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STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA (PROF.

TERRAROLI) – LEZIONI

Corso diviso in due moduli: introduttivo (percorso su ciò che riguarda 800 e 900, fino ad
alcuni aspetti dell’arte contemporanea), progredito (arte del 900, aspetto legato al tema
delle avanguardie, partendo dal futurismo fino alle neo avanguardie contemporanee).

Due visite a collezioni a Verona.

Relativamente all’introduttivo: seminario di tutoraggio che ci sottoporranno una serie di


esempi per consolidare la capacità di collocare e leggere un’opera, su come usare il
manuale. Non riconosce crediti ma chi parteciperà avrà un bonus all’esame.

Approfondimento con una serie di conferenze il giovedì, dalle 17:20 alle 19:00 sul restauro
di opere di arte contemporanea (avrà un riconoscimento di crediti), sono 7 incontri.

È importante costruirsi un percorso ed una lettura, date e cose specifiche non sono quello
a cui puntiamo ma il ragionamento che sta dietro.

Raccolta di incisioni di Piranesi: siamo nel XVIII secolo ma il mondo delle arti è
completamente mutato per diverse ragioni, non ultimo la scoperta dei siti di Ercolano e
Pompei. Quegli scavi e i successivi vengono accompagnati da un riscontro di riproduzioni a
incisione, il mezzo più diffuso per riprodurre immagini di qualsiasi tipo. È un mezzo tecnico
che usa lastre metalliche che vengono incise sulla base di disegni, che possono essere
stampate in numerosi esemplari. Nel corso del ‘700 la riproduzione meccanica vede una
larghissima diffusione, dovuta anche al Grand Tour: l’Italia è diventata un luogo percepito
dagli europei come un luogo dove l’antichità è ancora viva e palpitante, il rapporto con
l’arte è ancora diretto. Nei diari di Goethe lui illustra il suo rapporto con il nostro paese:
quando avendo percorso il corso dell’Adige si ferma a Torbole, dice che il Lago di Garda era
in tempesta e di aver visto la prima volta il mondo degli antichi, perché quella visione
ricorda il Mediterraneo. Tutte queste cose, questo impegno, è l’avvio di un distacco dalla
continuità dell’arte dalla fine dell’impero, è come se questi contemporanei (Piranesi,
Goethe) guardassero il passato con l’occhio dello studioso e non dell’imitatore, con l’idea
di ricostruire una storia del passato. Gli studiosi di cui stiamo parlando si pongono il
problema di documentare la storia. A questo si aggiunge un altro parametro: Piranesi
avrebbe potuto collocare il proprio ritratto dentro un medaglione, come era da tradizione,
il ritratto di profilo riprende le monete imperiali. E’ sì all’interno di un medaglione, ma
all’interno di un frammento archeologico, che è crepato e ricomposto come in un museo.
Sul lato c’è poi un rampicante ed un cesto di vimini: il cesto è quello che si usava per
portare via la terra dagli scavi, ed il frammento è circondato dalla natura. Il concetto del
rovinismo fa parte di una sensibilità settecentesca che ha avuto ricaduta in arte
contemporanea e nella cultura degli illuministi. Il pittoresco è una sensibilità nuova che
identifica la bellezza attraverso degli elementi che contraddicono la bellezza classica: non
sono più i modelli dell’antico ad essere la ragione della bellezza assoluta, ma la
combinazione tra la natura (non governata, al limite della violenza, contraddittoria). Il
pittoresco suscita delle emozioni, non è un’acquisizione di valori estetici attraverso la
ragione ma attraverso il sentimento. Un giardino o un paesaggio è pittoresco, è evidente
che anche Piranesi è legato a questa modalità.

Un esempio tipico di pittoresco è la prima


opera di Piranesi incisore, datata 1745-50: si
tratta di 16 tavole, la raccolta è intitolata
“Invenzioni capricciose di carceri”. I primi
scavi sono del 1738. I primi due termini ci
dicono molto sul significato di questa
raccolta: non è una riproduzione di
testimonianza archeologica, si tratta di
luoghi che non esistono nella realtà e spazi
che hanno un valore capriccioso. Il termine
capriccioso ha un significato preciso nel ‘700, definisce un genere della pittura Rococò: è la
capacità di un artista di mescolare con abilità ed intelligenza forme o situazioni diverse, che
nella realtà non possono stare insieme. Sono noti quelli di Tintoretto: sono delle vedute
credibili, reali, che fissavano il volto delle città frequentate dai personaggi del Grand Tour.
È una pittura di fantasia, dei paesaggi che sembrano veri e combinano situazioni che non
esistono. Un esempio è la veduta del Canal Grande in cui al posto del Ponte di Rialto c’è un
ponte disegnato da Palladio e mai costruito. Le invenzioni capricciose di Piranesi sono la
sintesi di questo: il punto di partenza è un luogo specifico, il carcere vicino al Campidoglio,
che Piranesi utilizza come punto di partenza per trasformare l’immagine in un ambiente
che assume il valore di un racconto tenebroso, gotico. All’interno dello spazio inventa di
collocare delle strutture che non esistono, carrucole di un cantiere in corso d’opera, scale e
ponti levatoi che non si capisce dove vadano, il pilastro che regge tutto è di tradizione
gotica. Ha inventato uno spazio del tutto fantasioso che produce un effetto sentimentale,
che il pittoresco vuole mettere in evidenza e che è una sensibilità moderna. Siamo a metà
esatta del XVIII e Piranesi fa emergere quella sensibilità umana che non è la ragione, ma le
parti che appartengono all’inconscio, quel mondo sconosciuto della mente umana.

Le invenzioni capricciose di Carceri di Piranesi saranno una specie di scuola per la cultura
del pieno ‘800, del pieno Romanticismo. Anche i romanzi di Poe avranno a che fare con
queste immagini, come anche la cultura Surrealista che andrà a scavare delle pieghe più
intime dell’inconscio umano.

Rispetto a questo, nel 1748 Piranesi pubblica


una raccolta di tavole incisorie intitolate “Vedute
di Roma”. Da’ poi vita a 4 volumi intitolato “Le
antichità romane”, la prima testimonianza
organizzata di tutte le antichità visibili nel
tessuto di Roma. Era l’ipotesi di lavoro di
Raffaello Sanzio, quando scrisse una lettera in
cui sosteneva la necessità di conoscere queste
antichità per poterle salvare. Quel lavoro non fu
mai portato a termine perché morì l’anno dopo, ma questo lavoro sarebbe stato
accompagnato da delle tavole che rappresentassero le opere. Questo sogno viene portato
a termine da Piranesi. Vediamo per esempio l’Arco di Settimio Severo dove la struttura
architettonica, le incisioni, le sculture sono riportati in modo estremamente preciso, e a
questa descrizione oggettiva dell’oggetto corrisponde una narrazione pittoresca, per cui
per dare la proporzione Piranesi colloca delle scene popolaresche (in questo caso un
viaggiatore del Grand Tour), che serve anche ad inserire il monumento in una Roma
contemporanea dove la natura prende il sopravvento.

Questa visione pittoresca cosa indica al viaggiatore che acquista queste opere per la sua
biblioteca? Questa grandezza del monumento antico indica che la grandezza degli antichi è
tale per cui anche la rovina ed il frammento hanno un valore emblematico, ovvero che
anche le città più grandi sono destinate a finire ma che, nonostante questo, la grandezza di
questa civiltà e di queste rovine mangiate dalla vegetazione è intatta. E la loro grandezza è
tale per cui non possono che essere modelli di riferimento.

Vediamo un affresco pompeiano che fu scoperto nel


1759: il soggetto rappresenta la venditrice di amorini.
Fa parte di un’immagine mitologica, giocosa. Qualche
anno dopo questo affresco viene riprodotto in
incisione. Questa immagine ha avuto enorme fortuna,
perché il soggetto era divertente, al limite del lezioso,
che riportava una forma di ironia rispetto alla
tradizione della pittura antica.

Un altro versante di questa sensibilità moderna è Winkleman, uno dei padri spirituali della
cultura neo classica. Ha una formazione da erudito, studia gli antichi attraverso la
letteratura e le fonti letterarie ma non ha mai visto un oggetto antico, se non i pochi
frammenti delle collezioni di Dresda. Gli viene poi offerto un viaggio a Roma, un Grand
Tour: vede per la prima volta con i suoi occhi tutta la bellezza di ciò che ha studiato.
Dobbiamo a lui la creazione della prima storia dell’arte antica. È il primo compendio che
cercava di fissare dei punti storiografici dello sviluppo dell’arte antica, dove risulta
evidente non solo che è esistita un’articolazione temporale dello sviluppo della statuaria e
di distinguere i periodi dell’arte greca come poi sono rimasti. Questa trattazione trova
applicazione in un luogo particolare, Villa Albani, dei principi Torlonia. È una residenza
estiva del cardinale Alessandro Albani, realizzata nel 1753, proprio gli anni in cui
Winkleman è a Roma e in cui Piranesi lavora alle antichità romane. Sia la villa principale sia
l’esedra con entrata monumentale contengono la più ricca collezione di scultura antica
esistente al mondo, in mano a privati. L’allestimento della collezione si deve allo stesso
Winkleman, che disegnò come collegare alcune opere secondo una logica espositiva che
aveva a che fare con il concetto di pittoresco. Una di queste sale è decorata da un affresco
di Mens, “Il Parnaso”, dove vivono le muse delle arti. È ispirato a quello di Raffaello, è
rivisitato.

Fussli è un pittore di origine svizzera che compì il suo


Grand Tour in Italia. Questo suo acquerello porta
un’iscrizione autografa: visualizza quel concetto del
rapporto dei contemporanei tra i moderni e gli antichi. Lui
è seduto su un frammento di pietra di atto di disperazione,
che avviene sotto due frammenti scultorei giganteschi,
ancora oggi visibili dove li vede lui, nel cortile del Palazzo
dei Conservatori. Fanno parte di una scultura di Costantino.
Di quella gigantesca statua non esiste più nulla se non la
testa, la mano e il piede. L’artista moderno guarda questi
frammenti con disperazione: persino in un frammento c’è
una tale grandezza che è inimitabile, non saremo mai come gli antichi, contrario di ciò che
sostiene Winkleman, che dice che questo deve essere esempio per loro: combina nobiltà
con semplicità, grandezza con quiete. Per Winkleman imitabile, per Fussli inimitabile.

16/02/2021

Il SUBLIME è un termine antico, nel 1757 (stessi anni in cui Winkleman pubblica la storia
dell’arte degli antichi) viene pubblicato un saggio filosofico intorno alle nostre idee sul
sublime e sulla bellezza. Questo saggio sostiene, dal punto di vista filosofico, che
contrariamente a quello che sostiene Winkleman, dice che la bellezza sta nell’emozione,
nella paura, nell’orrore. In che senso? Burke dice che l’emozione che si prova davanti alla
forza della natura (es. vulcano o terremoto, fulmine), davanti a tutto quello che terrorizza
l’uomo, quella è la bellezza. I dipinti di Turner rispecchiano questa bellezza della temibilità
della natura. C’è un'altra questione sotto questo concetto: cioè che questa percezione
della terribilità della natura, matrigna per l’uomo (come dice Leopardi), questa
consapevolezza ci fa piccoli di fronte alla natura ma per certi versi, attraverso l’arte, la
comprendiamo e la manovriamo. Questo concetto di Burke sarà ripreso da Kant: la natura
travolge gli esseri umani, ma questi hanno la consapevolezza di essere gli unici ad agire
secondo la legge morale, quindi la dominano.

Tra il pittoresco e il sublime si insinua una situazione ulteriore, un’attenzione che è una
sensibilità nuova che si rivolge ad un momento della storia della cultura europea che per
infinite ragioni non è mai stata guardata con interesse, ovvero tutta quella dell’era di
mezzo, del Medioevo. Solo in Inghilterra in quegli anni inizia un interesse per la cultura
medievale, che era da sempre stato considerato momento di decadenza. In questo
medioevo si riconoscono delle situazioni pittoresche, perché dobbiamo pensare quanto nel
paesaggio inglese, nelle contee, quanti ruderi di monasteri e chiese medievali ci fossero,
andati perduti dalla riforma della chiesa anglicana che aveva chiuso tutte quelle comunità
medievali. Quei ruderi facevano parte delle proprietà terriere dei nobili, ed erano come i
ruderi antichi italiani, su cui la natura ha preso il sopravvento.

Orace Walpole è uno dei primi ad interessarsi a queste rovine medievali e pubblica nel
1765 un romanzo, intitolato “Il castello di Otranto”, dove usa un espediente che sarà usato
anche da Manzoni, finge di aver trovato un manoscritto italiano che racconta questa storia.
La cosa interessante è che si parla di una storia gotica, pittoresca, terribile. È un romanzo
che si svolge in questo inventato castello ad Otranto, che sorge su una scogliera a
strapiombo sul mare in tempesta (l’adriatico non è così). Si svolge una storia di fantasmi,
un tipico romanzo gotico. Questa sensibilità per storie fantastiche che si svolgono in
un’epoca remota arriva fino ad oggi, è il lungo percorso di letteratura gotica che arriva fino
al moderno. Walpole si costruisce una casa che si chiama Strawberry Hill, è un edificio che
era una villa del ‘600 che lui allarga andando a comprendere delle vicine rovine di un
convento medievale. Progetta un aspetto di questa casa che è una mescolanza tra un
castello e una cattedrale, ma è un’invenzione fittizia, è un neo medioevo. Non si limita a
farlo realizzare, ma lo arreda in stile medievale, sempre in modo fittizio. Scrive un libro in
cui descrive le opere che ha raccolto in questo edificio. L’elemento fantastico si unisce
all’elemento vagamente storico, tutto unito alla sensibilità pittoresca ma unita al sublime,
che gli spettatori provano vedendo il disequilibrio, qualcosa che l’uomo non può
controllare e che è bellezza.

Architettura neoclassica utopistica, vedremo le figure di Canova e David. Vediamo in


immagine due progetti architettonici mai realizzati, definiti utopistici perché non avevano
una reale finalità di cantiere, erano degli esercizi di altissimo livello legati all’accademia
reale di Francia, progetti che raccolgono le istanze del modo di rappresentare l’architettura
di Piranesi, quel suo gigantismo, ma anche interventi che hanno avuto delle applicazioni.
Troviamo un progetto contemporaneo che è la rielaborazione di modelli classici
(architetto: Boule (?)). La sua idea è quella di riconnettere al progetto della biblioteca
quella che per lui era la biblioteca per eccellenza, ovvero quella perduta di Alessandria.
Torna a rivivere ipoteticamente a Parigi come Boulè pensava che fosse, con i libri a
sostegno dell’architettura.

Boulè propone nel 1784 un’altra opera,


siamo al punto di arrivo della cultura
illuminista. Costruzione di un cenotafio a
Isaac Newton, è un monumento celebrativo
che ricorda la grandezza del personaggio. Ha
però forma di tomba, di mausoleo. L’idea era
che fosse una sfera perfetta inserita in tre
semicilindri, che avrebbero dovuto
circondare la sfera ricoperti di alloro e cipressi. La sfera è completamente chiusa, c’è solo
un foro alla base della sfera attraverso cui le persone sarebbero entrate e, pendente al
centro, una sfera che racconta le orbite dei pianeti. Di notte, sarebbe stato possibile
proiettare le costellazioni sulla cupola. Come la biblioteca è un monumento alla sapienza,
questo sarebbe un monumento alla scienza. Siamo vicini al sublime, ad una visione nuova
del mondo, non è solo replica dei modelli antichi ma rielaborazione.

Il progetto delle saline di Scho (?), del 1771, vede compiute alcune parti dopo la
Rivoluzione. Rivela un concetto legato alle città ideali, un polo industriale produttivo che
nasce ex novo e che viene progettato con forme ideali, legate ad una forma della città
come equilibrata in ogni sua parte. Le strade si muovono in modo radiale dal centro, a
ferro di cavallo vengono disposte le abitazioni secondo una logica di alternanza in altezza
dei diversi edifici e tutte accompagnate da giardini che si aprivano verso la campagna.

Rispetto a questi progetti architettonici di era francese e


legati ad un classicismo idealizzato, la ricaduta della
cultura classicistica in Italia è emblematica in Canova.
Vediamo la prima opera certa di Canova, realizzata in
una pietra scultorea veneta, pensata per un giardino. Il
suo protettore, che lo sostiene negli studi, è un cittadino
di Venezia di origini borghesi, gli paga il materiale per
questa opera per lanciarlo sul mondo veneziano. Queste
due opere, Euridice e Orfeo, verranno lanciate in una
festa/fiera che occupava tutta piazza San Marco dove i
laboratori artistici esponevano le loro opere per
venderle. 1773-75, esposta nel ’76. È un Canova che non riconosciamo, perché è ancora
una scultura barocca, è ancora Bernini. Si insiste sul decorativismo pittoresco,
sull’avvitamento dei corpi. Canova coglie il momento in cui Orfeo si gira per guardare
Euridice prima di uscire dagli inferi, condannandola alla morte, mentre stava tentando di
riportarla in vita. Lo scultore che abbiamo davanti non ha nulla della temperie classica:
dopo il successo di Venezia, il suo tutore gli propone un viaggio a Roma, dove viene accolto
a Palazzo Venezia e qui apre il suo studio. Nel 1778 torna a Venezia e realizza il gesso di
Dedalo e Icaro: ancora nel dettaglio della resa delle ali, sulle posizioni, siamo ancora in
tradizione barocca. Il vero cambiamento avviene nel 1781: Canova ritorna a Roma, entra
nel circolo di Mehns, diventa amico di Winkleman e condivide le sue nuove teorizzazioni
sul classicismo, guarda alla scultura antica con uno
sguardo diverso e modifica il suo modo di scolpire.
Comincia a entrare quel sublime in cui i soggetti sono
colti o in un momento di furore o di ripensamento, non
eroico, cioè con un valore morale. L’idea di realizzare un
gruppo statuario dedicato a Teseo e il Minotauro gli viene
tra l’81 e l’83. Teseo e il Minotauro è il coraggio
dell’uomo, ma non è in un momento di trionfo: qui l’eroe
ha vinto, ha sconfitto il mostro, ma si ferma e medita sul
destino degli esseri viventi, è seduto sul corpo privo di
vita del Minotauro che da mostro diventa quasi tenero,
sembra sia il funerale di amico. L’eroe è in posa di
abbandono, di meditazione.

La fase matura dello scultore è Amore e Psiche,


emblematico della transizione dalla cultura neo
classica alla sensibilità del sublime o proto
romantica. È del 1787, Psiche va verso l’alto e
Eros verso il basso, creando un avvitamento
inedito. Gli da la fama a livello europeo, non ha
più niente del classico, è un neoclassicismo ma
un superamento completo, anche se il soggetto
è un mito antico: il dinamismo che sta dentro è inglobato in forme classiche. I dettagli sono
assolutamente realistici, la capacità di Canova è di essere stato capace di fondere la vita
reale con i valori dell’equilibrio dell’arte classica con l’energia dell’arte barocca.

Il Monumento funebre per la gran duchessa austriaca Maria Cristina d’Asburgo è


particolare, c’è un corteo di donne velate che proseguono verso la tomba. L’idea che sta
sotto è l’esaltazione delle virtù di Maria Cristina, è un monumento dinamico che racconta
una storia, non è statico. La piramide è un corpo fittizio, la cuspide è al limite della parete.
L’invenzione che mette in campo è che la
piramide non è chiusa ma aperta, come se
fosse davvero un’architettura percorribile.
Riveste l’invaso di pietra nera, come se fosse
una profondità infinita. Fa in modo che tutta la
parte di celebrazione della morta sia nella
parte alta. La parte bassa è in rapporto diretto
con lo spettatore, c’è un gruppo con un leone
addormentato (forza che si addormenta) e con
un angelo, il sonno (gemello della morte),
Cristina è perduta in un mondo di sogni. A
sinistra, c’è un corteo come se il funerale della
donna avvenisse davanti ai nostri occhi ogni volta che ci poniamo davanti al monumento.
Ha cercato di ricostruire una cerimonia funebre degli antichi, ha immaginato una storia. Il
corteo si chiude con un vecchio che fa fatica a salire i gradini: Maria Cristina è morta
giovane, innaturalmente, significa che la morte colpisce in modo improvviso e senza
seguire le leggi della natura. La donna al centro porta l’urna, ma la prima a entrare nella
tomba è una bambina (ultimo è un vecchio): non ne vediamo il volto, è piegata in avanti
dal dolore, è l’unica figura inquadrata davanti alla porta nera, l’unico elemento vitale è il
suo piede che ha una percezione tattile impressionante: tutto sembra immobilizzato dalla
morte ma in movimento grazie a questo. Non è solo una rivisitazione dell’antico, ma un
compendio di emozioni che corrispondono a quella sensibilità del sublime che l’opera
d’arte deve creare. Il rapporto tra opera e spettatore si basa sulla comunicazione silenziosa
tra i due, non sulla ragione.

La Ebe appartiene a quel momento in cui Canova fa sculture


celebrative: rappresenta una figura mitologica, una fanciulla
che per la sua bellezza viene rapita dagli dei e resa immortale,
col compito di essere la cocchiera degli dei. La figura è stata
studiata da Canova con una proiezione verso lo spettatore, si
muove verso di noi, è sporgente. C’è una componente
polimaterica, la brocca è in bronzo e la fascia che chiude i
capelli è dipinta in oro, con un effetto pittorico che qui applica
per la prima volta e che rimanda alla cultura ellenistica che
usava materiali diversi.

18/02/2021
Realizzazione sculture (Canova, ma risale al ‘300 ed è stata elaborata nel corso del
‘600/’700). Vediamo il modello in gesso da cui si parte per la realizzazione, sia dei modelli
al vero in argilla per poi la fusione in bronzo (riproduzione in gabbia). Dai modelli piccoli si
ricava di solito uno stampo in cui poi viene colato il gesso, che da’ vita al modello in gesso.
Questo viene collocato dentro una struttura di legno che ha dei punti di misura: poi ne
viene costruita una vicino in cui vengono riportati gli stessi segmenti in proporzione; qui
viene montato uno scheletro di legno e si comincia a mettere l’argilla, in modo da
modellare ma seguendo uno schema. Sarà a sua volta ricoperto di cera, messo in fusione e
fuso.

Con la pietra, il masso di pietra è collocato dentro una scatola su dei supporti lignei che lo
sostengono, lo strumento principale è il compasso. Si prendono le misure del modellino e
si fanno le proporzioni, si segnano dei punti e si comincia a scolpire il masso. Il gesso
grande rimane in atelier ed è pronto per chiunque ne voglia una copia. È quello che accade
con la Ebe: è una scultura che ebbe enorme successo a livello europeo, se ne conoscono
quattro esemplari certi di Canova. Le copie non sono però mai meccanicamente identiche.

Come strumento si usava anche il trapano a violino, utilizzato anche in antichità, sono delle
punte metalliche che vengono montate su un’asta che ha una testina girevole, che viene
mossa da un movimento di un allievo, mentre il maestro tiene in mano la punta.

I puntini che vediamo sul gesso sono dei chiodi che vengono battuti dagli allievi in maniera
regolare sulla superficie dentro il gesso, senza rompere il gesso. Questo serve perché con u
o strumento che si chiama pantografo (che ha da un lato una punta, dall’altro una struttura
in legno che può essere allargata. Io seguo con la punta di ferro che sta sulla sinistra i punti
segnati sul gesso. Dall’altra parte è fissata una punta con un carboncino. Mentre io muovo
e tocco il punto sulla parte di gesso, dall’altra parte il pantografo segna sul marmo i punti
col carboncino. Questo serve a segnare una specie di disegno fatto di punti sul masso.

Il gruppo delle tre grazie rappresenta l’armonia, intesa come


visualizzazione dell’armonia tra uomo e natura. La
rappresentazione su cui Canova lavora con molta intensità è
abbastanza simile alla resa finale, ma la grazia che sta a destra
nel bozzetto è appoggiata alla sorella ed unisce il suo braccio
con quello della grazia a sinistra. Nella resa finale le due
braccia si staccano, creando con equilibrio una zona d’ombra
e di vuoto tra le figure. Aumenta nella redazione finale il
contrasto tra pieni e vuoti. L’equilibrio tra le figure è giocato
tra pesi e contrappesi: la gamba sinistra della grazia di sinistra,
anziché essere dietro, è in avanti, squilibrando la figura ma
rendendola più naturale e dinamica. I sostegni qui sono due: la figura centrale che
mantiene l’asse verticale e un cilindro che sta dietro. Tutto il peso della figura di destra sta
sulla figura centrale e su un piccolo triangolo di marmo che serve a reggerla.

Nelle Tre grazie di Thorvaldsen (maggior rivale di Canova) i


corpi sono meno coerenti con la tradizione classica, meno
idealizzati, ed il meccanismo della composizione è più
schematico ed analitico. Manca però la forza della sintesi
che c’è in Canova. La maggior parte di queste statue,
pensate per gli interni, erano sempre montate su dei
sostegni con all’interno un meccanismo per farle girare.
Questo perché le opere venivano esposte agli ospiti del
collezionista attraverso l’uso di luci artificiali alla luce delle
candele. Oppure anche in stanze con illuminazione naturale,
e il farla girare faceva sì che la luce colpisse le superfici ì,
proponendo ai visitatori un effetto visivo che variava, tattile,
pittorico. I testimoni dichiaravano di non vedere una statua
ma persone vive davanti a loro.

Uno dei punti di arrivo del Canova classico è il momento del suo legame con la
committenza napoleonica. Con la caduta di Napoleone, molta della committenza nobiliare
europea farà fatica a ripristinare una relazione con lo scultore che aveva raffigurato in
modo eccelso membri della famiglia di Napoleone. La sua fama, però, è stata così acclarata
che Papa Pio VII gli chiede di recuperare i beni artistici che Napoleone aveva fatto portare
via dalle sue truppe. All’interno di una politica
celebrativa che Napoleone mette in campo per sé
e la sua famiglia, la scultura che riguarda la sorella
preferita di Bonaparte, Paolina, non è una
committenza diretta. La committenza è quella del
marito di Paolina, Camillo Borghese, erede di
quella famiglia aristocratica romana potentissima
e che viveva a Villa Borghese. Avendo sposato
Paolina, si lega all’ascesa di Napoleone come
imperatore dei francesi e riceve da lui il compito di andare a governare il Piemonte
(principato di Savoia), abitando a Stupinigi. In questo ritratto abbiamo la combinazione del
rimando all’antico ma il ritratto è realistico, il corpo è studiato dal vero (certo abbellito, ma
vero), pur all’interno di uno schema compositivo della tradizione classica. È una figura
sdraiata sul triclinio, struttura tutta di legno dipinto all’interno di cui c’è il meccanismo per
farla girare. Il corpo di Paolina è così vero da pesare sul materasso, si creano delle pieghe
assolutamente realistiche. Paolina è rappresentata come un mito dell’antichità, è la
personificazione dell’amore fisico e spirituale insieme, tiene in mano il pomo che le da’
Paride quasi con indifferenza. Porta un bracciale, evidenzia il fatto che sia una donna vera
e non idealizzata. La storia delle Venere vincitrice (sottotitolo dell’opera): la storia inizia ad
un matrimonio, un banchetto tra re Peleo e Teti (dea del mare), a cui sono invitati mortali
e dei. Tutti gli dei sono invitati, tranne la dea della discordia, che fa cadere dalle nuvole un
frutto d’oro sul tavolo dove banchettano tre dee: Atena, Afrodite ed Era. Queste vedono il
frutto e sulla mela c’è un’iscrizione che può significare “alla più bella” o “alle più belle”.
Questo scatena la competizione tra chi debba tenere la mela d’oro e Zeus dice di voler
trovare qualcuno, un giudice, che decida a chi debba andare la mela. Il giudice scelto è uno
dei figli dei sovrani di Troia, che era stato mandato da bambino sul monte Ida, lontano
dalla città, perché un oracolo aveva predetto che lui sarebbe stato la rovina della città. Non
sapeva nemmeno di essere un principe troiano. Ognuna delle dee difende sé stessa: Atena
gli promette di fornirgli eserciti, Era promette di dargli ricchezze e prosperità, mentre
Venere promette a Paride la donna più bella del mondo. Il ragazzo consegna la mela a
Venere (Afrodite), scatenando l’ira delle altre due divinità.

Una leggenda molto lunga per dire che Canova si immagina Paolina, di grande fascino ma
di grande intelligenza, come una Venere audace e vincitrice, la più bella tra le belle.

Jean Louis David, poco prima della Paolina Borghese, dipinge una donna di grande fama
poco prima della salita al trono di Napoleone: Julienne (…?), una giovane fanciulla che
aveva sposato un banchiere e grande sostenitore del triumvirato di Napoleone. Si fa
ritrarre con un abito all’antica su un triclinio. Fu soggetto di altri ritratti: Canova ne fa un
busto.

Canova ritrae anche la madre di Napoleone, Letizia, che è nelle vesti di una madre di
imperatori.

David, negli anni ’70 del ‘700, quando approda


all’Accademia di Parigi, dipinge grandi
composizioni di figure, tutto è recitazione,
ognuno ha un ruolo come in una tragedia cantata.
Vediamo La morte di Seneca del 1773: è una
testimonianza della formazione di David prima
della scelta classicista rigorosa e poi prettamente
neoclassica. Gli fu acquistato dalla corona, da
Luigi XVI. Ma perché questi temi di storia
romana? Sono temi che nell’esagerazione dei sentimenti rappresentano dei valori morali a
cui la corona francese puntava.
Nel 1774 realizza un’altra opera che si intitola
Antioco e Stratonice. Fa parte delle storie
antiche perché Antioco si innamora della
matrigna: preso dal mar d’amore, cade malato
e nessuno sa cos’abbia. Viene chiamato un
medico che capisce la ragione e la dichiara. Il
fondale è all’antica, c’è un sipario aperto di
recitazione retorica. Con questo quadro vince
“Il premio di Roma”, che gli permette di fare un
viaggio a Roma a studiare i grandi maestri italiani e l’antico.

Pochi anni dopo, nel 1781, David prepara


stando a Roma il primo dipinto neoclassico,
che rispetta delle indicazioni che nella
scultura aveva dato Winkleman. In “Belisario
chiede l’elemosina” vediamo il capo
dell’esercito di Giustiniano caduto in
disgrazia che chiede l’elemosina nell’elmo: è
ovviamente un’invenzione pittorica che
serve a rappresentare il destino fallace dei
grandi uomini, che per le ragioni più diverse
cadono in basso e perdono il loro potere ma
non la loro dignità. Una matrona romana gli
offre denaro avendolo riconosciuto. La composizione, che ha valore morale (sacrificio
dell’individuo in favore dello stato), venne esposto nel 1781 e fu acquistato
immediatamente dalla corona. A parte i riferimenti romani (David mostra di conoscere la
città antica), cambia il modo di comporre: prima c’era l’idea di uno sfondo/scenografia e le
persone erano unite. Quello che fa ora è costruire una quinta architettonica, ma descrive
con realismo le pietre sbrecciate, è tutto iperealistico. La seconda caratteristica è la
distribuzione dei gruppi in modo netto e separato, creando delle scansioni spaziali
nettamente divise dove le figure sono come ritagliate, ma ogni loro dettaglio è realistico.
Questo schema rende l’opera pienamente
neoclassica.

Il giuramento degli Orazi, realizzata nel 1783, è la


prova finale della sua presenza a Roma. Qui
troviamo una sintesi ancora più significativa di
questa nuova corrente pittorica, dove la politica
neoclassica è esplicita. Il tema è ancora legato
alla storia romana ed ha valore morale (è per
questo che ha successo presso la corte). La storia appartiene alle origini di Roma, quando
la città da poco fondata da Romolo è ancora in lotta con la patria originaria dei latini che è
Albalonga. Le due città decidono di delegare la dichiarazione della vittoria o della sconfitta
a dei campioni: si offrono tre fratelli di Albalonga, i Curiazi, e tre fratelli di Roma, gli Orazi,
soggetto del dipinto. La scelta di questo soggetto rappresenta il sacrificio che il singolo
cittadino compie per la salvezza della patria: sanno che moriranno, è un duello all’ultimo
sangue. La scena scelta non è lo scontro (che sarebbe stato scelto dal gusto settecentesco),
ma un momento di fortissima tensione psicologia e morale. Segue delle regole
compositive, basate su una composizione paratattica: i gruppi sono affiancata in modo
ritmico sullo stesso piano. Per rendere evidente questo ordine geometrico, David ha
costruito due quinte, che combaciano con un pavimento descritto nei dettagli di una sua
usura, di un mondo arcaico. Per rendere il ritmo paratattico ancora più evidente, la scena è
chiusa da una struttura architettonica che suddivide in tre parti molto precise lo spazio di
chiusura dello sfondo. Rende evidente la divisione dei tre gruppi. Tutta l’architettura spogli
rappresenta da un lato il mondo arcaico remoto in cui è avvenuta la storia, ma la sua
perfetta purezza priva di ornamenti nella sua asprezza rappresenta il rigore morale dei
protagonisti della scena. Il desiderio dei fratelli di salvare la patria è reso dal fatto che si
sovrappongono, quasi fossero un unico corpo, significano unità. Al centro, per giustificare
questa azione, c’è il padre che orgoglioso porge le tre armi su cui loro giurano. Il gioco dei
movimenti ritmico e schematico è illuminato da un’unica fonte di luce che entra da
sinistra. Le spade sono sull’asse centrale della composizione. Il gruppo costituito dalla
madre degli Orazi, dalla sorella e da una moglie dei tre sta sulla destra e riprende le pose
rinascimentali. Unisce la statuaria classica dei tre fratelli e i riferimenti alle sculture romane
anche alla luce di Caravaggio, tutto in una sintesi formale equilibrata e perfetta, che
chiarisce quello che è diventato ormai il Neoclassicismo.

22/02/2021

Riprendiamo dall’immagine del Giuramento degli Orazi: è divenuto nel corso del tempo
l’esempio più chiaro dell’esito del percorso della cultura del classicismo settecentesco, e
che da vita negli anni ’90 del ‘700 i parametri delle tematiche del Neoclassicismo, un
classicismo nuovo che caratterizza tutta l’epoca che va dal 1790 (dopo la Rivoluzione) alla
fine delle imprese napoleoniche in Europa (proseguirà fino alla prima metà dell’800). La
figura di Napoleone è simbolica di questa stagione.

Contemporaneamente, a ridosso della Rivoluzione, David presenta questo grande dipinto


di storia (di grande formato) di grande abilità tecnica: il tema è legato alla storia romana
che viene utilizzato come elemento morale. L’episodio ha traccia nelle fonti storiche ma
viene inventata come iconografia, il neoclassicismo non base i suoi valori sulla ricreazione
del passato ma sulla rielaborazione con
senso contemporaneo. “Elittori portano
a Bruto il cadavere dei figli” è un
episodio cruento, e come negli Orazi
David costruisce la scena in modo da
restituirci dei valori in cui l’architettura
ha un valore simbolico molto esplicito.
Nel caso di Bruto vediamo una Roma
repubblicana con un ambiente interno
(casa di Bruto) dove l’episodio è
sovrapposto, con atteggiamenti molto
diversi dei personaggi. il vero protagonista è Bruto seduto su una sedia che rappresenta il
potere dei senatori, sotto un idolo della dea Roma, lo stato personificato, e Bruto non
guarda i cadaveri dei figli, guarda verso di noi con un atteggiamento malinconico e tragico
ma fermo. Questo perché i suoi figli avevano tentato un colpo di stato ed erano stati
sconfitti, ed il senato aveva deciso di condannarli a morte. Bruto avrebbe potuto
intervenire, ma lui piuttosto di combattere contro lo stato rinuncia ai figli, devono essere
puniti. Il concetto di fondo è che il cittadino si sacrifica per la salvezza dello stato, David
allestisce una storia romana ma che diventa un emblema della situazione della Francia a
ridosso dei moti rivoluzionari. Questo tipo di pittura è di un classicismo quasi neo classico,
agli esordi della sua elaborazione teorica.

Girodet è un allievo di David, è un giovane artista che lavora al suo fianco ed è ancora
imbevuto del gusto tardo settecentesco, in cui c’è l’elemento classico dei temi scelti.
Vediamo esibiti tutti i caratteri della figura settecentesca, un nudo reso non monumentale,
ambientazione notturna esempio di pittoresco.

“Giuramento della pallacorda”:


cambiamento della tipologia del quadro di
storia, è un cambiamento anche per David.
È del 1791, stesso anno di quello
precedente, qui illustra un avvenimento
emblematico per la nazione: la scena di
svolge a Versailles, dove si fonda la
convenzione del terzo stato, che segna
l’avvio della costituzione del nuovo stato
francese. David costruisce un’immagine
retorica, non è una documentazione
oggettiva dell’avvenimento. Qui il neo classicismo esercita pienamente il proprio diritto a
diventare oggetto di riferimento per consolidare nella memoria della nazione dei momenti
emblematici, attraverso un sistema che mescola in modo organico forme classiche
(strutture, riferimenti a modelli antichi, posizioni personaggi) a una serie di elementi
realistici legati alla realtà contingente. Se i volti degli Orazi sono figure ideali, non hanno un
volto legato ad un individuo, nel caso della pallacorda e da qui in poi i volti dei personaggi
sono ritratti realistici, sono resi identificabili da chi guarda ma all’interno di una
composizione che rispetta delle regole, ovvero i modelli neo classici. I modelli del disegno
sono basati sulla prospettiva geometrica di tradizione rinascimentale. Si riempie la metà
inferiore del quadro di persone. Il dipinto è immaginato secondo gli assi cartesiani che
divino la tela in maniera uguale. Libera la metà superiore del quadro che viene lasciata
vuota per creare un effetto di grandiosità, l’architettura enfatizza il momento. È il
momento in cui il protagonista legge la costituzione ed alza il braccio per giurare, così
come fanno tutti gli altri sotto di lui. Fra tutti c’è lo stesso autore che si autorappresenta
mentre traccia sulla tavola da disegno il ritratto dell’oratore principale. È una perfetta
mediazione tra dettagli realistici e composizione classica.

Il punto di arrivo più potente di questo passaggio


che fa tesoro anche della cultura del sublime, il
tragico diventa parte sublime per l’occhio, è
“Marat assassinato” di David. È un’opera densa di
valori sentimentali ma una grande allegoria. 1793,
dimensione dell’opera di una pala d’altare, è tutto
risolto in un’unica figura, ovvero il tribuno Marat,
personaggio chiave del momento che va dalla
presa della Bastiglia al consolidarsi della
repubblica. Marat viene ucciso nel ’93 da una
donna sicaria, convinta che ucciso lui sarebbe
tornato il re. David decide di trasformare
l’episodio in una specie di beatificazione laica
dell’eroe del popolo: inserisce elementi
assolutamente realistici, che raccontano il luogo, il
tempo ed il perché, ma questi dettagli sono inseriti dentro una composizione
rigorosamente perfetta ed idealistica rispetto al modello classico. Immaginiamo di dividere
il dipinto in due parti uguali, la linea mediana è sottolineata dalla linea del braccio, dal
piano che gli fa da scrivania, dalla linea del naso. La linea mediana verticale finisce sulla
penna che tiene tra le dita. Riempie tutto lo spazio sottostante, la parte più vicina a noi che
guardiamo, svuotando la parte superiore. Tutto è liberato, in questo la scelta è sublime:
indica volutamente che quello che stiamo vedendo non è l’assassinio mentre avviene, ma è
subito dopo, non più nemmeno cronaca ma allegoria senza tempo, è come se fosse già
stato trasportato in un altro luogo, come se fosse già santo. Ecco perché il fondo non è
omogeneamente scuro, ma c’è una fonte luminosa di cui non vediamo la fonte che
proviene dall’alto e che lo illumina, è una luce vera ma allo stesso tempo divina. Non ci
sono però angeli, la grandezza del personaggio è dovuta alle sue scelte morali e politiche e
in questo sta la sua grandezza. Marat è in secondo piano, in primo piano c’è la cassa, che è
un oggetto modesto che testimonia anche la sua modestia: non ha un arredo ricco, usa
una cassa come scrivania. Un oggetto realistico diventa allegoria, anche per la posizione in
cui la colloca: evoca una lapide funeraria e infatti c’è sopra la dedica “A Marat”. Non ci
sono parole, esaltazioni mistiche, non c’è bisogno di dire altro. Ci sono altri due oggetti: la
penna e il coltello con la lama sporca di sangue usato per ucciderlo. Il contrario tra il
coltello e la penna d’oca ha un significato: quello che vince è la forza delle parole e non la
violenza. Appoggiato sulle lettere c’è un assegno firmato da Marat: il tribuno da un
assegno alla famiglia del caduto, che nella lettera chiede lui aiuto. Il braccio sinistro tiene in
mano una lettera sporca di sangue, in cui Charlotte (assassina) chiede di avere un colloquio
con lui (il trabocchetto per ucciderlo). È tutto delegato agli oggetti, quello che vediamo non
è la realtà ma una sua trasformazione. Anche il volto di Marat ha quiete, non c’è dolore
nella rappresentazione della morte. Solo il suo braccio non è più vivo, da il senso
dell’abbandono ma allo stesso tempo dell’eroicità. Il braccio viene dal Braccio di Meleagro,
presente in molti sarcofagi di età romana: il corpo viene trasportato e il suo braccio destro
cade come quello di Marat.

La svolta avviene con l’incontro con Napoleone da


parte di David, che ne diventa celebratore ed
illustratore. 1801, vediamo uno dei primi dipinti
celebrativi di Napoleone che proviene dalla
tradizione romana. il dipinto celebra
l’attraversamento dell’esercito francese del passo del
San Bernardo, quando attraversò le alpi per portare
la rivoluzione in Italia. La scena venne ideata da David
usando dei modelli classici, quello che lui dipinge è
un monumento equestre. Ecco che utilizza lo stesso
schema perché non gli interessa rappresentare
Napoleone statico, ma l’energia e la potenza della
volontà di Napoleone, e soprattutto col vento della
gloria che accompagna il nuovo conquistatore. Non è un vento vero, è il senso della gloria
che si va ad ottenere. Pe rendere ancora più simbolico l’avvenimento, colloca in primo
piano delle scritte sulle pietre: una ormai consunta dal tempo, mette i nomi dei due
condottieri che prima di Napoleone hanno avuto il coraggio di attraversare le alpi
d’inverno: Annibale (che sconfigge Roma), e Carlo Magno (re dei franchi che invade l’Italia
e sconfigge i longobardi diventano imperatore del sacro romano impero), e Napoleone.
Crea un filo rosso attraverso le figure dei grandi condottieri di cui Bonaparte è il
condottiero. La componente emotiva che si crea è esplicita, è un’arte a servizio del potere
che celebra un avvenimento.

Nel 1799 aveva dato vita a “Il ratto delle


Sabine”, l’avvenimento successivo, quando
gli abitanti di Albalonga cui le donne erano
state portate via cercano di conquistare la
Roma arcaica. I romani e i sabini
combattono finchè le donne, madri dei
nuovi romani, si mettono in mezzo per
portare la pace. È un’altra grande
rappresentazione della storia. La sabina, in
posizione a X, separa i due schieramenti di
combattenti. David consolida delle
iconografie e composizioni che saranno la base della più diffusa cultura accademica del
pieno ‘800.

1800, Leonida alle Termopili, dove gli spartani si stanno preparando a bloccare l’esercito.
La figura di Leonida è isolata dagli altri, ha posizione rigida e statuaria: sta schematizzando
sempre di più.

Girodet, suo allievo, ne Il Diluvio descrive l’avvenimento con


elemento sublime evidente: la tempesta, la donna che sta per
cadere con i bambini, tutte cose che porteranno al
Romanticismo e ai suoi movimenti d’animo.

In piena età sublime, lo stesso anno di Napoleone che


attraversa il San Bernardo, Girodet allestisce un dipinto
commissionato da Napoleone: si può definire proto romantico,
perché sembra non rispettare i canoni di David. Il quadro è
tutto pieno, non c’è una parte vuota, ma l’episodio principale è
comunque al centro. È una visione onirica narrativa, con
soggetto Ossian (cantore dei miti celtici e germanici) che, come
un Omero nordico, riceve nel Valhalla, accompagnati dalla gloria alata che porta i simboli
della Francia, gli spiriti e le anime dei generali di Napoleoni caduti durante le guerre
napoleoniche. Come gli antichi guerrieri, vengono ricevuti dalle divinità nordiche. È tutto
denso di leggenda, tragedia, sogno, caratteristiche del SUBLIME.

Opera di quasi 9 metri, gigantesca opera di storia, è una dichiarazione di David di come il
dipinto di storia diventi una testimonianza della contemporaneità con valore politico ed
ideologico potente. Non è l’atto di incoronazione di Napoleone, ma l’atto in cui lui
incorona la moglie come imperatrice dei francesi. Fa un’operazione rischiosa, ormai il
potere è nelle sue mani ma c’è ancora la repubblica di cui lui è il console. È evidente che
non può scegliere la strada di farsi consacrare sovrano come nella tradizione francese. Il
papa è solo testimone, non lo consacra, perché Napoleone dichiara che il suo diritto ad
essere imperatore viene dal popolo e non dal divino. Non viene incoronato dal papa ma si
auto incorona davanti a tutti quei testimoni. Incorona sua moglie imperatrice dei francesi,
non di Francia, perché il suo diritto proviene dai francesi. Impedisce così una reazione
contro di lui e sancisce una nuova dinastia con nuove caratteristiche. Per realizzare questo
dipinto David ci impiegò un anno e mezzo, perché tutti i volti sono dei ritratti, sono tutti
testimoni dell’avvenimento.

Nel 1808 Ingres (sempre allievo di David) rappresenta


Napoleone con tutti i simboli del potere, in cui sfoggia i
simboli dell’antica monarchia (ermellino, scettro con mano
d’avorio simbolo dei re di Francia). Sfoggia tutta la
dichiarazione di appartenenza ad una linea di potere che
riaffonda di nuovo nella lunga monarchia francese.

Nel Napoleone di David lo vediamo non in una gloria


militare, non su un fondo metafisico, è in uno spazio
perfettamente riconoscibile (il suo studio privato), lo
vediamo non vestito da imperatore ma con la divisa
dell’esercito. È un soldato, c’è una poltrona con una spada
appoggiata, la scrivania (tutti i simboli che c’erano anche in
Marat), l’orologio che segna le 4 (di notte, vista la candela
consumata). Perché servono tutti questi oggetti? perché ci sono dei valori simbolici già
pienamente romantici, qui Napoleone è il padre della patria, lascia la spada abbandonata
su un trono che è diventato poltrona, il suo lavoro è di gestire lo stato e lo fa sempre,
persino di notte in cui lavora per il bene della Francia. Si è alzato un momento dalla
poltrona perché noi siamo entrati nel suo spazio. Le componenti che compongono
l’immagine sono dettagli realistici ma con valore simbolico.

Vediamo un’opera di Ingres di tema mitologico, rappresentazione chiara del meccanismo


neoclassico: pulizia delle forme, colori smaltiti, regole rigide. Questo vale anche per ritratti
di contemporanei, che dal modello classico rinascimentale segnano il passaggio verso l’arte
romantica.

Vediamo nel 1814 La grande Odalisca di Ingres,


Napoleone è quasi alla fine e David ha già
preso la via dell’esilio. Anche l’arte contemporanea muta di segno, vediamo come la figura
sia completamente diversa dai modelli rinascimentali. Il corpo non rispetta i canoni della
tradizione classica, non ha le forme di una statua antica, è una donna vera che l’artista
riproduce in cui ogni dettaglio è iperealistico. Tutto questo è la trasformazione del lessico
neo classico nella grande pittura romantica.

Una delle ultime opere di David, esule e non più al


centro dell’attenzione: 1824, l’Europa in cui vive è
uscita dal congresso di Vienna dove si è tentato di
cancellare tutte le trasformazioni della rivoluzione
francese. Marte e Venere in Olimpo, tutto è
schematizzato e privo di vita, è una specie di
ripristino di un mondo perduto (quello classico) ma
completamente disancorato dalla realtà
contingente.

Ingres ha sostituito il suo maestro all’accademia:


realizza questo grande dipinto, organizzato sotto
schemi rigidissimi, il soggetto è L’apoteosi di Omero.
È incoronato dalla vittoria alata, alle sue spalle c’è
un tempio classico, i poeti di tutte le epoche
partecipano alla gloria di Omero. È un’allegoria della
poesia ma in una chiave schematica e rigida, la
pittura d’accademia sarà così. Ci sono necessarie
modalità espressive che saranno l’arma degli
accademici, che andranno contro gli impressionisti.
Nessun cedimento al realismo, pittura chiara,
smaltata e disegnata (erano le regole del Vasari).

23/02/2021

PROTOROMANTICISMO E ROMANTICISMO

Vediamo un’opera di un autore inglese influenzato dal gusto del pittoresco ma anche dalla
teoria del sublime: La Forgia, del 1780, rappresenta gli operai impegnati della forgiatura
del metallo incandescente, ma la descrizione di questo ambiente povero è iperealistico.
Studia la luce artificiale (che deriva dallo studio dei classici), l’effetto è sentimentale. In
realtà l’atteggiamento di questo artista è legato al pittoresco e l’immagine deve essere o
terribile o struggente (così com’è la figura della bambina che ha paura del calore. Può
essere struggente il chiaro di luna: sempre Derby lo dipinge nel 1784, la luna esalta un
paesaggio selvaggio e non il suo status obiettivo, ma una sorta di mistero che si nasconde
dietro la grandezza della natura selvaggia. Tutti questi elementi li ritroveremo nel
romanticismo.

Fussli è svizzero e compie il suo viaggio in Italia, è


affascinato dal medioevo. Argomento dei suoi quadri
sono le tragedie shakespeariane, in particolare Amleto e
Macbeth. Opera del 1780 che rappresenta un
avvenimento storico svizzero, il giuramento dei primi tre
rappresentanti della svizzera che giurano di unirsi per
difendersi dai nemici esterni. I tre personaggi sono come i
tre fratelli Orazi che giurano nel dipinto di David, ma sono
completamente diversi perché prima avevamo una loro
sovrapposizione, qui il centro sono le mani sinistre che
giurano; altra differenza sono i costumi, negli Orazi c’è
una ricostruzione più o meno fantastica romana mentre
qui propone una ricostruzione di abiti medievale. Anche
l’anatomia è diversa: in David è un’anatomia statuaria
antica, qui le figure allungate e sproporzionate richiamano le figure medievali.

La tensione emotiva, il sentimento ed il


terrore sono gli argomenti che Fussli ama
far emergere nei suoi dipinti, con
atteggiamento protoromantico. 1782,
opera che si intitola Streghe, è
un’illustrazione tratta da Macbeth. Il libro di
apre con un’apparizione come ne Il castello
di Otranto di Walpole. Così, nel romanzo di
Macbeth, ci sono tre vecchie che stanno
attorno al fuoco con aria minacciosa: lui si
avvicina e loro gli predicono il futuro, che gli promettono di diventare re d’Inghilterra. Gli
dicono anche da chi dovrà guardarsi, cose che per lui sembrano impossibili. Tutta la storia
Fussli non la racconta descrivendo l’ambiente o i personaggi, da attenzione solo alle
streghe: sono la stessa streghe moltiplicata tre volte, come negli Orazi di David. C’è
un’unità di intenti e di pensiero, le figure si sovrappongono elencando le profezie. La
mostruosità è data dalla mancanza di ambiente, sono illuminate da una luce che esalta la
loro terribilità e da loro parte un insetto (una farfalla notturna) che ha disegnato sopra un
teschio di un morto, profezia di morte.
Uno dei suoi capolavori è dipinto nel 1781, il
titolo è L’incubo notturno. Ne fece più
versioni perché trovò una grande attenzione
verso il collezionismo privato,
rappresentava l’inquietudine e la paura di
un secolo che stava finendo. Rappresenta
l’interno di una camera da letto in cui il letto
è circondato da tende, le cortine sono
chiuse, sopra è sdraiata una giovane donna
vestita con abito all’antica bianco. Il corpo è
allungato che non rispetta i canoni del
classicismo (è gotico). È addormentata ma è
un sonno agitato e scomposto, è tutta rovesciata indietro, il braccio come morto è
abbandonato. Rappresenta un sonno terribile di una donna agiata, eppure quello così
terribile lo vediamo su di lei: il pittore materializza il suo incubo, un mostro, una specie di
scimmia con fattezze antropomorfe (è un demone). Appoggiato sul suo ventre (riferimento
tra l’erotico e il macabro) pesa su di lei, ci da l’dea del peso del suo sogno. Non le fa nulla
ma si gira verso di noi, con un’aria tra il sarcastico e l’interrogativo. È l’apparizione
dell’anormalità nella normalità che lo affascina, la terribilità del mostro rientra nel
concetto del sublime. Le cortine si aprono ed entra quasi cavalcando un’apparizione, che è
proprio l’incubo personificato in un fantasma di un cavallo con criniera di fuoco e occhi
fatti di bulbi bianchi. L’effetto deve provocare nello spettatore emozioni, cioè il contrasto
tra la bella donna e la visualizzazione degli incubi.

Nel 90/91 ne produce una delle versioni più famosi, la donna è ancora più scomposta e il
mostro ancora più inquietante.

Il fascino che esercita questo mondo su Fussli trova ragione anche nell’illustrazione della
saga nordica legata a Thor e agli dei del Valhalla.

William Blake è uno straordinario


illustratore, a lui si devono delle invenzioni
grafiche che hanno segnato l’800 e il ‘900,
come la successione viennese e tedesca, che
ha creato dei modelli di riferimento.
Vediamo due immagini degli anni ’90,
tecnica a stampa su matrice di pietra ma
con uso di colori (se ne possono tirare
tantissimi esemplari perfetti), si chiama
litografia (?). illustrazione che rappresenta
Isaac Newton, idea che il grande scienziato non sia rappresentato con abiti settecenteschi
ma è un nudo eroico che con il compasso misura lo spazio. Vediamo l’influenza di Fussli,
Odisseo sulla prua della sua nave attraversa Scilla e Cariddi, vediamo il mostro che mangia
gli amici di Ulisse ma in questo sta il fascino della composizione.

L’anziano dei giorni è la rappresentazione di Dio nella genesi con la separazione tra luce e
tenebre con il compasso: Blake era legato a queste associazioni di intellettuali e filosofi che
si muovevano in contrasto alla chiesa, in una visione del mondo tutta legata alla ragione e
alla scienza.

Torniamo a Fussli nel suo contatto con Blake, abbiamo


un monocromo (tende all’essenzialità e al rigore della
pittura di un secolo dopo). Il titolo è “Il silenzio”, è una
figura femminile chiusa su sé stessa in un buio totale,
come fosse un buio eterno. Questo silenzio racconta la
terribilità dell’esperienza di questa figura femminile.
Abbiamo anche un’immagine che Fussli traccia seguendo
le messe in scene teatrali, vediamo la faccia spaventata
di Macbeth e la vera azione è compiuta dalla donna,
scelta protoromantica (donna terribile che ha il potere
della sua femminilità e che con quel potere gestisce gli
uomini e produce le tragedie, non si illustra il lato
angelicato e romantico, ma il carattere sublime e terribile che sta in queste figure
affascinanti nella loro terribilità).

Uno degli ultimi dipinti di Fussli è del 1810, è un


autoritratto, il titolo è “Solitudine all’Alba”. I
sentimenti sono i soggetti di questo autore. È un
autoritratto che non pone in evidenza un momento
della storia, il personaggio potrebbe essere chiunque,
un antico o un contemporaneo, non ha abiti
riconoscibili. Viene messa in evidenza la pianta del
piede e questo contrasta plasticamente con tutta la
massa scura che nasconde il corpo. Lo scorcio da sotto
in su evidenzia il collo illuminato, tutto è ancora
silenzio tranne il fondo neutro ma illuminato da
fibrillazioni di luce dell’alba che sta salendo. L’unico elemento che si pone in azione è il
cane che lo accompagna che si alza ed abbaia, lo vediamo di schiena, è il silenzio che si
rompe. È un’immagine legata ad un’iconografia antica, ha la posizione della Malinconia di
Durer, è un riferimento al carattere malinconico degli artisti per antica tradizione.
Vediamo un dipinto totalmente diverso da quelli visti fino ad ora. Il tema è il paesaggio, è
la natura ma non quella furibonda di Fussli: potremmo definirla pastorale, un genere molto
amato nell’età barocca dove la natura è sempre radiosa, serena, è il contrario del concetto
sublime. Autore è un inglese, Constable, siamo nel 1810/12. Il paesaggio che ci propone è
sereno e meraviglioso, l’acqua è tranquilla, l’erba tagliata. Questa olografica visione della
natura è come una visione di un mondo arcadico. È la descrizione di una tenuta nobiliare
nella campagna inglese, tutto intorno la natura edulcorata è perfettamente ordinata ed è
armonica con la vita delle persone, natura selvaggia ma non terrificante. È una visione
pittoresca, che ci racconta un’Inghilterra diversa: descrive un paesaggio bucolico, proprio a
fronte di un paese che ha già avviato la rivoluzione industriale da circa 30 anni, con la
costruzione di industri e ferrovie dove c’era natura.

Il carro di fieno: la sua pittura diventa più


agitata, c’è tensione nel paesaggio, il carro di
fieno si è impantanato nel fiume. Siamo nel
1821 ed è un mondo diverso quello
rappresentato da Constable.

Diventerà poi famosissimo per gli studi delle


nuvole: tutte le opere sono state donate al
pubblico diletto e sono le fondamenta del Tate
Modern Art di Londra. Li aveva realizzato en plein
air, mentre i paesaggi di prima sono realizzati in
studio. L’artista esce dall’atelier e studia la
variabilità delle luci e delle tonalità dei colori: una
delle basi da cui partiranno gli impressionisti,
l’opera d’arte diventa l’interfaccia del reale. Non
segue il disegno, con un abbozzo scioglie il colore
creando la morbidezza della nuvola che l’instante
dopo è già cambiato.

William Turner è l’altra grande figura che segna il


passaggio da proto romanticismo a realismo: è
un’opera in piena temperie sublime, è del 1803/4,
“Il ponte del diavolo al passo del San Gottardo”. Era
un passo molto pericoloso e qui Turner fa la stessa
operazione che faceva Piranesi: il quadro è tutto
chiuso dalle pareti verticali delle alpi, l’aspetto più
aspro di queste montagne che sono impercorribili,
dove insistono le nuvole ed in mezzo a queste rocce
si vede una presenza umana, un ponte in pietra costruito in età medievale (una passerella
sul vuoto), che è il collegamento tra due sentieri scavati nella montagna dalla persone che
attraversavano il passo. È un ponte che non ha barriere, è terribile e affascinante e non
solo le figure sono piccolissime rispetto alle rocce, ma c’è il furore della acqua dei ghiacciai
che si sciolgono. Questa è un’immagine sublime del paesaggio, dove il rapporto uomo
natura non è paritario, si mette in evidenza la forza dell’uomo che per quanto caparbia
riesce a dominare la natura.

1812, pieno delle campagne


napoleoniche in Europa, è un grande
quadro con titolo doppio: “Tempesta di
neve”, il secondo è un titolo da quadro
di storia, “Annibale attraversa le alpi”.
Abbiamo un soggetto storico
interpretato da Turner in modo diverso,
non c’è descrizione dell’evento, il
soggetto non è al centro e non è visibile,
il centro del quadro è vuoto, o meglio è pieno ma non del soggetto. Intuiamo delle rocce
ed intravediamo delle figure umane, dei soldati vagamente vestiti all’antica, si vedono
delle piccole sagome che tengono delle fiaccole e non si vede altro. Dov’è Annibale e il suo
esercito? Decise di colpire al cuore Roma facendo un’operazione che i romani non
avrebbero mai immaginato, ovvero attraversare in pieno inverno il paesaggio. Fu
un’impresa audace, è quello che affascina Turner ma quello che diventa il soggetto del
racconto è il contrasto tra la potenza della natura indifferente alle vicende umane (per
quanto eroiche esse siano) e che prende il sopravvento. Si intravede sul fondo un pallido
sole ma ancora dominato dalla tempesta. Sposta l’attenzione rispetto al tema storico in
una chiave assolutamente sublime e proto romantica, l’effetto che ha sullo spettatore è la
percezione della piccolezza umana che tenta un’impresa incredibile e tenta di dominare la
natura. Il tipo di pittura è rivoluzionaria, è simile a quella delle nuvole di Constable, non
rispetta i canoni. Non c’è disegno, la tela è stata dipinta senza il disegno, i color non sono
smaltati come in David o Ingres, c’è una pittura materica, sono le pennellate che
costruiscono l’immagine. Questo apre il fronte ad una pittura che restituisce immediatezza
compositiva (anche se il quadro è assolutamente pensato). L’effetto è di essere avvolti
dalla bufera.

