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Sul tavolo del gioco


tuo
puntai tutte le perle.
Oggi il mio tempo
invecchia
e ciò che persi più non
torna.

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INDICE
Prefazione pag. 4

Telefonata pag. 5

L’isola-città pag. 8

Diritto di scomparsa pag. 12

Viaggio pag. 15

Exodus pag. 18

Ulisse. Penelope pag. 21

Penelope. Ulisse pag. 24

Un uomo. Una donna pag. 28

Dies memoriae pag. 34

Diritto di comparsa pag. 38

Viaggio dentro una vita pag. 43

Il commento di Luigi Bianco pag.

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Prefazione
(In forma di dialogo fra l’Autore e un ipotetico Lettore)

Autore: - Scusi se la importuno, Signor Quispiam, avrei il piacere che lei leggesse i miei scritti.
Signor Quispiam: - Perché dovrei farlo?
A.: - Perché ho letto, studiato, dedotto, riflettuto per tutta la vita.
Q.: - Ma la sua vita è anonima e vuota, mai una comparsa in TV, alla radio o almeno su un
qualunque giornale. E poi… la sua età!
A.: - Perdoni, cosa ha di tanto sconveniente la mia età?
Q.: - Appunto, non ha proprio “niente!” Né un fondo schiena da esibire o un bel busto da
mostrare.
Lei non ha!
A.: - Ma io sono qui con un cervello ben funzionante ed una logica molto stringente.
Q.: - Oh! Sono cose sparute e di nessun conto se non sono lampanti, appariscenti, evidenti nella
mente di chi apre il portafogli e vorrebbe acquistare un bel testo.
Vuole mettere la bella figura se sulla copertina, poggiata ad arte sul tavolo del salotto, compaia
la griffe di questo o quel big molto in vista?
Anche un’opera di una qualunque velina può fare la sua bella figura davanti agli amici invidiosi
per tanta cultura à la page!
A.:- Certo io non ho un portafogli trinato, ma ho risparmiato lavorando e sudando una vita,
leggendo e rileggendo tomi e ragioni senza mettere in conto la vista ed alla fine ecco la fatica di
un’intera vita.
Q.:- Mio caro autore, è possibile che lei non abbia capito che è solo importante apparire e non
stare rintanati in salotto a leggere libri di cervelloni importanti?
Veda, il mio tempo è prezioso, fra poco devo apparire in TV, subito dopo ho un’intervista alla
radio e poi un conferenza a… Adesso sto aspettando il truccatore per la prossima apparizione.
A.: - Ma almeno posso lasciare il mio testo?
Q.: - Se le fa piacere!? Lo poggi sul tavolo.
A:. - La prego di non dimenticare, io l’avevo schedata tra i 25 lettori, ricorda? Quelli del buon
Manzoni.
Q.: - Cosa c’entra il Manzoni, lui sì era qualcuno e se lei avesse buon senso dovrebbe avere il
pudore di tacere il suo di nome, non del Manzoni naturalmente!
A.: - Chiedo venia umilmente, ma io ho fatto stampare il mio testo consumando ogni mio
risparmio ed ho pregato i gestori di tante librerie di metterlo in bella esposizione in vetrina, ma il
libraio mi dice che la mia di copertina con il mio nome non attira neanche l’attenzione, essendo le
teche stipate di volumoni su cui campeggiano nomi famosi e sempre in mostra.
Allora, disperata per tanta cultura sprecata, ho pensato bene di recarmi da ogni lettore per fare a
ciascuno un regalo!
Q.: - Grazie per il dono, ma il dono per il solo fatto di essere tale non chiede restituzione e
pertanto non mi sento in colpa se neanche leggo lo scritto. Quindi lo poggi lì…
Si accomodi Emilia, sono pronto per il trucco, fra mezz’ora arriva la troupe…
A.: - Scusi se le ho fatto perdere del tempo prezioso, signor Quispiam!
Lei si mostra,ed è cosa buona e giusta, al contrario io “sono”, ed è cosa buona e giusta.
L. P.

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Telefonata

Tardo il pomeriggio di un agosto qualunque, di un anno qualunque, mi vede


attardare, svogliata, su un libro complicato da frasi e pensieri assai eruditi.
Uno squillo festante distrae la mente dai concetti importanti.
Il telefono ha lanciato il segnale. Impone scambiare parole.
“Pronto!” Io dico e rifletto :
“Pronta per cosa? Forse alle ciance, forse al saluto, ma ogni telefonata è pur
sempre una traversata in un ignoto messo in atto con i soli ragionamenti
sempre richiedenti un logos pertinente.”
Una voce maschile, con amabile tono: “Ciao, come va?”
Lungo il filo e le fila dell’imperscrutabile caso, Vittorio risento, giovane amico
senza mani né volto, senza occhi né bocca, senza braccia né corpo. Solo timbro
argentino di voce distante. Solo anima inquieta e lontana.
Se a lui, talvolta, rivolgo un pensiero, “rivedo” il mio tempo remoto, le
ricerche e i rimandi, le indagini e i sogni, il dolore e il vuoto di un lungo
indagare che
non trova la cima che l’ancora regge nel fondo melmoso di un fiume che scorre
incessante, incurante di vite e di morti.
E’ questa la vita che con sberleffi e dileggi scrolla le spalle, percorre e
trascorre, si conficca ed incunea nel labirinto sinuoso di esistenze spesso fuse o
confuse.
Oggi, il giovane amico è contento per la messe mietuta di frasi e concetti su
quest’esserci variegato e complesso.
Lucia, già nome brillante, ha contattato col solito mezzo.
Lei, con fare sicuro, con voce sincera, con dotte parole, a lui ha dato una
lezione di vita. Gli ha indicato una via:
“ Costruisci, mio caro, il tuo “io” in modo forte e deciso.
In esso confluisce l’inconscio dagli archetipi arcani, il mondo con le molte
passioni, la cultura e la visione, la norma e la legge.
Queste strutture interne ed esterne compendia nell’io.
Ma, attenzione! Dall’inconscio non farti bruciare, dal mondo non farti baciare.
Tutto sottoponi a ragione.
Se il tuo io razionalizza l’archetipo e il mondo, un argine poni costrutto e
compatto e roccia sarai alle avverse correnti della vita rapace.
Io donna, che ho tanto letto e studiato, sono convinta che le ineludibili pene e
passioni che strada si fanno nel vivere buio, se ben arginate, i frutti daranno
che dal dolore profondo proteggeranno.”
Esulta Vittorio per tanto equilibrio e mi dice contento di aver chiamato Vitaldo
per riferirgli quel discorso importante.
Anche lui è giovane ancora e si dice lanciato nel mondo. Di contro alla
ponderata Lucia, tutto vuole toccare e senza limiti errare e vagliare, studiare e
sognare.
Chiaro gli parla:

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“ Caro Vittorio, io sono un “creativo” e “nomade del vento” voglio diventare,
senza mete prestabilite da vigile mente.
Io sono artista ed errante nel mondo impalpabile della luce e dell’ombra.
Mete costanti: l’estatico e il demoniaco del viaggio-follia.
Sempre in cammino mi metto senza mete programmate e intransigenti
concetti.
Dice Bertolasi: “Praticando l’arte del viaggio diventeremo “econauti”, poi
“psiconauti” e alla fine “entronauti”: esploratori del grande Mistero.
Solitario il mio viaggio e la mia arte, dunque.
La creativa espressione armonizzerà passi e lingue di me autore errante alla
ricerca del contatto con una “bianca” malia.
Dice Mallarme: “Solitudine, stella, scogliera/ a tutto quello che valse/ il bianco
affanno della nostra vela.”
Tu, caro Vittorio, sei forte e perspicace, ma vuoi della terra l’abbraccio
tenace.
Lascia il palpabile e corri con me verso l’extreme della follia, verso il piacere
della sua forte malia.
Dice Bataille: “Il diavolo in definitiva non è che la nostra follia.”
Se vuoi, allora, cogliere il nocciolo di te e del mondo al daimon affida la
mente e la maschera bianca. Lui lacera e rompe con danza irriverente e con
forza “arrogante” e con fermezza accompagna nella vertiginosa profondità e tu,
allora, fatto sciamano, intermediario diventerai tra l’essere umano e i criteri
“altri”.”
E’ incuriosito e affascinato Vittorio da tanto comos scapestrato, schierato a
cogliere del mondo l’estremo risultato.
Poi, ripensa Lucia. Risente il suo dire pacato e, tra gli estremi, resta un poco
frastornato.
Allora, in cerca di un equilibrio meno precario, Luigi contatta e a lui richiede
concetti meno astratti ed oscuri.
Luigi… Luigi…
“Luigi - mi dice il giovane amico- è un uomo triste e deluso da feste e
clangori, da falsi profeti sempre pronti all’attacco e mai alla resa.”
“Alla resa di che?” chiedo dubbiosa.
“ Resa all’amore, resa all’attesa, resa al dolore, resa allo scacco.” Riferisce
Vittorio e prosegue: “Ora lui vive quasi tranquillo da saggio eremita eretico
amodale.”
“Che strane parole, mio caro ragazzo!”
“No, non strane se cogli l’etimo e il senso.
Lui vive al margine, schivo e quasi isolato. Cerca nel mondo contemporaneo
la vera utopia, la magica carezza della poesia.”
Diretta gli chiedo:
“ Ma, in ogni tempo contemporaneo, all’uomo lanciato nel mondo, allo spirito
eletto, costretto a vivere nel ristretto presente, non è stata sempre utopia la
poesia?”
“E’ vero, mia amica matura, ma Luigi mi dice:
“Io ho bisogno di arte e di poesia, ma certo so che non cambiano il mondo,
ma sono d’aiuto al suo miglioramento.”
Poi, riferisce ancora Vittorio le parole toccanti di quell’uomo saggio e
sapiente :
“Io “so” di non essere intelligente e per questo mi impegno a sentire quelle
sensibili verità che solo gli artisti riescono a toccare.
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Allora, sento sempre per capire ed anche attraverso il sentire di altri, io parlo
di me.
Nell’attuale decadimento tutto sembra falso, finto e violento ed è sempre
difficile capire se ci sia differenza tra il bene e il male, perché si sono persi
amore e rispetto per la sacralità della vita.”
Interrompo Vittorio ed aggiungo:
“Bene e male, vero e falso, buono e cattivo, sacro e profano, non ho mai
creduto separare si potessero con lama affilata!
Se al passato volgi lo sguardo, in quale epoca o anno, ora o momento,
rispetto c’è stato per una vita perduta di formica assetata?
Il potere o il denaro o potere e denaro hanno sempre prevaricato masse
ignoranti o popoli coscienti che con vessilli e bandiere e false promesse, con
tallone pesante, hanno sempre schiacciato chi nel mondo meno gagliardo è
risultato.
Così s’è mossa la storia e le storie, il fatto o l’evento, né muta il cammino
finché un uomo vede un nano vicino.”
Trattiene il respiro Vittorio, mai si sarebbe aspettata tanta impazienza
incontrollata

Pentita mi scuso.
La lingua mi mordo e rimprovero a me il silenzio imposto e violato, perché
credo che a ciascuno sia dato un percorso doloroso e segreto, segnato da
gocce arrossate sul ponte gettato tra due sponde sbilanciate tra la vita
transeunte e la morte per sempre.
Per farmi perdonare gli dico contrita che un’anziana blasfema, proprio in forza
all’età, blatera e dice senza riserve pareri confusi, affatto pretesi.
Una fragorosa risata scroscia indulgente nella cornetta scottante per l’ora
trascorsa a parlare in composito dire.
Ancora mi scuso e un saluto affettuoso gli porgo.
Poi… triste, riaggancio la cornetta.
Non riesco ad approfondire le frasi e le idee. Vuota la mente, muto il mio dire
anche per un cielo deflagrante nella stanza rovente che toglie voleri e pensieri.
Esco sul balcone dai vasi fioriti di gerani e petunie.
Guardo i colori e le forme, i gambi ed i petali, i calici e i sepali e lentamente…
emergono i libri letti e riletti, le frasi trovate e quelle perdute, le parole
illuminanti e quelle mancanti e mi chiedo:
“Fino a che punto il mio interrogare è stato un lungo pregare?
Quante volte, orante, dal profondo dell’ombra, ho lanciato il mio grido: “fino a
quando?”
Quante volte un dio sconosciuto e perenne ha gridato: “Per sempre!” ”
Allora, affranta e distrutta dal lungo pregare, messali e parole ho messo da
parte e petulanti giudizi di chi molto più sapiente di me indicava immagini e
testi, tomi e ragioni.
Alla mia anima ho prestato attenzione.
Al mio corpo ho rivolto lo sguardo e l’ho immerso nel Tutto.
Dopo un lungo indagare, ho compreso che nelle mie vene scorre un
frammento di un’unica voce.
Galleggia muto il mio canto e fluisce sicuro solo da quell’unico timbro.
Tocco, allora, le rocce e roccia divento.
Guardo la luna e, cieca, nella sua luce mi perdo.
Immergo la mano nella sabbia minuta e scorro felice nei granelli infiniti.

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Figgo lo sguardo nel nero assoluto di un fiore marcito. Non sento l’odore, ma
ascolto il dolore di quella vaghezza avvizzita.
L’insetto peloso, dal bruno mantello, intreccia una danza intorno al mio
corpo.
Immobile resto, ma ballo con lui nel rosso imbrunire di un giorno qualunque.
Il sole dardeggia i suoi raggi, la pelle faccio bruciare in quell’unico fuoco che
distrugge e rinnova.
Arranca la formica sperduta. Non trova la strada.
IO guardo dall’alto, e con dito avveduto indirizzo il cammino.
Una bianca farfalla… no due… no tre… sulle cime degli snelli papiri
volteggiano.
Trattengo il respiro, immobile il corpo, mi muovo con loro in ballo armonioso.
Il passero ardito lancia il suo grido e con frullo di ali lieve si posa sul filo
disteso.
Muta lo osservo, blocco la gola e, con fare placato, gorgheggio con lui.
E poi… e poi… e poi…
E, poi, io penso decisa: “Se la natura fluisce e in essa mi tuffo e tace la parola
e non ode l’orecchio, e l’occhio non guarda… tutt’uno divento con la voce del
mondo.
Scompare il sapere, il libro e la scienza, il verbo e la frase, il ritmo e il segno,
il suono ed il tono. Un’armonia si snoda solo per me.
Muto il suo canto, non ha suono il mio dire, non ha battito il cuore, non ha
cadenza il tempo, non ha apparenza il corpo… e… e…
E… non è luce e non è ombra, e non è inizio e non è fine, e non è vita e non è
morte.
Ma è vita e morte, se nell’eterno fluire io passo col volo dell’insetto dal nero
mantello, con l’armonioso volteggio della bianca farfalla, col piccolo granello in
un pugno di sabbia.”

L’Isola-città

La mia vita esito del caso, foglia portata dal vento in un momento qualunque,
in un posto qualsiasi aveva deciso di posarsi lì, nell’isola-città ricca di miti e
grande civiltà che popoli forti di armi ed eserciti avevano sottomesso non senza
difficoltà, ma non avevano mai potuto cancellare lo splendore di quella
magnifica signora che nelle vie battute da piede incurante narra storie ed
eventi, e nei monumenti fasto, fulgore e munificenza.
Oggi, quella signora è un po’ spoglia, ma piano, col tempo e molta fatica
restaura chiese e palazzi, vecchie vestigia ed alberghi.
E se l’industria di nero petrolio distrugge paesaggi di naturale bellezza e
inquina l’aria e la mente, nutre, però, ed incanta.
Quando vi nacqui, l’isola-città viveva solo di passati eloquenti, di quei
monumenti saccheggiati e sbrecciati, di molta fame e miseria e non offriva

