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CAPITOLO UNO – IL MALE RADICALE

C’è un nodo cruciale del pensiero moderno che si sviluppa a partire da La religione entro i
limiti della sola ragione di Kant e riguarda l’interpretazione del male. La prospettiva dalla
quale viene osservato il male subisce, a partire da Kant, un’inevitabile torsione verso il
soggetto, al punto da condurre il filosofo ad affermare che “l’uomo stesso è l’autore del
male”. Il peso di una tale realizzazione è però talmente grande da indurre lo stesso Kant ad
arretrare e ad affermare che il male non è un’entità a se stante insita nel nostro corredo
biologico, ma piuttosto i frutto dei travisamenti e degli errori della ragione, della sua
“fragilità” ed “impurità”. Questo compromesso ha però continuato a sollevare intorno a sé
interrogativi laceranti tra i quali il più importante risulta forse essere quello riguardante la
i9nevitabilità e necessità. Per esempio, il male non potrebbe rivelarsi necessario a quella
tensione agonistica di cui si alimenta la conoscenza? E se la tendenza al male fosse
direttamente legata alla natura umana piuttosto che essere un effetto collaterale della sua
fragilità? Il moralismo imperante rende ancora molto difficile riconfigurare la posizione del
male nella scena estetica contemporanea. Da alcuni decenni, tuttavia, la fisionomia del male
appare completamente mutata, segnata non tanto dalla trasgressione quanto da un’impronta
così umana da divenire quasi un’ultima chance per verificare i limiti della nostra attività
conoscitiva. Quella della necessità del male non è una domanda retorica, ma un
interrogativo che richiede uno studio approfondito. In questo studio non si può che partire
dall’analisi delle opere di Baudelaire e Dostoevskij, i due maggiori alfieri del Male per poi
incamminarci lungo rotte che, nonostante la lungimiranza di entrambi, nessuno dei due
poteva scorgere.

Per Baudelaire, il poeta della modernità, il male non trae origine da un cedimento della
legge morale, ma si origina da una totale consapevolezza da parte della ragione delle proprie
intenzioni, come afferma nei primi versi dei Fiori del male:

Torniamo a pestare allegri il fango

Il fango si pesta in allegria. L’inferno non è un luogo dai contorni stabiliti, ma uno spazio
frantumato in una molteplicità di traiettorie. Il male per Baudelaire non è un principio, ma
un processo continuamente in movimento. Egli si abbandona di conseguenza alla
contemplazione disincantata dello stato di corruzione entro cui si articolar il percorso
esistenziale. E’ quella che Baudelaire definisce in Senza Scampo la “coscienza del Male”,
una coscienza che ha scoperto nel male il suo impulso primario e che mira costantemente
alla catastrofe di un’Ideale –di bene, bellezza armonia- che il senso comune ripropone
continuamente come supremo obiettivo da raggiungere, una coscienza che punta alla
dissoluzione della Forma, entrambi incapaci di contenere nella loro perfezione immobile il
divorante caos del divenire. Il male è insuperabile. I Fiori di Baudelaire crescono su un
terreno talmente arido da rendere impossibile il fiorire di una qualsiasi speranza di
redenzione. Nell’essersi consegnato senza remore al suo processo distruttivo risiede il
titanico eroismo di Baudelaire, impegnato a padroneggiare l’orrore a tal punto da
riconoscergli persino un’imprevedibile grazia.
La trascinante forza di seduzione emanata dall’orrore è il problema con il quale si scontra
anche Dostoevskij a partire da Delitto e castigo. In particolare è a partire dai destabilizzanti
monologhi recitati dal protagonista dei Ricordi del sottosuolo, che si fa strada la
convinzione di un radicamento del male negli strati più profondi della coscienza. I Ricordi
del sottosuolo si compongono di un’ampia polifonia di voci, una polifonia irriducibile
solcata da tensioni stridenti: tale si rivela l’oscillazione tra bene e male. L’intreccio tra
queste due forze è evidente anche in Delitto e castigo in conclusione del quale Dostoevskij
ammette che il male rimane solo una sospensione temporanea di quel male che, ritirandosi,
lo rende possibile. Dove termina questo romanzo inizia un nuovo racconto, questa volta
senza alcun residuo utopico. E’ quanto accade solo qualche hanno dopo nell’Idiota. Il male
irrompe e sommerge anche chi, come il principe Myskin, protagonista del romanzo,
vorrebbe arginarlo. L’anelito a una bontà inarrivabile finisce per ingabbiare Myskin entro la
più paralizzante incapacità d’azione. La vocazione ad agire rimane prerogativa, viceversa, di
chi ignora o usa strumentalmente i principi basilari della morale. La volontà di potenza di
questi personaggi non conosce ostacoli, a differenza della preoccupante stasi imposta dal
bene. Ciò non può che portarci a dire che, nonostante Dostoevskij sia stato un grande
difensore della “buona causa” del cristianesimo, a rifletterci bene non c’è mai stato un
migliore avvocato del diavolo.

Grazie alla polifonia di voci dell’Idiota, adesso Dostoevskij riconosce che il male è
costituito da un vigoroso impulso creativo; anzi, esso è l’unico principio dinamico esistente.
A partire da qua sorge però per lo scrittore un nuovo problema: come raffigurare tramite la
scrittura gli irresistibili effetti del male? Si tratta di un problema squisitamente estetico,
prima che etico e religioso. Come meglio di altri intuisce Lukacs, nei suoi ultimi grandi
romanzi, I demoni e I fratelli Karamazov, Dostoevskij sceglie di esplorare senza più remore
il sottosuolo in cui sprofonda la coscienza, perlustrando “il valore estetico del crimine”.
Questa nuova forma estetica assume la vocazione trasgressiva come la norma basilare di una
giustizia sconosciuta. Per comprenderla è necessario andare oltre il diritto e l’etica. Se “tutto
è permesso”, come afferma Ivan Karamazov, il concetto di perdono appartiene ad una
retorica ormai superata:

Vi è al mondo un solo essere che possa perdonare e che ne abbia il diritto?


Kierkegaard individua nella “malattia” l’elemento caratterizzante dell’esperienza estetica.
Nel Diario del seduttore egli afferma:

Egli non apparteneva alla realtà e tuttavia con essa aveva molto a che fare. Costantemente
l’attraversava di slancio. La realtà non aveva stimolo sufficiente, ma al massimo solo
momentaneo. Non soccombeva sotto il peso della realtà, no, era troppo forte; ma questa
forza era una malattia. Appena la realtà aveva perso il suo significato di stimolo, era
disarmato.

Le parole con cui Kierkegaard descrive Johannes, il seduttore, offrono una diagnosi
puntuale della dannazione a cui sembra votata l’arte moderna. Egli propone da un punto di
vista estetico ciò che abbiamo già visto letterariamente con Baudelaire e Dostoevsij:
l’impatto traumatico derivante dall’abissale distanza che separa il regno ideale dall’universo
fenomenico. Eppure l’esteta non riesce a rassegnarsi a tale evidenza. Risulta impossibile sia
al Don Giovanni di Mozart che a Johannes di Kierkegaard, così come lo è stato per
Baudelaire e Dostoevskij che hanno trovato nel male l’unico antidoto allo scacco
dell’ideale. Chi proseguirà lo scavo nel sottosuolo della coscienza condotto da quest’ultimi
sarà sicuramente chiamato ad imboccare nuove strade. Ogni ulteriore atto di rivolta sarebbe
interpretato, in ambito letterario, nei termini di una pura emulazione.