Questo rapporto tra contemporaneità ed effetti atmosferici sono gli obiettivi che si pone
Turner. Anche lui si muove fuori dall’atelier, cerca di riportare su taccuini l’effetto di acqua
e nuvole, cercando una strada per rendere la natura avvolgente e dinamica.
1839, siamo in piena età romantica, si
intitola “la Temeraria”. Il mondo
neoclassico non esiste più, siamo dopo il
congresso di Vienna dove la modernità
viene esibita da Turner attraverso
un’immagine potentissima. Non è
un’immagine eroica, nemmeno in senso
malinconico, è qualcosa che nella sua
banalità è estremamente struggente. La
grande nave Temeraria è della flotta
inglese, aveva combattuto battaglie navali contro Napoleone, è di legno portata avanti
dalla forza delle vele e che viene portata alla demolizione. Questa meravigliosa opera di
ingegneria nautica è stata superata dalla modernità, le navi cominciano ad andare a
carbone e non a vela. È finita l’era dei grandi velieri e dei galeoni, un’epoca è finita. Si vede
questa barca in ferro con il motore a carbone, sputa fumo e cenere rossa, è un
rimorchiatore che trascina verso il molo la vecchia nave obsoleta. Rappresenta il tramonto
come elemento simbolico, illumina le nuvole che diventano dorate, i toni passano dai caldi
ai freddi costruendo profondità di spazio.

Una grande tela sempre di Turner, “Luce e


colore”, non ci fa capire il soggetto. Il sottotitolo è
Le teorie dei colori di Goethe. Utilizza la teoria dei
colori primari e comprimari e si mette in gioco
rispetto a un tema su come i colori si possano
compenetrare. Quello che vediamo è un turbinio
cromatico che ha un centro, il bianco, fonte di
luce, che con moto circolare dall’elemento più
luminoso si appoggia sui colori freddi e via via si
scurisce. C’è una scena che non c’entra nulla col
titolo, vediamo una figura a braccia aperte e una
massa scura, una roccia, sulla quale sta un
elemento verticale con forma di un serpente. È un passaggio biblico, cioè la vicenda in cui
gli ebrei fuggiti dall’Egitto stanno vagando nel deserto. Avevano abbandonato la vera fede
e allora Dio manda dei serpenti velenosi che uccidono molte persone. Si pentono, pregano
e si rivolgono a Mosè per chiedere come farsi perdonare. Dio dice a Mosè di far erigere un
serpente col bronzo, di alzarlo su una pertica e tutti coloro che si affideranno al serpente
saranno guariti. Dio salva il popolo degli ebrei ma è anche una similitudine di chi prega
davanti al crocefisso che salva la propria anima. È un’opera informale, in cui non c’è spazio
e tempo o profondità, solo movimento e luce e colore, che è anche il titolo.
Opera del 1844, mancano 30 anni alla
prima mostra degli impressionisti
eppure Turner ci da un quadro
impressionista: “Treno, vapore,
velocità”, un titolo da futurista. Il
soggetto non è il paesaggio e neppure
il treno, ma anche qui è la modernità
fatta di luce, vapore e velocità.
Vediamo il treno, intuiamo la fonte di
una locomotiva e una profondità
spaziale data dal ponte su cui corre il treno. Questa è l’Inghilterra moderna, i ponti, i treni.
Tutto è avvolto dal vapore che diventa luce e tutto insieme è movimento. Significativo è
che sia stato elaborato durante la rivoluzione industriale.

Negli stessi anni in Germania succede una cosa diversa. Friederich è un tedesco del nord
della Germania, è un protestante profondamente religioso che vede nella natura l’esplicità
di Dio. Non fece per scelta mai il grand tour, il suo ambiente è il rigore etico dei protestanti
in cui natura e dio sono un elemento unico e in cui il sublime si fa strada in modo potente.

1808, pala di Tetschen (?), sulle alpi tra Austria e


Germania. Anche la cornice è dell’autore ed è
gotica, l’arco ogivale è legato al sacrificio di cristo.
Il dipinto non è niente di sacro, non il mondo
protestante è aniconico, non rappresenta la
madonna ecc. La pala finge di essere una finestra
del castello da cui si vede una rupe con gli abeti,
sulla quale si erge piccola una scultura lignea, una
croce, collocata sulla vetta della montagna a
protezione del territorio. Per sottolineare la
fusione tra natura e religione ecco che il Cristo non
è visto di fronte, la vediamo scorciata, e il pittore si
inventa tre raggi di luce (sole all’alba) che sta
sorgendo all’orizzonte che noi non vediamo. Questi
raggi illuminano cristo e illuminano le nuvole, è la
natura che si sveglia sotto la luce del divino, gli
alberi sono come dei fedeli.

1808/09, stessi anni di prima, la Germania è travolta da Napoleone e Friederich ne è


contrario, lo vede come l’anticristo, la distruzione del mondo. “Il monaco in riva al mare” è
il punto più alto del sublime, è come se fosse la rappresentazione de il dialogo tra la natura
e l’islandese di Leopardi. È una natura
assoluta, l’unica presenza viva è vista di
spalle ed è piccolissima, guarda il
paesaggio ed ha un saio, è calvo e
appoggia il volto alla mano destra
perché sta meditando, ragiona sulla
grandezza del creato. La tensione di
questo quadro è determinato dalla
semplificazione del paesaggio: linea
della terra, linea del mare che si confonde col cielo che diventa via via più chiaro, è
l’infinito. Questo concetto di assoluto e di sublime è un elemento che attraversa tutta la
cultura europea.

“Abbazia del querceto”, 1810, la neve


si confonde col grigio del paesaggio
naturale. Nella foresta vediamo un
rudere, ma non è un rudere antico
che ci fa pensare alle grandezze
antiche, è il rudere gotico di
un’abbazia distrutta dalle guerre e
che pur nel suo moncone è grandiosa.
Intorno a questo rudere c’è il cimitero
dei monaci. C’è un corteo che porta la
bara di un confratello, il silenzio domina tutto, come muti testimoni non ci sono solo i
ruderi e le croci ma anche gli alberi, le querce, che sono rese drammatiche perché non
hanno le foglie. I loro rami sono come scheletri che rappresentano lo spirito della natura
davanti alla piccolezza degli esseri umani.

“Le bianche scogliere di


Rugen”, qui si vedono dei
testimoni (sulla destra un
suo autoritratto che
guarda verso il burrone), il
coinvolgimento è dato dai
personaggi messi di spalle.

Viaggiatore nella nebbia,


struggente malinconica
del mondo romantico,
1818, rappresentazione
dell’autore (autoritratto) che è salito faticosamente fino alla cima e quando arriva quello
che ha davanti è avvolta dal mare di nuvole che da il titolo all’opera. È una visione
grandiosa, è un impossibile confronto tra l’uomo moderno e la natura, che è esibizione
della creazione di Dio, è la consapevolezza della nostra mortalità.

Queste composizioni di figura femminile (la sorella)


creano ancora coinvolgimento, “La donna davanti al
sorgere del sole” (1818), paesaggio illuminato dai
raggi e lei in controluce apre le braccia e accoglie la bellezza della natura. Un’altra è
“Donna alla finestra”, dove si vede una giovane donna in un interno domestico con
perfetta definizione anche prospettica. È il quotidiano, la donna aspetta o guarda
qualcuno, intravediamo dalla finestra gli alberi delle barche ferme. Sono le donne rimaste
a casa ad aspettare i figli e i mariti, c’è una componente malinconica.

Naufragio della speranza, 1824, fa


riferimento a degli avvenimenti dove
alcune imprese tentarono di trovare nel
mare artico un passaggio tra oceano
Atlantico e Pacifico. La fine di molte navi è
questa, la nave è bloccata tra i ghiacci e si
chiamava Hope, la terribilità è questo mare
di ghiaccio attraversato da forze
potentissime, le lastre spaccano la
superfice ed emergono come dei titani. Gli
uomini non ci sono e sono solo rappresentati dallo scafo rovesciato.

25/02/2021

COSA ACCADE IN ITALIA NELLA PRIMA META’ DELL’800


Siamo nel Romanticismo, anche se rispetto a quello europeo abbiamo una situazione di
una visione più tranquilla, non c’è una rottura così evidente con la tradizione accademica.
Si chiama ROMANTICISMO STORICO.

I NAZARENI operano in Italia a partire dagli anni 10’ dell’800, ma non si tratta di italiani:
provengono da Germania e Austria che ad un certo punto decidono di trasferirsi qui. I
protagonisti sono Overback e Pforr. Sono i più significativi del gruppo, perché fanno parte
di coloro che hanno dato il via all’iniziativa e hanno gettato le basi per un linguaggio
unitario del movimento. Erano dei giovani studiosi di arte presso l’accademia di Vienna,
gestita da un artista di impronta neoclassica: è proprio questo orientamento che viene
proposto ai giovani artisti. Questa visione risultava limitante per i nostri due artisti: per
capire come si innesta questa ribellione pacifica nei confronti dell’accademia dobbiamo
tenere presente che in questi anni cominciano ad essere presenti elementi particolari: i
due fratelli Riepenhausen, pittori e incisori, decisero di trasferirsi a Roma dove entrarono
in contatto con l’arte italiana, ma non quella classica ma con quella del 200, 300 e 400.
Focalizzano l’attenzione su artisti come Giotto e Cimabue, la produzione tosco-romana che
va dal gotico al primo rinascimento. Come fanno a portare il loro rinato interesse per
questa corrente in Germania? Attraverso disegni ed incisioni. Danno alle stampe un testo
intitolato “Storia della pittura in Italia” (1810), con 24 tavole incise che riproducevano
alcuni capolavori. Attraverso la circolazione di questo testo, si ha la possibilità di vedere,
per quanto mediato, opere che fino a quel momento non erano tenute in considerazione.
Il progetto dei fratelli prosegue negli anni successivi fino al 1833, in cui pubblicano “Vita di
Raffaello da Urbino”: non vuole mostrare opere ma concentra l’attenzione su Raffaello,
che diviene ulteriore modello di riferimento. Noi non lo definiremmo primitivo, era in
pieno Rinascimento, e il riferimento a lui si concentra sulla produzione giovanile fino al suo
arrivo a Roma. La sua produzione dalle stanze vaticane in poi è considerata troppo
manierista. L’idea dell’artista che medita e cerca l’ispirazione (nella Madonna sistina) è
pienamente romantica, è un esempio di impostazione e soggetto romantico. Il contatto
con gli antichi maestri avvenne anche in maniera diretta: sono gli anni in cui vengono rese
pubbliche le collezioni imperiali che i regnanti avevano accumulato. I due possono quindi
vedere le opere dal vivo. Dobbiamo aggiungere altri due riferimenti: l’interesse che si
sviluppa per la cultura gotica: iniziano ad essere recuperati edifici del 200 e 300, con
attenzione per cattedrali, e questo si riversa non solo a livello letterario ma anche a livello
iconografico. L’altro elemento che non è direttamente legato all’ambito artistico ma che si
riversa nella visione dei giovani artisti è l’elemento religioso: la loro intenzione è di portare
nell’opera la tensione spirituale che sentono. In tutto ciò rientra il problema della religione
cattolica e protestante. Molti di questi artisti, giunti in Italia, abbandoneranno la religione
protestante per il cattolicesimo. Questi stimoli permetteranno ai giovani artisti di
identificarsi.
Nel 1808 artisti provenienti dalla Germania decidono di incontrarsi con regolarità e di
discutere di arte: vanno a definire i canoni che li accomunano. Il risultato di questi incontri
è la costituzione di un gruppo riconosciuto, “confraternita di Luca”, e la data è 10 luglio
1809, a un anno di distanza dal primo incontro. Le opere riconosciute come rappresentanti
del loro stile vengono marchiate sul retro, che era il marchio realizzato per il gruppo: san
Luca che legge e scrive con vicino simboli pittorici. I caratteri gotici sono le iniziali dei
fondatori, e la W nell’arco sta per verità. Loro decidono che quello che verrà rappresentato
deve rispecchiare un sentimento di verità senza finzioni ed elementi che possano rendere
difficile la lettura dell’opera: ricorrono così a elementi semplici, con disegno basilare e
pulito, con una tavolozza costituita da colori puri e lucidi che rifiutano un eccesso di
chiaroscuro ed effetto sfocato. Il risultato è analitico, quasi fiammingo. Non vuol dire però
che tutto quello che si rappresenta è reale: sono però rappresentati con chiarezza visiva
nitida e pulita.

Nel 1810 decidono di compiere il passo e trasferirsi a Roma. La sede della loro attività sarà
l’ex chiesa di Sant’Isidoro, che verrà concessa direttamente dall’Accademia francese a
Roma. Realizzano soprattutto opere religiose e ritratti.

Ma perché NAZARENI? Il motivo è che anche nel loro modo di vestirsi e presentarsi si
costruiscono un’immagine legata ad un modello spirituale e religioso di riferimento:
vestono tuniche ed hanno capelli lunghi, sembravano un Cristo contemporaneo.

I temi di Overbeck sono religiosi e vediamo come la costruzione e l’aspetto estetico dei
personaggi rimandi al primo rinascimento italiano, con un appiattimento senza contrasti
luminosi. La composizione prospettica viene annullata, non c’è movimento o complessità
dei gesti. Lo vediamo ne Il sogno di Giuseppe, in cui non c’è studio prospettico. L’angelo è
una figura statica, la nuvola è quasi un macigno, non è fluttuante.

Diverso è il percorso di Pforr: abbraccia gli


stessi principi linguistici ma affianco alla
produzione di tema religioso tutta una serie
di dipinti di soggetto storico, ambientati nel
200 e 300. Una delle opere più note è
“Ingresso di Rudolf Habsbourg a Basilea nel
1273”. Il primo impatto è che sia legata ad un
contesto fiammingo, perché lo stile è
talmente analitico e puntuale nella
definizione delle figure che ci restituiscono
proprio quelle ambientazioni. C’è mancanza
di atmosfera e riconosciamo ogni singolo personaggio. Come fa a mettere in evidenza il
protagonista? Apre una scena come se fosse una quinta teatrale, le figure di contorno si
aprono intorno a lui.

Sempre di Pforr è “Sulamita e Maria”, 1811. La


struttura è medievale, riprende gli altarini del
medioevo, con la parte superiore ad arco ogivale.
Non si tratta di una tavola mobile ma è fissa, ma
viene suddivisa in modo da suggerire questo
espediente. Una figura si trova all’interno ed uno
all’esterno. Non è un soggetto religioso, sono figure
che aveva descritto in un piccolo testo: la storia di
due gemelle, ne racconta le vicende e si sofferma
sul fatto che sposano due amici pittori, che sono
Pforr e Overbeck, che vengono sugellati nella loro
amicizia attraverso questo tipo di dipinti. L’amicizia
raccontata attraverso figure femminili torna nel
1808 in “Allegoria dell’amicizia”: si stringono l’una
all’altra, vicino ad un cane simbolo di fedeltà.
Questo disegno venne recuperato da Overbeck per
Italia e Germania: è la sua risposta, l’idea è
recuperata dal disegno e qui leggiamo i canoni
estetici proposti dal suo gruppo, con l’interesse per
la cultura del 400 e 500. Sulla sinistra abbiamo
l’Italia, con volto dolce e lineamenti perfetti e
delicati, che deriva dalla pittura del 400. Il
paesaggio è tipicamente italiano, con colline
azzurre e architettura è una chiesa romanica. A destra c’è la Germania, con lineamenti che
riprendono le incisioni di Durer, alle sue spalle una città di gusto medievale che rimanda al
gotico tedesco. Troviamo i soliti principi, colori puri e disegno netto e nitido, senza giochi
atmosferici.

La presenza dei nazareni a Roma non passa inosservata: cominciano ad ottenere delle
commissioni pubbliche, lavorano in gruppo dividendosi il lavoro. Casa Bartoldi è all’interno
di palazzo Zuccari a Roma.

La commissione delle tre stanze del Casino del principe di Carlo Massimo sono rilevanti: si
richiede un riferimento alla pittura e letteratura medievale.

1840, Trionfo della religione nelle arti. Mostra il messaggio che l’arte doveva avere, la
stretta connessione tra arte e religione. Rispetta i canoni soliti, ormai è quasi un gusto
superato ma continuano su questa strada. La
parte inferiore richiama il modello della scuola di
Atene, Raffaello. Gli atteggiamenti e le posture
sono esattamente quelli. La parte superiore è
sempre tratta dalle stanze vaticane ma dalla
Disputa del santo sacramento: la nuvola che
inquadra la figura principale è la stessa. L’altare
sottostante viene cambiato con una fontana.

Diventano dei punti di riferimento per giovani


artisti italiani, che iniziano ad allontanarsi dalla
produzione neo classica e a recuperare modelli e forme dalla tradizione artistica dal ‘200 in
poi. Il gruppo prende il nome di PURISTI. Inizia a operare già negli anni 10 dell’800, ma il
risultato teorico si concretizza nel 1843, quando viene pubblicato il manifesto postumo dei
puristi. Bianchini lo pubblica per rispondere alle accuse mosse nel tempo ai puristi e di
mostrare i loro punti di vista. Il testo venne poi sottoscritto da Overbeck e da due artisti
italiani puristi: il primo è Tommaso Minardi. Era
una figura riconosciuta, non era l’artista
bohemien, questo perché la loro attività era sul
solco della tradizione: mantengono alcuni
elementi del neoclassicismo ma con elementi
romantici. In “Artista in soffitta”, c’è un
autoritratto, la stanza è cupa e disordinata, da’
l’idea dell’antro dell’artista. Vicino a lui gli
strumenti di lavoro ma anche gli elementi
simbolici, il teschio di bovino. Sottolinea che non
era solo un artigiano, ma sia una figura che riflette
e medita. È vestito in abiti eleganti, quella che
vediamo è l’immagine romantica dell’artista. Le
sue opere seguono il filone visto fino ad ora.

1840, Madonna del Rosario: pur mantenendo le stesse


idee, l’atmosfera è differente: abbiamo un’opera
costruita su modelli del ‘400 italiano, costruzione
piramidale, riconosco il rosario ed il giglio simbolo di
purezza, agnello simbolo di sacrifico, tutto è chiaro e
semplice, schematico, con il classico paesaggio
all’italiana alle sue spalle.
L’altro artista purista è Mussini: in “Musica sacra”, soggetto
religioso, c’è angelo cantore che rivolge il suo canto a Dio. La
composizione (più fredda di Minardi), è comunque molto simile.
Abbiamo un loggiato ed un’apertura che ci fa vedere il
paesaggio.

Il secondo protagonista purista, firmatario del testo di Bianchini,


è Tenerani: si occupa di scultura. È un artista che, come i pittori,
si muove nel classico ma con gusto romantico: sceglie soggetti
mitologici che si caricano di sentimento verso i temi romantici. È
tutto descritto con pacata rassegnazione, lo svenimento non è
scenografico ma controllato (di matrice classica). Stiamo
parlando di Psiche svenuta, 1836. Il corpo è reale.

Era allievo di Bartolini, considerato lo scultore per eccellenza di questa fase. Ne


L’Ammostatore, 1816, raffigura un giovane nudo intento a pestare l’uva. La posizione della
figura, il braccio appoggiato sul fianco, è un riferimento alle composizioni di David: non
abbiamo l’idea dell’eroe ma si recupera la postura.

“La fiducia in Dio” è realizzata su commissione, sempre


Bartolini. Crea una sorta di allegoria, è un’adolescente
inginocchiata e nuda che guarda verso il cielo con fiducia,
cerca l’aiuto di Dio, l’atto di preghiera è accennato
dall’incrocio delle mani. I modelli di riferimento sono classici
e neo classici (Canova). Quello che un artista neo classico non
avrebbe fatto è utilizzare questa bellezza naturale, non
idealizzata. Vediamo la piega sul ventre, così come nel retro
possiamo vedere le pieghe dei piedi schiacciati dal peso della
donna. Le imperfezioni vengono attutite ma comunque
suggerite, per rendere tutto naturale.

Sempre di Bartolini, Tomba della principessa


Sofia Zamoyska, un monumento funebre che
non fa riferimento a Canova ma a quelli
rinascimentali, con arco a tutto sesto ed un
tondo con la madonna. Al di sotto della
struttura c’è la scultura che ritrae la defunta,
non è un’immagine idealizzata, non è la giovane
principessa ma è in letto di morte. Ha il volto
scavato per la malattia, le mani tese e contratte,
il dettaglio è molto marcato, il velo che copre la testa si muove nella parte inferiore. Il
lenzuolo non copre le gambe ma fa vedere la loro magrezza scheletrica.

Arriviamo ad Hayez, considerato il padre del nostro romanticismo. È un artista riconosciuto


come tale dai contemporanei, non abbiamo un artista ai margini della società, si è formata
secondo i canoni della tradizione accademica e che su questa ha costruito un linguaggio
alternativo. La sua espressione artistica viene riconosciuta senza troppe critiche. La sua
produzione artistica si muove verso un indirizzo politico, è uno dei sostenitori dei moti
risorgimentali. Le sue opere hanno valore politico risorgimentale.

Segue un percorso tradizionale a tutti gli effetti: nasce a Venezia e studia all’accademia,
entra in contatto con il direttore che insieme a Canova erano i rappresentanti della visione
neo classica in Italia.

Nel 1809 vince un concorso che lo fa trasferire a Roma per poter proseguire i suoi studi nel
cuore della cultura classica. Nel 1812 partecipa a un concorso che aveva come tema il
Laocoonte, classico e mitologico, che gli artisti dovevano reinterpretare per ottenere il
premio. La scelta che fa è particolare, perché pur inserendosi nel gusto neo classico non si
limita a riproporre il complesso plastico. Decide di dare alla scena maggior respiro, non si
concentra solo sulla tragedia ma li inserisce in un contesto corale, con effetto scenografico
studiato ed originale. Il Laocoonte è il protagonista ma non è una citazione diretta: dal
punto di vista compositivo colloca sul fondo una città in lontananza, fa riferimento ad un
dipinto di Poussin del ‘600. Se Hayez non fa riferimento al Laocoonte, fa riferimento ad
altre statue, come ad Ercole e Lica di Canova. È un esempio di come elementi estranei
vengono fatti propri e riutilizzati all’interno del dipinto. È un passaggio di riutilizzo che
ritroviamo molto spesso nelle sue opere, soprattutto nelle opere giovanili.

Nel 1812 inizia a lavorare a Rinaldo e


Armida. Dopo il 3 anno di accademia
doveva realizzare un’opera per
confermare le capacità. Il tema è tratto
dalla Gerusalemme liberata. In questo
caso il riferimento canoviano lo
ritroviamo nella posizione di Armida
(Paolina Bonaparte), ma l’atmosfera a rarefatta guarda al ‘500 veneziano.
Concorso che accademia di San Luca di Roma aveva
bandito, per il quale Hayez presenta “Atleta
trionfante”. Modello neo classico, si parte da una
composizione antica per riadattarla: il nudo non è
eroico, è una figura reale ed umana, l’immagine è
chiara e nitida. Accanto a lui c’è il discobolo, il disco
utilizzato durante la gara. Ambientazione classica con
colonne scanalate, con luce diretta che illumina la
figura, mettendo in evidenza la muscolatura e che
mette in ombra il resto. Si conclude la fase giovanile di
Hayez, esce dall’accademia ed inizia la sua attività.

Tra le prime commissioni: Ulisse alla


corte di Alcinoo, 1814. La scena è
mitologica, Odissea, momento in cui
Ulisse si rivela al gruppo invitato da
Alcinoo al banchetto, piangendo per il
ricordo della sua patria lontana. Idea del
profugo che sente dolore per
lontananza dagli affetti. La
composizione riprende Raffaello.
Riferimento anche alle figure femminili
di Canova. Continua ad utilizzare il riutilizzo anche fuori dall’accademia. Rispetto alle opere
precedenti c’è padronanza dei grandi spazi, composizioni sempre più complesse.

Quello che segna l’effettivo


raggiungimento del neoclassico
romantico bagnato da temi storici è il
dipinto “Pietro Rossi prigioniero degli
Scaligeri”, 1818. È un episodio storico che
sembra una rappresentazione teatrale. Le
due donne implorano il padre e marito di
non partire, di restare in famiglia. La fine
dell’eroe la sappiamo dal titolo.
L’ambientazione è precisa e riconoscibile,
castello di Pontremoli. In ombra rispetto
al gruppo principale c’è un gruppo che parla tra loro. Dalla porta vediamo il castello e
l’esercito che si sta preparando.
Alternativa alla pittura di storia politica è quella
romantica. “Ultimo bacio di Giulietta e Romeo”,
interesse letterario che va verso l’esaltazione del
sentimento, delle storie tormentate. Racconta
sempre con attenzione per il dettaglio analitico e con
veridicità ambientale, vuole abbassare il livello
emotivo contenendolo in una composizione precisa e
puntuale. Gli amanti si baciano ed intorno una stanza
medievale, con alle spalle la balia che tiene in mano il
lumino e alla finestra vediamo l’alba. È giunto il
momento della separazione. Un altro elemento che
tornerà è l’attenzione per la resa dei materiali: la
stoffa si illumina e da’ l’effetto cangiante tipico dei
panneggi di seta.

Venere che scherza con due colombe, 1830, è l’esempio che non segue più tanto
l’atteggiamento neo classico. Essendo un soggetto mitologico, avrebbe dovuto mantenere
alcuni canoni estetici, ma Hayez mostra l’effettiva carnalità del modo femminile. È una
donna concreta e reale, riconoscibile per quanto camuffato sotto l’aspetto di Venere.

Veniamo a dipinti di storia che


mostrano in maniera evidente
l’operazione che compie con questo
tipo di pittura: veicola messaggi di
natura politica. “I profughi di Parga”
sono ispirati ad un poemetto che
racconta di storia contemporanea,
decisione dell’Inghilterra di cedere
territori al potere dei turchi. I
cittadini decisero di non sottostare
alla volontà del dominatore e di
fuggire, per trasferirsi a Corfù e Cefalonia. La storia di questo gruppo viene raccontata in
maniera precisa e con atteggiamento da regista teatrale. Sullo sfondo la città vuota inizia
ad essere data alle fiamme, l’esercito ottomano si muove sul fondo. Sulla riva c’è il gruppo
in attesa delle barche, mentre in primo piano il gruppo di protagonisti che attraverso le
scelte di Hayez raccontano la storia, mettendo in evidenza il dolore e la necessità di
rispondere a un sopruso, ma non con la rivolta ma con la rassegnazione. Abbiamo elementi
di grande pathos emotivo, la figura che raccoglie della terra da portare con sé, donna che
abbracci albero, uomo che guarda verso l’alto con la speranza un giorno di poter ritornare.
La figura del religioso della chiesa ortodossa rappresenta la spiritualità che si contrappone
ai musulmani invasori. Nessuno si rivolge verso di noi, tranne una ragazza nell’ombra
dietro la figura materna e la figura sdraiata su un lato, che tiene in mano un teschio (si
portavano dietro i defunti da riseppellire) e disegna una croce per sottolineare contrasto
con oppressori. Quest’esasperazione fa sì che non ci sia un trasferimento del pathos verso
chi guarda. Viene fuori un sentimento di condivisione nei confronti dei profughi. Siamo
negli anni in cui i moti risorgimentali cominciano a prendere piede, la voglia di liberazione
dallo straniero.

In “Pietro l’eremita incita i lombardi


alla prima crociata”, 1828, la scena è
il momento in cui Pietro si presenta
alla popolazione dei paesini per
convincere gli uomini a seguirlo e ad
unirsi ai crociati. Lo pone al centro,
l’abito scuro tenderebbe a
nasconderlo ma punto su un
contrasto cromatico con il candore
del mulo che lo sostiene e con la
bandiera bianca con la croce che
agita. Tiene in mano la croce di legno rossa per richiamare alle armi il popolo cristiano,
presente anche nel castello ed in mano ad uno dei convinti del paese, e come quella
venerata dal penitente in primo piano (creato da un incrocio di radici). Anche qui è tutto
costruito secondo ottica scenografica, con controllo razionale.

I vespri siciliani, episodio storico ma mutuato attraverso testo scritto. Diedero origine alla
rivolta siciliana nel 200. Episodio si svolge nel cortile, quando una giovane sposa viene
trattata in maniera non consona da un soldato francese. Il fratello della giovane lo uccide
ma la drammaticità non si percepisce così tanto, sembra un balletto. C’è sempre idea dei
moti rivoluzionari.

Più tardo è “Gli ultimi momenti del doge Marin


Faliero sulla scala detta del piombo”, 1867. È tutto
basato su composizioni a contrasto, con in primo
piano il doge, il boia sta già brandendo l’ascia.
Intorno a lui i paggi portano via gli abiti ufficiali. Sulla
sommità della scalinata, sempre in abiti scuri, la
moglie del doge che chiede di salvare il marito. Non
si tratta della volontà di sostenere l’omicidio, ma è
considerato un esempio di come lo stato sia disposto pure all’uccisione pur della
democrazia.

Altro filone parallelo rispetto a quello storico: “La Malinconia”, 1842. Utilizza come
riferimento la figura femminile che diventa figura allegorica. Ne fa diverse versioni ma con
stessi elementi stilistici. Ci guarda con sguardo triste che esprime sentimento malinconico,
abito dettagliato che scende da una parte e mette in evidenza le spalle, quindi l’incarnato
pallido della donna. Nella versione più grande, la figura è bilanciata dalla natura morta che
rispecchia nel fiore appassito il suo sentimento. Queste opere si caricheranno di sentimenti
patriottici.

“Meditazione sulla storia d’Italia”, 1850. Figura


allegorica tra il biblico e il mistico, che si mostra al
pubblico seduta su sedia medievale con abito che
scende e scopre uno dei seni, contempla un libro,
una sorta di Bibbia che in realtà è il racconto della
storia d’Italia. L’immagine che vediamo è la
rappresentazione della meditazione sulla disfatta
dei moti italiani. La seconda versione con la croce è
realizzata su commissione: sul libro c’è scritto stato
italiano, mentre la croce presenta le date delle
cinque giornate di Milano.

Arriviamo a Il bacio, 1859. È un dipinto che non ha


nulla a che vedere con temi politici ma in realtà
anche in questo caso è un modello che sottende a valori politici. Il saluto tra i due amanti,
abbiamo figura di un ladro o una figura legata al mondo sotterraneo che bacia la sua amata
ed è pronto per fuggire, con ombra che si sta avvicinando alla coppia. Non ha solo valori
romantici per la scelta cromatica e la data. Viene realizzata in prossimità di un accordo che
libera il nord Italia dagli austriaci. Celebra il patto di amicizia tra due fazioni per scopo
comune, tra Francia e Italia. Italia è l’uomo, calzamaglia rossa e sotto compare il verde. Lei
azzurro con manica bianca, ecco quindi che in maniera sottile e non esplicita Hayez passa il
messaggio di libertà. Questo emerge ancora di più nelle versioni successive, in cui il
riferimento alla bandiera diventa ancora più evidente, il bianco non è più solo sulle
maniche ma sul panno bianco steso sulla scalinata.

Alcuni suoi ritratti: li realizza per borghesia ed aristocrazia lombarda, sia in ambito
femminile che maschile, con ritratti dei protagonisti della nascita dello stato italiano. Nei
ritratti mostra capacità di rappresentazione della sfera emotiva e personale delle persone
ritratte, usando piccoli dettagli per far capire il carattere e l’elemento personale dei
protagonisti.

01/03/2021

Bisogna fare un passo indietro per comprendere cosa accade nell’età romantica.

Francisco Goya è un ponte, come lo è Fussli o David, tra una


cultura tardo settecentesca verso una sensibilità e
attenzione sia dal punto di vista dei temi che dal punto di
vista dell’espressione stilistica. Apre una stagione di grande
attenzione e di uscita dagli schemi, con una volontà di far
entrare la vita reale (intesa come avvenimenti della storia
contemporanea) e aprire la strada a tutto quello che è quel
mondo sconosciuto dentro l’animo umano. Appartiene alla
vecchia generazione, è nato a metà del 1700 e morirà nel
1822. La sua esperienza si caratterizza dal Grand Tour che
compie in Italia e rientrato a Madrid riesce a entrare nella
corto borbonica a candidarsi come pittore di corte, per
avere una committenza fissa (sostituisce Mehns).

Vediamo una sua incisione, nel corso della seconda metà del ‘700 hanno molta diffusione
perché i costi sono contenuti e sono il mezzo di diffusione più ampio per la circolazione di
idee. Nel 1792 esce una raccolta di una 50ina di fogli che si intitola “Capricci”. sono delle
tavole che hanno anche delle didascalie che illustrano cosa sono ed hanno come temi le
streghe, gli incubi notturni, figure mostruose. Non è tanto il contenuto (che sarà poi
oggetto della pittura simbolista), ma fondamentale è analizzare il frontespizio dei capricci:
questo è la sintesi del contenuto di questo volume ed ha un titolo che recita “il sonno della
ragione genera mostri”. Vediamo un tavolo da lavoro con a terra della cartelle di disegni ed
incisioni, è un tavolo da lavoro che l’artista utilizza. Appoggiato, una figura maschile con
abiti tardo settecenteschi che, appoggiando la testa, si addormenta. È Goya che alla fine
del lavoro si addormenta e, in questo istante, dalla sua mente esplodono (è come se
vedessimo qualcosa che lui vede dentro di sé) e si materializzano immagini strane,
capricciose: vediamo una maschera urlante, delle zampe di cavallo, un suo autoritratto e,
intorno nell’oscuro della camera, si vede un gigantesco pipistrello, emblema della notte.
Probabilmente conosce l’incubo di Fussli. Il tavolo ha un’iscrizione che richiama il Marat
assassinato. Nell’incisione finale sparisce il suo volto, la ragione nel sonno tace e dentro di
lui prendono il sopravvento le sue paure incosce. Diventa un’allegoria di quel momento di
crisi della cultura illuminista del ‘700, siamo a ridosso della rivoluzione francese, e si coglie
che la ragione non può tutto (quello che pensavano gli illuministi), non può gestire
qualunque aspetto della vita umana. Quando la ragione tace emerge qualcos’altro, che
sarà proprio il fondamento della cultura romantica.

All’interno della sua produzione per


la corte spagnola (i capricci erano un
prodotto commerciale e non hanno
una committenza) ci sono dei dipinti:
una delle opere più famose è un
doppio ritratto, “Maya desnuda e
Maya vestida”. È del 1799/1801, il
committente è notissimo a corte
borbonica ed era il primo ministro,
Manuel Godoy. Era un amante
riconosciuto della regina e si fa realizzare da Goya queste due tele legate ad un
allestimento di un gabinetto privato in cui Godoy aveva fatto portare dalle collezioni reali
una copia della Venere di Urbino di Tiziano e una Venere allo specchio di Velasquez. Due
figure femminili nude e sdraiate, chiaramente la stanza era privata in cui esalta la passione
per le donne. In questo salottino fa collocare queste due tele fi Goya una sovrapposta
all’altra: erano montate su una cornice a scorrimento, quella vestita veniva fatta scorrere e
compariva quella nuda in posizione di Venere. Rispetto a Tiziano e Velasquez, il nudo di
Goya (pur rispettando i canoni della tradizione rinascimentale), il corpo è ripreso dal vero:
le proporzioni anatomiche sono realistiche, Goya esce dai limiti imposti dalla tradizione
come se, partendo dallo schema classico, l’avesse imbevuto di vita vera e reale. Il titolo
Maya non è un nome proprio, le Mayas sono delle specie di prostitute, è un nome generico
che indica l’esuberanza della giovinezza.

Nel 1863 un grande artista francese, Manet, presenta a un Salon a Parigi “Olimpia”, che è
chiaramente desunto dalla Maya
desnuda di Goya. Creò uno scandalo
enorme perché il nudo era realistico e
il suo atteggiamento è
contemporaneo, non è una Venere,
tutti la conoscevano. Il fatto che
venga esibita per come è è qualcosa
di insopportabile. Certe forme che
Goya vengono riprese 50 anni dopo
nel realismo.

Vediamo due sue grandi tele che realizza quando le truppe napoleoniche sono sconfitte e i
francesi si ritirano dalla Spagna, comincia la fine delle imprese napoleoniche. Li realizza per
rabbonire i Borboni che sono tornati a
prendere il potere in Spagna. Goya
aveva abbracciato le idee della
rivoluzione contro la monarchia
borbonica ancora legata
all’inquisizione. Poi erano accaduti dei
fatti che gli avevano fatto capire che
un esercito che invada è pericoloso,
l’esercito napoleonico si era inserito
con repressioni violente ed aveva
deluso Goya. Negli anni ’90 era
diventato completamente sordo e il suo
isolamento diventa sempre più tragico.
Le tele rappresentano momenti anti
eroici: sono momenti in cui la spagna
reagisce alle imprese di Napoleone:
hanno lo stesso titolo: “il 2 maggio 1808
a Madrid. Si vedono degli spagnoli,
gente del popolo che avevano accolto le
truppe napoleoniche qualche mese
prima come liberatori ma da cui poi
vengono saccheggiati ecc. Ora si
ribellano ai Mamelucchi, truppe prestate dall’impero ottomano che uccidevano e
saccheggiavano. Si scatena una rivolta popolare e si vedono gli spagnoli che fanno azioni
violente e dinamiche profondamente realistica, al di fuori delle battaglie che rispettavano
regole canoniche. La realtà non viene abbellita ma si presenta per quello che deve essere.
La seconda tela è ancora più evidente ed è chiamata “La fucilazione alla montagna del
principe Pio” (+ data 3 maggio 1808). C’è una reazione feroce delle truppe napoleoniche
che rapiscono dei ribelli, che vengono portati fuori dalla città sulla montagna e vengono
fucilati. È uno dei capolavori della pittura moderna, è una delle basi di trasformazione
dell’arte ottocentesca. Qui Goya riesce a centellinare e purificare quello che aveva
acquisito in Italia: quello che ha in memoria è il ciclo della cappella Contarelli di Caravaggio,
nello specifico La vocazione di Matteo, in cui un fascio di luce vera entra nella taverna ma è
anche mistica. Questa idea ed esperienza visiva diventa per Goya un punto di partenza per
trasformare una fucilazione di massa in qualcosa di anche mistico, assoluto, come se quello
che abbiamo davanti non fosse solo il 3 maggio 1808, ma anche tutte le fucilazioni di tutte
le guerre. Il soggetto non c’è, non è al centro, è spostato a sinistra rispetto ad un’asse
immaginario. La parte superiore è un cielo vuoto ed è la parte sottostante che è piena
(come nel Marat di David). Le figure si sovrappongono, creano profondità. Non vediamo i
volti dei soldati, perché la loro sovrapposizione (sembrano uno che si moltiplica) rende i
soldati non colpevoli, fanno solo i soldati e quello che gli viene indicato, è il braccio armato
di un potere che non vediamo e che non è in loro. È la volontà del potere di schiacciare
ogni libertà che si personifica nel plotone di esecuzione, di cui non vediamo i volti ma solo
l’azione. Al centro al posto del protagonista mette un cubo bianco, una lanterna, che nella
sua forma è una fonte luminosa che mette in contro luce i soldati, e illumina il gruppo delle
vittime (alla Caravaggio). Hanno tutti atteggiamenti diversi, c’è chi si spaventa, chi si
arrabbia, chi prega: sono atteggiamenti diversi che tutti esprimono, i corpi ammassati di
coloro già uccisi perdono quasi volume. Domina un uomo di colore, non è la figura
dell’eroe biondo caucasico, è un appartenente ad una popolazione del sud della spagna
che alza le braccia e la luce esalta la sua camicia bianchissima. Alza le braccia per offrirsi
alla fucilazione ma evoca la crocifissione. C’è intelligenza compositiva tra crudo realismo e
riferimenti simbolici.

Vediamo Manet che nel 1867 realizza “la Fucilazione


di Massimiliano d’Asburgo imperatore del Messico”. I
soldati sono posizionati come in Goya.

In una tela di Picasso, “Il massacro in Corea”, è la


rappresentazione di avvenimenti che si stavano
svolgendo in quegli anni in cui le vittime sono
diventate donne e bambini ed i fucilieri, le truppe
americane, sono figure meccaniche che sparano alle
vittime indifese, l’idea è ancora quella di Goya.

Ultima opera di Goya è “Saturno che divora i propri


figli”. Data gli ultimi anni di vita di Goya, sono una serie
di pitture murali ad olio su pareti, sono un ciclo di
demoni che realizza nella propria casa (conosciuta
come la casa del sordo, che era lui). La sua chiusura nei
confronti del mondo esterno è simboleggiata da queste
opere del 1821/23. Era l’immagine che si trovava
davanti al suo letto, è inquietante e terribile.
Rappresenta il tempo che divora sé stesso, Saturno è la
rappresentazione del tempo e il mito racconta che
essendo marito di Gea, la terra, con cui generava figli
tutti i giorni, gli viene predetto che uno dei suoi figli gli
farà del male. Così ogni giorno quando la moglie
partorisce lui divora i suoi figli per salvarsi. Mette in
evidenza la follia di Saturno, divinità antica ma vecchio
con occhi dilatati dalla follia e capelli scarmigliati. Il suo
corpo è una massa di titano ma quasi macilento, che
afferra un corpo a cui ha già staccato la testa ed un braccio. La pittura che utilizza è una
tecnica che, ancora di più rispetto alla Maya, è materica, non c’è un disegno, le forme sono
blocchi di pittura stesa anche con dita e spatole, è come se la figura del folle si stesse
sciogliendo davanti ai nostri occhi e diventasse un tutt’uno col fondo nero e buio. È molto
malato ed ha visto passare davanti a sé la storia. Anche queste opere avranno influsso su
Picasso.

Prendiamo in considerazione due artisti che


simboleggiano il passaggio all’età romantica:
Gericault e Delacroix. Vediamo un autoritratto di
Gericault, un giovane uomo in una soffitta con
atteggiamento malinconico, è il carattere che
contraddistingue gli artisti. In questa povera
soffitta vediamo gli oggetti dell’artista, la
tavolozza, il teschio, il gesso antico. Inizia come
tutti un percorso accademico alla fine del ‘700, ne
vediamo un dipinto di inizio 1800, I domatori di
cavalli, si sente ancora influenza di David.

Proprio rispetto a David c’è quest’opera del 1812


che rappresenta un ufficiale napoleonico che
riprende il Napoleone di David. È una scena eroica che si svolge in un furore della battaglia
in cui però tutto quello che lo circonda rende oscura la scena dello scontro.

1814, prima sconfitta di Napoleone, presenta al Salon


un’opera che dimostra una crisi dentro al suo
atteggiamento: “Il corazziere ferito si ritira dalla
battaglia”. Non è tanto il modo di rappresentare il
soldato, dettagliato, ma fa la differenza i soggetti: il
concetto di eroismo è venuto meno, si rappresenta il
retroscena della guerra.

Questa visione anti eroica trova il suo punto di arrivo


nel suo capolavoro, “La zattera della Medusa”,
1818/19, riscosse un’enorme reazione sia positiva che
negativa. Ha una base di 5 metri ed è alto 3, è come
se fosse la contrapposizione all’Incoronazione di
Napoleone di David.
Rappresenta un fatto di
cronaca, non propriamente di
storia politica: con la crisi della
Francia caduta dopo Waterloo,
sale al trono Carlo X che però
Gericault per rendere visibile
la perdita di centro della
Francia post-napoleonica
rappresenta questo
avvenimento di cui aveva letto
sui giornali. Una nave francese,
governata da un ufficiale incapace, stava seguendo le coste africane e si era incagliata al
largo delle coste del Senegal. Per salvarsi i marinai costruiscono una grande zattera perché
le scialuppe se le sono prese gli ufficiali, lasciando a morire i marinai. Cercano di salvarsi su
questa zattera che viene trascinata verso il largo e vagano per circa 3 mesi nell’oceano.
Molto muoiono e altri vengono mangiati per sopravvivere. I pochi sopravvissuti vengono
trovati da una nave mercantile francese. È un’allegoria anche della crisi politica francese,
che non sa dove andare. Per rendere realisticamente i corpi morti e divorati, va per molti
giorni presso le camere funebri degli ospedali e studia i cadaveri. Gli causerà una malattia
mentale e depressione (non solo questo). La zattera è piena di immagini terrificanti, data la
dimensione i corpi sono più grande del vero e il rapporto con lo spettatore è violento. La
zattera, fatta di assi dello scavo della nave, invece che essere posizionata parallela a noi
sull’acqua è piegata in modo che un angolo di questa piattaforma sia non solo rialzata, ma
l’angolo esce anche dal quadro. Il mare sta crescendo nella tempesta e rende l’immagine
instabile, penetra tra le assi che si stanno aprendo. Succede che nella composizione crea
dei gruppi secondo la logica che David aveva usato: due gruppi, uno più vicino allo
spettatore che è rassegnato alla fine, un secondo gruppo che si alza come effetto a
piramide perché uno di loro ha intravisto una nave nell’oceano, unica speranza di vita.
nonostante siano moribondi, uno spinge l’altro finché quello più in alto sventola una
bandiera per farsi notare. L’albero inclinato e la vela che si gonfia forma un altro triangolo,
ovvero la perdita definitiva contro la speranza. In mezzo c’è un vuoto, fu una delle prime
accuse che ricevette. Lui il vuoto l’ha creato apposta. Dietro c’è uno studio attentissimo di
ogni personaggio. Quando lo accusano di non aver rispettato i canoni accademici, spiegò
che non è vero e che il quadro ha molti riferimenti all’arte del passato, riprende i corpi
dalla scultura classica o dalla sistina. Usa dei dettagli che, pur partendo dallo schema
antico, trasforma questi corpi in contemporanei, il suo nudo non è eroico ma vero, come il
copro del giovane morto a cui sono rimaste le calze: non è per niente astratto, è reale.
Prende modelli della tradizione e ne scompone il risultato, facendo entrare un senso
tragico e simbolico (Francia naufragata che non trova una sua salvezza) attraverso una resa
della realtà che entra nella composizione.

Negli anni a ridosso del 1820, si rivolge al suo medico


curante che lo indirizza verso uno psichiatra che si
chiama Eschirol, che lo terrà in cura per un paio d’anni
(poi muore). Mentre è in questa casa di cura realizza
una serie di tele (ne abbiamo solo 5 ma erano una
20ina), con l’idea di realizzare un manuale illustrato
sulle malattie mentali. È la base della teoria che le
patologie psichiche siano identificabili dall’aspetto
fisiognomico delle persone e da atteggiamenti. Un
criminologo torinese del 1800 teorizza questa teoria
pericolosa e vincolerà molta della scienza medica tardo
ottocentesca: da questo nascerà il metodo di Morelli che teorizzerà che le opere anonime
del passato siano identificabili dai dettagli. Tornando a Gericault, vediamo degli eccezionali
dipinti realistici (mondo neoclassico abbandonato). Vediamo una donna anziana
abbandonata per tutta la vita in manicomio, o un’altra con la malattia del gioco. Uno ha la
mania del comando ed un altro è un ladro, sono tipologie umane che lui studia dal vero e
cerca di vedere le caratteristiche che si ripetono.

Un autoritratto prima di morire è già quasi un teschio. Realizza poi un ritratto di Lord
Byron: diventa l’idea del poeta romantico, i capelli agitati dal vento.
Delacroix diventa la stella nascente dopo la morte di Gericault, anche lui studiando dal
vero, come in uno studio di una ricoverata di manicomio.

Al 1825 appartiene “Orfana al cimitero”, uno studio di


ragazza che occupa tutta la tela dove Delacroix cerca di mettere insieme dei modelli
neoclassici ma intrisi di elementi reali, veri e legati ad uno studio degli ambienti e degli
atteggiamenti legati al vero.

Anche il giovane Delacroix deve farsi conoscere e nel 1826 realizza questo Dante e Virgilio
sulla barca di Caronte. È un’immagine di invenzione. Lo spumeggiare del mare è ripreso
dalla zattera.

Un punto nodale è questo: sono due quadri del 1824, anno della morte di Gericault,
entrano due titani della pittura francese: Delacroix e Ingres (allievo di David), che nel voto
di Luigi XIII riprende i modelli della tradizione, ha come modello Raffaello, con una pittura
perfetta, smaltata ed accademica; tutto questo contro Delacroix con la pittura che parla
degli avvenimenti contemporanei e che ragiona sui rapporti col vero.

02/03/2021

Riprendiamo dalle ultime opere viste ieri: abbiamo di fronte due


percorsi totalmente diversi. Nella pala d’altare “Il voto di Luigi XIII” di
Ingres c’è una composizione accademica, a rendere ancora più esplicito
il gioco di rimandi ai modelli del passato ci sono due bambini che
reggono una targa e vengono da Raffaello. C’è un riferimento colto ma
con le regole della pittura accademica.

Nell’opera di Delacroix il tema è la guerra greco turca di proprio quei


mesi dell’800. Il quadro fa riferimento a un avvenimento di cronaca a
cui partecipa anche Lord Byron, dove l’esercito turco mette in campo una repressione
contro la popolazione locale. L’artista imposta un dipinto che vuole avere il sapore della
testimonianza di guerra, ma attraverso il formato da dipinto di storia gli da’ la dignità di
un’immagine intrisa di valori di carattere morale, etico, che smuovono però anche la pietà
e l’emozione del pubblico europeo. la scena è tutta portata in primo piano, non è una
veduta del campo di battaglia, che fa solo da
sfondo. Davanti a noi ci sono una serie di figure
in posizione non casuale, è tutto studiato per
creare degli effetti. Notiamo che seguendo la
logica della Zattera, il centro del dipinto è
vuoto, non rispetta le regole. Dal centro vuoto
si sale ai lati per riempirlo. Troviamo degli
episodi, le figure raccontano delle storie che
sono connesse e disconnesse: a sinistra
vediamo un uomo baffuto che indossa dei
costumi greci che si tiene il braccio ferito, è uno
dei combattenti fatto prigioniero. A questo si
attacca una donna, la compagna, e in primo
piano i due figli che si abbracciano: è il topos
della famiglia, è un meccanismo narrativo che
fa parte di un repertorio tipicamente tradizionale, il racconto dell’eroe e della famiglia che
si stringe intorno a lui. Più avanti un altro greco ma nudo e ferito: è nudo in quanto una
rappresentazione volutamente eroica, è lo spirito del popolo greco sconfitto ma non per
sempre, dentro c’è la forza della resistenza, a cui si lega l’immagine della moglie che è
abbandonata ed è la Grecia personificata ed afflitta. Si contrappone un gruppo centrale
abbassato di due che si abbracciano, amore che lega le persone. A destra c’è una scena
ancora più tragica: una giovane donna morta sulla quale il figlio piccolo cerca il seno per
prendere il latte, è un’immagine che si trova anche nella pittura settecentesca (la vediamo
anche in una pala di Tiepolo). Dietro c’è una vecchia donna greca, contrasto, è stata
risparmiata (come in Canova la ragazzina che sta entrando nella tomba). Sempre a destra
c’è un cavaliere turco il cui destriero si impenna perché una donna sta tenendo le briglie,
perché lui sta portando via una donna da fare schiava. Delacroix costruisce una
composizione narrativa fatta di topoi letterari, che trasforma in forme realistiche. È un
quadro colto come quello di Ingres ma senza idealizzazione, qui i modelli si sporcano con la
realtà profonda e materiale. Gli oggetti per terra sono una citazione al Marat Assassinato.
Il paesaggio non è generico inventato, si è documentato del paesaggio dell’isola greca, ha
descritto i paesaggi incendiati, ha reso tutto realistico, la pittura ha ancora schema ed
enfasi del romanticismo ma comincia a capire che per rendere il quadro potente e
coinvolgente ha bisogno di essere legato alla realtà, il più vicino possibile al mondo reale.
Ancora nel 1804, in piena età neoclassica
mentre trionfa David, un pittore stretto
collaboratore di David dipinge un grande
quadro di storia: il protagonista lo vediamo al
centro ed è Napoleone, ma è rappresentato in
una situazione che non è immediatamente
celebrativa. Il titolo è “Napoleone visita gli
appestati di Giaffa”: i malati di peste vengo
raccolti in questa grande moschea che viene
laicizzata, diventa un ospedale. Qui Napoleone visita i suoi soldati, fa un atto di umanità
che di solito i comandanti non fanno, per questo è celebrato come eroe. Addirittura tocca
un malato, compie un gesto che riprende l’iconografia di San Tommaso apostolo, per
essere certo che chi ha davanti sia davvero il cristo risorto, ha un sapore di beatificazione.
In secondo luogo questo lega Napoleone al fatto che visto il suo essere divino poteva
guarire malattie. I corpi e le figure in primo piano sono ricche di realismo, è un dipinto
Neoclassico in cui però già entra il concetto di una realtà che infonda verità nelle forme
della tradizione.

La fama di Delacroix ormai è alta, è


conosciuto in tutta la Francia e nei
circoli che contano. Il suo successo
arriva nel 1827 con un quadro enorme,
da Salon. Nel 1827 per mostrare la sua
abilità di grande compositore presenta
al Salon un quadro con tema una storia
di un passato remoto, che rientra nel
gusto del tempo di un oriente
misterioso. Si possono esibire nudi
femminili senza limiti, ma dove non ha
nulla di volgare, non crea problemi perché sono idealizzati. Si intitola “La morte di
Assurbanipal”, secondo re di Babilonia. C’è un forte collegamento anche alla produzione
teatrale del tempo. Assurbanipal, despota che dedica la sua vita ai piaceri, come colleziona
le donne più belle colleziona i cavalli più potenti ed i gioielli, vive in un perenne godimento.
Succede che questo suo abbandono ai piaceri dell’esistenza perde il controllo del suo
gigantesco impero, le popolazioni si ribellano e i nemici entrano, arrivano fino alle mura di
Babilonia, che tra poco crollerà. Decide quindi di scegliere un supremo piacere, sacrificare
tutto in nome di sé, si fa costruire un rogo enorme nel cortile del palazzo che fa rivestire di
tessuti preziosi, fa portare tute le sue opere, le donne e i cavalli e li fa uccidere, mentre lui
guarda sdraiato e muore anche lui. È il massimo della perversione della ricchezza in un
luogo remoto. Delacroix sceglie il momento prima che venga appiccato il fuoco, è tutto
giocato dai rossi e dagli ori. Il tutto è legato alla totale indifferenza del personaggio, che
guarda la distruzione di tutto ciò che aveva caro. Anche qui è tutto diviso a blocchi, il
cavallo con il servo, la donna che si è uccisa piuttosto che farsi toccare dalle guardie, una
che si impicca con una sciarpa di seta, il tutto in una specie di ammasso di corpi e forme
che esibisce l’abilità tecnica di Delacroix.

Un punto di non ritorno della pittura


contemporanea è “La libertà che guida il
popolo”, 1830. Segna una svolta
nell’artista, è una scelta ideologica forte
ed anche compositiva da cui non si torna
indietro. È l’apertura alla grande
stagione del realismo in Francia. Il modo
di disegnare non è più accademico, il
bozzetto è fatto con pochi tratti di
acquerello e penna. È un grande dipinto
di 5 metri di base, come la Zattera,
dipinto di Storia dove rispetto al disegno
(in cui figura era al centro secondo i canoni) cambia tutto: la figura della Libertà esce
dall’asse, diventa asimmetrica, il centro si svuota contro le regole, la disposizione dei
personaggi è volutamente asimmetrica, persino le figure in primo piano sono disposti in
modo non simmetrico. Tutto esce dallo schema regolare della divisione per piani, tutto è
nascosto dal fumo che si alza durante le barricate. L’avvenimento si era svolto poche
settimane prima, comincia a cambiare ancora il destino della Francia perché Carlo X
Borbone, che aveva ripristinato molte regole dell’Ancient regime, è in tensione col popolo.
Nel 24 e 25 Carlo emana un editto in cui blocca l’uscita dei giornali e scioglie il parlamento,
attivando esercito e polizia per bloccare qualsiasi reazione. È un colpo di stato per portare
la Francia all’antico regime: si rivoltano tutti, cavalcati dalla borghesia, inizia una guerriglia
urbana con delle barricate che vengono aggredite dall’esercito. Fino a quando nel 29 il re è
costretto ad abdicare e sale al trono Luigi Filippo D’Orleans, che accetta la costituzione
della Francia originata dalla rivoluzione e di riaprire il parlamento. Delacroix partecipa alla
rivoluzione e per celebrare questo momento di eroismo decide di comporre questo quadro
che poi propone al Salon dell’anno successivo. L’immagine è una costruzione in atelier, con
un lungo lavoro di organizzazione dove fonde in modo definitivo elementi simbolici con
elementi realistici: è nella connessione tra i due estremi che risulta la fortuna iconica del
quadro. Giocando su elementi di realtà (c’è anche il suo autoritratto, imbraccia il fucile)
mette valori evidenziati dai personaggi che li impersonano. Si svolge su uno sfondo di teste
di cui non vediamo volti ed espressioni, è tutto nascosto dal fumo e che si sperde
all’infinto. In un angolo a destra si intravedono gli edifici della città e si intravedono due
torri come dorate, e sono le torri campanarie di Notre Dame. In realtà è un’invenzione
perché non c’è nessun punto della città con questa visuale, ma è tutto evocativo. Quel
momento viene fissato combinando personaggi reali con un’immagine simbolica: la donna
che avanza a piedi nudi è una visione, cammina sui corpi e sui muri crollati ed è travolta dal
vento della gloria, che la spinge e appiattisce il suo vestito sul corpo. La testa e le braccia
sono riferimento ai nudi di Michelangelo. Ha il berretto frigio, quello dei rivoluzionari dei
sanculotti che avevano assalito la Bastiglia: tiene una baionetta e sventola la bandiera. È
una figura emblematica e simbolica. Per contrasto di questa figura si esalta la veridicità di
quello che è intorno, soprattutto i cadaveri: abbiamo davanti due morti che hanno valore
simbolico ma sono studiati dal vero. Uno è un popolano denudato, non ha nulla di eroico e
non è equilibrato, è ferito e magro, indossa una calza come il ragazzo della Zattera. A
destra sempre un cadavere martoriato, ha la divisa di un soldato della guardia reale. Questi
due rappresentano volutamente l’idea di una eguaglianza, di una fratellanza, sia il
popolano che il soldato sono vittime del potere. Si costruisce un triangolo che ha come
idea la volontà della Francia e la Libertà la guida. Il rosso della bandiera sta al centro del
quadro ed è ripreso dal rosso di una cintura di un popolano, e si ritrova anche sulle
mostrine della giacca del soldato della guardia, è di collegamento ai tre gruppi, come fa
anche il colore blu (casacca, calza, divisa soldato).

A questo punto proseguirà la sua attività di


pittore ma senza avere a che fare con la
corte di Luigi Filippo. Lascerà la Francia e
compie un viaggio nelle colonie francesi
dell’Africa settentrionale (Algeria, Tunisia,
Marocco). Vivendo qui entra in contatto con
questo mondo della cultura islamica, coi
colori squillanti. In “Le donne di Algeri”
rappresenta l’interno di una casa dove le
donne sono vestite di abiti tradizionali, con
la serva di colore che ha portato il narghilè. Il
modo di rappresentare le figure femminili e la tavolozza non ha nulla a che fare con la
tradizione del disegno accademico. I corpi sono definiti dal colore, è una radice da cui si
arriva poi all’impressionismo. Luce e colore si fondono e non sono divisi per blocchi.

Proprio negli anni ’40 e ’50 l’anziano Delacroix si impegna per commissioni pubbliche e
decora alcuni edifici, in particolare la galleria del Louvre, è un ambiente settecentesco che
aveva subito dei danni. Decora in uno stile che rimanda al ‘700. Ci dice come l’artista, nella
fase finale della sua attività, si adegui alle scelte accademiche per rispondere alle esigenze
pubbliche.
Chi prende il testimone e porta avanti queste iniziative? Courbet.

1842, “autoritratto in abito da passeggio con un


cane, all’alba”. Non è nello studio, è una specie di
istantanea, come una fotografia in cui ha preso da
sotto in su il giovane artista. Lui non ha le vesti di
pittore, non è una celebrazione del suo essere
artista: è in una posa qualsiasi quotidiana ma in
relazione con la realtà. È un paesaggio duro, aspro, è
appoggiato a questa roccia che è tipica della sua
zona dove vive. Ha il bastone del viaggiatore
appoggiato alla roccia ed ha un’aria sicura, è volutamente impostato così per mostrare il
suo disinteresse alla pittura come celebrazione. Scriverà che è un pittore perché si occupa
solo di rappresentare la realtà. È un modo di dire che la pittura non più rappresentare né
miti né storie.

Il Courbet rivoluzionario lo vediamo in un altro


suo autoritratto, arriva a Parigi nel 1846 e si
rappresenta in una veste di artista folle, perché
non trova la strada per far uscire la sua forza. È
l’artista lavoratore che si stringe i capelli con
occhio dilatato per rappresentare il desiderio del
cambiamento della rivoluzione del 1848 a cui
partecipa in prima persona.

Nel 1847 vediamo “Il viandante ferito”, è un


autoritratto, è un rivoluzionario fuggito dalla città che si abbandona alla morte in mezzo a
una natura vera.

Il momento di passaggio è nel 1849. Nel 48 i


moti rivoluzionari hanno coinvolto tutte le
capitali europee. È anche la presa di
coscienza della piccola borghesia di una
necessità di rappresentanza (poco dopo:
manifesto partito comunista). Partecipa alle
rivolte e viene condannato non al carcere ma
all’esilio da Parigi. Nel 49/50 Courbet sta
nella provincia e dichiara la sua scelta del
realismo. Ne “Gli spaccapietre” un uomo e un ragazzo lavorano duramente e lui vede in
loro la forza del popolo. Qui emerge la loro dignità, non come nel passato che erano
denigrati. Trasforma queste persone in protagonisti dignitosi, da valore alla loro esistenza
e questo si capisce dal fatto che le figure sono grandi, non sono di allestimento al
paesaggio, sono il soggetto. Il quadro ha un aspetto claustrofobico, la roccia che incombe
sui lavoratori occupa il quadro ed è scura. L’unico frammento di respiro è nell’angolo
superiore destro in cui si vede un po’ di cielo. I due personaggi non mostrano il loro volto:
da un lato è il rappresentare l’uno per tutti. Sono il popolo, i lavoratori, che non sono
ignudi come spesso sono le figure di chi lavora nella tradizione accademica. Hanno un
abbigliamento coerente con l’epoca e sono abiti che hanno un loro valore: se il ragazzo
indossa una camicia bianca, in realtà grigia perché la porta da giorni, è comunque
strappata per il lavoro. Ha dei rinforzi sulle ginocchia per non farli consumare. Ogni
dettaglio racconta la vita del personaggio, si vede l’usura del riuso degli abiti. Stessa cosa
nell’adulto, ha gli zoccoli con le calze bucate ma indossa un gilet, tipico della festa per un
popolano: è un gilet che ha avuto molte vite ma questo abbigliamento è una
rappresentazione di persone che hanno una vita vera e una dignità nel porsi. La natura
morta sulla destra con pentola e pane ci racconta la loro vita. L’artista non fa
sovrapposizione simboliche.

