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Van Gogh

L’EPILOGO
AVVERTENZA
Questo materiale didattico è stato predisposto in formato digitale dalla
professoressa Simonetta Parodi ad uso ESCLUSIVO e strettamente
PERSONALE degli studenti delle proprie classi 5^A e 5^D del liceo
classico «A. D’Oria» di Genova, in relazione all’emergenza sanitaria che
ha costretto alla chiusura degli Istituti scolastici sul territorio, e
nell’ambito della didattica a distanza che in conseguenza di ciò è stata
attivata sotto varie forme dalle scuole.
I testi che qui compaiono sono opera della professoressa Parodi, che ha
consultato diversi testi, cartacei e digitali, a sua disposizione, mentre le
immagini risalgono a materiali di dominio pubblico su internet. Si tratta
comunque di materiale che non appartiene a circuiti editoriali, pubblici
ecc. e che pertanto non deve essere assolutamente divulgato in alcun
modo al di fuori dell’uso didattico specificato sopra.
Grazie per la collaborazione.
Simonetta Parodi
Genova, 20 marzo 2020
Vincent Van Gogh
L’ospedale di Saint-Rémy
1889
Los Angeles, UCLA, Hammer Museum

L’ex convento di Saint Paul de Mausole, a Saint-Rémy


de Provence, era stato trasformato in un ospedale
psichiatrico, abbastanza illuminato per quell’epoca.
Qui Vincent accettò di ricoverarsi nel maggio 1889 e
vi rimase circa un anno, finché fu dichiarato «guarito»
(maggio 1890).
Durante le 53 settimane di degenza Van Gogh poté
godere di una certa libertà, usufruendo di una stanza
in più, adibita a studio, e recandosi all’aperto per
dipingere, accompagnato da un sorvegliante, quando
le sue condizioni psichiche lo permettevano.
A Saint-Rémy l’artista realizzò 150 dipinti.
Ricoverato a Saint-Rémy, Vincent osserva e ritrae da vicino i fiori nel giardino della clinica,
ispirandosi agli artisti giapponesi che si erano dedicati alla rappresentazione ravvicinata di
dettagli di natura.
«Studiando l’arte giapponese, si vede un uomo indiscutibilmente saggio, filosofo e
intelligente, che passa la sua vita a far che? A studiare un unico filo d’erba.
Ma quest’unico filo d’erba lo conduce a disegnare tutte le piante, poi le stagioni, e poi le
grandi vie del paesaggio, quindi gli animali e infine la figura umana. Così passa la sua vita; e
la sua vita è troppo breve per arrivare a tutto».
Per Vincent l’arte giapponese diventa
dunque un modello non solo dal punto
di vista pittorico ma anche sul piano
etico ed esistenziale.

«Gli Iris sono uno studio pieno di


aria e di vita»
Iris, 1889
Los Angeles, J. Paul Getty Museum
«Ma insomma, non è quasi una vera religione quella che ci insegnano questi giapponesi così
semplici, che vivono in mezzo alla natura come se fossero essi stessi dei fiori?
Non è possibile studiare l’arte giapponese, credo, senza diventare molto più allegri e felici, e
senza ritornare alla nostra natura nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro nel
mondo della convenzione».
Nel caso degli Iris, Van Gogh prende spunto da
una stampa di Hokusai, giocando ancora una
volta sul contrasto di complementari blu /
arancio, e inserendo un solo fiore bianco come
punto focale della composizione.

Katsushika Hokusai
Iris, 1834 circa
Chicago, Art Institute
Nel periodo di Saint-Rémy (maggio 1889 – maggio 1890), Van Gogh si concentra su alcuni
aspetti del paesaggio provenzale, ai quali attribuisce anche un significato simbolico: campi di
grano (che ritorneranno durante il soggiorno a Auvers, negli ultimi mesi di vita), uliveti e
cipressi. Egli scrive infatti a Émile Bernard: «La mia ambizione si limita davvero a qualche
zolla di terra, del grano che germoglia, un uliveto». (26 novembre 1889)
Con i loro tronchi nodosi, gli ulivi trasmettono al pittore un senso di forza e di tenacia.

«Per quanto mi riguarda cerco gli effetti


contrastanti del fogliame, che cambia
con i toni del cielo. In autunno, le foglie
assumono toni viola, del colore di un
fico maturo; e questo effetto viola si
manifesta pienamente con il contrasto
del grande sole, nel suo alone pallido di
luce limone».