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ricetto ad un giovane forte e molto ambizioso, che voleva trovare, certo
altrove, fama, denaro e successo con la sola sua arte.
Così, con poche cose raccolte in valigia e tanti sogni nel cuore varcai lo
stretto braccio di mare che separa quella terra, che popoli antichi nominarono
Trinacria, dal resto d’ Italia.
Molti dei sogni in cassetto ho realizzato.
La notorietà è arrivata e con essa calma e canizie, onori e ricchezze, e molti
amori di breve percorso.
I miei tanti dipinti sono raccolti nei musei più importanti, nelle case d’asta
emergenti, nelle gallerie elitarie.
Oggi potrei essere appagato e contento.
Vissuto per questo traguardo, ho raggiunto la meta fissata.
Ma una domanda prepotente si staglia nella mente:
“E’ stato traguardo? O l’anima agogna ed ha sempre agognato avere accanto
qualcuno o qualcosa che mi facesse sentire come a casa?”
La risposta non può essere che affermativa, se dopo anni sento il bisogno di
tornare in quell’isola da cui giovane ero fuggito con tante aspirazioni e
speranze.
Nel mio tempo presente, dopo la lunga assenza da questo luogo, le speranze
non hanno ormai senso, voglio semplicemente ri-tornare e con unghie e con
ascia, con seghe e martelli dissotterrare radici che il tempo ha sepolto e
dimenticato.
Il tempo! Sta dietro, tutto, e quello davanti è misera cosa senza corse ed
affanni, commissioni e premi importanti.
Io so: quest’ ultima tappa della mia vita è poco notevole e non importa a
nessuno, solo per me è fondamentale.
Adesso, lento il mio passo nell’isola-città che fu mio possesso di bambino in
corse sfrenate dietro un pallone nelle piazze assolate, davanti agli austeri
palazzi, nelle vecchie viuzze.
Ancora oggi, come allora, guardo incantato l’acciottolato di pietre minute
annerite dai passi, ove prepotente spunta da sempre l’erba del vento che piede
costante calpesta incurante.
Ancora oggi il passo picchia sul nero impiantito con metallico suono che
evoca ronde, lotte e battaglie e… il bimbo sta lì nella mischia con occhi
sgranati su spade e corazze, su zuffe e contese sempre vinte con gloria…
Il tempo infantile davanti alla casa guarda la madre che saluta affettuosa il
bimbo piccino che corre felice tra le sue braccia.
Casa!
La mia casa.
Avrà ancora voci argentine di calmi inquilini, di pianti agitati per liti inquiete
tra fratelli arrabbiati?
Rallento, ora, l’arguto mio passo su quel selciato indurito.
L’occhio si posa sullo spigolo rotto dell’edificio importante in fondo alla strada
che lenta si snoda fino alla Cattedrale maestosa.
Hanno cambiato i lampioni che, ora, luminosi fanno vedere le famose colonne
dal fusto scanalato del tempio ad Athena dedicato, ora chiesa cristiana.
Ecco il bar!
Quel piccolo bar!
E un nodo sottile stringe stomaco e gola.
Vorrei vedere le tendine alle finestre agganciate.
No! Vetrate liberty nascondono il vano agli occhi importuni.
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Un tuffo nel cuore… e un’immagine chiara, là nella via, frusta anima e mente.
Alta e sottile indossa un tailleur di taglio perfetto.
Cammina molto eretta e il vento importuno scompiglia appena la pettinatura
di biondi capelli assai fini.
Si muove con passo di danza e sorride serena.
Poi, muove una mano inguantata perché mi ha riconosciuto!
Ma che penso?
Forse vaneggio!
Annullo tempi e percorsi.
Infatti, un giovane alto e prestante le va incontro, l’abbraccia con forza e lei
mi passa accanto lasciando nell’aria un odore di ciclamini di campo.
L’aspiro e respiro. E passo e ripasso l’aroma nella memoria ovattata, nel
corpo stanco e straniero.
Avevo creduto, con un battito d’ali, fosse possibile annullare distanze ed
eventi passati da anni, vissuti da sempre.
Mi chiedo insicuro se la mia donna abiti ancora in quella città. Se calpesta con
piede leggero lo stesso selciato che aveva percorso con me.
Se qualche volta ha guardato con viso nostalgico il piccolo bar, che, non
ricordo più quando fu, ci vide allegri e felici.
Chissà se baci, promesse e carezze le sono tornate talvolta alla mente.
Chissà se, invece, lei cammina felice per i campi elisi.
Certo, è il ricordo che mi ha indotto a tornare, a ri-vedere sorrisi e vecchi
momenti, a cercare nella memoria un appiglio per l’ultimo capitolo di un libro
che avevo scritto con penna affilata sul dolore di un’altra creatura.
Che importanza ha se un individuo arriva in un’altra città, se parte o vi resta?
Nessuno presta attenzione, come quando nel cosmo sparirà tutta l’umanità e
il sole resterà fisso nell’eterno giro di albe e tramonti.
Ma ogni uomo come me crede sempre di occupare una centralità, per questo
corre e rincorre, produce e procrea, esiste e finisce.
Così io, parte sempre più piccola di un tutto sempre più vasto.
Si desta smussata dal tempo una frase:
“Vorrei strapparmi il cuore per non sentire il mio amore.”
E il suo corpo è presenza, che ho voluto fosse assenza nella mia vita, anche
se l’ho, poi, tanto desiderata.
…. Seguo i due con lo sguardo.
Lui le cede il passo davanti all’ingresso del bar.
Guardo ammirato la coppia ben assortita.
Si dirigono al tavolo d’angolo.
Li seguo.
Forse li inseguo.
Si sorridono con labbra distese, con fronte spianata.
E… fiorisce il mio amore di un tempo dalla luce degli occhi di quella ragazza.
Una medaglia si posa doppia sul tavolo. Una parte fulgida e pura come il suo
sguardo posato su di me, una parte dolorosa ed oscura, come ogni sentimento
che è dell’umano.
Adesso quella medaglia è bella nella memoria, perché allora l’amore fu il mio,
il suo, il nostro scopo ideale.
Ma fece naufragio nel mare del tempo e dell’assenza, nel cielo della distanza,
nell’adempienza di un dovere dovuto solo a me stesso.
Si dissolvono le cose e i sentimenti, continuamente, eternamente.

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Quel volto, evocato da un incontro avvenuto per caso, ha riportato il gioco al
punto di incontro di un passato in cui tutto è avvenuto e di un futuro ad angolo
acuto, che nel presente si conficca nel petto perché il tempo, ora, è cosa
minuta.
Parlano fitto quei due, ed io ascolto… ascolto molto attento un ieri
dimenticato:
“E’ certezza solo quello che sento e che penso.”
Ed io incalzavo sicuro:
“E quello che vedi?”
“Esisteva prima di me, esisterà dopo di me. La verità solo nella “mia”
coscienza, solo nella “mia” conoscenza.” Rispondeva e calcava su mia.
“E l’albero e il vento e la foglia, la pietra e la pioggia?” Dicevo.
“Cose fuori di me, come gli abissi e la molteplicità del mondi.”
Ed io tosto aggiungevo:
“Aggrappati al possibile, è necessario trovare una vaga identità nel tortuoso
periplo della vita impietosa.”
“Non sono d’accordo.”
E il sorriso illuminava quel viso che con molta saggezza comprendeva il
bisogno delle mie certezze, di toccare con mano l’attorno ed io non capivo che
il viaggio interiore è più forte ed imperioso di qualsiasi cammino su carte
geografiche note che, con mente avveduta, puoi facilmente dominare.
Io ho voluto vedere con sicurezza il sole che sorge, il giorno che va. Nella
tazzina, fumante, il caffé. Il letto rifatto. Il pranzo a puntino e le ciabatte sotto il
letto per sempre.
Guardo ancora quei due…
La mano sfiora la mano, e lei fiduciosa lo lascia fare.
Spesso… la prendevo per mano e dolcemente la spingevo nel tiepido letto.
La denudavo e scaldavo il brivido freddo col corpo forte ed ardente.
Si nascondeva del tutto sotto di me, protetta dal mio calore profondo.
Poi, come per incanto, la mano accarezzava il mio viso nella sfida del
desiderio nascosto, scendeva sul collo gagliardo, sul petto possente, sui ventre
voglioso.
S’offuscava la vista e solo una volontà: possedere la sua vita-mare di onde
capricciose che si abbattono ed arretrano come in un gioco sospeso a
mezz’aria: l’abbraccio e il distacco, il desiderio e la smania, purché si stia
sempre insieme col cuore che batte all’unisono in quel dialogo che parla
d’amore senza un fonema…
Sono in piedi quei due…
La mano tiene la mano e, incuranti di un vecchio disilluso e canuto, passano
davanti a me.
Annuso ancora l’odore dei ciclamini di prato.
Ora. E mai più.
Guardo la coppia e un’altra coppia… davanti a una nicchia di un sepolcro, e la
sua voce…
“Non si contiene la vita se non si comprende la morte.”
Allora non ne intuì il pieno significato, né molto dopo.
Solo ora, che sento il respiro vicino dell’altra verità, ne tocco l’immensità.
Solo ora la mente non sente ragione e lo spirito libero sogna solo l’altra
dimensione, mentre io resto fortemente deluso di essermi illuso di aver colto
l’infinita bellezza solo col gesto imperioso e pennello deciso su tele illibate.
Che vale il successo, se l’anima vaga senza una meta?
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Oh, sì! La mia meta l’ho avuta, ed anche la fortuna ha profuso denaro e
potenza, ma la sua anima da tanto tempo l’ho persa, insieme al suo sguardo di
tenera amante.
Quante volte con dubbio pressante ho guardato nella Cappella Sistina quel
corpo divino che tiene il dito allungato verso l’uomo nerboruto.
E sovente mi sono chiesto se fosse l’uomo ad avere creato il divino e non
viceversa, per dare con agio leggi e precetti e dominare con animo puro il nano
vicino.
Ma queste dissertazioni sono lontane, ora, dalla mia mente.
Solo con l’Uno posso ragionare per il prossimo futuro.
E quell’Uno è pronto a sciogliersi nella mia anima che angoscia e dolore,
perdite e affanni ha sempre provato, nonostante la fama, la gloria e il denaro,
perché la creazione è sempre dolore.
Si allontanano i due, come… il mio amore al tempo dell’orologio.
Oggi il trascorrere delle ore e dei giorni è misura senza speranza e nulla può
più sopravvenire perché tutto è accaduto all’animo muto e senza emozioni, alla
mente allenata ad essere forte al freddo vento raggelante che tanto zelante ha
portato via un amore importante.
Solo lei, oggi, rende più salde e più forti le radici in quell’isola-città, nonché la
vita vissuta in formule rassicuranti che molto hanno avuto, ma nulla di vero
hanno dato.
Lontani i due amanti abbracciati, sono solo due punti sfuocati.
Guardano con occhio lucente nel sole splendente quel futuro di chi misura il
tempo davanti.
Anch’io esco dal bar, in un vagare senza una meta.
In realtà nulla è cambiato in queste strade sparute, in quest’isola-città che fu
mia.
Solo l’uomo che è in me ha forse oggi trovato una via…

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Diritto di scomparsa

L’accogliente poltrona di cuscini di piume fornita porta l’impronta del mio


corpo minuto, di tante ore passate svuotate dal senso comune, di pensieri
azzardati, di sogni mai vissuti, di libri mai letti o a metà presto lasciati, oppure
avidamente divorati.
Stasera voglio bloccare la mente e guardare la TV.
Puntuale un programma vomita immagini a volte sconvolgenti, spesso
inconcludenti che guardo distratta per riposare le mani operose per lavori
noiosi, per gesti ripetuti, obbligati da doveri pressanti.
“Chi l’ha visto?” trasmissione che si sostiene sia di valore sociale perché
aiuta a ritrovare chi della vita rifiuta il sistema, esibisce un povero caso.
Rimanda la foto di un volto di donna dai lineamenti orientali.
Presto attenzione…
Rovisto… Rovisto tra sembianze più o meno note o dimenticate per condurle
a coscienza.
Ecco!... sì!...
Sotto la Loggia dei Lanzi a Firenze.
Proprio lì sul muretto scurito da tanti riposi agognati da turisti sudati, quando
il sole battente picchia sul capo stordito e un refolo fresco spesso ristora il
corpo e la mente.
Proprio lì… una ragazza orientale, in tutto uguale alla foto, sostava.
Appoggiato il suo capo alla spalla di un uomo molto più anziano di lei.
Aveva attirato la mia attenzione per la posa aggraziata, il corpo abbandonato
tra le braccia fiduciose del maschio ingrigito, che cingeva con gesto sapiente le
spalle minute e con una mano sorreggeva quell’esile busto in segno di
protezione.
Lei riposava tranquilla perché il suo uomo, lì, vegliava paterno.
In quel momento la fronte di lui era spianata, felice del proprio possesso e
una tenerezza infinita brillava nell’occhio, corsaro d’amore.

13
Copriva il corpo del maschio un vestito cinerino, folti i capelli molto brizzolati
sopra un viso di molte rughe solcato, solo la pupilla sprigionava scintille, posata
radiosa su quel dono prezioso.
Io… Io… li avevo guardati. Ammirati. Contemplati con tenerezza infinita, con
la stessa tenerezza che ascolta l’eco della voce adorata, non udita più, non
vissuta più.
Sommesso quell’amore, silenzioso come una farfalla che lieve si posa sul
fiore reciso.
Forte quell’amore come un albero dal largo ombrello materno.
… Il video rimanda ora in sovrimpressione il numero che si dovrebbe
chiamare.
D’istinto mi alzo e prendo la cornetta.
Mi blocco…
Cerco il cielo stellato…
Fulgida la costellazione di Orione e quella dello Scorpione, che il mito
sancisce uniti da comuni destini.
E l’Orsa Maggiore e la Minore, e la Stella polare che al navigare ed anche al
viaggiare fu consigliera fida e costante.
E Venere brillante e la Luna sorridente che ammicca agli amanti, che piange
tristemente se sei tu a gioire e soffrire per niente.
E penso… il sole, ora, nascosto sul mondo, che gira e rigira nel suo eterno
cammino di albe e tramonti.
Lì il cosmo nitido e muto come un orologio perfetto.
Ma no!... E’ l’essere umano che non sa niente di un creato apparentemente
fermo e costante nel ritmo perenne del qui e del là.
Lo studioso con ricerche affannose e saggi controlli ha detto che le persone
comuni non sono al corrente di leggi spaziali e quanti infinitesimali.
Così, se si misura la massa della particella più minuta non si può conoscere la
velocità assoluta. Se si vuole fare il contrario il groviglio non si sbroglia.
Volgo lo sguardo a quel cosmo che credevo perfetto e scopro l’inganno.
Allora congetturo che, se con agile mano, butto una moneta su un
pavimento, con logica mente argomento la possibilità che il recto e il verso sia
diviso a metà.
Ma se mille in aria ne butto dove la probabilità divisa a metà?
Desumo da questo che un Dio ha lanciato i suoi dadi per prendersi gioco di
un uomo che guarda sicuro che tutto lavori a dovere per farlo signore del
mondo.
Signore del mondo? Sorrido!
Sorrido perché arguisco che anche il cielo stellato è carente e precario!
E, se volgo lo sguardo a quel cosmo che credevo perfetto, a cosa devo
guardare che sia proprio certo?
Scoraggiata rifletto su come non sia possibile allargare le ali e in alto volare,
se il tempo è divino capriccio e lo spazio eterna illusione.
Vano l’affanno della creatura transeunte, non punto di arrivo ma caso
efferato.
Quale il significato del bene e del male? Dell’essere e del divenire?
Eppure, l’uomo arrogante si affanna a darsi leggi e precetti, a fondere tavole
scritte, a frangerle al primo intralcio apparente.
Così, costruisce valori e concetti, teorie e falsi tabù, denari ed averi, solo
pensando che ammassando l’eternità debba avere per sé.
Nessuno nell’eterno affannarsi si chiede: “Perché?”
14
Guardo lo schermo del televisore e ricordo con mestizia la coppia e non posso
fare a meno di pensare:
“Allora… lì, tra quei due il punto di appiglio?
L’hic ed il nunc solo lì?”
Riattacco la cornetta.
Mi siedo in poltrona e mi domando assai incerta se sia proprio corretto
frantumare quell’attimo che sottrae alla morte una vita banale.
Lancia un appello la sorella dell’orientale.
Parla cinese con armonico suono. Non capisco una sillaba.
Eppure… le parole si alzano in volo, si librano nell’aria sotto i riflettori come
palpiti nel mare, come ali nel cielo.
Noto com’è uguale la musicalità delle frasi anche se l’idioma pronuncia lemmi
diversi da quelli abituali.
Parola.
Suono.
Dono.
Mondo divino.
Emozione.
Una parola ti danna e condanna, una parola ti salva o ti annienta. Lidia Pizzo
Olio su tela cm.50x60
Parola-arcobaleno, ponte tra pensieri e concetti apparentemente disgiunti.
Apertura sul mondo.
Parola-abisso. Parola-follia. Parola-danza col ritmo delle cose che vanno, delle
cose che tornano.
Parola-vita che spezza e distrugge.
Parola-universo, solo permanente, se mio.
La mia parola, lì in quella cornetta, avrebbe rotto il sogno e l’incanto.
La mia parola, lì in quella cornetta, avrebbe infranto bellezza e tenerezza se,
per caso, quelle vite si erano intrecciate e poi le esistenze sarebbero trascorse
tra un approdo e un mistero, tra un nodo e una retta.
Un pensiero saetta: l’umano spreca parole, fomenta discussioni per dire che
l’uomo è forte e possente e poi… basta un niente a incurvare il debole giunco
battuto dal vento.
Parla ancora la sorella dell’orientale, forse la prega di tornare.
Io non trovo più parole…
Ma… il mondo è sempre pieno di persone caritatevoli e buone.
Impellente il dovere.
Una famiglia in ansia ed ambascia.
Bisogna darsi da fare.
Penso: “Il frastuono uccide la vita, il pensiero, l’amore.”
Poi un momento dopo si fanno attente le orecchie.
“Pronto? Sono Maria. Ho riconosciuto nella foto…”
Premurosa la conduttrice: “Ne è proprio sicura? Dove l’ha vista?”
E la voce: “Sotto la Loggia dei Lanzi, venerdì scorso a Firenze…”
Mi si offusca la vista.
Non terso lo schermo.
Una lacrima importuna e furtiva solca la guancia avvampata, scende lenta
all’angolo della bocca rattristata.
Amaro e salato il sapore.
Di tutto quell’amore carpito per caso sarebbe rimasto solamente il mio
pensiero importuno in una cornice di fumo.

15
Viaggio

L’inverno richiede l’oblio in nicchie ordinate e precise in cui si ripongono


cappotti e cappelli.
La nuova stagione incalza decisa con aria tiepida e dolce.
Invita al viaggio; opportuno dopo un tempo troppo dolente per ricordi
struggenti lontani o recenti.
La valigia mostra il suo vano, spalancata sul letto.
In bell’ordine accessori e vestiti lusingano lo sguardo e la mente.

