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L’OMERO LATINO: VIRGILIO

1) Una vita consacrata alla poesia: il destino di Virgilio è stato quello di rappresentare l’epoca più splendida della cultura
romana, l’età di Augusto, di cui egli seppe esprimere alcuni dei valori più significativi. Virgilio fu amico di Augusto e del suo
più stretto collaboratore, Mecenate, ma non per questo fu un poeta di corte al servizio del potere. Accettò di celebrare i
valori in cui egli stesso credeva e che rientravano nel progetto di rifondazione della società romana perseguito
dall’imperatore. Virgilio cantò i valori della civiltà contadina italica, che costituivano le radici più arcaiche della Romanitas,
rivissute però con consapevolezza è una sensibilità del tutto nuove. Il turbinoso mondo cosmopolita della capitale era
estraneo Virgilio: nessun suo verso parla della Roma a lui contemporanea, in cui si decidevano i destini del mondo.

Publio Virgilio Marone nacque il 15 ottobre 70 a.C. ad Andes, un villaggio presso Mantova. Suo padre era un piccolo
proprietario terriero, più agricoltore che possidente. Elio Donato (un grammatico) racconta invece che il padre era un vasaio
oppure un bracciante, il quale sposò Magia Polla, figlia di un banditore comunale chiamato Magius, relativamente
benestante, che poi miglioro ancora la sua condizione dedicandosi all’ape cultura. Il poeta ebbe anche due fratelli, che
morirono prima di lui, e un fratellastro.

Il padre, al quale Virgilio era molto affezionato, lo fece studiare a Cremona; qui, secondo i biografi antichi, prese la toga virile
proprio nel giorno in cui Lucrezio morì, nel 55 a.C. Da Cremona si trasferì a perfezionare gli studi a Milano, quindi si recò a
Roma, dove tutti i provinciali di ingegno prima o poi necessariamente sbarcavano. Nella capitale segui le lezioni del famoso
maestro di retorica Epidio e del poeta greco Partenio di Nicea, Che fu uno dei tramiti fra la poesia alessandrina e l’ambiente
dei neoteroi. In quegli anni Virgilio strinse amicizia con vari esponenti dell’aristocrazia, che in seguito lo aiutarono: in
particolare con il poeta e politico Asinio Pollione, con i neoteroi Elvio Cinna e Cornelio Gallio e forse già con lo stesso
Ottaviano, il futuro Augusto.

Virgilio debuttò a Roma dedicandosi come tanti alla carriera forense, ma l’abbandonò presto per dedicarsi alla poesia, per
la quale sentiva una forte inclinazione e per cui era scosso da un amore possente, come scriverà nelle Georgiche. La sua
non era la tempra di un uomo d’azione. Virgilio fu una personalità sensibile, schiva, introversa, proiettata verso l’otium
letterario. Forse proprio in virtù della sua indole riservata si avvicinò all’epicureismo, la filosofia ai tempi più diffusa
nell’aristocrazia a Roma, che predicava il vivi nascostamente, ossia una vita appartata, lontano dalle preoccupazioni e dalle
passioni della politica. Lesse il “De rerum natura” di Lucrezio e ne fu affascinato; frequentò la scuola epicurea che aveva
sede a Napoli, dove insegnavano i filosofi greci Sirone e Filodemo e presso la quale si riunivano allievi illustri, tra cui Orazio,
che divenne un suo grande amico. Napoli rimase poi sempre la città preferita da Virgilio.

Quando Cesare fu assassinato, nel 44 a.C., Virgilio era già un uomo adulto. Si tende fuori dagli anni convulsi che seguirono,
ma i rivolgimenti storici coinvolsero inevitabilmente anche lui.al termine della guerra triumviri e i cesaricidi, nel 41 a.C., una
parte delle terre dell’Italia settentrionale fu espropriata ai legittimi proprietari e assegnata ai veterani di Ottaviano; anche i
campi di Virgilio furono toccati dalla distribuzione. Forse allude proprio a quell’episodio un celebre passo delle Bucoliche in
cui il poeta fa dire a uno dei personaggi: “un empio soldato avrà questi campi tanto ben coltivati, un barbaro queste messi”.
Grazie alle sue amicizie, Virgilio poté recuperare i terreni confiscati; in un secondo momento, però, gli furono nuovamente
sottratti, sicché il poeta dovette emigrare a Roma. Quando si trasferì a Roma Virgilio non era un profugo in cerca di fortuna,
ma un poeta che stava raggiungendo la piena maturazione artistica; in quegli anni aveva infatti già composto almeno 10
componimenti. La sua prima grande opera, le Bucoliche, apparve nel 39 a.C. quando il poeta aveva già quasi trent’anni. Si
trattava di una raccolta, dedicata ad Asinio Pollione, di 10 poesie pastorali che Virgilio aveva composto negli anni
precedenti, tra il 42 e il 39 a.C.

Le Bucoliche lo resero famoso; entro allora in contatto con Mecenate, il potentissimo consigliere di Augusto, al quale in
seguito Virgilio impersona presentò l’amico Orazio, conosciuto negli ambienti epicurei. Fu mecenate a dare alla carriera di
Virgilio l’impulso decisivo, mettendo in diretto contatto con il princeps. Virgilio non era solo un raffinato poeta che scriveva
per un pubblico colto di lettori, era anche un ottimo performer delle sue opere. Il biografo Donato racconta che leggeva
pubblicamente i suoi versi con una voce tanto dolce e bella che l’uditorio ne rimaneva stregato; forse anche per questo, il
successo a corte fu immediato.

