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SSA ELISA
DELVECCHIO
Programmazione del corso
1. Introduzione alla psicopatologia (cap. 1 Ammaniti)
2. La diagnosi e l’assessment (cap. 1 Dazzi; cap. 11 Ammaniti)
3. Classificazione dei disturbi (articolo online)
4. Il ruolo dei genitori (cap. 3-4 Ammaniti)
5. Sindromi affettive (cap. 6 Ammaniti)
6. Disturbi della relazione e dell’attaccamento (cap. 9 Ammaniti)
7. Disturbi comportamentali (cap. 8 Ammaniti)
8. Disturbi dello spettro dell’autismo (cap. 10 Ammaniti)
9. DP borderline
10.DP narcisistico
23/02/2021
Ogni individuo non è quella patologia ma ha quella patologia. Ogni soggetto ha sì delle difficoltà ma anche
delle risorse grazie alle quali può affrontare in maniera diversa le sue problematiche.
INTRODUZIONE ALLA PSICOPATOLOGIA
La psicopatologia fa riferimento a origini e percorsi dei pattern individuali dei comportamenti disadattivi.
Un concetto errato è sicuramente quello di causa: non esistono cause ed effetti nell’eziologia
psicopatologica. Si parla invece di fattori di rischio e di protezione.
Queste patologie vengono studiate nella loro dimensione evolutiva (come si evolvono individui e
patologie) usando come punto di riferimento il cosiddetto sviluppo “normale”: solo partendo da questo
è possibile capire le modalità di allontanamento da questo percorso. Questo sviluppo normale può essere
“intralciato” da vari fattori, per cui ogni patologia è strettamente connessa a vari fattori di rischio, è
dunque multideterminata.
Psiche: spirito vitale, anima. Pathos: passione, logos: discorso, = studio dei disturbi dell’anima, dello spirito
La psicopatologia è una disciplina psicologica che studia i disturbi dell’anima, il funzionamento anormale
dei processi psichici, mirando a indagarne le cause specifiche. Per essa il sintomo è un segno che indica
uno dei modi di elaborare l’esperienza, dunque normale e patologico sono solo due diversi modi di
elaborare l’esperienza, il primo adattivo e funzionale il secondo disadattivo e disfunzionale.
Sroufe-Cicchetti: “studia le origini e i percorsi dei pattern individuali dei comportamenti disadattivi”
indipendentemente da età di insorgenza, cause e quadri psicopatologici. In questo approccio viene messo
in evidenza lo stretto rapporto tra comportamenti adattivi (tipici), a rischio e disadattivi atipici).
L’eziologia di ogni psicopatologia è multi-determinata, non c’è una singola causa. Viene inoltre
riconosciuta la reciproca influenza tra fattori genetici, ambientali e psicologici.
Parole chiave
Sintomo: manifestazione soggettiva di una condizione patologica alla quale può corrispondere o meno un
segno rilevabile obiettivamente;
Sindrome: insieme di segni e sintomi che spesso si presentano contemporaneamente ma dei quali non è
nota l’origine eziologica e patogenetica (meccanismo di sviluppo), se ne parla in ambito per lo più
psicologico;
Malattia: insieme di segni e sintomi che spesso si presentano contemporaneamente e dei quali è noto il
meccanismo eziopatogenetico e fisiopatologico, se ne parla più in ambito medico;
Esempio Tom e luca: cresciuti nello stesso quartiere, violento, dove c’è droga e crimine, hanno 8 anni
entrambi vivono con la madre ed un fratello più grande, subiscono violenze domestiche, il padre con loro
non vive e lo vedono raramente, all’età di 10 anni saltano frequentemente la scuola e vengono segnalati
per furti e atti vandalici
Tom: con molta fatica si diploma alle scuole, ha un contratto di praticantato ed è operaio in una fabbrica
vive con la moglie e ha 2 figli, definisce la sua vita come un percorso ad ostacoli per raggiungere la meta
finale, tuttavia felice di vivere in un quartiere migliore e avere la speranza di poter mandare i propri figli
all’università
Luca: mai diplomato, espulso per essere stato trovato con un coltello, dentro e fuori la prigione, 30 anni
e beve molto non riesce a conservare nessun lavoro, ha avuto molte relazioni di breve durata dalle quali
a avuto 2 figli, li vede raramente e non è sposato. Ha vissuto on molti posti ma attualmente vive nel suo
vecchio quartiere.
Com’è possibile una tale differenza tra due percorsi di carattere traumatico così simili?
- Autostima
- Relazione
- Resilienza
- Aspetti personali
- Aspettative
In questa situazione ci possono essere numerosi fattori che entrano in gioco per deviare lo sviluppo del
bambino. Il contesto familiare è fondamentale, ma se questo dovesse essere negativo per varie ragioni?
Sarebbe giusto o meno separarlo dalla famiglia, considerando che anche tale separazione è molto
probabile che conduca a sviluppi traumatici. È da tenere in considerazione anche l’individualità del
bambino e come esso si approccia alle varie situazioni.
24/02/2021
Perché uno stesso evento traumatico ha esiti diversi in bambini che avevano condizioni nell’infanzia
pressoché identiche?
Questi due concetti ci aiutano a capire come il legame tra malattia e “cause” non sia lineare ma complesso
e unicamente probabile.
I fattori di rischio sono condizioni o situazioni che rendono più probabile una forma di disadattamento.
Un fattore di rischio fondamentale è la povertà ad esempio. Quindi non costituisce una causa ma influisce
sulla probabilità (tabella di Holmes-Rahe). I fattori di rischio sono elementi “collettivizzanti” poiché
possono essere condivisi da molti pur non conducendo necessariamente ai medesimi risultati.
Gli eventi illustrati nella tabella costituiscono delle situazioni potenzialmente stressanti collocate in
momenti particolari dell’esperienza di vita. Ovviamente le caratteristiche specifiche individuali
influenzano sul peso che hanno questi eventi sull’esperienza particolare. Nella tabella viene riportata una
media statistica del “peso” di questi eventi in termini di stress.
Ci sono senza dubbio periodi critici in cui sale la vulnerabilità quindi il peso dei fattori di rischio si
intensifica.
I Fattori di protezione sono fattori che favoriscono un positivo adattamento dell’individuo anche in
situazioni difficili/stressanti
PER RIASSUMERE
Moderatori → caratteristiche del soggetto o del suo network sociale esistenti prima dell’evento
stressante. Indicano per chi e sotto quali circostante il trattamento funziona/la vulnerabilità è maggiore
(ad esempio nella depressione il fatto di essere femmina).
Mediatori → caratteristiche del soggetto o del suo network sociale che non sono presenti prima
dell’evento stressante ma che si presentano in risposta ad evento stressante. agiscono tra variabile
indipendente e dipendente.
Il principio di relazione illustra come ogni percorso disadattivo debba essere sempre letto “in relazione
a” tutti gli aspetti variabili e individuali (configurazione, periodo di tempo, individuo, contesto ecologico),
tuttavia cercando di ricavare da questo caso specifico un modello generale che ci permetta di fare ipotesi,
confronti e proporre percorsi.
Spesso si scopre che il momento specifico in cui si arriva in terapia emerge da una situazione di
disadattamento prolungata. Bisogna dunque chiedersi perché il paziente abbia scelto quel momento per
muoversi nella direzione di una risoluzione.
Ipotizziamo la situazione di genitori che si vedano convocati da un’insegnante per una situazione di
disadattamento del proprio figlio. Cosa devono raggiungere dal punto di vista individuale per poter iniziare
un percorso?
- Consapevolezza
- Motivazione
- Alleanza col professionista
Il disturbo va letto dunque in un’ottica relazionale che si concentri non solo sull’origine della patologia
ma sul suo sviluppo nel contesto di riferimento. I disturbi d’ansia, pur avendo un importante substrato
genetico, possono variare a seconda della risposta ambientale che si esperisce magari nelle prime
esperienze.
Il principio di continuità illustra come gli elementi che si susseguono nell’esperienza assumono una
configurazione, almeno parzialmente cumulativa. Si può ad esempio osservare un elemento di ciclicità
(esperienze che si ripetono con le medesime configurazioni) che non viene interrotta finché non è
riconosciuta e corretta (se negativa). Lo stesso principio non è però solo temporale ma si applica anche
alla patologia: è raro che le malattie si mettano in una configurazione on-off (tra le poche la schizofrenia
che presenta una sintomatologia ben precisa), solitamente si situano in una gamma d’intensità. Bisogna
poi chiedersi come queste intensità siano vissute dall’individuo: è impossibile stabilire un criterio di
normalità o patologia.
Ricerca longitudinale → Va lungo il tempo. Un individuo viene seguito nel corso di un’ampia fetta della
sua esperienza. Ci torna utile per stabilire dei legami precisi tra fattori di rischio e sintomatologia, per
capire come siano correlati (cosa viene prima e cosa dopo). È tuttavia esposto a diversi rischi sperimentali.
Ricerca cross-sectional → Viene svolta in unico momento. Non ha quindi un carattere temporale ma è più
simile a una “fotografia”, è più facile ma meno accurata perché non è in grado di stabilire dei legami
causali.
Per continuità omotipica intendiamo la costanza delle caratteristiche che nel tempo rimangono stabili.
Ad esempio i ritardi cognitivi si mantengono con caratteristiche simili in tutto il percorso.
Parliamo di continuità eterotipica quando il quadro clinico si modifica nel tempo. Ad esempio le
correlazioni tra disturbi diversi come il legame tra i disturbi d’ansia in giovane età e lo sviluppo di disturbi
depressivi.
Riflettere sulla continuità di una patologia ci permette anche di capire in quali declinazioni si possa poi
pensare a una remissione della malattia.
25/02/2021
Vedere la patologia come clinici, leggerla in chiave psicologica. Dare attenzione alla dimensione umana,
avvicinarsi al paziente senza oggettivare completamente la sua esperienza. (possiamo curare solo se ci
sentiamo vicini ai nostri pazienti)
Non c’è solo il vissuto del paziente ma è un co-vissuto. è l’atteggiamento del clinico che informa il vissuto
del paziente. Non ci si deve fermare alle apparenze, ma bisogna andare oltre, guardare al contesto. Non
bisogna fermarci al suo vissuto.
I MODELLI EVOLUTIVI
Lewis (2000) distingue diversi modelli evolutivi per comprendere la genesi dei comportamenti disadattivi.
Caratteri principali
a) Ipotizza che un certo tratto di personalità (condizione) che si evidenzia durante l’infanzia e si
caratterizza per uno specifico modo di percepire, pensare o rapportarsi con gli altri, a un certo momento
influenzi o predica un’altra condizione (tratto) in un momento successivo della vita.
d) Per questo modello non c’è interattività tra individuo e ambiente, modello che non ci spiega in maniera
completa quelle che sono le interazioni tra fattori di una determinata patologia.
Tremblay → Ricerca sulle origini infantili dei comportamenti antisociali: comportamenti maggiormente
aggressivi osservati durante l’infanzia rappresentano un tratto in quanto hanno un valore predittivo
riguardo all’emergere di comportamenti antisociali. Per Tremblay non si tratta di comportamenti appresi
ma di risposte aggressive automatiche (tratti appunto), facenti parte del repertorio comportamentale
umano, che durante lo sviluppo si imparano a tenere sotto controllo. Se non viene acquisita una
competenza iniziale in età precoce questa si riverbera nello sviluppo successivo.
Tra le possibili concause vi potrebbero essere deficit neuropsicologici che interferiscono con lo sviluppo
del linguaggio, della memoria e dell’autocontrollo. Altre ipotesi affermano che questi tipi di deficit
possano avere un impatto ancora più diretto sul comportamento antisociale. Può insomma
rappresentare un fattore di rischio.
e) Il modello del tratto impedisce di riconoscere un legame causale tra un determinato tratto e un esito
psicopatologico. Infatti tra i due eventi vi sono troppi fattori che operano interagendo fra di loro perché
sia possibile.
f) Questo modello è particolarmente utile per indagare su casi di continuità omotipica tra tratti ed esiti.
Secondo vari studiosi l’ADHD può essere il precursore del Disturbo della Condotta (CD) o del Disturbo
Antisociale in adolescenza (queste ricerche potrebbero essere falsate dal fatto che il CD non era stato
indagato a sufficienza e poteva presentare livelli di comorbidità).
Altre ricerche tuttavia ritengono che sia invece il Disturbo Oppositivo Provocatorio, spesso associato
all’ADHD, a precorrere il CD.
Tratti acquisiti (Attaccamento)
I tratti non sono però esclusivamente innati, ma è possibile prendere in considerazione anche caratteri
acquisiti attraverso l’apprendimento o scambi interattivi.
Un esempio è quello del modello di attaccamento. Studi accertano una sostanziale stabilità dei modelli
di attaccamenti tra i 12 mesi e i 5 (o addirittura 11) anni di vita. L’attaccamento, in quanto organizzazione
rappresentazionale interna,
rappresenterebbe un tratto
sufficientemente stabile. Nel caso in cui
l’attaccamento sia positivo il bambino può
guadagnare una sorta di invulnerabilità
evolutiva (fattore protettivo). In pratica
questa “invulnerabilità” può essere
descritta come un innalzamento nella
soglia di tolleranza dello stress che, se
troppo alto, può comunque influenzare lo
sviluppo.
La resilienza può essere considerata un tratto positivo, essa è promossa dalla capacità della madre di
mantenere una certa disponibilità emozionale anche in un contesto di separazione.
Generalizzabilità/Situazionalità
Sulla base di uno studio dell’attaccamento ci si potrebbe chiedere quando sia generalizzabile o
situazionale questo tratto acquisito. In altre parole se ci sia concordanza tra i modelli osservabili
nell’attaccamento materno e altre relazioni di contorno (col padre ad esempio). Certi studi affermano che
l’attaccamento abbia un carattere monotropico dunque l’attaccamento principale influenza quelli
secondari, altri invece sostengono che l’attaccamento rimanga vincolato alla relazione in cui si crea.
Critiche
In definitiva possiamo sostenere che il modello del tratto nella sua formulazione originaria (modello
innatistico) venga smentito dai dati di ricerca. Un peso importante e imprescindibile ha l’ambiente che
agisce continuamente sui tratti, specialmente in alcuni periodi sensibili dello sviluppo del bambino. Posto
questo bisogna ricordare che anche tratti acquisiti in periodi sensibili non sono immodificabili ma la loro
influenza sul comportamento del soggetto dipende in larga parte dalle esperienze successive.
Questo modello è particolarmente criticato dagli autori che mettono in evidenza il carattere adattivo e
interattivo, specialmente in riferimento alle numerose variabili. Questo modello sarebbe dunque
eccessivamente deterministico e reale. Un’altra pecca è che questo modello è troppo limitato e specifico.
2. Modello ambientale
Ogni comportamento (adattivo o disadattivo) è funzione delle forze ambientali che agiscono
sull’organismo in ogni momento della vita. Compito primario dell’individuo è adattarsi all’ambiente.
Continuità ambientale
Il comportamento del bambino è un epifenomeno dell’ambiente. Ma ci si può chiedere se ciò che il
bambino acquisisce dall’ambiente in un determinato momento influisce di per sé sullo sviluppo successivo
o non sia invece l’ambiente in un tempo successivo a giocare un ruolo più importante. La domanda è: ha
più influenza la stabilità di un tratto (anche se acquisito), la continuità ambientale o entrambi?
Pensiamo all’influenza depressione post partum della madre sullo sviluppo infantile. Studi affermano che alla
componente ambientale prodotta da questa situazione è legata una difficoltà di tipo cognitivo, un più alto tasso di
disturbi psichiatrici. Tuttavia il rischio di depressione era più alto se la madre presentava episodi depressivi
continuativi nel tempo.
Periodi critici/sensibili
La continuità ambientale giocherebbe dunque un ruolo fondamentale. Anche se senza dubbio esistono
periodi sensibili in cui l’esposizione a influenze ambientali negative, anche di breve durata, possa da sola
costituire un pericolo: pensiamo all’esposizione a sostanze nel periodo prenatale. È dunque considerevole
l’importanza dei periodi critici o sensibili (attaccamento 12 mesi). Pensiamo al concetto di imprinting di
Lorenz: se in quel momento specifico l’ambiente non dà gli stimoli necessari si inceppa il meccanismo di
adattamento.
Una variazione nel gene responsabile della codifica dell’enzima che interviene nel metabolismo della monoammino
ossidasi A può avere un ruolo nel moderare l’effetto del maltrattamento. Dunque ad alti livelli di neurotrasmettitore
MAOA e a parità di condizioni ambientali (maltrattamento corrisponde una minore probabilità di sviluppare
comportamenti antisociali.
Contesti anormali portano dunque a comportamenti maladattivi. Le problematicità dei rapporti con
l’ambiente possono essere declinate in vari modi (ambiente negativo o semplice difficoltà di match con
l’ambiente).
Teoria dell’attaccamento
la teoria dell’attaccamento ci aiuta a comprendere i caratteri principali anche del modello ambientale. Il
ruolo della responsiveness genitoriale, l’eventuale presenza di una depressione post-partum (i bambini
che verso 3 mesi vivono con una madre affetta da depressione post partum, quando diventano
adolescenti hanno una maggiore probabilità di soffrire di depressione) l’ambiente circostante in cui è
inserito un individuo influisce tantissimo.
Pensiamo al peso della risposta ambientale nei primi momenti di esperienza del bambino come nel primo
sorriso dell’infante.
In conclusione
Esordio, mantenimento, remissione della sintomatologia psicopatologica non possono essere ricercati
all’interno dell’individuo in assenza dell’indagine sulla struttura e sulle caratteristiche del contesto in cui
questi si sviluppa.
Sottomodelli
Possiamo distinguerlo in 2 sottomodelli
L’attaccamento insicuro interagisce con un ambiente positivo dando luogo a un esito positivo:
-ATT x A+ → +0
-ATT x A+ → +ATT → +0
Ad esempio un percorso di terapia o l’esperienza con una persona significativa possono portare alla trasformazione
di caratteri comportamentali sviluppati precedentemente.
Nella relazione madre-figlio, secondo questo modello, non è solo l’uno ad adattarsi all’altro ma avviene
un processo di co-regolazione e reciproca stabilizzazione dei pattern.
Co-regolazione diadica
Il processo di co-regolazione diadica crea pattern di azione condivisa che tendono a divenire
relativamente stabili e acquisiscono cornici di significato condivise, i frame, definiti da varie
caratteristiche dell’interazione. La qualità dell’esperienza soggettiva è in funzione della flessibilità di
questi frame, al contrario una loro rigidità condurrà a difficoltà nell’adattamento.
Poniamo l’ambito del frame “comunicazione faccia a faccia”. Se il bambino rivolge lo sguardo verso un giocattolo
la madre può rifarsi a un frame pregresso per riconquistare la sua attenzione o riconoscere e promuovere questo
nuovo comportamento, dando origine a un nuovo pattern interattivo (nuovo frame).
Forme di interazione disturbate o fallimentari si manifestano nei pattern che comprendono madri depresse.
Aspettative filiali caratterizzate da distress e protesta incontrano comportamenti materni o iper-intrusivi o iper-
isolati. Il figlio interiorizza così un sentimento di rifiuto.
Queste interazioni possono essere sia di carattere verbale, quindi esplicito, che non verbale, andando a
caratterizzarsi come un tipo di conoscenza implicita e procedurale (azioni dirette a scopi che diventano
abitudini).
Analizzando videotape di sedute psichiatriche con aspiranti suicidi si notò che la maggiore propensione dei pazienti
a questo tipo di problema era compresa a un livello implicito non consapevole dallo psichiatra.