Ciò che è lecito chiedersi a questo punto è se sia davvero indispensabile appellarsi ad un
individuo eccezionale, in grado di operare una trasmutazione dei valori, di opporre il vigore
rivoluzionario del Male alla retorica consunta del Bene. Se Baudelaire e Dostoevskij non
sono mai riusciti a trovare alternativa alla pervasività del male, significa che al male non c’è
scampo. Molto probabilmente perché il male è parte integrante della chimica dei sentimenti.
Sono sicuramente di questo avviso Kafka e Proust che subiscono entrambi in maniera
molto forte il fascino dei due scrittori prima citati. Entrambi però avvertono anche
l’esigenza di andare oltre. Il male ha perso nella loro artei connotati che lo rendevano
un’esperienza particolare per divenire ciò che tiene insieme i brandelli della comunità
umana.

Agli occhi di Kafka il male non ha origine. Esso esiste e basta. Che il male costituisca uno
dei presupposti della nostra esistenza lo dimostra la sua assoluta autonomia, la sua
irriducibilità a effetto della volontà umana. Esso è talmente plastico ed indistruttibile che si
manifesta sempre in forme diverse, tanto da rendere vana ogni forma di classificazione. Per
Kafka non c’è niente di più insondabile e misterioso della traiettoria propria che segue il
male. Il limite della comprensione gli si affaccia continuamente. Nessuno può resistergli: lo
si può combattere solo restando nell’ambito del suo perimetro, ma senza abbandonarsi a
vendetti di colpevolezza. Ogni racconto di Kafka ruota proprio intorno a questo problema,
come vediamo nel Processo, dove è proprio la ricerca ossessiva da parte di Joseph K. Di
qualcosa che certifichi la propria innocenza a renderlo colpevole.

Anche per Proust il male è una componente del tutto naturale ma egli pone l’accento
sull’apporto decisivo offerto dal singolo soggetto all’espansione dell’indistruttibile forza del
male. L’esplorazione dell’interazione tra la volontà del soggetto e il male a lui connaturato è
condotta in maniera capillare all’interno della Recherche. Gran parte dei personaggi
dell’opera è schiava di una dannazione che si rinnova continuamente e di una salvezza
sempre declinata al futuro. Beckett in un saggio dedicato a Proust parla proprio di quel
“mostro bicefalo di dannazione e di salvezza che è il Tempo”. Tutte le creature di Proust
sono vittime del tempo, poiché consegnate ad un’infelicità senza scampo.

Le aspirazioni di ieri erano valide per l’io di ieri, non per quello di oggi. Siamo delusi per
la nullità di ciò che ci piace chiamare conseguimento.

Sull’insoddisfazione, quella “mancanza” originariamente inscritta nel desiderio, punto


centrale anche degli Scritti di Lacan, naufragano innumerevoli volte i personaggi della
Recherche. Per sopravvivere ognuno di loro ha una sola scelta: tentare di trasformarsi da
servo della passione in suo padrone tanto che Benjamin legge nell’opera proustiana un
indizio recondito di sadismo. Il male circola nelle sue opere come lo strumento più efficace
per garantire , almeno provvisoriamente, una chance di sopravvivenza. Inutile, però. Non
c’è salvezza dal Tempo che secerne il male come veleno e insieme come antidoto. Il
Narratore di Dalla parte di Swann, primo volume della Recherche mostra proprio come la
crudeltà possa essere talmente insita nella chimica dei sentimenti umani da apparire ingenua
ed al contempo necessaria. E’ l’unico legame che unisce realmente due individualità,
descritto dal Narratore come “quel sentimento di venerazione che tributiamo sempre a
coloro i quali esercitano senza freno il potere di farci del male”.

Beckett sottoscrive questa tesi in molte delle sue opere tra cui Murphy e alcune pieces
teatrali, tanto che Adorno in un saggio dedicato a Finale di Partita ha rilevato come nelle
sue opere il male si presenti come ciclico. Non è mai rintracciabile un’ultima sventura: ne
esiste sempre un’altra pronta a subentrare.

Neanche nelle opere di Gadda è possibile riscontrare una sventura davvero ultima.
Consegnandosi attraverso la Cognizione del dolore allo scavo delle proprie ossessioni,
arriva alla conclusione che il “Male inevitabile è immediato e immedicabile, oltre che
invisibile” e dunque localizzato dovunque.

Quest’ultima convinzione è quella che ha sempre accompagnato Durrenmatt che si è


impegnato senza sosta per decifrare la natura enigmatica del male. Egli afferma che “il bene
e il male cadono in tasca alla gente per caso, come a una lotteria”.

Beckett, Gadda e Durrenmatt: la svolta fisiologica impressa da Kafka e da Proust


nell’interpretazione del male non avrebbe potuto trovare eredi di maggior levatura. Grazie a
loro una rete di complicità sotterranee lega indissolubilmente la scrittura e il male.
CAPITOLO DUE – L’ODORE DEL SANGUE

Grazie a Beckett, Gadda e Durrenmatt la scrittura letteraria si impegna a metabolizzare


l’aspetto traumatico del male, superando l’interdetto che ha sempre gravato sulla sua
scandalosità. Nessuno di loro tuttavia rientra in una tradizione comune: le loro convergenze
non potranno mai offuscarne l’inimitabile aura individuale. E’ con loro che si conclude
quella tradizione che attribuiva alla scrittura letteraria un’aura creativa di assoluto rilievo.
Dopo di loro lo scrittore tira fuori i panni dell’attento cronista del presente. E’ il
procedimento messo in atto di fronte al dilagare del male nel mondo contemporaneo da
molti artisti e scrittori, “uomini comuni” come quelli di Kafka, che appaiono di colpo
indifferenti alla configurazione etica del male. Per loro la consapevolezza individuale non
consente nette distinzioni tra bene e male. La cancellazione dei già labili confini tra i due
sembra essere il naturale effetto a livello della realtà degli “uomini comuni” della
riformulazione filosofico-politica del rapporto tra sapere e potere, tema principale della
riflessione di Foucault. Venendo meno un centro unico di sovranità -osserva il filosofo in
Volontà di sapere- il potere si articola attraverso un “gioco di relazioni disuguali e mobili”
che danno luogo ad una “molteplicità di punti di resistenza”. Il potere del Bene, la sua
tirannica imposizione quale modello privilegiato ha finito per generare internamente il male
come “punto di resistenza”. Prima ancora delle risposte, mancano le domande riguardanti il
male. Lo si finisce per compiere e subire con altrettanta irresponsabilità, come leggiamo
nelle Paricelle elementari di Houellebecq.

