolte nel
volume Luftkrieg und Literatur, München/Wien, Carl Hanser Verlag, 1997,
tradotto di recente con titoli discutibili, per quanto indicativi di un orienta-
mento del lavoro, in francese, De la destruction comme élément de l’histoire na-
turelle, Arles, Actes Sud, 2004, e in italiano, Storia naturale della distruzione,
Milano, Adelphi, 2004. Entusiasti molti recensori italiani (da Trevi a De Lu-
na). Più interessanti, a mio avviso, i rilievi di Gustavo Corni, Buchi della me-
moria, « L’Indice », 1, 2005, p. 5

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Del resto è pur vero che un amante un po’ particolare della
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capitale francese, Adolf Hitler 126, pensa a Parigi distrutta dal


fuoco e forse si fa profeta della distruzione di Berlino, percepen-
do quasi in un dionisiaco annientamento estetico quelle due
realtà urbane dove strategie e leggende oscure hanno poi finito
per intrecciarsi e dare più o meno buoni risultati romanzeschi:
da quelli francesi di Paris brûle-t-il?, del 1964, di Dominique
Lapierre e Larry Collins, a quelli italiani de Il rogo di Berlino,
del 1995, di Helga Schneider 127.
Nel romanzo di Arpaia, però, si parla di un altro amante di
Parigi, Walter Benjamin, che « non ebbe il tempo di prendere la
maschera antigas e scendere giù in strada, perché il bombardame-
no finì presto, lasciando in aria un odore di carne bruciaticcia, di
calcinacci e di polvere da sparo che gli arrivava a folate dalla fine-
stra aperta, mischiato alle sirene delle ambulanze e dei pompie-

126
Cfr. Arno Breker, Hitler: Paris à la sauvette, «Historia», 319, 1973, pp.
106-117. Ma cfr., dall’altra parte della barricata, la ricostruzione di Irène Némi-
rovsky, Tempête en juin, in Suite française (1941-1942), Préface de Myriam Anis-
simov, Paris, Denoël, 2004 e Paris, Gallimard, «Folio», 2006, pp. 31-303 (ma
cfr. anche pp. 519-537). Ha salutato l’edizione italiana di Suite francese, Milano,
Adelphi, 2005, e « il racconto cinematografico della fuga dei francesi da Parigi, nel
giugno del 1940, all’arrivo dei tedeschi» di Temporale di giugno, Gabriella Bosco,
Guarda la Francia che perde l’onore, « ttL tuttoLibri», 1488, 2005, p. 3.
127
Cfr. Dominique Lapierre, Larry Collins, Paris brûle-t-il? (25 août
1944), Histoire de la libération de Paris, Paris, Laffont, 1964, e Helga Schnei-
der, Il rogo di Berlino, Milano, Adelphi, 1995, dove sono pagine alte sulla pre-
sa della città da parte dei russi che ricordano talvolta l’anonima Una donna a
Berlino. Diario aprile-giugno 1945 (1954 e 1959), Milano, Mondadori, 1957
e Torino, Einaudi, 2004, con Introduzione di Hans Magnus Enzensberger, alle
pp. V-IX, scritta appositamente per la nuova edizione italiana, che segue la pri-
ma edizione tedesca del 1959. Sui russi a Berlino cfr. ancora Erich Kuby, Die
Russen in Berlin 1945, München-Bern-Wien, Scherz Verlag, 1965 ( trad. it.
Torino, Einaudi, 1966), e il più recente Antony Beevor, Berlino 1945 (2002),
Milano, Rizzoli 2003, autore che, usufruendo degli archivi russi e tedeschi,
riapproda anche, dopo un quarto di secolo, dopo The Spanish Civil War del
1982, alla riscrittura della guerra di Spagna con La guerra civile spagno-
la (2006), Milano, Rizzoli, 2006.

304

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ri» 128. È quasi un ‘punto limite’ del romanzo, dal quale, per i no-
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stri fini, bisognerebbe partire, per leggere il testo all’indietro e co-


gliere « il rigor mortis della guerra» che Koestler riesce a fuggire
« senza lasciare traccia» 129 ma dal quale Benjamin stenta ad allon-
tanarsi, « immobile» come la città ferita, che non può che atten-
dere il prossimo bombardamento, con « la voce di un profeta, cal-
ma [...] di chi si affida alla catastrofe per riaggiustare il mondo “in
un baleno”», fermo, seduto dietro quella « scrivania» della Bi-
bliothèque Nationale che diventa la sua «Linea Maginot» 130.
Fra il testamento, firmato, delle tesi Sul concetto di storia e
gli infiniti, quasi anonimi Passages, grande libro di citazioni in
cui « ogni frase era scritta come se fosse la prima ad affacciarsi al
mondo, o l’ultima prima della catastrofe» 131, l’opera e Walter
Benjamin, indissolubilmente legati, si specchiano insieme, nel
mondo delle città ferite, e ne diventano una sorta di doppio: «Il
libro si sarebbe presentato come un campo di macerie agli occhi
di un superstite che, ferito, si risveglia all’indomani di una bat-
taglia» 132.
Prima delle settanta pagine, à rebours appena percorse, do-
ve il destino di Benjamin e quello di Parigi si legano sempre
più, fra 1939 e 1940, emerge l’altro e ben diverso registro della
narrazione di Arpaia, affidato al combattente repubblicano
Laureano Mahojo, che fa l’amore finanche sotto i bombarda-
menti di Barcellona, pur incontrando qualche inconveniente di
natura ‘tecnica’ per l’evidente stress di copulare sotto le bombe;
luogo che è anche in Guernica di Lucarelli e che, nel contesto
della città ferita, offre una variante del binomio « amore e mor-

128
B. Arpaia, L’angelo della storia cit., p. 148.
129
Ivi, p. 145.
130
Ivi, pp. 138 e 136.
131
Ivi, p. 78. Cfr. a questo proposito S. Sontag, Sotto il segno di Saturno
(1978), in Sotto il segno di Saturno, Torino, Einaudi, 1982, [pp. 89-110], pp.
106-108.
132
B. Arpaia, L’angelo della storia cit., p. 78.

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te». Si seguono così, dall’inizio del romanzo, in un clima tragi-
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comico ma sostanzialmente serio, i destini urbani di Gijón, la


città di Laureano, che « sembrava un girone dell’inferno, illumi-
nata a giorno dagli incendi» 133; Bilbao, nel cui cielo, all’im-
provviso, « venivano cinquanta caccia, settanta trimotori, a
martellarci con le mitragliatrici e con le bombe» 134; la citata
Barcellona, dove, finito il bombardamento, si esce dal rifugio, si
scherza e si ride con le ragazze, ma constatando che « c’era poco
da ridere, là fuori»: «Non si contavano, i morti e i feriti. Do-
vunque fumo e polvere, e le sirene delle ambulanze che andava-
no e venivano. Palazzi interi si erano sbriciolati come se fossero
stati fatti di torrone, nelle strade si aprivano voragini e l’acqua
che sprizzava dalle tubature avvolgeva in lenti mulinelli i corpi
dei povericristi che ci erano rimasti intrappolati» 135. E poco do-
po la stessa Barcellona viene presentata come una « città intonti-
ta dai bombardamenti», grazie all’accanirsi degli italiani che
« partivano dalla base aerea di Maiorca e scaricavano più bombe
che potevano» 136. Tra l’altro, proprio i latini sono i responsabi-
li del coito interrotto a cui accennavo, che lascia libero il campo
ad alcuni momenti di questa nuova guerra moderna e tecnolo-
gica, come, in parte, nel racconto di Carlotto, coi bombarda-
menti a tappeto, continui: «Arrivavano a ondate, i bombardie-
ri, più o meno ogni tre ore, colpendo ogni quartiere, ogni
obiettivo civile e militare. Mai visto uguale. Era la prima volta
nella storia, e io mi ci trovavo in mezzo» 137. Siamo vicini, in-
somma, alla caduta di Barcellona, il 26 gennaio del 1939, città
che ormai si evoca quasi soltanto in relazione ai « bombarda-
menti, sempre più forti sempre più spaventosi» 138. Sembra di

133
Ivi, pp. 10 e 16.
134
Ivi, p. 11.
135
Ivi, p. 24.
136
Ivi, p. 35.
137
Ivi, p. 36.
138
Ivi, p. 68.

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sentire – ma con segno mutato – un documentario di Giorgio
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Ferroni, ¡España, una grande libre ! (1939): «Già l’aviazione le-


gionaria, anticipando la marcia liberatrice delle truppe, domina
i cieli della Catalogna. Già le aquile d’acciaio sovrastano la città
che attende [...] ultimi giorni di Barcellona rossa». E «Barcello-
na caduta nelle mani dei franchisti» è evocata infatti nel prosie-
guo del romanzo di Bruno Arpaia 139 ma sconfina già, per quel
passaggio di consegne di cui si è detto, nella narrazione dedicata
a Walter Benjamin e a Parigi. Anche se punto d’incontro e ren-
dez-vous ultimo dei due diversi destini esistenziali non è una
grande città ferita ma un microcosmo, un paese, Port Bou: an-
ch’esso, comunque, ferito, con le « macerie della guerra ancora
in giro» 140.
Quando il romanzo di Arpaia appare in Francia, col titolo
mutato in Dernière frontière, Lionel Richard, recensendolo, in
appendice al dossier del «Magazine littéraire» dell’aprile 2002,
dedicato a Walter Benjamin, commenta: « un roman qui n’est
qu’une coquille bourrée d’artifice dans un bricolage conven-
tionnel» 141. C’è del vero anche se il giudizio è troppo severo e
parziale, essendo basato, sostanzialmente, sulla parte benjami-
niana del romanzo.
La parte migliore del testo di Arpaia – con i limiti che ab-
biamo visto – è quella dedicata a Laureano, le cui gesta, eroiche
ed erotiche, sono colte, in parallelo, insieme al destino di Benja-
min e dell’Europa, quasi come una sorta di controcanto comi-
co-serioso alla tragicità degli anni Trenta e del 1940. Nell’Ange-
lo della storia si gioca troppo, come si è già suggerito, sul bipola-
rismo “combattente-corpo” e “intellettuale-testa”. Verso la fi-

139
Ivi, p. 75. Cfr. il DVD Spagna 1936-1939, Roma, Istituto Luce, 2004.
140
Ivi, p. 177. E per Port Bou cfr. ancora quel poco noto antecedente ita-
liano su cui attiravamo l’attenzione alla fine del secondo capitolo di questo vo-
lume: cfr. Vittorio Bodini, La lobbia di Masoliver (1968-1969) in La lobbia di
Masoliver cit., [pp. 89-96], p. 94.
141
Cfr. «Magazine littéraire », 408, 2002, [pp. 59-60], p. 59.