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I reggiseni accordati a slip eccitanti, le camicette eleganti, gonne all’ultimo
trend di una moda fatua e vuota, ma sempre opportuna se tenti mostrare
l’avere, visto che l’essere non interessa a nessuno.
Ed ancora, il tailleur di lana pettinata acquistato nel negozio importante e le
scarpe di pelle lucente.
Nascosto in un angolo un libro.
Un libro? Per conciliare sonno e riposo!
Ma no! Lì c’è la vita sospesa, che altri ha vissuto nell’angolo buio di una
mente allenata, pronta a lasciarsi carpire, a lasciarsi tradire da tante
interpretazioni. Sì, perché la cultura togata sostiene con sagge ragioni che
l’opera non è dell’autore ma solo di ogni lettore.
E’ ancora presto per il comodo aereo che porta nei luoghi sognati, scelti ed
eletti per sentirsi stranieri in terre lontane, per guardare con occhi sgranati
architetture allungate, piazze imponenti, strade ignorate e la gente sfiora, ma
non la si sente, intenti soltanto ad osservare pietre fiorite col sole.
E’ ancora presto!
Seduta sul letto, quel lusso prudente si mostra allo sguardo che lento si posa
anche sul solitario brillante, splendente all’anulare tornito, poi… passa al
bracciale finemente lavorato al polso agganciato.
E la mano indolente tocca la gola e tasta quell’oro di un girocollo sottile di
diamante fornito.
Un pensiero sfiora la mente: se parto porto il mio mondo solo per il fatto di
sentirmi protetta tra un genere umano anonimo e vuoto che rende quel luogo
significante solo a persone che lì hanno avuto i natali.
Eppure, il cuore festoso gioisce all’idea di un viaggio avvincente e vitale.
Viaggio!
Avventura! Posti ammantati dal fascino che vi accorda l’umano, che dice la
tristezza di una vita svuotata, di un cuore che vorrebbe sentire la malia di
scoprire il diverso e l’altro lato del vivere in serie.
A volte, in quei luoghi ignoti, per dubbio improvviso su qualche cosa,
qualcuno avvicini per caso e chiedi un’informazione.
Cortese l’anonimo volto dà l’indicazione. E lo senti sodale. Senza di lui
perduto e sperduto saresti tra vie tutte uguali e volti indifferenti al tuo dubbio
pressante.
Avuta la delucidazione, un sorriso splendente ringrazia quell’uomo senza
nome e dialogo che si perde per sempre tra l’anonima folla.
Ma già… pensi alla prossima esitazione.
… Ancora uno sguardo veloce alla roba disposta sul letto.
Una dimenticanza aggrotta la fronte: la trousse col trucco manca all’appello.
Mi alzo e l’aggiungo a quel pezzo di mondo che voglio dietro costantemente.
Ma intanto, penso che è l’ora di sistemare il bottino in valigia.
Il golfino di lana fine, azzurrino.
Lo prendo con mano leggera, è morbido e caldo.
L’avvicino al mio viso, ne aspiro l’aroma e una mano lontana nel tempo,
smarrita nella distanza accarezza con tiepido tocco il pallido collo, il roseo viso.
E risento la carezza del vento, il suo gioco innocente fra i rami stecchiti di un
giardino perduto.
E la camicia di seta anche lì, si accompagna al golfino.
La prendo con mano leggera. E’ fresca e frusciante.
L’avvicino al mio viso, ne aspiro il profumo e un braccio lontano cinge le
spalle con tenerezza infinita e mi sento regina del mondo e brilla la reggia di
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luci smaglianti e colori accattivanti e mi muovo con passo di danza tra diafani
veli e suonano sistri nell’aria che ride col sorriso del mare.
E la sciarpa di lana mohair sta lì solitaria, portata per caso se un freddo
inatteso dovesse prendersi gioco del sole radioso.
Con mano leggera la prendo, la tengo nel pugno, l’avvicino al mio viso e
rivedo il sorriso affettuoso e le labbra carnose e il dire posato e mi sento
protetta dal gioco feroce del mondo.
Si chiudono gli occhi e non so se fu ieri, oggi, domani, mai.
Ma vivo il volto e lo sguardo, le mani e le labbra, le braccia e il respiro, la
pelle e l’odore, il ritmo e il passo, la voce e il silenzio, il sorriso e la pena.
… Lentamente si schiudono gli occhi.
La stanza in silenzio, la luce soffusa per le imposte appena socchiuse.
E intanto le mani ripiegano e riportano l’ordine, mettono con metodo quel
mondo in valigia.
L’orologio gioca d’anticipo.
Ho tempo per chiudere tutto con calma, staccare l’acqua e la luce, serrare il
rubinetto del gas.
Poi, uno sguardo allo specchio brunito dal tempo.
Ha visto specchiare altre immagini, altre attese.
Ma è ancora giovane il mio viso e il corpo attraente.
Sorrido presaga di sogni e risvegli.
Ora, nella destra la valigia pesante, la borsa a tracolla, la sinistra a sigillare
con le chiavi porte blindate per ladri assetati di oro e denaro.
Esco lentamente da casa, pigio il pulsante dell’ascensore remoto.
Dopo qualche minuto arriva preciso con rumore di ferraglie fragorose.
Entro tranquilla, spingo il bottone che mi porta al pianterreno, nell’androne
del palazzo vetusto.
Una striscia di luce ferisce lo sguardo.
Trascino il mio peso fino al portone, poi, esco nella strada assolata.
Il marciapiede mi attende e lo sguardo si attarda sull’edicola di fronte.
Il mio giornale preferito fa mostra di sé in cima alla pila di quotidiani stipata.
La bottega minuta mi scruta con gli alimentari ammucchiati e, sul bancone
gremito, merendine e dolciumi.
Lì, accanto, il negozio di abbigliamento. Esibisce in vetrina, con raffinata
eleganza, un bianco tailleur in tutto somigliante a quello che indosso per il
viaggio importante.
Mi dirigo all’auto parcheggiata lungo il marciapiede minuto.
Apro il cofano e ripongo il mio mondo allogato in valigia.
Richiudo.
Apro lo sportello.
Seggo al volante.
Inserisco la chiave. La giro a metà.
Il motore risuona con voce di tuono.
Guardo la strada e rifletto.
La mente fa una pausa breve…
Spengo il motore!
Apro la portiera.
Richiudo.
Mi inghiotte la via soleggiata.
Una come tante… scanso il vecchietto su gambe assai incerte che regge un
bastone per andare sicuro.
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Umilmente chiedo scusa, ma quell’arnese, urtato per caso, ha macchiato con
gesto indeciso l’orlo del pantalone del bianco tailleur.
Poi, procedo incurante di sfregi ed offese.
Lo stuolo dei ragazzi che esce da scuola con spalle ricurve per zaini
inutilmente pesanti spintona me vacillante e quel sacco rosso e sfacciato del
giovane allegro sporca la manica del mio bianco tailleur.
Nessuno chiede scusa, mentre ascolto, senza badare alle macchie e agli
insulti, lo sciamare festoso che si disperde nella via luminosa.
Una donna impettita di pelliccia fornita di una stagione da tempo finita
struscia negligente il capo prezioso sul bianco tailleur.
Una teoria infinita di peli irsuti rimane attaccata.
Non credo opportuno con mano sicura allontanare quelle setole scure.
Un uomo dal passo veloce, dalla borsa pesante di carte e documenti striscia
quel peso di cuoio poderoso, di nero lustrato, sul fianco minuto del bianco
tailleur.
Noncurante guardo quell’uomo e sorrido indulgente.
Il cane fuggito da un guinzaglio assai mal trattenuto, per poco, non mi
investe e a terra mi butta, e con zampe indecenti lascia il fango funesto sul
bianco tailleur.
Con tenero sguardo e mano amorevole allungo carezze a quell’animale che
uomo vanesio tiene rinchiuso in case ridotte.
Il venditore ambulante di frutta e verdura incarta, negligente, una bianca
lattuga, troppo inzuppata di acqua corrente. Due schizzi sconvenienti
impregnano la stoffa leggera del bianco tailleur.
Passo oltre prudente e con passo risoluto ritorno all’auto lì vicino
parcheggiata.
Con fare deciso apro il cofano rovente per quel sole deflagrante.
Riprendo borse e valigie, e sporca di peli, di terra, di macchie ed ingiurie con
molta determinazione rientro nella casa silenziosa.
Forse… resto ferma se parto, ma in ogni caso non porto con me il bello ed il
brutto di un mondo dimentico del piccolo evento, che mi ha dato la certezza
che questa è la vita, senza cose importanti, che gira e rigira tra albe e
tramonti, tra passati perduti, presenti insignificanti, futuri agognati e
puntualmente avviliti.
Un piccolo caso è ugualmente importante come un grande accadimento se
vivi il fatto o il misfatto con il cuore e non con la mente.

19
Exodus

Non sento dolore. Alcuno.


Dolore di vivere, perire, sopravvivere.
Niente!
Chiara la mente. In-dolente il corpo assai inerte, di forze mancante.
Di forze… Di forze…
Intuisco, anche se non percepisco chiaramente, un fioco chiarore, fibrillante,
evanescente, forse di una lampada accesa o di un solo raggio radioso o di un
quarto di luna luminoso.
Lidia Pizzo Foto
Non so!
Non voglio sapere.
Preferisco tacere, senza chiedere niente a chi più forte di me si aggira silente
tra stanze dolenti.
Oppure sì!
Sì!
Metto in moto la gola, ma la parola non suona.
Una lacrima scivola sulla gota avvizzita, da rughe solcata, sul bianco cuscino.
Ne sento il calore, non sento dolore.
Tutto tace nel cuore.
Il giorno o la notte non hanno importanza nel vuoto silenzio della mia stanza
istoriata da ombre allungate su pareti troppo imbiancate.
Forse, sospeso tra il passaggio in un oltre sconosciuto e la sosta in un qui
noto… carpisco…
Carpisco… Carpisco… domeniche allegre di bimbi ciarlieri, di donne sicure, di
uomini audaci.
E… i viali si intrecciano e le piazze si illuminano ed un fischio deciso lacera il
tempo confuso da mille somigli.
… Ecco il segnale.
Dilania la mente.
Il treno si sente.

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Con sforzo indicibile salgo gli alti gradini.
Un tunnel di mille aperture fornito si staglia infinito per il mio passo
impacciato.
Una porta io apro e guardo il primo sedile.
Una polvere bianca sul filo del tempo copre, con manto pietoso, le crepe
minute di pelle sciupata.
Il fardello depongo e figgo lo sguardo nel cielo azzurrino che nitido vedo dal
finestrino sparuto.
Uguali per me, forse anche per te, i millenni costanti, incuranti di vite e di
morti, di uomini anonimi o molto importanti, di grandi elefanti o di minuscoli
insetti.
Tutti danzano intorno, con ritmo orrendo.
Eppure il vivente l’attimo estende e contrae a suo gradimento.
… Ma ora il mio tempo voglio fermare.
Voglio fermare?
“Può, signore, spostare il suo ingombrante fardello?”
Dice incurante il sorvegliante del treno gremito di gente stipata nel
ricettacolo minuto.
“Per favore, dove lo metto, dove lo lascio?
Vorrei ogni cosa portare con me e non dare fastidio a chi, dopo di me, stracci
e blandizie con grande perizia e dispendio di forze, nell’immondizia costretto
sarà a buttarli poi giù.” Dico convinto.
“Scusi, signore, io supponevo…”
… No, è meglio non pensare, non sentire, accettare, tacere… Ma… Ma… una
voce argentina con tinnulo suono:
“Nonnino, giochiamo a nascondino?”
“Con chi?” - Io chiedo chinato sul bimbo ciarliero - “Coi millenni fugaci?”
Dall’inizio alla fine ho gettato dadi lungo il doloroso cammino.
Mai ho raccolto la somma pattuita del gioco azzardato.
Fosse possibile l’impossibile non nascere! Non scegliere d’essere!
Perché io sono?
Sono o sono stato? O solo adesso io sono?
Non so.
E la scelta? Tutto già ordinato, stabilito, ab aeterno fissato?
… “Mi fa controllare il biglietto, signore?”
“Ma io non ho scelto di entrare nella confusione abissale del giorno natale.
Per caso sono salito su un treno affollato, e, vidimato il biglietto, costretto
sono adesso a scendere qui, pirata di giorni incurvati su viaggi falliti, negati o a
gran voce proclamati e declamati su fogli mai scritti da mani tagliate.”
… Fischia il treno, fischia…
Entra in stazione.
Pungente l’odore colpisce feroce bocca e narici.
Folle vocianti di uomini dalle facce corrugate o distese, di bambini alle gonne
di donne attaccati, di giovani abbracciati, di adolescenti…
Voci arrochite rincorrono voci squillanti.
Braccia alzate in saluti affrettati.
Piedi veloci per passi decisi.
Com’è acre l’odore di fatica e sudore, di corse saltate, di percorsi scelti e non
scelti ma sempre obbligati.
Obbligati da chi?
Correre. Percorrere. Trascorrere. Senza fine.
21
Senza fine?
Se corro non penso al lungo percorso, al doloroso e violento tragitto, al
cadavere lasciato lungo il cammino.
Solo voglia di avere, di possedere bellezza e candore, denaro e dolce illusione.
Sono lì, devo solo allungare la mano e trovare il giusto momento.
Tutto posso avere se allento la spinta che all’essere porta.
… Nulla… io… ora… ho addosso…
Le braccia lungo il mio dorso, fragile e nudo. Magre le gambe, teso il mio
volto.
Il tutto è coperto da un liso lenzuolo sul petto allungato da anonima mano.
Non affannoso il respiro, e l’aria già fine disseta l’avvizzito polmone e… la
pace penetra nel cuore.
… Devo alzarmi? Uscire al trillo importuno di un cronometro mattutino?
Eppure è dolce l’odore del tiepido latte.
Una voce argentina, che il tempo ha smorzato, chiara risuona:
“Bevi il tuo latte, è già tardi per un giorno di scuola!”
E’ lì, sulla porta, la tenera madre.
Un raggio di sole colpisce il suo viso e il vestito di seta risplende di un azzurro
divino e due occhi neri e ridenti accarezzano il figlio piccino.
Poi, sulla strada, volgo indietro lo sguardo ed una mano diafana e bianca si
alza con calma a rincuorare un bimbo allarmato da un mondo spesso impazzito.
Madre, mia madre.
Madre e terra.
Testa appoggiata sul petto.
Percorso del tempo in un ventre di donna.
Approdo sicuro.
Traccia senza inganno, né frode.
… Il mio orecchio… un suono… una porta si apre, ma l’occhio non trema, non
vede l’incerto chiarore.
Una voce si snoda. Una domanda si pone. Una risata si impone.
Veloce un’auto passa giù nella strada percorsa da mille presenze, incrostata
dalle orme del tempo. Un bimbo piano singhiozza…
Una saracinesca veloce si alza…
Un telefono nitido squilla….
Cade un oggetto sul pavimento…
E tutto procede ma nulla conta decisamente.
E una domanda prepotente diventa. “Guarito son io troppo in fretta dalla
durata della mia vita?”

22
Ulisse. Penelope

Disteso sul letto, lenta avanza la notte.


Un vento leggero batte con nocche incorporee sui vetri della finestra che
mano operosa e prezzolata ha lavato di fresco.
Arruffati i concetti.
Inseguono incerti cammini dai punti di approdo sgranati.
Fremono sentimenti confusi.
Io cerco un altrove che sia segno di appiglio.
La ragione fa luce…
Pensieri si dipanano…
Seguono piste…
Sul comodino un chiarore soffuso di una lampada accesa scompone e
ricompone ombre indecise, misura con metro che voglio imparziale il soffrire.
Sul nastro lungo della vita, priva di meta la mia corsa.
C’è un varco?

23
Il telefono immobile. Senza vita la cornetta perché suono di voce non dice.
Ma, posso allungare una mano. Un numero formare.
No! Io sono un uomo.
All’uomo l’uso della ragione. Il simbolo blu e la monogamia. La forza del
potere e del pensiero. Lo scorrere ordinato del tempo. La certezza solare. La
stasi e il riposo.
E finché tutto combacia la sicurezza delle certezze, l’armonia dell’esistenza.
Perché tutto è stato distrutto?
Piego l’orgoglio. Prendo il coraggio di petto. Alzo la cornetta.
Quella la domanda da sollevare…
…ma è lei la più accorta di noi due.
E’ lei che ha sempre vissuto la solitudine, la quiete e l’ascolto.
E’ lei che ha sempre vissuto l’attesa dell’uomo, del padre, del marito, del
figlio e il silenzio.
E nel silenzio l’essenza delle cose, il senso dell’essere in seno nutrito insieme
coi sogni e i desideri sparuti e le delusioni di assenze forzate o volute.
E nel silenzio la mestizia dell’ascolto del sé e la melodia dei miti perduti che
dicono il vanire della bellezza e mostrano i fili bianchi della saggezza.
Ma, nel momento presente percepisce lei ancora la “sua” malinconia?
Ne coglie l’impronta, la memoria e il rimpianto?
Rimpianto di chi? Di me?
Se io la conosco, e come se la conosco!
Oggi, la malinconia di un passato perduto si riflette serena su un presente
vissuto in accettazione di fatti ed eventi, perché così sempre la storia ha voluto
e ha reso quell’essere forte e sicuro ai rovesci della fortuna.
Formo il prefisso.
Con dito sospeso mi chiedo:
“Oggi, quale giorno della settimana?
Nell’oscuro dell’abisso il conto ho già perso.”
Oscuro! Penso che certo il passato è colorato di un’unica tinta.
Invece il futuro si colora sempre di rosa ed il presente è variopinto a seconda
dei casi.
Ogni individuo, infatti, in ogni istante corrente ha un suo colore vivace o assai
spento, brillante o cangiante, magmatico o piatto, velato o sfuocato perché
ognuno colora l’odierno in relazione al suo cuore, in relazione all’attorno.
Adesso il mio presente è colorato di grigio sfumato.
Coraggio… aggiungo due cifre.
Ora sono proprio sicuro. E’ lei la più forte!
E lei è scivolata dalla mia vita semplicemente, senza fare rumore,
dolcemente.
Ma il suo silenzio è stato sconquasso, inaspettata violenza, doloroso percorso.
E’ lei che ha tessuto la tela di giorno col sole, è lei che l’ha disfatta nel buio
della notte per vivere la completezza della mia assenza ed ora non ha più
bisogno della mia presenza, del mio amore taciuto e costante, del mio porto
sicuro, ma chiuso.
E’ lei legata alla vita con filo d’acciaio, all’amore che a piene mani ha donato.
Io a ricevere il dono.
Dentro di noi eterno non è nulla.
Passa il caso e l’evento, ma lasciano impronte impongono tragitti che un
attimo prima pensavi impossibili.

24
Lei ha cambiato il mio mondo, ha dato senso all’oggetto, al volo delle rondini
nel cielo aperto, al sole che brucia la pelle e le vene, al fiore che sboccia, alla
sabbia minuta tra le dita trattenuta.
… Alle precedenti… unisco ancora due cifre.
Per me era possesso assoluto, appartenenza incondizionata, sempre
salvezza, mai rischio probabile.
E il suo corpo caldo tra le mie mani forti, e le sue labbra umide sul mio viso
desideroso di baci e carezze, dopo un giorno passato a lottare per conquistare
a qualunque prezzo un posto più avanti.
E la mia violenza sul suo corpo teso. I nervi scoperti. I sensi affilati. Il respiro
affannoso, e lei veloce a ricevere, a contenere, a donare senza compenso.
E l’amore era stupore dischiuso all’azzardo divino. Ma solo per lei.
Ancora un numero e poi… il primo trillo.
Fulminea una visione.
Acceso il suo viso, chiari i capelli nel sole. Il vento veloce vi mette una mano.
Scompiglia e ricompone. Restringe due brani di cielo in quel sorriso sempre
pronto ad accendersi quando il caso turba un ordine determinato da mano
sapiente.
Batte… ora il cuore precipitoso nel petto.
Un altro squillo…
Io re e dominatore, amante e signore. Io soldato ed atleta misuro con gli altri
la forza assoluta.
Ubbidisco e comando, costruisco e distruggo gerarchie e valori. La mia parola
raziocinante. Il mio gesto determinante.
Il corpo sopporta l’ordine imposto, ma se qualcosa distorce l’archetipo, la
mente allenata il fallo non tollera e il trambusto sconvolge il controllo. Il
turbamento diventa violento, l’azione voluta.
… Dolce e tranquilla il “pronto” pronuncia, poi ancora “pronto”, dice pacata.
Non ricevendo risposta, riaggancia forse tediata.
Anch’io “pronto” vorrei dire, ma la parola non suona.
Il pensiero solo abbandona l’orgoglio, per urlare a squarciagola :
“Non ho saputo e voluto capire il tuo mistero di donna.
Non ho saputo e voluto imparare dalla tua piccola gioia la
mia gioia.
Non ho saputo e voluto penetrare nella tua vita-mare.
Non ho saputo e voluto squarciare quel velo che copre leggero l’anima-
femmina.
Non ho saputo e voluto provare, da uomo, l’emozione del filo dell’erba
pettinato dal vento, dell’acqua che scorre sul fiume tortuoso dell’esistenza
impietosa, del gelo e del sole che spacca anima e pietre.
Non ho saputo e voluto ascoltare le “tue” verità, l’immenso dolore del tuo
amore tradito e perduto.
Nella corsa affannosa della vita dolorosa troppe cose non ho voluto e saputo
carpire.
All’uomo la forza e il coraggio nell’affrontare fatti ed eventi.
All’uomo la guida di eserciti e miti.
All’uomo la chiarezza della ragione che guarda la faccia del sole e non
abbassa mai gli occhi ad osservare quell’essere che ha sempre considerato
esclusivo possesso.”
Ancora silenzio nella mia stanza.
Pesanti non meno di prima ombre importune.
25
Inseguono spazi, disegnano ritmi, si distendono strane.
Allungo una mano, prendo una sigaretta da quel pacchetto sul comodino che
tante volte un poco per uno avevamo fumato.
L’accendo, l’aspiro e l’espiro.
Le volute di fumo si intrecciano fini, si avvolgono strane nell’aria zeppa di
ombre mutanti.
Soffio col fiato in quel groviglio allungato. Afferro con mano il garbuglio e lo
stringo nel pugno che apro senza trovare un appiglio.
Avevo vinto ma sono vinto, era vinta ma ha vinto.