Particelle elementari

Michel Houellbecq in questo romanzo descrive l’irresponsabilità con cui si compie e


subisce il male come “distacco sensoriale”. La storia segue l’intera vicenda esistenziale di
due fratellastri, Michel e Bruno, incredibilmente diversi tra loro: il primo biologo di grande
successo vittima di una vera e propria paralisi emotiva, il secondo assillato da un’avidità
sessuale talmente incontenibile da richiedere un trattamento psichiatrico. Ad unirli è la
medesima atrofia percettiva che impedisce ad entrambi qualsiasi forma di relazione. Sia
Annabelle che Christiane, dopo aver rivolto loro un’infruttuosa richiesta di aiuto, finiranno
per suicidarsi nella sostanziale indifferenza dei due fratelli. Michel e Bruno vanno assolti o
condannati? Per Houellbecq non possono che essere assolti proprio in virtù del vuoto che li
assedia. Parlando di Michel egli afferma:

Di colpo ebbe la sensazione che la sua intera vita sarebbe stata simile a quel momento. Lui
avrebbe attraversato le umane emozioni. Gli altri avrebbero conosciuto la felicità o la
disperazione; nulla di tutto ciò sarebbe mai riuscito a riguardarlo o a colpirlo. Aveva
avvertito il desiderio di riscuotersi, ma non c’era riuscito. Si sentiva separato dal mondo da
qualche centimetro di vuoto che formava intorno a lui un guscio o un’armatura.

Di fatto Michel non desidera nulla. La sua inerzia pulsionale è simile ad una distesa di
“acqua gelida”.
Trasposte sul versante di un’irrefrenabile erotismo sono le medesime alterazioni che
troviamo in Bruno. Ciascun frammento della realtà gli si presenta come una dilatazione
della sfera sessuale. Per sessualità Bruno intende “il desiderio sessuale allo stato bruto”
destinato a rimanere costantemente inappagato. La libido sessuale infatti -come suggerisce
Lacan- rifiuta la soddisfazione proprio per preservare la funzione del desiderio. Il rapporto
tra Bruno e Christiane inizia proprio all’insegna di questo “desiderio sessuale allo stato
bruto”. La loro unione avviene in modo talmente brusco da impedire il riconoscimento delle
rispettive individualità. Tra di loro si instaura così una pericolosa simbiosi. E’ la stessa
pericolosa simbiosi di cui parla lo psicanalista Anzieu nell’opera L’io-pelle, quando afferma
che “in mancanza di un sentimento organizzato, la distinzione chiara tra il Sé e le
rappresentazioni d’oggetto non ha possibilità di emergere”. Il corpo femminile in particolare
è frazionato in una serie di particolari anatomici (es. “quando ho sentito la tua bocca non ti
avevo neanche vista in faccia”). Bruno di conseguenza non ha colpa se si dimostra
insensibile al richiami affettivi di Christiane: l’amante non riesce ad apparirgli sotto
l’aspetto di un organismo unitario.

Nel corso del romanzo Michel giunge proprio alla conclusione che, come avviene per la
galassia di particelle elementari di cui si compone l’universo, non esiste un nesso che leghi
gli eventi tra di loro. Quella che ci ostiniamo a definire libertà è soltanto l’effetto di
un’incalcolabile imprevedibilità che finisce per cancellare ogni residuo di colpevolezza. Il
male non riceve accesso alla coscienza, ma diviene l’effetto di un’inconsapevolezza
generalizzata. Il nichilismo sempre più radicale di Michel lo porterà all’elaborazione teorica
di una vera e propria palingenesi della specie umana che però potrà riscoprire il valore del
bene solo a seguito di una mutazione genetica, preceduta dall’estinzione dei suoi ultimi,
corrotti rappresentanti.

Piattaforma

La tensione erotica in quest’opera, sempre di Houellbecq, supera le barriere del disagio


psichico personale per assumere i caratteri di una vera e propria operazione imprenditoriale.

Da un lato abbiamo centinaia di milioni di occidentali che hanno tutto quello che vogliono,
ma non riescono a trovare soddisfazione sessuale. Dall’altro lato abbiamo svariati miliardi
di persone che, invece, non hanno letteralmente niente da vendere a parte il proprio corpo
e la propria sessualità intatta. Non esiste nessun settore economico che possa reggere il
confronto.

Sono parole di un altro Michel, che qui mostra però i tratti di Bruno. Egli decide di
trasformare questo “desiderio comune a centinaia di milioni di occidentali” in una
gigantesca operazione commerciale. La sproporzione numerica tra le due parti garantisce
una situazione di scambio ideale poiché permette al desiderio di conservare la propria
indomabile vitalità. Ai suoi occhi il corpo, trasformato in un puro dispositivo sessuale,
diviene nient’altro che una macchina e gli organi sessuali sono l’unica compensazione alla
nostra infelicità che il dio che ci ha creati effimeri, inutili e crudeli ci ha dato. Per Michel il
valore del corpo femminile risiede unicamente nelle sue prestazioni sessuali a tal punto da
portarlo -come avviene con Valerie- a provare persino una gratitudine travestita da
innocenza sentimentale. Non può essere che Valerie il partner con cui Michel porta a
compimento il suo progetto di imprenditoria sessuale, che consiste nell’insediamento di
villaggi turistici in Africa, Asia ed America Centrale con la sola finalità della libera
circolazione del desiderio.

Allo stesso tempo il corpo di Valerie, che si mostra a lui come un assemblaggio di
immagini, non può far altro che svanire all’improvviso: è quanto le accade, vittima di un
attentato terroristico di matrice islamica proprio in uno dei loro villaggi turistici. Michel,
rimasto solo, cade in una prolungata atonia. Egli si consegna senza remore alla trafila di
ombre che gli passano davanti cancellando ogni suo legame con la realtà. L’ossessivo
desiderio che lo incalza non potrebbe trovare un esito più penoso, un esito in cui persino la
sua crudeltà è costretta a riconoscere la propria frustrante impotenza.

Antichrist

Un’altra rappresentazione del delirio allucinatorio derivante da un desiderio continuamente


annientato nello spreco ci è dato anche da Lars von Trier nel suo film Antichrist. Nella
prima scena, mentre risuona nell’aria Lascia ch’io pianga mia cruda sorte, tratta dal
Rinaldo di Handel, i corpi dei due coniugi protagonisti si uniscono con inaudita intensità che
emerge dai primi piani dei loro volti e dai dettagli dei loro movimenti. La loro accecante
passione che, all’insegna della totale esclusione del mondo esterno che provoca, si configura
come hybris contiene in sé il germe del male. Nella stanza accanto infatti, il figlio della
coppia, lasciato a se stesso, si sporge dalla finestra e si getta nel vuoto. A seguito della
morte del piccolo i due coniugi vengono risucchiati in una spirale di conflittualità che li
porta,una volta accantonata questa traumatica esperienza, rimasta solo il motivo originario
della loro reciproca ostilità, a gettarsi in un feroce antagonismo. La donna cerca una
riconciliazione impossibile e violenta attraverso una sessualità sempre più aggressiva,
mentre il groviglio di pulsioni insensate che lo soffocano spinge l’uomo ad ucciderla. Ma
conta poco chi sopravvive quando il male è penetrato in ogni segmento del loro corpo
desiderante.