“Il funerale a Ornans”.


Opera che realizza
durante il confino nel suo
paese natale. Chiese a
dei suoi compaesani di
posare per lui, per avere i
volti reali dei personaggi.
la composizione ci
mostra un lungo
percorso visivo costituito da una narrazione che parte da sinistra, in cui le figure riempiono
tutta l’altezza del quadro. Paesaggio brullo, non ci sono alberi, niente di bucolico, anche il
paesaggio sembra comprimere il gruppo di personaggi verso di noi. Il tema è un funerale,
siamo al cimitero, non durante la cerimonia funebre ma nel momento che segue, non è un
momento celebrativo. Non vediamo la tomba ma si intravede solo la fossa per raccogliere
la bara. Si vede un autoritratto dell’autore in camicia perché ha scavato con gli altri
paesani, ci sono delle corde che serviranno per depositare la bara. L’inumazione deve
ancora avvenire ed è un momento particolare, non è un momento in cui tutti sono
impostati nel loro ruolo. È il momento in cui la cerimonia religiosa è terminata e precede di
un attimo il fatto che la bara venga portata al becchino per essere sepolta. Succede che nel
momento in cui finisce la cerimonia, il rito sociale a cui siamo abituati, ognuno ora è libero
dal ruolo che deve rappresentare ed esce da quello che ci aspetteremmo. Il prete ha vicino
il chierichetto e si è tolto il cappello che indossava, ha un’aria quasi indifferente e volta le
spalle alla bara. L’altro chierichetto guarda con aria incuriosita il padre o un parente. Il
sacrestano guarda verso di noi e il sindaco, indifferente, regge la vedova che piange, ma le
signore che l’hanno accompagnata già parlano del più e del meno. Descrive una piccola
fetta di umanità che esibisce senza vergogna i suoi sentimenti per quello che sono, al di
fuori della retorica dei comportamenti sociali. Toglie qualsiasi valenza di celebrazione, la
pittura non celebra, perché in realtà gli esseri umani sono questa cosa qui. È come se
avesse tolto il velo delle buone maniere e della retorica e mostrasse come sono le persone
nelle loro realtà.

Un’opera del 1849 che sta tra gli spaccapietre e il


funerale sono “Le ragazze del villaggio”. Sono della
borghesia e stanno facendo una passeggiata ed
incontrano una bambina figlia di contadini che porta al
pascolo le mucche e le fanno l’elemosina. Non è un
gesto eroico, viene ambientato in un paesaggio che non
rende il gesto, rende la banalità del quotidiano dove le
giovani donne sono viziate che credono di essere delle
nobildonne. Le mucche non sono pulite come nei paesaggi di Constable (paesaggi del
pittoresco, era bucolico), Courbet fa vedere cos’è una realtà banale e povera.

04/03/2021

Courbet, “Buongiorno Signor Courbet”, 1854. Fa


parte delle opere che riuscì a vendere al suo
mecenate, il loro rapporto gli dava sicurezza
economica. Mostra un ritratto di Courbet che
durante una passeggiata incontra due uomini,
forse appena giunti nella contea, si vede il carro in
lontananza ed è probabile che i due viaggiatori
siano appena arrivati. Non ha significato simbolico
o valore aggiuntivo, se non quello di rappresentare
la banalità del quotidiano. Ci colpisce il fatto che la
rappresentazione delle figure è quasi di tipo fotografico, non c’è un’impostazione
tradizionale accademica. Vediamo dalla postura che ci troviamo di fronte a un incontro nel
momento del saluto, come indica il titolo. C’è un’attenzione nello studio delle luci e delle
ombre, sono realiste che rispettano il momento della giornata, luci lunghe della mattina.
L’attenzione cromatica permette di leggere gli elementi più semplici della natura, dai fiori
sul ciglio agli alberi in lontananza.
Ne “Le bagnanti”, 1853, si tratta di un’opera che
vende al suo mecenate ed il dipinto ci ricorda i
grandi cicli di bagnati classici: il problema è il
modo di rappresentare la figura, non è quella
classica dalle proporzioni perfette, è una donna
contemporanea nella sua morbidezza che sta
uscendo da un piccolo laghetto nei boschi.
Accanto a lei una donna si sta svestendo, è un
momento di routine, di svago, con figure che
rappresentavano il popolo e non l’alta società.
Intorno vediamo che gran parte dello spazio è
dedicato alla natura, le fronde degli alberi
occupano la parte alta del dipinto, c’è attenzione
per il dettaglio e per la resa delle singole foglie. Si
tratta però di una pittura che per quanto vicina
alla realtà non è fredda, analitica, secondo un modello fiammingo: pensiamo ai Nazareni,
dove la descrizione della realtà faceva sì che l’effetto fosse rigido e fisso. Qui invece
vediamo quella ricerca di atmosfera che fan sì che l’effetto sia più morbido ed avvolgente e
più vicino a una resa ottica, piuttosto che a un’interpretazione scientifica dell’elemento
naturale. Altro elemento che ritorna nelle composizioni è quello delle nature morte,
elementi che si inseriscono ma in maniera sensata, logica, vanno a contestualizzare il
momento raffigurato: qui troviamo gli abiti della figura femminili abbandonati sull’erba,
che consentono ancora di più a leggere la figura come una donna concreta e immersa nella
società contemporanea.

Questo tipo di opere continuano ad essere rigettate dalla tradizione accademica: in


occasione dell’esposizione universale del 1855 in particolare. Erano mostre temporanee
con espositori che provenivano anche da regioni straniere, la prima è di Londra nel 1851,
raccoglieva i maggiori rappresentanti della produzione industriale non solo europea. Erano
complesse da organizzare e da far arrivare le merci da tutto il mondo, ma era un’esigenza
di dimostrare la potenza commerciale della nazione inglese. L’Inghilterra non era stata
coinvolta direttamente dalle guerre ottocentesche, era quindi in un periodo di pace, ed era
la patria della rivoluzione industriale: era il luogo ideale per questa esposizione. Quella del
1851 si caratterizza per questo interesse verso l’industria, erano ammesse materie prime e
macchine da lavoro, ma non erano ammesse opere di pittura e scultura, a meno che non
rientrassero in opere di elemento industriale. Il successo di questa esposizione fu tale che
le grandi altre nazioni pensarono di organizzarne per concorrere con quella inglese, e la
prima a riuscire in questo intento fu proprio la Francia. Non abbiamo più solo opere di
industria ma vengono inseriti altri aspetti della vita produttiva del paese, l’agricoltura e le
belle arti. L’altra grande differenza è da individuare nella scelta di utilizzare non un unico
padiglione ma di costruire edifici diversi a seconda della tipologia di opere che dovevano
essere esposte. Era un investimento economico importante per il paese ospitante, si
trattava di edifici temporanei ma dovevano essere in luoghi facilmente raggiungibili: si
scelse un’area tra il fiume e le grandi vie ottocentesche della città francese. Il più grande
edificio era destinato all’industria, a fianco c’era quello per le opere di belle arti. Per
l’agricoltura erano stati costruiti dei chioschi nei giardini. Il palazzo di belle arti era
organizzato in sale e gallerie, per distribuire al loro interno le opere selezionate. Metà
spazio era occupato dalla Francia e il resto era diviso tra Inghilterra, Prussia, Stato di
Sardegna e Stato pontificio. Le opere erano scelte da una commissione, bisognava
attendere di essere selezionati: questo vuol dire che le opere non erano la rappresentanza
di tutta la produzione della nazione, ma di quella riconosciuta come più significativa.
C’erano stanze dedicate ad un solo artista ed erano quelli considerati più rappresentativi
della nazione: erano Ingres e Delacroix. A questa data, il romanticismo di Delacroix viene
non solo accettato ma anche considerato punto di riferimento della cultura francese,
messo sullo stesso piano di Ingres con impostazione classicista. Courbet non venne
accettato e la pittura del realismo non poteva incontrare i pareri positivi di una giuria di
tipo accademico. Era convinto di riuscire ad essere ammesso, la sua soluzione fu quella di
organizzare un padiglione indipendente posizionandosi a pochi metri da padiglione
ufficiale: venne costruito in legno il padiglione del realismo. La mostra fu accompagnata da
un piccolo catalogo, che ci presenta un elenco delle opere e ci da delle posizioni teoriche di
Courbet che possiamo considerare come un manifesto del realismo. Sottolinea il fatto che
il nome realismo non era stato scelto da lui, ma di un epiteto a lui imposto come il
romanticismo per i romantici. Attacca l’accademia, dice che non è necessario studiare in
una scuola per diventare un artista: giustifica e fa sapere che non si tratta di un artista
improvvisato, ma che ha una base non solo dei contemporanei ma che ha compiuto studi
da autodidatta dagli autori del passato, come nelle accademie. Sostiene però di non aver
voluto imitare o copiare come facevano nelle accademie. Bisogna conoscere l’arte ma non
copiare o imitare l’arte altrui. Questa idea dell’arte che vive per sé stessa non è l’idea che
ha Courbet per l’arte, dice che lo studio dei vari artisti mette in evidenza il fatto che ogni
artista ha la sua individualità ed è su questa strada che bisogna muoversi, non uniformarsi
su un gusto ufficiale. Con poche e semplici parole riassume la base del suo pensiero e da’ a
chi legge gli strumenti e le chiavi di lettura per comprendere ciò che espone. La realtà
come centro di ragionamento, che non implica la mancata conoscenza dell’arte del
passato.

Ha esposto “Il funerale ad Ornans” e “L’atelier dell’artista” (aveva un titolo più complesso,
Lo studio del pittore, allegoria reale che fissa un periodo di sette anni….): questa allegoria
deve restare comunque vincolata alla realtà, rappresenta i sette anni precedenti di vita del
pittore. Utilizza
un formato di
grandi
dimensioni, la
tela misura 6
metri, tipico dei
quadri di storia,
aveva la stessa
importanza di
una grande
scena di
battaglia o di
celebrazione. Il soggetto è descritto dallo stesso autore in una lettera ad un amico. Non si
trattava solo il suo studio ad Ornans, ma ogni elemento assumeva un valore ben preciso:
ad esempio, il significato dei due gruppi di figure che circondano la scena centrale in cui c’è
l’autore che dipinge. Non si perde a descrivere cosa c’è sulle pareti dello studio, vediamo
una superfice smangiata ma intuiamo delle sagome, capiamo che erano rivestite di dipinti,
alcune concluse altre no. Ma non è questo che gli interessa, non la descrizione dello studio:
punta sul valore allegorico delle figure. Sono figure non presenti fisicamente durante il
lavoro, è un’allegoria reale, che permette a lui di raccontare il suo modo di vivere. Nella
lettera scrive: “è il mondo che viene a farsi dipingere da me”, l’artista lavora ancora nello
studio, non va fuori a dipingere la realtà, sono studi in esterno ma l’opera si realizza in
interno. A destra ci sono gli amici, i lavoratori ed appassionati di arte, è la
rappresentazione delle figure vicine a Courbet nel corso del tempo, che hanno la capacità
di apprezzare il suo modo di vedere l’arte. A sinistra, coloro che conducono un’esistenza
banale, il popolo, gli sfruttati e gli sfruttatori, le persone che vivono della morte altrui. Non
è una questione di tipo economico: all’interno del calderone ci sono sia i ricchi che i poveri,
è una questione di percezione della vita. A fare da spartiacque al centro c’è l’autore
intento a dipingere. A sinistra c’è un rabbino, un bracconiere (ritratto di Napoleone III, non
aveva di buon occhio la sua politica, diventa un dato simbolico piuttosto forte ed indica che
era un assassino), il commerciante che propone la propria merce. Sotto c’è una madre che
allatta, ma è la miseria umana; troviamo una natura morta, con un cappello e strumenti
musicali: significa la morte del romanticismo, per arrivare ad una percezione diversa della
produzione artistica. Nel gruppo degli amici a destra li riconosciamo, sono ritratti veri:
vediamo una figura che legge ed è Baudelaire, che fu vicino all’artista e sarà colui che
sosterrà Manet, rappresenta la poesia contemporanea in grado di comprendere l’arte
nuova. Le figure in abiti eleganti sono due visitatori dello studio, futuri acquirenti che
hanno però la capacità di comprendere la novità. Vediamo poi seduto l’uomo a cui aveva
mandato la lettera, dietro c’è il suo mecenate, poi c’è Prudon, socialista, erano amici. Nel
gruppo centrale è intento a dipingere un paesaggio della contea, che aveva visto di
persona e che può dipingere a memoria. La figura femminile alle sue spalle perde la sua
utilità: normalmente sarebbe stata la modella, ma qui non realizza un dipinto di figura. La
sua presenza, nuda con panneggio, ha un altro significato: è la rappresentazione della
realtà ispiratrice, è una figura non idealizzata. Anche il bambino, davanti all’opera che la
osserva contemplando, raffigura da una parte il futuro, le possibilità, dall’altra l’idea
dell’ingenuità non contaminata dalla scuola e libera di farsi le sue idee personali. Suscitò
fortissime polemiche, non venne accolta con i giusti propositi. In un’illustrazione del 1855
l’opera venne derisa in una caricatura.

In “Signorine in riva alla Senna” (1857)


abbiamo due figure femminili distese in
tranquillità. Rappresentano l’alta
borghesia e c’è una critica a loro, perché
le rappresenta come delle popolane, che
per i cittadini dell’epoca risultò essere un
affronto. L’attenzione al dettaglio
naturale è sempre la stessa, mantiene gli
stessi elementi che abbiamo visto finora
ma cambia il soggetto ed il messaggio
finale.

Fu anche un grande ritrattista, in


“Proudhon” (1853), suo amico, lo vediamo
sulle scale del proprio giardino con accanto
le figlie e i testi che sta studiando. Le
bimbe giocano, leggono, in tranquillità
domestica ma con attenzione per la resa
dei volti e degli sguardi, ce lo mostra nella
sua comoda vita privata.

Siamo negli anni ’70, si tratta di un anello


di congiunzione tra il realismo e
l’impressionismo. Le opere di
paesaggio sembrano
preannunciare le prime opere
di Monet. Vediamo “il Mare in
tempesta”, la pittura non sta
più all’interno di un perimetro,
viene posizionato sulla tela in
modo da rendere la tempesta del mare, la ruvidità del terreno è in primo piano. È un
momento in cui la pittura realista perde l’attenzione per il dettaglio minuto e diventa
qualcosa di più concitato anche dal punto di vista tecnico.

Manet è la figura di transito tra il


realismo e l’impressionismo. È
considerato il padre degli
impressionisti, è con loro nel
momento della loro prima mostra.
Conosceva Courbet e Baudelaire, ed
è qui che possiamo trovare degli
indizi teorici. In un suo articolo
troviamo alcuni elementi che
ritroviamo nei modi di agire di
Manet. Si mette in evidenza il
legame con la vita quotidiana, l’obiettivo è trovare nella quotidianità quei momenti che
vale la pena raccontare attraverso i dipinti. In “La musica alle Tulleries”, 1862, era uno dei
luoghi in cui la borghesia parigina si incontrava. Quello che fa Manet è ritrarre come se
fosse una foto un momento di quotidianità. Manet è la figura in piedi sulla sinistra e ci
sono anche i suoi amici. È un brulicare di gente, una pittura mossa, quel movimento e vita
che Baudelaire ricercava. Anche dal punto di vista tecnico, non disegna più ma dipinge
direttamente col colore. La musica non la vediamo ma è come se sentissimo le voci e le
musiche che accompagnano le figure.

1863, La colazione sull’erba, fu


l’opera che fece scandalo e che
non venne accettata al Salone
ufficiala. È di grandi dimensioni
e causò scalpore, si parlò di
svenimenti delle signore,
comparirono articoli denigratori
e caricature. Vediamo l’alta
società francese durante un
momento di riposo nei boschi.
C’è una figura femminile e due
maschili, in lontananza una
bagnante che tiene la corda di un’imbarcazione. Il problema è il contrasto tra il nudo
femminile e le figure maschili: la donna nuda non è un’allegoria, è una donna riconoscibile
(modella di Manet) accanto a due uomini in abiti contemporanei borghesi. Anche quelli di
lei sono contemporanei, li vediamo nella natura morta. Questa figura reale e nuda crea il
primo punto di disagio. Eppure, dal punto di vista compositivo, fa la stessa operazione di
Courbet, conosce l’arte antica e ne riprende le posizioni ma non le rende allegoriche. La
tecnica stessa era un problema: recupera Courbet ma lo porta all’apice: uso di colori puri
come il nero totale delle giacche, senza sfumature, niente disegno ecc. Non era accettabile
perché quasi bozzettistico. Ma a lui interessava la luce, gli agenti atmosferici. Man mano
che ci si allontana si perde la definizione, diventano macchie cromatiche. Vediamo quanto
sfrontata sia la figura femminile, ci sta guardando, siamo parte di questo gruppo di parigini.
La mancanza di disegno si legge bene nella natura morta, c’è mancanza di definizione, non
era accettabile per la pittura accademica del tempo.

Stesso anno, 1863, Olympia. È


una figura femminile, siamo
nella sua camera da letto ed è
nuda, ha alcuni elementi ancora
indosso come le ciabattine, il
nastrino al collo ed il bracciale.
Il letto è sfatto, vicino c’è un
gatto nero ed accanto la figura
della serva di colore che porta
alla donna un mazzo di fiori. Lo
sfondo è ricoperto di drappi e
tendaggi: non è la venera classica, non è allegorica, è una figura nota (sempre la sua
modella) ritratta come prostituta mentre riceve il regalo dai suoi spasimanti. Per realizzare
questo ritratto fa riferimento alla tradizione classica (Venere di Urbino di Tiziano). Altro
riferimento è La maya desnuda di Goya. Si appoggia ad una lunga tradizione di figure
femminile nude e sdraiate. La gestione cromatica: abbiamo il corpo candido sdraiato su
questo letto più o meno della stessa gradazione, e il bianco delle lenzuola viene ripreso
dalla carta dei fiori e crea contrasto con gatto nero e col colore della pelle della serva. Si
stacca dal fondo scuro, rispetto allo spazio che la racchiude: è un modo ulteriore per
mettere in evidenza il corpo. È sempre sfrontata, ci guarda senza accenno di sorriso e
senza vergogne, non sente esigenza di coprirsi ed è consapevole della propria bellezza e
del proprio mestiere. I fiori sono senza disegno e sembrano delle macchie, c’è la pennellata
libera, è tutto sfumato e sfocato. Questo dipinto fu fortemente criticato ma, a differenza di
altre opere che avevano trovato appoggio da artisti lontano dall’accademia, questo fu
criticato anche da artisti che avevano difeso il suo modello artistico. Lo stesso Courbet
pensava che avesse esagerato nella rappresentazione e nella scelta del soggetto. Tra le
poche voci che si mossero a difesa ci furono Baudelaire e Emile Zola. Zola scrive un piccolo
opuscolo che gioca sul mettere in evidenza le posizioni della critica e la chiusura mentale
del pubblico del tempo. Il gatto nero prende in giro coloro che criticano, è il pubblico
dell’epoca che si allontana dagli scopi dell’arte.

“L’esecuzione dell’Imperatore
Massimiliano”, 1867. Era una di
quelle figure fantoccio poste al
governo dei vari stati al seguito della
restaurazione, e qui c’era lo zampino
di Napoleone III che voleva
controllare il Messico. Manet, come
altri francesi, fu colpito da questo
evento storico e dalla freddezza
dello stato francese, e dalla fine che
Massimiliano fece. Se ne conoscono
4 versioni, questa è quella definitiva.
Qui il modello di riferimento è ovviamente Goya, la composizione è analoga ma cambia
l’atmosfera. In Goya luce studiata, pienamente romantico, qui è fredda realtà, la luce è
tersa e cristallina. C’è assenza di emozione anche nelle persone, Massimiliano non mostra
paura e i soldati messicani sono rappresentati con divise francesi, per sottolineare chi c’era
realmente come causa della morte (manipolazione dei messicani da parte del governo
francese). La realtà dell’evento è messa in luce dal soldato che è costretto a fermarsi a
sistemare l’arma che si era inceppata. Ad di là di un muretto si sporgono dei messicani che
vogliono assistere all’evento.

“Ritratto di Emile Zola”, 1868. Lo scrittore è


nel suo studio, seduto al tavolo di lavoro con
un libro aperto tra le mani, è ritratto di tre
quarti assorto nei suoi pensieri. Il taglio è
fotografico, non vediamo i piedi (va contro i
ritratti ufficiali). Tutti gli elementi ci parlano
di Zola e ci aiutano a costruire la figura,
consentono di conoscere la figura ritratta
attraverso l’espressività ma anche attraverso
lo spazio, che diventa specchio dei suoi
interessi. Sul tavolo c’è l’opuscolo che aveva
scritto per difendere Manet, c’è il calamaio,
gli strumenti del lavoro. C’è una bacheca con
una riproduzione dell’Olympia di Manet, di
Bacco di Velasquez ed una incisione
giapponese. Il tema dell’oriente torna anche
nel paravento. Il Giappone diventa punto di riferimento culturale importante per gli artisti
di questo periodo. Iniziano ad essere importati in Francia manufatti artistici di origine
cinese e giapponese. È una visione della realtà diversa da quella occidentale, c’è l’uso dei
vuoti e la mancata prospettiva, uso diverso dei colori.

Altro elemento di rottura che porterà


all’impressionismo è la fotografia, in grado di
rappresentare la realtà in maniera molto più
preciso di un pittore. La pittura deve essere
allora qualcosa di diverso: entrano in gioco
le impressioni, la capacità dell’occhio di
percepire in maniera diversa alla macchina
fotografica. La foto rompe gli schemi e
taglia, chiude la realtà in una cornice. Si
tagliano le figure (vediamo La ferrovia di
Manet, 1872), non c’è un significato
nascosto, è realtà immortalata ma con aggiunta dell’atmosfera, col vapore dei treni che
non vediamo.

“Bar delle Folies Bergere”,


1881, siamo in piena
stagione impressionista.
Siamo dentro uno dei bar
più noti di Parigi, viene
ritratta la barista con una
natura morta in primo
piano, con bottiglie, fiori e
mandarini, c’è dettaglio
anche senza disegno
preparatorio. Siamo di
fronte a lui ma dietro alle
spalle ha uno specchio,
attraverso cui vediamo il
mondo. Vediamo noi stessi, siamo l’avventore del bar, vediamo il brulicare del pubblico
presente nel bar. Ci sono grandi lampadari in cristallo, le persone sedute ai tavoli. Per
quanto impostato, abbiamo comunque il taglio (preso dalla fotografia). Qui già la mancata
definizione ed il colore che si amalgama è linguaggio impressionista, ma lui è sempre
considerato una figura di passaggio e non pienamente impressionista.
08/03/2021

IMPRESSIONISMO

Come i realisti scioccarono la critica del tempo, gli impressionisti fecero ancora peggio, ma
ormai il terreno era stato tracciato. I capisaldi sono l’atteggiamento realistico percettivo
che implica un rinnovamento dei sistemi rappresentativi. Si cerca di applicare un metodo
para scientifico alla composizione del quadro, che resta come obiettivo in funzione realista
(restituire la realtà nell’immediato). Nel post impressionismo (è una categoria che abbiamo
noi, loro non si consideravano così) c’erano posizioni che portano agli estremi quello che
gli impressionisti aprono nell’uso del colore.

La rivoluzione è fatta di una nuova visione della città, nelle loro vedute sta cambiando il
modo di vedere la realtà e quindi anche di trascriverla. La nuova visione della natura passa
per l’en plein air, svolta vera e propria.

SCIENZA DELLA VISIONE

COLORE

FOTOGRAFIA

TEMPORALITA’

Tappe: Bazille, Monet e Sisley si incontrano alla scuola di Gleyre, tutti ammirano la pittura
di Manet. Al Salon del 1866 cominciano ad essere accettati alcuni di questi artisti. Zola,
scrittore, commenta in favore questo tipo di arte. Nel contesto, c’è la guerra Franco-
Prussiana del 1870, temporanea dispersione del gruppo, Degas va volontario, Bazille viene
ucciso ecc.

1874 (15 aprile-15 maggio): mostra da Nadar con le opere rifiutate al Salon, nello studio di
un fotografo, PRIMA MOSTRA IMPRESSIONISTA.

CLAUDE MONET

È uno degli esponenti principali, comincia a ritrarre la vita contemporanea. Si studiano gli
effetti della luce ed in plein air si hanno tutti quegli stadi della luce: si studia l’ottica e come
i colori rispondono alla luce. Le pennellate sono molto materiche e veloci.
“Regate all’Argenteouil”, 1872. Altro soggetto
legato alla natura, non c’è disegno, si lavora col colore.

Il quadro che ha creato più discussioni è “Impressione al sole nascente”, 1872. Si


intravedono le strutture del porto, il sole è una palla di fuoco e le barche sono
approssimative.

C’è un sentimento ancora fortemente romantico nel sentire la natura, come vediamo si
riprende Turner di anni prima.

Vanno di pari passo alla fotografia, che non a caso è l’arte della luce.

“Camille sul letto di morte”, Monet, 1879. È sua moglie


e muore in casa, il suo pensiero razionale era quello di
ritrarla, ma dopo dice che la sua vista ha reagito alla sorpresa dei colori, stava già seguendo
inconsciamente le sfumature.

Bordighera, 1884, Monet fa un viaggio tra la Costa Azzurra e l’Italia. Vediamo la potenza
del colore e della luce, dice che arrivato in Italia i suoi occhi erano “feriti” da tanta luce.
Comincia a dipingere questa luce e ne escono tocchi di verde, arancio, azzurro, si
accostano colori puri. Siamo già un decennio dopo la prima mostra e la pittura si fa più
scientifica, i contrasti e la miscelazione del colore avviene nella retina (lo si era capito in
quel tempo). L’occhio miscelerà i colori che in realtà sono semplicemente accostati.

Monet diventa famoso per le


serie: i covoni ad esempio sono
gli stessi, ma sono ripresi a
diverse ore del giorno. Cambiano
i colori, le ombre, i rilievi. La serie
più famosa è quella della
Cattedrale di Rouen, a diverse ore
del giorno. Monet sta
rappresentando la luce che
colpisce la pietra della cattedrale,
non tanto l’edificio in sé. Cambia la percezione e ricerca quegli effetti con il colore, con
accostamenti di colori puri ed ombre. Il sole cambia velocemente e gli crea frustrazione, è
un lavoro duro e quasi ossessivo.

Le Ninfee sono la fase finale, si


ritira nel suo giardino da anziano
e cerca libertà della visione della
natura. Sono temi orientali e
l’influenza delle stampe
giapponesi è nota. Arriva ad un
punto di perdita totale della
forma, di totale astrazione con
puro colore e luce.

EDGAR DEGAS (1834-1917): LO SPAZIO E IL TEMPO

Ritrae interni borghesi, 1860, siamo in una sua fase


giovanile in pieno realismo.

“Bevitori di assenzio”, 1875. Vediamo una donna e un uomo


in un bar, la coppia non sembra essere affiatata. Il taglio è
fotografico.
Nella “Corsa di cavalli” non c’è narrazione, il
quadro sarebbe considerato sbagliato perché una
persona ed un cavallo sono tagliati. È sbilanciato, il
gruppo è tutto a destra, le figure sono solo accennate, è tutto giocato su macchie di colori.

I BALLETTI: l’istantaneità del momento si sovrappone al costume e alla società dell’epoca.


Degas usava la fotografia, ad esempio fotografa il balletto a teatro e ne riprende e figure
plastiche.

Oltre alle ballerine fa anche molte donne che si lavano, si asciugano, quasi un continuo
delle bagnanti, anche se siamo in un interno domestico e loro in posizioni ricercate e non
comuni.

SEURAT E LA CRISI DELL’IMPRESSIONISMO (POST IMPRESSIONISMO)

Signac parla di Neo impressionismo


e non di post impressionismo:
prendono l’eredità del discorso
meta scientifico e della scienza
della visione e la esasperano. Il
grande protagonista di questo
movimento artistico chiamato
Puntinismo è Seurat. Uno dei
quadri più famosi è “La Grand
Jatte”, 1885: il senso di
straniamento è dato dalle figure
geometriche delle figure e dai colori, che esaltano ancora di più la geometria. Se gli
impressionisti ponevano pennellate materiche vicine per contrasti, qui si restringe la
pennellata a un puntino e sono tutti ravvicinatissimi, è un discorso puramente scientifico.
PAUL SIGNAC

Col neo impressionismo abbiamo superato la


restituzione della realtà, restano solo i temi
(circo, balletto, ballerine). Si costruisce il
quadro non necessariamente come appaiono
nella realtà. Siamo alla fine dell’800 e fa parte
di questo movimento anche Toulouse Lautrec,
fa una semplificazione fisica, sembrano quasi
grafiche. Siamo vicini alla belle epoque e nel
1890 fa il “Ritratto di Feneon” come un
prestigiatore, slegato da ogni realismo ma è
realista perché contemporaneo, il personaggio è reale, dietro c’è anche astrattismo, ci
sono già libere composizioni geometriche di colore.

Un artista che viene dagli impressionisti è Cezanne. È un innovatore, una figura


indipendente, viene sempre usato per introdurre il cubismo perché fa già una ricerca del
colore astratta. Ha costruito una nuova visione e può a tutti gli effetti essere ricondotto al
post impressionismo, ma porta all’esasperazione la spazialità arrivando ad una
geometrizzazione del paesaggio che getta le premesse del cubismo.

09/03/2021

Modernismo: ambito architettonico

Simbolismo: ambito letterario e pittorico

Post-impressionismo: dopo impressionismo ma non ancora avanguardie (puntinismo,


divisionismo, simbolismo)

Neo-impressionismo: Signac scrive un trattato Da Delacroix al Neo impressionismo. Un


puntinista si sentiva parte di un movimento definito neo impressionismo, derivante
dall’impressionismo

GAUGUIN

Dichiarava che gli impressionisti studiano il colore esclusivamente, ma senza libertà,


sempre ossessionati dalla verosimiglianza (sono legati al realismo e alla ricerca di realtà).
Per loro il paesaggio ideale non esiste, essi pensano solo all’occhio e tralasciano il pensiero.
I post impressionisti esasperano questo, arrivano a qualcosa di ancora diverso.

SIMBOLISMO

Manifesto nel 1866, tra la fine dell’impressionismo e le avanguardie. Crollano il


positivismo, l’idea che tutto il mondo va verso una progressione migliorativa. C’è una
progressiva crisi anche del sistema borghese.

Tanti rami: Decadentismo, Pre Raffaeliti (sono avvisaglie del simbolismo)

Alcuni aspetti: entra in crisi il rapporto con la realtà, col mondo esteriore che percepiamo.
Questo sistema di restituire la realtà non restituiva le ambiguità intrinseche, le
inquietudini, la realtà non è quello che vediamo, sono simboli di qualcos’altro, la parte più
subconscia. Il 1886 è l’anno dell’ultima mostra degli impressionisti e in questo anno esce il
manifesto del simbolismo scritto da Moreas.

1848 PRE RAFFAELITI

Rifiutano la razionalità e vogliono recuperare la spiritualità medievale, prima di Raffaello,


c’è una forte connotazione irrazionale e spirituale. C’è attenzione verso i materiali preziosi
(nel medioevo c’erano gli artigiani). Oltre ai temi della religione, anche quelli letterari,
come Shakespeare: in Ofelia la protagonista è la natura, il vestito diventa quasi elemento
decorativo.

ART AND CRAFT

Moreau: un caposcuola in Francia, anni 60 dell’800, temi mitologici, sfondi cupi ed


inquietanti, onirici. Troviamo anche testi biblici. C’è iper-decorativismo esotico nello
sfondo, si percepisce magia.

Redon, simbolista: motivi decadenti

Bocklin, sempre simbolista, “Autoritratto con la morte che


suona il violino”, 1872.

Von Stuck, abbiamo una donna tentatrice, un erotismo


dichiaratissimo, è l’epoca dell’incertezza e del mistero.
Segantini, 1858-1899, fa parte di un gruppo di pittori che chiamiamo poi Divisionisti, c’è la
divisione della pennellata, colori puri. Non c’è più ricerca del reale, qui è tutto simbolico. A
livello di contenuto, siamo in ambiti contadini, quotidiani, si cerca la verità non figurativa
ma interiore, esistenziale e spirituale: la verità è in questi momenti di pace e comunione
con la natura. Si arriva anche alle questioni sociali, le masse proletarie che lavorano,
vediamo “Il Quarto Stato”, quello che non viene neanche rappresentato nelle fabbriche e
sono i braccianti. Qui comincia il socialismo.

Previati, divisionismo

Questo discorso arriva poi all’ESPRESSIONISMO

Paul Serusier, Il talismano, Sintetismo.

11/03/2021

TORNATO PROF.SSOR TERRAROLI, RIPRENDE LEZIONI PRECEDENTI

Opera emblematica, Seurat, “Domenica pomeriggio sull’isola della Grand Giatte”, 1886, ma
in realtà comincia ad essere eseguita nell’83. L’86 è una data importante, segna l’ultima
mostra degli impressionisti, è un punto di arrivo. Rimette in discussione tutto il rapporto
arte-realtà. Le opere impressionisti riportano sulla tela l’immediata ricaduta della visione
del reale, che è una visione retinica, di impressioni cromatiche, luministiche che entrano
nell’occhio e sono ricostruite nel cervello. Volevano fissare sulla superficie un attimo,
qualcosa che sfugge e che non può essere fissato se non attraverso questa tecnica di non
definizione delle forme, restituendo allo spettatore una visione momentanea.
Per gli espressionisti diremo l’esatto contrario: non la proiezione dentro di noi delle
impressioni che derivano dall’esterno, ma l’impressione di ciò che noi siamo e di ciò che
proviamo sull’esterno. Proiettiamo la nostra psiche sul mondo esterno e lo modifichiamo.
Gli impressionisti invece assorbivano dall’esterno e cercavano di riportare esattamente
quell’emozione visiva.

Nell’esposizione dell’86 sono presenti degli artisti che però presentano delle opere che non
sono più impressioniste, sono la loro morte. Termina quel meccanismo che era partito con
la ricerca del rapporto con la realtà e che arriva qui. o

Dopo questo quadro di Seurat nulla sarà più lo stesso. L’86 è anche però la data di uscita di
un romanzo, “Controcorrente” di Karl Huysman, considerato dalla critica letteraria il
manifesto espresso del simbolismo, un’altra temperie culturale molto diversa e che avrà
conseguenze nello sviluppo dell’arte del ‘900. Il simbolismo è una corrente di pensiero che
trasforma l’Europa. L’Exphrasis è una figura retorica che è il raccontare con le parole
un’immagine: nel romanzo c’è una lunghissima Exphrasis di cui parleremo.

L’esposizione universale del 1889, in cui viene realizzata la Tour Eiffel, fa da sfondo a un
terzo fenomeno, il cosiddetto Modernismo, che si applica più in architettura e nelle arti
decorative ma che andrà di pari passo al simbolismo, alle secessioni, del post-
impressionismo e del divisionismo.

Tra l’86 e l’inizio del secolo ci sono 14 anni pieni di fenomeni molto diversi tra loro. Li lega
una temperie culturale che si è molto modificata, stiamo arrivando alla crisi del
positivismo: questo sistema di assoluta razionalizzazione viene messo in discussione a
metà dell’800 e si cerca di far riemergere di nuovo tutte quelle parti dell’essere umano che
non hanno certezze e sono legate ad un rapporto empatico col mondo della realtà.

Torniamo all’opera di Seurat: non è un’opera impressionista, anche se nei manuali è


spesso in questa corrente. Lo potrebbe sembrare solo per il soggetto, tipicamente
impressionista, la vita contemporanea in quel momento e delle persone comuni. Ma tutto
il resto non è impressionista: il dipinto è di grandi dimensioni, è un’opera realizzata in un
tempo lungo ed in atelier, anche se basato su una serie di appunti grafici. Non è
impressionista anche per lo studio attento della distribuzione dei personaggi e per il
riporto attento delle ombre sul prato: ne consegue rigidità delle forme e la loro distinzione.
Notiamo che dal punto di vista visivo il quadro sembra diviso da una linea immaginaria
verticale che attraversa la figura femminile al centro, così come sono indicate le linee
orizzontali che dividono l’opera in uno schema grafico. Anche la tecnica pittorica non è
impressionista: sono infiniti puntini cromatici distribuiti con attenzione, non ci sono
pennellate, questi puntini sono di colori puri accostati. Inoltre, il quadro ha come una
cornice che lo delimita, fatta di puntini cromatici che riprendono le tonalità del quadro: è la
mediazione tra la parte dipinta e la cornice di legno del quadro, una mediazione tra
l’esterno e l’interno del quadro. Seurat ha realizzato centinaia di disegni preparatori a
carboncino. È andato a studiare in diversi momenti della giornata i colori e le ombre e
questi bozzetti sono più vicini agli impressionisti, ma la resa finale è diversa e più rigida, è
come un fermo immagine. La tecnica si chiama puntinista.

Attorno all’86, Seurat presenta


un’operazione che ha già un senso
simbolista: ci fa vedere l’interno del
suo studio. Il soggetto non è nuovo
ma il senso è diverso. Vediamo
intanto una parete occupata dal
quadro di prima, ma vediamo che
Seurat usa un espediente: non siamo
entrati dalla porta e non abbiamo una
visione a 180 gradi: vediamo solo un
angolo, non una parete dritta davanti
a noi, che è nella mediana della tela
ed è impersonata dalla modella. Il
taglio è contrario alle regole accademiche, le tre modelle sono la stessa persona ma in
pose diverse, circondata dagli oggetti da cui si è liberata. Abbiamo un’immagine tripartita
che mette nel quadro anche l’elemento temporale: non è un istante, non è un quadro
impressionista. È un dipinto già simbolista.

Questi dipinti colpirono alcuni artisti


presenti all’esposizione, come Guaguin. Nell’86 era anche arrivato a Parigi Van Gogh,
seguendo il fratello commerciante d’arte. Van Gogh fa entrare nei suoi dipinti una pittura
materica e una ricchezza cromatiche particolare, non applica in modo rigoroso una tecnica
divisionista o puntinista. C’è però l’idea di fissare un istante, ma non è impressionista,
semplifica le forme. “Il seminatore” è una rivisitazione di un quadro del realismo, del 1865,
contemporaneo a Manet. Il seminatore qui ha un’aria epica, non è una persona che si
spacca la schiena, qui ha la postura di una specie di eroe. Van Gogh lo rifà in linguaggio
contemporaneo, con pittura materica sovrapposta dove i colori sono puri e vivaci, in cui c’è
già una componente di valore simbolico. Questo si evince anche da “La notte stellata”,
1889, momento in cui dall’88 abbandona Parigi e si trasferisce in Provenza ad Arles, dove
vive un paio di anni di serenità. Qui il tema del paesaggio, tipico di realismo ed
impressionismo, viene virato in senso simbolista: abbandona l’idea che la pittura
restituisca il reale per quello che è, il paesaggio diventa un luogo dove si evidenziano delle
tensioni o delle presenze sovraumane in cui queste forze trasformano il paesaggio,
dandogli un valore visivo e simbolico. È una notte di luna, si vedono le luci accese nelle
case, ma le colline non sono verdi o marroni, non hanno colore reale, tutto è blu come se il
cielo fosse ricaduto sulla terra. I cipressi diventano fiamme, abbandonano la forma più
squisitamente realistica per diventare una forma che ricorda altro. Il cielo è pieno di stelle
che emanano luce ed energia, e due forze universali si scontrano sopra le teste degli esseri
umani. È una visione dell’universo che domina gli esseri umani in un’inquietudine generale.
Non è impressione, qui potremmo chiamare il dipinto espressionista ma lo chiamiamo
post-impressionista. Sarà modello per alcuni decenni per gli espressionisti e per gli artisti
dell’avanguardia: in lui si riconosce questo salto linguistico e il contenuto fortemente
simbolico del suo ragionamento.

Ultima opera, 1890, è una grande tela


intitolata “Campo di grano con corvi”. Da
ciò che vediamo, potremmo dire che è un
paesaggio della campagna provenzale: è
vero, riconosciamo le spighe e le strade,
ma quello che possiamo descrivere ci
restituisce altro, impalpabile, ed è
l’inquietudine. È una delle chiavi di volta
per comprendere cosa sta succedendo nelle dinamiche della trasformazione dei linguaggi
artistici di questo periodo. Non è in una chiave sublime ma psicanalitica, individuale e non
collettiva.

Questo problema dello smontaggio della pittura non è patrimonio solo dei post-
impressionisti, ma anche di uno dei fondatori dell’impressionismo: Claude Monet. Proprio
in questi anni trasforma la sua pittura: quello che era stato il capofila dell’impressionismo
sceglie un’altra strada, percepisce che la corrente si limitava alla superficie dell’immagine e
vuole cercare una verità più profonda rispetto al visibile. Se il dipinto impressionista aveva
come obiettivo il restituirmi un’immagine che io perdevo, che svaniva, quello che
percepiscono a questo punto è che le trasformazioni dell’immagine non possono essere
l’obiettivo dell’arte, che deve andare oltre la realtà e ci fa capire qualcosa in più di noi.
Negli anni 80 comincia a fare delle serie di tele, con tema che si ripete: nasce la serie dei
covoni, una ventina di tele in cui i soggetti sono dei covoni di grano ripresi in diversi
momenti dell’anno. Un’altra serie sono le ninfee o i cipressi, ma quella più significativa è
quella della cattedrale gotica di Rouen. Qui il suo
obiettivo è un po’ più complicato, non si tratta
solo di riprenderla in momenti diversi. Erano 24
tele dello stesso formato che pensava di
impaginare una attaccata all’altra: il suo obiettivo
era che lo spettatore, seguendo una logica di
lettura e muovendo il suo occhio lungo questa
linea, percepisse un’unica immagine variata, era
come se avesse voluto applicare nella pittura un
effetto cinematografico. Il cinema in questi anni
sta nascendo, ma soprattutto ci sono dei lavori di
alcuni fotografi di una stampa di più lastre
fotografiche che, messe vicine, davano senso di
movimento. I futuristi vedremo che ci
mostreranno il movimento, siamo a ridosso di un
cambiamento di sistema.

Negli anni 1966-67 Andy Wahrol realizzò un filmato posizionando una macchina da presa
in un edificio di NY che inquadrava un pezzo della strada: registrò per 24 ore e ne trasse un
sunto. In modo diluito vedremmo quello che Monet ci presenta in queste tele, l’oggetto è
sempre quello come anche il punto di vista ma tutto si trasforma davanti ai nostri occhi,
l’immagine è sempre uguale ma sempre diversa.

Alla fine della sua vita, negli anni


20 del ‘900, Monet offre alla sua
città Parigi 4 gigantesche tele che
aveva pensato di collocare in
questa stanza ovale, con 4 accessi.
È una sala costruita apposta per
queste opere all’Orangerie. Il titolo
generale sono “Le ninfee”, ma qui
non si vedono più, a differenza dei
suoi primi quadri sulle ninfee. L’effetto che vuole ottenere è che il pubblico si senta
immerso nell’acqua del laghetto, diventi parte di questa natura indefinita ed impalpabile. I
suoi colori vengono stese come macchie cromatiche, base dell’informale. È la
dimostrazione di quanto il suo percorso, da una pittura di impressione e di superficie, sia
arrivato ad una demolizione del reale.

Tra gli artisti dell’esposizione dell’86 c’è anche il gruppo degli artisti Bretoni: qui la tecnica
è ancora diversa, qui si utilizzano delle campiture di colore piatto che si incastonano le une
nelle altre, come nelle vetrate medievali.
L’opera è intitolata “Le donne bretoni” di
Gauguin, stanno facendo la preghiera della
sera.

Due opere di Gauguin con la stessa tecnica


e realizzate nell’88-89 in Bretagna, dopo
aver lasciato Van Gogh in Provenza. Si vede
una vecchia donna bretone seduta su un

monumento, la Pietà. Sono dei compianti di


solito sormontati da un crocifisso. Qui si mette in relazione l’arcaicità con le donne bretoni,
allaccia un discorso simbolico. È una dichiarazione poetica anti-moderna, lui non vuole
Parigi e le cose che celebravano gli impressionisti, vuole ricercare uno spirito arcaico e lo
trova in Bretagna.

Nel “Cristo Giallo” lui è primitivo e i colori


sono anti naturalistici, il cristo è giallo e gli
alberi sono rossi, per rappresentare
un’immagine che non vuole più avere nulla a
che fare con il naturalismo e il realismo.

Ne “La visione dopo il sermone” vediamo di


spalle tre donne in abiti tradizionali bretoni,
con cuffie bianche e camicie nere. Sulla
sinistra ci sono altre donne, non in prospettiva
e tutti inginocchiate. Sono fuori, non sono nella chiesa. A destra, l’unico uomo è il prete,
che ha appena celebrato la messa. In questa visione quotidiana di una domenica dopo la
messa c’è qualcosa di strano, che è un angelo che sta combattendo con un uomo dalla
tonaca scura, su un prato arancione. In realtà è una visione, qualcosa di non reale, dopo il
sermone ovvero il discorso del parroco. Ci dice che il prete ha letto un passo della Bibbia, la
lotta tra Giacobbe e l’angelo: succede che le donne contadine, religiose e legate all’arcaico,
escono dalla chiesa e visualizzano questa proiezione delle loro menti. Sovrappone
un’immagine del quotidiano con un’immagine fantasiosa e simbolica. Il tronco di un albero
separa nettamente i nostri contemporanei dalla visione, non si rispettano le proporzioni e
non ci sono ombre. È uno spazio neutro, dove è tutto una visione e un simbolo.

Si trasferisce nelle isole dell’Oceania, a Tahiti: scopre un mondo nuovo, arcaico, in cui il
buon selvaggio degli illuministi è vero. Vivono un rapporto con la natura particolare. La
nudità di queste donne non è accademica ma nemmeno una nudità che ci comunicavano
gli impressionisti, sono studiati dal vero ma dove la relazione dei loro corpi con la natura
perde di naturalismo e diventa evocante.

Gustav Moreau mantiene una coerenza pittorica


estranea agli artisti che ha intorno. Vediamo
“L’apparizione”, degli anni 1883-84. Il pittore non
mette in mostra solo la vicenda di Salomè ed Erode:
mentre lei esibisce il suo corpo, appare
improvvisamente solo a lei e a noi la testa di Battista
già mozzata dal corpo. La terrorizza e l’odio di
trasforma in dolore feroce, tutto si combina in
posizione ossimoriche. La testa del santo perde
sangue che si rapprende sul pavimento. Ci sono
elementi contrastanti in un luogo remoto fisicamente
(oriente non definito).

Puvis de Chavannes, pittore di formazione


accademica che sposa la poetica simbolista. Si ispira a
Seurat, è la stessa donna ripetuta in posizioni diverse. Mette insieme un mondo classico e
l’idea di una modernità che non è il contemporaneo impressionista.

Un simbolista diverso è Edward Munch: è perfettamente contemporaneo a Gauguin, ha


una formazione accademica e il suo viaggio a Parigi negli anni ’90 lo informa sugli
impressionisti. In “Angoscia e Malinconia”, sono tre tele che componevamo una sorta di
trittico. Sono tre autoritratti dell’artista in cui si autoritrae in forme non realistiche (il terzo
è L’urlo). Vediamo la scelta anti naturalistica nella costruzione di un paesaggio fatto di
macchie, la figura in primo piano perde i connotati e la natura diventa potentissima,
terribile. Nell’Urlo è travolto, la baia si scioglie ed il cielo è un colare di sangue.

15/02/2021

“L’Urlo” fa parte di un progetto costituito da 3 tele, che Munch crea in momenti diversi tra
il 1892 e il 1894. Questo meccanismo di costruire composizioni seriali di opere è qualcosa
che abbiamo già visto in Monet: l’idea è che la pittura contemporanea non sia più
esauribile in un’unica immagine statica, ma che proprio nell’ottica della trasformazione dei
linguaggi (conseguenza del cambiamento di rotta della cultura europea che si sposta
nell’area del simbolismo) crea una nuova percezione. Tutte le opere vengono recepite
attraverso un rapporto visivo.

La parola empatia è fondante per la cultura simbolista, è lo strumento più potente che
allaccia rapporti non prettamente razionali con lo spettatore. L’empatia ha valore
individuale, cambia a seconda della sensibilità dell’individuo, ma ne esiste una di carattere
più trasversale ed universale che appartiene al momento storico. La visione del mondo che
ha Munch, il malessere di vivere, tutto quello che appartiene alla sua psiche, trasforma
l’immagine in questo scuotimento della natura. Le onde d’urto che sembrano rivoli di
sangue perdono di consistenza per diventare onde di colore, travolgono tutto a tal punto
che il volto dell’artista vede la figura attraversata da queste onde potentissime, facendogli
sciogliere il viso che diventa un teschio urlante. Il suo modo di esprimersi è una prova
generale della cultura espressionista dei primi anni del ‘900.

Munch affronta anche dei temi che l’arte aveva tenuto nascosti, difficili, che non erano
accettati dalla società contemporanea per quelle forme di perbenismo e pudore (una delle
ragioni per cui i simbolisti si scagliano contro la società).

Pubertà, 1893, Munch. Quanto l’urlo esplicita una tragedia collettiva, una visione
apocalittica, Pubertà rappresenta una tragedia personale ed intima che diventa collettiva.
Il personaggio non è una specifica ragazza, è una
rappresentazione simbolica di un passaggio che
appartiene a tutti gli esseri umani, il passaggio
all’adolescenza. Come viene rappresentato?
Diversamente da una tradizione che rappresenta i
fanciulli edulcorati, l’infanzia letta sempre come
luogo di felicità, ecco che Munch ci da una lettura
opposta: pubertà è costituito da una struttura molto
semplificata, tutto è volutamente appiattito e
semplificato. Vediamo delle linee orizzontali che
definiscono letto, materasso e parete. Nella sua
semplificazione non descrive un ambiente specifico,
il totale anonimato dello spazio suggerisce che sia
un’immagine che va dal particolare al generale,
questa ragazza è tutte le ragazze. Al centro del
dipinto (evita una rigida simmetria) c’è una giovane ragazza nuda, ma non rispetta alcun
canone (non solo classico, ma nemmeno di uno studio dal vero). L’unico rapporto con la
realtà è il viso, il nudo è ambiguo perché è chiaramente femminile ma il seno non è
evidente, è come se fosse non ancora sviluppato, così il volto è di una bambina. Questa
combinazione induce a capire che abbiamo davanti un corpo acerbo che non è né bambina
né donna, è la pubertà, che comporta un atteggiamento: incrocia le braccia per
nascondere il proprio sesso, è una consapevolezza che la ragazza ha del suo corpo. Lo
sguardo fisso verso di noi, con aria interrogativa e consapevole, sembra chiederci cosa sta
succedendo anche se dentro di lei già lo sa. A fianco della fanciulla viene dipinta una specie
di macchia scura sulla parete: non è propriamente la sua ombra, è qualcosa di autonomo
che incombe su di lei. È la morte, è un simbolo, un fantasma oscuro, la presa di coscienza
di questa bambina che si svegli al mattino non più bambina. Rappresenta gli esseri umani
che prendono consapevolezza della loro esistenza. Perde una carica cronachistica per
assumere potenza simbolica, mettendo davanti agli occhi qualcosa che era sempre stato
nascosto dall’arte.

Sui rapporti complicati col mondo c’è una testimonianza di due opere del 1895,
“Madonna” e “L’Autoritratto”. Sono entrambe incisioni, non fanno parte di cicli, sono
autonome e l’autoritratto si identifica in un modo specifico: nel 1895 si rappresenta con il
volto riprodotto in modo coerente alla sua immagine, è detratto da una fotografia. Isola il
suo volto e lo colloca sospeso in uno sfondo nero, come se fosse la notte (evoca la testa del
Battista tagliata di Moreau). Si identifica con colui che è stato sacrificato. A chiudere
l’immagine, nella parte inferiore c’è una parte bianca. Si tratta di un braccio scheletrico, è
la sua mano destra, lo strumento che l’artista usa per creare le proprie opere. Viene
collocato quasi fosse una reliquia, è lui già morto e al di
là del tempo. Qui si capisce la sua idea di pittura come
strumento fondamentale per comprendere i misteri
della vita.

In “Madonna” riprende un’iconografia della madonna


vergine ma trasformato in qualcosa di più carnale e
tragico. Vediamo una figura femminile nuda in cui le
definizioni anatomiche sono appena suggerite, non è
esplicito, la sua pelle bianca indica la purezza di Maria
ed è combinata con la massa di capelli che si unisce allo
sfondo scuro. È ripresa dal basso, sembra un cadavere,
gli viene indicata una sorta di aureola dietro la testa ma
potrebbe essere la luna che emerge dalla notte. È tutte
le donne insieme della religione, ma dove il
concepimento del dio incarnato è visto in maniera quasi
blasfema, in maniera diversa dalla tradizione iconica. In
un angolo della cornice, è rappresentato un bambino: è
un feto non sviluppato o deforme nato morto,
rappresentato in modo terribile. È il prodotto della
società contemporanea. Lungo la cornice marrone, sono
disegnate delle forme che sono spermatozoi: mette in
evidenza la terribilità dell’eros, la società dell’epoca era
travolta dalle malattie veneree che davano vita a
bambini deformi o che nascevano morti, cosa che colpì
molto l’artista.

1898-99, “Eredità”. Il tema della malattia è


fondamentale nel simbolismo, una malattia non solo
fisica ma anche di decadimento spirituale della società.
È anche una ricerca spasmodica di una bellezza che non
viene mai trovata (questo soprattutto nella visione dei
simbolisti decadentisti). Qui l’immagine è simile a
Pubertà, uno spazio che viene chiuso sul primo piano,
parete neutra, al centro (ma non esattamente) c’è una
giovane signora con abiti da esterno e un cappello. È
una donna non popolana, è una borghese la quale ha
un’epidermide del volto tutta macchiata di rosso,
richiamata dalla piuma del cappello, contrasta con le
tonalità fredde. Rivela attraverso la pelle una malattia,
si porta alla bocca un fazzoletto bianchissimo, ha la tubercolosi. La cosa tragica è che la
donna porta con sé un bambino, tenuto in braccio su un tessuto bianco (gioca con
l’iconografia della madonna con bambino): è deforme, quasi scheletrico, testa grande,
volto inespressivo e sul corpo ci sono delle macchie rosse. Questa è l’eredità, la malattia.
L’immagine apparentemente legata alla contemporaneità utilizza una forma iconica dei
secoli precedenti ma con i significati ribaltati.

Arriviamo alla secessione di Berlino:


siamo nella maturità di Munch, il suo
momento clou: “La danza della vita”
è del 1899-1900. È una tela di
dimensioni significative, è uno dei
perni sui quali costruisce tra quegli
anni una serie di tele, presentata nel
1902 all’esposizione della secessione
di Berlino, appuntamento annuale
come i Salon parigini.
Nell’esposizione nella sua sala colloca
le opere in alto e vicine, crea una
storia: l’idea è di costruire una specie di fregio narrativo fatto per immagini. Le tele hanno
come temi momenti diversi della vita. La danza della vita abbiamo un’immagine
apparentemente di tradizione impressionista: vediamo il prato verde, la spiaggia e il cielo,
lui colloca sul fondo delle sagome che danzano felici. Ci sono 3 blocchi: una figura vestita di
bianco e con i capelli rossi (ritratto della donna da lui amata) si avvicina con le braccia
lievemente aperte, al centro c’è sempre lei che danza con Munch con un abito rosso
sangue, passione e morte insieme, il suo abito lo avvolge; a destra e rigida in un abito nero,
è la fine della passione e la morte.

Mette insieme i momenti


clou della vita, questa
tragica passione ci
potrebbe far pensare che la
cultura simbolista sia
sempre così disperata. In
realtà esistono delle visioni
molto diverse da questa,
come Hendsor. Il suo
capolavoro è un grande
dipinto, con base più di 4
metri, datata 1888-89. Le
date sono a ridosso del momento in cui Munch arriva a Parigi, anni dell’esposizione
universale. Il titolo è “Ingresso di Gesù a Bruxelles”: mette in campo un tema
dell’iconografia religiosa tradizionale, la Domenica delle Palme, con cristo che entra
trionfale a Gerusalemme. Questo tema viene translitterato in una chiave sarcastica ed
ironica: al centro c’è una figura vestita di rosso, è Gesù che entra a Bruxelles, come se fosse
tornato sulla terra e fosse acclamato come il messia in una città moderna. Le ali della folla
delimitano una specie di arco trionfale caratterizzato da uno striscione rosso, con scritto
“Viva il socialismo”. Vuole dire che i valori della Rivoluzione francese, fatti propri dal
manifesto del partito comunista, sono i valori cristiani. In primo piano si vede un gruppo di
militari che precede l’arrivo di cristo, c’è la banda, bandiere che sventolano, ma vediamo i
personaggi che fanno parte del corteo (che uccideranno poi cristo) che hanno delle
maschere. Sul podio, dove stanno il sindaco ecc., vediamo dei pagliacci. Questa allegoria
riprende un tema cristiano e lo riproduce in chiave tragicamente sarcastica.

1889-90, “Lo stupore della maschera


Wouse”. Vediamo una scena in cui questa
figura, che identifichiamo come femminile
vista la lunga sottana, porta uno scialle ed
ha un ombrellino, è uscita per la sua
passeggiata ma in realtà è una maschera,
il suo volto non è reale. È in realtà in uno
spazio chiuso che sembra un teatro, ci
sono delle persone che assistono. Una
figura la guarda dal basso come se fosse in
platea, c’è un gesto di stupore: vede
abbandonati a terra degli strumenti
musicali, dei costumi con delle maschere, una bottiglia (i vizi) e un teschio figurato, la
morte, che tiene in mano una candela spenta. Quello che lei vede davanti a sé è quello che
resta degli esseri umani, scopre improvvisamente che nel quotidiano esiste la morte. È lo
stesso ragionamento di Munch ma in chiave sarcastica.

Simbolismo elegante nelle forme, basato sul disegno, contrario dell’espressionismo di


Munch, è prodotto in Belgio nel gruppo “dei 20”. Si ritrovano poeti, musicisti, pittori, il
personaggio più rappresentativo è Knopff. È molto legato al rapporto arte-poesia, vive con
la sorella, donna che ama e musa ispiratrice dei suoi quadri.

Opera che lo rese famoso nel 1891 è una grande tela dal titolo I “lock my door upon
myself”. È una citazione di una poetessa inglese, Cristina Rossetti, che scrive questo poema
dal titolo “Chi mi libererà”: una nuova consapevolezza delle donne che non accettano più i
loro ruoli e che vivono la difficoltà di uscire da quei ruoli. Vediamo una figura femminile
dagli occhi vacui, che
guarda lo spettatore e
tiene la testa appoggiata
alle mani intrecciate.
Guarda malinconica ma è
come se fosse rapita da
un suo pensiero. Il titolo
è l’esplicitazione poetica
di quello che vediamo, lei
si chiude in sé stessa e
rifiuta di essere oggetto
di indagine. Davanti vediamo un piano ma è coperto da un panno nero, che evoca il
sepolcro, rappresenta il lutto. Emergono in primo piano tre steli secchi, rappresentazione
del giglio (verginità di Maria) ma morti; per suggerire ulteriormente la malinconia mortale,
Knopff dipinge una testa con elmo e con ali (era nello studio dell’artista): è il sonno, ha lo
stesso volto di Margherite. Le ali sono azzurre come il tessuto appoggiato vicino a lei. Il
sonno è il fratello gemello della morte. Alle spalle la parete ha elementi diversi, non si
capisce se sono quadri o aperture della parete.

16/03/2021

Il 1902 è un anno simbolico, può assumere una serie di significati, è l’anno in cui espone
Munch alla secessione ma è anche l’anno in cui vedremo qualcosa di stilisticamente
diverso.

