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L’OPERA INTERMINABILE

Il racconto descrive opere d'arte progettate e realizzate nel XXI secolo.

Lo stesso Paul Valery afferma che i musei spesso evocano in noi l'immagine di oggetti con i quali non ab-
biamo più un rapporto vivo e diretto, bensì essi alludono semplicemente a contesti statici. Nei musei le
sculture e i quadri sono trasformati in geroglifici della storia, proprio perché nel processo espositivo le
opere rinunciano al proprio carattere energetico.

Anche le avanguardie primo novecentesche hanno bersagliato con feroci attacchi l'istituzione museale.

Il museo viene definito come un prodotto della scolarizzazione, la cui vicenda coincide con la modernità.
Tuttavia il museo esiste da poco più di 200 anni e in questo arco di tempo ha più volte mutato aspetto e
fisionomia, come di certo lo farà anche in futuro.

Dunque si parlerà di un viaggio in un museo diverso, antimuseale. Un museo senza mura, destinato ad
accogliere costruzioni coraggiose, mobili, spesso irripetibili. Rivelando una sorta di insofferenza nei con-
fronti di certe liturgie proprie del mercato e del collezionismo, che tendono a trasformare le stesse istitu-
zioni museali da luoghi di conservazione in teatri di esperienze.

In ogni stanza, osserveremo opere e installazioni diverse che condividono corrispondenze e necessità
poetiche.

primo capitolo
UN PASSAGGIO NECESSARIO
Un prologo chesegna il passaggio tra XX e XXI secolo. Vedremo una installazione apocalittica realizzata da
Kiefer.

1. ANSELM KIEFER
Per comprendere a fondo l’opera “i sette palazzi celesti” dobbiamo guardare ad alcune sue opere prece-
denti come l’ Elektra e le torri di Barjac.

- Elektra, 2003-2004, Teatro San Carlo, Napoli —> è un’opera teatrale rappresentata da Richard Strauss,
in cui tutta la scenografia e i vestiti sono stati realizzati dallo stesso Kiefer.

Egli utilizza una stratificazione di container, quasi alludendo a una cattedrale di cemento, volti ad alludere
a una sensazione di angoscia, come una architettura metafisica. Su questa cornice oscura si sono mosse
le dee della colpa e della vendetta: Elektra e Klytämnestra, i cui abiti di gesso sono penasti dall’artista con
un colore cementizio rifacendosi a una idea di materia neutra.

Lo stesso concetto si riscontra anche nell’opera delle dame scolpite nel ciclo del 1999:

- Die Frauen Der Antike—> statue di divinità arcaiche prive di testa, sontuosamente vestite e poi immerse
nel gesso. In aggiunta le figure vengono avvolte da rami secchi e da grovigli di filo spinato, come se
fossero delle icone di una archeologia interiore.

Questa complessa costruzione teatrale è stata elaborata a Brajac, nel sud della Francia, in una ex manifat-
tura di seta che Kiefer ha trasformato in un laboratorio, incentrato sull’elaborazione di ricerche che punta-
no a creare nuove scoperte sull’inizio, sull’origine. Egli ha mutato questo posto in una sorta di museo per-
sonale, volto alla realizzazione di tutte le sue opere come l’anfiteatro di cemento, un modello delle scene
dell’Elekrtra.

- torri di Brajac —> posizionate nell’anfiteatro di un largo piazzale con cumuli di lastre in piombo. Sono
presenti dei container posti gli uni sopra gli altri per oltre venti metri, sormontati da giganteschi libri di
piombo: un materiale che la tradizione umanistica associa alla malinconia.

É evidente un richiamo alle torri di Babele, ma in questo caso colte un attimo prima del crollo.

- I sette palazzi celesti, 2004-2015, Hanger Bicocca di Milano —> un teatro triste, un luogo in bianco e
nero con torri pericolanti in cemento armato.
Il titolo dell'istallazione è ispirato ai palazzi descritti nell'antico testamento ebraico Sefer Kekhalot, dove si
racconta il cammino di iniziazione spirituale di colui che vuole spingersi fino a Dio.

1. Prima torre è la più bassa, 14 metri. Si intitola Sefiroth ed è sormontata da una pila di sette libri di
piombo con neon recanti 10 nomi ebraici delle Sefiroth, che nella Cabala rappresentano le espressioni, gli
strumenti e le virtù di Dio.

2. La seconda torre prende il nome di Malancholia Malancholia. È sormontata sulla cima da un poliedro
ripreso dall'omonima iscrizione realizzata nel 1514 da Dürer, una rappresentazione allegorica della figura
contemplativa e meditativa dell'artista. Ai piedi della torre troviamo le stelle cadenti con piccole lastre di
vetro e strisce di carta contrassegnate da serie numeriche, corrispondenti alla classificazione dei corpi ce-
lesti della NASA.

3. La terza torre, situata accanto alla seconda, si chiama Ararat. Sulla sommità ospita un modellino in
piombo che allude all'immagine dell'arca di Noè, simbolo di pace di salvezza ma anche di guerre e di di-
struzioni.

4. La quarta torre è intitolata: linee di campo magnetico. Si tratta della torre più imponente, 18 metri, inte-
ramente percorsa da una pellicola di piombo, un materiale che non permette la riproduzione di alcuna im-
magine. Ciò è un modo per alludere al tentativo da parte dei nazisti di cancellare la cultura ebraica e le mi-
noranze etniche. Inoltre rimanda all'impeto iconoclasta, tipico della cultura occidentale e suggerisce un'i-
dea cara all'artista basata sul fatto che ogni opera d'arte cancelli la precedente.

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5 e 6. JH e WH, sono due torri complementari. Alla base sono disseminate di meteoriti in piombo fuso
dalla forma irregolare e numerati. Sono nuovamente evidenti alcune suggestioni provenienti dai testi della
Cabala, dove si narra dei cocci di vasi utilizzati da Dio per infonde la vita e la generazione dei popoli della
terra, determinando la diaspora giudaica. Esse sono accostate da lettere scritte a neon che compongono,
secondo le regole ebraiche, la parola Jahweh.

7. Alla fine troviamo la settima torre: la torre dei quadri cadenti. Intorno ci sono cornici in ferro contenenti
lastre di vetro, a volte infrante e dalla forma irregolare, prive di icone. L’artista affronta in questa maniera il
tema dell’immagine mancante.

Nel 2015 l'installazione è stata arricchita da cinque grandi tele, in quanto come dice l'autore stesso “le sue
opere non sono mai ultimate”. Nelle navate ritroviamo cinque quadri caratterizzati da toni grigi e bruni,
percorsi da una dolorosa e struggente malinconia, che vanno quasi a simulare una quinta teatrale a difesa
delle torri.

1. Jaipur: rappresenta uno scenario notturno indiano dominato da una piramide capovolta, sotto una co-
stellazione numerata secondo il sistema della NASA. Simboleggia il vano tentativo dell’avvicinamento al
divino da parte dell’uomo.

2. Cette obscure clarté qui tombe des étoiles: con una pianura desertica cosparsa di semi di girasole. Il
dipinto sembra un negativo, visto l’uso nero su bianco.

3 e 4. Dittico Alchemie: ci presenta una distesa di terra arida mossa dalla pioggia. Lo scenario è diviso in
due capitoli collegati da una bilancia contenente da una parte il sale e dall’altra semi di girasole, alludendo
alla contrapposizione di sterilità e fertilità.

5. Die deutsche Heilslinie: è una riflessione sulla storia della salvezza tedesca dall’illuminismo al marxi-
smo. Presenta la traiettoria di un arcobaleno, voluto a simboleggiare il ponte tra terra e cielo, nel quale
sono iscritti i nomi di filosofi germanici che hanno sostenuto una concezione leaderistica della politica. vi è
inoltre rappresentati un uomo di spalle, che evoca i soggetti romantici di Friedrich.

Per leggere e interpretare i sette palazzi celesti, potremmo rifarci alle parole del poeta Paul Celan, una fon-
te di ispirazione per Kiefer. Paul Celan durante il conferimento del premio Büchner nel 1960 emana la pro-
pria idea di poesia, definendola come una strada per lambire una parola strappata al silenzio. Una tensio-
ne verso l’altro e infine MERIDIANO.
Con il termine meridiano egli intende una linea di raccordo tra due mondi incompatibili che vengono as-
semblati in un’unità possibile. Kiefer a tal proposito progetta le sue opere come spazi di dialogo con l’al-
trove, proprio come dei meridiani posti in mondi non contigui, ma capaci di mettere in relazione e al tempo
stesso in contrasto elementi diversi.

• Il meridiano 1 si staglia sul tema della politica e del mito, in quanto soffermandosi sull’opera dei sette
palazzi celesti si può cogliere, oltre alla poetica di Kiefer, il suo tentativo di affrontare temi storici.

Lo stesso autore afferma di non credere nell’art pour l’art e di necessitare di uno shock emotivo scatenato
da diversi elementi, come una poesia, un’ esperienza privata o addirittura un fatto di cronaca, per realiz-
zare qualcosa. È il caso dell’opera analizzata, che riscrive la catastrofe dell’11 settembre 2001, uno dei
fatti più decisivi della storia contemporanea.

Egli rimane impressionato da questo avvenimento e sostiene che l'esperienza artistica debba nascere da
un'urgenza testimoniale, senza cadere nell’ideologismo ma pronunciando semplicemente le inquietudini
della storia. Al tempo stesso l’autore deve avere il coraggio di evocare vicende cosi drammatiche.

È chiaro che nascendo subito dopo la seconda guerra mondiale, egli abbia sempre portato avanti temi
dolorosi come quelli del nazismo, proprio perché sente l’esigenza di confrontarsi con avvenimenti contro-
versi del passato e del presente, testimoniandoli poi in opere con spiccato impatto emotivo.

Continuando l’artista non deve mai essere integrato con il suo tempo, cosi da potersi porre in maniera
problematica di fronte al presente. Ciò secondo Kiefer può avvenire solo affidandosi al filtro della memoria,
intesa come:

- facoltà epica per eccellenza.

- Tramite per la comprensione del corso delle cose.

- Conciliatrice tra l’uomo e il dissolversi della materia.

Tramite la memoria Kiefer riattraversa i sentieri labirintici della storia, che per lui è idolo e incubo.

L’arte di certo, come afferma l’autore, si illude di poter arrestare l’irreversibilità del tempo sospendendolo
in un’altra dimensione. Tuttavia il ricordo è lo strumento che permette di andare contro ad alcuni riti della
cultura di massa, che ormai costellata dalle tecnologie informatiche (con metodi di archiviazione e condi-
visione), rende debole e precaria la condizione umana di conservare le tracce.

In questo caso siamo lontani dalle strategie che utilizzano gli artisti di oggi, abili nel produrre immagini
mediaticamente efficaci. La sfida per l'artista consiste nel reagire alla damnatio memoria perseguita dai
discepoli delle avanguardie e avviare un viaggio a ritroso.

Questo viaggio conduce Kiefer a interrogarsi sulle origini delle civiltà partendo dai miti, definiti come oscu-
re chiarezze. Espressioni del rinnovamento periodico, ciclico e spiraliforme del mondo.

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Diversamente dalla scienza, la mitologia ci trasmette una visione del reale onnicomprensiva, per questa
ragione Kiefer afferma che ama descrivere la propria poetica come un tentativo per creare epos. Un’epica
che come è espressa nei sette palazzi celesti attinge a figure e leggende lontane, senza distruggerle.

Kiefer nell’opera prende spunto da testi con un linguaggio metaforico e iperbolico, come:

A. l’Hekhalot Rabbati (il grande trattato dei palazzi), dove si narrano le peripezie del mistico e non sono
altro che le tappe di un percorso verso la conoscenza autentica.

B. Oppure il Messekhet Hekhalot (il trattato dei palazzi) con la descrizione delle magnifiche architetture
del cielo, quasi una prefigurazione dei sette palazzi celesti.

Inoltre per comprendere l’installazione di Kiefer, risultano decisivi alcuni testi ebraici che trattano il tema
della creazione di Dio e le dieci Sefirot.

Tuttavia probabilmente l’autore ha maggiormente utilizzato libri come la Genesi e la bibbia per leggere il
nostro presente e le dinamiche del mondo occidentale, precisando che la Bibbia è una parte dell’universo
del mito e solo unendo tutte le culture si può ottenere un alfabeto completo.

Kiefer con i suoi quadri e le sue sculture, mira a elaborare un classicismo ulteriore, anticlassico, privo di
ogni nostalgia. Tra i libri della bibbia più amati dall’autore troviamo l’Apocalisse di Giovanni Evangelista,
che trasmette la maestosità del dolore, offrendo una chiave per leggere il mondo nelle sue infinite oscilla-
zioni.

Basandosi su questa metafisica nei sette palazzi celesti egli cede al pathos del negativo, per modellare
una apocalisse appena avvenuta. Proprio perché egli plasma, tramite l’opera, l’idea che il mondo sia una
continua tragedia e l’arte ha il compito mostrarla. Secondo il pensiero di Kiefer l’apocalisse non è un pun-
to di arrivo, n’è una escatologia, anzi ogni fine è anche un inizio.

• Il meridiano 2 affronta il tema della letteratura e della trasfigurazione.

L'artista prendendo spunto da diversi libri si trova a convivere con altre risonanze: la filosofia, la lirica mo-
derna, la letteratura del XX secolo. Kiefer rifiuta l'abitudine del senza titolo, infatti in molti casi adotta tito-
lazioni narrative o evocative. Inoltre va specificato che non cancella mai del tutto il soggetto dalle sue rap-
presentazioni. Le scritture kieferiane ci permettono di cogliere chiavi di lettura inattese, ma allo stesso
tempo decisive per entrare nel cuore di complesse iconografie. Sicuramente l’interesse di Kiefer per la
scrittura-pittura si mescola con la passione per i libri, tanto è vero che in uno dei sette palazzi celesti: Sefi-
roth, realizza una pila di libri di piombo.

L’autore nell’opera decide di ricollegarsi a una precisa tradizione primonovecentesca, a cui anche Boccio-
ni e Kandinsskij si rifanno. Essi hanno accompagnato la propria disciplina con meditazioni estetiche come
esercizi teorici e enunciazione delle procedure. L’arte non deve presentare temi immediatamente ricono-
scibili, bensì deve offrirsi come una realtà seconda. Per questa ragione Kiefer mostra sempre l’urgenza di
contrastare certe suggestioni rendendole enigmatiche.

• Il meridiano 3: tra monumentale e anti-monumentale.

Questa riflessione può essere basta sull’utilizzo di Kiefer, di uno tra i più classici motivi archetipici della
storia dell’arte e dell’architettura: la torre. La torre suscita un senso di epigramma.

In questo caso le torri sembrano stagliarsi verso la volta del cielo tentando di dominarla, evocando nello
spettatore un senso di solennità perturbante. Tuttavia queste torri sono anti-monumenti, non che colossi
prossimi a sfaldarsi e mentre annunciano la bellezza del fare in grande ne svelano la fragilità. Ogni palazzo
è come un tempio ai cui piedi si ritrovano i detriti di una catastrofe, più precisamente un tempio della me-
moria dove si mescolano e sopravvivono ricordi personali a eventi epocali. Kiefer afferma che i sette pa-
lazzi celesti non sono un monumento eretto per l’eternalità perché le torri non rappresentano un epilogo,
anzi le varie parti da cui sono composte possono essere smontate e poi ricomposte in nuovi assemblaggi,
quasi come un gioco per bambini.

Con le torri milanesi suggerisce un transito drammatico tra forma e informe, quasi mimando l’azione del
tempo che tende a sfregiare le immagini. Kiefer con questa installazione è come se volesse fermare una
distruzione che sta per compiersi e il suo fine ultimo è quello di rimanere costantemente in un flusso che
gli permetta di procedere per dissoluzioni e assemblaggi. La stessa filosofia si rispecchia anche nei cinque
quadri che precedono le torri, i quali sembrano simulare sempre una trasformazione incessante.

In sintonia con le teorie romantiche, l’autore allestisce e costruisce scenari che da lontano appaiono com-
patti e omogenei, mentre avvicinandosi si percepisce con chiarezza la fattezza e la materia, alludendo
quasi a una trascrizione fantastica del divenire planetario. Però nulla è riconoscibile con chiarezza, spe-
cialmente nel cielo dei quadri, perché egli vuole mettere in relazione la realtà con l’astrazione.

Egli mette in questione i canoni fondamentali della monumentalità, perché modula forme che esibiscono
un antistrutturalismo atto a riflettere su di sé la propria impotenza.

- Come possiamo notare un grande modello di ispirazione per Kiefer è Rodin.

- Kiefer distrugge le regole tradizionali del linguaggio, celebrando l’assurdo co-finire delle cose e in ciò
sembra essere l’ultimo erede di Eduard Fuchs. Sulle orme di Fuchs, con i sette palazzi celesti sembra im-
maginare la fine del nostro mondo provando a salvare solo alcuni elementi.

• Meridiano 4: tra profanazione e alchimia.


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L’opera appare sempre in un continuo divenire. Kiefer definisce spaesaggi i luoghi segnati da dissonanze
e da disappartenenze.

Un profanatore e un alchimista, un abile lavoratore della materia. Egli pesa il suo fare come poiesis alche-
mica ovvero un modo per rappresentare e subito dopo, separare, trasformare, dissolvere. Aspira a spri-
gionare il dinamismo che è racchiuso nel cuore del mondo.

• Meridiano 5: tra rovine e simboli.


Due ombre si allungano sull’opera del profanatore-alchimista: quella dell’angelo Benjaminiano e quella
dell’angelo della melencolia Düreriano.

- É risultato decisivo l’incontro con uno degli scritti di Benjamin, dove si parla di un quadro di Paul Klee.
Nel dipinto troviamo un angelo che cerca di protrarsi lontano da qualcosa verso cui rivolge ancora lo
sguardo. La scena può essere letta come un protrarsi verso al passato, mentre una forte tempesta si
impiglia nelle ali dell’angelo spingendolo nel futuro.
- Altrettanto importante è il quadro con la Melencolia di Dürer. Il quadro è collocato all’interno di un luogo
freddo, non lontano dal mare in cui la luna viene sormontata da un arcobaleno lunare. In primo piano
una figura con la testa china che regge un compasso, mentre dietro ritroviamo la Melencolia: un putto
imbronciato appoggiato a una macina fuori uso che scarabocchia una tegola.
I sette palazzi celesti di certo sembrano evocare quella tempesta narrata da Benjamin e non a caso ci vie-
ne presentata l’opera come un paesaggio di rovine che alludono alla fine del mondo. Le rovine trasmetto-
no a loro volta l’incombere di un tempo incontaminato e puro. In aggiunta consentono di entrare in ciò che
abbiamo perduto e di intravedere quel che saremo. Gli edifici pericolanti possono essere considerati come
delle cattedrali laiche spoglie e di memorie clandestine, in cui l’autore non media mai e nemmeno attutisce
le contraddizioni. Qui si vede l’affinità con l’angelo Düreriano, perché Kiefer non si limita a contemplare e
accumulare i detriti.

Per cogliere le ragioni semantico-simboliche sottese ai sette palazzi celesti, possiamo utilizzare come
chiavi di lettura alcune suo lezioni al College de France. Egli rivela che muove una profonda insofferenza
nei confronti delle teorie estetiche, in quanto non esiste una vera e propria definizione di arte e per Kiefer
l’artista rimane una figura ambigua. La stessa opera d’arte nel momento della realizzazione transita attra-
verso alcuni passaggi decisivi: superata la fase iniziale, subentrano il caso e la selezione, infine le variazio-
ni.

Tuttavia all’interno dei suoi labirintici palinsesti, Kiefer fa convivere anche altre dimensioni lontane come il
visibile e l’invisibile. L’antitesi più radicale che egli compie nell’opera è tra iconofilia e iconoclastia, perché
fare arte significa agire, mettere in scena un processo e inoltre significa lottare contro il portare in immagi-
ne e cancellare ogni riferimento subito riconoscibile.

Infine Kiefer pensa ogni suo lavoro come a una occasione per sfidare il senso ultimo e le possibilità estre-
me del dipingere.

QUASI-CINEMA—> il nome di Celan ci porta nuovamente alla figura del meridiano, all’interno del quale ritro-
viamo linguaggi diversi proprio come accade nei sette palazzi celesti.

All’interno dell’opera pittura e scultura si confondono in uno spazio ulteriore, come letteratura, filosofia e
archeologia.

Ad esempio la torre più imponente, che prende il nome di linee di campo magnetico, è protetta da una
pellicola di piombo che la percorre interamente. Essa sembra anticipare altre opere successive:

- Bavel Balal Mabul, 2012 —> una vecchia macchina tipografica da cui fuoriescono pellicole di piombo
quasi impazzite.

Kiefer ci rivela che uno dei suoi grandi sogni è distruggere una torre filmandola nel momento del crollo, ciò
ci fa pensare che in realtà i sette palazzi celesti siano un implicito esercizio cinematografico. Quello che
con Majakovskij prende il nome di <<cinecontagio>>. Si evince perciò che Kiefer richiama il cinema come
una presenza nascosta.

Egli con questa struttura sembra farci riflettere sul senso del definirsi contemporanei sulla necessità di non
adeguarsi alle pressioni delle mode. Essere davvero contemporanei significa sputare quel che si nasconde
dietro le evidenze. Distruggere i meccanismo dell’attualità, per mettere in relazione questo tempo con altri
tempi.

Secondo capitolo
RISCRITTURE INFINITE

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Prendendo a esempio l’autore citato precedentemente, altri soggetti hanno fatto proprio questo linguag-
gio, come: William Kentridge, Mimmo Paladino e Nanni Balestrini.

Essi si muovono da fonti letterarie chiare trattandole con forza aggressiva.

2. WILLIAM KENTRIDGE
- Omaggio a Dante, 2006 —> Questa opera ci permette di leggere con maggiore chiarezza i momenti su
cui si fonda la ricerca dell’artista sudafricano.

Quasi per scherzo Trione manda a Kentridge un poster, su cui è riprodotta la Commedia. Dopo alcuni mesi
l’artista risponde alla provocazione con una reinterpretazione di quel manifesto, ma concentrandosi sul
Purgatorio. Egli apporta delle modifiche rispetto alla classica interpretazione della commedia, perché spo-
sta nel Purgatorio la scena dell’infero con protagonista Caronte.

Partendo dall’omaggio a dante, si può decifrare il più ambizioso progetto di Kentridge: il naso.

Si tratta di un opera scritta da Gogol, è una narrazione dell’assurdo con giochi di condensazioni e ribalta-
menti semantici. Letteralmente il grottesco si tinge di surrealtà.

Lo sfondo è la città di Pietroburgo e il protagonista è il naso dell’assessore di Collegio del Caucaso (Platon
Kuzmic Kovalev). Un giorno l’uomo si sveglia senza il senso olfattivo proprio perché il suo naso se ne va a
zonzo per la città con l’uniforme e dotato di parola. Sembra assurdo, ma dopo tante peripezie il naso rie-
sce a tornare sul volto di Kovalev.

Kentridge rimane colpito dal naso e sente la necessità di trasformarlo in arte, ma è costretto a rimandare il
progetto perché prima deve mettere in scena il flauto magico di Mozart.

- Il flauto magico di Mozart —> è un’opera di forte impatto scenografico, con protagonisti che si muovo-
no su un palco tramutato in una maestosa camera oscura. Una metafora del contrasto tra luce e tene-
bre.

In diversi momenti Kentridge si è misurato con il teatro e lui stesso lo considera come un luogo da fre-
quentare. A tal proposito Gelb, direttore del Metropolitan Opera di New York, rimane colpito dal flauto ma-
gico tanto che gli commissiona uno spettacolo.

Nello stesso momento Kentridge rimane affascinato dal riadattamento lirico de il naso curato da Sostako-
vic nel 1930 a San Pietroburgo—> Qui ritroviamo uno slancio avanguardistico e intenzioni politiche. Sono
evidenti le strategie narrative della cultura sovietica nascente.

Le scene sono astratte e cubiste, mentre la regia si ispira alle comiche del cinema muto. L’intera struttura
si caratterizza dalla presenza di diversi moti, dati dai movimenti delle scale e strumenti inconsueti che
danno vita a una musica non lirica. Il tutto è accompagnato da balli grotteschi. Con questo gioco di disso-
nanze intende dimostrare le precise intenzioni militanti della Russia, un paese in cui la situazione politica e
sociale non è cambiata ma peggiorata. Ciò rende la parodia ancora più corrosiva e deformante. Non a
caso l’opera di Sostakovic viene sospesa per la censura voluta da Stalin e ritornerà in teatro solo nel 1974.

Ovviamente Kentridge rimane affascinato dal coraggio dell’autore e in particolare per la dimensione civile
che si staglia dietro la riscrittura teatrale de il naso, che mostra senza veli la situazione russa nei primi 30
anni del 900.

Tuttavia possiamo identificare diverse fasi nel processo dell’opera il naso:

- Nel 2005-10 Kentridge si interroga sul racconto di Gogol nello studio di Johannesburg. È un logo dove
tutto è possibile e soprattutto approfondisce nuove tecniche, in particolare egli si sofferma sulle atmo-
sfere proponendo riscritture in cui il naso è un soggetto mutevole.

- Nel 2006 inizia la creazione di protoanimazioni accompagnate da brevi commenti dello stesso artista.
Queste stampe raffigurano la vita quotidiana e le avventure del naso. Possiamo assistere anche a in-
contri del soggetto con celebri figure femminili della storia dell’arte, per esempio la bevitrice di assenzio
di Degas. Il tutto è accompagnato da momenti più spiritosi in cui il naso, colto da mille peripezie, viene
ridotto in una pioggia di coriandoli.

- Nel 2007 Kentridge pubblica il libro “Everyone Their Own Projector”, dove le pagine sono composte da
collage di altri libri sovrapposti a disegni rapidi. Tra le figure più ricorrenti c’è quella di Stalin e varie pose
di nasi.

- Sempre nel 2007 egli studia e approfondisce la tecnica della litografia in una serie di lavori realizzati in
collaborazione con Mark Attwood. In queste opere convivono in modo armonioso le scene di Sostako-
vic e ritratti delle persone sovietiche più influenti. È fortemente marcato l’astio di Lenin e Stalin nei con-
fronti del naso.

- Ancora nel 2007 arricchisce i suoi studi sul naso nella scultura, con l’intento di solidificare le ombre dif-
fuse nelle animazioni che aveva creato precedentemente. I modelli però sono riconoscibili solo se os-
servati da un punto di vista preciso, perché vengono ritratti con visioni distorte della realtà.

- Nel 2008 alla biennale di Sydney, presenta: “I Am Not Me, The Horse Is Not Mine “. Si tratta dei una
messa in scena insolita, una video-installazione in otto schermi. L’opera svela la genesi di The Nose.

Gli otto video sono brevi saggi visivi, che restituiscono una visione commemorativa della rivoluzione d’ot-
tobre e del suo fallimento. È una sorta di elogia per ricordare il linguaggio artistico distrutto proprio negli
anni trenta. Questi video definiscono uno sguardo uniforme a 360 gradi, che hanno come protagonista il
naso e sullo sfondo una Russia tra terrore e rivoluzione.

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- Nel 2009, non che ultima tappa, nella mostra Strade della città nel museo di Capodimonte a Napoli,
vengono esposti per la prima volta gli arazzi, di cui lo stesso autore partecipa alle fasi di lavorazione. Il
risultato sono molti tessuti che riprendono le processioni di silhouettes tratte dai video di Kentridge.
L’artista ci propone una epopea equestre antiebraica, come una crociata in cui i protagonisti sono sem-
pre il naso e il suo cavallo. Si vedono chiaramente gli omaggi al Don Chisciotte.

Con questi esperimenti egli riflette sul problema del doppio, tentando un audace gioco ottico tra piani, li-
velli e temporalità. A tal proposito Kentridge prende spunto da un capolavoro della storia del cinema: L’-
homme-orchestre. Dove si vede Mèliès, il protagonista, su un palco teatrale mentre si doppia per sette
volte e cosi facendo propone sette diversi Mèliès che dialogano tra di loro, tenendo in mano ogni volta
uno strumento musicale differente.

Questi diversi passaggi possono essere visti come esercizi di stile eseguiti con tecniche diverse.

- The Nose, 5 marzo 2010, Metropolitan—> ad accompagnare l’opera teatrale, nello spazio del Metro-
politan e di tutta la città vengono allestite diverse mostre.
La scena è costruttivista e sullo sfondo è proiettato un film, caratterizzato dal montaggio di materiali d’ar-
chivio. È letteralmente una sovrapposizione tra piani e immagini.

Analogamente a Sostakovic la narrazione si incentra sul tema della Russia appena uscita dalla rivoluzione
di ottobre, in cui molti artisti sono ancora animati dal sogno di una rinascita romantica. Kentridge evoca le
atmosfere del costruttivismo, del suprematismo e del cubofuturismo.

Vi è da specificare che l’autore rifiuta il montaggio invisibile del cinema all’interno dell’opera, preferendo
sistemi manuali e rudimentali nel cambio delle scene. Tra le innumerevoli soluzioni sceniche sperimentate,
un ruolo importante è conferito alla luce, che per esempio si accende nella parte delimitata in cui è immer-
so il personaggio colto durante la recitazione. Sono inoltre di fondamentale importanza i video, che assol-
vono diverse funzioni e si manifestano come strumenti per aprire ulteriori dimensioni narrative. L’effetto
finale è quello di un moderno quotidiano on-line, in cui le dissolvenze dei video vengono accentuate dalla
musica d’orchestra.

La scenografia di the Nose si sviluppa su tutta l’altezza del Metropolitan, è il cosiddetto trionfo dell’htor-
rorvacui. Il fondale è quasi interamente ricoperto da ritagli di giornali Russi degli anni trenta e da grandi
scritte. Come suggerisce questo impianto the Nose è innanzitutto un maestoso collage la cui ispirazione,
come detto precedentemente, si basa sulle poetiche del costruttivismo russo e la volontà di andare oltre
alle tradizioni. In altre parole il bisogno di aprirsi a un confronto continuo tra cinema e teatro.

ANTI-ENTROPIA—>The Nose non è un semplice spettacolo, ma un Gesamtkunstwerk(opera totale) che


guarda a diversi linguaggi. Esso è fondato sul ricorso al collage, a cui Kentridge dedica molta importanza
nelle Norton Lectures di Harvard. Si tratta di un ricettario, come una dimostrazione pratica di quello che
accade nello studio, da esporre in aula. Egli si propone cosi facendo di rilanciare una tecnica diffusa nella
prima metà del novecento, quando molti artisti decidevano di accompagnare le proprie opere con una ri-
flessione teorica. Oggigiorno contrariamente dal passato gli artisti sono più interessati ad adottare strate-
gie di marketing funzionanti assecondando il mercato.

Tra le tante accezioni ritroviamo Kiefer e Kentridge con l’arte sopravviverà alle sue rovine e Sei lezioni di
disegno. Proprio in quest’ultima sottolinea l’importanza del collage, in cui bisogna calibrare le frammenta-
zioni. L’anti-entropia è prendere un vaso, colpirlo e ridurlo in mille pezzi, per poi metter in un recipiente tut-
ti i cocci. Kentridge evoca in questo modo la tecnica del collage. Il quale contribuisce a definire un siste-
ma di rapporti in trasformazione.

Il collage è regolato da due gesti indispensabili: la scomposizione e la ricomposizione.

- Inizialmente ritroviamo la deflagrazione, con l’artista che decostruisce la linearità dei modi rappresenta-
tivi.

- In seguito la selezione e il raccordo, in cui il soggetto riassembla temporalità e spazialità in modo diver-
so. Si preoccupa di far confluire simultaneamente dati separati, ma sempre soggetti al cambiamento.