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ne 142, Benjamin insiste per consegnare il suo testamento, le tesi
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citate, Sul concetto di storia, testo di estrema densità speculativa


e di incisiva laconicità, a un uomo che « non capiva perché quei
fogli scritti fitti fitti fossero più importanti di lui [Walter Benja-
min] e della sua vita»; a un uomo che nel 1940, a un anno dal-
la fine della guerra civile, fa il contrabbando per amore e si sve-
glia, una di quelle mattine in cui incrocia il filosofo, con pensie-
ri di tal fatta: «Si sa, le donne, anche se non lo dicono, non ce
n’è una a cui non piaccia essere ripassata la mattina presto, av-
volte in quell’odore di dormito, rimbambolate ancora per il
sonno, quasi meravigliate» 143. Ed è davvero il contrasto iterato,
quasi didascalico, a frenare il ritratto parallelo dell’intellettuale
tedesco sulle solite coordinate: un “topo da biblioteca” la cui re-
sistenza, fatta di lettura e scrittura, è talmente assolutizzata, an-
che a livello morale, da diventare banale; un uomo inetto, soli-
tario, chiuso, che però alla fine si apre con il primo che arriva,
quasi riconoscendo un alter ego (veramente altro, qu’on se le di-
se). Chi si emancipa, poi, non è neppure il soldato-contrabban-
diere, che da « ottuagenario» racconta tutta la sua vita, e tutto
quello che sa del filosofo e critico tedesco, e che finisce per in-
carnare un luogo comune: la resistenza della vita fondata su ben
altri pensieri, come quelli citati poc’anzi. Insomma, un po’ di
sesso, in guerra, ti salva dalle bombe, da Franco e finanche, in
un’altra guerra, dai nazisti e dal governo di Vichy.
Certo, Arpaia, confrontandosi con Benjamin, cerca un vero
ritmo storico, storico-biografico, che sposa anche realistici squar-
ci narrativi e battute felici, azzeccate, come quelle giocate intorno
a Le Rouge et le Noir di Stendhal: «A rue de l’Odéon, la libreria
era chiusa, Adrienne non c’era ancora [...] Adrienne aprì le impo-
ste [...]. “Parto, ho deciso”, confessò Benjamin [...] “è proprio si-
curo di partire ? Parigi è così grande, il posto ideale per nascon-

142
B. Arpaia, L’angelo della storia cit., p. 249.
143
Ivi, p. 205.

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dersi” [chi parla è Adrienne Monnier ma sembra Benjamin, che
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invece qui dice con inedita concretezza] – “[...] lei non conosce i
tedeschi quanto me” [...] le mani si agitavano attorno a un libro
di Stendhal [...] “Allora”, si decise a dire “già che ci siamo, le pos-
so chiedere di regalarmi anche Il rosso e il nero? Vorrei rileggerlo
ma la mia copia è dispersa da anni per l’Europa...”. Ventiquat-
tr’ore dopo, i tedeschi attraversavano la Senna [...]» 144.
La storia è andata così, la vita anche. Arpaia traduce in
letteratura ma regola la contaminazione del feticcio, sfuman-
dola, ed allontana gli eccessi del romanzesco ‘postmoderno’ di
Tutto il ferro della Torre Eiffel di Michele Mari, pubblicato da
Einaudi nel 2002. Ambizioso, divertente ma tutto raccolto in
una divagazione letteraria, come qualche recensore ha potuto
suggerire 145.

Abbiamo sopra accennato, con Arpaia, a Maiorca e ai bom-


bardieri italiani che dalla base aerea dell’isola partono con il lo-
ro carico di morte verso le città spagnole in mano ai rossi. Tan-
te le immagini che tornano su questa realtà nel lungo romanzo

144
Ivi, pp. 159-161, con stralci. Per Adrienne Monnier e Sylvia Beach cfr. il
recente e ricco volume di Laure Murat, Passage de l’Odéon. Sylvia Beach, Adrienne
Monnier et la vie littéraire à Paris dans l’entre-deux-guerres, Paris, Fayard, 2003.
Cfr. Nicola Bertasi, Alla ricerca del libro perduto, «Alias», 21, 2005, p. 5.
145
Cfr. Alessandro Barbero, La letteratura come feticcio. Benjamin e il nano
malefico, «L’Indice», 1, 2003, p. 8. Sull’uso che di alcuni grandi critici e intellet-
tuali del Novecento, fra Walter Benjamin (1892-1940), per l’appunto, Giacomo
Debenedetti (1901-1967) e Roberto Bazlen (1902-1965), ha fatto la narrativa
degli ultimi vent’anni, da Del Giudice a Arpaia e Mari, passando per Antonio
Debenedetti, ho tenuto una lezione a Firenze il 12 novembre 2003, intitolata
Un angelo, un dandy e « un uomo a cui piaceva vivere negli interstizi della cultura e
della storia». Più recentemente, ho cercato di rilanciare e approfondire il discorso
in Il fascino della differenza nell’identità (in crisi) dello scrittore, del critico e dell’in-
tellettuale. Bazlen, Debenedetti, Benjamin nella narrativa italiana: 1983-(2001)-
2004, relazione al Convegno di Grenoble, Images et formes de la différence dans la
littérature italienne des années 1970 à nos jours, 24-25 novembre 2005 (di prossi-
ma pubblicazione negli Atti dello stesso a cura di Alain Sarrabayrouse).

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di Fabrizia Ramondino, Guerra di infanzia e di Spagna, che è,
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per l’appunto, d’ambientazione maiorchina e che recupera le


prime Storie di patio (1983), La signora di Son Batle, I servi, Gli
uccelli di Narcís, Il fidanzamento 146, offrendole al lettore legger-
mente modificate nella Parte prima.
Per le immagini relative alla realtà della guerra, dei bombar-
damenti, c’è quasi l’imbarazzo della scelta, perché L’isola incanta-
ta, come recita il secondo capitolo della Parte prima del romanzo,
ospita l’immaginario infantile della piccola protagonista ma an-
che, subito, la guerra: «Dalle stecche delle persiane filtrava il sole,
e il profumo dei mandorli in fiore avvolgeva a folate l’isola, ma in
cielo si udiva il rombo degli aerei levatisi in volo a bombardare
castelli o caserme» 147. L’avversativa è forte ma non apre sulle città
ferite. Di fatto, Ramondino seguirà raramente il volo degli aerei
fino alla loro infuocata meta urbana. Il punto di vista che li inse-
gue li perde prima, magari in un campo dell’isola, come ne L’uc-
cello della guerra 148. Del resto, nemmeno le Notizie della guerra –
capitolo della Parte quarta – vogliono completare il quadro in
questo senso, né quelle poste in Appendice e già citate 149.
Quello che più interessa a Fabrizia Ramondino è enuncia-
re una certa contaminazione dell’Eden, del parco d’infanzia 150.

146
Cfr. F. Ramondino, Storie di patio cit., pp. 3-92.
147
Cfr. F. Ramondino, Guerra di infanzia e di Spagna cit., p. 23. Cfr. Mary-
line Maigron, Conflits armés et conflit intérieur dans «Guerra di infanzia e di Spa-
gna» de Fabrizia Ramondino, in Images littéraires de la société contemporaine, Atti
del Convegno di Grenoble, 21-22 novembre 2003, a cura di Alain Sarrabayrouse,
«Cahiers d’études italiennes. Novecento... e dintorni», 3, 2005, pp. 155-165.
148
Cfr. F. Ramondino, Guerra di infanzia e di Spagna cit., pp. 227-229;
ma cfr. anche, per esempio, p. 197.
149
Ivi, pp. 365-368 e 415-417.
150
Sull’infanzia e la guerra civile spagnola si vedano, in questa prospettiva,
ma senza la mediazione dell’isola incantata, alcune pagine di François-Marie Ri-
badeau, Le pain et la pierre, s.l., Atelier Marcel Jullian, 1979, pp. 67-75, relative
al cap. IV, Guerre civile dans le village. Ma cfr. almeno, per diverse considerazio-
ni generali, tutte importanti, Donald W. Winnicott, Les enfants et la guerre
(1940) in Les enfants et la guerre (1984), Paris, Payot et Rivages, 1994 e «Petite

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In questa prospettiva – con tonalità forti e crude che la avvici-
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nano, in parte, a un’altra voce partenopea, Elena Ferrante 151 –


un dito ficcato nell’ano alla bambina da un amante della capo-
cameriera, « un chiodo di carne » – che si traduce nella parola
« tortura » e poi « tormenti», come quelli delle « vergini martiri
cristiane e delle suore di Barcellona » 152 – sembra valere una
bomba, un bombardamento; e tale episodio anticipa finanche
la Storia del bambino di Guernica, la violenza, la tortura, il tor-
mento che il nin ha dovuto subire, nella realtà storica e non
fuori di essa, e quindi anche nelle città ferite dalla guerra (e
non nell’isola che non c’è).
Non è un caso, tra l’altro, che nella Storia del bambino di
Guernica vi sia un antefatto di natura sessuale, con un giovane
quindicenne che si farà frate perché, innamoratosi di una bella
vicina di casa, ne cercherà i favori ma troverà solo un « seno nu-
do [...] tutto piagato, divorato dal cancro», che verrà interpre-
tato, fra sacro e profano, come una sorta di rivelazione, di
«Nuestra Señora de la teta» 153. Insomma, il corpo o l’anima
dell’uomo è il luogo vero, fisico, della ferita. Tanto che sulla
città distrutta dal bombardamento il 26 aprile 1937 l’autrice
propone il secco racconto del frate ormai âgé, ma cercando, si-
gnificativamente, un legame con ciò che della guerra tutti san-
no e vivono a Maiorca, compresi i bambini.
In questo senso, chi scrive sembra quasi chiudere il raccon-
to in un immaginario infantile e isolato. Quel racconto che poi
invece si apre su una specie di apocalisse tesa ad evadere il solito

Bibliothèque Payot», 2004, pp. 39-48; A. Bravo, A. M. Bruzzone, Bambine in


In guerra senza armi cit., pp. 83-106; Madeleine Frédéric, La guerre 14-18 dans
les romans belges de l’entre-deux-guerres, in La guerre, notre matrice, «Jibrile», 5,
2005, pp. 54-61, che discute anche di un testo di recente riproposto, ovvero di
Georges Linze, Les enfants bombardés, Bruxelles, Renaissance du Livre, 1936 e
Bruxelles, Labor, 2002.
151
Penso qui, soprattutto, a L’amore molesto (1992).
152
Cfr. F. Ramondino, Guerra di infanzia e di Spagna cit., p. 63.
153
Ivi, pp. 202 e 203.

