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Viaggio dentro una vita

Assolato il pomeriggio di maggio.


L’afa fuori stagione, come spesso accade nelle plaghe siciliane, invita a soporiferi
interruzioni.
Socchiuse le imposte di finestre e balconi, mi accomodo nell’accogliente poltrona,
che tutti conoscete e che tante tregue ha dato al mio cuore quando la vita ha
dispensato dolori, lacrime e trepidazioni.
Ma oggi il pensiero si allenta. Il corpo è sopraffatto dal caldo. Il respiro alita lieve
e, mentre i muscoli si rilassano adagio, la mente spiana immagini e visi e… una
bimba corre nella strada assolata.
E’ appena uscita da scuola.
E’ uccello scampato dagli artigli di nibbio rapace di una maestra dal naso camuso e
dal corpo poderoso adusa ad impartire le buone maniere solo col menare le mani.
Altro che socializzazioni!
Ma tempi, luoghi e situazioni erano diversi in epoche lontane!
La corsa a braccia spalancate nel vento rende ansante la bimba.
Sull’uscio la madre premurosa:
“Supidina! Perché hai fatto in fretta il percorso? Non è ancora l’ora del pranzo!
Grondi sudore e ora mi tocca cambiare il maglione.”
“Supidina”, risuona chiaro nelle orecchie della bambina che crede parola d’affetto.
Non ne ha ancora sperimentato l’effetto.
… A stento si schiudono gli occhi in quella luce soffusa, percepiscono mobili e
cose, ma distinta risuona la parola che mai ho osato cercare su un qualunque
vocabolario.
Sorrido al pensiero del mio dì natale che mi allegò in eterno a quel lemma.
So che fu di giugno, il 16, di buon’ora.
Raccontarono che ero magra e senza un capello, ma molto tranquilla, già
dall’esordio.
In seguito mi rifeci un po’, ma non troppo in realtà.
Quel giorno, narrarono, piovevano granate e mitragliate, nel senso della guerra, e
forse per questo sempre mi son chiesta se già dapprincipio fossi stata sottoposta a più
di un elettrochoc.
… Ora la calura sembra proprio intollerabile e ancora più pesanti le palpebre
perlate da qualche goccia di suore materializzano altre situazioni.
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Molte immagini emergono dal cuore che non sai mai per quale arcano accelera i
suoi battiti se un ricordo, una sensazione o solo un frullo d’ali si formano nel bel
mezzo di un pensiero e forse per questo ho detto cuore al posto della mente, che lì in
quel frangente mostra una maestra.
Detta pure lei il suo problema, di quegli inconcepibili quesiti, che non so se ancora
si propinano ai bambini, che dicono di rubinetti sempre aperti e di vasche mai
ricolme.
E certo non poteva mancare a me uno dei tanti paradossi.
“Se in una vasca da bagno un rubinetto versa un litro di acqua al secondo, quanti
litri di acqua avrà versato in un minuto?”
“Orsù, piccola Lidia, rispondi al quesito!” Dice seria la maestra
Io incespico ed annaspo e poi decido la risposta:
“Ma io, signora maestra, non ho né rubinetti, né vasca!”
Rintronano le orecchie per la risata di docente e di discenti, ma poi intera quella
frase:
“Siediti, stupidina, ogni tanto bisogna pure avere immaginazione!”
Com’era ben detta quella frase!
Anche la madre aveva dichiarato alla vicina premurosa: “Questa bambina non è
carente di invenzione, è solo che le sue trovate son sempre stupidine, però è tanto
buona!”
Su quest’ultima asserzione ebbi il dubbio dell’affetto.
Però, si sa, uno zuccherino aggiusta sempre ogni minestra.
Ma quella parola anche ora mi rimbomba nella testa.
Sarà l’afa, il tedio o qualche altra maledizione, il fatto è che un’altra immagine si
staglia netta nel mio occhio.
Una chiesa, non molto lontana dalla casa, mi vede salire ogni gradino dello
scenografico scalone con timore reverenziale.
Quattro tortili colonne abbelliscono ancora oggi l’ampio ingresso all’imponente
navata col tetto istoriato da affreschi sontuosi.
Che incanto l’altare dai mille intarsi di tutti i colori e l’eleganza dei paludamenti
ecclesiali!