Scambi regolatori
Fenotipo, environtype e genotipo producono insieme il comportamento del bambino. Lo sviluppo
dell’individuo è rappresentato da un continuo “avanzamento” del suo percorso promosso dagli scambi
regolatori tra questi 3 ambiti.
Sincronia genitore/figlio
Feldman ha lavorato su questo basandosi sulla sincronia genitore-figlio e sulla costruzione del tempo condiviso.
La sincronia genitore-figlio descrive l’esperienza reciproca collegata al tempo, basata sulla regolazione
reciproca nell’ambito della relazione di attaccamento. Il neonato è dipendente dalla madre, ancor prima
che a livello psichico, al livello fisico-biologico: la sua semplice presenza fisica funziona da sistema
regolatorio esterno. Proprio in questo ambito avviene in primis la sincronizzazione reciproca.
Secondo Condon e Sander bambini che non sperimentano interazioni coordinate durante le prime settimane di
vita vanno incontro, durante la loro vita, a difficoltà nello sviluppo sociale, emozionale, regolatorio e simbolico.
Secondo il modello di Sameroff e Emde le turbe si possono instaurare in vari modi: violazione delle
aspettative, difficoltà a fronteggiare i comportamenti, patologie genitoriali ecc.
Flessibilità vs Inflessibilità
Le famiglie che riescono a fronteggiare al meglio i mismatch con l’ambiente sono caratterizzate da una
spiccata flessibilità adattiva, al contrario una certa inflessibilità rischia di aggravare i conflitti e
promuovere risvolti patologici.
Uno studio di Sroufe ha messo in luce una forte tendenza all’equifinalità e multifinalità in questa fase dello
sviluppo.
L’adolescenza è uno dei tanti momenti critici dello sviluppo che rappresentano momenti di sfida e nuove
opportunità di cambiamento.
Sviluppo in adolescenza
Sono ormai classici gli studi di Offer sui percorsi evolutivi in adolescenza:
• Sviluppo continuo → Interessa il 23% degli adolescenti. Si verificano progressi graduali con una
buona stabilità personale. Si è in grado di stabilire buoni rapporti, si hanno degli amici con cui
confidarsi e si è in grado di rapportarsi con l’altro sesso e quindi di mantenere un rapporto intimo.
Si è in grado di posporre la gratificazione, tenere sotto controllo gli impulsi e indirizzare le proprie
risorse verso un compito. Il rapporto coi genitori risulta sufficientemente positivo;
• Sviluppo a ondate → Interessa il 35% degli adolescenti. Pur avendo buone capacità adattive si
notano conflitti emozionali caratterizzate da fasi di progressione e regressione. Si ricorre più
frequentemente a rabbia e proiezione come difese. Si hanno meno capacità di indirizzare le
proprie risorse verso obiettivi e si risponde più frequentemente in senso depressivo e ansioso.
L’autostima è oscillante e nei rapporti interpersonali vi è una discreta capacità, anche se questa
implica un maggiore impegno personale. Più frequenti conflitti e divergenze coi genitori.
• Sviluppo tumultuoso → Interessa il 21% degli adolescenti. Mostrano difficoltà comportamentali
in vari contesti. Spesso hanno attraversato traumi, perdite e aspri conflitti. Sono presenti
oscillazioni dell’umore, reazioni ansiose accentuate e scarsa capacità di controllare gli impulsi. C’è
una forte conflittualità in famiglia e dipendenza/complicità coi pari.
Queste ricerche sono state comunque criticate in quanto limitate solo all’adolescenza. I primi due gruppi,
secondo Offer, sono in grado di fronteggiare la crisi adolescenziale in maniera adeguata senza riscontrare
problemi di salute mentale.
Rischio e resilienza
I meccanismi di rischio e resilienza sono fondamentali per comprendere i percorsi adolescenziali. Questi
riguardano sia la sfera individuale che i vari contesti ambientali. Un modello evolutivo dell’adolescenza
ragiona necessariamente su vari livelli di analisi.
Il rischio di sviluppare un disturbo depressivo in adolescenza può crescere in relazione alle caratteristiche
individuali, ai fattori familiari, sociali e scolastici. Queste componenti ovviamente si intersecano.
Processi
Nelle ricerche longitudinali, oltre ai fattori di rischio e protezione, è possibile mettere in luce i processi
che si compongono dei fattori di moderazione o mediazione (vedi supra) del rischio e della resilienza.
Stress
Lo stress implica le circostanze e le condizioni ambientali che minacciano, mettono alla prova e sovrastano
le capacità psicologiche e biologiche individuali. Una prima distinzione necessaria è quella tra la
percezione individuale delle situazioni stressanti e ilo carattere oggettivamente stressante. Ovvio che in
adolescenza i medesimi stressor possono venire percepiti secondo intensità maggiori rispetto ad altri
periodi dello sviluppo.
- il processo per mezzo del quale (dia-) cerchiamo di conoscere (gnosis) il funzionamento
psichico di un soggetto;
La diagnosi è dunque una mappatura del funzionamento psichico che si traduce in una descrizione
narrativa il più possibile sistematica (formulazione del caso). Non si può far riferimento al prodotto senza
aver attraversato il percorso processuale. Altrimenti si rischia di fraintendere la situazione del paziente.
Importante considerare che questo processo si struttura in vari livelli di conoscenza. Non sempre, ad
esempio, è necessario rendere esplicita o produrre un’etichetta pur rimanendo la necessità del processo
di diagnosi.
La valutazione clinica è sempre il conoscere una persona: il disturbo si conosce attraverso la persona,
indagandola passando per vari livelli, e non semplicemente attraverso i sintomi. L’interlocutore è sempre
la persona, essa ha delle difficoltà, che si presentano nei sintomi, ma oltre questo c’è altro. Altrimenti
sarebbe semplicemente un approccio medico-psichiatrico.
Bisogna chiedersi come una persona vive quel sintomo, il significato che gli assegna all’interno di una
specifica storia di vita. Le persone possono declinare in modo diverso un medesimo disturbo attraverso
vari comportamenti. La diagnosi parte dai paletti teorici (le etichette) ma deve necessariamente
emanciparsi da questi man mano che il processo (ad esempio terapeutico) continuo.
La formulazione del caso è la mappatura del funzionamento psichico di quella persona che viene tradotta
in un linguaggio il più possibile sistematico e oggettivo.
L’abilità sta nel conciliare due poli:
- Specificità/unicità → considerare la specificità del singolo soggetto, non assimilarlo a tutti gli
altri, diagnosi ideografica. lo psicologo non può confrontarsi con la comunità scientifica; si
perdono verificabilità e falsificabilità, il terapeuta va talmente tanto nello specifico che
“perde” il paziente, non guarda alla globalità.
POSSIBILI PROBLEMATICHE
a) Deformazione personale → un clinico tende a formulare una diagnosi implicita anche quando non
ne struttura una formulazione specifica. In effetti tutte le relazioni intime durature si basano sulla
formulazione di una ipotesi di teoria mentale del funzionamento altrui, anche se non producono
denominazioni. In quanto professionisti a maggior ragione siamo portati a categorizzare e
classificare l’altro in base alle nostre conoscenze ed è pericoloso nel momento in cui va a costituire
il nostro unico modus operandi. Tuttavia il clinico si differenzia da questa pratica quotidiana in
quanto tenuto a esplicitare strumenti, informazioni, inferenze e teorie alla base delle ipotesi.
b) Ricerca e clinica [SWAP (elenco di 200 domande che descrivono 200 tratti possibili di ogni
individuo), R-PAS (Rorschach strumento fondamentale per studiare la persona, e c’è bisogno di
una certa regolarità scientifica)] → Una buona diagnosi deve tenere conto di ricerche (solidità
empirica) e letteratura clinica e applicativa (dimostra i contesti e le condizioni di applicabilità). È
inoltre fondamentale che ci si tenga costantemente aggiornati sulle nuove ricerche interessanti e
affidabili.
d) Spesso la diagnosi può ostacolare il processo conoscitivo → bisogna rimanere sempre aperti
anche verso nuove diagnosi senza limitare il nostro campo di indagine durante un processo
conoscitivo che è sempre rivolto alla persona.
e) Non è per sempre → Quasi tutte le diagnosi, almeno in una certa misura, cambiano nel tempo.
La diagnosi deve venir inserita in un processo conoscitivo dell’intera persona, la cui vita psichica è
in continua evoluzione e maturazione. Per questo stabilità, per assicurare una coerenza alla
diagnosi, e flessibilità, per permettere il mutamento, devono coesistere. La diagnosi è il punto di
partenza, la terapia dovrebbe contemplare in linea di principio, la possibilità di modificare una
condizione iniziale.
f) La diagnosi “cade” all’interno di una relazione (alleanza diagnostica) → tale relazione è tra lo
specialista e un individuo o un gruppo di individui. Il primo incontro non è quasi mai facile poiché
qui si mettono a nudo le debolezze e le difficoltà. Bisogna quindi cercare di impostare un contesto
il più possibile protetto, da giudizi prima di tutto.
h) Non può prescindere dal giudizio che la persona ha di sé (senso soggettivo) e delle sue difficoltà.
Tutto parte dal paziente e da come avverte su di sé questi sintomi, come si sente. Bisogna capire
quali problematiche abbiano un peso nella loro esperienza e quanto effettivamente pesino. Una
via è anche quella di rendere il paziente consapevole di possibili problematiche di cui non vede il
collegamento.
i) Ponte tra conoscenza ideografica (peculiarità, specificità e irripetibilità del singolo) e nomotetica
(leggi generali sul funzionamento) → inserire l’esperienza del singolo all’interno di una esperienza
generale che è stata già “codificata” da un punto di vista clinico.
j) Non reificare la diagnosi → non fare della diagnosi il nostro Re (conoscere la diagnosi non significa
conoscere il paziente).
k) È intrisa dai nostri giudizi di valore (cosa noi riteniamo normale o patologico) → ciascuna diagnosi
rischia di partire dalla base di valori culturali che impongono un giudizio su certi comportamenti.
l) Approccio clinico vs approccio cinico → è importante riuscire ad avere un ascolto attivo cercando
di mettere tra parentesi i nostri preconcetti. Bisogna capire come quell’individuo specifico viva un
problema, anche se a noi quel fenomeno non appare ad esempio problematico.
TIPOLOGIE DI DIAGNOSI
Distinguiamo ora le varie tipologie di diagnosi. Una prima caratteristica che ci permette di differenziare i
tipi di diagnosi è il livello di inferenza:
• Diagnosi descrittiva o nosografica →Descrizione dettagliata (come nel DSM) dei fenomeni clinici
(esperienze e comportamenti). È una lista delle componenti disadattive come vengono riportate
dall’individuo (le “cose che non vanno”) o che sono direttamente osservabili. Si raccolgono i
sintomi allo scopo di verificare il numero dei sintomi presenti per soddisfare criteri diagnostici.
Non c’è nessun interrogativo sulla relazione tra questi sintomi, una check-list. C’è poca inferenza
(ci mettiamo poco del nostro), il suo obiettivo è quello di arrivare quindi ad una diagnosi molto
condivisibile, classificazione ateoretica, utilizzabile in contesti con orientamenti diversi.
Utilizziamo, ad esempio, il DSM per vedere quale disturbo accoglie quei sintomi.
• Diagnosi strutturale → è la teoria che permette di passare a un livello superiore alla pura
sintomatologia: grazie a questa possiamo fare ipotesi sulla presenza/intensità di un disturbo. Il
principale modello diagnostico è di matrice psicodinamica basata su rappresentazioni e processi
impliciti. Dunque gli strumenti utilizzati per carpirli saranno necessariamente di versi, strumenti
“di profondità”. Ruolo del clinico, modello di riferimento [diagnosi strutturale di Kernberg (gravi
disturbi di personalità), OPD]:
o Diagnosi strutturale di Kernberg à si tratta di
un’intervista semi-strutturata che si compone in 3 assi che non
possono essere né osservati direttamente né autoriferiti
(identità, operazioni difensive ed esame di realtà):
Queste si vanno a comporre in tre diversi tipi di funzionamento traducibili in diagnosi dell’organizzazione
di personalità: nevrosi, psicosi e borderline. Per fare questo tipo di diagnosi è fondamentale conoscere a
fondo il modello di riferimento e saper cogliere i punti cruciali
• Diagnosi psicodinamica → è impossibile arrivare a questa se non si è concentrati sulle prime due.
I sintomi vengono collocati all’interno della storia del paziente. Si cerca di capire come i punti che
abbiamo osservato nelle precedenti diagnosi si connettano, in una prospettiva sia passata che
futura. La diagnosi si può fare nel momento in cui si è con qualcuno (vicinanza) e si ha qualcosa di
fronte (distanza).
o Essere con qualcuno o avere qualcosa di fronte: valorizzare e conoscere l’altro nella
relazione e il considerare ciò che si osserva in termini più distaccati e oggettivi;
o Gabbard: ponte tra avere qualcosa di fronte (DSM) ed essere con qualcuno.
Nel percorso terapeutico non possiamo prendere in considerazione solo il vissuto del paziente: si
fonda un co-vissuto che accomuna paziente ed esperto. Il paziente porta nel colloquio sempre
qualcosa in più rispetto a quello di cui è consapevole, compito del terapeuta è dunque anche
quello di informare il paziente riguardo a ciò che non riesce a capire della sua esperienza.
La nostra diagnosi può focalizzarsi sulla valutazione di processi e funzioni o sui contenuti psichici. Questa
polarità ci permette di differenziare gli strumenti diagnostici.
• Diagnosi funzionale → A partire dal 1950 nel panorama statunitense la grande influenza della
psicologia dell’Io contribuì a ritagliare uno spazio dominato da approcci diagnostici di tipo
funzionale. Questa mira a individuare le costanti funzionali nel modo di percepire la realtà,
regolare gli affetti, articolare i pensieri o relazionarsi con gli altri (la SWAP è qui uno strumento
fondamentale). Si tratta degli schemi mentali che un soggetto utilizza per approcciarsi
all’esperienza della realtà. La SWAP ci permette di prendere informazioni riguardo a 4 domini
funzionali:
Questa diagnosi funzionale è associata a una concezione condizionale e dimanesionale dei tratti
di personalità che rappresentano tendenze più o meno intense a regire in modo specifico a
condizioni date. Si possono valutare da qui le costanti nella “condotta” funzionale dell’individuo.
Queste sono le lenti attraverso cui per la maggior parte il soggetto percepisce il mondo. In questo
modo si ottiene una diagnosi equilibrata tra l’etichettatura e la formulazione del caso specifico.
(APPROFONDISCI COME FUNZIONA SWAP)
Anche il modello del PDM ci propone una buona esemplificazione dell’approccio funzionale che
chiarisce il livello di organizzazione della personalità e il funzionamento mentale complessivo in
base alla valutazione di 9 macrofunzioni:
d) Capacità di regolazione
e) Attenzione e apprendimento
f) Capacità di relazione e intimità
g) Autostima e rispetto per gli altri
h) Espressione e comunicazione degli affetti
i) Pattern difensivo
j) Capacità di auto-osservazione
k) Capacità di creare e ricorrere a ideali interni
l) Capacità di rappresentazioni interne
Tra gli strumenti più importanti che sottintendono un approccio categoriale c’è il DSM (Nel DSM-
5 c’è stato un accenno di avvicinamento alla dimensionalità), il Five Factor Model predilige una
logica dimensionale invece il modello di Kernberg, SWAP e PDM offrono una prospettiva mista
che si serve di una logica dimensionale di fondo offrendo la possibilità di categorialità. Sembra che
l’orientamento prediletto si quello di stampo dimensionale o misto.
o Diagnosi categoriale→
Differenze qualitative;
Chiarezza concettuale e comunicativa;
Semplicità di comprensione e applicazione delle nosografie (logica diagnostica biomedica);
In sintesi seppur risulti più semplice affermare che un soggetto abbia o non abbia un disturbo,
numerosi studi sembrano confermare che questo approccio sia eccessivamente parziale in quanto
sacrifica sfumature e complessità della persona. Tra i modelli misti particolarmente riusciti c’è lo
SWAP-2000 che applica alla diagnosi di personalità una logica dimensionale ma stabilisce
punteggi/soglia nelle varie dimensioni per permettere di elaborare diagnosi categoriali. La SWAP
utilizza quindi un approccio del tipo matching prototype che permette di descrivere il
funzionamento individuale di un paziente “paragonandolo” a un insieme di prototipi (tra cui sono
compresi anche quelli sani) empiricamente derivati: il livello di somiglianza ha una logica
dimensionale ma la presenza di cut-off permette di tradurla in categoriale.
La scelta di queste diagnosi dipende dal testo clinico che si prende come riferimento.
• La diagnosi si differenzia inoltre per il modo che ha di considerare i criteri sulla cui base si può
diagnosticare o meno un disturbo.
o Diagnosi monotetica (Kraepelin)→ identifica un gruppo di criteri specifici per disturbo e
implica che per fare diagnosi tutti i criteri siano soddisfatti, il suo limite è infatti quello della
rigidità. Molte patologie funzionano in questo modo in ambito medico, ma quasi nessuno tra
le patologie mentali. Il disturbo è qui inteso come un insieme specifico di tratti o
caratteristiche;
• Un altro tema riguarda la natura dei tratti di personalità, ovvero gli elementi costitutivi dei diversi
stili di personalità, che si possono intendere in due modi. Parliamo di una concezione
essenzialistica secondo cui le diverse personalità possono essere descritte per mezzo di
caratteristiche stabili e in buona parte acontestuali. La concezione condizionale, come quella
della SWAP, che intendeva i tratti come tendenze a reagire in un modo specifico a determinati
stimoli (“condizioni attivanti”) vissuti in modo soggettivamente analogo.
• Confrontare le proprie ipotesi con teorie/ricerche di riferimento, senza le quali andrebbero perse
le fondamentali scoperte nel campo della ricerca psicologica e psicopatologica;
• Oltre che “nutrirsi” di ricerca le diagnosi sono fondamentali per fare ricerca, senza di esse non ci
sarebbe progresso nelle conoscenze psicologiche.
• Utile comunicare la diagnosi al paziente? (la riferisco solo se ha senso, se può aiutarlo, senza
spaventarlo) → la diagnosi come etichetta serve poco al paziente a cui interessa di più scoprire le
caratteristiche di difficoltà particolari su cui deve lavorare. Bisogna dunque trovare parole il più
possibile vicine alla sua esperienza e comprensibili per comunicarla (Traduzione dell’etichetta).
Comunicare la diagnosi può essere, in certi casi, un modo per valutarne la validità e le eventuali
reazioni-risposte nel paziente. In questo modo il paziente viene responsabilizzato del suo
percorso sottolineando il carattere processuale e collaborativo dell’impresa diagnostica;
• Risorse vs. difficoltà → per riuscire a capire la persona che soffre bisogna anche individuare le
risorse che ha a disposizione;
• Aspetti culturali, neuroscienze → non tutte le diagnosi hanno lo stesso valore in tutte le culture
(etnopsichiatria).
Una tassonomia diagnostica che voglia favorire il dialogo esterno e interno alla comunità terapeutica deve
essere comprensiva. attendibile e valida, anche se questi obiettivi sono stati spesso in contrasto tra loro.
Possiamo rilevare 3 principali tradizioni diagnostiche:
DOMANDA: Come scegliere la diagnosi? Dipende da molti elementi. Il primo è sicuramente la finalità per
cui elaboriamo la nostra diagnosi. Altri fattori riguardano l’orientamento prediletto che si valuta essere
più funzionale ad essere applicato in quel caso. Infine bisogna sempre valutare la possibilità di costruire
una valutazione globale integrando più strade diagnostiche.
Un’altra discriminante riguarda però anche gli strumenti che vogliamo utilizzare.
(Il professionista dedito in prima battuta a formulare la diagnosi è lo psicologo e non lo psicoterapeuta!)