Pianista

La Pianista, film di Haneke, si configura come il polo esattamente opposto ai romanzi prima
citati. Niente quanto il “desiderio sessuale allo stato bruto” è temuto da Erika, la
protagonista del film. Eppure gli effetti devastanti del desiderio non risparmiano neanche
lei, nonostante tenti di sottrarsi ad essi fino al più doloroso e sterile sacrificio, arrivando
persino ad infliggersi innaturali e traumatiche mutilazioni. Erika non si evita certo l’impatto
con altre espressioni del male che riesce a presentarsi a lei sotto l’aspetto non di uno spreco,
ma di una rinuncia spietata e stimolante.
L’idelizzazione

La parabola nichilistica compiuta da tutti i personaggi precedentemente citati può essere


ripercorsa anche da parte di una tensione puramente idealizzante, pulsione antitetica al
desiderio sessuale. Anche in essa, infatti, il male può abilmente mimetizzarsi.

L’odore del sangue

L’Odore del sangue di Goffredo Parise è un testamento sanguinante, un romanzo nutrito di


sessualità platonica. La contraddizione tra tale sessualità ed il richiamo animalesco
esercitato dal sangue è solo apparente. La voce narrante è quella di uno dei due coniugi
protagonisti, Filippo, che racconta del suo matrimonio durato oltre un ventennio con Silvia.

Il sentimento tra me e Silvia era amore platonico. Il sesso non è mai stato per Silvia la cosa
più importante. Donna sensuale, Silvia ha sempre sublimato il sesso in sentimento materno
e dedizione quasi religiosa.

Filippo, psicanalista di professione, ha sublimato il corpo per natura seducente di Silvia in


un’immagine ideale e tanto più seducente quanto inafferrabile. Dietro l’amore platonico che
la lega si intravede la sagoma di un’antica guerra dei sessi:

Ma quale donna non è un po’ masochista e quale uomo un po’ sadico. Ma sia quel po’ di
masochismo in lei che quel po’ di masochismo in me erano appunto sublimati nell’amore
l’uno per l’altro che si esprimeva sostanzialmente nella nostra lontananza. Io scappavo
sadicamente da Roma e andavo da altre donne e Silvia rimaneva a Roma sublimando e non
amando masochisticamente nessun altro all’infuori di me. Avevo intuito che Silvia mi
amava proprio perché ero così, perché fuggivo. La mia figura si adattava perfettamente
alla sua fantasia romantica ed infantile.

Filippo costruisce continuamente alibi per poter persistere nell’appagamento che gli dà
possedere non un corpo ma un’idea. Egli non pretende comunque la sua piena
approvazione:

Il mio rapporto con lei mostrava tutte le caratteristiche del plagio. Questo mi risultava
insopportabile tanto più che non ero io ad imporglielo, ma lei a richiederlo. Se io avessi
comandato a Silvia qualche cosa, anche la più impossibile, lei l’avrebbe fatta.

Silvia dunque si sottomette a Filippo spontaneamente, formulando una “richiesta di


comando”. Ci troviamo di fronte a quella che Levinas definisce la violenza più difficile da
fronteggiare, quella del far recitare alle persone delle parti nelle quali non si ritrovano.
Silvia va scomparendo quale donna per trasfigurarsi nell’ideale che Filippo scorge in lei,
accecato come il Don Giovanni di Mozart nella lettura di Kierkegaard da un’immagine della
“femminilità completamente astratta”. Don Giovanni trasfigurava ed espugnava ogni
fanciulla tramite la sua potenza sensualmente idealizzante: come lui anche Filippo riesce a
coniugare due polarità –quella del desiderio sensuale e quella della tensione idealizzante-
solo apparentemente inconciliabili. Non è Silvia dunque, come sembra credere Filippo, ad
aver sublimato platonicamente la propria sensualità, ma è lui ad averle imposto una
metamorfosi.

All’improvviso Filippo scopre che la moglie lo tradisce, tuttavia tale rivelazione non causa i
traumi che lui si sarebbe aspettato. Egli matura la convinzione di dover inglobare il
tradimento di Silvia nella solida cornice del loro rapporto: in tal modo il possesso di Silvia
sarebbe totale e tale da neutralizzarne la trasgressività. Il risveglio del corpo della donna è,
sì, pericoloso, ma mai quanto l’improvvisa accensione dell’immaginazione di Filippo,
scivolata da anni in letargo. Lo scontro, infatti, fin dall’inizio non può che rivelarsi impari.
Non a caso Silvia, nonostante la sua rinascita erotica (come Thereza?), non sfugge mai da
Filippo, che, avvalendosi dell’abilità introspettiva da psicanalista, rielabora in uno scenario
delirante ciò che avviene tra i due amanti.

Quando Silvia è trovata morta, in una nudità coperta di sangue, Filippo ammette la sua
colpevolezza, riconoscendosi come “vero mandante” della sua morte. Poco dopo egli
dichiara la propria innocenza: egli non ha colpa se era abbagliato dalla vana aspirazione di
riportare sulla terra un’idea.

Ieri

Il desiderio irresistibile di Filippo, la sua attrazione per l’odore del sangue, non è però una
patologia isolata. Filippo non è l’unico che finisce per annientare la presenza reale di una
donna con l’alibi di una sua suprema valorizzazione. C’è chi lo fa (e compie davvero un
omicidio) nel tentativo di aggrapparsi alla funzione salvifica attribuita ad un fantasma. E’ il
caso di Tobias, protagonista di Ieri, romanzo della scrittrice Ungherese Agota Kristof.
Tobias, nato in un villaggio senza nome in cui la madre è considerata “la puttana”, per
sopravvivere trova un riscatto nella scrittura. Egli sottrae gli eventi al proprio fluire per
poterli comprendere, ma ogni volta esaminato retrospettivamente, scopre che ogni evento si
deforma. La scrittura non deve comunicare qualcosa, deve impedire agli eventi di
scomparire attraverso una loro costante metamorfosi, un insieme di associazioni
imprevedibili. E cosa c’è di più imprevedibile che attendere Line, un personaggio inventato?
Tobias sa che Line non esiste secondo le regole dell’esistenza sensibile, ma ciò è per lui del
tutto insignificante. Egli afferma, parlando con lo psichiatra:

So che da qualche parte lei esiste. Ho sempre saputo di essere venuto al mondo solo per
incontrarla. La mia donna, il mio amore, la mia vita. Non l’ho mai vista.

Allo stesso tempo, però, Tobias si accanisce per negare a Line ogni diritto di esistenza:
altrimenti come potrebbe sopravvivere in forma puramente ideale? Non a caso Tobias
provvede ad uccidere realmente la madre, la quale porta davvero il nome di Line. Tutte le
altre Line che incrocia sono il risultato della sua spudorata manipolazione. Nella sua ricerca
ossessiva e paradossale di Line egli rimane destinato a privare di qualsiasi impulso vitale
tutte le Line in cui si imbatte.
Tutti bambini tranne uno

Dietro gli ossessivi ideali femminili celebrati da Filippo nell’Odore del sangue e da Tobias
in Ieri si nasconde, ancora una volta, la demoniaca furia dell’esteta di Kierkegaard. Questa
tenace propensione verso la dimensione ideale può però anche estendersi ad altri rapporti,
come quello tra il padre ed una figlia di quattro anni che sta morendo. E’ la storia
autobiografica di Philippe Forest che nella prima pagina si rivolge alla figlia Pauline, ormai
scomparsa, in questo modo:

La vita vera è più dolce per gli orchi che per i bambini. L’esistenza è una favola chiara e
crudele. La nostra storia è una fiaba di terrore e tenerezza che si dice all’incontrario e
comincia dalla fine: erano sposati, vivevano felici e contenti, avevano una bambina…

E’ una storia che ha come oggetto un unico evento, la morte di Pauline, di fronte alla quale
Forest abbandona ogni strategia difensiva. Egli è convinto infatti che quando le radici del
male affondano nell’inspiegabilità, bisogna cedere al male. Trasformare la malattia della
figlia in un gioco macabro e spericolato è ’ l’unico modo per affrontare il male senza
soccombere.

