Possiamo considerare il 1879 come data di nascita della Psicologia Scientifica quando Wilhelm Wundt fondò a Lipsia un laboratorio di psicologia sperimentale ma non esiste una data per la nascita della psicologia dello sviluppo. Se Wundt e i suoi allievi non erano interessati allo studio di come si sviluppa la mente un gruppo di americani si interessò di come la mente si adatta all’ambiente formando il gruppo dei funzionalisti i cui più importanti tra loro sono William James e Granville Stanley Hall, con un grande contributo dato da Charles Darwin ricordato per la teoria della selezione naturale secondo cui gli organismi con le caratteristiche più forti sopravvivono, procreano e i nuovi nati possiedono le caratteristiche del passaggio da una generazione all’altra: si pensi alle giraffe che vivevano in luoghi dove il cibo per loro era posto in alto; man mano, le giraffe si sono adattate fin quando il loro collo non si è allungato. Con Darwin l’attenzione è focalizzata sul rapporto tra individuo e ambiente, sugli effetti che l’ambiente può avere sullo sviluppo sia dell’uomo considerando il livello attuale quindi riferendoci all’individuo con lo sviluppo ontogenetico e della specie, quindi del prodotto di uno sviluppo con lo sviluppo filogenetico. Collegato a Darwin per legami di sangue, era infatti suo cugino, troviamo Francis Galton, che nella sua opera “Il genio ereditario” studiò l’influenza sullo sviluppo psicologico dei fattori ambientali e di quelli ereditari analizzando le biografie dei personaggi illustri e delle loro famiglie concludendone che la genialità è dovuta soprattutto a fattori ereditari e si devono a lui gli studi sui gemelli e l’applicazione di strumenti statistici come la curva normale o il coefficiente di correlazione alle ricerche. Per quanto riguarda invece William James fondò un laboratorio di psicologia ad Harvard apprezzando il metodo sperimentale ma inserendo alla psicologia lo studio della persona in quanto organismo che si adatta all’ambiente sottolineando l’importanza del metodo comparativo confrontando i processi psichici dell’adulto con quelli dei bambini, degli animali, degli uomini primitivi e dei malati mentali. Granville Stanley Hall invece utilizzò il metodo dei questionari compilati dagli adulti e pose le basi per le varie ricerche di psicologia dello sviluppo. Attualmente vari approcci concorrono nello studio della psicologia. Primo fra questi è il comportamentismo a cui possiamo far risalire l’inizio nel 1913 quando John Watson scrisse “La psicologia dal punto di vista comportamentale” sostenendo che la psicologia deve avere come unico oggetto di studio il comportamento e che ogni apprendimento è frutto di processi di condizionamento e che la psicologia come scienza deve utilizzare descrizioni obiettivi in termini di stimolo-risposta. Alla base di queste idee vi è anche la convinzione che il comportamento umano sia ampiamente condizionato dall’ambiente. Vi sono due tipi di condizionamento: il condizionamento classico il cui padre è Ivan Pavlov che con gli studi sui cani evidenziò che era possibile condizionarli a emettere la risposta della salivazione non solo alla vista dello stimolo del cibo ma anche dopo uno stimolo nuovo come la campanella presentando prima il cibo e poi il suono fino ad arrivare a presentare solo il suono creando un riflesso condizionato. Il secondo detto condizionamento operante è stato ideato da Skinner con l’esperimento dei topi nella gabbia che imparano a premere la leva per far scendere il cibo: è detto operante in quanto i topi agiscono e modificano l’ambiente per raggiungere un certo risultato. I comportamentisti hanno interesse per il comportamento osservabile dall’esterno e per l’utilizzo esclusivo del metodo sperimentale. Tuttavia, questo approccio venne messo in dubbio e criticato in quanto aveva dei forti limiti e, grazie agli studi di Albert Bandura, nasce la teoria dell’apprendimento sociale che afferma che il comportamento e l’ambiente siano in relazione fra loro attraverso il sistema cognitivo della persona ed è il ponte tra il comportamentismo e il cognitivismo. Accanto ai condizionamenti pose l’apprendimento imitativo basato sull’osservazione del comportamento di altri: il soggetto è attivo e dopo aver osservato un comportamento ne astrae una regola generale con una grande importanza data al rinforzo vicariante ovvero l’osservazione del rinforzo dato in seguito ad un determinato comportamento ne fa ricavare la convinzione che quel comportamento sia socialmente desiderabile. A questo si aggiunge il concetto di autoefficacia che riguarda la convinzione dell’individuo di raggiungere un certo livello di prestazione inserendosi in una teoria più ampia detta socio cognitiva perché il più grande limite del comportamentismo risiede nella considerazione esclusiva dell’approccio sperimentale. Per quanto riguarda la teoria della Gestalt, tradotto con il termine forma dal tedesco nasce da Max Wertheimer che vuole individuare le leggi di organizzazione dell’esperienza. Per lui la mente non è una tabula rasa ma struttura la realtà conosciuta secondo certe sue tipiche leggi: “il tutto è più della somma delle parti” secondo cui il tutto non è la somma delle proprietà delle sue parti e le singole parti assumono significati diversi in base al contesto. A lui si uniscono Wolfgang Kohler, Kurt Lewin e Heinz Werner e furono tutti loro ad influenzare Piaget che diventò il coordinatore delle ricerche nel centro J.J.Rousseau a Ginevra studiando lo sviluppo intellettuale del bambino come questo passa dai riflessi all’adattamento dell’ambiente con azioni più complesse, coordinate e intenzionali e dai 18 mesi con il pensiero simbolico. Negli anni 50 si concentrò sull’epistemologia genetica cioè a problemi generali relativi allo sviluppo della conoscenza. Suo oggetto di studio fu lo sviluppo qualitativo delle strutture dell’intelligenza sviluppando empiricamente una teoria dello sviluppo della conoscenza. Per lui, l’intelligenza rappresenta il più alto grado di adattamento mentale in cui sono presenti principi di assimilazione quando l’organismo elabora gli stimoli proveniente dall’esterno senza modificare se stesso e accomodamento quando avviene una modificazione nell’organismo. Ogni adattamento richiede organizzazione e conoscere significa agire sulla realtà grazie a continui adattamenti organizzati. Nei primi 18 mesi la conoscenza avviene con azioni dirette su base percettiva e motoria per poi trasformarle in azioni interiorizzate: nascono gli schemi (quando ci riferiamo ad azioni interiorizzate) e struttura (per le organizzazioni più evolute dell’intelligenza). Individua 4 fasi dello sviluppo dell’intelligenza: intelligenza sensomotoria (da 10 a 18 mesi), pensiero simbolico (da 19 mesi a 6-7 anni) pensiero operatorio concreto (da 6-7 anni a 10-11 anni) pensiero operatorio formale (dagli 11 ai 14 anni). Alcune critiche rivolte sono state la carenza nella progettazione e analisi dei dati, difficoltà di interpretazione degli scritti, sottovalutazione delle capacità del neonato. Si passa poi all’approccio psicometrico di cui Galton è un precursore con la curva normale e il concetto di correlazione: vi appartengono i test d’intelligenza che nascono nel 1900 per opera di Binet e Simon e del governo francese per individuare gli allievi con carenze e supportarli; ancora usati sono quelli costruiti da Terman Merrill e Wechsler. Con l’analisi fattoriale si studiano le correlazioni esistenti fra i vari tipi di compiti per capire se l’intelligenza sia basata su un fattore generale accanto a fattori specifici o se è più giusto considerarla l’insieme di abilità specifiche distinte. Spearman creatore dell’analisi fattoriale individuò un fattore di base che chiamò “fattore g” mentre per Cattell, Vernon, Thurstone e Guilford sono molteplici abilità fra loro indipendenti. Così, Stenberg fece una sintesi affermano che le teorie con un numero ridotto di fattori, come quella di Spearman sono rilevanti per i bambini piccoli; quelle con un grande numero di fattori come quella di Thurstone e Guilford sono rilevanti per bambini grandi e adulti. Si staglia poi la Psicologia Russa rapportando psicologia e marxismo il cui più creativo membro fu sicuramente Lev Vygotskij (bambino prima sociale poi individuale VS Piaget bambino prima individuale e poi sociale) secondo cui i processi psichici superiori sono attività complesse prodotte non sono da processi naturali e biologici ma anche rapporti culturali dell’individuo e che le funzioni psichiche inizialmente naturali diventano superiori con l’utilizzo di strumenti materiali e culturali ovvero i rapporti sociali. Tutti i processi psichici non si esauriscono in risposte a stimoli provenienti dall’esterno ma utilizzano strumenti di mediazioni che portano ad uno sviluppo storico- culturale. Il linguaggio ha grande importanza poiché regola il comportamento e il pensiero: prima il comportamento del bambino è guidato dal linguaggio dell’adulto che gli dice cosa fare, poi il bambino si dice da solo a voce alta cosa fare, parla nella mente per regolare il proprio comportamento e struttura il proprio modo di pensare. Fondamentale è la zona di sviluppo prossimale ovvero il livello di apprendimento che l’individuo può raggiungere se correttamente aiutato e sostenuto da qualcuno di più esperto. Seguono le teorie etologiche con Lorenz e Tinbergen valorizzando la nicchia ecologica ovvero il luogo in cui la specie vive e le condizioni ambientali che ne permettono la sopravvivenza. Si pone l’enfasi sui comportamenti specie-specifici con il contributo biologico innato del comportamento presenti in tutti i membri della specie e si cerca di capire come questi si adattino all’ambiente; vi sono dei periodi critici in cui un certo apprendimento dovrebbe avvenire come l’imprinting delle oche che seguono la prima cosa che vedono quando nascono e usano l’osservazione naturalistica. Grandemente influenzato fu John Bowlby con gli studi sull’attaccamento alla figura materna. Non ha un anno di nascita la Psicologia cognitiva ed è un insieme di approcci e posizioni teoriche. Rafforzandosi le critiche al comportamentismo questo venne sempre più rifiutato e famoso è Chomsky che contestando Skinner affermava che il linguaggio non potesse essere solo un’associazione condizionata e specifica. All’inizio i cognitivisti consideravano il sistema umano come un sistema che elabora informazioni provenienti dall’esterno con la teoria dell’elaborazione dell’informazione (Human Information Processing) a cui si affianca la metafora del computer che trasforma gli input in output. Possiamo poi definire la memoria come l’insieme delle abilità che permettono a un individuo di immagazzinare, mantenere nel tempo e rievocare informazioni ed esperienze con 3 processi: codifica quando lo stimolo viene acquisito e tradotto in una rappresentazione interna stabile, immagazzinamento quando le rappresentazioni vengono collocate in modo da essere ritenute e recuperate per un determinato periodo di tempo e recupero informazioni per accedere alle informazioni immagazzinate. Possono esserci carenze in ciascuno dei livelli di elaborazione. Il processo mnestico si configura come una costruzione, ricostruzione e connessione di rappresentazioni piuttosto che come un semplice immagazzinamento di dati in uno spazio mentale statico e vi sono vari sistemi di memoria: la memoria a breve termine con limitata capacità temporale di ritenzione delle informazioni che può aumentare con alcune strategie per mantenere più a lungo la permanenza; il concetto di memoria di lavoro tiene insieme sia l’attività dei magazzini di memoria a breve termine che le manipolazioni del materiale in essi contenuto; la memoria a lungo termine ricorda una quantità più ampia di informazioni per un periodo illimitato di tempo e questa si divide in memoria esplicita quando parliamo di memoria consapevole di fatti ed esperienze, processi coscienti e prevede la rievocazione con il linguaggio suddivisa da Tulving in semantica una conoscenza semi-permanente che riguarda il modo, non sappiamo quando abbiamo appreso quella cosa ma semplicemente la sappiamo e episodica riguardo i ricordi specifici. Quest’ultima è divisa in autobiografica quando i ricordi riguardano la vita dell’individuo e le esperienze in prima persona e memoria di eventi quando ricordiamo qualcosa che non abbiamo vissuto direttamente ma che ci hanno raccontato che sappiamo collocare in termini spazio- temporali. Abbiamo poi la memoria implicita che è una ricostruzione consapevole di capacità e procedimenti routinari, aspetti procedurali inconsci. Uno dei concetti fondamentali è sicuramente quello della memoria di lavoro il cui modello più importante è stato costruito da Baddeley e Hitch secondo cui è suddivisa in 4 componenti: il loop fonologico e il taccuino visuo-spaziale sono due magazzini a breve termine che manipolano quantità limitate di informazioni a carattere fonologico- verbale e visivo spaziale; l’esecutivo centrale controlla e coordina le altre due componenti e il buffer episodico combina il materiale che proviene dai due magazzini periferici traducendolo in un unico codice con l’aiuto delle informazioni della memoria a lungo termine. Molto importante sono gli studi sul problem solving chiamato pensiero produttivo che crea nuove soluzioni mai sperimentate prima e si impiega nella risoluzione di compiti (come i problemi presentati a scuola) differente dal pensiero riproduttivo che procede in modo lineare, ristrutturando i dati. Bruner riteneva che l’intelligenza è caratterizzato dal fatto che con lo sviluppo cambiano i sistemi di codifica della informazioni attribuendo notevole importanza all’influenza della cultura sullo sviluppo mentale riferendosi a Vygotskij: fondamentale è il suo pensiero narrativo. Flavell coniò il termine metamemoria per riferirsi alle riflessioni dell’individuo sui processi di memoria passando poi alla metacognizione il cui oggetto di studio è come il pensiero controlla sé stesso e cosa il pensiero sa di sé stesso: si dice che i soggetti più competenti in metacognizione sono avvantaggiati nei compiti cognitivi. L’intelligenza è sempre stata oggetto di studi e per Sternberg l’intelligenza usa tre tipi di processi: pianifica e controlla, attua l’esecuzione, permette l’acquisizione. Ha inoltre tre aspetti: analitico, creativo e pratico i cui primi due sono indipendenti e sottolinea che vi sono molti stili di pensiero chi parte dalle piccole cose per poi arrivare alle più importanti e chi invece parte al contrario. Famoso è Gardner con la sua teoria delle intelligenze multiple secondo cui all’inizio ve ne erano 7: linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corporea-cinestetica pensando a certi atleti, personale e interpersonale pensando all’essere autonomi e alla gestione delle proprie emozioni e dei rapporti con gli altri; più tardi aggiunse un ottava intelligenza di tipo naturalistico. Bowlby sostenne invece che la socializzazione è una motivazione primaria fondata su basi biologiche e il bisogno di socializzazione farebbe parte della natura umana. L’approccio interattivo-cognitivista per Schaffer considera il comportamento sociale in termini diadici, postula un certo grado di predisposizione sociale innata e misura aspetti temporali e situazioni interattive. Grande successo ebbe la teoria ecologica a matrioska di Urie Bronfenbrenner: si parte dal microsistema i contesti in cui il bambino partecipa in prima persona e interagisce con persone significative ed è la struttura di base dell’ambiente ecologico; segue il mesosistema che è l’interazione di due microsistemi ovvero la famiglia e la scuola, ad esempio, che entrano in relazione anche senza il bambino; segue l’esosistema un ambiente in cui il bambino non partecipa direttamente ma influenza un microsistema del bambino come ad esempio le riunioni insegnanti genitori a scuola in cui il bambino non partecipa ma vengono prese decisioni sul bambino stesso oppure le variazioni degli orari di lavoro dei genitori che provocano stress e variazione nella routine del bambino; infine, il macrosistema è l’insieme delle strutture che influenzano i diversi sistemi ecologici con leggi, credenze, norme, aspettative sociali che possono influenzare più o meno direttamente il bambino come ad esempio il ruolo genitoriale in una particolare cultura. Per Fodor la mente ha un funzionamento modulare in cui ogni modulo ha proprie funzioni e proprie modalità di funzionamento, ogni modulo tratta i dati in modo diverso ed è una posizione innatista poiché non derivano dall’esperienza. Si affianca Karmiloff-Smith che concilia innatismo e costruttivismo con la sua teoria della modularizzazione e ritiene che l’esperienza favorisca una canalizzazione delle predisposizioni innate: ritiene che i moduli siano meno rigidi e isolati e con lo sviluppo definiscono ulteriormente le caratteristiche. Cosa differenzia i due? Karmiloff-Smith ritiene che la mente sia meno rigida di quanto Fodor pensasse e la specializzazione è un punto di partenza, inoltre il cervello è molto più plastico, lo sviluppo è condizionato dall’attività del soggetto. Tomasello ridimensiona le componenti innate non negandone l’esistenza con l’apprendimento culturale ritenendo che a 9-12 mesi il bambino comprendono come le persone sono e che sono esseri intenzionali proprio come loro, identificandosi negli altri esseri umani mettendosi nei loro panni. Infine, la neuropsicologia studia i rapporti tra mente e cervello Broca e Wernicke hanno evidenziato i collegamenti tra alcuni disturbi linguistici e specifiche zone dell’emisfero cerebrale sinistro. Rizzolatti e Pizzamiglio pensano che la neuropsicologia nasca quando la psicologia comportamentista viene abbandonata preferendo quella cognitiva. Per le funzioni cognitive parliamo di operazioni mentali non elementari, una delle nozioni più accettate di atto di intelligenza: uso intenzionale di mezzi per risolvere problemi nuovi, consapevoli dell’obiettivo. Queste funzioni: individuano il problema e l’obiettivo da raggiungere, pianificano, controllano, modificano uno o più comportamenti. Nel monitoraggio troviamo anche i processi inibitori che escludono e controllano azioni con una forte connessione tra funzioni esecutive e funzionamento dei lobi frontali del cervello. Sono una famiglia di funzioni accumunati ma anche distinte da qualcosa. Capitolo 2: I metodi di ricerca in psicologia La psicologia dello sviluppo studia i cambiamenti che avvengono in funzione dell’età e ciò è possibile con due disegni di ricerca: i disegni longitudinali e trasversali. Quando parliamo di disegni longitudinali lo stesso gruppo di bambini o di adolescenti viene studiato per un periodo più o meno lungo attraverso osservazioni ripetute nel tempo. Alcuni studi possono essere condotti per tempi brevi come un anno e altri possono durare anche 10 anni. Per esempio, si potrebbe analizzare in breve tempo come cambiano le relazioni di amicizia nel passaggio tra la scuola primaria e quella secondaria di primo grado; uno studio più lungo invece potrebbe studiare come si sviluppano le abilità di calcolo a 6,7,8,9 anni di uno stesso gruppo di bambini. Come pregio ha che ci consente di analizzare una variabile e il suo cambiamento nel tempo ma tuttavia, è lungo, dispendioso e alcuni partecipanti potrebbero voler ritirarsi, non essere più d’accordo, abbandonare perché si trasferiscono e i sostituti potrebbero avere caratteristiche differenti e i risultati essere sfasati. Quando parliamo di disegni trasversali invece possiamo confrontare bambini di età differenti nello stesso momento, si studiano variabili in poco tempo; è senz’altro più rapida come realizzazione, più facile da replicare. Purtroppo, però, confrontando gruppi differenti una sola volta non ci rende conto dell’evoluzione che questi hanno nel tempo. Quando un ricercatore vuole iniziare una ricerca parte da una sua ipotesi ovvero ciò che si aspetta che si presenti dato un fenomeno sulla base di quello che già sa costruendo una situazione sperimentale, un laboratorio quindi, che gli permetta di verificare le ipotesi. Entrano in gioco delle variabili: la variabile indipendente è quella che viene modificata per vedere che effetto hanno su una o più variabili dipendenti. Per essere certi del risultato, vengono costituiti due gruppi uno sperimentale, sottoposto alla manipolazione della variabile indipendente e il gruppo di controllo no. Se vi sono cambiamenti della variabile dipendente solo nel gruppo sperimentale ma non in quello di controllo l’ipotesi è confermata, se invece, le modifiche sono in entrambi i gruppi i cambiamenti non avvengono per la variabile indipendente. Sicuramente, ci consentono di stabilire rapporti di causa-effetto tra le variabili ma il fatto che siano create appositamente in laboratorio con un ambiente artificiale potrebbe condizionare i partecipanti. Ci sono casi in cui non è possibile manipolare la variabile indipendente: se confrontiamo un gruppo di bambini con la sindrome di down (la variabile indipendente è avere o no la sindrome di down e quella dipendente sono i risultati delle prestazioni in un test d’intelligenza). Questo è quello che viene chiamato quasi esperimento poiché non è possibile avere condizioni uguali e l’esperimento puro non è così frequente come si potrebbe pensare. Oltretutto, nelle situazioni sperimentali si cerca di trovare dei rapporti causa-effetto tra la variabile indipendente e la variabile dipendente. Quando queste due non possono essere manipolate ma si è interessati a sapere se ai cambiamenti di una variabile corrispondono cambiamenti dell’altra variabile come, ad esempio, quali rapporti vi sono tra lo stile autoritario dei genitori e lo sviluppo morale dei figli, parliamo di ricerche correlazionali usando il coefficiente di correlazione per vedere se vi è o no qualche rapporto senza informarci sui rapporti di causa-effetto. Ad esempio: vi è correlazione tra l’intelligenza di una persona e le sue prestazioni in matematica? Prendendo 50 studenti di 11 anni si propone un test d’intelligenza e un compito di matematica: la correlazione è di 50, c’è una correlazione positiva e il margine di errore è inferiore al 5%. Un altro metodo è l’osservazione che ci consente di raccogliere il massimo di informazioni su un dato fenomeno osservando solamente i comportamenti spontanei senza determinare relazioni di causa-effetto tra le variabili come negli esperimenti. Vi sono due tipi di osservazione: l’osservazione naturalistica in cui non si influenza il comportamento del soggetto, usata dagli etologi e usata per osservare comportamenti di singoli bambini dando luogo a veri e propri diari, numerosi quelli sul linguaggio. L’osservatore dissimula la sua presenza per osservare i comportamenti spontanei ma serve molto tempo ed è molto dispendioso e non è detto che nelle sessioni di osservazioni i comportamenti ricercati si manifestino. Quando parliamo di osservazione controllata (o partecipata) lo sperimentatore partecipa attivamente, non manipolando le variabili ma provocando i comportamenti oggetto di osservazione, è spesso condotta in laboratorio ma anche in ambienti naturali e i suoi interventi possono influenzare la situazione di indagine e stimolare i comportamenti per poi vedere la reazione. Spesso però l’osservazione non è naturale, non sappiamo quanto i partecipanti si comporterebbero allo stesso modo anche in una situazione naturale e perciò potremmo non avere comportamenti spontanei, inoltre potrebbero non rappresentare l’intera popolazione. Ovviamente tutto deve essere guidato da un ipotesi: solo se sappiamo cosa guardare riusciremo a vederlo. Altro metodo frequentemente usato sono le indagini e i questionari che raccolgono pensieri su un determinato argomento, è scritto e quindi non c’è bisogno di un somministratore. Per somministrarlo è necessario che il bambino abbia dei requisiti: necessitano comprensione linguistica e produzione, abilitò di lettura e scrittura e le domande devono essere coerenti con il livello cognitivo del bambino. Il rischio è che i bambini fraintendano e falsino i risultati o con i più grandi potrebbero dare risposte socialmente accettabili. Le modalità di risposta possono essere molteplici e le risposte libere si utilizzano quando gli argomenti sono particolarmente complessi. Non è facile condurre un intervista, serve un rapporto di fiducia e quando l’intervista è rivolta a pochi individui si può avere la storia di vita. Tornando indietro nel tempo, quando Piaget iniziò la sua attività la maggior parte delle ricerche erano di osservazione longitudinale (diari) o con questionari. Il questionario proposto sotto forma di intervista ai bambini era una vera e propria metodologia innovativa chiamata colloquio clinico detto piagetiano che lui chiama metodo dei reattivi in cui sottoponeva i fanciulli a domande identiche poste sempre nelle stesse condizioni e le risposte sono sempre riportate su una tabella. Tuttavia, gli inconvenienti sono che essendo le condizioni sempre uguali i risultati sono grezzi e insufficienti, si rischia di falsare la risposta del fanciullo, di suggerire la risposta. Questo metodo si caratterizza per la sua flessibilità poiché si parte dalle domande spontanee del bambino per ricavare i temi per iniziare a condurre il colloquio prendendo spunto dalle affermazioni del bambino per condurlo verso alcuni argomenti fondamentali lasciando il più possibile che il bambino parli liberamente. 