Infine il collage è visto come uno strumento per disarticolare il reale per poi riarticolato, il collage è espe-
rienza costruttiva e non riproduttiva. Il collage è processuale e non statico. Esso deve essere visto come
una somma di parti, ma come una sequenza di rappresentazioni.

Sull’onda della tradizione avanguardista inaugurata da Braque e Picasso, Kentridge nelle sue opere utiliz-
za con audacia compositiva elementi diversificati che reintegra, fino a mettere in discussione le abitudini e
il senso comune.

In The Nose Kentridge parte da molteplici fonti per elaborare un progetto in cui supera ogni separazione
tra linguaggi. Egli per un verso mira a reinventare i media che utilizza, attenendosi alle regole proprie dei
supporti adottati e estraendo da essi un insieme di altri principi/possibilità.

Per un altro verso l'autore istituisce corrispondenze tra disegno, pittura, scultura, cinema e fumetto. Come
da lui sostenuto, mira a unire strumenti artistici lontani e la sfida è quella di riuscire a condurre all’interno
di un’unica cornice pratiche/generi diversi tra loro.

All’interno di The Nose riscontriamo infatti tecniche che invitano a inglobare altre tecniche. Potremmo dire
che riprende l'intuizione di Ejzenstein, in quanto si compie non una sintesi, ma l’amicizia tra le arti.

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A tal proposito l’opera d’arte viene concepita in chiave non statica ma dinamica, come un sistema instabi-
le capace di crescere e mutare. Kentridge crede che fare arte significhi sfidare i modi propri dei processi
del divenire. In sintonia con Ejzenstein, l’autore nell’opera teatrale mette in scena un assemblaggio nel
quale viene negata ogni armonia. La stessa armonia che, durante la sua carriera, viene spesso criticata
perché priva di un rigore linguistico.

FONTI LETTERARIE—> The Nose è mosso da un motivo letterario cioè il Naso di Gogol. Non è una scelta in-
solita perché già in precedenti occasioni teatrali Kentridge si era confrontato con alcuni classici: il Faust di
Goethe, la coscienza di Zeno di Svevo e tanti altri.

In The Nose però Kentridge non si limita a recuperare le visioni del racconto di Gogol, ma si collega a una
tradizione di cui quel racconto è un passaggio decisivo.

- rimane influenzato soprattutto dalla vicenda del Tristram Shandy di Sterne, dove si parla di un uomo dal
misterioso naso. I cittadini di Strasburgo vedendo l’individuo si dividono in due fazioni: i nasiani e anti-
nasiani. I primi credono nella naturalezza dell’organo gigantesco, mentre i secondi sono convinti che si
tratti di un’impostura. Da questo racconto Kentridge recupera anche il gusto per le variazioni e le digres-
sioni.

- Analoghi trucchi si trovano anche nel Don Chisciotte di Cervantes. Svela la sua volontà di assegnare una
nuova centralità alla narrazione visiva. Egli elabora un canto moderno che ha la potenza dei romanzi e
delle saghe.

Tuttavia i modi propri della letteratura vengono ripresi e al tempo stesso violentati per poi essere dimenti-
cati. Kentridge tende a rielaborare archivi con riferimenti romanzeschi rendendoli irriconoscibili, de-iconiz-
za quello che potrebbe apparire retorico.

Egli stesso afferma che nel suo lavoro vuole sempre tutelare la struttura narrativa, ma la storia non essen-
do data in partenza si fa strada all’interno del contesto.

IL TEATRO—> Queste fonti letterarie risuonano con forza nel teatro. Kentridge concepisce il teatro in manie-
ra radicale, proprio come avevano fatto alcuni protagonisti delle avanguardie primonovecentesche.

Decisiva è la lezione di Mejerchol’d, il creatore del sistema biomeccanico caratterizzato da figure che ten-
dono al grottesco. A egli si deve la rivoluzione dei capi saldi della sintassi teatrale (proscenio, quinte e
scenografie) e l’assoluta centralità alla macchina per la recitazione insieme allo spazio dell’azione.

Da questa esperienza si muovono gli animatori della Bauhaus, che rincorrono l’idea dell'opera come una
entità autosufficiente e in sé conclusa. Vogliono dar vita a creazioni la cui struttura sia in grado di espan-
dersi e di imporre le proprie leggi agli ambienti circostanti, trasformandoli in territori estetici totali. Gropius,
in ambito teatrale, porta avanti l’idea di una soppressione della distinzione tra scena e platea, con conse-
cutivo sconfinamento dell’azione teatrale in mezzo al pubblico.

Nell’orizzonte della Bauhaus Kentridge guarda soprattutto a Piscator. Il quale sente la necessità di mutare
l'identità del teatro moderno aprendolo al confronto con il cinema. Il suo programma consiste nell'aprire
squarci in movimento nella messa in scena tradizionale, combinando sequenze filmiche e rappresentazioni
di eventi. Nasce in questo modo il teatro totale che amplifica il racconto.

In sintonia con queste teorie, Kentridge adotta in The Nose grandi schermi con immagini dal forte corredo
documentaristico.

CINEMA—> per comprendere le scelte di The Nose sono decisivi alcuni rapporti con i padri della cinemato-
grafia moderna: Mèliès, Vertv ed Ejzenstejn.

- Mièlès è l’inventore del cinema a quadri o a stazioni. Ogni segmento narrativo deve racchiudere in sé un
evento nella sua interezza. Nel momento della creazione ogni episodio viene accostato a quello succes-
sivo.

- Vertov trasforma la macchina da presa nella vera protagonista del suo capolavoro. Egli sostiene che il
reale oltre ad essere semplicemente accolto deve essere riarticolato, in quanto la pratica filmica non è
pura documentazione ma una organizzazione di motivi, volta a far emergere particolari temi.

- Ejzenstejn teorizza il montaggio delle attrazioni, in cui il significato delle singole immagini è determinato
dalla loro concatenazione sequenziale, generando in chi osserva uno shock percettivo e psichico.

Riferendosi a questi tre capi saldi del cinema, Kentridge nell’opera frammenta l’andamento del racconto
teatrale mettendo in discussione la classica unità spazio-temporale. Letteralmente egli smembra ogni coe-
renza narrativa isolando i singoli momenti per poi integrarli in una struttura ritmica complessiva. Questa
azione è finalizzata ad agire direttamente sulle emozioni e sensazioni dello spettatore.

EXCURSUS SUL DISEGNO—> Gli schermi in The Nose sono spazi su cui transitano fatti di cronaca e foto-
grammi dell’epoca staliniana. Non sono altro che lavagne luminose su cui si susseguono linee a ritmo di
musica, generando figure che poi si dissolvono.

Si tratta del disegno, l’origine di ogni opera di Kentridge. Lui stesso, in polemica con i duchampisti post-
modernisti, definisce il disegno come una analogia metaforica del pensiero.

La tecnica del disegno viene recuperata dall’autore specialmente nelle protoanimazioni, perché dopo aver
tracciato schizzi li registra con la fotografia. In questo modo egli fonde l’apparato tecnologico con tracce
della propria fisicità. Non c’è un flusso cinematografico perché come accade nell’opera The Nose le im-

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magini si interrompono frequentemente sugli schermi cosi da avere una sensazione che ci siano cose che
vengano sostituite da altre cose.

Come sostiene Krauss, ogni disegno di Kentridge conserva una sua identità e in ogni momento può dirsi
concluso, nonostante sia sempre soggetto al divenire.

Sottolinenando la centralità del disegno Kentridge rivela la sua propensione per il non finito, come già ci
avevano proposto Rodin e Michelangelo. Cosi facendo l’autore ci invita a riflettere sul fatto che, diversa-
mente da un’opera compiuta, solo un’iconografia non terminata può trasmettere l’autenticità del gesto e
del carattere dell’artista.

Fare arte per Kentridge significare dare spazio all’incertezza, seguire impulsi in un rito di cancellature im-
perfette. Egli afferma che molto spesso l’idea di partenza diventa altro e cambia nel corso della sua realiz-
zazione. L’arte però ci aiuta a capire la provvisorietà e l’incertezza del mondo.

L’artista in tutto ciò deve concepire composizioni che aspirano ad essere immediate e sempre volte all’e-
voluzione/metamorfosi.

Letteratura, teatro, cinema e disegno, The Nose è un collage di media diversi.

I riferimenti storici che troviamo in questa opera sono un elemento ricorrente in tutti i lavori di Kentridge.
L’artista ha sempre provato a mettere in relazione il nostro tempo con altre dimensioni, infatti spesso si è
misurato con vicende politiche e civili cupe della storia. Per comprendere tale interesse civile bisogna far
riferimento agli anni universitari e alla lettura della Critica della cultura e della società di Adorno.

In The Nose realizza un elogio a un momento storico della storia Russa, in cui Tzvetan Todorov ricolloca il
suo libro testamento: l’arte nella tempesta. In questo libro si parla del sogno di alcuni artisti sovietici per
una vita nuova e la cancellazione il mondo dove sono cresciuti. Il tutto termina tragicamente con l’instau-
rarsi della dittatura.

Kentridge mette sempre in dialogo le sue opere con un preciso contesto storico-sociale, ma ritiene che
l’artista non debba sostenere una posizione a livello politico, bensì deve agire solo come un viaggiatore
nel tempo. Egli tratta sempre vicende storiche e questioni politiche svelando i loro punti più problematici,
proprio come fa in The Nose dove le ombre alludono al volto oscuro e paradossale della storia.

L’ombra per lui è una immagine a sé e può essere manipolata in modo da suggerire quel che non esiste. In
The Nose ci sono processioni fantasmatiche, che implicitamente ci invitano a diffidare del visibile e a
guardare ai lati più nascosti. I giochi d’ombra hanno quindi il compito di svelare il volto più segreto della
storia.

Oltre a svelare i punti più bui della storia The Nose è per certo un’opera autobiografica. Il profilo del naso
che viene messo in scena è basato su quello dell’autore stesso e i comportamenti del dato olfattivo sono
una sorta di proiezione di come vorrebbe essere Kentridge.

3. NOMADE PALADINO

• Film ,1968.—> è un lungometraggio dall’aspetto felliniano. Racconta il percorso di Elio Parella, uno
strambo pittore di paesaggi e uno scienziato. Di questo esercizio giovanile è rimasto ben poco.
• Ciclo di fotografie, 1996—> si tratta di un ciclo di fotografie che poi è stato parzialmente raccolto in un
libro dal titolo Film.

Paladino usa la macchina come uno strumento fermo, provando a catturare paesaggi e persone. Il risulta-
to sono riprese di vicende collocate in atmosfere nordiche con un ricco richiamo a memorie storiche-arti-
stiche.

La vocazione cinematografica dell’autore riemerge in altre opere come:

• Film —> mette in scena una crocifissione blasfema, con una croce in bronzo sulla quale è appoggiata
una bicicletta.

• Film, 1953 —> dove troviamo accostamenti di elementi eterogenei, ancora una volta protetti da una bici-
cletta. In questa opera Paladino coniuga l’emozione colta con l’impertinenza dadaista. Il medesimo pro-
cesso alchemico verrà sfruttato in Film del 1998: un libro a fisarmonica.

Nel collegarsi fra loro questi fotogrammi ci fanno intuire che il cinema non è solo un immagine in movi-
mento, ma è innanzitutto una visione collettiva di ombre.

Per Paladino il cinema è una passione coltivata negli anni giovanili, dalla quale scaturiscono opere come: il
sembra, l’alzolaio e Labyrintus, entrami del 2013.

L’interesse di Paladino per la pratica cinematografica è in sintonia con quella condivisa da molti autori
contemporanei. Essi sono animati dal bisogno di abbandonare discipline che elaborano con chiarezza per
sperimentare altre esperienze. Per questa ragione ci troviamo di fronte ad autori, che pur non avendo co-
noscenze tecniche, girano film di nicchia. Chiaramente si tratta di film destinati a un abito museale e il loro
stesso valore risiede proprio nella loro presenza all’interno dei musei.

Vi sono però alcune figure come Steve McQueen, che hanno realizzato autentici film concepiti per i circuiti
ufficiali. Per loro il cinema assume un valore diverso, ovvero l’arte di massa per eccellenza.

In questo panorama la figura di Paladino si staglia a metà strada, perché non ha nulla in comune con il
cinema degli artisti ed è molto distante dai cinema hollywoodiani.

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La passione per il cinema trova conferma nel Quijote. Il primo vero film di Paladino che ruota interamente
attorno al Don Chisciotte. Si tratta di una avventura estremamente complicata nel quale si concentrano
diverse tecniche e soprattutto è nuovamente un vastissimo work in Progress.

Passaggi riscrittura del Don Chisciotte—>


- i quadri: sono due trittici Un treno per Dulcinea e Apocalisse Ventosa. All’interno di questi quadri convi-
vono matrici provenienti da diverse epoche come quella arcaica e moderna. Nel primo trittico ritroviamo
un omaggio all'arte bizantina, con un trionfo dell'oro per allude alla trascendenza. All'interno di questo
materiale sono ritagliate figure diverse e le emissioni di un treno invisibile. Diversamente nel trittico del-
l'apocalisse ventosa ritorna una distesa dorata da cui emerge un'umanità frammentata. A evidenziare il
tutto un grande buco nero che ha l’intento di risucchiare i detriti del naufragio.

- Le sculture: come Vento d’acqua, in cui ritorna in modo ripetitivo la stampa dorata delle pale di una
nave. Ciò allude in modo chiaro alle pale dei mulini a vento del Don Chisciotte.

- Gli acquerelli e le acqueforti: in queste raccolte Don Chisciotte appare come un burattino, perché ha le
sembianze di un uomo ma ha le movenze di una marionetta. Tutto il racconto ha un andamento instabile
e sembra di entrare in un teatro dell’assurdo.
- La mostra del 2005: all’interno del museo di Capodimonte a Napoli. È una mostra personale nella quale
Paladino raduna tutti i momenti del Don Chisciotte e una prima versione del Quijote.

Quijote—> l’intento dell’artista è riportare sullo schermo il romanzo di Cervantes.

Già altri autori si erano misurati con questa sfida ardita.

Paladino affronta la tematica quasi con leggerezza e la prima versione del film, di 40 minuti, viene proietta-
ta all’inaugurazione della mostra Napoletana.

La seconda versione, di 70 minuti, è presentata fuori concorso al Festival di Venezia nel 2006.

Qualche mese prima, nell’estate del 2006, Paladino incontra uno dei promotori della neoavanguardia ita-
liana: Edoardo Sanguineti. Il quale decide di donargli alcuni suoi appunti giovanili del Don Chisciotte. Pa-
ladino rimane stupefatto da questi appunti, tanto che decide di apportare delle modifiche alla sceneggia-
tura del suo film. Inoltre chiede a Sanguineti di recitare nell’opera mentre sullo schermo viene presentato
un Don Chisciotte acquarellato, proprio perché sono le parole che ispirano le immagini.

Il film si presenta in modo anticinematografico, distante dai modi spettacolari del cinema. Paladino nella
scrittura dell’opera riduce le suggestioni racchiuse nel romanzo a pochi ed essenziali elementi, mischiando
anche fatti storici a elementi inventati. Al centro del film, come nel Don Chisciotte, ci sono il cavaliere e il
fido scudiero, mentre sullo sfondo riproduce l’incombenza della guerra e la volontà da parte del popolo di
una libertà. Paladino trasforma in un certo senso il Quijote in un malinconico viaggio nel mondo dei morti.

- Nel 2015 Trione invita Paladino a esporre una sua opera nel padiglione dell’Italia della Biennale di Vene-
zia. Il tema è la costruzione di una installazione ispirata al tema della memoria. L’artista in questo caso
presentata serie di grafiche scandite, dalle forme bidimensionali al cui centro giace una grotta con una so-
litaria figura umana. Una reinterpretazione dell’uomo vitruviano. Ad accompagnare il tutto uno schermo
che riproduce in bianco e nero una versione del Quijote.

Paladino sceglie proprio il Don Chisciotte perché è uno dei pochi eroi delle letterature moderne che si sia
imposto universalmente. Non solo per la sua vicenda, ma perchè ci aiuta a capirci e a capire meglio. Don
Chisciotte insieme al suo compagno Sancio, incarna il dramma e il controdramma del mondo.

Cervantes per elaborare il suo scritto utilizza diversi generi letterari, facendolo risultare un romanzo ambi-
guo e aperto. L’elemento sorprendente della scrittura è proprio quello della trasgressione dei punti di vista
centrali per la sperimentazione di molteplici prospettive. Per questa ragione nel romanzo di Cervantes non
c’è nulla di sicuro, tutto possiede molteplici e mutevoli significati.

Sicuramente rimane di forte impatto la capacità dell’autore di dissolvere la realtà in una trama brillante,
perchè il suo scopo ultimo è quello di meravigliare il lettore. Il protagonista, Don Chisciotte, si muove in
spazi grotteschi e è motivato da una innocente follia, che scompiglia le relazioni tra letteratura e vita, come
tra verosimile e assurdo.

DON CHISCIOTTE, NOI—> Nei secoli il Don Chisciotte è stato ripreso più volte da altri autori. Come sosteneva
Montesquieu un’opera originale ne fa quasi sempre nascere cinque o seicento altre. Nel caso di Paladino
la scelta di un’opera così importante deriva dal fatto che si immedesima nell’eroe di Cervantes, nonostan-
te in fondo già l’intero universo dell’autore abbia uno sfondo donchisciottesco. Paladino si rispecchia in
Don Chisciotte fino a farne il suo alter ego, soprattutto per la sua propensione al nomadismo. Il suo ob-
biettivo è attraversare i territori dell’arte, sia in senso geografico che temporale. Egli non si interessa all’e-
sito finale, ma del percorso compiuto.

Questo approccio donchisciottesco lo si può notare già a partire dagli anni settanta con quadri e sculture,
caratterizzate dalla presenza di armi e figure senza sguardo. Le ragioni tuttavia sono ancora più profonde
perchè il Don Chisciotte ci rivela ciò che non esiste fino a renderlo possibile. Per questa ragione Paladino
continua a sostenere che questo libro sia la metafora dell’artista: costruisce con la parola o i segni un
mondo che probabilmente esiste, ma che noi abbiamo perso la capacità di osservare. Don Chisciotte ci

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insegna che l’arte è una forma di magia e che ogni artista autentico deve mirare a celebrare le proprie vi-
sioni, attribuendo un valore fondamentale all’immaginazione.

TRA LETTERATURA E VISIONARIETÁ—> Il Quijote di Paladino viaggia innanzitutto tra tensioni letterarie e ab-
bandoni visionari, un po’ come faceva Fellini. Il quale dalla letteratura cercava un suggerimento, uno spun-
to e con questo metodo eccentrico basato su una lettura fugace dava libero sfogo alla sua fantasia, inte-
grando alcune parti del racconto scritto con avventure immaginarie.

È esattamente ciò che fa anche Paladino, che forse non ha mai letto per intero il Don Chisciotte, ma ela-
bora dinamici processi per riattivare il soggetto letterario. Quello dell’autore si configura come un omaggio
e, insieme, un modo per riprendere in maniera grossolana il Don Chisciotte. Egli compie un viaggio total-
mente personale della fonte letteraria, offrendo una ripetizione differente e arbitraria che nulla ha a che fare
con lo stampo postmodernista. In altre parole ne raccoglie la parola e poi la personalizza, usandola come
punto di partenza per una sorta di flusso di coscienza.

Paladino parte dall’idea secondo cui l’arte non deve mai procedere per vie razionali e perciò porta avanti
una disarticolazione dell’insieme in una molteplicità di eventi, figure e cose, molto spesso adottando an-
che digressioni.

Per cogliere il significato degli eventi compiuti da Paladino, dobbiamo richiamare l’attenzione a una rifles-
sione di Sanguineti in una conferenza veneziana, tenuta in occasione della prima del Quijote. Secondo
Snguineti infatti, Paladino mira a dare un volto possibile ai personaggi, ai luoghi e alle avventure del Don
Chisciotte. È come se volesse mettere in versi la prosa dello scrittore spagnolo. In queste parole si fa largo
il pensiero dell’arte come una operazione rivolta a disattivare le regole del linguaggio verbale per approda-
re verso dimensioni inesplorate.

Nel progetto del Quijote, Paladino rompe nessi e collegamenti, come ancora una volta possiamo vedere
nei sui dipinti degli anni Settanta e Ottanta. Inoltre l’artista nel camuffamento del romanzo di Cervantes si
propone soprattutto di sviluppare la potenza visionaria collocando le sue opere in una terra di mezzo tra
reale e onirico. Rende fantastico ciò che esiste, infatti per la creazione dell’opera fa riferimento a una tra le
principali virtù poetiche: l’immaginazione. Che come aveva scritto Baudelaire, definisce strategie per af-
frontare il visibile in maniera indiretta. Essa filtra impressioni, le ricombina e le esaspera. In altre parole
mette insieme il conosciuto con l’ignoto.

Sono assolutamente poco realisti i protagonisti del film di Paladino, che mostrano diverse somiglianze con
i personaggi di Fellini, sapiente nel creare le sue fantasticherie. Memore delle lezioni di Fellini Paladino,
ritiene che fare arte significhi innanzitutto “dar voce ai fantasmi” e l’esito di tale filosofia è la versione filmi-
ca del Quijote. Letteralmente un bricolage fatto di allucinazioni e scenari concreti della storia personale
dell’artista.

TRA ARCHETIPI E PRESENTE—> sui sentieri della visionarietà, Paladino si sottrae a ogni narrazione lineare,
assegnando una assoluta centralità al segno. Non un segno figurato, ma arcaico che racchiude tutto il si-
gnificato della poetica dell’artista. Egli per avanguardia intende l’essenza della sua ricerca, ovvero scoprire
ogni giorno forme che prima non conosceva.

Paladino pensa il suo mestiere in una prospettiva magico-ritualistica e si mostra sapiente nell’ordinare
memorie antiche con elementi autobiografici. Inoltre da molta importanza alla figura degli archetipi, consi-
derati come una sorta di nuclei originari che vanno al di la delle parole e della ragione.

Quijote parla un linguaggio che affonda le sue radici in un universo arcaico e la sua aspirazione è quella di
inventare una forma che abbia valenze universali. Nel suo lungometraggio si serve del romanzo si Cervan-
tes per compiere un’avventura che lo conduce verso un tempo ricco di archetipi. Egli riscrive l’epica di
Cervantes in maniera attuale, ambienta infatti la sua opera nell’Italia meridionale ancora arcaica e soprat-
tutto muove i personaggi non più su cavalli ma su api e camion. Inoltre Paladino attualizza il suo film inse-
rendo architetture razionaliste e riprendendo un edificio alto dal quale cadono libri infuocati, ricorda la tra-
gica esperienza dell’11 settembre. Decisive sono i rimandi alle opere delle neoavanguardie e i rierimenti
alla storia del cinema.

TRA AUTONOMIA E ETERONOMIA—> Tuttavia il Quijote ci invita a riflettere su un’altra oscillazione quella del-
l’autonomia e eteronomia dell’arte. Si delinea inizialmente l’assoluta centralità che l’artista assegna all’e-
sperienza del saper dipingere, concependo il suo mestiere come una pratica antica.

Come dice Paladino il lavoro dell’artista deve svolgersi lontano dai riti vuoti e effimeri del mondo contem-
poraneo, prediligendo la meditazione. Con queste parole egli allude a un preciso clima culturale alla soglia
della stagione transavanguardistica. Paladino nel tempo rimane fedele a questa teoria, ma inevitabilmente
rimane anche attratto da altri linguaggi. Non a caso queste oscillazioni sono al centro del film sul Don Chi-
sciotte.

Secondo Paladino il cinema non è solo la somma di tutte le arti perchè per lui i film sono occasioni per
creare quadri e sculture che forse non avrebbe mai creato. Proprio per questa ragione nel Quijote egli trat-
ta le sue opere d’arte come se fossero attori.

Di certo per Paladino il film è un modo altro per dipingere e in aggiunta ha la caratteristica di avere un ini-
zio e una fine. Egli in altre parole, mette in pratica l’utopia di Martin Scorsese di dipingere un film.

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4. REMIX BALESTRINI
Nel 2015 a Milano Trione incontra Enrique Vila-Mitas. Egli gli racconta dell’invito per la partecipazione alla
tredicesima edizione della Documenta Di Kassel, una delle rassegne più importanti del mondo. La propo-
sta in questo caso è bizzarra perché lo scopo è quello di diventare un’opera d’arte vivente.

A Kassel tutto si trasforma, dal centro della città fino alle periferie e anche la ex sede della televisione Of-
fener Kanal. Dove nella Documenta 13 è stato collocato un monitor di medie dimensioni, funzionante 24
ore su 24, per cento giorni. Si tratta di un piccolo colossale cinematografico dal titolo Tristanoil. L’autore è
un poeta legato alla stagione letteraria del gruppo 63, dal nome Nanni Balestrini.

L’autore in questo caso si fa carico della realizzazione di un’opera considerata molto ambizioasa. Allo
stesso tempo risulta però fondamentale per la comprensione di uno dei più strambi interpreti dell’avan-
guardismo novecentesco.

Balestrini ritiene fondamentale il gusto per la provocazione e l’anticonformismo. Ha letteralmente il deside-


rio di fare tabula rasa di quel che è stato costruito precedentemente. Per la stessa ragione egli si pone
sempre in vanti, così da poter esplorare terreni mai battuti e rincorrere l’ignoto.

Fin dagli anni giovanili Balestrini recupera questa tradizione, tanto che vuole ridefinire complessivamente
gli strumenti linguistici e elaborare altri paradigmi, arrivando a saldare i mondi dell’anguardia con quelli
dello sperimentalismo. Balestrini in altre parole pensa al suo lavoro come l’esito di un progetto estetico più
ampio. Egli inoltre assegna una grande importanza alla fase creativa.

Una delle sue opere più famose in ambito letterario è:

- l’incendiario—> in questa opera Balestrini decostruisce il sistema di produzione comunicativa dalla so-
cietà capitalistica. Egli sfrutta l’inerzia del linguaggio comune, perché vuole restituire una nuova energia
alla lingua e soprattutto sente la necessità di trattarla come un soggetto che rimanda solo a se stesso.

Lo scopo di questa lettura è l’entropia, ovvero il luogo dove ogni messaggio entra in crisi. Con coraggio
Balestrini esplora gli spazi dell’inconscio linguistico e ne disarticola i meccanismi segreti, cosi da rompere
l’ordine semantico e razionale del discorso poetico tradizionale. Egli va oltre le regole grammaticali che
governano la scrittura letteraria, proprio perchè vuole arrivare a un significato più profondo rispetto a quel-
lo tradizionale. Letteralmente un significato più irrazionale che generi emozioni mentali al pari della musica
e della pittura.

Per questa opera l’autore preleva materiali tratti da fonti eterogenee: i discorsi pubblici, articoli dei quoti-
diani, riferiti medici ecc. Praticamente pezzi aventi una propria autonomia, che vengono poi collegati tra di
loro. Balestrini mira così a fare della poesia una pratica la cui forza consiste nel darsi altro da se.

In una tale prospettiva lo scrittore costringe il lettore a una ginnastica mentale, per provare a decifrare
quella che Sanguineti ha definito un’<<asintassia furibonda>>.

Sulla via di un radicale ripensamento dei modi della letteratura, Balestrini per farsi promotore di un proget-
to culturale ambiguo, distante dal neocapitalismo, per un verso denuncia la situazione della società del
suo tempo. Mentre per un altro verso considera l’integrazione come come l’approdo per la rivolta. Per
provare a destreggiarsi all’interno di questi scenari, occorre essere duttili e dunque abbandonare l’intolle-
ranza e il conflitto a favore della mimesis e dell’aderenza. Balestrini a tal proposito sceglie di integrarsi con
la civiltà industriale, sfruttandone le risorse e le opportunità. In particolare il poeta decide, in sintonia con
l’estetica macchinista di Max Bense e con i motivi del razionalismo illuministico lombardo, di prevenire a
una sintesi tra poesia e scienza.

POESIA EX MACHINA—> Balestrini ha spesso la consuetudine di recarsi presso la Cassa Di Risparmio delle
Province Lombarde a Milano sotto consiglio di Luciano Berio (produttore musicale). Egli seguendo due o
tre regole elementari, si diverte a scrivere poesie impossibili, ovvero inserisce frasi tratte da giornali appe-
na letti in un computer ante litteram, per ottenere rime e strofe. Tra gli spettatori ci sono Berio e Eco. Negli
anni questa curiosità diventa una abitudine e l’artista inizia a giocare con un Ibm 7070. Di questo disposi-
tivo lo attrae la possibilità di ricorrere all’intelligenza artificiale. Sono proprio qui le premesse della poesia
ex machina che portano a esperimenti pionieristici come:

- Tape Mark I e II —> un mix casuale di di frammenti testuali che determinano inaspettati effetti strofici.
In questi casi si annulla ogni sviluppo tematico-descrittivo. In sostanza ci si imbatte in una dissonanza
che è il risultato di un preciso programma poetico. Il disordine non è altro che lo specchio rovesciato
dell’ordine.

Questi esperimenti conducono al suo capolavoro:

Tristano, 1965, il romanozo —> un bizzarro e illeggibile romanzo-antiromanzo. I protagonisti sono una
strana coppia, un uomo e una donna accumunati dallo stesso nome: C. In realtà si tratta di un unico per-
sonaggio, che non ha sesso ne volto e ha tutte le età. In sostanza è una forma vuota che si può riempire di
qualsiasi contenuto, ed è soggetto a metamorfosi. Inoltre l’ambiguo soggetto può passare dal presente al
passato.

Nell’opera prevale una asfissiante monotonia in una trama priva di sviluppo, ambientata in una città dallo
stesso nome C.

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RIFERIMENTI—> La proposta narrativa dell’opera sembra suggerire un richiamo alle origini, ma allo stesso
tempo appare in sintonia con il filone delle seconde avanguardie novecentesche.

- Balestrini guarda innanzitutto al capolavoro della Chanson de Roland per definire le regole compositore
del suo romanzo. Nasce cosi un poema in prosa con una andatura strofica ben definita.

- D’altro canto l’autore si interessa anche alla Chanson de Geste per il prevalere dello spirito dell’avventura
e di mistero. Tuttavia l’amore è il motore di tutta la letteratura.

Da ciò che possiamo notare Balestrini compie un audace ribaltamento concettuale, in quanto il suo Trista-
no non è un personaggio, ma è la metafora dei concetti stessi sui quali si fonda il libro: avventura, impre-
vedibilità e sperimentazione.

• Tristano è un metaromanzo e Balestrini appare in sintonia con Robbet-Grillet, il quale con una sensibilità
pre-postmodernista, adotta un’estrema impersonalità. Tende verso uno sguardo impassibile, si affida in
altre parole a un realismo che non rimanda a nessuna trascendenza. Da vita a racconti superficiali, co-
stellati da individui senza spessore.

• Inoltre l’artista appare in linea anche con il gusto combinato che caratterizza le invenzioni di altri prota-
gonisti dello sperimentalismo letterario degli anni settanta, come Raymond Queneau e l’opera Cent mille
milliards de poèmes. In questo caso il lettore è libero di scegliere sfogliando a caso tante soluzione diffe-
renti e ricavare tanti diversi poemetti.

• Un’altro riferimento importante per Balestrini è L’Oblo di Adriano Spatola. È una cartografia in cui si
procede a ritroso, si viola ogni ordine logico e si cancella ogni inizio o prologo.

• Tuttavia alcune suggestioni arrivano anche dagli esercizi poetici di Hans Arp, ovvero delle decomposi-
zioni in stile dadaista volte a distruggere la ragione e il senso comune.

Guardando a queste opere Balestini costruisce Tristano. Dove rifiuta ogni emotività e in ogni pagina la
trama sembra farsi cogliere per poi sottrarsi, proprio sull’onda di Robbe-Grillet.

