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ALMA MATER STUDIORUM

UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di laurea magistrale in

Cinema, Televisione e Produzione multimediale

OLTRE I CONFINI DEL METODO:

L’IPER-REALISMO DI ROBERT DE NIRO

Tesina di

Performance studies e media audiovisivi

Docente:

Prof.ssa Sara Pesce

Presentata da:

Federico Cristalli

Anno accademico 2016/2017

1
2
INDICE

4 1. Introduzione

7 2. Un punto di riferimento imprescindibile: Marlon Brando

11 3. Una panoramica sul Metodo di De Niro

16 3.1. Johnny Boy e Travis Bickle

25 3.2. Il metodo portato all’eccesso: Jake LaMotta

30 4. Conclusioni

32 Bibliografia di riferimento e filmografia

3
1. Introduzione

It is this astonishing variety and authenticity of his characterizations that make him, at 33, the most exciting young
American actor on the scene, the one with the greatest potential to combine superstardom with extraordinary creative ability.
More than that, De Niro is the heir apparent to the post of American cultural Symbol once occupied by Marlon Brando and
the late James Dean. As Brando and Dean did in the postwar decades, De Niro seems to embody the conflicting, questioning
energies of his generation, the generation coming to young maturity in the fragmented ’70s.

Jack Kroll1

Molti parlano di Metodo Stanislavskij, addossando tale etichetta a quei divi di Hollywood che
hanno dominato gli schermi cinematografici dalla metà degli anni Sessanta in avanti, ma ben
pochi hanno idea di cosa significhi parlare di Metodo, quali siano le sue radici e quale tortuoso
percorso abbiano intrapreso i precetti dell’attore e regista russo, una volta fatto il loro ingresso
negli Stati Uniti. Il fine ultimo della recitazione stanislavskijana è la ricerca di un naturalismo
accentuato, di una notevole credibilità del personaggio da contrapporre all’antitetico attore di
Brecht, per cui era di primaria importanza la messa in scena della performance attoriale, la sua
evidenza, attraverso la tecnica dello straniamento. Le origini della moderna recitazione
cinematografica statunitense vanno ricercate quindi nel teatro naturalista nato col finire del XIX

secolo, in cui drammaturgi e registi iniziavano a esigere sulla scena, dal punto di vista attoriale,
una gestualità e una sfera di comportamenti che fossero «nient’altro che la riproduzione della vita
quotidiana, come si svolge nella realtà, in ogni suo dettaglio».2 All’epoca non fu certo facile, per
attori che provenivano da tradizioni recitative completamente agli antipodi, rinunciare agli
abbellimenti dell’azione che tradizionalmente hanno contraddistinto la recitazione teatrale nei
secoli. Stanislavskij sviluppò in modo geniale queste nuove tendenze che stavano prendendo
forma nel teatro d’avanguardia, facendo leva sui precetti secondo i quali l’attore non deve
minimamente tenere conto del pubblico nella manifestazione della sua performance, ma lavorare
a priori su sé stesso e sul personaggio così da presentare quest’ultimo sul palco così come questo
si comporterebbe realmente, trasmettendo in tal modo il massimo grado di credibilità all’azione.
Il naturalismo teatrale crea un connubio con la nascente psicanalisi andando a plasmare un
metodo di recitazione basato sull’approfondimento psicologico del personaggio e sulla ricerca di
affinità tra il mondo interiore di quest’ultimo e quello dell’attore che lo mette in scena, attraverso
un faticoso lavoro di introspezione personale.

1J. Kroll, “De Niro: A Star for the ‘70s” in Newsweek, 16, Maggio 1977, p. 80.
2C. Vicentini, L’arte di guardare gli attori. Manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema, televisione, Marsilio, Venezia 2007,
p. 36.

4
Ma la ricerca compiuta sulla recitazione da parte di Stanislavskij si può definire a tutti gli effetti
Metodo?
Secondo lo studioso americano James Naremore:

[…] it was never intended to refer to a performing technique in the strict sense. It consisted
of a series of quasi-theatrical exercises, often resembling psychological therapy, designed to
“unblock” the actor and put him or her in touch with sensations and emotions.3

In accordo con lui, lo studioso e critico cinematografico Franco La Polla afferma che non esiste
un “metodo” in senso stretto, ma soltanto «una serie di riflessioni e di conseguenti esercizi di
interiorizzazione in progress, dovuti per di più […] all’apporto di altri influenti membri del
cosiddetto Primo Studio fondato dal grande teorico russo».4 Il Metodo è un insieme di
sperimentazioni in continua evoluzione e aggiornamento, una rilettura tutta americana del
Sistema di Stanislavskij affermatosi ufficialmente dal 1947, data di fondazione dell’Actors Studio a
New York, un laboratorio di ricerca in cui attori e registi collaborano nella definizione di linee
guida volte a restituire una nuova credibilità ai personaggi portati in scena. Come scrisse lo stesso
Strasberg a proposito della differenza terminologica tra Sistema e Metodo:

Credo che nessuno se non lo stesso Stanislavskij abbia il diritto di parlare del Sistema di
Stanislavskij […]. Affermando che il Group Theatre ha utilizzato un adattamento del Metodo
Stanislavskij, intendiamo dire che abbiamo dato rilievo a elementi che lui non aveva
evidenziato, e ne abbiamo trascurati altri che forse lui avrebbe considerato della massima
importanza […]. Quindi ritengo che sia giusto da un punto di vista teorico e corretto nella
pratica, definire il lavoro svolto dal Group Theatre e dall’Actors Studio come un adattamento
del Sistema di Stanislavskij. Il Metodo è quindi la nostra versione del Sistema.5

Stanislavskij fece il suo ingresso negli Stati Uniti nel 1923 per una tournée, e tale data, come
sottolinea sempre La Polla, ha un’importanza storica rilevante perché è indice di come già
all’epoca del cinema muto si fossero verificate forti avvisaglie di mutamento nella concezione
dell’impostazione attoriale, almeno per quanto riguarda il teatro.6 La fondazione del Group
Theatre da parte di Clurman, Crawford e Strasberg fu invece il primo esempio di scuola
stanislavskijana in America composta interamente da cittadini americani. Ovviamente la
recitazione cinematografica di quel periodo mostrava evidenti strascichi derivati da quella del
muto e un’impostazione ereditata dalla tradizione teatrale ottocentesca, conseguenza della

3 J. Naremore, Acting in the cinema, University of California Press, Berkeley 1988, p. 197.
4 F. La Polla, Malattie attoriali: istinto e scuola nel cinema americano degli anni ’30, in Stili americani, Bononia University Press,
Bologna 2003, pp. 405-410.
5 Da una lettera di Lee Strasberg a Christine Edwards, datata 1 aprile 1960, in C. Edwards, The Stanislavskij Heritage,

Peter Owen Publishers, London 1966, p. 261.


6 Ibidem.

5
formazione che molti attori ebbero sui palchi di Broadway. Grazie all’apporto fondamentale del
regista Elia Kazan, successivo co-fondatore dell’Actors Studio, e di attori in grado di farsi
portatori di nuove istanze sociali e culturali, quali Montgomery Clift e Marlon Brando, il Metodo
fa breccia nella tradizione cinematografica americana tra anni Quaranta e Cinquanta.
Le nuove tendenze recitative influenzano Hollywood in un periodo in cui il cinema, passato dal
muto al sonoro, viveva una serie di profondi cambiamenti, anche in ambito attoriale. Una nuova
idea di cinema che andava di pari passo con una nuova idea di economia, di cultura, di stile di vita
(lontano da quello dei “ruggenti anni Venti”. Dagli anni Trenta in avanti il pensiero di
Stanislavskij negli Stati Uniti ha avuto una così ampia diffusione da subire tante riletture e
volgarizzazioni che sembra ormai impossibile delineare i confini di un fenomeno di diffusione
assai variegato. Si potrebbe dire, usando le parole di Mariapaola Pierini, che «da un certo
momento in avanti, il Metodo e il cinema hollywoodiano siano la stessa cosa, proprio perché le
esigenze dell’uno e le proposte dell’altro coincisero quasi perfettamente».7 Brando, e con lui gli
altri attori del Metodo, rispondono a quell’esigenza diffusa di personaggi e storie più vicini alla
realtà e per il cinema questa vicinanza al quotidiano diventa la nuova soglia da superare per
continuare a offrire al pubblico uno specchio in cui riconoscersi. Nella Hollywood del
dopoguerra non era più possibile continuare a proporre mondi dorati ed edulcorati, abitati da
personaggi irraggiungibili, ben lontani da tipi umani realmente esistenti e riscontrabili nella vita di
tutti i giorni. La realtà deve essere mostrata nella sua crudezza, ed è dal cinema degli anni
Cinquanta dei vari Brando e Dean che prende forma quel percorso che fra anni Sessanta e
Settanta ha portato all’affermazione di nuovi divi come Dustin Hoffman e Robert De Niro,
portatori sullo schermo di figure antieroiche per eccellenza e di un iper-realismo che ha riscritto
la recitazione cinematografica negli Stati Uniti. D’altronde, come ha scritto Cristina Jandelli:
«attraverso la recitazione divistica, in definitiva, si può scandagliare il cuore pulsante di una
società».8
In questo elaborato mi sono proposto di compiere un’analisi della recitazione di Robert De Niro,
in assoluto il divo che più di tutti ha saputo farsi portatore dei precetti di Stanislavskij rielaborati
negli Stati Uniti, portandoli all’eccesso e definendo un nuovo modello recitativo divenuto
riferimento per le generazioni di performer successivi. La grandezza dell’attore italo-americano non
sta solo nell’abilità di portare sullo schermo le incertezze, l’instabilità e le sofferenze dell’uomo
comune nei frammentati anni Settanta, ma anche nella ricerca personale di nuove metodologie di
lavoro e approccio al personaggio che fanno di lui un vero e proprio autore nel processo

7 M. Pierini, Attori e metodo. Montgomery Clift, Marlon Brando, James Dean; e Marilyn Monroe, Editrice Zona, Civitella in Val
di Chiana – Arezzo, 2006, p.23.
8 C. Jandelli, I protagonisti. La recitazione nel film contemporaneo, Marsilio, Venezia 2013, p. 22.

