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Van Gogh è morto a trentasette anni, sconosciuto e poverissimo, eppure è uno degli uomini cui la sensibilità moderna,
cioè noi, deve di più. E la società moderna lo ripaga facendone una specie di santo laico, buono, generoso, eroico. Invece
Vincent Van Gogh era il più egoista degli uomini, privo di ogni garbo, simpatia, umiltà e genuino amore, capace di creare negli
altri odio, impotenza e imbarazzo. Una disgrazia per chiunque avesse a che fare con lui, uomini, donne, bambini, pittori, amici,
vicini, fornitori, padroni di casa, fratelli, sorelle, genitori. Nessuno, avvicinandolo, ne trasse qualche vantaggio spirituale o
materiale, tutti rimasero offesi o impoveriti. Un essere antisociale e pericoloso, un bambino bizzoso e mai cresciuto, un inguaribile
cafone dall’aspetto repellente, dall’approccio violento e scorbutico, suscettibile, aggressivo, permaloso, vigliacco. Ma la sua
vicenda è straordinaria, la sua vita meravigliosa. È la storia di un piccolo uomo che sfidò la società, la cultura del tempo e
l’universo intero, sicuro di vincere, e vinse, anche se vincere gli costava la vita, dissipata minuto dopo minuto in privazioni d’ogni
genere, fino al sacrificio finale: “la vita è breve per tutti e il problema sta nel farne qualcosa di valore” scrive nel 1885,
e della sua vita fa un’opera d’arte, ma a metà.
Nell’inverno del 1888 arriva nella Francia meridionale un pittore proveniente da Parigi, alla ricerca della luce e dei colori
intensi del Sud. È un giovane molto serio, ha appena 35 anni, di nome Vincent Van Gogh, nato in Olanda nel 1853, figlio
di un pastore protestante. Profondamente religioso, Vincent aveva fatto il predicatore laico in Inghilterra e tra i minatori del
Belgio.
Appena smise di credere alla bontà dell’universo, anche gli uomini gli apparvero come cose, alberi e animali, e fu
allora che cominciò a dipingere, per dimostrare la brutalità dell’esistenza. Era il 1880 e Vincent non sapeva tenere in
mano una matita. Nel 1886 è riconosciuto come un pari da grandi pittori. Nel
1890 la critica comincia a lodarlo, e i più acuti hanno già capito il suo genio.
Tutto questo senza essersi mai guadagnato da vivere, sempre mantenuto
come un bambino da suo fratello, che si leva il pane di bocca per darlo a lui.
intero museo dedicato a Vincent, che in tutta la sua vita non guadagnò
neppure un centesimo per i suoi quadri.
L’arte di Millet e il messaggio sociale contenuto in essa l’avevano tanto impressionato da indurlo a diventare anche lui pittore.
Suo fratello minore, Théo, impiegato nella bottega di un mercante d’arte, lo presenta agli impressionisti. Théo era uomo di
eccezionali virtù: benché povero, fece tutto il possibile per il più anziano Vincent, pagandogli perfino il soggiorno ad Arles, nella
Francia meridionale.
Vincent sperava che, lavorando indisturbato per qualche anno, sarebbe stato in grado, un giorno, di vendere i suoi quadri e di
ripagare la generosità del fratello. Nella sua volontaria solitudine di Arles, Vincent confidava nelle lettere a Théo (quasi un diario
ininterrotto) tutte le sue idee e le sue speranze, e la corrispondenza di questo pittore umile e autodidatta, ignaro della celebrità
che lo attendeva, è fra le più commoventi e interessanti di ogni letteratura. In essa sentiamo il senso della missione dell’artista, le
sue lotte e i sui trionfi, la sua disperata solitudine e la sua sete di amicizia, e comprendiamo la tensione immensa e la febbrile
energia con cui lavorava. Dopo meno di un anno, nel dicembre 1888, Van Gogh ebbe un collasso e fu colto da una crisi di
pazzia. Nel maggio 1889 fu ricoverato in una casa di cura, ma aveva ancora intervalli di lucidità
durante i quali continuava a dipingere. L’agonia durò altri
quattordici mesi. Nel luglio del 1890 –aveva trentasette anni come
Raffaello- Van Gogh metteva fine ai suoi giorni. La sua carriera di
pittore era durata appena un decennio, i quadri su cui si fonda la
sua fama vennero tutti dipinti in tre anni di crisi e di disperazione.
reale crudezza dei quadri di Van Gogh: solo negli originali si scopre la potenza primigenia dell’arte dell’infelice pittore
olandese, e quanto acuta e ponderata fosse la sua ricerca anche negli effetti più forti.
