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PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO METODI TEORICI E PERCORSI A RISCHIO.

MASSIMO AMMANITI
CAPITOLO 1. MODELLI E DEFINIZIONI DELLA PICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO.
La Psicopatologia dello sviluppo enfatizza la dimensione evolutiva nell’emergere e nello
stabilizzarsi dei comportamenti disadattavi o patologici. Vengono studiate le origini e i percorsi dei
pattern individuali dei comportamenti disadattavi, valorizzando lo stretto rapporto tra
comportamenti tipici (adattivi), a rischio e atipici (disadattavi). Viene riconosciuta la reciproca
influenza di fattori genetici, ambientali e psicologici. Si possono identificare tre modelli evolutivi
per comprendere la genesi dei comportamenti disadattavi: il modello del tratto, il modello
ambientale o contestuale, il modello internazionale.
MODELLO DEL TRATTO O DELLO STATO DI PERSONALITA’
Secondo questo modello un tratto di personalità, che si evidenzia durante l’infanzia, si caratterizza
per uno specifico modo di agire, organizzare i propri pensieri e rapportarsi agli altri, permette di
prevedere lo sviluppo successivo, a un tempo dato (es. adolescenza). Il tratto può essere legato a
fattori innati, come per es. le caratteristiche temperamentali, o l’eredità genetica, ma può anche
essere acquisito attraverso l’apprendimento o le interazioni. Sono state in questo senso formulate
diverse teorie per comprendere i meccanismi che stanno alla base dei comportamenti antisociali e
che ne affermano il riferimento ad una disposizione innata (riscontrando aggressività fisica già nei
bambini di 9-15 mesi - Tremblay e Nagyn), tra le quali, la più accreditata è quella di Moffitt legata
ai deficit neuropsicologici. Gli studi che hanno messo in relazione deficit neuropsicologici e
comportamenti delinquenziali mostrano dei dati fortemente consistenti, ma le conclusioni non
possono essere considerate definitive per problemi metodologici (ristrettezza dei campioni di
ricerca, studi divisi per fasce d’età, quindi non longitudinali). In uno studio longitudinale di Moffitt
e collaboratori si è evidenziata una correlazione tra deficit delle capacità verbali e di memoria
verbale e comportamento antisociale. Rimane tuttavia irrisolto il legame causale. L’unica
conclusione che si può trarre allo stato attuale è che il deficit neuropsicologico possa
rappresentare un fattore di rischio, nel senso che la sua presenza aumenta la possibilità di un esito
antisociale (comunicazione disfunzionale tra il bambino, i genitori, i coetanei e gli insegnanti),
soprattutto nei maschi. In generale è comunque impossibile riconoscere un legame causale fra
tratto infantile e successivo esito psicopatologico, in quanto i fattori che entrano in gioco sono
molteplici e spesso interagiscono tra loro favorendo un esito disadattivo oppure moderandone
l’effetto negativo. In genere viene distinta una continuità omotipica tra stati psicopatologici
(stesse manifestazioni cliniche), da una etero tipica (il quadro clinico si modifica nel tempo). Il
tratto può anche essere appreso attraverso l’apprendimento o attraverso scambi interattivi con le
figure parentali (modello dell’attaccamento – Bowlby; Ainsworth). Nel caso in cui le interazioni con
le figure di attaccamento siano state positive, si costruisce un modello di attaccamento positivo,
un modello sicuro che rappresenta, secondo vari studi, un tratto sufficientemente stabile, fondato
su un’organizzazione rappresentazionale interna rafforzata via via dalle interazioni successive.
L’attaccamento sicuro potrebbe costituire una condizione di invulnerabilità evolutiva di fronte a
situazioni traumatiche (invulnerabilità tuttavia relativa al numero di traumi successivi). Ricerche
successive hanno inoltre evidenziato che l’attaccamento sicuro è fortemente legato alla
disponibilità affettiva materna e costituisce un fattore di protezione anche di fronte a situazioni
stressanti (come l’inserimento all’asilo nido). Il modello del tratto, perciò, almeno nella sua
formulazione originaria, viene smentito dai dati sull’attaccamento (tratto appreso), che
dimostrano come esso, quando sicuro, costituisca un fattore di protezione, oppure, nel caso
dell’attaccamento insicuro o disorganizzato, possa essere un fattore di rischio correlato con esiti di
depressione (insicuro) o dissociativi (disorganizzato). Un’altra riflessione a questo proposito
riguarda la convinzione che la personalità dell’individuo fosse ampiamente modellata e
determinata dalle esperienze dei primi anni di vita. Tuttavia le esperienze negative o traumatiche
precoci non sono necessariamente correlate a esiti dissociativi e devianti in adolescenza
soprattutto se quelle difficoltà precoci possono essere compensate da esperienze successive
positive. La sensazione che le esperienze precoci (negative) abbiano un effetto durevole, è data
dalla probabilità che le esperienze negative persistano anche successivamente.
MODELLO AMBIENTALE
Secondo questo modello l’ambiente influenza lo sviluppo infantile e provoca l’insorgere della
psicopatologia. Genitori e ambiente influenzano in modo sostanziale lo sviluppo infantile che
tende ad adattarsi alle pressioni ambientali. Rutter distingue rischi prossimali e rischi distali. Quelli
prossimali si riferiscono ai meccanismi direttamente implicati, come le dinamiche familiari e le
relazioni genitori e figli; i rischi distali aumentano la probabilità della presenza dei rischi prossimali.
I rischi distali hanno a che fare con i fattori sociali, come la povertà che può ostacolare la
disponibilità genitoriale, oppure la residenza in aree marginali. Per studiare il modello ambientale
è inoltre utile riferirsi all’influenza esercitata dalla depressione materna postpartum sullo sviluppo
infantile. La gravità e la cronicità del disturbo materno possono influire in modo significato sullo
rischio depressivo nei figli, lasciando supporre che l’influenza ambientale può essere determinante
solo se continuativa nel tempo e di forte intensità. Le influenze ambientali intervengono sullo
sviluppo del cervello, la cui formazione interviene in misura considerevole nel periodo prenatale e
nei primi anni di vita. Le conseguenze sullo sviluppo successivo possono andare dal ritardo
psicomotorio all’iperattività e al deficit di attenzione. L’ambiente interviene sulla maturazione
cerebrale; distinguiamo infatti tra expectant experiences, che sono inscritte nel nostro patrimonio
genetico e corrispondono a potenziali circuiti cerebrali che vengono stabilizzati dalle esperienze
ambientali; dependent experiences che corrispondono a esperienze nuove e impreviste e che
comportano la creazione di nuovi circuiti cerebrali. Alcune interessanti osservazioni ci confermano
che il comportamento è l’espressione di un’interazione dinamica di molteplici sistemi interagenti a
livello individuale e ambientale. Per quanto riguarda le influenze ambientali sul comportamento
individuale sono stati i genetisti del comportamento a distinguere le esperienze ambientali
condivise da quelle non condivise. Le prime riguardano le influenze familiari sui figli (condizione
economica, clima familiare ecc), le seconde riguardano specificamente le influenze per ogni
singolo figlio (frequentazione scolastica, essere o meno il preferito di un genitore ecc) Sebbene
alcune ricerche hanno dimostrato che sono le influenze ambientali non condivise più importanti
per lo sviluppo delle caratteristiche psicologiche individuali, Dunn e Plomin ritengono
fondamentale la percezione soggettiva delle influenze familiari condivise; le discriminazioni e gli
atteggiamenti differenziali dei genitori possono avere maggior peso delle caratteristiche generali
della famiglia. Inoltre, per la maturazione di alcune caratteristiche psicologiche (es. delinquenza),
le influenze dell’ambiente condiviso sono risultate molto rilevanti.
MODELLO INTERAZIONALE O TRANSAZIONALE.
Secondo questo modello sia le caratteristiche del bambino sia l’ambiente concorrono nel
determinare il corso dello sviluppo del bambino, il suo adattamento e anche il disadattamento. Il
bambino ha un comportamento attivo nei confronti dell’ambiente e quest’ultimo agisce
influenzando il comportamento infantile. Un aspetto fondamentale delle teorie interattive è il
processo di trasformazione che può essere considerata secondo 2 modalità: 1) Tratti e ambiente
interagiscono e producono nuovi comportamenti;
2) Tratti e Ambiente interagiscono e producono un insieme di comportamenti che si trasformano
in un attaccamento sicuro che conduce a un risultato positivo.
Si può parlare in questo ambito di modello trasformazionale nel caso di un pattern internazionale
circolare in cui il bambino influisce sull’ambiente e l’ambiente a sua volta influisce sul bambino
(co-regolazione diadica di Fogel caratterizzata da un continuo adattamento tra madre e lattante
attraverso l’esperienza di connessione emotiva che si realizza attraverso il linguaggio verbale, non
verbale e la progressiva vicinanza fisica dei pattern d’interazione). Le cornici di significato
dell’esperienza intersoggettiva costituiscono dei frame che sono definiti dalla direzione
dell’attenzione di ciascuno dei due partner, dal luogo in cui avviene l’interazione e dalla distanza o
vicinanza fisica dei due partner, dall’orientamento posturale e dal tema dell’attività congiunta. La
qualità dell’esperienza soggettiva è in funzione della flessibilità di questi frame. Se i frame sono
flessibili i due patner possono adattarsi a situazioni diverse e affrontare i cambiamenti che
caratterizzano le varie fasi dello sviluppo. Se invece i frame sono rigidi vi è una difficoltà di crescita
e di adattamento alle nuove situazioni. Nel corso dello sviluppo i frame tendono a variare
diventando sempre più complessi. La qualità dell’esperienza intersoggettiva è fondamentale per lo
sviluppo del senso si sé del bambino. Nella relazione madre bambino avvengono inevitabilmente
momenti di mancanza di corrispondenza, di conflitto, incomprensione che portano al distacco
reciproco. Il principio della rottura e riparazione all’interno delle relazioni sottolinea le violazioni
delle aspettative che si verificano tra i due patner e i fallimenti interattivi che ne possono derivare
che possono stimolare i due patner a risolvere queste rotture attraverso una riparazione
interattiva. M a mentre la violazione delle aspettative (mismatch) è frequente e facilmente
superabile, le rotture relazionali invece possono essere riparate con più difficoltà (es interaz madri
depresse). Questo rappresenta l’ambito specifico della intersoggettività che è stato studiato dalla
psicoanalisi sul piano verbale, mentre l’infant research ne ha messo in rilievo gli aspetti non
verbali, della conoscenza implicita e procedurale, mettendo in luce come il bambino sia, fin da
subito, in relazione, ed affermando quindi la necessità di adottare una visione sistemica. Una
teoria che integri la nostra comprensione dello sviluppo e della patologia deve spiegare come
l’individuo e il contesto interagiscano per dare luogo ad pattern di adattamento interattivo o
disadattivo e come il passato e il presente influenzino il futuro. Il comportamento del bambino è
allo stesso tempo il prodotto delle trasformazioni fra il fenotipo (il bambino), l’ambiente (fonte
dell’esperienza esterna) e il genotipo (origine dell’organizzazione biologica). Il risultato di questi
scambi regolatori è l’ampliamento dell’abilità individuale di autoregolazione biologica e lo sviluppo
dell’autoregolazione comportamentale. Un modello che integra gli aspetti genetici, fenotipici e
ambientali è quello di Feldman sulla sincronia genitore-figlio e sulla costruzione del tempo
condiviso. La sincronia interattiva nel contesto della relazione genitore-figlio si riferisce alla
corrispondenza (matching) del comportamento, degli stati affettivi e dei ritmi biologici. La
sincronia descrive l’esperienza reciproca collegata al tempo, basata sulla regolazione reciproca
nell’ambito della relazione di attaccamento. La corrispondenza avviene in base ai ritmi biologici: il
corpo della madre e la sua presenza fisica funzionano come sistema regolatorio esterno per
l’organizzazione neurobiologica, sensoriale, percettiva, emotiva, fisica e relazionale. Nel caso della
deprivazione materna, si verifica inevitabilmente disregolazione fisiologica, un isolamento sociale,
apatia e disimpegno relazionale. I bambini che non sperimentano interazioni coordinate con
un’altra persona durante le prime settimane di vita vanno incontro durante la loro vita a difficoltà
nello sviluppo sociale, emozionale e regolatorio. Un’applicazione di questo modello è il Goodness
of fit model (adeguatezza del modello delle corrispondenze – Thomass e Chess), secondo il quale il
conflitto sorge quando le caratteristiche del bambino non corrispondono e non si incontrano con
le richieste ambientali, disponendo così al disadattamento e psicopatologia. In un’ottica
internazionale, le turbe del goodness of fit si possono instaurare ad esempio con la violazione delle
aspettative, con la difficoltà a fronteggiare i comportamenti del bambino o a patologia del
genitore. Nelle famiglie che si adattano in modo flessibile, le difficoltà precoci sono di breve
durata. Al contrario, nelle famiglie in cui i working models sono inflessibili (iperprotettivi o
distanzianti) le perturbazioni possono persistere e aggravarsi dando luogo a problemi
comportamentali e relazionali persistenti. STUDI LONGITUDINALI E IL VALORE DEL PERIODO
ADOLESCENZIALE. Recentemente nell’ambito della psicologia dello sviluppo sono stati realizzati
studi longitudinali che riguardano le fasi successive dello sviluppo, come l’adolescenza che ha un
ruolo decisivo nello studio della personalità e di come i vari fattori di influenza sul processo di
sviluppo interagiscono fra loro. Sroufe e coll. mettono in rilievo il fatto che percorsi multipli
possano condurre allo stesso risultato, o perlomeno a risultati simili, come anche può accadere
che lo stesso percorso iniziale, a causa di pattern divergenti, possa condurre a esiti multipli. È
perciò di estrema importanza studiare non solo le condizioni iniziali, ma anche quelle successive.