6
produttivo del film. Figlio di un’epoca in cui la bravura degli attori non implicava una loro voce
in capitolo nella costruzione della sceneggiatura e dei personaggi messi in scena, De Niro
ridisegna una nuova forma di collaborazione fra regista e attore in cui il lavoro di quest’ultimo
influisce sull’autorialità del regista al punto che sulla visione che l’attore ha del suo personaggio da
interpretare, viene plasmato l’intero film con la sua catena di significati. Il trasformismo e
l’eccezionale versatilità sono le principali peculiarità di un attore che ha fatto della capacità di
catalizzare lo spazio scenico la sua principale ragione d’essere. Ma il suo personale modo di vivere
lo spazio della recitazione, riempiendo l’azione di gesti, movimenti, espressioni, inflessioni vocali,
è solo l’apice di un lavoro che prende le mosse da chi lo ha preceduto. Per questo ho ritenuto
fondamentale un confronto fra l’autorialità e l’iper-realismo di De Niro e la recitazione dell’attore
simbolo del Metodo che lo ha preceduto, ossia Marlon Brando, di cui De Niro è unanimemente
considerato l’erede. Per sua stessa ammissione, infatti, Brando costituisce il principale modello di
riferimento, assieme ad altri attori più o meno inscrivibili nel gruppo di attori del Metodo, quali
Clift e Dean.9

2. Un punto di riferimento imprescindibile: Marlon Brando

La fondazione dell’Actors Studio nel 1947 ad opera di Kazan, Crawford e Robert Lewis segna
uno spartiacque nella storia del Metodo. Se il periodo antecedente è contrassegnato dalla tournée
del Teatro d’Arte di Mosca, come abbiamo detto, e dall’esperienza successiva del Group Theatre,
dalla fondazione del laboratorio avviene quella diffusione del Metodo come insieme di pratiche
per l’attore destinate a modificare drasticamente l’intero sistema della messa in scena dello
spettacolo statunitense. Pochi anni dopo, nel 1951, Kazan porta sullo schermo un film tratto da
un suo celebre spettacolo, scritto però da Tennessee Williams, andato in scena proprio nel 1947,
che contribuisce in maniera determinante a segnare la fortuna del nuovo modello di recitazione. Il
film è Un tram che si chiama desiderio (A Streetcar named Desire, 1951), dramma ambientato quasi
interamente in un angusto e sordido appartamento di New Orleans nel quale convivono il
polacco Stanley Kowalski (Marlon Brando), rozzo, primordiale e violento, ma allo stesso tempo
sensuale e incline a slanci emotivi e affettivi; la moglie Stella (Kim Hunter), il personaggio più
piatto, dipendente dal marito; e la sorella di quest’ultima, Blanche DuBois (Vivien Leigh), donna
fortemente inquieta e tormentata. Kazan e Williams hanno avuto il merito di rappresentare lo
smarrimento di una nazione pervasa da profonde inquietudini, da desideri di sesso, violenza e

9 «The actors I always say are Brando, James Dean and Montgomery Clift». R. De Niro, intervistato nel 2012 da
Sheana Ochoa, autrice di una biografia di Stella Adler dal titolo Stella! Mother of Modern Acting. L’intervista è riportata
sul sito www.stellaadleralifeinart.wordpress.com.

7
patologia soffocati da un contesto puritano e poco permissivo, resi in qualche modo poetici dal
cinema, come faranno successivamente Scorsese e altri maestri della New Hollywood. Da un
punto di vista puramente performativo Marlon Brando riuscì a condensare il Metodo di
Stanislavskij nella sua deviazione americana dando forma e fama a un nuovo modello attoriale e a
un diverso modo di recitare. Il successo del film di Kazan ma soprattutto l’esplosione del
fenomeno Brando fecero trarre diversi benefici al Metodo e soprattutto all’Actors Studio in
termini di fama e riconoscimento, ma il successo di questi fenomeni determinò anche l’inizio
dell’incomprensione riguardo alla natura stessa del Metodo Stanislavskij. Difatti, come scrive
Mariapaola Pierini, Brando e il suo modo di recitare traevano ispirazione dal Sistema di
Stanislavskij, sviluppandolo però in direzioni del tutto imprevedibili e personali. Brando divenne
agli occhi del pubblico e di molti colleghi un modello a cui ispirarsi e la più convincente
espressione di questo nuovo modo di recitare, che tuttavia si allontana dai precetti del Sistema
stanislavskijano in senso stretto.10 Difatti è più corretto affermare che Brando abbia contribuito a
dare forma al Metodo più di quanto non abbia fatto il Sistema di Stanislavskij nei suoi confronti.
Nella recitazione di Brando, come in quella di altri attori a lui contemporanei, fra cui
Montgomery Clift, sono confluiti moltissimi fattori, anche sociali, che l’hanno influenzata. Se
consideriamo che Robert De Niro, di quasi vent’anni più giovane, è cresciuto prendendo come
modello un attore come Brando, capiamo che il percorso affrontato dall’italo-americano si spinge
verso una ricerca totalmente personale incanalata nel solco della recente tradizione statunitense
che ha mosso i primi passi con l’esperienza del Group Theatre, passando per la rivoluzionaria
quanto difficilmente etichettabile recitazione di Marlon Brando. Il giovane Marlon fu più efficace
di chiunque altro nel portare sugli schermi un modo di recitare completamente diverso rispetto al
passato, divenendo così, suo malgrado, un’icona esemplificativa di attore del Metodo, quando
sarebbe più corretto affermare che l’attore, come abbiamo detto, abbia portato semplicemente
alla ribalta un modello di recitazione lontano da quello scolastico e da pratiche codificate. Lo
stesso Brando volle screditare Strasberg in più occasioni accusandolo di non avergli insegnato
nulla, e per evitare accostamenti non graditi del suo nome a quello del fondatore dell’Actors
Studio, rifiutò costantemente l’etichetta di attore del Metodo. Non mancò invece di rimarcare il
grande talento di Stella Adler, di cui fu allievo alla scuola d’arte drammatica di Erwin Piscator, e
che anni dopo divenne l’insegnante di recitazione di Robert De Niro:

Stella lasciò un incredibile eredità. Praticamente tutta la recitazione dei film moderni deriva
dai suoi insegnamenti, ed è riuscita ad avere un effetto straordinario sulla cultura del suo
tempo. Le tecniche che ha introdotto e che ha trasmesso agli altri hanno mutato

10 M. Pierini, Attori e metodo, cit., p. 62.

8
enormemente la recitazione. […] Noi abbiamo impostato la nostra recitazione seguendo i
suoi metodi e il suo stile e, dato che il cinema americano domina il mercato mondiale, gli
insegnamento di Stella hanno influenzato gli attori di tutto il mondo.11

Anche il supporto di Kazan, tra i principali promotori del Metodo dai primi anni Trenta con la
fondazione del Group Theatre, fu di vitale importanza per la performance di Brando in Un tram
che si chiama desiderio. Lo stesso Kazan afferma, riguardo al rapporto fra attore e personaggio:

Il problema è che il canale principale del ruolo deve fluire attraverso l’attore. Egli deve
possedere il personaggio da qualche parte dentro di sé. Deve averlo vissuto in qualche modo.
[…] Conosco a fondo la vita privata degli attori. La materia del mio lavoro è la vita che gli
attori hanno vissuto fino a questo momento.12

Un personaggio come Stanley Kowalski, così come da copione, sarebbe potuto essere il classico
uomo rude e reazionario stereotipato già visto a Broadway e sul grande schermo in diversi generi.
Una figura piatta e antagonista del ben più ricco e sfumato personaggio di Blanche DuBois.
Kazan e Brando, però, danno a questo personaggio un’inedita profondità nella sua apparente
rude superficialità, arricchendolo di molteplici sfumature. Analizziamo ora la performance di
Brando nel film, punto di partenza sul grande schermo per quella rivoluzione chiamata Metodo
che tanta influenza ha avuto da quel momento sullo spettacolo statunitense. Una sequenza
significativa è senz’altro quella del primo incontro tra Stanley e Blanche, che ci fornisce l’assist
anche per un confronto fra la recitazione fuori dagli schemi di Brando e quella più compassata e
tradizionale di Vivien Leigh, la stella di Via col vento (Gone with the wind, 1939). Quella del suo
ingresso in casa è la prima apparizione ravvicinata di Brando, la sua effettiva entrata in scena
(dopo la scena del bowling in cui la sua figura è lontana e indistinguibile dalle altre), e già da
questo preciso istante capiamo che quella di Kowalski è la presenza più forte sia sul piano
drammaturgico (viene nominato spesso prima della sua entrata in scena) che scenico. Il corpo di
Brando è infatti il catalizzatore dello sguardo dello spettatore, per presenza scenica, robustezza,
ricchezza di movimenti. Avanza in direzione di Blanche con la sua caratteristica camminata
strascicata e Kazan lo mostra in primo piano mentre mastica distrattamente una gomma da
masticare. Il chewing gum masticato continuamente è una delle azioni distintive di Brando in questa
scena e il corredo tipico per una nuova tipologia di personaggio americano “ribelle” delineatosi
nel dopoguerra. L’attore indossa un giubbotto di raso che si sbottona con altrettanta sufficienza
mentre mastica la gomma, mostrando il torace robusto e muscoloso, coperto da una maglietta
sudata che è divenuta un’icona del grande schermo. L’intera sequenza della conversazione fra

11 M. Brando, R. Lindsey, La mia vita, Frassinelli, Milano 1994 (1992), pp. 59,60.
12 E. Kazan, nel libro intervista di M. Ciment, Kazan on Kazan, New York, Viking Press, 1974, pp. 41,42.

9
Stanley e Blanche è un concatenarsi di piccole e, da un punto di vista narrativo, insignificanti
azioni di Brando che attribuiscono al personaggio interpretato una forza inedita. Si gratta il petto,
quindi nell’inquadratura successiva apre l’anta di un mobile, alla ricerca di qualcosa, mentre con la
mano sinistra si gratta la schiena. Quindi si sposta verso il lavabo e si versa da bere, beve un sorso
e poggia immediatamente il bicchiere, avanza nuovamente di qualche metro e si sfila la maglia
sudata davanti agli occhi dell’intimorita ma allo stesso tempo affascinata Blanche. Cambiatosi la
maglia si pone di fronte a Blanche con le braccia conserte: una volta che il corpo diviene statico la
mobilità è trasferita al volto, le cui espressioni mutevoli conferiscono al personaggio di Brando un
ulteriore accento sulla sua primordiale e rozza ambiguità. Osserva Blanche dall’alto dei suoi
centimetri con un sorriso sarcastico, la scruta con strafottenza alzando e abbassando
continuamente lo sguardo, muove il capo, mastica imperterrito la sua gomma. Ma andando oltre
la presenza scenica dell’attore e la sua grande mobilità, va tenuto conto anche dell’uso singolare
che Brando fa della sua voce. Il timbro è più nasale e molto meno profondo di quanto la sua
fisicità e il doppiaggio italiano lascino intendere, e la parlata è notevolmente strascicata come
quella di un ubriaco. Se confrontato con l’inglese elegante della Leigh, la dizione di Brando è
tutt’altro che perfetta: le parole non sono scandite e nel complesso la sua inflessione fa sì che il
suo inglese assomigli più a un dialetto. Alla fine del dialogo Brando si concede
un’improvvisazione: quando Blanche si spaventa udendo l’improvviso miagolio di un gatto,
Brando non si limita a ripetere la battuta della sceneggiatura. In risposta alla domanda della Leigh
«What’s that?», l’attore non solo pronuncia la battuta «Cats…» come da copione, ma ripete
improvvisamente il miagolio del gatto con un sorriso sarcastico, facendo sobbalzare
l’interlocutrice per lo spavento. Lo spettatore viene sorpreso esattamente come Blanche
dall’ironia pungente, dal sadismo che esprime lo scherzo di Marlon.13 Il personaggio di Blanche
viene portato in scena dalla Leigh attraverso una recitazione misurata di stampo teatrale (ma un
teatro pre-stanislavskijano), mentre l’interpretazione di Brando sembra fornire molti più elementi
al personaggio che vanno ben oltre le battute recitate e un uso codificato della gestualità e
dell’espressività. In questa sequenza, dopo pochi minuti in cui lo spettatore è posto davanti alla
figura di Kowalski, è già chiaro che il personaggio sarà caratterizzato per una ricchezza di gesti,
posture, espressioni e una sostanziale imprevedibilità nei comportamenti. La recitazione di
Brando in Un tram che si chiama desiderio non è etichettabile perché nulla del genere era mai
avvenuto prima, nonostante qualche avvisaglia di mutamento nella recitazione cinematografica si
fosse avvertita dall’arrivo del sonoro. La ricerca di un naturalismo scenico e di una
verosimiglianza del personaggio non aveva ancora raggiunto un livello simile: Brando non compie