In tutto ciò al lettore si chiede di essere sempre vigile. In sintonia con Queneau e Spatola, Balestrini vuole
portarsi al di là di una concezione di romanzo naturalistico. Egli attribuisce un’assoluta centralità alla di-
mensione sintattico-formale, concentrandosi sul valore del comporre e associare frasi. Possiamo notare
come l’autore faccia fade alle pratiche de cut-up e del fold-in. Dietro a questo metodo si cogliere la me-
moria del poeta Lautreèamont.

Nel Tristano sono presenti frasi già fatte e unità narrative di senso compiuto. L’autore sembra tagliare frasi
e proposizioni da contesti diversi, talvolta in maniera aggressiva mentre altre volte favorendo l’andamento
narrativo. Infine Balestrini si dedica a un collagismo, montando insieme tutti i pezzi, grazie all’aiuto di un
meccanismo tecnologico. Il risultato è un discorso nervoso e disturbante, ci si imbatte in continui salti
temporali e allo stesso tempo sono frequenti le oscillazioni dalla prima alla terza persona. Tuttavia la prosa
di Balestrini non tocca mai piani surrealisti, perchè le sue frasi sono chiare, limpide e prive di forzature les-
sicali. Utilizza materie inautentiche simulando la ricerca di autenticità propria di molti romanzi realistici de-
gli anni settanta.

Tristano resta un puro artificio verbale, è un romanzo antifunzionale e asintattico in cui viene meno ogni
continuità. A differenza dell’opera di Queneau, Tristano viene scritto nell’epoca della riproducibilità tecnica.
Infatti la tecnologia incide molto sul destino di questo iper-romanzo e l’idea originaria di Balestrini è quella
di un romanzo unico per ogni lettore. Non a caso l’edizione del 1966 sarebbe dovuta uscire in un gran
numero di esemplari differiti. Ciò doveva essere un modo per alludere alla varietà infinita delle forme della
natura, dove ogni elemento è una variante sempre leggermente diversa. A causa delle inadeguate tecni-
che di stampa dell’epoca il suo ideale si realizza solo nel 2007.

- Tristanoil, 2012, il film—> all’apparenza sembra solo un film, in realtà è un’opera totale. Osservando
l’opera si ha la sensazione di imbattersi in un organismo visivo destinato a mutare ininterrottamente.
Una esperienza immersiva, simultanea e soprattutto pubblica. Per rispondere a questi canoni, il film vie-
ne presentato e documentato non in uno spazio espositivo tradizionale, ma in un luogo di transito e di
condivisione come un bar. Si tratta di una creazione estremamente complessa, che ruota intorno ad al-
cune parole chiave: prelievo, remix, algoritmi, ordine, flusso, impegno, apocalisse.

Balestrini a differenza di quel che avevano sostenuto i padri delle avanguardie novecentesche, è convinto
che l’artista postmoderno non debba fare, ma solo ri-fare. Egli infatti non fa nulla con le proprie mani, ma
si limita ad acquistare per poi prelevare quel che è già stato scritto. In altre parole sembra rinunciare a ogni
autorialità.

Sui passi di Duchamp assegna un ruolo centrale alla fase di selezione di alcuni materiali di seconda mano.
Non inventa qualcosa dal nulla, ma vuole individuare alcuni frammenti già prodotti, estraendoli dal disordi-
ne indifferente del presente.

Come aveva fatto Cage, l’artista ricorre alla pratica del detournement, ovvero svuota del significato origi-
nario ogni singolo elemento assunto, per poi collocarlo all’interno di altri insiemi poetici.

Eco sostiene che Balestrini è uno scrittore pigro, che non scrive nulla e si limita a ricomporre i brandelli di
altri testi. Però va detto che copiare è molto più faticoso rispetto al libero sfogo alla creatività.

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Il Tristanol di Balestrini ricicla spezzoni della serie tv Dallas, con immagini di Wall Street trasmesse dalla
Cnn. Inoltre ricicla anche delle frasi del romanzo Tristano. In questo modo la parola viene trasformata in
visione e ascolto. Tale scelta rivela il bisogno di ripensare radicalmente l’esperienza tradizionale della scrit-
tura.

Tra i personaggi che maggiormente lo hanno influenzato nel mondo cinematografico italiano troviamo:

• Wharol con Four Stars.

• Brakhage con Art for vision.

Gli echi di queste avventure novecentesche si propagano fino al fenomeno contemporaneo della postpro-
duction. In cui i cinematografi incuranti del copyright, si impegnano a imprimere una scossa nell’ecosi-
stema del diritto d’autore.

Questa filosofia del remix è alla base del Found footage film. Una tecnica largamente utilizzata nella sfera
contemporanea, ma che già in epoca medioevale era utilizzata in altri ambiti. Tra i padri del Found footage
fil troviamo: Jean-Luc Godard, che ha forzato i limiti tradizionali del linguaggio filmico. Basti pensare al suo
lavoro Histoire du Cinema, un accumulo di frammenti culturali, sequenze cinematografiche, fotografie che
alludono ai resti di una catastrofe. Senza confessarlo, Balestrini nell’opera Tristanoil sembra proprio guar-
dare all’Histoire du Cinema.

IL REMIX: NELLA BABELE DELLE PAROLE E DELLE IMMAGNI—> Il gusto per il remix emerge soprattuto dal modo
in cui Blestrini manipola le parole. In Tristanol le parole sono accompagnate dalle voci dei mezzibusti sta-
tunitensi e dalla recitazione del poeta, che pronuncia frasi spezzate, quasi incomprensibili.

Balestrini deostruisce le parole, trasgredendo la normale comunicazione verbale e le regole della scrittura.
Si respira quasi un senso di Horror vacui.

Nella Babele dell’assurdo che non può essere altro che Tristanoil, si mescolano anche le immagini che in-
vase da dense e casuali onde, danno consistenza alle sequenze. Tuttavia le icone modificate dall’autore
non restano mai uguali, ma sono immerse dentro un inarrestabile processo di trasformazione. Si può nota-
re come ogni fatto di cronaca venga de-realizzato. In aggiunta sulle diverse figure scorre una mutevole e
deformante patina gialla o violacea densa di rimandi alle opere dei protagonisti dell’espressionismo astrat-
to come Kooning e Brakhage.

Questi effetti rivelano l’identità profonda di Tristanoil, che sembra proseguire un discorso già avviato dal-
l’autore nei romanzi scritti dopo Tristano.

- In particolare ne Gli Invisibili —> un racconto che descrive la parola di un gruppo di giovani reduci dalla
stagione del settantasette. In questo racconto egli descrive la spirale in cui si consuma e si distrugge
l’utopia di una intera generazione.
Utilizza un linguaggio immediato e incalzante, che segue una struttura ritmica e si fonda su un abile mon-
taggio di paragrafi. Letteralmente un flusso continuo senza punteggiatura.

Proprio in Tristanol radicalizza lo slancio dal quale si possono cogliere le principali differenze con il roman-
zo Tristano. La più evidente discrepanza è che il film non può essere perimetrato né circoscritto. Dunque
un’opera-flusso destinata a non compiersi mai. Questa tensione rende Tristanoil il film più lungo della sto-
ria del cinema. Tristanoil è però qualcosa di diverso: un film all’infinito che sembra spingersi oltre il confine
umano.

Per gestire la sequenza fisica di Tristanoil Balestrini si affida alla tecnologia. Insieme a Giacomo Verde e
Vittorio Pellegrineschi ricorre di nuovo alla tecnica utilizzata in Tristano. Il film è infatti orinato da un com-
puter che riassembla all’infinito tutte le clip televisive. Le sequenze vengono montate in loop, così da allu-
dere all’elasticità delle immagini e del linguaggio, ma allo stesso tempo un modo per mettersi in sintonia
con un’epoca in continuo divenire.

Decisivo in questo caso per Balestrini è l’utilizzo di algoritmi, sistemi numerici alla base anche delle ripro-
duzioni musicali sul telefono.

Analogamente a Brian Eno in 77 Million Pantings, Balestrini in Tristanoil seleziona frammenti visivi e testua-
li differenti, per poi disporli in maniera casuale. Infine li consegna a un apparato informatico che ha il com-
pito di accostarli e di rimontarli, scegliendo di volta in volta una tra le infinite soluzioni possibili. Si determi-
na in questo modo una sintassi matematica fatta di elementi rigorosamente prefissati, complementari e
interscambiabili.

Nonostante i metodi utilizzati, il flusso suggerito da Triatnoil non è senza argini, perchè l’autore avverte la
necessità riaffermare il valore della propria presenza ordinatrice. Riserva a se stesso la responsabilità della
selezione di alcuni eterogenei testi visivi e letterali. Affida poi in seguito al computer il compito di rimonta-
re in modi sempre diversi questo patrimonio. Di fatto lui non si mette mai al servizio della tecnologia, ma
ne orienta i percorsi e le opzioni.

Tristanoil potrebbe essere letto anche come un film-saggio, in bilico tra cinema documentario e cinema
sperimentale. Balestrini usa la cinepresa come fosse una penna e da sempre insofferente nei confronti
delle teorie, pensa il suo film come un saggio che, procedendo con immagini e parole, critica il tempo pre-
sente. Egli evocando Pasolini risulta così un contestatore nei confronti del capitalismo.

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Nell’evocare la possibile morte della nostara civiltà Tristanoil si fa cosi narratore di una fine che non smette
mai di finire. Sembra quasi una riscrittura di Apocalisse Now di Coppola.

A questo punto possiamo comprendere il significato intimo del titolo del progetto intermediale, avviato
nella metà degli anni sessanta. Sicuramente Balestrini richiama uno degli eroi più importanti del mondo
medievale, ma si tratta di un elogio implicito soprattutto a uno dei più celebri personaggi leopardi delle
Operette Morali. Il dialogo di Tristano diventa l’alter ego del poeta, che espone i principi della propria filo-
sofia. Tristanoil è la drammaturgia interminabile della catastrofe ecologica cui, distratti e impotenti, oggi
stiamo assistendo.

Terzo capitolo
ARCHIVI APERTI
Nella successiva sala del nostro museo immaginario, ci sono le installazioni di due artisti francesi: Chri-
stian Boltanski e Sophie Calle. Vedremo due archivi della memoria, caratterizzati dalla confluenza tra
media diversi.

5. RECHERCHE BOLTANSKI
27 giugno 1980, il volo IH870 Bologna-Palermo. A est della rotta all’argo di Ustica si sente una esplosione,
l’aeroplano precipita nel Tirreno. Ai fini dell’indagine il relitto viene ricomposto con pazienza dai vigili del
fuoco di Roma in un hangar dell’aeroporto di Pratica di Mare. Quello che ne resta sono tessere di un mo-
saico, alcuni pezzi mancano, altri sono andati distrutti e altri ancora sono andati persi per sempre.

Nel 2006 lo scheletro della struttura aerea viene trasportato a Bologna su un camion rimorchio e nel frat-
tempo si pensa a un museo costruito apposta per non dimenticare l’evento. Dario Bonfietti, presidente
dell’associazione dei familiari delle vittime di Ustica, propone di affidare questo compito a Christian Bol-
tanki. Un artista da sempre impegnato ad abitare dolori e memorie infrante.

L’artista accetta l’incarico, ma non essendosi mai misurato con eventi che non lo riguardassero diretta-
mente, decide di farsi accompagnare da un amico scrittore:s Sabate.

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- A proposito di Ustica —> dopo il primo sopralluogo, le intenzioni dell’autore sono quelle di circondare il
relitto con uno strato di fiori. Un gesto quasi religioso, e ogni visitatore avrebbe potuto gettare dei petali
rendendo sempre più ricco quel tappeto floreale.

Boltanski però ben presto abbandona il proprio disegno iniziale. Nei giorni successivi recandosi nel depo-
sito trova dei cartoni dove sono conservati i reperti, che gli danno l’ispirazione per realizzare il progetto
finale.

Il 29 giugno 2007 viene pensato l’interno progetto “a proposito di Ustica” all’interno di un hangar che pri-
ma era un rimessa per gli autobus. L’incipit consiste in un filmato proiettato nella sala laterale, in cui si do-
cumenta la processione lungo l’autostrada per trasportare l’areo fino a Bologna e la lenta ricomposizione
del corpo. Boltanski nel suo omaggio tende quasi ad essere invisibile, perchè lascia cosi come è quel gro-
viglio di lamiere simili a un decollage. Al tempo stesso però lo musealizza, lo solennizza e intorno pensa a
una pedana-ballatoio su cui i visitatori possono muoversi, percorrendo un sentiero costellato da una se-
quenza di specchi neri. Intanto nell’edificio rimbombano le voci trasmesse dagli altoparlanti, voci che sus-
surrano parole ordinarie e banali, pensieri comuni e misteriosamente universali.

Questo assemblaggio di metallo è circondato da varie presenze e a incrementare tale sensazione c’è una
pioggia di lampadine, che cadono ad altezze differenti a ricordano le vittime. Esse si accendono e si
spengono al ritmo di un respiro.

Vi sono anche dieci contenitori neri di diverse grandezze colmi di oggetti personali delle vittime. Prima di
essere nascoste dentro i contenitori, tutti gli oggetti sono stati schedati e immortalati in fotografie senza
colori, per formare un catalogo: “lista degli oggetti personali appartenuto ai passeggeri del volo IH870”. Si
tratta di una sorta di preghiera che è parte integrante dell’installazione.

Per innalzare il suo imponente altare della memoria, Boltanski mette insieme pratiche non contigue che
accosta all’interno di un’unica cornice, senza però sovrapporle.

A proposito di Ustica assume le sembianze di un’opera nella quale media diversi si trovano a dialogare. In
altre parole si tratta di un’opera totale che utilizza suono, luce, immagini, architettura e spazio.

Se pur radicato nella tradizione delle avanguardie primo novecentesche, l'autore è smosso dal rifiuto di
ogni ideologia progressista. Egli sostiene che l’unica dimensione temporale a noi conoscibile sia quella del
passato, nei confronti del quale ciascuno di noi agisce non come testimone, ma come un interlocutore.
Infatti attraverso il ricordo noi rendiamo quei pensieri attuali e presenti, ed è per questo che Boltanski si
propone di riscrivere ciò che è già stato, trattando temi come la Shoah e tante altre tragedie del novecen-
to.

La memoria dunque per l’artista ha un ruolo fondamentale, tanto da essere considerata come il fonda-
mento della nostra coscienza. Essa ha una forma inconsistente, ma senza, egli afferma che crollerebbe
tutto in mille pezzi e soprattutto non si potrebbe cogliere il significato intimo dell’esistenza. Infine essa ci fa
cogliere il peso della durata, il divenire dei fenomeni.

Boltanski è animato dal bisogno di guardare dietro di se. In fondo le sue opere si danno a noi innanzitutto
come templi innalzati a Mnemosyne (=la musa che tramanda gli eventi da una generazione all’altra).

Come osserva Aleida Assmann, la perdita è il tema centrale delle opere di Boltanski e la sua ambizione
negli anni è rimasta sempre la stessa, ovvero tramite l’uso del minor numero di segni possibili, rendere vi-
sibili le assenze. Basti pensare a un’altra sua opera:

- Personnes—> situata nel Grand Plais di Parigi nel 2010. Egli mette in scena la sofferenza dell’umanità.
Boltanski evoca il dolore della Shoah con una luce al neon e un braccio meccanico che alza le pile di
vestiti posti sul pavimento, per poi lasciarli cadere a terra. Questo è ciò che rimane di quel tragico avve-
nimento.

Tuttavia A posposto di Ustica conserva e nasconde tanti riferimenti culturali:

• Sono evidenti le analogie con uno dei teorici di un’arte anti-illuminista, anti-monumentale e povera, ovve-
ro Tadeusz Kantor. Esso si popone di dar voce a una negatività distruttrice all’interno dei totalitarismi,
tramite spettacoli come La Classe Morta.

• Altrettanto spiccate le affinità con un racconto di Danilo Kiš. Egli racconta di una impossibile Enciclope-
dia dei morti in migliaia di volumi.

• Infine vi sono tanti elementi in comune con un altro scrittore eccentrico: Sebal. Il quale nel suo libro Au-
sterliz elabora una sorta di involontaria Recherche.

In sintonia con questi tre artisti Boltanski pensa le sue opere come meditazioni sul patrimonio della soffe-
renza. Boltanski, come affermano le sue installazioni, sceglie di non distanziarsi dall’orrore e di non retro-
cedere di fronte alla morte. Egli pensa l’arte come un confronto con la varietà del dramma.

Ancora riprendendo queste tre opere, nella maggior parte delle sue installazioni riesuma dall’oblio fossili
all’apparenza insignificanti. Egli riprende tracce spezzate in cui tutti possono riconoscersi e questo impul-
so costituisce il centro della ricerca di Boltanski.

L’autore concepisce le sue opere come sacrari nei quali si accumulano fotografie, appunti e oggetti dispa-
rati per formare un archivio. L’archivio per lui, non è solo una metafora, ma un genere autonomo e spazio

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dell’ambiguità. Pensa l’archivio come strategia per confrontarsi con alcuni decisivi episodi del passato: le
storie piccole, quelle dove i singoli sono i protagonisti.

A differenza di Warhol, egli ritiene che le emozioni possano essere suscitate da un soggetto sconosciuto
come una fotografia che nessuno conosce. Analogamente all’opera Des archives du cœr iniziato nel 2008
in Giappone, l’obbiettivo anche in A proposito di Ustica è quello di combattere la morte.

L'arte dell'autore si dà come pratica rivolta a proteggere alcuni resti da un imminente naufragio, articolan-
doli dentro un instabile trama compositiva. Si tratta però, di una sfida impossibile, in quanto l'oblio incom-
be su ogni nostra costruzione. Questa oscillazione di Boltanski tra il bisogno di collezionare e l’impossibili-
tà di farlo si manifesta nella scelta di muoversi tra materialità e smaterializzazione. Da un lato i templi so-
lenni come A proposito di Ustica e dall’altra una matrice orientale. Sempre facendo riferimento a questa
opera italiana si può dire che ci svela il senso profondo della ricerca dell’artista.

In polemica con gli artisti contemporanei egli concepisce le sue opere come strumenti per misurarsi con
alcune domande assolute. Alcune interrogazioni destinate a rimaner senza risposte. Boltanski pensa a tal
proposito che l’artista autentico non debba limitarsi a rispecchiare fedelmente e ideologicamente il passa-
to. L’artista è un solitario, che senza mai trovare risposte, si pone domande esistenziali e in seguito le
pone agli altri.

6. AUTOFICTION CALLE
Compagna di Boltansky, Annette Messager, sin dai primi anni settanta, inizia a selezionare e conservare
testi, disegni, ritagli di giornale e fotografie. Con pazienza si appropria dei vari avvenimenti nei quali si im-
batte, tanto è vero che tali ricorrenze in seguito vengono accostate a momenti immaginari e episodi auto-
biografici. Messager ricompone in poche parole, eterogenei brandelli di quotidianità. Ci troviamo davanti a
una esperienza decisiva per comprendere uno dei filoni dell’arte contemporanea, le cui intenzioni poetiche
erano state colte da Lea Vergine in L’altra metà dell’avanguardia. Una mostra tenutasi a Milano, nella sede
del Palazzo Reale, nel 1980. Il fine critico in questo caso era portarsi al di la delle classiche e sterili riven-
dicazioni femministe.

Nel richiamarsi alle lezioni delle protagoniste dell’altra metà dell’avanguardia, molte artiste del nostro tem-
po realizzano opere di segno esistenzialistico. Originali autobiografie introspettive.

Nella costellazione dell’altra metà dell’avanguardia, un posto centrale è occupato da Sophie Calle, creatri-
ce di una ossessiva antropologia visuale che potrebbe esser scandita in più tappe:

1. 1979, dopo aver viaggiato in giro per il mondo, in particolare tronando dal Libano, Calle tenta di rista-
bilire qualche relazione con la sua città, Parigi che ormai le appare estranea. Decide quindi di iniziare a
pedinare degli estranei, immergendosi nelle loro vite. Con un lavoro lento e meticoloso, raccoglie tante
informazioni che poi elabora in reportage.

2. Sempre nello stesso anno crea Les dormeurs —>in cui sono presenti parecchi riferimenti a Sleep di
Warhol. Calle elabora un progetto basato su degli sconosciuti che vengono invitati a dormire nel suo
letto. Interroga i soggetti e li fotografa, ne registra anche i rumori.

3. 1980, Suite Vènitienne —> questa volta Calle segue un uomo per due settimane annotando i suoi spo-
stamenti e fotografandoli.

4. 1981, The Shadow —> l’artista chiede alla madre di assoldare un investigatore che la segua di nasco-
sto e ne documenti tutte le attività.

5. 1983, L’Hotel —> questa volta l’artista si fa assumere da un albergo Veneziano e si improvvisa came-
riera. È addetta alle stanze quindi ha la possibilità di raccogliere e fotografare quello che più la colpi-
sce. Durante l’esposizione di queste fotografie, il tutto è corredato da annotazioni prese durante i so-
pralluoghi.

6. Alla fien dell’83, L’Homme au carnet —> Calle contatta le persone citate in una agenda che trova ca-
sualmente per strada, appartenuta a un uomo di nome Pierre. L’artista interroga queste persone, gli
chiede di parlare del proprietario dell’oggetto.

7. 1999, Double Game —> questa volta ci suggerisce un sofisticato gioco in cui vita reale e letteratura si
intersecano e si sovrappongono. All’origini di questo progetto sul doppio vi è un romanzo: il Leviatoa-
no di Paul Aster. Egli aveva inventato un personaggio femminile ispirato proprio a Calle. La quale per
rilanciare questa sorta di provocazione, cerca di mimetizzarsi con le abitudini e vicende della protago-
nista nel romanzo.

8. Nel 2006 si misura con il fantasma di Monique, la madre-rivale appena morta. Per questa opera monta
ricordi e testimonianze anche irrilevanti della sua vita. Per pronunciare quel dolore, realizza un work in
progress composto da performance e installazioni. È il preludio di un video in cui documenta gli ultimi
momenti di Monique. Possiamo affermare che Sophie arriva a identificarsi con Monique.

È sicuramente un’opera ambigua, ma profondamente coerente. Essa ruota attorno ad alcune tematiche
ricorrenti: la sorveglianza, l’esibizionismo e l’assenza. Calle vuole guardare, sapere e quasi abitare la vita
degli altri, senza mai entrare in relazione diretta con essi.

Inoltre, nell’intento di far apparire la sua figura come un soggetto, ma al tempo stesso anche come un og-
getto delle sue investigazioni, Calle sembra dirci che il vero non è mai come appare. Le cose non sono
mai come si manifestano.

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- Prenez soin de vous, 2007 —> la filosofia autoriflessiva che troviamo nelle altre opere, raggiunge l’api-
ce in questo lavoro. Il nome può essere tradotto all’inglese con Take Care of Yourself. È stata esposta
nel 2007 alla biennale di Venezia. Si tratta di una installazione intermediale che poi, come spesso acca-
de alle opere di Calle, è diventata un volume.

Questa opera ha dietro di se una lunga preparazione, perchè già a partire dal 1985 da vita a un progetto
che la accompagnerà per circa vent’anni. Il dolore, è il protagonista della scena, generato da una improv-
visa e violenta fine di un amore. Da questo episodio nasce un’opera in tre atti intitolata Douleur exquise.
Sostanzialmente adotta una nuova tipologia di cura, che consiste nel comparare il proprio dolore con
quello vissuto dagli altri.

Quasi dieci anni dopo, nel 2003, in occasione della grande antologia organizzata al centro Pompidou, Cal-
le trona a interrogarsi sull’opera dell’85. Intanto però, nel 2004 Gregoire Bouillier pubblica un romanzo con
chiari riferimenti all’artista. Ciò influisce pesantemente sull’opera presentata alla Biennale di Venezia.

All’installazione Prenez soin de vous collabora l’artista Daniel Buren, che ha l’intuizione di suddividere il
padiglione francese in sei sale con un peristilio. All’interno degli ambienti, vengono sistemai i video, le im-
magini, gli scritti che vanno a comporre l’opera. Questa varietà di oggetti non è altro che il preludio all’im-
ponente volume che accompagna e completa l’interminabile lavoro di Calle. Sul tavolo al centro dell’alle-
stimento la lettera di G, sezionata e tradotta in mille linguaggi diversi. Lo scritto viene trattato anche come
un canto della commedia, diviso in terzine. Allo stesso modo diversi autori la utilizzeranno per altri proget-
ti, è il caso di una cartoonist rimasta particolarmente affascinata dalla questione.

Tuttavia il libro Prenez soin de vous è anche un massive-book da attraversare e da vedere, che ospita cd-
room con vari contenuti. Ci troviamo davanti a una sperimentazione iconotestuale, che recupera alcune
fondamentali triadi dell’arte concettuale:

- Calle guardando a Joseph Kosuth, il teorico dell’art as idea as idea, secondo cui l’opera d’arte non è un
prodotto ma una riflessione teorica su una determinata idea. Da tale filosofia si muovono le installazioni
che propongono allo spettatore una triplice visione della realtà. Calle riprende queste intenzioni e le ri-
modula. Per Prenez soin de vous sceglie il tema dell’abbandono, che riattraversa servendosi di diversi
linguaggi. Per un altro verso rende caldo l’approccio al conceptualism e per un altro ancora soggetiviz-
za il metodo di Kosuth, immettendo nelle sue costruzioni frequenti rimandi alla dimensione del vissuto
quotidiano. Il cuore dell’opera sta proprio nel fatto che l’artista ha un rapporto diretto con i suoi lavori. In
altre parole elabora un discorso autobiografico che parte da alcune domande e che trasformano questi
interrogativi nel fulcro dell’installazione. Essa costruisce delle installazioni neoesistenzialistiche, in cui si
esprime in prima persona, traendo sempre spunto da traumi privati. Calle in Prenez soin de vous, adotta
però un ulteriore modello di lavoro, a differenza di quello che ha fatto nella maggior parte delle sue ope-
re, si affida a un moto centrifugo perchè non è lei ad andare verso gli altri, ma sono gli altri che lei attira
a sè. Invece di rintanarsi nel proprio malessere, decide di aprirsi con degli sconosciuti che tratta come
interpreti, amplificando la propria drammaturgia.

Nella costruzione di un romanzo dedicato all’installazione della biennale di Venezia affidato a Buren, Celle
sembra ritrarsi e si presenta a noi come individuo che può scoprire se stesso solo riconoscendosi in un io
differito.

Prenez soin de vous si configura come un laboratorio, all’interno del quale l’artista può analizzare, sezio-
nare e smembrare la propria sofferenza. Tuttavia sembra quasi un implicito riadattamento del format dei
reality show. Questa opera sembra essere molteplici cose, ma è sicuramente un involontario romanzo visi-
vo, che oscilla tra momenti gravi e momenti ludici. Calle attribuisce al contenuto un ruolo fondamentale e
non crede nell’art pour l’art, tanto è vero che rifiuta ogni processo estetico focalizzandosi sul recupero del-
la dimensione affubulativa dell’arte.

L’artista per realizzare i suoi capolavori, si ispira a diversi artisti e a diversi ambiti:

- Calle si ispira al realismo ossessivo di Perec, il quale nelle opere Le cose e L’intra-ordinario, aveva ela-
borato una sofisticata antropologia del presente.

- È inoltre affascinata da un altro animatore del gruppo avanguardisti: Raymond Queneau. Il quale nei
suoi memorabili esercizi di stile, realizza novantanove variazioni di un unico episodio quotidiano. Sulle
orme di questo libro Calle realizza Prenez soin de vous , perchè ripete il medesimo testo in decine di
modi diversi e accumula 107 traduzioni della lettera di addio di G.

Prenez soin de vous non è solo una lettera, siamo davanti a un palinsesto ben calcolato. Troviamo la ri-
modulazione di un episodio di vita personale, con all’interno giochi rispecchianti e processi di straniamen-
to. Se la si guarda da questo punto di vista l’opera è una installazione da leggere e un libro da guardare,
quasi un romanzo autobiografico sincero che invita all’adesione il lettore. Forse Prenez soin de vous è an-
cora altro. Calle è convinta che le diverse pratiche linguistiche non debbano mai rimanere dentro il proprio
settore, ed è per tale ragione che essa realizza un’opera impossibile da catalogare. L’uso di questo strata-
gemma rivela il significato profondo dell’installazione, una combinazione e commistione di vari mondi.

Le ragioni di una poetica simile, come ci rivela l’autrice, sono quelle di mettere in dubbio e far vacillare le
categorie estetiche tradizionali. Un modo per favorire l’allargamento dei confini dell’arte.

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Quarto capitolo
EPICHE POSTMODERNE
Siamo nella sala dell’epica post moderna, un viaggio nel perturbante e denso richiamo al barocco. Vedre-
mo costruzioni visionarie di artisti lontani che condividono il bisogno di avviare un dialogo con il passato.
Si sperimentano connessioni temporali ardite, perchè questi artisti sentono la storia dell’arte come materia
bruciante, da riattivare in opere in cui si fondano pittura, disegno, teatro, musica e cinema.

6. CANONE GREENAWAY

Nell’edizione della biennale di Venezia del 1993, tra le più riuscite composizioni troviamo l’opera Watching
Waters, allestita a Palazzo Fotunay da Peter Greenaway.

Nel 2015 sempre a Venezia, Trione chiede proprio a Greenaway di introdurre il padiglione dell’Italia. Da qua
Trione ha potuto vedere i rimandi e l’essenza dell’arte dell’ autore.

Tra i soggetti che più hanno influenzato l’artista troviamo la figura di Ejzenstejn, a cui proprio nel 2015
Greenaway dedica un film delirante dal titolo Ejzenstajn in Messico. Le ragioni della fascinazione di Gree-
naway per la figura di questo autore sono altrove. Ci troviamo davanti al padre di un cinema non più
schiavo di una narrativa prosaica. Egli è stato tra i primi registi moderni a elaborare un discorso interme-
diale. Infatti nei suoi scritti sottolinea la necessità di individuare connessioni tra i territori linguistici poco
contigui. In altre parole egli sostiene che occorra disegnare geografie all’interno delle quali pratiche diver-
se possono continuarsi. L’obbiettivo di Ejzenstajn è elaborare una teoria estetica generale fondata sull’in-
dividuazione dei punti di intersezione, dove territori lontani si confrontano attivamente.

Per un verso egli usa il cinema per risolvere antiche questioni storico-artistiche. Per un altro verso, usa la
pittura per fornire una base solida alla propria filosofia filmica, ma anche per ancorare il suo mestiere e un
rigoroso procedimento costruttivo-visivo. Eppure come Ejenstajn stesso sostiene, la pittura è solo un pre-

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ludio all’avvento del cinema. Il quale ha intimamente condizionato la sensibilità contemporanea e ha con-
tribuito alla ridefinizione dello statuto dell’arte.

Partendo da questo discorso critico eisensteniano, Greenaway sottolinea la dimensione già cinematogra-
fica di alcuni capolavori della storia dell’arte, mettendo in luce le assonanze e le corrispondenze non sem-
pre manifestate che legano pittura e cinema.

Da ragazzo l’artista ha frequentato la scuola di belle arti, dove ha scoperto il cinema e ha deciso di spo-
stare il suo interesse dall’immagine fissa a quella in movimento. Nonostante ciò i film di Greenaway hanno
sempre un approccio intimamente pittorico e si mostrano sempre come l’esito di un processo complesso,
in cui confluiscono scrittura, ideazione, realizzazione e disegno. In una tale prospettiva sono rivelatori al-
cuni suoi film girati negli anni ottanta, che assorbono e rimodulano stimoli della tradizione pittorica e archi-
tettonica moderna.