Ulivi con cielo giallo e sole, 1889


Minneapolis (USA), Institute of Art
«I cipressi sono sempre nei miei pensieri. Vorrei farne una tela, come i quadri di girasoli, e mi
stupisce che nessuno li abbia ancora fatti come io li vedo. Sono belli, in quanto a linee e
proporzioni, come un obelisco egizio; e il loro verde è così particolare. Sono una macchia
"nera" in un paesaggio assolato, ma una delle note nere più interessanti, e per quanto riesco a
immaginarmi, una delle più difficili da riprodurre bene sulla tela». Il cipresso è un albero forte,
quindi metafora della volontà di vivere, ma è anche connesso all’idea della morte, così come il
grano pronto per la mietitura e il cielo ventoso, ingombro di nubi.
Il disegno preparatorio è stato realizzato «a punto e tratto», tecnica di ispirazione giapponese.

Campo di grano con cipressi, 1889 Campo di grano con cipressi, 1889
New York, The Metropolitan Museum Amsterdam, Museo Van Gogh
L’opera costituisce una rielaborazione interiorizzata di un paesaggio naturale, colto da una
finestra dell’ospedale di Saint-Rémy. L’ambiente provenzale si riconosce negli uliveti e nei
dolci declivi delle Alpilles, ma il paesino di Saint-Rémy si fonde nel ricordo del pittore con il
villaggio olandese di Nuenen, di cui compare qui la guglia sottile della chiesa protestante.
Al profilo aguzzo del campanile, circondato da un gruppo di piccole case con le finestre
illuminate, si contrappone sulla sinistra la sagoma nerastra di un cipresso, agitata dal vento
come una fiamma scura che tende al cielo. Quest’ultimo è attraversato da misteriosi vortici
tra i quali si accampano le stelle tremolanti e l’enorme luna.

L’opposizione violenta tra i colori


blu e giallo rispecchia lo scontro di
forze opposte, il senso di angoscia
che attanaglia Van Gogh e la sua
ricerca di pace.

Notte stellata («Cipresso e paese»)


1889
New York, Museum of Modern Art
Il quadro fu realizzato da Van Gogh in una data imprecisata fra maggio e giugno del 1889.
Secondo alcuni esperti di astronomia si tratterebbe del 23 maggio, a causa della fase lunare
raffigurata nel dipinto. In una lettera a Theo, l’artista racconta: «Questa mattina dalla mia
finestra ho guardato a lungo la campagna prima del sorgere del sole, e non c’era che la stella
del mattino, che sembrava molto grande. Daubigny e Rousseau hanno già dipinto questo,
esprimendo tutta l’intimità, tutta la pace e la maestà e in più aggiungendovi un sentimento
così accorato, così personale. Non mi dispiacciono queste emozioni» (2 giugno 1889)
Charles-François Daubigny e Théodore Rousseau sono tra i maggiori paesaggisti della scuola
di Barbizon.
Nel gennaio 1890 viene pubblicato sulla
rivista Le Mercure de France il primo e unico
articolo uscito su Van Gogh ancora vivente, a
firma del giovane critico Albert Aurier, uno
dei maggiori sostenitori del Simbolismo.
Secondo Aurier anche Vincent è simbolista,
ma «un simbolista che sente la continua
necessità di rivestire le proprie idee con
forme precise, ponderabili e tangibili; con
apparenze intensamente carnali e materiali».
Aurier osserva come dalle opere di Van Gogh
emerga «la sua profonda e quasi infantile
sincerità». Ciò che rende peculiari i dipinti
dell’artista olandese è l’eccesso, «l’eccesso
della forza e della nervosità, la violenza
dell’espressione. Nella sua semplificazione
spesso temeraria delle forme, nella foga
veemente del disegno e del colore, nella sua
insolenza di guardare il sole faccia a faccia, si
Ad Aurier, che nel suo articolo aveva apprezzato i rivela una personalità potente, maschia,
cipressi che «innalzano le loro silhouette come audace; troppo spesso brutale, ma a volte
incubi di fiamme nere», Van Gogh inviò in dono ingenuamente delicata».
una tela di questo soggetto. (A. Aurier, Les isolés: Van Gogh)
In questo autoritratto del 1889 i vortici sullo
sfondo rappresentano un’agitazione e un
tormento interiori che l’artista in questo
momento non riesce a dominare. Durante
una crisi più violenta del solito, nel dicembre
1889, Vincent tenta il suicidio ingerendo i
propri colori.

La pittura per Van Gogh costituisce il


tentativo di controllare il tumulto emotivo
che lo agita, come si evince dalle sue lettere:
«La mia triste malattia mi fa lavorare con
furore sordo, molto lentamente, ma dal
mattino alla sera senza interruzione… credo
che questo contribuirà a guarirmi»; e ancora,
«Non c’è niente da fare, non ci sono rimedi.
O se ce n’è uno, è quello di lavorare con
ardore».