13 M. Pierini, Attori e metodo, cit., p. 92.

10
uno scavo interiore approfondito nella psiche del personaggio come farà De Niro nelle sue
celebri interpretazioni di Travis Bickle o Jake LaMotta, ma è esemplare nella libertà che si
concede davanti alla macchina da presa, per la sua imprevedibilità e il suo istinto di attore. Se,
parafrasando Kazan, applicare il Metodo significa far confluire qualcosa di sé, del proprio vissuto,
nel personaggio, Brando si distanzia da Kowalski, lo odia in quanto rappresenta tutto ciò che egli
odia in un uomo, ma allo stesso tempo la sua ambiguità, la sua doppia essenza di bimbo
bisognoso di affetto e uomo prepotente, interessano l’attore, che è parimenti «ambivalente nel
recitare, e ambivalente dentro di sé come essere umano. Ed è questa ricchezza che scorre nel
film».14
La diffusione a macchia d’olio del Metodo a Hollywood nacque dalla forza prorompente e
innovativa dell’interpretazione di Brando, e dopo il 1951 nuovi attori poterono approcciarsi al
cinema ispirandosi al suo lavoro d’attore. Fra questi, Robert De Niro, colui che negli anni
Settanta seppe cogliere meglio di tutti l’eredità di Brando, in quanto nuovo volto iconico del
cinema in grado di rappresentare un’epoca di cambiamenti, e in quanto portatore sullo schermo
di una nuova idea di recitazione, nonché di autorialità nel processo creativo del film.

3. Una panoramica sul Metodo di De Niro

Sebbene Robert De Niro sia una delle più grandi icone cinematografiche del XX secolo, può
sorprendere che la sua figura sia stata trascurata dai contributi critici. Non è ancora stata
pubblicata una monografia completa che analizzi il suo contributo unico come attore, ma anche
produttore e regista. I motivi per cui un attore dello spessore di De Niro sia stato trascurato sono
sostanzialmente gli stessi alla base delle generali lacune presenti nello studio della recitazione
cinematografica. La storia della recitazione si avvale di contributi critici assai rari, perché in primis
il cinema è stato per molto tempo considerato il regno del regista (ed è tuttora considerato tale):
colui che dirige, che mette la propria firma sull’opera, è il soggetto esclusivo di indagine degli
studiosi nell’approcciarsi all’autorialità alla base di una pellicola. L’attore cinematografico non
vanta le stesse attenzioni: nonostante una letteratura florida di taglio specialistico riguardante il
fenomeno divistico, la poetica di un attore, l’analisi della sua performance, l’approccio al
personaggio, sono elementi quasi del tutto trascurati dagli studi accademici. Questo perché
l’attore è considerato puramente accessorio e svincolato dall’insieme di coloro che operano alla
costruzione dei contenuti significanti del film, e che dunque lavorano sulla scrittura e
sull’immagine filmica (sceneggiatore, regista, direttore della fotografia). Come se l’attore prestasse
14 R. Schickel, autore di Elia Kazan: A Biography, in un’intervista presente nei contenuti speciali dell’edizione DVD del
film.

11
la sua arte all’opera d’arte di terzi, che in definitiva è l’oggetto di studio principale dei contributi
critici in ambito cinematografico. Nel decennio maggiormente rilevante per lo studio delle
performance di De Niro, gli anni Settanta, ci troviamo di fronte a una situazione in cui raddoppia
l’importanza attribuita all’autorialità del regista, grazie a figure emergenti della New Hollywood
come Scorsese, Coppola, Penn, Bogdanovich, Altman, De Palma, Allen, e molti altri, ma anche al
contributo dei critici francesi gravitanti intorno alla rivista Cahiers du Cinéma, che seppero
valorizzare molti registi statunitensi operanti nella Golden Age, promuovendone l’autorialità. Il
contributo essenziale di molti attori al successo delle pellicole iconiche di questo decennio, è
ancora terreno inesplorato.
Una storia della recitazione deve saper approcciarsi al lavoro attoriale conciliando aspetti diversi:
l’analisi della singola performance dell’attore di fronte alla macchina da presa e, specialmente nel
nostro caso, nella fase di preparazione al personaggio, ma anche il contesto più ampio dentro al
quale l’attore si trova ad agire, e dunque le influenze, lo stile di recitazione vigente nella cultura
dello spettacolo a lui contemporanea, la tipologia di testi interpretati, fra i tanti aspetti.
Le performance di De Niro e i personaggi da lui portati sul grande schermo, fra cui Johnny Boy,
Vito Corleone, Travis Bickle, Michael Vronsky e Jake LaMotta, sono emblematici dei conflitti,
delle difficoltà e delle tensioni del decennio, e sono un punto di partenza per dibattiti di grande
portata sulla rappresentazione cinematografica degli anni Settanta, nonché sui discorsi riguardanti
i concetti di mascolinità, etnia e disparità sociale nel periodo in questione. De Niro occupa un
ruolo centrale nell’evoluzione della recitazione cinematografica statunitense, esattamente come
prima di lui hanno fatto Stella Adler, Elia Kazan, Marlon Brando, Montgomery Clift, Lee
Strasberg, per citarne alcuni. Negli scritti di Stanislavskij, si comprende come la figura dell’attore
venisse considerato dall’attore e teorico russo come qualcuno di molto più importante di un
semplice pezzo introdotto nell’economia dell’opera teatrale per completare il puzzle: l’attore era
considerato un artista autonomo, la cui profondità e capacità immaginativa erano strumenti
chiave nella preparazione e nel perseguimento della verità del personaggio, dell’identità, nel
training e nella ricerca del dettaglio. De Niro si inserisce nel contesto di una generazione di attori
emergenti fra anni Sessanta e Settanta che fecero del Metodo il proprio cavallo di battaglia
(Hoffman, Al Pacino, Nicholson, Hackman, Fonda, Streep), ma allo stesso tempo si differenzia
da essi concentrandosi, oltre che su dettagli emotivi, anche su particolari fisici ed esterni. Per
questo motivo la recitazione di De Niro è più strettamente erede di un senso tradizionale del
Metodo, appreso dagli insegnamenti di Stella Adler, che non della rivisitazione strasberghiana più
popolare all’Actors Studio e maggiormente incentrata sull’approccio unicamente psicologico.
Infatti, come scrive Richard Colin Tait a proposito dello stile performativo dell’attore italo-

12
americano: «Despite his association with The Actor’s Studio as an observer, De Niro has gone so
far as to distance himself from the Strasberg’s school, calling it “a cult of personality” and
identifying his allegiance to Adler and Stanislavski’s teaching».15 Per Stanislavskij, infatti,
l’obiettivo non era quello di far sì che l’attore ricreasse le emozioni internamente per poi
manifestarle al pubblico; piuttosto, le emozioni dovevano provenire dalla capacità immaginativa
di un attore di comprendere le circostanze esterne che agiscono sul personaggio. Comprendere
come gli insegnamenti iniziali di Stella Adler abbiano contribuito a plasmare l’ortodossia di De
Niro, rimane la chiave per cogliere quei momenti in cui l’attore si è spinto oltre tali istruzioni,
aggiornandole alle proprie esigenze. Il lavoro dell’attore sui suoi personaggi è notoriamente
meticoloso e divenuto oggetto di mitizzazione. De Niro fu un avido raccoglitore di fonti e
materiali inerenti al contesto storico e socio-culturale dei personaggi portati in scena, e non
mancò di compiere viaggi per vivere nelle locations di provenienza di questi ultimi, per carpirne le
radici culturali e le interazioni quotidiane, le influenze dei luoghi sulla loro psicologia e sulle loro
manifestazioni esteriori. Ma questo non bastò, e l’attore si spinse oltre, dedicandosi, per esempio,
all’apprendimento di nuove competenze legate alla professione del personaggio, o più in generale
alla sua caratterizzazione: ne sono un esempio lo studio dell’italiano sporcato da accento siciliano
per la parte di Corleone ne Il Padrino – Parte II (The Godfather Part II, 1974), lo studio del sassofono
per il musical New York, New York (Id., 1977), il lavoro come operaio in acciaieria per la parte
dell’immigrato russo Michael ne Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978) o sui taxi di Manhattan per
meglio calarsi nel ruolo del Travis Bickle di Taxi Driver (Id., 1976), ma anche i numerosissimi
incontri di pugilato per meglio indossare a tutti gli effetti le vesti del pugile italo-americano
LaMotta in Toro scatenato (Raging Bull, 1980). L’attore fa leva su una nuova pratica di
collaborazione coi registi che il Metodo ha incentivato, creando scene e dialoghi ad hoc attraverso
l’improvvisazione sul set, ma anche con l’aiuto di esercizi che calano l’attore nel personaggio
facendosi strada nella dimensione sottotestuale dei drammi vissuti da quest’ultimo.
L’immaginazione coadiuva l’attore nella sua pratica di riviviscenza di momenti chiave della vita
del personaggio, con l’aggiunta di elementi che non sono nello script, fra cui avvenimenti
precedenti alla narrazione in un atto di creazione biografica senza precedenti. Sono pochi i casi in
cui la sceneggiatura coincide col prodotto finale, nel caso dei film interpretati da De Niro: l’attore
apporta contributi molteplici in diverse fasi del processo creativo delineandosi come una figura
autoriale in grado di rimodellare la produzione attorno alla sua figura. Esemplificativi a tal
proposito sono i casi de Il cacciatore e Toro scatenato. Per la pellicola di Michael Cimino, De Niro
lavorò in stretta collaborazione col regista contribuendo alla creazione di alcuni momenti chiave

15R. C. Tait, Robert De Niro’s Method: Acting, Autorship and Agency in the New Hollywood (1967-1980), The University of
Texas at Austin, Austin 2013, p. 5.