Facciamo che invece la malattia ce la immaginiamo come un grande gioco terribile,


complicato, allegro. Ci divertiamo tanto nella tranquilla atrocità delle cure, degli esami,
dei farmaci somministrati con discrezione.

Quando la malattia comincia a corrodere il corpo di Pauline, la scrittura non solo assimila,
ma incorpora le sue mutazioni patologiche. Le figure divengono sfocate, lo spazio si allarga,
il tempo si dilata. Non si può più dire niente del tempo che ha preceduto l’ospedale e
nemmeno di quello che seguirà. Ma non appare voto solo l’orizzonte della temporalità: lo è
anche l’intera trafila di corpi incrociati o, viceversa, esclusi dallo sguardo di Forest e della
moglie che hanno ormai dimenticato che ci sono facce diverse rispetto a quelle che vedono
ogni giorno in ospedale. Tutti gli altri non esistono più, se non come fantasmi. Non c’è più
niente di solido, nemmeno il suo corpo, ridotto ormai ad un involucro che contiene puri
segni. Persino la morte comincia ad assumere l’aspetto di una forma vuota. L’unica
possibilità di cui dispone lo scrittore per arginare l’invadenza progressiva del male risiede
nella capacità di intrecciare le immagini che gli si parano di fronte.

Forest parla della figlia come se il congedo fosse già arrivato ed allo stesso tempo lo proietta
in un tempo lontano. Tra di loro si instaura una sorte di sfida. Chi è morto possiede
comunque una forza indomabile: quella di sostenere il ricordo di chi sta in vita. A costui
spetta il compito di onorare tale ricordo, ma anche di congedarsi continuamente da esso per
poter sopravvivere. E’ quanto descrive Elias Canetti in Potere e sopravvivenza:

Il confronto con il morto è un confronto con la propria morte. L’uomo non crede mai del
tutto alla morte finchè non l’ha sperimentata. E la sperimenta negli altri. Ogni singolo che
muore lo convince della morte ed è morto in sua vece.

Anche di fronte alla morte di una figlia di quattro anni le strategie della sopravvivenza non
smettono di valere. Scrive Forest:
Bisogna che la vita continui e lasci ai morti il compito di seppellire i morti. Coloro che
sopravvivono fabbricano rituali di illusione, la scrittura è uno di questi.

Forest comprende che il dolore divide, non unisce chi lo prova; che il male non consente
alcuna solidarietà, ma genera sempre un antagonismo. Il padre deve sopravvivere e dopo la
morte della figlia non gli resta che affrontare l’irragionevolezza del modo, a partire dalla
propria. Forset ne parla nel romanzo successivo Tutta la notte e nel saggio Anche se avessi
torto. E’ la sua irragionevolezza ad aver reso la figlia “un essere di carta” e la sua scrivania
un “teatro d’inchiostro” dove ancora si recitavano le sue avventure. Ma le parole non danno
soccorso, nonostante risultino necessarie per sopravvivere.

Non c’è libro che possa rimpiazzare un corpo. Le parole mentivano, ma, così facendo,
strappavano il passato alla sua morta immobilità e ne rimettevano in gioco gli istanti.

La Mourge

Forest intende trasporre l’esperienza del male in forma estetica, come farà anche Andrea
Serrano nel suo ciclo di fotografie La Mourge. Il fotografo, ritraendo molti cadaveri ed in
particolare i segni della loro pregressa sofferenza, sottrae l’esperienza dall morte alla non-
vita per tradurla appunto in forma “estetica”. Accade così che la dolente compostezza
impressa nel volto infantile di uno dei suoi ritratti (Pneumonia Due to Drowning II)
restituisca il volto di Pauline, osservato dal padre.

Grossman

Non tutti pensano che le parole siano prive di soccorso. Se Forest scrive per protrarre nella
sua follia il dialogo fantasmatico con Pauline, Grossman si affida completamente al balsamo
della scrittura per superare il dolore derivante dalla morte del figlio Uri, morto nelle prime
battute della guerra del Libano. Egli inoltre si serve delle parole per esorcizzare la catastrofe
della guerra e per condannare una collettività che mette costantemente in scena
un’incontrollabile violenza autodistruttiva. Ci troviamo dunque di fronte ad una “letteratura
terapeutica” che punta a debellare la spinta disgregatrice del male. Ciò può avvenire
secondo lo scrittore sulla base del riconoscimento di una solidarietà di fronte al male ed alla
sua insensatezza.

Cattelan

Meglio però arrendersi all’insensatezza del male, ricondurlo all’immanenza: dove non
esistono né denuncia, né scandalo, né il fervido ossequio che si deve ad un principio
superiore. Non c’è più alcuna traccia nel nostro presente del dialogo di Giobbe -il giusto
perseguitato dal male- con Dio. Se non dovesse bastare l’impegno di Forest contro ogni
entità trascendente, basti pensare alle provocatorie illustrazioni di Maurizio Cattelan. Forest
si è astenuto dal sollevare qualsiasi interrogativo etico sulla tragica morte della figlia,
trovando l’unica “risposta adeguata” a questa esperienza senza senso in un processo di
straniamento. E cosa c’è di più straniante dei tre bambini impiccati ad una quercia
nell’installazione di Cattelan a Milano? Essi sono morti, ma per quanto morti mantengonop
comunque gli occhi aperti e costringono l’osservatore a ricambiarne lo sguardo, a fissare
l’espressione suprema del male.

CAPITOLO TRE – IL DIAVOLO NON ESISTE

Inoltrandoci negli ultimi decenni del Novecento abbiamo avuto modo di sperimentare come
il male abbia perso il suo aspetto esplicitamente trasgressivo per rientrare nella normalità
dell’esperienza. La riflessione sul male ha perso le sue radicate connotazioni etiche per
acquistare viceversa uno spessore estetico, percettivo (rifacendosi proprio all’etimologia
della parola aisthesis). Ma va ricordato che l’intero spettro della percezione è sempre
solcato da laceranti conflitti e contraddizioni. Le molteplici alterazioni dell’attività
percettiva che, secondo Bion, sono riconducibili ad una mancata elaborazione da parte del
pensiero, incapace di trasporre le “impressioni sensoriali” in una sequenza coerente di
immagini, sono alla base di quello che Houellbecq definisce “distacco sensoriale”. Un
“distacco sensoriale” che Antonio Damadio, nell’ambito delle neuroscienze, sta ormai da
anni analizzando in qualità di “deficit percettivo”. Più che una patologia collettiva, tuttavia,
questo distacco dovrebbe essere oggi considerato una nuova modalità percettiva sempre più
totale e totalizzante. Comunque la si metta, la convergenza di studi provenienti da ambiti
molto diversi è un chiaro segnale dell’ampiezza del problema.