(28 min)
Ecco alcune linee guida sulla cui base scegliere informatori e format. Rispetto agli informatori bisogna
capire se le fonti più affidabili sono il paziente (self-report), il clinico (clinician-report) o informatori “terzi”
(informant report). Altri dati fondamentali sono quelli oggettivi di tipo neuroscientifico. La soluzione
migliore sta solitamente nell’integrazione dei vari informatori. Ecco alcuni criteri su cui basare la scelta:
p) Paziente/parente/clinico;
Assessment
Una volta scelto l’informatore bisogna valutare quale tipologia di colloquio sia la più appropriata.
Possiamo collocare le tipologie in un continuum di sistematicità e formalizzazione che va dal colloquio
libero all’intervista semistrutturata a quella strutturata fino all’utilizzo della testistica.
Il colloquio libero è il format più utilizzato in ambito clinico in virtù della sua flessibilità. Prima del
colloquio, abbiamo la segnalazione, molto breve, ma che richiede un grande sforzo da parte del paziente,
che deve avere abbastanza coraggio di contattare il terapeuta. La fase dell’assessment va generalmente
dai 3 ai 5 colloqui e lascia una grande libertà alle peculiarità delle coppie valutatore/valutato può essere
diviso in 3 fasi:
Possiamo calare questo modello triadico in piccolo in ogni singolo colloquio in modo da dargli
un’accezione di autoconclusività. C’è comunque da dire che anche la costruzione di questi momenti si
modifica a seconda dei modelli teorici di riferimento.
Quando incontriamo un paziente è importante riuscire a comprendere come il paziente vive il suo
disturbo. Disporsi a conoscere come vive ciò che sta vivendo il paziente;
❖ Come si sente?
❖ Che cosa le è successo?
❖ Da quanto tempo accade?
❖ Che relazione ha questo suo modo di sentirsi con ciò che le è accaduto in precedenza?
❖ Ha già vissuto simili esperienze?
❖ Perché proprio ora?
❖ In che modo e in che misura quello che sta vivendo ora richiama qualcosa che ha già vissuto nel
suo passato?
Nel momento in cui arriva il paziente, come possiamo accoglierlo? Dopo aver spiegato come funzionano
gli incontri si lascia qualche secondo di silenzio. Questo sempre nella parte iniziale dell’apertura.
Le interviste semistrutturate servono a stabilire una serie di ambiti rispetto ai quali indagare. Lascia
tuttavia libertà alle diadi di procedere tra questi ambiti secondo percorsi peculiari approfondendo ora uno
ora l’altro.
Le interviste strutturate stabiliscono, oltre alle aree da indagare, anche le domande specifiche e l’ordine
attraverso cui avanzarle. Rappresentano il format più standardizzato e oggettivo, ideale per i progetti di
ricerca, ma forse troppo rigido per l’ambito clinico.
Compiti adattivi
È impossibile comprendere le traiettorie di sintomi patologici in età evolutiva senza tener conto della
specificità delle fasi e i relativi compiti di sviluppo. La sfida degli studiosi in questo campo è quella di
riuscire a tenere insieme i vari aspetti della sintomatologia patologica che permettono di individuare e
diagnosticare i disturbi senza dimenticare che le strutture del soggetto preso in considerazione sono
ancora in via di formazione dunque fattori di rischio/protezione, vulnerabilità e risorse vanno pensate in
maniera diversa.
È fondamentale avere un quadro dei fattori di rischio e protettivi che caratterizzano l’esperienza del
bambino insieme alla resilienza, agli eventuali stressors e alle specifiche vulnerabilità. Sulla base di questo
ci è possibile spiegare alcuni “sintomi” e magari ridimensionarli senza necessariamente proporre una
diagnosi psicopatologica. Importante non dimenticare il ruolo delle risorse che, nel momento in cui siano
abbastanza solide, possono costituire un punto di partenza fondamentale per un eventuale percorso
terapeutico.
Contesto relazionale
Insieme a queste è necessario anche indagare il contesto relazionale e interpersonale (famiglia, scuola,
amicizie ecc.) in cui il bambino cresce. Caratteristiche dell’interazione, modello di regolazione, tonalità
affettiva e fase evolutiva della relazione ci permettono di comprendere le varie potenzialità del bambino
e ci possono aiutare a predire problemi nel funzionamento a breve e a lungo termine.
Classificazione di Anders
La classificazione di Anders è un sistema di riferimento diagnostico che ci aiuta a valutare le
caratteristiche relazionali in rapporto alla durata e alla pervasività della sintomatologia:
❖ Perturbazioni relazionali → Sintomi con durata di 1-3 mesi. Presenta un modello di regolazione
dell’interazione inappropriato o insensibile. La difficoltà è limitata in un’area di sviluppo e
modelli interattivi non rigidamente fissati;
Anders valuta principalmente la durata e l’impatto del cambiamento in un contesto relazionale specifico.
È nei disturbi relazionali che il pattern si configura più specificamente come disadattivo poiché diventa
un’abitudine indipendente a situazioni stressanti.
Si tratta di classificazione multiassiali in grado di individuare criteri soglia specifici per la fascia d’età. Tra
le altre cose vengono valutati parametri relazionali, funzionamento psichico, esperienza soggettiva e
formazione della personalità.
CD: 0-3R
È applicabile fino ai 3 anni e presenta 5 assi:
▪ Asse I → disturbi clinici, aspetto psicologico. Prevede un albero decisionale che permette di
raggruppare i sintomi per fattori di rischio.
▪ Asse II → qualità della relazione (tra bambino e agenti del suo ambiente), ambito sociale,
relazionale. Pone attenzione sulle dinamiche relazionali, i pattern interattivi e l’esperienza
soggettiva delle relazioni coi genitori (non solo come fattore eziologico ma anche come
risorsa).
PDM
Copre teoricamente tutto l’arco evolutivo con 2 specificazioni:
A. Neonati e Bambini piccoli (prima infanzia) → La diagnosi primaria (asse I) viene definita in base
alle capacità evolutive funzionali ed emotive (asse II), alle capacità di regolazione
dell’elaborazione sensoriale (asse III), ai pattern relazionali (asse IV) e ad altre diagnosi mediche
e neurologiche (asse V). l’asse I considera 3 categorie di disturbi:
1) Disturbi interattivi;
2) Disturbi regolatori dell’elaborazione sensoriale;
3) Disturbi neuroevolutivi della relazione e della comunicazione.
La qualità dei pattern interattivi rappresenta anche qua un fattore eziopatogenetico. Per valutarle
è necessario tenere in considerazione, oltre alle strutture del bambino, anche quelle del caregiver
di riferimento.
B. Bambini e Adolescenti → Questo sistema è più simile a quello degli adulti, ma ne inverte la
priorità. Prende in considerazione 3 assi:
1) Profilo del funzionamento mentale (Asse MCA) → descrive le modalità di fare esperienza
delle relazioni e delle emozioni: modalità difensive, rappresentazioni interne e auto-
osservazione;
3) Pattern sintomatici ed esperienza soggettiva (Asse SCA) → possono essere valutati solo
nel contesto più ampio del funzionamento mentale e dello sviluppo della personalità.
Conclusioni
Possiamo pertanto concludere che le componenti relazionale, emotiva e cognitiva, fondamentali nella
costituzione della personalità, sono interessate da uno sviluppo precoce esposto fin dall’inizio a possibili
distorsioni potenzialmente patologiche.
Disturbi dell’adattamento
❖ Caratterizzati per sintomatologia che si verifica in risposta a stressor situazionali presenti nella
vita di una persona;
❖ Stressor non più di 3 mesi prima;
❖ 6 mesi dalla cessazione dello stressor.
Funziona come una diagnosi di una situazione di pre-allarme: ci permette di valutare il funzionamento di
un bambino in relazione ad una situazione critica/stressante. Se il comportamento disadattivo si protrae
anche molto tempo dopo la cessione dello stressor allora non è più considerabile come un problema
dell’adattamento.
STRUMENTI DI VALUTAZIONE
1. Children Apperception Test (C.A.T.)
2. Object relations Technique (O.R.T.)
3. Rorschach
4. Adult Attachment Projective Picture test (A.A.P)
5. Thematic Apperception Test (T.A.T.)
6. Le avventure di Blacky
7. Affect in Play Scale (6-10) (A.P.S.)
1) Children Apperception Test → è un test proiettivo sviluppato da Leopold Bellak nel 1949 e pubblicato
in Italia nel 1957 dalla casa editrice Giunti OS – Organizzazioni Speciali.
Ispirandosi al Thematic Apperception Test (TAT) di Henry Murray (uscito nel 1943), il CAT indaga la
personalità dei bambini dai 3 ai 10 anni attraverso lo studio delle differenze individuali nella percezione
di stimoli standardizzati. Il test è costituito da dieci tavole che riproducono dei disegni con animali. Il
bambino è chiamato a osservarle e a inventare, per ognuna, una storia a partire dagli elementi che vede
raffigurati. Dall'interpretazione di queste storie emergono elementi significativi come la struttura affettiva
del bimbo, le funzioni dell'Io, il rapporto con gli adulti, le reazioni di fronte ai conflitti o alle difficoltà dello
sviluppo, le sue reazioni all'interno del gruppo di amici o a scuola.
All'occorrenza, alla somministrazione del CAT si può aggiungere (o sostituire) quella del suo supplemento,
il CAT-S. Questo è, a sua volta composto da dieci immagini di animali stampate su cartoncini più resistenti,
ed è pensato per l'intervento in situazioni o temi particolarmente critici. Molto utile come materiale per
tecniche di gioco e libera manipolazione, in genere vi si ricorre quando il bambino fa più fatica a raccontare
storie.
2) Object relations Technique → valuta le relazioni e fa riferimento alla teoria delle relazioni oggettuali
di Klein. Si chiede all’oggetto di raccontarci una storia per capire come il soggetto interagisce in vari
contesti relazionali (solitudine, diadica, triadica ecc…). si cerca di capire quanto una persona sia in grado
di coinvolgere più persone in questa storia ad esempio.
3) Rorschach → è composto da 10 tavole con immagini speculari. L’autore non ci ha lasciato un netto
sistema di scoring e per questo negli anni si susseguiti vari metodi di valutazione basati su questo
strumento. In questo test non ci sono risposte prestabilite ed è preferibile somministrarlo in
preadolescenza, adolescenza ed età adulta.
Il contenuto della percezione è solo una delle variabili interessanti. Ma attraverso le risposte a queste
domande si possono ottenere molte più informazioni interessanti. Ci interessa dunque particolarmente il
perché si vede una determinata cosa. Questo è il metodo R-Pass che ci permette di formulare una diagnosi
strutturale del funzionamento dell’individuo.
Questo test è stato pensato per soggetti con disturbi gravi, tuttavia recenti studi mostrano come pazienti
schizofrenici spesso non siano in grado di vederci qualcosa.
Altri problemi possono essere collegati a manipolazioni in ambito di perizia forense.
Il Rorshach può essere usato in maniera fruttuosa per capire cosa ci sia che non va in un periodo confuso
più che dare risposte effettive e specifiche. Anche per questo motivo non possiamo più interpretarlo
principalmente come un proiettivo ma dobbiamo considerarlo, più correttamente, un performance
based.
4) Adult Attachment Projective Picture test → è una prova che riguarda il legame di attaccamento (Adult
Attachment). È il “corrispettivo” della strange situation per adolescenti e adulti. Dobbiamo distinguere
pattern di attaccamento e stili di attaccamento. In questo test parliamo di pattern quindi dei MOI,
viaggiamo quindi a un livello maggiormente inconscio e inconsapevole. Lo stile infatti lo possiamo valutare
tramite un questionario.
Ci sono due metodi: l’AAI e l’AAP che attivando i modelli di attaccamento ci permettono di riprodurre le
situazioni che indaghiamo in situazioni più “fisiche” come quelle della strange situation.
5) Thematic Apperception Test → Fa riferimento al tematical affection test e viene utilizzato sempre
come elicitante di narrazioni.
6) Blacky → è uno strumento che aiuta il bambino a parlare di tematiche critiche per i bambini. Blacky è
un cane che vive in una famiglia essendo “diverso” dal resto dei familiari.
7) Affect in Play Scale → è basato sul gioco simbolico e cerca di stimolare la creatività del bambino per
capire come procede. Ci permette inoltre di mostrare i temi che mette in scena più spesso il bambino. È
adattato per bambini dai 4 ai 6 (toys) e dai 6 ai 10 anni (puppets). In Italia tuttavia si è notato che la
tipologia di gioco (le marionette) non fosse adeguato come stimolo alla generazione dei bambini di oggi e
si usano i giochi anche per età più avanzate. Gli strumenti di gioco ci permettono di indagare sul livello di
gioco funzionale e simbolico. I giochi offrono degli input che il bambino può o meno cogliere.
Tutti questi strumenti per essere utilizzati necessitano di un training e di una grossa preparazione per
poter essere somministrati e ci permettono ad un tempo di fornire valutazioni strutturate ma allo stesso
tempo di dirci qualcosa sull’individuo.
Gli strumenti vanno utilizzati con discrezione, questi strumenti sono infatti molto stressanti e devono
essere utilizzati per “rispondere” a domande che ci siamo fatti a monte di un colloquio.
Una volta che somministriamo e organizziamo lo scoring dobbiamo ovviamente costruire
un’interpretazione che metta insieme tutti i risultati, consapevoli del fatto che dovremo anche
“comunicare i risultati” in un determinato modo, traducendolo.
Più o meno libero, utilizzando o meno gli strumenti. Il colloquio non è mai unico, consideriamo anche gli
aspetti non verbali ma che trasmettono qualcosa.
a) Test Tesistici
c) Play Task
d) Usare il disegno
f) Test che hanno l’obiettivo di dare indicazioni al clinico in base alle sue osservazioni.
a) In questo ambito va raccolta in primis l’anamnesi relativa alle tappe di sviluppo motorio,
cognitivo, affettivo, relazionale in relazione all’insorgenza del sintomo (esplorare vissuto
dei genitori rispetto al sintomo). Grazie a questa possiamo contestualizzare l’emergere
della sintomatologia e definire le traiettorie evolutive che tengano conto di risorse e
vulnerabilità del bambino.
c) Infine la qualità delle dinamiche familiari e di coppia che può aver impattato sullo
sviluppo.
Prima infanzia → importante valutare reattività, elaborazione info sensoriale, tono motorio e capacità
di pianificazione motoria.
Adolescenza
1) 2 Setting
Questa specifica fase evolutiva vede contrapposte le spinte verso l’autonomia (ricercata) e la
dipendenza (dalla famiglia). Si rende dunque necessaria un’impostazione fondata su 2
setting: uno che consideri l’intero nucleo familiare e uno che permetta al paziente di
sperimentare uno spazio personale e privato (più vicino a quello pienamente adulto).
2) Dinamiche familiari
Importante indagare l’impatto che l’adolescenza ha avuto sulle dinamiche familiari: come si
è riorganizzato il nucleo, come vengono affrontati i conflitti qual è la qualità dei legami
interni?
3) Colloquio
È necessario esplorare il funzionamento scolastico, relazionale (genitori, amici, partner), le
rappresentazioni di sé e dell’altro, le modalità difensive e la qualità degli affetti.
Sistemi di classificazione
(vedi sistemi diagnostici) Il clinico deve valutare quanto ciascuna capacità e area di funzionamento pesa
sul funzionamento generale del soggetto.
Risorse
Il clinico dev’essere in grado di lavorare sulle risorse del soggetto e della famiglia.
Competenze genitoriali
Fattori di personalità e contestuali determinano le competenze genitoriali come l’accudimento che
rappresenta un ambito di spiccata continuità nell’esperienza di un bambino.
Home visiting
In questo senso l’home visiting rappresenta uno strumento significativo: si tratta di un programma di
prevenzione estremamente diversificato svolto direttamente nelle abitazioni delle famiglie. Ha giocato un
ruolo fondamentale nel passaggio dalla famiglia tradizionale a quella contemporanea. Sia negli Stati Uniti
che in Italia ha prodotto risultati incoraggianti per quanto riguarda la riduzione di comportamenti
genitoriali problematici associati alla maternità a rischio psicosociale e depressivo.
Tra gli obiettivi principali ricordiamo:
o Riduzione dei fattori di rischio in contesti socioambientali svantaggiati;
o Riduzione dei fattori di rischio in condizioni di depressione;
o Riduzione dei fattori di rischio legati al funzionamento familiare;
o Promozione di fattori protettivi quali sensibilità materna e attaccamento sicuro.
Non si agisce dunque direttamente sulla patologia ma sulle variabili che possono condurre ad essa.
Sono principalmente due gli aspetti che caratterizzano l’home visiting:
A. La relazione tra home visitor e genitore, messa in evidenza negli orientamenti psicodinamici e della
teoria dell’attaccamento. L’home visitor funziona come una base sicura per la madre fornendogli
sostegno e ascolto che promuoveranno un’interazione migliore tra madre e figlio;
B. Informazioni e conoscenze che vengono trasmesse, evidenziati dai programmi psicoeducativi che
fanno riferimento alla teoria dell’apprendimento sociale. L’obiettivo è quello di educare alla
genitorialità attraverso conoscenze e strategie.
Queste funzioni possono essere svolte sia da figure professionali che da paraprofessionisti.
Va inoltre ricordato che l’azione si colloca in un continuum che va da considerare solo la relazione
genitore-bambino a una gamma molto ampia di variabili. Anche l’intensità dell’aiuto è variabile.
All’interno di questi manuali, pur incentrati sulle patologie dell’età adulta (specialmente il DSM), sono
contenute le patologie caratteristiche del ciclo vitale con inserti specifici anche sull’età dello sviluppo e di
vecchiaia.
Storia
Il DSM (Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali) presenta, comprese le revisioni, 7 edizioni
dal 1952. Raccoglie i disturbi che possono essere diagnosticati da uno specialista su basi statistiche. Le
prime due hanno suscitato poco interesse e rappresentavano solo elenchi di disturbi con una breve
descrizione. La vera novità si ha col DSM-III a cura di Bob Spitzer che introduce 5 aspetti fondamentali:
1) Approccio ateorico → Questo manuale nasce per contrastare il crescente disagio nato dalla
frammentazione della teoria diagnostica dovuta alle differenze tra le varie scuole. Si rese dunque
necessario un punto di riferimento che, mettendo da parte le teorie eziopatogenetiche, si basasse
solo sull’aspetto descrittivo della sintomatologia derivato da dati certi dell’esperienza. Anni dopo
possiamo sostenere che questo esperimento sia fallito in quanto è difficile ottenere validità
prescindendo da una teoria.
A tale scopo si individuarono alcuni criteri diagnostici al più basso livello di inferenza possibile.
Questo strumento è utile ma non è sufficiente per portare avanti una diagnosi e una relativa
terapia, ma è necessario integrare con un colloquio.
2) Modello politetico → Per ogni disturbo mentale viene specificato un numero minimo di criteri la
cui presenza è necessaria per la diagnosi. Se in un modello monotetico vi sono uno o più criteri
che devono essere obbligatoriamente presenti in quello politetico (adottato dal DSM-III) i criteri
diagnostici hanno tutti un ugual valore ponderale, non c’è dunque uno che dev’essere per forza
presente.
Viene definita una democrazia dei sintomi (connessa all’approccio ateorico), ad esempio vi sono
93 combinazioni di sintomi che formano diversi tipi di border. Tale sistema è quindi caratterizzato
da un’estrema eterogeneità: due soggetti, certi casi, potevano venir diagnosticati col medesimo
disturbo senza avere in comune neanche un sintomo.