L’attività poetica rese ricco Virgilio, specialmente grazie ai donativi di mecenate, Augusto e altri aristocratici, al punto che
arrivo a possedere una casa Roma, una villa Napoli e 10 milioni di sesterzi. Ma era un uomo parco, timido, pubblico. Nella
biografia scritta da Donato si legge che una volta diventato famoso, quando veniva riconosciuto dei suoi ammiratori per le
strade di Roma preferiva rifugiarsi in qualche portone vicino, piuttosto che affrontare il loro entusiasmo. Il successo delle
Bucoliche fu straordinario, e poco dopo mecenate commissionò a Virgilio la sua seconda opera, le Georgiche, un poema
didascalico sull’agricoltura.

Dividendosi tra la sua villa di Napoli e le rare incursioni a Roma, Virgilio dedicò otto anni alla stesura delle Georgiche,
mentre si combatteva ancora la guerra civile tra Ottaviano e Antonio. I quattro libri che le compongono uscirono nel 30 a.C.,
dedicati a Mecenate. Subito dopo, su invito di Ottaviano, Virgilio inizio quella che doveva essere la sua opera monumentale,
l’Eneide: una celebrazione delle origini di Roma e della gloria della gens Iulia, attraverso il capostipite Enea. Così, quasi suo
malgrado, il pacifico cantore di pastori e di campi si trovò proiettato nel mondo della poesia epica, e divenne, potremmo
dire, l’Omero latino.

All’Eneide Virgilio lavoro per 10 anni e al momento della sua morte il poema non era ancora finito; diversi brani, però, da
tempo circolavano a Roma. Nel 19 a.C. Virgilio partì per un viaggio in Grecia, durante il quale si ammalò e fu costretto a
tornare; morì sulla via del ritorno, a brindisi, il 21 settembre del 19 a.C. Agli amici Vario e Tucca, che lo assistevano, chiese
per testamento di bruciare il manoscritto dell’opera, del quale non era ancora soddisfatto; Augusto lo vietò e grazie a lui
possediamo uno dei capolavori della letteratura mondiale. Virgilio fu seppellito nella prediletta Napoli; sulla tomba furono
incisi i. versi, che sembra abbia dettato lui stesso in punto di morte: “Mantova mi generò, mi rapirono dalla vita i calabri, ora
mi ha Napoli. Cantai i pascoli, i campi, gli eroi”.

2) Pastori sensibili e una natura amica: le Bucoliche: le Bucoliche, altresì note come Ecloghe, sono una raccolta di 10
componimenti pastorali, detti egloghe, in forma dialogica o narrativa. Si tratta di composizioni in esametri piuttosto brevi
che dipingono scene di vita campestre e che hanno per protagonisti mietitori, pastori, caprai, bovari, descritti mentre
trascorrono giornate serene fuori dal tumulto cittadino. Le Bucoliche furono scritte tra il 42 e il 39 a.C., ma, prima che la
raccolta fosse pubblicata per intero, alcune composizioni erano già state diffuse. Secondo la tradizione antica, fu Asinio
Pollione a incoraggiare Virgilio a questo genere letterario e a favorirne la pubblicazione.

Le Bucoliche si spirano agli idilli del poeta greco Teocrito, il quale aveva inaugurato il genere, destinato a durare nei secoli,
della poesia pastorale. Da Teocrito Virgilio prende non solo l’idea di fondo, ossia l’ambientazione pastorale campestre, ma
anche spunti e personaggi, in alcuni casi imitando versi interi o situazioni e desumendo persino i nomi dei personaggi. Lo
spirito della sua opera tuttavia, è profondamente diverso.

Una prima differenza riguarda la descrizione della natura e del paesaggio. Ciò che determina l’incanto delle Bucoliche, e in
cui Virgilio si mostra del tutto originale rispetto al suo modello, e il senso profondo, intimo e malinconico della natura, che
egli seppe esprimere più di chiunque altro autore latino. Nelle descrizioni della campagna in cui prendono vita le Bucoliche
la natura appare sempre benevola e bella; il paesaggio non è semplicemente descritto, ma rivissuto con intimo sentimento,
come se parlasse. I suoni della natura si insinuano nei versi e nei canti dei pastori: il ronzio delle api o il fruscio degli alberi
scossi dal vento tornano con frequenza nei versi virgiliani. La natura descritta da Virgilio non è la natura mediterranea e
abbagliante, come la Sicilia di Teocrito, ma una natura dolce, con colori tenui. I pastori di Virgilio vivono in un luogo un po’
irreale, che assume in parte quella della Sicilia teocritea, in parte ancora quelle dell’Arcadia dei pastori greci.

Anche le situazioni e le vicende descritte da Virgilio muovono da presupposti differenti rispetto a Teocrito. Negli idilli di
Teocrito, per esempio, i personaggi sono dei poeti mascherati da pastori che si dilettano in gare di canto; la campagna i
protagonisti delle Bucoliche di Virgilio invece, alludono a personaggi e vicende storiche reali, e spesso personali, del poeta
o dei suoi amici. È il caso della già citata egloga I. Un vecchio pastore, Titiro, suona placidamente la zampogna all’ombra di
un faggio e pare l’immagine stessa della serenità, mentre il suo interlocutore, Melibeo, racconta tristemente le proprie
vicissitudini: i suoi campi sono stati espropriati e ora deve andarsene via con il gregge. Questa non è la campagna di
Teocrito, bensì l’Italia del presente. Si sente qui Lecco delle recenti vicende storiche che coinvolsero lo stesso Virgilio, cioè
la distribuzione delle terre ai veterani di Ottaviano e Antonio: Titiro ha potuto salvare le sue terre, perché un protettore a
Roma gli ha evitato il disastro, mentre i suoi amici le hanno perdute.