Ma attenzione: la consapevolezza di un distacco sensoriale non implica un’assunzione di


responsabilità. Se così fosse, l’insensatezza con cui si sono scontrati fino ad adesso gli
autori considerati sarebbe neutralizzabile ed eviterebbe la dannazione alla quale sembra
consegnarsi l’esteta di Kierkegaard. Thomas Benhard, più grande teorico
dell’irresponsabilità individuale in Estinzione parla di “natura diabolica dell’uomo”.

American Psycho

La classificazione delle perversioni derivanti dalla “natura umana” viene fatta da Ellis nel
romanzo American Psycho. Il suo protagonista, Patrick Bateman, è un personaggio perfido
che reagisce ad ogni ostacolo recidendolo con una brutalità pari alla nonchalance
dimostrata. Nulla deve turbare la reiterazione frenetica delle attività che compie senza
neanche conoscerne lo scopo. Egli non ha difficoltà a confessare di provare “sensazioni
indefinite” e di vivere in una spersonalizzazione talmente intensa da non provare più alcuna
compassione per niente e nessuno. Oltre a riproporre gli attributi tipici di un dandy egli
aggiunge un macabro rituale: con frequenza ricorrente si trasforma di notte in un seviziatore
ed assassino freddo e sanguinario. Le ragioni dei suoi gesti rimangono sconosciute a lui
stesso.
Giungo alla conclusione che Patricia è salva per questa sera. Non estrarrò
improvvisamente un coltello w non lo userò su di lei. E’ fortunata, ma non esiste alcuna
ragione vera per la sua fortuna. E’ così che va semplicemente il mondo. Il mio mondo.

Ciò che appare evidente al lettore è l’assoluta autoreferenzialità di ogni sua esperienza. Ciò
che a Patrick manca completamente è la capacità di elaborare i singoli elementi della sua
esperienza sregolata per poterli ricondurre ad entità unitarie e concrete. Egli vive “solo per il
momento”. Ci troviamo di fronte all’incrinata capacità di simbolizzare nella quale Bion
rintraccia il modello tipico dell’alterazione psichica. I fenomeni sono infatti per lui privi di
significato e devono essere collegati insieme affinché si possa pensarli. Non sorprende
dunque che per Patrick concetti come “frammentazione” e “lacerazione” appaiano come una
diramazione immediata del suo “Io”. Le percezioni di Patrick si tramutano sempre e
meccanicamente in atti (es. sentirsi svuotato equivale al dissanguare un corpo ecc). Il
motivo per cui di notte si trasforma in seviziatore si trova talmente incapsulato nella sua
esperienza sensoriale da rimanergli estraneo. Tutto appare a Patrick completamente
indecifrabile, a partire dall’avidità sessuale di cui è schiavo che non ha nulla a che fare con
il desiderio, ma è prodotta dalla fascinazione che egli prova verso la coazione a ripetere. La
sua furia assassina -a riprova dell’assenza di un impulso erotico alla base- non si rivolge
soltanto nei confronti di giovani ed avvenenti donne, ma è indirizzata verso obiettivi sempre
nuovi.

E’ proprio l’uccisione di un bambino di cinque anni ad avere per lui un prologo


sconcertante:

Mi sento svuotato e il mio istinto omicida che riaffiora, scompare, riaffiora, scompare di
nuovo, pare quasi in letargo. Anche se dapprima sono soddisfatto delle mie azioni, vengo
improvvisamente sconvolto da una cupa disperazione all’idea di quanto inutile e
straordinariamente indolore sia ammazzare un bambino.

La caratteristica principale della mania risiede, secondo quanto teorizzato da Binswanger in


Melanconia e mania, nell’“impossibilità di costruire un mondo comune” a cui si
contrappone piuttosto una solipsistica successione di “presenti puri” (no temporalizzazione).
Il maniacale “consuma” il suo ambiente, lo “succhia a sangue”. Ciò significa che Patrick
non risulta essere solo un’eccezione creata da Ellis con plateali intenti. L’impossibilità di
stabilire una continuità temporale impedisce a qualsiasi idea di divenire un principio
generatore di senso. Patrick sperimenta dunque quella che Binswanger definisce “fuga dalle
idee”, un processo di confusa sottrazione si senso. Bisogna attendere gli ultimi capitoli di
American Psycho perché lui stesso ne diventi consapevole:

E’ dura per me avere un senso. La mia personalità è abbozzata, informe. Sono oltre tutto il
dolore che ho causato e anche oltre la totale indifferenza. Mi tengo ancora saldo ad un’
unica, squallida verità: non si salva nessuno, non c’è redenzione per nessuno. Dunque non
mi si può biasimare. Il dolore che provo è costante, acuto. Desidero infliggere agli altri il
mio stesso dolore. Ma anche dopo aver ammesso tutto questo, non c’è catarsi. Non ho
acquisito alcuna conoscenza più approfondita di me stesso. Questa mia confessione non
significa niente…
Ne deriva che “il male è l’unica cosa permanente”. Patrick assume qui tutti i connotati della
“figura doppia” dell’esteta. Da un lato appare votato all’annientamento sistematico di ogni
realtà, dall’altro la sua vicenda mette in luce l’inalterabile potenza che il mondo del senso
continua a possedere proprio in virtù della propria inafferrabilità.

L’avversario

La “fragilità della percezione”, teorizzata da Merleau-Ponty alla fine degli anni cinquanta,
è divenuta oggi una condizione psichica globalizzata. Fragili, nella loro scomposta
disgregazione, si rivelano tutti i personaggi di Emmanuel Carrère. Essi entrano in scena già
consumati ed in balia della propria violenza immotivata. Nonostante questo l’autore non può
fare a meno di assolverli proprio in virtù della semplicità straniante attraverso la quale
riescono a compiere anche le azioni più spregevoli. E’ il caos di Jean-Claude Romand,
protagonista dell’avversario, un uomo realmente esistito che ha sterminato genitori, moglie
e figli e poi ha tentato invano il suicidio. Dall’indagine successiva emerge il reale corso
della sua vita che Carrère riporta in una presentazione del suo libro:

L’indagine ha rivelato che non era un medico come sosteneva e che, cosa ancora più
difficile da credere, non era nient’altro. Mentiva da diciotto anni, ma la sua menzogna non
copriva nulla. Quando stava per essere scoperto ha preferito sopprimere tutte le persone di
cui non avrebbe mai potuto reggere lo sguardo. Ho tentato di raccontare giorno dopo
giorno questa vita di solitudine, di immaginare cosa gli passava per la testa durante le
lunghe ore vuote che avrebbe dovuto trascorrere al lavoro e invece passava nei parcheggi
autostradali.

Questo tipo di opera, detta comunemente non-fiction novel, vede il proprio capostipite in
Truman Capote che in A sangue freddo aveva raccontato la vicenda di due giovani che
avevano sterminato un’intera famiglia per ricavarne un misero bottino. Grazie alla massima
complicità che Capote era riuscito ad instaurare con i due, egli era riuscito a ricostruire
sapientemente le loro percezioni. Il caso che prende in considerazione Carrère è ancora più
particolare perché risulta privo di una motivazione, si regge sulla “fuga dalle idee”. Non c’è
bisogno necessariamente di un trauma retrostante per compiere una strage. Basta
l’incapacità di dare una forma ad una ressa di immagini smembrate che di norma alimentano
l’esperienza di ogni soggetto. Quella di Jean-Claude è una vita “fantasma”.