Un altro paradosso è che, seppur l’obiettivo fosse quello di avvicinare la pratica psichiatrica alla
medicina, quest’ultima predilige da sempre un approccio monotetico.
3) Validità/attendibilità → Il concetto di validità può essere di vari tipi, la più importante è quella di
costrutto che si riferisce alla capacità di rappresentare o misurare realmente il costrutto
sottostante. L’attendibilità si riferisce al grado con cui operatori diversi concordano sulle diagnosi
fatte indipendentemente sullo stesso paziente. Il fatto che una diagnosi sia molto attendibile non
vuol dire necessariamente che sia valida, ovvero corretta.
Il DSM-III ha sollevato il coefficiente di accordo (attendibilità) tra le diagnosi di molte patologie ma
non ne ha modificato la validità: si tratta comunque di convenzioni. La prova di questo è la
frequente alta comorbilità.
5) Sistema multiassiale → Presente nel DSM-III e IV ma eliminato nel DSM-5 per avvicinarsi all’ ICD.
Prevede che il paziente venisse valutato in determinati ambiti, ovvero i 5 assi indipendenti e
paralleli tra loro:
a. ASSE I → Disturbi clinici e altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica
(depressione, schizofrenia) [temporanei];
Concepire questi assi indipendenti permetteva di indagare il soggetto in prospettive differenti per
integrarle in un momento successivo della diagnosi, come una declinazione del modello
biopsicosociale.
Risulta interessante soffermarsi sulla distinzione tra Asse I (disturbi clinici) e II disturbi della
personalità) fondata sul carattere temporaneo dei primi, che sarebbero considerabili stati, e di
quello stabile (almeno a partire dall’adolescenza) dei secondi, da considerare invece tratti. Questa
distinzione si fonda sulla concezione strutturale della personalità: un paziente privo di disturbi
nell’asse II, di norma, risponde meglio ai trattamenti in quanto presenta una personalità non
irrigidita in comportamenti disadattivi.
Gli assi III e IV sono stati sostituiti con strumenti più vicini all’ICD, l’asse V è stato scartato perché
giudicato poco chiaro.
- Approccio statistico.
Tra le critiche metodologiche c’è da segnalare la scarsa possibilità di dibattito che si è potuta creare
intorno a questa edizione, considerando che i membri della task force hanno dovuto firmare un contratto
di riservatezza. In particolare sono stati Spitzer e Allen Frances ad essere particolarmente critici.
Abbassamento soglie diagnostiche
L’abbassamento generale delle soglie diagnostiche è una tendenza problematica da vari punti vista. In
primis facendo salire i dati epidemiologici si rischia che anche le normali difficoltà della vita vengano fatte
passare per malattie mentali (autismo e ADHD sono esempi frequenti).
Questo è ovviamente funzionale ai profitti delle industrie farmaceutiche che lucrano sul maggiore tasso
di diagnosi di disturbi. Il rischio è quello di una iperpsichiatrizzazione di massa. La Sindrome da rischio
psicotico, nata con motivazione preventiva, rischiava di promuovere una medicalizzazione eccessiva su
pazienti che non ne avevano bisogno.
Uno dei rischi principali è quello dell’impoverimento di significato della vita a causa della medicalizzazione
di difficoltà e tristezza quotidiane, spesso di carattere adattivo.
Migone rileva che da una motivazione tutto sommato giustificabile come quella di studiare con più
attenzione e intervenire sui principi del disturbo (l’introduzione del concetto di spettro è funzionale
anche a questo) si è passati a questi paradossi rischiosi.
Movimenti di critica
Accanto alle azioni dei professionisti si sono levate anche le voci di movimenti esistenzialisti, associazioni
di familiari e pazienti, gruppi antipsichiatrici e così via, che hanno opposto posizioni antidiagnostiche tout
court, facendo scadere le proposte iniziali dei critici del DSM.
Disturbo borderline
Lo statuto teorico e clinico di questo fondamentale paradigma è massimamente incerto tanto che, ad
esempio, il PDM e la SWAP hanno espunto questa categoria diagnostica. Il DSM-5 l’ha invece mantenuta,
anche se con reticenza, in virtù delle pressioni degli interessi che erano legati a questa diagnosi
Dimensionale/categoriale
Il tentativo di rendere l’approccio dimensionale il principale del DSM-5 è stato bocciato in quanto troppo
complesso. Al suo posto nella sez. III c’è un tentativo (Modello alternativo per i disturbi di personalità),
molto criticato, di avvicinarsi verso un approccio dimensionale per comprendere come le situazioni
empiriche rispondono a questa variazione.
Alcuni collaboratori hanno individuato delle problematiche presenti nel DSM-5 che dovranno essere
modificati:
5) Abbuffarsi di cibo dodici volte in tre mesi non sarà più segno di golosità o disponibilità di
buon cibo, ma di malattia mentale (Disturbo da alimentazione incontrollata);
7) Le persone che abusano per la prima volta di sostanze avranno una diagnosi parificata
rispetto ai tossicodipendenti di lunga data;
9) Il confine tra il Disturbo d’ansia generalizzato e la normale ansia quotidiana, che è già poco
chiaro, lo sarà ancor meno, col risultato che vi saranno molti nuovi “pazienti” ansiosi i quali
prenderanno i farmaci ansiolitici;
11) Basterà essere seriamente preoccupati per una malattia fisica per ricadere nei Disturbi da
sintomi somatici.
Tra i pericoli maggiori c’è quello della diluizione delle risorse già scarse per l’intervento sui nuovi pazienti
affetti da disturbi lievi.
Proposta di Frances
La proposta di Frances è radicale: all’APA non dovrebbe più essere assegnato il compito di formulare i
futuri DSM, perché si è rivelata un organismo “di parte”, incapace di vedere le implicazioni più vaste che
può avere un sistema diagnostico di tale portata; a prendere le decisioni dovrebbe essere un comitato
formato da esperti di varie discipline, come politici, sociologi, filosofi e così via.
In generale si auspica un superamento del paradigma “tecnologico” della psichiatria, in cui viene
privilegiato l’uso dei farmaci, a favore di una rimessa al centro della relazione tra medico e paziente.
• Sezione I → Presentazione, introduzione, uso del manuale e dichiarazione cautelativa per uso
forense;
• Sezione 2 → descrizione dei criteri diagnostici di tutti i disturbi (22 categorie) (800 pg). Sono i
seguenti:
o Disturbi neurologici dello sviluppo;
o Disturbi dello spettro schizofrenico e altri disturbi psicotici;
o Disturbi bipolari e disturbi correlati;
o Disturbi depressivi;
o Disturbi d’ansia;
o Disturbi ossessivo-compulsivi e disturbi correlati;
o Disturbi correlati a traumi e fattori stressanti;
o Disturbi dissociativi;
o Disturbi da sintomi somatici e disturbi correlati;
o Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione;
o Disturbi dell’eliminazione;
o Disturbi del ciclo sonno-veglia;
o Disfunzioni sessuali;
o Disforia di genere (gender);
o Disturbi dirompenti, del controllo degli impulsi e della condotta;
o Disturbi correlati a sostanze e da dipendenza;
o Disturbi neurocognitivi;
o Disturbi di personalità;
o Disturbi parafilici;
o Altri disturbi mentali;
o Disturbi del movimento indotti da sostanze e altri effetti negativi dei farmaci;
o Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica.
• Appendice → esposizione delle maggiori differenze col DSM-IV, glossari di termini tecnici e
concetti culturali di stress ed altri elenchi.
❖ Disforia di genere (ex disturbi sessuali) → Introdotta la diagnosi di disforia di genere (ex
Disturbo dell’identità di genere) e viene dunque depatologizzata. Si è deciso di mantenerla
perché permettesse un accesso più facilitato alle cure;
❖ Modello alternativo (dimensionale) per i disturbi di personalità (sez. III) → Pur rimanendo
identica alla formulazione del DSM-IV viene introdotto il modello dimensionale nella sezione III.
In questo modello vengono drasticamente modificati i criteri A e B riguardanti funzionamento
e tratti di personalità:
o Criterio A → Valutazione di 4 elementi di funzionamento della personalità (da 0=adattivo
a 4=estrema compromissione): i primi due riguardano il Sé (identità e auto-direzionalità)
e i secondi il funzionamento interpersonale (empatia e intimità);
o Criterio B à I tratti vengono posti in un continuum dimensionale che va dalla salute alla
patologia tramite il Personality Inventory for DSM-5 (simile al Five Factor Model e al
Personality Psychopathology Five) che descrive 5 dimensioni generali di personalità
(generalizzabili nella polarità Internalizzazione-Esternalizzazione) con ulteriori
sottodimensioni:
Modello PDM
• Manuale Diagnostico Psicodinamico (2006; 2017): associazioni psicoanalitiche internazionali;
• Valori soglia per bambini (partire da asse M) e adulti (partire da asse P);
* Non sempre l’uscita del figlio dalla famiglia si correla ad una maggiore soddisfazione coniugale.
* Non è detto che genitori schizofrenici non siano in grado di generare/prendersi cura dei figli.
* esperimento del pupazzo Bobo
2 Modelli
Da questi emergono 2 modelli per spiegare il rapporto tra rischio depressivo e capacità di accudimento:
a) Modello forte (a soglia degli effetti) → viene definito una soglia critica del livello depressivo al di
sopra della quale il comportamento materno viene influenzato negativamente;
b) Modello correlato → la depressione viene considerata come uno dei possibili aspetti correlati ai
fattori di stress. Questi fattori sarebbero quelli primari responsabili della mediazione col
comportamento ostile: dunque anche una madre che non mostra sintomi depressivi può produrre
comportamenti negativi in quanto collegati a questi fattori primari.
L’ipotesi b) sembra essere quella più verosimile specialmente nella sua versione particolare fondata su un
modello relazionale: il comportamento di cura è appreso nelle relazioni precoci, i sintomi depressivi
andrebbero ad intaccare, come fattori di rischio, questo processo.
2 Pattern
Tronick e Weinberg hanno distinto gli effetti sul neonato di due diversi pattern di interazione del genitore.
Entrambi interagiscono col processo di regolazione costituendo una rottura dell’intersoggettività
1) INTRUSIVITÀ.
Le madri intrusive si rivolgono al bambino con un tono di voce arrabbiato e interferiscono attivamente
con le sue attività.
I bambini delle madri intrusive evitano lo sguardo della madre, prestano raramente attenzione agli
oggetti, il pianto è molto infrequente.
Questi bambini inizialmente provano rabbia, si allontanano dalla madre, la respingono. Siccome solo
occasionalmente riescono a limitare l’intrusività della madre, loro sperimentano la riparazione in maniera
irregolare e internalizzano uno stato di rabbia, facile irritabilità e frustrazione, che in età successive si
mostra in comportamenti aggressivi diretti ad anticipare il comportamento intrusivo dell’altro.
Le femmine, che già a 6 mesi sembrano concentrarsi significativamente di più sugli oggetti rispetto ai
maschi, sembrano essere più sensibili alle mamme depresse intrusive, che interferiscono precocemente
con lo svolgimento delle loro attività.
2) ALLONTANAMENTO.
Le madri isolate non interagiscono, sono affettivamente piatte, non reattive, fanno poco per aiutare le
attività dei propri figli.
I figli delle madri isolate protestano e mostrano il loro stato di stress, possono arrabbiarsi, si disregolano,
diventano irritabili e piangono.
In caso di situazione cronica, sviluppano uno stile distaccato e diretto verso se stessi, con comportamenti
autoconsolatori e autoregolatori, passivi e di isolamento. Tale pattern va a costituire per il bambino uno
stile di difesa sistematico. Sviluppano così un nucleo affettivo negativo (tristezza e rabbia), la madre è
vista come non affidabile o responsiva, e le autorappresentazioni si presentano come inefficienti e
indifesi.
I maschi sembrano avere più bisogno di aiuto nella regolazione del loro stato emotivo e quindi subiscono
maggiormente gli effetti del comportamento delle mamme depresse allontananti/isolate.
Negligenza e Abuso
• Abuso → porta ad uno stato difensivo cronico di rabbia, a un aumento della vigilanza e della paura.
• Negligenza → porta il bambino a doversi continuamente autoregolare da solo, con conseguente
ritardo nella crescita, comportamento asociale, mancanza di motivazioni.
I genitori che sono stati cronicamente assenti o intrusivi probabilmente non saranno in grado di aiutare i
figli in adolescenza. I figli di questi genitori avranno molto probabilmente bassa autostima e
autoefficacia, difficoltà nel gestire le relazioni e i cambiamenti richiesti in adolescenza.
2. GENITORIALITÀ IN ADOLESCENZA.
Da un punto di vista statistico la gravidanza adolescenziale è un fenomeno molto più diffuso negli USA
anche se, con la crescita economica degli anni ’70, si è osservata un’impennata anche in Europa. La ricerca
si muove soprattutto per individuare fattori di rischio e possibili programmi di prevenzione e supporto.
Sole recentemente le ricerche si sono indirizzate sugli antecedenti del comportamento e della personalità
delle madri adolescenti, scorgendo in essi dei potenziali fattori di rischio.
Immagine di sé in adolescenza
La gravidanza può interferire con l’integrazione nell’immagine di sé delle trasformazioni somato-sessuali
(pubertà). Se da una parte una gravidanza adolescenziale può rispondere al desiderio di dimostrare che
il proprio corpo “funzioni” da adulta (narcisismo materno), dall’altra può rappresentare un tentativo di
sfuggire alle dinamiche di separazione/individuazione dalla propria madre (si cerca un avvicinamento a
questa).
Identità femminile
La gravidanza in adolescenza interferisce nel processo di costituzione della propria identità femminile. La
ragazza è ancora coinvolta nei suoi conflitti di figlia e allo stesso tempo è costretta ad assumere compiti
materni (sovrapposizione di identità diverse).
I conflitti tipici dell’adolescenza (maggiore diffusione dell’identità, bisogno di autonomia, difficoltà ad
acquisire un senso di responsabilità) si ripercuotono sulle competenze genitoriali, impedendo l’emergere
di un senso del Sé genitoriale funzionale ed adeguato.
I figli delle madri adolescenti (in modo simile ai figli di madri adulte depresse), rispetto ai figli di madri
adulte non depresse:
• Manifestano scarse capacità di controllo e autoregolazione;
• In situazioni di disagio piangono meno e mostrano una minore quantità di rabbia, sono più passivi e
meno responsivi dal punto di vista emotivo;
• Hanno stili di attaccamento maggiormente evitanti e disorganizzati;
• Mostrano un maggior numero di deficit cognitivi e socio-emotivi nel corso dello sviluppo (età
scolare).
Molte madri adolescenti riescono comunque a fronteggiare queste sfide con successo specialmente a
monte di una solida salute mentale.
Spesso, un’altra reazione è desiderare un altro bambino il prima possibile, nonostante la paura di
perderlo nuovamente. Il 59-86 % di donne che hanno avuto un’interruzione di gravidanza o una perdita
perinatale rimane incinta dopo poco tempo, Ma quali sono le conseguenze?
• Può in alcuni casi ridurre il dolore del lutto precedente, in altri riaccenderlo/aumentarlo;
• Esiste comunque una vulnerabilità significativa a sviluppare sintomi del PTSD (soprattutto entro un
anno post-loss) e difficoltà nel costruire una nuova relazione;
Conclusioni
La perdita perinatale può richiedere una lunga elaborazione per essere superata dai genitori. Una
gravidanza eccessivamente vicina può non avere l’effetto riparatore sperato e peggiorare l’esperienza
genitoriale col nuovo bambino.
È stato rilevato un significativo aumento di indici di attaccamento disorganizzato nei figli, dovuto non
tanto alla depressione o all’ansia della madre, quanto piuttosto alla presenza di un lutto non risolto
conseguente a una morte prenatale.
Tra i pericoli più importanti c’è quello dell’idealizzazione del bambino morto con conseguente confronto
del nuovo nato a un’immagine di perfezione irrealistica.
A questo è inoltre associata una iperprotettività.
La prima sembrerebbe l’ipotesi più confermata, dunque il legame di coppia non soddisfa solamente
bisogni di intimità, ma fornisce anche il supporto emotivo indispensabile per l’educazione dei figli.
Ciò è dovuto soprattutto alla distanza tra aspettative sviluppate durante la gravidanza e situazione dopo
il parto:
• ritorno a casa dopo il parto;
• vita quotidiana particolarmente faticosa;
• ambivalenza nei confronti degli aiuti familiari disponibili;
• accorgersi che la coppia non funge da supporto;
• cambia l’immagine e la rappresentazione del partner;
• cambiano le esperienze di intimità;
• essere coppia davanti al bambino;
• doppia dimensione di partner e genitore.
In più si presenta una sorta di “sdoppiamento” della figura del partner che non può essere più
sperimentato unicamente come tale ma emerge anche in quanto genitore.
I bambini esposti a condizioni psicopatologiche genitoriali sono a rischio di esiti di sviluppo disadattivi.
Principalmente in relazione a:
• Psicosi (particolare riferimento alla schizofrenia);
• Depressione e disturbo bipolare;
• Dipendenza o abuso di sostanze.
Oltre al più alto rischio per i bambini di sviluppare la stessa condizione psicopatologica del genitore
aumenta anche il rischio di sviluppare condizioni disadattive e/o psicopatologiche diverse.
1. PSICOSI
Per quanto la modalità di trasmissione ereditaria sia piuttosto complessa, senza dubbio si osserva una
notevole familiarità. Il rischio schizofrenia è 1% nella popolazione generale; 4% per i parenti di secondo
grado; 10% se figli di un genitore schizofrenico (madre o padre); 40% se figli di due genitori schizofrenici;
48% per i gemelli monozigoti.
Falsi stereotipi
È falso che gli adulti affetti da condizioni psicotiche presentino un tasso di fertilità inferiore ed è falso che
i figli sia automaticamente affidata ai servizi sociali. È tuttavia vero che una minima parte delle madri
affette da disturbi psicotici abbia fatto almeno una volta affidamento alle cure istituzionali.
Familiarità schizofrenica
Non si tratta di una trasmissione ereditaria semplice, ma vi sono fattori e variabili che moderano il rischio
di schizofrenia nella prole, fattori ambientali che entrano in combinazione con quelli biologici nel
determinare l’esito psicopatologico. Nonostante i diversi dati che confermano il modello neuroevolutivo
che pone l’accento sui fattori genetici, è impossibile prescindere da variabili ambientali e relazionali
Sono due i principali studi longitudinali che hanno cercato di mettere chiarezza sulla natura del processo
schizofrenogenetico.
Risultati → in entrambi i gruppi, i bambini adottati all’interno di famiglie sane mostravano livelli di
psicopatologia trascurabili. Maggiore psicopatologia è stata riscontrata nei bambini adottati in famiglie
disturbate. I livelli di psicopatologia più alti in assoluto sono stati riscontrati nelle famiglie con entrambe i
genitori adottivi disturbati.
Follow-up a più di 20 anni → 35 soggetti francamente schizofrenici (di cui 32 adottati e cresciuti
all’interno di famiglie gravemente disturbate). La famiglia adottiva sana è un forte fattore di protezione
per i bambini ad alto rischio di trasmissione genetica.
In conclusione l’ipotesi che poneva i fattori ambientali come fondamentali sia in quanto fattori di rischio
che di protezione è stata confermata.
Lo studio longitudinale è durato 4 anni. Le madri sono state valutate in gravidanza e madri e bambini a 4,
12, 30, 48 mesi dalla nascita del bambino.
Risultati
• Nelle mamme schizofreniche è stata rilevata elevata ansia e scarsa competenza sociale nel
periodo gravidico;
• Nessuna differenza statisticamente significativa nel funzionamento cognitivo e socio-emotivo tra
figli del gruppo di madri schizofreniche e figli di madri del gruppo di controllo;
• Difficoltà di sviluppo maggiori e costanti nei 4 anni nei figli delle madri depresse;
• L’impatto della madre schizo diminuiva con la crescita del bambino invece quello della madre
depressa rimaneva costante.