Sbigottivo sui rossi brillanti, sui verdi splendenti, sui viola appariscenti.
Indossavo ogni colore e volteggiavo nell’aria olezzante d’incenso a toccar con le
dita alfabeti di Santi dagli occhi sgranati e di Madonne dai manti accoglienti.
Che belle quelle chimere vestite di cielo e santità!
Il sabato pomeriggio, visto che quello fascista non era potuto rientrare nella lista
perché nata in ritardo rispetto al tempo in cui il corpo doveva essere vigoroso e
prestante per diventare madri di fieri figli di lupe gagliarde, il sabato pomeriggio,
dicevo, si pensava alla cosmesi delle anime, le belle però, e certamente non della mia
perché ormai ero convinta che la mia stupidità avesse invaso l’orbe terracqueo già da
gran tempo.
Uno di questi fausti giorni ne ebbi la gran conferma quando il parroco imponente
nell’abito talare tuonò che Dio e Santi che abitavano le plaghe celesti erano solo
buoni e giusti, mentre uomini e donne dispersi nelle plaghe terrestri erano cattivi e
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crudeli e in quest’ultimo caso nessuno si poteva sottrarre alla visione di Dio che
aveva occhio bene addestrato per sbirciare anche nei luoghi più appartati.
Costernata da tale sfacelo arrischiai tosto la domanda:
“Ma tutti i Santi forse non furono esseri umani?”
Una risata fragorosa del prete istruito e poi la sua dolciastra parola:
“Mia stupida figliola…”
Il resto della risposta, insieme al tempo perso in parrocchia, è stato da lungo tempo
messo in soffitta.
Tuttavia, rimase in me la persuasione che quel prete avesse assolutamente ragione,
essendo la saggezza, la bontà e la veridicità dell’uomo di chiesa risaputa su tutta la
terra, perché baciato da Dio con la grazia celestiale che ne faceva pastore di spiriti più
o meno eletti, e che la stupidità fosse la mia sola pensabile condizione.
Una volta, tanto tempo dopo, ascoltai attentamente un discorso in cui si sosteneva
con ferma ragione che su questa terra un conforto è possibile per tutto.
Pensa e ripensa, escogitai il solo rimedio che facesse al caso mio: dire sempre
meno e serbare solo per me illusioni e visioni: lambire il cielo con la mente ardita.
Sporcare di terra la pianta del mio piede.
Toccare un rovo con le spine per graffiare tutte le dita ed asciugare il sangue di ogni
ferita con un lembo di lenzuolo ed ogni lacrima con l’orlo del grembiule.
Lasciare posare la rossa coccinella e sentire sul palmo della mano il lento suo
arrancare e vederla poi volare.
Tastare la polvere sulla scrivania e scrivere coll’indice ogni mia follia.
Amare la cicala che vive spensierata e allieta la fatica della monotona giornata.
Odiare la formica che pensa sempre al domani senza sapere se un domani ci sarà.
Vorrei proprio schiacciarla con il piede… quella maledetta!
Dire… capire… andare… mentire…
E sì, imparai presto a mentire quando la richiesta si fece più pressante.
Fu facile, sapete, bastò dire il contrario di ogni mio pensiero e ogni cosa calzò a
meraviglia.
Tutti in famiglia, a scuola o in parrocchia magnificarono quella mia saggezza
venuta forse con non poca esitazione ma ben presto irrobustita dai nuovi mezzi di
comunicazione.
E fu telefono, radio e televisione a dar manforte a tutti i ben pensanti.
… Improvviso uno stridio di freni giù nella via mi fa saltare su dalla poltrona.
Anche se di tempo ne è passato, tutto sommato ora sorrido e penso ai film di
Charlot e ai carcerati col vestito a righe e la gran palla al piede con la catena corta.
Ecco cos’era stata la mia stupidità un giogo amaro con un guinzaglio poco esteso.
Così per non pensarci molto e farmi il sangue amaro, un giorno presi un libro e
corsi su “Pattini d’argento”, piansi con “David Coppelphield”, e piansi ancora con il
libro “Cuore” e con “I Miserabili” e piansi ancora con… e poi con…
E quanti pianti si appioppavano allora ai giovani lettori.