Sono ormai classici gli studi di Offer sui percorsi evolutivi in adolescenza. Egli individua tre gruppi:
1. Adolescenti a sviluppo continuo: si effettuano progressi graduali con una buona stabilità
personale. La storia familiare è sufficientemente stabile (no traumi o perdite importanti),
con i genitori il rapporto è sufficientemente positivo. Vi sono buoni rapporti con gli amici e
capacità di mantenere un rapporto intimo, di posporre la propria gratificazione, tenere
sotto controllo gli impulsi e indirizzare le proprie risorse verso un compito;
2. Adolescenti con sviluppo a ondate: hanno buone capacità adattive ma si notano conflitti
emozionali e fasi di progressione e regressione. È frequente il ricorso a difese come
proiezione e rabbia, vi sono minori capacità di indirizzare le proprie risorse e c’è maggior
rischio di risposte in senso ansioso o depressivo. L’autostima è oscillante e nei rapporti
interpersonali si riscontra una buona capacità, anche se a costo di un maggiore impegno.
Con i genitori sono più frequenti divergenze di opinioni e conflitti;
3. Adolescenti a sviluppo tumultuoso: mostrano difficoltà comportamentali a casa e a scuola.
Nella loro storia vi è la presenza di traumi e conflitti di opposizione nei confronti dei
genitori, con problemi accentuati nel processo di separazione-individuazione. Soffrono più
facilmente di oscillazioni dell’umore, reazioni ansiose e scarsa capacità di controllare gli
impulsi. Mentre con i genitori vi è conflittualità, con il gruppo dei pari vi è dipendenza e
complicità.
Quest’ultimo gruppo, a differenza dei primi due che affrontano la crisi adolescenziale in modo
adeguato, va incontro più facilmente a disturbi psichiatrici in adolescenza, quali depressione,
disturbi della condotta, disturbi alimentari, condotte nocive per la salute quali fumo, abuso di
sostanze, sesso non protetto. I meccanismi di rischio e di resilienza (flessibilità) sono
fondamentali per comprendere i percorsi adattivi e di adattivi durante l’adolescenza. I fattori
implicati possono riguardare il contesto sociale, scolastico e familiare, come anche il
funzionamento psicologico e biologico. In alcuni casi il rischio può essere presente fin
dall’infanzia o comparire specificamente in adolescenza. Il rischio si riferisce ad un’aumentata
probabilità di un esito negativo in una popolazione definita. Il concetto di vulnerabilità implica
invece una maggiore probabilità che il rischio determini un esito negativo. La resilienza è
invece un processo dinamico, in base al quale alcuni individui vanno incontro a degli esiti
positivi nonostante situazioni avverse o traumi. I fattori protettivi correlano solitamente agli
esiti positivi. Va considerato un ultimo aspetto per comprendere il rischio e la flessibilità: lo
stress che implica le circostanze e le condizioni ambientali che minacciano, mettono alla prova
e sovrastano le capacità biologiche e psicologiche individuali. Per comprendere l’eziologia della
psicopatologia adolescenziale è di estrema importanza l’individuazione degli stressors
implicati, anche se bisogna allo stesso modo tener conto dei fattori di moderazione e di
mediazione.
SINDROMI PSICOPATOLOGICHE NELL’INFANZIA E NELL’ADOLESCENZA
La prospettiva della psicopatologia dello sviluppo inquadra la psicopatologia riferendosi allo
sviluppo normale, a differenza dei sistemi diagnostici maggiormente usati, come il DSM IV TR e
l’ICD 10, i quali non si fondano su alcuna teoria del funzionamento psichico normale. Invece, è
proprio in riferimento alle varie fasi dello sviluppo e ai diversi compiti tipici delle varie età che
si possono comprendere i percorsi a rischio e gli esiti psicopatologici. In psicopatologia dello
sviluppo non si fa distinzione, come invece avviene nel DSM IV TR, fra sindromi cliniche e
disturbi della personalità, seguendo in questo la tradizione psicoanalitica che inquadra la
sintomatologia clinica all’interno dell’organizzazione della personalità (vedi manuale
diagnostico psicodinamico – PDM ). È stato infatti dimostrato che i quattro criteri in base ai
quali il DSM effettua questa distinzione (1. diversa stabilità; 2. diversa età di insorgenza; 3.
diversa risposta al trattamento; 4. diverso grado di consapevolezza) hanno scarsa validità
empirica.
CAPITOLO 3. DINAM ICHE E COM PETENZE GENITORIALI NELLO SVILUPPO TIPICO E A RISCHIO
Il tema parenting nella lingua inglese indica l’atto di allevare un bambino da parte dei genitori,
ma anche il processo del diventare genitore. In italiano, il termine genitorialità (in inglese
parenthood – stato dell’essere genitore) non rende bene il senso della processualità che è
presente nella parola inglese. Il tema delle competenze genitoriali, studiato dalla Psicologia
dello Sviluppo, centra l’attenzione sull’influenza che le pratiche di allevamento hanno sullo
sviluppo dei figli, ovvero la modalità di un genitore di soddisfare i bisogni fondamentali del
proprio figlio da un punto di vista fisico e psicologico. Il concetto di funzione genitoriale,
invece, in psicodinamica è ritenuto importante perché considerato parte integrante della
personalità di ciascuno, avente origine nell’interiorizzazione dei comportamenti messi in atto
dalle proprie figure di accadimento. La genitorialità viene, in questo senso, intesa dalla
psicopatologia dello sviluppo (intenta a studiare lo sviluppo tipico per dar forma e spunti alla
comprensione dello sviluppo atipico) come un processo evolutivo non univocamente e
geneticamente predeterminato, né tantomeno come un semplice ruolo, ma bensì come
processo multideterminato ed evolutivamente aperto in cui viene messa in rilievo la
dimensione intersoggettiva della costruzione congiunta delle interazioni e delle
rappresentazioni che prendono forma tra i due partner della relazione, genitore-figlio. Belsky,
Crinc e Gable propongono un modello multifattoriale della genitorialità in quanto la
considerano all’interno di una causalità circolare in cui vanno valutati sia i fattori protettivi che
la sorreggono, sia i fattori di rischio che possono predisporre a vari processi psicopatologici.
Diventare genitore significa entrare in una nuova fase della linea evolutiva di trasformazione
che con la nascita del bambino sia arricchisce di un nuovo e fondamentale soggetto di
relazione che, a sua volta, per evolversi ha bisogno della relazione con l’altro significativo. La
genitorialità nella dinamica reciproca di autoregolazione e regolazione interattiva varia e si
rimodella nel tempo; modelli di funzionamento adeguati per i bambini piccoli, diventano, se
non continuamente adeguati, disfunzionali con i figli in adolescenza. Belsky, nel suo modello di
comprensione delle determinanti della genitorialità, ipotizza tre aree di influenza:
1.Il contesto sociale in cui la relazione genitore-bambino è inserita;
2.La personalità dei genitori;
3.Le caratteristiche individuali del bambino. Esse sono intimamente collegate e fanno parte di
un unico sistema che può essere definito developing family sistem.
Le principali aree considerate che hanno contribuito alla conoscenza del sistema genitoriale
sono: - La teoria psicoanalitica, che ha promosso l’esplorazione delle “costellazioni” genitoriali
intrapsichiche sottolineando il ruolo dei processi inconsci nello sviluppo delle competenze
genitoriali. La teoria dell’attaccamento in particolare ha fornito una cornice teorica e di ricerca
alla conoscenza delle interazioni reali tra genitori e bambino, evidenziando le capacità
genitoriali che influenzano il senso di sicurezza nel bambino.
- L’infant research, che ha studiato la complessità dei sistemi di comunicazione tra genitori e
figli, evidenziando le competenze del bambino fin dalla nascita.
- Le neuroscienze, che hanno reso evidenza alle trasformazioni funzionali e strutturali che
avvengono nel cervello materno a partire dalla gravidanza e per tutto il primo anno di vita al
fine di contribuire all’attivazione delle competenze genitoriali.
LE RADICI DELLA GENITORIALITÀ NEI CONTRIBUTI PSICODINAMICI
La prospettiva dinamica si è focalizzata sullo studio della funzione genitoriale analizzando le
rappresentazioni individuali e dei processi mentali inconsci del genitore sul bambino. La teoria
delle relazioni oggettuali, ad esempio, descrive alcune modalità attraverso le quali il mondo
interno della madre può influenzare lo sviluppo del bambino, in questo distanziandosi dal
modello freudiano classico, che poneva scarsa attenzione all’influenza che le interazioni attuali
potevano avere sullo sviluppo intrapsichico del bambino. Freud si limitava ad osservare come
l’amore parentale non fosse che una riproposizione del narcisismo dei genitori tornato a nuova
vita” (Introd. al narcisismo). A partire dagli anni ’40 del Novecento, autori come Benedek,
Jacobson, Mahler, Pine e Bergman, diedero rilievo al fatto che i bambini evocano
immancabilmente nelle proprie madri fantasie inconsce che vengono a loro volta trasmesse ai
bambini stessi nel corso delle interazioni quotidiane. Il modello delle relazioni oggettuali ha
messo in evidenza due componenti fondamentali delle relazioni: 1. Il ruolo dei sentimenti,
delle fantasie e delle aspettative della madre; 2. La capacità della madre di fornire al bambino
un’organizzazione coerente e stabile, che egli possa in seguito incorporare come parte della
propria struttura psichica. Nel concetto freudiano di “coazione ad attribuire” è contenuto già
in nuce ciò che negli sviluppi successivi sarà ripreso nei termini di “affido di parti di sé”, di
“identificazione proiettiva (M. Klein), di “contenimento materno” (Bion), di “holding materno”
(Winnicott) e di “rispecchiamento” (Kohut). Tutti questi autori sono accomunati dall’idea che la
madre o la figura significativa che svolge una funzione genitoriale nel ricevere le proiezioni
primitive del bambino le trasformi in stati mentali comprensibili e tollerabili, creando una sorta
di cornice elaborativa che il bambino man mano svilupperà dentro di sé, divenendo sempre
meno dipendente dalla madre e dagli altri familiari. La genitorialità dunque, all’interno della
cornice psicodinamica, ha assunto le accezioni di: a) fase evolutiva, che permette di acquisire il
ruolo di genitore fornendo un’occasione per rielaborare conflitti rimasti sospesi nella propria
storia personale; b) crisi, ponendo l’accento maggiormente sui cambiamenti che l’individuo
dovrà affrontare per costruire un’immagine stabile del proprio Sé genitoriale, necessaria per lo
strutturarsi di uno spazio interno di relazione col bambino; c) un articolato processo di fattori
intrapsichici e interpersonali, che coinvolge l’insieme delle rappresentazioni che emergono
dalla storia personale dei genitori, dalla loro vita attuale e dalla loro relazione di coppia.
Genitorialità dunque come processo trasformativo che implica una rivisitazione delle
rappresentazioni interne del genitore, con un passaggio dall’investimento su di sé a quello sul
bambino. Erikson proponeva a tal proposito per l’età adulta l’antitesi tra “generatività”, che
consisterebbe soprattutto nel creare e guidare la generazione successiva, e “stagnazione”,
come preoccupazione esclusiva di sé. In psicoanalisi si è anche superata la dicotomia tra una
“maternità biologica” e una “paternità sociale” (Freud), mettendo in luce invece
l’interconnessione tra aspetti biologici, psicologici e culturali sia nell’uomo che nella donna. La
funzione genitoriale, al di là dai ruoli biologicamente determinati, si estrinseca nella capacità di
prendersi cura (caregiving). Ciò richiede peraltro delle condizioni di consapevolezza delle
proprie dinamiche intrapsichiche che, se non soddisfatte, possono trasformare la valenza
evolutiva della genitorialità a fonte di possibile vulnerabilità. Particolare attenzione va dedicata
al rischio di una genitorialità dettata da una “aspettativa ripartiva” nei confronti di aspetti
irrisolti o dolorosi della propria storia personale, sia rispetto all’immagine di sé come figli, che
di sé come genitori. Fraiberg parla a questo proposito di “ fantasmi dei genitori nella stanza dei
bambini” , riferendosi a quel passato non ricordato del genitore a causa della rimozione degli
affetti dolorosi relativi a tali vicende che, pur tuttavia, si ripercuote sull’accudimento dei propri
figli, in primo luogo sulla mancata attenzione verso i loro bisogni, ma anche attraverso una
riproposizione dei modelli aggressivi dei propri genitori i quali, interiorizzati da bambini e
depurati dagli affetti dolorosi che li accompagnavano, riemergono con modalità
prevalentemente inconsce. Lebovici descrive invece il processo di costruzione della relazione
madre-bambino già a partire dalla gravidanza, quando la madre crea, attraverso fantasie e
rappresentazioni, l’immagine del “bambino fantasmatico”, corrispondente al bambino delle
proprie fantasie edipiche infantili. Nello stesso tempo, madre e padre iniziano a fantasticare
intorno a un “bambino immaginario”, corrispondente alle loro aspettative attuali, coscienti,
relative al bambino (sesso, somiglianza, temperamento, etc.). la comparsa sulla scena del
“bambino reale” comporterà per entrambi la necessità di un complesso processo di confronto
ed elaborazione tra il bambino immaginato e rappresentato prima della nascita e il bambino
reale della loro esperienza attuale. Nello sviluppo tipico del legame genitore-bambino, le
rappresentazioni sono flessibili ed in grado di modificarsi a seconda dell’individualità del
bambino che, a sua volta, le interiorizza integrandole in modo sintonico con i propri aspetti
individuali. In altri casi, invece, le rappresentazioni di genitori rischiano di mettere in pericolo
la costruzione dell’identità del bambino, costringendolo a identificarsi con qualità e oggetti del
mondo intrapsichico genitoriale che possono soffocare i suoi aspetti più originari e individuali.