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luogo comune della nuova guerra moderna e tecnologica, no-
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nostante il familiare attacco che la introduce: «Ed ecco, all’im-


provviso, fu l’inferno ! Il cielo rombò. A quel rumore mi si gelò
il sangue; lo conoscevo bene quel rumore. Tutti lo conoscono
bene a Maiorca. Ma non erano uno, due aerei, nemmeno una
squadriglia di cinque. Erano centinaia, oscuravano il cielo, luce-
vano, sputavano fuoco e fiamme. Non sapevo se fuggire o get-
tarmi per terra, o ancora accovacciarmi coprendomi il volto con
le mani. “Ma no, – mi dissi – Voglio vedere in faccia Dio ! ” E
rimasi in piedi con gli occhi al cielo» 154. E quel Dio – che è poi,
se vogliamo, il diavolo di Lucarelli e del genere letterario che
frequenta – lascia Guernica in questo stato: «La città era un
ammasso di rovine, di sangue, di lamenti; ebbene, era proprio
simile al seno che mi aveva mostrato la mia donna. Tutta putre-
dine e piaghe» 155. Eccolo il point d’ancrage di Fabrizia Ramon-
dino, che del resto si intuiva ben prima, come si è detto.
La traduzione simbolica che la scrittrice partenopea mette
in bocca a quel saltimbanco di frate, a un personaggio margi-
nale alla Soler, ha il sapore amaro di una sentenza ed è struttu-
ralmente ineccepibile. La città ferita è davvero, in queste pagi-
ne, il corpo dell’uomo ferito, torturato dal male dell’esistenza,
della Storia. Non ci sono mediazioni e astrazioni intellettuali e
quelle religiose e metafisiche accrescono, con un po’ di ironia,
la parabola drammatica del fatto storico, amplificandola a par-
tire da un universo infantile che non solo non ne è immune
ma che ne diventa, suo malgrado, protagonista. Non a caso
l’evocazione delle macerie di Guernica porta al ritrovamento
del nin, che è come se fosse stato torturato dal bombardamen-
to: « per tre giorni girai fra le macerie a soccorrere i feriti e i
morenti. Trovai il nin in una piazzetta sotto un albero divelto.
Pareva dormire, era invece in coma, gravemente ferito; e quasi

154
Ivi, pp. 206-207.
155
Ivi, p. 207.

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a volersi prendere gioco di lui, gli era finita nel cavo del braccio
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una palla...». Dopo le cure apportategli in un convento, che è


posto significativamente « fuori città», il bambino guarisce ma
non parla: « Non parla, sapete, non tanto per la paura che s’è
preso, ma per l’orrore che, se parlasse, sarebbe costretto a rac-
contare al mondo» 156.

156
Ibidem.

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POSTFAZIONE
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Il volume che avete fra le mani è costituito da un trittico un po’


anomalo, almeno a livello cronologico. Questa postfazione intende of-
frire qualche spiegazione supplementare sia in relazione alla struttura
del libro, al suo progressivo formarsi, sia in relazione al taglio, alle mo-
dalità discorsive che frequenta e che in parte mutano di capitolo in ca-
pitolo col mutare della ricezione della guerra civile spagnola nella nar-
rativa italiana; e talora negli immediati dintorni del genere, con, per
esempio, l’aprirsi e l’aggregarsi di racconti e romanzi a prose di memo-
ria, reportages, diari, saggi, studi, che inizialmente, negli anni della
guerra, sembrano tradurre tutto l’impegno antifascista – o accordarsi
con la propaganda di regime – ostacolando quella versione romanzesca
dell’engagement che invece decolla in altre tradizioni, come la francese
e l’anglo-americana.
Si sarà notato lo scarto cronologico fra il primo capitolo dedicato
a L’antimonio, lungo racconto sciasciano comparso nella seconda edi-
zione de Gli zii di Sicilia (1960), e il secondo, che ritorna più volte ai
tempi della guerra, riprendendo il discorso su Sciascia, in modo diver-
so, con un intervento che cerca di accogliere le tradizioni sopra citate,
la loro influenza e le concatenazioni di un imaginario complesso, fra
anni Trenta e Sessanta.
Dopo aver dato voce alla propaganda di regime, tra narrazione,
teatro e cinema (Sighinolfi, Rivalta, Genina), si è cercato, con triadi
narrative più o meno esemplari e connesse a una «teoria delle genera-
zioni», di salire dagli anni Trenta ai Quaranta e ai Cinquanta e di cor-
rere infine alla morte di Franco (1975), con l’inizio della cosiddetta
«transizione»; quella «transizione» che forse «libera» la Spagna e ne fa
un po’ dimenticare la guerra civile, almeno in Italia – che è l’Italia degli
anni di piombo – e a livello romanzesco (ma finanche nella «penisola
pentagonale» bisogna attendere i due decenni successivi, per l’attenta
Maryse Bertrand de Muñoz).
Cela dit, il secondo capitolo prova comunque a sconfinare in una
stagione talora chiamata, per comodità, ‘postantimoniesca’ e coinci-

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dente con gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta (e con la loro prima
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metà, soprattutto). Tale rapido sconfinamento, a dir il vero, non è


molto significativo per rilievi testuali – ma forse esistono in quell’arco
temporale altre esperienze narrative italiane, anche importanti, che per
ora mi sono sfuggite – e proprio per questo, quasi par ricochet, si affida
a estese citazioni – contenute invece là dove i riscontri sono molteplici,
talora più concisi, disseminati e più facilmente traducibili in nota e
magari col supporto del solo numero di pagina.
Insomma, la complicità col lettore potenziale si gioca in presenza
di testi recensibili con una certa facilità in seno alla ricezione della
guerra civile spagnola nella narrativa italiana, rinviando anche e al li-
mite, in tal senso, a un possibile progetto di antologia, a cui accennere-
mo più avanti. Al tempo stesso, il desiderio di ancorarsi a pochi passi
scelti e fondanti proposti per intero – e per frammenti, talvolta, a più
riprese – risponde a una strategia d’insieme e a un vecchio sogno: fon-
dere il libro di citazioni di benjaminiana memoria, sul quale ho avuto
occasione di riflettere, con la microlettura bachelardiana e richardia-
na 1, accusata di essere una forma impressionistica e soggettiva di criti-
ca. Fin dall’inizio, ho cercato di sostenere e correggere questa pratica
grazie all’apporto – e alla ‘trasversalità’ – di un ampio contesto, fatto di
storia, filosofia, critica sociale e impegno politico, ma anche di indizi
filologici, di ricerca delle fonti, di trame intertestuali. Il tutto in seno a
un approccio comparatistico e interdisciplinare. In tal senso, mi sono
rifatto al cinema, anche a quello popolare, fino a “reinnestare” le amare
intuizioni di certa commedia all’italiana, pur sottolineando le facili
(beffarde) e talora involontarie complicità della stessa col proprio og-
getto di satira: il fascismo, con le sue guerre, nel mio caso.

Se la stagione ‘postantimoniesca’ degli anni Sessanta, Settanta e


Ottanta non offre tanti appigli al discorso critico, questo sembra de-
collare con una certa facilità quando si cercano intersezioni con il pre-
sente; un presente più disinvolto e a tratti stereotipato che possiamo
far partire dagli anni Novanta e far correre fino ai giorni nostri.

1
Mi sia concesso rinviare a L. Curreri, «Démolitions» e ferrovie. Su alcune
deprecazioni del moderno tra Francia e Italia nella poesia del secondo Ottocento,
«Franco-Italica», 5, 1994, pp. 71-115; «Les images avant les idées», «Franco-Itali-
ca», 13, 1998, pp. 177-218.

316

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Proposte anche in via provocatoria, tali intersezioni servono so-
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prattutto a introdurre il terzo e ultimo capitolo, al presente dedicato, e


a legarlo maggiormente ai primi due (ché una prima e ridotta stesura
del terzo – qui ampliata e interamente rivista – era già uscita due anni
fa nei «Cahiers d’études italiennes. Novecento... e dintorni», 1, 2004,
pp. 175-202, in un numero dedicato a Dire la guerre?). Ciò spiega an-
che qualche ripetizione, di cui mi scuso.
Perché, allora, partire con L’antimonio? Perché non procedere inve-
ce à rebours e fare del racconto sciasciano la tappa intermedia e centrale
di un discorso più ordinato e concepito come un back to the source?
La preferenza accordata a L’antimonio non si spiega soltanto con il
racconto in sé, che pure è un capolavoro e resta, a mio umile avviso, la
migliore prova narrativa italiana sulla guerra civile spagnola, con passi
che andrebbero antologizzati e finanche «canonizzati»; né si spiega solo
con l’attento e prolungato interesse di Sciascia a quel conflitto, prima e
dopo quel racconto, come tentano di mostrare anche parti del secondo
capitolo, in questo senso già legato al primo e da esso dipendente; e di-
pendente, soprattutto, dal suo ruolo forte di introduzione e di saggio-
guida, che si sforza di far dialogare la microlettura con un contesto stori-
co e letterario già nutrito di scrittori che torneranno nel prosieguo del di-
scorso, come Vittorini e Brancati, e di frequentare L’antimonio nella sua
interezza esplicita e implicita, di racconto e di potenziale romanzo, e
nell’insieme de Gli zii di Sicilia, specie a partire da La morte di Stalin.