Penelope. Ulisse

26
Genio proteiforme quel Matisse!
Valeva la pena il lungo viaggio per ammirare quei capolavori disposti in bella
fila lungo le sale di un Palazzo antico, lì nella capitale.
Sono senza fiato sia per la bellezza dei capolavori che per la stanchezza che
procura la stazione eretta quando si scorrono con gli occhi tante esperienze,
ricerche ed approfondimenti che determinano una svolta nelle avventure dell’
intelletto umano. Io adoro l’arte in ogni sua foggia e non mi scoraggia la fatica
se c
ammirare qualcosa per cui valga la pena di viaggiare.
Ora sono davvero stremata.
Entro in un bar. Scelgo un tavolo isolato in un angolo appartato.
Pronto il cameriere si appressa.
Chiedo un caffé.
Per ingannare l’attesa, accendo una sigaretta.
Lento il fumo si effonde azzurrino in volute eleganti.
Offusca lievemente la vista.
Attendo.
Gentile il ragazzo mi porta la fumante tazzina su un vassoio molto fine.
Attento si fa lo sguardo…
Una sagoma nota frusta la mente.
Guardo quell’uomo.
Mi guarda.
Poi deciso come sempre:
“Ciao, ero sicuro che fossi tu, nonostante il tempo passato. Ti ho visto
guardare con particolare attenzione un Matisse, “quel” Matisse…” Dice d’un
fiato
Lascia la frase così solo a metà per dare agio a me, qualora fossi confusa, di
mettere a fuoco discorsi e ricordi.
Il Matisse, “quel” Matisse!
Quante volte ne avevamo parlato….
“Ti dà qualche problema se ti tengo compagnia?”
Accenno di no e sorrido.
“Il posto è vuoto… ” e calco su posto.
“Sempre dolce il tuo viso…” Cerca l’avance, io penso.
Fingo disinteresse, mentre le immagini tentano… e l’orologio dalle esili ali
scandisce un giorno qualunque, un’ora qualunque su una storia qualunque, in
un tempo qualunque.
Ora poggia il cappotto ben ripiegato sulla sedia accostata, e intanto io
rifletto:
“E’ il tempo che non mi contiene. Io lo contengo in molteplici “adesso”.
Si arrestano. Oscillano. Si ripetono. Indugiano. Fuggono di fronte al dolore.
Sostano senza fine di fronte alla noia.
Io misuro. Io scandisco. Io attribuisco ritmi e conto le ore, i mesi, gli anni.
Il Tempo non ha tempi. Non ha ritmo. Non sa la felicità, il dolore o l’inganno,
l’ansia, la fretta, la gioia, il sonno o la veglia.
Il Tempo non sa.”

27
“Come stai?” Dice garbato.
“Molto bene.” Dico cortese.
E come se leggesse i solchi dei pensieri:
“Il tempo per te si è fermato. Sei sempre bellissima.”
Non sono stata mai bella, è lo sguardo che detta la dimensione, se il cuore ha
ancora un sussulto.
“Anche tu sei in forma, solo qualche filo bianco di più.”
E… una voce annegata nel paesaggio dell’anima scandisce ricordi, pensieri,
passioni che il tempo ha placato e molto addolcito.
A volte, si affaccia una vita in frammento di vita, finestra dischiusa sul tutto
di cui si scorge una parte importante e forse la più veritiera. E quella parte può
avere l’alito lungo dell’eterno o il singhiozzo di un attimo, ma resta sempre luce
e tensione, debolezza e forza.
“Cosa fai, adesso, di bello?” Dice sornione.
“Niente di particolare. Mi occupo sempre delle solite cose che tu conosci a
puntino.
E tu sei diventato artista famoso?” Aggiungo leale.
Ma… la mente vaga in un “domani” che allora fu negato.
Oh! Il futuro questo trastullo con cui ci si balocca da sempre.
Noi vivemmo il presente tirandone i bordi per fare entrare il domani, ma ne
deformammo i contorni un tantino di troppo e fu rimando di specchi, scatola
dalle mille sorprese.
Nascose l’assurdo, la risata e la fuga. La mia, la tua, la nostra.
“Mah! Di fortuna ne ho avuta nel… lavoro!”
Ascolto con gli… occhi e vedo con le…. orecchie:
-E’ dal fondo del dolore che può fiorire la gioia più grande.- Si staglia
Holderlin.
Dopo la tempesta germoglia la pace.
Per tanto tempo donna-relitto ho avuto la forza di scendere all’inferno e sono
salita senza nessuna Euridice a tendere una mano protesa a lenire, protesa a
bucare l’azzurro del cielo, protesa a farmi tuffare nell’acqua salata per sentire
sirene ammaliatrici vagare nel mare.
… Si rincorrono le sillabe sulle sue labbra, colgo qua e là un mozzicone di
frase:
“…ma ho perso te.”
Allunga una mano a lisciare la mia tazzina di caffé ormai freddo, e senza
aspettare risposta ne beve un gran sorso.
Ricorda ancora che non potevo portare alla bocca quel liquido nero quando
era ghiacciato.
Lo osservo mentre ripoggia la tazza sul suo piattino.
Insinuante il racconto nella mia mente:
“All’inizio era solo la notte, profonda, fitta, totale, ma poi fu il soffio vitale e la
tenebra generò l’uovo, l’uovo d’argento e lo adagiò nel grembo immenso
dell’oscurità e fu Eros, divinità primordiale, sintesi perenne di morte e di vita,
non del tutto umano, non del tutto divino.
Celestiale e crudele, disumano e fedele, ingannatore e solare.”
… “Sei bellissima”.
… E si volta di scatto. Mi costringe supina. Le braccia allargate sulle braccia
allargate. Il corpo premuto sul corpo. Le gambe unite sulle gambe unite.
“Ti amo.” Penso.

28
E il respiro si blocca, il battito del cuore rimbomba sul petto e nel petto
insieme col fluire muto delle parole all’unisono.
Abissale il silenzio come la tenebra genitrice del dio.
La fioca luce della stanza risplende di un sole divino.
Corre il pensiero… Si arresta...
E’ sera o è mattino? E’ alba o è tramonto?
Che importa se il mio Eros è solare!
… “… poi la mia vita sentimentale non è mai andata a gonfie vele… ” Un
altro mozzicone di frase risuona nell’angolo romito di quel bar.
“Forse – penso - lo dice per non farmi dispiacere.”
Non ho udito tutta la frase sentendo la ricorsa delle sensazioni.
Ma con onestà devo ammettere che ora non c’è felicità al suono della “sua”
voce.
Percepisco solo pacata nostalgia.
Non più battiti a precipizio ma unicamente la tranquilla sicurezza di chi, non
dimenticando, ha reso inoffensivo il male.
Spento il rancore, una pacata indifferenza si allarga nel cuore e la sua scelta
non rientra più nell’orizzonte dei pensieri.
Poi chiara la sua voce:
“Quanti ricordi, mia cara, in questo incontro si sono scaraventati nella
mente.”
Fingo di non cogliere il tentativo di un qualche nuovo approccio per rendere
più vago il tradimento o forse per rinnovare quell’ antica fiamma.
Torna pacato il pensiero a tutti i tradimenti della vita che sempre ti portano
una crescita.
E’ tradimento il primo taglio del cordone ombelicale che ti consegna nudo al
mondo.
E’ tradimento il seno turgido della madre che non ti nutre più.
E’ tradimento se sulle strade della vita chi ti ha dato vita non ti segue più.
E’ tradimento se le tue speranze riposte in un amore, in tutti gli amori, non ti
fanno più sognare.
E’ solo nel chiuso del tuo cuore che tu puoi elaborare tutti i tradimenti per
guardare il domani con più serenità, fino a quando l’estremo tradimento,
sghignazzando e deridendo, ti consegnerà all’al di là.
“Niente ha valore se non resta eterno.” Dice l’Achille dell’Omero.
Ma lui certo intendeva l’ immortalità di una fama affermata in tutto il mondo,
io intendo la continuità della vita e delle morti.
… Fluisce ancora il discorso dalla sua bocca dal taglio perfetto:
“Quale sbaglio ho commesso lasciandoti andare. Se ora potessi riparare!”
Adesso l’esclamazione esige risposta.
Medito solo un secondo poi dico:
“Speranza è soltanto l’ultimo dei mali trattenuto nel vaso di Pandora che
solamente gli uomini accomuna, persino nella fulminazione dell’ultimo minuto,
quando c’è forse solo l’ attesa di una vita superiore.
Ora il mio cielo è vuoto di miti e divinità, vivo ora e qui sentendo sempre
l’antica meraviglia del vento che soffia sulla faccia, della goccia dell’acqua
incontro al sole con la sua iridescenza, del fiore che sboccia anche nell’arsura
della sabbia, della foglia che s’accortoccia per la gran calura.”
“Tu non sei cambiata, ed io ho perduto questa tua dimensione. Oggi per me
c’è solo ordine e ragione.

29
Darei, forse, tutto il resto della vita per poter inseguire i sogni insieme a te.”
Dice con un’ombra di mestizia.
“Ti conosco da gran tempo, il tuo cosmos è ordine perfetto dentro il tutto, le
calze nel cassetto, il cappotto nell’armadio, la posta in bell’ordine sul tavolo,
nell’astuccio le sigarette e le ciabatte insieme, sotto il letto. Mentre io non trovo
mai le mie di carte. Sono sempre sparse dappertutto, e il mio sguardo cerca
senza sosta l’altrove, il brivido e l’emozione.” Rispondo tranquilla.
“Posso almeno telefonarti?”
Lo guardo.
Sorrido. Sorride. Ma non aggiungiamo parole.
Si alza, toglie dalla sedia il capotto ben piegato mentre io vorrei dirgli:
“Sarebbe dolce oggi prendersi per mano lungo la strada stretta della vita e
stringersi abbracciati perché entrambi ci contenga, tuffarsi lì, nella nostra terra,
nell’azzurro mare e lasciarsi dalle onde trascinare, o guardare il cielo con
Venere e la luna, così senza dire una parola.”
Mi tende la mano, gli tendo la mano.
A stento soffoco un urlo per la stretta troppo forte.
Respiro, e lo vedo allontanare anche quando ripassa dietro i vetri. Gli allungo
ancora un sorriso ed anch’io mi alzo e vado via.
Guardo l’orologio.
S’è fatto troppo tardi. E’ scaduta l’ora della sosta per la macchina
posteggiata.
Faccio una corsa. Tiro un sospiro di sollievo.
Oggi è giorno fortunato. Il vigile non è ancora passato.
Apro la portiera. Siedo sul sedile. Giro la chiave e pigio sull’acceleratore.
La strada è lunga e devo fare attenzione.
Finalmente in lontananza vedo le illuminazioni che segnano la fine del
percorso autostradale.
La mia casa sembra un miraggio dopo un giorno di emozioni.
Parcheggio lì nei pressi.
Entro nell’androne e salgo in ascensore.
Apro la porta con la chiave ed il silenzio mi colpisce come frustata sulla
faccia.
Tolgo il soprabito.
Sono sfinita e del tutto vestita mi butto sopra il letto, sopraffatta dagli eventi.
Il sonno e il sogno intrecciano presto le loro mani.
E’ quasi l’alba, quando rannicchiata e infreddolita, schiudo gli occhi.
Ho tempo per la colazione, prima di uscire per il lavoro.
Non ho ancora finito l’ultimo boccone che il trillo del telefono mi fa molto
sussultare.
Corro.
Guardo il display.
Il cuore in agitazione.
Il silenzio della stanza fa balenare tanti pensieri e vorrei solo gridare:
“E’ stato bello, un tempo, prima di vederti arrivare sentire il rombo del tuo
vecchio motore. E’ stato bello trepidare pensando che per un intoppo
importuno tu non potessi venire. E’ stato bello correrti poi incontro a braccia
aperte, felice solo del fatto che tu mi stringessi al tuo petto. E’ stato bello
vivere la gioia e l’incanto, ma ora è troppo tardi.”
Squilla il telefono. Squilla.
Rimbomba la stanza.
30
Sempre lì il mio angolo di mondo, il divano e le poltrone, il mobile elegante
ed in un canto il televisore ed ancora lo scrittoio che mi ha visto concepire
queste storie.
Sorrido sempre di gusto se riesco a interessare qualche lettore perché
sempre sua è ogni narrazione.
Così ho la vaga sensazione di apparire la più forte se col soccorso dell’estro e
dell’ingegno io gli pongo uno specchio sempre davanti che è poi esattamente il
suo, tuo o anche il mio duplice gemello.
Rimbomba sempre lo squillo in quella stanza.
Fisso lo guardo sul display.
Novantacinque secondi sono già scaduti.
Ancora un ultimo squillo e, sapendo di perdere, tendo la mano …

Un uomo. Una donna.

Un uomo e una donna, da poco compagni in nicchie d’amore, passano


insieme weekend allettanti e alquanto divertenti.
Avevano visto, nella settimana trascorsa nell’Ellade antica, templi e teatri.
Avevano ascoltato oracoli e miti e lei, in tutto affascinata da storie straniere,
aveva posto al Cicerone paziente tante domande e ricevuto risposte pertinenti.
Lui seguiva a volte annoiato parole e concetti, così almeno lei talvolta
credette.

31
Rientrati, appagati dal viaggio, erano tornati alle fatiche di sempre.
Lei proprietaria di un negozio raffinato in una via molto frequentata da
persone di elevato rango sociale.
Lui affermato architetto di palazzi importanti.
Quel sabato a pranzo lui invita lei nella casa accogliente, per consumare un
pasto frugale.
La linea del corpo impone moderazione.
Unico lusso un fresco Martini, servito da lui in bicchieri cristallini con fetta
d’arancia a dare colore e sobria eleganza.
Seduti in salotto, forse un poco assetati, bevono d’un fiato il liquido rosso e
gustoso.
Momentaneo il sollievo, amabile il dire.
Ma… l’alcool insidioso chiude gli occhi a quei due in un sonno soporoso.
Lei poggia la testa pesante sull’omero forte dell’uomo gagliardo, il quale a
sua volta appoggia il capo sul docile cuscino del comodo divano.
LEI
… Arrivano alla mente decisamente ovattata parole in una lingua
sconosciuta.
La commessa serve un cliente di molti dollari fornito: “I’ d like that cardigan.”
Dice in inglese perfetto, che fa invidia alla donna che tante volte ha pensato
d’imparare quella lingua sconosciuta.
Una volta, in un tempo molto remoto, un uomo biondo, dai lineamenti
ricercati, l’aveva tante volte guardata passando davanti alla sua porta, finché
un giorno era entrato ed aveva parlato nell’idioma ignorato.
“Sorry, io non comprendere sua lingua.” Aveva detto idiota, come se il verbo
declinato all’infinito rendesse all’altro più facile afferrare il significato.
Poi, con passo deciso l’aveva accompagnato alla porta, pentita dell’occasione
perduta.
Adesso messo a riposo il ricordo di quell’evenienza casuale e speciale, si
avvicina, accompagnando l’americano che aveva acquistato il maglione,
all’ingresso del suo negozio raffinato, ambito da chi di molti euro è munito.
Lì, davanti alla porta attira frattanto la sua attenzione, nella vetrina di fronte,
un manichino vestito di un intimo di seta frusciante…
LUI
Col cervello ormai fuori uso e decisamente indolenzito dal corpo di lei
scivolata lungo il suo fianco, lui… seduto su una panchina romita guarda una
costruzione dalle finestre di vetro sfavillante.
Il sole al basso tramonto riflette un cielo annerito di nembi inquieti di un
agosto molto afoso.
Poco lontano un negozio di abbigliamento.
Esibisce in vetrina un manichino sfacciato, lussuosamente abbigliato di un
intimo poco raffinato, ma sicuramente eccitante per qualche incontro poco
importante, ma certo soddisfacente.
LEI
Una riflessione fugace passa per la sua mente: “Il sex appeal dipende da sete
e colori allettanti?
Il tuo uomo sta lì solo a lasciasi sedurre dal lusso provocante o ci vuol altro
per fomentare erotiche brame?”.
Poi, fissa una mano sapiente che slaccia con grazia la rossa guepiere, per
sfilarla con delicatezza dal manichino di forme perfette e… lei… lei… indossa il