La vicenda descritta nell’egloga I suggerisce una riflessione più ampia sulla condizione umana: benché un uomoCerchi la
pace e tenendosi lontano dal tumulto dell’esistenza, e la vita stessa che, crudele, si avventa su gli innocenti e pacifici. “La
sorte tutto rovescia” in questo verso Virgilio riassume la sua visione amara dell’esistenza, secondo cui gli uomini possono
costruire per il loro futuro solo certezze effimere, esposti i mutamenti. Questo sottile, malinconico sentimento di ingiustizia e
di fragilità circonda ogni aspetto della vita umana; preclude ogni possibile felicità Agli uomini e li condanna una sofferenza
inevitabile. Nella prospettiva di Virgilio, un saggio può anche cercare di costruire il suo castello sereno, ma la vita a leggi
spietate, alle quali deboli si devono piegare. Di qui la malinconia sottile che attraversa tutta la poesia Virgiliana, anche nei
momenti in apparenza più solari.

Non mancano però alcune consultazioni a questa dolorosa esistenza: la bellezza della natura, la dolcezza dell’amicizia e
soprattutto la poesia e il canto. Nelle Bucoliche la poesia acquista dunque una funzione consolatrice e riesce a restituire
serenità a quanti vi si dedicano:Il piacere del canto e della musica è l’unica consolazione sia rispetto agli sconvolgimenti
delle guerre civili che si avvertono sullo sfondo sia rispetto alle sofferenze amorose di cui spesso i pastori sono vittime.

3) La felicità dei campi: le Georgiche: è lo stesso Virgilio a dire che la sua seconda opera, le Georgiche, gli fu commissionata
dal nuovo amico e protettore Mecenate. Le Georgiche, in quattro libri, sono un poema didascalico in esametri, dedicato alla
coltivazione dei campi, e, in secondo luogo, i poeti ellenistici. Virgilio probabilmente conosceva le Georgiche del poeta
Nicandro di Colofone, per noi perdute, da cui riprese certamente alcuni spunti. Ma è bene chiarire sin da subito una
fondamentale differenza tra le Georgiche di Virgilio e i loro modelli letterari: la poesia didascalica ellenistica aveva come
intento principale quello di fare sfoggio di erudizione, tanto più riuscito quanto più la materia era ritenuta arida è difficile; la
poesia didascalica di Virgilio unisce la perfetta cura dei contenuti a un reale scopo didattico. Le Georgiche offrono consigli e
insegnamenti pratici sulla coltivazione e sull’allevamento, e, allo stesso tempo, disegnano un sistema di valori che tutti gli
uomini possono seguire.

È verosimile che mecenate abbia indirizzato Virgilio verso questo argomento con un preciso intento: Dimostrare che grazia
Ottaviano l’Italia avrebbe posto fine alle guerre civili e sarebbe tornata alle pacifiche attività agricole dei campi abbandonati.
La campagna che Virgilio hai in mente è una terra di piccoli e tenaci agricoltori, padroni di campi che lavoravano con l’aiuto
della sola famiglia e di pochi schiavi. Questo modello di società aveva fatto la grandezza di Roma nei secoli: era la Roma di
Catone il censore, una società legata al mos maiorum, una humilis Italia, come dirà poi Virgilio stesso nell’Eneide. Le
Georgiche non sono un vero manuale tecnico in forma poetica sulla coltivazione dei campi, ma una celebrazione in poesia
dell’agricoltura e della vita campestre, scritta in un momento storico in cui i valori e l’identità dello Stato romano erano da
ricostruire.

La struttura e la dimensione del poema sono frutto di un’attenta e raffinata elaborazione. La divisione di quattro libri,
richiama le opere dei poeti alessandrini, che prediligevano questa estensione per i loro testi: sono in quattro libri il poema
epico di Apollonio Rodio, le Agronautiche, gli Aitia. Anche la materia, nel corso dei libri, sembra seguire un itinerario ideale
che procede gradualmente da attività per le quali all’uomo occorre molto lavoro, verso attività in cui l’impegno richiesto è
minore, mentre viceversa, cresce il ruolo esercitato dalla natura.

Le Georgiche, rispetto alle Bucoliche, hanno orizzonti molto più ampi: sono un grande affresco della vita campestre,
costruito secondo un progetto molto ambizioso e accurato. La stesura dell’opera avanzò lentamente, e occorrerà infatti ben
otto anni perché le Georgiche fossero perfettamente rifinite come voleva l’autore. Virgilio lavorava metodicamente,
scrivendo e riscrivendo i suoi versi, per seguire appieno tutti i principi della poesia ellenistica, vale a dire l’accurata
elaborazione stilistica, la complessità strutturale, l’erudizione, l’allusione ai modelli. Il vero senso delle Georgiche non risiede
in questi aspetti. L’unicità di quest’opera è infatti data dall’intimità e dalla passione con cui Virgilio si immerge nella natura e
nei suoi ritmi, mostrando, più ancora che nelle Bucoliche, la profondità commistione tra l’uomo e l’ambiente.