Van Gogh aveva assimilato la lezione dell’impressionismo e del
pointillisme di Seurat. Egli amava la tecnica pittorica a tratti e puntini di
colori puri, ma nelle sue mani divenne qualcosa di assai diverso da ciò
che ne avevano voluto fare gli artisti di Parigi. Vincent usava infatti le
singole pennellate non solo per frantumare il colore ma anche per
esprimere il suo stato d’animo concitato. In una delle lettere da Arles
potesse disegnare oltre che colorare con il pennello, e stendere il colore a strati spessi
così come uno scrittore sottolinea le parole. Ecco perché fu il primo a scoprire la
bellezza delle siepi, dei campi di grano, dei rami nodosi degli ulivi e delle sagome
scure e guizzanti dei cipressi. I germogli dei mandorli come l’esplosione di una
malattia cutanea, la pelle lebbrosa degli ulivi piagati, girasoli che non riescono a
questo non è stato capito né amato, perché aveva visto qualcosa che nessuno era stato capace di mostrare fino ad allora: LA
NATURA VIVA. Che questa natura sia anche raccapricciante e cattiva è ancora troppo presto e spiacevole per essere
accettato.
Vedere troppi quadri di Van Gogh insieme fa male, ci si sente minacciati e in pericolo, si ha paura che quel mondo
catturato ti salti addosso e ti divori, ma Vincent c’è abituato, li tratta con la confidenza di un domatore che pettina il suo leone.
Van Gogh era posseduto da una tale frenesia creatrice da sentire il bisogno non
solo di dipingere lo stesso sole raggiante ma anche oggetti umili, riposanti e
domestici, che nessuno aveva giudicato degni di attirare interesse. Dipinse la sua
angusta stanza di Arles e ciò che scrive al fratello spiega perfettamente le sue
idee:
Mi è venuta una nuova idea ed ecco l’abbozzo che ne ho fatto… Questa volta si tratta
semplicemente della mia camera da letto, solo che qui il colore deve fare tutto e accentuando –e
così semplificando- lo stile degli oggetti, dovrà suggerire il riposo, o il sonno in generale. In una
parola, guardare il quadro dovrebbe riposare la mente, o meglio la fantasia.
Le pareti sono viola pallido. Il pavimento è di mattonelle rosse. Il legno del letto e delle
sedie ha il tono giallo del burro fresco, le lenzuola e i guanciali sono di un verde limone molto
chiaro. La coperta è scarlatta. La finestra verde. La toeletta arancione, la bacinella azzurra. Le Vincent's Bedroom in Arles
October 1888, Arles
porte lilla. Ecco tutto. Non c’è niente nella camera dalle imposte chiuse. Le ampie linee dei mobili devono anch’esse Oil on canvas, 72 x 90 cm
esprimere un riposo inviolabile. Ritratti alle pareti, uno specchio, un asciugamani e qualche vestito. Rijksmuseum Vincent van Gogh,
Amsterdam
La cornice, non essendoci bianco nel quadro, sarà bianca. Questo per compensarmi del forzato riposo.
Ci lavorerò ancora tutto il giorno, ma come vedi la concezione è semplice. Le ombre e i riflessi eliminati, tutto è dipinto a tratti liberi e
piatti, come le stampe giapponesi….
È chiaro che la principale preoccupazione di Van Gogh non era la rappresentazione esatta. Usava forme e colori per
esprimere ciò che sentiva nelle cose che andava a mano a mano dipingendo e ciò che voleva comunicare agli altri.
Non gli importava granché di quella che chiamava “la realtà stereoscopica”, cioè la riproduzione fotograficamente
esatta della natura. Sarebbe arrivato perfino a forzare e a mutare l’aspetto delle cose, se questo avesse potuto aiutarlo nel suo
scopo.
È l’ultimo e il più grande degli impressionisti, il primo e il più grande dei fauves, ha inventato l’espressionismo ed è sul punto di
rivelare al mondo l’astrattismo e l’informalismo. Lo scrisse, addirittura: “Se osassi lasciarmi andare rischierei ancora di più
a uscire dalla realtà, a fare con il colore come una musica di toni, ma la verità mi è così cara, e il cercare di
fare il vero anche, insomma credo di preferire ancora di essere calzolaio, che non musicista di colori” (12 febbraio
1890).