32
corsetto, mentre lo specchio riflette il prospero seno, le candide braccia tornite,
i fianchi dalle morbide curve, le lunghe gambe aggraziate.
Sorride, le labbra rosate, i capelli di un biondo-castano molto curati, gli occhi
nerissimi… e… vagheggia… vagheggia l’amore impossibile, l’amore eccellente,
la tenerezza e l’incanto, il sogno ed il sonno, gli attimi e l’attimo, il cuore
all’unisono e… si perde la donna nell’immensità dell’amore agognato. E tanti
visi di uomini turbano animo e mente.
Ognuno sognato, sfiorato, accarezzato, amato.
Nessuno posseduto, da nessuno posseduta.
E lo sguardo accarezza l’uomo dal volto perennemente abbronzato, dal corpo
slanciato, dai muscoli duri, dalle spalle possenti e… lei riposa sulla sua spalla.
Lì appoggia la testa dai capelli biondo-castano molto curati.
Lui dice che è opportuno andare in barca a prendere il sole secondo natura,
così più perfetta risulterà l’abbronzatura.
Lei, lentamente, solleva la testa dall’omero forte, chiude gli occhi nerissimi
per darsi alla fuga.
LUI
Dietro il vetro scintillante della costruzione imponente si intravede un volto
ammaliante.
Un corpo flessuoso indossa il rosso corpetto che lascia maliziosamente
vedere un seno perfetto, un collo slanciato, due braccia levigate mentre l’indice
dice un allettante e totale possesso.
Corre l’architetto lusingato.
Spinge il portone che cede condiscendente.
Sale a due a due i molti gradini e si trova davanti quella maliarda
prorompente.
Poi… poi… esce felice perchè con charme e denaro si compra l’amore.
LEI
Qualche tempo dopo, il suo sguardo accarezza l’uomo minuto dai lineamenti
delicati, dalle mani nervose, dallo sguardo perduto nel vuoto.
Le lunghe ciglia danno ombra e mistero al viso segnato da rughe minute.
La bocca dalle turgide labbra articola sillabe scorrevoli e strane. Conosce a
memoria brani e pensieri di grandi poeti e bravi romanzieri.
Fluisce il suono armonioso sull’anima bagnata dal balsamo misterioso…
Lei non serba memoria delle prime parole, ma ascolta, la testa appoggiata
all’omero minuto, il suono del verso: “…in lei dormiva o Dio canoro! / Così l’hai
tu perfetta, che non brama / più ridestarsi? Dal suo nascere dorme…”
Non ricorda il resto, solo l’alzare lento della sua testa e gli occhi chiusi e la
fuga precipitosa.
LUI
Accomodato sempre in panchina con quell’edificio di fronte, guarda un’altra
finestra e un capo biondo è chino su un testo.
Ma poi alza gli occhi celesti e con ciglia intriganti l’invita a una festa.
Giovani uomini e ragazze spavalde accolgono l’uomo con sorrisi stuzzicanti.
Leggono frasi ammiccanti, suonano canzoni struggenti con chitarre
appassionanti.
Qualcuno beve liquore, qualcuno bacia una donna, qualche altro si apparta,
allora anche lui segue la moda, in accordo.
Poi, con fare riservato ed animo insolente scende le scale in tutto contento
della prestazione appagante.
LEI
33
Altri corpi, altre braccia, altre parole risuonano ancora.
E… il suo sguardo accarezza l’uomo d’affari, i vestiti perfetti, il busto eretto,
lo sguardo acuto di chi valuta, scruta, riassume.
L’andatura sicura, la parola diretta, il gesto asciutto.
L’abitudine agli incontri importanti rende il suo fare conveniente in ogni
momento.
Entra in un bar ed ordina con gesto imperioso due aperitivi sfiziosi.
Poi, escono.
Raggiungono l’auto lì parcheggiata. Lei siede alla sua destra, il viso infuocato,
gli occhi brillanti.
Appoggia la testa allo schienale e calde lacrime fanno brillare finestre e
palazzi.
Un raggio batte sul vetro e tutto si infuoca e colora, fibrilla, sfavilla…
LUI
Il caldo incrina cornicioni e finestre. Lo sguardo vacilla. Si blocca.
Al portone d’ingresso del solito palazzo una giovane donna dall’andatura
elegante ancheggia ammiccante.
Il corpo è abituato ad indossare vestiti dall’alta moda forniti.
Le labbra perfette, di rosso squillante, con smorfia aggraziata proferiscono
fonemi imprudenti.
Ma lui è stato sempre fascinoso e nessuna richiesta ha mai eluso.
Si alza con passo deciso e corre incontro alla creatura meravigliosa.
Lei con dolce sorriso lo invita in un bar a gustare un liquore. Lidia Pizzo
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Lui forte e sicuro ordina Whisky scozzese, lei Cherry colore rubino.
Bevono in amabile conversazione, poi, escono insieme e si avviano dentro
l’androne.
Lei sale le scale ed apre la porta.
Lui, pronto, entra in salotto. Si siede in poltrona. Appoggia la testa, certo
sicuro dell’incontro fatale.
Ma l’alcool, ancora una volta, manda ad effetto il tradimento.
… Un attimo prima di chiudere gli occhi un sibilo attraversa la mente: “Son io
un uomo fatale! Ma è anche lei una donna importante, elegante, benestante!”
Poi… un dolore lancinante….
LEI
Il respiro ampio e profondo. Lo sguardo più acuto. I nervi scoperti.
La mente percepisce l’abisso e dentro l’abisso lei sola e sperduta a
brancicare tra lisce pareti d’acciaio, senza punti di appiglio.
Gli occhi, prima confusi per la luce troppo soffusa, si avvezzano presto a quel
colore perlato, seguono un tragitto…
Un ingresso ampio e lucente si apre in fondo a quel tunnel.
Pesanti porte di bronzo, dai battenti rotondi ornati da teste di cani dalle
bocche spalancate, annerite dal tempo, si stagliano grevi.
Con sforzo indicibile solleva quel peso e con suono fragoroso scuote il
battente.
Si spalanca la porta…
LUI
Un dolore lancinante… fa male la catena a polsi e caviglie.
Inchioda.
Ogni movimento è precluso.
Ogni via di fuga offesa.

34
Fibrillano luci. Abbagliano, quasi accecano… e il dolore svanisce.
Penetrante la vista.
In un tempio sontuoso, con porte e finestre stranamente sigillate, si eleva, al
centro, uno scranno alto tre metri di legno indurito dal tempo.
Porta in cima un chierico scuro.
Una testa calva e rotonda, due occhi di carbone infuocato e una bocca larga e
carnosa dice parole taglienti.
La fitta dell’architetto è cessata del tutto preso dall’insolita scena.
Ai piedi del chierico una sedia molto più bassa, di altezza normale, in
plexiglas forgiata.
Sul bordo superiore della spalliera e tutt’intorno al sedile, come raggi
luminosi, triangoli acuti rimandano l’iride in tutti i colori.
Come spostare una simile sedia? Eppure sta lì.
Vi siede una donna esile e diafana proprio alla base dell’alto scranno del
chierico scuro.
Ha la donna il volto scavato, gli occhi brillanti, le mani inquiete, le braccia
frementi, la tunica nera.
Ascolta. Ascolta…
LEI
Spalancata la porta, vede un vano vastissimo.
Un tempio dalle alte colonne dal fusto elegante, su cui poggia direttamente
un architrave istoriato da immagini non sempre evidenti.
Un alito fresco l’investe.
Rianimata, guarda una scena stupefacente.
Sul pavimento apparentemente inchiodati, legati polsi e caviglie, uomini e
donne.
Solo la loro testa è svincolata da lacci e catene.
Appunta gli occhi per scandagliare la visione di esseri per età, ordine e sesso,
molto diversi.
Qualcuno è giovane e forte, qualche altro molto anziano, ma tutti giacciono a
terra uniti alla rifusa.
Guarda ancora più attentamente, ma vede che il giovane aitante prima alla
sua destra s’è spostato a sinistra e la ragazza dal pantalone sdrucito, che le
stava davanti, s’è sistemata tre metri più avanti. E l’uomo, dal vestito gualcito
all’entrata, ora le è troppo vicino, quasi la sfiora.
E il suo corpo…
LUI
Ascolta il chierico scuro che dice parole sicure:
“Oggi è il giorno propizio per immolare l’allodola al pellicano, il lupo
all’agnello, il leone alla dolce gazzella, il pescecane al delfino più bello, il
coccodrillo all’ibis tranquillo…
Oggi è giorno di lavacri e purificazioni.
La Legge infallibile ha aperto il suo Libro e annota nomi e cognomi con
minuzia e grande perizia.
La Giustizia – tuona ancora il chierico - la Giustizia… scinde coppie affiatate,
figli e genitori, deboli e potenti, sapienti ed ignoranti, ladri e signori, giudiziosi e
scriteriati, oziosi ed operosi…”
Ma l’architetto già si chiede di quale Giustizia e potere il chierico scuro dice e
sproloquia.
Ma tuona la voce…
LEI
35
… anche il suo corpo sente leggero.
E’ molto agevole muoversi e incamminarsi.
Crede opportuno raggiungere presto l’angolo destro, ma la donna vestita di
rosso incatenata alla sinistra già giace più avanti di almeno tre posti.
Nessuna catena risuona. Nessun fruscio si percepisce. Nessuno spostamento
si nota.
In un angolo remoto, romito un chierico bruno dagli occhi scavati ed arditi
scruta difeso la massa brulicante e strisciante.
Lei nota il chierico che pensa un intruso ma poi rivolge la vista al centro della
stanza.
Una sedia di alto schienale munita, di gambe affusolate provvista, brilla di
triangoli aguzzi.
Essi diffondono luci cangianti come bagliori iridescenti che dal centro del
vano vastissimo si perdono verso gli angoli oscuri.
Come prendere con mano sapiente quella sedia importante senza ferirsi
gravemente?
Eppure sta lì, forse da millenni, con quella donna esile e smunta sopra
seduta, il volto scavato, gli occhi brillanti, le mani inquiete, le braccia frementi,
la tunica nera.
La proprietaria vede muovere le sue labbra di rosso brillante, ma non sillaba
alcuna sente l’udito appuntato.
Troppo lontana da quell’essere arcano!
Dall’angolo destro si fa forza. Con delicatezza scavalca la fluida massa sotto i
suoi piedi stipata.
A qualche metro da quella donna, ora, le sillabe assumono senso.
“…incatenati…”
LUI
Tuona la voce, ferisce l’udito e la donna dagli occhi brillanti, dalle braccia
frementi, ascolta.
Accanto al corpo del nostro uomo, un altro corpo giace inchiodato da più
strette catene e stille di sangue zampillano da polsi e caviglie.
Un rigagnolo rosso segna con ritmo incerto il pavimento lustrato.
Lui distoglie lo sguardo, lo porta alle sue di caviglie.
Non c’è segno d’offesa. Eppure, ora dolgono più di mille ferite spalancate e il
dolore allo stomaco sale.
Un respiro profondo.
Muove la testa, un attimo apre gli occhi senza visione.
Li chiude e ripensa: “Sono sveglio, sono sveglio. Gli occhi aprire… fallire,
fallire … fallire, morire.
Il giorno fallisce, l’ora fallisce, il minuto fallisce.
Sono incatenato al fallimento per un whisky a digiuno bevuto.
Via! Via! Via! Il chierico e la donna, l’assise e gli sguardi, i giudizi…”
Muove ancora il suo capo.
Vuole che il dolore faccia effetto.
A stento la mente raccoglie: “Sono il passato. Il presente perenne follia. Il
futuro mistero insondabile. Impossibile l’attimo tra futuro e passato.”
Inchioda la catena e la donna, la tunica nera, sta ancora lì…
LEI
“… incatenati al movimento cercate, altro cercate.
Perennemente cercate, e mai vedete quello che occhio comune constata.
Catena il fluire, meta il passare. Lidia Pizzo Olio su tela c. 50x70

36
La gioia oscilla e tentenna, esita e indugia e, poi, indubbiamente fallisce.
Dualità eterna: gioia e fallimento, attrazione e allontanamento.
Tra i due estremi ponete la seduzione, triangolo aguzzo.
Lusingare. Abbandonare. Desiderare.
Blandizie e distacco, voglia ed oltraggio, rinuncia ed affetto, e l’eterna ricerca
dappertutto.
Se cerchi non trovi, se trovi non cerchi…”
“Oscure parole.” Pensa la donna del negozio importante e non segue il
discorso.
Vuole capire l’enigma, ma ha un braccio in-dolente, formicolante…
LUI
Sta ancora lì la donna minuta, la tunica nera e guarda il chierico scuro che
dice:
“Alzatevi! Il riscatto a lungo agognato ora s’è manifestato!
Rompete con forza lacci e catene, venite ai gradini dello scranno elevato
liberi e nudi.”
La donna minuta, il volto scavato, gli occhi brillanti, le mani inquiete, le
braccia frementi, fortemente irritata, ritma parole:
“Il tempo, umana invenzione, macina e mastica un divenire apposta creato,
un movimento apposta inventato, un ritmo lento o accelerato a seconda del
caso…”
Attento il chierico.
Spiazzato!
Come osa la femmina sparuta interrompere un giudice dai giudizi generato
da uomini forti e temprati?
Ma lei sicura continua la frase: “Macina e mastica, inghiotte e rivomita sillabe
e fonemi, frasi, pensieri e concetti.
Mondi costruiti e distrutti, riedificati e schiacciati da bulldozer pesanti in
costante aumento.
Il rullo vi passa e tutto cancella ma il tempo fallace ricomincia la corsa…
E… il tempio è già in piedi, le colonne perfette, e il chierico sapiente separa
tutto e tutti… ”
A questo punto, le imposte prima chiuse si aprono. La luce abbagliante
mostra tutto: il lupo e l’agnello, l’allodola e il pellicano, il leone e la dolce
gazzella, il pescecane e il delfino aggraziato, il coccodrillo vorace e tante
persone in tensione ed attenzione.
Sotto l’effetto dell’illuminazione nessuno ascolta, ma, rotti lacci e catene,
figli, genitori, ladri, galantuomini, uomini, donne, colti, ignoranti e poi… delfini e
gazzelle, leoni e pescecani, allodole, pellicani… in bell’ordine appaiono e sotto
chiari cartelli: “Giusti”, “Malvagi”, “Mediocri”, “Onesti”, “Abili”, “Rissosi” …
come negli ordinati supermercati: “Profumi”, “Casalinghi”, “Detersivi”,
“Giocattoli”…
LEI
Il braccio in-dolente, formicolante nel chiaro salotto dell’architetto
importante.
Sulla sua spalla possente arreca dolore il capo appoggiato e la mente è presa
da grande spavento.
Schiude gli occhi la donna ancora un poco intontita e la luce l’inonda.
Guarda stranita suppellettili e mobili.
Sente il profumo costoso dell’uomo in sonno soporoso.
Lo fissa turbata.
37
Assomiglia in modo incredibile al chierico scuro che aveva visto nell’angolo
buio del vano fuor di misura.
Ancora l’osserva: la bocca leggermente carnosa su labbra appena dischiuse
mettono in mostra una buona chiosa di denti.
La carnagione perennemente abbronzata e lievemente avvizzita evidenzia un
naso camuso dalle narici dispettose.
Una canizie appena incipiente screzia di bianco qua e là i capelli ricciuti.
La camicia è un poco gualcita, forse per la sua testa appoggiata.
I pantaloni stirati a puntino.
Solo le scarpe sono un po’ larghe.
Torna a quel viso e osserva le palpebre chiuse. Gli occhi sotto si muovono.
Seguono forse nel sonno dei sogni.
Lo guarda!
Lo guarda!
Lo guarda stranita e straniera.
Poi, piano, piano, trattenendo il respiro per non disturbare, si alza decisa e si
dirige precipitosa verso l’uscio ancora socchiuso.
Apre un battente e la luce la bacia.
Scende di corsa col fiato alla gola tutte le scale.
Respira profondo e felice riabbraccia l’azzurro del cielo, il verde del mare.
A quel punto, la donna minuta sussulta, vuole afferrare qualcuno e grida a
squarciagola:
“Il reale si perde… la parola etichetta, macina concetti, guida l’umano che
accetta la guida.
Percorre una strada, svolta a sinistra, la destra si perde.
Ritorna sui passi. E’ proprio meglio la dritta, ritorna sui passi… ma il gruppo
segue sicuro. Ciascuno nel tempo affannoso trova un appiglio: basta un
cartello.”
Il chierico scuro, con gesto seccato, non ascolta la donna importuna.
Guarda con occhi di brace i gruppi in bell’ordine come lui aveva stabilito.
Poi, con schiocco di dita spalanca porte e finestre.
Un vento leggero rinfresca la mente.
Vorticano le alate targhette. Ognuna diretta verso il proprio spiraglio.
Miliardi di fili iridescenti appesi ai cartelli portano in punta ora un uomo
minuto, ora una donna paffuta, ora un leone, ora una dolce gazzella, ora…
Ognuno diretto verso un’ apertura che chiara li inghiotte in ordine perfetto.
In ultimo, il chierico scuro con balzo fulmineo afferra l’ultimo filo e con occhi
radiosi si libra nel cielo luminoso.
“Basta un cartello!” Sembra dire vittorioso.
E la donna, il volto scavato, gli occhi brillanti, le mani inquiete, le braccia
frementi, la bocca scarlatta pronuncia parole nel vuoto assoluto di quel tempio
ora luminoso ma sgombro della massa grandiosa.
… Uno spasimo acuto blocca il collo all’architetto affermato.
Scuote sogni e pensieri con fare incurante.
Poi… con gesto ammaliante volge gli occhi alla donna affascinante.
Ma non vede nessuno, scorge la porta socchiusa e pensa indolente che la
compagna abbia voluto con sensibile grazia accordare il riposo tonificante in
vista di amplessi molto spossanti.
Si alza molto sicuro, stira muscoli e membra, allunga una mano alla ricerca
del cellulare…

38
Dies memoriae

Sono una comune. Trascorro in modo comune in una dimora comune un vivere
comune.
Una, come tante, gettata nel mondo.
E’ sempre in agguato il pensiero che uomini di scienza magistrale dicono debole
e che tutto sommato riduce le azioni in neg-azioni, in ansie e timori.
“Timori di cosa? - Mi chiedo talvolta - Di una vita che altri hanno condotto nei
millenni passati sempre uguale e diversa? Tra guerre e frastuoni, olocausti,
carneficine ed uccisioni, ma anche tra banchetti ed esultanze, dolcezze e delizie?
E’ sempre stata la vita quella che è: un andare e tornare sempre al punto di
prima. Cambiano solo i modi e le mode, i tempi e i luoghi.
Nel lungo cammino dell’esistenza nessuno pensa che solo il cuore ha sempre una
sua saggezza nel bene e nel male che la ragione spesso non scorge.”
Lì nella poltrona comune, di quelle dei grandi magazzini, siedo sempre a
meditare.
E sorrido se il mio mondo non è poi così immenso e se penso che esso sta tutto
nella mia accogliente poltrona.
Addirittura, quando accendo il televisore il passato diventa presente, a seconda
delle trasmissioni, e il presente diventa lontano, così come il vicino campeggia
sempre più in là, mentre regioni remote stanno tutte quante davanti a quella
poltrona.
Che strana la percezione negli abissi spaziali della comunicazione, adesso, certo,
tanto veloce quanto la luce, ma ineffabile quanto la luce, se è solo lo sguardo a
sentire le sensazioni.
Oggi, però, è giorno particolare, è venuta un’amica a salutare e a trascorrere
con me qualche minuto in serenità, Itria il suo nome.
Insieme a lei sediamo sulle ampie poltrone in amabile conversazione col
sottofondo della televisione sempre in funzione anche se il suono è stato del tutto
abbassato.
Con la coda dell’occhio vedo molte immagini.
A un certo punto, contrariata dico all’amica:
“Oggi, ieri e l’altro ieri e fors’anche molto prima un diluvio di notizie rimanda
sempre lo stesso reportage, è proprio un’idea fissa!”
“Ma, giusto oggi – dice l’amica informata – è il dies memoriae.”
“Memoriae di cosa?”
“Dove vivi, mia apprezzata Lidia! Tu guardi il televisore ma sono sicura che la
tua mente vaga altrove.
Credo che ciò sia dovuto al fatto che nessuno può stare senza frastuono.