Il comportamento disadattivo/psicopatologico del bambino era correlato non tanto con il tipo di
psicopatologia materna, quanto con l’intensità e la cronicità della condizione.
Indipendentemente dal livello psicopatologico delle madri, più bassi livelli di capacità materne e minore
comportamenti adattivi dei figli nelle madri con condizioni socio-economiche svantaggiate che si rivela
essere un fattore di rischio più potente della variabile della salute mentale.
Familiarità
Sembra essere alta la familiarità (x3 rispetto a figli di genitori sani e x2 rispetto a genitori con altre
condizioni) di questo disturbo soprattutto per la depressione a esordio precoce.
Comorbilità
In caso di depressione genitoriale in comorbilità con disturbi di personalità, i rischi per i figli sono
maggiori, a causa della maggiore permanenza nel tempo dei sintomi depressivi, con conseguente
prolungata esposizione del bambino a modalità di interazione caratterizzate da scarso coinvolgimento o
da intrusività da parte della madre.
Depressione paterna
Anche gli uomini che diventano padri sono suscettibili a situazioni depressive post-partum come pure
negli anni successivi dell’accudimento del bambino. Una storia depressiva precedente, sintomi ansioso-
depressivi prenatali, correlano fortemente con depressione paterna post-partum e tale condizione è
influenzata dalla presenza di depressione nella donna (effetti additivi delle due condizioni).
Il rischio evolutivo associato ai sintomi depressivi materni è sostanzialmente comparabile a quello
associato ai sintomi depressivi paterni.
• Le interazioni tra madre depressa e bambino sembrano avere un maggior impatto su autostima e
benessere emotivo del bambino;
• Le interazioni tra padre depresso e bambino sulle sue competenze sociali e problemi
comportamentali.
Abuso di alcol in gravidanza → ritardo mentale, dimorfismi facciali, disturbi cardiaci, renali, uditivi e allo
scheletro, deficit attentivi, iperattività, impulsività, antisocialità, disturbi del linguaggio e
dell’apprendimento.
Abuso di alcol da parte di familiari (2) → nei bambini alto rischio di ADHD, disturbi ossessivo-compulsivi,
disturbi della condotta. Negli adolescenti aumento significativo di disturbi depressivi.
Deficit neurocomportamentali
Un abuso di sostanze durante la gravidanza è correlato nel bambino a deficit neuro-comportamentali
(livello di attivazione, regolazione emotiva, capacità di focalizzare e mantenere l’attenzione) che evolvono
in adolescenza come difficoltà nell’interazione sociale e nell’apprendimento.
Nello specifico, la quantità di cocaina assunta in gravidanza correla con deficit cognitivi del bambino a 8 e
18 mesi (più evidenti) dalla nascita. Tali deficit sono correlabili alla quantità di sostanza assunta.
Secondo una ricerca specifici fattori di rischio per l’abuso sessuale intrafamiliare: presenza di un patrigno;
separazione temporanea dalla madre; mancanza di vicinanza con la madre; aspetti punitivi circa la sessualità da
parte della madre; assenza di affetto da parte del padre, basso status socio-economico.
Eziologia multideterminata
Oggi sappiamo che l’eziologia dell’abuso e del maltrattamento infantile è multideterminata a diversi livelli
dell’ecologia individuale, familiare e sociale del bambino abusato. Per esempio, supporto sociale o meno
dei genitori, contesto socio-culturale, ecc.
Si è quindi assistito a un superamento dell’impostazione riduttiva secondo cui la psicopatologia
genitoriale avrebbe un rilievo eziologico preminente e tendenzialmente esclusivo.
Possibili conseguenze
Tra le conseguenze a lungo termine annoveriamo rishi di:
• Modificazioni sostanziali sul piano neurobiologico;
• Ritardi cognitivi;
• Comportamenti disfunzionali (aggressività, disturbi della condotta, abuso di sostanze);
• Quadri psicopatologici e disturbi di personalità in età adulta;
Forte variabilità
Va poi sottolineata la forte variabilità negli effetti dei traumi: bambini che hanno subito diverse tipologie
di abusi continuativamente possono manifestare uno sviluppo nella norma, di converso bambini che
subiscono episodi apparentemente meno intensi e isolati possono manifestare uno sviluppo gravemente
perturbato.
Manifestazioni improvvise
Non è inoltre raro che glie effetti traumatici si manifestino molti anni dopo l’esperienza vissuta, sia
secondo il meccanismo dei “ricordi recuperati di abuso” che, in assenza di memorie specifiche,
sperimentando stati di sofferenza psicologica (Delayed PTSD)
“Asintomatici”
C’è comunque un’alta percentuale di persone abusate e/o maltrattate (40-50 % circa) può non mostrare
alcun sintomo o difficoltà psicologiche evidenti, può essere ben adattata, mostrando dunque resilienza.
Non è comunque detto che, anche a fronte di una buona resilienza (“riuscire a cavarsela nella vita”), gli
abusati non presentino sintomatologia. I soggetti abusati hanno spesso difese psicologiche immature,
lieve ansia e depressione, difficoltà nel funzionamento di personalità (soprattutto in ambito lavorativo) e
MOI insicuri/disorganizzati. La resilienza, in quanto processo dinamico, non è una proprietà che si ha o
meno ma può subire oscillazioni nel corso dell’esperienza. C’è inoltre il pericolo che la resilienza possa
tradursi in meccanismi di difesa eccessivamente rigidi, come strutture di personalità coartate, che
possono apparire funzionanti se viste da prospettive limitate.
Attaccamento
Già nelle ricerche relative all’attaccamento si possono notare elementi disfunzionali. È soprattutto merito
della psicologia dinamica l’inquadramento dell’abuso come epifenomeno di un trauma perdurante della
relazione primaria con conseguenze che prescindono da una manifestazione sintomatologica.
Teoria freudiana
Il concetto di trauma, come punto di intersezione complesso tra eventi esterni pericoloso e “pericoli
interni” (angoscia), sta al centro della teoria freudiana. I meccanismi di difesa mossi dal soggetto pe
rispondere a questa situazione di pericoli possono avere effetti profondi sulla struttura della personalità.
Effetto “sommatoria”
Quando si tratta l’abuso bisogna tenere a mente tanto le caratteristiche oggettive del trauma quanto le
caratteristiche individuali che ne filtrano l’esperienza soggettiva.
Per helplessness (sopraffazione psichica) intendiamo il sentimento di impotenza davanti a questo tipo di
eventi.
Ancora un ambito da tenere in considerazione è quello che lega i meccanismi di difesa del soggetto allo
sviluppo dell’angoscia legato alle specifiche fasi di sviluppo.
Trauma singolo e traumi ripetuti
La distinzione tra trauma singolo e ripetuti inaugurata da Breuer e Freud si è evoluta in quella tra shock
trauma e strain trauma (trauma tensivo). Lo strain trauma ha come conseguenza la paralisi e la
disorganizzazione delle funzioni dell’Io, caratterizzandosi come una sorta di trauma “cumulativo” che
intacca il profilo di personalità.
Psicologia del Sé
Secondo la psicologia del Sé il trauma avviene quando il contesto affettivo non è in grado di fornire
un’adeguata risposta a reazioni emotive dolorose. Secondo questa concezione le relazioni primarie (e
successive) sono più indispensabili, per comprendere gli effetti dell’abuso, dell’abuso stesso.
La percentuale di abusanti che denunciano di essere stati abusati sessualmente nell’infanzia va dal 20 al
30%. Tuttavia non esiste quella relazione deterministica supposta dal senso comune per cui un abusante
“replica” l’abuso di cui era stato vittima. Il subire abusi sessuali nell’infanzia aumenta il rischio di mettere
in atto abusi sessuali ai danni di bambini, ma non bisogna dimenticare come vi sia una fitta rete di
comportamenti correlati all’abuso che possono rappresentare fattori di rischio
Secondo uno studio longitudinale le madri che sono state vittime di abusi mostravano maggiori difficoltà nel
cogliere gli aspetti problematici dei loro figli.
Lo stato della mente del genitore (all’AAI) sicuro/insicuro, media la trasmissione intergenerazionale del
trauma, perché include/esclude nell’ambito esperienziale e relazionale primario ricordi e percezioni legati
a esperienze disfunzionali e traumatiche.
L’insicurezza incide sia sulle capacità di monitoraggio e mentalizzazione del genitore (vedere/non vedere
il bambino nella sua interezza psicologica), sia sulla disorganizzazione dell’attaccamento nel bambino, a
causa dell’esistenza di stati dissociati nella mente del genitore.
Il ruolo dell’attaccamento
L’attaccamento è un sistema comportamentale finalizzato a mantenere la vicinanza fisica del caregiver.
Esso implica due sistemi comportamentali interdipendenti:
• Manifestazioni esterne;
• Organizzazione interna che influenza le manifestazioni nel loro variare nel tempo.
Le relazioni di attaccamento vanno distinte dagli altri legami affettivi che non presentano i caratteri di
quella relazione spiccatamente preferenziale in cui l’individuo ricerca sicurezza e conforto, esso è infatti
lo scopo principale dell’attaccamento. Hanno tuttavia in comune queste caratteristiche (Ainsworth):
– Persistenti vs. transitori
– Persone specifiche vs. intercambiabili
– Relazioni emotivamente significativa
– Desiderio di presenza e vicinanza della persona
– Angoscia in seguito a separazione
– Ricerca di sicurezza e conforto in tale relazione
(Chiedi alla prof)
All’inizio l’attaccamento sarà vincolato a una vicinanza fisica che favorirà un’interiorizzazione di questa
sicurezza (MOI).
Approccio neurobiologico
L’emisfero destro del bambino, dominante nella prima infanzia e deputato alla regolazione emotiva, è
sintonizzato con quello della madre. Hofer, teorico evoluzionista, ritiene che oltre al bisogno di protezione
l’attaccamento risponda a bisogni di natura fisiologico-comportamentale (meccanismi regolatori
nascosti).
Esiti
A lungo andare tuttavia queste strategie cementificano un processo di regolazione affettiva disfunzionale:
emozioni e comportamenti di attaccamento vengono ridotti, repressi o falsificati. L’autonomia del
bambino evitante è infatti solo apparente, esso prova le stesse emozioni degli altri bambini (arousal), solo
che ha appreso a non esprimerle adeguatamente.
Il bambino costruisce quindi dei MOI finalizzati a escludere dalla consapevolezza conscia le emozioni
negative. Si creano così forti contraddizioni nella sua psiche: la memoria implicita lo fa sentire rifiutato,
ma quella esplicita (epurata) gli riporta alla mente una madre affettuosa (idealizzazione).
Queste strutture concorrono a creare una predisposizione per disturbi esternalizzanti: aggressività,
oppositivo-provocatorio, condotta. In età più avanzata si correla poi a un disturbo antisociale.
Insicuro-ambivalente (resistente)
Il comportamento manifesto dei bambini, al contrario dell’evitante, è finalizzato a massimizzare la
risposta del genitore. Questi mostrano una preoccupazione eccessiva verso la figura di attaccamento che
si si traduce in una forte, e spesso inconsolabile, angoscia alla separazione. Questa angoscia si manifesta
sia in comportamenti rabbiosi che passivi (strategie amplificanti).
Le madri rispondono ai segnali in maniera inconsistente e imprevedibile: esse non rifiutano il bambino
ma nella cura si mostrano eccessivamente ansiose e insicure.
Esiti
Questa relazione crea uno strettissimo legame di dipendenza che diviene un ostacolo al bambino per il
raggiungimento dell’autonomia e della fiducia in se stesso. Il risultato è quello di un sentimento di scarsa
competenza e difficoltà di regolazione. Soffrono particolarmente la separazione dalle figure di
riferimento.
Queste strategie predispongono a disturbi internalizzanti: disturbi d’ansia, depressione e ritiro. Alcuni
hanno rilevato un’associazione col disturbo di personalità borderline.
Disorganizzato
Questa strategia è più delle altre, comunque problematiche, associata all’insorgenza di psicopatologia. I
bambini con questo stile di attaccamento mostrano una mancanza di strategia coerente. Espressioni e
movimenti incompleti, stereotipie e immobilità possono essere indici di paura nei confronti del caregiver.
Questi bambini non riescono a trovare soluzione alla propria preoccupazione.
Generalmente sono due i tipi di caregiving associati:
• Madri con lutti o traumi irrisolti (basso rischio);
• Madri maltrattanti e abusanti (alto rischio).
In entrambi casi il risultato è in sentimento di paura trasmesso al bambino, sia per il pericolo reale del
maltrattamento che per un “trasferimento” dei traumi irrisolti. Tale paura attiva il comportamento di
attaccamento che però non trova conforto nel genitore, causa esso stesso della paura, attivando così un
circolo vizioso.
Il risultato è il crollo di qualsiasi strategia correlato a una disregolazione affettiva prolungata. È stato
notato in questi bambini un livello eccessivo di cortisolo, come se fossero costantemente sotto stress. Vi
sono poi alterazioni nella serotonina che conducono a una minore capacità di controllo degli impulsi.
Un ulteriore aspetto rilevante è che la stessa sincronizzazione, fondamentale nella relazione madre-figlio,
rappresenta qui la base per una trasmissione intergenerazionale del trauma.
Esiti
I MOI risultano contraddittori e frammentati: spaventati ma spaventanti, caotici ma assenti, abusanti ma
impotenti. Egli ha sperimentato momenti altalenanti di un genitore impaurito, confortante e aggressivo.
L’esito più frequente è quello della dissociazione patologica. Man mano nella maturazione i bambini
assumono l’atteggiamento cosiddetto controllante, attraverso cui assumono il ruolo del genitore al posto
del genitore stesso mostrando atteggiamenti altalenanti che vanno dal punitivo al protettivo. I ruoli di
attaccamento si invertono che, secondo alcuni può portare un equilibrio più coerente, ma secondo molti
non risolve la disorganizzazione delle rappresentazioni.
La CD: 0-3 individua nella deprivazione e nel maltrattamento le cause principali, esse sono sì necessarie
ma non sufficienti
SINDROMI AFFETTIVE
Sviluppo affettivo
L’Affetto è un segnale sociale e l’espressione delle emozioni che permette di percepire gli stati della
mente dell’altro, ha come scopo principale la comunicazione interpersonale. I comportamenti
comunicativi sono fondamentali come componenti affettive ed emozionali:
• Le espressioni emotive di varia natura compongono le relazioni precoci del bambino (es. mamme
depresse; funzione riflessiva);
• I fenomeni psicosomatici (sistema limbico, nervoso autonomo ecc.) sono influenzati
dall’espressione emotiva;
• Influenzano l’attività cognitiva (stimoli, interpretazione, percezione ecc.).
Gli affetti vengono differenziati in positivi e negativi. Ovviamente sono questi ultimi, che comprendono
ansia, preoccupazione, tristezza, rabbia e colpa, ad essere più rilevanti nella psicopatologia.
L’interpretazione di questi affetti si collega all’arousal, ovvero all’attivazione oltre il livello di
calma/riposo: una incapacità a tenere sotto controllo (regolazione) questa attivazione in relazione ad
affetti negativi può essere rilevante per l’insorgenza di patologie.
L’Asse V della CD: 0-3 fornisce una definizione dello sviluppo emotivo tipico (figura).
La comunicazione affettiva
madre/bambino funge da matrice
intersoggettiva su cui, tramite un
processo di rispecchiamento inizia a
svilupparsi il senso del Sé.
• 6 m→ co-orientamento visivo,
shared meanings e social
referencing;
• 9-14 m→ emerge la
consapevolezza di io e altro,
possibilità di condivisione con l’altro.
Primi cenni di autoregolazione
assistita;
Osserviamo una transizione da una intersoggettività primaria a una secondaria derivata dalla maturazione
cognitiva e dalla sensibilità e mind-mindedness materna.
La costruzione di uno stile di attaccamento sicuro sembra essere fortemente correlata alla qualità della
funzione riflessiva, ovvero la capacità del genitore di riflettere sulla propria esperienza mentale interna e
su quella del bambino. Questo processo favorisce l’interiorizzazione dell’esperienze sintonizzate, il
bambino impara così a riconoscere, differenziare e nominare stati emotivi ed affettivi, rendendoli quindi
gradualmente fruibili.
Adolescenza
Questo è un periodo caratterizzato dalla revisione delle strutture pregresse. Il suo cambiamento cognitivo
e neurale gli permette di incrementare capacità di elaborazione delle informazioni, metacognizione,
autovalutazione e autoregolazione. Il cambiamento dell’adolescente si muove su diverse direzioni:
▪ Manifesta preferenze personali nella regolazione fisiologica;
▪ Afferma la propria indipendenza emotiva e cognitiva dai genitori;
▪ Sperimenta nuove vie di espressione.
Entra poi in gioco il ruolo della sessualità. Gli adolescenti sono scissi tra il bisogno di individuazione e
quello di sostegno, un equilibrio positivo è dato dal riconoscimento di un nuovo ruolo del genitore come
una base sicura con diverse funzioni
Temperamento
La differenza tra un temperamento inibito/molto reattivo e uno disinibito/poco reattivo (Kagan) ci
permette di spiegare reazioni di un bambino alla paura (l’emergenza e il numero di fobie, 4/5 volte
maggiori nei bambini inibiti, ad esempio). Vi sono correlazioni tra il loro funzionamento cerebrale e la loro
risposta fisiologica a situazioni stressanti in vari periodi dello sviluppo.
Tuttavia anche l’ambiente gioca un ruolo chiave in questi processi che sono sì in parte programmati
geneticamente, ma anche esperienza-dipendenti.
Vi sono poi alcuni comportamenti ricorrenti nella disregolazione emotiva delle sindromi affettive:
a) Responisività emotiva eccessiva;
b) Comprensione emotiva povera;
c) Difficoltà a modulare le esperienze emotive in riferimento a contest, scopi e desideri;
d) Emozioni sperimentate come avverse.
Secondo le neuroscienze questi sintomi possono essere riconducibili ad anomalie a livello dell’amigdala,
dell’ippocampo e della corteccia prefrontale e cingolare.
Adolescenza
Nella relazione coi genitori, i ragazzi sicuri sono in grado di integrare il bisogno di autonomia con quella
di mantenere la relazione con queste figure di riferimento. Al contrario gli adolescenti insicuri tendono a
opporre ai problemi strategie di evitamento, disinvestimento oppure eccessivo coinvolgimento con una
rabbia disfunzionale.
Questi aspetti si ripercuotono poi sulla strutturazione della personalità, andando a concretizzarsi in
schemi maladattivi. Da un punto di vista patologico possiamo parlare di una multifinalità poiché da questi
problemi nella regolazione affettiva possono discendere problemi sia internalizzanti che esternalizzanti.
L’ansia ha un valore adattivo per cui non tutte le sue manifestazioni vanno considerate sintomi di un
disturbo, anzi una sua assenza totale può lo stesso risultare problematica. Nel corso della vita queste
ansie adattive si presentano in diversi modi:
• Le paure del lattante in seguito a stimolazioni sensoriali forti e improvvise;
• L’ansia per l’estraneo o di separazione nel primo anno di vita;
• Le paure specifiche (buio, mostri ecc.) in età prescolare;
• Ansia sociale, di prestazione o per le relazioni in adolescenza.