Tuttavia Greenaway va oltre Ejzenstajn, perchè la sua ambizione è quella di violare i confini tra le diverse
discipline, per elaborare un genere ulteriore, all’interno del quale possano innanzitutto confluire pittura e
cinema.

Intorno a queste tematiche Greenaway ritorna nelle lectures tenute nel 2010 all’Università di Berkeley, in
cui sostiene che la pittura e il cinema possano sostenere un dialogo. Partendo da una intuizione come
quella descritta precedentemente, il regista elabora un processo che si ripete ciclicamente nella storia del-
le arti:

- prima si definisce la specificità di un determinato medium.


- Si perfeziona lo stesso medium in seguito.
- Infine si destabilizza il medium.
Ora secondo l’autore ci troveremmo nella fase della decostruzione, in una età di multiculturalismo dove le
esperienze artistiche devono farsi ibride.

Secondo Greenaway per attuare questa ipotesi bisogna innanzitutto superare le regole del cinema holly-
woodiano, con un intrattenimento passivo e pigro. Inoltre bisogna superare i limiti propri del linguaggio
filmico tradizionale perchè computer, smartphone e tablet stanno influenzando l’approccio con le immagi-
ni. Ciò non incide solo sulle opere ma anche sui lavori degli autori, che non possono più tenere posizioni
anacronistiche, ma devono invece porsi in sintonia con l’evoluzione digitale in atto.

Testimonianza di questa filosofia dell’arte è l’opera più imponente di Greenaway:

- Ten Classic Paintings Revisited —>


1. nel 2006 il Rijksmuseum di Amsterdam commissiona al regista una installazione multimediale per ce-
lebrare, in maniera innovativa il quattrocentesimo anniversario della nascita di Rembrandt. L’ invito of-
fre all’autore lo stimolo per dare un diverso impulso alla sua ricerca: un cinema capace di uscire fuori
dalla cornice dello schermo della sala buia, per migrare altrove magari sulle pareti di un museo.
Egli assume la Ronda di notte di Rembrandt per decorare la Sala della Guardia nel palazzo del municipio
di Amsterdam. Si tratta di un dipinto maestoso soprattutto per le dimensioni, ma anche per il carico cultu-
rale che cela dietro le luci e le ombre. Rembrandt nell’opera filma il momento esatto quando il capitano
della compagnia dà l’ordine al proprio luogotenente di far avanzare in marcia i suoi uomini ancora sparpa-
gliati. Greenaway resta incantato dalla ronda di notte, perchè gli appare come un dipinto forte, un esempio
di costumi e maniere olandesi. Esprime inoltre con gran efficacia l’amore per la conviviali e il senso della
solidarietà propri del paese olandese. Identificandosi quasi con il maestro olandese, il filmografia sceglie
di teatralizzare il capolavoro, facendo nascere il progetto Nightwatching, scandito in due capitoli ospitati
in due diverse sale del Rijksmuseum.

• Nella prima stanza, si assiste a un mosaico di monitor: su circa trenta schermi sottili di diverse dimen-
sioni. Sono presenti i personaggi coinvolti nella genesi dell’opera. In sottofondo la voce di Greenaway
registrata che svela le finalità sottese all’opera di Rembrandt. Il tutto viene accompagnato dalla musica
di Giovanni Sollima. Questi materiali audiovisivi interagiscono e vengono associati ai gesti delle figure
rappresentate. Stavolta in maniera inaspettata, gli schermi suggeriscono possibili percorsi iconografici.
• Adiacente alla prima sala, la seconda, totalmente immersa nel buio con una tribuna e trentaquattro se-
dute, proprio come il numero dei personaggi filmati da Rembrandt. In lontananza, un sipario aperto con
il monumentale quadro. Si può notare come tutto l’insieme giunga a una perfetta sintesi tra pittura teatro
e cinema.
Lo spettacolo è introdotto da un rullo di tamburi insieme a un bagliore proveniente da un videoproiettore
che illumina una parte della ronda di notte, facendo affiorare un particolare: il tamburo. Nello stessa ma-
niera affiorano altri particolari, mentre le proiezioni delle immagini e le luci rendono tridimensionali il coro di
figure.

- Per la prima volta in questa messa in scena Greenaway manifesta la volontà di dar vita a un quadro.
L’appendice della videoinstallazione è il film Nightwatching del 2007. Dove ci ripropone la vita del pittore
olandese, affrontando volutamente un periodo particolare della sua carriera. Sullo sfondo, la satira poli-
tica e passioni amorose. Il film sembra rimandare a Blow-up di Antonini e a un celebre film amatoriale
sull’assassinio di Kennedy. Ambientato nel 1642, il film di Greenaway racconta l’origine della ronda di
notte. Attorno al quadro ruotano assassini, cospirazioni ed equivoci, quasi una accusa contro i potenti.
Non casualmente proprio la ronda di notte determina l’inizio delle sventure del pittore. Tuttavia ne emer-
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ge l’identità del pittore come un uomo semplice, quasi mai mostrato nell’atto del dipingere. Ogni scena
del film è una perfetta trasposizione dei dipinti- fotogrammi di Rembrandt.
- Un altro passaggio successivo dopo il progetto della ronda di notte, è il film del 2008: Rembrandt J’ac-
cuse. Un documentario che mette in evidenza la complessa trama di enigmi annidata nella ronda di not-
te. Senza mai dichiararlo Rembrandt dipinge un j’accuse.
Per elaborare questa inchiesta Greenaway combina materiali eterogenei e frammenti di archivi. Mescola
storia dell’arte con il cinema, la musica, il teatro, la fotografia e il disegno.

Infine grazie alla collaborazione con la stilista di moda Vivienne Westwood, ricostruisce fedelmente gli abiti
dei personaggi del quadro.

2. Nel 2008, la seconda tappa di Ten Classic Paintings Revisited. Questa volta Greenaway sceglie una
delle icone della storia dell’arte: l’ultima cena di Leonardo. In questa opera a gruppi di tre gli apostoli ma-
nifestano le loro emozioni, creando una sublime sinfonia di affetti di cui lo spettatore si sente parte.

L’omaggio al capolavoro di Leonardo progettato da Greenaway viene proiettato direttamente sull’affresco


autentico a Santa Maria delle Grazie a Milano in una sola giornata. Il cineasta reinterpreta l’ultima cena
direzionando fasci di luce sulla superficie dell’affresco, e al tempo stesso, diffondendo una sinfonia di mu-
siche, di parole e di suoni nel refettorio di Santa Maria. In questa impresa coinvolge il designer Adam
Lowe, il quelle unisce le scansioni tridimensionali con le fotografie ad alta risoluzione. La sfida di clonare
per la prima volta il quadro di Leonardo sembra quasi scandalosa, ma la riproduzione è perfetta. Tanto che
consente di vedere al di la del visibile.

I medesimi effetti ritornano nella seconda versione di the lust supper. Il rigido protocollo di tutela dell'af-
fresco di Leonardo costringe l'autore a spostare la replica nella sala delle cariatidi, all'interno del palazzo
reale di Milano. Il clone in questo caso viene incastonato nella ricostruzione tridimensionale del refettorio
di Santa Maria delle grazie. Lo spettacolo dura circa mezz'ora, durante il quale l'osservatore può attraver-
sare uno scenario multimediale immersivo.

- L’epilogo dell’opera è The missing Nail, del 2019. Una installazione con la colonna sonora di Marco Ru-
bino e del gruppo Architorti. Il tutto si ispira nuovamente al cenacolo vinciano e con un gioco di luci,
prospettive, linee evidenzia il capolavoro di Leonardo.

3. Nel 2009 Greenaway incontra le nozze di Cana del Veronese. Sistemata sulla parete di fondo del Refet-
torio del convento di San Giorgio in precedenza e dal 1798 al Louvre. In questa opera si trovano a convi-
vere motivi sacri e motivi profani. Il soggetto è religioso, con Cristo al centro della tavola imbandita e at-
torno una vibrante scena di vita moderna. Vi sono davvero tanti particolari.

Greenaway compie un gesto scandaloso, perchè sceglie di riportare la sua versione delle nozze di Cana
nella collocazione ordinaria dell’opera, anche questa riattivando il soggetto del quadro. Vuole porre in dia-
logo pittura, cinema, architettura e musica.

Per aderire maggiormente allo spirito dell’opera Greenaway integra il piano iconografico con quello uditi-
vo. In un primo momento mostra il caos della drammaturgia del Veronese e in seguito decide di scandire il
dipinto in varie sezioni. Infine fa parlare i personaggi che, pur avendo spesso bocche chiuse, sembrano
sempre sul punto di dire qualcosa. Alla fine, il dipinto va in fiamme e segue con temporale. Tutto diventa
buio.

Nightwatching, the last supper e the wedding of Cana sono i primi capitoli di un’opera che prevede ancora
altri sette momenti difficili da realizzare per ragioni produttive e economiche.

Nei prossimi anni Greenaway rileggerà:

- Guernica di Picasso.
- Lo sposalizio della vergine di Raffaello.
- Las Meninas di Velazquez.
- Le ninfee di Monet.
- Una domenica alla grande Jatte di Seurat.
- One: number 31 di Pollock.
- Il giudizio universale di Michelangelo.
Dunque dal rinascimento alla modernità, per poi ritornare al rinascimento. Letteralmente un polittico in
progress che rivela la vocazione enciclopedica del filmaker inglese.

IL CANONE—> Per cogliere il senso profondo dell'avventura dell'autore, potremmo ritornare a un libro molto
controverso: il canone occidentale. Secondo Harold Bloom, il canone è un tentativo per mappare l'in-
commensurabile. Egli aggiunge che il canone serve per cogliere la logica sottesa a eventi anche dissonan-
ti. Vi sono autori che hanno portato avanti canoni e hanno sovvertito tutti i valori, lo stesso Greenaway
sembra animato dalle medesime ambizioni totali di Bloom. The classic paintings revisited si da come ca-
none dell’arte occidentale. Una sorta di museo immaginario che rivela la volontà dell’autore di portarsi ol-
tre certi dogmi dell’avanguardismo novecentesco.

INFLUENZA—> Il progetto di Greenaway vuole portarsi oltre l’idea di modernità come epoca dominata dal
culto della novità. Nella nostra epoca, per lui, non ci si può più illudere che sia possibile fare tabula rasa
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del passato, occorre invece riappropriarsene e riassorbirne tracce, fino a rendere sempre più incerti i con-
fini tra creazione e interpretazione. Si può ben notare come Greenaway sia insofferente nei confronti delle
categorie e sia invece animato da un bisogno di riaffermare il senso della continuità. Per questa ragione gli
sceglie di partire da iconografie classiche adottando prospettive inedite. Si comporta, utilizzando la meta-
fora di Fumaroli, come un’ape e non come un ragno. Per lui eseguire un’opera non è far nascere qualcosa
dal niente, ma è trovare. Insomma egli non pretende di essere il padre di se stesso.

Decisiva per lui è la strategia della distanza, che consiste nell’avvicinare a noi qualcosa di lontano, conser-
vandolo però nella sua lontananza. Solo questa fusione può accrescere e intensificare la vitalità di un rap-
porto. Impegnato a distaccarsi dal presente Greenaway trattiene la lontananza in un esauribile desiderio di
vita. Non vuole spingersi solo oltre, infatti ricerca efficaci antidoti per affrancarsi dall’assedio ossessivo
dell’attualità. La memoria, per l’artista è un divenire.

Greenaway in questo panorama si ritrova in polemica con quanti negli ultimi anni hanno abdicato al con-
fronto con la tradizione. Egli preferisce abitare nella casa della storia dell'arte, al cui interno si muove non
come un turista occasionale ma come un legittimo inquilino. Inoltre ritiene che l'arte si rinnovi, senza pro-
gredire, senza annientare mai la propria memoria, ma costruendoci sopra.

La storia dell'arte è una materia a suo parere, bruciante e da reinventare continuamente. L'autore stesso si
confronta con essa e mentre esplora le iconografie degli antichi maestri ne inventa altre, disegnando uni-
versi di senso parallelo. Confrontarsi con i capolavori del Rinascimento è un modo per ravvivare le emo-
zioni da esse suscitate e dilatare gli spazi del fantastico. In tal modo sembra voler rendere giustizia a quel-
la che è la segreta ambizione di ogni classico: immettere le memorie in questo tempo.

PITTURA—> nel viaggio attraverso le stanza della storia dell’arte, Greenaway vuole riaffermare di uno dei
linguaggi più demonizzati delle avanguardie: la pittura. Essa è stata quasi dimenticata nella creatività post
moderna e anche in luoghi come la biennale di Venezia, di cui da qualche anno si avverte una drammatica
assenza. La pittura viene trattata come un genere residuale, simbolo di un passato da demonizzare, da
cancellare. L’ artworld contemporaneo continua a prediligere le provocazioni di matrice post dadaista, ma
nonostante questo la pittura oggi non è affatto morta. Anzi è ovunque e appare come un orizzonte sfascia-
to, i cui detriti riemergono un po' dappertutto.

In tutto questo l'artista sembra dirci, che capolavori della storia della pittura non vanno solo studiati ed
esaminati in maniera analitica, ma chiedono di essere riattivati dall’artista-critico.

Greenaway nelle sue rivisitazioni tende a ricreare l’atmosfera delle botteghe rinascimentali, dove il maestro
era circondato da assistenti e da collaboratori. Egli si avvale di un ampio staff per donare una vita ulteriore
ai capolavori del passato, per fare ciò segue diversi sentieri. Egli proietta il facsimile direttamente sull'ope-
ra autentica, in una sala di un museo o all'interno di un contesto diverso. Il suo fine però rimane sempre il
medesimo: drammatizzare l'iconografia da cui muove, affidandosi all'artificio della decostruzione. Per
comprendere tale gusto per le zoomate e per il glow-up, ci si potrebbe riferire a un altro progetto enciclo-
pedico del 1995. In occasione del centenario della nascita del cinema Greenaway presenta The Stairs—>
un work in progress destinato a essere replicato periodicamente in varie città del mondo: ciascun capitolo
sarebbe stato incentrato su uno dei 10 temi fondamentali del linguaggio cinematografico. Il primo set vie-
ne girata a Ginevra dove l'autore sistema scale in legno bianche in diversi punti della città. Questi soggetti
sono legati da un elemento comune: uno spioncino, che offre una visione particolare. La medesima filoso-
fia ritorna in Ten classis paintings revisited. Nell’opera Nightwatchhing, Greenaway smembra l’opera di
Rembrandt in un puzzle di schermi diversi. In the last supper, enfatizza volti e gesti leonardeschi. Infine in
the wedding of Cana disarticola l’impianto geometriche e prospettico complessivo del capolavoro di Vero-
nese, donando voci e sonorità ai personaggi.

Ogni facsimile è concepito come una forma di realtà aumentata.

Greenaway è consapevole che ogni copista, come ricordava Carlo Ludovico Ragghianti, non aderisce mai
all'apparenza esteriore dell'opera, ma spesso riesce a penetrare gli strati e le fibre. La mimesi come ben
sa l’autore, non significa copiare fedelmente, ma scoprire.

Con le sue attribuzioni erronee, Greenaway sembra immaginare il destino possibile della pittura, che per
avere ancora un senso deve essere contemporaneamente uguale a se stessa e diversa da sé. Egli ritiene
che per custodire ancora un significato la pittura non debba mai smettere di ri-locarsi. In questo caso per
ri-locazione si intende uno slittamento geografico e semantico inatteso. In altre parole specifiche icone
trasmigrano dal loro consueto ambito verso altri contenuti. Un processo poetico del genere, determina
non un indebolimento dell'aurea dell'opera d'arte, ma il suo ritorno su un altro registro.

Greenaway supera le idee benjaminanie, anzi le rovescia perchè crede che a la riproduzione, tramite la
perfezione tecnica, restituisca all’immagine deteriorata un’aura nel luogo stesso dove era stata concepita.
Il fine ultimo di questo immenso work in progress è proprio la riaffermazione dell’aurea dell’arte.

7. EPICA BARNEY
- Matthew Barney nel 1992, in occasione della Documenta di Kassel, presenta OTTOsharf —> un ‘opera
pensata come omaggio alle gesta di Jim Otto, leggendario giocatore di football. Si tratta di una installa-
zione che mette insieme scultura e video. Incredibilmente OTTOsharf disegna già un tentativo di co-

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struire una personale mitologia, all’interno della quale convergono momenti autobiografici, elementi fan-
tastici e vicende storiche.

- Segue Drawing Restrait 7,1993 —> è un esercizio linguistico ibrido con tre monitor, alcuni disegni e pic-
coli frammenti scultorei che animano un passaggio surreale.

Occorre partire da questi episodi per accostarsi a Cremaster Cycle—> l’opera mondo a cui Barney si
dedica dal 1994 al 2003. Uno snodo decisivo della postmodernità.

• 1994 : Cremaster 4. Barney evoca l'attimo in cui gli organi genitali cominciano la loro discesa che de-
terminerà il sesso del feto. L'autore principale è il regista stesso, che impersona il candidato Loughton,
un satiro dalle movenze dadaystiche e capelli rossi. Il candidato è sessualmente indefinibile, ma il suo
cognome è ispirato a una razza di ariete tipica irlandese. Questo animale si esibisce all’interno del film in
tante strambe performance, mentre sullo sfondo si stagliano atmosfere celtiche e gare di moto. Non
moto dall’aspetto normale, ma macchine con una struttura avveniristica, divise in due squadre: gialla e
blu. La prima allude al moto ascensionale delle ovaie, l’altra al tragitto discendente dei testicoli. In que-
sto modo la tecnologia diventa una rappresentazione simbolica delle tensioni sottese alla vita di ogni
organismo. L'epilogo consiste nella vittoria del team blu.

Il senso-non-senso del film è racchiuso in una delle sculture che accompagnano l’opera: The Isle of Man.
Due sidecar, una guata e una blu, arricchiti da particolari dettagli: la punta della macchina gialla è coperta
da una sorta di preservativo, mentre la ruota della bicicletta blu ospita una strana appendice srotale. L’uni-
verso medico si fonda con quello meccanico.

• 1995: Cremaster I. È un ulteriore film girato nello stadio di Boise, dove l’autore ha trascorso la sua ado-
lescenza. Il film si apre con un musical costellato di dive, quasi facendo un rimando esplicito al mondo di
Broadway. Questa volta si celebra il tripudio della pittura visiva, forse un modo per alludere alla fase più
indeterminata dello sviluppo sessuale dell’embrione.

Anche in questo caso il film è seguito da sculture che sintetizzano plasticamente il significato implicito di
Cremaste I.

• 1997: Cremaster 5. Il set questa volta si sposta a Budapest. L’opera diventa una gabbia toracica. Il pro-
tagonista, ancora una volta interpretato dallo stesso Barbey, è il mago Houdini. Ora però egli non inter-
preta solo le vesti del mago, ma anche quelli della diva e del gigante. Intorno alla sua personalità multi-
pla si muovono i personaggi che sembrano provenire direttamente dall’inconscio.

Tuttavia tra le figure centrali del film troviamo quella della regina, che a un certo punto diventa architettura
e viene evidenziata da una scalinata di cristallo. Tutto sembra essere un rimando al moto ascensionale dei
testicoli nell’atto della creazione.

• 1999: Cremaster 2. Quasi un film storico che affronta un periodo lungo dal 1893 al 1977. Barney sceglie
di riadattare con libertà un romanzo di Norman Mailer, Il Canto del boia. Questa volta l’ambientazione è
nello Utah e il protagonista, interpretato ancora da Barney, è Gilmore. Intorno alla sua figura si snodano
tante avventure prive di ogni logica. Sono molteplici le digressioni. Nasce un’opera oscura con immagini
di forte impatto, dove ogni avvenimento vero viene riletto in chiave visionaria.

Questa intricata trama è riportata in un ciclo di sculture: The Cabinet of Gary Gilmore and Nicole Baker che
evoca la storia d’amore interrotta tra Gilmore e la sua donna. Inoltre The Drones’Exposition, in cui gli og-
getti vengono resi in maniera iperrealistica, quasi come in un progetto daliniano.

• 2002: Cremaster 3. Il cuore di questo episodio è New York con gli edifici del Chrysler Building e il Gug-
genheim museum. Il protagonista è un apprendista massone, interpretato da Barney, che prova a eman-
ciparsi dal peso della vita materiale, per dedicarsi alla riflessione concettuale. All’interno dell’ elegante
edificio ritroviamo decine di personaggi occupati in rituali incomprensibili e atti feticisti. Diversamente il
museo newyorkese viene trasformato nel teatro di un gioco a premi post-umano. All’interno del film tro-
viamo sempre il protagonista che lotta contro figure surreali, mentre alla fine viene messo in scena una
sorta di conflitto tra generazioni. Sono presenti diverse scene fantastiche dense di reinviti al cinema noir,
insieme a un rodeo di automobili e momenti della storia americana degli anni trenta.

Questa polifonia nasce da una scultura intitolata Chrysler Imperial, in cui frammenti eterogenei vengono
assemblati in un montaggio plastico, che rivela freddezza industriale e caratteristiche neobarocche.

• 2003: Cremaster approda al Guggenheim di NY. I cinque episodi girati dal 1994 al 2002 vengono rialle-
stiti in un progetto imponente che occupa l’intero museo. Ovunque sono presenti megaschermi e i para-
petti della spirale di Wright vengono coperti con protezioni di gommapiuma, in modo tale da simulare gli
ambienti delle palestre. Questo palinsesto enciclopedico è accompagnato da tante altre presenze: foto-
grafie e sculture, che consentono di ripercorrere il kolossal nella sua completezza.

ENTROPIA—> Per comprendere il senso di questo ciclo che dura più di cinque ore, destinato ai circuiti mu-
seali, potremmo rifarci a un celebre racconto di Thomas Pynchon, Entropia. la narrazione parla della vita di
due gruppi di amici. Il primo gruppo è espressione di un disordine sfrenato, l’altro è metafora di un ordine
maniacale. Tutto si accomuna da un caos sempre incombente. A un primo sguardo Cremaster Cycle si
configura proprio come il racconto dell’entropia, ovvero un collage che nega ogni coerenza.

Barney all’interno di Cremaster raduna una vasta pluralità di suggestioni e di antiche leggende che arric-
chiscono, ma al tempo stesso rendono opaca la trama della sua saga. In polemica con le scelte di Holly-

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wood, egli rifiuta ogni leggibilità immediata. Prosegue per la via dell’ermetismo, consapevole di realizzare
un’opera incomprensibile.

Siamo al cospetto di una gigantesca enciclopedia visiva occupata da dissonanti visioni, da registri diversi
e iconografie ricorrenti. È tuttavia una drammaturgia impossibile da riassumere, che si potrebbe quasi de-
finire come un recipiente dentro cui c’è di tutto. Barney costringe lo spettatore a farsi travolgere da una
nebulosa, che lo avvolge, lo stordisce e lo condanna allo smarrimento.

Ma davvero Cremaster è il regno dell’entropia? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare riferi-
mento a Omero e ai suoi tanti eredi moderni e postmoderni, che considerano l’epica come il genere lette-
rario originario.

L’epoca nei secoli è stata spesso riattivata, trasformata e addirittura trasportata da una lingua all’altra.
Barney molte volte ha parlato della sua fascinazione per il mondo della letteratura. Tra i suoi scrittori più
amati c’è Mailer, con i suoi romanzi segretamente epici a cui si è ispirato in diverse occasioni. Lo stesso
Mailer inoltre appare come un personaggio in Cremaster 2.

Barney riprende dall’epica soprattutto la sua tensione cosmologica sottesa che sin dai tempi più antichi si
offre come un viaggio di formazione. Egli nella sua opera si propone innanzitutto di trasfigurare, in chiave
metaforico-simbolica l'origine della vita embrionale, lo stesso titolo si riferisce al muscolo cremaste, che
regola il moto dei testicoli.

Tuttavia ancora sulle orme dell’epica antica e moderna, Barney attribuisce una centralità assoluta alla sfe-
ra del mito. In aggiunta memore delle esperienze narrate nell’Odissea, egli recupera anche la dimensione
metaforica dell’epica. Lo si nota dalla modulazione della drammaturgia e nell’uso delle gesta eroiche nei
suoi personaggi, che sono costretti a superare diverse peripezie.

Diversamente da ciò che succedeva nella tradizione omerica, i personaggi non rispettano i due archetipi
narrativi omerici: l’assedio e il ritorno. Essi amano smarrirsi e intraprendere pellegrinaggi infiniti senza arri-
vare a un fine.

Come si può dedurre, all’interno dell’opera Barney pone se stesso, travestito in tanti modi diversi, e per
questa ragione potremmo definire Cremaster come un autoritratto differito, che mette in scena il volto mu-
tevole dell’inconscio. Con i film egli sembra volerci ricordare che i confini della nostra identità sono mute-
voli.

Il ricorso all’epica ha soprattutto un altro valore, ovvero che si da come cornice all’interno della quale si
trovano a convivere tante differenze. La filmografia di Barney ci permette di cogliere le ambiguità della sua
poetica, che sembra mimare il meccanismo del funzionamento onirico. E come sosteneva Freud non è
mai originario. Situandosi nell’orizzonte psicoanalitico Barney con Cremaster compone un’epica nella qua-
le tutto è perfettamente leggibile e insieme imprendibile.

Per un verso egli ci mostra gli individui e per un altro si abbandona alla violenza oltrepassando dei limiti.
L'opera diventa così una teratologia, un regno mostruoso, il cui autore è un artista postmoderno che nel
recuperare la tradizione dei bestiari medioevali e rinascimentali, sceglie di non mostrare più l’individuo se-
condo modalità consolidate. Mette in scena, invece, esseri fantastici e repellenti. Ciò può essere conside-
rato come una allusione alla crisi della coscienza europea che cela follie e angosce.

Vi è tuttavia un altro aspetto particolare, quello della poetica antinaturalistica, di cui Barney è uno degli
ultimi protagonisti. All’interno dell’opera si entra in un gioco di deviazioni, dove i personaggi non hanno
fattezze umane e sembrano incroci tra uomini e animali. Questo aspetto non è altro che il bisogno dell’ar-
tista di uscire dai canoni convenzionali.

TRA FIGURAZIONI E DE-FIGURAZIONI—> Dietro questi giochi tra identità e disidentità si nascondono tanti echi
storico-artistici. Barney richiamandosi a Warhol vuole inventare una specie di metafisica industriale. Ado-
pera luoghi comuni per dare solidità alla dimensione del banale e compiendo quella che Adorno definisce
la mimesi dell’indurito e dell’alienato. Queste riprese figurative sono accostate ad ardite ipotesi de-figura-
tive, che guardano a diverse esperienze. In primo luogo al gotico, da cui l’autore è particolarmente sedotto
e per questo si impegna a far rinascere atmosfere infernali. Egli guarda soprattutto alla reinterpretazione
del gotico offerta nel secondo settecento da scrittori come Horace Walpole, Johon Polidori e Mary Shelly,
autori di drammaturgie spaventose. La loro poetica è quella di divertirsi con la paura.

- Barney è ammaliato anche dal barocco, per il tripudio della fantasia, considerata dall’artista come sino-
nimo di sapienza retorica. Tutto ciò viene sottolineato dalla necessità di infrangere gli schemi razionali, per
stabilire connessioni tra materialità e spiritualità. Barney si ispira soprattutto all’uso del corpo suggerito dai
protagonisti del barocco.

- Si ispira anche a personalità eccentriche come quella di Hieronymus Bosh, creatore di opere popolate di
esseri infernali. Quasi una prefiguratore delle iconografie modellate dai surrealisti come Ernst, Magritte e
Dalì. In particolare in Cremaster, Barney guarda a Dalì con le sue visioni oniriche e distorte del mondo.

- Infinie, il Post-Human, la tendenza diffusasi soprattutto negli anni novanta, animata da figure che aspira-
no a prevedere catastrofi.

Barney come dimostrano i vari passaggi dell’opera aderisce al fenomeno dei cyborg, delle identità tecno-
logiche. Cremaster si fa cosi rilettura e riattraversamento di significativi momenti della storia dell’arte, che
vengono trattati come reperti ben allineati nelle sale di una sorta di pinacoteca immaginaria. Evidenti sono
anche le assonanze con il gusto del bricolage citazionistico di un cineasta come Quentin Tarantino, con

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cui Barney condivide la predilezione per la ripresa dell’impronta postmoderna. Ma diversamente dal regi-
sta di Pulp Fiction, tende a trasfigurare le proprie fonti.

TRA NARRAZIONE E ANTI-NARRAZIONE—> Oltre a riscrivere significativi punti dell’arte Barney nell’opera tradi-
sce ogni linearità narrativa. Innanzitutto gira cinque episodi senza seguire alcuna cronologia. In altre parole
concepisce e realizza i vari capitoli secondo un ordine arbitrario. In questo modo egli sembra assegnare a
ogni tessera del suo monumentale puzzle una forte autonomia, che suggerire ogni volta un nuovo inizio.
Anche da questo punto di vista appaiono evidenti le affinità con Tarantino.

Barney sperimenta una scrittura disintegrata, elabora una trama impossibile, ma Cremaster è soprattutto
un luogo aperto all’interno del quale pratiche e linguaggi tradizionali si incontrano, mettendo in discussio-
ne la propria specificità.

Il progetto di Barney nasce da una prospettiva intermediale. Prima egli raduna sui muri del suo studio mol-
ti disegni, che inseguito vengono disposti in lunghe linee verticali, per poi essere ripresi. Assemblaggi che
evocano il bisogno di dare una struttura a una materia magmatica, rendendo visibile il trasformarsi della
materia stessa. La sfida dell’autore stalle color imprimere un moto al proprio progetto plastico. Egli vuole
smaterializzare la monumentali attraversi le immagini in movimento e per rendere cinematografica la scul-
tura, si richiama al linguaggio filmico. Per un verso in linea con Tarantino, cita generi e sottogeneri holly-
woodiani. Per un altro verso egli rilegge diverse suggestioni filmiche che riformula e personalizza. Nasce
cosi un film che accoglie al suo interno tanti altri film.

Dunque l’opera è un disegno, una scultura, cinema e pittura. Barney muove da queste specificità linguisti-
che, per interrogarle, per superarle. Egli pensa all’opera d’arte come uno spazio di negoziazione tra disci-
pline e tecniche differenti, in cui far convergere immagini in movimento e immagini statiche in un discorso
unitario. Le diverse arti si incontrano e insieme, si fondono in un transgenere.

In ultima analisi potremmo dire che Cremaster è come un nodo. Barney reinventando i media di cui si ser-
ve arriva a ridefinire così l’idea stessa di opera d’arte.

L’epica di Cremaster trova il suo approdo nei cataloghi che accompagnano questa creazione visionaria.
Sono volumi curati interamente dallo stesso artista e hanno l’obiettivo di fare chiarezza sull’intero film. È il
preludio della mostra-installazione organizzata al Guggenheim del febbraio 2003.

A differenza di quel che avviene al cinema, nell’allestimento del museo lo spazio espositivo si temporalizza
nello sguardo del visitatore. L’intero del museo viene trasformato in una cornice dilatata e accogliente, la
stessa spirale di Wright diventa lo sfondo per la meditazione sui modi e sulle forme di arte.

Questa opera totale ci consente di cogliere la tensione epica sottesa a Cremaster, il sui autore non è solo
un provocatore, ne un artista ma un favolista. Forse Barney è ancora altro, è un disinvolto erede di Dante.
Creatore di un opus magnum che potremmo legger come una riscrittura, in chiave multimediale e polimor-
fa, della divina commedia.

8. FANTASY HIRST
Tra le maggiori celebrities dell’arte contemporanea troviamo Damien Hirst. Quando Trione incontra per la
prima volta Hirst è l’ottobre del 2004, a Napoli al museo Archeologico, durante la sua mostra The Agony
and the Ectasy. Si tratta di un itinerario tra le sue opere che oltre ad avere una risonanza con i reperti ar-
cheologici, ha un non so che di tragico.