39
L’assenza di rumore ci propone tanti problemi: il nostro essere nel mondo e
l’isolamento in mezzo alla ressa, oppure le tante questioni familiari, politiche e
sociali.
Oggi, mia cara, è il dies memoriae dell’olocausto, degli Ebrei naturalmente.”
Ribadisce, facendomi quasi la paternale.
Punta sul vivo, rispondo:
“Nella mia poltrona non riesco proprio a capire di quale eccidio si tratti, visto che
la storia è zeppa di genocidi e violenze. Ma, senza andare troppo lontano nel
tempo, basta guardare a qualche plaga remota del mondo dove i machete
lavorano di notte come di giorno incessantemente.”
Dice Itria, la ponderata:
“Naturalmente i massacri passati fanno meno rumore, perchè ogni ammenda è
del tutto impossibile per la donna violentata o il bimbo abusato o le masse
sterminate. Non vedi con quanta naturalezza anche i grandi uomini durante le
Messe solenni o i discorsi importanti sono sempre pronti a chiedere perdono per le
colpe di un tempo! Chi è trapassato, certo si sa, non può più tornare e rivendicare
giustizia per sé. E se proprio si vuole fare qualcosa basta solo chiedere scusa. Lì,
nei campi Elisi, siamo tutti certissimi che sono più buoni e pietosi che su questa
terra… Il quesito riguarda certo il presente, ma basta glissare solo un poco e non è
successo proprio niente.”
Molto turbata dal luogo comune, continuo lo sfogo iniziato:
“Mia cara amica paziente, io oggi noto ed annoto unicamente titoli enormi,
parole sprecate, immagini sprecate, confronti sprecati, meeting sprecati.
Mi sfugge il senso e il battage.
Vedi, amabile Itria, come sempre, quando non capisco qualcosa, faccio ricorso ai
miei studi ormai desueti e così per olocausto rintraccio: òlos: tutto intero, kàio:
brucio.
Poi, sul dizionario: “Sacrificio supremo, nell’ambito di una dedizione totale a
motivi sacri o superiori”.
Se rifletto solo un momento, dico con cognizione che esige il sacrificio supremo
ubbidienza.
Esige il sacrificio supremo la libertà dell’ubbidienza, dell’ascolto.
Ascolto della chiamata, della responsabilità della risposta alla chiamata.
E penso veramente che in cerchio stiano chiamare, rispondere, ubbidire.”
Aggiunge l’amica:
“Certamente, che senso avrebbe, se un Dio chiama, non essere liberi di
rispondere alla chiamata? La chiamata si connota come autodeterminazione se
dai risposte liberamente. In questo caso bisogna che ubbidisca a qualsiasi costo.”
Replico allora con una punta di arguzia:
“Mia buona Itria, tu ti spieghi con senno, ma una visione martella la mente: in
cerchio io vedo generali e soldati, giudicanti e giudicati, vili ed eroi, islamici ed
ebrei, atei e credenti, pazienti e spazientiti, lupi ed agnelli, sazi ed affamati…
Che sia circolare l’inganno?”
“Ma la chiamata non è inganno, è solo verifica che, chiamando, tu sia sovrano di
consentire fino al martirio supremo.
Convengo certamente che in cerchio stiano chiamare, rispondere, ubbidire.”
Dice Itria con fare canzonatorio.
Ed io provocata, non so quanto ad arte, rispondo:
“Nel tempo in cui si cominciano a contare gli anni, su Cristo il cerchio si chiude.
Ma già prima su Abramo si apre e su Isacco si chiude.
Cristo olocausto. Isacco olocausto.
40
Abramo ascolta la chiamata, presta obbedienza, liberamente risponde con lama
affilata. Affonda il coltello.
… Si blocca il pensiero fugace sui secoli in balenio…
Io donna un Isacco, lanciata per caso nella storia, ho subito l’affondo.
Io vecchia ho subito l’affondo.
Io strega ho subito l’affondo.
Io dal burqua incielato ho subito l’affondo.
Io moglie fedele ho subito l’affondo.
Io madre esemplare ho subito l’affondo.
Io vinta ho subito l’affondo con tutti i vinti del mondo, cui il mondo non lancia
uno sguardo.
L’ Abramo pronto a colpire, ad ubbidire, a sognare, ad irridere e deridere ogni
Vania dal pensiero confuso…”
“Lidia straparli - mi interrompe l’amica - oggi non è giorno propizio per tali
ragionamenti.
Io ho sempre saputo che a te le rotelle spesso non girano nel modo dovuto, ma
adesso chiacchieri oltremisura.
Cosa c’entra in questo marasma di risposte e chiamate il povero Vania dal
pensiero confuso?”
“Sono tutti Vania in quelle plaghe del mondo che videro avanzare rivoluzioni
intrise del sangue di milioni di morti, affinché l’ideologia avesse valore e illudesse
tutti i Vania del mondo di potersi sfamare.
Difese la sua dacia in un campo di betulle… inutilmente nel 1937.
Poi, decenni dopo, decapitati gli idoli e riconfezionati i fantasmi, mutò il mondo
di Vania.
Due pozze azzurre gli occhi pieni di stupore, perché, ora, è stato inchiodato alla
gogna il vecchio dizionario delle moralità.
Rintracciò le pendenze col passato che tanti dolori aveva causato, perché si sa
le colpe sono sempre antecedenti, ed allora fulminei i riciclaggi, ed imprevista
l’emancipazione dal giogo del potere.
E Vania, tutti i Vania del mondo, sfiancato dal diluvio di riverberi, per il forte
sfavillio dei miraggi si assopì sugli idoli decapitati.
Ma le vicende si ripetono, perché l’uomo segue sempre le orme della sua
aggressività che è ben celata in ogni quark del suo DNA.”
“Concordo sull’ aggressività che spesso come difesa si configurò, ma sono
curiosa su come tu vedi le cose.” Dice Itria confusa.
Ma io che non sempre celo a dovere le mie convinzioni continuo animosa:
“Tu Abramo, in altri tempi, in altri luoghi, in altri modi, con altri idoli, pronto ad
ubbidire, a sognare, ad irridere e deridere, Fatima e Mustafà, Gorge e Mary,
Giovanni e Carmela, Giacobbe e Sarah, Franz ed Ingrid… affondi il coltello in
risposta responsabile alla chiamata.
Ma tu Abramo pronto ad ubbidire, sognare, irridere, deridere, apri talvolta il
dizionario delle verità?
Unto da Dio, insieme con l’artista, il poeta, il generale, il giudicante, il prode, il
credente, il guerriero… fai la storia, in assoluta certezza di libera ubbidienza.
Tu sei la storia.
Il cielo è la storia.
Il fiore calpestato da piede incurante è la storia.
Il bimbo violentato da mani incallite, da menti perverse, è la storia.
Gli occhi di tanti affamati del mondo, i ventri gonfi, le teste enormi su busti
striminziti, sono la storia.
41
Chi salta sulla mina lì piazzata dall’Abramo di turno è la storia.
Eterno olocausto.
La fatica, la corsa, il perenne affannarsi di ognuno di noi, non sai perché, non sai
per chi, non sai per che cosa, è la storia senza storia, nell’infinito dei mondi
perduti e da perdere.
Anche l’ Abramo, il piede incurante, la mente violenta, la mano incallita, è la
storia.
Il destino di uomini e cose, ti chiedo comodamente seduta in poltrona, mia cara
Itria, è eterno, perduto, olocausto?”
E’ del tutto sconcertata e confusa l’amica e non trovando il bandolo in questo
fiume di insulti e termini irriverenti non sa dove riprendere un rigoroso filo di un
discorso coerente, quindi prorompe irritata:
“La natura buona, generosa, bella non accoglie e ristora ogni tormento?”
Triste rispondo: Lidia Pizzo Olio su tela
cm.60x80
“Sotto un albero siedo, guardo e mi guardo.
Vedo smarrita l’olocausto, l’eterno banchetto.
Il bruco banchetta con l’erba, la gallina banchetta col bruco, il serpente col topo,
il leone con la gazzella, la balena col salmone, la rondine col moscerino… e…e… la
terra banchetta col bruco, la gallina, il leone, la gazzella, il serpente, il salmone, il
moscerino.
E il signore del mondo, i signori del mondo, banchettano con tutto e con tutti,
sedendosi ora con Isacco, ora con Abramo, in cerchio stabilito o da stabilirsi.
In questo marasma di Isacchi ed Abrami, di banchetti in rumorosa compagnia,
cerco un ruolo, una regola, un modo, un tempo, un luogo, una possibilità, una
libertà, una sola libertà, e cerco e poi cerco…e poi…”
Non vuole più ascoltare l’amica seccata, ma una curiosità la prende alla gola e
quindi mi chiede con non poco sarcasmo:
“Tra tutti questi banchetti trovi, poi, un ruolo che per caso faccia per te?”
Rispondo ora tranquilla:
“Chiudo gli occhi incurante, tappo le orecchie distratta, blocco il mio dire, un
profondo respiro e mi associo al banchetto, in attesa che qualcuno banchetti con
me in glorioso olo-causto.”
Non sa più cosa dire l’amica. Adesso è proprio convinta che a me manchi del
tutto, in forza all’età, proprio qualche venerdì.
Quindi senza aspettare il the già pronto nel bricco, si drizza dalla poltrona,
afferra la borsa, indossa velocemente il cappotto, in fretta saluta e corre via come
inseguita da lupi affamati.
Sorrido indulgente e l’accompagno alla porta.

42
Diritto di comparsa

Vorrei tanto realizzare un progetto molto particolare, quindi siedo ai piedi del
letto nella stanza sparuta e rifletto.
Io ho sempre letto che uomini saggi e molto colti hanno detto che ognuno su
questa terra ha diritto ad avere un “quarto d’ora” di celebrità.

43
Penso e ripenso alla mia vita anonima e vuota di fatti ed eventi, ai molti lustri
vissuti senza alcun apprezzamento di amici e parenti o personaggi importanti.
Ora, diventata di peso, dopo anni spesi a lavare e lustrare, congiunti e affini
hanno pensato che era giunto il momento del meritato riposo.
Con grande accortezza sono venuti a proporre ed imporre ricoveri ameni e
gaie compagnie in luoghi scelti con cura.
Serve la casa… e lasciare sola una vecchia indifesa potrebbe dare
preoccupazioni e gravi contrizioni.
Allora, con dire suadente ed affetto coinvolgente obbligano me, ormai fuori
uso, al requie dovuto.
Con quattro carabattole in valigia lancio lo sguardo finale all’angolo
sbrecciato della testiera del letto, al materasso affossato, allo specchio scurito
dal tempo, che aveva rifranto dalla prima all’estrema ruga, alla poltrona
sdrucita che porta ancora l’impronta del corpo invecchiato.
Anche il lavandino è macchiato dell’ultima acqua e gli armadietti ingrigiti
della cucina dallo sportello minuto lasciano ancora vedere le ultime briciole di
un pane da tempo indurito.
Allegre voci argentine invitano a mettere fine alle ciance, ad affrettarsi
perché scade l’ora richiesta al capo pignolo e, inoltre, le brave suorine
aspettano ansiose l’anziana signora.
Una lacrima scivola, presto asciugata, ed un sorriso radioso illumina il viso
che si proietta in quel futuro di fulgore splendente.
Lì, nella casa del lungo riposo l’aria è amena e il giardino pulito e le giornate
monotone e vuote.
Ma le gambe sono ancora buone e il pensiero brillante.
Aspetto da anni il mio momento di notorietà, ma non vedo come ci possa
essere una sola possibilità.
Un giorno… brilla, fibrilla, scintilla un pensiero.
Con un unico gesto posso sollevare prole e discendenze da visite affettuose
ad una vecchia barbosa e strappare un favore alla vita affannosa.
Penso allora di organizzare il mio gran funerale e vedere, finalmente
protagonista, il vero volto dell’umanità.
Il giorno dopo l’illuminazione, mi vesto con calma, prendo borsa e cappotto e
con accortezza anche l’ombrello.
Poi, esco sicura dal cancello della casa del meritato riposo.
Armata di cellulare compongo il numero delle auto pubbliche.
Chiedo alla voce cortese una macchina scura con cui mi faccio presto
accompagnare all’agenzia che organizza i più bei funerali.
Cortese un signore mi accoglie con un sorriso, tanto quello non costa, o forse
sì, viste le cifre.
A lui espongo il mio caso.
Fa un passo indietro stranito dall’insana richiesta e poiché la vita mi ha
insegnato che col denaro tutto si può conquistare, e quindi anche un funerale,
aggiungo alla somma pattuita un altro milione.
Lidia Pizzo Olio su tela cm.50x70
Strizza l’occhio il correo e sciorina la lista delle casse da morto, che con un
po’ di accortezza e sana ragione può dopo recuperare e guadagnare ancora
parecchi milioni.
Scelgo quella imbottita di piume e di un bel colore rosato, di legno di noce e
scolpita all’esterno con croci e madonne e quattro lucenti borchie di rame
tutt’intorno per rendere agevole non solo il trasporto ma anche la tumulazione.