Virgilio infatti non canta la grandezza di Roma, simbolo della cultura e del progresso, il luogo dove ha sede la civiltà umana
che avanza, ma racconta un mondo più arcaico, che esiste da secoli e continuerà a esistere solo nello stesso modo per
secoli.al ritmo mutevole della storia egli preferisce Quello eterno della natura, che solo la vita nei campi permette di cogliere
appieno. Grazie all’agricoltura, l’uomo si fa tutt’uno con la natura e riesce a percepire la grande energia vitale che circola nel
mondo e unisce uomini, animali, piante. In questa prospettiva la felicità consiste proprio nel vivere in armonia con la natura:
l’uomo deve piegarla alla sua volontà, ma anche saperla rispettare, per comprenderne le segrete leggi. Chi saprà farlo verrà
ricompensato non solo con i frutti dei campi, ma anche con la serenità dell’anima.

La natura cantata da Virgilio, non è sempre benevola, ma è percorsa da forze possenti che possono distruggere ogni cosa.
L’uomo sfida l’ambiente e cerca con tenacia di piegarlo a sé, ma la morte e il dolore sono pur sempre presenti ovunque,
perché questa è la legge a cui ogni essere vivente deve sottomettersi. Un grande misterioso meccanismo di forze cieche
può sempre intervenire; l’uomo getta i semi, ma gli uccelli possono rubarli; alleva gli animali, ma un’epidemia può
annientarli. L’infelicità può abbattersi da un momento all’altro su tutte le creature viventi, ma c’è speranza: la tenacia e la
pazienza del contadino rimettono in moto ogni volta il ciclo della vita e nuovamente le messi cresceranno.

Le Georgiche sono un’opera stilisticamente perfetta: mai la materia si getta in tecnicismi o formulazioni contorte.
Digressioni, colori, cambi di ritmo, metafore, rendono ogni episodio vario e mosso, i versi scivolano via nella loro perfezione,
pur in presenza di un argomento apparentemente arido. Si può dire che in questo poema non vi sia una sola parola
sprecata: Virgilio sa ottenere gli effetti più vari e ricchi di significato dall’uso di metafore, personificazioni e sa far parlare la
natura, come se tutto fosse percorso da una vita nascosta.

Le Georgiche sono in realtà il poema epico della vita dei campi, in cui il fragore delle armi è sostituito dall’eroismo
quotidiano del lavoro. In questo senso, esse riflettono un’idea di fondo dell’epicureismo: la vera vita, quella più bella e
piena, la si trascorre nell’otium, dove un uomo e con se stesso, come solo la campagna consente.Epicurea anche
l’immagine della natura come forza potentissima, governato da leggi che l’uomo può solo imparare ad accettare. Virgilio
non vuole però esplorare queste leggi, come invece avevo fatto il grande cantore dell’epicureismo a Roma, Lucrezio. Egli si
interessa alle forze invisibili che popolano il mondo, in particolare agli dei agresti.cantando la natura, Virgilio celebra il
mondo magico dall’Italia contadina.

4) Il canto della missione di Roma: l’Eneide: secondo la tradizione, Virgilio recitò le Georgiche in anteprima, ad Atella,
davanti a Ottaviano, che tornava in patria reduce dalla vittoria di Azio (nel 31 a.C.), e che si era fermato lì per guarire da una
tonsillite. Fu in quell’occasione che Ottaviano affidò a Virgilio il compito di celebrare la sua dinastia in un poema epico che
parlasse del mitico antenato della casata, il troiano Enea. Probabilmente Virgilio meditava già da tempo di comporre un
poema sulle origini di Roma e inizialmente doveva avere in mente un’opera sui primi re di Albalonga. Tuttavia si immerse
subito in quella che sarebbe stata la sua opera maggiore, alla quale dedicò il resto della sua vita.

Virgilio I redasse la storia in prosa, poi la mise in versi con la sua consueta attenzione e cura per ogni dettaglio. Nel fare ciò
non seguì l’ordine degli eventi così come compaiono nell’Eneide, ma lavoro ai vari episodi della trama, poi fondendoli in
un’unica struttura. Quando morì, nel 19 a.C., l’opera era completa, ma mancava della revisione finale; lo dimostrano alcuni
versi incompiuti, che ogni tanto si trovano nel poema. Tuttavia, Virgilio aveva già dato pubblica lettura di alcuni passi
dell’attesa per quest’opera era grande a Roma. Tanto grande che quanto egli chiese ripetutamente lo scrigno in cui era
contenuto il manoscritto con l’intenzione di distruggerlo perché ancora insoddisfatto del suo lavoro, gli amici Vario e Tucca
non lo permisero. Furono loro a pubblicare l’opera postuma, per volere di Augusto, lasciandola com’era, senza nemmeno
completare i versi rimaste in sospeso.

Nell’Eneide Virgilio si confronta con il più grande dei modelli, Omero. Ciò è evidente già dalla struttura dell’opera, che
racchiude in una sola narrazione la traccia di entrambi i poemi omerici: i primi sei libri sono odissiaci, i secondi iliadici.
Virgilio inoltre richiama direttamente i poemi omerici in una serie di scene: il racconto delle proprie peregrinazioni che Enea
fa nella reggia di Didone, per esempio, riecheggia quello di Odisseo presso la corte del re dei Feaci Alcinoo; i giochi funebri
per Anchise riproducono quelli per Patroclo; la discesa di Enea nell’Ade si ispira all’incontro di Odisseo con le anime dei
morti nell’Odissea. Vi sono sogni, concili degli dei, tempeste, scene di battaglie, tutte le situazioni più tipiche della
tradizione omerica.