Concetti chiave
Ansia → condizione di generale attivazione delle risorse fisiche e mentali, attivata in presenza di qualcosa
che non è immediatamente identificabile. Favorisce i processi di attenzione ma sopra certi limiti intacca il
funzionamento globale; (Pericolo interno)
Ansia acuta → Senso travolgente di paura che rende il soggetto inabile per un certo periodo, può essere
attivata in seguito a esperienze di fobia;
Ansia generalizzata → Modalità di apprensione diffusa, il soggetto è in tensione, ovvero in uno stato
costante di vigilanza e attivazione del SNA.
Angoscia → Stadio più grave dell’ansia, provoca sensazioni intense di malessere, associate a
manifestazioni somatiche di tipo neurovegetativo.
Preoccupazione → Simile alla paura in quanto si riferisce a reazioni circoscritte, pericoli legati a specifici
avvenimenti futuri.
Interpretazione di Freud, 1925
Con il termine Angst ci si riferisce sia all’angoscia che alla paura, egli distingueva:
• Angoscia reale o automatica → Paura di fronte a una situazione reale, risposta innata e involontaria
a un pericolo esterno o interno;
• Angoscia segnale → Paura senza oggetto, risposta di paura appresa in previsione di un pericolo
interno o esterno che funziona da «segnale d’allarme» rispetto a situazioni traumatiche o conflittuali.
Sindromi ansiose
L’ansia rappresenta un fenomeno patologico quando diventa troppo intensa e persistente e non serve a
segnalare un pericolo. Nella psicopatologia dello sviluppo è difficile distinguere un’ansia normale da una
clinicamente significativa. Nell’età evolutiva sembra esistere un continuum di ansie e paure con variazioni
di caratteristiche che rendono difficile il riconoscimento di un quadro problematico.
Per questo un criterio valutativo prezioso è quello dell’impairment, ovvero dello stress e della sofferenza
soggettiva e interpersonale del bambino. A questo si aggiunge il fatto che per il bambino è difficile
percepire e verbalizzare il suo stato soggettivo, qui entra in gioco il clinico.
Considerando poi che al superamento delle tappe evolutive è connesso un certo grado di stress, è bene
considerare il quadro clinico globale da un punto di vista più processuale che statuale. Quello che può
fare il clinico è valutare gli eventuali fallimenti adattivi e partire da questo per una diagnosi.
Vi sono tuttavia diversi problemi nell’applicazione di questi criteri in età evolutiva. Ad esempio, per quanto
riguarda la durata, non sono sufficienti le prove empiriche. Anche il criterio della limitazione del
funzionamento è relativo, considerando che può essere “falsato” dalla cura del genitore che limita
l’esposizione del bambino. Due criteri alternativi possono essere:
a) Impatto dell’ansia sulle traiettorie di sviluppo;
b) Impatto dell’ansia sul funzionamento familiare.
«Sintomi» ansiosi
1. Fisici:
battiti cardiaci, pressione, tensione muscolare, diminuzione temperatura cutanea alle estremità,
sudorazione, dispnea e senso di soffocamento, dolore al petto, nausea (condizionamento classico);
2. Comportamentali:
fuga o evitamento (comportamenti messi in atto per evitare uno stimolo con conseguenze
aversive) → vantaggi secondari;
3. Cognitivi:
pensieri negativi (irrealistici o esagerati), anticipatori, interpretazioni distorte della realtà.
• Spesso l'ansia si manifesta con lamentele somatiche (lamentele fisiche), attraverso irritabilità più
spiccata, aggressività.
• Ricadute sull'apprendimento.
es. bambino di 8 anni, nei primi 10 minuti di colloquio la mamma si notava che aveva molta ansia nel raccontare
che il proprio bambino brillante non voleva più andare a scuola perché il bambino diceva di stare male, poi dopo
un paio di ore il bambino stava bene di nuovo; il papà molto in disparte si preoccupava solo di volerlo rimandare a
scuola; questa situazione, ovvero questi capricci si erano manifestati anche nel momento in cui il papà disse che
doveva andare via per lavoro per un giorno, il bambino era preoccupatissimo, aveva paura che succedesse qualcosa
nel viaggio. Per aiutare quel bambino non bisognava forzarlo nel suo rientro a scuola, quel bambino aveva disturbo
da ansia di separazione, quindi anche se sembrava avere fobia scolastica, vedere la sua ansia quando doveva
rimanere solo permise di comprendere che si trattava di ansia di separazione. Il problema di tornare a scuola non
era prioritario. Si provò quindi a chiedere alla mamma di andare a scuola insieme al bambino, prima un'ora, poi due
ore, il bambino rimaneva nell'atrio scolastico così il bambino sapeva che la mamma era là, infatti ogni tanto si
affacciava a vedere se la mamma c'era, ed infatti il bambino non ebbe più difficoltà nello stare a scuola, questo
perché il bambino non aveva fobia scolastica ma aveva problemi con separazione. N.B. La mamma è stata brava
perché non si è mai allontanata, se si fosse allontanata e il bambino uscendo non l'avrebbe vista si sarebbe generata
un'ansia ancora peggiore di quella di prima, è importante quindi accordarsi con i genitori quando si svolgono queste
pratiche di cura.
In età prescolare sembra comunque possibile identificare sintomi d’ansia clinicamente significativi: 4-10%
ne sono affetti. Si rileva una bassa percentuale (9,9%) di bambini con disturbi d’ansia effettivamente
riferiti.
In adolescenza si rileva un incremento per i disturbi d’ansia tranne che per il DAS.
Da considerare inoltre un’elevata comorbilità in particolare con: disturbi depressivi, della condotta, del
sonno, DOC, DDAI e altri disturbi d’ansia
• Diagnosi molto
frequente in età evolutiva (>
10%; SAD -prepubere- 4%;
fobia specifica 12%);
• Differenze di genere
(F=2M bni, F>M adol);
• Differenze d’età
• Differenze culturali
SAD
309.21 (F93.0) Disturbo d’Ansia da Separazione
A. Da un punto di vista evolutivo, paura o ansia inadeguata ed eccessiva relativa alla separazione da
coloro ai quali l'individuo è attaccato, come evidenziato da almeno tre dei seguenti:
1. Malessere eccessivo ricorrente quando si anticipa o vive la separazione da casa o dalle principali
figure di attaccamento
2. Persistente ed eccessiva preoccupazione di perdere le principali figure di attaccamento o in caso
di possibile rischio per loro (malattia, infortuni, calamità o morte)
3. Persistente ed eccessiva preoccupazione di sperimentare un evento avverso (perdite, essere rapiti,
avere un incidente, ammalarsi) che causa la separazione da una grande figura di attaccamento
4. Persistente riluttanza o rifiuto uscire, allontanarsi da casa, a scuola, al lavoro o altrove per la paura
della separazione
5. Paura persistente ed eccessiva di stare soli o senza le principali figure di attaccamento a casa o in
altri ambienti
6. Persistente riluttanza o rifiuto di dormire lontano da casa o di andare a dormire senza essere vicino
ad un’importante figura di attaccamento
7. Incubi ripetuti che implicano il tema della separazione
8. Ripetute lamentele di sintomi fisici (mal di testa, dolori di stomaco, nausea, vomito) quando si
verifica o si prevede la separazione dalle principali figure di attaccamento
B. La paura, l'ansia o l'evitamento sono persistenti, per un periodo di almeno 4 settimane nei bambini
e adolescenti e in genere 6 mesi o più negli adulti;
D. Il disturbo non è meglio spiegato da un altro disturbo mentale, come il rifiuto di uscire di casa a causa
di un'eccessiva resistenza al cambiamento nel Disturbo dello Spettro Autistico; deliri o allucinazioni
relativi la separazione nei disturbi psicotici; rifiuto di uscire senza un compagno fidato
nell’Agorafobia; preoccupazioni per la cattiva salute o altro danno degli altri significativi nel Disturbo
d‘Ansia Generalizzato.
Diagnosi differenziale
• SAD → sintomi connessi a situazioni di allontanamento dalle figure di attaccamento;
• Ansia Sociale → paura del giudizio degli altri (soprattutto coetanei); non devono esserci problemi con
le figure di riferimento;
• GAD → ansia in assenza di stimoli specifici;
• Fobia specifica → paura esagerata e irragionevole per un’unica classe di stimoli.
Biologia e attaccamento
Avere dei genitori ansiosi rappresenta un fattore di vulnerabilità biologica poiché è correlata al tipo di
temperamento del bambino. Ma, in questo caso, anche la relazione di attaccamento può giocare un ruolo
importante. Ricordiamo che uno stile di attaccamento insicuro non è, di per sé, un esito patologico ma vi
è comunque una forma di continuità negativa dovuta alle sedimentazioni dei modelli operativi.
In generale sono gli stili di parenting caratterizzati da intrusività, criticismo, catastrofismo, poco calore
emotivo, inibizione dei comportamenti di indipendenza, a essere correlati a questi disturbi.
Stili cognitivi
Anche i teorici cognitivisti confermano questa ipotesi per cui comportamenti genitoriali iperprotettivi
sono più facilmente associati ai disturbi d’ansia in quanto riproducono il medesimo stile cognitivo. Anche
gli adolescenti risentono di questi contesti genitoriali mostrando forme di fobia sociale, ansia
generalizzata, eccessiva autocritica e, con lo sviluppo cognitivo, attacchi di panico, agorafobia, sentimenti
di separatezza e paura di perdere relazioni significative.
Rischio e vulnerabilità
• Percorsi evolutivi multipli (equifinalità)
• Fattori biologici (temperamento inibito/molto reattivo, predisposizione genetica); ambientali (vita
stressante, eventi traumatici); familiari (caregiving, abuso, genitori ansiosi, iperprotettivi, attaccamento
ansioso-ambivalente, eccessiva dipendenza)
• Figli di ansiosi 3/5 volte > probabilità
Depressione anaclitica
• Queste persone manifestano disagio e disorganizzazione quando subiscono perdite o separazioni;
• Il loro funzionamento è organizzato intorno ai temi della relazione, degli affetti, della fiducia,
dell’intimità, del calore;
• Si sentono vuoti, incompleti, soli, deboli, senza aiuto anziché moralmente perfezionisti ed
eccessivamente autocritici;
• Spesso mostrano una disperazione esistenziale, il sentimento che la loro vita sia vuota e priva di
significato.
Depressione introiettiva
• Queste persone cercano dentro di sé la spiegazione delle loro esperienze dolorose;
• Quando sono maltrattati, rifiutati o abbandonati, tendono ad assumersi il torto. Può essere un
residuo della tendenza tipica dei bambini con famiglie difficili a:
– negare che i loro genitori li trascurano, sono abusanti o fragili, idee troppo spaventose;
– attribuire la sofferenza alla propria cattiveria, che possono provare a cambiare.
• Fanno di tutto per essere buoni, ma raramente si sentono soddisfatte;
• Sono preoccupati da problemi legati al senso del proprio valore invece che da problemi relazionali.
Altre manifestazioni riguardano un umore irritabile con lamentele somatiche, ritiro sociale (psiche e
soma, più uniti: conversione del sintomo da psichico a somatico).
DSM-IV
I Disturbi Depressivi vengono classificati tra i Disturbi dell’Umore insieme agli Episodi di alterazione
dell’umore e ai Disturbi Bipolari. I Disturbi Depressivi si scompongono poi in:
o Disturbo Depressivo Maggiore → Episodio di almeno 2 sett. con: umore depresso,
anedonia e almeno 4 sintomi di natura vegetativa/psicomotoria/cognitiva;
o Disturbo Distimico → Meno intensa ma più prolungata del DDM (almeno 1 anno per
bambini e adolescenti).
Questi si distinguono dai disturbi bipolari per l’assenza di episodi maniacali (umore elevato, irritabilità,
agitazione ecc.)
Annovera poi, in adolescenza e nell’infanzia, l’irritabilità come segnale di un umore disforico. Dunque
lamentele, irritabilità e ritiro sociale, ma anche iperattività, noia ed esibizionismo, possono essere sintomi
di depressione in quest’età. Un’ipotesi è che solo con le capacità cognitive acquisite in età adulta si affermi
quel sentimento di inutilità e mancanza di valore tipico della depressione “matura”.
DSM-5
• Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente (grave irritabilità che sfocia in gravi e
periodiche crisi di rabbia);
Il paziente depresso
• Quando c’è una sospetta depressione bisogna dare attenzione al non verbale;
• È importante chiedere rispetto ad episodi passati, proprio perché in molte occasioni non è il
primo episodio di depressione che il paziente incontra magari è il più forte. (di solito non è
l'unico episodio di depressione ma molto probabilmente ce ne sono stati altri, può aiutarci a
trovare soluzioni a livello eziologico).
Per far fronte a queste mancanze il bambino sviluppa un nucleo affettivo negativo di sé, caratterizzato
da rabbia e tristezza e stile difensivo in cui manca la fiducia nella propria capacità di segnalare i bisogni e
nel prossimo di fornire le cure.
Esperienze affettive poco responsive → MOI insicuri (non valgo, nessuno si cura di me) → impotenza,
disperazione
Eventi di vita
Anche degli eventi stressanti possono stare alla base. Sia eventi stressanti prossimali all’emergere dei
sintomi depressivi che eventi distali (come abusi, perdite e traumi) possono incrementare la vulnerabilità
individuale.
Vulnerabilità neurobiologica
Sistemi neuroendocrini → secrezione del cortisolo;
Sistemi neurochimici → serotonina, norepinefrina e acetilcolina.
Tuttavia altri autori sostengono l’importanza di differenziare questi disturbi, specialmente nel caso degli
adulti. È stato ipotizzato che può essere l’esposizione a determinati fattori ambientali a differenziare la
manifestazione di un costrutto piuttosto che dell’altro.
10.1 INTRODUZIONE
Nonostante le numerose ricerche in merito non si è ancora riuscito comprendere nella loro completezza
tutti i caratteri fondamentali di questo disturbo anche se, a partire dal DSM-IV la sua diagnosi è divenuta
maggiormente agevole. Definiamo il DSA come un disturbo caratterizzato dalla difficoltà nello sviluppo
sociale, nella comunicazione e nel gioco e da comportamenti e interessi ristretti.
È importante conoscere le differenze col DSM-5:
Tra il DSM-IV e 5 ci sono grosse differenze: le 4 declinazioni sono state sostituite dal concetto di spettro
per evitare difficoltà nella diagnosi. Ovviamente sullo sfondo c’è un avvicinamento all’ottica
dimensionale. Nel DSM-5 il DSA è contenuto tra i Disturbi del Neurosviluppo.
CD: 0-3
Il Disturbo Multistemico dello Sviluppo (DMSS) si sovrappone in parte al DSA pur essendo maggiormente
caratterizzato da un disturbo della regolazione. Nella nuova versione si è però affermata la categoria del
DSA almeno per i bambini più grandi.
Prevalenza
• 1% popolazione (+ casi vs. + accurata diagnosi?)
• 10 casi ogni 10000 bambini
• M:F = 4:1
I bambini possiedono una predisposizione precoce ad entrare in relazione con emozioni altrui e
condividere le proprie sin dalla nascita (2 m. risponde espressioni madre), collegata probabilmente a una
capacità imitativa. Beebe la definisce, riassumendo varie definizioni, come forme di intersoggettività.
Possiamo distinguere due caratterizzazioni:
• Funzionamento implicito (automatico; scambio emozionale, non verbale)→ ha una base
neurobiologica sia nel sistema limbico che nei neuroni-specchio;
Secondo Trevarthen si passa da un’intersoggettività innata a forme via via più complesse, in particolare
intorno ai 9-10 m, diventa cooperativa.
• I anno → atipie nel dialogo tonico, sguardo sfuggente, assenza di sorriso sociale, mancanza
atteggiamenti anticipatori, assenza di attenzione congiunta.
• II-VI anno → tendenza all’isolamento, “non risponde se chiamato”, non richiede partecipazione
dell’altro, utilizza l’altro in maniera strumentale, assenza di pointing, ecolalia.
Il rapporto con l’altro non è mai completamente assente, ma limitato a richiedere e non a condividere. È
dunque piuttosto difficile diagnosticarlo prima dei 2 anni.
Nei casi più importanti vi è una possibile assenza di linguaggio e compromissione cognitiva.
Le nuove prospettive hanno condotto a un superamento della dicotomia tra cognitivo e affettivo,
producendo modelli che sottolineano entrambi gli aspetti.
Modello unico?
Ma è dunque possibile riconoscere in tutti questi modelli un nucleo comune per l’autismo? Sono state
ipotizzate basate sulla presenza di anomalie nella connettività neurale.
Ci sarebbe un deficit connesso a un eccesso/insufficienza di connettività con relativa funzionalità
cerebrale anomala dei processi inibitori ed eccitatori.
Nello specifico le colonne di cellule neuronali sono più numerose, più piccole, meno compatte. Il risultato
è uno stato permanente di ipereccitazione a cui reagiscono con comportamenti anomali che servono a
ridurre tale eccitazione. L’ipereccitazione rende difficile discriminare i vari input sensoriali.
I pattern connessionistici sono geneticamente condizionati, ma influenzati dall’esperienza e si sviluppano
nei primi 12 m, per questo il primo anno è di difficile diagnosi.
Tutto ciò si tradurrebbe in un disturbo primario dell’intersoggettività che non consente ai primi
comportamenti sociali di evolvere verso comportamenti sociali più complessi, pertanto anche i primi
comportamenti sociali tendono a scomparire.
Relazione genitore-bambino
Importante ricordare come
COMPORTAMENTI E DSM-5
Il bambino con ASD
• Isolamento
• Mancanza di attenzione condivisa
• Evitamento/rifiuto dello sguardo
• Difficoltà di riconoscere emozioni e stati mentali altrui
• Linguaggio non adeguato all’età (Ritardo delle tappe)
• Non vi è tentativo di mimica
• Ecolalia immediata o differita
• Prosodia monotona
• Non vi è il gioco del far finta
• Mutismo
• Mancanza di risposte alle richieste altrui
• Difficoltà a condurre e iniziare una normale conversazione
• Anormalità nella comunicazione gestuale e mimica-stereotipie motorie
• Frequente inversione pronominale (parla di sé usando “tu”; e della persona alla quale si riferisce
usando “io”)
• Non capisce l’ironia e lo scherzo
• Reazioni di angoscia o collera in occasione di cambiamenti di ambiente, di imprevisti
• Reazioni di frustrazioni a tentativi dell’adulto di entrare in contatto
• Scelta di oggetti insoliti (sassi, fili etc.)
• Manierismi motori (torsioni delle dita, movimenti a trottola)
• Indifferenza ai richiami
• Ipo o iperattività motoria
• Interesse per stimoli sonori (es. aspirapolvere, acqua, ruote etc.)
• Comportamenti auto ed eteroaggressivi
• Buona capacità mnesica
• Alterazione del comportamento alimentare
• Disturbi del sonno (per esempio risvegli notturni)
Specificatori di gravità
Comorbilità
• Compromissione intellettiva;
• Disturbo struttura linguaggio (incapacità comprendere e costruire frasi grammaticalmente corrette);
• Disturbi ansia;
• Disturbi depressivi;
• DSA;
• Disturbo evitante/restrittivo di assunzione di cibo.
Influenze genetiche
• Shank3 → gene che interviene nell’organizzazione delle spine dendritiche dei neuroni per
connessioni (non in tutti ASD, 15%);
• Ereditarietà tra 37 e 90%.
Quando sopravviveva l’ipotesi della triade sintomatologica si era propensi a pensare che le varie aree
avessero una certa indipendenza nella compromissione.
Il fenotipo allargato
Si è notato nei genitori dei bambini autistici tratti inusuali che ricordano a loro volta l’autismo (difficoltà
nell’interazione sociale e nella comunicazione). Si è quindi avanzato l’ipotesi che un soggetto francamente
autistico non fosse che la manifestazione più chiara di un fenotipo allargato, riscontrabile in misura minore
nei parenti più vicini.