Il fatto è che ne L’antimonio la guerra di Spagna diventa, nel freddo


del secondo dopoguerra, un episodio caldo e essenziale della riflessione
intellettuale sui rapporti tra cultura e potere, tra immaginario e storia,
offrendone quasi una sintesi fra passato e futuro, dagli anni Trenta ai Ses-
santa e oltre, ovvero e almeno fino agli anni Ottanta, dove sono gli ulti-
mi testi sciasciani, evocati fin dall’inizio, a offrire ancora appigli per un
discorso altrimenti difficile da frequentare, come si diceva sopra.
Inoltre, anche gli anni Novanta e quelli immediatamente succes-
sivi, nell’alba del nuovo millennio che stiamo vivendo, ripescano so-
vente la guerra civile spagnola come specchio delle contraddizioni in-
site nei rapporti tra cultura e potere, tra immaginario e storia, talora
quasi rivivendole con la stessa intensità, talora servendosene in manie-
ra più disinvolta. C’è Antonio Tabucchi che ripensa a Sciascia (e a Pa-
solini) con molta nostalgia, il Tabucchi de La gastrite di Platone (1997
e 1998), ma anche quello di Sostiene Pereira (1994), prima, e di Tri-

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stano muore (2004), poi, così vicino nel recupero ‘critico-criptico’ del-
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la storia e della guerra di Spagna al Claudio Magris di Alla cieca


(2005); ma ci sono anche Pino Cacucci, Fulvio Abbate, e poi Carlo
Lucarelli, e Bruno Arpaia.
Dunque, iniziare con Sciascia è un modo per ancorare gli stessi
aggiornamenti, individuati tra vecchio e nuovo secolo e millennio, a
un discorso che non vuole soltanto provare a sondare quella tradizione
narrativa italiana che in rapporto alla guerra civile spagnola pare quasi
inesistente e, nel migliore dei casi, perduta, trascurata dai lettori e dagli
studiosi. Di più. Far reagire la microlettura del cosiddetto «passo delle
farfalle» – da cui anche il titolo del libro, tratto dalla frase «Giravamo
intorno a Madrid come di notte le farfalle intorno al lume» – con una
serie di approssimazioni a L’antimonio, a un’etica del linguaggio ne
L’antimonio, significa muoversi anche e subito in seno al presente, alla
ricezione che l’oggi ha e può avere di Leonardo Sciascia e di certe sue
immagini e di certe sue idee.

In tal modo, passando dal primo al secondo e terzo capitolo, tali


approssimazioni ci permettono anche di fare alcune distinzioni in seno
al presente, a partire da un passato prossimo, il felix limes sciasciano del
1960, che è già una summa del passato tout court, quello degli anni
della guerra di Spagna e dei seguenti; anni nutriti, purtroppo, di altre
guerre, mondiali e civili, che a quella finiscono per sovrapporsi, talora
ribattezzandola in seno ad altri conflitti, talora perdendone la specifi-
cità o addirittura perdendola completamente di vista.
Ma la guerra civile spagnola può informare il nostro presente, «da
lontano», e in tal senso insegnarci a dire il presente appena passato, la
guerra dell’ex Jugoslavia, con, per esempio, L’autopsie Yougoslave
(1999) di Rada Ivekovic] 2; e finanche quel presente che è già futuro,
con i centri d’accoglienza di cui parla ancora Tabucchi in Gli Zingari e
il Rinascimento (1999).
Se non isoliamo la letteratura, come dire, «da biblioteca», quella
espressa, incarnata da uno Sciascia, prima da un Vittorini, la guerra ci-

2
Cfr. Rada Ivekovic], Autopsia dei Balcani. Saggio di psico-politica (1999),
Milano, Cortina, 1999, p. IX, che come prima epigrafe del suo lavoro cita non
a caso María Zambrano, El español y su tradición: «Si dovrebbe guardare alla
Spagna e al suo dramma da lontano [...]».

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vile spagnola può ancora informare il nostro presente. Dobbiamo solo
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ritrovare la letteratura che tutti noi abbiamo promosso e forse troppo


presto rimosso, limitandone e sfumandone l’impatto in seno a una co-
munità ‘postmoderna’ fatta di opinion makers più che di veri e impe-
gnati scrittori, intellettuali.
Ben al contrario, dovremmo fare di quella letteratura una chiave
per entrare nell’oggi; in un oggi percorso anche, e senza timori, in seno
a una pratica quasi giornalistica, «da libreria», «da edicola» e «da rete»,
che muta il taglio del discorso ma non dimentica le approssimazioni a
un’etica del linguaggio che L’antimonio ci ha permesso di evidenziare
in relazione al dato storico della guerra civile spagnola.
C’è comunque e ovviamente un rischio; anzi, ce ne sono due, as-
sai legati fra loro. Il primo rischio consiste nel fatto che Sciascia po-
trebbe rivelarsi, in fin dei conti, troppo ingombrante e poco funziona-
le, come metro di misura. Il secondo è che l’oggi – per quanto ancora-
bile a L’antimonio e alle tradizioni (italiane e non) che questo racconto
ai nostri occhi riassume – potrebbe apparire piuttosto slegato e magari
troppo giocato su ipotesi di rassegne, selezioni e giudizi tranchants.
Ma ci sono anche due vantaggi, altrettanto legati, connessi, e più
o meno immediati: si disegna una «mappa» per i naviganti e si giunge
in qualche modo a traghettare la più o meno implicita ricezione narra-
tiva degli anni della guerra (triade di Vittorini, Delfini, De Céspedes),
con quella esplicita ma non così espansa del secondo dopoguerra e dei
decenni successivi (Jovine, Brancati, Pavese; Nitti, Parise, Dessí; e poi
Lajolo, Bevilacqua e Joyce Lussu, Bodini; Chiusano) e infine con quel-
la più diffusa e in alcuni casi più disinvolta, se non proprio stereotipa-
ta, di un presente composito (Tabucchi, Cacucci, Lucarelli, Carlotto,
Arpaia, Abbate, Casadei, Ramondino, Eco, Magris, Baravalle). E in
questo schema, per varie ragioni, spiegate nel testo o in nota, restano ai
margini autori che vengono comunque ricordati una o più volte, come
Linati, Puccini, Rèpaci, Montanelli, Bartolini, Amoroso, Camilleri e
Atzeni (o Evangelisti).

Le ricerche e le ipotesi interpretative che sono alla base di questo


libro risalgono al gennaio 2003. Rispondendo a un invito di Enzo
Neppi e Christophe Mileschi e approfittando di un breve rientro in
Italia, dell’ospitalità dei miei genitori e dell’amicizia di Anna e Laura
Dolfi e di Lidia De Federicis, comincio a raccogliere velocemente ma-
teriali per un intervento al seminario del GERCI dell’Université

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Stendhal di Grenoble – dedicato quell’anno al tema della guerra – pre-
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visto per il 31 gennaio. Il titolo che scelgo per l’incontro è la frase de


L’antimonio sopra già citata, «Giravamo intorno a Madrid come di notte
le farfalle intorno al lume», ma con un sottotitolo, Aggiornamenti sulla
narrativa italiana e la guerra civile spagnola (1996-2002), che già cerca
di avvicinare l’oggi.
La lettura folgorante de L’antimonio risale al dicembre 2002. Di
quel racconto parlo poi con l’amico Giuseppe Traina, docente all’Uni-
versità di Catania che, indicandomelo come un testo un po’ trascurato
dalla critica e fornendomi alcuni dati e materiali per incoraggiarmi, mi
invita a scrivere un saggio: un saggio che «Pippo» avrà la pazienza di
leggere e discutere, a partire dalla data della seconda edizione de Gli zii
di Sicilia, che per Einaudi è il 1960, anche nell’edizione più aggiornata
del catalogo storico, oltre che nelle riedizioni della raccolta che ho avu-
to occasione di consultare. Ma in alcuni recenti volumi e articoli si tro-
va talvolta la data del 1961, non suffragata tuttavia da riscontri concre-
ti, esibiti chiaramente nel testo o in nota.
Certo, titolare con citazione sciasciana, a Grenoble, all’Université
Stendhal, era, innanzi tutto, un omaggio a Claude Ambroise, collega
in un tempo di accese discussioni, su Pasolini, Sciascia e tant’altro. Ma
titolare con citazione sciasciana era anche ed è a tutt’oggi, lo ripeto, un
modo per ancorare gli aggiornamenti a una tradizione narrativa italia-
na che in rapporto alla guerra civile spagnola pareva trascurata dai let-
tori e dalla critica, un po’ come L’antimonio.
In effetti, nei tre anni intercorsi, al di là degli elementi proposti nel
seminario, la mia ricerca si è mossa soprattutto in due direzioni, provan-
do a colmare da un lato, a partire soprattutto dagli studi di Ambroise, il
vuoto d’attenzione nei confronti dell’Antimonio e dall’altro un vuoto più
generale di interesse e di dati nei confronti della tradizione, poi distesa
nel plurale interrogativo delle «Tradizioni perdute o inesistenti?».
Due le tappe significative di questa promenade: un agile volu-
metto saggistico dedicato in gran parte al racconto di Sciascia, alle
sue fonti e ai suoi dintorni, proposto a Donzelli di Roma grazie
all’aiuto dell’amico Francesco Benincasa, e un progetto di antologia
per l’editore Einaudi di Torino, basato su racconti, più o meno lun-
ghi ma autonomi, e su capitoli facilmente estrapolabili, e ancorato
prima solo a lavori italiani, di Delfini, Jovine, Nitti, Sciascia, Luca-
relli e Ramondino, e poi anche a scritti stranieri, di Sartre, Corman,
Hemingway, Regler, Sender, Nyssen, Chacón. Questo progetto, pre-

320

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sentato grazie agli amici Paolo Collo e Maria Teresa Polidoro, è nau-
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fragato putroppo due volte, nel dicembre 2003 e nel luglio 2005, e
in quel mezzo è stato in lettura presso altre case editrici di area tori-
nese per interessamento di Claudio Gallo, Milva Maria Cappellini,
Enrico Badellino (Aragno, S.E.I., la vecchia Testo & Immagine) e ro-
mane (Donzelli e Quiritta, che putroppo è scomparsa, nonostante il
successo del suo piccolo ma interessante catalogo di scrittori italiani).