Hirst arriva a Napoli qualche giorno prima, adulato dal sistema dell’arte, ma allo stesso tempo attaccato
da molti critici. In questo viaggio lo accompagnano alcuni amici, tra cui Banksy, che nell’occasione dise-
gna un graffito sulla facciata di un palazzo del centro storico.

Tuttavia quella mostra ha un valore particolare per l’artista, perchè come tante altre figure al giorno d’oggi,
avverte la necessità di essere consacrato in una cornice istituzionale. Per lui un museo di arte antica è un
luogo dotato di potere taumaturgico e la sua ambizione è proprio quella di sentirsi un grande artista, in
grado di essere alla pari dell’arte dei secoli religiosi.

A un primo sguardo Hirst è la concretizzazione dell’idea Warholiana dell’arte come business. Per com-
prendere la strategia sottesa al suo lavoro, potremmo richiamarci ai molti artisti che hanno cercato di por-
tarsi al di la del ristretto cerchio dell’artworld, per diventare famosi come popstar. Basti pensare agli stessi
Dali e Warhol, ai loro tanti eredi come Basquiat fino ad arrivare a Hirst. Egli diventa una personalità impre-
vedibile, a tratti contraddittoria. È l’autore di installazioni provocatorie e sin dai primi anni novanta entra a
far parte dell’immaginario collettivo al pari di Steve Jobs o Lady Gaga.

Per tanti è solo un autore sopravvalutato, il simbolo della degenerazione del gusto contemporaneo. Crea-
tore di un’arte che non si da più come spettacolo, ma come una apertura verso i confini della libertà. No-
nostante ciò, gli si può riconoscere il talento comunicato, Jean Clair lo definisce tra gli ultimi epigoni di
Duchamp. Il suo, ha osservato Clair, è uno stile non supportato da alcuna conoscenza tecnica, ma studia
solo le strategie comunicative e del marketing. Secondo il critico dal dopoguerra è iniziato un drammatico
declino segnato da rivoluzioni permanenti che ci portano in un teatro colmo di blasfemie.

Specchio di questo naufragio è l’opera di Hirst, che vuole spingersi al di la di certi giochi concettuali.

Vi è anche un lato meno manifestato da Hirst, che è rappresentato da una naturale inclinazione surreale,
da una volontà di uscire dal mondo.

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Per uscire dal mondo Hirst segue diversi sentieri:

1. innanzitutto, si affida a uno sguardo retrospettivo. Avvia dialoghi diretti o laterali con capolavori dell’an-
tichità, del rinascimento, del barocco. Questa attitudine emerge con forza nella:

- Murderme Collection—> una collezione privata messa insieme dagli anni Ottanta, resa poi pubblica in
una mostra permanente alla Newport Street Gallery di Londra. Questa esposizione lascia intravedere
amicizie, affinità e ossessioni. Amicizie in quanto tende a scambiare le opere con i suoi compagni della
Young British Art. Affinità proprio perchè il corpo più consistente è costituito da sculture, disegni e qua-
dri degli artisti da lui maggiormente amati. Infine le ossessioni come manufatti di indigeni della costa del
nord-ovest del pacifico e un archivio di maschere funebri, reperti archeologici, fotografie vintage. Sem-
bra quasi essere una Wunderkammer degli orrori.

2. Alcuni gesti per uscire dal mondo, sono parte integrante delle sue opere. Esse si fondono su due mo-
menti decisivi. Innanzitutto egli si ispira alle lezioni del suo maestro Francis Bacon, che secondo Kundera
si basa a un gesto brutale e scandaloso, per portare alla luce l’io sepolto degli uomini. Non casualmente i
suoi quadri subiscono una distorsione senza perdere il carattere di organismi viventi. In consonanza con il
suo maestro, Hirst pensa l’arte come un evento estremo che, senza ricorrere a metafore o a evocazioni
deve lasciare un segno.

In questo Hirst appare in sintonia con le poetiche di molti artisti legati a esperienze come il post-human e
con la sensazion Generation che, negli ultimi anni novanta, hanno elaborato un’inedita forma di realismo
radicale, per interrogarsi sull’identità dell’uomo contemporaneo.

Nelle opere di Hirst però non c’è traccia del dolore che attraversa i dipinti di Bacon, anzi si respira un’atro-
ce serenità. Egli coniuga caos e ordine, fa incontrare voci diverse in una polifonia esatta. Dunque animali
tagliati e messi formaldeide, archivi medicinali in bacheche, farfalle uccise e poi messe su tele. Nelle opere
di Hirst tutto è organizzato, reso addirittura asettico e per tale ragione molte sue installazioni potrebbero
essere interpretate come involontarie riscritture del genere classico della natura morta. Fedele ai mondi
dell’impressionismo l’artista sublima brandelli di reale, conducendoli verso una monumentale e spettaco-
lare solennità.

Possiamo inoltre affermare che il pensiero di Hirst è mosso da alcune domande esistenziali e tematiche
eterne come la morte, mostrata come esperienza familiare, concreta.

Da questa vocazione drammatica trova il suo approdo l’opera For the love of God —> la religiosità laica di
Hisrt ha molti punti in comune con quella di tanti altri artisti blasfemi del xx secolo. L’opera consiste in un
calco di platino di un cranio settecento, tempestato di brillanti, con un diamante rosa a goccia sulla fronte.
Un monumento al cattivo gusto, ma sicuramente un tentativo per coniugare la preziosità e il ricordo della
morte. Possiamo notare i riferimento ad alcuni riti ampiamente diffusi in Messico con l’idea di non na-
scondere la morte, anzi renderla concreta e presente.

Dietro la sua maschera di ribelle, Hirst cela un animo quasi filosofico. Da un lato vuole l’immediatezza co-
municativa. Dall’altro lato, si misura con cruciali questioni esistenziali che da secoli tormentano gli artisti.
Lui stesso afferma di vuole creare oggetti che abbiano un significato eterno.

3. vi sono altri modi ancora per uscire dal mondo. Come quelle suggerite da Cif Amontan II, vissuto tra I e
II secolo d.C. Egli diventa un ricco collezionista e inizia a raccogliere opere d’arte provenienti da varie parti
del mondo. Gran parte di questo meraviglioso tesoro verrà caricato sull’Apistos, una nave di straordinarie
dimensioni. Durante il lungo tragitto per Asit Mayor, non si sa per quali circostanze, la nave affonda.

Nel 2008, questo tesoro sommerso nell’oceano indiano per quasi duemila anni, viene rinvenuto lungo la
costa orientale dell’Africa. Il mare ci restituisce brandelli di ricchezze perdute, su cui si è posata la flora e
la fauna degli oceani. Per misteriose ragioni Hirst entra in possesso di questi manufatti, che nel 2017 de-
cide di presentare in una spettacolare mostra a Venezia.

- Treasures from the Wreck of the Unbelievable—> dunque frammenti archeologici salvati, catalogati e
ordinati. Una parte della mostra si svolge sulla punta della Dogana in cui Hirst ordina sculture in diversi
materiali, mentre nella seconda parte, situata al Palazzo Grassi, espone un nucleo del tesoro rinvenuto
insieme alla ricostruzione di un modello dell’Apistos. Per concludere la mostra l’autore decide di allesti-
re intere stanze che documentano con fotografie e video la spedizione subacquea.
La mostra è stata analizzata da tanti solo come un evento citazionista e neobarocco, eccessivo e kitsch.
Contrariamente alcuni sostengono che sia un’opera che salda territori, mondi e linguaggi provenienti da
epoche diverse.

Per comprendere il senso profondo di questo progetto visionario, potremmo smuoverci da questioni molto
attuali. Un problema attorno al quale, senza dichiararlo, Hirst si richiama sono le fake news. Nella contem-
poraneità, come osserva Baricco, è stata messa in discussione la nostra idea di verità, che ha acquisito un
nuovo statuto e non si fa più controllare. Nell’epoca dell’interconnesione, come quella odierna, non esiste
una netta separazione tra chi fornisce le informazioni e chi le legge, perchè per la prima volta i documenti
circolano da tutti verso tutti a grande velocità. Ci troviamo nella stagione della post-verità, che si fonda
sull’intreccio e sulla sovrapposizione tra fatti e narrazioni. È il mondo che Hirst definisce Unbelievable.

Treasures from the Wreck of the Unbelievable è questo: un monumento innalzato alla post-verità. Si pensi
solo al disinvolto utilizzo che Hirst propone della mitologia. Il suo fine è quello di dar voce a un tempo che
non ha alcuna intenzione di disincantarsi fino in fondo.

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Sulle orme di una antica tradizione storico-artistica Hirst sceglie di ripercorrere i sentieri della mitologia.
Per lui gli esseri mitologici, ninfe e dei sono personaggi da far rivivere con una sensibilità postmodernista.
Questa opera è presentata con una disomogenea carrellata di divinità venate da diversi culti religiosi. Da
un lato egli ne tutela la riconoscibilità, mentre dall’altro le ritocca remixandole.

Nella mosatra-installazione veneziana, Hirst trae spunti eterogenei dalla costellazione del mito, che poi
tradisce immettendoli in giochi di sovrapposizioni divergenti e di metamorfosi. Letteralmente il vero cono-
sce la finzione e accade così che accanto a fossili antichi si incontrino reperti disneyani. È il trionfo dell’as-
surdo. Insieme al patrimonio salvato dell’Apiastos, Hirst presenta un busto in cui ritrae se stesso nelle ve-
sti del collezionista, mentre tiene per mano Topolino. Un modo per suggerire una implicita identificazione
con Amotan, ma anche un modo per invitarci a non credere alla parabola della nave affondata.

UN’ARTE LETTERARIA—> Per rendere credibile il post-verità dell’apistos, Hirst recupera una dimensione ro-
manzesca e affabulativa. Per lui fare arte è un modo per raccontare. Siamo difronte a due linguaggi che
nel XX secolo, si sono incontrati e respinti. Spesso scrittori e pittori si sono frequentati, si sono scambiati
idee e suggestioni condividendo intenzioni o progetti. Se pur con accenti diversi, molti artisti di oggi, sen-
za mai enunciarlo in maniera esplicita, sembrano condividere l’esigenza di riannodare i fili dell’arte con
quelli della letteratura: concepiscono le proprie opere come sistemi linguistici complessi e mobili.

In questo orizzonte plurale occorre iscrivere il progetto veneziano di Hirst a un genere letterario tradiziona-
le: i racconti fantastici. Si assiste alla rottura dell’ordine conosciuto dei fenomeni, all’irruzione dell’inam-
missibile nella cornice della quotidianità. Tolkien, scrittore del Signore degli anelli realizza una drammatur-
gia costellata di simboli di un universo perenne e arcaico, che riesce a sedurre bambini e insieme chiede
di essere decifrata dagli adulti. Senza confessarlo apertamente Hirst in questa opera, costruisce una epo-
pea avventurosa, forse ispirata proprio ai racconti di Tolkien.

Per Hirst la favola della nave è anche il soggetto di una sorta di film implicito. L’opera stessa potrebbe es-
sere letta soprattutto come lo storyboard di un colossale cinematografico ancora da girare. Palazzo Grassi
e Punta della Dogana sono stati trasformati in set di una fiction che si articola in un prologo, segue una
trama e ha un epilogo. I soggetti sono quasi invitati a diventare spettatori di un progetto filmico iperpop. In
linea con cineasti come Guy Ritchie si serve del cinema per rendere la sua ricerca credibile. Hirst in parti-
colare si ispira a un genere cinematografico specifico: il Fantasy. Che a differenza della fantascienza, non
immagina paesaggi lontani e improponibili, ma guarda verso mondi diversi.

Il fantasy è dominato da personaggi incantati e da creature magiche, dove si susseguono trasformazioni e


si colgono a volte gli echi dell’orrore. Treasures from the Wreck of the Unbelievable è il primo tentativo di
importare nei confini dell’arte contemporanea una rilettura originale del fantasy.

Soffermandoci sui relitti è evidente da un lato il bisogno di Hirst di reagire al minimalismo dell’arte con-
temporanea, abbandonandosi al gusto per il fare in grande.

Un esempio è: Demon with bowl —> il gigante di 18 metri posto al centro della corte di palazzo Grassi.
Una raffigurazione in resina dipinta del terribile dio Pazuzu.

Dall’altro la profonda attrazione per le geografie di Kitsch, inteso come luogo del senz’anima e dell’inau-
tentico. Il compito dell’artista consiste nel rifiutare ogni spinta progressista, pensando il proprio gesto non
come invenzione del niente, ma come citazione disinibita: ripescaggi e riutilizzi del già fatto.

Tra i rimandi che Hirst utilizza per la creazione della sua opera troviamo:

• il Sacro Bosco di Bomanzo: un paesaggio presurrealista, nascosto su una della colline della Tuscia. Tra i
più appassionati estimatori di questo Lugo troviamo proprio Dali. Lo stesso Hirst sembra richiamarsi alle
opere debordanti e eccessive di questo surrealista eccentrico e arrabbiato, che aveva trasgredito il sen-
so comune, appropriandosi di statue classiche attraversandole con cassetti e oggetti vari.

• Un altro artista a cui Hirst guarda è Bosh, creatore di una iconografia metamorfica.

• Infine, un posto di rilievo nel museo immaginario di Hirst è occupato dalle ricerche erudite di Baltrusaitis,
il quale aveva indagato le forme più significative di un medioevo ulteriore. Un medioevo fantastico.

Treasures from the Wreck of the Unbelievable fa entrare di tutto al suo interno. Un luogo dilatato all’interno
del quale i punti di vista parziali e limitati vengono superati, fino a coincidere. Un’opera totale nella quale si
trovano a convivere pratiche e media doversi.

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Quinto capitolo
LUOGHI-OPERE
Ecco ora due opere che riprendono la tradizione delle <<stanze delle meraviglie>> del XIV e XV secolo.
Installazioni fondate sul ricorso a linguaggi non contigui (arte, letteratura, cinema), dentro cui si stratificano
momenti privati, riferimenti culturali e barlumi visionari.

Le due opere che andiamo ad affrontare sono il museo privato di Istambul di Orhan Pamuk e la labirintica
mostra parigina di Philippe Parreno.

9.WUNDERKAMMER PAMUK
Orhan Pamuk viene incaricato di aprire la valigetta e il comodino del padre dopo la sua morte. Questi due
oggetti nascondono al loro interno brandelli di mondi, di emozioni e di esistenza. Occorre muoversi da qui
per comprendere la trama di riferimento spesso sottesa, al Museo dell’Innocenza. Una sorta di stratificato
edificio intellettuale e poetico, attraversato da particolari autobiografie, parti teoriche e anche composizio-
ni poetiche.

Pamuk a ventidue anni decide mollare le proprie aspirazioni di artista, per dedicarsi totalmente al mondo
della scrittura. Nonostante questo non riesce a liberarsi completamente della pittura, in quanto negli anni
successivi continua a frequentare il mondo dell’arte. Tra i movimenti che lo affascinano maggiormente,
troviamo: espressionismo, dadaismo e surrealismo. Lo scrittore è però informato sugli esiti delle ultime
avanguardie, affermando di non essere rubato dallo sperimentalismo. Inoltre aggiunge che al giorno d’oggi
non è semplice capire i linguaggi sia della scrittura che della pittura. Tuttavia la passione per l’arte trona
negli scritti critici e anche nei racconti, dove spesso si dilunga in descrizioni che rivelano una vasta cono-
scenza della materia.

Il senso di questa vocazione è analizzato in alcuni passaggi delle Norton Lectures tenute nel 2009-10
presso l’università di Harvard. In questo contesto Pamuk propone una sottile distinzione tra scrittori verba-
li e scrittori visivi. Nonostante tale differenziazione, scrivere un romanzo, sottlinea lo scrittore, significa in-
nanzitutto dipingere con le parole. In aggiunta afferma che la parola e l’immagine sono due elementi im-
prescindibili del pensare. Questo gusto è confermato dalla scelta di inserire nel museo dell’innocenza gli
acquerelli calligrafici del pittore Ahmet Isikci. Pamuk in ultima analisi ritiene che pittura e scrittura non sia-
no accomunate dalle medesime tensioni, ma operino su territori non contigui.

Questa passione per l’arte ha trovato un originale approdo nel museo dell’innocenza —> un progetto in-
solito, che ci parla innanzitutto proprio della necessità di tornare, in età matura, a fare l’artista.

Sin dall’inizio questo progetto sembrava avere un’anima divisa in due. Inizialmente nasce come una co-
struzione letteraria e come luogo concreto, una straordinaria occasione per saldare pittura e scultura. In-
fatti a partire dal 1982, Pamuk inizia a lavorare a un museo in cui assemblare gli oggetti reali di una vicen-
da immaginaria insieme a un romanzo basato proprio su quegli oggetti.

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In una prima fase egli pensa l’opera come una sorta di dizionario fotografico, assemblando pezzi comuni,
ambiti cittadini e concetti come l’amore. Ben presto abbandona questa tentazione enciclopedica, per mi-
surarsi con il genere letterario a lui più caro. Solo il romanzo, egli pensa, gli avrebbe permesso di esplorare
a fondo il senso della storia d’amore che aveva intenzione di affrontare: un personaggio che parla della
propria passione per una donna traendo spunto da alcune cose ordinarie.

Per conferire maggiore veridicità al suo racconto, Pamuk intraprende esplorazioni e sopralluoghi. All’inizio
egli si lascia guidare dalle sue stravaganze, ma in seguito inizia a frugare soprattutto tra i negozi del mer-
cato delle pulci di Cukurcuma. Pamuk trova numerosi frammenti dispersi da non mussulmani costretti ad
abbandonare la capitale Turca negli anni cinquanta. Il poeta rimane attratto da questi rimasugli, tanto che
inizia ad accatastarli nella sua casa. Involontariamente gli oggetti alimentano in Pamuk processi immagi-
nari che ruotano attorno alla città di Istanbul.

Dopo alcuni vagabondaggi per le strade, l’artista rimane folgorato da un piccolo edificio del XIX secolo a
pochi passi dal bagno turco di Cukurcuma. Gli viene una illuminazione e pensa che tutti gli oggetti raccol-
ti durante il corso degli anni avrebbero occupato proprio quella casa.

- Da questo backstage nasce nel 2008 il romanzo—> i fatti si svolgo nella città di Istambul durante gli
anni settanta. Il protagonista è Kemal, un ricco ventenne sposato con Sibel. Mentre compra una borsa
conosce una bellissima commessa: Fusun. I due si innamorano e danno inizio a una relazione clande-
stina che non porterà mai a nulla. Dopo il divorzio dei due coniugi, Kemal mosso dalla nostalgia cerca
Fusun, ormai sposata. L’uomo non si da per vinto e decide di frequentare il suo amore per altri otto
anni, fino a quando la donna muore in un incidente automobilistico. In tutto questo periodo durato anni
Kemal si dedica a una assurda e forse morbosa raccolta di oggetti riguardanti Fusun.

Parte proprio da qui l’intuizione del libro, che racconta di una passione bruciante attraverso gli oggetti.
L’epilogo della vicenda è sicuramente doloroso, ma l’autore del romanzo stesso diventa un personaggio.
Kemal chiede a un suo amico scrittore di costruire un museo in onore di Fusun, radunando tutti gli oggetti.
Questo amico è proprio Pamuk che esegue questo desiderio nella realtà.

- nel 2012, dal romanzo nasce un museo reale a Istambul —> gli stessi cittadini non riescono a compren-
dere pienamente l’opera, ma Istambul è sicuramente una città piena di contraddizioni.

Si tratta di un’opera in continuo divenire, all’interno della quale realtà e finzione si incontrano entrando in
collisione. Pamuk ci conduce in un mondo fatto di finzioni, frutto della sua immaginazione, che però noi
sentiamo vero. Proprio per rafforzare questo gioco crea un museo nel quale espone gli oggetti reali so-
pravvissuti a una vicenda letteraria.

- sempre nel 2012, dopo il romanzo e il museo, Il museo dell’innocenza diventa anche un catalogo illu-
strato—> il vero nome del catalogo è L’innocenza degli Oggetti. Una sorta di ripresa del progetto iniziale
del dizionario fotografico enciclopedico.

- L’approdo di questo viaggio è nel 2016 con un film-documentario dal titolo: Istambul e il Museo dell’in-
nocenza di Pamuk. Diretto da Grant Gree.

Il museo dell’innocenza è un originale esercizio di traduzione intersemiotica, che si ricollega a quelle espe-
rienze fondate sui passaggi imprevisti tra sistemi espressivi non contigui.

In questa opera media diversi interagiscono, si mettono in movimento disegnando territori aperti. Da tali
pratiche ne emerge anche l’impossibilità di far coincidere perfettamente un romanzo con un film, in quanto
permane una incommensurabilità che differenzia le diverse tipologie pratiche. In altre parole resta la so-
stanza, mentre mutano i modi attraverso cui quella sostanza viene presentata.

Pamuk recupera questa tradizione moderna, a cui apporta significative modifiche. Innanzitutto egli cura
sempre in prima persona le diverse versioni del romanzo. Inoltre si misura contemporaneamente con il
museo, il romanzo, il catalogo.

Ci troviamo davanti a un’ opera mondo formata da diversi momenti, che hanno relazioni intime tra di loro.

MODELLI MUSEOGRAFICI—> dietro all’ opera mondo si nascondono diversi modelli museografici e storico-
artistici.

- in primo luogo ls wunderkammer allestite nel ‘500 e nel ‘600. Prodigiose sintesi tra conoscenza scientifi-
ca e piacere estetico. Fondamentali sono stati anche i monumenti archivistici immaginati da Giulio Ca-
millo nel rinascimento e da Aby Warburg nel novecento.
- La vera fonte di ispirazione sono i micromusei. Delle realtà espositive marginali, che riescono a far acce-
dere a un mondo privato e alla visione del mondo di un individuo animato da una passione. Vi sono di-
verse case e studi trasformate in gallerie aperte al pubblico che lasciano emergere storie e passioni,
quella che più ha affascinato Pamuk è di Mario Praz a Palazzo Primoli. Praz era un raccoglitore e un
arredatore, guidato da un morboso amore antiquariale. Egli trasforma la sua abitazione in un dilatato re-
gno dell’anima. È proprio Praz il modello di riferimento per il museo dell’innocenza.
In linea con questi antichi modelli, i macromusei sembrano suggerire una strada diversa rispetto ai modelli
di oggi, perchè non mirano ad intrattenere, ma si articolano come spazi di pensiero. In tale contesto Pa-
muk ha sottolineato l’unicità del suo progetto. A differenza dei macromusei, il museo all’innocenza mostra
cose concrete assemblate da una figura fittizia per celebrare l’amore con un’altra figura fittizia.

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MODELLI ARTISTICI—> sono decisivi alcuni rimani storico-artistici. In particolare Pamuk guarda con interesse
soprattutto a quelle figure che hanno costruito le loro opere accostando, rimontando e risemantizzando
oggetti.

- sulle orme di Schwitter si muovono alcuni artisti che compongono il pantheon ideale di Pamuk. Essi uti-
lizzano oggetti quotidiani accusandoli con effetti dirompenti. Ilya ed Emilia Kabakov sono due coniugi,
autori di installazioni totali e multiformi, ricche di assonanze neodadaiste.
- Robert Rauschenberg. Il padre del new dada non vuole rappresentare il caos del reale, ma lo abbraccia
trattandolo come il fulcro dentro cui tuffarsi. Sedotto dal non finito, concepisce le proprie opere come
disomogenei arsenali, in cui si stratificano barlumi di attualità. Tuttavia intrattiene un rapporto amichevo-
le con gli scarti della quotidianità, non le icone della pop-art ma oggetti poveri. Nella sua pratica il colore
funge da collante e secondo Pamuk è il maestro del collage.
- Pamuk guarda anche a Boltanski per la sua abilità di assemblare fotografie e oggetti dimenticati.
- Daniel Spoerri viene elogiato per la sua abilità di guardare il reale in una maniera diversa.
- Infine Joseph Cornell, che cattura ciò che le grandi città gettano via. Questo artista iscrive gli oggetti
che trova in strutture simili a inventari, ed è proprio questa tecnica che vien tanto acclamata da Pamuk.
Egli arriva a definire il proprio museo dell’innocenza come una grandissima scatola di Cornell.

PER UNA FILOSOFIA DELLE COSE—> Ritroviamo un Pamuk collezionista, che nel suo opus magnum svela una
inclinazione segreta. Si dedica a un progetto potenzialmente infinito, nella consapevolezza che mancherà
sempre un pezzo. È proprio qui il senso profondo di ogni collezione: provare a colmare un vuoto che re-
sterà per sempre incolmabile.

Negli scritti sul museo dell’innocenza, l’autore preferisce parlare di oggetti, ma in realtà continua ad affer-
mare la centralità delle cose. Vi è un momento esatto in cui gli oggetti diventano cose, ovvero quando
sono investiti dagli affetti, dalle emozioni e dai simboli che individui, storia o società vi proiettano. Per
compiere questo passaggio bisogna portarsi al di la dei luoghi comuni, solo in questo modo potremo in-
contrare le cose. Le quali a differenza degli oggetti non si lasciano ridurre al valore d’uso e di scambio.
Esse inoltre detengono una vita autonoma, che non si lascia cogliere mai fino in fondo. Infine le cose spin-
gono l’uomo a uscire fuori da se stesso, a porsi in ascolto della realtà, ad aprire le finestre della psiche.

Si può perciò sostenere che il rapporto tra individui e cose riproponga, su un piano diverso, certe dinami-
che proprie dell’amore. Secondo lo stesso Pamuk le cose hanno il potere pratico di far luce su qualche
evento del passato.

In questo modo, il museo dell’innocenza sembra rilanciare, nella post modernità, le riflessioni rinascimen-
tali introno all’ars memeorativa condotte da Giulio Camilllo totalmente in sintonia con Pamuk, che pensa la
propria wunderkammer letteraria e artistica come un palazzo della memoria.

Eppure nonostante l'artista sia un collezionista critico. In alcuni testi ha affermato di essere spinto non dal
bisogno frenetico di possedere alcuni oggetti, ma dal desiderio di svelarne i segreti. In ciò sembra com-
portarsi come il bricoleur di cui ha parlato Levi-Strauss.

QUASI UN FILM—> Il filigrana, nell’opera troviamo anche impliciti riferimenti cinematografici come Il Volo se-
greto di Omer Kavur.

Involontario regista Pamuk, nel suo colossale letterario-visivo-oggettuale, ricorre a una tecnica tipicamen-
te cinematografica come quella del montaggio. Accosta pezzi di varia provenienza, per poi inventare tra-
me che legittimino quelle combinazioni. Senza preoccuparsi di divisioni tra arti maggiori e minori, Pamuk
attiva pratiche retoriche ardite. In tal modo trasforma la prosa quotidiana in poesia. Per lui collezionare si-
gnifica narrativizzare la quotidianità, spazializzare il tempo.

Forse il museo dell’innocenza è proprio questo: un modo per evocare la forma del tempo.

Pamuk sembra richiamarsi anche a un pittore lontano dal suo tempo: Giorgio de Chirico. Il quale ritrae un
universo fantastico, ma privo di fantasmi. Concepisce il surreale come proiezione ortogonale del visibile.
Un pò come Kafka fa convivere il massimo della chiarezza con il massimo dell’oscurità.

Dinanzi ai nostri occhi si disegnano i contorni di un’epica dell’assurdo.

In ultima analisi Pamuk nel museo dell’innocenza sembra voler accostare due territori linguistici lontani:
letteratura e arte. Per un verso presenta una installazione unitaria, a sua volta formata da tante teche. Per
un altro verso, fa confluire una pluralità di voci in cornici abilmente progettate. Infine continua ad assegna-
re un’assoluta centralità a brevi istanti che raduna dentro le vetrine.

10.FILM PARRENO

Parigi, 1985. Il Centro Georges Pompidou ospita una mostra visionaria, curata dal filosofo Jaean-Francois
Lyotard. Il nome della mostra è Les immateriaux, un intricato percorso suddiviso in cinque zone in costan-
te e incrociata relazione. Da questi nuclei si snoda una sequenza di siti dedicati a questioni urgenti, tema-
tiche attuali e discipline diverse. Questa installazione voca la crisi dell’umanesimo e la dispersione dell’io,
allude all’abolizione della distinzione tra forma ed energia.

Les immateriaux va letta soprattutto come la prefigurazione dell’estetica dei nuovi media e della net art; e
come anticipazione della società digitale, segnata dal trionfo del web e delle opere d’arte interattive.

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I rimandi a questa opera emergono con forza nella prima antologia di Parreno:

- Alien Season, 2002—> situata al museo d’art moderne de la Ville a Parigi. Egli programma per la prima
volta un’intera esposizione servendosi di una tecnologia per l’automazione realizzata in collaborazione
con l’informatico Jaron Lanier e l’architetto Francois Roche.
• Il percorso è introdotto da Orange Bay: che consiste nel riportare del plexiglas di colore arancione sulle
vetrate del museo. Mentre si entra nel museo si scopre una mostra governata da uno show controller,
custodito in un armadio di metallo, che lega i vari episodi attraverso una rete invisibile di cavi. Il tutto
viene sincronizzato con le cinque sequenze del film Alien season. Il dispositivo inoltre attiva vari lavori:
• Battery house

• Le Mont Analogue

• El Sueno de una cosa: che mostra immagini del paesaggio norvegese immerse nella luce bianca del sole
di mezzanotte. Queste sequenze vengono poi riportate su pannelli bianchi, che alla fine dello show, si
rivelano come repliche dei White paintings di Rauschenberg.

• Nell’ambiente successivo troviamo traviamo Mont Analogue : composto da fasci di luce monocroma
proiettati sulle pareti, risultanti dalla trascrizione in codice morse di una pagina del romanzo di Daumal, il
Monte analogo.

• Nell’ultima sala dell’esposizione Credits: il film ispirato al luogo in cui l’artista ha vissuto da bambino.

Lo spettacolo è accompagnato da un riff del chitarrista degli AC/DC.

- Anywhere, anywhere out of the world, 2013—> sempre a Parigi, Parreno è il primo artista ad occupa-
re per intero lo spazio del Palais de Tokyo.
• L’ingresso dell’edificio è sormontato da Marquette: una scultura di plexiglas e luci. Un lavoro che recu-
pera il motivo delle insegne luminose poste all’esterno dei cinema di Broadway negli anni cinquanta, per
promuovere e annunciare i film in sala.

• Sulle ampie vetrate Parreno applica Out of focus Windows: una pellicola adesiva che oscura e insieme
disorienta la visione degli spazi esterni filtrando quelli interni.

• La biglietteria del museo viene trasformata da una installazione Untiled: composta da un branco di ac-
coglienza e da un muro retroilluminato.

• Dal soffitto di una stanza buia pendono cinquantasei luci intermittenti che percorrono tutto il lungo sen-
tiero espositivo. Questa opera prende il nome di Flickering Lights e vuole come alludere all’illuminazione
dei casinò di Las Vegas.

Terreno sincronizza la maggior parte delle opere in nostra con una nuova versione di Petruska, le cui sono-
rità si propagano nel palazzo grazie a quattro pianoforti autosuonanti disseminati lungo l’itinerario. In realtà
l’antologia si articola secondo una timeline più complessa, programmata da una serie di algoritmi che,
tramite uno show controller, regolano l’attivazione delle installazioni.

In aggiunta una volta acquistato il biglietto, al pubblico viene consegnato un dvd, intitolato Precognition.
Esso contiene due film: Continuously Habitable Zone e Marilyn. È un gesto per estendere i confini tradizio-
nali della mostra. Inoltre l’autore accompagna il dvd con una avvertenza: Precognition può essere visto
solo una volta, perchè la traccia video si cancella subito dopo la prima riproduzione.