E’ impossibile pensare a questa storia senza immaginare che sotto ci sia un mistero, una
spiegazione nascosta. Ma il mistero è che non esistono spiegazioni.

Carrère lo abbandona dopo il processo in preda ad un nuovo autoinganno imperniato attorno


all’espiazione religiosa. Egli si chiede se quando afferma che Cristo è entrato nel suo cuore,
Jean-Claude non stia di nuovo cadendo nella rete dell’avversario. L’autore riconosce in
questo avversario che è in lui e che si presenta tanto infido, quanto disponibile la forma
inestirpabile del male.
2666/Terzo Reich

Anche il male che traina le situazioni più diverse messe in scena da Bolano risulta
immotivato. Lo è per esempio l’interminabile trafila di omicidi femminili che si susseguono
nella cittadina di Santa Teresa in 2666 e sono ispirati ad un fatto realmente accaduto. Nelle
maglie della casualità entro cui lo scrittore sospende la soluzione dei trucidi eventi si fa
spazio un’estrema anarchia, nonché la tendenza della società contemporanea a normalizzare
la barbarie.

Il tema dell’insensatezza viene riproposto da Bolano in Terzo Reich tramite la passione


ossessiva che Udo Berger nutre per un wargame che ruota intorno alle imprese belliche
proprio del Terzo Reich. Udo non si limita a alle possibilità previste dal gioco. Vuole essere
lui l’ideatore di una nuova guerra. I personaggi e le combinazioni del wargame escono dal
recinto ludico per materializzarsi in figure e situazioni poco comprensibili. Ben presto dal
wargame si diffondono i germi di un male che lo lascia preda degli avversari creati da lui
stesso, affini all’“avversario” che ha divorato Jean-Claude Romand.

Him

In una delle sue installazioni più celebri Cattelan mette in scena un’immagine paradossale
di Hitler, notoriamente riconosciuto come immagine del male assoluto ed irrimediabile.
L’opera, dal titolo apparentemente neutro in terza persona, coglie Hitler in una posa che
produce nell’osservatore un immediato choc visivo. Modellata sulle dimensioni fisiche di un
bambino, inginocchiata, con le mani intrecciate e gli occhi spalancati verso l’alto, la statua
tenta di invertire la storia. Alla hybris disumana si è sostituita un’inerzia schiacciata dai
sensi di colpa. Nella grande sala in cui è posta l’installazione domina il vuoto. C’è
unicamente Hitler, con il carico insopportabile del male compiuto. Cattellan a proposito
della propria opera afferma di non aver cercato di innescare alcun conflitto, ma di aver
voluto unicamente che tale immagine divenisse la cartina al tornasole delle nostre psicosi
(“il diavolo non esiste”)

Him (II)

Anche il gruppo teatrale Fanny&Alexander ha riproposto la figura di Hitler riprendendo


esplicitamente dall’opera di Cattelan l’emblematico titolo. Secondo loro dietro
all’espressione sgomenta della statua si nasconde il travestimento di un camaleontico attore
in grado di indossare qualsiasi maschera, un attore votato all’autodistruzione. La sua
stupefacente capacità recitativa coincide infatti con l’annientamento della propria identità e
di conseguenza anche del proprio potere.

Moloch

E’ sempre la figura di Hitler a divenire grottesca marionetta in un film di Sokurov dal titolo
Moloch. In un castello sulle Alpi Bavaresi dove egli trascorre qualche giorno di vacanza con
Eva Braun ed i coniugi Goebbles, si assiste ad un clamoroso ribaltamento della sua figura
che da malefica incarnazione del potere diviene patetica controfigura del Fuhrer. Sul suo
volto sono scolpiti i segni della resa. Hitler riesce via via a svelare tutta la sua insensatezza.
Non c’ una sola parola da lui pronunciata che abbia senso. Accerchiato dalla paura della
solitudine e dal disprezzo verso chi lo circonda, Hitler ribadisce la sua insensata aspirazione
all’immortalità. Egli vuole dominare la morte, vuole sconfiggerla, ma ciò è impossibile
-come gli ricorda Eva Braun-.

Storia naturale della distruzione?

C’è anche qualcuno che ha scelto di arrendersi agli atti nefasti prodotti dalla storia del
Novecento, solo per poterli comprendere più da vicino. Uno di questi è sicuramente Sebald
che in Storia naturale della distruzione? Riesce a guardare oltre quelle “menti smaniose
d’ordine” che erano state e continuavano ad essere intere generazioni di tedeschi che
vivevano nell’ansia di ritoccare l’immagine che la storia aveva dato di loro. Tali
generazioni, nella smania di cancellare le proprie colpe sono apparsi totalmente incapaci di
consegnare alla memoria ciò di cui erano stati testimoni. Sebald si concentra principalmente
sulle devastazioni subite dai maggiori centri abitati tedeschi e si accorge che la loro portata è
stata talmente ampia da delineare con il tempo uno scenario storico e geografico quasi
familiare, come una seconda natura (grazie anche e soprattutto alla capillare dissimulazione
della catastrofe portata avanti da Hitler e dai suoi collaboratori). Nel tessuto percettivo della
collettività si apre così una profonda lacerazione:

Il sovrapporsi di idee paranoici da una parte e la capacità di condurre una vita


completamente normale dall’altra sono stati il segno della deformazione percettiva che ha
colpito il popolo tedesco durante la prima metà del XX secolo.

Il lato paranoie viene individuato da Sebald nella leggenda del nemico invisibile ma
onnipresente che disgregava dall’interno l’organismo della nazione. In questo frangente la
“deformazione” svolgeva una funzione protettiv perché inglobava questo avversario nella
vita pressoché normale del popolo tedesco, capace comunque di convivere pacificamente
con tale allarme. Questa funzione protettiva non si limita alla guerra, ma condizionerà da
ora in poi la risposta del polo tedesco agli eventi traumatici. Essa si esprimerà per lo più
tramite l’impassibilità ed il distacco sensoriale.

18. Oktober 1977

Questo ciclo di quindici Fotobilder, tele tratte da foto, è etstao realizzato da Gerhard
Richter, uno di coloro che sono riusciti a tradurre meglio di tutto la diffusa disposizione del
popolo tedesco dopo la guerra. Il tema dell’opera è riguarda un’episodio preciso della svolta
terroristica inaugurata in Germania nei primi anni settanta da un gruppo anarchico, la Banda
Baader-Meinhof. Uriche Meinhof viene trovata impiccata in carcere ed il verdetto parla
sbrigativamente di suicidio, nonostante sia stata subito avanzata l’ipotesi di un “omicidio di
stato”. La stessa sorte tocca l’anno successivo ad altri tre capi del gruppo. Questa volta
l’impatto mediatico si dispiega con estrema rapidità. Richter attende che le reazioni emotive
si siano raffreddate prima di dedicarsi all’opera. Egli intende infatti prendere le distanze
dalla morbosità legata a temi così scabrosamente attraenti. L’artista vuole piuttosto ricreare
sulla tela uno spazio neutro. I corpi dei terroristi morti acquistano infatti una fisionomia
anonima, anche per merito dello sfociamento che li rende difficilmente riconoscibili.
L’effetto di impersonalità risulta dominante, tanto da essere riproposta anche in un racconto
di Don DeLillo intitolato Baader-Meinhof. Qui un uomo ed una donna incontratisi per caso
in un museo in cui viene esposta l’opera di Richter si interrogano e senza accorgersene
danno inizio ad una mimesi corrosa dal medesimo male che esse rappresentano.