Insomma, come nella migliore tradizione, il seminario, l’incontro


con amici e colleghi, attenti, curiosi, è stato l’input di una ricerca che si
è poi oltremodo sviluppata, ben al di là di quella sede e della sua collo-
cazione editoriale, la rivista sopra citata, alla quale ho affidato un sag-
gio con titolo mutato e oscillante Tra Madrid – che è, fin dall’inizio del
conflitto e lungo l’intera durata dello stesso, simbolo di tutta la resi-
stenza urbana ferita in Spagna (e altrove) – e Guernica, l’«événement-
symbole» di Guernica, il cui nome – «plus brûlant que les flammes de
son incendie» (secondo Pierre Vilar, Présentation a Herbert R.
Soutworth, La destruction de Guernica. Journalisme diplomatie propa-
gande et histoire, cit., pp. X-XI) – compare più o meno significativa-
mente nei racconti e romanzi di Lucarelli, Carlotto, Ramondino.
Inoltre, come si può desumere dall’ultimo paragrafo del volume e
da certe note, che in modo contenuto aprono su altre realtà urbane
(non solo spagnole), Madrid e Guernica rappresentano un più genera-
le sviluppo della ricerca, dedicato alle Città ferite nella narrativa italia-
na del Novecento. Anche se la guerra di Spagna ha poi finito per assor-
bire quasi tutto il mio tempo. In tal senso va letta la mia partecipazio-
ne a un importante convegno ad essa dedicato nel 2005 – dove ho po-
tuto confrontarmi con esperti come Jean Alsina, Bartolomé Bennassar,
Maryse Bertrand de Munoz, José Carlos Mainer e giovani come André
Bénit, Robert Coale, François Godicheau, Mercedes Yusta – e anche
parte di un mio contributo a una miscellanea del 2006 sugli intellet-
tuali tra XX e XXI secolo, fra crisi delle ideologie e «perte d’influence
de l’intelligentsia dans la vie publique» 3.
A proposito, rinvio a due imminenti pubblicazioni: Que peut la
guerre d’Espagne dans le roman italien?, negli Atti del Colloque interna-

3
Cfr. ancora la sintesi di Christian Delporte, Intellectuels et politique cit.

321

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tional de l’Université de Clermont-Ferrand, La guerre d’Espagne en hé-
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ritage (1975-2004), 10-12 mars 2005, a cura di Viviane Alary e Da-


nielle Corrado; La sfida di non farsi leggere. Appunti intorno a «Tristano
muore» (2004) di Tabucchi e «Alla cieca» (2005) di Magris, in Intellet-
tuali italiani del secondo Novecento, a cura di Angela Barwig e Thomas
Stauder, Frankfurt/M., Verlag für deutsch-italienische Studien, «The-
men der Italianistik».
Desidero poi ringraziare ancora tutti gli amici del GERCI per l’af-
fettuosa accoglienza a Grenoble, in quell’Università in cui ho potuto la-
vorare due anni come A.T.E.R. – riuscendo a terminare e a discutere la
mia tesi di dottorato – e dove ho iniziato a pensare a questo libro. E rin-
grazio anche e almeno un paio di amici e colleghi dell’Université de Liè-
ge, dove ho compiuto il lavoro, Jean-Pierre Bertrand e Benoît Denis, e
gli studenti degli anni 2004-2005 e 2005-2006, che hanno seguito un
corso sulla guerra civile spagnola in due tempi, da Vittorini a Sciascia e
da Sciascia a Tabucchi e alla Ramondino. E ancora grazie a Milva Maria
Cappellini, Angelo Piero Cappello, Lidia De Federicis, Fabrizio Foni,
Francesco Leoncini, Giuseppe Papponetti, Maria Teresa Polidoro, Giu-
seppe «Pippo» Traina, Antonio Zollino. Un ringraziamento speciale
spetta a Barbara Basso e Claudia Filipazzi, Paolo Collo e Gianfranco
Maggi per avermi invitato alla VIII edizione di Scrittoriincittàduemilasei
della città di Cuneo (16-19 novembre) dedicata ad alcuni Passaggi del
Novecento e alla guerra civile spagnola in particolare.
E infine e ancora un grazie, che li riassume tutti, ad Anna Dolfi, che
ha avuto la gentilezza di accogliere, nella sua bella collana, questo volume.

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INDICE DEI NOMI *
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Abbate, Fulvio 257 e n, 280 e n, Anelli, Amedeo 233n


281n, 282 e n, 283, 318, 319 Anfuso, Filippo 266
Adagio, Carmelo 166n Anissimov, Myriam 304n
Adornato, Ferdinando 260n Arendt, Hannah 15 e n, 25 e n,
Agamben, Giorgio 37n, 94 e n, 102 e n
95 e n, 198, 199n Armangué i Herrero, Joan 296n
Alajmo, Roberto 81 Arostegui, Julio 268
Alary, Viviane 282n, 322 Arpaia, Bruno 237 e n, 239,
Alberti, Rafael 51n 270n, 272, 273 e n, 274,
Aleggiani, Mariella 271n 279, 280, 281n, 293 e n,
Alicata, Mario 13n 301, 303, 304, 305 e n, 307,
Allen, Jim 246
308 e n, 309 e n, 318, 319
Alovisio, Silvio 160n
Arpino, Giovanni 171n
Alsina, Jean 321
Arrabal, Fernando 282 e n
Álvarez del Vajo, Julio 137
Ascaso, Francisco 282
Ambroise, Claude 11 e n, 12n,
13n, 25n, 26n, 35 e n, 36, Asor Rosa, Alberto 204, 205n
42n, 43n, 45n, 49 e n, 57n, Atzeni, Sergio 92 e n, 289, 319
60, 61n, 75 e n, 82 e n, 83n, Auden, Wystan Hugh 148 e n,
88, 96n, 98n, 99, 100 e n, 155n, 191
114 e n, 115n, 118 e n, 150 Audino, Dino 246n
e n, 178n, 188n, 320 Augé, Marc 89n, 90 e n, 91
Amidei, Sergio 173 Augieri, Carlo Alberto 204n
Amoroso, Filiberto 240, 241n, Azaña, Manuel 95 e n, 108 e n,
319 109, 169n, 187n, 189, 209,
Amoruso, Vito 148n, 155n 210n
Andreini, Alba 189n Azcona, Rafael 244

*
Il nome di Leonardo Sciascia, che ricorre in quasi tutto il volume, non
compare nell’indice.

323

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Bach, Johann Sebastian 203 Benjamin, Walter 94, 237, 253n,
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Bachelard, Gaston 64 e n, 68 e n, 273, 274, 304, 305, 307,


77, 152n, 316 308, 309, 316
Bachtin, Michail 211 e n Bennassar, Bartolomé 120n,
Badellino, Enrico 321 161n, 162n, 294n, 321
Bakunin, Michail Aleksandrovic] Berardinelli, Alfonso 18 e n, 34
92 e n, 44n
Baldi, Guido 23n Berdah, Jean-François 130n, 175
Baldini, Eraldo 244 e n, 294n
Balletta, Felice 45n Bergier, Jacques 303 e n
Balzac, Honoré de 258 Bergonzoli, Annibale 117, 138
Banks, Russell 286n Bernanos, Georges 49, 51n, 69,
Baravalle, Roberto 267 e n, 319 168, 248, 249 e n, 255, 258,
Barbera, Alberto 160n 275, 296 e n
Barbero, Alessandro 310n Berneri, Camillo 49, 175n, 294,
Bargelesi, Alberto 163n 296 e n
Baricco, Alessandro 150n, 278, Bertasi, Nicola 309n
279 e n, 280, 283 Bertazzoli, Raffaella 149n
Barrel García, Federico 140 Bertini, Mariolina 11n, 13n
Barth, Karl 110, 111n Bertone, Manuela 13n, 20n
Bartolini, Elio 142 e n, 179, Bertoni, Barbara 288n
180n, 319 Bertrand, Jean-Pierre 322
Barwig, Angela 140n, 254n, 322 Bertrand de Muñoz, Maryse 158n,
Basso, Barbara 322 287n, 315, 321
Bastico, Ettore 87 Bettini, Maurizio 25n
Bataille, Georges 94 Bevilacqua, Alberto 229 e n, 231,
Bauman, Zygmunt 44n 233n, 319
Bazlen, Roberto “Bobi” 309n Bianchini, Angela 291n, 292n,
Beach, Sylvia 309n 293n
Beccaria, Cesare 188 Bidault, Georges 14n
Bedeschi, Giuseppe 144n Bilenchi, Romano 195n
Beevor, Antony 304n Biocca, Dario 144n
Benadussi, Lorenzo 185n Blanchot, Maurice 34, 35n, 46, 47
Benedetti, Arrigo 202 Blasetti, Alessandro 209
Benedetto XIV (Prospero Lam- Bleiman, Mikhail Y. 129n
bertini) 165 Blewitt, Phyllis 147n
Benincasa, Francesco 320 Blewitt, Trevor 147n
Bénit, André 158n, 321 Blum, León 71, 72

324

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Bobbio, Norberto 20n, 39 e n, Caballero, Largo 187n
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114n Cabiddu, Gianfranco 92


Bocca, Giorgio 233n, 234n Cacucci, Pino 143n, 145, 146,
Bodini, Vittorio 229, 237 e n, 229n, 243 e n, 246n, 247,
239, 240 e n, 307n, 319 258, 259, 262 e n, 263 e n,
Boixareu, Mercè 158n 264n, 265, 266, 267 e n,
Böll, Heinrich 45n 269, 283, 318, 319
Bongiorno, Arrigo 227, 228 Cadioli, Alberto 45n
Bongiovanni, Bruno 17n Caillois, Roger 36 e n, 37n, 86,
Bonhoeffer, Dietrich 257n, 280, 94 e n
282n Calabrese, Stefano 236n
Bonini, Paola 269n Calvino, Esther 105n
Borges, Jorge Luis 151 e n Calvino, Italo 44, 45, 57, 61n, 62
Borsellino, Nino 257n e n, 66 e n, 94, 105 e n,
Bosco, don Giovanni 165 e n, 220 106, 112, 113n, 114n, 115 e
Bosco, Gabriella 304n n, 177n, 178, 181n
Botti, Alfonso 166n Calvo Sotelo, José 186n, 187n
Bourdet, Claude 14n Calzoni, Raul 52n
Bourdieu, Pierre 47 e n, 48 e n Camba, Francisco 142
Bouveresse, Jacques 47n Camilleri, Andrea 81, 84 e n, 273,
Bovaia, Roberta 292n 275n, 302, 319
Brancati, Vitaliano 45n, 99 e n, Campanella, Tommaso 282n
103, 104 e n, 105, 171, El Campesino (Valentín Gonzá-
173n, 176, 180, 182, 184n, lez) 49
185 e n, 188 e n, 204, 206, Campi, Alessandro 17n
215, 221, 317, 319 Camus, Albert 25 e n, 26n, 27 e n,
Braschi, Nicoletta 248n 30, 67n, 180
Brault, Pascale-Anne 31n Canali, Giulia 141n
Bravo, Anna 264n, 311n Cancellieri, Natalia 270n
Brecht, Bertolt 297 Capa, Robert 139n, 269
Breker, Arno 304n Caporilli, Pietro 162n
Bresolin, Alessandro 25n Cappellini, Milva Maria 321, 322
Broch, Hermann 129 e n Cappello, Angelo Piero 322
Brombert, Victor 24 e n, 79, 80n Carlotto, Massimo 271, 273n,
Broué, Pierre 131n 300, 306, 319, 321
Bruzzone, Anna Maria 264n, 311n Carrière, Jean-Claude 19n
Burch, Noël 168n Casadei, Alberto 278 e n, 319
Busi, Aldo 248n Cassini, Marco 254n
Buzzati, Dino 86 e n Cataluccio, Francesco M. 95n