L’assetto mentale genitoriale che emerge a partire dalla gravidanza conduce alla formazione di
una nuova organizzazione cognitiva e affettiva che Stern definisce “costellazione materna”, che
sta a segnalare la nascita psicologica di una nuova identità, “il senso di essere madre”. Diverse
ricerche hanno messo in luce che nelle ultime fasi della gravidanza la donna si è costruita
un’immagine sufficientemente stabile e definita di sé come madre del proprio bambino che
influenza la qualità della stessa relazione precoce con il bambino. Questi studi si fondano
sull’idea che le rappresentazioni, organizzate in una struttura narrativa, possano dare
informazioni specifiche sul modo in cui la donna affronta l’esperienza della maternità e
consentano di fare delle previsioni sul suo funzionamento mentale in termini di fattori di
protezione e di rischio nella relazione con il bambino. Le madri con rappresentazioni integrate/
equilibrate denotano un forte senso della propria identità e della presenza affettiva del figlio,
nonché flessibilità nell’adattamento e nel riconoscimento dei cambiamenti relativi alla
genitorialità. Le madri con rappresentazioni ristrette/ disinvestite si caratterizzano per il forte
controllo e meccanismi di razionalizzazione che rendono il senso della genitorialità astratto e
dominato dalla piattezza emotiva. Le madri con rappresentazioni ambivalenti/ non integrate
risultano confuse e incoerenti, poco flessibili e inclini al cambiamento a causa di pressioni
esercitate dalle esperienze del passato e dall’insicurezza rispetto al futuro, vissuto come
troppo difficile da affrontare. Si è visto che, a 4 mesi dalla nascita del bambino, vi è un’alta
stabilità degli stili di rappresentazione già presenti in gravidanza e la possibilità di predire gli
stili di interazione madre-bambino a 6, 9 e 12 mesi di vita del piccolo. Studi sulle
rappresentazioni paterne hanno rivelato la loro influenza sui futuri stili di parenting,
confermandone l’importanza. Tutto ciò è stato posto in relazione agli studi sulla trasmissione
intergenerazionale dei modelli relazionali da genitore a figlio, che accomunano i differenti
indirizzi teorici e di ricerca.
IL CONTRIBUTO DELL’INFANT RESEARCH
L’infant research è un’area di ricerca al confine tra psicoanalisi e psicologia evolutiva, la quale
sostiene con forza una visione interamente bidirezionale del contributo di ciascun partecipante
all’organizzazione della diade genitore-bambino. I bambini, come ogni altro sistema vivente,
sono capaci di autoregolarsi e auto-organizzarsi. Il processo di autoregolazione tuttavia
modifica continuamente il processo di regolazione interattiva e ne viene da questo
continuamente modificato. È Louis Sander a teorizzare per primo l’interdipendenza di processi
interni e di processi interattivi. L’esperienza per la quale il bambino si percepisce come
soggetto agente si organizza grazie al processo di autoregolazione fin dalla nascita e accresce la
consapevolezza dell’esperienza interiore, ma solo nella misura in cui anche la regolazione
interattiva consente o favorisce questa esperienza. Sulla base di tali presupposti, Sander ha
introdotto nello studio dei sistemi regolativi del Sé, metodiche di osservazione diretta
dell’interazione del bambino con gli altri per lui significativi. Le sue osservazioni sollecitano a
considerare l’organizzazione del bambino nel rapporto con il genitore come una proprietà
sistemica. Sulla scia di Sander, si muove anche Daniel Stern che, criticando il modello e la
terminologia della Mahler (collegherebbero condizioni patologiche successive, come l’autismo
o la simbiosi, a periodi evolutivi normali, fornendo così una visione patomorfica e retrospettiva
dello sviluppo), sostiene l’esistenza di una precoce capacità del bambino di sperimentare
l’emergere di una organizzazione del Sé fin dai primi mesi di vita, e quindi di una embrionale
capacità di differenziazione tra il Sé e l’altro. Il bambino, secondo le osservazioni di Stern, è
attivamente impegnato nella ricerca di stimoli ed è in grado di regolare, con il contributo
materno, il loro eccesso e la loro carenza per raggiungere livelli ottimali di stimolazione.
Nell’arco dei primi due anni di vita, il bambino e la madre costruiscono insieme, attraverso
“danze interattive”, comportamenti complessi che seguono un modello “tema con variazioni”
in cui linguaggio, espressioni del viso e movimenti del corpo sono tutti eseguiti con una certa
ripetitività di costanti (“isole di coerenza”) che tendono a caratterizzare e moderare le
deviazioni dall’esperienza passata. L’insieme di tutte le costanti viene integrato
progressivamente nella creazione di “strutture di rappresentazione” che garantiscono una
certa stabilità della relazione affettiva sulla quale il bambino possa basare la crescita della
nascente coerenza del Sé. L’insieme delle costanti del Sé viene integrato a partire da una
forma complessa di rappresentazione precoce che Stern definisce “schema di essere con”.
Dal campo di relazione intersoggettiva il bambino può sperimentare un nuovo senso del sé, il
senso del sé soggettivo, che viene costruito a partire dalle nuove capacità di condividere
l’attenzione, le intenzioni e gli stati affettivi con un altro (fenomeno del “riferimento sociale”,
in cui il bambino utilizza l’espressione affettiva della madre per risolvere la sua incertezza).
Trevarthen a questo proposito sostiene che fin dalle prime settimane di vita è possibile
rintracciare nel bambino un’intelligenza di tipo sociale innata, che lo rende pronto a interagire
e comunicare con i suoi partner. Egli distingue, nel corso del primo anno di vita, due differenti
forme di intersoggettività:
- intersoggettività primaria, rappresentata da quelle forme di “dialogo sociale” (scambi di
sguardi, sorrisi, vocalizzazioni, secondo le regole conversazionali dell’alternanza dei turni – turn
taking) che emergono tra il secondo e il quinto mese di vita e che divengono coerenti grazie
alla responsività del partner;
- intersoggettività secondaria, caratterizzata dall’attività di condivisione con il caregiver
dell’esplorazione sociale, con il fine di costruire significati condivisi (attraverso il co-
orientamento visivo, il riferimento sociale), che si sviluppa dopo il sesto mese e che rende il
bambino consapevole dell’attenzione dell’altro.
Se il rispecchiamento degli stati interni da parte del genitore non funziona adeguatamente, gli
stati interni non potranno essere “etichettati” dal bambino, rimarranno confusi e verranno
sperimentati a livello non simbolico, con conseguente difficoltà a riconoscerli e a regolarli.
Negli ultimi anni le ricerche si sono soffermate sull’evoluzione della competenza comunicativa
e della regolazione emotiva, considerate come preziosi dello sviluppo successivo sia a livello
socio-emotivo, sia della personalità complessiva. Emde sottolinea a questo proposito il ruolo
cruciale svolto dalle emozioni positive, evidenziando come il bambino fin dalla nascita sia alla
ricerca di emozioni positive, attività rilevata dall’attesa e dalla curiosità verso i nuovi stimoli
che incontra. Questa aspettativa costituirebbe il primo nucleo della sua identità. Tronick, da
parte sua, ha messo in luce l’esistenza di competenze autoregolatorie molto precoci nel
bambino, che lo rendono in grado di modulare la tensione generata da eventi nuovi o
stressanti di tipo ambientale o interattivo già nei primi mesi di vita, dimostrandosi così in parte
indipendente dal caregiver. L’autoregolazione avverrebbe mediante condotte quali il
distogliere lo sguardo, o comportamenti autoconsolatori quali succhiare e manipolare parti del
proprio corpo o dei propri indumenti, nonché condotte centrate sull’immobilizzazione della
propria mimica espressiva, che Tronick valuta come delle difese precoci, soprattutto quando il
bambino le adotta in modo prolungato a fronte della mancata o inadeguata responsività
materna. L’autore effettua delle osservazioni microanalitiche dell’interazione madre-bambino
nel primo anno di vita, evidenziando i processi di sintonizzazione/ rottura/ riparazione della
comunicazione intercorrente tra entrambi, soprattutto a livello dell’espressione delle
emozioni. Ciò permette al bambino di formarsi una rappresentazione del Sé come efficace dal
punto di vista comunicativo e della madre come accessibile emotivamente e in grado di
riparare i propri errori. La mancata azione regolativa svolta dal caregiver può costringere
invece il bambino al ricorso prolungato a forme di autoregolazione che possono intaccare le
sue nascenti capacità relazionali. Dalla fine del secondo anno la regolazione diadica lascia
spazio a forme di autoregolazione emotiva più autonome più mature, sulla base della
formazione di stili di regolazione individuali. (es. uso di oggetti transazionali, del gioco
simbolico e della narrazione). Tuttavia le strategie di autoregolazione più precoci saranno
quelle che permarranno anche nella vita adulta.
Siegel ha proposto un modello che esplicita il rapporto esistente tra la capacità di
autoregolazione emotiva del bambino e le caratteristiche neuroendocrine, temperamentali e
ambientali legate al caregiver. Secondo Siegel nei primi due anni di vita le esperienze emotive
vissute dal bambino vengono codificate attraverso una memoria di tipo implicito, non
dichiarativa, che coinvolge l’amigdala, il sistema limbico, i nuclei della base e la corteccia
motoria e percettiva. La memoria implicita comprende diverse forme percettive, emotive e
comportamentali ed è di tipo inconsapevole, cioè non integrata nel senso di continuità del Sé,
che il bambino comincia a costruirsi a partire dai 18 mesi. È in quel periodo, in concomitanza
con la maturazione di aree cerebrali quali il lobo temporale mediale, che include l’ippocampo,
e la corteccia orbito-frontale, che le esperienze iniziano ad essere codificate da una memoria di
tipo esplicito, semantica e autobiografica o episodica, integrata nella continuità dell’esperienza
di sé. La stessa maturazione del sistema nervoso appare dipendente dalle prime esperienze
relazionali. Stimolazioni di tipo tattile, visivo e auditivo che caratterizzano le interazioni faccia a
faccia avrebbero un effetto determinante sulla crescita neurale e delle connessioni sinaitiche,
nonché su quella dell’amigdala e dell’ipotalamo. Successivamente, la condivisione di argomenti
e l’attenzione condivisa sembrano facilitare l’integrazione tra le aree corticali orbito frontali e
quelle limbiche. Allo stesso modo si possono produrre, a causa di processi neuroendocrini
attivati dallo stress, danni a specifiche aree cerebrali, provocando nel bambino alterazioni
durature nel modo di processare le emozioni e di codificare a livello di memoria esplicita gli
eventi traumatici. Il caregiver si delineerebbe così come un regolatore psico-biologico della
crescita del sistema nervoso del bambino, oltre che delle esperienze socio emozionali.