13
del film, alla scelta dei luoghi delle riprese, al casting e alla scrittura. Nel film del 1980 non solo
l’attore dimostrò un’estrema dedizione nella caratterizzazione di La Motta, ma si assunse
l’incarico di organizzare la produzione raccogliendo materiale, supervisionando le prime stesure
della sceneggiatura, assicurando i finanziamenti.
Diversi personaggi interpretati da De Niro hanno fornito materiale prezioso a critici e studiosi
per lo studio di diverse realtà sociali radicate negli Stati Uniti. Dal ruolo subalterno dei colletti blu
a un’analisi profonda di temi quali razzismo, misoginia e intolleranza. Inoltre il patrimonio etnico
dell’attore, di origini italiane, si inscrive in un contesto in cui tale minoranza gode di numerose
rappresentazioni nella New Hollywood, in particolare all’interno del genere gangster. Pertanto,
nell’analisi del ruolo compiuto dall’identità etnica di De Niro sulla sua produzione è doveroso
compiere collegamenti con altri italo-americani celebri che hanno fatto delle proprie origini un
marchio riconoscibile, da Sinatra a Pacino, fino a Di Maggio. Infine, l’attore ha ridefinito anche il
concetto di mascolinità, in accordo con altre star del decennio, esibendo un corpo maschile talora
soggetto a privazioni e sofferenze, in altri casi estremamente virile e violento. La figura dell’attore
e l’uso che fa del proprio corpo ne fanno oggetto sia per il piacere dello sguardo femminile (ma
non solo, come afferma Dennis Bingham)16 sia per letture queer. Corpi solitari come quelli di
Travis Bickle e Jake LaMotta, per esempio, sembrano esprimersi prevalentemente attraverso
forme di violenza, rabbia e comportamenti antisociali. In conclusione, sono diverse le strategie di
visualizzazione e interpretazione della personalità di Robert De Niro così come viene mostrata
dal grande schermo. Nell’articolo di Jack Kroll citato in apertura dell’elaborato, la figura di De
Niro viene considerata diretta erede delle icone degli anni Cinquanta fra cui James Dean e,
soprattutto, Marlon Brando. Secondo Kroll, De Niro non solo simbolizza una quanto mai ardua
ricerca di un’identità nel contesto frammentato e incerto dell’America degli anni Settanta, ma
viene considerato anche privo di una propria personalità, che viene di volta in volta prevaricata e
sostituita da quella dei personaggi che egli ritrae.17 Così, secondo la visione di Kroll, De Niro
diventa una sorta di automa, un uomo che ricrea ossessivamente il comportamento del
personaggio a scapito della propria anima, che rimane intrappolata durante l’atto recitativo.
Volendo compiere un confronto con Marlon Brando, l’antecedente attore per eccellenza del
Metodo, potremmo affermare che quest’ultimo ha sempre portato sullo schermo il suo actor-
persona più di quanto non abbia fatto De Niro. Ciò non significa che Brando “fosse” i personaggi
da lui interpretati: la sua persona non aveva nulla a che spartire con il rude Kowalski di Un tram

16 D. Bingham, Acting Male. Masculinities in the Films of James Stewart, Jack Nicholson and Clint Eastwood, Rutger University
Press, 1994. In questo saggio, Bingham illustra la mascolinità come un concetto fluido e contraddittorio. L’autore
riconosce una forma di potenziale attrazione bisessuale da parte del pubblico; secondo questa teoria la visione del
corpo maschile dell’attore è potenzialmente piacevole sia per un audience maschile che femminile.
17 J. Kroll, “De Niro: A Star for the ‘70s”, cit., p.80.

14
che si chiama desiderio, ma già ad un primo sguardo distratto ai ruoli da lui interpretati negli anni
Cinquanta e che lo hanno elevato a icona del Metodo, ovvero il centauro Johnny Strabler de Il
selvaggio (The Wild One, 1953) di László Benedek e, soprattutto, l’operaio portuale Terry Malloy di
Fronte del porto (On the Waterfront, 1954) – in cui l’attore collabora ancora con Kazan –, sembra che
Brando abbia sempre portato in parte la propria persona davanti alla cinepresa, senza sostituirla
del tutto con il personaggio. A tal proposito, ulteriore conferma ci viene data dall’autorevole
contributo sulla recitazione cinematografica già citato nelle pagine precedenti e fornitoci da James
Naremore, il quale asserisce che «Brando is less disassociated from his body than the typical
leading man of his day».18 Quindi per Brando utilizzare il Metodo significava innanzitutto
prendersi enormi libertà di movimento, di azione, di parola, davanti alla macchina da presa;
fornire al personaggio una credibilità inedita per i tempi, attraverso l’utilizzo del corpo, dei
costumi. De Niro però va oltre, sino ad annullare in parte la propria persona per dare risalto al
character: l’attore mette il proprio corpo e la propria voce al servizio del character e della cinepresa,
ma la sua personalità tende ad annullarsi agli occhi dello spettatore, che nel caso di Brando tende
sempre a vedere Brando sullo schermo, ancor prima di Kowalski, Strabler o Malloy, mentre nel
caso di De Niro l’actor-persona è velato da una predominanza assoluta del character, ed è
quest’ultimo a essere oggetto primario dello sguardo dello spettatore.
Torniamo al legame tra De Niro e la sua formazione, le sue influenze. Egli ebbe la fortuna di
studiare con Stella Adler dall’età di sedici anni, fino ai diciannove, data di approdo all’Actors
Studio. La Adler assistette alla prima tournée americana di Stanislavskij e rimastane
profondamente affascinata, divenne allieva di due importatori del Metodo negli Stati Uniti,
Ryszard Bolesławski e Maria Ouspenskaya. Entrata nel Group Theatre, ne sposò uno dei
fondatori, Clurman, col quale intraprese un lungo viaggio in Russia per studiare da vicino le teorie
e le tecniche stanislavskijane presso il Teatro d’Arte di Mosca. Dalla Adler, De Niro ereditò
un’idea del lavoro attoriale più direttamente legata a Stanislavskij. Ma i principali attori da cui egli
attinse un determinato modo di porsi davanti alla cinepresa furono Brando e Dean. Significativa a
tal proposito la scelta di Francis Ford Coppola di affidare a De Niro la parte del giovane Vito
Corleone ne Il Padrino – Parte II che fu di Brando due anni prima nel primo episodio della saga,
sancendo così un passaggio di testimone. L’accostamento con questi attori e la sua aderenza ai
personaggi portati sullo schermo, accrescono la sua reputazione di professionista del Metodo. Ma
la figura di De Niro si situa anche all’interno della tradizione del teatro realista nordamericano,
emerso negli anni della Grande Depressione e importante per la diffusione del Metodo stesso: la
preparazione, l’immaginazione, la formazione fisica, la ricerca – oltre all’importanza data a

18 J. Naremore, Acting in the cinema, cit., p. 207.

15
particolari esterni come la classe sociale, la lingua parlata, le relazioni umane – sono elementi al
centro della sua pratica. L’attore del Metodo contribuisce alla creazione di un testo più ampio e di
spessore con un lavoro che è in gran parte invisibile, attraverso lo sviluppo di un sottotesto.
Vediamo ora, nel dettaglio, alcune performance celebri dell’attore.

3.1 . Johnny Boy e Travis Bickle

Un’analisi che metta in relazione le performance di De Niro in Mean Streets – Domenica in chiesa,
lunedì all’inferno (Mean Streets, 1973) e Taxi Driver, ci è utile per confrontare le differenze tra la
caratterizzazione dell’eccessivamente verboso e mobile Johnny Boy e quella del taciturno e
travagliato tassista Travis Bickle. Ciascuna delle due parti richiedeva un diverso set di
competenze, di metodi applicati dall’attore, per la messa in scena di antieroi così distanti eppure
accomunati da un contesto storico e geografico che è quello della sordida New York degli anni
della guerra in Vietnam. Questi ruoli rivelano il grado di autonomia che De Niro aveva su
entrambe le parti – dalla scelta del guardaroba al dialogo – e la natura autoriale che la sua figura
assunse agli albori del successo, in particolare nelle collaborazioni con Martin Scorsese.
Il regista aveva già due film all’attivo mentre De Niro aveva preso parte a ben nove film, di cui
ben pochi interpretati nel ruolo di protagonista. Nonostante, a questo punto della carriera, De
Niro fosse in cerca di ruoli principali, finì con l’accettare la parte di Johnny Boy proposta da
Scorsese, dando inizio a un sodalizio fra i più prolifici della storia del cinema. Entrambe le
autorialità in gioco erano piuttosto acerbe nel 1973, così che da tale collaborazione ciascuna parte
beneficiò del talento dell’altra per il proprio successo. Sebbene il dramma essenziale del film
sembri costituito dalla difficile conciliazione fra la religione, la ricchezza di valori di cui si fa
portatore il protagonista Charlie, e il mondo corrotto di Little Italy che lo assorbe e lo
condiziona, il personaggio interpretato da Harvey Keitel viene gradualmente messo in ombra
dalla presenza sempre più forte del Johnny Boy di De Niro. Se Mean Streets è a tutti gli effetti un
film di Scorsese, contiene comunque tracce distintive dell’autorialità di De Niro connesse alle sue
scelte di recitazione. Scorsese ha spiegato che a questo punto della sua carriera non aveva una
particolare esperienza nel lavoro sugli attori e nella guida di questi ultimi alla messa in scena della
performance. Il regista italo-americano era rimasto affascinato dai metodi di lavoro e
dall’improvvisazione di John Cassavetes, ma a quest’altezza cronologica non era ancora un actor’s
director. La collaborazione con De Niro contribuisce quindi alla formazione di una sapienza
registica anche nei confronti del lavoro attoriale, da parte di Scorsese, e già a partire da questo
film la storia viene progressivamente costruita attorno al personaggio di De Niro. L’attore nacque

16
nel Greenwich Village, non a Little Italy come Scorsese, per cui, nonostante le sue radici in parte
italiane (il nonno paterno era di Campobasso), il suo avvicinamento a un personaggio come
Johnny Boy necessitava di una lunga preparazione anche per quanto riguardava le peculiarità
gestuali e dialettali connesse alla sua etnicità. De Niro trascorse diverso tempo a Little Italy, a
Mulberry Street, osservando e frequentando gente del posto per emulare il loro modo di vestire,
di camminare, di esprimersi (ricorrente nei discorsi di Johnny Boy l’espressione «Madonna mia!»).
Il lavoro sul proprio personaggio è testimoniato da un insieme di appunti scritti dall’attore,
destinati all’attenzione di Scorsese, e raccolti da Richard Colin Tait: otto pagine di note relative al
personaggio e a differenti aspetti del processo di preparazione, etichettati in vari modi: “Me”,
“Notes for Johnny Boy”, “Wardrobe Notes”, “Notes for Marty” (Scorsese, ndr), “Things to do” e
“What Johnny Makes”. In uno di questi appunti, dal titolo “Character traits”, De Niro annotò
alcune caratteristiche fondamentali del suo personaggio, per capire cosa effettivamente lo
distinguesse dagli altri membri del gruppo: analizza nello specifico quelli che sono i suoi
19
«sentimenti e atteggiamenti verso Charlie, Jimmie, Michael e Tony», annota alcuni dettagli
pertinenti alla sua camminata: «con entrambe le mani infilate nelle tasche e con questo modo di
camminare scivolando che lo rende un po’ sciatto, in contrasto con la sua volontà di sembrare un
pezzo grosso, e indossando sempre il suo cappello inclinato su un fianco».20 Dal momento che
Scorsese e il co-sceneggiatore Mardik Martin hanno tratto ispirazione, per il personaggio di
Johnny Boy, dal loro amico di infanzia Sally Gaga, De Niro porse molte domande non solo su
questa persona che ha ispirato il personaggio, ma anche su alcuni eventi del film che si basavano
sulle esperienze del regista a Little Italy. Questi documenti sono preziosissimi per comprendere il
contributo autoriale di De Niro alla caratterizzazione del personaggio e dunque all’interpretazione
del ruolo portante del film.
La sequenza del primo litigio al bar di Tony fra Charlie e Johnny Boy testimonia la malleabilità
della sceneggiatura nel processo creativo. Scorsese ha riconosciuto che la scena non era presente
nello script originale, ma è frutto di un’improvvisazione di De Niro che dopo averla proposta al
regista la riscrisse più volte nell’arco di successive revisioni. La sequenza è fra le più memorabili
del film, ed è utile a chiarire il rapporto di amicizia che intercorre fra il personaggio di Keitel e
quello di De Niro, così come la loro immersione totale all’interno di un giovane ambiente italo-
americano. Durante la lunga sequenza i due scherzano, discutono del debito che Johnny ha con il
malavitoso Michael, e Charlie non manca di rimproverare l’amico per la sua perpetua
irresponsabilità. La scena anticipa i grandi conflitti alla base del film, preannunciandone gli
sviluppi e mostrando Johnny Boy come un’incontrollabile forza della natura, la pesante croce che