325

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Caudwell, Christopher (Ch. St. Colombel, Jeannette 269n
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John Sprigg ) 148n, 155n Colombo, Arturo 259n


Cavallo, Pietro 158n, 164n Comencini, Luigi 130, 244
Cederna, Giuseppe 244 Comisso, Giovanni 222
Cela, Camilo José 157 e n Conoscenti, Domenico 81
Cellini, Benvenuto 144 Consolo, Vincenzo 68n, 82n
Centovalli, Benedetta 195n Coppola, Aniello 113n
Cercas, Javier 151n, 152n, 156, Cordelli, Franco 128n, 129n,
157, 209 e n, 266 e n, 267 e 276n
n, 274 e n, 279 e n, 280, Corman, Mathieu 320
289, 290, 291 Corni, Gustavo 52n, 303n
Cervantes, Miguel de 261, 298 Corrado, Danielle 282n, 322
Cervi, Gino 173 Cortellessa, Andrea 151n, 283n
Ceserani, Remo 258n Corti, Maria 248n
Cézanne, Paul 202 Cotta Ramosino, Laura 149n
Chacón, Dulce 263 e n, 320 Cotta Ramosino, Luisa 149n
Champagne, Élise 185n, 186n Cremonini, Giorgio 129n
Chandler, Raymond 39, 40 Crespi, Alberto 246n
Chaplin, Charlie 129 e n Cristo (Gesù Cristo) 76n, 122,
Chapsal, Madeleine 143n 146, 183, 212
Chateaubriand, François-René de Crovi, Raffaele 142n, 195n, 196n
160n Curletto, Mario Alessandro 150n
Chiaberge, Riccardo 141n, 148n Curreri, Luciano 31n, 44n, 54n,
Chiara, Piero 244n 64n, 140n, 160n, 222n,
Chiarini, Paolo 240n 248n, 254n, 258n, 282n,
Chiusano, Italo Alighiero 240, 286n, 316n
241n, 319 Curreri, Matteo 9
Christie, Agatha 38, 39 Custine, Astolphe marchese di
Chrus]c]ëv/Krusciov, Nikita Ser- 160n
geevic] 25n, 106, 111, 114n,
130 Dallò, Gioietta 51n
Cialente, Fausta 276 e n Dahrendorf, Ralf 144n
Claudel, Paul 255 Danelon, Fabio 149n
Coale, Robert 321 Danna, Bianca 160n
Coco, Michele 118n, 173n D’Annunzio, Gabriele 172, 220,
Colacicchi, Piero 119n 221, 255, 256 e n, 257
Coletti, Vittorio 55n, 286 e n Davanzati, Chiaro 60n
Collins, Larry 304 e n David, Catherine 19n
Collo, Paolo 291n, 321, 322 Davis, Mike 52n

326

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Deaglio, Enrico 260n Dethurens, Pascal 138 e n
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De Amicis, Edmondo 159, 160 e n Dickens, Charles 179n


De Antoni, Maria Grazia 187n Didier, Charles 160 e n
Debenedetti, Antonio 310n Di Febo, Giuliana 244n
Debenedetti, Giacomo 310n Di Geronimo, Bruno 80
Debré, Michel 134n Di Grado, Antonio 18 e n, 32 e
De Castris, Arcangelo Leone 256 n, 39n, 60 e n, 65 e n, 81 e
en n, 96 e n
De Cataldo, Giancarlo 267n Di Vanna, Corrado 163n
De Céspedes, Alba 188, 204, Dionisi, Stefano 248n
205n, 206n, 209, 215, 319 Dognini, Cristiano 149n
De Donato, Gigliola 45n Dolfi, Anna 31n, 54n, 198n, 226
De Federicis, Lidia 11n, 13n, e n, 227n, 248n, 319, 322
44n, 140n, 171n, 257n, Dolfi, Laura 270n, 319
319, 322 Doninelli, Luca 253 e n, 254, 255
De Felice, Renzo 165 e n, 266 e n Dos Passos, John 76n, 119 e n,
120, 122, 128, 129, 138,
De Filippo, Peppino 106n
293
De Gaulle, Charles 133
Dostoevskij, Fëdor Michailovic]
Degl’Innocenti, Maurizio 114n
58 e n, 59n, 62, 66, 67n
Del Corno, Dario 88 e n
Dumas, Alexandre (padre) 160n,
Deleuze, Gilles 48n, 89n, 127n
258
Delfini, Antonio 188, 193, 196 e
Duranti, Riccardo 169n
n, 197 e n, 198 e n, 199 e n, Dürrenmatt, Friedrich 103, 105,
200, 201, 203 e n, 204, 205, 109 e n, 110n, 112
214, 215, 224, 319, 320 Durruti, Buenaventura 257n, 280,
Delfini, Giovanna 198n 281 e n, 282 e n
Del Giudice, Daniele 310n
Delporte, Christian 282n, 321n Eco, Umberto 17n, 18n, 19n, 20
Delumeau, Jean 19n e n, 43, 44 e n, 46, 84, 240,
De Luna, Giovanni 52n, 87n, 286 e n, 319
284 e n, 303n Eisens]tein, Sergej Mikhailovic] 129
De Maria, Carlo 175n en
Denis, Benoît 252n, 322 Enzensberger, Hans Magnus 67,
Depaoli, Massimo 195n 136 e n, 137, 304n
D’Eramo, Luce 29 e n Evangelisti, Valerio 268 e n, 283n,
Derrida, Jacques 31 e n, 48n, 204n 287n, 319
Dessí, Giuseppe 54n, 216, 224 e
n, 226 e n, 227 e n, 319 Fabbro, Elena 88n

327

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Facco de Lagarda, Ugo 39, 40n 217, 224, 225, 227, 230,
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Faenza, Roberto 247n, 254n 231, 232, 238, 239, 246 e n,


Faeti, Antonio 166n 249, 250, 253n, 260 e n,
Falaschi, Giovanni 189 e n 261 e n, 263, 265, 267, 268,
Farinella, Mario 68n, 105n 279, 287n, 289n, 292 e n,
Fast, Howard 149n 299, 302, 307, 308, 315
Felici, Glauco 270n, 291n Franck, Dan 293 e n
Ferrante, Elena 311 Frank, Waldo 185n
Ferraro, Bruno 253n Frédéric, Madeleine 311
Ferrer, Eulalio 265 Friedrich, Jörg 52n, 303n
Ferrier, Jean-Luis 297n Fruttero, Carlo 62n
Ferroni, Giorgio 307 Fuentes, Carlos 227
Ferroni, Giulio 45n, 185 e n,
188n Gaglianone, Paola 254n
Ferrucci, Franco 93 e n, 96n, 97 e n Gallo, Claudio 321
Ferruzza, Maria Lucia 11n Gallone, Carmine 160n, 163, 299
Festa, Francesco Saverio 158n Galzerano, Giuseppe 175n, 294,
Ficara, Giorgio 281n 296n
Filipazzi, Claudia 322 Ganeri, Margherita 258n
Flaubert, Gustave 129n Garboli, Cesare 198 e n
Florio, Aldo 80, 87 Garbuglia, Daniele 199n
Foa, Lisa 128n García Berlanga, Luis 244
Foa, Renzo 260n García Lorca, Federico 129, 250,
Fofi, Goffredo 25n, 95n, 156n, 269 e n, 270 e n
186n, 267n García Oliver, Juan 280, 281n
Fogazzaro, Antonio 177n, 222 Garibaldi, Giuseppe 76n, 141n,
Foni, Fabrizio 322 149n, 215, 232
Fornaro, Pier Paolo 149n Garosci, Aldo 108n, 124, 125,
Forti, Marco 59n, 181n 142n, 156n, 159 e n, 169 e
Fortini, Franco 44, 46, 47, 142n, n, 192 e n, 195, 197, 204,
192n 216 e n, 217, 300 e n
Fortini, Laura 204, 205n, 208, Garro, Emilio 164 e n, 165n
209n Gautier, Théophile 160n
Foucault, Michel 17 e n, 48n, 127 Genina, Augusto 163 e n, 168n,
Franco, Francisco 51n, 57, 58, 315
60, 71, 87, 89, 107, 109, Germano, Bruno 152n
129, 130, 131, 134n, 136, Gerratana, Valentino 194n
142, 147n, 157, 158n, 162 e Gervereau, Laurent 140n
n, 165, 190, 191, 195n, Gesù, Sebastiano 82n, 87n, 102n

328

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Giacomo da Lentini 60 Guareschi, Giovannino 130, 177n
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Giacovelli, Enrico 173n Guarnieri, Silvio 190n


Giannone, Antonio Lucio 237n Guglielminetti, Marziano 182n
Giartosio, Tommaso 185n Guillén, Jorge 49
Gibellini, Pietro 149n Guttuso, Renato 189n, 191, 193,
Gicca-Palli, Fulvio 80 194n
Gimmi, Annalisa 228n
Ginzburg, Natalia 39 e n, 198n, Halbwachs, Maurice 24, 90
276n Hanimann, Joseph 285 e n
Giordano, Valerio 52n Hawks, Howard W. 39
Giorgio II (re di Grecia) 275 Hemingway, Ernest 9, 38, 53,
Giovagnoli, Giorgio 278 116, 120 e n, 121 e n, 122,
Giovagnoli, Raffaello 149 e n, 123n, 124, 125, 126 e n,
150n 127, 128 e n, 129 e n, 136,
Gioviale, Fernando 42n 137, 138, 143n, 148n, 156,
Giral, José 189 160 e n, 164, 167, 168,
Girgenti, Salvatore 95, 209 172n, 178, 189, 210, 215,
Giulianelli, Roberto 281n 259, 269, 271, 292, 320
Glucksmann, André 269n, 285 e n Hensbergen, Gijs van 297n
Godard, Jean-Luc 133 Hermet, Guy 14n, 114n
Godicheau, François 321 Heydenreich, Titus 26n
Goethe, Johann Wolfgang 203 Hillman, James 90 e n, 91
Gogol’, Nikolaj Vasil’evic] 173 Hitler, Adolf 110, 111, 113,
González Martín, Vicente 49n 253n, 257n, 260, 280, 281,
Goretti, Gianfranco 185n 304 e n
Gorkin, Julián ( Julián Gomez) Hobsbawm, Eric J. 262n
264n Hollier, Denis 94n
Gould, Stephen Jay 19n Horkheimer, Max 73 e n
Gousseau, Josette 91 e n, 92n Husserl, Edmund 24, 55 e n
Goytisolo, Juan 270 e n, 279, 288
Gozzano, Guido 58, 59 e n, 62 Ilardi, Massimo 59n
Gramsci, Antonio 149n, 180 Isaia, Nino 260n, 261n
Grassi, Piergiorgio 111n Isotti Rosowsky, Giuditta 165n
El Greco (Domenico Theotokó- Iutkevic], Sergej I. 129n
pulos) 201, 202 Ivekovic], Rada 318 e n
Green, Nan 264
Greene, Graham 38 Jackson, Gabriel 261, 294n
Gribaudi, Gabriella 52n Jankélévitch, Vladimir 130n,
Grillo, Rosa Maria 158n 170n, 176n, 177n