5 sono le risposte individuate da Piaget: la risposta purchessia quando la domanda annoia il fanciullo e risponde a caso; la fabulazione quando risponde alla domanda inventando una storia; la credenza suggerita quando cerca di accontentare l’esaminatore con le proprie risposte; la credenza provocata quando il fanciullo deve riflettere per rispondere e infine la credenza spontanea quando non deve riflettere per rispondere. I primi tre sono da scartare con una difficile individuazione delle credenze suggerite, queste suggestioni possono essere per parola e quindi le domande devono porsi con il linguaggio infantile e per perseverazione con domande varie in modo che il bambino non dia sempre la stessa risposta. Come considerare quali sono vere credenze? Quando la risposta, nella stessa fascia d’età è uniforme e, man mano che si cresce, la credenza evolve non sparendo bruscamente ma combinandosi, resistendo alla suggestione e agendo su molte rappresentazioni. Più tardi Piaget modificò il colloquio clinico proponendo delle storie simili eccetto che per alcune caratteristiche. Raccontava di un bambino che, disobbedendo, rompeva un bicchiere e di un bambino che nell’obbedire ne rompeva quindici, poi chiedeva quali dei due dovesse essere punito e perché (i bambini sotto i 6-7 anni danno più importanza ai risultati delle azioni che alle intenzioni). Desiderando che la risposta sia critica, si forniscono materiali concreti e manipolandoli dallo sperimentatore il bambino risponde ad alcune domande pertinenti e a fornire spiegazioni oppure lo stesso bambino può manipolare i materiali. Il metodo critico e quello clinico hanno in comune il voler evitare la rigidità, uguale per tutti cercando di capire se il bambino ha compreso, se è motivato e interessato e quale ragionamento ha fatto. Le stesse cose fatte con una procedura rigida darebbero vita a esperimenti o quasi esperimenti ma la scuola piagetiana li evita perché pensa che falsino i risultati. La scelta del metodo dipende ovviamente dalla situazione, dal fenomeno che si vuole indagare, dai bambini e la loro età e così via. Capitolo 3: L’accrescimento somatico e sviluppo motorio Con l’unione dello spermatozoo del padre e l’ovulo della madre si ha il concepimento e l’individuo eredita i geni presenti in 23 coppie di cromosomi, ciascuna contenente un cromosoma della madre e uno del padre. Il periodo prenatale si articola in tre periodi: germinale, embrionale e fetale. Il periodo germinale è costituito dalle prime tre settimane in cui lo zigote si moltiplica fino a diventare un organismo che supera il centinaio di cellule ed entro il decimo giorno si impianta nella parete interna dell’utero per il nutrimento. Poi si passa al periodo embrionale che si forma dalla seconda all’ottava settimana in cui si formano gli organi, il cuore incomincia a pulsare e i tratti del viso sono formati. Infine, tra l’ottava e la nona settimana di gravidanza si ha il periodo fetale che dura fino alla nascita. Il feto muove gran parte del corpo, ha muscoli, tra il quarto e sesto mese si formano capelli e unghie e il peso cresce così come il cervello e le cellule cerebrali programmate si sviluppano costituendo una memoria primitiva. Al settimo mese in caso di nascita prematura il feto ha molte probabilità di sopravvivenza. In questo periodo compaiono i primi movimenti con schemi motori, si succhia il pollice e la maggior parte dei movimenti sono dati dallo stimolo interno del feto. Dalla nascita, il bambino deve adattarsi all’ambiente esterno: deve respirare da solo con la respirazione polmonare, nutrirsi autonomamente, regolare la propria temperatura. Dopo la nascita, con l’indice APGAR si valutano le condizioni di salute del neonato e con un punteggio pari a 7 è una buona condizione sotto il 4 invece, necessita aiuto e interventi. Dopo la nascita si parla di accrescimento somatico ovvero quelle modificazioni morfologiche fisico-chimiche che caratterizzano lo sviluppo dell’individuo. L’accrescimento della statura è notevole nel primo anno da 50 a 75cm e rallenta visto che a 4 anni si è alti 100 cm. Anche il peso cresce considerevolmente ma dal secondo anno di vita si cresce di 2-3kg all’anno. La circonferenza cranica ha una crescita superiore ai 10cm nel primo anno di vita e lentamente successivamente, così come quella toracica. Importante è considerare che dalla nascita il bambino è dotato di riflessi le sue reazioni istintive a particolari stimoli esterni. I principali sono: il riflesso di ricerca ovvero, quando si accarezza una guancia del neonato lui si gira nella sorgente dello stimolo e apre la bocca; il riflesso di suzione ovvero il succhiare ogni oggetto che gli si presenta; il riflesso di moro con cui, di fronte a un movimento improvviso e forte rumore arcua la schiena, distende le braccia e le gambe verso l’esterno e apre le mani per poi riportare gli arti vicino al corpo e stringe le dita a pugno; nel riflesso della marcia automatica invece si vede che il neonato se sostenuto correttamente inizia a muovere le gambe come se volesse camminare; quando mettiamo un oggetto o un dito sulla mano del neonato stimoliamo il riflesso di prensione poiché lui risponde stringendo forte l’oggetto ed è presente anche nei piedi; quando vi è una luce molto forte il neonato chiude forte gli occhi o li dilata e questo è il riflesso pupillare. Alcuni di questi riflessi scompaiono verso i 3-4 mesi poiché sostituiti da altri comportamenti volontari con la maturazione del cervello. La presenza dei riflessi indica una buona salute del bambino soprattutto dal punto di vista neurologico. Durante i primi tre anni di vita il bambino acquisisce notevoli capacità dal punto di vista posturale, alzandosi, imparando a camminare. Lo sviluppo motorio procede in direzione cefalocaudale dall’alto verso il basso perché prima il bambino apprende il controllo dei movimenti del capo e poi dell’asse corporeo, delle braccia, delle mani e delle gambe. Si procede anche in direzione prossimo-distale ovvero che il controllo dei movimenti delle parti più centrali degli arti precede quello delle parti più periferiche. Analizzando le conquiste dello sviluppo motorio nei primi due anni di vita si hanno due linee di sviluppo: una per raggiungere una modalità sempre più crescente nello spazio per avere uno spazio d’azione sempre più vasto per esplorare l’ambiente circostante; la seconda invece è la tendenza a raggiungere la stazione eretta per liberare le mani per poter afferrare o manipolare oggetti e in alcuni periodi, una linea può prevalere sull’altra. tuttavia, ogni bambino raggiunge con i suoi tempi e modalità lo sviluppo ed è anche possibile che una fase venga saltata. I bambini procedono poi con un processo di adattamento per selezionare le soluzioni più efficaci e arrivare, ripetendo la stessa azione ad affinare progressivamente le capacità. Le differenze individuali si accentuano quando emergono abilità nuove ma, man mano che le strategie per raggiungere obiettivi si affinano, tutti i bambini sono più o meno uguali. Lo sviluppo motorio comunque è guidato da molti fattori che interagiscono tra loro: primo, la maturazione del sistema nervoso e i comportamenti prima controllati dai riflessi passano progressivamente sotto il controllo di strutture corticali più evolute e in secondo luogo, i cambiamenti dal punto di vista fisico infatti solo quando le gambe sono adeguatamente sviluppate e la maturazione del sistema nervoso gli permette di controllare i muscoli delle gambe il bambino è pronto per imparare a camminare. Terzo, i fattori di tipo cognitivo integrando movimenti e obiettivi per controllare le sequenze di azioni; altri fattori sono di tipo motivazionale come quando un bambino si muove perché incuriosito da un oggetto e infine, lo sviluppo è legato ai sostegni di tipo fisico e psicologico come persone che lo incoraggiano e gli tengono la mano o sostegni a cui aggrapparsi. L’accrescimento somatico dai 3 ai 6 anni ha un ritmo costante con un aumento di 8cm a 3-4 anni e di 6cm a 5-6 anni mentre per il peso si parla di 2/3kg all’anno. In età prescolare il bambino compie abilità senza nessuno sforzo, camminano senza incertezze, corrono, saltellano e si cimentano in attività sempre nuove. Per quanto riguarda l’accrescimento somatico nell’età della scuola primaria ha un ritmo costante e tra gli 11-13 anni sarà altro 150cm. Nella fanciullezza le modifiche sono tali da favorire maggiore agilità senza molte differenze tra maschi e femmine se non che i maschi hanno una maggior forza nell’avambraccio e le femmine hanno una flessibilità generale maggiore; le femmine si sviluppano prima, sono più regolari e prevedibili senza scatti improvvisi e dopo la pubertà i maschi sono più forti e veloci, maggiori sono le capacità polmonari e del cuore, il peso corporeo aumenta e le femmine hanno un maggiore successo in compiti di equilibrio, movimenti ritmici mentre i maschi nella corsa. Quando si parla di disabilità motoria, la PCI ovvero paralisi cerebrale infantile, sono disturbi persistenti ma non progressivi con funzioni cerebrali alterate causata da un danno encefalico tra il quinto mese di gravidanza ai 2-3 anni. Le principali cause sono fattori genetici, malattie croniche materne, infezioni materne ecc distinguendosi in emiplegia ovvero il disturbo del controllo motorio del lato sinistro o destro; diplegia disturbo del controllo motorio di due arti o tetraplegia disturbo del controllo del tronco e del quattro arti. Capitolo 4: Lo sviluppo percettivo Noi conosciamo il mondo attraverso la sensazione ovvero quando gli stimoli esterni vengono a contatto con i nostri recettori sensoriali presenti e con la percezione un sistema di elaborazione più elevato e all’interpretazioni di ciò che viene sentito come quando decidiamo se un sapore è aspro o dolce. Lo sviluppo percettivo ha conoscenze che sono state acquisite tardivamente perché i neonati hanno un repertorio di comportamenti limitati, perché non parlando non possono fare compiti con somministrazioni verbali e ci si deve basare sulle risposte agli stimoli spontanei e i bambini, infine, hanno un’ampia variabilità neurocomportamentale passando dalla veglia, al sonno al pianto con tempi di attenzione molto brevi. Così gli studiosi hanno studiato particolari paradigmi sperimentali: il paradigma della preferenza visiva che consiste nella presentazione di due stimoli differenti guardando quale dei due il bambino osserva di più e per quanto tempo; se uno dei due lo osserva più a lungo significa che lo ha apprezzato di più. Questo paradigma è stato ideato da Fantz creando una camera di osservazione che permetteva al bambino sdraiato di osservare gli oggetti posti sopra di lui e lo sperimentatore poteva osservare l’immagine riflessa. Un altro è il paradigma dell’abituazione in cui presentando al neonato uno stimolo per tante volte ad un tratto il bambino riduce la risposta con un minore interesse ma, con un nuovo stimolo, lo percepisce diverso e torna ad osservare. Altra tecnica è quella del condizionamento sulla base del condizionamento operante con cui si insegna al bambino a rispondere ad uno stimolo, poi con uno nuovo, diverso dal precedente si valuta come il bambino risponde se condizionato, percependolo simile al precedente o se lo discrimina, differenziando la risposta. Bower insegnò a dei neonati ricompensandoli con una carezza a girare il capo ogni volta che mostrava la foto di un cubo di 28cm posto a 1 metro di distanza; avvenuto il condizionamento presentò loro sia un cubo da 28cm a 3 metri di distanza reagendo allo stimolo. Lo studio della percezione infantile ha dimostrato che il neonato, ma anche il feto già nella pancia della mamma ha notevoli abilità percettive. Per quanto riguarda la percezione visiva sappiamo che il bambino è sensibile alla luce già all’interno del grembo materno ed è in grado di reagire alla luce e al buio attraverso il riflesso pupillare controllando la quantità di luce che passa. Manifesta una ridotta acuità visiva, una minore percezione dei dettagli, minor messa a fuoco ed è privo del coordinamento binoculare: fatica a mettere a fuoco oggetti posti a diverse distanze e mette a fuoco solo gli oggetti posti a circa 25 cm da lui che corrisponde alla distanza del volto della mamma dal suo quando viene allattato. Può compiere però movimenti oculari per esplorare il campo visivo ma la sua attenzione è scarsa. I neonati preferiscono oggetti molto grandi, in movimenti, curvilinei anzi che acuminati, strutturati piuttosto che uniformi e complessi. Nei primi 3 mesi di vita il sistema visivo e nervoso migliorano con l’interazione con l’ambiente e maturano ed entro i 3 mesi possono mettere a fuoco oggetti fino a 150cm da loro; dagli esperimenti di Fantz ci dicono che distinguono una forma con strisce orizzontali da una con cerchi concentrici, e si sviluppa la convergenza binoculare. La percezione cromatica è precoce: discriminano il rosso dal verde e blu e a 4 mesi la percezione è simile a quella di un adulto; Haith ha dimostrato che i bambini già nella prima settimana di vita interrompono la suzione che si presenta loro una luce prima ferma e che poi si muove, modificano il ritmo di suzione perché incuriositi. Hanno una percezione della costanza della forma e della dimensione che consente di riconoscere che un oggetto è sempre lo stesso anche se non si trova alla stessa distanza. Per la percezione della distanza, Bruner, ha verificato che bambini di pochi mesi evitavano il contatto con un oggetto che si avvicinava loro. Famoso è l’esperimento del precipizio visivo di Gibson e Walk in cui bambini di 5-6 mesi venivano messi sopra una lastra di vetro molto spesso sotto il quale c’era una tappezzeria a quadri che ad un tratto finiva per creare un precipizio finto: i bambini non oltrepassavano il precipizio nemmeno se chiamati dalla madre confermando l’idea che il bambino percepisce la profondità. Il bambino ha una predisposizione per il volto umano come per la voce umana per favorire l’attaccamento: preferiscono il volto della mamma e il volto lo attrae per la simmetria, i contorni, la complessità. A due mesi si concentrano sui dettagli interni come la bocca. Per la conformazione anatomica dell’udito non vi sono molte differenze ma le dimensioni sono ridotte: durante gli ultimi due mesi di gravidanza il feto già è capace di udire i suoni De Casper e Fifer hanno dimostrato che i neonati che sentono la voce della mamma prima di nascere già la sanno distinguere dalle altre. Con un computer-registratore furono presentati due brani, uno letto dalla mamma e uno letto da un’altra donna; il succhiotto che succhiava era collegato ad un meccanismo per cui a seconda del ritmo di suzione potesse sentire la voce della madre o quella dell’altra persona e il neonato preferiva la voce della madre che viene trasmessa in gravidanza attraverso le ossa e i tessuti fino all’utero. Riconoscono il battito cardiaco della madre e De Casper e Sigafoos hanno evidenziato che i neonati tendono a succhiare per ascoltare il battito cardiaco della mamma: la vita intrauterina è molto sviluppata, così tanto da ricordare e riconoscere una storia che gli viene letta nel grembo. Quindi, nonostante abbia una sensibilità acustica inferiore all’adulto discrimina bene i suoni ed entro i 6 mesi migliora la capacità di percepirli soprattutto con quelli a bassa frequenza. Per quanto riguarda il gusto, preferiscono il dolce all’amaro e a 4 mesi il salato e per l’olfatto reagisce in maniera diversa a diversi odori reagendo ai brutti odori evitandoli, è sensibile all’odore del latte della mamma e lo distingue da quello di altre donne: due batufoli, uno bagnato con il latte della mamma e uno bagnato con quello di un’altra donna, loro volgono il capo a quello della mamma. Si parla di analisi percettiva quando la percezione del bambino è sempre più mediata dal suo sviluppo intellettivo e linguistico e sono possibili alcune differenze collegate con il cosiddetto sincretismo con alcuni esperimenti di Werner e Heiss. In un primo esperimento si chiedeva ad alcuni partecipanti tra i 3-19 anni di sostituire un elemento tratteggiato inserito in una struttura con un altro elemento della stessa forma ma di colore diverso presente in un altro insieme. Erano divisi in due gruppi e lo scopo era vedere quale elemento critico veniva individuato prima se nel gruppo A o nel gruppo B. Volkelt e Schwarz hanno presentato alcune figure particolari fungendo da modelli chiedendo loro quali, nelle riproduzioni, era più simile al modello. Se parliamo di percezione sincretica della realtà parliamo di una delle attività in cui meglio si mostra ovvero il disegno. Per lo sviluppo atipico la cecità viene diagnosticata tra i 2-3 mesi in quanto è ostacolata l’interazione faccia a faccia e l’attenzione condivisa dovendo utilizzare elementi di supporto nei periodi critici come il metodo Braille ecc. Per la sordità la maggior parte sono di origine genetica oppure traumi fisici, malattie della madre ecc. Capitolo 5: Lo sviluppo della memoria Lo studio della memoria nei primi anni è difficile dalla limitata gamma di azioni del bambino e dall’assenza del linguaggio ecco perché, per studiarla, si utilizzano gli stessi paradigmi utilizzati per lo studio della percezione. Fantz utilizzando i paradigmi della preferenza visiva e dell’abituazione li utilizzò anche per la memoria: maggiore è l’intervallo di tempo che intercorre tra la presentazione dello stimolo e il test maggiore sarà l’oblio poiché la rappresentazione interna decade. Altri paradigmi come quello del ritmo di suzione dimostrano che il bambino all’interno del grembo materno codifica un informazione e la mantiene in memoria per almeno 2-3 giorni dopo la nascita. A questo proposito, De Casper condusse l’esperimento e vide che il bambino aumentava il ritmo di suzione quando voleva ascoltare la voce della mamma. Un altro esempio ideato da Rovee e Rovee è il paradigma della giostrina: il bambino viene sdraiato in una culla con una giostrina mobile su di lui, legata al piede del bambino con un nastro (fase di training). Dopo un po', il bambino muovendo il piede capisce che è il movimento a far muovere la giostrina e così ripete lo schema d’azione anche quando il nastro non c’è più. Trascorrendo il tempo, se il bambino ricorda l’esperimento, scalcerà alla vista della giostrina. Anche il paradigma del trenino viene utilizzato: con i bambini dai 6 ai 18 mesi, devono imparare a premere una leva per far muovere un trenino lungo una pista; nel training, ogni volta che la leva è schiacciata il trenino si muove. Se il bambino ricorda l’esperienza della fase di training, continuerà a premere la leva anche quando non è più collegata al trenino. È previsto un periodo senza rinforzo, poi un periodo con rinforzo e infine, un altro periodo senza rinforzo. Se parliamo di bambini tra 1 e 3 anni utilizziamo l’imitazione differita: primo a parlarne fu Piaget. In alcuni esperimenti come quello di Meltzoff, si valuta se il bambino è in grado di riprodurre un’azione prodotta dallo sperimentatore dopo un certo intervallo di tempo. Neonati di sei settimane possono imitare certe espressioni facciali sia immediatamente che dopo 24 ore e bambini di 6 mesi imitano una sequenza di azioni dopo 24 ore. Meltzoff e Moore ipotizzarono quindi che il bambino nasca già con una rudimentale capacità rappresentativa che si affina con l’età e sarebbero in contrasto con quanto affermato da Piaget sulle immagini mentali. Supportano l’ipotesi che la capacità di rappresentazione visiva emerga dalla nascita in poi in modo progressivo culminando verso i 18 mesi nella capacità di usare immagini mentali anche per risolvere problemi a livello simbolico. Ancora si discute quale memoria venga analizzata dai sopracitati paradigmi se esplicita o implicita poiché, con la mancanza del linguaggio, risulta molto difficile discriminare. Quindi, anche i neonati sono in grado di immagazzinare informazioni: varia solo la velocità con cui le immagazzinano. Il tempo di permanenza del ricordo aumenta con l’età e nei bambini molto piccoli avviene solo se gli stimoli sono esattamente uguali a