Tuttavia, per tanti aspetti, i poemi omerici sono lontani dall’opera di Virgilio. L’Iliade e l’Odissea esprimevano la cultura di un
mondo arcaico, inoltre erano stati composti oralmente e destinati alla recitazione davanti a un uditorio. In questo la civiltà di
Virgilio è immensamente lontana da quella omerica; é anzitutto una civiltà della scrittura, erede di una raffinata tradizione
letteraria segreta di Latina. Dunque, Virgilio non a disposizione solo Omero, ma guarda anche ad altri autori: dal poema
epico del poeta ellenistico Apollonio Rodio, le Argonautiche, riprende per esempio il tema amoroso della passione di
Didone.

Da Nevio ed Ennio, gli epici latini dell’età arcaica, Virgilio eredita l’intreccio del mito con la storia, ma ne rovescia il rapporto:
mentre per i primi il racconto degli eventi storici era preponderante sul mito, in Virgilio il remoto passato del mito costituisce
la vera materia del poema e i riferimenti alla storia contemporanea sono solo delle digressioni. Come i due poeti arcaici
però, Virgilio persegue un intento celebrativo e, in questo senso, asseconda quelle che dovevano essere le aspettative di
Ottaviano. La ripresa di una tale varietà di modelli, che solitamente era tipica della poesia ellenistica e neoterica, rientra
nella cosiddetta arte allusiva, una tecnica per cui, dietro i versi del poeta, il lettore colto poteva intravedere una catena di
modelli letterari variati e innovati.

L’originalità di Virgilio rispetta i modelli, in particolar modo Omero, evidente soprattutto nella costruzione dei personaggi.
L’epica omerica racconta gli eventi secondo una prospettiva esterna, a cui il mondo interiore i risvolti psicologici sono
estranei. Gli eroi omerici non si pongono dubbi o tormenti. Ma sono completamente immersi nell’azione: esprimono un
mondo individualistico in cui ognuno è solo con se stesso davanti al suo destino. L’orizzonte dell’Eneide è invece
completamente diverso. L’eroe, Enea, non si limita semplicemente ad agire e non è affatto soloCon il suo destino. Sulle sue
spalle grava la responsabilità di fondare un nuovo mondo, secondo il volere del fato. Perciò continuamente su di lui
intervengono con sogni e presagi le voci degli dei, dei penati, dei morti: il suo compito è seguire una via già tracciata da
altri. Vorrebbe amare Didone, ma non può: vorrebbe morire combattendo a Troia ma non può. Deve invece andare avanti a
sacrificare ogni cosa per compiere il suo dovere. Enea è saldo d’animo, coraggiosa in battaglia, ma esprime anche
l’humanitas ormai radicata nella cultura latina: sa ascoltare gli altri, e leale, sa vedere le sofferenze quando può le soccorre.

Del resto, il sentimento di comprensione e reciproco aiuto e benevolenza, tipico dell’humanitas greco-romana, Si manifesta
apertamente nell’Eneide in versi fuori dal comune, come quello in cui Didone accoglie Enea nella sua reggia. La percezione
del male che incombe sul destino di ognuno è sempre affiancata dalla solidarietà che l’uomo prova per l’altro. Nessuno dei
personaggi dell’Eneide è quindi davvero barbaro e inumano, neppure il crudelissimo Mezenzio che, quando affronta la
morte nel duello con Enea, lo fa gonfio di sofferenza per l’uccisione del giovane figlio.

Enea non è ciecamente mosso da una sola passione che lo rende deciso nel portare a termine il suo compito; in lui si può
scorgere piuttosto il conflitto di un’anima che desidera la pace, ma che è costretta a battersi a lungo per ottenerla, fino alla
morte di Turno. In questo epico, che ha contraddizioni ed esitazioni, si può vedere certo l’influsso della tragedia greca e del
poema di Apollonio Rodio, ma Enea è soprattutto espressione di una civiltà autenticamente romana. Anche i suoi nemici, gli
italici campestri e selvaggi, non sono re e figli di dei, come i personaggi di Omero, ma uomini venuti dei boschi e dei campi
dell’umile Italia; la loro forza risiede nella natura semplice e generosa, nel sentirsi parte di una collettività tutta umana e non
eroica.

Enea incarna un valore tipicamente romano e Virgilio ha cura di presentarlo come tale: è pius, cioè dotato di pietas, la
qualità per eccellenza per una romano. È rispettoso verso gli dei e possiede un innato senso del dovere, che lo spinge ad
accettare il piano stabilito per lui dal fato rinunciando a ogni altro desiderio. Enea porta sulle spalle il padre infermo quando
fugge da Troia, prepara un regno per i suoi figli e sposa una donna straniera che non ha mai visto. È definito sovente con
l’epiteto pater: è il pater Aeneas, ma anche il pater familias come era stato il vecchio Anchise prima di lui e come sarà dopo
di lui il piccolo Iulo, in una catena ininterrotta che arriva sino ad Augusto. Lavinia, la sua sposa nel Lazio, è modesta e
mansueta, il prototipo della maratona romana ideale, e si presta a generare quelli che saranno i re della città di Albalonga,
dalla cui stirpe discenderà Numitore, padre di area Silvia e progenitore di Romolo.