44
Non voglio proprio risparmiare ed ordino dei fiori: bianche orchidee
intrecciate con cura alle rose.
E per la chiesa tre preti in eleganti abiti talari, viola, per intonarsi
all’imbottitura.
Aggiungo qualcosa per il canto gregoriano, perché pretendo che la
commozione prenda tutti alla gola.
Organizzo nei particolari, compreso l’annuncio ai familiari: il giorno prima.
Tanto nessuno vuole vedere una vecchia stecchita. Basta la parola di un
becchino ben prezzolato.
Conteggio le cifre.
Il rendiconto ancora mi consente molte spese, quindi firmo non certo confusa
tutte le carte e molto appagata torno in “convento”.
La suora sorridendo mi offre il buon giorno ed io ricambio felice e contenta.
Ma un altro pensiero brucia la mente.
Nessuno aveva pensato nel trambusto del trasferimento che ori e brillanti,
gioie e monili erano ancora nel bauletto che avevo nascosto sotto il letto e che
furtiva avevo portato con me per donarli un giorno alle ragazze dei figli solerti.
Così, il giorno appresso ripeto il cerimoniale.
Col cellulare richiamo il tassista e con un’ auto di lusso mi faccio
accompagnare dal gioielliere.
Gentile e affettato mi apre la porta blindata.
Dico che ad una vecchia stantia non servono gioie e che, pertanto, voglio
disfarmi di gemme e pietre preziose.
Il bottegaio tira sul prezzo con mille scuse, ma, io con astuzia sostengo che
altri esercenti sono pronti ad offrire la cifra che chiedo.
Tra un tira e molla, un sorriso e un litigio concludiamo l’accordo.
Col portafogli rigonfio di biglietti al tatto scroscianti rientro soddisfatta in
“convento”.
Conto i giorni e le ore e intanto preparo le poche cose in valigia.
Nell’ora fissata mi vesto con cura di nero e metto un cappello con la veletta
molto fitta.
Dico alla suora che vado ad un funerale e che accetto l’invito dei familiari per
il pranzo d’addio al caro congiunto e, dunque, porto alcune cose nella mia
sacca, per ogni evenienza.
Richiamo il tassista ed indico la via dove voglio andare.
Il brav’ uomo si imbroglia e si sbroglia, non so quanto ad arte, nel traffico
confuso e con stridore di freni mi lascia davanti al duomo magnifico.
Lascio una mancia munifica.
Poi, girando lo sguardo, vedo appoggiate alle sei colonne della facciata del
duomo, sei corone di fiori.
Rattengo il respiro per lo stupore di tanta bellezza.
Bianche orchidee screziate di rosa si intrecciano a ramoscelli di rosse rose
canine di serra.
Sono davvero uno splendore!
Ho fatto bene a non risparmiare.
Il tutto, infatti, è adagiato su una corona di due rami di palma dalle foglie
appuntite e piegate a formare un ovale.
Sorrido di gusto sul venerabile simbolo.
Prima di Cristo, di sapienza e bellezza. Dopo Cristo, di martirio e vittoria.
A me si presenta impellente una scelta, e siccome voglio fare le cose in
grande, li unisco tutti insieme.
45
Tanto per l’estremo teatro tutto fa brodo.
Davanti a quei fiori, inoltre, vedo un carro funebre lucidato di fresco di
almeno sei metri, grigio metallizzato, già vuoto del suo contenuto.
Qua e là gruppi di uomini in abiti scuri parlano fitto tra loro.
Attratti dal nero lutto volgono appena lo sguardo a me, signora velata e
addolorata e certamente straniera, forse sorella della cara estinta.
Con passo imponente e animo compiaciuto mi dirigo all’interno.
Già la nenia del canto gregoriano si diffonde nell’aria densa d’aroma
d’incenso.
Mi compiaccio dell’astuto espediente.
Almeno una volta nella mia vita sarò al centro dell’attenzione di figli, amici
dei figli, miei amici e parenti. Tutti in gramaglie.
In fondo alla chiesa, proprio sotto l’altare, su quattro piedistalli istoriati, il
feretro di noce chiara, su cui fa bella mostra un cuscino di soli lilium gialli.
Bellissima chiazza di colore squillante tra il nero di visi e vestiti.
Entro silenziosa, in tutto appagata dell’originale misfatto.
In punta di piedi, per farmi poco notare, passo da una navata laterale e mi
siedo compunta in un banco di terza fila, proprio in punta, in modo da avere
sotto gli occhi tutto il grande dolore dei miei più vicini collaterali di sangue e di
legge e potere ascoltare il dire afflitto e sconsolato, dopo un evento così
inaspettato, visto che, nonostante i miei lustri, la salute non mi faceva difetto e
visto che l’ultima recita che accompagna un’esistenza verso l’eterno silenzio
sembrava ancora tanto lontana.
“Eppure - penseranno in tanti - uno schiocco di dita e passa la vita, il respiro
affannoso, greve di parole mai dette di frasi ormai sfatte, di illusioni rarefatte.
Un passo da lì e l’oltre “li” inghiotte.”
Una lacrima brilla, se pensi che tale evento è fatto anche per te, ma in questo
momento la pena è lenita perché per fortuna la sorte è toccata ad un altro.
Adesso, è necessario consolare il familiare che è stato privato di un affetto
importante, almeno per il momento.
Il canto gregoriano, intanto, risuona armonioso nelle navate, e i cuori pietosi
sono oppressi da pena leggera.
La povera salma aveva avuto una vita serena: lavoro conveniente, marito
affettuoso, figli intelligenti, nuore pazienti che col tatto dovuto l’avevano
condotta nella bella dimora per il conquistato ritiro dal mondo.
Osservo, comprensiva, il catafalco elegante.
La stessa idea fissa: “Almeno una volta sono al centro dell’attenzione, perchè
il pensiero di tutti è rivolto all’estinta, non foss’altro che per il bel funerale!”
Ognuno loda, ognuno apprezza e si consola.
Intanto un suono argentino annuncia che la funerea funzione è vicina.
Tre preti abituati al compianto iniziano il rito certo un po’ lungo, forse avrei
dovuto dare un taglio più corto. Ma, non ho voluto privarmi di nulla.
Finalmente uno dei tre, fra canti e preghiere, inizia il sermone che incanta gli
astanti nel sentire decantare le virtù di quella santa.
Chissà perché tutti da morti abbiamo avuto una vita giusta, retta ed onesta.
Ora, ognuno compunto dà ragione al predicatore e annuisce con gesti graziosi
della testa.
Finita l’omelia i sacerdoti preparano la comunione.
Si mettono in fila prima i miei tre maschi agghindati con abito scuro e
candide camicie, a fianco le loro consorti in abito nero, forse acquistato per
l’occasione, o forse riciclato da qualche altra più allegra situazione.
46
Al seguito nipoti e pronipoti, amici e parenti.
Inghiottita la bianca particola in requiem di una donna di specchiata virtù,
tutti commossi tornano in fila al posto di prima.
Dopo un minuto il mio vicino guarda il telefonino, quasi si strozza per lo
sbadiglio bloccato.
Nell’altra fila riconosco il parente che con fare prudente guarda il suo swatch
all’ultima voga.
Finita la messa, inizia la cerimonia della benedizione alla bara dell’estinta già
tanto cara.
Quindi, a funzione finita, sono tutti sollevati.
Ma, comincia il ballo del bacio ai congiunti, il “Coraggio, la vita continua, è
stata una buona donna ed una madre esemplare”, si sprecano, da parte di
tutti.
Ma niente è ancora concluso.
I becchini, abituati alla coreografia, spingono il feretro verso l’uscita tra due
ali di folla.
Un fragore di mani battute sorprende anima e mente.
“Com’è bello! - rifletto - Nemmeno ai compleanni nessuno aveva mai
applaudito perché tutti, regolarmente, avevano dimenticato la fausta giornata.
Ma oggi è giorno speciale.
Almeno un battimani bisogna in cielo portare, altrimenti il buon dio come fa a
capire che deve aprire il portone?”
Poco dopo, tutti in ordine sparso vanno verso l’uscita, il feretro in testa.
Lì nella strada ritorna l’assetto studiato, prima i figli in gran pianto, poi le
nuore di nero vestite, ed infine i nipoti, i parenti, gli amici.
Mi mescolo al tutto e attente le orecchie.
Dice la vecchia alla cugina che la morta litigava ogni mattina con la vicina,
perché, importuna, guardava con occhi adoranti il figlio virtuoso, anche se lei
sulla virtù di colei che fu aveva un qualche dubbio preciso.
Con beffarda agilità mi sposto un po’ più in là e chi ti vedo?
L’avvocato di grido, anche lui molto invecchiato, che dice all’amico:
“Gran bella donna nel tempo di scegliere fiore da fiore. Io l’ho sempre
ammirata, anzi una volta con lei ho ballato e nel giro di danza l’ho stretta alla
vita.
Lei, forse, ci stava. Era nel pieno fulgore e fremeva nel frenetico ritmo.
Come tutto passa e sfiorisce!”
Lascio che ognuno vada avanti e mi trovo confusa col gruppo dei saggi.
Dice l’amico sapiente all’amico:
“Il mondo è creazione dell’io, che ha preso il posto di Dio. Ma è pure vero che
il mondo sta lì, perché non c’è colore senza estensione, così come non c’è una
nota senza durata.
E se l’uomo non ha metro opportuno per misurare estensione e durata, la
colpa non è di nessuno. Tocca alla mente inventare leggi e precetti che
puntualmente altri soggetti si danno da fare a demolire e così fino alla fine.
Allora perché tanta afflizione se tutto finisce con un funerale?”
Ecco! Rifletto:
“Se il mondo è creazione dell’io, a me tocca ideare l’estremo saluto. Almeno
una volta nella mia vita, nel bene e nel male, sono una star.”
Affretto il passo, costeggio il corteo e dritta punto sulle mie nuore in
gramaglie.
I fazzoletti di carta non fanno loro difetto sugli occhi arrossati.
47
Contenta mi dico che forse ho lasciato un dolce ricordo.
La prima della fila asciuga l’ultima stilla e dice all’altra:
“La cara mamma, ricordo, teneva in cassaforte gioielli e brillanti. Tu sai se tuo
marito è stato avveduto a nascondere l’oro quando l’anima buona viveva in
casa ed era esposta al rischio del furto?”
“Nulla io so - dice compunta – ma stasera chiederò.”
E la terza:
“Io ero affascinata dai due pendenti di rossi rubini e dalla spilla di diamanti
splendente.
Su via, stiamo zitte che non è il momento di pensare ai brillanti. Domani poi
si vedrà.”
I loro mariti ingrigiti dal grande dolore seguono muti il feretro chiaro, in cuore
contenti che la loro mamma, con la previdenza che sempre in vita l’aveva
distinta, aveva pagato di già quel funerale importante che non li faceva
sfigurare per niente davanti agli amici e ai parenti.
Faccio un passo indietro senza farmi notare e guardo la sfilza dei cari nipoti.
Loro, scevri ancora di interessi e denaro, versano forse lacrime vere anche
perché la scena vissuta ha il sapore del nuovo ed è stata architettata per
indurre a compassione gli animi non ancora traviati da interessi privati.
Rincuorata da questo quadro, lascio che passino altre persone.
“Io conoscevo da sempre quell’anima buona, che, spesso, non vista, dava
denaro al povero cristo che lavava i vetri per strada.
Di sicuro il marito era molto in vista e a fine mese portava una busta non
certo carente di molti biglietti.
Così va la vita!
Chi fa opere buone non sempre è ricambiata col bene.”
Dice la parente dell’amica all’altra amica.
Mentre il dottore paziente, anche lui già avanti con gli anni, dice all’anziana
signora:
“Che donna magnifica! Io tante volte l’ho pure spogliata e qualche pensiero
impudico mi è certo passato per la mente impaziente.
Anzi una volta glielo ho detto persino e lei… ”
Adesso, sono stanca del lungo percorso, dove, ciascuno a suo modo, è stato
primo attore nella mia vita.
Rallento il passo e lascio passare tutto il corteo in modo da guadagnare la
strada.
In fondo alla fila il mio sguardo si posa su un vecchio smagrito con un
fazzoletto a quadretti nella mano tenuto e i calzoni sdruciti.
Asciuga lacrime certo sentite.
Faccio mente locale e… riconosco il ragazzo del primo amore, che non
comprendo come è venuto a sapere della notizia ferale.
Lo guardo nel sole coi neri capelli ricciuti. Lo sento nel vento in corse sfrenate
su spiagge assolate. Lo tocco nel corpo su letti di piume.
Lo strappo al destino.
Piange davvero per me, certo perché la realtà è stata vissuta solo a metà.
Vorrei allungare una mano sulla spalla minuta, ma ancora una volta il caso ha
detto di no.
Giro lo sguardo e una lacrima sfugge.
Intanto, la recita va avanti come se la cara estinta mai avesse occupato un
punto qualunque di questa terra.
Adesso, caso opportuno, c’è in fondo alla via un’agenzia di viaggi lussuosi.
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Il portamonete è fornito, il passaporto bollato.
Entro decisa ed ordino un viaggio dispendioso per…
No!
Faccio ancora una volta mente locale.
Guardo quell’ uomo smagrito che ha già lasciato il corteo e… ordino per due.
Pretendo un momento.
Alzo la veletta e corro incontro…

Viaggio dentro una vita

Assolato il pomeriggio di maggio.


L’afa fuori stagione, come spesso accade nelle plaghe siciliane, invita a
soporiferi interruzioni.
Socchiuse le imposte di finestre e balconi, mi accomodo nell’accogliente
poltrona che tante tregue ha dato al mio cuore quando la vita ha dispensato
dolori, lacrime e trepidazioni.
Ma oggi il pensiero si allenta. Il corpo è sopraffatto dal caldo. Il respiro alita
lieve e, mentre i muscoli si rilassano adagio, la mente spiana immagini e visi
e… una bimba corre nella strada assolata.

49
E’ appena uscita da scuola.
E’ uccello scampato agli artigli di nibbio rapace di una maestra dal naso
camuso e dal corpo poderoso adusa ad impartire le buone maniere solo col
menare le mani. Altro che socializzazioni!
Ma tempi, luoghi e situazioni erano diversi in epoche lontane!
La corsa a braccia spalancate nel vento rende ansante la bimba.
Sull’uscio la madre premurosa:
“Stupidina! Perché hai fatto in fretta il percorso? Non è ancora l’ora del
pranzo! Grondi sudore e ora mi tocca cambiare il maglione.”
“Stupidina”, risuona chiaro nelle orecchie della bambina che crede parola
d’affetto.
Non ne ha ancora pienamente compreso il concetto.
… A stento si schiudono gli occhi in quella luce soffusa. Percepiscono mobili
e cose, ma distinta risuona la parola che mai ho voluto cercare su un
qualunque dizionario.
Sorrido al pensiero del mio dì natale che mi allegò in eterno a quel lemma.
So che fu di giugno, il 16, di buon’ora.
Raccontarono che ero magra e senza un capello, ma molto tranquilla, già dal
preambolo.
Quel giorno, narrarono anche, piovevano granate e mitragliate, nel senso
della guerra, e forse per questo sempre mi sono chiesta se già dapprincipio
fossi stata sottoposta a più di un elettrochoc.
… Ora la calura sembra proprio intollerabile e ancora più pesanti le palpebre
perlate da qualche goccia di sudore materializzano altre situazioni.
Molte immagini emergono dal cuore che non sai mai per quale arcano
accelera i suoi battiti se un ricordo, una sensazione o solo un frullo d’ali si
formano nel bel mezzo di un pensiero e forse per questo ho detto cuore al
posto della mente, che lì in quel frangente mostra una maestra.
Detta pure lei il suo problema, di quegli inconcepibili quesiti, che non so se
ancora si propinano ai bambini, che dicono di rubinetti sempre aperti e di
vasche mai ricolme.
E certo non poteva mancare a me uno di tali paradossi.
“Se in una vasca da bagno un rubinetto versa un litro di acqua al secondo,
quanti litri di acqua avrà versato in un minuto?”
“Orsù, piccola Lidia, rispondi al quesito!” Dice seria la maestra.
Io incespico ed annaspo e poi decido la risposta:
“Ma io, signora maestra, non ho né rubinetti, né vasca!”
Rintronano le orecchie per la risata di docente e di discenti, ma poi intera
quella frase:
“Siediti, stupidina, ogni tanto bisogna pure avere immaginazione!”
Anche la madre aveva dichiarato alla vicina: “Questa bambina non è carente
di invenzione, è solo che le sue trovate sono sempre stupidine, però è tanto
buona!”
Su quest’ultima asserzione ebbi il dubbio dell’affetto.
Ma, si sa, uno zuccherino aggiusta sempre ogni minestra.
… Eppure quella parola anche ora mi rimbomba nella testa.
Sarà l’afa, il tedio o qualche altra maledizione, il fatto è che un’altra
immagine si staglia netta nel mio occhio…
Una chiesa, non molto lontana dalla casa, mi vede salire ogni gradino dello
scenografico scalone con timore reverenziale.

50
Quattro tortili colonne abbelliscono ancora oggi l’ampio ingresso
all’imponente navata con la volta istoriata da affreschi sontuosi.
Che incanto l’altare dai mille intarsi di tutti i colori e l’eleganza dei
paludamenti ecclesiali!
Sbigottivo sui rossi brillanti, sui verdi splendenti, sui viola appariscenti.
Indossavo ogni colore e volteggiavo nell’aria olezzante d’incenso a toccar con
le dita alfabeti di Santi dagli occhi sgranati e di Madonne dai manti accoglienti.
Che belle quelle chimere vestite di cielo e santità!
Il sabato pomeriggio, visto che quello fascista non era potuto rientrare nella
lista perché nata in ritardo rispetto al tempo in cui il corpo doveva essere
vigoroso e prestante per diventare solo madri di fieri figli di lupe gagliarde, il
sabato pomeriggio, dicevo, si pensava alla cosmesi delle anime, le belle però,
e certamente non della mia perché ormai ero convinta che la mia stupidità
avesse invaso l’orbe terracqueo già da gran tempo.
Uno di questi fausti giorni ne ebbi la gran conferma quando il parroco
imponente nell’abito talare tuonò che Dio e Santi che abitavano le plaghe
celesti erano solo buoni e giusti, mentre uomini e donne dispersi nelle plaghe
terrestri erano cattivi e crudeli e in quest’ultimo caso nessuno si poteva
sottrarre alla visione di Dio che aveva occhio bene addestrato per sbirciare
anche nei luoghi più appartati.
Costernata da tale sfacelo arrischiai tosto la domanda:
“Ma tutti i Santi forse non furono esseri umani?”
Una risata fragorosa del prete istruito e poi la sua stucchevole parola:
“Mia stupida figliola…”
Il resto della risposta, insieme al tempo perso in parrocchia, è stato già da
molti lustri dimenticato.
Tuttavia, rimase in me la persuasione che quel prete avesse assolutamente
ragione, essendo la saggezza, la bontà e la veridicità dell’uomo di chiesa
risaputa su tutta la terra, perché baciato da Dio con la grazia celestiale che ne
faceva pastore di spiriti più o meno eletti, e che la stupidità fosse la mia sola
pensabile condizione.
Una volta, tanto tempo dopo, ascoltai attentamente un discorso in cui si
sosteneva con ferma ragione ed assoluta convinzione che un rimedio su questa
terra fosse possibile in ogni situazione.
Pensa e ripensa, escogitai la sola cura che facesse al caso mio: dire sempre
meno e serbare solo per me illusioni e visioni: lambire il cielo con la mente
ardita. Sporcare di terra la pianta del mio piede.
Toccare un rovo con le spine per graffiare tutte le dita ed asciugare il sangue
di ogni ferita con un lembo di lenzuolo ed ogni lacrima con l’orlo del grembiule.
Lasciare posare la rossa coccinella e sentire sul palmo della mano il lento suo
arrancare e vederla poi volare.
Tastare la polvere sulla scrivania e scrivere con l’indice ogni mia follia.
Amare la cicala che vive spensierata e allieta la fatica della monotona
giornata.
Odiare la formica che pensa sempre al domani senza sapere se un domani ci
sarà.
Vorrei proprio schiacciarla con il piede… quella maledetta!
Dire… capire… intuire… mentire…
E sì, imparai presto a mentire quando la richiesta si fece più pressante.
Fu facile, sapete, bastò dire il contrario di ogni mio pensiero e ogni cosa calzò
a meraviglia.
51
Tutti in famiglia, a scuola o in parrocchia magnificarono quella mia saggezza
venuta forse con non poca esitazione ma ben presto irrobustita dai nuovi mezzi
di comunicazione.
E fu telefono, radio e televisione a dar manforte a tutti i ben pensanti.
… Improvviso uno stridio di freni giù nella via mi fa saltare su dalla poltrona.
Anche se di tempo ne è passato, tutto sommato ora sorrido di tutte le mie
pene e penso ai film di Charlot e ai carcerati col vestito a righe e la gran palla
al piede con la catena corta.
Ecco cos’era stata la mia stupidità un giogo amaro con un laccio poco esteso.
Così per non pensarci molto e farmi il sangue amaro, un giorno presi un libro
e corsi su “Pattini d’argento”, piansi con “David Coppelphield” e piansi ancora
con il libro “Cuore” e con “I Miserabili” e piansi ancora con… e poi con…
E quanti pianti si appioppavano allora ai giovani lettori!
Ma a pensarci bene, forse erano saggi allenamenti per futuri cittadini, poeti,
musicisti o romanzieri, e magari qualche pittore.
Quindi veramente stanca di gemiti, lamenti e soliloqui passai ben presto a
scritti più impudichi e fu “La nausea” e “La noia”, “Gli indifferenti” e il
“Pasticciaccio” col “Visconte dimezzato” su su fino al “Giorno della civetta”.
E fu poi “L’insostenibile leggerezza… ” di non so più che cosa, forse
dell’essere o forse dell’avere, insieme alle varie “Dicerie dell’untore”, e così per
tanto tempo fino a quando non arrivò “Ecce Homo” e via per queste amenità.
A furia di leggere e sognare persi anche la vista e qualche filarino, ma persi
pure a scuola perché allora i professori parlavano di Dante e di Manzoni e
quando era annata buona ci scappava un qualche Pascoli Giovanni, anche lui
un po’ piagnone, a volte.
Eppure, avrei sognato una rivincita, ma la parola si bloccava in gola dinanzi a
tanta scienza dei togati professori che magari avrebbero sorriso se avessi
proferito Sciascia e Calvino o solamente Pavese e Vittorini o magari Pasolini
mettendoci pure un qualsiasi Bufalino.
Vuoi mettere il Manzoni con la sua morale o l’Alighieri Dante con la scienza
sua abissale?
Forse, magari per scommessa, qualcosa avrei potuto anche azzardare ma mi
terrorizzava solo l’idea che dietro il sorrisetto avessero nascosto la parola
eletta... per la quale alla fin fine avvertii un certo attaccamento
… Ora… mi guardo intorno e… non vedo banchi di scuola ma solo mobili
moderni e… tiro un gran sospiro di sollievo.
Attraverso le imposte un po’ socchiuse guardo il cielo che s’è un po’ incupito,
forse minaccia temporale e quindi penso sia meglio non uscire per lo shopping
abituale.
Voglio invece continuare a viaggiare nella mia vita col suo appellativo sempre
tenace nella mia testa.
E perché sì, passarono gli anni e buscai anche un compagno che mai mi
risparmiò la menzione della parola eletta.
Ma il tempo, si sa, non si può fermare e tradizione vuole che pure i figli
debbano a venire e figuriamoci se io, entrata nel gregge della vita, mi fossi una
volta mai tirata indietro.
Con i figli cambiano gerghi e costumanze.
Ora più chiaro si reitera il pensiero:
“Ma che dici! Non capisci niente!”