quelli presentati nella situazione da ricordare. Negli studi con il paradigma della giostrina, bambini da 2 a 6 mesi non ricordavano l’esperimento se la giostrina era diversa da quella usata nella fase di training e così anche nel paradigma dell’imitazione differita se l’oggetto dato dallo sperimentatore era differente anche solo per una piccola caratteristica come il colore. Sappiamo però che nei bambini piccoli le tracce di memoria rimangono per un breve periodo di tempo e una nuova presentazione, un promemoria, riattiva il ricordo e lo mantiene per un tempo più lungo soprattutto se il promemoria è ripetuto nel tempo. Sullivan prima della fase test presentò un promemoria osservano lo sperimentatore che tirava il nastro legato alla giostrina e così le prestazioni dei bambini furono migliori. Si credeva fino agli ultimi anni che gli apprendimenti del primo anno di vita fossero della memoria di tipo implicito, privo di consapevolezza ma è difficile negare che azioni semplici come succhiare un oggetto o gattonare siano esenti dalla consapevolezza e intenzionalità. Il bambino vuole succhiare l’oggetto o vuole gattonare per andare a prendere qualcosa che lo attrae: memoria implicita ed esplicita si utilizzano in parallelo fin dal primo anno di vita. Piaget afferma che il bambino sopra i 3 mesi mostra comportamenti intenzionali a verso gli 8-10 mesi i dubbi spariscono perché vi è l’intenzionalità piena e appaiono i primi atti di intelligenza. Si tende a valorizzare la compresenza della memoria episodica e di quella semantica fin dal primo anno di vita: nella produzione delle prime parole che avviene verso i 10-12 mesi dopo un breve periodo di sequenze foniche come ma- ma e pa-pa emesse in presenza della mamma o del papa nascono le prime parole a livello semantico: bubu non è più il cane del vicino ma il cane indipendentemente da dove lo si vede. Non è facile studiare la memoria a lungo termine dei bambini anche se Fivush e Haumond hanno mostrato che bambini di 2 anni e mezzo potevano rievocare eventi accaduti 6 mesi prima e Perris, Myers e Clifton hanno trovato che bambini di 2 anni e mezzo riuscivano a ricordare un compito di laboratorio appreso a 6 mesi e mezzo. Con l’età aumenta la capacità di organizzare i ricordi in un episodio quelli che la Nelson chiama script (il copione) come, ad esempio, che cosa si fa all’asilo. Quando parliamo di memoria autobiografica sappiamo che ci riferiamo ad eventi vissuti in prima persona ed è una parte della memoria episodica: un aspetto da sottolineare è l’amnesia infantile ovvero l’estrema rarità di ricordi di esperienza vissute prima dei due anni di età. Sheingold e Tenney chiesero di ricordare, ad alcuni studenti universitari, gli eventi della nascita del proprio fratello: i soggetti di età inferiore ai 3 anni al momento della nascita non rievocavano quasi nulla, quelli che al momento avevano più di 3 anni invece sì. È difficile stabilire quando i ricordi siano veri e non a ricostruzioni dell’evento fatte da altri. Le cause dell’amnesia infantile potrebbero essere dovute al fatto che le informazioni sono trattenute per brevi intervalli di tempo e che la memoria dei bambini più piccoli sia contesto-dipendente e quindi, in contesti diversi da quello in cui è avvenuto l’evento è difficile rievocare l’evento stesso e inoltre i bambini riflettono meno sui ricordi. Howe e Courage affermano che un momento critico per lo sviluppo della memoria autobiografica è lo sviluppo della coscienza di sé verso i 18-24 mesi evidente quando i bambini riconoscono se stessi davanti allo specchio. Dai due anni, la memoria autobiografica aumenta grazie allo sviluppo del linguaggio e ad un aumento delle capacità di memoria: il ruolo degli adulti è fondamentale; narrare gli eventi consente di costruire la propria storia nel tempo e anche lo stile con cui i genitori parlano ai figli influenza le abilità di memoria. Con l’età i bambini sviluppano strategie per ricordare e DeLoache, Cassidy e Brown hanno sperimentato che queste strategie esistono già con i bambini di due anni con i precursori delle strategie: veniva chiesto a bambini di 18-24 mesi, dopo aver nascosto una bambola sotto un cuscino di ricordare dove fosse per ritrovarla più tardi. Il bambino veniva distratto ma durante questo tempo, guarda spesso nel punto in cui la bambola era nascosta, lo indicavano o ripetevano ad alta voce il nome della bambola; ecco le strategie messe in atto per il ricordo. Wellman, Ritter e Flavell con bambini di 3 anni venne chiesto di ricordare sotto quale tazza era stato posto un oggetto (un cagnolino giocattolo); lo sperimentatore usciva chiedendo di riferirgli poi dov’era il cagnolino. I bambini tenevano l’indice fisso sulla tazza o guardavano la tazza a lungo, perciò, sappiamo che i bambini usano strategie per favorire la memorizzazione. Sappiamo che nel modello di Baddeley il loop fonologico ha due subcomponenti: un magazzino fonologico e un processo di ripetizione subvocalico. Nel magazzino fonologico si conserva la traccia mnestica dell’informazione fonologico-verbale che decade dopo 2 secondi se non viene rinfrescata con la ripetizione che consolida le informazioni. Il meccanismo di ripetizione subvocalico crea delle rappresentazioni per stimoli fonologici presentati in forma visiva quali parole scritte o immagini. L’attività del loop fonologico è sostenuta anche dalla conoscenza lessicale immagazzinata nella memoria a lungo termine. Per analizzare le capacità relative si utilizzano i compiti di span presentando al bambino verbalmente una lista di parole (o numeri) che devono essere rievocate immediatamente dopo la presentazione di tutta la lista. Da questo si ricava una misura di span, ovvero, il numero massimo di numeri o parole che il bambino rievoca nella corretta sequenza. Lo span di memoria aumenta progressivamente dai 4 anni in poi fino all’adolescenza in cui è simile a quella dell’adulto. Con lo sviluppo avvengono anche cambiamenti nel funzionamento del loop fonologico: con l’età cambia il meccanismo di ripetizione subvocalica e Gathercole e Hitch hanno trovato che il magazzino fonologico è presente nel bambino fin dai primi anni di vita e il processo di ripetizione subvocalica non compare prima dei 7 anni, periodo in cui, i bambini iniziano ad utilizzare una strategia di ripasso subvocalico per mantenere più a lungo il ricordo. Con l’età aumenta la velocità con cui vengono articolate le parole e soprattutto, il significato di una parola aiuta a ricordare: è più facile ricordare parole di cui conosciamo il significato rispetto a parole sconosciute. Anche il taccuino visuo-spaziale ha due subcomponenti: un magazzino visivo in cui vengono rappresentate caratteristiche fisiche di oggetti ed eventi e un meccanismo spaziale usato per il ricordo di materiale spaziale. Lo span di memoria visuo-spaziale cresce in modo regolare fra i 5-11 anni, età in cui si raggiungono prestazioni simili a quelle degli adulti. L’incremento è dovuto sia alle capacità del magazzino di ritenere materiale immagazzinato sotto forma visiva e all’incremento della capacità del bambino di usare strategie non visive per supportare il ricordo. I bambini piccoli classificano le informazioni presentate visivamente solo sulla base delle caratteristiche visive mentre dopo i 7 anni i bambini ricordano e immagazzinano in maniera fonologica: se devono ricordare il coltello i bambini più piccoli immagazzinano l’immagine del coltello come oggetto lungo e appuntito che potrebbe farlo confondere con oggetti con proprietà simili mentre i bambini più grandi classificano la parola coltello sulla base delle sue proprietà fonologiche rischiando di confonderlo con parole come cappello o martello. L’esecutivo centrale svolge attività di alto livello come controllare e coordinare l’attività degli altri due magazzini, controllare il flusso di informazioni all’interno della memoria di lavoro. Le sue capacità vengono misurate attraverso compiti di immagazzinamento di informazioni che elaborazione del materiale da memorizzare chiamati complex span task: il listening span task è un esempio; si chiede al bambino di valutare se alcune frasi sono vere o false (attività di elaborazione) e contemporaneamente ricordare l’ultima parola di ciascuna frase. Siegel rileva che tra i 6-15 anni di età le prestazioni aumentano in modo regolare e migliorano. Secondo Posner è dovuto al fatto che lo sviluppo dell’abilità di controllare e focalizzare l’attenzione migliora. Case con la sua teoria della memoria di lavoro afferma che questa ha uno spazio cognitivo disponibile limitato, utilizzabile sia per l’elaborazione delle informazioni che per l’immagazzinamento. Se l’elaborazione delle informazioni richiede molto spazio ne rimane poco per l’immagazzinamento e l’individuo ricorderà pochi item. Con lo sviluppo aumenta l’efficienza con cui vengono elaborate le informazioni in entrata con l’uso di strategie sempre più efficaci. Se elaboro in modo più efficiente, risparmio energie per l’immagazzinamento delle informazioni e, aumentando la velocità di elaborazione, aumenta anche la quantità di item ricordati. Dai 6 anni migliorano le capacità della memoria implicita, della memoria episodica sia autobiografica che di eventi. Anche la memoria semantica ha un notevole sviluppo ed è quella che contiene le rappresentazioni dei concetti e delle loro relazioni che si formano con i processi di astrazione: tali rappresentazioni, come detto dalla Nelson, formano gli script (copioni) una struttura cognitiva che collega gli elementi su base spaziale e temporale in una determinata situazione non descrivendo dettagliatamente lo svolgersi di singoli eventi ma la gamma delle variabili che definiscono la situazione in cui un evento si verifica. I bambini piccoli categorizzano in modo episodico, all’aumentare dell’età utilizza i concetti, crea una classe di elementi con la stessa proprietà. Lo studio della memoria si è concentrato con bambini e ragazzi dai 5 ai 14 anni: le capacità di memoria aumentano gradualmente perché aumentano le capacità di base e l’uso delle strategie e ampliamento delle conoscenze. Per le capacità di base sono stati approfonditi la velocità di elaborazione e la capacità di memoria. I bambini più piccoli eseguono più lentamente i compiti cognitivi rispetto ai bambini più grandi perché un elaborazione rapida sfrutta meglio il tempo limitato a disposizione per la reiterazione o elaborazione delle informazioni da ricordare. La velocità di elaborazione aumenta con l’età così come la capienza di memoria in quanto si possono conservare sempre più cose nella memoria. Ma quali sono le strategie utilizzate? Sappiamo che già a 2-3 anni si utilizzano; verso i 7 anni compare l’uso spontaneo della reiterazione ovvero ripetere in continuazione una o più informazioni da ricordare. Verso i 9-10 anni compare l’uso dell’organizzazione per organizzare il materiale da ricordare in categorie che hanno significato: non è lo stesso ricordare 2,0,1,3 e 2013. Dall’adolescenza utilizzano l’elaborazione ovvero l’inserimento dell’item da ricordare in una struttura dotata di significato come un’immagine o un racconto collegandoli a conoscenze di cui si è già in possesso. Vi è quindi una spontanea intenzione di utilizzarle: ma quando le si utilizza? È un processo mentale che richiede impegno; i bambini piccoli sono più lenti e lo fanno in maniera meno efficace perché utilizzano tutte le loro energie nella strategia e restano pochissime energie per lo svolgimento del compito che stanno eseguendo. Inoltre, entrano in gioco anche le conoscenze che i bambini hanno sulla memoria (metamemoria) e pensano che la memorizzazione sia automatica senza l’intervento del soggetto mentre poi si rendono conto che la memorizzazione è un processo volontario che richiede uno sforzo cognitivo attivo. Una delle ragioni per cui i bambini ricordano meno è che hanno meno conoscenze rispetto agli adulti: un esempio è il gioco degli scacchi. I bambini vennero valutati insieme a un gruppo di adulti in un compito di memoria di cifre (in cui erano meno esperti) e uno di ricordo di configurazioni di pedine negli scacchi (area in cui erano esperti). Per le cifre, ne ricordavano meno degli adulti ma di fronte alla scacchiera ne ricordavano di più degli adulti. Capitolo 6: Lo sviluppo cognitivo Nei progressi che caratterizzano lo sviluppo Piaget distingue 6 stadi. Le prime tre (fino a 8-10 mesi) sono caratterizzati dal perfezionamento dei riflessi e azioni non ancora caratterizzate dall’intelligenza vera e propria; nella quarta e nella quinta (fino ai 18 mesi) con l’intenzionalità si coordinano mezzi e fini per permette comportamenti di intelligenza sensomotoria; nella sesta il bambino compie atti di intelligenza guidati dal pensiero (con azioni fatte solo a mente). Stadio sensomotorio, suddiviso in 6 sottostadi: 1) 0-1 mesi – L’esercizio dei riflessi: nei primi mesi di vita l’adattamento all’ambiento si basa sul perfezionamento di comportamenti riflessi come il pianto del neonato ad una sensazione sgradevole, come afferrare il dito della mano, i riflessi classici di cui abbiamo già parlato. In questa prima fase, si perfezionano i meccanismi ereditari senza modificarne la struttura. 2) 1-3 mesi – I primi adattamenti acquisiti e la reazione circolare primaria: nel secondo mesi di vita appaiono i primi adattamenti acquisiti, le prime abitudini. Questi primi adattamenti acquisiti sono chiamati reazioni circolati primarie chiamate circolari per la tendenza alla ripetizione di un movimento dopo la percezione del risultato. Sono movimenti semplici che coinvolgono uno o più organi, sono centrate su se stesse cioè non sono prodotte per ottenere o conservare un risultato appartenente al mondo esterno non ci sono nozioni spaziali, temporali e causali: un oggetto che sparisce dalla vista è dimenticato. 3) 3-8 mesi – Le reazioni circolari secondarie e i procedimenti destinati a far durare gli spettacoli interessanti: a 3-4 mesi di vita le azioni dei bambini tendono a produrre un risultato nell’ambiente esterno; le reazioni circolari secondarie sono centrate a produrre un effetto sull’esterno e, ad esempio, un bambino può rompere un biscotto e raccogliere i pezzi pazientemente. Il bambino usa dei mezzi per raggiungere un fine prestabilito ma senza vera e propria intenzionalità completa, non sono ancora intelligenti. 4) 8-12 mesi – La coordinazione degli schemi d’azione acquisiti e il loro impiego in situazioni nuove: si parla di intenzionalità completa dai 10 mesi in cui le reazioni circolari secondarie si coordinano e si impiegano in nuove situazioni; così, si parla di atti di intelligenza veri e propri caratterizzati dalla risoluzione di un problema con coordinamento intenzionale mezzi-fini. È un intelligenza senso-motoria perché non si usano azioni e immagini mentali. A partire dagli 8 mesi circa la nozione di oggetto si consolida e il bambino cerca gli oggetti anche quando spariscono dalla sua vista. 5) 12-18 mesi – La reazione circolare terziaria e la scoperta di nuovi schemi d’azione mediante la sperimentazione attiva: dai 10 mesi circa il bambino compie atti di intelligenza, prende oggetti che lo interessano servendosi di un bastone o della cordicina a cui l’oggetto è attaccato o della tovaglia su cui è appoggiato. Vi è una costante sperimentazione e, camminando, produce rumori con gli oggetti e tutto ciò che trova: questi comportamenti, chiamati reazioni circolari terziarie, è l’applicazione a oggetti o relazioni non solo schemi d’azione familiari ma anche del tutto nuovi. Ci sono progressi anche per le nozioni di oggetto, spazio, tempo e causa. 6) Dai 18 mesi in poi – Invenzione di mezzi nuovi mediante combinazione mentale: in questa fase si utilizza il pensiero simbolico per risolvere piccoli problemi quotidiani come prendere una palla in un'altra stanza: ha già in mente la palla quando il bambino va a prenderla e ha già anticipato l’azione nella sua mente. Perciò, per risolvere il problema può usare un atto di invenzione. Davanti al problema di come far entrare una catena di orologio in una scatola di fiammiferi, appallottolò la catena prima di inserirla nella scatola. Il bambino ora è in grado di imitare ciò che una persona ha fatto alcune ore prima (imitazione differita nel tempo), utilizza il gioco simbolico ovvero il gioco del “facciamo finta che” e combina le parole per formare le frasi. Riesce a tenere a mente anche gli spostamenti invisibili e rappresenta gli spostamenti che egli stesso effettua e quelli invisibili degli oggetti: se perde una palla sotto il divano la cerca dall’altra parte immaginando il percorso della palla e analoghi progressi riguardano il tempo e le cause. Per Piaget il gioco è teso alla soddisfazione dei bisogni dell’Io e attraverso di esso viene soddisfatto un bisogno che di norma si soddisfa in altro modo. Pensiamo al gioco simbolico: una bambina con la sua bambola gioca a fare la mamma attribuendo alla bambola il ruolo di figlia e perciò di sé stessa per soddisfare i bisogni dell’Io non soddisfatti (o non abbastanza) in situazioni di realtà, ad esempio avere ragione e comandare lei perché la bambina non sta imparando nulla in questa situazione ma soddisfa alcuni bisogni. Essendosi messa nei panni di acquisisce qualcosa che le può essere utile nella realtà: molte volte i bambini giocano a fare i grandi mettendosi nei panni altrui e poi di sé stessi. Per Piaget lo sviluppo cognitivo è caratterizzato da tre diverse forme di attività: quella senso-motoria, quella rappresentativa e infine quella operatoria (distinta in operatoria concreta e operatoria formale). In uno degli esperimenti sono stati utilizzati tre giocattoli a forma di pesce di lunghezze diverse: 5,10,15 cm e si disse che il pesce medio doveva mangiare il doppio del piccolo e il grande il triplo. Ogni bambino aveva a disposizione il cibo e doveva distribuirlo in modo adeguato. I bambini di cinque anni distinguono i bocconcini in modo che il pesce medio abbia più bocconcini del piccolo e quello grande ancora di più senza stabilire veri e propri rapporti quantitativi. I bambini più grandi risolvono correttamente una o più situazioni. I bambini più piccoli pur non risolvendo i vari problemi proposti rivelano l’uso di ragionamenti basati su corrispondenze quantitative del tipo “grande con grande, medio con medio, piccolo con piccolo”. Vianello e Marin per valutare le capacità in bambini dai 3 ai 12 anni hanno costruito vari test. I bambini di 5-6 anni parlano usando verbi al condizionale, storie molto lunghe spiegando che cosa hanno visto ma non è in grado di compiere operazioni o azioni reversibili. Alcuni dei più classici esperimenti riguardano la conservazione delle quantità: a bambini tra i 4 e gli 8 anni vengono presentati due bicchieri uguali contenenti la stessa quantità d’acqua colorata (A e B). Quando hanno controllato che l’acqua sia di uguale livello si effettua un travaso in un terzo bicchiere o molto più largo (C1) o molto più stretto (C2). Si chiede se vi è la stessa quantità d’acqua o se in uno dei due ve ne è di più. I bambini di età inferiore ai 5-6 anni non riconosce la conservazione della quantità del liquido travasato e per alcuni vi è più acqua nel bicchiere (C2) o per alcuni nel (C1). Per i bambini di 7-8 anni cambia la situazione; il limite nell’errore sta nel fatto che non collega le situazioni, i due rapporti non riuscendo a ricavare il terzo. Pensiamo allo stesso esperimento con due aste di uguale lunghezza parallele e con le estremità allineate per poi spostarne una delle due. I bambini di 4-5 anni non riconoscono più l’uguaglianza. Pensiamo allo stesso con due automobiline da far partire da due punti non allineati e se si chiede quale delle due ha percorso più strada risponderanno che ne ha percorsa di più quella che si trovava davanti. Il bambino di 4-5 anni non vi riesce perché deve considerare troppi dati mentre invece vede immediatamente le automobili all’arrivo. Solo il pensiero operatorio reversibile può permettere la coesistenza di due situazioni che nella realtà si escludono a vicenda. Nel periodo della scuola media inferiore inizia l’uso del pensiero formale, il pensiero al suo massimo livello e per questo la sua acquisizione richiede anni e non viene acquisito da tutti allo stesso livello. L’interesse di Piaget è rivolto soprattutto allo sviluppo delle strutture intellettuali e anche alcune tendenze che differenziano l’adulto dal bambino. La più importante è definita con il termine egocentrismo e si utilizza anche il termine realismo con ulteriori distinzioni fra pensiero precausale e pensiero causale o logico. L’egocentrismo infantile è la tendenza a non tener sufficientemente conto della possibilità che esistano punti di vista differenti dal proprio, la difficoltà a considerare l’esistenza di modi di vedere diversi dal proprio e, insieme al realismo, caratterizzano il pensiero infantile e si manifestano in tutti gli aspetti cognitivi del bambino. L’egocentrismo è una vera e propria difficoltà a comprendere quale possa essere la percezione di un individuo che osserva qualcosa dal punto di vista differente dal tuo: famoso è l’esperimento di Piaget e Inhelder delle tre montagne in cui i bambini venivano messi davanti ad un plastico composto da montagne color marrone, una coperta di neve e una collina verde. Veniva chiesto al bambino che vedeva solo una parte del plastico che cosa poteva vedere un osservatore che stava al lato opposto al suo ma loro rispondevano menzionando ciò che vedevano loro. All’ingresso della scuola primaria l’egocentrismo non è ancora stato superato del tutto e si nota dalla difficoltà di riconoscere la destra dalla sinistra. In età scolare vi sono tre aspetti dell’egocentrismo verbale. In un primo esperimento chiedendo ad un bambino di spiegare il funzionamento di un certo meccanismo dopo essersi accertati che avesse capito, si poteva constatare che omettesse alcune informazioni perché erano quelle che lui considerava ovvie e quindi lo erano certamente anche per il suo compagno. Un altro segno è l’utilizzo equivoco dei pronomi che il bambino introduce senza considerare a chi sono riferiti e quando non conosce il significato di qualcosa la interpreta come parola nuova senza chiedere spiegazioni. L’egocentrismo, quindi, conduce il bambino ad agire come se le sue conoscenze fossero identiche all’interlocutore e dall’altra lo persuade che tutto ciò che viene detto in un discorso è ciò che capisce lui. Per realismo invece, intendiamo la tendenza a dare più valore ai dati percettivi che a quelli rappresentativi e a considerare come unica realtà quella visibile e materiale. Il realismo porta il bambino ad affermare che i nomi hanno origine dalle cose, deforma le nozioni sul possibile e soggettivo senza un riscontro nella realtà percettibile e la somma tra