IL CONTRIBUTO DELLA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO ALLA GENITORIALITA’
Bowlby, in un celebre rapporto del 1951 all’OM S affermò che “un bambino nella sua infanzia
dovrebbe avere l’esperienza di una relazione calda, intima e continua con la madre”. Secondo
Bowlby, l’attaccamento che unisce il piccolo alla madre è un bisogno primario, una
predisposizione innata alla continuità e stabilità di un rapporto interpersonale che si
costituisce come sistema motivazionale finalizzato allo sviluppo, e non la semplice
conseguenza del soddisfacimento dei bisogni primari. Nella teoria dell’attaccamento viene
postulata l’esistenza di una organizzazione psicologica interna, con caratteristiche proprie
come gli schemi di sé, delle figure di attaccamento e delle loro reciproche relazioni. Una sorta
di “modello del mondo” che è l’insieme di quello che vengono definiti gli internal working
models (modelli operativi interni), costruiti dal bambino nel corso del primo anno di vita sulla
base di modelli ripetuti di esperienze interattive. Questi formerebbero dei modelli di
rappresentazione relativamente stabili (o a lenta evoluzione) che il bambino userebbe come
strumenti per predire gli eventi e mettersi in relazione col mondo. È nell’interazione tra i
modelli operativi del Sé e dell’altro significativo che si determina la relazione. Secondo Bowlby,
ogni essere umano possiede una capacità biologica innata di fare da genitore, ma la forma
specifica di tale competenza dipenderà dalla sua storia, ovvero dalle rappresentazione che il
genitore ha delle esperienze passate di attaccamento. Main, Kaplan e Cassidy scoprirono che la
qualità dell’attaccamento dei bambini ai genitori a 1 anno e a 6 anni è correlato in maniera
sorprendente al tipo di modello operativo del genitore classificato secondo la Adult
Attachment Interview: i genitori dei bambini classificati alla Strange Situation come sicuri
erano in grado di parlare liberamente e in maniera coerente della propria infanzia; i genitori
dei bambini insicuri-evitanti parlavano delle loro esperienze in maniera svalutante, come se
non avessero avuto un’influenza sul loro sviluppo. Le loro idealizzazioni dei propri genitori non
corrispondevano però alle memorie esplicite che emergevano dai loro racconti; i genitori dei
bambini insicuri-resistenti mostravano di essere preoccupati rispetto alle proprie esperienze di
attaccamento, non riuscendo a parlarne in modo libero e integrato. Gli avvenimenti ricordati
erano carichi di conflitti; i genitori dei bambini insicuri-disorganizzati avevano avuto difficoltà
in rapporto a una figura significativa nella loro infanzia e sembravano lottare con problemi non
ancora risolti riferibili a quel periodo. I loro racconti incorrevano spesso in lapsus, espressione
che suggerivano uno stato mentale vicino agli stati dissociativi. In campioni ad alto rischio,
quest’ultimo pattern è stato collegato direttamente al maltrattamento infantile, mentre nei
campioni a basso rischio sembra essere in relazione a lutti o traumi non risolti nella storia del
genitore. Lo stato mentale irrisolto del genitore si esprime nelle interazioni col bambino
attraverso espressioni di paura, legate a ricordi parzialmente dissociati, che spaventano il
bambino. Fonagy e Steele hanno affermato la possibilità di prevedere, nel 75% dei casi, il tipo
del futuro modello di attaccamento del bambino a 12 mesi di vita con la madre, e a 18 col
padre, a partire dal modello operativo del genitore valutato prima ancora che il bambino
nascesse. Questi dati sembrano avvallare l’ipotesi di una trasmissione intergenerazionale dei
modelli di relazione dell’attaccamento. Mary Ainsworth ha messo in evidenza il concetto di
sensibilità materna come la capacità e la volontà della madre di percepire le comunicazioni del
bambino, di vederle e di interpretarle dal punto di vista del bambino, rispondendovi
adeguatamente e prontamente secondo i suoi bisogni evolutivi. Su questa linea si situano le
evidenze empiriche emerse dal lavoro di vari studiosi, che confermano essere la sensibilità
empatica verso i propri figli lungo tutto il primo anno di vita a rappresentare l’indice più idoneo
a predire la sicurezza dell’attaccamento del bambino. Il concetto di responsività o sensibilità va
inteso come strettamente connesso alle dimensioni della regolazione, della comunicazione
affettiva e del contesto in cui questa si esprime. Haft e Slade hanno evidenziato l’associazione
esistente tra i M OI della madre e la sua capacità di sintonizzarsi con il figlio, rilevando come
tale capacità costituisca un mediatore privilegiato dei modelli di attaccamento. Le madri sicure,
in grado di integrare affetti positivi e negativi delle proprie esperienze infantili, si dimostrano
capaci di rispondere in modo sintonico ai diversi stati emotivi espressi dal bambino; le madri
distanzianti, non in grado di riconoscere memorie e affetti legate alle esperienze di rifiuto e
trascuratezza vissute con i propri genitori, si rivelano incapaci di sintonizzarsi con le emozioni
negative manifestate dai figli, non accogliendo le loro richieste di prossimità e consolazione,
operando invece sintonizzazioni selettive verso le esperienze positive e di padronanza vissute
dal bambino; le madri preoccupate si dimostrano parzialmente in grado di rispondere alle
richieste di consolazione e di prossimità, ma incapaci di rispecchiare quelle legate alla loro
padronanza e autonomia. Con l’acquisizione del linguaggio i M OI vengono riorganizzati dal
bambino a livello verbale, ed in questo periodo è cruciale il ruolo svolto dai genitori
nell’aiutare il bambino a riorganizzare le proprie esperienze precoci, condividendo con lui la
narrazione di tali esperienze a livello linguistico. Ambienti familiari caotici e potenzialmente
disorganizzati possono impedire la rielaborazione delle esperienze, favorendo una frattura tra
memoria implicita e memoria dichiarativa. Tale frattura darebbe luogo ad una memoria
dichiarativa povera e poco organizzata, con la possibilità che, in momenti di particolare disagio
o stress, forme di memoria riemergano, generando emozioni di tipo negativo. Interessante è il
fenomeno degli adulti definiti “sicuri guadagnati”, ovvero persone che pur avendo vissuto
nell’infanzia un rapporto particolarmente difficile con uno o entrambi i genitori,
presumibilmente attraverso la mediazione di un adulto significativo che l’abbia aiutato a
riflettere su tali esperienze, sono in grado di fornire una narrazione coerente ed emotivamente
equilibrata. Un ampio progetto di ricerca di Sroufe ha reso evidente come l’influenza
dell’attaccamento, assieme ad altre variabili quali la qualità delle cure genitoriali fino ai 42
mesi, gli aspetti di autonomia del bambino a 24 mesi e le sue competenze sociali con i pari fino
ai 3 anni, si configuri determinante anche in preadolescenza e adolescenza. Altri autori hanno
ipotizzato che le rappresentazioni relative all’attaccamento vadano a costituire una sorta di
metamodello, che risentirebbe in particolar modo dell’influenza del modello di attaccamento
verso la madre. La caratteristica genitoriale che maggiormente influisce sulla qualità
dell’attaccamento è dunque la capacità di rappresentazione mentale dei genitori. Sistema di
cure genitoriali (caregiving system) e sistema di attaccamento evolvono in parallelo. Nelle
madri di bambini sicuri si è riscontrata la presenza di rappresentazioni mentali del caregiving
flessibili, in grado di riconoscere i bisogni evolutivi dei figli e le caratteristiche della loro
personalità. Le madri di bambini evitanti e ambivalenti sviluppano modelli rappresentazionali
condizionanti, caratterizzati da discontinuità cognitiva, per cui gli aspetti positivi e negativi non
vengono integrati. Nel caso dei bambini evitanti, i caregiving system sono all’insegna del
distanziamento e del rifiuto, con una disattivazione del sistema di cure. Nel caso dei bambini
ambivalenti le rappresentazioni mentali sono fortemente contrassegnate dall’incertezza (il
bambino viene tenuto vicino manifestando allo stesso tempo insensibilità nei suoi confronti).
Un ulteriore modello, caratterizzato dall’incapacità a prendersi cura, si verifica nel caso di
bambini disorganizzati e controllanti. Le madri riportano modelli rappresentazionali di
incapacità a controllare se stesse e i propri figli, con un senso di impotenza personale.
IL CONTRIBUTO DELLE NEUROSCIENZE
Le neuroscienze negli ultimi anni hanno fornito prova di quanto la plasticità neurale sia attiva
non solo nei bambini, ma anche negli adulti e quanto sia determinante l’ambiente nella
espressione genica. Durante la gravidanza e nel corso del primo anno di vita del bambino il
cervello della madre viene rimodellato dalle fluttuazioni ormonali che determinano
modificazioni strutturali delle aree atte a favorire la regolazione del comportamento materno
nelle condotte di accudimento. In particolare, la vasopressina e l’ossitocina (secrete
dall’ipotalamo) risultano coinvolte nell’attaccamento materno e sembra anche nei processi di
memoria sociale e dell’apprendimento. L’ossitocina inoltre è stato dimostrato essere un
agente antidepressivo, il cui livello nell’organismo viene incrementato dal tatto e dal contatto
fisico. Si è visto che il comportamento materno attiva specifici circuiti neurali e molti gruppi di
cellule implicati nel controllo del comportamento materno sono gli stessi che risultano
coinvolti nei comportamenti relativi all’ingerire, alla termoregolazione corporea, al
comportamento sociale di tipo difensivo e sessuale e quelli richiesti per l’esplorazione e il
raggiungimento di un determinato scopo. Queste strutture sono le stesse coinvolte nella
risposta allo stress.
Un’interazione sociale sana può dipendere dall’equilibrato funzionamento dell’attività
neurobiologica delle aree coinvolte nei comportamenti di attaccamento (in particolare la
corteccia cingolata anteriore e la corteccia prefrontale destra).
FATTORI DI RISCHIO DELLA GENITORIALITA’
Il mondo delle rappresentazioni dei genitori, così come il sistema comportamentale di cure,
possono essere sostenuti e confermati da condizioni ambientali positive, così come possono
essere ostacolati e disorganizzati da condizioni ambientali a rischio, contrassegnati da stress,
traumi o da condizioni di rischio emotivo del genitore (es. depressione). La capacità di
individuare tempestivamente a partire dalla gravidanza, la presenza di rischi psicosociali e di
rischi e motivi permette di migliorare e favorire lo sviluppo delle capacità genitoriali e di
prevenire il disadattamento infantile. Alcune ricerche hanno messo in evidenza che i fattori di
maggiore rischio della genitorialità sono da un lato, il rischio sociodemografico cumulativo
(basso livello socioeconomico, situazioni di maltrattamento, eventi traumatici,
tossicodipendenza e condizioni di vita instabili), dall’altro, un tasso molto elevato di
attaccamenti disorganizzati nei bambini provenienti da queste tipologie familiari. I fattori di
rischio tendono poi a presentarsi in modo associato ma, non infrequentemente, sono presenti
anche fattori di rischio depressivo della madre.
Rischio depressivo
La depressione materna, sia in gravidanza, che nel primo anno di vita, rappresenta un
importante fattore di rischio per i figli che possono così presentare anomalie psicopatologiche
(tasso da 2 a 5 volte maggiore). Relativamente a questo fenomeno sono stati elaborati modelli
interpretativi diversi, che sottolineano il ruolo di meccanismi genetici, di caratteristiche
temperamentali e fisiologiche e di fattori mediati dall’ambiente. Sono tuttavia numerose le
difficoltà dovute principalmente alla scelta del campione da indagare, al tipo di sintomatologia,
al rapporto tra rischio depressivo e comportamento materno e rischio depressivo e stato della
mente rispetto all’attaccamento. La depressione compromette la capacità della madre e quindi
della diade madre-bambino di regolare reciprocamente l’interazione. La madre depressa
presenta più affetti negativi e appare più disimpegnata di quella non depressa. Si coinvolge
meno nel gioco, ricorre meno ad un linguaggio infantile. I comportamenti di molte madri di
questo tipo possono anche essere eterogenei (a volte si mostrano intrusive, arrabbiate o tristi).
Esistono due modelli che spiegano il rapporto tra rischio depressivo e capacità di accadimento
materno
1. Modello a soglia degli affetti della depressione (modello forte): la depressione è considerata
come un’alternanza di stati d’animo che sembrano influenzare molte aree del funzionamento
personale. Questo modello definisce una soglia critica al di sopra della quale il comportamento
materno viene influenzato negativamente e perciò la depressione diventa la variabile più
importante nel predire l’adeguatezza del funzionamento personale;
2. Il modello correlato: la depressione viene considerata come uno dei possibili aspetti
correlati ai fattori di stress familiari presenti o passati associati al comportamento materno
negativo. I fattori di stress sarebbero primari e medierebbero l’ostilità come anche il suo ritiro,
indipendentemente dal fatto che la madre risponda a questi fattori di stress sviluppando
sintomi depressivi.
Studi successivi hanno messo in discussione il modello forte e hanno proposto un modello
relazionale (versione particolare del modello correlato), secondo cui il modello di cura e
accudimento viene appreso nelle relazioni precoci e i sintomi depressivi potrebbero costituire
un ulteriore fattore, anche se non necessariamente correlato a questi modelli disadattavi
precoci. Tronick e Weinberg hanno studiato gli effetti differenti sul neonato di almeno due
pattern di interazione delle madri depresse: intrusività e allontanamento. Entrambi i modelli
interagiscono con il processo di regolazione e costituiscono una rottura nella intersoggettività.
Le madri intrusive trattano il bambino in modo duro, si rivolgono a lui con un tono di voce
arrabbiato e interferiscono nelle attività del bambino. Le madri isolate invece, non
interagiscono. Sono piatte e fanno poco per aiutare il figlio nelle attività quotidiane e nel gioco.
I bambini delle madri intrusive evitano lo sguardo della madre e prestano poca attenzione agli
oggetti, non piangono quasi mai. I figli delle madri isolate protestano, piangono spesso e
questo perché il comportamento di isolamento della madre ha un effetto particolarmente
negativo sui bambini più piccoli. Questi bambini non hanno successo nel raggiungimento di
una connessione sociale, sia per la mancanza di risposta, sia per la loro incapacità di riparare
l’interazione. Quindi inizialmente si arrabbiano, ma essendo incapaci di fronteggiare la
situazione si disregolano, diventano irritabili e piangono. In una situazione cronica sviluppano
uno stile di regolazione distaccato e diretto verso se stessi (si autoregolano e auto
controllano), attuano comportamenti passivi e di isolamento. Con il tempo questo
comportamento si trasforma in uno stile di difesa adottato dal bambino per evitare emozioni
negative, anche in situazioni in cui probabilmente non si presentano. I figli di madri intrusive
devono invece affrontare un problema di regolazione diverso: la madre impedisce la
riparazione dell’interazione perché interrompe costantemente le attività del bambino.