L’Eneide è anche il poema in cui viene celebrata l’origine nobile e divina della gens Iulia, a cui apparteneva Ottaviano
Augusto, figlio adottivo di Giulio Cesare: da una dea, Venere, nasce Enea, e dal figlio di Enea, Iulo, ha origine la stirpe che,
dopo innumerevoli generazioni, darà origine ai romani. La profondità e l’antichità del legame con Troia dà lustro a questa
famiglia e contribuisce a legittimarne il potere. La lode della gens Iulia compare anche esplicitamente in alcuni passi che
l’autore ha cura di incastonare nel testo. L’Eneide riflette quindi una visione provvidenziale della storia: Troia bruciò perché
fosse fondata Roma; Enea fu prescelto perché da lui avesse origine una stirpe nel Lazio e su questa un giorno regnasse
Augusto.

L’Eneide è percorsa, però, pure in questo quadro grandioso, da un sentimento tipicamente virgiliano, una malinconia sottile
che è propria della sensibilità del poeta: c’è la percezione della precarietà della vita, del dolore e della morte che
incombono. Moltissime giovani vite sono stroncate perché Enea possa un giorno trovare una nuova patria. Nel poema si
avverte la pietà per queste esistenze finite anzi tempo, quasi un pianto continuo per tutto il male che spezza la gioventù e la
gioia. L’Eneide trabocca di pietà per la sofferenza di chi muore, ma la giustificazione di tanta sofferenza si trova nella
grandezza di Roma e nella sua missione di portare la pace tra i popoli. Enea non può quindi permettersi di cedere alle sue
passioni e i suoi desideri, ma deve adempiere al suo destino.

Quello che ne OneNote, cioè la passione, riempie l’altro grande personaggio del poema, protagonista di un intero libro (il
VI): Didone, abbandonata inesorabilmente da Enea nel momento in cui l’eroe è richiamato al suo compito dagli dei. Tutto il
suo infinito dolore si traduce in un suicidio pubblico e tremendo, accompagnato dalle maledizioni per Enea e per la sua
stirpe. Quando poi l’eroe incontra l’ombra della donna nell’Ade e cerca di placarla, Didone non risponde e ritorna nei campi
Elisi senza neppure voltarsi, accanto all’amato primo marito Sicheo. Come quelle di Enea, anche le sofferenze di Didone
hanno però uno scopo: fondare l’audio eterno tra Roma e Cartagine, e legittimare la guerra che diede a Roma il potere sul
Mediterraneo. In questo modo il mito fornisce la spiegazione della lunga e profonda inimicizia tra le due grandi potenze.

Tutti i personaggi dell’Eneide, anche quelli secondari, sono dotati di una loro ben definita psicologia; se Enea non può
permettersi di dare sfogo alle sue passioni, altri lo possono fare. Lo fa l’ostinata e ribelle regina Amata, che non vuole
cedere la figlia carissima a uno straniero, a un profugo, e fa di tutto per evitarlo.

-Turno => pieno di orgoglio e fierezza

-Evandro (vecchio) => dolce

-dolore di Priamo

-Neottolemo => feroce

Vi sono scene collettive di terrore o di esultanza.

Il poema è percorso in interrottamente da un filo di emozioni sempre diverse, in un ritmo continuo e variegato.

L’Eneide, in definitiva, è un poema in cui confluiscono le emozioni e la memoria della tradizione epica greca, anche se il
grande modello di Omero viene profondamente rinnovato e riletto con gli occhi della civiltà romana e della personale,
raffinata sensibilità di Virgilio. È dunque qualcosa di classico e di nuovo nello stesso tempo.

5) La lingua e lo stile: se c’è una perfezione nel verso latino, Virgilio la raggiunge. Nessuno in tutta la letteratura latina fu in
grado di scrivere esametri così belli, intensi, musicali, in cui alla perfezione formale e all’armonia del suono si unisce un
messaggio profondo. Certamente la scuola dei neoteroi influì molto nella costruzione armoniosa e nella levigatezza dei
versi, però rispetto a questi poeti Virgilio evita ogni indugio eccessivo sui particolari formali.

Naturalmente lo stile di Virgilio varia a seconda dell’argomento;

-nelle Bucoliche, e in particolare nelle Georgiche, è più dimesso: frasi brevi, parole non solenni anche se non quotidiane,
un’aggettivazione misurata, la ricerca voluta della semplicità.

-nell’Eneide invece lo stile cambia, diventa sublime, squillante, solenne.

Quello di Virgilio è il latino classico dell’età d’oro, l’equivalente poetico di ciò che Cicerone era stato nella prosa.
Solitamente Virgilio evita gli arcaismi, salvo in alcuni passi in cui consapevolmente li adotta, nell’Eneide, per dare alla
narrazione un andamento solenne. Sempre nell’Eneide compaiono talvolta elementi tipici della lingua arcaica e dello stile
epico, come l’uso dei composti e della desinenza “-ere” al perfetto. Tuttavia, si tratta di una semplice coloritura; anche
dell’allitterazione, strumento principe della poesia latina arcaica, Virgilio fa un uso abbastanza moderato.

Inoltre, in genere i poeti antichi tendevano a fare coincidere la pausa ritmica con quella sintattica; Virgilio, con grande
scioltezza, fa invece fluire i suoi esametri, uno dietro l’altro, senza monotonia né pesantezze, spesso dilatandoli fino al verso
successivo con l’enjambement. Uno dei segreti degli esametri di Virgilio è poi il sapiente ordine delle parole all’interno del
verso, sia per il suono sia per posizione. Egli infatti fa grande uso del chiasmo: in questo modo altera l’ordine naturale delle
parole e le ricompone in una struttura raffinata ed equilibrata.