egocentrismo e realismo produce il pensiero precausale (o magico). Il bambino vive il mondo interiore e quello esterno come non sufficientemente distinti e appartenenti quindi ad una sola realtà e può porre motivazioni di ordine logico e morale all’origine dei fenomeni pensando che alcuni sogni puniscano il bambino disobbediente o che il vento soffi per far muovere le nuvole. I bambini piccoli, infatti, tendono ad attribuire vita a molti elementi considerando ad esempio il sole o luna vivi con quello che viene chiamato animismo infantile che viene distinto in 4 periodi: - I bambini di età inferiore ai 5-6 anni attribuiscono vita e coscienza, intenzionalità a tutti gli oggetti che sono inseriti in processo dinamico - I bambini tra i 6-8 anni rivelano animismo solo per le cose in movimento (come astri, nubi) - I bambini tra 8-10 anni distinguono fra gli oggetti che si muovono di moto proprio e quelli che si muovono per moto ricevuto attribuendo intenzionalità solo ai primi - I bambini di 11-12 anni hanno concezioni simili agli adulti Dai racconti dei bambini si nota che loro ritengono che le cose vengano create per mezzo degli uomini anche le montagne, i fiumi, i laghi per loro sono dovuti all’azione fabbricatrice dell’uomo (artificialismo infantile). Siccome fin dalla nascita il bambino è seguito da persone che si occupano di lui è portato a pensare che i genitori siano in grado di risolvere qualsiasi problema e questa dipendenza da essi lo porta a credere ad una visione previdenziale della natura in cui tutto avviene per un certo ordine armonico e in cui vigono le stesse leggi morali che regolano la vita umana (finalismo infantile) perché le cose obbediscono a queste leggi perché hanno vita e coscienza. Sulla comprensione del tempo il bambino non capisce che una persona di età maggiore di un’altra è nata prima perché il realismo influisce sul giudizio del bambino inducendolo a dare importanza alle trasformazioni corporee (come l’altezza) e l’assenza del pensiero operatorio reversibile impedisce al bambino di considerare che il tempo scorre indipendentemente da tali informazioni. A 6-8 anni il bambino incomincia a costruirsi delle nozioni appropriate anche se in modo incompleto comprendendo che le distanze d’età restano costanti ma non sa dedurre chi sia nato prima: solo dopo gli 8 anni il bambino capisce il concetto di età. Sono tante le ricerche che devono dire grazie a Piaget per il suo metodo clinico ma si differenziano dal suo ideatore per una maggiore standardizzazione. Piaget è stato un grande studioso che ha influenzato tutta la psicologia dello sviluppo ma molte sono state anche le critiche che gli sono state rivolte a partire dalle lagnanze chiamate così da Flavell e sono relative ai problemi di interpretazione di molte affermazioni piagetiane, alla carenza della progettazione sperimentale e nell’analisi dei dati con insufficienti rapporti tra teoria e dati. Vi è molto genericità e imprecisione secondo lui, isolando i dati empirici e la teoria senza però mai verificare i dati delle sue ricerche e mostrando la validità dando l’impressione che Piaget abbia proceduto in modo casuale nel formare i suoi campioni e l’effettivo campione di soggetti di ogni singolo procedimento sperimentale è molto piccolo e, oltretutto, narra e aggiunge conclusioni ai suoi dati. La critica generale rivolta a Piaget è il suo metodo di sviluppo unilaterale con un interesse epistemologico più che psicologico ovvero rivolto solo a ricavare indicazioni dagli studi e non spiegazioni. Così, lo studio si è orientato sulle componenti cognitive e non allo studio dello sviluppo dell’individuo interessandosi particolarmente allo studio dell’intelligenza e, centro del suo interesse è stato un aspetto specifico dell’intelligenza, cioè, lo sviluppo del pensiero logico. L’immagine restituita è incompleta, unilaterale appunto, senza però mai negare l’importanza degli aspetti affettivi, sociali e linguistici per lo sviluppo negando però che le caratteristiche dell’intelligenza siano un prodotto sociale o delle dinamiche affettive. Sono molto gli studiosi, come Chomsky, che ritengono che l’attività linguistica abbia basi innate non riconducibili a quelle cognitive e Piaget sostiene invece che il linguaggio dipenda da una generale attività semiotica (o simbolica). Piaget infatti evita l’apriorismo, strutture innate, e l’empirismo che attribuisce un ruolo di passiva registrazione delle caratteristiche al reale. Il cucciolo d’uomo di Piaget è lasciato da solo, con tante cose da fare senza un precedente adattamento al mondo concreto: il bambino è un essere individuale che scopre il mondo da solo (solo dopo sociale). Inoltre, le capacità del cervello del neonato sono state sottovalutate insieme a quelle percettive del bambino. Pensiamo al fatto che studi affermano che il neonato prima dei 15 giorni di vita può raggiungere e afferrare un oggetto visivo. Meltzoff ha condotto alcuni esperimenti sulle capacità imitative del bambino per dimostrare che il neonato è capace di coordinare intermodalmente già nel primo mese di vita: il caso scelto è l’imitazione facciale; bambini tra i 12 e 21 giorni di vita sono capaci di imitare la protrusione delle labbra, l’apertura della bocca, la protrusione della lingua e movimenti sequenziali delle dita. Quindi, il neonato ha un vasto repertorio comportamentale che Piaget descriva con i limitati riflessi. È necessario restituire più capacità innate e la Inhelder ribadisce la sua posizione interattiva e costruttivista che sottolinea da una parte l’interazione fra organismo e ambiente e dall’altra il ruolo attivo dell’organismo nel processo di conoscenza. La descrizione che viene fatta del neonato da Piaget è inadeguata perché esso ha una discreta percezione a livello visivo, capacità imitative ecc. la teoria piagetiana sullo sviluppo dell’intelligenza nei primi due anni di vita risulta ridimensionata mantenendo nel terzo- quarto stadio la loro validità. I tempi di passaggio tra gli stadi sono più lenti e questo ridimensiona l’idea di uno sviluppo solidale, armonico in cui le varie strutture degli strati si sostengono a vicenda; inoltre, vi sono altre componenti che influiscono di tipo sociale, affettivo, ecc. Bovet, Sinclair e Inhelder partono dall’ipotesi che si possa accelerare lo sviluppo cognitivo se si mettono in moto i meccanismi responsabili dello sviluppo divise in: attività del bambino, perché l’apprendimento è fruttuoso nella misura in cui il bambino è attivo; coordinazione degli schemi perché le strutture si integrano; tappe di evoluzione perché le tappe sono in sequenza. I piagetiani ritengono che si possa accelerare lo sviluppo senza però saltare le tappe. Fondamentale è il conflitto cognitivo una situazione di incertezza e stranezza di fronte alla situazione che invita il bambino più di quanto facesse prima le modalità utilizzate per risolvere il problema: nasce qualcosa di nuovo da questo confronto ovvero l’apprendimento. Ai partecipanti si proposero i pre-test (ad esempio quella della conservazione dei liquidi) per stabilire i livelli di partenza di ciascuno su una scala a quattro o cinque livelli; successivamente, con il training si propongono più situazioni per creare il conflitto cognitivo e quindi l’apprendimento; infine, con il post-test si valuta il progresso in un breve lasso di tempo e in un lasso di tempo più lungo. Per la conservazione dei liquidi il training consisteva in 3 coppie di boccali di vetro a forma cilindrica fissati su due colonne verticali creando una sorta di macchina. La prima seduta mira a far familiarizzare il bambino con la manipolazione della macchina e a orientare la sua osservazione dello scorrimento continuo da A a B e poi a C. Si invita a riempire la fiala F senza che ci sia nulla nel collo e a versare in A il contenuto per poi, aprendo il rubinetto, farlo scorrere in B. Così anche nella seconda colonna, versano ciò che c’è in F in A’ per far scorrere il liquido in B’ e fare nuovamente constatazioni. Questo per centrare l’attenzione del bambino sul fatto che quantità uguali al punto di partenza e al termine dello scorrimento raggiungono livelli differenti. Dopo Piaget, coloro che seguirono i suoi insegnamenti furono i neopiagetiani che presentarono sia concordanze che discordanze. Le concordanze riguardano sicuramente l’accettazione che lo sviluppo possa essere descritto con la successione degli stadi che hanno delle modifiche in essi, sono universali e non è possibile saltare le tappe. Inoltre, ogni stadio ha particolari strutture di pensiero che sembrerebbero inglobare le precedenti. Le differenze invece, riguardano l’idea del sottolineare il ruolo dei fattori maturativi (innati), non utilizzare le descrizioni logico-matematiche, usare alcuni costrutti delle teorie cognitiviste e descrivere in modo più analitico rispetto a quanto fatto da Piaget ulteriori passaggi o fasi. La posizione di Pasqual Leone è caratterizzata dall’affermare che la capacità mentale del bambino progredisce con l’età: data una capacità di base (dai 2 anni circa) con il passare dell’età, con i progressi il bambino ha sempre più spazio mentale per l’attivazione dei propri schemi mentali. Secondo Case in ogni stadio vi sono progressi a livello quantitativo e ogni stadio è suddivisibile in tre sottostadi e la capacità cresce di un’unità per ogni sottostadio. Pensiamo al travaso dei liquidi a livello preoperatorio e operatorio: ogni bambino cerca di risolvere il problema con strategie che si differenziano per la complessità misurata dalla quantità di spazio mentale richiesto. I bambini preoperatori sono in grado di utilizzare strategie che richiedono una o due operazioni contemporaneamente mentre quelli operatori hanno uno spazio mentale più ampio con strategie ampie. Case e Leone fanno coesistere la teoria stadiale con i modelli esplicativi del funzionamento della memoria di lavoro. Doise e Mugny illustrano varie esperienze secondo cui l’interazione sociale fra bambini costituisca un luogo privilegiato di apprendimento: il gioco cooperativo, ad esempio, è un attività che consiste nello spostare un pennarello, attaccato ad un oggetto (corpo mobile) lungo un percorso (un disegno stampato su grandi fogli). Si attua con una tavola rotonda di 60cm di diametro intorno alla quale vi sono dei montanti che tengono delle pulegge costituite da un cilindro sul quale è attaccato un filo resistente attaccato anche al corpo mobile. Su una delle rotelle è fissata una vite. Con le rotelline è possibile: tenere bloccato il pennarello, spostarlo verso di sé oppure lontano da sé. A 7-8 anni il gruppo fornisce prestazioni migliori dei singoli, effetto minore a 5-6 anni e a 9-10 anni. A 7-8 anni forniscono migliori risultati i gruppi spontanei mentre a 9-10 anni avviene il contrario perché il gruppo con il capo è più funzionale quando il compito, essendo facile, ha un carattere esecutivo. A 7-8 anni è tutto più difficile se non si può comunicare verbalmente. La cooperazione tra pari produce risultati ottimali nel momento cruciale dell’apprendimento avendo già i requisiti ma è ancora nella fase centrale dell’apprendimento: la cooperazione crea comunque il conflitto sociocognitivo, favorisce lo sviluppo cognitivo, si sentono alla pari con gli altri bambini e imparano insegnando, aiutandosi a vicenda. Ferreiro e Teberosky studiose piagetiane, si sono chieste che idee hanno i bambini sulla lettura prima che inizino a leggere e scrivere. Per convenzione imparano a 6 anni ma già a 3 anni il bambino sa qualcosa su cosa significa scrivere e leggere. Il bambino distingue precocemente il disegno e la scrittura e già dai 3-4 anni pensano che solo certi segni possono essere letti, devono essere abbastanza e non devono essere uguali tra loro. Dopo che differenzia il disegno dalla scrittura, il bambino formula idee sulle lettere e i numeri e poi differenzia lettere e segni di interpunzione. Per il bambino non si scrive tutto ciò che si può dire: nei primi stadi (3-4 anni) si scrivono le cose importanti come i nomi; poi, si comprende che si possono scrivere anche proposizioni e articoli, non cerca la corrispondenza con il linguaggio parlato. Dai 4-5 anni tendono a pensare che la parola singola sia scritta con più caratteri: davanti alla parola CASA diranno sempre CA-SA in quella chiamata fase sillabica e solo più tardi si arriverà alla fase alfabetica suddividendola alfabeticamente. A 2-3 anni tentano di scrivere sia in stampatello che in corsivo e il primo soggetto di scrittura è sicuramente il proprio nome. Per la Pontecorvo vi sono cinque livelli: il primo è la distinzione tra corsivo e stampatello; il secondo è il livello dei grafismi; il terzo scrive una lettera per ogni sillaba e nel quarto cerca di far corrispondere più di una lettera per ogni sillaba. Piaget come sappiamo ha offerto scarse informazioni sui procedimenti usati dai bambini per risolvere i problemi proposti. Young ha proposto a bambini di diversa età una seriazione da effettuare con dei parallelepipedi e sono stati interpretati i dati con il linguaggio HIP (human information processing). A 4 anni i bambini pongono i parallelepipedi senza seriazione ma solo mettendoli di seguito, più avanti con l’età può prendere un blocchetto e confrontarlo con gli altri o quando sceglie il più grande confrontandolo con il resto. Klahr e Siegler hanno presentato una bilancia formata da un’asse appoggiata nel suo baricentro ad un fulcro avente ai suoi due lati dei pioli sul quale potevano essere inseriti degli anelli, i pesi. Il problema richiedeva che il bambino prevedesse da quale parte la bilancia si sarebbe abbassata. Il bambino doveva tenere conto del numero degli anelli messi per ogni lato, il peso e la distanza dal fulcro a cui venivano messi. I più piccoli (a livello preoperatorio 4-6 anni) tenevano conto di una sola dimensione e cioè il numero dei pesi: si abbassava il lato con più anelli. I bambini più grandi di 7-8 anni consideravano la distanza dal fulcro solo quando gli anelli da una parte o dall’altra della bilancia erano della stessa quantità. A un terzo livello i soggetti tenevano conto contemporaneamente sia della quantità degli anelli che della distanza dal fulcro. In sintesi, ogni problema ha proprie regole da seguire per risolverlo e c’è qualcosa che lo accomuna. Se pensiamo che ci siano abilità di base che favoriscono prestazioni a un certo livello in varie situazioni, siamo in un’ottica anche piagetiana. Se invece neghiamo l’idea che vi siano modalità di ragionamento comuni allora stiamo ragionando in termini non piagetiani. Quando si uniscono le teorie di Piaget con quelle di Vygotskij ci si riferisce alla posizione proposta da Tomasello secondo cui dobbiamo all’homo sapiens: la produzione di strumenti di pietra con funzioni specifiche, l’uso di simboli per comunicare e strutturare la vita sociale e lo sviluppo di pratiche sociali come la sepoltura dei morti e l’addomesticamento di animali. Tutti questi cambiamenti sono dovuti alla trasmissione culturale conservando le scoperte: Tomasello ne parla con la metafora del dente d’arresto che si riferisce ad un dispositivo che consente la rotazione di un albero in un solo senso, in avanti e quindi la trasmissione culturale tende a permettere che le acquisizioni avvenute non vadano perse in un processo cumulativo per cui ogni generazione ha un patrimonio culturale da trasmettere. Secondo lui, gli uomini imparano anche mettendosi nei panni dell’altro, nei suoi panni mentali e identificandosi con lui e questo permette la collaborazione sociale producendo qualcosa che il singolo non sarebbe stato in grado di produrre. A 9-12 mesi, il periodo delle reazioni circolari secondarie, si ha questa immedesimazione e proprio in questa identificazione nell’altro i bambini sono in grado di trarre profitto dalla trasmissione culturale. Confrontando le capacità del bambino con i primati (scimmie), a questi ultimi non attribuisce la capacità di comprendere conspecifici come esseri simili a sé stessi, con vite intenzionali e mentali; un ulteriore confronto viene fatto con i bambini autistici secondo cui il loro disturbo è essenzialmente un deficit nel meccanismo biologico che permette la comprensione dell’intenzionalità altrui, di immedesimarsi negli altri. A 9-12 mesi i bambini utilizzano il gesto dell’indicare ed è possibile proprio perché il bambino tiene conto delle intenzioni altrui e di come l’altro può interpretare il suo gesto. Anche l’attenzione congiunta è un tassello chiave della comprensione degli altri perché, mentre a 6-7 mesi i bambini interagiscono senza prestare attenzione agli altri, dai nove mesi sono sempre più evidenti i comportamenti triadici ovvero l’interazione bambino-adulto-oggetto su cui prestano entrambi attenzione: così il gesto deittico (dell’indicare) è fatto affinché l’adulto ponga attenzione all’oggetto, oppure per mostrarlo o perché ci faccia qualcosa e così nascono i gesti dichiarativi per condividere l’attenzione o imperativi per far qualcosa con l’oggetto. Come già accennato, Tomasello confronta i bambini con sviluppo tipico con i bambini autistici: i bambini con disturbo dello spettro autistico hanno deficit persistenti nella comunicazione e interazione sociale, mancano di iniziativa e hanno comportamenti, interessi o attività ripetitive e persistenti; i sintomi sono evidenti fin dai primi periodi evolutivi e sono più presenti nei maschi che nelle femmine con un rapporto 4:1. Diverse cause mediche possono associarsi, compresa l’epilessia. Le famiglie che hanno bambini autistici sono sottoposti a stress riconducibile sia alla scarsa conoscenza del disturbo da parte della gente comune che dalla sfera relazionale, fortemente colpita dal disturbo. I bambini possono essere aggressivi con sé stessi o con gli altri con reazioni emotive esagerate difficilmente comprensibili, hanno scarsa empatia e scarsa interazione con tutti. Ci sono molti interventi che possono essere effettuati per i bambini autistici: un metodo diffuso è il metodo ABA (applied behavior analysis) basato sull’analisi comportamentale applicata e quindi sui principi cardini del comportamentismo. Un altro metodo utilizzato è il metodo TEACCH (tratment and education of autistic and related communication handicapped children) basato sul potenziamento delle abilità sociocomunicative dei genitori e delle persone che interagiscono con il bambino. Il TEACCH si configura non solo come intervento specifico ma anche come rete di servizi offerti in vari casi di severità del disturbo e basandosi su metodi cognitivi e comportamentali, consiste nella strutturazione dell’ambiente e nella collaborazione tra genitori, operatori e insegnanti al fine di favorire l’adattamento del bambino ai diversi contesti di vita quotidiana. Un altro metodo è il PECS (picture exchange communication system) che si propone di sviluppare strategie per comunicare bisogni o richieste con cui il bambino apprende a utilizzare immagini, simboli o oggetti per comunicare ed esprimere ci che desidera. L’attenzione congiunta e la comprensione di che cosa gli altri vogliono fare 8le loro intenzioni) portano il bambino a capire che cosa pensano gli altri di lui portando allo sviluppo di sentimenti come la timidezza e l’autostima: a 12 mesi, infatti, c’è molto interesse nel guardarsi allo specchio. Secondo Tomasello i bambini tra 1-3 anni sono macchine per imitare ma distingue tra emulazione, possibile anche nei primati che consiste nella comprensione di rapporti oggettivi (un piccolo di scimpanzé può contrastare che sotto il tronco dell’albero ci sono gli insetti; l’emulazione consiste nell’alzare il tronco dell’albero ma non garantisce che il bambino abbia compreso che la madre l’ha fatto intenzionalmente) e imitazione tipicamente umana, presuppone la comprensione delle intenzioni altrui perché un comportamento viene imitato quando si è compreso il motivo per cui è stato fatto (l’intenzionalità) e anche i primi giochi simbolici sono spesso frutto di una imitazione più che di invenzione spontanea e proprio così, il bambino padroneggerà il gioco simbolico indipendentemente dalla presenza dell’adulto per soddisfare i bisogni dell’Io come diceva Piaget. Secondo Tomasello il linguaggio è un’istituzione sociale di natura simbolica, nata da attività sociocomunicative preesistenti ed è reso possibile da attività come l’attenzione congiunta, la comprensione delle intenzioni comunicative e l’imitazione per inversione di ruoli. Le prime parole vengono prodotte alla fine del periodo 9-12 mesi e le prime frasi verso i 18: le carenze linguistiche delle persone con autismo sono dovute alle basilari carenze nell’attenzione congiunta e nel comprendere gli altri come esseri intenzionali. Verso i 4 anni la comprensione delle intenzioni altrui progredisce nella comprensione che gli altri possono avere convinzioni diverse dalle nostre e il bambino ci arriva con la simulazione, il mettersi nei panni dell’altro: le interazioni discorsive possono favorire la comprensione che il comportamento altrui è regolato da desideri, pensieri, e credenze solo in parte simili alle proprie e così, empatia, immedesimarsi con gli altri fanno passare il bambino da una moralità eteronoma a quella cooperativa valutando ciò che è bene o male tenendo conto anche delle prospettive altrui. Lo sviluppo del pensiero causale e della cognizione matematica e il rapporto con il linguaggio verbale sono in relazione perché i ragionamenti quantitativi precedono lo sviluppo del linguaggio verbale. Tra i 5-7 anni vi sono progressi nell’autoregolazione e nella metacognizione (come funziona la mente). Andando avanti, Karmiloff-Smith, presenta una cornice che concilia gli aspetti del costruttivismo piagetiano e della modularità proposta da Fodor. A differenza di ciò che sosteneva Piaget, il neonato è dotato di predisposizioni che gli permettono di elaborare gli imput provenienti dall’esterno e ciò non implica una posizione innatistica forte; il costruttivismo piagetiano è conciliabile con una visione che sottolinea l’esistenza di predisposizioni innate o con il carattere dominio-specifico dello sviluppo. Ne “La mente modulare” nel 1983 Fodor sostiene che la mente è costituita da moduli (o sistemi di input) specializzati: ogni modulo ha particolari funzioni (distinte dagli altri moduli) e funziona quindi in modo indipendente rispetto agli altri moduli trasformando i dati a esso pervenuti attraverso propri trasduttori sensoriali in un particolare formato così che, in uscita, ogni modulo fornisce elaborati secondo un formato comune ovvero il linguaggio del pensiero usato per l’elaborazione centrale. I moduli sono rigidi, automatici, veloci e domino-specifici (un dominio è l’insieme di rappresentazioni che fanno da supporto a una specifica area della conoscenza: il linguaggio, il numero, la fisica e così