Il ciclo di Richter ed il racconto di DeLillo possono essere considerate due tra le più tipiche
espropriazioni del male, sempre più diffuse nel nostro tempo. Ma a tale processo non
corrisponde un abbrutimento. Solo sul corpo privo di tracce personali, neutro, può far leva
una comunità per rivendicare l’irriducibile singolarità di chi non ha nulla al di fuori del
proprio sradicamento. E’ proprio tale comune sradicamento il presupposto di ogni legame
autentico. Anche il male ha un ruolo in tutto ciò. E’ proprio il male più insensato e gratuito a
misurare tramite immagini l’abissale distanza che separa gli “uomini comuni”
dall’inafferrabile universo del Senso.

Elephant

Ciascuna sequenza del film diretto da Gus Van Sant mostra un “senso trasgredito”. Esso è
ispirato alla strage avvenuta presso la Colombine High School in Colorado. Quel giorno
due diciassettenni entrarono armati nell’edificio, uccidendo senza motivo dodici compagni e
ferendone altri per poi togliersi la vita. Il regista non nutre alcun interesse verso qualsiasi
problema sociale e non considera questo evento come traumatico. Lo dimostra ogni
fotogramma di Elephant, volto a rappresentare la totale assenza di passioni da parte dei
ragazzi che frequentano la scuola. Se c’è stato un trauma è stato precedente il loro ingresso
nell’instituto ed è forse stato questo la causa di quell’alterazione psichica che li rende
incapaci di delimitare gli spazi, Ma non è solo lo spazio a modificarsi. Anche il tempo è
sottoposto ad un processo di estraniazione, così come lo sono le persone. Tra una sequenza e
l’altra non esistono giunture narrative e ciò le rende un insieme di frammenti privi di senso.
I ragazzi stessi della scuola sono figure sfuggenti esattamente come avverrà negli altri due
film che insieme a questo andranno a costituire un’ideale trilogia dell’insensatezza
attraverso cui si manifesta il male nelle nuove generazioni. La “fuga delle idee” è stata nei
due ragazzi così rapida da non lasciare spazio alla riflessione. Mentre nel ciclo di Richter ad
essere sfocati erano i volti dei terroristi uccisi, qui i volti degli autori dell’eccidio mostrano
proprio l’incapacità di mettere a fuoco ciò che lo sguardo incontra.
Dogville

Se dunque si riesce a rintracciare una medesima espressione negli occhi delle vittime e dei
carnefici, significa che tra di loro è del tutto plausibile un ribaltamento dei ruoli. E’ ciò che
accade in Dogville, film diretto da Lars Von Trier. Qui assistiamo alla vicenda di Grace,
una giovane donna inseguita dalla banda di gangster del padre che si rifugia a Dogville in
cerca di accoglienza. Ma non c’è nulla di naturale a Dogville e ciò viene messo in luce dalla
rappresentazione degli spazi abitativi circoscritti a linee geometriche e dai paesaggi costruiti
con un sofisticato artificio. La “città dei cani” comincia a sottoporre ben presto Grace ad
una serie di umiliazioni fisiche che si protraggono fino all’arrivo a Dogville del padre. In
seguito ad un aspro confronto con lui, Grace si convince che il male va combattuto
opponendogli un male ancora maggiore. Per i cittadini di Dogville non c’è più scampo:
saranno uccisi uno per uno dai sicari del padre prima che il villaggio vada a fuoco.

Super-Cannes

I personaggi di James Ballard mettono costantemente in moto la meccanica di una


malvagità perversa e inconsapevole. E’ ciò che avviene nel parco tecnologico di Eden-
Olympia dove è ambientato Super-Cannes. Eden-Olympia, dove il protagonista Paul
Sinclair si trasferisce per accompagnare la moglie Jane in servizio come pediatra ci viene
presentato con la spumeggiante dicitura di “laboratorio di idee per il nuovo millennio”. La
storia che serba è tuttavia traumatica, tanto che Paul ha l’impressione che sui suoi palazzi
incomba una specie di vollia, come uno stato di guerra non dichiarata. L’idolatria di una
nuova civiltà del lavoro, alimentata dalla capillare connessione informatica, assorbe tutti i
suoi abitanti, ma basta poco perché nel suo assetto ordinato ed efficiente si aprano crepe
abissali: così è avvenuto con il caso di David Greenwood, predecessore di Jane, che ha
inspiegabilmente ucciso dieci pazienti.

La gente può commettere dei reati senza nemmeno accorgersene. In un certo senso sono
meglio posti come Nizza.. lì i confini sono tracciati e noi li oltrepassiamo sapendo quanto ci
costerà. Qui invece il gioco è senza regole.

Un solo individuo potrebbe fare qualsiasi cosa perché “una volta liberati dalla morale” e
ottenuta “la vera libertà”, tutto è possibile a Eden-Olympia. La liberazione dalla morale
conduce gli abitanti del distretto ad un’instintiva interiorizzazione del male, diventato
l’elemento aggregante dell’ordine sociale. Ogni reato è, non solo ammesso, ma condiviso
socialmente. La denuncia di Paul non si arresta ad un elenco delle azioni criminali, ma è lo
scopo a cui sono rivolte ad inquietarlo maggiormente. Sembra che tutti i reati abbiano uno
scopo “ricreativo”, anche se chi li compie non sembra divertirsi particolarmente. Paul arriva
alla conclusione che gli abitanti del distretto debbano essere “temporaneamente pazzi”,
soggetti a brevi attacchi di follia. Si tratta infatti di una follia iniettata artificialmente per
compensare il torpore patologico indotto dalla nuova era del lavoro. E’ uno psichiatra ad
aver tracciato questo progetto terapeutico fondato sul ripristino della crudeltà primaria insita
nel patrimonio biologico dell’uomo e che il processo di civilizzazione ha provveduto a
mettere in secondo piano. La necessità del male più insensato trova nelle teorie dello
psichiatra la sua legittimazione definitiva. L’odore del sangue esercita quindi un riciamo
irrinunciabile. Un gioco del genere si rivela però truccato fin dall’inizio perché non è
effettivamente privo di regole. E’ impossibile infatti evitare l’autodistruzione sistematica a
cui è condotto ognuno dei suoi partecipanti. Ciò accadrà anche per Paul, attratto, proprio
mentre crede di combatterle, dalle tentazioni del sangue in nome delle quali è disposto ad
uccidere ed essere ucciso.

Perché non ipotizzare allora che le molteplici traiettorie seguite fino ad adesso non ci
portino proprio ad Eden-Olympia? Esse sono tutte accomunate da potenti pulsioni
autodistruttive, come lo siamo noi stessi. E tuttavia rimarremo per sempre incapaci di
fronteggiarle, se non saremo disposti a riconoscerle come la nostra impronta indelebile. Tale
riconoscimento è necessario per sottrarci alla catastrofe che altrimenti ci attende in onore del
Bene.

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