Ma a pensarci bene, forse erano saggi allenamenti per futuri cittadini, poeti,
musicisti o romanzieri, e magari qualche pittore.

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Quindi veramente stanca di gemiti, lamenti e soliloqui passai ben presto a scritti più
impudichi e fu “La nausea” e “La noia”, “Gli indifferenti” e il “Pasticciaccio” col
“Visconte dimezzato” su su fino al “Giorno della civetta”.
E fu poi “L’insostituibile leggerezza….” di non so più che cosa, forse dell’essere o
forse dell’avere, insieme alle varie “Dicerie dell’untore”, e così per tanto tempo fino a
quando non arrivò “Ecce Homo” e via per queste stupidità.
A furia di leggere e sognare persi anche la vista e qualche filarino, ma persi pure a
scuola perché allora i professori parlavano di Dante e di Manzoni e quando era annata
buona ci scappava un qualche Pascoli Giovanni, anche lui un po’ piagnone a volte.
Eppure, avrei sognato una rivincita, ma la parola si bloccava in gola dinanzi a tanta
scienza dei togati professori che magari avrebbero sorriso se avessi proferito Sciascia
e Calvino o solamente Pavese e Vittorini o magari Pasolini mettendoci pure un
qualsiasi Bufalino.
Vuoi mettere il Manzoni con la sua morale o l’Alighieri Dante con la scienza sua
abissale?
Forse magari per scommessa qualcosa avrei potuto anche azzardare ma mi
terrorizzava solo l’idea che dietro il sorrisetto avessero nascosto la parola eletta... per
la quale alla fin fine avvertii un certo attaccamento
Ora… mi guardo intorno e… non vedo banchi di scuola ma solo mobili moderni e
tiro un gran sospiro di sollievo.
Attraverso le imposte un po’ socchiuse guardo il cielo che s’è un po’ incupito, forse
minaccia temporale e quindi penso sia meglio non uscire per lo shopping abituale.
Voglio invece continuare a viaggiare nella mia vita col suo epiteto sempre nel
pugno.
E perché sì, passarono gli anni e buscai anche un compagno che mai mi risparmiò
l’appellativo.
Ma il tempo, si sa, non si può fermare e tradizione vuole che pure i figli debbano a
venire e figuriamoci se io, entrata nel gregge della vita, mi fossi mai tirata indietro.
Con i figli cambiano gerghi e costumanze.
Ora più chiaro si reitera il pensiero:
“Ma che dici! Non capisci niente!”
Non è per me nessuna novità ero già avvezza e molto affezionata alle mie
mancanze che tante volte mi soccorsero per sopportare assenze inattese o risapute.
Adesso… s’è fatto scuro ed apro tutte le imposte.
Le prime gocce grosse come sputi sbattono sui vetri.
Di ognuna seguo tutti i percorsi.
Tracciano strade, viali e sentieri e mi tuffo nell’intrigo e vedo palazzi, vecchi
sobborghi e rocce. Rocce nere, appuntite o anche smussate del mio Etna che si desta
sotto la nebbia attaccata come colla alla base di ogni masso.
Sbocciano pinnacoli e prodigi, paesaggi stupefacenti di un inferno a terra sceso a
mostrare ad ogni uomo una parata di impotenza quando il dio scrolla le spalle.
Scoppia un lampo, si schioda un tuono che mi ridanno la ragione.
Devo adesso cucinare…
Penso che le uova al tegamino vadano bene per un pasto assai frugale.
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Alla linea bisogna pur guardare.
Nel contempo accendo il televisore: voglio vedere il telegiornale e forse superquark
o qualche altra amenità che mi porti in Francia, Spagna, Australia o Papuasia, tanto
entrano tutti nella mia cucina, così io mi sposto immantinente altrove.
E’ solo in questo modo che capisco il mondo.
Ma sarà poi tanto vero, se di esso conosco solo la rappresentazione?
Se io sono in cucina e friggo un uovo, vedo il povero dell’Africa che arranca col
bastone o il bimbo col testone.
Di fronte a tale situazione ho già finito di cenare perché conosco il senso della
fame.
Ma i figli, che trafficano notizie tra frittate e merendine in quell’ immenso
cyberspazio, intendono il peso del bisogno?
Certo tutto è racconto.