19 R. C. Tait, Robert De Niro’s Method, cit. , pp. 165,166. (trad. mia)


20 Ibidem.

17
grava sulla vita di Charlie. Alla base dei conflitti del film vi è la discrepanza tra ciò che Johnny
dice di voler fare (restituire i soldi a Michael) e ciò che effettivamente egli fa (non li restituisce,
poiché le piccole somme racimolate preferisce spenderle futilmente). Durante il personale lavoro
di ricerca per la caratterizzazione della voce di Johnny, l’attore ha scritto, nelle note di cui si è
parlato in precedenza, frammenti di dialogo che sono stati riutilizzati nella scena:

You know what happened to me, you know what happened to me? Tried to avoid? Jimmy
Sparks. He caught near my building I didn’t my pay $100. He always at right across the
street. Had to give him $60, had to give some to my mother + I had 25 for rest of week. […]
what happened I went on Heather Street just before, got into a game + some punk kid, I
shot I wanna kill him after coming out bing bing bing Frankie Clams I owed him 1,300 for 8
months I’m gonna payaaaaaa! What are you worried about?21

Il fatto che De Niro abbia scritto una nota come questa fa sì che non si possa ovviamente parlare
di “improvvisazione” a proposito di tale scena. O meglio, il monologo del film è parzialmente
improvvisato perché varia leggermente rispetto a quello presente negli appunti, ma la pratica di
appuntarsi una bozza semi-definitiva del monologo sposta l’attenzione sull’autorialità dell’attore
che in tal caso sostituisce quella degli sceneggiatori nella creazione artistica. Scorrendo gli appunti
e confrontandone i contenuti con le sequenze del film, scopriamo che diversi suggerimenti
dell’attore sono stati effettivamente determinanti per il risultato finale di alcune scene (quella di
Charlie e Johnny al cimitero, o quella in cui i due amici litigano appena prima che a Teresa venga
un attacco di epilessia). Da un’intervista a Scorsese sul suo film scopriamo inoltre che nel celebre
pre-finale in cui i conflitti tra Michael e Johnny esplodono, De Niro ha praticamente
improvvisato, nel vero senso della parola, l’intero monologo in cui provoca l’interlocutore
insultandolo e rivelandogli non solo di non avere i soldi, ma di non avere la minima intenzione di
restituirglieli. Secondo la testimonianza del regista stesso, De Niro varcò ogni limite provocando
Richard Romanus (l’attore che interpreta Michael) fino al punto che si scagliasse contro di lui per
la rabbia, così da ottenere il più alto grado possibile di spontaneità e credibilità da parte del
collega. La sceneggiatura non prevede battute quali «Mickey, I fucked you where you breathe,
‘cause I don’t give two shits about you or nobody else», né tantomeno l’azione che la
accompagna: De Niro con tono di sfida pronuncia la battuta bruciando davanti agli occhi di
Michael gli unici soldi in suo possesso, una misera banconota da dieci dollari. Analizziamo ora la
sequenza.
Michael fa il suo ingresso nel locale e avanza verso il bancone del bar, dietro al quale vediamo
Tony, il proprietario, e Johnny Boy. Il personaggio interpretato da De Niro è estremamente

R. De Niro, 1973: “What Johnny Owes” HRC, De Niro Papers, Box 93, Folder 93.1., citato in R. C. Tait, Robert De
21

Niro’s Method, cit., p. 169.

18
mobile in tutto il film (abbiamo già accennato alla sua camminata), ma in questa scena è costretto
ad agire in uno spazio piuttosto limitato costituito dal retro del bancone. A differenza di Brando
nella sequenza analizzata in precedenza tratta da Un tram che si chiama desiderio, qui De Niro non
può godere delle medesime libertà di movimento, ma ciò non gli impedisce di assecondare i suoi
dialoghi con una quantità di azioni elevata che ci consente di osservare anche il particolare e
frequente uso che l’attore fa degli oggetti. Quando Richard Romanus si pone di fronte al
bancone, De Niro ha entrambe le mani occupate, mentre lo saluta: in una regge un fazzoletto di
stoffa, nell’altra un bicchiere pieno. Quindi si passa il fazzoletto sulla bocca, lo regge durante la
conversazione, scuotendolo leggermente quando compie gesti teatrali come allargare le braccia. Si
scusa falsamente per il ritardo, ridacchiando in maniera pericolosamente provocatoria all’indirizzo
di Michael e annuncia: «I got somethin’ for you. Not much, but I got somethin’ for you». A
questo punto si passa il fazzoletto da una mano all’altra (la stessa che regge il bicchiere), ed estrae
una banconota da dieci dollari piegata, la apre e la appoggia sul bancone. Charlie, che tenta di
intercedere presso Michael per conto dell’amico irriverente, chiede dove sia il resto, perché
convinto che Johnny abbia in tasca trenta dollari e non dieci. A quel punto De Niro passa il
bicchiere e il fazzoletto dalla mano destra alla mano sinistra e, girandosi di centottanta gradi, con
la mano libera indica alcune persone presenti rispondendo che ha voluto offrire qualche giro di
drink ai suoi amici, aggiungendo, con tono di scherno, che ha dovuto utilizzare le banconote
perché Tony non gli fa più credito. Scatta la scintilla, Michael appallottola la banconota e la lancia
all’indirizzo di Johnny Boy che, ridendo, si passa nuovamente il fazzoletto sul volto, quindi si
china per cercare i soldi, prima a destra e poi a sinistra, e li raccoglie. Il monologo di De Niro a
questo punto si fa sempre più incalzante e provocatorio, apre la banconota appallottolata, la
porge verso Michael («You too good for this $10, huh? You too good for it? It’s a good $10!»), la
passa da una mano all’altra e non smette di assecondare le parole con una gestualità plateale e
continuativa. Lo scherno iniziale si tramuta in esplicite offese quando De Niro estrae un
accendino, con cui gioca qualche secondo prima di bruciare la banconota davanti agli occhi di
Michael. L’interlocutore lo aggredisce, ma dopo una breve colluttazione De Niro estrae una
pistola puntandola verso Michael, che indietreggia, e passa alla minaccia. La performance passa a
un livello di mobilità diverso: fino a questo momento gli spostamenti di De Niro erano molto
limitati e l’attore ha colmato questa impossibilità di movimento con vari elementi complementari
quali la gestualità varia e accentuata, l’utilizzo continuo e sottolineato degli oggetti, la mutevolezza
dell’espressività. De Niro ha saputo trovare ulteriori espedienti per colmare l’azione e imporre la
sua presenza scenica nonostante la semi-immobilità del proprio corpo (l’immobilismo totale degli
altri attori presenti facilita la catalizzazione dello sguardo sul corpo di De Niro). Dopo il tentativo

19
di aggressione di Michael, Johnny Boy sale sul bancone del bar, spinge la volata dell’arma da
fuoco contro il petto di Michael, minacciandolo e provocandolo, fino a che quest’ultimo non si
allontana dal bar. Il fazzoletto, il bicchiere, l’accendino, la banconota, la pistola. Sono ben cinque
gli oggetti maneggiati da De Niro in una sequenza di poco più di due minuti in cui il corpo
dell’attore non ha praticamente libertà di movimento e in cui pronuncia costantemente battute.
L’ambiente è costruito in modo che De Niro non abbia possibilità di movimento, eppure gli
oggetti diventano fondamentali per l’attore che servendosi di essi può compiere una serie di
azioni “di sostegno”, così che le battute tendano sempre ad appoggiarsi su un’attività fisica reale.
L’utilizzo degli oggetti in rapporto all’azione e al dialogo è argomento di un paragrafo presente in
un saggio già citato in precedenza di Claudio Vicentini22 in cui, non a caso, l’utilizzo smodato di
oggetti in situazioni anche di costrizione del personaggio, è indicato come prerogativa di Dustin
Hoffman, attore facente parte della stessa scuola di De Niro e protagonista delle scene della New
Hollywood, al pari dell’italo-americano. Nell’analisi della recitazione di Brando nella sequenza
dell’incontro tra Stanley e Blanche, abbiamo visto come non solo la mobilità dell’attore e le sue
azioni contraddistinguano la performance, ma anche la voce e la mutevolezza delle espressioni
del volto, che passa dallo sguardo inquisitorio alla derisione e al sarcasmo. Anche l’espressività di
De Niro in questa scena di Mean Streets è significativa: dalla mutevolezza delle sue espressioni
traspare l’instabilità del personaggio, che alterna momenti di serietà (mista a una finta incredulità,
quando “gli tocca” spiegare perché ha dovuto spendere i soldi), a momenti di scherno (in cui la
bocca si allarga in un sorriso grottesco), passando per il disprezzo (quando racconta di aver
chiesto il denaro a Michael perché sarebbe stato l’unico credulone disposto a prestarlo), fino
all’esplosione dell’impeto di rabbia accompagnato da una contrazione malefica del volto, quando
agita la pistola.
De Niro crea un personaggio che sarà d’ispirazione per i futuri gangster postmoderni ma che allo
stesso tempo se ne distanzia e attinge a piene mani dalla tradizione italiana. La slipping walk di
Robert De Niro per le strade di Little Italy in Mean Streets che distinguiamo subito da quella degli
altri personaggi fin dalla sua entrata in scena, ovvero quando fa esplodere un ordigno in una buca
delle lettere, sembra essere mutuata da quella degli attori non professionisti del neorealismo
italiano, su tutti il Lamberto Maggiorani di Ladri di bicilette (1948). Esercitandosi sui repentini
mutamenti delle espressioni del volto – il passaggio da un sorriso grottesco che emana frasi
biascicate, alle labbra serrate e imbronciate che preannunciano i suoi violenti sfoghi, fino al pianto
disperato coadiuvato da una mimica facciale accentuata che ne sottolinea l’infantilità – e sulla
gestualità giullaresca del personaggio, De Niro crea da un lato una vera e propria maschera che

22 C. Vicentini, La regola degli oggetti. Da Eduardo a Dustin Hoffman, in L’arte di guardare gli attori, cit., pp. 17-25.