Van Gogh voleva che la pittura esprimesse ciò che egli sentiva, e se la deformazione poteva aiutarlo a raggiungere lo
scopo, avrebbe usato la deformazione. Insieme a Cézanne, era arrivato ad “abbandonare” il proposito di imitare la natura,
senza però respingere i tradizionali canoni dell’arte.
Non si atteggiarono a “rivoluzionari”, non avevano l’obiettivo di scandalizzare i critici. Avevano entrambi pressoché
rinunciato a sperare che qualcuno si interessasse ai loro quadri: lavoravano perché dovevano lavorare.
Aringhe affumicate
1889, Arles
Oil on canvas, 33 x 41 cm
Collezione privata
semplicità commovente al dottor Rey dall’aria sana e le labbra rosa che lo rimprovera di avere bevuto troppo alcol: Lo
ammetto, ma per raggiungere l’alta nota di giallo che ho toccato questa estate, ho dovuto montarmi un
poco.
Vincent diventa “pazzo” quando si accorge che esistere è un “troppo”, e lo scrive anche, con rassegnazione, poco dopo
il ricovero: “Avevo il disgusto perfino di muovermi e niente sarebbe stato più piacevole per me che il non
svegliarmi più. Ora questo orrore della vita è diminuito e la malinconia è meno acuta, ma di volontà non ne
ho ancora alcuna, neppure desiderio di tutto ciò che fa parte della vita ordinaria.”
Se si arriva a quell’emozione non si torna indietro, e infatti a Vincent restano solo quattordici mesi di vita, ed ha aspettato
anche troppo. C’è qualcosa che può rendere più scomoda l’esistenza? Avere orrore della vita significa avere schifo degli altri e
di sé, delle gioie e dei dolori, delle speranze, vuol dire sentirsi di troppo, tutto è troppo, ogni gesto, perfino creare diventa di
troppo. È quanto basta per “impazzire”. Nel maggio del 1890 scrive: “Mi sento rovinato dalla noia e dal dolore”. Tutti noi
siamo migliori grazie a lui, nei secoli, ma lui si è bruciato, consumato come una candela, e allora non resta che morire.
A maggio del 1890 torna a Parigi, trova una famiglia felice, per la quale rappresenta un pericolo. Theo lo porta a casa per
mostrargli la giovane moglie e il bambino che ha voluto chiamare Vincent. A Parigi sta tre giorni, e per tre giorni zampetta tra i
suoi quadri, le notti stellate accanto ai girasoli, gli iris accanto ai campi di grano. Sotto i letti sono ammucchiate centinaia di altre
tele non ancora tese né incorniciate, Vincent le stende a terra, mette in fila gli autoritratti, si lascia guardare da tutti quei suoi
occhi. A Parigi in quattro o cinque mesi –estate autunno 1887- si era dipinto almeno venti volte, e sono venti persone che in
comune hanno solo il pelo rosso e un’esplosione di pennellate che partono dal centro degli occhi e schizzano a raggiera.
Eccolo buon pittore borghese che cerca clienti, con la pipa in bocca e lo sguardo attento.
Eccolo invidioso e crudele, con gli occhi di un altro mondo.
Self-‐portrait,
1886
Self-‐portrait,
1887
Ora si prende in giro, con la pipetta in bocca, il cappello di paglia e la mantellina da
pittore della domenica, con l’espressione di chi non potrà mai capire niente.
pronta a sgozzare con un morso alla gola; gli occhi sono duri
sotto un osso sopracciliare sporgente, il naso piccolo, i capelli
corti. Self-‐portrait,
1887
Il 27 luglio è domenica. Si sveglia alle cinque come al solito, ma non va nei campi a
dipingere. Sta su una sedia, fuma la pipa, mangia olive verdi, come al solito, e nessuno saprà
mai cosa pensa. A un certo punto va al tavolino, inizia una lettera a Theo, che comincia come
decine di altre: “Mio caro fratello, grazie della tua cara lettera e del biglietto da
Giordano Bruno Guerri La mezza vita di Vincent Van Gogh (Milano 1990)
Le considerazioni su “ARINGHE AFFUMICATE” sono tratte dall’articolo apparso sulla rubrica IL MUSEO DEL MONDO