329

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Jesi, Furio 257, 258n, 303n Lincoln, Bruce 25n
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Jossa, Stefano 151n, 236n Linder, Erich 157 e n


Jovine, Francesco 74, 118n, 170 e Linze, Georges 311n
n, 171 e n, 173 e n, 176, 185, Líster, Enrique 49, 210, 211,
188, 215, 236, 319, 320 212, 214
Llorens, Antonio 102 e n
Kempowski, Walter 52n Loach, Ken 246 e n, 278
Kesten, Hermann 260n Lombardo, Giovanna 157n
Koestler, Arthur 144 e n, 145 e n, Longo, Davide 275n
146 e n, 147n, 148, 149 e n, López Mondéjar, Publio 261
155, 167, 182, 262, 265, Loraux, Nicole 23n, 89n
290, 305 Lucarelli, Carlo 170n, 236 e n,
Koltsov/Kol’tsov, Mikhail 49, 51, 244, 247, 258, 259, 269,
120n 271 e n, 283, 295, 297,
Kosinzev, Grigorij M. 129n 298n, 300, 305, 312, 318,
Kowalsky, Daniel 131n 320, 321
Kristeva, Julia 66n Lumière, Auguste e Louis 82
Kuby, Erich 304n Lunac]arskij, Anatolij Vasil’evic]
Kubrick, Stanley 149n 257
Luperini, Romano 43, 44 e n, 45,
Lahire, Bernard 47, 48n 46 e n, 47
Lajolo, Davide 229, 233 e n, 234 Lussu, Emilio 237, 239
e n, 235n, 236, 237n, 240, Lussu Salvadori, Joyce 229, 237,
299, 319 238n, 239n, 319
Lapierre, Dominique 304 e n Luti, Giorgio 189n
Lasch, Christopher 135n Luxardo Franchi, Piero 197n
Lauterbach, Arlette 271n Luzi, Mario 195n
Lavagetto, Mario 46 Lyotard, Dolorès 31n
Le Bras, Charles 14n Lyotard, Jean-François 31n
Lefere, Robin 158n
Lenin (Vladimir Il’ic] Ul’janov) Mac Arthur, Douglas Arthur 149n
135 Maccari, Ruggero 173
Lenoir, Frédéric 19n Machado, Antonio 41
Leoncini, Francesco 322 Mac Leish, Archibald 22
Leone, Sergio 126 e n Macrí, Oreste 31n, 194n, 196 e n,
Leonetti, Francesco 44 215n
Lesfargues, Bernard 169n Madrignani, Carlo Alberto 11n,
Linati, Carlo 185n, 186n, 187n, 13 e n, 16n, 21, 22n, 80 e n,
319 101n, 160n

330

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Maffi, Mario 38 e n, 41n, 168n, Martínez de Pisón, Ignacio 293 e n
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179n Marty, André 120


Maffia, Dante 282n Marx, Karl 31n, 107, 114n, 131,
Maffioli, Giuseppe 40 148n, 197
Maggi, Gianfranco 322 Maspero, François 262n
Magnan, Pierre 271 e n Massot i Muntaner, Josep 296
Magris, Claudio 140n, 248n, Mastroianni, Marcello 248n
254n, 284, 285, 286 e n, Matteotti, Giacomo 72, 219, 257
287 e n, 289, 318, 319, 322 en
Maigron, Maryline 310n Matthews, Herbert 49
Mainer, José Carlos 142n, 157n, Maugeri, Marco 257 e n
244n, 268n, 321 Maupassant, Guy de 258
Majakovskij, Vladimir Vladimi- Mauriac, François 14n, 258
rovic] 255 Mauron, Charles 35, 54 e n, 88
Malaparte, Curzio (Curzio Suckert) Mazzacurati, Carlo 222
300 McCarthy, Joseph 25n, 111, 180
Malraux, André 49, 51n, 64 e n, Méndez, Alberto 293 e n
68 e n, 75, 76 e n, 77n, 102 Menozzi, Daniele 166n
e n, 116 e n, 120n, 121, Mercader, Luis 264n
122n, 124, 125, 126 e n, Mercader, Ramon 263n
127 e n, 134, 148, 149, 167, Mérimée, Prosper 160n
168 e n, 178 Merleau-Ponty, Maurice 14 e n,
Manera, Danilo 263n, 291n 15 e n, 16n, 24 e n, 36, 65,
Manfredi, Nino 173, 176 83 e n, 84 e n, 137 e n
Manganaro, Paolo 20, 21 e n, 22 Merquior, José Guilherme 48n
en Messina, Simone 212n
Manica, Raffaele 198n Metaxas, Joannis 275
Mann, Thomas 260n Mileschi, Christophe 319
Mantovani, Vincenzo 143n Milner, Jean-Claude 23n, 31n,
Manzoni, Alessandro 22, 23, 53, 89n
188, 284 Milner, Max 24n, 249n
Marcel, Gabriel 14n Mininni, Francesco 126n
Marchetti, Giuseppe 196n, 197n Minoia, Carlo 190n
Marcuse, Herbert 55n, 73n Mitterand, François 134n
Mare, Monica 187n Mizzella, Stefano 52n
Mari, Michele 309 Modotti, Tina 229n, 243 e n,
Marías, Javier 291 e n, 292n 247, 262, 263 e n, 269
Marinetti, Filippo Tommaso 251, Molotov (Vjac]eslav Michajlovic]
255, 256 Skrijabin) 111

331

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Mommsen, Hans 23n, 89n Nelken, Margarita 264
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Monnier, Adrienne 309 e n Némirovsky, Irène 304n


Montale, Eugenio 58, 59 e n, 62 Nenni, Pietro 49, 51n, 217
en Neppi, Enzo 319
Montand, Yves 131 Neruda, Pablo (Ricardo Neftalí
Montanelli, Indro 260n, 261n, Reyes Basoalto) 142 e n, 143
319 Nesi, Cristina 195 n
Monteleone, Enzo 85 Nievo, Ippolito 284
Montero, Rosa 288 Nisticò, Vittorio 105 n
Mora, Constancia de la 49, 51n Nitti, Francesco Fausto 159, 216
Morandi, Aldo 294, 296n e n, 217, 218, 227, 319, 320
Morandini, Giuliana 248n Nocita, Salvatore 176
Moravia, Alberto (Alberto Pin- Noiriel, Gérard 135n
cherle) 44, 45, 129 e n Nothomb, Paul 126n
Moreno Juliá, Xavier 147n, 260n Nyssen, Hubert 169n, 320
Moretti, Franco 166n
Morino, Angelo 278, 279n, 280n Oms, Marcel 131n, 168n, 289n
Moro, Aldo 43, 45n Onofri, Massimo 45n, 115, 151n,
Moro, Renato 166n 236n
Morreale, Emiliano 81 e n, 82, 83n Ortega, José 273n
Moscardó, José 162n Orwell, George (Eric Arthur Blair)
Muñoz Molina, Antonio 287 e n 29n, 38 e n, 39, 40, 41 e n,
Murat, Laure 309n 42n, 49, 51n, 69, 121, 167,
Musil, Robert 129 e n 168 e n, 169 e n, 178, 179n
Mussolini, Benito 27, 28, 52, 53, Ostellino, Piero 260n
72, 74, 87, 96, 158, 159, Ovejero, José 288 e n
165n, 175n, 181n, 191, 221,
224, 227, 232, 233, 241, Paci, Enzo 14n, 55 e n
256, 257, 266n, 294, 296n Pajetta, Giancarlo 278n
Palacio, Léo 137n, 175n
Naas, Michael 31n Palumbo, Giovanni 62n
Nahui Olin (Carmen Mondra- Palumbo, Giuseppe 273n
gón) 263 e n Palumbo, Matteo 106n
Napolitano Martone, Maria 123 Panafieu, Yves 86 e n
Natoli, Claudio 243 e n, 244n Panicali, Anna 189n
Nay, Laura 182n Papini, Maria Carla 248n
Nazzari, Amedeo 163 Papponetti, Giuseppe 29, 30n,
Negrín, Juan 137 322
Neiger, Ada 54n Papuzzi, Alberto 20n

332

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Papy, Michel 264, 294n Pio V (Michele Ghislieri) 165
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Parise, Goffredo 216, 218, 219n, Pirandello, Luigi 12n, 13n, 255,
221, 222n, 223 e n, 224, 256 e n, 257 e n
226 e n, 319 Pirani, Mario 260n
Parisot, Henri 165n Pirani, Roberto 187n
Parnet, Claire 89n Platone 19n, 20n, 24 e n, 25n,
Pasinato, Antonio 259n 27, 32n, 34 e n, 35n, 43n,
La Pasionaria (Dolores Ibárruri) 47 e n, 83, 283, 317
142n, 180 Polidoro, Maria Teresa 321, 322
Pasolini, Pier Paolo 34, 44, 45, 46, Pompeo Faracovi, Ornella 15n
47, 62, 88 e n, 283, 317, 320 Porzio, Domenico 112n
Pastor, Ben 269 e n, 270, 271n Pratolini, Vasco 195n
Pautasso, Sergio 189n Praz, Mario 186n
Pauwels, Louis 303 e n Preston, Paul 162n, 261, 264 e n
Pavese, Cesare 180 e n, 181n, Primo de Rivera, José Antonio
182 e n, 185, 188, 215, 319 166n, 213
Pavolini, Luca 51n Proust, Marcel 144
Pavone, Claudio 246n Puccini, Mario 187n, 319
Paz, Abel (Diego Camacho) 281 Pupo, Ivan 257n
Pazzi, Roberto 248n
Pecoraro, Zino 21n Quattrini, Antonio G. 191 e n
Pederiali, Giuseppe 227 Queipo de Llano, Gonzalo 190,
Pellini, Pierluigi 85n 191
Pellizzi, Camillo 147n Quondam, Amedeo 109n
Pent, Sergio 263n, 269n
Pépin, Patrick 263n Raffaelli, Massimo 150n
Pérez-Díaz, Víctor 292n Raimondi, Ezio 22n, 152n
Perosa, Sergio 121 e n Ramat, Silvio 197n
Perrone, Domenica 45n, 49n, Ramella, Pietro 294, 296n
98n, 99n, 100n, 115 Ramondino, Fabrizia 9, 127n,
Perrone, Vincenzo 297n 152n, 258 e n, 259, 274,
Pessoa, Fernando 256, 262n 276 e n, 296 e n, 299, 310 e
Petrignani, Pietro 147n n, 311n, 312, 314, 319,
Picasso, Pablo 297 e n 320, 321, 322
Picelli, Guido 229, 233 Ranzato, Gabriele 53 e n, 109n,
Pichois, Claude 120 124, 125n, 130n, 137n,
Picon, Gaëtan 102n 187n, 244n, 246n, 269n,
Pignatelli, Valerio 163n 294n
Pintor, Giaime 194 e n Rapone, Leonardo 243 e n