20
sembra essere erede diretta della tradizione della commedia dell’arte, mentre dall’altro crea un
connubio perfetto tra personaggio e corpo attoriale tanto da esemplificare una delle performance
più argute del Metodo degli anni Settanta.
Nel corso di queste pagine su Mean Streets ho dimostrato quali sono state le occasioni in cui gli
appunti di De Niro e le note destinate a Scorsese rivelassero la sua autorialità su certe scene
memorabili del film, ho sottolineato alcuni momenti di pura improvvisazione dell’attore e
attraverso l’analisi di una sequenza in particolare ho cercato di individuare la sua personale
rielaborazione del Metodo.
Tre anni dopo, nel 1976, Robert De Niro e Martin Scorsese tornano a collaborare nel film che
consacra definitivamente il sodalizio fra i due e che costituisce una delle più importanti eredità
lasciate da De Niro alle nuove generazioni di attori: Taxi Driver. Il film è uno dei maggiori
capolavori del cosiddetto Cinema of loneliness e scava nell’animo profondo di un paese reduce dalla
guerra in Vietnam e dallo scandalo Watergate. All’autorialità di Scorsese e De Niro si aggiunge
quella dello sceneggiatore Paul Schrader, che ha traslato nella contemporaneità la novella Memorie
dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij e ha tratto ispirazione dalle tematiche dell’esistenzialismo
europeo, nella fattispecie a La nausea di Jean-Paul Sartre e Lo straniero di Albert Camus.
Concentrando l’attenzione sulla performance di De Niro e sulle modalità con cui egli ha portato
il Metodo alle sue più estreme conseguenze, ci viene incontro un’affermazione di Scorsese in
un’intervista rilasciata nel 2011: «In Taxi Driver what the actor did went beyond mere acting,
stating instead that he actually became the character».23 In altre parole, la recitazione di De Niro
nel film rappresenta un punto cardine della costruzione dell’opera, al pari della regia e della
sceneggiatura, tanto da poter essere considerata una vera e propria modalità di scrittura del film
che utilizza strumenti quali corpo e voce. Uno dei contributi più significativi di De Niro risiede
nello sviluppo di una estesa backstory del personaggio di Travis Bickle, oltre alla riscrittura di quasi
tutte le sequenze in cui il suo personaggio ha una battuta. La riscrittura di De Niro, qui come in
Mean Streets, è conforme al suo modo personale di sentire il personaggio e al ritmo del suo parlare.
Come sostiene Tait, «possiamo dedurre che questo lavoro derivi dalla sua formazione con Stella
Adler, e dal successivo sviluppo di un Metodo sempre più personale, in particolare per ciò che
riguarda l’interazione dei personaggi interpretati da De Niro con il mondo e le scelte compiute
dall’attore nei confronti di un particolare ambiente socioeconomico in cui personaggi vivono».24
Scorsese, in accordo con l’attore, ha concesso lui una grande licenza creativa che è sfociata spesso
nell’improvvisazione totale di alcune sequenze da parte di De Niro. Come fece per il film di cui
abbiamo parlato precedentemente, egli si impegnò in una lunga ricerca che incluse la conoscenza

23 M. Scorsese, intervista del 2011 citata in R. C. Tait, Robert De Niro’s Method, cit., p. 175.
24 Ibidem, trad. mia.

21
di ex-soldati e veterani del Vietnam, e che lo portò ad acquisire una licenza da tassista per poi
esercitare la professione in alcune delle strade più pericolose di New York. Attraverso la
conoscenza dei militari e lo studio della loro lingua, De Niro riuscì a modellare l’accento sulla
falsariga di quello dei reduci del Midwest che aveva conosciuto. Tra i vari esercizi finalizzati alla
preparazione del ruolo non vanno dimenticati i nastri su cui l’attore registrò la propria voce
mentre legge alcuni passi di Memorie dal sottosuolo e le testimonianze di Arthur Bremer, colui che
fallì nel tentativo di attentare alla vita del presidente dell’Alabama George Wallace (nel film Travis
pianifica l’uccisione di Charles Palantine, candidato alle elezioni presidenziali). De Niro fu
estremamente partecipe anche nella scelta dei costumi da far indossare al suo Travis Bickle.
Chiese in prestito allo sceneggiatore Schrader i suoi stivali da cowboy, la celebre camicia di plaid,
nonché la giacca verde militare dell’esercito. La testimonianza del costume designer Ruth Morley a
proposito della collaborazione con l’attore, che conferma la dedizione di De Niro nella ricerca del
costume perfetto per il personaggio: «I like working with actors who care more than with actors
who say “Put something on me”. When we finally found the plaid shirt Bobby wanted to wear,
when we found the army jacket, the pants, well, he wanted to wear them».25 Gli appunti di
lavorazione che De Niro rielaborò per la costruzione di Travis Bickle e le modifiche che egli
apportò alla sceneggiatura hanno influenzato la performance e la resa finale del personaggio. Basti
pensare a quella che viene considerata una delle citazioni più celebri della storia del cinema,
ovvero la famosa frase «You talking to me?» che è all’unanimità considerata una delle vette
dell’autorialità di De Niro e della sua capacità di improvvisazione. Tuttavia il termine
“improvvisazione” per etichettare la performance di un attore come De Niro anche questa volta
non è corretto. È un termine che evoca il concetto di “felice coincidenza”, dovuta a spontaneità e
a una certa dose di casualità e istinto; elementi che sono lontani dal Metodo di De Niro, che si
contraddistingue al contrario come un lavoro lento di ricerca di cui la riscrittura parziale della
sceneggiatura costituisce solo una fase. Ciò che vediamo sullo schermo nella famosa scena in cui
Travis parla davanti allo specchio, è il frutto di questo lungo lavoro di studio e di prove sul
personaggio di Travis che portano l’attore a comportarsi esattamente come Travis farebbe in
quelle determinate circostanze. Anche nelle scene comunemente intese come “improvvisate”,
quindi, De Niro giocò sempre d’anticipo pensando prima a che cosa un dato personaggio
avrebbe fatto in una data situazione, cercando di comunicare con il proprio corpo e la propria
voce la verità del personaggio, su cui lavorò sempre a priori.
Come nella scena di Mean Streets in cui Johnny racconta a Charlie i motivi per cui non ha ancora
pagato il suo debito, De Niro apporta un contributo fondamentale, testimoniato sempre dai

25 R. Morley, citato in D. Nadoolman Landis, Hollywood Costume, Ambram’s Book, New York 2012.

22
propri appunti, a molte delle scene che in Taxi Driver sono utili a caratterizzare Travis. Per
esempio, le note scritte accanto alla scena in cui lui e Betsy prendono il caffè ci rivelano un’altra
volta la sua autorialità (perché le modifiche apportate da De Niro allo script sono riscontrabili nel
prodotto finale) e la sua abilità nel rendere la sequenza più raffinata e utile nell’economia del film.
Alcune frasi aggiunte da De Niro evidenziano l’umanità e il senso di confusione che Travis prova
nei confronti delle altre persone, e sono efficaci nel far sì che il pubblico empatizzi con lui, lo
rendono più simpatico all’audience. Senza questa scena e senza quella del successivo caffè tra
Travis e Iris (la giovane prostituta interpretata da Jodie Foster) il personaggio interpretato da De
Niro non avrebbe avuto la medesima caratterizzazione e sarebbe stato meno accattivante (e
attraente) per il pubblico. De Niro decise che la chiave di lettura del personaggio di Travis era la
sua visione ingenua del mondo, combinata con la sua natura “poetica”: una dicotomia che
permette al pubblico di lasciarsi coinvolgere dal personaggio affezionandosi ad esso prima della
sua discesa nella follia. Le annotazioni determinanti di De Niro hanno apportato modifiche che
sono state comunemente attribuite a Scorsese e Schrader, fra cui la metafora con cui egli descrive
Betsy, la donna da cui è attratto: “un fiore che vive in una fogna, troppo bello per vivere in questa
fogna”.

I’ve seen you many times but you haven’t seen me…Flower living in the sewer, too beautiful
to be living in this sewer…Your [sic.] a special person, your dif[ferent] from everyone else.
Everyone else is dead. You’re open. I was watching you walk. You looked very depressed.
Your shoulders were down (told her what she had on) + tell her how I want to comfort her.
I’m new in this city. I thought maybe you could show me a good place to have coffee.26

Questa umanizzazione di Travis Bickle è dunque da attribuirsi totalmente a Robert De Niro, dal
momento che era totalmente assente nello script originale di Schrader. Leggendo gli appunti
dell’attore annotati sulla sua copia della sceneggiatura, vediamo come la sua penna vada a
modificare drasticamente numerose scene chiave del film tanto che nessun dialogo rimane
invariato dalla copia iniziale a quella definitiva per lo schermo.
La recitazione di De Niro è in questo caso molto più contenuta e si discosta dagli eccessi di
movimento che abbiamo visto in Mean Streets. A cominciare dalla camminata: rispetto a quella
rapida e sdrucciolevole di Johnny Boy, quella di Travis è molto più lenta e compassata, ripulita
dalla sgraziata esuberanza del personaggio antecedente. La figura di Travis è contraddistinta da un
perpetuo immobilismo: per gran parte del film il personaggio è ripreso mentre è seduto, quando
guida il taxi, quando è al cinema, in una tavola calda con i colleghi o nel proprio appartamento,
mentre guarda la televisione o scrive il proprio diario. Gran parte di ciò che avviene nella prima

26 R. De Niro 1976, back of page 10. HRC, De Niro Papers, Box 221. Citato in R. C. Tait, Robert De Niro’s Method, cit.
p. 183.