Anche l’Ulisse sentì l’urgenza di narrare le sue imprese, ma gli uditori si potevano
toccare, così anch’io spiattello a te ed alla tua pazienza le mie pene perché ho
attraversato il mondo con il suo dolore, con la sua saggezza o con la sua scemenza,
ma in televisione il distante si addentra nella mia cucina e si fa solo nebbia il
circostante.
Se sullo schermo o nella rete vedo il bimbo col pancione o la gioia della miss che
asciuga col Kleenex le sue lacrime ho visto solo la regia che anche tu conosci a
menadito e, per quella parola che non oso pronunciare, non dico mai agli altri: “Che
senso ha comunicare a te quello che sai già?”
Ecco perché quando friggo due uova al tegamino davanti ad un televisore nessuno
ha più voglia di parlare.
L’altro ieri una notizia è deflagrata telecomandata.
In un paese in guerra, di quelle guerre, sai, che si fanno con i carrarmati, coi radar e
coi missili all’uranio impoverito che i grandi della terra provano che non sono ottusi,
perché scovano e trafiggono anche un ago in un fienile con infinita precisione e
quando esplodono non sono eccezionali se non fanno almeno cento morti, lì, dicevo,
in quel paese la popolazione era radunata, in un luogo ad Allah dedicato, per le
pratiche religiose.
D’un tratto, detona un petardo cui segue una parola, kamikaze.
Fugge a precipizio tutta la gente e poco dopo, lì su quel terreno, si fa il novero dei
morti, sono mille e forse più.
Da stupida mi chiedo:
“Perché tanto rumore e tante forze in campo se solo una parola insieme ad un
petardo possono fare la pelle a più di mille?
Tanto, in guerra, quello che importa è solo il numero dei morti!”
E tutto questo nella mia cucina tra un uovo fritto, un panino ed una patatina.
Così ogni cosa si ingarbuglia nelle mie orecchie tra un brusio e un cicaleccio cui
potrei aggiungere, per amor di verità, anche tanti acufeni, che non sono buoni da
mangiare, sono solo sgradevoli da udire come il mormorio della televisione.
Scuoto la testa in preda ai miei pensieri e vado nella stanza dei ragazzi.

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Li guardo bene in viso e non vedo disuguaglianze. Anche i compagni hanno le
stesse fattezze.
Impaurita e sopraffatta sbatto cento volte le mie ciglia per non far rumore e solo
con uno sforzo immane torno a guardare il mondo e a vedere differenze.
Stanno i ragazzi davanti ad un computer e battono sui tasti ed ogni tanto scoppia
una risata.
Li guardo con invidia, poi, preso il coraggio con le mani:
“Chi di voi, dietro pagamento, è disposto a darmi qualche insegnamento?”.
Alzano gli occhi stralunati, col sorrisetto in bocca…
Declino la domanda.
Però il pensiero mi resta nella testa.
Il mondo è cambiato ed anch’ io mi sono trasformata.
Sarebbe tempo e luogo di consultare un dizionario, almeno una volta nella vita…
Mi faccio coraggio prendo il tomo e vado alla esse, lentamente volgo i fogli… st…
stuccare… studiare… stufo… stuolo… stupidità.
Mi meraviglio del fatto che il mio vocabolario, proprio il mio, non abbia almeno in
grassetto quell’appellativo.
Accelera il ritmo il mio cuore, ma la speranza muore: “Com. Indisponente
sciocchezza… Lett. Stato di torpore, di sbalordimento. [Dal lat. stupiditas].
Una fiammella si stacca dal latino, voglio interpellare la radice: “Dal latino stupere
= sbalordire, da una radice (s)tup del greco typto = batto, dal sanscrito tupami =
colpisco e l’antico slavo tapu = ottuso.”
Evviva! L’ottusità che colpisce.
Quasi, quasi sono felice.
Quella mitica parola spiega pure la mia vita quando vedo per incanto che una
nuvola birichina nasconde per dispetto tutto il corno della luna trasformata in altalena
o fors’anche la farfalla quando bacia quella spina.
Ora il coraggio non mi manca, se il mondo ho scrutato con stupore, se due volte
non ho amato con lo stesso cuore, né odiato due volte con lo stesso ardore o provato
due volte la tristezza con la stessa forza.