333

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Rasy, Elisabetta 257 e n Russo, Luigi 149n
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Regler, Gustav 259 e n, 320


Rèpaci, Leonida 227, 229, 319 Sabaté, Francisco 265
Resnais, Alain 131, 132, 133, Sabbatino, Pasquale 106n
135, 136 Sacco, Nicola 119 e n, 122, 137
Ribadeau, François-Marie 310n Sacerdoti Mariani, Gigliola 259n
Ribbentrop, Joachim von 111 Salazar, António de Oliveira 247,
Ricciardi, Mario 152n 249, 257, 261
Richard, Jean-Pierre 316 Salerno, Enrico Maria 87, 88
Richard, Lionel 307 Salgari, Emilio 86, 160 e n, 164
Ricœur, Paul 15n, 24n, 31n, 32 e Salinari, Carlo 256 e n, 257
n, 64n, 89 e n, 90 e n, 102n Salmon, Christian 285 e n
Ricorda, Ricciarda 43n, 49n Salvati, Michele 292n
Ricuperati, Giuseppe 24n, 140n, Sánchez, Germán 264n
282, 283n, 284 Sánchez Mazas, Rafael 156
Rigoni Stern, Mario 128n Sand, George (Amandine-Lucie-
Rilke, Rainer Maria 203 Aurore Dupin) 160n
Rimbaud, Arthur 59 Sanguineti, Edoardo 44, 248n
Rivalta, Romeo 163, 315 Sanvitale, Francesca 248n
Rivera, Diego 263n Sanz-Bachiller, Mercedes 264
Robles Pazos, José 293 Sapegno, Natalino 13n, 152n
Robotti, Paolo 112 e n, 114n Sarrabayrouse, Alain 309n, 310n
Rocca, Daniele 269 Sarti, Emanuela 296n
Roche, Daniel 47n Sartre, Jean-Paul 47n, 48, 127n,
Rodondi, Raffaella 195n, 261n 252 e n, 320
Rohmer, Eric 267 Saura, Carlos 149 e n, 157, 289 e
Romano, Sergio 260n, 261 n, 290n
Romilly, Esmond 265 e n Savinio, Alberto (Andrea de Chi-
Roosevelt, Franklin Delano 131 rico) 165n
Rosselli, Carlo 281 Sbarberi, Franco 20n
Rosso, Renzo 54n Scalabrin, Paolo 9
Rossif, Frédéric 143 e n Scarpa, Luciano 85
Rougemont, Denis de 94 Scarponi, Alberto 259n
Rousseau, Jean-Jacques 144 Scarry, Elaine 52n
Rovatti, Pier Aldo 16n, 19n, 21 e Scarsella, Alessandro 40n
n, 33n, 34, 35, 36n, 57n, Schaber, Irme 262n
83n, 84 e n, 204n Schivelbusch, Wolfgang 52n
Runcini, Romolo 179n Schneider, Helga 304 e n
Rushdie, Salman 285n Schubert, Franz Peter 203

334

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Scianna, Ferdinando 16n, 50, 212 Soutworth, Herbert R. 268n,
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Scognamiglio, Giuseppina 106n 297n, 321


Scola, Ettore 39, 40, 173, 243 Soyinka, Wole 285n
Scott-Ellis, Priscilla 264 Sozzi, Lionello 12n, 27n, 30n
Scotti, Francesco 233 e n Spagnoletti, Giacinto 59n
Scotto Di Luzio, Adolfo 166n Spalanca, Carmelo 109n
Scrivano, Enzo 21n Spartaco 146, 149 e n, 150n
Scrivano, Riccardo 254n Spender, Stephen 141n, 148n,
Sebald, Winfried Georg 52n, 86 e 155 e n, 297
n, 303n Spinazzola, Vittorio 44n, 195 e n
Segre, Cesare 59 e n Spinelli, Barbara 260n
Semprún, Jorge 131n, 132, 133, Stalin (Iosif Vissarionovic] Dz]u-
263n, 292 e n, 293 gas]vili ) 25n, 103, 105n,
Sender, Ramón 108n, 168, 169n, 106, 107 e n, 108 e n, 109,
320 110, 111, 112 e n, 113 e n,
Serra, Maurizio 153 e n, 260n 114n, 115 e n, 117, 131 e n,
Serrano, Carlos 52n, 142n, 268n 142 e n, 143, 144, 145, 146,
Sfez, Gérald 31n 148, 149n, 150n, 157n,
Shakespeare, William 148n
181n, 246n, 317
Sighinolfi, Paolo 154, 159, 160,
Stauder, Thomas 140n, 254n, 322
161 e n, 162 e n, 164, 165 e
Stegagno Picchio, Luciana 253n,
n, 218, 236, 315
254n, 286 e n
Silone, Ignazio 29 e n, 30n, 144 e
Steiner, George 46, 203 e n
n, 166, 167n, 173, 174 e n,
Stendhal (Henri Beyle) 72, 308,
177
Simon, Claude 133 309, 320
Sini, Carlo 16n Steno (Stefano Vanzina) 106
S}klovskij, Viktor 96 e n Subor, Michel 133
Skoutelsky, Rémy 141n Svevo, Italo 129 e n, 256n
Sodini, Carla 259 e n Swift, Jonathan 127
Sofri, Adriano 19n, 20n, 32n
Sofri, Gianni 144n, 155n Tabucchi, Antonio 17n, 19n,
Sogno, Edgardo 260n 20n, 32n, 34 e n, 35n, 43n,
Soler, Antonio 157 e n, 271, 290, 47 e n, 140n, 168n, 238 e n,
291 e n, 300, 312 240, 245, 247 e n, 248n,
Sontag, Susan 46, 52n, 139 e n, 249n, 252 e n, 253 e n, 254
305n e n, 255n, 256 e n, 258 e n,
Soria Millán, María Pilar 288 e n 259 e n, 260 e n, 261n, 262
Sorrentino, Christian 42n e n, 266, 267, 283, 284,

335

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285, 286 e n, 287n, 317, Truppi, Carlo 90n
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318, 319, 322 Tyras, Georges 42n


Tadini Perazzoli, Antonia 293n
Talarico, Vincenzo 173 Ucelay Da Cal, Enric 244n
Taro, Gerda (Gerta Pohorylle) Ughi, Stefanella 246n
262n Ungarelli, Giulio 197n
Tartaro, Achille 152n Urso, Simona 166n
Tedesco, Natale 16n, 49n, 57 e n,
61n, 66n, 99n, 115n, 125n Valiani, Leo 144n
Temine, Émile 142n Vallès, Sophie 264n
Terni, Paolo 276n Valli, Alida 163
Tesio, Giovanni 62n, 244n Vanzetti, Bartolomeo 119 e n,
Testa, Enrico 18n, 55 e n 122, 137
Theweleit, Klaus 185n Vattimo, Gianni 23n, 89n
Thomas, Hugh 265n Vecellio, Valter 113n
Todorov, Tzvetan 32n, 35n, 47 Velázquez/Velasquez, Diego Ro-
Tolstoj, Lev Nikolaevic] 58n, 258 dríguez de Silva y 201
Tomasi di Lampedusa, Giuseppe Venturi, Gianni 180n
13 e n, 14n, 20 e n Venza, Claudio 175n, 294, 296n
Tomasinelli, Paola 291n, 292n Verestin, Nino 191 e n
Tonnac, Jean-Philippe de 19n Verga, Giovanni 13n, 14n, 91, 172
Tornatore, Giuseppe 81 Vidali, Vittorio 51n
Totò (Antonio de Curtis) 106 e n Vigorelli, Giancarlo 13
Traina, Giuseppe 18, 41 e n, 42n, Vilar, Pierre 268n, 321
46n, 53n, 62n, 67n, 68n, 84 Villa, Pancho (Doroteo Arango)
e n, 87n, 94n, 99n, 100 e n, 263n
101n, 103n, 105n, 108n, Viola, Sandro 260n
109n, 112 e n, 116n, 118 e Visconti, Luchino 177 e n
n, 320, 322 Visentini, Olga 166 e n
Trapiello, Andrés 209 Vitali, Andrea 244n
Trécourt, François 168n Vittorini, Elio 45n, 49 e n, 95 e
Trentini, Nives 247n, 255 e n, n, 96, 97, 98 e n, 99 e n, 100
256, 258n e n, 103, 105, 115n, 142 e
Trevi, Emanuele 303n n, 143, 161, 180, 181n,
Trotskij/Trotsky, Lev Davidovic] 188, 189 e n, 190 e n, 191,
(Lejba Brons]tein) 263n, 264n 192 e n, 194n, 195 e n, 196
Trueba, David 266n e n, 197, 200, 203, 204,
Truman, Harry 180 209, 210, 213, 214, 215,

336

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224, 226 e n, 317, 318, 319, Yerushalmi, Yosef Hayim 23 e n,
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322 32n, 64n, 89n


Volponi, Paolo 44 Yusta, Mercedes 321
Vonnegut, Kurt 67n
Zago, Nunzio 13n, 14n, 46n, 60,
Walzer, Michael 17 e n, 25n, 61n
26n, 27n, 30 e n, 33, 48n Zambrano, María 318n
Wells, Herbert George 139n Zampa, Luigi 173 e n, 176, 177
Wilson, Edmund 138 Zapata, Emiliano 263n
Winnicott, Donald W. 310n Zei, Alki 275 e n
Wright, Richard 164 e n Zollino, Antonio 62n, 322

337

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