23
parte del film viene commentato dalla voice-over di Travis nel ruolo di narratore, e sono i suoi
pensieri annotati nel diario. L’utilizzo che l’attore fa della propria voce e del proprio inglese è
completamente diverso: le parole sono scandite, il ritmo della parlata procede sempre a rilento,
senza che i toni vengano mai alzati, e questo vale sia per i soliloqui mentali durante le nottate in
taxi che in quei momenti in cui il personaggio interagisce con altre persone, ma il personaggio si
caratterizza prevalentemente per il suo essere taciturno.
Nel caso delle precedenti performance che ho analizzato è emerso come la ricerca di un alto
grado di naturalismo da parte di attori del Metodo quali Brando e De Niro andasse di pari passo
con la libertà di movimento dell’attore, il frequente utilizzo di oggetti durante l’interazione, una
dizione più coerente con quella del personaggio interpretato e un dinamismo estraneo alle regole
codificate della recitazione tradizionale. Sia Brando nel film di Kazan che De Niro in Mean Streets
adottano quindi uno stile performativo basato in qualche modo sull’eccesso. In Taxi Driver, De
Niro dimostra come la ricerca della verità profonda del personaggio e del suo sottotesto,
obiettivo primario del Metodo, non sia per forza di cose sinonimo di abuso e smisuratezza.
Riepilogando, in questo capitolo ho introdotto il ruolo estremamente creativo di De Niro agli
albori della sua collaborazione con Scorsese in Mean Streets per poi osservare come questa si è
evoluta successivamente in Taxi Driver. Abbiamo visto come De Niro sia riuscito a sostenere il
regista nella creazione di dialoghi, strutture narrative e talvolta intere scene. Ho fornito esempi
specifici di sequenze in cui gli sforzi dell’attore sono stati determinanti per la buona riuscita di
alcune delle scene più memorabili dei due film, cercando di chiarire l’utilizzo del termine
“improvvisazione” che viene spesso erroneamente accostato a De Niro, come fosse un attore
talentuoso che si affida solo all’istinto, quando abbiamo avuto modo di vedere che in realtà le
variazioni che per Scorsese costituiscono “improvvisazioni” dell’attore altro non sono che
modifiche compiute da quest’ultimo alla propria copia del copione, e sono il frutto di un lungo
lavoro di preparazione. Attraverso l’analisi degli appunti e delle sequenze abbiamo visto come De
Niro abbia sviluppato personalmente il sottotesto di Johnny Boy e Travis Bickle riscrivendone le
caratterizzazioni così da renderli più complessi. Tale lavoro testimonia la malleabilità del lavoro di
registi e sceneggiatori per quanto riguarda la scrittura del personaggio, quando questo è
interpretato da Robert De Niro.

24
3.2 Il Metodo portato all’eccesso: Jake LaMotta

Toro scatenato rappresenta un ulteriore stadio evolutivo dell’interpretazione del Metodo da parte di
De Niro. Il contributo dell’attore al film pone le basi per il suo lavoro successivo come actor-
producer, avendo la sua personalità contribuito a tal punto da risultare determinante per la
realizzazione del film. La performance di De Niro nel film è stata paragonata spesso a quella di
Marlon Brando in Fronte del porto, di cui cita testualmente il monologo finale prima dei titoli di
coda. La recitazione dell’attore, che ha iniziato la propria carriera sotto la supervisione di Stella
Adler che gli ha fornito i primi rudimenti stanislavskijani, raggiunge un tale livello di intensità che
fa sì che per questa performance in particolare si possa parlare di Metodo di Robert De Niro, una
rielaborazione completamente personale che stabilisce nuove regole di recitazione
cinematografica. Il sostanziale e spropositato aumento di peso più volte elogiato dalla critica e dai
fan dell’attore come uno degli atti più estremi di immedesimazione al personaggio di LaMotta,
rappresenta solo un aspetto di questo processo performativo che è durato quasi sei anni a partire
dalla lunga pre-produzione del film a cui De Niro ha partecipato supervisionando ogni fase del
processo. In quanto erede delle tecniche di preparazione alla performance promosse da Stella
Adler, De Niro compie un arguta ricerca sul personaggio di LaMotta che include agenti esterni
quali il periodo storico, le radici culturali ed etniche e l’ambiente sociale, ma si spinge oltre: la
ricerca meticolosa (e forse eccessiva) di De Niro lo porta ad annullarsi completamente per dare
voce e corpo al personaggio di LaMotta, come fosse un automa (a tal proposito si veda la
definizione che diede Jack Kroll dell’attore e che ho riportato a p. 9). L’uso del Metodo che fa De
Niro non è paragonabile con quello degli attori che lo hanno preceduto e che venivano
considerati esponenti chiave di questo approccio: come ha osservato il regista Elia Kazan, con cui
l’attore lavorò ne Gli ultimi fuochi (The Last Tycoon, 1976), De Niro raggiunge un tale livello di
dedizione al Metodo mai raggiunto da attori quali Brando e Dean.27
Com’è noto, De Niro insistette perché la produzione si interrompesse per quattro mesi in modo
tale che lui potesse ingrassare di sessanta libbre durante un viaggio in Italia per interpretare il
pugile a fine carriera. Fu un’intuizione di De Niro quella di interpretare l’ossessione per il peso da
parte di LaMotta (da accumulare e da perdere) come la chiave di lettura per carpirne il carattere e
l’essenza.

27 «Brando era uno spirito libero che si ribellava alla borghesia americana degli anni Quaranta e Cinquanta. Dean
rappresenta invece il conflitto generazionale dei figli contro i genitori, ma spesso era sgradevole, non mi è mai
piaciuto davvero. Ma De Niro – De Niro è un insieme di cose tutte insieme. Lui è un uomo di strada e un uomo di
grande sensibilità allo stesso tempo. Ci sono molte persone in lui. Ha trovato la sua gioia e la sua completezza
nell’essere altre persone. Questo è ciò che gli da piacere. Ha trovato la sua soluzione per vivere: il lavoro e
l’immedesimazione al personaggio. Non ho mai visto un ragazzo lavorare così duramente». E. Kazan, cit. in R. C.
Tait., Robert De Niro’s Method, cit., pp. 269, 270 (trad. mia).

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In questo spazio non mi dilungherò più di tanto sul ruolo che l’attore ha avuto nelle fasi
produttive non strettamente legate alla performance. Mi sembra importante però citare il fatto
che il progetto del film fu presentato a Scorsese proprio da De Niro, che una volta scoperto il
libro di memorie del pugile Jake LaMotta voleva a tutti i costi realizzarne un film. I documenti
rilasciati da De Niro all’Harry Ransom Center dell’Università di Austin includono numerose
revisioni dello script (in particolare dei dialoghi) da parte dell’attore, appunti sulla ricerca di
materiali di scena, corrispondenze varie fra l’attore e altre figure chiave della produzione e, anche
in questo caso, le note scritte a mano della star su ciascuna pagina di questi materiali. Tali
documenti testimoniano la collaborazione attiva di De Niro e le sue avide ricerche finalizzate a
trasformare la propria persona in Jake LaMotta, esteticamente, caratterialmente e in ciascun altro
aspetto del sottotesto del personaggio. Come testimonia la corrispondenza fra attore e regista,
questo è il film in cui l’autorialità di De Niro si manifesta maggiormente, tanto che il regista
stesso gli assegna le chiavi del progetto elevandolo a decision maker all’interno del meccanismo
produttivo. De Niro perseguì costantemente la veridicità storica con lo scrupolo filologico di uno
storico e per questo incontrò più volte le persone che nella vita reale hanno occupato ruoli
importanti nella vita di LaMotta. Una fitta corrispondenza con l’ex moglie Vikki fu utile per
ricostruire l’intimità del pugile con la donna, gli egoismi del protagonista all’interno della relazione
e i vuoti lasciati dalla fine di quest’ultima.
La trasformazione totale del proprio corpo, nonché gli incontri di pugilato al cospetto del vero
LaMotta per imparare a muoversi su un ring, vanno intese come estensioni della scrittura scenica,
elementi cardine che vanno ad arricchire non solo la performance ma tutti gli elementi che
solitamente riguardano la scrittura filmica, di cui De Niro è autore a tutti gli effetti. Nel biennio
1978-1979 De Niro si allenò con Jake LaMotta ogni giorno, tanto che a posteriori il pugile
dichiarò che l’attore ebbe disputato circa mille round e sarebbe stato pronto, se lo avesse voluto,
a sfidare professionisti sul ring. La volontà di De Niro non era solo quella di sperimentare sul
proprio corpo cosa provasse il pugile durante la sua esperienza sul ring, ma anche quella di
documentare il più realisticamente possibile ciò che avviene durante un incontro di pugilato,
pugno dopo pugno (e a questo scopo il regista e l’attore visionarono insieme diversi filmini degli
incontri di LaMotta fra anni Quaranta e Cinquanta). Una nota dell’attore recita: «I know I’m a
fighter, I have the right to be a fighter + act like one phisically + in every way», illuminandoci
sulla sua preoccupazione riguardo all’essere pronto al cento per cento per lottare sul ring e vestire
la pelle di LaMotta a trecentosessanta gradi. Numerosi sono gli appunti raccolti da De Niro sotto
la voce “Fight Stuff” che riguardano le sequenze di lotta: vi sono commenti sul come tirare pugni,
sino ai dettagli per i combattimenti specifici. Per la riproposizione della lotta contro Tony Janiro,

26
De Niro annota alcune linee guida di cui tenere in conto: «that little hop, jump with left […] I
have an air of confidence». Durante la collaborazione col pugile, De Niro ha cercato di
appropriarsi dei gesti specifici di LaMotta durante i singoli combattimenti, le sue mosse, le sue
emozioni, rafforzando l’idea del desiderio di entrambi che l’attore ricostruisse una
rappresentazione storicamente attendibile del ruolo. Gli appunti di De Niro contengono alcune
sue intuizioni acute riguardanti il carattere del personaggio. Secondo l’attore era fondamentale
umanizzare LaMotta – così come è stato fatto per Travis Bickle – e capire personalmente da dove
scaturissero gli impeti di rabbia del combattente, sul ring ma soprattutto nella vita privata. De
Niro individua nell’ossessione per il peso da parte di LaMotta uno dei motivi della sua
frustrazione e della sua rabbia, perché solo il mantenimento della linea può garantirgli un futuro
nella boxe e un duraturo successo: le oscillazioni di peso lo mantengono nella precarietà,
nell’incertezza sul suo futuro di atleta. Le insicurezze sul peso sono una chiave di lettura per
comprendere dunque le sue insicurezze affettive. È quindi per meglio comprendere i meccanismi
psicologici di LaMotta che De Niro ingrassa fino al punto di essere affaticato nella recitazione e
di suscitare la preoccupazione di Scorsese e del resto dello staff. Quando il pugile ormai
sovrappeso ha dato il suo addio alla boxe e lavora come cabarettista in un nightclub, sembra
essere in qualche modo sollevato di non doversi più preoccupare della propria forma fisica, e di
conseguenza sembra aver messo un freno alla propria violenza incontrollabile. De Niro è il
capostipite di questa pratica dell’accumulo o della perdita di peso che nei decenni seguenti si è
fatta strada a Hollywood fino al punto di diventare, per il pubblico, il segno riconoscibile di una
grande performance e l’elemento più visibile e caratterizzante del Metodo Stanislavskij. Gli
appunti di De Niro sulla prima pagina dello script rivelano l’importanza della trasformazione
fisica del suo personaggio come una modalità per comunicare il suo carattere: «Always think of
ways to express self through body». Una pagina degli appunti raccoglie le idee dell’attore sul come
perseguire determinati effetti connessi all’aumento di peso, che vanno dall’«heavy breathing»
all’«having cotton in mouth», fino a «wearing smaller clothes to accentuate what as to be
accentuated». La meticolosità di De Niro nella ricerca del dettaglio si estende a ogni scena del film
e le sue note giustificano ogni azione compiuta dal personaggio e ogni sua sfumatura: in una di
queste, per esempio, egli scrive: «I’m like an animal, I move like an animal, I maybe grunt like an
animal», in altre indica perfino come LaMotta dovrà addentare voracemente i suoi sandwich. Le
sue note si estendono agli oggetti di scena, all’influenza dell’ambiente socioculturale di LaMotta
(che influenza la sua rabbia, il suo materialismo e la sua misoginia) e ai costumi, facendo
dell’attore una sorta di art director e di costume designer allo stesso tempo. In questi appunti e nella
ricerca sul personaggio connessa all’annotazione di questi, ritroviamo le influenze dirette della