Ma, allo stesso modo, purtroppo, non ho mai scoperto un appiglio che mi desse una
certezza.
La deriva dentro la casa, sotto il cielo o nella strada o tra le braccia dell’amato è
stata sempre una costante.
Adesso… pretendo un riscatto che mi conquisti il rispetto agli occhi del mondo.
Nutro un progetto.
Il giorno appresso mi abbiglio con cura e mi reco all’edicola.
Compro un giornale, di quelli che riportano le cronache locali ma anche le
inserzioni pubblicitarie.
Scorro tutte quelle che danno del computer veloci lezioni.
Uno fa al caso mio, non è neanche lontano da casa.
Decisa mi dirigo all’indirizzo indicato.
Al cervellone cortese, che ha aperto il portone, espongo il mio caso.
Ci accordiamo sulla retribuzione, così il giorno dopo inizio le lezioni.
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In capo ad una settimana ho imparato di già quello che fa alle mie necessità.
Felice dell’ apprendimento vado in un negozio specializzato ed acquisto un
computer poco sofisticato, tanto per i miei bisogni non è necessario che sia
complicato.
L’ indomani viene il ragazzo, entra nello studio ed installa quell’ aggeggio. Do una
mancia e comincio il maneggio, mentre il pensiero corre veloce:
“Presto sarò ricca e famosa!”
Perché, per chi non lo avesse compreso, voglio scrivere una storia, la storia di una
vita.
Con tutti i tomi letti e riletti, macinati e studiati uno scherzo sarà mettere dentro la
mia stupidità.
Che rivincita sarà se in capo a sei mesi o forse meno riuscirò a superare Sciascia e
Calvino, Vittorini e Pavese!
E ne ho di cose da raccontare, di amori da insultare, di amici da onorare, di
umiliazioni da riscattare, di… di… di…
Certo so che ogni cosa che si reputa nuova è stata già detta, e molte volte, ma io
voglio ridirla e adattarla ai tempi e agli spazi contratti, al mondo materiale e a quello
ipereale di reti e televisioni.
Anch’io ora ho la mania di rappresentare.
Rappresentare una vita vissuta tra me e il mio specchio, tra presenza ed assenza, tra
il mio lungo camminare e il mio lungo bussare senza ricevere udienza, tra l’esilio
perenne dal mondo e, perchè no, tra la mia stupidità e… un qui ed un lì che non
collimarono mai.
Ma oggi sono troppo emozionata anche se ho chiara la trama intricata, domani sarà
certo giorno propizio dopo un meritato riposo.
Durante la notte un lamento mi sveglia di soprassalto. Il figlio ha preso un malanno.
Il giorno dopo l’altro segue a ruota. Così tra malori, convalescenze e guarigioni
passa del tempo prezioso.
Il decimo giorno la vicina mi invita a prendere il the nel suo giardino, l’undicesimo
vado a pagare le fatture, insomma il dodicesimo la scuola spalanca i battenti ed io
finalmente tranquilla posso iniziare l’immane fatica.
Lavoro di giorno e di notte come una pazza per dimostrare agli altri e prima a me
stessa che la mia esistenza non è stata banale se ho guardato la vita con tanto…
stupore, mentre altri più saggi e di cultura magistrale hanno sempre sostenuto che per
me un solo epiteto fosse ben assestato.
Il computer aiuta tantissimo se un mio errore può essere corretto in tempo reale.
In capo a sei mesi il capolavoro è compiuto: polvere magica spesso occultata nella
musica del caso con inquadrature e sequenze, interrogazioni e risposte di vita in vita,
di storia in storia da tramandare che è sempre un po’ tradire.
“Ma tradire cosa?” - mi chiedo confusa - “Una vita vissuta da pecora in un branco
pronto a valutare e presto giudicare se per caso non si trovano sufficienti
omologazioni? Nel qual caso c’è sempre un pastore pronto a lasciare quel gregge per
riportare all’ovile la povera smarrita. Tanto la massa non si sposta, è sicura di tutto e
di tutti, porta sempre uno stendardo, dietro al quale è pronta a vivere o morire”
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Ma bando alla mestizia, ora, bisogna contattare un editore.
Ho sottomano un giovane ardito che ha tutte le intenzioni di diventare importante
cominciando dal poco con correttezza e senza sfruttare l’ingenuità di crede che
quattro rime e poche parole bastano da soli a realizzare capolavori.