via) e, ricevuto lo stimolo, funzionano sempre allo stesso modo e autonomamente e le conoscenze esterne al modulo è come se non esistessero, il modulo non viene influenzato. Il modulo, quindi, è un architettura rigida e fissa, che elabora obbligatoriamente guidata dallo stimolo, incapsula informazioni senza lasciarsi influenzare da altro ed è insensibile a scopi cognitivi centrali. Karmiloff-Smith ritiene che i moduli però, non siano prespecificati in tutti i loro dettagli e tra moduli e processi centrali non vi è una dicotomia netta come quella proposta da Fodor. Per la Karmiloff-Smith la modularizzazione della mente è in parte prespecificata e in parte è il prodotto proprio dello sviluppo: la natura specifica inclinazioni e predisposizioni iniziali che incanalano l’attenzione verso input ambientali che contano e che, a loro volta, influenzano il successivo sviluppo del cervello. Sicuramente, anch’essa vede lo sviluppo come una modularizzazione graduale dominio-specifica: un dominio è l’insieme delle rappresentazioni che fanno da supporto a un’area specifica di conoscenze (linguaggio, numero, fisica ecc.) mentre un modulo è un’unità di elaborazione delle informazioni che incapsula tali conoscenze e le relative computazioni. La modularizzazione graduale comporta il ritenere che vi siano delle modificazioni nello sviluppo: si parla di fasi e non di stadi perché per ogni dominio vi sono ripetuti cambiamenti di fasi. Il dominio del linguaggio ad esempio: lo stesso processo di essere consapevole di qualcosa e verbalizzarla può avvenire, nello stesso bambino a 5 anni per un microdominio, a 6 per un altro e a 10 per un altro ancora. Modularizzazione è quindi diversa da modularità e modulo: essa riguarda lo sviluppo linguistico e si riferisce a conclusioni tratte dopo l’analisi di alcuni dati di ricerca; anche questa presuppone predisposizioni specificatamente innate, a differenza del modulo la modularizzazione implica uno sviluppo che avviene in un certo modo perché c’è un’interazione con l’esterno quindi, l’esperienza canalizza le predisposizioni innate e quindi, il modulo non è insensibile alle influenze degli altri domini-specifici. La posizione modularista sostiene che l’apprendimento è determinato, su base innata, da principi dominio-specifici e secondo Karmiloff-Smith la posizione piagetiana è debole perché non riesce a spiegare il fatto che alcuni danni cerebrali comportano disabilità specifiche lasciando intatte altre capacità. Anche la posizione modularista ha una debolezza: non spiega la flessibilità e la creatività umana che emerge con lo sviluppo perché la presenza di moduli predeterminati e non modificabili porta a una concezione della mente come impenetrabile e non in interazione con il mondo esterno. Per spiegare lo sviluppo è necessario usare sia fattori dominio- specifici che fattori di tipo generale, conciliare innatismo modulare e costruttivismo piagetiano. Karmiloff-Smith ritiene che la posizione piagetiana debba essere arricchita ammettendo che lo sviluppo è fin dall’inizio condizionato da preferenze dominio-specifiche e dall’altra, ritiene essenziale ipotizzare che i moduli siano meno rigidi e meno prespecificati di quanto ipotizzato da Fodor: il modulo non è totalmente formato fin dall’inizio ma richiede un processo di modularizzazione in interazione con il mondo esterno; i piagetiani devono quindi accettare che lo sviluppo è anche dominio-specifico mentre gli innatisti devono accettare che infanti e bambini sono attivi costruttori della propria conoscenza. Per la Karmiloff-Smith il bambino registra le informazioni provenienti dall’esterno in due modi diversi. 1) per alcuni imput ambientali la componente innata è talmente determinata in tutti i dettagli che lo stimolo ha solo la funzione di innescare un processo interno di attivazione dell’organismo; 2) in altri casi, l’imput ambientale interessa una predisposizione innata non del tutto specificata e il processo di elaborazione dello stimolo porta ad una modificazione adattiva dello stesso modulo. All’interno di ogni dominio- specifico agisce un processo dominio-generale denominato ridescrizione rappresentazionale comunemente noto come modello RR, un modello a fasi e non a stadi poiché questi ultimi, come quello di Piaget sono relativi all’età e coinvolgono cambiamenti fondamentali che attraversano tutto il sistema della cognizione mentre la ridescrizione rappresentazionale avviene ripetutamente all’interno del microdominio lungo tutto l’arco di sviluppo e perfino in età adulta per certi tipi di apprendimento. Il modello RR ha tre fasi ricorrenti: nella prima fase l’apprendimento è guidato dai dati e si aggiungono rappresentazioni a quelle che ci sono già senza stabilire relazioni con quelle preesistenti riguardanti lo stesso dominio e senza modificarle e questa fase si conclude quando viene raggiunta la padronanza comportamentale, quando in ogni microdominio si raggiunge una prestazione soddisfacente; nella fase due, le conoscenze (interne) relative al microdominio prevalgono sulle informazioni che provengono dall’esterno e le prestazioni comportamentali possono essere inferiori a quelle della prima fase; nella terza fase invece, vi è equilibrio tra controllo interno ed esterno e le prestazioni comportamentali sono di nuovo buone. Queste tre fasi sono supportate da quattro diversi livelli di rappresentazione: il termine FASE si riferisce ai cambiamenti comportamentali mentre il termine LIVELLO a quelli rappresentazionali. Il primo livello è denominato Implicito (I) seguito da Esplicito-1 (E1), Esplicito-2 (E2) ed Esplicito-3 (E3). - Il livello Implicito (I): vengono considerati domini-specifici come linguaggio, fisica, matematica, psicologia, notazione e attività come disegnare, incidere, dipingere, scolpire, tracciare mappe che portano alla produzione di notazioni esterne usando strumenti culturali che lasciano una traccia intenzionale di atti cognitivi e comunicativi. Si chiede a bambini di 4-9 anni di porre in equilibrio dei blocchetti sopra un supporto metallico per farli stare in equilibrio; alcuni erano sbarre omogenee e il peso era distribuito sopra un supporto metallico per farli stare in equilibrio rispetto al centro geometrico, altri sembravano sbarre ma non lo erano e non stavano in equilibrio rispetto all’asse di simmetria, altri erano simmetrici come quelli considerati ma a causa di un peso posto all’esterno. I bambini a 4 anni compiono il compito con facilità prendendo ciascun blocchetto facendolo scorrere sul sostegno finchè avvertono che esso tende a cadere da una parte: quindi correggono la posizione mettendolo in equilibrio. Basta una conoscenza di livello I (implicita) usando le percezioni relative all’equilibrio provando un po' di qua e un po' di là. I bambini di 4 anni sono molto sensibili alle informazioni provenienti dai dati osservabili e trattano ogni blocchetto come un nuovo problema: le informazioni ottenute dall’equilibrazione di ogni singolo blocchetto sono immagazzinate in modo indipendente senza collegamenti con quanto si è verificato nei tentativi precedenti o successivi, ogni blocchetto è un problema a sé. Consideriamo un altro esempio: si chieda a un bambino di 4 anni che dice “mangio il gelato” quante parole sono contenute nella frase appena detta. Lui risponderà due cioè mangio e gelato: sa usare l’articolo ma non sa che cosa è, non ha una conoscenza specifica riguardo le parole e ha una conoscenza implicita. Consideriamo due pupazzi, una femmina e un maschio. La femmina ha tre automobili, un libro e una palla; il maschio ha tre palle, una sola automobile e una matita. Proponiamo al bambino “prestami l’automobilina” chiedendogli se l’abbiamo chiesto alla femmina o al maschio: rispondono al maschietto. La funzione dell’articolo c’è ma non vanno oltre tale livello. Lo sviluppo è quindi un processo dinamico d’interazione tra mente e ambiente più di quanto l’innatismo ammetta. Già in questo livello possono essere compiuti alcuni compiti di seriazione e seriano alcune tazze di diversa grandezza (una dentro l’altra). - Il livello Esplicito-1 (E1): riprendendo l’esperimento dei vari elementi da porre in equilibrio sul supporto metallico, i bambini di 6 anni hanno prestazioni inferiori a quelli di 4 anni. Essi iniziano ponendo ogni blocchetto sul proprio asse di simmetria e falliscono quando il blocchetto non ha il peso equamente distribuito. Usano un output motorio e la teoria del centro geometrico stabilisce che tutti gli oggetti stiano in equilibrio lungo il loro asse di simmetria. Ridescrivendo le rappresentazioni che i bambini acquisiscono a livello I i bambini ricavano una caratteristica che vale per molti oggetti nel mondo. La ridescrizione è un processo interno e non è dovuto ad una maggiore esperienza, analizzano le loro rappresentazioni interne di dati registrati in modo indipendente ed elaborano una teoria a partire da regolarità significative che riscontrano nei dati immagazzinati. Quando un blocchetto viene poggiato sull’asse di simmetria e cade non fanno altro che rimetterlo più delicatamente e quando vedono che l’anomalia non proviene dal comportamento (metterlo troppo forte) ma dal blocchetto li mettono via ignorandoli perché si sono accumulate troppe anomalie. Il livello E1 è caratterizzato dal passaggio da conoscenze implicite a conoscenze esplicite ancora prive di consapevolezza: il comportamento è mediato da una teoria, conoscenza frutto di elaborazione (ridescrizione rappresentativa) dei dati impliciti. Il passaggio dal livello I al livello E1 non è dovuto a nuove esperienze ma dalla trattazione dei dati in proprio possesso come dati da analizzare per arrivare a certe conclusioni teoriche: questi dati sono imput che vengono rielaborati per output differenti. - I livelli Esplicito 2-3 (E2/E3): riprendiamo l’esperimento con bambini di età tra i 4 e i 9 anni. A 8-9 anni i bambini riescono a mettere in equilibrio blocchetti dal peso asimmetrico riproponendo il comportamento del gruppo più giovane. Entrambi i gruppi si servono della retroazione propriocettiva: i bambini di 8 anni hanno tanto una conoscenza esplicita del centro geometrico quanto una teoria relativa alla legge della leva e si basano su rappresentazioni in formato E2/E3. I bambini di 8-9 anni hanno un livello di esplicitazione superiore rispetto a quello dei bambini di 6 anni e la Karmiloff-Smith ipotizza due livelli di teorizzazione (E, espliciti) e questi due sono sempre trattati assieme. Il livello E1 è diverso da quello di livello I perché si tratta di una rielaborazione di dati codificati a livello I con caratteristiche astratte, ridotte e flessibili a disposizione anche di altri domini. I dati a livello E1 non sono ancora accessibili alla coscienza e alla verbalizzazione e ci si riferisce al livello E2 se tali dati sono consci e al livello E3 se sono consci e verbalizzabili. Un altro assunto del modello RR è che l’accesso conscio e la verbalizzazione sono possibili soltanto a livelli superiori rispetto al livello E1: al livello E2 le rappresentazioni sono accessibili alla coscienza ma non al resoconto verbale (possibile solo al livello E3) e il modello RR postula che le rappresentazioni di tipo E2 sono si accessibili alla coscienza ma restano in un codice rappresentazionale simile a quelle rappresentazioni spaziali E1 di cui sono una ridescrizione: le rappresentazioni spaziali E1 sono ricodificate in rappresentazioni spaziali E2 accessibili alla coscienza e quindi, di fronte a problemi che non sappiamo esprimere verbalmente disegniamo diagrammi. La Karmiloff-Smith non esclude che vi possano essere cambiamenti di tipo generale che interessano ambiti domino-specifici ipotizzando anche uno sviluppo generale, non solo domino-specifico. Un altro importante approccio è quello psicometrico che si basa sulle differenze individuali ai vari test con tecniche statistiche di analisi dei dati in cui si cercano dei pattern comuni e quando si trovano differenze nei pattern si ipotizza che siano dovute a differenze in abilità mentali di base. La distinzione principale è stata attuata da Spearman tra due fattori d’intelligenza: un fattore generale (fattore g) comune a tutte le prestazioni intellettuali e vari altri fattori specifici. Thurstone preferì riferirsi a sette diverse abilità mentali primarie: comprensione verbale, abilità con i numeri, memoria, velocità percettiva, visualizzazione spaziale, facilità verbale e ragionamento induttivo. Con Guilford la differenziazione viene esasperata considerandone 120. Secondo Stenberg un primo aspetto riguarda i cambiamenti nel numero di fattori con il progredire dell’età sostenendo la teoria della differenziazione secondo la quale con il crescere dell’età si passa da un’abilità intellettuale generale a vari gruppi di abilità: tale passaggio si accentua nel passaggio tra fanciullezza e adolescenza e con il progredire dell’età le varie abilità diventano sempre più indipendenti. Quella di Spearman sembra essere adatta per i primi 10 anni di vita e quelle di Thurstone e Guilford rispetterebbero le prestazioni di adulti e adolescenti. Per gli studiosi psicometrici il termine “intelligenza” è usato in maniera generale per riferirsi a qualcosa che permette ai soggetti prestazioni cognitive. Analisi suggeriscono che un fattore specifico sia più o meno importante a una certa età: nei primi due anni di vita sono fondamentali i fattori di tipo percettivo e motorio; tra i due e i quattro anni acquistano importanza i fattori di tipo simbolico e sono secondari quelli percettivo-motori; non cambia l’intelligenza ma il suo contenuto. Stenberg considera due aspetti evolutivi: con il passare dell’età (fino ai 18-20 anni) le persone diventano più intelligenti in senso assoluto, più passano gli anni e minore sarà la capacità di un test d’intelligenza di predire quale sarà la prestazione dei soggetti. Più passa l’età più i test d’intelligenza misurano non le capacità di base ma l’influenza dei fattori ambientali, più variabili intervengono meno un solo indice sarà in grado di predire risultati dopo anni. Nel suo funzionamento il pensiero utilizza i concetti che riuniscono in classi gli elementi della realtà nel modo più efficace per il nostro comportamento del momento e procediamo per categorie. Il concetto è come se fosse la rappresentazione mentale di una categoria che consente di distinguere tra esemplari che appartengono a quella categoria o ad un’altra. Non sono isolati ma collegati tra loro con tre livelli gerarchici: un livello base (basic) ad esempio concetto di mela, un livello subordinato (golden) e un livello superordinato (frutto); la mela Golden viene classificata come una mela e solo dopo come un frutto o una mela particolare. Con il termine metacognizione ci riferiamo invece sia ai processi di controllo che permettono di effettuare le scelte nelle strategie cognitive da mettere in atto, di controllarne e verificarne l’esecuzione e valutare l’efficacia, sia alle conoscenze specifiche che il soggetto ha su come avviene la conoscenza. Per quest’ultimo, vi sono due filoni di indagine: la teoria della mente in cui si analizzano le credenze e i desideri che i soggetti attribuiscono agli altri (alle menti altrui), studiano le false credenze quelle ricerche che considerano a quali età i bambini sono in grado di capire che gli altri possono avere credenze erronee e che se vogliamo prevedere i loro comportamenti dobbiamo considerare che saranno proprio tali credenze erronee a guidare il loro comportamento; il termine teoria è usato per indicare il riferimento al sistema di conoscenze che guidano i comportamenti. Il secondo invece riguarda gli studi sullo sviluppo della metacognizione inizialmente identificato come ricerche sulla metamemoria, l’enfasi sui processi di memoria rivela l’influenza dell’approccio human information processing (HIP). Tutte le persone utilizzano conoscenze psicologiche intuitive per comprendere azioni e emozioni: le persone agiscono per soddisfare certi desideri e le loro azioni sono guidate dalle conoscenze e delle credenze che possiedono. Oltre alla comprensione di credenze e desideri si è studiata la comprensione delle emozioni, percezioni, attenzione, memoria e sono state estese queste ricerche anche a bambini autistici o con disabilità intellettive o con disturbi specifici del linguaggio. Wimmer e Perner condussero una ricerca in cui, ad ogni bambino, si raccontava la storia con l’aiuto di pupazzi e oggetti appropriati del Compito di Maxi: “Maxi è in cucina con la mamma e mette il cioccolato nell’armadio rosso, quindi, esce a giocare in giardino. La mamma prende la cioccolata ne usa un po' e la mette nell’armadio giallo invece che in quello rosso. Maxi torna e vuole il cioccolato: dove la cercherà? In quello rosso o in quello giallo?”. Per prevedere cosa farà Maxi bisogna capire che il suo comportamento non sarà guidato da ciò che sappiamo noi (ovvero che la cioccolata sta nell’armadio giallo) ma da ciò che Maxi crede e cioè che la cioccolata sta nell’armadio rosso. Solo una minoranza di bambini di 4 anni ha dato risposte corrette mentre quelli di 6 anni la superano correttamente perché hanno un’adeguata teoria della mente. Un altro esperimento è il Compito degli Smarties: “Si mostra al bambino una scatola di smarties chiusa chiedendogli cosa pensa ci sia dentro. Dopo la risposta che sarà ovviamente “smarties” gli si mostra che in realtà la scatola contiene una matita e si richiude la scatola. Si informa il bambino che arriverà una persona a cui mostreranno la scatola chiusa e si chiede quindi di dire cosa risponderà la persona quando gli verrà posta la domanda sul contenuto della scatola”. I bambini di 4 anni rispondono correttamente mentre quelli di 3 rispondono “una matita” poiché non sono ancora in grado di tener conto della falsa credenza che ha la persona. Quindi, dopo i 4 anni i bambini hanno una teoria della mente. Sappiamo inoltre che in ogni comunicazione verbale umana vi sono informazioni che vengono espresse chiaramente e altre che devono essere inferite basandosi sul contesto del discorso: quando chiediamo al bambino “dove andrà Maxi a cercare la cioccolata” si intende “dove andrà prima di tutto” e non “dove andrà per trovarla”. Siegal e Beattie mettono alla prova queste ipotesi raccontando storielle simili a quelle del compito di Maxi. Veniva chiesto “Dove andrà prima di tutto Maxi a cercare la cioccolata?” rendendo esplicita l’informazione che veniva lasciata sottointesa prima permettendo, anche a bambini di 3 anni, di rispondere correttamente ipotizzando che anche a 3 anni i bambini possiedano una teoria della mente. Negli individui con autismo la teoria della mente è fortemente compromessa e il compito di Maxi e degli Smarties confermano la teoria perché hanno risultati inferiori: tutto ciò conferma l’influenza delle componenti innate e la validità di una descrizione a moduli della mente umana. Gli studi sulla metacognizione hanno due filoni d’indagine: alcuni studiano il funzionamento del controllo metacognitivo e altri le conoscenze del soggetto su come funziona la mente. Il primo tipo di studi capitanato da John Borkowski ritiene che gli allievi che sanno imparare bene siano notevolmente metacognitivi e sintetizza in dieci punti le caratteristiche che contraddistinguono tali allievi: 1) conosce un gran numero di strategie utili all’apprendimento; 2) capisce quando, dove e perché queste strategie sono importanti; 3) sceglie le strategie con saggezza e le applica operando un monitoraggio per vedere se è applicata correttamente; 4) è motivato intrinsecamente per misurarsi con se stesso e non per gli altri; 5) considera la mente potenziabile attraverso l’esperienza; 6) non ha paura dell’insuccesso sintomo del fatto che bisogna cambiare qualcosa; 7) non è ansioso davanti a una prova ma le vede come occasioni per imparare; 8) crede nell’impegno organizzato; 9) rispetta la diversità del talento umano senza giudizi; 10) è sostenuto in tutti i punti da genitori, scuola e società. Un rapporto privilegiato d’indagine è riservato ai rapporti tra controllo metacognitivo e prestazioni di memoria e le ricerche di Cornoldi e Vianello sono particolarmente rilevanti. Inizialmente sembrava che buone competenze in metamemoria influenzassero positivamente le prestazioni di memoria e facendo emergere un quadro completo, le capacità mnemoniche dei bambini sono positivamente influenzate da interventi che migliorano il controllo metacognitivo. Cornoldi e Vianello, quindi, hanno condotto indagini con soggetti con disabilità intellettive e hanno dimostrato che, con un apposito training metacognitivo, le prestazioni di memoria siano migliorabili a condizione che l’età mentale del soggetto non sia troppo bassa. Si dovevano accrescere le conoscenze su come funziona la mente, evidenziare che tendiamo a sopravvalutare le capacità di ricordo, esercitare il soggetto nell’uso di strategie di controllo tipiche della memoria di lavoro, potenziare un atteggiamento attribuzionale che valorizza il ruolo dell’impegno, associare al training metacognitivo anche un training di memoria. Sia le ricerche sulla teoria della mente che quelle sulla metamemoria forniscono anche informazioni sullo sviluppo di conoscenze relative al funzionamento della mente con una metodologia che richiama la flessibilità del metodo clinico di tipo piagetiano ma con dati confrontabili quantitativamente ed elaborabili statisticamente. Centrale è il racconto di una storia e i bambini sono sollecitati a intervenire in prima persona con suggerimenti e spiegazioni contribuendo alla trama e, la comprensione del racconto è favorita dalla presentazione di tavole illustrative: le domande sono volte ad indagare la misura in cui il soggetto possiede conoscenze relativamente agli eventi mnestici fondamentali con la possibilità di espansioni personali. Un obiettivo fondamentale delle indagini è stato il confronto dello sviluppo di strutture mentali con lo sviluppo delle conoscenze sul funzionamento della mente. Il rapporto fra sviluppo metacognitivo e intellettuale è studiato non solo nei soggetti con sviluppo tipico ma anche con quelli con disabilità intellettive come la sindrome di Down o uditive. A 4-5 anni i bambini riflettono sul funzionamento della mente e in particolare sulla memoria e l’attenzione centrate sugli stimoli, sull’esterno o su ciò che bisogna fare nel momento della codifica mentre sono scarse le riflessioni su ciò che avviene nella mente, riconoscendo l’esistenza dell’oblio. A 6-7 anni emergono conoscenze su ciò che può avvenire all’interno della mente, scoprono l’esistenza della memoria di lavoro e dei processi di recupero nonché della memoria a lungo termine. Ad 8-9 anni si impara a non trascurare il ruolo degli aspetti emotivi sottostanti ai processi cognitivi. Vi è una correlazione