Altre caratteristiche dello stile virgiliano sono l’uso moderato ma sempre incisivo degli aggettivi, la raffinatezza delle
metafore e la capacità di alternare descrizioni ampie distese con immagini fulminee, evocative.

Uno degli aspetti più caratteristici dello stile dell’epica virgiliana è infine la narrazione soggettiva, che si realizza non solo nei
numerosi interventi personali del poeta nella narrazione, ma anche nel dare voce ai singoli personaggi e i loro sentimenti nel
corso della storia, lasciando così che il racconto si arricchisca di nuove prospettive e punti di vista.

TESTI

Bucolica I (tutta) pag. 34

-Un celebre dialogo: l’egloga I, una delle più celebri delle Bucoliche, riporta il dialogo tra due pastori, Titiro e Melibeo. Il
vecchio Titiro suona placidamente riposandosi all’ombra di un faggio e incarna l’immagine della serenità, Melibeo è invece
costretto ad abbandonare i suoi campi; i suoi terreni sono stati espropriati e nel suo futuro si prospettava una vita da esule.
È evidente, nella scelta del tema, l’allusione alle vicende che hanno segnato la vita di Virgilio e, più in generale, agli eventi
che seguirono la battaglia tra i triumviri e i cesaricidi a Filippi nel 42 a.C.

Bucolica IV pag. 42

-Un’elogia particolare: l’egloga IV è, insieme alla VI, una delle meno “pastorali” della raccolta. Virgilio stesso, fin dall’inizio,
sembra voler chiarire questa particolarità e dichiara di volersi discostare dai consueti temi della poesia bucolica per
rivolgersi ad argomenti più importanti e impegnativi. Il tema trattato, infatti, è la celebrazione della nascita di un puer, che
coinciderà con l’avvento di una nuova età dell’oro (da identificare con molta probabilità con il periodo di pace che gli
accordi di Brindisi fra Ottaviano e Antonio lasciavano sperare) dopo una lunga età del ferro (gli anni delle guerre civili). Lo
splendore della nuova era avrà inizio sotto il consolato di Asinio Pollione (protettore di Virgilio durante il suo primo anno di
vita a Roma), dedicatario dell’egloga, che fu composta nello stesso anno del suo consolato, il 40 a.C.

-Identità del puer: innumerevoli sono stati i tentativi i identificare il puer in questione: si è pensato a un figlio dello stesso
Asinio Pollione, nato appunto nel 40 a.C., oppure al figlio che si sperava nascesse dal matrimonio tra Antonio e Ottavia,
sorella di Ottaviano. L’ipotesi più famosa è senz’atro quella avanzata dagli interpreti cristiani di epoca tardo antica, che
videro nel puer una prefigurazione della venuta di cristo. A incoraggiare una simile lettura ha contribuito indubbiamente il
clima di attesa e speranza che pervade tutto il componimento e che corrisponde in effetti a una più generale ansia di
rinnovamento diffusa non solo a Roma, ma anche nel resto del Mediterraneo. Così, anche grazie a questo testo, ebbe
origine l’immagine di Virgilio, come profeta del cristianesimo, che tanto influenzò Dante e tutto il Medioevo.

Georgica IV (vv. 485-527) pag. 47

-Un errore che costa caro: la storia di Orfeo ed Euridice comincia in medias res, nel momento in cui il mitico cantore Orfeo
sta conducendo fuori dall’Ade, per riportarla in vita, la sua amata Euridice. La regina dell’Ade, Proserpina, gli aveva però
imposto una sola condizione: non voltarsi mai a guardarla prima di uscire dal Regno dei morti, pena la definitiva perdita di
lei. Il tragitto è quasi completo quando, per una sorta di improvvisa follia, Orfeo infrange il divieto e perde per sempre la
donna amata. Completamente prostrato dal dolore e fedele al ricordo di lei, Orfeo finisce tragicamente i suoi giorni sbranato
dalle donne di Tracia, offese per essere state da lui respinte.

Eneide (vv. 1-11) pag. 50

-Un poema tradizionale e originale allo stesso tempo: l’Eneide, il poema con il quale Virgilio elabora un vera e propria
tradizione epica nazionale romana, depositario dei miti, della storia e dei valori della cultura latina, si apre preannunciando
un duplice argomento: le armi e l’eroe. In questo modo, da subito, l’autore si inserisce nella lunga tradizione epica che lo
precede, rinviando, con il riferimento alle armi, al modello costituito dall’Iliade, il poema della guerra di Troia, e come
riferimento all’eroe, all’Odissea, poema dedicato al racconto del ritorno di Odisseo (per i romani Ulisse) in patria. Virgilio,
tuttavia, non si limita a seguire i suoi modelli, piuttosto li supera, dando così vita a un epos originale, tutto romano. La
materia mitica dell’Eneide istituisce infatti un racconto tra la fine di troia e l’inizio di una nuova civiltà fondata nel Lazio
dall’esule troiano Enea, protagonista del poema.