Influenze ambientali
• Madre frigorifero
• Età avanzata dei genitori
• Basso peso alla nascita
• Rosolia materna
• Convulsioni nei primi mesi di vita
• Esposizione del feto a valproato
Le relazioni positive rappresentano senza dubbio un fattore protettivo ma risulta senza dubbio difficile
entrare in una relazione affettiva per i genitori di questi bambini. Questi genitori tendono dunque a
disinvestire nella relazione coi bambini autistici, tant’è che si è pensato che alcuni dei sintomi tipici
dell’autismo fossero riconducibili a l pattern relazionale distaccato che si instaurava col caregiver.
DISTURBI COMPORTAMENTALI
Classificazione
Sono molto studiati in ambito evolutivo a causa della:
• Elevata frequenza;
• Gravità degli esiti a lungo termine;
• Difficoltà di trattamento.
Temperamento
Le differenze individuali, su base biologica, influiscono sulla reattività del sistema nervoso centrale e
nell’autoregolazione relativamente alle emozioni, all’attenzione e all’attività motoria (Rothbart e Bates,
1998)
o Predisposizione a reagire a eventi ambientali ed esperienze affettive in modo peculiare
(integrando anche le esperienze sensoriali);
o Influenzato da esperienze interattive precoci;
o Caratterizza la reattività individuale e influisce sullo sviluppo di modelli stabili di
comportamento.
Le funzioni esecutive servono anche nei compiti di problem solving e di comprensione delle persone. Il
controllo comportamentale ed emozionale, nonché la regolazione del comportamento, sono sviluppati a
partire dalla corteccia prefrontale.
I deficit della regolazione prefrontale sembrerebbero essere implicati nello sviluppo di disturbi
comportamentali, in particolare quelli associati con l’iperattività.
Modello di Barkley
I deficit primari nell’inibizione comportamentale porterebbero a una serie complessa di problemi
successivi. L’inibizione comportamentale si ha quando un bambino mantiene una risposta dominante;
questa inibizione permette l’attuazione di importanti funzioni esecutive come la memoria di lavoro,
l’internalizzazione del linguaggio e la regolazione dell’affetto e dell’arousal.
I deficit nel controllo inibitorio possono interferire con il controllo motorio, portando all’iperattività, ma
possono interferire anche con una risposta emozionale adeguata. Nei bambini con ADHD un deficit nel
controllo inibitorio potrebbe portare a rotture nei processi esecutivi di regolazione: questi potrebbero
mostrare una particolare reattività emozionale, sarebbero incapaci di anticipare eventi carichi
emotivamente e avrebbero problemi nel valutare l’impatto delle loro azioni sugli altri in situazioni
emotivamente significative.
Quindi secondo Berkley un funzionamento esecutivo carente sarebbe possibile fattore causale di:
1. ADHD
2. Disturbo oppositivo
3. Disturbo della condotta
Esperienza interpersonale
Lo sviluppo dei sistemi neurali e comportamentali alla base dei processi regolativi è in relazione con il
mondo interpersonale del bambino, soprattutto con le capacità di sintonizzazione affettiva dei genitori e
con la verbalizzazione degli affetti. Lo sviluppo neurale è plastico all’esperienza e questa sostiene lo
sviluppo cognitivo e linguistico. Se i processi reattivi sono atipici (es. affetti negativi forti), questo può
interferire con lo sviluppo delle funzioni esecutive e con il controllo volontario, che a sua volta indebolisce
le capacità di regolare gli affetti reattivi.
Le esperienze traumatiche possono predisporre l’individuo a disregolazioni attenzionali e
inibitorie anche in assenza di vulnerabilità temperamentali.
Linguaggio
Il controllo, nell’autoregolazione, è esercitato dal linguaggio. Questo media la socializzazione
dell’autocontrollo attraverso la verbalizzazione degli stati affettivi e di altre aspettative comportamentali
da parte dei genitori.
Dall’inizio del 2° anno di vita fino al 4° il linguaggio si sviluppa velocemente; uno sviluppo del carente può
ritardare la capacità di regolare il comportamento perché inibisce lo sviluppo del linguaggio interno che
rappresenta una strategia importante di autoregolazione. Per questo a un mancato sviluppo del
linguaggio si correla uno sviluppo antisociale.
Processi bidirezionali/transazionali
Lo sviluppo dell’autocontrollo è in relazione con i processi di socializzazione sia in maniera bidirezionale
che transazionale. Le capacità di controllo e regolazione modellano e sono modellate dal contesto:
predisposizioni temperamentali impulsive possono influenzare il caregiving in modo da aggravare la
situazione.
Nel caso dei bambini con ADHD, i fattori di rischio possono essere collegati ad attaccamento insicuro tra
bambino e caregiver, che provoca influenza negativa sull’attenzione e sul comportamento: i bambini
hanno comportamenti aggressivi, hanno problemi a regolare gli impulsi.
B. Comportamenti aggressivi mascherati (covert) → comprendono atti aggressivi fatti per evitare
di essere scoperti: aggressività prosociale, relazionale, ovvero condotte che mirano al
raggiungimento di un obiettivo o alla dominanza su un altro.
Questa concettualizzazione è ritenuta fondamentale per i critici in quanto permette di predire più
accuratamente quando un comportamento evolutivo, ad esempio aggressivo, sia solo tranistorio o possa
rivelarsi una spia di un esito antisociale, quando il bambino apprende modalità più nascoste di
espressione per non essere sanzionato.
Anche Nagin e Trembaly confermano che i comportamenti overt più gravi caratterizzano soprattutto la
prima infanzia, questi vengono sanzionati dagli adulti, ma il vambino impara ad assumere un’aggressività
proattiva (maggiormente predittiva di comportamenti delinquenziali).
DSM 5
- Richiede che siano presenti 6 sintomi di disattenzione per almeno 6 mesi.
- Richiede che siano presenti 5 sintomi se si ha più di 17 anni.
- Oppure → 6 sintomi di iperattività/impulsività per almeno sei mesi. 5 sintomi presenti se si ha più di
17 anni.
- Devono essere presenti in almeno 2 contesti sociali (casa, scuola, lavoro, con amici o parenti).
- Che compaiono prima dei 12 anni di età.
Sintomi di impulsività:
1. risponde prima che le domande siano completate;
2. ha difficoltà ad aspettare il proprio turno;
3. si intromette nelle attività dei compagni;
4. interrompe spesso il discorso.
Possibili precursori
Per quanto riguarda la variante iperattiva-impulsiva sono stati individuati, come fattori di rischio, difficoltà
temperamentali, scarsa consolabilità, sonno poco regolare, irritabilità e mancanza di autocontrollo.
Comorbilità
Elevata comorbilità con il DC, con il DOP e col comportamento antisociale in età successiva.
Fattori neurobiologici
Va comunque l’unione tra fattori biologici e ambientali. Barkley individua criticità nelle funzioni esecutive,
in particolare nel controllo inibitorio, almeno per quanto riguarda i disturbi del primo sottotipo.
I pattern di disattenzione, impulsività e iperattività sono più legati ad influenze causali genetiche
e psicobiologiche; invece quelli di aggressività e comportamenti antisociali associati alla genitorialità
disfunzionale e ad altri rischi psicosociali.
È come se chiedesse “Mi vuoi bene anche se ti dimostro che non valgo niente, anche se ti faccio vedere
che mi sono preso gioco di te? Mi vuoi bene anche se io stesso sono sicuro di essere un buono a nulla, e
sono certo che nessuno mi potrà mai amare”
PREVALENZA DOP
• 16% dei soggetti in età scolare
• varia da 1 a 11% (M=3,3% DSM-5) • M:F=1,4:1 (prima di adolescenza), M=F
• più o meno equamente distribuito nelle varie classi socio-economiche.
EZIOLOGIA DOP
• Cause incerte
• 2 filoni → aggressività dovuta:
- ad ambiente sociale/culturale;
- a fattori genetici/biologici.
DECORSO DOP
I dati statistici ci dicono che il 25% dei soggetti diagnosticati come affetti da DOP, dopo alcuni anni non
possono più essere qualificati come tali, in quanto non soddisfano più i criteri del DSM-5. Non è chiaro
quanti di questi soggetti erano stati erroneamente diagnosticati e quanti, invece, sono andati incontro ad
una guarigione. È, in ogni modo, provato che interventi terapeutici tempestivi e sostegno familiare, sono
fondamentali per una prognosi positiva.
EVOLUZIONE DOP
In molti casi, i soggetti con DOP che non beneficiano di nessun trattamento, hanno maggiori possibilità di
sviluppare DC e abusare di sostanze.
Criteri DSM
Questi disturbi non interessano solo la condotta e il comportamento ma anche la componente emotiva-
affettiva che è molto fragile e vulnerabile.
Ha molto a che fare con le emozioni.
A. Una modalità di comportamento ripetitiva e persistente in cui i diritti fondamentali degli altri o le
principali norme o regole sociali, in riferimento all’età, vengono violati.
1. Presenza di almeno 3 dei 15 criteri nei 12 mesi (continuativi);
2. Almeno un criterio negli ultimi 3 mesi.
FRODE O FURTO
10. Entra in edificio, domicilio o automobile degli altri;
11. Mente per ottenere vantaggi o favori o per evitare obblighi (“raggira gli altri”);
12. Ruba oggetti di valore senza affrontare la vittima (furto nei negozi ma senza scasso, falsificazioni).
C. Se il soggetto ha >18 anni e non sono soddisfatti i criteri per il disturbo antisociale di personalità
(che ha priorità).
Esordi
Esordio nell'infanzia → almeno 1 sintomo <10 anni.
Esordio nell'adolescenza → sintomo >10 anni.
Esordio NON specificato → i criteri per la diagnosi sono soddisfatti ma non ci sono sufficienti informazioni
disponibili per determinare se l'esordio è stato prima o dopo i 10 anni.
Specificare:
Con emozioni prosociali limitate:
- mancanza di rimorso e senso di colpa
- insensibile e mancanza di empatia
- disinteresse sulle performance (autostima)
- superficiale o carente negli affetti
Specificare la gravità:
- lieve
- moderato
- grave
PREVALENZA DC
• 2-10% (Media=4%; DSM-5). Coerente nei vari paesi;
• Presente prevalentemente nella popolazione maschile tra il 6 e il 16% dei soggetti. Alcune ricerche
mostrano che caratteristiche molto simili nelle femmine vengono “dirottate” su diagnosi borderline
(covert) e non antisociali (overt).
• Aumento di prevalenza da infanzia a adolescenza (pochi bambini ricevono il trattamento).
SVILUPPO DC
Elementari:
• prime esperienze di rifiuto sociale
• affiliazione a gruppi antisociali
• fallimento scolastico
• demotivazione allo studio
Medie:
• possono stabilizzarsi i comportamenti aggressivi aperti e aumentare i comportamenti aggressivi
coperti (covert)
• atti vandalici
• assenze frequenti a scuola
• innesco di incendi
• uso e abuso di sostanze
Adolescenza:
• cristallizzazione
• atti criminosi
• violenze
• uso di armi
• partecipazione a bande devianti
• anticipo relazioni sessuali e gravidanze indesiderate
• abuso di droga e di alcool
FATTORI DI RISCHIO DC
Ovviamente è sempre un intersecarsi di vari fattori di rischio biologici:
• Lobi frontali: sistema di attivazione del comportamento più attivo della norma e sistema di inibizione
del comportamento meno attivo della norma;
• Funzioni esecutive: scarsa capacità di controllo e regolazione delle azioni;
• Basso livello di serotonina e alto livello di testosterone.
Familiari:
• depressione materna associata a comportamenti coercitivi;
• Ridotte interazioni positive (calore affetto);
• Abuso di sostanze e comportamenti antisociali nei genitori (soprattutto padre);
• genitori che si percepiscono incapaci di regolare il comportamento dei figli;
• genitori distratti verso i figli o troppo rigidamente severi;
• genitori oscillanti in modo incoerente, imprevedibile e caotico tra affetto senza freni e indifferenza
glaciale.
Attaccamento:
• insicuro ambivalente resistente;
• disorganizzato.
Ambientali:
• svantaggio socioeconomico;
• modelli aggressivi adulti, il bambino è cresciuto in un ambiente aggressivo.
DC IN ADOLESCENZA SE…
È stato condotto uno studio su questo disturbo, ovvero sulla connessione tra questo disturbo e
caratteristiche presenti nell'arco di vita:
19689 bambini nati a termine ma con peso e indice di Apgar inferiore a quanto atteso:
• Anormalità neurologiche 1 anno;
• problemi linguistici 3 anni;
• problemi funzionamento cognitivo 4 anni;
• scarse performance scolastiche 7 anni.
→ concomitanza di fattori
Spesso l'intervento su questi disturbi è molto completo, perché di fatto nel disturbo oppositivo
provocatorio il soggetto vede il terapeuta come un'autorità e quindi come un rivale. I soggetti con
disturbo di comportamento possono contare raramente su quello che è il supporto che la famiglia può
dare, molto spesso arrivano allo psicologo tramite assistenza sociale, magari dopo i crimini che hanno
commesso.
Funzionamento del SNC → Una serie di fattori pre e perinatali possono compromettere il funzionamento
neurobiologico e rappresentare dei fattori di rischio per successivi problemi attentivi e comportamentali:
esposizione a neurotossici (piombo), infezioni, esposizione a farmaci, alcol e droghe durante la gravidanza,
basso peso alla nascita e prematurità, ma anche stress materno durante la gravidanza. Tutti questi fattori
possono compromettere il funzionamento del tronco encefalico e influire sulla regolazione del
comportamento e delle emozioni.
Socializzazione → controllo attenzionale e regolazione degli impulsi influenzano ma sono anche
influenzate dalla socializzazione.
Genitorialità → uno stile educativo coercitivo rinforza il comportamento aggressivo del bambino.
Attaccamento → un attaccamento insicuro o disorganizzato, che a sua volta può derivare da una
mancanza di sintonizzazione della madre col temperamento del bambino, produce risposte negative e
aggressive associati a problemi comportamentali
Fattori di rischio per i disturbi della condotta, l’aggressività, la delinquenza e i comportamenti antisociali
dell’adolescenza, divisi per livelli:
1. A livello individuale → caratteristiche atipiche nel funzionamento cognitivo, nel temperamento,
nella regolazione o nei profili neurobiologici; l’impulsività, l’iperattività, basso quoziente
intellettivo, scarso rendimento scolastico, problemi di attenzione;
2. A livello della genitorialità → stile di parenting inadeguato, scarsa supervisione genitoriale, uso
duro e punitivo della disciplina;
4. A livello sociale-contestuale → l’influenza dei pari, a scuola e nella comunità, la qualità delle
relazioni e dei processi di socializzazione, aggressività, impulsività.
Continuità
Pur presentandosi sia elementi di continuità omotipica che eterotipica, solo pochi sono interessanti da
un pattern persistente di comportamento antisociale che inizia prima dei 10 anni per continuare fino in
età adulta. Questo avviene soprattutto per i maschi laddove nelle ragazze si osserva una svolta
maggiormente depressiva.
Per quanto riguarda l’esordio in adolescenza, si tratta spesso di disturbi passeggeri riconducibili a
dinamiche tra pari, solitamente hanno meno possibilità di avere un disturbo persistente
Personalità
Per personalità intendiamo un insieme di più elementi (caratteristiche di pensiero, comportamento,
sentimento del soggetto) che caratterizzano adattamento e stile di vita nella sua unicità e che però non
vanno considerati singolarmente come sinonimi di questa (come il temperamento).
Fattori temperamentali, dello sviluppo e dell’esperienza concorrono a formarla.
Ci sono comunque molti quesiti intorno a questo concetto.
Quando si forma la personalità?
È importante capirlo perché la personalità rappresenta un tratto costante che funziona da base per tutti
i cambiamenti successivi “di contorno”. Stabilire quando essa si forma ci permette inoltre di capire quando
può esserne diagnosticato un disturbo.
B. Il pattern abituale risulta inflessibile e pervasivo in un’ampia varietà di situazioni personali e sociali.
D. Il pattern è stabile e di lunga durata, l’esordio può essere fatto risalire almeno all’adolescenza o alla prima età
adulta.
E. Il pattern abituale non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza (es. una sostanza in abuso, un
farmaco) o di un’altra condizione medica (es. trauma cranico).
Altre caratteristiche
Alcuni non parlano di disturbo ma di personalità con funzionamento poco adattivo/flessibile in quanto
non c’è un momento precedente alla formazione dell’identità in cui il disturbo si innesta. Dunque tutta la
vita del soggetto ruota attorno a un’organizzazione stereotipata e relativamente rigida,
indipendentemente dalla situazione in cui si trova. Si osservano difficoltà sia dal punto lavorativo che
relazionale, impedisce di rispondere in maniera adeguata agli eventi stressanti o inaspettati.
Disturbo egosintonico → il soggetto non ne riconosce la disfunzionalità, così che diventa la sua organizzazione
costante di funzionamento; la persona non riconosce i sintomi come parte di un disturbo ma semplicemente come
uno stato di esistenza. Sovente, i pazienti si riferiscono a se stessi affermando “sono fatto così, non posso farci
niente”.
Disturbo egodistonico → una persona è consapevole di un proprio disturbo o malattia mentale; i sintomi la
obbligano a ricorrere a cure (es. fobia sociale: Sono una persona socievole e mi piace conoscere gente, ma ora ne
ho paura e non riesco più a farlo. Io non voglio essere così)
Rilevante che si tratti di disturbi egosintonici, ovvero in cui il soggetto non riconosce la propria
disfunzionalità. Fanno sì dunque che il paziente si convinca molto più difficilmente a intraprendere e
rimanere costante nella terapia, poiché non comprende che esista una possibile via d’uscita.
Cluster di personalità
Possiamo suddividere i disturbi della personalità in 3 cluster distinti in base alla presenza di caratteristiche
descrittive simili (non implica un’analogia eziologica).
Aspetti problematici
Per gli aspetti problematici della categorialità vedi anche Migone
Elevata comorbilità → scarso potere discriminante della diagnosi categoriale, fatta per esclusione.
– presenza di un certo numero di caratteristiche (es. da 5 in su), ma non distingue il grado di
intensità di una caratteristica e del disturbo;
– racchiude sotto la stessa etichetta (es. disturbo borderline) persone che hanno manifestazioni
sintomatiche totalmente differenti.
(Stern, 1938)
Questi pazienti mostravano un’apparente sanità, con buon esame di realtà, Io sufficientemente integrato
che possono tuttavia andare in pezzi in situazioni non strutturate. Inoltre c’era presenza di aggressività e
difese primitive.
(Knight, 1953)
Secondo altri autori si osserva un’alterazione del funzionamento dell’Io, incapacità di programmare
realisticamente e di difendersi da impulsi primitivi.
(Grinker, 1968)
Sono stati individuati 4 sottogruppi di borderline che si collocano in un continuum:
I. Versante psicotico;
II. Affetti negativi e difficoltà a mantenere relazioni interpersonali;
III. Perdita generalizzata di identità;
IV. Versante nevrotico
Questo contributo ha permesso inoltre di distinguerli dai pazienti schizofrenici (infatti non sviluppavano
questo disturbo), caratterizzandoli invece come stabilmente instabili.
(Zanarini, 1990)
Gunderson ha poi rilevato altre caratteristiche peculiari:
Relazioni intime → si consumano nel tentativo di stabilire relazioni diadiche dove sentirsi protetti
dall’abbandono, possono esprimere questo bisogno con un’arroganza travolgente. Tuttavia quando
raggiungono questa relazione si attiva una duplice ansia: essere fagocitati e perdere l’altro.