debole ma positiva tra le conoscenze spontanee e le effettive prestazioni di memoria. Con il termine autoregolazione intendiamo una serie di abilità che ci consentono di modulare il comportamento in relazione alle diverse richieste cognitive, emotive e sociali riferite al controllo cognitivo. Questa modula la capacità degli individui di apprendere e di adattarsi ai diversi contesti sociali. Lo sviluppo dell’autoregolazione sembrerebbe essere l’esito di un processo di interazione tra molteplici componenti e concorrono sia aspetti biologico-costituzionali che ambientali. Per i primi dipende dalla maturazione della corteccia prefrontale e dall’integrazione di questa con le aree sottocorticali ed ecco perché necessita di uno sviluppo prolungato nel tempo; nei fattori ambientali prossimali rientrano il ruolo delle relazioni parentali, lo stile educativo in quanto il caregiver è il primo supporto e modello di autoregolazione di cui dispone il bambino mentre in quelli distali vi sono le condizioni socioeconomiche perché, i bambini che provengono da contesti socioeconomici svantaggiati hanno minori capacità di regolazione. Tra i 3-5 anni l’abilità di regolazione cognitiva ed emotiva ha un impressionante incremento e Claire Koop individua 4 tappe di sviluppo dell’autoregolazione: 1) dalla nascita fino a 2-3 mesi si parla di modulazione neurofisiologica con meccanismi di regolazione che proteggono il bambino da un livello eccessivo di attivazione o stimolazione, mettono in atto primitivi meccanismi autoconsolatori che modulano gli stati interni o richiamano l’attenzione dell’adulto; 2) fra i 3-9 mesi nella fase sensomotoria i bambini utilizzano emergenti capacità di controllo dell’attenzione e degli atti motori per modulare le interazioni con l’ambiente e, man mano che emergono le competenze linguistiche si passa alla 3) fase dell’autocontrollo e dai metodi passivi si passa ai metodi di autoregolazione attivi in cui ogni comportamento è intenzionale con una spiccata capacità di controllo delle stimolazioni che giungono dall’esterno e gli impulsi interni, interiorizzano i divieti e vogliono autodeterminarsi in quel periodo detto “i terribili due anni” ma ancora hanno difficoltà a gestire impulsi e emozioni. Koop usa il termine autocontrollo e non autoregolazione perché il bambino, nonostante i progressi, ha ancora limitate capacità di adattarsi e modificare il comportamento in base alle richieste dell’ambiente; 4) con l’età prescolare si entra nella quarta fase, quella dell’autoregolazione in cui i bambini sono sempre più autonomi nella gestione del proprio comportamento. Già a partire dal secondo anno di vita i bambini amano usare penne, matite e pennarelli su carta, tovaglie e pareti. Abbiamo quindi i primi scarabocchi a cui il bambino attribuisce un significato solo dopo aver tracciato il segno, prova a vedere cosa viene fuori da questi segni: Luquet ha usato l’etichetta realismo fortuito per indicare che i risultati non sono frutto dell’intenzionalità ma di una scoperta successiva. A questa fase succede l’intenzionalità rappresentativa in cui il bambino fin dall’inizio cerca di rappresentare qualcosa ma poi, osservando il risultato, ci dica che vuole fare un’automobile e poi cambiare a metà strada dicendo che sta facendo una barca: è nella fase del realismo mancato in cui vorrebbe fare qualcosa ma non ci riesce. Il bambino, quindi, può iniziare a trovare fiducia disegnando le cose che ha imparato bene a fare: soggetto tipico è l’omino testone per la figura umana con un cerchio per la testa e anche il corpo, gli occhi e la bocca, a volte anche il naso a cui si attaccano gambe e braccia. Nell’ottica cognitivista, come detto da Freeman, l’omino testone è prodotto così non perché il bambino abbia un’immagine mentale interiorizzata del corpo umano deformata ma a causa di limitate capacità della memoria di lavoro che non riesce a tenere a mente tutte le parti del corpo. Un progresso si ha quando si aggiunge il corpo e la figura si veste e tra la testa e il corpo viene messo il collo. Già a 4-5 anni la figura umana viene rappresentata con altri elementi su uno sfondo come la casa, il sole, gli animali, gli alberi e le automobili. Questi vari schemi tendono a non essere molto adattati e variati e non vi sono tentativi di rappresentare la terza dimensione mentre dai 4-5 anni i disegni dei bambini possono rappresentare la realtà in modo soddisfacente perché il bambino riproduce singoli oggetti o persone seguendo schemi che si ripetono con poche variazioni. Vi sono due fasi: la prima in cui nello stesso foglio il bambino può rappresentare persone ed oggetti ciascuno disegnato per conto proprio; avremo quindi la mamma, un gatto, un fiore, tutti sconnessi tra loro; la seconda, in cui si inizia a creare lo sfondo aggiungendo la linea verde che rappresenta l’erba, il pavimento, gli animali ecc con collegamenti ancora parziali, figure statiche, senza proporzioni di grandezza e il disegno assomiglia ad una scena teatrale dove tutti i personaggi sono rivolti verso il pubblico, ovvero il bambino che disegna. Tutto ciò è coerente con il pensiero intuitivo (preoperatorio) perché il bambino effettua collegamenti in forma limitata. Disegnare richiede una notevole capacità di pianificazione che il bambino ha nella scuola dell’infanzia ma senza un rispetto delle proporzioni o della grandezza del foglio, disegnando gli stessi soggetti apportando pochissime variazioni. Il disegno del bambino è influenzato da aspetti contestuali come il materiale a disposizione, il destinatario del disegno e così via. Fino ai 6-7 anni il bambino non disegna come se fosse una fotografia ma sulla base delle proprie conoscenze per cui Luquet coniò il termine realismo intellettuale variando quegli schemi con cui inizia a disegnare dai 4-6 anni e a 7 anni si introduce la prospettiva: comunque gli elementi sono ancora distaccati come ad esempio il treno e le rotaie uno sopra l’altro ma staccati affinché si vedano entrambi. Verso gli 8-9 anni conclusa l’acquisizione del pensiero operatorio concreto il bambino cerca di rispettare la realtà così come essa è visibile da un particolare punto di vista con il realismo visivo con un buon tentativo di raffigurare il movimento delle persone fino ad arrivare all’adolescenza con una grande attenzione per la prospettiva, le decorazioni: molte volte l’interesse per il disegno si perde perché non ci si sente portati, perché non piace più o lo può usare come distrazione mentre il professore parla. Bombi e De Fabritiis sottolineando che disegnare non è solo più rappresentare la realtà cercando di essere più fedele possibile alla rappresentazione visiva che si ha ma questa attività deve essere compiuta in un contesto di comunicazione con gli altri e attraverso mezzi simbolici: il bambino disegna secondo la convenzione proposta dalla comunità in cui il bambino vive per riprodurre le case perché accetta una convenzione in quanto la creatività non sta nel prodotto ma nei processi che il soggetto usa. Disegnare implica sia vari processi cognitivi sia interagire con gli altri comunicando su una base simbolica che prevede regole comuni ma anche possibilità di espressioni nuove e originali. Uno degli studi più significativi riguarda la lettura e la scrittura: fondamentali sono le ricerche condotte con soggetti adulti che a causa di una lesione cerebrale denunciavano carenze a livello di lettura e di scrittura avendo quindi difficoltà specifiche rispetto ad alcuni compiti e non generalizzate. Nel modello complesso di lettura che possiamo riferire ad un adulto vi sono tre vie: dall’analisi visiva riconosco la parola e ne attivo il significato nel magazzino semantico con quello che c’è nel magazzino fonologico delle parole, ciò che ho trovato con ciò che è presente per la risposta e infine pronuncio la parola in questione, questa è la via lessicale. Dall’analisi visiva si passa, con le regole di trasformazione grafema-fonema direttamente al magazzino fonologico per la risposta, questa è la via fonologica. Proviamo a leggere parole di una lingua straniera che conosciamo solo parzialmente: in alcuni casi con parole conosciute sia nel significato che nella veste fonologica potremmo percorrere la via lessicale; se riconosciamo la pronuncia corretta ma non ricorderemo il significato o con una parola nuova potremmo usare la regola grafema-fonema. È stato definito un modello di apprendimento della lettura e della scrittura grazie a Uta Frith. Si riconosce una fase logografica in cui il bambino legge o scrive le parole in modo globale, visivo senza riconoscere adeguatamente i grafemi di cui la parola è costituita, può leggere casa e sole ma non sale perché le sue conoscenze sono sincretiche; la fase alfabetica il bambino applica le regole di trasformazione grafema-fonema (o viceversa); nella fase ortografica le regole di trasformazione grafema-fonema sono applicate a gruppi di grafemi o fonemi (come sillabe o gruppi ortografici). La fase alfabetica e quella ortografica si completano a vicenda e permettono la lettura attraverso la via fonologica. Nella fase lessicale, la lettura o la scrittura delle parole avviene ancora in modo globale senza ricorrere alle regole di trasformazione grafema-fonema ma si basa sul riconoscimento ortografico delle parole. Le sigle MIX, F, S indicano i vari tipi di dislessia: MIX indica la dislessia mista, F indica la dislessia fonologica, S indica la dislessia superficiale o morfologico-lessicale. La dislessia fonologica (F) si ha quando le difficoltà riguardano le regole di conversione grafema-fonema e se il soggetto compie molti più errori con parole nuove o poco frequenti si può pensare che le difficoltà siano dovute a carenze nell’uso delle regole di conversione. La dislessia superficiale (S) ha prestazioni migliori con parole nuove (lette con la via fonologica) rispetto a quelle che si hanno con le parole irregolari (da leggere con la via lessicale) avendo difficoltà se non può usare le regole di conversione grafema-fonema e deve leggere usando il lessico ortografico. I casi di dislessia mista sono meno frequenti. In ogni attività di comprensione del testo sono impiegati due tipi di processi rifacendosi ai modelli HIP: il soggetto può mettere in relazione l’informazione nuova con la conoscenza che egli ha già attraverso una analisi guidata dei dati (dal basso verso l’alto) oppure dai concetti (dall’alto verso il basso). L’analisi dall’alto verso il basso avviene quando leggiamo una parola straniera sconosciuta, diamo importanza ai dati leggendo qualcosa che per noi non ha proprio senso. Quando leggiamo una parola per un’altra diamo importanza ai concetti, alle previsioni che avevamo già fatto in ciò che poteva essere scritto, e chi legge dal basso verso l’alto rischia di leggere senza capire nulla. Più il brano è familiare più sarà facile comprenderlo perché ha un copione base ma la comprensione del testo dipende sia dal fatto che ci possono essere difficoltà lessicali, sintattiche, relative ai rapporti tra le frasi e quelle relative alla struttura complessiva del brano; del soggetto invece, bisogna considerare le conoscenze preesistenti, del suo essere attivo e impegnato nel comprendere, delle sue capacità cognitive e delle sue capacità metacognitive. Nella scrittura, sappiamo che vengono attivati processi molto complessi e si distinguono tre fasi date dal modello di Hayes e Flower. Nella fase di pianificazione l’individuo deve generare delle idee da comunicare con idee che può recuperare dalla memoria a lungo termine, organizzandole e decidendo quale obiettivo vuole privilegiare. Poi, si decide di tradurre nelle parole e frasi di un testo ciò che si è pensato e poi si può passare a ripianificare qualcosa oppure alla fase di revisione che può essere suddivisa in una specie di revisione continua, man mano che si scrive e in una sistematica che si compie alla fine. Vi è anche una funzione monitor che simboleggia i processi che permettono il confronto in corso tra le tre fasi della pianificazione, traduzione e revisione. I bambini trovano difficoltà perché devono produrre un testo senza il feedback di un interlocutore, cercare contenuti nella memoria a lungo termine adatti al compito, programmare il testo coordinando piano generale con il piano dei progetti specifici ed effettuare la revisione del testo prodotto. Altri studi specifici sono stati dedicati all’acquisizione di abilità numeriche: i bambini si rappresentano i numeri nell’atto del contare e secondo Gelman e Gallistel ci sono tre principi sul modo di contare, il come contare: - Il principio di corrispondenza uno a uno: ogni elemento dell’insieme contato può essere definito con un solo nome o parola-numero, il primo numero è uno, il secondo due e così via definendoli tutti senza saltarne uno, il bambino comprende anche se di fatto non riesce ad attuare questo principio. - Il principio dell’ordine stabile: si devono sempre dire i nomi dei numeri nello stesso ordine e il bambino conosce il principio anche se non sa rispettarlo - Il principio della cardinalità: l’ultimo numero detto da noi ci dice quante cose ci sono; se l’ultimo è il quattro ci saranno allora 4 cose. Ma cosa può essere contato? Si aggiungono: - Il principio di astrazione: secondo cui tutto può essere contato - Principio della non pertinenza dell’ordine: si può iniziare con l’elemento che vogliamo e continuare con quello che preferiamo La Gelman riconosce che i bambini piccoli hanno molti limiti nel contare, conoscono poche parole- numero, ne dimenticano qualcuna nel contare o contano due volte lo stesso elemento ma c’è una competenza innata a dominio specifico dei principi dei numeri. Rispetto a questa posizione innatista, Siegler è perplesso e afferma che secondo lui il bambino impara a contare in modo limitato, parziale e poi astrae i principi sottostanti: è con l’esperienza che si accorge che non ha importanza l’ordine con cui si contano gli elementi, dato che si arriva sempre allo stesso numero, a quel punto ne ricava il principio (di non pertinenza dell’ordine). Sulla base dell’esperienza si accorge che se salta un elemento o lo conta due volte arriva a risultati diversi e ne ricava il principio di corrispondenza uno a uno. La posizione innatista non nega il fatto che l’esperienza ha un ruolo attivante processi e quella costruttivista non nega alcune predisposizioni: la Karmiloff-Smith le concilia affermando che una predisposizione verso dati numericamente rilevanti è costituita dall’architettura della mente umana e, in tutti gli stimoli offerti dall’ambiente, il piccolo impiega principi domino-specifici per individuare, marcare queste diverse funzioni, trattare alcuni input come rilevanti per il conteggio e altri come rilevanti alla denominazione, memorizzando in modo differenziato rappresentazioni pertinenti al contare e al denominare e sarebbe impossibile se non ci fossero principi innati specifici a guidare l’infante. Concorda con la Gelman che il numero si basa sul contare ed è una nozione dominio-specifica ma a differenza sua ritiene che il principio di cardinalità non sia innato ma emerga dalla coordinazione di principi più semplici, resa possibile da una qualche comprensione esplicita dei principi utilizzati nel contare. I bambini sono in grado di confrontare fra loro insieme di due o tre elementi per ricavarne un giudizio di numerosità e ritenere che l’insieme tre è più grande dell’insieme due. Un esperimento di Gelman utilizzando due piatti di una bilancia sulla quale erano posti, in fila, due o tre topolini giocattolo, presentavano ai bambini la fila di tre topolini lunga come quella di due anche se era più densa; per altri invece, si prevedeva che la fila da tre fosse più lunga. I bambini tra i 3-6 anni risposero correttamente ma non era chiaro se la percezione falsava la risposta. Dopo di che la Gelman, toglieva un topolino senza che lo vedessero in modo che la fila fosse più lunga o più densa e su ciascun piatto c’erano due topolini: queste modifiche causavano reazioni nei bambini tali da portare a concludere che le valutazioni del bambino di tre anni prescindeva dalla lunghezza o dalla densità e che il confronto era proprio numerico, i bambini contavano fino a tre e confrontavano i gruppi di tre con quelli di due concludendo che vinceva il gruppo più numeroso, quello di tre. Starkey, Spelke e Gelman con il paradigma dell’abituazione con i bambini tra i 6-9 anni hanno presentato ai bambini delle diapositive contenenti tre oggetti domestici (come un pettine) finché il bambino vi si abituava e successivamente presentarono diapositive con due o tre elementi in configurazioni spaziali diverse: il bambino fissava più a lungo le diapositive con soli due elementi. A quattro mesi i bambini discriminano insieme di grandezza pari a 4-5 elementi, tra i 3-6 anni si destreggiano con le operazioni di addizione e di sottrazione ma cruciale rimane l’insegnamento: sia che il bambino conti con le dita o toccando oggetti l’origine è sempre passare da 1 a 2 e se viene favorito nei suoi ragionamenti aritmetici a 5 anni le sue capacità saranno notevoli fino poi ad arrivare alle tappe proposte al bambino a scuola come le quattro operazioni, unità e decine, decimali, frazioni. Parliamo di disabilità intellettiva di quel disturbo che emerge in età evolutiva e che include sia deficit del funzionamento intellettivo che adattivo nelle aree concettuali, sociali e pratiche, non sono determinati dal QI quanto dai supporti richiesti; tra le cause vi sono anomalie genetiche, infezioni della madre, ecc. la sindrome genetica più famosa è la sindrome di down, ma ve ne sono altre come la sindrome di williams in cui le prestazioni linguistiche sono assai migliori di quelle visuo- spaziali e la sindrome di Prader-Willi con iperfagia (per cui diventano obesi) e i bambini con disabilità certificata a scuola sono almeno due su tre allievi. È frequente la comorbilità tra ADHD e disabilità intellettive ma è sempre importante che i bambini stiano in classe e siano istruiti su argomenti uguali o simili, che gli insegnanti conoscano bene lo sviluppo tipico e atipico, che il loro insegnamento sia flessibile e che valorizzi l’allievo e che la collaborazione sia favorita; il counseling ai genitori è fondamentale per aiutare i genitori ad affrontare la situazione e valorizzare meglio i figli. Capitolo 7: Lo sviluppo delle emozioni Se si chiede a qualcuno di descrivere un’emozione lo descriveranno come un evento eccezionale che rischia di essere al di sopra delle capacità di controllo del soggetto con ripercussioni interne e modificazioni nell’attivazione psicofisica dell’individuo (rossore, sudorazione) di cui egli tende a rendersi conto e che produce reazioni comportamentali (urlare, piangere, gioire, fuggire). Plutchik descrive l’emozione come una complessa catena di eventi che incomincia con la percezione di uno stimolo e finisce con un’interazione tra l’organismo e lo stimolo che ha dato avvio alla catena di eventi. Le maggiori componenti della catena sono una valutazione cognitiva dello stimolo, un’esperienza soggettiva o sentimento. Darwin formulò l’ipotesi che le emozioni abbiano una funzione adattiva al fine di permettere una reazione agli stimoli ambientali con una base innata delle esperienze emotive e vi è una base innata anche nel riconoscere le espressioni facciali delle emozioni. L’emozione ha quindi: uno stimolo che la scatena, il più delle volte esterno o interno; una valutazione della situazione che porta a un vissuto soggettivo ed è proprio questo vissuto che da il nome all’emozione; delle risposte fisiologiche particolari e una reazione tonico-posturale generale che interessa tutto il corpo. Le emozioni sono differenti dagli stati d’animo anche se spesso si confondono: questi ultimi non seguono sempre eventi precisi e corrispondono ad un umore diffuso di cui si ha consapevolezza sfocata e imprecisa, non vi sono nemmeno modificazioni fisiologiche. Sono riconosciute tre funzioni alle emozioni: una favorente l’azione e due di tipo comunicativo. Questa attivazione dell’organismo può risultare eccessiva e si usa il termine emozione quando parliamo di emozioni negative, rischiando una reazione esagerata dell’organismo. Poi vi sono le funzioni comunicative per cui si può comunicare con gli altri il proprio stato emozionale ma anche con se stessi per capire se c’è qualcosa da affrontare. Le emozioni sono un linguaggio biologicamente non strutturato. Sono distinte in emozioni primarie (o fondamentali) che hanno una base espressiva universale e sono comuni agli umani e agli animali come la paura, la gioia, la rabbia, la tristezza, il disgusto e la sorpresa; vi sono poi le emozioni complesse (o sociali) caratteristiche degli esseri umani in quanto richiedono un’elaborazione cognitiva e soprattutto consapevolezza come gelosia, imbarazzo, orgoglio, vergogna e senso di colpa. Vi sono varie teorie che studiano le emozioni denominate teoria della differenziazione e teoria differenziale. La teoria della differenziazione proposta dalla Bridges ipotizza che si possa distinguere nel neonato solo uno stato di maggiore o minore eccitazione e che successivamente avvenga una differenziazione progressiva che permette di distinguere tra stati emotivi di sconforto e di piacere. Dopo i 3 mesi lo sconforto si differenzia in collera, disgusto, paura e il piacere in giubilo, affetto. Le rielaborazioni di questa teoria si caratterizzano per il tentativo di evidenziare come questa progressiva differenziazione sia possibile grazie ai concomitanti cambiamenti a livello cerebrale, cognitivo e sociale che consentono ai bambini di valutare eventi e comprendere cause: lo sviluppo emotivo è subordinato a quello socio-cognitivo. Sono tre le linee di differenziazione progressiva: una per il piacere/gioia, una per la circospezione/paura una per la rabbia/collera. Sono presenti circa 6 stadi di questa differenziazione. - Primo e secondo stadio, i precursori: Nel primo mese di vita sono presenti il sorriso endogeno, il trasalimento come reazioni a stimoli intensi, il dolore espresso con il pianto e lo sconforto. Sono ritenuti prototipi fisiologici del piacere-gioia, circospezione-paura, rabbia-collera e non si parla di vere e proprie emozioni. Nel secondo stadio fino ai 3 mesi circa non sarebbero presenti vere e proprie emozioni dei precursori a cui si aggiungono, a quelli già citati, l’attenzione coatta precoce con cui il bambino, di fronte ad uno stimolo vissuto come strano e non familiare lo fissa attentamente per un periodo di tempo prolungato per poi passare ai comportamenti dello sconforto: questo è un precursore della paura e non un vero e proprio stato emotivo della paura perché la reazione è scatenata dal tempo prolungato con cui il bambino fissa lo stimolo. - Terzo stadio, emozioni vere e proprie: a partire dai 3-4 mesi compaiono le emozioni vere e proprie basate su azioni del soggetto centrate sul mondo esterno; il bambino prova piacere perché prende un oggetto o disappunto perché non riesce e si suppone che il bambino abbia una qualche consapevolezza del proprio sentire interno e vi sia la componente soggettiva. - Quarto stadio, la consapevolezza: vi è una consapevolezza maggiore delle proprie emozioni come la paura, la gioia, la collera e la sorpresa - Nel quinto stadio, con la maggiore consapevolezza: si caratterizza per l’attaccamento e le emozioni si fanno più raffinate e graduate. - Il sesto stadio, con la sperimentazione: vi è una sperimentazione a livello affettivo ed emotivo (tra attaccamento e autonomia) caratterizzato da esultanza, ansia, umore irato e petulanza. Dopo i 18 mesi di vita appaiono le altre emozioni come l’affetto per se stessi, vergogna, opposizione, orgoglio, amore, far del male intenzionale e colpa. Coloro che sostengono l’approccio differenziale ritengono che la comparsa di un’espressione facciale chiaramente riconoscibile indica la presenza dell’emozione corrispondente. Le emozioni primarie sarebbero quindi già presenti alla nascita o compaiono comunque nei mesi successivi con un ordine geneticamente determinato. La teoria differenziale attribuisce grande importanza alle componenti innate supponendo che ogni emozione primaria sia universalmente predeterminata nelle sue caratteristiche e che ogni emozione abbia caratteristiche peculiari non riconducibili a una differenziazione da altre emozioni e che le emozioni compaiano al momento opportuno. L’apprendimento, lo sviluppo cognitivo e quello sociale determinano quali possono essere le situazioni che scatenano le emozioni primarie ma non sul tempo di comparsa e la loro natura determinati solo da aspetti maturazionali. Izard distingue tre livelli di sviluppo: - Il primo (2-3 mesi) si caratterizza per esperienze sensorio-affettive con espressione delle emozioni (su base innata) per comunicare i bisogni e per la formazione del legame madre- bambino. - Il secondo (3-4 mesi) con i processi percettivo-affettivi, il bambino presta attenzione agli elementi del mondo esterno - Il terzo (dai 9 mesi) vi è un notevole progresso nella consapevolezza del sé e del proprio agire con altre emozioni. Altri modelli sono dati da Scherer che ritiene che lo sviluppo emotivo sia condizionato dalle capacità di valutazione del bambino. Nel primo mese di vita, il bambino è già in grado di valutare se un fenomeno-stimolo ha carattere di novità oppure è familiare. Abbiamo le emozioni di trasalimento, sorpresa e noia. Poi, distingue fra stimoli che producono piacere e quelli che portano dispiacere permettendo emozioni di piacere o di sconforto. Dai tre mesi, il bambino valuta lo stimolo a seconda del fatto che esso permetta il raggiungimento di un certo obiettivo oppure lo ostacoli. Un quarto controllo valutativo a partire dai 12 mesi di vita si basa sul confronto fra le azioni del soggetto e le richieste sociali e se c’è discrepanza si hanno vergogna, colpa e disprezzo. Harris riprende le ipotesi formulate da Darwin sul fatto che gli esseri umani possiedano un repertorio universale e innato di espressioni facciali distinte e che per mezzo di tali espressioni vengano attribuiti i corrispettivi significati per mezzo di un meccanismo innato di riconoscimento. Con questa dotazione innata il bambino riconosce, fin dai primi mesi di vita le espressioni facciali relative alle emozioni di dispiacere, felicità, rabbia attribuendo un significato corretto. Enfatizza le competenze cognitive che permetterebbero fin dal primo anno di vita la consapevolezza delle proprie esperienze soggettive e dal secondo anno una più adeguata comprensione delle esperienze altrui emotive. Nella seconda infanzia e fanciullezza tale comprensione riguarda anche emozioni complesse che le persone esprimono sui comportamenti propri o altri. La concezione che il bambino ha della mente favorirebbe nella fanciullezza i tentativi mentalistici di controllo delle emozioni, smettendo, ad esempio, di pensare a qualcosa di brutto. Nonostante non vi sia una concordanza sul tempo in cui compare l’emozione, si concorda sulla presenza: del sorriso endogeno, del sorriso al volto umano o sorriso sociale (2-3 mese), del riso come espressione di gioia, della rabbia, della collera e della paura (3-9 mesi) della colpa e del disprezzo (dopo il primo anno di vita). Discordanze sono rilevate per la sorpresa e la vergogna. Avendo presente la suddivisione degli stadi di Piaget nei primi due anni di vita ci sembra interessante notare che la comparsa della gioia, della rabbia, della collera e della paura si colloca nel periodo delle reazioni circolari secondarie (3-8 mesi) in cui il bambino non è più centrato solo su stesso con l’esercizio dei riflessi ma teso al mondo esterno. Le emozioni sociali (dette anche autocoscienti) compaiono nel secondo anno di vita e richiedono un confronto tra una situazione presente e passata che viene rievocata o futura che viene prevista e il bambino, quindi, esperisce le emozioni fondamentali su ampia gamma. Con la comparsa della consapevolezza di se emergono le emozioni autocoscienti che comprendono imbarazzo, invidia e gelosia, sono stati emotivi che richiedono che si rivolga l’attenzione su se stessi esponendo il proprio se allo sguardo proprio o altrui e lo si nota coprendosi il viso, fare un sorriso tirato, distogliere lo sguardo ecc. La forma più evoluta è quella delle emozioni autocoscienti valutative originate da un confronto tra un proprio comportamento e delle norme sociali. Le emozioni autovalutative e i relativi comportamenti di autoregolazione compaiono verso i 2 anni e mezzo, dopo la capacità di riconoscersi e descriversi con sviluppo lento. Con il concetto di competenza emotiva ci si riferisce alla natura adattiva delle emozioni e la Saarni ha elencato varie abilità che possono rientrarvi come: consapevolezza dei propri stati emotivi, il riconoscimento delle emozioni altrui, la conoscenza di un lessico emotivo ampio e adeguato sugli stati emotivi, la competenza empatica. Haviland e Lelwica con la loro ricerca con bambini di 10 settimane hanno visto che i bambini reagivano in modo coerente alle espressioni delle madri relative a felicità, tristezza e rabbia: erano contenti davanti a espressioni felici, erano arrabbiati o immobili o tristi. A partire dagli 8 mesi si ha paura dell’estraneo e agisce con piena intenzionalità e comprensione dei rapporti tra mezzi e fini, interpretando espressioni delle madri in situazioni in cui si trova davanti ad un oggetto (social referencing). Klinnert sostiene che bambini di 12 mesi interpretano le espressioni della madre non solo rivolte a loro ma anche quelle che la madre assume davanti ad un oggetto esterno, interpretando le espressioni esterne della madre come un commento alla situazione. Dal primo anno di vita la comprensione delle emozioni altrui è tale da portare il bambino a cercare di consolare l’altro e si interviene anche con gli adulti grazie ad un progresso sul piano cognitivo e del pensiero simbolico per cui il bambino rivive direttamente ciò che percepisce nell’altro e ricostruisce cognitivamente le esperienze altrui. Secondo Harris, dai 2-3 anni i bambini hanno consapevolezza dei propri stati emotivi e i giochi simbolici di questa età, come le bambole a cui vengono attribuite emozioni, confermano tale convinzione. Dai 3-6 anni i bambini capiscono che vi sono reazioni emotive soggettive agli stimoli per cui la stessa situazione è piacevole per uno ma sgradevole per l’altro. Dai 4-10 anni comprendono le condizioni che provocano emozioni complesse come l’orgoglio, la vergogna e la colpa e il bambino considera il giudizio che le altre persone e il soggetto danno ai comportamenti. La competenza empatica ovvero la capacità di comprendere il punto di vista dell’altro (componente cognitiva dell’empatia) di mettersi nei suoi panni, di riconoscere in modo accurato le emozioni che sta provando e riuscire a vedere la situazione dalla sua prospettiva; dall’altro lato, provare vicariamente la sua emozione la sua emozione (componente affettiva dell’empatia). Nei modelli più recenti, le due componenti non sono considerate come co-occorenti. I modelli teorici relativi a questo costrutto sono definiti modelli multifattoriali (o multidimensionali) per testimoniare una visione complessa della competenza empatica. Hoffman descrive cinque ipotetiche forme o manifestazioni del sentimento empatico: - Distress empatico globale: i neonati non distinguono tra se e gli altri e quando percepiscono la sofferenza di qualcuno ne fanno propria l’emozione vivendola come se quello stato emotivo non avesse causa esterna ma interna, è una forma primitiva di empatia che prende la forma di contagio emotivo. - Distress empatico egocentrico: al primo anno di vita, con l’acquisizione di una sufficiente distinzione tra sé e l’altro, i bambini mimano l’emozione dell’altro e mettono in atto comportamenti che potrebbero apparire tentativi di aiuto finalizzati ad attenuare il proprio stato di angoscia. - Distress empatico quasi-egocentrico: durante il secondo anno di vita, si fa progressivamente distinzione tra i propri stati interni e quelli degli altri e compaiono così i comportamenti tesi a confortare l’altro ma rimane l’egocentrismo e il bambino tende a utilizzare, come strumento per dare conforto, gli oggetti che sono significativi per lui porgendo il proprio orsacchiotto. - Vera empatia: intorno ai due anni emerge la consapevolezza che gli altri hanno stati interni diversi dai propri con comportamenti di aiuto e conforto più adeguati - Distress empatico oltre la situazione: a partire dai 9-13 anni l’empatia è influenzata dalla conoscenza di vita altrui, in risposta a tutto ciò che conosco dell’altro: se un compagnetto malato gioisce ad una festa l’adolescente non si ferma qua ma empatizzerà con la sofferenza dell’amico. La regolazione emotiva è la capacità di controllare o attenuare il proprio stato di attivazione psicofisiologica (arousal) per adattarsi alla situazione in cui si trova e raggiungere uno scopo. I neonati, ad esempio, usano stimoli esterni per regolarsi come i genitori che lo cullano, lo coccolano, proteggendolo dalle emozioni troppo intense che sarebbero ingestibili. I bambini diventano in grado di impegnarsi nell’autoregolazione con risorse interne via via sempre più complesse. Verso gli 8-9 mesi il bambino ha una certa consapevolezza dei correlati psicologici, del proprio vissuto interno connesso con le emozioni. A partire da questo periodo inizia il controllo delle tensioni emotive e lo sviluppo della capacità di controllare le proprie emozioni rappresenta un processo molto lungo e i progressi nello sviluppo cognitivo possono favorire tale controllo. Il controllo delle tensioni emotive è determinato da fattori cognitivi, affettivi, sociali e culturali. Il controllo delle tensioni emotive come evidenziato da Petter ha più livelli: un primo controllo può riguardare il proprio corpo, nel senso che il bambino impara gradualmente a non reagire con motricità estesa a tutto il corpo. Un secondo progresso riguarda l’esterno, dove si scarica la motricità del bambino contro qualsiasi cosa o contro lo stimolo di collera non controllata. Poi questi comportamenti tendono a diminuire in frequenza che in intensità perché anche l’adulto può agire in modo incontrollato in quanto di fronte a emozioni ad altissima intensità il controllo risulta più impegnativo. È necessario diluire la reazione fino ad arrivare a posticiparla fino ad isolare una certa emozione in una regione della personalità senza lasciare che le emozioni provate in un contesto, lavoro, vadano in un altro, famiglia. La capacità di nascondere le emozioni i bambini la provano a 3-4 anni e per sembrare gentili ed educati possono controllare emozioni negative. Tale controllo, l’espressione delle emozioni, sono sintomo delle strategie di controllo del bambino che usa anche senza essere consapevole e a livello di metaconoscenza i bambini sono consapevoli che possono opporre un pensiero felice ad uno triste, sostituendo e riempiendo la mente. Capitolo 8: Lo sviluppo sociale Quando il comportamentismo entra in crisi, Bowlby si fa interprete della necessità di proporre alternative basandosi sugli studi etologici e proponendo la nozione di attaccamento: il bambino è geneticamente predisposto a ricercare e mantenere la vicinanza con i membri della propria specie e particolarmente con la propria madre. Dal punto di vista evoluzionistico il comportamento di attaccamento assolve la funzione di proteggere il piccolo dai predatori e vi sono due comportamenti di attaccamento: i comportamenti di segnalazione (pianto, lallazioni, sorriso) e quelli di accostamento (suzione, aggrapparsi, seguire); vi è un periodo sensibile per stabilire un ottimale legame di attaccamento ed è il secondo semestre del primo anno di vita. La socializzazione è un bisogno primario. Come ogni teoria, anche questa è stata sottoposta a delle critiche e le tre più importanti sono: 1) la troppa enfasi sul fatto che il legame di attaccamento avvenga con una sola persona; 2) troppa importanza all’attaccamento considerandolo come il prototipo di tutte le relazioni affettive e sociali successive; 3) sottovalutazione dei rapporti tra coetanei nei primi anni di vita. Bowlby assume una prospettiva interattivo-cognitivista: interattivo perché nello studio dello sviluppo sociale l’accento posto sugli aspetti interattivi più che su quelli individuali come, ad esempio, l’allattamento e le pause per darsi i turni, le risposte che il bambino si aspetta dal pianto e dalla lallazione; cognitivista perché per esaminare lo sviluppo sociale si utilizzano gli stessi parametri di studio utilizzati per lo studio delle funzioni cognitive. Mary Ainsworth fece l’esperimento della strange situation basato sull’osservazione dell’interazione madre-bambino durante la prima infanzia, si svolge in un contesto non familiare, in presenta di un estraneo che ha il compito di attivare e intensificare i comportamenti di attaccamento del bambino nei confronti della madre sottoponendolo ad una situazione di stress moderato ma crescente nel tempo. In 20 minuti, si susseguono 8 brevi episodi: 1) si entra nella stanza; 2) il bambino esplora e gioca nella stanza ma la mamma non interagisce con lui; 3) entra l’estraneo, si siede accanto alla mamma e interagisce direttamente con il bambino e si vede la risposta che il bambino da e se fa riferimento alla madre; 4) la madre esce e il bambino rimane con l’estraneo e questa prima separazione è fondamentale per rilevare il legame di attaccamento; 5) si ha il ricongiungimento con la madre in cui si vede come il bambino reagisce a seconda dell’attaccamento se evitante, sicuro ecc; 6) la madre esce nuovamente e il bambino rimane da solo; 7) rientra l’estraneo e si verifica se il bambino usa l’estraneo come figura di attaccamento sostitutiva; 8) torna la mamma e lo prende in braccio per valutare nuovamente l’attaccamento. Nei primi tre anni di vita le relazioni con l’adulto soddisfano sostanzialmente due bisogni per assicurare sicurezza e protezione al bambino e facilitare l’ingresso del bambino nel mondo sociale favorendo l’acquisizione di conoscenze perché il bambino è predisposto all’interazione sociale con le sue basi innate. L’attrazione primaria verso l’oggetto sociale è spiegata da Schaffer: gli esseri umani presentano una serie di caratteristiche attentive per il neonato come il continuo movimento, l’emissione di un’ampia varietà di stimoli, la responsività al comportamento del neonato. L’oggetto sociale possiede caratteristiche peculiari come il volto, il suono della voce umana. Dai due mesi di vita il neonato progredisce notevolmente nel prestare attenzione al mondo esterno e ad altre persone, le interazioni faccia a faccia di attenzione congiunta diventano sempre più importanti ed è l’adulto che guida e controlla i contatti reciproci con il piccolo con risposte armonizzate a quelle del bambino. Dai 2-5 mesi il bambino acquisisce competenze indispensabili per le interazioni sociali e con i progressi sul piano manipolatorio l’attenzione si rivolge agli oggetti inanimati. Secondo Schaffer il neonato passa dalle caratteristiche generali alla conoscenza dei tratti specifici delle singole persone con cui è a contatto sulla base delle interazioni sociali riconoscendo così le persone familiari. A partire dal 5 mese il bambino riconosce la madre e si fonderà il legame di attaccamento. La relazione è asimmetrica e si concentra sull’oggetto su cui bambino e genitore pongono l’attenzione in una relazione presto triadica. Dagli 8 mesi lo sviluppo del bambino cambia notevolmente e le interazioni diventano ricche e complesse fondate sulla reciprocità e intenzionalità: più forte diventa il legame di attaccamento più compare la paura dell’estraneo e la separazione dalla madre diventa un avvenimento molto forte. Il legame di attaccamento, tuttavia, si sviluppa quasi sempre con la mamma ma non sempre e all’inizio vi è una persona prescelta per poi ampliarsi: l’attaccamento si ha con più persone. A 10 mesi ha una rappresentazione interna dell’oggetto di attaccamento: i bambini esplorano una stanza sconosciuta solo se la madre è presente, se la madre usciva l’esplorazione terminava quindi, pian piano, l’immagine interiorizzata della madre aiuta l’esplorazione. A 8-10 mesi il bambino acquisisce il concetto di dialogo che diventa simmetrico, reciproco con ruoli intercambiabili in un mantenimento costante, con la capacità di agire intenzionalmente perché il bambino non solo comunica intenzionalmente con uno scopo preciso ma adatta la natura delle sue comunicazioni alla luce dei feed-back dell’altra persona. Dai 18 mesi con l’uso del pensiero simbolico le interazioni sociali utilizzano la componente verbale, i comportamenti dei bambini sono guidati dalle richieste verbali dell’adulto: si pensi al comportamento oppositorio tra il secondo e terzo anno e l’uso del no è un modo superficiale di interagire ma che può mettere in seria difficoltà i genitori. Nel primo anno di vita le interazioni tra pari sono brevi e isolate ma non c’è un assenza di interazione: con il passare del tempo, 8-10 mesi, diminuiscono le interazioni fisiche e mediate dagli oggetti negativi (come togliere un giocattolo) ma aumentano quelle con oggetti di tipo positivo. Nel secondo-terzo anno di vita si passa dalle interazioni speculari, quando i bambini fanno la stessa cosa, l’uno vicino all’altro, ma ciascuno per conto proprio senza interagire veramente, alle interazioni complementari e reciproche risponde alla richiesta di aiuto di un compagno o dopo aver fornito soccorso lo richiede a sua volta. Dai 3-6 anni il bambino imita i genitori, in particolare quello del proprio sesso e si identifica con loro, comprende i ruoli delle persone e la frequenza alla scuola dell’infanzia amplia l’orizzonte sociale del bambino per entrare nel mondo delle regole sociali ovvero imparare come devo comportarmi a seconda del contesto. Fino ai 6 anni, i bambini non mettono in discussione il fatto che si debba obbedire ai genitori che comandano e loro devono obbedire perché, essere bambini buoni, significa obbedire ed essere gentili. Il bambino quando interagisce con i coetanei manifesta chiari comportamenti di aiuto e modifica la propria conversazione a seconda che il suo interlocutore sia un adulto, un bambino di pari età o più piccolo. Shatz e Gelman ritengono che già a 4 anni si noti bene questa capacità: il gioco sociale si unisce al gioco simbolico che diventa raffinato con l’interazione dell’educatore e senza essi, possono apparire egocentrici e individualisti. Essere amici a questa età è solo giocare assieme, fare qualcosa di interessante con qualcuno e si è amici con un bambino solo se è buono, ubbidiente e non c’è distinzione tra compagni e amici poiché tutti possono diventare amici purché si comportino bene e facciano cose piacevoli assieme. I fratelli sono ottimi partner relazionali per garantire relazioni orizzontali con un ampia gamma di interazioni, sia positive che negative: i conflitti sono stabili fino verso la fine della fanciullezza per poi decrescere nell’adolescenza. I bambini non mettono in discussione l’autorità dei genitori ma, dopo gli 8 anni, sono in grado di riconoscere che i genitori in casi eccezionali possono dare ordini sbagliati: sono grandi, hanno più esperienza e sanno riconoscere le cose sbagliate. Per quanto riguarda gli insegnanti, sono quelle figure che chiedono impegno differenti dalle maestre della scuola materna che creano e mantengono un ambiente familiare: ora richiedono organizzazione. Per i pari invece, i rapporti cominciano ad arricchirsi soprattutto attraverso i giochi di competizione con le regole che modificano e adattano alla situazione in cui si trovano: l’amicizia in questa età condivide idee e preferenze non è più solo fare qualcosa assieme ma diventa più profonda, inizia ad essere un fare qualcosa per qualcun altro, l’amico è colui che ti aiuta se hai bisogno in quanto ora si differenziano e alcuni amici sono più stretti di altri. Bombi e Pinto con l’intervista hanno valutato con bambini dai 6-11 l’idea dell’amicizia che hanno: hanno fatto creare ai bambini diversi disegni per rappresentare la loro idea amicale; il disegno rappresenta sia la coesione e la vicinanza tra gli amici che la distanza per conservare l’identità personale e i propri spazi. Le emozioni hanno un ruolo centrale nello sviluppo della socialità: di particolare importanza sono l’empatia e la simpatia. Già i neonati mostrano una precoce forma di empatia globale con il contagio emozionale e, con il social referencing, dimostrano che le emozioni altrui diventano una guida per il bambino che interpreta le facce della mamma. Nell’età prescolare aumenta il perspective-taking e mettersi nei panni dell’altro aggiungono tanto alla competenza emotiva che cresce nella scuola primaria e nell’adolescenza. Vi sono alcune condizioni in cui però si può sviluppare un comportamento aggressivo e alcuni precursori sono rilevati già nel primo anno di vita con manifestazioni di rabbia ed emozioni negative. Tra il primo e secondo anno di vita i bambini dirigono la propria rabbia verso un bersaglio che in primo luogo sono gli adulti e poi anche i loro coetanei; durante il secondo anno di vita l’aggressione diventa strumentale che non vuole procurare un danno bensì ottenere qualcosa come, ad esempio, impossessarsi di uno spazio o di un oggetto posseduto da un’altra persona in quel momento. Si passa poi alle aggressioni fisiche affiancate presto dalle aggressioni verbali con il progresso nello sviluppo linguistico: solitamente quest’ultima è preferita all’aggressione