All’inizio questi bambini provano rabbia e respingono la madre. Però questi comportamenti
riescono solo raramente a bloccare l’intrusività della madre per qui questi bambini
sperimentano la riparazione in modo irregolare e finiscono per internalizzare uno stato di
rabbia, di frustrazione che in età successive si manifesta attraverso comportamenti aggressivi
volti ad anticipare il comportamento intrusivo dell’altro. Queste differenze nelle reazioni dei
bambini alle madri isolate o alle madri intrusive suggeriscono una interpretazione differente
degli effetti differenziali associati alla negligenza e alla violenza dei genitori, i quali vengono
evidenziati in età successive del bambino. Ritardo nella crescita, comportamento asociale,
mancanza di motivazione osservati in condizioni di negligenza da parte dei genitori sono
probabilmente il risultato di una richiesta continua di autoregolazione. Al contrario, l’abuso da
parte dei genitori porta ad uno stato difensivo cronico di rabbia, ad un aumento della vigilanza
e della paura. Questi processi precoci possono poi diventare problematici nel corso
dell’adolescenza, periodo nel quale è particolarmente importante il senso dell’autostima e
dell’autoefficacia. I maschi sembrano essere più soggetti allo stile di isolamento associato alla
depressione, in quanto l’isolamento della madre nega loro l’aiuto di cui sembrano avere
bisogno in misura maggiore rispetto alle femmine. Diversamente, queste ultime sembrano più
vulnerabili allo stile intrusivo di depressione, che interferisce con lo svolgimento delle loro
attività, che già a 6 mesi sembrano spostarsi sugli oggetti in misura maggiore rispetto ai
maschi.
Adolescenza
La genitorialità in adolescenza riguarda in Italia il 4,7% dei casi. Le ricerche suggeriscono una
presenza di traiettorie negative nelle interazioni precoci tra madri adolescenti e bambini. Le
madri sono più soggette a sintomi depressivi, abuso di sostanze ed episodi di maltrattamento
nei confronti dei figli rispetto alle madri adulte. I figli di madri adolescenti mostrano poi in
misura maggiore deficit cognitivi e socio emotivi nel corso dello sviluppo. Il compito più
impegnativo in adolescenza è quello di integrare nell’immagine di sé le trasformazioni
somatiche e sessuali, determinate dalla pubertà. Se da un lato la gravidanza può rispondere al
desiderio tipicamente adolescenziale di dimostrare che il proprio corpo funziona come quello
materno, allo stesso tempo può rappresentare un modo per sfuggire alle complesse dinamiche
di separazione e di individuazione nei confronti dei propri genitori e della madre in primo
luogo, la quale è destinata a giocare un ruolo importante nella maternità della figlia. La
gravidanza interferisce inoltre in modo considerevole nel processo di costituzione della propria
identità femminile, in quanto la ragazza si sente confusa, essendo coinvolta allo stesso tempo
nei suoi conflitti di figlia e nell’assunzione dei compiti materni. Allo stesso modo, anche la
costruzione dell’identità materna risulta difficile, in quanto questa va a sovrapporsi
all’immagine di sé come donna, anziché esserne la naturale continuazione. I conflitti tipici
dell’adolescenza, dovuti principalmente alla maggiore diffusione dell’identità, al bisogno di
autonomia e alle difficoltà ad acquisire un senso di responsabilità, si ripercuotono
inevitabilmente sulle competenze genitoriali di queste ragazze. Le relazioni genitoriali saranno
più povere, caratterizzate da un’estrema limitazione delle comunicazioni verbali, da tendenze
punitive e da una frequente svalutazione delle competenze cognitive e comunicative del
bambino. I bambini, a loro volta, fin dal primo anno di vita possono sviluppare pattern
disadattavi di interazione affettiva (scarsa capacità di controllo e autoregolazione) o uno stile
di adattamento all’ambiente di tipo passivo, con ridotta responsività emotiva. Questo tipo di
interazioni facilitano per lo più la formazione di modelli di attaccamento di tipo evitante e
disorganizzato.
Aborti e perdita perinatale
La perdita perinatale è definita generalmente come morte del bambino tra la ventesima
settimana di gestazione e il mese post-partum. Le donne che subiscono una interruzione di
gravidanza, oltre a esperire stati emotivi tipici del lutto, sentono di aver fallito nel loro ruolo di
moglie e di madre e percepiscono questa perdita come un inadempimento delle attese del
partner e della famiglia. Il corpo può essere avvertito come sbagliato e traditore. Una reazione
comune è quella di desiderare un altro bambino (59-86% dei casi rimane incinta anche dopo
poco tempo). La gravidanza successiva può riattivare in molte donne la ferita della perdita
subita, ma la nascita di un bambino sano può avere un effetto riparatore. Viene comunque
descritta una vulnerabilità significativa a sviluppare i sintomi del disturbo da stress post-
traumatico (PTSD) soprattutto quando la nuova gestazione ha inizio entro un anno dalla
perdita. Il lutto per la perdita di un bambino atteso può lasciare tracce per anni, se non
elaborato sufficientemente, ed ostacolare una eventuale nuova relazione di attaccamento. Il
lutto non risolto della madre è associato infatti ad attaccamento insicuro-disorganizzato verso
il nuovo bambino. Le speranze e le attese deluse in precedenza e la mancanza di un ricordo
concreto possono tradursi in una idealizzazione del bambino morto e ad un continuo
confronto del bambino attuale con un’immagine di perfezione. Queste madri lamentano
maggiori problemi di relazione col figlio, soprattutto nell’ambito dell’alimentazione e nella
regolazione dei cicli sonno-veglia, sono più diligenti e iperprotettive e possono giungere a
considerare il figlio nato dopo la perdita come una reincarnazione di quello morto.
Altre variabili
Un’altra variabile importante che può influire con la genitorialità riguarda la qualità della
relazione coniugale. Nell’ottica del developing family system, la famiglia viene vista come
composta da due subsistemi complementari e interagenti: quello coniugale e quello
genitoriale. Le ipotesi esplicative della relazione tra questi subsistemi sono tre:
1. Spill-over hypotesis: sostiene che i genitori che sperimentano relazioni di coppia più
soddisfacenti siano più disponibili e sensibili nei confronti dei bisogni del figlio;
2. Compensatory hypotesis: sostiene una relazione inversa tra soddisfazione coniugale e
qualità della relazione col bambino;
3. Common factor hypotesis: sostiene che le caratteristiche di personalità dei genitori possano
essere ritenute come variabili esplicative alla base sia della relazione col figlio, che di quella
con il partner.
È la prima ipotesi quella più confermata. Sroufe evidenzia come il legame della coppia non
soddisfi solamente bisogni di intimità, ma fornisca anche il supporto emotivo indispensabile
per l’educazione dei figli. Belsky osserva come i padri che vivono un legame stressante con la
propria compagna siano meno attivamente coinvolti nelle pratiche di accudimento del
bambino, così come una percezione positiva del rapporto coniugale da parte delle madri
costituisca un valido supporto anche per il padre, innescando così una catena che migliora la
qualità stessa della relazione di coppia. Inoltre, la percezione da parte del bambino del
coparenting (negoziazione fra i genitori) ha una positiva influenza sulla sensazione di sicurezza
sperimentata dal bambino all’interno dell’ambiente familiare, fornendo altresì un’eccellente
opportunità di apprendimento sotto il profilo delle acquisizioni sociali. Tuttavia, uno dei più
significativi cambiamenti riscontrati all’interno della coppia, successivamente alla nascita del
primo figlio, è il declino progressivo della soddisfazione coniugale, particolarmente da parte
della donna, e l’incremento della conflittualità. La presenza del bambino avvia una
trasformazione del rapporto di coppia: cambia l’immagine e la rappresentazione del partner,
cambiano le esperienze di intimità, fiducia, supporto, si pone il problema di essere coppia
davanti al bambino, di ritrovarsi nella doppia dimensione di partner e genitore, si profila la
perdita della qualità e della stabilità coniugale sottoposta alle molteplici tensioni successive
alla nascita. Il “fare spazio a un terzo” richiede una transazione dalla fusionalità-idealizzazione
della coppia alla differenziazione di sé in rapporto al partner e al bambino e rende necessarie
una diversificazione e integrazione di ruoli e funzioni. La conflittualità di coppia aumenta lungo
il primo anno di vita del bambino e, dopo questa fase di assestamento, il rapporto tende a
rinsaldarsi nelle coppie con un legame solido, a restare disfunzionante o a disorganizzarsi
ulteriormente in quelle originariamente meno sicure. Viene descritto un andamento curvilineo
della soddisfazione coniugale con progressivo decremento durante gli anni di allevamento
della prole e una ripresa significativa solamente in relazione all’uscita dalla famiglia da parte
del figlio già adulto.
CAPITOLO 4. PSICOPATOLOGIA GENITORIALE E IM PLICAZIONI PER LO SVILUPPO
I bambini esposti a condizioni psicopatologiche genitoriali sono a rischio di esito di sviluppo
disadattavi. Ciò è confermato in base alle seguenti condizioni genitoriali: psicosi, con
riferimento specifico alla schizofrenia, depressione e disturbo bipolare, dipendenza o abuso di
sostanze. In tutti questi casi i bambini sarebbero più a rischio di sviluppo delle stesse patologie
delle quali sono affetti i genitori. Esiste anche la possibilità che questi bambini sviluppino
condizioni disadattive o psicopatologiche diverse da quella presentata dal genitore.
PSICOSI
La schizofrenia è una forma grave di psicopatologia caratterizzata da notevole familiarità
(rischio del 10% con un solo genitore schizofrenico e di più del 40% con entrambi i genitori
schizofrenici, a fronte del solo 1% di figli schizofrenici con genitori non affetti da schizofrenia).
Sono stati effettuati due studi longitudinali per indagare la natura e la processualità di questa
relazione: il primo è il Finnish Adoptive Family Study che ha studiato per lunghi anni un
campione di 185 bambini figli di madri schizofreniche che erano stati adottati entro il quarto
anno di età da famiglie che non avevano rapporti di parentela con le madri biologiche.
L’evoluzione di questi bambini è stata monitorata con un gruppo di controllo di bambini di
uguale numerosità adottati ma senza alcun genitore biologico con problemi psicotici. L’ipotesi
era che ai fattori biologici della schizofrenia possano affiancarsi fattori ambientali che agiscono
da ulteriori fattori di rischio e/ o protezione. I dati significativi di questo studio sono i seguenti:
i bambini adottati che erano ad alto rischio di trasmissione genetica della schizofrenia
trovavano nella famiglia adottiva sana un forte fattore di protezione (livelli di psicopatologia
trascurabili); quelli adottati da famiglie significativamente disturbate incontravano maggiori
problemi da un punto di vista psicopatologico. Il secondo studio è il Rochester Longitudinal
Study. In questo studio l’età dei bambini è più bassa (dalla nascita all’età scolare) Il disegno di
questo studio ha inoltre previsto la presenza di controlli interni relativamente alla condizione
psicopatologica genitoriale. Le madri sono state cioè selezionate in riferimento a diverse
condizioni psicopatologiche non solo a quella schizofrenica. Infine il campione materno è stato
selezionato in base a variabili familiari quali la condizione socioeconomica e l’etnia. Questo
studio ha dimostrato come una parte più consistente della varianza relativa alla psicopatologia
dei figli di madri che presentano condizioni psichiatriche sia spiegabile alla luce di combinazioni
di diverse variabili oltre a quella genetica (costellazione di rischio comprendente fattori
ambientali di tipo sociale e familiare). L’obiettivo era dunque quello di predire i fattori di
rischio schizofrenico in bambini figli di madri con schizofrenia cronica. Alla fine dell’indagine si
è rilevato che non ci sono differenze significative tra il funzionamento cognitivo e socio
emotivo dei figli di madri schizofreniche e quello dei figli di madri del gruppo di controllo.
Invece le difficoltà di sviluppo più consistenti sono state evidenziate nei figli di madri depresse.
Questo studio ha inoltre messo in evidenza che il comportamento disadattivo e
psicopatologico è legato più all’intensità e alla cronicità della condizione psicopatologica
materna che al tipo di patologia. Ha sottolineato inoltre come i fattori ambientali (come lo
status socioeconomico) determinino in modo sostanziale l’insorgenza e lo sviluppo precoce di
comportamenti disadattavi e possono essere considerati un fattore di rischio per la salute
mentale del bambino più potente di quello relativo alla variabile salute mentale materna.