Altri comportamenti:
– Pensiero quasi psicotico
– Automutilazioni
– Manipolatori tentativi di suicidio
– Esigere/avere diritto
– Regressioni terapeutiche
– Difficoltà controtransferali
Organizzazione BdP
Tra i sintomi invece: ansia elevata, O-C, fobie, reazioni dissociative, paure ipocondriache, spunti paranoidi,
promiscuità, abuso di sostanze.
Viene inserito nel DSM e studiato con costanza solo negli anni ’90, quando ci si rende conto che c’è una
zona di confine tra funzionamenti nevrotico e psicotico. Parliamo, ad esempio, di individui a
funzionamento nevrotico ma che, in determinate circostanze particolarmente attivanti, slittano verso un
funzionamento psicotico.
Dsm-5
Questa diagnosi manca in generale di validità discriminante, perché un paziente può ricevere diverse
diagnosi di disturbo aggiuntive. Ecco i criteri:
A. Forte instabilità nelle relazioni, nell’immagine di sé e nell’umore e una marcata impulsività.
B. Caratteristiche pervasive, compaiono nella tarda adolescenza, prima età adulta e si manifestano
in diversi contesti, come indicato da 5 dei seguenti elementi:
1. Sforzi disperati per evitare un reale o immaginario abbandono (nonincludere
comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel criterio 5);
2. Un pattern di relazioni instabili e intense, caratterizzato dagli estremi di iperidealizzazione
e svalutazione;
3. Alterazione dell’identità: immagine di sé o percezione di sé marcatamente e
persistentemente instabili;
4. Impulsività in almeno 2 aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (spendere
in maniera sconsiderata, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate; non vanno
inclusi i comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel criterio 5);
5. Ricorrenti comportamenti, minacce o gesti suicidari, o comportamento automutilante (es.
tagliarsi, ferirsi, provocarsi bruciature);
6. Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (es. episodica intensa
disforia, irritabilità o ansia, che di solito durano poche ore o, soltanto raramente, più di
pochi giorni);
7. Sentimenti cronici di vuoto;
8. Rabbia inappropriata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (es. frequenti eccessi
d’ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici;
9. Ideazione paranoide transitoria, associata allo stress, o gravi sintomi dissociativi.
Decorso
Gli esiti si rivelano favorevoli in molti casi (85%), seppur solo per quanto riguarda la remissione dei sintomi
acuti (non disturbo in toto!) più rilevanti (impulsività, disregolazione emotiva, comportamenti suicidari).
Spesso dunque non soddisfano criteri DBP ma continuano ad avere problemi che richiedono trattamento.
• Prima età adulta → quadro molto instabile, con crisi emotive frequenti, impulsività ed elevato
rischio di suicidio, accesso ripetuto ai Servizi di salute mentale.
• Quarta e quinta decade → le relazioni e l’assetto lavorativo tendono a diventare più stabili e anche
il rischio suicidario sembra ridursi notevolmente.
Gli aspetti di labilità umorale e di impulsività sembrano rimanere costanti sebbene possano subire
notevoli modificazioni se trattati in terapia.
In situazioni di crisi o forte stress compaiono condotte autolesive o automutilanti (tagli, graffi,
bruciature), che sembrano dare sollievo all’individuo, garantendogli tramite il dolore la certezza di
esistere. Questi atti possono associarsi ad esperienze dissociative.
L’instabilità è presente anche a livello dell’umore: i pazienti possono oscillare da stati di benessere a stati
di acuta ansia, irritabilità e tristezza, che durano da qualche ora a qualche giorno, sotto forma di
svogliatezza, stanchezza, sconforto o irrequietezza, fino a vere e proprie crisi di pianto e panico.
Disfunzioni sociali
• Non è difficile che questi soggetti boicottino sé stessi o i piani terapeutici, spesso nel momento
stesso in cui l’obbiettivo appare vicino, come ad esempio lasciare la scuola a poca distanza dal
diploma o smettere di recarsi in seduta dopo aver riconosciuto l’importanza della terapia.
• Non è facile che riescano a tenere un posto di lavoro. Questo non dipende tanto dalle mancate
capacità, quanto piuttosto dai comportamenti rabbiosi, impulsivi che mettono in atto.
• Non è inusuale che intraprendano liti per futili motivi con i colleghi, cambino molte mansioni, non si
presentino in orario.
Sentimento di catastrofe
Il paziente borderline, a livello comportamentale e relazionale, sembra caratterizzato da un tema
specifico: vivere sull’orlo della catastrofe. Nell’impossibilità di regolarsi, di trovare un equilibrio, oscilla
sempre sulla corda. Molte condotte autolesionistiche e relazioni interpersonali caotiche e tumultuose
appaiono espressione di questo gioco funambolico al quale è costretto.
CARATTERI SALIENTI
INSTABILITÀ EMOTIVA → chi soffre di disturbo borderline di personalità subisce marcati e improvvisi
cambiamenti di umore (disforia). Ad esempio ci possono essere rapide oscillazioni tra la serenità e la
tristezza, piuttosto che tra l’intensa rabbia e il senso di colpa. Oppure possono essere simultaneamente
presenti emozioni contraddittorie che creano un vissuto di disagio e confusione tanto nel soggetto che
ne fa esperienza quanto nelle persone che gli sono accanto.
Tipicamente è presente una certa vulnerabilità e disregolazione emotiva, per cui le risposte emotive ad
eventi spiacevoli sono più intense e durature rispetto alla norma, e più difficili da modulare e controllare.
Questo “caos emotivo” è spesso causato da eventi relazionali vissuti come intensamente spiacevoli, ad
esempio una critica, un rifiuto o anche una semplice disattenzione da parte degli altri.
In particolare è presente una certa difficoltà a controllare la rabbia, che può esplodere intensa e
apparentemente immotivata.
MARCATA IMPULSIVITÀ → ai picchi di emozioni negative spesso fanno seguito azioni impulsive e non
meditate come violenti litigi, abuso di sostanze, esplosioni di rabbia, abbuffate di cibo, gioco d’azzardo,
promiscuità sessuale, spese sconsiderate. A volte possono anche verificarsi degli atti autolesivi come
procurarsi dei tagli sul corpo o ingerire dosi eccessive di psicofarmaci, o dei tentativi di suicidio.
INCOERENZA DEL PENSIERO → tipicamente queste persone manifestano una difficoltà a riflettere sulle
proprie esperienze e i propri stati d’animo in modo coerente e lineare, tanto che i loro discorsi appaiono
spesso privi di un filo conduttore evidente e pieni di contraddizioni.
STATO DI VUOTO → possono a volte verificarsi degli stati di vuoto caratterizzati da una penosa mancanza
di scopi. In questi stati è frequente la tendenza ad agire in modo impulsivo con abbuffate di cibo, abuso
di sostanze stupefacenti e atti autolesivi fino al tentativo di suicidio.
COMORBILITÀ
➢ Disturbi bipolari;
➢ Disturbo depressivo maggiore;
➢ Altri disturbi di personalità, in particolare quelli del cluster B con cui condivide alcune
caratteristiche preminenti;
➢ Disturbi correlati a sostanze;
➢ Disturbi di comportamento alimentare (spesso bulimia nervosa, ma anche l’anoressia);
➢ Disturbi d’ansia;
➢ PTSD;
➢ Disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività.
1) FATTORI FAMILIARI
- Figura materna (trascuratezza vs ipercoinvolgimento)
I primi studi si sono focalizzati sul ruolo della madre nella genesi del disturbo ipotizzando inizialmente un
suo ipercoinvolgimento con conseguente problema nel gestire ansie da separazione e da abbandono.
Altri hanno messo più enfasi sul modello deficit-insufficienza, per cui sarebbe una maternità incoerente
e inaffidabile a generare quel sentimento di sfiducia nel borderline.
In generale la prima ipotesi è stata ampiamente disconosciuta perché:
a) In genere i borderline descrivono come distaccato-conflittuale il rapporto con la madre;
b) La mancanza della figura paterna sembra essere un aspetto maggiormente discriminante;
c) Relazioni problematiche con entrambi i genitori sono le più frequenti.
Dunque sarebbe la trascuratezza rappresentare un modello teorico più verosimile.
- Attaccamento insicuro
Agli attaccamenti insicuri è spesso collegata una scarsa capacità di mentalizzazione. Questi trovano
difficoltà ad assumere che le prospettive proprie e altrui sono solo prospettive possibili della realtà.
Devono inoltre fare una fatica maggiore a interpretare i significati delle emozioni altrui.
2) FATTORI PERSONALI
- Basse capacità di mentalizzazione
L’incapacità di risolvere i traumi è legata al rifiuto di comprendere gli stati mentali del caregiver, di
conseguenza l’esperienza negativa non veniva risolta. Un’ipotesi avanzata è che questi pazienti siano
rimasti alla fase dell’equivalenza psichica per cui non c’è distinzione tra le cose per come vengono
percepite e come realmente sono (manca la modalità immaginativa).
- Sé alieno
Un caregiver spaventato/spaventante viene interiorizzato nella struttura del Sé come rappresentazione
aliena. Crescendo il bambino esteriorizza questa rappresentazione proiettando sugli altri questa
rappresentazione del caregiver abusante.
Amigdala
In questi pazienti è osservabile un’eccessiva attivazione in relazione a stimoli emotivi. A questo può essere
associato il fatto che questi pazienti sono soliti a sovrainterpretare caratteri espressivi come possono
essere quelli dei volti. Si è dunque ipotizzato che i borderline abbiano sviluppato, in un funzione adattiva-
protettiva, una capacità maggiore capacità percettiva (una sorta di ipersensibilità) dei particolari emotivi
altrui ma commettano errori importanti in fase di interpretazione, infatti possono attribuire stati
emozionali negativi a espressioni tendenzialmente neutre, per questo reagiscono in modi esagerati a
segni emozionali minimi.
Riduzioni volumetriche
Il volume ridotto potrebbe essere riconducibile alle zone frontali e orbitofrontali con conseguente
indebolimento dei circuiti di controllo inibitori. Per cui la forte reazione emotiva dell’amigdala non è
controbilanciata dalla funzione inibitoria della corteccia.
Una riduzione dell’ippocampo è invece associata a una difficoltà a confrontare realisticamente esperienze
presenti con quelle passate.
Questa incapacità inibitoria potrebbe essere associata anche alle emozioni negative generate da situazioni
di separazione/abbandono.
Scissione
Un’altra anomalia è riscontrata nella diversa intensità di attivazione degli emisferi a seconda che si
richiamassero ricordi neutri o negativi. Questa assenza di integrazione potrebbe essere alla base della
scissione come meccanismo di difesa.
Mentalizzazione e fiducia
La tendenza a non fidarsi degli altri da parte del borderline può essere collegata a un difetto nella loro
teoria della mente (problemi all’insula) che non gli permette di rappresentarsi desideri e intenzioni altrui.
Deficit neurocognitivi
Un numero significativo di pazienti mostra sintomi di sofferenza neurologica (ADHD, problemi di
apprendimento, scarso controllo degli impulsi e DC)
3 FATTORI PRINCIPALI
1) AMBIENTE FAMILIARE
2) TEMPERAMENTO
3) EVENTI TRAUMATICI SCATENANTI
NUCLEO DPB
• Clarking et al. (nel 1993), tre fattori come nucleo:
➢ L’ambito del Sé caratterizzato da vissuti emozionali di vuoto o noia, problemi di identità, paura di
abbandono, relazioni instabili;
➢ L’ambito dell’impulsività caratterizzato da una forte spinta all’azione, alla scarica motoria, anche
come modo per ridurre la tensione emozionale.
Bisogna ricordare che i sintomi di questi soggetti si riversano anche nella relazione col terapeuta (difficoltà
controtransferali).
Cultura narcisistica
A queste problematiche si somma il fatto che quella dei media è una cultura narcisistica, fondata
sull’apparire, dunque non appare chiarissimo fino a quanto un certo narcisismo rappresenti una sorta di
adattamento culturale all’ambiente e quando invece diventi eccessivo.
Come individuarlo?
La storia lavorativo di un individuo può rappresentare un ostacolo per l’individuazione del disturbo poiché
non è raro che questi soggetti risultino avere un gran successo in quest’ambito, anche se non è da
escludere che questi obiettivi vengano ricercati per motivi problematici, non come felici conseguenze di
una competenza acquisita, ma come unici bersagli.
Al contrario, è nelle relazioni sentimentali che è più facile individuare la disfunzionalità. Questi soggetti
risultano quasi incapaci di amare: l’altro non viene concepito come una persona detentrice di un’esistenza
separata ed esigenze specifiche, ma è semplicemente un oggetto da usare e abbandonare all’occorrenza
(quando inizia ad esprimere i suoi bisogni).
Epidemiologia
• 0-6.2% (APA, 2013) → difficile stima reale, molti non arrivano dal clinico
• 50-75% M
Comorbilità
• Disturbi depressivi
• Umore ipomaniacale
• Ansia in particolari periodi di stress (arrivano dal clinico)
• Anoressia nervosa
• Abuso di sostanze
• Gruppo B
• Disturbo paranoide
Classificazione DSM-5
Pattern pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e
mancanza di empatia, che ha inizio entro la prima età adulta ed è presente in più contesti, come indicato
da 5 (o più) dei seguenti elementi:
1. Senso grandioso di importanza (es. esagera talenti e risultati, si aspetta di essere
considerato superiore senza un’adeguata motivazione);
2. È assorbito da fantasie di successo, potere, fascino, bellezza illimitati, o di amore ideale;
3. Crede di essere speciale e unico e di poter essere capito o dover frequentare solo persone
speciali o di classe elevata;
4. Richiede eccessiva ammirazione;
5. Si aspetta irragionevolmente favori o trattamenti speciali o soddisfazione immediata delle
proprie aspettative;
6. Sfrutta i rapporti interpersonali (si approfitta degli altri per i propri scopi);
7. Manca di empatia (non sa riconoscere o identificarsi con sentimenti e necessità di altri);
8. Spesso invidioso o crede che gli altri lo invidino;
9. Atteggiamenti o comportamenti arroganti, presuntuosi.
2 pattern in un continuum
La letteratura psicoanalitica ci presenta invece il disturbo in un continuum tra 2 estremi di stile di
interazione prevalente:
1. Individuo invidioso e avido che richiede attenzione e consenso dagli altri che classifichiamo come
narcisista inconsapevole (meglio descritto da Kernberg);
2. Individuo vulnerabile e tendente alla frammentazione del sé che classifichiamo come narcisista
ipervigile (meglio descritto da Kohut).
Inconsapevole
• Inconsapevoli del loro impatto sugli altri;
• Parlano sempre come se si stessero rivolgendo ad un «grande pubblico», senza stabilire un contatto
visivo;
• Hanno bisogno di stare al centro dell’attenzione, per questo fanno molti riferimenti ai loro successi;
• Insensibili ai bisogni altrui;
• Spesso noiosi senza accorgersene;
• Non lasciano spazio agli altri nell’interazione.
Ipervigile
• Molto sensibili a come gli altri reagiscono;
• Timidi e inibiti;
• Evitano di mettersi in luce per paura di essere rifiutati/umiliati (profondo senso di vergogna dovuta
al desiderio di esibirsi in modo grandioso);
• Direzione rivolta verso gli altri;
• Ascoltano attentamente gli altri (tratti paranoidi), si sentono spesso offesi;
• Frequente autovalutazione attraverso cui mette in luce la propria imperfezione;
• Frequente sentimento di umiliazione quando messi davanti ai propri limiti;
• Fortemente preoccupati dalla propria immagine che cercano di preservare attraverso la protezione.
Entrambe le tipologie lottano per mantenere la propria stima di sé solo che il primo lo fa esibendosi e, se
criticato, elude tali risposte, il secondo, proprio per paura delle risposte negative che proietta
anticipatamente sugli altri, evita di esibirsi.
Analisi di Wink
Identificando due fattori ortogonali (vulnerabilità-sensibilità e grandiosità-esibizionismo) ha confermato
sperimentalmente l’esistenza di questi due pattern definendoli come narcisismi manifesto e celato.
In questi studi risultava centrale l’affetto della vergogna che distingueva il celato dal manifesto.
Felicità
Non è raro che il narcisista inconsapevole si dichiari effettivamente felice, ma non è da escludere che
questo sentimento sia riconducibile a una sorta di autoinganno attraverso il quale rappresenta se stesso
come superiore a tutti gli altri, consolidando in questo modo il suo senso di adattamento. Al contrario i
narcisisti mascherati si professano profondamente infelici in quanto schiacciati dal loro senso di
inferiorità.
Kohut Kernberg
Confronto
Kernberg considerava quella narcisistica come una delle personalità che operano come organizzazione
borderline. Ciò che li differenzia è che i narcisisti fonderebbero sul proprio Sé grandioso, seppur
patologico, le proprie rappresentazioni di sé, che dunque non appaiono così alterne come quelle dei
borderline rispetto ai quali hanno un funzionamento più regolare e uniforme (ciò non toglie che alcuni
narcisisti funzionino ad un livello francamente borderline).
Genere
Da successivi studi emersi sulla caratterizzazione di genere sul disturbo narcisistico è emerso che esistono
modalità di esserne affetti sia maschili che femminili che riflettono gli stereotipi di genere.
Metafora del bozzolo di Modell → il narcisista nasconde con un bozzolo di illusioni di grandiosità, avviate
forse da una madre eccessivamente lodante, la paura di relazionarsi.
Attaccamento
Il narcisista soffre di un deficit di mentalizzazione, non riesce a entrare in sintonia e comprendere le altre
persone e l’impatto che ha sugli altri:
• Inconsapevole → esperienze traumatiche di vergogna e umiliazione conducono a una perdita di
curiosità nei confronti delle risposte interne delle altre persone per evitare possibili sentimenti di
vergogna;
• Ipervigile → cerca di controllare queste esperienze anticipandole. Le sue lacune nella mentalizzazione
lo portano a ulteriori esperienze di umiliazione (gli altri si sentono compresi e attaccati quando i loro
comportamenti non vengono interpretati correttamente);
Eziopatogenesi
Ruolo negativo dei genitori:
– incapaci di empatia → psicologia del sé;
– freddi e severi → Kernberg;
– eccessivamente indulgenti → cultura popolare.
Nei matrimoni ci sono specifici pattern di difficoltà coniugali. Inizialmente i coniugi possono intraprendere
una terapia di coppia per problemi sessuali, depressione o comportamenti impulsivi. Spesso c’è la paura
di essere umiliati dal partner (paura della frammentazione del Sé) → es. un marito narcisista può accusare
la moglie di volerlo umiliare, invece di ammettere di avere problemi dovuti al fatto di essere
eccessivamente vulnerabile e bisognoso di attenzioni. Alla fine il marito può arrivare a uno stato di rabbia
cronica in cui si sviluppa un risentimento e un’amarezza insanabili nei confronti della moglie, che non può
fare nulla per rimediare.
Di solito i narcisisti patologici hanno paura di invecchiare, per questo non lo fanno bene. Per provare di
avere ancora vigore possono dedicarsi a relazioni extraconiugali con ragazze più giovani, o intraprendere
sforzi fisici non adatti all’età. Sono comuni anche le conversioni religiose, attraverso le quali il narcisista
evita la depressione tramite una figura maniacale all’ombra di un oggetto idealizzato (Dio).
Molto del piacere provato dai narcisisti di mezza età deriva da soddisfazioni legate a successi di persone
più giovani, come i figli. I pazienti però non possono godere a lungo di questa fonte di piacere a causa
della loro invidia.
Eventi positivi
Alcuni pazienti narcisisti possono rispondere bene a certi eventi della vita, migliorando:
1. Successi correttivi → conquista di una migliore accettazione di un concetto di sé + realistico;
diminuzione delle fantasie grandiose;
2. Relazione correttiva;
3. Disillusione correttiva → conquista di un’autovalutazione + realistica.