1896, opera
che suscitò
una serie di
critiche da
parte dei
tradizionalist
i ma che
riscosse
successo presso i secessionisti. Titolo “Carezze”, capiamo che l’iconografia che vediamo è
in realtà tenuta in sottotono per far emergere qualcosa di diverso. L’ambiguità è la chiave
per comprendere quello che vediamo, del rapporto tra il titolo e l’immagine del rapporto
tra i due protagonisti. In qualche moda la pittura simbolista si pone come contrapposizione
legata alla realtà contingente; cerca invece di rivolgersi ad un gruppo di adepti, che hanno
la chiave per capire i simboli e il senso di queste opere. Può essere compreso solo da
alcuni, che hanno quella sensibilità poetica e quella ricerca dell’allegoria patrimonio dei
simbolisti. Il formato del quadro è uno sviluppo rettangolare in orizzontale, non sappiamo
la sua finalità ma evidentemente richiama i pannelli che erano collocati come capoletti,
arredo di una stanza. Ci racconta infatti di un rapporto fatto di sentimento, di eros, di
ferocia e di tenerezza (carezza, il titolo). Vediamo una figura maschile che tiene in mano
uno scettro e che si avvicina a un essere con testa femminile e corpo di leopardo. Ci
rimanda al mito di Edipo e la Sfinge, ma virandolo in chiave originale e nuova, non è la
semplice narrazione del mito. Knopff trasforma il rapporto tra Edipo e la Sfinge in un
rapporto erotico, dove il mito viene cancellato. È un mostro, fatto con corpo animale
(scelta del leopardo rende ancora più accattivante e avvolgente la carezza), ma la sua testa
femminile è appoggiata al volto di Edipo ed è rapita da un sentimento di amore, è come se
lui avesse ammansito questo animale. Edipo ha corpo maschile ma il volto è quello della
sorella di Knopff, Margherite, idealizzato ma un volto maschera. È compiaciuto di questo
rapporto che però diventa mostruoso se applicato all’eros, è un’immagine inquietante e
tenera, come un amore impossibile. Si svolge in un paesaggio privo di connotazioni, ci sono
dei cipressi e al centro c’è una lastra, un rudere di un tempio antico con delle iscrizioni in
carattere indecifrabile, che evocano la parte della leggenda di Edipo, ovvero l’enigma che
la Sfinge poneva ai viandanti. Due colonne azzurre a destra hanno base e capitello dorate,
sono legate nella parte alta da una specie di nastro: sono la rappresentazione allegorica
dell’unione di due diversità, lo stesso collegamento che vediamo nella parte figurativa.

“Segreto, Riflesso”, Knopff. Vediamo una figura femminile


avvolta in veli, chiusa come dentro un tessuto azzurro e un
velo grigio che le copre i capelli, è sempre la sorella
Margherite che è coperta come se fosse una sacerdotessa.
Dentro uno spazio chiuso, non riconosciamo nulla dello
spazio, ma vediamo che si avvicina ad una colonna azzurra
con capitello dorato (come quelle di prima) a cui è appesa una
testa maschera, circondata da foglie di alloro e di vite, che ha
il volto simile alla donna e sembra viva. Capiamo che la
colonna è la cornice di un grande specchio: “Psiche”, è una
grande specchiera grande al vero, in cui le persone si
potevano vedere a figura intera. È un arredo utilizzato in tutto
l’800. Ecco il termine Riflesso del titolo che si rende
comprensibile. La donna ha una mano avvolta in un guanto e
appoggia un dito alla bocca di questa figura, gli chiude la bocca, sigilla il Segreto (prima
parte del titolo). Che segreto deve mantenere? È il suo alter ego, è il segreto dell’esistenza.
È una visione malinconica e tragica che ricorre nelle sue opere e qui viene ulteriormente
sottolineata dal quadro sottostante, ovvero la visione di un’architettura (Hotel di Bruges,
città belga). È un edificio antico disabitato che si riflette nelle acque ferme dei canali di
Bruges, il tempo è finito, ecco ancora la malinconia.

Tutti questi temi, che derivano dal sublime ottocentesco (rapporto tra sonno e morte,
nostalgia, senso del ritorno,…) sono temi simbolisti.

Bocklin, è un artista di
formazione
accademica che ebbe,
diversamente dai suoi
coetanei, un profondo
legame con l’Italia,
visse e studiò a
Firenze. Opera del
1883, un po’ precoce
al simbolismo dell’86,
ci sono 5 versioni, è
“L’isola dei morti”. Rappresenta un paesaggio che non esiste, mescolanza di elementi di
paesaggi lontani fra loro. L’isola è Capri, sono i Faraglioni, è fatta di rocce ancestrali dove
vediamo che l’uomo è intervenuto scavando delle tombe. Dove ha visto questa cosa
l’autore? A Venezia, isola di San Michele, isola cimitero. Anche a Firenze c’era un
terrapieno isolato dalla strada e acquistato dagli inglesi per farne un cimitero. I cipressi
sono infatti del cimitero inglese. Il mare e il cielo sono quelli del mare del nord, dai colori
plumbei. C’è volontà di mescolare fonti diverse per dare valore simbolico: non vediamo
solo un’isola per le sepolture, il luogo è senza tempo, i valori che mette in evidenza sono
“senza luogo e senza tempo”. Descrive una piccola barca che lascia una scia in un mare
immobile che sta giungendo al molo e porta un feretro, ornato di fiori, e una figura
femminile ammantata di bianco porta e va a rendere gli estremi onori al sepolcro. L’azione,
come bloccata in uno schema
paesaggistico in cui tutto sembra
raggelato, è moderna.

Bocklin, “Gioco delle Naiadi”, simili a


sirene che qui mostra in modo
giocoso. Ma ci rivela un’altra cosa:
nella realtà contemporanea, in cui
tutto è reso chiaro e leggibile da una
visione realistica della realtà, questa
idea viene ribaltata dai simbolisti
suggerendoci che esiste un mistero
magico nella nostra realtà, che noi non percepiamo se non apriamo la nostra sensibilità.
Questo mistero è che gli dèi antichi siano ancora vivi tra noi, il mondo contemporaneo non
è riuscito a cancellare quel mondo perduto in cui gli esseri umani e la natura convivevano
in modo meraviglioso. Illustra un’immagine che è un mix tra realismo e invenzione: la
roccia e la spuma del mare sono realistici, il cielo è plumbeo, sembra di percepire il rumore
del mare. Ma in questo paesaggio reale appaiono figure che non esistono, le naiadi. I volti
che vediamo sono dei ritratti realistici dei suoi
amici che vede nuotare con lui quando andavano a
fare il bagno a Capri.

Questa idea verrà ripresa da un altro artista


simbolista, Klinger, titolo “Die sirene”. È ispirato al
dipinto di prima ed è un rapporto erotico evidente
tra una sirena e un uomo.

SIMBOLISTI ITALIANI

Non hanno tutto l’apporto tragico del nord Europa, hanno rapporti con la Francia. Gaetano
Previati e Segantini.

Previati, titolo “Le


fumatrici d’oppio”,
1887, opera finale da
rappresentare
all’annuale esposizione
dell’accademia di Brera.
Fa parte di abitudini
considerate decadenti e
condannabili, sono
rappresentate all’interno di una casa privata in cui viene distribuito l’oppio, droga
economica e diffusa. Non mostra delle donne in abiti occidentali, sono delle figure rivestite
di abiti antichi, vesti orientali. Ecco che immediatamente il soggetto che crea problemi di
carattere morale viene portato in un altro tempo, pur non togliendo nulla alla
drammaticità dell’immagine. È interessante il fatto che utilizzi un tema legato alla
contemporaneità trasformandola in immagine poetica e simbolica. È un luogo non luogo,
non vediamo dettagli, le figure abbandonate nei loro sogni ed incubi sono simbolo di
quella perdita di coscienza di sé che il quadro vuole rappresentare. Indicano questa strada
di uscire dal quotidiano insopportabile e di accedere ad un mondo di perdita di coscienza.
Il tutto è giocato su una pittura che ha lo stesso tono (ocra e bianchi) e il colore è steso a
striature, diversamente dai puntinisti francesi che utilizzano colori puri sovrapposti. I
divisionisti italiani scelgono la strada della divisione, ma rifiutano quella meccanica dei
puntini per scegliere una strada in cui i colori non sono avvicinati ma uniti secondo colori
dominanti, stesi sulla tela quasi in maniera filiforme, cromatica e avvolgente.

“Maternità”, 1891,
Previati gioca la carta
del tema religioso
trasformato in una
maternità in senso
più lato. Vediamo un
paesaggio in cui al
centro (quasi) un
albero di melograno,
sotto il quale c’è una figura femminile con manto chiaro su abito scuro, evoca la vergine
addormentata che protegge il sonno del bambino. È protetta dal sonno e dalla preghiera
degli angeli, in un prato fiorito. La maternità sacra diventa un’ode alla maternità di tutti,
protetta dagli spiriti. Per costruire le figure e il prato verde usa dei filamenti di colore, con
questo ha costruito i corpi. È un dipinto che potremmo definire Art Nouveau.

Segantini, ha rispetto a
Previati una visione meno
spiritualista è più legata
alla realtà contadina e
rurale delle montagne.
“Le due madri”, 1889, è
un inno alla maternità
che perde le connotazioni
religiose e assume valore
sacro, è la sacralità del
rapporto madre figlio e
della vita che continua. È espresso tramite la cura della madre umana in una stalla
d’invero, luogo più caldo dove tenere la sua creatura, vicino alla mucca che riscalda
l’ambiente. Lei si è addormentata, il soggetto del dipinto è la lampada sospesa che illumina
la donna e la mucca. L’andamento del pennello segue un effetto circolare, una linea
circolare dove studia la ricaduta della luce. Tutto è costruito con attenzione ma reso con
pittura materica, fluida e lineare, che da alle immagini valore simbolico. Le due madri
condividono spazio e sentimenti.
Opera precedente, 1886, Segantini, “Ave Maria
a trasbordo”. Vediamo fondersi elementi del
paesaggio realista con echi della pittura
simbolista francese, momento quotidiano
intriso di valori simbolici. Ave Maria è la
preghiera che si dovrebbe dire al tramonto,
indicava quindi un’ora del giorno. Vediamo
un’azione compiuta dai pastori che vivevano
nelle terre lombarde, dove dopo aver portato
le pecore a pascolare nelle brughiere deve
riportarle all’ovile, attraversando uno specchio
d’acqua su una barchetta. È l’ora in cui si
trasbordano le greggi agli ovili. Identifica i due
assi della tela, verticale e orizzontale, e sceglie
di alzare la linea dell’orizzonte. Per rendere l’effetto della profondità rialza lievemente i
bordi della linea dell’orizzonte, come se fossero concavi, così vale per il riflesso del paesino
d Pusiano che si riflette nel lago. È una linea scura che separa la stessa tonalità del cielo e
dell’acqua, siamo al tramonto ma non è rosso fuoco. Per dipingere il fondo del cielo parte
dal punto più chiaro e poi con effetto semicircolare aumenta le tonalità scure, così come
ha costruito il riflesso dell’acqua che diventa matericamente più forte. Nella barca colloca
le pecore, il pastore e la mamma con bambino. Questa immagine non è la descrizione del
pastore: diventa un’allegoria della sacra famiglia, è come se vedessimo Giuseppe e la
Madonna durante la fuga in Egitto, le pecore sono i fedeli.

Altro punto di vista completamente diverso: Cezanne, un pittore francese che ha avuto un
percorso molto lungo ed è interessante perché nel
1874 lui partecipa, insieme al gruppo degli
impressionisti, alla prima mostra degli
impressionisti, con “La casa dell’impiccato”. Quel
quadro, fra gli altri della mostra, era assolutamente
anti impressionista: dove gli altri proponevano
piccoli tratti e il rapporto tra acqua, aria, cielo, lui
costruiva con effetti di piani sovrapposti, era
qualcosa di non momentaneo, giocava invece sulle
profondità. Non parteciperà più alle mostre. Negli
anni ’90, in fase post impressionista, realizza tre versioni di questo tema. “I giocatori di
carte”, il tema potrebbe sembrare impressionista (legato alla quotidianità), due persone in
un bar che fumano e giocano a carte, ma li rappresenta in modo anti impressionista. Le
componenti del quadro seguono logiche compositive dove i volumi hanno il peso (cosa che
impress. non considerano). La bottiglia è al centro, ci da simmetria compositiva, come
anche la linea orizzontale dello sfondo. I volumi dei loro corpi sembrano dei cilindri, delle
sfere. Parte dal dato di realtà e cerca di trovare una
chiave che, togliendo l’aspetto più immediato, sembra
andare a cercare la forma originaria degli oggetti, per
andare oltre la superficie visibile. Suggerisce l’asse
verticale e orizzontale, ma notiamo che il piano del
tavolo è lievemente obliquo, fa uno scarto minimo che
serve a sottolineare che l’immagine che vediamo non
vuole essere realistica ma ricostruita da un’esperienza
visiva.

1895, “La donna con caffettiera”. Vediamo una signora


seduta vicino a un tavolo in cui si distinguono una
caffettiera e una tazzina. Era una persona di servizio di
Cezanne in abiti da lavoro, che lui fa sedere su una
sedia e che fissa in questa immagine, dove notiamo gli
assi verticali dei battenti della porta e dell’abito,
abbiamo una griglia simmetrica, anche di linee
orizzontali. C’è una griglia compositiva, totalmente non
impressionista. Suggerisce uno spazio sghembo, la
porta è leggermente inclinata, la figura che sembra così
stabile è in realtà leggermente pendente. Vediamo la
signora con le mani abbandonate in grembo, il volto è
studiato dal vero ma studiato all’essenziale, la
fisionomia sembra una maschera. Elementi di realtà ed
elementi sintetizzati. Le pieghe dell’abito sono così rigide da sembrare un’armatura
d’acciaio. La vediamo di fronte, come se fossimo seduti e la guardassimo. La tazzina e la
caffettiera le vediamo di fronte, ma vediamo poi il piano del tavolo come le vedessimo
dall’alto, abbiamo punti di vista diversi che non sono possibili nella realtà. Questo
inserimento ci rivela che non vuole essere né un ritratto né una scena di vita quotidiana,
ma un esercizio per la resa astratta dell’immagine in cui ci sono elementi non possibili nella
realtà. L’idea della pittura cubista parte dall’esperienza di Cezanne, che ci offre più punti di
vista allo stesso momento.

1904-5, Cezanne, fa una serie di tele dedicate ad un paesaggio che vede ogni giorno in
Provenza. È un paesaggio di campagna e di campi coltivati, con sfondo una montagna,
titolo “Le Mont de Saint Victorie”. È un paesaggio smontato, fatto di frammenti cromatici
che ricomposti sulla tela restituiscono i volumi delle case e degli alberi, è tutto fatto per
blocchi, cielo non è solo azzurro ma anche grigio e verde, così come tutto il resto. I volumi
si mescolano, si scompongono in figure
geometriche pure che ricompone in un
paesaggio dell’anima, è un’immagine della sua
mente a cui lui da vita. Da questo tipo di
esperienza parte il linguaggio dei cubisti dei
primi anni del ‘900.

STAGIONE DELLE SECESSIONI

Berlino, Monaco, 1897 a Vienna la più importante. Avviano i lavori del padiglione della
secessione viennese, lo spazio dove gli artisti mostreranno le loro opere e dove
ospiteranno opere di artisti stranieri, come anche Segantini e Van Gogh anche se già
morto.

Le opere di Klimt sono di chiara matrice simbolista,


1898-99, “Pallade Atena”. Gli dei antichi diventano
soggetti per rappresentare lo spirito di una Grecia
arcaica immaginata (non storica), dipinge questa
figura femminile come una dea moderna, ha l’elmo
d’oro ed indossa la pelle di serpente fatta di scaglie
d’oro, ma il volto è di una donna moderna. Legge
una figurina nuda, la Nuda Veritas, divinità antica in
corpo moderno (modella presa dal vero non
idealizzata), è anche l’Eva primordiale. Uso dell’oro
e di elementi decorativi modernisti di stile
orientale.

1902, grande mostra che i secessionisti vogliono organizzare dedicata alla musica e a
Beethoven che ebbe come terno espositivo una grande scultura di Klinger.

18/03/2021

1902: data emblematica, il ‘900 si apre con l’Expo di Parigi che fu visitata da artisti
importanti (come Picasso) e milioni di persone. È attratto da questo avvenimento e arriva a
Parigi proprio in quell’anno. Entra in contatto con Toulose Lautrec che lo porta dai galleristi
che trattavano i dipinti degli impressionisti e le novità pittoriche dei post impressionisti. È
proprio da uno di questi che Picasso riceve un primo contratto per vendere delle sue
opere. È il momento in cui diventerà amico di Matisse, che lo presenterà a Cezanne:
diventa il catalizzatore di molte novità che si agitano a Parigi.

Sempre nel 1902, a Berlino, Munch propone in allestimento il suo “Fregio della vita”, che
segna un punto di non ritorno dai suoi temi e dal suo linguaggio, che saranno la base del
movimento di Avanguardia Die Brucke.

1902 a Torino si inaugura la Prima mostra delle arti figurative moderne, con l’intenzione di
realizzare altre mostre internazionali. Torino era l’ex capitale del regno, città
industrializzata e si candida ad essere la capitale della modernità. Non volevano fare solo
un’esposizione universale generica, ma una mostra specializzata sulle arti decorative
(prodotti della vita quotidiana) che prevedeva la presenza di nazioni europee e non, con la
presentazioni di oggetti creati apposta per la mostra. Il modernismo è un fenomeno
complesso, che riguarda architettura ecc. ma anche le arti figurative.

Terzo fenomeno del 1902 è la 14esima esposizione della secessione viennese. È in questo
padiglione che arrivano a Vienne opere degli impressionisti e post impressionisti. Nel 1902
si fa una mostra dedicata alla musica, perché nella visione modernista e nella secessione le
arti sono un insieme di elementi creativi che costituiscono la visione artistica
contemporanea. Questa non è legata ai generi della tradizione accademica, ma l’insieme di
tutte queste espressioni che comprendono anche le arti decorative e il teatro, la musica, la
danza e la poesia, che secondo la posizione teorica del modernismo devono convergere
per creare un’opera d’arte totale. È un’utopia che continua nel corso del ‘900: da dove
viene questa idea di opera d’arte totale? Deriva dalla filosofia di Nietzche, dove la sua
estetica era che a partire dal mondo greco la tragedia individua due fonti: l’elemento
dionisiaco (l’istinto, l’animo bestiale, pieno di energia) che si contrappone e mescola con lo
spirito apollineo (dio della poesia e delle arti, equilibrio, armonia, ordine). La mescolanza
dei due sistemi da vita all’opera d’arte totale. Questo approccio viene ripreso da Wagner
che nell’800 aveva dato vita a un tempio della musica lirica, un teatro innovativo che
prevedeva un palcoscenico al centro dello spazio con il pubblico e orchestra intorno. La
messa in scena di un’opera musicale era percepita da un pubblico immerso in questo
spazio, che dava vita a un’esperienza di opera d’arte totale. Da queste esperienze deriva
quella dei secessionisti.

Si chiede a Klinger di realizzare una monumentale scultura, dedicata a Beethoven. Questa


statua doveva essere collocata nella sala centrale del padiglione della secessione. Attorno
ci dovevano essere opere dei secessionisti con tema la musica, e le sale laterali (sinistra)
era dedicata solo a Klimt, in cui esegue un fregio su tre lati a un altezza elevata, come
quello di Munch, non ad altezza persone. Ha come soggetto la Nona sinfonia di Beethoven.
Sono opere simboliste ma che rivelano un approccio modernista, legato all’Art Nouveau.

Parliamo della scultura: è


polimaterica, il trono è in
bronzo e decorato con
smalti ed elementi in
marmo bianco ed avorio.
Beethoven è in marmo di
Carrara e il tessuto che lo
copre è una pietra dura.
L’aquila è in Nero del
Belgio. È una ripresa di un
sistema anti classico e anti neo classico. Non è un ritratto di Beethoven, ma un ritratto
simbolico, il suo volto riprende le fisionomie ma è rappresentato nudo, è un’immagine
ideale dell’uomo. È nudo in quanto un nudo eroico, è divinizzato. È seduto in un trono,
decorato con testine di fanciulli come fossero gli spiriti degli eros antichi, sullo schienale ci
sono fregi in bronzo con temi mitologici delle arti (muse, apollo…). È rappresentato in
questo trono, coperto da un panneggio che copre la sua nudità più esplicita; ha una gamba
accavallata all’altra, come se fosse in stato di concentrazione, il volto è impegnato in un
pensiero. Questo pensiero è un momento creativo che si comunica all’aquila di Zeus, che si
sporge fuori dal masso (cima dell’Olimpo) e le ali stanno per aprirsi. Il dio della musica, il
punto più alto della poesia musicale e dell’arte totale, col solo pensiero crea le sinfonie e
spinge l’aquila ad aprire le ali e a scendere sulla terra per portare arte e poesia. Diventa il
fulcro di tutta l’esposizione.

L’inaugurazione della mostra avviene con l’orchestra dell’Opera di Vienna che esegue la
Nona sinfonia di Beethoven.

Fregio di Klimt: i pannelli in anni recenti sono stati ricollocati sotto al piano dove stavano in
origine. Il fregio corre su tre pareti, si legge da sx a dx, anche in questo caso è un’opera
polimaterica. Nella parete del fondo sono inseriti madre perle, ceramiche, stucco, foglia
d’oro. È una tempera su dei pannelli di intonaco già secco, notiamo nelle ali laterali il
grande spazio vuoto lasciato da Klimt. Questo è un influsso dell’arte orientale, della pittura
giapponese, che lo influenzò molto. Il fregio è un’allegoria simbolista ispirata alla nona
sinfonia, ci sono figure femminili stilizzate che dormono. Rappresentano un’umanità
addormentata, priva di bellezza. Le figure inginocchiate sono l’umanità, resasi conto di no
non avere bellezza, chiede ad un soldato in armatura d’oro di difendere l’umanità dai vizi e
dalla corruzione. Nella parete di fondo ci sono appunti i vizi da cui gli umani devono
difendersi: c’è uno scimmione con corpo di serpente e ali d’aquila, le cui figlie con corpo
serpentino sono altri vizi. È in contrasto con le pareti vuoti, è piena di colori per
rappresentare il fascino dei vizi e della perdita di obiettivo. Dopo la parete colorata
abbiamo ancora le figure femminili dell’inizio, che sconfitti i vizi volano fino ad una figura
che impersona la poesia, la danza, la musica, l’arte. Nell’atto conclusivo, l’Inno alla gioia,
c’è un coro di donne che cantano ed è il trionfo di un’umanità tornata ad un rapporto
ottimale con la natura. Ci sono due persone che si abbracciano, nelle acque del paradiso, è
la nuova umanità che riesce a raggiungere una nuova visione della vita, grazie all’arte.

Età aurea di Klimt, dei suoi capolavori: il “Bacio”,


1907-8, si vede un abbraccio, la figura maschile tiene
delicatamente il volto della donna, è un’espressione
del sentimento che si esplicita in questo manto d’oro
che avvolge i corpi. Combina elementi astratti
(fondale di polvere d’oro) con dei particolari realistici
come piedi, braccia, la muscolatura. La luce e la preziosità rende l’immagine ancora più
simbolica.

Klimt fa un viaggio in Italia, e la biennale di Venezia gli dedica una mostra monografica nel
1910. “La Giuditta II” è del 1909, che realizza l’anno prima di essere spedita a Venezia,
dove ancora oggi è conservata (uno dei 3 Klimt che abbiamo in Italia). Salomè è una donna
contemporanea, si denuda di fronte ad erode, tiene tra le mani i capelli di Giovanni
Battista (autoritratto di Klimt). La cornice d’oro riprende la struttura dei dipinti giapponesi.

È ospite a Roma per


un’esposizione, in cui il re compra “Le tre età della donna”. Tra il 1907 e il 1911
corrispondo due opere di gusto modernista, La Danae, soggetto legato al mito classico in
cui è attualizzata in una figura contemporanea, modella studiata dal vero, in posizione
fetale. Riesce a rendere il rapporto d’amore tra Giove e Danae, lui si trasforma in una
pioggia d’oro che scivola tra le gambe della donna, suggerendo un rapporto erotico ma
giocato sulla preziosità delle decorazioni.

Chiude l’età ottocentesca e di primo novecento Il ritratto di “Adele Blockbauer”. È


un’opera che durante il nazismo fu confiscata alle famiglie ebree, che dopo decenni e
processi hanno riottenuto il diritto della loro proprietà. Oggi è a NY al museo della
secessione viennese. Adele è un ritratto spettacolare della fase aurea di Klimt, giovane
donna con cui forse aveva una relazione sentimentale, come nel Bacio il ritratto non ha più
necessità di essere di rappresentanza, con costumi ecc., lei indossa i gioielli personali
quindi c’è una ripresa puntuale dal vero, ma gli elementi di assoluto naturalismo vengono
sommersi all’interno di un annullamento della terza dimensione e dell’idea di
ambientazione. Adele perde nel quadro la sua singolarità individuale, per diventare una
rappresentazione della bellezza in assoluto, che è il fascino della congiunzione tra la
preziosità dell’elemento ornamentale e l’esaltazione dell’oro. È un trionfo di luce e oro che
annulla il rapporto arte-nimesis, che diventa opera d’arte totale.

AVANGUARDIE STORICHE

1905-1916, range cronologico in cui sono collocate le avanguardie: sono una serie di
fenomeni di nicchia, che coinvolgono inizialmente pochi artisti e poco pubblico di
collezionisti, ma che sono le punte di diamante si una trasformazione radicale di linguaggi
artistici, non solo pittorici, che hanno come luoghi di concentrazione e sviluppo Parigi,
Milano (futurismo), Dresda, Vienna e Zurigo (dadaisti), Mosca e San Pietroburgo.
Individuiamo in questi fenomeni la nascita dell’arte moderna.

Una delle figure dominanti è Pablo Picasso, un artista spagnolo di formazione accademica,
suo padre era docente, il giovane Pablo mostrava già talento molto potente e ricco.
Giovanissimo si trasferisce a Barcellona, città più moderna di una Spagna ancora legata alla
tradizione agricola. È una città che si sta sviluppando in modo esponenziale ed esce dalle
mura, diventano una metropoli moderna. Parigi è ancora la capitale mondiale delle novità
artistiche, si guarderà sempre a questa città ma si guarda ora ai post impressionisti, come
puntinisti e ad una figura come Toulose Lautrec. Il giovane Picasso, arrivato a Parigi con i
suoi amici, entra in contatto amicale con questo artista e nel 1901 realizza questa “Giovane
donna con turbante”, che rivela affinità stilistica a Lautrec. Il soggetto è una ballerina di
Montmarte, è un’immagine contemporanea, è in una posa volutamente intrigante, si
stringe nelle spalle, il nero è la sua larga gonna, il volto è contemporaneo, la linea
bidimensionale è simile a Klimt. C’è una linea di contorno che rende la figura
bidimensionale. Il fondale è realizzato con tocchi di pennello sovrapposti, sono tessere di
colore materico messi come un mosaico ma non in modo
regolare. È una rivisitazione del puntinismo, Picasso ha voluto
riprodurre una tecnica di cui non condivide la meccanica
scientifica, la rende più decorativa.

Mentre Picasso torna a Barcellona e poi ritorna a Parigi per


stabilirsi, lo vediamo in un autoritratto che presenta una
particolarità. Cosa è avvenuto rispetto alla policromia?
Vediamo una linea scura che incastona la figura nel fondo
(stessa linea del quadro di prima), questo deriva dal gruppo
degli artisti che lavoravano vicino a Gauguin, di cui Picasso
conosce le opere e che lo colpiscono. Il ritratto è fedele, è
riconoscibile, anche se l’insieme rende tutto astratto, il fondo azzurro che non mostra né
ambiente né paesaggio. Chiave simbolista, ma ci si chiede perché un monocromo blu?
Viene definito Periodo Blu, che va dal 1902 al 1904, scelta giustificata dalla morte per
suicidio di un amico intimo di Pablo, che lo segna molto. Di colpo abbandona la policromia
gioiosa per scegliere il colore che per lui significa lutto, tragedia. Per due anni le sue opere
avranno questi caratteri.

“La Celestina”, ritratto femminile, 1903, è un ritratto


di una donna molto anziana cieca da un occhio, che
apparteneva alla vita spagnola. Nella sua “maschera”
alterata, in cui non c’è idealizzazione, la figura è
coperta da un manto scuro, ha capelli grigi e diventa
un’immagine che non ha nulla di contemporaneo. Lo
sguardo, con occhio bianco e cieco e l’altro che
guarda verso di noi, trasforma l’immagine in qualcosa
di simbolista.

“Il povero suonatore di chitarra”, 1904, momento di


chiusura del periodo blu e avvia un’altra fase, qui la
composizione ha articolazioni complesse. La figura è
più grande della tela, per poter rappresentare questa
figura di un vecchio mendicante riduce gli elementi
anatomici in forme schematiche. Questa
schematizzazione delle forme è chiaramente
influenzata da Cezanne, sta ragionando sull’idea di
andare oltre il vero per concentrarsi su elementi
formali di base. Unico elemento non blu è la chitarra,
che diventa un oggetto a sé rispetto al rapporto
corpo-fondale, in cui tutto si fonde.

Opere 1902-3, hanno come soggetto figure sedute ai


tavolini del caffè (sempre Lautrec), figure non
fisicamente coerenti con immagine naturalistica,
senza proporzione, semplificazione fisionomie. Tutto
rimanda al grafismo secessionista ma soprattutto
sono gli atteggiamenti ad essere particolari: non
parlano, sono isolati, c’è una componente simbolista
molto forte, in cui non vuole rappresentare la vita che scorre, ma tentare di suggerire dei
concetti di allegoria del reale. Un personaggio è una prostituta, si chiama “Assenzio”
(rimanda a Degas). Nell’altro dipinto la figura femminile è combinata con una figura
maschile, che in realtà non è reale, è un attore, ha i capelli chiusi in una retina, il volto è
ricoperto di bianco ed indossa un abito di arlecchino. È un soggetto che affascina molto
Picasso, è un simbolo, è la morte. Questo avviene anche nella tradizione della commedia
dell’arte, è chiamato ancora nei documenti antichi “Zanni”, è il non morto che esce dalla
tomba con abito fatto di frammenti di vestiti (le pezze). L’arlecchino porta i vivi in una
danza macabra e folle verso la morte.

Periodo blu si era aperto con una specie di pala


d’altare, “L’evocazione”, è un funerale in cui le
persone piangono la morte (l’amico di Pablo). Ci sono
figure femminili nude che volano in un cielo fatato,
sono i sogni dell’uomo morto. La composizione è
ripresa da El Greco, Il seppellimento del duca. El Greco
è il modello che Picasso usa per tutto il periodo blu.

Passa poi al periodo rosa, 1904-1907, quando


comincia la sperimentazione in chiave cubista. Picasso
nel periodo rosa utilizza come soggetti Arlecchino, con
la ragione di prima, o gli acrobati, i circensi. È una cosa
che lo affascina, anche gli artisti della sua generazione,
non solo perché all’epoca era uno degli spettacoli più
amati, ma perché è una sorta di allegoria di
un’umanità peregrinante per il mondo, che porta le
poche cose che possiede e che viene colta non nel momento in cui esercita l’arte circense,
ma in momenti di intimità fuori dalla scena, rivelandoci la loro umanità e malinconia.
“Famiglia di saltimbanchi”, 1904-5,
vediamo due uomini in costumi di
scena ma non in fase recitativa,
arlecchino tiene per mano la sua
bambina vestita da ballerina. L’uomo
grasso è vestito come una serie di
diavolo o pulcinella, il ragazzo acrobata
porta un sacco con i propri oggetti. A
lato c’è una donna con una brocca e
con un cappello di paglia. Le figure
sono plastiche, riprese da scultura
romana. E’ nel momento in cui
comincia a guardare ai maestri, si
costruisce una sua memoria visiva fatta
di modelli base di meditazione e
ragionamento.

“Famiglia di acrobati”, è dietro le quinte


vicino alla sua donna, sempre acrobata,
che solleva le ginocchia per stringere a
sé il bambino. Non è un dipinto
religioso, ma vuole comunicare
attraverso questa tavolozza di rosa e
bianchi una sorta di sacralità dell’affetto
che lega questi personaggi, obbligati
per vivere di essere oggetto di riso, ma
che sono umani ed hanno una loro
dignità. C’è una scimmia, studiata dal
vero, volutamente naturalistica e
volgare, ha una propria grazia, che ci
restituisce la magia di quell’intimità. Il
tema del circo rimarrà in Picasso molto
forte, come il tema della corrida che
arriverà negli anni 20 e 30.

Altro protagonista, Henri Matisse, della generazione poco prima di Picasso, formato
nell’atelier di Moreau (eredita il senso del colore preziosissimo), colpito in modo potente
dalle esperienze di Seurat e di Signac, di cui comincia ad imitare la tecnica puntinista. Il
giovane Matisse, molto colto, incappa nel giovane e dinamico Picasso, non molto colto e
un po’ rozzo. Si fa quasi un vanto di educare Picasso e lo porta a vedere i musei, dove vede
per la prima volta le sculture africane, opere di civiltà lontana che lo colpiscono. L’incontro
con Cezanne e Picasso è fatto da Matisse, è un catalizzatore di linguaggi.

Vediamo un dipinto di Matisse, 1905,


“Lusso, Calma e Voluttà”, titolo
simbolista come anche il tema, le
bagnanti. Il tema è antico, è la ninfa che
viene dalla tradizione classica che viene
virata in una spiaggia in Provenza.
Abbiamo figure femminili in diverse pose,
sono una rappresentazione dello spirito
della natura immerse nella luce
mediterranea, organicità tra esseri umani
e natura, il tutto reso con tecnica
puntinista ma non regolare, ma con
frammenti cromatici come tesserine che
passano dai colori caldi a quelli freddi, creano movimento dell’aria e dell’acqua.

22/03/2021

Torniamo a Matisse, Lusso Calma e Voluttà. Stiamo affrontano le avanguardie storiche e la


prima è quella dei Fauves, 1905. Nella primavera di quest’anno si apriva, oltre al Salon
ufficiale, quello degli Indipendenti, erede del Salon dei Refuses. Era un’occasione pubblica
molto significativa. Nell’autunno si raccoglievano le opere realizzate durante l’estate che i
pittori più d’avanguardia presentavano al pubblico. Il Salon era una mostra mercato, era un
modo per captare il mondo dei collezionisti e dei galleristi. Nel 1905 c’è questa tela di
Matisse, un pittore che aveva a quell’epoca 35 anni e si era già affermato, aveva seguito un
corso di studi adeguato, aveva lavorato nello studio di Moreau e con Signac, artista
parigino che aveva ospitato per una serie di anni (98-99 dell’800) Matisse. Sulla scorta della
frequentazione di Signac realizza quest’opera, il cui tema è un paesaggio della costa
azzurra ed è legato al tema delle bagnanti. Presenta una rilettura rivoluzionaria della
tecnica dei puntinisti: dalla lezione dei post impressionisti, ricava il trattino di colore puro,
ma diversamente da loro utilizza una linea di contorno, che circoscrive il loro profilo. Altro
elemento di novità è che tra un tratteggio e l’altro si intravede la tela di fondo, di lino e
non preparata. Questo modo di rappresentare non è più un modo secondo le regole dei
puntinisti, puntini più sottili e regolari, che evitavano la linearità di distinzione delle varie
parti. Questo rivelava una interpretazione di cambiamento del sistema linguistico dei post
impressionisti, fa un tentativo di liberazione del linguaggio dai vincoli scientifici dei puntini
accostati. È come se avesse voluto recuperare la velocità di produzione impressionista ma
adottando un linguaggio più materico, con l’idea di suggerire un superamento del rapporto
luci ombre, aria volumi. L’ultimo retaggio di un naturalismo ottocentesco viene meno. Ci
sono valenze al limite di una forma di astrazione, di forte carattere simbolista ma tendenti
all’astrazione, dove quello che vuole evidenziare è la disarmonia dell’insieme visivo. La
figura al centro seduta con le
gambe raccolte ritornerà a
breve nella poetica di Matisse,
come anche quella in piedi e
quella sdraiata di lato. Questa
sperimentazione presentata
nella primavera del 1905
suscita delle reazioni dai
critici, che troverà però un
esito da scandalo proprio
nell’autunno dello stesso
anno. Presenta un ritratto
della moglie e un altro,
considerato manifesto dei Fauves, titolo “Gioia di vivere”. Matisse recupera un tema
accademico e lo vira in una chiave contemporanea. Il tema dell’età dell’oro è la
rappresentazione dell’umanità nel pieno della giovinezza all’interno di una natura
perennemente estiva o primaverile, è una rappresentazione ideale del rapporto tra umani
e natura. È una tela di grandi dimensioni, che si trova a Philadelphia.

Il termine Fauves fu usato dai critici per dire che i quadri sembravano dipinti da bestie,
Fauves appunto. L’unica avanguardia che farà un manifesto sarà quella dei Futuristi, qui
parliamo di gruppi di artisti che più o meno si addensano. Questi hanno in comune l’uso di
colori anti naturalistici, tecnica pittorica più o meno ispirata al puntinismo ma in chiave
materica e il tema dei paesaggi con figure. Esplodono come fenomeno nel 1905 ma già
l’anno successivo non esistono più. La “Gioia di vivere” rappresenta un’umanità di figure
atteggiate in modo diverso, dove l’idea di profondità è suggerita dalla diminuzione della
grandezza delle figure in secondo piano. Le campiture di colore sono ben distinti ed anti
naturalistiche, è l’idea che la tavolozza cromatica non debba più avere a che fare con un
rapporto organico con la realtà naturalistica, i colori hanno valore di evocazione che
comunicano al nostro occhio armonie o disarmonie. L’umanità che vediamo segue una
logica che poi troveremo anche nelle bagnanti di Cezanne. Il centro è vuoto, gli alberi
sembrano delle quinte teatrali ma la parte centrale non ha il soggetto principale, è
svuotata. Nel primo piano vediamo una citazione da Seurat: la linea blu è l’ombra di una
serie di alberi fuori dal quadro. Ma è l’unica ombra, nelle altre figure non ci sono ombre
realistiche. Vediamo una figura senza tempo che suona un flauto, come se fosse una
divinità o un flauto. Sulla destra abbiamo un uomo e una donna che si abbracciano,
trasposizione contemporanea di Amore e Psiche. È una reinterpretazione di
quell’abbraccio canoviano con un riferimento anche al Bacio di Klimt. La donna che sta
raccogliendo un fiore riprende quella rannicchiata del quadro di prima. A metà, due donne
sdraiate come ninfe antiche sono abbandonate al sole, c’è felicità di vivere, dietro c’è
anche un pastore che sembra rimandare alle pastorali seicentesche. Tutto è sintetizzato
nella figura al centro, un girotondo di sei figure, una danza di gioia. Sono adulti che
esprimono con libertà la gioia dell’esistenza, in un’umanità primordiale e serena.

“Donna col cappello”, si trova a San Francisco, è un


ritratto della moglie. Questo dipinto scatena le ire
dei critici, perché più che nel dipinto di prima (di
paesaggio), questo maltrattava un genere che aveva
sempre mantenuto un rispetto delle regole, ovvero
il ritratto. Matisse ne demolisce l’idea, non solo la
figura è smontata ma è volutamente abbruttita, non
risponde all’estetica abbellente del ritratto. La
figura non è in una posizione tradizionale, è girata
ed è come se fosse stata chiamata all’improvviso. Ci
sono tinte di colore senza senso che vengono
sovrapposte, il volto è come una specie di maschera
intagliata nel legno, con pennellate violente che
fanno sembrare il viso macchiato. Nulla è rispettato,
come se fosse un’alterazione per mostrare non la
bellezza ma la deformità espressiva. Anche il fondo
è fatto da macchie, se togliessimo la donna avremmo un quadro astratto.

1906, Morise de Vlanmic, olandese che ha studiato a Parigi e fa parte dei Fauves. È un
oliveto ma non è riconoscibile, è più vicino all’ultimo Van Gogh, ci sono pennellate molto
lunghe.

Rousseau ha temi esotici, li ricostruisce


sulla scorta delle costruzioni degli
almanacchi o attraverso le piante e animali
che vede allo zoo, è un mondo inventato
nella mente di un pittore bambino, la figura
femminile è mal disegnata ed è sdraiata su
un divano nella foresta. Le piante non sono
naturalistiche, sembrano una tappezzeria.
Ci sono due animali selvatici e una figura di
colore, una suonatrice di flauto ripresa da Matisse.

Nei medesimi anni, 1906-


1907, mettiamo a confronto
due opere: Picasso e
Matisse. Queste due opere
hanno in comune il soggetto,
ritratto femminile, come
anche gli anni. La signora di
Picasso si chiama
“Gertrude”, di origine
tedesca ma americana che è
col fratello a Parigi, dove si sono trasferiti. La loro casa
diventa un salotto intellettuale in cui si incontrano per
passare le serate scrittori ed artisti, tra cui il giovane
Picasso e Matisse. Nel famoso Salon d’autunno del
1905 i fratelli avevano comprato da Matisse “La donna
col cappello”. Picasso sta uscendo dal periodo rosa,
cioè una pittura con campiture ocra e rosate delineate
da una linea più scura che avevano come soggetto la
vita dei circensi. Questo interesse delle campiture ocra
e dell’uso della linearità, unito all’incontro con l’ultimo
Cezanne delle bagnanti, esce la rappresentazione di
questa donna. La sua idea è di affondare la massa del
corpo avvolto in una vestaglia nera nel divano e nello
sfondo. Il volto sembra una maschera, si riconosce la
donna ma il suo volto sta diventando più simile ad una maschera tribale africana. È proprio
in quest’anno che Picasso comincia a meditare su una riduzione delle forme. La
contrapposizione tra il dettagliato particolare e l’essenzialità del resto è la novità. Il ritratto
di Matisse, “Ritratto con linea verde” riprende il ritratto della moglie e vediamo un primo
piano, dove ritroviamo il fondale senza ambientazione e senza studio di luce, è astratto.
L’uso dei colori acidi e violenti è forte, i capelli rossi della moglie diventano blu, il volto è
sottolineato da una linea come una maschera. Qui lui esaspera in senso Fauves la linea di
demarcazione che un pittore accademico avrebbe fatto, vista la luce che proviene da un
lato. Matisse schematizza e il volume non gli interessa molto, appiattisce e separa la zona
in luce da quella in ombra, evidenziando questa linea non con uno sfumato ma con il suo
contrario, una definizione netta di colore di tonalità acida, il verde.

Cezanne, “Le bagnanti”, 1905, non completo. Il tema è ricorrente, la figura accucciata è
sempre Matisse, è come la Gioia di vivere. Ci sono alberi che sono quinte arboree, creando
un effetto teatrale ma sempre con il
centro del quadro vuoto. Il modo di
sintetizzare le forme anatomiche è
accolto da Matisse. Allo stesso tempo,
questo modo di rappresentare i nudi
troverà in Picasso una trasformazione
ancora più analitica.

Il soggetto del bordello di Picasso e


Lautrec è l’idea di rappresentare il nudo
femminile esibito ed attrattivo e allo
stesso tempo c’è la componente della
paura della malattia e del decadimento
fisico. Il tema ha quindi una componente
allegorica molto esplicita. 1906, un
interno di bordello con 5 donne nude che
esibiscono in modo spontaneo il loro
corpo, le posizioni sono sempre quelle di
Matisse. Picasso aveva pensato di inserire
due uomini vestiti, uno che entra dalla
tenda e uno già seduto a un tavolo, dove
aveva pensato di rappresentare un piatto
con delle fette di anguria, con in primo
piano una natura morta di fiori e teschio
(per il rapporto erotismo/morte malattia).
Da questo primo bozzetto, sparisce un
uomo, le donne sono 6 e la natura morta
è indefinita. In un altro disegno sparisce la natura morta e schematizza i corpi, fino ad
arrivare ad un bozzetto con le cinque donne senza le figure maschili, natura morta ma
schematizzazione lineare dei corpi femminili.

23/03/2021

Fenomeno CUBISTA: fase iniziale à CUBISMO ANALITICO 1907-1910

Fase successiva àCUBISMO SINTETICO 1910-1914

È considerato manifesto del cubismo ma non lo è: il dipinto viene iniziato di Picasso nel
1907, la tela è impostata secondo lo schema del bozzetto precedente, sono 5 donne, c’è la
figura femminile che sembra entrare da quello che rimane della quinta teatrale, la figura
che era seduta diventa come se fosse in piedi ma l’artista non rappresenta la sedia che
determina la strana postura. La figura centrale corrisponde all’asse verticale immaginario,
le due laterali hanno una postura di schiena con gambe aperte e una in piedi. Le figure
sono innestate in uno spazio totalmente deprivato da riferimenti spaziali, non c’è
profondità o plasticità dei corpi, la natura morta è essenziale. Le donne sono come
incastonate in delle specie di lastre di ghiaccio: questi elementi suggeriscono il problema
del rapporto figura spazio. Picasso ragiona sul tema che l’aria in cui sono immerse le figure
non sia un vuoto ma un pieno, un corpo a sua volta. I loro movimenti producono nell’aria
altri segmenti, come se i copri rompessero una lastra di ghiaccio e le schegge riempissero i
vuoti, che sono dei pieni. I corpi sono di colore del periodo rosa, sono ridotti ma
riconoscibili nella loro disposizione anatomica, anche se geometrizzati: le braccia sono dei
cilindri, i seni dei triangoli. I volti sembrano maschere africane, alcune perdono anche nella
cromia il colore della pelle. C’è un processo di metamorfosi e spersonalizzazione delle
figure, quelle donne sono “tutte” le donne, idea essenziale dell’eterno femminile. La figura
femminile accucciata e di spalle ha il volto completamente girata verso di noi, quindi noi
abbiamo una visione contemporaneamente di schiena e di fronte: questo è uno dei
ragionamenti che sta facendo, è possibile per l’arte rappresentante nello stesso momento
più punti di vista, come non può accadere nella realtà? Quello che noi leggiamo come
deformazione è un’attenta scomposizione di un volto e una sua ricomposizione per darci in
un’unica visione la molteplicità della visione. È una ricostruzione mentale dell’artista di
quelli che sono i punti di vista.

Il pubblico del tempo questa cosa non la capisce, è un passo troppo complesso: il quadro a
cui stava lavorando nel suo atelier non viene portato a termine, viene girato e non reso
visibile.

BRAQUE, che era apparso tra il gruppo dei Fauves, nel 1907 entra nell’orbita picassiana e
da vita a una serie di paesaggi dedicati ad ambienti della Costa Azzurra che frequentava
d’estate, dove l’immagine è scomposta, l’aria e il cielo e la terra sono un tutt’uno. Combina
gli elementi geometrici come una sorta di intarsio, non c’è volume e spazialità, non
esistono chiari e scuri, è tutto in forma rigorosa ed essenziale di un paesaggio della mente
piuttosto che dell’occhio. È parallelo a quello che ha fatto Picasso.

FASE ANALITICA: guardo la realtà, vado all’essenzialità geometrica dei corpi, essenziale di
ogni elemento visivo, le smonto (faccio un lavoro analitico) e le ricompongo, ma non tutte:
faccio una scelta, per suggerire rapporti volumetrici.
“Donna con mandolino”, non siamo ancora allo smontaggio
ma a una riduzione geometrica.

CUBISMO SINTETICO: è uno smontaggio totale delle


componenti e una ricomposizione non analitica ma sintetica,
dove tutti gli elementi ricollassano nel quadro. Se in quello
analitico rimangono riconoscibili i corpi, in quello sintetico
tutto si compenetra, i volumi entrano uno nell’altro.

Mentre Picasso e Braque si muovono verso quella strada,


Matisse è partito dall’esperienza Fauves e mantiene questo
valore del colore come elemento espressivo fondamentale.

“La stanza rossa”, 1909, il titolo originale


era “Armonia in blu”: tutto quello che
vediamo rosso era in realtà blu. Per
questo quadro si è ispirato ad un motivo
di tessuto di seta blu e azzurro, ma
quando il quadro viene spedito a Mosca
il rapporto con gli altri quadri non
funziona: viene chiesto all’artista di
coprire il blu di fondo con il rosso.
Matisse vuole annullare la distinzione tra
tavolo e parete, per lui elemento
distintivo è l’armonia cromatica e il
valore decorativo della pittura. Aggiunge
un elemento: vediamo qualcosa che ci fa credere di vedere una finestra aperta sul
paesaggio, ma in realtà potrebbe essere la cornice di un quadro, è un’illusione
nell’illusione.

Vengono commissionati a Matisse “I


musici” e “La danza”. Dovevano
decorare le pareti come preparazione
alle sale espositive, dovevano essere
sintesi dell’idea di arte di Matisse, il
valore del colore come elemento
sensoriale. I due soggetti sono la
danza e la musica, dove la musica
rappresenta l’essenza dell’elemento
maschile, sono 5 figure maschili fisse,
4 sedute e due suonano. Sono figure asessuate che riprendono delle statuette di età
cicladica, sono color rosso e rappresentano la terra, su un fondo di colori freddi, il verde e
l’azzurro.

La danza è costituita da 5 figure


femminili, fondo verde e azzurro,
corpi ocra, non sono stanti ma in movimento violento, vorticoso, che è l’allargamento del
piccolo girotondo che Matisse aveva ideato per la Gioia di vivere.

Picasso negli anni ’20 abbandona il cubismo sintetico che non gli interessa più, fa “Donne
che corrono sulla riva del mare”, riprende La danza di Matisse, ma dove il volume dei corpi
sono il residuo dell’esperienza cubista.

PARTE PROGREDITA
1^ LEZIONE

1919, Ludwing Kirkner, autore tedesco. In questo anno la guerra è appena finita e lui aveva
avuto un’esperienza tragica, era stato ricoverato per problemi psichici dovuti alla trincea.
Riprende poi a dipingere opere cui soggetto è il paesaggio, ma in questo anno scrive la
storia (non è un manifesto, è una storia a posteriori) del gruppo a cui apparteneva, ovvero
“Il ponte”. Era un movimento di avanguardia. Scrivere una storia di qualcosa che si è
appena concluso significa dare dei giudizi critici e storici e in qualche modo giustificare le
ragioni della costituzione di quel gruppo. È come se avessimo tutta una serie di notizie da
un testimone diretto che ci raccontano la storia de Il Ponte. Venne pubblicato nel 1919 e
suscitò molte polemiche da parte degli altri membri del gruppo, perché di fatto sosteneva
di averlo creato lui. Comincia con questo testo un’idea che attraverserà tutto il ‘900 di
alcuni artisti che riguardano la storia della loro appartenenza, dandoci una visione dal loro
punto di vista. Il paesaggio che vediamo, datato 1919, è un paesaggio alpino: dopo la
guerra si era ritirato sulle montagne svizzere, ci va per ragioni di salute, erano luoghi isolati
dove il contatto con la natura era potentissimo. Morirà qui qualche anno dopo. La visione
che lui da’ del paesaggio innevato alpino perde qualsiasi legame con un’idea di un racconto
impressionista del paesaggio (come abbiamo già visto nei cubisti dopo i post
impressionisti). È evidente anche che ci sono stati dei prestiti, Kirkner ha in mente altri
artisti che ha visto prima della guerra: emerge il valore drammatico dell’immagine, c’è un
elemento tragico del cielo arrossato, alberi spogli ridotti quasi in cenere, una pittura così si
ispira a Munch. Come poteva conoscerlo? Munch era socio della secessione di Berlino ed
aveva partecipato più volte alle mostre berlinesi, in particolare nel 1902 aveva installato “Il
fregio della vita”. Kirkner e i suoi compagni di strada che vivono a Dresda sono colpiti da
quello che vedono alla secessione. In più a Berlino è aperta una galleria che espone opere
dei Fauves, portarono in Germania anche opere di Van Gogh che è l’altro artista a cui
Kirkner guarda.

Nel 1905, il 7 giugno, si riuniscono ed ufficialmente fondano questo gruppo che prende il
nome de “Il Ponte”. È una metafora utilizzata da Nietzche, che utilizza per indicare la
necessità di traghettare il passato verso il futuro, la contemporaneità è un ponte che
collega il passato con il futuro. Nel manifesto disegnato da Kirkner c’è un ponte in stile
giapponese (citazione dalle ninfee di Monet), ma lo disegna mentre sormonta non un
torrente ma un’architettura di tipo gotico, fatta di guglie e punte. Indica quindi la
tradizione del territorio tedesco di cui loro fanno tesoro e che traghettano in chiave
moderna nel futuro.

Che tipo di pittura è questa? Verrà definita pittura espressionista non da Kirkner e dal suo
gruppo, ma da un critico d’arte membro della secessione di Berlino: Paul Cassirer. In un
commento del 1906, parlando del gruppo, dice “ecco una nuova pittura che finalmente
abbandona quei paesaggi di impressione e racconta l’espressione del paesaggio”. Gli
impressionisti avevano fatto fatica ad emergere nella sensibilità collettiva, ma questo nel
1874. Nel 1906 gli impressionisti sono una cosa ovvia, da almeno 20 anni facevano parte di
tutte le collezioni dei ricchi borghesi, era la pittura ufficiale, aveva superato l’accademia.
Cassirer è come se dicesse “siamo stufi di vedere questa pittura a filamenti che vuole
restituire soltanto l’immagine retinica della natura, cerchiamo qualcosa che sia in grado di
proiettare sull’esterno ciò che agita le anime”. Proietta sull’esterno ciò che sono le gioie, i
dolori, le angosce che l’artista ha rispetto al mondo che lo circonda (Munch lo aveva già
fatto in maniera evidente). Anche i Fauves sono espressionisti, ma non erano mai stato un
gruppo e nel 1906 erano già finiti, il primo vero gruppo lo fanno i tedeschi ovvero Kirkner.

Caratteristiche: colori antinaturalistici, mancanza di studio del chiaroscuro, mancanza di


profondità, pittura materica, deformazione dell’immagine che non viene restituita con un
sistema percettibile e riconoscibile, pennellate violente. Non è che non permettano di
riconoscere l’oggetto, ma lo deformano, come se la natura fosse sottoposta a delle forse
potentissime che piegano le montagne, annullano la luce del sole e bruciano gli alberi.
Proprio nella cultura degli espressionisti tedeschi, questa idea della deformazione è uno
dei pilastri fondamentali: deformando inducono il pubblico a porsi delle domande, a
chiedersene la ragione.

Sfondano solo nel 1912, sotto l’ala protettiva di Cassirer. Il gruppo si scioglie poi con la
guerra.

Meidner, che non fa parte del gruppo, nel 1913


realizza “La casa nell’angolo”. Non è più un
paesaggio il tema, che dal 1911 diventa la città,
soprattutto gli elementi contraddittori. Non viene
esaltata la sua progressività ma la loro mostruosità,
le ambiguità e brutalità del vivere urbano. C’è un
motivo socio economico, la Germania da quando si
era costruito l’impero tedesco voluto da Bismark
voleva accelerare l’industrializzazione. Questo
aveva comportato l’inurbamento massiccio di
manodopera dalle campagne (nascita della classe
operaia). C’è quindi una trasformazione, nascita di
infrastrutture, quartieri popolari, tutte cose
insieme positive e negative, perché il mondo che
viene a collassare sulla città non è fatto solo di
persone che stanno bene. Ci sono tensioni sociali molto forti, la Germania ha attraversato
queste problematiche per molti decenni. L’artista sceglie un non luogo, un dettaglio della
città, non è un luogo monumentale o celebrativo. È una casa ad angolo con finestre,
borghese ed elegante con vicino un giardino, eppure questa casa che nella realtà sta
perfettamente in piedi ed è elegante lui la vede come una casa mostruosa che sta
crollando, che sta implodendo, in cui le finestre sembrano animarsi e urlare. C’è una
sovrapposizione espressiva sull’immagine che serve a far emergere in qualche modo le
contraddizioni e l’orrore che sta dietro la bella facciata borghese. Non è un quadro politico
che intende aprire una discussione, è
una messa in evidenza di una sensibilità
contemporanea che vuole raccontarci
quello che succede.

Artista di origine slava ma che vive a


Vienna, Oscar Kokoschka, erede insieme
a Schiele di quella che è stata la grande
stagione della secessione viennese, ma
non hanno più nulla a che fare col
mondo dorato di Klimt, di tutta quella Vienna di fine ‘800 che ancora era viva e vegeta.
Kokoshka prende le tecniche degli espressionisti tedeschi, arricchito anche lui da Munch e
Van Gogh. Vediamo “La sposa nel vento”, ed è in realtà un autoritratto: l’uomo sdraiato è
lui e la donna che lo abbraccia è Alma Maler, una delle figure femminili più innovative e
indipendenti della cultura viennese fra otto e novecento. Il loro amore era difficile e si era
interrotto, lei lo aveva lasciato, questo è l’atto finale. Lui si rappresenta come un cadavere,
lei bella ed inconsapevole del male che porta e produce. È come se fossero avvolti dalle
lenzuola del loro letto, tutto è deformato, vengono travolti dal vento (non solo della
passione, ma anche di un sentimento che non può essere portato avanti). Tutto intorno a
loro non è un paesaggio o una stanza, è una visione apocalittica dove nulla è romantico,
tutto è travolgente nel senso della tragedia che li caratterizza.

Vediamo una versione simile ma di


Egon Schiele: è del 1917, un anno
prima della sua morte. È un
autoritratto anche questo, lei è la sua
compagna, ma il modo di raccontare è
diverso, è un amore non tragico (è
interrotto solo dalla morte), è reso da
Schiele non attraverso l’idea delle
pennellate violente: lui ha una linea
nera che sottolinea le anatomie dei corpi ed il lenzuolo, con un effetto grafico quasi
bidimensionale. La pittura è data da materia, ma questa traccia nera che ritaglia i corpi
serve a rendere l’immagine simil oggettiva ed innaturale, come anche il punto di vista. Il
lenzuolo sembra un sudario, il nudo di lei non ha nulla di piacevole e gioioso, è qualcosa di
terribile. Il titolo è “L’abbraccio” ma in senso tragico e non gioioso.

Torniamo agli espressionisti tedeschi. Kirkner, opera del


1910, “Marcella”. È un ritratto, altro genere su cui gli artisti
si muovono, Marcella è una giovanissima prostituta che
viene rappresentata in una postura già vista in Pubertà di
Munch. Riprende lo schema ma accentua l’elemento di
ambiguità, vediamo sottolineature tipiche espressioniste in
verde, il suo viso sembra una maschera. Ha le gambe
accavallate ma non in una posa terrorizzata come in
Munch, qui guarda lo spettatore ed è sicura di sé, è
truccata ed ha labbra rosse, lei è atteggiata come una
prostituta eppure è una ragazzina. La terribilità
dell’immagine è data da questa contraddizione. Questa
immagine racconta anche ciò che era una realtà sociale diffusa presente a Berlino.
Vediamo un autoritratto di Schiele del 1912 in cui i tratti
somatici sono trattati come una maschera, dal modo di
squadrare la testa e il volto. Gli espressionisti erano
affascinati dall’arte africana e dalla sua scultura (quindi
anche le maschere).

Una delle opere più significative di Kirkner, 1913, la dedica


alla piazza più viva di Berlino, un crocevia di strade
ottocentesche modificate dai tram, era un punto
nevralgico della vita. Lui non celebra i fasti della
città moderna, ma al contrario, i suoi soggetti
sono le persone che vivono in questa piazza,
come le prostitute da strada. In “Cinque
prostitute” vediamo 5 donne ben vestite come
delle borghesi, hanno pellicce e tacchi alti, non
sono volgari ma simulano un’eleganza ma, negli
atteggiamenti, le vediamo lungo i marciapiedi.
Lui trasforma queste donne da figure reali in
delle apparizioni allungate, ispirandosi alla
scultura gotica tedesca medievale. Intravediamo
la modernità, c’è la scocca di un’automobile e
una ruota in un angolo. Nel 1912 era anche
esploso a Parigi il fenomeno futurista, la fama
dei futuristi è in questo anno perché c’è la loro prima mostra.

L’espressionismo de “Il Ponte” non si sposta solo verso Vienna, ma per tutta la Germania
verso l’altra capitale della secessione, ovvero Monaco di Baviera. Ha dei campioni artistici,
come Franz Von Stuck. A Monaco alcune gallerie d’arte portano le opere dei francesi e la
modernità. Nel 1901 si crea proprio a Monaco un terreno così ricco di spunti e stimoli, Von
Stuck crea un movimento che si chiama “Falange”. Si organizza anche come galleria
espositiva come le secessioni e, pe questa ragione, Monaco diventa attrattiva per i giovani
talenti, come Kandinsky. Questi giovani artisti decidono di trasferirsi dalla città alle
campagne bavaresi: è il periodo in cui Kandinsky fa una serie di paesaggi con
caratteristiche espressioniste, che cerca una mediazione tra il colore espressionista ma con
pennellate rettangolari che prende da Van Gogh.

Sono questi gli anni in cui il giovane Kandinsky decide di fondare, con un amico (Franz
Mark) un gruppo che si dota di una rivista, “Il Cavaliere Azzurro”: è la versione, a Monaco,
dell’espressionismo tedesco. L’idea che sta a monte di Franz Mark è di attribuire al
paesaggio e agli animali dei valori simbolici, i valori hanno sempre valore simbolico
metaforico e non naturalistico. La collocazione dell’animale non rispetta spazialità e
proporzione, è come un sogno primitivo (opera “La mucca gialla”).

Nello stesso anno, “Il treno a Morneau”,


Kandinsky ci racconta la modernità, non c’è la
resa del movimento dei futuristi. Le montagne stanno riducendosi a gruppi di colore,
macchie.

Schiele dipinge un villaggio fuori da Vienna dove ritorna sempre questa linea grafica, ma
hanno in comune lo straniamento, il luogo e il treno sono privi di figure umane, non è la
descrizione di un luogo di vita. È il 1910 la data di snodo di questo avvenimento, di questo
linguaggio.

1911, “Impressione 3, concerto”, Kandinsky. Il


titolo ci dice che vediamo una folla che esce da
teatro, ma noi non vediamo quasi nemmeno le
sagome, se non delle striature ed il volume del
teatro. La presenza di tonalità calde si
contrappongono a quelle fredde.