Parliamo insieme di molte cose. Di come impostare la pagina in modo corretto,
degli spazi da lasciare per fare “respirare” lo scritto. E’ essenziale stabilire un titolo
originale ed anche le misure e se necessario dedicarlo a qualcuno ed inoltre anche gli
emolumenti.
Restiamo su tutto d’accordo.
Ci rivedremo dopo due settimane.
Torno a casa esultante e inizio le correzioni.
Un ritocco qui ed uno là. La punteggiatura deve essere curata, e tutti gli “a capo”
perfetti affinché nessuno obbietti insipienza o ignoranza.
Il lavoro è un poco tedioso, ma penso che ne valga la pena.
Passo un’intera giornata a stabilire un titolo intrigante, che colpisca ogni lettore.
Pensa e ripensa, esce fuori la folgorazione… “Perle di cristallo”.
Lo pronunzio migliaia di volte. E’ bello e pregnante.
Adesso bisogna dedicare il tomo a qualcuno.
Spremo ricordi e meningi.
Chi tra tanti mi ha dato un aiuto?
Non riesco proprio a trovare nessuno, o forse sì, la luce del sole o il mio sguardo di
pecora smarrita tra tanti fatti e misfatti. Ma penso che sarebbe scontato e banale.
Poi considero che è solo un dettaglio, lo dedicherò al mio primo amore.
Anche questo è usuale, ma è solo lo sguardo d’amore che fa vedere le cose più
comuni con le nuance dell’arcobaleno. Magari lo sventurato non ha mai afferrato
nulla di ciò che frulla nel capo di una innamorata. Ma questo è poco importante, è il
segno che lacera o consola ad avere rilevanza.
Ecco i versi son questi e non voglio per niente al mondo che siano diversi:

Sul tavolo del gioco tuo


puntai tutte le perle.
Oggi il mio tempo invecchia
e ciò che persi più non torna.

Adesso è necessario considerare la copertina.


Con le quattro nozioni apprese dal cervellone, passo almeno sei ore su WordArt.
Alla fine decido per un carattere d’oro su un’ombra scura. La posizione delle parole
sarà un capolavoro non in orizzontale ma in trasversale, così come il mio nome in
verticale, e poi ci sarà anche l’immagine delle perle di cristallo.
Nessuno non potrà non notare che quella è opera pregiata fosse solo per la
copertina!
Estrema fatica fissare i margini e la misura dei fogli di ogni pagina.
Scorro raggiante col mouse rigo per rigo. E’ tutto perfetto.
Adesso provo a stampare.
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Ma no! Sono stanca e quasi sfinita domani, dopo una bella dormita, riprenderò la
fatica.
Vado a letto e mi addormento di botto col sorriso sulla bocca, ma prima di chiudere
gli occhi dico ancora una volta: “Sarà questo il mio riscatto!”
Il giorno dopo, non prendo neanche il caffé, né mi sciacquo la faccia, è troppa la
mia impazienza.
Mi appresso al computer, a quella scatola scura che tiene racchiusi pensieri e
desideri, gioie e dolori.
Con mano tremante per l’evento imminente pigio il bottone, emette l’amichevole
suono e guardo, com’è normale, lo schermo.
Il buio più pesto si spiana davanti ai miei occhi. Il cuore inizia a martellare.
Spengo.
Riaccendo.
Spengo.
Riaccendo e così di seguito per molte volte, ma non succede niente, sempre quel
nero infernale si mostra incessante.
Voglio morire!
Ma un ultimo barlume rischiara la mente: il figlio ancora dormiente!
Corro nella sua stanza, lo sveglio immantinente.
Mi guarda confuso e stralunato il ragazzo.
Finalmente comprende.
Anche lui tocca ed armeggia, toglie pezzi, li poggia sulla tastiera, li rimette al suo
posto.
Non c’è niente da fare, il computer ha dato forfait.
Mi dispero e straparlo, a volte anche urlo ma il figlio non comprende dove sta lo
sbaglio, anzi chiede candidamente: “Ma non sai che per un lavoro importante è
sempre meglio avere un doppione, magari in un floppy? Sei proprio una…”

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