La mostra si compone da una serie di immagini in movimento:

• TV Channel: ovvero un insieme di cinque film proiettati su un ampio schermo formato da diodi.

1. Fleurs—> un film della durata di cinquantadue minuti con un unico piano sequenza, che riprende un
bouquet di fiori, con continui cambiamenti di messa a fuoco.

2. No More Reality, la manifestation—> che documenta una manifestazione organizzata da Parreno con
un gruppo di studenti di una scuola elementare di Nizza, ai quali chiedi di organizzare uno slogan da
mettere in scena.
3. Anna—> un piano sequenza di quattro minuti in cui l’artista filma in primo piano la figlia del gallerista
Esther Schipper.
4. Alien Season—> un film composto da cinque brevi passaggi, con una seppia gigante dell’oceano paci-
fico, che cambia colore a seconda dell’ambiente e circostanze in cui si trova.
5. The Writer—> un cortometraggio di quattro minuti in cui Parreno filma un automa realizzato nel 1772
dall’orologiaio svizzero Jaquet-Droz. L’artista mentre riprende l’automa lascia la scritta <<What do you
believe your eyes or my word?>>

• Proseguendo la camminata troviamo Flickering Labels: composta da didascalie talvolta illeggibili, regola-
te nell’accensione e nello spegnimento dalle note della musica di Petruska. Seguendo il percorso delle
didascalie è possibile ricomporre lo sviluppo della storia narrata nel libro Snow Dancing, realizzato dallo
stesso Parreno.

- Sempre nello stesso ambiente l’artista colloca una nuova versione di Factories in the Snow: un’opera di
Gillik formata da neve nera artificiale e da un pianoforte che riproduce automaticamente la Petruska di
Stravinskij.

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- Vi è anche la Secret Bookcase Door: una libreria in legno progettata dall’artista e che avvolge al suo in-
terno un’installazione di Gonzalez-Foerster. Una biblioteca clandestina che funziona da varco segreto e
conduce verso la sala in cui Parreno rievoca una celebre mostra di John Cage e Cunningham allestita a
NY. L’artista nel suo riadattamento ripete lo stesso sistema dei ventuno disegni di Cage, quotidianamen-
te sostituiti da trenta disegni di Cunningham; ma con un’aggiunta: gli spazi lasciati vuoti dalla rotazione
dei disegni vengono riempiti dall’artista francese con una trama di pigmenti colorati.

- Troviamo inoltre Fade to Black: composto da poster fluorescenti serigrafati disposti sulla parete di fronte
alla Secret Bookcase Door. I poster sono realizzati con un inchiostro glow-in-the-dark e per questa ra-
gione sono visibili al buio.

- Sempre nella stessa sala è posto su una piattaforma illuminata a led dalla scritta Snow Dancing: si tratta
di un groviglio di spine e adattatori elettronici che formano un insieme scultoreo.

- E ancora Autograph: un robot progettato con l’università di Gottinga, che riproduce la scrittura di Mari-
lyn Monroe.

• Continuando la passeggiata, si scoprono poi diciassette Marquee, radunate in una nuova installazione:
Danny the street, il cui nome è ispirato a un supereroe. L’opera è composta da sculture luminose che
producono suoni diversi grazie ai dispositivi posizionati al loro interno che ne catturano le onde magne-
tiche.

- Ancora How can we know the dancer from the dance? Il cui titolo rimanda un verso di Yeats. È formata
da una pista da ballo bianca circolare e da una parete curva, che si sposta lentamente. L’intera struttura
è avvolta dal suono dei passi di danzatori.

- Incontriamo poi C.H.Z il cui titolo è l’acronimo di Continuously Habitable Zone. Si tratta di un concetto
preso dal mondo scientifico, coniato dagli scienziati per descrivere quei pianeti che offrono condizioni
ideali per lo sviluppo della vita. L’opera ha la conformazione di un giardino, caratterizzato da un pae-
saggio nero con terra, pietre e vegetazione. Questa ambientazione verrà ripetuta in seguito dall’artista in
una serie di disegni. In tutto ciò la fotocamera segue lo scenario quasi apocalittico e come lo stesso
Perreno afferma, il paesaggio diventa una forma d’arte.

- L’altro film Marylin, è ambientato all’Hotel Astoria di New York per ricordare appunto l’attrice americana.
Tuttavia la sua figura non appare mai, se ne evoca solo la presenza grazie a un algoritmo che ne ripro-
duce la voce e un robot che ne imita la scrittura. La videocamera esplora la stanza simulando lo sguar-
do di Marilyn mentre la sua voce ne descrive l’arredamento. Alla fine del film si vedono le quinte con gli
escamotage e il robot utilizzato.

• Quando termina il film di Marilyn si accendono le luci. Oltre agli schermi gli spettatori intravedono lo
Snow Drift: una distesa di neve artificiale installata in una stanza la cui temperatura è più bassa rispetto
a quella degli altri ambienti. Sembra di essere catapultati dentro a un febbraio newyorkese. Vi sono altri
episodi segnati da questo percorso come:

- Automated doors: una porta finestra, che si apre e si chiude a intervalli regolari, consegnandoci le voci e
i rumori di Parigi.

- L’opera che da il nome all’intera antologia Anywhere out of the World: realizzata da Parreno in collabo-
razione con Pierre Huyghe per il progetto No Ghost Just a Shell.

• L’ultimo ambiente del palais de Tokyo, viene occupato da diciassette schermi sui quali è proiettato Zida-
ne: a 21st Century Portrait. Realizzato in collaborazione con Douglas Gordon e ispirato a un lungome-
traggio del 1970 realizzato da Hellmuth Costard per il celebre calciatore George Best. Il film realizzato da
Parreno riprende il calciatore da diciassette telecamere che lo seguono ovunque. Il progetto nasce a Ge-
rusalemme nel 1996 in una conversazione tra i due artisti che hanno l’intuizione di riprendere il calciatore
e non più la palla.

In questa opera i due creatori si rifanno alle opere di Velazquez e Goya, ma anche agli Screen test di
Warhol. Queste retrospettive vengono poi applicate nelle riprese che colgono il calciatore in tempo reale e
soprattutto nei suoi minuziosi gesti. Nel soundtrack, si alternano i commenti dei telecronisti con i cori. Inol-
tre in alcuni passaggi del film, sotto forma di sottotitoli, scorrono le dichiarazioni di Zidane.

Nella versione che viene presentata al palais de Tokyo, non sono presenti questi inserimenti e nella pausa
sui diciassette schermi si attiva il film No more reality , la manifestation. Infine riprende Zidane.

EFFETTO BUZZ—> Anywhere out of the World non è una retrospettiva, nè una antologia. Si tratta della terza
personale grande sala di Parreno organizzata in una importante istituzione museale francese.

Egli utilizza questa opera per rimodulare alcuni artifici culturali e radicalizzare la propria pratica espositiva.

All’interno di questa cornice, si dissemina una fitta punteggiatura di disegni, di film e di installazioni video,
tra rimandi letterari e fascinazioni architettoniche.

In ultima analisi possiamo definire Anywhere out of the World come un’opera d’arte totale che favorisce
l’interazione tra percezione ottica e aptica. Suscita come direbbe il critico statunitense David Joselit una
sorta di effetto buzz (ronzio). Possiamo reinterpretare questo buzz utilizzando le parole di Bourriaud a pro-
posito della relazione tra arte e cinema in significative esperienze poetiche del XX e XXI secolo. Molti artisti
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nel richiamarsi alla potenza mondiale del cinema, pittura, letteratura e architettura, sin dagli inizi del nove-
cento, tendono a ridefinire la propria identità. Il cinema sottolinea Bourriaud, ha alterato la natura stessa
del linguaggio artistico perchè ha rappresentato il reale al di fuori di ogni mediazione. Per meglio dire que-
sto medium rivela a noi qualcosa di evidente, ma anche qualcosa di ignoto e sfuggente. A differenza della
pittura e della fotografia ha il potere di condurci dentro il presente ed educa a sentire ciò che esiste. Il
cinema, come sottolinea il critico, è espressione di un realismo ontologico, non ha bisogno di inventare
una segno per descrivere un oggetto: può limitarsi a mostrarlo per quello che è.

Tra i primi ad aver colto questo potere secondo Bourriaud, ritroviamo Duchamp con la ruota di bicicletta
del 1913, molti artisti contemporanei e postmoderni che hanno lavorato come cinemisti e lo stesso Parre-
no. Secondo il quale l’arte plasma uno spazio in cui gli oggetti, le immagini e le mostre sono istanti, sce-
nari da reinterpretare. Testimonianza di questa filosofia è Anywhere out of the World, il cui autore sembra
comportarsi come un involontario regista di un quasi-film.

L’ARTISTA COME REGISTA—> Per costruire la propria drammaturgia Parreno si ispira d alcune liturgie su cui si
fonda la pratica regista. Il ruolo del regista è quello di dare coerenza a una polifonia di esperienze. Egli
però non potrà mai realizzare un film da solo, necessita di una troupe che si concentri su momenti partico-
lari. La sua è un’arte della collaborazione. Parreno si sottrae al culto dell’individualità, tende soprattutto a
comportarsi come una regista cinematografico, che coordina e governa figure diverse.

Animato da questa consapevolezza l’autore mira a portarsi oltre certe aspettative e abitudini, che richiede-
rebbero di irrigidire il suo lavoro. Perciò memore della lezione du Djagilev, Parreno progetta le sue mostre-
opere come campi aperti a molteplici apporti. Si disegnano così spazi dentro cui convergono installazioni
dello stessi Parreno insieme a creazioni realizzate da lui stesso in collaborazione con altri artisti e con ope-
re di altri autori. Basti pensare a Anywhere out of the World, alla cui ideazione partecipano diverse figure,
soprattutto con lavori e mansioni differenti.

PROCESSO CRETAIVO—>
1. I SOPRALLUOGHI: prima di girare un film Parreno insieme alla sua troupe, effettua una serie di sopralluo-
ghi. Succede anche nel caso del palais de Tokyo. Una volta accurato il sopralluogo ricostruisce lo spa-
zio in uno studio grazie a disegni e modelli in 3D.

2. IL SOGGETTO E LA SCENEGGIATURA: è la seconda fase e Parreno mira ad attenersi a un segreto story-


board, assecondando il bisogno di comunicazione e narrazione sempre più diffuso nel nostro tempo.
Recupera la potenza sottesa all’immaginario cinematografico, concependo la sua mostra come un
grande e dissonante kolossal.

3. IL CASTING: il momento in cui sceglie le opere. In linea con molti artisti della sua generazione, Parreno
avverte il bisogno di porsi in ascolto del caos della cultura globale nell’età dell’informazione, caratteriz-
zata dall’incremento delle forme e delle immagini. Egli prende possesso delle proprie installazioni e di
quelle altrui, che reinterpreta ed espone in maniera sempre diversa. Ricorre dunque a meccanismi di-
namici per riaggregare e riconfigurare contenuti già esistenti.

4. LE RIPRESE: i protagonisti sono le opere d’arte, anche se per Parreno le opere non esistono. Se non vie-
ne esposta l’arte è condannata a essere mera merce. Riprendendo le riflessioni di Serres e Lautur, Par-
reno interpreta le opere d’arte come quasi-oggetti che, se isolati o considerati singolrmente, rischiano
di risultare addirittura stupidi. Per avere un significato profondo invece le opere vanno riattivate e rise-
mantizzate. In altre parole bisogna sottoporle a un processo di cambiamento spazio-temporale e infine
porle in dialogo con altre opere all’interno di una drammaturgia stabilita dall’artista.

5. IL MONTAGGIO: in questo passaggio Parreno si ispira ai gesti del montatore, il quale seleziona quotidia-
namente spezzoni, sperimentando una pratica intimamente decostruttiva, basata sul taglia e incolla di
rammenti eterogenei, in vista di una ricomposizione testuale.

6. LA COLONNA SONORA: come in ogni film, anche in Anywhere out of the World, è imprescindibile. I com-
menti musicali sono dotati di un ruolo centrale, perchè non devono limitarsi a appoggiare ciò che si
vede sullo schermo, ma farsi cinema. Pronunciare quello che le immagini da sole non dicono.

IL FILM-MOSTRA—> Da questi risultati nasce Anywhere out of the World. Un film impossibile, girato senza
macchina da presa, che trasforma il palais de Tokyo in uno spazio sceneggiato.

La tensione filmica sottesa alla poetica di Parreno era già emersa nel 1990 alla esposizione collettiva fatta
con Pierre Joseph e Philippe Perrin, intitolata Les Ateliers du Paradise. Le stesse fascinazioni tornano in
questa mostra, che per Parreno non è semplicemente un accumulo di opere all’interno di un contesto.
Esporre secondo l’artista è infastidire il visitatore nel suo confort intellettuale. Esporre è suscitare emozio-
ni. In sostanza per Parreno una mostra è un modo per fare mondo. Un luogo dove lavori già prodotti ven-
gono rimessi in gioco all’interno di scenari differenti.

IL FILM-INSTALLAZIONE—> Egli dirige il suo quasi-film al Palais de Tokyo come una cosmologia. Una me-
gainstallazione enciclopedica, temporanea, non-finita, priva di un inizio e di un epilogo, impossibile da ri-
solvere nella sua interezza. Una quasi-film che si sottrae alle registrazioni fotografiche e video. Inoltre la
messa in scena non può essere esposta di nuovo o venduta nella sua interezza. Diversamente da quel che
accade nella pittura, scultura e nel cinema, il suo unico supporto materiale è lo spazio in cui è allestita.

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Immagini e non immagini si trovano a convivere in questa opera-mondo. La quale invita lo spettatore ad
abbandonare la fruizione individuale, per entrare a far parte di una comunità di individui.

Parreno nel film-mostra-installazione mira al definitivo superamento della definizione oggettuale dell’arte.
Anywhere out of the World si offre come un set in cui si amalgamo pittura, disegno, fotografia, testi, ready
made, film, registrazioni e musica. Nell’involucro del Palais di Tokyo ciascun linguaggio si relaziona con ciò
che non è.

Questa tensione verso una sorta di luogo poetico è sottolineata da un articolo dello stesso Parreno in cui
parla di un’arte senza qualità. Per dare un nome all’opera d’arte priva di qualità specifiche, Parreno si è
richiamato a una parola immaginaria utilizzata da Mallarme: PTYX. È quasi un nome, suona bene quando
viene pronunciato, ma non ha un significato. Petyx dunque potrebbe chiamarsi l’opera d’arte che racchiu-
de dentro di se pittura, disegno, scultura, fotografia, cinema e musica.

GLI SPETTATORI—> Eppure Anywhere out of the World è quasi un film anche per un’altra ragione, si tratta di
una messa in scena aperta, incompiuta, che per funzionare ha bisogno della presenza del pubblico. L’arti-
sta attribuisce alle sue opere un importante valore fruitivo, proprio perchè le macchine visive diventano
autentiche solo nel momento in cui vengono sfruttate dai visitatori. L’opera non si pone più davanti allo
spettatore, diventa un involucro, una esperienza immersiva.

Per comprendere i valori di apertura espressi da Parreno potremmo guardare alle riflessioni di Goodman,
con la proposta di distinguere le opere autocratiche e quelle allografiche.

In fondo il vero potere del cinema consiste innanzitutto nella capacità di portarci altrove. Come ogni film,
Anywhere out of the World ci conduce in un altro mondo. Disegna i contorni di un’ eterotopia che ci isola
dal contesto circostante e, al tempo stesso, ci riduce verso altre dimensioni. Nella mostra parigina Parreno
sembra replicare il funzionamento della sala cinematografica.

Per terminare il discorso il palais de Tokyo si da soprattutto come un’occasione per smarrirsi in un labirinto
di visioni postmoderne e per evadere dal reale. A questo romanda il titolo stesso della mostra, che cita un
verso di una poesia di Thomas Hood, successivamente ripreso da Baudelaire in un poemetto in prosa.

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Sesto capitolo
SHOW TOTALE
In questa stanza ci sono alcune ipotesi dionisiache del XX e XXI secolo. Opere-mondo che rievocano le
feste e i riti antichi, rilanciando la tradizione wagneriana degli spettacoli totali, fondati sulla compresenza di
pittura teatro, letteratura e musica. Ritroviamo autori come Hermann Nitsch con una performance cruda,
quasi scandalosa che dura dai tre ai sei giorni, nella quale si intrecciano ritualità e estasi. Biork con un
complesso progetto multimediale e Es Devlin. Il quale utilizza diversi media e abilmente riesce a mischiarli
fino a far smarrire la loro identità originaria.

Su queste opere-mondo sembra allungarsi l’ombra lontana e ambigua di Dioniso, inteso come un supe-
ramento di tutte forme tramite un gioco di apparenze.

11. ESTASI NITSCH

A Lago Lusaro, alla Casina Vanvitella, letteralmente una piccola isola artificiale collegata alla terra ferma da
un pontile. Nel 1994 Trione cura una antologia di uno tra i più scandalosi artisti del novecento: Hemann
Nitsch.

Alla fine degli anni cinquanta Nitsch abbandona la pittura per dedicarsi al teatro. Sulle orme di quel che
aveva fatto Kokoscha con l’Assassinio, speranza per le donne avvia un ambizioso progetto dentro cui vuo-
le condensare archetipi, leggende, simboli e rituali religiosi. Si misura con la stesura di un dramma nel
quale vuole rappresentare l’intera parabola dell’umanità.

In questo primo esercizio drammaturgico, il giovane artista vuole attuare un radicale ripensamento della
parola detta, attraverso il collegamento analitico tra odori, percezioni gustative, tattili, sensazioni visive,
tematiche e risultati linguistici. Egli mira a intensificare il piacere, e soprattutto ha l’obbiettivo di indagare lo
sviluppo della nostra psiche.

Il primo esito di questa filosofia:

- il dramma della follia—> un progetto destinato a rimanere incompiuto e nel quale si possono notare di-
versi echi come quello di: Kokoschka, Freud Trakal, Schiele e Shonberg.
In ciò che resta troviamo alcuni personaggi arcaici, come Eros e Dioniso, che abitano in luoghi arcaici,
primordiali. Emergono materie come sangue, latte, miele, carne cruda e uova. Queste sostanze, si legge
nelle didascalie dello spettacolo, sarebbero state versate direttamente sui corpi degli attori, che avrebbero
avuto un contatto diretto con gli odori e con la consistenza della realtà. Dunque un poema epico che tiene
insieme morte, lacerazione, nuovi inizi. Nel dramma della follia Nietsch avverte la necessità di abbandona-
re ogni tentazione rappresentativa, passando dall’azione verbale all’azione del reale.

La produzione di significato per lui deriva solo dall’accadere di alcuni atti concreti sulla scena. Vuole pre-
sentare in maniera diretta l’esperienza sensibile e fisica, trasgredendo il filtro di un medium caldo quale è
la parola.

La sua sfida sta nel sottrarsi a ogni sforzo di narrazione per mostrare la realtà stessa.

Nitsch inverte la rotta rispetto a quello che avevano fatto le avanguardie primonovecentesche. Nell’ispirar-
si a miti sacrificali delle società arcaiche, vuole liberare le arti da ogni illusionismo, dando voce ai valori
bassi del corpo.

- prima Aktion pittorica viennese, 1960, al museo della tecnica—> l’artista interviene direttamente su al-
cuni pannelli, spargendo il pigmento con le mani e con le spugne.
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- Seconda Aktion pittorica viennese, 1961, sempre al museo della tecnica —> nel corso della quale pro-
cede al dilaniamento di un agnello. Le gocce di sangue dall’animale evocano il colore, mentre le budella
evocano la materia.
- Prima pittura-azione Malaktion, 1962—> dura circa trenta minuti. Un uomo vestito con una veste bianca
è incatenato e crocifisso al muro. In seguito l’artista stesso versa del sangue sul volto dell’individuo che
gocciola sporcando la veste. Sono chiari i riferimento con l’immagine della crocifissione e l’esperienza
del sacrificio.
- Aktion estrema, 1963—> l’ambiente viene trasformato in un altare di una cappella. Le pareti sono avvol-
te da un tessuto spruzzato di sangue. Al centro del soffitto un agnello scuoiato a testa in giù, mentre sul
pavimento vengono depositati gli intestini degli animali su un tessuto bianco. Nel frattempo la pelle
smembrata viene appesa a una tela e il sangue viene versato dagli attori sopra l’agnello.

Questi atti unici prefigurano il teatro delle orge e dei misteri.

- Il teatro delle orge e dei misteri—> l’opera di una vita, concepita alla fine degli anni cinquanta e, da
allora, replicata ogni anno con minime variazioni. Una drammaturgia che è stata ospitata in varie sedi e
dal 1971 viene allestita annualmente al castello barocco di Prinzendorf, durante la settimana della pen-
tecoste. Una costruzione imponente che nel 1998 è durata sei giorni.

Ci sono vari passaggi specifici in questa opera, che già nel 1957 prevedeva sei stazioni.

• Primo giorno: azioni con oggetti, carne, animali macellati e liquidi.

• Secondo giorno:uccisioni di bestie in un macello, a cui il pubblico può assistere. Il tutto è accompagnato
dalla lettura di riflessioni teoriche sul senso del sacrificio, con processioni di spettatori. Inoltre vi sono
attori sistemati con organi sessuali spruzzati di talco, irrorati di sangue e tuorli d’uovo.

• Terzo giorno: liturgie bacchiche con una lenta e progressiva intensificazione del ritmo scenico. Gli spetta-
tori possono rotolarsi nelle viscere e nelle pozze di sangue.

• Quarto giorno: variazioni di culti misteriosofici ellenistici con spettacoli all’aperto e in ambienti sotterra-
nei. Seguono atti di dissezione di animali e fosse riempite di viscere.

• Quinto giorno: adattamento pagano di una messa cattolica, che viene trasformata in un’orgia.

• Sesto giorno: processioni all’aperto con una orchestra di strumenti a fiato. Una festa a cui prendono par-
te anche gli spettatori.

In questa ambientazione gli attori strappano dagli animali uccisi pezzi di carne cruda e frugano nelle visce-
re tiepide, inoltre versano sulle budella acqua bollente e tuorli d'uovo. Infine il punto culminante dell’orgia,
quando gli agnelli crocifissi su assi di legno vengono cosparsi di sangue. Nel medesimo momento sulla
parete e inchiodato in croce un uomo, le cui ferite vengono lavate e pulite.

I partecipanti allo spettacolo entrano a far parte della scena.

Un ruolo importante è conferito anche alla musica. La quale durante l’azione, grazie al coro e all’orchestra,
si intensifica sempre di più.

Per visualizzare le atmosfere dell’ O.M. theatre, potremmo pensare ad alcune scene di un film di Mario
Martone, Capri-revolution. Una ricostruzione piuttosto libera di una comunità di artisti che si trasferisce a
Capri. Sono anarchici guidati dal pittore-filosofo Karl Diefenbach. All’interno di questa cornice Martone fa
entrare frequenti riferimenti e esperienze delle avanguardie secondo novecentesche, tra cui opere di Ni-
tsch.

Tanti hanno letto l’Orgien Mysterien Theater come una evento pseudo o para-artistico, non troppo diverso
da certi repellenti interventi chirurgici. Tra gli interpreti più severi Gillo Dorfles, che ha pronunciato giudizi
molto critici definendo l’opera come un macabro e irritante monumento innalzato all’oscenità del crudele.

Forse però bisogna portarsi al di la di certe letture scandalose, al fine di decifrare l’Orgien Mysterien Thea-
ter come un’opera che oscilla tra adesione alle atmosfere avanguardistiche e fuga dal presente.

RIMANDI—>

- innanzitutto troviamo espliciti richiami alle poetiche della Body art, elaborata da personalità come Mari-
na Abramovic. Gli esponenti di questa arte decidono di impegnare il proprio corpo come oggetto analiti-
co, come linguaggio privilegiato.
- Si può anche pensare all’azionismo viennese animato, oltre che da Nitsch, anche da Gunter Brus, Otto
Muhl e da Rudolf Schwarzkogler, i quali si mostrano per poter essere. In altre parole mettono in cena un
uomo liberatosi dalle convenzioni della società. In sintonia con i suoi compagni, Nitsch lavora sul com-
portamento e sul corpo, che tratta come mezzo di espressione.
- In particolare però, egli guarda all’action painting e al tachisme, che condividono il bisogno di portarsi al
di la di ogni riconoscibilità, per mettere in evidenza il gesto del pittore, sulla fisicità del colore, sull’azione
del dipingere. Basti pensare alle danze di Pollock, che trasformano la pittura in performance.
Recuperando la tradizione di Pollock, egli tende a cerare opere basate sul lancio della materia pittorica su
tessuti disposti verticalmente o orizzontalmente di forte a sé. A differenza del padre dell’action painting,
riduce la gamma cromatica solo al rosso, sottoponendolo a tante variazioni di intensità.

RIMANDI FUORI DAL NOVECENTO —> Nitsch ama anche guardare dietro di sè. Con l’Orgien Mysterien Theater,
suggerisce una strada per uscire dal novecento.

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- Le medesime sensazioni si potevano cogliere nell’antica Roma con i saturnali, si lupercali e alle feste
bacchiche, di cui si sono fatti aedi Ovidio e Petronio.
- Si possono cogliere assonanze anche con il Taurobolin, il rito di iniziazione al dio Mitra, in cui sul corpo
nudo di un giovane, veniva cosparso del sangue di un toro.
- Ancora, altri echi al giorno del cordoglio nelle cerimonie offerte alla grande madre Cibele.
Nell’Orgien Mysterien Theater attori e spettatori prendono parte a diversi tipi di azioni che terminano nel
rito della purificazione.

Proprio come le feste romane, anche l’opera di questo artista segue un liturgia rigorosa, che però non si
svolge in ambienti istituzionali, ma in contesti aperti come il castello di Prinzendorf.

In questo vasto e articolato set, si allestiscono feste e si celebrano i riti della vita e della morte. L’artista
stesso durante la messa in scena indossa vari abiti, da quelli di una sacerdote fino a quelli di un medico.

IL SACRIFICIO—> egli pensa il proprio mestiere come una drammaturgia. Una pratica liberatoria. Nitsch
considera il sacrificio come un’esperienza psicologica e religiosa che, come ha paragonato Renè Girard,
presenta due volti opposti: cosa molto santa e , insieme, delitto. La violenza non sparisce ma viene ingan-
nata, in altre parole è deviata su altri punti di riferimento simbolici. Dunque sembra che male e rimedio
coincidano, in quanto al termine del rito la vittima muore ma viene anche scandalizzata. l’Orgien Mysterien
Theater si basa proprio sulla riattivazione dei modi propri della dinamica sacrificale. Nitsch afferma che si
deve concepire il sacrificio come occasione estetica e di gioia di vita. Continua affermando che il sacrificio
sia un’altra forma di libidine, sviluppata in un modo differente dall’agitazione dell’inconscio.

Basti pensare ad alcuni riti classici come lo smembramento e la castrazione di Dioniso, l’accecamento di
Edipo. Si pensi inoltre a ciò che si verifica nel teatro greco.

Sulle orme di quegli echi Nitsch elabora orge archetipiche, intrecciando dolore e riscatto, ma a differenza
di quel che avviene nel teatro dei grandi tragici, il sacrificio nell’opera affrontata, è presentato come realtà.

È vero soprattutto il sangue. Un liquido che in tutte le società umane, è stato posto al centro di una simbo-
lica vasta e complessa. Nel riferirsi al sangue, l’autore non lo esprime mai singolarmente, ma sempre in-
sieme con altri elementi, che ne definiscono il senso. Siamo dinnanzi a una sostanza che risulta pura
quando è il risultato di un sacrificio.

Nitsch in Orgien Mysterien Theater utilizza il camice come un segno iconografico, ed è un modo per sotto-
lineare la valenza liturgica nell’atto del dipingere. Forse si tratta di un omaggio implicito a Klimt, il quale
aveva l’abitudine di indossare lo stesso indumento quando era al lavoro.

ABREAZIONE —> Il fine dell’opera è l’aberrazione. Una idea elaborata da Freud che allude al deflusso del-
l’emozione legata a un fatto o a un ricordo di un evento impressionante che, se non trova vie di sfogo, si
manifesta attraverso sintomi patologici o tensioni affettive. L’abreazione indica la risposta a un trauma.

Recuperando questo concetto freudiano, Nitsch nei suoi scritti spesso parla di una esperienza determina-
ta da una improvvisa e frenetica provocazione, legata alle sofferenze dell’io.

L’abreazione permette di trasgredire quei divieti inviolabili e lascia riaffiorare istinti vitali repressi. Nitch
pensa l’esperienza artistica come un tentativo per rimuovere falsi miti e tabù sessuali, per demolire le con-
venzioni, per dare voce a energie nascoste nel sottosuolo dell’io.

L’arte in ciò deve darsi come riappropriazione di pulsioni deviate: liberazione totale di tutti i desideri re-
pressi.

Nel teatro-azione è in gioco una trasformazione radicale dei soggetti, i quali nell’Orgien Mysterien Theater,
sono invitati a percorrere le strade della perdizione e del peccato. Questa filosofia incarnata da Dioniso,
dio creatore ma soprattutto distruttore, tiene in sé conscio e inconscio, persona e cosmo. Sono proprio
qui le affinità tra teatro greco e O.M Theater, ma anche con la tradizione dell’happening. Da un lato il puro
accadere. Dall’altro lato, l’accadere come sentiero per inoltrarsi nei territori più oscuri dell’io.

Nitsch non vuole demolire la tradizione dell’happening, ma sostiene che “vi debba accadere di più”.

L’ESTATSI—> la meta ultima dell’Orgien Mysterien Theater è l’estasi. Ovvero il risultato della vitalità intensa.
Uno slancio per uscire da noi stessi e per rompere i vincoli della soggettività, per scoprire quello che molti
non possono vedere.

Il colore dell’estati per Nitsch è il rosso. Da lui mostrato nelle sue infinite sfumature. Talvolta si tratta di
sangue mentre altre di pigmento. Il rosso è la voce di verità aggressiva e evoca gioie, tremori, eccitazioni.
Il sangue rappresenta il filo sottile tra sacro e profano, tra luce e ombra.

La voce dell’estati sono le urla. Che urlano la disperazione di individui soli dinanzi al male di vivere. Le urla
ospitano gli inospitali territori dell’io. Secondo Nitsh il grido è l’espressione più immediata del subconscio
umano.

“il rosso è il colore più intenso che io conosca, è il colore che invita maggiormente alla sua contemplazio-
ne, perchè esso è contemporaneamente il colore della vita e della morte”.

Nell’Orgien Mysterien Theater, lo spazio della rappresentazione si dilata, fino a inglobare chi osserva, sug-
gerendo sovrapposizioni tra piano diversi. Al centro di questa performance, attori passivi e attivi. I primi

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subiscono le azioni abreative, mentre gli attori attivi sono gli strumenti di cui dispone il regista e dirigono
coloro che prendono parte all’evento.

A differenza di quel che accade nel tartaro greco nell’O.M theatre i riti degli attori si confondono con quelli
degli spettatori. Viene data loro la possibilità di essere inglobati nell’azione, possono entrare negli happe-
ning. Diventano essi stessi interpreti. Eppure Nitsch tende a non dissolvere mai del tutto la distanza tra
interpreti e spettatori. Chi guarda le sue performance può toccare guardare, ascoltare, annusare, ma non
può toccare. La tattilità è prerogativa esclusiva degli attori, i quali non possono improvvisare.

Decisivo è il ruolo dell’artista-regista. Egli compone un’opera a un primo sguardo divagante, senza centro.
In effetti L’O.M theatre è austero e misurato. Materiali eterogenei vengono iscritti dentro una cornice omo-
genea. Nitsch pensa questa opera come un gioco mai risolto tra dimensione dionisiaca e dimensione
apollinea. Una cosmologia vitale, impetuosa e ben studiata.