“Primo acquerello astratto” ci vuole dire che


quel lavoro di pulizia dell’immagine non lo
vuole più rappresentare. In cosa consiste allora
l’oggetto pittorico? In una serie di macchie e
linee che, nella pagina bianca, lo spazio che ho
a disposizione lo costello di questi interventi.
Alle spalle di questo ragionamento c’è l’idea
che l’artista abbandoni il suo stato razionale
(non pensi a prospettiva, ombre ecc.) ed
istintivamente facesse condurre la sua mano
andando a collocare macchie e segni nello
spazio. La casualità, come spiegheranno i
dadaisti, è un mezzo per far entrare nell’opera
d’arte quell’elemento incontrollabile dell’artista che introduce dei cortocircuiti mentali che
ci possono suggerire qualcosa di inaspettato. In realtà notiamo che tutto segue una logica,
i blu e i colori freddi si addensano in una parte e quelli caldi da un’altra, c’è equilibrio
formale tra pieni e vuoti, ma non traspare nell’immediato. La sua ispirazione gli viene dalla
musica, ne è appassionato: i suoi quadri da questo momento si chiameranno
“Improvvisazioni” (come quelle musicali), o composizioni. Il tema è l’apocalisse, raccontano
un’iconografia famosissima, ma qui fa sparire qualsiasi idea narrativa legata al testo
evangelico e gli elementi sono macchie cromatiche e linee. Quello che vediamo sul fondo è
l’abisso, le forze dei cieli, il nucleo centrale in cui tutto esplode è il Dio trionfante
dell’apocalisse. I colori, le forme, i colori costruiscono visivamente una mappatura affine a
quella di suoni che possiamo avere nella mente mentre ascoltiamo la musica. È astrazione.

Siamo ora in Italia e vediamo


un’opera emblema del futurismo:
nel 1910 gli artisti riuniti attorno a
Marinetti scrivono il Manifesto, che
ha come prima firma quella di
Boccioni, autore di questo quadro.
“La città che sale”: è un cantiere di
una nuova città, che si sta
costruendo e sta salendo verso
l’alto. È una città che viene vista in
modo diverso da Kirkner e gli
espressionisti tedeschi. La visione
di Boccioni è positiva dello sviluppo della città, è l’emblema della modernità. è un carro
con sopra materiale edile trascinato da dei cavalli che, sentendo rumori, si imbizzarriscono
e alcuni operai cercano di tenerli a freno. Questo racconto diventa una ragione per
raccontare la potenza del movimento, del farlo entrare in un quadro come mai era
successo. Quello che faranno i futuristi è far entrare nell’opera la quarta dimensione, la
dimensione tempo. Si usa tecnica divisionista fatta di colori puri e filamenti, il cavallo
diventa rosso e perde il suo colore naturale, perché il rosso è sinonimo di energia e forza,
potenza: questo cavallo sembra essere fatto di fuoco, che mentre si muove si
smaterializza, il blu che lo attraversa fa esplodere l’insieme. Questa pittura filamentosa
accede a un livello di smontaggio dell’immagine
ma non in maniera astratta, in maniera dinamica.

Altra questione: Giacomo Balla, “Il movimento


dell’archetto”, 1912. È un formato particolare, è
un triangolo, restituisce il movimento delle dita
di un violinista sull’archetto. Le mani sono
moltiplicate, come anche l’archetto, la cornice di un quadro della stanza in cui si trova è
immobile, naturalmente. È un’immagine statica che ci suggerisce un movimento dinamico.
Esistevano già le cronofotografie, in cui l’effetto era simile. Nell’arte pittorica il movimento
è la quarta dimensione.

“Bambina che corre sul balcone”, Balla. La


bambina è una delle figlie (Luce, l’altra si
chiama Elica). La rappresenta scomposta, sono
tante bambine che corrono con ritmicità. La
composizione è data da quadratini in ricordo
dei puntinisti, non c’è un colore stabilito per
ogni pezzo ma tutti si compenetrano. Anche la
griglia del balcone si compenetra con la figura
della bambina. La compenetrazione da’ il
movimento.

20/04/2021 - 2^ LEZIONE

Torniamo al concetto di Balla della ragazzina che corre sul balcone, come esempio di come
l’avanguardia (è una definizione data a posteriori a queste situazioni di sperimentazione)
ha inserito la quarta dimensione (movimento) nell’arte, con conseguenza della
compenetrazione dei corpi, su cui in particolare Balla lavora. I titoli cambiano
profondamente, Balla poi si firmerà come Future Balla: i titoli definiscono il teorema
rappresentato nella tela, come ad esempio in “Espansione dinamica più velocità”. Quello
che rappresenta qui è la ruota di un’auto che viene fissata in corsa (non vediamo l’auto ma
il suo movimento) con alle spalle la città. Questo corpo che si muove non si muove nel
vuoto ma dentro una materia che è l’aria, e quindi espande sé stesso in modo dinamico, a
cui si lega la velocità con il quale penetra nello spazio. È un rapporto fisico tra corpo,
velocità e compenetrazione spaziale.

Questo tema fondamentale per le avanguardie del futuro trova


anche un’applicazione nella scultura, che è quanto di più
immobile noi possiamo immaginare. Come restituire l’effetto
del movimento? Umberto Boccioni, che si esercita su questi
concetti applicati alla scultura (1912 manifesto della scultura
futurista) propone questo oggetto, chiamato La bottiglia di
Boccioni, anche se il titolo è “Sviluppo nello spazio”. Prende un oggetto banale quotidiano
e lo immagina nello spazio, ma non in uno spazio statico: noi anche stando fermi ci
muoviamo col mondo ed il nostro corpo interloquisce con lo spazio che ci circonda. Lui
immagina il corpo della bottiglia che si proietta nel suo volume nello spazio interno a sé, e
questo interagisce con la bottiglia stessa.

Sempre di Boccioni, “Strada casa”, 1911, si vede sua


madre con una blusa bianca che si affaccia al balcone
della casa popolare in cui vivevano. Guarda la strada
dove c’è il tram, l’immagine che ne ricava Boccioni è una
sperimentazione che lui chiama Strada Casa perché la
madre entra dentro la città, ma soprattutto la città entra
dentro la madre e la casa. Le impalcature degli operai
sono dentro la madre, la stessa casa nel movimento
rotatorio del pianeta si moltiplica nello spazio.

Nel 1912 Boccioni realizza un trittico, tre


tele diverse che vanno lette come un
racconto i cui esemplari si trovano al
Moma di NY. La serie si chiama “Gli Addii”.
Il primo, “Quelli che vanno”, sono le
persone che partono dalla stazione dei
treni, luogo della modernità. Ci sono dei
corpi ridotti all’essenziale che si muovono
nello spazio e sono in realtà le persone che
sono dentro il vagone del treno. Mentre questo prende velocità, dai finestrini scorre il
paesaggio: il movimento dato dalle pennellate oblique rende l’idea della compenetrazione
tra il paesaggio che scorre e le persone dentro al vagone che si muovono anch’esse. Sono
tutte velocità diverse, i volti di quelli seduti diventano come delle maschere che si
smontano e si rimontano nella velocità del treno insieme al paesaggio. Tutto è sovrapposto
ed innestato l’uno nell’altro, non abbiamo distinzione di piani e staticità. Il secondo
dipinto, “Gli Addii”, è il momento in cui le persone si congedano da quelle che partono.
Vediamo delle sagome vagamente antropomorfe che sembrano esplodere nel centro e
volare spinte da una forza centrifuga, che è l’arrivo del treno. Le parole entrano nelle
opere, si legge il numero del treno. Tutte queste scene che hanno un percorso temporale
sono tutte unificate in un’unica visione. Nel terzo, i colori cambiano (all’inizio sono freddi
con un accenno di caldo per il paesaggio che scorre, nel secondo ci sono i colori
dell’energia verde e rosso, nel terzo solo colori freddi), si intitola “Quelli che restano”.
Sono quelli che hanno salutato coloro che sono partiti e che tornano a casa, hanno cappelli
e cappotti, si muovono come travolti da una massa d’acqua che piove. Boccioni non sta
facendo cubismo, si riconoscono dettagli realistici in un insieme che non è realistico ma
che ci deve restituire l’idea del movimento. Questa idea di un’immagine che si scompone
in pezzi e si ricompone è una delle chiavi di volta del linguaggio dei futuristi, che hanno
recepito l’idea di base del cubismo.

Boccioni nel 1913 elabora una scultura che si intitola “Forme


uniche nella continuità dello spazio”, sta comunicando che
l’opera è un ragionamento teorico. Le forme uniche che
vediamo le riconosciamo per la nostra esperienza (sono
antropomorfe); dice forme uniche perché è effettivamente
quello che vediamo, ma aggiunge “nella continuità”: vuol
dire che la forma attraversa lo spazio in un certo tempo e, in
modo impercettibile e compenetrando la massa dell’aria, si
smonta e si rimonta continuamente. In questo senso noi
vediamo una forma unica che si muove nella continuità dello
spazio. È per questo che il corpo è fatto di volumi che
sembrano sciogliersi, come se un vento li sciogliesse, la testa è smontata. Il corpo non è
descritto nella sua realtà visiva ma come una forma ideale che si smonta e si ricompone
nella continuità.

CUBOFUTURISMO, SUPREMATISMO, COSTRUTTIVISMO

La sintesi di queste esperienze si trovano in una Russia pre-rivoluzionaria e post-


rivoluzionaria. Come sappiamo nel 1917 viene travolta da una rivoluzione che modifica lo
stato, i rapporti sociali ed internazionali ed avrà conseguenze nel resto del mondo. Tutto
nasce da un manipolo di intellettuali (le avanguardie sono fenomeni non di massa ma di
élite), nella Russia zarista dei primi del ’900, dove con fatica arrivavano echi di ciò che
accadeva nell’Europa moderna. È un paese che tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900
accelera un’inevitabile industrializzazione (aboliscono i servi della gleba sono nell’800, dal
medioevo). Si sta aprendo faticosamente all’Europa ma dal punto di vista artistico è ancora
legata alle Accademie settecentesche. Un intellettuale, Matioski, nel 1910 fa
un’associazione che mette insieme artisti, scrittori, intellettuali. Nel dicembre inaugura una
mostra che si chiama “Fante di diamante”. Che tipo di pittura propongono? Propongono
una pittura di carattere espressionista, perché le prime influenze dall’Europa
contemporanea sono quelle degli espressionisti di area tedesca.

Vediamo “Pappagalli”, 1910, di Natalia Goncharova:


esce dagli schemi della pittura accademica e propone
una pittura materica più densa fatta di blocchi di colore,
schematica. Non c’è nulla però di drammatico e tragico,
qui non esiste la visione degli espressionisti tedeschi,
viene presa solo la tecnica pittorica e non il contenuto
semantico. Non hanno ancora visto le opere di Van
Gogh e dei futuristi, è una pittura in cui i colori sono
dati in modo piatto ed anti-imitativo (non si imita la
natura). C’è una componente in più e fondamentale: è
questo sentimento del primitivo, dell’arcaico e del popolare. Il primitivo per i russi non
sono le sculture africane (di Picasso per esempio), ma è il mondo popolare della Russia pre-
rivoluzionaria: è il mondo dei contadini e delle icone, della cultura popolare e folkloristica,
dei costumi tradizionali dai colori sgargianti, dove le forme naturali sono semplificate. Qui
entra il folklore popolare russo e dall’altro lato la tecnica espressionista.

Matioski ha una visione misticheggiante dell’arte, dice ai suoi allievi (ha una scuola di
pittura) che il mondo non va visto con gli occhi fisiologici ma con il corpo. Lui andava con i
suoi allievi in un parco pubblico dove dovevano disegnare un laghetto, ma li faceva girare,
non potevano guardare il lago, dovevano percepire con gli occhi della mente e con lo
spirito che sta nel nostro corpo. Erano le teorie teosofiche, dove Dio non è quello degli
altari ma lo spirito della natura dell’universo che ti circonda, che devi percepire con tutto
te stesso.

Mashkov, è uno degli artisti che partecipa a


queste esposizioni. Alla fine del 1910 si
costituisce un gruppo interno di cui fa parte
questo artista che viene organizzato dal marito di
Natalia. Si chiama “Il Fante di quadri” (per
contrapporlo all’altro gruppo). Mashkov propone
un autoritratto e di un suo amico e collega,
Konchalovsky. Sono come dei ginnasti in un
contesto che non è una palestra, è una casa con gli oggetti della quotidianità (gli oggetti
non fanno ombra sul tavolo, ci ricorda Cezanne, come è ricordato su un libro su una
mensola). C’è poi la musica, l’armonia, è un quadro allegorico in cui la quotidianità si
mescola con l’arte e la natura, ma il cui modello di riferimento è Cezanne. Non è una
pittura simile alla sua, è una pittura ancora di matrice espressiva.

Nel 1912 c’è una terza mostra che si intitola “La coda
dell’asino” (perché sui giornali escono articoli che
commentavano questi artisti, che si diceva
dipingessero con al posto dei pennelli la coda di un
asino). Quella che sembrava un’offesa diventa il titolo
di una mostra, e in questa occasione Natalia presenta
4 tele montate come un polittico, “I quattro
evangelisti”. Qui vediamo il risultato dell’influenza
dell’espressionismo tedesco, come ad esempio le
figure allungate come nelle sculture gotiche, la linea
nera che delimita, la deformazione dei volti e l’appiattimento delle figure. Abbiamo una
chiara ricaduta dell’espressionismo tedesco sulla cultura dei giovani russi.

Larionov, il marito di Natalia, presenta un manifesto che chiama “Programma del Neo
primitivismo”: anche loro abbracciano l’idea che la pittura contemporanea debba attingere
alle fonti dell’arte primordiale.

Cominciano i contatti tra la Russia e i futuristi (stessi anni). Nel 1913 comincia
l’Avanguardia cubo futurista russa, viene aperta una mostra che si intitola “Bersaglio”
organizzata da Natalia e il marito in cui viene presentato il manifesto scritto dei raggisti e
dei futuristi russi. Larionov fa tesoro delle parole pubblicate nel 1909 da Marinetti e
presenta il manifesto di un’arte non imitativa, come quella dei futuristi, ma propone
qualcosa di più: la rappresentazione non rappresenta l’elemento (né smontato né
compenetrato), si dovrebbero invece rappresentare sulla tela i raggi di luce e di colore che
vengono dall’oggetto colpito dalla luce. Non l’oggetto ma il suo riflesso luminoso, da qui il
nome del movimento Raggismo.

In “Testa di bue” vediamo delle pennellate grigie e gialle che sembrano attraversare
l’animale e costituire l’oggetto del dipinto. La semplificazione è geometrica ed infantile,
primitiva, perché ciò che interessa l’artista (Larionov) è fissare sulla tela non il volume
dell’animale (come i cubisti), non la compenetrazione (come i futuristi), ma l’emanazione
di luce e colore che viene dall’oggetto.
“Campo verde”, Natalia Goncharova, ci fa vedere non l’erba e le piante, ma delle striature
di verde, bianco e blu come se fossero linee/raggi che si intersecano, sono i raggi della luce
naturale che colpiscono l’occhio della pittrice.

Larionov, 1913, “Paesaggio raggista”, la composizione


è astratta e non oggettiva, passa dai colori caldi a
quelli freddi. Demolisce l’immagine e toglie dalla tela
qualsiasi elemento riconoscibile creando gradazioni
visive e sensoriali, dove ciò che compone il suo mondo
visivo sono i raggi.

Nel 1911, prendendo dal cubismo picassiano, Larionov


aveva dipinto questo ritratto di Kazimir Malevic. Vediamo la schematizzazione del volto e
del corpo, fatto con tagli geometrici e l’inserimento delle parole che vengono prese in
prestito dalle nature morte della fase del cubismo sintetico (anche i futuristi usano parole
e numeri).

Malevic a sua volta fa parte del gruppo del Fante di quadri,


ma non sposa le teorie raggiste. Nel 1913/14 propone una
serie di composizioni chiamate cubo-futuriste. Parte
dall’idea cubista di smontare la realtà in solidi geometrici,
coni, cubi, sfere,… poi però questi volumi non li rappresenta
smontati e rimontati come fanno Picasso e Braque, ma li
ricompone nella tela mettendoli in movimento nello spazio
come fanno i futuristi. Qui vediamo una contadina della
campagna russa che porta due secchi pieni d’acqua. È fatta
di volumi ma sta camminando dalla fonte verso casa, il suo movimento attraversa l’aria ed
il paesaggio. È come se Malevic avesse voluto prendere Cezanne, Picasso, Braque, i
futuristi, cerca la mediazione tra i due linguaggi ma non sceglie la via dell’astrazione.

Non è il solo, anche “L’arrotino” di Malevic mostra un


uomo che per strada sta facendo il filo a un coltello su una
ruota. Vediamo qui il tentativo di rendere i volumi del
corpo dell’uomo, la ruota, la staffa, c’è tutto. Poi però c’è
il movimento (ci sono più braccia e dita) ed anche la
compenetrazione dello spazio che è intorno, ovvero il
cortile della donna a cui fa il filo ai coltelli. È un dipinto in
cui cerca di fondere i due linguaggi, cubismo e futurismo,
con colori squillanti che queste due realtà portano avanti.
Di questo gruppo che si chiamerà “Suprematista” fanno parte molte donne, come Popova.
Realizza questo dipinto nel 1913, ispirandosi a Balla e Boccioni e per questo intitola
“Volume più aria più spazio”. Si vede dalla postura che è seduta in uno spazio
architettonico, le due cose ridotte a volumi si compenetrano, ottenendo un effetto
prismatico tipico dei suprematisti.

Natalia Goncharova decide anche lei di prendere


questa strada, abbandona nel 1913 il raggismo del
marito ed abbraccia il cubo futurismo suprematista
di Malevic. “Il ciclista” è un operaio piegato sulla sua
bici e che va a lavorare, attraversa la città. Abbiamo il
movimento delle gambe e del corpo, come anche le
ruote della bici che si moltiplicano. Siccome la strada
è fatta di ciottoli lui oscilla, c’è compenetrazione con
la città perché il tombino entra nella ruota, i manifesti entrano nel corpo del ciclista.

Nel 1913 la realtà d’avanguardia della Russia di quel momento è assestata sul tentativo di
fondere i linguaggi del cubismo francese e del futurismo italiano in questa nuova via del
cubo futurismo suprematista (alle estreme conseguenze).

1913, copertina di un testo teatrale, il disegno della copertina è qualcosa che sembra
astratto e di Kandinsky. I dialoghi dei personaggi sono incomprensibili, non hanno nulla di
coerente. Questa umanità che dice cose che non hanno senso vince alla fine il sole, il sole
naturalistico è sostituito da un sole astratto, visto come un quadrato nero. È il sole
naturalistico che tramonta e la salita di questa forma suprema che è il quadrato nero.
Quest’opera sarà messa in scena ancora dopo la rivoluzione nel 1920 in cui si useranno al
posto degli attori e delle parole incomprensibili delle macchine, delle specie di robot che
producono suoni e rumori.

Malevic all’inizio del 1914 propone “Un inglese a Mosca”: è il


risultato di una composizione illogica, è l’applicazione dei
concetti dell’opera teatrale di prima, che vuole provocare
una serie di sensazioni e riflessioni. La contraddizione sta nel
titolo, l’inglese è una specie di autonoma, un borghese con lo
smoking ma il volto è una maschera color verde. Davanti a sé
ha una sciabola e una candela accesa, c’è la sagoma di un
pesce e una chiesa ortodossa, ci sono parole che sono in
realtà suoni. Tutto l’insieme è solo una sovrapposizione di
segni e suoni. Elementi e suoni si mescolano in maniera anti-
descrittiva.
Il punto di arrivo dei suprematisti russi è il 1915, a
San Pietroburgo (la Russia è già in guerra, che sta
perdendo), le tensioni sociali si sentono, tutto
collassa. Questo collasso di un’intera civiltà
sembra segnata da questa mostra: “Zero.Dieci”,
lo zero è l’azzeramento dell’arte, tutta la storia
dell’arte è azzerato e si comincia da capo. 10
erano gli artisti invitati a partecipare alla mostra.
La sala che Malevic allestisce con le sue opere suprematiste è particolare: vediamo una
serie di tele rettangolari disposte in modo asimmetrico e volutamente caotico, riempiono
quasi tutto lo spazio a disposizione (appese anche a livelli molto alti o molto bassi). Non
sono solo tele ma anche fogli scritti, parole che fanno parte dell’esposizione. Le immagini
sono elementi geometrici puri, non è raggista, non è cubo futurista, è suprematista. Tutte
le immagini viste finora collassano in un’unità data dall’uso della bicromia (tela bianca e
colore nero), tutte le forme sono archetipe (linea, punto, quadrato).
Uno è molto strano, che diversamente degli altri è stato appeso nel
punto più alto e in angolo: è “Quadrato nero su fondo bianco”, è la
fine dell’arte, lo zero assoluto di cui si parlava prima, tutta l’arte del
passato è finita e va annullata (è quella discesa del sole di cui
parlavamo prima e ascesa della forma suprema che è il quadrato
nero). Lo appende là in cima in una posizione privilegiata al posto dell’icona, fa qualcosa
che i russi riconoscono e sono abituati a vedere. Nella cultura russa ortodossa si utilizzano
le icone e ogni casa deve averne una (immagine della vergine con bambino), è necessaria
perché protegge la casa dal maligno e deve essere sempre acceso un lumino. La
collocazione non è sulla parete ma nell’angolo superiore della sala principale, nell’angolo
che si vede entrando a destra. In angolo perché secondo una credenza lì si nascondono i
fantasmi e i demoni, e allora lì colloco l’icona della Vergine. Malevic colloca questo quadro
aniconico che rappresenta il nulla assoluto nella stessa posizione che normalmente ha
l’icona, creando lo scandalo che desiderava. Nello stesso momento da a questo quadro che
annulla l’arte un valore sacrale, diventa lo snodo che apre una nuova arte.

C’è un suo collega, Rodcenko, che nella stessa mostra


colloca un oggetto che si chiama “Controrilievo”. Fanno la
parte del quadrato nero di Malevic, occupano l’angolo
dove però il valore che Rodcenko da’ è qualcosa di diverso
dalla sacralità: lo spazio dove ci troviamo è costituita da
dei piani infiniti che si intersecano e dove si intersecano
creano un angolo. Quello spazio che sempre resta vuoto
lui lo occupa con un’opera tridimensionale che riempie l’angolo vuoto, si contrappone ad
esso. È costituito da elementi che sono agganciati ai due piani e all’angolo. Questo oggetto
è costituito da materiali assolutamente non artistici, chiodi, legno, lamiera metallica e
cartone. Vanno a comporre un oggetto che non ha una forma riconoscibile, occupa
semplicemente uno spazio, ma i materiali appartengono al quotidiano (li va a prendere in
una discarica). L’artista gli da una combinazione e li colloca, dopo di che li smonta e li
butta. Fa quello che nello stesso anno, 1915, fa Marcel Duchamp con la ruota di bicicletta,
il cosiddetto Ready-Made.

Il suprematista Malevic teorizza che il suprematismo è il punto più alto della creazione
artistica e che si occupa solo della suprema forma assoluta dell’arte. Scoppia la rivoluzione
ma gli artisti di cui abbiamo parlato partecipano alla rivoluzione, ci credono e pensano che
la loro arte sia stata propedeutica alla rivoluzione, perché è un’arte che deve parlare a una
società nuova e di eguali (comunismo, un mondo in cui l’egualitarismo era la ragione). Nei
primi anni della rivoluzione, fino alla morte di Lenin, gli artisti che partecipano alla
rivoluzione sono davvero convinti di aver dato un aiuto fondamentale. Con la rivoluzione la
Russia si toglie dal conflitto mondiale e nel 1919 si organizza una sorta di movimento
artistico che è quello degli artisti russi per la propaganda politica (tra cui ci sono anche
alcuni di quelli che abbiamo trattato): realizzano un treno con delle carrozze che vengono
dipinte all’esterno e organizzate all’interno con immagini di tipo suprematista (quadrati,
rettangoli, elementi lineari) che devono restituire l’idea dell’energia della rivoluzione. Il
treno percorre tutte le terre russe (la rivoluzione scopre a San Pietroburgo), per qualche
anno si muoverà e quando trova un villaggio di contadini si ferma, la gente sale e vede dei
film con Lenin che parla, vedono nei vagoni dei quadri di questo tipo, eccetera. È un’arte di
propaganda ideologica che usa gli strumenti usati nel cubo futurismo e suprematismo. Si
applicano anche agli oggetti di tipo domestico, vediamo un servizio da the con le forme
geometriche del suprematismo, è la bellezza dell’oggetto supremo che entra nelle case di
tutti.

Nel 1915 quando nasce il suprematismo viene pubblicato in


Italia il manifesto della ricostruzione futurista dell’universo,
firmato da Balla e De Pero, un giovane di Rovereto entrato nel
gruppo dei futuristi. Il manifesto dice che per diffondere il
futurismo tra la gente deve uscire dalla poesia e dalla pittura e
deve entrare nelle case delle persone attraverso gli oggetti, i
vestiti, i mobili. È il momento in cui le teorie futuriste si
applicano alle arti decorative.

Arriviamo alla sintesi costruttivista (ultima fase delle


avanguardie russe, il costruttivismo) in cui le teorie di Malevic
si sposano con quelle di Tatlin, autore del progetto. Doveva essere realizzato a San
Pietroburgo tra il 1919 e il 1920, il nome è “Monumento alla terza internazionale”, che era
la convocazione di un congresso mondiale di tutti i partiti comunisti del mondo che
avrebbero dovuto mandare dei rappresentanti in Russia per decidere quali mosse e
strategie adottare per trasformare il mondo in un mondo rivoluzionario. Progetta una torre
che doveva essere alta 310 m, doveva superare la torre Eiffel, costruita di travi d’acciaio
che doveva essere però una spirale che salendo si appoggiava a un perno obliquo e si
concludeva con un’antenna radiofonica. La struttura doveva essere un’antenna radio,
all’interno di questa gabbia di travi era collocato un sistema di tre volumi montati su una
piattaforma che si muoveva elettricamente a tempo. Il primo era un cilindro che conteneva
la sala dei congressi, sopra c’era una piramide che conteneva gli uffici del partito
comunista russo, sopra ancora un cilindro alto e stretto che era la stazione radio, in cui
avrebbero chiamato i popoli ad unirsi alla rivoluzione. Erano dei corpi geometrici coperti di
vetri colorati che si muovevano, è l’opera d’arte totale sogno di tutte le avanguardie,
rimasta però un’utopia.

22/04/2021 – 3^ LEZIONE

Boccioni: il ragionamento che fa è qualsiasi corpo presente nello spazio non occupa un
vuoto, ma sposta lo spazio che ha un corpo a sua volta. Qualsiasi corpo che si muova,
interagendo con questo altro corpo, i due elementi si scontrano e si smontano in tante
molecole, ricomponendosi con una velocità dal nostro occhio non percepibile.

Nulla è fermo, tutto è in perenne movimento, perché è sulla terra che è in movimento.
Quello che vuole indicare è la perenne dinamicità di qualunque corpo nello spazio.

DADAISMO

È l’ultima delle avanguardie a nascere, perché la sua data di nascita (del movimento,
perché ha un manifesto) è il 5 febbraio 1916. Questo avvenimento ha un luogo specifico,
Zurigo, la guerra è già iniziata da un anno e sta già travolgendo tutta l’Europa tranne la
Svizzera. Qui si sono rifugiati degli artisti di nazionalità diversa per sfuggire al richiamo
della guerra, erano tutti o anarchici o pacifisti. La parabola di questo movimento dura
poco, come tutte le avanguardie, sono momenti di sperimentazione e di dibattito critico
ma, in quanto piccole élite di intellettuali, durano poco tempo ma lasciando tracce
indelebili. Il dadaismo si conclude nel 1921, quando quegli artisti sono tornati nella propria
patria, in un’Europa cambiata. All’interno di questi anni, il dadaismo elabora una serie di
linguaggi, idee, contenuti e approccio al fare artistico talmente rivoluzionarie e distruttivi
rispetto ai percorsi dell’arte precedenti. Rompe in modo definitivo con il passato. Il 5
febbraio del 1916 è anche una data che precede una battaglia, una delle più tragiche del
primo conflitto mondiale. Il loro incontro avviene per merito di Hugo Ball, il quale era
giunto a Zurigo proprio alla fine del 1915 con la sua compagna dalla Germania. L’anno
successivo, il 1916, Ball apre un caffè letterario, era luogo di aggregazione dei giovani
rifugiati lì: viene chiamato Cabaret Voltaire. Cabaret perché su modello dei caffè francesi e
viennesi, luoghi di ritrovo in cui si fa musica, arte, discussioni, erano luoghi in cui la vita
sociale e sperimentale si svolgeva. Voltaire in omaggio al grande filosofo illuminista (Ball
era un filosofo), dava segno contrario alla follia e brutalità irrazionale della guerra. In breve
tempo diventa un punto di incontro, ad esempio per Zarat (?), autore di molti testi e forse
autore del termine che ha identificato il movimento. L’attività del Cabaret ha esposizioni
diverse, che però hanno come tema delle situazioni di chiara polemica nei confronti della
cultura borghese, che viene attaccata e derisa attraverso modalità espressive del tutto
nuove, che per la loro capacità di sarcasmo servono anche, al di là dei contenuti, a rendere
evidente la polemica nei confronti di quella cultura borghese. Ad esempio, l’uso sia verbale
che scritto di parole incomprensibili, combinazioni di parole che non hanno significato, più
i rumori del futurismo, che avevano fatto entrare nei loro spettacoli l’idea che non ci
fossero più i suoni degli strumenti ma i rumori. Utilizzavano anche la tecnica del collage
inventata dai cubisti, che diventa uno strumento per creare significati innovativi. Il
dadaismo prosegue quello che già i futuristi avevano messo in campo, le serate futuriste,
momenti di incontro con il pubblico già dal 1910, serate con recitazione di poesie futuriste,
utilizzo di rumori, abiti e costumi di scena, maschere ecc. I dadaisti fanno tesoro delle
avanguardie che li hanno preceduti, hanno come elemento comune questi obiettivi:

1. Il ribaltamento del valore semantico delle immagini e delle parole;


2. Valore del non sense, l’arte è priva di giustificazioni di tipo razionale, le parole sono
combinate in modo incomprensibile e le immagini ricompongono un disegno
narrativo diverso da quello d’origine;
3. Performance, combinazione di recitazione, suoni, maschere, movimento, come
applicare l’idea di un’opera d’arte totalizzante, tutti gli elementi espressivi si
concentrano.

Il termine Dada non ha significato comprensibile, è inutile cercare le origini di questa


parola. Secondo Ball e i suoi compagni, usando il condizionale dicono che potrebbe
derivano dal nome della vacca sacra della popolazione africana dei Cru (inventata), oppure
l’espressione che si utilizza nelle lingue slave per dire un’affermazione, oppure il suono dei
neonati quando cominciano ad esprimere dei suoni. In altre parole, loro scrivono che
cercare criticamente l’origine di questo termine non ha senso, ironizzano sulla necessità di
trovare ad ogni costo la spiegazione di una parola. Le prime attività che si svolgono al
Cabaret vengono sintetizzate in una rivista, chiamata come il bar, pubblicata nel corso del
1916. Nel terzo numero della rivista (rivista annuale) si chiamerà Dada. Emergono i
caratteri comuni del gruppo:

- Ironia
- Gioco, attività artistica come attività ludica ma preso seriamente, serve a ribaltare le
relazioni, a invertire l’rodine dei fattori della realtà per trovare altre chiavi di
interpretazione
- Interesse per un linguaggio insensato come quello dei bambini
- Provocazione, obiettivo di mettere lo spettatore in difficoltà, provocare il pubblico
in tutti i modi possibili serve per far scattare nelle loro menti una riflessione, un
punto di vista diverso di guardare la realtà.

Dal punto di vista politico, il dadaismo incarna lo spirito anarchico che si era configurato sul
finire dell’800 e che aveva preso piede nella situazione europea nel primo decennio del
‘900. I dadaisti sono lontani dalle utopie socialiste, nessuno di loro abbraccerà la
rivoluzione bolscevica, nessuno di loro diventerà comunista, e altrettanto si tengono
lontani dai nazionalismi, che si erano già scatenati ma si scateneranno ancora di più col
consolidarsi dei regimi totalitari di Italia, Germania e Spagna. Sono anarchici nel senso più
ampio del termine, non accettano vincoli e regole, il loro obiettivo è il ribaltamento dei
linguaggi umani. Nel manifesto ricorre spesso “la morte dell’arte”, quello che fanno
seppellisce tutto quello fatto fino a quel momento, ma non pretendeva di essere altro che
un evento, per poi sparire. Nel 1916, dopo la fondazione ufficiale, Ball e il gruppo organizza
la prima serata dadaista, in cui Ball leggerà al pubblico il manifesto dada e reciterà una
poesia scritta da lui costituita da suoni senza significato, da parole onomatopeiche,
indossando un costume di cartone che impediva a Ball qualunque movimento,
contraddiceva la sua funzione: un abbigliamento per una recita teatrale che prevedrebbe
un’azione dei movimenti, diventa una camicia di forza fatta di cartone che blocca l’attore e
impedisce i movimenti. I dadaisti demoliscono l’arte del passato ma non ne creano una
nuova, davanti alla insensatezza di un conflitto che stava distruggendo il mondo non aveva
senso neanche costruire un’arte che avesse una continuità e un percorso, fanno solo
eventi che terminano nel momento in cui sono stati fatti. Che poi ci siano rimaste delle
testimonianze fa parte delle dinamiche del fatto che realizzavano degli oggetti e qualcuno
li ha conservati, ma nel manifesto si legge che l’arte è finita e non se ne può fare un’altra.

Il dada è fatto di oggetti e forme che non hanno senso e relazione, è il caos, la
combinazione casuale ma è un atteggiamento mentale, non è un quadro o un discorso
politico, è il ribaltamento dello statuts quo, l’inaspettato è il valore estetico del
movimento. In questa opera vediamo una macchina da scrivere e una scarpa,
combinazione che non ha senso.
Breton, surrealista, dice che l’arte combinatoria come questi fotomontaggi saccheggia,
attinge alla profondità della psiche dell’artista, ci sono visioni che vengono esplicitate sulle
tele o nelle composizioni. Il risultato è che abbiamo davanti agli occhi qualcosa di surreale,
hanno caratteristiche realistiche apparentemente ma che raccontano qualcosa che non è
reale. Breton dice che la bellezza assoluta surrealista consiste nell’incontro su un tavolo
operatorio di un ombrello e una macchina da cucire, che non ha senso. Dobbiamo andare
oltre le parole, che per i surrealisti hanno valore simbolico: il tavolo operatorio serve sia
alla dissezione dei cadaveri, a distruggere le forme ma anche il luogo dove si
ricompongono, è la mente dell’artista che come un chirurgo compone e decompone. Nel
mondo surrealista, l’elemento erotico è fondamentale (viene dal dadaismo), inteso come il
rapporto tra universo femminile e maschile fatto di scontri e incontri. Ombrello è un
simbolo fallico, macchina da cucire è legata al mondo femminile e, insieme sul tavolo,
danno vita ad un oggetto che è insieme sia maschio che femmina. I dadaisti avevano
messo in campo proprio questo concetto, l’androgenia, perché il superamento dei generi
va abbattuto anche in questo modo, non solo rifiutando le regole del senso comune.
Ritengono che l’opera d’arte dadaista sia la sintesi dei due opposti, dell’elemento maschile
e femminile che si fondono in un unico genere che contiene tutti e due. Duchamp si
inventerà un alter ego femminile, si farà fotografare vestito da donna proprio con questa
motivazione, voleva smarcarsi dall’idea dell’identificazione del genere e rappresentare
l’artista come combinazione di due caratteri e inconsci diversi, maschile e femminile.

Nudo che scende le scale, opera di Duchamp che si è formato a Parigi,


1912. È un’opera che farà parte di un gruppo scelte da una
commissione americana che arriva a Parigi nel 12/13 e aveva il
compito di scegliere a Parigi una selezione di opere d’arte
contemporanea da portare in America per mostrare la novità dei
linguaggi. Questa mostra arriva a NY e viene esposta in un edificio
dell’esercito, una vecchia armeria in disuso: verrà chiamata
“esposizione dell’armeria”. È quello che gli americani vedono
dell’Europa negli anni ’10. Il dipinto di Duchamp creò scandalo, perché
se si potevano digerire gli impressionisti e i post impressionisti,
compresi i Fauves, quando vendono questo lo accusano di non essere
arte ma qualcosa che insulta il pubblico e il buonsenso comune. Questa era la posizione del
pubblico abituato a pensare all’arte come qualcosa di riconoscibile. È un autoritratto di
Marcel che si ritrae come un nudo (prendendo in giro il modello tradizionale del nudo
accademico) il quale non sta in posa, fa una cosa banale, scende le scale. È concepito e
reso con le volumetrie e le forme che il giovane aveva acquisito da Braque e Picasso, aveva
volutamente accentuato questi volumi geometrici dando al suo corpo forma di elemento
meccanico, di cilindri di metallo. Non gli basta questo: questo corpo/robot si muove,
scende le scale, si moltiplica del movimento (fonde certi elementi del cubismo con l’idea
del movimento dei futuristi, aggiungendo la compenetrazione tra corpo e scale). Propone
una sorta di cubo-futurismo, che sta avvenendo contemporaneamente in Russia. Questa
stagione cubo-futurista dura pochissimo, quando abbandona la Francia ed entra in Svizzera
nell’orbita di Ball diventa partecipe del Dada e le sue scelte diventano più radicali:
spariscono le immagini, non dipingerà più, le sue opere sono fatte di altro.

Affinità tra Duchamp e Picabia. Questo, come Duchamp, comincia a


trasformare dal 13/14 i suoi dipinti (anche Duchamp) cambiando i soggetti,
i temi diventano le macchine industriali. È come se dicessero: nella nostra
contemporaneità, nella disumanizzazione delle relazioni sociali ed
economiche, decidono che l’umanità può essere rappresentata solo dalle
macchine, che cominciano ad avere una loro poesia. Fu Marinetti a
sdoganare il fatto che la bellezza non fosse più l’antico ma una macchina
che correva in velocità, non più l’uomo al centro dell’universo ma la
macchina compenetrata col fattore temporale. Loro prendono queste
affermazioni futuriste e le fanno proprie in questa fase intermedia. I
soggetti sono delle macchine che si muovono, questa è una specie di
macinino meccanico che macina i semi di cacao per fare la cioccolata. Ci si
chiede come mai proprio questa macchina? Duchamp lo spiega, dice che
quando era bambino nella sua città per andare a scuola doveva passare di fronte ad una
pasticceria, che aveva in vetrina una macchina che veniva fatta andare con un motorino e
macinava i chicchi tostati di cacao. Nel ricordo di questo oggetto del desiderio (il cioccolato
del piccolo Marcel), nella sua mente di artista la macchina che produce il cioccolato è il
processo di trasformazione di una forma, di un oggetto (il seme) in quello che è un piacere
(la cioccolata). È quel processo di trasformazione della natura attraverso i processi
alchemici, di cui è affascinato. Nel mondo dell’alchimia la pietra filosofale è una materia
che, secondo la credenza degli alchimisti, avrebbe trasformato in oro qualsiasi metallo.
Questo spiega perché la tradizione continua nel corso del tempo, è chiaro che la credenza
era venuta meno ma era diventato un fatto simbolico: l’artista alchimista prende i due
generi e la terza via è quell’androgeno che la natura non ha previsto, chiave di volta per
capire i segreti della natura.

A ridosso del 1913 realizza Ruota di Bicicletta. Sta lavorando


come Picabia sul tema delle macchine e degli ingranaggi, di
forme non antropomorfe per rappresentare dei concetti.
Tecnica ready-made (?), realizzare un oggetto artistico
individuando e scegliendo un oggetto già fatto, che è nato per
tutt’altro scopo e che per sua libera scelta lo combina in un
modo nuovo. Risemantizza il valore dell’oggetto. Ha tolto
camera d’aria e pneumatico, ma non l’ha dipinto o realizzato con le sue mani. Ha preso la
ruota e l’ha montata su uno sgabello di legno laccato di bianco. È chiaro che la bicromia
serve a mettere in contrapposizione i due elementi, ma il risultato di questa combinazione
cos’è? Lui attribuisce un titolo che rappresenta esattamente quello che noi vediamo, ma
attenzione: ci dice quello che noi vediamo, ma quella non è più una ruota di bicicletta, lo
era, ma ora è un’altra cosa. La parola, il titolo, è un inganno, vedo qualcosa di coerente al
titolo ma non la posso usare per quello che è, non è più una ruota. Abbiamo
contraddizione tra il titolo e quello che vediamo. La ruota è la femmina, l’esplicitazione
sintetica della capacità di produrre la vita, la forma circolare identifica il luogo della natura,
mentre lo sgabello è l’elemento maschile. C’è una cosa in più però: è l’atteggiamento
dell’artista. Duchamp dice: le cose che io faccio, le opere che produco, non hanno un solo
significato ma molti e nello stesso tempo non hanno nessun significato (è all’interno della
poetica dadaista). Se una persona decide però di fermarsi un momento e comincia a
ragionare su ciò che vede, forse un significato può emergere. Non è più possibile essere
passivi, bisogna mettersi in gioco, ci obbliga a smuoverci e ad aprici ad un’altra visione e
percezione del mondo.

Vediamo un’istallazione che Duchamp realizza nel 1914/15, è in


realtà un oggetto comune che si trovava nei negozi di ferramenta.
È uno scola bottiglie di metallo, di forma conica e con dei ganci su
cui infilare le bottiglie per far asciugate le bottiglie dopo averle
lavate. Lo prende e lo appende con dei fili trasparenti ad un
soffitto contro una parete, riflette la propria ombra sulla parete. Lo
intitola “Scolabottiglie, il Riccio”: è un animale pieno di aculei e che
si trova facilmente nelle campagne. Hanno valore di ambiguità, se
noi ci pensiamo vediamo di nuovo un discorso simile a prima, uno
scolabottiglie che non serve più per fare il suo compito. Non è un
oggetto inutile, perché la sua ombra ci evoca e restituisce il corpo
sintetico e cubista di un riccio, come se vedessimo l’oggetto trasformarsi nell’animale, ha
un significato diverso.

4^ LEZIONE – 26/04/2021

FUTURISMO, AEROCERAMICA/AEROPITTURA

Vediamo una parte del futurismo che si sviluppa dopo la parte eroica negli anni ’20 e ’30.
Questa produzione di ceramiche futuriste (in particolare Albisola) avrà un momento di
risalto nell’ottica dell’estensione del pensiero futurista. Albisola è un piccolo borgo ligure
vicino a Savona.
Se all’inizio del futurismo avevamo un’estetica più legata al dinamismo e alla velocità
(moltiplicazione dei piani), nella seconda parte del futurismo (anni ’20) l’attenzione si
sposta sulla dimensione aerea del volo, vedremo come l’aero ceramica intercetta questo
tipo di sensibilità.

Protagonista di questa svolta futurista è Tullio d’Albissola (nome d’arte), nato come
Spartaco Mazzotti. È un ceramista, un leader per la comunità artistica locale e regionale (e
poi italiana) ma è anche poeta e scrittore. In questa fabbrica di ceramiche instaura molti
legami, ad esempio con Fontana. È quell’elemento di connessione con l’arte, la fabbrica
produceva ceramiche industriale, non era un ambiente artistico tranne che per Tullio.

Tullio e Marinetti pubblicano il Manifesto Ceramica e Aeroceramica, manifesto Futurista.


Viene pubblicato nel ’38, quando già esiste la ceramica futurista in Italia. In una foto i due
indossano una tuta, che è un capo inventato dai futuristi.

Per capire come nasce questo tipo di estetica nella ceramica, vediamo che fino agli anni ’20
le produzioni di ceramica avevano riferimenti orientali od esotici, non hanno nulla di
futurista. Nel 1925 si organizza a Parigi l’esposizione internazionale di arti decorative
moderne: vengono ospitate anche le manifatture italiane, esiste un padiglione di ceramica
ligure, sappiamo che Tullio partecipa. Vede qui l’esposizione e c’era il padiglione dell’arte
futurista, respira questo fermento che in Italia era più difficile vedere in tutta questa
ricchezza. Vede anche il padiglione dell’unione sovietica, sono ceramiche diverse ed hanno
decori astratti e geometrici.

La ricostruzione futurista dell’universo firmata nel 1915 (dieci anni prima di queste cose)
pensava di realizzare questa fusione totale tra tutte le arti ricreando l’universo.

Negli stessi anni esiste in Germania una scuola di design famosissima, il Bauhaus, che tra i
suoi laboratori ne ha anche uno di ceramica, vediamo delle forme di produzione seriale.

Vediamo le prime ceramiche futuriste: due anni dopo che Tullio è a Parigi, senza pensare di
essere futurista, nel 1927 arriva a pensare a un vaso distante dalla ceramica che fino a quel
momento si è fatta. Pochi anni dopo abbiamo un piatto dipinto con non più decori bianchi
e blu, ma con parole, lettere, cifre, oppure la città riprodotta in stile razionale (è la sua
fabbrica che si immagina nel futuro, nel 2000). Siamo nel ’29, anno della crisi petrolifera
americana (l’Italia ne accuserà).

Bruno Munari, Bulldog, 1934, è sintetico ed ha colori contrastanti.

Torido Mazzontti, 1932, Vaso motorato con estetica dei motori.

Nel 1932 Tullio affida a un architetto la progettazione della nuova fabbrica. In piena crisi
riescono a fare questo, credono nel progetto futurista dell’architetto che aveva studiato al
Bauhaus (Diulgheroff). Vediamo un edificio che a confronto dei piccoli laboratori spicca, è
costruito come fossero tanti corpi inseriti uno nell’altro: c’è un grande corpo blu, un cubo,
in cui si inserisce un volume giallo che è la scala, mentre davanti c’è la vetrina. Si ospitava
parte produttiva, showroom e parte abitativa. Anche questa ha l’estetica del motore, ci
sono degli elementi decorativi (sfera, angolo retto, quadrato).

Nel servizio da the che vediamo si riconoscono pezzi di meccanica, cerniere e rondelle, non
è nulla di poetico. Il coperchio è asimmetrico, questo serve ad accentuare il dinamismo
dell’oggetto che è sempre sotto il movimento della terra. Anche l’idea del decoro ad
aerografo crea un effetto di sfumatura che da sempre l’idea di oggetto in movimento.

Vediamo un portaombrelli con decoro geometrico: spiccano i manici anti tradizionali, la


decorazione è un cerchio in cui entrano dei cunei. Se vediamo la copertina del famoso libro
di poesie futuriste Zang Tumb Tumb si vede la stessa cosa, il triangolo del futurismo che
attraversa un semicerchio. Si utilizzano dei segni visivi molto grafici dove il cerchio
rappresenta l’elemento da rompere (nel caso russo, l’altra fazione politica) e il cuneo ciò
che rompe l’armonia e l’ordine del cerchio.

Un altro aspetto importante è il rapporto con l’industria per le quali la ceramica è perfetta
come gadget, es. un posacenere con la pubblicità (es. Zurigo assicurazioni o Campari,
disegnata da De Pero).

Si arrivano a progettare anche mobili, come fa Giovanni Acquaviva. Fa una linea di mobili
che però non vengono mai prodotti se non per la sua casa e quella di pochi altri. Questa
ricostruzione dell’universo fa avanti e il futurismo va avanti con la sua rivoluzione del modo
di vivere della società.

In architettura si comincia a vedere in motivo dell’Aeropittura ed aeroceramica. Vediamo


una composizione che ci spiega il Palazzo delle poste di La Spezia. L’architetto Mazzoni si
affida a due futuristi importanti per decorare la torre, che fanno in mosaici di ceramica.
Siamo negli anni ’30 ed è arte pubblica che può accompagnare i cittadini della città
moderna. Il tema sono le vie di comunicazione marittime ed aeree, transatlantici, aerei,
auto.

A quell’epoca come venivano allestiti questi oggetti? Si creava un ambiente domestico, con
mobili e cuscini. La Brocca Baker è ispirata a Josephine Baker, showgirl americana di colore.
Ci sono dei riferimenti culturali che per l’epoca rendevano l’oggetto desiderabile ed
accattivante.

Famosa serie di Tullio è “Fobia antimitativa”, vediamo un vaso fatto da due corpi
asimmetrici e sull’ansa c’è scritto il titolo della serie. Fa cose particolari per combattere la
sua paranoia di essere imitato, difficilmente fa qualcosa uguale ad altri.
COS’E’ L’AEROPITTURA E COME E’ NATA?

Vediamo un catalogo del 1931 della prima mostra di aeropittura dei futuristi, c’è Balla,
l’architetto Diulgherof e altri personaggi citati prima. Il manifesto dell’aeropittura è dello
stesso anno ed era stato preceduto nel 1929 da un testo di Marinetti, “Prospettive del volo
e aeropittura”, in cui ha questa intuizione che anche il volo è una sfera di influenza
importante per la modernità, quindi comincia a pensare a un’aeropittura. Questa ha
diverse estetiche, di cui una è quella più letterale. Tullio Crali sposerà questa estetica e
compone questo quadro: vediamo un pilota di spalle, è un ambiente immersivo in cui
dominano la velocità e la follia di questa picchiata verso la città schematizzata, sono
strutture geometriche. Anche la scocca dell’aereo è un elemento importante, che si
compenetra nello spazio.

Sempre di Crali vediamo “Il paracadutista”, è in una posa plastica in cui allarga le braccia e
si vedono le macchie della terra che si compenetrano con le linee di forza della velocità.

Tato, artista di Bologna, vediamo un aereo che fa un volo acrobatico, è un altro aspetto
dell’aeropittura. Sono quindi:

1. Raffigurazioni del volo dal punto di vista del pilota


2. Traduzioni in pittura di oggetti aerei

Altro pittore interessante è Gerardo Dottori, che nel 1932 ci dice che non è essenziale
avere un pilota o un aereo. Vediamo una visione aerea, aldilà dell’aereo si vede la visione
aerofuturista di un’altra dimensione. Dottori ci fa intuire come l’aeropittura sia un modo
per accedere a varchi e ad altre dimensioni, usa colori astratti, c’è l’idea di una diversa
spazialità del cosmo.

L’aeropittura nasce dal brivido del volo e di provare le diverse arti mentre si è in volo
(leggere poesie mentre si vola, dipingere, suonare).

C’è un contesto storico culturale che agevola questa tendenza futurista: esiste un teatro
aerofuturista, ci sono giovani scrittori, nel ’41 esce il manifesto Essenza del Futurismo,
ovvero il Manifesto di Aeropittura Maringuerra. Tra anni ’30 e anni ’40 c’è il problema della
guerra mondiale che bloccherà tutti questi sogni. Anche le copertine dei libri dell’epoca
sono notevoli, ce ne sono molti a tema aereo ed anche le riviste ne parlavano.

Fillia, pittore che interpreta l’aeropittura in modo totalmente innovativo, qui non c’è la
descrizione del volo e delle case lontane, siamo in un’astrazione fortemente simbolica: la
sfera rossa con l’incursione della griglia, questo tipo di costruzione lo rivediamo in elementi
tridimensionali come un vaso di ceramica. Ormai l’aeropittura è un tema fortemente
spirituale che trasporta l’osservatore verso un’altra concezione non solo del mondo ma di
tutto l’universo.

Ci sono poi delle sculture aeroceramiche che ci fanno capire come alla fine accostare
questi volumi diventi una prassi.

Pacetti, realizza sculture ed oggetti come una maschera antigas, siamo nel ’32, è in
ceramica con un tubo di gomma (polimaterico) orientato all’estetica bellicosa.

Ultimo aspetto legato alla latta, materiale innovativo del tempo. Queste lastre di alluminio
modellabili ispirano i futuristi per creare il primo libro di latta: ci sono due edizioni, pensato
da Tullio d’Albissola. Contiene un aeropoema di Marinetti, ci sono grafiche di diversi autori
che accompagnano le poesie di Marinetti. Il secondo libro di latta è di poesie di Tullio
d’Albissola, Anguria lirica, accompagnato da disegni di Bruno Munari. L’immagine non è
descrittiva, non accompagna ma è interpretativa del senso della poesia. La latta è un
materiale industriale usato in quegli anni anche per gli aerei.

“Ceramica e Aeroceramica”, Manifesto futurista di Marinetti e Tullio d’Albissola, settembre


1938. Il manifesto teorico arriva una volta che si è sperimentato nel concreto attraverso le
mostre. In sintesi si parla di ceramica multitattile, di simultaneità ceramiche di stati
d’animo contrastanti o armonizzati, di strade e piazze d’oroceramica, di vasti autentici cieli
di ceramica.

Siamo alla fine degli anni ’30, inizia la guerra, Marinetti muore nel ’44 ed inizia un’altra
storia, quella delle collaborazioni del dopoguerra di Tullio d’Albissola.

Grazie al futurismo e all’inclusione degli artisti nella fabbrica di ceramica nasce una nuova
era dell’arte, c’è spazio per la sperimentazione artistica (che accadrà nel dopoguerra).

La ceramica è un medium che si è molto prestato nel corso dei secoli, segnatamente nel
‘900, come un medium sperimentale che ha spinto in avanti le dinamiche artistiche.

Uno dei contributi fondamentali della trasformazione nel mondo contemporaneo si deve a
quello che è stato creato al Bauhaus, padre dell’industrial design, ed è cambiato anche
grazie a questi artisti ceramisti.

Ceramica multitattile ingloba degli elementi anche estranei (metalli, materiali organici) in
modo di creare degli effetti che al tatto sono diversi. L’oggetto perde la funzione di essere
un vaso per diventare un’esperienza tattile.
5^ LEZIONE

RITORNO ALL’ORDINE

L’attività di Duchamp e del dadaismo prosegue fino agli anni ’60, rispetto a questo discorso
delle spinte d’avanguardia è necessario mostrare cosa succede con la fine delle
avanguardie e che reazioni ci sono quando la spinta potente e breve di queste si esaurisce.
Si esaurisce in realtà per una ragione intrinseca all’avanguardia, che di per sé porta i germi
della sua fine. Queste sperimentazioni su cui abbiamo ragionato hanno una propria energia
come una meteora, perché l’immissione di principi nuovi di un manipolo ristretto di
individui non regge al peso del rapporto con un pubblico che rifiuta questo tipo di
esperienza. Non vuol dire però che non lascino tracce profonde, tutto il secolo è stato
trasformato da esse, ma le tracce emergono dopo tempo ed in forme diverse. Gli artisti
(es. Picasso) cambiano moltissimo nel corso della loro vita, mantenendo una sostanza
unitaria coerente ma che cambia nel corso del tempo. La forza di Picasso era quella di
continuare a cercare e sperimentare cose diverse, non a ripetere dei meccanismi. Ci sono
delle situazioni che coincidono con lo scoppio della guerra, le avanguardie e la loro crisi
cade in questo momento dove si stavano tentando aperture nuove.

COSA SUCCEDE NEL PRIMO DOPOGUERRA? La guerra finisce, chi aveva scatenato la guerra
ovvero l’impero germanico e austro ungarico, retaggio di un secolo precedente, finiscono e
diventano repubbliche. Trasforma istituzionalmente i rapporti sociali e le persone di questi
stati, si hanno esigenze diverse anche rispetto al mondo dell’arte. C’è anche un
cambiamento psicologico, c’è un atteggiamento diverso. Il mondo deve affrontare
problematiche diverse, la Germania è divisa tra una classe borghese molto ricca (avevano
fornito le armi per la guerra con le acciaierie), e una grande massa di popolazione è priva di
lavoro (magari perché mutilati per la guerra). Le madri e le donne avevano portato avanti
l’industria bellica ma al ritorno degli uomini fanno le operaie, le prostitute, sono
sottopagate. Esplode un’inflazione enorme che porta a tensioni sociali che danno ascolto a
dei movimenti populisti e nazionalisti di cui il nazismo è l’esempio più esplicito. Gli artisti
come rispondono a questa trasformazione? C’è una formula ideata da un poeta francese
che è “Un richiamo all’ordine”: si torna all’ordine che è inteso come se gli artisti
dell’avanguardia, compresi alcuni dei dadaisti, davanti all’orrore della guerra decidano di
tirare i remi in barca, di non sperimentare più e di rimeditare e recuperare certi valori
dell’arte precedente alle avanguardie. È come se rispetto alle deformazioni e alle
provocazioni si cerca qualcosa di più solido e concreto, si guarda ai maestri del passato, c’è
un recupero dell’arte come immagine del reale e si consolida il fare artistico. Ma non è un
ritorno all’ordine nostalgico, è di necessità, perché le avanguardie si erano esaurite e si
guarda al passato ma con gli occhi di chi ha sperimentato la novità del moderno. Non è
imitazione, è riprendere certi modelli riempiendoli di valori contemporanei. Non si può
parlare di avanguardia in questo caso.

Tra il 1919 e il 1939 cosa succede? Succede qualcosa che da un lato è l’eredità dei futuristi,
degli aeropittori, dall’altro è un’eredità dei dadaisti. Si tratta di seconde generazioni sui
temi delle vecchie avanguardie.

Quale arte si esercita in questi 20 anni? Una delle esperienze più precoci, siamo nel 1914, è
quella che sarà chiamata Temperie Metafisica, che si identifica con De Chirico.

“Pomeriggio di un giorno d’autunno”: lui era


nato in Grecia e si era trasferito in Italia, ha
studiato a Monaco di Baviera ed era stato a
Parigi, non aveva sposato la causa futurista e
comincia ad elaborare una pittura di tipi
tradizionale dal punto di vista tecnico. La sua
è una pittura disegnata e meditata,
ricostruisce un paesaggio visivo che rifiuta la
rappresentazione del movimento e della
dimensione temporale. I suoi paesaggi sono
dedicati ad uno spazio che rimane immobile nel tempo. In Italia e a Monaco è affascinato,
più che dalle avanguardie, dalla cultura simbolista di tradizione tedesca (Von Stuck e
Bokling, riferimento per De Chirico). Lo affascinano i soggetti, l’idea che nella realtà
contemporanea gli dèi antichi sopravvivessero, è interessato all’idea del mistero che si
nasconde dietro il quotidiano. Su questo tema riflette molto e, ispirandosi alla cultura
simbolista, inventa questa formula che chiamerà Metafisica, oltre la natura, caratterizzata
da elementi verosimilmente reali che si combinano in maniera assurda. Il fascino
dell’immagine è dato dalla verosimiglianza di una cosa che in realtà non è vera. Inventa
degli ambienti architettonici vuoti, silenziosi, caratterizzati da presenze all’antica. In questo
quadro vediamo un paesaggio verosimilmente reale, caratterizzato da edifici
classicheggianti (chiamati piazze d’Italia), ma è tutto ridotto all’essenziale. Vengono inseriti
oggetti e persone ma ridotte a bozzetti, a manichini. Vediamo in primo piano uno spazio
aperto con pavimento color senape; non vediamo l’orizzonte perché lo spazio è chiuso da
una cortina di strutture architettoniche, che sono insieme qualcosa di popolare (case
popolari, mura) che si combinano con architettura bianca che utilizza alcuni elementi della
tradizione classica. Non è però un tempio antico, non è una chiesa o un arco, è un insieme
di questi elementi. Ha una monumentalità esplicita, ha una specie di contraltare sulla
destra totalmente in ombra. Questo spazio è delimitato da edifici nobili, combinati con
presenze popolari. Ma l’orizzonte è chiuso non solo dalle mura, ma anche dal fatto che le
porte di questi edifici sono chiuse da tende e non da porte. Al di là esiste tuttavia un
mondo, intravediamo una vela, esiste un mondo reale. Al centro colloca un monumento,
tipico oggetto plastico che caratterizza la nostra urbanistica, combinato con una fontana.
In questa apparente immobilità l’unica cosa che si muove è l’acqua che sgorga. La statua è
all’antica, la figura è avvolta in un panneggio ma è priva di testa e braccia, è gigantesca
anche se frammentata. Le tende e le case sono moderne, gli edifici sono all’antica: che
tempo è? È un tempo senza tempo, il luogo della memoria, dove moderno e passato si
fondono in un’immagine che ha una sua spazialità ma è bloccata, immobile in un tempo
meridiano, “Pomeriggio di un giorno d’autunno” appunto. Le ombre sono studiate con
attenzione. Cosa si nasconde in un pomeriggio d’autunno qualsiasi in una piazza d’Italia? È
esattamente questo tempo sospeso e idea dell’ambiguità che è la forza della metafisica
che lui richiama.