DEPRESSIONE E DISTURBO BIPOLARE
La depressione del genitore, secondo alcune stime, pare essere il fattore di rischio che più di
ogni altro può influenzare lo sviluppo del figlio in senso psicopatologico. Ad oggi vi è un
crescente consenso circa la familiarità e l’ereditarietà dei disturbi depressivi, soprattutto in
riferimento alla depressione ad esordio precoce. Il rischio che un bambino con almeno un
genitore con disturbo depressivo sviluppi a sua volta una depressione è quasi triplicato rispetto
a controlli con genitori psicopatologici ma non depressi. Altri studi hanno dimostrato come
anche il disturbo bipolare dei genitori possa rappresentare un fattore di rischio per
l’insorgenza di disturbi psicologici nei bambini (il 52% dei figli presentava un disturbo in asse I),
mentre in adolescenza l’influenza sembra essere meno significativa. I dati sulla familiarità dei
disturbi dell’umore sono comunque meno chiari rispetto a quelli per la schizofrenia, e ciò è
dovuto principalmente alla difficoltà di differenziare le condizioni depressive unipolari da
quelle bipolari. Un aspetto importante è quello che riguarda la comorbilità: il rischio riferito
alla presenza di psicopatologia genitoriale (depressiva in particolare) appare infatti diverso
nelle situazioni in cui, accanto alla presenza nel genitore di un disturbo dell’asse I, si riscontri
nello stesso la presenza di un disturbo di personalità. L’eventuale presenza di elementi
disfunzionali in questa direzione influenza profondamente lo stile genitoriale, impattando
direttamente sulle traiettorie evolutive del bambino. In particolare è stato riscontrato che
bambini di madri con depressione e caratteristiche antisociali della personalità presentavano
un rischio più elevato di condizioni socioeconomiche svantaggiate, di essere esposti a violenza
domestica e di avere una madre con dipendenza da alcolici e a più alto rischio di suicidio
rispetto ai figli di madri affette dalla sola depressione. Tale condizione di comorbilità si
tradurrebbe in minor calore e maggiore ostilità da parte della madre nell’interazione col figlio.
Come effetto di una prolungata esposizione del bambino a modalità di interazione segnate da
scarso coinvolgimento materno, i bambini risultavano maggiormente esposti al rischio di
sviluppare disturbi della condotta. È degno di nota poi il fatto che le madri depresse e
antisociali siano a loro volta portate a ricercare partner con significative caratteristiche
antisociali, fattore che va ad aggiungere così un ulteriore rischio per il bambino, in quanto i
padri antisociali da una parte si mostrano tipicamente poco coinvolti nella crescita dei figli, e
dall’altra esercitano su di loro un “effetto modellamento” per comportamenti antisociali. La
depressione genitoriale correla fortemente con inconsistenza nella disciplina, criticismo,
ostilità e rifiuto verso i bambini, pur essendo relativamente presenti atteggiamenti di cura e
monitoraggio. Il genitore depresso tende a scoraggiare l’interazione del figlio, determinando
così un doppio effetto dannoso: da un lato al bambino viene negata un’interazione dai risvolti
fondamentali per la formazione della propria personalità, dall’altro il genitore riceve dal
comportamento evitante del bambino una conferma della propria indesiderabilità, che
rafforza la condizione depressiva stessa, colorandola di aggressività e rifiuto. Se uno stile
genitoriale autorevole (combinazione di responsività, monitoraggio e incoraggiamento
adeguati) può considerarsi lo stile che principalmente agisce come fattore protettivo, diversi
studi segnalano tre dimensioni del comportamento genitoriale che appaiono invece
maggiormente predittive di difficoltà evolutive dei bambini e degli adolescenti: mancanza di
accudimento e coinvolgimento positivo col bambino; ostilità tra genitore e bambino, con
rifiuto da parte del genitore; scarso monitoraggio e supervisione delle attività del bambino.
Diverse ricerche hanno dimostrato come il rischio evolutivo associato ai sintomi depressivi
materni sia sostanzialmente equiparabile a quello associato ai sintomi depressivi paterni. Le
interazioni tra madri depresse e il proprio bambino influenzerebbero maggiormente
l’autostima e il benessere emotivo del piccolo, mentre le interazioni tra un padre depresso e il
proprio bambino tendono ad avere un maggiore impatto sulle sue competenze sociali. A tal
proposito, l’Avon Longitudinal Study of Parents and Children ha evidenziato che la depressione
postnatale paterna è risultata fortemente associata con la presenza di disturbi psichiatrici nei
bambini all’età di 7 anni (12% contro il 6% dei controlli). L’associazione più significativa
riguardava i disturbi oppositivi e della condotta nei bambini, con difficoltà negli aspetti pro
sociali e nel rapporto all’interno del gruppo dei pari. La frequente coesistenza di quadri
depressivi in entrambi i genitori fa ipotizzare che gli effetti tradizionalmente attribuiti
unicamente alla depressione materna siano in realtà da riferirsi, almeno parzialmente, anche
ad una concomitante depressione paterna e agli effetti additivi di queste due condizioni.
ABUSO DI SOSTANZE
Bambini che nascono da madri che fanno uso di sostanze durante la gravidanza possono essere
affetti da sindrome alcolico fetale (FAS) o da sindrome fetale da abuso di sostanze (FDS).
L’abuso di alcol in gravidanza determina ritardo mentale, oltre che dimorfismi facciali, disturbi
cardiaci, renali, uditivi e allo scheletro, deficit attentivi, iperattività, impulsività, antisocialità,
disturbi del linguaggio e dell’apprendimento. I figli di famiglie ad alto rischio per l’abuso di alcol
si è riscontrato essere maggiormente a rischio di sviluppare disturbi psichiatrici (in particolare
ADHD, disturbi ossessivo-complusivi, dipendenza da sostanze e, soprattutto in adolescenza,
disturbi depressivi). Riguardo agli effetti dell’abuso di sostanze materno durante la gravidanza,
nonché dei comportamenti materni correlati all’abuso di sostanze, si sono riscontrati nei
bambini deficit neurocomportamentali, che incidono sul livello dia attivazione, la regolazione
emotiva e la capacità di focalizzare e mantenere l’attenzione. In adolescenza questi bambini
sviluppano difficoltà nell’interazione sociale e nell’apprendimento. Riguardo all’uso di sostanze
psicotrope (come la cocaina) si è riscontrato come la severità del deficit evolutivo sia
correlabile alla quantità di cocaina assunta dalla madre, sostanza ritenuta responsabile di
alterare i sistemi neurotrasmettitori ali in evoluzione del bambino, con ricadute sulla
modulazione del tono di attivazione e della regolazione dell’attenzione. La cocaina ridurrebbe
il flusso sanguigno placentare e fetale, incidendo sullo sviluppo del sistema nervoso del
nascituro, che potrà presentare deficit cognitivi riguardo il processamento delle informazioni e
le abilità di problem solving. Risulta comunque evidente che nell’interazione tra madri che
fanno uso di sostanze e i loro bambini esposti già in utero a sostanze siano riscontrabili
difficoltà per la madre che riguardano l’avere a che fare con un bambino che presenterà ritmi
sonno veglia irregolari, problemi alimentari e iperattività. A questo si aggiungano i deficit delle
madri (causati dall’assunzione di sostanze e dalla loro personale storia familiare).
Nonostante le difficoltà personali, tuttavia, queste madri non abdicano al loro ruolo genitoriale
(cosa che invece fanno di solito i padri che fanno abuso di sostanze). Esse appaiono
consapevoli di necessitare di un percorso riabilitativo, ma di fatto lo evitano, in parte perché
percepiscono le sostanze come un aiuto al loro ruolo genitoriale, in parte perché tendono ad
evitare di confrontarsi con i loro sensi di colpa e, infine, per la paura che entrare in
trattamento possa automaticamente comportare la perdita della custodia o della podestà
genitoriale del bambino. Relativamente ai fattori disfunzionali nella personalità dei genitori che
abusano di sostanze, vengono riportati in letteratura diversi disturbi di personalità e, nel 70%
circa delle madri tossicodipendenti, sintomatologia depressiva. Nei padri che abusano di
sostanze appare invece prevalente il disturbo antisociale di personalità.
ABUSO E MALTRATTAMENTO
Lo sviluppo del bambino è costituito al contempo da fattori genetici e dalle condizioni
ambientali che garantiscono lo strutturarsi di un’adeguata grammatica della relazione
interpersonale primaria. Le caratteristiche psicopatologiche sopra esposte violano però uno
sviluppo adeguato del bambino così come l’abuso e il maltrattamento, anche se ciò non
implica che il rapporto tra le condizioni psicopatologiche dei genitori e l’abuso e i
maltrattamenti sia necessariamente stretto. In passato si è ritenuto che particolari situazioni
psicopatologiche, come pure condizioni socioeconomiche o una storia personale di abuso e
maltrattamento del genitore abusante, conducessero quasi automaticamente a situazioni di
abuso e maltrattamento. Oggi questa impostazione è stata largamente superata. L’eziologia
dell’abuso e del maltrattamento viene oggi inquadrata nell’interazione di aspetti è sempre
multideterminata a diversi livelli, in una prospettiva cioè ecologica e transazionale. Nella
terminologia della psicopatologia dello sviluppo viene riconosciuta la centralità di molteplici
fattori, ai diversi livelli dell’ecologia individuale, familiare e sociale.
LE CONSEGUENZE DELL’ABUSO E DEL MALTRATTAMENTO
Il maltrattamento infantile ha un impatto negativo che tende a persistere e a essere
riscontrabile anche in età adulta, traducendosi principalmente in modificazioni sostanziali sul
piano neurobiologico, ritardi cognitivi, comportamenti disfunzionali quali aggressività, disturbi
della condotta e abuso di sostanze, nonché nella tendenza allo sviluppo di quadri
psicopatologici e disturbi in età adulta. Si è inoltre riscontrato come l’abuso sessuale infantile
nella storia personale delle madri abbia un impatto negativo sul funzionamento psicologico
adulto e, specificamente sul comportamento genitoriale. È estremamente difficile isolare una
singola tipologia di abusi, soprattutto quando ci si riferisce ad abusi intrafamiliari, per loro
natura caratterizzati dalla presenza di dinamiche relazionali traumatiche all’interno delle quali
si concretizzano gli specifici episodi di abuso. La maggior parte dei bambini abusati quindi fa
esperienza di diverse forme di abuso nel corso del tempo (child multi-type mal treatment CM
M ). È questa idiosincratica compresenza di diverse forme di maltrattamento per il bambino
che ne fa esperienza la spiegazione dell’impossibilità di rilevare effetti e conseguenze
specifiche dell’abuso, e la possibilità di individuare soltanto effetti generali. Inoltre, diverse
esperienze rivestiranno diversi significati in funzione non solo della loro natura, ma anche della
fase di sviluppo in cui si verificano. È possibile che bambini che hanno subito abusi e violenze di
diverso genere anche per lunghi periodi presentino successivamente un decorso evolutivo
nella norma e, al contrario, che bambini soggetti a episodi di natura potenzialmente
traumatica isolati e non ripetuti nel tempo possano manifestare uno sviluppo fortemente
disturbato. Va detto poi che, anche molti anni dopo abusi infantili, possono riemergere
improvvisamente ricordi circa l’esperienza vissuta (“ ricordi recuperati di abuso” ). Al contrario,
in assenza di memorie specifiche, il soggetto può sperimentare uno stato di sofferenza
psicologica del tutto sovrapponibile a quella tipica del PTSD (in questo caso denominata
delayed PTSD). In uno studio di Finkelhor è emerso come una percentuale compresa tra un
quarto e un terzo dei campioni di bambini abusati sessualmente possano essere definiti
asintomatici e il 22% dei bambini possa essere classificato come resiliente. Va rilevato tuttavia
che il fatto che un adulto abusato durante la propria infanzia non presenti una franca
psicopatologia non esaurisce il discorso sulle conseguenze di quell’evento. La resilienza è un
processo attivo di bilanciamento adattivo tra fattori di protezione e di rischio presenti nel e
attorno al soggetto, e perciò il soggetto che ha subito un trauma, nel corso del suo sviluppo
potrà trovarsi in condizioni di relativamente maggiore o minore resilienza. La resilienza cioè
può non essere raggiunta e acquisita una volta per tutte, e richiede perciò, per essere valutata,
sia una valutazione di tipo diacronico, che (e soprattutto) sulla base delle diverse aree del
funzionamento psicologico. Diversamente, la resilienza può finire per coincidere con il
fisiologico dispiegarsi di meccanismi di difesa o, su un versante maggiormente disadattivo, con
l’irrigidirsi di strutture di personalità coartate e cionondimeno ben funzionanti, ad esempio da
un punto di vista lavorativo.
L’ABUSO INTRAFAMILIARE COME TRAUMA CUMULATIVO NELLA PROSPETTIVA
INTERGENERAZIONALE
Il dato più consistente e ricorrente dell’abuso e maltrattamento infantile è la sua dimensione
intrafamiliare e si nota come sia ricorrente la presenza di un trauma della relazione che
preesiste e condetermina quello dell’abuso. Essi rappresentano cioè un’ulteriore declinazione
di forti perturbazioni della relazione primaria. Dobbiamo alla riflessione in ambito
psicodinamico sugli abusi infantili la possibilità di una comprensione articolata dell’evento
abuso intrafamiliare come epifenomeno di un trauma perdurante della relazione primaria, da
un lato; e di un inquadramento delle conseguenze psicopatologiche sul bambino a diversi
livelli, dall’altro. Il concetto di trauma della relazione appare, fin dai primi studi psicoanalitici,
strettamente legato all’abuso sessuale, cioè all’incesto. Fu Freud a porre il trauma al centro
delle sue concettualizzazioni circa il funzionamento della personalità e la psicopatologia.