Per evitare di ridurre la sua opera a provocazione fine a se stessa, egli concepisce il theater come una sa-
piente costruzione linguistica. Una combinatoria che non abbandona mai il luogo primario della forma. Per
Nitsch la forma è molto importante. L’abreazine è solo una parte della sua concezione di teatro. Senza
forma egli sostiene che non possa sussistere l’arte. Il vero messaggio che l’arte può dare all’umanità è la
forma. L’autore concepisce le diverse stazioni dell’O.M Theater come un quadro vivente animato da figure
in carne e ossa, la cui funzione è innanzitutto di tipo iconico. Per lui gli attori sono un corpo fenomenico e
insieme un corpo semiotico che genera effetti disturbanti nel pubblico.

Permangono tuttavia ampi margini di illusorietà. Nitsch presenta corpi, spazi e tempi reali, ma i suoi eventi
restano di tipo teatrale. La violenza che occupa il centro della sua drammaturgia è sempre simulata. Scri-
ve: “il sacrificio attraverso l’arte viene affettato in modo non sanguinoso, ma simbolico. Proprio come ac-
cade nel teatro greco.”

Utilizzando sangue vero e viscere vere egli dimostra la volontà di aprire la sua opera-mondo a quell’alterità
destinata a non farsi ridurre alle imposizione del linguaggio che è la vita. l’Orgien Mysterien Theater è an-
che questo: tensione dell’arte a farsi vita. Una struttura-evento ininterrottamente riplasmata dalla durata
reale dell’accadere. Il fatto che duri sei giorni, come il numero dei giorni della creazione, nella versione de-
finitiva è un implicito omaggio al romanzo Gli Ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus.

SCRITTURE—> per dare vita alla propria cosmologia Nitsch lavora su una ricca varietà di linguaggi. Innanzi-
tutto attribuisce un ruolo cruciale agli apparati testuali. Si ispira a tanti trattati tecnici del X e XI secolo,
come Il libro dell’arte di Cennino Cennini, Piccolotrattato di tecnica pittorica di De Chirico e 50 Segreti ma-
gici per dipingere di Dalì.

Un significativo corpus di testi, invece è di carattere strettamente teorico: in sintonia con quanto hanno
fatto artisti come Kandinskij, Boccioni, Dalì e tanti altri, Nitsch svela intenzioni poetiche, rinvii filosofico-
religiosi, rimandi psicoanalitici e echi storico-artistici.

Infine certi copioni che ricordano le atmosfere crude di La Pelle di Malaparte, servono all’autore per anno-
tare ogni moneto delle sue azioni. Infatti egli riserva indicazioni dettagliate su ogni passaggio e su gesto
da compiere agli autori.

MUSICHE—> decisivo è anche lo studio della musica, che non ha il valore semplice di accompagnamento
dell’azione, ma scorre attraverso lo spettacolo come un fiume fatto da immagini, odori, ritmi.

L’estasi oltre a determinare la perdita del soggetto, enfatizza anche la crisi dei vari linguaggi, che nell’O.M
Theater, tendono a dissolvere la propria identità.

La scrittura drammaturgica, la musica disturbante, l’action painting e la performance degli attori e spetta-
tori sono posti sul medesimo piano. l’Orgien Mysterien Theater può essere letto come una cornice aperta
e dilatata, nella quale pratiche e media non contigui si incontrano, sottraendosi però a ogni pianificazione.

GENEALOGIE—> la sua è una scelta poetica che guarda ad alcune significative proposte teoriche e utopisti-
che novecentesche.

- Innanzitutto, Nitsch si ispira alla nozione di Gesamtkunstwerk elaborata da Wagner. Dal quale eredita la
propensione vero l’opera d’arte totale. A differenza del grande musicista romantico, egli assegna una as-
soluta centralità alla poesia delle immagini.

- In ciò appare in sintonia con quanto aveva scritto Kandinskij in due scritti dedicati alla composizione e
alla sintesi scenica. Il primo ricorda che i vari linguaggi posseggono una vita propria, mentre il secondo
descrive il teatro come un elemento dotato di una forza nascosta capace di attrarre a se tutti i mezzi delle
arti.

- Nitch parte da queste suggestioni, che mescola con l’interesse per un eccentrico artista-drammaturgo-
musicista russo: Alekesandr Skrjabin. Il cui lavoro incompiuto Mystrium del 1915, racconta la storia dell’u-
niverso e dell’umanità dopo l’apocalisse. È il racconto dell’ultimo rito, ovvero quando l’umanità supera la
condizione dell’immanenza per arrivare a livelli superiori di conoscenza. Questa opera racchiude diversi
linguaggi come poesia, musica, arte plastica. Il romanzo aveva una finalità anche teatrale, ma il progetto
non andò mai in porto a causa della morte dell’autore.

Mysterium è dunque una chiara prefigurazione dell’Orgien Mysterien Theater. Nitsch vi sancisce il definiti-
vo superamento della pratica drammaturgica tradizionale.

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Memore delle fantasticherie di Skrjabin, Nitsch nel suo lavoro coinvolge parola, musica, colore, spazio e
azione in un processo sinestetico teso a riattivare la totalità dell’esperienza fisica.

Wagner, Kandinskij, Skrajabin. Nitsch nel suo opus magnum decreta il declino dell’identità dei singoli lin-
guaggi e viola idee estetiche classiche.

Per cogliere il senso di questo radicale superamento, potremmo richiamarci a La Liturgia come festa mi-
sterica, scritto da Maria Laach Odo Casel. In questa specie di manifesto del movimento liturgico, Casel
pone alla base della sua dottrina l’idea secondo cui la liturgia si offra essenzialmente come mistero. Il cri-
stianesimo secondo la scrittrice non è una religione, nemmeno un insieme di dogmi da professare, ma una
performance liturgica. La liturgia perciò va interpretata come un processo, un evento in se.

Anche Nitsch considera la propria pratica innanzitutto come come un esercizio rituale che risulta efficace
per il semplice fatto di essere compiuto. In lontana sintonia con Casel, libero da ogni vincolo egli non ci
consegna quadri o sculture, ma atti percettivi. Per lui conta l’azione dell’artista e non l’opera in sé.

Nitsch dichiara di voler superare l’idea tradizionale di opera, intesa come valore incarnato.

Egli non si limita si limita a presentare una antologia di alcuni tra i più significatovi lavori, li ripensa inten-
dendo ogni episodio come il frammento di una poetica corporale.

l’Orgien Mysterien Theater continua a vivere grazie un vasto archivio di immagini e feticci. Dunque un’arte
nata in antitesi con l’arte museale si trova a somigliare all’arte museale, fruibile attraverso un grande pa-
trimonio visivo e oggettuale.

RELITTI—> lo stesso camice del pittore è uno dei relitti esposti da Nitch nelle mostre derivate dall’Orgien
Mysterien Theater. Tra gli altri: paramenti classici della liturgia cattolica, altari, barelle, attrezzi chirurgici e
tanto altro ancora. Relitti dunque. Una parola che allude ai resti di un naufragio. L’azione è avvenuta, ora è
svanita e di essa rimangono solo alcuni frammenti. Sono documenti e insieme momenti di riflessione ulte-
riori. Egli non si limita a esibire questi reperti, li impagina meticolosamente, spesso sistemano le zollette di
zucchero in file geometriche. In tal modo sembra voler raffreddare il caos dei suoi happening.

Nei relitti-installazioni sono evidenti i richiami al dadaismo e al neodadaismo. Evidente anche la volontà di
reinventare un genere classico come quello della natura morta.

Nelle nature morte si trovano a convivere il naturale e l’artificiale. I relitti-installazioni potrebbero essere letti
come delle implicite nature morte. Forse un modo indiretto per riaffermare la centralità dei riferimenti alla
storia dell’arte. Egli guarda a Cezanne e a Leonardo, a cui nel 2000 dedica un ciclo di opere.

12. INTER-MEDIA BJÖRK


Una cantante-autrice-musicista. Una personalità totale, che si diverte a non farsi mai identificare. Essa si
lascia sedurre dalla possibilità di sperimentare linguaggi, pratiche ed esperienze, consegnandosi a movi-
menti della differenza.

Dunque Biork è distante dalle star che vogliono restituire un’unica e statica icona di sé, si reinventa senza
posa, si sottopone a metamorfosi, gioca con se stessa.

Decisive le lezioni di popstar come Boy George, Madonna e soprattutto David Bowie. Sulle orme di questi
modelli, in ogni album, quasi per mimare le tante variazioni della sua musica, l’artista compie frequenti
cambiamenti di look. Bojork diventa tanti personaggi unici.

Si pensi alle cover di alcuni cd, dalle quali emerge con forza il desiderio dell’artista di ridisegnare ininter-
rottamente la propria immagine.

- 1977, Bjork: giovanissima, in una ambiente di stile arabo.

- 1993, Debut: in uno scatto di Jean-Baptiste Mondino, avvolta in un maglione grigio, con le mani con-
giunte.

- 1994, Post: in una foto di Sednaoui, tra colori sgargianti e una giacca bianca.

- 1996, Homogenic: in una scenografia elaborata dallo stilista Alexander McQueen. Indossa in questo
caso un kimono di un colore rosso sgargiante.

- 2000, Vespertine: in una copertina in bianco e nero realizzata dai fotografi di moda Van Lamsweerde e
Madatin, con un abito da cigno.

- 2004, Medulla: la cantante è stata trasformata in una modella da rivista glamour.

- 2007, Volta: diventa un’opera d’arte.

- Inoltre si pensi a Dancer in the dark, il drammatico film-musical, nel quale Bjork è la protagonista. L’at-
trice si presenta nuovamente diversa, perchè sembra un personaggio quasi neorealista.

- Infine si pensi ai travestimenti a cui Bjork si sottopone nei videoclip, che la rendono simile a un cyborg.
Basta ricordare il video All is Full of Love, dove si mostra in una atmosfera da scienze fiction, la meta-
morfosi della cantante-performer in robot dal corpo metallico smaltato di bianco, costruito in un labora-
torio ipertecnologico.

- Si ricordi anche il video Where is the line, dove scopriamo una Bjork piena di protuberanze di pezza,
mentre partorisce un bavoso e latteo mostro umano.

Evidente, per comprendere tali maschere, il rapporto con figure eretiche come Cunningham, il duo Van
Lamsweerde e Metadin e soprattutto Matthew Barney.

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AVANGUARDIA 2.0—> le moltiplicazioni della personalità e le anamorfosi post-umane vanno lette come cifra
della vocazione intimamente avanguardistica di Bjork. Bjork ama frequentare territori illimitati, tra cui sono-
rità elettriche estreme, spazi visivi inediti e ipotesi drammaturgie ardite.

Dimostra in questo modo il proprio bisogno di non farsi classificare e di sottrarsi ai rischi della mercifica-
zione.

LA NUOVA MUSICA—>Lo slancio avanguardistico emerge, innanzitutto, se ci sofferma sulla poetica musicale
elaborata da Bjork, che oscilla tra la volontà di reinventare la specificità dei medium di cui si serve e la
voglia di tradire quella stessa specificità, sperimentando altre ipotesi di perdita del centro.

Profonde le consonanze con le proposte della nuova musica postavanguardistica della seconda metà del
XX secolo.

Nel suo pantheon Bjork assegna un posto centrale ad alcuni dei protagonisti della nuova musica:

- il minimalista Vladimir Martynov, di cui elogia lo stile statico.

- Essa guarda anche a Meredith Monk, tra le animatrici dell’avanguardia newyorkese degli anni sessanta
e settanta. È capace di spingere la sua voce verso vette elevate, per dare la sensazione di un linguaggio
che assomiglia a un rituale.

- Il vero punti di riferimento di Bjork è Karlheinz Stockhausen, instancabile nell’inventare nuove idee,
promotore dello sperimentalismo, sapiente nell’assemblare sonorità moderne in spettacoli stupefacenti.
In particolare Bjork ammira la maestria con cui il principale ereditario del regno dell’avanguardia fonde
musica e tecnologia, in modo da comunicare istanze umane e persino spiritualistiche.

Sulle orme di questi e altri echi, nei suoi album l’artista utilizza in maniera originale materiali eterogenei
forniti dalla tradizione, che strappa dal loro contesto originario e riattiva in altri registri.

Progetta composizioni ambigue che talvolta risultano sofisticate ed emozionanti, mentre altre appaiono
acri e graffianti.

I DINTORNI DELLA MUSICA—>Bjork dunque recupera certe istanze della nuova musica, ma ne coglie anche
le tante problematiche e limiti. Essa cerca, perciò, di porsi in sintonia con la ricca spettacolarità del mo-
derno. Affascinata dagli sconfinamenti, apre le sue drammaturgie al pop e al folk, attribuendo una notevo-
le importanza anche ai dintorni della musica, come gli accompagnamenti senza i quali l’opera stessa non
potrebbe esistere.

Rivelatrice è la cura con cui Bjork progetta la cover dei suoi album. Si tratta di una consuetudine molto
diffusa soprattutto tra i cantanti pop, i quali sin dagli anni cinquanta hanno deciso di truccare i vinili, ren-
dendoli più seduttivi. Perciò scelgono di affidare la creazione delle copertine ad artisti, fotografi o designer,
determinando un gioco di connessioni tra musica e linguaggi visivi. Sono media diversi che si incontrano e
si sovrappongono, mettendo in discussione la propria autonomia.

La medesima cura è rivolta ai videoclip, che si interfacciano e vengono inglobati da altri media. Si lasciano
ibridare dal cinema, dall’arte, dalla televisione e dalla musica. I videoclip sono questo: una forma-flusso
che fa dello sguardo una modalità dell’ascolto. Un intergenere, capace di accostare istanze estetiche e
promozionali. Testimonianze di uno slang generazionale, questi cortometraggi nascono dalla canzone che
diventa solo una traccia di partenza.

Esercizi di musica cromatica che affondano le proprie radici nella stagione delle avanguardie primonove-
centesche e si oppongono ai video di artisti come Huyghe e Gordon. In altre parole eventi di intratteni-
mento, che non esigono una partecipazione, né attenzione, ma vogliono essere fruiti direttamente. I vi-
deoclip sono proprio questo, trai casi più importanti di gestualità audiovisiva postmoderna, in grado di
condensare caratteristiche forti dell’espressività del nostro tempo.

Bjork pensa i videoclip come una forma d’arte indipendente da esigenze di tipo commerciale, ma capace
di presentare al pubblico temi esplorati in precedenza solo nell’ambito elitario delle avanguardie del cine-
ma. Inoltre sempre secondo l’artista, questi prodotti ibridi suggeriscono ipotesi di narrazioni alternative.
Bjork riserva un ruolo cruciale ai videoclip, tanto è vero che sin dagli anni novanta, sceglie di avvalersi del-
la collaborazione di registi come Cunningham, Michel Gondry, Spike Jonze e Sednaoui.

AUTORITÁ MULTIPLA—> Cover e videoclip rivelano il bisogno di Bjork di concepire il suo lavoro come una
piattaforma all’interno della quale la musica incontra altri media. Insofferente nei confronti della tradiziona-
le idea di autorialità sovrana, sostiene le ragioni dell’autorialità multipla. Ogni disco, per lei è un’occasione
per lavorare insieme ad altri artisti. Vi è un intreccio tra cultura alta e cultura bassa, digitale e analogica. Le
diverse figure che Bjork coinvolge nei suoi progetti non sono solo collaboratori, ma complici, talvolta ami-
ci. Tra i rapporti più intensi, quello con McQueen. Si rivela unico il sodalizio umano e sentimentale con
Barney. Il cui esito più significativo è rappresentato da Drawing Restraint, un film impossibile che si svolge
al largo della baia di Nagasaki, su una baleniera giapponese. Barney cura l’intera regia del film, mentre
Bjork gestisce la musica.

Del resto, per i musicisti è quasi una inclinazione istintiva quella di collaborare con gli altri.

La filosofia dell’autorialità multipla è al centro di un’ampia e controversa antropologia organizzata nel 2005
al Moma di NY, si tratta di:

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- Biophilia—> una mostra che ricostruisce più di vent’anni di carriera di Bjork, presentando costumi, ma-
teriali di scena, fotografie e videoclip. L’itinerario espositivo si articola in varie sezioni:

• La prima ospita una installazione con gli inusuali e in parte inventati strumenti utilizzati per registrare l’al-
bum Biophilia.

• Il secondo prevede uno spazio dedicato alla videoinstallazione realizzata da Andrew Thomas Huang per
il brano Black Lake e uno destinato alla proiezione di vari videoclip.

• Il terzo momento è occupato da Songlines, un tour guidato dalla stessa Bjork, mediante auricolare, at-
traverso le tappe principali del suo percorso.

• Presso gli spazi della cupola del Moma è presentato Stonemilker, un video che sfrutta la tecnologia della
realtà virtuale. È diretto ancora da Huang. Questo filmato può essere visto solo da dieci visitatori alla vol-
ta, che si trovano immersi in un panoramico paesaggio naturale dell’islanda, mentre Bjork canta e balla il
brano che da il nome a questa stanza.

Lo snodo decisivo nella mostra del Moma, Biophilia (2011) che si presenta come un’opera manifesto in-
trodotta da un simbolo grafico. Un album, una galleria di app, una performance, un film e tanto altro. Un
progetto unico, ideato e curato in ogni parte dalla stessa artista, che rivela il senso del suo metodo, fonda-
to sul bisogno di abbandonarsi a continue perdite di centro. Per un verso la cantante continua a conside-
rare la musica il centro del suo sistema linguistico e poetico. Per un altro verso, esplora le disseminazioni
della musica in altri luoghi, disegnando passaggi difficili da perimetrare.

Nasce cosi una sorta di opus magnum fondato sull’artificio della transmedialità, perchè Bjork sperimenta
infinite riscritture, pensando l’intera architettura di Biophilia non come un discorso univoco, ma come uno
spazio narrativo aperto.

BIOPHILIA IL CD—> Scritto in collaborazione con lo scrittore e poeta islandese Son, Biophilia unisce echi
rurali e urbani, pagani e futuristici, mai e meccanici. Bjork nel cd mescola l’high tech con l’antico. Conta-
mina la musica classica con il gusto per la sperimentazione e con le culture pop.

BIOPHILIA IL VIDEOCLIP—> nel progetto Biophilia, nuovamente un ruolo centrale è affidato ai videoclip. Con-
tinuiamo a trovare una Bjork dall’aspetto sempre diverso.

BIOPHILIA LE APP—> Bjork co-firma anche la regia delle app di Biophilia, alla cui ideazione e produzione
collabora l’artista Scott Snibbe. Ogni app trae il nome dal brano musicale. L’artista questa volta si pone in
un territorio ibrido, in quanto ciascuna app offre cinque opzioni:

- Avvio.
- Partitura e ascolto della traccia strumentale.
- Animazione realizzata da Stephen Malinowski, in cui si intrecciano forme e colori relativi a uno specifico
strumento utilizzato nel brano.
- Visualizzazione del testo.
- Credits.
L’applicazione madre mostra una galassia tridimensionale, dove ogni brano ha una propria app, che si col-
lega a quella principale. Queste app comprendono le dieci estensioni delle canzoni che compongono l’al-
bum.

BIPHILIA IL CONCERTO—> Biophilia è presentato nel giugno del 2011 presso il Manchester International Fe-
stival. Si tratta di una performance realizzata con l’aiuto del Science and Industry Museum di Manchester.
Intorno a Bjork diversi schermi che trasmettono vari paesaggi naturali e vi è una grande stupore per i ma-
teriali inusuali utilizzati.

BIOPHILIA IL FILM—> dall’avvento di Manchester è partito un tour. Una delle ultime tappe, quella di Londra,
è stata documentata in un film 3D diretto da Nick Fenton e Peter Strickland: Biophilia Live. Un inconsueto
film dal vivo, che mette in discussione i modi proprio dell’idea stessa di live, suggerendo una certa discon-
tinuità tra il tempo dello show e quello della postproduzione. Nasce un documentario nel quale la riscrittu-
ra dello spettacolo convive con riprese scientifiche.

BIOPHILIA LA PERFORMANCE—> il film-documentario rivela il talento da performer di Bjork. Per accrescere la


propria aura, la cantante indossa voluminose parrucche rosse e abiti in 3D di Mio Takeda e Iris Van Har-
pern.

Biophilia, è anche altro. Come suggerisce il neologismo stesso Biophilia, composto da due termini, Bios e
filia, ovvero l’amore per la vita nella sua totalità. È una idea che rimanda implicitamente alle filosofie della
Lebenswelt (mondo della vota), i cui fondamenti sono stati enunciati da Edgar Morin. Per secoli si è ritenu-
to che la vita fosse simile a un albero ramificato e che l’ambiente esterno fosse solo un involucro. Con-
traddicendo questa teoria, esiste infatti una dimensione più ampia e complessa di cui si occupa l’ecologia.
Muovendo da questo cambio di prospettiva Timothy Morton, sin dal 2007, ha proposto una severa critica
nei confronti dell’antropocene, l’età della terra in cui gli individui si limitano a osservare gli esiti devastanti
di una natura erosa fino a scomparire. In sintonia con Marton, Bjork percepisce l’ebrezza del porsi in sin-
tonia con il creato. Non a caso nell’opera Biophilia c’è un continuo richiamo alla natura e all’esistenza del-
l’uomo. Essa per natura intende un luogo famigliare, che rimanda alla propria patria: l’Islanda. Dunque
Bjork sembra usare la musica e le varie contaminazioni come un modo per proporre implicite e dissimulate

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ipotesi di autobiografia. Questo dettaglio lo si ritrova con forza in Bachelorette (1998), un film che sembra
un ritratto della stessa artista. Una donna con tante maschere, che ha fatto dell’ibridazione il proprio me-
todo poetico.

13. ASSEMBLAGE DEVLIN


<<everything you know is wrong>> cosi inizia lo Zoo TV Tour degli U2.

1993: 20 mesi di tournée, 15 tappe. Non solo un concerto rock, ma una autentica installazione multime-
diale progettata da Willie Williams in collaborazione con Mark Fisher e Jonathan Park. Gran parte dell’illu-
minazione del palco è favorita da un mosaico di monitor che trasmettono immagini diverse e frammentate.
Zoo TV dunque non è solo uno dei tour del secondo dopoguerra. È puro rock che riesce a trasformare gli
stadi in mondi del futuro. Possiamo leggerle questo concerto come una avanguardia postmoderna che
fonde alcune intuizioni di Wagner con la poetica del cut-up di Burroughs.

Circa vent’anni dopo, nel 2104 esce uno tra i cd più intimi degli U2, Song of innocence. Nelle loro strug-
genti canzoni, questi artisti riattraversano affetti, perdite e ansie, componendo un disco che tiene insieme
energia vitale e tensione spiritualistica.

Per esprimere queste oscillazioni, nasce L’iNNOCENCE+eXPERIENCE tour. La prima tappa si tiene a Van-
couver, in cui Bono passeggia tra il pubblico, illuminato da luci quasi domestiche. Al centro del palco una
parete luminosa di Led sospesa al di sopra della passerella su cui si muovono i musicisti. Come un muro
virtuale con un doppio megaschermo, che può essere visto dai due lati delle tribune.

- L’eXPERIENCE+iNNOCENCE tour—> tre anni dopo, nel 2018. Rispetto al precedente show viene per-
fezionato l’apparato tecnologico. Lo schermo ha una maggiore trasparenza e una migliore risoluzione,
inoltre, il nuovo ideatore non che Devlin, si serve della realtà aumentata per trasformare Bono in un gi-
gantesco avatar di se stesso.

Utilizzando la U2 experience app, scaricata sugli smartphone, gli spettatori assistono a un prodigio. Gli
schizzi si trasformano in immagini e in video, che vengono proiettati all’inizio del concerto. Dopo la simu-
lazione di uno tsunami, appare l’avatar di Bono e infine si assiste al concerto vero e proprio. In una delle
tappe italiane dell’eXPERIENCE+iNNOCENCE, al Mediolanum Forum di Milano, è presentato un maxi-
schermo su cui scorrono filmati di città distrutte durante la seconda guerra mondiale. Inoltre accompa-
gnano le parole del celebre discorso all’umanità di Charlie Chapling pronunciato ne Il Grande Dittatore.

Devlin agli inizi della sua carriera collabora con piccole compagnie teatrali sperimentali. In seguito creerà
scenografie per manifestazioni come le olimpiadi di Londra. È celebre anche per le sue incursioni nella
moda e deve la sua fama soprattutto alle installazioni-concerti.

Per affrontare queste imponenti imprese Devlin segue una sorta di ritualità. In un primo momento si pone
in ascolto delle star, che le raccontano sogni, intenzioni, vicende personali e fascinazioni artistiche. L’arti-
sta in altre parole si mette al servizio dei suoi irrequieti committenti. In seguito con frenesia comincia il
progetto. Nella sua factory londinese, insieme a un piccolo team di collaboratori, modella ardite macchine
neobarocche. La sfida per lei consiste nel coniugare le confessioni dei suoi compagni di strada con una
forte identità autoriale.

Essa sembra dunque agire come un creatore che si confronta con altri creatori, concependo ciascun in-
tervento come il capitolo di un discorso poetico unitario.

Il metodo adottato da Devlin, si fonda su alcuni passaggi decisivi. Dapprima, c’è la ricerca, la curiosità e lo
stupore. Poi occorre definire la cornice dell’azione scenica, in cui lo spazio gioca un ruolo decisivo. Essa
stessa afferma che gran parte del suo lavoro consiste nel trovare l’ambientazione perfetta per la musica.

Infine l’artista riempie la cornice. Devlin tende a pensare i suoi lavori per la musica non come sculture da
musei o gallerie, ma come opere che per avere un senso devono essere attraversate da presenze etero-
genee : voci, copri, cose. Si disegnano cosi i contorni del performativo. Si tratta di una estetica fondata su
una relazione sempre insicura tra progettualità e casualità.

Il set designer insomma, pianifica l’impaginazione generale dei suoi show. Tenta di indirizzare l’attenzione
del pubblico su episodi specifici, ma di certo non può controllarla. I suoi eventi aperti, devono lasciate li-
bertà ad azioni e comportamenti non programmati.

MODELLI—> per elaborare la sua estetica del preformativo, Devlin si ispira ad alcuni modelli storici come:

- innanzitutto, lo Ziggy Stardust Tour, del gennaio 1972, realizzato da David Bowie. Il quale da vita a uno
spettacolo totale, dentro cui fa convergere fantasie, sogni e incubi.
- Un altro riferimento imprescindibile è The Wall, febbraio 1980 a Los Angeles. In cui i Pink Floyd innalza-
no una parte di mattoni in cartone destinata a essere distrutta. Non solo uno spettacolo ma un happe-
ning.
- Devlin guarda anche ad altre esperienze. La lezione di scenografi come Josef Svoboda e Mark Fisher. Le
videoinstallazioni di Bruno Munari, Bruce Nauman e Bill Viola. Senza dimenticare alcune suggestioni mi-
nimaliste come gli ambienti luminosi di James Turrell e Antony McCall. Ancora certe fascinazioni artisti-
che e architettoniche moderniste e postmoderniste di Damien Hirst, Tracey Emin, Diller Scofidio.

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Muovendo da queste eccentriche matrici Devlin progetta scenografie-opere d’arte monumentali e insieme
effimeri spettacoli dentro cui confluiscono i più disparati elementi. Universi fluidi in cui assistiamo a una
perdita del centro.

Per sviluppare originali forme di riflessione metalinguistica sull'invasione delle immagini nella civiltà con-
temporanea, Devlin si affida sempre ai medesimi artifici. Il contrasto tra azione e la sua rappresentazione.
L'utilizzo di forme astratte di natura informatica. La giustapposizione tra prospettive diverse. Infine, il ricor-
so a ribaltamenti e a frequenti alterazioni proporzionali.

Probabilmente sono esercizi di entratainment. Occorre portarsi al di là di certe posizioni tardoidealistiche,


per affrontare senza pregiudizi la radicale ridefinizione dei territori estetici, artistici e poetici che sono in
atto nella postmodernità. Tradizionali limiti che separavano linguaggi avanguardie e produzioni popolari,
sono stati definitivamente messi in discussione. Sarebbe infatti più opportuno trasformare i confini in so-
glie, perchè solo in questo modo ci si potrà misurare con una sempre più ampia richiesta di arte da parte
del pubblico. La quale si manifesta innanzitutto proprio in eventi come i grandi concerti rock, partendo
dall’esempio più celebre di Woodstock.

Vi si può cogliere in questo panorama, come ha sottolineato Gianni Vattimo, l'essenza ornamentale della
cultura della società di massa. Siamo letteralmente dinanzi a esperienze artistiche complesse che si muo-
vono tra i piani diversi: reenactment, tragedia, assemblage.

REENACTMENT—> un concerto in fondo è una forma alternativa di reenactement. Una pratica ampiamente
diffusa nel mondo dell'arte contemporanea, in particolare tra gli artisti che realizzano happening e perfor-
mance. I quali allestiscono azioni precedentemente compiute, le ripropongono e insieme le recontestualiz-
zato.

Se pur con accenti differenti la medesima tecnica ritorna nel teatro, nella danza e nei rock, dove il ree-
nactment non è un artificio volto a far rivivere opere già fatte, ma richiude il senso stesso degli spettacoli.
Che a differenza di quanto accade negli happening e nelle performance, non derivano da un originale ma
si danno essi stessi come originali. Sono atti ripetibili, produzioni che anche se vengono continuamente
ricreate, restando uniche, ponendosi in bilico tra progetto e contingenza. Da un lato troviamo il rispetto di
precise partiture, mentre dall'altro riscontriamo l'imprevedibilità di ogni replica. Il reenactment rappresenta
quindi un momento necessario per molti cantanti che, dopo aver pubblicato un album, avvertono l'esigen-
za di uscire dall'isolamento dello studio di registrazione, ricercando così un riscontro del pubblico.

I concerti non sono creazioni chiuse in se stesse, ma corpi sonori inscindibili dalla musica, che chiedono
di essere riscritti reinventati servendosi di strumenti etero geni. Chi assiste a queste reinterpretazioni si
trova al cospetto di un happening trasformativo. Inoltre a differenza di quel che succede negli spettatori
cinematografici, teatrali e televisivi, lo spettatore non è trattato solo come il destinatario di un prodotto, ma
ha un ruolo attivo. Non si deve limitare ad ascoltare, è chiamato a partecipare al rito di fruizione. In un
concerto rock ben riuscito, il pubblico diventa parte dell'avvenimento tanto quanto i musicisti e la sceno-
grafia. Il pubblico si misura inoltre con la rappresentazione visiva della musica compiuta dal cantante. Che,
mette al centro degli show la sua voce la sua gestualità il suo corpo. Infine è proprio quello di spazializzare
le sue canzoni, pranzo così che la musica ha un rapporto stretto più quello spazio che con il tempo diver-
samente da quello che sostenevano tante teorie estetiche. Per concludere la rockstar compie una dram-
matizzazione scenografica del proprio repertorio. Allestisce ai suoi concerti in luoghi ampi ricorrendo a
specifici artifici coreografici, visivi e teatrali. In questo modo i concerti si figurano come autentiche mac-
chine narrative, nelle quali le singole canzoni sono come microracconti che fanno parte di un macrorac-
conto.

TRAGEDIA 2.0—> Devlin sembra riproporre la medesima logica su cui da secoli si basa il teatro.

Analogamente a quello che avviene negli spettacoli teatrali, i concerti rock si danno come eterotopie.
Sono isolati dal contesto circostante, quasi chiusi su se stessi, in altre parole perimetrano luoghi senza
luogo e vivono autonomamente. Però esistono alcune crociani differenze. Innanzitutto il teatro mostra e
utilizza scene immaginarie e verosimili che lo spettatore riconosce come eventi di fiction. Diversamente un
concerto rock è una performance finzionale, che si presenta come vera.