“Muse inquietanti”, sono l’emblema della metafisica, c’è un


teatro della memoria (non immagine realistica) in cui
frammenti di ricordi si mescolano in modo verosimile ma non
realistico. Quella che dovrebbe essere una piazza sembra un
palcoscenico di legno di un teatro. La piazza è delimitata da
un edificio completamente in ombra, mentre in fondo
riproduce in maniera corretta il Castello degli Estensi a
Ferrara. Vicino ci combina degli elementi estranei a Ferrara,
una torre con tronco conico (sembra una costruzione
primitiva), poi una fabbrica che riconosciamo dalle ciminiere.
È incongruo quello che vediamo, sembrerebbe un paesaggio
urbano reale ma gli elementi combinati sono un’invenzione.
C’è una statua messa in ombra perché diventano
protagoniste di questo spazio urbano fittizio due figure, che evocano l’idea del
monumento ma non sono statue. Tutte e due sono vestite all’antica come le statue
classiche, ma le loro teste sono di manichini che usavano i pittori per studiare le posizioni,
combinate con elementi geometrici. È la combinazione libera della fantasia, è come se nei
cassetti della memoria di De Chirico ci fossero le statue classiche, il manichino che usa, il
gioco delle carte, una maschera, un ricordo di Ferrara: il tutto viene ricomposto in una
visione priva di una volontà descrittiva e analitica. Anche qui delinea le ombre in maniera
accurata, persino di un oggetto fuori dal quadro. In questo modo non progetta un
linguaggio di avanguardia in senso stretto, perché la sua scelta pittorica guarda ai maestri
del passato e ritorna a un ordine spaziale, non è un’avanguardia di superamento della
tradizione mimetica. Quello che propone è qualcosa che non si era mai visto prima.

Vediamo un dipinto del 1916, si trova in Italia a Cortona, città dove l’artista era nato e alla
quale lascia alla sua morte una serie di opere.
Gino Severini era un futurista che si era trasferito a Parigi
lasciando Milano dove aveva conosciuto Marinetti. Entra in
contatto a Parigi nel 1910 con le punte di tutte le avanguardie,
Picasso, Braque, Modigliani. Ma aveva mantenuto fede alla
pittura futurista, che poi nel primo dopoguerra riprende. Ci sono
dipinti di Severini degli anni ’20 in cui riprende il linguaggio
futurista, ma c’è una fase in cui la abbandona: 1916, il titolo
dell’opera è “La maternità”. La modella e sua compagna aveva
dato alla luce il loro figlio e la dipinge mentre allatta. Com’è
possibile che un pittore futurista dipinga questo? Possiamo
capirlo sulla scorta di alcune lettere in cui spiega che a ridosso
dei mesi che precedono questo lavoro si era reso conto che la
dinamica del linguaggio futurista cominciava a mostrare segni di
debolezza, davanti al fatto che si chiedeva se fosse possibile trovare un linguaggio artistico
nuovo che ridesse solidità e volumetria alle immagini, ma senza cadere nel meccanismo
dei cubisti che lui non condivideva, per quanto fosse loro amico. Questo perché ha
frantumato il mondo reale trasformandolo in elementi frammentati che restano immobili,
ancorati a un’idea di visione dell’arte basata sulle tre dimensioni. Comincia in quel
momento a guardare la tradizione della pittura italiana delle origini, guarda i maestri del
‘400 (Giotto, Masaccio, Piero della Francesca), che non hanno nulla a che fare con la
classicità in senso rinascimentale ma che propongono dei volumi essenziali che non sono
deformati come nei cubisti, ma rigorosi. È una pittura che da un lato non è realistica e
accademica, e dall’altro non è frantumata come la pittura cubista e futurista. La moglie
viene rappresentata in un’opera che apparentemente è mimetica, tutta l’ambientazione è
però sparita. Si intravede una sedia ma è lievemente inclinata, non c’è un pavimento e un
orizzonte. Le pieghe della camicia sono studiate in modo realistico, ma il volume della testa
è vicino a Piero della Francesca. C’è sul fondo di questa figura una maternità alla Piero
della Francesca, Severini riguarda alla storia per elaborare un linguaggio nuovo che non
passi per la frantumazione. Ma è l’unica volta che lo fa, dopo la guerra quando ricomincia a
dipingere torna al futurismo. Ma è interessante perché si
vede che nel mondo futurista si sono aperte delle falle,
c’è un ritorno all’ordine.

Opera del 1919, ritratto di una signora con ventaglio in


mano, non è concluso. Il modo di rappresentare la figura
con la gamba accavallata riprende i modelli di David e
Ingres. Questo pittore va a prendere i modelli che può
vedere al Louvre ed imposta il quadro allo stesso modo. Il
pittore è Picasso. È lo stesso che qualche anno prima fa i
collage del cubismo sintetico. Cosa è accaduto? Anche lui ha toccato il limite dello
smontaggio della realtà e della sua ricomposizione, coglie l’occasione di un viaggio in Italia
e segue una compagnia di danzatori che venivano da San Pietroburgo. Si era invaghito di
questa ballerina e quando partono per una tournée in Italia lui la segue. Arriva a Roma e
Napoli e vede per la prima volta i monumenti antichi: è questo contatto con la classicità
che lo porta a dipingere figure femminili monumentali, come se fossero statue ma i volumi
delle figure sono particolari, il cubismo non è passato inutilmente ma non è più quello
frammentato e ricomposto. Quando tornano a Parigi si sposano, lei qui veste un abito
contemporaneo e si appoggia ad una sedia dello studio di Picasso, indossando uno scialle
della nonna russa. La testa e il collo, pur realistici, hanno una volumetria geometrica: è il
retaggio del cubismo e l’idea che non si può tornare indietro, ciò che è accaduto ha lasciato
tracce indelebili.

1919, stesso anno del precedente, Carlo Carrà, titolo “Le


figlie di Lot”: vediamo uno spazio, è chiaro che è ispirato
alle Muse Inquietanti di De Chirico. Anche la quinta
architettonica e l’elemento classico sono ripresi da lui,
ma il paesaggio è primitivo e brullo, si intravede un
edificio arcaico tondo. Tutto quello che succede è
portato sul primo piano, c’è una figura femminile
inginocchiata con un cane e un’altra che esce dalla casa
con la mano sul ventre, è incinta. Secondo la leggenda
biblica, Lot, fratello di Abramo, viveva a Sodoma ma la
sua famiglia ebrea viveva in modo onesto e casto
rispetto a quello che succedeva nella città, in cui ci si
abbandonava ai piaceri. Dio decide di distruggere la città ma prima di farlo salva la famiglia
di Lot, manda un angelo che gli dice di partire di notte senza farsi vedere dagli abitanti e di
fuggire con la moglie e le figlie. Dio si raccomanda che nessuno di loro si giri a guardare
cosa accade alle loro spalle, perché se no rimarrebbero inceneriti da Dio. Il bagliore della
distruzione della città li induce a girarsi per vedere cosa sta accadendo, ma Lot prende per
mano le figlie obbligandole a non guardare. La moglie non resiste e viene distrutta dal
furore del fuoco. Succede qualcosa di condannabile dalla religione, ovvero che le figlie pur
di avere una continuità fanno ubriacare il padre e si accoppiano con lui, per poter avere
una continuità dinastica. Compiono un atto contro la morale ebraica religiosa ma sono
giustificate da Dio, perché era l’unico modo per continuare le tribù. Qui è rappresentata
una delle figlie incinta del padre (che hanno poi ovviamente abbandonato) che si
ricongiunge con l’altra. L’azione è ridotta a una sostanziale immobilità, le sagome delle
figure sono bloccate e schematizzate. Questo pittore era un futurista. Questa immobilità si
sposa con la semplificazione degli elementi, troviamo l’idea del manichino di De Chirico, le
braccia sono come cucite e i volumi sono ridotti a geometrie. Il modello a cui l’artista qui
guarda è Giotto: riprende il Giotto degli Scrovegni, i suoi paesaggi semplificati e le strutture
volumetriche.

“Pino sul mare”, 1919/20, da’ vita ad una visione che


entrerà nella formula che avrà fortuna in Italia ovvero il
Realismo magico. È un ossimoro, due termini sono
messi in opposizione ma danno vita ad un terzo
significato. Realismo indica qualcosa che descrive la
realtà, ma magico è il contrario. È quella pittura legata
alla realtà ma è contenuto qualcosa che è il mistero di
cosa rappresentino. È realistica ma non ha a che fare
con la realtà contingente, è una realtà metafisica col
suo mistero. È uno spazio che ci è suggerito dallo
scorcio di un edificio laterale, una quinta teatrale
scorciata (è come disegnava le architetture Giotto).
L’albero è ridotto ad una forma essenziale, la chioma è
copiata da Giotto, è una macchia verde compatta con
le foglie più chiare solo suggerite. C’è poi un oggetto contemporaneo, un cavalletto con
sopra appoggiato un tessuto che non sappiamo cos’è, è misterioso e non fa ombra. È una
realtà non reale, tutto è immobile, anche il mare. Sul fondo si vede una collina con
un’apertura nera, chiaramente un sepolcro. Allora è il sepolcro di Cristo e il panno bianco il
suo sudario. È un’attribuzione simbolica che sovrasta un’immagine arcaicizzante,
semplificata, dove realtà arcaica si coniuga con magia ed ambiguità, che è la chiave del
realismo magico.

Felice Casorati, 1922, pittore di origine piemontese che vive a


Verona nei primi anni del ‘900. Dal 1907 entra a Venezia in
contatto con i giovani della secessione di Ca’ Pesaro. Apre una
scuola di pittura e nel 1922 dipinge questo manifesto del
realismo magico, del ritorno all’ordine. Il titolo è “Ritratto di
Silvana Cenni”, ma è un nome fittizio, il personaggio non esiste.
È un dipinto su tavola e non su tela, riprende una tecnica a olio
su tavola come nel primo ‘400. È in posa seduta, rigidamente
frontale, ha gli occhi abbassati e non guarda lo spettatore. Alle
sue spalle si intravedono delle tende e si vede un paesaggio
riconoscibili, è la Chiesa dei Cappuccini sulla collina di Torino. Ai
suoi piedi ci sono degli oggetti realistici, dei volumi, un cartiglio.
Ma cosa rappresenta? Ha delle calze nere, non indossa un
vestito contemporaneo ma è il tipico grembiule che veniva indossato sopra i vestiti dagli
studenti dell’accademia. È una tunica di tela grezza, lei è una modella che ha messo in posa
e le ha fatto assumere una perfetta simmetria, è al centro del dipinto e un’asse la
attraversa. Il volume della testa e del collo è quello della Madonna della Misericordia di
Piero della Francesca. È chiaro che guarda a un modello aulico del passato ed impersona
una donna contemporanea in quella postura. Aggiorna quell’immagina arcaica su un
paesaggio reale e compone la scena con oggetti reali ma non significativi, è un capriccio, è
realismo magico e misterioso.

Ubaldo Oppi, pittore vicentino che lavora tra Milano e Venezia e


nel 1925 realizza questo ritratto della moglie con sfondo Venezia,
gli elementi sono realistici ma le sue mani sono sproporzionate, il
fondale (bacino di San Marco) è ripreso da Canaletto, il blu della
laguna è uguale al vestito come se vi ci fosse incastonata. Questo
ci da’ l’idea di come la pittura degli anni ’20 e ’30 si muova in senso
alternativo allo sviluppo delle avanguardie. Alter ego tedesco di
Oppi o Casorati è Christian Chad, viene in Italia a studiare la pittura
antica, soprattutto Durer. Qui vediamo un autoritratto del 1928,
“Autoritratto con camicia verde”, qualsiasi elemento realistico è giocato su un significato
totalmente ambiguo. La sua fisionomia è riconoscibile, ha suggerito la barba in crescita
sulla pelle e le occhiaie sotto gli occhi, ma la camicia verde è ripresa dagli autoritratti di
Durer. Crea un contrasto con la sua pelle, creando un verde acido innaturale. C’è una cosa
che non funziona: i peli sono fuori dalla camicia, come anche le pieghe della pancia. Ci
suggerisce che sta indossando una camicia ma non è vera, è la blusa del pittore, la forza
della pittura che sa imitare la realtà ma è talmente iperrealistica da diventare assurda. Si
ritrae con la sua modella, contrario della bellezza classica, ha mento lungo e naso aquilino,
ha una cicatrice sulla guancia ma ha un corpo meraviglioso, che non ha comunque niente
in comune con la statuaria. Riprende l’Olimpia nel nastro del polso. Domina l’immagine
cruda e gelida un fiore, un narciso: è l’emblema della
figura mitica di Narciso, giovane pastore amato da Apollo
che quando vede la sua immagine riflessa nell’acqua si
innamora di ciò che vede: per afferrare quell’immagine
cade ed annega. È simbolo dell’amore per sé stessi, ma
Narciso è uno dei vizi dell’artista. Qui è emblema della
pittura, l’ambiguità del rapporto realtà e finzione e in
contrapposizione all’anti graziosità della figura femminile.
Il tutto ci è fornito con un’immagine apparentemente
facile, riconoscibile.

Questo tipo di sensibilità arriva anche oltre oceano, 1930,


realismo americano di Hopper o di Grant Wood come in questo caso, vediamo un’opera
intitolata “American Gothic”. Sembra il ritratto di una coppia di contadini. La donna è la
sorella dell’artista e l’uomo il suo gallerista, lui li ritrae in modo estremamente realistico,
ma è la situazione che è totalmente irreale. Hanno gli abiti della tradizione delle colonie dei
contadini, lei un passo indietro rispetto a lui, alle spalle vediamo una chiesa ma in realtà è
la loro fattoria in stile gotico. Vediamo il modo violento e gelido con cui ci guardano e
brandiscono il forcone, è qualcosa di tremendamente ambiguo ed artificiale. Questa idea,
partita da De Chirico, di riavvicinarsi alla pittura della realtà poi trova delle declinazioni
diverse da luogo a luogo.

C’è poi la corrente dei surrealisti, cioè di tutti


quelli che avevano ereditato dai dadaisti l’idea
della necessità dell’artista di raccontare il
proprio inconscio e mistero attraverso una
pittura, in questo caso, che riprende il saper
dipingere. “La persistenza della memoria”, Dalì
ci dice che attinge alla sua memoria, dice che
aveva organizzato un pranzo con degli amici e
tutti si erano o addormentati o sposati, lui era
rimasto in dormiveglia dove il tempo sembrava
fermarsi, tutto diventava molle come il formaggio lasciato sul piatto da portata sul tavolo.
Gli orologi hanno la forma molle di quel formaggio con sopra le formiche, che assume la
forma onirica di un orologio da taschino. Uno di questi orologi si appoggia anche su un
frammento, ma cos’è? È una parte anatomica, è il frammento del volto di Dalì
addormentato, vediamo un pezzo del suo naso e del suo occhio. Il quadro è la sintesi di
visioni oniriche diverse: il formaggio che si scioglie con le formiche, che diventa poi un
orologio e lui si vede come un frammento. In questo
senso corrisponde a quella poetica di raccontare la
propria esistenza attraverso frammenti di immagini, che
si compongono in modo improbabile.

Alla corrente dei surrealisti si lega il fratello di Giorgio De


Chirico, Ruggero Savigno, nome di circostanza. La sua
“Annunciazione” riprende l’iconografia di quella della
Vergine Maria e la trasforma in qualcosa che appartiene
alla follia dell’onirico. La madonna è una donna qualsiasi
addormentata su una sedia, che improvvisamente vive
in un mondo che si sta ribaltando. Fuori dalla finestra
compare un angelo gigantesco e mostruoso, dove sta lo
spirito santo? È lei, la sua testa è diventata quella di un uccello. Si mescolano gli elementi e
tutto è raccontato come se fosse un incubo o un sogno.

Opera del 1925 di Magritte, pittore erede dei dada,


fa quello che diceva Duchamp: dipinge su una tela
una pipa e poi scrive “questa non è una pipa”. Si
intitola “L’inganno delle immagini”, qui c’è tutta la
componente dadaista e surrealista che emerge di
nuovo. Magritte ci mostra un’immagine
assolutamente realistica, non ci sono deformazioni,
sono passati più di 10 anni dalle avanguardie,
tuttavia ci dice che quello che vediamo non è vero. Le immagini in quanto immagini non
sono la realtà, ci sembra una pipa (perché è così nella nostra memoria), ma dal punto di
vista del valore oggettivo quella non è una pipa perché non posso prenderla e fumarla. Lo
è ma non lo è, questa è l’ambiguità. Su questo tema i surrealisti sono di nuovo
un’avanguardia, portano questo ai suoi estremi.

1928, Magritte, “La condizione umana”. Vediamo


un’ambiente riconoscibile, dove sono presenti i dettagli,
vediamo una finestra e un cavalletto. Quello che vediamo
sulla tela è anche il paesaggio, qual è quello vero? Noi stiamo
guardando una tela dipinta del paesaggio che c’è fuori, ma le
due cose coincidono. Nulla è vero, questa è la condizione
umana davanti alle immagini: non poter capire cosa è
artificio e cosa è realtà.

LEZIONE 6^

Affrontiamo cosa accade sullo scadere del ventennio che ha seguito la Prima guerra
mondiale.

Opera che si colloca quasi sullo scadere di questo ventennio, dopo di essa nulla sarà più
come prima. C’è chi la abbraccerà e chi la rifiuterà, è un’opera talmente potente che
diventa anche un macigno. Assisteremo a una reazione a quest’opera intitolata “Guernica”.
È una storia che si lega profondamente alla storia europea e ad una sensibilità dell’artista:
1937, Picasso non ha mai aderito ufficialmente ai surrealisti e non ha mai abbandonato
l’esperienza cubista.

Produce una serie di tavole ad incisione intitolata “Tauromachia”: il soggetto è la corrida


spagnola, lui la vede come un’allegoria del rapporto uomo-donna ma anche una gara
metaforica dell’esistenza. È una corrida ma anche la storia del Minotauro di Creta, metà
uomo metà animale, è un’allegoria con protagonista il toro. Queste tavole hanno la
caratteristica di recuperare la figurazione in modo leggibile ma dove i corpi sono essenziali,
ridotti a volumi (non geometrici e frammentati come nel cubismo).

Nel 1936 il governo spagnolo era stato eletto con elezioni democratiche, la monarchia
aveva finito il suo percorso e nasce una repubblica. Il partito socialista vince le elezioni, il
governo ha delle ispirazioni vagamente marxiane. Subito si scatenarono delle reazioni e
venne avviata una guerra civile a cui parteciparono come combattenti anche persone
dall’Italia e dalla Germania per difendere la Repubblica.

La repubblica in realtà aveva dato l’adesione all’inizio del suo mandato alla partecipazione
all’esposizione universale di Parigi del 1937. Le opere erano già state commissionate, una a
Mirò e una a Picasso: dovevano rappresentare lo spirito della Spagna. Picasso non ci lavora
se non a ridosso della consegna di quest’opera, aveva solo l’idea di usare il toro come
simbolo della Spagna. A ridosso dell’avvio della grande tela la situazione in Spagna sta
precipitando, ci sono
scontri ed omicidi.
Naturalmente
chiedono aiuto a
Hitler e una
squadriglia nazista
bombarda il paese
basco di Guernica,
era uno dei centri
della resistenza che
si svolgeva sui
sentieri dei Pirenei. Viene completamente distrutto uccidendo molti civili, anziani, donne e
bambini. Questo avvenimento del ’37 è gravissimo. Sul posto arriva anche la donna che in
quei mesi era la compagna di Picasso, Dora, era una fotografa e va a documentare. Picasso
ne resta così frastornato e cambia il tema del quadro, la spagna è sempre il soggetto ma
non quella della repubblica, è quella vittima di una ferocia cieca nella notte del
bombardamento e la Spagna che reagisce ad una tragedia, che lui già vede proiettata in
una guerra che coinvolgerà il mondo. È in bianco e nero perché la sua scelta è quella di
dare vita ad un grande quadro di storia dove il colore sparisce perché non c’è colore che
tenga davanti alla tragedia. È come se avesse proiettato sulla tela l’essenzialità e la
tragicità di Guernica pubblicata sui giornali. Per questo quadro recupera molto del
linguaggio cubista, frammenti di corpi, teste, braccia, frammenti di umanità e
compenetrazione degli oggetti (dal futurismo). Vediamo una donna a destra urlante con le
braccia aperte dentro la sua casa, i triangoli sono le fiamme; vediamo una donna che tiene
una lampada a petrolio, è la luce della speranza di salvarsi. Il guerriero con la spada
spezzata è la repubblica che è stata colpita a morte; il cavallo impazzito e morente è al
centro, c’è una luce gelida per tutto il dipinto. In questa tragedia non c’è neanche Dio, non
può essere evitata. Finisce con la madre urlante e il bambino morto fra le sue braccia; il
toro che si alza è la reazione del popolo spagnolo, è la Spagna che prende coraggio e
combatte contro la guerra. Il dipinto viene concluso in poche settimane, abbiamo la moglie
che lo fotografa nelle settimane in cui realizza il quadro. Viene poi esposto a Parigi nel
padiglione spagnolo, è un quadro che colpisce e rinnova l’avanguardia cubista. Ci sono
anche molte polemiche.

Alla chiusura dell’esposizione Picasso non era stato pagato perché le truppe avevano preso
il potere in Spagna, dove si instaura una dittatura di matrice fascista governata da Franco.
Picasso non rimanda il quadro in Spagna e rimane di sua proprietà. Fa girare il quadro per
la Francia in esposizione che servono per mandare denaro alle famiglie dei repubblicani
spagnoli che erano morti.

Scoppia poi la guerra e davanti al nazismo che dilaga il quadro viene mandato a Londra,
dove parte per gli USA, con la stessa ragione di raccogliere fondi. Guernica rimane dove era
esposta, al MoMa: resterà anche dopo la fine della guerra fino a quando nel suo
testamento lui diceva che lasciava il quadro alla Spagna solo quando sarebbe finita la
dittatura. Avviene negli anni ‘’70, trasforma la Spagna in una monarchia costituzionale e a
quel punto Guernica ritorna in patria, dove viene collocata nel museo a Madrid dopo
essere stata esposta in un edificio vicino al Prado in una proprietà del re. Il museo Reina
Sofia è dove si può vedere questo quadro. Tutti gli artisti hanno visto e studiato questo
quadro, chiunque ce l’ha in mente: gli artisti di cui parliamo stamattina lo hanno visto dal
vivo e sono gli artisti americani. È un’avanguardia statunitense, che non sa di essere
avanguardia e non si costituisce come gruppo organizzato, non stila un manifesto (un
critico solo li descriverà). Tutti hanno cominciato a compiere un percorso di trasformazione
davanti a Guernica, tutti sono passati da qui.

Cos’è questa avanguardia? Prenderà il nome di “Informale”, cioè un linguaggio che rifiuta
la forma. C’è un punto di distacco molto chiaro: Kandinsky si trattava di quadri in cui la
scelta era l’astrazione, stesura di colori dove era sempre tenuto a mente l’equilibrio.
L’informale rifiuta il controllo razionale e qualsiasi organizzazione a priori dell’immagine
pittorica, anzi procede (è un’arte processuale) da un’azione che ha davanti a sé la tela
vuota, ha i colori dall’altra parte, e tutto il percorso che porto all’atto finale è l’opera
d’arte. È il processo che produce l’oggetto pittorico che vediamo alla fine, che non è
un’opera costruita seguendo degli equilibri e delle forme, è solo la rappresentazione di un
caos in azione. È il rifiuto che l’arte possa rappresentare qualcosa, anche nel modo più
astratto possibile, l’arte non rappresenta niente. È l’idea di rappresentare le tensioni
esistenziali dell’artista, le sue paranoie, la sua felicità, la tragedia complessiva dell’essere
umano.

Vediamo un piccolo dipinto, 28x35, è una


tavoletta di legno realizzata da un maestro
tedesco, Hoffman, il quale era di origine ebraica
ed era sfuggito alla Germania. Era arrivato negli
USA dove insegnava all’accademia. Il dipinto è del
1940, vediamo un caos di colori e di forme che
non sono né antropomorfe né organica, ma
nemmeno geometriche come faceva Klee in
questo periodo. Abbiamo davanti il risultato di una
stratificazione di colore che non vuole avere un
senso. Questa tavola ricorda la tavolozza dei pittori, colori casuali e avanzati. C’è una
mutuazione da un oggetto del pittore, che trasforma in una tavoletta in cui stratifica il
colore come sulla tavolozza.

L’europa è occupata a massacrarsi e quindi è


qui in America che arrivano le avanguardie:
arriva Mirò, Duchamp e molti altri, ce n’è uno
che comincia a mettere in campo queste
novità: Arshile Gorky, origine armena.

Dipinto del 1938, pittura influenzata dagli


espressionisti, il tutto è ancora figurativo per
quanto semplificato.

1941, in sintonia con Guernica che studia al


Moma, e con Mirò che si era trasferito in
America portano le sue sperimentazioni in
chiave astratizzante. C’è una terza cosa che fa
parte del vissuto di Gorky: il titolo è “Giardini a
Sochi”, città russa in Crimea. Lui dipinge
qualcosa che nei suoi ricordi di bambino è
vivo, si era accampato coi genitori lì mentre
aspettava una nave per andare negli stati uniti. Gli elementi sembrano forme organiche ma
non le riconosciamo. Lui dice che ha mescolato nella
sua memoria questo ricordo di un giardino e il fatto che
quando aveva paura si rifugiava nel grembo di sua
mamma. Quindi il suo mondo visivo era tutto basato
sulle macchie che vedeva sul grembiule di sua madre, in
quel mondo si sentiva protetto: da adulto mescola
queste macchie di ricordi e le macchie del grembiule.
Questo mondo fatto di piccoli esseri sono la sua
infanzia. Il suo percorso va avanti in questo modo: 1944, “Il fegato è la cresta del gallo”, si
vedono elementi presi da Mirò e Dalì, il titolo è incomprensibile e surrealista. Sono forme
indefinite che sembrano incubi.

Nel 1947, ultimo anno di vita di Gorky che si


suiciderà, espone una serie di opere tra cui
“Agonia”. Questa rappresentazione informe
ma con degli accenni grafici, l’elemento
grafico segna dei ritmi e delle forme ma che
non hanno un senso, i colori sono distribuiti
con pennellate diverse che si sovrappongono
ma che non hanno un ulteriore valore di
comprensione. È come se fosse un’esplosione
nella sua mente di elementi d’azione, una visione autodistruttiva di sé stessa.

Si apre così la strada a uno dei maestri di questo nuovo


linguaggio definito Informale: è Jackosn Pollok. È figlio di un
geologo, entra in contatto con le tribù degli indiani che vivono
nelle riserve dove sono stati rinchiusi e dove hanno mantenuto
tradizioni ed attività. Li incontra perché segue il padre al lavoro
nei deserti. Acquisisce un particolare fascino per le
rappresentazioni che queste popolazioni fanno della loro
visione del mondo, si attraverso i Totem (sovrapposizione di
elementi antropomorfi ed animali). È affascinato anche dalle
danze, quelle della pioggia e degli equinozi ecc. Gli indiani si
esprimono attraverso disegni con la sabbia colorata, sono come
dei segni magici che lo stregone usa per guarire le persone o
portare via gli spiriti maligni. Tutte queste immagini rimangono impresse nella sua
memoria e quando si trasferisce a NY dove vede Guernica.
Nel 1940 aveva già mostrato segni di paranoie ed era andato in cura da una psichiatra, che
aveva lavorato sul tema degli archetipi, forme che ogni essere umano possiede quasi per
trasmissione genetica come immagini fondative. Sulla scorta di queste immagini e delle sue
esperienze attraverso le tribù, da vita al “Periodo Totemico”. Sono dei dipinti anche molto
influenzati dal fatto che entra nell’orbita di attenzione di una giovane collezionista di arte
contemporanea, ovvero Peggy Gugghenheim (di cui poi
diventerà anche amante) e anche il marito, un surrealista.

Vediamo un quadro del 1942, “La donna luna”, è una


rappresentazione di matrice surrealista in cui Pollok, superando
la lezione di Guernica ma senza arrivare all’astrazione totale,
inserisce un’immagine totemica che si lega a delle forme
originarie. Vediamo una mezzaluna nera, la testa di questo
personaggio, rappresenta il lato oscuro della luna e la potenza
delle fasi lunari e del genere femminile, intorno c’è una natura
fatta di macchie e segni. Riconosciamo il totem, ma si sta
“sciogliendo”. La fase totemica durerà fino al ’47.

1943, “I guardiani del segreto”, si vedono


due grandi figure e sono i guardiani del
paradiso, ma anche le statue simboliche
egizie, piuttosto che delle forme archetipe
del ponte tra gli uomini e gli dei. C’è uno
spazio centrale che sembra un lago, in cui ci
sono esseri umani e animali in un mondo
che mette insieme Mirò, Guernica e gli
indiani d’America.

Alla fine della guerra c’è l’evento nucleare, che lo colpisce molto. Smonta quegli elementi
totemici e surreali: vediamo una composizione, un dipinto lungo una 15ina di metri che
aveva distribuito nel suo appartamento. Sono forme sciolte e distrutte di un’umanità che
non è più umanità, non c’è una
direzione, è tutto mescolato. È come
una Guernica, un urlo contro la guerra,
racconta una disperazione interiore e
una proiezione di quello che sta vivendo
l’umanità.

A partire da questo, Pollock tra il 46 e il 47 comincia a superare l’idea che la tela sia un
racconto. Si stacca come per trovare un’altra lingua che non sia basata sul pennello,
qualcosa che superi la razionalità. Nascono i primi Dripping, tecnica che inventa e che sarà
un’essenza dell’Informale.

Il Dripping è un’operazione in cui


la tela non è montata su un telaio
come erano i dipinti fino a quel
momento. La tela non è
appoggiata a un cavalletto, è un
pezzo di tela da pittore che viene
stesa sul pavimento dello studio.
Pollock entra in una posizione
mentale come i guaritori delle
popolazioni indiane, entra in una
specie di trance ed isolamento dal mondo esterno per entrare nel suo interiore. Da qui
cominciava, in alcuni casi, bucava dei contenitori di vernice, li appendeva e li faceva
appunto sgocciolare sulla tela. La componente della casualità era molto alta, le spinte che
dava agli elementi erano in base alla spinta, anche in base alla densità del colore. Dura
poco perché poi decide di prendere die bastoni di legno o dei pennelli, li intinge nei
contenitori (non ci sono più le tavolozze) e comincia a muoversi attorno alla tela facendo
sgocciolare (senza appoggiare lo strumento sulla tela), compiendo una sorta di rito o di
danza e spargendo il colore. Il rapporto tra Jackson e la tela è come quello tra un torero
dentro alla piazza, è un combattimento che a un certo punto si conclude e abbiamo l’opera
d’arte. La vera opera d’arte non è la tela che vediamo, quella è solo la testimonianza di un
avvenimento artistico che è avvenuto ed è irripetibile. La vera opera è il momento in cui ha
steso la tela ed è entrato in contatto con la sua interiorità, prendendo il primo pennello a
caso. Questo è l’inizio dell’opera, la sgocciolatura è la danza che compie, questa è l’opera.
Quando finisce, finisce anche l’opera d’arte. È un’arte processuale, ciò che abbiamo alla
fine è solo la testimonianza.

LEZIONE 7^

Hoffman nel 1940 fa una tavoletta con colori sparsi ma non si può dire che abbia inventato
il Dripping, solo prefigura una modalità di espressione, non è ancora la teorizzazione.
L’Action painting di Pollock è quando non usa più la componente causale, ma governa lui la
sgocciolatura, camminando sulla tela e con degli oggetti schizzando per terra, ma sceglie
lui dove. L’effetto finale è più vicino all’Action painting, un’azione, l’opera d’arte di Pollock
è l’azione del dipingere e non la tela finale.
Gli informali americani che lavorano tutti su questo tema (Gorky e Hoffman sono dei
proto-informali, aprono la strada ma non la proseguono). Pollock è il primo che usa queste
tecniche. Alla fine degli anni ’60 viene codificata una storia dell’informale: gli informali
come Pollock e gli artisti a lui vicini si chiameranno “Gli Irascibili”.

Esistono due sottocategorie dell’informale:

1. Informale di azione, che si basa sull’azione del dipingere, a cui appartiene in primis
Pollock;
2. Informale di inazione, quelli che raffreddano l’azione e che scelgono una strada
alternativa al dripping, ovvero “Color fields painting”, grandi campi cromatici dipinti.
Campione di questa modalità è Mark Rotcho.

Uno dei capolavori della fase dell’action


painting di Pollock, datata 1947 (data in
cui espone una serie di dipinti di
dripping tra cui questo), si chiama
“Alchimia”. I contatti tra Pollock e Peggy
restano, infatti il dipinto si trova in Italia
a Venezia. È una tela stratificata in ogni
parte in cui ogni cm della tela (non
preparata, è grezza) e completamente
ricoperta senza un ordine e un’organizzazione. Questo tipo di effetto è il risultato della
mescolanza delle tecniche che abbiamo citato prima. Ci sono degli interventi con
pennellate (quelle nere), ci sono dei filamenti bianchi fatti col dripping. Si chiama alchimia
perché fa riferimento ad una proto-scienza che nella tradizione europea è la scienza o il
metodo con cui gli alchimisti cercando di scoprire i segreti della natura. È un insieme di
stratificazione di filamenti che sembra circoscrivere tutto il caos e il disordine non solo
della forza creativa della natura, ma anche della complessità delle esistenze degli esseri
umani che si incrociano e si mescolano. È come se fosse una
testimonianza realizzata in una sorta di trance il quale
sintetizza con i colori il tentativo di fissare lo scorrere della
vita nelle sue molteplici causalità. È l’impossibilità dell’arte di
comprendere la complessità della natura, è un percorso
magico e catartico.

Tra il 48 e il 50 l’action painting di Pollock si accentua


rispetto al dripping, vediamo un intervento più diretto e
razionale dell’artista sulla tela, come in “La foresta
incantata”. Ha un orientamento verticale determinato dalla
firma posta in basso, è un percorso fatto sulla tela, non c’è più la copertura della tela
totalizzante. Ci restituisce un’idea del rapporto dell’artista con questo oggetto: la foresta è
la foresta di Pollicino, dove il bambino si perde. Il bambino che è in Pollock diventa colui
che cammina in questo spazio, continua a tornare sui suoi passi, cerca delle vie ma non le
trova. Il titolo favolistico è incongruo con il percorso continuo che non trova una via di
scampo. Queste opere raccontano e sono condizionate dalla vita dell’artista. È evidente
che in questa tensione emotiva si comprende quello che sta accadendo, sta attraverso un
periodo psicologico difficile e la sua visione del mondo è molto caricato di angoscia e
tensione.

A ridosso del ’52 è ormai


famosissimo, l’informale è
sbarcato in Europa ed influenza
gli artisti. È l’anno in cui si
trasferisce da NY a fuori dalla
città, è una fase felice e realizza
una serie di opere che si
intitolano (sono una serie)
“Splendore nell’erba”, ci sono colori caldi e positivi. In realtà questo momento si conclude
e come vediamo in quest’opera del 1953, quando cominciano a riemergere delle tensioni.
Si intitola “Pali blu”, è una tela di 5 metri di base. Il titolo deriva dalle otto linee (che in
realtà sono nere), evocano i pali della luce lungo le strade di campagna americane, è una
sequenza di sentinelle silenziose (sono fatte con il pennello, è action painting). Tutto il
resto è ricoperto di bagliori di luce di colori caldi (come in splendore nell’erba). C’è ancora
del dripping ma sono quasi tutti interventi con il pennello. Nel 1956 muore in un’incidente
automobilistico mentre andava ad una festa ubriaco.

Esistono altri artisti che si


frequentano ma che hanno una loro
autonomia, non sono un gruppo.
Inserirli tutti nella categoria
dell’informale è un’operazione
successiva fatta dalla critica. Del
gruppo degli Irascibili fa parte un
olandese, Kooning: vediamo
“L’onda”, 1942. Sono campiture di
colore piatto, non c’è dripping o
action painting, si muove nell’eredità del surrealismo. Ci sono forme che vanno dal
geometrico all’elemento organico ma piatto, non vuole creare coinvolgimento visivo e
psicologico. La frequentazione del gruppo degli Irascibili fa sì che Kooning scelga la strada
dell’action painting, abbandona il surrealismo come anche tutti gli altri. Comincia a creare
delle tele che non vengono realizzate nel modo di Pollock, utilizzano le tele appoggiate a
cavalletti, hanno un rapporto frontale e una visione dello spazio secondo la logica
tradizionale. Sceglie una stesura data da sciabolate di colore, come se fosse un
combattimento. Nel periodo del ’52 fa una serie di opere che si intitolano “Woman”,
donna. Vediamo Woman I, ha sei stratificazioni di colore e torna frequentemente sulle tele
aggiungendo pennellate e stratificazioni. È evidente che scorgiamo un elemento
antropomorfo, riconosciamo un volto, ma l’opera non vuole avere nulla di piacere e di
erotico, è uno scavo violento all’interno dell’immagine del femminile. Emerge un corpo
deformato in cui sono accentuati alcuni elementi e dove corpo e spazio sono fusi in una
emulsione di pennellate violente e con colori antinaturalistici.

Un superamento di questo
retaggio del surrealismo lo
si ha con Franz Klain,
pittore newyorkese che si
è espresso attraverso
forme figurative fino a
questo momento, si
manteneva facendo
caricature. L’incontro con
gli Irascibili gli fa
abbandonare qualsiasi
ricordo di figurativo e
comincia delle
sperimentazioni legate all’action painting, tendenzialmente astratte. Vediamo due opere
del 1961, “Merce”. Rispetto a Pollock rifiuta la policromia, sintetizza il suo linguaggio sulla
bicromia e poi sui colori puri. Dal 49 al 57 sono caratterizzate dall’assenza di titolo e da una
presenza sulla tela di elementi di collage, derivati dai cubisti e dai surrealisti. Non hanno
volontà narrativa, sono frammenti di giornali e su cui si sovrappongono delle pennellate.
Come si spiega? I critici contemporanei identificarono queste operazioni come l’idea che
l’artista, tipico animale urbano vissuto a NY, utilizzasse queste pennellate per
rappresentare dei focus sui marciapiedi di NY (senza essere imitativi, evocano quella
situazione). È quello che lui vedeva all’alba quando si svegliava dopo aver dormito ubriaco
sul marciapiede (pezzi di giornale bagnati dalla pioggia,…). Sono frammenti di vita non
descritti in modo mimetico.
1961, “Red painting”, qui i colori riprendono il sopravvento
ma questo campo colorato (non omogeneo). Non ha nessun
senso, è solo un dipinto rosso. Non si vuole raccontare niente,
l’arte non deve costruire delle narrazioni che abbiano a che
fare con la realtà o con l’inconscio, è un superamento totale
del racconto, del ragionare e del descrivere. Sono solo azioni
che lasciano queste tracce.

Ci sono però alcuni di questi artisti che non sono del tutto
indifferenti alle problematiche sociali e politiche, siamo dopo
la Seconda guerra mondiale e nel periodo dello scontro feroce
della Guerra Fredda (stati uniti e Unione Sovietica). Il
contrasto ideologico era tra capitalismo e comunismo. Gli artisti di cui abbiamo parlato
(Pollock, Klein) non prendono posizioni ideologiche, le loro azioni sono dettate da un
rapporto intimo con la tela, non hanno sotteso nessun valore di carattere politico ed
ideale. C’è tutta una componente esistenziale ma non c’entra con le scelte politiche.

Robert Motherwell è uno dei pochi del gruppo newyorkese degli


irascibili ad aver preso delle posizioni politiche dichiarate e
pericolose. Negli anni ’60 si scatena la “Caccia alle streghe”,
ovvero una commissione del senato degli usa che scava negli
ambienti intellettuali (mondo del cinema soprattutto) e cerca
tutti quelli che avessero preso dichiaratamente posizione
insieme al partito comunista, o comunque un’appartenenza alla
sinistra. Robert fu uno degli indagati perché aveva realizzato tra il 48 e il 61 una seria di
140 tele fi grandi dimensioni, durata 20 anni, il cui titolo è “Elegia della Repubblica
Spagnola”: è chiaro dal titolo che c’è un progetto da parte sua, il termine Elegia è un
termine della letteratura politica, è come un canto epico che ricorda degli atti eroici. È
ancora legata alla presenza di Guernica, tutti ci passano come avevamo detto. È un canto
per un sogno ideale di una repubblica democratica per la Spagna, che era stata schiacciata
dal sangue. Una delle tele più famosa è dedicata a Lorca, scrittore ucciso dai franchisti. Che
lingua usa per raccontare questo poema lirico? Usa una pittura da action painting, dove
questo è come sedimentato attraverso delle campiture (stesure di colore) che sulla tela
assume delle parti, non c’è disegno, si dipingono delle forme, sono campi cromatici che
vanno a colloquiare tra di loro. Le forme nere sono come i toni musicali di un racconto
orale, come se fossimo davanti ad una partitura fatta non di parole ma fatta di colori che
diventano suoni e le voci del poeta. Questa partitura ci fa capire come può essere l’altra
versione dell’Informale, cioè la versione dell’Inazione, negli stessi anni.
È questa: vediamo un’opera del 1961, è
di un artista statunitense ma di origine
europea, si chiama Newmann. Negli anni
fra il 59 e il 60 da vita ad una serie di
grandi tele dove l’action painting non c’è.
Al contrario abbiamo stesure compatte
di colori puri, sono tele molto ampie
(superano i 4 metri), non sono tele da
cavalletto. Il titolo è “Vir eroicus
sublimis”, dedicato all’umanità sublime ed eroica. In realtà l’opera comprende altri due
pezzi, propone un’opera complessa non fatta solo da questo pannello, ma è costituita da 3
pezzi che occupano lo spazio in cui si trova lo spettatore. L’opera non è più la superficie
dipinta. Le altre due opere sono costituite da una tela la cui altezza è uguale, ma la
larghezza è 5 cm, è come una striscia, che lui colloca lateralmente. Di fronte all’opera, dove
c’è il pubblico, c’è una scultura di gesso che ha la stessa altezza del pannello. Il pubblico si
trova in un muto colloquio tra un elemento tridimensionale bianco, questa striscia bruna
laterale e questo pannello. Il titolo è rappresentato come umanità delle origini. Lui è un
ebreo e la sua cultura è imbevuta dei testi biblici: ecco perché il pannello è diviso da 5 linee
di colore diverso, che lui chiama “zip”: sono delle tonalità che variano. Non sono
equidistanti tra loro, sono distanti in modo proporzionale secondo il segmento aureo, e le
tonalità variano come se fossero dei tagli di luce. Rappresentano il primo atto della
creazione dell’universo. Nell’immagine diventa la creazione dell’universo umano, dove
l’uomo è l’obiettivo finale dell’operazione creativa. Questa tela vuole rappresentare una
macchina per meditare, per pensare. L’azione si raffredda, non c’è stratificazione, nulla di
organico, il ritmo delle linee danno l’idea di interrelazione nello spazio.

Su questa scorta lavora un altro artista, campione


dell’Informale di inazione: Mark Rothko. È di
famiglia europea di origine polacca, vediamo una
“Metropolitana”, è una pittura ispirata dalla
pittura espressionista e dei surrealisti, ma è una
fase breve: nel 46-47
abbandona l’idea di una
figurazione per operazioni
diverse. A partire dagli anni ’50, le tele non hanno mai un titolo, se
non i colori che contengono. Sono oggetti numerati ed
inizialmente non sono di grandi dimensioni, ma presto (1955)
diventano dei pannelli sempre più grandi. I dipinti di Rothko
diventano ambientali: gli vengono commissionati anche da parte
di alcuni alberghi, che però non li esporranno a causa della loro inquietudine. Il suo lavoro
produce effetti psicologici particolari. Le tele sono completamente dipinte, ma la stesura
delle campiture di colore non hanno compattezza meccanica, è un lavoro fatto con
estrema calma e la stesura utilizza un colore molto diluito. Non fa una pennellata di un
colore denso, fa quasi un acquerello, stratifica con pennellate liquide. Le superficie
contengono quasi tutti i passaggi del pennello, hanno dei punti più chiari e più scuri.
Queste campiture non sono separate nettamente, il grigio sborda sull’azzurro e viceversa.
Questo produce nel colore un effetto di superfice non immobile ma in perenne fibrillare,
un movimento impercettibile. Questo effetto visivo produce coinvolgimento dello
spettatore, a seconda di come si gira il suo dialogo con la tela cambia. La tela dipinta in
questo modo è un sistema per meditare e per perdersi, per annullare lo spazio fisico
intorno e lasciarsi trascinare dall’energia dell’universo del colore. I dipinti di inazione sono
il risultato di una meditazione e di strati fatti via via col tempo, il contrario di quello che
faceva Pollock.

Capolavoro di Rothko, ci lavora dal 1964 al 67,


non lo vede terminato perché si suicida. È una
cappella, la Rothko Chapel, era un luogo voluto
da due facoltosi miliardari americani e che
vivevano a Houston, i quali appartenevano al
partito democratico. Non solo aprono nel
campus universitario di Houston un museo, a
cui lavorerà un giovane Renzo Piano, ma
soprattutto la Cappella che viene
commissionato con l’intento che ci sia un luogo
religioso nel senso di spirituale ma che non
abbia alcuna connotazione confessionale, non
è né Moschea ea né Sinagoga né chiesa ecc. E’
solo un luogo di pace ed uguaglianza.
Progettata dall’architetto Philip Johnson, è
compatta di forma poligonale e di mattoni,
all’esterno non mostra nulla, è un’architettura
primordiale senza connotazioni. la copertura è
una specie di tetto che lascia filtrare la luce
esterna lateralmente, è leggermente sollevato,
dentro c’è solo questa luce naturale. Di fronte
Johnson realizza una fonte d’acqua al centro del quale viene collocato un obelisco di ferro
spezzato, dedicato a Martin Luther King appena assassinato. Per questo interno realizza
otto tele: sono posizionate sulle otto pareti. Le opere sono nere, tele enormi nere. Ma non
sono neri in modo compatti, sono ottenuti tramite stratificazioni di tonalità diverse,
nessuna di queste tele è uguale all’altra ed in alcuni punti sono attaccate. Non illustrano
niente, ma la loro vibrano e dimensione diventa come uno specchio per chi entra. Si può
vedere qualsiasi cosa si voglia o non si voglia vedere. Emergono anche le angosce, la
concentrazione del luogo può produrre un effetto di abbassamento delle difese in cui una
persona è proprio davanti a sé stesso. È l’annullamento dell’azione, oltre a questo non si
può fare più nulla, infatti dopo si suicida.

Cosa succede in Europa? Non succede nulla fino alla fine della guerra nel ’45. Quando gli
artisti riemergono dalle tragedie della guerra, quello che esce è un’arte informe, che non è
legata all’esperienza americana ma è autonoma. L’arte realistica era compressa dai regimi
totalitari. Non si poteva più pensare a un’arte figurativa, si assumono forme espressive
nuove.

Fautrier, tra il 45 e il 48 realizza una serie che si chiama


“Teste di ostaggio”: sono opere realizzate su tela con uso
di sabbia o caolino (polvere), mescolata con colla e
pigmenti colorati. Si stratifica e si modella, poi viene
lasciata seccare. Quello che emerge è una materia
tridimensionale, i colori sono terrosi ed intravediamo
una forma antropomorfa, sono le teste delle persone
fucilate dai nazisti che lui vedeva dalla finestra dell’ospedale psichiatrico in cui era.

LEZIONE 8^

SPAZIALISMO

Lucio Fontana ne è il fondatore ed anche il maggior esponente. Nel 1947 c’è il primo
manifesto dello Spazialismo.

Nasce nel 1899 a Rosario de Santa Fe, non lontano da Buenos Aires, ha una famiglia di
scultori, anche lui inizia facendo lo scultore. Si trasferisce poi in Italia e studia a Brera.

Si propone di fare un rinnovamento linguistico e di far affermare il valore concettuale


dell’opera d’arte. La ricerca spazialista è tesa al superamento dei limici fisici dell’opera
tradizionalmente intesa, e all’affermazione dell’opera come “concetto”, come
proposizione teorica sulle molteplici possibili declinazioni del rapporto tra “individuo” e
“spazio”.
I Buchi che dal 1951 fa sulle tele, e i Tagli del 58, sono un superamento dell’idea
tradizionale di rappresentazione dello spazio sia una apertura verso una dimensione
spazio-temporale “altra”.

Concetti: SPAZIO inteso come “quarta dimensione”, rottura degli schemi compositivi
dell’opera; riflessione filosofica del nostro rapporto di uomini con lo spazio.

L’opera assume un valore di metafora analogica di una nuova dimensione spazio-


temporale.

Ci troviamo di nuovo di fronte ai manifesti, il futurismo è quello che ne ha prodotti più di


tutti. Fontana, che conosce i futuristi, è citato anche da Marinetti tra gli esponenti della
cultura futurista. Concepisce l’idea di dar vita a un nuovo gruppo, ma più che altro a una
nuova arte. Per far sì che venga capita si dispererà, molti non lo capiranno e tornerà spesso
a fare ceramiche. È conteso tra la sua attività plastica e la sua idea teorica di una nuova
arte, che per sostenerla pensa di fare un manifesto.

Il primo è quello del 1946 e non lo firma, lui lo agevola e incoraggia nei suoi allievi, che
sono giovani artisti dell’accademia di Altamira a Buenos Aires, qui concepisce il Manifesto
Blanco, scritto anche da lui e firmato da altri artisti argentini, precede la nascita dello
spazialismo.

Primo vero manifesto è del 1947, si intitola “Spaziali”, lo firma anche Fontana.

Secondo manifesto nel 1948, scritto solo da Fontana.

C’è poi una proposta di regolamento nel 1950, ci sono molti più firmatari tra cui anche un
gallerista che fonda a Venezia la Galleria del Cavallino, e a Milano fonda la Galleria del
Naviglio, in cui porta espressionisti ed informali, un gallerista attento ed in dialogo con gli
artisti.

Nel 1952 c’è il Manifesto Spaziale per la televisione, lo scrive e lo firma Fontana.

Partiamo dal Manifesto Blanco (1946): ha un sottotitolo (“Noi continuiamo l’evoluzione


dell’arte”). Di fronte al cambiamento dovuto alla fine della guerra, propongono di
continuare comunque a fare arte ma si rivolgono agli scienziati, come il futurismo che
aveva interesse per la tecnologia. C’è attenzione verso la
sperimentazione di luce e di suoni. La conoscenza
immaginativa si crea nella mente delle persone, ma oggi
bisogna dare attenzione alla conoscenza sperimentale,
mettere in gioco qualcosa che prima non c’era. Dicono che
l’uomo è esausto di forme, pitture e sculture. Le sue
ripetizioni attestano che queste arti rimangono stagnanti,
hanno dei limiti che non bastano più a soddisfare le esigenze dell’uomo contemporaneo,
conteso dalle scoperte scientifiche. L’era artistica dei colori è sorpassata, tutto quello che
era stato rivoluzionario nell’espressionismo e nel cubismo. Le immagini immobili non
soddisfano più, c’è bisogno di un dinamismo costante. Invocano questo mutamento e
abbandonano la pratica delle forme d’arte per un’arte basata su tempo e spazio. L’arte
nuova prende i suoi elementi dalla natura. La materia, il colore e il suono in movimento
sono i fenomeni il cui sviluppo simultaneo integra la nuova arte.

Lucio Fontana, “Concetto Spaziale”, 1951, olio, sabbia, buchi su tela.

Primo Manifesto Spaziale: l’arte è eterna, in quanto un suo gesto non può non continuare
a permanere nello spirito dell’uomo. Rimarrà eterna come gesto ma morrà come materia.
Gli artisti hanno sempre confuso i due termini, hanno fatto decadere il gesto artistico puro
ed eterno in quello duraturo nella speranza dell’immortalità. Pensiamo di svincolare l’arte
dalla materia, l’arte non è l’oggetto. Lo spirito umano tende a trascendere il particolare per
arrivare all’universale, attraverso un atto dello spirito
svincolato da ogni materia.

Mentre i futuristi volevano abbattere i musei e il


passatismo, Fontana non vuole fare questo, ma dice
solo che bisogna continuare ad andare avanti.

Le tele prendono forme diverse, anche ovoidali. C’è


sempre una tensione al trascendente.

È un artista che compie un gesto, non vede la tela come superficie di rappresentazione.
L’arte contemporanea non è più un paragone di evoluzione di immagini, va a cadere, anche
quando nella pittura contemporanea ritroveremo la figurazione la critica d’arte non
analizzerà mai il quadro in maniera classica, si parlerà sempre di processo e di metodo, è
un cambiamento radicale. La tela è un mezzo di questo gesto, e per farlo capire fa
un’operazione che coinvolge la tela in quanto spazio, entra in un altro contesto spaziale
facendo un buco, in cui ci sta l’infinito immaginativo concettuale e filosofico, che prima di
tutto è un gesto. È un segno che ha su di sé tutti i segni del mondo.

Pollock ha anche lui una dimensione spaziale, ma è diverso: cambia il paradigma dello
spazio rispetto all’artista, il quadro si fa col tempo della vita. Quella di Fontana non è una
pittura gestuale, non c’è pittura, noi possiamo risalire al gesto primo e al pensiero di
tagliare.

Come arriva a questo gesto? Nasce sulla tela nel 1951. Cosa accade tra il 47 e il primo
buco? In questi 4 anni sperimenta su come portare la teoria di prima sulla tela.
5 febbraio 1949: nelle gallerie si sperimenta,
nella galleria fa questo intervento, allestimento
particolare in cui inaugura l’ambiente spaziale.
Non perde occasione per scrivere delle cose sul
biglietto di invito alla mostra, ci sono le
affermazioni chiave dello spazialismo.

Questo suo allestimento aveva bisogno del buio,


aveva sperimentato delle vernici fluorescenti. Va
nel regno dell’invisibile, di giorno questa sua
scultura di forme fluttuanti nella stanza non si
vedeva. Usa dei colori industriali, delle nuove
ricerche chimiche. È una ricostruzione, dopo la
mostra viene smantellata. Non è la scultura
l’oggetto, ma è l’ambiente. È importante il
colore nella sua diramazione spaziale che
modifica l’ambiente.

Ogni spettatore reagiva sul suo stato d’animo


del momento, non era condizionato.

Fontana nel 1951 ha l’occasione di


partecipare come suoi molti colleghi alla
triennale di Milano, in cui fa “Concetto
spaziale al neon”. È lo stesso anno dei
primi buchi, è lo snodo in cui utilizza un
neon, prodotto della nuova industria
della luce, per creare un ambiente spazio
con la luce che va al di fuori del proprio
corpo. Fa un’incursione nell’ambiente
dato senza modificarlo. È tra i primi ad
utilizzarli per installazioni artistiche. È
qualcosa che trascina oltre, ricorda lo
sfondamento architettonico del barocco che aveva l’intento di trascinare lo sguardo oltre il
limite dell’edificio.
LEZIONE 9^

Artista che aderisce allo spazialismo:


Roberto Crippa (1921 – 1972). Utilizza
sempre la superficie del quadro, non lo
taglia e non lo modifica, non aggiunge
elementi tridimensionali. Crea questi vortici
di spirali legati allo spazio, si vedono degli
agglomerati di nuclei o orbite. Non sono
rappresentazioni scientifiche, siamo di
fronte a un’opera d’arte, il vortice non è
casuale ma è causale rispetto ai moti celesti,
vi si ispira ma lo interpreta, utilizzando colori primari su fondi neutri. La superfice è liscia e
piatta.

Giuseppe Capogrossi (1900 – 1972) ha un


segno primario delle origini. È essenziale e si
ripete, il segno c’è sia qui sia in Crippa. Ma su
cosa lavorano? Sull’idea di superficie: lo
spazialismo per loro è un lavoro sulla
superficie, la loro tela sarà piatta esattamente
come il tratto, il contrario di Fontana.
Utilizzano la superficie del dipinto ed in
questo vediamo che i segni vanno oltre la tela,
non ha un equilibrio o un centro, potrebbe
continuare all’infinito. Il segno che si ripete è un marcatore che si ripete. I segni ci
mostrano la superfice del dipinto, rendendola sfuggevole.

Come arriva Fontana ai primi buchi? Si definisce scultore e ha


un rapporto con la materia. Vediamo “La signorina seduta” del
1935, è una terracotta, è classica apparentemente ma
vediamo un movimento delle vesti e la pelle è oro. Già nel 35
mette un elemento che spiazza, usando l’elemento più
astratto possibile (luce divina, era anche lo sfondo delle
iconografie).

Fa anche “Uomo nero”, sculture in gesso che ricopre di nero


che annulla le forme. Sta cercando di uscire dalla forma
usando la luce (nero e oro li vediamo così grazie alla luce).
Nella terza scultura potremmo non vedere un passo della Via Crucis, è Cristo circondato dai
suoi aguzzini ma si può anche vedere un agglomerato di forme.

Lavora molto la ceramica, vediamo due sculture


degli anni ’30. Fa delle nature, dei fondi marini,
e allegorie simboliche (era la sua dicotomia). È
molto espressionista con la materia, è mossa e
aggressiva. Cosa rende questo tipo di scultura
già spazialista anche se non ha ancora fondato
il movimento? Il colore nella ceramica spesso
colora delle superfici, segue la delimitazione.
Ma lui utilizza il colore per sconfinare sempre
rispetto alla forma, annulla le forme non rispettandole, non
si ferma al limite del bordo, ha delle sbrodolature. Il colore
non è a servizio della forma, è qualcosa in unione con la luce
e con lo spazio. Ci sono sulla banana dei segni, quasi dei
ripensamenti, ma li lascia e poi sborda dalla forma.

Avrà sempre un interesse verso l’escatologico e lo spirituale,


sono famosi i suoi crocifissi molto barocchi.

Dalla scultura in ceramica, passando per i tagli, la scultura e


lo spazio continuano a essere il suo centro di ricerca. Tra il
59 e il 60 fa l’ultimo ciclo scultorei vero e proprio. Lo chiama
“Nature”, sono delle esplosioni di energia, ricordano le
forme dei semi, sono forme ancestrali, tutto quello che ci
ricorda il germinare dell’energia. La voragine non è
scavata, lui fa uscire il buco. È la terra nell’unione della
vita. Nascono in ceramica, poi ha l’intuizione di traslarle
nel bronzo, per rendere resistente qualcosa di
estremamente fragile.

MOVIMENTO ARTE NUCLEARE

Enrico Baj e Sergio Dangelo sono gli artisti principali. Loro erano artisti molto influenzati dal
surrealismo e dal futurismo.
Sergio Dangelo non ha neanche 20 anni ma già viaggia ed è un prodigio, usa un segno che
ricorda molto l’oriente, che lui studia e conosce.

Joe Colombo in quegli anni realizza queste forme non forme, esseri mostruosi che
chiamano pre figurazioni, qualcosa che sta generando una figura. È più legato alla materia.

Enrico Baj è molto materico e pre figurativo, vediamo degli esseri mostruosi ma che ci
ricordano qualcosa di antropomorfo. Ha molto a che fare con la fantascienza.

Baj e Dangelo cominciano a dipingere insieme, vediamo due passaggi dalle memorie di Baj.
Avevano voglia di fare qualcosa che ancora non era stato fatto. Siamo negli anni ’50.
Prendono gli smalti, vernici, e le gettano sulla tela. Spostano la tela dalla sua posizione
verticale a orizzontale per terra, le vernici venivano solo parzialmente da loro controllate,
perché dopo averle gettate muovono la tela per far andare il colore dove volevano.

Nel 1951 hanno la prima intuizione e fanno una mostra loro due a Milano. La materia crea
qualcosa che poi noi riconosciamo dopo, è fondamentale per la nascita del nuclearismo.
Non si fermano a Milano, organizzano una mostra nucleare a Bruxelles. Qui pubblicano il
primo manifesto dell’arte nucleare: si scagliano contro l’arte del tempo, sono molto
rivoluzionari. Vogliono abbattere tutti gli “ismi” di una pittura che cade inevitabilmente
nell’accademismo. Le forme si disintegrano, le nuove forme dell’uomo sono quelle
dell’universo atomico. Le forze sono le cariche elettriche. la bellezza coincide con la
rappresentazione dell’uomo nucleare.

Gli artisti si dividono tra spazialismo e


nuclearismo.

Il movimento ha avuto poi un continuo fino


al 56, nel 57 finisce circa. Milano è il centro
di questo movimento ma un nucleo
importante c’è anche a Napoli.

Parliamo del protagonista più famoso,


Enrico Baj. Vediamo un dipinto vero e
proprio olio su tela che è un manifesto e si
intitola “manifesto Boom”. La forma nera è una pre figura
ispirata al fungo atomico. Prende un’immagine iconica che
il pubblico ha visto nei giornali ma la utilizza per altro,
intanto come sfondo come manifesto che riprende le
parole di quello nucleare ma le trasforma. Ci sono parole e
lettere, rompe la sequenzialità e l’ordine della pagina, c’è
stampatello minuscolo insieme a maiuscolo. Le nuove
forme dell’uomo sono quelle dell’universo atomico, si parla di un uomo che deve essere
visto non con la forma esteriore ma interiore, l’atomo di cui siamo fatti può essere
disgregato e fa scoppiare energia. Tutto è carica elettrica.

Vediamo le nuove forme dell’uomo atomico: è una larva, è qualcosa che deve ancora
nascere, un uomo del futuro. È anche qualcosa che esce da una brutta esplosione, non sta
bene. Il fondo è rosso del sangue e della passione.

L’idea della spirale di Crippa torna, c’è comunque una ricerca del corpo energetico. Le
spirali generano queste figure primordiali,
sembrano due animaletti o due bambini,
hanno corpi fatti di sostanza e di atomi ma
non di materia, piuttosto di aggregazioni. Le
spirali sono fatte lasciando sgocciolare il
colore.

1956, “Due bambini della notte nucleare”. Il


bambino non è casuale, è un po’ quel “non
uomo”, o uomo futuro, slegato dalle
dinamiche logiche degli adulti. È quanto di
più sperduto si possa immaginare.

Si può inserire il nuclearismo nell’Informale


Europea? Sì, si deve, cercano un’arte non
colta, non è attenzione sulla firma, è
simbolico.