fisica. Nella scuola dell’infanzia invece sono presenti forme indirette di aggressione che progrediscono man mano con l’età. Capitolo 9: Lo sviluppo comunicativo e linguistico Quando parliamo di comunicazione una prima distinzione deve essere fatta tra comunicazione non verbale e comunicazione verbale in quanto, quest’ultima, non è l’unica forma di comunicazione dell’informazione e non sempre è la più funzionale: pensiamo ai cartelli stradali o alla comunicazione dei sordi. Argyle distingue 10 tipi di segnali non verbali: contatto fisico, vicinanza, l’orientazione (come le persone sono situate l’una rispetto all’altra), l’aspetto esteriore (abbigliamento, acconciatura), postura, cenni del capo, espressione del volto, i gesti (quello del salutare, chiamare), lo sguardo, aspetti non linguistici del discorso (tono della voce, pause). Tali segnali possono assolvere 3 diverse funzioni: controllo della situazione sociale immediata, sostegno della comunicazione verbale e sostituzione dell’eloquio. Argyle, Alkema, Gilmour hanno studiato una situazione controllata mediante manifestazioni di amicizia, ostilità, superiorità e in una situazione di conflitto i segnali verbali erano molto meno considerati rispetto a quelli non verbali. Esistono sistemi comunicativi che pur non avendo parole possono essere considerati come lingue: in particolare, pensiamo alla lingua dei segni di cui distinguiamo due diversi tipi: un primo tipo è quello che relaziona i gesti usati con l’oggetto significato come ad esempio quando, per parlare della minestra si fa un gesto che ricorda il cucchiaio, il bambino può essere quello che si stringe tra le braccia e così anche i concetti astratti possono essere espressi così la forza è un uomo che stringe i pungi, un buco nel gomito significa povertà e così via; un secondo tipo indica i tipi più complessi che hanno una potenza comunicativa pari a quella verbale e il più famoso è sicuramente il linguaggio dei segni americano, l’ASL e come dice Marschark condivide con il linguaggio verbale tutte le caratteristiche distintive fondamentali. In lingua italiano viene utilizzato il LIS e vengono utilizzati anche lo spazio, modificazioni dello spazio, orientamenti e postura del corpo, modalità per collocare un’azione nel presente, passato o futuro, per formare i plurali, avverbi e ad esempio, il soggetto del verbo può essere indicato da minimi movimenti della spalla destra, da una lieve inclinazione della testa, da uno sguardo. Anche gli animali comunicano e non solo i pappagalli e vi sono diverse modalità: una delle modalità più elementari è mettere in allarme il gruppo, si passa alle modalità di richiamo per trovare un compagno con cui accoppiarsi, per allontanare o minacciare, per procurarsi il cibo e costituiscono un patrimonio della specie a cui l’individuo appartiene; questi comunicano ma non hanno la capacità creativa del linguaggio umano. Diversi esperimenti vennero fatti con gli scimpanzé: Washoe, uno scimpanzé femmina apprese un’ottantina di segnali con i coniugi Gardner con cui sosteneva elementari conversazioni mentre invece Sarah in una università della California imparò a utilizzare pezzi di plastica e con un processo di condizionamento produceva frasi con circa 120 parole. È opportuno soffermarci sulle caratteristiche del linguaggio verbale: utilizza il canale verbale-uditivo, la trasmissione è ampia ed è possibile identificare la proveniente del suono capendo chi sta parlando, i suoni spariscono rapidamente e per ovviare a questo problema vi sono i corrispondenti dei suoni nello scritto, chi riceve il linguaggio è in grado di produrlo, posso sentire ciò che sto dicendo (feedback totale), i suoni sono specializzati per comunicare, i segni trasmettono significati, sono arbitrari in quanto non c’è relazione diretta tra la forma (parola) e il referente (quindi l’oggetto a cui la parola si riferisce), le parole sono differenti tra loro, posso produrre e creare cose nuove, posso parlare di cose non presenti al momento, l’enunciato è sempre organizzato con parole precise, posso parlare del linguaggio, il linguaggio deve essere appreso soprattutto in quei momenti ritenuti critici in cui il bambino deve essere esposto al linguaggio. Vi sono 4 funzioni del linguaggio verbale: una funzione espressiva che è sempre presente, quando l’espressione verbale elimina o allenta una tensione interna (ad esempio dicendo “ahi” quando ci facciamo male) e lo scopo non è comunicare con gli altri ma solo scaricare la tensione ed ecco perché si dice che la voce tradisce l’emozione; una funzione comunicativa che è fondamentale e non si comunica solo con gli altri ma anche con se stessi quando, ad esempio, capita di parlare da soli; una funzione di regolazione del comportamento il linguaggio interno, quando parliamo nella mente che avviene per il bambino dagli adulti in un primo momento e poi da soli quando ci si ricorda che il genitore ha detto di non fare qualcosa; una funzione cognitiva che riguarda la risoluzione di problemi, la sintesi, l’astrazione, i processi mnemonici e le parole diventano come boe che guidano il ragionamento nel momento in cui condividiamo questo processo con altre persone. 4 sono anche gli approcci teorici riguardanti il linguaggio: il primo è l’approccio ambientalista tipico del comportamentismo che sottolinea l’importanza dell’imitazione del linguaggio adulto e l’associazione stimolo risposta ottenuta sulla base di condizionamenti di tipo operante ed è stato molto criticato e ha avuto un seguito scarso e viene accettato solo se si ipotizzano delle basi innate; il secondo è l’approccio innatista il cui pioniere è Noam Chomsky secondo cui in ogni persona è presente un meccanismo che permette di acquisire il linguaggio il LAD (language acquisition device) è universale alla base di ogni lingua ed è alla base dell’apprendimento di ogni lingua specifica; il terzo è l’orientamento interattivo-cognitivista che valorizza le ricerche sulla produzione linguistica nel contesto sociale concentrandosi sull’interazione madre-bambino si considerano gli aspetti pragmatici, gli obiettivi che la persona cerca di raggiungere quando parla; il quarto è complementare al terzo e si riferisce alla trasmissione culturale il cui pioniere è Tomasello (sulla base degli studi di Vygotskij) non nega il ruolo di alcune componenti innate ma valorizza il ruolo di componenti innate di tipo cognitivo e non linguistico come la capacità di usare simboli, comprendere rapporti di causa-effetto perché il linguaggio è un istituzione sociale di natura simbolica. Come già affermato, la comunicazione non verbale è uno strumento più efficace per trasmettere messaggi soprattutto nel primo anno di vita quando il bambino non ha ancora sviluppato capacità linguistiche e non può utilizzare il linguaggio verbale. Sappiamo che il bambino emette segnali come il pianto, il sorriso, le vocalizzazioni come espressione diretta del suo stato di bisogno ma manca l’intenzione comunicativa anche se l’adulto può ricavare da questi comportamenti delle indicazioni sullo stato di benessere o di malessere del bambino e proprio così le madri distinguono ben presto se il pianto del bambino è dato dalla fame o dal dolore o se è necessario cambiarlo. Tra i 4-8 mesi invece, periodo delle reazioni circolari secondarie (per produrre risultati sull’ambiente) il bambino manifesta comportamenti che sono a metà strada fra comunicazioni non intenzionali e intenzionali, tende il braccio per afferrare il biberon che la mamma sta riempiendo di latte per comunicare alla madre che vuole il biberon. Molti comportamenti precedenti gli 8-9 mesi non sono facilmente interpretabili e verso gli 11-12 mesi vi è una intenzionalità chiara e specifica nei comportamenti che diviene uno scambio reciproco tra madre e bambino: intenzionalità e reciprocità che diventano fondamentali. Nel primo anno di vita vi sono due tipi di intenzionalità comunicativa: la richiesta in cui il bambino mostra non solo di avere uno scopo ma anche di usare dei mezzi (come i gesti) per attivare l’adulto e, in termini piagetiani non è altro che un coordinamento di reazioni circolari secondarie che si ha a partire dagli 8-12 mesi e la dichiarazione il cui fine non è raggiungere un obiettivo quanto attirare l’attenzione dell’adulto su un oggetto o una persona, richiede un coordinamento tra fine (attirare l’attenzione) e due mezzi (gesto e oggetto/persona). Nella richiesta i segnali più usati sono l’indicare (pointing), il gesto deittico, il vocalizzare in direzione dell’oggetto desiderato e la comunicazione verbale e non verbale si affiancano. Altri tipi di gesti sono anche quelli referenziali come fare ciao con la mano o dire no scuotendo la testa, hanno un origine sociale questi gesti e vengono appresi per imitazione, il loro significato dipende dalla cultura in cui vengono appresi e sono proprio questi gesti referenziali più che i deittici a rappresentare un ponte tra comunicazione prelinguistica e linguaggio. Per la comunicazione verbale vera e propria si distingue tra comprensione e produzione: quest’ultima ha le fasi di vocalizzazione e lallazione che hanno scarse intenzioni comunicative e non sono considerate una comunicazione vera e propria; la comprensione del linguaggio invece è dimostrata dal bambino fin dai primi mesi di vita perché sorride in direzione di chi parla, si gira verso lui verso i 9 mesi anche se non è chiaro cosa il bambino comprenda probabilmente è una comprensione sincretica e vaga di chi parla cogliendo forse successivamente un collegamento e a partire dai 12 mesi comprende frasi più complesse. Vi sono due tipi di vocalizzazione: la prima comprendente i vari suoni emessi nel pianto e la vera e propria vocalizzazione indipendente dal pianto. Il primo tipo è presente fin dalla nascita e il secondo tipo compare nel secondo mese di vita e consiste soprattutto nella produzione di suoni vocalici modulati in intensità. Sia il pianto che le vocalizzazione prodotti sono segnali comunicativi anche se non intenzionali, sono comportamenti istintivi che si sono evoluti per svolgere la funzione di segnalare ai conspecifici: sono comunicativi perché diretti a uno scopo ovvero attirare l’attenzione della madre perché soddisfi i bisogni del bambino. Segue poi la lallazione (babbling) in cui la prima fino ai 6 mesi è costituita da suoni vocalici collegati ai consonantici fino alla ripetizione delle sillabe: vi è una lallazione canonica o reduplicata con una ripetizione di sequenze consonante-vocale come baba o tata o ripetute come lalala o papapa e vi è poi la lallazione variata con una ripetizione di sillabe più complesse e lunghe (dudu, bama). Questa prima articolata produzione sonora non ha una funzione comunicativa o sociale perché il bambino produce la lallazione quando è solo ma costituisce un esercizio di funzioni di abilità vocali ripetendo ciò che ha sentito. Le prime parole arrivano fra gli 8 e i 17 mesi anche se la maggior parte dei bambini le produce tra i 10-12 mesi: ciò che segna il passaggio dalla lallazione alle prime parole è l’intenzione di comunicare qualcosa, un significato. Inizialmente comunica con parole isolate dette olofrase o frase monorematica in cui il bambino usa una sola parola per riferirsi ad un’intera azione e quindi dirà “pappa” intendendo “mamma mi da la pappa” o “mamma voglio la pappa” mentre le associazioni di parole vengono prodotte alcuni mesi dopo la comparsa delle prime parole dai 15-20 mesi. Le prime parole sono nomi riferiti a oggetti o persone mentre sono assenti le parole-funzione che servono per collegare fra loro le parole di contenuto: le chiamano parole- oggetto contrapposte alle parole-relazione. Nel secondo anno di vita con una forte valenza sociale nell’apprendimento dei nomi, l’adulto fornisce molti segnali che aiutano il bambino e quando dice un nome a voce alta lo indica con il dito per favorire l’associazione. Verso i 18 mesi vi è l’esplosione del linguaggio e la produzione supera le 100 parole: i primi verbi si riferiscono ad azioni come mangiare, bere, dare e gli aggettivi sono pochi e piano piano comprende frasi che si riferiscono a realtà non presenti. Appare anche il conflitto di comprensione: se l’adulto chiede al bambino di prendere la palla mentre il bambino sta andando a prendere una macchinina questi ha difficoltà a interrompere l’azione iniziata per seguire la richiesta dell’adulto e porterà a termine la sua azione. L’adulto parla al bambino generalmente con quello che viene identificato come baby talk o motherese con frasi brevi, semplici grammaticalmente, vocabolario ristretto, voce alta e ripetizioni e una ricerca di Cherry e Lewis ha analizzato che il baby talk rivolto alle figlie femmine è più ricco e stimolante rispetto a quello che viene rivolto ai maschi. Nonostante i suoni nei primi anni di vita siano parecchi così come nel periodo della lallazione i bambini perdono progressivamente la capacità di produrne alcuni, soprattutto quelli che non sono presenti nella lingua madre come le consonanti palatali, sibilanti e le liquide e c’è una selezione attraverso differenziazione perché il bambino costruisce un sistema fonologico per poi attuare differenziazioni sempre più sottili e non impara i fonemi uno alla volta ma come p e non t, come p e non k e così via differenziando una cosa diversa dall’altra. Jakobson ritiene che la prima acquisizione consiste nella distinzione tra vocali e consonanti per poi attuare differenziazioni anche all’interno delle consonanti la cui prima è tra quelle orali e nasali mentre la seconda è tra labiali e dentali producendo soprattutto pa (e/o) papa ma (e/o mama) per poi distinguere tra vocali larghe e strette avendo sia papa che pipi. La produzione delle prime parole non ha differenze tra ciò che sente frequentemente e ciò che è affettivo. Quindi: nei primi mesi del secondo anno i bambini possono produrre con pochi fonemi molte parole i cui più precoci sono m,p,b,t,n e i più tardivi r,f,s,ts; le prime parole sono CV (consonante/vocale), in seguito CVCV per poi avere parole semplice di 3 sillabe e così via e inizialmente riduce le parole a solo due sillabe. Infine, si può affermare che il bambino non assimila le parole che sente dagli adulti come un pappagallo bensì tiene conto di molti fattori con un particolare sistema. Abbiamo detto che inizialmente il bambino produce le olofrasi per riferirsi ad una intera azione e molte volte sono usate in contesti scorretti per l’adulto perché l’uso corretto presuppone che il bambino attribuisca sempre lo stesso significato: il bambino può eccessivamente generalizzare oppure, quando ad esempio, parla del cucchiaio non si riferirà a tutti i cucchiai ma solo al suo cucchiaio arrivando alla sottoestensione semantica usando la stessa parola in varie situazioni usandole in contesti che per l’adulto sono inadeguati; la parola cucchiaio allora potrà essere utilizzata per indicare anche le forchette, i piatti, i coltelli raggiungendo la sovraestensione semantica perché il bambino non ha ancora chiaro quale sia la caratteristica che rende un cucchiaio tale. Il bambino sovrageneralizza perché prende in considerazione tutto l’insieme di cui l’elemento è parte e tutte le parti incluse oppure attribuisce la stessa parola anche a elementi che non appartengono allo stesso elemento accostando qualità vistose; ad esempio: il bambino usa quaqua per indicare prima un’anatra che nuota nello stagno, poi ogni liquido, poi un’aquila perché ogni nuovo oggetto incluso ha qualche attributo in comune con un altro elemento; dirà bubu vendendo abbaiare un cane, toccando un cane di legno, vedendo gatti, pesci, un leone di marmo. La sovrageneralizzazione semantica quindi considera contemporaneamente le varie caratteristiche percettive degli oggetti considerando solo le qualità rilevanti e il passaggio avviene sulla base di ripetute formulazioni e verifiche tra nome e oggetto e confermando quel rapporto l’adulto comunica quali sono i criteri di costruzione dei concetti. A 18 mesi il bambino ha a disposizione molte parole: il nome è vissuto sempre meno come qualcosa che accompagna l’azione e diventa sempre più un simbolo, qualcosa che sta al posto di, iniziando con la richiesta del bambino, di sapere nomi di oggetti nuovi in quanto comprende che ogni oggetto ha un nome e chiede quindi “cos’è?”. A circa 3 anni e mezzo comprendono frasi complesse con ancora alcuni limiti nella comprensione dei discorsi degli adulti se contrastano troppo quello che il bambino sta facendo in quel momento e verso i 4-5 anni i bambini italiani articolano tutti i suoni tipici della propria lingua con alcune eccezioni con r,f,z,s,sc,gl. Dopo i due anni i bambini si trovano davanti alle regole morfologiche come la formazione del maschile e femminile, plurale e singolare, le prime combinazioni di parole chiamate linguaggio telegrafico che consiste nel combinare e veicolare con più chiarezza le relazioni semantiche e segnano la prima proprietà della produttività del linguaggio con diverse combinazioni come agente+azione (tata mangia) o azione+oggetto (mangia pappa) e i diversi progressi si riassumono cosi: nel secondo anno di vita producono parole distinguendo almeno maschile e femminile (tato e tata) e singolare o plurale, vengono prodotte le prime frasi di due parole nonostante le regole siano tante e complesse vi sono grandi progressi e a 4-5 anni il bambino produce discorsi formati da più frasi. Le regole non sono apprese con un processo passivo ma seguendo regole tipiche del linguaggio infantile e uno dei fenomeni più esplicativi sono gli ipercorrettismi: il bambino applica una regola da lui scoperta anche ai casi che non seguono tale regola dicendo chiudato per chiuso o diciato per detto perché ha scoperto una regola generale e non ha imparato le parole una per volta. Il bambino di 6 anni conosce in media circa 1000 parole e ogni giorno può apprenderne di nuove perché è un periodo aureo per l’apprendimento di nuovi termini: nel periodo della scuola dell’infanzia si passa dal che cos’è al cosa vuol dire perché prima si diverte sapendo che ogni cosa ha un nome e poi non cercando più la sola e semplice corrispondenza tra parole e oggetti la cerca fra parole e altre parole migliorando il suo stesso linguaggio. Ma come il bambino descrive e da le definizioni? Parliamo di definizioni naturali quando è la descrizione di oggetti e narrazione di eventi mentre invece parliamo di definizioni metalinguistica quando anzi che parlare del mondo sensoriale parliamo di noi stessi; le prime definizioni dei bambini fino ai 6-7 anni sono concrete e si riferiscono agli aspetti della realtà tangibili con le proprietà funzionali e percettive che connotano gli oggetti a livello basic (come la palla serve per giocare, la palla rotola) prima di quelle percettive (la palla è rotonda) poi progressivamente diventano descrittive (il cane ha quattro zampe) e classificatorie (il cane è un animale) e a circa 6-7 anni compare la copula. Il metalinguaggio ha due abilità: una riflessiva nei confronti del linguaggio e dei suoi usi e l’altra intenzionale di pianificazione, controllo e monitoraggio dei processi linguistici, comprensione e produzione. La competenza metalinguistica è l’abilità di riflettere su e di manipolare le caratteristiche strutturali del linguaggio parlato trattando il linguaggio come oggetto di pensiero in contrasto con il semplice uso del sistema linguistico per comprendere e produrre frasi, accorgendosi che il flusso di parole del discorso può essere considerato come oggetto a sé stante. Il bambino sviluppa teorie sul funzionamento del mondo fisico e biologico e anche sul funzionamento del linguaggio. Possiamo suddividere il metalinguaggio in 4 sotto categorie: - Metafonologia: la capacità di manipolare le più piccole unità del linguaggio, i fonemi in modo che l’individuo tratti le parole come un oggetto e capisca che sono formate da oggetti più piccoli e isolabili e la consapevolezza dei suoni e di come manipolarli sono presenti solo in età scolare; lo stesso tipo di compito a seconda delle lingue può essere più facile o difficile. - Metasemantica: la consapevolezza di riconoscere il sistema linguistico come codice arbitrario o convenzionale e l’abilità di manipolare i significati più ampi; i bambini giocano con le parole ma altra cosa è avere una consapevolezza autentica - Metasintassi: capacità di riflettere sulla struttura interna di una frase giudicandone la correttezza grammaticale e la coerenza semantica. A 2-3 anni accettabile è ciò che riescono a comprendere, a 4-5 anni rifiutano ciò in cui non credono e solo a 6-7 anni separano la forma dal contenuto. - Metapragmatica: conoscenza delle relazioni che esistono all’interno del sistema linguistico (tra le frasi) e tra il sistema linguistico e il contesto in cui il linguaggio è immerso ed è l’analisi completa di tutti gli elementi come gli aspetti verbali, intonazionali, contesto linguistico e cinesico ecc. Non vi è un accordo generale per le tappe di acquisizione della metalinguistica. Una prima ipotesi sostiene che le abilità metalinguistiche sono parte integrante del generale processo di acquisizione del linguaggio e compaiono molto precocemente basandosi sull’osservazione di bambini di 2-3 anni che giocano con le rime o auto-correggono i propri errori spontaneamente: per operare una qualsiasi correzione i bambini devono riflettere sulla loro produzione verbale in modo da capire cosa deve essere corretto ma non tutti concordano sulla effettiva consapevolezza dei bambini. Un’altra ipotesi direbbe che è un’abilità evolutivamente distinta dal linguaggio ed emergerebbe parallelamente al più generale sviluppo cognitivo e metacognitivo. La differenza tra i processi automatici e i processi di controllo metalinguistici riguarderebbe il grado di attenzione richiesto nel compiere le operazioni: i processi automatici richiedono poca o nessuna attenzione, quelli di controllo invece richiedono molta attenzione. La differenza tra prima e seconda ipotesi riguarda il trattare il linguaggio come oggetto di pensiero che non è una conseguenza automatica dell’uso del sistema come veicolo di comunicazione. Le operazioni metalinguistiche separano il linguaggio dal suo contesto e raggiunto un buon livello di consapevolezza metalinguistica il bambino focalizza la propria attenzione sulle proprietà del linguaggio usato per veicolare contenuti anziché sui contenuti in quanto tali consapevole prima di ciò che sta dicendo e poi dello strumento. Una terza ipotesi si concentra sul sostenere che la consapevolezza metalinguistica si sviluppi con l’ingresso del bambino nella scuola con l’apprendimento formalizzato e della lettura che induce lo sviluppo delle capacità di riflettere sulle regole e usi della lingua.
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