Come aveva già intuito il cinematografico Louis Delluc, il cinema è il medium della sincronia universale. In
quanto si fonda sulla partecipazione dello spettatore. È uno tra i più riusciti esiti della modernità che però
ha radici nascoste nella classicità. Sempre secondo Delluc, la settima arte tende a riproporre nel XX seco-
lo stratagemmi già adottati nelle tragedie greche. Devlin infatti si spira ancora a Eschilo Sofocle, Euripide a
tal punto da parlare dei concerti rock come di implicite, libere e arbitrarie riscritture delle tragedie antiche.
Quasi una prefigurazione dei concerti rock dell'autrice che riattiva la struttura compositiva delle tragedie
greche, governate dal continuo succedersi di episodi recitati e alternati con cori. Basti pensare al concerto
degli U2 con l'app scaricabile sui cellulari. Come dimostra questo esperimento l'autrice si propone di re-
cuperare il potere collettivo delle tragedie, che prevedevano la partecipazione attiva e l'immedesimazione
del pubblico con l'andamento drammaturgico. Coloro che vi assistono sono letteralmente invitati a intera-
gire, a vivere situazioni emozionali cantando, ballando, urlando, ritraendosi in selfie.

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DIONISO—> Devlin sembra sviluppare soprattutto il lato più perturbante delle opere dei grandi tragici greci.
Territori scuri su cui si era soffermato Nietzsche ne la nascita della tragedia. Il filosofo aveva offerto un ri-
tratto policromo della Grecia antica, soffermandosi e interrogandosi sulle origini della tragedia che riesce a
elevare l'uomo al di sopra dell’abisso del dolore. Dioniso, una divinità plurale, quasi ambigua, incarna la
logica dell’emozione e coloro che si immedesimano con tale divinità si abbandonano al godimento del
gioco. Con i concerti si compie una sorta di eterno ritorno di Dioniso, capace di infrangere tante consue-
tudini soprattutto tra conscio e inconscio. Nei concerti delle rockstar, si manifesta l'essenza dionisiaca del-
la postmodernità.

- Tuttavia essi evocano anche un altro tratto dell'identità di Dioniso: il suo essere senza fissa dimora. In-
fondo anche i concerti rock sono senza fissa dimora, sono costruiti nello stadio di città poi vengono
smontati, in attesa di essere riallestiti in altri stadi di altre città.

- Inoltre esiste anche un altro aspetto di Dioniso che, percorrendo sentieri labirintici, ritorna con forza negli
eventi rock. Questo Dio accoglie il diverso e nello stesso tempo lo disperde, spingendosi verso un'unità
senza confini. Nei concerti-kolossal di Devlin, Musica, architettura, cinema, video arte, performance e
happening si combinano in una dimensione avvolgente, sinestetica, dionisiaca appunto.

Insofferente nei confronti di quegli artisti che provano a difendere l'autonomia dei linguaggi tradizionali la
set designer inglese riflette sul senso e sul valore dei limiti che storicamente hanno separato i diversi ge-
neri. Essa mescola forme varie in un'esperienza unitaria, pensando i concerti rock come opere d'arte tota-
li. O meglio come assemblages. Un concetto che rimanda a una tecnica molto utilizzata dai protagonisti
delle avanguardie novecentesche, gli assemblages sono dispositivi mobili, macchine nelle quali pratiche
non contigue si riarticolano e trovano un punto di incontro.

Concerti rock come quelli progettati da Devlin per gli U2 sono assemblages nati per essere bruciati in una
serata, ma destinati a restare memorabili. La stessa autrice afferma che le sue creazioni esistono soltanto
quando la loro esistenza è percepita dal pubblico. Chi lavora in teatro e consapevole del fatto che ciò che
realizza è effimero, alla fine tutto vive solo nei ricordi delle persone.

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Settimo capitolo
UN EPILOGO POSSIBILE
Vedremo una installazione di Alejandro Inarritu. Implicitamente un atto di accusa contro il sistema dell'ar-
te, dominato dai musei, dalle gallerie e dai mercanti. Ma soprattutto un'opera politica e multi-narrativa,
che fa vivere intensamente le fasi del viaggio di un gruppo di rifugiati dell'America centrale. Allo spettatore
in questo caso si chiede una partecipazione attiva. Si tratta di una video installazione immersiva, che as-
simila e mescola linguaggi diversi.

14. CONFINE INARRITU


- Carne y arena, Fondazione Prada, 2017 —> una installazione creata da Inarritu in collaborazione con
il compositore Alva Noto con il ILMxLAB di George Lucas e con il direttore della fotografia Emmanuel
Lubezki.

Carne y arena è ispirato a Sangue e arena, un celebre film diretto da Rouben Mamoulin nel 1914, tratto
dall’omonimo romanzo di Vicente Blasco Ibanez del 1909.

Prima di entrare a far parte di questa opera viene richiesto allo spettatore di firmare un documento, perchè
l’esperienza immersiva che si sta per vivere potrebbe risultare disturbante. Inoltre non si possono portare
dispositivi di registrazione fotografica e audiovisiva.

L'ingresso è preceduto da una stanza buia, dove si legge sulle pareti una dichiarazione dell'autore in cui
spiega il metodo seguito per raccogliere le testimonianze di numero di rifugiati messicani e centro ameri-
cani, ai quali ha chiesto di mettere in scena le proprie vicende. La stanza è dominato da un logo: un cuore
gigantesco, diviso in due da una linea. Da una parte la parola U.S e dall’altra T.H.E.M (noi vs loro).

INIZIA IL PERCORSO: Si scorge una ghiacciaia. Una stanza che rievoca le celle di prima accoglienza dei mi-
granti fatti prigionieri per diversi giorni dalle guardie di frontiera. Il luogo è freddo e inospitale, stretto e
basso. È illuminato da una fredda luce al neon e sotto una panchina di metallo lucido troviamo dei vestiti e
oggetti coperti di polvere. Per lo più si tratta di sandali e stivali, nonché materiali abbandonati dalle perso-
ne durante il loro tentativo di attraversare il confine tra Messico e Arizona.

- Viene chiesto allo spettatore di togliersi le scarpe e di rimanere a piedi nudi. Davanti una porta pesante
di metallo. Lo spettatore viene inghiottito dall'oscurità di un grande spazio buio, tagliato in due da una
fascia orizzontale di luce rossa. Sotto i piedi una distesa di sabbia fine mista ghiaia. Infine viene dato
allo spettatore uno zaino dotato di Nomadic Modulator System, un Oculus Rift in testa e degli auricolari.

- Si entra in un paesaggio surreale realizzato grazie alla realtà virtuale. Si assiste a una drammatica av-
ventura di un gruppo di migranti intercettato da una jeep della Border Patrol statunitense, mentre cerca
di attraversare il confine di notte. Si ha una visione a 360° della scena e nel frattempo si scandiscono le
tre sequenze:

• Prima sequenza: ambientata nel deserto, la luce del giorno svanisce oltre l'orizzonte. Si avvertono suo-
ni naturali e tra gli arbusti si scorgono alcuni fantasmi. Hanno volti e corpi poco definiti. Poi quelli indivi-
dui iniziano ad arrampicarsi su una collina, mentre si percepiscono le urla dei trafficanti di esseri umani.
All'improvviso arrivano due piccoli camion della polizia di frontiera, mentre un minaccioso elicottero vol-
teggia sulle teste degli spettatori. Li illumina con un fascio di luce tanto reale grazie a un rumore assor-
dante e all'ondata di aria fredda. Nuvole di sabbia sembrano volgere i soggetti e poi stop. Termina la
prima sequenza.
• Seconda sequenza: la Border Patrol, con a bordo le truppe blocca il gruppo dei disperati e li immobiliz-
za. Si assiste al caos, la polizia mentre da ordini e urla, interroga i migranti. Nel frattempo il trafficante di
esseri umani cerca di scappare, ma gli sparano. L'elicottero torna nuovamente e i profughi si siedono
intorno a lungo tavolo, che ha un tratto diventa simile a una nave destinata a inabissarsi. Forse una illu-
sione all'immigrazione attraverso il mediterraneo. Stop nuovamente e inizia la sequenza conclusiva.
• Terza sequenza: lo spettatore assiste alle ricerche, agli arresti e all'interrogatorio dei poliziotti per identi-
ficare i membri del gruppo. Sta per iniziare il nuovo giorno, ci sono cespugli mossi dalla brezza mentre si
odono stormi di uccelli. Come una attesa inquietante, poi lo stop. All'improvviso tutto finisce. Sono più
di sei minuti di una grande intensità emotiva, che a volte appaiono molto più lunghi.
Un'esperienza che coinvolge tutti i sensi umani partendo dall'udito fino ad arrivare al tatto. Infine gli assi-
stenti tolgono cuffie e zaini, invitando gli spettatori a uscire da un'altra porta. Questa volta si indossano di
nuovo le scarpe. Ci si ritrova in un'altra stanza con un percorso se mi buio costellato da finestre elettroni-
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che incastonati nelle pareti nere. Ciascuna contiene un light-box ovvero un piccolo schermo in HD che
mostra i volti degli attori per caso coinvolti nel progetto. Di tanto in tanto, le immagini-ritratti vengono
soppiantate dalle testimonianze scritte riguardanti le vicende accadute a quei profughi.

Per ricostruire i percorsi genealogici sottesi a Carne y Arena, possiamo muoversi da un film realizzato dallo
stesso Inarritu:

- Babel, 2007—> una sorta di esercizio di cubismo cinematografico. Il regista nel film ribalta alcune rego-
le compositive tradizionali, procedendo per cesure nette e passando da un episodio a un altro. In linea
con quel che aveva già fatto in 21 grammi nel 2003, sulle orme di America Oggi di Robert Atman, Inarri-
tu ordisce un tessuto fatto di infinite trame e di tanti nodi. In un impasto di iconofilia e iconoclastia, in-
treccia storie non contigue, una narrazione a mosaico, caratterizzata dal sovrapporsi di piani, di eventi,
di prospettive. Con un montaggio esterno invita a una esasperante andare avanti e indietro nel tempo e
nello spazio. Quasi un romanzo visivo denso di riferimenti a Fino alla fine del mondo di Wim Wenders,
Babel sembra disegnare i contorni di un’opera palanetaria, nella quale senza soluzioni di continuità,
transitiamo da un capo all’altro del mondo. La tappa centrale rimane però Città del Messico.

Dopo questo film Inarritu si è allontanato dalla sua terra, come dimostrano Biutiful, Birdman e The Reve-
nant. Nel 2016 ha avvertito il bisogno di abbandonare certe atmosfere spettacolari e hollywoodiane, per
tornare a confrontarsi con il suo Messico. In particolare con il fenomeno della migrazione verso gli Stati
Uniti. Il superamento della frontiera consiste in una barriera la cui costruzione iniziata nel 1990 durante la
presidenza di George W. Bush, sviluppatasi ulteriormente da Bill Clinton e definita come il muro della ver-
gogna durante la presidenza Trump. L'esito immediato dell'edificazione di questa architettura è l'esodo di
persone che cercano di varcare illegalmente il confine. Lo stesso Inarritu afferma: “É come il muro di Berli-
no. Ed è orribile”.

Confini come la linea tra Messico e USA incidono profondamente sulla geopolitica contemporanea. Eppu-
re spesso nei dibattiti politici e mediatici attuali la parola confine viene confusa con altri termini, come limi-
te o frontiera. Si dimentica però che siamo dinanzi a due concetti diversi e opposti. Le frontiere costitui-
scono il fine di una terra, la parte ultima prima degli noto. Il confine, al contrario, è un posto sicuro da cui
partire e verso cui poter tornare.

Il racconto di immigrati intenti a varcare il confine tra Messico e Usa, con Carne y Arena l’autore costrui-
sce un’opera che si da essa stessa come confine tra concetti all’apparenza autentici.

TRA REALE E VIRTUALE—> innanzitutto Carne y Arena assorbe necessità e umori sempre più diffusi nell'arte
del nostro tempo, che appare attraversata da tensioni opposte. Da un lato l'adesione ai riti propri delle ce-
lebrity culture, con una centralità del mercato e intrattenimento visivo. Dall'altro, il bisogno avvertito da
tanti artisti di riaffermare le ragioni dell'impegno e della partecipazione, ponendo le basi per il ritorno di
un'arte politica. Siamo dinanzi una tendenza che non si attiene a un preciso programma teorico, anche se
è sostenuta da critici e curatori. I promotori di tale fenomeno vogliono pronunciare alcuni conflitti risolti
nell'età contemporanea. In altre parole voglio dare visibilità con sapiente chiarezza al proprio punto di vista
surreale. Gli artisti politici concepiscono i propri lavori come severi esercizi dello sguardo. Attingendo a
suggestioni tratte dalla galassia dei media, riscoprono la dimensione affabulati e narrativa dell’arte.

Per reagire al disincanto tipico della nostra epoca i protagonisti dell'arte politica 2.0 si misurano con il vol-
to più manifesto e insieme più scuro del presente, oscillando tra resoconto giornalistico e critica sociale.
Si pongono quindi in una condizione ambigua: per un verso utilizzano gli stessi materiali forniti dalla cro-
naca, per un altro verso ne estraggono visioni perturbanti. Essi vogliono fare luce sui mali del mondo, che
restituiscono in maniera esplicita. Le loro testimonianze brucianti mirano a portarci altrove, ma vogliono
rendersi responsabili di ciò che sta accadendo a poca distanza da noi.

Vi sono anche altri artisti che non adottano lo strumento della cronaca, al contrario provano a sorprendere
il mistero delle verità più immediate, interiorizzandole, fino a rendere le poetiche. Essi ci aiutano a capire
che l'arte può essere una denuncia nei confronti delle inquietudini del presente e non deve limitarsi a regi-
strarli come se fosse un grande specchio. Deve invece trascenderli riscriverli e alterarli proprio come ha
detto Herbert Marcuse.

In linea con la tensione politica sottesa a molte esperienze artistiche contemporanee, Inarritu, in Carne y
Arena, si richiama anche alla lezione dei grandi moralisti messicani come Diego Rivera, David Alfonso Si-
queiros e Josè Clemente Orozco, per dare vita a un affresco tridimensionale sulla migrazione della popo-
lazione del Messico verso l’American dream.

Sulle orme di questi riferimenti storico-artistici, Innaritu gira un piccolo kolossal, la cui prima versione risa-
le al 2012-13. L’autore durante la realizzazione dell'opera ha avuto il privilegio di incontrare e di intervistare
molti immigrati e rifugiati messicani. Ha invitato alcuni di loro a partecipare a questo progetto, in modo che
il loro viaggio non rimanesse mera statistica.

Il passaggio successivo è la raccolta di reliquie di quei disperati in fuga. Dopo tanti dubbi, egli sceglie di
soffermarsi su alcune tracce minime come le scarpe. Le scarpe proprio perché quando nel lungo viaggio
si perdeva questo oggetto si rischiava la morte, e dato che queste persone hanno perso le loro scarpe Inr-
ritu ha pensato che anche i visitatori dovessero rimanere scalzi.

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Il momento successivo è la stesura di una sceneggiatura di tipo etnografico, in cui la realtà viene mescola-
ta con la finzione. Non ci sono attori, perché quelle storie vere sono state rimesse in scena delle stesse
persone che le hanno affrontate. Sono esattamente queste le classiche fasi che precedono l'inizio delle
riprese di un film. L'autore tuttavia avverte la necessità di portarsi al di là di certe ritualità proprie del lin-
guaggio cinematografico. Per fare sentire il reale Inarritu abbandona i modi propri del medium filmico tra-
dizionale per sperimentare soluzioni narrative, rappresentative e tecnologie originali. Decide, perciò, di di-
rigere un'installazione che consente il passaggio attraverso una molteplice varietà di piani, di registri, di
spazi e di esperienze, grazie all'opportunità offerte da una Virtual reality. Un gesto ardito, quasi paradossa-
le. L'artista evoca una tragedia reale attraverso una drammaturgia di Avatar. In tal modo muta il nostro
modo di concepire quella tragedia, disegnando i contorni di un real space che si forma nella nostra testa.

TRA EMPATIA E DISAPPARTENENZA—> Carbe y Arena ci rende non solo osservatori ma protagonisti di una
vicenda di cui non riusciamo a cogliere le dinamiche interne. Per ottenere questo effetto l'autore radicaliz-
za certi artifici rappresentativi già utilizzati in alcuni suoi precedenti film. In Birdman, la cinepresa sembra
compenetrarsi con l’ambiente architettonico. In The Revenant, l’azione fa parte del paesaggio. Mentre in
Birdman chi osserva percepisce se stesso come fruitore e insieme come cinepresa, in The Revenant si
sente come parte dei luoghi filmati.

Il passaggio successivo in Carne y Arena è quello di metter in scena un ambiente-esperienza non più bi-
dimensionale, ma immersivo. Sappiamo che stiamo assistendo a una fiction, ma abbiamo la sensazione di
stare con i profughi messicani.

Egli si serve della virtual reality per rendere ancora più profonda l'intensità del nostro coinvolgimento. Infi-
ne, mira ad abbattere i muri reali e psicologici che ci difendono, per metterci dalla parte di coloro che sen-
za niente arrivano da fuori. Per un verso Inarritu porta il cinema alla sua essenza, per un altro verso ser-
vendosi della tecnologia VR, decostruisce le regole dell'inquadratura. In altre parole infrange limiti imposti
dal regime filmico tradizionale, intrecciando virtualità e partecipazione, tecnologie avanzate ed embodi-
ment. Il visitatore non è più un entità distante dal racconto, ne è partecipe. Assistiamo così al declino della
distanza tra il soggetto che osserva e gli attori-simulacri. Si afferma l'assoluta centralità della nostra pre-
senza.

Diversamente da ciò che accade nel cinema siamo condotti nel cuore degli eventi filmati. Ci viene chiesto
di partecipare in prima persona a una fiction e possiamo entrare nei panni dei disperati i messicani. Dun-
que siamo sigillati ermeticamente nell'ambiente mediale all'interno del quale sembra che non ci siano bor-
di nei cornici. Manca il fuoricampo. Soprattutto in un momento ci sentiamo davvero visibili e presenti, ov-
vero quando un militare sembra rivolgersi verso di noi. Inoltre le scene cambiano a seconda delle angola-
zioni e dei movimenti da noi scelti. Infine, a differenza di quel che succede nel cinema ogni spettatore può
vivere un'esperienza diversa.

Eppure Carne y arena è tutto finzione. Ci troviamo in un ambiente che resta per noi sempre estraneo. As-
sistiamo a una perturbante dissociazione sensoriale che genera disagio, non possiamo trasgredire i vincoli
previsti da registra e dalla tecnologia via R. Siamo isolati da tutto ciò che ci circonda. Ci troviamo in un'e-
sperienza nella quale la partecipazione viene sollecitata, ma allo stesso tempo contraddetta, sfidata, mes-
sa in discussione. Sembra quasi un modo per alludere alla volontà del regista di condannare lo spettatore
a un'ambiguità. Siamo fisicamente presenti, ma restiamo assenti. Alcuni gesti, il vedere il toccare ad
esempio ci vengono inibiti. Allo stesso tempo favorisce la stimolazione tattile e la percezione il fattiva con
la sabbia e il vento. Il tutto però ricade sul fatto che non possiamo controllare la nostra stessa fisicità.

TRA MATERIALITÁ E SMATERIALIZZAZIONE—> siamo dinanzi a un'esperienza intersoggettiva e, insieme, auto


soggettiva. Avvicinarsi troppo i migranti-Avatar rischia di svelarci la finzione di questo spettacolo. L'opera
coinvolge la nostra corporeità e, al tempo stesso, l'eclisse generando una collisione tra stimoli tattili e per-
cezione visiva.

Per riarticolare le relazioni tra reale e virtuale, empatia e appartenenza, tra materialità e smaterializzazione,
Inarritu ripensa in maniera radicale l’identità dei linguaggi tradizionali. Innanzitutto egli muove da alcune
fascinazioni pittoriche, concependo la sua opera come un cinema dipinto. Come un gigantesco virtuale
quadro di Bush, di el Greco o di Goya, dentro cui è possibile entrare guardando dall’interno. Questa opera
presentata a fondazione Prada segue tempi di ideazione, di scrittura, di realizzazione e di produzione ana-
loghi a quelli richiesti da un lungometraggio. Egli si concentra soprattutto sulla forma e sul linguaggio della
sua installazione, affrontando la difficile sfida delle tecnologie più avanzate.

Situandosi nella prospettiva del superamento dei modi propri del cinema Inarritu in Carne y Arena, ne di-
sarticola alcune convenzioni. In primo luogo ripensa il ruolo e la funzione di una delle forme archetipiche
dell'esperienza filmica: lo schermo, in cui afferma con forza la centralità della figura della cornice. Con la
sua installazione l'autore contesta la condizione di insularità e di separatezza associata alla cornice-
schermo. Che nell'opera sembra svanire. O meglio è ovunque e insieme è come se non ci fosse. Lo spet-
tatore si muove così in un alveo scenico-performativo di tipo teatrale. Qui le immagini sembrano negare se
stesse e si fanno paradossalmente aniconiche. Non sono più figure di qualcosa ma diventano ambienti
reali.

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Oltre a decostruire la cornice-schermo l'espansione dell'orizzonte a 360° mette in crisi altri artifici fonda-
mentali della visione filmica: la centralità del punto di vista dello spettatore, il ricorso al movimento della
videocamera, l'utilizzo del montaggio. Infine però egli salvaguarda la presenza del fuori campo, strata-
gemma cinematografico che consente di mostrare specifiche situazioni e, al tempo stesso, lascia intuire
presenze poste al di là della nostra visone.

La vera ambizione di Inarritu consiste nel far confluire media, pratiche e linguaggi in una installazione che
ne viola e, né dissolve le identità, riconfigurando nei rapporti le relazioni, per dar vita a un'opera impossibi-
le da interpretare richiamandosi ai paradigmi critici tradizionali. Questa opera differenza della maggior par-
te delle installazioni contemporanei, si sottrae alle regole imposte dal collezionismo: non può essere ac-
quistata nella sua interezza, né per parti. Non può essere fotografata ne impostata sui social.

La sua è una installazione pesante, neorealista, densa di contenuti grammatici, complessa nella produzio-
ne e nella fruizione, ma impossibile da toccare. Dietro la volontà di costruire un'installazione politica, si na-
sconde una tensione sottilmente antimoderna. L'artista muove da una segreta insofferenza nei confronti di
certe degenerazioni dell'arte. Egli confessa di detestare quelle masse di visitatori disinteressati che attra-
versano i grandi musei e i maggiori eventi espositivi internazionali, resi simili a mere attrazioni turistiche.

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21 PAROLE DEL XXI SECOLO
1. Critica : per guardare un’opera d’arte contemporanea, Trione prova a portarsi al di la di certe inclina-
zioni molto diffuse tra i critici d’arte. Egli sceglie di non usare le opere come fragili mattoni di un edifi-
cio teorico, ma parte da un prezioso consiglio di Gombrich. Il quale nello scritto L’opera d’arte raccon-
ta, aveva sostenuto che non esiste in realtà una cosa chiamata arte, esistono soltanto gli artisti. Mentre
l’artista muore, l’opera d’arte custodisce un valore estetico duraturo. Trione si sofferma dunque su al-
cune opere esemplari, talvolta epocali, che ha concepito come se fossero “persone”.
2. Genealogie: per accostarsi a queste persone Trione si affida a una approccio di tipo genealogico. In
sintonia con i pensieri di Foucault, egli ha tracciato una piccola etnologia, per cercare di svelare il pen-
siero nascosto tra le pieghe di tante difficili costruzioni dell’arte contemporanea. Trione prova a far af-
fiorare in questa ottica, intenzioni non del tutto confessate. La sfida è quella di comprendere e scoprire i
riferimenti storico-artistici che hanno determinato una certa proposta formale.
3. XXI: la data di realizzazione. Tutti i lavori scelti sono stati prodotti dopo il 2000, anche se non mancano
le tracce novecentesche. Fatta eccezione per alcune opere di Nitsch e Barney.
4. Atti unici: le proposte descritte nel libro sono come dice lo stesso termine atti unici.
5. Semionauti: gli autori che hanno concepito questi atti unici si comportano come, riprendendo un’idea
di Bourriaud, semionauti. Ovvero nomadi che si muovono tra culture e mettono in collegamento mondi
diversi e distanti.
6. Avanguardie: gli artisti trattati avvertono il bisogno di superare alcuni riti cari ai protagonisti delle
avanguardie e delle neoavanguardie novecentesche. Essi provano a percorrere il corso della storia, per
realizzare il futuro del presente. In altre parole cercano di stabilire ciò che sarà valido domani. Inoltre gli
artisti del museo non vogliono restare ancorati nella medium specificity teorizzata sin dagli anni qua-
ranta da critici come Greenberg, secondo i quali ogni forma artistica possiede un proprio strumento
specifico. Infine gli attori del libro ritengono che occorra portarsi al di la della filosofia fondata sulla
reinvenzione dei media elaborata da Krauss: non ci si può limitare a ripensare il senso e il valore delle
tecniche adottate e dei linguaggi utilizzati, ri-attivando procedimenti obsoleti.
7. Corrispondenze: soffermandosi sul contesto delle poetiche del secondo dopoguerra, A dorso descri-
ve scenari segnati da netti cambiamenti. Negli esiti più radicali delle avanguardie del xx secolo, osser-
va, è in atto una svolta epocale. Un’intera scala di valori come armonia, ordine e purezza, è entrata in
crisi. I generi artistici sconfinano, si connettono tra di loro. Si assiste al trionfo di una stimolante promi-
scuità.
8. Novecento (e noi): i nostri artisti non si limitano a esporre media diversi. Scelgono di abbandonarsi a
ininterrotti moti centripeti, che li portano a riprodurre diversi linguaggi dentro un’unica cornice.
9. Comparazioni: interpreti di questa svolta, gli artisti radunati nel nostro museo immaginario, testimoni
di scenari nei quali le barriere, tra le pratiche e i media vengono messi in discussione.
10. Linee: per intuire le proprie comparazioni, questi artisti seguono sentieri diversi.
- Alcuni come Kiefer, Nitsch, Boltanski, Kentridge, Hirst sembrano riprendere una intuizione di Ejsenstejn,
il quale elogia il concetto di cooperazione amichevole tra le arti stesse.
- Pur con accenti diversi Barney, Greenaway, Parreno e Devlin, provano a superare una concezione pu-
ramente visiva di arte. Perciò pongono situazioni eterogenee in una condizione di simultaneità e com-
presenza.
- Altri artisti ancora come Paladino, Balestrini, Calle, Pamuk e Bjork ci consegnano sofisticate operazioni
di traduzione intersemiotica: esercizi di trasposizioni, nelle quali determinanti testi letterari e musicali
vengono riscritti su vari registri, servendosi di molti media.
- In questa mappa un posto aspetta a Carne y Arena di Inarritu. Una installazione che sembra preludere a
un futuro possibile. Rende concreta la previsione di Ricciotto Canudo, che sostiene le arti siano state
separate violentemente e per troppo tempo.
11. Grande stile: al di là di queste differenze, gli artisti esposti nel nostro museo sono accomunati da al-
cune precise intenzioni poetiche. Essi sono sorretti da una sorta di volontà prometeica, i nostri artisti si
comportano come demiurghi. Sembrano vuole rilanciare nella post modernità il concetto di grande sti-
le su cui si era soffermato Nietzsche. Un termine che si può definire come una rete estesa per control-
lare una pluralità di dati dentro una cornice, e che reca sono in se stessa la giustificazione della propria
funzione.
12. Frammenti: I frammenti riflettono la discontinuità del mondo, e riescono a esprimere con efficacia ca-
tegorie fondamentali nella modernità tra cui incompiutezza, imperfezioni, non-finitezza.
13. Non compito: afflitti da una sorta di vertigine dell'eccesso, gli artisti del non museo sembrano aderire
così a quella che è Umberto Eco ha definito la poetica dell'eccetera. Ovvero rappresentazioni poten-
zialmente infinite. Siamo dinanzi a opere nelle quali frammenti diversi vengono accostati in un valzer di
dissonanze, senza fondersi in una versa unità polifonica.

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14. Molteplicità: Calvino parla della molteplicità e lo stesso fanno queste opere che tendono verso la mol-
tiplicazione dei possibili. Sono reti di relazioni che accolgono metodi interpretativi. Sono quasi infine
enciclopedie aperte.
15. Cosmogonie: gli artisti sembrano animati dallo struggimento per gli equilibri perduti. Con le loro ope-
re-mostra si pongono su una soglia. Dicono addio al grande stile di Nietzsche basato sulla memoria,
ma avvertono ancora la necessità di mandare alle sue forme. Oscillano tra caos e cosmo.
16. Totalità: la totalità, la meta ultima. Un concetto questo che tuttavia si colora ora di sfumature in attese.
Indica una tensione verso una dimensione che non appare mai concretamente, ma può solo dipingersi
in maniera progressiva.
17. opere-mondo: evidenti le affinità con quanto hanno fatto grandi romanzieri. Essi lavorano un pezzo
alla volta, per dar vita romanzi profondamente discontinui, imperfetti, instabili. Opere mondo. In questa
prospettiva è decisiva la tensione ultima, quella enciclopedica.
18. Artworld: in segreta consonanza con quanto accade in rilevanti momenti della letteratura contempo-
ranea, anche gli artisti del museo immaginario due. Zero hanno l'ambizione di realizzare opere-mondo
intimamente epiche. I loro sono capolavori mancati che, nel trasgredire le tradizionali specificità disci-
plinari ci consegnano un infinita e complessa trama di percorsi. Nessun autori artisti che, pur radicati
nell'Art system, cercano di ritagliarsi spazi di libertà esercitando un'azione di disturbo sui meccanismi
di mercificazione. E si vogliono disarticolare certe regole e certe liturgie imposte dall'Art Word, sfidano
la logica del mercato del collezionismo. Inoltre violano la logica della permanenza.
19. Cronos: oltre ad avere un chiaro valore sociologico-politico le opere dei nostri artisti hanno anche rile-
vanti incidenza e filosofiche. Essi evocano uno scandaloso rapporto con il tempo che viene inteso non
come dimensione da superare, ma come geografia da abitare, da frequentare da percorrere. Gli artisti
descritti non vogliono cercare di sconfiggere quella divinità imprendibile di cui non conosciamo il volto
che Crono. Pure attraverso sentieri non contigui gli attori offrono una meditazione estrema sul destino
dell'arte. L'arte stessa ora sembra muoversi nel puro nulla, sospesa in una sorta di diafano limbo tra il
non essere più e il non essere ancora.
20. Fallimenti: all'origine delle opere interminabili sembrano esserci soprattutto intenzioni quasi metafisi-
che. Siamo dinanzi a installazioni che appaiono sempre minacciate dal rischio del fallimento.
21. Nuvole: la scultura The Man who Measures the Clouds, una scultura di Fabre. È un’opera su cui si
vede, su un piedistallo-scala, un cloud-workshipper E tiene fra le mani una riga, per provare a delimita-
re l'infinito. Il suo sogno destinato a restare infranto è quello di misurare le nuvole. Ciò allude alla tra-
scendenza che è stata ripresa anche negli scritti di Baudelaire. I versi di Baudelaire e la scultura di Fa-
bre sembrano evocare l'utopia in cui credono, senza mai confessarlo apertamente gli artisti che ab-
biamo incontrato nel museo senza mura. Vogliono spingersi sempre altrove esplorare mondi possibili.
Cercare ciò che nessuno ha mai fatto.

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