Anche Baj passerà un momento di


sperimentazione con la ceramica.

Crea i “bambini nucleari” del 54, hanno una


doppia faccia davanti e dietro. È da questa
materia atomizzata che avrà la sua
illuminazione. Il nucleare finisce nel 57 ma
Baj continua a dipingere, diventa
famosissimo. Il Baj di questi anni comincia a
mettere sulla tela anche vetro, usa la tela
delle tappezzerie come sfondo, usa un
polimaterismo. Non c’è solo il Baj del
nuclearismo, ma anche e soprattutto quello
polimaterico e anti-militare degli anni ’60.
Non si può dire che la loro fosse
action painting, perché era solo
sperimentazione ed era più una
pittura gestuale. In realtà anche
dire così è errato perché loro
fanno muovere la materia, non
è un vero e proprio gesto.
Questi gesti sono impersonali, è
la fisica che decide dove va la
materia muovendo la tela, è la gravità.

LEZIONE 10^

A ridosso del 1952 nasce una nuova avanguardia in polemica diretta con l’Informale.

In Europa sul finire della guerra c’è Fautrier,


“teste di ostaggi”: erano composizioni
costituite da miscele di gesso e colla con dei
pigmenti, che lavorava su delle superfici
piane in legno. Queste stratificazioni non
andavano a indentificare nulla di
riconoscibile in senso stretto, era una forma
antropomorfa di una testa con alcuni tratti
somatici. Siamo nel 46/48, queste opere
sono connesse a una sua esperienza
biografica tragica: era stato ricoverato in un ospedale psichiatrico nel 43 ed aveva assistito
alle fucilazioni sommarie delle SS, dalla finestra dell’infermeria vedeva i cadaveri
abbandonati di queste persone che si decomponevano. Questo ricordo diventa una
metafora della tragedia della guerra e dell’esistenza dell’umanità, queste teste sono
umane ma non sono più umane. La materia è come se imitasse la pelle umane ma poi si
crepa e perde la sua consistenza, restano questi frammenti legati all’informe, ma dove
l’informale per Fautrier non ha consistenza di carattere filosofico ed esistenziale come gli
americani: qui è un riflesso della tragedia che l’Europa ha vissuto, e di una difficoltà a
trovare una strada espressiva nuova che non volesse più prendere in considerazione
l’elemento figurativo della tradizione. Sono immagini che non hanno nulla di piacevole,
non hanno un’estetica che risponde alle aspettative del pubblico. Apre la strada ad un
percorso dell’Art Brutte, che è volutamente antiestetica ed anti- bella, una
rappresentazione feroce ed infantile, tragica allo stesso tempo. Più che brutta, è un’arte
brutale che non ha filtri e non vuole avere valore estetico.
Riopelle, altro artista di questi
anni, prende spunto
dall’esperienza americana e cerca
di fare un’altra operazione
ancora. Evoca il dripping ma non
lo è e non è neanche action
painting. Le sue opere le
realizzava davanti al pubblico,
erano qualcosa che si
realizzavano nell’immediato. Si basava sulla tecnica di una stesura d’azione ma non è un
dripping in senso stretto, non ha poi la tela stesa a terra. La tela è a parete e stende una
tinta di preparazione di base, sul quale poi con pennelli intrisi di materia pittorica
interviene con un ritmo compositivo estremamente veloce. Il senso dell’operazione è
l’azione che si esercita davanti al pubblico, senza dialogo e senza confronto. È ovvio che c’è
una forte componente estetizzante, contrario di Fautrier per esempio: la distribuzione dei
colori segue una logica, la dominante del colore rosso si equilibra col nero, è un’operazione
di alta esteticità.

Succede qualcosa negli anni 49/50, emergono due artisti che accedono a un risultato
artistico affine. Sono Alberto Burri e Antoni Tapies, catalano. Tapies utilizza come materiale
di espressione il cemento, inizialmente quasi con un’eco dadaista utilizza pezzi di cemento
trovati in giro. Poi li realizza lui stesso, e questi pannelli di cemento cosa restituiscono? Ci
sono graffi, tagli, buchi, quando il cemento asciuga interviene anche pittoricamente. Il
risultato è un pannello testimonianza del trascorrere della vita. Li ha realizzati l’autore, ma
l’idea è la restituzione di un frammento di vita che narra attraverso dei segni (non
riconoscibili, non sono parole), l’opera è l’ultimo residuo di una storia umana passata da
questo spazio e fermata su questa parete. Il materiale non è artistico, è volutamente
grezzo, ma c’è il concetto che l’opera sia la sedimentazione di esperienze biografiche, di
vite, attraverso segni e tracce.

Alberto Burri è il corrispettivo in Italia (e in


Europa), era un medico e aveva combattuto
durante la guerra, era finito in un campo di
prigionia negli stati uniti. Qui scopre il suo
desiderio di esprimersi, il materiale che trova
a disposizione sono i sacchi di juta utilizzati
per il trasporto della posta. Tornato in Italia
tra il 48/49 realizza delle composizioni
chiamate “I sacchi” che utilizzano la struttura
della tela tradizionale su cui lui incolla questi
sacchi, frammenti di contenitori di juta. Cosa significano per lui questi sacchi? Non è
casuale, non è una composizione spontanea e priva di equilibrio: sulla superficie i vari
elementi sono combinati seguendo una logica, si alternano parti chiare e scure e lisce e
ruvide. C’è un altro fattore: l’intervento pittorico c’è, la tela sottostante è stata dipinta di
rosso e lo si vede attraverso alcuni buchi dei sacchi. Su questa Burri, ritagliando e cucendo
ha composto questo patchwork, attraverso cui tra gli spacchi fa emergere il colore creando
un effetto tridimensionale (che già possiede visto i materiali usati). È una composizione
polimaterica, dove pittura e materiale si uniscono e, anche se ha l’aspetto di un quadro,
non è più un dipinto e non ha nulla a che fare con l’Informale. Questi sacchi cosa
raccontano? Ecco l’affinità con Tapies: i sacchi raccontano la loro esistenza, lo avevano
colpito perché venivano usati più volte, per poterli usare venivano rattoppati e cuciti.
Riportavano anche sigilli e timbri, i sacchi sono usati e con la loro individualità raccontano
storie. L’intervento del taglio e del rattoppo racconta un altro livello di storia, è il corpo
lacerato che mostra le ferite. I sacchi rappresentano oltre alla storia del materiale una
storia condivisa da quella generazione che ha vissuto la guerra. C’è un ovale scuro, è una
piccola bruciatura: inizia a sperimentare “il combusti”, ovvero gli oggetti bruciati. Qui ha
bruciacchiato i bordi di un sacco, è un intervento meccanico non tanto gestibile dall’artista
(il fuoco non è controllabile).

Burri era entrato nel Gruppo Origine che si


forma nel 51, accorpava artisti giovani che
cercano di rispondere allo strapotere
dell’Informale americano, erano contro
l’Informale francese. Il gruppo chiude i
battenti nel 58. A partire dal 56 fa una
ricerca che anche in questo caso ha alcune
affinità con Fontana. L’idea è affine, nelle
combustioni ha l’idea della doppia
superficie: c’è una tela nera di fondo sulla
quale lui fissa più strati di fogli di celophan,
materiale non artistico, sulla quale poi
interpone delle stesure di colore (qui è rosso). Quando termina il rivestimento della tela,
con una piccola fiamma ossidrica e con attenzione la avvicina senza colpire la tela e la
superficie si scioglie ritirandosi per un certo spazio che lui deve saper gestire, in modo che
vada a liberare via via il fondo dipinto. È un lavoro prima di stratificazione, poi
avvicinamento di una fonte di calore (strumento estraneo che cerca di governare con
attenzione), poi con le mani tira i lati in modo da creare questi loculi che evocano le
lacerazioni del corpo. L’effetto è questa idea di una superfice che evoca sia il corpo umano
ma anche la superficie lunare, i pianeti. Il taglio di Fontana è un’operazione di altissimo
livello chirurgico, doveva tagliare quando l’asciugatura non era arrivata alla fine (si sarebbe
strappata) e quando non era troppo molle, se no collassava. Qui c’è una fisicità e una
violenza che ha un esito visibile e trova pace sul fondo nero, su questo altro mondo che si
apre.

Vediamo a cosa arriva Burri tra la fine degli


anni ’60 e gli inizi del ’70: sono i cosiddetti
“Cretti”: evocano l’effetto che una
prolungata aridità produce sul terreno,
spaccandosi in zolle. Questi pannelli sono
realizzati in vasche orizzontali in cui cola una
miscela di gesso e caolino, pigmenti e colla
industriale. Quando questa miscela si
stende, nei giorni successivi si asciuga e
cominciano ad aprirsi queste crepe, su cui
poi viene stesa la vernice. Vediamo un pannello del 1972, questo evoca il Vesuvio. I Cretti
diventano l’ultima espressione di Burri, faceva ad un certo punto un intervento non più al
chiuso ma all’aperto, opere che intervengono nel paesaggio e nello spazio urbano. Il più
famoso da lui progettato è in Sicilia, sulle macerie di un terremoto.

Con Burri chiudiamo la stagione dell’informale, di questa post avanguardia che ha


caratterizzato gli anni tra il ’40 agli inizi degli anni ’60, nelle diverse modalità statunitensi
ed europee.

NEW DADA

Accade negli Stati Uniti, è la reazione all’Informale (è contro). Uno dei segni che potremmo
considerare l’avvio è un’opera di Rauchemberg, di origine tedesca. È un giovane artista
formatosi nella cultura newyorkese legata alla musica jazz che nel ’52 realizza quest’opera.
Riesce a comprare un disegno di De Kooning che cancella con una serie di interventi, fa
un’operazione di cancellazione dell’oggetto. L’idea di aver comprato un oggetto d’arte e
cancellarlo significava dire che anche l’informale, partito come un’avanguardia di
rivoluzione die linguaggi, era diventato un metodo di comportarsi. La cancellazione era un
gesto che non creava ma trasformava. Il termine new dada ha un riferimento al dadaismo,
era un nuovo dadaismo: l’obiettivo di riferimento è Duchamp, tutti lo conoscevano. Sono
contro l’idea della pittura, contro il rapporto colore-tela (anche per terra). Scelgono di
prendere in carico delle tecniche espressive che avevano elaborato i dadaisti o i cubisti
(collage). Le tecniche espressive saranno:
collage

assemblaggio

ready made

Vengono combinate con degli interventi con i colori, talvolta sì talvolta no. Per rendere più
evidente il loro ragionamento, la fusione vera tra arte e vita, non si baseranno solo sul
prendere oggetti e combinarli: diventerà evidente nell’utilizzare come temi immagini
comuni, non facili ma che fanno parte della conoscenza comune. Uno degli altri obiettivi è
di superare l’idea che il rapporto tra spettatori e oggetto d’arte sia basato sulla percezione
visiva esclusivamente. Quello che fanno è tentare una strada in cui la percezione diventa
sensoriale e più complessiva, le opere diventano delle installazioni. L’idea è che ci stiamo
avvicinando a una definizione dell’installazione dell’opera che occupa lo spazio del
pubblico, che deve entrare in relazione o in contrasto con l’opera d’arte in tutti i sensi.
Hanno la funzione di parlare alla mente, non di compiacere o dispiacere lo sguardo (opere
di Pollock). Vogliono produrre delle riflessioni e dei ragionamenti.

Nei primi anni ’50 prende delle stampe fotografiche e dietro stende una gelatina chimica
che ammorbidiva la parte stampata; applicava poi la foto sulla tela e con una penna
passava sul retro, in modo che la gelatina aderisse alla tela. L’effetto era che sulla tela c’era
l’impronta indefinita dell’immagine fotografica. A ridosso del 62 scopre l’immagine di
stampare direttamente sulla tela, è la serigrafia, tecnica che userà anche Warhol.

Questa nuova “avanguardia” si pone l’obiettivo di sperimentare nuovi


linguaggi, vogliono superare l’informale.

1955, “Bed”, Rauchemberg. Pensiamo alla pipa di Magritte: il titolo è “il


tradimento delle immagini”, poneva la questione che le immagini a cui
noi attribuiamo il valore di testimonianza del reale, in realtà ci
tradiscono e ci dicono cose che non sono vere. La pipa dipinta non la
possiamo usare e non è una vera pipa. “Bed” è un letto ma,
diversamente dalla pipa, è un letto vero fatto da un materasso e
lenzuolo, con coperta di lana a patchwork. In realtà, se è vero che
questo è un letto, la collocazione di questo oggetto in verticale gli fa
perdere il suo valore, anche questo non è più un letto, anche se
visivamente e sensorialmente lo percepisco così. L’artista l’ha fissato
con dei collanti, ma è un oggetto che aveva vissuto: tutto manteneva le tracce della vita
che aveva vissuto, il cuscino ha delle macchie ecc. Questo oggetto viene congelato in
quella realtà e in più interviene, posizionandolo in verticale ed usandolo come una tela, usa
della pittura bianca e delle pennellate viola, tutto cola sulla coperta (essendo in verticale).
Il letto, che lo è fisicamente ma quando ci mette le mani non lo è più, racconta l’artista. Il
concetto a monte è che il letto è il luogo dove si compie qualsiasi cosa, si nasce, si muore,
ci si riproduce, è l’impronta che abbiamo lasciato.

L’idea di prendere un oggetto della realtà e trasferirlo in un mondo altro dell’immagine,


portando con sé le tracce della vita, ecco che fa avvenire la fusione tra arte e vita.

Questo tipo di relazione diventa più forte quando decide di realizzare operazioni che
hanno a che fare col ready made e con l’assemblaggio, ovvero prendere oggetti dalla vita
reale (Duchamp non interviene mai però): prende cose dalla strada e le combina, le chiama
“Combine paintings”.

1958, “Odalisca”, rispetto al titolo vediamo qualcosa di molto


diverso. È un assemblaggio, una messa insieme (il collage è
bidimensionale, questo è tridimensionale); qui più che
collage, che in parte c’è (ci sono dei frammenti di giornale),
c’è anche del ready made (è una scatola di latta presa dalla
discarica. La combinazione di tutto ciò è Assemblaggio. Cosa
ci vuole raccontare? L’oggetto finalmente abbandona l’idea
della contemplazione visiva, non è appeso alla parete, occupa
uno spazio. L’oggetto è costituito da più elementi (anche in
contraddizione tra loro): c’è un oggetto organico, il gallo
imbalsamato, la scatola è di legno e metallo, era un
contenitore per il ghiaccio sulla quale lui fa del collage. Monta
tutto su un piano di legno su cui avvita una struttura in ferro,
è un pezzo di balaustra la quale è infissa nella base in metallo
della struttura; tra la balaustra e la base colloca un cuscino di
piume, un oggetto morbido che schiacciato dal peso contraddice alla schematizzazione del
resto. Il fatto che abbia un basamento e che sia in uno spazio d’arte fa di questo oggetto
immediatamente una scultura, ha tutto l’equilibrio di un monumento, per la verticalità e il
basamento. Non è però una scultura, è un assemblaggio di elementi diversi che solo
l’artista poteva combinare così, quegli oggetti non si sarebbero mai incontrati senza
l’artista. Lo chiama Odalisca perché nel mondo occidentale è qualcosa di erotico, è una
figura femminile che danza seminuda. Questa idea comune applicata a un oggetto come
questo lo mette in contrapposizione. È un oggetto scostante e rigido, schematico ed
ambiguo in cui superfici organiche si legano a quelle inorganiche. Sono ribaltati i principi di
peso ed equilibrio, non vuole piacere. È un rifiuto dell’immagine.

Questi combine paintings fanno la fortuna di Rauchemberg.


LEZIONE 11^

Con l’INFORMALE, la percezione visiva esaurisce tutti il rapporto con l’opera e ci da un


compiacimento visivo, mentre la percezione visiva delle opere del new dada è certamente
un rapporto visivo ma non c’è nessun piacere.

A ridosso degli anni ’50 l’espressionismo astratto (altra formula per definire l’informale
americano) e l’informale tout court (America e Europa) viene meno, subisce una sorta di
caduta di interesse, perché portava avanti dei valori di tipo autobiografico (tensioni
emotive dell’artista che si esprime sia in senso azionista o in senso di meditazione, come
Rochko). L’opera informale tende a raccontare degli elementi metafisici, di andare al di là
del quotidiano attraverso l’espressione dell’artista e quindi rappresentare valori simbolici.
L’informale non viene più letto come l’arte che corrisponda alla realtà contemporanea. Se
quello del 1946/47 poteva rispondere a una situazione emotiva collettiva, quella della
guerra mondiale, già nel 52/53 questo rapporto si è interrotto. La realtà nuova non trova
corrispondenza negli artisti informali, si vuole altro.

Quello che pagava l’informale era che le opere pittoriche dell’informale (soprattutto
americano) mancavano di struttura pittorica, i dipinti erano riempiti dalla materia colore,
non c’era una struttura e si percepiva che la pittura informale era diventata, a dispetto del
suo nome, un espediente formale che si ripeteva, aveva perso la freschezza. Questa pittura
di azione o inazione veniva letta come qualcosa di statico e ripetitivo. Come si risolve la
questione? Che tipo di sviluppo prende l’arte contemporanea? Le soluzioni sono 3:

1. L’esasperazione di certi elementi, per esempio c’è una scelta che è quella
dell’esasperazione del formalismo pittorico, portare alle estreme conseguenze
questa stesura in campo cromatici monocromi, arrivando a una forma di astrazione
radicale. Questo è Newmann, grandi pannelli rossi con le zip verticali, oppure
Reinardt, il più radicale di tutti. Realizza tra il 48 e il 52 tutta una serie di tele
quadrate basate sulla forma della croce, solo che questa è nera su fondo nero.
Questa sovrapposizione crea quadri solo neri. Arriva all’astrazione assoluta.
2. Prendere dall’action painting e dall’espressionismo astratto l’elemento
performativo, cioè portare alle estreme conseguenze la gestualità dell’artista.
Prendere di Pollock non l’esito finale ma il suo esercizio dell’operazione artistica.
Significa che non è tanto la pittura che interessa, ma il gesto, quello che è la nascita
della futura Body art, l’uso del corpo come medium artistico.
3. Sarà chiamata new dada, è l’idea che l’arte contemporanea debba recuperare il
rapporto con la realtà non edulcorata, ma la realtà delle città e del consumo, quella
sporca che ci appartiene ma senza rinunciare al valore della pittura, non si punta
tutto sul corpo e non si punta all’astrazione. Questo vede due protagonisti,
Rauchemberg e Jones. A sovrintendere la poetica di questi due artisti, figura di
riferimento di questo mondo di giovani artisti newyorkesi anti action painting, è un
musicista docente di musica: John Cage. È un compositore che a ridosso del 49/50
propone una composizione musicale dedicata al silenzio, ci sono suoni presi dalla
realtà esterna ma è silenzio, dura 4 min e 33 secondi, lui non suona, ha le mani
appoggiate sul pianoforte. Rauchemberg nel 51 realizza una serie di quadri dedicati
a questo silenzio e sono quadri completamente bianchi, un corrispondente visivo di
quel silenzio. Si recupera Duchamp, come anche delle tecniche espressive del dada
(es. il ready made e il rapporto arte vita), c’è una nuova percezione dell’oggetto
nello spazio, si sperimentano nuovi linguaggi come ad es. la musica.

Nel 1958 la rivista Art News fa uscire un articolo in cui si parla di Jonhs e Rauchemberg ed
utilizza il termine new dada.

“Monogramma”, vediamo una tela


basamento di questa installazione che
l’artista ha tolto dalla parete, non potrà più
essere appesa. È appoggiata a terra e in
realtà è un piano su cui sono state
predisposte una serie di elementi: è dipinta
in parte con dei pennelli e dei colori, con
pennellate azioniste, dove colloquiano con
delle immagini (fotografie con immagini
sciolte); ha incollato dei pezzi di legno presi
dalla vita reale, c’è anche il tacco di una
scarpa o un pezzo di un’insegna in cui
compare la parola Da, evocazione del dadaismo. La tela del quadro, avendo perso la sua
funzione di luogo della pittura, diventa deposito di materiali diversi, viene ulteriormente
trasformata in un basamento di una scultura. La scultura è una capra maschio
mummificata incastrata in uno pneumatico, che evoca la ruota di Duchamp. L’aspetto di
questo animale col volto dipinto diventa come uno stemma nobiliare, dove un animale
araldico è chiuso dentro un clipeo. Mutuando da una tradizione del passato fa
ironicamente un’opera, dove ci sono una serie di significati: idea che l’opera d’arte si
sporchi con la realtà contingente. Scelgono dei temi e delle forme che tutti riconoscono,
non cose che devono essere spiegate. Scelgono delle forme e composizioni che
appartengono alla conoscenza collettiva, che forniscono poi in un’altra versione.
Jasper Jonhs, opera emblematica di questa nuova
avanguardia. 1955, opera che fa parte del gruppo esposto
nel 1958, “Bersaglio con 4 facce”. Rauchemberg è un
cinico, guarda il passato e la realtà con sguardo cinico e
sarcastico, mentre Jones guarda la realtà con un’aria
disincantata, l’arte deve essere in grado di parlare a un
mondo che ha in mente forme e situazioni che lui però
cambia di senso, l’inganno delle immagini. Le opere di
Jones sono caratterizzate da schemi elementari, linee,
punti, segmenti, strutture geometriche; uso di colori puri,
rosso giallo blu, nero bianco; apparente semplicità della
stesura cromatica, ma non è così semplice come sembra.
Vediamo l’opera in oggetto: vediamo entrambe le cose
che il titolo ci dice. È costituito da metodi diversi, le facce
sono un calco del volto dell’artista in gesso incastonato in una cornice di legno, come se
questo volto apparisse da delle finestrelle. È una maschera, una presenza umana ed
elemento tridimensionale nella pittura. Questa presenza antropomorfa rimanda all’arte
antica, alle decorazioni dei templi. Sotto c’è una tela sulla quale l’artista ha lavorato con
una tecnica molto più complicata, non è una stesura piatta ed omogenea: ci sono dei
rigonfiamenti, sono dei fogli di carta (di solito ritagli di giornale), è un collage, si vedono le
grinze. I colori, rosso, blu e giallo sono realizzati non con colori industriali, ma sono
tempere industriali che Jones mescola con la cera calda, utilizza la tecnica a encausto,
tecnica antica descritta da Plinio che troviamo nella pittura pompeiana. Con meticolosità
stende il colore col pennello sul collage che aveva fatto con i fogli. Non è una pittura di
azione, ma è pittura in senso stretto che riporta in vita una tecnica antica, ma dove la
presenza della carta crea elementi tridimensionali che colloquiano con gli elementi
superiori. Un oggetto convenzionale, il
bersaglio, non è più un bersaglio, è deprivato
della sua funzione.

“Bersaglio verde”, 1958. Potrebbe sembrare un


monocromo, ha fatto la stessa operazione di
prima: crea un collage con carta di giornale,
mescola i colori alla cera e costruisce il
bersaglio mettendo in rilievo i cerchi
concentrici, sono presenti ma attenuati dal
monocromo verde.

Suo capolavoro è “Flags”, bandiere. Qui il


ragionamento del recupero di un linguaggio pubblico è portato al suo punto più alto, cosa
c’è di più riconoscibile della bandiera del
proprio stato? È un oggetto che riproduce la
convenzione ma diventa altro, è inutilizzabile
come bandiera diventando un’icona stabile,
giocata attraverso l’elemento plastico e della
pittura. Sono 3 pannelli uno sull’altro, anche in
questo caso ricoperti di carta di giornale.
Sempre con la tecnica dell’encausto l’autore
dipinge irregolarmente (non è una riproduzione
meccanica della bandiera). Anche qui vale il discorso di Magritte: quella che vediamo è la
bandiera americana, certo, ma allo stesso tempo non è una bandiera, non può essere
sventolata, gioco dell’ambiguità delle immagini.

Il gruppo, che fa parte del new dada, si chiamerà per


breve periodo Fluxus. Appartiene John Chamberlain a
questo gruppo, negli anni ’50 cerca il materiale per le sue
composizioni, prende dai demolitori pezzi di carrozzerie
già un po’ accartocciate. Li prende e li salda, facendo
un’operazione di ready made (prendere oggetti nati per
altri scopi), che però non colloca sul basamento come
Duchamp, li prende e li assembla, combinandoli
seguendo una logica da artista, di combinazioni di forme
e di colori, non è un casuale accorpamento di pezzi. C’è
una scelta ponderata dell’artista, creando una struttura
visiva e plastica pensata, in alcune parti interviene anche con il colore. Riconosciamo dei
pezzi di oggetti che hanno una funzione precisa, parte della società del consumo, l’auto era
il simbolo della modernità. Eppure questi oggetti subiscono una perdita di funzione, quello
che resta di queste forme l’artista lo recupera e gli da nuovo senso, diventa un
assemblaggio di forme e colori mantenendo la drammaticità della storia di questi oggetti.

“Modelle antropometriche” di
Klein, forma di new dada ma che in
Europa si chiama Nuovo realismo,
fa riferimento al fatto che anche
l’arte europea si vuole staccare
dall’informale e dalla pittura di
getto e sgocciolata, di quella pittura
autoreferenziale e tornare alla
realtà. Il loro è un nuovo realismo,
non è la pittura che imita la realtà ma la società consumistica contemporanea che si sta
muovendo dopo la ricostruzione dopo la guerra, dove il corpo stereotipato (non prende
donne qualsiasi, prende delle modelle che sono nella società del benessere lo stereotipo
della bellezza femminile) viene trasformato, non esibisce il loro corpo patinato. Trasforma i
loro corpi in strumenti d’arte, le fa sdraiare sulla tela per terra per lasciare l’impronta.

I nuovi realisti, corrispettivi dei new dada americani, hanno scelto di rimettere le mani nel
mondo reale.

Klein, composizioni polimateriche, le tele vengono trattate con pigmento blu con
l’intenzione di esaltare il valore pittorico della tela e di annullare la funzione dell’arte come
rappresentazione della realtà. Incolla sulla tela delle spugne marine come se fossero dei
sassi, su cui poi spalma su tutto questa polvere blu. La tridimensionalità dell’opera sembra
un fondo marino, ma non è più una finestra su un mondo altro, è un oggetto
tridimensionale su tela, ma il blu annulla la differenza di profondità.

New dada italiano, rappresentato da Piero Manzoni,


artefice di una serie di invenzioni che molto hanno a
che fare con Duchamp e con uno degli elementi
basilari del new dada americano ed europeo: lo
status dell’artista, che a partire da John Cage li rende
artisti conosciuti. Solo per il fatto che la società
contemporanea li riconosce come artista, qualsiasi
cosa facciano o dicano è arte. È l’idea dell’opera
d’arte che è attribuita all’artista. Vende dei tubi di
cartone con dentro delle linee o delle fettucce, con
fuori scritta la sua firma e ad es. “Linea di 14 metri”.
Fa anche delle uova sode vendute in scatole come
reliquie, all’interno c’è la firma con la data e poi per
rendere autentico il ready made fa sopra con il pollice la sua impronta digitale. È la presa in
giro della riproducibilità dell’opera d’arte.

“A crome”, strisce di tela intinti nella colla e caolino e le tira su un telaio, si asciugano
all’aria e le fibre si irrigidiscono.

“Aria d’artista”, prende dei palloncini, li gonfia e li lega


come una scultura. Le persone comprano un prodotto
originale dell’artista, vende il prodotto della creatività
dell’artista.

“La merda d’artista”, lui ironizza sul fatto che le persone


pensano di comprare il talento dell’artista, lui fa un
ribaltamento. Lui dice che l’amore per la bellezza è una stupidaggine, non esiste una
bellezza assoluta e non si può comprare l’idea dell’artista, compro qualcosa di materiale
che ha valore perché il mercato dice che l’autore è un artista. L’acquisto comporta uno
status, quelli che definiamo artisti sono definiti tali da collezionisti, musei, critici. È un giro
che va a dare valutazione alle opere, quindi siccome tutto quello che fanno gli artisti è arte
lui crea questa opera per prendere in giro le persone.

LEZIONE 12^

MOVIMENTO COBRA

Movimenti di avanguardia del primo dopoguerra, il gruppo Cobra nasce in un atto


fondativo europeo nel 1948. Rispetto agli stati uniti era ancora Parigi la capitale di tutti i
movimenti, chi vuole sperimentare si reca lì, nonostante anche altre capitali siano
importanti. Il mondo è eurocentrico, ma dopo la Seconda guerra mondiale tutto comincia a
cambiare. Nel 1948 nasce questo accorpamento di artisti, pittori e poeti, con l’acronimo
Cobra ovvero con le iniziali delle capitali dei paesi da cui provengono gli artisti fondatori
(Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam).

Danimarca: gruppo Host

Belgio: Surrealismo rivoluzionario

Paesi bassi: Reflex

Questi gruppi erano avanguardie che volevano rompere con la tradizione e che si uniscono.
Questi movimenti erano legati anche alla politica. Parliamo di gruppi del nord Europa,
quando nel dopoguerra l’8 novembre del 1948 si fa la conferenza Internazionale del centro
di documentazione sull’arte dell’avanguardia, c’è una discussione: c’è incompatibilità di
idee e vista l’incompatibilità delle idee surrealiste questi tre gruppi si staccano (danesi,
olandesi e belgi), vanno al Bar Cafè Notre Dame. Nel ‘900 abbiamo visto che gli artisti si
ritrovano nei caffè e qui spontaneamente discutendo si trovano d’accordo, capiscono di
avere molti punti in comune. Scrivono una bozza di manifesto.

Il gruppo Cobra nasce alla fine del 1948 e nel 1951 si scioglie, dura tre anni e finisce in
modo traumatico, ci sono delle questioni delicate e delle utopie infrante. Uno degli
elementi che genera la fine è il fatto che il movimento rifiutava di diventare stile ed
estetica. Quando si sciolgono l’arte cobra non smetterà di essere sulla bocca di tutti. Il
movimento si espande anche in Inghilterra, in Francia e in Italia, tant’è che è normale
riconoscerlo come uno stile, uno dei motivi del fallimento, rischiava di diventare ripetitivo.
Intuirono che stava diventando uno di quegli -ismi che tanto combatteva.
Vediamo i principi dell’arte cobra: loro lavorano collettivamente e dando vita non solo alla
somma delle loro esperienze, ma vogliono anche una dialettica per il loro gruppo. C’è il
tema di svincolarsi dall’autorialità. Non firmano nemmeno i loro quadri, c’è l’idea di
collettivo. Trovano solo nella materia la fonte reale dell’arte, attribuiscono importanza alla
materia pittorica che per loro è viva, arrivano a concepire l’opera nel nascere della materia
(ci ricorda l’arte nucleare, nasce quasi negli stessi anni). Il valore del colore è elemento
vitale, come la materia pittorica. Pe loro un quadro è una battaglia, un animale, prima di
essere linee e forme. È un principio magico nel potere, nel creare immagini che hanno una
forte influenza sull’uomo e sull’esistenza. È una sorta di mitologia. C’è anche la
spontaneità, che è più che altro un’espressione intesa come atto fisico concreto che
materializza il pensiero, è il gesto immediato che non filtra attraverso il pensiero ma lo
materializza.

Possiamo riassumere che i principi sono:

- Spontaneità
- Vitalità come costante movimento della vita che non si arresta su accademismi ma
si trasforma;
- Libertà dalle accademie;
- Integrazione fra le arti, il poeta non può lavorare senza il pittore;
- Attenzione per le forme borderline non accettate, l’arte infantile, il folklore, l’arte
collettiva.

Jean Dubuffet, non è artista cobra ma è loro contemporaneo, è il fondatore del movimento
dell’Art Brut, di chi viene considerato ai margini della città e dei manicomi. Ricerca nella
sua pittura un’arte pre-culturale, non filtrata dal pensiero logico della scuola. Per lui
l’insanità è la miglior sanità, per lui il normale è lo psicotico, normale è mancanza di
immaginazione e di creatività. Gli animali per l’arte cobra sono fondamentali.

“Due teste”, Karel Appel, il colore è la


materia dell’arte che parla per sé stessa.

“Coccodrillo piangente cerca di catturare il


sole”, l’animale e gli astri saranno sempre
presenti, sono scene mitiche ed oniriche
come nei sogni. Ci sono colpi di colore, non
ci sono toni ma timbri. Sono artisti del
centro-nord Europa, quale influenza hanno
potuto avere? La loro eredità è quella
dell’espressionismo nordico. Erano in
contrasto con le idee politiche del surrealismo ma c’erano comunque delle analogie, come
anche nei titoli.

La velocità di esecuzione è uno degli strumenti per oltrepassare la razionalità, se non ho


tempo per pensare sono spontaneo.

Corneille (1922-2010) ha molte influenze surrealiste, qui c’è un discorso molto di segni
(prima di materia), sembrano disegni molto più infantili, sono i segni che emergono
fortemente.

Constant, olandese, sempre gruppo Cobra, negli anni


continuerà a lavorare con questo stile anche una volta
concluso. Continuerà anche con l’architettura utopistica,
farà una sorta di macchina-città che si sposta e la
chiamerà la Nuova Babilonia. Ci sono gatti, cani e uccelli
che sembrano dei mostri, sono l’incarnazione degli spiriti
del bene e della spontaneità della natura, c’è un recupero
della fantasia e dell’immaginazione, quindi vediamo
animali ibridi. C’è sempre qualche dialogo in divenire tra
essi.

Alechinsky è il più giovane del gruppo, vediamo


che è impossibile subito riconoscere qualcosa ma
osservano si comincia a intravedere qualche
figura, volutamente vuole creare qualcosa che
noi creiamo e interpretiamo. L’immagine che
viene vista ha valore quasi religioso, vediamo
compiersi qualcosa nel quadro, ma qualcosa che
domani sarà diverso perché non è stabilito a
priori.

Asger Jorn, danese, è uno dei più importanti intellettuali del ‘900. Lascia la Danimarca,
arriva a Parigi per studiare con Kandinsky che però non trova. Nel 1951 quando finisce il
gruppo Cobra lui e un altro componente del gruppo sono ricoverati entrambi per
tubercolosi. Entrambi guariscono, mentre Jorn è in sanatorio crea “Il mito del silenzio”,
serie di quadri dipinti nel silenzio dell’obitorio. Nella mitologia nordica non sono le parole o
il verbo di dio l’essenziale, ma è il contrario, viene prima l’immagine. I miti vengono cantati
sulle immagini, prima si disegna e poi si racconta, e questa è una delle caratteristiche più
forti dell’opera di Jorn.
1950, “La luna e gli animali”, sono dei
mostriciattoli, opera di Jorn.

“Personaggi”, Jorn, sempre l’idea degli animali, si


vede la violenza espressiva. Siamo nell’ambito
dell’informale ma si attinge all’espressionismo
nordico.

1956/57, Cobra è finito da alcuni anni ma gli


artisti dipingono ancora così. Lui in questi anni
è ad Albissola, vive in pessime condizioni ma in
questi anni comincia a vendere qualche
quadro. “Lettere ai miei figli”, con quest’opera
entra nel mercato che conta e comincia ad
avere successo. Resta una persona semplice,
ha molti figli, questo quadro deriva dalla sua
storia familiare. Nel 1964 la fondazione
Guggenheim gli da il Guggenheim prize, che
vuol dire aver raggiunto l’apice del successo.
Lui risponde con un telegramma con scritto
“Mr. Guggenheim, va all’inferno con i tuoi
soldi. Rifiuto il premio, non ho mai chiesto di
averlo. Mischi gli artisti per farti pubblicità,
voglio una dichiarazione pubblica in cui dici che
io non ho partecipato al tuo ridicolo gioco”.
L’ha fatto perché credeva nella libertà dell’arte
e nell’arte collettiva, basi del gruppo Cobra.

Tra i principi del gruppo cobra c’è il collettivismo e la sintesi delle arti. Vediamo uno dei
famosi scatti di un esperimento collettivo del gruppo del 1949, Jorn ottiene dalla facoltà di
architettura di Copenaghen una casa di campagna che spettava agli studenti. Lui la tiene
per lui e i suoi amici, a livello di mercato vengono riconosciuti come interessanti, in cambio
dicono che la decoreranno. Per del tempo vivono con le loro famiglie in questa casa, i
bambini e le mogli dipingono con gli artisti. Il tutto si chiama “Gli Incontri di Bregnerod”,
stanno insieme, bevono, mangiano, ci saranno anche situazioni difficili (Jorn si innamora
della moglie di un altro). Jorn teorizza la fusione di arte e di architettura, poi scrive di
questi incontri. Prima sperimenta, poi c’è il momento teorico. Loro vorrebbero che questo
tipo di architettura sostituisse quella comune, si deve essere artisti del proprio spazio.
Nel 1954 da’ vita ad altri incontri, è ad Albissola, non c’è architettura ma ceramica. Li
chiama “Gli incontri di Albissola”, fanno rito di questi oggetti, arrivano artisti che non
avevano mai toccato la ceramica. Jorn arriva ad Albissola chiamato dal gruppo di Arte
nucleare.

Ottiene una commessa nel 1959 per costruire un murales in una scuola, lui lo fa in
ceramica, ci sono secchiate di smalti, ci cammina sopra chiunque, sembra street art ma è
stato fatto nel 1959. È la ceramica che crea il pensiero, così come il colore.

GUTAI

Movimento giapponese fondato nel 1954 da Yoshihara. Il Giappone è uno ei paesi


protagonisti della guerra mondiale ma è anche estremamente tradizionalista. America e
Giappone sono i nuovi protagonisti. Il nome significa “concreto, incarnazione”, possibilità
di rendere concreta attraverso la materia la spiritualità. Nel 1954 il gruppo è stato creato
insieme ad altri giovani artisti. Le performance e le installazioni (non più quadri) erano
provocatorie come i dadaisti, ma tentavano di far rivivere la radice profonda della
tradizione artistica giapponese, lo zen, consapevoli però di cosa sta succedendo nel
mondo, fanno azioni provocanti che vanno contro lo spirito comune.

Vediamo una loro mostra/festival nel 1956, vediamo Saburo Murakami che sfonda una
serie di tele, il corpo dell’artista genera movimento e da’ senso ad uno spirito di rottura, da
vita a una performance, è un’azione e l’impatto più forte è lì e ora.

Kazuo Shiraga, 1955, “Challenging Mud”,


una delle tradizioni giapponesi è quella della
ceramica. Lui recupera l’argilla ma comincia
a manipolarla fresca col corpo, ci si lancia
dentro, come se fosse una materia pittorica
che viene distribuita con tutto il corpo e non
solo con il pennello.

In uno di questi eventi, in un parco mettono


delle installazioni temporanee, vediamo
un’asse con una linea che viene installata nello spazio. C’è una forte presenza del segno
artistico nello spazio.

Kanayama crea una specie di sentiero, che è una tela plastica, su cui imprime le impronte
dei suoi passi e lo srotola, c’è l’idea dei rotoli religiosi tradizionali zen che vanno però a
finire in un non sense, ad un certo punto diventa impercorribile e senza senso.
Il movimento avrà relazioni con l’Europa e in particolare con l’Italia, vediamo una mostra
Gutai di Torino. C’è un forte dialogo internazionale, così come è l’arte del ‘900, si cercano
le corrispondenze del proprio sentire.

C’è il fatto di voler rompere la tela della tradizione, c’è spiritualità dell’azione concreta e la
provocazione delle altre avanguardie.

LEZIONE 13^ - 17/05/2021

POP ART

Si configura alle avanguardie dal punto di vista della nascita, ci sono a volte dei manifesti e
sono persone aggregate da un sistema di espressione comune. Questa situazione è
percepita come un’espressione artistica tipicamente statunitense, ma non è proprio così,
ha origine a Londra. Poi passa oltre oceano e si consolida con forme proprie negli USA,
tornando poi in Inghilterra in cui assume uno specifico carattere: approda poi in Europa
alla Biennale di Venezia, producendo degli effetti di ricaduta che coinvolgono tutti i paesi
europei ma non in modo coinvolgente come era stato per l’informale americano, che
aveva trovato degli adepti in Italia. Questo andare e venire si è aperto come stagione negli
anni dopo la Seconda guerra mondiale.

Perché nasce in Inghilterra= nasce da un gruppo di intellettuali che si definisce Indipendent


Group, un gruppo di lavoro che unisce scrittori, musicisti, artisti, storici dell’arte. Nel 1952
si riuniscono per due ragioni: era stato aperto da poco, nel 1951, l’Institute of
contemporary art, in cui questi personaggi lavorano, anche se non tutti. Gli artisti coinvolti
sono docenti in questo istituto, che resterà fino alla metà degli anni ’60 il luogo di
riferimento di questo gruppo. In cosa si impegna? Si impegna in discussioni e confronti
sulla questione di “cos’è l’arte contemporanea”, ma soprattutto è polemico nei confronti
della politica, come il new dada, perché ritengono che l’arte informale vengono lette come
espressioni individualistiche. Si tenta un’altra strada, riportare l’arte contemporanea in
contatto con la realtà. Questo tipo di pittura, l’espressionismo astratto, non incide con il
pubblico e la realtà contingente e quotidiana, al pubblico non viene fornito nessuno
strumento per capire. Loro vogliono sperimentare nuovi linguaggi ed utilizzare nuove
tecnologie (già cominciano ad esserci i primi strumenti televisivi, piccole cineprese
portatili). Questo problema è distantissimo dai temi dell’espressionismo astratto. Il loro
impegno primario si esercita nell’organizzazione di mostre di esposizione, con allestimenti
del tutto nuovi. Venivano organizzati nella sede dell’Institute di Londra e si susseguono in
modo ininterrotto dal 1952 al 1958.
1947, opera di un’artista del gruppo, Edoardo
Paolozzi, italiano di origine ma inglese. Lui aveva
avuto durante la guerra un contatto molto stretto
con Switers, membro del dadaismo. Si era
rifugiato a Londra dove aveva aperto un nuovo
atelier che allo scoppio della guerra nel ’40
comincia ad essere frequentato da Paolozzi. C’è
un contatto diritto tra questo gruppo di inglesi e
un protagonista del dadaismo della prima ondata.
I dadaisti della prima generazione passano
tecniche, temi, espressioni a questi nuovi “dada”.
Vediamo un’opera costituita da un collage,
tecnica di origine cubista (sintetico) sfruttata dai
dadaisti ed ereditata dal gruppo tedesco dei
dadaisti, che alla fine della guerra tornano a casa
propria. Paolozzi qui usa il collage tradizionale, il
titolo è “Sono stato il giocattolo di un uomo
ricco”, è una parte di una frase che fa riferimento
all’immagine di questa pin-up: il tema è esplicitato dalle parole. Tuttavia, questa parte del
collage imita le copertine delle riviste scandalistiche, popolari, illustrate da pin-up e dove il
tema è il pettegolezzo. Vediamo comparire nel collage una mano maschile con una pistola
tedesca con scritto Truth, verità, il fuoco dell’esplosioni fa uscire la parola “Pop”, suono
onomatopeico e abbreviazione di “Popular”, è ciò che rappresenta l’immaginario collettivo
nel modo più evidente del termine, è un tipo di espressione anti-elitaria, è un’arte per
tutti. La figura dell’aereo compare in basso e affianco uno degli oggetti iconici, la coca cola,
che negli anni ’50 diventa l’emblema di una nuova generazione. Quest’opera la usiamo
come concentrato delle poetiche di questo gruppo indipendente. Paolozzi continuerà negli
anni ’60 a fare collage di questo tipo.

Nel 1952, anno della formazione del gruppo, Paolozzi che lavora all’Istituto organizza la
prima mostra: si tratta di una mostra in cui un proiettore di immagini fisse proietta sulle
pareti di una delle stanze tutta una specie di raccolta di illustrazioni (collage, fumetti,
fotografie, immagini dai giornali) raccolte nel suo studio: proietta un atlante della memoria
di Paolozzi fatto di oggetti raccolti dalla realtà. Non esponeva nulla di fisico, se non questi
proiettori che facevano vedere in loop queste immagini.

Nel 1953 seconda mostra, “Paralleli fra vita e arte”, in cui fa un’operazione utile, ovvero
unisce sempre con un effetto di proiezione (non c’è più l’opera d’arte, quello che si può
fare è accettare che ormai il mondo delle immagini passa attraverso la loro riproduzione
tecnica). Riprende delle riproduzioni di opere d’arte e fotografa o riprende fotografie della
realtà, cercando delle analogie di pura immagine. Il loro ragionamento è che la conoscenza
delle opere e del passato artistico passa attraverso la loro riproduzione artificiale, non
attraverso un contatto diretto. Tuttavia, molte immagini del passato si sedimentano nella
memoria collettiva, dicono che loro come artisti devono avere il coraggio di uscire dai loro
atelier ed entrare nelle strade per confrontarsi con questo problema della riproduzione.
Per fare capire questo cambiamento culturale avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale,
combina delle riproduzioni fotografiche di varia natura (non solo la foto del quadro, magari
anche la foto di un manuale o di un giornale), confrontandola con immagini della vita reale
con delle analogie. Il pubblico della sala non vedeva opere appese alle pareti, vedeva delle
proiezioni dove riproduzioni di vario tipo di opere si combinavano con immagini della vita
reale.

Terza mostra, vediamo un collage considerato il manifesto della Pop Art, anche se
propriamente non lo è, è solo la sintesi più chiara della poetica. Nel 1955 un altro artista
del gruppo, Richard Hamilton organizza una mostra che si intitola “Men, machine and
motion”. Era un’esibizione fisica ed anche di
proiezione dei diversi modi della riproduzione
meccanica delle immagini: ad es. come
avvenivano le stampe dei fumetti, stampe delle
immagini fotografiche, riproduzione televisiva.
Il tema che si pone è la riproducibilità
meccanica delle immagini. Tutto questo
avviene anche sulla scorta della diffusione di un
testo legato alla funzione dell’opera d’arte
nell’epoca della riproduzione. Un’immagine di
un’opera d’arte famosa può diventare famosa
attraverso la sua riproducibilità tecnica, rispetto
all’originale manca però l’aura: è
quell’indefinibile qualità che possiede l’originale, dato dai materiali usati, dalla nostra
percezione visiva dell’oggetto, tutte cose che con la riproduzione meccanica non si
percepiscono. In questa mostra Hamilton espone questo oggetto, un piccolo collage, “Cosa
rende così diversa e così attraente la casa di oggi”: vediamo un’organizzazione visiva di
immagini diverse che vanno a costruire un’immagine inedita. Ci propone l’interno di una
casa borghese, casa dell’uomo medio, in cui si vede la sala dove si svolge la vita della
famiglia dove ci sono due divani, un tappeto, due tavoli e l’oggetto del desiderio del
tempo, la televisione, centro visivo e interesse di questo living. Nella televisione vediamo
un’immagine di una giovane donna e sopra, come se fosse un mobile, c’è un piatto con
della frutta. La tv è trattata come mobile di tradizione. Sul muro vediamo un dipinto, è la
foto di un’opera: al pari del quadro c’è incorniciato anche un poster di una copertina di un
romanzo a puntate femminile. Sul divano c’è una signorina in costume da bagno, una pin-
up in posizione che gioca con l’erotismo da rivista. Vicino a lei c’è la confezione in metallo
diffusissima del prosciutto in scatola. Vediamo la correlazione tra la carne che si mangia e
la carne della donna, il corpo femminile, due “oggetti” di consumo. A controbilanciare il
nudo femminile c’è un body builder, il quale è anacronistico dentro un salotto borghese,
così come la ragazza. Al posto di tenere in mano un bilanciere, ha un gigantesco lecca-lecca
la cui carta ha la parola mitica, “Pop”. L’uomo muscoloso è in realtà un bambino. Sulla
scala c’è una signora della classe media che utilizza uno delle prime aspirapolveri, c’è
anche il registratore. Sul fondo vediamo una finestra in cui intravediamo l’ingresso di un
cinema, in cui si annuncia un concerto jazz. Il soffitto è l’ingrandimento di una foto della
luna.

1965/66, Paolozzi, “City on the circus square”. È un’installazione


fatta di legno che è una specie di insieme tra un edifico fantasioso, i
giocattoli dei bambini, l’organetto di piazza: è un’oggetto inutile, ma
che rimanda a quei riferimenti che stanno nella memoria collettiva.

1956, mostra che chiude, “This is tomorrow”. Viene realizzata per la


prima volta in un altro posto, in una galleria d’arte, la White Chapel.
Un critico, Lorence All… (?): dal 1955 al 61 è il direttore
dell’Institute, è lui il catalizzatore di questi fenomeni alle quali da
una giustificazione critica a questi fenomeni. Nel 1958 pubblica in
una rivista londinese un saggio fondamentale per vedere il senso teorico: il titolo è “Arte e
Mass Media” (è uno dei primi che usa il termine), sono gli strumenti di comunicazione alla
massa. Lui parla della fotografia pubblicitaria, la televisione, il cinema, la fotografia sulla
stampa. Non solo sancisce a Londra una cornice non solo critica ma intellettuale a queste
sperimentazioni, ma soprattutto importante è che Laurence nel 1961 lascia Londra e la
direzione dell’Institute, trasferendosi a New York in cui viene chiamato come consulente al
Guggenheim. La sua presenza è l’innesco di un incendio che nell’arco di un anno vede una
serie di fenomenologie di grande importanza, con quella che ufficialmente diventerà la Pop
Art.

Altra sperimentazione ma più tarda, di Richard


Hamilton. La vediamo perché è già il segno di una
ricaduta dall’America di nuovo in Inghilterra. È un
collage, un fotomontaggio e collage insieme
realizzato nel 1964 il cui titolo è “My Marilyn”. Si
tratta di una serie di scatti fotografici montati
insieme dove l’artista è intervenuto con degli
elementi autografi, segni fatti con colori acrilici. Il
soggetto è Marilyn Monroe, attrice iconica, perché nell’agosto del ’62 viene trovata morta.
La sua morte drammatica ed inaspettata la fa configurare come icona, ancora più di quello
che già era. Ha scelto degli scatti che si ripetono, sono pubblicati sulle riviste, Marilyn viene
fotografata in bikini in pose rilassate, non come nelle foto ufficiali di Hollywood. Prende
queste immagini stampate, le rifotografa, fa dei provini (la macchina fotografica che usa è
analogica, utilizza una pellicola impressionabile che da vita a queste strisce con l’immagine
in negativo). Con una lente di ingrandimento si guardavano e si cancellava con una x i
provini che non andavano bene, gli altri venivano stampati bene. Denuncia un percorso di
riproduzione meccanica dell’immagine (da una riproduzione su stampa di una fotografia) in
cui interviene pittoricamente. È un gioco di incastri tra riprodurre un’immagine già
riprodotta, riportarla nella camera oscura, fare il procedimento che fa il fotografo e poi
esecuzione della fotografia.

Vediamo un’opera del 1962 di Andy Warhol, figlio di immigrati polacchi, era nato a
Pittsburgh. Da qui fugge appena può ed arriva a NY con l’idea di occuparsi di moda. Qui
incontra questo gruppo di artisti e comincia a produrre delle opere. Anche lui colpito dalla
morte di Marilyn realizza questa prima opera in cui sceglie un’immagine ufficiale della
donna, diffusissima dai giornali, risale al 1953 realizzata con un fotografo professionista
molto famoso, Jim Corman. Alla presentazione del film “Niagara”,
l’attrice viene fotografata e questa è una di quelle immagini. È in
posa, guarda nell’obiettivo con atteggiamento sorridente che l’aveva
caratterizzata. Andy prende l’immagine ufficiale della diva e la ri
fotografa, la proietta e la stampa su una tela (serigrafia, riproduce
l’immagine sulla tela da pittore). Usa l’oro per tutto il contorno e
con i colori acrilici involgarisce volontariamente il suo volto, le fa un
trucco pesante, il biondo platino nei capelli, le gote rosse. Trasforma
l’icona collettiva in qualcos’altro, che assume un valore iconico
perché è tutta oro, come la Madonna. L’idea di un femminile irraggiungibile ma insieme
puro perché è morta viene concentrato di questa opera, usando metodi meccanici.

Da questa poi farà infinite serie, negli anni successivi produrrà tantissime Marilyn, gli
interessa ciò che è nella mente collettiva. “Le 4 Marilyn”, qui viene riprodotta e nel titolo
c’è il numero delle volte.

Lo farà anche con altri personaggi pubblici iconici, come ad esempio il governatore cinese,
capo della repubblica popolare cinese.

Anche la storia dell’enuclearsi della pop art in America si gioca in pochissimi mesi, 61 arriva
Laurence, giovani artisti sconosciuti vengono captati dalla sua personalità. 1962 esplode il
fenomeno quando una donna, Marta Jackson ha una galleria ed organizza una personale di
Jim Dain, uno degli artisti del new dada. Il catalogo ha un saggio di presentazione di
Laurence, in cui riprende la questione del rapporto tra arte contemporanea e memoria
collettiva, rapporto con il pubblico attraverso i media. Nel febbraio nel 63 si espone la
prima personale di Lietestain. Seguono a maggio una mostra
di Rosechist, un cartellonista (pittore che realizzava i
manifesti cinematografici): proprio nel 1963 si presenta come
pittore con delle grandi tele con una tecnica pittorica
iperrealistica, dove i caratteri semplici ma affascinanti del
manifesto pubblicitario si combinano ad un messaggio per
parole. In particolare, vediamo “Joan Crawford says”: è
un’altra iconica attrice ma è il contrario di Marilyn, è la diva
aristocratica ed elegantissima, cinica, è il topos della femme
fatale. È ripresa da una fotografia sul set che viene trasferita
sulla tela semplificandone i tratti e la fisionomia, appiattendone l’immagine. L’ambiente è
glamour, la diva parla al pubblico. Sempre a maggio viene presentata una mostra di opere
plastiche, mentre a settembre un’altra sempre di opere plastiche di un artista svedese.
Chiude la stagione a novembre del 1963 un cartellonista che si fa chiamare Andy Warhol,
che presenta la Gold Marilyn Monroe di prima. Tutta NY parla di questi artisti, il curatore
del Moma di NY compra questo quadro e lo porta nel museo. Alla sua prima mostra è già
portato al museo. Il 13 dicembre del 1963, anno della Pop, al Moma viene consolidato il
concetto di Popular Art, che per tutti diventerà Pop Art. comincia una fortuna
impressionante a livello mondiale.

Dal 63 al 66 Andy avvia una produzione seriale dove degli oggetti iconici vengono
rappresentati, li riprende dalla cultura popolare americana, dal mondo del consumo.

1963, “bottiglie di coca-cola”, qui fotografa l’immagine


pubblicitaria della bottiglia, la riproduce in modo seriale
ma in modo che abbiano una posizione paratattica,
come fossero un esercito, dove sulla stampa interviene
con degli acrilici, tutte sono uguali ma hanno delle
varianti, alcune sono vuote altre piene. L’oggetto si
ripete in modo ossessivo ma ha una propria
individualità.

Vediamo le notissime “Campbell Soup”, nate durante la guerra per mandare cibo al fronte
ma diventa poi un business. Anche le donne ora lavorano, non possono sempre cucinare,
basta aprire la scatola e scaldare ed è pronto. Lui gli da dignità, la scatola occupa tutta la
tela ed è riprodotta nelle sue varianti di sapore. Un oggetto banalissimo a cui non diamo
importanza l’artista lo tira fuori dalla realtà, facendolo diventare un’icona, un’immagine
indelebile che vuole assumere una dignità artistica.
Si arriva poi alla riproduzione del denaro, il dollaro, anche qui
riprodotta in modo paratattico, “80 biglietti da 1 dollaro”.
Questo tipo di rappresentazioni, la pop art, ha una funzione
politica ideologica? No, non la vuole avere, gli artisti si
chiamano fuori dallo scontro (sono gli anni della guerra
fredda). Questo tipo di attività non prende parte ad uno
scontro ideologico, sono apolitici, non gli importa di quello
che succede. Quello che fanno è di entrare nella corrente del
consumismo, che non vuole avere un valore negativo: è la più
larga diffusione dei beni di consumo, ciò che era appannaggio
di un ristretto gruppo della popolazione diventa qualcosa di
più popolare. Non è una polemica ma una celebrazione, o meglio uno sguardo privo di
ideologia, se vogliamo anche cinico sulla realtà. È prendere atto che questi oggetti sono
diventati patrimonio di tutti e loro li esaltano. Proprio in questi anni Andy fonda la Factory,
dove produce le sue opere.

Nel 1966/67 Andy comincia a rappresentare


qualcosa che ha una funzione di messa a fuoco
di questioni problematiche. “Car crash” sono
una serie di opere dedicate agli incidenti:
prende l’immagine, la stampa sulla tela o
cancella l’immagine e la stampa in modo
ossessivo su un fondo di colore. Ci dice quanto
l’immagine fotografica perda della sua drammaticità: è quello che accade oggi, le immagini
a forza di vederle perdono la loro drammaticità, anche perché sono filtrate. L’immagine ci
abitua, sono un inganno, edulcorano la realtà.

Vediamo la sedia elettrica che diventa edulcorata ed oggetto d’arte.

LEZIONE 14^ - 18/05/2021

AVANGUARDIE DEL SECONDO DOPOGUERRA

Sono legate all’uso del corpo e all’azione, a un uscire


da una cornice chiusa di uno spazio dell’opera. È
chiamata in tanti modi, Performance Art, Happening.
Dobbiamo partire da uno snodo non proprio facile, si
tratta di una connessione di diversi stati, Asia, Corea,
Stati Uniti. Lo snodo cruciale avviene alla fine degli
anni ’50 e inizi anni ’60. La corrente si chiama Fluxus: ufficialmente non è mai terminato, è
iniziato con un manifesto ripreso più e più volte, è un movimento fluido che si dirama in
diversi paesi, anche in Italia. Ancora oggi ci possono essere delle performance Fluxus. Si
tratta di un fenomeno sfuggente e difficile da definire. Si afferma fortemente negli anni ’70
e negli anni ’90 ha enorme risonanza. Tutto ha inizio tra anni ’50 e ’60: negli usa negli anni
’50 si diffonde l’espressionismo astratto americano, l’action paint è ormai metabolizzato
dal sistema. È veramente diffuso e si afferma il new dada, che ingloba elementi della
realtà, questo rapporto ha l’obiettivo di interrompere la barriera tra la funzione passiva e il
mondo che lo circonda, fare entrare il mondo nell’opera d’arte. Ci avevano provato molte
avanguardie storiche precedenti, ma il new dada lo può fare con più forza. Qual è la chiave
di svolta della poetica new dada che porterà alla nascita di qualcosa che poi diventerà
canonico? È l’incontro di tre personaggi, John Cage, Merce Cunningham, Robert
Rauschenberg. Sono un ballerino, un musicista, un artista delle arti visive. Si incontrano nel
’52 in una mostra, Rauschemberg esponeva i White Painting, qualcosa di filosofico e
formale perché elimina la forma, la superfice è libera per l’immaginazione. Si vede la tela
bianca con le sue imperfezioni e la luce che la colpisce. Cage, il più vecchio, visita la mostra
e lo conosce. Lui da diverso tempo era un insegnante di musica e stava ragionando su
come rendere la musica qualcosa di adattabile al momento, che potesse essere scritta ed
interpretata ma che mantenesse un buon margine di reazione all’istante. Siamo in un
ambito di derivazione delle poetiche surrealiste e dadaismo, ma sono un nuovo tipo di
pensiero. Lui studia le filosofie orientali zen, cerca di fuggire da una partitura preordinata e
comincia ad inserire nella sua musica dei momenti di casualità, degli elementi che
interrompono il flusso armonico e ordinato del pianoforte, interrompe la prevedibilità.
L’idea del caso significa che l’opera d’arte musicale è aperta all’imprevisto. Quando vede i
White painting dirà di aver avuto l’illuminazione: ha capito cosa poteva fare per rendere
ancora più imprevedibile un’opera d’arte. Su quelle superfici bianche in realtà si
depositava la polvere, ombre e luci cambiavano, assumevano una struttura diversa.
Arriverà a stabilire che i White painting hanno ispirato la sua più famosa opera, ovvero 4’
33’’, che compone nel 1952. Sono minuti di silenzio ma cosa sono? In realtà lui voleva
dimostrare che non è solo silenzio, non esiste, il silenzio è una concezione astratta nostra,
si percepisce lo scorrere del tempo. È una finestra, un’opportunità di ascoltare davvero. Il
silenzio può essere assorbente rispetto ad un ambiente ogni volta diverso fatto di persone
e movimento.

Sul rapporto tra i tre c’è una ricerca di unire le arti. Cunningham insegna nelle scuole la sua
danza, che non è imposta ma si adatta al corpo del singolo ballerino, ogni performance è
diversa perché non abbiamo tutti lo stesso corpo.

Il Black Mountain Collage è una scuola rivoluzionaria fondata nel 1933, quando avviene
l’ascesa di Hitler in Europa. Qui non si pagavano tasse, c’era parità e voglia di imparare
tutti insieme, era anche pensato per ospitare gli esuli intellettuali che scappavano dalla
Germania. In questo contesto i tre artisti hanno l’intuizione di creare la loro opera d’arte
collettiva. Scelgono di esibirsi nella mensa della scuola, insieme a tutti i loro colleghi e
professori. Dura il tempo della pausa pranzo. Questa è la nascita dell’Happening.

HAPPENING: non è la performance, va in correlazione con l’envrioment.

Vediamo un’opera, un rotolo di fogli di carta uniti con una striscia nera che li unisce, fatta
con lo pneumatico di un’automobile imbevuto di colore. Si chiama “Automobile Tire Print”,
1953. Il gesto artistico è temporaneo, quello che lascia è l’opera.