Secondo l’autore l’evento traumatico convoglia una grande quantità di pericolo per la vita e
l’integrità personale assieme ai livelli di imprevedibilità, terrore e impotenza che si combinano
in modo tale da sopraffare la capacità di coping dell’individuo; nella situazione traumatica c’è
una convergenza di eventi esterni pericolosi e di pericoli interni, determinata sia dal contesto
evolutivo che dalla capacità del bambino di comprendere e rispondere all’evento; i meccanismi
di difesa mobilitati dal soggetto come risposta al trauma possono avere un effetto perdurante
sulla struttura di personalità. Si manifesta così un effetto sommatoria sia delle caratteristiche
oggettive che di quelle individuali e legate all’esperienza soggettiva. Allo stesso tempo, un
ruolo cruciale viene giocato dalla esperienza della sopraffazione psichica (la helplessness). Così,
secondo una lettura psicodinamica delle conseguenze del trauma infantile si devono tenere in
considerazione gli elementi di interconnessione tra i meccanismi difensivi messi in atto dal
soggetto e lo sviluppo dell’angoscia legato alle fasi dello sviluppo. In questo modo, la specifica
risposta del bambino al trauma non può prescindere dalla fase evolutiva in cui si trova e dalla
specifica dinamica intrapsichica che funziona da elemento organizzante del suo psichismo
attuale. Una distinzione viene poi introdotta da Breuer e Freud tra trauma singolo e traumi
ripetuti. Questa distinzione sottolinea come l’esposizione prolungata a trauma porti alla
paralisi e alla disorganizzazione dell’io. Queste distorsioni selettive dell’Io si caratterizzano
nella sostanza come precoce anticipazione (e risposta) a un’incapacità o intrusività materna
che determina un quadro di “trauma cumulativo”. Da un punto di vista della psicologia del Sé,
il trauma avviene quando il contesto affettivo primario del bambino non è in grado di fornire
un’adeguata sintonizzazione e responsività alle sue reazioni emotive dolorose. Sarebbero cioè
le difficoltà pregresse e perduranti nella relazione primaria a definire ciò che è inerente l’abuso
stesso, ovvero la mancata sintonizzazione del caregiver nei confronti delle esigenze e dei
bisogni psichici del proprio bambino. Se il trauma è cumulativo, allora ne consegue che la
carenza di risposte affettivamente sintonizzate sarà perdurante anche in seguito all’abuso e
alla reazione del bambino all’evento, in una sorta di escalation geometrica delle conseguenze
traumatiche. La percentuale di abusanti che denunciano di essere stati abusati sessualmente
nell’infanzia va dal 20% al 30%. Cionondimeno, il tasso di abusi sessuali tra gli abusanti è
comunque più alto che nella popolazione generale (due-tre volte più alto). I dati sono dunque
a favore dell’ipotesi secondo la quale, sebbene molti abusanti non siano mai stati oggetto di
abusi sessuali, il subire abusi sessuali nell’infanzia può aumentare i rischi di mettere in atto
successivi abusi sessuali ai danni di bambini, in particolare se gli abusi subiti si sono verificati
contemporaneamente ad altri fattori che possono incoraggiare l’abuso sessuale (incapacità di
cogliere la dimensione psicologica del bambino con i propri bisogni, desideri, stati intenzionali
e specificità di fase dello sviluppo). Ciò che sembra essere trasmesso da una generazione alla
successiva, perciò, non è il comportamento maltrattante in sé, quanto i temi disfunzionali della
relazione di caregiving. Un importante fattore di mediazione rispetto alle informazioni, ai
ricordi e alle percezioni legate a esperienze disfunzionali e/ o traumatiche, è rappresentato
dallo stile di attaccamento sicuro del genitore, in grado di favorire una capacità di aperta
comunicazione a riguardo di tali stimoli, con minore esclusione difensiva di materiale negativo
durante la fase attentiva dell’elaborazione e un migliore richiamo dell’informazione
spaventante.
CAPITOLO 5. EVENTI STRESSANTI, ESPERIENZE TRAUMATICHE E IMPLICAZIONI PER LO
SVILUPPO
Hans Selye, attraverso la definizione di Sindrome Generale dell’Adattamento notò come
l’assenza di stress equivalga alla morte. Il concetto di stress fa riferimento alla risposta
dell’organismo a richieste di modificazione e cambiamento da parte dell’ambiente. Stimoli
fisici, biologici, psicosociali, in particolar modo di natura interpersonale, costituiscono l’insieme
di queste richieste di modificazione e cambiamento, e vengono perciò definiti “stressors”. La
risposta di stress avviene sia in termini fisiologici (attivazione dell’asse ipotalamo-
ipofisicorticosurrene – risposta aspecifica), sia, come hanno messo in luce Lazarus e Folkman,
attraverso la mediazione delle emozioni nella decodifica ed elaborazione delle informazioni
ambientali. La risposta agli stressors è dunque una reazione psicofisiologica (risposta specifica),
traducendosi nelle capacità di coping dell’individuo. A partire da questi presupposti, è possibile
distinguere stress assoluti o reali (es. catastrofi naturali) e stress percepiti (minacce indotte
dall’interpretazione soggettiva di una certa situazione come nuova/ imprevedibile/
incontrollabile). Pare comunque evidente il rapporto strettamente dialettico tra le condizioni
ambientali di stress (gli stressors) e le caratteristiche specifiche del soggetto che vi risponde. Le
caratteristiche salienti degli stressors sono: a) la natura: stimoli fisici, stimoli di natura
interpersonale, assoluti/ relativi, etc.; b) il timing: il momento o periodo evolutivo nella storia
dell’individuo in cui agisce lo stressor; c) la durata: sporadicità (stress acuto) o continuità
(stress cronico). Intendere correttamente il concetto di stress significa perciò inquadrare quei
fattori e quei processi che permettono o, al contrario, ostacolano e impediscono il
processamento di stimoli ambientali nuovi (che comportano variabilità e incertezza) in modo
sufficientemente flessibile da promuoverne l’integrazione. Laddove questa è possibile,
assistiamo ad un passaggio dallo stress all’arricchimento della personalità. Diversamente,
assisteremo alla mancanza di adattamento e le condizioni di stress sfoceranno in ciò che
definiamo stress traumatico o, semplicemente, trauma.
DALLO STRESS AL TRAUMA: ASPETTI NEUROBIOLOGICI DELLA RISPOSTA AL TRAUMA
Lo stress può dunque divenire traumatico per l’individuo quando viola gli assunti base della
sopravvivenza e/ o evidenzia l’impossibilità da parte del soggetto di controllare e prevedere gli
eventi, rendendolo impotente di fronte al pericolo. Gli aspetti neurobiologici coinvolti nelle
situazioni traumatiche sono comunemente noti come “circuito dello stress”, e si possono
distinguere nell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene (HPA), e nel
coinvolgimento di regioni cerebrali specificamente attivate nei processi mnestici, quali
l’ippocampo, l’amigdala e la corteccia prefrontale. L’asse HPA viene attivato in condizioni di
stress così da preparare il nostro organismo ad una risposta fight or flight che rende possibile
una reazione in tempi molto rapidi a potenziali minacce, attivando una sequenza tipica. Gli
input relativi alla situazione stressogena convergono nell’ippocampo, in particolare nel nucleo
paraventrivolare, influenzando la produzione di corticotropina (CRH). Quando la corticotropina
raggiunge l’ipofisi anteriore, promuove il rilascio dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH).
L’ACTH raggiunge quindi le ghiandole surrenali che, attraverso la loro corteccia, rilasciano il
cortisolo, noto come “ormone dello stress”, che svolge la funzione di attivare la conversione di
proteine e lipidi in carboidrati, rendendo così il nostro corpo pronto a reazioni immediate e di
alto valore adattivo per la sopravvivenza in condizioni di grave pericolo. Quando però questa
reazione allo stress è attivata cronicamente da stressors che permangono presenti nella vita
dell’individuo, gli effetti possono essere molto negativi. Da segnalare, oltre al cortisolo,
l’intervento di altri due neuro-ormoni nella risposta allo stress: la serotonina, coinvolta nel
monitoraggio dell’ambiente e nel funzionamento del sistema inibitorio comportamentale, e gli
oppioidi endogeni, responsabili dell’attenuazione della risposta emotiva a stressors ambientali.
Per quanto invece riguarda le aree cerebrali coinvolte nel circuito dello stress, sono tre le aree
principali che contengono recettori per il cortisolo e che giocano un ruolo chiave nella
valutazione della situazione con la conseguente selezione di una risposta appropriata: i lobi
frontali (corteccia prefrontale), l’amigdala e l’ippocampo, strutture tra loro interconnesse e
interagenti. La corteccia prefrontale rappresenta la parte più evoluta del nostro cervello, ed è
coinvolta in funzioni cognitive di alto livello, come l’attenzione, la memoria di lavoro, il
ragionamento, la pianificazione e alcuni aspetti del linguaggio; l’amigdala ha un profondo
coinvolgimento nella valutazione del significato emotivo degli eventi, in particolar modo per
ciò che riguarda la rabbia, l’aggressività e la paura; l’ippocampo è coinvolto nei processi di
apprendimento e memoria, e particolarmente nella capacità di ricordare la componente
temporale e spaziale degli eventi (memoria episodica). È stato dimostrato come gli ormoni
dello stress esercitino effetti diretti sui geni che controllano struttura e funzioni cerebrali, in
riferimento soprattutto alla crescita neuronale, alla sintesi neurotrasmettitoriale e alla densità
e sensibilità recettoriale. Lo stress sembra in grado di inibire l’attività e comportare
cambiamenti strutturali del giro dentato, sottostruttura dell’ippocampo, una delle poche aree
cerebrali in grado di produrre nuovi neuroni anche dopo le prime fasi dello sviluppo.
Attraverso tecniche di brain imaging diversi studi segnalano modificazioni neuro anatomiche
nei soggetti affetti da stress cronici, in particolar modo a carico dell’amigdala e dell’ippocampo
(riduzione delle dimensioni), modificazioni tanto più evidenti quanto più precoce è il trauma e
laddove questo è ripetuto. L’aumento di glucocorticoidi (cortisolo in primis) associato alle
alterazioni degli altri neurotrasmettitori coinvolti nella reazione allo stress, sarebbe
responsabile dell’inibizione della neuro genesi e dell’atrofia dei neuroni già formati. Sembra
che i traumi legati a maltrattamenti durante l’infanzia influiscano sullo sviluppo dell’emisfero
destro, dominante per le risposte di attaccamento, per le elaborazioni di stimoli non verbali,
per la regolazione degli affetti e per la modulazione delle risposte allo stress. Uno studio di
Pollak mette in risalto come i bambini fisicamente abusati sono più sensibili a informazioni
riguardanti espressioni facciali di rabbia, mentre sembrano rimanere “invischiati” dal punto di
vista dell’attenzione, che riescono difficilmente a ridirezionare oltre questi stimoli. Si
tratterebbe, più che di un deficit attenzionale, di un vero e proprio bias attenzionale, che
orienta i bambini maltrattati verso gli stimoli rabbiosi, legandosi al tipo di informazioni
immagazzinate nella memoria a lungo termine di tipo episodico e autobiografico. Se da un lato
la velocità nel riconoscimento della rabbia in questi bambini fornisce loro un vantaggio
nell’anticipare una situazione di pericolo, dall’altro questa risposta, che col passare del tempo
diviene quasi automatizzata, diventa disfunzionale in quanto tende ad essere attivata in tutti i
casi di incerta decodifica delle emozioni altrui, con la conseguente tendenza a provocare nei
bambini ansia, disturbi della condotta e comportamento aggressivo generalizzato.
PTSD E OLTRE: ASPETTI SINTOMATOLOGICI E PSICOPATOLOGICI
Lo stress traumatico mina la realizzazione dei bisogni e degli obiettivi fondamentali per la
crescita del bambino, danneggiando elementi costitutivi del suo funzionamento psicologico
quali il senso di autoefficacia percepita, l’autostima e il mondo delle relazioni interpersonali. La
sindrome che definisce e descrive tali conseguenze è quella di Disturbo Post-Traumatico da
Stress (PTSD). La definizione di evento traumatico riportata dal DSM IV TR lo considera come
“un evento o eventi che hanno implicato morte o gravi lesioni o minaccia per l’integrità fisica
propria o di altri”. La risposta della persona comprende: paura intensa, sentimenti di
impotenza o di orrore. La definizione data dal DSM non sembra tuttavia sufficiente, in quanto
non è in grado di includere tutta una serie di condizioni che, data la loro potenzialità di
compromettere il senso di integrità del Sé, devono essere considerate traumatiche. I tre
raggruppamenti sintomatologici che definiscono il PTSD secondo il DSM sono infatti:
1. la risperimentazione del trauma (ricordi, stati angosciosi, incubi, flashback, disturbi
dissociativi, etc.);
2. l’evitamento delle situazioni che possono rievocare il ricordo traumatico (senso di distacco e
di estraniamento, indifferenza, ritiro sociale, riduzione degli interessi, appiattimento delle
risposte affettive, fino all’amnesia dissociativa);
3. l’iperattivazione (difficoltà a modulare il grado di arousal, irritabilità, ipervigilanza,
alterazioni del sonno, della concentrazione, della memoria, risposte di allarme, scoppi
improvvisi di collera, etc.).
Ci si accorge ben presto che questa triade tralascia forme meno eclatanti di sintomi quali la
somatizzazione e i disturbi della regolazione affettiva, che sono invece altamente correlati con
il PTSD e che sono parte di uno spettro più ampio di reazioni di adattamento al trauma.