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Non è per me nessuna novità, ero già avvezza e molto affezionata alle mie
mancanze che tante volte mi soccorsero per sopportare le tante assenze
inattese o risapute.
… Adesso s’è fatto scuro ed apro tutte le imposte.
Le prime gocce grosse come sputi sbattono sui vetri.
Di ognuna seguo tutti i percorsi.
Tracciano strade, viali e sentieri e mi tuffo nell’intrigo e vedo palazzi, vecchi
sobborghi e rocce…
Rocce nere, appuntite o anche smussate del mio Etna che si desta sotto la
nebbia attaccata come colla alla base di ogni masso.
Sbocciano pinnacoli e prodigi, paesaggi stupefacenti di un inferno a terra
sceso a mostrare ad ogni uomo una parata di impotenza quando il dio scrolla le
spalle.
… Scoppia un lampo, si schioda un tuono che mi ridanno la ragione.
Devo adesso cucinare…
Penso che le uova al tegamino vadano bene per un pasto assai frugale.
Alla linea bisogna pur guardare.
Nel contempo accendo il televisore: voglio vedere il telegiornale e forse
superquark o qualche altra amenità che mi porti in Francia, Spagna, Australia o
Papuasia, tanto entrano tutti nella mia cucina, così io mi sposto immantinente
altrove.
E’ solo in questo modo che capisco il mondo.
Ma sarà poi tanto vero, se di esso conosco solo la rappresentazione?
Se io sono in cucina e friggo un uovo, vedo il povero dell’Africa che arranca
col bastone o il bimbo col testone.
Di fronte a tale situazione ho già finito di cenare perché conosco il senso della
fame.
Ma i figli, che trafficano notizie tra frittate e merendine in quell’ immenso
cyberspazio, intendono il peso del bisogno?
Certo tutto è racconto!
Anche l’Ulisse sentì l’urgenza di narrare le sue imprese, ma gli uditori si
potevano toccare, così anch’io spiattello a te ed alla tua pazienza le mie pene
perché ho attraversato il mondo con il suo dolore, con la sua saggezza o con la
sua scemenza, ma in televisione il distante si addentra nella mia cucina e si fa
solo nebbia il circostante.
Se sullo schermo o nella rete vedo il bimbo col pancione o la gioia della miss
che asciuga col kleenex le sue lacrime ho visto solo la regia che anche tu
conosci a menadito e, per quella parola che non oso pronunciare, non dico mai
agli altri: “Che senso ha comunicare a te quello che sai già?”
Ecco perché quando friggo due uova al tegamino davanti ad un televisore
nessuno ha più voglia di parlare.
L’altro ieri una notizia è deflagrata telecomandata.
In un paese in guerra, di quelle guerre, sai, che si fanno con i carri armati, coi
radar e coi missili all’uranio impoverito che i grandi della terra provano che non
sono ottusi, perché scovano e trafiggono anche un ago in un fienile con infinita
precisione e quando esplodono non sono eccezionali se non fanno almeno
cento morti, lì, dicevo, in quel paese la popolazione era radunata, in un luogo
ad Allah dedicato, per le pratiche religiose.
D’un tratto, detona un petardo cui segue una parola, kamikaze.
Fugge a precipizio tutta la gente e poco dopo, lì su quel terreno, si fa il
novero dei morti, sono mille, e forse più.
53
Da stupida mi chiedo:
“Perché tanto rumore e tante forze in campo se solo una parola insieme con
un petardo possono fare la pelle a più di mille?
Tanto, in guerra, quello che importa è solo il numero dei morti!”
E tutto questo nella mia cucina tra un uovo fritto, un panino e una patatina.
Così ogni cosa si ingarbuglia nelle mie orecchie e nei miei occhi tra il brusio e
il cicaleccio di tutti i personaggi che dicono e ridicono le medesime
informazioni.
Scuoto la testa in preda ai miei pensieri e vado nella stanza dei ragazzi.
Li guardo bene in viso e non vedo disuguaglianze. Anche i compagni hanno le
stesse fattezze, assomigliano in modo impressionante ai simulacri della
televisione.
Impaurita e sopraffatta sbatto cento volte le mie ciglia, per non far rumore, e
solo con uno sforzo immane torno a guardare il mondo e a vedere differenze.
Stanno i ragazzi davanti ad un computer e battono sui tasti ed ogni tanto
scoppia una risata.
Li guardo con invidia!
Poi, preso il coraggio con le mani:
“Chi di voi, dietro pagamento, è disposto a darmi qualche insegnamento?”
Alzano gli occhi stralunati, col sorrisetto in bocca…
Declino la domanda.
Però il pensiero mi resta nella testa.
Il mondo è cambiato ed anch’ io mi sono trasformata.
Sarebbe tempo e luogo di consultare un dizionario, almeno una volta nella
vita…
Mi faccio coraggio prendo il tomo e vado alla esse, lentamente volgo i fogli…
st… stuccare… studiare… stufo… stuolo… stupidità.
Mi meraviglio del fatto che il mio vocabolario, proprio il mio! non abbia
almeno in grassetto quell’appellativo.
Accelera il ritmo il mio cuore, ma la speranza muore: “Com. Indisponente
sciocchezza. Lett. Stato di torpore, di sbalordimento. [Dal lat. stupiditas].”
Una fiammella si stacca dal latino, voglio interpellare la radice…
Ma che gioia scoppia nel mio cuore quando scopro che quell’ epiteto vela nel
semantico contenuto il concetto dello scrutare il mondo con stupore!
Evviva! L’ottusità che colpisce, ben presto recepisco.
Quasi, quasi sono felice.
Quella mitica parola spiega pure la mia vita quando vedo per incanto che una
nuvola birichina nasconde per dispetto tutto il corno
Lidia Pizzo Foto della luna trasformata
in altalena o fors’anche la farfalla quando bacia quella spina.
Ora il coraggio non mi manca, se il mondo ho scrutato con stupore, se due
volte non ho amato con lo stesso cuore, né odiato due volte con lo stesso
ardore o provato due volte la tristezza con la stessa forza.
Ma, allo stesso modo, tuttavia, non ho mai trovato un solo appiglio che mi
desse una certezza.
La deriva dentro la casa, sotto il cielo o nella strada o tra le braccia
dell’amato è stata sempre una costante.
Adesso… pretendo un riscatto che mi conquisti il rispetto agli occhi del
mondo.
Nutro un progetto.
Il giorno appresso mi abbiglio con cura e mi reco all’edicola.
54
Compro un giornale, di quelli che riportano le cronache locali ma anche le
inserzioni pubblicitarie.
Scorro tutte quelle che danno del computer veloci lezioni.
Uno fa al caso mio, non è neanche lontano da casa.
Decisa mi dirigo all’indirizzo indicato.
Al cervellone cortese, che ha aperto il portone, espongo il mio caso.
Ci accordiamo sulla retribuzione, così il giorno dopo inizio le lezioni.
In capo ad una settimana ho imparato di già quello che fa alle mie necessità.
Felice dell’ apprendimento vado in un negozio specializzato ed acquisto un
computer poco sofisticato, tanto per i miei bisogni non è necessario che sia
complicato.
L’ indomani viene il ragazzo, entra nello studio ed installa quell’ aggeggio. Do
una mancia e comincio il maneggio, mentre il pensiero corre veloce:
“Presto sarò ricca e famosa!”
Perché, per chi non lo avesse compreso, voglio scrivere una storia, la storia di
una vita.
Con tutti i tomi letti e riletti, macinati e studiati uno scherzo sarà mettere
dentro la mia creatività che altri ha sempre indicato con termine poco garbato.
Che rivincita sarà se in capo a sei mesi o forse meno riuscirò a superare
Sciascia e Calvino, Vittorini e Pavese!
E ne ho di cose da raccontare, di amori da insultare, di amici da onorare, di
umiliazioni da riscattare, di offese da esorcizzare, di… di… di…
Certo so che ogni cosa che si reputa nuova è stata già detta, e molte volte,
ma io voglio ridirla e adattarla ai tempi e agli spazi contratti, al mondo
materiale e a quello ipereale di reti e televisioni.
Anch’io ora ho la mania di rappresentare.
Rappresentare una vita vissuta tra me e il mio specchio, tra presenza ed
assenza, tra il mio lungo camminare e il mio lungo bussare senza ricevere
udienza, tra l’esilio perenne dal mondo e, perchè no, tra la mia stupidità e… un
qui ed un là che non collimarono mai.
Ma oggi sono troppo emozionata anche se ho chiara la trama intricata,
domani sarà certo giorno propizio dopo un meritato riposo.
Lavoro di giorno e di notte come una pazza per dimostrare agli altri e prima a
me stessa che la mia esistenza non è stata banale se ho guardato la vita con
tanto… stupore, mentre altri più saggi e di cultura magistrale hanno sempre
sostenuto che per me un solo epiteto fosse ben assestato.
Il computer aiuta tantissimo se un mio errore può essere corretto in tempo
reale.
In capo a sei mesi il capolavoro è compiuto: polvere magica con inquadrature
e sequenze, interrogazioni e risposte di vita in vita, di storia in storia da
tramandare che è sempre un po’ tradire.
“Ma tradire cosa?” - mi chiedo confusa - “Una vita vissuta da pecora in un
branco pronto a valutare e presto giudicare se per un qualsiasi accidente non si
trovano sufficienti omologazioni? Nel qual caso c’è sempre un pastore pronto a
lasciare quel gregge per riportare all’ovile la povera smarrita. Tanto la massa
non si sposta, è sicura di tutto e di tutti, porta sempre uno stendardo, dietro al
quale è pronta a vivere o morire.”
Lidia Pizzo Foto elabor. Al computer
Ma bando alla mestizia. Ora, bisogna contattare un editore.
Ho sottomano un giovane ardito che ha tutte le intenzioni di diventare
importante cominciando dal poco con correttezza e senza sfruttare l’ingenuità

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di crede che quattro rime e poche parole bastano da sole a realizzare
capolavori.
Parliamo insieme di molte cose. Di come impostare la pagina in modo
corretto, degli spazi da lasciare per fare “respirare” lo scritto. E’ essenziale
stabilire un titolo originale ed anche le misure e se necessario dedicarlo a
qualcuno ed inoltre anche gli emolumenti.
Restiamo su tutto d’accordo.
Ci rivedremo dopo due settimane.
Torno a casa esultante e inizio le correzioni.
Un ritocco qui ed uno là. La punteggiatura deve essere curata, e tutti gli “a
capo” perfetti affinché nessuno obbietti insipienza o ignoranza.
Il lavoro è un poco tedioso, ma penso che ne valga la pena.
Passo un’intera giornata a stabilire un titolo intrigante, che colpisca ogni
lettore.
Pensa e ripensa, esce fuori la folgorazione… “Perle di cristallo”.
Lo pronunzio migliaia di volte. E’ bello e pregnante.
Adesso bisogna dedicare il tomo a qualcuno.
Spremo ricordi e meningi.
Chi tra tanti mi ha dato un aiuto?
Non riesco proprio a trovare nessuno, o forse sì, la luce del sole o il mio
sguardo di pecora smarrita tra tanti fatti e misfatti. Ma penso che sarebbe
scontato e banale.
Poi considero che è solo un dettaglio, lo dedicherò al mio primo amore.
Anche questo è usuale, ma è solo lo sguardo d’amore che fa vedere le cose
più comuni con le nuance dell’arcobaleno. Magari lo sventurato non ha mai
afferrato nulla di ciò che frulla nel capo di una innamorata. Ma questo è poco
importante, è il segno che lacera o consola ad avere molto peso.
Ecco, i versi sono questi e non voglio per niente al mondo che siano diversi:

Sul tavolo del gioco tuo


puntai tutte le perle.
Oggi, il mio tempo invecchia
e ciò che persi più non torna.

Adesso è necessario considerare la copertina.


Con le quattro nozioni apprese dal cervellone, passo almeno sei ore su
WordArt.
Alla fine, la pagina esterna è proprio un capolavoro di gusto raffinato e di
grafica studiata punto per punto.
Nessuno non potrà non notare che quella è opera pregiata, fosse solo per la
copertina!
Estrema fatica fissare i margini e la misura dei fogli.
Scorro raggiante col mouse rigo per rigo. E’ tutto perfetto.
Adesso provo a stampare.
Ma no! Sono stanca e quasi sfinita domani, dopo una bella dormita,
riprenderò la fatica.
Vado a letto e mi addormento di botto col sorriso sulla bocca, ma prima di
chiudere gli occhi dico ancora una volta: “Sarà questo il mio riscatto!”
Il giorno dopo, non prendo neanche il caffé, né mi sciacquo la faccia, è troppa
la mia impazienza.

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Mi appresso al computer, a quella scatola scura che tiene racchiusi pensieri e
desideri, gioie e dolori.
Con mano tremante per l’evento imminente pigio il bottone, emette
l’amichevole suono e guardo, com’è normale, lo schermo.
Il buio più pesto si spiana davanti ai miei occhi. Il cuore inizia a martellare.
Spengo.
Riaccendo.
Spengo.
Riaccendo e così di seguito per molte volte, ma non succede niente, sempre
quel nero infernale si mostra incessante.
Voglio morire!
Ma un ultimo barlume rischiara la mente: il figlio ancora dormiente!
Corro nella sua stanza, lo sveglio immediatamente.
Mi guarda confuso e stralunato il ragazzo.
Finalmente comprende.
Anche lui tocca ed armeggia, toglie pezzi, li poggia sulla tastiera, li rimette al
suo posto.
Non c’è niente da fare, il computer ha dato forfait.
Mi dispero e straparlo, a volte anche urlo ma il figlio non comprende dove sta
lo sbaglio, anzi chiede senza malizia: “Ma non sai che per un lavoro importante
è sempre meglio avere un doppione, magari in un floppy? Sei proprio una…”

Grazie a tutti se … siete riusciti a leggere fino in fondo…..

Li
dia Pizzo

Un commento di Luigi Bianco

“Perle di cristallo” è una pela d’ eleganza granitica: d’avorio.


Le fragilità dell’esistere emergono da tanti preziosi vetri rotti che,
alla fine, come per magia, si ricompongono a specchiare la bellezza
di un’esistenza rivissuta proprio allo specchio e la bellezza di una
donna che forse alla vita non ha chiesto molto ma che in tanti
frammenti, in tanti giorni manifesta (senza troppi rimpianti ed
illusioni) la consapevole sensibilità di essere una creatura (non
importa se capita, non importa se privata anche di un “diritto di
comparsa”).
Uno sguardo acuto e sereno scompone il bello e il brutto
dell’esistenza, con uno “stupore” contenuto e candido, anche
quando gli altri vorrebbero macchiare il genuino sentimento con il
marchio superficiale della “stupidità”.

57
Mi sono commosso a lasciarmi coinvolgere spontaneamente in una
vita di donna che poteva essere diversa ma è bella così nel suo
fragile e “monotono” dipanarsi.
La commozione non è tristezza, è partecipazione simpatetica e
scatto emotivo.
La tristezza è subito sconfitta dal linguaggio, dal piacere di scrivere,
dal ritmo persino divertito (quelle rime e quei suoni che mi
rimandano ad una metrica greca dimenticata…).
Uno sguardo acuto e sereno scompone il bello e il brutto
dell’esistenza, con uno “stupore” contenuto e candido, anche
quando gli altri vorrebbero macchiare il genuino sentimento con il
marchio superficiale della “stupidità”.
Mi sono commosso a lasciarmi coinvolgere spontaneamente in una
vita di donna che poteva essere diversa ma è bella così nel suo
fragile e “monotono” dipanarsi.
La commozione non è tristezza, è partecipazione simpatetica e
scatto emotivo.
La tristezza è subito sconfitta dal linguaggio, dal piacere di scrivere,
dal ritmo persino divertito (quelle rime e quei suoni che mi
rimandano ad una metrica greca dimenticata…).
Di questo libro accetto tutto. Mi meraviglia – in positivo – la fusione
magica di racconto, pensiero, suono: un risultato ancora più
importante per la fluidità con cui l’anima si articola nel tempo
esistenziale dei molti vissuti.
Finalmente, dopo troppi equilibrismi e virtuosismi di scrittori solo
d’effetti calcolati, ecco una scrittrice che si affida alla semplicità e al
piacere del suo sentire poetico: ancora più poetico perchè speso in
una quotidianità apparentemente banale, ma comune alle donne
sensibili di ogni continente; ma l’aria, l’arsura, il disincanto, la
musica e il tempo sono del Sud: di una Sicilia antica che si rinnova
con le parole-perle di una donna colta che raccoglie se stessa e il
mondo nella fragilità della poesia che osa toccare la “pesantezza”
della filosofia.
Al di là dei profondi contenuti è la musica – lo ripeto - che mi
affascina nota dopo nota. Anche in “Telefonata”, che in parte mi
riguarda (grazie), nelle pagine finali le parole musicalmente
saltellanti diventano suono atemporale che ti allunga nel sogno e ti
accarezza proprio con il battito silenzioso di una farfalla.
Cara Lidia, parli di vita e morte senza rumore: col distacco di chi ha
vissuto, e sa. Sa che la vita è un attimo e allora… “alzo la veletta e
corro incontro…” Senza disturbare: con la grazia di chi è in “stato di
grazia”. Grazie

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Luigi Bianco

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