Eneide II (vv. 199-227) pag. 52

-Il cavallo di Troia: il libro II dell’Eneide è interamente dedicato al racconto dell’ultimo giorno e dell’ultima notte di Troia, che
Virgilio conosceva probabilmente dai racconti epici del ciclo troiano, per noi perduto. Enea, su richiesta della regina Didone,
riferisce gli avvenimenti di quelle ore fatali, a partire dall’inganno del cavallo di legno, lasciato dai greci davanti alla città per
far credere di essersene andati rinunciando all’assedio. Subito le opinioni dei troiani riguardo al cavallo divergono: qualcuno
vorrebbe accoglierlo in città, altri invece diffidavano; tra questi il sacerdote Laocoonte. La discussione si accende, ma la
caduta di troia è ormai inevitabile. L’arrivo del greco Sinone, che si finge un disertore per conquistare la fiducia dei troiani, e
la tremenda fine di Laocoonte e dei suoi figli, cancellano ogni esitazione in merito al cavallo, che viene condotto all’interno
della città.

Eneide IV (vv. 1-30) pag. 58

-Confidenze tra sorelle: i primi versi del libro IV dell’Eneide, contengono il racconto che Didone, regina di Cartagine, fa alla
sorella Anna, confidandole, in preda allo sconvolgimento, di essersi innamorata di Enea.

Eneide IV (vv. 68-89) pag. 60

-“Brucia l’infelice Didone”: dopo aver confidato alla sorella Anna il proprio amore per Enea e aver ricevuto da lei
incoraggiamento e speranza, Didone è nuovamente preda alla passione amorosa, che anche in questi versi, è descritta con
straordinaria efficacia, sia nei suoi effetti fisici e psicologici sia nelle sue conseguenze concrete sulla città di Cartagine.

Eneide IV (vv. 642-705) pag. 66

-Gli ultimi momenti di Didone: Enea è partito, nonostante le suppliche di Didone e nonostante l’intervento della sorella di lei,
Anna. Dall’alto delle mura di Cartagine Didone ne ha scorto le navi prendere il largo. Tutto ormai è perduto. Ma Didone ha
ancora la forza per un’estrema e terribile maledizione: che Enea conosca la guerra, il dolore, la morte e che l’inimicizia dei
Tirii con la stirpe dell’eroe non abbia mai fine. Quindi, rapidamente, ingannando la sorella e le donne che le stanno attorno,
la regina attua il progetto segretamente covato da tempo: con il pretesto di compiere un rito liberatorio, Didone fa allestire
una pira con tutti gli oggetti lasciati da Enea, ma all’improvviso si trafigge con la spada donatale dall’eroe.

Eneide XI (vv. 532-584; 768-831) pdf classroom

Camilla è una donna guerriera vergine che si è alleata con Turno e il popolo dei Volsci, popolo nemico contro cui stava
combattendo Enea, Camilla è quindi nemica dei Troiani e di Enea. Camilla è una fanciulla di origine italica che fin da piccola
è stata abituata nell’esercizio delle armi e della guerra dal momento in cui è stata consacrata alla dea Diana, il testo ci
racconta la sua infanzia, e quindi che era stato allevata dal padre e poi ce la racconta nel presente, quando ha avuto un
ruolo nella guerra contro Enea.

Lo scontro tra i Troiani e latini viene interrotto da questa pausa narrativa, che è un racconto tenero e dolce sull’infanzia di
Camilla, perché lo scopo di Virgilio è allietare il lettore non solo racconti di guerra e morte. La prima parte è una sorta di
ritratto della protagonista che ci fa capire il perché della scelta di diventare una guerriera donna, esempio unico di donna
soldato nell’Eneide, nel mondo antico. Camilla si è votata alla dea Diana e incarnava tutti i concetti propri di Diana, era una
cacciatrice e aveva fatto un voto di castità, rifiuta qualsiasi sposo, non voleva figli ma solo vivere onorando la sua dea
protettrice.

Mentre l'assemblea è in corso, giunge la notizia che Enea sta muovendo con l'esercito contro la città: Turno, dopo
aver deriso la scelta di riunirsi in assemblea mentre i nemici si preparano ad attaccare, impartisce ordini agli uomini
e si prepara a combattere. Sopraggiunge la regina dei Volsci, Camilla, seguita dai suoi cavalieri, ed escogita con
Turno un piano: mentre Turno si apposterà per tendere un agguato a Enea in marcia verso la città, essa sosterrà
l'assalto della cavalleria. Diana, che ama la vergine Camilla ed è consapevole della sua prossima morte, chiama a sé
la ninfa Opi e le affida le sue frecce perché ella colpisca chi ucciderà Camilla.
Il primo scontro della cavalleria è furioso e costa la vita a molti guerrieri, ma Camilla domina la scena con le sue
gesta; Giove, però, vedendola infuriare, ridesta il valore di Tarconte, capo della cavalleria etrusca: questi incoraggia i
suoi e li esorta a opporsi alla vergine guerriera; fra i cavalieri etruschi, soprattutto Arrunte desidera uccidere
Camilla: prega Apollo di concedergli la vittoria e il ritorno fra i suoi, anche senza riportare le armi della fanciulla; il
dio gli concede di ucciderla, ma gli nega il ritorno. Arrunte insegue da vicino Camilla finché non trova il momento
opportuno per colpirla, poi fugge.
Camilla morente invia la sua fedele compagna Acca ad avvisare Turno. Nel frattempo la ninfa Opi, inviata da Diana,
trafigge con una freccia Arrunte, per vendicare la morte di Camilla. La cavalleria latina, priva della forte guida della
fanciulla, si volge in fuga, mentre Turno, richiamato, abbandona l'agguato e torna al campo di battaglia: Enea riesce
perciò a proseguire senza danno la marcia e vede da lontano le schiere nemiche: è però ormai sera e ai due
schieramenti non resta che accamparsi.

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