27
formazione di Stella Adler , in particolare per quanto concerne l’utilizzo degli oggetti scenici
finalizzato alla definizione dello status sociale del personaggio.
In uno dei documenti depositati da De Niro all’Harry Ransom Center, l’attore rivela i propri
intenti artistici e il suo modo personale di sentire il personaggio di LaMotta:

Our intention was to make a movie that’s real, about real people, about people that were in
some ways looked down upon and Jake was not a favorable-looking character. A lot of
people didn't like him. That is what interested us about it and we did the film with much
feeling and compassion for him and his brother and his wife and all concerned to make it
right… To show their side, to show real people not just stereotyped which you see in all
other movies. We did lots of work and it took us years and years to work on this thing, the
fight, which we tried to make as factual and accurate as possible.28

Come abbiamo visto, quindi, De Niro in Toro scatenato portò il Metodo, nella reinterpretazione
che di questo gli ha fornito Stella Adler, ai massimi eccessi, ridefinendo una nuova modalità di
approccio al personaggio che rivoluziona il mestiere di attore cinematografico a Hollywood tanto
quanto fece trent’anni prima Marlon Brando con la sua interpretazione di Stanley Kowalski in Un
tram che si chiama desiderio. Il ruolo ricoperto da De Niro nell’economia produttiva del film e
l’influenza avuta sulla caratterizzazione di LaMotta, testimoniata dalle numerose note che
abbiamo riportato, ci forniscono spunti per riflettere sul suo elevato livello di autorialità e potere
decisionale all’interno della produzione: intorno all’attore e alla personale visione che egli ebbe di
LaMotta vengono costruiti il film e il suo insieme di significati. È importante ricordare come
all’epoca dell’uscita del film la stella di Scorsese si fosse da qualche anno eclissata a causa del
fallimento totale di New York, New York e della dipendenza del regista dalla cocaina, mentre quella
di De Niro aveva raggiunto l’apice dopo una serie di successi di critica e pubblico negli anni
Settanta, culminati poi con l’assegnazione dell’Oscar al migliore attore protagonista per
l’interpretazione di Jake LaMotta. Senza voler mettere in discussione la paternità di Scorsese nei
confronti di Toro scatenato, va comunque rimarcato il ruolo fondamentale di De Niro nella
supervisione di ogni fase di lavoro, ma soprattutto nel suo mestiere di attore che rende unico il
film e strettamente personale. Il film rappresenta il punto estremo del Metodo di De Niro, ed è
una tappa fondamentale per la comprensione del suo personale metodo di preparazione alla
performance: è la prima occasione in cui raccoglie personalmente il materiale iniziale per la
scrittura filmica, supervisionando lo sviluppo della pre-produzione e convincendo Scorsese a
dirigerlo, è il film in cui maggiormente interviene sulla sceneggiatura modificandola per
assecondare le proprie necessità interpretative, e quello in cui raggiunge il più alto grado di
28 R. De Niro in HRC De Niro Papers, Box 127.8 “Transcript of RDN's deposition re: La Motta, 9 March 1981.” P.
5. Box 127, Folder 127. 8. Citato in R. C. Tait, Robert De Niro’s Method, cit., p. 259.

28
compimento quell’insieme di pratiche quali la ricerca etnografica, la scelta del guardaroba e
l’apprendimento di nuove abilità.
Molto probabilmente Toro scatenato rappresenta lo sforzo più estremo e meglio ripagato della
fruttuosa collaborazione fra Scorsese e Robert De Niro.
Alcuni tratti di Jake LaMotta ricordano inoltre quelli di Kowalski. A tal proposito illuminante è
l’analisi di una delle sequenze iniziali di Toro scatenato: in un ambiente domestico non dissimile
dall’angusto appartamento di New Orleans in cui viveva il personaggio di Brando, De Niro non
solo occupa lo spazio scenico come faceva il suo predecessore, ma manifesta ugualmente il suo
strapotere fisico sulla controparte femminile (la prima moglie). All’inizio della sequenza De Niro
divora avidamente il suo pranzo seduto a tavola, mentre la moglie gli cucina una bistecca. La sua
fame compulsiva, peculiarità del personaggio per tutto il film, stride con la sua ossessione per il
peso, ed è anch’essa una forma di violenza e voracità utile alla caratterizzazione del personaggio.
Mentre inveisce contro i giudici parlando del suo ultimo incontro, mastica con ingordigia, infilza
brutalmente cibo con la forchetta, parla con la bocca piena, gratta del formaggio nel piatto, agita
le posate e azzanna voracemente una pagnotta. Il suo monologo è corredato sempre da un
insieme di azioni di sostegno che potenziano il sottotesto della scena. Anche la sua gestualità
quando rimprovera la moglie di cuocere troppo la bistecca risponde a un complesso di gesti
stereotipati generalmente attribuiti agli italiani e che sono frutto della preziosa ricerca etnografica
compiuta da De Niro. Il rimprovero muta in aggressione verbale e i toni si infiammano: prima
De Niro rovescia la tavola imbandita ricordando la speculare scena di Un tram che si chiama
desiderio, quindi si avvicina alla moglie compiendo una serie di movimenti minacciosi intorno a lei
che richiamano l’incontro fra Blanche e Stanley, aggiornandone i contenuti in chiave più violenta
e contemporanea (anche De Niro qui veste una canottiera sudata). Il resto della sequenza è un
susseguirsi di azioni, minacce (non solo alla moglie, ma anche ai vicini che si lamentano del
baccano), gesti teatrali all’italiana che accompagnano frasi pronunciate con evidente inflessione
nostrana. La recitazione, in questo caso, è caratterizzata dagli eccessi che abbiamo analizzato nel
caso di Brando e del primo De Niro. Ritengo la scena esemplificativa della sua performance non
solo per i parallelismi con la sequenza del film di Kazan analizzata precedentemente, ma
soprattutto per l’insieme di significati connessi alle azioni sceniche compiute dall’attore, in
relazione alla caratterizzazione di Jake LaMotta, oltre che per l’emergere di alcune sfumature
etniche che testimoniano la ricerca di De Niro sulle radici culturali del personaggio.

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4. Conclusioni

Come scrisse il critico cinematografico Hal Hinson in un articolo dal titolo Some Notes on Method
Acting comparso su un numero della rivista “Sight & Sound”, la performance di De Niro in Toro
scatenato segna una sorta di fine del Metodo, che da qui in avanti prende percorsi differenti. Il film
di Scorsese uscì nel 1980, data in cui viene comunemente intesa la fine della New Hollywood e
l’alba di un nuovo panorama cinematografico contraddistinto dalla proliferazione dei blockbuster,
dalla nascita di nuovi generi cinematografici a uso e consumo di nuove fette di pubblico, nonché
da nuove modalità di fruizione. Secondo Hinson, la personale interpretazione che De Niro ha
dato del Metodo e la trasformazione che questo ha subito negli Settanta ad opera sua e di altri
attori della sua generazione avrebbe rappresentato la fine di un particolare modo di recitare: un
cambiamento inesorabilmente legato alla storia, all’industria e al contesto culturale in cui il suo
personale Metodo è stato elaborato.29
Nell’elaborato ho voluto confrontare alcune significative performance di De Niro con quella,
probabilmente più significativa, dell’attore generalmente indicato come il principale esponente
della prima generazione del Metodo sul grande schermo. Dall’analisi è emerso che, al di là di
alcuni eccessi della recitazione di De Niro connessi non solo al suo stile personale, ma anche al
mutamento dei canoni recitativi e della natura stessa dei personaggi, registratosi a Hollywood tra
anni Sessanta e Settanta, vi sono numerosi punti in comune. Lo scarto generazionale fra le due
star viene parzialmente colmato da una comune presa di distanza nei confronti
dell’interpretazione strasberghiana del Metodo – testimoniata da alcune citazioni dei due attori
riportate in elaborato –, e dalla medesima importanza attribuita a Stella Adler quale perno
comune delle rispettive formazioni artistiche.
Si è visto come gli attori siano accomunati dal fatto di aver rappresentato meglio di qualunque
altro collega le pulsioni, i desideri, le sofferenze e le contraddizioni delle rispettive epoche, e di
aver saputo portare sullo schermo tutta la profondità e la verità dei personaggi interpretati.
Brando è stato certamente un punto di riferimento per De Niro, e dal suo punto di vista
possiamo dire che il Metodo altro non fu se non una spinta ad apportare il massimo grado di
libertà e credibilità possibili alla performance. Ma Brando, come abbiamo detto, ha sempre
rifiutato di essere bollato con il marchio di attore del Metodo, per cui l’impronta stanislavskijana
nel suo caso è il frutto di un incontro felice con alcuni maestri che si presero carico della sua
formazione (questi ultimi sì, affascinati da Stanislavskij), quali la Adler ma anche Elia Kazan.
Robert De Niro fa il suo esordio sul grande schermo in anni in cui il panorama cinematografico
sta vivendo un profondo mutamento e il perseguimento della resa naturalistica assicurata dal

29 H. Hinson, Some Notes on Method Acting, “Sight & Sound”, summer 1984.

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Metodo è ormai divenuto l’obiettivo primario degli attori della sua generazione: nuove tipologie
di storie, di personaggi, di pubblico, ma anche un nuovo contesto socio-culturale, fanno sì che la
recitazione naturalistica di matrice stanislavskijana diventi la norma nel sistema dello spettacolo
americano. Come ho osservato nell’elaborato, però, De Niro non si limita a restituire credibilità al
personaggio, ma spinge la sua ricerca verso orizzonti sempre nuovi e fornisce un’interpretazione
personale del Metodo votata a una resa addirittura iper-realistica. Sul solco di una delle più floride
collaborazioni della storia del cinema americano, quella fra Kazan e il suo attore feticcio Brando,
De Niro ha infine il merito di ridisegnare anche il concetto di sodalizio artistico fra attore e
regista, assurgendo la propria figura ad autorialità di primaria importanza nel processo produttivo.

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BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Dennis Bingham, Acting Male: Masculinities in the Films of James Stewart, Jack Nicholson and Clint
Eastwood,
Rutger University Press, New Brunswick 1994.

Franco La Polla, Malattie attoriali: istinto e scuola nel cinema americano degli anni ’30, Bononia University
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James Naremore, Acting in the cinema, University of California Press, Berkeley 1988.

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Editrice Zona, Civitella in val di Chiana (AR) 2006.

Richard Colin Tait, Robert De Niro’s Method: Acting, Autorship and Agency in the New Hollywood (1967-
1980), The University of Texas at Austin, Austin 2013.

Claudio Vicentini, L’arte di guardare gli attori. Manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema e televisione,
Marsilio, Venezia 2007.

FILMOGRAFIA (Titoli originali):

Mean Streets, regia di Martin Scorsese (1973)

Raging Bull, regia di Martin Scorsese (1980)

Streetcar named Desire, A, regia di Elia Kazan (1951)

Taxi Driver, regia di Martin Scorsese (1976)

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