Allan Kaprow è considerato l’inventore dell’Happening. È la dissoluzione totale degli


schemi, si crea una dimensione libera ed imprevedibile, vengono annullate anche le
distanze tra pubblico, artista, spettatori. Come mai questo Happening si collega
all’enviroments? Quest’ultimo è la dissoluzione degli schemi che si avverte anche nell’uso
dei materiali, provenienti dalla quotidianità (frutta, fogli di carta, fiammiferi, strumenti
giocattolo, sacchi di tela, oggetti comuni) e destinati a realizzare un ambiente globale che
con il performer e il pubblico creano un enviroments disordinato. È un’installazione
ambientale che coinvolge l’intero spazio vissuto dello spettatore, non c’è più una barriera,
comprensivo di tutti gli oggetti presenti. L’azione si svolge senza un momento iniziale e
uno conclusivo, spesso ripetendosi.

Yard, 1961, Martha Jackson Gallery, New York: non avviene dentro la galleria ma fuori, in
giardino, spazio non canonico.

Nell’Happening tutti siamo parte dell’opera d’arte e la modifichiamo, vive di questa


interazione continua.

L’enviroment è l’ambiente allestito, installazione ambientale. È fatto con materiali poveri e


disordinati.

Happening è qualcosa che accade modificando, l’artista ti invita a fare qualcosa e a


prendere parte, è modificabile.

FLUXUS significa fluire, gli artisti rifiutano qualsiasi etichetta. È un’unione di tutte le arti,
per essere fluxus devi rispettare un criterio di non aderenza a qualsiasi altro gruppo.
PERFORMANCE E TEATRO: la performance non ha un attore che interpreta qualcun altro, è
l’artista. Il teatro è recitato, si impara una parte, non si interpreta sé stessi. Nella
performance è l’artista che sceglie di compiere determinate azioni.

Nasce anche la BODY ART: compiono azioni sul loro corpo, alcuni si mutilano o si fanno del
male. Sono opere che vogliono denunciare un disagio.

LEZIONE 15^ - 20/05/2021

La pop art inglese parte da delle posizioni critiche verso il mondo capitalismo. Quella
statunitense non celebra il consumismo ma nemmeno si mette contro, ne accetta i
meccanismi e in qualche modo li cavalca, senza rivestirli di valore politico ed ideologico.

La grande ondata che aveva caratterizzato gli anni ’40 e ’50 si è esaurita, perché entra una
nuova avanguardia con l’idea che l’arte sia un puro esercizio di individualità. La pop art di
tutti questi aspetti ha un aspetto più facile ed immediato al pubblico, il successo di questo
fenomeno (anni 62/63) ha un successo di mercato e una larga diffusione planetaria che
ricade subito in Europa e a Londra, arrivando alla biennale di Venezia e quindi in Italia,
anche se qui non ha avuto delle punte di diamante di invenzione.

L’attività creativa della creazione di immagini nuove all’interno della pop art di Andy si
chiude in tempi molto brevi, già nel 66 abbandona la pittura e utilizza altri media di
comunicazione. Ritiene che la pittura sia definitivamente superata, anche se si basava sulla
riproduzione meccanica dell’immagine. A ridosso degli anni 65/66 aveva abbandonato il
tema consumistico, il tema di esibizione e di esaltazione in una chiave iconica di immagini
usurate, che appartenevano a un orizzonte comune e di consumo. Sposta la sua attenzione
su un altro tema, che poi continua anche in molti aspetti attuali: si pone il problema di
come le immagini prese dalla realtà (non più iconiche) e trattate dagli artisti diventino
parte integrante di un sistema di comunicazione artistica. Ragiona sul fatto che le immagini
del quotidiano, per quanto filtrate dal filtro che le trasforma in opere d’arte, da un lato
perdano dell’impatto visivo che possono avere
sul pubblico, e ragiona poi sul fatto che queste
immagini passerebbero nel dimenticatoio,
invece trasformate in oggetto iconico diventano
parte della memoria collettiva, ci inducono a
ragionarci. È il caso delle serie dedicate agli
incidenti. Fotografa le pagine di giornale, le
stampa su tela e non interviene in nulla. Da
questa serie di immagini dai giornali di consumo
nascono i Crash colorati, immagine stampata su una tela già tinta e la foto viene ripetuta
come se fossero tanti fotogrammi, ma che viene via via modificata. Inizia con un’immagine
più netta e poi si perde la riconoscibilità dell’avvenimento, diventando quasi delle macchie.
È un modo, una strada che applica anche a un tema di cui si cominciava a discutere al
tempo, ovvero la pena di morte che era diffusa. Big Elettric, è una sedia elettrica con
campiture sull’azzurro che sembrano rendere piacevole l’immagine, ma sono colori
innaturali. Non vuole proprio fare delle denunce, non prende posizioni dal punto di vista
ideologico. Serpeggia comunque questo senso di morte che emerge prima dagli incidenti
ed ora dalla sedia di morte.

Nel 1964 propone una delle ultime serie di opere pittoriche che esegue, aveva già
realizzato la serie di ritratti di Marilyn e degli oggetti di consumo. Vediamo qualcosa di
diverso ma con la stessa tecnica, è sempre in serie e tele molto grandi, sono pensate per
un mercato di collezionisti che le possono acquistare singolarmente. Vuole creare un
ambiente in cui il pubblico è circondato da queste tele psichedeliche con colori
antinaturalistici. La tecnica è la solita, tela stampata con serigrafia, è un campo d’erba con
fiori con colori acrilici violenti che hanno perduto qualsiasi riferimento al dato di realtà,
non sono un modo edulcorato di raccontare la realtà. Presenta l’avversione
contemporanea del tema delle nature morte, di quel genere che aveva avuto enorme
fortuna. È un’esemplificazione in modo simbolico del tema della morte, i “Flowers” di
Warhol sono questo: pur rappresentando la natura, sembrano collocati in un prato, ma
nella loro essenzialità formale li trasforma in una natura morta legata al tema della fine e
della morte.

Nel 1966 abbandona definitivamente la pittura per utilizzare come unico medium di
creazione artistica il cinema. Racconta attraverso la macchina da presa una visione del
mondo contemporaneo giocato con un’attenzione al valore dell’immagine non più
immobile ma dinamica.

Nel 1968 subirà un attentato e l’attività della Factory si interrompe, riprende dopo il 68. Il
suo momento creativo più significativo è quello dei primi anni ’60.

Un altro artista della pop art statunitense è Roy Liechtenstein. È di formazione grafica, fa
un’operazione uguale e contraria a quella di Andy: lui andava a scegliere degli oggetti legati
al panorama del quotidiano, trasformandole e riproducendole in modo meccanico in icone.
Quello che fa Roy è prendere dalla realtà qualcosa di legato a un’abitudine ma anche un
mezzo di comunicazione come il fumetto, nato negli anni ’20 che dopo la seconda guerra
mondiale aveva assunto dei caratteri di autonomia. Lui prende un’immagine, un’immagine
di una striscia di fumetti e riporta sulla tela (anche lui con tecnica meccanica, fotografando
la scena che comprende immagine e testo) lo schema grafico, sempre su tele grandi. Dopo
a volte modifica il testo, qui in “La donna che annega” no: qui isola la figura femminile e
interviene pittoricamente sulla chioma di capelli,
che colora di blu intenso. Le linee nere che
traccia assumono quasi un effetto decorativo,
c’è un intervento pittorico sapiente. Le parti
della pelle sembrano costituite da una griglia di
colori rosati più scuri: avvicinandoci, ci
accorgiamo che tutto il disegno è composto da
una sottile griglia di puntini colorati, chiamati in
gergo “retino tipografico”, tecnica che si usava e
che prevedeva di stampare le immagini con l’uso
dei 4 colori fondamentali, la cui combinazione
dava la policromia. I puntini venivano dipinti coi
pennelli, era un lavoro di pittore in contrasto con
l’immagine meccanica. In realtà usava delle mascherine con dei fori molto piccoli, così
stampava i colori primari sulla superficie. Restituiva all’immagine un carattere di
individualità e di carattere pittorico. Riproduce a mano un fatto meccanico, fa un
meccanismo al contrario.

“Donna fumetto”, qui la griglia è più evidente, i capelli


sono pennellate invece di colore pieno.

Il tema è sempre quello, diventare un’immagine che ha


a che fare con un intervento dell’artista, nell’età della
riproducibilità meccanica ecco che si torna a una forma
pittorica (per quanto con colori industriali ecc.).

All’interno di quello che non è un vero gruppo degli


artisti newyorkesi, ci sono artisti che utilizzano non solo
la serigrafia e la pittura, ma che utilizzano materiali
diversi per dar vita a delle opere che non sono più opere di carattere bidimensionale e
pittorico, ma ambientali e tridimensionali in cui elementi reali ed artistici si fondono in
un’unità di esperienza. Uno degli artisti più affascinante di questo periodo è Segal, il quale
tra il 1962 e il 68 realizza una serie di installazioni in ambienti di gallerie (poi anche nei
musei). Sempre legato all’obiettivo comune di far entrare la vita reale nell’arte e viceversa,
prende oggetti della realtà (qui un tavolo a muro di un bar e una seduta) su cui non
interviene, se non adattandoli per essere collocati in galleria. Questi oggetti vanno a
costituire un frammento di ambiente che al visitatore restituiva l’idea di essere immersivo.
Il protagonista è la figura bianca appoggiata e fissata al sedile, che tiene in mano la tazza.
“Donna al caffe” è un calco, è stata utilizzata una modella sulla quale l’artista ha, con una
procedura di fasciature di gesso, preso le varie parti del corpo e poi unite, creando una
figura conforme e volutamente non definita, quasi come se fosse una mummia che sta
compiendo un’azione. Era rimasto affascinato dai calchi fatti a Pompei poco prima della
Guerra, dove si era scoperto che i corpi degli abitanti e animali, coperti dall’eruzione e
dalla cenere vulcanica, avevano lasciato il loro calco nel momento della morte. Era
l’impressione di una vita interrotta, qui lui riporta persone comuni che riportano storie di
solitudine e di silenzio, non ci starebbe una scultura modellata o dei colori per identificare
dei vestiti, sarebbe un’operazione narrativa. Il calco bianco che compie un’azione banale ci
racconta molto della solitudine di questa donna, in questa società di una grande metropoli.
Fa emergere attraverso un’idea di distacco artistico (non modella, non dipinge), prende
oggetti reali e crea dei calchi ma senza rimodellarlo, non ha volontà mimetica la sua arte.

Lo vediamo anche in “Donna che si depila”. Entriamo in uno


spazio intimo, ci sono le piastrelle di un bagno con i sanitari
reali, all’interno colloca un calco di modella (non hanno i
capelli) che non ha nulla di piacevole, è la sagoma che tiene in
mano un rasoio reale. È come se spiassimo questa donna, non
ha nessun valore celebrativo o pubblico. È uno sguardo dentro
l’intimità che ha molto a che fare con Hopper, che negli anni
’40 e ’50 è uno dei più famosi del realismo americano, in cui
realizzava queste solitudini dell’America più profonda. Ci porta
all’interno della banalità del quotidiano con un effetto di iper
realismo (sono oggetti veri), e i protagonisti sono in realtà delle apparizioni.

Vediamo Kles Holdemburg, che gioca una carta più ironica e volutamente divertente e
coinvolgente, dove l’ironia è sempre un meccanismo per far pensare e mettere il pubblico
davanti a una situazione che evidenzi delle contraddizioni all’interno della nostra società. È
un artista che non si occupa di pittura e non usa materiali della tradizione, usava oggetti
reali. Utilizza come materiali cose industriali, soprattutto plastiche e siliconi. Con questi
materiali realizza degli oggetti tridimensionali (non sono propriamente sculture).

Aveva realizzato una macelleria tutte fatta di plastica, dove tutta la carne sembrava vera
ma era tutto finto. Questo negozio
posizionato all’interno di un percorso
espositivo lasciava perplessi gli spettatori,
l’effetto era davvero di un effetto di
carne sanguinolenta. L’effetto tattile
metteva in discussione ciò che si vedeva.

Sceglie poi il singolo oggetto simbolico,


come l’Hamburger. Vediamo le due fette
di pane morbido del cibo diffusissimo negli USA, la carne lavorata e la fetta di cetriolo.
Qual è il senso? Questo panino non solo non è edibile, ma ha tutte le caratteristiche visive
del vero panino industriale. Aveva delle misure colossali, era una scultura anche alta più di
2 metri. Essendo oversize occupava uno spazio nostro che ci inquieta. Questa esaltazione è
un modo per far emergere delle connessioni contraddittorie.

Aveva commissionato questo gigantesco timbro del tribunale con scritto Free, per chi
aveva finito di scontare la pena. È riprodotto in maniera realistica ma in proporzioni
enormi davanti al tribunale, è provocatorio.

Una delle ultime opere, gigantesca molletta in


legno che ha agguantato un pezzo di tessuto che
in realtà è un prato, che si è gonfiato come un
tessuto.

Vediamo una delle sale di un castello vicino a


Torino, aveva realizzato un grande papavero in
metallo verniciato, riprendeva il Flower di Warhol
che abbiamo visto prima. Mette i visitatori di
nuovo in quella situazione di ribaltamento delle misure del mondo.

Piazza Cadorna a Milano, era stata


coinvolta in una ristrutturazione e nella
piazza viene realizzata un’installazione che
parlava di Milano nel mondo. Milano
come capitale della moda è il filo che entra
nel terreno e si infila in un ago per cucire,
è un oggetto qualsiasi esaltato nella sua
misura diventando simbolico.

Il fenomeno della pop art si esaurisce, ma


lo spirito pop resta e ogni tanto emerge,
es. Cattelan.

Negli anni ’60 c’è un altro sistema di


comunicazione che vede come
protagonista Kaprow, non sono opere
d’arte stabili ma che vivono di una
continuità, di una situazione di azione. È
quello che verrà chiamato Happening,
ripreso solo tramite fotografie e
registrazioni.

Vediamo un accumulo di pneumatici usati, dove le persone possono muoversi e sedersi, è


una specie di teatro in cui il pubblico è attivo, entra prepotentemente nell’opera d’arte,
questo è l’Happening. Ha un inizio e una fine ma è imprevedibile, non si può sapere cosa fa
il pubblico, è lui che costituisce l’opera. È un’opera aperta che vive nella
compartecipazione tra artista e pubblico.

È una situazione molto concettuale, non è qualcosa di materiale che si può toccare e
comprare. Ha una durata temporale e sparisce, non p mercificabile e gestibile, esce dai
meccanismi consumistici che tengono insieme il mondo di musei e galleristi. Esistono delle
testimonianze ma sono tracce documentarie, non sono le opere, sono tracce che ci
suggeriscono che cosa è avvenuto ma mai potremo rivivere quel momento di situazione
psicologica. l’artista propone la performance ma il percorso non è gestito dall’artista,
perché l’elemento artistico è completamente legato alla reazione del pubblico, totalmente
imprevedibile.

Vediamo l’esempio di due artiste, nel mondo della body art le più creative sono le donne. È
il corpo delle donne è da secoli considerato oggetto, mostrano quindi le contraddizioni
sociali e la differenza di genere.

Una di queste fa parte del Fluxus è


Yoko Ono, artista giapponese
diventata poi famosa per aver
sposato John Lennon. Emerge alla
cronaca nel 1965 con questa
performance di cui esistono solo
fotografie, “Cut Cleans”: si presenta
al pubblico completamente vestita
con un paio di forbici davanti a lei. Il
pubblico è invitato a prendere le
forbici e a prendere un pezzo dei suoi vestiti. Vediamo un signore che taglia una delle
spalline del reggiseno. Intervengono uomini e donne, la performance viene conclusa a
forza dal gallerista perché la tensione emotiva aveva portato il pubblico quasi a ferirla in
volto. Il tentativo è quello di far emergere tra il pubblico, l’opera è il motore che fa
esplodere le tensioni del gruppo e porta a compimento tutte le contraddizioni che esistono
all’interno del pubblico. Il rapporto violento è esplicitato, ciò che inizia come un gioco
diventa poi violenza fino al limite. I freni inibitori spariscono.
Qui l’artista Gina Pane si presenta davanti a un pubblico vestita
di bianco con riferimenti all’immagine della sposa e della
verginità. Ha delle rose bianche e rosse e si infila le spine delle
rose nel braccio, tagliandosi le mani con una lametta. Si ferisce e
la materia del suo racconto sono la sua materia e il suo sangue.
Ci da la misura della drammaticità con cui queste artiste vivono il
loro ruolo di donna, è l’unico modo di raccontare realmente lo
stato del femminile.

LEZIONE 16^

LAND ART

Non è solo arte di paesaggio, è arte ambientale, si tratta di un emergere agli inizi degli anni
’60 (in cui c’era aria di cambiamento e necessità di riportare l’arte a contatto con la realtà)
di una tipologia di alcuni artisti nei confronti dei seguenti temi:

una delle prime ragioni per cui le opere vengono portate fuori dai luoghi delle esposizioni
tradizionali e delle gallerie è di spostare l’asse del loro rapporto con il pubblico e portarlo
in luoghi lontani da quelli della vita contemporanea, la metropoli. Sono quindi interventi
che si mettono in relazione con l’ambiente naturali. Questa scelta ha delle ricadute, la più
immediata è che l’opera d’arte non è vendibile e acquistabile, non può essere collocata in
altro luogo (a livello teorico ideale). È in un luogo così unico e remoto da impedire la
mercificazione.

L’intervento nel paesaggio determina una trasformazione del luogo, ma non è


sfruttamento della natura. Nascono le prime sensibilizzazioni sulla salvaguardia
dell’ambiente, questi interventi per quanto invasivi sono pensati con l’idea di portare
attenzione sulla natura e sulla relatività della presenza umana nel mondo.

Una terza conseguenza è che trattandosi di opere colossali, non determinano più un
intervento diretto dell’artista. Lui sceglie un luogo e crea un progetto, ma la realizzazione
spetta a ditte specializzate che intervengono. C’è uno scostamento dal lato creativo. È un
meccanismo legato all’arte concettuale, la cui origine è il dadaismo, l’arte è l’idea e non
l’oggetto di per sé.

Una quarta considerazione è che rispetto ad altre opere, i land artisti calcolano e
prevedono che la loro opera subisca una trasformazione dovuto al clima e al luogo in cui si
trovano. Il che comporta una trasformazione dell’opera fino alla sua sparizione. L’artista
prevede che l’opera avrà un suo percorso di vita, si contemplava l’idea che l’opera non
fosse eterna.

Il termine più esatto per definire questi interventi è environment, cioè ambiente che si
trasforma attorno al pubblico. È soprattutto in ambienti naturali in luoghi non frequentati,
anche se a un certo punto ci saranno anche negli ambienti urbani.

Prima opera di arte ambientale, Robert


Smithson, “Spiral Jetty”, è una pista di ghiaia a
forma di spirale, è il lago salato dello Utah e qui
il progetto prevede un intervento con materiali
locali, crea una pista che rappresenta un
percorso cognitivo. Sono state utilizzate delle
macchine che spostano i detriti. L’opera poi
viene lasciata al suo destino, per vederla nella
sua integrità andrebbe vista dall’alto. Il tempo è
trascorso e il lago si è via via ritirato, cambia anche il colore, nel corso dei decenni si sono
create colonie di molluschi ecc. Il destino di quest’opera è di sparire. Questa idea di una
continua relazione col cambio della natura è il valore dell’oggetto, un’opera di questo
genere con il segno umano nella natura è pensata come cosa temporanea.

Questa idea di partenza di Smithson ha delle elaborazioni con declinazioni diverse.


Diversamente dalla posizione teorica iniziale, a partire dalla fine degli anni ’70 si pensa a
cose che intervengono su spazi dati o urbani in cui l’ambiente viene costruito, il pubblico è
sempre costretto a mettersi in relazione con l’opera. Per la stessa ragione, questi ambienti
costruiti diventano luoghi in cui il pubblico si deve muovere per cambiare la sua relazione
con l’opera e lo spazio.

Morris, idea del labirinto molto ricorrente nella land


art, è un luogo della memoria in cui ci si perde. A
seconda delle coordinate ci da sentimenti diversi,
liberamento all’uscita o senso di angoscia ecc. Morris
realizza questi terrapieni di cerchi concentrici
dell’anno ispirati a Stonehenge.

Opera del 2016 nel deserto egiziano, uso di


progettazione a computer, c’è una doppia spirale di elementi pieni e vuoti, tutto
proporzionale e fatto da macchine al laser perfettamente distanziati, si restringono fino ad
arrivare alla chiusura. Ricorda Spiral Jetty. Al centro c’è dell’acqua, cosa che nel deserto è
difficile, c’è un contrasto, è il riflesso del cielo e del deserto.
Burri, una delle ultime opere, è solo un suo
progetto, “Cretto di Gibellina”, piccolo
paese vicino a Trapani abbattuto da un
terremoto ed abbandonato
completamente. Le rovine dell’antica città
sono stati presi da Burri, che ha
trasformato questa Pompei moderna in un
cretto di cemento che ha occupato tutta
l’area abitativa originaria, ricostruendo dei
tracciati non casuali ma che restituiscono dall’alto il reticolo delle strade della città
perduta. Significato polemico contro la politica delle ricostruzioni (hanno semplicemente
ricostruito un nuovo paese a fianco perdendo la storia).

Artista molto noto, Christo, opere di forte carattere


ideale e politico, ma anche giocoso e spiazzante. I suoi
interventi non sono mai stabili, hanno durata breve e
vengono smontati. Se la poetica si basa sul concetto
che l’opera deve entrare e subire la natura, molte
opere degli anni ’60 sono state sottoposte ad interventi
di restauro (diverso quindi dal progetto dell’artista): si
pone quindi il problema della conservazione, ed il fatto
che se le opere non vengono vendute l’artista non ha
da vivere. Christo si autofinanzia vendendo le tavole dei
suoi progetti, come anche le fotografie dell’opera
firmate dall’autore. Vediamo i suoi interventi momentanei, sostanzialmente degli
Happening (durata massimo 2 mesi), 1972, Curtain Valley costituito da un grande telo
leggerissimo steso e tenuto in tensione con anelli d’acciaio e carrucole, il quale a causa del
vento si gonfia come una vela. Qual è il senso? È collocare un segno umano nel paesaggio
che serva alle persone, è una tela sospesa sopra una vallata in cui passano macchine.
Determina nello spettatore l’effetto che la tela fosse una barriera, è come un accento che
obbliga le persone a chiedersi “dove sono?”.

1983, in una baia vicino a Miami su isolotti disabitati vengono decorati ed ornati da una
cornice con tessuto sintetico galleggiante, sembrano ballerine in tutù. Il senso è che con
questi suoi interventi momentanei rende visibile cose invisibili ai più ma che esistono.

Anni ‘90/91, il muro di Berlino passava alle spalle del parlamento tedesco bruciato nel
1933 dai nazisti che prendono il potere. Questo oggetto architettonico abbandonato viene
chiuso come un gigantesco pacco e chiuso da corde e tiranti, chiuso come un regalo lo si
riconosceva ma non lo si vedeva. Era per porre attenzione su questo edificio di cui nessuno
si preoccupava, rendendolo invisibile concretamente l’ha reso più visibile
psicologicamente.

Ultima sua opera, Floating Pears, idea di


unire simbolicamente riva bresciana con
isola della famiglia Beretta. La scelta del
colore giallo pop anti naturalistico contrasta
con tutti i colori del luogo, era abbastanza
complicata dal punto di vista ingegneristico.
Il significato era di rendere visibile
un’esperienza irripetibile, le persone hanno
camminato sulle acque vedendo il
paesaggio in maniera diversa.

Interventi di più piccole dimensioni, le fanno gli


europei e non gli americani. In Europa la land art è
giocata su interventi più sottili e più stabili.
Vediamo un torinese, Penone, ha fatto in un luogo
molto amato a Torino abbandonato, (grande
edificio settecentesco abbandonato per i Savoia a
Venaria, resta solo un terzo di questo palazzo).
Questa reggia era stata dotata di un enorme parco,
che poi si perdeva nella riserva di caccia. Quando
negli anni ’70 si cominciò a pensare al recupero del parco, molti alberi erano morti: lui li
prende, ne fa il calco, lo fonde in bronzo e lo colloca di nuovo nel parco. È un albero morto
di bronzo, ridà vita in chiave metaforica a un albero antico, piantandone vicino uno della
stessa specie. Nel tempo, il progetto è che cresca e che a un certo punto ingloberà l’albero
di bronzo. È una visione diversa dagli interventi invasivi degli americani, c’è una forma
poetica più attenta a un rapporto proporzionale col pubblico.

Esistono interventi fatti con materiali non artistici, Dan


Flavin utilizza come strumento la luce al neon. vediamo
una stanza che si trova a Varese, il pubblico entra e in un
angolo colloca un’istallazione di tubi al neon che
interagiscono col colore che l’artista ha fatto stendere
sulle pareti. È un’illusione costruita attraverso lo studio
attendo della luce del neon, è un oggetto dove la materia
costitutiva dell’opera d’arte è la luce che cambia la nostra
percezione dello spazio.
James Turell, ha lavorato per 30 anni ad un’opera che è un
cratere nel deserto dell’Arizona dovuto alla caduta di un
meteorite milioni di anni fa. Qui lui prevede un’opera, fa
realizzare una piattaforma in muratura con un cerchio interno e
una scala che scende nel cratere. La scala è ricoperta di lamina
dorata, è come entrare in un’astronave/tempio. È una sorta di
città giocata su luci artificiali e fori. L’esperienza del pubblico
durerà 24 ore, saranno portati lì a una certa ora e dovranno fare
esperienze per 24 ore. L’opera è ancora da terminare.

Marfa, paesaggio selvaggio, alla fine degli anni ’60 arriva un


artista minimalista newyorkese che crea installazioni con moduli
che si ripetono negli spazi, sono volumi puri senza immagini dove
il cubo o la sfera ecc. si ripetono in modo ossessivo. Donald Judd
trova un luogo dove la natura fa sentire la sua presenza e dove lui acquisterà delle
proprietà. Vicino a questo paese, lui visita un campo militare abbandonato dove c’erano
dei capannoni in cui erano stati tenuti prigionieri di guerra. Questo grande spazio si chiama
Cinnati e qui ha sede la Cinnati foundation, progetto che ospita artisti che intervengono in
questo spazio via via nel tempo. In
questo campo militare che
acquista nel deserto realizza la sua
opera più importante, è un
sentiero lungo un miglio e mezzo,
il terreno ha delle imperfezioni
non è piatto. Questi oggetti che
costituiscono la strada sono le sue
scatole che invece di essere in metallo sono in cemento armato, sono parallelepipedi
enormi che hanno due lati aperti. L’effetto cambia dal punto di vista e dal momento del
giorno, il momento migliore è l’alba perché quando il sole sorge da est i suoi raggi
colpiscono queste superfici, creando un colore rosa arancio. All’interno dei capannoni fa
un’opera di land art, colloca nello spazio 100 cubi di misura identica in file parallele, ma
sono di acciaio satinato, superficie smerigliata che riflette la luce. Sono tutti uguali ma
hanno delle cose minimi che li differenziano. Sono come delle presenze mute e luminose,
la loro uguaglianza e il lor moltiplicarsi crea un effetto ritmico molto evidente.

Uno dei primi artisti che invita è Robert Chamberlein.

Richard Long viene ospitato a Marfa per fare un triplo cerchio di pietra lavica. Lui di solito
cammina lungo un prato creando un sentiero e fotografandolo, poi li comincia a creare con
dei sassi, sono i segni della presenza umana nel mondo naturale.
Nabokov, nel 2005 è stato chiamato qui e ha trasformato la caserma in una Pompei
contemporanea, gli spettatori entrano in un luogo dove la vita si è fermata, i vetri sono
rotti, la natura fa il suo corso, ma ci sono oggetti della scuola russa sovietica, come se i
bambini fossero spariti. È la ricostruzione di ambienti con oggetti reali e trasformati in
luoghi della memoria.

Artisti svedesi realizzano nel deserto


di Marfa un perfetto negozio Prada,
con vetrine, elemento strano è che
le cose esposte sono di taglie
enormi da uomo, si gioca col
marchio in un luogo in cui non ha
senso di esistere.

Irving usa luce naturale, in una villa fa tagliare una stanza obliquamente e si vede una
finestra che da sull’esterno. La finestra è come se fosse un quadro, è un’illusione ottica.

LEZIONE 17^ - 25/05/2021

Due fenomeni legati a due figure, Germano Cheman (?) e Achille (?). Questi due critici
vengono a elaborare due modalità di approccio all’arte contemporanea completamente
diverse. Germano inizia la sua carriera e ha l’idea di portare il fenomeno negli stati uniti,
dove è esploso: viene chiamato “Arte povera”. La nascita ufficiale è il 1967 a novembre,
quando nella rivista Flash art Germano pubblica un articolo intitolato “arte povera: appunti
per una guerriglia”. Già il titolo è aggressivo, è una sfida. L’anno dopo ci sono le proteste
dei giovani negli stati uniti contro le guerre del Vietnam e le battaglie per i diritti civili della
comunità afro americana. In Italia cominciano le grandi manifestazioni dell’Autunno caldo
del 1969. Questo fenomeno di neo avanguardia trova una sua ragione di essere anche in
Italia. Il sottotitolo dell’articolo identifica quali sono gli scopi di questo gruppo, che non è
un movimento in senso stretto (hanno tutti un’individualità molto forte), l’unica cosa che li
tiene insieme è il critico. L’obiettivo è la libertà creativa dell’artista, formare una nuova
lingua che andava contro ai riferimenti del passato, l’artista diventa un guerrigliero sempre
pronto, armato. Questa sua modalità comporta l’uso di materiali non artistici in modo
esplicito e dichiarato, si cercano componenti della realtà contingente (una specie di ready
made) e dove le opere devono creare dei cortocircuiti di carattere semantico, dei valori
nuovi che mettono in discussione il passato. Il fenomeno diventa mondiale quando alcuni
musei acquistano le opere.
Vediamo alcuni artisti: l’elemento della
guerriglia è accompagnato anche da
posizioni ideologiche di alcuni artisti, come
Mario Merz, che a partire dal 1965 sulla
scorta delle esperienze del new dada
propone installazioni luminose basate
sull’uso del neon dove le parole hanno un
significato legato all’opera. L’opera mette
insieme elementi testuali e di carattere
simbolico. La casseruola che utilizza è per
cuocere il pesce ed è un ready made, dove stende uno strato di
grasso animale con delle componenti chimiche che nel tempo
reagiscono e producono un cambiamento di colore, accentuato
dalla luce del neon azzurro. È sospeso nel vuoto della pentola,
c’è poi una resistenza elettrica che fa reagire con il calore.
Utilizza la frase “Che fare?”: è dedicato a cosa fare oggi
nell’arte contemporanea, cosa fare in una società capitalistica,
ma è anche il titolo di un saggio politico di Lenin nel 1921. È
una ripresa dal mondo comunista e dalla rivoluzione ma con
materiali non artistici, dove l’elemento luminoso e la reazione
chimica è come un’alchimia.

Michelangelo Pistoletto, è di Biella, negli anni ’60 aveva iniziato


a realizzare delle opere con lastre di metallo riflettenti come
specchi, sono lastre sottilissime di acciaio montate su legno
sulle quali incolla o dipinge delle sagome riprese da fotografie.
“Uomo con pantaloni gialli” è una sagoma fotografata e dentro c’è l’immagine di uno
spettatore che si riflette.

Sempre metà anni ’60, geniale artista romano


Pino Pascali, sull’onda dell’eco della pop art
inventa delle installazioni in cui gioca
ironicamente con titoli che mettono in
discussione l’immagine: “Decapitazione della
scultura”, vediamo un oggetto in gesso che non
ha una forma, ecco che la scultura oggetto
tridimensionale viene decapitata, viene messa in
campo l’esecuzione dell’arte tradizionale.
Boetti e Anselmo sono legati al gruppo torinese, anche qui
uso di oggetti deprivati del valore artistico che gli autori
trasformano in oggetti. Boetti colloca su un basamento un
rotulo industriale che con attenzione estrae dal foro centrale
dal rotolo e via via alza, in modo di creare uno srotolamento
che diventa una specie di obelisco, di monumento, ma
l’artista ha solo scelto un oggetto industriale e ha compiuto
un’azione creando un oggetto plastico, togliendo al rotolo di
carta la sua funzione, dandogli una dignità alta. L’attività di
questi artisti è trasformare materiali nati per altri scopi in un
significante nuovo. “Vertical” di Anselmo, è un cubo di legno
o plastica in cui ha messo una bacchetta di acciaio
magnetizzata. La colloca nello spazio e essendo magnetizzata tende a spostarsi e a piegarsi
verso il nord magnetico, quindi la scultura si muove.

Gino De Dominicis e Zorio partecipano alle prime mostre. Gino realizza un’opera senza
titolo ma si chiama in pratica “ombelico del mondo”, è una pietra magnetica con sopra
un’asta fatta di acciaio ottonato, è come un raggio di luce stilizzato, la punta dell’oggetto
sfiora ma non tocca la pietra: tuttavia il ferro contenuto nella pietra fa compiere dei minimi
movimenti all’asta che continua a ondeggiare. L’energia che scorre è come quella
dell’universo.

Gilberto Zorio ragiona anche lui sull’energia in potenza, cioè su delle azioni che comportino
la messa in campo di forse fisiche contrastanti che vengono bloccate ma che sono delle
forze energetiche scatenanti. Vediamo un lavoro che ha fatto, è un tubo in acciaio su cui ha
avvolto un tessuto imbevuto di collanti, tirando finché ha potuto e finché l’energia si è
quietata, il tessuto rimarrà in tensione finché il collante non collassa. Sono forze contrarie
che determinano la torsione del tessuto attorno al perno.

Pistoletto, “Venere degli stracci”,


1967-1970, è una delle opere più
famose. È un’installazione che prevede
in un angolo di uno spazio una
montagna di vestiti usati, che vengono
chiamati stracci. Evoca da un lato i
cumoli a Biella di tessuti portati al
macero, erano vestiti ormai destinati a
sparire per diventare un’altra cosa.
Sono anche il senso delle vite che le
persone che li hanno portati, vite che
si uniscono e si sovrappongono. Contrappone un oggetto che nella nostra memoria
collettiva è Arte con la A maiuscola, l’arte antica da cui è nata tutta l’arte. È una copia in
più piccole dimensioni dell’Afrodite di Prassitele, di cui abbiamo solo copie romane ma che
in origine era una statua in bronzo, la rappresentava nuda mentre si toglie il peplo per
immergersi nell’acqua sacra. Lui prende un’icona dell’arte e la gira, la vediamo da dietro e
non da davanti, che è appoggiata e quasi immersa negli stracci. La dea della bellezza è
diventata la venere degli stracci e dei resti. È un ossimoro, una contraddizione, l’idealità
della bellezza contro il suo contrario, il residuo dell’umanità, è una provocazione che vuole
creare una reazione.

Allestimento mostra Merz, Pascali e Zorio,


1967. Vediamo del feltro che viene tagliato e
appeso, il peso del materiale fa afflosciare il
feltro creando una specie di scultura molle.
Vediamo opera di Merz, è uno degli Igloo, il
materiale che usa è sempre diverso ed è
sempre allestito a formare una semisfera,
evocano gli Igloo. Questi di solito sono anche
completati con delle iscrizioni appese
all’esterno fatte col neon, delle dichiarazioni scritte col neon modellato che determinano il
significato del singolo Igloo. Questo è fatto con sacchi di cemento solidificato, sono grezzi
ed incollati. Fuori la scritta è una frase del generale capo delle forze del Vietcong, un
personaggio mitico nella generazione di Merz, è una frase che inneggia alla resistenza
contro gli invasori americani.

Artista di origine greca Yannis Kounellis, tra il 67 e il 68 in una galleria di Roma espone dei
cavalli. È un’installazione vivente, sono una decina di cavalli che porta in galleria e vengono
in parte legati con le briglie a un’asta lungo le pareti, altri si muovono liberamente, qui
mangiano e vivono. Quello che resta è la mostra. L’artista non ha fatto fisicamente nulla,
ma ha portato la vita organica dentro la galleria.

Pascali utilizza per delle sculture


coloratissime, es. “Vedova Blu”. Qui usa
materiali plastici, sono dei piumini di setole
di plastiche venduti per pulire la polvere. Lui
li assembla su una struttura di metallo e
crea questo ragno stilizzato, è un
riferimento al ragno velenoso che qui
diventa un gioco.
Luciano Fabro, uno dei temi era la rappresentazione del nostro paese e la realizza con
materiali diversi, vetro, specchio, tessuto, sempre appesa a testa in giù. È l’Italia
sottosopra, è ribaltata dalla guerriglia.

Anselmo, nel suo ragionamento sulle energie vediamo


“Torsione”. È il principio di prima ma più chiaro, ha
fissato un gancio nel muro della galleria ed ha fatto
passare un tessuto di juta molto resistente. Ha infilato
una sbarra di ferro ed ha cominciato ad arrotolare, le
fibre si tendono fino a quando il perno inevitabilmente
trova un ostacolo nel muro. Si chiama torsione perché
se tolgo la parete o libero il perno si muoverebbe al
contrario cadendo per terra. È un’opera pronta ad
esplodere, l’energia è trattenuta.

Sempre Anselmo, lavora sempre su oggetti che si basano su un


equilibrio instabile. “scultura che mangia”, titolo ironico.
Vediamo un parallelepipedo di granito tagliato da una
macchina sul quale ha appoggiato inclinato un quadrato
sempre dello stesso materiale, tenuto in equilibrio da un
elastico, il pezzo di pietra non è incollato. Per stare in
equilibrio devo mettere nello spazio di inclinazione un
ingombro, se no scivola. Mette un cespo di insalata, ecco che
visivamente sembra la scultura abbia aperto una bocca e
ingurgiti l’insalata. Cosa accade? Ho appena messo l’insalata e
il giorno dopo comincia ad appassire, diventa tutto instabile,
quando si riduce di proporzione crolla tutto. Quello che vuole
dimostrare l’artista è che l’equilibrio è instabile, è tutto basato sulle tensioni.

Boetti, “Io che prendo il sole a Torino il 19


Gennaio 1969”, 1969. Era la data di inaugurazione
della mostra, non poteva prendere il sole a
gennaio. In galleria era presente il corpo
dell’artista ma non è vero, è una sagoma
antropomorfa costituita da dei panetti fatti da lui
di argilla mescolata al cemento, seccati al sole.
Ricompone sul pavimento la sua sagoma e dove
c’è il cuore fissa una farfalla gialla.
Contrapposizione tra peso del cemento e
leggerezza della farfalla, ma anche tra il titolo e la
realtà. Questi ossimori sono uno degli elementi dominanti della politica dell’arte povera.

In viaggio si ferma in Afghanistan, dove tessuto tappeti. Proprio a questa tradizione


artigianale Boetti fa realizzare dei cartoni con dei planisferi dove la geografia non è quella
fisica ma politica, dove i paesi sono rappresentati non dal loro nome ma dalle loro
bandiere, è una specie di patchwork dove attraverso l’icona della bandiera si vede il
mondo.

Gli echi della Land art si vedono in Anselmo: qui c’è una fotografia stampata su tela di
Anselmo, in bianco e nero, mentre lui cammina in un avvallamento di un prato di erba che
dal punto di vista della stampa non da’ l’idea della profondità, sembra una galassia
dell’universo, il titolo è “Infinito”. È un’opera che sta a metà strada tra le operazioni
poveriste, la performance e la land art.

Paolini, “Mimesis”. È il contrario degli artisti visti fino


ad ora, ragiona sempre su un rapporto intellettuale
con la tradizione della storia dell’arte e con la
prospettiva. C’entra poco con i poveristi, il suo
linguaggio è contrario. L’unico elemento comune è
l’ossimoro, la contraddizione. Qui è un’opera degli
anni ’70, utilizza un termine greco (imitazione), era
l’obiettivo ed il valore che gli antichi riconoscevano
all’arte, la sua capacità di imitare la natura. Prende
l’Afrodite e ne prende due copie che colloca su due
basamenti, li rende sculture. Salire sul podio ti
trasforma in un’icona, le due copie sono sul
basamento ma sono collocati in un modo tale che le
due statue sembrano parlarsi, si scambiano sguardi e
il movimento dei corpi interagisce, c’è un muto colloquio. Quello che viene evocato è che
tra le due statue ci sia uno specchio, una è il riflesso dell’altra, ma qual è la copia e quale è
il vero? Qual è il vero e quale l’artificiale? Tutta l’ambiguità delle immagini emerge
pienamente in un’operazione come questa.

Penone, ha preso dei tronchi di abeti morti con tutti


i nodi dei rami tagliati. Con pazienza segue i nodi
dall’esterno all’interno seguendo le venature del
legno, facendo emergere come se fosse ancora vivo
il cuore dell’albero originario.

Merz, “Il volo dei numeri (sequenza di Fibonacci)”,


1984. Vediamo un’installazione a Torino sulla Mole
Antonelliana, è una striscia di led che raccontano la sequenza di Fibonacci, sono numeri
sospesi lungo la cupola e di notte sembrano volare nell’aria.

Ultima delle avanguardie che è contro i poveristi in nome di un’arte che viene chiamata
“trans avanguardia”, che ha superato le avanguardie storiche e le neoavanguardie. La sua
caratteristica è il ritorno al popolare, all’uso della pittura e dei pennelli, del figurativo.
Basta con il ready made e gli oggetti, si deve tornare alla pittura che le persone capiscono e
che comunica cose. Questo gruppo di artisti raggiunge il successo agli inizi degli anni ’80,
diventano immediatamente un fiore all’occhiello di molti critici, dopo anni di
concentrazione sulle energie trattenute, temi dell’universo ecc.

Enzo Cucchi è un pittore marchigiano,


dimensioni grandi delle tele come se fossero
dipinti di storia, dove i colori sono materici e
pastosi, ad olio ma dati a strati. L’opera
faceva parte di un ciclo, si chiama “La deriva
del vaso”, 1984. È una nave nel mare di fuoco
che da un lato è quella di Ulisse in un mare in
tempesta, dall’altro è una mercantile che
porta dei vasi, è una nave antica e moderna
che naufraga nel mare rosso di fuoco. È come
se passato e presente si unissero.

“Paesaggio barbaro”, 1986, il suo tema


ossessivo è la morte. Vediamo una specie
di oltretomba dove ci sono i resti dei
morti, fa parte delle leggende popolari,
c’è un gallo che rappresenta la
resurrezione che si alza e canta al cielo. Il
paesaggio è determinato dalla pittura
materica che non guarda al presente.

Sandro Chia, pittore napoletano, usa una


pittura dal forte impatto decorativo dove mescola la tradizione dei fumetti, vediamo una
scena con un oste che ha in mano un oggetto, un coltello, e insegue Mercurio alato che
vola via in un’esplosione di luce. Mescola sogno e mito, realtà e violenza.

Domenico Paladino è il più strutturato dei 4 artisti che fanno parte della trans avanguardia.
Riprende il dipinto di Velasquez, Las meninas, il pittore ragiona sull’essenza della pittura in
un gioco di specchi. Intitola l’opera “il visitatore”, si autoritrae in Velasquez, Paladino
applica la sua identità ricomponendo in chiave trans avanguardista il capolavoro di
Velasquez.

Paladino fa anche sculture in diversi materiali,


i cui temi si ripetono anche ossessivamente,
come queste specie di manichini, sagome
antropomorfe con volto a maschera. L’altro
tema che lo appassiona è il cavallo e il
cavaliere, è un tema onirico che attraversa
tutta la storia. Negli anni ’90 fa delle
installazioni, “Montagna di sale”, grande
scultura di legno che copre di sale marino su
cui mette delle sagome di legno di cavalli. È
come se fosse quello che resta di una battaglia
feroce. Il sale veniva sparso sulla terra per fare
in modo che non ricrescesse più nulla, è un
monumento contro la tragedia delle guerre.

Il più poetico degli artisti della trans


avanguardia, che non utilizza la pittura in chiave espressionista, è De Maria. Compie delle
tessiture di colori (origine di questa sua pittura sono i grandi quadri di Rochko ma senza la
sua tensione emotiva). Dipinge delle tele che ha incastonato sulla parete dipinta, creando
una continuità e discontinuità visiva e percettiva sulla parete. L’insieme è l’opera d’arte,
non possono essere esposte da sole.

Ha avuto successo negli anni ’80 ma già alla fine di questi anni si esaurisce. Le due neo post
trans avanguardie italiane sono gli ultimi episodi concreti di gruppi con degli obiettivi, che
rispondevano a un’idea di ribaltamento del sistema linguistico.

LEZIONE 18^ 27/05/2021 (lezione approfondimento-riassunto)

SPUNTI SUI LINGUAGGI CONTEMPORANEI

Performance di Joseph Boris, uno degli artisti che fa parte dell’arte concettuale, via
maestra dell’arte contemporanea dalla fine degli anni ‘69/’70. Vediamo la fotografia di
questa performance del 1965, si intitola “Come spiegare la pittura a una lepre”. È giocata
concettualmente su un significato contraddittorio, è vestito nei suoi abiti quotidiani e
assume un atteggiamento particolare si è dipinto il volto di oro e tiene tra le braccia un
animale impagliato. Dal gesto della mano destra capiamo che sta spiegando. I due codici
sono incomunicabili, ma è anche impossibile dato che la lepre è morta. Si impersona in una
specie di oracolo, quello che significa la performance è che è impossibile spiegare il senso
dell’arte. Emblematicamente questa immagine ci permette di collegare le esperienze di
questa lezione al momento fondativo dell’arte in progressione e della performance.

Uno degli assi portanti dell’arte contemporanea è il concetto dell’ironia, del sarcasmo.
Vediamo due opere, artista giapponese, usa la fotografia come medium e qui lei si traveste
da Einstein, imitando una sua famosa fotografia nella quale fa la linguaccia. L’artista si
traveste giocando con l’icona, riutilizzando un’immagine diventata icona.

Proposta di un artista famoso della street art, utilizza le pitture murali, aveva iniziato a
Liverpool: si chiama Banksy ed ancora oggi è ignoto, a partire dagli anni 2010 ha realizzato
anche delle installazioni in luoghi della città. Vediamo una cabina telefonica inglese rossa,
che lui ha lavorato e risaldato facendo in modo che assumesse l’aspetto di un corpo caduto
a morte, colpito da un piccone. Gioca col colore rosso della cabina, creando colature di
vernice che simulano sangue versato della comunicazione, è l’uccisione di uno degli status
simbol di Londra. Queste due opere giocano la carta del sarcasmo (anche drammatico),
che serve a suscitare una serie di riflessioni.

Uno dei percorsi dell’arte concettuale, specificatamente l’ultima delle avanguardie italiane
(arte povera) si è sviluppata anche in Europa, la land art insiste anche negli ambienti
espositivi, rispetto agli interventi statunitensi degli anni ’70 in cui si voleva abbandonare le
gallerie d’arte e i contesti in cui l’arte contemporanea si mercificava. L’idea di uscire da
questi ambienti vede un ritorno degli artisti dentro le gallerie e i musei. Alcuni interventi
modificano lo spazio della galleria, vediamo un artista che ha costruito un’installazione
sfondando il pavimento e immagina che l’intervento sia il risultato (riferimento alle guerre
dell’Afghanistan) dell’esplosione della bomba, quello che vediamo è il cratere di un missile
sparato in questo luogo. Per realizzare questo lavoro ha scavato il pavimento che è stato
poi ripristinato. La contrapposizione tra queste immagini di guerra e di distruzione e
l’ambiente ordinato della galleria è evidente, ma contrasta anche con le due persone
(visitatori) che conversano nel buco creato dalla bomba.

Gli interventi ambientali sono di grande impatto rispetto al visitatore, perché le persone
sono coinvolte inevitabilmente. Lo si vede chiaramente in ambienti di particolari
dimensioni: vediamo due diverse installazioni create nel 2005/2010 al Tate Modern di
Londra. Su un pavimento fittizio viene costruito una sorta di percorso come se fosse una
collinetta, tutta bianca e caratterizzato da una crepa, che si allarga sempre di più, come se
fosse l’effetto di un terremoto. Comincia in modo impercettibile, si vede solo una distesa
bianca, e via via che si avanza si allarga sempre di più questo baratro.

Vediamo installazione del 2003 di artista norvegese, Olaf Eliasion, si occupa dagli anni ’90
del Weather Project: prevedeva questa gigantesca sfera la quale produceva una luce che
variava nelle 24 ore, riproducendo in modo artificiale il sole nelle ore del giorno. Le tonalità
cambiavano a seconda dello spostamento del sole all’esterno e i cambiamenti erano
accompagnati da vapori profumati. Il pubblico era invitato a entrare nello spazio
gigantesco e si poteva rimanere il tempo che si voleva, come se fossero in un parco. La
natura è portata dentro uno spazio chiuso in modo artificiale, ma restituendo le sensazioni
del cambiamento del colore del cielo e del rapporto con il sole che esiste in natura.

L’idea degli ambienti viene utilizzata non solo per modificare la nostra percezione dello
spazio, ma può essere che l’ambiente sia la ricostruzione di situazioni reali che da un certo
punto di vista quando il visitatore entra riconosce il luogo, ma dopo di che qualcosa fa
scattare un altro ragionamento.

Vediamo installazione di uno dei più famosi artisti degli ultimi 20 anni, Danien Hirst.
“Pharmacy”, inizio del 2000. Nello spazio di una galleria d’arte riproduce una farmacia
inglese, vediamo gli espositori delle medicine, il bancone dove sta il farmacista. Sopra il
bancone ci sono 4 ampolle in vetro che evocano i prodotti delle antiche farmacie. Il
pubblico cosa percepiva? Una situazione tranquillizzante, ma se guarda gli sgabelli ci sono
sopra delle erbe secche (marijuana, oppio, hashish). La curiosità aumenta e se comincia a
guardare le scatole dei medicinali si accorge che sono tutti medicinali in commercio
(scatole vuote) e sono stupefacenti o psicofarmaci, antidepressivi ecc. In quello che è il
luogo dove si preparano i medicamenti, nell’età contemporanea ci racconta quante
sostanze sono presenti nel mondo che servono per aiutare gli effetti della depressione o
per eccitarsi. È un modo per indurre a una riflessione su come è diventato il nostro mondo
dal punto di vista della dimensione psichica, in una società che finge di essere positiva ma
che ha bisogno di queste cose per sopravvivere.

Artista sud americano, lavora sempre nell’arte ambientale che interviene in modo
provocatorio negli spazi del pubblico. Una delle sue installazioni più note è dei primi anni
2000 ma riproposta in diversi ambienti nel mondo, è un’installazione che utilizza cavi di
acciaio che diventano come una grande ragnatela, ancorata alle colonne, in cui sono
inglobate delle sfere di plastica bianca. La tensione di questo gigantesco nido di ragno è
tenuta in equilibrio da delle sfere ancorate al suolo piene di liquido. Si può salire all’interno
ed essere come in questa grande ragnatela sospesa.

Altra sua installazione, Tessuto di nylon, una struttura di metallo tiene aperta questa sacca
sospesa e tenuta da un anello nella parte superiore, a cui ha appeso altre sacche di nylon
riempite di spezie di varia natura. Il peso di tutti questi sacchi allunga l’insieme di questo
oggetto, che sembra un fiore o un frutto. Cosa producono? Ci rendono piccolissimi davanti
a una cosa che non ci aspettiamo, ci riporta in una situazione ambigua e di tensione
emotiva. Qui succede che la percezione dello spazio è accompagnata non solo dalla vista,
vedendo questi elementi sospesi, ma pensiamo all’odore di queste spezie che avvolgevano
il pubblico. Il concetto è cambiare e sollecitare le percezioni del pubblico.

Vediamo una stampa fotografica di grandi dimensioni, è una foto digitale con colori
brillanti. Autore Andrea Gursky, opera del 1999, il titolo è “99 centesimi”. Rappresenta in
una fase post pop art un’immagine oggettiva di un gigantesco supermercato dove tutto
quello che vediamo è in vendita a 99 centesimi. Molti sono sottoprodotti, alimentari di
qualità scarsa, ma nello stesso tempo è l’esemplificazione della quantità industriale dei
prodotti e del fatto che i discount sono i supermercati più frequentati. L’immagine è un
racconto sociale, rappresenta la quantità dell’offerta che il mercato globale permette.

Esiste almeno da una trentina di anni uno sviluppo esponenziale di mondi artistici nuovi e
diversi, es. arte cinese ed indiana, tutto lo sviluppo dell’arte asiatica. Queste propongono
elementi nuovi, nel mondo globalizzato i nuclei o le comunità artistiche si sono
moltiplicate, esattamente come le manifestazioni di arte. La Biennale che era sempre e
solo stata di Venezia è diventato un format, abbiamo quella del Cairo e quella di Shangai
ecc. Questo comporta un ingresso nel mercato dell’arte di artisti lontanissimi dalla nostra
cultura. In più molte di queste opere vengono riprodotte sul web, tutto diventa
raggiungibile. L’arte ambientale non riesce molto a farlo, non può essere mediato.

Installazione di Cheng Zen, uno dei più famosi della generazione degli anni ’90 in poi. 1991,
propone in una galleria a Pechino “Un mondo fuori dal mondo”. Si vede una stanza in cui
colloca una serie di oggetti presi dalla realtà quotidiana (un divano, una scala, una moto,
vestiti,…), tutti elementi collocati nella stanza ma sono ricoperti o imbevuti di terra rossa,
come anche il pavimento. È l’argilla della parte del fiume Giallo, è come se noi vedessimo
un mondo come Pompei, come se avesse ricostruito una visione di una vita fermata
ricoperta dai lapilli di un vulcano o dalla ricaduta delle polveri di una bomba atomica.

Si riprende un’opera famosa, la Zattera, che viene riallestita da artisti contemporanei


cinesi. Qui l’installazione è stata ricostruita in studio utilizzando fotomontaggi, su uno
sfondo pittorico ripreso dalla zattera vediamo degli attori in posizione per riprendere le
posture, creando un effetto cinematografico new pop.

Una voce importante del contemporaneo è ancora legata al tema della performance e
all’uso del corpo come strumento di comunicazione. La performance è l’opera d’arte, inizia
e si conclude e poi ci restano le testimonianze. Vediamo un’opera del passato evocata,
“Ophelia” del 1849, confrontata con l’opera di un artista che si trasforma in una
contemporanea Ophelia in un ruscello, è legata alla denuncia delle violenze nei confronti
delle donne in Colombia, il suo paese originario.
Sempre nell’arco delle citazioni abbiamo Jean Fabre che nel 2010 ha realizzato opere che
riproducono opere d’arte famose, che naturalmente danno dei risultati completamente
diversi. A sinistra vediamo una riproduzione del ratto delle sabine di Giambologna. Cosa fa
l’artista? Espone questa grande scultura realizzata in cera, in modo che nel corso della
biennale, per il colore delle lampade, l’opera di sciolga. È la distruzione dell’immagine, è
come dire che l’arte imitativa del passato non esiste più.

Altra esposizione del 2018 in una chiesa Veneziana, presenta una riproduzione in marmo
(come se fosse esattamente la riproduzione esatta) della Pietà di Michelangelo ma con
delle modifiche, la Madonna è un teschio è la morte, Gesù è un giovane uomo con la
cravatta e abiti contemporanei il cui corpo è ricoperto di insetti, chiocciole, lumache,
farfalle, come se fosse un corpo abbandonato, tiene in mano un cervello. È un’icona
dell’arte rinascimentale nel mondo che viene trasformata in un’allegoria della morte, dove
Cristo non ha valore religioso ma semplicemente evoca la morte dell’arte contemporanea.

Sul tema della morte torna anche Danien Hirst, opera del 2001, come anche Banksy.
Danien presenta nella sua galleria a Londra un teschio vero di un uomo adulto morto nel
1700 che riveste completamente di diamanti. Si chiama “Skull” ed è la bellezza della morte,
quello che noi consideriamo pauroso della nostra mortalità diventa un gioiello, una
reliquia. Per realizzarlo ha avuto il finanziamento di due ditte che commerciano diamanti.

Vediamo Cristo Crocifisso dove manca la croce, il corpo si scioglie come cera e in realtà
regge dei pacchi regalo, è volutamente sarcastica ed è di Banksy, la drammatica morte non
importa più, ciò che conta è la ricchezza e la moda.

Sul tema della mercificazione il duo Elgrin e Suckset, artisti di origine nordica (svedese e
danese) lavorano su questa idea di installazioni ambientali in cui inseriscono anche
elementi presi dalla realtà. Allestiscono “Mosè contemporaneo”, rifacendosi alla leggenda
biblica del bambino che viene salvato tra tutti i piccoli ebrei perché la madre lo affida alla
corrente del fiume Nilo, viene ritrovato dalla figlia di un Faraone e diventa principe
d’Egitto. Qui vediamo un bebè in silicone dentro una culla, abbandonato non più alle suore
(luogo di assistenze) ma sotto un bancomat aperto 24/7, le persone sono così indifferenti
che lo troverebbero solo davanti a un bancomat per prendere i soldi.

C’è un mondo di produzione artistica legata al mondo femminile, Mona Atum (?) ha
proposto in una Biennale una serie di installazioni, in particolare questa che è
apparentemente un paravento alto circa 2 metri, “Grattugia paravento”. Ha preso un tipo
di grattugia, l’ha realizzata in formato monumentale e l’ha trasformata in paravento.
L’operazione indica un oggetto domestico legato alla cucina e al mondo femminile, lei è
palestinese. Il paravento è anche l’oggetto che fino al ‘900 nascondeva l’intimità
femminile, è anche uno strumento che ferisce e taglia. L’installazione è una denuncia dello
stato femminile nel mondo islamico.

Vediamo una serie di fotogrammi di un’attività performativa in cui l’artista di origine turca
ha allestito fuori dall’edificio con dei cavi di nylon un’infinità di sedie di varia forma, legate
alle cucine e alle case del popolare, erano del numero delle donne uccide in un anno in
Turchia.

Jose Galindo in Colombia realizza questa sua performance legata alla violenza sulle donne,
è lei vestita di nero che si è tagliata le piante dei piedi, camminando e lasciando le
impronte sul selciato.

Lo fa anche un’altra artista, Bicroft, origine americana. È una fotografa, vediamo


un’istallazione che ha fotografato a Venezia: ci sono una serie di modelle tutte dipinte di
nero, sono state disposte dall’artista su un grande lenzuolo bianco appoggiato sul
pavimento della loggia del Canal Grande, andando a coprire le macchie del sangue del
pesce che lì si vendeva. Hanno poi buttato vernice rossa sul lenzuolo bianco. Faceva
riferimento a un massacro di donne in africa, i loro corpi sono abbandonati col “sangue”
che cola.

Installazione legata alla guerra Israele-Palestina, vediamo una tenda da campo dei medici
dove curano le persone dei luoghi di guerra, tutte le scritte sopra sono l’elenco dei villaggi
palestinesi distrutti per la conquista da parte di Israele dei territori per i loro coloni.

“Viaggio per un matrimonio”, sembra un evento piacevole ma racconta una realtà diversa.
Vediamo un intero villaggio che fugge dalle guerre nel Burchina Faso portando via le poche
cose che hanno, le biciclette, le sedie, dei tappeti, fuggendo su un unico camion.

È drammatico anche Banksy, riprende una foto degli anni ’60 in cui c’è una bambina
vietnamita che camminava nuda lungo una strada dopo un bombardamento ed era tutta
bruciata. Riprende questa icona dei disastri della guerra e la trasforma in qualcosa di
atroce, la prendono per mano i personaggi del divertimento, Topolino e il pagliaccio di Mc
Donald, rappresentano l’America che ha prodotto questo orrore.

Gioca anche con i diritti civili, in un vicolo di Liverpool rappresenta due police man che si
baciano, quelli che picchiavano la comunità gay.

Su questi temi abbiamo un nostro neo-pop artista, Maurizio Cattelan, nei primi anni 2000
realizza installazioni con oggetti del quotidiano, ma sono modellini e non oggetti veri, sono
piccolissimi. Vediamo una cucina con i piatti sporchi, dove vive lo scoiattolo: “Bidibi bobidi
bu”, ritornello disneiano che in realtà è diventato il leiv motiv dello scoiattolo che si è
suicidato.
Una delle strade aperte nel contemporaneo è il ribaltamento die ruoli.

Spazio per la biennale del 2016, dove a disposizione del pubblico era stata messa della
plastilina, dei gessetti ecc., l’invito era che il pubblico potesse liberamente esprimersi con
questi materiali, le pareti erano a disposizione dei visitatori. Dopo qualche settimana, i
muori erano pieni delle testimonianze creative delle persone che erano passate per quella
stanza. Significava dire che chiunque ha il diritto di esprimersi, ogni persona potrebbe
essere una artista, l’arte è lo strumento che noi abbiamo per comunicare e per mettersi in
relazione con il resto del mondo.

Nello stesso anno, in una galleria a Bologna questo artista italiano ha collocato uno
striscione tenuto da dei ganci su uno spazio bianco, in cui il pubblico arriva e legge “Ciò che
stai pensando leggendomi, questa è arte”. È un ribaltamento, è lo spettatore il
protagonista, il suo essere e il suo pensiero. si può parlare di disordine dell’arte
contemporanea, ma è proprio dal disordine e dal caos che nasce il mondo nuovo.

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