PTSD IN ETÀ EVOLUTIVA
L’inquadramento diagnostico del PTSD in età evolutiva è complicato in riferimento ai criteri
stabiliti dal DSM, in quanto la traumaticità degli eventi può essere percepita ed esperita dai
bambini in maniera molto differente in funzione di aspetti costituzionali, come pure delle
diverse fasi dello sviluppo. Un basso quoziente intellettivo, ad esempio, sembra aumenti il
rischio di sviluppare un PTSD in condizioni potenzialmente traumatiche, come pure, in
relazione all’importanza rivestita dalla fase dello sviluppo in cui viene sperimentato il trauma,
si è visto che i bambini più piccoli (prescolari) mostrano una maggiore vulnerabilità a sintomi
depressivi, mentre quelli più grandi appaiono caratterizzati da sintomatologia
prevalentemente di tipo esternalizzante. Infine, non bisogna trascurare, nell’ottica della
psicopatologia dello sviluppo, l’influenza di fattori di rischio o protettivi importanti
nell’ambiente del bambino, primo fra tutti il contesto relazionale di accudimento. La
Classificazione Diagnostica 0-3 descrive il PTSD nell’infanzia ridefinendo in termini evolutivi le
principali aree sintomatiche presenti negli adulti in questo modo:
1. la risperimentazione del trauma: può riemergere attraverso il gioco post-traumatico, che
riproduce in genere concretamente, in modo compulsivo e senza elaborazione simbolica,
alcuni aspetti della situazione traumatica, oppure attraverso domande che suggeriscono una
certa fascinazione per l’evento, o ancora attraverso reazioni di angoscia alla sollecitazione del
ricordo, attraverso incubi ripetuti in riferimento al trauma, fino agli episodi dissociativi;
2. l’appiattimento dell’affettività: può comportare un arresto o una distorsione del processo
evolutivo, attraverso l’isolamento sociale, una gamma limitata di affetti, la riduzione della
capacità di gioco e la perdita temporanea di competenze già acquisite (es. linguaggio, controllo
sfinterico, etc.);
3. l’iperattivazione: può manifestarsi attraverso terrori notturni con risvegli, pianto
inconsolabile e manifestazioni neurovegetative, difficoltà ad andare a letto e del sonno,
difficoltà di attenzione e concentrazione, ipervigilanza e risposte di allarme esagerate; sono
presenti inoltre, come “caratteristiche associate”;
4. paure e aggressività: tra cui aggressività verso i pari, gli adulti o gli animali, ansie da
separazione, paura del buio o di andare al bagno da soli, comportamenti auto lesivi,
comportamenti sessuali o aggressivi non adeguati all’età.
Scheeringa e coll. hanno tentato una ridefinizione sistematica dei criteri per il PTSD in età
evolutiva, criticando i criteri del DSM come dipendenti eccessivamente da una descrizione di
stati interni (pensieri, sentimenti) che nei bambini piccoli è in genere ancora molto
rudimentale, e proponendo indicatori evolutivamente più appropriati in base alle fasce di età,
meno dipendenti da verbalizzazioni e descrivibili attraverso osservazioni del comportamento.
Anche il PDM, Manuale Diagnostico Psicodinamico, fa riferimento all’età evolutiva in quello
che viene definito come “Disturbo Traumatico da Stress”, aggiungendo come anche nelle fasi
più precoci dello sviluppo possa osservarsi un’alterazione dell’esame di realtà, conseguente
all’utilizzo di un meccanismo di difesa come il diniego, con stato confusionale rispetto ai ricordi
e regressione al pensiero magico.
IL TRAUMA COMPLESSO
L’individuazione dei criteri diagnostici evolutivamente appropriati per il PTSD ha permesso di
intercettare, attraverso varie ricerche, casi di PTSD “sotto soglia” che si mostravano comunque
molto problematici e che necessitavano di intervento terapeutico pur non soddisfacendo tutti i
criteri. Per riferirsi adeguatamente a questa casistica, formata da bambini che hanno fatto
esperienza di eventi traumatici molteplici, cronici e prolungati, soprattutto ad esordio precoce
e spesso nel loro sistema di accudimento primario, si è ritenuto opportuno coniare il nome di
“trauma complesso”. Van der Kolk ricorda come i risultati del field trial del DSM IV abbiano
indicato che il trauma cumulativo ha il suo impatto più pervasivo nella prima decade di vita,
mentre nell’adolescenza e col passare del tempo tende a divenire più circoscritto. Inoltre, egli
sottolinea come la diagnosi di PTSD non offra strumenti adeguati per cogliere gli effetti del
trauma infantile sullo sviluppo. Molte forme di trauma interpersonale, come il maltrattamento
psicologico, la trascuratezza, la separazione da un caregiver, la perdita traumatica e il
comportamento sessuale inappropriato non soddisfino necessariamente i requisiti posti dal
DSM perché si possa parlare di evento traumatico (morte o minaccia di morte, gravi lesioni,
minaccia per l’integrità fisica propria o altrui). Questa inadeguatezza dei criteri diagnostici
porterebbe, secondo Van der Kolk a sovrastimare la diagnosi di comorbilità, esponendo così i
clinici all’applicazione di trattamenti non appropriati o inutili e al rischio di perdere di vista
molte delle sequele post-traumatiche. Egli perciò sostiene una nuova etichetta diagnostica per
i traumi complessi: Developmental Trauma Disorder. Questa nuova diagnosi muove
dall’assunto che esposizioni molteplici a trauma interpersonale comportino chiari e prevedibili
conseguenze su almeno sette aree del funzionamento del bambino: livello biologico,
regolazione dell’affetto, senso del Sé, cognizione, controllo del comportamento, attaccamento
e dissociazione. L’inadeguatezza della diagnosi di PTSD in età evolutiva è dovuta
principalmente al fenomeno della multifinalità: la stessa causa conduce ad esiti molteplici. Si
riscontra infatti, nelle popolazioni adulte che hanno subito uno stress traumatico, una larga
sovrapposizione e comorbilità tra PTSD, quadri depressivi, disturbi della personalità e altri
disturbi legati allo stress. Bremner propone a tal riguardo la definizione di “Disturbi dello
spettro traumatico”.
Va notato poi come bambini e adolescenti traumatizzati siano frequentemente in grado di
“curare se stessi”, non evidenziando apprezzabili conseguenze sintomatologiche. È il
fenomeno della resilience, che sta ad indicare un processo dinamico attraverso cui i soggetti
che subiscono traumi o affrontano situazioni di vita particolarmente difficili e solitamente
associate con disfunzioni psicologiche, sembrano riuscire ad affrontare con successo tali
circostanze. Soggetti “resilienti” (circa il 22%) a fronte di eventi traumatici possono anche
arrivare a descrivere la loro come un’esperienza di crescita. Il trauma ha infatti spesso
implicazioni ulteriori a quelle sintomatologiche e psicopatologiche, dal momento che può
comportare cambiamenti radicali e trasformazioni consistenti nella visione del mondo e di se
stessi. Alcuni autori si spingono a definire tale fenomeno come una vera e propria “crescita
post traumatica”, anche se alcune ricerche sembrano indicare come il cambiamento
riscontrato non rifletta tanto reali cambiamenti positivi nel funzionamento della personalità
dei soggetti, quanto una strategia inconsapevole di auto protezione attraverso una
modificazione dei livelli ricordati di funzionamento precedenti al trauma.
IL RUOLO DELLA DISSOCIAZIONE NELLA RISPOSTA AL TRAUMA
Da un punto di vista della processualità traumatica, diversi autori chiamano in causa dinamiche
mentali di tipo dissociativo come elemento cruciale che media il passaggio verso lo sviluppo di
una psicopatologia a partire dall’esperienza traumatica. La dissociazione è definibile come
separazione e non integrazione di contenuti mentali in condizioni di stress. Processi psicologici
di solito normalmente integrati, come il pensiero, le emozioni e la memoria, in particolari
situazioni di stress traumatico vengono a frammentarsi in mondi a sé stanti. Bucci, riferendosi
al paradigma connessionista, propone la sua teoria referenziale: l’attività referenziale, ovvero
l’attività del sistema delle connessioni referenziali tra rappresentazioni subsimboliche,
simboliche non verbali e simboliche verbali, di fronte ad un’esperienza che attenta al senso di
identità personale si blocca, dando avvio ad un processo contrario, ovvero ad una
“desimbolizzazione” dei contenuti esperienziali, allo scopo di preservare l’integrazione e la
coerenza del Sé. Secondo una definizione estensiva, la dissociazione sarebbe un processo
normale di tipo adattivo, un vero e proprio organizzatore psicologico, che agisce in gradi di
intensità. L’obiettivo della dissociazione è l’esclusione dalla consapevolezza di contenuti ed
emozioni che rischierebbero di sopraffare e sconvolgere il soggetto. Si attivano così degli stati
alterati di coscienza, senso di irrealtà, cambiamenti di percezione del proprio corpo e
dell’ambiente circostante, alterazioni della percezione dello scorrere del tempo, ottundimento
emozionale, accelerazione dei pensieri, riattivazione di pensieri “in presa diretta”. Brevi e lievi
episodi di dissociazione avverrebbero, secondo questo modo di intenderla, nella maggior parte
delle persone durante la loro vita quotidiana, per far fronte allo stress ambientale. Solo in
condizioni traumatiche può invece divenire un fenomeno patologico, poiché tende a persistere
nel tempo, presentando le manifestazioni tipiche con eccessiva intensità e frequenza. Secondo
una definizione restrittiva invece, la dissociazione è un vero e proprio meccanismo difensivo,
attivato automaticamente al fine di mantenere separati dalla coscienza stati mentali
traumatici. Recuperando la concettualizzazione janetiana di “dissociazione strutturale”, che
vede la dissociazione come una divisione strutturale della personalità riguardante
l’insufficiente integrazione tra due o più sistemi di idee e funzioni costituenti la personalità
stessa, i processi dissociativi avrebbero come conseguenza della mancata codifica di particolari
stimoli di natura potenzialmente traumatica (definizione estensiva); oppure come codifica e
memorizzazione di questi stimoli all’interno di una parte dissociata della personalità
(definizione restrittiva). In linea con quest’ultima ipotesi, Nijenhuis e den Boer distinguono una
parte emotiva della personalità, totalmente coinvolta nella difesa dal trauma, e una parte
apparentemente normale della personalità, la quale attende alle routine abituali. Questa
parte, al fine di mantenersi a distanza di sicurezza da quella emotiva, metterà in atto sintomi
dissociativi “negativi” (amnesia, anestesia, ottundimento, etc.), mentre la parte emotiva sarà
caratterizzata dall’alternanza di sintomi dissociativi negativi (scarso orientamento nel tempo e
nello spazio, freezing), come pure positivi (iperattivazione, risperimentazione attraverso
flashback traumatici). I dati empirici in psicopatologia dello sviluppo sostengono la tesi di
Putnam, il quale ritiene che nel bambino traumatizzato la dissociazione strutturale legata al
trauma si traduca in una evocazione ripetitiva di stati comportamentali discreti. In assenza di
traumatismo, la progressiva integrazione funzionale di questi stati comportamentali è la
matrice per lo sviluppo della personalità integrata. Va segnalato come il supporto sociale sia in
grado di mediare gli effetti del trauma, e dunque anche l’intensità e la durata dello stato
dissociativo. Se il supporto sociale positivo nell’immediatezza del trauma riduce i suoi effetti
negativi, atteggiamenti genitoriali volti alla negazione o rielaborazione fittizia in positivo del
trauma tendono a rafforzare, piuttosto che a ridurre, le tendenze dissociative. Si è visto inoltre
che il periodo adolescenziale ha caratteristiche tali (modificazioni biologiche e
neurobiologiche, riorganizzazione dell’equilibrio narcisistico, distacco dalle figure genitoriali,
etc.) da rendere questa fase più vulnerabile di altre ai traumi. Il ricorso a strategie dissociative
in adolescenza è frequente. In sintesi dunque, la persistenza della dissociazione strutturale
della personalità appare dunque una caratteristica essenziale dei disturbi collegati al trauma,
che spaziano dal PTSD al Disturbo Dissociativo dell’Identità, segnalandosi come l’elemento
cruciale che media il passaggio verso lo sviluppo di una psicopatologia a partire dall’esperienza
traumatica. Tuttavia, secondo Liotti, una spiegazione lineare del rapporto tra trauma e
dissociazione che presuppone una concezione della mente come isolata e a sé stante è
necessaria ma non sufficiente per la comprensione di questo rapporto. È imprescindibile fare
riferimento alle dinamiche dell’intersoggettività costitutive dello sviluppo psichico, e
soprattutto alle esperienze dell’attaccamento, che ne organizzano la matrice primaria e che
definiscono la natura relazionale del Sé. Liotti propone dunque di considerare i processi
dissociativi come il segno più evidente di una rottura primaria nei processi intersoggettivi che
normalmente generano un senso di sé coerente e integrato, e di considerare l’attaccamento
disorganizzato come un modello prototipico della dissociazione, in quanto processo che
compromette l’esperienza di unitarietà del sé, a partire da un danno della coscienza e della
memoria come funzioni integratrici dell’esperienza. La dissociazione emergerebbe dunque da
pattern disorganizzati di relazione, piuttosto che dalle esperienze traumatiche in sé.

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