Autoritratto, 1889
Parigi, Museo d’Orsay
«La testa con un berretto bianco, molto bionda, molto
chiara; anche la carnagione delle mani molto bianca, un
frac blu e uno sfondo blu cobalto. Le mani sono mani
da ostetrico, più chiare del volto»
(Lettera a Theo, 4 giugno 1890)

Dimesso dalla clinica nel maggio 1890, Van Gogh


raggiunge Theo a Parigi, dove resta 3 giorni, per
poi stabilirsi a Auvers-sur-Oise, località poco
distante dalla capitale. Qui il dottor Gachet, un
medico amico di Pissarro e di Cézanne, egli stesso
pittore dilettante e collezionista, accetta di curare
Vincent con metodi "alternativi" tra cui l’utilizzo di
erbe medicamentose. Una di queste è la digitale,
che il medico mostra nel ritratto, pianta usata per
curare gli effetti deleteri dell’assenzio.
Gachet, chiamato «dottor Zafferano» per il colore
Ritratto del dottor Paul Gachet, 1890
Parigi, Museo d’Orsay
dei capelli, si interessava di malattie mentali, è
raffigurato con «l’espressione disillusa del nostro
Questa è la seconda versione di un ritratto di tempo» (Lettera a Gauguin, giugno 1890), su uno
cui la prima redazione appartiene dal 1998 sfondo astratto che crea un contrasto acceso di
ad un collezionista privato rimasto anonimo. tinte complementari con il piano del tavolo.
La chiesa di Notre-Dame a Auvers
secolo XII

Vincent Van Gogh


La chiesa di Auvers-sur-Oise, 1890
Parigi, Museo d’Orsay

La chiesa medievale di Auvers è resa con piccole pennellate a onde, tratti e puntini e chiusa
in contorni tremolanti che le conferiscono un senso di instabilità, ribadito dai sentieri che si
biforcano, in primo piano. I colori sono scelti con finalità espressive: il cielo blu cobalto, più
scuro in alto, contrasta con la luce diurna che spande l’ombra dell’edificio sul prato.
Nel luglio 1890 van Gogh confida al fratello il proprio male di vivere.
«Non mi sento per niente imbarazzato nell’esprimere tristezza, e un’estrema solitudine…
Ritornato qui mi sono sentito molto triste. Che farci? Vedete, di solito cerco di essere di buon
umore; ma anche la mia vita è attaccata a un filo, anche il mio passo vacilla. Mi sono rimesso
al lavoro: però il pennello mi cadeva quasi di mano».
In tale stato d’animo Vincent realizza un gruppo di 3 tele che rappresentano campi di grano
sotto un cielo cupo, all’approssimarsi di un temporale.

Campo di grano sotto un cielo


tempestoso, 1890
Amsterdam, Museo Van Gogh

«Sapendo bene ciò che volevo ho dipinto tre grandi quadri. Sono delle immense distese di
grano sotto cieli agitati; e non avevo bisogno di uscire dalla mia condizione per esprimere
tristezza e solitudine estrema».
Questo dipinto viene generalmente interpretato come una sorta di testamento pittorico che
traduce il tormento interiore di Van Gogh nei suoi ultimi giorni. Il 23 luglio 1890 egli scrive al
fratello parole enigmatiche e inquietanti, che lasciano sconcertato il povero Theo. «Avrei da
scriverti molte cose, ma non ne ho più voglia: ne sento l’inutilità». E ancora: l’artista prevede
che il proprio secolo «finirà con una grande rivoluzione», e che ci saranno «l’aria pura e tutta
la società rinfrescata dopo questi grandi uragani», ma per il momento non bisogna «farsi
ingannare dalla falsità della propria epoca fino al punto di non riconoscere le ore funeste,
soffocanti e depressive che precedono la bufera».

Campo di grano con volo di corvi, 1890


Amsterdam, Museo Van Gogh
«Cos’altro si può fare, pensando a tutte le cose di cui non si comprende la ragione,
se non perdere lo sguardo sui campi di grano? La loro storia è la nostra, perché noi,
che viviamo di pane, noi non siamo forse grano in larga parte?
Dobbiamo o no sottostare a crescere senza poterci muovere, come una pianta,
ignorando ciò che la nostra immaginazione a volte desidera; ed essere falciati
quando maturi?
Per quanto mi riguarda, penso che sarebbe più saggio non augurarsi più di stare
meglio, di riacquistare le forze; e probabilmente mi ci abituerò a essere spezzato.
Un po’ prima, un po’ dopo… che differenza vuoi che faccia per me?»
(Lettera alla sorella Wilhelmina, 2 luglio 1889)

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